TABITHA KING LA TRAPPOLA (The Trap, 1985) a G.W. «Con ogni altro nome...» Prologo Un pomeriggio, mentre Travis e Sarah e...
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TABITHA KING LA TRAPPOLA (The Trap, 1985) a G.W. «Con ogni altro nome...» Prologo Un pomeriggio, mentre Travis e Sarah e Pat dormivano nudi sotto la coltre della calura di agosto, Liv prese un secchiello di plastica che un tempo aveva contenuto due libbre di burro di noccioline Shedd e percorse a piedi gli ottocento metri sin dove il sentiero terminava, all'inizio del viale d'accesso di Helen Alden. Passeggiando con i suoi figlioli nel mese di giugno, aveva notato i cespugli di more, così fitti di fiori bianchi da dare l'impressione, in lontananza, che avesse nevicato. Da allora era rimasta in attesa dei frutti preannunciati dai fiori. E, incontrando per la prima volta Miss Alden, le aveva chiesto il permesso di cogliere more; l'altra era parsa compiaciuta dal fatto che lei si fosse data la pena di farsi autorizzare. La maggior parte delle persone non se lo sogna neppure, in quanto le more nelle proprietà altrui vengono considerate quasi da tutti, se non proprio da tutti, a disposizione di chiunque voglia coglierle. Indossata una camicia di cotone dalle maniche lunghe e un paio di jeans per essere protetta contro le spine - poco importava se avesse sofferto il caldo - e postasi sul capo un vecchio cappello di paglia perché le facesse ombra al viso e la difendesse dal sole, Liv percorse il polveroso sentiero di terra battuta ascoltando i ronzii degli insetti, che, a parte lei, sembravano essere le sole creature vive esistenti. Si accorse subito di non essere la prima a cogliere more, lì, poiché v'erano molti piccioli senza il frutto. Chiunque fosse stato - forse Helen Alden, con la sua compagna, Miss Betty Royal? - aveva colto le more alcuni giorni prima, poiché da allora ne erano già maturate molte altre sugli stessi rami. Non che quanto era stato preso, o quanto stava per prendere lei, ammontasse a più di una piccola intaccatura nella quantità di more disponibili; il folto di rovi era enorme, si estendeva fino ai boschi e le more già mature sarebbero bastate a saziare l'intero vicinato. Per quanto la concerneva, le spine avevano diritto alla loro parte di carne e sangue. Quasi senza sentirle quando le graffiavano le mani e il viso e le uncinavano i vestiti mentre
si addentrava nel folto, Liv dimenticò ben presto all'incirca ogni altra cosa - i crucci tormentosi dai quali era stata dominata durante tutta quella prima estate a Nodd's Ridge: che Travis o Sarah potessero destarsi senza essere uditi da lei, che Travis riuscisse a cader fuori del lettino, che Sarah, a sette anni, diventasse troppo fiduciosa ed entrasse in acqua tutta sola, o che uno dei bambini (o magari entrambi) potesse in qualche modo sgattaiolare inosservato fuori di casa e affogare nel lago, forse mentre Pat schiacciava un pisolino e lei era fuori a cogliere more - dimenticò quasi anche questo, dimenticò tutto tranne i grappoli di more con il loro odore succoso. Il sentiero che apriva a se stessa, prendendo con cautela i rami dei rovi tra una spina e l'altra e agganciandoli ad altri rami, oppure a volte calpestandoli, specie se erano secchi o quasi secchi, continuò a chiudersi alle sue spalle, finché venne a trovarsi nel cuore del folto, racchiusa da una parete di rovi. Ma era troppo presa dalla ricerca e non se ne rese conto. Il secchiello divenne pesante. Si augurò di averne portati due e poi sorrise tra sé e sé. Che cosa avrebbe potuto farsene di quattro libbre di more, per non parlare delle due che aveva già colto? Le more avrebbero continuato a maturare per altre due settimane. E lei sarebbe potuta tornare lì. Il cappello di paglia era ardente. La paglia odorava, addirittura, di caldo e di polvere. Liv si tolse il cappello e si fece vento, poi se lo rimise. Stava per addentrarsi una volta di più tra i rovi, quando udì delle voci. Si fermò e rimase in ascolto. Non riuscì a distinguere che cosa le voci stessero dicendo, ma erano maschili e smargiasse. Giungevano sino a lei, attraverso il bosco, dalla parte del lago, ed erano talmente forti da mettere all'erta l'intera cittadina. Sentendosi stupidamente in colpa, quasi fosse stata una ladra colta sul fatto, ma anche altrettanto irritata a causa di quell'intromissione nella sua piacevole solitudine, lei si accinse a sorridere e ad essere amichevole. Di lì a poco le voci si spensero. In preda al sollievo, Liv ricominciò a cogliere more. «Accidenti» imprecò una voce che parve scaturire accanto a lei. «È un gatto fottuto.» Liv si irrigidì. Altri uomini esclamarono in coro maledizione, merda e fottuto gatto. Lei distinse tre voci. Di gente del posto, a giudicare dall'accento. La prima era la più profonda, la più autoritaria: quella di un uomo adulto. Le altre due sembravano essere più giovanili. L'una era nervosa, tenorile, yankee, acuta ed esile, resa vaga dall'aria e dalle sillabe inghiottite. La terza - quella che parlava meno - somigliava molto alla prima, ma era più a-
dolescente, più esile, meno squillante. Le voci non si trovavano in realtà proprio accanto a lei, ma distavano alcuni metri, venivano dall'altro lato del folto, nel bosco. Il primo uomo aveva imprecato con rabbia e un qualche capriccio dell'aria immota aveva fatto sembrare la sua voce più vicina di quanto fosse realmente. La linea d'azione ovvia e ragionevole consisteva nel rendere nota la sua presenza uscendo fuori dai rovi. Ma soltanto in quel momento Liv si rese conto che non sarebbe stato facile come era sembrato; avrebbe dovuto aprirsi un nuovo sentiero. E, colpita dalla violenza di quelle prime parole oscene, rimase immobile, trattenendo il respiro. Si udì un suono fioco, flautato, miagolante. Il gatto contro il quale le voci avevano imprecato. Sembrava ferito. E lei cominciò ad adirarsi. «Ehi» disse il tenore, ridacchiando. «Non è ancora morto.» «Merda, davvero?» dissero gli altri due, simultaneamente. La voce più giovanile era interessata. L'altra, quella dell'individuo che aveva parlato per primo, lasciò capire come egli lo avesse già saputo. «Che cosa facciamo?» domandò il tenore. «Lo ammazziamo» disse l'arrogante prima voce. «Cosa credevi, che lo curassimo per rimetterlo in sesto?» Il tenore tornò a ridacchiare. «Lasciamolo sulla soglia della vecchia lesbica.» Questa era la terza voce. Risero tutti. La crudeltà della burla proposta fece emergere Liv dallo stato di trance. Lei cominciò a darsi da fare per uscire dalla prigione dei rovi, cercando di riuscirvi silenziosamente, e senza lasciar cadere il secchiello. Andò nella direzione delle voci, lontano dalla strada. Era furibonda. Nessuno avrebbe ucciso gatti feriti lasciandone le carogne sulla soglia di Helen Alden o di chiunque altro, se lei poteva impedirlo. Le spine la graffiarono facendola barcollare. «Ahi» disse involontariamente, e si liberò con uno strattone. Davanti a lei regnò un improvviso e guardingo silenzio e ogni movimento cessò. Aveva rivelato agli uomini la propria presenza. Un'ondata di paura indebolì la sua risolutezza soltanto per una frazione di secondo; era decisa a farsi vedere in ogni caso, a fermarli. Le veniva a mancare soltanto il fattore sorpresa. Irruppe fuori dei rovi, che erano più alti di lei, e venne a trovarsi su un argine che dominava un piccolo varco nel bosco, là dove il
granito si avvicinava alla superficie e lo strato di terra era troppo scarso per poter nutrire qualsiasi pianta, tranne il più tenace dei muschi e i funghi. I tre uomini si trovavano subito più in basso, a pochi metri di distanza, e la stavano fissando. Uomini giovani e robusti. Uno dei tre era a testa nuda, un altro portava un berretto dei Red Sox di Boston girato all'indietro. Il terzo aveva una striscia di cuoio intorno alla fronte, simile a un filatterio, annodata sopra l'orecchio destro, e dal nodo pendeva un fascio di piume e di perline. Ai loro piedi si trovava una trappola, che avevano dissotterrato dal terriccio, e nella trappola c'era un grosso e vecchio gatto grigio gravemente ferito. Il gatto era in realtà quasi morto, con gli occhi resi vitrei dallo shock e dal dolore. Aveva la pelliccia impregnata di sangue. Tra i denti della trappola si trovavano ossa, carne dilaniata e pelliccia lacerata. «Oh, Dio mio» disse lei, e si lasciò scivolare giù dall'argine rannicchiata, tendendo istintivamente la mano libera verso il gatto maciullato. Scorse il lampo del movimento con la coda dell'occhio, ma non riuscì ad evitare l'uomo che le afferrò il polso. Il piede dello sconosciuto venne a trovarsi all'improvviso dietro il suo calcagno, la mano, dura come una manetta, intorno al polso. Con uno strattone egli la tirò indietro. Lei perdette l'equilibrio e finì supina sul terreno disuguale, roccioso, il respiro mozzato. Il secchiello le volò via dalla mano, lasciando piovere more mentre seguiva un arco sopra il gruppo, poi ricadde a terra con un tonfo. Quello che restava della sua paziente fatica si riversò sul terreno muschioso. Boccheggiando per respirare, Liv riuscì a rimettere a fuoco la visuale; sopra di lei si trovava un frastagliato baldacchino d'alberi sovrastato dal cielo di un bianco incandescente e, simile a un tronco d'albero, l'uomo che l'aveva scaraventata a terra la stava fissando. Aveva gli occhi dello stesso colore di uno sputo. Il taglio corto dei capelli biondi sottolineava il profilo quadrato della mascella. Ostentava una quantità di sanissimi e carnivori denti bianchi. Aveva le labbra sottili, e il labbro superiore era lievemente spostato rispetto al centro, come se qualcuno avesse dato un punto proprio lì. Si piazzò a gambe larghe sopra di lei, un piede a ciascun lato delle ginocchia, e incrociò le braccia. «Chi è lei?» Liv ritrovò, insieme col respiro, la furia di prima. «Chi vuole saperlo, piuttosto?» scattò. «E che diavolo state facendo?» L'uomo rise. Si chinò e le tese la mano. Lei lo sbirciò, poi si rimise in piedi per proprio conto.
Gli altri due sconosciuti la stavano fissando. Quello con la striscia di cuoio intorno al capo era una versione più ridotta, più snella dell'uomo con il labbro spostato, e aveva gli stessi capelli biondi, lasciati crescere e lunghi. Si trattava con ogni probabilità del fratello minore. L'altro era più basso di statura, con la faccia tonda e stupida e il corpo massiccio. Dalla pelle molto rosea, aveva piccoli occhi azzurri e un naso camuso, per cui sembrava un maiale in tuta, tanto più che non indossava una camicia sotto le bretelle. Ciocche di capelli color ruggine spuntavano sotto il berretto da baseball voltato all'indietro, formavano ciuffi dietro le orecchie e gli rivestivano la nuca; aveva peli sulle braccia nude e sul petto, là ove la tuta lo lasciava scoperto. Altri peli formavano grovigli sotto le ascelle, visibili anche quando non alzava le braccia. «Stia a sentire, signora» disse l'uomo con il labbro storto, «questo dannato gatto è finito nella nostra trappola. Dobbiamo liberarlo dalle sofferenze.» Liv tornò a guardare il gatto. Le costole insanguinate sobbalzavano nello sforzo involontario di respirare. Si rese conto che non v'erano speranze. «Okay» rispose, sebbene non vi fosse proprio niente da aggiungere. «Come farete?» Gli uomini si scambiarono sguardi divertiti. «Si dà il caso che non abbiamo un fucile» fece quello con la striscia di cuoio. «Lei ce l'ha?» Parve ritenere che quanto aveva detto fosse molto spiritoso. Liv lo fissò con disgusto. «La colpa è vostra, tanto per cominciare. L'avete messa voi la trappola.» «Vada a farsi fottere, signora» egli le rispose. Quello con il labbro storto intervenne. «Abbiamo il permesso di disporre trappole, qui. Non è colpa nostra se voi villeggianti estivi non tenete i gatti in casa.» Liv lo fulminò con lo sguardo. «Non posso credere che Helen Alden vi abbia dato il permesso di disporre trappole sulle sue terre. Vi ho sentito dire che avreste lasciato il gatto sulla soglia di casa sua. Questo non fa pensare che siate in rapporti di amicizia con lei.» Il tipo roseo, in tuta, ridacchiò. Il biondo con la striscia di cuoio intorno alla testa lo fissò irosamente. «Chiudi il becco, Gordy» disse. «Chi diavolo fottuto è lei?» la sfidò l'uomo dal labbro storto. «Non la riguarda» rispose Liv. «Ma ho il permesso di venire qui a co-
gliere more.» Guardò il secchiello, lì a terra, e le more sparse tutto attorno. «Già, sicuro.» Le accadde di pensare che era una donna e che si trovava sola con quegli individui mai visti. Si sentì pervadere dall'improvvisa apprensione che prova ogni donna sola tra uomini estranei. Fino a quel momento era stata trascinata dall'adrenalina di un'ira giustificata. Si sentì impallidire e imprecò contro se stessa. Gli occhi dell'uomo dal labbro storto balenarono. Placido, egli si scostò da lei e, sempre fissandola, schiacciò con un piede, senza guardare, la testa del gatto. «No!» gemette Liv, e sentì il conato salirle nella gola. Si voltò e le braccia dell'uomo la serrarono alla vita. Lei vomitò sui rovi. Mentre sputava il cattivo sapore della propria bile, cercò di liberarsi a strattoni dalla presa. Lo sconosciuto la intensificò. La pressione sul diaframma la fece star male di nuovo. Chiuse gli occhi, lottando contro la nausea. Poi fece scattare i gomiti all'indietro, li conficcò nel ventre dello sconosciuto, e lui la lasciò andare, ingiuriandola. «Non mi insulti» sibilò Liv. «Bastardo!» E i tre uomini risero. Liv rimaneva lì in piedi, i pugni tanto stretti da tagliarsi la pelle dei palmi, ansimante. «So chi è lei» disse l'uomo dal labbro storto. «Miss O-li-via Russell. L'ho veduta all'ufficio postale. Lei non ha notato me, però. Sono soltanto uno del posto. Devo lavorare per vivere anche durante l'estate, io.» «È questo che chiama lavorare?» ringhiò Liv, indicando con un gesto il gatto morto. L'uomo fissò il gatto con simulato stupore. «Quello? Ma è stata una liberazione, non le pare, O-li-via? È quello che voleva, no?» «Prendetevi la vostra dannata trappola e andate a farvi fottere lontano da qui!» urlò lei. I tre uomini si sbirciarono. «Non si metta a sbraitare, O-li-via» disse, blando, l'uomo dal labbro storto. «Prendi la trappola, Gordy» disse quello con la striscia di cuoio. «Devo proprio prenderla io?» piagnucolò Gordy, ma lo stava già facendo e liberava i macabri resti del gatto dai denti metallici. «Bada a non lasciarci in mezzo il manico» disse l'uomo dal labbro storto.
Gordy ridacchiò. «È stato un piacere conoscerla, O-li-via» disse l'uomo dal labbro sbilenco. «Stia bene.» Si incamminò nel bosco, seguito da Gordy che faceva dondolare la trappola insanguinata. Quello con la striscia di cuoio, anziché seguirli indugiò. La sbirciò di sotto le ciglia, lunghe come quelle di una donna e quasi bianche. Voltò la testa per vedere se gli altri due non fossero ancora scomparsi, poi fece scorrere la lampo dei jeans, infilò la mano nel varco e tirò fuori il pene. Sottili peli pubici biondi si sparsero sui denti metallici della lampo. «Oh, cribbio» disse Liv. Lui sogghignò e agitò il pene verso di lei. «Spero che ci incontreremo ancora, Miss Russell» disse. Rimise il membro entro i calzoni, chiuse la lampo e si inoltrò nel bosco, seguendo gli altri. Liv rabbrividì. Guardò il gatto e di nuovo si sentì prendere dalla nausea. Vomitò una seconda volta. Quando ebbe smesso di tremare, cercò un ramo secco e spinse i resti del gatto sotto un cespuglio. Lo strato di terra doveva essere troppo sottile, lì, per poter scavare una fossa, supponendo che, a parte le nude mani, avesse avuto un qualche strumento per scavarla. Con il secchiello di plastica non vi sarebbe mai riuscita. Avrebbe dovuto arrivare fino a casa e tornare indietro con un sacchetto di plastica per l'immondizia e una vanga e andare poi a seppellire la carcassa nel meleto dietro la casa di Helen Alden. Avrebbe raccontato a Miss Alden quello che era accaduto. Miss Alden doveva saperlo. Prese il secchiello di plastica e ne fece cadere anche le ultime, poche more. Aveva i jeans macchiati dalle more sulle quali si era inginocchiata, e altre more si trovavano schiacciate entro le cuciture delle scarpe di tela. Si era imbrattata di more anche le mani, appoggiandosi per rimettersi in piedi. E, giudicando dalla sensazione di chiazze bagnate sulla camicia contro la schiena, si rese conto che nel piombare a terra doveva essere finita su altre more. Erano nere, ma, se schiacciate, lasciavano colare un succo rosso. I graffi stavano cominciando a bruciarle sulla pelle. Si incamminò, girando intorno al folto, e si sentì sconfitta. Miss Alden non era in casa quando Liv, dopo aver seppellito il gatto, andò a suonare alla porta. Decise di non dire niente a Pat dell'episodio. Non voleva che lui se ne avvalesse come di un pretesto per disapprovare Nodd's Ridge, per trovare il posto poco sicuro. In teoria sarebbe dovuto essere un rifugio. Liv ne a-
veva bisogno, aveva bisogno di star lontana per qualche tempo dalla piccola industria di terraglie divenuta così prospera da quando sua sorella Jane, unitasi a lei, aveva assunto la direzione delle vendite. Pat si era rassegnato all'idea della casa estiva perché sua moglie ci teneva tanto e lei l'aveva pagata, in fin dei conti, con il suo denaro, faticosamente guadagnato. Ma Pat era figlio di contadini, cresciuto nella più squallida miseria rurale. Osservava con occhi cinici lo splendido scenario della campagna, fulmineo nello scorgere le automobili arrugginite, le roulottes scassate, i cani bastardi percossi e malconci. Nascondergli qualcosa la faceva sentire a disagio, ma non voleva vedere il guizzo della bocca di lui, non voleva leggergli negli occhi le stanche e inespresse parole Te-lo-avevo-detto-bellezza. Non voleva vederlo diventare torvo e maschio, vederlo correre fuori di casa per farsi riempire di botte in nome dell'onore di lei e del proprio. Erano appena arrivati a Nodd's Ridge, e non voleva saperne di guai sin dall'inizio. Una settimana o dieci giorni dopo, una famelica gattina grigia apparve sulla soglia dei Russell, che le diedero un po' di latte. Naturalmente la bestiola non volle più andarsene e loro cedettero e l'adottarono. Il veterinario scosse la testa, visitandola, e mormorò parole poco complimentose a proposito dei villeggianti estivi che tenevano una gatta durante i mesi caldi e poi, una volta giunta la Festa del Lavoro, la mettevano alla porta insieme coi gattini. Anche se, ammise, di solito cominciava a vedere gli scheletriti sopravvissuti non prima della fine di settembre. Liv non gli disse che riteneva di sapere cosa fosse capitato alla madre di quella gattina. Ormai, nell'emporio del villaggio, aveva incontrato di nuovo i tre uomini, alla presenza di un individuo più anziano che, anche se con una calvizie incipiente e troppo grasso, somigliava eccessivamente ai due biondi per non esserne il padre. Erano stati compiti in modo stravagante con lei ed avevano riso come per una barzelletta sporca mentre stava uscendo. Quando era tornata nell'emporio, Liv aveva domandato al proprietario del negozio chi fossero. Dall'uomo le era stato detto che i fratelli si chiamavano Rand e Ricky Nighswander, mentre l'altro giovane, quello con la tuta, era il loro fratellastro, Gordy Teed. L'uomo più anziano, il padre, con i capelli militarescamente tagliati a spazzola e l'espressione arcigna, era Arden Nighswander. George Fogg si era appoggiato confidenzialmente al banco, sopra il latte e le uova e il succo d'arancia acquistati da lei. «Non che mi piaccia dirlo, signora Russell» le aveva riferito a voce bassa, guardandosi attorno nervosamente, «ma un assegno di quel tipo non lo accetterei. E neppure lascerei
niente di facilmente asportabile in giro.» Parte prima Liberami, o Signore, dall'uomo malvagio, preservami dall'uomo violento; da quelli che in cuor loro tramano mali e ogni giorno sollevano guerre. Salmo 140: 1-2 Colmo è ogni luogo tenebroso del mondo di crudeltà e violenza. Salmo 74: 20 Capitolo I Scontro sanguinoso Montaggio preliminare numero 1 Qui, in un tratto di giungla dilaniato e sconvolto da macchine enormi, è stata combattuta una battaglia terribile. Ora la giungla sta vincendo: un bulldozer in rovina, grosso abbastanza, si direbbe, per aprire da solo piste capaci di accogliere un jumbo, arrugginisce coricato sul fianco, simile a un'enorme e laida scultura; un elicottero per trasporto truppe, saccheggiato e spogliato di tutto, è andato a schiantarsi tra i lisci tronchi degli alberi ad appena pochi metri di distanza. Rampicanti si stanno allungando su entrambe le carcasse. Presto non saranno più visibili, nemmeno da vicino, eppure su entrambe figura un emblema militare ancora riconoscibile. Trattasi di una bocca aperta piena di denti canini profilati in rosso, un rosso ormai sbiadito fino al colore del sangue secco. Una lingua oscena ciondola sopra i denti inferiori. Lettere maiuscole - XIII CAV US - identificano il simbolo. Sullo sfondo della giungla, di un verde non soggetto alla corrosione come lo sono invece i macchinari arrugginiti, un uomo che indossa l'uniforme mimetica con lo stesso emblema del bulldozer e dell'elicottero fracassati se ne sta ritto come un totem nella radura. Butterata e rugosa, la faccia di lui è quella di un guerriero mongolo. Sotto il berretto a visiera, i capelli neri fitti e lisci frustano crudelmente occhi socchiusi e obliqui che non mostrano né il bianco né altro, ma soltanto il loro nero fuoco. L'uomo fissa il cadavere di una donna legato alle pale del rotore dello Huey, una girandola dagli orli taglienti come il filo del rasoio. Le macchie sulle pale possono
essere di ruggine... o di sangue. Il corpo della donna è di un bluastro chiaro. Il suo viso sembra una maschera Noh, con le labbra, tumide e dischiuse, nere contro la pelle esangue. È un'orientale, con spenti occhi a mandorla. Granellini di polvere si sono posati sulle iridi di un nero argenteo, simili a minuscoli fiocchi di neve. I neri capelli della donna sono appiccicati sul cranio ben formato. L'ossatura delicata del viso va scomparendo man mano che i tessuti si gonfiano e tendono la maschera della pelle. Una mosca si posa sulla guancia destra e vi cammina su. A lungo. Qualcuno ha tracciato un simbolo sul ventre nudo, con il sangue di lei. È lo stesso emblema che l'uomo ha sulla spallina dell'uniforme, le mascelle di una bestia vorace. Poi la donna scompare. La giungla si tramuta in una strada di città nella notte piovosa. I lampioni si rispecchiano sulla superficie bagnata dell'asfalto come i riflessi vitrei di occhi spenti. Le zanne rosse dell'emblema del XIII CAV, appena vedute sul ventre della donna, ammiccano con il fulgore spettrale del neon sopra un misero bar al lato opposto della strada. L'uomo che ha l'aspetto di un barbaro regge sulle braccia un fucile. Osserva il bar, le persone che entrano ed escono. Per la maggior parte uomini, soltanto poche donne. Le donne sono volgari, sembrano prostitute e sono brille. Gli uomini, insieme con gli abiti borghesi, indossano qualcosa che fa parte di una uniforme militare, come se non riuscissero a rinunciare al loro passato nell'esercito. Sono giovani, hanno un'aria grintosa, e sono sbronzi o drogati o entrambe le cose. Una Trans-Am mimetizzata, truccata, con la marmitta rivestita di lana di vetro, sterza stridendo all'angolo e frena violentemente davanti al bar. La griglia del radiatore e il paraurti sono stati tramutati nelle fauci irte di canini. Uno spilungone biondo, con le fattezze minute ma ossute degli Appalachi, si districa dall'automobile. È sbronzo, barcolla, si ferma per pisciare sulla ruota anteriore. Giovincelli su una macchina di passaggio lo scherniscono; lui risponde con una goffa pernacchia. Poi, per un momento, la strada diviene quasi silenziosa e persino l'ebbra ilarità nel bar sembra soffocata. I due uomini hanno la strada tutta per loro. «Jackson» dice con chiarezza, in tono reciso, l'uomo con il fucile. Lo spilungone alza gli occhi, troppo sbronzo anche per trasalire. «Eh?» Strabuzza gli occhi, scrutando la notte, ma riesce a scorgere soltanto ombre nel bagliore del lampione e dell'insegna al neon. Nessuno risponde. Jackson si riscuote e fa scorrere la lampo dei pantaloni. «Jackson» ripete l'uomo con il fucile.
A questo punto Jackson lo vede e il terrore gli appare sulla faccia. Lui cerca di nasconderlo. «Ehi, camerata» risponde, e il suo accento è adesso palesemente del confine a sud. «È da un bel po' che non ci vediamo.» «Questo è per May» soggiunge l'uomo con il fucile e punta l'arma. «Io non ci ho avuto niente a che fare» grida Jackson. Poi comincia ad indietreggiare, alzando le mani, i palmi in avanti, come per difendersi. L'uomo con il fucile tace. Jackson ride, una risata acuta, nervosa. «Ti sbagli in pieno sul mio conto, camerata. Io ho cercato anzi di impedirlo.» L'uomo con il fucile sospira. «Non sei mai stato capace di bluffare» replica, e preme il grilletto. Lo spilungone urla e viene scaraventato dall'impatto del proiettile contro il fianco e sul cofano della Trans-Am. Il pulsante «Play» scattò in alto. Pat Russell si sporse e premette il pulsante «Riavvolgimento». Si alzò e fece scorrere le tende che rivestivano la parete con la finestra, lasciando dilagare la luce pastosa e calda del tardo pomeriggio riflessa dal lago. Aveva la nuca irrigidita a causa della tensione. Liv provò l'impulso di alzarsi e di abbracciarlo. Travis le era disceso a mezzo dal grembo. Pat continuò a fissare l'acqua del lago, ma senza vederla. Pigramente batté la mano sul taschino della giacca, per assicurarsi che vi si trovassero ancora le sigarette. Poi si accinse al nervoso cerimoniale, spingere il pacchetto fuori del taschino, scuoterlo per farne sporgere una sigaretta, mettersi quest'ultima tra le labbra, trovare l'accendino, accendere la sigaretta, aspirare. Tutto questo per rinviare il momento in cui avrebbe dovuto affrontare loro due e poi valutare le loro reazioni. Se Liv avesse posto Travis giù dal proprio grembo e fosse balzata in piedi adesso, si sarebbe interposta tra Pat e la sigaretta. Pertanto si limitò ad aspettare. «Bene» disse lui «che cosa ne pensate?» Il sole al tramonto fece rifulgere alcuni fili argentei tra i capelli di Pat e splendette su quelli soffici e arruffati di Travis. Liv, con pantaloncini corti scuri e un top ormai troppo larghi per lei, sedeva sull'ampio e comodo divano che aveva rivestito lei stessa con un tessuto dai disegni allegri durante la loro prima estate sul lago. Travis le era rimasto seduto in grembo per
tutti gli svariati minuti della proiezione del montaggio preliminare del film di Pat. Ora le si appoggiava alla coscia, giocando con parecchi dei suoi G.I. Joe, i soldatini in miniatura divenuti il giocattolo prediletto di lui nel corso di quell'anno. Sarah, con il viso tondo acceso dall'eccitazione, sedeva a gambe incrociate sul pavimento, accanto ai piedi nudi di sua madre. «È grande» disse. «È fantastico. Non è vero, Ma'?» Liv sorrise. «Sembra buono. Sembra un film vero.» «E tu che cosa ne pensi, Trav?» Pat rivolse la parola al bambino. «Quel tipo è un cattivo?» domandò Trav. «Quello che viene ammazzato? Puoi scommetterci» rispose Pat. «No, il tipo Kung Fu» disse Travis. «Era un cattivo?» «Ah» fece Pat. Fissò la sigaretta con disgusto, poi, bruscamente, la spense schiacciandola. «Come sempre, Travis è arrivato al nocciolo del film.» «Credo che voglia sapere da quale parte stesse l'uomo... era un vietcong o un americano?» disse Liv. «Oh.» Pat alzò le spalle. «Americano, naturalmente. Non hai veduto le mostrine che ha sulle spalle, Trav?» «Sì» disse Travis. «Ma ha l'aspetto di un cong.» Pat si morse il labbro inferiore. «Credi che Travis abbia individuato un difetto grave di questo film?» domandò a Liv. «No» disse lei. «Si limita a distinguere tra Kinsella e quel Kung Fu del film che lo portasti a vedere. Kung Fu era un personaggio buono del film, ma era anche un guerriero cinese, o qualcosa del genere, no? Non credo che tutti i milioni di fans di Kinsella stenteranno a rendersi conto che si tratta di Uno dei Nostri.» Pat continuò a mordicchiarsi il labbro inferiore. «Ha un aspetto spaventosamente orientale, è vero. Ma in realtà è soltanto un irlandese qualsiasi. Come me.» «Be', la ragazza è una vietcong, no?» domandò Travis. «Non precisamente. Sta dalla nostra parte» disse Pat. «Chi l'ha ammazzata, allora?» «Quel Jackson al quale Kinsella spara, e alcuni altri tipi. Alcuni altri americani» rispose Pat. «Perché?» insistette Travis. «Perché sono dei Cattivi, dei personaggi scellerati.» «Ma sono americani, hai detto che erano dalla nostra parte!» Liv si sporse e trasse Travis, che ancora stringeva tra le mani un buon numero di G.I. Joe in miniatura, tra le proprie braccia. La dura plastica del-
le piccole mani, dei piccoli piedi e delle piccole teste le pizzicò i seni. «A volte anche le persone che stanno dalla nostra parte sono cattive» disse. «A volte fanno cose brutte.» Pat iniziò un andirivieni. «È stato uno sbaglio» domandò a Liv «far vedere a Travis quel videonastro?» Lei alzò le spalle. L'interrogativo si era presentato prima alla sua mente, se non a quella di lui. Ma le era sembrato importante che il bambino sapesse qual era il lavoro di suo padre, che cosa aveva fatto Pat durante le lunghe assenze. «Deve pur scoprire, prima o poi, che il mondo non è bianco e nero.» Ma, in realtà, non sapeva se fosse quello il momento giusto. Si trattava di una questione decisamente dubbia. Travis si districò dalle sue braccia. «Non sono un baby.» «Allora perché te ne stai seduto continuamente in grembo a tua madre?» domandò Pat, togliendo la cassetta dal videoregistratore. Liv trasalì e cominciò ad alzarsi. L'accentuata ostilità, l'autentica gelosia nel tono della voce di lui l'aveva sconvolta. «Pat» disse. Pat trasalì quando lei lo toccò. La fissò, consapevole all'improvviso di quanto tesa era diventata la pelle sugli alti zigomi di Liv. La pelle sembrava fragile, come se potesse lacerarsi qualora avesse osato toccarla. Travis scelse la propria difesa... il diretto diniego della verità. «Non è vero» disse. «Non è vero.» «Sì invece» cantilenò Pat. «Sì invece. L'Uomo Fatto.» «Gesù» mormorò Liv. Stancamente scosse la testa e si passò una mano sui capelli. «Non è vero!» strillò Travis. Pat rimase del tutto immobile, lo stupore dipinto sulla faccia, mentre si rendeva conto di quel che aveva provocato, poi lo stupore venne sostituito dal rimorso. «Non urlare con me» disse a voce bassa. «Non urlare con me, signorino.» «Ti odio» urlò Travis. «Odio il tuo stupido film! Vattene! Lasciami in pace!» Le labbra di Travis erano bluastre, la pelle livida. I pugni del bambino erano stretti come mazze, e parti dei G.I. in miniatura gli sporgevano tra le dita. «Basta così» disse Liv e prese Travis in braccio. «Non più, non più» gli disse sommessamente e lo portò fuori della stanza.
