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MARKUS HEITZ LA VENDETTA DEI NANI (Die Rache Der Zwerge, 2005) Dedicato soprattutto a voi che leggete questa dedica. Infatti, senza di voi questo terzo volume non sarebbe stato possibile. NOTA DELL'AUTORE Chi lo avrebbe detto: un terzo libro in compagnia di Tungdil e i suoi amici! Mi compiaccio del successo dei nani e mi fa piacere che abbiano trovato e continuino a trovare una grande eco. Alla fin fine ho avverato il mio sogno grazie a loro: mi hanno permesso di diventare uno scrittore professionista. Un grande risultato per piccole creature. Ma si presume che tutto ciò che è bello prima o poi debba finire. E in questo caso è proprio così. Perché? Vorrei lasciare tempo alla Terra Nascosta, in modo che possa sistemare la situazione creatasi in seguito a questo terzo romanzo, e che lo faccia senza che nessuno guardi. Staremo a vedere che cosa succederà nel giro di qualche anno... Forse un giorno riaprirò la porta della Terra Nascosta, e chissà come andranno lì le cose e quale destino sarà capitato ai nostri eroi. Al momento sono di nuovo sulla strada di Ulldart, il mio altro continente fantasy, pronto a sollevare nuova pace e nuovi disordini. Il mio ringraziamento va ai molti amici dei nani che hanno riso e pianto con Tungdil e compagni. E naturalmente al mio prezioso gruppo di primi lettori e consiglieri: Nicole Schuhmacher, Sonja e Jan Rüther e Tanja Karmann. Non devono essere dimenticati i contributi datimi in passato dal dottor Patrick Müller e da Meike Sewering. Un grande encomio e un grande ringraziamento vanno all'editor Angela Kuepper, che negli ultimi tre anni ha avuto fiducia nei nani. Markus Heitz, luglio 2005 «Che una creatura o un braccio siano straordinariamente lunghi non è
poi cosi importante. Basta pensare agli elfi... Come dico sempre: più è grosso, più è facile da colpire!» Boïndil Duelame, detto il Rabbioso, del clan dei Branditori d'ascia, della stirpe del Secondo, Beroïn «Di tanto in tanto si sentono battute cattive sui nani. Sarebbero poco cresciuti e chiassosi, avrebbero un modo assai strambo di mostrarsi allegri, berrebbero solo birra scura come la notte e apprezzerebbero solo le canzoni tuonate da cento gole. Inoltre preferirebbero sacrificare la loro vita piuttosto che cedere di fronte al nemico. E io vi dico: chi, come me, ha potuto sostare come ospite in una delle loro maestose corti potrebbe dirvi che è tutto vero. Dunque non ridiamo di loro come fossero buffi bambini barbuti, bensì rendiamo lode al loro eccellente stile di vita, che ci ha salvati dalla rovina. E più di una volta.» Estratti dall'opera in dieci volumi La mia vita e le mie straordinarie, eroiche gesta. Ricordi dell'Incredibile Rodario «Una volta chiesi a un nano quale creatura, a parte un nano, avrebbe voluto essere. Gli diedi la possibilità di scegliere tra un possente drago, un mago onnisciente e il suo stesso dio, Vraccas. Il nano mi guardò stupito, scosse il capo e disse: 'Il possente drago verrebbe presto sconfitto dai nani, e infatti non ne esistono più. Anche il mago onnisciente verrebbe presto sconfitto dai nani, e infatti non ne esistono più. E non vorrei neppure essere Vraccas, perché non avrei saputo creare niente di meglio dei nani, se fossi stato al suo posto'.» Dalle Annotazioni sui popoli della Terra Nascosta, sulle loro particolarità e peculiarità, Grande archivio di Viransiénsis, regno di Tabaîn, redatte dal magister folkloricum MA. Het nel 4299° ciclo solare DRAMATIS PERSONAE LE STIRPI DEI NANI
I PRIMI Xamtys II Frontealta del clan dei Frontealta della stirpe del Primo, Borengar, detta anche «dei Primi», regina dei Primi Balyndis Ditadiferro del clan dei Ditadiferro, fabbro Glaïmbar Lamatagliente del clan degli Schiacciaferro, re dei Quinti Beldobin Forteincudine del clan dei Chiodidiferro, messaggero Ginsgar Senzafuria del clan dei Forgiachiodi Bilandal Martellodiluce del clan dei Testadimaglio Bendelbar Caldoferro del clan dei Caldoferro, capitano delle guardie Gondogar Pugnoduro del clan dei Pugnoduro I SECONDI Balendilín Solbraccio del clan dei Fortidita della stirpe del Secondo, Beroïn, detta anche «dei Secondi», re dei Secondi Boïndil Duelame, detto anche il Rabbioso, del clan dei Branditori d'ascia, guerriero Fidelgar Fortecolpo Baigar Quattromani Gremdulin Mordiferro del clan dei Mordiferro Saphira Mordiferro del clan dei Mordiferro Balba Magliodaroccia del clan dei Carezzapietra I TERZI Tungdil Manodoro, guerriero ed erudito Balodil, suo figlio Goda Ardentecoraggio, guerriera Marion Passopesante del clan degli Scuremortale Malbalor Biancocchio del clan dei Frantumaossa della stirpe del Terzo, re dei Terzi Diemo Lamaferale del clan dei Lamaferale, comandante delle guardie Veltaga e Bandilor, traditori dei nani I QUARTI Gandogar Barbadargento del clan dei Barbadargento della stirpe del
Quarto, Goïmdil, detta anche «dei Quarti», re dei Quarti e imperatore dei nani Bylanta Ditafini del clan dei Barbadargento, sorella di Gandogar Ingbar Occhiodonice del clan dei Mutapietra, addetto ai montacarichi Glaïmbli Occhiorubino del clan degli Occhiorubino Tandibur Orgogliominiera del clan degli Orgogliominiera Sigdal Rossorubino del clan dei Bellagemma Feldolin Pietralevigata del clan dei Trovaoro I LIBERI Bramdal Lamadimaestro, boia Gordislan Pugnomartello, re di Aureorifugio GLI ESSERI UMANI L'Incredibile Rodario, attore Furgas, magister technicus Nolik, possidente di Sturmtal Tassia, moglie di Nolik Gesa, affascinate matrona Reimar, operaio Lambus, fabbro di Mifurdania Gilspan, oste Ilgar, tirapiedi Lia, ladra di tesori Franek, ladro di tesori Deifrich, commerciante Kartev, commerciante Kea, tirapiedi Tamàs, architetto Ove, architetto Meinart, comandante della guardia reale dell'Urgon Hakulana, portalancia, capo degli esploratori dell'Idoslân Torant, esploratore Alvaro, comandante della guardia personale del principe Mallen Kordin, comandante dell'Onda alata Retar e Algin, pescatori del Weyurn
Flira, figlia di pescatori Ormardin, figlio di pescatori Talena, moglie di pescatore Risava, apprendista maga Dergard, apprendista mago Lomostin, apprendista mago Principe Mallen von Ido, signore del regno di Idoslân Re Ortger, signore del regno di Urgon Re Bruron, signore del regno di Gauragar Regina Umilante, signora del regno di Sangreîn Regina Wey IV, signora del regno di Weyurn Regina Isika, signora del regno di Rân Ribastu Re Nate, signore del regno di Tabaîn GLI ALTRI Nagsor Inàste e Nagsar Inàste, sovrani dello Dsôn Balsur, il regno degli albi Liútasil, principe degli elfi dell'Âlandur Rejalín, principessa degli elfi Eldrur, emissario degli elfi Irdosíl, emissario degli elfi Antamar, emissario degli elfi Vilanoîl e Tiwalún, elfi dell'Âlandur Esdalân, barone di Jilsbon, dell'Âlandur Limasar, elfo guerriero Itemara, elfa guerriera Gronsha, mezz'orco Sirka, guerriera ubari Flagur, principe ubari Kamdra, guerriera ubari
PROLOGO Terra Nascosta, Monti Grigi, ai confini del regno dei Quinti, 6234° ciclo solare, primavera
Gronsha si fermò e tese l'orecchio nello spesso banco di nebbia che i suoi occhi gialli non riuscivano a penetrare, benché fosse tra i migliori esploratori dell'esercito del principe Ushnotz. A dirla tutta, era uno dei tre ultimi migliori esploratori dell'esercito; gli altri membri della pattuglia di ricognizione erano stati decapitati vicino alla Porta di Pietra. Il mezz'orco senti dei passi. Molti passi. Estrasse svelto il suo spadone segnato da molte tacche e si preparò a un attacco. In effetti lui e i suoi si erano sentiti fin troppo sicuri dopo che avevano lasciato il regno dei Cavernicoli attraverso la Porta di Pietra, scappando di fronte alla loro superiorità numerica. In quel momento, i volti barbuti stavano loro alle calcagna come tenaci escrementi di gnomo. Non che Gronsha avesse paura dei Cavernicoli. L'Acqua Nera, il sangue della Terra Estinta, scorreva nella sue vene rendendolo immortale. A meno che non gli si staccasse la testa dal collo. Purtroppo i nemici padroneggiavano assai bene quell'arte, e neppure la loro infima statura bastava a trattenerli. Se il manico di un'arma non permetteva loro di raggiungere il collo, prima attaccavano alle cosce; un nemico in ginocchio era più facile da decapitare. Nel regno settentrionale dei Cavernicoli, che si pensava abbandonato, i mezz'orchi si erano imbattuti inaspettatamente in numerosi nemici. Gronsha e altri due esploratori avevano preferito osare una ritirata oltre i confini della Terra dell'Aldilà. Forse da lì avrebbero trovato un tragitto più facile per tornare indietro e informare il principe Ushnotz della presenza dei Cavernicoli, in modo che si preparasse ad affrontare un gran numero di nemici armati fino ai denti. A quanto si raccontava, nella Terra dell'Aldilà regnava il popolo dei mezz'orchi. Gronsha ancora non ne aveva visto uno, ma certo non avrebbe disdegnato un po' d'aiuto. «Il vapore di una lavanderia non è nulla in confronto», brontolò la voce di un Cavernicolo. «Sembra che la nebbia aiuti il Maialino.» Il fatto che una creatura rachitica, abbastanza piccola da stare infilata in una piccola botte, lo chiamasse «Maialino» fece molto arrabbiare Gronsha. I maiali avevano certo un buon sapore, ma il loro aspetto non era altrettanto attraente; l'esploratore invece era imponente, alto quasi il doppio rispetto a un Barbuto. Pieno di collera, il mezz'orco gonfiò l'immensa muscolatura, e nel farlo l'armatura gli cozzò contro la roccia. Il rumore venne percepito. «Ah!» gridò il Cavernicolo. «È nostro.»
Ti sbagli, Barbuto. Gronsha si mise a correre per scuotersi di dosso gli inseguitori, ma il tintinnio dell'armatura rivelava ai nemici la sua posizione. Non poteva dire quanto avesse corso e dove si trovasse di preciso. O dove si trovassero i mezz'orchi che prima erano con lui. Si accorse solo che intorno a lui si era fatto più scuro. Era in una caverna? Si appiattì contro la prima parete che trovò, trattenne il fiato e tese le orecchie. «Fermi!» ordinò uno dei Cavernicoli, molto vicino, fermandosi con uno scalpiccio di stivali. «Lo sentite ancora?» Nessuno gli rispose. Gronsha sogghignò. A quanto pareva, in quella strana e spessa nebbia i Cavernicoli non erano meno disorientati di lui. Inspirò con cautela e rintracciò il nemico grazie all'inconfondibile odore. Poi si mise a correre verso di lui, con la spada levata, pronta a colpire. Lo avrebbe spaccato in due con un solo colpo. «Boïndil?» chiese il Cavernicolo con voce incerta, sentendolo arrivare. La piccola sagoma emerse dalla nebbia grigia, e Gronsha vibrò il colpo, sicuro della vittoria. «Almeno c'è qualcuno che mi sente», gridò il Cavernicolo allegramente, scansando l'attacco e abbassando l'ascia verso l'aggressore. La lama colpì Gronsha sulla natica destra; il mezz'orco grugnì e scomparve nuovamente nella nebbia. No, quello non era il modo di combattere che piaceva a lui. Quella maledetta nebbia! Decise di battere in ritirata, piuttosto che continuare la scaramuccia e sperare in un colpo fortunato. La ferita che aveva sul sedere si richiuse. L'oscura invulnerabilità che aveva assaporato lo guariva col suo potere, anche quando la ferita si trovava in un posto spiacevole e disonorevole. Ben si adattava ai perfidi Cavernicoli, che erano soliti evitare l'aperta battaglia e trincerarsi nelle loro fortezze e nelle loro caverne. Gronsha si voltò e riprese con cautela il suo cammino nella nebbia. Dopo poco, alle sue spalle risuonò lo strillo di un mezz'orco colpito a morte. L'urlo gli penetrò nelle ossa. D'un tratto notò una piccola ombra sgusciare nella nebbia davanti a lui; gli stava voltando le spalle. Gronsha non ci pensò due volte: sollevò lo spadone e menò un fendente proprio in mezzo all'elmo del nemico. La morte sorprese il Cavernicolo così in fretta da non dargli il tempo di aprire bocca. Il sangue schizzò in alto. Ma Gronsha non era soddisfatto. «Sudicio insetto di caverna! Ti faccio a
fette!» Infierì sul cadavere finché non l'ebbe fatto a pezzi. Nell'ebbrezza dimenticò completamente il fracasso che stava facendo. Ridendo, diede un calcio alla testa barbuta facendola rotolare via nella nebbia: era la sua maniera di vendicarsi. Prese l'elmo e lo scudo del morto; gli sarebbero tornati utili. Proprio mentre stava levando lo scudo, balzò verso di lui un altro nano, con l'ascia pronta al colpo. «Di qua!» gridò forte il Cavernicolo. «È qua! Venite!» «Lurido verme!» gemette Gronsha, facendo cozzare l'arma del nemico sullo scudo. La lama scalfì la protezione e scivolò seguendone l'inclinazione, corse oltre il bordo e colpì il mezz'orco a una spalla. Lo spesso strato di grasso che questi portava sull'armatura, e che serviva a far scivolare i colpi dei nemici sul metallo, non sortì il suo effetto. Gronsha fece un balzo indietro, ma i Cavernicoli sembravano attaccarlo da ogni lato. Corse dritto finché improvvisamente non s'imbatté in una parete. Il granito non era lavorato e i suoi spigoli acuti avrebbero causato brutte ferite, se vi fosse scivolato sopra. La scoperta non lo aiutò molto. Il mezz'orco aveva l'impressione di correre in tondo; la nebbia ondeggiante non lo lasciava scappare e sembrava divertirsi a tenerlo prigioniero nell'oscurità. Quella in cui si trovavano lui e i Cavernicoli poteva essere soltanto una grotta molto ramificata. La ferita alla spalla pulsava e bruciava. La nera invulnerabilità la stava guarendo veloce quanto poteva, ma lo squarcio faceva comunque molto male. Gronsha mosse il braccio con circospezione. I suoi nemici erano ancora nei paraggi: ne sentiva l'odore, nonostante il vapore freddo e umido, ma, più vi penetrava, meno funzionava il suo odorato; perfino l'armatura sembrava produrre a malapena qualche rumore. Era circondato da un mare di fredda e umida ovatta. Le caverne del regno dei mezz'orchi del Toboribor, nel sud-est della Terra Nascosta, erano confortevoli, calde e asciutte, e ci si poteva orientare molto bene. Invece le caverne in cui si trovava erano l'esatto contrario. Ed erano sinistre. Mentre avanzava tastando la parete rocciosa, in cerca di un'uscita, i grigi banchi si muovevano bruscamente, facendogli credere che un altro Cavernicolo gli si stesse avvicinando per attaccarlo. Tre volte si fece ingannare da quei miraggi e colpì a vuoto. Alla fine Tion e Samusin, gli dei del suo popolo, furono benevoli e gli mostrarono una via: sulla parete apparve una nera apertura.
Improvvisamente un Cavernicolo balzò davanti a lui, dalla fredda nebbia, e vibrò un colpo con l'ascia. «Muori, mostro!» Ma Gronsha era pronto. «Dopo di te, insetto di caverna!» Parò il colpo e diede un calcio in faccia al nano, facendolo barcollare e scomparire nella nebbia sputando sangue e denti. Il mezz'orco aveva tempo per preparare il suo tranello. Si abbassò fino a raggiungere la statura di un Cavernicolo, si mise in testa l'elmo rotto del nano che aveva ucciso e sollevò lo scudo. Prese a oscillare a destra e a sinistra ed emise rumori gorgoglianti camuffando la voce. «Aiuto! Mi ha colpito...» Gracchiò e gemette. «Per Vraccas, aiutami...» «Bendegar? Ti ha beccato?» «La gamba...» si lamentò forte Gronsha trattenendosi a stento. Non doveva scoppiare a ridere, non ancora. «Tieni duro!» sentì dire alla voce preoccupata del nano. «Sto arrivando.» Una sagoma spuntò dalla nebbia. «Fa' attenzione, e non fare rumore. Uno dei Musi di porco è ancora...» Gronsha non attese più a lungo. Spinse con rabbia in avanti la punta dello spadone, perforò la cotta di maglia e infilò l'arma nella pancia del nano. «Ma non mi dire, Barbuto!» lo derise con cattiveria mentre rigirava la lama. Con un gemito, il nano cercò di colpire il mezz'orco, ma questi intercettò il manico dell'ascia e la strappò al morente. «Mordi la tua ascia», ringhiò colpendolo in pieno viso. Il Cavernicolo si rovesciò all'indietro e s'inabissò nel grigiore impenetrabile, per l'ultima volta. Gronsha lo scavalcò d'un balzo e si affrettò a entrare nel tunnel coperto di nebbia che avrebbe dovuto portarlo lontano dai nemici. Stava imboccando un cammino del tutto sconosciuto, che non aveva niente a che fare con le solite esplorazioni cui era abituato. Divenne inquieto. Sono nella Terra dell'Aldilà, pensò rabbrividendo. Nel Toboribor circolavano leggende sui potenti domini dei mezz'orchi di quelle terre. Si diceva che uno solo di essi fosse grande quanto la Terra Nascosta e che mantenesse più membri del suo popolo di quante fossero le stelle che brillavano nel cielo. Gronsha pensava che quelle voci fossero esagerate; in ogni caso, però, dovevano esserci mezz'orchi nella Terra dell'Aldilà. Migliaia di cicli prima era partito da nord il primo e, fino a quel momento, unico attacco riuscito contro la Terra Nascosta. Ed era merito del suo popolo se il passaggio settentrionale era stato forzato. Tutti i discendenti dei vincitori conoscevano
la storia di quella gloriosa rotazione che aveva portato alla vittoria sui Cavernicoli. Solo i mezz'orchi possedevano la forza, la resistenza e il coraggio necessari a una simile impresa. Nel Toboribor il fatto veniva festeggiato ogni ciclo. Gronsha avrebbe celebrato assai volentieri la ricorrenza successiva in un regno dei nani appena conquistato. Sarebbe stato il massimo festeggiare organizzando gare di lancio con le teste dei nani sconfitti, com'erano soliti fare in occasione delle feste in ricordo di quell'antica vittoria e del loro ingresso nella Terra Nascosta. Inoltre c'era sempre una quantità di roba da mangiare, e Gronsha avrebbe sicuramente vinto la gara di rutti... E invece si stava inoltrando nella Terra dell'Aldilà, sperando in un qualche aiuto. Era nato nelle caverne del Toboribor e non sapeva nulla della terra di provenienza dei suoi antenati; nessun mezz'orco del Toboribor conosceva la Terra dell'Aldilà. Gronsha sperava d'incontrare non solo mezz'orchi, ma anche orchi, troll, albi e tutte le altre creature che veneravano Tion e Samusin. «Quelli sì che erano tempi...» mormorò, seccato. Dopo la sconfitta del mago Nôd'onn, col quale i mezz'orchi del Toboribor erano alleati, erano finiti i bei tempi per il principe Ushnotz, che aveva deciso di fondare un nuovo regno: braccati senza tregua dai soldati dei Sanguerosso, i mezz'orchi erano rimasti senza patria e guidati da un principe debole e ingiusto. Gronsha non osava ancora contrapporsi a Ushnotz per ucciderlo e strappargli il potere. Sentiva che altri, più esperti, avrebbero tentato prima. Chi batte il principe diventa principe: così funzionava da sempre presso la sua gente. Al migliore spetta il potere. Per quel motivo preferiva ancora attendere. Attendeva la sua occasione. L'unica nota positiva della sua condizione era l'immortalità che l'Acqua Nera gli aveva donato. Ma essere immortale senza essere potente era come avere un osso senza carne. Più avanti si spingeva e più la nebbia si rischiarava, più Gronsha mutava il suo piano. «Perché dovrei tornare indietro e seguire Ushnotz?» mormorò, e le parole rimbombarono sorde sulle pareti della caverna. Muschi e licheni luminosi generavano una luce sufficiente per i suoi occhi sensibili; in quel punto vedeva bene quasi quanto in una giornata di sole. E intanto cresceva la sua fiducia. «Anch'io potrei essere un principe.» Forse nella Terra dell'Aldilà sarebbe riuscito a mettere in piedi un piccolo corpo di spedizione e condurlo all'assalto della Porta di Pietra. Il massiccio portale di granito era stato danneggiato dai mezz'orchi poco prima
della fuga, e i Cavernicoli non sarebbero riusciti a barricarsi in fretta. Con qualche centinaio di mezz'orchi, la battaglia contro la manciata di difensori sarebbe stata vinta. Doveva cercare subito alleati e attaccare prima che i Cavernicoli riuscissero a riparare i danni. Gronsha sogghignò. Lui, il mezz'orco invulnerabile, avrebbe preso la fortezza dei Cavernicoli! Tutto ciò di cui aveva bisogno erano dei guerrieri. Non poteva permettersi di fare lo schizzinoso. Avrebbe dato il benvenuto a quasi qualunque cosa potesse impugnare un'arma. Non aveva più dubbi, ormai: Tion aveva voluto che lui finisse nella Terra dell'Aldilà. Scorse un segno su una parete. Era una runa, piena di svolazzi, aliena e in qualche strana maniera disgustosamente nanesca. Non sembrava opera degli Orecchi appuntiti. «Anche da queste parti ci sono quei bubboni barbuti?» imprecò Gronsha. Non era in grado di dire se la pietra fosse stata incisa da poco oppure centinaia di cicli prima. Prese ad avanzare con maggiore cautela seguendo il corridoio, che presto si biforcò. Dopo una breve esitazione, il mezz'orco scelse la direzione da cui spirava l'aria più calda. Subito dopo, il suo cammino si divise in una dozzina di passaggi: era l'inizio di un labirinto. Gronsha segnò il corridoio che aveva scelto incidendo sulla roccia una grossa runa orchesca, due strisce verticali con due puntini in mezzo, in modo da poter tornare indietro, in caso di bisogno. Dopo poco dovette di nuovo scegliere da quale parte andare, e così altre otto volte. C'era un silenzio di tomba. Camminando, non produceva più rumore; il sego che gli copriva l'armatura sembrava essere colato nelle fenditure e aver lubrificato le parti della corazza che fregavano l'una contro l'altra. Dal soffitto non cadevano sassolini né gocce d'acqua. Nessun rumore, nessun segno di vita. C'erano solo Gronsha e quei corridoi, a volte alti e larghi come portoni di fienili, altre volte bassi e stretti come una femmina di umano. Il terrore iniziò a insinuarsi nel mezz'orco, che prese a sudare per la paura. Presto cominciò a vedere ovunque ombre sguscianti che lo circondavano, poi credette che la sua stessa ombra si muovesse per conto proprio. Poco dopo arrivò al punto che perfino il grido di morte di un mezz'orco lo avrebbe rallegrato; almeno così avrebbe sentito qualcosa. Alla fine prese a correre senza sapere da che cosa o verso dove scappasse. Voleva sfuggire a quell'assenza di rumori, e nel farlo dimenticò di contrassegnare il percorso. La stanchezza, il trascorrere del tempo... nulla aveva più importanza.
A un certo punto, il tunnel sfociò in una grotta. Gronsha si fermò sulla soglia, ansimando, col fianco sinistro che gli doleva a ogni respiro. Stimò che la grotta fosse lunga quaranta passi e alta sicuramente più di cento. Raggi di sole spessi come un albero scendevano di traverso, passando attraverso fessure del soffitto; al mezz'orco parve quasi che formassero colonne di luce su cui poggiasse la volta di pietra. Il chiarore trafiggeva le tenebre e strappava all'oscurità piccole, pallide macchie sul pavimento. Gronsha trasalì. Erano ossa! Tutt'intorno a lui giacevano mucchi di ossa. Ossa di mezz'orco! O aveva trovato una delle camere di sepoltura in cui marcivano i resti dei vigliacchi, gettati lì senza cura né cerimonie, oppure in quelle grotte e in quei passaggi si annidava qualcosa che amava cibarsi della sua gente. Con prudenza, Gronsha si addentrò di qualche passo all'interno della sala, si lasciò cadere su un ginocchio e con la spada frugò in uno dei mucchi illuminati. Le ossa mostravano segni di coltello. Qualcuno si era preso la briga di staccare la carne; le ossa più grandi erano state rotte in modo che si potesse raggiungere il midollo. I teschi invece non erano stati toccati. Se non s'ingannava di molto, le ossa erano tutte molto recenti. Gronsha espirò forte, si alzò e fiutò in tutte le direzioni. Era possibile che i Cavernicoli fossero il male minore, nel vero senso della parola. Trottò di nuovo in avanti e attraversò la grotta, evitando di correre in mezzo alle macchie illuminate e ai chiari raggi. Raggiunta l'altra estremità, entrò nel tunnel successivo e prese a percorrerlo con la pancia che brontolava. Quella corsa ininterrotta gli aveva fatto venire fame. D'un tratto Gronsha fu messo in guardia dal suo fine fiuto. Un odore familiare gli disse che lì intorno si aggiravano membri del suo popolo, per quanto non li vedesse né li udisse. Irritato, notò che non arrivava l'odore del grasso rancido che copriva le armature della sua gente. Poi scorse un bagliore di fuoco alla fine del corridoio. Dal momento che non aveva nessuna voglia di finire trafitto dalle frecce di sentinelle troppo solerti, non si sforzò di essere particolarmente silenzioso. «Ehi», gridò lungo il passaggio, e la roccia trasportò come un imbuto la sua voce forte e bassa. «Sono un mezz'orco del Toboribor! Ho bisogno del vostro aiuto contro i Cavernicoli, fratelli!» Due sagome alte e larghe entrarono nel corridoio, oscurando la luce del fuoco. L'odore familiare divenne più intenso mentre le due ombre si muo-
vevano lungo il corridoio, verso di lui. Benché non riuscisse ancora a distinguerne i tratti, Gronsha constatò che, per quanto riguardava le dimensioni, i mezz'orchi della Terra dell'Aldilà non avevano nulla da invidiare a quelli del sud della Terra Nascosta. Lo raggiunsero con le lance abbassate; erano provviste di crudeli uncini che, suppose Gronsha, con la giusta pressione si sarebbero staccati dalla lama principale, rimanendo infilati nel corpo della vittima. Una terza figura si affrettò verso di lui, puntandogli contro la luce di una lanterna cieca. Una di loro era una femmina, cosa che meravigliò Gronsha non solo perché coi numerosi anelli che portava alle orecchie e col suo naso insolitamente fine aveva subito risvegliato le sue voglie, ma anche perché aveva raggiunto la posizione di guerriera. Una cosa del genere, nel Toboribor, non l'aveva mai vista: le femmine dovevano preoccuparsi dei marmocchi e del cibo, e dei guerrieri come lui. «Non muovere le mani», ordinò lei con voce roca, mentre le punte delle lance si posavano sulla gola dell'intruso dirigendolo verso la parete. «Rimani fermo. Fratello.» Gli altri due mezz'orchi risero. Gronsha si meravigliò delle armature e degli elmi che portavano: non usavano il grasso protettivo sulle armature! In quel modo non avrebbero vinto nessuna battaglia. Trovò che fosse stupido facilitare in quella maniera il lavoro dei nemici. Sembravano puliti, quantomeno molto più puliti di lui; puliti in modo insano. In lui si risvegliò l'invidia. Quelle armature venivano sicuramente da una fucina di mezz'orchi, ma la bontà del materiale e l'abilità con cui era stato forgiato superavano di gran lunga l'opera dei migliori fabbri di Ushnotz. Era forse per quello che non usavano il sego? «Io sono Gronsha. Portatemi dal vostro principe», disse in tono imperioso, sporgendosi in avanti. «È possibile che mi seguano. Meglio che stiate attenti.» La femmina guardò lungo il corridoio da cui era arrivato lo straniero e mandò avanti i due guerrieri a controllare. «Da dove vieni?» «Dal Toboribor.» «Toboribor?» La guerriera non lo stava nemmeno guardando, osservava invece quello che succedeva nella caverna. «E che sarebbe?» «Che sarebbe?» grugnì Gronsha, indignato e stupito al tempo stesso. «È un potente regno di mezz'orchi, molto a sud, nella Terra Nascosta.» «Un regno di mezz'orchi? Questa è davvero una bella notizia.» Gli occhi rosa della mezz'orchessa mostravano indifferenza e derisione. «Se è a sud,
che ci fai tu qui nel nord?» Parlava scandendo troppo le parole, con tono altezzoso. «Ti sei perso?» «Ero al comando di una pattuglia del principe Ushnotz, che domina sul Toboribor. Sono qui in cerca di alleati che ci aiutino contro i Cavernicoli...» rispose Gronsha, mentendo un po'. Le lesse sul volto che non lo stava capendo. «Non sai cosa sono i Cavernicoli?» La situazione stava diventando sempre più confusa. «Oh, allora siete benedetti da Tion e da Samusin, se da voi non esiste questo flagello armato di asce», sbuffò. Tenne la mano all'altezza di un fianco. «Sono alti così, senza elmo. Li chiamiamo Barbuti e insetti di caverna, e in genere...» «Ah, certo. Lì conosco», lo interruppe lei. I due mezz'orchi mandati in ricognizione tornarono e diedero il cessato allarme: nessuno aveva seguito lo straniero. «Noi li chiamiamo diversamente. È strano che uno dei nostri fratelli», e sottolineò la parola con un tono stranamente divertito, «imbocchi la strada che porta a Fòn Gàla.» «Che porta dove?» chiese Gronsha. «Qui.» «Ah, la Terra dell'Aldilà. Noi la chiamiamo così.» «Benvenuto.» La mezz'orchessa scoprì i denti e gli mostrò le zanne, che erano potenti e regolari. Gronsha la desiderava, la voleva. Se avesse conquistato la fortezza, l'avrebbe presa in moglie e avrebbe generato con lei molti piccoli. Di sicuro non aveva ancora avuto un maschio come lui. L'avrebbe domata e le avrebbe insegnato come si deve comportare una femmina. «Puoi venire con me, Gronsha. Ti porto dal nostro principe. Gli farà piacere sentir parlare del Toboribor.» Finalmente gli tolse la lancia dalla gola e indicò l'uscita illuminata del corridoio. «Dopo di te, fratello.» I due mezz'orchi risero di nuovo. Raggiunsero una grande caverna; lunga duecento passi e larga cento, era alta come la maggiore delle torri della Porta di Pietra. Nel mezzo scorreva un piccolo ruscello, lungo il quale, su entrambi i lati, erano state allestite delle nere tende pentagonali. Nell'aria indugiavano diversi odori: veniva abbrustolito del cibo, qualcuno preparava della birra, il carbone ardeva in sostegni di ferro, rendendoli incandescenti. Gronsha si stupì dell'assenza dell'inimitabile odore tipico del suo popolo, quell'aroma speziato di grandezza, forza e superiorità che i Sanguerosso chiamavano «puzza»; evidentemente i fratelli e le sorelle della Terra dell'Aldilà non erano accampati lì da molto tempo. Non poté trattenere un
ghigno. Stimando il numero dei suoi simili raccolti in quel luogo arrivò a contarne almeno duemila. Un simile numero avrebbe annientato i Cavernicoli. La sua accompagnatrice indicò la più grande delle tende nere. «Di là.» Attraversarono insieme l'accampamento, seguiti dagli sguardi curiosi di molti mezz'orchi. Gronsha si sforzava d'impressionarli. Allargò leggermente le braccia rispetto al corpo, muovendosi con vigore, digrignando i denti e facendo roteare gli occhi. «Porto al principe un phottòr», disse la mezz'orchessa di buon umore. «Viene da un regno di mezz'orchi molto lontano.» Le teste dei presenti si avvicinarono e si sentì bisbigliare, continuavano a sembrare stupiti dalla presenza dello straniero. O così almeno Gronsha interpretò i loro sguardi. «Che cos'è un phottòr?» volle sapere, senza abbandonare la sua posa. Due femmine lo guardarono vogliose, e lui sbuffò più forte che poté per impressionarle ancora di più. «Chiamiamo così quelli come te. Nella nostra lingua è una distinzione.» Gronsha sollevò il largo mento. Le distinzioni gli andavano bene. Quando si fermarono davanti all'ingresso della tenda, la mezz'orchessa gli afferrò un braccio. «Sii cortese. È possibile che le nostre maniere differiscano dalle vostre.» Poi gli diede una pacca per incoraggiarlo a entrare, e lo seguì. Gronsha si ritrovò in una tenda illuminata da innumerevoli lampade. A quattro passi da lui, un mezz'orco imponente giaceva comodamente su tappeti dai disegni colorati, e mangiava; era avvolto da un mantello di seta nera, come avrebbe potuto fare un Sanguerosso rammollito. Dietro di lui, su una serie di sostegni di legno, stava la sua collezione di armi, che sarebbe bastata ad allestire un piccolo esercito. Anelli d'oro splendevano a tre delle sue dita. Era sicuramente il mezz'orco più grande che Gronsha avesse mai visto; in confronto a quella del principe, la sua statura sembrava quella di un adolescente. Il largo volto, dalla fronte alta e sfuggente, era adornato da una rada barba; i capelli neri erano raccolti in una treccia. Incuriosito, il principe interruppe il suo pasto. «Kamdra, mia cara. Che cosa porti con te?» «Illustrissimo principe Flagur, vi porto un dono», rispose la mezz'orchessa inchinandosi di fronte al capo, gesto che Gronsha imitò in tutta fretta. «È giunto dal passaggio che credevamo chiuso.» Lo spinse in avanti. «Si chiama Gronsha, e quando parla è difficile capirlo. Un degenerato, il-
lustrissimo. Ma ha raccontato qualcosa riguardo a un regno di mezz'orchi.» Flagur si mise seduto e appoggiò una mano sul ginocchio, mentre con l'altra faceva segno all'ospite di avvicinarsi di più. «Gronsha...» ripeté pensieroso, lasciando risuonare il nome. «Sì, è molto appropriato.» Lo sguardo dei suoi occhi rosa era assai più forte e duro di quello della femmina. Nel frattempo Gronsha si era ripreso dallo stupore iniziale, anche se l'odore rivoltante di essenze aromatiche lo infastidiva. Profumo, pulizia e uno strano modo di parlare. Quei mezz'orchi non si comportavano affatto in maniera consueta, tantomeno nei suoi confronti. Il suo orgoglio reagì, e il mezz'orco si drizzò. «Non sono una cosa. E per niente deg... derg...» «Degenerato?» lo aiutò Flagur, cortese. Gronsha fece un passo in avanti, l'orgoglio faceva fermentare e ribollire la sua collera. «Principe Flagur, dammi i tuoi...» Sentì un dolore bruciante alla nuca. Si girò, fremente, e vide Kamdra. II sangue del mezz'orco macchiava la punta della sua lancia. «Tu...» «No, tu ti rivolgerai al principe usando il voi e chiamandolo illustrissimo, come si conviene.» Aveva l'arma pronta al colpo. «Ti sto insegnando i nostri costumi, phottòr.» Gronsha ringhiò, ma si diede per vinto. L'avrebbe davvero presa per moglie, ne avrebbe spezzato la volontà e l'avrebbe resa sua schiava. Si volse di nuovo verso Flagur, che era in attesa. «Datemi il vostro aiuto! Dobbiamo attaccare la fortezza dei Cavernicoli...» «Intende dire gli ubari, illustrissimo», tradusse Kamdra. «I nostri?» «No, i loro, illustrissimo.» La mezz'orchessa sembrava molto divertita. «A quanto pare, esistono anche nella terra al di là delle montagne. Non c'entrano però niente coi phottòr.» Flagur annuì, e sembrò subito di buon umore. «Questo lo verificheremo da vicino.» Fece un cenno di capo a Gronsha. «Raccontami del regno da cui provieni.» E Gronsha raccontò. Raccontò del Toboribor, delle caverne, dell'esercito del suo principe, Ushnotz, del bastione dei Cavernicoli, la Porta di Pietra, facilmente espugnabile, e degli eserciti di uomini ed elfi, sfiniti dalle lunghe guerre. Si fece portare carta e carboncino, con cui abbozzò una rozza mappa. «La Terra Nascosta è una facile preda, principe Flagur», lo allettò. «Io sono molto pratico del territorio. Datemi i vostri guerrieri più forti e conquisterò la fortezza dei Cavernicoli.» Gronsha sentì un'altra puntura sulla nu-
ca, e concluse il suo discorso gridando: «Illustrissimo». «Per poi donare la fortezza al tuo principe», sbottò Flagur ridendo. «No di certo.» Gronsha s'inchinò profondamente; il sangue gli filtrava sotto l'armatura e colava giù per la schiena. «No. Pensavo che voi potreste diventare il principe di tutti i mezz'orchi. Riflettete: potreste contare su altri cinquemila guerrieri. Illustrissimo.» Il mezz'orco socchiuse gli occhi. «Perché mai dovrebbero seguire me?» «Perché io appoggerò voi.» Flagur ebbe un accesso di risa. Sembrava sul punto di scoppiare, e Kamdra si unì a quelle risate di scherno dimenticando perfino di punire Gronsha per aver dimenticato di dire «Illustrissimo». «Veramente divertente», brontolò il principe. «E di' un po', come potresti indurli a seguire un nuovo signore? Annebbiando la loro comprensione? Perfino il mio miglior mastro di rune non ci riuscirebbe. Non con cinquemila.» Gronsha tacque stupito, con gli occhi che brillavano. «Mastro di rune?» chiese dopo un po'. Kamdra rifletté. «Un mastro di rune agisce su forze invisibili», disse per aiutarlo a comprendere meglio la parola. «Non lo capisci, phottòr?» Gronsha capiva perfettamente. Stava parlando con mezz'orchi che contavano tra le proprie file un mago. Un mago! A quel punto era certo che con loro sarebbe riuscito a incoronarsi sovrano di tutta la Terra Nascosta. Ma per farlo aveva bisogno di governare quella tribù. Il suo piano era semplice ed efficace: alla prima occasione avrebbe ucciso Flagur e, secondo l'uso, si sarebbe proclamato nuovo principe. Nessuno avrebbe mai messo in dubbio la sua superiorità, una volta che avesse ucciso quel mezz'orco simile a un gigante. «Illustrissimo, mi date i vostri guerrieri o no?» chiese di nuovo in tono energico. Flagur, che si era appena calmato, venne colto da un nuovo accesso di risa e sprofondò ansimante sui cuscini. Era quello che sperava Gronsha. Si gettò in avanti mettendo mano al pugnale; la lama puntò dritta verso il cuore del principe. Senza smettere di ridere, Flagur allungò fulmineamente la mano alle sue spalle, afferrò una spada corta e menò un colpo verso l'aggressore. Fu di una violenza impressionante. Non solo deviò lo slancio di Gronsha, ma ne fece a pezzi l'armatura e la carne sottostante; subito sgorgarono fiotti di sangue, e il mezz'orco crollò a terra.
«Ero sicuro che ci avrebbe provato», disse il principe sogghignando, mentre puliva la spada corta sugli abiti del morto. «È il loro tipico modo di comportarsi. Pura violenza. Non conoscono altra lingua.» Per sicurezza, Kamdra colpì Gronsha alla schiena con la lancia; poi lo agganciò con gli uncini dell'arma e prese a trascinare il cadavere verso l'uscita. «Illustrissimo, siete stato impressionante, come sempre», disse la mezz'orchessa inchinandosi. Ma Gronsha non era affatto morto. Colpì col pugnale alle sue spalle, allontanando il manico della lancia, e saltò in piedi. La ferita al petto si era chiusa, il sangue della Terra Estinta aveva avuto effetto. Scagliò il pugnale contro Kamdra, colpendola alla spalla sinistra. Con tre rapidi passi si trovò di fronte a Flagur, poi prese da uno dei sostegni una spada e la alzò verso di lui. Il principe menò un colpo con la spada corta e Gronsha, per dimostrare la sua sconfinata superiorità, si lasciò colpire all'avambraccio. Il taglio era profondo e doloroso, molto doloroso, ma si richiuse sotto gli occhi di Flagur. Era quello che voleva Gronsha. «Guarda che cosa sono in grado di fare!» Si voltò verso Kamdra grugnendo. «E adesso? Strappati il pugnale dalla spalla e fa' quello che ho fatto io, se ci riesci.» Flagur rotolò su di sé, spostandosi dal tappeto ai sostegni delle armi e scelse un mazzafrusto, per usarlo in aggiunta alla spada corta. «Qui abbiamo un piccolo mistero», ringhiò appassionato, con gli occhi rosa che gli brillavano. «Non sarai davvero immortale, vero?» «E invece sì», replicò Gronsha, con la voce resa troppo forte e alta dall'eccitazione. Uno o due colpi e si sarebbe fatto principe da sé. «Al contrario di te!» Il suo avversario sorrise. Sembrava una fiera. «Scopriamolo.» Gronsha attaccò Flagur, che si scansò di lato e fece per colpirgli la spalla col mazzafrusto. Gronsha ne aveva però intuito il movimento, si ritrasse, poi piantò la sua spada fino all'elsa nella pancia del principe. «Muori!» esultò. «Io sono il nuovo signore!» La gioia morì sul colpo quando Flagur lasciò cadere le armi e circondò la gola dell'avversario con entrambe le mani. Tenendo le braccia distese, lo sollevò lentamente, fino a raggiungere il soffitto della tenda. Non sembrava preoccuparsi della spada che aveva infilata nel corpo. Gronsha diede un calcio all'impugnatura dell'arma. Il suo nemico avrebbe dovuto gridare di dolore, invece non trasalì nemmeno.
«Trattiamo, illustrissimo», rantolò in preda alla paura di morire e rinunciando a tentare di liberarsi da quella morsa con le proprie forze. Trafficò con la borraccia che portava alla cintura. «Principe, qui sta il mio segreto. La Nera Immortalità!» Le dita del sovrano strinsero più forte, mentre le vertebre del mezz'orco cominciavano a scricchiolare. Gronsha gettò la borraccia a terra. «Per le tenebre di Tion, prendetela! Prendetela, ma risparmiatemi la vita!» sussurrò in un soffio. «Voglio...» Gli mancò la voce, non aveva più fiato. All'improvviso l'osso del collo si ruppe sotto l'enorme pressione. La vita immortale di Gronsha, l'ultimo membro della pattuglia di ricognizione del principe Ushnotz, terminò tra le forti mani di Flagur. Il principe gettò il cadavere a terra senza riguardo. «Kamdra, fa' venire il guaritore e il mastro di rune», disse con voce ferma mentre si sedeva con cautela, facendo attenzione che la punta della spada non s'infilasse e impigliasse nei cuscini dietro di lui. Solo a quel punto si permise di mostrare debolezza, e contrasse il volto. La voglia di combattimento e morte svanì. «Che ne facciamo di lui, illustrissimo?» s'informò Kamdra, indicando il cadavere. Muovendosi con cautela, Flagur prese la sua spada corta e tagliò una striscia di carne dal polpaccio del cadavere e la sciacquò in una scodella. Poi se la infilò in bocca e prese a masticare. «Ha un sapore eccellente», constatò, invitando la guerriera a servirsi. Kamdra assaggiò, e le si spalancarono gli occhi. «Non l'avrei mai detto. Puzzava tanto che credevo avremmo dovuto tenerlo in ammollo sette lune.» Dopo aver fatto un inchino, la guerriera si affrettò a uscire per portare al suo principe il guaritore e il mastro di rune. «Aspetta», la richiamò il mezz'orco. «Manda un messaggio agli ubari, dicendo che abbiamo novità. Saranno ansiosi di sapere che cosa sta succedendo nella Terra Nascosta.» La mezz'orchessa annuì e se ne andò. Flagur non riuscì a controllarsi e mangiò un'altra fetta di quella prelibatezza. Prede del genere rendevano la Terra Nascosta incredibilmente allettante per lui e la sua gente. Allungò la mano verso la borraccia, l'aprì e annusò. Aveva un odore terribile, saliva dal naso fino a pungere gli occhi. Disgustato, ne vuotò il contenuto nel secchio dei rifiuti. La spada gli procurava un dolore immenso al ventre, ma avrebbe resistito. Confidava nell'aiuto del suo dio, Ubar, creatore del suo popolo. Il mon-
do intorno a lui cominciò a ondeggiare. I suoi occhi rosa scivolarono sull'ingresso della tenda: numerose sagome scure si stavano avvicinando. Una voce gli sussurrò nell'orecchio: «Illustrissimo, ora cominciamo. Siate forte, e che Ubar vi assista». «Lo farà», riuscì a dire Flagur, ormai quasi privo di sensi. Tese i muscoli. «Fate in fretta.» I Terra Nascosta, Monti Grigi, confine meridionale del regno dei Quinti, 6241° ciclo solare, primavera «La prima volta che sono venuto qua era tutto in macerie, Orecchioappuntito. Ma questo... questo non me lo sarei mai aspettato.» Tungdil Manodoro accarezzò il pony grigio cui aveva parlato. Il nano cavalcava stupito lungo l'ultima curva della strada, si fermò e sollevò lo sguardo per osservare la cima della torre pentagonale che si levava nel cielo accanto alle vette dei monti, imponente e imprendibile. «Non dopo solo cinque cicli.» Portò alle labbra la borraccia quasi vuota e si fece scivolare in gola l'ultimo sorso di acquavite; l'alcol gli bruciò le labbra screpolate. Passando davanti alla costruzione, che avrebbe fatto sembrare piccolo perfino un orco, raggiunse il pianoro che si estendeva davanti all'ingresso del regno dei Quinti, gli eredi di Giselbart Occhiodiferro. Come fosse passata solo una rotazione, ricordava che lì aveva intrapreso una ricognizione alla testa di venti guerrieri, in compagnia dell'amico Boïndil e di Balyndis, colei che sarebbe diventata sua moglie. All'epoca erano avanzati tra macerie, vecchie rovine e pietre coperte di muschio. La maggior parte delle fortificazioni erette anticamente dai Quinti era stata distrutta dai mostri di Tion. Quel giorno invece si offriva uno spettacolo completamente diverso, capace di far avvampare d'orgoglio il cuore di qualunque figlio del Fabbro. Nel punto in cui stava passando, si trovava un tempo la voragine dentro cui era affogata una parte dell'esercito di mezz'orchi di Ushnotz. Ormai l'abisso era stato colmato e lastricato di marmo nero; incisioni in oro e vraccasio ricordavano la gloriosa battaglia e onoravano i nani caduti. Ognuno di loro era divenuto un eroe e sopravviveva nei canti che raccontavano quella battaglia.
Non era rimasta traccia delle rovine consumate dalle intemperie attraverso cui Tungdil, all'epoca, era avanzato" di soppiatto. Tutte le vecchie pietre erano state sgomberate e utilizzate da un'altra parte. Conci di granito chiaro e di scuro basalto erano stati posati l'uno sull'altro sino a formare un muro di cinta alto venti passi, senza giunture in vista, realizzato come un braccio protettivo posto intorno all'ingresso vero e proprio. Da esso si alzavano tre torri di basalto nero, dalle cui piattaforme i nani potevano sorvegliare il tortuoso e ripido sentiero, e scrutare per più dì cento miglia all'interno del regno di Gauragar. Lo stendardo dei Quinti, una catena di vraccasio, simbolo dell'abilità di orefici e dell'unità che contraddistinguevano la stirpe, sventolava dal pennone annunciando chi era a guardia del passo. Tungdil sentiva l'umidità bagnargli il volto. Girò la testa e vide la vicina cascata, che rumoreggiava e tuonava. Il bianco getto d'acqua scintillava al sole di primavera, come se fosse di cristallo. La vista toglieva il fiato. Orecchioappuntito sbuffò, si fermò davanti alle porte della fortezza, splendida e temibile, e cercò dell'erba; ma tra le nude pietre non trovò nulla che fosse di suo gradimento. Lo zoccolo anteriore destro raspò il suolo, impaziente. «Lo so, hai fame. Vedrai che ci faranno entrare subito», mormorò Tungdil. Non gli venne dato altro tempo per osservare i sontuosi edifici, che dimostravano la perfetta arte degli scalpellini della stirpe dei Secondi. I battenti del portale, alti come una casa, si aprirono piano. Le lastre di ferro applicate sul lato esterno offrivano un'ulteriore difesa dai colpi degli arieti e di altre macchine d'assedio. Dal passaggio emerse un nano, il cui elmo era reso scintillante da un gran numero di diamanti. Tungdil lo riconobbe: era l'imperatore Gandogar Barbadargento in persona, del clan dei Barbadargento della stirpe del Quarto. «Imperatore Gandogar.» Tungdil si lasciò cadere su un ginocchio e allungò la mano verso la Lama di Fuoco per porgergliela e offrire così il saluto formale dei nani. Era un modo silenzioso per rinnovare il proprio giuramento: dare la propria vita per il bene dei nani e della Terra Nascosta. Gandogar glielo impedì con un rapido gesto, porgendogli invece la mano. «No, Tungdil Manodoro, non ti devi inginocchiare di fronte a me. Stringimi la mano, è sufficiente. Tu sei il più grande eroe del nostro popolo. I tuoi servigi sono stati sconfinati. Sono io che...»
Tungdil si alzò, prese la mano che l'altro gli offriva e interruppe così il panegirico dell'imperatore. Muovendosi, fece gemere la sua cotta di maglia, parecchio arrugginita. Gandogar nascose meglio che poté il suo sgomento. Tungdil sembrava vecchio, più vecchio di quanto non fosse in realtà: i suoi occhi si guardavano intorno, opachi, come se dietro di essi non vi fosse più la mente acuta di un tempo; il volto pareva gonfiato, la barba e i capelli castani erano trascurati e in parte infeltriti. Non poteva dipendere solo dal lungo viaggio. «Sono io che dovrei inginocchiarmi di fronte a te», disse l'imperatore per portare a termine la sua frase. «Non lodarmi troppo.» Tungdil sorrise. «Mi metti in imbarazzo.» Si strinsero la mano. Un tempo rivali, erano entrati molto in confidenza. «Entriamo, in modo che tu possa vedere coi tuoi occhi che cos'hanno realizzato i migliori delle stirpi dei Primi, dei Secondi e dei Quarti.» Gandogar sperò di non aver fatto trapelare troppo il suo sconcerto, e fece un cenno verso l'ingresso. «Dopo di te.» «E riguardo ai Terzi, imperatore? Qual è stato il loro contributo?» chiese Tungdil mentre prendeva le briglie del pony e lo conduceva dietro di sé. «A parte il tuo, che ha reso possibile tutto questo?» replicò Gandogar. Non gli era facile vedere in quel nano trasandato l'eroe di cinque cicli addietro; era un brutto segno che un figlio del Fabbro lasciasse arrugginire la propria cotta di maglia. Si tolse l'elmo, scoprendosi i lunghi capelli castano scuro. «I Terzi fanno ciò che riesce loro meglio: ci addestrano nel combattimento. E sono incredibilmente bravi a farlo.» Sorrise. «Vieni. Abbiamo una sorpresa per te.» Oltrepassarono il portale. Dall'altra parte, un'accoglienza commovente attendeva Tungdil. Nane e nani di ogni età si affollavano lungo il cammino che portava dall'ingresso all'interno della montagna. Intorno a lui, volti felici e raggianti; si rallegravano della sua visita, lo acclamavano, battevano le mani. Musici si trovavano ai lati del cammino, sulle torri e sulle mura, facendo suonare in suo onore flauti e corni, mentre i guerrieri battevano a tempo le armi contro gli scudi. Regnava un entusiasmo indescrivibile, che lusingava Tungdil. «La notizia del tuo arrivo si è sparsa in fretta», disse Gandogar. Era compiaciuto per la sorpresa ben riuscita. «Hanno nostalgia del più grande eroe dei nani.» «Per Vraccas!» Per la commozione, Tungdil si sentì la gola secca e una leggera pressione al petto. «Qualcuno potrebbe pensare che io stia tornan-
do vincitore da una gloriosa battaglia.» Invece per cinque cicli aveva vissuto ritirato nella casa sotterranea del suo padre adottivo. I suoi occhi scivolarono sugli allegri volti di nani e nane che non avevano rinunciato a preparargli un caloroso benvenuto. Camminando tra le ali di folla accanto all'imperatore Gandogar, fece loro cenni di saluto. «Grazie!» gridò felice. «Grazie a tutti voi!» Gli applausi si fecero più forti, mentre la gente acclamava il suo nome. Il suo arrivo si sarebbe potuto anche trasformare in un giro alla gogna. Infatti sua moglie Balyndis era stata un tempo la moglie di Glaïmbar Lamatagliente del clan degli Schiacciaferro, della stirpe di Borengar: il re dei Quinti; incontrarlo di nuovo sarebbe stata la più grossa sfida della sua visita sui Monti Grigi. Era evidente che gli abitanti gli avevano perdonato di essersi unito con Balyndis, ma dovevano essere poi così tanti? Rivolse loro un sorriso valoroso e tirò il fiato quando entrarono nel gigantesco corridoio che conduceva nel cuore del massiccio. Gandogar si fermò all'ingresso. Aveva notato che la gioia di Tungdil in mezzo a tanta baraonda non era del tutto limpida. «Come ti senti?» L'altro non rispose subito. «Strano», disse dopo un po'. «Da una parte il mio cuore canta come il ferro sull'incudine sotto i colpi del maglio del fabbro. D'altra parte...» S'interruppe, tacendo pensieroso, poi si schiarì la voce. «Penso di non essere più abituato ad avere così tanti nani intorno a me, Gandogar.» Sorrise con aria di scusa, sollevò la mano e fece un cenno. «Di solito c'è solo una nana.» «Ti capisco. In parte», gli concesse Gandogar. «Come tu possa vivere lontano dalla comunità rimane per me un enigma. Certo avere intorno a sé tanti volti sconosciuti può far paura a chiunque.» Ammiccò. «So bene quello che dico. Il clan di mia moglie è immenso. Le loro feste di famiglia mi fanno tremare.» Tungdil sorrise. Nel frattempo un nano aveva preso Orecchioappuntito per le briglie e lo aveva condotto via per prendersene cura. Tungdil e l'imperatore continuarono a camminare per i corridoi e le sale, mentre la musica e le acclamazioni dei nani, alle loro spalle, si facevano sempre più lontane. Tungdil rammentava... In quel posto lui e i suoi amici non avevano trovato allora altro che polvere e rifiuti. Dopo la distruzione dell'antica stirpe dei Quinti, in quelle montagne avevano regnato per centinaia di cicli i mostri del dio Tion. Tutto ciò era passato. Era giunta una spedizione composta da nani di tut-
te le stirpi, che, dopo la vittoria, aveva portato nuova vita in quelle sale. I Monti Grigi pulsavano di nuovo. Tungdil sentiva le argentine risate dei bambini; quel suono gli fece male. «Non ci siamo limitati a riparare i danni patiti dalla roccia e dalle innumerevoli stanze», sentì dire da una voce nei pressi di un corridoio laterale. Subito dopo apparve un nano accompagnato da un nutrito seguito. «Abbiamo creato nuove sale. Nuove sale per nuove generazioni, che guarderanno il sole sorgere sulla Lingua di Drago, sulla Grande Lama e su tutte le altre cime.» Tungdil riuscì subito a inquadrare quella comparsa teatrale e la sua voce; in cuor suo aveva sperato di non incontrare quel nano. «Io ti saluto, re Glaïmbar Lamatagliente», disse inchinandosi leggermente. Constatò con stupore che dietro il sovrano c'era una nana in un abito marrone ricamato. Teneva in braccio un neonato. «Posso congratularmi per la nascita del tuo rampollo?» Glaïmbar, che era più alto e robusto di Gandogar, si accarezzo la folta barba nera. «Ti ringrazio, Tungdil Manodoro, e ti do il benvenuto nel mio regno.» Indicò il bambino. «Questi sono i veri eredi dei Quinti. Noi siamo qui solo per badare che nessuno allunghi le mani su ciò che spetta loro di diritto, finché non saranno in grado di difenderlo da soli.» Gli porse la mano; le lamine di metallo della sua pregiata armatura fregarono l'una contro l'altra. «Il tuo volto mi dice che sei preoccupato, Tungdil. Dimentichiamo quello che è accaduto in passato. Il mio cuore ha trovato un'altra nana, e io non nutro astio. Né verso di te né verso Balyndis. Riferiscilo anche a lei, quando sarai tornato a casa.» Sebbene avesse affrontato innumerevoli avventure e molte volte fosse fortunosamente riuscito a scampare da situazioni di estremo pericolo, di rado Tungdil si era sentito tanto sollevato come in quella occasione. Strinse la mano del re con entrambe le sue e le scosse con tanto vigore che Gandogar dovette frenarlo. «Piano, piano, amico mio. A Glaïmbar servirà ancora il suo braccio», disse ridendo. Una veloce occhiata al volto di Glaïmbar fece capire a Gandogar che anche il re dei Quinti era stupito dalla trascuratezza di Tungdil. «Purtroppo il mio braccio non mi serve più per combattere», aggiunse Glaïmbar dopo un attimo di silenzio. «Il passo settentrionale è tranquillo, ormai.» «Rallegratene, re Glaïmbar», replicò Tungdil. Si sentiva come liberato da una zavorra di piombo. Dopo l'amichevole accoglienza, le parole conci-
lianti del suo vecchio rivale lo sgravavano di almeno due delle sue preoccupazioni. In ogni caso si disse di non essere troppo fiducioso; finché alle parole di riconciliazione non fossero seguiti i fatti, sarebbe rimasto in guardia. «Di certo le braccia ti si stancheranno a forza di cullare bambini.» «Venite. Vi guiderò e vi mostrerò le bellezze di un fiorente regno dei nani.» I tre nani s'incamminarono, e presero a esplorare la fortezza. Ognuna delle stirpi aveva celebrato se stessa per l'eternità grazie alla propria arte. Gli scalpellini dei Secondi offrivano lavori di riparazione impeccabili e scavavano nella pietra nuovi alloggi, saloni, colonne, ponti e scale con una tale precisione da non poter che stupire. I fabbri dei Primi coronavano i lavori con grate, cancelli, mobili, lampade e altri oggetti realizzati con ogni genere di metallo. I Quarti portavano a perfezione l'opera degli altri intagliando gemme e pietre preziose che creavano ovunque il giusto scintillio. Insieme coi magistrali dipinti murali in oro, vraccasio e altri metalli pregiati della distrutta stirpe dei Quinti, i nuovi abitanti adornavano il loro regno in modo assai più sontuoso di tutti gli altri regni dei nani. Il loro stile univa in sé il meglio di tutti. Glaïmbar si compiaceva dello stupore che leggeva negli occhi spalancati dei suoi ospiti d'alto rango. «Come vedete, i Monti Grigi sono diventati un tesoro unico. E gli straordinari guerrieri della stirpe dei Terzi c'insegnano nuovi modi di combattere per proteggere il nostro regno e la Terra Nascosta», chiosò alla fine del loro giro, mentre li guidava verso la sala delle assemblee. Tungdil ricordava bene quel locale dalla forma insolita, costruito in modo simile a un teatro. Aveva una base dal diametro di circa venti passi; le pareti salivano perpendicolari per un passo e scorrevano poi ad angolo retto per circa quattro passi, formando così un ampio cornicione, prima di alzarsi nuovamente di un passo a formare quello successivo. Lì Tungdil aveva proposto Glaïmbar come re. Lì aveva rinunciato alle sue pretese. Come sarebbe andata se fossi diventato io re dei Quinti? si chiese mentre osservava le gradinate vuote. Meglio o peggio? Quel giorno non si teneva nessuna votazione. I capiclan stavano aspettando l'eroe e i due sovrani per pranzare con loro. Sedevano a un lungo tavolo posto al centro del primo livello, su cui erano ammassate prelibatezze preparate secondo le diverse ricette di tutti i regni dei nani. Quando entrarono i tre, le conversazioni si ammutolirono e tutti i presen-
ti si alzarono dalle loro sedie. Quindi s'inginocchiarono, estrassero le armi e le sollevarono, tenendo il capo abbassato. Era la muta promessa di dare la propria vita per l'imperatore. «Alzatevi e mangiate», disse Gandogar raggiungendo il suo posto, a un'estremità del lungo tavolo. «Gustiamoci questo pasto. Il viaggio mi ha reso affamato e molto assetato, avremo modo di parlare più tardi.» Tungdil si sedette alla sua sinistra, Glaïmbar alla destra. Iniziò il pasto, mentre i musici suonavano. Tungdil se ne rallegrò e si servì delle prelibatezze che incontravano il suo gusto: saporite gelatine di radici, carne di capra, funghi, formaggio acido alle erbe e gnocchi fumanti fatti con farina di tuberi di caverna. Quel pasto era uno straordinario cambiamento rispetto a quello che mangiava nella galleria in cui viveva: né lui né Balyndis erano molto versati nell'alta cucina, e poi a lui piaceva il cibo degli umani, mentre lei preferiva quello tradizionale dei nani; i compromessi risultavano in genere mediocri. Si pulì le mani sulla barba sporca. Nel suo entusiasmo per il banchetto non notò i volti orripilati dei capiclan. Il suo aspetto trasandato li aveva colpiti duramente. Gandogar gli porse un boccale di birra. «Assaggia. Una birra del genere non ce l'hai di sicuro dalle tue parti, non è vero?» Quelle parole non erano state pronunciate con cattive intenzioni, ma colpirono il punto debole della corazza di Tungdil. Il volto del nano s'incupì. «Sono pago di quello che ho», replicò seccamente. Prese dell'arrosto e cacciò i denti nella carne di capra; la salsa bruno-rossastra gli scorse come sangue nella lunga barba arruffata. Il suo contegno sgarbato contraddiceva ciò che aveva detto. «Avete già un rampollo?» volle sapere Glaïmbar, senza intuire che stava creando un'altra scalfittura sulla corazza. «Chissà quando avremo di nuovo bisogno di un eroe, e se i vostri figli...» Tungdil fece ricadere con forza il pezzo di carne nel piatto, si pulì la bocca con la manica, si scolò la birra e fece segno a un servitore di versargliene un'altra. «Se non ti spiace, spiegami perché mi hai fatto chiamare, imperatore Gandogar», disse, cambiando argomento in modo così esplicito da far capire a tutti che non desiderava rispondere alla domanda. Glaïmbar e l'imperatore si scambiarono un rapido sguardo. «Come ti ho accennato già prima, la situazione è diventata molto tranquilla, Tungdil», disse il re continuando a mangiare. «E questo mi sorprende.» «Esatto», aggiunse Gandogar. «Infatti, da un ciclo a questa parte sui
Monti Marroni stiamo assistendo invece a un intenso attacco da parte dei mezz'orchi. Cercano di forzare il passo con tutte le loro forze, come se avessero alle costole tutta la potenza del bene.» Gli venne passato il dolce. «Ma alla Porta di Pietra tutto è calmo come in una cripta.» «Avremmo potuto lasciare le porte aperte per quattro cicli e non sarebbe accaduto nulla», aggiunse Glaïmbar. Tungdil riconobbe subito il dolce e ne chiese per sé. Era una crema chiara, come quella che aveva mangiato presso i Liberi ad Aureorifugio. Nella casa della nana Myr, che si era macchiata di tradimento e lo aveva pagato con la vita. Una nana che lui aveva amato. La scelta del dolce fu un errore. Già al primo cucchiaio tornarono i ricordi: avevano un sapore amaro e gli rovinarono il gusto del cibo. Tungdil allungò di nuovo la mano verso la birra. «Questo è davvero strano», disse, sussurrando più che parlando. Tossicchiò, come se le immagini del passato lo strozzassero. Ci voleva molta birra per mandare giù quei ricordi, e ancora di più per impedire loro di venir su. «Avete mandato degli esploratori?» «No», rispose Glaïmbar. «Non volevamo svegliare l'orco che dorme, almeno finché su entrambi i lati non saranno state completamente ricostituite le difese e non ne saranno state aggiunte altre.» «Questo è il motivo per cui sei qui», intervenne Gandogar. «Abbiamo pensato che una piccola unità di ricognizione e tu, Tungdil Manodoro, faceste al caso nostro. A quanto mi dicono, sei già stato nella Terra dell'Aldilà.» Con la mano indicò l'ascia dell'eroe, che stava appoggiata accanto alla sedia. «Tu possiedi la Lama di Fuoco, in grado di vincere qualunque cosa ti si pari innanzi. Sei la guida migliore per una simile impresa.» Tungdil mise da parte il piatto e chiese un terzo boccale di birra. Voleva placare la fame a forza di birra. Come spesso era accaduto, negli ultimi cicli. «Sì, imperatore, sono stato nella Terra dell'Aldilà. C'era nebbia, ho perso tre guerrieri contro i mezz'orchi e ho trovato in una caverna una runa che non sono riuscito a decifrare. Non è stata una grande ricognizione.» Tracannò la birra, posò il boccale e ruttò piano. «Ammetterai che come esperienza non è un granché.» «Ciò non toglie che abbiamo bisogno di sapere che cosa sta accadendo là.» L'imperatore non sembrava disposto ad accettare un rifiuto, nemmeno indiretto. «Desidero che domani stesso tu parta alla volta della Porta di Pietra, con un gruppo di guerrieri scelti, per vedere qual è la situazione.» Tungdil aveva portato alle labbra il quarto boccale, ma lo abbassò. «C'è nebbia, imperatore. E tutti sanno com'è fatta la nebbia. Quante sfumature
di grigio ti dovrò descrivere al mio ritorno?» «Calma, Tungdil Manodoro.» Glaïmbar consumava il suo dolce in modo ostentatamente lento. «Forse al tuo ritorno dovrai scusarti con l'imperatore, dal momento che probabilmente laggiù pullula di mostri che si stanno adunando.» Tungdil si concentrò di nuovo sulla sua birra, poi esaminò Glaïmbar. Anche lui quindi voleva mandarlo nella Terra dell'Aldilà. Forse la loro riconciliazione non era poi così completa come aveva pensato poco prima? La diffidenza dei suoi pensieri era degna di uno gnomo, e si rimproverò per quello. Posò la birra con un'imprecazione. «Perdona il mio tono irrispettoso, imperatore Gandogar», disse a voce bassa e conciliante. «È ovvio che andrò al passo settentrionale.» Poi si rivolse a Glaïmbar. «Mi farebbe perfino piacere imbattermi nelle creature di Tion. Se dovessi incontrare la morte in battaglia, mi andrebbe anche bene! Perché...» Serrò le labbra. «Scusate, sono troppo stanco per essere di buona compagnia.» Si alzò, allungò la mano verso il boccale e lasciò la sala. I nani lo seguirono con lo sguardo, continuando a masticare in silenzio. Nessuno parlava, per non esprimere ad alta voce i dubbi su quello che un tempo era stato un eroe. Gandogar guardava preoccupato il piatto pieno che Tungdil aveva lasciato. «Qualcosa lo ha cambiato.» «Ma che cosa?» aggiunse Glaïmbar. «Qualcosa mi dice che ha a che fare con Balyndis.» «Alla Porta di Pietra troverà qualcuno con cui ne potrà parlare. Qualcuno che gli è molto più vicino di noi due.» Bevve un sorso di birra, mentre Glaïmbar lo fissava stupito. «Verrà?» «No.» Gandogar lanciò un'occhiata da sopra il bordo del boccale, lo appoggiò, lo fece oscillare per raccogliere la schiuma depositata in alto e poi lo vuotò giù per la gola. «È già qui, caro Glaïmbar.» Terra Nascosta, Monti Rossi, confini orientali del regno dei Primi, 6241° ciclo solare, primavera Fidelgar Fortecolpo, nano di statura considerevole e dalla barba chiarissima, si sedette, prese una piccola scatoletta di metallo dallo zaino e l'appoggiò sul tavolo di pietra davanti a lui. Aveva finito la prima parte della
sua ronda e si godeva una pausa nelle immense caverne, i cui alti soffitti erano sostenuti da grandi colonne. Lì un tempo erano stati posti binari e vagoncini, ma ormai non c'era più modo di usare quei carrelli. Il nano doveva controllare i corridoi, e ciò allungava il suo giro. Baigar Quattromani, che stava trafficando con un martello e piccoli ganci su un carrello danneggiato, gli lanciò uno sguardo. La sua barba scura era raccolta in due trecce che teneva sopra le spalle, in modo che non gli finissero sulla brace della forgia. Accanto a lui c'era una piccola fucina mobile, di quelle che venivano usate dagli artigiani erranti. Era sufficiente per svolgere piccoli lavori. «Be', tutto tranquillo?» chiese all'altro guardando incuriosito la piccola scatoletta. «Sì, dopo che avrò ucciso quattro mezz'orchi e vinto un troll», rispose Fidelgar in tono di scherzo, mentre prendeva due tazze e una borraccia su cui era inciso il simbolo dell'oro. «No, qua non succede niente.» A quel punto Baigar mise da parte martello e gancetti e si avvicinò sornione. «Ma che ti sei portato dietro?» «Una novità da Aureorifugio.» Fidelgar passò un dito sugli angoli della scatoletta, ne aprì la chiusura e sollevò il coperchio lentamente: ne uscì un odore di spezie e acquavite, e apparvero degli oggetti bruni, lunghi e spessi come un dito. «Sigari.» «Vengono da Aureorifugio? Una delle città in cui vivono i Liberi?» «Precisamente. Uno dei loro mercanti è stato qui e se li è portati dietro. Non potevo non comprarli.» Prese uno dei sigari e lo porse a Baigar. «Sono foglie di tabacco, rollate e marinate nelle spezie; o con delle spezie dentro.» Baigar annusò il sigaro, lasciando cadere le trecce della barba in avanti. «Se ne taglia un pezzo e lo si mette nella pipa?» «No. Non c'è più bisogno della pipa. I Liberi hanno avuto un'idea che fa risparmiare tempo.» Fidelgar si alzò, si avvicinò alla forgia e con una tenaglia prese un pezzetto di brace. Si mise un'estremità del cilindro in bocca e tenne l'altra accostata alla brace. Il tabacco si accese scoppiettando. «E a questo punto si tira come se fosse una pipa», spiegò farfugliando. Tirò più volte senza respirare e socchiuse gli occhi compiaciuto. L'odore era molto buono, sapeva di vaniglia, miele e altre spezie imprecisate. «Questa sì che è una buona idea.» Baigar prese un sigaro e imitò il compagno. Il fumo pareva più caldo e forte di quello di una pipa. E l'effetto era assai più percepibile: dopo poco gli vennero le vertigini. «Non credevo che il commercio coi Liberi ci avrebbe portato tanti vantaggi.» Agitò il sigaro
acceso. «E non intendo dire solo questa cosa qua. Pensa anche alla carne di gugul. E le loro erbe medicinali sono molto efficaci, a quanto si dice.» Fidelgar s'infilò il suo sigaro in un angolo della bocca e aprì la borraccia. Riempì le tazze col liquido chiaro che vi era contenuto. «E hanno l'Acquadoro di Aureorifugio. È un liquore con un pizzico di foglia d'oro.» Incoraggiò Baigar con un cenno. «Ha un sapore eccellente.» «Foglia d'oro? In un liquore?» Ne prese un piccolo sorso e masticò le sottili lastrine. «Sa di...» Fece schioccare le labbra, mentre cercava la parola adatta. «Oro! Non c'è nient'altro che possa descrivere questo sapore perfetto.» Sospirò felice. «È incredibile! Me lo sento scorrere nelle vene e portarmi via la stanchezza e il cattivo umore. È una medicina!» «L'oro o il liquore?» Fidelgar sogghignò. «E, a seconda del liquore che si usa e di dove si prende l'oro che ci si mette dentro, ha sempre un sapore diverso. E non si può tenere l'oro in un posto più vicino, non è vero?» Il nano bevve un sorso e fece un tiro dal suo sigaro. Poi si guardò intorno. «È diventato incredibilmente tranquillo.» Baigar soffiò il fumo e cercò di farne degli anelli. «Sei sicuro? Neanche uno gnomo di caverna?» «Sennò potrei starmene qui a farmi una fumatina?» Fidelgar guardò il vagoncino rotto su cui prima stava lavorando Baigar. «Di' un po', perché ripari i vagoncini se non possiamo più usare i tunnel?» «Perché non si sa mai», rispose Baigar. «E comunque li usiamo. Le squadre di costruzione sono in viaggio per riparare i danni. E perché tu fai la guardia, quando nella Terra Nascosta non c'è più un mostro?» «Perché non si sa mai», rispose Fidelgar ridendo. Indicò i quattro tunnel in cui correvano i binari. «È davvero un peccato. Proprio adesso che tra le stirpi regna la concordia, i collegamenti sotterranei sono ancora più danneggiati. Che sia maledetto il terremoto causato dalla Stella del Giudizio!» «Non preoccuparti, Vraccas è con noi.» Baigar dondolò la testa. «Siamo sulla buona strada per mettere a posto le tratte più importanti. Solo ieri una delle squadre ha ripulito mezzo miglio di uno dei tunnel principali.» Sospirò. «Ma le macerie non sono l'unico problema. E altrettanto difficile sostituire i binari piegati dalle frane con altri nuovi o forgiarli sul posto.» Indicò il vagoncino su cui stava lavorando col martello. «Quando i binari sono così inclinati deformano l'asse dei carretti. E questo significa altro lavoro per me.» «Ah, quando si poteva ancora viaggiare da un regno dei nani all'altro veloci come il vento! Quelli sì che erano tempi...» si accalorò Fidelgar, men-
tre soffiava un perfetto anello di fumo. «I vagoncini volavano sui binari, il vento ti soffiava tra i capelli e la barba e ti solleticava la pancia.» «Tu li hai usati?» chiese Baigar stupito. «Sì. C'ero anch'io quando la regina Xamtys II è partita per il regno dei Secondi e abbiamo combattuto contro le orde di Nôd'onn. Quella sì che è stata una battaglia!» Soffiò sulla punta incandescente per non lasciar spegnere il tabacco. «Ricordo come se fosse ieri quando...» Baigar alzò bruscamente la mano. «Zitto!» Tese le orecchie verso i neri ingressi dei quattro tunnel. «Mi è parso di sentire qualcosa.» Si tolse il sigaro dalla bocca e lo appoggiò sul tavolo di pietra. «Be', è possibile. Di sicuro là fuori c'è ancora una squadra e...» Sentirono un urlo orribile, che risuonò dal tunnel più a sinistra. Fidelgar capì che era un grido di morte. Un istante dopo risuonò un altro urlo, poi scoppiarono grida di panico. «Vieni!» S'infilò il sigaro in un angolo della bocca. Gli era costato caro e non voleva sprecarlo lasciando che si consumasse da solo e andasse in cenere. Prese velocemente ascia e scudo e trottò verso la galleria. Baigar prese la sua borsa degli attrezzi e due torce accese, poi si affrettò dietro l'altro. Un tempo avrebbe subito pensato a un agguato di mezz'orchi; in quel momento invece pensò a un qualche incidente. Corsero dentro il passaggio, dritto e piano, che era stato pensato per dare ai vagoncini tempo sufficiente per frenare, in modo da non piombare in piena velocità dentro la sala. Le grida si avvicinavano, mentre vi si mescolava lo sferragliare di elementi meccanici. Ricordavano a Baigar i rumori a lui ben noti prodotti da argani in funzione, ghiere che ruotassero velocemente e i bracci dei mulini di pietra dei nani. Ma non aveva mai sentito una simile mescolanza di tutti quei suoni. Distinse davanti a sé una luce danzante, in cui si levò un essere mostruoso che riempì l'intero passaggio. Tutt'intorno vorticava un numero enorme di artigli lucenti e bracci color bronzo, mentre i nani della squadra di costruzione cercavano disperatamente di fermarlo. Le loro piccozze non riuscivano a raggiungere la pelle del mostro; i manici si spezzavano come bastoncini. Chi veniva colpito da un artiglio urlava. Qualcuno faceva un volo di parecchi passi lungo la galleria, per poi cadere e rimanere immobile. «Vraccas, aiutaci! Che cos'è?» Fidelgar guardò sconvolto un potente artiglio perforare il corpo di un nano e uscirgli dalla schiena; poi il braccio
tornò indietro, traendo più vicino lo sventurato, che si dimenava, finché questi non finì alla portata di altri artigli stridenti. Il nano venne fatto a pezzi. Della squadra rimaneva solo un ferito grave, che gemeva a terra cercando di mettersi in salvo. Il mostro intanto continuava ad avanzare. «Dobbiamo salvare almeno lui!» disse Baigar lanciando uno sguardo al ferito e correndo in avanti. Fidelgar non esitò un attimo. Avvicinandosi al mostro, i due compresero di essersi sbagliati. Non avevano di fronte una creatura di carne e sangue, ma un grande oggetto di forma romboidale, che avanzava con uno spigolo in avanti. La pelle era costituita in realtà da piastre di ferro. I bracci lunghi un passo erano anch'essi in metallo; alle loro estremità erano innestate delle lame, ma anche delle morse dentate che a intervalli irregolari addentavano muovendosi in avanti e chiudendosi rumorosamente. I due non riuscivano a capire su che cosa il mostro si avanzasse. Una protezione di ferro impediva la vista agli sguardi curiosi, così come impediva attacchi mirati. «Non è una bestia», gridò Baigar stupefatto, fissando il sangue delle vittime che colava dalle lame e dagli artigli, scorrendo copioso sul suolo roccioso. Sulle piastre riconobbe delle rune e, quando le decifrò, un tremito gli attraversò le membra. Sperò di sopravvivere abbastanza per poterlo riferire alla sua regina. «Attento!» Fidelgar lo strattonò per una manica, e una morsa lo mancò per un pelo. «Via di qui! Prendiamolo.» I due nani sollevarono il ferito e lo sorressero insieme. La cosa stridette forte e li investì con un getto di caldo vapore che puzzava di petrolio e impediva loro di respirare. Tossendo, i due trascinarono il loro compagno lontano da quella cosa. La cosa non pensò nemmeno un istante di arrendersi, e invece infilò gli artigli coperti di sangue nel pesante vagoncino per le riparazioni, su cui si trovavano una fucina portatile e gli attrezzi, e la spinse in avanti lungo i binari. «Tienilo», gridò Fidelgar scaricando sull'altro il peso del ferito, poi saltò nel veicolo e strinse con forza i freni. La rapidità dell'avanzata del loro spaventoso nemico terminò all'istante. Ma il carretto continuò a muoversi in avanti, spinto dall'enorme forza di quella cosa. «Ci deve bastare questo vantaggio», disse Fidelgar saltando fuori dal vagone per tornare da Baigar e dal nano ferito. Si affrettarono lungo la gal-
leria, alla massima velocità consentita loro dal carico. Quando raggiunsero la sala, Baigar si separò da loro. «Voglio spingere un altro vagone nel tunnel», disse per spiegare le sue intenzioni. «Portalo alla svelta da un guaritore e chiama altre guardie.» Fissò un vagoncino al gancio di una catena collegata a una grossa carrucola. Visto che richiedeva troppo tempo mettere in funzione la macchina a vapore con cui di norma sollevavano i carichi più pesanti, dovette fare affidamento sulla sua forza fisica. Si servì del verricello; la catena si avvolse cigolando, poi si tese. «Di' agli altri di portare delle lunghe sbarre di ferro», gridò verso Fidelgar. La sentinella stava trascinando fuori il ferito. «Che devo dire se mi chiedono che mostro è?» «Di' che è una perfidia dei Terzi.» Fidelgar stentava a crederci. «Come...» «Ho decifrato le rune scritte sulla corazza.» Baigar colava sudore per il grande sforzo; con l'aiuto della carrucola riuscì a sollevare il vagoncino. «Battuti, non distrutti, portiamo la distruzione», citò concitato. «Possono essere solo i Terzi. Riferiscilo alla regina, qualora dovessi morire.» I muscoli del torace e delle braccia si gonfiarono, mentre guidava il carrello, che oscillava poco sopra il suolo, fin sul binario. Era proprio il momento giusto. Dal corridoio risuonarono gli stridii della macchina, mentre una nuvola bianca usciva dall'ingresso, annunciando l'approssimarsi del nemico micidiale. «Va'!» gridò Baigar. «Non so se basterà a fermarlo!» Si preparò ad abbassare il carrello. «Che Vraccas ti protegga!» Fidelgar gli fece un cenno, si gettò il ferito sulle spalle e si mise a correre. In tutta la sua vita non era mai stato così veloce, e per la prima volta trovò che la vastità dei regni dei nani fosse uno svantaggio. Attirò l'attenzione gridando forte. I nani abbandonarono i loro lavori abituali, si prepararono e si armarono rapidamente, sicché Fidelgar raccolse presto cinquanta guerrieri. Affidò il ferito a un compagno, poi si affrettò con gli altri a tornare nella sala. Ma vi giunsero troppo tardi. I carrelli rovesciati giacevano di traverso sui binari del tunnel, come fossero barricate. Avevano impedito che il mostro riuscisse a fare irruzione nella sala successiva e quindi nel regno dei Primi. Ma non trovarono il valoroso Baigar, a parte un pezzo di gamba e un brandello del farsetto. Di lui non si riconosceva nient'altro, in mezzo alle
spoglie fatte a pezzi degli altri nani sparse dal soffitto al pavimento. Fidelgar guardò nel tenebroso tunnel, senza distinguere nulla. Il loro nuovo nemico aveva ripiegato e verosimilmente attendeva in agguato da qualche parte in uno dei corridoi. Dopo più di cinque cicli i Terzi avevano di nuovo dichiarato guerra ai loro fratelli e alle loro sorelle. E la regina lo avrebbe appreso dalla sua bocca, come Baigar aveva desiderato. Terra Nascosta, Monti Grigi, confini del regno dei Quinti, 6241° ciclo solare, primavera Tungdil si era messo in viaggio attraverso il regno di Glaïmbar, alla volta della Porta di Pietra, percorrendo la stessa strada che aveva fatto a suo tempo con Balyndis e Boïndil. La bellezza che vide lo distolse dai suoi tetri lambiccamenti e dalla scontentezza in cui era scivolato. Non però dal dolore, che, come un animale cattivo, stava annidato in un angolo della sua mente e troppo spesso scattava in avanti, infilandogli i lunghi e affilati artigli nel cuore ferito, nell'anima. Da quel momento maledetto la scontentezza e il dolore erano stati i suoi eterni compagni. Mentre camminava, quel momento di distrazione veniva disturbato da ogni risata di bambino che gli giungeva alle orecchie. Quel suono allegro lo colpiva al cuore e lacerava la ferita della sua anima, la faceva sanguinare fino a che il nano non prosciugava quel torrente con la birra. Purtroppo quel tappo, troppo fluido, non durava mai a lungo, per cui doveva ricorrervi spesso. Così erano nate le sue cattive abitudini. Ciondolando leggermente, Tungdil raggiunse il potente portale dai giganteschi battenti che erano stati aperti dai nemici una sola volta, e soltanto grazie a un tradimento; altrimenti avrebbero sfidato gli assalti dei mostri per migliaia di cicli. I punti danneggiati erano stati riparati dagli scalpellini e i cinque chiavistelli erano di nuovo al loro posto, muovendosi solo quando venivano pronunciate le parole segrete. «Se tu avessi un occhio solo e cantassi, ti avrei preso per Bavragor Pugnomartello», disse una voce potente alle sue spalle, facendolo sussultare e distogliendolo dai suoi pensieri. «La voce di un morto parla di un morto?» replicò lui girandosi di scatto, troppo in fretta per reggersi bene in piedi. Due forti braccia lo tennero fermo, impedendogli di cadere.
«Ti sembro un morto, Sapientone?» Tungdil squadrò il muscoloso e tarchiato nano che aveva davanti. Tranne che sui lati del cranio, che erano rasati, aveva lunghi capelli neri, che pendevano sulla schiena raccolti in una treccia; la barba, dello stesso colore, arrivava fino alla cintura. Cotta di maglia, corpetto di cuoio, stivali ed elmo ne completavano l'aspetto da guerriero. Stringeva un'azza, il martello da guerra con uno spuntone lungo un avambraccio a un'estremità. «Boïndil?!» sussurrò Tungdil, incredulo. «Boïndil Duelame!» gridò poi felice tirando a sé l'amico che non vedeva più da cinque cicli. Non si vergognò di piangere e, sentendo l'altro tirare forte col naso, vicino al suo orecchio, capì che neanche un combattente maturo come il suo amico nascondeva i suoi sentimenti. «Ci siamo visti l'ultima volta sulla tomba di mio fratello Boëndal, alla Porta Alta», disse Boïndil piangendo per la gioia. «E anche là siamo rimasti a piangere forte tenendoci tra le braccia», aggiunse Tungdil dandogli pacche sulla spalla. «Boïndil, quanto ho sentito la tua mancanza!» Liberò dall'abbraccio l'amico con cui aveva superato mille incredibili avventure, condividendo il bene e il male, la tristezza e la felicità. Il gemello si terse le lacrime dalla barba. «Continuo a ingrassarla regolarmente», disse raggiante. «Sapientone, mi sei mancato.» Tungdil cercò una traccia della follia che un tempo allignava negli occhi del guerriero, pronta a erompere di tanto in tanto. Tuttavia lo sguardo dei suoi occhi marroni non era più folle, ma caldo e amichevole. «La morte cambia anche i vivi, mi hai detto una volta.» Boïndil diede un colpetto di nocche sulla cotta di maglia di Tungdil. «Ma, se tu che sei vivo continui così, il cambiamento sarà la tua morte», lo punzecchiò. «La birra che prepara Balyndis è così buona?» «La birra ce la fornisce un commerciante, e non ha niente a che vedere con quella che fanno i nani. Ha lo stesso effetto, ma dopo fa venire più mal di testa.» Tungdil non se la prese a male per l'allusione alla sua corpulenza. Ma le folte sopracciglia dell'amico si alzarono con aria di biasimo. «In parole povere, sei diventato un beone come Bavragor Pugnomartello», riassunse. Il guerriero sentiva il forte lezzo di sudore dell'altro e ne vedeva i capelli arruffati e il volto invecchiato. «Ti sei lasciato andare, mio grasso eroe. Cos'è successo?» «Ci vediamo dopo cinque cicli e mi fai una predica!» ribatté Tungdil. «Raccontami piuttosto che cosa ti ha spinto qui, lontano dalla Porta Alta.»
Si guardò intorno e vide molti guerrieri che uscivano in bell'ordine alla luce del sole per fare i propri esercizi di combattimento. «Nulla mi ha spinto o sospinto. Non ardo più dalla voglia di combattere, e il fuoco che mi scorreva nelle vene si è spento. È stato l'imperatore a chiedermi di accompagnarti. Qualcuno dovrà pur badare a te.» Accarezzò l'impugnatura dell'azza. «E anche onorare la memoria di mio fratello. Al contrario di me, lo spuntone della sua azza brama ancora la battaglia. Vuole infilarsi nel ventre di un Muso di porco.» Davanti alle file dei guerrieri camminava su e giù un Terzo; i tatuaggi neri che portava sul volto ne tradivano l'origine e la perizia in combattimento. Solo pochi cicli prima, quel Terzo e i nani che comandava si fronteggiavano sul campo di battaglia; nel frattempo l'odio irrefrenabile era svanito. Boïndil seguì il suo sguardo. «Non smetto di farmi domande», ammise. «Fatta qualche eccezione», e appoggiò una mano sulla spalla dell'amico, «ho come prima una pessima opinione dei Terzi. Non posso dimenticare che alcuni di loro hanno giurato di eliminarci. Temo i loro inganni.» «Già. Ma in ogni caso sono solo una manciata e non più una vera stirpe, come ai tempi di Lorimbas. La loro furia si spegnerà», disse Tungdil, fiducioso. «Sono i miei guerrieri?» Si avvicinò al gruppo, mentre l'amico lo seguiva. Il Terzo notò che i due si erano avvicinati e si voltò verso di loro. «Vi saluto, Tungdil Manodoro e Boïndil Duelame», disse inchinandosi. «Sono Manon Passopesante del clan degli Scuremortale. Queste sono le due dozzine di guerrieri che ho preparato appositamente per la missione nella Terra dell'Aldilà.» I suoi occhi scuri li guardavano con fermezza. «Nulla li spaventerà.» Boïndil rise amichevolmente. «Ah, credimi, Manon, ci sarà sempre qualcosa in grado di spaventare un guerriero.» Si appoggiò l'arma in spalla. «Il che non vuol dire che non riesca a controllarsi.» Manon fece un ghigno di sfida. «Allora i miei uomini ti mostreranno che ci sono nani che non provano paura.» «Sono certo che non troveremo altro che macerie e detriti», intervenne Tungdil in tono accomodante. «Quando possiamo partire?» «Quando vuoi», rispose Manon. «Allora domani all'alba», decise Tungdil, poi si diresse verso la torre, per salirne le scale che portavano in cima e raggiungere il camminamento che correva sopra la porta. Boïndil rimase al suo fianco.
Insieme guardarono la Terra dell'Aldilà, che in quel tardo pomeriggio giaceva limpida davanti a loro. Di fronte alla porta c'era una piana abbandonata, su cui un tempo si raccoglieva a intervalli regolari ogni genere di mostri per tentare l'assalto alle fortificazioni. «Sembra strano che ci abbiano rinunciato», disse Tungdil gustandosi il vento freddo che lo avvolgeva e gli soffiava via dalla testa l'effetto ottenebrante della birra. L'aria era fresca, limpida, e non recava con sé il tanfo di nessun mostro. «Solo queste antichissime montagne possono ricordare gli attacchi imperterriti e le ondate degli eserciti della prole di Tion.» «Dev'essere stata la Stella del Giudizio», replicò l'amico. «A quanto pare, non ha distrutto solo il male della Terra Nascosta, ma ha avuto effetto anche oltre i confini delle montagne.» Sospirò. «Immagina un po', Sapientone. Sarebbe davvero la pace.» Dal tono di voce si capiva che nemmeno lui osava crederci. «Ricordo bene quel momento.» L'ondata di luce magica, provocata dal sortilegio dell'Eoli, aveva attraversato la Terra Nascosta riducendo in cenere tutte le creature malvagie e raccogliendone l'energia in un diamante. Chiunque possedesse un simile artefatto e fosse in grado di usare la magia sarebbe divenuto l'essere più potente mai vissuto. Per sicurezza i nani ne avevano preparato delle copie precise che avevano ripartito tra i vari regni; anche Tungdil possedeva una di quelle pietre, senza sapere se fosse quella vera o una delle imitazioni. Ma nel frattempo una era andata persa. Ne chiese notizie a Boïndil. «È un mistero impenetrabile. La pietra che doveva essere consegnata alla regina Isika del Rân Ribastur è scomparsa. Almeno fino a oggi», disse il guerriero. «Non hanno trovato l'emissario né la scorta che doveva proteggere il diamante. E la gemma non è mai rispuntata.» Guardò la punta della Lingua di Drago, circondata dalle nuvole; i pendii del monte brillavano di un bel rosso scuro alla luce del tramonto. Le ombre si allungavano, e la brezza spirava sempre più fredda a ogni battito di ciglia. «Le ricerche non hanno portato a nulla.» «Questo è accaduto cinque cicli fa.» Tungdil rabbrividì. «Da allora ci sono stati tentativi di rubare un'altra delle pietre?» «Non che io sappia», rispose Boïndil scuotendo la testa; la treccia nera sulla schiena oscillò come una lunga fune. «Nella Terra Nascosta non esistono più maghi o maghe, quindi non c'è nessuno che sappia usare quel potere.» «A parte una manciata di apprendisti che studiavano presso il traditore
Nôd'onn», lo corresse Tungdil. «Non hanno nessun potere. A quanto si dice, la fonte della magia è stata completamente prosciugata dall'Eoîl. Da dove potrebbero trarre forza? E poi il loro apprendistato non era concluso. Che cosa potrebbero mai fare, Sapientone?» Tungdil evitò di replicare. Era cresciuto presso il mago Lot-Ionan e la sua scuola, quindi conosceva le capacità dei maghi. Ma, visto che da parecchio tempo tutto era tranquillo, concordò con la visione ottimistica dell'amico. Vedere sempre tutto nero non piaceva neanche a lui. «Andiamo di sotto. Qui al passo settentrionale la primavera si fa ancora attendere.» Lanciò uno sguardo alle maestose creste dei monti, in cui il vento soffiava la neve dalle rocce coprendo i pendii di un bianco velo. «Non vedo l'ora di gustare una birra calda con idromele.» Scesero le scale. «Come sta Balyndis?» chiese Boïndil quando ebbero raggiunto le gallerie. «Che combina la miglior nana fabbro della Terra Nascosta?» «È in lutto», rispose Tungdil. Il suo tono era così amaro e scontroso che il guerriero non osò chiedere altro. Non ancora. Continuarono a camminare l'uno accanto all'altro, in silenzio, in cerca dei loro appartamenti. «Ehi, Tungdil Manodoro!» si sentì dire piano, all'improvviso, da una porta socchiusa. «Hai un momento?» Boïndil corrugò la fronte. «Perché tanto mistero?» Andò avanti e spalancò la porta, brandendo l'azza. «Fatti vedere, se hai intenti onorevoli!» Una voce femminile gridò spaventata; non doveva aver notato il gemello. «Vieni pure, Sapientone. È inoffensiva», disse Boïndil da sopra la spalla. Tungdil gli passò accanto ed entrò nella stanza. C'era una nana. Portava vestiti semplici e aveva sicuramente vissuto trecento cicli. «Che cosa desideri?» La nana chinò il capo canuto davanti a lui. «Perdonami se ti ho rivolto la parola, ma... è vero quello che ho sentito dire? Stai per andare nella Terra dell'Aldilà?» «Non è un mistero per nessuno.» «Mi chiamo Saphira Mordiferro.» Esitò, chiudendo gli occhi. «Posso chiederti un favore?» «Vuoi un ricordino della Terra dell'Aldilà», disse Boïndil, beffardo. «No, mio figlio. Se lo trovate», mormorò con fatica, afferrando disperata la destra di Tungdil. «Ti prego, tieni gli occhi aperti e cerca di trovarlo! Si chiama Gremdulin Mordiferro, del clan dei Mordiferro. È alto più o meno
come te e porta un elmo con una luna d'oro sulla fronte...» «Pensavo che non avessero mandato nessun esploratore», disse Tungdil, stupito. La sua curiosità si era risvegliata, mentre il sospetto divampava dentro di lui. Riteneva Glaïmbar del tutto capace di farlo andare incontro a una trappola, probabilmente una specie di tardiva vendetta per il fatto che Balyndis lo aveva rifiutato infrangendo le usanze dei nani. «Non era un esploratore; stava a guardia della porta», spiegò la nana, faticando a mantenere il controllo. «I suoi amici mi hanno raccontato che aveva sentito un rumore sospetto e che voleva andare a controllare.» «Alla porta?» intervenne Boïndil. «No. Sembra che venisse da sopra la porta. Una pietra che rotolava, o qualcosa del genere.» Gli occhi le divennero umidi. «È l'ultima cosa che si sa di lui.» Il cuore di Tungdil era turbato, ma non scosso. Non conosceva nemmeno il nano di cui si stava parlando. «Quand'è successo?» «Mezzo ciclo fa», singhiozzò lei. «Sono sicura che i mostri di Tion lo hanno rapito, Tungdil Manodoro. Se c'è uno che lo può salvare, sei tu.» Gli baciò la mano. «Ti prego, per Vraccas! Salvalo, se è possibile!» Lacrime sgorgarono dagli occhi della nana, che cadde in ginocchio davanti a Tungdil. Boïndil era dispiaciuto per le parole avventate che aveva detto prima. L'aveva ingiustamente sospettata di essersi rivolta all'amico per fargli una richiesta ridicola. «Terremo gli occhi bene aperti, buona Saphira», borbottò in tono amichevole. «Perdona le mie parole.» Tungdil la aiutò a tirarsi su. «Alzati. Non c'è motivo d'inginocchiarsi davanti a me e pregarmi di aiutarti. Farò quello che farebbe qualunque nano.» Saphira gli sorrise e si asciugò le lacrime dalle guance pelose. «Vraccas ti benedica, Tungdil Manodoro!» Trasse un medaglione d'oro dalla tasca e glielo mise al collo. «Apparteneva a mio figlio. Così capirà che sono io a mandarti. E, se non doveste trovarlo, tienilo come ringraziamento per averci provato. Sarebbe fiero di sapere che un eroe come te porta al collo il suo medaglione.» Tungdil osservò il pendaglio, su cui era incisa una luna d'argento davanti a una catena di monti d'oro. «Ti ringrazio. Perché il re non lo ha fatto cercare?» Gli occhi della nana s'infiammarono. «Lo ha fatto cercare, per mezza rotazione! Hanno trovato il suo scudo accanto a un profondo crepaccio e
hanno concluso che vi fosse caduto dentro.» «Perché sei sicura che non sia andata così?» Boïndil la osservava con attenzione. «Non che mi auguri che sia morto, beninteso.» «Una madre sente quando suo figlio è morto.» Saphira sorrise debolmente. «E lui non è morto. So che è vivo e attende aiuto.» A quelle parole Tungdil sussultò come se fosse stato trafitto dalla freccia di un albo. Si voltò. «Fidati di quello che sente», fu tutto quello che disse a Boïndil, poi lasciò la stanza. Sulla soglia si voltò ancora una volta. «Ti porteremo tuo figlio. Vivo o morto.» Il mattino successivo la piccola squadra lasciò il regno dei nani e prese a marciare lungo il passo settentrionale, che li salutò con un vento tagliente. Le folate cantavano a più voci intorno agli spigoli delle rocce e Tungdil non sapeva se deridessero i nani o cercassero di metterli in guardia. «Il vento ha il vantaggio di disperdere la nebbia», disse Boïndil con la voce camuffata dalla sciarpa che si era alzato sul volto. Ispezionava con attenzione i dintorni, anche se temeva che il gelo gli trasformasse gli occhi in piccole palle di neve. «Qua fuori», precisò Tungdil. «Quella maledetta nebbia ci accoglierà non appena raggiungeremo i corridoi sotterranei. Di questo sono abbastanza sicuro.» Tacque un istante e guardò in su. «Mi chiedo che cosa se ne faranno mai i mostri del povero Gremdulin.» «Cercheranno di sapere da lui la parola d'ordine», ipotizzò Boïndil. «I Maialini sembrano farsi più furbi. Ma questa impresa non gli servirà a niente. Solo il re e due tra i suoi seguaci più fidati conoscono le parole magiche che aprono i chiavistelli.» «Questo te lo concedo.» Indicò i ripidi pendii. «Conosci una creatura che non sappia volare e che sia in grado di superare queste pareti? E se sono stati i mezz'orchi perché non si sono arrampicati in maggior numero, non hanno conquistato le mura e non hanno gettato da sopra le corde per gli altri? Perché tanta fatica per rapire un nano?» Gli occhi marroni vagarono inquisitori sulla distesa grigia, qua e là ornata dalla neve. «Credo che qui qualcosa non quadri.» «Una nuova avventura, Sapientone», sogghignò Boïndil. «Come ai vecchi tempi.» «No», replicò Tungdil scuotendo la testa. Poi bevve un sorso di grappa dalla fiasca di pelle. «No, non come ai vecchi tempi. Non sarà mai più come ai vecchi tempi. Sono morti troppi dei nostri amici e compagni.» Af-
frettò il passo e si mise in testa al reparto. Manon apparve al fianco di Boïndil. «Tungdil Manodoro è sempre stato... così?» chiese con cautela. «Che intendi dire?» sbottò il Rabbioso. «Non fraintendermi. Sarà sicuramente un buon capo, però... I guerrieri sono stupiti. Abbiamo sentito storie sulle sue imprese...» Guardò in direzione di Tungdil. Non gli riusciva facile esternare i pensieri dei suoi. «II suo aspetto non concorda con quello che immaginavano. E ci sono voci sul modo in cui si è comportato a pranzo con l'imperatore. Si dice che sia sempre ubriaco.» Manon abbassò lo sguardo. «I miei guerrieri hanno l'impressione che le maldicenze siano vere.» E non sono i soli, pensò Boïndil. «Richiamali all'ordine», gli ingiunse burbero. «Non devono slogarsi le mascelle come delle lavandaie. Vedrai che Tungdil è sempre un eroe.» Poteva solo sperare che quelle parole non si dimostrassero mendaci. Pregò silenziosamente che il suo amico avesse la forza di diventare di nuovo un nano come si doveva. Un nano come Vraccas lo aveva fatto. Manon annuì e ritornò al suo posto. Effettuata più di mezza rotazione di marcia entrarono in un passaggio che, dopo un centinaio di passi, si riempiva di nebbia. «Siamo proprio sulla strada giusta», annunciò Boïndil. «Me lo ricordo perfettamente.» Annusò la nebbia. «Era proprio così: umida, fredda e disgustosa.» «Al momento mancano solo i mezz'orchi di allora», aggiunse Tungdil a bassa voce facendo cenno ai suoi di estrarre le armi. «Fate attenzione. In questa zuppa si vede il nemico solo quando ti appare davanti al naso. E siate silenziosi. Più fate chiasso, meglio il nemico sa dove vi trovate.» Origliarono nella nebbia. I ricordi assalirono Tungdil e Boïndil. «Erano tre Maialini», sussurrò il Rabbioso. «Ne sistemammo due, ma uno ci sfuggì, ricordi?» Come avrebbe potuto dimenticare la vista dei cadaveri dei nani mutilati? Prima di fuggire, il mezz'orco superstite aveva infierito crudelmente sui nani che erano con loro. «Silenzio!» «Che il mezz'orco sia ancora qua?» mormorò Boïndil tirando indietro la testa; il fiato dell'amico era impregnato di alcol e aveva un odore acre. «Ah, a ben vedere ho ancora voglia di combattere!» «Boïndil!» lo apostrofò l'amico. «Sta' un po' zitto!» «Va bene, va bene. Non dico più niente. Finché non troviamo il
mezz'orco.» Fece ruotare il manico dell'azza. Era in preda a un'eccitazione che non provava da molto tempo. Camminavano con lentezza angosciante attraverso la nebbia che impregnava barbe e capelli, condensandosi sulle armature in piccole gocce. I nani tenevano le orecchie tese, ma in quel grigiore non sentivano altro che i passi di chi marciava loro davanti o dietro. Non si vedevano mostri, cosa che non rendeva più facile la loro esplorazione. «Finirà mai questa zuppa?» si lamentò a un certo punto Boïndil. «Rispetto a tutto questo andar di soppiatto preferirei di gran lunga un attacco. Riporterei la calma con quest'azza.» «Hai visto un mezz'orco?» replicò Tungdil, stizzito. «No, perché?» «Perché parli, allora?» Il Rabbioso tacque di nuovo e udì Tungdil trarre un lungo sorso dalla sua fiasca; sentì odore di grappa. Dopo una camminata quasi infinita il loro viaggio li condusse in una caverna, come stabilirono tastando le pareti. Tungdil ritrovò la runa vista a suo tempo, e subito dopo scoprirono una galleria che portava nel cuore della Terra dell'Aldilà. Nessuno osava parlare. A quel punto si trovavano in un luogo in cui non era mai stato nessun membro del popolo dei nani. All'improvviso, come se dietro una curva qualcuno avesse stracciato e gettato via il panno grigio e umido, la nebbia si diradò. Il silenzio che regnava tutt'intorno mise loro addosso una tensione angosciosa. Poco dopo i nani cominciarono a bramare un rumore di qualunque tipo, che finalmente desse loro un qualche segno di vita nei corridoi, non importava se ostile o amichevole. «È un labirinto», disse Manon. «C'è una biforcazione dopo l'altra.» «Lo so», replicò Tungdil. «E qualcuno è stato qui prima di noi.» Indicò un graffio sulla parete di pietra che nessuno altrimenti avrebbe notato. «È una runa dei mezz'orchi della Terra Nascosta. Si legge gr, e la stiamo seguendo da un po'.» «Siamo sulle tracce del Maialino che ci è scappato cicli fa!» Boïndil fece a Manon un cenno silenzioso, come a dire: Vedi? È un buon capo. «Dove ci starà portando?» Tungdil fece spallucce e continuò a camminare. Le rune erano tracciate in maniera sempre più approssimativa, poi la pista terminò bruscamente. Tungdil continuò a guidare il gruppo lungo i corridoi, lasciando un proprio
segno. «Una caverna», disse dopo l'ultima svolta, indicando in avanti. Raggi di luce scendevano obliqui, illuminando un pavimento stracolmo di ossa. Entrarono nella sala con circospezione. «Ehi, sembra che in questo posto qualcuno non possa vedere i Maialini», fece Boïndil dando uno sguardo ai resti. Si accovacciò per guardare meglio. «Qualcuno li ha disossati. Mi piace il mostro che lo ha fatto.» Sogghignò e sputò sulle ossa. «Sembrano già vecchie.» «Questo potrebbe spiegare perché non ci sono attacchi alle porte», aggiunse Manon, sollevando un femore e osservando i segni di coltello. «Nessuno può riuscire a mangiare da solo tutti questi Maialini», disse Boïndil, dubbioso. Manon osservò la gigantesca caverna e protese una mano verso uno dei raggi di luce. «E se si trattasse di un grande mostro? Un drago, per esempio?» «Non credo», obiettò Tungdil. «Ne avremmo trovato delle tracce. Solchi nella roccia, vecchie scaglie, schegge di zanne o cose del genere.» Aveva trovato l'uscita. «E comunque non sarebbe mai riuscito a passare attraverso questi corridoi. Sono troppo angusti.» «Un tempo esistevano anche piccoli draghi», replicò Manon. «Lo so. Conosco i libri e i documenti. Li ho letti tutti.» Tungdil fece capire al Terzo che tra loro l'erudito era lui. «E per questo escludo che si tratti di un drago.» Si voltò e proseguì. Gli altri lo seguirono nel corridoio successivo. Alla fine raggiunsero una grande caverna attraverso cui scorreva un torrente. Il gruppo di nani si aprì a ventaglio ed esplorò i dintorni. A giudicare dalle tracce sul suolo, in quel posto c'era stato un accampamento. Un grosso accampamento. Dal numero dei fuochi, Boïndil concluse che si trattasse di almeno duemila creature. «Hanno vissuto qua per un po' di tempo», disse osservando le scalfitture sulla roccia. «E non se ne sono andati via da molto.» Passò la mano sulla cenere. «È fredda, ma non è molto vecchia.» «Ma erano mezz'orchi? O erano quelli che hanno trattato i nostri peggiori nemici come cibo?» Tungdil indicò un tunnel naturale piuttosto ampio. «Per di là. Vediamo se troviamo altre tracce della loro permanenza.» Ripresero il cammino, sempre pronti a combattere e tesi all'inverosimile. Il fatto che una creatura trovasse di suo gusto i mezz'orchi non significava per forza che considerasse i nani come amici. Il tunnel terminava di fronte a un mucchio di rocce che sbarrava loro il passaggio.
Tungdil osservò la volta, poi i pezzi di roccia che aveva davanti a sé. «Non vengono da sopra. Sono stati ammucchiati intenzionalmente per chiudere il corridoio.» Guardò Boïndil. «Probabilmente l'esercito che stava accampato nella caverna dietro di noi si è coperto la ritirata.» «O voleva impedire che altri mostri usassero questo passaggio», aggiunse Manon. «Tutto questo è più che strano», mormorò il Rabbioso. «Prima era più semplice, vero, Sapientone? I Musi di porco venivano noi li annientavamo e la questione era chiusa.» Si sedette su una sporgenza della roccia, si tolse l'elmo e si passò una mano tra i capelli. Poi si grattò la testa e scosse i capelli; era una di quelle rare volte in cui li portava sciolti. «Adesso ne sappiamo quanto prima.» «A parte il fatto che a qualcuno piace mangiare i mezz'orchi», intervenne Manon. «Io rimango dell'idea che sia un drago. Siamo qui, nella Terra dell'Aldilà...» «No. Non ne esistono più. O non si fanno più scorgere.» Anche Tungdil si sedette. E ordinò una sosta; avrebbero mangiato e si sarebbero riposati. «Non si darebbe mai la pena di sviscerare con tanta cura le sue prede.» I vestiti gli stavano incollati al corpo, sudava tantissimo. Non era più abituato alla fatica di una lunga marcia. «Quelle bestie sono intelligenti. Non si sporcherebbero mai la bocca coi Maialini», disse Boïndil ridendo mentre mangiava pane e formaggio puzzolente. All'improvviso i suoi occhi si fermarono sul mucchio di rocce dietro Tungdil. «Non vedete niente?» Si alzò di scatto, rovistò fra i detriti e trovò qualcosa. «Davvero...» Chiamò subito a sé cinque guerrieri e li fece scavare. Perfino lui era troppo stanco. Ci volle parecchio prima che riuscissero a liberare completamente l'oggetto nascosto. Le macerie smottavano non appena veniva spostato un grosso pezzo, e l'aria era piena di polvere. Alla fine venne mostrato a Tungdil un elmo completamente schiacciato. Un elmo che portava sulla fronte una luna d'oro; ai bordi erano ancora attaccati dei capelli e del sangue rappreso. «Così abbiamo davvero trovato suo figlio», disse il Rabbioso a voce bassa. Tungdil mise l'elmo nello zaino. «Abbiamo trovato il suo elmo. Non lui. Non commettere lo stesso errore della squadra di ricerca mandata dal re. Può essere stato piazzato apposta perché qualcuno lo trovasse e lo ritenesse morto.»
«Perché mai qualcuno dovrebbe fare una cosa del genere?» «Per l'appunto. Perché? I mezz'orchi non si sarebbero presi una briga del genere. Dev'essere stata una creatura dotata d'intelligenza.» Boïndil si piegò indietro e guardò i detriti. «Li vuoi spianare e vedere se è lì sotto?» Tungdil scosse la testa. «Sono sicuro che sarebbe fatica sprecata. Noi...» Sentirono tutti l'acuto tintinnio che echeggiava per il tunnel, provenendo dalla caverna: un oggetto di metallo veniva sbattuto con forza contro la roccia. «Non siamo soli», sussurrò Boïndil infilando di nuovo il cibo nello zaino. «Andiamo a vedere», decise Tungdil, ordinando di rimettersi in marcia. Mentre ripercorrevano il corridoio sentirono di nuovo quel rumore. E si stava avvicinando. Tungdil, Boïndil e Manon guardarono cautamente. A una prima occhiata, non notarono niente. Come prima, la caverna stava davanti a loro vuota e abbandonata. Ma nell'aria e per terra c'era della polvere, più o meno al centro dell'ambiente, e un cumulo di detriti che prima non c'era. «Un fantasma?» sussurrò il Rabbioso. «Anche se siamo nella Terra dell'Aldilà, io non andrei tanto in là con le mie supposizioni», replicò Tungdil. «Chiunque sia, si è...» «Là sopra!» gridò Manon, facendo loro notare una figura che oscillava appena sotto la volta della caverna. Era grande come un nano. «Chi può essere?» si chiese Tungdil a voce alta. Il Rabbioso alzò la testa. «Per tutti gli dei, che ci fa lassù?» Pareva proprio che il nano fosse attaccato a una catena, con una carrucola fissata nella roccia. Era accovacciato in un'altalena pieghevole di cuoio e trafficava con uno spesso scalpello di ferro lungo un braccio. Manon scosse il capo. «Non è uno dei nostri. Non so nulla di una missione del genere e non capisco che cosa conti di fare lassù. E neppure come ci sia arrivato.» Lo straniero posizionò lo scalpello, trasse un martello dalla cintura e colpì con violenza un'estremità in modo da spingere la punta nella pietra. Saltarono via grosse schegge, che caddero a terra con fragore, seguite da una nube di polvere di granito. Boïndil imprecò. «Guardate la volta», gridò allarmato. «È piena di crepe!» «Non può farle con uno scalpello!» disse Manon, incredulo.
«Falso granito», spiegò il Rabbioso. «Io sono un Secondo e, anche se non sono mai stato bravo nel lavorare la pietra, me ne intendo più di un Terzo.» Indicò il punto del pavimento in cui si stavano raccogliendo i frammenti. «Vedete come si spezza e va in polvere quando lo colpisce? Ha l'aspetto del granito, ma è molto meno resistente. Più invecchia, più diventa poroso.» «Quel tizio sta facendo crollare la caverna!» Tungdil si voltò. «Fuori di qui, o non torneremo mai a casa!» Gli altri lo seguirono di corsa. Il nano, che continuava a lavorare ad altezza vertiginosa, aveva notato i visitatori indesiderati e raddoppiato la foga con cui lavorava. Un ultimo forte colpo e si staccò un blocco grande come una casa, che, giunto per terra, si frantumò in mille pezzi sollevando una grigia nuvola di polvere fino alla volta della caverna. Il nano scivolò subito giù lungo la catena e scomparve nella polvere. Come un'ombra scura correva davanti a Tungdil e ai suoi guerrieri, che tossivano affannati, per raggiungere anche lui il corridoio in cui avrebbero trovato la salvezza. Sopra di loro s'innescò un potente meccanismo di distruzione. Non c'era più nulla che trattenesse la pressione del soffitto, scaricandola sulle pareti laterali. Piovvero altri blocchi, che seppellirono due guerrieri schiacciandoli come morbidi funghi sotto pesanti lastre di pietra. Gli elmi rotolarono fra i piedi degli altri, e un soldato vi scivolò sopra, ma un compagno lo sorresse giusto in tempo. Neppure il più grande dei mostri avrebbe resistito a un crollo del genere; probabilmente un simile peso avrebbe messo in ginocchio perfino un drago adulto. La sottile polvere si depositava nei polmoni e nei nasi dei nani, rendendo loro impossibile respirare a fondo. La roccia sotto i loro piedi tremava e tuonava. A suo modo, la montagna esprimeva con forza il dolore per la devastazione che la stava colpendo. «Bastardo!» gridò Manon tra i colpi di tosse, superando di scatto Tungdil e Boïndil per raggiungere il nano che aveva provocato il crollo della caverna. «Lo ammazzerò!» Tungdil non dubitò un istante della sincerità di quelle parole. Il Terzo aveva perso due dei suoi guerrieri. «No, Manon!» cercò di gridare, ma la sua gola piena di polvere riusciva solo a gracchiare. Quindi non gli rimase altro che corrergli dietro e cercare d'impedire l'uccisione.
Nel tunnel in cui si trovarono a correre non c'era traccia di polvere, per cui si vedeva perfettamente. Erano in fila l'uno dietro l'altro come perle di una collana: in testa il nano sconosciuto, poi Manon e infine Tungdil, che non essendo più abituato agli sforzi perdeva sempre più terreno. «Fermo!» gemette sputando per terra un grumo grigio che si sarebbe potuto usare come malta. «Manon, aspetta! Potrebbe essere una trappola.» Quando tornarono nella caverna in cui avevano trovato le ossa dei mezz'orchi, videro Manon correre a perdifiato verso un'uscita alla loro sinistra. Nessuno aveva notato quell'apertura, prima. La caccia proseguiva. Per Tungdil i dolori al fianco divennero insopportabili. Ansimava e fischiava come un bollitore sforacchiato; perfino il Rabbioso, che era più vecchio e che aveva da tempo rinunciato alle battaglie e quindi agli sforzi, aveva più resistenza di lui. «Continuate a correre», ansimò Tungdil mettendosi a camminare. «Io vi seguo. Vi rallento soltanto.» «Non è necessario, Sapientone», disse Boïndil indicando un incrocio. Lì giaceva Manon; teneva l'arma nella sinistra, e aveva una brutta escoriazione sotto un occhio. Il Rabbioso e Tungdil s'inginocchiarono accanto a lui, mentre i loro guerrieri tenevano sotto controllo i dintorni. Non vi era traccia del nano che stavano inseguendo. Tungdil tastò la carotide del ferito. «Non è morto», disse tirando un sospiro di sollievo. Boïndil tenne in alto una sfera di pietra grossa come un occhio. Era sporca del sangue del Terzo. «Qualcuno lo ha atterrato con una fionda.» «Andatevene!» riecheggiò una voce dal corridoio. «Qui per voi non c'è niente che valga la pena di scoprire.» Riconobbero una figura alta come un nano, che non portava addosso nulla a parte un corsetto di cuoio e, sopra, una cotta di maglia; nella destra stringeva un pesante martello. Il fumo denso emanato dalle loro torce non permetteva di distinguerne il viso. Tungdil si alzò e si mise alla testa del gruppo, mentre due guerrieri si occupavano di Manon. «Chi sei? E perché hai fatto...» Dietro la figura si levò una grande ombra spigolosa che riempì l'intero corridoio. Ghiere scattavano e fischiavano forte, parti meccaniche stridevano le une contro le altre. La cosa si avvicinava sferragliando. «Andatevene, vi dico!» gridò loro la figura, facendo cadere la torcia e scagliando il martello con entrambe le mani verso di loro. Uno dei guerrieri parò il pesante proiettile con lo scudo; l'arma rimbalzò
e si schiantò contro il basso soffitto. Si ripeté ciò che era accaduto nella caverna. Grossi frammenti di falso granito caddero al suolo con fragore, e il corridoio crollò per diversi passi. «Indietro! Non possiamo fare niente, è troppo pericoloso!» Tungdil serrò i pugni, deluso. Boïndil e tre guerrieri afferrarono Manon, sempre privo di sensi, e iniziarono a correre per mettersi in salvo. Non tutti riuscirono a scampare alla pioggia mortale. Due guerrieri vennero seppelliti dal falso granito, mentre gli altri a fatica raggiunsero, ansimanti e trafelati, la caverna piena di ossa. Il tunnel alle loro spalle crollò su se stesso, sputando fuori un denso getto di polvere. E non era ancora finita. La montagna si riscosse furente, come se fosse in collera per quello che le veniva fatto e volesse punire tutti quelli che si trovavano al suo interno. Sopra le teste dei nani si sentì scricchiolare e gemere, mentre cadevano schegge di roccia. «Ma che abbiamo fatto per attirarci così l'ira di Vraccas? Questa caverna non esisterà ancora per molto», stimò il Rabbioso guardando preoccupato Tungdil, che non smetteva di ansimare. «Ce la fai?» «Non ho scelta», rispose l'altro, appoggiando le mani sulle ginocchia e respirando affannosamente. «Non avevo in mente di morire in questo modo.» Pensò alla strana sagoma che aveva visto dietro il nano. «Che era la cosa che aveva con sé?» «Non lo so. Qualunque cosa fosse, l'avrebbe aizzata contro di noi, se il corridoio non fosse crollato.» Boïndil si scosse la barba, che era diventata grigia per la polvere. «Sei tu il Sapientone, Tungdil. Hai mai visto qualcosa del genere?» Nella parte opposta della caverna cominciavano a spaccarsi grossi pezzi di parete, schegge di pietra volavano tutt'intorno come proiettili, fino a cento passi di distanza. Una colpì un guerriero in volto, e sangue schizzò dalla ferita. Tungdil non rispose, ma fece cenno di rimettersi in movimento; non riusciva affatto a spiegare quello che era successo. Si affrettarono lungo le gallerie e tornarono nella nebbia, mentre la roccia sotto i loro piedi continuava a tremare e sembrava non volersi placare. A Tungdil pareva che la montagna fosse in collera per il fatto che qualcuno avesse scavato al suo interno e distrutto la caverna. Ma scamparono alla rabbia della montagna e alla fine raggiunsero notte-
tempo il passo settentrionale, percorrendo nel gelo pungente la strada verso casa. La nebbia si condensava in brina su elmi, cotte di maglia, scudi e barbe, intonacando di bianco i nani. Quando finalmente raggiunsero le porte, li stavano già aspettando. II Terra Nascosta, regno di Gauragar, 6241° ciclo solare, primavera «Fate largo! Fate largo all'imperatore degli attori!» gridava lo strillone dal vestito variopinto, battendo sul tamburo che teneva appeso davanti alla pancia. Poi portò alle labbra la tromba e suonò una melodia che ricordava vagamente l'inno della casa reale del Gauragar. Passò schiamazzando tra la folla, che si aprì, curiosa e desiderosa di appurare che aspetto avesse un uomo di lignaggio tanto illustre. Dietro lo strillone camminava tutto impettito un uomo in abiti costosi e di grande effetto, con un bastone da passeggio rivestito d'argento e un vistoso cappello blu provvisto di tre penne. Il pizzetto si adattava in modo eccellente ai tratti aristocratici; i lunghi capelli castano scuro cadevano fino al bavero del mantello. Maestoso, salutava con la mano in ogni direzione; per sottolineare il gesto aveva fissato un piccolo fazzoletto bianco intorno al dito medio, facendolo sventolare e fluttuare come uno stendardo in miniatura. «Gli dei possano abbracciarvi e baciarvi tutti, amatissimi abitanti di Sturmtal!» gridava mentre sorrideva arditamente a una giovane donna. «E soprattutto te, bella bambina. Casomai loro non volessero, fammi sapere, e io mi farò volentieri carico dei loro compiti.» La ragazza arrossì, e tra gli astanti vi furono alcune risate. Giunti nel mezzo della piazza del mercato, l'uomo saltò sul bordo della fontana rotonda. «Venite, onorati spettatori! Venite e seguite, nel mio Curiosum errante, le meravigliose avventure che un tempo la Terra Nascosta vide, proprio come se vi aveste presenziato», disse per allettare la folla. Nel mentre, camminava sull'orlo della fontana facendo tintinnare le lucide fibbie delle sue scarpe. «La lotta contro i mezz'orchi, contro l'Eoîl e gli avatar, la crudeltà degli Eterni, che regnavano sullo Dsôn Balsur... tutto ciò vedrete coi vostri stessi occhi. Eroi e canaglie, morte e amore. Io, l'Incredibile Rodario, in passato chiamato anche Rodario l'Incredibile e amante
della maga Andôkai, racconterò le più audaci imprese di quei tempi. Saprò pure raccontarvi per quale altro motivo Andôkai veniva chiamata 'la Burrascosa'.» Qualcuno rise per la battuta ambigua. «E io ho combattuto contro l'Eoîl fianco a fianco con Tungdil Manodoro, finché la sua nebulosa figura non giacque morta innanzi a noi!» proclamò agitando il bastone. Si stirò e spalancò le braccia. «Poiché io, onorati spettatori, ho vissuto questi eventi in prima persona! Ci può essere un narratore più verace e credibile di me?» Dalle sue mani partirono fiammate blu e verdi, e la gente gridò spaventata. «Questo era solo un assaggio!» promise, poi si chinò e guardò un ragazzino. «Durante lo spettacolo ti dovrai tenere le mani davanti agli occhi, piccolo uomo, altrimenti ti cadranno dalla testa.» Il ragazzino impallidì e si strinse alla madre, che gli accarezzò la testa ridendo. Rodario fece avvampare un'altra scarica di fiammate nel cielo, che si stava incupendo e prometteva un temporale primaverile. Nel tendone, un po' di tuoni e lampi avrebbero certo giovato all'atmosfera. «Badate bene: i primi venti spettatori avranno in omaggio un bicchiere di vino e un'ampollina con un alito della nebbia dell'Eoîl! Guardatela bene, e rabbrividite! Ma non osate togliere il tappo, altrimenti...» Lasciò la minaccia inespressa, limitandosi ad assumere un'enigmatica espressione di monito. I suoi occhi scuri passarono sulla folla, che pendeva dalle sue labbra. Come sempre era riuscito ad ammaliarli con le sue parole, il suo charme e le sue offerte. Lì come in ogni altro posto che visitava, Rodario cercava tra la gente un volto familiare; e come sempre, da cinque cicli, non riuscì a scorgerlo. Alla fine notò invece una bellissima ragazza che lo guardava dalla seconda fila. Come al solito, ciò gli fece tornare il buon umore, stroncando il suo accenno di delusione. Doveva avere appena venti cicli, era alta e di bell'aspetto. Tutto in lei era come ci si aspettava in una donna, anche se per i gusti di Rodario avrebbe potuto avere un po' più di seno. Portava sciolti i lunghi capelli biondi, il volto era sottile ed espressivo, gli occhi verdi erano vivaci e attenti. L'attore l'avrebbe ritenuta una nobildonna, se non fosse stato per il cesto da lavandaia che teneva in mano e i vestiti logori che indossava. Nel volto della ragazza leggeva uno strano desiderio; non sembrava tanto volerlo come uomo, quanto piuttosto osservare quello che faceva. Rodario conosceva il significato di quella espressione. Molti cicli prima, era rimasto in piedi di fronte all'ingresso di un teatro con la stessa espressione
dipinta sul volto, senza desiderare null'altro che essere sul palco. Lo interpretò come un segno degli dei. Seguendo il suo istinto, saltò dal bordo della fontana e atterrò proprio davanti a lei. Poi s'inchinò profondamente e, grazie alla straordinaria destrezza delle sue dita, trasse dal nulla, come per magia, un fiore di carta nero-verde. «Questa sera mostrate questo all'ingresso e potrete entrare senza pagare nulla», disse sorridendo, alzando un sopracciglio e lanciandole il suo famigerato sguardo da seduttore, cui nessuna era ancora riuscita a resistere. «Svelatemi il vostro nome, bellezza di Sturmtal.» Con esitazione, la ragazza accettò il fiore. All'improvviso però un uomo spuntò davanti a lei, le strappò il dono di mano e lo gettò per terra. «Tienti per te le tue smancerie, fanfarone», ammonì in modo impossibile da fraintendere, mentre stracciava il fiore con un piede. «Non è carino che v'immischiate nella nostra conversazione, messere», replicò Rodario, gentile. «Questa non è una conversazione, damerino! Hai fatto gli occhi dolci alla mia sposa», ribatté l'altro, incollerito, agitando i pugni davanti al naso dell'attore. «Fallo un'altra volta e poi vediamo se avrai ancora voglia di regalare fiori di carta!» «No?» Rodario si chinò fulmineamente in avanti e fece finta di tirare qualcosa fuori dall'orecchio dell'uomo. Con gran diletto del pubblico, tra le dita gli apparve un altro fiore di carta. «Allora lo farete voi.» Porse il fiore alla donna. «Ecco, gentile signora. Coi migliori saluti dal vostro sposo. È veramente benedetto dagli dei: non a tutti gli uomini crescono fiori in testa. Il suo cerume è davvero copioso... nel senso che è fertile, intendo dire.» L'uomo, furente, scattò in avanti e afferrò il fiore prima che la donna potesse prenderlo, e scagliò anch'esso nel fango. «Adesso basta!» gridò. «Pagherai per questo.» Rodario finse tempestivamente di prendere qualcosa dalla bocca aperta dell'uomo, poi tenne in alto una moneta. «Ma perché mai dovrei pagarvi? Voi siete già tanto ricco che vi casca l'oro dalle mascelle!» A quel punto la gente rideva forte per lo spettacolo, gridava ed esultava. L'uomo al centro di tutta quella ilarità fremeva. Il suo orgoglio gli impedì di lasciar correre. «Ti infilerò quella moneta nel tuo culo incipriato!» gridò scagliandosi sull'attore. Rodario evitò l'attacco impetuoso e mise rapido il bastone tra le gambe
dell'uomo, facendolo cadere sul bordo della fontana. Il suo stesso slancio lo fece finire in acqua, mentre i bambini ridevano e applaudivano, e anche gli spettatori adulti perdevano ogni freno. L'uomo riemerse dai fiotti tossendo. Rodario gli offrì un'estremità del bastone. «Uscite di lì e dimenticate il nostro piccolo diverbio», disse. «Vi offrirò qualcosa da bere, che ne dite?» L'altro si terse l'acqua dagli occhi. Non sembrava affatto più disteso. Con un forte grido si scagliò un'altra volta contro l'attore, che si dimostrò di nuovo un avversario più svelto. L'uomo finì nella polvere, che si appiccicò istantaneamente agli abiti bagnati. Le dita gli si strinsero nella sporcizia per la collera. «Io ti ammazzo, pallone gonfiato...» Rodario si chinò e trafficò con l'orecchio dell'altro. «L'acqua fa germogliare i semi. Guardate, qui ce n'è un altro.» Fece comparire un terzo fiore, che gettò alla ragazza tra le risate sempre più forti della folla. «Ora basta, brav'uomo. Non vorrei che per la vostra mancanza di autocontrollo finiste per farvi male.» L'uomo si rialzò sbuffando di rabbia, si passò una mano sul volto sporco e prese a camminare coi piedi pesanti; le sue scarpe umide facevano rumore e perdevano acqua. Passando afferrò sua moglie per un polso e la trascinò via con sé. Il triste sguardo di commiato che la donna lanciò a Rodario il più forte silenzioso grido d'aiuto che l'attore avesse mai udito. La folla si chiuse dietro di loro, e Rodario non li vide più. «Ecco, guardate che cosa succede quando ci si mette contro un eroe!» gridò raggiante, facendo un nuovo inchino. «Venite stasera alla rappresentazione e lasciatevi rapire da me e dalla mia compagnia. Fino a quel momento, statemi bene.» Fece turbinare il cappello come un nobile e, voltando le spalle in modo abile e plateale, diede a intendere che lo spettacolo era finito. Gli abitanti applaudirono ancora una volta, poi tornarono a dedicarsi agli affari del mercato. Rodario strizzò l'occhio al suo strillone. «Ben strillato, Giso. Fa' ancora qualche giro per i vicoli e schiamazza come si deve. Tutti devono sapere chi è arrivato a Sturmtal.» «Dopo questo spettacolino la notizia si diffonderà più in fretta che una scoreggia nel vento», disse Giso. «Non è un'immagine molto bella, comunque rende l'idea», replicò Roda-
rio avvicinandosi a un banco in cui si serviva del vino. Si fece riempire un bicchiere, lo gustò e annuì. «Davvero una robetta niente male, degna di un imperatore! Portatemene una botte sulla strada che conduce alla parte meridionale di questa magnifica cittadina. Abbiamo piantato le nostre tende là», disse passando al mercante una piccola pila di monete del re Bruron. «Il pagamento è sufficiente?» «Certo, messere», rispose l'uomo inchinandosi e contando le monete; con gli attori, non si poteva mai stare tranquilli. Si prese perfino la briga di raschiare con un coltello un sottile strato di metallo per assicurarsi che non gli stessero appioppando piombo argentato. Solo dopo intascò le monete. Rodario sogghignò e si appoggiò al bancone, che era formato da un'asse posata su due barili. «Non vi fidate di me?» «No», rispose il commerciante in tono amichevole. «Anche voi avete voluto assaggiare il mio vino prima di ordinarne una botte, no?» Gli riempì il bicchiere. «Ecco qua! Questo quartino e il prossimo li offre la casa.» «Troppo gentile, carissimo», rise l'attore guardandosi ancora una volta intorno, sperando in cuor suo di riuscire a scorgere ancora una volta la sconosciuta. «Qualora abbiate seguito il mio piccolo intermezzo, sapreste dirmi chi è lo sfortunato che ha interpretato la parte del mio antagonista?» s'informò, facendo nel mentre segno a un ragazzo che se ne andava in giro con una cassetta appesa al collo vendendo leccornie: si trattava di schiacciate di pane appena sfornate, coperte di panna, prosciutto e un sottile strato di formaggio fuso. Rodario doveva assolutamente mangiare qualcosa, altrimenti il vino avrebbe avuto un effetto devastante. Non voleva biascicare davanti agli spettatori, e di certo non voleva cadere ubriaco dal palco, com'era già successo a qualche attore. Scambiò il prodotto, ancora fumante, con uno spicciolo. Quindi guardò il suo acquisto e ripensò al suo buon amico, che tanto apprezzava quelle schiacciate. «Certo che so chi è.» Il mercante di vino riempì dalla botte un quartino e impedì che i pensieri di Rodario scivolassero nella malinconia. «Nolik, il figlio di Leslang, l'uomo più ricco di Sturmtal. Lui e suo padre possiedono una cava da cui si estrae il miglior marmo del Gauragar. Re Bruron è un loro intimo amico.» «E tuttavia non è affatto garbato, quell'uomo.» Rodario morse lo spuntino. «Perché lascia che sua moglie faccia la lavandaia?» Il commerciante si guardò un attimo intorno, prima di continuare a parlare. «Nolik non è una brava persona. Non so come abbia fatto breccia nel cuore di Tassia. Se tutto andasse come dovrebbe, non succederebbero cose
del genere. C'è qualcosa di strano.» «Eh, chi le capisce le donne! Forse è un uomo dal cuore d'oro, a dispetto del suo modo di fare?» Rodario alzò gli occhi al cielo. «Questa schiacciata è eccellente», farfugliò con la bocca piena, spostando il boccone a destra e a sinistra con la lingua. «Ma troppo calda!» Spense il calore col vino e sospirò soddisfatto. L'uomo rise così forte che gli astanti si voltarono verso di lui. «Nolik ha un cuore d'oro? No, questo no di certo.» Poi aggiunse a voce bassa: «La famiglia di Tassia aveva debiti con suo padre. Devo aggiungere altro?» «No.» L'attore masticò il suo ultimo boccone, prese quartino e bicchiere e fece per riprendere il suo giretto. «Ricordatevi del mio vino!» Rodario amava bighellonare in mezzo alle attività della gente, perché significavano vita. Ne aveva abbastanza della morte, di imprese eroiche e roba del genere. Era un attore, un attore molto dotato e un eccellente rubacuori, come non ce n'era in tutta la Terra Nascosta. E, per esercitare entrambi quei doni consegnatigli dagli dei, aveva bisogno di persone che ne fossero sensibili. Che avesse abbandonato il suo teatro a Porista dipendeva da un altro motivo: quel volto che cercava nella folla. Il volto di Furgas. L'amico, con cui ne aveva passate tante, era disperato per la morte della sua compagna, Narmora, e dopo la vittoria sull'Eoli e la conversazione con Tungdil era diventato introvabile. Ciò era accaduto cinque cicli addietro. Da allora Rodario viaggiava attraverso i regni della Terra Nascosta, e in tutte le città, in tutti i villaggi e gli insediamenti in cui passava faceva la stessa cosa: chiedeva di Furgas alla gente, mostrando loro il ritratto che ne aveva fatto fare. Senza successo; ma non intendeva arrendersi. Anche a Sturmtal, dove, mostrando il dipinto dell'amico nelle locande, al mercato e alle guardie delle porte, non aveva ricavato altro che espressioni di diniego. Rodario era seriamente angosciato per il destino dell'amico scomparso. A quello si aggiungeva la preoccupazione per i molti marchingegni che Furgas aveva concepito e che l'attore portava addosso durante le rappresentazioni: gli eiettori di semi di erba strega, con cui creava delle palle di fuoco, le piccole tasche di pelle nera, in cui i fiori di carta attendevano il loro impiego, e molti recipienti in cui nascondeva polveri di vario tipo. Quelle invenzioni, escogitate da Furgas, agli occhi degli spettatori lo facevano sembrare un mago e gli permettevano esibizioni dal sapore unico.
L'attore temeva molto il momento in cui quegli attrezzi si sarebbero guastati definitivamente. Era riuscito in qualche modo a rattoppare i difetti più piccoli, ma di certo prima o poi non sarebbe più bastato. Poco dopo, Rodario tornò al campo della compagnia col suo consueto ma assolutamente superabile senso di abbattimento e recito sul palco le preoccupazioni che gli affliggevano l'anima. La rappresentazione terminò con un trionfo e un gigantesco temporale che fece onore una volta di più al significato del nome della città, cioè «valle della tempesta», e mise a dura prova le funi che reggevano il tendone della compagnia. Le pareti di stoffa ondeggiavano a destra e a sinistra, dando a chi sedeva all'interno l'impressione di trovarsi in un intestino scombussolato. Gli applausi si sentirono a malapena, poi gli uomini corsero nelle proprie case, rifugiandosi nella loro sicura protezione. Anche la vendita degli aliti di Eoîl sarebbe potuta andare meglio. Rodario si ritirò nella sua piccola carrozza, ornata da simboli di aspetto mistico, in cui si preparava all'ingresso in scena e contava gli incassi dopo le rappresentazioni. Sul tavolo del suo camerino si ammucchiavano monetine. Portava ancora l'abito che tempo prima, a Porista, aveva indossato in quanto presunto mago: Rodario l'Incredibile. All'epoca era servito a ingannare i nemici, ma ormai era diventato un oggetto di scena. L'attore si era però già struccato e aveva deposto i marchingegni inventati da Furgas. Si versò del vino, bevve e si guardò nello specchio; alla luce della lampada il suo volto pareva molto più vecchio. «Ogni ruga, un ciclo di preoccupazioni.» Levò il bicchiere verso il ritratto di Furgas. «Passatela bene, amico mio, finché non ti avrò trovato. Chi potrebbe competere con la tua maestria?» Buttò giù il vino, senza prestare la minima attenzione ai colpi sulla porta. «Sto dormendo», disse poi di malumore, dal momento che non sembravano cessare. «Benissimo. Allora ti vengo a portare un incubo, damerino», si sentì dire da una voce maschile. La porta volò via dai cardini e si abbatté sul pavimento di assi, sollevando un turbinio di sporcizia. Sulla soglia c'era Nolik, e alle sue spalle si distinguevano i contorni di altri due grossi uomini. Tutti e tre stringevano dei randelli. «Be', ormai sono sveglio, caro amico un po' troppo impetuoso. Che cosa vi preme tanto? Vi avrei senz'altro aperto la porta.» Rodario scattò in piedi e afferrò la sua spada. «Questa è un'arma vera, Nolik», lo avvisò tirandosi
indietro i capelli. «Non costringetemi a farle bere il vostro sangue.» «Parla in modo ampolloso perfino adesso che è calato il sipario.» Nolik rise ed entrò nella carrozza, subito seguito dai suoi due compari. Aprì il primo armadio che trovò alla sua sinistra e gettò per terra gli abiti che conteneva. «Dov'è?» chiese. «L'incasso di oggi?» Rodario alzò la spada. «Ma non eravate infinitamente ricco? Non c'è più richiesta del vostro marmo?» Nolik spalancò il secondo armadio, e quella volta piovvero per terra crogioli, ampolline e sacchetti, che andarono in frantumi o si aprirono, mescolando i contenuti. «Tu sai di chi sto parlando», tuonò Nolik facendo un passo in avanti, con gli stivali che macinavano i preziosi ingredienti necessari per produrre l'alito dell'Eoli. Rodario puntò l'arma verso il petto dell'uomo. «Messere, mi risarcirete dei danni che state combinando con la vostra sfacciataggine. E, per l'intera prole di Tion, ditemi una buona volta che cosa volete da me, voi e i vostri amici di elevata ottusità mentale.» «Tassia.» «Vostra moglie?» disse scoppiando a ridere. «Ah, ora capisco. È scappata via e ora pensate che io le stia offrendo rifugio.» Nolik si era fermato. «Certo. Ha sempre avuto una marea di sciocchezze in testa e tu, damerino, hai risvegliato in lei le sue vecchie manie. Stanotte il letto era vuoto.» Rodario sogghignò e guardò oltre Nolik, verso i due uomini che lo scortavano. «Allora tornatevene lì e coricatevi con quelle due magnifiche creature. Se fossi stato in vostra moglie, me la sarei svignata già da un pezzo. Ora sparite!» Nessuno seguì l'invito. Nolik allungò la mano verso il coperchio di una cassapanca, ma l'attore gliela colpì col piatto della spada. «Toccate ancora qualcosa e in futuro dovrete usare l'altra mano per pulirvi le chiappe», sibilò Rodario, sforzandosi di sembrare minaccioso. «Fatelo a pezzi!» ordinò Nolik imprecando mentre si stringeva con l'altra mano le dita arrossate. «Poi gli distruggeremo la tana.» I due uomini superarono esitanti il loro capo. Erano tipi robusti, presumibilmente lavoratori della cava, capaci di sollevare facilmente conci pesanti come carri. Una mazzata con quei randelli e l'attore sarebbe crollato a terra, morto. Giunse il primo attacco. Rodario evitò il bastone, che si schiantò sul lato del letto, facendolo a
pezzi. Tra le schegge fece capolino un abito femminile e, con grande sorpresa dell'attore, dentro il vestito era infilata Tassia. La donna scivolò indietro, premendosi contro la parete del carro, e si nascose la testa tra le mani. A Rodario bastò una breve occhiata per notare che aveva un occhio nero. «Ah, messer Nolik non è solo stupido, ma pure un porco vigliacco», osservò, toccato nella sua galanteria. «Se foste fatto di sterco, puzzereste così tanto da far cadere a terra il naso di qualunque creatura.» Fece subito un affondo e ferì il primo attaccabrighe alla coscia. «Ma voi, Nolik, siete meno che sterco.» Continuando a parlare, Rodario costrinse i visitatori a indietreggiare; la sua spada colpì l'avambraccio del secondo aggressore. I due girarono dunque i tacchi e corsero fuori, in mezzo al temporale. Nolik si guardò oltre le spalle, per vedere dove fossero finiti i suoi sgherri, poi gettò il randello. «Basta così», disse con tono di voce normale. La rabbia era sparita. «Alzati, Tassia, è ora di spiegargli tutto.» La donna si tirò su, prese il sacco in cui evidentemente custodiva il minimo indispensabile e si mise a fianco del marito. «Perdonate la piccola messa in scena», disse con voce ferma. «Sono felice che non vi sia successo niente, ma avevamo bisogno di quei due che avete messo in fuga. Ci servivano da testimoni involontari.» Rodario non capiva più nulla, ma abbassò prontamente la spada. «Quindi si sarebbe trattato di uno spettacolino?» chiese cauto. «E come dovremmo chiamare questo pezzo, per la precisione?» «Perdere la moglie e salvare la faccia», rispose Nolik indicando Tassia. «È stata una sua idea.» La donna fece un passo in avanti, la testa bionda abbassata. «Perdonateci», lo pregò un'altra volta. «Nolik e io non ci amiamo e non ci siamo mai amati. Suo padre ha chiesto che diventassi sua moglie, in pagamento di un debito della mia famiglia.» «Ma io non trovo nessun piacere in lei. In nessuna donna», aggiunse Nolik. «Siamo entrambi infelici, e dovevamo recitare la nostra parte di fronte alla gente e a mio padre, fino a che non si fosse presentata l'occasione e non avessimo trovato una via d'uscita che andasse bene a entrambi.» Fece un cenno verso l'attore. «Voi e il Curiosum siete la nostra salvezza, Rodario. Sempre che siate pronto ad aiutarci.» «Un grazioso, piccolo piano», commentò l'attore facendo loro cenno di sedersi, mentre chiudeva la porta e si lasciava cadere sul letto danneggiato. Non era ancora sicuro di potersi fidare di quei due e delle loro parole.
Quella storia sembrava incredibile, quasi come un pezzo di teatro. «E adesso che cosa succede?» Tassia trasse un profondo respiro. «Voi acconsentite?» Rodario si prese parecchio tempo per rispondere. Dentro di lui diffidenza, desiderio e amore per l'avventura lottavano tra loro. Se Tassia fosse stata brutta come un rospo del Weyurn, probabilmente avrebbe detto di no. Ma alla fine vinse il desiderio. «Come potrei abbandonare all'infelicità un'attrice così dotata, cara Tassia?» rispose infine sorridendo. «Avete un talento che sul palco vi renderà una stella di rara brillantezza.» Le porse la mano. «Siamo intesi?» «Di tutto cuore!» esultò lei stringendogliela. Anche Nolik strinse la mano all'attore. «Andrà così: io dirò a mio padre che mi avete battuto e mi avete costretto a lasciare libera Tassia», propose. «Ho del denaro con me, così non vi verrà a costare nulla. Io tornerò libero e farò sciogliere il matrimonio, e lei potrà prendere la sua strada. Mio padre andrà in collera, ma presto si calmerà.» Sollevò il borsello con le monete. «La vista di queste lo farà calmare. Anche se sono già soldi suoi.» Rodario si diede un colpo sulla coscia; quella situazione lo stava divertendo un mondo. «Sarà facile farne un pezzo teatrale.» Guardò Nolik. «Sono veramente meravigliato di voi. Sapete di avere una brutta fama in città? Ma le vostre azioni parlano più per voi che contro di voi.» L'uomo fece una smorfia. «No, io non sono una brava persona. L'occhio nero che ho fatto a Tassia è vero; ho spesso degli attacchi di rabbia. Ma in questo caso mi conviene che Tassia se ne vada, piuttosto che resti.» Raggiunse la porta e uscì nella pioggia, senza voltarsi neppure una volta. La donna lo guardò andarsene. «Buona fortuna!» gridò. Nolik fece un cenno di saluto continuando la sua via verso Sturmtal. «Allora, Tassia», fece Rodario guardandola. «Benvenuta nella compagnia del Curiosum. Voi volevate diventare attrice, nevvero? Da dove questo desiderio?» Le fece segno di sedersi sul letto accanto a lui, e la donna obbedì. «Non saprei dirvelo. C'è qualcosa in me che mi spinge a farlo.» Cercò lo sguardo dell'attore, alzò la mano destra e gli accarezzò una guancia. Mentre lo faceva le scivolò la stola dalle spalle, mostrandone la pelle nuda. «Così come qualcosa mi spinge verso di voi», sussurrò, come confidandosi. «Vi ho visto sul bordo della fontana, davanti all'acqua zampillante, con nere nuvole alle vostre spalle, e per me era finita. Nei vostri abiti mi sembravate un dio, le vostre battute erano per me una benedizione.» Il bel vol-
to della donna si avvicinò a quello di Rodario. «Siete l'uomo più sagace, più bello e più desiderabile che io abbia mai incontrato.» Si piegò in avanti dischiudendo leggermente le labbra. Rodario deglutì, le guardò la pelle impeccabile e abbronzata e sentì il desiderio di baciarla. E con lei avrebbe fatto anche altre cose. Quella notte aveva ancora da soddisfare le sue voglie, e lo slancio della donna arrivava molto opportuno. All'improvviso Tassia ritrasse la testa, si allontanò da lui e rise. «Come sono andata?» «Perché? Abbiamo già fatto qualcosa?» replicò l'attore stupito, finendole quasi addosso. «Parlavo della mia scena d'amore improvvisata.» Tassia si allontanò ulteriormente e sorrise innocente, come una bambina che si fosse appena riempita le tasche di dolci e avesse dato a un altro la colpa della loro scomparsa. «Ve la siete proprio bevuta, come deduco dal modo in cui avete reagito alle mie parole.» Rodario si sentì abbindolato. Ma si riprese subito e represse la sua sorpresa ridendo forte. «Avete tutto il mio rispetto, cara Tassia!» S'inchinò, le prese una mano e la baciò delicatamente. «Avete dato prova di grande bravura. Sembra quasi che sia io a dover imparare da voi. Eccellente il modo in cui avete simulato il vostro favore.» Si alzò e la prese per mano. «Venite, vi mostrerò dove potete passare la notte. Nel carro di Gesa, un'affascinante signora che si occupa dei nostri cavalli, c'è ancora un letto libero. Del vostro compenso e cose del genere parleremo domani.» «Molto volentieri», lo ringraziò Tassia. Mentre usciva dal carro lanciò uno sguardo al ritratto di Furgas. «Chi è quell'uomo?» «Un amico molto caro. Una volta apparteneva alla mia compagnia ed era un vero maestro nel suo campo. Mi manca molto», rispose l'attore mettendosi accanto alla donna per esserle il più vicino possibile. Con la sua seconda messa in scena, Tassia aveva ottenuto un risultato: il cuore di Rodario batteva ancora un po' più forte per lei. «Lo avete visto?» «Forse. Non sono sicura», disse la donna scuotendo la testa. L'attore prese l'immagine e la tenne davanti a Tassia. «Guardatelo bene.» Era molto emozionato e tratteneva a fatica la gioia. Tassia prese l'astuccio, aprì il calamaio, v'immerse la punta di un dito e con un paio di tratti alterò il ritratto. Il pizzo divenne una corta barba completa, e i capelli divennero più lunghi. «Era parecchio più magro», concluse tenendo alta l'immagine. «Ma è lui. Venne al fiume, nei pressi della ca-
va. Stavo facendo il mio bucato; lui mi chiese il nome del villaggio.» Rodario le afferrò d'impeto le spalle. «Quand'è successo? Ha detto qualcos'altro?» Ringraziò in silenzio Palandiell, per essersi imbattuto in Tassia. «È molto importante! Dove voleva andare?» «Non ha parlato molto con me. Ma vedevo chiaramente nei suoi occhi che era triste.» Cercò di richiamare alla memoria quell'incontro. «Dev'essere stato quattro cicli fa. Mi ha fatto compassione. Non avevo mai visto tanto dolore interiore sul volto di un uomo; la sofferenza gli aveva scavato profonde rughe. Per questo mi ricordo ancora bene di lui.» Guardò Rodario. «Portava un grosso carretto coperto; sulla superficie di carico era teso un panno da vela, e sotto c'era qualcosa che sferragliava e tintinnava. Lo presi per un robivecchi.» Tassia rabbrividì quando un fulmine colpì la terra nelle immediate vicinanze; era un rumore che stordiva le orecchie e che faceva paura, e per lo spavento la donna si aggrappò a Rodario. L'attore la circondò subito con le braccia, per proteggerla. Tassia, però, rimase lì solo qualche istante; poi riprese le distanze. «Scusate. Il temporale...» mormorò. «Tutto bene», replicò Rodario, dispiaciuto di non poterla trattenere più a lungo. «Continuate a raccontare, vi prego.» «Il vostro amico abbeverò i cavalli. Gli dissi il nome del villaggio, e lui sembrò esserne in qualche modo soddisfatto. Poi gli chiesi se avesse delle padelle, mai lui rise e disse che non poteva essermi d'aiuto. Ciò che portava con sé gli sarebbe servito nel Weyurn, a...» Rifletté. «Credo che abbia detto... Mafidina?» «Mifurdania», la corresse Rodario, felice. «Lì abbiamo avuto un teatro per lungo tempo.» Finalmente, aveva un indizio sugli spostamenti dell'amico; la tappa successiva del Curiosum era decisa. Si tornava così alle origini del loro successo. «Vi ha detto che cosa intendeva fare là?» «Commerciare», rispose lei. «Poi avrebbe ripreso il suo viaggio.» Represse uno sbadiglio, cosa che non sfuggì a Rodario. «Perché vi siete separati, se eravate amici?» «Ah, il sonno si è impadronito di voi già da tempo, Tassia. Vi racconterò in seguito che cos'è accaduto.» Prese la borsa della donna. «Ve la porterò io.» Una potente folata di vento scosse il carro. La pioggia picchiava forte sulle pareti; si sarebbero infradiciati completamente non appena avessero messo un piede oltre la soglia. Rodario guardò Tassia. «Be', potete dormire anche qua. Dividiamoci
quello che resta del letto», propose, e lei acconsentì sorridendo. Poco dopo sgusciarono sotto le lenzuola e si misero ad ascoltare nell'oscurità i rumori delle forze della natura. Dopo un po' Rodario sentì una mano sul petto. «Prima, quando ho detto che siete sagace, bello e desiderabile, stavo mentendo solo su una cosa», gli sussurrò la donna in un orecchio. Rodario sentì che si stava sfilando il vestito. «Badate bene a quello che state per dire», replicò contento, ridendo piano. Il suo fascino quindi funzionava ancora. Perfino nel buio più completo e senza parlare. La donna lo baciò su una guancia. In lui si fece largo la sensazione che lei fosse tutt'altro che innocente. «Voi non siete l'uomo più bello che abbia mai incontrato», disse Tassia stringendosi a lui; Rodario ne sentiva il calore della pelle e il profumo dei capelli. «Ma le altre due cose corrispondono a verità.» «Potreste anche aggiungere il più infaticabile», sussurrò Rodario baciandole la bocca. Ancora una volta, una donna lo aveva scelto perché la rendesse felice. E lui si prestava volentieri a servigi del genere. Terra Nascosta, regno di Tabaîn, due miglia a sud della capitale Güldengarb, 6241° ciclo solare, primavera Il regno di Tabaîn aveva due caratteristiche che lo rendevano inconfondibile: i campi di grano, che parevano infiniti e brillavano di giallo intenso alla luce del sole, e le case tozze, costruite con conci di pietra lunghi come uomini, alti come bambini e profondi un braccio. «Sembra una lunga foglia d'oro in cui un artigiano distratto abbia fatto dei buchi», pensò ad alta voce il principe Mallen von Ido dell'Idoslân, in sella al suo cavallo. Guardò il piatto paesaggio che si estendeva davanti a lui. C'erano giusto alcune colline non più alte di dieci o venti passi che, nel centro e nel sud del regno, gli abitanti del Tabaîn, benedetti dall'ignoranza, chiamavano montagne. Nessuno di loro aveva mai visto le montagne, per non parlare poi di un altro regno. «Per la nostra cavalleria pesante sarebbe uno scherzo conquistare questo paese. Tuoneremmo attraverso la campagna e piomberemmo su di loro come uno dei loro cicloni», disse entusiasta Alvaro, compagno del principe e comandante della sua guardia personale. Notò lo sguardo di rimprovero del suo sovrano. «Naturalmente non stavo parlando sul serio, mio signo-
re», aggiunse in fretta schiarendosi la voce imbarazzato. «Non ti è sfuggito il modo in cui costruiscono le case e le città, non è vero?» Il principe Mallen si voltò verso sinistra e gli indicò la loro destinazione, la città di Güldengarb e la fortezza reale. Gli elementi della sua preziosa e pesante armatura, recante l'emblema degli Ido, stridettero. «Come potremmo mai prenderle? Non c'è un albero con cui costruire torri d'assedio, né rocce con cui caricare le catapulte. Be', ovviamente non avremmo legno per costruire catapulte.» Diede al suo stallone qualche pacca sul collo, per tranquillizzarlo. «E naturalmente neanche io sto parlando seriamente», aggiunse sorridendo, mentre dava ad Alvaro un colpo sulla spalla. «Re Nate può tranquillamente tenersi il suo piatto regno.» Fece andare il cavallo al trotto, e il seguito del principe si mise in movimento. Entro pochissimo avrebbero raggiunto Güldengarb, cui recavano visita su invito di Nate. Alvaro continuava a sentirsi un po' in colpa per la sua osservazione. «Altezza, perdonate le mie riflessioni.» Affiancò il principe, mentre cercava le parole adatte. «Sono stato cresciuto per misurami coi mezz'orchi e con altri mostri, e per difendere il mio amato Idoslân dalle loro orde, ma ora...» Alzò le spalle, facendo cigolare l'armatura. «Ora gli uomini come me non hanno più nulla da fare. L'ozio partorisce pensieri guerreschi, mio principe.» Mallen prese l'antico elmo dal cinturone, lo mise sulla bionda testa e lo allacciò. «So che cosa intendi. Ci sono molti guerrieri che si ritengono inutili.» «Lo sa bene Palandiell!» sbottò Alvaro sollevato, vedendosi compreso. «Briganti e banditi non sono affatto una sfida. Ho combattuto battaglie contro Nôd'onn, contro gli avatar e contro rapaci mezz'orchi», disse battendosi sul petto. «Ora la mia spada arrugginisce nel fodero, mi sta venendo la pancia e le mie braccia stanno dimenticando la precisione dei movimenti.» Sospirò. «È bello che la Terra Nascosta e soprattutto l'Idoslân non abbiano più bisogno di guerrieri. Ma per noi non è facile da accettare.» «Ma ora puoi viaggiare con me e vedere nuove cose», replicò Mallen sorridendo. Il principe si gustava i raggi del sole e l'odore di terra e di spighe che maturavano. Nel cielo volteggiavano due rapaci, spiando il suolo in cerca di preda. «Prima non ti sarebbe stato possibile. Per via dei mezz'orchi che tanto ti mancano.» «Avete ragione, mio principe. Sono egoista e ingiusto.» Il percorso imboccato dalla compagnia, che era formata da quaranta cavalieri e quattro carri, li condusse a Güldengarb passando per una strada
esageratamente larga che correva tra i campi di cereali. La città sembrava coricata per terra, perfino la fortezza dava l'impressione di essere stata costruita intenzionalmente bassa. Gli uomini guardavano con stupore i campi rigogliosi. Quello era solo l'orzo invernale, che prometteva un primo raccolto molto ricco. La semina per l'estate era ancora da venire; avrebbe riempito i magazzini e i granai del Tabaîn fino al soffitto e avrebbe alimentato anche altri regni. Sempre se non si fosse verificato uno dei temporali devastanti per cui la pianeggiante regione era famosa. «Il fatto che qui si riversino tempeste che non hanno eguali deve dipendere dalla conformazione del territorio. Nemmeno sulle montagne dei nani o nel regno di Urgon ci sono venti del genere, che flagellano tutto ciò che trovano», rifletté Alvaro osservando i culmi ondeggianti. «Adesso hai capito perché costruiscono case simili a fortezze», disse Mallen. «Una casa normale verrebbe subito travolta. E i corpi degli sventurati finiti nella tempesta sparirebbero per sempre.» Alvaro guardò in alto, verso il luminoso cielo blu. «Speriamo di risparmiarci uno spettacolo del genere.» Entrarono a Güldengarb, che aprì le sue porte per loro. Dietro, per le strade della capitale, si erano raccolte centinaia di persone che agitavano panni e bandiere; altre spargevano petali colorati dalle finestre e dai tetti, in onore degli importanti ospiti. Alle grida entusiastiche si mescolava il suono di una musica vivace e sconosciuta agli stranieri. Mallen notò che non c'erano case con più di due piani, e queste ultime erano rare e spiccavano fra le altre. Per spezzare la monotonia del grigio pietra gli abitanti avevano dipinto parecchi conci. Qualcuno aveva adornato le pareti con panni di colori differenti. «È bello essere i benvenuti», commentò Alvaro, visibilmente compiaciuto di essere al centro dell'attenzione. Un gruppo di ragazze e giovani vestiti con abiti di un bianco splendente e ghirlande di paglia dorata si avvicinò per offrire un rinfresco agli ufficiali: vino e frutti di vario genere, in cui erano state intagliate figurine a forma di cavaliere. «Questa sì che è un'accoglienza», aggiunse Alvaro, raggiante. «Mi piacerebbe viaggiare un'altra volta con voi per la Terra Nascosta, mio principe.» Mallen assaggiò il vino e rimase stupito da quanto sembrasse leggero. Il vino dell'Idoslân era noto per il suo color rosso intenso, la sua alta grada-
zione e il sapore leggermente legnoso. Nel Tabaîn invece si sapeva pigiare un'uva che si beveva più in fretta dell'acqua. Troppo in fretta. Il gruppo di giovani si ritirò quando apparve una scorta a cavallo, che condusse gli ospiti alla fortezza. Non dovettero attendere a lungo una nuova meraviglia. «L'hanno costruita davvero rasoterra. Con un po' di slancio potremmo quasi saltare oltre le mura», sussurrò Alvaro al suo principe quando videro più da vicino la fortezza. Le mura si alzavano al massimo di cinque passi; dietro di esse, e dieci passi più sotto, si estendeva un cortile cui si accedeva attraverso una rampa assai ripida per i cavalli. «Dopo il tuo salto faremmo una bella caduta», lo canzonò il principe Mallen. Notò che alcune parti delle mura avevano sporgenze di pietra troppo simmetriche per poter dipendere da un errore di costruzione. Più tardi avrebbe chiesto a re Nate quale fosse la loro funzione. Arrivati nel cortile, smontarono da cavallo. Un uomo di fiducia del re li condusse nel palazzo, che da fuori, per via delle spesse pareti disadorne, pareva un desolato casermone. Il principe dovette correggere la sua impressione già dopo il primo passo all'interno. Su pareti, soffitti e pavimenti regnava un lusso raffinato. Tappeti ammortizzavano i passi, rendendo piacevole camminare; i magnifici paesaggi dipinti alle pareti davano l'impressione di non trovarsi più in un edificio dalle spesse e grigie pareti, ma di girare per infiniti campi di grano. I corridoi non erano angolati, ma curvavano dolcemente, e nessuna delle sale che attraversarono aveva i contorni spigolosi. Così, gli interni del palazzo apparivano all'occhio e allo spirito un carezzevole capolavoro dell'architettura. Re Nate, coi suoi luminosi capelli biondi come il grano e con gli occhi verdi come erba fresca, li accolse a braccia aperte nella sala del trono. I due sovrani si abbracciarono. «E così, dopo tutti questi cicli, siete riuscito a raggiungere Güldengarb e a recarmi visita», si rallegrò Nate. «Come vi sembra il granaio della Terra Nascosta, principe Mallen?» «Questo paese è regolare come il volto di una bella donna», rispose Mallen con diplomazia mentre camminava accanto a Nate, che li stava accompagnando a tavola. C'era una scelta infinita di frutta, verdura e carne, arricchita da tutti i tipi di pane possibili. «Basta che diciate che è troppo piatto», replicò Nate ridendo. Indicò il posto alla sua destra; la sedia alla sua sinistra rimase vuota. «Ma, se non altro, i vostri cavalli non si sono dovuti stancare troppo, non è vero?»