Pat si lasciò cadere su una poltrona e guardò, indifeso, Sarah. «Che cosa ho fatto?» domandò. «Che cosa ho detto?» Sarah, pallida in viso, scosse la testa. «Mi vuoi ancora bene, non è vero?» domandò lui, e le tese le braccia. Sarah subito si avvicinò e lo strinse forte, poi balzò fuori dell'abbraccio, arrossendo. Lui si sentì immediatamente peggio, rendendosi conto che il tabù dell'incesto era infine calato tra loro. Sarebbero potuti trascorrere anni prima che riuscissero ad abbracciarsi serenamente di nuovo. Oltre a tutto il resto, sembrava che avesse perduto anche sua figlia, quell'estate. «Certo, Papi» disse lei. «Il film sarà superlativo. Non stare a crucciarti per questo.» Poi se ne andò, senza dubbio nel sicuro rifugio della sua camera da letto, con i poster di Springsteen come carta da parati. «Differenza di fuso orario» disse Pat, a voce alta. Ma aveva i nervi troppo tesi per poter dormire. Decise di fare una passeggiata. Il silenzio era disceso all'improvviso sul lago, tutti i patiti dello sci acquatico e dei motoscafi essendo tornati a casa per ingoiare Martini ed ingurgitare bistecche cotte alla griglia all'aperto. L'odore della carne bruciata che aleggiava nell'aria lo rese affamato e al contempo gli diede un po' di voltastomaco. Si diresse verso i boschi, pensando che, se doveva vomitare, tanto valeva farlo con discrezione. Venne a trovarsi sul sentiero tortuoso al quale pensava come al Viottolo della Minor Resistenza - un qualcosa tratto da Pilgrim's Progress - niente di pianificato, soltanto un itinerario comodo seguito dalla gente tra la natura selvaggia. I boschi non gli andavano troppo a genio. Erano privi di pareti, privi di pavimenti e pieni di creature imprevedibili e non addomesticate. L'oscurità aveva già cominciato a prevalere nei boschi. Gli alberi dai grossi tronchi che torreggiavano su di lui lo fecero sentire - una volta di più - un bimbetto in un mondo di giganti. Il fitto fogliame dei sempreverdi non soltanto apriva i suoi ventagli tra lui e la luminosità del sole al tramonto, ma addirittura sembrava assorbirla, dalla punta di un verde tenero di ogni foglia alla scura nervatura centrale. Le radici che affioravano dal terreno sembravano dure e affilate come spigoli di sassi attraverso le suole sottili delle scarpe. E, improvvisamente come accadeva sempre, lo studio di Liv emerse dall'ombra. Era la ragione più importante in seguito alla quale avevano scelto quella
particolare casa estiva. Negli ultimi anni sessanta, quando i figli dei fiori erano sbocciati anche in oscuri angolini del mondo come Nodd's Ridge, il figlio adolescente del precedente proprietario aveva costruito quello studio per dipingere e per trovarvi un rifugio dai genitori, indulgenti ma irrimediabilmente ottusi. Così era stato detto a Pat dal custode di un tempo, Walter McKenzie. Il ragazzo doveva aver posseduto un bizzarro talento poiché, con legname di scarto e vecchie finestre, ricuperate nella discarica della cittadina, era riuscito a costruire una casetta da fiaba di una sola stanza, con la singolare caratteristica del tetto di vetro. I colori delle originarie vernici da pochi soldi erano sbiaditi, per cui sembrava che la casetta si trovasse lì da moltissimo tempo, da più tempo della casa all'altra estremità del sentiero. Per completare il quadro mancava soltanto una vecchia strega. La porta non era chiusa a chiave, come sempre. Pat entrò, pensando al ragazzo che aveva costruito la casetta. Il figlio dei fiori. Ma ormai doveva avere all'incirca la loro stessa età, doveva essere nei primi anni della trentina, e forse era alle prese con i propri rampolli adolescenti, se ne aveva. Come uno scenario teatrale, la casetta da fiaba esisteva soltanto esteriormente. L'interno era incompiuto, non isolato, non rivestito, per cui le nude ossa della struttura rimanevano esposte come nell'interno di una stalla. Le assi ingrigite dal tempo che formavano le pareti erano decorate con fotografie di famiglia entro custodie di plastica, con stampe che Liv aveva ritagliato da riviste o scovato nelle botteghe dei robivecchi, e con strani oggetti che le piacevano per la forma o la trama o il colore - piume, foglie, pigne e aghi di pino, nidi di uccelli. E, tra questi oggetti, fini setacci metallici, pennelli, treppiedi, altri attrezzi, a portata di mano. Frammenti di roccia e ciottoli e pezzi di vetro levigato si allineavano sui davanzali delle finestre. Il pavimento di legno grezzo non verniciato, ormai molto logoro, era coperto di polvere e macchiato dai fantasmi di vecchi dipinti, nonché dalle argille e dalle vernici di Liv. Tutti gli scarsi mobili - scaffali per i materiali di scorta; un vecchio tavolo da cucina più volte verniciato e scrostato; un alto sgabello a tre gambe; le credenze - erano di legno e, come il malconcio acquaio di ardesia, con lo scolapiatti anch'esso di ardesia, del quale Liv si serviva come banco di lavoro per preparare l'argilla, erano stati trovati nelle botteghe dei robivecchi, come quella di Linscott in Greenspark, o nella discarica della cittadina. Eccetto il forno a legna che Liv aveva costruito con le sue mani. Si sentiva rinnovata, diceva, tornando ogni anno alle tecniche fondamentali. Il posto aveva decisamente un aspetto frusto, ma era saturo di odori chimici e terreni che lui associava a Liv nei
suoi momenti più felici. Si aggirò nella stanza, curiosando entro scatole aperte, aprendo le credenze ove Liv riponeva con cura barattoli di vetro etichettati contenenti vernici trasparenti già pronte, trascinando altre scatole fuori dagli angoli ove erano state spinte. Dalla mensola riservata a Travis, Pat tolse il contenitore Tupperware e fiutò i grumi umidicci di argille multicolori con le quali, probabilmente, Travis aveva giocato per tutta l'estate. Una scatola piatta, di plastica, conteneva figurine di argilla foggiate da lui - piccoli e ben fatti soldati in atteggiamenti di battaglia. Avevano tutti una faccia diversa - con gli occhi, il naso, le orecchie, la bocca e la barba - ricavata da minuscole pallottole di argilla incise da Travis con i propri piccoli attrezzi di plastica. Niente male per un bimbetto. Quelle piccole dita grassocce erano sorprendentemente abili. La madre di Pat, durante la fanciullezza di lui, aveva nascosto i pochi regali di Natale che poteva permettersi - in genere maglioni e calzini e guanti che lavorava a maglia lei stessa e che gli erano indispensabili, ma anche, sempre, alcuni giocattoli, giocattoli di seconda mano, scelti alle vendite per beneficenza o dai robivecchi - in fondo al proprio armadio. Verniciava e riparava quei giocattoli a notte alta - come gli elfi aiutanti del ciabattino - un prodigo investimento di tempo e di energie che Ellen Russell, costretta a mantenere se stessa e Pat facendo l'infermiera - difficilmente poteva permettersi, come difficilmente si poteva permettere di acquistare giocattoli nuovi. Lui era sui sette anni quando aveva scoperto il nascondiglio, e un pomeriggio, mentre si trovava solo in casa, le lezioni a scuola essendo terminate prima del solito a causa della neve, torcendosi e allungandosi fino al fondo dell'armadio aveva sbirciato entro ognuno dei pacchi, accuratamente confezionati, che contenevano i regali. Non era mai riuscito a sapere se sua madre si fosse accorta che i pacchi erano stati aperti, perché lei non aveva mai detto nulla. Era una donna assennata; forse sapeva che, dopo l'eccitazione sfrenata dalla quale era stato indotto a curiosare, aveva provato una delusione che non sarebbe riuscito a dimenticare mai più. Non v'erano sorprese, per quel Natale, e questo costituiva una punizione più che sufficiente. La delusione e il senso di colpa che provava adesso non differivano da quello che aveva provato allora, allontanandosi furtivo dall'armadio di sua madre con le guance ardenti, una sensazione di nausea nello stomaco e la gola stretta, o la mattina di Natale, mentre apriva i pacchi dei doni già aperti di nascosto. Come un peccato di omissione, a contare era quello che non esisteva. Nemmeno un barile di terraglie non
riuscite, poiché Liv era linda e ordinata come una gatta. Quello che non andava veniva fatto a pezzi e seppellito, oppure riutilizzato. Pat guardò persino entro l'essiccatore, una scatola di latta per il pane, con resistenze elettriche, che Liv adoperava per fare asciugare i suoi lavori. Era vuota, naturalmente. A quell'ora tarda lei non poteva aver lasciato in giro niente di incompiuto. E poi, pigramente, riflessivamente, egli guardò in un'ultima credenza. Il sollievo e la gioia gli fecero addirittura martellare il cuore per un momento. Pigiati nell'ombra, come se lo stessero aspettando, v'erano tre o quattro lavori. Un piccolo vaso rotondo color ambra, con una decorazione a spirali che rientrava palesemente nell'attuale stile di lei. Una brocca slanciata, dalla vetrificazione color ferro liscia come la pelle di una donna. La tolse dalla credenza e tastò le curve linee femminili e sorrise. Dietro ad essa, quasi invisibile nell'ombra, si trovava un vaso alto, due volte più grande, foggiato a forma di scudo. La vetrificazione era stata fatta scorrere irregolarmente sulla superficie così da ripetere, in modo ondulato, la forma del vaso. In certi punti la vetrificazione era tanto sottile da sembrare quasi opaca, mentre in altri aveva lo stesso lustro della brocca, con la sua serica rifinitura color ferro. Il colore disuguale, nero lucente e nero spento, parve fuligginoso, con riflessi rossi e viola mentre lui girava il vaso. Si trattava di qualcosa di completamente nuovo. E infine, ultimo oggetto spinto proprio in fondo all'essiccatore, una forma a pallone grande quanto una testa umana, con una bocca beante alla sommità. L'esterno era color biscuit non vetrificato, mentre l'interno risultava abbondantemente vetrificato in modo disuguale con un color rosso-viola. Pat si affrettò a rimettere il vaso al suo posto. Aveva un qualcosa di organico che lo turbava. Senza dubbio era un buon segno il fatto che lei avesse creato quegli oggetti difficili e che, almeno ai suoi occhi - non certo esperti come quelli di Liv, o anche come quelli della sorella di lei, Jane, ma umilmente educati dalla vicinanza, se non da altro - li avesse creati molto bene. Soltanto il piccolo vaso rotondo e la brocca avevano un che di remotamente commerciale, ma del resto questo non importava tanto quanto il fatto che Liv stava lavorando di nuovo e, a quanto pareva, in modo assai creativo. Sedette sullo sgabello di lei e maneggiò gli strumenti puliti, quasi chirurgici, che Liv aveva lasciato sul vassoio. Pigramente fece girare la ruota per plasmare l'argilla. Quello studio aveva sempre dato una così straordinaria impressione di vuoto... forse perché nessuno vi aveva mai realmente abitato. E quando Liv non si trovava lì, il vuoto veniva posto in risalto da tutte le prove della sua precedente presenza. Ma Pat si sentiva consolato
ogni qual volta si metteva a sedere ove sedeva lei e quando toccava quel che lei aveva toccato, soprattutto questo, perché il senso del tatto di Liv era così straordinario. Supponeva che sua moglie fosse ipersensibile e anche se non di rado questo rendeva difficile la loro vita a due, faceva altresì di lei una creatrice di prim'ordine. La stanza era diventata molto buia, quasi più buia del mondo esterno. Se non se ne fosse andato subito, avrebbe dovuto accendere la luce. Pertanto richiuse tutto quello che aveva aperto e uscì. Sedette sulla veranda del minuscolo cottage per fumare una sigaretta. Era vero, decise. Liv possedeva sensibilità a sufficienza per entrambi. E lui non riusciva a capire come sua moglie riuscisse a sopportare il costante assalto della vita contro la sua acutissima sensibilità. Non fumava, non si drogava e beveva alcolici talmente di rado che era come se non bevesse affatto. Forse, con un organismo intatto come quello di lei, le aspirine che aveva preso per tutta l'estate erano come una vera e propria droga. Forse le facevano davvero questo effetto. Pat lo sperava. La penultima volta che era tornato a casa lo aveva constatato. Era entrato e, nonostante le sue buone intenzioni, senza dubbio perché il viaggio lo aveva spossato e sentiva gli effetti della differenza di fuso orario ed era nervoso, aveva cominciato a elencare tutti i fastidi e tutti i guai causatigli dal film. Liv sedeva al tavolo di cucina e l'orologio stava ticchettando verso la mezzanotte di una giornata che doveva essere stata lunga per lei quanto per lui; si aspettava di dormire ben poco quella notte e stava sorseggiando un qualche infuso d'erbe che emanava lo stesso odore delle erbacce bagnate lungo il margine della strada, e intanto ascoltava con pazienza. O così sembrava. Reclinava il capo da un lato, teneva gli occhi fissi su di lui, annuiva di tanto in tanto, ma non diceva niente. Sembrava tesa, ma era tardi. Lui l'aveva veduta sbirciare l'orologio, a un certo punto, e poi, pochi minuti dopo, sbirciarlo di nuovo. La sto annoiando, si era detto, la sto annoiando a morte. Ma poi lei lo aveva sorpreso. Si era alzata bruscamente per avvicinarsi subito dopo all'acquaio e riempire un bicchier d'acqua e far scivolare fuori due aspirine dal flacone che teneva sul davanzale della finestra e inghiottire le compresse. Gli era accaduto di pensare, allora, che Liv doveva avere aspettato l'ora giusta, seduta in cucina resistendo alla stanchezza e aspettando. Se le istruzioni sul flacone dicevano che il medicinale doveva essere preso ogni quat-
tro ore, la figlia del farmacista non lo prendeva mai prima che ogni minuto delle quattro ore fosse trascorso. Pat aveva notato, come se fosse stata la prima volta, quanto erano marcati i cerchi scuri sotto gli occhi di Liv, marcati e scuri come i boschi nei quali si trovava la casetta delle fate - lo studio; aveva notato la tensione del profilo della mascella e si era reso conto che tutte le sue parole erano scivolate su di lei come gelida pioggia. Forse Liv ne aveva assorbito alcune attraverso i pori, quante bastavano per farla rabbrividire, a disagio, ma senza udirne in realtà una sola. Si era limitata a sopportare. Aveva aspettato. La sola cosa che potesse fare in quei momenti. Lui aveva taciuto allora, cingendola poi con le braccia, e Liv si era messa a piangere, la sua donna che non piangeva mai. E aveva potuto, allora, strapparle la verità: che il maledetto dente le doleva di continuo per cui non riusciva più a mangiare né a dormire né a fare niente, eppure le era stato canalizzato fino alla radice una mezza dozzina di volte e il nervo era stato ucciso, ma il dente dannato continuava a dolerle, l'intero viso e anche la testa le dolevano, fino ad impedirle di pensare. Forse perché in preda a un rimorso indicibile, Pat aveva alzato la voce con lei, facendola smettere di piangere, ma sentendosi poi, per questo, ancora peggio. Il giorno dopo, era riuscito a persuaderla e a strapparle la promessa di farsi estrarre il dannato dente, poi aveva fatto ritorno nella località degli esterni del film perché non poteva farne a meno, ma anche con una colpevole sensazione di sollievo, in quanto non riusciva a guardarla senza sentirsi un vero idiota. Ma poi, quando avrebbe dovuto lavorare, non era riuscito a pensare ad altro che a Liv; ogni sera telefonava a casa e poi telefonava all'agenzia delle linee aeree per prenotare un posto sul volo di ritorno, ma in ultimo non partiva. E quando era effettivamente tornato, Liv si stava riprendendo visibilmente e lui aveva provato un sollievo tale da decidere di fermarsi un giorno in più. In ultimo era tornato al lavoro quasi persuaso che la cosa non fosse stata seria come era sembrato. La calura del giorno, nella tarda estate, è effimera quanto l'estate stessa. Tutt'a un tratto cominciò a fare più freddo, mentre l'oscurità diveniva più fitta, e Pat si sentì enormemente vuoto. Schiacciò la sigaretta con il tacco e si avviò verso la casa. Ovviamente, erano rimasti lontani troppo a lungo. Avrebbe dovuto cercare di fare ammenda. Liv stava diventando più forte, lavorava di nuovo, si sarebbe ristabilita; ma Pat avrebbe provato un sollievo immenso riavendola a Portland, con la famiglia di lei in grado di farle compagnia e di tenerla
d'occhio. Di lì a non molto, ormai, le riprese del film sarebbero terminate e il film sarebbe stato un successo o avrebbe fatto fiasco per proprio conto, e sarebbero stati di nuovo insieme tutti quanti. Bastava semplicemente un numero di gran lunga maggiore di abbracci e di baci affinché sia Liv, sia Travis sapessero com'erano considerati da lui. Quando intravide le luci della casa tra gli alberi, affrettò il passo tanto quanto osava nell'infido sottobosco, pensando che un dito di gin con ghiaccio lo avrebbe rimesso a posto. Si sarebbero sentiti meglio tutti quanti con un po' di carne al sangue cotta sulla brace, e l'insalata preparata da Liv e patate al forno nello stomaco. Una ricetta che sia la sua defunta madre, l'amatissima Ellen Russell, sia i genitori di Liv, Doe il farmacista e Marguerite il drago sorridente, avrebbero approvato. «'E questa fu la sua fine'» lesse Liv, poi chiuse il libro. Travis trasse, fremendo, un lungo sospiro soddisfatto. Con le coperte ben rimboccate sotto il mento, tornò ad affondare il capo nei guanciali. Liv gli baciò, in rapida successione, le palpebre gonfie dopo le lacrime. Ridacchiando, Travis si raggomitolò per difendersi dall'improvviso assalto di affetto. La porta della camera da letto si aprì. Pat sbirciò oltre l'orlo del battente. «Pronta, bellezza?» Liv alzò gli occhi, sbirciandolo. «Sono subito da te.» La porta venne richiusa. Era troppo sperare che Travis non si fosse accorto di non essere stato nemmeno degnato di uno sguardo da suo padre, e di non averne avuto la buonanotte. Il bambino si voltò bocconi per nascondere la faccia contro il guanciale. Liv si mise ad accarezzargli i capelli. E a poco a poco Travis si rilassò. Lei udì la porta a zanzariera sbattere dietro a Pat, e poi lo scatto del suo accendino sulla veranda. Nell'oscurità al di là della finestra scorse la fiammella illuminare la faccia di Pat prima di spegnersi. L'occasionale puntino rosso della sigaretta indicò poi la posizione di lui mentre andava avanti e indietro, irrequieto, in giardino, aspettandola. Rimboccò di nuovo le coperte, prese i jeans di Travis, la maglietta, i calzini, le mutande e lasciò cadere tutto nel sacchetto della biancheria entro l'armadio a muro. Non era quella la sera più indicata per rimproverarlo perché non disponeva a dovere la sua roba. Spense la lampada sul comodino, lasciando acceso soltanto l'E.T. che
serviva da luce notturna. Poi si chinò su Travis per baciarlo di nuovo. «Buonanotte, baby» bisbigliò. Ma il bambino era già addormentato. La mano sulla maniglia, Liv si stupì percependo l'odore di marijuana che penetrava attraverso la zanzariera della finestra. A un tratto il dente cominciò a dolerle. Corse in bagno. Sulla mensola più alta dell'armadietto dei medicinali si allineavano i flaconcini di sonniferi. Quasi non si era più accorta della loro esistenza. Inghiottì due aspirine extraforti. Afferrandosi al lavabo con entrambe le mani, cercò di rilassare la tensione riflessa dei muscoli facciali che si opponevano al dolore. Non poteva far niente per quanto concerneva il pallore che le ingialliva la pelle fino al colore di un livido sul punto di sparire. Perlomeno era ormai disceso il buio della notte e tutti sarebbero stati brilli. Uscendo, prese la giacca di lana a maglia. Nel soggiorno, Sarah, accovacciata davanti al televisore, stava guardando un film registrato su videonastro e intanto ascoltava con la cuffia Bruce Springsteen, servendosi del suo nuovo registratore Walkman. Pur non potendo udire la musica, Liv sapeva che si trattava di Springsteen. Da quando Pat aveva regalato alla bambina la prima cassetta di Springsteen, il Natale precedente, lei non aveva ascoltato nessun altro cantante. Pat era stato scocciato a tal punto dalla canzone «Born to Run» che aveva composto una parodia oscena da canticchiare su quel motivo. Ora, grazie al registratore Walkman, Sarah poteva ascoltare Springsteen, per conto proprio. Era un regalo che Pat aveva fatto a se stesso, oltre che a Sarah, in occasione del suo ritorno a casa. Liv toccò la spalla di Sarah, per non spaventarla, poi premette il pulsante del minimo, così da farsi udire nonostante la musica. Sarah la fissò battendo le palpebre. «Trav si è addormentato» le disse Liv. «Noi andiamo.» Sarah annuì e di nuovo batté le palpebre. Messaggio ricevuto. Chiudo. Gli occhi le divennero vitrei. Liv fece scattare il pulsante del minimo con la sensazione sconcertante di avere spento se stessa. Era soltanto necessario, naturalmente, che Sarah riuscisse ad udire Travis e il telefono. Liv non poteva essere tanto sicura che sua figlia avrebbe udito Travis se fosse stata chiamata dal bambino; ma era garantito che avrebbe udito squillare il telefono, nonostante la musica del Walkman. In effetti, era poco prudente frapporsi tra lei e un telefono che squillava. Par-
tita per il campeggio all'inizio dell'estate ancora una bambinona, aveva fatto ritorno a casa, due settimane prima, trasformata in un'adolescente in pieno fiore. E, da allora in poi, il telefono aveva squillato costantemente per Sarah e soltanto di rado per qualcun altro. Ragazzi dalle voci che, pronunciando tre parole, spaziavano su due ottave, ragazze che ridacchiavano tanto da non riuscir quasi a parlare. Tutti quanti erano stati, fino a poco tempo prima, simpatici fanciulletti. Adesso erano qualcosa di simile a una qualche specie di extraterrestri di passaggio. Liv prese una lampadina tascabile e corse via. Pat balzò su dalla sdraia sulla quale aveva finito con l'appollaiarsi, gettando lontano il mozzicone della sigaretta. Quest'ultimo volò come una stella cadente in miniatura, spargendo sul prato un arco di cenere luminosa. Liv si morse il labbro. Non era il momento per rimproverarlo perché fumava marijuana nei dintorni di Sarah. «Trav è okay?» domandò Pat. Liv si voltò a guardare la casa estiva. Si trattava di una figlia degli anni cinquanta, la vittima di una serie di patiti del fai-da-te. La veranda posteriore originaria era stata chiusa per ricavarne una nuova cucina, la camera da letto padronale, il bagno e lo studio costituivano un'aggiunta, e una nuova veranda era stata costruita dalla parte del lago. Pur priva di un carattere o di uno stile riconoscibile, la casa era comoda, proprio delle giuste dimensioni, come la casetta dei Tre Orsi. La sola cosa bella che potesse vantare era il caminetto di pietra grezza nel soggiorno. La finestra della camera di Travis risaltava come un fioco e roseo bagliore, incastonato, simile a una pietra preziosa, nel muro rivestito di assicelle e oscuro. Dalla porta di servizio si riversava sulla veranda un lungo rettangolo di luce gialla. Colorata dalla TV, una luce più azzurrognola, attraverso la parete a vetri del soggiorno che dava verso il lago, illuminava la casa rendendola piatta come una facciata. Alberi si profilavano sopra ad essa, simili a grandi e scuri fantasmi. «Certo.» Mentre Liv si annodava intorno alla vita le maniche della giacca di maglia, Pat estrasse una sigaretta, una sigaretta non drogata, da un pacchetto gualcito. Non sembrava particolarmente partito, e nemmeno lievemente influenzato dalla marijuana. «Non avevo l'intenzione di farlo piangere. Volevo soltanto stuzzicarlo.» E poi, con la speranza di essere esonerato da ogni colpa: «Sta attraversan-
do una qualche fase di pianti infantili o qualcosa di simile?» Liv accese la lampadina tascabile, illuminando, con l'improvviso fascio luminoso, la gatta, sotto la giardinetta. L'avevano chiamata La Povera, a causa della tenacia con la quale si era intestardita ad adottarli: La Povera, dalla biblica categoria di persone che, ci si promette, sarà sempre con noi. Gli occhi della bestiola erano ectoplasmi luminosi che rispecchiavano la luce. Liv si affrettò a puntare altrove la lampadina tascabile, con l'impressione di avere, inavvertitamente, sorpreso una creatura nuda. «Sei stato via da casa» prese a dire. «Trav si è abituato a un diverso status quo. Il tuo ritorno significa un riadattamento.» L'accendino di Pat scattò ripetutamente, irosamente. «Sai quanto mi rallegra, questo!» Liv fece una spallucciata. «Nessuno sta cercando di farti sentire in colpa. Le cose stanno in questo modo, semplicemente.» Diresse il fascio luminoso verso il viale d'accesso, illuminando le siepi ai due lati e i boschi tutto intorno, a chiazze, come le scene nascoste dietro porticine nei libri di fiabe che Travis prediligeva. Era stata un'idea sua portare la lampadina tascabile. Pat sarebbe riuscito a trovare la strada orientandosi con le luci delle case e dei villini lungo il cammino. Ma lei non si sentiva così coraggiosa. Non che temesse qualcosa nel buio, temeva un passo falso, una caviglia slogata, una distorsione al ginocchio, o una caduta. «Travis ha bisogno di un po' di tempo per abituarsi al fatto che tu sei di nuovo a casa.» «Ebbene, dovrà abituarsi» rispose Pat; soffiò il fumo in mezzo a loro, un pennacchio iroso. «Hai pianto anche tu» l'accusò. «Sei entrata con lui nella sua camera e hai pianto.» Liv non disse niente. Era di nuovo molto vicina alle lacrime e non poteva consentirsi di lasciarsi andare, non in quel momento. Vi erano già stati troppi piagnistei. «Questo significa che anche tu non mi vuoi a casa» disse Pat. «Vi sto soltanto scombussolando tutti quanti.» «No» gridò lei. Si strinse forte con le braccia. «Ti vogliamo a casa, invece. Per amor di Dio, non prendere ogni cosa su un piano così personale. Si tratta di un semplice riadattamento, ecco tutto.» Odiò il tremito che aveva nella voce e sentì un'ira improvvisa dilagare in lei. Stava cercando di semplificare le cose e lui si ostinava ad insistere. Come poteva aspettarsi di trovare tutto, tornando, esattamente come l'ave-
va lasciato? Il padre la sa più lunga di ogni altro, ecco che cosa voleva. Tutto perfetto in mezz'ora. Non un bimbetto di quattro anni infelice, una adolescente che vedeva soltanto se stessa e una moglie malata. Pat le mise un braccio sulle spalle e l'accostò a sé. «Okay» sussurrò, ma parve stanco della faccenda e come se stesse rassicurando se stesso. Continuarono a percorrere il viale d'accesso. Nel silenzio della notte estiva le loro scarpe di tela smuovevano rumorosamente la ghiaia. La gatta li seguiva silenziosamente. Durante il giorno, La Povera era una barcollante derelitta che né l'ipernutrizione, né le vitamine, né le costose visite del veterinario riuscivano mai a rendere lustra ed elegante. Ma la notte era il suo regno; la gatta diventava uno spettro, un'assassina, la morte sinistra nelle tenebre. Ora quasi non la notarono, non perché facesse così inseparabilmente parte della notte, ma perché si erano abituati a lei. La Povera li seguiva sempre e senza posa, quasi avesse temuto di essere abbandonata nella foresta, come lo era stata, naturalmente, quando l'avevano accolta. Giunsero sulla strada dei cottage che conduceva alla loro casa e a quelle dei vicini, collegandole con Dexter Road, la quale, a sua volta, portava alla Strada 5, la strada maestra che attraversa Nodd's Ridge. «Senti, cara» disse Pat «se la serata risulterà essere un vero spettacolo dell'orrore, torneremo a casa presto. Potremo sempre dire che Trav non era molto contento di vederci uscire la prima sera del mio ritorno.» Una cosa la infastidì: non sembrava rendersi conto che la comoda menzogna era la verità: venire a sapere che sarebbero usciti, anche se dopo l'ora di andare a dormire per lui, aveva turbato Travis. Oppure Pat non attribuiva alcuna importanza alla cosa. Inoltre, Liv non voleva reagire all'allusione ad approcci sessuali implicita nel ritorno a casa presto. Sembrava esservi stata svogliatezza da parte di suo marito. «Andare a letto presto non mi dispiacerebbe affatto» disse lui. La scrutò. «Stai bene? Hai una cera splendida.» Liv annuì distrattamente. L'aspirina aveva spento il mal di denti. «Grazie» mormorò. «Hai davvero un bell'aspetto» insistette Pat. «Stai molto meglio dell'ultima volta che tornai a casa.» Lei digrignò i denti. Erano acque passate. Parlarne non avrebbe cambiato niente. «Grazie a Dio ti sei decisa infine a farti estrarre quel dente fottuto» disse Pat. «Il dentista avrebbe dovuto convincerti a fartelo togliere mesi fa. Lo
ammazzerei, il fottuto individuo.» «La colpa non è stata sua» disse lei, quasi senza volerlo. Pat stava confessando, lo sapeva, le chiedeva perdono; ma riusciva, ciò nonostante, ad assumere il tono offensivo del proprietario. Lei non era stata capace di badare a se stessa come avrebbe dovuto, e, dato che gli apparteneva, che era una sua proprietà, che Pat era responsabile per lei, la colpa risultava anche sua. Il proprietario terriero sempre assente - che se ne infischia e non si occupa della tenuta, ma va su tutte le furie quando qualcun altro fa altrettanto. «Ormai è fatta, in ogni modo. Le conseguenze non sono state fatali.» «Sarebbero potute esserlo» disse Pat. «Mi sento in colpa anche per questo. Se mi fossi trovato qui, o tu fossi stata con me dove giravamo gli esterni, non ti saresti mai ridotta così male.» «Non ci sarebbe mancato altro.» Liv passò in rassegna l'elenco dei motivi, tanto nel proprio interesse quanto nel suo. «Una moglie malata. Non avevi tempo per una situazione simile, e lo sai. E dovevi trovarti là, avevi un contratto. Che cosa avresti fatto di Trav?» E di me. «Avrei avuto cura di te» rispose Pat, come se avesse udito la parte inespressa della domanda. «Avrei trovato il modo di riuscirvi.» Cercò, annaspando, la mano di lei, trovò il polso e lo afferrò con forza, quasi temesse una sua fuga, o una improvvisa scomparsa. «Avresti dovuto dirmelo.» Questo Liv lo sapeva adesso. Ma non glielo aveva detto. Ed era sopravvissuta. Erano sopravvissuti tutti. L'estate poteva considerarsi finita, ormai. «Acqua passata» fece. Pat le lasciò andare il polso e gettò via la sigaretta. Ficcò le mani nelle tasche posteriori dei jeans e si guardò attorno nell'oscurità, a quanto pareva panoramica. «Non riesco a credere di essermi perduto l'estate qui.» Anch'io, pensò lei. Anch'io mi sono perduta l'estate. Disse invece: «È stata proprio come tutte le altre.» Quale menzogna. Ciò nonostante, continuò a disprezzarla. «Verrai a sapere tutto al ricevimento. L'intera estate condensata in puri pettegolezzi.» Pat rise. «Dubito che possa esservi qualcosa di molto puro in quei pettegolezzi. Probabilmente faranno sembrare l'estate più scandalosa di quanto sia stata in realtà. Quando si saranno riempiti tutti di liquori, non ci saranno più prese vietate.» La cinse con un braccio alla vita. «Sembri agitata. Hai bisogno di bere qualcosa. Per cominciare, almeno.» Capitolo II
La luce filtrò tra gli alberi davanti a loro. Divennero udibili i fiochi suoni di un ricevimento, musica e una babele di voci. V'erano automobili parcheggiate a entrambi i lati della strada, Cadillac e Lincoln, Mercedes e BMW ultimo modello, macchine a quattro ruote motrici costosamente attrezzate, come la Ramcharger di Breen, e grosse giardinette, tutte con la targa di altri Stati - Massachusetts, Rhode Island, Connecticut, New York, persino la California. In silenzio, loro due percorsero lo stretto viale d'accesso tra le macchine parcheggiate, fino ai due barili di legno nei quali erano stati piantati nasturzi e al rustico cartello, inchiodato a un malconcio tronco di pino, che contrassegnava il viale d'accesso dei Winslow. Su ciascun barile un riflettore splendeva con una luce dello stesso colore arancione-sporco dei nasturzi. Lampioncini giapponesi di plastica, che per due decenni avevano veduto i festeggiamenti per la Festa del Lavoro, pendevano come frutti troppo maturi tra gli alberi. Tutte le lampade del cottage erano accese e pertanto esso splendeva come un'astronave hollywoodiana al decollo. Un riflettore sopra la porta del garage contribuiva all'illuminazione all'aperto. Il ricevimento si era riversato fuori del cottage e fluttuava intorno a un enorme barbecue sorvegliato da Len Winslow, la cui faccia triste, rossa come quella del demonio sotto un alto bianco cappello da cuoco, sbirciava tra nubi di vapore che sapevano di maiale arrosto e che scaturivano dal barbecue come vortici di gas dalla bocca di un cratere vulcanico. La gente si raggruppava intorno agli improvvisati tavoli per il picnic, poggiati su cavalietti e disposti sulla parte più pianeggiante del prato, oppure intorno al bar, un tavolo da picnic di legno di sequoia, pieno zeppo di bottiglie, caraffe e bicchieri di plastica. Il fumo di innumerevoli sigarette ricamava fittamente l'aria stagnante della notte. Alla vista degli invitati appena giunti, Claire Winslow si alzò come una quaglia dal riparo del ricevimento. Due cagnetti che sembravano i cani dei templi cinesi correvano intorno ai piccoli piedi di lei, conficcati entro ancor più piccoli sandali tempestati di Strass. «Pat! Liv!» Poi lei parve rimanere a corto di cose da dire. Cominciò a torcersi le mani, in preda all'incertezza. La preoccupazione agitò la maschera del suo trucco con faglie e ondulazioni sotterranee. «Non pensavo che ce l'avreste fatta quest'anno, voi due.» I cani guairono e artigliarono le gambe di Liv. «Sorpresa» disse Liv, e rise, sferrando di nascosto calci ai cani.
Claire parve non averla udita, né essersi accorta delle pessime maniere dei suoi beniamini. «Figuriamoci, non vi ho veduti per tutta l'estate.» I cani balzarono lontano, guaiolando. «Sono stato via» ribatté Pat. «A girare un film nella Louisiana.» Claire spalancò gli occhi, la qual cosa minacciò di aprire screpolature agli angoli. «Oh, santo cielo!» «In realtà» disse Liv «io sono rimasta sempre qui, con Travis. E Sarah è tornata a casa dal campeggio da due settimane.» «Ed io che non ti ho mai vista in nessun posto» esclamò Claire. «Non è stranissimo?» Pat osservò, pensieroso, Liv. «Sì, lo è.» «È senz'altro strano» si affrettò a dire Liv. «Io ti ho veduta l'altro ieri nell'ufficio postale. Stavi parlando con Walter McKenzie.» I due cani, all'improvviso, vennero loro di nuovo tra i piedi, a prendersela con le caviglie di entrambe. «Oh, sicuro» esclamò Claire. «Stavo ascoltando una delle sue storie, se ben ricordo. Non ti ho proprio vista.» La bocca le si raggrinzò per la costernazione. «E sei rimasta sola per tutta l'estate! Devi giudicarmi una vicina assolutamente pessima.» Liv represse la voglia di dire a Claire che la piantasse con le smancerie. Era ben contenta che Claire fosse una pessima vicina. L'ultima cosa che volesse fare durante l'estate era ascoltare i drammatici monologhi di Claire sui problemi femminili della sua cagnetta. Disse invece alcune altre bugie. «Ma no, naturalmente» la rassicurò. «Travis ed io abbiamo trascorso un'estate molto tranquilla. Sai com'è, con un bambino di quattro anni.» Claire, che non aveva mai avuto figli e non immaginava nemmeno lontanamente come fossero le cose con un bambino di quattro anni, annuì saggiamente. «Non riesco a credere che ogni anno tu riesca a organizzare questa festa restando, ciò nonostante, calma» continuò Liv. Claire sorrise, soddisfatta dall'adulazione... e da una dose generosa di gin e di Valium. Liv sentì su di sé gli occhi incuriositi di Pat e rapidamente si guardò attorno. Terry Breen, con la sua statura di un metro e novanta e con la lustra calvizie, era facilmente individuabile nel branco. Lei diede di gomito a Pat. «Ecco là Terry. Faremmo certo meglio ad andarlo a salutare.» «Scusami» disse Pat, e l'abbandonò. Liv strinse tra le sue una delle mani grassocce di Claire. «Grazie per a-
verci invitati.» Poi seguì Pat. Claire fece un gesto vago, con i cagnetti che le folleggiavano intorno alle caviglie, poi tornò indietro nella mischia. Liv venne a trovarsi sola tra la ressa. Dopo tre estati trascorse a Nodd's Ridge, quasi tutte le facce le erano familiari. Aveva cominciato ad accomunarle ai nomi sul cartello all'incrocio tra la strada dei cottage e Dexter Road. Ma in realtà non conosceva nessuna di quelle persone. La stagione estiva era troppo breve. E la gente non fraternizzava poi tanto con i vicini. Perché avrebbe dovuto? Venivano lì tutti quanti per starsene in pace. In vasta misura, si trattava di persone di mezza età o anziane e soltanto i Russell, i Breen e gli Spellman rappresentavano la prima infiltrazione del Boom dei Giovanissimi. Le tre coppie più giovani tendevano a frequentarsi, sebbene si vedessero soltanto occasionalmente durante la breve estate. Liv brancolò verso il tavolo monopolizzato dagli Spellman e dai Breen. Essendo arrivati presto, avevano mangiato a sazietà, come stava ad attestare una piccola devastazione di piatti di cartone, tovaglioli e posate di plastica sul tavolo. Le due mogli si erano sedute a capotavola e conversavano assorte. Pat si era unito a Mike Spellman e a Terry Breen. Mike abbracciò Liv avidamente. Un californiano che portava con sé ogni anno, a Nodd's Ridge, la sua intensa abbronzatura, egli era passato attraverso vari tipi di incontri di anime gemelle tra il divorzio dalla prima moglie e il suo attuale matrimonio. L'entusiasmo di lui per gli abbracci e i toccamenti sconcertava invariabilmente Liv, cresciuta tra persone imbarazzate ed afflitte dai sentimenti, persone che di rado si toccavano vicendevolmente, se non nell'ira. Lei aveva finito con il riuscire a toccare i suoi figli e Pat, ma i contatti casuali con conoscenti ed estranei continuavano a farla sentire profondamente a disagio. Terry smise di dimostrare a Pat il suo rovescio al tennis quanto bastava per sorridere e dire salve. Sua moglie, Linda, e la moglie di Mike, Barrie, l'una con la testa accostata a quella dell'altra, alzarono gli occhi contemporaneamente. Agitarono le punte delle dita, le rivolsero sorrisi effimeri e imbarazzati, poi, con una fretta indecorosa, ripresero la conversazione interrotta. Mike le fissò accigliato, offrì a Liv un sorriso crucciato e di scusa, poi tornò a voltarsi verso Pat e Terry. Liv sedette tra gli uomini e le donne, all'estremità non occupata del tavolo. Si domandò quale importante argomento affascinasse tanto le altre due signore... i bambini? Barrie aveva una bambina di due anni, figlia di Mike, e, ogni estate, i suoi figliastri, i ragazzi adolescenti che Mike chiamava i
Twinkie. Terry e Linda avevano una figlia di quindici anni. O forse stavano parlando dei conflitti tra la carriera, la condizione di moglie e la maternità. Lavoravano entrambe con il marito: Linda come istruttrice di nuove hostess per la linea aerea i cui grandi apparecchi a reazione Terry pilotava; Barrie come capoinfermiera del reparto chirurgia della clinica universitaria ove Mike era il primario in pediatria. Avrebbero potuto parlare di qualsiasi cosa - oggetti d'antiquariato, cure preventive per evitare massicci attacchi coronarici nei maschi tipo-A, l'assoluta carestia di modelli di grandi sarti in tutti i negozi nel raggio di cento chilometri da Nodd's Ridge. Una mano di Pat le cadde su una spalla. «Vuoi un drink?» Prima che avesse potuto rispondere, lui le strinse la spalla con dolcezza e scomparve nella direzione del bar. Terry Breen lo accompagnò, parlando con eccitazione e ridendo parecchio. Mike venne a sedersi accanto a lei. «Come va, bellezza?» domandò, e le strizzò la coscia. Erano i suoi modi al capezzale, intima e totale concentrazione sul paziente, ma senza alcun dubbio modi da Papà Orso, tenerezza priva di morbosità. «Benissimo» disse lei, disinvolta, e gli strizzò a sua volta la coscia. «E tu come stai, dottore?» Mike esultò, felice della parità di trattamento. Liv era in preda all'imbarazzo e ce l'aveva con se stessa per essersi burlata di lui. Avrebbe dovuto saperla più lunga, ormai. Mike Spellman non aveva in sé un solo briciolo di sarcasmo. E Liv era quasi certa che non possedesse neppure un solo briciolo di senso dell'umorismo, la qual cosa, inaspettatamente, non lo rendeva né musone, né triste, ma piuttosto, strano a dirsi, quasi implacabilmente allegro. Lei non lo criticava per questo. La sua vena sarcastica le arrecava ben poco piacere e stava cominciando a pensare di aver perduto il poco senso dell'umorismo posseduto un tempo. Perlomeno Mike compensava le carenze con un'indole gioiosa. «Ci siamo crucciati a causa tua» disse Mike. «Oh?» Liv preparò se stessa. «Sì. È stato un vero sollievo, te lo assicuro, vedere voi due qui questa sera. Tutto è di nuovo okay?» Liv divenne consapevole del fatto che la mano di Mike era calata sulla sua, rimasta sul tavolo. Evocò un sorriso per lui. «Non lo so.» La pressione della mano di Mike crebbe e la sua faccia divenne opportu-
namente seria. «Gesù» egli disse. «Se c'è qualcosa che posso fare, telefonami senz'altro. Giova parlare, a volte. Io lo so, bella, ci sono passato. Se vuoi parlare con lo zio Mike non devi fare altro che dirlo. Metteremo in acqua una canoa sullo stagno e andremo a fare un picnic, con una bottiglia di buon vino e un po' di formaggio, sull'isola. Che te ne pare?» «Sei caro» disse Liv. Mike alzò gli occhi e sorrise radiosamente. «Pat!» disse. «Sto dando un appuntamento a tua moglie.» «Non ci si può fidare di questo individuo nemmeno per un minuto» disse Barrie, allegramente. Terry Breen, facendo il giocoliere con una serie di piatti di cartone pieno di maiale arrosto e patate in insalata, un fascio di forchette di plastica infilato nel taschino della giacca, scoppiò a ridere deliziato. Linda si costrinse a un sorriso costipato. Pat, i bicchieri in mano, si inserì tra Liv e Mike. «Farai bene a sbrigarti, allora» disse. «Ce ne andiamo da qui domenica nel pomeriggio.» «Merda» esclamò Mike. «Che ne diresti di sabato?» Liv alzò le spalle come per scusarsi. Mike era avvilito. Terry Breen le fece scivolare davanti un piatto di cartone pieno di carne unta e le porse una forchetta. «Grazie, Terry» disse lei, come un automa. Lui le strizzò l'occhio. «Hai fatto fiasco, conquistatore?» domandò a Mike. Mike batté la mano sulla spalla di Liv. «Non appena hai un minuto di tempo telefonami.» Annuendo amabilmente, per chiudere il discorso, Liv assaggiò quello che Pat le aveva portato da bere: vino bianco, tiepido e troppo dolciastro. Posò il bicchiere. Il vino, dopo le aspirine, l'avrebbe tenuta sveglia per tutta la notte. Stentava già anche troppo a dormire. «Sicché, cosa ti ha tenuto lontano dal paradiso per tutta l'estate?» domandò Mike a Pat. Barrie alzò gli occhi su Liv e, con la stessa rapidità, distolse lo sguardo, mentre Linda guardava diritto dinanzi a sé come se lei non fosse stata presente. Liv si sentì a un tratto sorprendentemente divertita. «Il lavoro» rispose Pat. «Che altro? Le riprese di un film.» Un silenzio rispettoso fece capire che li aveva colpiti tutti. «A Los Angeles?» domandò Mike. E rimase comicamente di stucco
quando Pat rispose: «No. Nella Louisiana.» «Nella Louisiana?» ripeté Terry. Campeggiava su di loro, con un boccale di birra in una mano. Poggiata l'altra enorme mano, con le dita aperte a ventaglio, sul tavolo, si chinò fino a spingere la faccia quasi contro quella di Pat. «Hai trascorso l'estate nella Louisiana? Nella Louivadaafarsifotteresiana?» Numerose teste si voltarono tra la folla verso di loro. Linda, con un sssssss sommesso, azzittì Terry, ma lui la ignorò. Liv si domandò quando avesse cominciato a bere Terry e quanto avesse bevuto. «Nella Louivadaafarsifotteresiana?» tornò a dire lui, con lo stupore nella voce. Pat rise. «Già. Nella Louivadaafarsifotteresiana. Nel Bayou. Che aveva la succosa parte della Grande e Terribile giungla. Il regista è Bayard Rohrer. Il primo attore è Scott Kinsella.» Lasciò cadere quei nomi con noncuranza. «Scott Kinsella!» squittì Barrie Spellman. Il loro tavolo era divenuto il centro di un gruppo più numeroso. Le persone tutto attorno stavano ascoltando avidamente. Non accompagnata, al margine della folla si trovava Miss Alden, di età imprecisata, un po' curva, ma non tanto da diminuire percettibilmente la sua statura di un metro e ottanta. Al barbecue dell'anno prima in occasione della Festa del Lavoro, degno di nota per l'assenza di lei, Pat aveva fatto osservare che Miss Alden, la quale deteneva la cattedra di storia militare, un tempo di MacArthur, a Harvard, a quanto pareva doveva aver ereditato anche il guardaroba del generale, poiché sfoggiava di solito stivali da cavallerizza, impeccabili calzoni al ginocchio kaki, camicie e non vestiva diversamente nemmeno per le occasioni mondane. Un certo disprezzo trapelava dall'atteggiamento che assumeva di solito: anca in fuori, con le mani nodose intrecciate sul pomo d'oro del bastone da passeggio piantato dinanzi a sé. In realtà, sembrava che non avesse bisogno del bastone; Pat insisteva nel dire che, come la tenuta militaresca, si trattava di una messa in scena. Ma quella sera, pensò Liv, Miss Alden si stava appoggiando davvero al bastone. La grossa testa di lei era spinta lievemente in avanti rispetto al corpo, come quella di un uccello da preda. Occhi scuri, febbrili, posti in risalto dal kohl, dominavano il viso pallido e quasi scarno nonostante la prominenza del naso - un becco altezzoso, esotico. La pelle di lei sembrava poco più di uno strato di belletto e di cipria sulla maschera delle ossa pie-
trificate. Il capo, come quello di una zingara, era avvolto a turbante da una sciarpa di seta nera che mostrava, della fronte e delle tempie, quanto bastava per far pensare a un'assenza abbondante, o totale, dei capelli. «Com'è la trama?» domandò Terry. Pat sorrise loro fanciullescamente. «Comincia nel 'Nam» disse. «Americani rimasti intrappolati dopo uno scontro a fuoco, chiedono l'intervento dell'artiglieria su se stessi.» Liv studiò i moscerini che nuotavano nel bicchiere di carta contenente il vino per nascondere l'irritazione causata in lei dal fatto che Pat avesse detto 'Nam, la qual cosa implicava il cameratismo con tutti coloro i quali erano stati laggiù. Anche Bayard, il regista, diceva 'Nam. E nello stesso modo si regolavano tutte le persone che avevano a che fare con il film. L'unico di tutti loro che avesse effettivamente combattuto laggiù era Jesse Rideout, il tecnico del sonoro, che era stato infermiere. Si trattava di un nero grande e grosso e mite; prediligeva le magliette MASH stinte e canticchiava sottovoce le sillabe inintelligibili interpolate nelle canzoni jazz, lavorando. Era un sionista copto e fumava marijuana che lui chiamava Ol' Red Eye, come se fosse stata tabacco. Sembrava non fargli il benché minimo effetto. In occasione della sua unica visita sul set, a mezza estate, Liv lo aveva udito parlare del Vietnam in una sola occasione e questo era accaduto una volta terminate le riprese, nel bar del motel che era diventato il luogo di ritrovo della troupe. Vi era stata, tra Scott Kinsella e Pat, una discussione a proposito della guerra, uno di quei futili sfoggi di clichés che Liv aveva ascoltato per anni. Kinsella si era messo a battere il boccale della birra sul tavolo, dichiarando: «Non ci è mai stato consentito di batterci per vincere.» «Eisenhower ci avvertì di non lasciarci coinvolgere in una guerra terrestre in Asia» aveva detto Pat. «Una guerra di quel genere non può essere vinta. I cinesi hanno tentato per mille anni di sottomettere la Cocincina e non ci sono riusciti. Anche i giapponesi non ce l'hanno fatta. Persino le migliori truppe francesi le hanno prese a tutto spiano laggiù, sapete.» Kinsella aveva ignorato la faccenda della Cocincina con un'alzata delle spalle cicciose. «I Ranocchi non hanno vinto una guerra in cento anni» così si era espresso. «Hitler li ha travolti, no?» Jesse Rideout, che era un mezzo-Cajun francese, aveva riso sommessamente. A Liv Russell era parso di riconoscere la risata di Jesse Rideout. Era lo stesso suono amabile e malinconico emesso da suo padre quando doveva
sopportare un imbecille. Sebbene parlare le facesse dolere di più il dente, un'ira improvvisa aveva sciolto la lingua di Liv. «Abbiamo sganciato ottocentomila tonnellate di esplosivi sul Vietnam del Sud in un anno, lo stesso quantitativo di esplosivi sganciato sull'intero Pacifico meridionale durante la seconda guerra mondiale» così si era espressa in tono amareggiato. «E questo significa non andare fino in fondo, secondo voi?» Kinsella aveva alzato gli occhi su di lei dall'altro lato del tavolo. «Avremmo dovuto bombardarli con le atomiche, i piccoli bastardi.» «Suvvia, Scott» aveva protestato Pat. «Dice sul serio» così si era espresso Jesse Rideout. Non sa che cosa significhi. Ma dice sul serio.» Scott stava fissando Jesse irosamente. «Per Dio se dico sul serio.» «Quando è stato là?» aveva domandato Jesse, in tono sommesso. Kinsella era sembrato proprio a disagio. «Mi avevano esonerato.» Troppo anziano, si era detta Liv, sbirciando la pelle rugosa intorno agli occhi di Kinsella, che venivano sempre truccati per le riprese. E aveva sorriso. Kinsella stava per prendersela con lei. Ma Pat si era affrettato a intervenire per disinnescare la tensione. Protendendosi oltre il tavolo, gli occhi splendenti, aveva domandato: «Come stavano le cose, Jesse?» Vi era stato un momento di silenzio da parte di Jesse, prima che rispondesse: «La gente era davvero piccola di statura, come ragazzetti... Io mi sentivo sempre lo zio Jesse. Riuscivo a capirli perché parlavano il francese, non proprio come il francese Cajun, ma molto simile, sapete, con un accento davvero ottimo. Ecco come imparai il vietnamita. Era come trovarmi dalle mie parti, come qui. Mi piaceva. Mia moglie la conobbi là.» Nessuno aveva mai saputo che fosse sposato con una donna del Vietnam. Pat e Liv si erano scambiati uno sguardo imbarazzato, domandandosi se Jesse, pur senza dirlo, ritenesse in qualche modo offensivo quel film. Che cosa aveva provato vedendo la ragazza giapponese, Terry Shore, che impersonava la condannata May, nuda e apparentemente morta sulle pale del rotore dell'elicottero? Kinsella aveva sbuffato, prendendo il bicchiere del whisky. «Forse saresti dovuto restare là, visto che ti trovavi così bene.» Jesse si era limitato a rivolgergli un sorriso. «Già, forse avrei dovuto, signor Kinsella.» Con un lievissimo tono di scherno nella voce. Si era alzato
poi dalla sedia con una grazia misurata che per un attimo aveva fatto trasalire Kinsella, quasi per il timore che Jesse fosse sul punto di protendersi oltre il tavolo, di afferrarlo per il collo e di scrollarlo. Jesse invece si era limitato a fissarlo con occhi beffardi, iniettati di sangue, per poi voltargli le larghe spalle e andarsene. Liv e Pat avevano fatto ritorno nella deprimente cameretta del motel - un blocco di cemento - che era stato la dimora di Pat per tutta l'estate. Sul letto troppo stretto, con la logora coperta di saia a diagonali marcate, color verde-acido e un materasso che spezzava la schiena, avevano fatto l'amore per la prima volta dopo parecchie settimane, sebbene Liv fosse nell'ultimo giorno del mestruo, per cui, inavvertitamente e con suo profondo imbarazzo, ne erano conseguite macchie di sangue sul lenzuolo. Nudi nella calura soffocante della notte estiva, avevano cercato di dormire, ma il letto sembrava diventare sempre più piccolo mentre si agitavano e si voltavano cercando di trovare la posizione giusta. Invece di addormentarsi, Liv aveva immaginato che così fossero state le notti di Jesse Rideout a Saigon. La calura notturna che copriva come una tenda il mondo intero, i suoni notturni della città che penetravano le persiane delle finestre senza vetri dalla strada sottostante, il francese dall'accento esotico delle ragazze frequentatrici dei bar che tornavano a casa nelle ore antelucane, simile in qualche modo al francese che lei udiva davanti alla porta della loro camera al mattino, quando le cameriere dell'albergo iniziavano il lavoro quotidiano. Aveva immaginato Jesse Rideout e la moglie vietnamita di lui, piccoletta come una bambina, addormentati su quella qualsiasi cosa che consideravano il loro letto, forse un materasso sul pavimento, ma poteva anche darsi che avessero avuto un vero letto, salvatosi dai tempi coloniali, con una zanzariera simile a una nube di fumo di marijuana sopra di loro. Forse sul lenzuolo sotto di essi v'era una macchia man mano più scura di sangue mestruale diluito dal seme. Sebbene il sole non fosse ancora sorto, la calura del nuovo giorno aveva già pesato su di lei quando si era alzata per prendere la quindicesima e la sedicesima compressa di aspirina extraforte in ventiquattr'ore. Se Kinsella era troppo avanti negli anni, Bayard, il regista, e tutti i giovani attori che interpretavano la parte di veterani (compreso Pat, il quale, oltre a scrivere la sceneggiatura, aveva interpretato una particina, morendo quasi all'inizio del film), una buona metà della troupe, in effetti, avevano avuto l'età giusta per essere arruolati e destinati al Vietnam. Ma si erano trovati tutti quanti rintanati al sicuro in qualche università. Come lei. Era
stata una guerra che aveva odiato, e continuava a odiare, ma, dieci anni dopo, sentiva il peso di un inaspettato fardello di colpa perché i giovani appartenenti alla classe operaia erano morti laggiù, mentre lei e i suoi amici, bianchi e irreprensibili, fumavano marijuana, scopavano gli uni con gli altri entusiasticamente e si trasmettevano ogni giorno le loro emozioni. Il 'Nam. Sapeva che non era il senso di colpa a fiorire all'improvviso nelle rievocazioni del 'Nam di ogni attore in ogni film di guerra realizzato in quegli anni. Si trattava semplicemente di opportunità macho - i veri uomini erano stati, naturalmente, nel 'Nam, vi avevano riportato ferite, ed erano rientrati in patria. A fumare marijuana, a scopare a non finire donne che non erano mai state dove erano stati loro e che, pertanto, non avrebbero mai potuto capire, in quanto l'intimità sessuale non solo annullava, ma in realtà ampliava, il muro dell'esperienza tra gli amanti. Le pulsazioni morali dei reduci si erano fermate nell'attimo dell'azione, e tornavano a ripetersi come un flashback quando dormivano, o tentavano di scopare, o affrontavano tensioni nervose; ricordavano, o quasi ricordavano, le cose terribili cui avevano assistito. Assistito, e mai fatto. Nel 'Nam. Nel film 'Nam. «Le perdite sono incredibili, ma rimangono superstiti» continuò ora Pat. «Alcuni dei superstiti credono di essere stati traditi dalla ragazza vietnamita del loro sergente nello scontro sanguinoso. E la giustiziano. Il resto del film si svolge dieci anni dopo, quando il sergente, il quale sa che a tradire non era stata la sua ragazza, e vuole vendicarla, e vendicarsi degli uomini che l'hanno uccisa, dà la caccia a tutti i superstiti, ovunque negli Stati Uniti, per ammazzarli. Naturalmente sono tutti veterani, assassini bene addestrati, e si sono sempre mantenuti in contatto. Lui riesce a farne fuori solamente un paio prima che gli altri si mettano all'erta e si difendano.» Pat si interruppe per sorseggiare birra da un barattolo. Tutti tacevano, aspettando che continuasse. «Volete sapere che cosa succede dopo?» Borbottarono tutti e vi fu un coro di «Sì, sì!» «Ma se ve lo dicessi rivelerei tutto» dichiarò Pat. «Dovrete andare a vedere il film.» Vi fu una nuova esplosione di risate e di proteste. «Gesù» disse Terry Breen. «È fantastico.» «Come si intitola?» domandò Barrie. «Scontro sanguinoso.» «Mi piace» disse Linda. «Anche a me» disse Barrie.