Mallen e Alvaro risero. «Dateci un momento per ripulirci della polvere della strada», lo pregò il principe. Nate scosse la testa. «No, lasciate pure la polvere tranquilla sulle vostre armature. Così portate una parte del mio regno nel mio palazzo, e io non posso avere nulla in contrario», disse arguto. «Ristoratevi con me. Poi vi attendono un bagno caldo e un letto.» «Se insistete, maestà», annuì Mallen con la pancia che brontolava. L'invito gli giungeva opportuno. I piatti vennero subito riempiti; come bevande vennero serviti vino e la migliore acqua delle profonde sorgenti del Tabaîn. «Ho previsto per voi nove rotazioni assai varie», annunciò Nate. «Mi accompagnerete in diverse fattorie, in cui vi mostrerò il nostro modo di coltivare i campi. Vedrete frutteti che vi faranno strabuzzare gli occhi.» Masticando, Alvaro sorrise a Mallen, e il principe capì perfettamente a che cosa stava pensando il suo bellicoso accompagnatore: Sì che avremmo legno per catapulte e torri d'assedio. «Inoltre, stasera verrà dato un grande ballo in maschera al quale ho invitato tutti i nobili del regno. Sono ansiosi di conoscere l'eroe che ha preservato più di una volta la nostra terra dalle forze del male, principe.» Mallen si schermì con una mano. «No, re Nate. Qui è opportuna un po' di modestia. I miei soldati e io abbiamo certo dato un contributo, ma è alle stirpi dei nani che va tributato il maggiore encomio. Senza la loro incrollabile tenacia, la forza delle loro braccia e la devozione al bene né voi né io sederemmo a questa tavola. In passato hanno fatto grandi sacrifici.» «Avete proprio ragione, principe Mallen», disse una dolce voce proveniente dall'ingresso. Un'elfa in leggeri abiti giallo e verde chiaro attendeva le fosse fatto cenno di unirsi a loro. Il principe e Alvaro si guardarono, stupiti. Vedere elfi fuori dal loro regno, l'Âlandur, era estremamente inconsueto, e fino ad allora era accaduto solo in caso di guerra. «Unitevi a noi, Rejalín!» esclamò Nate, e uno dei servi tirò indietro la sedia alla sua sinistra. A quel punto era chiaro a chi fosse destinato quel posto. «Fateci compagnia.» «Con molto piacere, re Nate.» L'elfa si avvicinò; ogni suo movimento era una composizione unica di una grazia ricercata che agli altri abitanti della Terra Nascosta rimaneva irraggiungibile. Rejalín portava i lunghi capelli biondi raccolti in una specie di corona intorno alla testa, tra cui brillavano gioielli in filigrana. Mallen ne fu subito rapito, ed era quasi sul punto
di caderle ai piedi quando l'elfa s'inchinò leggermente davanti a lui e gli rivolse la parola dicendo: «Vi porgo i miei omaggi, principe Mallen dell'Idoslân». Nessuna donna che il principe avesse mai conosciuto aveva occhi verde acqua come quell'elfa. «Rejalín appartiene a una delegazione dell'Âlandur che mi è stata mandata dal principe Liútasil», spiegò il re. L'elfa assaggiò la frutta. Anche il semplice atto del mangiare diventava in lei uno spettacolo della più alta eleganza. Alzò la testa e sorrise ad Alvaro e Mallen. «È ormai tempo che il mio popolo non sia più il solo a disporre di un grande sapere. Il principe Liútasil ha deciso di trasmetterlo alle regine e ai re della Terra Nascosta. Nella misura in cui se ne dimostrino degni.» Alvaro abbassò la forchetta che stava per portare alla bocca e lanciò a Rejalín uno sguardo di sfida. «Ah, davvero? Bisogna dimostrarsi degni per ottenere la pietà degli elfi?» Incrociò le mani e la osservò. «Di che cosa ci sarà mai bisogno per appartenere alla cerchia degli eletti?» Rejalín colse un acino dal grappolo di uva che aveva sul piatto. «Questo non mi è concesso dirlo», rispose amichevole, con voce tanto melodiosa e rasserenante da distogliere un mezz'orco furente dall'attacco. «Osserviamo ed esaminiamo, in silenzio, per poi riportare al nostro principe le nostre valutazioni.» «E allora ditemi, com'è possibile che uno dei più grandi eroi della Terra Nascosta», e Alvaro indicò il suo signore, «non abbia ancora ricevuto visita da una delegazione di elfi?» Attendeva una parola sbagliata, che risultasse offensiva. L'elfa non si lasciò attirare sul ghiaccio sottile, ma lanciò a Mallen un lungo sguardo che si avvicinava molto a quello che le donne rivolgono ai loro innamorati. «Sono certamente arrivati da voi, principe Mallen. Mentre eravate in viaggio verso il Tabaîn», disse rivolgendosi direttamente al sovrano e senza degnare il guerriero della sua attenzione, come per punirlo. «La delegazione delle mie sorelle e dei miei fratelli vi starà senz'altro aspettando. Dall'Âlandur all'Idoslân il viaggio è considerevole.» Sorrise, e l'uomo le ricambiò la cortesia senza pensarci due volte. Alvaro però non si era affatto arreso. «Questo sapere del vostro popolo... Di che cosa si tratterebbe?» insistette. «Di come si fa bella musica?» «Progresso», replicò lei senza voltarsi, continuando ad ammaliare il principe. «Riguarda tutti gli aspetti della vita quotidiana. Tra cui anche l'arte.» Abbassò brevemente lo sguardo, poi guardò il guerriero. «Non
sembrate molto cortese, messer Alvaro.» L'uomo tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia. «Sarei stato molto lieto di vedere le vostre belle facce alla battaglia di Porista. Ma gli elfi hanno preferito rimanere nella loro foresta.» «Stavamo combattendo contro gli albi, messer Alvaro», lo corresse l'elfa, più tagliente di quanto non fosse prima. Alvaro sogghignò: la sua interlocutrice stava cominciando a perdere il controllo. «Certo che stavate combattendo contro gli albi. Abbiamo combattuto tutti nello Dsôn Balsur contro gli albi, e quasi tutti a Porista contro gli avatar», la incalzò. «Abbiamo contribuito a difendere l'Âlandur dai vostri malvagi parenti, e voi come avete ringraziato la Terra Nascosta? Questo è un mistero che non riesco proprio a spiegare.» Prese il suo bicchiere e lo alzò in direzione dell'elfa. «Vi prego di essere voi a farlo.» Mallen gli lanciò un'occhiataccia. «Basta così, Alvaro. La risposta è davanti ai tuoi occhi: a Porista gli elfi avrebbero dovuto combattere fianco a fianco con gli albi. Sarebbe stato impossibile. Non prima che fuoco e acqua si mescolino pacificamente. Si sarebbero attaccati a vicenda, e gli avatar sarebbero risultati vincitori.» Rejalín fece un inchino. «Vedo che siete più acuto del vostro amico, principe Mallen dell'Idoslân. Sarebbe stato come pretendere da voi che vi batteste fianco a fianco con dei mezz'orchi che poco prima avessero distrutto la vostra capitale facendo strage degli abitanti. Dopo che avessero profanato e divorato i vostri bambini e le vostre donne davanti ai vostri occhi.» «Potrete anche non crederci, ma io lo farei, se così potessi sconfiggere un nemico di forza superiore. Poi avrei tutte le occasioni per annientare quei mezz'orchi», ribatté Alvaro, irremovibile. «Vi manca il criterio per soppesare qual è il momento giusto per fare o non fare le cose, Rejalín. Questa vostra apparizione è un esempio perfetto: dopo cinque cicli, al vostro principe viene in mente che potrebbe condividere il suo sapere. Dopo cinque cicli!» «Ora basta!» lo zittì Mallen. «Mi scuso per il suo comportamento, re Nate. È un guerriero che ha nostalgia della battaglia e che in tempi di pace non sa dove puntare la spada.» Si alzò. «Ora ci ritiriamo. Ci rilasseremo con un bagno e torneremo da voi rinfrescati.» «Siete scusati», disse Nate. Rejalín annuì, rivolgendo al principe un altro battito di ciglia. «Vi farò portare una scelta di travestimenti nelle vostre camere», ag-
giunse il re. Mallen accennò un inchino e lasciò la sala, seguito dal suo ufficiale. I due camminarono l'uno accanto all'altro, in silenzio, senza dirsi una parola neppure quando si ritirarono nelle loro stanze e si separarono. La discussione tra Rejalín e Alvaro aveva coinvolto anche i due uomini. Verso sera, arrivò l'ora in cui era stato fissato l'inizio del ballo in maschera; in poco tempo il cielo blu si era incupito, e al risveglio del principe Mallen si presentava come un'unica scura ragnatela. Dalla finestra della sua camera, che guardava appena sopra la merlatura della fortezza, l'uomo riconobbe le varie tonalità di grigio delle nuvole, miste a nembi neri in rapido avvicinamento. Da esse si rovesciavano a terra cortine di pioggia che imbevevano d'acqua i dintorni di Güldengarb. Il vento si era notevolmente rinfrescato. La dolce brezza era divenuta una piccola bufera indecisa se aumentare o diminuire la propria forza. All'orizzonte brillò un fulmine e, parecchio dopo, Mallen udì un cupo brontolio. Qualcuno bussò alla porta. «Perdonatemi, mio principe. Siamo attesi», disse Alvaro da fuori. «Indossate il vostro costume e andiamo.» «Arrivo subito», replicò Mallen osservando la scelta di travestimenti che re Nate gli aveva fatto portare. A prima vista non trovò nulla che avesse voglia d'indossare. Non voleva essere una creatura di fantasia tutta blu, né un'enorme spiga, e non voleva neppure indossare un abito di pezzetti d'oro che pesava più della sua armatura. Decise di tenere indosso l'armatura; vi aggiunse una maschera di piume bianche e nere ornata di rubini. Poi raggiunse la porta e l'aprì. Il principe sussultò, squadrò Alvaro, poi scoppiò a ridere. L'ufficiale si era costretto in un variopinto abito da gnomo, mentre un finto naso di cartapesta e uno sciocco berretto con sonagli rendevano chiaro quale travestimento avesse scelto per il ballo o, meglio, quale travestimento era stato costretto a indossare. «Non avevo scelta», brontolò. «Scommetto che è il modo in cui re Nate si vendica per la discussione che ho avuto a tavola.» Guardò invidioso il suo signore. «Quale sarebbe il vostro travestimento?» «Sono travestito da mio padre. Portava anche lui questa armatura, e dalle immagini pare che fosse alto quanto me», rispose Mallen senza smettere di sorridere. «Se stasera ci sarà un premio, hai in tasca il mio voto.» «Troppo buono, mio principe.» Alvaro attese che il suo signore s'in-
camminasse, poi lo seguì standogli di lato, leggermente più indietro. «Vorrei ancora scusarmi per le mie parole», disse dopo un po'. «Ma è più forte di me. Voi sapete che non ho nulla contro gli elfi. Ma finché non mi daranno un'altra spiegazione, a parte quella che Rejalín ha gentilmente dato a voi, rimarrò sul chi vive.» «Va bene così», replicò Mallen dandogli una pacca su una spalla. «Ti è perdonato, a patto che in futuro non ti comporti più così in mia presenza. Per il resto, sei libero di esternare le tue opinioni.» Sapeva che molti veterani del suo esercito condividevano l'opinione di Alvaro. Se avesse proibito loro di manifestarla, avrebbe solo rafforzato i pregiudizi verso gli elfi. «Vi ringrazio, altezza», disse Alvaro inchinandosi. I due raggiunsero la scala che portava alla sala delle feste, dove gli ospiti si erano già raccolti. I costumi erano variopinti, vistosi, in qualche caso audaci. Scorrazzavano figure di animali, creature di fantasia, e gli uomini dell'Idoslân riconobbero pure due mezz'orchi e un albo. «Quello non piacerà affatto a Rejalín», sogghignò Alvaro indicando l'albo. «La tua odiosità ben si addice a uno gnomo», lo rimproverò Mallen. «Bada che il tuo travestimento non ti rimanga attaccato e che tu non te lo debba portare addosso per sempre.» Scesero gli ultimi scalini, e un banditore annunciò ai visitatori chi si stava avvicinando. Esplosero gli applausi: ci s'inchinava due volte più volentieri di fronte a un uomo che era un eroe e un principe allo stesso tempo. Mallen si sorprese a cercare Rejalín nella folla. La trovò accanto all'ingresso. Indossava un abito che poteva essere stato tessuto solo dagli elfi; sembrava fatto di fili d'argento e stelle luccicanti. Con la corona di capelli ingioiellati, dava l'idea che la costellazione di una qualche dea elfica avesse abbandonato il firmamento notturno e fosse scesa tra i mortali. Rejalín gli sorrise e s'inchinò. Per il principe, il mondo si pietrificò; da quel momento ebbe occhi soltanto per lei. Perfino quando re Nate apparve davanti a lui travestito da mago e gli diede il benvenuto, il principe continuò a guardargli oltre per non perdere di vista l'elfa. Niente era in grado di competere con la sua perfezione, né le posate di cristallo né l'oro che ornava le pareti né gli affreschi sul soffitto... Tutto, a parte lei, divenne in un istante brutto, grigio, disadorno. «Principe Mallen, mi state ascoltando?» lo richiamò re Nate. «Dicevo che avrete modo di ammirare il diamante.»
A quel punto, Mallen dovette per forza distogliere l'attenzione. «Quale diamante?» chiese distratto. Poi gli venne in mente. «Ah, voi intendete il diamante!» Nate socchiuse gli occhi, sornione. «Sarebbe l'unica cosa in grado di tener testa alla perfezione di Rejalín.» Mallen guardò di nuovo verso l'elfa, ma era scomparsa nel movimento della festa. Deluso, tornò a rivolgersi a Nate. «Volete mostrare la pietra? Per quale motivo?» «Temete che sia in pericolo, principe Mallen?» si stupì il re. «In questa sala ci sono esclusivamente persone di cui ho fiducia. Nessuno oserà allungare la mano verso ciò che è mio.» Alzò la destra, e il suo segnale fu visto da una vicina tribuna. La musica tacque e le fanfare squillarono attirando l'attenzione sul sovrano del Tabaîn. Nate salì i gradini che portavano al suo trono. «Amici miei! Che i venti là fuori impazzino pure, noi non permetteremo che guastino la festa in onore del principe Mallen dell'Idoslân, eroe di numerose battaglie in difesa della nostra patria.» La folla applaudì entusiasta. Nate indicò Rejalín, che era apparsa accanto a Mallen. «E anche il popolo dell'Âlandur ci onora con la sua presenza, inviandoci una luminosa e saggia bellezza. Rejalín è mia ospite, e stiamo discutendo su come il sapere dei nostri due regni possa portare reciproco vantaggio.» Gli invitati applaudirono di nuovo. «Di solito, una bellezza accecante serve a distrarre da qualche macchia invisibile», disse Alvaro a mezza voce. Uno dei due ospiti travestiti da mezz'orco volse la testa verso di lui. A un cenno di re Nate, mentre le fanfare eseguivano l'inno del Tabaîn, un servitore portò nella sala un cuscino di seta su cui era appoggiato un diamante. La gente trattenne il respiro. La pietra catturava la luce delle innumerevoli lampade e brillava come un fuoco freddo. «Uomini ed elfi sono qui raccolti. E io vorrei completare la cerchia dei presenti ripetendo le parole con cui Gandogar Barbadargento, imperatore dei nani, accompagnò questo dono.» Nate si schiarì la gola. «Come si somigliano queste pietre, così in futuro dovranno accordarsi i nostri pensieri, e i nostri cuori dovranno battere allo stesso modo per il bene della nostra patria. Se un giorno nutrirete dubbi sulla nostra alleanza, guardate questa pietra e rammentate la nostra storia.» Prese il diamante con entrambe le mani e lo tenne alto sopra la testa. «Ricordiamo queste parole! Per il Tabaîn! Per la Terra Nascosta!» I presenti si fecero trascinare dal breve discorso del loro sovrano e ri-
suonarono alte grida. Alvaro invece fece una smorfia; gli sembrava che il discorso fosse diretto contro di lui. «Per quanto la sua bellezza possa scintillare, è pur sempre una cosa morta», disse Mallen a Rejalín. «Non potrà mai raggiungere la vostra lucente bellezza.» Sollevò una mano. «Mi concedete l'onore di un ballo?» L'elfa annuì e mise la sinistra nella mano di lui. «Dovrete mostrarmi voi come si fa. Non conosco i passi delle danze degli umani.» Il principe la condusse in centro alla sala, dimentico di ogni altra cosa intorno a sé. «È sufficiente che mi seguiate, Rejalín.» Nate si avvicinò ad Alvaro, che, completamente assorto, stava guardando in cagnesco il suo signore. «Avrete sicuramente sentito il mio discorso, non è vero, Alvaro?» chiese il re tenendo la pietra davanti all'altro. «C'è bisogno di concordia.» L'ufficiale s'inchinò. «Certo, re Nate.» Guardò il diamante. «Ma voi sapete che solo una delle quattordici gemme è quella vera», disse a voce così bassa che nessun altro poté sentirlo. «Per cui tredici sono belle e false. Ma qualcuno se ne lascia ingannare», aggiunse guardando rammaricato la pista da ballo. «Altri invece sanno riconoscerle.» Re Nate chiuse la mano intorno al diamante, incollerito. «Alvaro, voi siete un guerriero irragionevole e ostinato, che non saprebbe riconoscere il bene neppure se gli ballasse davanti al naso! Il costume da gnomo vi si addice perfettamente.» «E vedervi addosso quello di un saggio mago è eccessivo», replicò Alvaro con coraggio. «Io dico liberamente quello che penso, anche di fronte ai potenti della Terra Nascosta.» Si batté il petto con un dito. «Perché io ho combattuto per questa terra, re Nate. Nelle prime file. Ringraziate guerrieri irragionevoli e ostinati come me, se avete il titolo che portate.» Guardò l'ospite travestito da albo. «Perdonatemi, mi unisco agli altri mostri. Anch'io so una cosa: a tenere lontano il male è sempre stata la diffidenza, non la fiducia.» Col cuore che batteva forte, Alvaro s'inchinò davanti al sovrano: era consapevole dell'enormità di ciò che aveva detto. Improvvisamente, la porta del salone si spalancò e una potente folata di vento spense la maggior parte delle candele; solo le fiamme protette dal vetro resistettero. Un oggetto sferragliante rotolò all'interno, sprizzando scintille, e scese giù per le scale tintinnando e sferragliando. Assomigliava a due bracieri saldati insieme, se non fosse stato che, al suo interno, non si trovavano ciocchi di legno ardenti, ma una persona. La pietra andava in pezzi sotto
l'impeto e il peso dello strano costrutto. Gli ospiti si fecero da parte tra le grida, facendo largo alle guardie che avanzavano con le alabarde abbassate per proteggere il re. La sfera, costituita da bande di ferro larghe due dita, rotolò facilmente oltre le loro file, travolgendo due uomini; le ossa si ruppero scricchiolando, e le due guardie rimasero a terra urlanti. La strana cosa si fermò. Tra i clangori si sentirono aprire dei chiavistelli, e le bande di metallo accostarono tra loro per poi scomparire in una specie di zaino di ferro posto sulle spalle della creatura. Ciò che prima si scorgeva indistintamente divenne a quel punto visibile agli spettatori terrorizzati: digrignava le zanne, era alto e robusto come un mezz'orco, e la sua pelle grigia striata di nero e verde scuro riluceva. Il volto possedeva una grazia e una regolarità spaventose, quelle che gli uomini attribuivano da sempre a un popolo completamente diverso, gli albi. Orecchie a punta facevano capolino attraverso i capelli neri e, quando estrasse ringhiando la sua potente spada, mostrò una dentatura forte e appuntita. «Rimanete dove siete!» Mallen spinse Rejalín dietro di sé e corse ad aiutare re Nate. Non aveva dubbi: quel mostro voleva il diamante. Si mise in fretta alla testa delle guardie, che si erano disposte con le lance abbassate davanti al loro re; qualcuno gli passò in fretta uno scudo. Il principe osservò con maggior attenzione il mostro sconosciuto: al posto dei pantaloni indossava una protezione per le gambe costruita in modo da essere molto mobile; l'impressione era che la parte inferiore del corpo fosse fatta interamente di metallo. Petto, braccia e collo erano protetti da piastre di metallo incise di rune. Mallen non credeva ai propri occhi: erano fissate alla pelle e alla carne con spessi chiodi! «Pietra!» ordinò con voce acuta l'essere, allungando la mano verso Nate. Le dita si aprirono cigolando e scintillando alla luce delle lampade; erano coperte di metallo come il resto del corpo. Un'infinità di piccoli punzoni e sottili rivetti univa in modo inscindibile metallo e carne. «Per Palandiell! Com'è potuto sopravvivere al male?» chiese Alvaro, comparendo al fianco del principe, con in mano una spada presa a una delle guardie ferite. «Qualunque cosa sia, dovrebbe essere morta, altezza. Avete visto che cosa porta sulle spalle?» Mallen guardò meglio. Non era uno zaino, ma una specie di cassetta tenuta in sede da sei lunghe barre infilate in mezzo al corpo; le estremità di quelle barre uscivano davanti, all'altezza del petto, ed erano assicurate da puntelli incrociati, in modo che il peso del ferro non le sfilasse da dietro.
Nessun essere vivente avrebbe resistito a una tortura del genere. «Pietra!» ripeté la creatura facendo un passo in avanti; il passo delle sue scarpe di ferro rimbombò sul pavimento di pietra, lasciandosi dietro una crepa. Le rune incise nel metallo brillarono di un intimidatorio verde scuro, tranne una. Se così non fosse stato, non sarebbe saltata agli occhi di Mallen, benché si distinguesse chiaramente dalle altre: sembrava elfica! «Che cosa sei?» chiese re Nate, nascondendo intrepido il diamante nella mano. «Perché vuoi la pietra?» Mallen si voltò verso Rejalín, che era immobile sullo spazio per la danza, bianca come un lenzuolo, e fissava il mostro. Capì che aveva riconosciuto qualcosa. Che vorrà mai dire? pensò. All'improvviso il mostro saltò. Senza sforzo apparente, superò le file dei soldati e atterrò accanto a Nate; il marmo sotto di lui si frantumò. Prima che qualcuno riuscisse a fare qualcosa, afferrò il sovrano e gli strappò il diamante, insieme con tre dita. Il re cadde gridando sulle ginocchia, mentre il sangue gli scorreva dalla mano, sporcando il costoso vestito. Alvaro e Mallen attaccarono. Il mostro ruggì e intercettò il colpo di Alvaro a mani nude. Le rune della sua armatura splendettero di verde e il mostro spezzò la spada con facilità, come se fosse un sottile bastoncino. Poi diede all'ufficiale un calcio sul petto, tanto potente da scaraventarlo come un proiettile di catapulta sulle guardie che si stavano lanciando all'attacco, facendone volare tre a terra. Mallen pensò che almeno il suo attacco avrebbe avuto successo, ma il suo avversario si voltò con incredibile agilità, facendo sbattere la lama contro il pettorale di metallo. La spada rimbalzò indietro, senza ferirlo. In risposta, il pugno del mostro sfrecciò in avanti. Mallen si piegò, e il colpo gli fece a pezzi lo scudo, anziché il volto. In quel momento, il principe capì che cosa accade a un muro quando viene colpito da un ariete. Nonostante il peso dell'armatura, perse la sua postura, fu sbalzato da terra e volò di due passi attraverso la stanza. Sbatté duramente contro la parete e la vista gli si annebbiò. «Che cosa state aspettando?» riuscì a gridare. «Ha la pietra! Non lasciatelo scappare!» Gettò via lo scudo in pezzi e attaccò di nuovo. I soldati si riscossero dall'immobilità e attaccarono, confidando nel loro numero. Il mostro fece mulinare la spada intorno a sé e abbatté un uomo. Il bagliore delle rune s'intensificò, quei segni sembravano conferirgli poteri immensi. Con una sola mano afferrò la sua vittima per una gamba e urlando la usò per menare colpi contro le altre guardie, che scansarono la clava
umana. In quel modo il mostro si aprì una breccia che sfruttò subito per scappare: aveva ottenuto ciò che voleva. Gettò dietro di sé il cadavere sanguinolento e orribilmente contorto della sventurata guardia. Davanti alle scale gli sbarrò la strada Alvaro, piegato in avanti, col braccio disteso e con la spada puntata verso la bestia. «Il volto di un elfo, il corpo di un mezz'orco e le rune magiche dello Dsôn Balsur sull'armatura... Cosa sei?» domandò. Mallen correva dietro il mostro, mentre cinque soldati lo seguivano. Sperava di riconquistare la pietra. Alvaro sapeva di non poter vincere la bestia da solo. Voleva dare al suo signore il tempo di attaccarla alle spalle. Ma il mostro capì perfettamente che cosa intendeva fare l'ufficiale. Si guardò alle spalle, verso gli inseguitori, digrignò le zanne, lasciò cadere la spada e corse contro Alvaro. «Fermati!» L'ufficiale levò l'arma, pronto a colpire. La creatura orribile gli toccò la testa con la sinistra. Le rune risplendettero e si scaricò un lampo abbagliante che accecò tutte le persone presenti nella sala. Quando a Mallen tornò la vista, l'aggressore era scomparso. Rejalín era in ginocchio accanto ad Alvaro e gli reggeva la testa; dal collo dell'uomo sgorgava un fiotto inarrestabile di sangue. Le guardie salirono su per le scale per cercare il mostro all'esterno, mentre Mallen si accovacciava accanto all'ufficiale gravemente ferito. «No, amico mio! Resisti!» Gli strappò il naso da gnomo, gli prese la mano e la strinse. Si sforzò di nascondere il proprio sgomento, per non lasciare intendere ad Alvaro la gravità della sua ferita. «Ti prego!» Alvaro cercò di dire qualcosa, i suoi occhi guizzavano continuamente verso l'elfa, ma non riuscì a fare altro che sputare e gracchiare parole incomprensibili; alla fine il corpo si rilassò e gli occhi si fecero vitrei, privi di vita. Mallen pianse calde lacrime, e non se ne vergognò. Aveva perso un compagno con cui aveva cavalcato fianco a fianco in battaglie disperate. Quello che non era riuscita a fare nessuna spada di mezz'orco era riuscito a farlo quel mostro sconosciuto con un movimento della mano. «Guarda dove ti ha portato la tua voglia di combattere», sussurrò chiudendogli le palpebre. «Non ti dimenticherò. E la tua morte non rimarrà senza vendetta.» Fece un cenno di capo a Rejalín, che lo osservava con compassione. «È vero quello che ha detto?» «A che cosa vi riferite, principe Mallen?» L'elfa appoggiò delicatamente
la testa dell'ufficiale sul pavimento e osservò raccapricciata il sangue sulle proprie dita. Mallen suppose che, nella sua vita fino ad allora protetta e piena di arte e poesia, fosse la prima volta che guardava in faccia la morte violenta. «Alvaro ha detto che le rune sull'armatura di quella creatura erano albiche. E anche a me sono sembrate vagamente familiari. Assomigliavano a quelle che ho visto presso il loro esercito a Porista. Che cosa sapete dirmi al riguardo?» L'elfa evitò il suo sguardo. Mallen lasciò la mano del morto. «Era una runa elfica quella che ho visto sull'armatura?» «Vi siete ingannato.» Contro ogni consuetudine del rispetto e della cortesia, l'uomo afferrò l'elfa per un braccio e la costrinse, stringendolo piano, a guardarlo negli occhi. «Rejalín! Che cosa sapete?» «Nulla», rispose lei ostile, liberandosi dalla stretta. «Sono ben lontana dal sapere alcunché di quella creatura.» «Voi state mentendo! Ho letto nei vostri occhi che...» «Osate accusare di mendacia me, Rejalín dell'Âlandur?» L'elfa balzò in piedi. «Avrei dovuto immaginarlo... Siete un grossolano energumeno, come quasi tutti gli umani che ho finora incontrato», disse con aria di superiorità. «Temo che il vostro regno avrà bisogno di un esame estremamente accurato, prima di poter attingere alla nostra sapienza.» A Mallen parve che una maschera fosse appena scivolata dal vero volto dell'elfa; la collera stava mostrando a lui e ai suoi simili quale fosse la vera natura di Rejalín. L'ammirazione che fino a quel momento aveva provato per lei vacillò. «È stato appena rubato uno dei diamanti e voi non avete altre preoccupazioni?» «È uno dei quattordici.» «È il secondo di quattordici», la corresse Mallen alzandosi anche lui. «Rejalín, voi ora mi direte che cosa...» L'elfa si voltò senza dire una parola e andò da re Nate. Il principe la seguì, ma all'improvviso gli si pararono davanti i due ospiti travestiti da mezz'orchi. «Rejalín non desidera intrattenersi oltre con voi, principe Mallen dell'Idoslân», sentì dire da sotto una delle maschere di cartapesta. Colui che aveva parlato si smascherò, facendo apparire un volto elfico che sorrideva con fredda cortesia. «Preferirebbe occuparsi del nostro ospite e vedere che cosa può fare con la sapienza degli elfi per la sua feri-
ta.» «Sapienza che voi dovete ancora meritare. Andate a cercare il diamante», disse l'altro elfo sfilandosi anche lui la maschera. «Vi faremo sapere noi quando Rejalín desidererà parlare dell'accaduto.» Mallen li spinse da parte, ma i due lo superarono e gli sbarrarono di nuovo il cammino. L'uomo si fermò e alzò la mano con cui ancora brandiva la spada, poi però il discorso sull'unità dei popoli lo riportò al buon senso. «Riferite a Rejalín che mi aspetto una spiegazione e che le altre case reali della Terra Nascosta verranno messe a conoscenza sia dell'accaduto sia del suo strano comportamento. Se non vorrà dare spiegazioni a me, lo farà sicuramente su ordine del principe Liútasil dell'Âlandur.» «Certo, principe Mallen», replicò in tono altezzoso l'elfo alla sua destra. «Glielo diremo.» L'uomo rinfoderò l'arma, fece chiamare alcuni suoi soldati e ordinò loro di portare fuori dalla sala il corpo dell'amico morto. Mentre lo caricavano su una lettiga e lo portavano su per le scale, al principe venne in mente una cosa: il mostro aveva toccato Alvaro alla testa, non al collo, dove si trovava la ferita. E, dopo il lampo, nessuno era nei suoi pressi; nessuno a parte l'elfa. Un'idea incredibile gli passò per la testa. Mallen si fermò nella galleria e guardò verso Rejalín, che si stava occupando di re Nate. Si è vendicata delle offese? O forse le parole di Alvaro, oggi a pranzo, erano arrivate troppo vicine alla verità? E di quale verità si tratterebbe? L'incanto di quella creatura incredibilmente bella scomparve. Da quel momento l'avrebbe considerata col massimo sospetto. Lei e ogni altro elfo. III Terra Nascosta, Monti Grigi, confini del regno dei Quinti, 6241° ciclo solare, primavera Tungdil e Boïndil erano in una delle stanze preparate per l'imperatore e aspettavano Gandogar con impazienza. La polvere della Terra dell'Aldilà prudeva loro sulla pelle e ne copriva le barbe, ma nulla, neppure un bagno, avrebbe potuto trattenerli da un rapido incontro. C'erano troppe cose da discutere. «Hai visto come ha pianto quando le abbiamo portato l'elmo del figlio?»
chiese Boïndil mentre riempiva un boccale d'acqua. Stranamente non aveva voglia di birra, al contrario di Tungdil, che aveva già vuotato un boccale di birra scura. «Sarebbe stato meglio lasciarle intendere che il figlio è morto», insistette Tungdil. «Ma tu stesso hai detto che potrebbe anche essere vivo e che gli indizi ti sembravano troppo evidenti. E cosa credi che fosse quell'essere? E quella strana cosa che aveva dietro?» «Poteva essere uno gnomo travestito», rispose Tungdil, e bevve un sorso. «O un nano.» «O un Sotterraneo?» Durante il viaggio di ritorno, Tungdil aveva continuato a porsi quella domanda. Si erano imbattuti in rune indecifrabili incise sulle pareti e, in base alla perfezione e alla cura con cui erano state tracciate e al fatto che si trovassero sottoterra, lui e Boïndil avevano concordato che fossero naniche. Ed era anche vero che vecchi documenti parlavano di parenti del loro popolo insidiati al di là della cintura montuosa che proteggeva la Terra Nascosta. Erano stati loro a forgiare la prima Lama di Fuoco, per cui dovevano essere dei maestri in campo metallurgico e dovevano amare anche loro la fucina e la forgia. Purtroppo era vera anche un'altra cosa: nessuno aveva mai visto uno di quei nani. «Non lo so», ammise Tungdil con franchezza. «Ma, se era uno di loro, sappiamo che non hanno intenzioni amichevoli nei nostri confronti.» Il guerriero corrugò la fronte e strinse gli occhi minacciosamente. «Intendi dire che hanno preso di mira i nostri rifugi?» Posò il boccale e passò un dito sullo sperone dell'azza. «Che ci provino solo», brontolò burbero. «Aspettiamo di capire perché Gandogar ci ha voluti incontrare così in fretta», lo calmò Tungdil. «I messi che ci attendevano di ritorno alle porte devono essere stati mandati poco dopo la nostra partenza.» «Non possono essere brutte notizie», disse il gemello fiducioso. «Altrimenti le guardie alla porta sarebbero state messe in allarme.» La porta si aprì e Gandogar entrò. Lo seguivano tre elfi, che nei loro abiti di raffinata tessitura e dai colori chiari sembravano del tutto fuori posto. Tungdil trovava che già solo i loro abiti non si adattassero per niente alle tonalità di marrone e agli scuri colori preferiti dai figli del Fabbro. A pensarci meglio, non erano i vestiti a non piacergli: erano proprio gli elfi. Non aveva nulla contro di loro; il loro modo di vivere, dalle case ai vestiti fino
al linguaggio, formava un insieme perfetto nell'Âlandur. Ma lì, sui Monti Grigi, la loro presenza era un'acuta nota stonata, come un soprano che risaltasse in un armonioso e profondo coro di nani. A giudicare dall'espressione del volto, Boïndil la pensava allo stesso modo. «Invece sono davvero brutte notizie», mormorò alla vista degli ospiti, tra il serio e il faceto. «Delicati elfetti.» «Ah, gli eroi sono tornati», li salutò cortesemente Gandogar porgendo loro la mano. «Tungdil, ti ha fatto piacere rivedere il tuo vecchio amico?» «La sorpresa ti è riuscita, imperatore.» Gandogar fece un passo di lato. «Questi sono Eldrur, Irdosíl e Antamar. Sono stati inviati qui dal principe degli elfi, Liútasil. Non sono messi, ma una delegazione incaricata di preparare una nuova era di convivenza fra i nostri due popoli, un tempo nemici.» Poi presentò i due nani. Gli elfi s'inchinarono di fronte a Tungdil e al Rabbioso. Dieci cicli prima, quel gesto di rispetto sarebbe stato molto meno marcato, e forse non avrebbe affatto avuto luogo. Inoltre erano stati di certo avvertiti in anticipo dell'aspetto di Tungdil, altrimenti il disgusto sarebbe stato ben visibile sui loro volti. Boïndil non riuscì a trattenersi. «Questo per me è come un tizzone incandescente nei pantaloni!» gli sfuggì tra le risate. «Gli...» Orecchi appuntiti. Si bloccò in tempo, prima di pronunciare l'epiteto offensivo. «Gli elfi e i nani vogliono vivere sotto lo stesso tetto?» Diede di gomito a Tungdil. «Che ne dite tu e la tua saggezza, Sapientone?» Eldrur si unì alla risata del nano. «Vi potrà sembrare strano, Boïndil Duelame, ma per il nostro principe questo è un momento a lungo agognato. L'attesa era necessaria per convincere gli ultimi che, tra le nostre file, nutrivano dubbi in merito a una stretta vicinanza fra i nostri popoli.» Si guardò intorno. «Non mi spingerò a dire che ci stabiliremo qui a lungo. Ci tratterremo per le prossime cento rotazioni, come pure negli altri regni dei nani, per apprendere di più sul vostro popolo e sulla vostra cultura.» «Un po' come delle spie», replicò il Rabbioso. «Volete imparare i procedimenti con cui forgiamo il ferro e l'acciaio, vero?» Strizzò l'occhio a Tungdil. «No, al contrario. Saremo noi a trasmettere sapere, e senza nessuna contropartita.» L'elfo si rivolse all'imperatore dei nani. «Ma sono certo che il vostro popolo saprà ricompensare la nostra generosità. Con ciò non alludo a oggetti preziosi o cose del genere, bensì alla riconoscenza vostra e dei vostri discendenti.»
«Ah, non sono spie, sono ricattatori», sussurrò Boïndil, divertito. «Anche se si esprimono in modo ornato.» «Finalmente la Terra Nascosta cresce insieme», disse Tungdil. Si leccò le labbra secche, voleva una birra. «Pare che accada al momento opportuno, perché abbiamo alcune cose da riferire riguardo alla nostra incursione nella Terra dell'Aldilà.» Gli elfi si scambiarono rapidi sguardi. «L'imperatore ci ha accennato qualcosa. Dunque avete dimostrato una volta di più il vostro coraggio, Tungdil Manodoro», lo encomiò Eldrur. «L'ho pregato io di farlo», intervenne Gandogar, facendo cenno di sedersi intorno al tavolo al centro della stanza, su cui erano state disposte alcune cosette da mangiare. La parola «cosette» era soggetta all'interpretazione nanesca del termine, così come intesa dalle ricette della loro cucina tradizionale. I funghi lessati piacevano molto anche ai palati elfici, ma il saporito formaggio e il dolce fatto con le parti molli delle larve di gugul mettevano a dura prova la loro buona volontà. Tungdil si compiacque soprattutto della piccola botte di birra scura. «Abbiamo acquistato gli insetti dalle città dei Liberi, ma li abbiamo preparati qui», spiegò con orgoglio l'imperatore che, completamente assorbito dalla degustazione della crema bianca, non aveva notato le facce assai poco entusiaste degli ospiti. «Ti meriti un'onorificenza già solo per aver dischiuso questi traffici commerciali», disse a Tungdil. Questi, pur apprezzando il formaggio, non ne prese perché gli ricordava troppo il periodo in cui aveva vissuto tra i Liberi con Myr. «Prima che partissimo, una nana ci ha chiesto di cercare il figlio disperso», disse Tungdil iniziando il suo resoconto dell'esplorazione nella Terra dell'Aldilà. Intanto aveva vuotato un altro boccale, e un altro ancora, finché il Rabbioso non gli fece capire che stava cominciando a biascicare e che non era più molto facile capire che cosa stesse dicendo. «In una caverna abbiamo trovato molte ossa di mezz'orchi, a centinaia. E volevamo continuare a esplorare le caverne, quando ci siamo imbattuti in un nano sconosciuto che ha fatto crollare mezza montagna. Aveva vicino una strana macchina, non ho mai visto niente del genere prima...» Parlava gesticolando molto per descriverne le dimensioni. «Siamo a stento riusciti a evitare la pioggia di pietre», disse concludendo bruscamente il suo racconto. Proprio in quel momento riuscì a trasformare un sonoro rutto in un forte sospiro; ma ciò bastò a far trasalire gli elfi.
«Scommetto che sono pentiti di essere qua», sussurrò Boïndil, allegro. «Guarda come sono flosce le loro orecchie a punta. Per rincuorarli gli racconterò la mia storiella del mezz'orco e del nano.» Gandogar passò sopra il comportamento discutibile del suo eroe. «Sembra che da fuori si stia avvicinando un nuovo e sconosciuto pericolo», disse preoccupato rivolgendosi ai presenti. «Il vostro popolo ha mai sentito di macchine come quella menzionata da Tungdil?» Eldrur esitò a rispondere, mentre posava gli occhi sul boccale vuoto di Tungdil. «Perdonate la franchezza, ma si può dar credito a questo resoconto? Possiamo escludere ogni esagerazione?» Guardò il Rabbioso. «Le cose sono andate così, Boïndil Duelame? O durante il viaggio siete stato colto anche voi da una sete potente come quella del vostro amico?» Prima della morte del fratello gemello, una simile offesa, espressa con quella ipocrita cortesia, avrebbe spinto Boïndil a saltare sul tavolo, afferrare l'elfo per le orecchie e annegarlo nella sua zuppa con una sola mano, mentre con un'ascia avrebbe fatto a fettine gli altri due. Ma l'animo del nano si era raffreddato, e la maledizione del suo sangue caldo spezzata. «Lo dirò solo una volta, amico elfo: anche quando un nano è tanto sbronzo da non riuscire ad allacciarsi le scarpe, non uscirà mai una menzogna dalle sue labbra.» Il suo sorriso era tagliente come la lama di un'ascia. Eldrur comprese di aver commesso un errore e s'inchinò. «Perdonatemi, Tungdil Manodoro.» Tungdil fece cenno che non importava. Tuttavia, anche se esteriormente restava calmo, le insinuazioni dell'elfo lo stavano divorando. Si era arrivati a dubitare delle sue parole! Abbassò lo sguardo su di sé, si vide la pancia, la cotta di maglia insudiciata da macchie di cibo e polvere, in cui stava infilato come una salsiccia, poi guardò i molti boccali vuoti intorno al suo posto. Che cosa sono diventato? si chiese amareggiato, e allungò la mano verso un'altra birra. «No, imperatore Gandogar, non ho mai sentito nulla su una cosa del genere», disse Eldrur. «Non c'erano voci su una stirpe di nani indicata col nome di Sotterranei? Forse...» La porta si aprì e un messaggero coperto di sudore si precipitò dentro. «Perdonate il disturbo. Mi chiamo Beldobin Forteincudine, del clan dei Chiodidiferro.» S'inchinò di fronte all'imperatore. «Imperatore Gandogar, vi porto una lettera da parte della mia regina, Xamtys», disse senza fiato. «Dovete leggerla immediatamente! Sui Monti Rossi stanno succedendo cose terribili.»
Il rotolo di cuoio passò di mano, Gandogar ruppe il sigillo, ne trasse la lettera e la scorse; poi alzò la testa. «Amici miei, qui c'è la soluzione del nostro enigma.» Ne lesse il contenuto ad alta voce. Illustre imperatore Gandogar, abbiamo sottovalutato il lungo fiato dei nostri nemici, temo. Dopo più di cinque cicli di attesa, sono tornati ad agire per portare morte e rovina alle nostre stirpi, e certo in un modo che nessuno aveva previsto. Nel frattempo ho perso cinquantaquattro validi lavoratori e dieci guerrieri a causa di una strana macchina che si aggira per i nostri tunnel e attacca tutto ciò che incontra. Possiede tenaglie, lame e grandi armi letali con cui afferra e trafigge le sue vittime. Accludo un disegno di questo marchingegno, nel caso in cui una macchina simile comparisse da te o dai Quinti, fra cui ti trovi al momento. Ha fermato completamente i nostri sforzi per sistemare i tunnel, dal momento che nessuno osa più mettere piede in quei corridoi. Comprendo molto bene la loro paura. Finora non ci è riuscito di trovare una soluzione contro questa macchina, dal momento che ci ha colpiti in modo troppo improvviso e inatteso. Non siamo riusciti a prepararci contro di essa. Le trappole che abbiamo disposto non hanno funzionato. Non sappiamo nulla su di essa. Solo che è molto forte e molto pesante, e che è spinta in parte dal vapore. Suppongo che sia costruita in modo simile alle macchine levatrici con cui mettiamo i vagoncini sui binari, ma è più piccola ed è mobile. Le rune incise sulla corazza non lasciano dubbi sul fatto che dietro tutto ciò vi sia un Terzo: Battuti, non distrutti, portiamo la distruzione! Non vorrei che per l'ostinazione di un singolo o di un piccolo gruppo venissero chiamati a rispondere tutti i Terzi che vivono tra noi. Ma certo devono essere interrogati quelli che, tra loro, siano ritenuti capaci di progettare una simile macchina. Ho avvisato anche tutti gli altri regni dei nani, poiché non so se il pericolo sia concentrato solo su di noi o se forse, e prego Vraccas che non sia così, ci siano altre di queste macchine. Dovrebbe essere convocata un'assemblea di tutte le stirpi per discutere di ciò che sta accadendo. Vraccas ti benedica e ti protegga, imperatore Gandogar.
Regina Xamtys II Frontealta, del clan dei Frontealta, della stirpe del Primo, Borengar «Ci siamo! Ora si spiega che cos'è successo. Quella figura nel corridoio era un Terzo», gridò forte il Rabbioso colpendo il tavolo e facendo saltare le posate. «Abbiamo scoperto il loro accampamento nella Terra dell'Aldilà!» Tungdil respirava con affanno, non si sentiva affatto bene. Aveva bevuto la birra troppo in fretta. «Perché mai dovrebbero prendersi la briga di scavare un tunnel che li porti all'esterno e mandarci le macchine dalla Terra dell'Aldilà?» intervenne farfugliando, poi ruttò. «Perché là possono lavorare più indisturbati rispetto che nella Terra Nascosta», ribatté Gandogar dando ragione al Rabbioso. «Questo spiegherebbe perché hanno fatto crollare i corridoi e le sale di cui parlavate», s'intromise Eldrur. «Volevano assicurarsi che nessuno li potesse scoprire e raggiungere.» Stava seguendo la congettura dei due nani. «Posso pensare che siano accampati poco oltre i confini della Terra Nascosta e che, da lì, mandino le loro macchine contro di voi.» Gandogar posò la lettera sul tavolo. «La proposta di Xamtys è valida. Convocherò un'assemblea. Tutte le stirpi, e con esse i Liberi, devono decidere sul da farsi. In linea di massima, dovremmo marciare oltre il passo settentrionale e cercare i malfattori o la loro officina.» «Uno almeno lo abbiamo visto», disse Boïndil stringendo i pugni. «Ah, se fossimo stati solo un po' più veloci... Chissà? Alla fine avremmo fatto fuori quel fantasma più in fretta di quanto non immaginassimo.» Tungdil non era più in condizione di seguire la conversazione; la stanza girava intorno a lui e lo stomaco gli si contorceva. «Devo andare», farfugliò. Si alzò e barcollò verso l'uscita. Boïndil lo seguì e lo sostenne prima che incespicasse davanti alla porta. «Lasciami», disse Tungdil, rifiutandone l'aiuto. «Posso andarmene da solo.» Si divincolò, uscì dalla stanza vacillando e sparì. Afflitto, il Rabbioso lo guardò allontanarsi. Non riconosceva quasi più il suo vecchio amico. Tornò sospirando al tavolo, dove lo aspettavano gli elfi, coi nasi arricciati, e Gandogar, col volto cupo. «È colpa della febbre. Se l'è presa durante il viaggio», raccontò per addurre una scusa. «Di tanto in tanto gli offusca la mente.» Irdosíl gli sorrise; nei suoi occhi chiari si leggeva che non credeva una parola di quanto aveva detto il nano, ma che gli stava risparmiando l'imba-
razzo di coglierlo in fallo. Dopo quello che il Rabbioso aveva detto poco prima, si doveva presumere che i nani non mentissero mai. «Allora facciamo così», disse Gandogar. «Oggi stesso spedirò gli inviti per l'assemblea.» Si rivolse agli elfi. «Invito caldamente anche voi a partecipare.» Boïndil aprì la bocca per dire qualcosa. Ma non gli venne in mente nulla di opportuno e si dovette mordere la lingua. La disponibilità di Gandogar non gli piaceva affatto. Un conto era lasciare che gli Orecchi appuntiti prendessero parte alla loro vita e alle loro usanze, ma trovava difficile digerire che venissero messi a parte dei loro affari più importanti. Poi gli venne in mente che lo spiedo ha due punte... «Chi di noi andrà nell'Âlandur, imperatore?» chiese con fare noncurante ammiccando verso Eldrur. «Non capisco, Boïndil», replicò Gandogar, irritato. «Cosa intendi dire?» «Parlo della visita del nostro popolo. I nostri amici elfi sono ospiti ovunque, se ho capito bene», disse prendendola alla larga. «Dunque si aspetteranno di certo che noi, i figli del Fabbro, ricambiamo l'onore mandando una delegazione nell'Âlandur.» Con scarso successo, Eldrur abbozzò un sorriso. «Il principe Liútasil non ha insistito in questo senso, Boïndil Duelame, poiché sa che il vostro popolo non gradisce vivere a lungo sotto il cielo aperto o nelle foreste.» Il Rabbioso incrociò le braccia sul petto e sulla barba nera. «Questo non è corretto, amico elfo. Se voi potete sopportare di vivere sottoterra, noi possiamo stare altrettanto bene in superficie. Io non ho paura di un albero.» Gandogar sogghignò, sapeva bene che cosa fare. «Veramente un'ottima proposta, Boïndil. Perché non assumi tu questo incarico di fiducia?» «Io?» Il Rabbioso si era immaginato che la discussione avesse un esito completamente diverso. «Penso di essere molto più utile qua, imperatore Gandogar. Se dovremo marciare nella Terra dell'Aldilà, ci sarà bisogno di me.» «Su questo non c'è dubbio. Ma ci vorrà un bel po' di tempo prima che tutti i rappresentanti dei clan e delle stirpi si radunino qui», ribatté Gandogar. Era irremovibile. «E, dal momento che l'Âlandur non è molto lontano, propongo che tu faccia al regno degli elfi almeno una visita di cortesia. Chi potrebbe essere più indicato di uno dei nostri più grandi eroi?» «Imperatore, io...» cercò di dire Boïndil per far cambiare idea al suo signore, con lo sguardo ormai confuso come quello di Eldrur. «Non c'è nulla da obiettare, Boïndil», replicò Gandogar in tono gentile.
«Partirai domattina all'alba, con degli omaggi, e porterai a Liútasil i miei personali ringraziamenti per gli scambi che sta incoraggiando. Ti farò chiamare quando l'assemblea avrà raggiunto un'intesa e saremo pronti a marciare nella Terra dell'Aldilà.» Si alzò e si rivolse agli elfi. «Eldrur, siate gentile e rilasciate al mio legato una lettera in cui sia scritto, nella vostra lingua, il motivo del suo viaggio, evidenziando che giunge per ordine dell'imperatore e coi suoi migliori saluti.» «Certamente, imperatore Gandogar», disse l'elfo inchinandosi, mentre Gandogar usciva dalla sala lasciando Boïndil a mangiare con gli ospiti. Eldrur esaminò il volto barbuto del guerriero, che spiluccava controvoglia il suo pasto. «Vi state maledicendo, non è vero?» chiese, centrando in pieno i pensieri del nano. «No.» Il Rabbioso ruminava un pezzo di fungo. «Vorrei prendermi a schiaffi.» Indicò l'azza. «Con questa qua.» Gli elfi risero. Era un rumore leggero, discreto e melodioso, più un coro troppo alto e raffinato che non una risata sincera e gioiosa, ed era falso come l'oro degli gnomi. «Per l'Âlandur sarete sicuramente una distrazione», profetizzò Eldrur senza essere davvero felice. «Su quel messaggio, scrivi al tuo principe che mi deve rispedire subito a casa», disse il nano con aria truce. «La vostra capacità di sopportazione non è così grande come volevate farci credere?» lo punzecchiò Irdosíl. «Quanto darei per essere al vostro posto...» «Non funzionerebbe.» Il Rabbioso lo squadrò, poi puntò gli occhi sul suo piatto. «Sei troppo lungo per essere un nano.» Quindi allontanò il piatto e si alzò. «Non intendevo dire che vorrei essere un nano, ma che...» «Ah, sì? Non vorresti essere un nano?» Boïndil corrugò la fronte. «Allora hai qualcosa contro il mio popolo?» Appoggiò le forti mani sulla testa dell'azza. «Dillo apertamente, amico, così mettiamo le cose in chiaro una volta per tutte.» «No, no!» replicò Irdosíl. «Intendevo dire che...» Eldrur rise. «Ti sta prendendo in giro, non l'hai capito?» A quel punto, il Rabbioso sogghignò. «C'è voluto un bel po', prima che lo capisse.» Si diresse lentamente verso la porta, con l'arma appoggiata sulla spalla. «Uno di voi tre conosce la storia del mezz'orco che chiede la strada al nano?» Gli elfi scossero la testa. «Allora è tempo che qualcuno porti del senso dell'umorismo nelle vostre foreste.» Boïndil strizzò l'occhio
e uscì. Antamar, che fino a quel momento non aveva detto una parola, guardò Eldrur. «Bel pasticcio.» «Lo so», replicò Eldrur, irritato. «Ma che avremmo potuto fare?» «Prima? Niente.» Antamar guardò i due compagni. «Ora bisogna scrivere una lettera di accompagnamento adeguata alle circostanze.» Eldrur aveva percepito chiaramente l'intonazione della parola «adeguata». Non c'era bisogno di aggiungere altro. Andando verso il suo alloggio, Tungdil si perse più volte, finché qualcuno non lo accompagnò al suo Ietto. Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse, ma la sua testa ubriaca trovò subito la bottiglia di acquavite nella dispensa. Per quanto lo stomaco minacciasse di rimettere, il nano si alzò e prese la bottiglia. La stappò avidamente e ne bevve un lungo sorso. Non appena l'aspra bevanda gli scese per la gola, Tungdil dovette vomitare davanti al letto. Il cibo risalì più volte e con forza, tanto che il vaso da notte che aveva afferrato non bastò. Mentre faticava a respirare, il nano scorse la sua immagine sul grosso specchio d'argento. Si vide in tutta la sua meschinità, la bottiglia in una mano, il vaso da notte nell'altra, la cotta di maglia e la barba coperte di vomito, il corpo grasso e gonfiato, trasandato, una parodia dell'eroe che era stato un tempo. Cadde in ginocchio. Non riusciva a distogliere gli occhi dalla sua immagine allo specchio, che gli mostrava senza pietà la sua miseria. «No», sussurrò. Scagliò la bottiglia contro la superficie lucida, la bottiglia andò in pezzi e cosparse di alcol l'immagine. L'orribile Tungdil continuava a fissarlo istupidito, coi suoi occhi arrossati. «No!» gridò lanciando il vaso, ma mancò lo specchio. Si mise le mani davanti agli occhi. «Vattene!» gridò, iniziando a piangere. «Vattene, assassino. Tu l'hai ucciso...» Crollò sulle lastre di pietra e si arrese al dolore; singhiozzò e pianse finché il sonno non prese il sopravvento. Non sentì che mani forti lo sollevavano e lo portavano via. Terra Nascosta, regno di Weyurn, Mifurdania, 6241° ciclo solare, tarda primavera Rodario sedeva in abiti più comodi e meno costosi sui gradini della stretta scala che portava al suo carro, e rifletteva su quale nuovo pezzo avrebbe
potuto proporre. L'attore e la sua compagnia erano accampati su una piccola isola davanti alla città vera e propria, intorno alla quale sciabordavano le acque. Dopo il terremoto, la superficie delle acque della regione era molto aumentata e parecchi abitanti avevano perduto case e averi. La compagnia di Rodario aveva viaggiato più su navi o attraverso isole che non sul continente, poiché solo una piccola parte del Weyurn era stata risparmiata dalle inondazioni. Era tempo di scrivere un'altra storia epica, dal momento che la vecchia vicenda della vittoria sull'Eoîl e sugli avatar non lo entusiasmava affatto più come prima. E gli sembrava che anche gli spettatori la vedessero allo stesso modo. O forse sarebbe meglio una commedia? si chiese. I suoi stimati spettatori avevano ormai più voglia di divertimento e facezie che non di pathos e stragi. I tempi erano buoni e spensierati, la gente della Terra Nascosta desiderava piegarsi dal ridere e gustarsi battute e situazioni piccanti. Mentre meditava, l'attore osservava Tassia stendere il suo bucato su un filo tirato tra due carri. In qualche punto i raggi del sole le rendevano il vestito trasparente. Quando notò il suo sguardo goloso, la donna si fermò, si voltò e gli fece un cenno. Rodario sollevò la mano che stringeva la penna e ricambiò il saluto. Non aveva dubbi, avrebbe interpretato lei il ruolo principale, attirando frotte di uomini paganti. «Oh, già, gli uomini...» mormorò l'attore. Osservò con gelosia Reimar, uno degli operai che aveva assunto per montare il tendone, che le si avvicinava e le offriva un fiore. Tassia rise felice e gli diede un bacio, sulla bocca; e gli permise di appoggiarle una mano sulla vita. «Tassia, vieni un attimo qua, per favore», gridò Rodario più forte di quanto volesse. «E tu, Reimar, torna subito al lavoro!» «Subito, maestro.» La donna stese una canottiera, accarezzò Reimar su una guancia e col cesto vuoto sotto braccio si avviò lentamente verso Rodario. «In che cosa ti posso servire?» «Ho bisogno del tuo consiglio», s'inventò lui su due piedi come scusa. In realtà voleva solo allontanarla da Reimar. Le porse i suoi appunti. «Che ne dici?» Tassia prese i fogli e vi gettò uno sguardo. «È impossibile.» «Impossibile?» replicò l'attore, inorridito, strappandoglieli di mano. «Ma è...»
«... impossibile da leggere», lo canzonò lei mentre gli si sedeva in grembo. «La tua scrittura è terribile. Mi dovrai raccontare a voce quello che hai in mente.» Gli accarezzò i lunghi capelli castano scuro e giocherellò con una ciocca. Poi sorrise. «Non era solo una scusa?» «Sì, per averti tra le mie braccia, tu che sei la più graziosa creatura della Terra Nascosta.» Le fece un sorriso falso. Nessuno che non lo conoscesse da almeno dieci cicli avrebbe notato la differenza rispetto a uno vero. «Non era quindi per scacciare il povero Reimar?» lo punzecchiò lei. «È così carino. Ed è forte e pieno di muscoli.» «Già. Purtroppo nella sua stupida zucca non c'è un minimo di comprendonio. E le sue maniere competono con quelle di un maiale.» Rodario si accarezzò il pizzo. «E io sono considerevolmente più bello. Come puoi constatare, non è un avversario alla mia altezza.» Tassia gli diede un bacio sulla fronte. «A volte, mio geniale inventore di scene e battute, una donna non ha bisogno di un uomo con belle maniere o comprendonio», disse sbattendo le ciglia con eloquente falsa innocenza. Rodario si alzò facendola cadere a terra di proposito. «Ti diverti alle mie spalle con altri?» «Non usiamo due pesi e due misure, carissimo», rise lei sdraiandosi sull'erba, con le braccia incrociate sotto la testa. «Su di te ho sentito voci che metterebbero in ombra le imprese di un montone. E ho notato perfettamente le deliziose donnette che camminano sulle strade di Mifurdania e ti osservano con sguardi adoranti.» Tassia chiuse gli occhi e volse il volto grazioso alla luce del sole. «Certo, non erano delle più giovani, ma di sicuro non si sarebbero sottratte a un amorazzo con l'Incredibile Rodario.» «Il fatto è che sono... amato dalle donne», replicò l'attore schiarendosi la voce. «Ma da quando ti conosco, Tassia, le cose sono cambiate.» «Ah, ah, ah!» La donna alzò un braccio e gli puntò contro l'indice. «Fossi in te non ci metterei la mano sul fuoco, mio amato. Non sono cieca né sorda né stupida, e sono anche perfettamente in grado di capire che cosa significano certi rumori notturni...» Rodario cominciava a sudare, e non era solo colpa del sole di primavera. La sua offensiva rischiava di volgere in una disastrosa sconfitta. In una sconfitta devastante. «Mi... mi stavo esercitando nel combattimento.» «È per quello che il tuo carro oscillava così tanto?» «Doveva essere... per via dei salti e delle schivate.» «E con che spada, carissimo?» domandò Tassia dolce come il miele. «O era un pugnale? O forse il coltello da tasca che tutti gli uomini si portano
in giro?» Aprì gli occhi e gli sorrise. «Immagino che i tuoi esercizi siano stati molto complessi, se nel farli provavi pure un ruolo da donna. Il testo prevedeva gemiti soffocati e battute ansimate, tipo: 'Oh, sei davvero incredibile'.» Rodario la fissò, aprì la bocca, balbettò qualcosa, poi alla fine scoppiò a ridere. «Credo che dovrò abdicare al mio titolo in tuo favore», la lodò mentre si sedeva sull'erba fresca. «Quello del rubacuori o quello dell'Incredibile?» lo stuzzicò lei colpendolo con un filo d'erba. «Dovrei davvero scaldarmi di meno per cose del genere. Nella mia vita finora le ho fatte in continuazione», disse l'attore, parlando più a se stesso che a Tassia. Si sdraiò accanto a lei, appoggiando il mento su un braccio e guardandola con finta compassione. «Povera, povera creatura... Hai così tanto da recuperare, con tuo marito che preferiva gli uomini alle donne...» La spensieratezza della donna scomparve. «Sì», mormorò, il mento che le tremava. Era sul punto di piangere. «Oh, sono così miserevole, non è vero?» Si mise le mani davanti al volto, con le spalle che sussultavano. «Commiserami pure. Gli dei...» «Ferma, ferma!» la interruppe Rodario. «Hai iniziato a piangere troppo in fretta.» Il piagnucolio cessò all'istante, mentre la donna guardava l'attore attraverso le dita. «Troppo in fretta?» «Il passaggio dev'essere più graduale, altrimenti non sei credibile.» Le spostò le mani e la baciò sulla fronte. «Per il resto, mia Tassia, benedetta dal viso e dal corpo di una seducente dea elfica, la tua piccola messa in scena mi piaceva molto. Ma hai ancora bisogno di un po' di esercizio.» Lei rise e si rotolò su di lui, in modo che Rodario le potesse guardare nella scollatura. «Prima o poi il Curiosum sarà mio, e tu ballerai a mio comando», lo minacciò scherzosamente. «Su questo non ho dubbi. Reimar è già dalla tua parte, e corromperai gli altri molto facilmente. Perfino la vecchia Gesa», concordò scaricandola di lato. Lei fece un breve strillo e atterrò sull'unica pozzanghera che c'era nel prato. L'attore si alzò. «Oh, mi spiace.» «Salvami!» piagnucolò Tassia. Ma in quel momento, proprio in quel momento, Rodario fu colpito dall'ispirazione. «Tirati fuori da sola, Tassia, io devo assolutamente prendere degli appunti.» Raggiunse in fretta la scaletta, su cui aveva posato carta e inchiostro. «I lampi di genio si spengono troppo in fretta perché ci si possa
permettere di non annotarli in fretta.» La donna imprecò e si rimise in piedi, lo affiancò e gli strizzò la gonna bagnata sulla testa. «Te ne meriti un po'.» «Non adesso.» Rodario stava lavorando davvero. «Ho avuto un'idea per la commedia.» «Davvero?» Si sedette accanto a lui. «Di che parla?» Gli asciugò capelli e volto. «Di un uomo e una donna.» «Originale...» Lui smise di scrivere e la guardò. «A essere più precisi, parla di te e di me.» Tassia divenne improvvisamente curiosa. «Allora sembra una commedia sentimentale.» «Esattamente, mia bionda beltà. Ciò che abbiamo vissuto fino a ora farà da modello: un uomo, una donna con un marito che preferisce gli uomini, un padre cattivo, un combattimento, una relazione piena di fuoco e passione, con battute e...» «E un tesoro!» lo interruppe Tassia. A Rodario la penna scivolava sulla carta. «Ottimo, ottimo...» la lodò. «Ma da dove arriva questo tesoro?» A Tassia s'illuminò il volto. «Potrei averlo rubato al cattivo padre del marito che preferisce gli uomini.» L'attore comprese all'istante. «Oh, no, Tassia...» «Sì, invece.» Sorrideva. «Dimmi che non è vero!» «È così, invece.» Gli prese entrambe le mani, lo trascinò nel carro e sollevò una delle assicelle. Dentro vi era appallottolato un panno che lei tirò fuori e aprì; Rodario sapeva perfettamente di non essere stato lui a preparare quel nascondiglio. «Chiudi la porta», disse Tassia, aspettando di essere certa che nessuno potesse osservarli, prima di svolgere completamente il fagotto. Nelle sue mani scintillò dell'oro: era una collana fatta di sottili piastrine dorate; al centro vi era un pendaglio, ornato da una gemma rilucente. La donna porse la collana a Rodario. «Che ne dici? Non è un tesoro?» «Oh, santo cielo! È un... diamante?» L'attore prese il gioiello con timore reverenziale e lo rigirò tra le mani. «No. Il padre di Nolik era davvero troppo avaro, anche se annegava nell'oro. Nolik mi ha detto che è un'imitazione fatta con cristallo di rocca intagliato.»
«È stato Nolik a regalartela?» «Già.» Tassia rise. «Me l'ha data come risarcimento per il modo in cui mi ha trattata, ma l'ha rubata al padre. Che non ne noterà mai la mancanza.» Rodario la vedeva diversamente. A suo giudizio, quell'oro era molto puro, e anche un cristallo di rocca di quelle dimensioni e lavorato così bene aveva il suo valore. «Sarebbe meglio rispedirgliela», disse. La donna gli sottrasse la collana. «No! E comunque ne abbiamo bisogno per il nostro pezzo teatrale. E potrai inserire questa nostra discussione nel pezzo.» Gli accarezzò una guancia. «Carissimo, se il padre di Nolik non ci ha ancora messo nessuno alle calcagna, non lo farà certo adesso. Ci siamo lasciati alle spalle più di trecento miglia senza che qualcuno ci fermasse. Non hai nulla da temere.» Rodario si lasciò convincere, e trovava inoltre eccitante inserire il tesoro nella commedia. «Nel mio pezzo ci faranno visita dei mascalzoni che vogliono strapparci la collana», disse sorridendole, poi le diede un bacio appassionato sulla bocca. «Ah, lo sto già vedendo.» Distese una mano e la mosse a destra e a sinistra, come a dipingere nell'aria. «Noi due che ci facciamo strada lottando tra i farabutti. Perché, in realtà, la collana è molto più che un gioiello!» Si stava accalorando, i pensieri ribollivano; si alzò per annotare febbrilmente le sue idee. «Ma certo! La collana è una chiave! Il cristallo apre... una caverna segreta, con una camera stipata di diamanti e gioielli.» Lo sguardo gli divenne trasognato, e l'attore assunse la sua nota postura teatrale da eroe. «Tassia, io sono un genio! Nessuno può metterlo in dubbio, neppure gli dei! E ci sarà un fantastico combattimento finale! Io contro tre, ma che dico, sette!» «Combattimento al quale prenderò parte anch'io», intervenne lei. «Mi insegni a combattere?» L'attore sogghignò, lascivo. «Che tipo di combattimento intendi, mia cara?» Si piegò verso di lei e le accarezzò i capelli. «Questo pezzo avrà l'impatto di una cometa.» Improvvisamente il suo buon umore si dileguò. «Abbiamo bisogno di Furgas», mormorò, meditabondo. «Solo lui è in grado di mettere in atto la mia rappresentazione.» Tassia riavvolse la collana nel panno, la nascose e gli si parò davanti. «Ti preoccupi molto per lui», disse, stupita da quella serietà altrimenti tanto difficile da trovare nell'attore. Rodario annuì. «Lo cerco da cinque cicli e non mi sono mai arreso, perché sono assolutamente convinto che il mio amico è ancora vivo e che si
trova in grosse difficoltà», le spiegò sedendosi sul letto e tirandola a sé. «Non sono difficoltà fisiche, ma spirituali. Ha perso la moglie e i due figli nella battaglia di Porista. E, nell'amarezza di quell'ora cupissima, era pieno di collera e odio verso tutto e tutti. Se n'è andato così, senza salutare o dire che cosa intendesse fare o dove volesse andare.» Lei gli prese la mano e la strinse, partecipe. L'attore le rivolse un sorriso amaro. «Da allora lo cerco. Quando mi hai raccontato del vostro incontro, la speranza in me è fiorita come un campo di papaveri in estate. Passerò Mifurdania al setaccio finché qualcuno non mi dirà dov'è andato a finire.» «Lo troverai», disse Tassia accarezzandogli amorevolmente il dorso delle mani. Rodario le baciò le spalle scoperte. Non le disse che era un po' in ansia all'idea di rivedere il suo migliore amico; non poteva prevedere come si sarebbe comportato Furgas. Tungdil gli aveva raccontato la loro conversazione di allora e gli aveva descritto Furgas come un uomo ormai irriconoscibile. Una volta qualcuno aveva detto che la morte cambia anche i vivi. Forse Furgas non avrebbe voluto avere più nulla a che fare con lui. «Lo troverò», disse, annuendo. «Quello che succederà poi, lo sanno gli dei.» Poco più tardi Tassia e Rodario, abbigliato come si conviene all'autoproclamato imperatore degli attori, camminavano per le strade di Mifurdania. Più precisamente, si aggiravano su ponticelli più o meno larghi, fatti in legno o pietra, che ne univano le case, dal momento che i laghi del Weyurn si erano estesi arrivando fino a lì. «Hanno fatto di necessità virtù», osservò Rodario meravigliato, mentre giravano per la città che tempo prima era stata rasa al suolo dalle orde di mezz'orchi di Nôd'onn. «Una specie di città sui trampoli.» Indicò un punto in cui dall'acqua si ergevano i resti di un muro. «Furgas e io, insieme con Tungdil e i suoi amici nani, siamo scampati alla distruzione della città passando da una porta che si trovava lì.» Il ricordo si faceva più nitido. «Vieni, ti faccio vedere dove stava il vecchio Curiosum.» Camminarono attraverso il groviglio di vicoli, che risultavano nuovi e sconosciuti anche a Rodario. La maggior parte del nuovo insediamento non aveva più nulla a che fare con la vecchia Mifurdania, che era più piccola ma notevolmente più intricata e confusa. Più di una volta si ritrovarono a girare in tondo, finché Rodario non ebbe l'impressione di riconoscere
il luogo. Fu colto dalla delusione. Della vecchia costruzione di legno non rimaneva nulla; al suo posto si ergeva una casetta angusta contro cui sciabordavano le basse onde. «Non è rimasto nulla», disse. «Mi spiace, Tassia, ma...» «Messer Rodario?!» esclamò una voce alle sue spalle. Poi qualcuno gli diede una pacca tanto forte da farlo cadere sulle ginocchia. Due braccia robuste lo circondarono. «Siete proprio voi! Oh, dei, proteggete Mifurdania, perché il pazzo è ritornato!» L'attore guardò l'ampio volto barbuto di un uomo imponente, sui cinquanta cicli, che gli sembrava vagamente familiare. Camicia sottile, uno sporco grembiule di cuoio e gli avambracci spessi come quattro manici di ascia tenuti insieme, corti capelli biondi spolverati di grigio... A quel punto ricordò. «Lambus!» Rodario scoppiò a ridere. «Vecchio fabbro, sei vivo!» «I mezz'orchi non mi hanno preso e l'acqua non mi ha portato via. Sono ancora qua», replicò l'uomo allegramente, poi guardò Tassia. «E quando mai vi si vedrà senza una bella donna accanto?» «Quando sarà morto», replicò lei sorridendo e porgendogli la mano. «Sono Tassia, attrice e sua moglie.» Rodario le lanciò uno sguardo più che meravigliato e alzò gli occhi al cielo, ma lei continuava a sorridere cordialmente. «Gestiamo il Curiosum insieme.» «Ehi, questo è un po'...» intervenne l'attore, ribellandosi a quella nuova divisione di ruoli, ma si prese un pestone su un piede che lo ridusse al silenzio. «È bello sapere che l'Incredibile Rodario torna nella sua città. Un po' di allegria ci farà bene.» Lambus rideva. «Nel frattempo la gente si è anche scordata delle vostre scappatelle. I mariti cornuti si saranno dimenticati da tempo dei vostri spettacolini privati con le loro mogli.» Sogghignò. «È incredibile che vi siate sposato. D'altra parte, anch'io sarei rimasto accanto a una donna del genere.» Indicò una taverna. «Venite, vi offro un bicchiere di vino.» «Già, anch'io stento a crederci. Dovevo essere ubriaco quando ho detto 'sì'», replicò Rodario con leggerezza, impartendo a Tassia una gomitata tra le costole che la fece gemere. In risposta lei gli diede un dolorosissimo calcio a uno stinco. Lambus non notò nulla. Li condusse nella taverna, si sedette al primo tavolo che gli capitò e ordinò un robusto pasto e una caraffa di vino. «Il mio caro amico dalle ampie spalle tempo fa preparava un gran numero di cose per il nostro Curiosum», spiegò Rodario per presentarlo a Tassi-
a. «Dalle spade alle sbarre di ferro, e tutti i preparati di metallo di cui Furgas aveva bisogno, come magister technicus, per mettere in scena gli effetti speciali stando nascosto sotto il palco.» Lambus annuì. «Quelli sì che erano tempi! L'inventiva del magister non smetteva mai di stupirmi. Per me rimane un mistero come riuscisse a inventarsi tutti quei congegni. E gli dei sanno quanto tempo ho passato nella fucina a imprecare, perché il pezzo che mi aveva richiesto non era riuscito al primo tentativo!» Brindarono. «Ai vecchi tempi!» «Ai vecchi tempi», fece eco Rodario, e Tassia sorrise. Il fabbro vuotò il suo bicchiere e guardò l'attore con curiosità. «Allora, che compito avete questa volta per me? Il magister technicus si è fatto venire in mente altre cose?» Rodario scosse la testa. «Non è più nella mia compagnia. Per questo lo sto cercando.» Lambus corrugò la fronte. «Davvero? Allora va in giro con una sua compagnia?» «Perché lo pensi?» «Era qui. In compagnia di un bambino.» Rodario stava per saltare sul tavolo per l'emozione. «Quando, mio ottimo Lambus?» «Sarà stato mezzo ciclo fa, a fine autunno.» «Continua, continua», lo incalzò l'attore versandogli altro vino. «Devo sapere tutto. Dove abita, cosa fa...» «Non ha una casa. Almeno, non a Mifurdania. Venne con una barca, una specie di chiatta.» Lambus rifletté. «Comprò provviste per l'inverno: burro, strutto, sacchi di cereali... Mi chiese i vecchi stampi in cui colavo le ghiere per il Curiosum.» La sua espressione si fece concentrata. «Aveva comprato molte provviste, per questo ho pensato che fossero per la vostra compagnia teatrale, e che per l'inverno vi foste acquartierati su una delle isole per provare con calma un nuovo pezzo.» «Non capisco», mormorò Rodario. «Ha davvero ingaggiato degli attori?» «Forse non voleva avere più nulla a che fare con voi», disse Lambus. «Avete litigato? Eppure non riesco proprio a immaginare che l'abbiate fatto.» Rodario non aveva nessuna voglia di spiegare tutta la storia al fabbro. «Sai su che isola vive?» Lambus scrollò le spalle. «No. Se avete intenzione di cercarlo, prepara-
tevi a una lunga impresa. Da quando c'è stata l'inondazione molte isole vanno e vengono, e a ogni alba si scopre qualcosa di nuovo su queste acque inquiete.» Rodario sospirò. Almeno sapeva che il suo amico era vivo. Ma nient'altro. «Ti ha detto qualcosa?» «Be', direi di no», rispose il fabbro prendendola alla larga. «Cioè, voleva che io lo accompagnassi per un mese e mezzo», gli raccontò alla fine. «Mi offrì cento monete del Weyurn a condizione che io mantenessi il silenzio sul lavoro che avrei svolto. Ma dovetti rifiutare: qui in città ho troppi clienti con cui non posso scherzare.» Lambus guardò oltre Rodario e Tassia. «È possibile che qualcuno vi stia cercando?» I due s'irrigidirono. Stavano pensando alla stessa cosa. «Quanti? Che aspetto hanno?» chiese Rodario senza voltarsi. Per difendersi aveva con sé solo un misero pugnale. Lambus li esaminò. «Sono otto. Grandi e grossi. Direi che riescono a trasportare pesi considerevoli, quando devono. Indossano abiti semplici e, a giudicare dal tipo di giacche e pantaloni, non sono del Weyurn.» «Un po' tanti, per un tesoro che non sarebbe mancato a nessuno, amore mio», sibilò Rodario rivolto a Tassia. «Non noterà nemmeno che manca, la collana», aggiunse in falsetto facendole il verso. «Chi dice che la colpa sia mia? Forse sono cornuti dei dintorni che vogliono spezzarti il coltellino da tasca», ribatté la donna non meno irritata. «Guardate, femmine, io sono il più resistente, io sono l'Incredibile», lo imitò usando un tono di voce basso e vanitoso. «No, cara. Il padre di Nolik ci ha mandato dietro i suoi scagnozzi.» «State provando un pezzo?» s'informò Lambus, entusiasta. «Mi piace davvero.» Rodario si rivolse al fabbro. «Mio carissimo Lambus, gli uomini alle nostre spalle non sono esattamente i nostri migliori amici. Avresti la gentilezza...» Gli passò una moneta di Wey. Il fabbro annuì. «Passate dalla cucina. Li tratterrò un po', se vi dovessero notare, messer Rodario.» I due si alzarono lentamente e raggiunsero il bancone; l'oste li lasciò passare attraverso la cucina. Lì, però, li stavano aspettando altri due scagnozzi, come si deduceva facilmente dai randelli che tenevano in mano. «È lei!» gridò uno di loro balzando verso Tassia. «Vedi? Sono qui per te», disse Rodario, mentre sferrava con rabbia un calcio tra le gambe dell'uomo, facendolo crollare a terra gemente.
Tassia evitò l'uomo che cadeva e ne afferrò il randello. Senza esitare piombò sul secondo uomo, che, colto di sorpresa dall'attacco, si prese un brutto colpo sul mento. Barcollò all'indietro e, prima che si riprendesse, Rodario gli spaccò una cesta piena di frutta sulla testa. Anche lui cadde a terra e non si mosse più. «Siamo una coppia maledettamente buona», gongolò lui, e fece per baciare Tassia, ma la porta sul retro si spalancò, facendo apparire quattro nuovi nemici. La donna alzò subito il randello. «Sparite! La collana è mia!» «Andiamo!» Rodario l'afferrò per una mano e la trascinò con sé. Girarono l'angolo e si fermarono sull'approdo. La strada finiva prima di quanto pensassero. Ma le barche ormeggiate l'una accanto all'altra formavano una specie di ponte traballante verso l'altra sponda. «Seguimi!» Rodario saltò e si bilanciò, mentre i gusci di noce sotto i suoi piedi ballavano e dondolavano, come se volessero farlo cadere in acqua. Tuttavia gli riuscì di raggiungere asciutto l'approdo dell'altra parte. «Che stai aspettando?» «Sta' zitto!» Tassia lo seguì imprecando. Per lei era più difficile, perché l'attore aveva messo in movimento le barche. Si fece un lungo strappo nella gonna, in modo da potersi muovere più facilmente su quel terreno insidioso. Nel frattempo, Rodario tagliò la gomena dell'ultima chiatta e la tenne ferma fino a che la donna non l'ebbe raggiunto; poi diede una spinta alla barca e la fece allontanare. A quel punto, per raggiungere l'approdo era necessario superare il vuoto con un salto. Tentando di rimanere alle loro costole, due dei loro inseguitori caddero dalle barche dondolanti, finendo nell'acqua fredda; il terzo stava prendendo la rincorsa per raggiungerli con un salto potente. In quel momento Tassia notò un'ombra che cadeva su di loro. Un uomo anziano, di Mifurdania a giudicare dai vestiti, stava sulla banchina in procinto di gettare la spazzatura nel canale, quando vide Rodario sull'approdo. «Tu?!» Sollevò il secchio, pronto a colpire. «Quanto ho aspettato questo momento, dannato seduttore! Ti strapperò la tua virilità!» Terra Nascosta, regno di Gauragar, 6241° ciclo solare, tarda primavera Tungdil dondolava ininterrottamente avanti e indietro, tanto che sentiva
la testa sul punto di scoppiare. Il cervello gli pulsava, sembrava intenzionato a fuggire passando per le orecchie, mentre la gola era secca e polverosa come se lui avesse mangiato sabbia per tre cicli. Gemendo, il nano aprì le pesanti palpebre, ammiccò alla luce chiara e vide, a distanza di un braccio, le punte delle proprie dita ciondolare sopra la ghiaia poco più sotto. C'era un forte odore di pony e sentiva che lì vicino doveva esserci almeno un altro piccolo cavallo. Raccogliendo tutte quelle informazioni, giunse alla conclusione che era in viaggio. Contro la sua volontà. «Dove...?» gracchiò cercando di sollevarsi sulla sella. Ma scivolò a capofitto dalla schiena dell'animale e atterrò nella polvere. Il pony, spaventato, fece un salto di lato e il mulo alle sue spalle ragliò allarmato. «Buono», brontolò Boïndil. «Non ti fa niente, è solo caduto di sella.» Un volto preoccupato aleggiò sopra Tungdil, la barba nera gli solleticò il naso. «Sei sveglio, Sapientone?» Tungdil si sedette e si scosse lo sporco dai pantaloni, guardandosi intorno. Vide che era circondato da alberi, cespugli ed erba. Tra le montagne non vi era nulla del genere. «Dove sono?» Si tirò in piedi, accanto alla sella del pony, e per lo sforzo la testa minacciò di andare a pezzi. «Sei con me», rispose il guerriero in modo elusivo. «Questo lo vedo.» Tungdil si voltò e vide i Monti Grigi a una certa distanza. La fortezza era ancora visibile, se si sapeva dove guardare. La torre si alzava in cielo come un faro di pietra. «Che ci facciamo qui?» «Siamo in missione. L'imperatore ci ha mandato in missione nell'Âlandur», confessò il Rabbioso. «Perché? È una punizione per il mio comportamento?» «A dire la verità... ha mandato solo me», tentennò Boïndil. «Ma ho pensato che fosse meglio avere con me un erudito che mi aiutasse in mezzo agli Orecchi ap... agli elfi.» Rimontò in sella. «E quindi ti ho portato con me.» «Gandogar sa che viaggio con te?» «Gli ho lasciato un messaggio.» «Mi hai rapito?» «No, per Vraccas!» rispose Boïndil, indignato. «Ti ho trovato nella tua stanza e, quando ti ho chiesto se volevi accompagnarmi, mi hai risposto di sì.» «Forte e chiaro?»
Boïndil rise. «Sia come sia, ho capito che eri d'accordo.» Gli fece cenno di rimontare in sella. «Parlando seriamente, un piccolo cambiamento d'aria e vedere qualcosa di nuovo non possono che farti bene. Fare una visita di cortesia al principe degli elfi non è un incarico così difficile. E poi vi conoscete. È meglio se il principe degli elfi vedrà il volto di un nano che conosce.» Gli raccontò rapidamente perché erano in viaggio verso l'Âlandur. «Gandogar ci manderà a chiamare quando l'assemblea si sarà riunita. Per cui non ci perderemo niente. Hanno bisogno di eroi come noi.» Tungdil guardò meditabondo i Monti Grigi, poi la strada davanti a lui. «Va bene», concordò salendo in sella senza farsi aiutare. Mentre gli animali trottavano l'uno accanto all'altro, Tungdil bevve dalla sua fiasca di cuoio, poi tacque, perché il mal di testa gli faceva passare completamente la voglia di chiacchierare. Solo nel tardo pomeriggio divenne più sveglio e vivace, ripensò alla conversazione con l'imperatore e a ciò che era successo nella Terra dell'Aldilà. Non ricordava più che cosa avessero detto Gandogar e gli elfi riguardo alle numerose ossa di mezz'orco, per cui chiese al Rabbioso. Questi lo guardò stupito, poi rispose: «Non si sono persi una parola. Eldrur mi ha fermato per sapere quanti Musi di porco avevano fatto da pasto a quella creatura sconosciuta». Fece una smorfia e si gettò la treccia nera dietro le spalle. «Pensi che i Terzi possano esserseli mangiati?» Tungdil scorse un incrocio e vide comparire una locanda, il che voleva dire un letto e una birra. Almeno una. «Pernotteremo lì», decise. «I Terzi toccano la carne di mezz'orco esattamente quanto noi. Non se ne ciberebbero neppure se fossero in estrema difficoltà.» «E che ne dici dei... Sotterranei?» «Ma che assurdità vai dicendo?» ribatté Tungdil. «Nessun nano farebbe una cosa del genere.» Pensò a Djerůn, la guardia del corpo di Andôkai, che era una creatura del male eppure si cibava dei popoli di Samusin e Tion. Espresse i suoi pensieri ad alta voce. «Sappiamo che ci sono altre creature come Djerůn. Ti ricordi l'esemplare che gli avatar mandarono a uccidere Andôkai?» «Questo spiegherebbe perché i mostri non osano più muoversi sul passo settentrionale», sogghignò il Rabbioso. «Se qualcuno come Djerůn ha piantato le tende nella Terra dell'Aldilà, davanti alla Porta di Pietra, non abbiamo più motivo di preoccuparci.» Tungdil annuì. «Se dietro questa storia si nascondono i Terzi, non potevano trovare circostanze più favorevoli: hanno bloccato i corridoi e scava-
to cunicoli segreti che portano nel nostro regno, mentre i simili di Djerůn risparmiavano loro di dover fare i conti coi mezz'orchi e con le altre bestie.» Il Rabbioso tacque per un po'. «Che ne pensi: manderemo un esercito nella Terra dell'Aldilà per scovare i Terzi?» «Penso che l'imperatore non abbia altra scelta», rispose Tungdil fermando il cavallo davanti alla locanda, che disponeva di una stalla immensa. L'incrocio serviva chiaramente da stazione di cambio per i cavalli di mercanti e viaggiatori. Un giovane venne di corsa e prese gli animali per le briglie. «Buona sera, signori nani. Che Vraccas sia con voi», li salutò educatamente. «Erba fresca, avena e una buona sistemazione per la notte ai vostri animali?» Boïndil gli gettò una moneta d'argento. «Basta questa perché ti prenda cura di loro al meglio?» «Certo, messer nano!» esclamò il giovane, felice. «Li striglierò fino a fargli brillare il pelo!» Condusse i quadrupedi sotto la grande tettoia e iniziò subito il lavoro. Tungdil e il Rabbioso entrarono nella locanda, restando sbalorditi alla vista di ciò che l'oste aveva raccolto come ricordo. Le pareti erano piene di vecchie armi di mezz'orchi e albi, tra cui ciondolavano zanne di tutte le creature possibili. Lunghi chiodi erano stati usati per fissare alle travi di legno, attraverso le orbite, i teschi dei mostri. «Ma guarda quello...» mormorò Boïndil indicando l'angolo accanto al bancone. Lì si ergeva un vero e proprio mezz'orco impagliato, con una spada piena di tacche nella mano destra sollevata nell'atto di colpire, e al braccio sinistro uno scudo su cui stava scritto GILSPAN MI HA UCCISO. Sull'armatura erano incisi i prezzi delle bevande. «Non sempre riesco a capire gli umani e il loro senso dell'umorismo», osservò Tungdil attraversando la sala comune, piena di gente, per raggiungere un tavolo vicino alla finestra, che faceva filtrare la luce rossa del sole al tramonto. Comparve un giovanotto magro, con un grembiule stretto intorno alla vita e sul volto un sorriso che avrebbe fatto onore all'Incredibile Rodario. «Benvenuti nel capanno di caccia di Gilspan, signori nani.» Il Rabbioso lo guardò in faccia. «Gilspan sarebbe uno scricciolo come te?» «Assolutamente», gli rispose il giovane, piccato.
«E che età avevi, quando dici di avere ammazzato i Musi di porco? Quattro o cinque cicli?» lo canzonò amabilmente il nano pizzicandogli l'avambraccio per saggiarlo. «Ehi, i tuoi muscoli bastano per trascinare un vassoio pieno, ma non per sopravvivere a una battaglia. Hai trovato il mezz'orco morto sul campo di battaglia?» I primi ospiti stavano girando la testa per vedere lo sbruffone che metteva in discussione il valore dell'oste. «L'ho ucciso con una pugnalata al cuore, messer nano!» «Ah, capisco, capisco... Al cuore.» Il Rabbioso guardò il mezz'orco impagliato. «E i Pelleverde dove hanno il cuore?» Gilspan arrossì. «Lascia stare, Boïndil», intervenne Tungdil. «Per favore, portaci due birre scure e un sostanzioso piatto di carne, verdura e patate, con una mezza forma di pane.» Mise una moneta sul tavolo. Offeso, Gilspan la prese e se ne andò. «Sé fosse l'uomo che dice di essere, mi avrebbe sfidato su due piedi», brontolò il Rabbioso. Cercò la sua pipa, la riempì di tabacco e l'accese con la candela che stava sul tavolo. La cera disciolta gocciolò sul tavolo formando un piccolo laghetto. «Quello non ha mai abbattuto un mezz'orco, ci scommetto la barba.» La birra venne portata e posata senza cura davanti a loro. Che fosse un caso oppure no, il boccale di Boïndil traboccò, versandogli della birra sulla patta. Gilspan fece un sorriso ipocrita, ma si scusò e si allontanò in fretta. «Portami una caraffa di acquavite», gli gridò Tungdil, prima di portarsi il boccale alla bocca e vuotarlo con un lungo sorso. Nella foga, la birra prese a scorrergli sulla barba, tingendola di schiuma. «Com'è successo, Sapientone?» Tungdil si asciugò la bocca e la barba. «Ho bevuto troppo in fretta.» «Intendo dire, perché trinchi come se quel vecchio ubriacone di Bavragor Pugnomartello fosse tuo fratello minore?» lo incalzò Boïndil, insolitamente tagliente. «Spiegami perché sei cambiato. E perché Balyndis è in lutto.» Tungdil s'irritò per essersi lasciato sfuggire l'allusione. «È per Balodil.» «Balodil.» Il guerriero inclinò il capo in avanti, tanto che la barba quasi gli finì nel boccale. «E chi è Balodil?» «Nostro figlio.» Tungdil bevve un sorso di acquavite. «Era nostro figlio.» Boïndil si guardò bene dal commentare. A poco a poco, il comportamen-
to di Tungdil e ciò che diceva andavano a formare un brutto quadro. Gilspan portò da mangiare. Nessuno toccò il cibo, benché avesse un ottimo odore e fossero entrambi molto affamati per il lungo viaggio; prima bisognava affrontare il passato. «È venuto al mondo quattro cicli fa, coronando il nostro amore», sussurrò Tungdil, con lo sguardo assente fisso sulla fiammella tremolante della candela. «Una volta lo stavo portando con me a fare qualche commissione, e avevo promesso a Balyndis di badare a lui. Ma il ponte di legno che prendevo sempre era rimasto danneggiato dall'ultima piena.» Tracannò l'acquavite. Il volto gli si contrasse in una smorfia di disgusto. «Io sono Tungdil Manodoro, colui che ha sconfitto Nôd'onn e gli avatar. Ho massacrato centinaia di mezz'orchi, e sono pure un erudito. Ma sono finito lo stesso su un ponte traballante», si schernì da solo, guardando l'amico negli occhi. «È stato un vecchio ponte a sconfiggermi, Boïndil. Ha semplicemente ceduto al peso del carro, e siamo finiti in acqua. La cotta di maglia mi trascinava in basso e, se non fosse stato per la botte vuota che mi sono trovato sotto, sarei affogato.» Le risate e le conversazioni degli altri avventori coprivano di tanto in tanto quello che diceva. «Ora sto seduto davanti a te e ti parlo di Balodil. Che ne pensi? Come finirà questa storia?» A quel punto non si disturbò nemmeno a versare l'acquavite nel bicchiere, ma bevve direttamente dalla caraffa. Poi la posò, tirò il fiato e ruttò. «Per quanto abbia cercato, non ho trovato il suo corpo. Da allora mi odio. Balyndis non me lo potrà mai perdonare e io... io mi sono dato al bere. Berrò fino a morire.» S'interruppe. «No, berrò per morire. Sarei dovuto annegare con mio figlio, invece di trascorrere in questo modo i lunghi cicli che mi restano. Così invece annegherò anch'io.» Disgustato, scostò il piatto. «È stato un incidente, Sapientone», intervenne Boïndil per discolparlo. «Legno marcio e la maledizione della dea Elria. La maledizione ha colpito te, il carro e tuo figlio, e vi ha tirati giù, nell'acqua. Non è stata colpa tua.» «È quello che dice Balyndis.» Tungdil abbassò la testa. «Ma, tutte le volte che la guardo, le leggo negli occhi un'accusa silenziosa. Temo che il nostro amore sia raggelato, da quel momento. Lei pensa che io non mi accorga di ciò che in realtà prova per me, dell'odio e del disgusto che nasconde dentro di sé. La nostra galleria è fredda come non è mai stata. Nel mio cuore c'è un'infelicità che mi ha tolto tutta la voglia di vivere.» Si fregò il volto con entrambe le mani. «Ora sai perché sono diventato così. Io vado a letto, Boïndil.» Si alzò barcollante, salì con piede incerto le scale e sparì.
Il Rabbioso si asciugò dagli occhi le lacrime che aveva versato di nascosto. Poi decise di aiutare l'amico e di restituirgli la voglia di vivere. C'era solo un modo per farlo. «Vraccas, che la tua pietà scenda su di noi. E che protegga soprattutto Tungdil.» Guardò Gilspan, che stava accogliendo nuovi ospiti con fare presuntuoso, mostrando loro il mezz'orco impagliato e ricevendo solerti pacche sulle spalle. Quindi il guerriero si alzò e salì la scala con passo pesante. Doveva parlare con Balyndis, perché, con tutta la buona volontà, non riusciva a immaginare che la nana provasse i sentimenti che Tungdil credeva. Era tarda notte. Gilspan sedeva al tavolo e, ancora una volta, raccontava agli ultimi ospiti la storia di come aveva ucciso il mezz'orco impagliato. «E, quando le orde del Toboribor arrivarono nelle vicinanze della mia casa, presi l'arma che avevo per difenderla. Mio padre era lontano da casa, ma mi aveva lasciato il suo pugnale. Io giurai su di esso di difendere mia madre e tutta la gente del vicinato.» Come prova appoggiò il coltello sul tavolo. «Non avevate nient'altro?» sussurrò una ragazza che viaggiava in compagnia dei genitori e del fidanzato. «No. E i mezz'orchi non intendevano risparmiarci! Vennero di sera, un'intera compagnia di quelle creature. Cercavano provviste.» Gilspan si alzò. «Io mi feci avanti e sfidai il loro capo a duello. Lui prese la sua spada, e io lo attaccai col mio pugnale...» «Oh, che uomo coraggioso!» esclamò la ragazza, battendo le mani entusiasta. «Si dice che il sangue della Terra Estinta donasse loro l'immortalità», intervenne il fidanzato, geloso. «A lui non è servita a nulla», continuò a vantarsi Gilspan, agitando in aria il pugnale. «Ero ovunque nello stesso momento, colpivo e tagliavo, finché non riuscii a infilargli la lama nel cuore fino al manico. Lui cadde morto ai miei piedi.» Mise un piede su una sedia vuota. «A quel punto, gli altri scapparono: la casa era salva. Dal momento che è morto prima che sorgesse la Stella del Giudizio, il suo cadavere non si è polverizzato.» Gli ospiti applaudirono, le donne gli lanciarono alcune monetine e la ragazza gli diede un fazzoletto di seta con le sue iniziali. «Ma come siete riuscito a tagliargli la testa con un pugnale?» domandò il fidanzato. «Bastava un colpo al cuore, messere.»
Il fidanzato guardò il mezz'orco. «Senza offesa, Gilspan, ma i soldati con cui ho parlato dicevano sempre che per distruggere definitivamente quelle creature bisognava decapitarle.» Si fece silenzio. Tutti guardavano la creatura impagliata, che digrignava le zanne e che, nella sua posa, complice la semioscurità della stanza, sembrava incredibilmente viva. «Quando siamo entrati non era in una posizione un po' diversa?» sussurrò impaurita la ragazza, avvicinandosi a Gilspan. Il fidanzato la prese per un braccio e la tirò a sé. «È vero», confermò il padre, pallido in volto. «Potrei giurare su Palandiell che teneva la spada puntata verso l'alto e non distesa.» «E che sarebbe? Una storia dell'orrore per bambini piccoli? Gli ho strappato le viscere dalla pancia con le mie mani», disse l'oste avvicinandosi alla creatura. Si sentì un forte brontolio, e il mezz'orco ruotò il torso verso Gilspan. Le donne strillarono forte, gli uomini impugnarono le armi. «Oste idiota!» gridò il fidanzato della ragazza. «Vi siete tenuto il male in casa!» Gilspan non capiva più nulla. Voleva pensare a una risposta, ma il mezz'orco si mosse verso di lui, sollevò la spada e si gettò all'attacco. Il giovane scomparve sotto il mostro, gridando. Lasciò cadere il pugnale, rotolò sotto il tavolo più vicino e iniziò a chiedere aiuto strillando come una ragazzina. Al primo piano si sentirono sbattere porte, molti stivali stavano scendendo le scale, e vennero portate delle lanterne per vedere meglio all'interno della locanda. Il mezz'orco rimase a terra immobile. E rideva. Rideva, rideva... Poi, alla luce delle lampade, che diventavano sempre più numerose, riconobbero che a squassarsi dalle risate non era il mostro, bensì un nano. Stava accanto al bancone e si batteva le mani sulle cosce. La sua risata era contagiosa. La gente si sentiva sollevata dal fatto che non fosse avvenuta nessuna aggressione, e rideva alla vista del presunto eroe che, tremante di paura, non osava uscire da sotto il tavolo. Boïndil si era permesso un piccolo scherzo e aveva riportato in vita il mostro muovendolo, borbottando e facendolo traballare. «Be', scricciolo», disse piegandosi per guardare sotto il tavolo. «Come siamo messi a coraggio? E da dove viene questo mezz'orco?» «Io...» Gilspan stava palesemente cercando di farsi venire in mente in fretta una bugia.
«Ehi, pensaci bene prima di cercare di prendere qualcuno per il naso», lo ammonì il Rabbioso mostrandogli il pugno. «L'ho comprato. L'ho comprato molti cicli fa», confessò l'oste, contrito. «Come tutte le altre cose alle pareti.» Mentre usciva dal suo riparo, gli ospiti lo deridevano. «Nano sciagurato!» lo insultò. «Hai rovinato tutto!» «Io? Tu hai rovinato tutto con la tua viltà. Se ti fossi difeso dall'aggressione come avrebbe fatto l'uomo che dicevi di essere, ora tutti ti ammirerebbero.» Boïndil si rivolse al fidanzato della ragazza. «Ben detto. Bisognava davvero decapitarli, per impedire che il male desse loro nuove forze.» Sollevò l'azza e l'abbatté con molta forza sulla testa del mostro; poi spezzò con facilità le vertebre secche, in modo tale che il teschio rimanesse infilato alla punta dello sperone dell'arma. «Ora sarebbe morto per sempre.» Frantumò le ossa con un colpo contro il bancone, e i pezzi si sparsero ovunque. «Ora siamo tranquilli», dichiarò sogghignando, e si appoggiò l'arma sulla spalla. L'indomani i due nani ripresero il loro viaggio verso l'Âlandur. Tungdil non aveva percepito nulla del tumulto notturno. Si era alzato quando Boïndil l'aveva svegliato, e si era preparato in silenzio alla partenza. Cavalcavano verso sud-ovest senza aver fatto colazione. Gli animali trottavano instancabilmente, seguendo la strada. Intorno a loro il paesaggio non era molto vario. Continuava a essere leggermente montuoso, collinoso dal punto di vista di un nano; cavalcavano lungo precipizi, a volte attraverso valli, poi su alture da cui potevano vedere il selvaggio Gauragar settentrionale. I loro occhi cercavano invano fitte foreste; il suolo era troppo povero e aspro. Il Rabbioso cavalcava in testa, sgranocchiando qualcosa; Tungdil aveva comprato un fiasco di acquavite e aveva ripreso l'attività interrotta la sera prima. L'amico lo guardò e scosse la testa. «Pensi che le cose miglioreranno bevendo? Bavragor avrebbe dovuto esserti d'insegnamento.» Tungdil non gli fece caso e portò di nuovo la bottiglia alle labbra screpolate. «Adesso basta! Balodil non tornerà in vita perché bevi, Sapientone!» Boïndil girò il pony. «Ringrazia di essere vivo e onora la sua memoria, invece di compatirti e renderti ridicolo.» «No, Balodil non tornerà in vita», mormorò Tungdil. «Ti ho già detto che bevo per morire.» Ruttò e sputò, poi sollevò di nuovo la bottiglia.
«Vuoi morire?» Il Rabbioso saltò giù dalla sella, afferrò l'amico per il bavero del farsetto di cuoio, cogliendolo di sorpresa, e lo tirò giù. Senza cura lo trascinò fino all'orlo di un ripido pendio. «Vuoi davvero morire?» Incollerito, gli strappò la fiasca di acquavite e la scagliò nell'abisso. Dopo un lungo volo, la bottiglia si frantumò, lasciando sulla pietra una macchia scura. «Allora valle dietro!» tuonò, cupo. «Metti fine a questa tua vita lamentosa e miserabile. Subito, in questo istante, ma smettila di compatirti. La creatura più abietta ha più dignità di te!» Tungdil non riusciva a liberarsi dalla stretta d'acciaio di Boïndil. Spietato, il guerriero gli spinse il volto giù, oltre il bordo del burrone. Un vento caldo spirò da sotto, accarezzando le guance di Tungdil, come se volesse calmarlo e incoraggiarlo a buttarsi giù. «Che succede, Sapientone?» continuò il Rabbioso. «Hai detto che vuoi morire, no? Allora muoviti!» Lo afferrò per la cotta di maglia e lo spinse giù con la sua forza portentosa. Da qualche parte, dentro Tungdil, qualcosa si oppose. Era una resistenza indefinita, priva di motivo o pretesto. Non c'era nulla per cui volesse ancora vivere, eppure qualcosa in lui rifiutava di mettersi in viaggio verso la Fucina Eterna. Sempre se là c'era un posto per lui. Il nano si aggrappò con le mani alla scarsa erba e si scorticò i polpastrelli sulla pietra. Il dolore disperse l'effetto annebbiante dell'alcol. «Lascia la presa!» gli urlò Boïndil. «Lo sto solo facendo per te. Ti sto risparmiando di sprecare altri soldi in birra e grappa.» Gli sferrò un calcio furibondo a un fianco. Tungdil si raggomitolò e perse la presa. Il torace gli pendeva quasi interamente oltre il bordo. «No, no!» gridava disperato. «Sei...» «Dirò che hai difeso la mia vita contro una marea di briganti», disse il Rabbioso. «Ti ricorderanno come un eroe morto al momento giusto, prima di perdere quel poco che restava della sua dignità.» Diede di nuovo un calcio sulle costole dell'amico. Gridando, questi scivolò ancora un po' avanti. Dei sassolini rotolarono giù, sollevando nuvolette di polvere. «No!» Impiegando le sue ultime forze, Tungdil inarcò la schiena, staccandosi dal suolo e spostando così il peso all'indietro. Si gettò a lato con un alto grido, travolse Boïndil e finirono entrambi sul suolo sicuro. «Ci ho... ripensato», ansimò. «Ah, sì?» Il Rabbioso si tirò a sedere. «E perché questo improvviso cambiamento d'idea?» «Non so dirtelo. Una voce, dentro di me, si opponeva.»
«Una voce che si chiama 'paura'?» Tungdil scrollò le spalle. «No. Era qualcos'altro.» Ascoltò dentro di sé, come se potesse cogliere una risposta. «La vita, penso.» «La voce di Vraccas», ribatté Boïndil. Si alzò e gli porse la mano. «Avrà di nuovo bisogno di te e della tua Lama di Fuoco. Il tuo popolo deve fronteggiare un nuovo nemico, e forse tu sei quello destinato a vincerlo.» Tungdil si lasciò aiutare, poi raggiunse l'orlo del precipizio e guardò in basso. Gli sarebbe bastato un piccolo passo, e tutte le sue preoccupazioni sarebbero finite. Alzò un piede, e avvertì di nuovo quel blocco interiore. «Ti è tornata la voglia di morire?» brontolò l'amico. «No», rispose Tungdil, pensieroso. «Volevo accertarmi di voler davvero vivere.» Voltò le spalle al burrone. Il Rabbioso gli porse le redini della cavalcatura. «È quello che vuoi. Ti avrei gettato giù, se non ti fossi aggrappato con tutte le tue forze», disse serio. «È l'unico modo per scoprire se uno vuole vivere oppure no.» Un sorriso sghembo gli attraversò il volto. «Credimi, mi hanno dato la stessa medicina.» «Eri disperato per la morte di Boëndal», mormorò Tungdil guardando il guerriero salire in sella. «Con la sua morte se n'è andata via una metà di me. Ed è possibile che fosse la mia parte migliore. L'altra parte sprofondò in malinconia, pianti e lutto, tanto che pensai di voler morire. Qualcuno mi somministrò la stessa cura che io ho dato a te, e compresi che preferivo restare tra i viventi. Vraccas saprà perché è meglio così.» Indicò la strada con un sorriso. «Ma non gli sono grato per avermi spedito tra gli elfi.» Mise la sua cavalcatura al trotto. Tungdil rise piano. «Hai ragione. Vraccas saprà perché è meglio così.» Quel trauma salutare gli donò una chiarezza di pensiero che, da quand'era morto suo figlio, non aveva mai posseduto. Aveva sbagliato tutto; negli ultimi cicli aveva sbagliato tutto. C'era solo una cosa da fare. Si ripromise di tornare da Balyndis il prima possibile e chiederle perdono per tutto quello che le aveva fatto. Le parole amare, il bere continuo, i rifiuti quando lei provava a toccarlo. Non riusciva a perdonarselo. Accarezzò assorto le morbide froge del pony. Il Rabbioso era tornato indietro di qualche passo. «Ehi, Sapientone! Vieni o no?» gridò. «O il pony ti sta rivelando il suo sapere?» «Sì», gridò in risposta. «Dice che sono grasso.» «Avrei potuto dirtelo anch'io, se me lo avessi chiesto.»
Tungdil prese il piccolo quadrupede per le briglie e si mise in marcia. «È bello avere un amico come te», disse senza specificare a chi dei due si stesse riferendo. Un po' di moto non gli avrebbe fatto male, e prima di arrivare nell'Âlandur ci volevano ancora un po' di miglia. Abbastanza per perdere qualche libbra. IV Terra Nascosta, regno di Weyurn, Mifurdania, 6241° ciclo solare, tarda primavera «Giù, Incredibile!» Rodario ricevette l'ammonimento di Tassia proprio al momento giusto. Si chinò, e il secchio della spazzatura, che puntava dritto verso la sua schiena, lo mancò per un pelo. Al suo posto, colpì la donna in pieno petto. Tassia barcollò all'indietro, gridando, e cadde nelle acque di Mifurdania, che le lavarono subito via dai vestiti il fetido contenuto del secchio. «Fortuna nella sfortuna.» Rodario sogghignò sferrando un pugno in faccia al penultimo inseguitore, che era appena saltato dalla barca alla banchina su cui si trovava. Anche lui cadde in acqua. Poi l'attore si voltò, raggiante. «Messer Umtaschen! Vi ricordate di me? Mi fa piacere trovarvi ancora così in gamba!» «Ingravidatore!» gridò il vecchio che era comparso inaspettatamente e aveva colpito col secchio. Levò il braccio un'altra volta. «Era promessa al figlio del giudice! E con un marmocchio in grembo, lui non l'ha più voluta prendere!» Colpì. «Ti castrerò per questo!» «Messer Umtaschen, è stata vostra figlia a sedurmi», replicò Rodario, intercettando il secchio. «E non ero il primo uomo che abbia conosciuto. Credetemi: me ne sarei accorto, se fosse stato così.» Gli strappò il contenitore e lo scagliò contro l'ultimo degli inseguitori che il padre di Nolik aveva messo loro alle calcagna. L'uomo si trovava su una barca che rollava; venne colpito a una gamba e perse l'equilibrio. Con un tonfo, cadde anche lui in acqua. «Gli altri almeno non l'avevano messa incinta!» continuò Umtaschen, infuriato, alzando i pugni. «Se così è, illustre messer Umtaschen, m'incontrerò volentieri un'altra volta con lei e la vizierò un po'. Questa volta ho anche la vostra benedizione, a patto di fare attenzione a dove miro», disse Rodario beffardo, facendo
un rapido balzo verso il suo avversario. Umtaschen fece un salto indietro e scappò in casa. «Ne parleremo un'altra volta!» promise furente, e scomparve prima che l'attore lo raggiungesse. Una mano spuntò dal bordo della banchina e fece cenno a Rodario di avvicinarsi. «Aiutami a uscire, prima che quei due mi prendano!» gridò Tassia. Lui si affrettò a tirarla fuori. La donna stava davanti a lui, fradicia, e l'attore notò che il vestito, a contatto con tanta acqua, le era diventato completamente trasparente. I due uomini che li stavano inseguendo non osavano avvicinarsi e nuotavano verso l'altra parte del canale, dove apparvero altri tre scagnozzi. «Che facciamo adesso?» chiese Tassia strizzandosi i capelli biondi. Agli occhi di Rodario era la personificazione della seduzione. «Saranno sicuramente stati al Curiosum.» «E, visto che non hanno trovato la collana lì, hanno pensato che uno di noi l'avesse con sé», disse lui annuendo. «Ehi, voi, cervelli di bue!» gridò agli uomini fingendo di tenere qualcosa in mano. «Volete la collana? Non otterrete nulla così! Dite al padre di Nolik che siamo disposti a venderla. Che venga a Mifurdania a riscattarla.» Uno degli energumeni fece per saltare sulle barche ormeggiate e raggiungerli. «Fermi! Se uno di voi continua a seguirci, getteremo la collana in un canale, e dovrete cercarla in apnea», minacciò Rodario. Il capo degli scagnozzi fece un cenno, e l'uomo tornò a terra. «Bravo, ragazzo!» lo lodò l'attore. Poi prese Tassia per mano e si mise a correre. «Rimanete dove siete», li ammonì ancora una volta prima di lanciarsi dietro l'angolo ridendo. Quando si trovarono sotto un tetto di fili da bucato coperti di vestiti, Tassia si fermò. «Aspetta! Fammi la scaletta.» Rodario fece come chiedeva. La donna mise un piede sulle mani intrecciate dell'attore e gli posò l'altro su una spalla. Disinvolta come se fosse coi piedi per terra, pescò un vestito giallo scuro tra quelli stesi e saltò giù. Senza guardarsi intorno, si sfilò i vestiti bagnati e si coprì le nudità col bottino; poi diede a Rodario un bacio appassionato, rise e riprese a correre. «Questo diavoletto sarà la fine o il coronamento della mia vita», disse l'uomo sorridendo, mentre le correva dietro. Era tardo pomeriggio quando raggiunsero la fucina di Lambus. Rodario voleva ringraziare l'uomo e scoprire qualcosa di più sul posto in cui si tro-
vava Furgas. La porta della fucina era aperta. Il fuoco ardeva nella forgia, mentre due spigolosi pezzi di ferro grezzo incandescenti attendevano tra le fiamme di essere lavorati. Non vedevano il fabbro. «Lambus, vecchio battiferro!» chiamò Rodario. «Sei qui?» Entrò nella semioscurità. Prima ancora che i suoi occhi si abituassero alla debole luce, incespicò in qualcosa che stava sul pavimento. «Che diavolo...?» Si chinò e vide di essere quasi inciampato in un corpo, sul cui fianco destro era aperto un grosso squarcio. Il sangue si era allargato sul pavimento. «Attenta, Tassia! C'è stato un assassinio.» «Che siano stati gli scagnozzi del padre di Nolik?» La donna guardò oltre la spalla dell'attore e impallidì. Arretrò, sentendosi strozzare, poi si voltò e raggiunse l'ingresso per respirare aria fresca. Rodario guardò la ferita aperta, opera di un'ascia molto affilata. «Non credo. Non avevano nulla che potesse fare una simile...» Rodario si alzò e osservò i pezzi di ferro sul fuoco; in effetti, potevano essere i resti di una testa d'ascia. «Lambus?» chiamò ancora una volta, mentre si armava di un attizzatoio e s'inoltrava a tentoni nell'oscurità. All'improvviso una figura saltò fuori dall'ombra. Con presenza di spirito, Rodario schivò di Iato e il pugnale dell'aggressore gli mancò il collo per poco. «Lurido tagliagole!» gridò, menando un colpo con l'attizzatoio. Prese l'aggressore di traverso sul volto, facendolo crollare a terra tra i gemiti; il coltello cadde tintinnando. Per sicurezza, l'attore impartì un altro colpo; poi afferrò l'uomo e lo trascinò nella parte più illuminata della stanza. «Vediamo un po' chi sei.» Si trovò a fissare un volto sporco e coperto da leggere bruciature. L'uomo aveva circa cinquanta cicli e sembrava un normale lavoratore, piuttosto che un sicario professionista. Il colpo di attizzatoio gli aveva rotto il naso e staccato due denti, e sangue gli scorreva dalle narici e dalla bocca. Intontito, cercò di divincolarsi, ma non ci riuscì. «Tassia, portami un ferro incandescente!» disse Rodario. «Così gli sciogliamo un po' la lingua.» «No, lasciatemi andare», li pregò l'uomo, farfugliando spaventato. «Li ucciderà, se non torno per tempo.» «Hai ucciso tu quell'uomo?» Rodario prese il pezzo di metallo incandescente e lo tenne davanti agli occhi del prigioniero, che erano spalancati per la paura. «Chi ti manda, e dov'è Lambus?» «Non sono stato io! L'ha fatto Ilgar, perché il ragazzo non voleva venire
con noi e voleva rivelare tutto.» «Raccontami tutto, e alla svelta, vecchio. O, giuro su Samusin, ti brucerò gli occhi con questo ferro», lo minacciò Rodario, assumendo la famigerata espressione con cui di preferenza interpretava i più loschi figuri. In realtà non si sognava nemmeno di fare di nuovo male al vecchio. «Siete un amico del fabbro?» chiese l'uomo, che si stava riprendendo dallo stordimento. «Allora vi prego, messere, per la pietà di Palandiell: non raccontate a nessuno ciò che avete visto. Dite che Lambus è in viaggio e fate scomparire il cadavere del ragazzo. Solo così il vostro amico potrà tornare indietro.» «Furgas è nelle mani di chi ha portato via Lambus?» chiese Rodario seguendo un'intuizione. «È alto più o meno quanto me, ha i capelli neri e...» Il volto dell'uomo cambiò espressione, era stupito. «Conoscete il Magister?» «È il mio migliore amico.» L'uomo gli sputò in pieno volto. «I demoni vi dovrebbero...» Rodario sentì un leggero fischio, di quelli che aveva imparato a conoscere durante le sue avventure fuori dal palco; una leggera scossa attraversò il corpo del suo prigioniero, che gli si afflosciò tra le mani. L'asta di una freccia gli spuntava tra le spalle, e la punta ne doveva aver causato la morte. «Giù, Tassia! Stai al coperto!» gridò l'attore. Si tuffò di lato, dietro una catasta di carbone, e si pulì dalla faccia lo sputo insanguinato dell'uomo. Gli era già capitato in vita sua di non comprendere qualcosa, ma in quel momento si trovava al vertice della confusione. Si avvicinarono dei passi leggeri. Rodario percepì lo scricchiolio di un'armatura di cuoio, anelli di ferro che stridevano, e una spada venne sguainata. Quando uno stivale apparve accanto a lui, l'attore sporse la tenaglia oltre il bordo della catasta e fece scivolare il ferro caldo nel gambale. Si udì un forte sibilo, lo sconosciuto emise un grido acuto e corse fuori dalla fucina, lasciandosi dietro una nuvola di fumo. Poco dopo si sentì un tonfo nell'acqua. Lo sconosciuto si era gettato nel canale per raffreddare la gamba dolorante. «Ah!» Rodario corse fuori portando con sé un leggero maglio. Ma l'uomo era scomparso, e solo le onde sull'acqua suggerivano che qualcuno si fosse tuffato. Tassia comparve al suo fianco. «Che sia annegato?» si chiese. «Per il
dolore può essersi dimenticato che non sa nuotare.» Con la coda dell'occhio, Rodario notò una barca che si era allontanata di alcune pertiche da Mifurdania. Era un barcone da trasporto carico fino all'orlo e sprofondava così tanto che una leggera ondata sarebbe bastata a sommergerlo. La grande vela spingeva la chiglia verso nord. A poppa stava in piedi una donna bruna in un semplice bustino nero. Guardava verso di loro con un lungo cannocchiale, la cui lente brillava alla luce del sole. Poi ripose il cannocchiale dietro di sé. «Andiamo, Tassia.» Rodario non riusciva a distogliere gli occhi dalla donna. Gli ricordava qualcuno, ma non era possibile... Tassia fissava i tanti piccoli vortici. «Non riemergerà?» La donna sconosciuta prese un arco corto e incoccò una freccia. «Tassia! Vieni!» La corda dell'arco si tese rapidamente, la punta della freccia mirava verso Rodario e la sua autoproclamata sposa. «Che hai, Incredibile?» Tassia indicò alla sua sinistra. «Potrebbe essere lì. Vedo qualcosa di scuro. Forse...» Rodario fece in tempo a gettarsi su Tassia e a buttarsi con lei nel canale. L'acqua lo circondò con fredde, morbide braccia. Tra gli spruzzi e tenendosi al riparo della banchina, l'attore ritornò in superficie. «Ma che fai?» Tassia era infuriata. «Bagnarsi due volte in una giornata è troppo!» «Piano, mia dolce sirena.» Rodario indicò la chiatta. La sconosciuta continuava a essere in posizione, con un'altra freccia incoccata, e attendeva in agguato la comparsa di un bersaglio. Quando, repentina come un tappo, la testa di un uomo emerse tra le acque calme, la donna non esitò. Tendere, mirare e tirare fu un unico movimento, fluido, veloce e infallibile. Il dardo attraversò l'aria con un fischio e trafisse il cranio della vittima, entrando nell'orecchio destro. L'acqua che gli riempiva la bocca trasformò il grido dell'uomo in un suono gorgogliante e soffocato. Nel suo zelo, la donna aveva ucciso uno dei suoi compagni senza rendersene conto. «Sia grazie a Palandiell», sussurrò Tassia senza distogliere lo sguardo dal cadavere, che si avvicinava a loro con la faccia rivolta verso il basso; la freccia gli spuntava dalla testa come un ramo morto. «E naturalmente a te, Rodario. Ti devo la vita.» Lo ringraziò con un lungo bacio sulla bocca. Nonostante il gelo che lo circondava, l'uomo sentì un caldo solletico al ventre.
Quando guardarono di nuovo verso il barcone, quello era sparito dietro una fila di case. Si arrampicarono sulla banchina e, bagnati com'erano, si misero sulla strada per il Curiosum. Dietro di loro rimanevano tre morti e una montagna di misteri. Dal momento che, evidentemente, la maggioranza degli eventi mostruosi di quella giornata riguardava il suo migliore amico, Rodario era fermamente deciso a risolvere l'enigma. E a scrivervi un pezzo di teatro. Terra Nascosta, regno di Gauragar, Porista, 6241° ciclo solare, tarda primavera Lia, una ragazza che sembrava un ragazzino, stava seduta fra gli altri operai. Guardava la distesa, simile a un piatto, situata al centro di Porista, mentre beveva il suo tè ormai freddo e spiluccava di tanto in tanto un cucchiaio del robusto rancio che veniva distribuito. Il suo lavoro era pericoloso, ma ben pagato: era esploratrice di un territorio molto particolare. Negli ultimi cicli la città di Porista aveva vissuto molti rivolgimenti. Un tempo capitale del regno di Nudin il Sapiente, uno dei maghi della Terra Nascosta, dopo la trasformazione di questi in Nôd'onn il Traditore la città era stata al centro di una violenta battaglia ed era stata in gran parte distrutta da una tempesta di fuoco. Proprio mentre la gente ricominciava a popolarla per costruire nuove case sulle rovine coperte di fuliggine, Porista era stata occupata dagli avatar e dal loro esercito, intenzionati ad assicurarsi la sorgente di magia che fluiva dal vecchio palazzo del mago. Ciò non poteva essere permesso dal resto della Terra Nascosta, che si oppose loro, e anche il nuovo scontro aveva lasciato profonde cicatrici nella città da poco riedificata. Poi era giunta la pace. Circa cinque cicli addietro, quando tutti i grandi maghi erano stati annientati e i campi di magia erano collassati, re Bruron aveva avanzato delle pretese e annesso Porista al proprio regno. Da allora la città era in continua crescita. Un pacifico esercito di braccianti era stato inviato dal re per ripulire la distesa del palazzo, pietra dopo pietra, e per creare lo spazio per una sua nuova residenza. Ormai solo i pavimenti e gli accessi alle cantine, piene di detriti, ricordavano le gigantesche dimensioni un tempo avute dal palazzo di Nudin. La piccola statura di Lia aveva un vantaggio: le permetteva di sgusciare
nelle segrete, superando le macerie, di scivolare sui detriti ed esplorare. Quando tornava in superficie, faceva rapporto agli architetti del re, che poi decidevano come procedere con le sale esplorate: abbatterle e riempirle con scorie di metallo liquido oppure sgomberarle faticosamente. Nessuno presentiva che in realtà, così facendo, la ragazza cercava qualcosa per conto suo. Franek, uno dei suoi amici, le si avvicinò e le porse un pezzo di pane. Anche lui indossava abiti semplici dal tessuto logoro e ormai aperto in qualche punto. Nascondeva i capelli biondo scuro in un cappuccio di cuoio. «L'hai trovata?» sussurrò. Anche lui era uno degli esploratori. E anche lui si era consacrato a una causa superiore. La ragazza prese il pane, lo posò nella ciotola del rancio e sistemò il fazzoletto con cui proteggeva i capelli bruni dalla polvere sotterranea. «No», rispose, gesticolando come se si lamentasse della qualità del pane. Franek sospirò. «Allora non so proprio per quanto tempo dovremo ancora cercarla. Non ci sono più molti ambienti in cui potrebbe essere.» «Ho sempre detto che dev'essere finita a pezzi. Hai visto come si sono spaccate in due anche le pietre più grosse? La pressione dev'essere stata enorme.» Lia esercitava il suo pessimismo. «Di qualche muro non sono rimaste che briciole.» Gli restituì il pane, che l'altro si sistemò sotto la giacca. «Samusin non ci pianterà in asso», disse Franek accomiatandosi, prima di tornare al proprio posto. Lia finì il pasto, si pulì le mani sui pantaloni e tornò all'accesso davanti al quale era stata montata una tenda aperta. Sotto il telone che offriva riparo dalla luce del sole, Tamàs e Ove, due degli architetti, stavano parlando ed esaminando carte. La ragazza li salutò. Tamàs, il più giovane dei due, rispose al suo saluto e la guardò. Gli piaceva, e per quello non la trattava con aria di superiorità. «Sei arrivata tardi. Ce ne sono già due sotto», disse strizzandole l'occhio. «Spero che ci sia abbastanza spazio. In caso contrario puoi rimanere qui a farci compagnia e a disegnare piante.» Lia trasalì. «Perdonate, messere, chi è sotto?» «Due ragazzini che ho spedito giù», mormorò Ove senza alzare gli occhi. «Non abbiamo più molto tempo. Re Bruron vuole iniziare coi lavori di costruzione. Dobbiamo scoprire gli ultimi punti inesplorati della grande sala a volta. E, visto che tu stavi facendo una pausa, ho dovuto mandare chi era disponibile.» Girò il foglio e tracciò un segno sulla planimetria.
«Là sotto è pericoloso. È meglio che li raggiunga.» Lia si sforzò di sorridere e scese di corsa i gradini che portavano nei sotterranei. Ci mancava solo quello. Non temeva altri contendenti, nei punti più stretti in genere rimanevano bloccati, ma i corpi più giovani e flessibili dei ragazzini le facevano una dura concorrenza. Dal rumore, Lia intuì che i ragazzini si stavano facendo strada nelle profondità della sala a volta e che si trovavano da qualche parte nel punto in cui un tempo si ergeva la grande cupola. Discutevano, parlavano di buone ricompense e della speranza d'imbattersi in tesori nascosti. «Ehi, mocciosi», li chiamò, sgusciando come un'anguilla negli interstizi. «Sparite! Questa è la zona che spetta a me.» «Ti piacerebbe!» replicò ridendo uno dei due. «È stato messer Ove a ordinarci di scendere», gridò l'altro. «Lamentati con lui se non ti sta bene che troviamo il tesoro prima di te.» Lia si schiacciò sotto un concio che, mentre lei lo superava, vacillò in modo preoccupante. «Non c'è nessun tesoro», dichiarò. «Qui è troppo pericoloso per voi. La stanza non è stabile.» «Abbiamo molta esperienza», ribatté uno. «E poi...» Delle macerie crollarono con gran fracasso, sollevando una nuvola di polvere che tolse la vista alla ragazza, la quale tossì e imprecò allo stesso tempo. «Che è stato?» esclamò pulendosi gli occhi. «Siete vivi?» «Sto diventando pazzo! C'è un tizio tra le macerie! Un vecchio con una lunga barba.» Lia si sforzò di avanzare ancora più velocemente. L'aveva trovato! «Dove siete?» «Idiota!» abbaiò l'altro ragazzino, rivolto al compare. «Hai sbattuto contro la colonna portante e a momenti mi seppellivi! E quello non è un uomo.» Si sentirono sbattere delle tavole. «È una statua.» «No, non sono stato io. È crollata da sola», si difese l'accusato, mentre finalmente Lia scorgeva i bambini. Erano in piedi in un piccolo spazio sgombro, non più grande di un ripostiglio, che si era formato per caso fra le travi e le colonne spostate. Tra i due ragazzini c'era una statua con lo sguardo rivolto verso l'alto. Era così vivida da sembrare animata. «Eccovi qua!» Raggiunse lentamente i due scopritori, e fece scivolare lo sguardo sopra la statua. Quadrava tutto. Si distinguevano ogni dettaglio del vestito, ogni singolo pelo della barba, ogni ruga dell'anziano volto. «Come se qualcuno lo avesse trasformato in pietra», sussurrò il più
grande dei due. «È proprio bella.» «Ci frutterà un po' di soldi in più. Un ricco coglione se la vorrà mettere in giardino o nello studio. Questa è una giornata proficua», assentì l'amico guardando dubbioso il soffitto. «Scaveremo in alto e la tireremo su con un argano. Non riusciremo a tirarla fuori passando per le macerie.» Poi rivolse a Lia uno sguardo ammonitore., «La statua è nostra, che sia chiaro.» La ragazza si rimproverò la pausa che aveva fatto. Se fosse tornata al lavoro un po' prima, si sarebbe risparmiata la seccatura di quei due ragazzini. «Certo che è vostra. Ma non vi farà guadagnare dei soldi. Ha già un proprietario: Tumba Bottevuota», disse inventandosi il nome su due piedi. «All'epoca regalò la statua a Nudin.» «Tanto meglio», replicò il maggiore. «Avremo una ricompensa per averla trovata.» «Noi», sottolineò l'amico indicando col dito se stesso e il compare. «Non tu.» Lia pensava al modo migliore per uscire da quella situazione. Poteva farsi da parte, aspettare, seguire la sorte della statua e sottrarla al nuovo proprietario, cosa che avrebbe implicato parecchio tempo e dispendio di energie. Soprattutto perché si sarebbe alzato un gran polverone, se anche uno solo degli abitanti di Porista avesse compreso che cosa avevano trovato in realtà i ragazzini. Oppure... «Samusin mi è testimone che non dirò una sola parola riguardo alla statua. O riguardo a voi due», disse lentamente, prima di estrarre con impressionante velocità un pugnale e passarlo sul collo del ragazzino alla sua sinistra. Gli tagliò la gola in un istante; poi affondò l'arma nel petto del ragazzino più grande, raggelato. Rantolando, questi cadde sulla statua e la bagnò col sangue. Il suo sguardo, fisso sull'assassina, la diceva lunga su quanto fosse sorpreso e quanto poco comprendesse ciò che era successo. L'amico rotolò debolmente sul pavimento e morì poco dopo di lui. Il sangue che gli scorreva sul collo non zampillava più dall'ampia ferita, ma traboccava come una pietanza liquida da una pentola troppo calda. Lia li guardò morire. Il loro sacrificio era necessario. Per una causa superiore, più importante di due giovani vite, e che ne avrebbe potute salvare migliaia. Trascinò i corpi, che erano ancora caldi, in un piccolo e stretto interstizio e lo fece crollare. Poi si accinse a risalire, contando i passi e tenendo sempre a mente le dimensioni della statua. Simulando il pianto tornò dagli architetti e raccon-
tò che si era verificato un terribile incidente. «Quelle pareti sembrano fatte di cera», riferì tra finti singhiozzi. «Scendere un'altra volta sarebbe assurdo, signori.» Ove e Tamàs si consultarono brevemente, poi fecero sospendere i lavori per il resto della giornata per ricordare le due giovani vittime. L'indomani avrebbero recuperato i corpi e riempito il sotterraneo. Quella notte Lia tornò al cantiere con Franek e dieci aiutanti. Portarono stanghe, uncini, picconi, verricelli, funi e una carrucola. Nella strada laterale li attendeva un carro, con cui avrebbero subito portato via il bottino. Dovevano fare in fretta. E soprattutto dovevano riuscirvi, al costo di qualunque vita. Lia misurò la distanza dall'ingresso e con una pietra segnò il punto corrispettivo sulla superficie. «Dev'essere qua sotto», disse ai loro accompagnatori, e gli uomini si accinsero al duro lavoro. Lo scavo si allargava sempre più. Facevano attenzione a non far crollare un pezzo di superficie troppo grosso e a non smuovere più detriti di quanto occorresse. «E pensare che volevo rinunciare», mormorò Lia, rapita dall'idea che presto avrebbero recuperato quel particolarissimo tesoro. Il piacere si sovrapponeva al senso di colpa per l'uccisione dei due ragazzini. Aveva raccontato a Franek quello che aveva fatto, per alleggerire il peso che portava sulla coscienza, ma non era bastato. L'uomo aveva concordato sul fatto che era stata la cosa giusta. Ma ormai Lia doveva lasciare per sempre Porista; se qualcuno avesse trovato i corpi, la responsabilità del duplice omicidio sarebbe caduta su di lei. «Samusin è tornato a guardarci con favore», concordò Franek, mentre osservava gli uomini che scavavano la terra smossa e si facevano strada attraverso la cupola in muratura. «Abbiamo fatto un primo passo.» «Non correre troppo», obiettò Lia. «Potremo ringraziare il dio dell'equilibrio solo quando avremo portato la statua fuori dalla città.» Con fragore, un pezzo del soffitto del tunnel crollò; due uomini sprofondarono con esso, scomparendo nel sotterraneo. Franek si guardò intorno allarmato e attese un segno da parte delle sentinelle, ma nessuno aveva sentito le grida dei due malcapitati né il rumore del crollo. «Forza, tiratela fuori!» Cinque uomini scesero con delle lanterne. «Prima la statua», disse Lia, inquieta, mentre si allontanava di un paio di
passi dal buco, temendo ulteriori collassi. «Poi penserete ai feriti.» Alcuni dei complici allargarono la parte più profonda del passaggio, mentre altri montavano le stanghe e l'argano; gettarono giù delle funi, che vennero legate intorno all'uomo pietrificato. Poco dopo, la statua emerse dall'oscurità ondeggiando, coperta da un sottile strato di polvere e da una gigantesca macchia rosso scuro, il sangue di uno dei bambini uccisi. Sembrava che fosse la statua a perdere sangue. «Portate qui il carro!» ordinò Franek sollevando la lanterna e dando il segnale convenuto. Le ruote del carro, avvolte in stracci, si avvicinarono allo scavo; anche gli zoccoli dei cavalli erano stati avviluppati allo stesso modo. Lia stava diventando sempre più inquieta. «Venite su», gridò. «Sbrigatevi, così ce ne andiamo.» Le funi si fermarono, le stanghe si piegarono per via del peso, ma ressero. Gli uomini uscirono dal tunnel e issarono la statua sul carro imbottito con sacchi di paglia. «Le guardie!» si sentì urlare nella piazza, e l'eco investì Lia e Franek. «Stupido asino!» fece Franek pensando alla sentinella, che sicuramente aveva buone intenzioni, ma che con quel grido aveva di certo attirato ancora di più l'attenzione dei soldati dì Bruron. Delle fiaccole, simili a piccoli puntini luminosi, si avvicinavano. «Togliete gli stracci da ruote e zoccoli. Ormai ci hanno notati, inutile farsi frenare dalla stoffa.» Lia lo seguì e si acquattò accanto alla statua. La frusta schioccò e le ruote cominciarono a strepitare. «Fermi!» intimò una delle guardie. «Fermi, in nome di re Bruron!» Subito dopo sibilarono le prime frecce. Due s'impiantarono nel legno, una si frantumò contro la statua e una quarta colpì Lia al polpaccio, facendola gridare. Alla luce delle fiaccole, la ragazza vide le guardie piombare sui loro complici e fermarli. Chi accennava a opporre resistenza veniva ucciso sul posto. Un editto di Bruron puniva i saccheggiatori con la morte. Dall'oscurità di un vicolo laterale uscirono al galoppo quattro guardie a cavallo, attirate dai rumori. Per loro fu facile affiancare il carro. «Fermi!» gridarono. La frusta di Franek sibilò e colpì una delle guardie in pieno volto. Un occhio scoppiò letteralmente per la violenza con cui le stringhe di cuoio intrecciate l'avevano colpito, e l'uomo cadde di sella; il cavaliere che gli era subito dietro dovette scansarlo e perse terreno.
Una delle guardie saltò con audacia dal cavallo al piano di carico del carro e diede a Lia un pugno in faccia, per renderla inoffensiva, poi si arrampicò sulla statua per raggiungere Franek. «Attento!» gracchiò Lia deglutendo il suo stesso sangue. Gemendo, la ragazza estrasse il pugnale e strisciò dietro la guardia tra i sobbalzi del carro. La terza guardia li superò. Sicuramente puntava alla porta, per dare ordine di sbarrare la strada ai saccheggiatori. Franek le scagliò contro la sua spada, e la colpì a un fianco. L'uomo cadde da cavallo in piena corsa e finì sotto le ruote del carro. L'ultima guardia voleva attaccare Franek alle spalle, ma Lia le piantò il pugnale nell'avambraccio. In realtà aveva mirato al collo, ma i violenti scossoni del carro e la ferita al volto le avevano impedito di colpire con precisione. La ragazza vacillò e si aggrappò all'avversario, facendo cadere entrambi dal carro. Lia non ebbe fortuna. Atterrò sotto il pesante uomo in armatura, ammortizzandone la caduta. Quando la testa le sbatté contro l'acciottolato di Porista, sentì qualcosa scricchiolarle nel cranio e un lancinante dolore al petto. Qualcosa di caldo le lambì il capo, poi si sentì leggera come una piuma, come se non avesse più un corpo. «Lia!» sentì che la chiamava da lontano il suo amico, la cui voce arrivava a stento tra il rumore delle ruote e degli zoccoli. «Va'», mormorò lei a fatica, consapevole che Franek non poteva più sentirla. «Abbiamo fatto il primo passo, Samusin», sussurrò poi rivolta alle stelle. «Per questo offro volentieri la vita, dio dell'equilibrio.» Cercò di sorridere, prima che la morte le congelasse il volto. Non le riuscì. La guardia, che giaceva stordita a pochi passi da lei, si alzò e portò la mano al corno per dare l'allarme; ma non lo trovò alla sua cintura. Lo vide invece infilato per due terzi nel petto della ragazza; doveva essere penetrato nella carne e nelle ossa mentre cadevano dal carro, e si era incrinato; il sangue scorreva dall'imbuto. «Maledizione!» imprecò la guardia. Di certo non vi avrebbe posato sopra le labbra. Il saccheggiatore era scappato insieme col bottino. E si trattava di un bottino molto particolare: il mago pietrificato Lot-Ionan. Terra Nascosta, Monti Neri, regno dei Terzi, 6241° ciclo solare, tarda primavera
Re Malbalor Biancocchio del clan dei Frantumaossa, della stirpe del Terzo, Lorimbur, lesse il messaggio che l'inviato della regina Xamtys gli aveva portato. Vi si parlava di una macchina e di rune naniche che auguravano la morte ai figli del Fabbro. Avrebbe avuto luogo un'assemblea, per cui i sovrani dei nani e i re delle città dei Liberi dovevano raggiungere i Monti Grigi. «Scoperchieranno le vecchie tombe», disse ai rappresentanti dei clan e delle altre quattro stirpi che sedevano con lui nella sala, intorno a un tavolo. Il regno dei Terzi continuava a esistere solo di nome. Dopo la fine di Lorimbas Cuordacciaio e la quasi totale distruzione della stirpe dei Terzi da parte del folle re Belletain, nel frattempo deposto, le altre stirpi avevano mandato a est dei guerrieri per sorvegliare gli accessi alla Terra Nascosta. Sui Monti Neri, i Terzi erano rimasti in pochi e costituivano ormai una minoranza. A detta di alcuni, una minoranza a stento tollerata. «Voi sapete che la maggioranza dei sopravvissuti della mia stirpe ha accettato la pace e che ora vivono fianco a fianco con voi.» Malbalor tenne alto il foglio. «Queste righe minacciano la nostra nuova comunità.» «Se mai ce n'è stata una», disse qualcuno. Il re non era in grado di dire chi avesse pronunciato quelle parole. Si alzò, irritato, mostrando la sua figura imponente. Era un tipico Terzo, alto, massiccio e temprato nella guerra. Sopra la cotta di maglia portava una corazza di sottili piastrine di metallo. Gli occhi castani sprizzavano scintille. «Sono proprio queste uscite a scoperchiare le vecchie tombe!» esclamò battendo il pugno contro il tavolo; la barba, lunga e tinta di blu, gli tremava. «Non vedete che è un tranello? Quelle rune servono a riattizzare la diffidenza verso i Terzi e a seminare nuovo odio. Noi, i discendenti dell'uccisore di nani, Lorimbur, non abbiamo dimostrato che non desideriamo la morte delle altre stirpi?» «Che saranno mai cinque cicli», si sentì dire di nuovo a mezza voce. Ma quella volta lo sconosciuto commentatore fu tradito dal vicino, che si rivolse a lui e disse: «Perché non ti alzi e non fai sentire la tua voce, anziché nasconderti come un vigliacco, Ginsgar Senzafuria del clan dei Forgiachiodi, della stirpe del Primo, Borengar?» Smascherato in quel modo, il nano dovette alzarsi; era alto, con una folta barba rosso fuoco e una chioma riccia. Nella sinistra teneva un martello da guerra, come si conveniva a un nano appartenente al clan dei migliori fab-
bri. «Non ho mai sopportato i Terzi. Li disprezzo per la loro viltà, la loro perfidia e la loro mancanza di onore», disse senza ombra di timore guardando in faccia il re. «Non mi stupisce che uno di voi, Malbalor, abbia inventato una simile macchina. Vedo che i Terzi hanno ricominciato a uccidere, e questo non mi stupisce affatto.» Si voltò per guardare tutti gli altri presenti. «Inviamo un esercito nella Terra dell'Aldilà e distruggiamo il loro campo, poi raccogliamo tutti i Terzi e rinchiudiamoli. Allora avremo finalmente la pace.» Il vicino alzò le sopracciglia. «Ci sono Terzi che fingono di appartenere a un'altra stirpe per far vacillare la pace. Sentendoti parlare così e vedendo quanto ti accalori, si potrebbe fare qualche pensiero stupido.» Ginsgar si girò di scatto e puntò il martello contro di lui. «Come osi dire che sono un Terzo?» gridò furente. «Il mio clan vive sui Monti Rossi da innumerevoli cicli e...» «Basta!» ordinò Malbalor. «Siediti, Ginsgar. In fin dei conti mi è indifferente la stirpe cui appartieni. Ma non tollererò simili istigazioni. Né in questa sala né nel resto di questo regno. Dobbiamo rimanere lucidi.» Fece un profondo respiro. «Vi ho convocati perché avvisiate la vostra gente di tenere gli occhi aperti e di essere circospetti, ma senza per questo muovere accuse arbitrarie. Da ora i lavori di riparazione dei tunnel verranno condotti da squadre di almeno quaranta nani, che dovranno portare con sé pertiche di ferro, uncini e catene. Spero che così saranno in grado di contenere eventuali macchine di quel tipo.» Rivolse ai nani raccolti nella sala uno sguardo penetrante. «Sono macchine! Ciò che è stato costruito dai nani può essere distrutto dai nani. Che Vraccas ci permetta di superare questa prova. Tra due rotazioni partirò per il nord-ovest per consigliarmi con Gandogar e gli altri.» Li congedò con un cenno. Aspettò di essere solo nella stanza, poi sprofondò pesantemente nel suo scanno. Quando Gandogar gli aveva chiesto di proporsi come re e lui poi era stato eletto, non avrebbe mai pensato che quell'ufficio potesse essere così difficile. Cinque stirpi in un solo regno... Presso Glaïmbar Lamatagliente, sui Monti Grigi, la cosa andava avanti senza frizioni. Era una specie di crogiolo da cui nascevano nani di un nuovo tipo. Ma sui Monti Neri quell'operazione non voleva riuscire: lì i diversi elementi non si scioglievano, non si mescolavano; al contrario, ogni parte s'induriva e non tentava nemmeno di creare nuovi legami con le altre. I superstiziosi dicevano che era la maledizione del capostipite dei Terzi, Lorimbur, ad allignare nel regno impeden-
do che vi fosse pace. Malbalor si versò dell'acqua dalla caraffa che aveva davanti e osservò il suo volto stanco debolmente riflesso sulla superficie. Le preoccupazioni gli tracciavano rughe profonde sul volto, come colpi di scalpelli intorno agli occhi e sulla fronte. Il resto era nascosto dalla barba, ed era un bene; non voleva sembrare più vecchio di quanto già non si sentisse. L'acqua fredda gli scese per la gola; rinfrescato, il re si alzò e lasciò la sala per dedicarsi ai preparativi per la partenza. Mentre camminava per un corridoio dall'alto soffitto, decise d'indicare Ginsgar come suo reggente, in modo che quell'attaccabrighe provasse sulla propria pelle che cosa significava portare su di sé una simile responsabilità. Girato un angolo, Malbalor s'imbatté in un gruppo di nani sozzi che avevano l'aspetto e l'odore di chi avesse sgobbato senza sosta per un'intera rotazione in una cava di pietra. Indossavano solo pantaloni corti e grossi stivali, il cui gambale arrivava al ginocchio; torso e cosce erano scoperti. Il capo era coperto da elmetti per proteggersi dalla caduta di detriti, e portavano zappe, pale e picconi. Per tutelarsi dalla fine polvere di roccia, avevano dei fazzoletti legati davanti alla faccia, da cui qua e là spuntavano le estremità delle barbe. Di per sé uno spettacolo del genere non era nulla di straordinario; Malbalor non avrebbe neanche fatto caso a quei nani, in un altro punto dei Monti Neri. Ma due cose gli parvero strane: da una parte non vi era nessun motivo per cui si trovassero lì, dal momento che non c'erano né sale né corridoi crollati o pericolanti; dall'altra, nessuno di loro fece segno di salutarlo, benché lui avesse fatto un cenno verso la loro direzione. Malbalor non era di quei sovrani che pretendevano a tutti i costi di vedere i capi chini di fronte a sé, ma comunque desiderava un certo rispetto. Si fermò e si voltò. «Ehi, voi! Fermatevi un momento.» I nani continuarono a camminare. A quel punto, il re divenne diffidente. Raggiunse l'ultimo del gruppo, lo afferrò per una spalla e lo fece voltare. Osservata da molto vicino, la foggia degli elmetti gli risultò strana, era diversa rispetto a quella che conosceva: la protezione per il naso era più lunga, arrivava fino al mento, mentre sottili fili di ferro formavano una stretta grata dietro cui si nascondevano gli occhi. «Sto parlando con voi!» disse Malbalor con voce severa, mentre gli strappava il fazzoletto. Inorridito, fece un passo indietro. Per la prima volta in vita sua, vide un nano adulto senza barba! I ricci neri che aveva scorto
prima erano attaccati al panno per ingannare gli osservatori. Fino a quel momento aveva funzionato anche con lui. «Per Vraccas, che...?» Mise la mano sull'impugnatura della mazza. Senza preavviso, il nano lo colpì alla testa col piatto della pala e Malbalor andò a sbattere contro la parete, per poi cadere al suolo tramortito. «Traditore!» farfugliò il re. Poi le palpebre gli divennero pesanti e gli si chiusero. Quando le riaprì, vide il volto preoccupato di Ginsgar fluttuare davanti a sé. Con stupore si accorse di non essere più riverso nel corridoio, ma sdraiato nel suo letto. Era rimasto privo di sensi più di quanto avesse pensato. «È sveglio», disse Ginsgar rivolto a persone che gli stavano alle spalle. «Allora, maestà. Abbiamo novità che ti faranno dubitare della splendida rettitudine della tua gente», disse con gusto prima di fare un passo indietro e far posto a un altro nano. Malbalor lo conosceva: Diemo Lamaferale del clan dei Lamaferale comandava i guerrieri che sorvegliavano i passaggi verso la Terra dell'Aldilà e la camera del tesoro. Vederlo e apprendere una notizia dalla sua bocca già lo rendevano inquieto. «Re Malbalor, c'è stata un'aggressione», ammise Diemo, mortificato. «Siamo stati vittima di una perfida aggressione dall'interno.» Il re si sedette e scese dal letto. «Non dire niente: erano una ventina e sembravano operai», indovinò senza gran fatica. «È stato uno di loro a mandarmi a tappeto.» «Sì. Le guardie della camera del tesoro li hanno visti e hanno pensato che si fossero smarriti. Quando hanno capito di essersi sbagliati era troppo tardi. Quelli li hanno atterrati usando le pale e...» «Atterrati o uccisi?» «Atterrati. Ci sono dei feriti lievi, più che altro escoriazioni e bernoccoli», riferì Diemo. «Com'è successo a voi, sire.» Malbalor ovviamente era ben contento di essere in vita, ma si meravigliava dell'improvvisa reticenza dimostrata da quei presunti Terzi nell'uccidere nani che non appartenevano alla loro stirpe. «Nessuno di loro era un Terzo», disse con voce ferma rivolgendosi direttamente a Ginsgar. «Ho strappato il fazzoletto a uno di loro, e nessuno di noi rinuncerebbe mai alla propria barba.» «Un nano senza barba?» Ginsgar era sbalordito. «Allora potrebbe essere stato un reietto. Presso noi Primi si è sempre fatto così: chi infrange la legge viene tosato e deve abbandonare il regno fino a che non gli sia cresciuta
una nuova barba.» Posò le mani sul cinturone. «Che sia stato un Terzo scaltro o un ladro delle città dei Liberi?» «Ma i Liberi che cosa mai...» Malbalor s'interruppe e guardò Diemo. «Che cos'hanno rubato?» «Solo il diamante.» «Quale diamante? Abbiamo...» Il re ammutolì. «Quel diamante? Il dono di Gandogar?» Le rughe gli divennero ancora più profonde; gli parve di sentirle scavare nella carne. Ginsgar fece un passo avanti. «Le tue indicazioni sono molto importanti, sire. Propongo di mandare un messaggio all'imperatore. Per quanto riguarda i colpevoli, rimango della mia idea: Terzi o Liberi.» «Perché mai avrebbero dovuto farlo, Ginsgar?» chiese Malbalor con voce dura, spuntando mentalmente il Primo dalla lista dei suoi possibili reggenti. «A che serve il diamante senza un mago che ne usi il potere?» «I Liberi potrebbero essere invidiosi perché non ne hanno ricevuto nessuno. Sono reietti. Criminali. Non dobbiamo mai dimenticarlo.» «Tu non dimentichi mai nulla. Né il passato dei Terzi né quello dei Liberi», replicò il re, tagliente. «Contrariamente a certi altri», ribatté Ginsgar. «I Terzi rubano per metterci in grosse difficoltà. Prima hanno costruito questa macchina, poi ci derubano per ridere di noi. Si prendono ciò che c'è di più prezioso nella Terra Nascosta.» Malbalor gli passò accanto. «La cosa più preziosa della Terra Nascosta è la concordia dei suoi abitanti. La nostra concordia.» Lo guardò. «Tu, Ginsgar Senzafuria del clan dei Forgiachiodi, della stirpe del Primo, lascerai domattina i Monti Neri insieme col tuo intero clan. Semina discordia a casa tua, se vuoi, ma non qui da me.» Malbalor uscì dalla stanza. Terra Nascosta, regno elfico dell'Âlandur, 6241° ciclo solare, tarda primavera Tungdil osservava la foresta attraverso cui camminavano e trovava che fosse cambiata considerevolmente dalla sua ultima visita al principe Liútasil. Gli alberi che facevano da pavimento alle case dell'Âlandur crescevano molto più in fretta. Il Rabbioso, che camminava come lui accanto al pony, seguì il suo sguardo. «Pensavo che me lo stessi immaginando», disse alla fine. «Questa erbaccia legnosa è cresciuta come gramigna.» Trasse l'azza dal sostegno
sulla sella e la tenne nella sinistra. «Come al solito mi sento nudo se non la tengo in mano», spiegò. «Posso anche non essere più folle, ma rimango sempre un guerriero. Se un viticcio dovesse strisciarmi intorno, preferisco essere armato.» «Io mi fido degli elfi.» «Anch'io, Sapientone.» Il Rabbioso si appoggiò l'arma sulla spalla. «Ma non mi fido delle loro verdure.» Improvvisamente due elfi uscirono dalla copertura offerta dagli alberi. Portavano abiti di stoffe chiare ben tessute e preziosi fermagli d'oro e d'argento tra i lunghi capelli biondi; l'elegante abbigliamento cascava morbidamente sui corpi alti e snelli. «Benvenuti nell'Âlandur, Tungdil Manodoro e Boïndil Duelame», cantò quello sulla destra, più che parlare, ed entrambi s'inchinarono davanti ai nani. «Per Vraccas, le facce gli sono diventate ancora più delicatine», sussurrò il Rabbioso. «O dipende dai vestiti che portano?» Tungdil sogghignò. «Il capo di questa missione sei tu. Sta a te rispondere.» «Io?» «Certo, chi altri?» «Il Sapientone sei tu!» «Ma Gandogar ha affidato questo incarico a te. Io sono soltanto la vittima di un rapimento.» Tungdil era chiaramente divertito dall'imbarazzo del guerriero. Boïndil sospirò e s'inchinò, anche se non profondamente quanto avevano fatto gli elfi. «Vraccas sia con voi», li salutò, esitante. «Siamo stati inviati dal nostro imperatore per farvi visita.» Indicò la bestia da soma alle sue spalle. «Questo è per Liútasil e...» Si frugò faticosamente nelle tasche, finché non trovò la lettera sgualcita di Eldrur. «E questa è la lettera preparata dalla vostra delegazione.» Gliela porse. «Noi... veniamo in pace.» Poi guardò verso Tungdil e roteò gli occhi. «Non ci riesco», sospirò, disperato. «Per pietà, vai avanti tu. Prima che faccia scoppiare una nuova guerra!» Gli elfi esaminarono attentamente la lettera e sorrisero di nuovo. «Ci onora che i figli del Fabbro s'interessino alla nostra cultura. Vi condurremo con gran piacere attraverso l'Âlandur e vi mostreremo come si vive presso di noi», disse quello che aveva già parlato, facendosi da parte e indicando con la mano il sentiero. «Venite. Abbiamo approntato una sistemazione per voi.»
«Spero non tra le cime degli alberi», si lasciò sfuggire il Rabbioso porgendo la mano verso la lettera, che ottenne indietro dopo un attimo di esitazione. «I nidi che stanno là sopra li lascio volentieri agli uccelli.» «Conosciamo le preferenze del vostro popolo», replicò gentile l'elfo, facendo strada. «Siete molto comprensivi», ringraziò Tungdil prendendo finalmente la parola, cosa che provocò un forte sospiro di sollievo nell'amico. «Portiamo doni per il vostro principe Liútasil.» «Il nostro principe apprezzerà molto il mulo.» L'elfo rise con voce cristallina e tanto limpida da risultare spiacevole alle orecchie dei nani. «Be', no, naturalmente il regalo non è il mulo», replicò Tungdil unendosi all'ilarità degli elfi, anche solo per sovrastarne il suono. «Lui porta solo gli oggetti di valore.» «Lo immaginavo. Ma il principe non ha mai ricevuto in dono un mulo. Sarebbe stata una gradita novità.» L'elfo s'inchinò un'altra volta. «Io sono Tiwalún, e questi è Vilanoîl. Siamo stati incaricati di farvi da guida nell'Âlandur. Potrete rivolgere a noi tutte le vostre domande; soddisferemo volentieri la vostra curiosità.» «Ti ringrazio, Tiwalún.» Tungdil riconobbe il sentiero che stavano percorrendo. Li avrebbe condotti alla radura in cui a suo tempo aveva incontrato il principe Liútasil. S'informò cortesemente sullo stato di salute del sovrano. «Il nostro signore sta bene, ma si trova nella parte sudorientale del regno, a regolare alcune questioni», rispose Tiwalún entrando in uno spiazzo privo di vegetazione in cui era stata montata una grande tenda. «Una volta risolte tali questioni in modo acconcio, verrà qui e parlerà con voi. Ora vi auguro una buona notte.» Tungdil vide la tenda di seta verde. «Quella è la tenda del principe», sussurrò al Rabbioso. «Vi ringraziamo dell'onore che ci rendete», disse poi rivolto invece a Tiwalún, e aggiunse un proverbio dei nani traducendolo in lingua elfica: «Gli amici si riconoscono dal modo in cui ti ospitano». Vilanoîl sussultò e il volto di Tiwalún perse per un attimo la sua compostezza. «Liútasil ci aveva detto che siete un erudito, ma non già che vi riuscisse di parlare la nostra lingua», disse Tiwalún in segno di apprezzamento. S'inchinò e si voltò; poi si fermò. «Potrei avere la missiva, Boïndil Duelame? Vorrei mandarla al principe in modo che legga coi suoi occhi quanto Eldrur ha ben parlato di voi.» «Volentieri, amico elfo», rispose il Rabbioso sorridendo e mettendo ma-
no alla cintura. «Corpo di mille mezz'orchi morti! L'ho perduta!» strepitò. «Deve essermi caduta mentre ci avvicinavamo alla tenda.» Il nano fece per tornare sui suoi passi a cercarla, ma l'elfo alzò la mano. «Non v'è bisogno, Boïndil Duelame. Nelle nostre foreste non scompare nulla, esattamente come una moneta d'oro non può andare perduta nelle vostre montagne. La troveremo, non preoccupatevi.» S'inchinò di nuovo. «Ci vediamo domani. Che Sitalia vi mandi dal cielo sogni piacevoli.» Con quelle parole, i due scomparvero all'ombra degli alberi. «Il martello di Vraccas mi ha quasi colpito quando ti ho sentito parlare in modo così strano», sbuffò Boïndil. «A me continua a non piacere quella lingua. Ho pensato che fossi posseduto da uno spirito maligno. Da quando la conosci?» «Ho trovato dei libri nella galleria di Lot-Ionan, tra cui un trattato sull'antico regno degli elfi del nord, il Lesinteïl. Il libro era in buona parte rovinato, però l'autore aveva scritto un'introduzione alla lingua degli elfi. Ma conosco solo qualche frase, è troppo complicata.» Tungdil tenne aperto il lembo di stoffa per far entrare il Rabbioso. «Riposiamo, adesso.» «Preparaci qualcosa di buono da mangiare. Mi occupo degli animali e sono subito da te», replicò Boïndil, e raggiunse le bestie, che si gustavano con piacere la tenera erba della radura. All'interno della tenda, Tungdil si sentì immediatamente riportato al suo incontro col principe degli elfi. I pali di legno intagliati, il profumo piacevole, la calda luce delle lampade a olio che pendevano dalle pertiche più alte e il tepore fornito dalle due stufe creavano un'atmosfera rilassante che gli scrollò di dosso gli strapazzi del viaggio. Si tolse la cotta di maglia, si lavò il viso e guardò nel centro della tenda, dove si trovava una tavola imbandita di pietanze calde. Non avrebbe dovuto cucinare nulla. Boïndil si precipitò dentro, arricciò il naso vedendo che l'amico si era levato l'armatura e si sedette al tavolo coperto di vivande. «Ehi, la nostra missione comincia a piacermi», disse avvicinando a sé il primo vassoio. «Odora un po' troppo di fiori, però ha un bell'aspetto.» Ammucchiò sul piatto d'argento le vivande più disparate; le assaggiò tutte in fretta, poi la sua forchetta rimase sospesa sopra una specie di pallina gialla. «Oh, no. Mi ricordo. Questa non mi era piaciuta per niente.» La spinse sul bordo del piatto e continuò a mangiare il resto. «Datti da fare, Sapientone. Durante la marcia hai perso un bel po' di peso, per cui adesso puoi banchettare.» Tungdil rise. «È stata una buona idea da parte tua parlarmi con franchez-
za.» Non toccò neppure la caraffa piena di scura birra aromatica e si versò dell'acqua. Se avesse bevuto anche solo un sorso di birra sarebbe piombato di nuovo sotto l'effetto della sua malia. Ne era stato dominato per fin troppo tempo. Il pasto era ottimo, e quando Tungdil trovò in un ambiente separato una tinozza con un piccolo focolare e un paiolo d'acqua non riuscì a trattenersi. Si preparò un bagno e si gettò nell'acqua calda; una manciata di cristalli rossi nell'acqua fece scaturire un profumo celestiale. Il nano chiuse gli occhi e si gustò l'esperienza. «Eccola!» La voce del guerriero lo riscosse dal torpore. «Non potresti evitare di gridare?» si lamentò Tungdil aprendo gli occhi. Il Rabbioso era seminudo e sventolava la lettera; i muscoli potenti guizzavano. «L'ho ritrovata. L'avevo infilata nei pantaloni; è caduta per terra quando me li sono tolti. Vedrai come si arrabbieranno gli elfi quando domani mattina gli dirò che hanno strisciato tutta la notte tra i cespugli per niente.» Sogghignò. «Ma che la cerchino pure, questa notte.» A Tungdil tornò in mente che Tiwalún voleva consegnare la lettera a Liútasil, e divenne curioso. «Da' qua», disse allungando la mano. «Voglio vedere quanto ci encomiano.» Che fosse stato il Rabbioso a lasciare la presa troppo presto o Tungdil a stringerla troppo tardi, fatto sta che la lettera cadde in acqua. Entrambi si gettarono al recupero e nella foga la strapparono in due parti pressoché uguali. «È stata la maledizione di Elria», commentò Boïndil con aria saputa, guardando dispiaciuto la sua metà. «Con la sua acqua distrugge tutto ciò che ha a che fare col nostro popolo.» «Magari siamo stati solo un po' maldestri.» Tungdil uscì dalla vasca e si avvolse in un panno. «Puoi entrare tu, se vuoi. L'acqua è ancora calda.» «Io? Lì dentro? Dopo che la lettera ci è affogata dentro, dandomi un chiaro monito sulla cattiveria della dea dell'acqua?» replicò il guerriero. «Non ti farebbe male. Hai un certo odore, per dirla senza calcare la mano.» Tungdil prese le due metà e le portò vicino alla stufa per farle asciugare. Una parte delle rune elfiche era cancellata e illeggibile; inoltre solo qualche segno era uguale a quelli usati dagli elfi del Lesinteïll. O avevano sempre avuto una scrittura e una lingua diversa rispetto a quella dei loro parenti dell'Âlandur, o la lingua degli elfi nel suo complesso doveva essere mutata nel corso dei cicli.