«Quando uscirà?» domandò Mike. «Per Natale, spero» rispose Pat. Si mise in piedi e si stiracchiò. «Come è stato lavorare con Kinsella?» volle sapere Barrie. Pat cominciò a raccontare un episodio relativo all'attore che Liv aveva già sentito in una precedente e più rozza versione qualche tempo prima, quell'estate. Sembrava che Pat l'avesse riveduta e corretta per fare apparire Scott più scaltro e lui uno zimbello più di quanto fosse stato. Liv si stava trastullando con le fettine di carne che andavano raffreddandosi nel suo piatto. Una mano dura, simile a un artiglio, le piombò sulla spalla. «C'è posto per me?» domandò Miss Alden. Liv annuì e si spostò. Collocando da un lato, con un gesto preciso, il bastone da passeggio, Miss Alden si calò sulla panca accanto a Liv. Al lato opposto del tavolo, Linda e Barrie si scambiarono sguardi inquieti. «Come va, Helen?» domandò Liv. Barrie e Linda tornarono a sbirciarsi. Nessuno si rivolgeva mai a Miss Alden chiamandola per nome. «Mi trovo ancora nella terra dei vivi» rispose Miss Alden, come se si fosse trattato non tanto di un vantaggio quanto di una condanna. Sbirciò entro il bicchiere di plastica di Liv. «Che cos'è quella roba?» «Vino bianco.» Miss Alden guardò il vino con disprezzo, arricciando il magnifico naso. «Sciacquatura di botti.» Mike Spellman si sporse per domandare che cosa potesse andare a prenderle. «Presumo che lo scotch sarà bevibile» gli disse Miss Alden. «Uno scotch doppio con ghiaccio, per favore.» «Io non sono schizzinosa» disse Barrie. «Berrò un altro bicchiere di sciacquatura di botti, Mike.» «E tu, Linda?» domandò Mike. «Sciacquatura di botti anche per me» disse lei. «Tutti quegli anni di studi nella facoltà di medicina» disse Barrie «e lavora come cameriere.» «Con le mance guadagno di più» osservò Mike. Le donne più giovani risero. Miss Alden si limitò a un sorriso al limone. Si rivolse a Liv. «Come va, mia cara?» Barrie e Linda inarcarono, l'una verso l'altra, sopracciglia accuratamente
foggiate, ripassate con la matita e significative. «Molto meglio, grazie» rispose Liv. Sfiorò appena la mano di Miss Alden. «Ha salvato una vita, sa. E Travis ed io ci siamo divertiti moltissimo al tè.» «Cosa, cosa?» domandò Pat, scivolando di nuovo sulla panca accanto a Liv, dall'altro lato. Mise la mano sopra quella di lei, sul tavolo. «Cos'è questa storia dei tè? Hai fuorviato Miss Alden, Liv?» «Helen mi aiutò a cambiare una gomma a terra, un giorno» disse Liv. «Poi invitò Travis e me a prendere il tè. Domandalo a Travis.» Si rivolse a Miss Alden. «Il bambino ne parla ancora adesso. Continua a dire che vuol essere invitato a un tè.» «Ce ne sarà un altro» disse Miss Alden. «Temo però che dovremo rimandare all'anno prossimo. L'estate ci ha lasciati indietro.» «Gradirei venire anch'io» disse Pat «se non disturbo.» «Oh, presumo che potremo farcela» dichiarò Miss Alden. «Posso essere una vecchia zitella, ma ci vuole più di un mero uomo per farmi girare la testa.» «Storie» disse Pat. Mike Spellman apparve con bevande varie su un vassoio e un tovagliolo piegato sul braccio. «Madame...» così si rivolse ad ognuna delle donne, mentre le serviva. «Mademoiselle» lo corresse Miss Alden. «Mais oui» disse Mike. «Sono spiacente.» «Io no» disse Miss Alden. Barrie Spellman si sbellicò dalle risa. Pat levò il barattolo della birra, brindando silenziosamente a Miss Alden. Miss Alden si rivolse a Liv. «È riuscita a lavorare?» Liv fece una spallucciata. «No. Ma sto avendo alcune idee.» «Bene» disse Pat, lascivo. La strinse a sé. «Ho qualche idea anch'io.» Risero tutti, tranne Miss Alden, la quale aveva l'aria di pensare che Pat potesse avere soltanto idee indecenti. «Forse un periodo di vacanza era proprio quello di cui aveva bisogno» disse a Liv. «Un periodo d'ozio.» «Spero che sia stato così» disse Liv. «Sentirei, allora, di aver salvato qualcosa di questa estate.» Miss Alden le batté la mano su un ginocchio. «Capisco che cosa vuol dire. Io impazzirei, credo, senza il lavoro.» Molto visibilmente, Barrie Spellman diede di gomito a Mike, che si era
messo a sedere accanto a lei, e stava ascoltando, come tutti gli altri intorno al tavolo, la conversazione. «D'altro canto» disse Miss Alden, fissando Barrie, «sono certa che, secondo certe persone, io starei farneticando.» Mike diede a sua volta di gomito a Barrie, e disse a bassa voce. «Credo che ce l'abbia con te, bella.» «Secondo me, lei è la persona più sana di mente che io conosca» disse Liv. «Be', grazie» rispose Miss Alden. «Apprezzo il voto di fiducia, ma presumo che lei si sbagli, mia cara. Sono matta come chiunque altro in questo pazzo mondo.» «Non esiste una tesi secondo la quale la pazzia è l'unica difesa contro la realtà?» disse Pat. Len Winslow sedette di fronte a loro, stringendo in una mano il cappello da cuoco e nell'altra un bicchiere. «Vi spiace se mi unisco a voi?» domandò con noncuranza. «Se non mi siedo stramazzo. Sto diventando troppo vecchio per questo genere di cose.» Poiché ansimava ed era quasi paonazzo in faccia, sembrava davvero sul punto di avere un tracollo. Portò il bicchiere alla bocca e bevve avidamente. «Una cosa vorrei sapere» disse. «Perché i dannati ladri non mi portano mai via il barbecue. Rubano ogni altra cosa che non sia inchiodata. Se si prendessero il dannato aggeggio, potrei passare agli hot dog e vivere un po' più a lungo.» Si guardò attorno con un'aria colpevole. «Non andate a riferire a Claire che ho detto questo. Dalla nostra luna di miele alle Hawaii ha sempre pensato che un porco infilzato nello spiedo sia l'unica cosa possibile.» Liv sentì Miss Alden irrigidirsi. «Lascerò loro un biglietto, Len» disse Miss Alden. Numerose persone risero. Pat parve interdetto. «Spiacente, ma deve essermi sfuggito qualcosa.» Miss Alden volse lo sguardo verso di lui. «Mi hanno derubata per tre anni di seguito.» Vi furono scuotimenti di teste e commiserazione. «Non è la sola» la consolò Len Winslow. «E Walter McKenzie ha detto a Claire, appena l'altro giorno, di essere disorientato.» «Walter McKenzie è un vecchio rincitrullito» disse Miss Alden. «L'ho licenziato dopo il secondo furto. A che diavolo serve pagare un guardiano se non sa sorvegliarti la casa? Walter è troppo vecchio per il lavoro che fa.
Se avesse un briciolo di buon senso, andrebbe in pensione.» Seguì un silenzio generale. Su quel lato del lago, Walter McKenzie aveva sempre sorvegliato le case di tutti quanti. Non era mai esistito alcun altro guardiano. E nessuno riusciva ad immaginare chi avrebbe potuto prendere il suo posto. «È vero» disse Pat. «Walter sta invecchiando. Quanti anni può avere adesso, settantacinque?» «Ne ha ottantatré» fece Miss Alden. «Perdiana» esclamò Mike Spellman. «Non ne avevo idea. Certo non li dimostra, no?» Miss Alden ignorò Mike. «Peccato che Joe Nevers se ne sia andato. Avrei assunto lui, al posto di Walter, senza pensarci un momento. Nessuno è mai andato a rubare in una delle case di Joe Nevers.» «Joe Nevers non avrebbe accettato l'incarico» disse Liv. Guardarono tutti lei. «Questo è il lato del lago di Walter.» Parve che nessuno di loro avesse capito. Né Liv si era aspettata, in realtà, che capissero. «Aspetta un momento» disse Pat. «Mi piacerebbe sapere perché nessuno è mai andato a rubare in una delle case di Joe Nevers.» Tutti guardarono Liv, che inavvertitamente aveva rivelato di possedere un inaspettato cumulo di nozioni concernenti Nodd's Ridge. Lei arrossì. «Rispetto. Tutti rispettavano troppo Joe Nevers.» Abbassò gli occhi sul bicchiere di vino. «E una certa paura. Ma soprattutto» soggiunse con un sorriso «credo che fosse perché lui soleva pagare i più probabili ladri.» Risero tutti, eccettuata Helen Alden. Ed eccettuata Liv, la quale era stupita perché trovavano divertenti i ragionevoli espedienti di Joe Nevers. «Come sa tutte queste cose?» domandò Miss Alden. «Di tanto in tanto incontravo il vecchio Joe» ammise Liv. Non avrebbe raccontato loro tutta la storia. Le sembrava già di aver perduto qualcosa di prezioso. «Ehilà, ma guarda» diceva Joe Nevers, quando lei emergeva silenziosamente sotto la sua lenza e le dava un piccolo strattone. Continuava a tenerla in tensione, ma senza strappi, così da non spezzarla, e veniva su con essa alla stessa velocità con cui egli la ricuperava. «Una sirena» esclamava Joe, come sempre quando si divertivano con quel gioco e la testa di Liv emergeva alla superficie. «Che il diavolo mi porti!»
E condividevano una sommessa risatina. «Buongiorno signora Sirena» diceva Joe Nevers. «Buongiorno Joe Nevers» diceva Liv. «Immagino che debba formulare tre desideri.» «Ah» faceva Joe Nevers. «Obbligatissimo. Credo che, per prima cosa, gradirei una fumatina.» E metteva da parte la canna da pesca e toglieva dal taschino un cigarillo, offrendolo, compito, prima a lei, che, altrettanto compita, lo rifiutava. Una mano poggiata con leggerezza sul barchino, Liv si teneva a galla con l'altra, assistendo alla piccola cerimonia. E poi lui parlava. Liv gli poneva domande, di tanto in tanto, per chiarire determinati punti; ma, a parte questo, si limitava ad ascoltare. Egli sembrava non aspettarsi niente di più da lei. Liv gli aveva sentito raccontare episodi che sospettava non fossero mai stati narrati a nessun altro, nemmeno ai suoi amici dell'ufficio postale, o della tavola calda, o del municipio, e nemmeno a sua sorella Gussie che era stata per anni la bibliotecaria della cittadina prima di andare in pensione nella Florida. Un giorno gli pose domande sul conto di Arden Nighswander. «Arden Nighswander» disse Joe Nevers, facendo rotolare il cigarillo nella mano. «Ho paura di lui» disse Liv. Batté i piedi sull'acqua del lago, e mosse le braccia pigramente, increspando la superficie con ondulazioni ad arco. L'acqua splendeva rosea nel roseo riversarsi della luce del sole che sormontava la barriera delle montagne e colorava i ciuffi di nebbia sopra l'acqua. «Non so perché. È così cortese da essere untuoso. Ma sorride come uno squalo. Mi fa accapponare la pelle.» Joe Nevers scosse la testa. «Questo dimostra soltanto il suo buon senso.» Spense il mozzicone del sigaro schiacciandolo contro il coperchio del vasetto di maionese che aveva sempre con sé a tale scopo e rimise il coperchio nello zainetto prima di tirar fuori un altro cigarillo. Chinandosi con un piccolo grugnito, strofinò uno zolfanello sulla suola della scarpa, una prova di destrezza da parte di un vecchio seduto in barca. Poi si tolse il berretto e si grattò dietro un orecchio pulito e roseo. «Mi risulta» disse, dopo aver succhiato il cigarillo, «che quel tizio è uno di quei tipi i quali tirano avanti a furia di imbrogli. Vive grazie a quello che è riuscito ad ottenere, imbrogliando, dal governo; si figuri che ha finto di essere invalido a causa delle ferite riportate in guerra.» Joe Nevers grugnì. «Nel deretano, naturalmente. Piaghe da sella, o 'emorroidi' a furia di
sedere a una scrivania, immagino. Grazie al contribuente, che lo sfama e gli dà una casa, lui è libero di esplicare tutte le sue capacità potenziali di perfetto figlio di puttana. Quando non gli fa causa qualcuno che ha infinocchiato, è lui a far causa a qualche suo vicino per i confini della proprietà o perché lo ha guardato storto, non ha importanza. Quando il tribunale non giudica, è un volgare ladro, padre di ladri e di vandali. Questo lo so per certo. Non lasci niente in giro, signora. Quei suoi rampolli, Ricky e Rand, li ha addestrati come si addestrano i cani da caccia, in modo che sappiano fiutare le occasioni.» «Sono tra quelli che vanno a rubare nelle case?» domandò Liv. «Sono soltanto loro» disse lui. «Lo fanno continuamente. Quasi come ladri di mestiere. La maggior parte degli altri sono soltanto giovincelli che hanno bevuto. Basta fargli passare la sbornia, spaventarli ben bene e poi rifilargli cinque dollari perché in genere non ci provino più. Ma da quando ci sono in giro i due giovani Nighswander le cose si sono messe davvero male.» Scosse la testa. L'acqua lambì entrambi i lati della barca con piccole increspature. Liv reclinò la testa all'indietro e lasciò che i piedi venissero a galla, facendo il morto per qualche momento alla superficie del lago. Lungo il profilo dei monti l'aurora stava ancora sanguinando, ma direttamente in alto la cupola bianca del cielo si tingeva di azzurro e la nebbia svaniva. «Non sono di queste parti» osservò. Queste parole rallegrarono subito Joe Nevers. «No, per niente. Vengono dal New Hampshire, credo. Nighswander parla come se fosse di laggiù. Forse sette anni fa, l'anno in cui Gussie se ne andò nella Florida e tornò rimaritata, sorprendendomi dà matti, posso assicurarglielo, sì, dopo l'inverno in cui morì Ola Whicher, nella primavera saltò fuori Nighswander a reclamare i beni di lei. Ola era la sua prozia, aveva sposato il fratello di sua nonna dalla parte del padre. Ola non aveva mai potuto soffrire i parenti del marito, che però era morto giovane, di etisia, per cui non avevano mai avuto figli, e così lei era invecchiata tutta sola su un pezzo di terra ove non sarebbero cresciuti neppure i sassi tanto poco era fertile. Accoglieva gatti e cani randagi ed ogni sorta di altre bestie e, dopo qualche tempo, aveva ottenuto un sussidio dalla cittadina ed era stata considerata l'accalappiacani. Tutti immaginavano che sarebbe morta durante la notte e che la cosa sarebbe stata scoperta quando gatti e cani si sarebbero messi a miagolare e ad ululare intorno al suo cadavere, ma invece lei si ficcò in mente di riparare il tetto della casa e si ammazzò cadendo giù dal tetto all'età di ottantasette
anni. Era una donna robusta e grassa, finì con la testa in giù e si ruppe l'osso del collo. Altrimenti avrebbe potuto vivere per altri vent'anni.» Joe Nevers parve afflitto. «Ognuno di noi avrebbe riparato volentieri quelle assicelle, se soltanto lei lo avesse chiesto. E nessuno di noi le avrebbe fatto pagare un centesimo. Piangeva continuamente miseria, ma la gente diceva che, in realtà, aveva mucchi di quattrini nascosti nelle scatole da scarpe. Senza dubbio fu questa la ragione più importante per cui Nighswander si diede la pena di reclamare la proprietà, a parte il fatto che era un posto in cui rifugiarsi, perché il luogo da dove veniva aveva cominciato a scottare troppo per lui, un nido troppo insozzato persino per i suoi gusti, e pertanto si trasferì qui.» «Ma non trovò nessuna scatola da scarpe piena di quattrini, immagino» disse Liv. Mise la mano con leggerezza sul barchino, e si tenne ad esso, riposando. Joe Nevers sogghignò. «Non credo proprio. I soli tesori che Nighswander trovò a Nodd's Ridge furono Jean McKenzie e il suo figliolo. Perlomeno con Jeannie Nighswander ebbe qualcuna che cucinasse e facesse le pulizie per lui e per i ragazzi. Inoltre non aveva soltanto Jeannie, da picchiare, ma anche il figlio di lei.» Joe Nevers assunse un'aria tetra e parve irrequieto come se l'argomento lo facesse sentire a disagio. «Il ragazzo... Gordy... è peggio di un incapace.» «C'è qualcosa che non va in lui?» domandò Liv. «A me è parso un po' ritardato.» «Be', Gordy non ha mai avuto un granché con cui cominciare, il peggio di entrambi i genitori, l'aspetto di Jeannie e il cervello di Harry Teed» disse Joe Nevers. «Per giunta, vivendo con i Nighswander, quel poco cervello che aveva gli si è tramutato in acqua a furia di essere sbattuto contro le pareti; hanno contribuito, inoltre, il vizio di bere, abitudini sconce e un modo di esprimersi ancor peggiore. No, il povero Gordy è come uno dei cani bastardi che i Nighswander hanno reso mezzostupidi e pericolosi torturandoli ed incoraggiando il lato peggiore della loro indole. Un giorno o l'altro bisognerà eliminarlo.» Schiacciò il mozzicone del secondo cigarillo e mise via il coperchio del barattolo. Liv rabbrividì, sentendo all'improvviso l'acqua molto gelida. Il rosso dell'aurora si era dileguato, riducendosi a una sottile linea color malva che segnava l'orlo del pianeta ove svettavano le ossa glaciali delle montagne. Lei mollò il barchino e si spinse indietro. «È ora che vada» disse. «Quali sono i suoi altri desideri?»
Nevers esitò un momento. «Be'» disse, come richiedeva il rituale, «desidero augurarle una buona giornata. Questo è il desiderio numero due. E desidero che ci vediamo di nuovo. Questo è il numero tre.» Senza una parola, soltanto con un sorriso, Liv scivolò sotto la superficie e si allontanò a nuoto; non riemerse per respirare finché non fu giunta a una certa distanza. Nel frattempo, Joe Nevers aveva messo via la canna da pesca e stava remando verso i Narrows. «Oh oh» fece Terry Breen. «Che cosa vorrebbe significare, questo?» domandò Pat. Terry sorrise, lascivo. «Sei stato via troppo a lungo, vecchio mio. Non devi aver saputo come se n'è andato il vecchio Joe.» Linda e Barrie ridacchiarono in coro. Le sopracciglia di Pat si disposero ad ali di gabbiano ed egli assunse un accento alla Groucho. «Sentiamo, allora: come se n'è andato?» Terry ridacchiò. «Se ti fossi trovato qui, avresti potuto assistere alla scena. Al lato opposto del lago, proprio di fronte a casa tua. Il vecchio caprone era andato a letto con la vedova Christopher, ti ricorderai di lei. Una donna piccoletta, dai capelli rossi, con una lingua calibro quarantaquattro e una predilezione per il whisky scozzese. Entrambi più vecchi di Matusalemme.» Helen Alden increspò le labbra. «Lei aveva la mia stessa età» disse. «Era divorata dal cancro. È morta l'autunno scorso.» E poi, in un tono di voce più dolce: «Era un'amica mia.» Terry Breen fece roteare gli occhi e parve a disagio. Pat toccò il polso di Miss Alden. «Mi spiace» disse. «Lui era un simpatico vecchio» commentò Liv. «Mi manca.» Barrie Spellman si agitò innervosita. «La sola cosa che si possa fare consiste nel chiudere a chiave la porta, evitando inoltre di lasciare in giro cose che valga la pena di rubare» disse, come se non avesse udito l'intera conversazione concernente Joe Nevers e la defunta signora Christopher. «Io non so che cosa si aspetti la gente» intervenne Linda Breen. «La popolazione, qui, è poverissima. Dev'essere un supplizio per certuni vedere le cose lussuose che alcuni di noi lasciano abbandonate per tutto l'inverno.» Liv rise. «Quelli che rubano si servono di scooter da neve, Linda. Gli scooter da neve costano da oltre mille dollari in su. Quanto è povero uno che va a rubare con un giocattolo da mille dollari?» Linda arrossì.
«C'è sempre l'assicurazione» intervenne Terry. «Ci si può tutelare contro eventuali furti. I premi non sono molto elevati.» «Fanno qualcosa di più che rubare» disse Miss Alden. Aveva un'espressione molto torva. «Sono vandali, barbari. Distruggono. Sfondano finestre. Tagliano le imbottiture dei divani e delle poltrone. Fanno cose terribili.» «Be', sappiamo che lei è stata alquanto sfortunata» disse Mike Spellman. «Sfortunata!» esclamò Miss Alden. Aveva il viso in fiamme, con vivide chiazze rosse sugli zigomi. «La sfortuna non c'entra affatto. Non si tratta di un caso, dottor Spellman. Hanno scelto me come la loro vittima. So come mi giudicano. Hanno scritto sui muri di casa mia che sono una schifosa vecchia lesbica leccapotte. E lo hanno scritto con la merda.» Rimasero tutti di sasso, inorriditi. Liv toccò le mani di Miss Alden, chiuse a pugno sul tavolo. «Sono tanto spiacente, Helen. Come può la gente essere così spaventosa?» «Si sbagliano se pensano di poterla passare liscia un'altra volta» disse Miss Alden. «Che cosa si propone di fare?» domandò Pat. «Per il momento mi propongo di tornarmene a casa» disse Miss Alden. Cercò a tastoni il bastone da passeggio e si alzò. «Invecchio anch'io. Sono troppo anziana per restare alle feste tutta la notte. Grazie, Len. Perché non nasconde lo spiedo del barbecue? O non lo piega in modo irreparabile?» Si voltò poi verso Liv, reclinò il capo ed afferrato con entrambe le mani il bastone da passeggio, declamò: 'Un principe essendo così costretto a sapere come comportarsi da bestia deve imitare la volpe e il leone, poiché il leone non può difendersi dalle trappole e la volpe non può difendersi dai lupi. Sia egli pertanto una volpe per riconoscere le trappole e un leone per spaventare i lupi.' Per spaventare i lupi» lei ripeté, e trasse un respiro profondo e soddisfatto. Guardò poi, beffarda, Barrie Spellman. «Niccolò Machiavelli» trillò. Quindi salutò Liv con un cenno del capo. «Buonanotte, mia cara.» «Abbia cura di sé» disse Liv. Miss Alden si erse in tutta la sua statura e si allontanò, appoggiandosi con tutto il proprio peso al bastone da passeggio ogni pochi passi, rigidamente, come se odiasse quell'inequivocabile rivelazione di debolezza. La ressa si apriva per lasciarla passare e si richiudeva dietro di lei, cicalando. «Non riesco a crederlo» disse Linda Breen, alzando la voce appena quel tanto che bastava perché la udissero tutti. «Avete sentito come ha detto che l'hanno chiamata?»
Barrie ridacchiò, come potrebbe ridacchiare una capoclaque di qualche barzelletta sporca. «È davvero straordinaria» osservò Pat, rivolto a Liv. «Non mi avevi detto di essere diventata amica della formidabile Miss Alden.» «Mi aiutò a tirarmi fuori da una situazione critica. Era una domenica pomeriggio e non sarei mai riuscita a trovare qualcuno che mi cambiasse una gomma della macchina. Se non fosse passata lei proprio in quel momento e non si fosse fermata, Travis ed io avremmo dovuto farci una lunga camminata con il caldo fino a casa e saremmo rimasti senza l'automobile fino al lunedì. Come me la sarei cavata in una situazione di emergenza?» «Avresti potuto telefonare al pronto soccorso» disse Pat. «Ma in ogni modo è stata gentile aiutandoti. Dove avevi bucato?» «Avevo urtato contro quella roccia alla prima curva della strada «rispose.» Il pneumatico è sembrato esplodere, né più né meno. Il lunedì sono andata a verniciare d'arancione la roccia affinché la gente fosse avvertita e facesse attenzione.» «Oh» fece Pat, e lasciò cadere il discorso. Capitolo III Scontro sanguinoso Montaggio preliminare numero 2 L'insegna al neon all'esterno inonda di rosso l'interno angusto del bar. Sanguina sulle facce degli avventori, già accese dalle bevute, dalla fatica di ballare al ritmo della musica che irrompe dal juke-box, dalla scarsità di ossigeno, dalla contesa per il sesso, dalla smania di spassarsela anche a costo di ammazzarsi. La ressa turbolenta e soffocante, pigiata in uno spazio troppo angusto, non è né giovane né di mezza età, ma si trova nell'intermedia terra di nessuno. Gli uomini segnalano di aver fatto il servizio militare mediante parti di vecchie uniformi oppure magliette di un sentimentalismo psicopatico favorevole allo sterminio generale e al giudizio di Dio. Le donne hanno i denti guasti e scelgono musica country e western quando gli uomini danno loro monete da un quarto di dollaro per il juke-box. Un uomo molto grosso versa birra nei boccali e li scaraventa lungo il banco del bar con una abilità che intimidisce. Anche quando non ride, come fa spesso, scopre i denti affilati, piccoli, bianchi, in un sorriso per nulla rassicurante, nonostante la sua costanza. La sua è la faccia di un satiro,
come la si potrebbe contemplare, schizzata in bianco o in rosso, sullo sfondo nero di un vaso greco antichissimo. Sebbene situati tra la rete delle piccole rughe dell'ilarità, gli occhi azzurri sono piccoli e malinconici. Capelli color rame fittamente ricciuti rivestono il cranio e una barba altrettanto ricciuta decora il mento, ma il labbro superiore, sotto un naso lungo e bellissimo, è ben rasato. Il corpo, però, non è quello di un satiro; non è mezzouomo e mezzocapro, ma piuttosto completamente taurino: dalla possente colonna del collo, che allargandosi forma spalle massicce, al torace ampio e formidabile, coperto di peli rossicci rivelati dal colletto aperto della camicia bianca; il torace si allarga a sua volta, formando la sporgenza della pancia che gli spinge in fuori la camicia per cui egli sembra essere al settimo mese di una sana e fiorente gravidanza; nonostante la pancia, il sedere non è degno di nota, ma le cosce sono massicce e muscolose; le gambe, un pochino corte, sono scarne di polpacci, con un assottigliarsi elegante e quasi femmineo delle caviglie e piedi piccoli, larghi, tozzi, la massima approssimazione possibile a zoccoli biforcuti, entro sandali di cuoio. Lo sparo del fucile li immobilizza tutti come l'incantesimo di una fiaba. Il barista alza la testa; le orecchie di lui quasi si drizzano per cogliere lo strepito: ka-buum. E, sotto le vibrazioni dello sparo, l'urlo dell'uomo che viene assassinato, poi il tonfo del corpo di lui contro il metallo, un tonfo cavernoso e cupo, di lamiera metallica, come lo si potrebbe udire in seguito a un investimento automobilistico, solo che questa volta è l'uomo a finire contro l'automobile, e non l'opposto. E subito il barista scavalca il banco del bar, poggiandosi sulle braccia da gorilla, una sfida stupefacente e olimpica lanciata alla gravità, e gli avventori si tolgono di mezzo gettandosi a destra e a sinistra, mentre boccali di birra vanno in pezzi o si vuotano del contenuto, per cui il piano del banco diviene all'istante scivoloso e pericoloso come un muro sormontato da aguzzi pezzi di vetro, ma lui lo ha già scavalcato, si trova al centro della sala, sta scaraventando a terra i tanti che non sono fulminei abbastanza per togliersi di mezzo, e, urtando contro la serie di interruttori accanto alla porta, determina in un attimo la condizione da limbo delle ore piccole durante le quali il locale chiude, non soltanto all'interno, ma anche all'esterno. L'insegna al neon scompare tra gli strilli delle donne e di non pochi uomini spaventati dall'oscurità improvvisa. Qualcuno strozza il juke-box staccando la spina dalla presa di corrente. E poi si diffonde un'ondata di risatine nervose. «Finitela, fottuti» dice il barista. Sebbene la voce sia sommessa, arriva ovunque nel locale e tutti la piantano di ridacchiare.
Né il buio totale, né il silenzio totale, ma una via di mezzo, una condizione tipo limbo, come un'imboscata che stia per aver luogo nella giungla. I lampioni nella strada riversano tenue luce gialla entro il bar, simile a chiaro di luna; la pioggerella la riflette come pigri lustrini sul cache-sexe di una spogliarellista. Un suono acuto va facendosi più forte e la sirena della polizia che sta arrivando cancella rapidamente il respiro stentoreo di tre dozzine di persone spaventate e alquanto brille. Quando le luci azzurre inondano la sala, come fantasmi della rossa insegna al neon, il barista riaccende le lampade. Rimane in piedi accanto alla porta, guardando fuori mentre i poliziotti si riversano giù dalle macchine e si raggruppano intorno al cadavere che è finito su questo lato della Trans-Am, scaraventato capovolto sopra il cofano dall'impatto della pallottola e poi piombato giù dall'altro lato, rannicchiato su se stesso e a testa in giù, come un bambino che nasce, in una pozza di sangue che la pioggia diluisce ma non lava; e poi gli sbirri vengono verso il bar, verso il barista. Nella luce azzurrognola, la sua faccia sembra esangue, come quella di un cadavere vivente. Quando un poliziotto gli domanda se sa che cosa sia accaduto, lui volta la testa da un lato all'altro. Il poliziotto interpreta la cosa come un segno di negazione, ma potrebbe anche significare, semplicemente, che il barista nega la realtà di quello che vede. Quando il poliziotto gli domanda se conosce il morto, gli occhi del barista si riempiono di lacrime. «Jackson» egli dice. «Si chiamava Jackson. Eravamo nello stesso reparto. E lui è riuscito a sopravvivere all'inferno per poi finire così. Non so altro.» Seguono l'oscurità totale, il silenzio totale, e dal barista prorompe un urlo di sofferenza non diverso da quello dell'uomo assassinato, poi egli si drizza a sedere sul letto, la faccia bagnata di sudore e di lacrime. Una mano gli afferra il braccio con dolcezza. «Paul, mio Dio.» E poi l'altra persona, un'ombra nell'oscurità, cerca annaspando la lampada sul comodino, il letto viene illuminato da una luce fioca non più forte di quella d'una candela, che comunque rivela l'altra persona, esile e imberbe quanto Paul il barista è peloso. Il giovane ha gli occhi spalancati e vacui; cerca annaspando un paio di occhiali e, quando li ha inforcati, sembra vestito, sebbene sia lui, sia Paul non abbiano addosso altro che il lenzuolo. Comincia a voltarsi di nuovo verso Paul nel momento stesso in cui si piazza gli occhiali sul naso, protendendosi per abbracciarlo. «Va tutto bene» dice. «No» risponde Paul, fissando l'oscurità. «No.»
Il giovane sospira, stringe a sé Paul, poi lo lascia andare. Si districa dalle lenzuola e si alza. Paul si protende verso di lui ansiosamente. «Dove stai andando?» L'altro ridacchia. «A pisciare. Torno subito.» Poi si china verso Paul. «Te ne starai calmo e tranquillo, vero?» Paul annuisce. Il giovane accende la luce nel bagno, poi si chiude la porta alle spalle. Paul sbircia la porta e scivola fuori delle lenzuola. Apre il cassetto del comodino. Nel cassetto c'è una pistola. Paul esita, poi la prende. Se ne ficca la canna in bocca. Chiude gli occhi. Una lacrima sgorga e gli scivola giù per la guancia. Al di là della porta chiusa si ode lo scarico dello sciacquone. Lui preme il grilletto. Quando il pneumatico anteriore destro scoppiò con un botto sordo, simile alla lontana esplosione di una bottiglia Molotov, la Pacer deviò paurosamente. Liv lottò alle prese con il volante. Sapeva che cosa era accaduto, naturalmente - un urto contro un brutto affioramento di roccia mentre si spostava troppo a destra per evitare Linda Breen. Non v'era alcuno spazio per togliersi dalla strada dei cottage a una sola corsia, in quanto in quel tratto la rotabile passava in uno stretto corridoio di alberi e pertanto lei continuò a fare arrancare la macchina fino alla piazzola dopo la seconda curva. Poiché vi crescevano mirtilli e edera velenosa, era un posto tutt'altro che ideale per fermarsi, e quello che lo scoppio aveva lasciato del pneumatico veniva distrutto facendo andare l'automobile sul cerchione, ma non restava altro da fare. Linda aveva proseguito come se niente fosse sulla sua Ramcharger. «Va a farti fottere» disse Liv. Travis si sporse oltre lo schienale del sedile anteriore con un G.I. Joe in miniatura in ciascun pugno grassoccio. «Che cosa è successo, Liv?» «È soltanto scoppiata una gomma» disse lei. «Resta sulla macchina mentre io scendo e vado a guardare com'è il danno, okay? C'è edera velenosa, qui.» «Okay» disse il bambino. Aveva fatto qualche esperienza con l'edera velenosa. Tornò a dedicarsi ai suoi soldatini, i G.I. Joe, come li chiamava. «Fa' attenzione, Liv» disse. «Certo» rispose lei. In certi momenti Travis si comportava come un'anziana signora. La calura rendeva l'aria talmente densa e ferma che lei non riuscì a fiuta-
re l'acqua fresca del lago, a meno di quattrocento metri di distanza. Era come trovarsi entro un sacchetto di plastica. Le sole cose in movimento erano gli insetti. Immediatamente vennero a trovarsi ovunque intorno a lei, un piccolo uragano violento e localizzato del quale lei era l'occhio. Li scacciò spazientita, agitando le mani, augurandosi di essersi ricordata di prendere la lozione repellente. Di solito i piccoli bastardi la lasciavano in pace. Forse era il sudore del nervosismo ad attirarli, oppure il sapore di sangue infetto che aveva in bocca. Tirò fuori il cric, la gomma di scorta e la coperta da spiaggia che si trovava sul lunotto della Pacer. Piegata più volte, la coperta le consentiva di accovacciarsi e di inginocchiarsi, oltre a isolarla da ogni contatto accidentale con l'edera velenosa, mentre lei si sarebbe sforzata di svitare i dadi per cambiare la ruota. Mezz'ora dopo era stata punta dagli insetti, si sentiva zuppa di sudore ed era riuscita a svitare soltanto tre dadi, scorticandosi varie volte, sanguinando e spezzandosi le unghie. Oltre al dolore alla gengiva, a causa del dente estrattole due giorni prima, aveva un pulsante mal di capo causato dal sole. Travis si sporse fuori da un finestrino aperto della Pacer. «Voglio tornare a casa, Liv» disse, per la quarta volta in sette minuti. «Merda» imprecò Liv. Gettò a terra la chiave inglese. «Anch'io.» Si passò una mano sulla fronte. «Lasciamo la macchina qui e andiamo a piedi, okay?» «È lunga la strada?» domandò Travis. «Circa un chilometro e mezzo. Puoi farcela.» Lui aprì la portiera e discese. «Mi porti qualche soldatino?» «Ma certo.» Riempirono di G.I. Joe le tasche dei calzoncini. Liv rimise gli attrezzi sulla macchina, sollevò la gomma di scorta entro il portabagagli, abbassò i cristalli dei finestrini per circa due centimetri e mezzo, chiuse a chiave le portiere e si mise le chiavi in tasca. Lasciarono sul sedile posteriore il giornale che erano andati a comprare. «Okay» disse lei. «Incamminiamoci.» Travis camminava molto adagio. Liv cercò di tenerlo all'ombra degli alberi, lungo i margini della strada, ma il gruppo che ogni anno disboscava aveva lasciato lunghi tratti esposti al sole. Gli insetti banchettavano. Travis li spiaccicava con colpi schioccanti delle mani e si grattava le punture e si preoccupava a voce alta a causa dell'edera velenosa. «Vorrei che fossimo arrivati a casa, Liv» disse. «Questi insetti mi stanno ammazzando.»
«Cammina un po' più in fretta, Trav» disse Liv. «Forse non ti raggiungeranno così spesso.» «Sono più veloci di qualunque cosa» disse Travis. «Più veloci di un proiettile.» «Be', fingi di essere in guerra e che ti abbiano ferito» suggerì Liv. Lo era, del resto. Chiazze frastagliate di sangue che andava raggrumandosi ed accesi gonfiori gli segnavano il collo, le orecchie, le braccia e le gambe, dappertutto ove la pelle chiara di lui rimaneva scoperta. E lei stessa era punta più di quanto ricordasse di esserlo mai stata dalla fanciullezza in poi. Ma, peggio ancora, il sole stava minacciando di farle scoppiare la testa. «Vorrei essere a casa» disse Travis, in tono afflitto. «Anch'io» disse Liv. Si rifilò una pacca violenta sul collo. «E vorrei che tutti questi maledetti insetti fossero all'inferno.» Dietro di loro, il rumore di un'automobile divenne più forte. Liv prese per mano Travis e lo portò molto al di là del margine della strada. Due macchine erano già passate accanto a loro: una Lincoln Continental bianca, resa grigia dalla polvere della strada e guidata da Claire Winslow, che aveva salutato con la mano sorridendo leziosa e sbirciandoli da sotto gli occhiali da sole a lustrini. I cani di Claire lasciavano penzolare le piccole teste triangolari fuori del cristallo abbassato di una portiera posteriore, con le lingue appuntite saettanti. Abbaiavano e guaivano istericamente, gli occhietti, vividi e stupidi, frenetici in permanenza. Dopo aver tossito e soffocato nei gas di scarico dell'automobile di Claire, Liv e Travis si erano affrettati a voltare la testa verso i boschi udendo avvicinarsi un altro veicolo. Era passata la BMW color verde-bottiglia di Barrie Spellman. Barrie non aveva distolto nemmeno per un attimo lo sguardo dalla strada. Poco dopo si udì sopraggiungere un'altra automobile e di nuovo loro due si scostarono dalla strada, allacciandosi e trattenendo il respiro. Liv si stupì udendo la macchina rallentare. Voltò la testa verso la strada e si sforzò di sorridere. Miss Alden abbassò il cristallo della sua vecchia Plymouth Fury. Portava un cappello di paglia, un panama, legato sotto il mento con tulle o con qualche altro fine velo. Una sola mano sul volante, guidava con l'avambraccio abbronzato e muscoloso appoggiato al finestrino aperto e le dita forti e tozze di lei sfioravano il tetto della berlina. Aveva le unghie ondulate e spesse; se fossero state appuntite, sarebbero potute essere veri e propri artigli, ma erano spezzate e rese frastagliate dal lavoro. Sapevano tutti che
spaccava lei stessa la legna da ardere e provvedeva ai lavori di manutenzione della casa. Ora fermò la macchina. «Signora Russell» disse «non è sua l'automobile parcheggiata più indietro con una gomma a terra?» «Temo di sì» rispose Liv. «Come sta, Miss Alden?» «Sto tale quale come sempre» rispose lei. «Sono passata da casa sua qualche mese fa, quest'anno. Ma non c'era nessuno. Volevo ringraziarla per il biglietto e la pianta in vaso che mandò a Betty. Il vaso era graziosissimo. Opera sua, penso?» Liv sorrise e strinse la mano di Travis. Il bimbetto alzò lo sguardo su di lei, la paura enorme negli occhi, e le si fece ancora un po' più vicino. Aveva sentito dire da Sarah che Miss Alden era un vecchio drago. «Spero che Miss Betty stia meglio» disse Liv. «Non starà mai meglio» disse Miss Alden «ma grazie ugualmente. Ora perché non salite sulla mia macchina, evitando il sole e gli insetti? La porterò direttamente a casa sua se vuole; oppure possiamo tornare indietro e le darò una mano per cambiare quella gomma. Ne ha una di ricambio?» Liv non esitò. «Che Dio la benedica. Sì, ce l'ho.» Aprì la portiera anteriore. «Salta su, Travis» disse. Il bambino esitò. Liv gli batté la mano sul sedere. «Forza. Vuoi essere mangiato vivo?» Travis salì tenendo nervosamente d'occhio Miss Alden e sedendo il più lontano possibile da lei e più vicino che poteva a Liv. La vista del bastone da passeggio di Miss Alden, dal pomo d'oro, appoggiato al sedile accanto a lei, parve rassicurarlo, come si propongono di rassicurare i confini. Non era insuperabile, non si trattava di un muro invalicabile ed inviolabile, ma costituiva un segnale, come una bandiera piantata per rivendicare la proprietà di un territorio: Questo è mio: Quello è tuo. «Conosce già Travis, non è vero?» domandò Liv. Miss Alden annuì energicamente e poi ripartirono lungo la strada. «L'ho conosciuto molto tempo fa, temo» disse Miss Alden. «Ti ricordi di Miss Alden, Trav?» Travis guardò Miss Alden con gli occhi spalancati e fece di sì con la testa. «Che cosa è successo a Miss Betty?» domandò. Miss Alden lo guardò e un sorriso stupito le incurvò le labbra sottili. Non gli rispose subito, ma sterzò a sinistra nel viale d'accesso degli Spellman, voltò la testa per guardare e fece marcia indietro sulla strada, invertendo la direzione di marcia per tornare alla Pacer.
«Ti ricordi di Miss Betty, allora?» disse infine. Travis parve rilassarsi. Tolse dalla tasca dei calzoncini uno dei suoi G.I. Joe e lo esaminò attentamente. «Sicuro» disse. «Mi aveva dato quei dolcetti, com'è che li chiami tu, Liv? Quelli che hanno una cima e un fondo e qualcosa dentro?» «Cannoli» disse Liv. La stupiva il fatto che Travis ricordasse di aver avuto dei pasticcini da Betty Royal. Quel giorno sembrava così lontano, ormai, anche se non poteva risalire più indietro nel tempo dell'inizio dell'estate precedente. Travis, che non aveva ancora compiuto tre anni, stava mettendo i denti e si era conciato in modo disastroso. Liv aveva dovuto immergerlo nel lago per eliminare la bava, le briciole dei cannoli alla cioccolata, e sabbia dal viso, dai capelli incolori e molto sottili, e persino da un orecchio. Si era trattato di una delle poche occasioni nelle quali Liv aveva incontrato Miss Betty Royal, da molti anni la compagna di Miss Alden. Se ne ricordava non tanto per le condizioni disastrose nelle quali si era ridotto Travis - il bambino era sempre in uno stato disastroso, allora - ma perché Miss Royal, dopo aver parlato piacevolmente e del tutto razionalmente di cose senza importanza, come si suol fare con una nuova vicina che si conosce appena, l'aveva consigliata, con molta calma, di stare attenta ai fili elettrici che crescevano fuori dei muri. Le sue condizioni di salute erano peggiorate durante l'estate e, a fine agosto, aveva dovuto essere ricoverata in ospedale. Quell'anno Miss Alden non era intervenuta al ricevimento offerto dai Winslow in occasione della Festa del Lavoro. In seguito, Liv aveva saputo che Miss Royal poteva essere affetta dal morbo di Alzheimer e che Miss Alden era stata costretta a farla chiudere in un manicomio. Liv aveva mandato una cartolina illustrata di Nodd's Ridge e una pianta in vaso, un vaso creato da lei stessa, e le era pervenuto un biglietto di ringraziamento da parte di Miss Alden. «Betty non può scriverle personalmente. Temo che non ricordi chi è lei. Ma guarda la cartolina e tocca sia l'edera, sia il vaso che lei ha mandato e che la rendono felice. Per questo la ringrazio moltissimo.» Miss Alden portò la macchina fuori della strada, accanto alla Pacer. La mano di lei discese impulsivamente sul bastone da passeggio. «Suo marito è ancora via?» domandò a Liv, mentre scendevano. «Sì» rispose Liv. «I mariti fanno comodo per cambiare le gomme, vero?» osservò Miss Alden.
«Certuni sì» rispose Liv. Poi aprì il portabagagli. Miss Alden osservò gli attrezzi e la ruota di ricambio che lei aveva messo nel portabagagli della Pacer, toccando qua e là con il bastone da passeggio. «Aveva già cominciato, vero?» «Non sono riuscita a togliere tutti i dadi» disse Liv. «E i maledetti insetti non ci lasciavano in pace» disse Travis. «Travis!» esclamò Liv. Miss Alden arrovesciò la testa all'indietro e rise. «Lo hai detto anche tu» osservò Travis. «Be', sì, è vero» ammise Liv. «Sono insetti maledetti.» Sorrise e al contempo arrossì. «Diamoci da fare, allora» disse Miss Alden. «Forse rimarrà ancora qualcosa di noi, quando avremo finito, e non soltanto hamburger.» Travis si accovacciò all'ombra dell'automobile di Miss Alden per stare a guardare. Lei gli porse il bastone da passeggio. Il bambino sorrise, maneggiandolo come se avesse temuto che potesse spezzarsi. Quanto a lei, parve non averne bisogno mentre camminava con disinvoltura a gran passi intorno alla macchina. Le due donne si guardarono attorno cercando un tratto ove non crescesse edera velenosa, poi vi portarono la gomma di ricambio. Di nuovo sollevarono la macchina con il cric, e Miss Alden si accosciò, la spalla contro la ruota, per svitare i dadi con la chiave inglese. Liv non si stupì della forza della donna più anziana. Miss Alden aveva un portamento militaresco, era abbronzata a furia di lavorare al sole e non voleva saperne della cavalleria degli uomini. Poiché lavorava lei stessa con le sue mani, Liv osservava le mani altrui. Quelle di Miss Alden sembravano forti e lo erano. Non incontrò alcuna difficoltà con i dadi, e si limitò a grugnire soddisfatta man mano che ne toglieva uno, come se fosse stata un dentista che estraeva denti. Allorché ebbe finito, tolse in men che non si dica il pneumatico scoppiato. Liv fece rotolare accanto a lei la ruota di ricambio e le venne consentito di aiutare a infilarla. Poi Miss Alden si accosciò una seconda volta per avvitare i dadi. Infine lasciò cadere la chiave inglese e rimase accosciata come una pellerossa. «Ecco fatto» disse. Liv la ringraziò. «Da sola non ci sarei mai riuscita.» «Storie» disse Miss Alden. «Aveva già allentato tutti i dadi per me.»
Poi si alzò, una mano sul fianco, come se le dolessero un po' le giunture, e aiutò Liv a riabbassare la macchina manovrando il cric e a riporre gli attrezzi nella loro custodia. «Quella roccia sulla curva?» domandò Miss Alden, mentre gettavano il pneumatico scoppiato nel portabagagli senza curarsi di fissarlo nell'apposito alloggiamento. «Sì.» «Bisognerebbe segnarla.» «Oh, è vero» riconobbe Liv e prese mentalmente nota del fatto che, la mattina dopo, doveva verniciare la roccia di arancione. Miss Alden si pulì le mani sui pantaloni kaki. «Ha l'aria di essere sfinita. Le andrebbe un bicchiere di tè ghiacciato a casa mia? O ha fretta di tornare a casa?» Miss Alden tese le mani verso Travis e il bimbetto le offrì il bastone da passeggio. Lei lo accettò con un mezzo inchino e un'aria seria, poi si appoggiò ad esso con noncuranza. «Ho dei soldatini di stagno che forse a Travis piacerebbe vedere» continuò. «Oh, per piacere, Liv» si affrettò a dire Travis. Liv annuì. «Grazie. È così gentile con noi, Miss Alden.» «Non dica sciocchezze» rispose, brusca, l'altra. «E mi chiami Helen, vuole?» «Se lei mi chiamerà Liv.» Miss Alden li precedette. Liv alzò i cristalli della Pacer e inserì l'aria condizionata. Travis le sedette accanto sul sedile anteriore. «Dammi le aspirine, ti spiace, tesoro?» disse Liv. Il bambino fece scattare il coperchio del cassetto dei guanti e ne tolse il flaconcino di plastica. «Ti fa male qualcosa, Liv?» domandò, comprensivo. «Ho mal di capo» rispose lei. «L'aspirina fa passare anche il male delle punture degli insetti?» Liv masticò la compressa e ci pensò su. «Dovrebbe. Ne vuoi una? Bisogna masticarla.» Travis rifletté, poi tese un palmo non troppo pulito. Lei gli fece cadere nella manina una singola compressa. Facendo smorfie il bambino la masticò pensieroso, e infine deglutì a fatica. «Yuck» disse. E con ciò la questione parve chiusa.
La strada salì fino al loro viale d'accesso, poi, quando se lo furono lasciato indietro, tornò a scendere e divenne pianeggiante cdme lo era il paesaggio. La casa di Miss Alden era l'ultima su quella strada, e anche la più antica. Si trattava dell'ex proprietà Dexter, una fattoria che per cento anni era stata la prima e unica abitazione all'estremità nord del lago. Diversamente dai villini e dalle case estive dei vicini, costruite su piccoli appezzamenti di terreno con vista sul lago, la casa di Miss Alden era isolata, circondata da fitti boschi e da una ventina di acri delle originarie proprietà Dexter. Molto più vicina al lago di tutte le case costruite successivamente, la sua ampia veranda coperta, ombreggiata dagli alti e vetusti alberi, dava su una invidiatissima spiaggia di sabbia, creata negli anni venti, prima che simili modificazioni della sponda venissero regolate dalla legge. Bassi cespugli di mirtilli tenevano ferma la sabbia. Al lato opposto della casa il terreno era fertile e consentiva vaste distese di prati, aiuole fiorite e un orto. A breve distanza, meli nodosi continuavano a dare ottimi frutti. Il luogo era sempre fresco e bello, sapeva delle cose verdi che crescono e dell'acqua del lago, limpida come quella delle fonti battesimali. Liv abbassò il cristallo del finestrino e respirò profondamente. L'aspirina le stava facendo passare il mal di capo e il mal di denti. La vecchia casa era costruita in pietra, con muri spessi e un tetto di ardesia. Aveva una struttura semplice, niente altro che un rettangolo, con il primo piano ben protetto dagli spioventi del tetto. Durante gli anni venti, a uno dei lati più corti della casa era stata aggiunta la veranda, che, sebbene avesse il tetto asfaltato e il pavimento di legno, vantava anch'essa pilastri ad arco e fondamenta di pietra. L'edera si era impadronita della pietra tanti di quegli anni prima che i tralci erano legnosi e spessi come cavi dell'alta tensione. Intorno alle fondamenta, i tralci erano stati recisi di recente, per cui la pietra rimaneva scoperta. E, dalla pietra nuda, le finestre strette dello scantinato sembravano guardar fuori inespressive. Ma i vetri, incrostati di polvere, erano stati tolti, forse per essere puliti, e rimanevano appoggiati al muro. Una chiazza rossa colse lo sguardo di Liv e, quando allungò il collo, lei vide una fila di mattoni sui davanzali, Miss Alden stava facendo murare le finestre dello scantinato. Miss Alden tardò a scendere dalla macchina, avendo indugiato per controllare l'inclinazione del cappellino nel retrovisore e per prendere il bastone da passeggio; così Liv e Travis salirono sulla veranda e l'aspettarono sull'ultimo scalino. Ad una estremità di ciascuno scalino, cactus crescevano entro grossi vasi di argilla.
«La porta è aperta, entrate» gridò loro Miss Alden, scendendo dalla Plymouth. Travis spinse la porta a zanzariera e Liv lo seguì entro la veranda. Sentirono subito una temperatura di gran lunga più bassa di quella esterna, e un gran silenzio, come quello che regna sotto le volte delle biblioteche e delle chiese. Cuscini logori, che sapevano di piume eternamente umide, rivestivano poltroncine di vimini, dondoli, un'altalena. All'estremità opposta della veranda, un'amaca pendeva inerte, come una bandiera nell'aria senza vento. Una singola finestra dava sull'interno della casa. Il bastone da passeggio di Miss Alden picchiò sugli scalini dietro di loro e sul pavimento della veranda. Lei li oltrepassò con un mazzo di chiavi in mano. «Entrate, entrate». La porta, così come gli stipiti, era moderna ed aveva l'aria di essere nuova, fatta su ordinazione, di pino massiccio e solido, in modo che si adattasse all'apertura; ma si imperniava su antiquati cardini in ferro battuto, forse quelli originari. Aveva un chiavistello di ferro in luogo della solita maniglia a pomolo, incongruamente sormontato da una serratura nuova di zecca. Le pareti in pietra della casa erano state intonacate e rivestite di legno. In luogo delle più comuni strisce di legno strette e verticali, il rivestimento era fatto a pannelli come quelli di una porta, verniciati di bianco e alti fino alla vita. Come i pannelli di una porta o come quelli della libreria di mogano nella casa vittoriana di Neal Street, a Portland, che era la dimora dei Russell durante l'inverno. Sulla parete di fronte, il rivestimento di legno incorniciava il caminetto, lasciando scoperti soltanto la mensola di pietra e i montanti di granito. Le dita di Travis strinsero nervosamente i calzoncini corti di Liv quando il bambino scorse i numerosi trofei di caccia, le teste impagliate di animali lungo le pareti: un leone, un cervo dalle corna imponenti, uno sciacallo. I loro occhi di vetro, polverosi e spenti, anziché rendere il leone e lo sciacallo, con quel feroce sfoggio di zanne gialle, meno terrificanti, ne accentuavano l'aspetto minaccioso. Il caminetto era tanto grande da far pensare che vi si potesse arrostire una grossa belva, oppure i maiali di Len Winslow. Ceppi da ardere erano collocati sugli appositi sostegni in ferro battuto e altra legna si trovava ben disposta a portata di mano contro il rivestimento di legno. Accanto al caminetto, una scatola di ottone, avvitata allo zoccolo, conteneva zolfanelli. Il pavimento era di larghe assi di pino, non verniciate, ma consumate fino ad essere divenute di un caldo e traslucido color oro-birra; su di esse Miss Alden aveva disposto, a mo' di tappeti, le pelli degli animali. Una pelle di zebra dal pelo ruvido da-
vanti alla porta, una pelle d'orso, con la testa e tutto, davanti al caminetto, la pelle del leone decapitato lungo il divano. In entrambe le pareti più lunghe si aprivano due piccole finestre dai molti riquadri, davanti alle quali erano appese semplici e bianche tende di rete. La luce che penetrava dalle finestre non era molta e la stanza, nonostante le superfici bianche e riflettenti delle pareti e del soffitto, era buia e fresca. Miss Alden fece scattare un interruttore della luce, illuminando un grande lampadario a ruota di carro in ferro battuto, appeso a una delle travi a nudo del soffitto. La sua luce acquosa ricordò loro la vivida luminosità del giorno all'esterno e l'impermeabile spessore dei muri di pietra che li racchiudeva. «Fate come se foste a casa vostra» disse Miss Alden. «Io torno subito.» Scomparve su per la ripida scala che saliva a destra della porta, appoggiandosi al bastone puntellato dinanzi a sé, un po' come si fa con la piccozza dello scalatore. La stanza era stata arredata con quei mobili che vengono scartati e relegati in una dimora estiva quando hanno perduto il loro primo fascino, ma sono considerati ancora troppo in buono stato per essere gettati via. Erano antichi e comodi ed emanavano un certo odore, non soltanto l'odore accumulato delle persone e dei gatti o dei cagnetti che se ne sono serviti, ma anche quello degli spray per lucidare e delle vernici, nonché dei loro stessi, vecchi rivestimenti di tessuto e di umidità e di lunghi periodi di abbandono. Sul focolare di pietra, una bottiglia azzurra, che un tempo aveva contenuto acqua minerale svedese, era colma di margherite e dei primi 'pizzi della Regina Anna', come vengono chiamati, i fiori che segnalano la fine dell'estate e promettono cumuli di neve là ove il loro colore bianco ondeggia sull'erba alta dei campi. Un piccolo pianoforte a coda abbelliva la parete lunga, di fronte alla scala. Liv si domandò come potesse resistere all'umidità e al gelo dell'inverno, e perché i vandali non l'avessero distrutto. Avvicinatasi poté percepire l'odore della vernice e vedere i solchi che sfregiavano il legno, come una rete di strade dirette verso il nulla e scavate nella neve alta, solchi che nessuna mano di vernice sarebbe mai riuscita a nascondere. I ladri introdottisi nella casa... doveva essere questa la ragione per cui lei stava facendo murare le finestre della cantina. Travis mise la mano nella sua. Lei gliela strinse e lo condusse verso il divano, che cigolò in modo amichevole quando vi si sedettero. V'era un grande cestino di vimini, con lavori d'ago, a portata di mano; Liv ricordò
Miss Royal che piegava il lavoro d'ago e lo poneva nel cestino, prima di alzarsi da quello stesso angolo del divano nel quale sedeva lei adesso per farsi incontro ai nuovi vicini, la sola altra volta in cui era stata in quella casa. Gli altri suoi incontri con le due donne avevano avuto luogo nell'ufficio postale di Nodd's Ridge, oppure passeggiando lungo la strada dei cottage, o sulla sponda del lago, o raccogliendo bacche nei campi lì attorno. Per tre estati, Miss Alden e Miss Royal avevano continuato ad essere, semplicemente, le due anziane lesbiche che abitavano nelle vicinanze. Zoppicando, Miss Alden discese la scala. Indossava ancora la camicia kaki da safari e i pantaloni infilati negli stivaletti neri, ma al posto del panama, si era annodata intorno al capo, alla maniera degli zingari, una sciarpa di seta nera e aveva rinfrescato il rossetto sulle labbra. Reggeva tra le mani una cassetta di legno rivestita di cuoio, delle dimensioni di un grande armadietto per il pane, e teneva il bastone da passeggio sotto il braccio. «Questa potrebbe interessarti» disse a Travis. Poi gli porse la scatola. Con gli occhi sgranati, Travis la prese e se la mise sulle ginocchia. Sollevò il coperchio. All'interno, soldatini di piombo dalle uniformi blu, alti sette centimetri e mezzo, erano disposti a file alterne con altri soldatini di piombo dalle uniformi grigie. Alcuni avevano la rigida posizione dell'attenti, con il fucile tenuto diagonalmente contro il corpo, mentre altri rimanevano inginocchiati per sparare. Tutti erano dipinti con una mirabile minuziosità di particolari; occhi azzurri o castani, capelli biondi, castani, neri e persino due soldatini dai capelli brizzolati, con i gradi di ufficiale. Uno degli altri soldatini portava gli occhiali, altri sfoggiavano la barba, o i baffi, o le fedine, e tre dei soldati semplici erano di pelle nera. Complessivamente v'erano due colonnelli, quattro capitani, sei tenenti, dieci sergenti, venti caporali, cento soldati semplici e due generali dall'uniforme sfavillante. «Mamma mia!» alitò Travis, meravigliato. «Travis!» esclamò Liv. «Miss Alden! Sono meravigliosi!» Miss Alden ridacchiò. «Quando avevo sei anni desideravo questi soldatini più di ogni altra cosa al mondo. Non erano affatto adatti a me, naturalmente. Ma chiamai a raccolta il coraggio e li chiesi ugualmente. Vennero regalati invece a mio fratello, che compiva gli anni tre giorni dopo di me. Era il migliore dei fratelli, sai, Travis. Si chiamava Emmet. Li diede a me, alla presenza dei nostri genitori, perché, disse: 'Helen non ha pianto, sebbene li desiderasse tanto'. E io glieli ridiedi, anni dopo, quando era-
vamo ormai adulti e lui aveva un figlioletto. E in seguito tornarono di nuovo a me. Il bambino di Emmet morì e lui non sopportò più di vederli per casa.» Travis le sorrise. «Posso giocarci?» «Ma certo» disse Miss Alden. «Quel focolare laggiù può essere un superlativo campo di battaglia.» Il bimbetto guardò sua madre. «Che cosa vuol dire superlativo, Liv?» «Fantastico.» Travis scivolò giù dal divano tenendo entusiasticamente la scatola. Aveva le guance accese dall'eccitazione. «Superlativo» mormorò pensieroso, mentre cadeva in ginocchio davanti al focolare. Miss Alden lo osservò, tenendo le mani sulle cosce, subito sopra le ginocchia e mostrando i denti larghi, ingialliti e alquanto ferocemente storti, sino alle gengive, con un rigido sorriso. Come la scatola dei soldatini, il sorriso di lei sembrava essere stato tolto da un ripostiglio, un sorriso scolorito e gualcito, come qualcosa che fosse rimasto piegato all'umidità e al buio per lungo tempo, in una credenza o in una soffitta. Poi, bruscamente, lei si alzò. «Gradirebbe, immagino, il tè ghiacciato che le ho promesso. So che io lo gradirei» disse. «Posso aiutarla in qualche modo?» le propose Liv. Miss Alden la scrutò attentamente; non v'era alcunché d'inutilizzato, o di abbandonato in un ripostiglio, nei vividi occhi di lei; vedevano tutto. «No, no» disse. «Ha l'aria di essere esausta, se mi consente di dirglielo. Le duole qualcosa?» Liv arrossì. «Soltanto un mal di capo. Ho preso un'aspirina mentre eravamo in macchina.» Miss Alden tacque. A Liv accadde di pensare che, ai suoi tempi, doveva avere ascoltato le menzogne di chissà quanti studenti. Ma la donna anziana ed alta di statura si limitò ad annuire. Poi, appoggiandosi al bastone, si avvicinò all'antiquato frigorifero. «Mamma mia!» alitò Travis. Voltò la testa, sbirciando sua madre oltre la spalla, il viso splendente di entusiasmo. «Guarda questo, Liv!» E le mostrò un cannone. Aveva disposto tutti i soldatini sul focolare e scoperto nella scatola un secondo strato, di pezzi d'artiglieria e di cavalli della cavalleria. «Fantastico» gli assicurò Liv, ma lui era già tornato a calarsi nel suo ra-
pimento. Miss Alden posò un vassoio sul tavolino da caffè. «Per quanto mi dispiaccia interrompere le manovre di Travis» disse «forse il bambino gradirà qualcosa.» «Travis» disse Liv. Travis tornò ad alzare gli occhi e vide gli alti bicchieri colmi di tè e il piatto di cannoli sul vassoio. Fece una smorfia, poi, con cautela, posò sul focolare i due cavalli che aveva in mano e si avvicinò di corsa al tavolino da caffè. «Zucchero?» domandò Miss Alden. «Sì, per piacere» disse Travis. Si asciugò la fronte con la mano sudicia, lasciandovi una macchia che sembrava di cenere. Con l'altra mano prese il bicchiere. «Qualche pasta?» domandò Miss Alden. «Sì, grazie.» Con somma concentrazione, fece sparire ben presto un cannolo. Poi vuotò il bicchiere sorbendo rumorosamente. «Ancora un po' di tè, Travis?» domandò Miss Alden. Il bambino sbirciò speranzoso sua madre. Liv annuì. Miss Alden tornò a colmare il bicchiere con la teiera che si trovava sul tavolino. Poco dopo si chinò verso Travis per darglielo. «Sai serbare un segreto?» gli domandò. Gli occhi di Travis si spalancarono al di là dell'orlo del bicchiere. Subito il bambino fece di sì con la testa, solennemente. Miss Alden gli porse la mano. Il bimbetto posò con cautela il bicchiere sul tavolino, quindi dalla posizione in ginocchio passò a quella in piedi. «In questa casa vi sono molti segreti» disse Miss Alden, volgendo uno sguardo da proprietaria tutto attorno nella stanza. «Per esempio...» Si alzò, andò accanto alla finestra più vicina, e accostò rumorosamente le imposte di legno. Le imposte scivolarono fuori dalle spesse mura di pietra, simili alle lame di ghigliottine arrugginite. Travis sorrise a Liv. Gli danzavano gli occhi. «Incassate nei muri» disse Miss Alden. «Imposte indiane.» Di nuovo porse la mano e Travis si precipitò a prenderla. Lei lo condusse, al passo lento di una processione, verso il caminetto. «Questa casa è la più antica di tutta Nodd's Ridge. Non fu la prima ad
essere costruita, ma è la più antica che ancora rimanga in piedi» gli disse. Travis alzò gli occhi su di lei, aspettando la rivelazione del segreto. «È talmente antica che l'uomo dal quale venne fatta costruire, Stephen Dexter, vale a dire il mio pro-pro-pro prozio, temeva che i pellirosse potessero attaccare la casa e uccidere lui e la sua famiglia.» Travis trattenne il respiro. «Per conseguenza, fece costruire un nascondiglio segreto che avrebbe protetto i suoi cari anche se la casa fosse stata incendiata e rasa al suolo dai pellirosse. In realtà non accadde mai niente del genere. Tutti i pellirosse morirono di colera, come la prima moglie di Stephen Dexter e tre dei suoi figli. Ma il nascondiglio segreto esiste ancora.» Ciò detto, Miss Alden puntò in avanti il bastone da passeggio e premette con esso un punto dei pannelli di legno a sinistra del portafiammiferi in ottone. E una parte del rivestimento, grande all'incirca come lo sportello di una credenza, si aprì. Travis trattenne il respiro. Liv balzò in piedi stupita. Dietro lo sportello si trovava un foro nero, una galleria scavata nella pietra, nel muro stesso della casa e nel camino. Miss Alden spalancò la porta segreta ed entrò nella galleria. Travis, sempre stringendo forte la mano di lei, la seguì. Ma voltò la testa per guardare Liv, che subito lo raggiunse. Senza neppure un'occhiata alle proprie spalle per vedere se la stessero seguendo, Miss Alden si inoltrò, curva, nelle tenebre. Poterono udire i tonfi cavernosi del bastone da passeggio sulla pietra. Travis e Liv, che istintivamente incurvò la schiena, la seguirono. Subito la temperatura divenne più fresca. La luce alle loro spalle mostrava i gradini in salita di una ripidissima scala di pietra. Il passaggio era talmente stretto che non potevano fare a meno di toccarne le ruvide, fredde, rozze pareti ad ogni movimento, e non soltanto con le mani, ma con tutto il corpo, per cui sembrava che fossero le pareti stesse a protendersi verso di loro. Travis intensificò la stretta sulla mano di Liv e lei suppose che la intensificasse anche su quella di Miss Alden, la quale era una sagoma scura, come un'ombra nei fitti boschi in qualche gelida e buia notte invernale, più in alto di loro. Il respiro del bambino era divenuto più affrettato, come, del resto, il suo. Alle loro spalle, la porta ricavata nel rivestimento a pannelli si richiuse adagio. Travis trasalì e conficcò le unghie nel palmo di Liv. Miss Alden si voltò e bisbigliò. «Non aver paura, sei del tutto al sicuro qui dentro.»