Mentre la carta si asciugava, qualcosa cambiò. Tra le righe apparvero altre rune, blu pallido. «C'è un messaggio segreto», sussurrò Tungdil, stupito. A che scopo Eldrur aveva nascosto qualcosa nella loro lettera di accompagnamento? A quanto pareva, aveva perfino temuto che uno dei nani potesse decifrare le rune degli elfi, per cui non aveva osato scrivere apertamente quello che voleva dire. Che i legati siano davvero delle spie? si chiese Tungdil prendendo la lettera e sedendosi al tavolo, per leggere alla luce delle lampade. «Boïndil?» chiamò. «Vieni qua, devo mostrarti una cosa.» Si sentì un forte tonfo, e l'acqua traboccò sotto la tenda che riparava la vasca. Poi si udì tossire forte e risuonò una serie delle peggiori imprecazioni dei nani. Tungdil sorrise. «Tutto bene?» «Maledetta acqua!» imprecò Boïndil, strappando il telo che fungeva da divisorio e usandolo per asciugarsi rabbiosamente. «Ma guarda un po'! Ora mi dovrò ingrassare di nuovo la barba.» Alzò il nero intrico di peli che gli pendeva lungo e morbido sul petto. «Mi ci è voluto un ciclo per curarla e renderla così lucida.» Si voltò e diede un calcio alla tinozza. «Questa è una maledetta trappola per nani escogitata da Elria! Bisognerebbe proibire aggeggi del genere.» Si avvolse nella stoffa. «Sento quasi la vecchia follia pomparmi nelle vene! Il mio ardore divampa di nuovo, tanto sono infuriato.» «Calmati. Che è successo?» «Sono scivolato su un pezzo di sapone, e sono caduto testa in giù in quella brodaglia.» Boïndil fece un lieve rutto e contrasse il volto in una smorfia disgustata. «Bah, ha un gusto schifoso!» «Se hai sete, bevi dell'acqua normale. Ma adesso se non altro sei profumato, dentro e fuori.» Tungdil rise prima d'indicare la lettera, ritornando immediatamente serio. «Ho scoperto qualcosa.» Il Rabbioso notò subito le righe di colore diverso. «Allora sono davvero spie!» esclamò. «Non lo avevo detto sul serio, ma sembra proprio che avessi ragione.» «Non traiamo conclusioni affrettate», replicò Tungdil per mettere in guardia l'amico e pure se stesso. Si versò del tè, che stava in una brocca d'argento sull'altra stufa, e se ne gustò una tazza. «Vedrò che cosa riesco a tradurre. Forse hanno solo detto di non mostrarci ogni piccolo segreto dell'Âlandur.»
«Sono spie», rimarcò il Rabbioso. «Per me non c'è più il minimo dubbio.» Raggiunse uno dei letti che erano stati preparati per gli ospiti e vi si sdraiò sopra. Dopo essersi rigirato per un po', si alzò, prese la coperta e si sdraiò per terra. «È troppo molle», disse chiudendo gli occhi. «Stanotte fai tu il primo turno. Svegliami quando vuoi il cambio.» «Turni?» Tungdil lo guardò. «Che ti salta in mente?» «Non mi fido più degli Orecchi appuntiti.» «Ma se avessero scritto qualcosa di assolutamente innocuo...» «Allora avrebbero potuto scriverlo tranquillamente in chiaro, come il resto.» «Cosa che d'altronde noi avremmo potuto interpretare come un gesto di immensa scortesia.» Tungdil non voleva giudicare affrettatamente gli elfi, per quanto il loro comportamento apparisse strano. Un po' più che strano. Un forte russare gli suggerì che Boïndil non era ansioso di approfondire la questione, per cui sollevò lo stoppino della lampada per vedere meglio. Sarebbe stata una lunga notte. V Terra Nascosta, regno di Urgon, Dreigipfelburg, 6241° ciclo solare, tarda primavera «Nel Gauragar fa già più caldo che qui da noi?» chiese re Ortger, un uomo sui venti cicli dall'aspetto ordinario; l'unico segno distintivo in lui era un paio di occhi da rospo, molto sporgenti. Si sistemò l'armatura di cuoio ornata di foglia d'oro e si sfilò l'elmo, sotto il quale apparvero corti capelli neri, che già si diradavano in cima alla testa. Gli cresceva una folta barba nera, che Ortger non radeva per sembrare più adulto. «Maestà, il vostro viaggio vi conduce a Porista. Mi è stato detto che è una zona bella e gradevole», rispose il suo servitore personale. Ortger guardò le dieci cassapanche in cui stavano i suoi vestiti per il viaggio. «Volevo sapere se fa più caldo che da noi. Se così fosse, potrei cavarmela con una sola cassapanca.» «Una cassapanca?» chiese il servitore, incredulo. «Certo. Voglio procedere speditamente, e non posso se sono carico come un mercante di vestiti.» Il re indicò una delle casse. «Porterò questa con me, le altre possono rimanere a palazzo.» «Molto bene», disse il servitore con un inchino, e fece cenno a quattro
addette al guardaroba d'iniziare subito a rimettere negli armadi ciò che non era necessario. Ortger le osservò per un po', poi si mise alla finestra e guardò la serie di vette, apparentemente senza fine, che si estendeva davanti a lui. Il palazzo si ergeva sulla più imponente delle tre colline su cui era stata costruita la capitale; ai suoi piedi giaceva l'insediamento formato da case di pietra colorate. Su quelle montagne c'era poca legna, per cui tutto, nei limiti del possibile, veniva costruito usando la pietra. I colori variegati derivavano dai diversi tipi di pietre, rendendo Dreigipfelburg, nonostante le massicce costruzioni quadrangolari, una città vivace. Il giovane sovrano era giunto al trono in modo davvero inaspettato. Dopo che il folle Belletain, attaccati i Monti Neri e fatta strage di migliaia di nani innocenti, aveva minacciato un'altra aggressione, alcuni ufficiali coraggiosi lo avevano deposto. Ortger era un lontano parente di Lothaire, l'amato predecessore di Belletain, e stava conducendo una vita tranquilla molto lontano dalla capitale, vicino ai confini col regno dei troll del Borwôl, quando gli era stato comunicato che sarebbe potuto diventare il nuovo sovrano delle montagne dell'Urgon. Non ci aveva messo molto a decidere, e nei cinque cicli in cui aveva regnato non aveva mai rimpianto quella scelta. Si sentì bussare, ed entrò un soldato. «La vostra guardia è pronta a partire, maestà», annunciò. «Sono stati scelti solo i cavalli più veloci?» «Come avete ordinato, maestà. Percorreremo in fretta le cinquecento miglia che portano a Porista.» Ortger si calcò l'elmo sulla testa. Riportò alla mente il messaggio del principe Mallen, in cui veniva raccontato il furto del diamante del Tabaîn. La descrizione della creatura spaventosa che, come una bestia feroce, aveva infuriato tra le guardie gli aveva letteralmente fatto venire gli incubi. Un sogno molto vivido e realistico che gli aveva fatto battere il cuore all'impazzata: una bestia gli aveva dato la caccia per tutto il palazzo, facendo a pezzi coi nudi artigli chiunque incontrasse. Ne aveva sentito il ruggito così forte che gli sembrava fosse vicinissima al suo letto. Ortger rabbrividì. Non voleva pensare a quelle immagini notturne e guardò fuori dalla finestra, le pacifiche cime dell'Urgon e la sua città. Quel furto gettava una nuova luce sulla sparizione della prima pietra, quella del Rân Ribastur. «Il nostro diamante è ben custodito?» «Lo abbiamo portato dove ci avete detto, maestà.»
«Quanti uomini sono di guardia?» «Trenta, maestà. Col sole e con la luna. Abbiamo piazzato quattro balliste, sempre pronte al tiro. Le carichiamo e tendiamo a turno in modo che le corde non si allentino o si spacchino per la pressione continua.» Il sovrano ascoltava con soddisfazione. Il diamante non avrebbe potuto essere meglio protetto. Chi anche si fosse fatto strada fra i suoi soldati, si sarebbe dovuto fermare di fronte alla porta di pietra che chiudeva la camera nel cuore del suo palazzo. Era così spessa e pesante perché era stata scavata nella roccia della montagna lì dov'era, e lì era stata pure imperniata; solo dopo era stato scavato lo spazio alle sue spalle. Ci volevano quattro buoi per aprirla con carrucole e catene. Neppure la forza di un troll sarebbe bastata a smuoverla. Tuttavia un brutto presentimento affliggeva Ortger mentre attraversava il suo spoglio palazzo, più simile a una fortezza che a una residenza regale. Raggiunse il cortile, montò in sella e si mise a fianco di Meinart, il comandante della guardia. «Al galoppo verso Porista», ordinò. I cavalli tuonarono fuori dal palazzo e lungo le stradine di Dreigipfelburg, puntando verso sud-ovest. Galopparono lungo strade anguste, che permettevano ai cavalli di passare due per volta. Alla loro destra si alzavano pareti verticali che parevano assaltare il cielo, a sinistra si spalancavano scuri burroni e ripidi pendii quasi infiniti, mentre in lontananza le vette e i prati erano illuminati dal sole, tra giochi di luci e ombre. Se a causa del bel panorama qualcuno non avesse badato a dove stava andando, avrebbe pagato quella distrazione con la vita. La decisa cavalcata richiedeva prudenza costante. Il comandante aveva mandato avanti una guardia che facesse da apripista. Se dietro una svolta avessero incontrato senza preavviso qualcuno, ci sarebbero potuti essere dei feriti, se non addirittura dei morti. Chi veniva sbalzato di sella era perduto. Le forre dell'Urgon non provavano pietà. Stavano attraversando uno stretto passo. Il re pensò al suo sogno e voltò la testa, guidato da un vago presentimento. Da quel punto si aveva una buona vista su Dreigipfelburg, splendidamente avvolta dalla luce del sole. E uno dei raggi che trapassavano le bianche nuvole scintillò proprio davanti all'ingresso del palazzo. Era metallo. «Fermi!» ordinò Ortger. Bloccò il suo cavallo e si girò per vedere meglio. Brillò di nuovo qualcosa, di molto luminoso, troppo per essere luce ri-
flessa su un elmo o uno scudo. Subito dopo, del fumo salì dal palazzo. «Indietro!» Il re indicò Dreigipfelburg. «C'è un attacco! Vogliono il nostro diamante. Li prenderemo alle spalle e li coglieremo di sorpresa.» «Maestà, è saggio tornare indietro mentre è in corso un assalto?» intervenne Meinart. «Ricordatevi il messaggio del principe Mallen. Se è in gioco della magia, dovreste rimanere lontano dal campo. Mandate piuttosto un messaggero che vi...» A Ortger la proposta non dispiaceva affatto, ma non si permise debolezza. Nel sogno era la creatura ad avergli dato la caccia. Era il momento di passare al contrattacco. «È solo una creatura, Meinart. A Güldengarb sono stati colti alla sprovvista dalla sua comparsa, mentre i miei soldati sono pronti. La distruggeremo.» Ortger spronò il cavallo e tornò sui suoi passi. Nella città dominava l'eccitazione. Gli abitanti correvano per la strada, continuando a indicare il palazzo, da cui saliva del fumo. Qualcuno si muniva di secchi per aiutare a spegnere il fuoco, altri portavano spade e lance per aiutare i soldati. La notizia dell'attacco si era diffusa in fretta. Con Ortger in testa, la guardia reale entrò al galoppo nel cortile interno, superando la devastata porta principale. Le grate di ferro, abbassate, erano disciolte e schiacciate, come se ci avesse giocato un gigante dalle dita incandescenti. Nel cortile c'erano membra umane strappate e bruciate, accanto a spade fuse e aste di lancia carbonizzate. Qua e là sul lastricato c'erano dei punti neri che sfrigolavano leggermente e scricchiolavano piano sotto la pressione di un calore inimmaginabile. «Inizio a chiedermi se bastino le misure di sicurezza che ho preso», disse Ortger a Meinart, senza riuscire a distogliere lo sguardo dai pezzi di cadavere insanguinati. Solo quel mattino aveva conversato e riso con alcuni dei suoi sottoposti. Ormai di loro non restavano altro che corpi scorticati. Al re si strinse la gola; cominciò a tremare. Qualunque cosa avesse ucciso quelle persone, possedeva poteri che nella Terra Nascosta non si vedevano da molto tempo. O che non si erano mai visti prima. Seguirono la scia di devastazione, correndo attraverso il corpo principale dell'edificio, che era stato danneggiato e che aveva preso fuoco in diversi punti. Avanzarono senza prestare attenzione ai lamenti dei feriti, fino a raggiungere la scala che portava nei sotterranei. La difesa del diamante aveva la precedenza. Quando il gruppo di soldati raggiunse gli ultimi gradini che portavano all'atrio antistante la camera del tesoro, sentirono un forte sibilo e videro delle luci tremolanti guizzare sulle pareti e sui gradini. Lo spettacolo venne
accompagnato da un ruggito bestiale e da grida di morte. Una pungente nuvola di fumo venne loro incontro, e perfino il meno intelligente dei soldati capì che cosa fosse stato disciolto. Ortger si fermò. Il tremore che lo attraversava era diventato ancora più forte; il suo corpo si rifiutava di muoversi oltre e di portarlo là dove una morte orribile lo attendeva. Benché la sua mente ben sapesse quale valore e quale potere possedesse il diamante, nulla avrebbe più spinto il giovane re a tentare di difenderlo. La figura che aveva visto in sogno era davvero arrivata fino a lui. Si sentì una forte esplosione. La pietra si frantumò, schegge di roccia s'infransero contro le pareti della scala. Subito dopo si udì una risata vittoriosa. Si sentì cigolare del ferro, e due teste mozzate rotolarono ai piedi del re. «Ha fatto a pezzi la porta della stanza del tesoro. Che Palandiell ci aiuti...» sussurrò Ortger in preda al panico, facendo un passo indietro. «La pietra... è perduta!» Forti tonfi si avvicinavano alle scale, ripetendosi a intervalli regolari come i passi di un gigante. Un'enorme ombra fu proiettata a terra dai fuochi e si avvicinò loro. Crebbe, investì quelle degli uomini e le ingoiò. Dietro, la creatura gettava sulla pietra il proprio mostruoso profilo. Camminava chinata in avanti, perché il corridoio non le permetteva di stare ritta. Ma non era la creatura del sogno. Era molto più spaventosa di quella. Era fatta di tionio, interamente di nero tionio! Braccia e gambe erano lunghe due passi, il busto spesso come tre barili di birra. Nell'orribile testa di metallo, simile a quella di un toro, scintillavano due occhi rossi, mentre un vapore bianco e nero usciva dalla visiera. Un intreccio di simboli illeggibili copriva la creatura; brillavano di verde smorto e sembravano pronti a risplendere da un momento all'altro. Tutt'intorno sporgevano lame scintillanti e spine cosparse di veleno. Il sangue dei soldati morti copriva quasi per intero la creatura, e Ortger riconobbe ciuffi di capelli e brandelli di vestiti che pendevano dalle vesti. Meinart afferrò il braccio del re. «Palandiell ci protegga! Vedete lì, vicino al collo? Non è una runa elfica?» Gli occhi di Ortger non erano in grado di scorgere il punto indicato. Il suo sguardo correva pieno di paura sulla terribile apparizione e la sua mente faticava a dominare il terrore. Ogni volta che l'essere muoveva un arto si sentiva un sibilo, e da qualche parte all'interno della gigantesca nera armatura si sentivano sferragliamenti
meccanici. Uno solo dei suoi artigli di metallo avrebbe potuto racchiudere facilmente la testa di tre uomini. Sotto il collo era stata ricavata una finestrella rotonda di spesso vetro, attraverso cui un volto orribile e allo stesso tempo affascinante guardava e digrignava le zanne. A Ortger quella vista bastò. Le dita tremanti si aprirono e la spada gli cadde di mano, tintinnando sulla pietra e scivolando giù per i gradini. «Via di qua», balbettò volgendosi alla fuga. Le rune s'illuminarono all'improvviso. Si aprirono cinque buchi disposti orizzontalmente l'uno accanto all'altro, somiglianti a temibili bocche. Del vapore sbuffò dalle aperture, e i soldati intorno a Ortger caddero a terra; il re sentì solo un movimento d'aria all'orecchio sinistro. Dai corpi dei colpiti sporgevano le estremità piumate di dardi di balestra rinforzati di ferro. Le guardie più avanzate erano state trapassate e i colpi avevano perfino ferito la fila di soldati alle loro spalle. Tra i morti c'era il comandante Meinart. I superstiti si gettarono su per le scale in una fuga disperata. Ortger correva in testa, e per la paura si sporcò i pantaloni con la propria urina. Un guerriero esperto avrebbe sicuramente ordinato di occupare i camminamenti intorno al cortile, di strappare i merli e d'incalzare la creatura gettandole addosso i blocchi di pietra. Ma il giovane re non possedeva un simile sangue freddo; non dopo quello che aveva sognato e visto. Preferì decisamente farsi condurre al cavallo e fuggire con le guardie lontano da Dreigipfelburg, per mettere al sicuro la propria vita. Fermò la scorta solo quando fu a debita distanza, e mandò indietro due esploratori per scoprire che cosa fosse successo in seguito. Tornarono con notizie pessime. «Il diamante è perduto, maestà», riferì uno, confermando ciò che tutti già immaginavano. «Quella creatura ha abbattuto la porta e non ha preso nulla a parte la pietra. I gioielli della corona sono...» Ortger fece cenno di smettere e guardò il secondo esploratore. «Alcuni dicono che il mostro sia corso verso le montagne attraversando le strade della città», riportò quegli. «Altri che si sia dissolto nell'aria, maestà. Gli incendi a palazzo sono spenti, e i feriti sono stati raccolti.» Al re salì al naso l'odore di urina secca, ricordandogli la sua umiliazione e la sua troppo umana, per quanto comprensibilissima, vigliaccheria. L'aggressore non sembrava la cosa di cui aveva scritto Mallen nella sua missiva. Eccetto che per due elementi. Ortger richiamò alla memoria il volto orribile che aveva visto attraverso lo spesso vetro, e sapeva che cosa significavano i segni luminosi tracciati sull'armatura: magia.
«Riprenderemo la marcia verso Porista», decise. «Devo condividere con gli altri sovrani la notizia di questo nuovo furto. I diamanti rimasti devono essere protetti ancora meglio.» Mise il cavallo al trotto. «Non abbiamo tempo da perdere. A quanto sembra, c'è nella Terra Nascosta qualcuno che comprende la magia e vuole prenderne il potere per sé. Avanti, ora!» La scorta prese a galoppare ripercorrendo una seconda volta la strada già fatta in giornata. Ortger si costrinse a non guardarsi un'altra volta alle spalle, verso Dreigipfelburg. La paura di vedere coi suoi occhi i segni della catastrofe era troppo grande. Terra Nascosta, regno elfico dell'Âlandur, 6241° ciclo solare, tarda primavera «Siete già sveglio, Tungdil Manodoro! Spero dunque di non giungere troppo tardi con la colazione...» Il nano sussultò spaventato, per quanto la voce amichevole alle sue spalle di per sé non gli avesse dato motivo d'inquietudine. Non sembrava minacciosa, bensì stupita e anche un po' offesa. L'elfo aveva sicuramente visto la lettera di accompagnamento su cui ancora stava ruminando. A quel punto non gli restava che giocare d'anticipo. «Sono solito alzarmi con le galline», disse Tungdil voltandosi verso Tiwalún che, entrato silenziosamente nella tenda, si trovava proprio dietro di lui. «Mi rendo conto che è difficile bussare a una tenda per avvisare prima di entrare, ma avresti potuto fare almeno un tentativo.» «Vi rivolgo le mie più sentite scuse. La colazione doveva essere una sorpresa», replicò l'elfo con un inchino, senza però distogliere lo sguardo dalla missiva. «Quindi l'avete trovata?» Tungdil non sapeva davvero a che cosa si riferisse Tiwalún, se alla lettera o alla comunicazione segreta che conteneva. «Sì, il mio amico l'aveva messa in un posto davvero poco appropriato.» Aveva deciso di far trasparire un po' di verità. «È caduta in acqua e, mentre l'asciugavo sulla stufa, sono apparse queste righe.» Indicò i segni blu chiaro. «Ti farò una domanda, ed esigo che tu sia sincero: che cosa significa questa segretezza? È degna della meschinità di un coboldo. Devo dedurre che le vostre delegazioni in viaggio per la Terra Nascosta siano formate da spie? Non provare nemmeno a mentirmi, perché ne chiederò spiegazione al principe Liútasil in persona.»
Tiwalún lo guardò intensamente, nel chiaro intento di leggergli in faccia che cosa o quanto sapesse. «Mai potrei mentire all'eroe che salvò l'Âlandur dalla rovina», dichiarò serio. «Le righe fatte comparire dal calore non hanno nulla a che vedere col popolo dei nani. Lo giuro su Sitalia.» «Allora dimmi che cosa significano.» «Questo non posso farlo. Chiedete al nostro principe. È stato un suo ordine.» Tese la mano. «Posso avere la lettera?» Tungdil la ripiegò e la mise sotto il farsetto. «La consegnerò personalmente a Liútasil», disse in tono cortese. Così sarebbe stato certo di essere ricevuto e di poter chiedere direttamente al principe spiegazioni per quel comportamento misterioso. Tiwalún fece la faccia di chi riceva una proposta di matrimonio da un mezz'orco. «Come desiderate, Tungdil Manodoro. Il principe sarà certo lieto di parlar con voi.» Il profumo di pane fresco invase la tenda. «Ristoratevi, ora, poi condurrò voi e il vostro amico attraverso il regno.» Inchinatosi, si ritirò, mentre elfi in abiti meno sontuosi apparecchiavano la tavola e versavano bevande. Boïndil comparve in cotta di maglia; levò il naso e annusò ostentatamente forte. «Anche oggi, che buon profumino!» esclamò. Si rallegrò del cibo e guardò gli elfi che sistemavano le ultime cose, prima di ritirarsi dalla tenda e lasciare da soli i nani. «Hai fatto la guardia tutta la notte?» chiese quando non ci furono più orecchie indiscrete intorno a loro. «Ho tradotto», lo corresse Tungdil raggiungendo il tavolo. «E dunque?» lo incalzò il Rabbioso. «Che hanno scritto gli elfi?» Tungdil gli riferì la breve conversazione con Tiwalún. «Ciò che non sa è che ho tradotto una parte della lettera. Ma non ci aiuta molto a venire a capo di questo enigma. Il resto è illeggibile, perché è andato perso per via dell'acqua o perché scritto con caratteri che non conosco.» S'imbottì un panino e si versò la bevanda. Gli venne incontro l'odore di chiodi di garofano, cannella e altre spezie. Gli ingredienti erano stati cotti e uniti con gli aromi e il latte a formare una bevanda dal sapore molto delicato e aromatico, come stabilì dopo averne bevuto un sorso. Anche se in lui tutto implorava una birra, dell'acquavite o qualunque altra cosa che fosse alcolica, il nano non diede ascolto alle richieste e si accontentò del suo infuso. Boïndil lo guardò imbronciato. «Lo fai apposta, Sapientone. Mi tieni sulle spine.» «Per la lettera?» Tungdil sorrise. «No, stavo solo pensando.» Prese un altro tocco di pane e cercò invano un pezzo di carne succulenta. Evidente-
mente gli elfi non la consumavano a colazione, per cui allungò la mano verso le uova sode. «Sono riuscito a leggere delle indicazioni. Si raccomandavano di encomiarci come eroi e di dedicarci la massima attenzione. Le ultime parole dicevano: Impedire che Liútasil, poi condurli solo lontano dai nostri nuovi edifici e non permettete che si trattengano più di quattro rotazioni; poi dovrebbero essere congedati con qualche scusa. Adducete come pretesto il loro cattivo comportamento.» Assaggiò un uovo e venne stupito dal sapore. Senza che lo avesse condito, sapeva di sale e di altre spezie. Anche Boïndil lo aveva notato. «Ma che danno da mangiare alle loro galline?» «Chi ti ha detto che sono uova di gallina?» Il guerriero prese a masticare più lentamente. «Non avevo capito qual è il vero pericolo di questa missione: la cucina straniera», sospirò, poi deglutì rumorosamente. Pensò al suo primo pasto ad Aureorifugio, presso i Liberi, che era stato ricco di strane pietanze, come carne di insetti giganti e birra aromatizzata con bachi. «Dunque, quello che ho capito è che gli elfi devono mostrarci solo certi posti, che non ci devono far parlare con Liútasil e che noi dobbiamo andarcene in fretta dall'Âlandur.» Tungdil annuì. «Questi nuovi edifici cui si accenna mi sorprendono. Che cosa devono tenere nascosto a noi e verosimilmente al resto della Terra Nascosta?» Il Rabbioso gli mostrò il suo vecchio sorriso da guerriero, anche se, senza il bagliore negli occhi, non lo faceva più sembrare folle come un tempo. A parte il senso dell'umorismo e il taglio di capelli, assomigliava sempre più al suo defunto fratello gemello. «Ho capito. Quando ci diranno di andare a sinistra, noi andremo a destra.» «In modo da dargli un pretesto per mandarci via dal paese ancora prima?» Tungdil prese altre uova, ne fece rondelle sottili e le mise su una fetta di pane; poi le coprì con salsa di aglio orsino. «Ma non hanno ancora ricevuto la lettera e non sanno nulla di quello che gli hanno scritto.» «Tiwalún è entrato silenzioso come una lince. Non so quanto mi sia stato alle spalle, ma suppongo che ne abbia potuto leggere almeno una parte», disse Tungdil. «Abbiamo ancora tre rotazioni. Alla luce del sole faremo come ci chiederanno, di notte indagheremo più a fondo. Tieniti pronto a non dormire.» «Strisciare come un albo...» borbottò Boïndil, infelice. «I sotterfugi non
sono mai stati il mio forte. Spero che un gesto maldestro non ci tradisca.» «Li batteremo con le loro stesse armi», replicò Tungdil. «Ci resta altra scelta?» Consumarono la colazione in tutta calma e non si lasciarono metter fretta da Tiwalún, nel frattempo ricomparso. Verso metà giornata si addentrarono ulteriormente nel paese. Cavalcavano attraverso placide foreste, in cui i cattivi pensieri non indugiavano a lungo; erano semplicemente troppo belle, anche senza le montagne che tanto mancavano al Rabbioso. L'elfo non si stancava di descrivere loro con parole ornate la bellezza dei diversi alberi; sembrava che cercasse di assopirli con le sue descrizioni. E, se non fosse stato per la lettera, ci sarebbe sicuramente riuscito. Stando così le cose, però, Tungdil e il Rabbioso annuivano, ma si guardavano intorno costantemente, facendo attenzione a ogni più piccola stranezza. Non sfuggì quindi loro che non salivano mai su un'altura e restavano invece sempre nelle valli boscose, in cui la visuale non superava mai la lunghezza di un tiro di freccia. Conoscevano ovviamente il motivo. Quando Tungdil chiese a Vilanoîl di montagne o almeno di colline scoperte, l'elfo si mostrò stupito del fatto che gli ospiti fossero già stufi degli straordinari, unici e ineguagliati boschi dell'Âlandur. Promise loro, per l'indomani, un giro panoramico. Al calar del crepuscolo, si avvicinarono a un edificio dagli interni illuminati che Tungdil e Boïndil già conoscevano. In quel luogo i due nani, insieme con Andôkai, avevano chiesto al principe degli elfi di aiutarli nella lotta contro Nôd'onn. Possenti alberi facevano da pilastri viventi per il folto tetto di fogliame, posto a duecento passi di altezza. Ma quel padiglione naturale era cambiato radicalmente dalla loro prima visita. Fra i tronchi non vi erano più i pregiati mosaici di sottilissime piastrine d'oro e palandio su cui un tempo si rifletteva la luce delle stelle. Avevano ceduto il posto a semplici ma giganteschi dipinti che non mostravano altro che diverse gradazioni di bianco; qua e là, alla luce delle torce, scintillavano dei diamanti che parevano sparsi arbitrariamente. Lo sfarzo e l'esibizione di abilità artigianale di allora si erano trasformati in uno strano e inusuale decoro, che per la sua imponenza non lasciò i nani meno impressionati. «Che ne avete fatto di tutto il resto?» domandò Boïndil. «Deve forse un popolo esprimere la vena artistica sua sempre nella stessa maniera?» rispose Tiwalún. «Poiché fino a oggi le nostre foreste hanno conosciuto pochi visitatori, se non nessuno, i cambiamenti della nostra arte
non sono stati notati. E siate certo, Boïndil Duelame, che abbiamo già provato molte forme di espressione. Come presso di voi, un secolo o due non sono un gran lasso di tempo.» Girò verso sinistra e cercò di dirigerli fuori dal padiglione di alberi, quando il Rabbioso indicò un grande monolito bianco, di pianta triangolare, che si ergeva nel punto in cui un tempo stava il trono di Liútasil. Da quella distanza stimò che fosse alto circa quindici passi, con un perimetro di sette. «Posso guardarlo più da vicino, amico elfo?» «Non è niente d'importante», minimizzò Tiwalún. «La cena ci...» Boïndil non tenne a mente ciò che aveva consigliato Tungdil: di giorno avrebbero dovuto piegarsi alle richieste degli ospiti, o almeno dare quell'impressione. Senza farsi intimidire, il nano superò Tiwalún puntando verso il monolite triangolare. «Qui è richiesto l'occhio di uno che la pietra la conosce», annunciò. «La mia stirpe è nota per l'abilità dei suoi intagliatori.» L'elfo lo seguì, poi gli corse davanti. «No, Boïndil Duelame. Vi prego, desistete dal vostro intento. È una specie di santuario che può essere toccato solo dagli elfi.» Si fermò, nella speranza di riuscire a frenare il nano. «Non potrò lasciar correre il fatto che disprezziate la mia richiesta. In realtà non avreste dovuto nemmeno vederlo!» Il Rabbioso fece correre lo sguardo dalle gambe di Tiwalún fino al volto, passando per il torso. «Questo è molto scortese!» si lamentò. «La vostra delegazione si spinge in ogni angolo del nostro regno, e io non posso nemmeno guardare una pietra?» «Non hai sentito, Boïndil? È un santuario», intervenne Tungdil. «E perché prima ha detto che non era niente d'importante?» «Per voi non è niente d'importante», sorrise Tiwalún. Dalla fronte una goccia di sudore gli corse sulla pelle liscia e priva di rughe. «Per favore, tornate indietro.» «Elfi e pietre sacre», sogghignò il guerriero. «I nostri popoli hanno più cose in comune di quanto pensassi. Se si tralasciano le preferenze alimentari.» Girò placidamente i tacchi e indicò il passaggio che poco prima Tiwalún era in procinto d'imboccare. «Per di là?» «Per di là», disse l'elfo, sollevato, affrettandosi in quella direzione prima che il nano caparbio cambiasse idea. «Vi ringrazio per la vostra comprensione, Boïndil Duelame.» «Ma è naturale», replicò il Rabbioso con un grande sorriso, mentre strizzava l'occhio a Tungdil.
La tarda serata aveva in serbo una sorpresa per gli elfi e i loro ospiti. I nani sedevano con Vilanoîl e Tiwalún, intenti all'ultima portata del ricco eppur leggero pasto, quando un messo entrò e porse una lettera agli elfi. Dopo averla letta, i due guardarono i nani. «Sono notizie molto preoccupanti», disse Tiwalún, inquieto. «Sono stati rubati tre dei diamanti: quelli di re Nate, di re Ortger e di re Malbalor. Pare che a condurre le aggressioni siano stati nani e creature terribili.» Lesse ad alta voce le righe in cui si descriveva dettagliatamente ciò che era accaduto nei tre regni. Gli ospiti ascoltavano sgomenti: erano stati menzionati anche gli attacchi delle macchine sui Monti Rossi. «Il male ha di nuovo preso piede e allunga i suoi rapaci artigli verso il potere», concluse Tiwalún. «Partiremo domani mattina», disse Tungdil, scosso. In quelle circostanze non poteva lasciare incustodita la pietra che gli era stata donata da Gandogar e che lui aveva nascosto in un posto sicuro della galleria. Temeva per Balyndis, che di certo non aveva saputo ancora nulla di quegli avvenimenti. Se i ladri sconosciuti erano riusciti a rintracciare tanto facilmente le pietre custodite dai sovrani degli uomini e dei nani, ci sarebbero riusciti anche in una galleria molto più facile da espugnare. L'unica guardia, destinata inevitabilmente alla sconfitta, era Balyndis. «Ma abbiamo una missione...» intervenne Boïndil, prima che gli tornasse in mente che l'amico possedeva uno dei diamanti. «Dimentica quello che ho detto, Sapientone. Cavalcheremo fino a casa tua veloci come il vento.» Tungdil si alzò da tavola. «Non vorremmo sembrare scortesi, ma Boïndil e io faremmo meglio a riposare. Le prossime rotazioni saranno pesanti per noi. Porgete al principe Liútasil i nostri più cordiali saluti. Presumo che lo incontreremo presto, alla riunione dei sovrani.» Quando sentì dell'imminente partenza dei nani, Tiwalún sembrò profondamente sollevato. «Certamente. Comprenderà senz'altro il motivo del vostro comportamento. Vi farò preparare delle provviste, di modo che domattina possiate partire non appena vorrete.» Si alzò e fece un inchino. «Avevo sperato che la vostra visita nell'Âlandur avesse un epilogo più tranquillo, ma pare che gli dei ci abbiano disposto una nuova prova.» Sorrise. «Anche questa volta voi avrete un ruolo di prim'ordine, che ne dite?» «Potrei anche farne a meno», replicò Tungdil, serio. «Ma, se il mio popolo e la Terra Nascosta avranno bisogno di me, sarò al mio posto.» Si avviò verso l'uscita, mentre il Rabbioso prendeva una ciotola piena di cibo
per poi seguirlo. Tiwalún e Vilanoîl seguirono i due con lo sguardo, fino a che la porta non si chiuse alle loro spalle; poi Tiwalún prese il vino e se ne riempì un bicchiere fino all'orlo. Aveva letto il messaggio segreto contenuto nella lettera di accompagnamento; il nano infatti si era accorto della sua presenza nella tenda solo quando lui aveva parlato. Dunque quelle brutte notizie erano arrivate proprio al momento opportuno, inducendo gli ospiti a lasciare subito l'Âlandur di propria iniziativa. Che avessero visto il monolite era stato un grave errore, e solo per un pelo le cose non erano andate ancora peggio. Tiwalún alzò il calice. «Sitalia, brindo a te. Bevo alla salute tua e a quella delle tue creature più pure.» Portò solennemente il bicchiere alle labbra, ne prese tre piccoli sorsi e vuotò il resto per terra. «Che tornino al più presto gli Eoîl e diventino sovrani.» Vilanoîl sorrise. Ma nella notte accadde qualcosa. Nonostante la stanchezza, Boïndil non aveva rinunciato a muoversi di sua iniziativa e a osservare da vicino la pietra bianca che Tiwalún aveva nascosto con tanta fermezza. Dal momento che avrebbero comunque lasciato l'Âlandur, poteva anche permettersi di farsi sorprendere intento nelle sue indagini segrete. Che gli avrebbero mai potuto fare? Di sicuro non gli avrebbero tagliato la testa sul posto. Non gli piacevano i sotterfugi, e non vi era neppure portato, ma non poteva fare diversamente. Si era perfino sfilato gli stivali, che avevano le suole molto dure, e la cotta di maglia. Completamente nudo, o almeno così si sentiva, camminò di soppiatto attraverso il palazzo di alberi, in cui non sembrava esservi nessuno a parte i due nani. Certo credeva di aver osservato attentamente il percorso che conduceva al padiglione, eppure dopo poco si perse e iniziò a girare qua e là senza riuscire a orientarsi. Sottoterra non gli sarebbe mai successa una cosa del genere: là trovava sempre la strada. «Maledetti alberi. Sembrano tutti uguali», brontolò svoltando a sinistra nel corridoio successivo. Dapprima si era rallegrato di non incontrare nessun elfo di guardia ma, a mano a mano che procedeva, quel fatto lo sorprendeva sempre più. Era pur sempre la residenza di un principe, e in teoria avrebbe dovuto brulicare di servitori e di guardie. Aprì la prima porta in cui s'imbatté e vide una stanza vuota; la luce delle
stelle filtrava nell'ambiente deserto, sul pavimento si erano raccolti un po' di polvere e qualche foglia. Nessun letto, nessun armadio, nessun vestito. Niente. Boïndil continuò a camminare di soppiatto attraverso il palazzo, ripetendo il procedimento. Non s'imbatté neppure una volta in una stanza abitata. Il palazzo era diventato un villaggio fantasma. Per puro caso raggiunse il padiglione in cui si ergeva il monolite bianco, che si ergeva fino al soffitto. Benché non vi fosse nessuna illuminazione, la pietra diffondeva un certo chiarore, come se lo avesse immagazzinato durante la giornata per consegnarlo poi all'oscurità. «Eccoti qua, pietruzza», sogghignò Boïndil. Si avvicinò, girò lentamente intorno al monolite e lo esaminò con attenzione. Non c'erano giunture, e neppure un minuscolo graffio, almeno sulla parte che il nano poteva osservare. La superficie bianca scintillava liscia come vetro, e Boïndil allungò la mano per toccarla. Quando la sua pelle incontrò la pietra, il nano si meravigliò di quanto il monolite sembrasse caldo. Non immagazzinava solo la luce, ma anche la forza del sole. Non conosceva rocce del genere. Certo, era un guerriero, e non era mai stato uno scalpellino particolarmente abile, ma non ricordava di essersi mai imbattuto in un materiale simile. Ciò significava che nell'Âlandur c'erano miniere che offrivano un tipo di pietra sconosciuta. Boïndil ritrasse la mano e stava per voltarsi, quando lo sguardo gli cadde sul punto in cui aveva toccato il monolite: vi era rimasto il segno delle sue cinque dita! «Per la stramaledetta merda di mezz'orco!» imprecò guardandosi la mano, che era linda. Cercò di ripulire la pietra prima con la sua barba nera, poi con un fazzoletto, senza riuscire a togliere le orme nere, che macchiavano con aria accusatoria il monolite, per il resto immacolato. La piccola dimensione dell'impronta non lasciava dubbi: poteva essere stato solo un nano a profanare la reliquia. Ciò gli avrebbe causato parecchie noie. La minaccia di Tiwalún riguardo al fatto che chiunque non fosse un elfo, avvicinandosi alla pietra, avrebbe subito gravi conseguenze improvvisamente rimbombò con violenza nelle orecchie di Boïndil, che si sentì investito da ondate di calore. Corse indietro, scrollò Tungdil dal sonno e iniziò a fare i bagagli. «Dobbiamo sparire all'istante», sussurrò agitato. «C'è qualcosa che non va.» S'infilò al volo cotta di maglia e stivali.
L'amico si mise a sedere, insonnolito. «Ma che c'è?» «Sono andato a guardare il monolite da vicino, e mentre comminavo per il palazzo ho notato che non sembra essere abitato da nessuno. Lo hanno riportato in vita solo per noi.» Gli raccontò rapidamente delle stanze vuote. «E quella pietra non è normale. Si macchia quando la si tocca.» «Si macchia? Stai dicendo che l'hai toccata?» Tungdil si svegliò di colpo. «Avevi sentito Tiwalún...» «Sì, sì, lo so, è una reliquia. Ma il capo della missione sono io e, se gli elfi fanno tanti misteri, voglio vederci chiaro», si difese Boïndil incrociando le braccia sul petto. Tungdil imprecò e saltò giù dal letto. Gli elfi stavano tenendo nascosto qualcosa; quella bianca pietra triangolare sembrava significare molto per loro. «Vieni. Forse riesco a lavare via le macchie.» Per precauzione, prima d'incamminarsi raccolse anche lui il suo bagaglio. Prese una bacinella di acqua del bucato, uno straccio, del sapone e del profumo che erano stati preparati per loro. Nel palazzo, Boïndil mostrò a Tungdil gli ambienti vuoti, che il Sapientone esaminò con più attenzione. Come il suo amico, concluse che nessuno viveva lì da parecchio tempo. E le stranezze non erano finite. Mentre camminavano per i corridoi, pareva che le pareti di legno si spostassero, come se volessero impedire loro di trovare la strada per il monolite. I passaggi si trasformavano in un frusciante labirinto in cui i nani non riuscivano a orientarsi, finché Tungdil non prese il suo pugnale e cominciò a incidere delle tacche sulle pareti, in modo da lasciare un segno del loro passaggio. A quel punto il loro vagabondare senza meta terminò e i due raggiunsero il padiglione. L'impronta della mano era diventata più scura, almeno secondo il Rabbioso, come se fosse stata marchiata a fuoco sulla superficie di pietra per l'eternità. A nulla servirono l'acqua e il sapone, né strofinare o usare profumo. «Non ha un bell'aspetto», disse Tungdil gettando lo straccio nella bacinella; l'acqua sciabordò oltre l'orlo. «La pietra sembra offesa perché l'ha toccata una creatura che non è un elfo», congetturò. «Che dici: lo confessiamo a Tiwalún o ce la svigniamo?» chiese il Rabbioso. L'altro rifletté. Se gli elfi si fossero comportati onorevolmente e in modo sincero, avrebbe senza dubbio cercato di parlare con Tiwalún e di ottenere
una punizione clemente per Boïndil; ma i loro ospiti agivano in modo molto strano. Inoltre voleva raggiungere al più presto il suo diamante. Immerse il sapone nell'acqua e se lo fregò tra le mani, fino a ottenere della schiuma spessa e consistente. Poi raschiò via con cautela lo strato superiore del pezzo di sapone con la lama del pugnale e lo spalmò sull'impronta scura. Funzionò. «Sei veramente il nano più astuto che abbia mai conosciuto», lo lodò il Rabbioso. Dopo che Tungdil ebbe steso tre sottili strati, il punto danneggiato era stato nascosto. A un'osservazione superficiale, nessuno si sarebbe accorto che si trattava di un inganno. «Così dovrebbe bastare», disse Tungdil sospirando di sollievo. «Non appena avremo lasciato l'Âlandur, scriverò una lettera al principe Liútasil porgendo le nostre scuse. Poi ti presenterai personalmente davanti a lui per chiedere indulgenza», decise. L'amico annuì. Trovarono senza difficoltà il loro alloggio. Da lì andarono alle stalle e di filato verso la galleria. Solo quando, all'alba, superarono i confini dell'Âlandur e gli zoccoli delle loro cavalcature poggiarono sul suolo del Gauragar, la tensione li lasciò. Nessuno li aveva seguiti. Terra Nascosta, regno di Weyurn, Mifurdania, 6241° ciclo solare, tarda primavera Rodario e Tassia, dopo essersi informati ancora un po' in giro su Furgas, ritornarono dal resto della compagnia teatrale. Gesa andò loro incontro agitando le braccia come una gallina irrequieta. La massa corpulenta della donna ondeggiava, sotto il vestito tutto le ballonzolava e saltellava qua e là senza che il busto contenitivo potesse impedirlo. «Messer Rodario! Finalmente siete tornato!» Lo prese per mano. «Venite, svelto. Sono venuti degli uomini, hanno distrutto il vostro carro e preso a pugni il povero Reimar. Poi abbiamo aizzato i cani e alla fine se ne sono andati.» «Va tutto bene, Gesa. Calmati.» Le accarezzò una guancia. Rodario si era aspettato una cosa del genere e rimase calmo. La vista della sua casa devastata fu però un duro colpo. La spregiudicata perquisizione aveva parecchio danneggiato la sua piccola dimora mobile; nulla era più al proprio
posto e la maggior parte delle cose era a pezzi. Se avesse incontrato un'altra volta gli scagnozzi del padre di Nolik, si sarebbe fatto risarcire prendendo loro tutto quello che avevano; perfino la biancheria, giusto per umiliarli. «Oh, Palandiell!» gemette Gesa, fermatasi all'ingresso della carrozza. «Quanto mi dispiace!» Rodario si gettò sul materasso sventrato, sospirando. «Va tutto bene. Metterò a posto più tardi.» Gesa annuì e se ne andò. Tassia chiuse la porta e prese la collana dal suo nascondiglio, sotto un'asse. «Erano troppo stupidi per trovarla», disse sorridendo sollevata, mentre indossava il gioiello. «E credevano che l'avremmo venduta a Mifurdania», aggiunse l'attore allungando le braccia verso di lei. «Vieni a me, regina delle attrici, e concedi i tuoi favori all'imperatore. Mostrati a me in tutto il tuo splendore, d'oro e di gemme vestita.» La donna fece scivolare dalle spalle la veste che aveva rubato e si sdraiò accanto a lui, accarezzandogli il volto. «Allora, imperatore della voluttà? Vogliamo lavorare al nostro pezzo?» «Oh, quale ardire! Tu vorresti esibire un amplesso sul palco?» replicò Rodario sorridendo lascivo, e il suo volto aristocratico divenne volgare. «Se lo facessimo, un soggiorno nelle prigioni sarebbe garantito. Per atti osceni.» Tassia sorrise e gli solleticò il mento con una ciocca dei suoi capelli biondi. «Metteremo comunque in scena quell'atto. Proprio adesso, e solo per noi.» L'attore le baciò la nuca, e subito dopo si dedicarono ai giochi dell'amore finché non si lasciarono cadere esausti sulle spoglie del materasso, riparandosi dal freddo con quel poco che era rimasto della coperta. Dopo la meravigliosa distrazione, i pensieri di Rodario tornarono di nuovo all'amico scomparso e alle avventure di quella giornata. «Hanno cercato di ucciderci, della gente è morta e un brav'uomo è stato rapito», disse pensieroso. «E tutto questo, in qualche modo, ha a che fare con Furgas.» Tassia prese il vestito giallo e se lo infilò. «Perché? E che cosa potrebbero volere dal fabbro?» «Lambus è un ottimo artigiano, di quelli che si trovano di rado.» Dispiaciuto di non poter più ammirare le attraenti nudità della donna, si rivestì
anche lui. «Che ci sia dietro proprio Furgas?» rimuginò. «Lambus ci ha detto di non voler lasciare la città. Quale motivo può aver spinto Furgas a farlo rapire? Doveva essere qualcosa di veramente importante.» Poi respinse il pensiero. Un comportamento del genere non si addiceva affatto all'amico. «Non avevi detto che aveva perso la compagna e i figli?» chiese lei alzandosi e appoggiando la schiena alla porta. «Deve aver trovato un nuovo amore.» «Ah, ti riferisci al bambino che era con lui?» Rodario cominciò a mettere ordine nella confusione della stanza. «Non capisco. Amava Narmora sopra ogni cosa.» «I sentimenti cambiano.» «Certo.» Annuì. «Per tutti, ma non per Furgas. Se tu lo conoscessi, la penseresti diversamente e saresti stupita quanto me. Dev'essere diventato un'altra persona.» «E se non fosse suo figlio? Se lo avesse preso con sé?» Tassia appoggiò la mano sulla maniglia. «Non ti disturberò oltre mentre metti in ordine e rifletti. Vorrai sicuramente farlo in tranquillità.» «Molto carino da parte tua svignartela.» «La regina sa quando deve andare», replicò lei sorridendo. «Tassia!» «Sì?» Rodario indicò il collo. «La collana.» «Oh...» La donna passò la mano sul gioiello, che rifletteva i raggi del sole con una lucentezza da mozzare il fiato. «Si sente a suo agio sulla mia pelle.» «Non indossarla finché siamo in città. Ma più avanti sarà un importante elemento del nostro spettacolo.» Tassia si tolse la collana e la ripose nello stesso nascondiglio. Quindi mandò un bacio a Rodario e uscì. A lui rimase l'ingrato compito di mettere ordine nel suo piccolo regno. Dopo aver svolto l'incombenza, si sedette sugli stretti scalini che portavano dentro il carro e riprese a scrivere il suo pezzo alla luce di una lampada. Le parole sembravano uscire da sé: Tassia e gli eventi di quella giornata lo ispiravano. Scrisse tutto quello che era successo loro: sarebbe divenuto un pezzo pieno di passione, avventura e misteri. Non sapeva ancora come sarebbe finito, però; prima avrebbe dovuto trovare Furgas. Si stava versando del vino dall'unica bottiglia rimasta intera, quando
sentì ridere Tassia; era una risata di un tipo particolare. La gelosia avvampò nell'animo dell'attore. Posò il bicchiere e si avvicinò in punta di piedi al carro in cui viveva Reimar. Guardò attraverso la piccola finestra. Quella risata aveva svegliato in lui un terribile sospetto, e ciò che vide gliene diede la certezza: la regina si divertiva anche con altri. Evidentemente quella sera aveva voglia di ulteriori piaceri, e Reimar, quell'orso d'uomo, le stava facendo quella cortesia non disinteressata. Rodario tornò ai suoi scalini, prese il bicchiere e cominciò a ridere. Rise e rise, fino a che non gli mancò il respiro, e le teste dei primi curiosi non iniziarono a spuntare dalle finestre dei piccoli carri; perfino Reimar si affacciò fuori dalla sua porta con un panno legato intorno ai fianchi. L'attore indicò verso di lui e scoppiò a ridere ancora più forte, piegandosi in avanti e faticando a respirare. «Va tutto bene, cara gente», disse facendo cenno ai curiosi. «È solo il mio attacco serale di follia. Mi coglie quando mi tocca sentire altri che fanno l'amore con la mia donna.» Reimar arrossì e scomparve all'istante, e Rodario fu scosso da un altro accesso di risa. Guardò le stelle, davanti alle quali sfilavano sottili nuvole tingendosi di bianco latte. «Oh, dei! Mi avete mandato quella donna», sogghignò. «Deve forse farmela pagare per quello che in passato ho fatto ad altre femmine?» Vuotò il bicchiere. «Ho intuito il vostro piano. È opera tua, Samusin, dio dell'equilibrio e della compensazione?» gridò forte. Poi prese la bottiglia e brindò verso le stelle. «Io ti ringrazio! È da molto tempo che non mi sentivo tanto ispirato.» Il vino gli scese freddo lungo la gola; posò il bicchiere e riprese a scrivere. Il tempo passava, ma l'attore era come in estasi. Tratteggiava scene e scriveva e formulava atti su atti. Il lavoro metteva sete. Senza guardare, Rodario allungò la mano verso la bottiglia di vino; sentì un fischio, e la lampada che lo stava illuminando finì in pezzi. L'uomo alzò lo sguardo, stupefatto. Non poteva essere stato lui a farla cadere, la sua mano si trovava decisamente troppo in basso. Rodario fissò la freccia che ne aveva frantumato la campana per poi infilarsi nel legno della porta chiusa. Mezzo cubito più a sinistra, e la punta gli sarebbe finita nell'occhio. La donna con l'arco! gli balenò in mente mentre si lasciava cadere di lato. Strisciò rapidamente sotto il carro, poi trattenne il fiato. Insetti ronzavano intorno a lui, e i grilli frinivano; i cavalli sonnecchiavano nei loro provvisori recinti di corda e Hui, un cane grigio e nero, rus-
sava sull'erba, la testa appoggiata sulle zampe. Sembrava una notte molto tranquilla, se non fosse stato per i mugolii di Tassia, i gemiti di Reimar e il cigolio impietoso del carro in cui erano. Incredibile! Loro si amano come dei forsennati e io finisco vittima di un'assassina! pensò Rodario con macabro umorismo, guardando verso il carro in cui la donna e l'operaio si sollazzavano tanto da far oscillare la lampada accanto alla scaletta. Non assomigliava per nulla al modo in cui lo facevano lui e Tassia. Ma come aveva detto lei? Ogni tanto a una donna bastavano dei volgari muscoli. Con un forte schiocco una seconda freccia s'infilzò in un raggio della ruota, poco distante dall'attore; poi una terza sbatté contro il ferro del mozzo della ruota e andò in frantumi. Rodario si appiattì ancor di più, guardando teso nell'oscurità in cui si nascondeva il tiratore. Non intendeva svegliare gli altri. Il rischio che qualcuno della sua compagnia venisse ferito o addirittura ucciso, per caso o intenzionalmente, era troppo elevato. «Psss... tu... cosiddetto cane da guardia!» sibilò rivolto al cane. «Ehi! Svegliati, cagnaccio!» Il cane alzò la testa, lo guardò e iniziò a scodinzolare. «No, niente feste! Fai il cane cattivo! Mordi! Azzanna! Cerca e azzanna!» Il cane si alzò, si stiracchiò per bene, lo raggiunse sotto il carro trotterellando e si mise a leccargli la faccia. «Smettila!» fece Rodario cercando di sottrarsi alla lunga lingua umida. «Mi senti? Devi attaccare! Uccidere!» Indicò dall'altra parte. «Cercala!» Finalmente Hui comprese. Fiutò nella direzione che gli era stata indicata e si mosse lentamente, col naso al suolo e con la coda ritta. All'attore spiaceva un po' aver aizzato il cane. Sbirciò in avanti e non vide niente: né cani né assassini. Il carro di Reimar aveva smesso di dondolare. D'un tratto una lama fredda gli si posò sul collo. «Devi toglierti dai piedi», disse una voce roca, mentre un odore di fumo, fuliggine e ferro fuso aggrediva il naso di Rodario. «Domattina raccoglierai baracca e burattini e porterai i vostri variopinti carretti da qualche altra parte, va bene?» «Con licenza, perché...?» Un dolore pungente gli bruciò la gola; la lama gli aveva tagliato la pelle. «Ti toglierai dai piedi e non chiederai mai più del magister, intesi?» gli sussurrò la voce. «Ti teniamo d'occhio, attore.» La porta del carro di Reimar si scostò. Tassia guardò fuori per vedere se
Rodario fosse ancora seduto sulla scaletta. Dal momento che non lo vedeva e che la luce della lampada era spenta, sgusciò fuori dal carro. «Guarda un po' il tuo amorino, attore. Se andrai ancora a curiosare dietro gli affari del magister, sappi che morirà», minacciò lo sconosciuto. «Poi morirete tu e tutta la tua compagnia!» La lama calcò di nuovo sulla gola dell'attore. Il taglio era profondo, e il liquido caldo scorreva sul pomo d'adamo. Rodario si sentì male. Non gli veniva in mente nulla per uscire con le sue forze da quella spiacevole situazione. Era completamente nelle mani dell'uomo che gli stava accovacciato alle spalle, e che poteva togliergli la vita con un semplice movimento della mano. «D'accordo», gracchiò, poiché la paura e la posizione gli rendevano difficile parlare. «Molto bene.» Lo sconosciuto sogghignò. «Ricorda che ti teniamo d'occhio.» La mano lasciò la presa sui capelli, e l'attore ricevette un forte colpo sulla nuca, probabilmente col manico dell'arma. Tanto bastò per annebbiargli momentaneamente la vista. Poi sentì lo sconosciuto strisciare via, alzarsi e correre. Rodario sgusciò gemente da sotto il carro, barcollò su per la scaletta e, una volta entrato, si guardò allo specchio. Una linea rossa attraversava tutta la parte anteriore del collo; il taglio era profondo e sanguinava copiosamente. Sarebbe bastato un poco di pressione in più e la ferita sarebbe stata difficile da curare ma, stando così le cose, bastò che si fasciasse con una lunga sciarpa. L'indomani avrebbe cercato una guaritrice. Dopo la partenza. «Piano piano, la cosa è diventata un po' troppo avventurosa. Anche per i miei gusti», mormorò mentre controllava la tenuta della fasciatura e si osservava le dita, sporche del suo stesso sangue. Gli vennero le vertigini e si sedette. «Decisamente troppo.» Mitigò il dolore con quello che restava della bottiglia di vino. Se non altro, la freccia aveva colpito la lampada e non la bottiglia. VI Terra Nascosta, regno di Idoslân, 6241° ciclo solare, inizio estate
Nella Terra Nascosta si vedevano di rado pony al galoppo. Il rombo dei piccoli zoccoli non suonava realmente minaccioso, ma, unito agli sguardi feroci dei nani in sella e allo sferragliare di armi e armature, bastava a indurre i passanti a fare loro largo. «Quanto manca ancora?» Boïndil rimpiangeva i tunnel e quel modo semplice e indolore di viaggiare sotto la superficie. Non era un cavaliere particolarmente abile; gli faceva male la schiena per via della continua sollecitazione trasmessagli dal movimento dell'animale. Come se non bastasse, aveva già inghiottito inavvertitamente parecchie mosche. «Resisterai.» Tungdil non mostrava compassione, né per se stesso né per le bestie né per l'amico. La sua fretta era più che comprensibile. Accanto alla vita di sua moglie, era in gioco uno dei diamanti. «Al massimo mezza rotazione.» All'improvviso un cavallo affiancò i pony; ma sulla strana sella, di foggia eccentrica, non montava un uomo, ma un nano! Indossava abiti neri, un'armatura di cuoio marrone scuro e pesanti stivali; dalle sue tasche sporgevano i manici di diverse asce. Il taglio della barba era stravagante, coi peli biondi che crescevano intorno alla bocca e sul mento, ma rasati sul resto del volto. Le lunghe e chiarissime trecce della barba ondeggiavano al vento; sui capelli portava un fazzoletto nero. Tungdil lo riconobbe subito. «Bramdal Lamadimaestro!» Il nano, che era decisamente più vecchio di lui, gli volse lo sguardo. «Io ti conosco», disse a voce alta per sovrastare il rumore degli zoccoli. «Bergensstadt, vero? Ti scambiarono per me.» Tirò le briglie, rallentando lo slancio dell'animale. «Volevi raggiungere i Liberi e, a quanto ho sentito, ce l'hai fatta.» Si misero a trottare l'uno accanto all'altro. «Chi avrebbe detto che saresti diventato un eroe?» Sorrise e gli porse la mano dall'alto. «Mi fa piacere rivederti, Tungdil Manodoro.» Tungdil era in preda a sentimenti contrastanti. Doveva a Bramdal il fatto di aver trovato un modo di raggiungere i Liberi e la città di Aureorifugio. Gli aveva indicato il laghetto e l'ingresso segreto. Allo stesso tempo, però, Tungdil non aveva nessuna considerazione del mestiere esercitato da Bramdal. «Bramdal, il boia? Quello che vende ai Lunghi pezzi di cadavere?» domandò il Rabbioso. Si raddrizzò sulla sella. «È disgustoso. E tante grazie per i salti che ho dovuto fare in quello stagno marcio a causa tua.» «Questo dev'essere Boïndil Duelame.» Bramdal sogghignò. «Due eroi in viaggio verso la loro prossima avventura?»
«E tu di nuovo in viaggio verso la prossima esecuzione?» ribatté Tungdil. Non voleva dargli nessuna informazione. «Sto andando a Porista. Re Bruron è disposto a pagare bene i miei servigi: vuole che addestri i suoi carnefici.» Bramdal scosse le spalle dispiaciuto. «Perdonatemi se non mi trattengo con voi e non mi fermo a chiacchierare in una locanda, ma ho fretta.» «Questo significa che hai accettato il lavoro.» «Sì, ma poco conta. Mi sto cercando un'altra occupazione.» Bramdal non sembrava più dell'opinione che il suo compito fosse difendere gli uomini dal male. A Bergensstadt aveva spiegato a Tungdil che agiva secondo la volontà del creatore dei nani, quando giustiziava i criminali condannati a morte degli umani. Li considerava come il male, esattamente come gli altri nani consideravano i mezz'orchi. «Un'altra occupazione ad Aureorifugio?» Tungdil ricordava la città dei Liberi, situata in una caverna alta e larga un miglio. Gli parve di sentire di nuovo le imponenti cascate, e di vedere i giardini e la fortezza in cui viveva re Gemmil, i sacerdoti dei nani in preghiera, e di sentirne echeggiare il canto. Era stato un bel periodo, quello che aveva trascorso lì. «Commercio», disse Bramdal. «Se qualcuno sa come si producono attrezzi da boia come si deve e quanto valgono, quello sono io. Perché non dovrei sfruttare le mie conoscenze? I regni hanno sempre richiesta, e noi abbiamo gli artigiani giusti.» «Che cosa succede ad Aureorifugio?» s'informò Tungdil, un po' malinconico. «Da quanto tempo non ci vai?» «Da qualche ciclo, direi.» Stava mentendo. Tungdil sapeva precisamente quando aveva fatto visita a Gemmil per l'ultima volta. Era stato cinque cicli addietro. «Ah, allora faticheresti a riconoscerla. La città si è trasformata. Abbiamo abbattuto i giardini per costruire officine. E la caverna è stata ingrandita di mezzo miglio in modo che vi fosse posto per tutti.» «Le nuove leve sono così numerose?» «Non è solo per loro. C'è stato molto afflusso nelle cinque città dei Liberi. Il commercio coi regni dei nani ha seminato un'enorme curiosità nelle stirpi. Non sono solo i reietti a voler vivere da noi; vengono tanti che vogliono sciogliersi dai vincoli del clan e della famiglia.» Bramdal scacciò un'ape che gli ronzava intorno e cercava di entrare dentro il farsetto di cuoio. «I pregi della mia comunità sono sotto gli occhi di tutti.»
«Ma che pregi...» brontolò il Rabbioso. «Un nano ha bisogno di costanza.» Non aggiunse altro. «Tutti hanno diritto di essere felici, chi nelle montagne, chi sottoterra. Da noi si vive bene. Col commercio è aumentato il benessere.» Bramdal guardò il crocicchio che avevano davanti. «Là si separeranno le nostre strade, presumo. Sai che Gemmil è morto?» «No.» La morte del re colpì Tungdil, e anche il volto di Boïndil si rattristò. «Come?» «È stato assassinato. Pensiamo che sia stato un Terzo. Abbiamo preso un nano che cercava di uscire segretamente da Aureorifugio; aveva gli abiti insanguinati. Ha combattuto ferocemente contro le guardie, uccidendone sette, prima di venire soverchiato. Ancora non sappiamo perché l'abbia fatto.» «Discordia», suppose Tungdil. «Se era uno dei nemici dei nani, non voleva fare altro che seminare discordia. Trovo molto spiacevole che il re che ha accolto tanto amichevolmente me e i miei amici abbia perso la vita in questo modo. Chi è il suo successore?» «Gordislan Pugnomartello.» «Pugnomartello?» Il Rabbioso si fece attento. «Si è dato da solo quel nome o è il reietto di una stirpe?» «Pensi che possa essere un parente di Bavragor Pugnomartello?» Tungdil ripensò al migliore scalpellino dei Secondi; un energumeno dalle gigantesche mani callose e privo di un occhio. «L'ubriacone canterino», così lo avevano soprannominato. Aveva dimostrato il suo valore in innumerevoli battaglie combattute a fianco di Tungdil; si era sacrificato coprendo la fuga del gruppo contro i mezz'orchi, a Vapordrago. Senza di lui non sarebbero mai riusciti a sfuggire con la Lama di Fuoco. Bramdal scosse la testa. «Non saprei. Potrebbe essere, se il clan dei Pugnomartello è noto per gli occhi scuri con una sfumatura rossastra. In ogni caso riesce a reggere una bella porzione di acquavite, quando c'è da festeggiare.» Il Rabbioso sogghignò. «Non c'è dubbio. È un parente di Bavragor.» Tornò serio. «Che cosa può averlo spinto ad abbandonare il suo clan? Non ne sapevo nulla.» «È parecchio che vive da noi ad Aureorifugio.» Bramdal e i due avevano raggiunto l'incrocio; era il momento di salutarsi dopo quel breve rincontro. «Auguro a entrambi un buon viaggio e molta fortuna in ciò che vi apprestate a fare», disse il carnefice guidando il suo cavallo sulla strada che por-
tava a Porista. Alzò la mano e lanciò l'animale al galoppo. Già dopo poche falcate la polvere lo inghiottì. «Ha una sella davvero strana», mormorò Tungdil, dispiaciuto di non avere avuto il tempo di chiederne spiegazioni a Bramdal. «Sono contento che abbia preso un'altra strada», borbottò il Rabbioso, sollevato. «Alla fine avrebbe provato a venderci qualcosa... Faccio volentieri a meno del dito essiccato di un ladro o dell'occhio sotto aceto di un adultero.» Sputò per terra. «Quello che fa è disgustoso.» Tungdil non replicò. Le poche parole di Bramdal erano bastate a riportarlo a un periodo sereno della sua vita. «Aureorifugio...» mormorò. «Voglio visitarla un'altra volta.» «Meglio di no», gli consigliò il Rabbioso, sornione. Alla fine raggiunsero la verde e fiorita regione che circondava le gallerie in cui un tempo viveva Lot-Ionan, uno dei più potenti maghi della Terra Nascosta. Tungdil si rallegrava di essere tornato, anche se non mancava poi da molto. Aveva molte cose da raccontare a Balyndis. Quando lo avesse visto così dimagrito, avrebbe capito subito che qualcosa era cambiato. «Di là!» gridò al Rabbioso, indicando un piccolo sentiero. «Tra poco le pene del tuo sedere saranno finite.» Si avvicinavano al grande portone dietro cui si nascondeva il suo piccolo e personale mondo nanesco. Il padre adottivo di Tungdil aveva trascorso lì la sua vita inventando nuovi incantesimi, studiando vecchi scritti e istruendo i suoi apprendisti, fino a che non si era contrapposto al traditore Nôd'onn. E aveva perso. Da allora non era altro che una statua di pietra, dimenticata chissà dove tra le macerie del palazzo di Nudin. Persone dotate per la magia in grado di seguire le sue orme non ce n'erano, così come non c'era una fonte di potere che potesse ristabilire gli ormai prosciugati campi magici. Quella almeno era l'opinione corrente, fino a che nell'Âlandur non erano venuti a sapere dei misteriosi ladri di diamanti equipaggiati in modo ancora più misterioso. All'improvviso qualcuno aveva rimesso in gioco la magia. Tungdil si fermò, smontò di sella e rimase in piedi davanti alla porta. Alzò una mano per bussare, poi esitò. «Hai paura, Sapientone?» Boïndil scivolò dalla sella, tendendosi la schiena con entrambe le mani e piegandosi all'indietro. «Già sapevo che Elria ci vuole affogare, ma quale dea ha creato contro di noi cavalli e
pony? Sono una vera tortura.» Gli diede una pacca sulla spalla. «Su, coraggio. Torni da lei come Tungdil Manodoro, al quale voleva molto più bene che non a quello che poche rotazioni fa stava davanti a me sui Monti Grigi.» Batté tre volte sulla porta col manico dell'azza. «E questo lo devo soltanto a te», lo ringraziò ancora Tungdil. «Se non mi avessi fatto la morale...» Dall'altra parte della porta si sentì sferragliare; i chiavistelli vennero disserrati, poi la porta si aprì. Li attendeva una sorpresa. Sulla soglia stava una nana dai lunghi capelli biondo scuro che spuntavano da sotto un elmo imponente. Sopra il farsetto di cuoio nero portava una cotta di maglia rinforzata da piastre d'acciaio e una protezione simile a una gonna che arrivava fino alle ginocchia; le punte delle scarpe erano coperte di metallo. Nella mano destra teneva uno scudo, nella sinistra una specie di stella del mattino che, al posto delle consuete tre grosse sfere coperte di punte, aveva delle sfere più piccole su cui erano disposte delle lame a forma di corona. Il peso, la calibratura e le lame facevano scaturire sicuramente un effetto devastante. E a portare l'arma non era Balyndis. Tungdil però credeva di conoscere la nana. «Sanda?» mormorò, incredulo. «Sanda Ardentecoraggio?» «Per Vraccas! I morti tornano in vita», sussurrò il Rabbioso levando l'arma. La nana sorrise e posò il mazzafrusto nel suo sostegno. «Voi siete Tungdil Manodoro e Boïndil Duelame. Le vostre osservazioni non lasciano nessun dubbio.» Accennò un inchino. «È un onore per me conoscervi.» Tungdil fece un passo in avanti. «Sei in vantaggio, perché sai chi siamo noi.» A quel punto vide che in effetti la nana assomigliava a Sanda Ardentecoraggio, un tempo sposa di re Gemmil, ma che il volto era molto più giovane. La peluria che aveva sul volto era chiara, non si era ancora tinta d'argento e, se aveva più di quaranta cicli, non li dimostrava. Una ragazzina, anche se alta e imponente come un guerriero. Si capiva che era una Terza. «Ma tu chi sei?» La nana si tolse l'elmo, mostrando loro il suo volto gradevole e non troppo rotondo. «Io sono Goda Ardentecoraggio del clan degli Ardentecoraggio, della stirpe dei Terzi.» I suoi occhi scuri puntarono su Boïndil. «Sanda Ardentecoraggio, che è morta per mano tua, era una mia prozia.» Il volto del Rabbioso divenne bianco, dettaglio che fu ancor più sottolineato
dal nero della barba. «Pretendo soddisfazione», chiese in tono duro. «Poiché tu...» «Dov'è Balyndis, e come hai fatto a entrare?» la interruppe Tungdil, il quale trovava molto strano che sua moglie non si facesse vedere. Temeva che Goda, nella sua collera, potesse averle fatto qualcosa. «Si è coricata, sta riposando», rispose la nana. «Nelle ultime rotazioni non si è sentita molto bene.» Tornò a guardare il Rabbioso. «Come ti stavo dicendo: io pretendo soddisfazione da te, Boïndil Duelame.» Il Rabbioso la squadrò. A quel punto non considerava più un caso il fatto di essersi imbattuti in Bramdal. Quell'incontro li avrebbe dovuti mettere in guardia. «Comprendo il tuo desiderio, ma non combatterò contro di te. Sei troppo giovane e inesperta per potermi affrontare. Fa' mandare dal tuo clan un altro guerriero, oppure va', impara e torna tra una cinquantina di cicli. Allora sarò a disposizione per la tua vendetta, se Vraccas non ha altro in serbo per me e se lascerà ancora ardere il fuoco della mia fucina vitale.» La nana raccolse i capelli a coda di cavallo e li legò con un laccetto di cuoio; mentre lo faceva, i muscoli delle braccia guizzarono sotto la cotta di maglia. Scosse la testa energicamente. «Non c'è nessun altro del mio clan. Devo insistere.» «No, per Vraccas! Io non ammazzo bambini!» «Intendi negarmelo? Allora girerò per il paese, da un regno dei nani all'altro, e dirò ovunque che Boïndil Duelame si sottrae al suo dovere», lo provocò Goda. «In poco tempo, il tuo onore diventerà di nessun valore, e porterai onta su di te e sul tuo fratello morto. Sputeranno su di te e sul tuo clan. E sulla memoria di tuo fratello, che fu un eroe.» All'improvviso il vecchio fuoco avvampò di nuovo nelle vene del Rabbioso. Negli occhi brillava la scintilla di follia che si era spenta cinque cicli prima. Fece due impetuosi passi in avanti e afferrò la nana per il bavero del farsetto di cuoio. «Boïndil, no!» gridò Tungdil. «Avrai la tua soddisfazione», ringhiò a Goda, che lo guardava con un misto di trionfo e di preoccupazione negli occhi. «Qui, ora?» «Qui, ora», annuì lei, contenta. «Come chiedo io?» «Sì.» «Giuralo su Vraccas e su tuo fratello.» Il Rabbioso la lasciò andare, fece un passo indietro e sollevò l'azza. «Lo giuro su Vraccas e Boëndal», tuonò, prima che l'amico riuscisse a impedirglielo. «Tu sei responsabile di ciò che sta per accadere.»
Goda annuì dì nuovo. «Tu mi hai preso la prozia che viveva in esilio presso i Liberi, e così facendo hai ucciso il mio ultimo parente ancora in vita.» Estrasse l'arma. «Per cui è tuo dovere addestrarmi.» S'inchinò davanti a lui. Boïndil si era aspettato un attacco. Ci volle un po' prima che capisse che cosa gli stava chiedendo. «Addestrare? In cosa, per Vraccas? Ragazzina, io pensavo...» «Ho chiesto soddisfazione, e tu me l'hai garantita.» «Questa sarebbe la tua soddisfazione? Non posso farlo! Perché mai...» «Per mano tua una guerriera eccezionale è finita nella Fucina Eterna. Tu mi hai strappato la possibilità di diventare la sua erede, quindi è solo giusto che chi ha battuto Sanda ora insegni a me.» Goda era irremovibile. «Ti richiamo al tuo giuramento.» Gli si avvicinò e gli porse l'arma. «La chiamiamo stella della notte, e la so usare bene. Quello che mi manca è un maestro esperto che mi prepari alle malizie del combattimento.» Tungdil guardò il Rabbioso, sorridendo. «Adesso sai come mi è andata all'epoca con Bavragor. Mi ha imbrogliato in modo simile», disse. «Ci vediamo dentro.» Entrò nella galleria per cercare Balyndis. Voleva salutarla, stringerla fra le braccia e stupirla col suo aspetto migliorato. Per parlare con Goda avrebbe avuto tutta la sera. Boïndil osservava la nana, scoraggiato. Aveva ragione, aveva prestato giuramento. «E va bene», sospirò. «Ti mostrerò un paio di...» «No!» lo interruppe Goda. «Mi istruirai, e non smetterai prima che io sia arrivata almeno al tuo livello, esattamente come avrebbe fatto la mia prozia. E poi verificheremo con un duello a che cosa saranno servite le tue lezioni.» Sollevò la stella della notte, e le armi si toccarono con un lieve tintinnio. «In un combattimento vero, maestro.» Il nano alzò gli occhi al cielo, appoggiò a terra l'azza e si sostenne alla testa dell'arma con entrambe le mani. «Forse sono stato un buon guerriero, ma la mia arte è arrugginita. E il fatto che sia stato un buon guerriero non vuol dire di per sé che sia un buon maestro.» «Puoi dire ciò che credi, maestro. Non mi allontanerò da te fino a quando non sarà finito il mio addestramento.» Il volto della nana esprimeva tutta la decisione per cui era noto il loro popolo, unita, come se non bastasse, alla celebre testardaggine delle femmine. «Ti seguirò ovunque.» E in effetti, mentre entravano nella galleria, lei gli rimase attaccata alle caviglie, standogli a non più di mezzo braccio di distanza. «Mi lascerai mai in pace?» chiese il guerriero.
«Quando ti devi riposare, maestro», rispose la nana, contenta di essere riuscita nel suo inganno. «Quando iniziamo le lezioni?» Boïndil tornò a guardare in avanti, e un largo sorriso si aprì sul suo volto rugoso. L'avrebbe tormentata tanto che se ne sarebbe andata via di sua volontà, e così lui non avrebbe infranto il suo giuramento. «Le tue lezioni non avranno soste.» Vide una catasta di travi di sostegno che Tungdil aveva ammonticchiato con cura contro la parete del corridoio. «Vedi quelle? Le porterai l'una dopo l'altra davanti alla porta e le accatasterai», le ordinò. «Sì, maestro.» Goda non chiese nemmeno il perché di quell'incarico, ma posò arma e scudo e si mise al lavoro. Il Rabbioso prese gli oggetti. «Che cosa ti fa pensare che te ne puoi separare?» chiese, tagliente. «Un nano non lascia la sua arma chissà dove. E non la lancia mai, dico mai, se non ne ha un'altra.» Le fece un cenno col capo. «Porta via quella legna, poi potrai cominciare a cercare nella galleria.» La nana corrugò la fronte. «Cercare cosa?» Boïndil fece oscillare le sfere coperte di lame. «Questa. La nasconderò, e tu non andrai a letto prima di averla trovata.» Superò l'angolo. Non appena si trovò fuori vista, il nano ridacchiò piano. La sentì gemere mentre issava con fatica la prima trave sulle spalle, e si compiacque intimamente per la sua crudele idea, cui ne sarebbero seguite altre. Nel giro di poche rotazioni la giovane nana sarebbe sparita. Tungdil entrò silenziosamente nella camera da letto. Balyndis era coricata sotto una spessa coperta, con gli occhi chiusi e il volto seppellito per metà nel cuscino. I lunghi capelli castano scuro le facevano sembrare il volto bianco come talco; sembrava davvero debole e malata. Il nano si sedette piano accanto a lei. Mentalmente richiamò le frasi che aveva preparato, poi allungò la mano sinistra per toccarle delicatamente una spalla. «Se non sapessi che non è così, direi che sto sognando», sussurrò la nana. «Ecco che arriva un nano di bella presenza nella mia stanza.» Alzò la mano destra, aprì gli occhi e gli prese la mano. «Hai un bell'aspetto, Tungdil Manodoro. È molto che non ti vedevo così. Che cosa significa questo cambiamento esteriore?» «Non è solo esteriore.» Le baciò le dita. «Sono stato un folle. Devo ringraziare Boïndil, che mi ha riportato alla ragione e mi ha allontanato dal-
l'acquavite», disse con voce smorzata, guardandola negli occhi scuri. «Ti ho fatta soffrire nel mio dolore e nel mio senso di colpa, e mi sono comportato come...» Dovette deglutire. «... come un nano ottuso, cieco, beone, chiuso, irragionevole e divorato dal rimorso», terminò lei senza pietà. «Vorresti dirmi che eri in viaggio, hai fatto due chiacchiere col Rabbioso e che sei cambiato?» Sembrava meravigliata e incredula. «Saresti cambiato in poche rotazioni?» Tungdil annuì. «Com'è successo? Raccontamelo, così forse crederò alle tue parole.» Le raccontò di quello che era successo sull'orlo del burrone e di come il guerriero lo avesse messo di fronte a una scelta. «I muri che circondavano la mia mente sono crollati. Ho visto le cose con una chiarezza che negli ultimi quattro cicli non avevo mai avuto. Posso solo chiederti perdono», disse a bassa voce. «Credi al fatto che sono cambiato?» Quando Balyndis lo strinse fra le braccia, Tungdil pianse. L'abbracciò anche lui, la strinse forte e chiuse gli occhi. Le annusò i capelli, sentì sul naso la peluria del suo volto e ne sentì il calore sulla pelle. Rimasero così a lungo, tenendosi stretti, gustando la vicinanza l'uno dell'altra, che finalmente condividevano di nuovo. Di tutto cuore. «La nostra separazione non è solo colpa tua. Anch'io mi sono molto chiusa in me stessa, e ti ho lasciato solo», ammise lei. «Non accadrà mai più.» «Mai più.» Balyndis lo abbracciò di nuovo. Poi ne osservò a lungo il viso. «Dammi il tempo di riabituarmi al vecchio Tungdil. È troppo bello per essere vero.» «Eppure è vero», assicurò lui, sorridendo. Poi un'ombra gli oscurò il viso. «Sembri malata», disse preoccupato. «Sono gli strascichi di un'influenza», replicò lei, minimizzando. «Mi sento già molto meglio.» Lo baciò sulla fronte. «Avete già incontrato Goda?» «Ci ha molto sorpresi. E soprattutto ha sorpreso molto il povero Rabbioso.» Balyndis sogghignò. «Non gli farà male avere a che fare con una nana.» Tungdil spalancò gli occhi. «Tu sapevi che cosa aveva in mente?» «Sono stata io a consigliarglielo.» «Cosa?» Tungdil era stupefatto. «Quand'è arrivata e mi ha chiesto una sistemazione, io non sapevo chi avessi davanti. Tutte le sere chiacchieravamo a lungo, e mi disse che era
già stata sui Monti Blu, perché sperava d'incontrare te, e che tu le sapessi dire dove si trovava Boïndil. I Secondi non glielo volevano rivelare.» «Gli hai messo alle costole una bambina.» «Ha quarantaquattro cicli. Basta guardare quanto è alta per capire che non è più una bambina», lo contraddisse Balyndis, divertita. «Il Rabbioso scoprirà presto il suo fascino femminile.» «È parente di una nana che ha ucciso. A nessuno dei due verrà in mente qualcosa di tanto romantico», obiettò Tungdil. «Che cosa intendeva fare prima che tu la convincessi col tuo piano?» «Voleva uccidere Boïndil.» Tungdil si alzò, aprì le fibbie della cotta di maglia e se la sfilò; poi la depose con cura sul sostegno accanto alla porta. «Adesso non ci sarebbe riuscita, ma le cose potrebbero cambiare, una volta finita la sua istruzione.» Si tolse il farsetto di cuoio e rimase in camicia, pantaloni e stivali. «È una Terza. Col tempo conoscerà l'arte del combattimento meglio di lui. Vuoi che Boïndil muoia?» La nana intrecciò le mani e le appoggiò sulla coperta. «Non arriveranno a quello.» «E perché?» Tungdil si riavvicinò a lei. «Dimmi che cosa ti rende tanto sicura.» Balyndis fece spallucce e lo baciò di nuovo, sulla punta del naso. «Non saprei dire», ammise. «Chiamiamola un'intuizione.» «Voi nane e le vostre intuizioni», mormorò lui, dandosi per vinto. «Preghiamo Vraccas che le cose vadano come senti tu.» Guardò l'armatura. «Hai già udito che cosa sta accadendo nella Terra Nascosta?» Balyndis scosse la testa, e lui le riassunse velocemente che cosa era successo a lui e al Rabbioso e ciò che avevano sentito. «Sei sicura che Goda in realtà non sia qui per il diamante? Che cosa ti dice la tua intuizione al riguardo?» «Erano bei tempi quelli in cui si poteva incontrare un figlio del Fabbro senza dover dubitare dell'onestà delle sue parole e delle sue azioni.» La nana sospirò. «Non posso esserne sicura, ma nelle rotazioni che ha trascorso qui non l'ho mai sorpresa in comportamenti che sembrassero sospetti.» Gli accarezzò il mento barbuto. «La pietra è ancora lì dove l'abbiamo nascosta.» Tungdil sorrise. «Vado a controllare.» «Io preparo qualcosa da mangiare. Per come conosco te e soprattutto Boïndil, avrete una fame straordinaria.» Balyndis si alzò, si mise un semplice scialle di lana sulla camicia da notte e s'infilò negli stivali. «La cena
sarà pronta tra poco, per cui non restare a lungo col tuo tesoro.» «Il mio tesssoro...» sibilò il nano, imitando la postura di un avido gnomo. Poi rise, e uscirono dalla stanza mano nella mano. Dopo aver percorso un paio di corridoi secondari, si separarono. Tungdil prese una lampada a olio dalla parete e raggiunse la parte della galleria in cui un tempo venivano istruiti gli allievi di Lot-Ionan. La maggior parte dei portoni di quercia si trovava ancora al proprio posto. Dietro di essi gli aspiranti maghi avevano seguito le loro lezioni, sperando di poter ereditare il regno incantato del maestro. Ormai non vi era più niente di tutto ciò. Niente magia, niente regno incantato. Niente Lot-Ionan. Tungdil entrò nel laboratorio. In quella stanza gli era stato fatto un brutto scherzo, che aveva causato l'incendio di gran parte dell'arredo: le boccette coi filtri, i crogioli coi balsami, le fialette di estratti ed essenze, l'intera costosa scorta di ingredienti per gli esperimenti più disparati si erano mescolati in un'unica pericolosa massa; dopo la potente esplosione, non era rimasto quasi nulla dei macchinari, degli scaffali, dei tavoli e dei banconi. E l'aspetto della stanza non era cambiato da allora. Il nano camminò sulle schegge e sui cocci, facendoli scricchiolare, fino a raggiungere il grande mucchio di vetri infranti che un tempo era stato un costoso impianto di distillazione. Tungdil si accovacciò e vi rovistò un po' dentro. Trovò il diamante solo dopo una lunga ricerca, perché i detriti luccicanti lo occultavano alla perfezione. Chiunque ignorasse che si trovava lì non lo avrebbe mai scovato. II nano si godette il fuoco freddo che ardeva nelle sfaccettature della pietra, e che riusciva ad ammaliargli il cuore. La rigirò, in modo che la luce della lampada si rifrangesse meglio, gettando riflessi sulle scure pareti. Continuando a tenerla in mano, attese che la pietra in qualche modo gli rivelasse se si trattava di un diamante o del più potente artefatto magico della Terra Nascosta. E, come al solito, attese invano. Rimise la gemma nella montagna di cocci e ve la seppellì. Terra Nascosta, Monti Marroni, regno dei Quarti, 6241° ciclo solare, inizio estate Nel largo pozzo un fischio acuto rimbombò verso l'alto, e subito dopo
suonò la campanella dell'elevatore. Il locale era completamente occupato da una schiera di argani, ghiere, volani e pesi di tutte le misure possibili, fatta eccezione per una singola nicchia. In quella nicchia trovava posto l'addetto ai montacarichi. Ingbar Occhiodonice del clan dei Mutapietra, che stava assolvendo al suo compito di elevata responsabilità, aveva capito il segnale. «Si comincia!» gridò giù per il pozzo. Le sue mani mossero diverse leve di ferro, togliendo le chiavette che frenavano ruote e pulegge; i meccanismi, così liberati, si misero in movimento con un ronzio. Le parti rotanti della costruzione scatenavano una corrente d'aria che odorava di olio e grasso lubrificante, e la forza dei contrappesi tirava in alto il montacarichi senza che nessuno dovesse tendere un muscolo. In quel modo si potevano issare centinaia di libbre senza fatica. Il nano chiuse gli occhi e vagliò attentamente i rumori, poi prese dell'olio e ne diede un po' in alcuni punti degli ingranaggi. Odiava lo sfregare del metallo contro il metallo. All'improvviso si udì un rumore che l'addetto non aveva mai sentito nei suoi turni di lavoro, e l'elevatore si fermò. «Ma che sta succedendo?» borbottò Ingbar, e controllò le parti del montacarichi potenzialmente più soggette a guasti, senza però trovare nulla: le ruote dentate erano sane, le catene intatte e gli argani non erano in nessun modo usciti di sede. Il nano si avvicinò al pozzo. Molto più sotto scorse un debole bagliore proveniente dalla gabbia di estrazione; si trovava ancora a cinquanta passi buoni di distanza. «Ehi, voi! Non è che vi si è incastrata la carrucola?» tuonò nell'abisso. In risposta, la campanella suonò impazzita. Venne scossa molte volte, suonando acuta e forte; poi il filo si spezzò, e la campanella tacque. «Ehi, che state facendo?» gridò Ingbar, preoccupato. Una scossa attraversò la catena, che si rilassò per poi tendersi di nuovo sino a far gemere il ferro, perché il carico doveva essere aumentato. «Siete impazziti? State ballando nella gabbia?» Il nano guardava la catena, che si muoveva lentamente all'indietro; il montacarichi stava scendendo. Tornò alle leve e fece scattare i freni. «Siete troppo carichi!» gridò. «Gettate dei detriti, altrimenti può...» Il primo freno si ruppe con fragore. I perni di sostegno saltarono l'uno dopo l'altro sibilando, e attraversarono la stanza volando come proiettili appuntiti. Uno di essi perforò la cotta di maglia di Ingbar all'altezza della coscia. La catena si srotolava lentamente, rimandando il montacarichi e i
suoi passeggeri in profondità. «Maledetta...» Ingbar si teneva la ferita sanguinante. Se ne sarebbe occupato più tardi, prima doveva impedire che gli operai incontrassero la morte. Zoppicò verso le rampe in cui erano stivati i contrappesi aggiuntivi. Potevano essere appesi alle carrucole in caso di carichi particolarmente pesanti, ma nessuno aveva mai tentato quella manovra con l'elevatore in azione. Ingbar conosceva molto bene quell'impianto, ne padroneggiava le caratteristiche e le complicazioni. Unì i pesi aggiuntivi con una lunga catena, vi fissò un massiccio gancio e lo infilò nella catena di un argano che ancora girava piano. L'uncino fece presa. La catena si tese stridendo e tirò a sé i nuovi pesi. La zavorra fece svolgere la catena più lentamente, fino a che l'elevatore non si fermò. «Tutto bene, laggiù?» chiese nel pozzo. La gabbia coi lavoratori si trovava cento passi più sotto, se leggeva correttamente le tacche sulla catena. Si erano fermati proprio davanti all'accesso di un tunnel. «Bene», gridò. «Scaricate dei detriti, o fate scendere qualcuno di voi. Altrimenti non si muoverà più.» Il nano attese un po', finché non fu sicuro che avessero seguito le sue indicazioni, poi sganciò i contrappesi e azionò l'elevatore in modo tale che il montacarichi arrivasse finalmente in cima. Per poterlo frenare prese una lunga sbarra di ferro e la mise sulla ghiera più piccola, perché facesse resistenza; all'arrivo della gabbia, la bloccò completamente. La risalita, alla fine, era riuscita. «C'è mancato poco...» Ingbar si stupì di vedere le luci spente. Le poche lampade che illuminavano la stanza non bastavano a rischiarare l'interno della gabbia. La porta di ferro si aprì sferragliando. «Chiuderò il pozzo finché non saranno stati cambiati i freni. Che cosa...?» Ciò che vide lo fece ammutolire. Dall'elevatore uscivano figure gigantesche. Erano armate fino ai denti, portavano mazze di ferro e scudi con simboli sconosciuti. Ma uno sguardo ai grossi volti dalle zanne sporgenti bastò al nano per capire chi si stava avvicinando: mezz'orchi! «Alle armi!» gridò estraendo l'ascia. «Pelleverde!» Prima di quanto si aspettasse, qualcosa volò verso di lui e lo colpì sulla fronte, facendolo crollare a terra. Stordito, gli sembrò che un mezz'orco dagli occhi rosa si chi-
nasse su di lui, gli palpasse il cranio e poi sparisse. Quando Ingbar tornò in sé, era ancora nel locale. Sentiva sferragliare le catene. Si mise seduto, gemendo, e si toccò il bernoccolo; accanto a lui c'era un sasso tondeggiante. I mezz'orchi dovevano averlo creduto morto, altrimenti non lo avrebbero lasciato così. Di norma non si lasciavano alle spalle nani vivi. Numerosi passi si affrettavano lungo il corridoio che conduceva nella stanza, e alla luce delle torce comparve un gruppo di nani in tenuta da battaglia. «Ingbar! I Pelleverde erano qua?» chiese uno di loro, agitato. «Sono saliti fin qua, ma non so....» Guardò verso la gabbia. Non c'era più! «Guardate, stanno scendendo!» Il guerriero lo guardò con aria feroce e lo aiutò ad alzarsi. «Allora riportali su.» Ingbar zoppicò fino all'elevatore, bloccò alcune ghiere e riagganciò i pesi aggiuntivi. I mezz'orchi dovevano aver fatto un ricco bottino nella loro incursione nei Monti Marroni, a giudicare da quanto era carico l'elevatore. «Che cos'è successo?» «Speravamo che tu potessi rispondere a questa domanda», replicò il guerriero. I suoi compagni si schierarono a semicerchio davanti al pozzo, con le balestre tese, per investire i nemici con una grandine di dardi. «I mezz'orchi sono comparsi dal nulla, hanno colto di sorpresa le nostre sentinelle e hanno rubato il diamante.» «Quel diamante?» chiese Ingbar, terrorizzato. «Che se ne fanno?» Uno dei guerrieri guardò in fondo al pozzo. «Ancora venti passi e sono su», annunciò. «Non lo sappiamo. Hai notato qualcosa di strano?» chiese il nano. «No, non...» Ingbar esitò. «Sì, invece! Uno di loro aveva gli occhi rosa.» Raccontò loro brevemente quello che era successo. «Quando mi sono ripreso, siete subito arrivati voi.» Tacque, vedendo che la gabbia era risalita. La porta rimaneva chiusa; a quanto pareva, i mezz'orchi non osavano uscire. «Fatevi vedere, vigliacchi!» li sfidò il guerriero. «Non potete sfuggirci.» Poiché non succedeva niente, mandò uno dei suoi ad aprire la porta di ferro. In quel momento Ingbar capì che cosa lo aveva turbato: la gabbia era troppo pesante! Qualunque cosa si trovasse all'interno, non potevano essere i mezz'orchi, perché poco prima li aveva tirati su col solito contrappeso. In quel momento invece stava impiegando anche i pesi aggiuntivi. E nes-
sun diamante della Terra Nascosta era così pesante. Il nano cui era stato dato l'ordine aveva raggiunto la porta della gabbia; tolse il blocco e la scostò di una spanna. Dall'apertura fece capolino un aggressore d'acciaio, che spalancò completamente la porta. Con un sibilo, una nuvola di vapore bollente investì i nani, colti alla sprovvista. Quella nebbia umida e caldissima bruciava i polmoni e gli occhi; gocce di vapore si formarono istantaneamente sulle armature. Si sentì stridere e sferragliare, poi dei dardi fendettero l'aria, colpendo diversi nani. Morti e feriti caddero a terra. «Indietro!» gridò Ingbar. Aveva capito che cosa c'era nel montacarichi. Ormai in tutti i regni dei nani si sapeva delle macchine mortali che davano la caccia ai figli del Fabbro nelle loro gallerie. Erano molte macchine, più di una dozzina, quello era certo. E il nano sapeva pure che c'erano poche speranze di battere quei marchingegni. La nebbia si diradò, permettendogli di distinguere almeno i suoi immediati dintorni. «La rimando giù prima che lasci la gabbia», tossì nel denso fumo. Sganciò i pesi dall'argano e allungò la mano verso la sbarra di ferro che bloccava la ghiera principale. Dalla nebbia uscì un'ombra mostruosa. Era accanto a lui. Una tenaglia di ferro scattò verso il nano, afferrandone il braccio sinistro. Ingbar venne sollevato come un burattino e sbattuto contro il soffitto. Si sentiva come nelle fauci di un drago di ferro. Dall'alto scorse il retro della macchina, che era corazzato come la parte anteriore. I nani l'assaltavano con coraggio, ma essa avanzava sopra i morti e i feriti. Ingbar vide la sbarra di ferro scivolare sotto la ruota dentata e venirne schiacciata. L'elevatore cedette al peso della gabbia, poiché non c'era nessun contrappeso, e la gabbia sprofondò nel pozzo. Argani, ghiere e meccanismi presero a muoversi sempre più velocemente, mentre la catena si svolgeva con fragore. Il piano di Ingbar tuttavia era fallito: il mostro meccanico aveva già lasciato la gabbia. Il marchingegno scosse ancora il nano, poi lo scagliò via. Aveva mirato bene. Ingbar volò attraverso le carrucole, sbatté contro una catena in corsa e atterrò sotto una potente ruota dentata, che lo fece a brandelli insieme con la cotta di maglia. Terra Nascosta, regno di Gauragar, Porista, 6241° ciclo solare, inizio estate
Il principe Mallen sedeva nella sua stanza, al piano più alto della casa che era stata destinata a lui e al suo seguito. Attraverso la finestra osservava le gru dei cantieri del nuovo palazzo girarsi, issare e scaricare. I carri carichi di pietre viaggiavano senza sosta sulle strade, e l'esercito dei muratori aumentava senza sosta. Il vento portava a Mallen i rumori della ricostruzione: tonfi, strepiti, seghe, martelli e canti, intramezzati dai forti richiami degli operai. Re Bruron non perdeva tempo. Lo spazio sgombro al centro di Porista doveva essere rapidamente riempito con uno splendido edificio che superasse l'opulenza della dimora di Nudin. Erano previsti cinque torri e tre barbacani di altezza crescente, collegati da edifici più piccoli. Il capo architetto aveva preventivato cinque cicli di lavoro, e la pietra angolare era stata già posta. Mallen si alzò e vide le punte dei pali che sostenevano la gigantesca tenda di tela bianca che si ergeva nel centro dello spiazzo, dove si sarebbero incontrati quel mattino le regine e i re. Bruron voleva che i potenti si adunassero lì dove un tempo aveva origine il più grande potere della Terra Nascosta. Dove un tempo si trovava la fonte di energia magica vi era ormai la concordia dei sovrani: era un segno indirizzato al popolo. Mallen scelse un mantello leggero, che si gettò sull'abito rosso chiaro, e uscì dalla porta. La sua guardia reale, che era in attesa, si unì a lui, e in sella attraversarono le animate strade della città. La gente faceva largo. Si aveva grande rispetto dei sovrani stranieri e si considerava un grande onore poterli ospitare. Il principe era silenzioso, e non reagì alle acclamazioni. Stava ripensando, come faceva spesso, a ciò che era accaduto a Güldengarb; sentiva la mancanza del suo fidato commilitone Alvaro, di cui aveva esaminato con maggiore cura il cadavere. Era stato un taglio lungo la gola a togliere la vita all'uomo, e a produrre il taglio non poteva essere stata quella creatura terribile; il principe ne era assolutamente convinto. Da quel momento non voltava più le spalle a Rejalín, né ad altri elfi. Nelle lettere che aveva scritto agli altri sovrani aveva taciuto la questione delle rune elfiche; prima voleva discuterne a quattr'occhi col principe Liútasil. Col suo seguito raggiunse la tenda, e alcuni paggi li circondarono per occuparsi dei cavalli dei nobili ospiti. Il principe entrò nell'ariosa struttura, adorna di panni di seta e nastri dipinti. Ci dovevano essere volute intere rotazioni per portare lì gli arredi - il lungo tavolo, le pesanti sedie, gli armadi - e per sistemarli in modo che
sembrassero solidi sebbene si fosse in una tenda. Incontrò un uomo in decoroso abito nero. Gli occhi sporgenti e i corti capelli neri, in alcuni punti già diradati, gli fecero capire che si trattava di re Ortger dell'Urgon. Gli si avvicinò e gli strinse la mano. «È un piacere rivedervi», disse per salutare il giovane sovrano. «L'ultima volta che ci siamo incontrati è stato alla festa per i miei primi tre cicli di regno», replicò Ortger annuendo, palesemente contento di vedere il biondo Ido, con cui si era subito trovato in confidenza. «Il motivo per cui c'incontriamo oggi è assai più preoccupante.» «Ho sentito che siete stato anche voi vittima di uno di quei mostri.» Mallen sciolse la stretta e si sedette di fronte a Ortger. Dei servitori portarono acqua e vino per poi ritirarsi subito con discrezione. «Non vorrei anticipare la riunione, ma mi potreste raccontare che cosa vi ha fatto visita?» «Una creatura completamente diversa rispetto a quella che avete descritto nel vostro dispaccio», rispose il giovane re, facendosi animo con un sorso di vino. «Un mostro di tionio, nero come il male e forte come dieci buoi, e insidioso come un nido di draghi. Dentro di esso stava una creatura che ci guardava attraverso uno spesso strato di vetro.» Ortger trasse un disegno dalla borsa che stava per terra accanto a lui. «Alcuni dicono che avesse delle ali di ferro, altri che sia salito in cielo cavalcando una fiamma e che si sia trasformato per magia in una nuvola nera. Ecco, questo era il suo aspetto.» Re Nate, vestito con un abito verde scuro ricamato con spighe stilizzate, entrò nella tenda. «I miei saluti. State già lavorando?» Accennò un inchino davanti ai due uomini e si mise a fianco di Ortger per osservare il disegno. «No, non assomiglia minimamente alla creatura che mi ha strappato il diamante e tre dita», disse dopo un esame approfondito. Stava per aggiungere qualcosa, ma s'interruppe perché stavano facendo il loro ingresso gli altri sovrani. I saluti durarono a lungo e presero molto tempo. Mallen avrebbe voluto pregarli di prendere posto per cominciare subito i colloqui. Il suo umore non migliorò quando si unirono al cerchio due elfi vestiti di semplici abiti bianchi, presentandosi come Vilanoîl e Tiwalún. Erano giunti a Porista per ordine del principe dell'Âlandur per portare le sue scuse e rappresentarlo. La circostanza offrì a Mallen un'occasione per sfogare il suo malumore. «Per quale motivo Liútasil non è presente?» chiese ad alta voce, precedendo così Bruron, che era il padrone di casa. «Non ci stiamo incontrando per
sollazzo, ma per discutere di questioni importanti, che avrebbero sicuramente giustificato la presenza del principe degli elfi.» Gli altri sovrani lanciarono uno sguardo tra il meravigliato e il corrucciato; il tono tagliente usato da Mallen nei confronti dei due delegati non era per loro giustificato. Il principe suppose che il loro atteggiamento fosse interessato. Per come la vedeva lui, temevano che le conoscenze degli elfi potessero essere loro negate a causa della sua scortesia. «E dove sono i nani?» intervenne re Nate, spezzando così una lancia in favore degli elfi. «Questo posso spiegarlo io», disse re Bruron alzando la mano. «L'imperatore Gandogar mi ha fatto sapere che anche loro hanno indetto un'assemblea delle loro stirpi per discutere di ciò che sta accadendo nelle loro caverne. Poi giungeranno a Porista, a quanto ha scritto. Ma un loro legato è già in viaggio.» «Per simili motivi dovrete rinunciare alla presenza del mio signore», spiegò Tiwalún accogliendo la giustificazione con un sorriso. «Anche noi stiamo proprio adesso discutendo alcuni avvenimenti nell'Âlandur.» S'inchinò ancora una volta, e Vilanoîl lo imitò. «Mi scuso di nuovo per questa difficoltà.» «Perdonate il principe Mallen», lo pregò re Nate guardando di sottecchi il biondo Ido. «Nell'attacco alla mia fortezza ha perso uno dei suoi uomini più cari. È il lutto a opprimergli l'animo e a farlo parlare in modo ingiusto.» «È molto gentile da parte vostra parlare per me, ma ciò che ho detto non ha niente a che fare con l'ingiustizia di cui mi accusate», replicò Mallen. «Bensì col valore di questa assemblea.» «È da quell'attacco che tende a trattare il popolo dell'Âlandur con la stessa diffidenza mostrata dal commilitone che ha perduto», proseguì Nate. «Comprendo.» Tiwalún annuì in tono dispiaciuto, guardando Mallen. «A voi le mie più sincere condoglianze, principe.» Un messo entrò porgendo uno scritto a re Bruron, per poi indicare l'ingresso della tenda. «Sono molto lieto che vi sia riuscito di arrivare da noi così presto, Glaïmbli Occhiorubino del clan degli Occhiorubino, della stirpe dei Quarti», disse il re salutando il nano che stava sulla soglia. «Siate benvenuto e prendete posto al nostro tavolo. Stiamo giusto ritornando al vero motivo del nostro incontro», aggiunse in fretta, prima che Mallen rispondesse all'elfo in modo provocatorio. «Vi ringrazio, re Bruron.» Il nano s'inchinò di fronte al re e agli altri pre-
senti nella tenda. La sua armatura di piastre brillava linda come un vassoio d'argento appena lucidato; i capelli castano scuro e la lunga barba sembravano molto curati. Doveva essersi rinfrescato prima di presentarsi all'assemblea. Mallen, che conosceva abbastanza i nani, notò subito che aveva un Quarto davanti a sé. Lo dimostravano la sagoma relativamente aggraziata e le dita sottili, e comunque le gemme che rilucevano sull'armatura sarebbero bastate a mettere il principe sulla traccia giusta. «Vi porto i saluti dell'imperatore Gandogar e il suo rammarico per il fatto che lui e gli altri inviati delle stirpi dei nani, come pure quelli delle cinque città dei Liberi, potranno essere a Porista solo tra qualche rotazione. Fino a quel momento sarò io a rappresentarli.» Prese posto, mentre lo si accoglieva con cortesi cenni di capo. «Cominciamo, dunque.» Bruron guardò i convenuti. «Ciò che è accaduto è molto inquietante. Cinque diamanti sono stati rubati o sono scomparsi.» A un suo cenno i servitori portarono una grande mappa della Terra Nascosta. «Il Tabaîn, il Rân Ribastur, l'Urgon e le stirpi dei Terzi e dei Quarti sono stati derubati delle loro gemme. Almeno per quanto riguarda il Tabaîn e l'Urgon, sappiamo che la rapina è stata condotta da creature che non erano mai state viste prima; neppure nei cicli in cui la Terra Estinta esercitava la sua influenza sui nostri regni. Inoltre mi è giunta notizia che il diamante dei Quarti è stato rubato da mezz'orchi.» Batté una mano sulla mappa. «Mezz'orchi! Da cinque cicli, dopo la Stella del Giudizio, simili creature non venivano avvistate. Quale mistero si cela dietro tutto ciò? Qualcuno ha un'idea?» «Le creature di fronte alle quali ci siamo trovati Ortger e io sembravano incroci di mostri differenti. Usavano la magia e sulle loro armature si leggevano rune simili a quelle usate dagli albi», riferì re Nate. «Tutto sembra suggerire che si tratti di mostri originari della Terra dell'Aldilà, i quali hanno trovato in qualche modo una via d'accesso alla nostra patria.» «I passaggi sono custoditi e protetti», obiettò Mallen. «Non sarebbero mai riusciti a sfilare davanti alle asce dei nani.» Glaïmbli annuì immediatamente. «Forse non son passati davanti», intervenne Tiwalún. «Quando non si riesce a superare un ostacolo, si può sempre scavare sotto di esso.» Ortger annuì. «Anch'io ho pensato a una cosa del genere. Nella Terra Nascosta non esiste più il male, a parte la viltà di qualche Terzo, a quanto mi si racconta.» Guardò Glaïmbli coi suoi occhi sporgenti, attendendo
spiegazioni. «Non so quanto mi è concesso anticipare di ciò che dirà il mio signore», disse il nano. «Ah, dunque debbo avervi frainteso quando diceste di essere il suo rappresentante, Glaïmbli Occhiorubino.» Tiwalún si mostrò dubbioso. «Certo che lo sono. Ma non spetta a me spiegare ogni cosa. Ci sono affari di cui può parlare solo l'imperatore.» Glaïmbli incrociò le braccia sul petto, in un evidente segno di rifiuto. Sembrava un piccolo baluardo di ossa e muscoli, l'incarnazione della nota ostinazione dei nani. La regina Isika, una donna di mezza età dal volto pallido e con lunghi capelli neri, che amava abiti sfarzosi, si sporse verso Mallen. «Principe, siate gentile e spiegate al nostro amico quanto spiacevole è la situazione. Voi sapete trattare coi nani meglio di me.» Mallen si sporse in avanti, le braccia appoggiate al tavolo. «Vedete, Glaïmbli, stiamo cercando di scoprire che cosa lega gli eventi delle ultime rotazioni. Se voi potete contribuire in qualche modo, fatecelo sapere, per favore. I dettagli li riferirà certo il vostro imperatore.» Guardò il nano negli occhi. «Ve ne prego, metteteci a parte di ciò che sapete.» Glaïmbli si agitava sulla sedia. Lo metteva a disagio l'essere guardato da tanti occhi e alla fine incassò la testa, una reazione ben nota per un nano. «I Terzi ci hanno di nuovo dichiarato guerra. Con delle macchine», rivelò senza accorgersi del sorriso di scherno degli elfi. «Macchine?» chiese re Nate, stupito. «Questa mi giunge nuova. Che tipo di macchine?» «Congegni che si muovono attraverso i nostri tunnel e attaccano la nostra gente. Non dirò di più. Dovrete attendere l'imperatore.» Glaïmbli incassò la testa ancora di più. Il suo sguardo sprizzava caparbietà; a quel punto non avrebbe davvero raccontato nient'altro. «Anche a me giunge nuova», disse la regina Isika, emozionata. «Se uniamo queste informazioni a quanto abbiamo già sentito, si può concludere che i Terzi hanno fatto lega con queste orribili creature del male.» Re Bruron la guardò. «Come fate a concludere una cosa del genere?» Gli occhi azzurri della donna si volsero verso il nano, ostinatamente silenzioso, poi su Mallen. Pensava di ottenere più in fretta da lui una qualche dichiarazione. «Voi conoscete molto bene i Terzi, principe, visto che vi avvalevate dei loro servigi contro i mezz'orchi. Quanto può essere grande la loro sete di vendetta?» «Hanno sempre odiato le altre stirpi e attentato alle loro vite, ma la dife-
sa della Terra Nascosta, a quanto posso giudicare, ha sempre avuto la priorità rispetto a questo desiderio», rispose Mallen. «Ricordate che re Lorimbas voleva annientare tutti gli altri nani e farsi carico della difesa di tutti i passi?» «Io non sto parlando dell'odio verso gli altri nani.» La regina guardò gli astanti. «Parlo dell'odio verso di noi, gli umani.» Rivolse il pallido volto severo a Ortger. «Attaccando i Monti Neri, il folle Belletain ha quasi interamente distrutto i Terzi.» Il suo sguardo tornò su Mallen. «Principe, li ritenete capaci di scavare un nuovo tunnel verso l'esterno per portare segretamente dei mostri nella Terra Nascosta, in modo da far cadere la rovina sulla nostra patria?» «Se così fosse, in uno dei regni marcerebbe già da tempo un esercito di mezz'orchi.» Tiwalún non aveva levato gli occhi di dosso a Glaïmbli, e aveva visto bene che il volto barbuto del nano aveva sussultato in modo eloquente alle parole di Isika. «Benché prima abbiate giurato di non raccontare più nulla, Glaïmbli Occhiorubino, v'invito caldamente a rivelare ciò che state trattenendo dietro i denti», disse a voce bassa, ma in modo che tutti lo sentissero. «Vi prego, ditecelo, di modo che le nostre congetture ci aiutino a tenere il male lontano dalla Terra Nascosta!» «No», fu l'ostinata risposta di Glaïmbli. Bruron inspirò profondamente. «Voi potete essere anche solo un rappresentante dell'imperatore, ma siete responsabile dei destini di uomini ed elfi. Vi prego, per Vraccas, Palandiell e Sitalia: parlate!» E il nano rivelò ancora qualcosa, dopo aver guardato verso il principe Mallen. «Dopo l'attacco dei mezz'orchi siamo stati di nuovo assaliti da una delle macchine dei Terzi», raccontò imbronciato. «I mezz'orchi l'hanno messa nell'elevatore per coprire la propria ritirata.» Glaïmbli fece una smorfia. «L'imperatore Gandogar ritiene che i mezz'orchi e i Terzi lavorino fianco a fianco. Hanno posto campo oltre la Porta di Pietra, nella Terra dell'Aldilà, e da lì lanciano i loro attacchi. Di creature con rune albiche sulle armature non ne abbiamo ancora viste.» «Dunque i Terzi si sono rivolti contro noi tutti e non più solo contro le altre stirpi dei nani.» Tiwalún fece una faccia molto preoccupata, e Vilanoîl aveva uno sguardo afflitto. «Quali sono stati i provvedimenti di Gandogar contro i traditori annidati nelle sue stesse file?» «Quei traditori si trovano fuori dalla Terra Nascosta», ribatté il nano guardandolo con ostilità.
«Questo non lo credo», replicò l'elfo con studiata cortesia. «I Terzi avevano spie in tutti i regni dei nani. Perché queste spie non dovrebbero più esserci? Certo, negli ultimi cicli tra le stirpi regna la pace, o qualcosa di simile. Ma io sono d'accordo con la regina Isika: chi ci dice che i Terzi segretamente non mirino ad aprire tutte e cinque le porte e a sommergere così la Terra Nascosta coi mostri di Tion?» «La vendetta dei nani...» mormorò Ortger. «Se mai esiste, sarebbe la vendetta di Terzi folli, e non dei nani», lo corresse Mallen, prima di rivolgersi agli elfi. «E voi state esagerando con le vostre paure, Tiwalún», lo ammonì. «Si potrebbe pensare che soffriate di manie di persecuzione.» «Ah, sì?» L'elfo sorrise con distacco. «Un po' di 'manie di persecuzione', come le chiamate voi, principe Mallen, gioverebbero a noi tutti. Io temo il peggio, se mi si dice che i Terzi si sono alleati coi mezz'orchi della Terra dell'Aldilà per rubare i diamanti.» «Ha ragione. Gandogar deve setacciare il suo grano e separare il grano dalla gramigna.» Sorridendo, Isika aggiunse: «Per dirla meglio: separare l'oro vero da quello falso. Saremo sicuri solo quando darà la caccia ai Terzi che si nascondono nelle altre stirpi». «E come dovrebbe fare?» intervenne Glaïmbli. «Interrogatori? Indagini? Torture?» propose con solerzia Vilanoîl. «Prima si trovano le spie e le si rende inoffensive, meglio è per uomini, elfi e nani.» Mallen trattenne il respiro, perché vedeva il nano diventare rosso di collera mentre Isika, Nate e Ortger annuivano alla proposta. «Ci state proponendo seriamente di alzare la nostra mano su dei nani che potrebbero essere innocenti?» tuonò Glaïmbli rivolto all'elfo. «Può darsi che il vostro popolo proceda in una simile maniera, ma noi, i figli del Fabbro, non lo faremo di certo.» «Lasciate questa decisione all'imperatore», lo rimproverò Isika. «Avete detto voi stesso di essere solo un rappresentante. Noi occupiamoci di un'altra questione: che cosa intendono fare i Terzi e i mezz'orchi coi diamanti?» Sorseggiò un po' del suo vino, ignorando il nano, che la stava trafiggendo con lo sguardo. Mallen aveva sempre più l'impressione che gli elfi volessero minare la pacifica convivenza dei popoli e creare spaccature nella comunità dei nani. Con Nate, Isika e l'inesperto Ortger l'operazione stava già riuscendo. La diffidenza di Alvaro nei confronti di quella razza orgogliosa gli sembrava
sempre più giustificata. «Conoscono le proprietà di una delle pietre. Eppure non è mai esistito un nano che mostrasse la più vaga predisposizione all'utilizzo della magia», disse Tiwalún. «Correggetemi se sbaglio, Glaïmbli. Col potere che alligna in quella pietra, i Terzi non sarebbero in condizione di concludere alcunché. Per non parlar degli ottusi mezz'orchi.» «Inoltre abbiamo a che fare con quelle terribili creature armate di tionio», ricordò re Nate. «E, per Palandiell, se loro non sono in grado di usare la magia, chi altro potrebbe conferire loro quel potere?» «Quindi cercano il diamante per... appropriarsi del potere?» Ortger indicò la mappa. «Non esistono più i campi magici, per cui anche queste bestie provengono dalla Terra dell'Aldilà. Come sono arrivate qui e come possono aver saputo dei diamanti? Sono in grado di percepire la magia?» «No. Altrimenti non avrebbero sprecato il loro tempo rubando le pietre sbagliate.» Anche Mallen assaggiò il suo vino. Sperava che l'effetto dell'alcol lo calmasse. «Se non altro, questo è certo: nessuno dei tre gruppi si è appropriato del diamante in cui l'Eoîl ha catturato il potere.» Un servitore con le insegne dell'Idoslân entrò nella tenda e si avvicinò al principe, gli porse una lettera e attese che la leggesse. Gli occhi di Mallen scorsero le righe e, quando ebbe finito, vuotò il suo bicchiere. «A quanto pare il male non s'interessa solo dei diamanti», disse ad alta voce posando la lettera sul tavolo. «Uno dei miei villaggi è stato raso al suolo. Nessuno è sopravvissuto: la gente è morta bruciata nelle proprie case. Perché abbiano attaccato quel villaggio mi è al momento ignoto. Il comandante della guarnigione più vicina riferisce di tracce che fanno pensare a mezz'orchi, e ha mandato esploratori nelle caverne del Toboribor.» «Le caverne non erano ormai vuote?» chiese re Nate, meravigliato. «Non avete fatto controllare ogni passaggio?» «Sì, cinque cicli fa. Dal momento che i mezz'orchi si sono cercati una nuova strada per la Terra Nascosta, potrebbero aver scoperto le loro vecchie tane.» Mallen si alzò. «Perdonatemi, devo scrivere alcuni dispacci per i miei soldati.» «La cosa migliore è aggiornare ulteriori colloqui all'arrivo dell'imperatore Gandogar», propose re Bruron. «Nel frattempo potremo riflettere ulteriormente sui fatti accaduti. Se qualcuno lo desidera, sarò lieto di mostrargli i cantieri del mio nuovo...» «Propongo di raccogliere i diamanti rimasti in un unico luogo e di pro-
teggerli col più grande esercito che la Terra Nascosta sia in grado di radunare.» Era stata la regina Wey, una donna di circa cinquanta cicli in un lungo abito scuro ornato da innumerevoli diamanti, a levare la propria voce stupendo tutti i presenti con la sua proposta. Non apparteneva alla cerchia dei sovrani classificati come versati nelle faccende militari. «A quanto sembra, i singoli popoli non sono in grado di custodire le pietre. Perché non dare tutti un contributo? Poniamo le gemme all'interno della nostra fortezza più potente, circondata da macchine da guerra e migliaia di soldati. Nessuno riuscirà a rubarle. Singolarmente sono un facile bottino.» Re Nate annuì subito. «Proposta eccellente, regina Wey!» «Davvero», la lodò Isika. «Saremmo dovuti arrivarci subito, cara sorella.» L'appellativo non stupì nessuno. Le due regine, che non si assomigliavano per niente, si rivolgevano l'una all'altra chiamandosi «sorella» per dimostrare la loro amicizia. Isika alzò la mano. «Io sono d'accordo.» Tutti i sovrani si unirono a lei. Per contro, Glaïmbli e gli elfi non si mossero. «Dobbiamo attendere Gandogar», si limitò a mormorare il nano. Tiwalún e Vilanoîl promisero d'informare il loro principe e di riferire la sua decisione. «Quando Gandogar sarà arrivato, avrà deciso anche Liútasil», disse Tiwalún. «Ora sarei ben lieto di vedere i progressi nella costruzione del vostro palazzo. I vostri architetti hanno fatto buon uso dei nostri consigli, re Bruron?» Mallen li superò, raggiungendo in fretta il suo cavallo. Stava riflettendo. Nel suo regno non si era ancora fatta vedere una delegazione di elfi che volesse discutere con lui riguardo allo scambio dì conoscenze. Era invece palese che Bruron traeva già vantaggio dalle conquiste dell'Âlandur. Dopo il suo scontro con Rejalín, il principe dubitava che l'Idoslân fosse ancora candidato per un simile privilegio. Per tale motivo fu ancora più sorpreso di trovare, una volta tornato nei suoi alloggi, una lettera di Liútasil che annunciava l'arrivo di una delegazione di elfi. Mallen non era però sicuro di volerla nel suo regno. VII Terra Nascosta, regno di Idoslân, 6241° ciclosolare, inizio estate Tungdil giaceva accanto a Balyndis, fissando il soffitto. A dire la verità,
fissava le tenebre e sapeva che sopra di lui c'era il soffitto. Non faceva nessuna differenza. Avrebbe potuto fissare un fuoco, il sole o un abisso. Rifletteva. Senza sosta e così profondamente che, nonostante lo sfinimento che aveva in corpo, non riusciva a dormire. Qualcosa non andava. La gioia di aver rivisto Balyndis non era passata, ed erano autentiche le parole e le tenerezze che si erano scambiati di nuovo dopo tanto tempo. Eppure, tutto ciò che faceva e diceva aveva un sapore strano. Era come una primavera imperfetta, una primavera senza fiori: il verde era tornato, ma mancavano il tripudio di colori e il profumo. E, poiché si sentiva assurdamente scontento e non realizzato, si odiava. Stava distruggendo il nuovo idillio tra lui e Balyndis senza il minimo motivo. Nei cicli passati aveva pensato che quel sentimento fosse il senso di colpa per la morte di suo figlio. Non era così. Si alzò silenziosamente, per non svegliare la nana, s'infilò la camicia da notte e uscì dalla camera da letto. Camminò lentamente per la galleria, e neppure lì riuscì a convincersi di essere tornato a casa. I corridoi e le stanze non gli davano più nessuna sicurezza. Raggiunse la cucina e si preparò una tisana di achillea, elleboro e finocchio. La sorbì con gusto e attese di calmarsi e che la sua mente la smettesse di rimuginare. Proprio mentre le palpebre diventavano pesanti e la testa si abbassava sul tavolo, Tungdil senti uno schianto proveniente dalla parte anteriore della galleria. Una trave marcia che si fosse spezzata sotto il peso di un architrave avrebbe fatto un rumore diverso. Sembrava piuttosto che qualcuno stesse cercando di entrare dalla porta d'ingresso con la forza. Il nano temette il peggio. In un attimo il torpore passò; tutti i sensi erano all'erta. Corse di nuovo in camera da letto, s'infilò la cotta di maglia e gli stivali e prese la Lama di Fuoco. «Che succede?» chiese Balyndis rizzandosi. «Abbiamo visite», rispose lui, concitato. «Boïndil!» gridò forte. «Alzati. C'è del lavoro per la tua azza.» Si sistemò il cinturone sui fianchi e' guardò Balyndis. «Pensi di poterci aiutare?» La nana rise. «Che impressione ti ho fatto, a letto, poco fa?» Si mise in piedi, indossò anche lei la cotta di maglia e, dopo una breve esitazione, scelse un'ascia e uno scudo dall'armeria. «Ohilà, c'è del lavoro?» Boïndil aveva rinunciato ad armarsi, e si era presentato a torso nudo, coi capelli sciolti e con la barba fluttuante. Quantomeno indossava i pantaloni di pelle e gli stivali, e nelle forti mani scintil-
lava l'azza. Accanto a lui comparve Goda, che ci aveva messo un po' di più per indossare l'armatura. Si sentì un nuovo schianto proveniente dall'ingresso: legno che andava in frantumi. «Ah, ecco! Capisco», borbottò il Rabbioso. «Qualcuno vuole portarsi via una pietra che non gli appartiene.» Tungdil si guardò dal raccontare alle nane qualcosa della loro ingloriosa avventura nell'Âlandur. «Andiamo a controllare», ordinò incamminandosi lungo il corridoio. La brezza serale spirava verso di loro, facendo tremolare le lampade a olio appese alle pareti. C'era odore di erba umida e di terra calda. Significava che il portone era aperto e che il visitatore indesiderato era già all'interno della galleria! Girarono l'angolo e videro i due battenti giacere per terra. «Si è portato dietro un ariete?» disse Boïndil guardandosi intorno. Il tunnel in cui si trovavano aveva una quantità di diramazioni, e il nemico poteva saltare fuori da ognuna di esse. «Se si tratta di uno di quei mostri, non ha bisogno di un ariete», replicò Tungdil prima di tendere le orecchie. Sentì qualcosa. Veniva dalla parte più interna della dimora, là dove un tempo si trovava la scuola degli apprendisti. «Muoviamoci!» gridò lanciandosi verso il laboratorio. «Sta cercando il diamante al posto giusto!» Balyndis, che lottava con gli strascichi della sua malattia, finì col perdere terreno. Gli altri continuarono a correre, anche se, lasciandola indietro, perdevano una parte del loro potenziale d'attacco. «Non vedo l'ora di scoprire quale di quelle bestiacce dovremo affrontare», disse il Rabbioso. «Quella nella gigantesca armatura o quella che rotolava nel salone?» Gli occhi del guerriero scintillavano di vitalità e voglia di combattere. Goda e il suo nuovo compito avevano riattizzato la fucina della sua vita più del necessario. «Eh, lo sgusciamo dalla corazza e lo facciamo in tante fettine, se...» Improvvisamente la creatura era di fronte a loro. Sembrava essersi staccata dalle ombre, senza preavviso e senza produrre rumori. Uno sguardo bastò ai nani per capire che non era nessuno degli avversari che erano stati loro descritti: avevano davanti agli occhi una terza variante di mostro. Era alto e grosso il doppio di loro. Il corpo, dalle diverse sfumature grigio-verdi, assomigliava a quello di un mezz'orco; era fatto di puri muscoli,
senza un'oncia di grasso. I lunghi capelli neri scendevano a ciocche dal capo, lasciando spuntare due orecchie a punta. Il volto ricordava in modo orribile quello di un elfo, ma la bellezza era offuscata dallo sguardo spento e dalle zanne, che la creatura denudava sbuffando. Non indossava nulla a parte un perizoma di cuoio e uno zaino. Non portava su di sé nessuna armatura, e niente tionio; non pareva avere nulla a che spartire con una macchina. Aveva catene bianche avvolte intorno alle braccia, che erano coperte da protezioni di metallo cui erano fissate le catene. «Levatevi di torno, Cavernicoli», sibilò con una sottile voce da elfo, mentre gli occhi scuri s'illuminavano di verde scuro. «Non ti lasceremo passare, mostro», ribatté il Rabbioso, battendo la parte piatta dell'azza contro la parete. «Ma come ti devo chiamare? Non sembri un Maialino.» Goda guardò confusa il suo maestro, che di fronte a una creatura tanto spaventosa si perdeva in chiacchiere. Aveva già sentito strane storie sul conto di Boïndil e temeva che fossero tutte vere. «Hai preso la pietra?» domandò Tungdil mostrando alla creatura la Lama di Fuoco. «Ridaccela. Altrimenti sai bene come andrà a finire per te.» «Ma per lui andrà comunque a finire male, non è vero?» sussurrò il Rabbioso. Il mostro fece un passo in avanti e ripeté: «Levatevi di torno!» Boïndil digrignò i denti e incassò la testa. «Come una volta, Sapientone?» «Come una volta, Rabbioso.» Tungdil attaccò senza preavviso al fianco destro, girando sul proprio asse, mentre l'amico lo seguiva alle spalle. Boïndil si staccò da Tungdil un istante prima che questi colpisse; quindi si accovacciò e puntò al polpaccio destro. Il mostro non poteva parare entrambi gli attacchi. Ma il movimento con cui evitò i nani fu troppo rapido e sbalorditivo. La creatura spiccò un salto, rimbalzò di traverso sulla parete e volò sopra Goda, il cui colpo affrettato andò a vuoto. Poi scappò nel corridoio laterale alle loro spalle. «Ehi, salta come una raganella!» sbottò Boïndil. «Torna qui, Ranocchietto!» Corse oltre Goda. «Brutto colpo, Goda», la rimproverò. «Per questo dovrai trascinare altre travi.» La nana si affrettò dietro di lui, con lo sguardo abbassato per la vergogna. Tungdil capì presto che il mostro aveva perso l'orientamento nell'intrico di corridoi della galleria, poiché correva verso la cucina. Da lì non aveva possibilità di scampo.
Fecero irruzione nella stanza e videro che la creatura stava cercando d'infilarsi nel camino. Le spalle erano però troppo larghe perché riuscissero a passare per la condotta. Non appena li sentì, il mostro si tirò fuori dalla cappa e li guardò. Gli bastò scrollare leggermente le braccia per far scivolare le catene dai bracciali ornati di rune. Chiuse i pugni sulla parte posteriore delle catene. «State attenti. Le userà come fruste», disse Tungdil, teso. «Boïndil e io attacchiamo insieme. Goda, sorveglia l'uscita.» I nani incalzarono il mostro da due lati, ma dovettero riconoscere che, nonostante le dimensioni, si trattava di un avversario infido e maledettamente agile. Il Rabbioso schivò un colpo di catena abbassandosi, ma ricevette un calcio sul torace che lo spedì contro un armadio carico di pentole e padelle. Il legno cedette al violento urto e i ripiani caddero seppellendo il nano sotto il loro peso. Tungdil invece evitò la catena abbassando la testa e, stringendo la Lama di Fuoco con entrambe le mani, cercò di colpire il nemico in mezzo al torace; l'altro artiglio della creatura saettò però in avanti e afferrò il manico dell'arma. Accadde qualcosa di strano. La testa dell'ascia divenne incandescente, gli intarsi avvamparono e i diamanti incastonati sul taglio s'illuminarono come piccoli soli, tanto che Tungdil dovette chiudere gli occhi. Il mostro ululò furente e terrorizzato. Lasciò la presa sulla Lama di Fuoco e barcollò all'indietro. Nell'aria si diffuse il lezzo di carne bruciata. Non appena riuscì a intravedere l'ombra del nemico, Tungdil colpì. L'arma si diresse verso il fianco del mostro, tracciando dietro di sé una scia di fuoco, e venne improvvisamente deviata di lato. Il nano stava quasi per perdere la presa. Una luminosa catena era avvolta intorno alla testa dell'ascia e la tratteneva. La magia contrapposta delle due armi crepitava, mentre scintille rosse e verdi volavano attraverso la cucina bruciacchiando il legno o annerendo la pietra. «Maledizione, che sta succedendo?» gridò il Rabbioso, rimettendosi in piedi. Aveva perso l'azza nel mucchio del pentolame. «Magia?» Sollevò una casseruola particolarmente pesante e la scagliò contro l'essere. «Smettila, Ranocchietto! Vuoi combattere o no come un mostro per bene?» La casseruola sbatté contro l'ampio petto. Il mostro voltò lo sguardo grugnendo e guardò il guerriero, che aveva
trovato il manico della sua arma e, afferratolo, la stava sollevando dal mucchio. Con un movimento sinuoso del braccio sinistro, la creatura fece volare la seconda catena, simile a un serpente, verso il nano. L'arma lampeggiò di verde scuro, palesando la magia che vi era insita. Boïndil la schivò facendo attenzione a non esserne neppure sfiorato, ma la creatura era molto abile con la sua insolita arma. Un lieve scatto del braccio bastò per cambiare la traiettoria della catena, che si avvolse intorno al collo del nano. Questi emise un urlo acuto, lasciò cadere l'azza e finì sulle ginocchia. Tungdil liberò l'ascia, e l'altra catena cadde al suolo tintinnando. «State indietro, o il Cavernicolo muore», minacciò la creatura. A conferma di tali parole, gli intarsi albici del bracciale sinistro s'illuminarono e la luce della catena che teneva il Rabbioso aumentò. Il nano cominciò a tremare, mentre rumori gorgoglianti salivano dalla sua gola, e alla fine cadde a terra. D'un tratto, Goda era accanto a Tungdil. «Che facciamo?» «Lo lasciamo andare», ringhiò lui. Non voleva perdere Boïndil. «Il diamante lo potremo riacciuffare quando si crederà al sicuro e lascerà andare il Rabbioso.» Il bagliore verde si spense. Il mostro trasse a sé il nano prigioniero avvolgendo la catena all'avambraccio, sinché non fu più lunga di mezzo passo. Boïndil fu costretto sulle ginocchia; quindi si mise sulla punta dei piedi per non strozzarsi da solo. La catena era molto calda e aveva già bruciato la bella barba e i lunghi capelli. «Non seguitemi!» ordinò la creatura. Prese a indietreggiare lungo il corridoio, sempre tenendo d'occhio i nani. Annusava forte e usava il fiuto per orientarsi e capire dove dovesse andare per lasciare la galleria; le narici del sottile naso si gonfiavano come quelle di un mezz'orco. Proseguì la sua strada trascinandosi dietro il Rabbioso, che continuava a tossire e ansimare. «Quando lo liberiamo?» sussurrò Goda. «Presto gli mancherà completamente l'aria.» «Finché emette suoni, va ancora bene», rispose Tungdil, mentre pensava febbrilmente al da farsi. Goda pareva ignorare i poteri magici dell'intruso, che presumibilmente non erano stati dispiegati per intero. La Lama di Fuoco proteggeva Tungdil dagli incantesimi, come già aveva fatto contro il potere della nebbia demoniaca a Giogonero. Ma un colpo della pesante catena gli avrebbe comun-
que procurato una grave ferita. La creatura aveva trovato il corridoio che conduceva all'uscita e affrettò il passo. Con un rapido movimento del braccio sciolse il cappio intorno al collo del Rabbioso, che cadde a terra ansimando. Esterrefatto, Boïndil tastò i resti bruciacchiati della barba e dei capelli. «Mi hai storpiato! Per questo ti taglierò la pelle a fettine, Ranocchietto!» gracchiò mentre si metteva in piedi. «Dammi la tua arma, Goda.» «No, maestro. Mi hai detto tu stesso che un guerriero non abbandona mai la sua arma.» «Questa non è un'esercitazione! Dammi la tua arma», ripeté il Rabbioso. Un basso grido terrorizzato di Tungdil lo indusse a guardare in avanti: Balyndis si era frapposta tra la creatura e la porta. «Va' via!» gridò Tungdil. «Altrim...» Il suo avviso arrivò troppo tardi. Impavida, Balyndis si fece avanti brandendo l'ascia, parò con lo scudo la catena che sibilava verso di lei e si trovò a portata di attacco. Il mostro usò l'avambraccio sinistro, che era avvolto da un'altra catena, per parare. Non appena la catena e la lama si toccarono, la magia si sprigionò. Un lampo verde investì l'arma, che andò in frantumi ricoprendo la nana con una grandine di schegge di metallo. Perfino lo scudo ne venne perforato. Balyndis vacillò, sbatté contro la parete del tunnel e scivolò lentamente a terra. «Balyndis!» Tungdil scattò in avanti. Il Rabbioso e Goda lo seguirono. La creatura si girò ruggendo, sollevò un pezzo del portone distrutto e lo scagliò contro di loro. Il lancio era ben mirato e fece volare i tre gambe all'aria. Quando si rialzarono, del mostro non c'era traccia. «Forza, seguiamolo», disse Tungdil rivolto a Boïndil, poi guardò Goda. «Tu occupati di Balyndis.» I due nani corsero fuori dalla galleria e tesero le orecchie. La luna e le stelle illuminavano l'Idoslân mostrando un assopito paesaggio d'argento, pieno di pace e di tranquillità. «Dov'è andato?» sussurrò il Rabbioso guardando per terra. «Deve lasciare delle orme in cui si potrebbe sedere un bambino.» Si chinò. «Niente. Come se fosse volato via con un balzo.» Tungdil aveva scorto un movimento in lontananza. «Infatti», disse, indicando con un sospiro verso ovest. «È laggiù.» Una figura stava attraversando la campagna a grandi balzi, evitando le
strade. Saltava sopra arbusti e piccoli alberi da frutta come se fosse la cosa più facile del mondo. «Sta seguendo la strada più breve verso casa», suppose Tungdil. «Maledetta bestiaccia!» Boïndil pestò i piedi e sfogò la rabbia prendendo a calci il suolo. «Che va a fare a ovest?» «Non sappiamo niente su di lui e sugli altri due mostri», replicò Tungdil. «Per quello che ne sappiamo, l'ovest va bene come l'est.» «Sì. Ma avevo pensato che andasse verso il Toboribor. Le caverne del vecchio regno dei Musi di porco sarebbero davvero un nascondiglio eccellente.» «Può anche essere che cerchi d'ingannarci.» Tungdil aveva perso di vista la figura. Lo scuro limite del bosco l'aveva inghiottita, offrendole la sua protezione. Il Rabbioso si mise in spalla l'arma di Goda. «Ci mettiamo a seguirlo?» «Non ha senso. Vedi quanto è veloce? Non lo raggiungerebbe neanche un uomo a cavallo.» Tornarono alla galleria. «Domani, alla luce del sole, cercheremo le sue tracce. Forse ci porteranno in un posto in cui potremo scoprire di più su questi mostri. Informerò il principe Mallen, in modo che ci metta a disposizione un reparto di soldati.» Goda aveva tirato su l'altra nana. Il sangue scorreva dalle ferite di Balyndis in tanti piccoli rivoletti. Una scheggia le aveva mancato per poco l'occhio destro; il frammento, lungo come un dito e sottile come un filo di paglia, si era infilato nel cranio. Stringeva i denti per non urlare; afferrò la mano di Tungdil e la tenne forte, come a chiedere aiuto. «Guarirai», gli disse lui, sorridendole per incoraggiarla. Il Rabbioso gli fece notare una grossa macchia rossa sotto la cotta di maglia. «Quella ferita non ha un bell'aspetto. Abbiamo subito bisogno di un guaritore che le tolga le schegge dal corpo», sussurrò nell'orecchio dell'amico. La nana trasse il marito più vicino. «Sto per perdere i sensi, Tungdil», riuscì a dire. «Solo Vraccas sa se mi risveglierà, per cui ascolta.» La sua presa faceva male, tanto era stretta. Un tremito di dolore l'attraversò, le palpebre le tremarono. «Djerůn...» Gemette, poi perse i sensi. Tungdil le sentì il cuore, pieno di preoccupazione. «Batte ancora», mormorò, sollevato. «Forza, Rabbioso, portiamola a letto. Goda, va' al villaggio e torna con un guaritore.» «Sì», annuì lei solerte, ma non poté fare a meno di sorridere vedendo l'errore commesso da Boïndil: aveva appoggiato la stella della notte contro
la parete per prendere Balyndis per i piedi. La nana afferrò subito l'arma. «Maestro, ora anche tu dovresti portare le travi. Sai già dove le ho messe», disse con impudenza prima di correre fuori. Il guerriero guardò verso di lei. «Che razza...» Il resto se lo tenne per sé. Tornò la calma quando, una volta che Balyndis fu coricata e che Tungdil le ebbe tolto le prime schegge, il guaritore arrivò e si occupò di lei. Tungdil ne approfittò per controllare il laboratorio. Era stato messo completamente a soqquadro, come molte altre stanze attraversate dal mostro, tanto che non era rimasto in piedi neppure uno scaffale che fosse almeno parzialmente intatto. Presto gli divenne chiaro che la creatura aveva trovato il diamante per caso: tra i cocci di vetro c'era una gigantesca impronta di piede insanguinata. Vi doveva avere messo il piede sopra ed essersi ferita; poi aveva scorto la pietra fra i cocci. «Maledizione!» esclamò in preda alla rabbia. Andò nello studio di LotIonan, in cui questi aveva raccolto un'immensa quantità di libri, raggiunse lo scrittoio e stese una lettera per informare dell'accaduto il principe Mallen. Poco dopo, si sentì bussare ed entrò il guaritore. Portava un mantello grigio scuro sopra la camicia da notte bianca, e i pesanti stivali non erano allacciati. Goda lo aveva davvero buttato giù dal letto. «Perdonatemi, messer Manodoro.» Si passò la mano sui capelli grigi, lunghi fino alle spalle, che andavano in tutte le direzioni. «Ho finito. Ho suturato le ferite e le ho trattate con la salvia. Guarirà. La tintura che le ho somministrato la farà dormire per le prossime due rotazioni.» Tungdil annuì, allungò la mano in un cassetto e ne trasse una moneta d'oro. «Questa è per voi», lo ringraziò. «Domani portatemi il necessario per ulteriori cure.» «Grazie.» Il guaritore prese il suo compenso, poi guardò il nano. «Che cos'è accaduto, se mi è lecito chiederlo? Sembra che una masnada di mezz'orchi abbia fatto irruzione attraverso la porta.» «Vi è lecito chiederlo», replicò Tungdil, burbero. Ma in realtà preferiva non dire la verità, nella Terra Nascosta circolavano già troppe voci sinistre. «Rapinatori. Li abbiamo allontanati. E mi farebbe molto piacere se vi teneste per voi quello che vi ho detto. Se qualcuno ve lo chiede, dite che si è trattato di un incidente.» Gli lanciò un'altra moneta d'oro. «Certamente. Potete stare tranquillo, e voglio assicurarvi che auguro a vostra moglie una buona guarigione, e di tutto cuore.» Il guaritore si chinò; le falde del mantello caddero in avanti e oscillarono leggermente. «Badate
che non si muova e che rimanga a letto per almeno quaranta rotazioni.» «Perché?» L'uomo s'indicò il fianco destro. «Una delle schegge più grandi ha ferito un organo interno. Ho badato attentamente alla cura e alla fasciatura, ma la mia modesta arte è basata sulla natura umana, non su quella dei nani. Sembra a posto; però, come vi dicevo...» «Deve rimanere a letto.» Tungdil annuì. «Grazie.» L'uomo si voltò e lasciò la stanza. Tungdil finì la lettera per il principe Mallen proprio mentre entrava il Rabbioso, che si era finalmente infilato il farsetto di cuoio e la cotta di maglia. «Balyndis dorme profondamente», disse il guerriero sedendosi sulla poltrona accanto al camino. Coi capelli accorciati e con la barba deturpata, aveva uno strano aspetto. «Che succede adesso?» «Lo vedremo quando il sole si sarà alzato», rispose Tungdil mentre firmava e sigillava la lettera. Non credeva che sarebbero riusciti a catturare la creatura, ma non disse nulla. «Guarda che cos'ha combinato Ranocchietto. Sembro un pollo spennato.» Il Rabbioso giocava con ciò che restava della barba. L'aveva tagliata in modo tale che, benché relativamente corta, sembrasse regolare; ci sarebbero voluti cicli prima che raggiungesse di nuovo la vecchia lunghezza e l'antico splendore. E i capelli gli arrivavano ormai a malapena alle spalle. «Rideranno di me. Già solo per questo merita di morire.» Sollevò i piedi. «Pensi che fosse lo stesso mostro, ma senza armatura?» «Difficile a dirsi. Non credo.» Tungdil stava riflettendo sull'ultima parola detta da sua moglie prima di perdere i sensi, e lo disse all'amico. «Djerůn? Il vecchio Testa di latta?» Il Rabbioso ripensò a quella che un tempo era stata la guardia del corpo di Andôkai. «Voleva dire che Ranocchietto è un simile di Testa di latta? Le dimensioni le aveva. E viene anche lui dalla Terra dell'Aldilà.» «No, non credo in una parentela. Il sangue di quella creatura era simile a quello dei mezz'orchi, mentre quello di Djerůn era giallo vivo.» «Allora non capisco proprio che cosa intendesse...» fece il guerriero, perplesso. «Ma certo!» Tungdil si batté la mano sulla fronte. «L'armatura di Djerůn!» «Ma questo essere non portava nessuna armatura», obiettò il Rabbioso. «No. Ma portava dei bracciali. E delle catene.» Tungdil fissò sgomento
il fuoco tremolante. «Balyndis voleva sicuramente dirmi che l'equipaggiamento del mostro era fatto della stessa lega con cui lei aveva forgiato l'armatura di Djerůn. Ti ricordi? Conduceva la magia.» Si alzò e si sedette accanto all'amico. «Questo vorrebbe dire che altri conoscono la formula?» «Non solo, Boïndil. Significa che hanno trovato un modo per immagazzinare la magia e usarla in caso di bisogno. Quella lega è diventata qualcosa di più che una protezione contro la magia. È una riserva cui attingere, visto che nella Terra Nascosta mancano i campi di magia con cui possano accrescere il loro potere.» Tungdil rifletteva in modo febbrile. «E se funzionasse diversamente?» Tungdil guardò irritato il volto rugoso di Boïndil. «Cosa intendi dire?» «E se a essere magico fosse il Ranocchietto?» Il Rabbioso si accarezzò con fare dolente ciò che restava della barba. «Funziona come il filo con cui l'Eoîl aveva collegato la fonte della magia al tetto della torre, ricordi? L'ha usato per tirare su l'energia e usarla.» «Un parafulmini inverso!» esclamò Tungdil. «Un cosa?» «Un parafulmini. Su uno dei libri di alchimia c'era scritto che per fare determinati esperimenti occorre la forza del temporale. Rame e ferro attirano i lampi, così scriveva l'autore.» Tungdil raggiunse la libreria e si mise a cercare, salendo e scendendo la scala finché non trovò l'opera. «Eccolo qua!» Aprì il libro. «'All'approssimarsi di un temporale occorre mettere gli elementi in una vasca di ferro, portarla su un monte e infilarvi una lunga lancia di ferro. Il lampo vi finisce dentro e provoca la trasformazione.'» Lo richiuse con foga. «Con quelle creature capita esattamente il contrario: loro sono il temporale, e l'energia viene sprigionata attraverso il metallo!» «Ecco che è tornato il Sapientone», lo canzonò l'amico. «Sì.» Tungdil sospirò; il suo entusiasmo si afflosciò in un istante. «Ma, a ben vedere, tutto questo è solo una congettura», aggiunse dispiaciuto. «Non abbiamo nessuno che s'intenda a sufficienza di magia e che ci possa consigliare.» «A me sembra illuminante», lo consolò Boïndil. «Informa subito Mallen delle tue deduzioni.» «No.» «Perché?» Tungdil tornò al suo posto accanto al fuoco. «Chi conosce quella formula?»
«Quella del metallo speciale? Be', Balyndis e Andôkai. E l'Eoîl, credo, ma quella creatura è morta.» Boïndil rivolse a Tungdil uno sguardo interrogativo. «Mi chiedo quante possibilità ci siano che un popolo della Terra dell'Aldilà padroneggi la magia e allo stesso tempo possieda la formula di quella lega.» «Pensi che queste creature non vengano dalla Terra dell'Aldilà?» «Devo ammettere che ci sono molte possibilità», rispose Tungdil annuendo. «Ma dove sono andati a finire gli Eterni? Rodario e io non ne abbiamo trovato traccia sulla torre. Bada bene, dopo che la Stella del Giudizio è divampata. Non sono rimaste né cenere né armi, come invece è accaduto nel caso degli albi e dei mezz'orchi che sono stati distrutti da quell'incantesimo.» Si appoggiò allo schienale. «Prima di lasciare i Monti Grigi, Balyndis ha insegnato come produrre la lega ad alcuni dei nostri. E i Terzi hanno spie ovunque.» «Non vorrai dire che i Terzi più irriducibili e gli Eterni si sono alleati?» «Non lo so.» Tungdil abbassò la testa e si massaggiò le tempie. «Maledizione! È tutto così oscuro. Dovremo avanzare nelle tenebre a tentoni e rischiarare un mistero dopo l'altro.» Il Rabbioso si alzò. «Allora cominceremo già domani, come avevamo in programma. Cercheremo le tracce di Ranocchietto.» Andò alla porta. «Mando Goda all'entrata, deve fare il primo turno di guardia.» «Hai già portato le tue travi?» gli ricordò Tungdil, alludendo al suo passo falso. «No», borbottò Boïndil. «E naturalmente darai il buon esempio, giusto?» Il Rabbioso si voltò e superò la soglia. «Bell'amico che sei», disse facendo finta di essere offeso. «Fai comunella con la mia allieva. I Terzi sono sempre uniti.» I passi del guerriero riecheggiarono nel corridoio. «I Terzi sono sempre uniti...» ripeté Tungdil rimuginando, mentre guardava la bottiglia di idromele mezza piena che stava vicino al suo scrittoio e che cercava di adescarlo col suo forte e dolce contenuto. Ma l'alcol non lo stuzzicava. Non quella notte. C'era bisogno di mantenere la mente lucida. Tungdil aveva notato uno dei segni tracciati sul bracciale della creatura. Per andare sul sicuro cercò nella libreria il libretto con cui, in passato, si era intrattenuto lunghe sere per non dover stare nei pressi di Balyndis, e lo sfogliò.
Non si era sbagliato. Si trattava della parola che in lingua elfica significava «ha». Chiuse il libretto e lo rimise a posto. E questo che vorrà dire? Doveva chiedere a Mallen e Ortger se anche le altre due creature portavano rune elfiche tracciate sulle armature. Si alzò e tornò in camera da letto. Si coricò sulle coperte accanto a Balyndis, vestito com'era, appoggiò la testa a una mano e le guardò il volto: facendolo, si risvegliarono i sentimenti che la vista della nana provocava in lui. Rimase così fino all'alba. Quando Goda bussò, informandolo della visita di un messo e passandogli una lettera di Gandogar, Tungdil stava ancora rimproverando se stesso e le sue emozioni. La notte non gli aveva portato consiglio. Terra Nascosta, regno di Weyurn, Mifurdania, 6241° ciclo solare, inizio estate Il Curiosum aveva tolto il campo durante la notte, senza che vi fosse allestito neanche uno spettacolo. I carri variopinti avevano lasciato Mifurdania all'alba e si trovavano in viaggio verso ovest. Un mendicante ingobbito, con un grande cappello floscio sugli unti capelli neri, girava tra i fuochi ormai spenti e l'immondizia cercando qualcosa di commestibile. Non avendo trovato nulla che fosse di suo gradimento, raggiunse la città e si recò al mercato del pesce. Là si accovacciò su una botte da cui aveva una buona visuale sul porto, costruito di recente, e si mise a tendere la mano a tutti quelli che passavano. «Per favore, date una monetina a un affamato», gemeva con voce acuta tra un colpo di tosse e l'altro. Nessuno che conoscesse Rodario immaginò sotto tanta sporcizia il bel volto dell'attore, che aveva pescato a fondo nella sua scatoletta dei trucchi per deturparsi in quel modo. Il travestimento comprendeva una brutta cicatrice sulla guancia sinistra, macchie sui denti e una rasatura. Una rasatura completa. Aveva sacrificato alla missione perfino il suo amato pizzetto, e ciò lo addolorava profondamente. Tassia e gli altri si erano assai stupiti quando li aveva chiamati nel cuore della notte e aveva annunciato loro che cosa intendeva fare: doveva compiere un lavoro delicato e andare a fondo nei misteriosi eventi accaduti a Mifurdania. Aveva affidato alla sua bionda musa la conduzione del Curio-
sum, visto che non sapeva quanto gli ci sarebbe voluto a svelare i segreti che avvolgevano il destino di Furgas. Tassia aveva accolto la promozione con un sorriso allettante e nelle ore successive gli aveva reso difficile staccarsi da lei. «Su, datemi qualcosa!» chiese con insistenza a un ricco mercante, che gli sputò davanti ai piedi e continuò a camminare. «No, non intendevo questo. II vostro moccio non vale niente. Datemi una moneta, messere», gli gridò dietro guadagnandosi qualche risata. Il mattino passò. Il sole tracciò il suo percorso alto sulle teste degli uomini per poi riabbassarsi verso l'orizzonte. Rodario mantenne valorosamente la sua posizione. Si difese da mosche invadenti, ragazzini strafottenti e da un commerciante che voleva scacciarlo dalla botte. Le sue modeste entrate gli bastarono comunque a comprarsi, nel tardo pomeriggio, un pezzo di pane e un bicchiere di scadente vino rosso, in modo da sopportare meglio la miseria. L'attesa proseguì. Calò il crepuscolo, e alla fine l'attore scorse la chiatta su cui aveva visto la tiratrice d'arco. Il parapetto stavolta sporgeva molto dal pelo dell'acqua, dunque attraccava vuota. Rodario raggiunse il porto e si mise di fronte agli approdi delle navi da carico, in mezzo a una catasta di gomene. Sembrava un mendicante che avesse trovato un posto per la notte. Nessuno si sarebbe insospettito alla sua vista. La donna bruna comparve solo quando si fu fatto scuro. Portava un mantello nero allacciato sopra il petto, sotto cui Rodario scorse un corsetto e, alla cintura, una daga lunga un avambraccio. Aveva qualcosa di familiare, ma l'uomo non riusciva a capire che cosa; camminò sul ponte, saltò con eleganza sul molo, s'infilò due dita in bocca e fece un fischio acuto. La porta del capannone accanto cui era coricato l'attore si aprì. La luce si proiettò sul lastricato irregolare, e uscì un uomo in un lungo abito scuro. Portava un cappello; la collana intorno al collo dimostrava che era un membro della gilda dei mercanti. «Kea! Già di ritorno?» Fece per avvicinarsi alla donna, poi notò Rodario, che fingeva di dormire, e si fermò. «Tu, feccia!» L'attore non si mosse, sperando di essere lasciato in pace, ma si prese subito un calcio su un rene. Gemendo, si rannicchiò. «Alzati, straccione. Va' a farti passare la sbornia da un'altra parte.» L'uomo si chinò su di lui e gli diede un pugno sulla nuca. «Non ci senti?
Adesso tiro fuori il coltello e ti faccio un po' di solletico.» Rodario non poté resistere a una simile minaccia. Si alzò, protestando con fare da ubriacone, passò davanti alla facciata del magazzino strascicando i piedi e s'infilò nello stretto interstizio fra quell'edificio e il successivo. Si dovette impegnare molto per stare nell'intercapedine. «Mi avete allontanato, ma non vi siete liberati di me», mormorò mentre usava le fessure del muro di mattoni per arrampicarsi sul tetto. Intendeva origliare la conversazione dall'alto. Nell'oscurità atterrò su qualcosa di morbido, che cedette leggermente sotto il suo peso. L'odore e il rumore gli tolsero ogni dubbio: erano sacchi di cereali. La baracca era stipata fin sotto il tetto di sacchi di grano, come se a Mifurdania si attendesse una carestia o un assedio. Rodario strisciò in avanti come un serpente, dirigendosi con decisione verso il piccolo bagliore che saliva attraverso una crepa. Schiacciò la testa silenziosamente contro la fessura per vedere e sentire ciò che stava succedendo sotto di lui. Si era perso l'inizio della conversazione. «E quanto mi verrà a costare, Deifrich?» chiese Kea, appoggiata a una trave perpendicolare. L'uomo indicò la parte vuota del capannone, in cui si trovavano solo sporcizia e qualche chicco di grano sparso. «Cento sacchi? Guardati intorno. In questo momento non ci sono provviste in città.» La donna fece un sorriso falso, e Rodario ebbe di nuovo l'impressione di conoscerla. «Perché le hai comprate tu, Deifrich. Per alzare i prezzi.» «Io?» fece l'altro, sbalordito; l'esagerazione nel tono era più che evidente. Kea alzò la testa, estrasse la daga e ne usò la punta per indicare l'alto. «Poniamo che salga nel sottotetto, che cosa ci troverei?» «Non molto», mentì Deifrich sogghignando, senza darsi pena di sembrare convincente. «Facciamo dieci monete d'oro del Weyurn. A sacco.» Kea rise malignamente. «Sei un piccolo, miserabile strozzino.» C'era una punta di minaccia nella voce, mentre sollevava l'indice sinistro. «lo ti offro una moneta d'oro.» Deifrich si passò una manica sul mento. «No. So che hai oro a sufficienza. E quindi lo userai per pagarmi.» Con gesto sicuro portò la mano sull'elsa della spada corta che gli pendeva alla cintura. Doveva trattarsi di un segnale convenuto, poiché Rodario sentì dei passi e due uomini si misero uno a destra e uno a sinistra di Deifrich. Portavano armature di cuoio e spade lunghe, sembravano mercenari o quantomeno ex
combattenti. Kea non li guardò nemmeno. «Allora, che dici? Nove monete al sacco», disse Deifrich con fare disinvolto. «Per l'alba avrò il frumento che ti serve.» Le porse la mano. «Ma solo se mi darai subito l'oro. E non parliamo delle altre cose che ti vendo.» «Sei diventato avido», replicò Kea. «Stai tradendo la mia fiducia.» Deifrich scosse le spalle. «Sono un mercante. Se mi si presenta una possibilità, la sfrutto. A me nessuno ha mai regalato niente.» «Questo lo capisco perfettamente. Anche tu non ottieni nulla da me senza compenso.» Portò la mano sotto il mantello, lentamente, per non indurre i mercenari ad azioni avventate, e ne trasse un borsello. Sciolse il laccio e pescò una moneta per poi passarla a Deifrich. «Una di cinquanta. È tutto quello che ho con me.» L'uomo prese prima il borsello, poi la moneta. «Allora avrai solo cinque... vabbe', diciamo sei sacchi», replicò lui sogghignando, poi morse piano la moneta per saggiarne l'autenticità. Si sentì un lieve scricchiolio, Deifrich urlò spaventato, prese a sputare e crollò sul posto. Si rigirò a destra e a sinistra, poi rimase immobile. Uno dei suoi mercenari si chinò su di lui. «Non c'è più niente da fare», disse calmo guardando la finta moneta, che aveva un piccolo cuore di piombo intorno al quale c'era uno strato di vetro molto fragile avvolto da una foglia d'oro. Dai cocci usciva un liquido chiaro. A prima vista era impossibile distinguere la falsa moneta da una vera. «Che veleno era?» La donna raccolse il sacchetto con le monete. «Ti piacerebbe saperlo, vero?» ribatté puntando la daga verso i mercenari. «Su questa lama c'è la stessa cosa. Andate per la vostra strada e mantenete il riserbo su ciò che è successo. Avete avuto il vostro compenso da Deifrich senza dover fare nulla. Siatene contenti.» Gli uomini si guardarono. Rodario pensò che avrebbero tentato di sopraffare Kea e d'impossessarsi del resto dell'oro. Ma il sangue freddo della donna li mise in guardia contro gesti inconsulti; esitando e senza mai voltarle le spalle, i due uscirono dal magazzino. Kea rise piano, mise via il borsello e fece un forte fischio. In un attimo cinque uomini furono intorno a lei. «Andate di sopra e guardate un po' quanto grano ci ha tenuto nascosto quel bastardo. Caricate i sacchi sulla chiatta più in fretta che potete, e poi ce ne andiamo da Mifurdania.» Diede un calcio al cadavere. «Cercate qualcosa di pesante e legateglielo addosso, poi buttatelo in acqua.» Gli sgherri annuirono e si misero al lavoro, mentre Kea scompariva dalla
visuale di Rodario. Lo scalpiccio di stivali sulle scale avvisò l'attore dell'arrivo di almeno un paio di persone al primo piano. A quel punto, la situazione per lui stava per farsi spiacevole. Strisciò a lato, sprofondando tra i sacchi, mentre nelle sue immediate vicinanze si sentiva un gran baccano. Un argano stava girando sopra di lui, e il pavimento su cui poggiava iniziò a scendere rapidamente. Senza notarlo, Rodario era finito sul montacarichi e stava calando insieme con dieci sacchi di grano. Tentò, senza successo, di nascondersi tra i sacchi. Nell'altra parte dell'edificio, Kea era davanti a parecchie casse oblunghe. Sollevò il coperchio di una di esse e osservò i blocchi di ferro che contenevano. A Rodario parvero una montagna di pezzi di metallo grezzo a forma di campana. «Attenzione! C'è un mendicante!» gridò uno degli uomini che stava accanto ai comandi dell'argano. «Vado via subito. Cerco un altro posticino caldo.» Rodario tossì e iniziò a muoversi verso l'uscita, strisciando più che camminando. Non voleva rinunciare al suo camuffamento. Kea chiuse la cassa e gli si parò davanti in tutta calma, sbarrandogli il passo e nascondendo la vista del cadavere del mercante. «Non così in fretta, vecchietto», gli disse senza sembrare minacciosa. Rodario interpretò come un buon segno il fatto che non estraesse il pugnale e che nessuno sembrasse in procinto di aggredirlo. «Oh, signora, perdonatemi. Non chiamate le guardie», implorò sputacchiando e sbavando per rendersi disgustoso. Voleva che la donna rinunciasse a discutere a lungo con lui. «Mi odiano.» Kea lo squadrò. «Conosci Deifrich?» Rodario rifletté. «No», rispose dopo un po'. «È una delle guardie?» Uno degli sgherri di Kea lo affiancò e lo prese per un avambraccio. «Kea, sai perfettamente che cosa devi fare! Ci ha visti.» «Io vedo molta gente a Mifurdania», disse Rodario con la vocetta acuta di un vecchio saccente. «Non è un delitto, giovanotto.» «No.» Kea portò la mano sull'impugnatura della daga. «Che tu ci abbia visti, vecchietto, non è affatto un delitto. Ma è un peccato.» Estrasse la daga e attaccò con la velocità di un lampo. Rodario, che si aspettava un attacco, fece un passo di lato e con uno strattone portò davanti a sé l'uomo usandolo come scudo. La punta dell'arma colpì questi nella gabbia toracica; le costole impedirono alla lama di entrare e di danneggiare gli organi, ma quell'arma non aveva biso-
gno di farlo. Il veleno mandò a terra l'uomo. «Stupiti, eh?» Rodario diede un pugno violento sul naso di Kea, che barcollò indietro urlando. L'attore corse all'uscita, ormai vicina, inseguito dalle urla degli uomini e dalle maledizioni della donna. Anche se non abitava più a Mifurdania da molto tempo, Rodario si orientava ancora abbastanza bene. Presto si tolse dai piedi i due uomini che lo inseguivano, seminandoli nell'intrico di ormeggi, ma con un lungo giro tornò al magazzino per continuare a seguire gli eventi dopo la sua audace fuga. Guardò dalla riva opposta, al riparo di una barca da pesca che rollava dolcemente. Gli uomini stavano caricando molto rapidamente i sacchi sulla chiatta; pure Kea li stava aiutando. A quanto pareva, avevano un bisogno assoluto delle provviste, tanto da non farsi scoraggiare né dall'incontro coi mercenari né da quello col mendicante. Cento sacchi erano una montagna. Ci si poteva mantenere un piccolo esercito, ma dove si sarebbe potuto accampare nel Weyurn dominato dalle acque? Disertori che volevano darsi alla pirateria e che prima ammucchiavano provviste? Ma come mai avevano tanto denaro? E cosa aveva a che fare con loro Furgas? Domande su domande, alle quali nessuno ovviamente dava una risposta. Quando anche le casse oblunghe furono a bordo, la chiatta mollò gli ormeggi. Rodario decise di continuare l'inseguimento; l'elemento della dea Elria non lo avrebbe fatto desistere. Trovò una piccola barca con remi e vela ormeggiata alla banchina e la prese in prestito. La chiatta non si muoveva molto velocemente, per cui poté starvi dietro senza particolari difficoltà. Proseguirono sulle gigantesche distese d'acqua dell'allagato Weyurn, le cui onde scintillavano in modo incantevole alla luce delle stelle. Rodario manteneva la distanza e cercava d'issare la piccola vela. Gli riuscì con fatica, ma presto non fu più in grado di tenere la rotta; decisamente non era un provetto marinaio. Il barcone scomparve dietro gli scogli di un'isola e ci volle parecchio prima che Rodario riuscisse a riportare la barca nella stessa direzione. Prima di superare le rocce, l'attore sentì gorgogliare, ribollire e sibilare come se un frammento di stella incandescente fosse caduto del cielo finendo in acqua. Il mare divenne mosso, piccole onde si abbatterono sulla prua della barca arrivando a superarne il bordo. Rodario superò gli scogli. «Ma che vuol dire, per tutti i pessimi attori
della Terra Nascosta?» Si alzò con le mani appoggiate ai fianchi e guardò il mare davanti a sé. Il mare era deserto. Non c'era più nulla da guardare o da inseguire: la chiatta era sparita, da un istante all'altro. «Come può accadere una cosa del genere?» si chiese a voce alta cercando di mantenere l'equilibrio nella barca, che rollava con forza. La luce della luna gli mostrava soltanto alcune isole, che stavano a un buon miglio di distanza alla sua sinistra. «Che i poteri di Elria li abbiano trascinati a fondo come punizione per le loro orribili azioni?» Una nuova onda corse lungo la superficie dell'acqua. Una potente ondata si erse davanti a lui come una nera parete schiumante, tanto alta da oscurare la luna e le stelle. «Oh, Elria! Abbi pietà di me! Che ti ho fatto io?» mormorò l'attore, raggelato dal terrore, prima di arrampicarsi sull'albero. Poi la barca fu investita da una montagna d'acqua e spinta verso il fondo. Terra Nascosta, Monti Rossi, regno dei Primi, 6241° ciclo solare, inizio estate In quel periodo, in cui i figli del Fabbro facevano la guardia agli accessi della Terra Nascosta con più diffidenza del solito, per i viaggiatori e i mercanti che giungevano dall'esterno era molto difficile passare speditamente da uno dei cinque accessi. Le nove imponenti torri e i due possenti muri difensivi della Guardiadiferro occidentale erano diventati un ostacolo quasi insormontabile anche per i visitatori pacifici. Negli spazi tra i cinque valli lungo la gola che portava all'ingresso della Guardiadiferro, e quindi a quello del regno dei Primi, erano accampate circa duecento persone; attendevano che i nani concedessero loro di entrare. Erano più che altro commercianti, ma anche profughi delle desolate terre che non si erano ancora riprese dalla distruzione causata dagli autoproclamati avatar e dal loro Bianco Esercito. La regina Xamtys aveva dato disposizione alle sentinelle di far avanzare i gruppi di un vallo ogni due rotazioni. Nelle complessive dieci rotazioni di attesa, i nani osservavano gli uomini, i carri e le bestie con molta scrupolosità per vedere se manifestavano un comportamento insolito. Solo chi si comportava bene e superava un ultimo esame davanti all'ingresso della Guardiadiferro poteva accedere alle sale dei nani e da lì arrivare all'altro versante del passo.
Tra le guardie cresceva l'inquietudine. Di tanto in tanto percepivano un vago odore di mezz'orco, smorzato e nascosto, come se una piccola banda stesse in agguato in lontananza e attendesse un'occasione favorevole per attaccare. Tra le persone che speravano di passare e che erano arrivate fino davanti alla prima porta della fortezza c'era un grasso mercante che faceva gran mistero del suo carico. Sul suo lungo e ingombrante tiro a quattro c'erano dei blocchi quadrangolari, o così almeno parevano, protetti alla vista e dalle intemperie da cuoio e teloni. Il carro si avvicinò al posto di guardia con fracasso e l'uomo, vestito da capo a piedi in pelle chiara, fermò i suoi buoi. Raggiunse Bendelbar Caldoferro, comandante delle guardie, e s'inchinò. «Ti porgo i miei saluti. Il mio nome è Kartev, sono venuto qui da Ajula appositamente per parlare col tuo sovrano.» «Perché mai la regina Xamtys II dovrebbe parlare con te?» replicò Bendelbar, un nano massiccio dai lunghi capelli biondi e dalla barba intrecciata dello stesso colore, militarmente laconico e scortese, ma anche un po' sorpreso dalla richiesta. Kartev indietreggiò, sciolse alcuni dei lacci che fissavano i teli al carro e sollevò la copertura, dietro cui apparvero delle sbarre, poi fece cenno al nano di avvicinarsi. «Guarda tu stesso.» Bendelbar si avvicinò e guardò dentro. All'interno erano rannicchiate piccole figure, coi piedi incatenati al pavimento e in condizioni pietose. Erano completamente sbarbate e, fatta salva tale peculiarità, assomigliavano in tutto e per tutto ai nani della Terra Nascosta. «Per Vraccas!» La sentinella capì subito con chi aveva a che fare. Le notizie dei Monti Neri si erano diffuse rapidamente: erano i ladri di diamanti. «Io li chiamo Vecchi Bambini», disse Kartev. «Ho immaginato che il tuo popolo potesse essere interessato a loro. Sono sicuramente imparentati con voi, no?» «E perché li hai catturati?» «Non li ho catturati. Li ho comprati. Da un giudice di Ajula che li aveva fatti imprigionare a causa dei loro saccheggi», spiegò l'uomo in fretta, in modo che non lo si potesse accusare di nulla. «Li ho pagati molto caro», aggiunse subito. Bendelbar osservò i rugosi volti imberbi, la cui vista era per lui del tutto strana e nuova. Tra i prigionieri scorse perfino due donne, sulle cui guance non si vedeva neppure un peletto. «Fammi indovinare: erano a caccia di
diamanti?» Kartev lo guardò meravigliato. «Sì! È così!» Gli si strinsero gli occhi. «Devo pensare che ci abbiano provato anche dalle vostre parti?» Si raddrizzò. «Mi fa piacere potervi aiutare. Ve li cederò quando mi avrete pagato la consegna.» Le dita dell'uomo lasciarono il telo, e i nani stranieri scomparvero di nuovo nell'oscurità. «Porta me e i miei prigionieri dalla tua regina, in modo che possa discutere il compenso con lei.» Bendelbar avvolse una ciocca della barba intorno al massiccio indice. Rifletté un istante, poi alla fine acconsentì. Non potevano lasciarsi sfuggire la possibilità d'interrogare i ladri. Le cronache non avrebbero avuto nessuna pietà di lui, se a causa sua non si fosse riuscita a evitare una catastrofe. Fece aprire le porte per l'uomo e la sua mercanzia. Scortati da dieci guardie, attraversarono la parte occidentale dei Monti Rossi impiegando parecchie rotazioni, finché il gruppo non si fermò in una caverna che i Primi usavano come cava. «Aspetta qui», gli ordinò Bendelbar. «Faccio venire Xamtys.» Trasmise l'ordine a uno dei suoi, che si allontanò al trotto. Bendelbar ebbe di nuovo l'impressione di sentire l'odore di mezz'orco, ma era assolutamente impossibile; non lì dentro. La liquidò come immaginazione. «Che novità ci sono nella Terra Nascosta?» fece Kartev, in vena di chiacchiere, mentre scioglieva le fibbie per tirar via dalla gabbia i teloni e le pelli. «È molto che non vengo qui. Nel Toboribor vivono ancora mezz'orchi?» Bendelbar fece segno agli altri soldati di aiutare l'uomo. Piano piano scoprirono le casse in cui erano chiusi i nani noti nella Terra Nascosta solo come Sotterranei. Erano una ventina. Si raccolsero insieme al centro della loro prigione, osservando i loro simili con diffidenza, in silenzio. «Nel Toboribor? No, non ce ne sono più da molto tempo», rispose Bendelbar assente; non riusciva a distogliere lo sguardo da quelle figure. «Dopo la Stella del Giudizio non è rimasto più nulla di malvagio.» «Dalle mie parti però si sentono dire cose molto diverse», ribatté Kartev raggiungendo d'un balzo la parte anteriore del carro, dove c'erano cinque grossi barili. Aprì quello più a sinistra, prese alcune forme di pane duro e le gettò tra le sbarre; i Sotterranei vi si gettarono sopra avidamente. «Si dice che vi si aggirino strane creature che rapinano e uccidono.» A quel punto Bendelbar guardò l'uomo. «Le voci si diffondono in fretta nella Terra dell'Aldilà.» Il commerciante gli sorrise. «Non dimenticare che sono un mercante. È
facile mettere in agitazione i mercanti, perché temono per le loro merci.» Con salto potente, che Bendelbar non si sarebbe mai aspettato da un umano, atterrò davanti a lui. «Esistono queste creature o no?» «Esistono», sospirò il nano. «Ma le cattureremo in fretta.» Posò la mano sul manico della sua ascia, infilata nella cintura. «Puoi tranquillamente...» Alle sue spalle risuonò un forte schianto. Una parte del pavimento della gabbia era andata in pezzi e una dozzina dei prigionieri era caduta sotto il carro, sulla pietra. Dapprima Bendelbar pensò che il veicolo fosse diventato traballante a causa del lungo viaggio e del peso ma, quando i Sotterranei presero a sciamare a destra e a sinistra senza catene ai piedi, comprese che dovevano essersi liberati. «Fermateli!» gridò Kartev terrorizzato, finendo addosso a una delle guardie, che stava per colpire un Sotterraneo con la sua lancia. «E non fate loro del male! Sono roba mia, capito? Li rivoglio indietro interi. Mi risarcirete di ogni morto!» Bendelbar lo tirò da parte. «Sta' qui!» gli ordinò portando la mano al corno. In quel momento si ribaltò una parte laterale della seconda gabbia; i perni di sostegno caddero a terra tintinnando. Il nano venne colpito in testa e alle spalle dalle sbarre, venendone schiacciato, mentre altri Sotterranei si liberavano e sopraffacevano le guardie, per poi correre con le armi e le armature rubate verso l'uscita della sala. Bendelbar non riusciva a muoversi. La pesante grata lo schiacciava a terra e non gli permetteva neanche di muovere le braccia, e tantomeno di raggiungere il corno. «Cerco aiuto», disse Kartev prendendo l'ascia del nano. «Nel caso in cui dovessero aggredirmi», spiegò. «Te la ridarò. Dove devo andare?» «Il mio corno», mormorò Bendelbar. «Soffiaci dentro.» Per quanto il mercante si sforzasse, non riuscì a emettere nessun suono, a parte una specie di pernacchia. «Vogliono sicuramente il nostro diamante», gemette il nano indicando con un cenno del capo il corridoio di sinistra. «Corri ad avvertire la regina.» Kartev annuì. «Lo farò.» Si alzò e corse via, più veloce di quanto Bendelbar avesse mai visto fare a un uomo. Non gli rimaneva altro da fare che aspettare i soccorsi. Ci volle un bel po', prima che qualcuno si occupasse di lui. Sentì risuonare corni e molte voci concitate, cozzare di armi e nani che urlavano di
dolore e collera. Ogni fibra del corpo di Bendelbar bramava di partecipare alla caccia agli intrusi, ma la grata di ferro resistette a ogni suo tentativo di spostarla. Alla fine si avvicinarono dei passi. Il volto di Kartev apparve davanti a lui. «Eccomi di ritorno», disse, mentre numerose mani afferravano le sbarre per sollevarle la grata Bendelbar scivolò da sotto con una spalla dolorante e la testa che pulsava. Poi venne aiutato a mettersi in piedi. Davanti a lui c'erano, a parte il mercante, la regina Xamtys e una sessantina di guerrieri, le cui armi erano sporche di sangue. «Com'è andata?» chiese facendo un profondo inchino alla sua sovrana. «Abbiamo dovuto ucciderne la maggior parte, perché si sono difesi accanitamente», rispose Xamtys. «Sono riusciti ad arrivare addirittura fino alla nostra stanza del tesoro, anche se non so come sia potuto accadere. C'è stata una confusione terribile.» Xamtys guardò Kartev. «Due di loro sono sicuramente fuggiti, ma non aspettarti di riaverli vivi.» Gli porse un sacchetto che emetteva un noto tintinnio: erano monete d'oro. «Prendile come risarcimento e come ringraziamento per averci aiutati a respingere i Sotterranei dalla stanza del tesoro.» L'uomo s'inchinò. «Molte grazie, nobile regina. Mi dispiace che il nostro affare si sia concluso così. Avrei preferito consegnarvi vivi i prigionieri.» Indicò il fondo del carro, a pezzi. «Non mi aspettavo che riuscissero a crearsi un passaggio con qualche scheggia di ferro e che riuscissero perfino a sciogliere le catene.» «Non è colpa tua. Le mie guardie avrebbero dovuto esaminare più attentamente il carro», replicò la regina guardando Bendelbar. «Da questo momento mi aspetto che le guardie delle porte siano tre volte più caute», disse con voce tagliente. «Torna alla tua postazione, e fa' che ti serva da lezione. Questo attacco sarebbe potuto riuscire fin troppo facilmente.» Si voltò e si allontanò col suo seguito e con la sua scorta. Bendelbar fece una smorfia. Era dolorante e aveva perso il favore della regina. Soprattutto quest'ultima notizia non avrebbe certo provocato una gioia incontenibile al suo capoclan, che lo avrebbe aspramente rimproverato. Poco dopo, Kartev si rimise in viaggio verso la Terra dell'Aldilà con quel poco che restava del suo carro, accompagnato da Bendelbar. Marciarono a lungo, circa tre rotazioni, sulle più larghe strade del regno dei nani, passando accanto a piccole e grandi meraviglie di pietra e ferro, statue,
ponti sospesi e dipinti murali, che rallegrarono il cuore del nano. Benché il suo viaggio fosse stato molto redditizio, il mercante taceva e si comportava come se fosse tutt'altro che felice per l'esito del suo lucroso affare. A Bendelbar sembrava quasi che l'uomo fosse dispiaciuto per la morte dei Sotterranei. Non degnava di uno sguardo le meraviglie offerte dal percorso. Poiché anche il nano non aveva la minima voglia di chiacchierare, alla quarta rotazione attraversarono le porte della Guardiadiferro in silenzio. A nessuno dei due venne da dire più che un «Vraccas ti benedica». Bendelbar si fermò e ordinò di chiudere le porte del muro esterno e di aprire al mercante quelle dei valli, poi raggiunse l'elevatore e si portò al camminamento più avanzato, per seguire da lì con lo sguardo il carro trainato dai buoi. Proprio mentre il nano si chiedeva perché Kartev, dopo la lunga attesa davanti alle porte, non fosse entrato nella Terra Nascosta per comprare delle merci da rivendere al ritorno, l'uomo fece qualcosa di ancora più strano. Quando ebbe lasciato alle sue spalle l'ultimo vallo, Kartev parlò un po' con un nuovo arrivato, la cui meta era la Guardiadiferro occidentale; gli mise in mano le redini del carro e proseguì il suo viaggio di ritorno senza i suoi beni. «Vraccas, che fa quell'uomo?» si chiese Bendelbar lasciando il suo punto di osservazione. Voleva vederci chiaro. Ordinò che venissero preparate le cavalcature per lui e altre cinque guardie, proprio mentre un messaggero gli passava davanti di gran fretta per precipitarsi negli alloggi di Gondogar Pugnoduro, del clan dei Pugnoduro, il comandante della Guardiadiferro occidentale. Le cupe e minacciose voci dei corni della fortezza suonarono l'allarme; azionati da mantici, spedirono il loro messaggio lungo i valli, i pendii e la forra. Improvvisamente la porta sì spalancò di nuovo. Comparve Gondogar, che s'infilò l'elmo sui capelli neri e fece un cenno al nano che montava accanto a Bendelbar. «Tu, scendi! Fa' montare me», ordinò per poi salire in sella. «Fermate quel mercante!» tuonò dando di speroni all'animale tanto da farlo impennare e partire al galoppo per il dolore. «Nella confusione ha scambiato il diamante con una copia di vetro.» Bendelbar sentì caldo e freddo allo stesso tempo; la sua responsabilità stava diventando sempre più grave. I nani volarono in sella ai pony lungo la tortuosa valle, mentre le porte si
aprivano appena in tempo davanti a loro. Si addentravano sempre più nel cuore della Terra dell'Aldilà, seguendo la strada larga e scoscesa ma, per quanto spronassero i loro animali, non riuscirono a raggiungere il mercante. Eppure non c'era nulla dietro cui si potesse essere nascosto. Le pareti o si alzavano ripide o precipitavano in perfetta verticale nei burroni, e la roccia era troppo liscia per offrire appigli alle dita. Si fermarono solo quando il sole tramontò sui Monti Rossi e il crepuscolo si posò come un manto scuro sui dintorni. Gondogar imprecò in modo grossolano. «Dove si è cacciato quel maledetto umano?» gridò contro le pareti dei monti, e un'eco rabbiosa risuonò. «È in combutta con Tion? Com'è possibile che non lo raggiungiamo? Che Vraccas lo colpisca col suo martello!» Il pony di Bendelbar sbuffò allarmato, indietreggiando di fronte a un innocuo masso. Le altre bestie allargarono le froge e alzarono le orecchie, scalpitando, e solo la mano ferma dei loro cavalieri impedì che scappassero. Poi lo sentì anche Bendelbar: mezz'orchi. L'aria della sera era pervasa dal loro odore. Scivolò dalla sella afferrando l'ascia. Gondogar seguì il suo esempio. «Sento il loro tanfo, ma non li vedo», ringhiò. «Che porcheria è questa?» Bendelbar si avvicinò al masso di fronte al quale il pony era indietreggiato per lo spavento, con l'arma pronta a colpire. «Forse dietro quella pietra si nasconde un...» All'improvviso la pietra si trasformò in Kartev. L'uomo aggredì il nano; nella destra teneva una mazza lunga come una gamba, con cui lo colpì alla spalla ferita. L'impatto fu violento, troppo violento per le forze di un essere umano, al quale peraltro sarebbe stato impossibile maneggiare un'arma del genere con una sola mano. Bendelbar fu scaraventato di lato, sbatté contro il suo pony e cadde a terra sotto gli zoccoli impazziti della bestia terrorizzata. Quando il nano, evitando miracolosamente di essere schiacciato, riuscì a rialzarsi, la lotta contro Kartev era già decisa. Ma diversamente da come Bendelbar avrebbe pensato. I suoi compagni giacevano a terra, mentre l'uomo, trionfante, troneggiava su di loro ansimando. «Resta dove sei», ingiunse questi al nano, con voce che sembrava profonda e gutturale, simile a quella di un mezz'orco. «Ho quello che volevo. Non ti farò niente.»
«Ma io sì!» ribatté Bendelbar, levando l'ascia e facendo un balzo in avanti. «Vraccas, aiutami contro questo Pelleverde mutaforma!» Il colpo d'ascia gli venne parato e il manico della mazza lo prese in pieno volto, spedendolo per terra. Stordito, ma comunque dominato dalla volontà indomabile di non farsi sopraffare da quel mostro, il nano si rialzò e sollevò l'ascia per tenere l'avversario lontano da sé. Riconobbe i contorni di un mezz'orco oscillare davanti a lui. «Non mi sfuggirai», biascicò con la bocca impastata. La lunga ombra gli guizzò davanti, mentre la sua lama colpiva il vuoto. «Ti sono appena sfuggito», gridò la creatura da lontano. «Torna alla Guardiadiferro occidentale e fatti curare le ferite.» Si sentì lo scalpiccio di zoccoli. Bendelbar scosse la testa, cercando di togliersi di dosso lo stordimento. Non servì a niente, dovette attendere che le vertigini e il velo che aveva davanti agli occhi svanissero. Quando si riprese, risvegliò Gondogar dal suo stato d'incoscienza. La mazza gli aveva provocato una profonda ammaccatura nell'elmo; il sangue filtrava attraverso i capelli e la barba scendendo sul mento e sul collo. «Che terra orribile», gemette. «Non si distinguono più gli uomini dai mezz'orchi. A parte per l'odore.» Si guardò intorno. «Ci ha rubato i pony.» L'uno dopo l'altro, i nani si rialzarono. C'erano contusioni, un avambraccio rotto e dolorose escoriazioni, ma non lamentavano nessun caduto. Il mezz'orco li aveva risparmiati; ciò avrebbe sicuramente fatto discutere a lungo l'assemblea delle stirpi. Si arresero e tornarono verso la Guardiadiferro. A metà strada vennero loro in aiuto i rinforzi inviati dal regno dei Primi. Era un gruppo di circa cinquanta nani e nane in sella a pony. Gondogar descrisse il loro incontro e le inspiegabili capacità dell'avversario. «Guardatevi dalla sua magia. Sembra si possa trasformare in qualunque cosa. Ma il suo odore rimane quello di un mezz'orco», disse. «Fidatevi dei vostri nasi e dei vostri pony. Sono più difficili da ingannare dei vostri occhi.» Il comandante dello squadrone annuì. «E, quando sarete alla fortezza, voi badate a quale sorgente state bevendo. Molte sono state avvelenate. I nostri saggi le stanno controllando una per una.» Bendelbar, che stava per bere dalla sua borraccia, rimase paralizzato. «Abbiamo trovato un centinaio di cadaveri nella parte meridionale dei Monti Rossi. Dovevano essere morti da diverse rotazioni, e avevano le
bocche, gli occhi, i nasi e le orecchie pieni di sangue. Il clan dei Duromartello è stato completamente cancellato. La regina suppone che sia opera dei Terzi.» Fece loro un cenno con aria truce. «Vi diranno di più alla fortezza. Noi dobbiamo proseguire.» Altri morti tra la sua gente. Ma Bendelbar aveva almeno la certezza che l'attentato non era stato commesso dai Sotterranei. Altrimenti la gravità delle sue responsabilità avrebbe raggiunto l'apice. VIII Terra Nascosta, regno di Gauragar, Porista, 6241° ciclo solare, inizio estate «Pensi che gli elfi ci faranno delle rimostranze per quella questione nell'Âlandur, Sapientone?» A mano a mano che si avvicinavano a Porista, il Rabbioso diventava sempre più inquieto. La città, e futura capitale amministrativa del Gauragar, si delineava all'orizzonte, promettendo ai nani l'incontro di vecchi amici e presumibilmente quello di nuovi avversari. Il guerriero non aveva affatto dimenticato l'impronta della sua mano sulla pietra sacra degli elfi, né lo aveva fatto Tungdil. «Non arriveremo affatto a quel punto», disse questi mentre accarezzava Orecchioappuntito, il suo pony. «Il buono di questa assemblea è che potremo dire a Liútasil stesso che cosa tu hai combinato.» Guardò Goda, che nel frattempo avevano messo a parte della piccola disavventura occorsa al suo maestro. La giovane nana si teneva fuori dal dialogo tra i due, ma lo seguiva silenziosamente divertita. «Bene», fece il Rabbioso arrendendosi al proprio destino, che si stava avvicinando. Non riusciva a immaginare quali effetti potesse avere il fatto che avesse toccato la pietra. «Non si è screpolata né spaccata», disse vagliando le possibilità più allarmanti. «Si è semplicemente macchiata. A una cosa del genere si può di sicuro porre rimedio.» Si batté sulla cotta di maglia. «Con questa funzionerebbe. La si smeriglia un po', si mette un po' di olio, la si strofina ed ecco che una cotta del genere brilla come nuova. Se c'è bisogno, manderò loro uno dei nostri scalpellini a mostrargli come s'intaglia una pietra resistente, su cui una mano pulita non lascia delle impronte indelebili.» «Parli come un fiume in piena. Un fiume d'oro bollente. Forse ti stai facendo coraggio da solo perché sei preoccupato?» chiese Tungdil sogghi-
gnando. «Io? Preoccupato? Da chi o da che cosa?» «Da Liútasil?» «Ma va'! Gli elfi non mi fanno per niente paura.» Il guerriero s'imbronciò e spronò il pony. Prima si fosse trovato davanti al principe degli elfi e gli avesse raccontato tutto, naturalmente con l'aiuto dell'amico, prima si sarebbe lasciato la punizione alle spalle. «Così sembra, però», mormorò Goda, come parlando alla sua cavalcatura. Il Rabbioso la guardò. «Goda, smonta. Tu vai a piedi.» «Cosa?» Sembrava indignata. «Non fare domande, allieva. E carica sulle spalle il tuo bagaglio.» Boïndil girò di nuovo rapido la testa in avanti, in modo che lei non lo vedesse sorridere. Gli arrecava sempre un grande piacere strattonarle il guinzaglio. La nana scivolò dalla sella, si gettò le borse sulla schiena e iniziò a camminare accanto al suo pony, obbediente anche se contrariata. «Che senso ha? Io volevo che mi addestrassi a combattere, non passare la mia vita a fare da facchina.» «Tu... una guerriera ha bisogno di cosce robuste per avere un assetto saldo», replicò lui. «Immagina di essere in marcia, pronta ad affrontare l'attacco di un Muso di porco.... Di' un po', tu conosci la storia del mezz'orco che chiede la strada al nano?» Goda sbuffò. Tungdil rise, perché nel rumore aveva colto nitidamente una maledizione; eppure il suo umore non sembrava davvero rilassato. Pensava a Balyndis, che era ferita e che aveva dovuto lasciare nella galleria di Lot-Ionan. Con suo stesso sconcerto, era partito con un dilemma nel cuore: da una parte era molto preoccupato per sua moglie, dall'altra era contento di allontanarsi di nuovo da lei. Non riusciva a spiegarsi il proprio malcontento; eppure, all'improvviso, il sentimento d'insoddisfazione era di nuovo comparso. Più giocava con tale pensiero e s'immaginava una lunga vita con Balyndis, più trovava la cosa preoccupante; in modo incomprensibile, dato che continuava a voler bene a Balyndis. Probabilmente le voleva ancora bene, ma senza nutrire un'inclinazione più profonda; come se fossero fratello e sorella, o compagni d'arme. «... così il nano scoppiò a ridere e se ne andò per la sua strada», sentì raccontare dal Rabbioso, a conclusione della storiella. Goda faticava a non ridere. Gli angoli della bocca le rifiutavano di resta-
re fermi, e spingevano con forza verso l'alto. Sulle guance le si stavano formando delle fossette, annunciando l'approssimarsi di una grassa risata, anche se si era ripromessa di rimanere seria. Buon umore e rabbia non si adattavano molto l'uno all'altra, ma la storia era semplicemente troppo divertente. Così compensò la prestazione di Boïndil con sonora ilarità, cui si unirono il Rabbioso e perfino Tungdil. Non poteva andare altrimenti. Entrarono in città e, dopo che si furono annunciati, vennero subito accompagnati alla grande assemblea. Tutt'intorno erano state montate molte piccole tende che servivano da luogo di consultazione appartato per piccoli gruppi. «Prima andiamo da Gandogar e gli raccontiamo che cos'è successo, poi andiamo da Liútasil», propose Tungdil all'amico, che assentì col capo. Il volto di Goda era madido di sudore. La nana svuotò la borraccia d'un fiato e si guardò intorno in cerca di una fontana. «Non è necessario, allieva. Presto ti verrà portato qualcosa», disse il Rabbioso sorridendole. «Come vanno le tue gambe?» La nana sollevò la sinistra, poi la destra. «Ci sono ancora», sbuffò tergendosi la fronte. Una ciocca biondo scuro le si attaccò alla guancia umida. «E non spiacerebbe loro prendere a calci un sedere, maestro.» Sogghignò. «Quello di un mezz'orco, naturalmente.» Forse dipendeva dalla luce di Porista, forse dai dintorni o dagli occhi scintillanti della nana, fatto sta che all'improvviso il Rabbioso trovò piacevole lei e la sua vista. Da un istante all'altro era cambiato qualcosa. Il guerriero divenne incerto. «Vediamo un po' cosa c'è», balbettò distogliendo in fretta lo sguardo. Sentiva che era successo qualcosa che non doveva succedere. Non con lei. Puntarono verso la tenda sopra cui sventolavano gli stendardi della stirpe dei Quarti, e vennero prontamente annunciati dalle guardie. Goda si fermò davanti all'entrata e dovette aspettare, ma le venne portato da bere su richiesta di Tungdil. Gandogar li accolse porgendo loro entrambe le mani. «Gli eventi ci stanno travolgendo», dichiarò squadrando compiaciuto il nuovo aspetto di Tungdil, in cui riconosceva la sua vecchia energia. «Volevo giusto parlare ai capiclan della spedizione nella Terra dell'Aldilà ed ecco che sono dovuto correre qui con tutti i convenuti per discutere l'ennesima brutta notizia.» Le molte preoccupazioni avevano lasciato tracce sulla pelle del sovrano; il suo volto mostrava più rughe di prima. «Com'è andata dagli elfi?» Gli occhi dell'imperatore non riuscivano a staccarsi dai capelli corti del Rabbio-
so. «È una nuova moda?» «No, un combattimento. Tungdil te lo può spiegare meglio.» Boïndil preferiva non dire troppo, perché temeva di dover confessare la verità al suo imperatore. Tungdil chinò la testa. «Non abbiamo incontrato Liútasil, ci hanno ben pasciuti e ci hanno mostrato esclusivamente posti irrilevanti. A essere sincero, è stato noioso.» Abbassò la voce. «Sono dell'idea che ci volessero nascondere qualcosa. Abbiamo visto nuovi santuari nei loro boschi sacri e abbiamo sentito per caso di edifici che ci tenevano nascosti. Invece noi garantiamo alle loro delegazioni pieno accesso in tutti i nostri regni. Questo non è giusto. Col tuo permesso, vorrei discutere di questa faccenda col principe Liútasil. Lui è qui, non è vero?» «No.» Gandogar offrì dell'acqua in lucidi calici d'oro. «Ha mandato dei legati, Vilanoîl e Tiwalún. Pare che verrà in seguito, perché deve discutere delle questioni importanti.» Boïndil corrugò la fronte. «Questo lo hanno detto anche a noi. Deve trattarsi proprio di cose molto importanti, se deve discutere così a lungo con chissà chi.» Lanciò uno sguardo a Tungdil. A quel punto la permanenza a Porista diventava un po' meno piacevole; avrebbero incontrato proprio gli elfi che avevano fatto loro da guida nell'Âlandur, e che di certo sapevano perfettamente quanto era successo. Tungdil rimase tranquillo; osservava il modo in cui l'acqua limpida sciabordava sulle pareti giallo vivo del suo calice. «Nell'Âlandur stanno succedendo cose strane.» «Che cosa intendi dire?» chiese Gandogar, inquieto. «Intendo dire che nell'Âlandur stanno succedendo cose strane.» La sua vecchia bruschezza, troppo a lungo tenuta a freno, stava spuntando di nuovo. Si controllò. «Spero che presto tutto sia chiarito e che dietro tutto ciò si nasconda qualcosa di buono.» Vuotò la sua bevanda, s'inchinò e posò il calice. «Quando comincia l'assemblea, imperatore?» «È già da molto che vogliamo riunirci. Ci chiameranno suonando un corno.» Tungdil guardò Gandogar. «Devo annunciare una brutta notizia: il mio diamante è stato rubato. Un mostro diverso dagli altri è comparso nella galleria di Lot-Ionan e ci ha attaccati. Balyndis è rimasta ferita.» Riferì rapidamente l'accaduto. «Abbiamo perso le tracce; il mostro ha seguito un percorso su terreno roccioso e non ha lasciato impronte. A quel punto ci è arrivato il tuo ordine di venire immediatamente a Porista.»
«Anche tu hai perso il tuo diamante? Allora ti è successo quanto è accaduto ai Primi. Un mezz'orco mutaforma e un pugno di Sotterranei senza barba hanno derubato la regina.» Gandogar sbuffò, stringendo i pugni. «E le brutte notizie non finiscono qui. A quanto suppone Xamtys, i Terzi hanno avvelenato alcune sorgenti sui Monti Rossi; prima che si notasse il veleno, sono morti innumerevoli nani. I saggi hanno stabilito che l'effetto mortale si dispiega solo quando se ne è bevuta una quantità consistente. Non serve a nulla bollire l'acqua. Alcuni Primi devono trascinare per grandi tragitti l'acqua da sorgenti lontane. Sui Monti Rossi, nessuno si fida più dell'altro.» «La diffidenza si propagherà, quando i regni dei nani verranno a sapere delle cisterne avvelenate», stimò Tungdil. La sua speranza che i Terzi potessero integrarsi in pace morì. Continuavano a esistere nemici dei nani, dall'odio profondo come un abisso e solido come una roccia, il cui perfido desiderio di vendetta colpiva le altre stirpi in modo più orribile e duro che mai. E, d'altra parte, i Terzi di cui si conosceva l'origine e il pentimento sarebbero presto divenuti invisi agli altri. Con tali premesse, la situazione poteva solo peggiorare. «Forse sarebbe meglio raccogliere di nuovo in una stirpe i Terzi che vivono negli altri regni dei nani», disse Tungdil, pensieroso. «Lontani dai regni dei nani.» Un corno risuonò, richiamando i potenti della Terra Nascosta al grande tavolo. La conversazione venne momentaneamente interrotta. «Con te come re?» catturò svelto l'idea Gandogar, mentre prendeva l'elmo e se lo infilava sotto braccio. «Anch'io ho pensato una cosa del genere. Dobbiamo discutere l'idea con tutti i capiclan e coi Liberi, non appena avremo sistemato la faccenda dei diamanti. Forse in una delle città dei Liberi c'è spazio per i Terzi.» «Che razza di...» Tungdil si morse le labbra per trattenere la parola stupidaggine, e appoggiò la mano sulla testa della Lama di Fuoco. «Sarebbe una buona idea renderli di nuovo dei reietti? Inoltre non credo che i Liberi gradirebbero tanti Terzi in una delle loro città. Se io fossi il re di quella città, temerei di essere deposto con la forza. Chi li potrebbe fermare?» «Ah, tutte queste cose sono terribili. Viene da pensare che Vraccas ci abbia donato cinque cicli di pace per poi mandarci nel caldo di un altoforno», mormorò Boïndil di cattivo umore. «I diamanti vengono rubati, Maialini e altri mostri si aggirano per la nostra patria, le nostre fonti vengono avvelenate, mentre qualcosa bolle nella pentola degli elfi.»
«Prima hai parlato di un mezz'orco tramutato?» intervenne Tungdil camminando accanto a Gandogar. Percorrevano insieme il breve tragitto che conduceva alla tenda. Gandogar annuì. «Il rapporto è alquanto confuso. Ma si è trattato di magia.» «Che cosa? Adesso i Musi di porco conoscono la magia? Tion e Samusin sono diventati completamente folli per scatenarci addosso una cosa simile? I mezz'orchi della Terra Nascosta non sono in grado di fare nulla del genere», mormorò Boïndil. «Maledette arti magiche! Non le ho mai potute soffrire.» Goda si unì a loro, mantenendo una certa distanza. Il volto della nana era rosso per la fatica della marcia, e il Rabbioso temeva in cuor suo di aver esagerato coi suoi ordini. Ma non lo diede a vedere. «Tu aspettaci di nuovo davanti alla tenda», le ingiunse invece, prima di aggiungere un farfugliato: «Riposati». Tungdil entrò nella tenda e guardò le sovrane e i sovrani della Terra Nascosta prendere posto. Conosceva la maggior parte di loro: negli ultimi cinque cicli i volti degli umani erano invecchiati molto rispetto a quelli dei nani e degli elfi. La spina dell'età mordeva profondamente le loro carni. Osservò con curiosità Ortger, il giovane re dell'Urgon. Stava parlando a bassa voce con la sua vicina, la regina Isika, annuendo più volte per poi drizzarsi di nuovo e accennare un inchino. Per contro Vilanoîl e Tiwalún non degnarono i nani di uno sguardo. Da quella palese scortesia, Tungdil e il Rabbioso conclusero che l'impronta nera era stata scoperta. Re Bruron si alzò e batté con l'anello sulla sua coppa d'oro. Il limpido tintinnio interruppe il basso mormorio dei potenti, e l'attenzione fu tutta per il re. «Riprendiamo la nostra seduta, regine e re.» Indicò Tungdil. «Come vedete, tra noi c'è un nuovo amico e ospite fidato. Un eroe della Terra Nascosta, che in queste ore difficili si trattiene con noi e di certo cercherà con noi una soluzione: Tungdil Manodoro.» Gandogar si piegò verso Tungdil. «Il suo calice d'oro è di pessima lega. Il rumore era terribile e tradiva lo scarso valore. A meno che il suo orefice non l'abbia truffato, Bruron è in difficoltà finanziarie ma vuole salvare le apparenze.» «E naturalmente ci rallegriamo della presenza di Boïndil Duelame, i cui servigi per il benessere della nostra patria sono di poco inferiori», proseguì re Bruron sorridendo. «Abbiamo bisogno di eroi come loro per superare le
prove future.» I sovrani chinarono leggermente il capo per mostrare il loro rispetto; soltanto gli elfi sembravano avere i colli paralizzati, cosa che non notò nessuno a parte i nani. Bruron fece scivolare lo sguardo sugli astanti. «Come quasi sempre quando ci riuniamo, devo cominciare con una brutta notizia: la statua del mago Lot-Ionan il Paziente è stata trafugata dalle rovine. Nonostante le estese ricerche condotte dai miei migliori uomini, non siamo riusciti a ritrovarla.» Tungdil deglutì. Ricordava perfettamente la statua che altri non era che il suo padre adottivo stesso. Nudin o, meglio, Nôd'onn lo aveva irrimediabilmente pietrificato durante una lotta avvenuta cicli prima. In cuor suo il nano aveva sperato di poter riportare il pietrificato Lot-Ionan nella galleria, affinché si trovasse almeno nel luogo che, da vivo, era stato la sua casa. «Che se ne potrebbero fare della statua?» chiese Mallen guardando Tungdil. «E come potrei saperlo?» replicò il nano, irritato. Non c'era più nessuno degli apprendisti del mago; da loro si sarebbe almeno aspettato che avessero cura della statua del loro vecchio mentore, mettendola in un posto sicuro e onorandolo dopo la sua morte. Ma eventuali seguaci superstiti avrebbero potuto fare una cosa del genere senza nessuna segretezza. Tungdil si sentiva defraudato dai ladri: gli avevano sottratto l'immagine dell'uomo che per lui era stato come un padre. «È un mistero anche per me», disse Bruron. «Comunque farò proseguire le ricerche da parte dei miei soldati.» Puntò lo sguardo verso Ortger. «Mi avete accennato che avreste delle novità per noi, re Ortger?» «Sì. Una grande città nei pressi del Borwôl è stata distrutta. Completamente distrutta. Non è sopravvissuto un solo abitante. Le tracce fanno pensare a mezz'orchi o simili creature di Tion.» Ortger guardò i volti preoccupati. «Non ci sono più dubbi: i mostri sono tornati nella Terra Nascosta, qualunque sia il modo in cui l'hanno fatto.» Gandogar alzò la mano. «Anch'io devo annunciare qualcosa di terribile.» Raccontò del furto del diamante e dell'avvelenamento dei nani. Poi passò la parola a Tungdil, che parlò della perdita di un altro diamante e della comparsa di una nuova creatura di Tion. Bruron e gli altri sembravano come fulminati. «Sotterranei? Nani della Terra dell'Aldilà si sono messi in combutta con mezz'orchi tramutati per rubare le pietre? Ho sentito bene?» chiese il re, esterrefatto.
«Stanno tutti dalla stessa parte», intervenne Isika. «I mezz'orchi, i Sotterranei e quegli ibridi magici.» Guardò Gandogar. «Imperatore, dovrete permettere che vi si chieda come queste creature siano riuscite ad attraversare i passi e i portali.» La voce della donna avrebbe potuto mandare il vetro in frantumi. Non cercava neppure di nascondere che non si fidava più delle capacità difensive dei nani. «Siamo impotenti verso la magia», ammise Gandogar. «Dimenticate che quel mezz'orco, stando ai resoconti, era capace di mutare il suo aspetto. Se ne esistono altri, sono sicuramente in molti a marciare indisturbati attraverso la Terra Nascosta.» «Questo spiegherebbe le tracce che i miei esploratori hanno trovato nel Toboribor», disse Mallen prendendo la parola. «Indicano che c'è di nuovo vita nelle caverne dei mezz'orchi.» «Tutto combacia. Dunque sono stati i mezz'orchi mutaforma a rubare la statua di Lot-Ionan», congetturò Isika. «Ci hanno sottratto l'ultimo mago, in modo che non ci resti nessuna possibilità di contrapporre qualcosa alla loro magia.» Si rivolse a Tiwalún. «Qualcuno del vostro popolo è forse in grado di padroneggiare la magia?» L'elfo strinse le labbra. «Se anche così fosse, non ci sono più campi magici da cui attingere energia.» Scambiò un rapido sguardo con Vilanoîl. «In realtà non volevamo dirlo. Non ancora. Ma, considerata la situazione, non possiamo più evitarlo.» Fece un profondo respiro. «Il principe Liútasil è morto. Mentre cercava di difendere il nostro diamante.» «Oh, dei, aiutateci...» sussurrò la regina Umilante, terrorizzata. «Se neanche gli elfi riescono a tenere testa a quelle bestie, chi mai potrà farlo?» Nella tenda piombò il silenzio. Nessuno si muoveva, nessuno faceva un rumore, e così si sentivano gli scricchiolii emessi dal telo e dalle funi. Il vento carezzava la stoffa, spingendola dolcemente e facendola muovere e ondeggiare. «Noi!» gridò Tungdil in tono deciso e accusatorio al tempo stesso. Gli faceva male vedere che i potenti si comportavano come bestie timide che si lasciavano mettere all'angolo da un ladro di bestiame. «I figli del Fabbro! E voi tutti. Insieme abbiamo vinto Nôd'onn, insieme abbiamo distrutto gli avatar.» Posò la Lama di Fuoco sul tavolo davanti al suo imperatore. «Quest'arma può ferire quelle creature, e mi proteggerà da ogni attacco magico.» La regina Wey osservò l'impressionante ascia, e il ricordo incoraggiante della vittoria sul male ritornò. «Ha ragione. Ma comunque non può essere
in tutti i posti contemporaneamente. Come ho già detto: portiamo tutti i diamanti nella fortezza più sicura e mettiamo a fianco di Tungdil Manodoro i nostri migliori guerrieri. In questo modo riusciremo a difendere le gemme rimaste e forse perfino a tornare in possesso di quelle rubate.» Mallen batté le mani in segno di approvazione. «Smettiamola di alimentare la nostra paura di quei mostri e di attendere il prossimo attacco. Agiamo, invece.» Si alzò dal suo scanno e sì avvicinò alla mappa della Terra Nascosta. «Propongo di portare i diamanti a Immengau.» Estrasse il pugnale e lo appoggiò su un punto sotto Porista. «Re Bruron si è ricordato della vecchia fortezza di Paland, costruita nei cicli in cui i suoi antenati lottavano contro mezz'orchi e troll per il dominio del Gauragar. Non è stata mai presa dai troll: le mura erano troppo alte, troppo forti. È abbandonata da molto tempo e fa da pascolo per le mucche. Ridoniamole il suo meritato vecchio splendore.» «Ho già mandato gli operai della capitale a Paland, e hanno cominciato i lavori», disse Bruron prima di rivolgersi a Gandogar. «Siate così gentile da inviarci i migliori scalpellini perché esaminino le mura e diano un parere al riguardo.» «Lo farò subito», acconsentì il nano. «E voi altri», fece Mallen in tono sostenuto, «mandate a Paland i migliori guerrieri e arcieri a presidiare i merli e a offrire la fronte a chiunque cerchi di prendere i diamanti. Nel frattempo raccoglieremo i migliori battitori della Terra Nascosta e li metteremo alla ricerca dei mostri.» Colpì il tavolo con un pugno. «Abbiamo vissuto troppo a lungo come topi spaventati dal gatto. Da oggi, noi saremo lupi!» Isika si alzò. «Io pongo una condizione: a Paland non ci sarà nessun guerriero dei nani. Eccetto Tungdil Manodoro e Boïndil Duelame.» Gandogar incassò la testa. «Che cosa significa questa condizione, regina?» «Voi stesso avete detto che dovete combattere coi Terzi nelle vostre stesse file. Se non sapete chi sono, cosa dovremmo fare? Dopo tutto ciò che è successo, di certo si alleeranno coi Sotterranei e coi mezz'orchi piuttosto che combattere fianco a fianco con noi.» Non evitò lo sguardo dell'imperatore, ma lo sostenne con tutta la sua fierezza. «Non lo sto proponendo per sminuire voi e il vostro popolo, imperatore Gandogar. Si tratta solo ed esclusivamente di garantire la sicurezza interna alla fortezza. Né più né meno.» «Ha ragione», le venne in aiuto Tiwalún. «I figli del Fabbro devono
prima dirimere le loro faccende. Mandate un esercito nella Terra dell'Aldilà, a scovare e distruggere l'accampamento dei Terzi da cui vi vengono mandate quelle mortali macchine da guerra. Setacciate i traditori nelle vostre file e proteggete le porte della Terra Nascosta.» Chinò il capo di fronte a Gandogar. «Già due volte i nani hanno prestato il decisivo contributo per la salvezza della patria nostra. Ora tocca a noi, agli elfi. Verremo a Paland con tutti i guerrieri che abbiamo. Tali sarebbero state le volontà del principe Liútasil, finché era in vita.» Isika applaudì per prima, e tutti si unirono. La piccola piantina della speranza, seminata dai nani, avrebbe ricevuto la sua acqua dagli elfi. Gandogar acconsentì. Poi s'iniziò a pianificare il da farsi fino a che i diamanti, attraverso tragitti segreti e sotto rigidi provvedimenti di sicurezza, non fossero stati portati a Immengau e alla fortezza. Solo a tarda notte sembrò che tutti i dubbi fossero stati risolti. «Non perdiamo altro tempo.» Re Bruron diede il segno di congedo. «Ci sono altre questioni da discutere?» «Una cosa che non dev'essere dimenticata, nonostante tutte le nostre preoccupazioni riguardo alle gemme: vi porgo le mie condoglianze per la perdita del vostro principe, Tiwalún e Vilanoîl», intervenne Mallen. «La sua morte non sarà vana, come non lo sarà quella di tutti coloro che hanno cercato di proteggere i diamanti. Ma, prima che ci separiamo per poi incontrarci a Paland, desideravo chiedervi: chi sarà il successore di Liútasil?» Vilanoîl sorrise. «I miei ringraziamenti a voi e a tutti coloro che sono addolorati come gli elfi. Tra dieci rotazioni sarò in grado di rispondere alla domanda vostra, principe Mallen dell'Idoslân. Stiamo deliberando adesso, dal momento che Liútasil non aveva nominato un suo successore. Dunque lo annunceremo ai regni degli uomini e dei nani non appena, nel cuore del mio popolo, la gioia prenderà il posto del dolore.» Gli elfi lasciarono la tenda, e i sovrani tornarono nei loro alloggi. Mallen e i nani indugiarono sotto la tenda, vuotarono le loro coppe e rifletterono sui piani e su ciò che era accaduto. Tungdil raggiunse la mappa e guardò il punto in cui un tempo si trovavano la città e il villaggio che erano stati distrutti. «Non ha senso», mormorò. «Sono troppo lontani l'una dall'altro per essere stati attaccati in così poco tempo dalla stessa banda di mezz'orchi. E non c'era nessun motivo di attaccare loro e di lasciare in pace gli insediamenti e le fattorie tutt'intor-
no.» Passò la mano sulla mappa. «I mezz'orchi attaccano tutto ciò che trovano sul loro cammino.» «Forse questi mezz'orchi sono diversi?» intervenne Mallen. «Gandogar, non avete detto che tra i nani non c'è stato un solo morto quando i mezz'orchi hanno rubato la pietra dei Quarti? È strano, non credete?» Proprio mentre il biondo Ido parlava, Tungdil ricordò alcuni elementi nella descrizione degli attacchi che gli erano sembrati strani. Né i Sotterranei né quegli strani mezz'orchi dagli occhi rosa avevano ucciso. Solo la macchina salita col montacarichi aveva iniziato a mietere vittime tra i Quarti, prima di ritirarsi nelle gallerie e scomparire. «Mazze», mormorò. «I mezz'orchi hanno attaccato usando mazze. E i Sotterranei che hanno creato il diversivo sui Monti Rossi, presso Xamtys, hanno lasciato dietro di loro soltanto dei feriti: nessun morto.» E ciò anche se nessuno di loro era sopravvissuto all'attacco. Due soli erano scampati ai soldati della regina e si aggiravano furtivi nel cuore della montagna. Si erano immolati, nel vero senso della parola, per la riuscita del furto. Disse agli altri quello che stava pensando. «Gandogar, dobbiamo assolutamente catturare vivo uno di quei Sotterranei e interrogarlo.» Boïndil era d'accordo. «Danno la loro vita per riconquistare ciò che è loro.» «Ciò che è loro?» sbottarono Gandogar e Mallen contemporaneamente. «Santo cielo, Rabbioso!» Tungdil corse dall'amico e gli diede una pacca sulla spalla. «Ma certo! Come ho fatto a non capirlo?» Si batté una mano sulla fronte. «E chiamano me Sapientone!» esclamò. «Dovrebbero chiamare te così, Boïndil.» «Adesso sono proprio curioso», replicò il Rabbioso, inorgoglito, cercando di accarezzarsi la barba e finendo però con lo stringere il vuoto. «Cercano il diamante perché è loro!» Tungdil si rivolse al principe e all'imperatore. «Ricordate che abbiamo sempre pensato che un diamante così magistralmente intagliato potesse essere stato levigato solo da nani?» «Per Vraccas, avevamo gli occhi bendati», si lasciò sfuggire Gandogar, che ricordava perfettamente l'aspetto della pietra. La sua stirpe aveva preparato le imitazioni impiegando tutta la propria maestria per rendere possibile l'inganno. «L'Eoîl l'ha rubato ai Sotterranei.» «E, poiché hanno appreso che nel frattempo la pietra è diventata un potentissimo artefatto, non hanno perso tempo a chiederla e stanno cercando di riappropriarsene segretamente. Sanno benissimo che non possiamo in nessun modo restituirgliela», concluse Tungdil.
«Ma che hanno a che fare i mezz'orchi coi diamanti? Perché stanno aiutando i Sotterranei?» «È quello che mi chiedo anch'io», borbottò Boïndil. «Non può esistere un patto del genere tra quelle bestie e il nostro popolo.» «I Sotterranei pensano molto diversamente da noi», gli ricordò Tungdil. La parola «patto» gli fece venire in mente una cosa. «La città e il villaggio che sono stati distrutti avevano qualcosa in comune?» «A parte il fatto che erano situati entrambi vicino ad antichi regni di mostri?» Mallen osservò la mappa. «Ortger non ha accennato niente riguardo a un'alleanza. Credo che molti cicli fa, quando i troll dominavano nel Borwôl, la città volesse mandare una spedizione per parlamentare coi mostri. Si trattava di poter scavare in cerca di tesori.» Tungdil osservò la linea che circondava il territorio del Toboribor. «Quel villaggio un tempo pagava tributi ai mezz'orchi, vero?» «Penso di sì.» Mallen soffocò uno sbadiglio. «Scusatemi. Sono molto stanco e vorrei andare a letto.» «Ancora una domanda», lo pregò Tungdil. «Quando a Güldengarb vi siete trovato di fronte a quel mostro, avete notato una runa elfica sulla sua armatura?» «Quindi non sono l'unico a vedere bene.» Mallen annuì. «Intendevo non parlarne con nessuno prima di averne discusso con Liútasil.» «Descrivetemela.» Mallen fece come gli chiedeva Tungdil è la tracciò su un pezzo di carta. «Questa runa, a quanto credo, significa La vostra», disse il nano dopo un lungo esame. «Il mostro che ci ha attaccati aveva scritto ha sul bracciale.» «Un messaggio che avrà senso solo dopo che tutti i mostri si saranno manifestati?» congetturò Mallen. «Un messaggio rivolto agli elfi», precisò Tungdil. «I mostri portano con sé un'ambasciata per gli elfi. Qualunque cosa abbiano di mira, vogliono che gli elfi la scoprano un pezzo alla volta.» «Pensano di essere inarrestabili.» Mallen indicò l'uscita. «Chiederò a Ortger se ha visto qualcosa. Forse saremo in grado di risolvere questo enigma, anche se non è rivolto a noi.» Porse la mano ai nani, augurò loro una buona notte e lasciò la tenda. «È tardi anche per me», disse Gandogar. «Tu, Tungdil, scorterai la pietra dei Quinti lungo il tragitto dai Monti Grigi a Paland. Non voglio più correre il minimo rischio, e la Lama di Fuoco sarà pronta a tutto ciò che le si contrapporrà. Non può esistere miglior custode di te.» L'imperatore si riti-
rò. I due nani e Goda si allontanarono dalla grande piazza e uno dei servitori di Bruron li condusse alla loro sistemazione. Il Rabbioso riportò alla nana le informazioni essenziali e le ordinò di fare il primo turno di guardia. «Maestro, sono stanca...» «Sì, lo so. Hai camminato coi bagagli sotto il sole», replicò Boïndil scuotendo la testa, inflessibile. «Ma una guerriera come te deve mettere in conto di poter essere attaccata anche dopo una lunga marcia. Ai tuoi nemici non interessa se sei riposata oppure no. Sono sempre in agguato.» Si sfilò stivali e cotta di maglia con un sospiro, si sbottonò il farsetto di cuoio e si gettò sul letto. «Questa è la tua lezione di oggi.» «Molte grazie, maestro.» La nana si sedette sulla sedia accanto alla porta, in modo da tenere sott'occhio la porta e la finestra contemporaneamente. Tungdil si coricò sotto le coperte e rifletté a lungo sulla discussione di quella sera. Mille cose gli volavano per la testa, mentre cercava una spiegazione migliore di quella, semplicistica, data da Isika. I Sotterranei e i loro mezz'orchi erano una chiave per spiegare gli eventi della Terra Nascosta, i nuovi mostri un'altra. Solo leggendo la situazione in quel modo sarebbe stato possibile svelarne i misteri. Probabilmente avrebbero portato alla luce sfide ancora più pericolose per la Terra Nascosta. «Perché Tiwalún non ha detto niente?» domandò Boïndil. «Riguardo alla pietra?» Tungdil volse la testa verso l'amico, che stava seduto sul letto e sembrava anche lui rimuginare. «Sarebbe stato meglio se l'avesse fatto?» «Perché faccio la guardia, se nessuno dorme?» si lamentò Goda, offesa. «Non preoccuparti. Faremo i bravi tra un attimo», disse Tungdil sogghignando. «E per quanto ti riguarda, Rabbioso, il nuovo principe degli elfi ti farà sicuramente convocare. Vedrai.» Si girò verso il muro e chiuse gli occhi. E, proprio un attimo prima di assopirsi, gli venne in mente una cosa che i due insediamenti avevano in comune. Ma il mattino successivo l'aveva già dimenticata. Terra Nascosta, regno di Weyurn, 6241° ciclo solare, inizio estate Rodario fu svegliato da un rumore, e si stupì non poco quando comprese
che cosa lo causava: stava battendo i denti più in fretta di come copula una lepre e, se la lingua gli fosse finita tra le mascelle, se la sarebbe tagliata a fettine. Aprì gli occhi; tremando, si rigirò sulle spalle e si drizzò a sedere. Intorno a lui regnava una fitta nebbia e, a giudicare dalla luminosità, il sole era in procinto di alzarsi all'orizzonte. Era sdraiato su una spiaggia sassosa. Le onde gli lambivano le gambe e i fianchi, traendolo dolcemente verso l'acqua, quasi lo volessero far fluire di nuovo nel mare. «Elria, ti ringrazio di avermi risparmiato. Immagino che non volessi un attore nel tuo regno», balbettò Rodario alzandosi e incamminandosi lungo la spiaggia in cerca di gente che lo potesse aiutare. Suppose di trovarsi in una delle isole che la notte prima aveva superato a una certa distanza. Non dovette camminare molto prima d'imbattersi in una semplice capanna di pescatori, davanti alla quale erano appese ad asciugare diverse reti. «Siete già svegli?» gridò mentre bussava alla porta. «Vi prego, lasciatemi accostare a un fuoco prima che la morte mi prenda.» La porta si aprì di un palmo. Dall'oscurità della capanna lo fissarono con curiosità due paia di giovani occhi; poi la più piccola delle ragazzine scomparve velocemente. La sorella maggiore, cui l'attore dava circa undici cicli, rimase a osservarlo; indossava un vecchio e logoro abito con sopra due grembiuli, i corti capelli bruni le stavano attaccati e unti alla testa. «Chi sei?» «Mi chiamo Rodario. La mia barca si è ribaltata.» Non riusciva a contenere i brividi, tremava come una foglia. «Per favore, fatemi entrare e lasciate che mi sieda accanto al camino ad asciugare i vestiti.» «Mio padre è a pescare, e mamma ci ha detto di non far entrare nessuno mentre lei è in cerca di erbe.» Lo osservò. «Tu non sei un pirata. Sei davvero troppo magro.» Aprì la porta e lo fece entrare. «Là», disse indicando il focolare aperto in mezzo alla capanna. «Ci metto qualche ceppo, ma tu devi pagare. Sono cari.» «Grazie. Come ti chiami, piccola mia?» L'attore la superò camminando con le gambe rigide e si gustò il calore che gli veniva incontro. C'era odore di pesce, di fumo e di grasso, che stava cuocendo in un grosso tino dall'altra parte della parete. Stavano preparando del sapone, o dell'olio di pesce; si meravigliò che riuscissero a resistere a quel fetore. «Flira.» Presentò l'uno dopo l'altro i suoi cinque fratelli, poi salì su una scala a pioli e gettò sotto dei blocchi di alghe seccate e pressate. «Buttale
nel fuoco», gli disse. «Una moneta al pezzo.» Rodario si tastò la cintura fino a che non trovò il borsello con ciò che restava dell'incasso della rotazione precedente. Lo sciolse dalla cintura e lo gettò alla ragazzina. «Tieni. Voi potreste averne più bisogno di me.» Accatastò i blocchi sul fuoco e si compiacque del calore. Flira, diffidente, aprì il borsello e contò. «Sono sette monete!» esclamò, stupita. «Grazie mille! Che Elria ti benedica!» «L'ha già fatto.» L'attore rise stendendo le mani verso il fuoco. «Sono sopravvissuto a quella maledetta onda gigante. Ma la mia barca no.» La ragazzina spalancò gli occhi. «Già un'altra? Quand'è stato?» Rodario scosse le spalle. «È già passato un bel po'.» Poi capì il motivo di quella domanda: Flira aveva paura per il padre. «Queste onde capitano spesso?» Si sfilò la camicia e l'appese a un puntello di ferro, sporse il bacino verso il fuoco e distese le gambe a destra e a sinistra in modo da ricevere più calore. Non voleva spogliarsi davanti ai bambini. «Papà dice che prima non c'erano. Il mare del Weyurn è diventato infido e minaccioso come un mostro degli incubi di Tion solo dopo il grande terremoto e l'inondazione.» Flira gli si sedette di fronte e gli offrì una tazza di tè caldo. «Ce n'è una dopo l'altra, compaiono dal nulla. Si sono inghiottite sette barche di pescatori, e questo solo da noi. Papà dice che altre isole sono state meno fortunate.» Il fratello che aveva presentato come Ormardin si avvicinò loro. Il luccichio negli occhi del bambino suggeriva all'attore che quelle misteriose impennate del mare lo affascinavano. «Raccontagli dell'isola degli albi.» Flira gli diede un leggero scappellotto alla nuca. «Chi ti ha chiamato tra noi grandi? Raccontagliela tu, no?» «Un'isola di albi? Siete riusciti a incuriosirmi», disse Rodario. «Sono tutto orecchie, Ormardin.» Sorseggiò un po' di tè, aspettando la favola che il bambino gli avrebbe propinato. Ormardin sorrise e cominciò. Cinque cicli fa, poco prima che sorgesse la Stella del Giudizio, una banda di albi attraversava la Terra Nascosta in cerca di una nuova e più sicura dimora. Giunsero nel Weyurn e presero a viaggiare per la nostra patria su una nave che avevano costruito loro stessi, usando gli scheletri e la pelle di uomini ed elfi. Esplorarono le isole, quelle fisse come pure quelle mobili. Nessuno notò
quello che stavano facendo, e gli sventurati pescatori che li incontravano nelle acque alte venivano da loro uccisi e divorati. Una notte gli albi approdarono su un'isola meravigliosa, che risvegliò la loro curiosità. Videro che sopra c'era un monte pieno di caverne in cui potevano nascondersi dai loro nemici. Massacrarono gli abitanti e s'impossessarono dell'isola, trascinarono i cadaveri nelle grotte, dove li scorticarono e li disossarono. Volevano montare un grande spiedo per cuocere gli uomini, ma, quando uno di loro infilò la sua lancia nel suolo, la terra si aprì e l'acqua inondò le caverne. L'isola s'inabissò nel profondo del mare, e così gli albi sfuggirono alla Stella del Giudizio, la cui potenza non giunse fino ai fondali dei mari del Weyurn. Ma Elria non permise agli albi di morire. Dovevano pagare per il male che avevano fatto agli uomini del Weyurn, e la dea li condannò a vivere in eterno sull'isola. Di tanto in tanto, quando la posizione delle stelle è favorevole, gli albi emergono insieme con l'isola per vedere la notte. Si dice che non moriranno finché non avranno dipinto tutte le pareti di tutte le grotte dell'isola. Chi sopravvive alla potente onda che annuncia la comparsa dell'isola, ed è tanto incauto da mettervi piede, viene subito mangiato dagli albi, viene scorticato e il suo sangue viene usato per dipingere le pareti. Ormardin tacque e guardò Rodario. «Ti è piaciuta la storia?» L'attore batté le mani entusiasta. «Mio giovane amico, m'inchino profondamente di fronte al tuo talento. Se i tuoi genitori non hanno altri progetti per te, un giorno diventerai il migliore narratore di fiabe del Weyurn. Ci scommetto l'incasso del mio teatro.» «Sei un attore?» Il bambino non riusciva a credere alla fortuna che gli era capitata. «Eh, sì. Io sono l'Incredibile Rodario, l'imperatore di tutti gli attori della Terra Nascosta», si vantò seguendo un copione ben collaudato. «Ed è mio piacere poter dire che il Curiosum e la migliore compagnia di attori del mondo sono miei. Se fossero nei paraggi t'inviterei, giovanotto.» Gli passò una mano tra i corti capelli scuri. Ormardin drizzò le orecchie. Ricevere un encomio dalla bocca di un maestro significava molto per lui. La porta si aprì, e apparvero in controluce i contorni neri di una donna dai capelli lunghi che teneva un cesto nella sinistra. «Chi siete?» chiese
subito con voce agitata. «State lontano dai bambini!» Rodario comprendeva la reazione. «Non temete, brava donna.» «Questo è l'Incredibile Rodario. È un attore naufrago», disse subito Ormardin, balzando in piedi e correndo felice dalla madre per abbracciarla. «Gli ho raccontato la storia dell'isola degli albi, e lui ha detto che ho talento.» «Ti ha messo dei grilli per la testa?» La donna entrò e chiuse la porta dietro di sé. L'attore vide che aveva qualche ciclo più di lui e che era avvolta da una semplice veste di cotone. A quanto pareva, nel Weyurn i pescatori non guadagnavano molto. «Vi saluto», disse. «Perdonate l'aspetto, ma mi sono dovuto sfilare i vestiti bagnati.» La donna si calmò non appena comprese che l'uomo non costituiva un pericolo, né per i bambini né per lei o le loro proprietà: a torso nudo non si poteva nascondere nulla, né armi né oggetti rubati. «Mi chiamo Talena.» Posò il cesto sul tavolo. «Scusate il mio saluto scortese.» Rodario alzò un braccio. «Non preoccupatevi. Posso capire.» «Mi ha dato dei soldi», disse Flira porgendo alla mamma il borsello. «È per il combustibile», spiegò Rodario sorridendo. «Sapreste dirmi come posso lasciare l'isola? Devo andare a Mifurdania.» «Basta che superiate le dune e imbocchiate il sentiero verso destra. Vi porterà a Stillwasser. È un paesino di pescatori in cui troverete qualcuno che vi prenda a bordo.» Talena tolse le erbe dal cesto e le lavò in una bacinella colma d'acqua. «La storia di mio figlio vi è piaciuta davvero?» «Sì, e molto», confermò Rodario, ammiccando a Ormardin. «Ero serio quando parlavo di talento. Se non dovesse imparare il mestiere di suo padre, fatelo istruire come narratore. In questo campo conosco un paio di buoni maestri che apprezzerebbero molto un allievo così dotato.» «Oh, per favore, mamma. Flira può diventare lei pescatrice», implorò il bambino. «No, io non voglio», intervenne subito l'interessata. Talena si girò. «State calmi. Sentiamo che cosa dice vostro padre in proposito.» Guardò Rodario. «Se fossi in voi, mi affretterei. A quanto so, quando il sole sarà allo zenit partirà Mendar con la sua barca per andare a vendere ostriche al mercato di Mifurdania. Dite a Mendar che vi mando io e vi darà un posto senza chiedervi compenso.» «Grazie.» Rodario tolse la camicia dalla sbarra e si rivestì. «Forse ci rivedremo», disse rivolto a Ormardin accovacciandosi davanti a lui. «Hai
qualcosa per scrivere? Così ti posso lasciare il nome di qualche grande narratore di fiabe.» Il bambino annuì, corse via e tornò con un pezzo dì ardesia e del gesso. Rodario vi scrisse sopra i nomi di due famosi narratori e i regni in cui vivevano. «Dovrai chiedere dove puoi trovarli, perché viaggiano molto. Ma non sarà difficile scoprire dove sono.» Gli arruffò i capelli per salutarlo. «Che Palandiell ti aiuti a farlo, Ormardin.» Talena gli diede un pezzo di pane e del pesce essiccato. «Per il viaggio», disse facendogli un cenno col capo. L'attore lesse negli occhi della donna che il figlio non avrebbe mai avuto l'opportunità di lasciare l'isola. Il suo destino era diventare un pescatore come suo padre, il padre di suo padre e presumibilmente tutti i suoi antenati. «Che Elria sia con voi.» La donna lo accompagnò alla porta e gli mostrò il punto, tra le dune coperte di nebbia, da cui avrebbe individuato il sentiero con maggiore facilità. Non si era allontanato di tre passi dalla soglia che sentì già la porta chiudersi. La cortina bianca che lo avvolgeva, impedendogli di vedere lontano, aveva un sapore dolce: sapeva un po' di miele e di sabbia. Rodario si arrampicò sulla duna e trovò la via descritta da Talena. Camminando mangiò il pane e il pesce, mentre rimuginava sull'isola degli albi. Se non altro, Ormardin gli aveva offerto una spiegazione per la scomparsa della chiatta; non era un pensiero rassicurante, però. Un'ultima enclave di albi assolutamente difficile da cacciare: poteva rivelarsi un focolaio di sciagure ancora peggiori per la Terra Nascosta. Quando la nebbia si diradò, Rodario vide una terra piatta con pochi alberi e molti arbusti e prati su cui pascolavano pecore e capre. Trovò facilmente il paesino e individuò in fretta anche il pescatore di cui gli aveva parlato Talena; costui lo accolse a bordo e lo fece sedere a prua, tra le vele di scorta, accanto a un marinaio che stava rattoppando delle falle nel tessuto usando grosse pezze di stoffa. La barca salpò, tagliando la superficie dell'acqua con fragore e correndo verso il porto. Rodario si appisolò un po', poi si mise a osservare il marinaio al lavoro. I suoi pensieri vagavano; ripensò al bambino in cui gli era parso di vedere tanto talento e si rattristò perché Ormardin non avrebbe mai vissuto una vita migliore. «Che hai da guardare?» La domanda scortese strappò Rodario dai suoi tristi pensieri. «Chiedo
scusa. Ero sovrappensiero.» Sorrise. Forse l'uomo ne sapeva di più dell'isola misteriosa. «Mi stavo chiedendo se sai qual è la causa delle onde giganti. Proprio ieri notte mi...» Il marinaio lasciò cadere gli attrezzi da rammendo e lo fissò. «Sei impazzito?» Sputò oltre il parapetto e nominò rapidamente tre volte il nome di Elria, l'una dopo l'altra. «Stai chiamando l'isola degli albi, e la nostra rovina.» Rodario si stupì molto nel vedere che un uomo adulto avesse tanta paura di una leggenda. «Esiste davvero?» «Come il sole sopra le nostre teste», rispose il marinaio a bassa voce mentre guardava il mare, che scintillava come uno specchio. «Non ne parlare, hai capito?» Rodario non aveva nessuna intenzione di mettere da parte la sua smania di fare domande. Gli stava venendo in mente una cosa. «Devo sapere se ci sono uomini che vi hanno messo piede e che sono sopravvissuti.» Il marinaio lo prese per il colletto e lo scosse bruscamente. «Se non ti tappi immediatamente...» Il mare intorno a loro cominciò in quel momento a ribollire, mentre si diffondeva un terribile puzzo di uova marce, tale da costringere Rodario a tossire. In coperta venne suonata un'acuta campana; l'equipaggio prese a correre avanti e indietro per spiegare tutte le vele. Dovevano uscire il più in fretta possibile dalla zona di pericolo. «Maledetto idiota!» gridò il marinaio colpendo forte Rodario al labbro inferiore. «È colpa tua!» Si alzò e lo tirò in piedi. «È lui il colpevole», gridò levando già il braccio per colpirlo di nuovo. «È lui che l'ha chiamata!» «Ma che sta succedendo?» domandò Rodario. Evitò il secondo colpo, ma incespicò in una piega della vela di scorta; sbatté coi fianchi sul parapetto e perse l'equilibrio. Anziché aiutarlo, il marinaio gli diede uno spintone che lo fece volare oltre il bordo. «Prendilo, Elria! Prendetelo, albi!» gli gridò dietro. «Risparmiateci! Risparmiateci!» Rodario ripiombò nella gelida acqua, amara e sgradevole come zolfo. Era circondato da bolle d'aria vorticose di tutte le forme e dimensioni, alcune colme di gas giallo, verde o blu. La luce del sole che si specchiava e rifrangeva sull'acqua conferiva loro una strana bellezza. L'attore evitò le bolle e annaspò fino alla superficie. Ansimò e tossì, di nuovo irritato dai vapori caustici. Le bolle che scoppiavano tutt'intorno da-
vano l'impressione che il mare stesse bollendo. Ma per sua fortuna non era così. La poppa della barca gli passò davanti; non riusciva a raggiungerla. «Non potete farlo!» gridò, impaurito. «Non so nuotare molto bene! Riprendetemi subito a bordo!» All'improvviso un acuminato spuntone roccioso emerse tra la schiuma, innalzandosi sempre più. Al sottile pinnacolo ne seguirono altri, mentre l'acqua ribolliva e ondeggiava. Più le rocce salivano, più la loro parte emersa si allargava, fino a che la base non formò una massiccia e scoscesa cupola di roccia che si ergeva dal mare; l'acqua scendeva sui suoi pendii in rapide cascatelle. L'altalenare delle piccole onde crebbe trasformandosi in un maroso che si alzava e abbassava in modo minaccioso. La barca gli si offriva come gradita vittima, ruotando su se stessa. Le controventature si ruppero cadendo in acqua o sul ponte; a quel punto la vela era perduta, e la barca rollò inclinandosi pericolosamente di lato. Nel frattempo il monte continuava a crescere dagli abissi, emettendo aria e gas da fessure e buchi. Rodario riuscì ad aggrapparsi a una tavola; poi dedicò tutta la sua attenzione allo spettacolo. La prua della barca cozzò contro la parete scoscesa. Gli scogli appuntiti, rivolti verso l'alto, segarono e rasparono le assi, squarciando il legno. Attrezzatura e vela s'impigliarono e vennero trascinate via. La barca si dissolse pezzo per pezzo, mentre l'equipaggio si gettava in mare fuori bordo. La montagna continuava a emergere dalle acque. Rodario stimò che fosse alta almeno duecento passi, e ancora non se ne vedeva la fine. Con un ultimo ribollio, il processo di emersione terminò. Dalla montagna si riversavano in mare fiotti d'acqua; il sole si rifrangeva sulle cortine di schiuma in brillanti giochi di colore, offrendo a Rodario una vista indimenticabile. «Ormardin non mi ha raccontato una fiaba», mormorò sconvolto, mentre osservava le vertiginose pareti rocciose che svettavano davanti a lui. «Esiste davvero l'isola degli albi.» Valutò che avesse un diametro di cento passi abbondanti e un'altezza di almeno quattrocento. Era fatta di una pietra blu scuro, quasi nera, in cui luccicavano qua e là minerali. Gli parve che fosse un pezzo di cielo notturno staccato e gettato sulla terra. Una piatta riva, formata da lava raffreddata, si trovava sul versante orientato verso di lui. Dalle caverne alle spalle della riva uscivano di corsa
alte e snelle figure che mettevano barche in acqua. Gli albi si preparavano al loro raccolto. Rodario nuotò fino a uno stralcio di vela e vi si nascose dietro. Una corrente sfavorevole lo stava spingendo più vicino alla montagna di quanto non volesse. Non aveva intenzione di esplorare l'isola, eppure Samusin sembrava gradire l'idea di gettarlo in pasto agli albi. Da sotto la vela osservò le barche muoversi lentamente tra i relitti; gli albi cercavano sopravvissuti e issavano a bordo cadaveri. Non volevano feriti, prendevano solo marinai morti o sani. Lo spettacolo ricordava a Rodario una caccia alla foca: non appena uno dei marinai emergeva per prendere aria e gli albi capivano che era ferito, le punte delle lance si abbattevano su di lui. Gli albi compirono la loro opera con grande circospezione. Girarono intorno anche al nascondiglio di Rodario, trafiggendo la vela più volte, ma senza riuscire a pescare l'uomo. Non prestarono ulteriore attenzione al pezzo di vela, che si muoveva verso la spiaggia sotto la spinta delle onde. A un certo punto si udì un rintocco metallico, e gli albi tornarono alla riva e trassero le imbarcazioni nelle caverne. La- montagna sbuffò di nuovo gas. Poi la spiaggia s'immerse e il monte s'inabissò. «Dei, proteggetemi», fu la preghiera di Rodario, ormai approdato, prima di uscire dal suo nascondiglio e correre verso lo scuro ingresso in cui erano scomparsi gli albi. Terra Nascosta, regno di Idoslân, caverne dei mezz'orchi del Toboribor, 6241° ciclo solare, inizio estate La portalancia Hakulana osservava lo scabro rilievo che si ergeva in mezzo al verde paesaggio dell'Idoslân contrassegnando uno dei numerosi ingressi al sistema di caverne del Toboribor. Vi riconosceva le affilate fortificazioni dei mezz'orchi che, simili a lapidi sghembe, si alzavano verso il cielo. «Sembra tranquillo», disse a Torant, un giovane e promettente portadaga che cavalcava accanto a lei. La donna apprezzava la sua indole tranquilla e l'attenzione con cui compiva il suo dovere. «Avete trovato tracce?» «No, portalancia. Nessuna.» Hakulana guardò il cielo, che minacciava un temporale estivo. Nuvole nere e grigie avevano ricoperto il blu; il vento soffiava più forte facendo
ondeggiare il gagliardetto attaccato alla lancia della donna. Lei e i suoi venti esploratori a cavallo si trovavano a circa mezzo miglio dal punto di accesso al regno di uno dei principi dei mezz'orchi, quello un tempo chiamato Ushnotz. Hakulana era troppo giovane per potersi ricordare di quel mostro, ma alcuni soldati più anziani del principe Mallen raccontavano di quella creatura indomabile e crudele: dopo aver perso nella battaglia di Giogonero, aveva cercato di trasferirsi a nord e di fondare lì un nuovo regno; il suo terribile piano era stato sventato grazie ai nani. Torant osservava il movimento delle nuvole. «Dobbiamo montare le tende, portalancia?» Hakulana scosse la testa e indicò la collina con la punta della lancia. «Ci accamperemo là, all'ingresso delle caverne. Così ci risparmieremo questa fatica.» «Come comandate, portalancia.» Torant riportò l'ordine a voce alta e la squadra si mosse al trotto verso la nuova meta. Hakulana seguiva i suoi uomini da una certa distanza, senza distogliere lo sguardo dal poggio, le cui fortificazioni erano state abbattute dalle truppe del principe poco dopo la battaglia di Giogonero. Non c'era più nulla che ricordasse il dominio dei mezz'orchi e le loro squallide cittadelle di deformi conci di pietra, che avevano fatto costruire dai loro vassalli umani. La donna e i suoi esploratori erano lì per accertarsi che le cose rimanessero così. Anche la più piccola traccia del ritorno dei mezz'orchi sarebbe stata riferita immediatamente, dando così il via all'intervento dell'esercito. E l'esploratrice sentiva che la collina davanti a loro nascondeva qualcosa. Quando dal cielo caddero le prime gocce di pioggia, il gruppo cavalcò attraverso le mura demolite, passando oltre i portali divelti, poi si addentrò nell'oscurità della caverna. I soldati, tra cui vi erano anche delle donne, accesero delle torce e prepararono il campo. Ogni compito era precisamente assegnato, ogni esploratore e ogni esploratrice sapevano perfettamente che cosa dovevano fare, dalla cura dei cavalli alla preparazione del rancio alla sorveglianza dei dintorni. «Portalancia!» si sentì gridare da Torant dal fondo della grotta. «Ho trovato ossa di mezz'orco nella parte posteriore.» Si avvicinò alla donna porgendole un femore. «Non è più vecchio di un ciclo.» «Ne sei sicuro?» Hakulana smontò da cavallo e guardò l'uscita della caverna. Le nuvole volavano basse sulla terra, lasciando che le alture le sfio-
rassero; scaricavano sulla terra un'impressionante quantità di acqua, che scorreva davanti all'apertura della grotta in grossi rivoli fangosi. «Sì, portalancia. Ce ne sono parecchie qua intorno.» Un primo fulmine guizzò silenzioso davanti alla collina; poco dopo risuonò un lungo tuono. I cavalli nitrirono spaventati. «E così abbiamo davvero trovato una prova. Avrei preferito non scoprire niente.» Hakulana si volse verso i suoi soldati. «Meno male che non abbiamo montato le tende», disse a Torant. «Va' ad aiutare gli altri a calmare i cavalli, prima che strappino i lacci e travolgano tutto. Io do un'occhiata intorno.» Alla luce di un secondo lampo, la donna vide il mostro che si avvicinava, non notato, dal fondo del campo. Per quanto quell'istante fosse stato breve, la luce bianca bastò a Hakulana per distinguerne ogni terribile dettaglio. Era gigantesco, di sicuro alto tre passi e mezzo, ed era spaventosamente massiccio. Sulla testa portava un rigido elmo di tionio che imitava un teschio ed esibiva raffinati intarsi d'argento; vi erano stati infilati lunghi perni che univano indissolubilmente metallo e cranio. Le labbra erano dischiuse in modo da esibire le zanne e sembravano sogghignare senza sosta. Hakulana indietreggiò e, nella sua paura, non si accorse di essere uscita dal rifugio e che la pioggia battente la stava inzuppando. Non riusciva a parlare né a distogliere lo sguardo. Il corpo del mostro era provvisto di lamine di tionio fissate alla carne con chiodi e punzoni. Gli avambracci erano stati amputati da gomito a polso e sostituiti con un'intelaiatura di metallo che racchiudeva un nucleo di vetro debolmente rilucente; le mani erano invece al loro posto e brandivano due asce istoriate di rune. Il tuono riecheggiò, mentre la creatura scompariva di nuovo nell'oscurità. Se i suoi occhi, grandi come pugni, non fossero brillati di verde scuro, Hakulana avrebbe creduto di essersi ingannata. «Palandiell, aiutaci!» sussurrò la donna. «Via!» gridò estraendo la spada. «Usciamo subito dalla caverna!» Le torce si spensero di colpo. Quell'oscurità inattesa, unitamente all'inaspettato ordine della portalancia, scatenò una confusione disperata. I cavalli nitrirono in preda al panico, liberandosi dalle pastoie, e corsero fuori dalla caverna. Subito dopo risuonarono dei colpi sordi, lo sferragliare di metallo e lo scricchiolio secco di ossa che si rompono e si rivoltano. Un grido acuto, in
cui era difficile riconoscere un uomo, annunciò la prima vittima tra gli esploratori colti alla sprovvista. Fu solo l'inizio. A quel punto i lampi si susseguirono a breve distanza; il temporale aveva raggiunto la sua massima intensità e coi suoi sprazzi di luce offriva alla donna brevi e crudeli scorci di quello che stava accadendo. Erano come dipinti di atrocità, al cui centro si trovava sempre il mostro. A volte faceva a pezzi i soldati con le asce, a volte strappava con un morso la testa a un soldato, altre volte spiaccicava il capo di un'esploratrice con un calcio. I rumori che ne venivano fecero venire a Hakulana voglia di vomitare. Le gambe della donna si rifiutavano di rientrare nella caverna, per quanto la sua mente e i suoi muscoli ordinassero loro di farlo per essere accanto ai suoi sottoposti e aiutarli. Rimase invece immobile sotto la pioggia, a vedere i suoi soldati morire. Dall'oscurità un'ombra corse verso di lei. Urlando la donna si scansò e colpì, prima di rendersi conto dell'errore: aveva ucciso Torant. Il giovane cadde nel fango accanto a lei, con un profondo taglio alla gola. Puntò gli occhi increduli verso la portalancia, poi esalò l'ultimo respiro. «No», sussurrò la donna, facendo altri due passi all'indietro, via da quella maledetta caverna in cui regnava il male. Il rantolare del portadaga l'avrebbe perseguitata a lungo. Altri due soldati si precipitarono fuori dalla caverna: a uno mancava il braccio destro, l'altro sanguinava da una lieve ferita al petto. Finalmente Hakulana si scosse di dosso la paura paralizzante che l'aveva attanagliata. Corse a sostenere l'uomo con la ferita più leggera e abbandonò quello monco al suo destino; la perdita di sangue lo avrebbe ucciso, non era cosa cui lei potesse porre rimedio. «Via di qui!» gridò per superare il fragore della tempesta. «Dobbiamo fare rapporto al principe. Non possiamo fermare quel mostro.» «Che cos'era?» piagnucolò il soldato tra i gemiti. La donna lo afferrò da sotto le ascelle e lo trascinò all'indietro giù per la collina, dove alcuni cavalli si erano fermati sotto un albero alla ricerca di un riparo. «Una nuova creatura di Tion.» Hakulana ansimava. Qualcosa urtò il petto dell'uomo; Hakulana avvertì chiaramente il contraccolpo, e subito dopo il soldato si afflosciò e divenne più pesante. La donna si trovò a fissare la lunga asta nera dì una freccia albica che spuntava dal cadavere; alzando lo sguardo, vide il mostro all'uscita della caverna e proprio accanto a esso un'alta figura slanciata. Indossava una magnifica
armatura nera di tionio, alla maniera degli albi; il capo era nascosto da un elmo di raffinata lavorazione e alla cintura portava due spade. Lo si sarebbe potuto scambiare per un monumento a memoria della pericolosità del crudele popolo dello Dsôn Balsur. L'albo incoccò un'altra freccia nel suo arco curvo e mirò verso Hakulana. La donna lasciò cadere il cadavere, si tuffò di lato. Subito dopo sentì un dolore bruciante alla spalla sinistra. Imprecando spezzò l'asta piumata, lasciando per il momento la punta nel corpo. Sempre sotto la copertura offerta dalle rovine e dalle macerie, scivolò verso i cavalli irrequieti e cercò di montare su uno di loro. Non appena riuscì ad afferrarne la criniera e balzare sulla groppa priva di sella, l'animale crollò sbuffando; una freccia gli spuntava dall'occhio destro. Con prontezza di spirito Hakulana montò sull'animale più vicino che, spaventato, partì al galoppo. La freccia successiva mancò la donna di un palmo scarso e s'infilò nella spalla anteriore dell'animale, spronandolo a correre ancora più velocemente. I lampi si abbattevano tutt'intorno. La portalancia non credeva di aver mai assistito a un temporale tanto violento; eppure, nonostante i tuoni, sentì qualcosa. Tonfi ritmati la costrinsero a guardarsi dietro le spalle. Il mostro la stava inseguendo! Con le sue immense falcate, si affrettava dietro di lei in tutta la sua spaventosa bruttezza. I suoi stivali lasciavano profonde orme sul suolo, sollevando schizzi d'acqua. «Più veloce, cavallo!» gridò l'esploratrice spingendo più a fondo la freccia nella carne dell'animale. Il mostro levò un'ascia, intenzionato a scagliarla contro la fuggiasca, quando Hakulana ricevette un vero e proprio aiuto divino. Un lampo partì dalle nere nuvole e finì direttamente sulla lama sollevata. Molte delle rune intarsiate sull'armatura e sulle armi splendettero di verde vivo e anche gli occhi, nascosti dietro l'elmo, squarciarono l'oscurità con un bagliore. La potenza del fulmine fu troppo grande perfino per quella creatura. Crollò in piena corsa, perdendo le armi mentre ruzzolava. Poi rimase immobile sul terreno; vapore saliva dal suo corpo. Hakulana non fece l'errore di fermarsi. Continuò a cavalcare sotto la tempesta, per raggiungere il presidio più vicino. Se non avesse raggiunto viva la sicurezza delle sue mura, nessuno avrebbe informato la Terra Nascosta di ciò che era apparso: un Eterno.
IX Terra Nascosta, regno di Weyurn, 6241° ciclo solare, inizio estate Rodario correva per salvarsi la vita. La caverna era lunga e stretta, nella parte posteriore uno scosceso passaggio in salita conduceva direttamente davanti a una porta di ferro. L'acqua cominciava a lambirgli i piedi, per cui l'attore si affrettò su per il passaggio, verso la porta. Sapendo che non si sarebbe aperta per lui, le passò oltre e cercò sopra di essa un'intercapedine che gli permettesse di entrare non osservato nel cuore della montagna. Col livello dell'acqua, cresceva anche la paura di non sopravvivere a quella nuova avventura. Dopo un po' tuttavia riuscì a individuare uno sportello di ferro ben nascosto nella roccia, da cui fuoriusciva del gas fetido. Prima che il suo buon senso lo mettesse in guardia rispetto a ciò che stava per fare, Rodario s'infilò a fatica nell'apertura e iniziò ad arrampicarsi nel pozzo, che era simile a quello di un camino. Il condotto saliva infinitamente, come se dovesse sfociare nella cima della montagna. L'intenso odore di zolfo non dava tregua all'attore, che tossiva, sputava e sentiva lo stomaco ribellarsi; ma Rodario continuò a salire ostinatamente usando mani e piedi, finché non scivolò attraverso un'apertura e atterrò in una galleria che dava su una grande camera. In un'immensa cisterna sotto di lui si stava accumulando acqua spumeggiante. Se la porta che si trovava sulla parete fosse rimasta chiusa, l'acqua avrebbe presto riempito tutto l'ambiente. Rodario corse alla porta e pregò che dall'altra parte non vi fossero sentinelle. Spinse il chiavistello, che non era bloccato, e girò la piccola ruota fino a che non sentì dei forti scatti metallici; poi spinse la porta e corse fuori. Nessuno lo aspettava per infilargli una lancia nello stomaco. Si trovava al termine di un tortuoso corridoio dalle pareti arrotondate, che parevano essere state levigate con un lungo lavoro fino a diventare lisce come marmo. Sulla pietra brillava del muschio, diffondendo una flebile luce marrone. L'attore avanzò con cautela, badando a ogni rumore che tradisse la presenza di nemici e che potesse evitargli un incontro indesiderato con un albo. Gli tornò alla mente la silenziosità con cui si muoveva Narmora,
mezz'alba e compagna del suo amico Furgas, e si disse che molto probabilmente avrebbe notato un albo solo mentre gli stava già tagliando la gola. Poco dopo, Rodario si ritrovò di fronte a una porta simile alla precedente ma con più chiavistelli e assicurata con una manopola. La scostò leggermente e si fermò sentendo il calore e i rumori che ne sortivano: un baccano assordante che si ripeteva a distanze regolari, sbuffi e sibili di macchine, tintinnii acuti di martelli, voci di operai. L'aria odorava di metallo caldo, scorie, fuoco di carbone e petrolio. Se avesse creduto solo alle sue orecchie e al suo naso, l'attore avrebbe concluso di trovarsi nella fucina del regno dei Quinti. Rodario si lasciò cadere sulle mani per non venire scoperto subito, poi aprì la porta, da cui passava una luce rossa, e strisciò dentro il nuovo ambiente. Sotto di lui c'era una lastra di ferro cui era attaccata una scala a pioli in metallo. Il cuore dell'uomo rischiò di fermarsi: sulla scala c'erano due albi! Portavano armature nere, brandivano lance e guardavano in basso. «Ne è proprio valsa la pena», stava dicendo uno dei due, che era biondo. «Una bella barca con tanti marinai che possiamo far lavorare per il maestro.» «Finalmente non dobbiamo più sgobbare», aggiunse l'amico mentre si grattava un orecchio, per poi ritrovarsene improvvisamente la punta in mano. «Oh, maledizione. La resina è diventata molle. Questo caldo schifoso...» Rodario si stava appunto chiedendo perché mai due albi conversassero nella lingua degli uomini. A quel punto gli fu tutto chiaro: erano impostori. Gli «albi» erano uomini snelli travestiti, e alla loro insolita statura contribuivano scarpe con suole rialzate. «Peccato che abbiamo dovuto ammazzare tanti feriti», disse il biondo aiutando l'altro a rimettere a posto la punta dell'orecchio. «Le cure rallentano», replicò l'altro. «E ai prigionieri piace il gulasch...» Rodario sbirciò oltre il bordo della piattaforma traballante. Sotto di lui si estendeva un enorme opificio, disposto su diversi piani. In alcuni punti le insenature naturali del monte erano state allestite come fucine; poi c'erano altre piattaforme come quella su cui stava lui, unite le une alle altre a formare piani più grandi e ancorate alla roccia, su cui si forgiava. Gli uomini, che lavoravano incatenati, producevano piastre, ruote dentate, barre di ferro, pezzi dalle forme stravaganti e altro ancora. Ognuno di
loro svolgeva pochi compiti, sempre uguali, e gettava i pezzi pronti in cesti fatti di sbarre che, fissati a una catena, salivano e scendevano sempre a velocità costante. Al livello più basso dell'officina i prigionieri scaricavano i pezzi e li portavano via. C'erano anche macchinari di diverse forme, a volte grandi come case, in cui si muoveva una quantità di volani e corone dentate; nastri e catene, che correvano sulle ruote, si tendevano e portavano ad altri allestimenti che si mettevano a loro volta in movimento. Alcune catene passavano attraverso buchi delle pareti. Le macchine sibilavano emettendo nubi di vapore; gli uomini vi si affaccendavano intorno, le rifornivano di carbone o versavano acqua nell'autoclave. Nelle immediate vicinanze degli apparecchi il rumore doveva essere intollerabile. Rodario non capiva che cosa stesse succedendo, ma sapeva che quell'isola non aveva niente a che fare con gli albi. E tuttavia era necessario che gli abitanti del Weyurn credessero a quella leggenda, si tenessero alla larga e non ne parlassero; non c'era sistema migliore per mantenere segreto l'opificio. «Ehi, voi due! Dovete fare la guardia, non armeggiare con le vostre orecchie, va bene?» strepitò una voce profonda che a Rodario sembrò familiare. Accanto ai due uomini apparve un nano dai capelli scuri, con stivali e pantaloni e grembiule di cuoio. Il torso nudo, ornato di tatuaggi, luccicava per il sudore. Teneva in mano un maglio da fabbro con tanta disinvoltura da far pensare che fosse di latta e sughero. L'attore credette di riconoscere in lui la persona che lo aveva minacciato mentre era sotto il suo carro. «È colpa del calore, mastro Bandilor», si difese l'incriminato. «Ammorbidisce la resina.» «Allora cucitela», brontolò il nano. «Non voglio mai più vedere che ci pasticciate, va bene? Se vi nota uno dei prigionieri, la nostra messa in scena è finita.» Girò la testa, e Rodario vide la spessa barba tinta di rosso sangue. «Uno di voi ha lasciato la paratia aperta?» «No», negò subito il biondo. «Non ho nessuna voglia di disintegrarmi.» Bandilor aggrottò la fronte. «Forse mastra Veltaga è passata di qui per controllare la camera due?» Li superò, tenendo il martello davanti a sé. «No, mastro Bandilor. Non è passato nessuno.» Da ciò che aveva visto e sentito, Rodario dedusse di aver scoperto una
base segreta dei Terzi. Nessuno avrebbe mai potuto pensare che un nano potesse recarsi volontariamente su un'isola e immergersi sul fondale del mare del Weyurn. Quell'accorgimento rendeva impossibile la fuga ai prigionieri. Bandilor prese a salire la scala. Per quanto Rodario si guardasse intorno terrorizzato, non trovò nessun rifugio o nascondiglio. Si stava alzando per metà per cercare di ritirarsi nel corridoio da cui era venuto, quando il nano lo scorse. «Non ci posso credere! Il commediante?» Bandilor fece un salto in avanti e cercò di afferrarlo per le gambe. Rodario si diede slancio e si gettò dalla piattaforma tenendosi a un angolo, in modo da fare una capriola in avanti. Dal torso in giù penzolò sull'abisso, poi i piedi dell'attore atterrarono sulla solida scaletta di ferro, non molto lontano dai due falsi albi. Le dita gli si aprirono, mentre il cuore batteva all'impazzata. «Un po' più di rispetto per la mia arte», gridò verso il nano, che furente gli scagliò contro il martello; l'attrezzo rimbalzò con fracasso sulla scala e precipitò nell'abisso. Le sentinelle abbassarono le lance e attaccarono. «Perdonatemi, ma non ho voglia di lottare con voi.» Rodario non aveva nessuna intenzione di farsi coinvolgere in un combattimento. Senza esitazione saltò nel primo cesto che si vide passare davanti e si lasciò trasportare. «Preferisco cercarmi una bella uscita. Ci rivedremo, mastro Bandilor! Tornerò con una squadra di navi da guerra del Weyurn!» Passò davanti ai prigionieri esterrefatti, che non osavano muoversi. Non lo aiutavano né gli si gettavano addosso. Il timore degli albi e dei castighi li tratteneva, e l'attore non li biasimava. In fin dei conti non era neanche sicuro di riuscire a fuggire. Una lancia lo mancò per poco e rimase agganciata alla grata del cesto, vicino a lui. «Grazie per l'arma», gridò mentre vedeva un secondo proiettile in avvicinamento. Anche quello lo mancò, perché l'angolazione era troppo svantaggiosa per il tiratore. Poi vide degli arcieri che avevano preso posizione, un piano sopra di lui; da lì lo avrebbero potuto colpire anche senza essere dei buoni tiratori. All'altezza di una passerella sospesa Rodario saltò fuori dal cesto e, stando chinato, corse verso un passaggio. Da qualche parte, all'interno della montagna, sapeva che doveva esserci il suo amico Furgas, sicuramente ridotto in catene come gli altri. Tungdil e i sovrani della Terra Nascosta avevano sottovalutato la perfidia dei Terzi.
L'attore raggiunse una seconda caverna, un po' più piccola, ma che per il resto assomigliava alla prima. Lì faceva ancora più caldo, perché al suolo e sulle piattaforme c'erano numerosi altiforni in cui ribolliva metallo fuso. Al livello del suolo c'era una nana che girava tra gli operai e dava ordini tra le scintille che volavano intorno a lei. In un altro punto veniva condotta proprio in quel momento la colata: la lega incandescente che era stata preparata correva lungo il canale di scolo e raggiungeva gli stampi in cui poteva raffreddare. Rodario non vide altro. Raggiunse una porta e si ritrovò di nuovo in uno dei corridoi a sezione circolare e ben levigati, che sembravano scavati nella roccia da un enorme verme. S'imbatté in una guardia, un altro falso albo, che sorvegliava una porta laterale e che lo attaccò soffiando in modo ridicolo. «Non avete la minima idea di cosa voglia dire recitare», lo rimproverò Rodario. Se si fosse trattato di veri albi, avrebbe visto la cosa in modo diverso, ma in quella situazione confidava nella sua esperienza di combattimento, anche se un po' arrugginita. Deviò con forza la punta della lancia dell'avversario e lo colpì ai genitali con la parte smussata della sua, facendolo cadere in ginocchio tra i gemiti. «Gli albi non stridono quando attaccano, tienilo a mente. Sono silenziosi come la notte e letali come...» rifletté, in cerca di un'immagine adatta. «Come... ah, che importa.» Colpì la fronte dell'uomo col ferro della lancia, facendolo cadere a terra privo di sensi. «Se facevi la guardia davanti a questa porta, dietro di essa ci sarà sicuramente qualcosa d'importante», disse Rodario mettendo una mano sulla maniglia. «Diamo un'occhiata.» Si abbassò e premette una spalla contro il legno, poi entrò con slancio nello spazio retrostante. C'erano capi di abbigliamento sparsi per terra, odore di vecchio cibo e di aria viziata; per terra o appesi alle pareti pullulavano fogli con disegni di macchine e apparecchiature. Accoccolato sul letto, con le gambe incrociate, c'era Furgas. Gli occhi grigio-verdi guardarono l'amico come se non riuscissero a metterlo a fuoco. Aveva un aspetto molto trasandato, portava una lunga e folta barba e indumenti sporchi. I capelli gli arrivavano al petto e sembravano infeltriti. «Furgas! Mio caro Furgas!» esclamò Rodario correndo da lui. «Sono io, l'Incredibile!» Lo scrollò prendendolo per le spalle, poi si guardò dietro per vedere se spuntava un altro finto albo. «In piedi! Questa è la drammatica scena della fuga, in cui gli eroi sfuggono ai farabutti e forse sconfiggono il male per sempre! Be', quantomeno sarebbe bello.» Mise in piedi l'uomo,
che sembrava in stato letargico. «Vieni, scappiamo da qui.» Furgas lo seguì come un bambino riluttante. «Rodario? Come hai fatto ad arrivare fino a qui? Come hai trovato l'isola?» mormorò, turbato. «L'antefatto è piuttosto lungo, direi tre o quattro atti, e c'è materiale per il seguito di un eccezionale pezzo di teatro», lo incoraggiò Rodario raggiungendo il corridoio. «Tu sai come possiamo fuggire da questa prigione?» Furgas si stava lentamente rianimando. «Ci siamo già immersi?» «Sì.» Rodario inghiottì il fiato quando respirò l'odore che l'amico effondeva. Stimò che sessanta rotazioni senza un bagno fossero il minimo necessario per emanare un simile olezzo. «Allora non c'è via d'uscita.» «Furgas! Riprenditi!» L'attore guardò l'amico negli occhi. «Se io sono riuscito a entrare in quest'isola, a noi due non può non riuscire di lasciarla.» «Ma ci sono guardie ovunque...» «Nôd'onn aveva mezz'orchi ovunque, gli avatar avevano soldati ovunque», replicò l'altro per minimizzare il pericolo. «Eppure li abbiamo superati. È nostro dovere tornare da Tungdil e dagli altri e raccontare loro di questi Terzi. Vieni, su!» A quel punto fu Furgas a guardarlo fisso negli occhi. «Rodario», disse sorridendo. «L'Incredibile Rodario. Hai di nuovo fatto onore al tuo nome.» Indicò a sinistra. «E hai ragione. Esiste un pozzo che viene usato per fare uscire i gas di sospensione. Da lì possiamo scappare ed emergere in superficie. Se sopravviviamo.» «Sei sicuro?» Furgas sorrise coi denti giallo mais che da molto, moltissimo tempo non avevano visto salvia né altri trattamenti per la pulizia. «Ho costruito io quest'isola, per cui ne conosco i punti deboli.» La porta alla loro destra si aprì e ne schizzarono fuori cinque albi; tre erano armati di archi. Bandilor li spingeva in avanti brandendo un'ascia a due mani pronta a colpire. «Ecco qua il commediante!» ringhiò. «Minacciami», sussurrò Furgas all'amico mettendosi davanti a lui. «Valgo troppo per loro. Non possono correre il rischio di ferirmi.» A Rodario non venne in mente una soluzione migliore, per cui spezzò la lancia nel mezzo, battendola contro la parete, e piazzò la punta al collo dell'amico. «State indietro, progenie di un pessimo impresario teatrale», li derise. «Se ci seguite lo infilzerò, e non ci sarà più nessuno a condurre
questa vostra maledetta isola.» «Fermi!» ordinò Bandilor alle guardie. «Lasciateli andare. Li acciufferemo più tardi.» «Fate riemergere l'isola», ordinò Rodario. Il Terzo scosse la testa. «Non si può. Prima dobbiamo raccogliere di nuovo il gas di sospensione. Le zavorre sono piene.» Sorrise con cattiveria. «Arrendetevi, va bene?» «Faremo come ho detto», sussurrò Furgas correndo in avanti. «Attraversiamo la paratia, poi la chiudiamo e scappiamo.» A Rodario parve che il percorso che conduceva al passaggio fosse lungo più di un miglio. Alla fine entrarono nel corridoio successivo, chiusero la pesante porta di ferro e incastrarono la ruota che azionava l'apertura. Furgas si mise in testa, muovendosi con sicurezza attraverso gli stretti cunicoli, arrampicandosi su scale naturali e artificiali fino a che non s'infilò in un boccaporto. Lì si fermò e porse la mano a Rodario. «Grazie di non aver mai smesso di cercarmi», disse commosso. «Solo tu potevi darmi il coraggio di scappare. Io l'avevo perduto da molto tempo.» «A che servono gli amici?» replicò Rodario, raggiante. «E, detto tra noi: non c'è magister technicus migliore di te. Il Curiosum ha urgente bisogno del tuo contributo.» Entrò anche lui nel pozzo. «Dopo di te.» Furgas gli fece spazio. «No, prima tu. Ho dimenticato di aprire la sicura della valvola.» Strisciò fuori, mentre Rodario cominciava la salita. Ci volle un bel po' prima che Furgas lo seguisse, anche se con molta meno fatica. Infatti notò con terrore che l'acqua stava salendo nel condotto a velocità impressionante, trascinando Furgas come fosse un turacciolo. Rodario lasciò la presa. «Vuoi farci affogare?» «No.» Puntò il dito verso l'alto. «Posso aprire il boccaporto solo dopo che il pozzo è inondato, altrimenti la massa d'acqua sovrastante ci schiaccerebbe.» Furgas sorrise all'attore. «Di questioni tecniche ne capisci sempre poco.» «Per questo ho sempre avuto te.» L'attore sorrise, avvertendo un'euforia senza pari. Era sul punto di riuscire in un'impresa impossibile: aveva trovato il suo amico e stava per salvarlo. «Che stanno combinando i Terzi?» «Costruiscono macchine. Macchine assassine.» Il volto di Furgas s'incupì. «Dopo, Rodario. Dobbiamo risparmiare il fiato.» Il boccaporto chiuso si avvicinava e, non appena lo spazio residuo si fu riempito d'acqua, Furgas aprì il coperchio collegando così mare e pozzo.
Molto sopra di loro scintillava la promettente luce del sole. Sgambettarono e si avvicinarono con tutto l'impeto di cui erano capaci alla superficie, che si avvicinava in modo terribilmente lento. Rodario restò senza fiato, dovette respirare contro la sua volontà e inghiottì acqua; subito dopo emerse tra i flutti, sbracciando, tossendo e sputando. Anche Furgas rigurgitava acqua. Non appena ripresero fiato, si guardarono intorno. Erano nel mezzo del mare del Weyurn, e a vista d'occhio non si scorgeva terra emersa. «Gran bella fuga», disse Rodario socchiudendo gli occhi a causa del sole. Metteva in conto che l'isola potesse emergere in qualunque momento vicino a loro. Poi gli venne in mente quello che Bandilor aveva detto: non poteva affiorare nemmeno se lo avessero voluto, per il momento. L'attore si tranquillizzò. «Se non altro non moriremo di sete. Di acqua ne abbiamo a sufficienza.» «Gli dei sono con noi.» Furgas indicò qualcosa all'orizzonte. «C'è un'imbarcazione!» Alzò le braccia, si dimenò, gridò e strepitò per farsi notare. Rodario lo aiutò con tutte le sue forze e, poco dopo, la barca puntava verso di loro. Vennero issati a bordo. Rodario raccontò ai marinai la storia dell'isola degli albi e descrisse loro il naufragio della barca su cui stava viaggiando. La conseguenza fu che il comandante dispiegò tutte le vele e spinse l'imbarcazione il più velocemente possibile verso Mifurdania. I due amici sedevano sul ponte, esausti, avvolgendosi nelle coperte portate loro dai marinai. «C'è molto da raccontare», disse Furgas con volto serio. «Prego Vraccas che i nani mi possano perdonare per quello che ho fatto loro.» «Tu? Che avrai mai fatto...?» L'uomo abbassò la testa. «Bandilor mi ha costretto a progettare dei veicoli. Veicoli che lui può mettere sulle rotaie dei tunnel, portando così morte e distruzione nei regni dei nani.» Si terse l'acqua dal viso; Rodario non era certo che non vi fossero anche delle lacrime. «Ha progetti ancora peggiori. La macchina per realizzarli è pronta», disse a bassa voce. «E costerà la vita a centinaia di nani.» Rodario gli diede una pacca sulla spalla. «Se non riusciremo a impedirlo, amico mio. E noi lo impediremo.» Sorrise. «A parte la nostra inestimabile libertà, la nostra emersione ha un altro grande vantaggio, sai?» Il sorriso divenne un ghigno. «Non puzzi più.»
Terra Nascosta, regno di Idoslân, caverne dei mezz'orchi del Toboribor, 6241° ciclo solare, inizio estate «Sai quanto è difficile vivere senza sentire la tua voce?» La frase, sussurrata da una voce disperata e profondamente addolorata, salì fino al soffitto della caverna, rimbombò e ritornò, come una leggera eco, al Sintoìt. Questi portava un aderente vestito di seta nera con ricami verde scuro e stava in ginocchio davanti a un semplice giaciglio su cui era sdraiata una Sintoì addormentata. Alle spalle portava un mantello color della notte, che lo avvolgeva; le mani, infilate in guanti di seta nera, stringevano la pallida mano sinistra di lei. La Sintoì indossava abiti simili ai suoi. «Vedo il tuo viso meraviglioso, accarezzo i tuoi capelli neri e non riesco a credere a quello che ci è successo. Neppure dopo cinque cicli.» Il suo volto aggraziato, di fronte al quale un umano, per l'estasi, si sarebbe gettato nella polvere, si rabbuiò. Non vi era nulla di più bello di lui. A parte sua sorella. La sua amata sorella, Nagsar Inàste. «Inàste e Samusin ci hanno abbandonati, mia amata sorella. Noi siamo i nostri stessi dei.» Le sue nere orbite si rivolsero con disprezzo al soffitto appena sgrossato della povera dimora. «Questo posto non era adatto a noi. Perdonami, se ti ho portata qui. Non era mia intenzione, ma ero troppo debole.» Le accarezzò la fronte, sistemando i capelli sciolti. Anche in quella condizione di assoluta immobilità, la bellezza della Sintoì superava quella di qualunque elfa. Alle creature più deboli bastava guardarla per morire, quelle più forti perdevano la ragione. «Quando ti sarai svegliata, attraverseremo la Terra Nascosta in cerca di un regno su cui dominare. A confronto, lo Dsôn Balsur apparirà piccolo e insignificante.» Le sorrise, e perfino le pietre sembrarono ammirare la bellezza del Sintoìt. «Ricordi? Ti avevo promesso una nuova casa. Finalmente è pronta.» La sollevò con cautela e la portò in braccio attraverso gli oscuri corridoi del desolato regno dei mezz'orchi. Era slanciato, ma tutt'altro che debole. Migliaia di avversari avevano pagato con la vita il loro errore di valutazione. «Te la mostro.» Camminando, l'Eterno non provocava il minimo rumore, a parte il leggero fruscio del mantello, che toccava terra. «Ti piacerà, sorella. È l'unico posto in questo mondo maledetto che ho potuto riservare a te, per le future rotazioni in cui ancora giacerai immobile.» Superò innumerevoli biforca-
zioni, sempre sapendo precisamente quale imboccare. Il suo cammino terminò in una caverna dal soffitto a cupola. L'aria era fresca e pulita, non più colma del grave calore e della puzza dei mezz'orchi. «Siamo arrivati», disse dolcemente. La caverna era larga circa cinquanta passi e la volta raggiungeva i quaranta passi nel punto più alto. Da lì scendeva un'imponente e scura stalattite, simile alla punta di un'immensa spada infilata nella montagna da un gigante; l'estremità indicava un altare di basalto nero al quale portavano quattro gradini. Era ornato da rune albiche che celebravano la bellezza intramontabile di Nagsar Inàste. «Ho levigato le pareti in modo che i colori rimanessero meglio attaccati», disse l'Eterno alla dormiente, osservando i dipinti che arrivavano fino alla stalattite. Rappresentavano Dsôn, com'era stata prima dell'incendio, in tutto il suo splendore e con la sua torre di ossa di elfi. Anche se la capitale del loro regno non c'era più, sopravviveva come immagine su quelle pareti. L'Eterno s'incamminò verso l'altare calpestando le innumerevoli ossa di mezz'orco che coprivano il pavimento e facendole scricchiolare. «Senti, sorella? Li ho uccisi tutti. Il loro vile sangue mi è servito per dipingere le pareti. Hanno pagato per quello che ti hanno fatto», le disse. «Vorrei essermi riscosso prima dal mio sonno, per impedire che ti profanassero.» Salì i gradini, raggiunse l'altare e l'appoggiò delicatamente sopra. Con amore le raccolse le mani in grembo, le compose il vestito e raggiunse l'estremità in cui stavano i piedi. «Non mi perdonerò mai che ti abbiano toccata e offeso il tuo corpo», sussurrò inchinandosi profondamente davanti a lei per baciarle la punta degli stivali. Il volto di lei non fece il minimo movimento. Niente indicava che lo stesse ascoltando. «Non ci vorrà molto ancora, amata sorella», promise l'Eterno. «Mi sono mostrato agli umani. Manderanno qui i loro guerrieri, come desideravo. Questo ci offrirà l'occasione di prendere finalmente il diamante che ti riporterà in vita. Poiché io so dove intendono portare le gemme rimaste.» Accarezzò il viso della sorella. «Pazienza, Nagsar Inàste. Che importanza ha qualche rotazione per noi, che abbiamo visto andare e venire i millenni?» Il volto di lei rimase immobile. «Forse desideri sapere che cos'è accaduto alla feccia deforme che è strisciata fuori dal tuo grembo?» Ritrasse le mani e le appoggiò sulle else del-
le sue spade. «Ci servono bene. Tuttavia le ucciderò, perché non resti nulla che ti possa ricordare la tua contaminazione. Solo il nostro vero figlio potrà vivere.» Un sorriso si fece strada sul suo volto. «Lui è perfetto, amata sorella. Provvisto del sangue più puro e, grazie alla fonte, del più grande potere mai posseduto da un Sintoìt prima di lui. I tuoi occhi si rallegreranno alla sua vista. Puoi essere orgogliosa di ciò che alla fine è nato dalla nostra unione. È arrivato al momento giusto.» Le baciò ancora una volta la punta degli stivali, s'inchinò e si mise vicino a lei per accarezzarle le mani. «Ora ti devo lasciare. Ma non temere, tornerò presto. Col diamante.» Indietreggiò scendendo gli scalini, si voltò e lasciò la fredda caverna. Non aveva voluto dirle che provava dubbi... che il loro vero figlio si era messo contro di lui... e che lui era ancora molto indebolito. Ho bisogno di quella maledetta pietra. Ciò che ha preso il mio potere, me lo restituirà. L'Eterno strinse i pugni. Che l'Eoîl sia maledetta per sempre! Era stata lei a interrompere l'incantesimo che avrebbe dovuto salvare dalla distruzione lui e sua sorella. Ricordava. Ricordava ogni cosa. Ricordava di essere stato prigioniero dell'immobilità del suo corpo, causata dall'immenso sforzo dell'incantesimo e dall'influenza dell'Eoli. Nessuno prima di allora aveva mai usato un sortilegio così potente e aveva corso un simile rischio. In quelle caverne, lui e sua sorella erano scampati alla distruzione, ma il prezzo era stato alto. Lui era stato scagliato in una gola, separato dalla sorella e completamente paralizzato. La sua mente però lavorava senza sosta cercando di comprendere dove fosse stato portato. Lo aveva intuito quando le esalazioni dei mezz'orchi gli avevano colpito il naso; alcune di quelle infime creature erano sopravvissute alla luce ineffabile della Stella del Giudizio. Prigioniero nella solitudine di quella forra, si era ricordato le righe ammonitrici degli scritti che a Dsôn parlavano dell'Eoîl. L'immortale Eoîl. A parte l'immortalità e l'odio reciproco, nulla accomunava lui e quell'elfa primordiale. Gli scritti parlavano dell'incredibile potere che l'Eoîl poteva acquisire e vincolare a un oggetto. E di come ci si potesse impadronire di esso. Il Sintoìt aveva urgente bisogno di quella forza, e grazie all'antica pergamena conosceva la formula magica con cui acquisirla. Quando aveva sentito per la prima volta degli avatar, gli era stato subito chiaro che cosa
stava succedendo in realtà nella Terra Nascosta; aveva cercato quei versi, li aveva letti e interiorizzati come il suo amore per Nagsar Inàste. Quei versi significavano il dominio e la vittoria sugli elfi e sui loro alleati. Non era riuscito a immaginare che cosa intendesse fare l'Eoîl a Porista. Stavano per impedirglielo, ma l'Eoîl si era dimostrata troppo forte e lo aveva quasi distrutto. Così si era ritrovato in quella forra e aveva atteso che il corpo ricominciasse a obbedirgli, ciclo dopo ciclo. Non poteva fare nulla. A un certo punto, la sensibilità era tornata nelle sue membra e si era rialzato. Fuori di sé e reso quasi pazzo per la preoccupazione per Nagsar Inàste, aveva girovagato per quei corridoi finché, alla fine, non l'aveva trovata. Giaceva su un misero tavolo, coperta solo a metà da un panno sporco; qualcuno le aveva posato un altro straccio sul volto per proteggersi dalla sua bellezza indicibile. Le gambe erano spalancate; i graffi e i lividi sulle cosce rivelavano l'immondo sacrilegio. Ad alcuni passi da lei sedevano otto mezz'orchi, giocando a carte. Non lo avevano notato. Terminata vittoriosamente la partita, uno dei mezz'orchi si era alzato tra i brontolii degli altri e, armeggiando con la cintura, si era avvicinato al tavolo su cui era sdraiata Nagsar Inàste... L'Eterno si fermò. Il ricordo della vista della sorella umiliata lo sopraffece, costringendolo ad appoggiarsi alla parete. Aveva massacrato quei mezz'orchi con la velocità con cui una freccia, lasciata la corda, vola verso il bersaglio e lo colpisce. Poi aveva proseguito la sua carneficina fino a che l'ultima bestia non era caduta morta ai suoi piedi, mentre il sangue verde scuro scorreva intorno a lui come acqua. La profanazione continua che i mezz'orchi avevano inflitto per cicli alla sorella aveva lasciato dietro di sé frutti rivoltanti. Quando l'Eterno aveva scoperto i bastardi in una caverna secondaria, era stato sul punto di decapitarli, ma poi era spuntato il Cavernicolo e gli aveva proposto un patto. Un buon patto, cui l'Eterno aveva acconsentito. In quella maniera, perfino quelle creature si erano rivelate di qualche utilità. In ogni caso non le avrebbe certo risparmiate, una volta che avessero adempiuto ai loro compiti. L'Eterno respirò profondamente e si costrinse a camminare. Entrò nella stanza in cui custodiva la sua armatura. Prese un pezzo dopo l'altro dai sostegni e li indossò. I suoi pensieri si concentrarono su suo figlio, un puro Sintoìt. Per mostrare alla sua sorella paralizzata che lui era di nuovo con lei, dopo la morte dei mezz'orchi l'aveva amata con grande dedizione, donandole
il tipo di dolore e passione bramato da una Sintoì. Come compensazione per le cinque oscenità che a seguito delle violenze erano strisciate fuori dal suo corpo, la sorella gli aveva dato un figlio. Erano centinaia di cicli che attendevano quell'evento, ed era dovuto accadere proprio in mezzo a tutte quelle difficoltà. Ma, dopo il ritorno dalla sorgente, la delusione aveva preso il sopravvento. Il figlio si era rivoltato contro di lui, non comprendeva i suoi compiti e si rifiutava di eseguirli. Spero di riuscire a fargli cambiare idea. Nagsar Inàste non deve rimanerne delusa. L'Eterno assicurò l'ultima catena; l'armatura era al suo posto. Ormai doveva stare in guardia e sorvegliare gli ingressi. L'esploratrice che era riuscita a fuggire avrebbe attirato l'esercito. Ma, finché i preparativi non erano terminati, nessun soldato doveva spingersi nel cuore del Toboribor; non prima che l'indifesa Nagsar Inàste avesse riaperto gli occhi. Sfoderò le sue due spade e le osservò alla luce delle lampade, rallegrandosi alla vista delle lame perfette. Nonostante l'intenso utilizzo non erano intaccate né graffiate. Per voi non fa differenza tagliare la morbida carne o lo spesso metallo, pensò sorridendo con malignità e ripensando alla strage di allora. Era piombato in mezzo a quelle stupide creature e le sue lame ne avevano uccise tre o quattro a ogni colpo, mentre si rigiravano, scappavano, correvano, strillavano e muggivano impacciate. Sono semplicemente troppo lenti, non riescono a opporsi al risveglio di un dio. Non ho mai compreso perché gli umani li temano. Quei trecento mezz'orchi erano stati solo l'inizio. Ripose le spade nei foderi. Continuate a servirmi bene, vecchie amiche. Portiamo il terrore tra gli umani, in modo che ne siano accecati e non riconoscano le nostre vere intenzioni. L'Eterno raccolse i suoi lunghi capelli neri sotto un fazzoletto dello stesso colore e si mise in testa l'elmo. La bellezza del suo volto, che non doveva apparire a nessuno tranne Nagsar Inàste, scomparve sotto la visiera. Mostrarlo ad altri sarebbe stato uno spreco. Terra Nascosta, nord del regno di Gauragar, 6241° ciclo solare, estate Anche se stava cominciando il periodo migliore del ciclo solare, un'atmosfera grave pesava sulla Terra Nascosta. La natura lussureggiante, il sole caldo, i primi grassi raccolti e i frutti deliziosi, che pendevano dagli al-
beri promettendo gioia ai palati, non riuscivano a contrastarla. Gli abitanti dei regni erano venuti a sapere che stavano accadendo cose sinistre. Non ci si atteneva alle descrizioni degli strani mostri; ogni narratore che diffondeva la notizia ne aumentava parecchie volte la minaccia. «Avete sentito? Ora sanno volare, rendersi invisibili e trasformarsi in una montagna.» Goda cavalcava un passo indietro rispetto a Tungdil e al Rabbioso; dietro di loro seguiva la spedizione di nane e nani guerrieri che scortava il diamante dai Monti Grigi a Immengau. Portavano con sé dieci piccoli carri corazzati, e in ognuno si trovava una nuova imitazione del diamante in viaggio verso la fortezza di Paland. Era stata di Tungdil l'idea di aumentare il numero delle pietre e quindi rendere più difficili gli intenti dei ladri, fossero stati Sotterranei, mezz'orchi dagli occhi rosa, mostri o Eterni. I Quarti stavano ancora preparando altre imitazioni. «Hai scordato che un loro sguardo basta a uccidere un uomo adulto. E che sputano fuoco», disse Tungdil sospirando. Sentivano ovunque discorsi del genere. Fra le altre notizie, era stata quella del ritorno di un Eterno, sovrano e potentissimo tra gli albi, a suscitare la paura più profonda. «Posso comprendere le preoccupazioni degli uomini», aggiunse. «Se uno degli Eterni è riuscito a sopravvivere alla Stella del Giudizio, agli uomini può venire in mente che anche altre creature malvagie possano essere sopravvissute.» «Quella era la voce numero settantatré», replicò Goda, impassibile. «Un esercito si sta radunando nel Toboribor per saccheggiare da lì le regioni circostanti.» Il Rabbioso la fissò. «Non le starai veramente contando?» «Certo.» La nana sogghignò. «Trovo istruttivo vedere quanto in fretta una manciata di nemici possa diventare invincibile. Di villaggio in villaggio i mostri diventano sempre più grandi, terribili e imbattibili. Noi non siamo riusciti a battere la creatura che abbiamo incontrato nella galleria, è vero, ma ce l'avevamo quasi fatta.» Goda guardò Tungdil. «Del resto, nell'ultima città che abbiamo incontrato giravano già voci sul fatto che un potente artefatto si trova a Paland. La gente ha notato che in quella vecchia fortezza si stanno raccogliendo soldati di tutti i regni.» «Tranne quelli dei nani», borbottò il Rabbioso. Tungdil sapeva che quella circostanza, di dominio pubblico, avrebbe riattizzato i discorsi riguardo ai contrasti fra nani ed elfi, nani e uomini, re dei nani e re degli uomini...
«Avete sentito la voce numero settantaquattro?» Goda amava irritare il suo maestro con quelle notizie. «I mostri possono strappare l'innocenza a una vergine con una sola parola.» «Se mi tocca sentire un'altra di queste scemenze, m'infilerò dei tappi di cera nelle orecchie», borbottò Boïndil. «Si potrebbe dire che la gente si rallegra di più per le cattive notizie che non per quelle buone.» Goda annuì. «Non hai tutti i torti. È nella natura degli uomini vedere il lato negativo di una cosa, anziché apprezzarne quello bello.» «Non sono tutti così», obiettò Tungdil, ben sapendo però che la nana diceva qualcosa di fondamentalmente vero. «Non possiamo dire loro la verità, no? Per fortuna nessun uomo comune sospetta quali siano le intenzioni dei mostri. Per il momento il potere del diamante deve rimanere un segreto.» «Hai di nuovo ragione.» Boïndil smontò dalla sua cavalcatura e prese a camminare. Gli faceva troppo male il sedere. «Non mi abituerò mai a questo modo di viaggiare. Si avanzerà anche più velocemente, ma il sedere diventa largo come la schiena del pony su cui si cavalca.» Senza dire una parola, anche Goda smontò di sella. Si sforzava molto di seguire le indicazioni del maestro; le sue prestazioni fisiche impressionavano apertamente Tungdil, e segretamente il Rabbioso. A Tungdil pareva di notare un progressivo cambiamento nel modo in cui l'amico si comportava nei confronti della sua allieva: la guardava più spesso di prima, e di sicuro non con gli occhi di un maestro che osservasse la sua allieva, bensì con quelli di un nano che provasse interesse per una nana. Ed era quello che stava facendo in quel momento. «Ti piace?» chiese Tungdil sottovoce, sorridendo sornione. «Cosa?» Boïndil trasalì, sorpreso, e arrossì. Rivolse subito lo sguardo alla strada. «Be', il modo in cui fa progressi.» «Sì, certo», rispose Boïndil, sollevato. Guardò l'amico. «Ma tu intendevi un'altra cosa, vero?» Tungdil si limitò a sorridere e indicò il bosco che era comparso alla loro sinistra. Dovevano essere le propaggini orientali dell'Âlandur o, meglio, erano gli stessi alberi che crescevano nelle foreste degli elfi. «È ora di fare una pausa.» Fece fermare la colonna perché riposasse al fresco dell'ombra. Anche se i figli del Fabbro svolgevano i loro servizi di sorveglianza in superficie, un lungo viaggio all'aperto era per la maggior parte di loro una grande novità.
Il Rabbioso ordinò a Goda di fare la guardia. Quando si fu allontanata da loro, riprese il filo del discorso. «È vero, Sapientone. Vederla mi fa sentire bene.» Sospirò. «E ho paura del momento in cui se ne andrà.» «Ce l'avrai intorno ancora per parecchio tempo. Ci vogliono cicli per plasmare buone guerriere», replicò l'altro ammiccando, prima di tornare serio. «Ti sei davvero innamorato di lei.» Boïndil si sedette, con una mano appoggiata all'azza. «Non è assurdo? Il mio cuore rischia di sciogliersi per il calore dei sentimenti che provo. È stata lei a riportare in vita la mia passione per i combattimenti. Eppure so che non abbiamo futuro insieme. Ho ucciso una sua parente. Goda non può non tenerne conto, e mi deve odiare. Lo sento, anche se cerca di tenere nascosti i suoi veri sentimenti.» Tungdil ripensò a ciò che gli aveva detto Balyndis. Tacque all'amico che la prima intenzione di Goda, in effetti, era stata quella di ucciderlo. Era il momento sbagliato per dirlo. «Non esserne troppo sicuro», disse invece. «Ah, sì? Tu pensi davvero che possa piacerle? Io, che sono l'assassino di sua zia?» «È una cosa che devi scoprire tu.» «Sai da quanto tempo non cerco di conquistare una nana?» replicò il Rabbioso con aria disperata. «Eh, una volta qualcuno mi ha raccontato che per conquistare il loro cuore ci si deve frizionare col loro formaggio preferito e fargli fare quattro piroette.» Tungdil sorrise rammentando il consiglio datogli una volta per scherzo dai gemelli. «Ma a pensarci bene: sii semplicemente te stesso.» Erano le sagge parole del defunto Boëndal. «È una Terza, senza clan e senza parenti. Questo ti rende le cose più semplici. Non devi impressionare o convincere nessun altro.» Ripensò con disagio al suo imbarazzante e sciagurato primo incontro col padre di Balyndis. Era stato respinto, ma lei era riuscita a imporsi e aveva abbandonato il promesso sposo e il clan per avere lui e il suo amore. Ormai il legame che un tempo li univa stava andando in frantumi, Tungdil non riusciva a non rimproverarsi per quello. Sentiva di tradirla, eppure non voleva più vivere con lei come moglie e marito. «Oh, Vraccas!» esclamò il Rabbioso, sconfortato. «Questo è veramente troppo per me. Un combattimento onorevole, lì sì che sai che cosa devi fare. Ma l'amore... ah... è complicato.» Tungdil si compiacque del sentimento dell'amico e gli augurò di poter esaudire i suoi desideri. «Tieni duro e aspetta il momento giusto.» Gli die-
de una pacca sulla spalla. «E soprattutto non dare retta a ciò che dicono gli altri del tuo clan.» Il Rabbioso sorrise. «Da loro la mia reputazione è solo un ricordo... Dimentichi che sono tuo amico, Sapientone.» Un cavaliere si avvicinava da sud al loro punto di sosta. Benché a prima vista sembrasse un bambino a cavallo, notarono presto di essersi sbagliati. Portava abiti scuri e un fazzoletto sulla testa, le tasche della sua sella tintinnavano di metallo. «Di nuovo il boia?» si stupì Boïndil. «A questo punto non posso credere che sia una coincidenza.» «E infatti non lo sarà.» «Allora mandalo via, se ci chiede di accamparsi con noi. Non mi fido di lui.» «Un po' di pazienza...» Bramdal fermò il cavallo. «Vi saluto», disse ridendo dall'alto. «Posso riposarmi un po' qui da voi?» «Hai già sbrigato i tuoi affari a Porista?» Con grande stupore di Boïndil, Tungdil gli rivolse un cenno d'invito. «Abbiamo ancora del tè, se ti va.» «Volentieri.» Bramdal armeggiò con qualcosa alle sue spalle e gettò una specie di scala di corda. Dalle staffe passò ai pioli e da lì al suolo erboso. «Vedo che siete meravigliati.» Sogghignò. «Una sera ho pensato: perché viaggiare più lentamente in groppa a un pony, se si può andare più velocemente a cavallo? Così mi sono costruito questa», disse indicando la scaletta. «E ho fatto costruire questa sella.» Il Rabbioso guardò la groppa scuotendo la testa. Il carnefice si era cercato un cavallo che sembrava anche più grande di quelli normali. «Nessuno riuscirà mai a farmi salire lassù.» «Non posso che consigliare la vista.» Bramdal seguì Tungdil alla teiera e prese una tazza. «Molte grazie.» «Figurati», si schermì Tungdil. «Che cosa ti porta qui a nord?» «Sto tornando a Bergensstadt.» Bramdal soffiò sul tè caldo. «Re Bruron vuole che istituisca una scuola.» «Per carnefici, presumo.» «Esattamente. Non voleva averla a Porista, per non compromettere la reputazione della sua futura capitale.» Il boia sorrise. «Eppure io mi limito solo a eseguire le leggi. Strano, non trovate? Gli umani infliggono la morte ai loro simili eppure non vogliono averci niente a che fare.» «Non ci siamo incrociati a Porista», disse Tungdil.
«No. Ero troppo indaffarato.» Bramdal ammiccò. «Tu non mi credi. Che cosa pensi di me? Credi che sia una spia dei nemici dei nani?» «Sì», disse subito il Rabbioso, posando le mani intorno al manico dell'azza. Bramdal scoppiò a ridere forte, sembrava veramente divertito. Il suo sguardo passò oltre il guerriero e finì su Goda. La sua curiosità si svegliò. «Una giovane nana di grande prestanza. Sembra forte. Scommetto che maneggia la sua arma con molto vigore, proprio come si addice a una carnefice.» «Lasciala in pace», fece istantaneamente Boïndil. «È la mia allieva», aggiunse svelto. «Se taglierà dei colli, saranno quelli dei Musi di porco.» Gli venne caldo; il sangue gli ribolliva fino ad arrossargli le orecchie. Era gelosia? «Capisco. È tua allieva», replicò Bramdal ridendo sotto i baffi. Sorseggiò il tè. «A Porista ho parlato con Gordislan Pugnomartello. Ad Aureorifugio c'è stato un incidente che ha causato grande inquietudine: un attentato.» Tungdil ebbe un sussulto. «Le macchine dei Terzi?» «No. È stato un attentato alla città.» Bramdal lo guardò con aria grave. «Qualcuno ha aperto completamente gli sbarramenti idrici e ha allagato un terzo di Aureorifugio. Per fortuna gli abitanti sono riusciti a sostituire in fretta le chiuse che erano state danneggiate, altrimenti avrebbero perso la vita ancora più Liberi.» «Quante vittime?» s'informò il Rabbioso. «Duecentoundici. Più di trenta case sono state distrutte.» Bramdal abbassò lo sguardo, amareggiato. «Le macchine dei nemici dei nani ci stanno risparmiando, perché non ci possono raggiungere attraverso il sistema di tunnel. Ma attentano alla nostra vita in altre maniere.» Si versò del tè. «La cosa peggiore è che non ci sono colpevoli. Le sentinelle degli sbarramenti sono state uccise, e nessuno ha visto gli attentatori.» «È terribile», disse Tungdil, turbato. «L'inondazione ha avuto anche altri effetti. Ha portato la diffidenza ad Aureorifugio. C'è stato chi ha accusato a gran voce le stirpi, e non i Terzi, di essere responsabili dell'accaduto. La nostra ricchezza alimenterebbe l'invidia delle stirpi per l'oro e il vraccasio che si trova da noi. Un nano di stirpe avrebbe detto all'assemblea dei clan dei Quarti che noi cerchiamo di carpire ingiustamente il favore di Vraccas con le nostre ricche offerte, e che questo andrebbe impedito. Altri affermano che i sovrani delle stirpi
vorrebbero costringerci a tornare nei regni dei nani.» «Idiozie!» strepitò il Rabbioso. «Le montagne contengono più oro di quanto ne possa stare nelle caverne che racchiudono le vostre città. Perché mai i Secondi o altri nani dovrebbero puntare all'oro dei reietti?» Tungdil si appoggiò a un albero e chiuse gli occhi. «Presto nessuno potrà dire qualcosa né potrà succedere nulla senza che si dica che c'è dietro la mano dei Terzi e che non si guardi con sospetto a ogni azione e ogni evento. Purtroppo è esattamente ciò che vogliono i nemici dei nani.» Riaprì gli occhi. «Bramdal, ovunque tu abbia sentito simili discorsi, di' che non gli si deve prestare ascolto. Più aumenta il dissidio, prima i nemici dei nani raggiungeranno il loro scopo.» Il boia annuì. «È quello che ha detto anche Gordislan Pugnomartello. Credo che tu sappia quanto sia difficile lottare contro le voci.» Posò la tazza sull'erba. «Riprendo la mia cavalcata. Forse ci rivedremo. E non pensare di nuovo che sono uno dei cattivi», disse rivolto al Rabbioso. Si alzò e montò sul cavallo. Pescò la scaletta con uno stivale e la tirò su. «Che Vraccas vi benedica.» Salutò con la mano e spronò il cavallo. «Sai che cosa mi stupisce?» chiese Tungdil all'amico, mentre il boia si allontanava. «Non ci ha chiesto che cosa trasportiamo nei carri.» «Io rimango della mia idea.» Boïndil si mise le mani sui fianchi. «È una spia.» Tungdil ammiccò. «Soltanto perché ha fatto gli occhi dolci a Goda?» «No», si precipitò a dire il gemello. «Be', anche per quello», ammise poi. «Maestro! Tungdil!» gridò la nana all'improvviso. «Venite qui! Ho scoperto qualcosa!» «Forse il tuo cuore?» sussurrò Tungdil al Rabbioso per punzecchiarlo. Boïndil gli diede subito una gomitata sul fianco. «Non un'altra parola su queste sdolcinatezze», brontolò, prima di alzarsi e mettersi a correre. Tungdil lo seguì. Una volta di più constatò che era strano vedere l'amico senza i suoi lunghi capelli. Quando i due la raggiunsero, Goda s'inginocchiò vicino a un cespuglio e separò i rami. «Guardate!» Tra il verde e il magnifico viola comparve il volto di un elfo che giaceva sulla schiena come morto, con gli occhi chiusi e qualche foglia appassita sul volto. Dalla parte destra del petto spuntavano tre punte di freccia, che avevano trapassato l'armatura di cuoio e la veste color terra che indossava. A giudi-
care dagli sfarzosi abiti ricamati, si trattava di un elfo di non povera condizione; lo scarso bagaglio indicava che doveva essere stato a caccia. Il suo campo non poteva essere lontano. «Respira ancora!» esclamò il Rabbioso quando notò il lieve movimento del petto. «Ehi, gli Orecch... gli elfi sono più duri a morire di quanto pensassi.» «Aiutatemi.» Tungdil raddrizzò con cautela il ferito per guardare meglio le aste delle frecce. Due erano spezzate, la terza era piegata ma intera. «Per Vraccas! Sono frecce elfiche!» «Se si fosse trattato di una freccia, avrei pensato a un caso», valutò il Rabbioso, guardando la schiena tinta di sangue. «Ma con tre lo escludo. È come se dessero la caccia alla propria gente.» «Perché gli elfi si uccidono a vicenda?» Tungdil osservò il volto del ferito. «O forse dovremmo chiederci: perché hanno cercato di uccidere lui?» «Ma le frecce potrebbero non essere davvero elfiche», ipotizzò Goda. «Che sia opera dei Terzi?» «No. Avrebbero usato dei dardi di balestra per far cadere il sospetto su di noi. Avrebbero lasciato il cadavere in un posto in cui sarebbe stato trovato subito e con certezza», replicò Tungdil. «No, sono stati gli elfi a tirare su di lui. O hanno pensato che fosse morto e l'hanno lasciato qui oppure è riuscito a fuggire e loro ne hanno perso le tracce.» «Che ne facciamo di lui?» domandò Boïndil. «Le ferite hanno un brutto aspetto. Non resisterà a lungo.» Tungdil gettò uno sguardo ai loro carri. «Lo porteremo con noi. Se gli elfi volevano ucciderlo, intendo scoprirne il motivo.» Non ricordava di aver mai letto di una guerra intestina nell'Âlandur. Il comportamento insolito degli emissari, il messaggio segreto contenuto nella loro lettera di accompagnamento, la pietra, le nuove costruzioni degli elfi fino ad allora rimaste nascoste... tutto ciò poteva essere in relazione con quel ferito. Poteva. Forse si trattava di una faida personale o di un criminale di alto rango. Nessuno sapeva come il popolo delle foreste regolasse le proprie controversie. C'erano molte possibilità. «Facciamo in modo che rimanga in vita e che riapra presto gli occhi.» Tungdil chiamò a sé altri guerrieri perché li aiutassero nel trasporto. Lo portarono in uno dei carri e lo adagiarono dolcemente su parecchi strati di pelli. Uno dei loro guaritori si occupò di lui. Tungdil ordinò la partenza. Voleva usare ciò che restava della rotazione
per allontanarsi il più possibile dai confini dell'Âlandur. Non era vietato portare elfi feriti su un carro, ma non era neanche cosa consueta che dei nani si occupassero di un elfo; avrebbero potuto accusarli di rapimento. Così la carovana riprese ad avanzare con un carico a quel punto doppiamente pericoloso. Il Rabbioso dovette ritornare in sella per non rallentare il gruppo. Visto che Goda non si lamentava del dondolio, tacque anche lui; non faceva una buona impressione che un maestro si lamentasse più dell'allieva. «Chi era il nano che era con voi?» s'informò lei. «Nessuno che ti debba interessare», le rispose sgarbatamente il Rabbioso. Goda corrugò la fronte. «Però un figlio del Fabbro che monta un cavallo è straordinario.» «Lui non è straordinario. È un boia.» A Boïndil non piaceva che fosse così curiosa. «Ammazza i criminali dei Lunghi. In cambio di oro.» «Si chiama Bramdal Lamadimaestro?» chiese la nana, emozionata. «Sì, perché?» «Ho sentito parlare molto di lui. Ha combattuto a Giogonero e a Porista, a quanto si racconta. Ha ucciso da solo novanta mezz'orchi e cento soldati degli avatar», disse accalorata. «Mi piacerebbe conoscerlo.» «Bah, non è niente in confronto a quello che abbiamo passato Tungdil e io. E in confronto al numero di Musi di porco che abbiamo fatto a pezzi.» Boïndil si girò verso di lei. «Dimenticati di Bramdal. Potrà anche essere una leggenda, ma per me non vale niente. Non fidarti di lui. E ora non voglio più sentire una parola sul suo conto.» La nana lo guardò stupita. «Sì, maestro.» Rivolse uno sguardo perplesso a Tungdil, che fece spallucce e le fece capire che la cosa non lo riguardava. Quando il sole cedette all'avvicinarsi della notte, Tungdil guidò la colonna presso la riva di un piccolo fiume impetuoso, per tutelarla da attacchi su più lati. La vista dell'acqua non lo faceva stare molto bene, per via dei ricordi che risvegliava in lui. Rimase comunque sulla sua decisione; la sicurezza aveva la priorità sui suoi sentimenti. I nani stavano scaricando l'elfo e iniziando a staccare i pony, quando accadde. Gli animali iniziarono improvvisamente a nitrire; s'impennarono, scalciando e tirando le briglie. Nulla li tratteneva più e corsero via trascinando i carri, sempre seguendo la riva del fiume, come aizzati da spiriti invisibili. Tungdil capì il motivo di quella fuga inaspettata. Dai fianchi e dai poste-
riori degli animali spuntavano minuscoli ciuffi di piume che appartenevano ad aghi di cerbottana. E gli aghi non spuntavano da soli. Dei nemici li avevano seguiti e avevano atteso il momento giusto per colpire. «Alle armi!» gridò. «I Sotterranei sono vicini.» Il Rabbioso e Goda corsero da lui, mentre venti nani, in sella ai pony, intraprendevano l'inseguimento dei carri. «Perché proprio i Sotterranei?» gli chiese l'amico guardandosi intorno senza scorgere nessuno. Trenta nani si disposero vicino a loro, con le asce e gli scudi levati. Eppure non c'era ancora nessuno o niente da combattere. «Potrebbe essere anche Bramdal.» «No. I pony sono stati colpiti con delle cerbottane, in modo da indurli a fuggire», replicò Tungdil. «Non abbiamo visto gli aggressori. Questo significa che avrebbero anche potuto ucciderci. Ma non l'hanno fatto.» Alte grida e nitriti attirarono la loro attenzione. I venti nani che avevano inseguito i carri giacevano a terra, con le cavalcature che si rotolavano nella sabbia; erano stati bruscamente fermati da una corda tesa all'altezza dei garretti delle bestie. Qualcuno rimase a terra, stordito o ferito; altri si lanciarono di nuovo in sella e ripresero l'inseguimento nonostante le ammaccature. «Siamo finiti in una trappola!» tuonò il Rabbioso, incassando la testa. «Uscite allo scoperto, sbarbati vigliacchi!» gridò facendo un passo in avanti. «Nessun nano combatte in questa maniera! Mostratevi, se avete un minimo di decenza, anziché strisciare fra i cespugli come subdoli gnomi!» Si sentirono scricchiolii e fruscii; la folta chioma del canneto che cresceva a venti passi da loro tremolò rivelando la presenza di qualcuno. Gli occhi del Rabbioso sfavillarono. «È il momento di andare a falciare, Goda!» Si lanciò in avanti e la nana lo seguì impavida. Nella sua immaginazione, Tungdil vide accanto all'amico il defunto Boëndal, non la Terza. Una volta che Goda fosse arrivata al massimo livello della loro arte, i due avrebbero costituito un'unità da combattimento indomabile, come quella un tempo formata dai due gemelli. «Seguiamoli!» ordinò agli altri nani. «Cercate di non uccidere i Sotterranei. Al momento, loro ci hanno sempre risparmiati.» Disposti in un largo ventaglio, si gettarono nel canneto, aprendosi una strada fra l'alta vegetazione. Tungdil sperava di riuscire a catturare almeno uno dei nani stranieri. Solo così potevano sperare di recuperare i diamanti sottratti e di risolvere l'enigma di quei furti. Più avanzavano, meno le sue speranze si realizzavano. Raggiunsero la
parte opposta del canneto senza essersi imbattuti in nessuno. «Lassù!» gridò Goda indicando una figura che, ai margini del canneto, si dirigeva verso una collina. Era un po' più alta di un nano, ma troppo bassa per essere un uomo. Tungdil scattò, seguito dalla nana e dal Rabbioso. Gli altri nani si trovavano troppo lontani da quel punto per poter essere loro d'aiuto. Il fuggitivo scomparve oltre la cima; i tre nani la superarono subito dopo. La distanza tra loro non stava diminuendo. «Così non va», brontolò Boïndil, sollevando l'azza e scagliandola in corsa. «Vola e prendilo!» le gridò dietro. Ruotando sul proprio asse, la pesante arma superò la distanza che la separava dal fuggitivo; la parte smussata lo colpì alla coscia e gli fece perdere l'equilibrio. Lo sconosciuto cadde a terra e scivolò sull'erba umida fino ai piedi del pendio, rimanendo poi immobile e gemente. «Lancio magistrale», lo lodò Tungdil, il quale aveva temuto che l'arma potesse colpire lo straniero alla schiena e ucciderlo. Da quando al Rabbioso era tornata la voglia di combattere, Tungdil si aspettava che potesse fare di tutto. «Non lanciare mai la tua arma, se non ne hai un'altra con te», lo canzonò subito Goda. «Maestro, tu...» «Ehi, non correre troppo.» Boïndil sollevò i grossi pugni sogghignando. «Io ho anche queste due armi, allieva. Bastano per un avversario del genere. Contro i Maialini mi sarei fatto venire in mente qualcos'altro.» «Sono tutte scuse», replicò la nana. «Se lo avessi fatto io, ora dovrei trascinare travi o fare altre cose inutili.» «Sì», ammise l'altro sorridendo. «Non per nulla sono io il maestro.» Raggiunsero il fuggitivo, che gemeva cercando di ritirarsi. Tungdil s'inginocchiò accanto a lui e lo minacciò alle spalle. «Non muoverti», disse cercando di calmarlo. «Non vogliamo farti male.» Si trattava di un nano, non c'erano dubbi, anche se non aveva la barba; il volto sembrava significativamente più squadrato, il corpo più alto e massiccio e la pelle più scura. Aveva i capelli raccolti in trecce dipinte di blu, verde e nero. L'attaccatura dei capelli cominciava solo da metà cranio; sulla parte anteriore della testa erano stati tracciati dei segni. Non portava armatura. Si proteggeva da intemperie e armi con uno spesso abito di cuoio, i piedi erano infilati in stivali dalle suole sottili. E proprio una di quelle suole colpì Tungdil sotto il mento, facendolo cadere di schiena sull'erba.
Poi si sentì il Rabbioso gridare sorpreso e cadere sull'amico, col naso sanguinante. «Mi ha dato un calcio!» esclamò Boïndil, mentre si puliva il sangue. «Questo qua mi ha dato un calcio, come fossi un cane!» Si rialzò, furente. «Lo strappo in due, questo piccolo mezzopelato!» Tungdil si tirò a sedere e vide che il Sotterraneo mandava a vuoto gli attacchi di Goda con rapide rotazioni del corpo, di quelle tipiche dei lottatori. In contromossa, il prigioniero afferrò la guerriera per avambraccio e spalla e con un movimento pieno di slancio la sollevò. La nana si staccò dal suolo e sbatté per terra di schiena. «Non ucciderlo, Boïndil!» gridò Tungdil rimettendosi in piedi. L'irruente attacco del Rabbioso non sortì l'effetto sperato. Il Sotterraneo si muoveva con velocità ed eleganza, come se danzasse intorno ai suoi avversari; non appena gli si offriva l'opportunità di afferrare qualcosa, come un cinturone o un passante in cuoio di una cotta di maglia, lo usava come leva. In quel caso fu il sostegno dell'arma. E così Boïndil decollò di nuovo, si schiantò di petto e imprecò. «Mi ha piegato le ossa», strillò il Rabbioso dando un pugno all'erba. «Per Vraccas, che carogna! Questo non è un combattimento, è roba da coboldi!» Il Sotterraneo corse via zoppicando. Tungdil lo inseguì, compiacendosi di aver riacquistato la sua vecchia resistenza. Una quarantina di rotazioni prima sarebbe già crollato a terra ansimando e tenendosi un fianco. «Fermati! Dobbiamo parlare dei diamanti!» gridò. «Per noi sono importanti!» Il Sotterraneo non si fermò, ma il colpo dell'azza di Boïndil lo aveva indebolito. Dopo duecento passi di corsa attraverso l'ampia piana, Tungdil gli si avvicinò tanto da osare un balzo; si gettò contro l'avversario e lo fece cadere. Il Sotterraneo si rigirò come un'anguilla e sarebbe riuscito a svignarsela di nuovo, se Goda non fosse comparsa all'improvviso e non gli avesse somministrato un colpo alla nuca col manico della sua stella della notte. Il fuggitivo si afflosciò privo di sensi. «Grazie, Goda», disse Tungdil ansimando per lo sforzo e sedendosi sul prigioniero per legarlo mani e piedi col suo cinturone e con quello di Goda. Frugandogli nelle tasche, trovò molti aghi da cerbottana piumati di rosso, oltre a una fiaschetta contenente un liquido maleodorante. Immaginò che si trattasse del veleno con cui imbeveva gli aghi. Comparve il Rabbioso. «Vedrete che la prossima volta si porterà dietro
un'arma, come si addice a un nano per bene», disse agitato tenendosi il petto con la sinistra. Il suo sguardo indagatore ispezionò il prigioniero. «Allora? Neanche un pugnale?» Il Sotterraneo aprì gli occhi e non oppose più resistenza. Osservò i volti di chi lo aveva catturato. «Lasciatemi andare», disse con voce profonda e risonante e uno strano accento. Sembrava molto solenne, proprio come faceva a volte Rodario per prendere in giro la gente. «Io non vi ho fatto nulla.» «Non ci hai fatto nulla?» Il Rabbioso s'indicò la spalla destra. «A forza di gettarmi di qui e di là mi hai slogato la spalla!» «Tu hai cercato di uccidermi. Se io avessi voluto uccidere te, ci sarei riuscito», replicò il Sotterraneo. «Quindi non lamentarti.» Il Rabbioso scoppiò in una risata incredula. «Guarda cosa mi tocca sentire! Per Vraccas, hai masticato erba hulto, per caso?» Tungdil gli fece segno di moderarsi un po'. Goda affiancò il maestro e ne ricevette uno sguardo di approvazione, dal momento che era merito suo se erano riusciti a catturare il prigioniero. Il sorriso orgoglioso di lei lo tranquillizzò all'istante. «Io sono Tungdil Manodoro, questi sono Boïndil Duelame e Goda Ardentecoraggio. Molti di noi hanno perduto amici e parenti per difendere il diamante che voi volete rubarci. Perché?» Nel frattempo li avevano raggiunti altri nani. Uno sussurrò a Tungdil che i carri erano stati trovati. Le cassepanche contenenti i diamanti erano state tutte aperte e le pietre erano state rubate. «Noi non rubiamo. Noi ci riprendiamo ciò che ci appartiene», rispose il Sotterraneo. «Una broka ce l'ha rubato e portato via. Lo abbiamo cercato per tanto tempo, finché gli ubari non ci hanno dato l'indizio decisivo e abbiamo scoperto dov'era finito.» «Che cosa sono i broka?» Il Sotterraneo rifletté. «Voi li chiamereste elfi.» Tungdil fece un cenno di capo al Rabbioso. «Come immaginavo. Noi la chiamavamo Eoîl, e ha portato orrori alla Terra Nascosta. Ma lei ha alterato la pietra. È diventata un potente artefatto.» «Lo era anche prima», replicò il Sotterraneo. «E non cambia il fatto che il diamante sia nostro.» «Puoi portarmi dal tuo capo?» Tungdil slegò per primo il cinturone che gli legava le mani, poi quello che stringeva i piedi. «I vostri attacchi devono finire. Abbiamo tutti bisogno di una soluzione.» Gli tese la mano.
«Sapientone, questi vanno a braccetto coi Maialini», lo ammonì il Rabbioso. «Non dobbiamo fidarci di loro.» Il Sotterraneo fece finta di non aver sentito l'accusa e si alzò senza ricorrere all'aiuto di Tungdil. «Vi porterò nel luogo in cui potrete aspettare Sûndalon. Nient'altro.» Si scosse l'erba dai pantaloni. «Noi tre andremo con lui», disse Tungdil, ordinando agli altri nani di aspettarlo all'accampamento. «Va' avanti tu. Hai un nome?» «Sì. Ne ho uno», rispose quello prima d'incamminarsi zoppicando. Boïndil notò la cosa con un ghigno soddisfatto; era quanto gli doveva per il dolore che stava provando lui. All'improvviso sentì una mano di Goda sulla spalla destra, mentre l'altra mano gli afferrava il braccio e lo tirava indietro con forza. Il nano strinse forte i denti mentre le ossa tornavano al loro posto. Per alcuni istanti i volti dei due si trovarono molto vicini. Boïndil sentì il respiro di lei. «Perdonami, maestro», mormorò la nana. «Più si sistema un'articolazione in modo inaspettato, meglio torna nella sua sede.» «Tutto bene», replicò lui sorridendole. Il suo sorriso non era quello di un maestro: era quello di un nano innamorato. Poi si schiarì la voce, fece un rapido passo di lato e la superò. «Vieni. Non vorremo lasciare il Sapientone da solo?» A Goda non sfuggì la particolarità del sorriso, che le rese chiaro perché il Rabbioso si fosse infervorato tanto quando lei aveva parlato di Bramdal. «Oh, Vraccas!» esclamò in un sospiro, prima di seguirlo. Terra Nascosta, regno di Gauragar, trentotto miglia a ovest di Porista, 6241° ciclo solare, estate I carri della compagnia teatrale viaggiavano attraverso la campagna. Di rado il Curiosum aveva avuto tanta fretta di raggiungere un posto nuovo. E il motivo era evidente: Furgas doveva assolutamente raccontare ai sovrani ciò che aveva vissuto sull'isola dei Terzi. Ma a tale riguardo c'era un ostacolo non irrilevante. «E continua a non parlare?» s'informò Tassia, che sedeva a cassetta accanto al suo amante. «Se ne sta seduto e risistema le cose che un tempo ha inventato per il Curiosum?» «Proprio così. La sua mente è completamente assorbita dal tentativo di sbarazzarsi di ciò che ha patito negli ultimi cinque cicli.» Quando trovò un
posto adatto alla sosta per la notte, Rodano diede ordine di fermare i carri. I veicoli formarono un cerchio. L'attore aiutò Tassia a scendere e le sbirciò il petto prosperoso, che minacciava di scivolare fuori dal vestito. «Oh, adesso so che cosa mi è mancato!» esclamò sorridendo. Poi la baciò. La donna rise e lo colpì con la pila di fogli sciolti su cui era stata seduta. «E quante donne hai reso felici a Mifurdania, mentre la mia compagnia e io siamo andati a nord?» lo punzecchiò. «La tua compagnia? Io sono tornato, carissima Tassia, e ora sono di nuovo signore del Curiosum. O coi tuoi begli occhi e con la tua dolce bocca hai tramato una congiura contro di me?» La donna gli appoggiò l'indice sotto il mento. «Proprio così, amore mio. Sono andata a letto con tutti gli uomini del teatro e li ho resi miei schiavi. E le donne non sono comunque un granché nel perorare la tua causa. Potrai anche essere l'imperatore degli attori, ma questo regno ha una nuova regina.» Tassia parlava solo in parte per scherzo. Rodario aveva già notato che le sue richieste venivano eseguite solo dopo che Tassia aveva annuito o concordato. Sul momento l'aveva ritenuto uno scherzo. «No, non stai parlando seriamente.» Rise incerto. «Rileggi il tuo pezzo ancora una volta. L'ho un po' modificato. Ora va meglio», replicò lei, sicura di sé, mettendogli i fogli in mano. Gli sorrise, poi gli diede un bacio appassionato e andò ad aiutare Gesa a cucinare. Rodario la guardò allontanarsi grattandosi la testa. «Questa donna ha un demone in corpo. Se qualcuno me lo avesse detto per tempo, mi sarei tenuto lontano da questo affare.» Raggiunse la parte posteriore del carro, aprì la scaletta e vi si sedette sopra, mentre gli operai staccavano i cavalli, davano loro da mangiare e li abbeveravano. Alla luce del tramonto scorse ciò che Tassia aveva modificato e aggiunto al suo pezzo. Per quanto fosse duro ammetterlo, in molti punti dovette ridere a squarciagola. La donna aveva messo alla prova il suo talento in modo impressionante; Rodario conosceva componimenti di esperti attori che erano meno validi rispetto a quello scritto dalla sua compagna. La sete e la preoccupazione per Furgas si fecero alla fine sentire. Rodario si alzò e salì gli stretti gradini. «Furgas?» Mentre aspettava risposta, girò rapidamente la testa per guardare Tassia, che sedeva ridendo accanto al fuoco e preparava la cena con Gesa. Tutti gli uomini che in quel momento non avevano da fare gironzolavano intorno al fuoco per essere nei paraggi dell'incantevole donna. A quel punto a Roda-
rio fu chiaro che lei aveva detto la verità. Il Curiosum era nelle dolci ma intransigenti mani di Tassia. La sua allieva. La sua musa. «Per Palandiell, così non va», mormorò l'imperatore detronizzato. «Devo scambiare due paroline con la donzella.» Stava per scendere i gradini quando sentì un debole gemito provenire dal carro. «Furgas?» Aprì la porta senza aspettare di essere invitato e trovò l'amico coricato per terra in un lago di sangue. Furgas si era aperto i polsi con lunghi e profondi tagli e aveva quasi perso i sensi. «Maledizione!» Rodario strappò un lenzuolo e fasciò in fretta le ferite. «E questo che significa?» apostrofò l'altro tirandolo su a sedere. «Non ti ho liberato perché ti ammazzi da te.» «Non posso vivere con questa colpa», sussurrò Furgas. «Ho costruito le macchine che portano la morte tra i nani», sussurrò lottando per rimanere cosciente. Barcollò, ma Rodario lo sostenne. «Sta' calmo, amico mio. Ti ci hanno costretto...» «Avrei potuto uccidermi, piuttosto che piegarmi alle loro minacce, ma...» Guardò l'attore. «Prima hanno mandato le macchine scavatrici nei vecchi tunnel colmi di macerie, sperando che riuscissero a scavare un passaggio. Poi sono seguite le macchine di morte.» Si asciugò le lacrime, che erano sincere. «Le macchine...» Rodario gli passò un bicchiere d'acqua. «Calmati.» «Non posso calmarmi. Hai sentito ciò che la gente ci ha riferito strada facendo? Hai sentito dei mostri di carne e acciaio?» Mandò giù l'acqua, le mani strette intorno al bicchiere. «Anche quelle sono opera mia. I Terzi si sono alleati con gli Eterni», disse cercando di controllarsi. Rodario fu attraversato da un brivido freddo. «No.» Vide la testa di Tassia fare capolino dalla porta. La donna non osava far notare la propria presenza, rimaneva lì, appoggiata allo stipite, e ascoltava. «Sì, invece.» Furgas rise amaramente. «Bandilor venne da me e mi mostrò degli astrusi bozzetti di disgustose creature, che dovevano essere fatte in parte di metallo. Aveva la formula della lega metallica che conduce la magia, quella scoperta da Balyndis, e aveva sottratto un pezzo di brace della fucina di Vapordrago. Con quello aveva prodotto il metallo con cui io avrei dovuto costruire le macchine, secondo il suo progetto. E io le costruii, senza sapere a che cosa mirasse.» Furgas impallidì. «Poi vennero loro; lo ricordo ancora perfettamente. Emergemmo, e vennero portati da noi. Piccoli, orribili bastardi di mezz'orchi e albi; il maggiore non avrà avuto più di quattro cicli. Bandilor condusse l'isola in un punto segreto, chissà
dove in mezzo al mare, e ci fece inabissare sino al fondale. Mettemmo i bastardi nei macchinari, ce li avvitammo e inchiodammo bene; amputammo loro gli arti per applicare le protesi portate da Bandilor. Vetri o cristalli, non saprei dire con sicurezza. Fece passare le barre, che erano fatte con la lega magica, attraverso quei piccoli corpi e fece gettare i bastardi in un pozzo che aveva fatto scavare. E quelli gridarono. Oh, se gridarono!» Furgas rabbrividì mentre le immagini affioravano nella sua memoria sempre più nitide. «Lampi verdi salivano per il pozzo, colpendo il metallo. Le rune albiche risplendettero e rifulsero, e quelle creature crebbero e strillarono. I loro corpi vennero uniti indissolubilmente ai congegni. I miei congegni.» Vuotò il bicchiere. «Non ricordo quanto tempo ci volle. A un certo punto Bandilor ordinò di far riemergere l'isola, e io non ho più ripensato a quelle creature. Fino a che non ne ho sentito parlare durante il viaggio.» Tacque, e il silenzio regnò a lungo. Tassia rabbrividì; aveva la pelle d'oca su tutto il corpo, perché la sua fervida immaginazione aveva dipinto nella sua mente creature mostruose che le facevano paura. «Oh, dei...» le sfuggì alla fine in un sussurro. «Che cosa terribile.» Anche a Rodario ci volle tempo per riprendersi da quello che aveva sentito. Il magister technicus aveva creato il suo capolavoro, di crudeltà e devastazione: creature di magia e tecnologia, guidate dal male e dominate dalla volontà di portare morte e distruzione. «Non sei tu il responsabile», riuscì infine a dire, aiutando Furgas a sedersi sul letto. Al posto dell'acqua versò del vino, che l'amico trangugiò a lunghi sorsi. Furgas tremava da testa a piedi. «Mi sono meritato la morte, Rodario», disse prostrato. «È vero, i Terzi mi hanno costretto, ma io ho fatto bene il mio lavoro. Troppo bene.» Strinse i pugni. «Perché pensavo tutto il tempo a Narmora e ai miei bambini. Ho reso buoni servigi ai Terzi, per vendicami sulla Terra Nascosta e sui nani della perdita della mia famiglia. Solo verso la fine ho compreso che cosa avevo fatto.» Finì il vino e chiuse gli occhi. «Ho... ho le vertigini», sussurrò accasciandosi sul giaciglio. «Dormi», mormorò Rodario. Coprì l'amico e asciugò il sangue dalle assi; più tardi avrebbe fregato a fondo. «E stai lontano dai coltelli.» Uscì dal carro e chiuse la porta; si sedette sugli scalini, con la bottiglia di vino. Guardò il sole al tramonto, bevve un sorso e passò la bottiglia a Tassia. «Che cosa intendeva quando ha detto che gli è stata presa la famiglia?» chiese lei con voce rotta. «Mi avevi detto che era accaduto nella battaglia di Porista.»