E, con uno strattone alla mano di Travis, li condusse entrambi più in alto nell'oscurità totale. Di tanto in tanto, sembrava che il pomo d'oro del bastone da passeggio baluginasse, riflettendo una minuscola quantità di luce filtrante da qualche ignoto punto, forse dagli orli della porticina segreta. Ma in quei momenti veniva fatto di pensare che il pomo baluginasse per una sua magia. Gli occhi di entrambi avevano appena cominciato ad adattarsi all'assenza di luce quando Miss Alden si fermò. In quel punto il passaggio sembrava ampliarsi e seguire un'altra direzione. Lei picchiò sul muro alla propria destra. «V'è un muro di pietra spesso un metro e quindici tra noi e il caminetto.» Poi spostò il bastone da passeggio per picchiare sul muro alla propria sinistra. Il suono causato dal bastone fu quello del legno contro il ferro. «Qui c'è la rastrelliera per i fucili che Stephen Dexter fece ricavare nella parete.» Miss Alden brancolò con la mano libera per trovare l'altra mano di Travis nell'oscurità e gliela guidò, facendogli tastare le strisce di ferro che formavano la rastrelliera. Poi toccò a Liv. La stretta energica, callosa, quasi crudele di Miss Alden la fece trasalire; ma subito la vecchia le lasciò andare la mano dopo averla guidata sul ferro della rastrelliera. Liv si meravigliò del gelo delle canne dei fucili, mentre le tastava alla cieca. «Quanti sono?» domandò. «Otto. Ma si tratta soltanto di una parte della mia collezione. Gli altri li tengo a Wallesly. Provengono da varie fonti. Sono acquisti di mio padre, di Emmet e miei. Stephen Dexter non aveva alcuna intenzione di lasciare le sue armi ai pellirosse e pertanto fece mettere qui la rastrelliera. I ladri non l'hanno mai trovata.» Miss Alden ridacchiò. «Forse avranno più fortuna quest'anno.» Poi il bastone da passeggio di lei batté più in alto, sulla pietra. «Un metro più in là, da questo lato, vi è parte del muro esterno.» Ricominciò a salire e, di lì a poco, giunsero in cima agli scalini. Miss Alden sondò con il bastone da passeggio le tenebre davanti a loro, e si udì un tonfo quando esso toccò una porta, la gemella di quella accanto al caminetto, che si aprì davanti a loro. Vennero a trovarsi in una camera da letto sotto le gronde. Battendo le palpebre, si voltarono a guardare il budello dal quale erano venuti. L'uscita segreta si stava chiudendo. Miss Alden la toccò appena con il bastone da passeggio ed essa combaciò con il rivestimento a pannelli che terminava contro il caminetto della camera da letto. Poi la donna anziana si voltò verso di loro con un ampio sorriso. Aveva gli occhi accesi da una febbrile animazione.
«Che cosa ne dici?» domandò a Travis. «È davvero un grande segreto» rispose Liv, e si lasciò sfuggire il respiro che, senza accorgersene, aveva trattenuto. «Incredibile» disse Travis. «Davvero fantastico.» Liv rivolse un sorrisetto significativo a Miss Alden. La donna anziana rise. Poi, all'improvviso, divenne serissima. Chinandosi per guardare Travis negli occhi, si sigillò le labbra con un dito imperioso. «Ricordalo bene, è un segreto.» Tracciò il segno della croce sul proprio petto, il familiare gesto infantile. «Che possa morire se parlerò» disse. Travis, imitandola solennemente, fece altrettanto. «Vogliamo tornare al pianterreno?» domandò poi Miss Alden. «La prego» disse Liv. «Nel modo convenzionale o attraverso il passaggio segreto?» «Lungo il passaggio segreto» rispose Travis, con la voce resa acuta e stridula dall'eccitazione. Miss Alden si inchinò lievemente ad entrambi, e indicò con un gesto la porta segreta. «Trova la chiave, Travis». Il bambino si avvicinò ai pannelli di legno e li studiò con somma concentrazione. Poi cominciò a farvi scorrere le dita, premendo man mano che le spostava. Sentì qualcosa cedere sotto la pressione delle dita e la porta cominciò ad aprirsi. Alzò allora gli occhi sulle due donne, con un'espressione radiosa. Poi fece a sua volta un lieve inchino, indicando con un gesto la porta. Le due donne si chinarono, inoltrandosi nell'oscurità e lui le seguì. «Grazie» disse a Miss Alden, quando furono tornati nel soggiorno e la porta si fu richiusa alle loro spalle, per cui nessuno avrebbe mai potuto sospettarne l'esistenza. Bevve un secondo bicchiere di tè, poi, dopo aver chiesto il permesso con una rapida occhiata a sua madre, ghermì un altro cannolo e se lo ficcò in bocca. La guancia ancora gonfia mentre masticava rumorosamente, tornò davanti al focolare. Miss Alden prese un bicchiere di tè, ma non si rimise a sedere accanto a Liv. Si diresse invece, impettita, servendosi di nuovo del bastone da passeggio come di qualcosa di diverso da un appoggio, verso il pianoforte. Posato il bicchiere in cima allo strumento, lo aprì e cominciò a suonare una elettrizzante selezione di marce militari. Travis alzò gli occhi e sorrise. Fece marciare un paio di cavalleggeri a
tempo con il motivo di «La rosa gialla del Texas». Liv non poté fare a meno di ridere. E poi Miss Alden passò a musiche più lente e cullanti, motivi di film e moderne canzoni d'amore. Travis sorrise a Liv quando riconobbe «Carri di fuoco». Le goffe mani della donna anziana, con quelle unghie spezzate, si muovevano sui tasti dando prova di una prevedibile autorevolezza, ma anche con stupefacente femminilità. Per la prima volta Liv riuscì ad immaginare i rapporti sessuali tra quella donna e l'infermiera Betty, e non le parvero affatto grotteschi. Sembravano, anzi, romantici e, come ogni vero amore, si erano conclusi tragicamente. Miss Alden attaccò una canzone nuova, un brano che Liv non aveva mai udito prima. Quasi subito la musica divenne intollerabile, soffocante. Sembrava vibrare nei denti stessi e nelle ossa di Liv. Lei si coprì gli occhi e, non senza inorridire di se stessa, cominciò a piangere silenziosamente, ma in modo del tutto incontrollabile. La musica cessò. Seguì un breve silenzio, poi Miss Alden esclamò «Liv!» Nel protendersi verso il bastone da passeggio, appoggiato al pianoforte, lo fece piombare con un tonfo sul pavimento. Non si soffermò per raccattarlo, ma tornò a gran passi, alquanto rigidamente, verso il divano, sul quale si lasciò cadere con un movimento goffo, poi strinse Liv contro la propria sporgente clavicola. Annaspando, estrasse dal taschino un grande fazzoletto di cotone e lo mise nelle mani della sua ospite. «Su, su» disse spicciativa, come doveva aver detto innumerevoli volte a laureande spasimanti d'amore o a causa di fiaschi accademici o dei crampi del mestruo. «Mi racconti tutto.» Liv tirò su con il naso e si sforzò di ritrovare il dominio di se stessa. Ansiosamente, sbirciò Travis. Il bambino sembrava non essersi accorto di niente, tanto era assorto nella guerra che stava combattendo sul focolare, con effetti sonori creati da lui e sommesse esplosioni. «Ptuiii. Pkuuu!» «Che cosa c'è?» domandò Miss Alden, scostando via dagli occhi i capelli di Liv. «Che cosa non va?» «Non lo so.» Annaspò in cerca di parole. «La musica, la canzone. È la canzone più triste che abbia mai udito. Mi sento così stupida! Piangere per una canzone.» «'Elise'» disse Miss Alden. «'Für Elise'.»
Poi si rimise in piedi, rapidamente, stropicciandosi le mani. «La suonavo sempre per Betty» disse con un'aria afflitta. «Elizabeth, sa. Elise.» Liv si soffiò il naso, energicamente, nel fazzoletto di Miss Alden. «Mi dispiace di essere stata così infantile. Sembra che non vi sia più nerbo in me» disse. Servendosi della spalliera del divano come di una gruccia, Miss Alden ricuperò il bastone da passeggio, tornò al pianoforte e lo chiuse accuratamente. Riprese il bicchiere del tè e tornò indietro attraversando la stanza. Il ghiaccio tintinnò delicatamente entro il bicchiere, reagendo al ritmo irregolare del bastone da passeggio. Lei venne a sedersi sulla poltroncina di vimini disposta ad angolo rispetto al divano. «Come va il mal di capo?» domandò. Liv sedette più impettita. «Meglio, grazie. È scomparso completamente, in realtà.» Un momento di silenzio stette ad indicare una nuova tensione tra loro: Miss Alden aveva toccato Liv con familiarità e temeva che si fosse offesa; Liv era consapevole del disagio di Miss Alden e in preda quanto lei all'imbarazzo, ma a causa del proprio sfogo emotivo, e non perché fosse stata abbracciata da un'anziana lesbica. Cercò di escogitare un espediente per far capire a Miss Alden che aveva considerato l'abbraccio quello che era, un modo di consolare, e non un volgare brancicamento o un approccio sessuale, ma senza che questo la facesse sentire ancora più stupida di quanto già si sentiva. Anche Miss Alden sedette più impettita. Liv ammirò l'intrepido coraggio dell'anziana donna nel momento stesso in cui paventava le domande che, lo sapeva, Helen Alden stava per porle. «Cos'è che non va, in realtà?» domandò Miss Alden. «Mi ero fatta incapsulare alcuni denti. Poi mi è venuto un ascesso a uno di essi. Me lo sono fatta estrarre, ma adesso mi sta tormentando quello che chiamano 'dolore fantasma'» le disse Liv. «In teoria dovrebbe scomparire da un momento all'altro. E credo proprio che stia cominciando a diminuire.» Miss Alden annuì. «Per questo è tanto dimagrita?» Liv sorrise. «Non le sfugge niente, vero?» «Quando presto attenzione. Ma mi hanno distratta. E ora sento di essere stata troppo indulgente con me stessa. Ecco qui lei, che ovviamente non sta troppo bene, e non si è sentita bene per qualche tempo, e pertanto avrebbe
avuto bisogno di aiuto, o di compagnia» disse Miss Alden. «Si dovrebbe essere vicini migliori.» Liv si sentì pervadere dal rimorso e dalla compassione. La colpa di Miss Alden era la sua. Anche Miss Alden si era sentita sola ed era stata infelice, e non aveva avuto nessuno accanto a sé quando più sarebbe stato necessario. «Oh, Miss Alden» disse (non sarebbe mai riuscita a chiamarla Helen senza uno sforzo consapevole) «se soltanto avessi saputo!» Poi venne sopraffatta dall'imbarazzo. Cominciò a confondersi. «Non volevo essere di peso a nessuno.» «Questo non mi stupisce» disse Miss Alden. «Ci somigliamo molto, noi due, temo.» Non nascose la curiosità. «E non lo ha detto nemmeno a suo marito?» Liv sorrise. «Ci ho provato. Ma ora lo sa.» «Però non si trova qui. Lei continua ad essere sola.» «Adesso sto bene. Il mio peggior problema è l'insonnia. Tuttavia posso cavarmela. Lui ha un contratto da rispettare.» Miss Alden si schiaffeggiò le cosce con le grosse mani. «Sto facendo la ficcanaso.» Liv alzò le spalle e sorrise timidamente. «L'ho voluto io, scoppiando in lacrime, no?» Miss Alden si alzò. «Se avrà ancora bisogno di aiuto si rivolgerà a me, non è vero?» Non si trattava tanto di una domanda, quanto di un'asserzione. «Per il momento, perché non si sdraia e non si riposa? Travis si sta divertendo un mondo. Sarebbe un peccato impedirglielo. Qui fa fresco e io la lascerò in pace. Ho del lavoro da sbrigare giù nel mio laboratorio, ma non causerò alcun rumore.» Liv aprì la bocca per protestare come volevano le convenienze. Travis alzò gli occhi su di lei, con un sorriso radioso. Inducendola a richiuderla. Mentre si stava togliendo le scarpe di tela, Miss Alden scomparve passando per la porta sotto la scala e lei udì il bastone da passeggio picchiare sugli scalini della cantina, poi un andirivieni nello scantinato. Si percepì un odore di metallo incandescente, come quello di un saldatore e si udirono tintinnanti suoni metallici. Miss Alden in cantina, pensò Liv confusamente. A murare le finestre. O a murare qualcuno. Il sepolto vivo. Bastò questa riflessione balzana a farla ridacchiare. Ma gli odori erano fuorvianti. Stava forgiando qualcosa. Negli abissi del fuoco infernale, le fiamme riflesse negli occhi e nel fumo color
sangue che indossava come un mantello. Zanne metalliche da affondare in qualche povera creatura semiselvaggia. Lacerando pelliccia e carni e stritolando ossa. Si sarebbe udito un urlo spaventoso e la polvere si sarebbe posata, simile a fumo, su occhi vitrei. Ecco qualcosa che avrebbe dovuto dire a Miss Alden. Ma Miss Alden lo sapeva già. Non si rendeva più necessario lottare contro il coperchio delle tenebre. Chiuse gli occhi e si addormentò profondamente, quasi di colpo. Quando si destò, la stanza era stata lasciata in ombra dal cammino del sole sopra la casa. Miss Alden e Travis sedevano insieme, a gambe incrociate, davanti al caminetto, conversando seriamente. Travis le mostrava i suoi G.I. Joe, le spiegava che cos'erano e la metteva a conoscenza delle loro pratiche personali imparate a memoria a furia di farsi leggere da Liv quanto stava scritto sulle rispettive confezioni. Miss Alden, a sua volta, precisava grado e specializzazione dei soldatini di piombo che venivano ricollocati, uno ad uno, nella scatola. Liv li ascoltò sonnacchiosamente per alcuni minuti prima di sollevarsi a fatica sui gomiti. «La Bella Addormentata» disse Miss Alden a Travis, indicando con un gesto Liv. Travis rise. «Liv» disse «stavi russando.» «Grazie per avermelo detto» rispose Liv. «Bisognerà registrare su nastro la prossima seduta e stare a vedere se avremo battuto un primato.» «In realtà erano russamenti del tutto sommessi, da signora» disse Miss Alden. «Io invece, sì che sono grande nel russare, Travis.» Il bambino alzò gli occhi su di lei. «Figuriamoci, ho abbattuto alberi, russando» lei si vantò. Travis ridacchiava. «E anche una tenda, ma non una tenda piccolina, da boy-scout, bensì un tendone da circo.» Travis rise a più non posso. «E una volta» disse Miss Alden, tenebrosamente, «spazzai via un'intera casa.» «Noooo!» ululò Travis. «Proprio così» insistette lei. Lui rifletté, cinico, sull'asserzione. «Secondo me mi sta prendendo in giro.» Miss Alden lo fissò con uno sguardo penetrante ed inarcò un sopracciglio. «Be'» disse «un pochino.» Travis ridacchiò.
Servendosi del bastone da passeggio come punto di appoggio, Miss Alden si mise in piedi. «I maschietti mi piacciono» disse a Liv. «Ma non riesco più a sopportarli quando crescono. Fammi un favore, Travis.» E gli arruffò i capelli. «Non crescere.» Travis sorrise. «Ma devo crescere» soggiunse poi con allegria. «Ah» fece Miss Alden. «È questo il guaio.» «Temo di sì» disse Liv. «Ringrazia, Trav.» Il bambino ringraziò e si congedarono, entrambi scoccando rapide e furtive occhiate al pannello della porta segreta, nel tentativo di ricordare esattamente quale fosse il punto. E sbirciandosi poi a vicenda. Lo avevano veduto davvero il passaggio segreto, non era stata immaginazione. Vero? Annotarono i numeri di telefono di Miss Alden non figuranti nell'elenco, sia quello di casa Dexter sia quello della casa di lei nel Massachusetts e vennero severamente ammoniti a non comportarsi da estranei. Liv se ne andò sentendosi quasi bene per la prima volta dopo settimane. Quella visita aveva avuto effetti terapeutici, ma se perché era riuscita a parlare con qualcuno o perché si era messa a piangere, o perché si era addormentata, poteva soltanto supporlo. L'indomani portò là una torta all'arancia; ma, sebbene la Plymouth si trovasse nel cortile, Miss Alden non venne ad aprire la porta di casa. In seguito l'anziana signorina ringraziò per la torta, lasciata sulla veranda, con una cartolina illustrata alquanto fredda, per cui Liv decise che doveva essersi pentita delle proprie manifestazioni di amicizia. In qualche modo, la cosa non era sorprendente. Tuttavia, lei continuò a provare la sensazione di un qualcosa di incompiuto. C'era qualcosa di cui avrebbero dovuto parlare, qualcosa da cui la sua attenzione era stata distolta. Capitolo IV Non appena la luce e lo strepito del ricevimento andarono riducendosi alle loro spalle, come se si fossero trovati in un'altra zona della notte, La Povera sbucò fuori dei cespugli per trotterellare quasi silenziosamente accanto a loro fino a casa. Quando arrivarono, Pat non era quasi più brillo. La gatta gli venne tra i piedi mentre entravano in casa, e lui barcollò, imprecando, per mantenere l'equilibrio. La Povera saettò dentro, nel buio. Pat scomparve nella direzione della loro camera da letto. Liv si soffermò in cucina per leggere gli appunti applicati allo sportello del frigorifero. Erano fissati sotto calamite che avevano l'aspetto di cibi,
ma il cui scopo era quello di una sorta di commento editoriale da parte di Sarah. Una fetta di pancetta sottolineava: «Alle 10.37 ha telefonato Bayard. Ha detto che sarebbe rimasto alzato fino a tardi, e di richiamarlo per favore». Sotto una fettina di cetriolo sottaceto si trovava un foglietto con la scritta: «9.05. Ha telefonato tua madre. Richiamerà domani.» Tra Sarah e sua nonna non era mai esistita simpatia, nemmeno nell'infanzia di Sarah, quando lei non mancava mai di sbavare o di fare la pipì, attraverso il pannolino, sul tailleur di seta di Marguerite Dauphine. Marguerite, a sua volta, sembrava sempre capitare quando Sarah attraversava i suoi momenti peggiori, quando metteva il broncio, o strillava o faceva le bizze. Adesso che Sarah era entrata nell'adolescenza, Marguerite si trovava in uno stato costante di disapprovazione a stento tenuta a freno. E Sarah aveva preso l'abitudine di ricordare a Liv chi fosse ad infliggerle l'ipocrita ed impossibile Marguerite riferendosi invariabilmente a sua nonna come a «tua madre». Una fettina di pomodoro, un pomodoro più rosso e più succoso di qualsiasi altro esistente nei supermarket, bloccava il biglietto: «8.50. Ha telefonato Jane. Ti parlerà domani.» Nessun messaggio di Sarah a proposito di Travis o di se stessa. La ragazza aveva lasciato nell'acquaio i piatti di uno spuntino. Liv li mise nella lavastoviglie e spense la luce. Si recò non nella sua camera da letto, ma in quella dei figlioli, al lato opposto della casa. Sarah si trovava sdraiata a bocca aperta nel suo letto, con una maglietta e uno slip sul quale figuravano stampate piccole balene azzurre; portava ancora la cuffia del Walkman. Liv trovò il registratore a nastro, non più grande di un pacchetto di sigarette, nascosto a mezzo sotto i guanciali di Sarah e lo spense. Tirò su il lenzuolo e baciò sua figlia sulla fronte, come faceva sempre. Nel sonno, anche con l'apparecchio per raddrizzare i denti in bocca e la cuffia come acconciatura, Sarah era già una bella donna. Una donna del ventunesimo secolo, resa barbara dall'acciaio contro i denti e dal diadema elettronico. Travis se ne stava raggomitolato nel fioco bagliore della lampada notturna, con il pollice in bocca. Il sudore gli appiccicava alla testa i capelli sottili, rendendoli scuri, e il guanciale sotto il capo di lui era bagnato sia dal sudore, sia dalla bava. Il bambino trasse un respiro profondo e singhiozzante intorno al pollice. Molto dolcemente, Liv gli estrasse il pollice dalla bocca. Travis si voltò supino. Liv gli distese sopra, molto adagio, il lenzuolo, poi baciò anche lui.