L'attore la trasse a sé e la guardò negli occhi; immaginò come sarebbe stato perderla per sempre, e fu investito da un'ondata di paura. La baciò dolcemente. Tassia riconobbe la differenza tra un gesto pieno di desiderio e quel bacio, in cui non c'era affatto desiderio ma sentimenti profondi che neppure un poeta sarebbe riuscito a descrivere vagamente. Gli sorrise e gli accarezzò il volto. «A cosa devo questo bacio?» Rodario sospirò. «Narmora, così si chiamava la sua compagna, era una mezz'alba. Combatté con noi a fianco del bene contro Nôd'onn e diventò apprendista dell'ultima maga, Andôkai la Burrascosa; alla morte di questa, ne prese il posto e difese la Terra Nascosta dalla devastazione causata dall'Eoîl e dagli avatar. Come ricompensa per i suoi sforzi, fu uccisa. La Stella del Giudizio non ebbe nessuna pietà, né per lei...» «... né per i suoi figli», terminò la frase Tassia, commossa. «Che storia terribile. Povero Furgas...» «Dopo la battaglia, Furgas diede ai nani e agli uomini la colpa dei suoi lutti. Se si fosse lasciata mano libera agli avatar, disse allora nel delirio del suo profondo dolore, il numero delle vittime nella Terra Nascosta sarebbe stato infinitamente inferiore. Avrebbero distrutto il male costituito dagli albi e se ne sarebbero andati. Senza far sorgere la Stella del Giudizio. E lui sarebbe rimasto un felice padre di famiglia.» Rodario guardò il sole rosso. «A volte mi sono chiesto se non avesse ragione.» Tassia rimase in silenzio, bevve e gli restituì la bottiglia. L'attore sospirò. «Allora avrei mentito, se avessi detto che lo capivo. Mi ha addolorato la morte di Narmora, che era un'amica. Solo oggi però posso comprendere quanto deve averlo devastato quella perdita.» Allungò la mano e accarezzò i biondi capelli di Tassia. «Prego gli dei di non dover mai vivere un'esperienza del genere. Perseguiterei e odierei fino al mio ultimo alito di vita chiunque ne fosse responsabile.» La donna gli prese la mano e se la portò alla guancia. Rimasero così finché non scese l'oscurità. Rodario controllò in silenzio Furgas, che dormiva nel letto, poi si sedette intorno al fuoco col resto della compagnia e ascoltò, avvinto, il canto intonato da Gesa. Terra Nascosta, regno di Gauragar, fortezza di Kuhburg, 6241° ciclo solare, estate Balba Magliodaroccia del clan dei Carezzapietra, della stirpe dei Secon-
di, si sentiva un po' a disagio in mezzo a quella quantità di umani. Trovava risibile la condizione imposta dalla regina Isika, e cioè che nessun nano rimanesse nelle mura della fortezza; senza la forza d'urto dei figli del Fabbro gli umani erano perduti, non aveva nessun dubbio al riguardo. Nonostante il risentimento che nutriva, eseguiva i suoi compiti in modo scrupoloso e, alla chiusura dei lavori, supervisionava col capomastro ogni singola pietra di Paland. «Non è meravigliosa, questa fortezza?» chiese l'uomo, compiaciuto della vista. «No, non lo è», rispose la nana, rovinando il compiacimento dell'altro. «Per me questa costruzione è brutta e priva di grazia. Sembra gettata senza amore nel paesaggio. Gli architetti hanno ponderato ogni cosa, ma nel farlo hanno completamente dimenticato la visione d'insieme.» Quelle parole franche cancellarono il buon umore del capo-mastro. In quanto discendente di chi aveva costruito Paland, si sentiva offeso. «Voi nani pensate di saper fare sempre tutto meglio?» «Non ho detto che noi l'avremmo fatta meglio.» Balba sapeva che il suo popolo l'avrebbe fatta davvero molto meglio, ma evitò di vantarsene con l'uomo. «Quello che qui manca è l'anima che vive in ogni costruzione dei nani. Gli uomini che hanno costruito Paland hanno plasmato la pietra senza badare alle venature e alla struttura. L'hanno violentata, anziché prestare ascolto al materiale e combinarlo in modo che duri più a lungo e che, col tempo, si unisca a formare una montagna artificiale. Questo è il motivo per cui i nostri edifici durano più dei vostri.» Balba, come tutti gli intagliatori dei nani, conosceva perfettamente le caratteristiche di ogni tipo di pietra, dal granito all'ardesia, dal basalto al marmo o all'arenaria. Mentre camminava scoprì prontamente, alla luce del sole al tramonto, un punto danneggiato. «Ehi, tu», gridò a uno degli operai che il re le aveva subordinato. Con l'indice puntò la chiave di volta dell'ingresso all'edificio principale. «Io avevo ordinato di farla cambiare.» «Non c'era tempo, Balba. Dovevamo ancora...» «Lo dirai a re Bruron quando l'arco tremerà al primo suono di fanfare e crollerà.» La nana posò le forti mani sui fianchi. Era un gesto che non ammetteva repliche. Il capomastro venne in aiuto al suo sottoposto. «Cerco subito un po' di uomini e mi metto al lavoro, Balba», disse abbassando gli occhi, in modo che non gli leggesse in faccia la sua silenziosa imprecazione. Si allontanò, felice di non dover ascoltare ancora i discorsi della nana.
Balba scosse la testa bruna e si risistemò il grembiule di cuoio. «Umani», mormorò piano rimettendosi in cammino. Considerato il numero di cicli vissuti dalla fortezza e l'immensa trascuratezza trovata da lei e dagli scalpellini di re Bruron, i risultati dei lavori di risistemazione erano evidenti. Le mura esterne, alte venti passi, di quella fortezza a forma di stella erano state riparate e provviste di nuovi merli, più stabili. Era stato un lavoro magistrale sostituire le pietre vacillanti senza far crollare le pareti. All'inizio gli uomini non volevano credere che fosse possibile compiere una cosa del genere; la nana aveva invece mostrato loro che si poteva fare. Balba aveva demolito senza esitare le torri esauste e aveva convertito in proiettili le pietre rovinate dalle intemperie, facendole sistemare sui camminamenti difensivi o accatastare nel cortile vicino alle catapulte. Le mura erano sufficientemente alte da rendere superflue le torri, al cui posto aveva eretto delle piattaforme su cui posizionare le balliste. Si meravigliava della trascuratezza degli umani e di quanto si accontentassero facilmente. Osservata dallo sguardo critico di un nano, la fortezza era sempre migliorabile. Voleva lasciare Paland in condizioni tali che perfino gli elfi non potessero fare a meno di lodare il rapido successo dell'impresa. Non la bellezza, solo il rapido successo. Fino a quel momento, solo uno dei diamanti rimasti aveva raggiunto la fortezza; le regina Wey e i suoi soldati si trovavano già lì. I messi mandati dalle altre scorte tenevano costantemente informato il comandante riguardo alla situazione e alle distanze. A quanto pareva, sarebbe stata la gemma del Sagreîn la prossima a scomparire nella camera preposta a custodire i diamanti, che aveva muri spessi parecchi passi. Balba aveva fatto ispessire il soffitto, provvedendo la sala di colonne di sostegno. Perfino la cometa che si era abbattuta sulla Terra Nascosta non avrebbe frantumato quella corazza di granito. La nana salì sul camminamento che guardava verso sud. Voleva vedere quanto fosse grande la carovana delle calde desolazioni del sud che scortava il diamante per conto della regina Umilante. Mentre stava ai merli e beveva un sorso dalla sua borraccia, accanto a lei comparve un elfo in armatura. «I miei saluti», disse questi. «E a te i miei.» Sapeva che apparteneva al contingente, forte di duecento guerrieri, che l'Âlandur aveva mandato per primo; altri guerrieri sarebbero seguiti. Oltre a loro, si trovavano nella fortezza mille soldati del Weyurn. Il re-
sto, altri quindicimila fanti e duemila cavalieri, marciava verso l'Idoslân sotto la guida del principe Mallen, per attaccare le caverne del Toboribor e distruggere gli Eterni e le loro creature. «Una bella giornata mandataci da Sitalia», commentò l'elfo guardando giù dal muro. «La dea ha buone intenzioni con le sue creature.» Si tolse l'elmo, sotto il quale apparvero dei biondi capelli sciolti sulle spalle. Balba bevve un altro sorso, poi ripose la borraccia. «Sitalia si preoccupa degli elfi, per cui riserverà una bella giornata più che altro a voi. Gli uomini ringraziano Palandiell, noi Vraccas. E così dev'essere», disse la nana cortesemente. Guardò verso destra, dove il sole tramontava. «La giornata non è ancora finita.» Osservò l'armatura di metallo dell'altro; la vedeva per la prima volta. A ben guardare, tutti i duecento elfi parevano indossare nuovi abiti, chiari e bianchi, che alla piena luce del sole scintillavano quasi come specchi. Quel cambiamento nel modo di presentarsi le ricordò qualcosa, senza che le venisse in mente nulla di preciso. «In effetti hai ragione, Balba Magliodaroccia del clan dei Carezzapietra», replicò l'elfo in tono di scusa. «Volevo farti i complimenti che ti sono dovuti. Hai fatto un lavoro eccezionale. I diamanti saranno al sicuro, qui.» La nana annuì concedendogli un cauto sorriso. «Vuoi?» gli chiese porgendogli la borraccia. L'elfo allungò la mano corazzata e la prese. «Molte grazie.» Prima annusò il contenuto, per accertarsi di che cosa stesse per bere, poi portò la borraccia alle labbra. E si fermò. «Per Sitalia», sussurrò indicando verso sud. «Vedi quello che sto vedendo io?» Balba guardò in quella direzione. La colonna che scortava la gemma del Sagreîn era comparsa tra due colline e aveva attraversato una foresta; lì era rimasta vittima di un agguato. La nana vide un gigantesco mostro nero girare tra le piccole figure dei soldati, brandendo un'arma a forma di falce; di tanto in tanto da lui partivano lampi verdi che, quando colpivano qualcuno, lo disintegravano all'istante. «Gli Eterni ci hanno ingannati! Non sono nel Toboribor. Hanno mandato le loro creazioni per rubare le gemme prima che vengano messe al sicuro.» L'elfo lasciò cadere la borraccia e scese di corsa le scale, infilandosi l'elmo. Gridò qualcosa in una lingua che Balba non comprendeva. Il reparto di elfi montò di corsa sui cavalli bianchi e si precipitò fuori dalla porta meridionale, per correre in aiuto dei soldati di Umilante. Una manciata di messaggeri si staccò e galoppò in altre direzioni, per avvisare i gruppi di nani e uomini che si trovavano più distanti.
Il comandante della fortezza fece chiudere le porte alle loro spalle e chiamò tutti i soldati alle armi. «Lo dicevo io, che la giornata non era ancora finita.» Balba si trovò senza preavviso di fronte a un combattimento. Se la cavava piuttosto bene con la mazza, ma non si riteneva una guerriera particolarmente dotata. Approfittò dell'eccitazione per abbandonare il camminamento e andare a spronare i suoi operai a lavorare più in fretta. Stranamente crebbe l'agitazione nella parte orientale della fortezza, ma Balba rimase al suo cantiere finché gli uomini non ebbero compiuto il loro lavoro. Solo quando ebbero finito salì di nuovo sul camminamento difensivo, tenendo nella sinistra il suo scudo. Una nube di polvere si dirigeva verso la porta orientale. E, qualunque cosa la provocasse, si muoveva incredibilmente veloce. Troppo veloce per essere un umano, un elfo, un nano, un animale o qualunque altra bestia. «Che ne è della gente di Umilante?» chiese la nana al soldato che aveva più vicino. L'uomo era pallidissimo, sembrava aggrappato all'asta della sua lancia. «Giacciono tra le colline. Non si muovono più.» «E gli elfi?» «Scomparsi. Il mostro li ha inghiottiti», sussurrò l'uomo, poi deglutì. Il sole era tramontato, immergendo il Gauragar nella penombra prima che la notte portasse il suo nero manto stellato. Le fiaccole della fortezza vennero accese, allontanando le ombre spaventose. Alcuni degli uomini corsero fuori, ritirarono le passerelle di legno e diedero fuoco alle fosse piene di sterpi e pece che circondavano la fortezza. La prima linea difensiva era pronta. Balba issò una delle pietre sui merli e si preparò a salutare l'aggressore gettando il concio. Con un paio di colpi di scalpello ben mirati tracciò le sue iniziali e sogghignò soddisfatta. La cosa che si era avvicinata tanto velocemente si mise in bella mostra davanti ai difensori fermandosi a cinquanta passi dalla porta, in mezzo alla strada. La cortina di polvere che le aleggiava intorno venne soffiata via dall'aria calda proveniente dai fuochi, e alla fine apparve un connubio fra mostro e macchina. Dai fianchi in su assomigliava agli altri mostri, un bastardo di albi e mezz'orchi, o peggio, infilato in una spessa e dura corazza di tionio. Non si vedeva neppure un pezzetto di pelle, tutto era stato accuratamente protetto
contro frecce e piccoli proiettili con quel resistente materiale. Soltanto guardando oltre la visiera, aperta, potevano capire che nell'armatura c'era qualcosa di vivo. Ma, dove ci si aspettava di vedere le gambe, c'era una specie di nero blocco alto due passi, largo due e lungo tre. Gli spigoli erano leggermente smussati, la lucida superficie scura correva sopra le ruote, coprendole in parte, in modo che acqua, sangue e altri liquidi vi scorressero sopra senza ristagnare. Balba scorse davanti e sui fianchi degli sportelli. Tutt'intorno erano stati innestati degli spuntoni di tionio lunghi un avambraccio; nella parte inferiore c'erano parecchie grosse ruote, attraverso cui quell'essere misto si muoveva. Erano mosse da una forza invisibile, nascosta all'interno del blocco. «Un carro da battaglia senza cavalli», disse il soldato accanto a Balba. «Che razza di altra invenzione è questa?» «Certo non una buona», mormorò lei. La vista di quella creatura le aveva fatto accapponare la pelle. «Datemi la gemma e vivrete», disse il mostro con voce limpida. «I miei fratelli e le mie sorelle saranno presto qui. Queste mura non ci fermeranno.» «Eccoti la risposta!» gridò il comandante. Poi sollevò la mano e l'abbassò rapidamente. Quattro balliste scaricarono sulla creatura i loro proiettili mortali, sibilando attraverso il crepuscolo come sottili nuvole nere. I proiettili lo avrebbero di certo colpito, se il mostro non avesse prontamente manovrato all'indietro. Lo spesso rivestimento anteriore si sollevò di scatto, facendo da scudo contro le tre lance che avevano raggiunto il bersaglio. Le aste di legno si spezzarono, le punte di metallo andarono in frantumi, piegandosi contro il tionio senza nemmeno graffiarlo o ammaccarlo. I tiratori ricaricarono freneticamente i dispositivi di tiro. «Mirate alle ruote. Questa volta lo sistemiamo!» Il comandante si voltò verso le catapulte raccolte nel cortile. «Tenetevi pronti», gridò. «Quando...» All'improvviso si spensero tutte le luci di Paland. Candele, torce, il fuoco nel fossato morirono, proprio mentre il buio della notte divorava il crepuscolo serale. Tutto piombò nella più completa oscurità; non si vedevano nemmeno le stelle. «Tirate!» gridò il comandante, e si sentì che i tiranti venivano rilasciati e che le funi si svolgevano. Poco dopo si udì il tonfo dell'impatto.
Balba non sperava più di sentire il grido di morte della creatura. Davanti alla porta brillarono delle rune verde scuro; poi ci fu un lampo potente e i battenti della porta vennero scardinati con una tale violenza che le schegge e i frammenti più grandi volarono fino alle mura opposte della fortezza. Se non altro le torce ripresero di nuovo a fare luce e i difensori schierati nel cortile poterono almeno vedere che aspetto aveva la loro morte, prima che li colpisse. Il blocco semovente era passato sopra il fossato e attraversava ormai il cortile. A destra e a sinistra scattavano lame di tionio lunghe quanto un uomo che tagliavano in due i soldati e le loro armature; cadevano a terra a pezzi, offrendo ai loro camerati uno spettacolo atroce e paralizzante. Dalla parte frontale era uscita una protezione di ferro. Chiunque si metteva sul percorso della macchina veniva colpito dalle lame o finiva sotto le ruote, i cui angoli erano dentellati. Nessuno che vi finisse sotto ne usciva vivo. Le frecce tradizionali erano inutili contro la corazza del veicolo e della creatura. Balba si riscosse dalla paura paralizzante. «Il vostro comandante aveva ragione: le ruote sono il suo punto debole!» gridò scendendo di corsa le scale. «Mi sentite? Dobbiamo infilarvi delle sbarre di ferro, così lo fermeremo. Portate delle catene! Gliele getteremo intorno.» Nel trambusto di grida e rumori solo pochi difensori riuscirono a sentire le sue indicazioni, ma si sforzarono di seguire la nana risoluta e i suoi consigli. Raggiunsero il veicolo, da cui provenivano strani rumori, poco prima dell'ingresso alla stanza dei diamanti. Da sotto le piastre di tionio si sentiva cigolare, sferragliare, sibilare e sbuffare. «Qui con le catene!» gridò Balba agli uomini. I soldati non esitarono a eseguire gli ordini della nana; avevano capito le sue intenzioni. Balba afferrò una catena, vi attaccò un uncino e si preparò a lanciarlo. «Agganciateli nel...» Un forte rumore la costrinse a girare la testa e a guardare verso il portale forzato. Subito fece irruzione il secondo mostro, quello che il suo creatore aveva chiuso in una gigantesca armatura. I pugni di tionio strappavano conci dalle pareti laterali e li scagliavano contro i difensori. I valorosi soldati del Weyurn perdevano la vita a decine contro quell'avversario tanto superiore, che li pestava come fossero scarafaggi. Una sfera fatta di sbarre di metallo rotolava intanto attraverso le file dei soldati, devastandole, per aiutare il mostro alla porta.
Balba si fermò. Il suo cuore vacillò, il suo coraggio si sciolse come piombo in un altoforno. Una terza creatura di Tion, con gli avambracci di vetro e metallo, si stava arrampicando sul camminamento meridionale; agitava le mani scagliando lampi verdi, che si abbattevano sulla massa dei soldati. Il ferro che portavano addosso diventava incandescente, e gli uomini evaporavano in quei raggi; anche il comandante cadde. Il resto dei difensori si arrese cercando di scappare tra le urla terrorizzate. Dei mille difensori non erano rimasti più di quattrocento. Balba comprese che, senza un mago, non sarebbero mai riusciti a fermare quelle creature. L'unione tra le potenti macchine, la forza indomabile dei mostri e la magia era imbattibile. Lasciò cadere l'uncino e, al contrario degli uomini, corse verso la porta settentrionale. Più tardi avrebbe appreso che tutti i soldati del Weyurn erano stati completamente spazzati via. X Terra Nascosta, nord del regno di Gauragar, 6241° ciclo solare, estate Boïndil camminava dietro il Sotterraneo senza fare mistero del proprio disappunto. «Ci mettiamo spontaneamente nelle mani di chi ha attaccato le nostri stirpi. Non è una buona idea.» «Ascolteranno ciò che abbiamo da dire. Ed è meglio trovare un accordo con loro, piuttosto che continuare a sopportare questi attacchi», replicò Tungdil. «E continua a non dirci come si chiama», disse Boïndil, in cerca di un altro motivo per essere di cattivo umore. «Ah, e sono amici dei Maialini.» «Abbi un po' di pazienza», sbottò Tungdil, che ne aveva ormai abbastanza delle critiche continue. Goda camminava accanto al suo maestro senza intromettersi, ma Tungdil credette di leggerle in volto che anche lei avrebbe preferito sentire il Rabbioso brontolare un po' meno. Mentre seguivano il Sotterraneo erano tutti e tre tesi. Nessuno sapeva come poteva finire il loro incontro coi lontani parenti della Terra dell'Aldilà. Tungdil osservava la maniera in cui il Sotterraneo camminava. Si muoveva in modo più sciolto rispetto a un nano della Terra Nascosta, metteva i piedi proprio l'uno dietro l'altro e non accanto; nel farlo teneva il torso per-
fettamente fermo e causava poco rumore, al contrario del Rabbioso. Il Sotterraneo sapeva muoversi in modo furtivo come fosse allievo di un albo. La marcia proseguì fino al tramonto; poi si ritrovarono in una dolce valle boscosa, circondata da tre colline, nel cui centro vi era una sorgente. Il Sotterraneo li condusse dritto verso l'acqua, pronunciò parole incomprensibili e si sedette ai margini della sorgente. Prese dell'acqua con una mano e bevve. «Sûndalon sarà qui presto», disse. Il Rabbioso posò la testa dell'azza sul morbido suolo coperto di muschio e tese le orecchie. «È molto pacifico, qui. Potrebbe tranquillamente essere un santuario degli elfi», mormorò. «Manca solo una di quelle pietre bianche.» Il Sotterraneo lo guardò. «Una pietra bianca? Tra i broka?» Tungdil ricordava che con quella parola lo straniero intendeva gli elfi. A quanto pareva, lui e il suo popolo avevano già avuto a che fare con loro. «Sì.» Gli descrisse la pietra, le sue caratteristiche e i misteri che erano stati fatti al riguardo. «Ti dice qualcosa?» «Sì», rispose il Sotterraneo annuendo e guardandolo con compassione. «Avevamo anche noi i broka e le loro pietre.» Bevve dell'altra acqua e si lavò il viso, senza con ciò cancellare i segni che portava sulla testa. «E che cosa significano?» domandò Boïndil, impaziente. «Tu che ne dici?» Il Sotterraneo sembrava irritato. «Significano che noi li abbiamo dovuti distruggere prima che loro distruggessero noi.» Il Rabbioso guardò Tungdil e deglutì. «Hai sentito, Sapientone?» «Forte e chiaro.» Tungdil si sedette sull'erba e si appoggiò al tronco di un albero. Era assolutamente necessario incontrare il capo dei Sotterranei. Boïndil e Goda si accovacciarono accanto a lui. «Che dite? A loro piaceranno le storielle?» Il Rabbioso stava squadrando lo straniero. «Così forse distenderemo un po' il clima dell'incontro.» Goda volse gli occhi al cielo. «Però non la storia della strada, maestro. Se proprio devi, prova con quella dell'elfo che chiede al nano della foresta.» «Sì, hai ragione. Probabilmente non troverebbero divertente quella del mezz'orco e del nano.» Boïndil strinse le dita intorno al manico dell'arma. «Questa gente ci crea solo difficoltà.» «Perché a loro non piacciono le tue barzellette? Be', questo sì che è un motivo per non fidarsi di un popolo», lo stuzzicò Tungdil. «Il tuo nuovo motto sarà questo: Chi non riderà, spiaccicato verrà. Dovresti farlo incidere sulla testa dell'azza.»
Goda rise forte. «Quaranta flessioni, allieva», ruggì Boïndil, offeso. «Non hai il senso dell'umorismo, maestro?» «Non quand'è indirizzato contro di me.» Indicò il suolo con un dito. «Quaranta, grazie. E ben giù. Voglio vedere muschio sul tuo naso.» Goda si alzò imprecando ed eseguì l'ordine. Tungdil scosse la testa con aria di rimprovero. Il Rabbioso sogghignò. «Fino al muschio», le ricordò dopo trenta flessioni, compiacendosi del notevole gioco di muscoli sulle braccia di lei. Il Sotterraneo accese un fuoco, senza preoccuparsi degli altri tre. Le fiamme si alzarono alte nella notte, mandando nell'oscurità un chiaro segnale. Come dal niente, ecco apparire in assoluto silenzio tra gli alberi una ventina di figure, coperte da sottili armature di cuoio brune e nere, con pantaloni di pelle e stivali. Le teste erano coperte da elmi che differivano gli uni dagli altri per piccoli dettagli: nessuno era uguale all'altro, e nessuno mostrava il volto; le visiere chiuse, plasmate a forma di volti demoniaci, conferivano loro un'aria sinistra. La scena era inquietante. Tungdil vide che tenevano in mano o appesi alla cintura degli spiedi di ferro lunghi un passo, alle cui estremità c'erano da una parte una lama sottile e dall'altra un gancio. Evidentemente i Sotterranei non condividevano la predilezione per le armi pesanti tipica degli altri nani. «Mostratevi», disse il nano che li aveva condotti nella valle, e a quelle parole gli altri sollevarono la visiera. Tungdil squadrò i gravi volti sbarbati e scorse alcune donne che risvegliarono subito la sua curiosità. A differenza delle nane che conosceva, quelle non erano tarchiate; l'intera figura era più slanciata e simile a quella delle donne degli umani. Uno dei Sotterranei, che a prima vista non era in nulla diverso dagli altri, fece un passo in avanti. «Io sono Sûndalon. Voi volevate qualcosa da me.» Piantò l'asta nel suolo del bosco, si sfilò l'elmo, scoprendo corti capelli biondissimi, e rimase in attesa. Tungdil e i suoi compagni si alzarono, e furono fatte le presentazioni. «Dobbiamo discutere e raggiungere un accordo riguardo al diamante», disse in tutta franchezza. «Nel frattempo abbiamo appreso che è vostro, ma l'incantesimo di una broka l'ha reso qualcosa di più potente. Non possiamo limitarci a consegnarvelo.» Sûndalon portò la mano alla cintura, ne trasse un borsello, l'aprì e ne
sparse il contenuto sul muschio. Vi fu una pioggia di frammenti brillanti. «Questo è ciò che resta delle pietre catturate da noi e dagli ubari. Erano copie.» Ciò non fece piacere a Tungdil, perché a quel punto ci si poteva ragionevolmente aspettare che il diamante vero finisse nelle mani degli Eterni; e non riusciva nemmeno a immaginare quale potere avrebbero raggiunto con la magia del diamante. «Vogliamo indietro ciò che è nostro», disse Sûndalon. «Ci è stato rubato da una broka. Ci sono voluti cinque cicli per concludere i nostri preparativi e trovare l'occasione per riprendercelo.» «Perché non ve ne intagliate un altro e non ci lasciate in pace?» propose il Rabbioso tenendo l'azza con fare disinvolto, ma sempre pronto al combattimento. Goda faceva lo stesso con la stella della notte. «Perché soltanto quello porta in sé il potere di cui abbiamo bisogno», rispose Sûndalon con voce tagliente. «Sarebbe come avere la chiave che entra in una serratura ma non gira.» Guardò Tungdil. «Se le informazioni che abbiamo raccolto sono vere, ci sono ancora tre diamanti in mano ai vostri popoli, e uno è scomparso, vero? Lasciateceli, e noi giureremo di portarli via con noi e proteggerli contro qualunque minaccia.» «Già una volta non ci siete riusciti», gli ricordò Boïndil. «E voi continuate a non riuscirci», ribatté Sûndalon. «Né contro di noi né contro gli ubari né contro quei mostri.» «Se tu ci potessi spiegare perché è così importante, forse allora ci faremmo convincere a cedervelo», lo allettò Tungdil. Il Sotterraneo scosse la testa. «Se potessimo spiegarlo liberamente, non ci saremmo aggirati per la vostra patria in segreto per così tanto tempo. La nostra terra, la nostra città dipendono da esso. I nostri nemici sono potenti e attaccherebbero subito, se sapessero della nostra debolezza.» Tungdil fece un cauto passo verso di lui. «Noi siamo nani come voi. Non riveleremmo mai il segreto ai vostri nemici.» Sapeva che quanto stava dicendo era in parte falso. Riteneva che alcuni Terzi fossero capaci di una simile perfidia, ma Sûndalon non doveva saperlo. «Inoltre, nel frattempo i sovrani della Terra Nascosta hanno sparso la voce che sono i Sotterranei, insieme coi mezz'orchi, a mirare al diamante. Ormai puoi raccontare tutto. La vostra spedizione non è più un mistero per nessuno, Sûndalon. Neppure per i vostri nemici.» «Ha ragione», intervenne il Sotterraneo che li aveva condotti nella valle. «Raccontagli il nostro problema, e poi lo riveleremo ai re e alle regine.»
«No», disse Sûndalon, brusco. «Non ci riguardano le cose che accadono in questo paese.» «Ma loro non sanno nulla del pericolo che incombe anche su di loro. I broka hanno eretto le pietre bianche», aggiunse il Sotterraneo. «È iniziato come allora da noi, Sûndalon. Mettendo in guardia gli uomini e i nani, potremo impedire che accada il peggio.» Sûndalon tacque. Stava riflettendo. «Non so come la vediate voi, ma il mezzopelato è riuscito a mettermi addosso un pochetto di ansia», sussurrò Boïndil. «Che c'entrano le pietre bianche? Sta parlando di quelle che abbiamo visto dagli Orecchi appuntiti?» «Visto? Tu ne hai toccata una», replicò Tungdil a bassa voce. «Chissà che effetto avrà avuto su di te.» Il Rabbioso impallidì. «Non fidatevi più dei broka, né di quello che dicono né di quello che fanno, e neppure dei loro sorrisi. Hanno guardato il sole troppo a lungo e desiderano essere come lui. Sono diventati ciechi verso ogni altra cosa.» Il Sotterraneo parlava in modo incalzante. «Inizierà con morti di cui non si capirà chi sia il responsabile. Poi bruceranno città e villaggi senza che vi sia un solo sopravvissuto. Il vostro popolo conoscerà lutti; i morti giaceranno nelle caverne, avvelenati dall'acqua...» «Per Vraccas!» esclamò il Rabbioso, spaventato. «Lo stai sentendo? Sta descrivendo quello che già succede nella Terra Nascosta...» S'interruppe e sollevò l'azza. «Siete stati voi, e ora volete seminare zizzania tra i popoli per raggiungere più facilmente i diamanti?» tuonò incassando la testa tra le spalle con fare bellicoso. «Se siete stati voi, giuro sui morti del mio popolo che mi vendicherò!» «No, non siamo stati noi», disse Sûndalon. «E sia. Ascoltate la storia del diamante. Forse poi ci crederete.» Si sedette e cominciò a raccontare. La gemma proviene dalla più profonda miniera di Drestadon. Chi la trovò pagò con la vista, tanto era bella e luminosa. Si poteva osservare e lavorare solo attraverso uno spesso panno nero. L'intagliatore impiegò sette cicli per plasmare il diamante. Nel farlo si consumò la carne dei polpastrelli, la schiena gli si deformò e la sua vista divenne debole come quella di un nano molto più vecchio. Alla fine però terminò il suo lavoro. Portammo la gemma al mastro di rune degli ubari, e questi capì perché
il dio Ubar ci aveva mandato il diamante. Il mastro di rune si armò e ci convocò tutti alla guerra. Raccolse un esercito e marciò nella Forra Oscura, dai cui anfratti e abissi sorgeva il male che ci colpiva senza tregua. Da quando esistevano le stelle, le creature del male sgorgavano da essa per attaccarci. Ma in quel luogo c'era anche un artefatto primordiale di ferro, che apparentemente non serviva a nulla e da molto tempo aveva perso il suo potere. Le rune che vi erano inscritte promettevano di chiudere la Forra Oscura per sempre, quando la Stella del Monte fosse tornata da lui. Il mastro di rune portò noi e gli ubari in mezzo alla moltitudine dei nemici. Fu una battaglia atroce e accanita contro creature che superavano in bestialità tutte quelle che conoscete qui nella Terra Nascosta, eppure benedette da una grande bellezza esteriore. Alcune di esse trovarono poi la via per giungere qui da voi; le creature che voi chiamate albi, e noi conosciamo come Sintoìtar, strisciarono dalla Forra Oscura e attraversarono le montagne. Noi e gli ubari lottammo strenuamente e aprimmo al mastro di rune la strada fino all'artefatto, attraverso le nere linee dei nemici. Quel giorno molti amici e parenti persero la vita, intere generazioni furono cancellate. Anche le bestie compresero che un pericolo le minacciava più che mai. Chi non l'ha visto coi propri occhi, non può immaginare la spietatezza e la ferocia di quella battaglia. Il mastro di rune salì fino all'artefatto e mise la gemma nel castone vuoto. La pietra si svegliò, con la sua splendente bellezza. Luci e raggi attraversarono l'antico congegno, riportandolo in vita. Le creature del male vennero respinte nella forra e la maggior parte venne uccisa da noi. Solo alcuni disperati riuscirono a fuggire; non costituivano più per noi una grande minaccia. L'artefatto tessé una trama di magia che irretì l'intera valle. Questo fino al giorno in cui non venne la broka che ingannò le nostre sentinelle e rubò la Stella del Monte. Sûndalon raccolse dell'acqua nella mano e bevve un sorso. «Per ora le creature della forra non hanno notato che la loro prigione è aperta. Cercano altri passaggi e ne trovano di molto scomodi e pericolosi. Di tanto in tanto ne strisciano fuori.» Abbassò la voce. «Se uno di loro, nelle sue scorrerie, dovesse scoprire che la vecchia via è di nuovo aperta e dovesse ritornare
dai suoi per chiamare a raccolta gli altri mostri, imperverserebbero fuori dalla Forra Oscura con furia e collera, distruggendo tutto ciò che trovano.» Trasse l'asta dalla terra e la usò per indicare se stesso. «Prima noi.» La punta si volse verso Tungdil. «Poi voi. Gli albi sono le più deboli tra quelle creature.» «Quelle creature parzialmente di metallo vengono forse dalla Terra dell'Aldilà?» congetturò Tungdil a mezza voce. Sûndalon scosse la testa. «Non conosciamo creature del genere. Devono essere nate qui da voi.» «Questo non è possibile. Gli albi e tutte le creature delle tenebre sono state annientate dalla Stella del Giudizio. Quasi tutte, almeno», disse Goda, che aveva ascoltato rapita la storia. Sûndalon rifletté. «La Stella del Giudizio era come una parete di luce bianca che ha spazzato la terra?» La nana annuì. Il Sotterraneo estrasse un pugnale e lo immerse nell'acqua tenendolo per il manico. «Immagina che questa sia la vostra patria e che il mio dito sia la parete di luce.» Sollevato il pugnale, passò il dito sopra il metallo da un lato, rimuovendo l'acqua. «Che cosa rimane sotto la terra?» Grosse gocce si raccoglievano nel lato inferiore della lama. «Vuoi dire che quell'incantesimo non è penetrato nelle montagne e nelle profondità?» «Proprio così. Ci sono sempre bestie che sopravvivono.» Sûndalon osservava pensieroso il pugnale. «La broka venne da noi, rubò la pietra e attese che i mostri si facessero vedere per distruggerli col suo sortilegio e accrescere così il suo potere. Ma non le fecero questo piacere, e lei e i suoi seguaci proseguirono il loro viaggio. Da quand'era apparsa lei, i broka avevano cominciato a comportarsi in modo strano, e alla fine li dovemmo distruggere prima che facessero piombare la rovina su di noi.» Ripose il pugnale. «Non fu facile per noi annientarli, ma così doveva essere.» Guardò i volti preoccupati dei nani. «Avevano perso la ragione.» «Non puoi negare che i nostri elfi si comportino in modo strano, vero?» disse Boïndil a Tungdil. «In modo più strano del solito, intendo.» «Dobbiamo curare il più in fretta possibile l'elfo ferito. Di certo saprà dirci di più. Altrimenti non avrebbero cercato di ucciderlo.» Tungdil fece un cenno di capo a Sûndalon. «Vieni con noi a Paland e riferisci alle regine e ai re ciò che ci hai raccontato. Convincili. Non hai altre possibilità di ottenere il diamante vero, perché non riuscirai mai a raggiungerlo dietro le mura di quella fortezza. Ti do la mia parola che nessuno ti prenderà pri-
gioniero, ti ferirà o ucciderà.» Sollevò l'ascia. «Lo giuro sulla Lama di Fuoco.» II Sotterraneo senza nome fece al suo capo un gesto d'incoraggiamento, e alla fine Sûndalon acconsentì. «Verremo con te, Tungdil Manodoro.» Si alzò. «Anche se lo avremmo raggiunto persino nella fortezza», aggiunse con un sorriso che nasceva dalla sicurezza. Terra Nascosta, regno di Gauragar, Porista, 6241° ciclo solare, estate Tungdil, Boïndil, Goda e i gruppi di Quinti e Sotterranei non dovettero affatto marciare fino a Paland. A Porista gli stendardi dei regni sventolavano sui merli delle mura cittadine, il che significava che i potenti della Terra Nascosta si erano nuovamente riuniti. E gli stendardi sventolavano a mezz'asta. I nani marciarono attraverso una città silente; silente a causa dell'oppressione e della paura, che soffocavano ogni pensiero lieto. Mentre raggiungevano la tenda in cui i sovrani si riunivano, i nani vennero a sapere dei fatti di Paland e dell'annientamento totale dei difensori. Quando, nel primo pomeriggio, Tungdil, Boïndil e Sûndalon entrarono nella tenda, i convenuti stavano discutendo su quale sarebbe stata la loro prossima mossa. Come di consueto, Goda attese fuori. Il posto del principe Mallen era vuoto, e sulla sedia, simile a un trono, su cui un tempo sedeva Liútasil, Tungdil vide un'elfa in abiti bianchi e con le insegne di una sovrana. Tra i lunghi capelli chiari brillavano gioielli tempestati di pietre preziose; gli occhi verde-azzurro scivolarono acuti sui nuovi arrivati. Gli elfi avevano trovato il successore di Liútasil, e lei illuminava tutti i presenti nella tenda con la sua bellezza e la sua aura. Mentre gli veniva presentata come la principessa Rejalín, a Tungdil venne subito in mente l'Eoîl. Re Bruron accolse i nani con un sorriso stentato e guardò stupito il nano sbarbato che sovrastava Tungdil di un buon palmo. «Hai sicuramente saputo di quanto è successo a Paland, vero?» Tungdil annuì e salutò i sovrani con un inchino. «L'ho appreso con orrore. A questo punto rimane nella Terra Nascosta una sola gemma, e nessuno sa dove si trovi.» «Una?» fece Isika piena di terribili presentimenti. Coi suoi capelli neri e col suo volto attempato sembrava lo scuro contraltare di Rejalín. L'abito
della principessa degli elfi faceva quantomeno sembrare sciatto il suo pur sontuoso guardaroba. «Sei stato battuto anche tu da una di quelle bestie?» «No. Sono stato battuto da Sûndalon.» Tungdil fece un passo di lato, per lasciare che la vista del Sotterraneo facesse il suo effetto. «Viene dalla Terra dell'Aldilà, da una città ai piedi delle montagne, e sta cercando ciò che appartiene al suo popolo. Ascoltate la sua storia.» Sûndalon raccontò dell'artefatto che sigillava la forra e del furto da parte dell'Eoîl, senza menzionare che si trattava di un'elfa. «Non potevamo manifestarci. Temevamo trattative estenuanti, benché si trattasse di qualcosa di nostro, e temevamo che i nostri nemici avrebbero intuito che l'artefatto non funziona più.» Si avvicinò al tavolo e vi dispose i frammenti delle imitazioni del diamante. I sovrani osservarono sgomenti il mucchietto di resti luccicanti. «Ora abbiamo due motivi per fare di tutto per riottenerlo», disse Tungdil rompendo il silenzio. «Il diamante non deve servire agli oscuri scopi degli Eterni, e la Forra Oscura dev'essere di nuovo sigillata. Solo così anche la Terra Nascosta potrà dirsi al sicuro.» Rejalín inclinò la testa e osservò Sûndalon. «Voi vi siete alleati coi mezz'orchi per impadronirvi delle gemme, ho ben capito?» Sûndalon fece una smorfia disgustata. «Non lotterei mai fianco a fianco con quelle creature. Gli ubari sono onorevoli, e sono i peggiori nemici dei mezz'orchi. Sono nostri fratelli, siamo entrambi creature del dio Ubar.» «Assomigliano ai mezz'orchi fin nella disposizione delle zanne, non è vero?» lo incalzò Rejalín sorridendo. Per un sorriso del genere, gli uomini l'avrebbero adorata come una dea. Ma con Sûndalon non funzionava. «Superano i mezz'orchi in statura, hanno gli occhi rosa come il sole al tramonto e i loro cuori sono mille volte più retti di quelli di un broka», replicò, tagliente. «Chi li considera nemici non può che essere nostro nemico.» «Notevole», commentò l'elfa fingendosi impressionata. «Che cosa sono i... broka?» «Assomigliano a te, ma sono corrotti e subdoli. Fanno finta di essere benevoli e saggi, e di essere buoni amici degli altri popoli. In realtà mirano a imporre i loro obiettivi. Senza nessun riguardo. Li si deve annientare.» Sûndalon aveva parlato con voce cupa e velata. Faticava molto a dominarsi. «Sta parlando degli albi», intervenne Tungdil. «Dall'aspetto esteriore non si può decidere della bontà interiore, principessa Rejalín. Il vostro po-
polo lo sa meglio degli altri.» Lo sguardo inquisitore dell'elfa si abbassò. «Vi chiedo scusa, Sûndalon. Non intendevo offendervi.» «Non sono buone notizie quelle che ci porti, Tungdil Manodoro.» Re Bruron sospirò. «La cosa migliore sarebbe che tu partissi subito con la Lama di Fuoco verso l'Idoslân, dove il principe Mallen si accinge ad assediare le caverne del Toboribor. Crediamo che i mostri si nascondano lì dentro col loro bottino. È un'impresa veramente pericolosa marciare contro quelle bestie senza l'ausilio di un mago. Abbiamo già imparato a nostre spese che non serve a nulla schierare contro di loro un esercito numeroso.» Bruron osservò i magnifici intarsi sulla testa dell'ascia. «Solo essa può resistere agli attacchi magici degli Eterni e dei loro alleati.» «Mi metterò in marcia non appena sorgerà il sole», concordò Tungdil. Un messo entrò di corsa nella tenda, affiancò re Bruron e gli sussurrò qualcosa. «Abbiamo dei visitatori che ci devono riferire importanti novità», disse il re volgendosi verso l'ingresso. «Fate entrare i due.» La tenda si aprì in modo teatrale ed entrò Rodario, vestito in sgargianti abiti colorati che non avevano nulla da invidiare a quelli dei potenti. «I miei rispetti a voi, nobili della Terra Nascosta, uomini, nani ed elfi», esordì facendo un profondo inchino. Vedendo l'amico, Tungdil si rallegrò e sorrise. Un'entrata in scena di quel genere gli si addiceva molto. In realtà Rodario doveva essersi molto trattenuto, non c'erano stati né rulli di tamburo né fanfare né banditori. Le regine e i re osservarono con stupore la vivace sfilata del nuovo arrivato, con espressioni che spaziavano tra il divertito e il contrariato. «Dove si riuniscono gli eroi e viene scritta la storia, io non posso mancare. Chi altri infatti potrebbe prendere nota e mostrare ai posteri che cosa realmente è successo?» Rodario irradiava i presenti. «Ehi! Rinchiudete le belle donne, l'Incredibile è tornato!» fece Boïndil a bassa voce, sogghignando. Rodario sorrise. «Non sono venuto da solo, illustrissimi. Porto con me un uomo che può fare luce su molti degli enigmi che avvolgono le recenti vicende della Terra Nascosta.» L'attore indicò l'ingresso col bastone da passeggio. Comparve un uomo dai corti capelli neri, cui i sottili baffi avrebbero conferito una vaga somiglianza con Furgas, se non fosse sembrato inconcepibilmente più vecchio. Portava dei semplici pantaloni, una camicia, sti-
vali e mantello; tutto sembrava troppo grosso e ciondolava addosso al magro corpo. «Sono venuto per...» sussurrò l'uomo guardando incerto Rodano. «Sono venuto a fare ammenda per ciò che ho fatto: le mie azioni non possono essere perdonate.» «Per Vraccas! È proprio Furgas», esclamò Boïndil, riconoscendo dalla voce il magister technicus. «L'Incredibile l'ha scovato.» «No, mio caro amico Boïndil Duelame, non l'ho scovato, bensì liberato. Dalle mani di due Terzi che si chiamano Veltaga e Bandilor, i quali vivono in un'isola che possono far immergere e riemergere a loro piacimento. E proprio in mezzo al mare del Weyurn!» L'attore ricorse a ogni mezzo oratorio in suo possesso per descrivere il suo incontro con Furgas in modo tanto smisurato e avvincente che presto tutti pendettero dalle sue labbra. «Alla fine abbiamo nuotato per cinque miglia attraverso il mare in tempesta, fino a Mifurdania; da lì abbiamo raggiunto Porista», disse Rodario a conclusione del racconto. «Abbiamo dunque trovato coloro che inviano le macchine mortali contro i nani.» «Un vero capolavoro», commentò Isika. «Mastro Furgas... Di quali azioni avete parlato? Perché non vi si potrebbe perdonare?» «Perché non solo ho costruito l'isola, ma anche quelle macchine», mormorò. Ne ripeté la descrizione che aveva fatto a Rodario. «Per colpa mia sono morti innumerevoli nani. E altri ne moriranno. La prossima macchina è in cammino.» Chiese un bicchiere d'acqua. «Giudicatemi. Accetterò qualunque sentenza.» Si sentì mormorare. Tungdil si avvicinò a Gandogar per intercedere per Furgas. L'imperatore chinò la testa. «Non preoccuparti. Non pretenderò la sua vita», disse piano. Poi prese la parola: «Non chiederemo ragione a te, magister technicus. Gli assassini dei nani hanno abusato del tuo genio e della tua anima ferita. La nostra vendetta si abbatterà su di loro, non su di te. Tu sei stato lo strumento della loro viltà. Ciò non toglie che non dimenticheremo mai le nostre innumerevoli vittime. Pretendiamo che tu faccia tutto ciò che è in tuo potere perché non si ripetano eventi del genere. Per questa volta avrai la nostra indulgenza. Non deluderci». «Vedi? È come ti avevo detto: sanno distinguere. Ora fatti forza e racconta loro tutto», disse Rodario dolcemente passando oltre la minaccia di Gandogar. «Non ti faranno niente.» Furgas singhiozzava. «Io... ho costruito quelle macchine...» ripeté dispe-
rato. «Ti abbiamo perdonato», replicò Gandogar. «No, altre macchine.» Tra le lacrime raccontò delle creature ibride che aveva creato con le sue mani. I sovrani sedevano sui loro scanni e ascoltavano come pietrificati: quelle atrocità li affascinavano e disgustavano al tempo stesso. Ciò che stava descrivendo Furgas non esisteva neppure negli incubi peggiori. Superava l'immaginabile. «È colpa mia se attraversano la Terra Nascosta seminando la morte e portando la distruzione.» Tungdil guardò l'elfa che, a parte lui, era l'unica a non portare sul volto una maschera di orrore e interesse morboso. Al contrario, sembrava soddisfatta. Come lui, aveva intuito che cos'era quel buco sul fondale del mare del Weyurn. Improvvisamente l'elfa alzò lo sguardo e lo fissò negli occhi. Gli sembrò che potesse leggere ogni suo pensiero. «Vediamo il buono in quanto raccontato da mastro Furgas: nella Terra Nascosta c'è una nuova sorgente della magia», dichiarò Rejalín con voce cristallina. «E parrebbe che gli Eterni non sappiano dove si trova. Quei due nani della stirpe dei Terzi sono abbastanza scaltri da tenerla nascosta, in modo da mantenerli dipendenti da loro.» «Ve lo spiego io.» Tungdil aveva capito subito che cosa intendeva la principessa. «I maghi della Terra Nascosta non hanno scelto a caso dove collocare le loro dimore, ma le hanno situate all'interno dei campi magici. Questi fornivano loro il potere e, quando un mago ne usciva, bastava qualche incantesimo per consumare il suo potere», spiegò. «Andôkai la Burrascosa e il mio padre adottivo, Lot-Ionan, me l'hanno a suo tempo spiegato. Solo attraverso il potere della fonte della magia erano in grado di ottenere risultati incredibili usando parole, gesti e concentrazione.» Prese fiato. «Suppongo che anche quei mostri-macchina soggiacciano alla stessa legge. Nonostante tutti gli elementi meccanici, di tanto in tanto i loro congegni devono essere ricaricati di magia.» Gandogar diede un pugno sul tavolo. «Finalmente abbiamo scoperto un punto debole!» esclamò. «Mastro Furgas, dove si trova la sorgente?» Furgas alzò le spalle. «Non lo so... da qualche parte sul fondo del mare del Weyurn.» «Non avete neanche un punto di riferimento? Una qualche isola o qualcosa del genere nelle vicinanze?» strillò Isika, sgomenta. «Per Palandiell, sforzatevi di ricordare, uomo! In fin dei conti, è a voi che dobbiamo questa
piaga.» «La maggior parte delle mie isole flotta, regina Isika», intervenne la regina Wey. «Se anche ne avesse vista una, non sarebbe di grande aiuto.» «Allora facciamo emergere l'isola e chiediamolo direttamente ai due nani traditori», disse Tungdil in modo volutamente lento. «E ci saremo anche noi», disse Gandogar, truce. «In questa circostanza i nani solcheranno perfino le acque, nonostante la maledizione di Elria.» Guardò la regina Wey. «Questa è una questione del mio popolo, regina. Vi manderò un contingente dei miei migliori guerrieri, di reputazione immacolata e che non siano neanche lontanamente sospettabili di appartenere ai Terzi. Rimpingueranno con gioia i ranghi del vostro esercito, che tanto ha sofferto a causa del massacro di Paland, e prenderanno d'assalto l'isola dei Terzi. E proteggeranno la fonte.» La regina Wey chinò la testa in segno di assenso. «Propongo ora di ritirarci e di consigliarci un'ultima volta domani. Poi i gruppi partiranno e faranno ciò che va fatto», disse re Bruron. «Finalmente scorgiamo una possibilità di azione contro la minaccia che tanto ci terrorizza. Palandiell ci proteggerà.» «Oh, prima permettetemi di contribuire a far dimenticare il terrore», intervenne Rodario con un profondo inchino. «Invito i potenti questa sera al Curiosum, per assistere a una prima di classe eccezionale. Si tratta di una squisita commedia che vorrebbe portare qualche risata in tempi tanto seri. Poiché, se si smette di ridere, non c'è più nulla da fare.» Tungdil si chinò verso il Rabbioso. «È il tuo gemello spirituale. Un altro incline alle storielle divertenti.» «Nessuno racconta le barzellette come me», ribatté il guerriero a bassa voce. Rodario sorrise. «Naturalmente la rappresentazione sarà gratuita e riservata solo a voi. Non vi tratterrò comunque da un piccolo contributo a ricompensa delle capacità della compagnia.» Con sua grande sorpresa, i sovrani promisero di venire. Sarebbe stato lo spettacolo più importante della sua carriera di attore. Tungdil, Boïndil e Goda si erano cercati una grande stanza nei pressi della piazza su cui veniva costruito il palazzo di Bruron e su cui si trovava la tenda del consiglio. Nello stesso edificio avevano trovato una sistemazione anche i Sotterranei, che all'oste parevano ancora più strani dei nani, ormai divenuti familiari.
Vennero portati loro un pasto decente e una grossa caraffa di birra. Goda stava ricevendo da Boïndil una lezione su come rimanere saldi in battaglia e sui vari modi in cui si poteva atterrare un avversario usando il bordo dello scudo. «Devi renderti pesante», le spiegava correndo con lo scudo levato verso quello di lei. Ci fu un forte clangore, e la nana arretrò di due passi. «Pesante, ho detto!» la sgridò. «Eppure ho piantato bene i piedi!» si difese lei. «Un buon assetto è una cosa.» Le fece cenno di rimettersi al suo posto. «Ma non si tratta solo di avere piedi grandi e cosce forti. Devi metterti in modo che il torso stia compreso nel divario tra i piedi, poi devi piegare un po' le ginocchia e incassare la testa.» Le fece vedere. «Cerca di buttarmi a terra.» Goda alzò lo scudo, prese la rincorsa e cozzò con tutto il suo peso contro il maestro; il fragore fu assordante. Il Rabbioso non vacillò nemmeno. «Questo è quello che intendevo prima quando dicevo di renderti pesante. È importante per opporre resistenza alla pressione dell'avversario, anche fosse un Maialino furente, se capita.» Si fregò la pancia. «E loro sono almeno due volte più pesanti di me.» Diede qualche colpetto sullo scudo della nana. «Su, esercitiamoci. Tutta la notte, se è necessario.» «Ehi, aspettate un attimo», intervenne Tungdil, che stava riportando su un taccuino gli ultimi avvenimenti. Rimanevano ancora alcuni punti poco chiari. Il suo colloquio con Balba Magliodaroccia, l'unica a essere scampata alla strage di Paland, non aveva portato a nessun risultato. La nana non ricordava nessuna runa elfica sul mostro con le ruote. Neppure Furgas rammentava di aver visto uno di quei segni pieni di svolazzi. Ma Tungdil sapeva che quella runa c'era. Ce n'era una su ciascuno di quegli esseri. E lo infastidiva non potersi lambiccare il cervello su quell'enigma in santa pace. «Sto cercando di riflettere, e non ci riesco se voi due vi comportate come montoni in lotta.» «E che c'è da scervellarsi? Stavamo combattendo, Sapientone!» Gli occhi di Boïndil scintillavano. «Certo, non abbiamo ancora trovato dei Maialini, ma queste macchine non sono comunque da disprezzare.» Fece volteggiare lo scudo. «Ah, quanto darei per misurare le mie forze con uno di quei Sotterranei!» «Non l'hai già fatto?» osservò Tungdil. «E non hai perso?» «Cosa? Per Vraccas, quello non era un vero combattimento! Era pesca
alle anguille.» Il Rabbioso si stava agitando. «Per combattimento intendo quello con lame, asce, armi pesanti... Quello in cui si sente tintinnare e scricchiolare. Io non penso che siano nostri parenti.» Il modo in cui lo disse sembrava perentorio e un poco secco. Tungdil lo guardò. «Sono nani. Come si può dire il contrario?» «Si può. Si può perché si ritengono fratelli dei mezz'orchi», rispose Goda, troppo in fretta. A quanto pareva i due ne avevano già ampiamente discusso durante le loro esercitazioni. «Il loro dio li ha creati insieme. Com'è che lo chiamano?» «Ubar», rispose Tungdil appoggiandosi al bracciolo della sedia e guardandoli con biasimo. «Mi fa piacere che voi due siate d'accordo su qualcosa. Ma vi rendete conto che state parlando come la principessa degli elfi?» Il Rabbioso fece una smorfia. «Sapientone, non ci può essere nessun legame tra noi e i Sotterranei. Sono più alti di noi, combattono diversamente e non usano nemmeno le asce.» Mosse le mani, come a passarle su una sbarra immaginaria. «Usano soltanto quella specie di bastoncini appuntiti. No, non possiamo essere stati scolpiti nella stessa pietra. È impossibile.» Fece un cenno di capo a Goda, che caricò di nuovo contro di lui. «Sei ingiusto», disse Tungdil scuotendo la testa. «E tu ne sei affascinato», replicò Boïndil. «Ho visto bene come li osservavi durante il viaggio. Si capiva che avresti voluto parlare con loro e saperne di più. Così la tua capacità di giudizio si è annebbiata. Questo è quello che combina il Sapientone che c'è dentro di te.» «La mia capacità di giudizio non è per niente annebbiata. Al contrario!» protestò Tungdil. «Probabilmente sono l'unico delle cinque Stirpi a rimanere obiettivo nei loro confronti. Si capisce da come parli quanto è limitato il tuo punto di vista riguardo a questa faccenda. E questo benché tu sia di quelli più aperti verso le novità.» «E a te chi dà il diritto di condannare gli altri per questo?» Il Rabbioso corse contro Goda, che quella volta affrontò a piede fermo il suo assalto. Lui approvò con uno sguardo di elogio fissandola a lungo, forse troppo a lungo, negli occhi. La nana levò lo scudo e si sottrasse allo sguardo. «Io non giudico nessuno.» Tungdil sospirò e guardò i suoi appunti. Quella discussione gli era venuta a noia, soprattutto perché sapeva che, data la testardaggine di Boïndil, non avrebbe portato a nulla e che l'amico avrebbe frainteso ogni altra parola. «Più tardi parlerò con Furgas per cercare di scoprire altri punti deboli di quelle creature. Perché senza conoscerli
non ce la faremo ad affrontarle. Nemmeno tu.» «Questo lo vedremo. La mia azza trova sempre un punto scoperto in cui colpire.» Boïndil era offeso. «Vieni, Goda. Andiamo a esercitarci nel cortile.» Quando i due ebbero lasciato l'alloggio, Tungdil non tornò alle sue riflessioni, ma ripensò alle parole dell'amico. Erano vere. Lui trovava davvero affascinanti i Sotterranei; a parte le differenze esteriori, non sapeva nulla della loro società né delle loro idee e delle loro opere e neanche della loro vita nella Terra dell'Aldilà. Si alzò e andò alla finestra, da cui si vedeva una parte della città. Guardare i tetti, i camini fumanti e la biancheria stesa trasmetteva una sensazione di stabilità. Gli umani avevano trovato una casa e avevano formato famiglie. Tutto ciò si contrapponeva ai sentimenti del nano. Non si sentiva a casa né presso le stirpi né presso i reietti né tra gli uomini. Perfino Balyndis non riusciva più a dare a lui, il nano che camminava da solo, l'erudito guerriero, quella sicurezza che voleva sentire. O forse non stava affatto cercando sicurezza? «Il mio destino è essere un eterno girovago? Andare nella Terra dell'Aldilà coi Sotterranei e aiutarli a rimettere il diamante al suo posto?» si chiese a bassa voce. «È là che troverò la mia felicità, Vraccas?» Guardò la caraffa di birra. L'alcol lo allettava col suo aroma speziato, risvegliando in lui il ricordo di notti di ubriachezza totale, prive di recriminazioni e lambiccamenti. Tungdil cercava di resistere alla tentazione, eppure si avvicinò al tavolo. Quando la mano gli si chiuse intorno al manico della caraffa, qualcuno bussò. Lasciò subito la caraffa, raggiunse la porta e aprì. Si trovò davanti una Sotterranea. L'aveva già notata durante il viaggio, perché aveva la pelle scura come un nomade e si tratteneva continuamente nelle sue vicinanze. Portava un'uniforme beige ricamata con viticci di spine, la cui cucitura anteriore era allacciata in modo non troppo stretto e permetteva uno sguardo al suo petto. La vedeva per la prima volta senza l'elmo impressionante, e le fissò in modo poco conveniente il cranio perfettamente rasato. Non si era aspettato una cosa del genere: una nana senza acconciatura! «Posso entrare?» chiese lei sorridendo. Aveva un accento curioso, che ne tradiva l'origine straniera.
«Certo», rispose Tungdil facendosi da parte per lasciarla entrare. Lei lo superava in statura di un palmo. «Che cosa mi manda a dire Sûndalon?» La nana si guardò intorno, girò con curiosità per la stanza e si fermò davanti al taccuino con gli appunti. Gli occhi azzurri le si puntarono sul disegno di un elmo. «Hai disegnato il mio», disse sorridendo. «Sì. Non dovevo?» «Non m'importa.» Gli porse la mano, su cui c'era una larga cicatrice. «Io sono Sirka.» Tungdil gliela strinse. «Molto piacere. Il mio nome lo conosci, credo.» Attese invano che gli riferisse un messaggio da parte di Sûndalon. «Sarebbe strano, se non lo sapessi», replicò Sirka sorridendo. Tungdil si schiarì la voce. «Scusami se prima ti ho fissata. Era uno spettacolo inconsueto, per me. Le nane della Terra Nascosta hanno una pelle di colore diverso rispetto al tuo e non si rasano i capelli, ma li portano, lunghi.» Era palesemente imbarazzato. «In effetti, non abbiamo molte cose in comune.» Sirka annuì. «Sûndalon ha detto che sei un erudito.» Prese il taccuino e iniziò a sfogliarlo. «Ti interessano le cose nuove?» «Sì, m'interessano.» Tungdil era stupito dal comportamento della nana, che, inaspettatamente, fece un passo verso di lui e lanciò il taccuino sul tavolo. Alzò le braccia e gli cinse la testa, poi gli diede un lungo bacio sulle labbra. Il nano non si oppose. «Tu mi piaci molto, Tungdil», confessò accarezzandogli il petto. «Ti mostrerei volentieri qualcosa di nuovo, col tuo permesso.» La proposta era inequivocabile. «È proprio vero che voi Sotterranee non avete molte cose in comune con le nostre nane», replicò Tungdil continuando a sentire le labbra della nana sulle sue. Gli era piaciuto. E molto. Ricambiò il bacio; appoggiò le mani sui fianchi snelli della nana e la strinse a sé. Annusò il forte profumo che aveva sul collo e ne sentì il calore del corpo attraverso la sottile uniforme. Le mani del nano presero a vagare in su, verso i tagli del vestito... poi fu colto dal senso di colpa. «No», mormorò con voce roca, facendo un rapido passo indietro. «Appartengo a un'altra.» Ma Sirka lo seguì e lo abbracciò. «Che cosa vuol dire?» Tungdil la scostò e mise una sedia tra sé e lei. «Le tue attenzioni mi lusingano», disse sforzandosi di controllare le proprie reazioni e di non cede-
re agli impulsi della nana. «Ma finché sono legato a Balyndis non m'imbarcherò in un'avventura del genere.» L'altra sorrise. «Ah, capisco. Avete legami stabili.» «Voi no?» «No. Noi ci amiamo finché ci va. Quando i sentimenti cambiano, ci separiamo. A volte per un po', a volte per sempre. Ciò rende la vita più semplice, Tungdil. È già corta abbastanza...» Sirka lo squadrò. «Cerchi qualcosa di nuovo? Che ne diresti di accompagnarci a Letèfora? Durante il viaggio t'insegnerei tutto ciò che devi sapere su di noi.» «Letèfora è...?» «Una città. Una delle molte città della mia patria. E ha un aspetto completamente diverso rispetto a quelle che avete qua nella Terra Nascosta.» «Sì», disse lui, senza riflettere. «Sì, sarebbe interessante», aggiunse con più cautela. Sirka sorrise e lo baciò di nuovo, gli passò una mano tra i capelli e gli accarezzò la barba. «Sarebbe interessante», ripeté dirigendosi verso la porta. «Ci vedremo più spesso, Tungdil. Sarò per te una buona insegnante. Proseguiremo presto la lezione che abbiamo cominciato oggi.» Aprì la porta e uscì. Tungdil si sedette. Si sentiva in fiamme, aveva ancora nel naso il profumo della nana e il suo sapore sulle labbra. Sirka lo aveva avvinto coi suoi modi leggeri e aperti, e non solo per la sua avvenenza. Pensava con piacere alla lezione che gli aveva promesso. Ma prima avrebbe inviato una lettera a Glaïmbar e avrebbe parlato con Balyndis. O, ancora meglio, le avrebbe scritto una lunga lettera. Prese un foglio e per prima cosa scrisse a Glaïmbar, sigillò la lettera e la pose sul tavolo davanti a sé. Poi si dedicò alla lettera con cui avrebbe ripudiato Balyndis. Non era un compito facile, neppure per un erudito come lui. La penna si fermò più volte. Il nano si sforzava di cercare le parole adatte per descrivere il perché non sarebbe mai riuscito a farla felice. Non nel tempo. Non nella maniera che lei aveva sperato. E «nel tempo» per il suo popolo significava un periodo molto, molto lungo. Non voleva farle una cosa del genere. L'incontro coi Sotterranei era stato per lui solo il pretesto per fare quel passo. Dentro di lui quella decisione era maturata a lungo, senza che prima riuscisse a pensarci chiaramente. Aveva costantemente frainteso la sua insoddisfazione; non aveva mai avuto chiaro di non meritare Balyndis. Mentre scriveva scelse le parole con cura, in modo da far ricadere su di
sé ogni responsabilità e non dare l'impressione di credere che la loro unione fosse fallita a causa della nana. Ciò che Balyndis avrebbe letto l'avrebbe ferita già a sufficienza. Sigillò anche quella lettera e la pose sopra quella di Glaïmbar. Non sarebbe tornato indietro. L'incontro con Sirka gli aveva finalmente messo davanti al naso ciò che gli mancava: passione. Novità. L'essere un erudito e la voglia di ignoto erano la sua maledizione. Non desiderava la sicurezza. «Vraccas, con che pietra mi hai scolpito?» Sospirò. La voglia di andare a teatro gli era completamente passata. Terra Nascosta, regno di Gauragar, Porista, 6241° ciclo solare, estate Tungdil si riscosse dal torpore; si era assopito sui suoi appunti mentre la notte scendeva su Porista. Si alzò con la schiena dolorante e inarcò la spina dorsale; si sentì un forte scrocchio quando le vertebre ritornarono al loro posto. Il sonno non gli aveva portato consiglio su come mettere alla prova gli elfi e poter porre sotto gli occhi di tutti le loro cattive intenzioni. Non aveva in mano nulla contro di loro, a parte gli ammonimenti dei Sotterranei e qualche stranezza durante la sua visita nell'Âlandur. L'elfo che avevano trovato nella foresta stava in una locanda ai margini della città, sorvegliato da dieci guerrieri; la sua esistenza veniva tenuta accuratamente nascosta. «Se solo riprendesse i sensi...» mormorò il nano mentre afferrava la caraffa di birra. Prima di andare a letto voleva liberarsi di quella tentazione. Andò alla finestra, l'aprì e con slancio rovesciò il contenuto della brocca fuori, sul selciato. Se ne sentì il tonfo, il pericolo era scacciato. «Se solo fosse tutto così facile...» Un'ombra si calò dal tetto, gli diede un calcio sul petto ed entrò dall'apertura. Tungdil cadde all'indietro, battendo la testa contro uno spigolo del tavolo. Tre figure vestite di nero entrarono dalla finestra; portavano fazzoletti scuri davanti al volto e brandivano spade corte. Una si appostò accanto alla porta, le altre due piombarono su Tungdil e lo tennero per le braccia. Una lama si avvicinò alla gola del nano. «Dov'è?» sussurrò una voce femminile. «Dov'è chi?» «La Lama di Fuoco!» gli sibilò in faccia.
«Ehi, idioti», disse l'uomo alla porta, indicando una trave cui era appesa l'ascia, all'interno della sua custodia. «Samusin è con noi. È più facile di quanto pensassi», disse piano la donna. «Temevo già che ci dovessimo occupare anche del nano folle e della sua allieva.» L'uomo accanto a lei si drizzò svelto e corse alla parete. Ciò costrinse Tungdil all'azione; tirò indietro la testa e con una manata allontanò la lama da sé, dritto verso la coscia non protetta della donna, cosa che certo gli procurò un piccolo taglio alla mano, ma che scavò un buco profondo nella gamba dell'altra. «È mia!» tuonò il nano estraendo il suo pugnale. Aveva capito subito che gli intrusi non erano affatto sicari o rapinatori d'esperienza. Erano dilettanti, e Tungdil desiderava ardentemente sapere perché mai volessero rubare proprio l'arma più famosa della Terra Nascosta. Col pomello del pugnale colpì in fronte la donna, che già gridava di dolore e che a quel punto crollò a terra. Il nano saltò poi in piedi e seguì l'uomo, che aveva appena preso l'ascia, e lo colpì dietro la coscia. L'uomo si girò verso di lui gemendo e menò un colpo con la Lama di Fuoco. Tungdil lo schivò chinandosi e l'ascia s'impiantò nelle assi della parete, rimanendovi infilata. «Lascia il manico», ringhiò minaccioso Tungdil, balzando col pugnale in avanti per costringere l'avversario ad arretrare. L'uomo sbatté contro il cassettone e si prese una coltellata nel fianco sinistro; poi si afflosciò imprecando e tenendo le mani premute sulla ferita sanguinante. Tungdil estrasse l'ascia dal legno con uno strattone e la fece roteare. Pronto a colpire, si avvicinò all'ultimo degli uomini mascherati, quello accanto alla porta. «Bene. Ora tu mi racconterai chi siete e come potete essere così idioti da cercare di rubarmi la Lama di Fuoco.» L'uomo puntò la spada corta contro il nano. La lama tremava. «Sta' indietro!» «Niente affatto.» Tungdil simulò un colpo, che l'uomo cercò di evitare, e il nano gli sferrò un forte calcio tra le gambe. L'uomo cadde sulle ginocchia gemendo e Tungdil gli piazzò la pesante lama sul collo, in modo che ne sentisse la pressione mortale. «Allora?» «Uccidici e non rivedrai mai più Lot-Ionan», minacciò la donna mentre si tirava su appoggiandosi a una trave. Fra i gemiti si lasciò cadere su una sedia e prese a esaminarsi la ferita alla gamba.
«Siete quelli che hanno rubato la statua?» «L'avevo detto io che era un'idea stupida cercare di fregargli l'ascia», disse l'uomo che si era preso la lama in un fianco. «Chiamate un medico! Mi sto dissanguando!» «Nessuno lascerà questa stanza finché non mi avrete detto chi siete.» Tungdil si mise in piedi davanti alla porta con aria minacciosa. La donna si tolse il fazzoletto dal volto e lo usò per fasciarsi la ferita. Non aveva più di diciotto cicli; da sotto il copricapo spuntava una ciocca di capelli castano chiaro. «Io sono Risava di Panok, questi sono Dergard e Lomostin. Eravamo apprendisti di Nôd'onn e, da quando lui è morto e i campi magici sono stati prosciugati, cerchiamo un modo di riportare la magia nella Terra Nascosta», rivelò la ragazza. Si alzò e zoppicò verso l'uomo ferito a terra. «Che ve ne fate della statua di Lot-Ionan, se eravate seguaci di Nôd'onn?» Risava guardò gli uomini, che si stavano a loro volta scoprendo il volto. «Volevamo cercare di apprendere la magia da lui. Lui può istruirci. La nostra patria ha bisogno dell'arte magica per poter fermare le creature che sono alla ricerca del diamante.» Il volto della ragazza s'incupì. «Se a suo tempo aveste dato ascolto a Nôd'onn, non saremmo arrivati a questo punto.» Tungdil pensava che si trattasse di uno scherzo. «Andôkai mi disse che la pietrificazione era irreversibile.» «Forse per Andôkai», replicò Risava con disprezzo. «Attenta», l'ammonì Lomostin. «Non dirgli troppo.» «Dimmi tutto, invece.» Tungdil accarezzò l'ascia. «È meglio per la vostra salute. O vi ritroverete a lanciare incantesimi senza un piede.» Risava indietreggiò e si consultò a voce bassa con gli amici. Tungdil continuò a tenerli d'occhio, pronto a reagire a qualunque tentativo di fuga. «Va bene, allora. Te lo spiegherò», disse la ragazza. «Andôkai non possedeva le conoscenze che possediamo noi. Noi abbiamo trascorso gli ultimi cicli a studiare la biblioteca nascosta di Nudin e a imparare ogni tipo di incantesimo. Nella teoria. Ma per dare vita alle formule ci manca il potere della magia.» Risava indicò l'ascia. «Abbiamo pensato che la Lama di Fuoco ce ne potesse conferire abbastanza per liberare Lot-Ionan dalla maledizione. Lui saprebbe che cosa si deve fare.» «Non v'istruirebbe mai.» Tungdil non osava credere a ciò che gli stavano raccontando. Non sapeva dire se gli stessero mentendo o no.
«Nôd'onn, o Nudin, non ha più nessuna importanza. È morto», intervenne Dergard, che continuava a lottare col dolore al cavallo. «Ci siamo afflitti abbastanza a lungo per la sua morte, ma abbiamo capito che le sue opinioni erano distorte dal demone. Non possedeva più una volontà autonoma.» Guardò la ragazza. «Anche lei lo capirà. Nel nostro cuore abbiamo già da tempo ripudiato Nôd'onn. Risava ha detto bene: noi possediamo il sapere di Nudin e vogliamo portare avanti le sue ultime volontà, non quelle del traditore Nôd'onn. Lot-Ionan c'istruirà, ne sono certo.» «Col furto della statua non avete fatto una bella mossa.» Tungdil tolse l'ascia dal collo dell'apprendista. «Avreste dovuto parlarne con re Bruron e con me.» «Non ci avrebbe creduto, esattamente come te o chiunque altro.» Risava si alzò cautamente, sostenendosi alla parete. «Vogliamo risvegliare LotIonan. A lui credono uomini, nani ed elfi. In questo modo potremmo presentarci come suoi allievi senza far cadere nessuna macchia su di noi.» Tungdil la superò per raggiungere l'altro ferito ed esaminarne le condizioni. «La coltellata alla gamba non è grave, e il tuo fianco sinistro guarirà. La puliremo e la cuciremo; te ne starai qualche rotazione tranquillo a letto e la carne si riformerà.» Guardò Risava. «Tu porterai me e i miei amici alla statua. Avrai da me la Lama di Fuoco e potrai tentare di risvegliarlo.» I suoi occhi assunsero un'espressione minacciosa. «Se macchinerai un tradimento, uccideremo te e i tuoi amici. Al momento siete del tutto inutili per la Terra Nascosta, per cui non ha nessuna importanza che esistiate o no.» «È tutto inutile», disse Lomostin, sconfortato. «Ho tenuto l'ascia in mano e vi ho sentito ben poca magia. Non serve ai nostri scopi. La sorgente...». Risava si piegò rapidamente in avanti e toccò come per sbadataggine la ferita dell'uomo; il resto della frase divenne un urlo incomprensibile. A Tungdil fu sufficiente quell'accenno. Afferrò la donna per un braccio e glielo rigirò con forza. «Quindi voi sapete della sorgente?» Risava lo fissava con arroganza, continuando a tacere ostinata. «Diglielo», disse Dergard; inspirava ed espirava profondamente per tenere a bada il dolore. «Forse saprà consigliarci. Ne va della Terra Nascosta, ormai, non più solo del nostro futuro di apprendisti.» «Che cosa dovresti dirmi?» ruggì Tungdil imprimendo più forza nella morsa. Le ossa dell'avambraccio si sarebbero presto rotte. «Senza una mano è difficile lanciare incantesimi.»
La ragazza strinse i denti; lacrime presero a scorrerle sulle guance. «Ti ridurrei in un mucchietto di cenere con una sola parola magica», gemette. «Ma non puoi», ribatté il nano rigirando ancora un poco di più il braccio; si sentì un leggero scricchiolio. «Parla, o vedrai come sono strane le ossa quando spuntano attraverso la pelle.» Risava gemette. «C'è una nuova sorgente», ansimò, e il nano le lasciò il braccio. La ragazza si rannicchiò su di sé tenendosi il braccio schiacciato contro il corpo. «Abbiamo scoperto una nuova sorgente, ma sta nel Weyurn. In mezzo al mare. È troppo profonda per essere raggiunta.» Tungdil sentì un immenso sollievo, un'euforia che non provava da molto tempo. Lot-Ionan, l'isola sottomarina e quegli apprendisti fornivano una possibile soluzione alla minaccia costituita dagli Eterni. Tutti e tre insieme erano la risposta alle sue preghiere a Vraccas. Ma si costrinse a non darlo a vedere. Se possedevano davvero gli appunti di Nudin e ne avevano appreso le formule, non dovevano venire a sapere che c'era un modo per raggiungere il fondale. Solo quando Lot-Ionan fosse tornato in vita e li avesse giudicati adatti... «Vedremo se ci verrà in mente qualcosa al riguardo», disse. «Prima portate me e i miei amici alla statua. Da questo momento, Lot-Ionan rimarrà sotto la mia custodia.» «E che mai potrà venirti in mente?» lo incalzò Risava. «Se i pescatori cui abbiamo chiesto hanno ragione, l'acqua in quel punto è profonda parecchie centinaia di passi. Nessuno può immergersi tanto in profondità, senza parlare della riemersione.» «Il mio popolo è riuscito in imprese assai più difficili.» Tungdil le sorrise. «E adesso andiamo a prendere qualche mio amico e portiamo la statua al sicuro.» Aprì la porta, continuando a tenere l'ascia in una mano. Dergard indicò Lomostin. «E che facciamo con lui?» Tungdil gli rivolse uno sguardo incoraggiante. «Un medico se ne occuperà. Non appena avremo la statua.» Spinse i due fuori dalla porta, la chiuse e la sprangò dall'esterno prendendo l'asta di un vessillo dalla parete e incastrandola sotto la maniglia. La rappresentazione stava andando divinamente. I potenti della Terra Nascosta sedevano nel Curiosum e seguivano con un sorriso compiaciuto lo spettacolo che si svolgeva sul palco, mentre i meno potenti ridevano a crepapelle. Tassia li teneva prigionieri della sua narrazione; il fascino e il talento della ragazza formavano una miscela irresistibile.
Rodario, che in quell'atto non era di scena, osservava i volti degli spettatori attraverso un buco della scenografia, felice quanto invidioso. Tassia era una sua creatura, che però conquistava già più attenzione di lui. Lo aveva superato, prima presso la sua stessa compagnia, poi anche presso gli amati spettatori. «Guardala, Furgas», sussurrò l'attore. «Gli uomini la amano, le donne l'ammirano.» «Ti sei creato da solo una rivale», replicò l'amico, esaminando i nastri con cui comandava le nubi colorate, le fiammate e gli altri effetti speciali. Aveva trascorso le ultime rotazioni a rimuovere piccole imperfezioni nei suoi congegni; il tempo non era passato senza lasciare traccia sulle sue invenzioni. Ma ormai tutto filava liscio: le scenografie si cambiavano da sé, il sole sorgeva e tramontava, gli alberi si piegavano al vento e, per rendere perfetta l'illusione, era stato perfino ricreato artificialmente l'odore della foresta. «Ti ho già detto quanto sono felice che tu sia di nuovo tra noi?» disse Rodario con voce smorzata. «Perché ho riparato tutto?» «Non solo per questo.» Rodario sorrise e assestò all'amico un'affettuosa pacca sulla spalla. «E io sono molto felice di essere sfuggito ai Terzi. Il mio debito nei tuoi confronti è infinito.» Furgas azionò il nastro giallo, e sopra Tassia il cielo divenne scuro. La luce si affievolì, il sole tramontò e spuntò il cielo notturno, tra le esclamazioni di stupore degli spettatori. L'attore rise. «Li stai cuocendo a puntino.» La porta laterale si spalancò e Tungdil entrò nel piccolo spazio dietro il palco. «Oh, scusate. Pensavo che fosse l'ingresso laterale.» «Be', lo è. Per gli attori», sibilò Rodario. «Fa' piano! Sei arrivato decisamente tardi per lo spettacolo. Posto non ce n'è più, ma puoi sederti nel passaggio.» «Tra poco ci sarà di nuovo posto. Ho bisogno del Rabbioso.» Tungdil spinse Rodario da parte e guardò attraverso il buco per cercare l'amico. «Che succede?» chiese Furgas, spaventato. «Non è che sono comparsi i mostri?» «No. Finalmente c'è una buona notizia», sussurrò il nano, felice. «Sono venuti da me tre apprendisti maghi. Sono stati loro a rubare la statua di Lot-Ionan e mi hanno spiegato che c'è un modo per ritrasformarlo in un uomo. Uno di loro è ferito nella mia stanza; sto andando con gli altri due a
prendere la statua.» «Per Palandiell! Ma è proprio vero?» Rodario si chinò sul nano. «Devo interrompere la rappresentazione?» «No! Prima voglio essere certo che abbiano la statua e voglio prenderne possesso, poi informeremo gli altri.» Tungdil era raggiante. «E sanno dove si trova la sorgente.» «Che sorgente?» Furgas tirò il nastro rosso: una nebbia turbinante si materializzò sul palco. «Quella sorgente?» «Proprio la sorgente magica da cui traggono potere i mostri.» Tungdil si affrettò verso il passaggio che portava in platea. «Più tardi vi racconterò i dettagli», promise, emozionato. «Ora devo sbrigarmi.» Fece loro un cenno col capo. «Abbiamo una speranza, amici. Una grossa speranza.» Poi uscì. Attraverso il buco, Rodario vide il nano avvicinarsi al Rabbioso e a Goda; subito dopo, i tre lasciavano il tendone. «Com'è che si dice? Le cose capitano quando meno te lo aspetti.» L'attore si accarezzò il pizzetto. «Non ho abbastanza tempo per mettere in scena tutte queste storie. Mi toccherà fondare un altro Curiosum e lasciarne la conduzione a Tassia», mormorò. «Che ne pensi?» «Molto astuto», rispose Furgas. «Promuovere un avversario per sbarazzarsene.» Rodario annuì. «Esatto. E per questo lei mi sarà eternamente riconoscente. Mi concederà una pletora di amplessi, notti di passione tutte le volte che busserò alla sua porta.» L'attore sentì la sua battuta d'attacco, si risistemò il costume e ammiccò. «Dovrei stringermi la mano da solo.» Poi entrò in scena. La scena era quella in cui Nolik lo aggrediva nel carro. Naturalmente sul palco veniva esagerato il numero degli aggressori, e il tutto finiva in un'eroica battaglia per l'amore di Tassia e il prezioso gioiello. Alla fine, l'attore mise tutti al tappeto o in fuga. «E così l'amore e una spada veloce trionfano su ogni ingiustizia», dichiarò Rodario agli spettatori. Tassia si mise al suo fianco, tenendo in alto il gioiello. «E questa collana mi risarcirà di tutto ciò che ho dovuto subire.» Le sottili lamine d'oro brillavano calde; le faccette del cristallo di rocca riflettevano la luce delle finte stelle proiettandola sui volti di uomini, elfi e nani. Tassia si strinse a Rodario. «E che mi darai tu per risarcirmi di tutto ciò che mi toccherà sopportare al tuo fianco?» chiese battendo le ciglia. Una voce risuonò tra le file degli spettatori. «Il diamante!»
«No, non un diamante», disse Rodario, improvvisando. «Bensì il mio cuore...» Gandogar saltò sul palco e serrò la destra intorno al ciondolo. «Luce!» gridò forte. «Illustrissimo imperatore di tutte le naniche stirpi della Terra Nascosta, so bene che il vostro popolo ama i gioielli e che un pezzo così pregiato non può che accendere la vostra passione, ma sappiate che state rovinando il mio spettacolo», disse Rodario in tono gentile ma irritato. Afferrò a sua volta il ciondolo. «Tornate al vostro posto e lasciateci finire l'ultimo atto. Su questo palco l'imperatore sono io, per cui siate così cortese da piegarvi a questa ripartizione dei poteri.» Gandogar gli strappò di nuovo il gioiello di mano. «Questo è uno dei diamanti, attore», ringhiò. «Capisci quello che sto dicendo?» Rodario rise. «Il vostro occhio esperto si sta ingannando, illustrissimo imperatore.» Troppo in fretta perché il nano potesse reagire, afferrò la collana e si riprese il gioiello. «Si tratta di un ciondolo di lucido e ben intagliato cristallo di rocca, non di un diamante.» Lo fece oscillare. «È un falso, illustrissimo imperatore. Non userei mai una gemma vera come corredo di scena.» «Io sono il re dei Quarti, la mia stirpe è quella del più grande intagliatore di gemme mai esistito tra i figli del Fabbro, e se qui c'è qualcuno che s'intende di pietre preziose sono certo io», ribatté il nano, tanto in collera che gli tremava la barba. «Da' qui il diamante. Subito!» Tassia stava per intervenire, quando dall'altro lato del palco entrò un'imponente creatura. Era più alta e del nano e dell'uomo; fasci di muscoli guizzavano sotto la pelle grigia chiazzata di verde. Tolti un perizoma e un paio di stivali, era nudo, e intorno agli avambracci aveva avvolte delle catene. Il suo volto, la caricatura del volto di un elfo, puntava al ciondolo; gli occhi della creatura avvamparono di verde. «Dammi la collana!» Tutti i presenti fissarono l'inattesa comparsa. Re Bruron fu il primo ad applaudire. «Che spettacolo ben riuscito!» gridò forte. «Corrisponde proprio alla descrizione fatta da Tungdil e dai soldati.» «Lo trovo di cattivo gusto», disse la regina Isika, indignata. Rodario e Tassia indietreggiarono, l'attore alzò la spada. «Correte, Gandogar...» disse roco, col terrore che gli attanagliava la gola. Gli passò svelto il gioiello. «Salvate l'ultima pietra dalle creature di Tion.»
Poi nella tenda scoppiò una confusione disperata. XI Terra Nascosta, regno di Gauragar, Porista, 6241° ciclo solare, estate Risava si fermò davanti a una piccola casa poco appariscente, incuneata a destra e a sinistra fra vistosi edifici appartenenti a facoltosi cittadini. «È qui.» La ragazza aprì la porta ed entrò. Tungdil, Sirka, Boïndil, Goda e due dozzine di nani la seguirono, pronti al combattimento, lasciando sulla strada il carro imbottito di paglia. Saltava agli occhi che di rado qualcuno si tratteneva fra quelle mura. Su alcuni arredi c'era uno spesso strato di polvere, e solo sul tavolo e sulle sedie c'era traccia di un utilizzo più frequente. L'ambiente odorava di fumo freddo. «Andiamo in cantina», disse Risava. Dalla cripta salì l'odore, familiare a Tungdil, di vecchia carta e di pergamene. «È la biblioteca di Nudin?» «No. È la mia», rispose la ragazza, accendendo una lampada e facendo loro strada. Le pareti della piccola cantina erano completamente stipate di mensole e libri. Nel mezzo si levava Lot-Ionan, pietrificato, intorno al quale era stato disegnato un cerchio di simboli magici; altre rune erano state tracciate sulla superficie della statua. «Abbiamo già preparato ogni cosa», spiegò Risava. «L'unico dettaglio che manca per risvegliarlo è la magia.» «Come siete riusciti a portarlo qui sotto?» Risava indicò la scala. «C'è voluta mezza nottata.» Il Rabbioso fece il giro della statua. «Si è beccata qualche brutto graffio», borbottò passando le dita sui solchi. Anche Tungdil stimò i danni, mentre provava una strana sensazione. Stava osservando una statua o un essere umano? Forse la statua sarebbe diventata presto Lot-Ionan, il mago presso cui aveva vissuto per cicli e che lo aveva cresciuto. Non potevano permettersi errori. «Lo chiudiamo con della malta prima di ritrasformarlo in un uomo?» chiese, indicando un buco tra le pieghe della pietra, all'altezza della spina dorsale. «Non vorrei che morisse dissanguato. O che cadesse a terra già morto.»
Dergard scosse la testa. «Io non lo farei.» Guardò stupito il buco spesso come un dito. «Non lo avevo notato. Devono essere stati dei topi o bestie del genere.» «Sono d'accordo.» Tungdil ordinò ai nani di prendere le cinghie per il trasporto. «La malta sarebbe un corpo estraneo, rimarrebbe com'è dentro il suo corpo vivo. Nel momento in cui è stato pietrificato non gli apparteneva, e con la ritrasformazione ciò non cambierebbe.» Il Rabbioso si chinò e raccolse un po' della polvere che copriva il pavimento; poi grattò intorno al buco. «È dello stesso tipo. Qualcuno ha fatto questo buco intenzionalmente.» Si voltò verso Risava e Dergard. «Fuori dalle montagne non c'è nessuna bestia che possa mangiare la pietra.» «Lo giuro su Samusin, non siamo stati noi», disse Risava. «Forse un quarto apprendista ancora fedele a Nôd'onn e che preferisce sapere morto Lot-Ionan?» ipotizzò Goda. «Il buco era nascosto. Doveva servirgli da precauzione, nel caso in cui lo si riuscisse a risvegliare.» «A quel punto avrebbero potuto semplicemente staccargli la testa», replicò il Rabbioso guardandola con biasimo. «Questo ti costerebbe cinquanta flessioni. Ma voglio essere magnanimo.» Tungdil strappò una pagina vuota da un libro, la arrotolò stretta e la infilò nel buco per misurarne la profondità. «È profondo solo quanto il mio mignolo. Un essere umano può resistere a una ferita del genere.» Accarezzò la statua. «E comunque sarà in grado di guarirsi subito. Dobbiamo correre il rischio.» I nani tornarono con le cinghie. Con un grosso sforzo collettivo caricarono il mago pietrificato sul carro e lo adagiarono sulla paglia. «Dammi la pietra!» Gli occhi scuri del mostro brillavano di verde cupo. Scosse le catene legate agli avambracci, svolgendole, e le rune incise scintillarono, trasmettendo il bagliore da anello ad anello. Subito dopo, la creatura fece guizzare le catene verso Rodano e Gandogar, ed entrambi ne furono avvinti. Prima che qualunque spettatore riuscisse a fare qualcosa; l'essere si piegò sulle ginocchia per preparare il salto e si catapultò con slancio verso il fondale, trascinando con sé i due prigionieri come se non pesassero nulla. La scena traballante crollò; una saetta travolse Tassia, mentre intorno a lei correvano nani e soldati che si gettavano all'inseguimento. «Aiutatemi», gemeva, sofferente. Crollarono assi e parti della tenda e si alzò un denso polverone. Tassia
sentì una quantità di uomini correrle accanto, per mettersi al riparo o per inseguire il mostro. Nessuno aveva tempo di aiutare un'attrice. Alla fine Furgas arrivò a liberarla dalla sua spiacevole situazione. Tra i singhiozzi, la donna si aggrappò alla sua spalla, cercando sostegno. L'uomo la lasciò fare, come pietrificato, poi la cinse esitante con un braccio e la consolò. «Vieni, ti porto via.» Ordinò ai componenti della compagnia di spegnere le fiamme e portò Tassia fuori, dove la adagiò su un giaciglio improvvisato. «Qui non ti accadrà nulla», disse per tranquillizzarla. «Io devo andare a salvare Rodario.» La donna annuì e si calmò. Furgas si mise a correre seguendo la scia di rumori e intuì dalle finestre illuminate che il putiferio aveva strappato gli abitanti dal sonno. Dopo non molto trovò un ammasso di soldati e nani che si affollavano intorno a Gandogar e a Rodario. L'attore era ferito solo superficialmente; a Gandogar invece il mostro aveva strappato un avambraccio. Il nano giaceva sul selciato, privo di sensi, e veniva curato da un guaritore che gli stava fasciando il braccio. Rodario sanguinava da parecchi tagli e abrasioni. Come l'imperatore, aveva tracce di bruciature sui vestiti, provocati dal calore delle catene. Si stava tenendo la testa. «Terribile», farfugliò. «Mi ha quasi ucciso a furia di trascinarmi. Ha la forza di venti cavalli.» Guardò Gandogar. «Questo valoroso nano non voleva cedergli il diamante e ha perfino cercato di attaccarlo. Il mostro gli ha avvolto un braccio con la catena e con un semplice strattone...» Divenne pallido e si portò una mano alla bocca. «Non riesco a pensarci.» «Dov'è andato?» chiese uno dei soldati. «Non lo so.» Rodario indicò i tetti. «È scomparso con un salto potente. È arrivato senza fatica al cornicione e da lì è balzato su quello più vicino. Non lo raggiungerete più. È sicuramente saltato oltre le mura della città già da un po'.» Comparve re Bruron, circondato dalle sue guardie del corpo, e capì di essere arrivato tardi. «Convocate l'assemblea», ordinò ai suoi sottoposti. «E portate qui Tungdil Manodoro. Abbiamo bisogno di un nuovo piano. E ci dobbiamo affrettare, se vogliamo salvare la Terra Nascosta. Ormai non c'è più nessun dubbio: gli Eterni possiedono tutti i diamanti.» Con un'imprecazione, si voltò e tornò alla tenda. «Come sta Tassia?» chiese Rodario a Furgas.
L'amico lo tranquillizzò. «Ha una spalla graffiata. Niente di grave.» Rodario guardò verso i tetti, come se potesse scorgervi il mostro. «Possedevo la pietra più potente del mondo e non me ne sono neanche accorto.» Sorrise amaramente. «Asino come sono non distinguo un diamante da un cristallo di rocca.» Furgas lo strinse amichevolmente. «Non te la prendere. Non sapevi che aspetto avessero quelle pietre. Non ti sarebbe servito a nulla, e non saresti comunque riuscito a evitare la disgrazia.» Rodario sospirò e annuì in silenzio. «Ehi! State attenti, razza di maldestri, altrimenti gli spezzerete il naso», borbottò il Rabbioso. «Per una cosa del genere vi trasformerà in gnomi!» I nani che stavano issando la statua di Lot-Ionan sul carro scoppiarono a ridere, badando bene però di spostare il mago con maggiore delicatezza. All'improvviso si udì il corno d'allarme risuonare attraverso la notte. La pace a Porista era finita. «E questo che altro vorrà dire?» brontolò Boïndil. «Stanno organizzando una battuta di caccia all'attore?» Si sentì un lieve tintinnio. Una catena che brillava di luce verdognola piombò dal cielo e si avvolse intorno al collo di Risava. La ragazza si portò le mani al collo, in un gesto disperato, ma bastò un istante perché pelle, muscoli e vertebre venissero dilaniati, come se il corpo fosse fatto di carta e legno marcio. Rimase un istante in piedi, poi si afflosciò; dal moncone del collo scorreva sangue. Con un tonfo sordo, la testa dell'apprendista sbatté poco lontano sul selciato. «Addossatevi alla parete!» Tungdil corse di lato e si schiacciò contro il muro della casa, per non offrire un facile bersaglio alle catene. Levò la Lama di Fuoco e guardò in alto. «Il Ranocchietto!» ringhiò Boïndil. «Questa volta non mi scappi. Oh, ti strapperò le zampette e ti lascerò per terra a strisciare. Sanguinerai per avermi mutilato la barba.» La creatura saltava a destra e a sinistra sui tetti; copriva grandi distanze senza fatica e si faceva vedere dai nani per provocarli. «Che ci fa qui?» chiese Goda senza perdere di vista i tetti. Tungdil guardò il cadavere di Risava. «Devono aver sentito che c'è una speranza per la Terra Nascosta.» Si volse verso Dergard e fece segno a dieci nani di proteggerlo. «Rabbioso e Goda, li guiderete voi. Il resto viene con me», ordinò, poi corse verso il carro su cui giaceva Lot-Ionan. «Su,
portiamolo via.» Con un lieve tintinnio, le catene sibilarono verso di loro e trascinarono via con facilità i due nani che correvano ai fianchi di Tungdil; i due sventurati saettarono nell'aria, gridando, e vennero buttati giù dal cielo squartati. Subito dopo, la creatura saltò sulla strada, davanti a Tungdil, scoprendo le zanne con aria trionfante e facendo serpeggiare le catene. «Vi ammazzo tutti!» minacciò con voce acuta. Bastò il tremito di un braccio, e l'estremità di una catena uccise un Sotterraneo, spaccandogli la testa. Sirka apparve a fianco di Tungdil. «Attacchiamo. Io lo distraggo e tu lo colpisci», disse appena prima di attaccare, senza attendere la risposta di Tungdil. Mentre attaccava, la seconda catena si abbatté su di lei, avviluppandosi alla sua arma; il ferro divenne rosso incandescente. La Sotterranea gridò e lasciò la presa, ma era ben lontana dall'arrendersi. Estrasse il pugnale e si avventò sul mostro. Tungdil levò la Lama di Fuoco, roteò su se stesso e menò un colpo verso la coscia dell'avversario. L'ascia avvampò e i diamanti brillarono di una luce calda, mentre la testa dell'arma tracciava dietro di sé una scia infuocata. Il mostro vide il pericolo incombente e si tuffò di lato, ricevendo la pugnalata, relativamente innocua, ed evitando così la Lama di Fuoco. Non sfuggì invece al colpo di Boïndil, che lo ferì alla rotula con lo spuntone dell'azza. «Be', che te ne pare dell'arma di mio fratello, Ranocchietto?» Il Rabbioso sogghignò, strattonando il manico per costringere la creatura a cadere. «Non credevi sul serio che sarei stato da parte invece di ammazzare questa bestiaccia, eh, Sapientone?» La creatura gemette. Nella voce acuta, simile a quella di un elfo, risuonò un grido da mezz'orco; poi una mano saettò in avanti rapidissima e afferrò il Rabbioso per una spalla. Le rune albiche nell'avambraccio scintillarono. Il nano gridò, ma mantenne con ostinazione la presa sul manico dell'arma e continuò a tirare. «Attento!» Tungdil menò un altro colpo con la Lama di Fuoco. La lama incontrò il bersaglio e amputò l'avambraccio del mostro, con tanto di bracciale e catena. Il nemico fissò il sangue nero che sgorgava dalla ferita, barcollò all'indietro e caricò il salto. Nonostante l'amputazione e l'azza infilata nel gi-
nocchio, riuscì a saltare fino al tetto più vicino. Scandole e fili di paglia caddero sul lastricato. Il mostro era scomparso. Goda prese a correre, cercando d'inseguirlo. «Ferma, torna indietro!» Il Rabbioso si mise sulle ginocchia. Una nube di fumo saliva dalla sua spalla e c'era odore di carne bruciata, ferro caldo e cuoio bruciacchiato. «Ma guarda un po'! Il Ranocchietto mi ha beccato», bofonchiò. «Eravamo sul punto di ucciderlo, non è vero?» Tungdil si risparmiò i rimproveri: la temerarietà dell'amico era stata già punita più che a sufficienza dal dolore; la cotta di maglia gli si era surriscaldata per via della magia e aveva bruciato tutti gli strati di vestiti, fino ad arrivare alla pelle e a lasciarvi una macchia nera. «Tu sei davvero pazzo, Boïndil», gli disse aiutandolo a rimettersi in piedi. «Cerchiamo Goda.» La nana tornò presto indietro. In mano teneva l'azza insanguinata, cui mancava lo spuntone. Era stato spezzato. «Ho sentito qualcosa che si rompeva e sono andata a vedere», spiegò porgendo l'arma al suo maestro. «Uno spuntone così bello», si lamentò il Rabbioso accarezzando l'arma. «La farò riparare.» Goda gli s'infilò sotto un'ascella e lo sostenne, mentre il nano usava l'azza come un bastone. «Devi riposarti e far curare la ferita.» «Ah, non è niente», replicò Boïndil. «Ne ho viste di peggiori: tagli profondi da cui scorrevano sangue e viscere. Un po' di pelle bruciata non è niente di tragico.» Tungdil guardò il gruppo di nani schierato intorno a Dergard, poi il cadavere di Risava, che si stava raffreddando. «Ci sono rimasti solo due maghi», mormorò. «Dovremo proteggerli bene. Questo non sarà l'ultimo attacco.» Fece segno di tornare agli alloggiamenti e, proprio mentre stava per mandare un messo per chiamare a raccolta l'assemblea, un soldato corse loro incontro. «Eccovi qua, Tungdil Manodoro! Re Bruron vi sta cercando ovunque. L'ultimo diamante è stato rubato da uno dei mostri», riferì l'uomo. «È successo durante lo spettacolo. Ci ha colti tutti di sorpresa e non abbiamo avuto modo di fermarlo. Attendiamo il vostro arrivo per decidere il da farsi», disse chiudendo il suo rapporto. «Maledizione! Il Ranocchietto aveva la pietra con sé. E noi ce lo siamo lasciati scappare», gemette il Rabbioso. «Oh, Vraccas! Com'è potuta succedere una cosa del genere?» Tungdil sospirò e guardò Sirka. «I nani e i Sotterranei hanno almeno una cosa in comune.» Avrebbe voluto complimentarsi dandole una pacca sulla
spalla, invece le appoggiò la mano sulla schiena e la lasciò lì, con sua stessa sorpresa. Quella Sotterranea esercitava un'enorme attrazione su di lui. Ne osservò il volto, ripensò al bacio e si rese conto che avrebbe ripetuto volentieri l'esperienza. Subito, proprio in quel momento. «Il coraggio?» chiese lei sorridendo. «Proprio così», assentì lui, rapidamente, poiché era rimasto in silenzio a fissarla troppo a lungo. Dagli sguardi del Rabbioso e di Goda capì che il suo comportamento era stato notato. Tolse svelto la mano dalla schiena di Sirka. Prima doveva parlare con Balyndis. Camminarono di buon passo attraverso i vicoli e le strade di Porista, a quel punto brulicanti di guardie. «Ancora una cosa, Tungdil Manodoro», disse il messaggero. «Abbiamo trovato un morto nella vostra stanza. A quanto sembra è stato trafitto ed è morto in seguito alla ferita.» «Non è possibile!» replicò Tungdil, sorpreso, mentre raggiungevano la tenda del consiglio. «Si era introdotto nella mia stanza, e io l'ho sorpreso e sopraffatto. L'ho colpito alla coscia e al fianco sinistro, ma non erano colpi mortali.» «Ho visto il morto coi miei occhi, e vi assicuro che è stato accuratamente sventrato dalla pancia al collo.» «Il Ranocchietto! Il mostro si è preso anche lui!» esclamò il Rabbioso, guardando Dergard e i nani che lo circondavano. «Non lasciatelo mai solo, neanche quando deve fare i suoi bisogni, capito?» Tungdil scambiò uno sguardo con Sirka e le lesse in volto ciò che anche lui stava pensando: quel mostro avrebbe tagliato in due il ferito, lo avrebbe gettato da un tetto o gli avrebbe strappato il collo, ma non l'avrebbe mai ucciso con un coltello o una lama affilata. La Sotterranea gli si affiancò, gli appoggiò a sua volta la mano sulla schiena e gli avvicinò la bocca all'orecchio sussurrando: «Penso che tra di voi ci sia un traditore». Tungdil condivideva quella valutazione. Il lungo braccio dei Terzi era arrivato fino a Porista. Terra Nascosta, regno di Gauragar, Porista, 6241° ciclo solare, estate «Viste le attuali circostanze, non ritengo consigliabile dividere le nostre forze», disse re Ortger. «Tungdil Manodoro e la Lama di Fuoco devono
proteggere il mago finché non sarà in condizione di difendersi con le sue forze dagli attacchi degli Eterni e dei loro mostri.» Osservò i volti degli uomini e delle donne presenti nella tenda. «L'assedio del Toboribor non ha più molto senso. I soldati non servono contro le forze che sono qui in gioco. Non dopo che il diamante vero è finito nelle loro mani.» Indicò Dergard, che sedeva tra Gandogar e Tungdil. «Mandiamo lui e i nani nel Weyurn e lasciamo che trovino l'isola.» Tungdil si alzò. «Questa era la nostra intenzione. Prima riusciamo a portare Dergard e Lot-Ionan alla sorgente, meglio è.» Si avvicinò alla carta della Terra Nascosta. «Gli Eterni dovranno trovare un modo per dischiudere il potere della pietra. L'Eoîl l'ha ottenuta dal male, è vero, ma l'ha tramutata in bene. Io non credo che ai signori degli albi sia possibile utilizzarla subito e senza difficoltà.» Passò le grosse dita sulla linea che contrassegnava i confini del Toboribor. «E sono dell'idea che si debba assolutamente continuare l'assedio. Piccoli reparti devono filtrare nelle caverne e disturbare i preparativi degli Eterni. Non vi siete mai chiesti perché non si sono mai messi di persona alla caccia del diamante?» Tungdil fece una breve pausa. «Credo che in questo momento gli Eterni siano deboli, e che per questo abbiano inviato le loro creature. Non dobbiamo lasciare loro un istante di tranquillità, anche se questo significherà la morte di molti soldati. Perché, se dovessero riuscire ad attingere al potere della pietra prima che Lot-Ionan sia stato riportato in vita e che Dergar sia in grado di fare incantesimi, tutto sarà perduto.» Si sedette. «Quali guerrieri son più abili dei figli del Fabbro nel combattere nelle caverne?» intervenne Rejalín in tono cortese. «Ritengo stolto inviare tali esperti guerrieri, che vedono nelle caverne meglio di qualunque uomo o elfo, ad assalire un'isola.» Guardò Gandogar. «Io ho fiducia nei nani, Gandogar. Preferirei che i vostri guerrieri, tutti quelli che possono essere sottratti alla sorveglianza alle porte, vengano inviati nel Toboribor.» Tungdil sentì un'ondata di calore attraversargli il corpo. Maledisse il fatto che, per via delle circostanze, non aveva avuto ancora la possibilità di riferire all'imperatore ciò che Sûndalon gli aveva detto riguardo ai broka. Era pronto a scommettere che dietro la proposta dell'elfa si celasse una trappola. Non poteva provare quella sua sensazione, anche perché le parole della principessa avevano senso: i nani erano esperti nel combattere nelle caverne. Sirka, in piedi dietro Tungdil, si chinò verso di lui. «La broka ha in mente qualcosa», lo ammonì, confermando il brutto presentimento del nano.
Gandogar, sentendosi adulato, accettò subito la proposta. «Avete ragione, Rejalín. Ma non priverò il mio popolo dell'occasione di conquistare l'isola dei Terzi. Se gli altri sovrani sono d'accordo, comanderò ai miei guerrieri di marciare verso il Toboribor.» Parlava con la voce rotta dalla sofferenza, i farmaci lenitivi lo aiutavano solo in parte a sostenere il dolore alla spalla e al moncone del braccio. Il suo autocontrollo gli valeva l'ammirazione di tutta l'assemblea. «Ci vorrebbe troppo», obiettò Tungdil. «Almeno sessanta rotazioni. Sprecheremmo così molto tempo prezioso. Gli attacchi alle cavarne devono iniziare prima.» Seppur per diversi motivi, anche la regina Isika non era convinta della proposta di Rejalín. «Dobbiamo considerare che nelle loro stirpi continuano a esserci traditori che mirano ad allearsi coi nostri nemici.» «Se anche così fosse, regina Isika, saremmo noi con loro, non la vostra gente», intervenne Gandogar. «Lasciate che siamo noi a preoccuparcene. Se anche tra cinquemila miei guerrieri dovessero esserci dieci traditori, che cosa riuscirebbero mai a concludere?» «Io sono favorevole alla proposta di Rejalín», disse Ortger, sorridendo all'elfa. «I nani hanno sufficiente esperienza, e noi controlleremo i dintorni. I miei soldati sono abituati a muoversi tra le montagne e a sorvegliarne le vette.» Mentre i sovrani, l'uno dopo l'altro, aderivano alla proposta, Tungdil raggiunse in fretta il fianco di Gandogar. «Gli elfi non sono degni di fiducia», sussurrò. Riassunse brevemente il racconto di Sûndalon. «Se vuoi sapere che cosa penso, a me pare proprio che si stia ripetendo ciò che è successo presso i Sotterranei.» Gandogar aveva ascoltato tutto con attenzione, tenendo gli occhi chiusi. «Da quanto conosci i Sotterranei?» domandò a Tungdil. «Lo sai bene.» «E pensi di poter credere a quanto ti dicono?» «Imperatore, io...» Il nano alzò la mano. «No, Tungdil. I nostri popoli vivono in accordo da cicli; gli elfi ci hanno mandato dei messi che hanno condiviso il loro sapere.» Cercò lo sguardo di Tungdil. «A parte la parola dei Sotterranei, le cui origini sono discutibili, hai...» «Gandogar...» «Taci!» gli ordinò l'imperatore in tono insolitamente duro. Il sudore gli si raccoglieva sulla fronte, lo sforzo faceva trapelare il liquido attraverso la
pelle. «È sotto gli occhi di tutti che la loro origine è discutibile. Finché non avrò visto uno di questi mezz'orchi che loro chiamano ubari e che descrivono come buoni, e finché non avremo davanti una prova del fatto che sono pacifici, manterrò le mie riserve. Se anche io ti credessi, non lo farebbero le altre persone sedute a questo tavolo. Non senza prove.» Gli occhi scuri di Gandogar fissavano Tungdil, irremovibili. «Hai queste prove?» Tungdil strinse i denti così forte che gli venne male alle mascelle. «Hai queste prove, Tungdil Manodoro?» chiese di nuovo l'imperatore. «No», rispose l'altro. Se soltanto l'elfo ferito che aveva lasciato nella locanda si fosse svegliato e avesse potuto parlare! «No, non le ho.» «Allora dovrò tacere.» «Promettimi almeno che metterai in guardia i nostri guerrieri nei confronti degli elfi», lo pregò Tungdil. «Lo farò.» Gandogar rivolse nuovamente la sua attenzione all'assemblea. I potenti della Terra Nascosta erano d'accordo; perfino Isika, alla fine, acconsentì alla proposta di Rejalín. «La questione è decisa. Un esercito di tutte le stirpi dei nani partirà verso il Toboribor. I Terzi e i Secondi ne saranno l'avanguardia», disse ad alta voce tergendosi il sudore dalla fronte. Il suo annuncio venne accolto con un lungo applauso. Sûndalon non riuscì più a trattenersi. La sua questione non era stata ancora presa in considerazione. Alzò la mano e attese che l'applauso terminasse. «Otterremo la pietra, una volta che avrete vinto gli Eterni?» «No», disse subito la principessa degli elfi. «Io sono per lasciare questa decisione a Lot-Ionan», intervenne Tungdil. «Lui saprà valutare nel modo migliore il potere della pietra.» «A mio modo di vedere, sarebbe troppo pericoloso consegnargli il diamante prima di averlo attentamente esaminato.» Rejalín sorrise. «Non fraintendetemi: mi fido di voi, ma non ho nessuna fiducia nella Terra dell'Aldilà. Inoltre, avete detto che questi mezz'orchi, presumibilmente benevoli, hanno un... com'era la parola, 'mastro di rune'?» Sûndalon annuì. «Hanno dunque un mastro di rune che padroneggia la magia. L'ultima cosa che vorrei è un mezz'orco che possieda incontrollabili poteri magici. Neppure nella Terra dell'Aldilà.» «Così facendo condanni la nostra patria alla rovina, broka», sbottò Sûndalon. Si rivolse all'assemblea. «E in futuro, quando le creature della Forra Oscura avranno trovato la strada per la Terra Nascosta, ripenserete a questa giornata e alle parole della broka.» «I figli del Fabbro custodiscono le nostre porte», replicò lei. «Fino a og-
gi, una volta sola hanno fallito. E ciò non succederà mai più. Siamo qui noi per aiutarli. Può esistere alleanza più forte?» Sûndalon strinse l'arma con entrambe le mani, come se cercasse sostegno o si proponesse di rompere il collo all'elfa. «È tipico del tuo popolo sprizzare veleno nascosto. Non per nulla vi abbiamo cancellati dal nostro regno.» Rejalín alzò le sopracciglia, continuando a sorridere. Aveva raggiunto il suo obiettivo: aveva attirato il Sotterraneo su una sottile lastra di ghiaccio e gliel'aveva fatta rompere. «Che cosa avete fatto?» domandò la regina Wey, pallida in volto. «Quindi broka significa elfo e non albo?» fece Isika. «Qui stiamo sedendo intorno a un tavolo con creature che condividono il proprio creatore con dei mezz'orchi e che hanno annientato gli elfi del loro paese?» «Non vi state capendo», intervenne Tungdil. «Sono stati costretti a farlo! L'Eoîl rubò la pietra e aizzò gli elfi contro di loro. Erano accecati.» Raccolse tutto il proprio coraggio per esprimere ad alta voce i suoi sospetti, ma Rejalín lo precedette. «Con questo, la questione sull'affidare o no a voi il diamante è chiusa, Sûndalon. Il mio popolo non lo permetterà mai.» Il bel volto dell'elfa era altezzoso e freddo come ghiaccio. «Se per un qualche motivo doveste trovarvi in possesso della pietra, la perderete di nuovo per mano degli elfi. Non importa se nella Terra Nascosta o in quella dell'Aldilà.» Le guardie del corpo alle sue spalle misero mano alle spade. «È meglio che andiate», consigliò Gandogar a Sûndalon. «E voi, principessa Rejalín, attenta a quello che dite, prima d'iniziare qualcosa che potrebbe sfuggirvi di mano.» I Sotterranei lasciarono la tenda. Tungdil si unì a loro dopo un po' di esitazione. Quando era già con un passo oltre la soglia, si voltò. «Ci vediamo nel Toboribor», disse ai presenti senza fare inchini. «Che i vostri dei vi aiutino e vi aprano gli occhi, prima che sia troppo tardi.» Il Rabbioso e Goda lo seguirono fuori, così come Furgas e Rodano. Alle loro spalle rimase un silenzio opprimente e nefasto. Dal momento che nessuno parlava più, re Bruron sciolse la riunione. C'erano sufficienti cose da fare, e ancora più cose su cui uomini, elfi e nani volevano tacere. Terra Nascosta, regno di Weyurn, cento miglia a ovest di Gastinga,
6241° ciclo solare, estate Stavano impiegando decisamente troppo tempo a raggiungere, da Porista, la riva del mare su cui li attendeva una nave. Il ritardo dipendeva da circostanze diverse: prima la pioggia inattesa, che aveva fatto impantanare più volte il carro che trasportava Lot-Ionan, poi l'influenza di Dergard, che li costrinse a fermarsi in una fattoria finché la febbre non si fosse abbassata. In fine dei conti non potevano mettere a repentaglio la vita del giovane, né dividere in due la colonna. La Lama di Fuoco non poteva essere in due posti contemporaneamente. Tungdil sedeva con Rodario e Furgas nel soggiorno della fattoria, intorno a una mappa del Weyurn, una delle poche a includere i territori inondati pochi cicli prima. I tre stavano cercando di delimitare le possibili posizioni dell'isola sottomarina. Boïndil e Goda stavano fuori con le sentinelle. Nel complesso avevano cento nani della stirpe dei Secondi e una dozzina di Sotterranei al comando di Sirka, cosa che al Rabbioso non piaceva. Nel frattempo il guerriero aveva manifestato apertamente a Tungdil che non gli piaceva nemmeno il corso che stava prendendo il rapporto tra lui e Sirka. Rodario alzò la testa e drizzò le orecchie. «Può essere che il nostro caro Boïndil sia di cattivo umore?» chiese a Tungdil. «L'ho di nuovo sentito strigliare le guardie.» «È il tempo. I nani non possono soffrire una pioggia del genere. E il suo sangue caldo anela il combattimento», spiegò Tungdil tenendo gli occhi fissi sulla carta. Fino a quel momento avevano individuato cinque possibili aree. «L'isola può spostarsi quand'è immersa?» chiese a Furgas. «Già, già, il sangue caldo.» Rodario si accostò alla finestra e guardò fuori. «O la sua allieva?» Osservò come il Rabbioso si esercitava con lei nel fienile. A un primo sguardo non c'era nulla di sospetto, ma gli occhi esperti dell'attore riconoscevano i segni più nascosti dell'attrazione. «Ho l'impressione che tra i due sia sbocciato l'amore.» Si voltò verso Tungdil. «No, direi piuttosto che è avvampato. Per i nani è un'espressione più adatta.» «Ti consiglierei di non chiederglielo», replicò Tungdil con un debole sorriso. Voleva impedire che le questioni sentimentali diventassero argomento di conversazione, già solo per timore che la lingua tagliente dell'attore scegliesse come bersaglio lui e Sirka. Furgas stava bevendo il tè che la moglie del fattore gli aveva preparato. Il magister technicus continuava a essere pallido ed emaciato. A volte se-
deva in un angolo in silenzio e non diceva nulla nell'arco dell'intera rotazione, altre volte si comportava in modo perfettamente normale. Gli strascichi di interi cicli di prigionia non sarebbero scomparsi rapidamente dalla sua anima. «Sì, può spostarsi», disse alla fine rispondendo alla domanda di Tungdil. «Ho previsto un sistema di tubi e camere che possono essere riempiti con gas o vapore. Se si aprono le valvole, il contraccolpo muove l'isola lentamente in avanti.» «Questo è un guaio.» Tungdil si riappoggiò allo schienale della sedia. «Quindi può essere ovunque, o sbaglio?» Furgas scosse la testa. «No. Non è veloce. Stiamo parlando di una montagna che avanza sotto il filo dell'acqua.» Tracciò un cerchio intorno alla posizione in cui supponevano di averla lasciata. «Questo sarebbe all'incirca il territorio in cui può trovarsi. Di tanto in tanto deve affiorare per caricare provviste e rifornirsi di aria.» «Di certo è possibile che qualcuno la veda, ma nessuno ne parlerà, perché è l'isola degli albi e tutti la temono», intervenne Rodario. «Nani molto intelligenti, questi Terzi. Questa storia degli albi, per proteggersi da visite e chiacchiere, è stata una trovata astuta.» «Ci rimane la speranza che le navi della regina scoprano l'isola per caso. O che si sparga la voce che quelli non sono veri albi e che c'è una grossa ricompensa per avvistamenti attendibili.» Anche Tungdil si prese del tè e permise ai propri pensieri di divagare. Nella sua mente vedeva i volti di Balyndis e di Sirka, due nane che non potevano essere più diverse. Aveva sperato che l'attrazione per Sirka si dimostrasse una cotta passeggera, dovuta al suo aspetto esotico e al suo modo di fare, totalmente opposto rispetto a quello tipico delle stirpi dei nani della Terra Nascosta. Ma continuava a guardarla con piacere, e pensava spesso a lei. E gli tornava alla mente l'altro episodio della sua vita, che aveva già messo a dura prova i sentimenti che nutriva per Balyndis: la sua storia con Myr. La spia dei Terzi era un'erudita come lui, e Balyndis si era allontanata per prima a causa delle pressioni del suo clan. Non era per nulla strano che Myr e lui si fossero trovati, finché non era venuto a galla il tradimento della nana. Allora era stato più facile non sentirsi in colpa. «Per essere un mago principiante, Dergard è un po' cagionevole. Non trovate anche voi?» Rodario scoprì sul piccolo comò la torta preparata dalla contadina. E vide la figlia della contadina passare davanti alla finestra e correre sotto la pioggia nel fienile per mungere le mucche. «Oh, che cosina graziosa», osservò mentre si tagliava una fetta di torta.
«Che cosa direbbe Tassia?» replicò Furgas, stizzito. «Ti comporti esattamente come cinque cicli fa. In modo infantile e narcisista.» «Non so che cosa direbbe. Lei non ha chiesto la mia opinione prima di andare a letto con altri uomini», rispose l'attore mordendo la torta. «Siamo entrambi adulti e amiamo la vita. Che problema c'è?» Non avrebbe mai ammesso di essere geloso. «Tu forse non guardi più le donne?» «Non c'è più nessuna donna nella mia vita. Ho giurato eterna fedeltà a Narmora. Non mi scioglierò da lei solo perché il suo corpo non esiste più», spiegò l'amico con voce tremante. «Nel periodo che ho trascorso sull'isola l'ho sognata, di notte, e mi ha dato la forza di resistere. Non la tradirò mai desiderando un'altra donna.» «Questo di per sé è un gran bell'atteggiamento, Furgas. Tenendo le dita lontane dalle donne non si rischia di scottarsi.» Rodario continuò a masticare e a guardare la giovane contadina. «Immagina se tu ti fossi innamorato di Tassia! Oh, Palandiell, sarebbe stato il colmo della sventura. È la mia perfetta controparte femminile.» Furgas divenne improvvisamente inquieto, cosa che Tungdil notò. «Eh, quella cara ragazza conosce l'arte della seduzione, te lo posso assicurare. E la sua fedeltà è stabile come la direzione di una foglia quando tira un forte vento», aggiunse l'attore, prima d'infilarsi il resto della torta in bocca. «Mi è sanguinato il cuore, scoprendolo. E ora posso solo mettere in guardia da lei gli uomini che hanno intenzioni serie.» Rise piano. «Che birichina. Ma non riesco a staccarmi da lei.» Poi si rivolse al nano. «C'è ancora bisogno di me? Mi piacerebbe aiutare la ragazza a portare le brocche.» «Lasciala in pace», ingiunse Tungdil. «Non voglio discussioni con suo padre; ci ha accolti così amichevolmente...» «Non preoccuparti, mio caro eroe. Sarò circospetto come un ladro di mele.» Rodario fece loro l'occhiolino e raggiunse la porta. Il granaio in cui si trovavano Goda e Boïndil era immenso. Il contadino aveva steso sul pavimento del vecchio fienile della lana, già lavata, che attendeva di essere lavorata dalle tessitrici. Più all'interno vi erano due telai che nelle ultime rotazioni avevano funzionato dall'alba al tramonto. Boïndil aveva preso due funi dalle pareti del granaio, e le faceva guizzare a turno contro Goda. Il guerriero le girava intorno, mentre lei stava ferma dov'era. «Immagina che siano i colpi di più avversari. In un combatti-
mento non si ha sempre tempo di parare le lame. A volte l'unica possibilità che rimane è schivarle.» La prima corda, con un anello di ferro assicurato all'estremità, sfrecciò verso di lei. Goda si girò di lato e la corda la mancò. «Molto bene», la lodò il Rabbioso, indirizzandole il secondo colpo contro la coscia sinistra. Goda riuscì a schivare i colpi più volte, ma il quinto attacco la trovò impotente. L'anello di ferro le sbatté contro il petto. Il Rabbioso schioccò la lingua indignato. «Sei morta, allieva. Una spada ti ha appena aperto la gabbia toracica.» Indicò il pavimento coperto di paglia. «Quaranta flessioni.» «Non farò nessuna flessione.» La nana rimase in piedi. «Avrei parato quel colpo.» «No, non l'avresti fatto.» Boïndil la guardò negli occhi, e se ne pentì. Il suo cuore di guerriero batteva forte. «Cinquanta.» Goda prese la stella della notte. «Ancora una volta, maestro. Ti mostrerò che ci riesco.» «No, non lo farai. Devi schivare, adesso, non parare.» Lo faceva arrabbiare che lei mettesse in discussione la sua autorità. «Sessanta.» Fece un passo minaccioso verso di lei. La nana sollevò l'arma. «Per farlo, devi mandarmi a tappeto.» Incassò la testa, gli occhi le sfavillavano. «Sono stufa delle tue vessazioni, maestro.» Un po' di rotazioni prima, Boïndil avrebbe esultato e si sarebbe rallegrato all'idea di togliersi dai piedi la giovane nana. Ma ormai quella prospettiva era per lui un incubo. «Scambi la perseveranza con le vessazioni», tuonò per nascondere la sua debolezza. «Volevi che ti mostrassi come si diventa guerrieri. Per cui piegati al tuo stesso desiderio, anche se ti costa fatica.» «Altrimenti cosa succede, maestro? Diventano settanta?» replicò lei con aria di sfida. Il Rabbioso afferrò il manico della stella della notte e le batté la parte superiore contro la fronte. Goda barcollò. Boïndil le spazzò il piede destro, e la nana cadde di schiena per terra. «Cento», disse il Rabbioso facendo roteare l'arma con una mano. «Hai lasciato la presa sulla stella della notte. Sai che lo si può fare solo quando si ha una seconda arma.» La nana si appoggiò sui gomiti, ignorando il rivolo di sangue che dalla piccola ferita le scorreva giù sul sopracciglio sinistro e sul naso.
Boïndil sospirò e le si accovacciò accanto. «Goda, lo faccio per difendere la tua vita.» «Farmi fare flessioni? Così potrei impressionare un mezz'orco, e magari sfidarlo a una gara di flessioni?» ribatté lei tagliente, tirandosi a sedere. I due si trovarono di nuovo molto vicini. Il Rabbioso deglutì, rimase immobile e indietreggiò, come se lo avesse morso un serpente. «No. Le flessioni sono solo uno sprone a impegnarti di più», mormorò. «Non compiere nessun errore e non dovrai fare nessuna flessione.» Trasse una manciata di lana pulita da una piccola montagnola che aveva accanto e le terse il sangue dal viso. «E questo che sarebbe?» Goda gli scansò la mano bruscamente. «Volevo...» «So che cosa volevi, maestro.» La nana lo fulminò con lo sguardo. «E so che cosa vuoi. Non dimenticare che sei stato tu a uccidere Sanda. Io non provo nulla per te. Prenderei Bramdal, piuttosto che te. Rendimi una guerriera, poi incroceremo le armi per vedere quanto è buona la tua arte. Il resto te lo puoi tenere per te. Non m'interessa.» Boïndil era come paralizzato. Le sue parole brusche lo avevano smascherato impietosamente. «È...» Deglutì, gli mancavano le parole. La scintilla di speranza minacciava di spegnersi. Poi si dominò. «Non è come pensi. Sono il tuo maestro, e mi preoccupo. Tutto qui.» «Tanto meglio.» Goda si girò, piantò le mani a terra e iniziò le sue flessioni. Cento flessioni. Non si curò del sangue che gocciolava a terra. Non appena aprì la porta, Rodario si trovò di fronte un soldato con le insegne di re Bruron. «Porto messaggi per Tungdil Manodoro», disse il soldato guardando verso il tavolo, oltre l'attore. «Siete voi?» chiese al nano. «La vostra vista è acuta come quella di un'aquila», lo canzonò Rodario. «Quanti nani ci sono in questa stanza?» Il soldato raggiunse Tungdil e gli porse i rotoli coi messaggi. «Tornando indietro devo riportare la vostra risposta a re Bruron», aggiunse facendo tre passi verso la porta. «Attenderò fuori.» «Prendi qualcosa da mangiare e riposati», lo invitò Tungdil. «Ci vorrà sicuramente un po'. E mandami Boïndil e Sirka.» Attese in silenzio che i nani arrivassero, poi srotolò la prima missiva. Anche Goda era entrata nella stanza. A quanto pareva disponeva dell'illimitata fiducia del suo mentore. Tungdil scorse una crosta sopra le so-
pracciglia della nana: le lezioni dovevano essere state rudi. «È del principe Mallen. Le prime incursioni nelle caverne del Toboribor hanno riportato un successo. Il mostro al quale avevo tagliato un braccio è stato distrutto.» Il volto di Tungdil si scurì. «Finora Mallen ha perso nelle caverne settecentocinquanta soldati; la maggior parte è morta a causa di agguati magici. Non c'è però il minimo indizio sul fatto che gli Eterni dispongano del potere del diamante. Inoltre sono arrivati i contingenti dei Terzi e dei Secondi; presto prenderanno le consegne dei soldati.» «Vraccas sia pietoso e li protegga», mormorò il Rabbioso. Tungdil prese la lettera di Gandogar. «In compensazione di questo, gli elfi hanno mandato parecchi dei loro guerrieri nei regni dei Secondi e dei Terzi per aiutare le sentinelle nella sorveglianza delle porte e dei tunnel. Gandogar mi scrive che tutto procede pacificamente e in piena armonia.» «Presto i broka attaccheranno di sorpresa», intervenne Sirka con voce cupa. «Si stanno mettendo in posizione. A Porista hanno a portata di spada i sovrani degli uomini, e strisciano nelle montagne per poter uccidere i sovrani dei nani. Sta succedendo come da noi.» Strinse i pugni. «Ma qui nella Terra Nascosta nessuno li fermerà.» «Non senza prove», disse Tungdil ripetendo le parole dell'imperatore. «Durante l'assemblea ero sul punto di dire qualcosa, ma Gandogar me l'ha proibito.» Il Rabbioso guardò la Sotterranea. «Purtroppo è così. Nessuno avrebbe creduto a te o a Sûndalon. Non dopo che avete detto di aver annientato i vostri elfi.» «Non c'era nessun motivo di mentire al riguardo. Erano loro il pericolo, non noi», ribatté Sirka. «Nelle tue vene scorre sangue di mezz'orco. Scommetto che la maggior parte delle persone considera un pericolo te e i tuoi simili, più che gli elfi», borbottò Boïndil posando le mani sulla testa dell'azza. Da quando sapeva dell'origine dei Sotterranei, il suo comportamento nei confronti degli stranieri era cambiato. Era diventato più scortese e sprezzante. «Ubar ci ha formati col sangue delle montagne; in noi arde la forza delle cime.» Sirka era stufa delle continue frecciate. Si alzò e andò da Boïndil, con gli occhi che sprizzavano scintille e ardevano di collera. «Ubar creò gli ubari con lo stesso sangue, li fece più grandi e più forti e impresse in loro come in noi l'odio per le creature del male. Questo unisce noi e gli ubari, nano. E loro non hanno mai tradito la loro patria e i suoi abitanti.» Usò l'arma per indicare Goda. «Guardati accanto. Hai una Terza. Loro possono
dire la stessa cosa? Chi di noi due è più degno di fede?» «Non puoi neanche paragonarti alla mia allieva, Sotterranea.» Il Rabbioso era rimasto impressionato dallo sfogo dell'altra, ma non poteva permettere che si attaccasse Goda. «Tieni a freno la lingua.» «Non ha tutti i torti. Goda potrebbe benissimo essere una traditrice!» sbottò Tungdil. «Non sai nulla di lei, a parte quello che lei stessa dice. Ha mai mostrato delle prove riguardo alla sua origine e alla sua storia? C'è un Terzo che possa dirti che le cose sono veramente come ha raccontato lei? Tu sai quanto era sottile Myr. E io non vedo di buon occhio che tu la porti a incontri in cui si discute di questioni segrete.» Boïndil lo guardò stupito. Non aveva messo in conto di essere attaccato dall'amico. Goda fece un passo in avanti. «Non ti permetto d'insultarmi, Sotterranea.» Sirka le sorrise. «Io non ho diffuso nessuna menzogna sulla tua stirpe. Non tutti hanno la buona reputazione di Tungdil Manodoro o di Sanda Ardentecoraggio. Noi siamo qui per uccidere dei Terzi di cattiva fama. Terzi, Goda. Non Sotterranei. Noi non abbiamo nulla contro la Terra Nascosta. Se avessimo avuto altre mire, ci saremmo comportati diversamente. E mentre cercavamo le pietre non avremmo risparmiato le vite nei nani in cui Ci siamo imbattuti.» Rodario si frappose tra le due parti in lotta e porse il piatto con la torta. «Forse sarebbe meglio calmarsi tutti e ricordarci chi sono i nostri veri nemici, prima di mettere mano alle armi. Assaggiate la torta, è eccezionale.» Goda si sedette e posò le mani sulla stella della notte, esattamente come stava facendo il Rabbioso con l'azza; Sirka girò intorno al tavolo e si mise a fissare la mappa. Nessuno degnò la torta di uno sguardo. «Va be', me la mangerò da solo», farfugliò l'attore mentre tornava alla finestra per continuare a guardare la giovane contadina. «Rodario ha ragione.» Tungdil guardò Boïndil e la sua allieva, ma non gli uscirono scuse di bocca. Sollevò invece la lettera. «Gandogar scrive che presso i Secondi è stata fermata e distrutta una macchina che uccideva i nani con le sue esalazioni. All'interno c'erano diversi piccoli contenitori di pietra con sostanze che si mescolavano dentro tubi di vetro. I gas che ne sono usciti hanno ucciso tredici nani, prima che riuscissero a gettarla in un vecchio pozzo e a seppellirla con della terra. Si suppone che una macchina simile sia responsabile dell'avvelenamento delle acque dei Primi.» «Meno male che i colpevoli erano gli elfi», sibilò Goda rivolta a Sirka,
che però si limitò a scuotere la testa. Il Rabbioso osservò Furgas, che si era portato le mai al volto e piangeva in silenzio: una delle sue invenzioni era stata di nuovo usata per portare morte e distruzione. Intuirono tutti che sarebbe potuta andare molto peggio. Un gas tanto velenoso in una parte abitata dei Monti Blu avrebbe fatto salire a centinaia il numero delle vittime, proprio come Furgas aveva supposto. «Dobbiamo trovare l'isola al più presto e conquistarla», disse il magister con voce rotta, abbassando le mani. Poi si asciugò le lacrime e si passò una mano tra i capelli. «I mostri dovranno presto ricaricare i loro poteri magici alla sorgente. Per farlo, hanno bisogno dell'isola. Accadrà presto. Non ci devono essere altre vittime.» Tungdil era d'accordo. «Più tardi chiederò a Dergard se è in grado di viaggiare. Poi raggiungeremo il mare e ci metteremo alla ricerca dell'isola. La cosa migliore è lasciare l'elfo ferito sull'isola di Windspiel. Lì sarà più al sicuro.» Evitò di guardare il Rabbioso, mentre impartiva altri ordini. «Occupiamoci dei preparativi per la partenza. La riunione è finita.» Boïndil e Goda lasciarono la stanza, e anche Rodario uscì per sfuggire alla brutta atmosfera. Furgas bevve in fretta il suo tè e lasciò Sirka e Tungdil da soli. La nana si avvicinò a Tungdil e gli accarezzò la barba «Ti stai mettendo contro i tuoi amici, e loro ne daranno la colpa a me.» Il nano le prese la mano e l'abbassò con un sorriso di scusa. «No, Sirka. Non rendermi ancora più difficile resistere ai miei desideri.» Non aveva ancora ricevuto una risposta da Balyndis. «Allora assecondali», sussurrò Sirka sollevando di nuovo la mano per toccarlo. «Non c'è nulla di male. Ci piacciamo e ci ameremo. È solo una questione di tempo. Possiamo rimandarlo e soffrire oppure farlo ora e sentirci meglio. Chi sa che cosa accadrà domani?» Mosse rapidamente la testa in avanti e lo baciò. Tungdil non si trattenne. Si gustò quella dolcezza, mentre il suo corpo voleva ancora di più, e le sue mani si posavano sulla schiena dell'altra, per abbracciarla. Subito dopo, però, la scostò da sé. «Aspetta, devo chiederti una cosa», disse senza fiato, col sangue che gli scorreva nelle vene più in fretta di un fiume di fuoco. «Che cosa intende fare Sûndalon?» «Vuoi saperlo adesso?» «Avrei dovuto chiedertelo in presenza degli altri?» Tungdil sorrise. «Non potevo intuire che mi avresti voluto baciare. Da principio volevo sol-
tanto parlare.» Sirka fece un profondo respiro e gli prese le mani. «Sta preparando la mia patria a evitare il peggio», disse lei in modo vago. «Questo può voler dire molte cose.» La Sotterranea lo guardò negli occhi. «Ti confiderò un segreto. Prima della nostra partenza per la Terra Nascosta, Sûndalon ha convocato i popoli degli ubari e degli acronta. Si sono già radunati oltre le porte di nordest.» Quindi era quello il motivo per cui i mezz'orchi, da qualche tempo, cercavano disperatamente d'irrompere attraverso i Monti Marroni, custoditi dai Quarti. Avevano alle spalle un'armata di nemici che li spingeva in avanti. «Un'invasione? Volete invadere la Terra Nascosta?» «No. Vogliamo riprenderci la pietra ed estirpare alla radice il male che minaccia la nostra patria. Per fare entrambe queste cose dobbiamo venire nella Terra Nascosta.» Tungdil deglutì. «Quanto è grande questo esercito?» Sirka si sedette e lo invitò a fare altrettanto sulla sedia accanto a lei. «Sono diciottomila ubari, quattromila acronta e quindicimila della mia gente.» «Per Vraccas!» gemette il nano, vedendo la Terra Nascosta affogare nel sangue. «I Quarti vi riterranno una minaccia e vi combatteranno. Schiereranno contro di voi tutte le loro forze.» «E non ce la faranno. Per gli acronta sarà un gioco forzare le porte dei Quarti. Le abbiamo già esplorate e abbiamo trovato i punti deboli.» Sirka sembrava sollevata dalla confessione. «Ma non ne avremo nemmeno bisogno. Molto tempo fa i nostri esploratori hanno trovato un sentiero attraverso i Monti Marroni.» «Non è vero.» «È così. Ubar ha mostrato loro un ampio sentiero attraverso cui un esercito può superare inosservato i bastioni dei Quarti.» «Impossibile!» replicò Tungdil. «Le vette sono invalicabili.» «Presto vedrai che non è così.» «Anche i mostri della Terra dell'Aldilà avrebbero dovuto trovarlo, se le cose stessero come dici.» «Infatti lo hanno trovato, e già molte volte. Siamo stati noi a impedire che si servissero di tale scoperta.» Sirka prese fiato. «Sûndalon non voleva dirvelo prima che la pietra fosse stata nelle nostre mani, ma penso che tu dovessi saperlo.» Gli accarezzò il dorso delle mani. «Prendila come una
dimostrazione di fiducia.» «Quindi la tranquillità della Terra Nascosta non è dovuta solo alle stirpi, ma anche a voi», mormorò Tungdil, scosso. Immaginò l'immensa devastazione che ci sarebbe stata se gli eserciti di orchi, troll, albi, bogglin e altre creature di Tion fossero piombati senza preavviso sull'Urgon e da lì sul resto della Terra Nascosta: non sarebbe rimasta una pietra sull'altra. Tutti quei cicli di ingannevole sicurezza erano dovuti anche alla protezione dei Sotterranei. «Perché lo avete fatto? Perché nessuno di voi è mai venuto da noi?» «A che scopo avremmo dovuto farlo? Nessuno di voi è mai venuto da noi. Abbiamo pensato che non v'importasse di noi. E sapevamo che la nostra fratellanza con gli ubari sarebbe stata un grosso ostacolo fra i nostri popoli.» Sirka si alzò e raggiunse la porta. «Ora è chiaro che era la cosa migliore. Vado a informare i miei che presto partiremo per il Weyurn», disse sulla soglia. «Non racconterai a nessuno della nostra conversazione?» Mille domande bruciavano sulla lingua di Tungdil, ma il nano si controllò. «A nessuno», giurò toccando la sua ascia. «Lo giuro sulla Lama di Fuoco.» Le sorrise, e lei uscì. I pensieri di Tungdil si accavallavano, danzando l'uno intorno all'altro. Gli Eterni, i Sotterranei... Tutto sembrava minacciare la fine di un'era. Stava a lui impedire che succedesse. Ancora una volta. Non si sentiva molto bene ed era rincuorato del sostegno che si stava avvicinando: presto avrebbe avuto al suo fianco il padre adottivo, LotIonan. Un saggio mago, più anziano di qualunque uomo sulla Terra Nascosta, con una mente sapiente ed esperta. Già un tempo aveva mostrato a Tungdil la strada, e il nano confidava che lo avrebbe fatto di nuovo. O meglio: sarebbe stato Lot-Ionan a decidere che cosa si dovesse fare. Tungdil non voleva più prendere nessuna decisione. Gli occhi gli scivolarono sull'ultima busta sigillata. Aveva intenzionalmente evitato di leggerla davanti agli altri, perché il mittente era Glaïmbar Lamatagliente. Tungdil aveva timore di leggere quelle righe, ma non poteva evitarlo. Si alzò, prese la busta e la aprì. Stimatissimo Tungdil Manodoro, avevi ragione. Io provo ancora qualcosa per Balyndis e, dopo aver letto la tua lettera, l'ho subito pregata di venire da me.
Con mia grande gioia, lei ha accettato l'invito. E, con mia gioia ancora più grande, ha promesso di tornare al mio fianco. In quanto mia prima moglie, ne ha il diritto. Ti devo scrivere che ha avvertito la distanza e l'insoddisfazione che provavi stando con lei. Per questo l'ho ripresa con me, a condizione che non ti possa mai più rivedere. Non potrebbe sopportare la tua vista. Sono sicuro che riuscirò a ristabilire tra lei e il suo clan la pace che si merita. Sarò per lei un buon marito, e lei sarà la migliore regina che il regno dei Quinti abbia mai avuto. Ti ringrazio per la tua franchezza, e per questo mi permetto di fare altrettanto: i veri sentimenti non sono volubili. Balyndis ha appreso dolorosamente che tu non sei capace di costanza. Ma noi, i figli del Fabbro... Tungdil strappò la lettera. Non c'era bisogno di continuare a leggere: ciò che contava era stato detto. Non aveva bisogno di predicozzi da parte di Glaïmbar Lamatagliente. Balyndis aveva dunque letto la sua lettera e compreso quanto lui le diceva. Di ciò Tungdil le sarebbe stato eternamente riconoscente, anche se poteva immaginare quanto avesse sofferto. E per tale motivo non poteva rallegrarsi della loro separazione. Guardò fuori dalla finestra, nel cortile, e osservò Sirka. Il volto del nano si rifletteva in parte sul vetro. «Vigliacco», disse rivolto a se stesso. E il riflesso sembrò annuire. XII Terra Nascosta, regno di Weyurn, dodici miglia a nord-ovest di Mifurdania, 6241° ciclo solare, estate Dopo le molte interruzioni, il resto del viaggio proseguì senza altre difficoltà. I nani e i loro accompagnatori salirono a bordo delle due navi reali che erano state preparate per loro e fecero rotta per Mifurdania. Durante il viaggio fecero scalo all'isola di Windspiel e lasciarono l'elfo in custodia all'archivista della regina, che incaricarono delle cure in nome della regina Wey. Con ciò, la loro fortuna era di nuovo finita. Toccarono con mano quanto fossero alte le onde del mare. Verso sera, la
dea Elria si divertì ad agitare le acque e a scagliare le onde contro lo scafo delle due imbarcazioni su cui viaggiavano. Il beccheggio era incessante; le goccioline di spuma impregnavano chiunque si trovasse in coperta. Eccetto Tungdil, non c'era nessun nano della Terra Nascosta che non dovesse vomitare; per contro, i Sotterranei non vacillavano nemmeno sulle assi oscillanti. Tungdil si affrettò a raggiungere la stiva per controllare la statua di LotIonan, avviluppata tra le coperte. Non sarebbe mai riuscito a perdonarsi se proprio a quel punto, poco prima di raggiungere la loro meta, fosse caduta a causa della tempesta e si fosse rotta. Piantando bene i piedi fece il giro del suo pietrificato padre adottivo e controllò le cinghie. Poi scostò un angolo di coperta e ne osservò il volto. «Presto», promise con una singola parola. Era tanto determinato che la speranza di rivedere vivo di fronte a sé il caro e fidato mago si era trasformata in assoluta certezza. Che dirà mai quando sentirà di tutto ciò che è successo? si chiese toccando l'orlo dell'abito pietrificato che scorgeva sotto la copertura. Si sorprese a pensare se Lot-Ionan l'avrebbe potuto rimproverare di qualcosa fatto nei cicli precedenti. Tungdil sorrise. No, non ne avrebbe motivo. Sarebbe come dire che le imprese eroiche sono riprovevoli. Strinse il nodo di una fune che avvolgeva i piedi della statua e risalì la scala che portava in coperta. «Elria ha escogitato contro di noi un nuovo tipo di maledizione», gemette Boïndil ruttando piano. Non poteva rimettere altro che aria, dal momento che nel suo stomaco non vi era più nulla che potesse sputare oltre il parapetto. Dopo la discussione nella fattoria, era la prima volta che rivolgeva la parola a Tungdil. Fino a quel momento aveva preferito la compagnia di Goda a quella degli altri nani e dell'attore. «Questo non è niente», intervenne Sirka. «Noi in mare abbiamo vissuto ben altre tempeste.» «Nella Terra dell'Aldilà c'è il mare?» Tungdil ripensò alle magre annotazioni che aveva visto sul mondo dall'altra parte delle montagne. Non ricordava di aver letto qualcosa riguardo a un mare. «Certo. Noi li solchiamo.» Sirka guardò il timoniere. «Sui nostri mari queste navi e questi equipaggi sarebbero irrimediabilmente perduti. Non riuscirebbero a reggere le tempeste.» Furgas era accanto a loro; il maltempo non aveva effetto su di lui. «Dev'essere qui, da qualche parte», disse valutando i dintorni e chiamando
a sé Rodario. «La distanza è quella giusta, e laggiù c'è un'isola. È quella che hai aggirato?» Rodario si teneva stretto all'albero. «Può essere. Speriamo che quel pescatore non si sia ingannato, quando ha parlato dell'isola degli albi.» «La tempesta ci fa gioco», disse Sirka. «Così potremo avvicinarci a sufficienza senza che i Terzi ci notino subito.» Gli occhi di Tungdil scivolarono su quella manciata di arditi, e gli venne in mente il Sotterraneo senza nome che li aveva condotti da Sûndalon. Chiese a Sirka: «Che cosa nascondeva? Che cosa significano i segni che portava sulla fronte e sugli abiti? Perché non ha voluto dirci il suo nome?» «Credo che ci siano solo sette persone che sanno come si chiama», rispose lei. «E io non sono tra quelle. È una persona di fiducia di Sûndalon e seguace dell'Acront di Letèfora. È stato istruito da lui.» Quella spiegazione portava più domande che certezze. «Ma che cosa...?» «Montagna a prua!» gridò la vedetta dall'alto. Tungdil dovette tenere a freno la sua curiosità. Dergard, che stava sulla soglia della cabina passeggeri, fece cenno a Tungdil e a Furgas di avvicinarsi. «Questo è il punto in cui si trova la sorgente», gridò. «Lo sento chiaramente, non c'è dubbio.» «Se l'isola è emersa significa che sta aspettando i mostri oppure che li sta per scaricare», disse Furgas. Tungdil strinse le labbra. Contro quei quattro mostri, che nella peggiore eventualità avevano appena assorbito nuove energie magiche, era una battaglia senza speranza, almeno finché non avessero riportato in vita LotIonan. «Non abbiamo scelta. Dobbiamo prendere l'isola e immergerci subito fino al fondale. Tieniti pronto, Dergard.» Salì rapidamente la scala per raggiungere il timoniere e il comandante e impartire i suoi ordini. «Cercate un punto in cui possiamo sbarcare.» «Non si può. Vedete la spiaggia?» gridò il comandante. «È fatta di solida roccia. Squarcerà la prua.» «Non c'è altra possibilità. Non abbiamo abbastanza scialuppe, e comunque non potremmo certo metterle in mare con questa tempesta», osservò Tungdil. «Portate le navi alla spiaggia e, se necessario, lasciate che vi s'infrangano.» «Voi non siete un marinaio, Tungdil Manodoro! Vi rendete conto di quello che state chiedendo?» replicò l'uomo, spaventato. «State mettendo a repentaglio le nostre vite!» «Sì. Fatelo e basta, comandante. Qui è in gioco più che qualche nave.» E
qualche vita. Tungdil tornò sul ponte, e da lì raggiunse la stiva e spronò i nani e i soldati del Weyurn a prepararsi alla conquista dell'isola. La statua venne portata sul ponte e legata alla fune dell'argano. Tungdil sorvegliò i preparativi con grande attenzione e preoccupazione; da quel momento non si potevano più commettere errori. Si raccolsero a prua, mentre la sagoma dell'isola degli albi si avvicinava diventando sempre più grande e nera. Poco dopo le navi si abbatterono sulla costa. Nessuno dei nani e dei Sotterranei gridò, tutti si aggrapparono rabbiosamente alle cime o alle sovrastrutture per non perdere l'equilibrio. La pietra, affilata come una lama, stava squarciando il legno dello scafo. «Tutti giù!» gridò Tungdil, poi soffiò in un corno per dare il segnale ai nani imbarcati nella seconda nave. Saltò oltre il parapetto e atterrò sulla dura roccia. Alla maggior parte dei soldati e dei nani riuscì la difficile manovra; solo una dozzina mancò la riva e finì in acqua a causa del rollio. Annegarono istantaneamente nelle onde. Tungdil imprecò in silenzio, quando li vide. «Calate la statua!» gridò. Vedeva che la nave stava rapidamente imbarcando acqua dalla parte anteriore dello scafo. Il braccio della gru si mosse; i marinai azionavano gli argani, facendo librare la statua sopra il ponte. Quando la statua fu per metà sopra la spiaggia, la nave oscillò in modo particolarmente violento; la poppa ruotò e lo scafo si spezzò in due come una pagnotta. Il pesante carico dondolò dalla corda come un impiccato, poi la sollecitazione divenne troppa. Con uno schianto la fune si spezzò e la statua cadde giù. I nani balzarono di lato per non venirne uccisi. Con uno schianto, la statua si abbatté sulla spiaggia e prese a rotolare verso il mare. «Fermatela!» tuonò Tungdil correndo in acqua. Con altri cinque nani si mise a tirare la statua, ma l'imbottitura fradicia la rendeva ancora più pesante. Un'ondata fece perdere l'equilibrio a tre nani, e il pietrificato LotIonan sdrucciolò dal basalto agli abissi. «No!» gridò Tungdil fissando il punto in cui la statua si era immersa. Fece un passo in avanti, come se potesse tuffarsi e recuperarla. «Lascia perdere», lo trattenne il Rabbioso. «Chissà se la trasformazione avrebbe funzionato. Abbiamo ancora un mago, Sapientone. Dobbiamo procurare l'energia magica a lui.» Sembrava che la pietrificazione di Lot-Ionan si fosse propagata anche a
Tungdil. Incapace di muoversi o di dire alcunché, il nano rimase paralizzato sulla spiaggia. Il vento gli sferzava il volto, sentiva gli schianti provenienti dalla nave morente. I suoi pensieri, come i suoi piani, scorrevano come mercurio, gocciolavano via e scomparivano senza lasciare traccia. Che accadrà ora? L'ho perduto per sempre. Per colpa mia! La conquista dell'isola non sarebbe dovuta cominciare in quel modo. «Tungdil!» gridò il Rabbioso scrollandolo per le spalle. «Riprenditi. Abbiamo bisogno di te.» «Maledizione!» La spuma si mescolava alle lacrime di rabbia e di dolore. Poi l'abbattimento cedette il passo alla testardaggine dei nani. «Va bene, allora. Conquistiamo quest'isola maledetta.» Tungdil alzò la testa. «Furgas!» Il magister gli fece un cenno e saltò giù dal ponte. Assunta la guida, li condusse attraverso la grotta in cui era già stato Rodano e si fermò solo davanti a una massiccia parete. «Qui c'è un'uscita nascosta», spiegò mentre tastava con circospezione la nera pietra. Un'onda potente sollevò le navi danneggiate e le scaraventò contro il fianco della montagna, frantumandole. Alcuni marinai riuscirono a guadagnare la riva, ma la maggior parte scivolò nel mare tempestoso. A quel punto, per gli aggressori l'unica opportunità di salvezza era la vittoria. Una ritirata non era più possibile. La parete di fronte a loro scivolò di lato. «Attraverso questo corridoio arriveremo al piano intermedio della fucina», spiegò Furgas. «Un gruppo liberi i prigionieri», ordinò Tungdil assegnando dieci soldati a tale incarico. «Il resto non si trattenga oltre e segua Furgas e me direttamente fino ai Terzi.» Fece loro un cenno di capo. «Che Vraccas sia con noi e ci renda un'altra volta i baluardi della Terra Nascosta.» Guardò Sirka, sorridendole, e fece segno a Furgas d'iniziare. Il reparto, formato da duecento combattenti, percorse lo stretto corridoio e si avvicinò a una porta assicurata da chiavistelli e punzoni che si lasciò aprire facilmente dalle mani esperte di Furgas. Rodario riconobbe subito il posto: era proprio vicino al passaggio che lo aveva condotto nella caverna con gli altiforni. I nani e i soldati fecero irruzione. «Ehi! Chi siete?» Uno dei prigionieri notò subito gli sconosciuti. «Per gli dei del bene, sono soldati della regina! Sia lode a Elria! Liberateci!» gridò eccitato porgendo implorante le catene. Cominciarono a risuonare per la caverna grida ed esclamazioni.
Le guardie, allarmate, dapprima pensarono a una ribellione. Quando capirono di essersi sbagliati, la maggior parte dei finti albi oppose scarsa resistenza. Erano troppo pochi per potersi aspettare una vittoria, e sperarono invece nella clemenza dei conquistatori. Ma una decina di guardie, in posizione più elevata, iniziò a scagliare frecce o carboni ardenti verso gli aggressori. Ci furono morti e feriti, e la rapida avanzata perse slancio. Intanto Furgas, Rodario, Tungdil, Boïndil e Goda guidarono un gruppo verso gli altiforni per catturare i Terzi. Lì le sentinelle non scapparono né si arresero. La resistenza fu accanita. «Fate attenzione!» Tungdil notò che qualcuno stava inclinando le fornaci poste sul livello superiore a quello in cui si trovavano. I nemici volevano versarne su di loro il contenuto incandescente. «Cercate copertura! Dietro le rocce, svelti!» Il ferro liquido, giallo e rosso, si riversò come acqua sui piani e sui camminamenti inferiori, bruciando gli sventurati che non riuscivano a mettersi al riparo per tempo. La pioggia di fuoco era uno spettacolo affascinante e mortale. Molti dei soldati e dei prigionieri, ancora incatenati, morirono sotto la colata; l'aria divenne fetida e cocente, mentre sibili e grida si mescolavano. «Dov'è Furgas?» Rodario non riusciva più a scorgere l'amico. «Furgas!» gridò come impazzito, e Tungdil lo trattenne appena in tempo dal mettere il piede in una pozza di metallo fuso. «Là!» Boïndil indicò qualcosa in basso. Il mantello del magister scorreva, in fiamme, sulla superficie del ferro liquido, mentre un braccio carbonizzato s'inabissava nella massa luminosa. «Questa è la giusta punizione di Vraccas per tutto il male che ha fatto al suo popolo», mormorò. «Tirate su quei maledetti!» ordinò con rabbia Tungdil. «Furgas...» sussurrò Rodario, attonito. «Mio caro amico... Da quand'è morta Narmora gli dei sono stati crudeli. Visto che mi avevano permesso di trovarti, avevo sperato che si fossero riappacificati con te.» Il braccio carbonizzato pareva l'estremo saluto dell'uomo con cui per cicli aveva girato per il paese, l'uomo che aveva trasformato il Curiosum in un sogno a occhi aperti e al quale doveva così tanto. Era finito, morto carbonizzato. «Avremmo avuto ancora tanto bisogno di te, Furgas.» Rodario si asciugò le lacrime dagli occhi ed estrasse la spada. «I Terzi me la pagheranno per la tua morte!» Si gettò in avanti, lungo il corridoio che già una volta aveva attraversato di corsa.
«Seguiamolo!» gridò Tungdil ai nani, e ordinò ai soldati di liberare i prigionieri e di occuparsi delle guardie. Attraverso un condotto raggiunsero una caverna stretta e alta. In quel punto si trovava il cuore dell'isola. L'ambiente era colmo di tubi, catene e valvole a ruota che scomparivano in alto salendo fino al soffitto. Sotto i cinque giganteschi paioli, che riempivano gran parte della stanza, bruciavano dei forni; il vapore così procurato metteva in moto le numerose macchine dell'isola. Rodario scorse i Terzi accanto a una cesta di ferro da cui si dipartivano numerosi tubi e tubetti di vetro e altri materiali, al cui interno sciabordava un liquido chiaro e ribollente. «Eccoli là!» gridò l'attore puntando la spada. «Pagherete per quello che avete fatto al mio amico e alla Terra Nascosta!» Scese gli scalini al volo per affrontare Bandilor e Veltaga. Bandilor imprecò ad alta voce e rovesciò la leva che stava alle sue spalle. «Non uscirete mai vivi di qui.» Veltaga corse a uno dei paioli, manovrò le leve e girò le valvole. «Qui non c'è nessun copione secondo cui l'Incredibile deve vincere il combattimento. Spero che lui lo sappia», disse Boïndil correndogli dietro seguito dai compagni. Bandilor levò l'ascia e la usò per troncare la leva; poi parò in tutta calma l'attacco di Rodario, gli poggiò la spalla sul basso ventre e gli cacciò in pancia l'estremità del manico dell'ascia. L'attore non si lasciò scoraggiare. «Esigo vendetta per Furgas!» Diede a Bandilor un calcio tra le gambe e affondò la spada. «Crepa!» Distratto dal dolore, il Terzo non riuscì a fermare il colpo. La spada gli passò sul collo aprendo una ferita che nessun medico della Terra Nascosta sarebbe riuscito a curare. Il sangue schizzò bagnando le valvole, gli indicatori e la leva piegata. Ma non era ancora finita. Bandilor menò un colpo verso Rodario e lo colpì a un fianco. L'ascia tracciò una lunga striscia rossa sopra l'anca: abiti e carne si squarciarono, e l'attore finì a terra. Più veloce del martello che si abbatte sull'incudine, il Terzo, pur morente, incombeva sul ferito, pronto a finirlo. «No, assassino di nani!» Comparve Boïndil, che menò l'azza contro la lama che già si stava abbassando, deviandola. «Il tuo avversario sono io!» Sfruttò lo slancio per vibrare, con un movimento rotatorio, la sua arma verso la testa del nemico. Il lato piatto dell'arma si schiantò sul cranio di Bandilor, e l'elmo non
bastò a proteggere il Terzo dall'effetto devastante del colpo. Le ossa si ruppero, il volto si contrasse in una smorfia, mentre il sangue sgorgava dal naso. La potenza del colpo gettò Bandilor contro la parete, dove scivolò a terra accanto a Rodario. «Un altro di voi in meno.» Boïndil sputò sul Terzo, poi guardò Goda. «Non ce l'ho con la tua stirpe. Solo con questi maledetti nemici dei nani.» Intanto Tungdil cercava d'impedire a Veltaga d'imperversare sugli ingranaggi. Gli pareva di avvertire una crescente pressione alle orecchie e aveva la sensazione che il pavimento sotto i suoi piedi non si muovesse più tanto forte. «Acqua!» gridò Dergard indicando l'ingresso della caverna. «Sta entrando acqua!» Di fronte alla sconfitta imminente, i Terzi avevano avviato un'immersione lasciando aperti i bocaporti. «Chiudete i boccaporti! Chiudete tutto ermeticamente!» gridò Tungdil mettendosi alle calcagna di Veltaga, che stava correndo su una scala di ferro. «Affonderete con noi!» gridò la nana mentre armeggiava con altri due congegni. Tungdil la raggiunse mentre stava per azionare una rotella di regolazione. Veltaga gli lanciò contro un pugnale, che fu deviato dalla Lama di Fuoco; poi con la destra estrasse una mazza ferrata e con la sinistra sguainò una spada corta. Dalla sua posizione sopraelevata, Tungdil vide un'enorme ondata sciabordare nella fucina alzando grandi nubi di vapore. Per effetto dell'acqua fredda, i caldissimi altiforni andarono in pezzi, lanciando i loro frammenti tutt'intorno. «Chiudete i boccaporti, ho detto!» ordinò di nuovo Tungdil evitando la mazza ferrata di Veltaga. Finalmente i nani fecero quanto ordinato da Tungdil. Un paio di soldati del Weyurn, feriti, riuscirono a mettersi in salvo; poi le spesse porte di ferro si chiusero. Per tutti gli altri soldati e per i prigionieri appena liberati non c'era più nessuna speranza di salvezza. Nei punti in cui tra roccia e metallo si trovavano delle piccole fessure, invisibili a occhio nudo, l'acqua sprizzava dentro la stanza in sottili cortine. «Come avete fatto a trovarci?» sbraitò Veltaga alzando il braccio per colpire un'altra volta. «Voi nemici dei nani non potete sfuggirci», replicò Tungdil parando l'at-
tacco. Subito dopo saltò di lato per schivare la lama della spada corta. «Furgas, dopo essere scappato, ci ha aiutato.» «Il magister è qui?» La nana rise. «Eh, di certo vi ha preparato una bella trappola, se vi ha portati fin qui.» Lo incalzò con la spada e gli toccò il braccio. La cotta di maglia preservò Tungdil da un taglio. «Allora non avremmo dovuto allagare l'isola.» Veltaga guardò l'ascia. «Tu devi essere Tungdil Manodoro. Il magister ripeteva sempre che ti voleva uccidere.» Tungdil non capiva di che cosa stesse parlando. «Una trappola?» Puntò con la Lama di Fuoco al torso della nana. Veltaga pose appena in tempo la mazza in difesa, davanti al corpo, ma l'arma rinculò per lo slancio e la ferì. Ansimando, la nana barcollò all'indietro, finendo contro una parete coperta di valvole. «Diceva sempre che eri tu il responsabile delle sue sventure. Tu e tutti i nani. Per questo ha accettato quando lo pregammo di aiutarci con la nostra vendetta.» «Queste sono le menzogne di una nemica dei nani», ribatté Tungdil. «Non ci casco.» «Perché dovrei mentire, adesso?» Veltaga caricò di slancio e attaccò con entrambe le armi contemporaneamente. «Tu sei qui, e morirai. Non è una prova sufficiente?» Tungdil lasciò la spada cozzare contro il proprio torace, cosa che certo gli fece molto male e gli ruppe una costola, ma che non lo avrebbe ucciso. La Lama di Fuoco tranciò la mazza sotto la pesante testa di metallo, rendendo l'arma praticamente innocua. Fulmineamente il nano colpì Veltaga al volto col manico, atterrandola. «Hai pensato che fosse una buona idea seminare il sospetto. Ma ti ripeto che io non ci casco.» Le posò uno stivale sul petto e spinse. «Ti arrendi?» La nana sanguinava dalla bocca e dal naso. «Non ho pensato proprio a niente, Manodoro. È stato il magister a tramare, ideare e costruire tutto. Ha perfino creato i mostri per conto degli Eterni, dopo che gli ebbero promesso di usare il potere della pietra contro i nani.» Improvvisamente Veltaga sollevò il braccio che teneva la spada e menò un colpo verso Tungdil, ma questi le ghermì l'avambraccio con l'uncino dell'ascia e lo tenne fermo. «Continuerai ancora a lungo con queste tue bugie?» La nana gridò di dolore. «Non sto mentendo! Il magister ha pianificato tutto. Anche che emergessimo qui. Voleva vendicare la sua famiglia.» Un forte gemito metallico risuonò per la stanza. «Sono le porte!» gridò Goda. «Non reggeranno a lungo la pressione.»
Il Rabbioso stava armeggiando con le leve ritorte, insieme con altri nani; alcune si rompevano, altre si piegavano nella direzione opposta. Tungdil rigirò l'ascia, aumentando le sofferenze di Veltaga. «A che profondità siamo?» «Millesettecento passi, stando al magister. È il punto più profondo del mare», gemette la nana. «Non riuscirete a scampare alla vostra rovina. Neppure se sapeste come manovrare le valvole. Abbiamo allagato tutte le camere. Nella migliore delle ipotesi, morirete di fame.» Rise tra i tormenti. «Il più grande eroe della Terra Nascosta e l'unica arma che potrebbe fermare gli Eterni giaceranno per sempre sul fondo del mare del Weyurn. Questa è la più bella vendetta che si potesse immaginare.» Gli sputò del sangue in faccia. «Esattamente come progettato dal magister. Non ha più bisogno del tunnel che porta nella Terra dell'Aldilà.» Tungdil estrasse l'uncino dall'avambraccio di Veltaga, il rosso sangue che scorreva sulla piattaforma di metallo. «Voi Terzi siete miserabili!» ringhiò. «Continui a non credermi?» La nana si guardò il braccio straziato. «Chiedi all'attore. Per ordine del magister, Bandilor lo è andato a trovare a Mifurdania e lo ha minacciato, dicendogli di smettere di cercarlo. È stato troppo benevolo. Io l'avrei subito ucciso, ma il magister voleva che gli fosse risparmiata la vita.» Le palpebre di Veltaga tremolarono; stava per perdere i sensi. «La Terra Nascosta cadrà in rovina, come desiderava lui. E voi non potrete fare nulla per impedirlo.» Chinò la testa, mentre il respiro si faceva leggero. «Hai parlato di un tunnel...» Tungdil si chinò su di lei, afferrandola per l'armatura di cuoio e tirandola su. «Dov'è?» Un forte scossone attraversò la montagna. Si erano posati sul fondo del mare, e il gemito delle porte di metallo si fece minaccioso. «Per voi il tunnel è irraggiungibile», replicò lei, sorridendo coi denti sporchi di sangue. «Mor...» Gli occhi le divennero vitrei come quelli di una marionetta. Era morta. Tungdil lasciò la presa, e il cadavere cadde sul pavimento metallico. «Ha detto qualcosa?» chiese Rodario. «Abbiamo qualche possibilità di fuga?» Il nano scosse la testa. «Dovremo inventarci qualcosa noi.» «Venite qui!» sentirono dire dalla voce concitata di Sirka. «Guardate!» Corsero nel mezzo della stanza. Sei pali di metallo, grossi come alberi, spuntavano dal pavimento e conducevano a una piattaforma esagonale;
dalla piattaforma pendevano numerose catene e cinghie, e accanto a essa c'era un grosso elevatore, simile a una gabbia, che poteva essere azionato con una carrucola. «E questo che altro vorrà dire?» mormorò Goda mentre toccava uno dei pali disadorni, imitando inconsapevolmente il tono del proprio maestro. «È freddo. Non ha niente di particolare.» Dergard fece un passo in avanti. «Eccola qua», sussurrò pieno di timore reverenziale. «Questa è la nuova sorgente. Sento l'energia fluire attraverso il metallo.» «Questo non è ferro.» Tungdil osservò il metallo più da vicino. «È la lega che conduce la magia», concluse. «Ma certo! Probabilmente i pali trapassano il pavimento e spuntano dalla parte inferiore dell'isola. Conducono il potere della nuova sorgente fin sulla piattaforma. È da lì sopra che sono usciti i mostri degli Eterni.» «Adesso tocca a noi», disse il Rabbioso tirando Dergard per la manica e indicandogli l'elevatore. «Stai per diventare un mago. Hai già pensato al tuo soprannome?» Dergard deglutì. «In memoria di Nudin, mi chiamerò il Sapiente.» Tungdil fece schioccare la lingua. «Questa non è una buona idea. Risveglia brutti ricordi in me, e di sicuro in molti altri abitanti della Terra Nascosta. Fatti venire in mente qualcosa di meglio.» Raggiunse l'elevatore, ne aprì la porta ed entrò. «Vieni. Prima attingi al potere, prima riusciremo a scappare da questa prigione.» «Riuscirai a liberarci, vero?» Boïndil lo squadrava con la fronte corrugata. «Un mago ci riesce di certo. Tu devi farcela, e basta.» «Ci proverò», promise Dergard raggiungendo Tungdil, mentre gli altri azionavano la carrucola e li issavano in alto. «Il Solitario», mormorò quando furono a metà strada. «Mi chiamerò Dergard il Solitario. Non c'è più nessun apprendista, nessuno che possa utilizzare la magia. Tranne me.» «Triste ma appropriato», disse Tungdil osservando la piattaforma; d'un tratto credette di avervi scorto una luce tremolante. Poi la vide chiaramente: deboli scintille danzavano sui bordi della piattaforma, guizzavano contro le pareti di ferro delle caldaie circostanti e le lambivano. «Magia», mormorò Dergard, un po' intimorito. «Come sarà esserne attraversato?» Tungdil gli rivolse un sorriso d'incoraggiamento, mentre l'elevatore si avvicinava alla piattaforma. «Centinaia di maghi sono sopravvissute prima
di te e sono vissute addirittura più a lungo di ogni altro uomo sulla Terra Nascosta.» Superarono il bordo della piattaforma e ne guardarono la superficie superiore. «Noi...» Dergard ammutolì all'improvviso. «Per Vraccas!» Indietreggiò sino al fondo dell'elevatore. Un passo sopra la piattaforma fluttuava un elfo, circonfuso di nebbia e innumerevoli lampi che pulsavano tra il suo corpo e il metallo. Petto, ventre, basso ventre, spalle e avambracci erano per la maggior parte coperti da un'armatura che faceva tutt'uno con la carne, le mani erano infilate in pesanti manopole; il resto era nudo. Accanto a lui roteava una corta lancia dalla lama sottile, su cui scintillavano delle rune. «Non è uno dei mostri, è un albo», disse Tungdil provando ad aprire la porta dell'elevatore. «Mandiamolo a morire prima che si svegli.» La maniglia era incastrata. «Maledizione!» Alzò la Lama di Fuoco e colpì la maniglia furiosamente; gli ancoraggi saltarono via e la porta si spalancò con violenza. In quello stesso istante la creatura aprì gli occhi, mostrando null'altro che il nero annidato nelle sue orbite. Soffiò contro di loro, afferrò la lancia e si posò sulla piattaforma. Non appena i piedi nudi toccarono il pavimento di metallo, gli innumerevoli simboli tracciati sull'armatura s'illuminarono. «Vieni!» Tungdil irruppe nella piattaforma, l'ascia pronta a colpire. L'albo fece un balzo e atterrò sulla caldaia più vicina; caricò il salto come un gatto e si catapultò in un'apertura della roccia. Era scomparso. Scintille e lampi si spensero. «Che succede là sopra?» chiese Boïndil, preoccupato. Tungdil si accostò al bordo e gettò un rapido sguardo giù verso i suoi accompagnatori. «State attenti. C'è un albo nella caverna. Era sulla piattaforma e stava attingendo magia. Di sicuro era la sorpresa che i Terzi e gli Eterni tenevano in serbo per noi.» Rivolse di nuovo la sua attenzione alle pareti rocciose. «Dergard, vieni qui.» «Dov'è finito?» chiese l'apprendista, che si sentiva più protetto dentro la struttura a gabbia dell'elevatore. «Non lo so. Temo che lo rivedremo molto presto.» Tungdil prese a muoversi in cerchio, osservando con attenzione la semioscurità che li circondava. Non vedeva il nemico da nessuna parte. Dergard uscì dall'elevatore. Mise piede sulla piattaforma e ne raggiunse il centro. Lì chiuse gli occhi e alzò le mani. Né lui né Tungdil dissero una parola.
Un forte schianto e il rumore di metallo che si spezzava disturbarono il loro raccoglimento. «Arriva l'acqua!» gridò Goda. «Per Vraccas, le porte sono a pezzi! Annegheremo come topi.» «Nell'elevatore!» gridò Tungdil verso il basso. «Salite sulla piattaforma!» L'elevatore scese sferragliando. Il nano chiamò Dergard, che però non reagì. «Sveglia! Devi fare qualcosa!» gli ordinò scuotendolo. «Dergard! Fa' qualcosa, o moriremo tutti!» Il mago barcollò e venne sostenuto dal nano; poi ansimò e si portò una mano al petto. «Che potere...» sbuffò sopraffatto. «Lo sento, Tungdil! Lo sento dentro di me!» Il nano lo afferrò per le spalle. «Allora usa la tua forza per salvarci dall'acqua. Solleva l'isola!» Comparve l'elevatore con gli ultimi superstiti, che saltarono l'uno dopo l'altro sulla piattaforma. L'immensa massa d'acqua schiumosa sciabordava intorno ai massicci pilastri. Tra grandi nubi di vapore si spensero i bracieri che scaldavano le caldaie. La lamiera calda si tese per il grande sbalzo di temperatura, i primi rivetti iniziarono a saltare via come proiettili. Il mago sembrava come ubriaco. Con una risatina stampata sul volto, alzò le braccia e mormorò qualcosa; poi le sue dita tracciarono nell'aria dei simboli luminosi che si posarono scintillando sulle pareti interne della montagna. L'isola si scosse di nuovo, e la pressione nelle orecchie si affievolì. «Ce la sta facendo!» esultò Rodario tenendosi il fianco ferito. «Ce la sta davvero facendo. Questa è quella che direi una prova degna di un mago.» Si sedette. «E quando avrà finito di salvarci, e avrò perso i sensi, dovrebbe per favore occuparsi della mia ferita», aggiunse stringendo i denti. «Attenti alle pareti», disse Tungdil ricordando loro la presenza dell'albo. «Stiamo facendo a quella bestiaccia il piacere di salvarla», borbottò il Rabbioso. «Quando saremo emersi, badiamo che non ci scappi.» Il livello dell'acqua prese ad abbassarsi. «Chissà quanto a lungo Dergard può tenere l'isola. Scendiamo e usciamo di qui», ordinò Tungdil. «Strada facendo, cercate qualcosa che ci possa servire da barca.» Lasciarono in tutta fretta la piattaforma e percorsero la strada a ritroso fino alla grotta, passando accanto ai materiali fusi e ai cadaveri di nani, soldati e operai. Trovarono delle lunghe scialuppe fissate in una nicchia laterale con delle funi. Rodario ricordò di averle viste usare dalle guardie travestite da albi.
Fuori era scuro, era scesa la notte. Elria li risparmiò da una nuova tempesta e li lasciò rischiarare dalle stelle. Corsero alla spiaggia e misero in mare le imbarcazioni. «Qualcuno ha visto l'albo?» chiese Tungdil continuando a guardarsi intorno. «Non ho idea di dove sia andato a finire. Ma andrà a picco col resto dell'isola, spero», replicò il Rabbioso. «Anche se avrei preferito farlo a pezzi di persona.» Dergard, che era in barca con Tungdil, si afflosciò senza emettere una parola. Non poteva sostenere ulteriormente l'enorme sforzo. Aveva compiuto un'impresa incredibile, per essere un mago completamente privo di esperienza. Ma l'isola non affondò. Senza le camere allagate, galleggiava sulle onde come un turacciolo e si rifiutava d'inabissarsi. «Ripareremo i dispositivi», disse Tungdil. «Ne avremo ancora bisogno. Se non altro, quando Dergard avrà bisogno di nuove energie.» «Come potremo farcela senza Furgas?» chiese Rodario. Con un certo sforzo, Tungdil decise di non rivelare le menzogne di Veltaga. D'altra parte, se anche ci fosse stato qualcosa di vero, sarebbe stato ormai irrilevante. Furgas e i due malvagi Terzi erano morti, il pericolo di nuove macchine era scongiurato. Tutti ritenevano che le vere canaglie fossero state solo Veltaga e Bandilor; Tungdil decise che la cosa sarebbe dovuta rimanere così. «In qualche modo ci riusciremo», disse rivolto a Rodario. «Non dovremo fare quello che ha fatto lui. Dobbiamo solo riuscire a far immergere l'isola fino alla sorgente e a riportarla su. Forse in futuro si formeranno nuovi campi che arriveranno fino alla terraferma. Ma, fino ad allora, Dergard dovrà tornare a immergersi di tanto in tanto.» Alla loro sinistra scorse numerose luci sul mare e una sagoma scura. «Laggiù c'è un'isola abitata. Remiamo fin lì, poi torneremo con una nave della regina. I soldati devono difendere la nostra conquista. Noi dobbiamo marciare subito verso il Toboribor, o in qualunque posto siano gli Eterni.» Nessuno sollevò obiezioni, quindi remarono fino all'isola. Trovarono il molo di un villaggio di pescatori e chiesero dove fosse l'anziano del villaggio, perché era necessario far chiamare dei soldati. Un pescatore li condusse alla casa del decano. «Entrate», li invitò il padrone di casa in camicia da notte e con la chioma scompigliata. «Sembra proprio che questa sia una notte speciale.»
«Ah, sì? Che cosa te lo fa pensare?» bofonchiò il Rabbioso. «Perché non siete i primi a chiedere di me.» Li fece entrare nel suo studio e indicò loro un visitatore che sedeva accanto al camino, avvolto tra le coperte: si stava asciugando i capelli e scacciando il freddo dal corpo. Tungdil riconobbe subito la barba grigia, i capelli bianchi e gli occhi azzurri, puntati su di loro. Quando vide un sorriso amichevole sul volto dell'uomo tanto caro, e che aveva creduto perso per sempre, il nano si sentì sopraffatto. Corse verso di luì e lo strinse a sé. «Lot-Ionan...» singhiozzò, felice. Terra Nascosta, regno di Idoslân, caverne dei mezz'orchi del Toboribor, 6241° ciclo solare, estate L'Eterno stava nell'ombra dell'ingresso alle caverne. Nella sinistra teneva il lungo arco curvo; davanti a lui dieci sottili frecce, rinforzate con spine di ferro, spuntavano perpendicolarmente dal corpo decomposto di un incauto soldato. Ancora non si facevano vedere altri guerrieri. Sento il vostro odore. Trenta soldati, ventiquattro uomini e sei donne. Stavano accovacciati dietro le rocce e si consultavano su come raggiungere le caverne senza perdite. Erano stati mandati degli esploratori; il vero esercito si era limitato a stringere una serrata cintura intorno alle colline rocciose. Come se così potessero bloccarmi. Piccole unità cercavano continuamente di fare irruzione all'interno del Toboribor. Invano. Nessuno riusciva a superare lui e i bastardi. L'Eterno era seccato. L'acquisizione della pietra richiedeva più tempo di quanto avesse preventivato. Ciò lo rendeva inquieto, perché rallentava la loro partenza e aumentava i rischi per la sua amata sorella. Non era così ingenuo da credere di poter trattenere l'esercito degli uomini per un tempo indeterminato. E, a sentire ciò che gli avevano riportato i bastardi dai loro viaggi, c'erano strane voci riguardo al vecchio mago pietrificato Lot-Ionan. Non aveva proprio messo in conto una cosa del genere. I primi tre esploratori salirono la collina correndo l'uno dietro l'altro, spostandosi da una roccia a quella successiva; così facendo intersecavano continuamente le loro strade, trovandosi sullo stesso asse. «Dovete morire insieme», sussurrò l'Eterno. Estrasse una freccia nera
dal cadavere, la incoccò e tese la corda. Un istante prima che i tre si trovassero di nuovo sulla stessa linea, rilasciò la corda. La freccia trafisse il collo del primo, uccise l'uomo alle sue spalle e s'infilò nell'occhio destro della donna che chiudeva la fila, e che era più bassa. Il suo grido acuto fece sorridere l'Eterno, soddisfatto. La donna barcollò, cadde sulla schiena e si ritirò gemendo dietro il masso più vicino. Nessuno della sua squadra osò correre verso di lei e aiutarla; sapevano che la morte li attendeva in agguato. L'Eterno abbassò l'arco e attese, osservando i molti stendardi e le molte tende che si trovavano a distanza di sicurezza. Dunque sono necessari tanti umani per vincere un pugno di nemici, pensò con disprezzo. Popolo debole... Sono sopravvissuti sempre grazie all'aiuto degli altri. Vide due soldati tentare di mettere al riparo la donna ferita. Prima o poi tramonteranno. Prese la freccia successiva, soffiò sulla punta umida, cui erano attaccati i liquami del cadavere, e si preparò a un altro tiro. Peccato che non sarò qui per vederlo. Tra un centinaio di cicli tornerò a vedere che cosa ne sarà di questo paese. I due soldati si sforzavano di non essere visti. Avevano preso in mezzo la donna ferita e la sostenevano. L'Eterno corse fuori dall'atrio, saltò su una roccia da cui li avrebbe avuti tutti e tre allineati, tese l'arco e lasciò la cocca piumata. Vola e ruba loro l'anima. La freccia saettò attraverso l'aria, come un fulmine nero, e trafisse i tre soldati all'altezza del fianco. Uniti dall'asta, caddero urlando il loro dolore, una musica per le orecchie dell'Eterno. Quel colpo magistrale risvegliò il coraggio del resto dell'unità. «Eccolo là!» sentì urlare furiosamente da una donna, mentre ne scorgeva l'elmo dietro uno spuntone di roccia. «Svelti! È solo e non può batterci tutti! O deve continuare ad ammazzarci?» La dorma caricò verso di lui con lo scudo levato e la spada sguainata. Gli altri ventiquattro guerrieri la seguirono, urlando per farsi coraggio. L'Eterno lasciò cadere l'arco, estrasse con calma le sue due spade e li attese. La sortita gli giungeva opportuna. Aveva bisogno di sangue fresco per completare un nuovo dipinto che aveva iniziato per celebrare il risveglio di Nagsar Inàste. Dal momento che gli mancavano le spezie dello Dsôn Balsur per mantenere liquido il sangue, aveva sempre bisogno di nuovo colore. Non si mosse finché la prima linea non fu arrivata a tre passi da lui. Evi-
tò due frecce, scagliate dalle retrovie, con eleganti e rapidi movimenti del torso; poi caricò il balzo e si gettò in mezzo ai nemici. Gli umani si muovevano in combattimento un po' più velocemente dei mezz'orchi o, meglio, non proprio impacciati come loro, cosa che comunque non li rendeva avversari pericolosi. Almeno, non quelli che aveva di fronte. L'Eterno iniziò a camminare spedito in mezzo a loro, impartendo colpi precisi e mortali e badando che gli avversari si ostacolassero tra loro nel tentativo di colpirlo. Le sue due spade distribuivano morte con generosità. Il sangue, copioso, scorreva sulle lame e ne volava via a ogni rapido movimento, dipingendo le rocce. L'Eterno lo notò e in cuor suo prese gusto per quell'insolito tipo di dipinti aleatori. Aumentò la velocità con cui muoveva le braccia e si compiacque dei motivi sanguinosi che stava creando. Giustiziava i soldati con cadenza regolare. Vista la sua incontenibile superiorità, quella mattanza non aveva nulla a che fare con un combattimento. Corpi mutilati e arti mozzati cadevano a terra; le urla formavano un coro che veniva percepito anche dagli uomini nell'accampamento. Un reparto di cavalieri montò in sella e si affrettò a portare soccorso. L'Eterno non si preoccupò del rombo dei cavalli. Stava di fronte all'unica superstite, la soldatessa che aveva spronato i suoi all'attacco, e teneva la spada puntata verso di lei. La donna tremava, tenendo arma e scudo abbassati; nei suoi occhi verdi c'era il puro terrore. «La tua morte si chiama Nagsor Inàste», le disse, pur sapendo che non lo poteva comprendere. Il suono della sua voce bastò a farle cadere di mano spada e scudo. «Uccido il tuo corpo e la tua anima, perché di te non rimanga nulla.» Fece un affondo in direzione del collo. La donna contrasse i muscoli e afferrò istintivamente la lama con entrambe le mani, come se potesse così impedire la sua rovina. «Muori, mortale.» La lama si abbassò. Giù per il petto fino al basso ventre. Con un sospiro la donna crollò a terra. L'Eterno si chinò rapido a raccogliere nell'elmo di lei il caldo sangue scuro che sgorgava dal collo come da una fontana; sarebbe bastato per completare un buon pezzo del dipinto. Si alzò, vide la cavalleria avvicinarsi e tornò nella caverna. Non aveva tempo per farsi coinvolgere in un altro combattimento, altrimenti il colore si sarebbe solidificato. Quando giunse nelle sue stanze, sul tavolo trovò un diamante incrostato
di sangue rappreso, accanto al braccio già imputridito di un Cavernicolo. Il bracciale d'oro indicava che il proprietario doveva essere un Cavernicolo d'alto rango, che senza dubbio aveva posseduto il diamante fino a che non si era imbattuto in uno dei bastardi. Per Samusin e Tion! L'Eterno posò l'elmo sul tavolo, prese il diamante e fregò via il sangue secco, che cadde a terra in briciole color ruggine. Ce l'ha fatta! Mi ha portato il diamante! Per lui non aveva nessuna importanza chi avesse trovato la pietra; non gli avrebbe rivolto nessuna parola di encomio. Nei confronti di quei bastardi non provava altri sentimenti che il disprezzo e l'odio, nessuna compassione per il dolore provocato loro dai congegni meccanici. Esistevano per un solo scopo: procurare la pietra per Nagsar Inàste. Aveva perfino proibito loro di rivolgergli la parola; il rumore della loro voce lo faceva infuriare. Il pugno destro strinse il diamante. Non appena lei aprirà gli occhi, i bastardi moriranno. Li manderò contro gli uomini, a coprirci la fuga, o li ucciderò con le mie stesse mani. L'Eterno uscì dalla stanza e camminò per i corridoi fino a raggiungere la caverna in cui aveva adagiato la sorella. Salì i gradini, togliendosi l'elmo che gli copriva i capelli neri. «Guarda che cosa ti ho portato», disse con voce gentile, inginocchiandosi accanto a lei. «Il farmaco che ti guarirà.» In trepida attesa, mise il diamante nelle mani congiunte dell'alba e ripeté la formula cui aveva pensato ininterrottamente nel tempo passato immobile nell'anfratto. Intonò alla perfezione ogni singola sillaba; la voce si fece più forte e poi tacque, come richiesto dalle pergamene che aveva letto. Non accadde nulla. «Maledetta Eoîl! Che cosa gli ha fatto?» Prese il diamante con la punta delle dita. «Obbediscimi!» ordinò. «Conosco il sortilegio che sottomette la tua luce a me. Gli scritti di Dsôn mi hanno svelato il tuo segreto! Non ti puoi opporre.» Tenne la pietra all'altezza degli occhi e ripeté le oscure formule. Una luce debole e recalcitrante brillò all'interno dell'artefatto; le sfaccettature del diamante scomposero la luce opaca proiettandone il riflesso sulle pareti e sul soffitto, sul viso di Nagsar Inàste e su quello del fratello, rispettando uno schema regolare. «Per Tion», sussurrò l'Eterno chinandosi di fronte a lei. «La tua bellezza è indescrivibile, mia amata sorella!» Ripose la pietra fra le mani di lei e le toccò le spalle. «Risvegliati dal tuo sonno.»
Lei non si mosse. «Nagsar Inàste, alzati!» la pregò tra le lacrime, accostando il volto a quello di lei. Il petto le si abbassava e alzava in modo appena percepibile, dal naso fluiva un caldo respiro, ma rimaneva immobile, come morta. L'Eterno fissò la pietra luminosa. «Hai bisogno di più tempo. È questo, vero?» Un luccichio guizzò sul corpo dell'Eterna, circondò l'altare e tornò nel diamante. «Allora lo avrai», disse lui, cupo. Si alzò e s'infilò l'elmo sopra il fazzoletto che gli copriva i capelli. Scese i gradini senza voltarsi, poi girò le spalle alla sorella e imboccò il corridoio che conduceva alla caverna davanti alla quale aveva ucciso i soldati. Quel ritardo gli offriva quantomeno la possibilità di terminare il suo dipinto. Sperava che il diamante completasse il processo di guarigione. In qualche modo sarebbe riuscito ad attingere alla sua forza e a piegarla ai suoi scopi. Creerò tenebra col potere della luce. Gli elfi non sarebbero esistiti ancora a lungo nella Terra Nascosta. Se è necessario, i combattimenti nel Toboribor finiranno tra cento cicli. Per me non sono che un battito di ciglia. Tornato all'ingresso, vide dieci cavalieri a neanche quaranta passi, intenti a caricare i morti su un carro. I cavalli attendevano pazienti, legati a una roccia. Molto premuroso da parte degli umani. Prese l'arco e si accostò al cadavere putrefatto, da cui spuntavano ancora otto frecce. Il sangue contenuto nell'elmo della soldatessa era sicuramente coagulato già da un po'. Quella era un'ottima occasione per procurarsene di fresco. Gli occhi neri puntarono due uomini che stavano afferrando per gambe e braccia un cadavere. Non appena si drizzarono, si trovarono perfettamente in linea. Due in un colpo. Nagsor Inàste trasse una freccia dal corpo e la incoccò. Terra Nascosta, regno di Weyurn, dodici miglia a nord-ovest di Mifurdania, 6241° ciclo solare, tarda estate La gioia che Tungdil provò nell'abbracciare il padre adottivo, che aveva creduto perso per sempre, non si poteva esprimere con le parole. «Vi siete riscosso dalla pietrificazione, venerabile Lot-Ionan! Gli dei hanno aiutato
tutti noi», esultò. Lot-Ionan gli sorrise; le molte rughe sul suo volto anziano si contrassero, sorridendo con lui. «Tungdil Bolofar! Un volto conosciuto nello sconosciuto Weyurn. Si vede che non sei più un fattorino; sei diventato forte e serio, come un guerriero.» Guardò gli uomini e i nani raccolti intorno alla porta: non conosceva nessuno di loro. «Devo supporre che tu mi debba raccontare molte cose? Ho già sentito che Nudin è stato distrutto. Più di sei o sette cicli fa.» «Siete stanco o sfinito?» «Neanche un po'. Mi sento come se avessi fatto un bagno in una fonte della giovinezza.» «Qual è l'ultima cosa che ricordate?» Il mago rifletté. «Il confronto con Nudin. Pensai che mi stesse scorrendo sabbia nelle vene, e il mio cuore pietrificato morì. L'istante dopo mi sono risvegliato sul fondo del mare, e stavo quasi per affogare. La mia magia mi ha salvato.» «Sappiamo che laggiù c'è una nuova sorgente della magia, venerabile mago», disse Tungdil. «Quella di Porista è prosciugata per sempre.» Prima di continuare a parlare, si rivolse ai suoi compagni. «Fareste meglio ad andare a letto e a far curare le vostre ferite. Domani partiremo per il Toboribor. M'intratterrò a lungo col mio padre adottivo, in modo da raccontargli una piccola parte di ciò che nel frattempo è accaduto e sta accadendo nella Terra Nascosta.» Poi guardò il decano del villaggio. «Siate così gentile da offrirci un posto per la notte. La regina Wey vi risarcirà di tutti i costi che vi faremo sostenere. Fateci portare qualcosa da bere e da mangiare, per favore.» «Molto volentieri.» L'uomo si allontanò per dare le necessarie disposizioni. Poco dopo vennero portati loro formaggio, pesce secco, pane e vino. Tungdil annusò il vino e resistette alla tentazione. Strinse la mano di Lot-Ionan e la scosse di nuovo. «Sono così felice di vedervi!» ripeté mentre si sedeva su una sedia accanto a lui. Il mago scorse la macchia d'oro sulla mano del nano, che brillò alla luce del fuoco. «Be'? Che abbiamo qui? Raccontami tutto quello che è accaduto negli ultimi cicli. Che sta succedendo nella Terra Nascosta?» Accarezzò i capelli castani del nano. «E soprattutto voglio sapere che cos'è successo a te.» Tungdil dominò la propria stanchezza e raccontò dei tempi passati, della lotta contro Nudin e di quella contro l'Eoîl e i suoi avatar. Non gli nascose
la verità e gli rivelò che era stata un'elfa a portare alla loro patria tante sventure. Riassunse i fatti limitandosi all'essenziale, ma ugualmente il tempo passò in fretta. Quando attraverso le finestre fece capolino l'aurora, il nano era giunto agli eventi più recenti: le pietre, i Terzi e gli Eterni. «Ora sono riusciti a impadronirsi del diamante vero. Cercheranno di liberarne la potenza e di piegarla al male. Allo stesso tempo, un gigantesco esercito si trova davanti alle porte dei Quarti; è composto da Sotterranei, mezz'orchi e da guerrieri di un altro popolo. Sono gli antichi possessori del diamante, e avanzano legittime pretese sulla pietra», disse in conclusione. «Vi siete riscosso dalla vostra immobilità al momento giusto.» Sbadigliò; l'impulso a dormire non si sarebbe lasciato dominare ancora a lungo. Lot-Ionan tacque e guardò le fiamme che ardevano nel camino. Nel frattempo barba e capelli gli si erano asciugati; nessuno avrebbe detto che fino a poco prima era una statua. «I miei amici di allora sono tutti morti, nulla è più come lo conoscevo.» I suoi occhi azzurri guardarono fuori dalla finestra. «Mi sono appena liberato dalla maledizione di Nôd'onn, non ho ancora appreso tutto ciò che è successo nel frattempo e già devo affrontare il prossimo potentissimo avversario.» Sospirò. «E il mio Tungdil Bolofar è diventato Tungdil Manodoro. Un vero nano. Un eroe.» Scosse la testa canuta. «Oh, dei! Che ne avete fatto del mio mondo?» «La vostra galleria esiste ancora», disse Tungdil sorridendo. «Mentre la perquisivano, i mezz'orchi non hanno rotto tutto.» «Almeno un poco di continuità in questa nuova epoca...» Lot-Ionan gli appoggiò una mano sulla spalla. «Ma, se Palandiell e, a quanto sembra, anche Samusin vogliono che il giovane mago e io difendiamo la Terra Nascosta dagli Eterni e dalle loro creature, allora così sia. Tu hai reso il tuo vero padre più che orgoglioso. E pure me, mio caro Tungdil.» La commozione riempì di lacrime gli occhi del nano. «Che cosa dobbiamo fare, venerabile mago?» «Ciò che mi hai proposto. Esaminerò l'elfo ferito che ci aspetta sull'isola e ascolterò che cos'ha da dire. È difficile credere che gli elfi abbiano abbandonato il vero sentiero della luce e che, accecati, si siano volti al male.» Lot-Ionan prese del formaggio. Piegandosi in avanti, inspirò forte e si raddrizzò subito tenendosi la schiena. «Venerabile mago, che...?» L'uomo alzò la mano. «Non è nulla, Tungdil. Ho come l'impressione che dentro di me qualcosa non si sia liberato dalla maledizione. Ma potrebbe
anche solo essere l'età», aggiunse ridendo sotto i baffi. «Mi dimentico volentieri di quanti cicli mi sono stati concessi. E senza contare quelli passati come statua.» Mangiò del formaggio e lo mandò giù col vino. «Poi andremo nel Toboribor per cercare gli Eterni. Durante il viaggio metterò alla prova Dergard in modo da poterne valutare il talento. Dovremmo riuscire a battere i sovrani degli albi. Sempre che non dispongano già del potere della gemma.» «Restituiremo il diamante ai Sotterranei?» chiese Tungdil. «Sono assolutamente di questa idea, perché eviterebbe spargimenti di sangue. Se dispongono davvero di un mastro di rune e di un simile esercito, qualunque cosa siano gli acronta, la Terra Nascosta non ha nulla da contrapporre loro, né da obiettare.» Guardò Tungdil negli occhi. «Al contrario. Che fino a ora ci abbiano protetti dai mostri e, nonostante la loro superiorità, non abbiano mai tentato di conquistare la nostra terra depone a loro favore. Lo spiegherò volentieri a tutti i re e a tutte le regine.» Notò quanto fossero diventati piccoli gli occhi di Tungdil. «Ora va' a riposarti un po'.» «Posso riposare durante il viaggio, mentre veleggiamo verso Windspiel», replicò il nano. «Abbiamo finalmente raccolto tutte le persone di cui abbiamo bisogno; adesso non posso proprio dormire. Il tempo lavora per gli Eterni, non per noi.» Si alzò e lasciò la stanza insieme con LotIonan. Il decano li attendeva per annunciare loro che due navi della flotta reale si erano messe alla ricerca dei dispersi. Impaziente di partire, Tungdil svegliò i suoi compagni e li spinse a bordo senza lasciargli fare colazione. Lot-Ionan invitò Dergard nella sua cabina. Una delle navi fece rotta verso l'isola degli albi, per sorvegliarla. Un contingente di soldati vi sbarcò per mettersi alla ricerca dell'albo nascosto. La seconda nave salpò con Tungdil e i suoi amici verso l'isola di Windspiel per strappare alla febbre, con l'aiuto di Lot-Ionan, l'elfo che avevano lasciato in custodia nel vecchio santuario di Palandiell. In quell'occasione l'estate mostrò il suo volto migliore. La fresca brezza gonfiava le vele e spingeva in avanti la nave. Tungdil chiuse gli occhi non appena furono sciolte le cime dal molo del villaggio. Dormì per tutta la traversata su un'amaca posta sul ponte e venne svegliato verso sera da Sirka. «Siamo arrivati?» Si fregò gli occhi e si rallegrò alla vista della nana
che, come sempre, gli riusciva esotica ed emozionante. Trovava molto strano il ritegno che aveva ad abbandonarsi alla sua inclinazione per quella Sotterranea. Balyndis lo aveva sciolto dai suoi obblighi. Era forse il modo in cui lui aveva sciolto il patto di ferro? Constatò stupito che non si era liberato di tutti i legami che implicava. «Non ancora.» La Sotterranea gli tese la mano e lo aiutò ad alzarsi. Tungdil vide la punta della scogliera su cui si ergevano gli imponenti edifici, che nel frattempo servivano ormai più da archivio reale che non da santuario: in quelle sale erano stati raccolti innumerevoli documenti riguardo a città e villaggi, che costituivano la memoria del regno. Dal momento che, a causa dell'abbondante acqua, gli uomini si erano votati alla dea Elria, in quel regno Palandiell non rappresentava ciò che continuava a rappresentare negli altri regni, come il Tabâin o il Rân Ribastur. La nave passò oltre la scogliera, mentre a cinquanta passi di distanza le onde si gettavano contro di essa. Cortine di spuma si alzavano dal mare, coprendo tutto e tutti con una sottile pellicola d'acqua. Tungdil si svegliò del tutto. «Vado a informare Lot-Ionan», disse a Sirka allontanandosi in fretta, cosa che gli fece pensare a una fuga. Eppure dentro di lui tutto bramava di conoscere più da vicino lei e la sua cultura; vi erano ancora troppe domande sui Sotterranei che rimanevano senza risposta. Bussò, e Lot-Ionan gli aprì. «Siamo arrivati, venerabile mago.» Lot-Ionan gli lesse in faccia che gli stava silenziosamente chiedendo il suo parere su Dergard. «Entra», lo pregò. Dergard sedeva sulla panca con un'espressione non particolarmente felice. «Il mio giovane amico conosce alcune ottime formule per evocare la magia e darle forma, ma gli manca esperienza», iniziò a spiegare LotIonan. «Per contro io ho esperienza, ma i cicli passati sotto forma di statua hanno lasciato delle tracce profonde nella mia memoria.» Si picchiettò la testa bianca. «A volte mi sfugge la sillaba giusta, o le mie mani fanno il movimento sbagliato. Ciò può avere effetti devastanti sull'incantesimo che ne deve scaturire.» «Che significa questo rispetto ai nostri piani, venerabile mago?» «Che Dergard e io avremo bisogno l'uno dell'altro per muovere contro gli Eterni,» «Voi mi siete davanti di cento cicli, venerabile Lot-Ionan», disse Dergard. «Sarebbe grave se così non fosse, ma ciò non cambia che a volte la mia
lingua o le mie dita mi piantano in asso. E non abbiamo il tempo per colmare le mie lacune con un lungo studio.» Lot-Ionan osservò Tungdil e la sua ascia. «Come al solito, starà a te svolgere il grosso del lavoro in battaglia. Dergard e io potremo offrirti sostegno, ma non di più.» Fece per toccare la testa di Tungdil, ma di nuovo si bloccò nel mezzo del movimento e si tenne la schiena. «Maledetta vecchiaia», imprecò. «Perché non conosco nessun incantesimo al riguardo?» Tungdil rifletteva. «Non diremo a nessuno della vostra situazione», propose. «Solo se gli Eterni penseranno che siate voi il nemico più pericoloso mi riuscirà di avvicinarmi loro abbastanza e di ucciderli con la Lama di Fuoco. La pensate come me?» Lot-Ionan sorrise. «Vedo che sei un buon condottiero. Lasceremo che amici e nemici credano che Dergard e io siamo gli unici a potersi misurare coi sovrani degli albi.» La nave rallentò; richiami e Scalpiccii di piedi suggerirono che era iniziata la manovra di accostamento. «Vediamo da vicino questo elfo», disse Lot-Ionan uscendo per primo dalla cabina. Il gruppo scese dalla nave, superò la piccola cittadina e salì verso il vecchio santuario, dove già li attendeva l'archivista. L'uomo, sui sessanta cicli e calvo, aveva un grande naso rosso per via del troppo bere; il suo vecchio abito sembrava sgualcito e malamente avvolto intorno al suo corpo. «Bentornati.» Fece un inchino e li guidò tra gli innumerevoli scaffali coperti di libri. Erano registri relativi ai sudditi dei cicli passati; riguardavano per lo più matrimoni, nascite e morti. La regina Wey ci teneva a poter ripercorrere lo sviluppo del suo paese. «L'elfo non si è svegliato, ma non è neppure morto.» Il funzionario si sforzava di darsi importanza. «Questo lo deve certo alle mie cure scrupolose e indubbiamente alla sua resistenza.» Il loro cammino terminò davanti a una porta a due battenti alta tre passi. «Pur non essendo un medico, direi che un essere umano sarebbe morto da tempo.» Il suo torbido sguardo da ubriaco fissò Lot-Ionan. «Siete voi il medico?» «Sì, lo sono», rispose Lot-Ionan per risparmiarsi lunghe spiegazioni; poi aprì la porta ed entrò nella stanza. Nell'ambiente soffuso dalla luce del tramonto c'era odore di mare e di estate, le finestre aperte lasciavano entrare il fragore della risacca, aria fresca e un'incessante acquerugiola, la spuma delle onde che molto sotto di loro si abbatteva contro la costa scoscesa. L'elfo giaceva a letto con le mani sopra le coperte, il torso avvolto solo
da una fasciatura e gli occhi chiusi. «Grazie», disse Lot-Ionan richiudendo la porta per lasciare fuori l'archivista. Dergard, Tungdil, Boïndil, Sirka, Goda, Rodano si trovarono al capezzale del ferito, gli altri dovettero attendere nelle sale del santuario l'esito della visita dei maghi. «Che cos'hai provato con lui, Dergard?» chiese il vecchio mago. «Non conosco nessun incantesimo di guarigione particolarmente valido», ammise Dergard, imbarazzato. Lot-Ionan svolse la fasciatura e osservò i fori nel corpo dell'elfo, i cui bordi si erano nel frattempo anneriti. La carne stava andando in cancrena. «Quindi hai già provato le formule che apprendesti da Nudin?» «Sì.» «Dimmi quali sono.» Dergard le elencò e il mago annuì. «Conosci ottimi incantesimi curativi, Dergard. Non hai nulla da rimproverarti. Ma questo elfo necessita di altre cure magiche.» Levò il braccio sopra il ferito, guardò nel vuoto e recitò uno scongiuro, finché tra le sue dita non comparve una luce bluastra che gocciolò giù come miele, cadendo sui buchi e riempiendoli lentamente finché sul petto del ferito non vi fu un piccolo lago. Lot-Ionan terminò la formula, fece un passo indietro e invitò con un cenno Dergard a completare il procedimento trasformando il bagliore blu in uno giallo pallido. La magia allontanò la carne morta e la fece cadere sul lenzuolo come vecchia pelle secca. I fori causati dalle frecce si chiusero e i tessuti si riformarono. Solo il pallore di quei punti ricordava dove si trovavano poco prima le ferite. «Fatto», sospirò Dergard. «Da solo, nessuno di noi due ci sarebbe riuscito», disse Lot-Ionan sorridendo. «Questa è la prima prova del fatto che la nostra collaborazione sarà fruttuosa.» Si riaccostò al letto. «Svegliamolo.» Il Rabbioso prese una scodella con dell'acqua e la vuotò sul volto dell'elfo. «Ehi, sveglia! Hai dormito abbastanza, no?» L'elfo aprì gli occhi, vide il sorridente volto del nano e si tirò indietro, giusto per sbattere il capo contro la testata del letto, mentre accostava una mano al fianco, là dove di consueto portava la sua arma. «Non temere, amico», disse Tungdil in elfico. «Ti abbiamo trovato nelle foreste dell'Âlandur. Nel tuo corpo c'erano tre frecce della tua gente. Ti
abbiamo preso con noi e ti abbiamo portato nel Weyurn per curarti.» Indicò il padre adottivo. «Questi è Lot-Ionan il Paziente, e accanto a lui c'è Dergard il Solitario. Questi maghi ti hanno salvato la vita.» Poi fece un cenno verso di sé. «Io sono Tungdil Manodoro. Puoi raccontarci che cosa ti è accaduto?» «Tungdil Manodoro?» esclamò l'elfo, sollevato. «Allora sono in buona compagnia! Io sono Esdalân, Custode del Bosco della Vendetta.» «Che ha detto?» brontolò Boïndil. «Digli di parlare in una lingua che capiamo tutti, Sapientone.» «Tutti quelli che ci circondano sono degni della tua fiducia?» gli chiese Esdalân continuando a parlare nella sua lingua; aveva capito che cosa aveva detto il guerriero. Tungdil lo guardò. «Parla in elfico. Deciderò più tardi chi può sapere quello che hai detto e in che misura.» L'elfo si terse il volto, poi cominciò il suo racconto. «Io sono Esdalân, barone di Jilsbon e fidato amico di Liútasil.» Deglutì. «Il mio signore è morto.» «Questo lo sappiamo già. È morto combattendo contro uno dei mostri mentre cercava di difendere il diamante.» Il volto di Esdalân s'incupì per la collera. «È così dunque che v'ingannano! Vi raccontano che è caduto contro le creature degli Eterni.» Abbassò la voce. «Liútasil è stato assassinato. Già da alcuni cicli.» XIII Terra Nascosta, regno di Weyurn, isola di Windspiel, 6241° ciclo solare, tarda estate Dopo che ebbe fatto l'incredibile rivelazione, Esdalân trasse un profondo respiro. Gli costava fatica raccontare quegli eventi. «Ci hanno tenuto all'oscuro di tutto, inventando sempre nuove scuse per mantenere segreta la sua scomparsa, finché i loro seguaci non si furono posizionati ovunque. Poi hanno colpito, uccidendo le ultime persone ragionevoli del mio popolo.» Apprendendo quelle mostruosità, a Tungdil venne meno la voce. «Chi?» mormorò. «Chi sono?» «Gli Eoîl Atàr, i Seguaci dell'Eoli. Un gruppo di fanatici che considerano l'Eoîl una dea e la mettono appena sotto Sitalia. Sono quelli che allora chiesero a Liútasil di unirsi all'Eoîl e di muovere attraverso la Terra Na-
scosta con lei e il suo esercito contro le creature di Tion e di Samusin. Liútasil rifiutò e ordinò loro di non prendere iniziative.» «Da come ne parli sembrerebbe che invece ne abbiano prese.» «Sì. Mandarono di nascosto dei messi all'Eoîl per parlare con lei e chiederle come potessero aiutarla. Che cosa abbia detto loro di preciso, nessuno lo sa a parte gli Eoîl Atàr. Da allora hanno tramato per impadronirsi del potere nell'Âlandur, allo scopo di rendere di nuovo gli elfi un popolo puro, com'era un tempo, un popolo che non tollera la presenza di nulla di malvagio intorno a sé, esattamente come faceva l'Eoîl.» Come un ariete, quelle parole spazzarono via in Tungdil gli ultimi ostacoli che gli impedivano di comprendere ciò che era successo. Risuonarono nella sua mente come lo squillo di un corno: i santuari, i nuovi edifici che aveva visto durante la permanenza presso gli elfi, tutto derivava dalle indicazioni date a suo tempo dall'Eoîl! Esdalân abbassò lo sguardo. «Noi tutti li abbiamo sottovalutati. Le loro idee si diffondevano rapidamente, trovando più adepti di quanti Liútasil si attendesse, come lui stesso mi confidò. Quando finalmente si decise ad agire contro gli Atàr, era troppo tardi. Come la maggior parte delle persone ancora ragionevoli, anch'io intuii i loro intrighi solo dopo un po'. Da quel momento ascoltai di nascosto parecchie loro conversazioni, tra cui una, in cui si discuteva del futuro del diamante affidato al nostro popolo. L'avevano esaminato ed erano giunti alla conclusione che non era quello vero.» «Cosa? E come ci sarebbero riusciti?» «Non lo so. Forse l'Eoîl ha mostrato loro come si usa la magia, o quantomeno come la si riconosce. La nostra gente è capace di pronunciare semplici formule che i vostri maghi non chiamerebbero mai incantesimi. L'Eoîl potrebbe aver cambiato le cose.» «Allora non è un male che la vostra pietra sia finita nelle mani degli Eterni.» Esdalân scosse la testa. «Non è mai finita nelle mani dei mostri. Era una menzogna per spiegare la morte di Liútasil. Progettavano di rubare tutte le pietre una volta che fossero state raccolte a Paland. Fu allora che fui notato e mi diedero la caccia. Riuscii a scappare, sebbene mi avessero colpito con diverse frecce.» Prese la mano di Tungdil e la strinse. «Devo a voi il fatto di essere ancora in vita.» Gli sorrise. «A voi. Un nano.» «No, non solo a me. I maghi hanno svolto il lavoro più difficile», si schermì Tungdil. «Ma non l'avrebbero potuto svolgere se non mi aveste preso con voi.»
Esdalân tornò cupo. «L'Âlandur è caduto sotto il dominio degli Atàr. Se ho inteso bene le loro intenzioni, vogliono eseguire le volontà dell'Eoli.» «Vogliono distruggere il male nella Terra Nascosta. Ma... i pochi mezz'orchi e gli Eterni...» «Vi state ingannando, Tungdil Manodoro», lo interruppe Esdalân. «L'Eoîl ha dato sicuramente loro disposizione di distruggere ogni malvagità. Non importa quale forma assuma.» «Le legazioni!» venne in mente a Tungdil. «Gli elfi hanno inviato delegati in tutti i regni con la scusa di scambiare conoscenze. Ma certo non hanno fatto altro che spiare i regni e i loro abitanti.» «La cernita è cominciata. Quando sarà finita, nella Terra Nascosta non rimarranno che pochi popoli, se gli Atàr non verranno fermati. Il popolo dei nani piange già le sue prime vittime. Le dovete a loro. Anche gli attacchi ai villaggi e alle città umane nel Toboribor o nei pressi del Borwôl sono da imputarsi a loro.» «Come possono farlo? Stanno commettendo delle malvagità, non lo capiscono?» Tungdil pensò ai figli del Fabbro che erano stati avvelenati. «No, poiché ai loro occhi non stanno facendo nulla di malvagio, al contrario. Considerano l'incomprensione una prova del fatto che stanno facendo la cosa giusta. Fino a quando è nascosto, non si mostra apertamente e non viene riconosciuto da tutti, il male dev'essere combattuto dai pochi che lo sanno smascherare.» Esdalân deglutì. «Vogliono il diamante, Tungdil Manodoro, perché in esso si sono manifestate la divinità e la potenza dell'Eoîl. Anche se mi fa male dirlo e prego Sitalia di perdonarmi per le mie parole, questa è la verità: non fidatevi più del mio popolo. Finge di essere amico degli altri popoli, ma in realtà cova propositi segreti.» Tungdil si grattò la barba; la sua mente lavorava febbrilmente. La Terra Nascosta era di fronte a una difficile prova. Gli elfi, i Sotterranei e gli Eterni rivendicavano per loro la pietra. Data la situazione, la cosa migliore pareva essere che i Sotterranei prendessero il diamante e lo portassero molto lontano dalla Terra Nascosta. «Ma non ci sono elfi che riescano a sottrarsi a questo accecamento?» chiese a Esdalân. «Non c'è una resistenza contro gli Atàr?» «No», rispose l'altro, triste. «Temo che tra di noi non siano rimaste persone ragionevoli.» Tungdil esitò. «Quanti elfi vivono nell'Âlandur?» «Non saprei dirlo», rispose Esdalân. «Capisco il senso della vostra domanda. Se si dovesse arrivare a una guerra, sono certo che ogni guerriero
che gli Atàr invieranno fuori dai boschi dell'Âlandur sarà obbediente alla loro parola e animato dal desiderio di compiere la loro volontà.» Tungdil conosceva la forza d'urto dei guerrieri elfici e dei loro arcieri. Erano molto superiori agli umani, e anche i nani avevano enormi difficoltà a farsi strada fra le loro cortine di frecce precisissime e mortali. Era possibile che potesse esservi bisogno dell'esercito dei Sotterranei non contro le creature di Tion ma contro quelle di Sitalia, per quanto potesse sembrare assurdo. «Quanta verità può sopportare la Terra Nascosta?» chiese più a se stesso che a Esdalân. «Prima dovreste chiedervi quanti crederanno a questa verità», replicò Esdalân. «Gli elfi sono stati attenti a non far ricadere su di loro nessuna colpa e continuano a sembrare il popolo più nobile della Terra Nascosta.» Gli occhi azzurri dell'elfo scrutarono Tungdil. «Voi credete alle mie parole perché avete visto molte cose coi vostri occhi, ma mettetevi al posto dei sovrani di cui abbiamo bisogno: hanno provato la grande generosità del nostro popolo e non crederanno mai alle mie parole. Gli Atàr inventerebbero una storia che mi farebbe passare per traditore.» Esdalân sospirò, disperato. «Nessun umano gli si contrapporrà. Non all'inizio. E dopo sarà troppo tardi.» «Hai perfettamente ragione. Nessun umano.» Tungdil guardò Sirka. «Ma i nani lo faranno, non appena avremo strappato il diamante dalle mani degli Eterni e lo avremo portato in un posto sicuro. Finché gli elfi non lo possiedono, non oseranno manifestare le loro vere intenzioni. Col tuo aiuto, riscuoteremo i popoli della Terra Nascosta e li metteremo in guardia dagli Atàr.» L'elfo annuì. «Prego Sitalia e tutti gli antenati di darci la loro benedizione e di aiutarci a evitare il peggio.» Sembrava sollevato, essendo riuscito a condividere le cose terribili di cui era a conoscenza. Fece scorrere lo sguardo sulle persone alle spalle di Tungdil. «Chi informerete di ciò che vi ho detto?» Terra Nascosta, Monti Marroni, regno dei Quarti, 6241° ciclo solare, tarda estate Tandibur Orgogliominiera del clan degli Orgogliominiera correva sui lastroni di basalto gettati a mo' di ponti sulle innumerevoli fosse che erano state disseminate alle spalle della Rocca d'Argento, davanti alla strada in-
cassata che conduceva all'accesso nordorientale della Terra Nascosta. Ogni singola fossa era larga sette passi e profonda venti, e dalle pareti uscivano spigoli taglienti come coltelli, pronti a lacerare chiunque vi cadesse; perfino gli anelli di una cotta di maglia ne sarebbero stati tagliati. Tandibur si guardò alle spalle. La potente Rocca d'Oro prometteva una strenua resistenza a ogni aggressore, contrapponendosi con le sue insormontabili mura dorate a qualunque attacco. Gli intagliatori avevano dato alla rocca l'aspetto di una serie di lance verticali; qua e là scintillavano pietre preziose che conferivano al baluardo bagliori ornamentali. Le pareti svettavano per trenta passi; alle loro spalle si alzava il torrione a forma di nano alto cinquanta passi. La testa dall'aria feroce poteva essere girata in ogni direzione; in caso di necessità poteva essere spostato ricorrendo a catene e pony. Nell'elmo di pietra, negli occhi, nelle narici e nella bocca erano pronte sentinelle e macchine da guerra. Fino ad allora, però, nessun mostro era riuscito ad arrivare fino alle porte della Rocca d'Oro, e le catapulte non avevano mai fatto fuoco. Ma da un momento all'altro le cose potevano cambiare. «Su, più in fretta!» gridò Tandibur per spronare i cento guerrieri che lo seguivano e che stava conducendo in rinforzo ai difensori della prima fortezza. La fretta era giustificata: alla Rocca d'Argento la situazione stava precipitando. La fortezza doveva il suo nome alla roccia dai riflessi argentati in cui era stata scolpita. I nani chiamavano quel materiale «argento degli gnomi», bello a vedersi ma assolutamente privo di valore, se non si considerava la durezza del materiale. Gli antenati dei Quarti avevano dato alla Rocca d'Argento cinque torri di altezza differente; si alzavano in cielo simili a dita gigantesche che formavano una mano levata. La più alta di esse si elevava per cinquanta passi. Dalle sue canaline di scarico pioveva sugli aggressori piombo fuso, facendone riecheggiare le urla. A unire le torri era stato costruito un potente muro, da cui i difensori gettavano macigni oltre i merli o tiravano con le balestre. I mezz'orchi attaccavano le massicce porte di ferro senza sosta. Assaltavano incessantemente la prima linea difensiva dei Quarti tentando con tutte le loro forze di arrivare dall'altra parte. Non li inducevano a desistere né il piombo fuso né i conci di pietra né i dardi di balestra. Se non avesse saputo che non era possibile, Tandibur avrebbe pensato che i Pelleverde avessero alle calcagna qualcosa che li spaventava ancor
più delle asce e delle scuri dei nani. Guardò le cime delle torri, da cui si alzava un nero fumo che si mescolava alle nuvole. I bracieri con cui veniva fuso il piombo non erano stati spenti neppure una volta, e il piombo stava gradualmente diminuendo. «Presto dovremo fondere il nostro oro e versarglielo addosso», mormorò. Il sordo e continuo tonfo dell'ariete rimbombava sulle pareti delle montagne circostanti; il metallo strillava e si piegava gemendo sotto la potenza dei colpi. «Per Vraccas!» gridò uno dei guerrieri che seguiva Tandibur. «Sentite che frastuono assordante! Che cosa ci sta attaccando? Che mostri ci sta mandando Tion?» «Presto lo vedrai da te», rispose Tandibur. «Qualunque cosa ti troverai a fissare, tieni saldo il tuo coraggio, il valore del tuo cuore e la stretta sulla tua ascia. Sono le uniche cose che possano proteggere te e noi tutti da quei mostri.» Videro pietre grosse come esseri umani volare sopra le mura e contro di esse. Qua e là i pesanti proiettili strappavano i merli e uccidevano i difensori che cercavano protezione dietro di essi. In altri punti si sfracellavano sacchi pieni di petrolio e pece: il fumo denso e nero puzzava terribilmente, bruciando negli occhi e nei polmoni. Ondate di lanci investivano i nani sui camminamenti col loro fuoco liquido, carbonizzandoli con la velocità del vento; ma i difensori continuavano a mantenere le loro posizioni. Quello spettacolo accrebbe nei nuovi arrivati il desiderio di battere i mostri. Alla fine raggiunsero le larghe scale che portavano ai camminamenti. Tandibur divise i suoi in due gruppi, mandandone uno a sinistra e affrettandosi alla testa degli altri cinquanta guerrieri sulla scala di destra. Il sangue scorreva scuro giù per i gradini, come a invitare Tandibur a non proseguire. Lo spettacolo che si offriva loro era spaventoso: un atroce tappeto, tessuto coi corpi senza vita di amici e conoscenti. I cadaveri giacevano stretti l'uno accanto all'altro, non c'era quasi più spazio per camminare senza calpestare mani, piedi o altre membra. La maggior parte era stata uccisa dalle frecce, altri erano caduti vittima dell'interminabile grandinata di proiettili. L'odore metallico del sangue ancora caldo si raccoglieva in pozzanghere e scorreva giù dai gradini e dalle pareti, mischiandosi al fetore di carne bruciata e alle esalazioni delle bestie. I rinforzi erano attesi con ansia dal comandante, il quale si era già preso due frecce nel braccio destro e zoppicava per un dardo nella gamba sini-
stra. «Vraccas sia benedetto, siete arrivati! Prendetele e scagliatele giù», gridò indicando un mucchio di rocce, prima di tornare al suo posto. «Cercate di spazzare via la squadra che manovra l'ariete!» Tandibur era ancora paralizzato dall'orrore. Poi prese uno dei blocchi spigolosi e lo issò su uno dei merli che sovrastavano la porta. A quel punto guardò in basso. I nemici si ammucchiavano sulla pianura antistante la Rocca d'Argento: erano migliaia, soprattutto mezz'orchi, che assalivano le mura ruggendo. I giganteschi orchi e i disgustosi troll rimanevano indietro e caricavano instancabilmente le catapulte, in modo da non lasciare ai difensori un attimo di tregua. Con le loro sole forze scagliavano poi pietre più leggere negli interstizi tra i merli. La precisione dei loro lanci era scoraggiante. Tandibur raggelò. Proprio lui, che poco prima aveva predicato a un altro nano di farsi animo, perse in quell'istante tutta la sua fiducia. Esattamente sotto di lui, a circa trenta passi, un centinaio di orchi muoveva il più grande ariete che si fosse mai visto. Era stato costruito utilizzando il legno di molti alberi; sulla punta spiccava un'enorme testa di mostro in ferro. Solo la loro forza titanica metteva le bestie in condizione di sollevare e condurre quella macchina d'assedio. La porta cedeva un po' di più a ogni colpo, causando un tremito nelle mura e un rombo simile a quello di un tuono. I chiavistelli tenevano ancora, ma presto si sarebbero piegati tanto da permettere la caduta della Rocca d'Argento. Tandibur si riscosse dalla sua paura e pregò Vraccas: la fortezza non doveva cadere. Gettò la sua pietra nell'abisso e tirò la testa indietro abbastanza in fretta da non essere colpito da un dardo nemico. Il grido di un nano accanto a lui gli fece capire che non tutti erano stati benedetti da tanta fortuna. Si chinò svelto accanto allo sventurato. «Non ti muovere. Andrà tutto bene», gli disse sforzandosi di sembrare fiducioso. Una pietra aveva frantumato la faccia del nano, che rantolava, mentre il sangue gli copriva il naso gonfiandosi in bolle. «Noi non ci arrendiamo», sussurrò il ferito cercando di stringere la mano di Tandibur. Con quel gesto la sua vita si spense, il petto si afflosciò. Altra stoffa per il tappeto di morti. «Vraccas, prendilo con te.» Tandibur mandò giù il dolore e non si permise di piangere. Non ancora. Vide una serie di pietre schiantarsi in rapida successione nel mezzo della seconda torre più alta, aprendo un largo buco. Troppo largo. L'edificio o-
scillò, mentre si aprivano crepe in alto e in basso. Tandibur scorse i nani in cima alla torre correre via dai parapetti. La parte superiore s'inclinò minacciosamente sopra l'ala sinistra dei mezz'orchi e si spaccò all'altezza del buco. Un massiccio troncone di torre, lungo undici passi, si abbatté sugli aggressori mentre la muratura andava in pezzi spedendo parte delle macerie, con alte parabole, fino alle linee più arretrate dei mezz'orchi. La grigia nube di polvere impedì a Tandibur di vedere la devastazione piombata sull'esercito nemico, ma il nano sapeva che la torre doveva avere ucciso moltissimi mezz'orchi. Il tiro estremamente efficace delle catapulte si era ritorto sul nemico. «Tandibur!» Sigdal Rossorubino del clan dei Bellagemma corse verso di lui e lo afferrò per un braccio. La sua cotta di maglia era coperta di sangue altrui e aveva un profondo taglio sulla guancia, attraverso cui si scorgeva il biancore delle ossa. Nella postazione che stava difendendo i combattimenti dovevano essere particolarmente furiosi. «Dobbiamo ritirarci al di là delle fosse, nella Rocca d'Oro», disse ansimando. «Abbiamo ricevuto un ordine», replicò Tandibur senza riuscire a distogliere lo sguardo dalle macerie della torre, da cui continuava a salire un denso polverone. «Ma è tutto inutile», ribatté Sigdal spalancando le braccia. «Guarda! I proiettili hanno fatto a pezzi tre miei amici davanti ai miei occhi. Mi hanno schizzato addosso il loro sangue ancora caldo! Non ci vorrà molto: presto la Rocca d'Argento sarà perduta. Salviamo i guerrieri che ancora abbiamo e aspettiamo il prossimo attacco nella seconda fortezza.» Tandibur si voltò verso il comandante dei difensori. Si era girato giusto in tempo per vedere il nano, avvolto in una nube di fuoco, precipitare dal muro come una piccola cometa infuocata. Il successivo colpo d'ariete scosse la pietra sotto i loro piedi tanto da aprire spesse crepe. L'antico granito stava cedendo. Il vento portò loro un nuovo segnale dei mostri. Tandibur sentiva per la prima volta note così profonde e minacciose; non conosceva nessuno strumento da cui potessero provenire. Sigdal guardò oltre i merli. «Guarda là! Stanno ricevendo dei rinforzi. Dobbiamo abbandonare questa fortezza!» Solo un folle avrebbe chiuso gli occhi di fronte a quella evidenza. «Hai ragione», ammise Tandibur, alzandosi e prendendo dalla cintura il corno per chiamare a raccolta la sua gente. Dopo la morte del comandante, i su-
perstiti avrebbero ascoltato i suoi ordini. In quel momento gracchiarono numerosi corni dei mezz'orchi, e la spietata risolutezza dell'attacco cessò di colpo. Sulla Rocca d'Argento non si abbatterono più né una freccia né una pietra né un proiettile incendiario. Davanti alla porta calò un silenzio di tomba. «Che cosa significa?» Sigdal scrutò in lontananza. «Che sia un tranello?» «Se ho sentito bene, il segnale diceva di girare le catapulte», spiegò Tandibur affiancandosi al nano, con lo scudo un po' sollevato per poter parare eventuali frecce o dardi. Dall'altra parte della piana si stava riversando una spessa linea scura. In confronto ai mostri raccolti davanti alla fortezza, le truppe fresche non erano molto numerose, Tandibur valutò che fossero al massimo duemila. Ma ogni guerriero era sicuramente alto come due nani l'uno sull'altro, ed era rivestito di una pesante armatura. «Che creature sono?» chiese Sigdal. «Vedi come corrono? Per Vraccas, sono coperti di metallo da capo a piedi e corrono veloci come pony!» Nel frattempo i nemici avevano girato molte catapulte. Orchi e troll caricavano freneticamente i bracci scagliando le pietre contro i guerrieri sconosciuti; ma i proiettili non fecero danni, abbattendosi senza effetto alle spalle degli aggressori. Questi si spostavano in modo troppo veloce, senza lasciare agli artiglieri la possibilità di calibrare per tempo il tiro. Lo sferragliare metallico causato dalla corsa crebbe, diventando un rumore spaventoso. I mostri continuavano a fissare in silenzio l'avvicinarsi dei nemici, con cui non avevano fatto i conti. Poi tra le prime file echeggiò uno squittio spaventato, e uno dei mezz'orchi uscì dai ranghi puntando verso la Rocca d'Argento, intenzionato a scalarla coi nudi artigli. Era il segnale che la moltitudine dei mostri aveva atteso; la paralisi era infranta. Tra i grugniti e gli squittii, i mezz'orchi ripresero il loro tentativo di conquista. Posero le scale, ma a quel punto regnava un'assoluta confusione. I nemici si liberavano gettando tutte le zavorre: armi e parti di armature cadevano a terra. Alcuni spezzavano le spade e le usavano per aiutarsi nella scalata. I mezz'orchi non dimostravano il minimo riguardo l'uno per l'altro, strappando dalle mura quelli più lenti per arrivare prima in cima al bastione. Due di essi cercarono di arrampicarsi sui pioli, per loro decisamente troppo sottili; il legno si ruppe, e i due caddero tra i compagni schiacciandone molti e rimanendo a terra gravemente feriti.
«Manteniamo la posizione! Respingiamoli!» gridò Tandibur. «È facile come schiacciare mosche! Non fatene passare nessuno.» Alzò l'ascia e la piantò tra il collo e la clavicola di un mezz'orco. Sangue verde schizzò in cielo, e il mostro precipitò rantolando e trascinando con sé molti suoi simili. Era davvero molto più facile di prima, perché, nel loro inspiegabile panico, i mezz'orchi non si avvalevano dei loro arcieri né del fuoco di copertura delle catapulte. I nani potevano quindi esporsi, rinunciando alla protezione dei merli, e spaccare le orribili teste non appena arrivavano a portata delle loro armi. Poi venne il turno degli aggressori dalle armature nere. Poco prima dell'urto con le file nemiche alzarono la visiera, e una luce violetta risplendette all'interno degli elmi. Tandibur sentì un suono, un misto di soffi e brontolii che ricordava il sibilo di una schiera di frombolieri e il tuono che anticipa l'imminente eruzione di un vulcano. Annunciava la brama di uccidere, la pericolosità e la spietatezza di quelle creature, prima che irrompessero tra le linee dei mezz'orchi sfondandole come una lama affilata taglia il legno marcio. Non si fermarono; corsero dritti nella massa dei mostri e massacrarono i nemici usando due armi ciascuno. «Per Vraccas, che razza di bestie sono?» Al nano si accapponò la pelle, mentre la paura provata dai mezz'orchi s'insinuava anche nel suo corpo. Alla vista di quegli esseri, istintivamente si ritrasse dietro un merlo. Quello che udiva era un coro di morti, capace di logorare anche l'incrollabile animo di un nano. Sigdal guardò Tandibur. «Ho sentito di una creatura del genere», rammentò. «Era la guardia del corpo della maga Andôkai la Burrascosa. Nessuno sapeva da dove venisse, ma aveva esattamente l'aspetto di quelli qui sotto. Lo chiamavano Djerůn. Era il re di tutti i mostri creati da Samusin e Tion.» «Come fai a dirlo? Riesci a vedere quello che c'è dentro le armature?» Sigdal s'indicò il volto. «Quel bagliore li tradisce.» Tandibur scosse le spalle, come per scrollarsi di dosso la paura. Si avvicinò un nano dalla folta barba bionda. «Dobbiamo tirare su di loro dalle torri, Tandibur?» chiese, concitato, «Sono bersagli facili. Impossibili da mancare.» Tandibur guardò Sigdal. «La guardia del corpo di Andôkai, dici?» «Sì, se sono vere le storie che mi hanno raccontato.»
Il rumore dei combattimenti si avvicinava alle mura. Tandibur guardò in basso, oltre i merli: le creature avevano attraversato la piana in tutta la sua larghezza e continuavano a tracciare la loro scia di sangue in mezzo all'esercito in dissoluzione. I mezz'orchi erano tanto intimoriti da non pensare ad altro che alla fuga; si disperdevano in piccoli gruppi sciamando verso la parte opposta della piana. Poco prima che mettessero piede sul sentiero che portava nella Terra dell'Aldilà, un'altra parete di metallo nero sbarrò loro la strada. Tandibur deglutì. «Guardate! Hanno attirato i Pelleverde in una trappola. Li macelleranno fino all'ultimo.» «Le torri devono tirare o no?» chiese di nuovo il nano dalla barba bionda. Tandibur scosse la testa. «No. Aspettiamo di vedere quale sarà la loro prossima mossa.» Fino a sera guardarono le creature sconosciute spingere i mezz'orchi qua e là e ucciderli l'uno dopo l'altro; alla fine anche troll e orchi caddero sotto quella potenza devastante. Sulla strada incassata scese la notte, e con l'oscurità venne anche il silenzio. I nani non percepirono neppure un debole gemito. Nulla di ciò che stava sulla piana davanti alla Rocca d'Argento aveva ancora un alito di vita. Gli sconosciuti vagavano tra i cadaveri, calpestandoli; quando scorgevano un tremito nel groviglio di arti, corpi e teste, colpivano immediatamente. Poi le stelle vennero nascoste da spesse nubi, risparmiando ai nani la vista di quelle creature e del massacro che avevano compiuto. «Qualcuno di voi capisce che cosa stanno facendo?» chiese Sigdal scrutando in basso. «È così maledettamente buio che neanche i miei occhi riescono a distinguere qualcosa.» Tandibur prese una torcia da un sostegno e la lanciò con un tiro potente davanti alle porte. La scarsa luce proiettò i suoi raggi sui guerrieri protetti dai neri usberghi, che si aggiravano per il campo trascinando via parte dei mezz'orchi. Li tenevano per i piedi, due o tre per volta. «Che cosa vogliono fare?» si chiese Sigdal a voce alta. Tandibur puntò il dito a sinistra. Là sedevano molte di quelle creature, intente a fare a pezzi orchi e troll. Spezzavano le grosse ossa con possenti colpi delle loro armi, e ne estraevano il midollo. Per i vincitori doveva essere un eccellente banchetto.
«Per Vraccas!» sussurrò Sigdal, terrorizzato. «Il re di tutti i mostri, eh?» fece Tandibur, lieto che la torcia si spegnesse, riconsegnando i mostri e le loro azioni all'oscurità. «Allora abbiamo proprio a che fare con un popolo di re.» Raggiunse lentamente la scala. Era tempo di riportare ai nani di guardia alla Rocca d'Oro un rapporto dettagliato. «Riparate le porte e caricate nuove pietre sui camminamenti. Quelle creature devono essere tenute costantemente sotto controllo. Ci hanno liberato dai mezz'orchi, è vero, ma potrebbero essere curiose di sapere che sapore ha la carne dei nani.» Stanco e con le gambe pesanti, Tandibur scese gli scalini e, insieme coi feriti, si mise in marcia verso la seconda fortezza. Aveva il presentimento che avrebbero dovuto schierarsi contro quei nuovi guerrieri, qualunque cosa celassero dietro le loro visiere. «Ma con quali armi?» mormorò. «Come li si può fermare?» Pregò Vraccas che quel piccolo eppure gigantesco esercito schierato davanti alla Rocca d'Argento non si curasse ulteriormente di loro. Non nel corso di quella rotazione, né in quella successiva e neanche nei mille cicli a venire. Terra Nascosta, regno di Idoslân, nei pressi delle caverne dei mezz'orchi del Toboribor, 6241° ciclo solare, tarda estate Lot-Ionan sedeva in silenzio accanto al fuoco e si scaldava le mani. Le notti estive iniziavano a rinfrescare e, dopo i suoi cinque cicli trascorsi come statua, il mago sentiva dentro di sé un freddo che non riusciva a scacciare né col tè né con l'acquavite né con spesse coperte. Dergard si era già messo a dormire. Il Rabbioso tagliò una striscia di carne del coniglio che arrostiva allo spiedo e se la cacciò in bocca. Masticava forte e insoddisfatto. «Siete davvero sicuro, mago, di non riuscire proprio a fare le ultime miglia? Ormai non manca molto.» Lot-Ionan drizzò la bianca testa. «Credimi, Boïndil, preferirei dormire in una calda tenda piuttosto che all'addiaccio.» Si portò una mano alla schiena. «Ma la mia schiena mi duole troppo per restare ancora in sella.» Il Rabbioso valutò mentalmente il peso dell'uomo. «Potrei portarvi io.» «Lascia stare. Fa' riposare il venerabile mago», disse Tungdil. «Non ci serve a niente arrivare all'accampamento con lui a pezzi ed esausto.» Dalla discussione nella fattoria si era creato uno strappo nella loro amicizia, che pure era stata messa alla prova già tante volte; ma quella volta lo strappo
non si lasciava ricucire, e quello stesso silenzio non faceva che diffondere il loro malessere. Durante il viaggio, Tungdil aveva trascorso molto tempo a meditare una possibile soluzione per la situazione spinosa in cui versava la Terra Nascosta. Aveva informato Lot-Ionan di ogni cosa, ma non erano arrivati a nessuna conclusione di cui potessero essere veramente soddisfatti. Così mantenevano un inflessibile silenzio; non avevano informato del tutto neppure Boïndil. Sirka prese la carne che Tungdil le stava porgendo e la mise tra due fette di pane. Ne staccò un morso e l'assaporò con cautela. «La carne che mangiamo noi ha un sapore migliore rispetto alla vostra», osservò trangugiando più che mangiando. «Suppongo dipenda dal mangime», replicò Tungdil sorridendo. «A me piace», brontolò il Rabbioso avventandosi sopra ciò che restava del coniglio, dopo che Rodario gli ebbe indicato con un breve cenno che non ne voleva più. L'attore sedeva accanto a Lot-Ionan e riempiva pagine su pagine a lume di candela. «Sirka, perché non ci racconti qualcosa della tua patria?» l'apostrofò senza preamboli mentre immergeva la penna nel calamaio. «Abbiamo visto i vostri soldati e sentito delle avventure della Terra Nascosta.» La sua mano svolazzò sulla pagina. «Ma come stanno le cose a...» La guardò trepidante. «Letèfora?» completò lei. «Perché lo vuoi sapere?» «Per scrivere un pezzo di teatro. E perché sono curioso.» Rodario sorrise. «I temi esotici rendono molto bene a teatro. Gli spettatori vogliono sapere di più della Terra dell'Aldilà.» Il cranio calvo di Sirka luccicò al bagliore della fiamma; la pelle scura sottolineava il biancore dei denti. «Letèfora è una città in cui vivono molte razze: umani, acronta, nani... Gli edifici superano in altezza tutti quelli che ho visto finora nella Terra Nascosta; nemmeno quelli dei nani li raggiungono. E non sto esagerando.» Lesse l'indignazione sul volto del Rabbioso. «Non guardarmi in quel modo. Non posso farci niente se è così. Non ho detto che i vostri siano peggiori.» Alzò le spalle. «Sono solo più piccoli.» «Che mi dici riguardo ai mostri?» la incalzò Rodario. «Suppongo che siano anche loro più grandi», brontolò Boïndil. «Possono volare, i loro gridi tramortiscono e alcuni possono paralizzarti con lo sguardo», enunciò con molta enfasi. Si stava frizionando la barba con grasso e sugo di arrosto. «Come Djerůn.» Sirka annuì. «È tutto esatto, anche se non so che cosa sia un Djerůn. Le
nostre bestie sono molto diverse tra loro; ci sono creature di fronte alle quali scapperebbero anche i vostri più coraggiosi guerrieri.» «Al massimo i guerrieri degli uomini o quelli degli elfi», intervenne Goda, ricevendo uno sguardo di approvazione da parte del maestro. «Ma sicuramente non i figli del Fabbro.» Prima che dall'innocente racconto sorgesse una discussione sul coraggio dei nani, Tungdil pose una questione. Fino a quel momento aveva ascoltato tutto con grande curiosità, pendendo dalle labbra scure di Sirka. «Nella nostra incursione a nord, nella Terra dell'Aldilà, su una parete trovammo una runa.» La tracciò nella terra. «Era più o meno così.» Sirka rifletté, poi tracciò accanto la versione corretta. «Doveva essere questa. È un antichissimo segnavia del mio popolo. Indica che la strada porta a un passaggio custodito. Un tempo esplorammo tutte le montagne a nord della Terra Nascosta.» «Ah!» Il Rabbioso le puntò contro l'osso rosicchiato. «Volevate invadere la Terra Nascosta, vero?» Sirka annuì. «Ma, quando scoprimmo che le porte erano custodite da nani, vi rinunciammo. Abbiamo supposto che le terre al di là di esse fossero in vostro potere.» Da come lo disse, poteva essere la verità o una menzogna. Nessuno riuscì a capire che cosa intendesse con quelle parole. «Tutto ciò è estremamente illuminante», commentò Rodario continuando a scrivere. «Ma date le circostanze eviterò di menzionare questa faccenda dell'invasione.» Fece una faccia seria. «Potrebbe irritare gli spettatori in modo non necessario.» «Sempre se è vero quello che ha detto», aggiunse Goda prendendo la stella della notte per affilare gli spuntoni delle sfere di ferro con una piccola mola. «Sembrava ci volesse prendere in giro.» Sirka sogghignò. «Chissà? Forse i nostri esploratori sono ancora qua e attendono l'occasione giusta...» «Ah, ha il senso dell'umorismo. Conosci la storia del mezz'orco che chiede la strada a un nano?» chiese Boïndil. «Aspettate un attimo...» A Tungdil era tornato in mente il nano scomparso, mentre Sirka parlava degli esploratori dei Sotterranei. Le chiese se ne sapesse qualcosa. «Be', so di un nano che si è perso da noi», fu la risposta. «Cosa?» Il Rabbioso lanciò l'osso dietro le spalle, nell'oscurità. «Avete avuto a che fare con un nano dei nostri? Pensavo che fosse un Terzo e che se la fosse svignata!»
«Un Terzo? No.» Sirka chiese un sorso d'acqua e si lavò via di bocca gli ultimi resti del coniglio. «I nostri battitori lo stavano seguendo e si è smarrito. Lo abbiamo trovato troppo tardi. Era completamente consumato, farneticava di certe macchine e del fatto che doveva proteggere la Terra Nascosta. È morto poco dopo a causa della debilitazione.» Tungdil annuì. Era stato un bene raccontare alla madre di Gremdulin Mordiferro che il figlio era morto, senza svegliare in lei false speranze. «Che cosa facevano i vostri esploratori alla Porta di Pietra?» «Controllavano se fosse tutto a posto.» Sirka mise un ceppo sul fuoco. Sentirono lo scalpiccio di zoccoli che si avvicinavano al loro accampamento. Una lanterna cieca oscillava a un passo da terra, illuminando la strada per cavallo e cavaliere. «Un messo del principe Mallen?» ipotizzò Rodario alzandosi. «Giungerebbe al momento opportuno. Potrebbe annunciare all'esercito che stiamo arrivando.» Anche i nani si alzarono, pronti a combattere. II cavaliere vide il fuoco e si fermò. «Che Vraccas vi benedica», si sentì nella notte. «Tre è il numero perfetto, no?» «Bramdal!» Il Rabbioso imprecò. «Ormai sono sicuro: è una spia», sussurrò a Tungdil. «Non può essere un caso, che c'incroci continuamente.» Il boia condusse il cavallo nella zona illuminata e smontò di sella con l'aiuto della piccola scala a pioli. «C'è un profumino troppo buono per non fermarsi», osservò ridendo. Il Rabbioso tenne alta la carcassa del coniglio, con fare derisorio. «Troppo tardi, boia. Questa volta la morte è arrivata prima di te. Puoi riprendere la tua cavalcata.» Gli abiti scuri di Bramdal rendevano difficile distinguerlo dallo sfondo notturno. «Pare che non abbia molti amici intorno a questo fuoco», disse, prudente. «Per quale motivo?» «E lo chiedi?» Il Rabbioso fece un passo in avanti, seguito da Goda. «Appari un po' troppo spesso dalle nostre parti, per i miei gusti, fai affari con la morte e come se non bastasse smerci pezzi di cadavere. Quale nano per bene farebbe cose del genere?» Bramdal infilò i pollici nella cintura. «Non esercito più il mestiere di carnefice, ve l'ho già detto. E che c'incontriamo spesso dipende o dal fatto che abbiamo le stesse mete o che prendiamo le stesse strade per raggiungere mete differenti. Che motivo avrei di spuntarvi davanti?» «Il mio amico pensa che tu sia una spia degli assassini di nani.» Tungdil
osservò attentamente il volto del suo interlocutore. «Allora, se così fosse, dovrei estrarre la mia arma e attaccarvi.» Bramdal si sedette sull'erba. «Naturalmente potrei anche rimanere tranquillo e fare finta che la vostra accusa non mi tocchi. Per farvi sentire al sicuro. Poi, durante il sonno, potrei tagliarvi la gola per privare la Terra Nascosta dei suoi più grandi eroi.» Guardò Lot-Ionan. «Ho dimenticato qualcosa?» «Sì, hai dimenticato di alzarti e rimetterti in marcia», propose il Rabbioso con aria truce. «Vattene, boia. Non ti vogliamo qui.» «Neanche se sto portando un messaggio all'esercito da parte di Aureorifugio?» Tungdil gli si avvicinò. «Se vuoi, dicci di che si tratta, poi riprendi la tua strada. Altrimenti, rimonta in sella e va' direttamente via.» Voleva che il boia si allontanasse, perché temeva per l'autocontrollo di Boïndil. Bramdal fece una faccia dispiaciuta. «È questo il ringraziamento per averti detto come arrivare dai Liberi? Mi scacci dal tuo fuoco?» «No.» Il Rabbioso si piantò davanti a lui, brandendo l'azza. «Sono io che ti scaccio.» Bramdal sospirò. «Avrei dovuto immaginare che non mi avreste accolto amichevolmente. Era chiaro già l'ultima volta che ci siamo incontrati.» Si alzò e raggiunse il cavallo. «Aureorifugio manda a Mallen dell'oro per coprire le spese dell'assedio. E armi. In cambio, i Liberi chiedono di estendere i loro commerci anche all'Idoslân e di poter aprire negoziati con le più grosse città del paese.» Salì sulla sua sella personalizzata. «Sta nascendo una nuova alleanza, direi.» Bramdal fece loro un cenno col capo. «Poiché nessuno sa quanto possono durare le alleanze più vecchie.» Il cavallo prese a trottare lungo la strada che portava a sud-est. Videro ancora a lungo il bagliore della lanterna, finché il nano non svoltò dietro una collina e sparì. «Finalmente!» Il Rabbioso tornò a sedersi. Tirò fuori da dietro una roccia un secondo coniglio e gli tagliò la testa. Uno solo non lo saziava. «Che significa tutto ciò?» chiese Rodario. «I Liberi temono che le stirpi dei nani cambino atteggiamento?» «Così sembrerebbe.» Lot-Ionan guardò Tungdil. «Che motivo ci potrebbe essere?» «Non so proprio. Durante le riunioni non ho notato nulla che facesse pensare a un deterioramento dei nostri rapporti. Non riesco a capire che cosa possa significare la ricerca di nuovi alleati. Prima non avevano fatto nulla del genere.» Tungdil si gettò sull'erba, Sirka si unì a lui. «Sanno
qualcosa che noi non sappiamo?» «Lo scopriremo domani.» Lot-Ionan rabbrividì e mise altra legna sul fuoco. «Inutile stare a rimuginarci sopra. Ci sono cose più urgenti. Dormiamo e riposiamoci.» Goda fu incaricata del primo turno, mentre gli altri si coricavano accanto al fuoco. Tungdil meditò ancora a lungo sulle parole del carnefice. Terra Nascosta, regno di Idoslân, nei pressi delle caverne dei mezz'orchi del Toboribor, 6241° ciclo solare, tarda estate Tungdil e i suoi compagni si fermarono su un'altura per osservare il più grande assedio che la Terra Nascosta avesse mai conosciuto. La vista era impressionante. L'esercito dei regni della Terra Nascosta e degli elfi aveva costituito un'ampia cintura intorno agli accessi del regno sotterraneo un tempo appartenuto ai mezz'orchi del Toboribor, una cintura che non permetteva a niente e a nessuno di sfuggirle. Erano stati raccolti non meno di diciassettemila guerrieri e volontari per abbattere il male rappresentato dagli Eterni e dalle loro creature. Le fosse scavate davanti agli ingressi correvano come una striscia nera tra il verde intenso e gli alberi da frutta, mentre subito alle loro spalle erano accampati i guerrieri dei diversi regni degli umani. Piccoli ponti mobili permettevano, in caso di necessità, di superare quella specie di taglio. Le numerose tende dei nani si trovavano parecchio dietro lo sbarramento. Da lì partivano le unità che battevano le caverne del Toboribor in cerca degli Eterni, come spiegarono loro le sentinelle degli avamposti che attraversarono avvicinandosi al campo. Quasi tutti i clan delle stirpi dei nani avevano mandato guerrieri: una foresta di bandiere e stendardi sventolava nell'aria; in un accampamento più piccolo e un po' scostato sventolavano gli stendardi delle cinque città dei Liberi. «Non è magnifico? Il male non ha scampo!» esclamò il Rabbioso pieno di orgoglio. «Sempre se il male dimora ancora in quelle caverne», replicò Lot-Ionan, dubbioso. Tungdil annuì. «Scopriamo a che cosa sono valsi gli sforzi per distruggere gli Eterni una volta per tutte.» Spronò il suo pony, spingendolo avanti. I Liberi avevano preso quartiere troppo lontano dalle stirpi, per i suoi gusti. A quanto pareva, Bramdal aveva ragione.
Lot-Ionan cavalcava accanto a lui. «I tuoi lambiccamenti ti hanno portato a qualche conclusione o sei al mio stesso punto?» «Temo di essere al vostro stesso punto.» Tungdil si costrinse a distogliere lo sguardo dagli stendardi dei Liberi. «Tutto dipende dal comportamento degli elfi. Non oso valutarlo.» «Neanche io. Esdalân non mi dà l'impressione di essere un bugiardo, anche se posso immaginare molti altri motivi per cui degli elfi possano cercare di uccidere altri elfi. È stata comunque una buona idea lasciarlo in un villaggio. Vorrei prima farmi una mia impressione.» Il mago indicò la tenda su cui sventolava lo stendardo di Mallen. «Andiamo da lui. Penso che dovremmo informarlo di ogni cosa. Con tutto quello che mi hai raccontato, mi sembra essere un sovrano assennato. Anche se è un Ido.» Bramdal doveva avere annunciato il loro arrivo. Furono accolti con grida di gioia e cozzare di spade contro gli scudi. I guerrieri si chinarono di fronte al ritorno del mago; sul volto di alcuni era dipinta un'espressione estatica. Il rumore richiamò Mallen fuori dalla sua tenda. Portava indosso l'impressionante armatura dei suoi avi; i capelli biondi erano sciolti sulle spalle. «Benvenuto, venerabile Lot-Ionan», esordì facendo un inchino. «E sentitevi benvenuti anche tutti voi.» Salutò Rodario e il Rabbioso con una stretta di mano. «Mastro Bramdal ci ha riferito che sareste presto arrivati. I più grandi eroi della Terra Nascosta sono qui riuniti. Ora possiamo affrontare gli Eterni.» Tenne aperta la tenda. «Entrate. Se non siete troppo stanchi, vi spiegherò volentieri i risultati ottenuti nelle ultime rotazioni.» Mandò un messo a chiamare i comandanti dei nani. Poi si rivolse a Lot-Ionan. «Perdonate questa accoglienza non commisurata a voi e al vostro ritorno.» Il mago annuì. «Capisco perfettamente, principe Mallen. Ci sono cose più importanti, adesso. Potremo festeggiare dopo la nostra vittoria.» Come tutti gli altri, notò subito il grande e strano disegno che era stato tracciato sul lato interno della tenda. «È una mappa», spiegò loro Mallen. «La dobbiamo ai nani. Hanno misurato e disegnato le caverne e i corridoi in cui sono riusciti a penetrare.» Indicò le parti tratteggiate di blu. «Questi sono i punti che hanno conquistato e che tengono sotto controllo. Hanno piazzato dei piccoli avamposti fortificati all'interno delle caverne.» «Ma gli Eterni sono nelle caverne?» s'informò il mago sedendosi al tavolo, imitato subito dagli altri. «Così pensiamo. I nani hanno avvistato di recente tutti i loro mostri e
suppongo che il loro compito principale sia distogliere la nostra attenzione dai loro padroni; per questo motivo i nani si sono addentrati nelle zone in cui durante la caccia hanno incontrato meno resistenza.» Mallen indicò un'area contrassegnata di verde. «Tale supposizione sembra essersi dimostrata fondata. In questo punto i nani hanno incontrato un'inattesa e durissima resistenza e, a quanto pare, gli ultimi albi dovrebbero trovarsi da qualche parte in questa zona delle caverne.» Gandogar varcò la soglia; Tungdil e gli altri nani della Terra Nascosta chinarono il capo. Lo seguivano a un po' di distanza i comandanti dei Liberi. E Bramdal, che li salutò con un enigmatico sorriso. «Che gioia vedervi tutti in buona salute!» esclamò l'imperatore, sollevato. «Conosco voi solo come statua. Dovete essere Lot-Ionan il Paziente!» «Non tutti ne sono usciti vivi. Molti, troppi sono volati nella Fucina Eterna di Vraccas», intervenne Tungdil raccontando che cos'era successo loro nel Weyurn. «Sull'isola abbiamo perduto Furgas. Il ferro incandescente lo ha arso vivo. Lo abbiamo visto morire senza riuscire a fare nulla.» Mallen e l'imperatore rimasero turbati. «Furgas è morto?» Mallen appoggiò le braccia sul tavolo. «Ci mancherà la sua mente geniale, che in passato non ha portato solo a cose negative. Spero che questo non sembri cinico, ma prima della sua dipartita ha almeno annotato i punti deboli delle creature da lui prodotte?» «Sì.» Rodario posò sul tavolo una cartellina che aveva preso dalle borse della sella. «Mi ha lasciato parecchi fogli su cui ha segnato in che punto ciascuno dei mostri è più vulnerabile.» L'attore aveva il volto triste, si dovette schiarire la voce. «Questi punti non sono grandi. Ci vogliono mani ferme e buoni occhi per colpirli.» Mallen passò la cartellina a un servitore perché ne facesse preparare delle copie. «Credetemi, compiango la sua morte, ma non è questo il momento di soffermarci a lungo sulla dipartita degli amici.» L'ingresso della tenda si aprì di nuovo ed entrò Rejalín con un seguito di tre guardie del corpo e due elfi disarmati. «Nessuno mi ha informata che era stata indetta una riunione», disse sorridendo con aria di scuse. «Se non avessi visto Gandogar entrare nella tenda, l'avrei mancata. Non volete ascoltare il parere degli elfi?» Il Rabbioso aprì bocca. «Puoi starne...» «Boïndil vuol dire che potete stare certa che vi avremmo fatta chiamare», intervenne Tungdil. «Infatti abbiamo bisogno che i vostri guerrieri raggiungano il più presto possibile il Toboribor, non i regni dei nani.»
«Perché mai? Pensavo che, per precauzione, le porte dovessero esser custodite anche da noi, fintanto che così tanti vostri guerrieri si trovano nel Toboribor. Il pericolo costituito dai mostri che circondano la Terra Nascosta non deve esser sottovalutato; così come il pericolo costituito dai Terzi che si annidano tra di voi.» Rejalín aveva parlato con tono cortese e convincente, ma era impossibile non notare la critica che vi era nascosta. Dal suo punto di vista, i nani avrebbero dovuto ricercare i traditori con qualunque mezzo. Tungdil non si meravigliò dell'opinione espressa dall'elfa. Non più. «Abbiamo scoperto che le caverne sono collegate con la Terra Nascosta. Molto sotto i nostri piedi si sta raccogliendo una nuova armata. I nani nelle caverne sono dei buoni guerrieri, ma senza gli elfi soccomberanno, così come l'esercito degli uomini.» Il nano sapeva che quella menzogna avrebbe funzionato. Non poteva fare altro, neppure se fosse stata in grado di leggergli la mente. «Donde traete queste vostre conoscenze, Tungdil Manodoro?» chiese Rejalín, confusa. «Ci sono state rivelate dai Terzi che abbiamo affrontato.» E raccontò le avventure vissute nel Weyurn in una versione leggermente modificata, senza mai menzionare il ruolo che Furgas poteva aver giocato nella vicenda. Lasciò che i cattivi continuassero a essere i Terzi e gli Eterni. «Bandilor si era alleato con gli albi. Ci ha raccontato dei piani degli Eterni, che a lui facevano molto comodo.» L'elfa lo scrutò attentamente. «E voi credete alle parole di un nano votato al male?» «Credo alle parole pronunciate sotto minaccia di morte», la corresse lui. «Pensava che lo avrei risparmiato, e Lot-Ionan ne ha messo alla prova la sincerità ricorrendo alla magia.» «Abbiamo bisogno dei guerrieri dell'Âlandur qui, principessa. Immediatamente, prima che quell'oscuro esercito esca allo scoperto e ci travolga.» Più che pregarla, il principe Mallen le stava dando un ordine. A ciò lo spingevano due considerazioni: il paese minacciato più da vicino era il suo, e l'elfa gli piaceva sempre di meno. Anche se forse non era saggio parlare in modo tanto energico, non poté fare altrimenti. «Vi volete assumere la responsabilità del fatto che l'Idoslân e l'intera Terra Nascosta cadano?» Tungdil se ne rallegrò. Quella circostanza rendeva più credibili le sue menzogne. «Ora chiedete il mio aiuto, principe Mallen?» Rejalín alzò il suo bicchie-
re d'acqua e bevve con tutta calma, lasciando scorrere il tempo, prima di riprendere a parlare. «Non avete forse espulso la delegazione che ho inviato alla vostra corte?» «C'è una certa differenza tra una delegazione e un esercito, principessa», replicò lui. «In questo momento non ho molta voglia di amene conversazioni sullo scambio di conoscenze, proprio mentre cerco di evitare questa nuova sciagura che incombe sulla patria di tutti noi.» Si sporse in avanti. «Una volta che avremo vinto, la vostra delegazione sarà benvenuta, ma fino a quel momento siate benevola e risparmiatemi i vostri messi. Piuttosto, mandatemi un esercito. Quello lo accoglierò fin da subito a braccia aperte.» Gandogar annuì. «Non preoccupatevi, Rejalín. Noi apprezziamo il vostro aiuto, ma sapremo difenderci bene anche da soli. E, se giova a tranquillizzarvi, vi dirò che abbiamo già scoperto e rinchiuso sette nemici dei nani che vivevano in incognito tra la nostra gente. Senza usare la tortura», aggiunse. «I Terzi che intendono davvero vivere tra noi ci hanno molto aiutato in questo.» «E sia, allora», concordò l'elfa, dissimulando la sua sconfitta con un sorriso. «Oggi stesso partiranno i messaggeri incaricati d'indirizzare i guerrieri già in viaggio.» Osservò la mappa delle caverne. «I nani devono avanzare rapidamente. Più esploriamo i corridoi e le grotte, meglio sapremo procedere contro questo esercito proveniente dalla Terra Nascosta. Le imboscate si dimostreranno di grande utilità.» «Sono d'accordo con voi.» Gandogar alzò il boccale e brindò. «I miei minatori individueranno i punti migliori e inizieranno subito i lavori.» «Si sa qualcosa riguardo a quando giungerà questo esercito?» chiese Rejalín. «I miei guerrieri non potrebbero arrivare troppo tardi?» «No. Bandilor ha parlato di preparativi. Abbiamo ancora un po' di tempo», la tranquillizzò Tungdil. «Perdonatemi, ma i miei amici e io siamo stanchi per via dei disagi del viaggio. Potremmo tenere domani un consiglio vero e proprio per mettere al corrente tutti i comandanti. Ora vorrei ritirarmi.» L'elfa acconsentì e lasciò la tenda, seguita dai comandanti delle città dei Liberi e da Bramdal. Non appena se ne furono andati, Tungdil concordò con Gandogar e Mallen un incontro segreto, lontano dall'accampamento, non appena fossero calate le tenebre. «Niente guardie, niente servitori. Solo voi due», si raccomandò prima di andarsene. «Fidatevi di me. È qualcosa di molto impor-
tante, per cui non parlatene con nessuno.» I due sovrani acconsentirono, stupiti. Quando le stelle sorsero sull'Idoslân, i tre s'incontrarono nel luogo convenuto. La curiosità di Gandogar e di Mallen era grande, ma Tungdil li pregò di essere pazienti e si chiuse in un silenzio irremovibile. Lot-Ionan si unì presto a loro, e in quattro cavalcarono fino a Dechseldorf, il villaggio in cui avevano lasciato indietro Esdalân. Tungdil aveva l'impressione che, ristabilendosi, l'elfo avesse cominciato a diventare più bello. O, meglio, sembrava più fresco e luminoso di tutti gli esseri che si trovavano vicino a lui. Esattamente come Rejalín. Mentre Gandogar e Mallen sedevano nell'osteria vuota ascoltando la storia dell'elfo alla luce di molte candele, i loro volti si fecero preoccupati. «Dunque ho fatto bene a essere diffidente», commentò il principe. «Anche se avrei preferito che mi convinceste dell'innocenza degli elfi, piuttosto che sentire queste nuove.» «È mostruoso che abbiano ucciso il proprio principe.» Anche Gandogar stentava a capacitarsene. «E, dal momento che ritengo i loro guerrieri capaci di tutto, li ho attirati nel Toboribor con la scusa di portarci aiuto», disse Tungdil. «Preferisco averli raccolti in un solo posto, dove si trova l'esercito degli uomini, piuttosto che saperli dispersi per tutta la Terra Nascosta pronti a fare danni immensi.» «Si parlava di magia.» Mallen alzò gli occhi e guardò Lot-Ionan. «Che cosa sapete sui poteri degli elfi, venerabile mago?» «Non molto. Gli elfi sono in grado di usare piccoli incantesimi connessi alla loro natura, come gli albi, i loro parenti oscuri. Se i libri che ho letto a suo tempo non m'ingannano, questi incantesimi riguardano innanzitutto piante e arti. Liútasil non accennò mai al fatto che un membro del suo popolo fosse in grado di utilizzare la magia come me o uno degli altri maghi.» «Questo potrebbe essere vero solo fino a un certo punto», intervenne Esdalân, la cui voce risultava agli umani seducentemente limpida. «Gli elfi dell'Âlandur non hanno mai avuto fama di prestare particolare attenzione alle arti magiche. Ma altri membri del mio popolo, ovvero gli elfi della Pianura d'Oro, che vennero distrutti dagli albi, si atteggiavano in modo più ricettivo di fronte a tale potere. Mi è tornato in mente mentre aspettavo qui: in quei tempi un pugno di elfi sopravvissuti agli albi venne nell'Âlan-
dur e si mescolò a noi.» «Questo cambia tutto. Non possiamo quindi escludere che tra le file degli Atàr ci sia un discendente di questi elfi dotati per la magia. Forse l'Eoîl ha condiviso con lui una parte del suo sapere», concluse Lot-Ionan. «Questo spiegherebbe perché vogliono il diamante.» Gandogar guardò il mago con gli occhi socchiusi. «Non prendetemi per sfrontato, venerabile Lot-Ionan, ma che cosa accadrebbe se voi o Dergard entraste in possesso della gemma? Di che potere disporreste?» «Se le cose stanno come mi ha descritto Tungdil, allora quel potere sarebbe...» Rimuginò, grattandosi la barba. «Quel potere sarebbe smisurato.» Sorrise. «Non temete, imperatore Gandogar. La prospettiva non mi alletta, e non alletta neppure Dergard. C'è la nuova sorgente a fornirci di potere. Per noi non sarebbe nulla di speciale. E comunque né Dergard né io tendiamo al male.» «Siete sicuro?» Gandogar sparì dietro il bancone e versò a tutti un po' del semplice vino della casa. «Dergard era un allievo di Nudin. Sappiamo che cos'è diventato quel mago.» «Non dimenticate le circostanze, caro imperatore», replicò Lot-Ionan. «Non c'è più nessun demone a suggerire mosse sbagliate. Questa volta i nostri nemici sono potenti, ma fisici. E per questo attaccabili.» Porse la mano verso la ciotola d'argilla che gli veniva offerta e inspirò forte. Aveva avvertito di nuovo quella stilettata alla schiena; gli si annebbiò la vista... Poi credette di scorgere una figura vestita di scuro accanto alla porta, una figura stranamente familiare. «Nudin?» «Venerabile Lot-Ionan, che vi succede?» Tungdil lo fissava preoccupato. «Avete di nuovo mal di schiena?» Il mago scosse la testa, mandò giù il vino e se ne fece versare dell'altro. «Probabilmente continuano a esserci dei minuscoli frammenti di pietra nel mio corpo», disse lentamente. «Influenzano anche la mia mente e mi spingono a vedere cose impossibili.» Si alzò e raggiunse l'angolo in cui aveva visto il suo vecchio amico. Ma per quanto cercasse una qualche traccia, non trovò nulla. E ciò lo tranquillizzò molto. «Che avete, venerabile mago?» chiese Tungdil. «Niente. Dovevo solo sgranchirmi le gambe. Ah, la mia schiena. Fa male. Mentre ero una statua non l'avevo mai notato...» Tornò dagli altri. «Che facciamo con gli elfi?» disse riprendendo il filo del discorso. «Apriamo subito la questione e stiamo a sentire che cos'hanno da dire in proposito o prima catturiamo gli Eterni?»
«Io sono per non rimandare il confronto con la principessa», dichiarò Mallen. «E vi dirò perché. Non mi piace che gli elfi abbiano la possibilità di perseguire i loro obiettivi durante la lotta contro gli albi e le loro creature, d'impossessarsi del diamante e di usarlo per compiere misfatti indicibili. Certo, annienteranno il male, non ho dubbi al riguardo.» I suoi occhi vagarono sui volti dei presenti. «Ma dubito che dopo intenderanno ragione. Preferirei avere Rejalín in ostaggio. Prima della battaglia.» «È un buon piano. Se gli elfi non mangeranno la foglia», replicò LotIonan strofinandosi gli occhi stanchi. «Be', il principe Mallen ha espresso perfettamente quello che penso. Se rifiuteranno il confronto, verrà così alla luce che il loro gioco è disonesto», intervenne Esdalân passandosi una mano tra i fini capelli. «Io sarei per non correre il minimo rischio e attaccare e catturare i pochi guerrieri dell'Âlandur che già si trovano nel Toboribor.» «Porteremo Esdalân con noi e lo lasceremo parlare davanti al consiglio», propose Tungdil. «Poi vedremo che cosa s'inventeranno gli elfi contro la vostra storia.» «C'è solo una cosa che non dobbiamo dimenticare: noi stiamo prestando volentieri attenzione a Esdalân perché abbiamo avuto le nostre esperienze con gli Atàr.» Mallen si rivolse all'elfo. «Ma dovete partire dal presupposto che domani avrete un pubblico meno aperto. Re Nate e la regina Isika sono convinti sostenitori degli elfi, e non si lasceranno portare facilmente dalla vostra parte.» Esdalân chinò il capo benevolmente, come fosse un re che accondiscendesse a una richiesta. «Grazie per l'avviso, principe Mallen. Ma sono del tutto persuaso che riuscirò ad aprire gli occhi agli uomini, anche se mi dovesse costare la vita.» «La vita?» disse Gandogar, spaventato. «Meglio di no. Non vorremmo mai arrivare al punto di perdere l'unico elfo ragionevole dell'Âlandur.» «Non sarà possibile evitarlo», replicò Esdalân rimanendo sulla sua posizione. «Conosco molto bene Rejalín. La provocherò, e a un certo punto del mio discorso varcherò quello che per lei è il limite.» Poggiò una mano sull'avambraccio di Tungdil. «Lo devo a voi e alla Terra Nascosta. Sitalia ha preservato la mia vita mandando a me un nano. Comprendo la volontà della dea. I nostri due popoli devono agire insieme contro coloro che potrebbero causare la rovina degli elfi.» «Anche Vraccas guarda con benevolenza ciò che accade in questa osteria», sentenziò Gandogar. I suoi occhi scuri vagarono sui volti dei cospira-
tori. «Ma non dimentichiamo di pregare gli dei per il successo dei nostri piani. Abbiamo urgente bisogno del loro aiuto.» Mise la mano al centro del tavolo, ed Esdalân vi pose sopra la sua. Poi seguirono Mallen, Tungdil e Lot-Ionan. «Speriamo...» mormorò il mago, inquieto. Terra Nascosta, regno di Idoslân, nei pressi delle caverne dei mezz'orchi del Toboribor, 6241° ciclo solare, tarda estate Quella notte Tungdil dormì male. Sognò Balyndis e Sirka. Era stato un sogno terribilmente confuso, e la mattina successiva se ne ricordava solo frammenti. Le due nane avevano lottato per lui o contro di lui? Alla fine Sirka gli aveva piantato un pugnale nel cuore... Al primo canto degli uccelli, il nano si sedette sul letto palpandosi il petto, che gli doleva, rendendo perfetta l'illusione del sogno. «Un vero incubo», mormorò strofinandosi quel punto. Si alzò, si lavò e s'infilò vesti e armatura. Il volto che lo guardava dal lucido specchio d'argento sembrava vecchio e stanco. Certo, potevano essere le ripercussioni del periodo in cui beveva. O poteva essere l'insoddisfazione della sua anima. «Ho fatto la cosa giusta?» domandò al suo riflesso, come tante volte aveva già fatto. «Sei in preda al sonnambulismo o sei davvero già sveglio?» bofonchiò il Rabbioso, ancora a letto, tirandosi sui gomiti. «Che succede? Gli uccellini cantano troppo forte?» Tungdil si girò verso di lui. «Alzati, Boïndil. Devo raccontarti alcune cose», lo pregò. Così, mentre s'infilava nei suoi vestiti, il guerriero poté ascoltare un riassunto di ciò che era accaduto la notte precedente. «La riunione di oggi sarà davvero decisiva e vorrei che tu vegliassi su Esdalân. Devi proteggere lui dagli elfi, non me.» Il Rabbioso si passò una mano tra i capelli. Non erano cresciuti abbastanza in fretta perché se ne potesse fare una bella treccia, per cui li portava sciolti. «Perché non mi hai portato con te all'incontro?» chiese. «Che cos'ho fatto per perdere la tua fiducia?» Tungdil era sorpreso. «Non ci ho pensato, perché...» Cercò lui stesso una spiegazione, ma su due piedi non la trovò. Quantomeno, non una spiegazione che potesse esprimere ad alta voce. Boïndil aveva tratto già le sue conclusioni. «È per via di Goda, non è vero?» S'infilò gli stivali. «Tu non ti fidi di lei e hai paura che io le dica tutto.
E che lei sia una spia dei nemici dei nani.» Poggiò gli avambracci sulle ginocchia e osservò l'amico. «Dalla discussione in quella fattoria, tra di noi le cose non sono più come all'inizio delle nostre avventure, Sapientone. Mi chiedo in continuazione chi di noi due è cambiato tanto da permettere una cosa del genere.» «Siamo cambiati entrambi.» Tungdil prese uno sgabello e si sedette di fronte all'amico. «Tu hai dato il tuo cuore a una nana che non conosciamo, di cui non sappiamo niente e che in segreto potrebbe avere qualunque obiettivo. Tu non vedi il pericolo e io, probabilmente, lo esagero.» Sorrise triste. «E il mio cuore è nelle mani di una nana che non ti piace per niente.» «Allora la colpa è delle femmine, non nostra.» Il guerriero sogghignò. «È sempre una questione di femmine.» Tungdil sorrise. «Questa sarebbe una conclusione un po' troppo facile.» Cercò le parole giuste. «Io non sono contento, Boïndil. Sono infelice. Nella Terra Nascosta non c'è comunità in cui mi senta a casa, né tra i nani né tra gli uomini.» «Andrai coi Sotterranei, lo so.» «Come...» «Tu sei il Sapientone, Tungdil. Hai passato più di cinque cicli a startene seduto nella galleria di Lot-Ionan cercando di accontentarti della stabile vita di un nano. L'hai fatto per Balyndis, ma la tua anima non lo voleva. Non così.» Tungdil fu stupito da quella spiegazione: coglieva in pieno quello che provava. Guardò il suo amico con faccia meravigliata. «Ora c'è per te una nuova sfida, ma poi andrai avanti, oltre i confini che Vraccas ha tracciato con le montagne.» Boïndil sorrise. «Per quanto tu sia un nano, a te non sono state date la costanza e altre caratteristiche tipiche dei figli del Fabbro.» Gli fece un cenno col capo. «E volutamente. Tu hai fatto reincontrare le stirpi e i Liberi, e la Terra Nascosta deve innanzitutto a te il fatto di esistere ancora nel modo in cui è.» Gli diede una pacca su un ginocchio e si alzò. «Un nano di stirpe come me non sarebbe mai riuscito in imprese del genere. Vraccas ti ha fatto così perché smuovessi un po' le stirpi. Rimani come sei, Sapientone. Io mi ci abituerò, anche se mi ci vorrà del tempo. Per questo ti prego di avere pazienza, se mi vedi scontento. Alla fine sono e resto tuo amico.» Il Rabbioso gli porse la mano. «Se per te è una cosa importante.» «Come si potrebbe rinunciare a un nano caparbio e onesto come te?»
Tungdil prese la mano, poi si abbracciarono. Era felice di quel confronto franco, che aveva soffiato via le nubi scure tra loro. Boïndil era sollevato. «Ora che ci siamo chiariti, vediamo come reagiranno gli Orecchi appuntiti alle accuse di Esdalân.» Si appoggiò l'azza sulla spalla. «E dico volutamente Orecchi appuntiti, perché quelli non sono elfi con cui possiamo andare d'accordo.» Andò nell'ambiente adiacente della tenda, che era separato con un panno; lì dormiva Goda. «Ah, è semplicemente meraviglioso poterli chiamare di nuovo Orecchi appuntiti!» Tungdil procurò loro un'abbondante colazione. Mangiò in silenzio, mentre Boïndil preparava la sua allieva a ciò che sarebbe accaduto nell'imminente consiglio. Alla nana non sfuggì che il suo mentore, mentre parlava, sbirciava continuamente in direzione dell'amico. Alla fine si volse verso Tungdil. «Che cosa posso fare per convincerti della mia onestà?» gli chiese franca. «Affidami un compito, chiedimi un giuramento, o qualcosa del genere, che ti dia la sicurezza che il Rabbioso ha già da tempo.» «Non ce n'è bisogno», replicò Tungdil. «Ma io voglio spazzare via i tuoi dubbi una volta per tutte», insistette lei. «Siamo entrambi Terzi. Tu sai che cosa si prova a essere guardati con sospetto.» Tungdil non le rivelò il vago proposito di raccogliere di nuovo i Terzi in un'unica stirpe. «Sì, lo so.» Ripensò a quando il clan di Balyndis lo aveva rifiutato. «E sta' certa che non mi piace guardarti con diffidenza quando sei vicino a me e a Boïndil. Ma la prudenza e il senso di responsabilità me lo impongono. Se tu fossi una spia degli assassini di nani, potresti fare molti danni con le informazioni in tuo possesso.» Goda continuò a fissarlo, testarda. «Quindi non ti fiderai mai di me?» «Tu hai convinto il mio migliore amico. Dammi ancora tempo per accettare il suo giudizio.» «Non tutti sono come Myr», disse la nana. Tungdil sussultò. «No, non sono tutti come lei», concordò a bassa voce, poi si alzò e lasciò la tenda. Alla luce del sole levante, camminò a lungo su e giù per le colline, raggiungendo una piatta cima dopo l'altra, finché non ne trovò una più alta delle altre. Si sedette, senza fiato, sull'erba coperta di rugiada. Il suo sguardo vagò sulle tende, sul fumo dei fuochi: l'esercito si stava svegliando, come il resto della Terra Nascosta. Presumibilmente, nei Monti Grigi si stava alzando anche Balyndis; forse stava guardando Glaïmbar,
pensando però a lui. Forse lo stava maledicendo, forse lo amava ancora, ma capiva che quell'amore non l'avrebbe portata da nessuna parte. Tungdil sperava che lo capisse. Strappò qualche filo d'erba e ci giocò. Come sarebbe andata con Sirka? Avrebbe deluso anche lei? Rimase seduto in quel punto di osservazione, immerso nei suoi pensieri, fino a che il sole non si fu bene alzato all'orizzonte e le fanfare non convocarono il consiglio. Sarebbe arrivato tardi, ma la cosa non lo preoccupava. Non avrebbero cominciato senza di lui. «Vraccas, guidami tu», pregò mentre si alzava, si scrollava la rugiada dai pantaloni di cuoio e si gustava la brezza notturna che ancora gli accarezzava il volto, mentre fuggiva davanti ai raggi dell'astro diurno. Senza sapere perché, girò la testa verso nord. E vide un ampio serpentone che, a dieci miglia da lui, si trascinava fra le colline dell'Idoslân. Un imponente esercito stava attraversando a passo svelto l'Idoslân, puntando verso il Toboribor. Gli ubari, gli balenò nella mente. Sûndalon aveva guidato di nascosto l'esercito attraverso le montagne, superando la sorveglianza dei Quarti. Tungdil era curioso di sapere come avrebbe reagito Rejalín alla comparsa degli ubari. Dentro di sé, il nano provava un grande sollievo nel vedere quell'esercito. Gli elfi non potevano osare muovere guerra contro forze tanto superiori. E sarebbe stato un grosso trauma per Gandogar scoprire che i figli del Fabbro non erano stati gli unici a provvedere alla sicurezza della Terra Nascosta, da migliaia di cicli. «Eh, sì, sarà un consiglio avvincente», mormorò mentre tornava all'accampamento. Si imbatté nelle prime vedette che correvano alla tenda di Mallen per informarlo dell'arrivo dei presunti mezz'orchi, comparsi come dal niente. Tungdil si accodò all'ultimo messo e gli tolse la parola. «Principe Mallen, quelli che si stanno avvicinando non sono nemici», spiegò. «Sono creature che hanno difeso la Terra Nascosta esattamente come ha fatto il mio popolo. Manderò Sirka da loro. Tornerà con una delegazione di ubari.» Mallen, circondato da uomini agitati, rifletté. «Quella di stupirmi è un'abitudine che devo perdere», disse alla fine con aria composta. «Incontriamoci nella tenda del consiglio.» Tungdil fece un inchino e andò a cercare Sirka. Terra Nascosta, regno di Idoslân,
nei pressi delle caverne dei mezz'orchi del Toboribor, 6241° ciclo solare, tarda estate L'intero accampamento era in subbuglio. Sulle colline circostanti erano comparsi circa cento vessilliferi degli ubari. Ogni stendardo era alto cinque passi e largo uno; la stoffa ondeggiava al vento, le aste si piegavano e dovevano essere trattenute da quattro portatori. Lo sventolare del tessuto si sentiva a grande distanza. Il mare di vessilli bastò a impressionare gli uomini, i nani e perfino gli elfi. Come se non bastasse, Tungdil venne a sapere da Sirka che ogni singolo stendardo rappresentava mille guerrieri, che per il momento rimanevano accampati dall'altra parte delle colline senza mostrarsi. Tungdil credette di distinguere sui drappi armi stilizzate, ma anche segni che ricordavano fiori o bestie, mentre altri erano così arzigogolati da far pensare a un'origine elfica. Erano tutti molto diversi tra loro. Li guardò ancora un istante, meravigliato, poi entrò nella tenda del consiglio, in cui già si erano raccolti tutti i sovrani. Si stava discutendo animatamente e Tungdil non si stupì nel vedere Rejalín parlare con Isika e Ortger. Il principe Mallen si alzò e batté il fondo della sua coppa contro il tavolo, per ottenere il silenzio. «Com'è sotto gli occhi di tutti, è accaduto qualcosa d'inatteso», disse a voce alta per coprire l'ultimo rapido sussurro di Isika. «Tungdil Manodoro, spiegateci che cosa comporta tutto ciò.» Il nano si alzò. «Gli ubari sono arrivati per proteggere ciò che gli appartiene. Il loro inviato, Sûndalon, ha già spiegato tempo fa quale importanza ha la pietra per loro e per la Terra Nascosta.» «È una trappola», intervenne Rejalín, bella come la luce della prima mattina. «Sono creature di Tion che fingono di essere agnelli, ma che portano in sé la natura delle bestie.» «Non convenimmo già in passato che non si dovrebbe giudicare dalle apparenze, principessa?» replicò Tungdil in tono cortese. «Devo forse ricordarvi un'altra volta i vostri parenti? Se dovessimo seguire il vostro giudizio, dovremmo levare la nostra mano contro ogni elfo della Terra Nascosta. Come potremmo infatti escludere che in ognuno di loro si nasconda il seme del male?» Aveva intenzionalmente scelto parole secche per irritarla prima dell'arrivo di Esdalân. L'elfa si limitò a guardarlo intensamente e con ostilità. Intuiva che il nano stava tramando qualcosa. Prima che Tungdil potesse continuare a parlare, l'ingresso della tenda
venne scostato per far entrare la delegazione degli stranieri, formata da sette possenti ubari, seguiti da Sirka. Gli ubari differivano sensibilmente dai loro parenti, i mezz'orchi, innanzitutto per via della stazza maggiore e più muscolosa. I loro volti parevano per contro più fini, anche se non più belli; le zanne, affilate ma non dipinte, spuntavano tra le labbra, e la pelle era verde scuro. Portavano armature metalliche di buona fattura, che non ricordavano per nulla i rozzi usberghi dei mezz'orchi. Sotto indossavano uno strato di stoffa scura e spessa, mentre ai piedi calzavano stivali. Come armi usavano massicce lame ricurve, appesantite e più larghe all'estremità per conferire alla lama maggiore slancio in combattimento. Vedendoli, il Rabbioso imprecò tra i denti e afferrò il manico dell'azza. Alcuni nella tenda trasalirono; la regina Wey emise un debole gemito. «Saluto i sovrani della Terra Nascosta», disse il capo delegazione, facendo un lieve inchino e guardando i presenti coi suoi occhi rosa. La voce sembrava quella di un mezz'orco, ma parlava in maniera corretta e quasi senza accento. Tungdil considerava già un piccolo miracolo che gli ubari conoscessero la lingua comune della Terra Nascosta. «Io sono Flagur, e sono qui per aiutare gli ubari», e indicò Sirka, «a riottenere il diamante che è stato loro rubato.» «Ma gli ubari non erano i mezz'orchi?» domandò Isika, confusa. «Ci chiamiamo ubari a vicenda», le venne in aiuto Sirka. «Infatti entrambi i nostri popoli sono creature di Ubar.» «Gran bella tribù», mormorò Ortger, cui l'agitazione tingeva le guance di rosso senza che la barba riuscisse a mascherarlo. «Noi non siamo le creature che voi chiamate mezz'orchi», spiegò Flagur. «Noi chiamiamo quelle creature phottòr. Possiamo assomigliare loro, ma li combattiamo con la stessa decisione con cui un tempo doveste farlo voi nella Terra Nascosta.» «Si potrebbe considerare la vostra marcia come una minaccia», disse Isika, che era divenuta ancora più pallida. I capelli neri ne sottolineavano il biancore. «A quanto ci dicono le sentinelle, sarete almeno diciottomila guerrieri.» «Siamo centomila, regina. Non ci permetteremmo mai di minacciarvi. Temiamo solo che i vostri soldati non riescano a strappare il diamante dalle creature che chiamate Eterni. E, naturalmente, siamo qui anche perché tollerate i broka nel vostro paese.» Indicò Rejalín. «Abbiamo già sentito che nella Terra Nascosta gli elfi sono caduti sotto
le vostre spade», disse Ortger animatamente. «Guardatevi bene dal tentare la stessa cosa qui da noi.» Indicò Lot-Ionan e Dergard. «Noi abbiamo dalla nostra parte questi uomini potenti e saggi, contro i quali il vostro esercito non potrà fare nulla. Vi dice qualcosa la parola 'magia'?» Lo sguardo esperto di Rodario notò che Flagur si divertiva a fare la parte del sempliciotto, poiché era evidente che i sovrani presenti nella tenda lo ritenevano mentalmente poco dotato come un mezz'orco. «Magia? No, a me non dice nulla.» Flagur scosse la grossa testa, poi indicò l'ubari accanto a lui, che portava una larga veste viola. «Ma a lui sì. È il nostro supremo mastro di rune, ed è in grado di fare cose che mi lasciano sempre sbalordito.» I suoi accompagnatori risero piano. «Dobbiamo chiarire quale sarà il futuro del diamante. Sûndalon vi ha spiegato quanto è importante per noi e per la vostra patria. Per questo insisto affinché la pietra venga consegnata a noi, dopo la distruzione degli albi.» «Allora è una minaccia», concluse Isika, compiaciuta. «Le vostre intenzioni sono chiare.» Flagur contrasse le labbra in un sorriso e Tungdil pensò che, seppure nella sua vita aveva visto molte creature pericolose, quella era sicuramente la più pericolosa di tutte. «No. Vi do la mia parola che, in ogni caso, i miei soldati e io marceremo fuori dalla Terra Nascosta senza attaccare la vostra gente.» Un debole mormorio attraversò la tenda. Tutti avevano sentito l'annuncio, ma pochi vi credevano. Sirka prese la parola. «Ma dopo saremo costretti ad abbandonare anche la nostra patria, Fòn Gàla, e non potremo più custodire la strada segreta che porta alla Terra Nascosta, come abbiamo fatto tanto a lungo.» Gandogar corrugò la fronte tanto da trasformarla in una serie di valli. «È assurdo. Non c'è nessuna strada segreta che passi per le montagne...» S'interruppe, chiedendosi la stessa cosa che si stavano chiedendo gli altri sovrani. «Come avete superato il passo e le due fortezze della mia stirpe?» domandò con voce tremante. «Giuro su Vraccas che vi ucciderò con le mie mani, se....» Flagur guardò Sirka. «Diglielo.» «Abbiamo condotto noi gli ubari nella Terra Nascosta», ammise la Sotterranea. «Già da molto tempo conosciamo un sentiero che attraversa le montagne, e lo proteggiamo dai phottòr. Abbiamo aggirato le fortezze mentre gli acronta assediavano le vostre porte.» «E attraverso quel sentiero giungeranno nella vostra terra le creature più
orribili», predisse loro Flagur. «Ma potete impedirlo. Se ci darete la pietra, potremo risvegliare l'artefatto e sigillare la Forra Oscura.» «È un tranello», insistette Rejalín. Quelle erano le parole che Tungdil stava aspettando per suonare la carica contro la viltà degli Atàr. «Un tranello? Se proprio voi parlate di tranelli, principessa, come spiegherete alle teste coronate qui presenti che Liútasil è stato assassinato già diversi cicli fa e che voi state recitando una commedia?» Rejalín lo guardò con gli occhi sgranati. Per un battito di ciglia non vi fu in lei nulla di elegante, nulla di meraviglioso; poi l'elfa si controllò e rimise in volto la sua maschera incantevole. «Che razza di stupidaggini state raccontando, Tungdil Manodoro? Ripagate così l'ospitalità del mio popolo? Spargendo menzogne?» Gli elfi alle spalle della principessa bisbigliarono. «È vero! Miei sovrani, ho un testimone», annunciò il nano prima che venisse messo in ridicolo ciò che aveva detto. «Perché comprendiate che cosa sta succedendo nell'Âlandur, devo rivelarvi una circostanza che avrei preferito tacere fino alla mia morte: l'Eoîl che Rodario e io distruggemmo a Porista era in realtà un'elfa. Ne chiesi conto a Liútasil, e lui mi diede delle spiegazioni. Gli Eoîl sono i più anziani e potenti tra gli elfi, e nessuno del loro popolo avrebbe osato muovere guerra contro una di loro. Questo è il motivo per cui gli elfi non vennero mai in nostro aiuto.» E raccontò che cos'era accaduto realmente in cima a quella torre. Rodario, che si era tenuto intenzionalmente in disparte e aveva lasciato parlare Tungdil, giurò sulla sua vita che ogni singola parola era vera. «Liútasil conosceva la verità», riprese Tungdil. «Ora che lui è stato assassinato dai seguaci dell'Eoîl, non posso più continuare a tacere.» A un suo cenno, Boïndil e Goda uscirono a prendere Esdalân. Ortger guardava turbato l'elfa, che sedeva immobile come una figurina di gesso, le mani strette a pugno. «Dite che non è vero quello che sta raccontando Tungdil Manodoro», la pregò. «Aspettate di sentire il racconto del testimone che ha cercato di far uccidere», disse Tungdil quando Boïndil e Goda tornarono con l'elfo. Lo sguardo di Esdalân si posò colmo di disprezzo e di odio su Rejalín. Tungdil notò di nuovo quanto i due si somigliassero. «Eccomi qui davanti a voi, regine e re, e giuro su Sitalia che l'ho sentita con le mie orecchie parlare dell'attentato a Liútasil. Lei lo ha avviato, lei ha preparato il tradimento fin dal principio», rivelò indicando la principessa con un gesto accusatorio e aggraziato allo stesso tempo. «Mia sorella e i suoi seguaci mirano a
portare avanti gli insegnamenti dell'Eoîl, che qui e nella Terra dell'Aldilà già tanta sofferenza hanno causato. Non permettete loro, a nessun costo, di mettere le mani sul diamante, altrimenti male ne incoglierà a voi tutti e ai vostri sudditi.» Tungdil rabbrividì: dunque i due elfi erano fratelli. Ciò rendeva ancora più terribile il tentativo di omicidio perpetrato da Rejalín. Esdalân descrisse ciò che era accaduto nell'Âlandur: i nuovi templi in cui veniva venerata l'Eoîl; le pietre bianche, che rappresentavano la purezza e che sarebbero state costruite in tutti i regni; il progetto di uccidere tutti coloro che avevano avuto rapporti col male, come la gente che viveva intorno al Toboribor; la supremazia e il dominio che gli elfi avrebbero esercitato su tutta la Terra Nascosta non appena si fossero impadroniti del diamante. Il consiglio ascoltava in silenzio, come ammaliato. «Gli Atàr si considerano i difensori della purezza e quasi allo stesso livello dell'Eoîl. Vogliono avere il diritto di vegliare sulla nostra terra. Eppure non sono altro che creature cieche e pericolose, le quali hanno ucciso così tanti dei loro consanguinei da stroncare ogni opposizione.» La voce di Esdalân era diventata vacillante; l'emozione gli stringeva la gola. «E da principio nessuno notò nulla. Neppure io, che sono suo fratello.» Fece un passo indietro e cercò lo sguardo di Rejalín. «Ora lo sapete. In nome di tutti i morti dell'Âlandur causati dagli Atàr: fermateli! Non lasciate loro mano libera.» Rejalín deglutì. La comparsa del fratello le aveva fatto perdere il controllo. Regnava un silenzio imbarazzato. Fuori risuonavano le voci dei soldati, i passi di uomini e donne che camminavano nei pressi della tenda. «Per tutti gli dei», mormorò Isika appoggiando la mano su quella candida di Rejalín. «Ma dite qualcosa! Difendetevi in qualche modo dalle accuse che vi vengono fatte!» Disgustata e piena di disprezzo, l'elfa ritrasse la mano e se la pulì sull'abito. «Che altro c'è da dire? È vero. Vogliamo restituire alla Terra Nascosta la purezza e l'integrità che merita. L'Eoîl ci ha dato questo compito, e noi adempiamo di buon animo alle sue volontà.» Guardò i volti che la circondavano. «Non ci vorrà ancora molto. Presto sorgerà la nostra epoca. Allora la pula verrà separata dal grano. Questa nuova semenza crescerà più fruttuosa e dorata di tutte le precedenti. Dal momento che ne parliamo apertamente, questo è il mio appello per voi: assoggettatevi ora al nostro
giudizio e dimostrate che nessuna colpa ricade su di voi.» «Per Palandiell!» La regina Wey si alzò, furiosa. «Voi mi avete ingannata! Con menzogne e promesse avete carpito la mia fiducia per poter spiare di nascosto la mia terra!» Puntò il dito contro l'elfa. «Pensate che dopo la vostra confessione ci sia in questa tenda anche uno solo disposto a seguirvi?» «Sapevamo che avreste reagito così, una volta che i nostri buoni propositi riguardo alla Terra Nascosta fossero stati noti. Non potete capire, cara Wey», replicò Rejalín sorridendo indulgente. «Non siete ancora pronta.» Ma la sovrana del Weyurn era stata ferita troppo profondamente per lasciarsi calmare. «Non parlatemi come se foste mia madre!» esclamò indignata. «Ma è proprio questo ciò che noi siamo: siamo le madri che richiamano all'ordine la Terra Nascosta. Per il bene di tutti», ribatté Rejalín mentre si alzava. «Come accade spesso alle madri, i figli disobbedienti non comprendono le nostre azioni. Solo tra molti cicli, quando, ricompensandoci per i nostri sforzi, sarà cresciuta la semenza della nuova Terra Nascosta, si encomieranno gli Atàr e la saggezza dell'Eoîl.» Gandogar le sbarrò il passo. «Dove volete andare? Affrontate le conseguenze delle vostre azioni», tuonò. «Avete ucciso nani e uomini.» L'elfa lo guardò stupita. «Abbiamo solo soppresso le creature che non possedevano la purezza necessaria per poter vivere nel nuovo ordine. Erano pula.» Le guardie del corpo si aprirono, disponendosi a protezione della loro signora. «E perché i Primi? Cosa vi avevano fatto quei nani?» «Povero, miserevole imperatore, che non sa neppure che cosa accade nel suo regno», disse lei quasi con compassione. «Era una colonia di Terzi. Di nemici dei nani. I miei esploratori li hanno osservati e hanno deciso di agire prima che facessero del male.» Sorrise. «Temo però che non rimarranno molti di voi. Avete molti nemici dei nani fra le vostre file. Senza saperlo.» «Questa è folle quanto me!» sbottò il Rabbioso. «Non dobbiamo lasciarcela scappare, Sapientone. Spianerà la Terra Nascosta prima degli Eterni e delle loro creature.» Rejalín non prestò attenzione alle sue parole, e s'incamminò invece verso l'uscita. Gli uomini erano ancora troppo scossi dalle esternazioni della principessa degli elfi e non sapevano cosa fare. Ma Gandogar non si fece da parte e mise invece mano alla mazza ferrata. «Voi rimarrete qui e risponderete di ciò che avete fatto», ingiunse con
voce ferma. Esdalân lo affiancò. «È finita, sorella. Ho messo in guardia la Terra Nascosta dalle tue macchinazioni e dalla tua perfidia. Non vincerai mai una guerra aperta.» «Che cosa succederà adesso, principessa?» domandò Mallen. «Avete ucciso troppe persone. Anche Alvaro, ai cui dubbi avrei dovuto dare subito credito. Era più intelligente di me.» «Se lo aveste fatto, sareste morto anche voi.» Rejalín lo squadrò con disprezzo. «Dal momento che, a quanto sembra, vi alleerete con queste insulse creature della Terra dell'Aldilà, sarò costretta ad aprirvi gli occhi.» «Non avrete davvero intenzione di fare una guerra?» Ortger non riusciva a capacitarsi di quanto aveva appena sentito. «Vi prego...» L'elfa lo fulminò con lo sguardo. «Voi non mi pregherete proprio di nulla, giovane uomo. Chi otterrà il diamante per primo, deciderà il futuro della Terra Nascosta», fu la sua aspra risposta. Fece un lieve cenno col capo. Una delle sue guardie del corpo estrasse la spada, veloce come una saetta, e fece per colpire Esdalân al ventre. Ma Gandogar non aveva perso di vista i guerrieri neppure un istante; la sua mazza guizzò di lato e deviò il colpo, mandando a vuoto la lama. Il guerriero elfo fece seguire un secondo rapidissimo colpo e colpì Gandogar, che si era parato innanzi a Esdalân per difenderlo, in pieno petto. La lama si ruppe sul pettorale della pregiata corazza del nano, il quale però perse l'equilibrio per la forza del colpo e barcollò all'indietro. Tungdil lo sostenne. Gli elfi lasciarono rapidamente la tenda. Una delle guardie del corpo si voltò ancora una volta e con un rapido movimento del braccio scagliò qualcosa, che sibilò attraverso l'aria puntando verso Esdalân. Il Rabbioso afferrò uno sgabello e lo gettò verso il proiettile, deviandone la traiettoria; il coltello, colpito dallo sgabello, cadde a terra senza fare danni. «Lasciate stare», disse Mallen vedendo Goda in procinto di seguirli. «Vi batterebbero.» Uscì anche lui dalla tenda e impartì degli ordini. Poco dopo risuonarono passi, cavalli che nitrivano, cavalieri che correvano. Il principe tornò nella tenda. «I miei uomini taglieranno loro la strada e li arresteranno.» Si rivolse a Flagur. «Probabilmente avremo bisogno dei vostri guerrieri prima di quanto credessimo. Ma non per muovere contro le creature di Tion.» Isika si alzò. «So ammettere quando ho commesso un errore», disse. «Mi scuso profondamente con Tungdil Manodoro e con tutto il popolo dei
nani. L'inganno degli elfi era ben congegnato. Senza di voi, le loro mire non sarebbero mai venute alla luce, e di questo vi ringrazio profondamente.» Guardò i volti dei sovrani presenti. «Non esagero dicendo che ancora una volta siamo tutti in debito nei confronti dei nani.» Tungdil continuava a sostenere dalle ascelle l'imperatore, che per un qualche motivo faticava a reggersi in piedi. Il Rabbioso andò in suo aiuto. «Gandogar, che ti succede? La lama ti ha rotto una costola?» Controllò l'armatura, che aveva solo un leggero graffio e una piccola ammaccatura. «Si vede che è un'armatura fatta da nani», mormorò orgoglioso. Gandogar roteò gli occhi, cercò di parlare, ma le ginocchia gli cedettero e le braccia gli ricaddero lunghe sui fianchi. «Svelti, mettetelo sul tavolo», ordinò Lot-Ionan. «Lasciate che controlli io.» L'imperatore venne sollevato e sdraiato sulla superficie di legno. Gli fu tolto il pettorale. Il mago scoprì la parte colpita per esaminarla. «Non c'è niente. Nessuna frattura.» Toccò un punto arrossato sotto lo sterno. «Questo punto è molto sensibile. Mirando qua si può far perdere i sensi a un uomo senza armatura con un solo pugno. Posso immaginare che la lama abbia sortito un effetto simile attraverso l'armatura.» Tungdil vide una macchia rosso scuro formarsi accanto al collo di Gandogar. «Sanguina!» esclamò allungando una mano verso il collo dell'imperatore, che smise di respirare un istante dopo. Tungdil tastò con le mani la folta barba, fino a trovare una ferita. Proprio sotto il mento, le sue dita incontrarono un tagliente pezzo di metallo. Un frammento di spada era schizzato verso l'alto e aveva trapassato la carne dal basso. «Sta morendo!» gridò Boïndil sconvolto, guardando Lot-Ionan. Ma, quando il mago cominciò un incantesimo, Tungdil sollevò la mano. «Troppo tardi», disse con voce cupa, indicando la bocca di Gandogar: il frammento di spada aveva trafitto la lingua e si era infilato nel cranio. Il cervello dell'imperatore era stato devastato dalla lama. «Per Vraccas», sussurrò Boïndil chinando la testa, subito imitato da Goda. Tungdil serrò la bocca del morto e gli chiuse gli occhi. «Rimettetegli la sua armatura», ordinò. «L'anima di Gandogar Barbadargento, del clan dei Barbadargento, della stirpe del Quarto, Goïmdil, sta raggiungendo Vraccas nella sua Fucina Eterna. Portate il suo corpo nei Monti Marroni, dove ripo-
serà circondato dalle vette maestose e dal suo clan.» «Gli elfi hanno ucciso l'imperatore dei nani.» Mallen guardò Esdalân. «Finirà molto male.» «Non sono stati gli elfi, ma gli Atàr», disse Tungdil fissando le sue dita sporche di sangue. La morte del suo sovrano avrebbe fatto precipitare la situazione. «Sarà difficile spiegare la differenza ai nani che si trovano già qui e a quelli che sono in marcia per il Toboribor», predisse il Rabbioso. «Hanno tutti le orecchie appuntite.» Si rivolse a Esdalân. «Senza offesa.» Nella tenda entrò un soldato. Fissò il cadavere dell'imperatore. «Principe Mallen, la principessa degli elfi e il suo seguito sono riusciti a scappare. Sembrano scomparsi nel nulla», fu il suo annuncio. «E i suoi guerrieri sono entrati nelle caverne.» «Quand'è successo?» «Poco prima dell'inizio della riunione. Pensavamo agissero su vostro ordine.» Mallen imprecò. «Rejalín deve aver intuito che l'avremmo smascherata.» Lot-Ionan alzò un braccio. «Anche se la morte di Gandogar è assai triste, non abbiamo tempo per il lutto. Gli elfi cercheranno di trovare gli Eterni e di raggiungere la gemma.» Guardò Tungdil. «Va' e di' ai nani quello che è accaduto. La loro collera li spronerà più di qualunque altra cosa. Muoversi in fretta è importante. Anzi vitale.» Poi guardò Mallen. «Mandate tutti i vostri soldati nelle caverne e seguite i nani. Sorvegliate le uscite. Non deve sfuggirci nessun elfo.» Alla fine si rivolse a Flagur. «A voi toccherà difendere le caverne sul versante esterno. Attendiamo un grosso esercito degli Atàr.» Flagur annuì. «Per noi sarà un onore. Abbiamo pratica nell'affrontare e distruggere i broka. Se dovesse essere necessario.» Poi parlò in una lingua incomprensibile, e i suoi accompagnatori si voltarono. «Darete a noi la pietra, Lot-Ionan?» «Sì», rispose il mago senza esitazione. «Nella Terra Nascosta ha fatto già abbastanza danni. Prendetela e portatela là dove il suo potere farà qualcosa di buono.» Flagur accennò un inchino e lasciò la tenda. Boïndil, Goda, Sirka e Tungdil, dopo un rapido commiato, si affrettarono a informare i nani della morte di Gandogar. Tungdil sentiva un dolore sordo alle viscere, e lo prese per un brutto segno. Quando raggiunsero l'accampamento dei nani, gli stendardi dei clan era-
no già a mezz'asta; la notizia si era sparsa fin troppo velocemente. E la furia delle guerriere e dei guerrieri che si raccoglievano intorno a lui per riceverne conferma dalla sua bocca era davvero palpabile. I comandanti dei Liberi stavano un po' in disparte. Tungdil salì su un secchio ribaltato e levò la Lama di Fuoco. «L'imperatore Gandogar è morto...» Un nano furente fece un passo in avanti. «Assassinato!» gridò in tono d'accusa. «Dagli Orecchi appuntiti!» Molte voci gridarono l'una sopra l'altra; l'indignazione per il vile assassinio stava prorompendo. «Ascoltatemi!» gridò Tungdil più forte che poté, per sovrastare quel caos. «Non sono gli elfi a essere responsabili della morte dell'imperatore. I nostri nemici si chiamano Atàr. Non fate l'errore di battere elfi e Atàr con lo stesso martello.» I nani smisero di parlare, e Tungdil poté riportare quanto era accaduto nella tenda. Poi alzò la Lama di Fuoco. «Gli Atàr vogliono il dominio assoluto della nostra patria. Onoriamo il compito che Vraccas ci ha assegnato e impediamolo. Per la Terra Nascosta!» Nessuno alzò la voce. Un nano nella prima fila, poco lontano da Tungdil, cadde sulle ginocchia, si tolse l'elmo e si appoggiò al manico del suo martello da guerra; le sue labbra presero a muoversi silenziosamente. I guerrieri che aveva a destra e a sinistra lo imitarono. Come un'onda, tra lo sferragliare delle cotte di maglia e il cozzare delle armi, tutti s'inginocchiarono sull'erba appiattita. Solo i nani delle città dei Liberi rimasero in piedi. «Ma cosa stanno facendo?» chiese Sirka a bassa voce, guardando impressionata il mare di teste chine. «Ti hanno scelto come loro nuovo capo? O stanno pregando?» «No, questi nani non stanno pregando», rispose grave Tungdil, che riusciva a capire alcune parole dal movimento delle labbra. «Stanno giurando vendetta.» XIV Terra Nascosta, regno di Gauragar, Giogonero, 6241° ciclo solare, tarda estate Limasar stava davanti ai resti carbonizzati del tavoliere attraverso il quale l'Eoîl e il suo luminoso esercito erano entrati nella Terra Nascosta. Ave-
vano arso quella scura montagna per dimostrare ai popoli quanto fossero potenti, loro che erano in grado di camminare tra le fiamme senza esserne bruciati. Pieno di timore reverenziale, l'elfo toccò un frammento di roccia e ne grattò lo strato di fuliggine. Sotto apparve una pietra bianca e lucida, che il potere dell'Eoîl aveva mondato di ogni malvagità, trasformandola in assoluta purezza. Solo quel materiale era adatto a costruire i nuovi santuari e palazzi. «Un posto meraviglioso in cui riposare», disse Itemara accanto a lui. L'elfa apparteneva al suo reparto di guerrieri, in viaggio verso il Toboribor su ordine della loro principessa. «È incredibile che nessun altro abbia ancora scoperto una tale bellezza.» «E come potrebbero?» Limasar, il comandante della schiera, guardò l'elfa. «Lo ritengono un posto maledetto. E invece non ve n'è uno più santo. È stato purificato fino alle profondità sotterranee.» Alzò un braccio. «Riesci a immaginare quanto sarà magnifico il palazzo che costruiremo per gli Eoîl e Rejalín?» «Sì. Sarà il centro di un...» Itemara s'interruppe e fissò il dardo di balestra infilato per metà nel suo petto. Limasar capì subito e si chinò dietro la roccia. «Alle armi!» gridò ai suoi guerrieri, accampati un centinaio di passi più sotto, all'ombra di una sporgenza rocciosa. Perfino creature come loro, che preferivano il sole alla notte, cercavano riparo dai raggi cocenti del sole allo zenit. Itemara si strappò il dardo come fosse stata una piccola scheggia di legno; il sangue sgorgò dal buco colando sulla pietra. «Da dove...?» Solo allora l'elfa cadde a terra. In controluce, Limasar scorgeva appena ciò che facevano gli elfi che stava guidando dai Monti Rossi al sud-est della Terra Nascosta. Alla fine vide che si stavano mobilitando. In quell'istante comparve in cima alla sporgenza rocciosa una cinquantina di piccole figure che brandivano con entrambe le mani grossi magli da roccia. «Nani?» Limasar si schiacciò contro la pietra. «Sopra di voi!» gridò alla sua gente. L'avviso non arrivò in tempo. I nani abbatterono i magli sulla roccia in punti ben precisi e Limasar sentì lo scricchiolio della pietra anche da quella distanza. Con grande fracasso lo spuntone crollò in un unico blocco, seppellendo i
guerrieri sotto di sé. Il tetto roccioso schiacciò elfi e cavalli come un tornio schiaccia i grappoli di uva. Settanta dei quattrocento guerrieri scamparono all'agguato o strisciarono fuori dagli interstizi; gli altri erano morti o bloccati e chiedevano aiuto, gravemente feriti. L'aria si riempì di sibili e ronzii e un istante dopo una pioggia di dardi si abbatté su di loro, portando a trenta elfi una rapida morte. I nani saltarono giù dalla lastra di pietra. Si lanciarono senza pietà sugli elfi, senza curarsi delle grida e delle mani tese e disarmate. I magli che poco prima avevano frantumato la roccia ruppero dalla testa ai piedi le ossa degli elfi. Comparivano sempre più nani, gli ultimi portando asce, scuri, mazze e scudi. Gli elfi che ancora potevano difendersi si videro travolti dalla preponderanza dei nemici. «Maledetti nani!» gridò Limasar scivolando in avanti protetto dai detriti. «Che Sitalia vi distrugga tutti.» Sentì dei passi sulla roccia; un'ombra volò sopra di lui. Un nano ben piantato, con la chioma e la barba rosso fuoco, gli si parò davanti. «Che vigliacco striscia qui nel fango? Alzati, Orecchi appuntiti. Io sono Ginsgar Senzafuria del clan dei Forgiachiodi, della stirpe del Primo, Borengar.» Teneva davanti a sé un'ascia bipenne e uno scudo. «Seguirai quelli che hai condotto alla rovina.» Limasar si alzò ed estrasse la sua spada. «Come avete osato attaccarci?» «Vi abbiamo smascherato! La vostra principessa ha ucciso a tradimento il nostro imperatore.» Ginsgar colpì; l'elfo schivò l'ascia. «Conosciamo i vostri piani. Abbiamo distrutto l'Eoîl, e adesso faremo lo stesso con voi.» Limasar fece un affondo e colpì lo scudo dell'avversario. «Voi? I nani ci vogliono distruggere? Non oggi né domani né alla fine dei tempi!» Ginsgar vibrò un colpo verso il fianco destro di Limasar e, quando vide che l'elfo lo parava, menò l'angolo dello scudo verso la sua testa. Lo scudo colpì Limasar, facendolo girare su se stesso e sbattere contro un blocco di pietra. «Come vedi, ti sbagli.» Il nano premette il lato piatto dello scudo contro il pugno con cui l'elfo stringeva la spada e lo schiacciò fino a romperne le dita; l'arma cadde a terra tintinnando. Limasar gridò ed estrasse il pugnale con l'altra mano. «Non potete resistere alla nostra purezza.» Ginsgar piantò l'ascia nel petto dell'elfo. La pesante lama trapassò la corazza e la gabbia toracica che le stava sotto. Limasar si afflosciò a terra,
senza forze. «Portatemi un martello!» gridò Ginsgar mentre appoggiava un piede sulla spalla dell'elfo e, con uno stridio, estraeva l'ascia dalla ferita. «Aspetta un attimo a morire, Orecchi appuntiti. Il mio martello ha voglia di baciare il tuo faccino arrogante. È tanto che lo aspetta.» Cinque nani arrivarono di corsa, uno portava a Ginsgar l'arma che aveva chiesto. I loro abiti erano lordi del sangue di elfo, e anche la testa del martello era rossa e coperta di fini capelli. «Dimmi il tuo nome», ordinò Ginsgar a Limasar, che però scosse debolmente la testa. «Be', allora tientelo per te e dillo ai tuoi falsi dei, quando li incontri.» Librò in alto il martello e lo abbatté sulla testa del ferito. Le ossa non potevano resistere al ferro e alla forza del colpo; si frantumarono, e sangue schizzò dalle orecchie, dagli occhi, dal naso e dalla bocca, prima che la testa venisse schiacciata in qualcosa d'irriconoscibile. «Questo è per Gandogar!» disse il nano al cadavere storpiato sputandovi sopra; poi si mise in spalla il martello e raggiunse la sporgenza rocciosa spezzata. Sulla pietra si erano formate diverse pozze di sangue, che in parte gocciolava sotto la lastra di pietra, in parte scorreva dai cadaveri degli uccisi. «Che bello spettacolo!» Ginsgar rise, e gli altri nani si unirono alla sua crudele allegria. «Non è stato forse un bel pensiero da parte nostra fare visita agli elfi e tributare a nostro modo onore a Gandogar?» «Meno male che li hai notati lungo la strada», assentì Bilandal Martellodiluce del clan dei Testadimaglio, che si stava tergendo il sangue dal volto con un pezzo di stoffa. Assomigliava molto a Ginsgar, a parte il fatto che la barba era bruna e non rossa; li si sarebbe potuti scambiare per fratelli, se non fosse stato che appartenevano a clan differenti. Per ottenere una visuale migliore, Ginsgar si arrampicò sulla pietra più vicina. Lui e i cinquecento guerrieri della sua stirpe erano il reparto inviato dai Monti Rossi come rinforzo alle truppe presenti nel Toboribor; la notizia della morte di Gandogar li aveva raggiunti strada facendo. Il suo animo si era infiammato di collera e odio, e ai suoi soldati era accaduta la stessa cosa. Ma la vista degli elfi morti non bastava affatto a raffreddare il suo sangue; lo consumava il pensiero che esistevano ancora altri elfi. «Che importano questi pochi cadaveri? L'Âlandur pullula di gente dello stesso popolo», mormorò con disprezzo. Bilandal alzò la testa. «Ti dico la mia. Quando tutto sarà finito, si troverà di nuovo un motivo per non punirli come si meriterebbero.»
Ginsgar guardò l'amico, poi gridò: «Ascoltatemi, figli del Fabbro!» I nani si raccolsero davanti alla roccia su cui stava e lo guardarono. Nessuno di loro dava segno di essersi calmato. «Ci è stato tolto l'imperatore. E noi conosciamo il popolo che è responsabile della sua morte proditoria. Abbiamo sentito che gli elfi sono diventati ciechi come quegli avatar e l'elfa che li guidava.» Alzò il martello e indicò verso nord. «Ricordatevi la guerra che il nostro popolo ha condotto per migliaia di cicli contro gli elfi. Non abbiamo mai voluto quella guerra, ma ci siamo stati costretti di continuo dalle loro azioni malvagie o dalle loro parole infide. Perfino gli albi sono più onorevoli di loro. Io vi dico: gli elfi non vorranno mai vivere in pace con noi. Assassinando Gandogar, hanno dimostrato quanto sono ipocriti. Noi ci siamo sforzati di trovare una conciliazione, Vraccas ci è testimone, e questo è quello che abbiamo guadagnato.» Colpì la roccia col martello. «Ma ora basta! Andiamo nell'Âlandur ed estirpiamo il male alla radice, prima che nelle foreste crescano altri frutti destinati a portarci solo sventure!» Nell'ebbrezza della vittoria e della violenza, i nani gridarono freneticamente il loro assenso. Dimenticarono qual era il loro compito. «Lunga vita a Ginsgar!» gridò Bilandal alzando il suo mazzafrusto. «Deve guidarci lui nell'Âlandur! Lasciate che altri diano la caccia al diamante; noi faremo in modo che non ci siano più Orecchi appuntiti a cercare di ghermirlo!» Si mise in marcia. «Verso l'Âlandur! Vendetta per Gandogar!» A Ginsgar venne porto uno scudo come podio; il nano salì sulla piccola piattaforma sostenuta dai suoi guerrieri. «Vraccas è con noi!» gridò. «Morte agli elfi!» Rimase sospeso su di loro, con la larga mano chiusa sul manico del martello da guerra e lo scudo nella sinistra. Chi guardava quell'impressionante nano dalla barba rossa riconosceva in lui il futuro imperatore di una nuova, spietata era. Terra Nascosta, regno di Idoslân, caverne dei mezz'orchi del Toboribor, 6241° ciclo solare, tarda estate Boïndil chinò leggermente il torso in avanti e gettò un rapido sguardo oltre l'angolo. Il corridoio che si estendeva al di là di esso, ancora inesplorato, correva scuro e abbandonato davanti a lui; o, meglio, dava l'impressione di essere abbandonato. «Che facciamo se incontriamo gli elfi, Sapientone?» chiese balzando ol-
tre l'angolo tenendo l'azza davanti a sé. «Dipende da come si comporteranno loro. Se ci attaccheranno, ci difenderemo», rispose Tungdil. «Ma non voglio vedere nessuno alzare per primo l'arma contro di loro.» Conduceva una schiera che, dopo dieci rotazioni, si era spinta più che mai nell'antico regno dei mezz'orchi. Con lui c'erano, oltre a Boïndil, Goda e Sirka, cinquanta esperti guerrieri pesantemente armati, che avevano già combattuto contro gli avatar a Giogonero e contro i mezz'orchi sui Monti Grigi. Erano veterani impavidi, che non temevano nessun pericolo e che si sarebbero gettati perfino contro Tion. A loro era stato assegnato Dergard, che avrebbe dovuto proteggerli dagli eventuali incantesimi degli Eterni o di un elfo. Il Rabbioso incontrò con un piede un oggetto allungato. «Ossa di Maialino. Non troppo vecchie, ma neanche recentissime.» Si chinò e raccolse ciò che aveva trovato. «Un femore. Troncato di netto.» Il taglio era pulito e per nulla sfrangiato. «È stato fatto con una lama molto affilata», osservò ammirato. «Certo non una spada o un'ascia di quelle usate dai Maialini.» «Che siano stati gli ubari?» ipotizzò Goda. «Saranno venuti qui di nascosto...» «No.» Tungdil riprese ad avanzare con cautela, la destra stretta intorno alla Lama di Fuoco. «Sono stati gli Eterni. Hanno sterminato i mezz'orchi che ancora vivevano qui.» Boïndil scosse la testa. «Pensi che avrebbero annientato così i loro ultimi alleati?» «Forse avevano svolto la loro funzione e non servivano più.» Davanti a loro si sentì stridere. Due grossi punti verdi s'illuminarono nell'oscurità. Riecheggiò un gran fracasso: una spaventosa creatura di tionio stava sollevando uno dei suoi piedi metallici, incamminandosi verso di loro. «Dev'essere la cosa descritta da re Ortger», esclamò il Rabbioso sollevando l'azza. «Qualcuno di voi ricorda qual è il punto in cui queste creature sono particolarmente vulnerabili?» «No, non attaccare in quel punto», obiettò Tungdil. Se era davvero Furgas l'artefice di quelle creature, non ne avrebbe mai rivelato i punti deboli. «Facciamolo cadere in qualche altro modo.» Dergard fece un passo in avanti, alzò le mani e incominciò una formula magica, ma Tungdil gli ordinò di non farlo. «Conserva le tue forze per il momento in cui dovremo affrontare gli Eterni», lo pregò. «E non dimenti-
care che alcune parti di quei mostri contengono la lega capace di condurre il tuo potere.» «Hai ragione.» Dergard abbassò le braccia. «Farebbe loro più bene che male.» Lo sguardo del mago vagò sul soffitto. «Ma suppongo che siano impotenti contro una frana.» «Questa sarà la nostra ultima risorsa. Cerchiamo invece un'altra soluzione.» Tungdil si rivolse ai nani che portavano l'equipaggiamento da usare in caso di arrampicate. «Prendete le corde. Gli legheremo i piedi e lo faremo cadere.» L'immensa armatura intanto si avvicinava sempre più, sferragliando. Le enormi mani metalliche si aprivano e chiudevano con uno scatto, come se pregustassero l'idea di stritolare nani. Dietro il vetro a forma di oblò all'altezza del busto, si scorgeva il volto del mostro; urlava scatenato, ma la sua voce era coperta dal frastuono degli ingranaggi. «Riusciremo ad avvicinarci senza che capisca che cosa abbiamo in mente di fare?» chiese uno dei guerrieri. Tungdil fece un sorriso cupo. «Lo porteremo noi da voi. Siate pronti.» «Mi piace questa idea!» esclamò Boïndil, provando un colpo con l'azza. «Andiamo a bussare. Forse la cosa che sta là dentro apprezzerà la nostra visita e ci aprirà.» «Provocatelo e spingetelo a seguirci. Ma fate attenzione. Non sappiamo se ciò che ci ha raccontato Ortger è tutto ciò di cui è capace quella macchina», disse Tungdil. «Attaccheremo a turno.» «Io attacco per primo», gridò il Rabbioso iniziando a correre, con metà dei guerrieri a seguirlo. Considerate le enormi dimensioni, la creatura era di una velocità sbalorditiva. E letale. Uno degli aggressori pagò con la vita la mancanza di cautela: uno stivale di metallo lo colpì, spedendolo in aria e facendolo sbattere duramente contro la parete del tunnel; il collo del nano si spezzò. Sul petto del mostro apparvero delle aperture, da cui fuoriuscì una gragnola di proiettili. Il Rabbioso fece bene il suo dovere. Anche se la frenesia di combattere gli pompava nelle vene, facendogli menare con sguardo spiritato colpi su stivali e articolazioni, rimase abbastanza avveduto da ritirarsi per tempo e attirare dietro di sé l'armatura animata. «Tocca a noi!» gridò Tungdil alzando la Lama di Fuoco. Avrebbero presto scoperto che cosa fosse in grado di fare contro simili avversari, o se la
lega avrebbe protetto la creatura anche dal suo influsso. Sirka chinò la testa e baciò Tungdil senza dare spiegazioni, poi gli sorrise. «Nel caso in cui uno di noi due non lasci queste grotte», disse roteando l'asta da combattimento. «Ora?» Tungdil annuì e si gettò in avanti. Le poche parole di Sirka gli risuonavano nella mente, minacciando di distrarre la sua attenzione dal combattimento. Si controllò a fatica e sfuggì per un pelo alle chele della macchina. Si chinò, sentì un soffio d'aria e colpì in quella direzione. La testa dell'ascia s'illuminò e raccolse energie per fronteggiare l'urto col nemico. La lama si abbatté sopra la caviglia di metallo; vi fu un lampo accecante, e le rune tracciate sull'armatura brillarono di verde scuro. Un tremito percorse la macchina e dal suo interno risuonò un rumore che ricordava lo strapparsi della corda di un arco. «È ancora vivo, Sapientone!» gridò Boïndil. «La cosa dietro il vetro è viva, e credo che stia ridendo!» Tungdil estrasse l'arma, furioso, e vide che era sporca di sangue verde scuro, quasi nero. Quindi era assolutamente in grado di ferire la creatura con la Lama di Fuoco. All'improvviso vide la runa elfica. Splendeva sulla parte destra del petto e annunciava Morte, se il nano ricordava bene il significato. «Attento!» lo mise in guardia Sirka, ma un istante troppo tardi. La mano di ferro lo colpì, scaraventandolo lontano. Nell'impatto col suolo Tungdil perse l'elmo, e il cinturone si allentò tanto da avvolgersi intorno agli stivali. Il nano si ritrovò immobilizzato nel corridoio come un gugul capovolto, a guardare il mostro che gli si avvicinava con pesanti falcate. Da quella prospettiva scorse le molte piccole punte di ferro sotto la suola dello stivale, in mezzo alle quali pendevano schegge di ossa e frammenti di armature, ricordo di combattimenti precedenti. «Vieni qua, che ti faccio a pezzi!» gridò in faccia al colosso, levando l'ascia. Poi Sirka apparve accanto a lui, lo afferrò per il cinturone e lo trascinò dietro di sé. Il loro gigantesco nemico li seguì. E cadde nella trappola. Non appena Sirka e Tungdil furono passati, la fune venne tesa e le estremità furono avvolte intorno a speroni di roccia. Il piede del mostro s'impigliò e il passo rallentò. La fune ovviamente si ruppe con un forte schiocco, ma la creatura non riuscì più a recuperare l'equilibrio. Poté a malapena distendere le braccia in avanti, per ammortizzare la caduta e impedire di atterrare proprio sull'oblò.