Riattraversando la casa, trovò La Povera acciambellata sul divano. La prese con dolcezza, andò fino alla porta di servizio e la mise fuori. Quando entrò nella camera da letto, Pat si trovava ancora nel loro bagno. Lo udì lavarsi vigorosamente i denti con lo spazzolino, la qual cosa significava che voleva ancora fare l'amore. Sebbene fosse cresciuto così povero da essersi servito del sale per lavarsi i denti, era noncurante al punto da trascurarli. L'acqua di pozzo che aveva bevuto da bambino conteneva fluoro, a sufficienza per scolorirglieli e per mantenerli senza una sola carie. A lui bastava eliminare un paio di volte all'anno le macchie di nicotina dai propri denti estremamente sani, anche se alquanto storti. Sembrava blandamente divertito da tutte le storie che aveva sempre fatto lei a proposito della necessità che i bambini si lavassero i denti, imponendo il fluoro a gocce quando erano piccoli, i controlli del dentista a intervalli regolari; lo divertiva, inoltre, la sua mania di sciacquarsi la bocca e di spazzolarsi i denti continuamente. Constatando che, con la stessa dieta e con il massimo di precauzioni igieniche, Liv doveva farseli curare ben più di lui, era pervenuto alla conclusione che sua moglie potesse aver ereditato denti deboli e particolarmente portati alla carie. Ma continuava ad avere un atteggiamento infantile di sospettosità nei confronti dei dentisti. Ogni dentista era un mostro da favola che non mancava mai di far soffrire le vittime indifese sulla poltroncina. Quel che più contava, Pat non aveva mai avuto un mal di denti in vita sua. Tuttavia lei gli aveva fatto capire, quando erano diventati amanti, che trovava sgradevole l'odore delle sigarette nell'alito e pertanto Pat si spazzolava i denti, invariabilmente, e si sciacquava la bocca prima di fare l'amore. La cosa era diventata un segno sicuro tra loro. Liv si tolse la giacca di maglia, la maglietta, il reggiseno e infilò una camicia da notte estiva, leggera. Fece scorrere la lampo dei jeans, lasciandoli scivolare fino alle caviglie e poi scavalcandoli. Dopo averli gettati nella cesta, prese la spazzola per i capelli che faceva parte del servizio montato in argento regalatole dai suoi genitori per il sedicesimo compleanno, quando aveva ancora come iniziali OAD, per Olivia Anne Dauphine. Le lettere OAD figuravano incise sull'argento con un disegno talmente elaborato da essere quasi astratto, come i disegni a curve e spirali dei tappeti persiani, disegni che in origine erano stati tralci e foglie. A volte, forme analoghe decoravano i suoi vasi, non di rado rese dissimmetriche e troncate per dar luogo ad altre astrazioni. La spazzola e il pettine si trovavano al solito posto sul tavolino da toletta, ma non così lo specchio a mano. Prima
che lei avesse avuto il tempo di domandarsi dove lo avesse lasciato, vide, nello specchio ovale del tavolino da toletta, Pat aprire la porta del bagno alle sue spalle. «Non fermarti» fece lui. «Non c'è nulla che mi piaccia guardare quanto te mentre ti spazzoli i capelli.» «Ha telefonato Bayard» esclamò Liv. «Rimarrà alzato fino a tardi, ha detto, se vuoi richiamarlo.» Pat fece per prendere il ricevitore del telefono accanto al letto. «Perché darsene la pena?» domandò lei, posando la spazzola per i capelli. «Non può volere niente che non sia rimandabile a domani. O riguardo a cui tu possa fare qualcosa prima di domani.» La mano di Pat rimase sospesa per un momento sopra l'apparecchio, poi finì sui bottoncini della camicia. «Giusto» egli disse. Liv entrò nel bagno per lavarsi i denti. Lo specchio a mano si trovava sulla mensola accanto al lavabo. Dopo essersi lavata i denti e il viso, dopo aver fatto la pipì ed essersi lavata le mani, fissò lo specchio a mano. Era voltato con il lato dello specchio in alto. Lei lo prese e soffiò via alcuni granelli di polvere bianca. Poi lo portò al suo posto sul tavolino da toletta. Pat si era spogliato e si trovava disteso, completamente nudo, di traverso sul letto fumando una sigaretta. Lei sentì che la stava osservando mentre andava avanti e indietro nella camera da letto, per piegare la giacca di maglia e metterla via e per riporre le scarpe di tela di entrambi nell'armadietto. «Donna,» disse lui «vieni a letto.» Pat sospirò. Timorosa di guardarlo negli occhi, si avvicinò al letto come una massaia che spinga il carrello in un supermarket, domandandosi se gli avocados sono maturi, pensando alla lista degli acquisti e ai buoni sconto che ha nella borsetta. Nessun ondeggiamento seducente, nessuna passione sotto le palpebre abbassate. Rimanendogli in piedi dinanzi, si sfilò dal capo la camicia da notte. Lui le tese le braccia. Dio solo sapeva se era vogliosa, aveva fatto a meno del sesso per molto tempo. Non si trattava di un movente molto nobile, ma non voleva neppure ingannare se stessa pensando che il sesso non fosse importante per lei. Pat sembrava non intuire affatto quanto fosse terribilmente adirata con lui. Avrebbe voluto sbattergli in faccia i guanciali e mettersi a urlare. Ma non gli aveva mai negato l'amore perché in preda all'ira. A volte, la sola cosa che avesse impedito loro di pronunciare parole irrevocabili era stata il
fare l'amore. Quando ogni altra cosa veniva loro meno, al riparo dell'amore erano sempre riusciti a parlare di nuovo, a gettare un ponte sui varchi che li separavano. Questa volta sarebbe potuta essere la loro ultima possibilità, l'ultima occasione di restare insieme. Gli si distese accanto. Lui la trasse a sé. «Dio, quanto sei bella.» Aveva un puntino di polvere bianca sulla narice destra. Liv gli appoggiò il capo sul petto e si morse il labbro. I battiti del cuore di Pat sotto il suo orecchio sembravano i tonfi dei passi di un uomo massiccio che stesse salendo di corsa una rampa di scale. Egli le mise una mano sotto il mento e le reclinò il viso verso di sé. Liv gli fremette contro e lui la strinse a sé spasmodicamente. L'atto fu rapidissimo ed elementarmente violento, come accadeva loro molte volte dopo periodi di astinenza o di separazione. Liv godette due volte e avrebbe potuto continuare ma, quando lui le domandò se non le spiaceva che venisse subito, acconsentì provando una sensazione di sollievo nel constatare che anche Pat era così eccitato da non potersi trattenere a lungo. Significava, sperò, che in quelle ultime settimane aveva fatto a meno del sesso. Quasi altrettanto rapidamente, Liv scivolò giù dal letto e andò in bagno. Aprì il rubinetto della doccia. Pat apparve sulla soglia del bagno. «Tutto okay?» domandò. «Sì» rispose lei. Mise la mano sotto la doccia per sentire la temperatura dell'acqua. «È stato okay per te, allora?» domandò Pat; appoggiandosi allo stipite. «Certo. E per te?» domandò Liv. «So che avevi la frenesia di scopare. Volevi scoprire che cosa si provasse scopando tua moglie sotto l'azione della cocaina?» Pat si irrigidì. «Cosa?» «Forse sto pervenendo a conclusioni affrettate» disse Liv. «Forse era la prima volta che scopavi qualcuna essendo su di giri.» Pat si sporse e le afferrò il braccio. «Non credo alle mie orecchie.» «Guardati nello specchio» disse Liv, sommessamente. Pat voltò la testa, sbirciandosi oltre la spalla nello specchio del bagno. Si toccò la narice e arrossì. «Gesù Cristo» esclamò, ancora risentito in modo stravagante. «Bayard mi ha dato un po' di coca prima che partissi. Cribbio, è una bazzecola. Due
dosi. Si trovava nel mio servizio da barba ed è uscita dalla bustina, ecco tutto. Non volevo che la signora Park venisse a saperlo.» «Scusami» disse Liv, gelida, ed entrò sotto la doccia. Chiuse ben bene la porta della doccia dietro di sé e spinse la testa sotto i getti d'acqua. Quando voltò le spalle ai getti, l'ombra di Pat sulla porta di vetro opaco era scomparsa. Lei appoggiò la fronte alla parete piastrellata e pianse sotto gli zampilli. Non sapeva bene perché stesse piangendo. Era adirata, non spaventata. Si trattava soltanto di un litigio, non della fine del mondo. Ma era stata travolta da un'ondata di nera e inesplicabile sofferenza. Pat sedeva sul loro letto fumando una sigaretta, coperto fino alla vita dal lenzuolo, quando lei uscì dal bagno. Le scoccò un'occhiata irosa e colpevole al contempo. «Non c'è stata nessun'altra, con la cocaina o senza» disse. «Mettiamolo bene in chiaro. Non sopporto la perfida, piccola insinuazione. Sul serio. Non la merito.» Succhiò la sigaretta. «Perché non è stato facile.» Liv riprese la propria camicia da notte. «Ti credo, per il momento. E mi scuso se ti ho accusato ingiustamente.» «Scuse accettate» disse Pat, e tese la mano verso il posacenere. «Mi sembra di essere stato colpito con una mazza proprio tra gli occhi, Liv. Tu sei la donna che scrisse una lettera al giornale dell'università dichiarandoti favorevole alla legalizzazione della marijuana. Quand'è che sei diventata contraria con me?» «Sono sempre stata contraria» disse lei. Rivoltò il lenzuolo dalla sua parte e si mise a letto. «Non ho mai fumato l'erba. Ma non ritenevo che fosse peggiore dell'alcool e continuo ad esserne convinta. In una società razionale, la gente verrebbe incoraggiata a sostituire l'alcool con l'erba. Ma per me si tratta di un principio intellettuale, non di un interesse mio. Quando mai ti è risultato che non fossi contraria?» Pat sorrise. «Mai, lo ammetto. Tranne che per gli alcolici. Di tanto in tanto ti ho veduta prenderti una sbornia.» «Un po' di vino fa bene allo stomaco» citò lei. «Ma la Bibbia non menziona la cocaina, vero?» chiese Pat. «In ogni modo, sono anni che non vai in chiesa.» «'La coerenza è il babau delle piccole menti'» fece Liv. «Non mi cruccio per la tua mente» rispose Pat. «Mi cruccio per il tuo crescente nervosismo.» Lei dispose meglio il guanciale e si girò su un fianco, voltandogli le spalle.
«La cocaina è illegale, Pat» disse stancamente. «Sarà meglio che tu lo sappia sin d'ora: se ti pescheranno, dovrai subire le conseguenze. Non verserò la cauzione per farti liberare e non ti difenderò con i tuoi figli.» «Grazie infinite, piccola» disse Pat. Lei udì il tonfo violento del posacenere quando egli lo rimise sul comodino. «Mi piace la sensazione di essere appoggiato da te fino in fondo.» «Non fare mai più l'amore con me dopo aver fiutato quella roba. Non sono un altro qualsiasi volgare brivido» disse Liv. «Ti pianto se lo fai di nuovo.» «Gesù Cristo» esclamò Pat. Gettò indietro il lenzuolo. «Visto che sei decisa a prendertela con me, vado a bermi un'altra birra e a telefonare a Bayard. Siamo entrambi troppo stanchi per parlare di cose ragionevoli in questo momento.» Rimase in piedi accanto al letto per qualche secondo, aspettando che lei rispondesse. «E va bene» disse poi. «Questa è stata un'estate schifosa. Anche per me, piccola. Ma mi cruccia da matti constatare che, improvvisamente, siamo così lontani riguardo a questo.» Lei si raggomitolò e aspettò il sonno. Udì Pat uscire dalla stanza e alzare il ricevitore del telefono nello studio adiacente alla loro camera da letto. Il ticchettio del numero che veniva formato venne echeggiato dal secondo apparecchio a pochi passi da lei, poi la conversazione sommessa e le risate tra lui e Bayard divennero udibili attraverso la parete contro la quale, dalla parte di Liv, v'era l'armadio e dalla parte di Pat scaffali alti fino al soffitto pieni di libri. Si voltò dall'altra parte e si allungò, poi assunse quella che pensava sarebbe stata la sua posizione cadaverica: supina, il corpo completamente disteso, le mani intrecciate subito sotto i seni. A occhi chiusi, respirò con regolarità, simulando il sonno, nella speranza di facilitarlo con la finzione. Ma aveva la mente irrequieta, colma dell'ira nei riguardi di Pat, dell'ira nei riguardi di se stessa per avergli consentito di scoparla sebbene sapesse che cosa lui stava facendo. E per aver scopato con Pat perché desiderava tanto quella scopata. Ogni copula tra loro non poteva derivare esclusivamente dall'amore; esistevano, inevitabilmente, elementi di compromesso, le volte in cui l'uno o l'altro di loro due era meno che completamente disposto e ci stava solo perché ci teneva l'altro, le volte in cui il desiderio egocentrico, la necessità, contava più del sapere chi fosse il partner. Ma se era vero che l'abitudine stessa al corpo del partner, conseguita nel corso di
anni di vita a due, dava luogo a rapporti sessuali facili e piacevoli, quell'ottima scopata che si erano fatti insieme ricordava a entrambi quanto potevano godere e li riavvicinava. E la cosa continuava davvero a essere piacevole tra loro. Lei non riteneva, però, che potessero seguitare a lungo a scopare insieme soltanto perché v'era lì l'altro che poteva essere scopato. O almeno non era così per lei. Forse era stata ingiusta accusandolo di averla ingannata. O era realista e accettava la comune saggezza secondo la quale queste cose succedono, nel senso che le persone adulte non riescono a tenersi addosso le mutande, oppure era cinica e respingeva la possibilità che Pat stesse mantenendo la promessa di non andare a letto con altre donne. Si trattava di una maledizione dei tempi. Le regole di una volta erano state abolite senza che si determinassero miglioramenti tangibili. L'amore era stato ridotto a una partita ai dadi. A volte avevi fortuna. Ma quasi sempre era il banco a spillare quattrini agli allocchi. Quando udì lo scatto del ricevitore che veniva rimesso al suo posto, si accorse di aver trattenuto il respiro. Le doleva lo stomaco. Era, se ne rese conto, infuriata una volta di più, infuriata come lo era stata con Pat, che l'aveva avvicinata per la prima volta dopo parecchie settimane con il naso imbottito di cocaina. Una volta assolti i suoi obblighi coniugali egli si era precipitato a parlare con Bayard... insieme col quale aveva già conversato per una mezz'ora prima di recarsi al ricevimento, e con il quale aveva parlato tutti i santi giorni delle ultime sei settimane sul set di Scontro sanguinoso. Pat le avrebbe detto che non doveva prendere sul serio niente di tutto ciò, eppure le viveva e le respirava, queste cose. In realtà, non si era mai lasciato alle spalle la recitazione. Inconsciamente, imitava la voce, il modo di esprimersi, il dialetto, i gesti di chiunque frequentasse. Era tornato da lei parlando e camminando come Bayard Rohrer e rammentandole così con chi aveva trascorso le ultime sei settimane della sua vita. Pat si trovava sulla veranda, Liv poteva percepire l'odore della sigaretta che stava fumando, vedere il bagliore azzurro della lampada antinsetti, udire i piccoli tonfi e gli sfrigolii degli insetti che vi perivano bruciando. Lui tossiva e si schiariva la voce di tanto in tanto. Liv si sentì disgustata di se stessa a causa dell'ira che l'aveva sopraffatta, e si sentì inoltre infinitamente stanca. Che importava tutto questo? Chiuse gli occhi e rimase in ascolto degli stridi laceranti dei tuffoli. Gli uccelli dovevano essere andati a dormire per quella notte. Lei era an-
cora desta, quando Pat tornò a letto, ma finse di dormire. Qualche tempo dopo si alzò per prendere un'aspirina e bere un po' di latte caldo. A volte giovava. Scivolò poi in un sonno superficiale e si destò con un sussulto verso le tre e mezzo. La sua solita ora. Andò a prendere una coperta nell'armadio e uscì dalla camera da letto. In cucina si preparò una tazza di camomilla e la portò, insieme con la coperta, sulla veranda, ove si distese su una sdraia. Il lago rispecchiava il cielo, che era schiarito e sbiancato dalla falsa alba. Soltanto un nero e frastagliato profilo di alberi sulla sponda opposta, aventi come sfondo i grigi fantasmi delle montagne, distingueva l'aria dall'acqua. In alto gli alberi erano come frastagliate pennellate orientali tracciate con l'inchiostro. I tuffoli incominciarono con i loro versi mattutini, facendole venire la pelle d'oca sulle braccia. Rannicchiata sotto la coperta, li ascoltò a occhi chiusi. Ore dopo, subito prima che l'iniziale ed esitante tepore del sole le sfiorasse il viso, tutti gli altri uccelli attaccarono contemporaneamente uno strepito rauco. A un tratto il mondo divenne morbido e pulito, daccapo completamente nuovo. Un altro giorno. Lei tornò nella camera da letto per infilarsi un costume da bagno. Mentre cercava l'accappatoio nell'armadio, urtò con le nocche contro qualcosa di duro nella tasca della giacca sportiva di Pat, quella che egli aveva indossato arrivando a casa il giorno prima. Infilata la mano nella tasca, passò con cautela le punte delle dita sull'oggetto. Era un flaconcino di vetro come quelli che possono trovarsi nelle scatole del piccolo chimico. Collegato al tappo di plastica mediante una corta catenella si trovava un minuscolo cucchiaino formato da un tubicino di metallo appiattito all'estremità. Il flaconcino risultò riempito a mezzo di polvere bianca. Lei non aveva bisogno di essere una meteorologa per sapere da quale parte sarebbe finita quella neve. Appena poche dosi passate a Pat da qualcuno, senza dubbio. Lasciò ricadere il flaconcino nella tasca e chiuse l'armadio. L'immersione nel lago fu uno choc gelido, il filo tagliente della spada angelica. Lei lo sentì a partire dalle radici dei denti. La pelle le si arrossò per protesta. Ma l'acqua era anche serica e l'accarezzò mentre si muoveva in essa. Dopo alcune bracciate, cominciò a sembrare tiepida, in realtà, sebbene fosse soltanto il suo corpo a riscaldarsi a causa dello sforzo. Uscì dall'acqua sentendosi rinata. Si tolse il costume da bagno e si avvolse nell'accappatoio sotto la coperta sulla sdraia, poi scivolò finalmente in un sonno profondo. «Che cosa resta?» domandò Sarah, pulendosi le mani sui jeans. Liv si guardò attorno nella casetta di marzapane-studio. «Non un gran-
ché.» Lo studio sembrava sempre nudo e abbandonato all'inizio della stagione e alla fine, quando tutto veniva messo via. Lei non lasciava mai niente, lì, tranne alcuni semplici attrezzi poco costosi e l'antiquata ruota da vasaio chiusa a chiave in un armadio. Il forno, ora freddo e ben pulito, faceva parte della costruzione. Travis sedeva nel bel mezzo del pavimento e giocava con un grumo di argilla. Aveva la faccia e le mani molto sudicie e l'argilla gli aveva imbrattato la maglietta bianca. Ma sudava di felicità. Liv gli aveva dato argilla non appena era stato grandicello abbastanza per riuscire a tenerla in mano, così come l'aveva data a Sarah quando era Sarah la creaturina che trotterellava a passi incerti nello studio. Ma Sarah non si era mai appassionata all'argilla come lui. Liv indicò la piccola pila di scatole accanto alla porta. «Non stavi scherzando» disse Sarah, una volta tanto troppo stupita per fare l'indifferente. Liv cercò di ignorare la cosa mentre sua figlia la guardava sul serio per la prima volta, dopo settimane e settimane. Le accadde di pensare che l'essersi Sarah così calata in se stessa aveva avuto per lo meno la conseguenza di tutelare la sua privacy. «Mi sono venute alcune buone idee» disse. «Sono pronta a rimettermi sul serio al lavoro.» Sarah prese la prima scatola e la portò fuori, di nuovo con un'espressione chiusa sul viso. Domandandosi che cosa avesse potuto fare sua madre durante l'estate, pensò Liv. Vi sarebbe dovuta essere una dozzina di scatole di cartone da portar via, e non solamente tre. Liv si accosciò accanto a Travis. «È ora di andare.» Lui sospirò. «Va bene» disse. Si alzò in piedi e mise l'argilla nella scatola Tupperware. Dopo aver collocato ben saldo il coperchio, raggiunse sua madre sulla soglia. Liv si guardò attorno ancora una volta. L'aria sapeva già di chiuso e di vuoto. Accostò la porta e la chiuse a chiave. Pat stava caricando le ultime cose deperibili sulla giardinetta. Liv entrò in cucina e controllò, per essere certa che tutto fosse stato preso. Poi fece il giro della casa chiudendo finestre e porte. Si soffermò sulla veranda posteriore cercando di imprimersi nella mente l'aspetto che aveva ogni cosa in quel momento. Faceva sempre così. Ma aveva la mente troppo
presa dalla necessità di chiudere la casa di campagna e da tutte le cose che avrebbe dovuto fare una volta tornata in città, per cui non sentì quel momento di affettuoso rimpianto che avrebbe voluto, ma soltanto un meccanico vuoto. Come la casa stessa, un guscio nel quale nulla viveva, tranne piccole creature striscianti ed insetti, un guscio fino alla primavera seguente. Non ne ricavò altro che una fotografia mal riuscita, nella quale tutto era appiattito, piccolo, indistinto e volgare. «Avete fatto la pipì?» domandò Pat, mentre lei usciva dalla porta di servizio. Sarah gemette. «Papà!» «Ebbene?» egli insistette e gli rispose un coro di sì. «Portali via» disse lui. Liv si mise al volante della Pacer, con Travis seduto accanto a sé. Sul sedile posteriore La Povera miagolò infelice entro la gabbietta per gatti. L'aria era già appestata dal fetore dell'orina di gatto. Pat si sporse all'interno dal finestrino. «Ci vediamo una volta arrivati a casa» disse. «Sii prudente.» La baciò sulla fronte. Raddrizzandosi, si guardò attorno malinconicamente. «È tutto finito una volta di più, piccola.» Liv lo seguì con lo sguardo mentre saliva sulla giardinetta con Sarah. Già musica rock talmente forte da assordare tutti quanti si stava riversando dai finestrini dell'altra macchina. Lei avviò la Pacer. «L'estate è proprio finita» disse a Travis. «Bene» disse il bambino. Stava allineando G.I. Joe su un autocarro trasporto-truppe situato tra loro sul sedile. «Questa casa non mi piace.» «Perché?» domandò Liv. «Papi non c'è mai e tu piangi in continuazione» rispose Travis, deciso. Merda, pensò lei. Non si può nascondere niente ai bambini, per quanto uno ci provi. Sanno sempre tutto. «Torneremo per qualche fine-settimana quest'autunno» disse. «A raccogliere pigne, come facciamo sempre. E, quando nevicherà, verremo a sciare e ad andare in slitta. Sarà divertente, no?» Travis era più interessato a fare entrare in battaglia i G.I. Joe sul terreno della sua lacera coperta che ai fine-settimana a Nodd's Ridge. Dopo aver tradotto in parole il progetto, Liv si rese conto di quanto fosse improbabile, a meno che lei e Travis non fossero tornati per conto loro. Sarah aveva partite ed allenamenti ogni fine-settimana e non la entusiasmava affatto separarsi dalle amiche, nemmeno per quarantott'ore. Quanto a Pat, sarebbe rimasto lontano da casa per quasi tutto l'autunno e non avrebbe vo-
luto allontanarsi da Portland una volta tornato. Forse era meglio così. Lasciarsi alle spalle l'estate. Forse tutto sarebbe andato meglio l'anno seguente. Almeno lei lo sperava. Capitolo V Scontro sanguinoso Montaggio preliminare numero 3 Accigliandosi lievemente, una donna dalla blusa di lamé d'oro, con un paio di cortissimi calzoncini neri, si vernicia le unghie. Sono eccessivamente lunghe e di un rosso acceso. Le adolescenti ostentano non di rado unghie del genere, fanno parte di una sperimentazione naturale in fatto di esibizioni sessuali, ma in una donna adulta unghie simili sono o un indizio di immaturità, o l'asserzione narcisistica che il lavoro svolto non è manuale, la qual cosa implica una qualche condizione di mantenuta della quale la donna in questione è fiera. Ma possono essere altresì una menzogna, nonché una prova di cattivo gusto. La donna alza gli occhi mentre l'uomo entrato nella stanza passa tra lei e lo schermo del televisore a poche decine di centimetri di distanza. L'uomo le si lascia cadere accanto sul divano e le drappeggia il braccio sulle spalle. Lei non ha mai distolto gli occhi da lui, sebbene tenga rigidamente le mani per proteggere lo smalto ancora fresco. Squittisce sommessamente quando l'altro la stringe a sé, e si scosta, mettendogli le unghie sotto gli occhi per fargli capire il perché. L'uomo si appoggia alla spalliera e apre un barattolo di birra. Un ometto snello dai magnetici occhi scuri e dai ricciuti capelli neri, non è soltanto piacente, è un adone. E lo sa. Vi è spavalderia nel modo con il quale arrovescia la testa, e nel suo sorriso compiaciuto. «Che cosa stai guardando?» domanda alla ragazza. La giovane agita un polso nella direzione del televisore. «Niente.» È più alta dell'uomo, di ossatura minuta, ma con poppe sproporzionatamente grosse che minacciano di traboccare dalla blusa di lamé d'oro. La pelle chiara è lentigginosa e una peluria sottile le luccica sugli avambracci, come se fosse stata spolverata d'oro. I capelli folti sono di un biondobianco artificiale e le ricadono sciolti sulle spalle, talora velandole il viso quando si china in avanti per guardarsi le unghie. L'uomo fissa lo schermo del televisore. Stanno trasmettendo il telegiornale della sera. Sembra affascinarlo, sebbene egli non tradisca il benché
minimo interessamento o la benché minima reazione. Lei continua a scoccargli occhiate. Appare chiaro che esiste una forte carica sessuale tra i due. Sembra inoltre manifesto che, per entrambi, quasi tutto il sesso si riduce alle manifestazioni esteriori, alle allusioni degli sguardi e dei brancicamenti. Non hanno un granché da dirsi a vicenda, a parte i sottintesi. È stato questo a tenerli uniti così a lungo. Il meglio del loro fare all'amore consiste nelle allusioni. In questo modo si accertano non soltanto della loro desiderabilità, ma anche della loro sessualità. Quasi gli fossero state tolte scaglie dagli occhi, l'uomo cambia. Bruscamente emerge dall'ozio, il naso di lui sale in aria come quello di un cane che punta, ed eccolo balzato in piedi di fronte alla porta dell'appartamento. Anche nel suo stato di trance televisiva, e nonostante i suoni della trasmissione, ha udito qualcosa. Lei lo segue con lo sguardo, interdetta, poi ode i passi su per la scala. Egli si sta spostando di lato alla porta, ove prende posizione. La donna sospira, reinserisce il minuscolo pennello nel flaconcino di smalto per unghie e lo avvita strettamente. Si ode bussare in modo esitante alla porta e lei si alza per andare ad aprire. I calzoncini neri lasciano scoperte più natiche di quante ne coprano. L'uomo si trova alle sue spalle, pronto a sbirciare attraverso lo spiraglio tra i cardini. Lasciando agganciata la catenella, lei apre la porta soltanto quanto basta per vedere il visitatore. Con le sopracciglia inarcate e interrogative, dice: «Sì?» In quello stesso momento l'uomo alle sue spalle rinuncia a nascondersi e la scosta con il gomito. «Fallo entrare» dice, e volta le spalle, un insulto notato dalla donna, se non dal visitatore. Chiunque possa essere lo sconosciuto, il suo uomo non lo teme. Si tratta del giovane che si trovava in compagnia di Paul Taurus, il barista, quando quest'ultimo si è sparato. Gli occhi, dietro gli spessi occhiali, li ha scialbi e nervosi e spaventati, ma v'è una opposta decisione nella spinta in avanti del mento. Egli sbircia intorno a sé nella stanza, guarda la donna vistosa, poi l'uomo che è tornato sul divano, stravaccandovisi per guardare la TV: «Denny» dice, e si avvicina a sua volta al divano, la mano tesa. Denny ignora la mano. Si drizza a sedere. «Barbie Sue, va a lavarti i capelli o a fare qualcos'altro.»
Barbie Sue arrossisce. Non è il tipo di donna cui il rossore giovi. Lei incrocia le braccia, stando attenta alle unghie. «Non puoi comandarmi a bacchetta» scatta. «Qualsiasi cosa tu debba dire a questo finocchio, posso sentirla anch'io.» Il giovane fa sporgere le labbra verso di lei. «Altrettanto a te, dolcezza» dice. «Chiudete il becco tutti e due» interviene Denny, strascicando la voce. «E tu bada a come le parli» soggiunse rivolgendosi al giovane. Barbie Sue si pavoneggia vittoriosa. Non voleva altro che questo, in realtà, fare riconoscere il proprio dominio sessuale. «E tu» continua Denny, rivolto a lei, «non rompermi con le tue storie. Va' all'inferno, fuori di qui.» Barbie Sue esce dalla stanza sbattendo la porta. Il giovane esita, ovviamente sul punto di tagliare precipitosamente la corda. Denny torna a sdraiarsi sul divano. «Non ti trovi qui per una visita di cortesia, no?» Il giovane si guarda attorno nervosamente, poi accosta una sedia e vi si lascia cadere. «Paul è morto» dice a voce bassa. Denny si drizza a sedere, gli occhi balenanti. «Maledizione» alita. «Come è successo?» Socchiude gli occhi. «Non sarà stata quella fottuta AIDS, eh?» Si sta già alzando, le mani protese davanti a sé, come per respingere la paventata malattia. Il giovane rimane a bocca aperta e fissa Denny. «Gesù» dice poi. «Gesù buono.» «Be', è morto di AIDS?» domanda Denny. «No!» L'altro non riesce a escludere il disgusto dalla propria voce. «Bifolco ignorante.» Denny gli si scaglia contro, cogliendolo di sorpresa, scaraventandolo giù dalla sedia e sul pavimento. Gli occhiali del giovanotto volano via. Dopo che egli è piombato giù, Denny lo afferra fulmineo alla gola. Poi lo schiaffeggia ripetutamente, spaccandogli il labbro inferiore. «Come è morto?» gli sbraita. Il giovane si asciuga il labbro, imbrattandosi di sangue il dorso della mano. Ha la faccia svuotata di colore, irrigidita dalla paura. «Si è sparato.» Denny lo molla bruscamente. «Maledizione» dice. Si rialza e va in cucina come se stesse semplicemente approfittando di una interruzione pubblicitaria dei programmi alla TV.