«Ora!» tuonò il Rabbioso balzando in avanti e sfruttando lo slancio per colpire con violenza brutale, dal basso verso l'alto. La punta smussata dell'azza colpì il vetro protettivo dietro cui s'intravedeva il volto del mostro. Si sentì un lieve scricchiolio e apparvero quattro crepe. Per completare la distruzione, Goda colpì con la stella della notte. Le tre sfere dotate di lame frantumarono il vetro convesso, mentre le schegge piovevano su di lei e su Boïndil. Sirka aveva nel frattempo liberato Tungdil dalla sua pastoia indesiderata. «Tutto bene? O ti ho completamente scorticato?» «No. Mi hai rubato il cuore.» A quel punto, fu lui a rubarle un bacio prima di saltare in piedi e portare aiuto a Boïndil, che fissava furente la macchina. «Rimani giù, secchio di latta!» sbraitava il Rabbioso colpendo le braccia metalliche per romperle e costringerlo a cedere. «Oggi hai ammazzato il tuo ultimo nano!» Colpì un gomito. L'enorme pressione e il colpo ben mirato fecero cedere il materiale. Uno dei perni di sostegno e l'avambraccio destro si spezzarono. «Pazzo!» gridò Tungdil. «Togliti da lì!» Ma, nella sua furia guerriera, il Rabbioso non lo sentiva. «Adesso ti sistemo quel brutto naso e tutto il resto», promise al mostro menandogli un colpo d'azza in pieno volto. Vi fu uno schizzo di sangue, e il volto deforme della creatura sparì in un mare di liquido nero. La macchina iniziò a fremere; sembrava condividere le sofferenze della creatura che si trovava al suo interno. Il braccio sinistro cedette e il torso, lungo tre passi, piombò giù. Tungdil vide l'amico scomparire sotto la gigantesca armatura nera. Il suo grido di spavento venne ingoiato da un minaccioso sferragliare; il frastuono riecheggiò per il tunnel in ogni direzione. Il nano non osò abbassare lo sguardo al pavimento per timore di vedere una pozza di sangue. «Dobbiamo sollevarlo e...» «C'è mancato poco», sentirono ridere Boïndil. Subito dopo, il suo elmo spuntò da dietro le spalle della gigantesca armatura, e il guerriero si alzò vibrando l'azza. «Ah, Vraccas ne sarà compiaciuto!» gridò felice. «Adesso gli Eterni hanno perso due delle loro bestie.» Si arrampicò sulla schiena di ferro. «Non è stato certo il punto debole indicato dal magister a farlo cadere, ma ha funzionato lo stesso, no?» Tungdil gli fece cenno di avvicinarsi. «Scendi di lì, prima che l'aria di
montagna ti salga ancor di più alla testa e ti faccia venire in mente altre idee suicide.» Nascose il suo sollievo dietro quelle parole apparentemente aspre. «Subito, Sapientone.» Boïndil accarezzò l'arma. «L'azza e io siamo proprio dell'umore più adatto per abbattere un altro di questi affari.» Guardò la creatura. «Qui c'è una specie di sportello», disse. «Dobbiamo forzarlo? Sicuramente apre sui congegni interni.» Con un fischio acuto, del vapore fuoriuscì da una ventola proprio accanto al Rabbioso. «No, proseguiamo.» A Tungdil quel suono non piaceva affatto. Le macchine a vapore del suo popolo possedevano delle valvole di sicurezza che decomprimevano il vapore quando accumulava troppa forza. Non sapeva se quelle strutture ne possedessero di simili. «Se dovesse saltare la caldaia, non vorrei essere nei suoi paraggi.» «Mi hai convinto.» Boïndil passeggiò sui fianchi metallici e lungo le cosce della creatura, raggiunse i piedi e saltò a terra. I suoi occhi scuri luccicavano; furia e astuzia si alternavano creando una miscela di incoscienza, esuberanza e irremovibile fiducia in sé. «Sai che cosa penso? Che oggi ammazzeremo un altro di questi.» «Sei incorreggibile», replicò Tungdil allontanandosi. «Avanti.» «Certo che sono incorreggibile. Ma tentennare non serve a niente.» Ammiccò a Goda, che lo guardava illuminata dall'ammirazione. Era fiera di averlo come maestro. In quel momento dimenticò la loro discussione nel fienile. Percorsero il corridoio, che presto si biforcò. Intanto Tungdil aveva messo insieme le tre rune: La vostra morte ha... la frase sembrava avere un senso. Mancavano ancora due creature per risolvere l'enigma. «E adesso?» Dergard si terse il sudore dalla fronte. Il caldo afoso era per lui particolarmente difficile da sopportare, e il Toboribor era in quella zona particolarmente caldo a causa della presenza di molte polle d'acqua ribollenti. Neanche ai nani piaceva molto. Continuava ad aleggiare un forte fetore di mezz'orchi. Tungdil indicò la direzione da cui spirava aria improvvisamente più fresca. «Di là.» Si mise alla testa del gruppo. A ogni passo, la temperatura si abbassava e l'umidità si condensava sulle loro cotte di maglia. Dopo un po', Dergard cominciò a rabbrividire. «È come se stessimo entrando in una cripta», disse, esprimendo ad alta voce i suoi pensieri. «E
devo proprio ammettere che non mi sento molto bene.» «E chi di noi si potrebbe sentire bene?» replicò Boïndil. «Solo perché sono un figlio del Fabbro, non vuol dire che mi senta bene in questo porcile. Non tutte le caverne sono uguali, venerabile mago.» Tungdil aveva raggiunto una caverna e, nella fioca luce, vide che la supposizione di Dergard era esatta. «Fate silenzio», sibilò. Un vago presagio lo avvertiva di non entrare in quell'ambiente, eppure doveva farlo. Il diamante poteva attendere i nani ovunque. «Avanti, ma non fate rumore.» La caverna era larga e profonda cinquanta passi, le pareti salivano curve a formare una cupola alta quaranta passi. Proprio nel mezzo, pendeva una scura stalattite lunga come due uomini adulti e del diametro di un vecchio albero. La punta della stalattite indicava una creatura femminile dai lunghi capelli neri coricata su un altare di basalto, con le mani incrociate sul petto e gli occhi chiusi; portava abiti di seta nera, che pendevano verso terra da entrambi i lati, coprendo in parte i fregi albici scolpiti sulla pietra dell'altare. Lungo il corpo, con l'elsa all'altezza delle mani, vi erano due lunghe spade che Tungdil riconobbe: era con armi simili che gli Eterni avevano combattuto contro l'Eoîl in cima alla torre di Porista. Una luce bluastra proveniva da un diamante che, appoggiato sul petto della donna, risplendeva di un debole bagliore. Di tanto in tanto uno scintillio argenteo guizzava sul volto della donna coricata. Avevano trovato un'Eterna e la pietra rubata. Il pavimento era ricoperto da ossa di mezz'orchi; erano i resti di centinaia di mostri. Le tracce sulle ossa non lasciavano dubbi: erano stati tutti uccisi da quelle lame affilate. «Per Samusin!» sussurrò Dergard ammaliato, senza riuscire a distogliere lo sguardo dall'alba. «Guardate quanto è bella», mormorò, deglutendo turbato. Perfino lì dov'era sdraiata, e pur nella sua rigidità, la figura emanava più grazia, eleganza e bellezza di Rejalín. Tungdil e gli altri nani non ressero a lungo la vista di quel volto. Era come cercare di fissare il riflesso accecante di una gemma o avvicinarsi a una colata di metallo fuso. Alla fine anche Dergard dovette abbassare lo sguardo, ma la malia non allentò la presa su di lui. Incurante di ogni pericolo, il mago avanzò verso l'altare, con le mani protese per il desiderio di toccare quella oscura dea. «Lascia in pace la Creatrice», risuonò tutt'intorno una voce cristallina. «È molto, molto stanca.» Dergard si fermò e guardò a destra e a sinistra, senza scorgere nessuno.
«Non voglio farle niente», mormorò, estasiato. «Voglio solo... starle vicino. Inginocchiarmi accanto a lei e guardarla.» «È possibile che quella Orecchi appuntiti abbia fatto uscire di senno il nostro mago, Sapientone?» chiese Boïndil, preoccupato. «Comincio a temerlo», rispose Tungdil. «Dobbiamo trascinarlo via», disse Goda. «No. Rimaniamo insieme e non facciamo nulla che possa agitare Dergard.» Temeva che il mago potesse usare la magia per difendersi. Dergard si era avvicinato all'altare di altri due passi. Alzò timoroso lo sguardo: il diamante illuminava i tratti indicibilmente perfetti. Quella vista bruciava nel cervello del mago, il quale singhiozzando si lasciò cadere sulle ginocchia per strisciare verso l'Eterna attraverso il tappeto di ossa. «Devi lasciare in pace la Creatrice», sibilò la voce cristallina. «Ma non posso fare altrimenti», balbettò Dergard, tanto pieno di timore che dovette di nuovo allontanarsi. Tutti sentirono il ticchettio di ruote dentate, il suono metallico del ferro, lo strepito di una propulsione meccanica. Da uno degli angoli bui della caverna, emerse una bianca nube di fumo che vorticava intorno senza meta. A Tungdil venne in mente il demone di nebbia che si era impossessato di Nudin. «Non permetterò che la disturbi», disse una voce elfica, con uno sbuffo spaventoso. Già si stava avvicinando un'altra delle invenzioni della mente malata di Furgas. Le molte ruote di cui era dotata frantumavano le ossa dei mezz'orchi trasformandole in polvere. Tungdil guardò la creatura, un misto tra un carro e una bestia pesantemente armata, che sotto i fianchi scompariva in un veicolo a forma di cassetta. Cercò la runa elfica e la trovò sulla parte anteriore della corazza: volti. La creatura aveva la visiera dell'armatura completamente sollevata; i suoi occhi gialli guardavano Dergard dall'alto. «Va' via!» «Se le creazioni di Furgas non fossero così pericolose e crudeli, bisognerebbe ammirare la sua inventiva e premiarla con una medaglia», mormorò il Rabbioso. La creatura percepì le sue parole. Girò istantaneamente la testa e guardò l'ingresso. «Siete venuti a disturbare la Creatrice.» Con la mano sinistra, corazzata come il resto del corpo, abbassò la visiera. «Non lo permetterò.» Accelerò, marciando sulle ossa in direzione del gruppo di nani. «Sparpagliatevi!» gridò Tungdil. Attaccate al rivestimento metallico e-
sterno, vedeva lunghe punte di tionio con cui la creatura poteva ferire i nemici, e le ruote spigolose con cui avrebbe sicuramente fatto a pezzi chi vi fosse finito sotto. Con quel mostro non potevano certo provare lo stratagemma della fune. Vedendo che i nani si dividevano, la creatura fece scattare con un dispositivo nascosto lunghe lame a destra e a sinistra della parte inferiore. Il Rabbioso sogghignò. «Non tutti i dispositivi sono ben congegnati: le lame sono troppo alte, potremmo facilmente...» Con uno scatto, le lame si abbassarono, raggiungendo l'altezza dei fianchi dei nani. «Non potevo starmene zitto?» si rimproverò Boïndil. Poi la creatura si mise alla caccia. Le lame colpirono il primo valoroso guerriero all'altezza del bacino, tranciando ossa e cotta di maglia. Il nano crollò urlando e sanguinando sulle ossa dei mezz'orchi, mentre la caccia proseguiva. Altri tre nani vennero letteralmente fatti a pezzi. Il resto del gruppo indietreggiò nello stretto corridoio d'accesso, in cui la creatura non poteva entrare. Tungdil approfittò del diversivo. Insieme con Boïndil, Sirka e Goda attraversò di corsa la caverna puntando all'altare su cui giaceva l'Eterna. Il suo obiettivo era il diamante, che era rimasto incustodito. «Boïndil, prendi il diamante», ordinò. «Io mozzo la testa all'alba.» «Preferirei il contrario», replicò il Rabbioso. «Perché non posso farlo io?» «Perché credo che solo la Lama di Fuoco possa togliere la vita a un Eterno.» Poco prima che raggiungessero l'altare, Goda si guardò alle spalle. «Ci ha visti, si avvicina», li avvisò. Rallentò il passo e fece per contrapporsi alla creatura. «No, va' avanti!» gridò Boïndil afferrandola per una spalla. «Dietro l'altare, è più sicuro.» Mentre correva, caricò il salto e balzò piedi avanti verso l'alba. Se non poteva tagliarle la testa, le avrebbe almeno inferto una bella ferita. All'improvviso un raggio verde lo colpì di fianco, scagliandolo indietro. L'azza gli volò di mano e colpì Sirka sulla fronte, facendola crollare a terra priva di sensi. Goda girò su se stessa per affrontare il nuovo aggressore, e il volto che vide non era quello di uno sconosciuto.
Dergard era accoccolato accanto all'altare, con una mano puntata su di lei. «Non la dovete disturbare, non avete sentito?» sibilò. «Non provateci più!» Il Rabbioso si tirò su imprecando. A parte un prurito su tutto il corpo e qualche escoriazione alle mani, non gli era successo nulla. «Non fai in tempo a procurarti un mago, che quello comincia a piantar grane.» Guardò Sirka. «È viva, Sapientone. Occupati dell'umano.» La macchina però stava caricando come un toro inferocito, abbassando la lancia che teneva in mano. Le lame scintillavano alla luce bluastra del diamante. XV Terra Nascosta, regno di Idoslân, caverne dei mezz'orchi del Toboribor, 6241° ciclo solare, tarda estate Tungdil si mise di fronte a Dergard e tirò Goda dietro di sé. «Aiuta il tuo maestro», le disse. Poi si preparò ad attaccare il mago, contando sulla protezione della Lama di Fuoco. Le dita di Dergard sprigionarono un altro raggio che sfrecciò verso il nano. L'ascia attirò l'energia in avvicinamento e l'assorbì. Tutti gli intarsi s'illuminarono e i diamanti incassati nel taglio si trasformarono in minuscole stelle splendenti. A Tungdil non accadde nulla; sentì che il manico di sigurdazia si scaldava, ma niente più. Senza esitare, colpì la tempia del mago di piatto, e Dergard crollò a terra privo di sensi. «Via di lì, Sapientone!» gridò Boïndil. «Sotto l'altare!» Tungdil fece un balzo all'indietro e si lasciò cadere sulla schiena. Le lunghe lame della creatura sibilarono sopra il suo volto e lo mancarono di poco, frantumandosi contro lo zoccolo dell'altare. La creatura urlò per la delusione. Intanto però le ruote del veicolo fecero a pezzi il mago. Passarono sopra l'uomo, tagliando corpo e membra più volte; della testa non rimase altro che una massa poltigliosa. «Vi distruggo!» Il mostro scagliò la sua lancia verso Boïndil, che saltò all'indietro evitando l'arma. «Lo distraggo io», disse Tungdil. «Voi sapete che cosa dovete fare.»
Dentro di sé si stava rimproverando aspramente, come responsabile della morte di Dergard. La creatura prese un'altra lancia, montata per lungo sulla superficie del veicolo. «La tua ascia non servirà contro di me. Non mi raggiungerai neanche, Cavernicolo.» Tungdil si chinò e raccolse un frammento di lama, lo calibrò in mano e lo gettò con forza contro l'avversario. Il pezzo di metallo ruotò e colpì il mostro alla spalla sinistra, ma non ne trapassò l'armatura. Ghignando, la creatura accelerò l'andatura, mentre Tungdil si allontanava di qualche passo dall'altare per potersi muovere più liberamente. Goda tentò la sorte: si alzò e fece per salire sull'altare per raggiungere il diamante. La creatura girò improvvisamente la testa e scagliò la lancia verso la nana. «Sta' lontano dalla Creatrice!» L'attacco colse Goda di sorpresa. La punta affilata trapassò gli anelli e le piastrine di metallo della cotta, corse attraverso la clavicola, vicino all'articolazione della spalla, e scaraventò la nana a terra. Intanto il veicolo aveva raggiunto Tungdil, che si rannicchiò e fece una capriola, sfuggendo alle ruote mortali e passando sotto le lame. Poi il nano si tirò in piedi e saltò con tutte le sue forze atterrando sull'ampia superficie posteriore del veicolo. La schiena corazzata della creatura si stagliava davanti a lui, e Tungdil si lasciò guidare dall'istinto. Levò l'ascia e colpì con tutte le sue forze il punto in cui presumeva si trovasse la spina dorsale della creatura. L'arma sfondò il tionio e morse al di là di esso, trapassando facilmente la carne fino a raggiungere le vertebre. La lama fu avvolta da una luce infuocata; i diamanti pulsarono, come se un cuore battesse al loro interno. La creatura emise un grido, s'inarcò e si piegò, mentre le lunghe braccia guizzavano all'indietro per afferrare il nano. Tungdil aveva già colpito una seconda volta, pur non essendogli facile mantenere l'equilibrio su quel fondo mobile. Il secondo colpo gli riuscì meno potente, ma bastò per centrare la ferita da cui già sgorgava sangue nero e aumentare il danno. Con un ruggito bestiale, la creatura colpì Tungdil al torace con una bracciata. Il nano si abbatté pesantemente a terra, senza lasciare la presa dell'ascia. Stordito, si alzò a fatica e vide confusamente l'avversario avanzare verso di lui. Gli altri nani accorsero per portare aiuto al loro capo.
Tungdil vide accanto a sé la lancia che aveva mancato Boïndil. «Metto la mia vita nelle tue mani, Vraccas!» pregò. Prese la lancia e la scagliò contro il nemico. La creatura corse incontro alla sua rovina. Il danno inflitto dai due colpi d'ascia gli impedì di schivare il proiettile, e così fu colpita in pieno petto. Crollò a terra, rotolando, cosa che spinse la lancia ancora più a fondo nel suo corpo. Tungdil si tuffò di lato per evitare il pesante veicolo, che si frantumò contro la parete della caverna trafiggendo la creatura al suo interno coi frammenti di ghiere e sbarre. Il sangue sciabordava a fiotti sulla roccia. Tungdil rabbrividì nello scorgere che la creatura aveva le gambe amputate sopra il ginocchio e che i monconi erano provvisti di numerosi ganci e piccole catene: il veicolo veniva pilotato con quei dispositivi. Tre nani sostennero Tungdil e lo accompagnarono all'altare. Il Rabbioso era lì e teneva in alto il diamante. «Eccolo qua, Sapientone», disse. «È nostro! Vraccas sia lodato. Vieni qua e taglia la testa alla Orecchi appuntiti, così ce ne andiamo e facciamo curare i nostri feriti.» Un sibilo, e improvvisamente una freccia spuntò dal fianco sinistro del nano. Poi la sua mano fu come strattonata verso sinistra; le dita si aprirono facendo cadere la gemma, che ricadde sul petto dell'alba, rotolò sul suo ventre e si fermò sulle mani giunte. Boïndil guardò la seconda freccia, infilata nel suo avambraccio. «Perfidi Orecchi appuntiti», gemette, prima che altre tre frecce lo colpissero al petto, mettendolo sulle ginocchia e facendolo cadere sull'alba. Dal secondo ingresso stavano facendo irruzione tre dozzine di elfi, scagliando le loro frecce contro i nani. «Boïndil!» gridò Tungdil dal profondo della sua anima, prima di scagliarsi contro gli elfi con l'ascia levata. Non era il momento di comportarsi da Sapientone. Prima che gli altri nani si riprendessero dalla sorpresa, in quindici furono uccisi dai proiettili. I sopravvissuti seguirono Tungdil, per gettarsi sugli odiati nemici e impedire loro d'impossessarsi della pietra. Furono i settantatré passi più lunghi che Tungdil avesse mai fatto in vita sua. Intorno a lui risuonavano le grida di morte dei compagni. I magistrali arcieri elfi trovavano uno spiraglio dopo l'altro nel muro di scudi e vi spedivano dentro le loro frecce mortali. Il tintinnio delle cotte di maglia e le grida di battaglia scemarono fino a che Tungdil, ormai a tre passi dagli elfi, non notò di essere l'ultimo rima-
sto. Dietro di lui c'era una scia di cadaveri di nani. Con gli occhi stillanti lacrime di collera e odio, il nano levò l'ascia e la vibrò contro il primo elfo che gli capitò davanti. Improvvisamente ricevette un tremendo colpo alla testa e sentì una puntura all'occhio sinistro. Il dolore si diffuse acuto come una tempesta. La forza gli scivolò via da tutti i muscoli. La Lama di Fuoco gli sembrò grave come una montagna. Tungdil cadde a terra davanti ai piedi dell'elfo. Uno stivale lo girò faccia in su, e il nano vide il volto di Rejalín fluttuare davanti a sé. «Il tempo della pace fra i nostri popoli è finito», disse glaciale. «Sono certa che nessuno di voi Cavernicoli supererà il nostro esame. Siete destinati alla rovina.» L'elfa sollevò la Lama di Fuoco. «È pesante. Ma è un'arma speciale che combatte per il bene; presterà a noi servigi migliori che non al tuo popolo. Noi, gli Eoîl Atàr, guideremo la Terra Nascosta in un'età di purezza. L'era della debolezza, del declino e dell'intemperanza è finita.» Tungdil avrebbe voluto ribattere qualcosa, ma i suoi sensi si offuscarono. La morte stava bussando alla porta, pronta a condurlo nella Fucina Eterna. Prima di essere costretto a chiudere gli occhi, il nano credette di veder uscire dalle ombre una figura coperta da una nera armatura da albo. Quando sentì una pioggia calda cadere su di sé, credette fosse uno scherzo della sua immaginazione. Da dove poteva arrivare quella pioggia calda in una caverna? Poi i suoi pensieri si sgretolarono... «Perché mi hai fatto questo?» L'Eterno si riscosse dal torpore e vide il bellissimo volto di suo figlio. Il giovane albo era accovacciato accanto al suo giaciglio; con la sinistra teneva la lancia. «Che cosa ti avrei fatto? Ti ho fatto trasformare nell'essere più potente di tutta la Terra Nascosta.» L'Eterno si sedette e afferrò l'elmo appoggiato al sostegno; appena un istante di riposo prima di tornare alla battaglia, che stava volgendo sempre più a suo sfavore. I Cavernicoli e i Sotterranei combattevano accanitamente nei tunnel, e per qualche motivo erano spuntati anche gli elfi a cercare d'impossessarsi del diamante. La rivalità tra le due parti non avvantaggiava in nessun modo lui e Nagsar Inàste. «Più potente di te, Creatore?» replicò suo figlio. «Perché non sei nel corridoio che ti avevo assegnato?»
«Volevo parlare con te, Creatore. Non voglio più versare il sangue degli elfi.» L'Eterno rimase come paralizzato. «Va' subito al tuo posto», ordinò. «Ucciderai tutti gli elfi che incontrerai.» «Ma sono come noi! Stiamo uccidendo esseri che hanno il nostro aspetto. Sono sicuramente amici...» «Noi non siamo affatto come loro! Gli amici entrano in casa tua per ammazzare chi ci abita e rubarne i beni?» L'Eterno indossò l'elmo. «Tu farai quello che ti dico, figlio. Hai delle responsabilità nei confronti della tua Creatrice. Vuoi che muoia prima che ti abbia visto coi suoi occhi?» «Perché i miei fratelli hanno un aspetto diverso dal mio?» «Non sono tuoi fratelli.» «Loro mi hanno detto che la mia Creatrice è anche la loro Creatrice.» «È una menzogna. Non devi avere nulla a che fare con loro.» L'Eterno fece per spingerlo fuori dalla camera, verso il corridoio assegnatogli. Ma il giovane albo si divincolò. «Toglimi le piastre dal corpo», disse. «Mi fanno male. Da solo non riesco a farlo.» «No. Ti serviranno. Ti proteggono in battaglia.» «Tu porti un'armatura su di te, non in te. Perché non posso fare così anch'io?» ribatté l'albo. L'Eterno detestava quelle continue obiezioni. «È un metallo particolare che ti rende più potente.» «Ma io non lo voglio.» «Non m'interessa quello che vuoi. Sei mio figlio e farai quello che ti dico.» «Io...» L'Eterno lo afferrò per la gola. «Tieni a freno la lingua! Non abbiamo tempo per discutere di queste sciocchezze. La sicurezza della tua Creatrice è più importante di quello che vuoi o non vuoi. Hai capito, figlio mio?» «Ma mi fanno tanto male!» «Sopportalo.» L'Eterno lo scaraventò via brutalmente. «Sai dove devi andare.» Non intendeva perdere altro tempo in quel modo. L'albo sbatté contro il muro, ringhiò e levò la punta della lancia; in quell'istante le rune intarsiate sull'armatura s'infiammarono di verde. «Toglimi il metallo. Non te lo sto più chiedendo.» L'Eterno si fermò. «Abbassa quell'arma!» ordinò irritato mentre estraeva le sue due spade. «Non è stata un'idea intelligente minacciare il tuo Creatore.»
«Non è stata un'idea intelligente farmi questo!» replicò il giovane albo in tono d'accusa, guardando il sangue nero che qua e là scorreva in strisce sottili sotto le piastre di metallo. Le palpebre dell'Eterno si socchiusero. «Sei tornato sull'isola?» «Volevo che i Cavernicoli e l'umano mi togliessero le piastre, ma l'umano non c'era e i Cavernicoli si sono rifiutati. L'unica cosa che ho potuto fare è stata assorbire altro potere, perché mi allevia il dolore.» Attendeva in agguato che suo padre facesse una mossa. «Non voglio farti del male, Creatore. Se mi permetterai di essere come sei tu.» I due si fronteggiavano. Non molto distante risuonò il clangore di armi; uno dei bastardi gridò tra le urla concitate di Cavernicoli. «I nemici hanno trovato la caverna in cui riposa Nagsar Inàste. Sei contento, adesso?» gridò l'Eterno. «Era tuo compito sorvegliare quel corridoio.» Fece un passo, e la lancia del figlio puntò al suo collo. «E questo che cosa significa?» «Sai cosa voglio. Non ti lascerò andare prima che tu me lo conceda.» L'Eterno guardò la sua creatura, che nonostante tutta la perfezione del corpo aveva un'anima debole e imperfetta. Che Nagsar Inàste avesse partorito un siffatto albo dipendeva forse dalla profanazione che aveva subito da parte dei mezz'orchi. La sua bellezza non serviva a nulla. Più veloci di quanto possa volare una freccia, le spade dell'Eterno guizzarono in avanti, s'infilarono nelle fessure dell'armatura e perforarono petto e collo dell'albo, che non era pronto per respingere quell'attacco. «Non sei più mio figlio», disse l'Eterno schivando la lancia, scagliata senza forza. «Dopo di te ce ne sarà uno migliore, che vorrà adempiere le volontà del suo Creatore. Dovessimo aspettare ancora mille cicli.» Gli diede un calcio in pancia, gettandolo a terra, mentre le lame scivolavano via facendo sgorgare sangue nero dalle ferite. «Volevi che ti liberassi dal dolore?» Colpì ancora una volta con entrambe le armi. L'albo si rannicchiò e cercò di trattenere le lame. Le rune sulla sua armatura tremarono e si spensero, il corpo slanciato si accasciò. L'Eterno non perse altro tempo: la sua amata sorella era in grande pericolo, ed era chiaro che il bastardo non sarebbe riuscito a proteggerla. Mentre si avvicinava alla caverna, i rumori della battaglia cessarono improvvisamente. Non era un buon segno. Si fermò sulla soglia dell'ingresso posteriore e, quando vide ciò che era successo, dovette reprimere un grido di orrore. Solo un debole gemito gli
uscì dalle labbra. Elfi. Elfi in abiti bianchi e in armature bianche, come quelle portate un tempo dai seguaci dell'Eoli, avevano preso la caverna. Uno dei loro arcieri stava uccidendo con una freccia in un occhio l'ultimo Cavernicolo, prima di accodarsi al resto del gruppo. Uno dei bastardi giaceva morto accanto alla parete della caverna, circondato dai rottami della sua macchina, mentre i cadaveri dei Cavernicoli erano sparsi per tutto l'ambiente. No! Non puoi essere morta, amata sorella! Vide il cadavere decapitato giacere sull'altare. Il suo sacro sangue nero scorreva a fiotti sulla pietra, scendendo lungo i gradini fino al pavimento della caverna. Un'elfa teneva tra le mani la testa di Nagsar Inàste, mentre un elfo le mostrava con rispetto il diamante, che aveva smesso di brillare. L'Eterno fu sopraffatto dalla disperazione. È colpa mia! Colpa mia! Se non avessi fallito, lei sarebbe ancora viva. Si appoggiò alla parete, le forze gli defluivano dal corpo, lasciandolo come paralizzato. Quello spettacolo bruciava nella sua mente. Sentiva l'odore del sangue della sorella, lo vedeva scorrere ancora dal moncone del collo. Gli tornarono alla mente immagini del passato. Immagini belle. Immagini di quando guardavano Dsôn dalla finestra più alta della torre e si rallegravano dello splendore del loro regno; di quando avevano festeggiato con orge inebrianti il loro trionfo sugli elfi della Pianura d'Oro e del Lesinteïl; di quando si erano amati, con dolore, totale dedizione e passione eterna... Quei ricordi annegarono nel sangue della sorella, andarono alla deriva e scomparirono. Un elfo fece un passo verso l'altare e colpì con la lancia il cadavere. Il corpo dell'Eterna cadde di lato e si fermò sui gradini, di traverso e scomposto, gettato via con disprezzo come fosse immondizia. Ti vendicherò, amata Nagsar Inàste, ti vendicherò come nessun marito ha mai vendicato la sua sposa. La collera riportò la forza nei muscoli dell'Eterno. Levò lentamente le spade, osservando gli elfi che stavano intorno all'altare e che si compiacevano della loro presunta vittoria. Sentì che innalzavano lodi all'Eoîl. Lascerò la Terra Nascosta. Col diamante, per svelarne i segreti. E, quando tornerò, nulla riuscirà a contenere la mia furia. Si avvicinò agli elfi di soppiatto, descrivendo un arco. Ogni cosa tramonterà sotto l'impeto del mio assalto, a cominciare da questi elfi. L'Eterno raggiunse le spalle del primo guerriero senza essere notato. Quelli che avevano già rinfoderato le armi furono i primi a cadere, perché non avevano nulla che li proteggesse dalle lame dell'aggressore; e quelli
che tenevano ancora in mano le spade furono travolti dalla sorpresa. Solo quando dei trenta nemici furono rimasti sette, la mattanza si trasformò in un combattimento. «Proteggete la principessa!» riecheggiò nella caverna. Gli elfi sopravvissuti opponevano una resistenza accanita, ma non c'era modo di contenere l'Eterno, reso invincibile dall'odio. Ignorava le ferite che gli venivano inferte; le controstoccate delle sue spade invece troncavano colli e braccia, amputavano mani e gambe, attraversavano crani e toraci. Le vecchie ossa di mezz'orco su cui stavano combattendo bevevano il sangue piene di gioia. L'Eterno imperversò finché non rimasero solo tre guerrieri e la principessa. Deviò il colpo del primo aggressore; grazie allo slancio lo fece girare e fece scivolare la lama nella pancia di un altro elfo. Poi colpì l'arma con la sua spada destra, mandandola in pezzi, e con la sinistra colpì uno dei frammenti, spedendolo come un proiettile in faccia al terzo elfo. Quindi mozzò la testa al soldato, facendola volare in alto. Le grida e l'odore di sangue elfico non riuscirono a raffreddare la furia del suo sangue. «Quindi tu sei la principessa.» Con un passo fu davanti all'elfa e ne schivò il colpo, mentre le tagliava i tendini del ginocchio con un veloce guizzo della sua spada destra. Rejalín cadde in ginocchio gridando. La disarmò con un calcio. «Che ne è di Liútasil?» L'elfa lo guardava muovendo le labbra silenziosamente. «No. Non userai nessun incantesimo da Eoîl.» Il braccio dell'Eterno sfrecciò in avanti e le perforò il polso destro. Il pugno si aprì e il diamante cadde tra le ossa. «Tu mi hai causato un dolore che non ho mai provato prima, principessa. E sarà per me una gioia dividere questo dolore con tutti gli elfi della Terra Nascosta.» Ritrasse la spada, frugò tra le ossa e trovò la pietra. La sollevò con aria trionfante. «Appartiene a me. Non appena capirò come poter utilizzare appieno il suo potere, porterò la fine al tuo popolo, che già una volta mi è sfuggito per poco. Lo Dsôn Balsur sarà anche tramontato, ma questo non vi proteggerà dagli albi.» Gli occhi azzurri di Rejalín lo guardavano senza traccia di disperazione. Era accecata dal fanatismo. «Gli Eoîl ci proteggeranno. Stanno tornando. I segni nei santuari annunciano...» «Stanno tornando? Allora mi troveranno pronto a distruggerli. Ma tu non li vedrai mai, principessa.» L'Eterno sentiva provenire da uno dei corridoi molti passi e voci rudi. La seconda ondata di Cavernicoli stava avanzando. Mi ritirerò. Sono troppi. Le ferite gli bruciavano e sentiva le mem-
bra stanche. Ripose il diamante e una delle spade. Poi cinse l'elsa dell'altra con entrambe le mani. «E, quando arriveranno, gli Eoîl non vedranno neanche un elfo. Non nella Terra Nascosta.» Il suo fendente attraversò di netto il tronco; la lama si fece strada dalla spalla sinistra dell'elfa sino al fianco destro. Con grande rammarico dell'albo, la principessa morì troppo in fretta. L'avrebbe portata volentieri con sé per torturarla in eterno e usarla come fonte inesauribile di colore per i suoi dipinti. Amata sorella... S'inginocchiò davanti alla testa di Nagsar Inàste, distese la mano esitante, e si fermò. Il suo cuore non avrebbe retto alla vista di quel volto. Il dolore lo avrebbe probabilmente ucciso. L'Eterno accarezzò invece i lunghi capelli neri e ne tagliò una ciocca, prima di rialzarsi con quel ricordo tra i guanti insanguinati e di correre nel tunnel quanto più veloce gli era consentito dalle ferite. Terra Nascosta, regno di Idoslân, caverne dei mezz'orchi del Toboribor, 6241° ciclo solare, tarda estate La Morte era davanti a lui. Voleva spaventarlo, perché aveva assunto l'aspetto di una creatura temibile. Era l'immagine dell'albo che aveva visto sull'isola e che era sfuggito loro. Stava orgogliosamente ritto davanti a lui, che invece era riverso a terra, con la pesante manopola stretta intorno all'asta di una sottile lancia dalla punta fine, mentre l'altro braccio stava disteso lungo il corpo slanciato, che era in parte corazzato in parte nudo. Il nero delle sue cavità oculari si posò sul nano. «Tu non morirai, Tungdil Manodoro», gli disse la Morte in tono gentile, piegandosi su di lui. I lunghi capelli neri incorniciavano il magro volto, crudele e attraente allo stesso tempo. Posò la destra sul petto del nano. «Ho ancora bisogno di te.» Le rune albiche sulla sua armatura e sulla sua arma brillarono di verde, e un'ondata di calore attraversò il corpo di Tungdil. Il freddo venne scacciato e il cuore del nano dimostrò di apprezzarlo con battiti forti e potenti che gli pomparono il sangue fin nelle orecchie. «Nagsor Inàste è sfuggito e ha portato con sé il diamante che state cercando», gli rivelò la Morte con voce limpida. «Tornerà sull'isola per raggiungere il tunnel creato da Furgas. Prima che lo uccideste, il magister era
a un passo dal completarlo. Quando Nagsor Inàste l'avrà raggiunto e completato, potrà fuggire nella Terra dell'Aldilà. A quel punto la pietra sarà persa per sempre.» La Morte si raddrizzò. «Nagsor Inàste tornerà con l'esercito più grande che la Terra Nascosta abbia mai visto. Né voi né i mezz'orchi stranieri potrete contenerlo.» Tungdil aprì la bocca, ma non era in condizione di parlare. La Morte gli voltò le spalle. «Ferma lui e i suoi orribili figli, Tungdil Manodoro.» Entrò nell'ombra e vi scomparve. Tungdil cercò di alzare la testa, ma un'ondata di dolore lo rispedì a terra privo di sensi... «Una volta la Morte andò da un nano e voleva prenderlo con sé, ma il nano piantò bene gli stivali sulla pietra su cui stava, abbassò la fronte con fare testardo e disse di no. La Morte passò oltre.» Tungdil conosceva quel detto del sud del Sagreîn e conosceva pure la voce che lo stava citando. Cercò di aprire gli occhi, cosa che gli riuscì però solo col destro. Il sinistro sembrava fatto di puro dolore e si rifiutava di obbedirgli. «Vedete? Vedete?» gioì forte una seconda voce. «Eh, non l'avevo detto che Vraccas ci avrebbe lasciato almeno un eroe per preservare la Terra Nascosta dalla rovina? Una lode alla vostra arte, Lot-Ionan.» Una luce chiara investì Tungdil. Il nano ammiccò e vide Rodarlo, Sirka e Lot-Ionan davanti a sé. «Dove sono?» gracchiò alzando la mano per toccarsi l'occhio sinistro. Il mago la fermò. «No, Tungdil non farlo.» «Una freccia», spiegò Rodario mostrandogli il dardo ancora sporco di sangue. «Te l'abbiamo tolta dalla testa. Lot-Ionan è arrivato appena in tempo per impedire la tua morte. Rendiamo grazie agli dei, che ti hanno permesso di vivere.» «Ma non sono riuscito a salvare l'occhio», mormorò Lot-Ionan, rammaricato. Improvvisamente i ricordi tornarono, e Tungdil si tirò sui gomiti con l'aiuto degli amici. Portava una benda di traverso sul viso, a coprire l'orbita dell'occhio sinistro. «Piano, piano», lo ammonì Sirka. «Sei ancora con un piede davanti al tuo dio.» Era nella caverna, dove in quel momento si trovavano circa cento nani che si occupavano dei feriti. «Come stanno il Rabbioso e Goda?» chiese
Tungdil appoggiandosi alla Sotterranea. «Li abbiamo fatti portare al campo più vicino», lo informò Rodario. «Ho chiesto come stanno!» «Sono vivi. Goda non è in pericolo di vita, ma al nostro amico dal sangue caldo è andata peggio. I vostri guaritori dicono che si potrà sapere solo nelle prossime rotazioni se sopravvivrà.» Rodario aveva perso la sua allegria. «Non avrei mai creduto che gli elfi potessero comportarsi in questo modo.» Tungdil strinse i pugni e notò il sangue secco che gli imbrattava pelle e vestiti. Non poteva essere tutto suo. «Non gli elfi», lo corresse, anche se gli riusciva molto difficile fare differenze. «Gli Atàr. Esdalân non ha nulla a che fare con questa follia.» Vide i resti dell'alba: era stata gettata con disprezzo accanto all'altare; la testa giaceva a due passi di distanza. Sirka aveva seguito il suo sguardo. «Opera degli elfi, prima di fare conoscenza con l'altro Eterno.» Indicò a sinistra, dove i cadaveri degli elfi giacevano riversi nel loro sangue. Tra i morti, uccisi da tagli precisi e letali, c'era anche Rejalín. Il potere del diamante non l'aveva salvata. «Abbiamo fatto sbarrare tutte le uscite, ma...» Tungdil scosse la testa. «È inutile. Lui e i suoi figli stanno andando nel Weyurn.» «La sorgente? Che se ne fa della sorgente della magia, se già possiede il diamante?» chiese Rodario. «D'altra parte, se sta scappando da noi vuol dire che gli manca l'incantesimo giusto per attingere al suo potere.» Tungdil si accorse che gli mancava la Lama di Fuoco; la cercò con lo sguardo, ma non la vide. Chiese agli altri, e nessuno gli seppe dire dove fosse l'ascia. Concluse quindi che l'Eterno l'avesse portata via con sé. A quel punto, c'erano almeno due motivi per inseguire l'albo. «Io so perché. Furg... I Terzi hanno cominciato un tunnel che doveva condurre nella Terra dell'Aldilà», raccontò Tungdil. Si era ingoiato il nome del magister, perché non voleva dare credito alle affermazioni di Bandilor. Dietro un piano del genere non poteva esserci Furgas. «Volevano creare una via segreta attraverso cui le orde di Tion potessero irrompere indisturbate. Il tunnel è quasi ultimato.» Gli altri lo fissarono con sguardi meravigliati, rimproverandolo silenziosamente per non averne parlato prima. «Bandilor me l'ha rivelato mentre combattevamo», spiegò. «Non credevo che il tunnel fosse così importante; il diamante era più urgente.» «E come fai a sapere che l'Eterno vuole andare proprio lì?» domandò
Rodario grattandosi il pizzo. «Non è per piantar grane, sono solo molto stupito. Te l'ha detto prima di andarsene?» «Sì», mentì il nano. «Me l'ha rivelato perché era convinto che non sarei sopravvissuto. Voleva che morissi nella disperazione.» Li guardò con aria decisa. «Stanno andando là. Dobbiamo seguirli prima che gli elfi lo vengano a sapere e si uniscano alla caccia.» Si sgranchì le dita, e il sangue elfico essiccato si sgretolò. Moriva dalla voglia di gettarsi in una vasca di acqua calda e di lavarsi di dosso quella sporcizia. «Hanno altre preoccupazioni, adesso.» Lot-Ionan fece segno di avvicinarsi a un carro trainato da due pony. Quei carri venivano utilizzati nei cunicoli per risparmiare lunghe camminate. Con quel mezzo avrebbero impiegato al massimo mezza rotazione per arrivare in superficie. «Ci è giunta la notizia che due reparti di elfi, cui Rejalín prima di morire aveva ordinato di convergere qui, sono stati attaccati e distrutti lungo il tragitto.» «Sono stati gli ubari?» «No. È stato il tuo popolo», disse Rodario senza traccia di disapprovazione. «Un certo Ginsgar Senzafuria della stirpe dei Primi si è sentito in dovere di vendicare la morte dell'imperatore. Sta marciando contro l'Âlandur alla testa di un esercito. E a quanto pare si stanno unendo a lui volontari da tutti i regni dei nani. Gli Atàr stanno raccogliendo la tempesta che hanno seminato.» Presero posto sul carro, e iniziò il loro viaggio verso la superficie. «Non vorrei fare l'uccello del malaugurio, Tungdil, ma, se non fate molta attenzione e se a questo Ginsgar dovesse riuscire ciò che si propone, avrete un nuovo imperatore senza che la stimata Xamtys e gli altri sovrani debbano incontrarsi per votare», aggiunse l'attore. Lot-Ionan annuì. «Anch'io sono giunto alla stessa conclusione. E non è un bene che i nani vengano guidati da un imperatore amante delle guerre. Chissà, prima o poi potrebbe volgersi contro i Liberi di cui mi hai raccontato. O contro i Terzi.» Tutto ciò era troppo per Tungdil. L'occhio sinistro - o, meglio, quello che ne era rimasto - gli doleva, il suo migliore amico lottava con la morte, aveva perduto il diamante e l'ascia. Ci mancava solo una guerra aperta contro l'Âlandur... «Lasciatelo in pace», ordinò Sirka, che aveva interpretato correttamente l'espressione del suo volto. «Fatevi un po' da parte e lasciatelo dormire.» Gli offrì il suo grembo come cuscino. Il nano, stanco, vi adagiò la testa e si augurò che al suo risveglio tutto
fosse tornato come prima. Come molto prima, quando non era altro che un fabbro al servizio di un mago. Ma Vraccas non gli fece la cortesia di mandare indietro gli ingranaggi del tempo e di disporre per lui un altro destino, scevro da preoccupazioni. Tungdil si svegliò all'aperto. Era pomeriggio inoltrato e il sole bruciava caldo nel cielo; l'astro presentiva che l'autunno si avvicinava e donava ancora più calore, come se non vi fosse domani. Il nano si sentiva un po' più riposato e andò a fare una visita al capezzale di Boïndil. Goda sedeva accanto al suo maestro, gli occhi erano arrossati e le unghie avevano lasciato tracce sul palmo delle mani. Tungdil vide e comprese. Non aveva bisogno di altre prove della sua profonda ansia per Boïndil e di ciò che provava per lui. La vista dell'amico ferito gli riportò alla mente il ricordo terribile della morte di Boëndal, il gemello del Rabbioso. «Vraccas, abbi pietà dei tuoi eroi», pregò a bassa voce appoggiando una mano sulle spalle della Terza. «Goda, perdona le mie parole severe e la mia diffidenza nei tuoi confronti. Non ho più dubbi sulla tua onestà.» La nana alzò la testa, guardò Tungdil e scoppiò a piangere. «Ho paura che muoia», mormorò tra le lacrime. «Non è assurdo? Venni da voi con l'intenzione di ucciderlo. In onore di Sanda.» Singhiozzò; i suoi sentimenti, tenuti a lungo nascosti, la sopraffacevano e non le permettevano più di mantenere nessun riserbo. «Ora è sul punto di morire, come gli ho augurato tante volte. Ed è la cosa più orribile che possa immaginare.» Accarezzò teneramente la mano del Rabbioso e abbassò la testa. Tungdil si asciugò una lacrima dalla guancia. «Vraccas non lo porterà via con sé.» La sua mano si mosse sulle spalle di lei e le strinse. «Prima, nella caverna, ho visto la Morte in carne e ossa. Abbiamo parlato, e non mi ha detto che avrebbe fatto visita al Rabbioso.» La nana fece un debole sorriso. «Ti ringrazio di aver condiviso la tua fiducia. Non sei stupito di ciò che ti ho appena detto?» «No. Balyndis mi aveva riferito la vostra conversazione. Ma non ho mai pensato che avresti potuto uccidere a tradimento uno di noi. Temevo solo che tramassi qualcosa. Del tutto a torto, come ho capito una volta per tutte.» Indicò l'amico. «Quando si sveglierà, io sarò lontano, insieme con Sirka, Rodario e Lot-Ionan. Tu rimani accanto a lui. Bada che non si muova dal letto e digli che avrò bisogno di lui quando andrò nella Terra dell'Aldilà.» Vide il volto sgomento della nana e fece un sorriso incoraggiante. «Solo come scorta e compagnia; non te lo porterò via a lungo. Un ultimo
viaggio, poi basta. Lui più di chiunque altro ha meritato di trovare una compagna.» Uscì in fretta. Goda appoggiò la fronte sulle mani del Rabbioso, chiuse gli occhi e pregò Vraccas con fervore, come prima aveva fatto solo una volta: quando aveva implorato la morte di chi aveva ucciso Sanda Ardentecoraggio. «Che cosa vuoi da me, Vraccas, per lasciare in vita questo tuo eroe?» mormorò, infelice. «Non voglio più la sua rovina, mi senti, Creatore di tutti i nani? Salvagli la vita e prendi la mia.» «Vraccas non farà niente del genere», gemette piano Boïndil, stringendole la mano. «Tieniti la tua vita.» Goda spalancò gli occhi e si lasciò sfuggire un grido di felicità represso. «Maestro!» sussurrò, e il momento successivo si chiese da quanto tempo il nano fosse cosciente. Arrossì, cercando di sciogliere la mano dalla sua, ma il Rabbioso non mollò la presa. «Volevi davvero uccidermi?» le chiese; la debolezza lo costringeva a parlare lentamente e con voce smorzata. Goda singhiozzò. «No, non piangere... Io capisco che tu abbia desiderato la mia morte. E, credimi, c'è stato un tempo in cui io stesso ho pensato di darmi la morte da solo.» Deglutì. «Vraccas sa per quante notti mi sono rimproverato la morte di Sanda. Ho ucciso una nana eccezionale. Come già avevo fatto un tempo.» Il Rabbioso si forzò a raccontarle quei vecchi, dolorosi eventi. Non voleva che vi fossero segreti tra loro. «Si chiamava Smeralda, ed era poco più giovane di te. Ci volevamo molto bene, ma il nostro amore finì in un istante. Nella mia furia guerriera, la uccisi durante un combattimento alla Porta Alta.» A quel punto lacrime gli sgorgarono dagli occhi. «Nella mia furia la scambiai per un mostro...» S'interruppe, si raccolse in se stesso e ritrovò la voce solo dopo un po'. «Da allora non ho più creduto di poter trovare una nana, di trovare una compagna. Fino a che non sei arrivata tu.» Sospirò. «So che non possiamo stare insieme, Goda. La mia colpa è troppo grave.» La nana si alzò e si sedette sul letto. «Vedo il tormento nei tuoi occhi, maestro. E non è causato dalle ferite, ma dalla sofferenza della tua anima. In tutta la Terra Nascosta non c'è un rammarico più sincero.» Continuava a stringergli la mano. «Non volevo amarti, anche se ti eri impossessato dei miei pensieri. E, a ogni imprecazione sugli esercizi che m'imponevi, io ti volevo sempre più, ma non volevo ammetterlo. Mi proibivo da sola di amare il nano che aveva ucciso Sanda. Mi sono nascosta dietro la bruschezza e il rifiuto, fino al momento in cui non ho pensato di averti perso.» Le tremavano le spalle. «Quando ti ho visto cadere, trafitto dalle frecce, tutto
in me avrebbe dovuto esultare.» Lo guardò dritto negli occhi. «Invece mi è accaduto il contrario. Avrei voluto essere io al tuo posto.» Al Rabbioso si strinse la gola per la commozione. «Anche se l'anima della prozia, nella Fucina Eterna di Vraccas, s'infurierà per questo, non posso fare diversamente», disse Goda con voce bassa ma ferma. «Vorrei con tutto il cuore essere più che una tua allieva, Boïndil Duelame del clan dei Branditori d'ascia, della stirpe dei Secondi.» Mentre lo confessava, lo sguardo della nana era solenne e sincero. «Se io, col mio comportamento duro delle scorse rotazioni, non ti ho allontanato troppo, sarei felice di poter stare a lungo al tuo fianco. Non m'importa se vivremo combattendo o condivideremo una casa.» «Anch'io», gracchiò Boïndil con voce roca. «Anch'io ne sarei molto felice», ripeté più chiaramente, mentre un sentimento di euforia gli entrava nelle membra, facendogli dimenticare tutto il dolore. Vedeva il bel volto di Goda davanti a sé e la fine peluria bionda riflettere debolmente la luce delle candele, mentre gli occhi scuri della nana gli promettevano apertamente amore. Stentava a credere a ciò che era successo. Temeva di essere ancora in preda al delirio causato dalla febbre. Se così era, sperò che quella febbre durasse molto a lungo. Goda portò la mano del nano alla bocca e la baciò dolcemente. «Così sia, Boïndil. Ma promettimi una cosa: lascia che disputiamo il duello che ho chiesto per la fine del mio apprendistato.» Il Rabbioso la guardò stupito. «Perché?» «Te ne prego», lo interruppe la nana. «L'ho promesso a Sanda. Almeno questo giuramento non voglio infrangerlo, ora che sono venuta meno alla mia parola e ti ho confessato i miei sentimenti.» Boïndil annuì e Goda tirò un sospiro di sollievo. «Adesso ti lascio dormire.» Fece per alzarsi dal letto. Il Rabbioso la trattenne. «Resta», la pregò. «Resta, per favore.» Le accarezzò una guancia. Goda si risedette e gli tenne la mano finché non si fu addormentato. Sorrise, mentre una lacrima di disperazione le scorreva sul volto. Sebbene avesse appena tradito sua zia, si sentiva infinitamente felice; felice come mai prima di allora. Sirka attendeva Tungdil davanti alla tenda. «Te la senti di fare un altro incontro?» Il nano annuì. Lei lo accompagnò alla tenda del principe Mallen, il quale
stava in piedi di fronte a una mappa della Terra Nascosta. Al tavolo sedevano le regine e i re dei regni degli uomini; tra loro non vi erano elfi né nani. Mallen si avvicinò ai due e s'inchinò davanti a Tungdil. «Non posso fare altro che mostrarvi la mia riconoscenza e il mio grande rispetto», disse. Tutti gli altri si alzarono dai loro posti e fecero lo stesso. Per Isika, Ortger e Wey quella dimostrazione di stima era al contempo una richiesta di scuse per i loro precedenti discorsi. Tungdil sentì annunciare i progressi della marcia dei nani guidati da Ginsgar Senzafuria. «Non ho tempo di occuparmi dell'Âlandur», disse. «La cosa più importante ora è il diamante. Non deve rimanere nelle mani di quell'albo.» Riportò la sua presunta conversazione con l'Eterno. «Sono sicuro che non mi ha mentito. Ha stretto un patto coi Terzi e possiamo presumere che sappia perfettamente che cosa lo attende al di là di quel tunnel. Mentre combattevo contro i Terzi, Bandilor accennò al fatto che avevano già da tempo preso contatto coi mostri dall'altra parte. L'eventualità peggiore è che un esercito sia già lì pronto ad aspettare l'apertura del tunnel.» Tungdil indicò sulla mappa l'Âlandur. «Non considero buono il comportamento di Ginsgar, ma non posso disapprovarlo completamente. Per lui non c'è differenza tra elfi e Atàr.» Mallen guardò il nano. «Manderò a Ginsgar un messo che gli comunichi la vostra disapprovazione, Tungdil Manodoro. Speriamo che Xamtys intervenga presto e richiami i suoi guerrieri ribelli, perché io non posso intervenire in nessun modo.» Re Bruron fece un'espressione addolorata. «Questo vale anche per me. I miei soldati migliori si trovano qui nel Toboribor. Non sono in grado di fermare Ginsgar.» «È un peccato per i pochi elfi che non sono affetti dalla cecità degli Atàr e che cadranno sotto le asce di Ginsgar, ma non possiamo impedirlo.» Tungdil si morse le labbra. «Non prendetemi per un cuore di pietra, ma voi sapete qual è la posta in gioco.» Flagur entrò nella tenda, armato di tutto punto. «Sono stato informato dell'accaduto.» Non aveva un'aria felice; i suoi occhi rosso chiaro sprizzavano agitazione. «Da questo momento permetteteci di aiutarvi. Vi porteremo a ovest. Le nostre cavalcature sono superiori rispetto a qualunque cavallo della Terra Nascosta, e questo ci permetterà di raggiungere l'isola prima dell'albo. A meno che non sappia volare.» «No, quello non lo può fare», disse Lot-Ionan.
«Non ancora», intervenne Rodario. «Almeno finché non ottiene la magia del diamante o non trova per caso la sorgente della magia.» «Permettetemi di riposare ancora una notte in un letto», chiese Tungdil. «Partiremo domattina.» «Di quanti uomini abbiamo bisogno?» s'informò Flagur. «Di quanti guerrieri avete bisogno per distruggere una creatura che ha vinto trenta elfi scelti e all'incirca trecento mezz'orchi da sola?» replicò Tungdil. «Ci sono creature del genere anche da noi, pur se non pericolose come questo esemplare», replicò Flagur. «Sarà meglio portare con noi il nostro mastro di rune e una dozzina dei nostri migliori guerrieri.» «Una dozzina?» fece Rodario. «Non è che vi state sopravvalutando? Mancano ancora due mostri alla lista, e lo accompagneranno di sicuro.» Flagur si limitò a sorridere, e quel sorriso da solo diceva più di qualunque discorso. La regina Isika seguì i pensieri di Tungdil e li espresse ad alta voce. «Prima avete raccontato che la pietra era appoggiata sul petto dell'alba, e che questa dava l'impressione di essere come morta.» Rivolse lo sguardo al mago. «Voi sapete che cosa può significare, venerabile Lot-Ionan?» «Posso solo congetturarlo. Agli Eterni è stato possibile spostarsi da Porista al Toboribor poco prima che sorgesse la Stella del Giudizio. Può essere che quell'incantesimo non sia riuscito come i due avevano sperato oppure che richiedesse un pesante tributo fisico, tale da sopraffare quantomeno l'alba. Ho letto di maghi che, dopo aver sbagliato una formula magica, sono caduti in una sorta d'immobilità e che sono tornati in vita solo con immensi sforzi.» «Questo spiegherebbe le condizioni dell'alba. Ma in quella sorta di stasi sarebbe stata in grado di partorire?» Isika guardò gli astanti. «Voglio dire: da qualche parte devono essere venute quelle creature, anche se sono diventate i mostri potenti che conosciamo attraverso il bagno nella sorgente di magia.» «E se anche l'Eterno fosse stato prigioniero di questa immobilità, prima di liberarsene con le sue forze?» ipotizzò Rodario. Gli occhi gli cominciarono a brillare. «Immagino che i due siano stati trovati nelle caverne e che i mezz'orchi, sopravvissuti nelle sue profondità, si siano avventati sull'alba e l'abbiano resa vittima delle loro voglie bestiali. Più volte hanno profanato il corpo di quella bellezza. Quando alla fine l'albo si è risvegliato dalla sua paralisi, ha ucciso le bestie, si è alleato coi Terzi e ha spedito i bastardi per
la Terra Nascosta a adempiere le sue volontà.» Deglutì, lo sguardo perso in lontananza, senza mirare a nulla di preciso. Era lo sguardo dell'attore che sta preparando la sua prossima messa in scena. «E poi, per ottenere una sua prole, di carne e sangue puro, ha posseduto la sorella e ha generato con lei l'albo che abbiamo visto sull'isola. Un figlio di fratello e sorella, più puro di qualunque altro albo e di altissimo lignaggio. Oh, che dramma...» Mallen sorrise indulgente. «Con voi si va ben oltre la fantasia dell'attore.» «Prendetela come una variante di una possibile verità, perché non scoprirete mai ciò che è accaduto realmente. Non penso che l'Eterno renderà conto a voi.» Rodario fece un inchino. «Questa storia mi piace molto.» «In ogni caso si adatta agli albi», disse Tungdil, stanco. «Ora però vado a riposare. Pregate per noi, questa notte.» L'ingresso della tenda si spalancò e apparve un nano che s'inchinò davanti ai presenti. Odorava di sudore, cavallo e sporcizia; il volto era bruciato dal sole e sull'armatura si era raccolta molta polvere. «Aiutate i Quarti, se avete cara la Terra Nascosta», ansimò porgendo a Mallen un rotolo di cuoio. «Sono Feldolin Pietralevigata del clan dei Trovaoro della stirpe dei Quarti; porto notizie dai Monti Marroni. Siamo assediati da creature incredibili!» «Sono alti come due nani, portano pesanti armature e i loro occhi brillano di viola?» chiese Sirka tra lo stupore di tutti. «La loro voce è come lo stormire del vento e il rombo del tuono al tempo stesso?» «Per gli dei, state descrivendo Djerůn!» esclamò Rodario. «Sembra proprio la guardia del corpo di Andôkai, quella montagna di acciaio forte come innumerevoli uomini.» Mallen aprì il rotolo e ne trasse il resoconto di ciò che era avvenuto al passo e uno schizzo delle creature che assediavano la Rocca d'Argento. «Altri amici che sembrano nemici?» osservò. «Sono acronta», rispose Flagur. «Abbiamo chiesto loro di tenere occupati i nani in modo che il nostro esercito potesse superare le montagne inosservato. Non volevamo farci coinvolgere in un combattimento.» Sorrise al messo, che solo a quel punto notò l'ubari e trasalì. «Non vi faranno nulla di male.» «Gli acronta», ripeté Tungdil. «Quanti sono?» «Non lo sappiamo. Ma il loro esercito che ci assiste nella lotta contro le più grandi creature del male comprende circa tremila lame.» «Oh, dei...» mormorò Rodario. «Tremila di quelle creature? E che razza
di mostri vive da voi nella Terra dell'Aldilà se avete bisogno di così tanti acronta per respingerli?» «Non ho mai detto che fosse facile vivere a Letèfora.» Flagur tese i muscoli, e qualunque mezz'orco sarebbe diventato giallo d'invidia. «Ma non è niente contro le creature che saliranno dalla Forra Oscura. Per respingerle occorrerebbero decine di migliaia di acronta.» Tungdil si rivolse al messo. «Hai sentito ciò che conta. Porta questa buona notizia ai Quarti e al tuo...» stava per dire «re», quando gli venne in mente che il re dei Quarti era Gandogar. Il corpo dell'imperatore era in viaggio verso i Monti Marroni per trovare la sua ultima dimora accanto ai sovrani dei Quarti che lo avevano preceduto; la sua anima già si trovava nella Fucina Eterna e li avrebbe guardati da lì. «Il trono non è vacante», disse Feldolin. «Il nome della regina è Bylanta Ditafini del clan dei Barbadargento. È la sorella di Gandogar e ha sempre retto gli affari del regno mentre lui era in viaggio per adempiere i suoi doveri di imperatore. Non appena la situazione nella Terra Nascosta e ai nostri confini si sarà calmata, verrà tributato il giusto lutto a Gandogar e verrà festeggiata degnamente l'ascesa al trono di Bylanta.» «Porgile i miei più sinceri auguri e la benedizione di Vraccas.» Tungdil levò la mano in segno di saluto. «Adesso però mi devo davvero accomiatare.» Lasciò la tenda, accompagnato da Sirka. Attraversarono l'accampamento dell'esercito degli uomini, in cui continuavano a esserci anche le tende dei nani. Le macchie chiare sull'erba rivelavano che alcuni loro guerrieri avevano tolto il campo ed erano partiti. Probabilmente si erano uniti a Ginsgar Senzafuria. «Mi accompagnerai nella Forra Oscura?» domandò Sirka mentre entravano nella loro tenda. «Sì. È mio dovere preoccuparmi che il diamante arrivi là dove può prestare il miglior servigio alla Terra Nascosta. E non è qui.» Tungdil si adagiò cautamente sul letto da campo. Gli faceva male la testa; l'orbita sinistra gli pulsava crudelmente, impedendogli di pensare. Le prese la mano. «Sirka, sono il nano più scostante che la Terra Nascosta abbia mai conosciuto», le confessò. «Sento un forte affetto per te, ma...» Tacque e le accarezzò il cranio rasato; la pelle scura scintillò d'oro alla luce della lanterna. «Non pretendo di più da te», mormorò lei. «Non ti giurerò fedeltà eterna, non sino alla fine della mia vita.» Tungdil sospirò. «Una volta ho detto questa bugia a Balyndis, perché credevo che i miei sentimenti non avrebbero mai vacillato.» Si batté sul petto. «Ma in
me c'è una maledetta inquietudine! Mi ha allontanato da lei, e potrebbe fare la stessa cosa con te. Non stringerò mai più il patto di ferro con una nana.» «La tua patria deve a questa inquietudine il fatto di esistere. Senza persone come te, ogni sviluppo si fermerebbe, perché nessuno oserebbe tentare qualcosa di nuovo, partire, lasciarsi alle spalle ogni cosa. Va bene così come sei.» Lo guardò. «È vero che vivete in eterno?» «Cosa? No, diventiamo solo molto vecchi. Coi miei settanta cicli sono ancora un giovane nano. I più anziani tra di noi possono vedere anche i seicento cicli, almeno a quanto si dice.» Le lesse in faccia lo spavento. «Che c'è?» «Noi raggiungiamo al massimo i sessanta cicli. La maggior parte di noi muore a cinquanta.» «Cinquanta?» La notizia stupì Tungdil. «Quanti cicli hai, Sirka?» «Ventuno. I miei discendenti ne hanno sette, cinque e tre...» «I tuoi discendenti», ripeté il nano. «E dove sono adesso?» «Ti ho detto che ci amiamo, e che ci lasciamo quando l'amore è finito. Noi non costringiamo nessuno a rimanere a fianco dell'altro quando i sentimenti sono freddi e spenti. Siamo un popolo passionale.» Gli diede un bacio. «I miei figli vivono a Letèfora. Vengono cresciuti dalla comunità, e io li vado a trovare regolarmente.» «Ma sanno chi sei?» «Mi chiamano mamma, ma da noi non è molto importante. Sono figli di tutti, ognuno si preoccupa dei rampolli degli altri come se fossero i propri.» Gli accarezzò il petto. «Riposati. Le tue energie sono ammirevoli.» Mescolò un po' di polvere chiara in una ciotola d'acqua e gliela passò. «Bevi. Lenirà il dolore.» Tungdil fece come gli diceva, e dopo non molto l'orbita sinistra gli pulsò meno forte, permettendogli di addormentarsi. Per la prima volta dopo molto tempo nessun incubo andò a visitarlo. Il nano vide in sogno la Terra dell'Aldilà, così come la dipingeva la sua immaginazione, piena di bellezza, di nuove creature e di nuove esperienze. Sirka gli faceva da guida in quel mondo sconosciuto che lo attirava e affascinava. Anche se avrebbe capito molte cose solo dopo averle viste coi suoi occhi. Il gregge di befún, le cavalcature di cui avevano parlato gli ubari, aveva un aspetto mostruoso. Sembravano immensi mezz'orchi che camminassero
su quattro zampe anziché due e con un corto moncone di coda. Il corpo era muscoloso e ampio come quello di un cavallo, la testa piatta e provvista di un muso schiacciato da cui spuntavano innumerevoli zanne. Possedevano vere e proprie mani, dotate di tre dita rivestite di uno spesso strato di corno, con cui potevano afferrare anche oggetti molto grandi. Tungdil si meravigliò della forma della sella: una specie di baldacchino con un alto schienale incurvato. Mentre gli venivano messe le briglie in mano, il nano chiese a Sirka il perché di quella guisa. «In combattimento i befún si drizzano su due zampe e aiutano il cavaliere con gli artigli. Abbiamo allungato la sella per non venir gettati a terra», spiegò lei. «Scivolerai da solo nella giusta posizione.» Rodario stava prendendo confidenza col suo befún. «Puzza, non trovate?» «Viene dalle loro ghiandole. Secernono una sostanza che rende più dura la loro pelle. Una freccia non è in grado di ferirli, e anche un colpo di spada inflitto dai nostri guerrieri non fa loro un gran danno.» Sirka indicò un punto della testa umido e lucente. «Da lì di tanto in tanto fuoriesce un liquido. Non toccatelo, se vi è cara la vita.» «È acido?» «No. È una secrezione sessuale. Se non volete essere scelti da un altro befún per i suoi giochi amorosi, vi consiglio di tenere le mani lontane.» Rodario scivolò il più indietro possibile sulla sua sella. «Sono un amante dei giochi amorosi, ma certo non con un compagno tanto estasiante. Posso presumere che non sopravvivrei?» «No. Non sopravvivreste.» Sirka saltò in sella e fece un cenno alle loro spalle per richiamare gli altri soldati che li avrebbero accompagnati. Gridò qualcosa in una lingua sconosciuta, che suonava tanto elegante da ricordare l'elfico. «Se la nostra meta dista quanto mi è stato detto, saremo lì in cinque... rotazioni», stimò l'ubari. «Veramente poco», disse Tungdil «Sarebbero più di duecento miglia a rotazione!» Flagur sogghignò. «Dimentico sempre che le cose qui nella Terra Nascosta sono un po' diverse che da noi. I befún cavalcano dall'alba al tramonto, non hanno bisogno di altro tempo per riposare e mangiare. Sono ideali per la nostra patria.» Fece schioccare la lingua emettendo uno strano rumore, e il befún partì al trotto. Quegli animali si muovevano con una serie di salti cadenzati che grava-
vano parecchio sul cavaliere, soprattutto sulla sua schiena e sul suo ventre. Procedevano comunque molto velocemente e agilmente. Insieme con un ubari corazzato e ben armato, non era un avversario con cui Tungdil si sarebbe voluto misurare. «È incredibile! Non vedo l'ora di scortare il diamante nella tua patria», disse il nano a Sirka. «E io non vedo l'ora di guidarti», replicò lei. La loro colonna cominciò il veloce e insolito viaggio, che avrebbe portato al Weyurn passando attraverso l'asciutto nord del Sangreîn e le propaggini delle foreste del Rân Ribastur, per un totale di circa mille miglia. Per la prima rotazione avrebbero viaggiato attraverso l'Idoslân. La strada più breve passava in realtà per il torrido cuore desertico del Sangreîn, ma Tungdil non voleva correre un rischio del genere: le tempeste di sabbia e l'assenza d'acqua potevano essere più mortali di qualunque albo. Lot-Ionan era quello che aveva più difficoltà ad abituarsi alle nuove cavalcature. «Un tempo ero un buon cavaliere e sedevo con sicurezza su qualunque sella», si lamentò con Tungdil verso metà giornata. «Ma questi befún sono una grossa sfida per me.» Come precauzione si era sistemato la barba sotto la cintura di uno zaino, per evitare che gli finisse in faccia. Tungdil per parte sua si sentiva scuotere tutte le ossa e si morse più volte la lingua e l'interno delle guance. Se non si era abituati, cavalcare quelle bestie era estremamente scomodo. Sirka, Flagur e gli altri ubari riuscivano in quel pezzo di bravura, mantenendo anche un aspetto grave e impressionando gli umani che incontravano durante il viaggio. La loro visia inaspettata non causava solo sconcerto, ma anche paura e tentativi di difesa. I mezz'orchi erano fin troppo noti per via delle vecchie storie, e quelli sembravano ancora più pericolosi di un tempo. Solo il sigillo e gli stendardi di Mallen e Bruron impedivano che venissero attaccati da soldati irrequieti. Flagur non permise soste finché non fu tramontato il sole. A quel punto i befún si fermarono quasi istantaneamente, mettendosi a riposare come fossero cani; le selle rimasero dov'erano. Più che smontare di sella, Rodario si tuffò a terra. «Per gli dei! E questo che significa?» «Non vedono molto bene al buio, e al crepuscolo la loro vista comincia a scemare. Per non saltare per errore contro un albero o una roccia, si sdraiano e aspettano che diventi di nuovo chiaro.» Sirka prese una rete dalla sacca del suo befún e andò verso il torrente. «Qualcuno viene con me e mi
aiuta a prendere loro da mangiare?» «Pesci?» Tungdil si offrì di accompagnarla. «Queste creature mangiano pesci? Hanno più un aspetto da fiere.» «E infatti lo sono. Mangiano tutto», disse lei con una tale intonazione da dissuaderlo a chiedere di più. «Per questo è molto importante che non abbiano mai fame e siano sempre belli sazi. Se si dovessero mettere a cacciare per conto loro, i dintorni non sarebbero più al sicuro.» «Capisco.» Il nano guadò il corso d'acqua. «Gettami un'estremità. Facciamo uno sbarramento», propose. «Lasciamo che sia la corrente a fare il lavoro, invece di stancarci le spalle a forza di gettare queste reti pesanti.» Insieme costruirono una nassa con rami e ceppi. Dopo un po', l'orbita vuota di Tungdil ricominciò a fargli male e Sirka gli diede nuovamente della polvere contro il dolore. Gli insetti frinivano formando un coretto cui si unirono presto gli uccelli del crepuscolo. Tungdil capì che quella era una delle poche sere in cui sarebbero state risparmiate loro brutte sorprese. «Niente albi, niente mezz'orchi.» Sospirò sdraiandosi sull'erba del pendio. «Così è anche a Letèfora», disse Sirka appoggiandosi sui gomiti per tenere d'occhio la nassa. «Che Ubar ci aiuti a far sì che resti sempre così. Questa impresa è costata già tante vite, e sarebbe terribile se dovessimo fallire.» Lo guardò. «Balyndis? È così che si chiama?» Il nano annuì. «Però preferirei non parlare di lei.» Sirka guardò il suo volto serio. «Sono molto felice di averti incontrato. Non importa quanto durerà.» Lo baciò sulla bocca. Lui le accarezzò la nuca e la trasse a sé. Lei appoggiò la testa sul suo petto e gli ascoltò il battito del cuore. «Non sento niente di strano», disse dopo un po'. «E che cosa credevi?» «Un cuore che batte per centinaia di cicli dovrebbe sembrare diverso. Ma non lo è. Non batte nemmeno più lentamente.» Tungdil appoggiò l'orecchio sul petto di lei. Il suo odore seducente gli riempì il naso; sentiva il calore della sua pelle scura sulla sua guancia. «E che cosa senti tu?» «Lo stesso che si sente in tutti i nani», rispose lui baciandole il collo. Poi sentì un dolore pungente all'orbita, che lo fece contorcere; ogni traccia di desiderio svanì di colpo. «Maledetti Atàr!» imprecò premendo una mano contro la cavità, riuscendo solo a peggiorare le cose. «Mi viene quasi da augurare ogni bene all'impresa di Ginsgar.»
«È la cosa migliore che si possa fare coi broka», annuì Sirka con aria seria. «Da noi nessuno piange una lacrima per loro. E l'armonia tra i popoli di Letèfora è più grande che mai. Non c'è nessuno che si ritenga migliore degli altri. Ci sono solo amici e nemici, e più nessun falso amico.» Si alzò e controllò quanto avevano pescato. «Vieni. Portiamo da mangiare ai befún prima che inizino a puntare Rodario.» Riempirono dei sacchi e trascinarono così il primo carico di pesci al campo, ma lasciarono la rete al suo posto per catturarne altri. Più tardi s'infilarono sotto le coperte, addormentandosi abbracciati accanto al fuoco. «Ecco che due si sono trovati», mormorò Rodario sbadigliando. «Ah, chissà che cosa starà facendo il mio amore...» Flagur lo guardò. «Avete una compagna?» «Sì.» «E quanti discendenti avete generato con lei?» «Con lei! Ancora nessuno, credo.» Fece un sorriso malizioso. «Ma nel resto della Terra Nascosta ci sono un po' di bimbi e bimbe che potrebbero diventare grandi attori.» Sollevò le sopracciglia. «Io sono un amante delle donne, e a loro volta le donne non possono che amarmi. Sono incredibilmente irresistibile.» «E che cosa dice la vostra ragazza al riguardo?» «Dice solo: buon divertimento!» Rodario rise. «Lei è esattamente come me.» «Quindi abbiamo con gli uomini più cose in comune che coi nani», concluse l'ubari. «Non traete conclusioni sbagliate, nobile Flagur. La maggior parte degli umani della Terra Nascosta è molto legata alle tradizioni e vive in matrimonio. E io mi occupo di evitare che le giovani spose si annoino troppo, e che preparino le figlie all'amore.» L'attore prese un pesce e lo arrostì sul fuoco con un bastoncino. «Mi piacerebbe conoscere meglio la vostra patria. Sarebbe molto istruttivo ascoltare una o due storie.» Socchiuse gli occhi. «Ma sono semplicemente troppo stanco per prendere altri appunti.» «Perché non accompagnate anche voi la scorta del diamante e non visitate la mia patria?» fu la controproposta di Flagur. «Oh, ma il vostro popolo apprezza il teatro? Il mio repertorio è infinitamente ampio in fatto di eroi e grandi gesta. Dispongo dei migliori accessori di scena...» Rodario abbassò la voce. «No, disponevo dei migliori accessori di scena di cui ci possa essere bisogno. È stato magister Furgas a farmeli.» Puntò lo sguardo sul fuoco. «Il mio amico è morto. Incredibile, ve-
ro? L'ho ritrovato dopo cinque cicli e l'ho liberato dalle grinfie dei suoi rapitori; poi lui si è dissolto nel ferro incandescente. Ucciso dai Terzi traditori.» Flagur lo stava ascoltando con attenzione. «Ma voi non l'avete dimenticato.» «No, non l'ho dimenticato e non lo dimenticherò. Mai.» Rodario tolse le lische dal pesce cotto e lo mangiò pensieroso. Nel mentre osservava LotIonan, che sedeva lontano dal fuoco in compagnia del mastro di rune degli ubari, parlando piano con lui. «Ma di che cosa parleranno?» «Suppongo che cerchino d'individuare le differenze nei loro modi di usare la magia.» Flagur tolse il suo pesce dal fuoco e, prima di gustarlo, lo cosparse di una polvere presa da un sacchetto. «Posso?» chiese Rodario indicando la spezia giallo vivo. «Ma certo.» L'attore ne mise cautamente un poco sul suo pesce, lo annusò e lo assaggiò prudente, poi il suo volto scettico s'illuminò. «Credo che diventerò mercante», disse entusiasta. «Questa miscela è... incomparabile! Non ho mai assaggiato una cosa del genere.» «Mi fa piacere che sia di vostro gradimento. In passato abbiamo combattuto guerre per averla.» «Non mi stupisce!» replicò Rodario. «E come vi siete accordati?» «Abbiamo cancellato l'altro popolo.» Flagur gli porse il sacchetto. «Viene ricavata da una speciale pietra che viene fatta a pezzi, lavata tre volte con acqua salata e poi macinata.» «Avete cancellato un popolo per impossessarvi di una spezia?» chiese l'attore, incredulo. «Erano phottòr privi di cervello. Non c'è motivo di compiangerli», lo tranquillizzò l'ubari. «Ma sedevano sopra il più grande giacimento, e così prendemmo due piccioni con una fava. Carne e spezie.» Rodario abbassò il pesce. «Non mi starete dicendo che mangiate mezz'orchi?» «Certo. Hanno un sapore eccellente, anche se i mezz'orchi che un tempo vivevano nella Terra Nascosta erano ancora più buoni. Tempo fa ne ho assaggiato uno che si era perso dalle nostre parti, e vi assicuro che non avevo mai sentito sulla mia lingua un sapore così eccellente.» Flagur chiuse gli occhi. «Me lo ricordo come se fosse ieri.» La conversazione aveva preso una piega preoccupante, pensò Rodario. Non c'erano state molte occasioni in cui i mezz'orchi erano riusciti a uscire
dalla Terra Nascosta e a raggiungere la Terra dell'Aldilà. «Quand'è accaduto? E dove lo avete incontrato?» «È stato un po' di tempo fa, sul nostro versante delle vette che voi chiamate Monti Grigi. Voleva convincerci a marciare contro gli ubari... be', intendevo dire i vostri nani.» Flagur rise. «Un tipetto coriaceo. Farneticava qualcosa riguardo all'immortalità che gli veniva da un liquido che teneva in una borraccia.» Rodario stava mettendo insieme i pezzi l'uno dopo l'altro. Poteva trattarsi solo di uno dei guerrieri di Ushnotz, il principe dei mezz'orchi, una qualche unità sbandata che era riuscita a raggiungere la Porta di Pietra attraverso il regno dei Quinti. Per Palandiell, l'Acqua Nera! pensò terrorizzato mentre squadrava Flagur di sottecchi. I guerrieri di Ushnotz avevano bevuto l'Acqua Nera ed erano diventati invulnerabili. Consumando la carne di mezz'orco intrisa di quella malvagità non si veniva forse attirati verso il male? Che Flagur stesse solo fingendo di essere un amico e mirasse in realtà a impadronirsi del diamante per farlo usare dal proprio mastro di rune? Col suo esercito forte di centomila lance non poteva mirare alla conquista della Terra Nascosta, una volta che si fosse impossessato della pietra? L'ubari lo stava osservando. «Che vi succede? Perché siete diventato all'improvviso così silenzioso?» «Sono... stanco», mentì l'attore. «Perdonate la mia laconicità. Mi capita sempre quando... mangio pesce.» Trangugiò svelto il suo pasto e si accomiatò. Si sdraiò accanto a Tungdil e lo svegliò senza farsi notare. «Che c'è?» mormorò il nano, assonnato. «Non ci crederai, ma...» «Allora risparmiamelo», lo interruppe Tungdil girandosi dall'altra parte. «Non mi sento bene.» «Il nostro alleato ha un segreto. Ha mangiato un mezz'orco che aveva bevuto l'Acqua Nera», sussurrò Rodario. Il nano si riscosse dal sonno. «Ma che stai dicendo? Perché mai avrebbe dovuto farlo?» «Perché sono buoni da mangiare. A quanto sembra.» L'attore ebbe un tremito. Tungdil recepì l'informazione e ci pensò su. «Ma, anche se fosse vero, Ushnotz e la sua masnada di mezz'orchi sono morti da un pezzo.» «Ma Flagur ne ha mangiato uno. Veniva dai Monti Grigi, ha detto», insistette Rodario, sgomento.
Tungdil poteva immaginare come poteva essere successo. A quell'epoca, lui e il Rabbioso avevano attaccato alcuni esploratori dei mezz'orchi presso la Porta di Pietra e ne avevano inseguiti tre fin nella Terra dell'Aldilà. Uno era riuscito a sfuggirgli, e poteva ben essere finito tra le braccia di Flagur. «Mangiano mezz'orchi...» Non era niente di troppo anomalo. Ricordava che Djerůn provvedeva al suo sostentamento cibandosi di qualunque mostro di Tion. Gli acronta e gli ubari potevano certo avere qualcosa in comune. Guardò il volto assopito di Sirka e si chiese se anche i Sotterranei avessero qualche ricetta a base di strani tipi di carne; se si appellavano allo stesso dio... Quella prospettiva lo disgustò. A dire la verità, anche i nani mangiavano dei grossi insetti, cosa che gli umani trovavano a loro volta inconcepibile. Tuttavia per il nano rimaneva pur sempre diverso cibarsi di un baco o cibarsi di un mezz'orco. E non solo per via del sapore. «Che facciamo adesso?» chiese Rodario. «Possiamo fidarci di Flagur? O pensi che possa portare il germe del male dentro di sé? Magari senza saperlo?» «A essere sincero, non lo so.» Tungdil alzò un po' la testa per osservare l'ubari. Sedeva davanti al fuoco, rivolgendo loro le spalle; il nero profilo era grande e impressionante. «Tienilo d'occhio e riferiscimi subito se hai l'impressione che non si comporti come un alleato.» Appoggiò la testa sul braccio piegato ad angolo. «Ma io mi fido di lui, fino a prova contraria.» Sorrise. «Lascia qualcosa nelle mani degli dei, Incredibile. Anche loro devono pur avere qualcosa da fare e non lasciare tutto ai mortali.» «Se lo dici tu, eroe della Terra Nascosta...» Rodario sospirò chiudendo gli occhi. «Speriamo che gli dei vedano tutto.» Rifletté. «No, meglio che non vedano proprio tutto», si corresse subito dopo. «Altrimenti l'ingresso della mia anima nel giardino della Creatrice non sarà tanto facile.» «Perché? Ha proibito agli uomini di comportarsi come fai tu?» lo canzonò Tungdil. L'attore sorrise. «Dipende dall'interpretazione. Ma la Creatrice non trova buono che si doni l'amore a donne che dovrebbero riceverlo tra le braccia di un altro.» Tungdil ripensò ancora una volta a Balyndis. Benché ormai libero, pensava a lei quasi più spesso che nel periodo in cui erano stati insieme. Si sentiva in colpa, perché sapeva quanto lei doveva essersi sentita ingannata. E come si era comportato da vigliacco: una lettera, nient'altro. Sconfiggeva i più terribili mostri della Terra Nascosta e non osava presentarsi di fronte a una nana e confessarle che non voleva più vivere con lei. O che non po-
teva più farlo. Tungdil aprì l'occhio sano e si voltò verso Sirka. Ne osservò il volto, che sembrava nero alla luce delle stelle, ne sentì il respiro regolare, ne annusò il profumo e immaginò di sentire il calore del suo respiro. Sirka avrebbe sofferto di meno, quando lui l'avrebbe lasciata. A quanto pareva, quella dei Sotterranei era una società che non si dava troppo pensiero per quanto riguardava la costanza dei sentimenti. Forse sarebbe stata lei a lasciarlo per prima. E ciò gli fece sentire il cuore di nuovo un po' più leggero. XVI Terra Nascosta, regno di Weyurn, confine sudorientale, porto di Untief, 6241° ciclo solare, tarda estate I befún avevano dato prova della loro infaticabilità percorrendo il tragitto per Mifurdania in una manciata di rotazioni; a un uomo a cavallo avrebbe richiesto almeno il triplo del tempo. Quando Tungdil e i suoi compagni incontravano lungo la strada umani che raccontavano di strane creature dirette a Untief - creature ancora più strane rispetto a quelle di cui era composto il loro gruppo -, aumentavano il passo. Ma la natura mandò all'aria i loro piani. La notte, accompagnata da una fitta nebbia, scese poco prima che arrivassero a Untief; così i befún si misero a riposare, irremovibili come al solito. A Tungdil e ai suoi non rimase altro da fare che lasciare indietro quelle bestie e percorrere le ultime quattro miglia di corsa. Lot-Ionan, la cui velocità non gli avrebbe permesso di stare al passo, fu portato in spalla da Flagur. Sudando e ansimando, almeno per quanto riguardava Tungdil e Rodario, raggiunsero le porte cittadine di Untief e vennero fatti entrare grazie al salvacondotto della regina Wey. Le guardie non abbassarono le armi, dal momento che l'aspetto dei mezz'orchi era per loro comunque sospetto. Come potevano sapere che gli ubari non condividevano la passione dei mezz'orchi per la carne umana? Il comandante della guarnigione diede loro una scorta e ordinò che venisse consegnato al gruppo ciò di cui aveva bisogno per compiere la pro-
pria missione. «Al porto!» gridò Tungdil correndo per le strade leggermente scoscese che portavano ai moli. All'ancora trovarono un'ampia scelta di imbarcazioni che spuntavano indistintamente dalla bruma. «Prendiamo questa», disse Sirka, indicando una piccola barca a vela che si scorgeva a malapena. «È leggera, ha una chiglia slanciata e un albero alto. Possiamo dispiegare tutte le vele e saremo sull'isola in un batter d'occhio.» «Muoviamoci, allora.» Tungdil mandò una delle guardie a bordo dell'Onda alata per svegliare l'equipaggio. L'uomo mise una rampa in equilibrio sul parapetto e saltò sul ponte. Lo sentirono parlare, e poco dopo si aggiunse la voce roca e di cattivo umore di un secondo uomo. Si accese una vivace discussione, che terminò con la guardia che volava a testa bassa oltre il parapetto e cadeva nell'acqua della darsena. Due suoi camerati lo aiutarono a tirarsi all'asciutto. «Lasciatemi indovinare: il comandante ha detto che non ne ha voglia?» disse Rodario. «Già, e che gli possiamo baciare il culo», annuì la guardia, tornata sul molo, imprecando e portando la mano alla spada. «Lo spiegherò un'altra volta a questo cretino.» Flagur fece una smorfia. «Lasciatemi parlare col comandante», disse salendo la rampa, che gemette sotto il suo peso. I suoi passi facevano scricchiolare forte il legno. Rodario sogghignò. «Presto qualcuno rimpiangerà di non essere stato un po' più gentile.» Non vi fu nessuna discussione. Stavolta fu il comandante a volare oltre la balaustra; superò il bordo del molo e atterrò sul duro lastricato, rimanendovi stordito. «Te la sei cercata, Kordin», gli disse una guardia versando addosso al marinaio una secchiata d'acqua. L'acqua fredda riscosse l'uomo dal suo stordimento. Col naso sanguinante e con parecchie escoriazioni per tutto il corpo, Kordin si alzò e guardò verso la sua imbarcazione, dove Flagur si mostrava sul ponte, le grandi braccia appoggiate sul parapetto. «Che razza di creatura è quella? Perché viene aizzata contro onesta gente di mare, anziché venire uccisa come merita?» «È un amico», intervenne Tungdil. «Sveglia l'equipaggio. Dovete rendere un importante servigio alla vostra regina.»
«Se paga, molto volentieri. Sennò andatevene.» Kordin non sembrava minimamente impressionato. Un istante dopo risuonò un pesante fracasso metallico. Un grande oggetto sferico, formato da larghe strisce di metallo, sfrecciò rotolando attraverso il gruppo. Il mastro di rune e tre guardie non riuscirono a scostarsi in tempo: vennero travolti dall'oggetto e schiacciati tra il metallo e il pavimento. «È il mostro che ha derubato re Nate!» gridò Rodario, che si era gettato dietro un palo. «Almeno adesso sappiamo che li abbiamo raggiunti.» Gli ubari estrassero le loro pesanti spade, ma capirono subito di essere impotenti di fronte a un simile attacco. La sfera si fermò, rimase un istante immobile poi si mosse con rinnovato slancio verso di loro. Sullo stretto molo non c'erano molte possibilità di scampare a quel rullo, e vennero colpiti ancora un ubari, il comandante della nave e altre due guardie. «Flagur!» gridò Tungdil. «Il gancio dell'argano, svelto!» Il capo degli ubari capì che cosa aveva in mente il nano. Fece girare il braccio meccanico, in modo da posizionarlo sopra il molo, e sganciò il blocco della carrucola nel momento in cui il mostro cominciava il suo terzo attacco. La fune si svolse. Il gancio si abbatté con un forte rumore contro la sfera, e la punta uncinata s'infilò in uno dei buchi fra le strisce di ferro. La spessa gomena si tese, scricchiolando, e frenò la sfera, catturandola. «Tirala su!» ordinò Tungdil. Stava per salire la rampa per aiutare Flagur ad azionare la manovella, quando si udì un potente scatto. Le chiusure si aprirono, le bande di metallo larghe due dita si ritrassero e l'uncino saltò via, perché non c'era più nulla cui potesse attaccarsi. Le strisce di metallo però non scomparvero nello zaino metallico sulle spalle della creatura, com'era accaduto a Güldengarb. Formarono fulmineamente un grosso scudo di fronte al mostro. Gli eroi poterono osservare a distanza ravvicinata il quarto essere generato dall'Eterna. Alla luce delle stelle, la pelle scintillava scura, con striature nere, il volto aggraziato e al tempo stesso ripugnante rimaneva in gran parte nascosto da lunghe ciocche di capelli. Aprì la bocca irta di zanne potenti e acuminate e ringhiò aggressivo. «Vi ucciderò», disse estraendo una spada che sembrava fatta di diversi segmenti. Senza ulteriori preamboli, il mostro cominciò il suo attacco, scagliandosi contro l'ubari che gli era più vicino. Mentre dava slancio al colpo, i segmenti della spada si staccarono gli uni
dagli altri. L'interno dell'arma era cavo e percorso da una sottile catena che univa i singoli elementi dell'arma; in quel modo, la portata della spada a frusta era quasi raddoppiata. La lama mobile si abbatté certo contro la spada della vittima, levata in difesa, ma la punta acuminata dell'arma passò oltre l'ostacolo, come un serpente, e le trafisse il volto. L'ubari cadde a terra morente. Le guardie abbassarono le alabarde, ma non osavano attaccare quel nemico, la cui parte inferiore del corpo sembrava interamente di metallo. Piastre coperte di rune e fissate alla carne proteggevano invece la parte superiore del corpo. Il mostro alzò di nuovo la sua perfida arma e colpì, verso Tungdil. Il nano schivò la lama, che scintillava di verde, e facendolo scivolò quasi dalla rampa, che era diventata sdrucciolevole a causa dell'umidità. La strana spada cambiò traiettoria in volo e tagliò l'accesso all'imbarcazione; Tungdil cadde in acqua con le due metà della rampa. Le onde si richiusero sopra la sua testa, mentre lui affondava come un sasso. Una terribile paura lo attanagliò. Era nel regno di Elria, e le impressioni della sua caduta nel rapido torrente in cui era affogato suo figlio gli tornarono alla mente con prepotenza. Non capiva più dove fossero il sotto e il sopra; le innumerevoli bolle d'aria gli impedivano di orientarsi. Si sbracciava e rigirava freneticamente. Poi si costrinse a calmarsi; era stato proprio quel panico a strappargli il figlio. Non cercò più di nuotare fino alla superficie; non ci sarebbe mai riuscito col peso del suo equipaggiamento. Si mise invece a tastare il muro per cercare di raggiungere l'approdo delle scialuppe. Là doveva esserci una scala con cui poter salire, se non ricordava male. Il fondale era molle, e Tungdil affondava nel limo a ogni passo. Il respiro gli stava venendo meno, quando improvvisamente il suo piede sinistro incontrò un gradino. Salì svelto e tornò sopra il pelo dell'acqua, tossendo e ansimando. Elria non lo aveva preso neanche quella volta. Sopra di lui risuonava il rumore di metallo contro metallo, tremolanti luci verde vivo rischiaravano in modo spettrale gli scafi delle imbarcazioni, e si sentivano continue grida e imprecazioni. «Eccolo! Eccolo qua!» Rodario si era chinato oltre la banchina e lo aveva visto. «Grazie a Palandiell, non è diventato cibo per pesci.» L'attore scomparve di nuovo, perché evidentemente voleva prendere parte al combattimento. Tungdil tornò sul molo, su cui restavano solo otto ubari. Le guardie gia-
cevano tutt'intorno, morte o ferite. La creatura aveva formato con le strisce di metallo due scudi che le proteggevano i fianchi, mentre con la sua pieghevole frusta d'acciaio impartiva colpi in tutte le direzioni, costringendo gli avversari a rimanere a distanza. Tungdil raccolse un'alabarda, l'afferrò con entrambe le mani e corse verso le spalle del mostro. Questi lo notò, girò su di sé e menò un colpo verso il nano, che però era ancora decisamente troppo lontano per rimanere vittima della spada modulare. Uno degli scudi di bande di ferro scivolò in avanti, a difendere il volto. Ma Tungdil abbassò l'alabarda poco prima dell'impatto e colpì il piede destro del mostro. La punta perforò la corazza, e sangue nero sgorgò dal foro. Girando rapidamente l'arma e dando un potente strattone, Tungdil riuscì a incastrare fra le piastre di metallo il lungo uncino posto sulla testa dell'alabarda. «Prendete le alabarde!» gridò agli ubari. «Colpitelo alle gambe e gettiamolo in acqua. Tenetelo forte, altrimenti salterà.» Le bande metalliche dello scudo si abbassarono per spezzare l'asta dell'alabarda, ma i puntelli di rinforzo tennero, anche se il colpo era stato molto duro. Tungdil rispondeva con violenti strattoni. Gli ubari raccolsero le armi delle guardie e si misero ad aiutare il nano. In effetti con quel sistema stavano costringendo la creatura sempre più vicino al bordo del molo; tentò con un salto di liberarsi dalla presa degli uncini, ma fallì a causa della forza con cui la trattenevano. Non riusciva a fare più che qualche innocuo saltello. Quindi prese a colpire intorno a sé con la spada a frusta, distruggendo un'asta di alabarda dopo l'altra; si stava rapidamente liberando dalla sua situazione di svantaggio. «Vi ucciderò!» gridò. «Per la Terra Nascosta!» risuonò sopra le loro teste, mentre Rodario, aggrappato alla fune dell'argano, si scagliava piedi in avanti contro lo scudo del mostro. Quell'attacco sfacciatamente irrispettoso colse la creatura impreparata. Il peso e lo slancio dell'attore bastarono a scagliarla oltre il bordo della banchina, nella darsena. Mentre cadeva, colpì Rodario con la spada serpentiforme, tagliandogli un polpaccio, poi s'inabissò tra i flutti. L'attore gemette mentre oscillava indietro e veniva afferrato dagli ubari. «Che dolore terribile!» Si sedette sul molo. «Ma ancora una volta sono stato incredibilmente incredibile, non è vero?» cercò di scherzare, nonostante il dolore.
«Sì, davvero incredibile.» Lot-Ionan, che non poteva più fare nulla per il mastro di rune, s'inginocchiò accanto all'attore e si occupò della ferita. «Dev'essere cucita», constatò. «Diventerà una bella cicatrice.» «Meno male che quella maledetta arma non mi ha colpito in volto. Altrimenti, la mia bellezza sarebbe stata solo un ricordo.» Tungdil scrutò giù nell'acqua; alla sua destra e alla sua sinistra comparvero gli ubari, con le alabarde levate e pronte al tiro, in modo da poterle scagliare immediatamente contro il mostro, qualora fosse rispuntato. Salivano delle bolle d'aria, e un bagliore si faceva strada dal basso. «Sirka», chiamò Tungdil indicando la grande ancora che pendeva dalla parte anteriore di una prua. Oscillava proprio sopra il punto in cui l'acqua ribolliva. «Buttala giù. Veloce!» La Sotterranea salì a bordo, poi sciolse il blocco della catena, facendo precipitare l'ancora, che si abbatté sulla superficie dell'acqua come una mannaia. Vi furono schizzi e un forte tonfo. Insieme con le bolle, salì a galla del liquido nero. «Su, su!» disse Tungdil agli ubari in attesa. «Tirate su l'ancora e lasciatela di nuovo cadere.» Prima che l'ancora piombasse di nuovo in acqua tutti videro che, alla sua punta, erano rimasti attaccati strisce di metallo contorte e brandelli di pelle. Al nuovo tonfo l'acqua si tinse di nero, come se sotto la superficie si fosse scatenata una tempesta. Ripeterono la procedura diverse volte. Se anche le ferite causate dall'ancora non fossero bastate, la creatura sarebbe sicuramente affogata. Nel frattempo si unirono a loro altre guardie; comparve anche il comandante della guarnigione, cui Tungdil spiegò quanto era accaduto. Quello scontro aveva significato la morte anche per il mastro di rune degli ubari; Lot-Ionan era l'unico a poter affrontare l'Eterno con la magia. «Prendete delle reti e pescate sul fondo», ordinò il comandante ai suoi uomini. Tungdil strinse la mano a Rodario. «Veramente ben fatto, Incredibile. Senza di te, non so come sarebbe andata.» «Un modesto contributo, rispetto a ciò che avete fatto tutti voi.» Lo sguardo dell'attore vagò sui cadaveri. «E una ferita insignificante, rispetto a quanti sono morti.» Lot-Ionan si alzò. «Dobbiamo sbrigarci. Penso che l'Eterno sia già in viaggio verso l'isola.» Tungdil aiutò Rodario a rimettersi in piedi. «Come va?»
«Deve andare», rispose l'attore stringendo i denti. «Altrimenti chi di voi potrebbe dare spettacoli come quello che avete appena visto?» Salirono insieme sulla rampa e misero piede sull'imbarcazione. Sirka assunse rapidamente il comando. I marinai erano non poco stupiti, ma obbedivano, perché, oltre agli ubari, erano salite a bordo quaranta guardie. Il comandante delle guardie aveva requisito l'Onda alata in nome della regina; da quel momento, chi si rifiutava di eseguire un ordine poteva essere punito con la morte. «Qui!» gridò uno dei soldati che, su una barca a remi, ispezionavano le acque nel punto in cui presumevano di trovare la creatura. Avevano immerso piccoli rampini e avevano preso qualcosa. Era un pezzo di braccio tronco; le dita rivestite di metallo si muovevano ancora a scatti, sottili perni e rivetti erano infilati nella carne per unire il metallo all'arto. Con un grido di spavento e orrore, la guardia rigettò in acqua quello che aveva pescato. Un altro trasse lo zaino metallico deformato; alle lunghe sbarre che prima erano infilate nel corpo del mostro pendevano ormai brandelli di carne insanguinata. Sirka ordinò di sciogliere le cime e di dispiegare tutte le vele. Cominciò il viaggio; il timoniere sapeva dove si trovava l'isola e fece rotta verso di essa. «È morto», disse Rodario con un sospiro di sollievo. «Un altro di meno.» «Ne rimane ancora almeno uno. Più l'Eterno.» Tungdil si sedette sulle assi, e gli venne portato qualcosa da mangiare e da bere. Era incredibilmente stanco; il combattimento e il viaggio esigevano il loro tributo. Come se non bastasse, la ferita all'occhio gli bruciava come un carbone ardente. Dopo che Sirka gli ebbe passato ancora un po' della polvere lenitiva, il nano si addormentò. Prima che le sue palpebre si chiudessero, la nebbia lo ingannò, facendogli credere che Bramdal fosse sul ponte. Terra Nascosta, regno di Weyurn, venti miglia a nord-est di Mifurdania, 6241° ciclo solare, tarda estate La nebbia non si diradava. Sembrava voler proteggere l'Eterno. Procedere con tutte le vele spiegate era stato imperdonabilmente temerario. Un tronco d'albero alla deriva o uno scoglio sarebbero bastati a tagliare istantaneamente la chiglia dell'imbarcazione, ma avevano comunque corso
il rischio, dal momento che non sapevano quanto fosse grande il vantaggio del loro nemico. D'un tratto, Sirka fece ridurre la superficie delle vele. Il timoniere le aveva detto che avrebbero presto raggiunto il posto in cui si trovava l'isola. O quantomeno dove si era trovata fino a poco tempo prima. «Come avranno fatto a essere più veloci di noi?» si chiese Flagur con rabbia. «Avete visto di quali capacità dispongono queste creature. E il potere di un Eterno è pressoché sconosciuto», disse Lot-Ionan. Era preoccupato, perché sapeva che si sarebbe dovuto misurare da solo contro la magia dell'avversario. «Riuscirete comunque a rimettere la pietra nell'artefatto?» «Perché lo chiedete, venerabile mago?» «Il vostro mastro di rune è morto. Non avevate bisogno di lui per rimettere in funzione l'artefatto?» «Esatto, il nostro mastro di rune è morto. Ma c'è un altro mastro di rune: quello degli acronta. Sarà difficile, però, indurlo ad aiutarci col suo sapere.» L'ubari fece una smorfia. «Per gli acronta combattere contro i mostri che stanno in agguato nella Forra Oscura è come una sfida. Sarebbe un po' come voler proibire a un bambino di misurarsi con un avversario troppo forte. Non capiscono che non riusciranno mai a vincere e che, alla lunga, soccomberanno.» Osservò Lot-Ionan. «Voi siete un mago. Per voi sarebbe sicuramente una cosa da nulla rimettere a posto la pietra.» «Non m'intendo di simili artefatti», confessò il mago. «Ma vi seguirò di certo, prima che sia troppo tardi per la vostra e la nostra patria.» Un grido di ammonimento della vedetta risuonò a prua, e subito dopo un pesante oggetto sbatté con fracasso contro la chiglia del veliero. «Cos'è stato?» urlò Sirka. «Le assi sono rimaste integre?» «Sì. Erano relitti alla deriva. Sembravano pezzi di un'altra nave: una parte della murata o qualcosa del genere.» Tungdil ringraziò Vraccas del fatto che Sirka avesse rallentato la corsa. A piena velocità si sarebbero ritrovati con uno squarcio e acqua sottocoperta. A mano a mano che si avvicinavano all'isola, sempre più relitti presero a sbattere contro l'Onda alata. A Tungdil venne un pensiero orribile. «Ma dove sono le navi da guerra che la regina Wey aveva mandato a proteggere l'isola?» chiese Rodario, preoccupato. «È da un po' che avremmo dovuto...» Tacque. «Oh, maledetto albo!» esclamò guardando Tungdil. «Che le abbia affondate?»
«Hai un'altra spiegazione?» replicò il nano. Dalla nebbia emersero i contorni dell'isola. Una vivida colonna di fuoco venne eruttata da un fianco della montagna e salì per cinquanta passi nella foschia, poi una seconda colonna sbuffò il suo fuoco nella notte; il calore investì anche loro, sebbene fossero lontani ancora un centinaio di passi dalla spiaggia. Le grandi vampate si ridussero a piccole fiammelle che circondarono la cima dell'isola come una corona. «Si sta immergendo!» Tungdil capì quello che stava succedendo: l'Eterno aveva incendiato i gas leggeri nelle camere di zavorra e le stava allagando per scendere sul fondale. A quel punto, nessuno avrebbe più potuto raggiungerlo. «Dobbiamo conquistarla prima che scompaia. Sirka, vele spiegate! Niente riguardi per la nave.» I marinai si scambiarono sguardi incerti. Avevano paura. Tungdil fece un passo verso quello più vicino. «Correte il rischio, o sarete voi i responsabili di tutte le sciagure che da oggi si abbatteranno sulla Terra Nascosta», disse. «Possiamo distruggere il male solo se riusciamo a mettere piede su quell'isola.» I marinai fecero ciò che il nano richiedeva, anche se sapevano che ciò poteva significare la fine per la nave. Risuonavano continue preghiere a Elria, nessuno muoveva più una mano senza implorare la pietà della dea. Tungdil si sentì riportato alla prima conquista dell'isola: allora erano andate perdute due imbarcazioni. L'isola intanto si stava inabissando molto velocemente. Le fiamme si spensero; il gas era finito. Su indicazione di Rodario, i marinai manovrarono l'imbarcazione verso un preciso punto e si avvicinarono tanto da permettere agli ubari, a Tungdil e ai suoi amici di saltare oltre il parapetto, sul fianco della montagna che scivolava lentamente negli abissi. La spiaggia piana si trovava già da tempo sott'acqua. Rodario gridò forte, quando atterrò sulla parete; il dolore al polpaccio ferito era acuto. «Lassù», disse indicando una ciminiera. «Arrampicatevi dentro, porta in una camera da cui si accede all'interno.» Indicò agli altri come raggiungere la scala. Raggiunta la cima del camino, dovettero saltare. Sotto di loro c'era un abisso di venti passi; sul fondo della camera si trovava già uno strato d'acqua sufficiente a non farli sfracellare contro la pietra. L'uno dopo l'altro, si lasciarono cadere nell'acqua spumeggiante, poi si arrampicarono nei gradini scavati nella pietra e attraverso una paratia rag-
giunsero un corridoio. L'acqua scorreva giù dalle scarpe e dai vestiti, gocciolando lentamente e lasciando dietro di loro una traccia scura. Una traccia che li tradiva. «So dove siamo.» Tungdil indicò verso destra. «Così arriviamo agli altiforni. Da lì si giunge al corridoio che porta alla sala da cui vengono comandate le autoclavi, giusto?» Rodario annuì. «Là dovremmo trovare l'Eterno. Qualcuno dovrà pur manovrare l'apparecchiatura.» Avanzavano con prudenza, sbalordendo di fronte alla vista della caverna in cui un tempo si trovavano gli altiforni. Il ferro liquido da cui Tungdil e i suoi amici erano stati investiti si era raffreddato; nei punti più profondi si erano formate grosse macchie grigie che ricordavano il ghiaccio. Dai piani più alti pendevano lunghe lastre di metallo appuntite; in altri punti si erano formate masse simili a sbarre, o la pietra era stata coperta da uno spesso strato grigio. Era uno spettacolo bizzarro e affascinante. «Avanti», spronò Tungdil avvicinandosi alla paratia rotta, che era stata colpita da un pesante oggetto. La porta pendeva dai suoi cardini contorta e ammaccata. «E se l'albo fosse ancora qui?» chiese Rodario estraendo la spada. «Tre avversari sarebbero un po' troppi per me.» «Non credo abbia aspettato che tornassimo», lo tranquillizzò Tungdil, entrando nella stanza in cui un tempo c'erano i giganteschi focolari e le caldaie. Vicino al grosso focolare anteriore stava un mostro alto tre passi e mezzo, con gli avambracci fatti di sbarre di metallo e vetro. Sulla testa portava un elmo in tionio plasmato a forma di teschio. Armeggiava con le valvole, mugolando; era chiaro che stava cercando un modo per impedire l'immersione. Non aveva ancora notato il gruppo. Le sue armi - le asce ornate di rune - erano nelle loro guaine, assicurate alla nera armatura di piastre che gli copriva le spalle. «Che colosso...» mormorò Flagur. Sembrava felice della prospettiva. «Qualcuno di voi vede l'Eterno?» chiese Rodario sbirciando nella semioscurità della caverna. «Eliminiamo prima questa creatura, poi ci occuperemo dell'altra», replicò Flagur, poi si leccò le labbra. «Non vedo l'ora di scoprire il suo sapore. Finora non ho avuto tempo di assaggiare nulla.» La creatura si bloccò. Una lacrima filtrò sotto l'elmo e le scivolò sulla bocca senza labbra. «Perché mi ha fatto questo?» gemette. «Sono stato un
bravo figlio! Sempre!» Sbatté i lunghi perni che univano elmo e cranio contro la caldaia di ferro che la sovrastava. «E lui mi uccide.» «No, noi ti uccidiamo!» Flagur sogghignò, facendo segno ai suoi guerrieri di attaccare. «Fermi», li richiamò Tungdil, avvicinandosi alla creatura. Ne aveva sentito la paura e voleva sfruttarla. «Dov'è tuo padre?» le chiese cauto. «Se n'è andato. Mi ha lasciato indietro perché devo uccidervi. Ma so che lui vuole anche la mia morte.» Le dita si strinsero intorno ad altre valvole, manovrandole del tutto a caso. Gli indicatori schizzarono in alto. Tra i fischi acuti fuoriuscì del vapore. «Non voglio affogare.» A quel punto, Tungdil era a soli cinque manici d'ascia e scoprì la runa elfica sull'elmo: otto. «Dov'è andato?» «Ha promesso che saremmo andati tutti insieme nel tunnel», disse a se stesso come un bambino caparbio. Il contrasto fra la voce e il comportamento da una parte e le dimensioni, la bocca dalle orrende zanne dall'altra costrinse Tungdil a fremere dall'orrore. «Sai dov'è il tunnel? Noi ti ci possiamo portare.» Deglutì. «Io sono un sapientone. So come funziona la macchina.» La creatura lasciò la presa sulle manopole e si voltò del tutto. «Tu lo sai?» Gli occhi scintillarono di verde vivo attraverso l'elmo immenso. «Ma il Creatore ha detto che dovevo uccidervi non appena vi vedevo.» L'incarico che le era stato assegnato e il desiderio di sopravvivere lottavano l'uno contro l'altro. Tungdil poteva immaginare che cosa stesse succedendo in quella mente semplice e disperatamente sovraffaticata. La creatura stava sicuramente pianificando di accettare la sua proposta per poi ucciderli non appena arrivati in superficie. «Va bene. Vi porto lì», acconsentì il mostro, mentre nella sua voce si sentiva chiaramente che stava mentendo. Fece un passo di lato e indicò i comandi. «Falla salire.» «Dimmi dov'è il tunnel, così possiamo guidare lì l'isola.» Tungdil mise la mano su una leva. «Ma mi devi dire la verità. La macchina si accorge subito se stai mentendo. Allora fischia forte e si rifiuta di obbedirmi. Non le piacciono le bugie. Piuttosto ci fa annegare.» La creatura non aveva fatto i conti con quella notizia. Dall'elmo squadrò preoccupata la parete di leve, valvole e indicatori. «Sta a... sud», disse esitante. Tungdil fece fischiare forte la valvola sotto pressione. «Mi hai mentito!»
gridò facendo finta di essere spaventato. «Ora annegheremo tutti!» «Nord-ovest!» gridò subito la creatura. «Nord-ovest, lo giuro! È proprio nella scogliera sotto il naso del gigante! Là c'è una piccola spiaggia con degli alberi che nascondono il tunnel.» Cadde sulle ginocchia di fronte alla caldaia; le gambe corazzate sbatterono con un tonfo sul pavimento di pietra. «Cara macchina, non essere cattiva! Riportaci alla luce.» Tungdil provava quasi pietà per il mostro. «Come arriverà lì tuo padre?» «Deve sapere anche questo?» chiese la creatura, perplessa. «Sì. La macchina vorrebbe arrivarci prima di lui, così possiamo entrare tutti nel tunnel.» «Il Creatore ha preso una delle navi da guerra che galleggiavano intorno all'isola.» «E come ha distrutto le altre? Con un diamante?» «No. Io le ho distrutte. Tutte e cinque.» Sollevò gli avambracci di metallo scintillante e vetro luccicante di verde. «Con la mia potenza. Io posso usarla tutte le volte che voglio.» «Cinque navi», mormorò Rodario, sgomento. Lot-Ionan non osava muoversi. «Dev'essere la lega che le percorre il corpo. Penso che questa creatura sia la più pericolosa e potente di tutte.» Guardò Flagur. «Guardatevi bene dallo sfidarla. Le armi che porta sulla schiena sono di gran lunga la minore delle nostre preoccupazioni.» All'ubari riusciva molto difficile non fare nulla, soprattutto perché il nemico era in ginocchio e non si aspettava di essere attaccato. Un tremito attraversò l'isola. Avevano raggiunto il fondale, e con esso la fonte della magia. «Facci salire», implorò la creatura impaurita, mentre estraeva le sue due asce. Non appena le mani si furono posate intorno ai manici, le rune sull'armatura e sulle armi s'illuminarono. «Sì, adesso lo faccio.» Tungdil annuì. «Vedi?» Si mise a spingere e azionare le leve a caso. Proprio mentre la creatura stava per allontanarsi dalla sua posizione, Flagur prese l'iniziativa. Non poteva lasciarsi sfuggire il vantaggio; i suoi guerrieri si gettarono in avanti con lui. La creatura reagì in fretta. Scagliò una delle sue asce contro gli aggressori, tagliando così per lungo uno degli ubari e spargendone il sangue e le viscere sul pavimento; poi puntò la mano libera contro di loro, e il contenitore di vetro s'illuminò di verde. Un raggio guizzò dalla mano e colpì Flagur, facendolo volare e scaraventandolo indietro fino all'ingresso, con le
spalle contro la parete. L'ubari si raddrizzò ruggendo. Sul pettorale della sua armatura era comparsa una bruciatura nera. «No!» gridò la creatura scagliando la seconda ascia, ma il colpo fallì il bersaglio. «Oh, no! Non adesso!» Tungdil estrasse la sua ascia e la piantò profondamente nella tibia del nemico, approfittando della sua distrazione. Sapeva che cosa significava quella reazione: la magia della creatura era consumata. Distruggendo le cinque navi aveva sciolto nel nulla tutta la scorta di cui disponeva; era quindi sensibilmente meno pericolosa di quanto avessero supposto fino a quel momento. Quando il sangue nero schizzò, la creatura urlò, strappò un pezzo di ringhiera dalla piattaforma che aveva sopra di sé e la usò per cercare di colpire il nano. Tungdil dovette lasciare il manico dell'ascia e saltare di lato. La massiccia sbarra di ferro lo mancò e affondò nella selva di leve e manopole, fracassandone dozzine. «No!» gemette la creatura. «Per colpa tua ho rotto la macchina!» Caricò il salto e balzò molto in alto, raggiungendo la piattaforma più vicina, e la usò per saltare su un'altra ancora più su. «Vi ucciderò tutti!» «Venerabile mago!» gridò Tungdil. «Impeditegli di procurarsi nuove energie!» Lot-Ionan alzò le mani e scagliò un fulmine azzurro che mancò per poco il bersaglio. Il raggio di energia investì in pieno una delle caldaie, e roventi nuvole di vapore fuoriuscirono dallo squarcio grosso come una macina di mulino. Gli ubari e Flagur si misero a correre con Tungdil in testa; Sirka, Rodario e Lot-Ionan seguivano da una certa distanza. Il mago cercava di colpire il mostro coi suoi fulmini crepitanti e di tenerlo così lontano dalla piattaforma da cui avrebbe potuto attingere il potere della fonte magica. Ma una forza invisibile sfibrava i raggi distruttivi e li deviava. Nel frattempo, Tungdil e una parte della compagnia entrarono nell'elevatore, mentre gli altri manovravano l'argano. Il nano rimpianse di non avere con sé la Lama di Fuoco. «Preghiamo che si accorga tardi di quello che stiamo facendo», disse a Flagur. La creatura si arrampicò agilmente sulla caldaia a vapore successiva e di lì saltò sulla piattaforma. Non appena i suoi piedi toccarono il metallo, del-
le fiammelle verdi si accesero e le lambirono il corpo corazzato. Dalle sbarre intorno agli avambracci di vetro sprizzarono scintille; la magia si stava focalizzando lì dentro, l'interno del vetro brillava come se dentro vi ardessero due piccoli soli. L'elevatore si fermò accanto alla piattaforma, oscillando, e Tungdil spalancò la porta. «Morirete!» gridò la creatura. «Per colpa vostra sono imprigionato nel mare!» Puntò entrambe le braccia verso l'esausto Lot-Ionan. «Palandiell, dammi la tua forza!» pregò il mago, riuscendo a porre davanti a sé un incantesimo di difesa. Raggi di energia sprizzarono dalle dita dell'avversario e si abbatterono sulla protezione magica. Lot-Ionan aveva lanciato un incantesimospecchio, una magia della categoria più semplice. E per giunta il sortilegio minacciava di cedere a quella potenza inimmaginabile. Sembrava che la creatura stesse indirizzando direttamente contro di lui l'intero potere della fonte. Lo specchio magico s'incrinò e si scheggiò, con conseguenze devastanti. I raggi non furono affatto deviati e indirizzati verso un altro obiettivo; furono invece frazionati in un centinaio di lampi, che si ripartirono a casaccio come la luce del sole, distruggendo tutto ciò che incontravano. «Tutti giù!» gridò Tungdil gettandosi sulla piattaforma, nella speranza che la lega assorbisse l'energia vagante. Ma non c'era nulla che potesse opporsi ai raggi. Le caldaie esplosero; sulle pareti di roccia si aprirono grossi fori da cui scrosciava acqua. Due ubari scomparvero nei raggi. Anche la creatura venne trapassata più volte. Urlando, traballò all'indietro e cadde fuori dalla piattaforma. Mentre precipitava, altri raggi le attraversarono il corpo; poi si schiantò con un tonfo. Tungdil si tirò su, tenendo gli occhi puntati verso il caos che si era scatenato più in basso. Poi guardò le pareti della caverna, su cui si aprivano spesse fessure: la roccia non riusciva più a sostenere la pressione. «Svelti, scendiamo!» ordinò saltando nell'elevatore. «C'è solo un modo per scampare alla morte.» Non avevano ancora raggiunto il suolo, che il soffitto crollò. Un'immane massa d'acqua si riversò su di loro come una cascata. XVII
Terra Nascosta, regno di Weyurn, trenta miglia a nord-est di Mifurdania, 6241° ciclo solare, tarda estate L'Onda alata sfrecciava sull'acqua, puntando verso le propaggini settentrionali dei Monti Rossi, dov'era nascosto l'ingresso del tunnel di cui aveva parlato la creatura. La nebbia si diradava sempre più e la luce del sole scaldava coi suoi raggi tutti quelli che si trovavano sul ponte, facendo loro dimenticare l'umida oscurità. Sirka baciò Tungdil sulla bocca. «Tu sei un vero Sapientone.» Il nano si gustò le morbide labbra di lei sulle sue. «No. Ho solo osservato», replicò tenendo lo sguardo puntato verso il banco di sabbia. «Sempre così modesto...» osservò Rodario, che se ne stava sdraiato su un'amaca. «Se tu non avessi avuto l'idea di arrampicarci in una caldaia vuota, saremmo affogati tutti. Perfino Lot-Ionan.» Chiuse gli occhi, accecato dal sole. «Anche questa volta hai la mia più sentita riconoscenza.» «Era lo stesso principio dell'isola. Una cosa piena d'aria non può che salire verso l'alto.» Tungdil sorrise e si permise un poco di orgoglio. Flagur, che si era procurato un taglio alla spalla contro il bordo tagliente della caldaia, approvò annuendo. Sedeva a petto nudo su una botte; uno dei suoi guerrieri gli stava ricucendo abilmente la ferita. «L'attore dice il vero. Sarebbe potuta andare molto diversamente. E invece siamo quasi tutti vivi.» L'ubari sembrava non sentire la puntura dell'ago. Tungdil notò che Lot-Ionan stava seduto in disparte con un'espressione afflitta in volto. Raggiunse il padre adottivo. «Che cosa c'è, venerabile mago?» Il vegliardo alzò la testa bianca e si sforzò di sorridere un poco. «Non lo hai notato?» Alzò le mani. «Un tempo compivo i gesti più complicati, senza mai sbagliare nulla. Mai!» Abbassò le mani e le intrecciò, come se le volesse nascondere alla vista del nano. «Ora le uso per fare idiozie, e la mia memoria si prende gioco di me in un momento così critico.» Sospirò. «Un incantesimo-specchio! In una caverna circondata dalle acque, nel più profondo del mare! Ah, che razza di folle sono diventato...» «È colpa di Nudin», disse Tungdil, cercando di consolarlo. «Questo lo so. Ma saperlo non migliora le cose», replicò il mago. «Sono preoccupato per ciò che ci riserverà il futuro. Per ciò che accadrà dopo la lotta contro l'Eterno.»
Tungdil cercò d'indovinare a che cosa stesse pensando. «Durante il viaggio nella Terra dell'Aldilà?» «No. Mi preoccupa il futuro della magia nella Terra Nascosta.» LotIonan toccò il legno segnato dalle intemperie dell'albero maestro. «La nuova fonte sta in un punto profondo, e senza l'isola sarà quasi impossibile raggiungerla per usare il suo potere.» Guardò le pareti rocciose che si ergevano a quattro miglia di distanza. «La domanda che mi pongo è: c'è qualcuno, oltre a me, che possa utilizzare quel potere?» «Forse altri apprendisti di Nudin?» Tungdil giocava con l'estremità della gomena. «E non preoccupatevi per come si potrà raggiungere il fondo. Se una caldaia può salire fino alla superficie, qualcosa del genere potrà anche scendere sino al fondale; è solo una questione di zavorre. Non abbiamo bisogno dell'isola.» «Se ci fossero altri allievi di Nudin, perché allora non si sono uniti a Dergard e ai suoi amici?» Il mago si rialzò, tenendosi la schiena dolorante. «Che cosa accadrà se io sono l'ultimo mago della Terra Nascosta?» «Potrebbero aver visto come tradimento il fatto che Dergard non abbia seguito le orme di Nôd'onn e che invece si sia rivolto a voi», ipotizzò Tungdil. «Dergard aveva sentito la sorgente. Vedremo se nel Weyurn compariranno in futuro altri uomini che si trattengono in modo sospetto vicino a quel posto.» Un grido dalla coffa attirò la sua attenzione verso le rocce. «Stiamo raggiungendo la nostra meta, venerabile Lot-Ionan. Siete pronto?» «Non lo so.» Gli occhi azzurri del mago parevano infinitamente stanchi. «Ma non ho altra scelta.» Sorrise. «Nessuno di noi ha un'altra scelta, non trovi?» L'Onda alata solcava le acque, puntando verso il banco di sabbia coperto di vegetazione. Tungdil rimpianse di non avere Boïndil al suo fianco. Oltre a essere un valoroso guerriero, il Rabbioso riusciva a mettere un po' di allegria anche nelle situazioni più disperate. Un vortice sulla superficie dell'acqua ricordò a Tungdil l'ultima runa, quella sull'armatura della creatura che giaceva con l'isola sul fondo del mare del Weyurn. «Otto», mormorò. La vostra morte ha otto volti, pensò mettendo insieme la frase. Era stata la promessa dell'Eterno agli elfi. Si dimostrerà una promessa affrettata? Il numero, otto, si spiegava facilmente: cinque creature ibride, due Eterni e l'albo che aveva incontrato nel Toboribor. La Morte in otto incarnazioni. Due esistevano ancora.
Rodario aprì gli occhi e si alzò dall'amaca. «Dov'è la nave da guerra con cui l'Eterno è giunto fin qui?» si chiese. «Non può certo averla resa invisibile.» Flagur indicò a dritta. «Là c'è una macchia sotto la superficie dell'acqua.» Alzò lo sguardo verso la vedetta che stava sulla coffa. «Che cos'è?» chiese indicandole la direzione. Nel frattempo la sutura gli era stata fasciata. «Una nave», fu la risposta. «È affondata e sta sul fondale. Sembra una nave da guerra.» Sirka fece ammainare le vele e calare le scialuppe, per non condurre la nave troppo vicino alla secca e alle acque basse. Chi sapeva quanto in fretta si sarebbero dovuti allontanare? Raggiunsero la riva, silenziosi e immersi ognuno nei propri pensieri. Mentre camminavano sulla spiaggia sabbiosa, scoprirono dietro una folta sterpaglia un passaggio alto tre passi e largo due. Entrarono con circospezione nella caverna, che dopo pochi passi portava a una ripida scala in discesa; dallo scuro cunicolo sentivano un lontanissimo e ritmico fracasso martellante. Scesero i gradini e raggiunsero un grande tunnel circolare del diametro di dieci passi. Il pavimento era coperto di fine polvere di pietra che arrivava fino al ginocchio, l'aria era satura di una polvere grigia che costrinse Rodario a starnutire; le pareti ben smerigliate scintillavano nella fioca luce. «Nessuno accenda torce», ordinò Tungdil. «Nell'aria c'è troppa polvere. Una fiamma potrebbe incendiarla.» Rodario annuì. «Avevo sentito qualcosa del genere. A Porista non c'era stato un mulino che era esploso grazie alla polvere di farina e a una candela?» Si voltò verso la direzione in cui la galleria confinava col mare. Era stata costruita una possente armatura: travi di ferro spesse come alberi e immense saette puntellavano un muro di roccia e acciaio che impediva all'acqua d'inondare il gigantesco corridoio. «Questo Bandilor era un maestro di ingegneria mineraria, è possibile?» chiese a Tungdil. «Pensavo che i Terzi fossero innanzitutto guerrieri.» «Si può imparare molto leggendo», disse Tungdil sogghignando. «Su, avanti! Non sappiamo quanto vantaggio abbia l'Eterno.» Corsero lungo il tunnel e raggiunsero un binario che assomigliava a quello dei nani. Tre vagoncini erano pronti a partire, azionati da forza muscolare e manovelle. Flagur indicò un punto in cui il pavimento era coperto da meno polvere.
«Prima dovevano essere quattro.» «Non mi sorprende.» Tungdil saltò in un veicolo; gli altri lo seguirono, e il viaggio cominciò. Gli ubari assunsero la guida dei vagoncini, che raggiungevano una velocità considerevole. La polvere sottile si posava negli occhi, nel naso e nella bocca, scricchiolava tra i denti e aveva un sapore amaro. Gli occhi prudevano e bruciavano. Il tunnel attraversava da sud a nord i Monti Rossi. «Non potrebbe esserci strada migliore per i mostri della Terra dell'Aldilà», commentò Rodario sputando per togliersi la polvere dalla bocca. «Non avrebbero da temere né le scoscese creste dei monti né il vento, il ghiaccio e la neve.» «Verissimo. Ma si dovranno portare delle barche. Altrimenti come potrebbero lasciare la secca?» intervenne Sirka. Tungdil in cuor suo dubitava che dietro quel progetto vi fosse stato Bandilor. Anche se dentro di lui tutto si ribellava disperatamente, ogni elemento sembrava indicare che era stato Furgas, nel suo delirio di vendetta, a pianificare il tramonto della Terra Nascosta. E Tungdil era certo che il magister avesse anche escogitato un sistema per trasportare i mostri sulla terraferma. Forse usando l'isola o conquistando una delle isole flottanti di cui il Weyurn abbondava. Avrebbe ottenuto una vera prova del tradimento di Furgas solo se avesse seguito le sue indicazioni riguardo ai punti deboli dei cinque mostri. Ma in combattimento non aveva avuto tempo per fare una cosa del genere. Il viaggio durava a lungo, ma si avvicinavano costantemente al rumore ritmico. La cortina di polvere divenne ancora più spessa e alta; il vagone viaggiava come attraverso la cenere, sollevando nubi vorticanti. Il rumore divenne sempre più forte, fino a diventare un frastuono che copriva ogni altro rumore e rendeva impossibile conversare. Davanti a loro apparve un'immensa ombra nera che riempiva completamente il tunnel. Era una macchina lunga venti passi che sferragliava, ticchettava e macinava. Nella parte anteriore ruotava una specie di immenso trapano che divorava instancabilmente la roccia; dall'estremità posteriore usciva la polvere di scarto. File di ruote, ognuna grande come una piccola capanna, giravano lentamente fornendo la spinta e il movimento necessari. Dunque era quella l'origine dell'apertura che dava sul mare, e che era stata richiusa con molto dispendio di mezzi ed energie. «Si muove da sé», gridò Sirka nelle orecchie di Tungdil per sovrastare il
frastuono. «Non vedo nessun equipaggio che la manovri.» Il nano si limitò ad annuire. Quello era di gran lunga il supremo capolavoro del magister technicus. Una macchina che, instancabile e senza manovratori, si scavava una strada attraverso la dura roccia, ciclo dopo ciclo. Fino ad arrivare nella Terra dell'Aldilà e spalancare le porte alla rovina. Rodario strattonò il nano per la cotta di maglia e indicò il vagoncino mancante. Stava proprio sotto la macchina, e non vi era traccia dell'Eterno. «Dev'essere da qualche parte nella macchina», gridò Tungdil. Si fece strada nella polvere puntando verso la scala di ferro che portava sulla scavatrice. Gli sembrava di guadare un fiume. I suoi compagni lo seguirono, e l'uno dopo l'altro si arrampicarono sulla scavatrice. Il ferro tremava e vibrava in un fracasso incessante, come se all'interno fossero al lavoro centinaia di pesanti martelli. C'era odore di pietra, ferro caldo, petrolio e polvere. Si ritrovarono presto su un camminamento in reticolo dì ferro che girava intorno alla macchina. A distanze regolari c'erano scale che salivano e scendevano, conducendo ad altri livelli. A un primo sguardo, scorsero solo rivestimenti di ferro, nessuna leva o vite di regolazione o altri dispositivi con cui si potesse fermare il corso della macchina. Poi sentirono che il martellio ritmico diventava più forte e più veloce. La scavatrice stava accelerando il lavoro. «Dobbiamo fermarla», ruggì Tungdil. «L'Eterno ha...» Una figura in armatura nera atterrò alle spalle dell'ubari che chiudeva la fila e lo colpì con due spade. Diviso in tre parti, il guerriero cadde sul camminamento senza sapere chi gli avesse preso la vita. Il sangue trascinò la polvere che si era depositata sul camminamento, si mischiò con essa e creò umidi grumi grigio-rossi. Nella sua splendida armatura di tionio, l'Eterno si muoveva con velocità e sicurezza. La debole luce gli conferiva un'aura ancora più inquietante, e l'elmo chiuso rendeva impossibile gettare uno sguardo sul suo volto. Tungdil fissava il nemico, potendo solo immaginare che cosa si nascondesse dietro il metallo. L'albo non intendeva farsi coinvolgere in un lungo combattimento. Si stava già preparando a saltare per raggiungere il camminamento del livello sopra il loro. Flagur scagliò il pugnale e lo colpì mentre saltava. La punta trapassò l'armatura appena sopra il fianco destro e la lama entrò per metà nel corpo dell'albo. A quel punto, però, questi era scomparso veloce quanto era arrivato.
Tungdil indicò in alto. «Saliamo! Forse c'è un ingresso», gridò. «Pensiamo alla macchina. L'albo verrà da solo.» Salirono con attenzione un piano dopo l'altro, strisciarono sopra il sudicio dorso metallico della scavatrice e raggiunsero un boccaporto. Videro che l'Eterno aveva fatto i suoi preparativi. Quello era stato sicuramente il posto da cui un tempo si poteva dirigere la macchina, ma l'immensa devastazione dello stretto e soffocante ambiente rendeva impossibile capire quale manopola fosse servita a quale funzione. Sirka aveva scoperto una larga botola che portava in basso, nel cuore della macchina. La indicò con aria interrogativa, e Tungdil si limitò ad annuire. Solo a quel punto la situazione divenne davvero spiacevole. Il calore faceva sudare anche l'anima; schizzi di olio avevano reso sdrucciolevoli gli scalini di ferro, e i camminamenti erano ancor più stretti di quelli esterni. Lanterne di muschio emanavano una luce in cui Rodario e Lot-Ionan riuscivano a stento a scorgere qualcosa, ma che era sufficiente per gli occhi dei nani e degli ubari. Furono sopraffatti da quello spettacolo mozzafiato. Stavano guardando qualcosa di mai realizzato prima di allora. C'erano ruote dentate grandi e piccole che giravano alcune velocemente, altre piano, sbarre che si muovevano, catene e spesse cinghie di cuoio che azionavano rulli da cui sporgevano tiranti e che scomparivano in altri congegni di ferro. Era una foresta vivente di metallo in cui sarebbe bastato un movimento imprudente per essere afferrati da un macchinario ed esserne stritolati. «Stiamo cercando qualcosa di specifico?» gridò Sirka. «O dobbiamo fare a pezzi qualcuno dei meccanismi qui intorno?» «Non so se basterà», replicò Tungdil. «Dovremmo trovare l'elemento propulsivo e distruggerlo.» La Sotterranea fece una smorfia. «E che aspetto avrebbe un elemento propulsivo?» Rodario indicò a sinistra, dove c'era un blocco di metallo grande come una casa da cui uscivano ronzando delle catene che raggiungevano ogni angolo della macchina passando attraverso pulegge. «Cominciamo da lì e vediamo che cosa succede», propose. Un ubari strillò e cadde a terra, morente. Gli altri videro una lama spuntargli dalla schiena dopo essere stata spinta nel ventre attraverso uno dei fori del reticolo di ferro su cui camminavano. L'Eterno era appeso all'altro
lato della grata, sotto di loro, quasi fosse un ragno; quindi si diede slancio e atterrò su una sbarra di metallo larga due dita, per poi scomparire nell'oscurità. Rodario deglutì. Rimanevano loro solo una manciata di ubari per battere quell'avversario. «Venerabile Lot-Ionan, fate qualcosa!» disse impaurito. «Al blocco!» ordinò Tungdil mettendosi a correre. Raggiunsero la struttura di ferro che ritenevano essere l'elemento motore. Le catene sfrecciavano così velocemente da confondere loro la vista. Scatenavano un vento oleoso. Tungdil vide che erano estremamente tese e che non sarebbe stato semplice fermarle. L'Eterno riapparve e attaccò Flagur, che parò la prima lama e afferrò l'altro braccio dell'avversario. Poi diede all'Eterno un calcio sul petto, scagliandolo all'indietro. L'albo volò come un pupazzo, ma stampò i piedi contro la parete e saltò verso Flagur con slancio raddoppiato, pronto a colpirlo con la spada. Gli altri ubari accorsero e incalzarono l'Eterno con rapidi colpi. Questi, dopo aver subito due colpi al petto e uno alla coscia sinistra, cercò di ritirarsi nuovamente nell'oscurità per proseguire da lì i suoi agguati proditori. Trafisse un ubari e deviò l'affondo di un altro, che finì contro una catena e fu trascinato via. Le grida della vittima si spensero subito. Da qualche parte la macchina tintinnò e la catena in corsa venne colorata dal sangue. «Attaccatelo!» Lot-Ionan aveva sfruttato l'occasione per tessere un incantesimo di paralisi e gettarlo sull'Eterno. Le rune sull'armatura nera si ribellarono scintillando, ma non preservarono il portatore dall'effetto della magia. L'albo rimase immobile come una statua, pur gridando furiosamente attraverso l'elmo. «Tiratelo giù!» Tungdil si gettò contro l'albo, mentre Flagur gli andava in aiuto strappando al nemico le due spade. Rodario non aveva molta voglia di avvicinarsi all'albo e pensò di occuparsi piuttosto della macchina. «Io fermo il motore.» Aprì uno sportello, dietro cui scorse diverse ruote dentate e parecchie molle di metallo che si avvolgevano e svolgevano. Sotto vi era una coppa piena di olio: piccoli mestoli vi s'immergevano, si riempivano e irrigavano le parti in veloce movimento; il liquido nero colava sulla tiranteria e tornava nella coppa. «Be', qui so perfino io che cosa bisogna fare», disse l'attore ridendo. Con la spada fece un grosso buco nella coppa; l'olio colò via e ben presto i mestolini attinsero solo aria. La macchina, però, continuava a correre come se fosse ancora lubrifica-
ta. Per accelerare il processo, Rodario gettò oltre lo sportello la polvere di pietra che trovò intorno. I mestoli la pescarono e la versarono sulle parti in movimento. Poco dopo si sentirono i primi stridii lancinanti; il metallo sfregava forte, scaldandosi ed effondendo un odore pungente. «E ancora una volta l'Incredibile ha avuto un'incredibile ispirazione.» Rodario chiuse lo sportello. La prima ruota dentata si fermò gemendo. Alcuni degli elementi che correvano con maggior velocità vennero frenati bruscamente, mentre altri continuavano a muoversi senza riuscire più a trasmettere la forza. Con cigolii infernali, il ferro andò in pezzi, frammenti di ruote perforarono i propri involucri e schizzarono via fischiando come proiettili. XVIII Terra Nascosta, regno di Weyurn, confine settentrionale dei Monti Rossi, 6241° ciclo solare, tarda estate «Vediamo un po' che cosa si nasconde sotto il tuo elmo», disse Tungdil. All'improvviso esplose un rumore minaccioso, e i primi frammenti delle ruote dentate iniziarono a volare tutt'intorno. Spaventato, volse la testa verso Rodario. «Che hai fatto, Incredibile?» «Ho distrutto la motrice, come volevi», rispose l'attore. «In un attimo sarà tutto finito.» Ma i rumori dicevano tutt'altro. Catene e cinghie di trasmissione si strappavano, e il disastro si propagava per tutto l'interno della macchina. Sempre più schegge volavano impazzite; un campo di battaglia coperto da frecce di migliaia di arcieri sarebbe stato più sicuro del ventre di quella macchina. «Fuori!» urlò Tungdil. Cercarono la via per cui erano arrivati. Mentre correvano, Sirka trovò un altro sportello attraverso il quale arrivarono a una stretta scala di ferro che li portò a una seconda uscita. L'Eterno non opponeva resistenza; era anche lui incline ad abbandonare la macchina che stava andando in pezzi, piuttosto che incontrare la propria morte al suo interno. Dopo non molto uscirono, saltarono sulla polvere e corsero verso il va-
goncino. Solo a quel punto si concessero una pausa. «Ricordami di non affidarti mai più il compito di bloccare qualcosa», disse Tungdil a Rodario tra il serio e il faceto. Con un rumore che sembrava il grido di morte di un'atavica creatura delle tenebre, la scavatrice si arrestò. Il silenzio era irreale. «Ce l'abbiamo fatta!» esultò Rodario tastandosi il corpo per scoprire se avesse qualche ferita di cui non si era accorto. «Gli eroi di un tempo si confermano gli eroi di oggi! La Terra Nascosta è salva, amici miei.» «Non del tutto.» Tungdil allungò la mano per togliere l'elmo all'albo e per chiedergli dove fosse la pietra. Ma l'Eterno menò un calcio improvviso, colpendo il nano in fronte; forse aveva finto soltanto che l'incantesimo funzionasse, o forse Lot-Ionan non era più riuscito a mantenerne il potere. L'albo strappò di mano la spada all'ubari accanto a sé e impartì al guerriero che lo tratteneva una gomitata corazzata in pieno volto, facendolo crollare a terra privo di sensi. «Come osate cercare di fermarmi?» gridò menando un colpo di spada verso Flagur, che parò il fendente ma si prese un pugno sul naso. «Vi mozzerò le ginocchia e vi farò inginocchiare davanti a me sopra il vostro sangue!» «Lot-Ionan!» chiamò Rodario indietreggiando di fronte al nemico. Tungdil si parò di fronte all'albo. «Hai qualcosa che non ti appartiene!» L'Eterno non stette a parlare. Invece menò un fendente con una tale forza che Tungdil, paratolo con l'ascia, si ritrovò sulle ginocchia. Probabilmente un colpo del genere avrebbe costretto sulle ginocchia perfino un mezz'orco. «Come siete miserabili», disse l'albo, in tono di scherno. «Avete davvero meritato la morte.» Manteneva la pressione della spada su Tungdil. «La macchina è distrutta», gemette il nano, cercando di spingere il nemico verso Flagur, che veniva loro incontro pronto a colpire. «Non ne ho più bisogno. Terminerò l'opera col potere del diamante.» Con un movimento fluido, l'Eterno tolse la spada, facendo perdere l'equilibrio al nano, e usò lo stesso slancio per infilare l'arma nel ventre dell'ultimo soldato di Flagur. «Non appena vi avrò annientati.» Caricò il salto, balzò sul vagoncino e da lì si gettò spada in avanti contro Lot-Ionan. Il mago puntò la mano verso l'albo e chiuse gli occhi. Gli venne sulle labbra una sola sillaba, e l'Eterno rimase sospeso a mezz'aria, come fosse appeso a delle corde. Flagur fece un salto brandendo le due spade dell'albo e gliele infilò nel torace. Le lame affilate perforarono l'armatura, e l'Eterno lanciò un grido
acuto. «È quello che ha provato la mia gente, albo», tuonò l'ubari compiaciuto, con gli occhi rosa che luccicavano. Poi rigirò le lame per farlo soffrire di più. «Soffri, mostro! Soffri fino a crepare!» Ma l'incantesimo perse in fretta il suo effetto, e l'Eterno cadde a terra. Con un furioso strillo animalesco, l'albo si estrasse le spade dal corpo e le usò per attaccare Flagur. Le lame turbinavano, gocce di sangue volavano tutt'intorno e alla fine l'ubari crollò sulla polvere grigia. «Avevo immaginato un finale del genere», mormorò Rodano. «Di nuovo io contro un folle. Come a Porista.» L'albo indietreggiò, portò la mano alla cintura e prese il diamante dal borsello. La manopola si strinse intorno a esso e si sentì uno scricchiolio. «Distruggetelo!» gridò Tungdil balzando in avanti. Aveva sentito perfettamente l'albo mormorare qualcosa, tentando con ogni probabilità di lanciare un sortilegio. Sirka e Rodario attaccarono da lati diversi, cercando di confondere l'Eterno. All'improvviso il diamante s'illuminò. Accecanti raggi di luce rischiararono le pareti del tunnel. Il tionio divenne trasparente; si vedevano le ossa della mano dell'albo, che distendeva due dita puntandole contro Lot-Ionan. Tungdil non dubitava che in un istante un raggio sarebbe partito e avrebbe investito il padre adottivo. «Vraccas, aiutami!» Incassò la testa e fece un potente balzo in avanti, la lama dell'ascia diretta al polso dell'Eterno. E lo colpì! Il nano sentì per un istante la resistenza dell'armatura e delle ossa, ma né l'una né le altre contennero la pesante lama. La mano cadde tranciata nella polvere e i raggi della pietra si estinsero. L'albo, urlante, cercò di colpire a sua volta l'avversario. Tungdil non riuscì a parare bene il colpo; la spada lo ferì al braccio destro, facendosi strada attraverso la cotta di maglia e la carne e rimanendo infilata nell'osso. Tungdil vacillò, gemendo; le dita si aprirono e perse la presa sull'ascia. Ma Sirka non lo lasciò da solo; saltò davanti a lui e attaccò l'albo. LotIonan e Rodario intanto frugavano nella polvere in cerca della mano mozzata e del diamante. Ma neanche Sirka era all'altezza dell'Eterno, il quale simulò un colpo obliquo e invece fece un affondo alla spalla sinistra della Sotterranea. Poi l'albo strattonò l'arma verso l'alto e le spezzò la clavicola. Sirka cadde a terra senza un gemito.
«No!» Accecato dalla rabbia, Tungdil si gettò sull'albo che lo attendeva con le armi levate e pronte a impartirgli il colpo di grazia. «Ce l'ho! Ce l'ho!» Rodario aveva trovato la mano tranciata; la sbatté contro la parete del vagoncino per romperne la morsa e afferrò la pietra con destrezza, passandola subito al mago, che la prese con rispetto. La sua purezza aveva sofferto. Nel diamante, un tempo limpido, c'erano delle scure inclusioni e punti opachi, e Lot-Ionan ebbe addirittura l'impressione di scorgere delle crepe. Il contatto con l'albo non aveva giovato alla pietra. «Palandiell e Sitalia, vi prego, concedetemi il vostro aiuto», disse il vegliardo stringendo la gemma tra le dita. Cercò il potere che giaceva nascosto al suo interno. Tungdil intanto aveva raggiunto l'Eterno; estrasse il pugnale e mirò alla più bassa delle ferite dell'albo. Ma non riuscì neppure ad avvicinarglisi. L'albo colpì e la lama prese il nano di traverso sul fianco sinistro, sotto il braccio; attraversò gli anelli di ferro, superò le costole e arrivò al cuore. Il sangue di Tungdil si trasformò in liquido magma. Il nano sentì caldo in tutto il corpo, tranne che nel cuore. «La tua morte si chiama Nagsor Inàste», dichiarò l'albo solennemente, prima di spingere la lama in avanti e poi estrarla dal cuore. Sangue rosso scuro zampillava dalla ferita aperta, scorreva sugli abiti di Tungdil e imbeveva la polvere. «Io ti prendo la vita, Cavernicolo. Non ci sarà sepoltura per le tue ossa; la tua anima vagherà e sarà perduta. Perduta come la Terra Nascosta quando io tornerò.» «Io...» Tungdil incassò la testa, ostinato, fece ancora due vacillanti passi in avanti, verso l'Eterno, e sollevò il pugnale. «Sirka...» Cadde in ginocchio ai piedi dell'albo e affondò nella polvere. Dal cuore, il freddo si propagò fino all'angolo più remoto del suo corpo e lo paralizzò. Divenne sempre più scuro; l'albo si dissolse nell'ombra e divenne invisibile. Poi Tungdil cadde in avanti e scomparve in quel mare grigio. Rodario aveva assistito alla fine del suo amico. «Venerabile mago, dovete fare un miracolo», mormorò con voce spenta alzando l'arma. «Vi darò uno o due istanti.» Lot-Ionan sentiva il potere del diamante. Che però si rifiutava di obbedirgli. «Non è così facile come si potrebbe pensare, non è vero?» disse una voce conosciuta accanto a lui. Un brivido di orrore attraversò il mago, che non osava girare la testa. «Nudin?»
«Ciò che è rimasto di lui, mio vecchio amico.» Lot-Ionan deglutì e vide l'albo avvicinarsi per completare la sua opera e riprendersi il diamante. Rodario con la spada levata fronteggiò l'albo, pur sapendo che sarebbe caduto più in fretta di tutti gli altri. I movimenti dei due sembravano al mago incredibilmente lenti, come se pesassero centinaia di libbre, come se dei fili trattenessero loro braccia e gambe. «Devi dischiudere la pietra», disse Nudin. «Permettigli di guardare dentro la tua anima. Se crede che tu meriti di accedere al suo potere, ti aiuterà a combattere l'Eterno.» «Vattene! Sei solo un'allucinazione», sibilò Lot-Ionan, cercando di concentrarsi. «Solo in parte, mio vecchio amico. Io continuo a vivere in te.» «E come avresti potuto fare una cosa del genere?» Nudin rise piano. «Come sta la tua schiena, Paziente? Non ti fa male facendo certi movimenti?» Lot-Ionan si guardò intorno e credette di scorgere accanto alla macchina i contorni di un uomo, senza però riconoscerne il volto. Dopo un istante era scomparso. «Che ne sai tu?» «Non dovresti aiutare il caro Rodario, invece che dare la caccia ai fantasmi?» fu l'amichevole rimprovero che udì. «Quel brav'uomo morirà, poi l'Eterno farà a pezzi te.» «Com'è riuscito lui a usare la pietra?» «Più tardi, Lot-Ionan. Se vuoi salvare la Terra Nascosta, devi darti da fare.» Dopo un poco di esitazione la voce aggiunse: «O devo aiutarti io, mio vecchio amico?» «No», rispose Lot-Ionan. Chiuse forte gli occhi, strinse il diamante con entrambe le mani, come se potesse spremerne il potere come da un frutto maturo. Non accadde nulla. Sentì Rodano gridare e il tonfo di un corpo che cadeva. «Ci metti troppo, mio vecchio amico. Non c'è più nessuno tra te e l'Eterno. I più valorosi eroi della Terra Nascosta sono stati battuti», disse Nudin. «La mia offerta è ancora valida, Paziente. Con la tua famosa pazienza oggi non andrai molto lontano, lascia che te lo dica.» Lot-Ionan aprì gli occhi e vide l'albo a due passi da sé. Visioni di distruzione della Terra Nascosta avvamparono nella sua mente. Orde di bestie fluivano da nord, uscendo dalla Forra Oscura, si univano ai mostri raccolti a ovest; insieme devastavano la Terra Nascosta, rimasta indifesa, e la por-
tavano alla rovina. Non rimaneva più nulla a parte il terrore, e gli uomini sopravvissuti diventavano servitori del male. L'albo alzò la visiera dell'elmo e mostrò al mago il suo volto aggraziato, in cui due buchi neri stavano al posto degli occhi. La sua bellezza era paralizzante e disarmante. Lot-Ionan sentiva sciogliersi la propria resistenza, sostituita dal desiderio di soddisfare ogni voglia di quella creatura. Avrebbe dovuto soltanto chiedergli la pietra e lui... «No!» gridò il vegliardo opponendosi a quell'incanto, anche se sapeva che non sarebbe riuscito a sottrarsi a lungo. «Aiutami, Nudin.» «Molto volentieri, mio vecchio amico.» Un dolore bruciante attraversò la spina dorsale di Lot-Ionan, si proiettò nelle spalle e quindi nelle braccia, propagandosi fino alla punta delle dita. Subito dopo, il diamante avvampò di un freddo fuoco verde. E tutta insieme tornò la sapienza del mago. Gli vennero in mente gli incantesimi. Molti incantesimi. La sua bocca e le sue mani formarono sortilegi per scagliarli contro l'albo. L'Eterno fu sorpreso dall'impeto dell'attacco magico. Una sfera di luce color malachite lo avvolse, e lui non fu più in grado di uscirne. Un pensiero di Lot-Ionan bastò a far rimpicciolire la sfera scintillante fino a che la sua estremità superiore non toccò l'elmo dell'albo. Questi si accovacciò e cercò disperatamente di aprire un varco in quella sua prigione. Nel frattempo la sfera si restringeva sempre di più, schiacciando l'albo su se stesso. Il tionio si deformava, le ossa si spezzavano, trafiggendo la pelle e gli organi dell'Eterno. Il sangue colava a fiotti; grida acute echeggiavano per il tunnel. La sfera a quel punto aveva raggiunto il diametro di una piccola ruota di carro e continuò a restringersi fino a raggiungere le dimensioni di una sfera di cristallo e poi quelle di una biglia. La magia aveva trasformato l'Eterno in un piccolo grumo sanguinolento di carne e metallo. «Sei soddisfatto di me, Paziente?» chiese la voce di Nudin. «Trovo che ci siamo completati molto bene.» Il mago non gli prestò attenzione, ma si occupò subito dei suoi compagni. Per Tungdil ogni soccorso era tardivo: la spada dell'albo gli aveva spaccato il cuore. «No...» sussurrò Lot-Ionan. Dal profondo della sua memoria salirono ricordi dei cicli felici, ricordi della sua tranquilla galleria, con Tungdil all'incudine o che rideva in cucina in compagnia della serva Frala e delle sue bambine, alle quali il nano leggeva qualcosa ad alta voce. Quanto avrebbe
dato per tornare a quei tempi... E a tutto quello che aveva perso da allora. «Provaci», lo tentò Nudin con un sussurro. «Che cosa dovrei provare?» «A riportarlo in vita.» «E renderlo un non morto? Non so farlo. E se anche fosse in mio potere, no, è meglio che...» Nudin rise, come un adulto ride di un bimbo ingenuo. «Paziente, il tuo potere è incommensurabile. Perfino gli dei t'invidierebbero. Provaci.» «No.» «Provaci! Non ne rimarrai deluso.» Esitante, Lot-Ionan posò la mano sul corpo del nano, mentre teneva la destra stretta intorno alla pietra. Gli incantesimi di cura, nella sua mente, si mescolarono a immagini di Tungdil vivo. La magia funzionò! Mentre il taglio si chiudeva, il cuore ricominciò a battere sotto la mano del mago. Lot-Ionan aveva raggiunto il potere sulla vita e sulla morte, una delle più antiche ambizioni di maghi e maghe! Così, senza ricerche, elaborazioni di formule ed esperimenti. Tutto ciò di cui aveva bisogno era nelle sue mani. Le palpebre di Tungdil tremolarono, poi il nano guardò il padre adottivo. «Venerabile Lot-Ionan? Sono morto?» Si tirò su tossendo e sputando sangue e polvere. Si tastò incredulo la cotta di maglia squarciata, che indicava molto precisamente dov'era stato colpito dalla spada dell'Eterno. «Dovrei... essere morto.» Corrugò la fronte. «Mi ha colpito e...» Si guardò intorno precipitosamente, in cerca dell'albo, e si alzò. Nel farlo, notò che anche la sua grave ferita al braccio era sparita. «Dov'è l'Eterno?» «È morto.» Lot-Ionan gli passò una mano sulla testa, come faceva un tempo. «Il diamante, Tungdil. È incredibilmente potente e può curare ferite come nessun'altra cosa nella Terra Nascosta.» Non voleva che il figlio adottivo sapesse che in realtà si sarebbe dovuto trovare nella Fucina Eterna di Vraccas. Tungdil fu colto da vertigini e dovette sorreggersi al vagone. «Dov'è il cadavere?» «L'ho distrutto. Sta da qualche parte dentro la macchina.» «Siete sicuro che...» «Sì.» Il mago si affrettò a raggiungere il corpo di Rodario per curare le sue ferite. Anche l'attore era finito tra i morti; la lama dell'Eterno gli aveva squarciato il ventre e cavato fuori le viscere. Ma la pietra e la magia rimi-
sero tutto al proprio posto, e la ferita mortale si richiuse prima che Tungdil potesse vederla. Poi anche Sirka e Flagur vennero curati dalle loro ferite. Lot-Ionan lasciò gli altri stranieri al dio Ubar. Non voleva essere troppo prodigo del potere del diamante; anch'esso sarebbe sicuramente finito, prima o poi. Tungdil controllò il vagone su cui l'Eterno aveva raggiunto il fondo del tunnel, perché sperava di trovarvi la Lama di Fuoco; ma senza fortuna. Il suo stivale colpì un sottile oggetto metallico. Il nano si chinò e raccolse una delle spade appartenute all'Eterno. «Un trofeo?» osservò Rodario, non meno meravigliato di essere ancora vivo. Tungdil esaminò ammirato le caratteristiche dell'arma e decise di portarla con sé. «La userò per forgiare un'ascia», disse. «Mi renderà buoni servigi fino a che non avrò ritrovato la Lama di Fuoco.» Raggiunse Sirka e l'abbracciò. «Ce l'abbiamo fatta», sussurrò. «Il diamante è al sicuro.» «Usciamo da questo tunnel», propose Rodario, poi indicò i propri vestiti tagliati. «Non so proprio come possa essere sopravvissuto, ma non intendo chiedermelo oltre.» Fece un cenno di capo al mago. «Finalmente vedo coi miei occhi quali cose miracolose può fare la magia, venerabile Lot-Ionan.» Saltò nel vagoncino e pose le mani sulle manopole. «Salite, eroi della Terra Nascosta. Voglio rivedere il sole.» Tungdil lesse sul volto di tutti che nessuno riusciva a comprendere ciò che era accaduto. La gioia però prevaleva su tutte le domande. Flagur e Rodario manovrarono le manopole, e il viaggio verso l'uscita cominciò. Lot-Ionan vide la sagoma di un uomo, in piedi accanto alla macchina, che salutava levando il braccio, come se volesse rimanere lì e attendere il loro ritorno. Il mago girò rapido la testa e, con quel movimento, sentì di nuovo la fitta alla schiena. Raggiunsero stanchi il punto in cui era cominciato il loro viaggio avventuroso. Mentre salivano non veniva loro incontro nessun raggio di luce: fuori era scesa la notte. Salirono la scala nell'oscurità. «Senza il nostro intervento, schiere di mezz'orchi sarebbero salite in marcia su questi scalini», disse Rodario a metà scala. «Ah, che battaglia! Non avrei mai immaginato di dover affrontare un Eterno.» «E allora perché sei venuto con noi?» chiese Tungdil, meravigliato. Rodario ammiccò. «Perché pensavo che non avreste avuto bisogno della mia lama, bensì del mio sapere. E del mio eloquio, che come sempre è la
mia arma migliore; seguito da vicino da qualcosa che soltanto le belle donne possono ammirare.» «Mi aspettavo una risposta del genere», replicò Tungdil ridendo. Nonostante lo sfinimento, il morale era molto alto. «Abbiamo superato il compito più difficile: vincere l'Eterno.» Rodario gongolava nella sua esaltazione. «Ora ci attende un viaggio lungo ma privo di pericoli nella Terra dell'Aldilà.» Tungdil sogghignò. «Come fai a dire che sarà privo di pericoli?» «Che ci potrà mai capitare quando si può vantare una scorta di centomila guerrieri e un potente mago?» Nell'oscurità incespicò su un gradino e quasi cadde in avanti. «Maledetto buio! Così proprio non va.» Si frugò in tasca. «Che stai facendo, Incredibile?» Si sentì pietra e metallo che fregavano, e balenò un fascio di scintille che si mosse verso lo stoppino di una lanterna. La calda luce illuminò il volto dell'attore. «Luce, Tungdil. Non vorrei mai aver vinto un albo per farmi battere da una scala. La mia testa mi è sacra.» Si guardò alle spalle. «Ma che sta succedendo nella galleria?» Ci fu uno sbuffo, e improvvisamente l'aria intorno a loro s'incendiò. C'era odore di corno bruciato. Risuonò un forte fischio e il fuoco schizzò giù nel tunnel. La piccola fiammella aveva innescato il processo tanto temuto da minatori e nani. «Tu sei incredibilmente stupido, Incredibile», sibilò Tungdil spegnendosi le piccole fiammelle che aveva sui capelli. Il debole scoppio non era bastato a incendiare i vestiti. Il nano afferrò la mano di Sirka e si mise a correre. Cercarono con tutte le forze di scampare al minaccioso inferno di fuoco. Non appena uscirono affannati dalla caverna, una potente scossa fece tremare il suolo sotto i loro piedi e li gettò sulla spiaggia. La superficie del mare esplose: una larga fontana si alzò nel cielo notturno. Quando raggiunse la sua massima altezza, a cento passi dal pelo dell'acqua, ne balzò fuori una fiammata che illuminò la colonna d'acqua dall'interno. La potenza della detonazione causata dalla sabbia aveva fatto a pezzi l'armatura che tratteneva l'acqua, lasciando via libera al mare. La massa d'acqua refluì, creando alte onde che traboccarono sulla spiaggia trascinando via nani, uomini e l'ubari. Sentirono il forte gorgoglio provocato dall'acqua mentre invadeva con impeto la galleria e la sommergeva. Per non venire trascinati via e affogare nel tunnel, si attaccarono con tutte le loro forze agli scogli.
Alla fine, lo spazio vuoto si riempì e il gorgoglio e gli sbuffi dell'acqua terminarono. Le onde spumose si acquietarono, gli ultimi vortici si spensero e la calma ritornò sulla superficie dell'acqua. Per loro grande sollievo, comparve l'Onda alata, illesa; furono caricati a bordo. Con le vele spiegate, fecero vela verso est. Terra Nascosta, regno di Gauragar, Flutland, 6241° ciclo solare, tarda estate «Propongo d'incontrarci con l'esercito degli ubari a Dreigipfelburg.» Era tarda sera, e Tungdil sedeva coi suoi amici nella cabina del comandante sopra uno schizzo della Terra Nascosta per discutere il da farsi. L'Onda alata aveva superato il confine del Gauragar e si trovava nel Flutland, una parte del regno che cinque cicli addietro era stata inondata dall'espansione del mare del Weyurn. Le masse d'acqua che allora avevano portato morte e distruzione si rivelavano un vantaggio per i viaggiatori. Raggiungevano l'est senza interruzioni, avvicinandosi miglia dopo miglia ai Monti Marroni. Flagur annuì. «È la cosa più semplice. Nella Terra Nascosta non c'è più nulla che miri a impossessarsi della pietra, per cui possiamo osare viaggiare fino all'Urgon senza scorta.» Guardò Lot-Ionan, che teneva il diamante nella sinistra e guardava assente oltre la piccola finestrella dallo spesso vetro. «Che cosa ne dite, voi, venerabile mago? C'è ancora pericolo?» Lot-Ionan non gli rispose. Invece parlò Tungdil. «C'è ancora un albo. Si trovava sull'isola usata dai Terzi come base. Ma non si è unito agli Eterni né, finora, ho sentito di eventi che possano essere imputati a sue azioni.» «Non va sottovalutato.» Flagur appoggiò i grandi avambracci sulla superficie del tavolo; il legno gemette piano sotto il suo peso. «Non lo temo», replicò il nano. «Io sì, esimio collega eroe», mormorò Rodario. «L'ultimo albo che ho incontrato mi ha aperto la pancia, e non è stata per niente un'esperienza ricreativa. Non penso che quest'altro sarebbe più amichevole nei miei confronti. Anche perché gli abbiamo ucciso i genitori: un valido motivo per essere meno amichevole di quanto già la sua natura non gli imponga.» «Io sono per una scorta», intervenne Sirka. «Re Bruron ci deve mandare dei soldati. Più spade avremo intorno a noi, più forte sarà il deterrente.» «Va bene», consentì Tungdil.
Rodario scarabocchiò qualcosa. Era stato scelto come scrivano. I messaggi sarebbero stati inviati non appena il gruppo avesse messo piede a terra. L'attore riordinò i fogli. «Una lettera a Bylanta, la regina dei Quarti, per avvisarla che stiamo arrivando; una lettera a Boïndil, all'esercito degli ubari e ai sovrani riuniti, per comunicare loro che portiamo la pietra oltre confine e» - indicò l'ultimo foglio - «una lettera per Bruron con la richiesta di una scorta.» Intinse la penna nel calamaio e terminò le ultime frasi. Lot-Ionan sospirò, riscuotendosi dalla sua distrazione. «Non serve a niente tacere ulteriormente la questione», esordì posando il diamante sul tavolo. «Flagur, che cosa vedete voi?» Rodario si bloccò. Guardò velocemente Tungdil e sperò che questi si ricordasse di quella loro conversazione notturna. «Ma no! È meglio che non lo prendiate», disse poi incidentalmente, mentre l'ubari allungava la mano verso il diamante. «Limitatevi a guardarlo, come ha detto il venerabile mago.» Flagur guardò Rodario stupefatto. «Perché non dovrei toccarlo?» «Flagur, avete mangiato la carne di un mezz'orco intrisa della malvagità dell'Acqua Nera», spiegò Tungdil. «Capisco.» L'ubari annuì. «Quindi lui ha... voi avete paura che quella malvagità possa essere penetrata dentro di me e che io possa mirare alla pietra per tutt'altri motivi rispetto a quelli che vi ho raccontato.» Ghignò. «Un pensiero carino, da parte vostra.» «Non mi fraintendete, ma nella Terra Nascosta c'è già stato un essere che apparentemente voleva solo il bene», disse Rodario, che si sentiva in dovere di spiegare meglio la sua diffidenza. «E, con tutto il dovuto rispetto per voi e Sirka, finora ci siamo fidati esclusivamente della vostra parola. Intendo dire, chi ci ha detto che esiste questa Forra Oscura, in cui sta in agguato questa grande minaccia, e che c'è bisogno del diamante per rimettere in funzione l'artefatto?» Si schiarì la voce. «Ho dei sospetti da quella notte, Flagur. Perdonatemi, ma è così.» «Maledetto attore!» L'ubari afferrò fulmineamente il diamante. Fissò il proprio pugno, poi spalancò la bocca, e una cupa risata risuonò dalla sua gola. Gli occhi rosa scintillarono malvagi. «Finalmente è mio!» ruggì balzando in piedi. «L'inganno è riuscito! Lode a Ubar!» Sirka si mise al suo fianco con l'asta da combattimento in mano, puntata minacciosamente contro l'attore. «Ora vedrete che potente mastro di rune sono in realtà. Assaggiate il mio potere!» Poi la sua espressione cambiò. Mostrò le zanne a Rodario, che aveva coraggiosamente estratto la sua spada. «Che ne dite del
mio talento teatrale?» «Cosa?» L'attore strabuzzò gli occhi. Respirava con affanno e aveva l'aria di chi fosse stato strappato dal sonno con un grido nelle orecchie. «La mia messa in scena. Che ne pensate?» «La vostra... messa in scena? Molto divertente! Per poco non vi aprivo la gola.» Rodario guardò con rimprovero Tungdil. «Ehi, grande eroe! Te ne stai seduto tutto rilassato.» Il nano sogghignò. Poi tutti scoppiarono a ridere. «Ah, capisco! Ne avete già parlato e avete preparato questa gustosa scenetta per farmi paura?» L'attore fece una smorfia. «Questa ve la farò pagare, potete starne certi. Nessuno sfida l'imperatore degli attori.» Rinfoderò la spada con aria offesa. «Nessuno.» Tungdil gli diede una pacca sulla spalla. «In realtà ho già affrontato l'argomento con Flagur, e Lot-Ionan l'ha esaminato con l'aiuto della magia, senza poter constatare nulla che facesse pensare a una bugia.» «Avete fatto bene a renderci partecipi dei vostri sospetti», disse LotIonan sorridendo. «Ma dopo il vostro comportamento incredibilmente sciocco nella galleria vi siete...» «Grazie, grazie, ho capito», mormorò Rodario. «Ora possiamo tornare alle questioni veramente importanti?» Sirka e Flagur si risedettero entrambi, sorridendo. Ma l'allegria di Flagur scomparve in fretta. «No, il diamante non ha mai avuto questo aspetto.» Lo passò alla Sotterranea. «Crepe, impurità scure...» Sirka scosse la testa. «Da dove provengono? Dall'Eterno?» Lo tenne in controluce. «Sembra che possa sgretolarsi da un momento all'altro.» «Posso spiegarmelo solo in un modo.» Lot-Ionan si accarezzò la barba bianca o, meglio, quello che l'ondata di fuoco aveva risparmiato. «Penso che l'albo abbia cercato di costringerne il potere e che abbia impegnato le sue ultime energie magiche per spezzarne la resistenza.» «La luce che abbiamo visto: era il potere della pietra o dell'Eterno?» domandò Tungdil. «Una luce chiara, limpida: era il potere del diamante. Le impurità devono essere apparse subito dopo.» Lot-Ionan guardò Flagur e Sirka. «È importante sapere se credete che l'artefatto svolgerà la sua funzione anche con questa pietra alterata oppure no.» «Non potrebbe avere l'effetto opposto?» Rodario prese il diamante e vi fregò un dito sopra. Non sentì traccia di crepe: la superficie era liscia come
vetro. «Se il male alligna qui dentro, così non lo sveglieremo?» Posò la pietra in centro al tavolo. «O, per dirla in altre parole, che cosa succederà se l'artefatto evocherà il male anziché scacciarlo?» Tutti tacquero, osservando come il diamante seguiva il movimento delle onde abbassando le sue faccette a destra e a sinistra. Sembrava innocuo e, nonostante tutta la sua bellezza, poco appariscente; non tradiva nulla dell'enorme potere che vi era conservato. Nessuno sapeva che effetto avrebbe avuto quel potere. «Che cosa avete sentito quando lo avete usato, venerabile mago?» chiese Sirka. «Voi siete esperto di magia, l'avete studiata. C'è stato qualcosa che vi è sembrato sospetto?» A Lot-Ionan tornarono in mente la voce di Nudin e la sua figura spettrale. «No», mentì. Attribuiva l'apparizione a se stesso, non alla pietra. «Si è lasciato usare da me. E io ero ben lontano dall'essere in combutta col male.» Bevve in fretta il suo vino e, muovendosi in avanti, sentì una forte fitta alla spina dorsale. Tungdil fece un profondo respiro. «Non dovremo dire nulla ai sovrani dei nostri sospetti.» Rodario annuì. «Non posso che essere d'accordo. Preferirebbero mandare un esercito nella Forra Oscura a lottare contro i mostri piuttosto che riattivare l'artefatto senza conoscerne gli effetti.» Diede un colpetto al diamante con un dito. «Io sono per provare comunque. Non cambia nulla, al più accelererà il processo. Se l'artefatto funziona, nessuno saprà mai dei nostri dubbi; in caso contrario, si potrà comunque inviare un esercito.» «Per dirlo in altri termini: non abbiamo scelta», disse Flagur. «Non ci vorrà molto prima che gli esploratori dei mostri notino che manca la barriera. Il diamante deve tornare al suo posto.» Lot-Ionan sollevò la testa e guardò fuori, verso le onde della sera. «In caso di bisogno ci sono ancora io. Il potere del diamante si lascerà impiegare per lanciare incantesimi forti, con cui potrò respingere le prime ondate di aggressori.» «Siete sicuro che la vostra mente abbia raggiunto di nuovo il vostro antico sapere?» domandò Sirka. Il mago le sorrise. Era un sorriso fiducioso e completamente convincente. «Mi sento come se possedessi il sapere di due grandi maghi», rispose. «Il mio sangue ha raggiunto i punti più estremi del mio corpo e sciolto la pietra che vi si nascondeva.» Si batté un dito sulla tempia. «Anche qui. Vedo le formule di nuovo con chiarezza, come nei miei momenti miglio-
ri.» E dopo un istante di silenzio aggiunse: «No, questi sono i miei momenti migliori. La lotta contro l'Eterno mi ha riscosso». «Allora siamo intesi», concluse Tungdil stiracchiandosi. «Andremo nella Terra dell'Aldilà e metteremo a posto il diamante. Poi, che Ubar e Vraccas ci mostrino quali sono i loro propositi per noi, perché noi avremo fatto tutto il possibile per stornare la sciagura.» Si alzò e andò alla porta. «Scusatemi un istante.» «Acqua di nano per Elria?» lo prese in giro Rodario. «Non essere così scortese con la dea. Ci ha risparmiato la vita parecchie volte.» Tungdil rise e lasciò la cabina. Dopo che si fu alleggerito, rimase in piedi sulla prua gustandosi il dolce beccheggio dello scafo e l'aria limpida. Per lui l'acqua restava ancora un elemento inquietante, mentre altri del suo popolo si rifiutavano categoricamente di avvicinarsi ai laghi e di entrare in un torrente o addirittura in una pozza profonda; pensavano che la maledizione di Elria li perseguitasse. I Sotterranei, per contro, sembravano perfettamente a loro agio nei viaggi per nave. Guardò le dolci onde che increspavano la superficie; sembrava che la notte, diventata liquida, fosse gocciolata al suolo e si fosse raccolta sulla terra. «Mi congratulo con te per la vittoria sul mio Creatore», disse una voce limpida alle sue spalle. Tungdil la riconobbe subito: la Morte era tornata da lui. Si girò lentamente e, accanto alla cassa delle vele di scorta, scorse l'albo. Stava seduto a gambe incrociate, con la lancia posata davanti ai piedi e l'armatura che tracciava macchie nere sulla sua pelle chiara. I lunghi capelli gli ricadevano davanti al volto; le mani corazzate, appoggiate sulle ginocchia, tenevano una ciocca nera recisa. «Che cosa farete ora?» Tungdil si accorse di avere con sé soltanto un pugnale. «Come ti chiami?» «Il mio Creatore non mi ha dato un nome. Diceva che ci avrebbero pensato i miei nemici a darmene uno adatto.» Non distoglieva un istante lo sguardo dal nano; era attento, senza per questo sembrare nervoso o desideroso di combattere. Pareva consapevole della propria forza. «Ma i nomi che ho sentito finora non mi piacciono. Nessuno vorrebbe essere chiamato con un'imprecazione o un insulto. Per questo ho scelto Aiphatòn, come la stella.» Alzò il braccio destro e indicò il cielo scintillante. «Per gli elfi, è la stella della vita. Il mio Creatore diceva che quella stella si oscura ogni volta che un elfo della Terra Nascosta muore. Nelle scorse rotazioni non l'ho mai vista. Agli elfi sta accadendo qualcosa.»
«La maggior parte di loro è in guerra e probabilmente verranno distrutti. Perché hanno tradito la Terra Nascosta», spiegò Tungdil. «Ti ritieni un elfo?» «Ho l'aspetto di un elfo», replicò Aiphatòn. «Non lo sono?» «Il tuo Creatore che cosa ti ha detto in proposito?» «Non mi ha detto niente. Ma anche lui e la mia Creatrice avevano l'aspetto di elfi.» Aiphatòn abbassò la testa; i capelli gli coprirono completamente il volto. «Sono contento che sia morto. Faceva cose disgustose e pretendeva che le facessi anch'io.» La sua mano coperta di metallo passò sulle piastre di tionio unite alla carne, e si sentì un lieve raschiare. «È per questo che ci hai rivelato dove stava andando il tuo Creatore?» «Sì. Sentivo che voi potevate batterlo; a me non era riuscito. Che cosa farete adesso?» «Noi...» Tungdil s'interruppe. L'albo non sapeva di essere per nascita il peggior nemico degli elfi. Era però anche possibile che stesse portando avanti un gioco vile, per ingannarlo, e che in verità seguisse scopi terribili, al pari dell'Eterno. «Non ti fidi di me, sebbene ti abbia preservato la vita nel Toboribor? Sebbene ti abbia rivelato dove sarebbe andato il mio Creatore? E adesso sei ancora vivo, anche se sarebbe facile per me ucciderti e gettarti fuori bordo.» Aiphatòn si alzò con un movimento rapido ed elegante, in cui si combinavano forza e destrezza. «Allora ti dirò che cosa voglio. Portami dagli elfi che sono diversi rispetto ai miei Creatori. Io so che ci sono elfi buoni e gentili. Potrei vivere tra loro.» Uscì dalle ombre, avvicinandosi al nano. «Tu non sei un elfo. Sei un albo», disse Tungdil, cauto. «Gli albi sono i più spietati nemici degli elfi, Aiphatòn. Non puoi vivere con loro. Ti ucciderebbero immediatamente.» «Perché? Io non gli ho fatto niente.» «Ma appartieni al popolo che ha perseguitato gli elfi per molto tempo, e che li ha quasi annientati. Non ti perdonerebbero le tue origini.» L'albo schioccò la lingua. «Fammi parlare con loro e vedremo che cosa succederà.» Infilò la ciocca di capelli neri in una tela cerata e la mise nel suo guanto. Tungdil scosse la testa. «Ascolta il mio consiglio: nasconditi dagli uomini, dai nani e dagli elfi. Nessuno ti tratterà senza timore e odio. Lascia la Terra Nascosta e cerca i tuoi simili.» «Ma io non voglio unirmi a quelli che tu chiami albi», replicò Aiphatòn.
«Se sono tutti come il mio Creatore, preferisco distruggerli.» Alzò la mano e la puntò verso la lancia, che stava ancora sul pavimento. Le rune sull'arma s'illuminarono; poi essa volò tra le sue dita. «Non voglio essere come loro.» Tungdil continuava a non sapere se potesse fidarsi o no dell'albo. Sinthoras, Caphalon e Ondori erano albi malvagi contro cui aveva lottato di persona. Ma c'era stata anche Narmora, la mezz'alba che era stata compagna di Furgas; nonostante le sue origini, aveva lottato per il bene e aveva pagato un alto prezzo: la sua felicità, la vita dei suoi figli, la sua stessa vita. «Che cosa mi puoi dire riguardo ai tuoi Creatori e ai due nani con cui si erano alleati?» domandò per indirizzare la conversazione in un'altra direzione. «Sono morti. Che cosa si dovrebbe raccontare ancora di loro?» Tungdil esitò. «Hai visto Furgas? L'uomo che veniva trattenuto dai nani?» «Sì.» Aiphatòn alzò il guanto. «È stato lui, su richiesta del mio Creatore, a rendermi quello che sono.» Le dita si chiusero con un tintinnio. «Ma non era un prigioniero. Era il loro...» Cercò la parola. «Si erano piegati a lui ed eseguivano i suoi ordini.» «Era il loro capo?» «Sì, è la parola giusta. Coi nani ha scoperto l'isola. I prigionieri dovevano lavorare per lui. Il magister creava molte macchine e le dava ai nani, che poi le portavano via. Ha costruito anche marchingegni da mandare nelle montagne. Dovevano trovare mostri. E progettò il tunnel per quei mostri.» L'albo si sedette sul parapetto, accanto a Tungdil. «Venne anche nel Toboribor a cercare mezz'orchi che potesse usare per altre macchine. Così incontrò il mio Creatore. Il mio Creatore gli diede i miei fratelli, e lui ne fece delle creature nuove.» «Come faceva a sapere della fonte della magia? Era un magister technicus, non un mago.» «Non lo so. So solo che la conosceva.» Tungdil credeva all'albo, per quanto la cosa lo affliggesse. Aveva sentito la verità per la prima volta dalla bocca di Bandilor, e le parole di Aiphatòn non facevano che confermarla. L'albo guardò le onde. «Ti ho detto ciò che sapevo e ciò che vorrei. Ora dimmi che cosa farete voi.» «Andiamo nella Terra dell'Aldilà.» «Dai mostri di cui parlava Furgas?»
«No, non a ovest. Andiamo a nord-est.» E, prima che Aiphatòn potesse chiederglielo, Tungdil aggiunse: «Tu non puoi venire con noi». L'albo alzò le spalle, come perso. Era difficile leggergli in volto il suo stato d'animo, il nero degli occhi occultava ogni- sentimento; ma i suoi tratti esprimevano un profondo dolore. «Che faccio qui, nella Terra Nascosta, se nessuno mi vuole?» Una lacrima rossa gli scivolò sulla guancia, lasciandogli una traccia rosa sulla pelle. «Sono una creatura che non trova un posto dove stare e che ha solo nemici.» «Vieni», disse Tungdil, commosso. «Ti presenterò una persona saggia...» «No.» Aiphatòn lo guardò, col volto che esprimeva determinazione. Aveva preso una decisione. «Se nella Terra Nascosta non c'è posto per me, me ne creerò uno.» Gli sorrise amichevolmente. «Qualunque cosa intendiate fare, vi auguro ogni bene. Sono certo che ci rivedremo di nuovo.» Si tuffò oltre il parapetto e s'immerse senza il minimo rumore; le onde lo inghiottirono. Tungdil guardò giù. Aiphatòn era scomparso, come se non ci fosse mai stato. «Ehi, che succede?» gridò la sentinella di turno, che aveva notato il nano. «Qualcuno è finito in acqua?» L'uomo si avvicinò. «No. Era un pesce che saltava.» Tungdil si voltò e tornò in cabina. Come la prima volta, non avrebbe raccontato nulla agli altri del suo enigmatico incontro. Non sarebbe riuscito nemmeno a spiegare loro da dove fosse spuntato l'albo così improvvisamente. Pregò Vraccas di non dover mai affrontare Aiphatòn come nemico. Eppure era quasi certo che sarebbe successo. Prima o poi. Terra Nascosta, regno di Urgon, Dreigipfelburg, 6241° ciclo solare, inizio autunno Dalla sua fortezza, re Ortger osservava la nera colonna in avvicinamento. «Quando hanno sentito dai banditori che un esercito amico si stava avvicinando, i sudditi dell'Urgon si sono nascosti nelle case», disse al principe Mallen, che stava accanto a lui. «E posso capirlo. Nessuno si augura amici del genere.» Osservò l'avanguardia della silenziosa colonna raggiungere la città. Quelle creature erano più alte e più massicce dei mezz'orchi, erano pesantemente armate e incutevano timore. «Comprendo la paura. Nell'Idoslân non è andata diversamente.» Mallen
fece per scendere nell'atrio per salutare gli ospiti. Tungdil aveva raggiunto Dreigipfelburg la rotazione precedente, insieme con Lot-Ionan e col diamante. «La gente dice che, dopo cinque cicli, i mostri di Tion marciano di nuovo a migliaia attraverso la Terra Nascosta.» Ortger affiancò il principe. «La gente semplice non crede che vengano in pace. È un bene che gli ubari ripartano. Temo che si verifichino incidenti. Ci sono troppe persone alle quali i mezz'orchi hanno fatto cose terribili.» I comandanti dell'esercito entrarono nel cortile del castello, Sotterranei e ubari camminavano gli uni accanto agli altri offrendo uno strano spettacolo. Per i parametri della Terra Nascosta, nemici mortali si erano dichiarati fratelli, cosa che molti ritenevano contro natura. Flagur e Sirka uscirono da un edificio secondario del castello e salutarono i nuovi arrivati cordialmente; anche Tungdil era con loro. Ortger non disse nulla, ma il suo volto esprimeva chiaramente i suoi pensieri: lo indisponeva il fatto che l'eroe della Terra Nascosta s'interessasse apertamente a quello strano connubio, e ancora di più che avesse scelto una di loro come compagna. «Venite, andiamo nella sala degli arazzi», disse a Mallen. «Siete il padrone di casa. Non li volete accogliere?» «Non voglio che si sentano graditi ospiti, principe Mallen. Centomila bocche non sono facili da sfamare; prima se ne andranno, meglio sarà. Ne festeggiamo la partenza, e questo devono avvertirlo chiaramente.» Entrarono nella sala; intorno a un tavolo rotondo, in attesa, sedevano Boïndil, Goda, Lot-Ionan, Rodario, Bylanta, che era la nuova regina dei Quarti, Ginsgar Senzafuria, Esdalân e i rappresentanti dei sovrani della Terra Nascosta. Le regine e i re non avevano trovato necessario recarsi personalmente a Dreigipfelburg e avevano accettato la decisione del mago: il diamante doveva lasciare la Terra Nascosta. I diplomatici erano stati inviati per pura cortesia, solo perché Mallen aveva richiesto un'ultima assemblea e dei festeggiamenti. Poco dopo tornarono Tungdil, Flagur e Sirka. Ortger si alzò. «Benvenuti a Dreigipfelburg. Siamo qui per discutere gli ultimi avvenimenti e per rendere onore ai nostri eroi.» Accennò un inchino in direzione di Flagur e Sirka. «Accettate ancora i miei ringraziamenti, Flagur, per il vostro impegno per il benessere della Terra Nascosta, che voi manterrete anche una volta tornato nella vostra patria.» Si rivolse a Tun-
gdil e al mago. «E anche a voi è dovuto onore, a voi che oltrepasserete i confini e vi accollerete le difficoltà e le fatiche di un viaggio incerto.» Indicò Mallen. «Principe, a voi la parola.» Mallen si alzò. «Spetta a me indicarvi in che modo vi verrà tributata la stima che meritate», disse solennemente a quelli che sarebbero partiti. «Una piccola festa in onore della vostra partenza, che non sarà nulla in confronto a quella che vi attenderà al vostro ritorno.» Sorrise a Tungdil. «Che Vraccas vi accompagni e protegga!» L'uno dopo l'altro, gli ambasciatori riportarono i migliori auguri dei loro sovrani, promettendo encomi e doni per il ritorno, al pari di eterna gratitudine. Tungdil ascoltava sorridendo, ma dentro di lui tutto ribolliva come magma. I potenti attribuivano così poco valore agli eroi che avevano rischiato la propria salute e la propria vita, da liquidarli con dei saluti per interposta persona. Bylanta si alzò. Con la sua figura non proprio imponente era una classica nana della stirpe dei Quarti e, paragonata a Sirka, sembrava bassa come uno gnomo. I lunghi capelli biondi erano raccolti in una treccia che le cadeva sopra la spalla e sul petto; la leggera cotta di maglia era tempestata di pietre preziose, e sulla testa la nana portava una corona di diamanti magistralmente lavorata. Gli occhi castani erano posati su Tungdil. «Io sono Bylanta Ditafini del clan dei Barbadargento, regina dei Quarti e signora dei Monti Marroni.» La sua voce era forte, salda e sicura. «Accompagnerò la vostra spedizione fino alle porte della Rocca d'Argento. Sarà per me un onore cavalcare al tuo fianco, Tungdil Manodoro. Vorrei essere tua amica, come tu fosti amico di Gandogar.» Si risedette. Si alzò Ginsgar Senzafuria. Nessun nano era più imponente di lui. La sontuosa barba rossa, la statura considerevole, i tratti decisi e lo sguardo, che non ammetteva repliche, lo facevano spiccare tra tutti i figli del Fabbro. «Io ti saluto, Tungdil Manodoro. Sono Ginsgar Senzafuria del clan dei Forgiachiodi, della stirpe del Primo, Borengar, e in quanto imperatore ti porgo i migliori auguri delle stirpi dei nani», dichiarò con una sonora voce di basso. «Torna sano e salvo dalla Terra dell'Aldilà e...» Bylanta girò la testa verso di lui. «Com'è possibile che qui sieda il nuovo imperatore senza che i miei clan e io l'abbiamo eletto? Nessuno mi ha detto di un'assemblea», disse, stupita e indignata al tempo stesso. «Pensavo dovesse essere l'imperatore di tutte le stirpi e non solo di alcune.»
«Ci sono state un'assemblea e un'elezione», replicò Ginsgar, impassibile. «I guerrieri che hanno marciato con me nell'Âlandur per punire gli elfi del loro tradimento mi hanno proclamato loro imperatore. E tra loro c'erano anche nani dei tuoi clan, Bylanta. Quindi sono imperatore secondo diritto.» La rivelazione sbalordì Mallen, Ortger e i delegati. Lot-Ionan rivolse a Tungdil uno sguardo sornione. Era capitato esattamente ciò che lui e Rodario avevano temuto: un eroe di guerra era stato innalzato a sovrano. Esdalân fissava Ginsgar con ostilità. «Che cos'hai fatto all'Âlandur, nano? Gli Atàr erano i tuoi nemici, non il mio intero popolo. Non i verdi boschi e le magnifiche dimore. Non la terra su cui ti sei aggirato.» «Abbiamo dato la caccia agli Atàr e li abbiamo trovati ovunque. Ci hanno teso agguati dai loro templi, dalle foreste e dai villaggi.» Ginsgar sosteneva truce lo sguardo dell'elfo. «Per questo abbiamo messo a ferro e fuoco tutto ciò che poteva offrire protezione ai loro perfidi attacchi.» «Anche le culle dei neonati offrivano loro protezione?» sbottò Esdalân, furente. «Abbiamo ucciso i discendenti degli Atàr, cosa su cui sarai perfettamente d'accordo, elfo. Con loro sarebbero cresciuti nuovi mali.» Ginsgar poggiò le mani sul manico del martello da guerra che stava accanto a lui. «Quando nell'Âlandur avremo finito di spalare il letame e mettere ordine, gli elfi potranno tornare nella loro patria. Gli alberi ricresceranno. Come il tuo popolo.» «Quanti innocenti avete ucciso?» «Neanche uno. Tutti coloro che sono morti lo meritavano», rispose Ginsgar. «Dovresti essermene grato. Da soli non sareste mai riusciti a vincere gli Atàr.» Esdalân si alzò; la sedia s'inclinò indietro e cadde a terra con Un tonfo. «Mi sarei molto rallegrato di ricevere aiuto, ma quello che tu hai fatto, Ginsgar Senzafuria, è stata una strage insensata! Vi siete comportati come mezz'orchi!» Si piegò in avanti, appoggiando le mani sul tavolo. «Sai quanti del mio popolo sono sopravvissuti?» «Li stimo in un numero di cento», rispose il nano con fare annoiato. «Trentasette!» gridò Esdalân. «Trentasette, tra cui dieci donne e nove bambini!» Ginsgar corrugò la fronte. «Siamo stati meticolosi. Ora non siete più un pericolo per la Terra Nascosta.» «La vostra è stata una cieca vendetta. Nient'altro.» L'elfo raddrizzò la schiena. Lacrime scorrevano sul suo bel volto, che si era trasformato in
una maschera d'odio. Indicò Ginsgar e parlò nella sua lingua, poi si voltò e lasciò la sala senza guardarsi intorno. «Per Palandiell...» sussurrò Lot-Ionan, mentre Rodario era pallido come una parete appena intonacata. «E non abbiamo fatto nulla per fermarli.» Le mani gli si posarono sulla cintura, dove il diamante ciondolava in un borsello. «Siamo stati a guardare.» «Che cosa avremmo dovuto fare?» chiese Ortger. «È spiacevole che le cose siano andate così, ma diteci che altro avremmo potuto fare.» Neppure Tungdil riusciva a capacitarsi. Le azioni di Ginsgar erano imperdonabili; dimostravano la crudeltà del nuovo autoproclamato imperatore. «Siamo tutti responsabili. L'intero esercito avrebbe dovuto muovere dal Toboribor all'Âlandur per impedire la strage.» Fulminò Ginsgar con lo sguardo. «Sai che cos'hai fatto? Avevi la migliore occasione per creare un vincolo di gratitudine tra gli elfi e il nostro popolo, invece l'hai sprecata e li hai fatti diventare di nuovo nostri nemici.» «Io non li temo.» Ginsgar si scrollò le spalle sogghignando. «Trentasette Orecchi appuntiti sono sicuramente un esercito che le stirpi possono battere.» Bylanta gli sputò sui piedi. «Tu non sei niente, Ginsgar Senzafuria. Ti farò accusare davanti a tutti i clan delle cinque stirpi e avrai il giusto castigo per quello che hai fatto. Prego Vraccas che gli elfi riescano in futuro a perdonarci grazie a ciò che faremo. Anche se questo significherà la tua morte.» «Ecco che abbiamo una migliore e più legittima pretendente al trono», mormorò Rodario a Tungdil. «Che ne diresti di una imperatrice? La sua presenza scenica è formidabile, detto per inciso.» Ginsgar guardò il grumo di saliva attaccato al suo stivale destro. «Sputa pure il tuo veleno, Bylanta; non mi ucciderà. Sono stato eletto da tutti i clan, ed è questo che conta. Non il luogo e non le circostanze.» Guardò gli astanti. «Abbiamo finito. Vi ho fatto gli auguri e ora devo partire. Forse dovrei andare ancora una volta nell'Âlandur e controllare dietro ogni cespuglio. La meticolosità è una delle virtù del nostro popolo.» Fece un cenno col capo, si appoggiò il martello sulla spalla e lasciò la sala camminando a gambe larghe. A quel punto, Tungdil ne ebbe la certezza: in quel paese, dove regnavano l'odio e nani come Ginsgar, non voleva più restare. Prese la mano di Sirka e la strinse forte.
XIX Terra Nascosta, regno di Urgon, Dreigipfelburg, 6241° ciclo solare, inizio autunno I tonanti colpi di martello e il tintinnio del metallo sull'incudine si udivano fin nell'angolo più remoto della fortezza. Grigie nubi cariche di pioggia percorrevano in spesse coltri la regione, senza fermarsi di fronte alle mura del castello; riversavano il loro contenuto sulla pietra, come se volessero sciogliere la malta e far crollare la fortezza. Tungdil passava la maggior parte del tempo nella fucina e plasmava una nuova arma col metallo della spada dell'Eterno. Ne spremeva via la malvagità con tutte le sue forze. Aveva messo una pietra sopra la Lama di Fuoco, un'altra sulla Terra Nascosta e un'altra ancora sulle stirpi dei nani. Nulla più lo tratteneva lì. Aveva evitato due volte la rovina, e si trovava in procinto di cominciare la sua terza e ultima missione. Poi avrebbero deciso i nani come regolare le proprie faccende. Non importava ciò che aveva fatto e quante vite erano state perdute per raggiungere la salvezza: il buon senso non era cosa duratura. La rabbia prorompeva nelle braccia, rendendo imprecisi i colpi. Il nano interruppe il lavoro e si terse il sudore dall'occhio che gli era rimasto, il destro; sull'orbita sinistra vuota non portava più la fasciatura, ma una semplice benda bianca. Puntò ciò che stava forgiando verso l'ingresso. Non sapeva ancora dire che cosa gli stesse nascendo tra le mani; non era un'ascia né una spada né una mazza. Avrebbe lasciato che fossero la brace, il martello e le sue dita a plasmare qualcosa di nuovo. Il metallo doveva essere una lega sconosciuta, lo si evinceva dal tono con cui cantava sull'incudine. E dimostrava un'incredibile resistenza, si rifiutava tenacemente di lasciare la sua forma e assumerne un'altra. Era da molto tempo che Tungdil non si affaticava così tanto in fucina. Si avvicinarono passi affrettati, attraverso le pozze d'acqua e sulla pietra bagnata. Sirka entrò nella fucina e batté i piedi sulla soglia. Nella semioscurità della piccola stanza fumosa, gli occhi della Sotterranea vedevano molto peggio dei suoi. «Tungdil?» Il nano diede un colpetto alla morsa, per mostrarle la sua posizione con quel suono. «Qua. Accanto alla forgia.» «La partenza è stata ancora rimandata», lo informò lei mentre avanzava
a tentoni. «Questi acquazzoni hanno trasformato i torrentelli delle montagne dell'Urgon in fiumi impetuosi e hanno trascinato via alcuni sentieri, a quanto riportano gli esploratori del re.» Lo trovò e gli diede un bacio; gocce di pioggia passarono dal naso di lei a quello di lui. «Non partiremo prima di sette rotazioni.» Tungdil annuì. Ortger avrebbe dovuto provvedere ancora al sostentamento di centomila bocche, facendo portare provviste da tutte le parti del regno, il che implicava un onere molto pesante. Il Gauragar e l'Idoslân stavano aiutando l'Urgon con l'invio di frumento. «Neppure io ho finito.» Le mostrò ciò che aveva fatto fino a quel momento. «Che strana», disse lei. «Non ho mai visto un'arma del genere.» «Sarà degna di un eroe come me», replicò lui, prendendosi in giro. «Che cosa combinano Goda e il Rabbioso?» «Da quando si sono trovati, sono impossibili da separare», sogghignò Sirka. «Nani, pioggia e un letto caldo... puoi immaginare il resto, no? Non c'è scusa migliore per non lasciare mai le proprie stanze. Maestro e allieva si fanno lezione a vicenda, suppongo.» «Bene. Allora non noteranno che passo tutto il tempo nella fucina.» Sirka guardò il fuoco. «Non capirò mai che cosa c'è di speciale in questo modo di forgiare.» Si passò la mano sulla fronte e si terse il sudore misto ad acqua piovana. «Non vedo l'ora di sentire che cosa dirai del nostro sistema.» Tungdil posò il pezzo grezzo sulla brace e il martello sull'incudine. Prese tra le braccia la nana, che portava solo un fine abito; la scollatura sopra il petto gli permetteva di vedere molta della sua pelle. Le accarezzò amorevolmente la testa calva e la baciò a lungo e con desiderio. La passione s'infiammò. II nano gettò il martello contro la porta, in modo che si chiudesse e il chiavistello si abbassasse. Lei sorrise e gli aprì le chiusure del grembiule di cuoio. Si amarono a lungo, su una coperta accanto al calore della forgia. Tungdil non ne aveva mai abbastanza di Sirka; gli piaceva accarezzare la sua pelle scura, sentire il calore della sua fucina vitale, che nei giochi amorosi bruciava più forte, sprizzando sudore. Una volta la Sotterranea aveva detto di appartenere a un popolo passionale, e non lo dimostrava solo in combattimento. Poi rimasero sdraiati accanto al fuoco, osservando le fiammelle tremolanti. «Ti sarà difficile abbandonare il tuo popolo», mormorò Sirka.
«Io non ho un popolo», replicò lui senza malinconia. «Ci ho pensato a lungo e sono giunto alla conclusione che il mio cuore appartiene soltanto a una.» Le baciò il collo. «A te. Per il resto mi sento come...» Stava quasi per tradirsi, aveva il nome dell'albo sulla punta della lingua. «... come indifferente. Dovrei vivere tra i nani che sotto la guida di Ginsgar Senzafuria rinnovano vecchie ostilità? O tra gli uomini? Neppure tra gli elfi mi sentirei bene.» «Io ti darò una nuova casa per tutto il tempo che vorrai, e non per il tempo che vorrò io. Potrai proseguire il tuo viaggio quando vorrai. Conosco la tua natura instabile, e mi hai già messo in guardia da te.» Sirka sorrise e s'infilò di nuovo nel suo abito di pelle; gli sguardi ammirati di Tungdil scivolavano lungo il suo corpo forte in battaglia e in amore. «E io ti ho messo in guardia da me. Da noi non esistono per sempre e in eterno. Non di norma.» «La tua eternità, Sirka, per me è un paio di cicli», disse cauto. «Potrei vivere dieci volte più a lungo di te.» La Sotterranea infilò le stringhe di cuoio nelle asole e si sistemò il vestito. «Una strana prospettiva. Se dovessimo avere figli, potresti sopravvivere a nove delle tue stesse generazioni.» Alla parola «figli» il nano sussultò. Poi gli tornò in mente che i Sotterranei crescevano i propri rampolli diversamente rispetto ai figli del Fabbro, e si rilassò. Se il suo impulso a viaggiare l'avesse dovuto cogliere anche in terra straniera, non voleva avere preoccupazioni riguardo ai suoi discendenti. E il pensare che avrebbe potuto lasciare tra i Sotterranei una linea di individui che sarebbero diventati più vecchi di tutti gli altri gli piaceva pure. Anche Tungdil si alzò e si rivestì. «Già, davvero una strana prospettiva», ripeté per poi baciarla di nuovo. «Non riesco neanche a dirti quanto mi farà piacere imparare cose nuove.» «Non appena avremo rimesso insieme l'artefatto», precisò lei mentre andava alla porta e la apriva. Entrò una luce cupa; fuori continuava a piovere. «Poi vivrai un periodo emozionante.» Fece un sorriso seducente. «Non solo grazie a me.» Uscì e corse agli alloggiamenti, sotto l'incessante nubifragio. L'umore di Tungdil era migliorato, la rabbia era sbollita. «Ah, maledizione!» Si era dimenticato di togliere il metallo dalla brace. Se si fosse disciolto, avrebbe buttato via molta fatica invano. Con le tenaglie cautamente tirò via ciò che restava dal cumulo di tizzoni
e braci; scintille piovvero tutt'intorno fino a spegnersi e trasformarsi in cenere a contatto col pavimento. In effetti, il metallo era diventato morbido come cera al sole; brillava giallo come miele e perdeva lunghi fili che si raffreddavano e ingrigivano all'aria fredda. «Questo è l'aspetto che vuoi?» chiese Tungdil all'arma, immergendola nel tino dell'acqua per raffreddarla. Il liquido ribollì e subito evaporò per metà, prima che il metallo perdesse il suo calore. Il nano non aveva mai visto una cosa del genere. Tirò su l'arma e la rigirò meravigliato. Era nera come la notte e un po' più lunga del braccio di un umano adulto. A un'estremità era più spessa e aveva lunghe punte sottili, che ricordavano a Tungdil una cresta o un pettine; dall'altra si assottigliava come una lama. Il baricentro si trovava sopra il manico, cosa che dava uno slancio aggiuntivo al colpo; ma rimaneva comunque un'arma molto maneggevole. «A questo punto voglio darti una forma definitiva.» La rimise nella brace, la scaldò di nuovo e la rifinì sino al tramonto. Le foggiò un lungo manico arrotondato, in modo da poterla maneggiare con due mani. Gli pareva che il metallo avesse finalmente abbandonato ogni resistenza. La notte era calata da un pezzo quando il nano si sedette alla mola e affilò il taglio dell'arma. Le chiare scintille descrivevano alte parabole, finendo contro la porta. Tungdil testò la lama prendendo un pezzo di carbone e appoggiandovela sopra delicatamente e senza fare pressione. Il blocco nero venne tagliato in due come fosse stato d'aria. Stanco e affamato, il nano si diresse a passi pesanti verso il suo appartamento, portando l'arma con sé, per mangiare e bere qualcosa. «Sono in ritardo per portarti gli auguri delle città dei Liberi?» Tungdil si fermò e levò l'arma. Accanto alla fucina, un nano stava immobile sotto la pioggia scrosciante. Il cappuccio e il mantello erano fradici; doveva essere rimasto un bel po' alla finestra a guardare. Per essere un messo, si comportava in modo molto strano. «Mostra il tuo volto!» Il nano si avvicinò, portò le mani al cappuccio e lo abbassò. «Pensavo che mi avresti riconosciuto dalla voce.» Tungdil guardò il volto noto di Bramdal Lamadimaestro, su cui scorreva l'acqua. «Di nuovo tu? Che cosa desideri?» «Devo portarti i migliori saluti e auguri di buona fortuna per il tuo viaggio nella Terra dell'Aldilà da parte di re Gordislan e dei signori delle altre città.» Bramdal indicò un posto riparato. «Possiamo metterci all'asciutto?» Tungdil non si fidava di lui. «Te ne stai davanti alla fucina, mi osservi e
m'intercetti sotto la pioggia per trasmettermi tanti auguri?» Tungdil non si mosse di un palmo da dov'era. Non gli importava nulla della pioggia. «Dovrai ammettere che la tua comparsa non può che sembrarmi strana.» «Nessuno deve sapere che abbiamo parlato. Il mio incarico infatti non si esaurisce con gli auguri.» «Puoi dimostrare in qualche modo le tue parole?» Bramdal portò lentamente la mano sotto il mantello e ne trasse un rotolo di pelle; poi porse a Tungdil un anello con sigillo. «Lì troverai le credenziali datemi da chi ti ho detto, e questo è il sigillo di Gordislan.» L'acqua gli gocciolava dalla barba bionda. «Adesso possiamo metterci al riparo?» Tungdil indicò con l'arma la fucina. Entrarono nell'interno caldo e buio e rinunciarono ad accendere una lanterna. Tungdil lesse lo scritto alla luce della brace e osservò l'anello molto attentamente. Bramdal doveva essere davvero l'uomo di fiducia del re di Aureorifugio. «Eri già qualcosa di più che un boia?» Bramdal annuì. «Gemmil e molti altri prima di lui mi mandavano in missione per conto loro. Il mio compito era osservare gli umani, sentire quanto dicevano sui nani e riportare in patria le loro parole. Attendevamo un momento favorevole per poter palesare l'esistenza delle città e condurre commerci con gli uomini.» Si sedette sull'incudine, si tolse il mantello e lo appese al camino perché si asciugasse. «Sapevamo che ciò avrebbe provocato il disappunto delle stirpi e che questo passo doveva essere molto ben ponderato. La tua visita presso di noi ha reso più facile il nostro proposito. Ma ciò non rende più facile il nostro futuro.» «Mi sembra che nel recente passato le città dei Liberi si siano orientate intenzionalmente verso gli uomini», osservò Tungdil. «La tua impressione è esatta. Osserviamo con preoccupazione gli sviluppi nella Terra Nascosta», disse Bramdal. «Ho ascoltato il colloquio tra Ginsgar e Bylanta. Non è un segreto per nessuno ciò che Ginsgar pensa delle nostre città. Questo è il motivo per cui stiamo cercando apertamente la vicinanza degli uomini. La morte di Gandogar è stata decisiva.» «Ed è questo che dovevi dirmi?» Bramdal annuì. «I Liberi vedono in te un figlio del Fabbro ragionevole e poggiano le loro speranze su di te. Pensano che sarai tu il mediatore nell'imminente disputa intorno al trono imperiale. Sei l'eroe più grande del nostro popolo. Per questo vogliono che tu sia il primo a conoscere le loro motivazioni. Perché è certo che le stirpi non capiranno i motivi del nostro comportamento.»
«I Liberi temono il loro stesso popolo e cercano l'alleanza degli uomini? Siamo arrivati a questo punto?» «Se Ginsgar sarà l'imperatore, sì.» Bramdal girò il suo mantello, in modo che la stoffa si scaldasse su entrambi i lati. «Ci è giunta voce che Ginsgar mira a disperdere le città con la forza e a incamerarne le ricchezze.» «Rafforzando i vostri legami commerciali con gli uomini pensate di ottenere il loro aiuto in caso di necessità.» Tungdil assentì. «Capisco le vostre ragioni. Ma perché nessuno dovrebbe vederci parlare?» «Gordislan teme che Ginsgar abbia già un piano d'attacco, e che lo attuerebbe subito se sapesse che le città si stanno preparando a tutte le evenienze. In tal caso, non avremmo tempo di stringere alleanze con gli uomini.» Tungdil attizzò la forgia con una palata di carbone, mescolò i pezzi incandescenti con quelli nuovi e ravvivò il fuoco col mantice. «Riferisci ai Liberi che mi sento onorato dalla loro fiducia. Tuttavia non intendo tornare così in fretta nella Terra Nascosta.» Guardò Bramdal negli occhi chiari, in cui si rifletteva la luce della forgia. «Anche questo è un segreto e non dev'essere rivelato. Dovranno prendere in considerazione la possibilità che io potrei non essere qui, qualora si arrivi a un confronto armato. Dovranno risolvere da soli i loro problemi.» «Ti sottrai alle tue responsabilità?» chiese Bramdal, stupito. «Le mie responsabilità sono finite. Ho salvato la Terra Nascosta già due volte e sono in procinto di farlo una terza volta coi miei amici. Altri devono prendere il mio posto. Vado a esplorare una terra straniera.» Il boia sostenne lo sguardo. «E che cosa diresti se un domani tu tornassi e vedessi che è scoppiata una guerra? Una guerra tra i figli del Fabbro? E se vedessi che per causa tua le porte della Terra Nascosta sono state infrante e una fiumana di mostri si è riversata sulla nostra terra?» Fece un passo verso di lui. «E se ti rendessi conto che avresti potuto evitarlo?» Tungdil sorrise. «Direi che altri non sono stati capaci di rimanere assennati. Sono stato sufficientemente a lungo il difensore della Terra Nascosta e non sono l'unico nano dotato di senno. Di' ai re delle città di cercare l'aiuto di Bylanta. È intelligente.» «Presso i clan, la tua parola ha molto più peso.» «Io sono un Terzo, Bramdal, e non ne ho mai fatto mistero. Ginsgar saprebbe usare questo fatto a suo vantaggio e distruggere il mio credito.» Tungdil andò alla porta, la aprì e mise un piede sulla soglia. «Riporta a Gordislan le mie parole. Non cambierò idea.» Fece col capo un cenno di saluto. «Allora non era davvero una coincidenza il fatto che c'incontrassi-
mo continuamente durante i nostri viaggi?» «Nella vita nulla è una coincidenza, Tungdil Manodoro.» Bramdal si avvicinò alla forgia. «Riferirò la tua ambasciata. E pregherò Vraccas di farti cambiare idea.» «Provaci pure. Ma sarà inutile.» Tungdil chiuse la porta e attraversò il cortile pieno di pozzanghere. Immaginava che quella conversazione gli avrebbe dato ancora molto da pensare, ma era fermamente deciso a lasciare la Terra Nascosta al suo destino. Meditabondo, entrò nella stanza in cui era stato disposto il suo pasto; continuava a disdegnare birra e vino, limitandosi a bere acqua. «Ah, eccolo qua, il Sapientone!» Boïndil varcò la porta senza portare, per grossa sorpresa di Tungdil, la cotta di maglia, ma solo il farsetto di cuoio. Non era neanche ben chiuso, come se si fosse vestito di gran fretta. Gli si accostò e notò l'arma. «Questa era la spada dell'Eterno?» Tungdil spinse l'arma col manico verso di lui. «È affilata.» «Non ho mai visto una cosa del genere. Come l'hai chiamata?» Tungdil scrollò le spalle. Il guerriero la prese, la soppesò, compì qualche movimento e cercò nella stanza qualcosa su cui potesse provarla. Uno sgabello cadde vittima della sua curiosità e dell'arma. La lama tagliò di netto e senza schegge il legno spesso un dito. «Per Vraccas!» Il Rabbioso appoggiò la lama sul tavolo. «Che roba strana. Leggera come un pugnale, tagliente come la spada più affilata eppure calibrata nel colpo come se fosse un'ascia.» Si guardò la mano, e vide una minuscola goccia di sangue sul polpastrello del pollice. «E le piace il mio sangue!» Boïndil sorrise. «Ci sono ancora schegge di ferro, Sapientone. Dovresti limarle.» Tungdil corrugò la fronte. Sapeva perfettamente che un attimo prima l'impugnatura dell'arma era liscia come una lastra di marmo; aveva messo del cuoio ruvido proprio per garantire una presa più sicura. «Le darò un'altra occhiata.» «Chiamala Sanguinaria», propose Boïndil, punzecchiandolo. «Le starà bene.» Bevve un po' d'acqua e s'infilò in bocca una grossa fetta di prosciutto. «Che lezioni state facendo, tu e Goda?» domandò Tungdil. «Lotta corpo a corpo?» Il Rabbioso divenne rosso. «Acuta osservazione, Sapientone.» «Le mura dovrebbero già vacillare, tanto vi allenate.» Era la voce scher-
zosa di Rodario alle loro spalle, il quale si unì al pasto notturno. «Da te non mi lascio certo fare prediche», ribatté Boïndil mordendo il prosciutto. «Tu sei maestro nella lotta corpo a corpo.» «Negli ultimi tempi mi hai visto fare la lotta con qualche donna, maestro del sangue caldo?» Rodario si sedette accanto a lui. «Sono fedele alla mia Tassia.» «Certo!» Il Rabbioso scosse la testa mentre prendeva un'altra fetta di prosciutto. «Se quello che dici è vero, questo pezzo di carne vola.» Lo lasciò cadere, facendolo precipitare sul tavolo. «Qui butta male, attore.» Scoppiarono tutti a ridere. «Sono molto contento per te, Rabbioso», disse Tungdil. «Finalmente c'è una dama in grado di ammorbidire il tuo feroce cuore di guerriero e di rendere inflessibili altre parti di te.» Boïndil fece un largo ghigno. «Tutto ha un lieto fine. Non l'avrei mai creduto possibile.» «Se il mondo sopravvive, non possono solo capitare cose brutte», replicò Tungdil. «Goditi ciò che hai.» «Questo lo fanno di continuo», riprese a canzonarlo Rodario. Dallo scherzo bonario traspariva la felicità per il fresco amore tra i due nani. «Lottiamo. Nient'altro. È per rimanere in forma e pronti alle avventure che ci aspettano nella Terra dell'Aldilà. Verrò con te», annunciò il Rabbioso a Tungdil. «Questa avventura sarà la più grande della mia vita.» Rodario applaudì. «Prima che me lo chieda uno di voi: anche per me sarà un onore andare in terre straniere per raccogliere impressioni da sottoporre ai miei amati spettatori.» «Vieni anche tu?» bofonchiò il Rabbioso. «Vraccas, abbi pietà di noi! Ci rovinerà a forza di parlare. O accenderà una lanterna al momento sbagliato.» «Ah, ah! Molto divertente...» «La voce si è sparsa in fretta. Come quella delle tue gesta all'interno della macchina.» «Sì, divertiti pure, devastatore di letti. Ma io vi preannuncio che vi sarò utile.» Rodario si alzò, fingendo di essere offeso. «Perché lo sappiate: Ortger ha trovato per noi un altro percorso. I sentieri sono stretti, è vero, ma sono praticabili. Lot-Ionan ha detto che domani possiamo partire. Su, a nanna, eroi!» Indicò il guerriero. «E basta con la lotta! Non stanotte. O almeno allontanate il letto dalla parete.» Ridendo, l'attore se ne andò. Per Tungdil quella era una buona notizia. L'attesa era stata sufficiente-
mente lunga, e ormai la sua arma era pronta. «Se le cose stanno come dice l'imperatore degli spacconi e dei fanfaroni, è meglio che vada a dormire», disse il Rabbioso alzandosi. Posò una mano sulla spalla dell'amico. «Sei sicuro di volerti lasciare alle spalle la Terra Nascosta?» chiese serio. «Sì. Non voglio vederla precipitare nella prossima catastrofe.» «Parli di ciò che ha fatto Ginsgar?» «E di che altro? Nella peggiore delle ipotesi, le stirpi dei nani si smembreranno. Alcune si uniranno a Ginsgar, le altre sceglieranno un altro imperatore secondo la vecchia tradizione.» Tungdil bevve un sorso d'acqua e ripensò alla conversazione con Bramdal. «Dove condurrà tutto ciò, Boïndil? Tu lo sai?» Il guerriero abbassò la testa. «Ginsgar mi ha chiesto se desidero comandare le sue guardie del corpo», rivelò. «Gli ho risposto che ci devo pensare.» «Che ci devi pensare?» Tungdil stava per fare le sue rimostranze all'amico, poi cambiò idea. «Sì, hai ragione. Tu ci devi riflettere, poiché io non ho diritto di consigliarti qualcosa. Sto lasciando il paese.» Boïndil si sedette di nuovo. «Non è facile, Sapientone. Ginsgar è un guerrafondaio, ma certe sue posizioni sono condivisibili. Sarà un imperatore spietato.» Il Rabbioso si accarezzò la corta treccia nera. «Pensa a quello che ti dico: i Liberi e i Terzi saranno i suoi prossimi nemici.» Tungdil si tagliò un pezzo di formaggio. «Se sarai al suo fianco, sappi che non smetterai mai di combattere. So che il tuo sangue lo brama di nuovo, ma non dovresti cacciare teste di mezz'orchi e di altri mostri, invece che teste di nani?» Si cacciò il pezzo in bocca e si alzò. «Rifletti bene sulla tua scelta. Ginsgar Senzafuria entrerà nelle cronache dei nani come l'imperatore più famigerato. Non come il migliore.» Gli appoggiò una mano sulla spalla. «Buona notte, Rabbioso. Parlane con Goda e prendi una decisione. Avrai ancora tempo, prima di tornare nella Terra Nascosta.» Mentre andava via, Tungdil toccò la lama e ne sentì il filo non ancora rotto, che sulla pelle fregava ruvidamente. In un momento di disattenzione, si tagliò; non in profondità, ma tanto da far uscire il sangue. «È il nome giusto per te», disse alla sua arma. «Da oggi ti chiamerai Sanguinaria. Potrai bere il sangue di molti mostri e te ne potrai saziare, questo te lo prometto. Mi presterai buoni servigi così.». Osservò la goccia rossa sulla lama. «Ma non assaggerai mai più il sangue di un nano. Provaci e ti farò in mille pezzi.»
Un lieve bagliore corse sulla lama. Anche se si era trattato solo di un riflesso, Tungdil lo prese come un assenso. Il patto era siglato. Terra Nascosta, Monti Marroni, regno dei Quarti, Rocca d'Argento, 6241° ciclo solare, inizio autunno Bylanta porse la mano a Tungdil. «Che Vraccas ti protegga da tutti i pericoli della Terra dell'Aldilà e ti faccia tornare sano e salvo!» «Lo farà.» Tungdil annuì gentilmente, mentre stringeva l'affusolata mano della regina. Non le avrebbe detto che non aveva nessuna intenzione di tornare. Stavano davanti alle torri e alle mura della Rocca d'Argento, di fronte alla quale gli acronta avevano a lungo mantenuto il loro assedio apparente. Di quelle creature non vi era più traccia. Era rimasto indietro un mare di ossa di mezz'orco rosicchiate che i Quarti avevano lasciato come monito per gli altri mostri. «E io ti auguro che Ginsgar Senzafuria soccomba presto alla morte», le disse esplicitamente. «Se ciò non accadrà, succederà qualcosa di terribile alle stirpi.» «Parole schiette.» Bylanta lo guardava con sincera ammirazione. «Parliamo apertamente: le stirpi hanno bisogno di qualcuno che si contrapponga a Ginsgar. Dopo il suo successo nell'Âlandur, ciò non è facile; ha innumerevoli seguaci e parecchi simpatizzanti nei regni dei nani.» «Glaïmbar...» «No, tu saresti il nano giusto. Balendilín della stirpe dei Secondi non è più abbastanza forte e gli è inferiore di un braccio. Nessuno presterà ascolto a Malbalor, perché è un Terzo e i discorsi di Ginsgar sui Terzi hanno avvelenato la mente di molti.» «Anch'io sono un Terzo...» Bylanta era testarda come pietra. «Tu sei un eroe, Tungdil. Nessuno nutre più dubbi su di te: hai compiuto grandi gesta. E Glaïmbar non ha fatto mistero della sua ammirazione per Ginsgar; non posso confidare in lui.» Sorrise. «Rimaniamo Xamtys e io. Due nane contro tanta insensatezza. Avremo ancora bisogno di un eroe al nostro fianco.» Gli strinse la mano e gli posò l'altra sull'avambraccio. «Quindi... torna presto, Tungdil Manodoro.» Il nano fece un inchino e montò sul pony per unirsi ai suoi amici, che
camminavano in testa alla colonna. Desiderò non aver mai sentito quelle parole, che erano penetrate in lui con dolcezza ma enorme effetto; continuarono a scavare là dove l'effetto del discorso di Bramdal si era fermato. Bylanta lo aveva afferrato di nuovo per quel senso di responsabilità che lo spingeva ad affrontare le cose come doveva un nano come lui. «Maledizione!» imprecò ad alta voce, spronando il pony con tanta forza da indurlo a galoppare come se avesse alle calcagna un'orda di lupi. L'odore degli ubari e delle loro cavalcature metteva già il suo coraggio a dura prova. «Ecco qualcuno che ha veramente fretta di partire per paesi inesplorati», commentò Rodario stringendosi di più il mantello ricevuto da Ortger. «Santo cielo, sulle montagne dell'Urgon già faceva freddo, ma qui è quasi inverno.» Flagur si rizzò sulla sella e diede un segnale. Un trillo riecheggiò per le pareti delle montagne, e l'esercito si mise in marcia. I passi delle suole chiodate, i gridi delle cavalcature, lo sferragliare di armi e armature si attivarono istantaneamente. «Per quanto mi riguarda, possono anche combattere i mostri...» disse il Rabbioso, che si era girato e aveva osservato la lunga colonna. «Eppure se ne potrebbe aver paura.» Quando incontrò gli sguardi di Tungdil e Sirka, aggiunse in fretta: «Ma per fortuna io so come stanno le cose». Goda alzò gli occhi al cielo. Continuava a cavalcare un po' di lato accanto a lui; con tutto l'amore e quello che facevano per amore, lo guardava ancora come il suo maestro d'armi, cui voleva dimostrare rispetto. «Sei un inguaribile diffidente.» «Sì, bacchettatemi tutti come se fossi io il Muso di porco», replicò Boïndil. «Io faccio quello che posso, Vraccas e Ubar mi siano testimoni.» Rodario rise. «Questo è quello che chiamo un progresso. Si è ricordato il nome di un dio straniero e l'ha pure pronunciato.» «Ma viene solo dopo Vraccas. E sarà sempre così.» «Vado a vedere la mia gente. A dopo!» Sirka voltò la sua cavalcatura e scomparve in fondo alla colonna, dove marciavano i Sotterranei. Tungdil la guardò allontanarsi, poi puntò gli occhi in avanti; avrebbe presto visto qualcosa che nessun abitante della Terra Nascosta aveva visto prima di lui. La tensione aumentava. A ogni svolta, sperava di scorgere una prima meraviglia, pur sapendo che ciò sarebbe potuto succedere solo dopo qualche rotazione, una volta che fossero usciti dall'intrico di forre. Alla fine la sua impazienza arrivò al punto da farlo unire agli esploratori
degli ubari per poter gettare un po' prima uno sguardo sul paese di Sirka. Era così posseduto da quel desiderio che non poteva né voleva pensare ad altro. Via dalla Terra Nascosta e da una nuova responsabilità che non intendeva sobbarcarsi. Avanzavano attraverso un groviglio di crepacci malfermi e gole scure, e accanto a burroni senza fondo. Una nebbia fredda e nubi basse li privavano spesso della visuale, rendendo pericoloso ogni passo. Il percorso per uscire da quel labirinto doveva essere scoperto di nuovo, perché dopo un po' di tempo le rocce inghiottivano ogni contrassegno, che fosse dipinto o inciso. Alcuni degli esploratori arrivavano perfino a dire che le pareti si spostavano. Tungdil si sorprese più volte a pensare di tornare indietro, senza saperne il motivo preciso. Non aveva paura. Eppure erano circondati da qualcosa che logorava i nervi e li rendeva irrequieti. Il nano soffriva di una crescente impazienza, che urlava incessantemente dentro di lui e pretendeva di arrivare subito a Letèfora oppure di tornare istantaneamente nella Terra Nascosta. Di quando in quando gli esploratori gli facevano notare scure diramazioni, dalle quali i mostri intraprendevano spedizioni di saccheggio verso il passo e la Rocca d'Argento. Presumibilmente uno di quei sentieri conduceva anche alla Forra Oscura. Tungdil intuiva che, senza guide abili, si sarebbe perso irrimediabilmente. E quindi fu molto sollevato quando, dopo quindici rotazioni, vide che il paesaggio intorno a loro cambiava. Le montagne che li circondavano si abbassarono fino a diventare basse colline. Poche rocce costellavano prati coronati da alberi bitorzoluti che avevano resistito ai venti. Dopo un'ultima svolta del sentiero, i rilievi permisero la vista su un nuovo mondo. Si trovavano su un altipiano ad almeno due miglia sul livello del fondovalle: il panorama toglieva il fiato. Sotto di loro si estendeva un'ampia pianura in cui giaceva una gigantesca città. Le sue dimensioni superavano perfino le più grandi città degli uomini della Terra Nascosta, ed era attraversata da ampie strade diritte su cui passava di tutto; spesse mura concentriche correvano attraverso l'abitato costituendo numerosi argini contro possibili aggressori. Nel centro c'erano gli edifici più elevati, che erano tondi, ovali oppure squadrati; alcuni di essi dovevano ergersi nel cielo per più di trecento passi. Tungdil non aveva mai visto una simile concentrazione di case. «Com'è possibile una cosa del genere?» chiese, incredulo. «Chi ci vive? Giganti?»
Un esploratore indicò diverse zone della vicina città. «Quella davanti a noi è Letèfora. Ci vivono alcuni uomini, alcuni del mio popolo e una manciata di acronta, ma soprattutto ubari. Nel complesso, stimo il numero degli abitanti in due volte centomila.» Spostò la mano e indicò verso ovest, dove, poco prima dell'orizzonte, s'intravedeva un'altra città. «Laggiù c'è la città più grande su questa riva del mare. Si chiama Hóphoca e dà casa a dieci volte centomila persone.» Si voltò verso est. «Là comincia il territorio dei mostri. Si sono impadroniti di vecchi insediamenti umani che erano stati abbandonati dopo l'edificazione di Letèfora. I mostri li difendono accanitamente. Li lasciamo vivere lì perché così vogliono gli acronta, che di tanto in tanto vi compiono delle battute di caccia.» Tungdil guardò i campi mietuti, le strade e i sentieri che collegavano le città. Fuori da Letèfora non sembravano esserci villaggi, solo isolate ma imponenti fattorie fortificate. Piccole macchie di foresta tinteggiavano la pianura di verde scuro. «Dov'è andato l'esercito degli acronta?» chiese all'esploratore. «Non lo so. Probabilmente stanno marciando attraverso le montagne in cerca di altri mostri.» A grossa distanza, Tungdil scorse un bagliore argenteo. Doveva essere il mare di cui Sirka gli aveva parlato e che l'esploratore aveva appena menzionato: una distesa d'acqua quasi sconfinata, con tempeste e onde così alte da inghiottire isole e navi senza che se ne trovasse più traccia. «La nostra meta è Letèfora», disse l'ubari. «Da lì si attraversa la regione dei mostri e si arriva alla Forra Oscura.» «Perché non usiamo i sentieri che mi hai mostrato strada facendo? Con una spedizione attraverso la regione dei mostri potremmo attirare l'attenzione sulla mancanza dell'artefatto.» L'ubari scosse la testa e accarezzò il collo della sua cavalcatura. «I sentieri sono troppo infidi. Ci si perde ancor più facilmente che sulla strada che abbiamo percorso per venire qui. Abbiamo già perso un intero esercito così; i sopravvissuti hanno raccontato di pietre viventi, nebbie malefiche e creature ancora peggiori che tendevano loro agguati. Perciò faremo un'altra strada. Solo gli acronta osano avventurarsi lì dentro.» Sogghignò. «Il territorio in cui marceremo invece è abitato da mostri troppo vigliacchi per contrapporsi a noi. Nessuno sbarra il passo a un esercito di centomila spade.» Smontò. «Aspettiamo qui la colonna», spiegò mandando indietro due dei suoi per informare Flagur e guidarlo attraverso l'ultimo tratto del labirinto.
«Dov'è il sentiero segreto che porta alla Terra Nascosta?» chiese Tungdil sedendosi per terra, mentre l'esploratore accendeva un fuoco. Il nano non riusciva a saziarsi della vista della città; il vento gli portava rumori e odori sconosciuti. «Per raggiungerlo dovresti viaggiare ancora a lungo verso ovest, fino a toccare quasi la regione dei mostri. È facile non vederne l'inizio, nonostante la fortezza che noi e gli ubari vi abbiamo costruito. Non dev'essere troppo appariscente, in modo da non attirare troppe bestie.» Tungdil pregustava come un bambino le rotazioni che avrebbe trascorso lì con Sirka. Non rimpianse neppure per un istante il fatto di aver voltato le spalle alla Terra Nascosta, fosse pure per sempre. «Che cosa sono quei cesti?» chiese notando alti pali e funi tese, dalle quali pendevano grandi cesti che si libravano sulle strade. «Quelli?» L'esploratore soffiò ancora una volta sul fuoco per far avvampare le fiammelle, che guizzavano verso l'alto blu e verdi. «Dipende dal legno, credo», spiegò quando notò lo sguardo sbalordito del nano. «Anch'io mi sono molto meravigliato del vostro fuoco rosso e giallo.» Poi fece un cenno verso i pali. «È il nostro sistema di trasporto. Coi giusti collegamenti tra determinate piattaforme sparse per Letèfora risparmiamo molto tempo, che invece dovremmo spendere camminando lungo quei percorsi. Soprattutto quando per le strade c'è molto movimento.» Tungdil aveva scorto un gigantesco ponte che partiva dalle montagne a sud-ovest e correva di traverso fino a Letèfora. «È un collegamento a una miniera, suppongo.» L'esploratore sogghignò. «Solo un nano può chiedere di una miniera... No, è una conduttura per l'acqua. In città vi sono molte cisterne da cui l'acqua viene condotta nei diversi quartieri attraverso tubature.» «E come...» L'ubari alzò la mano sinistra. «Lascia che mi occupi della mia cavalcatura; poi potremo continuare a parlare. Ma sono sicuro che Flagur e Sirka ti potrebbero spiegare molto volentieri le meraviglie di Letèfora.» Si alzò e provvide al suo befún. Tungdil andò dal suo pony, gli tolse la sella e lo condusse sul prato in cui poteva pascolare. Tirò fuori carta, inchiostro e penna e iniziò il suo primo disegno della città straniera. Terra dell'Aldilà, Letèfora, 6241° ciclo solare, inizio autunno
Flagur accompagnò Tungdil e i suoi amici attraverso Letèfora per presentarli al sovrano, che risiedeva nella più imponente delle costruzioni e vegliava da lì il destino dei suoi sudditi. Cavalcarono lungo le ampie strade. Le porte venivano loro aperte non appena il vessillo di Flagur era riconosciuto. Qualcuno chinava la testa di fronte all'ubari, altri applaudivano e gridavano loro frasi che Tungdil intuì essere benedizioni e auguri. Le pareti delle case erano state rivestite con uno strato di argilla in cui gli artigiani avevano fissato magnifiche decorazioni. Alcune facciate erano state dipinte, altre erano prive di colore ma affascinanti per via dell'architettura o delle piastrelle di ceramica; predominavano porte semicircolari e archi alle finestre. La capacità costruttiva locale poteva assolutamente competere con quella dei nani e si discostava molto da quella degli umani. Nella Terra Nascosta non c'erano edifici ovali o rotondi, che sembravano sfere interrate per metà. Vetri colorati esaltavano la bellezza delle costruzioni; a volte riportavano motivi ornamentali, altre riproducevano scene di caccia, di guerra o anche erotiche, e in un modo tanto esplicito da imbarazzare i nani e gli uomini della Terra Nascosta. «Molto belli», commentò Rodario. «Puoi ancora imparare qualcosa, Incredibile», disse Boïndil sogghignando. «Io posso sempre imparare qualcosa.» L'attore si guardò intorno e sorrise ad alcune donne che chinavano il capo davanti a loro. Mentre lo facevano, si scorgeva qualcosa dalla loro scollatura. «E s'impara anche meglio quando si ha una maestra che ti fa lezione.» Sorrise al guerriero. «Tu sai che cosa intendo, non è vero, amico dal rapido colpo?» «Non confondere le tue voglie animalesche col nostro amore», replicò il Rabbioso. «Non ti permetto di porre le due cose sullo stesso piano.» Strinse un pugno in modo significativo. «Ne riparleremo un'altra volta», cedette Rodario per evitare attriti, mentre ammiccava a una delle ragazze, che distolse rapidamente lo sguardo. Cavalcarono fino a un edificio a forma di cassa, che si restringeva verso l'alto e aveva sui quattro lati scale che conducevano fino alla cima, che in punta era foggiata a guisa di un ovale su cui si ergevano quattro torri. «Io sono abituato alle grandi costruzioni, Sapientone», disse Boïndil. «Ma questa è più impressionante di tutte quelle che ho potuto vedere fino-
ra.» Il suo sguardo scorreva sulle pareti di pietra. «Non so nemmeno dirti se questo edificio prima era una montagna o se l'hanno costruito un concio sull'altro.» Ancora in sella entrarono in un atrio che misurava almeno cento passi per cento. Subito dei servitori accorsero per occuparsi degli animali, mentre una Sotterranea in una veste di seta blu comparve e s'inchinò di fronte a loro. I suoi capelli scuri erano lunghi e ricci e la pelle quasi nera; ai fianchi portava una catena ornamentale di un metallo sconosciuto, tempestata di pietre preziose. Tungdil e Goda spalancarono gli occhi. Il Rabbioso non si trattenne. «Per Vraccas, è bruciata?» sbottò. Flagur scoppiò a ridere e Sirka sogghignò. «No. Ha la pelle scura da quand'è nata. Il nostro popolo, a differenza del vostro, ha la pelle di diverse tinte.» Boïndil fece una smorfia. «Ma che senso ha? Serve forse per mimetizzarsi davanti ai nemici?» «Non so dirti che cosa avesse in mente Ubar. So solo che è così», replicò Sirka. «Sei scortese», sussurrò Goda al suo maestro. «Non fissarla in quel modo.» «Meno male che non capisce la nostra lingua», aggiunse Rodano. «Altrimenti dovresti scusarti per l'eternità.» «Perché? Solo perché sono curioso?» Il guerriero si mise l'azza in spalla. «Mi riesce difficile immaginare un nano blu pallido o rosso vivo.» «Neanch'io intendevo una cosa del genere, quando parlavo di colori», disse Sirka. «Che colori intendevi, allora?» «Non rovinarti la sorpresa», intervenne Flagur per chiudere la conversazione. «Siamo attesi.» Scambiò qualche parola con la Sotterranea vestita di blu, poi la seguirono. Girarono attraverso corridoi angolari, alti cinque passi; salirono la scala che conduceva in un piano dai corridoi semicircolari finché, dopo la scala successiva, non arrivarono in una sezione dai passaggi romboidali. Tungdil dovette naturalmente chiederne spiegazione a Sirka. «Questo edificio rappresenta le nostre credenze, secondo le quali esistono diversi Inframondi e Ultramondi. Ognuno di questi mondi ha un simbolo e un proprio dio, e ciò viene espresso in questi corridoi. Stiamo salendo attraverso i mondi fino al sovrano della città, che è stato designato da Ubar
e che lo rappresenta.» «È anche lui un dio?» «No. È la voce e la mano di Ubar. Opporsi alla sua parola significa incontrare la punizione per mano del dio.» La Sotterranea in vesti di seta blu raggiunse un portale d'argento alto cinque passi e largo tre, davanti al quale stavano due acronta pesantemente armati. Tungdil, Rodario e Boïndil, vedendoli, pensarono subito a Djerůn. Intorno al portale c'erano rune scolpite, immagini dipinte di guerrieri e creature leggendarie che Tungdil immaginò essere divinità degli Inframondi e degli Ultramondi. Sopra ogni cosa troneggiava l'immagine gigantesca di una creatura che conosceva bene: l'enorme mascella irta di file di zanne sporgenti e acuminate, una testa simile a quella di un essere umano ma troppo grande e ossuta, su cui era tesa una pelle sottile, dall'aspetto pallido e insano. Le vene erano dipinte in giallo vivido, e al posto del naso aveva due buchi triangolari. Djerůn! «Per gli dei...» mormorò Tungdil. Lot-Ionan prese il diamante dal borsello, senza riuscire a distogliere lo sguardo dall'impressionante affresco. «Eccoci qua.» Flagur fece un profondo respiro. «Siete pronti a entrare al cospetto del signore di Letèfora?» Con l'indice puntò l'immagine sopra l'ingresso. «Ai vostri occhi sembrerà un mostro, ma non dimenticate che è l'immagine vivente del nostro dio Ubar. Mostrategli rispetto.» Fece un cenno di capo alla Sotterranea, e lei a sua volta fece un cenno ai due acronta. I due si riscossero dalla loro immobilità, afferrarono le maniglie di ferro del portale e aprirono i battenti. La stanza che apparve era inondata di luce; innumerevoli finestre, ognuna alta e larga come un acronta, facevano entrare il chiarore e permettevano al signore della città di osservare la parte orientale di Letèfora. Motivi ornamentali erano magistralmente dipinti alle pareti; foglie d'oro, d'argento e di altri metalli preziosi finemente lavorati donavano ai disegni un bagliore estraniante. Sul trono sedeva il potentissimo Acront, che avevano osservato poco prima ritratto sull'affresco. Non portava elmo né armatura, bensì una bianca veste con ricami in oro e argento. Era alto quattro passi, e ciò giustificava la straordinaria altezza del soffitto di stanze e corridoi. I grandi occhi viola osservavano i visitatori. Con un leggero rumore, le
tende alle sue spalle si chiusero, oscurando la luce. Il rumore sinistro emesso dall'Acront era simile a quello con cui Djerůn aveva terrorizzato i mezz'orchi e tutte le altre creature di Tion. La Sotterranea in abiti di seta blu si mise a fianco dell'Acront e parlò con Flagur. «Dice che siamo benvenuti a Letèfora e che è molto contento che la nostra missione abbia avuto un esito felice», tradusse Sirka. «Ah, lei lo capisce?» Boïndil si accarezzò la barba nera. «Pensavo fosse impossibile.» «È la sua consorte», spiegò Sirka. «Ogni generazione nasce una di noi che può capire l'Acront e viene scelta per essere sua consorte e regnare con lui.» Rodario si piegò verso il Rabbioso. «Come ci si sente ad aver insultato la donna più potente della città, Rabbioso?» «Non l'ho insultata, Fanfarone», ribatté Boïndil. Goda gli appoggiò subito una mano sull'avambraccio. Era il momento sbagliato per una discussione. L'Acront riprese a parlare, mentre la moglie riportava le sue parole e Sirka le traduceva per gli ospiti. «Dunque la notizia della distruzione dell'esercito era falsa?» «Chi ne ha portato la notizia, divino Acront?» chiese Flagur, meravigliato. «Una straniera, una maga, è giunta a Letèfora e ci ha detto quanto male andassero le cose nella Terra Nascosta. Con le sue ultime forze sarebbe riuscita ad arrivare a Letèfora. Col diamante.» «Ve lo ha mostrato, divino Acront?» «Sì. Me lo ha mostrato, e io le ho dato una scorta che l'accompagnasse alla Forra Oscura.» «Non è possibile!» proruppe Lot-Ionan, aprendo la mano e mostrando il diamante a quell'essere. «Vi hanno ingannato con un'imitazione. Noi abbiamo la vera gemma!» Rodario deglutì. «Non ho la più pallida idea di quello che sta succedendo, ma so che non porterà a nulla di buono.» Tungdil fece un passo in avanti. «Vi ha detto il suo nome, divino Acront?» I sinistri occhi viola guardarono il nano, poi la creatura riprese a parlare con voce che penetrava fin nelle ossa dei presenti. «Sì. Il suo nome è Narmora. Narmora la Dimenticata.»
XX Terra dell'Aldilà, a est della città di Letèfora, un miglio di distanza dalla Forra Oscura, 6241° ciclo solare, inizio autunno Il rumore di ventimila rapidi befún e il tintinnio di armi e armature bastarono a far strisciare i mostri nel più profondo delle rovine occupate. Nessuno di loro osò palesarsi. L'Acront di Letèfora non si affidava solo alla forza degli ubari e dei Sotterranei. Aveva assegnato all'esercito quattro macchine da guerra: veicoli corazzati, lunghi quaranta passi e alti dieci, che avanzavano a coppie rollando in testa e in coda alla colonna. Nel ventre dei veicoli, dietro boccaporti corazzati, attendevano l'impiego baliste e altre armi che potevano scagliare proiettili sui nemici; avevano tiro circolare, e potevano così raggiungere ogni punto di un campo di battaglia; i proiettili avevano trecento passi di gittata. I colossi venivano spinti da un sistema semplice ma efficace di ruote a vento. Sulla parte superiore dei mezzi si trovavano grandi torri e ruote girevoli che catturavano la forza del vento. «Impressionanti, questi veicoli», commentò Rodario. Anche lui era dovuto montare in sella a un befún, semplicemente perché era il modo più rapido per spostarsi. «Hai visto come sono mobili? Le ruote si possono orientare una per una, in modo che il blindato possa girare su di sé o spostarsi di lato.» A destra e a sinistra del loro percorso, Tungdil scorse carcasse trafitte da frecce; le bestie dovevano essersi imbattute nell'avanguardia dell'esercito. «Con uno solo di questi carri, i mezz'orchi della Terra Nascosta sarebbero stati distrutti molto tempo prima.» Rodario osservava i blindati, ma dentro di sé meditava su quello che l'Acront aveva detto. «Non può essere Narmora. Abbiamo visto entrambi che cos'è rimasto di lei. La Stella del Giudizio ha incenerito ciò che c'era di albico nelle sue vene. Non è proprio possibile che sia sopravvissuta.» «Magia e amore permettono di fare cose potenti, anche se non sempre giuste», sentenziò Lot-Ionan. «Ricorda che Furgas ha trovato la sorgente della magia. Nella sua follia potrebbe aver usato ciò che restava della sua donna per costruire una macchina che le somigliasse, come ha fatto con le
bestie degli Eterni.» Rodario rabbrividì. «La nuova Narmora... Una cosa morta con un cuore di ferro, ruote dentate e meccanismi, che si muove solo perché la magia pulsa in essa? Furgas non avrebbe mai fatto una cosa del genere. L'amava troppo.» «Avrebbe potuto farlo invece, proprio perché l'amava così tanto. Non voleva stare senza di lei», lo contraddisse Tungdil. «Spero che riusciremo a fermarli prima che possano distruggere l'artefatto.» «Sarebbe una vendetta terribile sulla Terra Nascosta», disse Lot-Ionan. «Sarebbe esattamente la vendetta che Furgas giurò a suo tempo a Porista», ricordò Tungdil ripensando al momento in cui aveva dovuto rivelare al magister la morte della figlia e della compagna. «La Stella lo ha privato di ogni cosa. Sua moglie e i suoi figli, la sua vita di allora.» Rodario guardò in avanti, dove il suolo si abbassava e non cresceva più l'erba. Là c'erano solo sabbia e terra morta, come se alla vita ripugnasse l'idea di avvicinarsi a ciò che giaceva in quell'avvallamento. I blindati in punta sciolsero la formazione, si aprirono a ventaglio e diminuirono la velocità, in modo che gli altri veicoli in coda all'esercito si unissero a loro. Sirka aveva ascoltato la conversazione in silenzio. Sentì il suono di fanfare che risuonava dalla punta della colonna. «Abbiamo quasi raggiunto la Forra Oscura», annunciò. «Dobbiamo andare avanti col diamante.» I befún abbandonarono il loro trotto saltellante e presero a muoversi con balzi potenti; stranamente, oscillavano di meno quando correvano alla massima velocità. Davanti a loro comparve uno spoglio avvallamento, nel cui centro si trovava la Forra Oscura, che era lunga mezzo miglio e larga cento passi; assomigliava a un taglio sul corpo della terra, i cui bordi fossero neri e netti. «Una ferita infetta», borbottò il Rabbioso, sputando disgustato. «Le bestie sono il pus che ne esce.» Flagur indicò verso sud, dove una strana costruzione si ergeva immediatamente davanti all'imboccatura della gola. «Quello è l'artefatto», annunciò con un sospiro di sollievo. «È intero. Temevo il peggio.» Tungdil non volle distruggerne la fiducia. Narmora era stata una maga potente; impossibile prevedere che cosa potesse essere in grado di fare. «Fa' sorvegliare le uscite», suggerì all'ubari. «Solo per precauzione. Non vorrei essere colto di sorpresa mentre sistemiamo la pietra.» Si voltò verso Lot-Ionan. «Siete pronto, venerabile mago?»
Il vegliardo stava osservando l'avvallamento. «Vedremo se ci si può preparare a quello che ci attende.» Boïndil si guardò intorno. «Dov'è finita l'avanguardia? Non abbiamo più trovato tracce.» «Dev'essere finita nella Forra Oscura», rispose Sirka. «E immagino fin troppo bene per quale motivo. Forse una prima battaglia. O un agguato di Narmora per svegliare i mostri della Forra.» L'esercito si divise. Due sezioni di diecimila ubari e Sotterranei ciascuna si posizionarono davanti alle uscite della Forra Oscura, formando un muro vivente contro ciò che ne poteva erompere all'assalto. Nel farlo, mantennero una distanza di cento passi dal taglio sulla terra. I blindati si posizionarono alle loro spalle. Flagur aveva raccontato a Tungdil che le ruote non procuravano solo la spinta motrice, ma che potevano azionare, in caso di bisogno, catapulte aggiuntive. Se i carri stavano fermi sul posto, era possibile attivare mangani meccanici che scagliavano proiettili a ripetizione; l'equipaggio doveva solo indirizzare il tiro e correggerlo. Le munizioni venivano portate nel carro o raccolte da terra attraverso piccole botole sul ventre del mezzo. Nel frattempo, Sirka, Tungdil e i suoi compagni avevano raggiunto l'artefatto. Era costituito da quattro anelli di metallo disposti in verticale e intrecciati l'uno dentro l'altro, a formare l'abbozzo di una sfera del diametro approssimativo di venti passi. Sugli anelli di ferro si trovavano segni, rune, tacche e punti che tracciavano motivi. Innumerevoli sbarre portavano al centro della sfera, dove si trovava un castone istoriato di simboli. «Suppongo che il diamante vada lì dentro», disse Lot-Ionan smontando di sella. Il Rabbioso si riparò gli occhi dal sole e guardò in alto. «Come si sale là sopra? Non vedo nessuna scala.» «Per questo c'è bisogno di un mastro di rune.» Flagur fece un inchino rivolto a Lot-Ionan. «O di un mago. Conoscerete sicuramente un incantesimo che vi permetta di volare, non è vero?» Lot-Ionan scosse la testa. «Allora dovrete arrampicarvi.» «Non sarebbe meglio caricarvelo sulle spalle e portarlo voi?» propose Rodario. «Sembrate abbastanza forte.» Flagur rifiutò energicamente. «Non posso toccare l'artefatto. È permesso solo a un mastro di rune o a un mago che siano di animo puro e completamente innocente. Tutti gli altri sarebbero ridotti in cenere.»
In quell'istante risuonò un corno: dal profondo della Forra Oscura salì una nota pesante, un grido cupo e penetrante, pieno di odio e di gioia. Adunava qualcuno, promettendogli libertà, rovina e distruzione. Non poterono fare altro che ascoltare ammaliati, fino a che non si fu spenta la ultima eco. «L'hanno notato», sussurrò Sirka, piena di paura. «Abbiamo...» L'urlo di migliaia di voci furiose scrosciò fuori dalla valle. «Arrivano!» Flagur si lanciò di nuovo in sella al suo befún. «Torno dai miei guerrieri. Devono vedere che non li ho lasciati soli.» Estrasse la spada e fece un cenno di capo a Lot-Ionan. «Venerabile mago, per me è stato un onore avervi conosciuto.» Quindi l'ubari partì al galoppo, gridando ordini. La prima fila dei soldati s'inginocchiò e sollevò lunghe lance di ferro, pronta a infilzare la prima ondata di nemici, che già si avvicinava di corsa; i guerrieri alle loro spalle tenevano gli archi pronti al tiro, mentre altri ancora allineavano giganteschi scudi per sollevarli sopra le teste in caso di necessità. I boccaporti corazzati dei blindati si aprirono con uno scatto minaccioso. Lot-Ionan si avvicinò all'artefatto, che emanava una tale energia da sollevargli i capelli e i peli della barba bianca. Il mago rallentava il passo a mano a mano che si avvicinava al metallo. Si guardò alle spalle, dove i suoi compagni attendevano, osservando ogni suo movimento. Stava per parlare, quando qualcosa lo colpì al petto. Fece due passi vacillanti all'indietro e cadde nella polvere; dal suo corpo spuntava una freccia nera, che gli aveva centrato in pieno il cuore. Un'ombra cadde su di lui. Un uomo saltò oltre il suo corpo e gli strappò dalla cintura il borsello che conteneva il diamante. Il sangue si versava caldo sul corpo del mago; il cuore ferito pompò ancora una volta, poi si arrese. Lot-Ionan chiuse gli occhi. «Furgas?» Rodario aveva riconosciuto l'uomo che aveva preso il borsello. «Siamo nella Terra dell'Aldilà. Qui i morti tornano in vita.» Preso il diamante, il magister arretrò lentamente. «Ho ingannato perfino te, l'Incredibile Rodario», sorrise soddisfatto. Quando Tungdil fece un passo in avanti, gli puntò un dito contro. «Resta dove sei, nano! Altrimenti c'è una freccia per te.» Indicò l'altro capo dell'artefatto, dove una donna teneva in mano un arco teso. «Adesso vedremo il male liberarsi dalla Forra Oscura e marciare col mio aiuto nella Terra Nascosta.» Trasse il diamante dal bor-
sello, se lo infilò in bocca e lo ingoiò. Boïndil alzò l'arma. «Oh, questa è stata un'idea idiota», sbottò. «Adesso gli dovrò fare davvero male.» «Non potrete impedirlo.» Furgas guardò in direzione della forra. «Questa è la vendetta che ho augurato alla Terra Nascosta: soffocherà sotto un'ondata di mostri e tramonterà. Come punizione per la sua superbia e per aver ascoltato i nani.» Guardò Tungdil. «Gli Eoîl non sono mai stati il pericolo. Immischiandovi, voi esseri deformi avete causato la rovina della mia famiglia.» «Quella non è Narmora», mormorò il Rabbioso. «Altrimenti perché non fa incantesimi?» Rodario gli diede ragione: finalmente capì a chi assomigliava la donna che aveva visto sul barcone a Mifurdania; si rimproverò per essersene completamente dimenticato. Era quello il motivo per cui Furgas l'aveva scelta come alleata; forse nella sua mente malata la riteneva addirittura la reincarnazione della sua amata compagna. «Tutto ciò, la rovina di un paese, per la tua vendetta? Pensi che Narmora avrebbe voluto una cosa del genere? Ha combattuto al nostro fianco.» «Ma non voleva morire!» ribatté Furgas. «No, pagherete tutti, rimpiangendo i vostri amori come faccio io da più di cinque cicli.» Strinse i pugni e si allontanò ulteriormente da loro. «Non ci sarà più nella Terra Nascosta qualcuno che possa non provare il mio dolore.» «E poi?» lo incalzò Rodario. «Poi la Terra Nascosta sarà distrutta.» «E così dev'essere.» Furgas alzò le spalle. «Il mondo non è più niente senza di lei, che mi ha donato dei figli e mi ha salvato la vita.» «Mi hai ingannato, Furgas.» Rodario gli si avvicinò. La donna scagliò la freccia, che s'infilò nella coscia destra dell'attore. Un'altra freccia era già incoccata. La sosia di Narmora maneggiava l'arco in modo incredibilmente veloce e preciso. «Ve l'ho detto: potete solo rimanere fermi e assistere impotenti.» Furgas guardò il suo vecchio amico con indifferenza. Dalla Forra Oscura, il muggito tuonò ancora più forte. Una grandine rivoltante si riversò sulle file degli ubari e dei Sotterranei. Erano gli arti mozzati dell'avanguardia. Braccia, gambe e teste tagliate si abbatterono in fitte cortine sui guerrieri. I tonfi sordi sugli scudi e sui blindati, il sangue che schizzava e l'odore erano terribili e ottennero l'effetto desiderato. L'espressione sul volto di Sirka si fece decisa. Aveva perso amici e co-
noscenti e voleva vendicarne la morte. «Tutto ciò è terribile, Furgas», gemette Rodario tenendosi la coscia nel punto colpito dalla freccia. «Non peggiorare ancora la tua situazione...» «Nessuno mi perdonerà per ciò che ho fatto. Non c'è più possibilità di riscatto», lo interruppe Furgas. «Ho costruito le macchine e le ho mandate contro i nani. Non ci misi molto a farmi convincere da Bandilor, e mi sono alleato volentieri anche con l'Eterno. Ho meditato e pianificato ogni cosa, e ormai sono a un passo dalla meta. Perché dovrei fermarmi adesso?» «Abbiamo trovato il tunnel che hai scavato. Nulla di malvagio vi passerà più», rivelò Tungdil facendo segno a Goda di tenersi pronta; anche il Rabbioso lo comprese. «Come sei riuscito a creare quegli ibridi di macchine e mostri?» «Un po' di fortuna può ben aggiungersi ai miei progetti, se si lascia piegare.» Il magister sorrise. «Mentre scavavamo sul fondo del mare, alla ricerca di minerali ferrosi, notammo che la roccia aveva un aspetto completamente diverso. Mi ricordai della sorgente, a Porista, e iniziai a sospettare.» Guardò verso la Forra Oscura; la pioggia di pezzi di cadavere non voleva cessare. «Mi chiesi se il metallo che conduce la magia si sarebbe lasciato usare per costruire delle macchine. Per via di Narmora, sapevo della magia che alligna negli albi. Quando l'Eterno mi diede i marmocchi, ho semplicemente provato.» Gli occhi gli brillavano, colmi di orgoglio. «I miei alleati Terzi hanno forgiato il metallo con cui ho creato delle nuove macchine. Nessuno prima di me aveva pensato di unire magia, carne e metallo.» «Hai costruito dei mostri quasi imbattibili.» «Questa era l'idea, Tungdil.» Furgas intrecciò le mani davanti alla pancia, completamente rilassato. «Ciò che volevo era un diversivo. Mentre voi davate la caccia a quelle cose, nessuno prestava attenzione a me. Il mio tunnel veniva preparato senza che nessuno lo notasse. Ma la Forra Oscura renderà la mia vendetta molto migliore.» Si voltò verso il grande taglio nella terra e annuì. «Riuscite a crederci? Ho messo in scena una commedia a vostro beneficio, fin dal momento in cui Rodario è arrivato per caso sull'isola.» Furgas guardò l'attore. «Il mio tentativo di suicidio simulato ha reso tutto perfetto. Mi avete creduto e mi avete rivelato spontaneamente ogni cosa. Grazie a voi, la mia vendetta sarà ancora più dolce di quanto potessi immaginare.» Il fracasso terminò; risuonò nuovamente il corno. L'ingresso della Forra Oscura riversò i suoi orrori sui difensori.
Tungdil era troppo lontano per distinguere i dettagli, ma i mostri che fuoriuscivano dal crepaccio erano orribili, e diversi da quelli della Terra Nascosta. Alcuni erano grandi come mezz'orchi e provvisti di quattro braccia e artigli, altri avevano due lunghi colli e teste simili a quelle dei serpenti. Il nano scorse una pingue creatura, alta come un albero, il cui corpo luccicava rosso e umido come carne scoperta; numerosi tentacoli guizzavano tutt'intorno, catturando ciò che finiva lì vicino. Poi il mostro premeva semplicemente le prede contro il grasso corpo; nubi di vapore si alzavano, l'acido corrodeva la carne delle vittime e la bava veniva succhiata da innumerevoli bocche sparse sul suo corpo. Di simili mostruosità ne uscivano a frotte; grandi e piccole, indicibilmente brutte e spaventose a vedersi. Mostri grandi come case e dotati di ali strisciavano sulle pareti e si lasciavano cadere per sfruttare lo slancio e il vento come sostegno. Veleggiavano sopra le teste degli ubari aprendo con gli artigli brecce nelle file dei difensori. I mangani dei blindati avevano aperto il fuoco, seminando distruzione fra i mostri. Alcune bestie volanti attaccarono i mezzi blindati, gettandosi contro di essi o posandosi sopra per distruggere le ruote a vento, strappare il rivestimento di metallo e raggiungere così l'interno. Allora i fanti degli ubari e dei Sotterranei dovettero soccorrere i mezzi e indirizzare le loro frecce contro quei mostri. All'improvviso risuonò un grido roco che sovrastò tutti gli altri rumori. Quella voce era così potente che parte delle rocce della Forra Oscura si crepò e crollò. Alleati e nemici tacevano di terrore, e l'assalto dei mostri cessò. «Ubar, aiutaci», sussurrò Sirka, indietreggiando istintivamente. «Un Kordrion! Gli scritti dicono che solo il suo grido può rompere la roccia. Nulla potrà fermarlo, se uscirà dalla Forra Oscura.» Furgas fece schioccare la lingua. «E qui non c'è nessuno che possa impedirlo.» Fece un cenno verso Lot-Ionan. «La vostra ultima speranza giace lì a terra. Il vecchio ha fallito.» La mano del mago, creduto morto, si alzò e scagliò un raggio verde contro Furgas, il quale venne sollevato da terra e condotto fino al sostegno nel centro dell'artefatto. Lot-Ionan allora interruppe il raggio; il magister iniziò a precipitare, ma all'ultimo momento riuscì ad aggrapparsi a una trave. La donna tirò una freccia verso il mago, ma il dardo si fermò per aria e rimase sospeso davanti a Lot-Ionan, che era preparato a quell'attacco.
«Ehi, la pietra è già in posizione. Ora bisogna solo metterla nel castone.» Il Rabbioso corse verso l'arciera, mentre Goda lo seguiva. «Io mi occupo di lei, Sapientone. Tu trova un modo di portare Lot-Ionan al diamante.» Tungdil e Sirka aiutarono il mago ad alzarsi. Lot-Ionan si estrasse la freccia dal petto e la scagliò via. «Non è così facile uccidere un mago», disse con un sorriso enigmatico. «Il male non vincerà.» Afferrò il metallo dell'artefatto e cominciò la salita. All'improvviso un lampo partì dal centro dell'artefatto e fece precipitare il mago, che rimase fumante e gemente per terra. «Lot-Ionan!» Tungdil lo raggiunse di corsa e s'inginocchiò davanti a lui. La mano del mago era annerita e bruciata; la pelle si sfogliava e cadeva a terra. Sangue filtrava dalle crepe, mentre il vegliardo roteava gli occhi, tremava e si contorceva. «Non è di animo puro e completamente innocente», mormorò Sirka, e guardò angosciata là dove la battaglia infuriava. «Che facciamo adesso?» «Non lo so», rispose Tungdil. Alzò la Sanguinaria, montò su un befún e cavalcò verso i mostri. «Io li trattengo, poi si vedrà. Tu proteggi il mago.» Boïndil aveva raggiunto la donna e le aveva frantumato l'arco nel momento in cui lo stava tendendo e puntando contro di lui. La donna, furente, fece un balzo indietro e sguainò la spada. Gli occhi del Rabbioso scintillarono. «Allora, vigliacca assassina. Vediamo un po' come te la cavi, ora che ho rotto il tuo giocattolo.» Menò un colpo con l'azza. Lei schivò svelta e tentò un affondo, che però il nano parò col manico della sua arma. Boïndil spinse poi il moncone spigoloso, in cui un tempo stava lo spuntone, nel fianco di lei, procurandole una grave ferita. Col fiato mozzo, la donna barcollò e cadde all'indietro. «Questo non è ancora niente, perfida femmina.» Il Rabbioso fece roteare l'azza, sollevandola con lo slancio del movimento e preparandosi a colpire a morte l'avversaria. La donna, però, scagliò via la spada come se fosse una lancia. L'arma sfiorò il nano, e subito dopo si udì il grido soffocato di Goda. La preoccupazione per la sua allieva e compagna riuscì a strappare Boïndil dal furore guerriero. Il nano girò la testa per guardarla. La spada si era profondamente conficcata nell'avambraccio sinistro di Goda, e l'urto aveva fatto fare alla nana un passo indietro, proprio contro uno degli anelli di metallo dell'artefatto.
«Vraccas, no!» gridò il Rabbioso, perché ricordava le parole di Flagur. Si aspettò che Goda cadesse incenerita, fosse annientata da fulmini, arrostisse tra vampe di fuoco... Ma non accadde nulla. Prima che Boïndil potesse meravigliarsi ulteriormente, qualcosa lo colpì sul fianco. Si girò e vide il pugno della donna volare verso il suo volto. «Ehi, così non vale!» gridò mentre alzava l'azza per intercettare il colpo. Le ossa delle dita della donna si ruppero. Senza attendere una sua mossa, Boïndil la colpì dal basso col moncone frastagliato, frantumandole il mento. La donna cadde di nuovo a terra, ma cercò ancora di colpirlo col pugnale. Il Rabbioso fece un balzo di lato, e la lama lo mancò. «Ora, tocca a me!» Sollevò l'azza sopra la testa di lei, per colpirla con tutte le forze dall'alto. «Come fa un cranio quando si fracassa?» La donna non poté rispondere. Sotto il lato smussato dell'azza, la sua testa rispose correttamente all'indovinello. L'acuto grido di Furgas riecheggiò dall'alto. Nel frattempo si era tirato sulla trave e sedeva là, condannato a guardare e aspettare. «Da te arriviamo subito», promise minaccioso Boïndil mentre correva da Goda. «Come stai?» «Bene. Sono stata incauta, maestro.» La nana guardava contrita la spada che le spuntava dal braccio. «Ma puoi imparare qualcosa da quella donna.» Il Rabbioso afferrò l'elsa della spada e la tirò fuori con un rapido strattone. «Non lanciare mai la tua arma, se non ne hai un'altra», le ricordò. Goda vide il sangue che stillava dal fianco del nano. «Sei ferito?» «Niente di grave, mi ha solo punzecchiato.» Boïndil osservò la schiena della nana, per vedere se vi fossero punti bruciacchiati o anneriti. Niente. Una leggera vertigine lo costrinse poi a piantare bene i piedi per terra. «Goda, Boïndil», li chiamò Sirka. «Venite qui. Il mago vuole dirvi qualcosa.» Solo allora i due nani videro che Lot-Ionan giaceva a terra accanto a Rodario. «Oh, no. È caduto», disse Boïndil, cupo. «Adesso abbiamo bisogno di una catapulta, se vogliamo farlo salire là sopra.» Corsero dal mago, che respirava affannosamente e gemeva per il dolore; il sudore gli imperlava la fronte. «Non sono caduto. L'artefatto mi ha respinto», spiegò. «Gran bell'artefatto, questo. Perché non griglia lui invece che voi?»
brontolò Boïndil accennando a Furgas. Lot-Ionan puntò i suoi occhi azzurri su Goda. «Tu... devi andare e mettere il diamante in posizione.» «Io?» La nana alzò la stella della notte, come a scusarsi. «Io sono una guerriera e...» «Il mastro di rune l'ha riconosciuto e io l'ho visto coi miei occhi», la interruppe con voce roca. «Goda, in te c'è la facoltà di usare la magia. E speriamo che, al contrario di me, tu sia di animo puro e completamente innocente.» «Completamente innocente?» Rodario ridacchiò. «Meno male che l'artefatto non aveva orecchie per sentire quello che io ho sentito a Dreigipfelburg.» Goda arrossì. Il Rabbioso guardò l'attore. «Ci siamo allenati alla lotta. Lei possiede ancora tutta la sua innocenza, stanne certo.» Lot-Ionan fissò la nana dritto negli occhi. «Non so come sia accaduto. Forse è successo quando hai toccato la fonte della magia, forse porti in te questa predisposizione già dalla nascita.» «È di questo che avete parlato accanto al fuoco?» Rodario si ricordò la sera in cui aveva condiviso con Flagur quella strana spezia e aveva visto il mago parlare fitto col mastro di rune. «Sì. Volevo dirlo a Goda solo dopo che avessimo completato la nostra missione. Sarebbe diventata la mia apprendista.» Il vegliardo chiuse gli occhi; i denti gli battevano forte. «Arrampicati, Goda. Uccidi Furgas, metti il diamante nel castone e salva la Terra Nascosta.» «E la mia patria», aggiunse Sirka a bassa voce volgendo lo sguardo verso la Forra Oscura. Sempre più bestie riuscivano a farsi strada fra le linee degli ubari e a lanciarsi verso l'artefatto. Tungdil cavalcava di qua e di là e abbatteva una creatura dopo l'altra, ma erano decisamente troppe. Sirka levò la sua corta asta da combattimento e fece un cenno a Boïndil. «Credo che avremo presto qualcosa da fare.» Rodario spezzò l'asta della freccia poco sopra la ferita e si alzò. «E io non posso mancare. Diventare eroe una terza volta non può farmi male.» Il Rabbioso baciò Goda. «Muoviti. Ma non troppo. Lascia passare ancora un paio di mostri per me e la mia azza», disse sorridendo e voltandosi verso i nemici. Di nuovo il mondo sfuocò davanti ai suoi occhi, e dovette strizzarli più volte con forza per ritrovare la consueta acutezza con cui ve-
deva. «Sei incorreggibile», replicò Goda con affetto. Raggiunse l'anello più vicino, cercò con le dita un appoggio nell'intaglio e cominciò a salire. «Provaci pure», le gridò Furgas. «Ti ucciderò.» Sirka intanto fece roteare la sua arma e guardò il Rabbioso. «Posso chiederti un favore?» «Ma certo.» «Mi racconteresti la storia del mezz'orco che chiede la strada al nano?» «Adesso?» «Questa potrebbe essere la mia o la tua ultima occasione», disse Sirka sogghignando e rivolgendo la sua attenzione davanti a sé. Il primo mostro si stava avvicinando velocemente, brandendo un grande spadone. «Sbrigati.» «Allora: un nano, durante la sua ronda alla Porta di Pietra, incontra un mezz'orco.» Il Rabbioso sollevò l'azza e si preparò allo scontro. «Il mezz'orco lo vede e gli chiede: 'Tu, piccolo umano, sai dirmi come...'» «Dopo!» gridò Sirka mentre parava il potente colpo del mostro. Tungdil spronava il befún attraverso il campo di battaglia e decapitava le bestie con la Sanguinaria. Ogni colpo strappava una vita. La lama albica riforgiata imperversava. Al nano pareva che sostenesse i suoi attacchi, che li dirigesse in modo ancora più preciso, mirando con esattezza ai punti deboli delle armature. La Sanguinaria era affascinante e inquietante al tempo stesso. Ma, per quanto gli ubari e i Sotterranei si sforzassero, sempre più creature irrompevano tra le file diradate dei difensori. Nessuno riusciva a contrastare i mostri alati, che parevano immuni alle frecce e ai dardi che li colpivano; avevano eliminato due blindati, rovesciandone uno con forza e abbattendosi in stormo su un altro. In un istante avevano strappato le pesanti lamiere ed erano scivolati dentro, massacrando l'equipaggio. I due blindati rimasti offrivano ancora copertura alla fanteria e cercavano di mantenere il fuoco di sbarramento, ma erano stati gravemente danneggiati. «Maledizione!» Tungdil fermò il befún per guardare verso l'artefatto. Vide che Furgas sedeva in alto e che una piccola figura si muoveva sull'anello più esterno. «Goda?» Il befún si appiattì ed emise un muggito furioso. Improvvisamente, intorno a Tungdil si fece più scuro e una folata di vento potente e fetido lo
circondò. Artigli passarono accanto a lui, a destra e a sinistra, e s'infilarono nella carne della sua cavalcatura. Subito dopo, il nano iniziò a sollevarsi in aria; si ritrovò sopra il campo di battaglia e vide la strage in corso nella valle. Si girò e vide dritto di fronte a sé la testa orribile di una creatura volante. Le grandi fauci si aprirono abbassandosi verso di lui. Il primo istinto per Tungdil fu quello d'infilare la Sanguinaria tra le file di zanne della bestia e ucciderla, ma ciò avrebbe significato anche la sua morte. Quindi smontò dal dorso del befún, ormai perduto, e si aggrappò alla zampa sinistra del mostro. La creatura emise uno strillo e lasciò cadere il befún. L'animale si abbatté al suolo, finendo tra le file degli ubari e uccidendone quattro. «Non mi farai cadere», tuonò Tungdil colpendo il mostro volante nel basso ventre e finendo coperto da un liquido maleodorante. Strillando, il mostro si abbatté in picchiata; poi, agonizzante, volò radente sopra le file dei Sotterranei e sfiorò le lance dei combattenti prima di schiantarsi al suolo. Tungdil venne protetto da Vraccas. A parte qualche graffio e un taglio superficiale al polpaccio sinistro, non si era fatto niente. Così si fece strada da sotto le ali devastate e si ritrovò in mezzo all'esercito nemico. Non era stato ancora notato. La prima linea degli ubari e dei Sotterranei si trovava a un tiro di freccia da lui; l'ingresso della forra era a cinquanta passi. «Qualunque cosa tu abbia in mente, Vraccas...» mormorò mentre si guardava intorno. «Sono curioso di vedere come andrà a finire.» All'improvviso risuonò di nuovo il grido del Kordrion. La pietra andò in frantumi, scricchiolando, una slavina piombò a valle seppellendo parecchie bestie. Subito si fece silenzio, e gli sguardi dei guerrieri si volsero con paura verso il fondo della Forra Oscura. Un enorme artiglio uscì dalla tenebra della forra e si posò sull'angolo esterno, come se cercasse appiglio per tirarsi fuori. Si formarono delle crepe; la roccia si sgretolò sotto la forza e il peso della creatura. Vedendo il mostro privo di vie d'uscita, la virtù nanesca di Tungdil eruppe: si risvegliarono testardaggine, ostinazione, caparbietà e ogni altra qualità citata dagli altri popoli quando parlavano di nani. Tungdil si arrampicò sul cadavere della bestia volante, per far sì che amici e nemici lo vedessero, prese il suo corno dalla cintura, lo posò sulle labbra e, nel silenzio terrorizzato, rispose al grido del Kordrion suonando il
segnale d'attacco. «Non permetterò che lasci la tua prigione!» gridò. Alzò la Sanguinaria, coperta del sangue delle creature che aveva ucciso. «L'arma che ho strappato al male ti fermerà, qualunque cosa tu sia. Fiamma contro fiamma!» Si gettò all'attacco, dritto attraverso le file delle bestie, facendo a pezzi ogni nemico che gli sbarrava il passo, come se i corpi e le armature fossero di paglia e burro. Si udì Flagur urlare qualcosa. Poi i guerrieri superstiti ruggirono e cominciarono la loro sortita per aiutare Tungdil. La speranza rifiorì. Flagur vide comparire Tungdil in mezzo ai nemici, sul cadavere di un mostro, e far suonare impavido il suo corno come se fosse protetto tra le possenti mura di Letèfora. Le parole del nano riecheggiarono chiare e forti sopra il campo di battaglia paralizzato dal terrore; poi il nano balzò in avanti. «Ubar, tu ci hai mandato un eroe il cui coraggio supera perfino quello di un acrona», sussurrò l'ubari levando la spada. «Seguiamolo!» gridò. «Saremo i primi a sconfiggere un Kordrion. Per Ubar!» Fece un passo in avanti e aprì in due il mostro che aveva davanti. Fu lordato dal sangue scuro. La sua gente si unì al grido e intraprese una sortita. Corsero dieci passi all'interno delle file nemiche, e lì si fermarono; le due prime file di ubari formarono un muro di scudi e divisero così i nemici alle loro spalle dal grosso dell'esercito di mostri. I Sotterranei, dietro di loro, assaltarono i mostri chiusi nella sacca abbattendoli con le loro aste da combattimento tanto in fretta che quelli non riuscirono neppure a organizzare una difesa. «Ora!» gridò Flagur, facendosi passare la lancia che portava il suo stendardo, e la manovra si ripeté. Scudi di lato, fecero filtrare una parte dei nemici, poi li separarono dal grosso dell'esercito e, approfittando del vantaggio numerico, ripresero la mattanza. Lo stendardo sventolava fiero, annunciando chi stava portando la morte ai nemici. D'un tratto Flagur sentì un dolore cocente al fianco. Una freccia gli spuntava tra le costole, rendendo ogni respiro un tormento. Le dita dell'ubari si strinsero intorno alla lancia, che gli faceva da sostegno. Non poteva permettersi debolezze. Prima dovevano vincere la battaglia. «Cambio... ora!» I combattenti della prima fila fecero un passo indietro e i soldati più fre-
schi dietro di loro rilevarono la loro posizione, in modo che l'attacco non perdesse slancio. I nemici non conoscevano strategie raffinate come quella. Correvano fino a sfiancarsi e s'indebolivano da soli. Tuttavia non mancavano perdite. Più di una volta Flagur vide un suo buon amico soccombere ai colpi dei nemici; sentiva gridare, e la sua anima si univa al grido. Esteriormente sembrava impassibile, ma avrebbe volentieri tirato fuori i suoi guerrieri da sotto le carcasse dei mostri per dare loro una degna sepoltura. Conosceva parecchi da tanto tempo, e ne aveva addestrati molti personalmente; vederli morire faceva male quanto la freccia infilata nel fianco, ma il lutto avrebbe dovuto attendere sino alla fine dei combattimenti. Flagur vide che uno dei blindati li seguiva, coprendo la loro avanzata. Cinque intere file di mostri vennero falciate davanti all'ubari; una seconda raffica di proiettili scavò un sentiero nel pullulante esercito nemico. «Avanti, al centro!» Flagur alzò la lancia. Il vessillo sbatté forte al vento dando il segnale dell'assalto generale. Goda continuava ad arrampicarsi. Sotto di lei, Sirka e Boïndil mietevano le vite dei mostri; Rodarlo aveva raccolto un arco corto e una faretra piena di frecce e tirava sul mucchio di nemici; non aveva neanche bisogno di prendere la mira: le frecce centravano sempre qualcosa. Il Rabbioso permise alla sua brama di erompere. In quel momento aveva bisogno della follia che gli correva nelle vene e che lo rendeva un avversario quasi invincibile. L'azza sfrecciava senza sosta, ammaccava elmi, frantumava ossa attraverso le armature e rigettava indietro le vittime per più di due passi. Sirka per contro combatteva alla maniera dell'acqua: s'insinuava nei buchi tra i nemici, colpiva con la punta della sua arma sottile o usava l'uncino per deviare colpi, disarmare avversari o colpire le parti scoperte. Nel farlo non rimaneva mai nello stesso posto, era in continuo e fluttuante movimento. Goda aveva quasi raggiunto Furgas. L'uomo la attendeva in agguato. «Che hai intenzione di fare?» chiese. «Sono proprio curioso di...» Goda estrasse la stella della notte, e le tre pesanti sfere cozzarono l'una contro l'altra. Avrebbe dovuto badare a non perdere l'equilibrio a causa di un colpo sbagliato; si alzò con cautela, si bilanciò sul sostegno e fece un
passo in avanti mentre alzava l'arma, pronta a colpire. Furgas si spostò all'indietro, al di fuori della portata del braccio della nana. «Così non mi prenderai mai.» Sbirciò verso il basso, cercando la trave più vicina che potesse raggiungere con un salto. «Il tempo è dalla mia parte. Ed è un alleato fidato.» Quando Goda gli si avvicinò, l'uomo caricò il salto e si fece cadere di lato, con le dita protese verso la trave più vicina. Pur avendo con sé solo un'arma, Goda decise di trasgredire al comandamento supremo: lanciò la stella della notte contro l'avversario. Le tre sfere colpirono le mani di Furgas, rompendogli otto dita; l'uomo cadde gridando e atterrò di pancia sul sostegno, coronato di spine, del diamante. «No!» gridò tra i tormenti, dimenandosi e lacerandosi ancora più profondamente la carne. Il sangue scorreva sul castone cadendo al suolo in veri e propri rivoli. I movimenti dell'uomo divennero via via più deboli, finché alla fine egli non smise di gridare. Goda ringraziò Vraccas, poi scese con grande circospezione verso il cadavere. A quel punto, dovette fronteggiare un'altra difficoltà. «Come trovo il diamante?» gridò verso il basso, all'attenzione del Rabbioso. Boïndil abbatté l'azza sul piede di un mostro e gli piantò l'elmo provvisto di spuntoni nel ventre. «Squarcialo!» rispose. «Nella parte alta della pancia. L'ha inghiottito poco fa.» Fece un balzo indietro per evitare un colpo di lancia e decapitò l'avversario. Goda sollevò il busto del magister e gli poggiò la punta del pugnale sotto lo sterno. All'improvviso l'uomo aprì gli occhi. «Non te lo do», gemette col sangue che gli sgorgava dalla bocca. «Avrò la mia vendetta.» La urtò col braccio, facendole perdere l'equilibrio. La nana precipitò. Davanti a Tungdil si ergeva una figura che neanche Tion avrebbe potuto concepire; dovevano averla creata altre divinità, che nella Terra Nascosta non esistevano. Il Kordrion era puro terrore fattosi carne. Alto come una torre, portava le ali chiuse sul grande corpo muscoloso, perché nella Forra Oscura non poteva dispiegarle. Il collo era relativamente corto, la testa somigliava a quella di un drago ed era coperta di spine e corna; quattro occhi grigi stavano dietro il lungo muso ossuto, e altri due più sotto. Si era mezzo sollevato e cercava di nuovo d'impiantare gli artigli nella roccia e di tirarsi in avanti. A portare l'enorme peso erano quattro zampe simili a quelle di un cane. Il re-
sto del corpo scoperto stava ancora nell'ombra. Una bestia con tre braccia si lanciò ruggendo su Tungdil, con la lingua sibilante dotata di numerosi piccoli uncini. Il nano si limitò a mettere la Sanguinaria davanti alla lingua; la lama affilata fece il resto: cantando tagliò la carne e costrinse la creatura ferita a saltare indietro guaendo. Ma Tungdil la incalzò e la decapitò; poi sollevò la Sanguinaria verso il Kordrion. «Torna nell'abisso da cui sei strisciato!» gli ordinò. «Non credo più nell'invincibilità, che i miei nemici abbiano il tuo aspetto o anche peggiore.» Gli occhi del mostro puntarono verso il nano, e il Kordrion si abbassò. La sua testa, però, era ancora a una distanza di dieci passi sopra il nano. Aprì le fauci potenti e ruggì; ogni singola zanna era lunga e larga come due ubari. Dietro Tungdil risuonò lo sferragliare di armi e armature; Flagur e i suoi si erano schierati alle sue spalle. Con l'aiuto dei blindati avevano distrutto le bestie e isolato l'ingresso. In ciò li aiutava il Kordrion, dal momento che gli altri mostri ancora bloccati nella Forra Oscura non osavano tentare di superarlo. «Ubar, aiutaci», pregò Flagur. «Che cosa facciamo?» «Contro una creatura come questa c'è bisogno degli acronta.» Tungdil non provava paura. L'impugnatura della Sanguinaria nelle sue mani gli trasmetteva sicurezza e fiducia, che rafforzavano la sua testardaggine. «Ma, se non facciamo nulla, non scopriremo mai se funziona anche senza dì loro.» Corse in avanti, puntando l'arma contro uno degli artigli. «Finché è impegnato ad arrampicarsi, abbiamo noi il vantaggio. Tagliategli i tendini, colpite tutto quello che riuscite a raggiungere. Prima o poi crollerà!» Flagur guardò il nano allontanarsi. «Non sa che cosa sia la paura», mormorò ammirato, alzando la lunga lancia. Asta e tessuto erano imbevuti del sangue dei mostri che aveva ucciso. «Avanti!» gridò mettendosi a correre. Respirava in modo affannoso; la ferita al costato gli faceva molto male. I suoi guerrieri lo seguirono, correndo ad armi spianate contro il Kordrion. All'improvviso si udì ancora il terribile verso; a ruggire però non era stato l'essere gigantesco di fronte a loro. I passi di Flagur rallentarono, il sangue gli si gelò nelle vene. L'estasi della battaglia si dileguò, cedendo alla paura. «Tungdil! Torna indietro! Sono due!» Ma il nano non lo sentì. Poi il Kordrion aprì le fauci e investì di fuoco bianco i guerrieri.
Con presenza di spirito, Goda riuscì a piegare ad angolo la gamba sinistra. Volteggiò intorno alla trave, riuscì ad afferrare la più vicina e si tirò su ansimando. Non avrebbe mai immaginato di essere in grado di compiere una simile acrobazia. Le ore di esercizio, il trascinare, issare e sollevare pesi erano valsi la fatica; non si sarebbe mai più lamentata di quelle faticacce. Corde con uncini le volarono accanto, posandosi sulle traverse. Alcuni mostri cercavano di abbattere l'artefatto, mentre i loro simili li coprivano dagli attacchi di Sirka e del Rabbioso. «Più in fretta!» le gridò Boïndil. Il nano aveva intuito la causa delle vertigini che stava provando: la donna aveva intinto il pugnale nel veleno, ed esso cominciava ad avere effetto. Goda strisciò verso Furgas. «Non ti sei liberato di me.» L'uomo, che ansimava, estrasse un pugnale. «E tu non mi hai ucciso.» «Rimedierò subito.» La nana schivò la coltellata, afferrò il braccio, ormai esangue, e gli sottrasse il pugnale. Le fu facile sopraffare Furgas, ferito a morte, e cacciargli in corpo il suo stesso pugnale. L'uomo gemette un'ultima volta, poi morì. Goda prese a frugare nelle calde e fetide viscere del magister; tastò e palpò finché, in mezzo a tutta quella materia molle, non scovò un oggetto duro. «L'ho trovato!» gridò verso il basso per rianimare la resistenza dei difensori, e trasse fuori la gemma. Poi spinse il cadavere di Furgas per farlo scivolare dal sostegno: si abbatté al suolo con un rumore sordo. La nana non stette a ripulire il diamante; lo spinse, sporco com'era, nel castone. Poi abbassò le quattro piccole staffe che lo bloccavano e l'osservò. «Su, fa' qualcosa», sussurrò toccandolo. Dalla Forra Oscura risuonò un nuovo grido; una bianca vampa di fuoco spazzò il suolo. Ubari e Sotterranei in fiamme volteggiarono in aria, volando lontano, prima di sbattere contro le pareti rocciose come scintille. Il blindato più avanzato venne avvolto dalla vampata; le lastre di metallo si fusero e le travi di legno s'incenerirono all'istante. Con un altro grido, ancora più forte, che fece franare diversi blocchi di pietra, il Kordrion si liberò e strisciò fuori con tutto il resto del corpo. Ruggì ancora, trionfante, e lasciò la Forra Oscura. I guerrieri fuggirono via, terrorizzati. Il Kordrion si alzò e dischiuse le pallide ali. Subito tutt'in-
torno si fece scuro, come se una nuvola avesse coperto il sole. «Goda!» gridò il Rabbioso abbattendo l'ultimo dei suoi avversari. «Stiamo aspettando!» Le gambe gli cedettero. Il nano cadde maldestramente accanto al nemico appena ucciso. La vista gli svaniva, i colori si mescolavano in un caos multicolore. Sirka fissava il gigantesco corpo del Kordrion. «Tungdil...» sussurrò angosciata, e capì che per il suo compagno non poteva esserci stato scampo. Il fuoco bianco fondeva pietra e acciaio. «Dev'essere sopravvissuto», disse Boïndil, mentre lottava contro il veleno. «Il Sapientone sopravvive sempre. È amico degli dei.» Ma anche il volto del nano s'incupì. Non si era mai visto un mostro del genere. Calpestava gli ubari e i Sotterranei che trovava davanti a sé e lanciò un'altra vampata di fuoco bianco, annientando cinquecento guerrieri in un colpo solo. L'ultimo blindato fu avvolto dalle fiamme e bruciò. Ogni istante che passava fuori dalla Forra Oscura, il Kordrion raccoglieva più forze. Goda sentì disperazione e rabbia farsi strada dentro di lei. Colpì il diamante con tutte le sue forze, e all'improvviso udì uno scatto: la pietra scivolò più a fondo nel castone. Un vivido luccichio argenteo percorse le traverse e raggiunse i grandi anelli; i simboli s'illuminarono debolmente per poi avvampare di una luce opalescente tanto forte che Goda temette di perdere la vista. Quando riuscì di nuovo a scorgere qualcosa, la nana vide che una sfera di pura luce dai riflessi cangianti aveva circondato gli anelli; una seconda sfera cingeva la Forra Oscura. Non scorse più traccia del primo Kordrion, a parte una zampa amputata e un pezzo di ala. Il secondo esemplare infuriava all'interno del sottile ma per lui insormontabile involucro. «Ce l'ho fatta», sussurrò incredula, guardando il diamante che brillava debolmente. Poi scoppiò a ridere. «Ce l'ho fatta!» ripeté più forte. «Sì, ce l'hai fatta!» gridò felice il Rabbioso, cercando di rimettersi in piedi. «Scendi giù, piano piano, così ti posso abbracciare.» Rodario appoggiò una mano sulla spalla di Sirka. «Anche Tungdil ce l'ha fatta», disse per darle speranza. La Sotterranea guardò giù per l'avvallamento, che era colmo di cadaveri di guerrieri e carcasse di mostri. Alcune bestie, scampate alle lame e alle frecce dei difensori, fuggivano oltre le colline, e qualche mostro alato scomparve volteggiando all'orizzonte. «Un Kordrion è scappato», balbettò Sirka, incredula. «L'artefatto si è at-
tivato troppo tardi. Che succederà ora?» Guardò Rodario. «Non c'è speranza. Gli scritti dicono che...» «Non disperare, piuttosto aspetta quello che accadrà. Gli scritti non hanno sempre ragione, credimi», ribatté l'attore. «Vieni, andiamo verso la Forra Oscura a salutare Tungdil.» Sirka gli sorrise con gratitudine. Insieme con Goda e Boïndil attraversarono i cumuli di cadaveri. Ma né Flagur né Tungdil tornarono da quella battaglia. XXI Terra dell'Aldilà, a est di Letèfora, davanti alla Forra Oscura, 6241° ciclo solare, inizio autunno Sirka stava davanti alla sfera protettiva, con una mano appoggiata sull'involucro luminoso. Sentiva sulle dita il formicolio che scaturiva dall'energia. Dall'altra parte vedeva la testa del Kordrion, che si era sdraiato nella Forra Oscura e la osservava. II brutto cranio poggiava sulle zampe anteriori; di tanto in tanto, il mostro tirava a sé uno dei cadaveri di ubari e lo inghiottiva con gusto, poi riassumeva la sua posizione. E attendeva immobile. Il Rabbioso affiancò Sirka. «Attende che la barriera mostri un punto debole.» «Lui e miriadi di altri mostri.» Sirka annuì, triste. «So che non c'è nessuna possibilità di abbassare lo sbarramento per qualche istante e cercare Tungdil. Il Kordrion si libererebbe subito. Uno di loro è già un problema abbastanza grave.» Boïndil le osservò il volto stanco. «Sei qui già da tre rotazioni. Hai a malapena bevuto un po' d'acqua e non hai mangiato niente. Vieni al campo», la pregò. «Il Sapientone non vorrebbe che tu morissi di fame per causa sua.» Si asciugò una lacrima dal volto. La Sotterranea assentì. «Vengo.» Sull'avvallamento sventolavano gli stendardi degli ubari. I rinforzi erano arrivati e avevano eretto un accampamento provvisorio per curare i feriti e per inseguire le bestie cui era riuscita la fuga. «Hanno detto che il Kordrion ferito è fuggito sulle montagne», disse Boïndil strada facendo, per rompere il silenzio e distrarla dal suo dolore. E di-
strarsi dal proprio. «Credi che sia morto?» «Chi?» «Tungdil.» Il Rabbioso fece un profondo respiro e avvertì una fitta dolorosa. Contava sul fatto che la sua forte fibra nanesca avrebbe avuto la meglio sul veleno; dal momento che non era morto subito, supponeva che non sarebbe più morto. «La mia ragione deve rispondere di sì. Di ventimila guerrieri sono rimasti a malapena quattrocento.» Lottava per mantenere il controllo. «Ma non ho visto il suo cadavere coi miei occhi, e nessuno ha saputo dirmi com'è morto. Quindi alla mia ragione do una scoreggia di mezz'orco. Io dico che è ancora vivo. Si sta facendo strada fra i nemici, falciandoli, per cercare una via d'uscita; libererà la Forra Oscura dal male e non smetterà fino a che non li avrà abbattuti tutti. Prima o poi lo riavremo davanti a noi; anche se ci volessero cinquecento cicli.» Un'altra lacrima gli corse sulla barba. «A me non è concesso attendere tanto a lungo», replicò Sirka con voce soffocata. «Se dovesse tornare e ti chiedesse di me, allora...» Si mise a piangere. Dapprima Boïndil rimase accanto a lei rigido come un'incudine; poi si sciolse e l'abbracciò. Le loro lacrime si mescolarono, il dolore li univa. «Digli che dopo di lui non ho scelto nessun altro compagno», lo pregò Sirka a bassa voce. «Anche se non è nella natura del mio popolo. So che non avrò mai più un compagno come lui al mio fianco.» Si staccò dal guerriero e si asciugò le lacrime col risvolto della manica. «Glielo dirò», le promise Boïndil con voce roca. In silenzio, raggiunsero la tenda comune in cui aspettavano Lot-Ionan, Goda, Rodario e la consorte del sovrano di Letèfora. Di fronte a loro sedeva l'Acront, coperto da testa a piedi, il capo nascosto da una stoffa a rete. I suoi abiti assomigliavano a quelli del mastro di rune degli ubari. La moglie del sovrano disse qualcosa. «Ci hanno aspettato», tradusse Sirka. «L'Acront vuole discutere il futuro di Goda.» Il Rabbioso guardò la montagna di stoffa con diffidenza. «E che ci sarebbe da discutere?» Una vampata di calore gli attraversò il corpo, facendogli uscire il sudore dai pori. Stava sudando via il veleno. L'Acront levò la voce, la consorte tradusse i rumori sinistri e Sirka a sua volta li rese nella lingua della Terra Nascosta.
«Dice che gli ubari non hanno ancora un nuovo supremo mastro di rune. Starebbe a te, Goda, rimanere a Letèfora e vegliare sull'artefatto fino a che gli ubari non abbiano scelto tra loro il successore e questi non abbia completato la sua istruzione. L'Acront ha scorto delle minuscole crepe nella sfera che avvolge la Forra Oscura, perché qualcosa deve aver contaminato il diamante. Qualcosa della Terra Nascosta.» La Sotterranea attese che la consorte regnante trasmettesse altre parole dell'Acront. «Per questo motivo è indispensabile che qualcuno faccia la guardia per rafforzare, in caso di bisogno, la pietra. Si tratterebbe solo di...» Sirka fece il calcolo. «Quattro cicli. Poi potrebbe tornare di nuovo nella sua patria.» «E che accadrebbe se non volesse fermarsi?» volle sapere il Rabbioso. «Naturalmente potrà andarsene. Ma ponderate il fatto che una breccia nella sfera comporterebbe grandi sciagure anche per la Terra Nascosta», tradusse Sirka. «Sarebbe solo una situazione transitoria. Non le mancherà nulla: ogni suo desiderio verrà soddisfatto. E sarà ricompensata per i suoi servigi.» Goda sedeva incerta accanto al suo maestro. «Io non sono una maga», disse. «Sì che lo sei», replicò Lot-Ionan, che portava il braccio ferito fasciato al collo. «Certo, non hai ricevuto un'istruzione, ma dentro di te sei una potente maga.» «Mi onora molto che voi parliate così, venerabile Lot-Ionan. Ma al momento non sono neanche un'apprendista.» Goda era infelice. «Che cosa potrei mai fare senza il vostro immenso sapere?» L'Acront riprese a parlare. «Dice che sei l'unica che può toccare il diamante e l'artefatto. Sei legata a entrambi, e indispensabile. Se all'artefatto dovesse accadere qualcosa che porti a un crollo delle difese, nessuno sarebbe in grado di ripristinarle», disse Sirka prestandogli la sua voce. «Ti prega di essere presente per quattro cicli.» Goda guardò il Rabbioso, ma questi scosse la testa facendo danzare la corta treccia. «No, la decisione spetta solo a te. Ma, sei vuoi rimanere qua, io sarò al tuo fianco», le promise. «Non ti lascerei mai sola. E chissà, forse il Sapientone tornerà. Se così fosse, dovrebbe vedere almeno due facce conosciute», aggiunse sorridendo. «Allora siamo d'accordo», acconsentì Goda. «Rimarrò qui finché gli ubari non avranno un nuovo mastro di rune.» L'Acront chinò il capo, mentre i suoi occhi viola scintillavano dietro la
stoffa. Poi si alzò e lasciò la tenda insieme con la consorte regnante. Aveva detto tutto ciò che era importante. Rodario lo guardò allontanarsi. «Questo vuol ben dire che lui non è di animo puro e completamente innocente», concluse. Si risistemò la fasciatura sulla coscia. «Per quanto mi riguarda, amici miei, non prendetevela a male, ma io tra qualche rotazione partirò per la Terra Nascosta. Qualcuno dovrà riferire quello che è successo e che siamo al sicuro. Almeno fino alla prossima avventura», aggiunse accarezzandosi il pizzo. Lo rallegrava l'idea di riabbracciare Tassia e di riferirle le sue storie epiche. «Vi dico che gli spettatori prenderanno d'assalto i miei tendoni per sapere che cos'è successo qua.» Il Rabbioso alzò un sopracciglio. «Tendoni, Incredibile? Da quando ne hai più di uno?» «Non ancora, caro Boïndil, non ancora. Ma verrà il tempo in cui farò della mia piccola compagnia errante un impero teatrale che darà rappresentazioni in tutta la Terra Nascosta.» Fece un cenno verso Goda. «Verrò periodicamente a Letèfora per chiedervi le novità, d'accordo?» «Ti perderai e finirai in mezzo ai mostri», lo punzecchiò il Rabbioso, che si tergeva il sudore dalla fronte col dorso della mano. Quella prospettiva preoccupò Rodario. «Dovrò farmi venire una qualche bella idea per sopravvivere al viaggio. Forse userò quel cammino segreto, quell'enigmatico passo che conduce alla Terra Nascosta inosservati.» Si alzò. «L'accampamento verrà levato domani, torneremo a Letèfora, a quanto ci hanno detto. E spero vivamente che là ci sia qualche conquista da fare. Ci sono molte belle donne lungo la strada.» Alzò la mano in segno di saluto e uscì dalla tenda. «Anch'io lascerò la Terra dell'Aldilà», annunciò Lot-Ionan. «Ho l'impressione che in patria ci sia bisogno di noi. È arrivato il momento di cercare nuovi apprendisti e diffondere ancora nella Terra Nascosta l'alta arte della magia.» Muovendosi, il vegliardo avvertì una fitta alla schiena. Pensò di vedere la sagoma di Nudin accanto all'uscita, ma i neri contorni scomparvero subito. «Non sarà facile usare la sorgente della magia sul fondo del mare, ma in qualche modo faremo. L'idea di Tungdil di usare campane da immersione artificiali era molto buona.» Goda sorrise. «La Terra Nascosta sarà contenta di ricevere il vostro aiutò. Fra quattro cicli sarò accettata come vostra apprendista?» «Chissà che cosa saprai fare fra quattro cicli... Forse scoprirai una tua propria forma di magia.» Il mago le accarezzò la bionda chioma. «Io non
so niente del modo in cui gli ubari usano la magia. Da questo punto di vista mi sarai presto avanti. I sentieri della magia sono impenetrabili, anche per un mago come me. Ti posso solo consigliare di maneggiare i tuoi poteri con parsimonia.» Si alzò e porse loro la mano, l'uno dopo l'altro. «Ci rivedremo di certo. E rivedremo anche Tungdil. Lo sento nella mia vecchia anima, e per questo non sono afflitto.» Puntò gli occhi azzurri su Sirka. «Anche tu lo rivedrai in questa vita. Non perderti d'animo, bensì pregusta l'alba in cui uscirà dalla Forra Oscura e verrà da te.» Le fece un cenno di capo e se ne andò. Anche Sirka li salutò. Il Rabbioso la lasciò andare, anche se non le aveva ancora raccontato il finale della storiella; non era il momento giusto per scherzi di quel genere. I due nani erano rimasti da soli. «Sai che cosa mi preoccupa?» fece Boïndil cogitabondo, dopo che l'ingresso si fu richiuso e i passi furono scemati. «Mi preoccupa che l'artefatto abbia respinto Lot-Ionan.» «Be', se c'è qualcuno che è di animo puro e completamente innocente, quello è proprio il venerabile mago», disse Goda. «E chi pretende che un mago viva castamente? Adesso di sicuro non fa più certe cose, ma chi può sapere tutto ciò che ha fatto quand'era giovane?» Strinse la mano del guerriero. «È un uomo buono.» Il Rabbioso rifletté. «Sì, hai ragione», mormorò. Poi il suo volto assunse un'espressione atterrita. «Sai che cosa significa tutto ciò per il nostro patto di ferro?» «Dovremo aspettare ancora quattro cicli.» Il nano sospirò. «Sarà dura. Dura come un diamante.» Goda rise. «Nel frattempo potrai rendermi la migliore guerriera che sia mai esistita nella Terra Nascosta e in quella dell'Aldilà. Riceverai fra quattro cicli la ricompensa per i tuoi sforzi e la tua continenza.» Lo baciò a lungo. «E questo non ci è proibito», aggiunse sorridendogli. Pensò fugacemente al duello che aveva giurato di fare per vendicare la sua prozia; scivolava sempre più lontano. Il Rabbioso le accarezzò le guance e la chiara peluria. «Saranno i quattro cicli più belli e terribili che dovrò sopportare», scherzò. «Per un qualche motivo, Vraccas mi odia.» Le diede un bacio e si fece di nuovo serio. «Non mi stancherò di pregare il nostro Creatore affinché protegga Tungdil da ogni orrore.» Si alzò e raggiunse l'uscita della tenda, la aprì e guardò la Forra Oscura, circondata dalla luce protettrice. «Dove sarà mai? E che cosa
farà, così solo tra quei mostri?» Si terse di nuovo il sudore. Goda si mise al suo fianco e gli prese la mano. Non sapeva rispondergli, e non condivideva affatto la sua fiducia riguardo al destino di Tungdil. Lei lo riteneva morto; ma non l'avrebbe detto. In silenzio, osservarono la sfera luccicante dietro cui giacevano speranza e rovina. Non c'era l'una senza l'altra. Terra Nascosta, regno di Gauragar, Porista, 6241° ciclo solare, inverno Fu organizzato un nuovo incontro fra tutti i sovrani della Terra Nascosta. Re Bruron invitò gli ospiti nella prima sala già terminata del suo nuovo palazzo. Grandi stufe fornivano un piacevole tepore all'interno delle mura, nonostante la tempesta di neve che infuriava all'esterno. Bruron aveva fatto arredare completamente la sala: mobili, affreschi, statue, arazzi... L'impressione era che intorno a quel locale anche il resto del palazzo fosse pronto; ma in realtà non c'era ancora nulla più che la pianta. Le regine e i re dei regni degli uomini e dei nani ed Esdalân ascoltavano attentamente la dettagliata esposizione di Rodario, che descriveva ciò che era avvenuto nella Forra Oscura in modo vivido e suggestivo. «... e così, col sacrificio di Tungdil Manodoro, terminò la battaglia. Abbiamo perduto un grande eroe, che ha dato la sua vita per la Terra Nascosta.» L'attore fece un inchino. «Per il vostro benessere e i vostri sogni tranquilli. Ricordate in eterno questo nano valoroso e non lasciate il lutto ai soli figli del Fabbro.» Con tali parole, prese posto guadagnandosi applausi scroscianti. Soprattutto i nani, di cui alcuni trattenevano a stento una lacrima, si profusero in un applauso entusiasta. Si alzò Lot-Ionan. Portava un abito azzurro e guanti bianchi per nascondere l'ustione procuratagli dall'artefatto. La pelle era guarita, ma era rimasta nera. La sinistra stringeva un lungo bastone da passeggio, magistralmente tornito, di legno di betulla. «Ritengo che sia nostro dovere sfruttare questa nuova pace, garantitaci dall'impegno del mio figlio adottivo e dei suoi compagni che ancora soggiornano nella Terra dell'Aldilà. È il momento di una riconciliazione.» Guardò Esdalân. «Agli elfi sono state fatte cose terribili. Siete pronti a perdonare le atrocità che sono state perpetrate contro di voi?» Esdalân guardò imperturbabile al di là di Ginsgar. «Gli elfi pretendono delle scuse per le efferatezze commesse e per la totale devastazione dell'Â-
landur. Era giusto che i palazzi e i templi degli Atàr fossero incendiati e abbattuti. Ma che venissero dati alle fiamme insediamenti i cui abitanti non avevano nulla a che fare coi fanatici accecati del mio popolo... questa è una cosa che esige scuse e risarcimenti.» Il suo sguardo passò sui volti delle nane e dei nani. «Col vostro aiuto ricostruiremo il nostro regno. Quando ciò sarà fatto, perdoneremo i figli del Fabbro.» Ginsgar proruppe in una tonante risata. «Ma certo, Esdalân. Costruire un paio di case per trentasette elfi è cosa presto fatta. Il perdono sarà questione di un attimo.» Se quelle parole o quel tono lo avessero colpito, Esdalân non lo diede a vedere. Era troppo accorto per farsi provocare da una risposta brusca. «E che cosa dici riguardo alle parole di scusa, Ginsgar Senzafuria? Tu hai condotto le truppe per i boschi a massacrare e saccheggiare.» La risata terminò istantaneamente. «E quando sentirò io delle scuse per i nani avvelenati?» «Sono stati gli Atàr, non gli elfi. Atàr ed elfi non sono la stessa cosa.» «Sottigliezze», replicò Ginsgar con disprezzo. «Finché non avrò delle scuse, anche tu dovrai aspettare.» «Allora non attribuirò nessuna importanza al fatto che i nani ci aiutino nell'Âlandur.» Esdalân fece un cenno verso l'autoproclamato imperatore dei nani. «Quando esprimerai delle scuse, i nostri popoli ricominceranno da capo. Non prima.» L'elfo si riappoggiò allo schienale, rendendo chiaro che non aveva nulla da aggiungere al riguardo. Non aveva però chiuso del tutto la porta della riconciliazione. Lot-Ionan rivolse a Ginsgar uno sguardo di rimprovero. «Come puoi comportarti così, Ginsgar Senzafuria?» «Posso e basta», ribatté il nano. Anche lui non avrebbe aggiunto altro. La frattura tra i due popoli persisteva; il sangue e i morti che vi si erano raccolti impedivano la pace. «Tornerai a più miti consigli», profetizzò Lot-Ionan. Poi si rivolse a tutti gli altri. «Abbiamo appreso che un Kordrion è scappato ed è fuggito sulle montagne. C'è da temere che abbia trovato una tana da qualche parte tra il regno dei Quinti e il regno dei Quarti, per curare le proprie ferite. È assolutamente necessario che i nani non soltanto sorveglino nel modo più accurato i passi, ma che estendano la loro vigilanza anche alla regione delle montagne in cui non vi sono sentieri. Non appena uno di voi scoprisse il Kordrion, dovrà annunciarlo immediatamente.» «Mastro Rodario non ha affermato che quella creatura è invincibile?»
domandò la regina Isika. «Per gli ubari e i Sotterranei, sì.» Lot-Ionan indicò il suo bastone. «Io sono intento a cercare nuovi apprendisti; ne ho già esaminati alcuni lungo la strada attraverso l'Urgon e il Gauragar. Presto avremo a disposizione giovani capaci di padroneggiare l'alta arte della magia. E il Kordrion non è mai stato combattuto con la magia. I mastri di rune degli ubari utilizzano la magia in modo diverso da me.» Fece un sorriso tranquillizzante. «Come vedete, regina Isika, io sono ottimista.» La regina Wey prese la parola. «Allora, venerabile mago, lasciate che vi riferisca un fatto che vi renderà ancora più ottimista, anche se i miei sudditi lo osservano con preoccupazione.» Indicò la mappa della Terra Nascosta, e precisamente il suo regno. «Il mare sì sta abbassando, e in modo incessante. È come se le masse d'acqua stessero defluendo da una tinozza.» Rodario e Lot-Ionan si scambiarono un rapido sguardo. «Quanta ne avete già persa?» s'informò l'attore, che poteva immaginare che cosa stesse succedendo. L'acqua in ingresso, col suo peso e con la sua enorme pressione, aveva terminato l'opera di Furgas, cioè lo scavo del tunnel non ultimato. Da qualche parte nella Terra dell'Aldilà si riversava un immenso getto, portando con sé nuova devastazione. «Gli abitanti del mio regno che vivono su isole fisse mi hanno riferito che l'acqua si sarebbe già abbassata di oltre dieci passi. Interi porti devono essere ristrutturati, e in alcuni punti le acque si sono ritirate tanto che la gente deve camminare un'intera rotazione per poterle raggiungere.» La regina guardò i presenti con aria grave. «Il mare si sta prosciugando. Alcuni si ritroveranno improvvisamente non su isole, ma su montagne che si ergono nel cielo per mille passi. Questo farà piacere a voi, venerabile LotIonan, perché raggiungerete più facilmente la sorgente della magia, ma i miei sudditi guardano a tutto ciò con paura. Non si possono trasformare da pescatori in contadini.» «Posso immaginare la causa di questo evento.» Il mago spiegò la sua teoria, che coincideva con quanto aveva pensato Rodario. «Possiamo facilmente rimediare, facendo crollare il tunnel. Preferisco intraprendere un'immersione piuttosto che lasciare all'asciutto un regno. Il Weyurn senz'acqua è inimmaginabile. Anche la Terra Nascosta ne patirebbe: le conseguenze sarebbero terribili.» Il principe Mallen chiese la parola. «Vorrei proporre, a nome degli uomini, che i nani permettano ai guerrieri degli altri paesi di affiancarli nella sorveglianza degli accessi alla Terra Nascosta. È più che giusto che gli
uomini non lascino più ai nani l'intera responsabilità. Anche noi dobbiamo contribuire alla sicurezza della nostra patria; sarà il nostro modo di esprimere riconoscenza per tutti i morti pianti dal vostro popolo nel corso dei cicli.» «No», disse subito Ginsgar. «Non vogliamo umani sulle montagne. Noi facciamo bene il nostro lavoro. Gli uomini ci disturberebbero soltanto; non comprendono il nostro modo di vivere né il nostro modo di pensare e agire. In caso di attacco, i vostri soldati ci starebbero solo tra i piedi, invece che essere d'aiuto.» «Tu non hai nessun regno che dipenda da te», ribatté Xamtys. «Sei un miserabile che si è nominato imperatore da solo, niente di più.» Fece un cenno di capo a Mallen. «Per quanto concerne il regno dei Primi, gli uomini saranno i benvenuti. Negli ultimi tempi abbiamo subito troppe perdite e saremmo lieti di ricevere soldati che colmino i vuoti fra i nostri ranghi, finché i nostri guerrieri più giovani non abbiano terminato l'addestramento e raccolto sufficiente esperienza.» Bylanta e Balendilín concordarono con Xamtys, mentre Glaïmbar e Malbalor rifiutarono una collaborazione. Gli sguardi che si scambiavano Ginsgar e Xamtys promettevano una prova di forza intorno al dominio sui regni dei nani. Mai prima di allora una disputa interna era stata mostrata così palesemente; verso l'esterno i nani avevano sempre avuto cura di trasmettere un'idea di unità. Mallen ringraziò. «Allora discuteremo domani quanti soldati vorranno ospitare le stirpi dei Primi, dei Secondi e dei Quarti.» I presenti discussero poi come procedere nei confronti degli ubari e del potente regno a nord-est della Terra Nascosta. Contro il volere di Ginsgar, cosa che non stupì nessuno, si convenne sul fatto di stabilire liberamente contatti, se non altro per via del Kordrion. Per il resto, si decise di lasciare in mano agli dei i futuri sviluppi dei rapporti. Dal momento che era già tardi, Bruron interruppe la riunione con l'impegno di rivedersi l'indomani. I sovrani degli uomini lasciarono la sala, mentre i nani rimasero seduti: volevano continuare la discussione. Non appena furono soli, Xamtys batté un pugno sul tavolo e fulminò Ginsgar con lo sguardo. «Come osi presentarti come imperatore?» «La questione è chiusa», minimizzò il nano con una risata e un cenno della mano. «Tu credi che sia chiusa», replicò lei. «I sovrani delle stirpi non ti hanno riconosciuto. Tu regni soltanto su un pugno di seguaci, che ti ha giurato
fedeltà nell'ebbrezza della vittoria. Niente di più.» «Io la vedo diversamente.» Glaïmbar indicò Ginsgar. «Lui ha fatto quello che avremmo dovuto fare tutti. Elfi o Atàr, che differenza sarà mai? Quando comparirà il prossimo Eoîl, anche questi trentasette Orecchi appuntiti impazziranno e cercheranno di rifondare il loro regno della purezza. Stiamo meglio senza gli elfi.» Spinse indietro la sua sedia e s'inginocchiò davanti a Ginsgar, porgendogli l'arma; poi chinò la testa. «Io ti riconosco mio imperatore, Ginsgar Senzafuria.» Malbalor si alzò a sua volta, si lasciò cadere sulle ginocchia e ripeté la cerimonia. Xamtys saltò su. «Tanta insensatezza è intollerabile!» Guardò Glaïmbar. «Perché tu ti unisca a lui, non lo so.» Poi puntò il suo sguardo verso Malbalor. «Tu invece temi per il tuo potere, perché sei un Terzo. Pensi che lo manterrai e che la tua gente verrà lasciata in pace se ti allei col nano che ha dichiarato i Terzi e i Liberi suoi nemici.» Corrugò la fronte. «Vi ingannate entrambi. Con la vostra decisione avete spaccato le stirpi. Io non accetterò mai Ginsgar come imperatore.» Si alzò e s'inginocchiò davanti a Bylanta. Balendilín si mise al suo fianco. «Noi ti giuriamo fedeltà, imperatrice Bylanta Ditafini del clan dei Barbadargento», dissero insieme. Poi i rappresentanti delle città dei Liberi si alzarono e si misero a fianco della regina dei Quarti. Non pronunciarono nessun giuramento, ma resero inequivocabilmente chiaro chi avrebbero appoggiato. Anche Bramdal era tra loro. Ginsgar si alzò di scatto. «Per Vraccas! Questa è sedizione!» tuonò allungando la mano verso l'impugnatura del suo martello da guerra. Malbalor e Glaïmbar rimasero fermi. «Quanto a voi», gridò ai Liberi, «vi riporterò nella nostra comunità, come Vraccas ha voluto. I vostri regni nella Terra Nascosta saranno presto dissolti.» Bramdal gli rivolse un sorriso di scherno. «Tu e i tuoi amici siete responsabili di quello che è successo», dichiarò Bylanta. «Noi possiamo evitare questo dissidio», aggiunse rivolgendosi a Malbalor e Glaïmbar. «Basta che giuriate fedeltà a me! Impedite che si arrivi a una scissione!» «Mi hanno riconosciuto come loro signore», strepitò Ginsgar. «E io non mi darò pace fino a che non sarò imperatore di tutte le stirpi. Voi siete i responsabili! Voi siete i traditori! Voi che non vi siete uniti a me.» Bylanta fece un passo indietro. «È meglio andare», disse alle nane e ai nani che si erano messi sotto il suo stendardo. «Prego Vraccas che ti metta
in testa un po' di senno, Ginsgar.» «Lo ha già fatto, come si vede chiaramente dalle mie imprese.» Ginsgar rise beffardo mentre lasciavano la sala. «Li costringeremo a giurarmi fedeltà», disse ai due re appoggiando loro le mani sulle spalle «Non vi pentirete di avermi riconosciuto.» Fece loro cenno di rialzarsi. «Lo spero molto.» Glaïmbar si rimise in piedi. «Capiranno presto che ciò che hai fatto era l'unica soluzione possibile per l'Âlandur.» Abbassò la voce. «Tuttavia ti sei fermato troppo presto, imperatore.» Ginsgar fece un sorriso cattivo e si accarezzò la barba rosso fuoco. «Quello che ancora non è...» alluse allegro. «Venite, brindiamo insieme al mio riconoscimento.» Malbalor declinò ringraziando. «Sono stanco, imperatore. Sarei di cattiva compagnia e non dell'umore giusto per festeggiare un successo che non è un vero successo.» «Non t'ingannare, Malbalor. In un futuro non lontano si dimostrerà un grande successo.» Ginsgar gli batté amichevolmente la mano sul petto. «E allora brinderemo.» «Sì. Allora brinderemo», replicò il Terzo rigidamente, prendendo la sua coppa mentre Glaïmbar e Ginsgar marciavano fuori dalla stanza. Gli intrighi mal si adattavano a Malbalor. Xamtys aveva perfettamente intuito le sue motivazioni. Fino a quando lui, in quanto re dei Terzi, fosse stato a fianco di Ginsgar, tutti i Terzi sarebbero stati al sicuro. Se presto non vi fossero più stati nani saggi, la contesa intorno al titolo di imperatore sarebbe finita in una vera guerra tra le stirpi. Sarebbe stata la prima volta che i nani lottavano tra loro senza che i Terzi ne fossero responsabili o dessero battaglia, come a suo tempo Lorimbas. Un timore si fece improvvisamente strada dentro il nano. «Vraccas, mandaci un po' di senno. Oppure uccidi Ginsgar. Salva i tuoi figli.» Terra Nascosta, Monti Grigi, regno dei Quinti, 6241° ciclo solare, inverno Balyndis sedeva nella sala del trono, circondata dall'antico sfarzo che i Quinti avevano lasciato in retaggio, e dai nuovi splendori che i nuovi Quinti avevano aggiunto. Interruppe il colloquio coi capiclan e aprì la lettera che le era stata portata. Era di Rodario, e su parecchie pagine vi era descritto ciò che era successo e come Tungdil aveva trovato la sua fine. Anche se nessuno poteva dire
con certezza che era morto, le descrizioni dei mostri della Forra Oscura rendevano impossibile che fosse sopravvissuto. «Morto...» sussurrò Balyndis. Le lacrime le riempirono gli occhi; quella cortina rese illeggibili le righe sulla carta. «Che cos'è accaduto? Qualcosa che riguarda re Glaïmbar?» chiese cauto un nano. «No. No, il re sta bene.» Balyndis si costrinse a sorridere, mentre la sua anima si affliggeva per il nano con cui un tempo aveva stretto il patto di ferro. Lo aveva liberato perché ne aveva avvertito lo scontento, ma ciò non cambiava nulla dei sentimenti che provava per lui. Che fosse tornata a fianco di Glaïmbar era venuto da sé. Non voleva ripresentarsi agli sguardi di biasimo del suo clan, presso i Primi, e non voleva affatto vivere tra i Liberi. Quando aveva ricevuto l'invito di Glaïmbar, non le erano rimaste molte possibilità. E, per il fatto di averla ripresa come sposa senza spendere una parola sul passato, lei amava davvero Glaïmbar. In un modo diverso rispetto a quello in cui aveva amato - e avrebbe sempre amato - Tungdil. «Ti vuoi riposare?» propose un altro nano. «Forse è per via del tuo stato?» «Può essere», disse lei. Accettò grata la scusa e si alzò. «Perdonatemi, ma mi devo riposare un po'. Ci vedremo poco prima del tramonto.» I capiclan chinarono la testa. Balyndis attraversò la sala del trono e raggiunse l'uscita. Camminando, notò che veniva fissata. Geroïn Fasciadipiombo la osservava con ostilità; era il fratello di Syndalis Fasciadipiombo, la seconda moglie del re. Glaïmbar l'aveva ripudiata, e ciò aveva procurato a Balyndis parecchi nemici. La nana evitò lo sguardo e camminò svelta per i corridoi. Superò i propri alloggi e raggiunse la piccola fucina in cui stava molto spesso e in cui, nel poco tempo libero, forgiava le cose più disparate. La forgia, accesa col fuoco di drago, era sempre attiva. Balyndis gettò i fogli nel carbone ardente e li osservò prendere fuoco e finire in cenere. Fiocchi neri volarono leggeri lungo il camino e su, su, oltre le vette dei Monti Grigi. La nana li guardò scomparire; poi gettò alcune palate di carbone nella fucina e azionò il mantice. Subito fiamme bianche danzarono sulle braci, spandendo un enorme calore. Si gustò lo spettacolo prima di consegnare al fuoco l'ultimo foglio. Non voleva conservare le righe che parlavano della morte di Tungdil, né aveva bisogno di un ricordo di lui o delle sue gesta
eroiche. Il più bel ricordo lo portava sotto il cuore, in grembo, anche se tutti i Quinti ritenevano che si trattasse del rampollo di Glaïmbar. Terra Nascosta, regno di Weyurn, 6241° ciclo solare, inverno Benché si fosse appena a metà giornata, si poteva pensare che fosse scesa la notte. Una bufera invernale stava investendo il Weyurn occidentale, portando pioggia gelata e i primi fiocchi di neve. Algin guardò la vela triangolare che si gonfiava pericolosamente al vento: spingeva in avanti la piccola imbarcazione da pesca, sopra le creste delle onde. Andavano così veloce da far temere all'uomo che la chiglia potesse sollevarsi dall'acqua. «Tiriamola giù!» gridò all'amico e timoniere Retar indicando la tela colma di vento fino quasi a scoppiare. «No. Altrimenti il mare c'inghiottirà», ruggì l'altro per sovrastare il rumore. «Se la vela si strappa, siamo perduti.» Algin barcollò a causa del forte rollio e cercò con le dita bagnate e fredde di sciogliere i nodi, in modo da abbassare il pennone. Era più semplice che raggiungere la vela. «Dobbiamo tornare al porto.» «Ancora una boa», urlò Retar aggrappato al timone. «La rete davanti alla vecchia secca dev'essere piena. La tempesta ha sicuramente cacciato dentro i pesci a frotte.» Algin esitò. Il pescato era ancora molto sotto quello che abitualmente portava a casa dopo una rotazione. Elria sembrava aver scacciato la maggior parte dei pesci negli abissi del mare. «Sì, va bene», gridò togliendo le mani dalla cima. Retar sorrise e prese la rotta. A quel punto, il pescatore notò la voragine che si era aperta nei monti di fronte a loro: aveva almeno dieci passi di diametro e sembrava scavata dalla rotonda bocca di un verme. Diede una spinta a Retar e gliela indicò. «Guarda un po'. Adesso sappiamo finalmente perché il mare si sta ritirando. Va dritto nei Monti Rossi.» «Ma che se ne fanno i nani di tutta quell'acqua?» replicò l'amico. Entrambi videro la mostruosa sagoma apparsa all'ingresso della galleria, ostruendola quasi completamente. Un lungo collo con un cranio allungato si sporgeva cauto in avanti, e le narici alla fine del muso sottile si dilatava-
no. La creatura stava fiutando. «Elria!» sbottò Algin. «Cos'è quello?» La creatura guardò verso di loro, fiutò ancora e sollevò la testa. Gli occhi rilucevano di rosso, e vapore caldo fuoriusciva dalle narici. Retar imprecò pesantemente e girò il timone. La boa che dondolava tra le onde, davanti ai piedi della creatura, gli era di colpo diventata indifferente. «È... un drago...» balbettò Algin. «Per Elria, è uguale a come viene descritto nelle storie!» Seguì rapito la creatura darsi slancio e immergersi in acqua con un salto elegante. La sua larga ombra puntava verso di loro, appena sotto il pelo dell'acqua. Si muoveva velocemente, più velocemente di qualunque pesce a loro conosciuto. E, più si avvicinava loro, più diventavano chiare le sue vere dimensioni: dalla testa alla punta della coda misurava cinquanta passi, ed era largo almeno dieci passi. «A sinistra! Per gli dei, a sinistra!» gridò Algin in preda al panico. «Sbrigati! Ci speronerà!» La creatura scivolò sotto la barca e sparì. «Si è immerso!» esultò Algin. «Ci ha risparmiati.» «Non ci crederà nessuno», gemette Retar. «Nella Terra Nascosta sono successe così tante cose che ci crederanno. La regina Wey deve venire subito a sapere di questa galleria e del drago. È incredibile che dopo tanto tempo sia tornata una di quelle creature. Le saghe dicono che sono crudeli e intelligenti. Che sarà venuta a fare qui?» «Non m'interessa. Sacrificherò a Elria dieci dei pesci migliori per avermi salvato la barca e la vita», replicò Retar, pallido. «La sua protezione per me...» Algin notò che il mare sotto di loro risplendeva di una luce chiara, e in un attimo la barca fu circondata da fiamme incandescenti. Si chiusero ad anello intorno al parapetto, alte tre passi e più; l'aria divenne insopportabilmente calda. I due gridarono disperati. All'improvviso, le fiamme sfondarono con forza la chiglia, incendiarono i tavoloni bagnati e avvolsero l'albero, la vela e i due uomini. Carne, pelle e ossa scomparvero senza lasciare resti, non ne rimase neppure cenere. La barca si frantumò. I relitti carbonizzati vennero portati via dalle onde. Non avrebbero trovato nessuna traccia. Né di Algin e Retar né della barca. Né di un drago.
FINE