A tutta prima il giovane non si muove. Furtivamente si asciuga una lacrima, poi comincia a cercare brancolando gli occhiali. Annaspa e si toglie di tasca un fazzoletto per tamponare il taglio al labbro. Denny torna indietro con una bottiglia di vodka e due bicchieri sudici. Versando con una mano e tenendo i bicchieri con l'altra, li riempie a mezzo tutti e due. Posa la bottiglia sul televisore e porge un bicchiere al giovane, che si è rimesso in piedi e ha tirato su la sedia. «A Paul» dice Denny, e leva il bicchiere. Il giovane, preso il bicchiere, brinda a sua volta, poi ingolla avidamente una sorsata. Trasale perché l'alcool gli fa bruciare lo spacco sul labbro. Denny lo osserva con occhi splendenti e un sorriso radioso, biancoHollywood. «Paul mi è sempre stato simpatico» dice. «Anche se era un capovolto.» Il giovane guarda imbronciato il bicchiere vuoto. «A lui non piacevi.» Denny fa una spallucciata. «Non ero il suo tipo» dice, e ride. «Un altro goccio?» Il giovane lascia che il bicchiere gli venga riempito a mezzo di nuovo. «Paul lo diceva che eri il più duro. Ti chiamava Killer.» Denny succhia la vodka dal bicchiere. «Paul parlava troppo. Tutti voi capovolti parlate troppo.» Il giovane posa il bicchiere vuoto. «Senti, mi son detto che forse valeva qualcosa per te venirlo a sapere.» Denny annuisce. «Hai fatto il viaggio apposta, eh?» Il giovane infila le mani nelle tasche della giacca. «Non potevo restare là. Non sapevo a chi sarebbe toccato dopo.» Denny si acciglia. «Se non sbaglio hai detto che Paul si è sparato.» Il giovane sorride. «Infatti. Ci ha messo una settimana Per decidersi.» Denny si sporge, afferra il giovane per il davanti della camicia e lo accosta a sé con uno strattone violento. «Piantala di prendermi in giro, buchino. Che cosa vuoi?» «Volevo vederti in faccia, Killer» dice il giovane. «Volevo sapere che cosa avevate fatto di tanto orrendo voialtri per far sì che Paul non abbia più sopportato di vivere. Ora puoi fare a meno di dirmelo. Riesco a supporlo. Per lo meno toccherà anche a te.» Denny lo scrolla e lo scosta da sé con un urtone. «Dimmelo tu, invece, sgualdrina. Perché Paul si è ammazzato?» «Perché una settimana fa qualcuno ha fatto fuori Jackson proprio davanti al suo bar. E qualcuno ha continuato a telefonargli ogni giorno, per tutta la
settimana, dicendogli che vi beccherà tutti.» All'improvviso, Denny sembra sconvolto. Il giovane ride. Bayard Rohrer, il regista, succhiò il cigarillo e fissò lo schermo della moviola. «Mi piace» disse. Dietro la spalla del regista, Pat annuì. «È travolgente.» Bayard fece girare lo sgabello per voltarsi verso l'aiuto regista, Mickey Cahill. «Che cosa ne pensi?» domandò, parlando intorno al cigarillo. Mickey si grattò sotto il mento. Si stava facendo crescere la barba per imitare il regista, solo che quella di Bayard Rohrer era il lindo e lustro pizzetto alla Vandyke di un uomo vanesio sia per l'aspetto sia per il carattere, mentre i peli rossicci ed arricciati di Mickey erano troppo anarchici e ribelli per quello stile. La barba di Mickey voleva crescere come quella di un montanaro o di un profeta biblico e prometteva di restare rada, per quanto incolta e lunga potesse risultare in ultimo. «Potremmo avere un problema con l'associazione Diritti dei Gay» disse. Bayard si strappò il cigarillo dalla bocca e si voltò di scatto, ansioso, verso Pat. «Senti, tutte le situazioni omofobiche scaturiscono dal nostro scellerato garantito o dalla sua ganza» disse Pat. «Non credo che possa esserci un problema.» «Forse avremo un problema nel senso opposto. I fondamentalisti penseranno che stiamo incoraggiando l'omosessualità» disse Bayard. Saltò giù dallo sgabello. Era molto basso di statura, circa un metro e cinquantasei, con una carnagione molto bianca, di un bianco gessoso, e lustri capelli neri. Qualcuno gli aveva detto che il nuoto allungava i muscoli e distendeva la spina dorsale, e, di conseguenza, lui nuotava immancabilmente ogni giorno, ma lo faceva di nascosto, perché lo imbarazzava l'assenza quasi totale di peli sul suo corpo. Quando giravano gli esterni ed era costretto a servirsi della piscina di un motel o di un circolo sportivo locale, indossava, fino alla piscina, uno dei kimono di seta della sua collezione e se lo rimetteva non appena aveva percorso a nuoto il miglio quotidiano, così da ridurre al minimo l'esibizione di se stesso e da potenziare al massimo la messinscena. Bayard spendeva somme di denaro fenomenali per abiti fatti su misura, la cui stessa perfezione non faceva che porre in risalto la sua piccola statura. E, come molti uomini piccoletti, il regista aveva la testa alquanto grossa, per cui finiva con il sembrare un nano, mentre non lo era affatto.
Pat rise. «I fondamentalisti amano i film di guerra, Bayard. Non credo che interpreteranno l'omofobia di Denny e della sua volgare amichetta come una riprova di difetti del carattere, ammesso che notino questi particolari, ed io ritengo che lo scenario più probabile sia questo: non li noteranno.» Bayard rise a sua volta. Scenario era una delle parole che prediligeva. Delicatamente, tolse il cigarillo dalle proprie labbra sottili e lo ammirò. Un cartello, sulla porta della sala montaggio, diceva molto chiaramente VIETATO FUMARE. Il divieto veniva rispettato da tutti tranne che dal regista. Pat smaniava per una sigaretta. Si domandò se il fumo dei piccoli sigari di Bayard potesse danneggiare la pellicola; e l'interrogativo lo indusse, logicamente, a domandarsi che cosa sarebbe accaduto se Bayard avesse accidentalmente incendiato qualcosa con uno dei mozziconi e quanti secondi sarebbero occorsi prima che la stanza, lungo le cui pareti si trovavano scaffali contenenti pizze di pellicola, o festoni di spezzoni di pellicola, si tramutasse in un inferno. Fortunatamente, Bayard stava andando verso la porta. «Voglio un caffè» disse. Mickey Cahill si precipitò ad aprire la porta al regista. «Come ci regoliamo con il top di Dian?» domandò. «Si sta letteralmente riversando fuori.» Bayard scoppiò di nuovo a ridere. «Una volta è successo. Tu ti sei perduto la scena, Mickey; facevi parte della seconda troupe.» «Un bel paio di poppe, eh?» disse Mickey. «Sono vere? Il regista fece una smorfia maliziosa. «Domandalo a Pat.» Pat, che veniva in coda, avrebbe voluto tagliare la corda. Si accontentò di una scrollata di spalle non impegnativa. Mickey rimase indietro di un passo per interrogarlo. «Suvvia, bello, sentiamo.» «Me le ha mostrate un paio di volte» disse Pat. Stava arrossendo, e la consapevolezza di diventare rosso lo fece arrossire ancora di più. «Ha urtato contro di me, sai. Tutto qui, sul serio.» Mickey ridacchiò. «Vabbè, vabbè. E, allora, sono vere o no?» Pat fece una spallucciata. «No. Non credo.» Mickey insistette. «Com'erano a tastarle?» Arrivarono davanti alla sala del personale. Pat balzò avanti per aprire la porta a Bayard, che gli rivolse un sorriso avido, passando. Si stava goden-
do il suo disagio, nonché la possibilità di stuzzicare Mickey. Il regista scelse una poltrona comoda mentre Mickey andava a prendere la caffettiera e le tazze. Pat si stravaccò sul divano tradizionalmente malconcio, un orrore blu-verde che doveva essere stato acquistato alla svendita fallimentare di qualche negozio di mobili all'incirca ai tempi dell'intervento in Corea. Mickey gli si appollaiò accanto, ancora ansimante sulla pista delle prove. «Ebbene?» Pat fece per prendere la tazza di caffè, ma cambiò idea subito prima di averla toccata. Forse era meglio farne a meno, a un'ora così tarda. «Non ricordo» disse. Mickey ululò. «Le hai avute tra le mani e non te ne ricordi?» «Se ci tieni tanto a saperlo, perché non lo accerti tu stesso?» scattò Pat. Mickey si afflosciò. «Ci ho provato» ammise. «Com'è che ha una cotta per te? Hanno sempre una cotta per gli ammogliati.» Bayard assaggiò il caffè e sorrise con l'aria di essere onnisciente. «Mickey, è proprio questa la ragione.» Mickey si alzò e andò al gabinetto, smarrito nell'enigma delle donne che volevano soltanto chi non potevano avere, e di Pat che non voleva quello che lui non poteva avere. Il regista tolse dal taschino della giacca una fiala di cocaina e una scheggia di pietra levigata. Versò un po' di polverina sulla pietra, poi, servendosi di un minuscolo rasoio d'oro, divise la cocaina in due dosi. Quindi, sfilata dal taschino una sottile cannuccia d'oro, la offrì a Pat. Pat esitò, poi fece di no scuotendo la testa. Bayard inarcò un sopracciglio e alzò le spalle. «Ne resta di più per me» disse allegramente; e, servendosi della cannuccia, aspirò tutta la polverina dalla pietra. In seguito si appoggiò all'indietro con un'aria di soddisfacimento postcoitale. «Ammiro la tua discrezione» disse «per quanto concerne le stravaganti tette di Dian.» «Non c'è niente su cui essere discreti» disse Pat. «Ma grazie lo stesso.» Le sopracciglia di Bayard si inarcarono e tornarono a spianarsi quasi per dire: «Come preferisci». «Mi sembrava che la cosa fosse alquanto manifesta» egli osservò. Pat si strinse nelle spalle. «È una cara figliola. Mi piace. Non dirò che la cosa non mi allettasse. Ma, dopo che ha decifrato il messaggio, siamo andati molto d'accordo. Meglio di quanto sarebbe accaduto se ci fossi stato.» «Ti sei comportato eroicamente» disse il regista. «Gesù mio, Pat, sei for-
se l'ultimo marito fedele degli Stati Uniti?» Pat rise. «Non tradisco mia moglie, no, ma sono certo di non essere il solo.» A volte gli sembrava invece di esserlo. Era sempre stranamente imbarazzante riconoscersi monogami. Si provava invariabilmente la tentazione di scherzarci su; ma, se scherzava, lui si sentiva uno stronzo per questo. Infedele nello spirito. Ma se diceva come stavano le cose, francamente, si sentiva un boy-scout. Da quando in qua la fedeltà era divenuta imbarazzante? E perché? «Devo confessarlo» disse Bayard, esaminando un nuovo cigarillo, «a me riesce difficile immaginare che cosa sarebbe avere rapporti sessuali sempre con la stessa donna per parecchi anni e con nessun'altra.» Rise, apparentemente un pochino imbarazzato egli stesso. Consapevole all'improvviso di quanto fosse stanco e di quanto gli dolesse la testa, Pat disse: «A volte la monogamia è come un paio di scarponi di cemento», e subito se ne pentì. Bayard scoppiò a ridere deliziato. Pat alzò le spalle. «Abbiamo i nostri periodi di noia, ed io penso che sia finita, poi, di colpo, tutto torna ad essere meraviglioso. È come gli interessi composti, o qualcosa di simile.» Bayard, per una volta tanto, parve colto di sorpresa. «Sul serio?» Mickey Cahill uscì dal gabinetto strascicando i piedi. Si massaggiava la punta del naso con un grande e sudicio fazzoletto di cotone. Aveva gli occhi lacrimosi. La consolazione che si era concesso nella toletta non era della stessa primissima qualità di quella del regista. Pat provò una sensazione di sollievo non avendo dovuto rifiutare anche la schifosa cocaina di Mickey. Mickey era assai più propenso a sentirsi respinto personalmente. «Oh povero me» gemette Mickey. Il regista fece una spallucciata sbirciando Pat. «Inutile dare consigli a chi non li accetta.» Fuori pioveva a dirotto. Tra la porta dello studio cinematografico e la sua Audi noleggiata, Pat venne inzuppato fino alla pelle. Sedette al volante rabbrividendo per un minuto in attesa che la visiera termica rendesse trasparenti i cristalli. La fatica che gli costava soltanto rabbrividire lo rese consapevole di essere disperatamente affamato. Erano le undici di sera e quasi tutti i ristoranti dovevano essere ormai chiusi. Tranne i McDonald. Se fosse stato costretto a mangiare un altro hamburger dei McDonald, a-
vrebbe vomitato. Ma doveva pur mangiare qualcosa, e pertanto si diresse là. Era proprio come la notte in cui si era recato a casa per far visita a sua madre, dopo la Marcia su Washington. Aveva fatto l'autostop dall'uscita dell'interstatale alla piccola e isolata casa di lei, a Winthrop, sotto una pioggia gelida e sferzante. Ellen Russell lavorava come infermiera notturna, il turno dalle undici di sera alle sette del mattino, ma Pat era riuscito ad arrivare a casa prima che andasse al lavoro. Lei gli aveva aperto la porta e, vedendolo, si era illuminata in viso come un albero di Natale. «Ma guarda chi c'è» aveva detto, ridacchiando, la sua tipica risatina profonda di gola, rauca com'era a causa dell'abitudine di fumare tre pacchetti di sigarette al giorno. «Bisogna uccidere il vitello grasso» così aveva detto. «Ma'» si era limitato a dire lui, lasciando cadere lo zaino zuppo nel ripostiglio e abbracciandola. Aveva la sua stessa statura, sebbene gli stenti l'avessero logorata, rendendola magra e grigia di capelli; ora lo stava abbracciando con tanta forza da farsi male. «Be', togliti da sotto la pioggia. Ho sentito una macchina e ho visto i fari sul viale d'accesso, credevo che qualcuno si fosse smarrito e stesse girando in tondo.» «Deke Utterbach mi ha dato un passaggio ad Augusta. Mi ha detto che avevo bisogno di radermi e di farmi tagliare i capelli.» Lei si era messa a ridere. In realtà, il consigliere municipale, i cui figli erano stati compagni di scuola di Pat alle elementari, aveva detto: «Perché vuoi coltivarti sulla faccia quello che cresce spontaneo sul culo, ragazzo?» «Hai mangiato?» era stata la prima domanda di sua madre e, mentre lui si cambiava indossando qualcosa di asciutto, un paio di pantaloni logori e lucidi, troppo corti e dalla lampo renitente, una camicia frusta ed iridescente, che un tempo gli era sembrata audace ed elegante e che ora trovava goffa, calzini spaiati e bucati per i suoi poveri piedi stanchi e resi azzurrognoli dal freddo, lei gli aveva preparato la cena, stufato in scatola, crostini abbrustoliti, e cioccolata bollente e poi si era affrettata a mettere le scarpe zuppe del figlio, dopo averle imbottite con carta di giornale, ad asciugarsi sulla grata della stufa nell'ingresso. Pat aveva trangugiato avidamente il cibo mentre sua madre parlava dei vicini e del proprio lavoro e fumava e sorseggiava caffè. Poi: «Che cosa ti conduce qui, Pat, in una notte come questa?»
«Stavo tornando dopo la dimostrazione a Washington. È passato tanto tempo. Mi son detto che mi avrebbe fatto piacere vederti.» Lei aveva sbuffato e riso. «Ah, bene. Dovrebbe commuovermi, immagino, il fatto che tu abbia viaggiato sin qui con questo tempaccio.» Pat si era limitato a un'alzata di spalle. «Hai fatto l'autostop per tutto il tragitto?» «Qualcuno che conosco mi aveva dato un passaggio.» «E non poteva portarti fino a casa tua, eh?» Un sesto senso metteva in guardia sua madre su ciò di cui Pat non voleva parlare con lei. «Quella persona è una ragazza. Abbiamo litigato, okay?» Lei aveva rigirato la sigaretta tra le dita e un guizzo le era passato sulla bocca. «Ti ha scaricato sull'autostrada. Con questo acquazzone. Deve essere stato un vero litigio.» «Voleva portarmi sin qui. Io però non gliel'ho consentito.» A rimanere inespresso tra loro, perché non occorreva parlarne, era stato il nocciolo della storia della famiglia: Ellen Russell aveva scacciato il padre di lui alcolizzato, facendolo scendere nel centro di Lewinston, una sera tardi, dopo averlo fatto scarcerare per l'ennesima volta pagandogli la cauzione. Pat era un bambino di sette anni, allora, e sebbene con il trascorrere del tempo avesse apprezzato la serenità ritrovata dopo lo sfascio della famiglia, dopo che suo padre era scomparso nella terra di nessuno che è la vera patria degli avvinazzati, pensava ancora, pur sapendo come non fosse così, che se non aveva un padre, la colpevole era lei. «Ah.» Ellen Russell lo aveva lasciato mangiare per qualche momento, tuttavia non era ancora persuasa. «Perché no?» «Perché no cosa?» aveva domandato Pat, volutamente ottuso. «Perché non ha potuto portarti sin qui?» Lui si era pulito la bocca con il tovagliolo di carta, poi, sorridendo: «Ma', hai capito a rovescio. Io non avrei potuto far venire lei qui.» Ma naturalmente questo non era bastato; aveva soltanto fatto sì che Ellen volesse saperne di più. «Perché?» Lui si era appoggiato alla spalliera della sedia. «Ma', questa è stata la ragione del nostro litigio l'ultima volta che sono venuto qui.» Ellen aveva acceso un'altra sigaretta. «La tua Vita Privata, vuoi dire.» «Sì, Ma'. Esatto.» Appoggiandosi a sua volta alla spalliera, lei aveva soffiato il fumo fuori
delle narici, facendo tossire Pat ed inducendolo a scacciarlo con gesti delle mani. Sua madre gli aveva gettato il pacchetto aspettando che accendesse a sua volta una sigaretta per autodifesa. «Ci ho pensato su» così si era espressa. «Ho avuto tempo più che a sufficienza.» Pat aveva aspettato. Si sarebbe dovuto sentire in colpa, non essendo più tornato a casa per sette mesi, e si sentiva in colpa, ma cominciava anche ad essere stufo di sentirsi bistrattare. «E va bene» aveva detto lei. «Pezzo grosso. Hai ragione. Non ti consentirò mai di venire con le tue amanti a casa mia.» Pat si era limitato ad alzare le mani in segno di resa. «La decisione spetta a te, Ma'.» Un gran sospiro aveva fatto sollevare ed abbassare il davanti piatto del grembiule bianco di lei. «Non capisco voi giovani, non capisco il vostro modo di comportarvi, da rifiuti della società. Ma» sporgendosi oltre il tavolo, verso di lui «tu sei un uomo adulto.» «Da un pezzo.» «Appena, signor mio. Appena.» «Ma'...» Lei aveva alzato una mano. «Non sopporto l'idea che mio figlio si comporti con le ragazze come se fossero delle sgualdrine.» «Questo lo stai facendo tu, Ma'. È quello che fai quando mi dici che non devo fornicare sotto il tuo tetto. È come se dessi della sgualdrina alla mia amica.» «No, ti sbagli. Casa mia è casa mia. Sono io a stabilire le regole, qui. Insomma, voglio dire questo: non posso impedirti di andare in giro a scopare. Posso impedirti soltanto di farlo qui. Mi limito a chiederti di essere responsabile al riguardo. Bisogna essere in due per fare una puttana, Pat.» Lo aveva colto di sorpresa. Sul momento si era detto che sua madre aveva portato il contrasto sul piano dell'assurdo. Ma poi le parole di lei erano riemerse in vari momenti della sua vita, costringendolo a meditare sull'intera spinosa questione della responsabilità e a domandarsi che diavolo avesse voluto dire lei, esattamente, con la parola puttana. E così ora, più di un decennio dopo, e alla distanza di un continente, sedeva su una macchina noleggiata, sotto l'acquazzone, pensando a sua madre, che era morta per colpa di un guidatore ubriaco. Il quale sarebbe potuto essere suo padre se suo padre non fosse morto di polmonite, nel reparto alcolizzati, a Bangor, pochi giorni prima di lei.
Pat mangiò tutto quello che poteva mangiare dell'hamburger finché non divenne completamente insipido e non cominciò a soffocarlo. Allora tornò nella camera d'albergo per telefonare a Liv. Là gli orologi segnavano tre ore di meno. Travis dormiva già, ma Sarah era ancora alzata. Aveva aspettato che lui telefonasse; quel pomeriggio era riuscita a segnare i punti della vittoria per la sua squadra di pallacanestro. Mentre l'ascoltava traboccare di felicità, Pat provò le stesse cose che aveva provato vedendola fare i primi passi. Infine lei si interruppe, ansimante, ed esclamò: «Be', non mi stai dicendo niente! Non te ne importa?» Pat rise. «Non me ne hai dato il modo, gattina. Sono, né più né meno, sbalordito della tua gloria, ecco tutto.» Sua figlia ridacchiò e passò il ricevitore a Liv. «Sta piovendo a catinelle, qui» disse lui. «Mi sono inzuppato.» «Oh, Pat.» «Ehi» egli disse «mi è venuta in mente la volta che stavamo tornando indietro da Washington e litigammo e tu mi facesti scendere sull'interstatale.» Liv osservò: «Andavi a trovare tua madre.» «Già.» Pat si innervosì e tirò su le coperte fino al mento. «Ebbi una specie di litigio con lei, quella notte.» «A proposito delle ragazze» osservò Liv. «Me lo dicesti. Lei non voleva che tu mi portassi a casa sua.» «Non precisamente. Non voleva che andassi a letto con te a casa sua.» «Era una generazione diversa. Tua madre faceva il meglio che poteva. Era più tollerante della mia» disse Liv. La stessa cosa che aveva detto allora. Marguerite si era addirittura rifiutata di conoscerlo finché non avevano celebrato le nozze e persino non si era più degnata di rivolgere la parola a Liv per parecchi mesi. Era stato Doe a passar loro di nascosto quattrini, senza che glieli chiedessero, e a venire a vedere Sarah. Soltanto settimane dopo quella visita a sua madre Liv aveva detto a Pat di essere incinta. E soltanto in quel momento, rievocando l'incontro, egli si era reso conto che sua madre aveva saputo, o sospettato, che si trovava alle prese con il proprio panico e la propria confusione, e che il litigio, apparentemente a causa di una vecchia fiamma, era scoppiato invece perché lei non voleva che si sentisse legato. Sarah aveva finito con il diventare una sorta di esame decisivo: lui doveva scegliere Liv perché la voleva, non
perché l'aveva messa incinta e sentiva di avere una sorta di dovere nei suoi riguardi e nei riguardi della creaturina. In qualche modo, Ellen doveva essere venuta a saperlo. Lui aveva sempre sospettato l'intervento della manina d'acciaio di Marguerite Dauphine, al riguardo. Sua madre aveva aspettato per qualche tempo che fosse lui a dirglielo, poi, decidendo di agire di propria iniziativa, si era presentata a casa loro per reclamare la nipotina e per dare un'occhiata a Liv. Se n'era andata con un pezzo della saponetta che adoperava Liv per fare il bagnetto a Sarah, allo scopo di ricordare il profumo della bambina, persuasa che Liv fosse una buona madre, anche se francamente interdetta dal rifiuto di lei di fare quello cui Pat era disposto, vale a dire rendere legale e decorosa l'intera situazione. La festa nuziale aveva avuto luogo nella casa di Ellen, e senza Marguerite. Ellen si era appartata con Pat. Avevano bevuto vino andante in abbondanza e lei era piuttosto brilla. «Lo confesso» aveva detto, appoggiandosi alquanto pesantemente a lui. «La cosa mi ha divertita da matti.» «Quale cosa, Ma'?» le aveva domandato Pat, cingendola con un braccio alla vita per sostenerla, ma anche perché era brillo lui stesso e perché, se non potevano essere affettuosi l'uno con l'altro il giorno delle sue nozze, e dopo aver tanto bevuto, quando lo sarebbero stati? «Il fatto che la tua ragazza sia riuscita a farti mangiare la torta messa in forno da te.» Aveva dovuto pensarci su un minuto per capire, ma, una volta mangiata la foglia, si era messo a ridere anche lui; e in seguito, durante la festa, ogni qual volta si erano sbirciati, non avevano potuto fare a meno di ridacchiare. «Sento la mancanza di mia madre» disse ora Pat. «Anch'io» disse Liv. «Mi manchi anche tu» disse lui. «Quand'è che torni a casa?» domandò Liv. «Dopodomani» le promise Pat. «Interrompiamo per il fine-settimana. Il film sta venendo bene.» «Sono lieta di saperlo. Sarà bello rivederti.» «Mi rivedrai. Non manca molto alla fine delle riprese, ormai. Forse per la vigilia d'Ognissanti.» Si sbagliava, naturalmente, ma in quel momento non poteva saperlo.
«Allora raccontami che cosa hai visionato oggi» disse Liv. Con suo padre come socio che non figurava, Liv aveva acquistato l'edificio, in precedenza un'autorimessa; il proprietario era stato costretto a cessare l'attività prima del previsto dall'embargo sul petrolio. Lei aveva fatto togliere i distributori di benzina, sulla facciata, sostituendoli con l'insegna fatta con le sue stesse mani, che, nella stagione adatta, serviva anche da cassetta per i fiori. All'interno il sollevatore idraulico era stato eliminato e il pozzo ingrandito e trasformato in una vera e propria cantina. Il resto dell'edificio aveva dovuto essere sventrato e ricostruito per la lavorazione delle terraglie, con due grandi forni, uno dei quali adattabile alla legna, nell'eventualità di mancanza del combustibile, o per speciali cotture che potevano aver luogo a dovere soltanto con la legna; v'erano un locale per le spedizioni e l'immagazzinamento, una doccia piastrellata e uno spogliatoio, in quanto quel genere di lavoro insudiciava. Liv aveva alle sue dipendenze due donne abili ed esperte, e un apprendista assunto di recente, oltre a sua sorella Jane. Divideva l'ufficio, un angusto mezzanino che dominava dall'alto il pianterreno, con Jane. Al termine della giornata la fabbrica diventava rumorosa a causa degli aspiratori che riciclavano il calore in eccesso generato dai forni e mantenevano l'aria pulita. Portavano tutti Walkmen agganciati alle tasche e cuffie per poter ascoltare musica, se volevano, o semplicemente per escludere strepiti fastidiosi. Liv, con la cuffia appesa al collo come il colletto duro di un gangster, lasciò il suo apprendista, Misha, a lavorare l'argilla per le porcellane, e trotterellò su per la scaletta di ferro fino all'ufficio. Jane alzò gli occhi dal minuscolo tratto libero di pavimento quando Liv aprì la porta. Accosciata accanto a uno scatolone di cartone per le spedizioni, aprì le mani sopra di esso e gemette teatralmente. «Avevo detto loro di avvolgere separatamente ogni oggetto rotto!» esclamò. Liv si chinò sulla scatola di cartone per vedere con i suoi occhi. «Merda» disse «saranno almeno cinque gli oggetti qui dentro.» Diede un buffetto al coperchio della scatola. «Non è nemmeno uno dei nostri scatoloni. Secondo loro, perché ci diamo la pena di acquistarli?» «Non hanno mandato nemmeno la copia della fattura» disse Jane. «Magnifico.» Liv frugò tra i cocci dentro lo scatolone. «Secondo me ci sono due grandi vasi e tre piatti da portata, qui.» «Sì» disse Jane, prendendo un taccuino e scribacchiandovi appunti.
«Anche secondo me.» Liv si raddrizzò e si stiracchiò. Sbirciò l'orologio. «Alleluia, è l'ora di chiudere.» Jane balzò in piedi. «Vado a salutare i dipendenti.» E sgattaiolò fuori. Due scrivanie erano state pigiate nell'angusto ufficio e ogni spazio disponibile delle pareti era occupato da scaffali o armadi. Nella piccola stanza si ammonticchiavano inoltre casse ed ogni superficie era occupata da fogli di carta, cartellette, campioni di colori, campioni di argille, vetrificanti, dalla miriade di attrezzi e di sostanze indispensabili nell'industria della ceramica. Liv tolse da un armadietto una bottiglia di vino e da un cassetto due reggitazze da caffè di plastica. Infilò due coni di plastica puliti nei reggitazze e sturò la bottiglia di vino. Stava versando quando si udirono risuonare i passi di Jane su per la scaletta di ferro. «Ho chiuso» disse Jane. Liv le porse un cono colmo di vino. Spinse un registro giù dalla poltroncina della sua scrivania e si mise a sedere. Jane sedette a gambe incrociate sul pavimento ed emise un sospiro di felicità. Liv levò il cono. Jane fece altrettanto. «Un altro giorno è passato» osservò Liv. «Eh, sì» fece Jane, con una voce strascicata. Liv reclinò il capo all'indietro e rise. Jane era la maggiore delle figlie di Marguerite e Doe, aveva sei anni più di Liv. I capelli le erano diventati prematuramente grigi, ma si rifiutava di tingerli e li portava ravviati all'indietro. La pelle di lei, chiara come fragile porcellana, era delicatamente segnata da rughe che andavano dal margine esterno delle narici agli angoli della bocca e che le segnavano la fronte. Antiquati occhiali cerchiati in acciaio le nascondevano gli occhi scuri. Prediligeva gli orecchini enormi e vistosi, le bluse alla paesana, molto scollate, che mostravano il suo décolleté alquanto ossuto e lentigginoso, e i bluejeans attillati. Era un look che sembrava palesare un'anima non convenzionale, forse di artista, e pertanto la gente scambiava lei per la ceramista. Questo le faceva piacere poiché, durante gli anni del suo primo matrimonio, era stata l'immagine della moglie di un banchiere, aveva indossato bluse di seta con il davanti pieghettato e portato discreti orecchini di perle. Da quando il marito l'aveva piantata, sette anni prima, lei vedeva nel proprio viso di allora la stessa falsità dell'ex marito. E soltanto sulla scia del
divorzio aveva scoperto i propri talenti e le proprie ambizioni come donna d'affari, al pari di Marguerite. Jane afferrò la propria borsetta, un enorme aggeggio ricamato a mano e frangiato, sotto la scrivania e la palpò. Ne tolse una scatoletta di metallo smaltato e, dalla scatoletta, tolse una sigaretta alla marijuana, che offrì silenziosamente a Liv. Liv scosse la testa, come sempre. Jane le strizzò l'occhio e accese la sigaretta. Sedendo rilassata, a gambe incrociate, chiuse gli occhi e aspirò profondamente. «Oh, uaaaa» disse con una voce asciutta, ghiaiosa, e spalancò gli occhi simulando estasi. Entrambe le sorelle risero. «Allora» domandò lei «come va il-dente-che-non-c'è?» «È felice nel paese delle fate, suppongo» disse Liv. «Sto benissimo.» Jane scosse la testa in segno di disperazione e ritentò con la sigaretta. «È quello che hai seguitato a dirmi per tutta l'estate quando telefonavo» osservò. «Non so che cosa tu volessi dimostrare. Ma non ti crederò più quando mi dirai che stai benissimo. È come il ragazzetto che gridava al lupo.» «No» osservò Liv «il ragazzetto che non gridava al lupo.» Jane ridacchiò. «La ragazzetta che non gridava al lupo.» «Hmmmmmm» riconobbe Liv e agitò pigramente il po' di vino. «Quand'è che Pat torna di nuovo a casa?» domandò Jane. «Per il fine-settimana. Ho parlato con lui ieri sera.» «E quand'è che sarà finito? Il film.» Jane scolò il vino e gettò il cono di plastica nel cestino della cartastraccia. «Due punti» esclamò, quando cadde proprio nel centro. «Per Ognissanti.» «È un bel po' di tempo» disse Jane. «Eh sì» riconobbe Liv. Jane aspirò un'altra boccata. «Credi di poter resistere?» «Suppongo di non poterne fare a meno» disse Liv. Jane ridacchiò. Schiacciò l'estremità della sigaretta per spegnerla e la rimise nella scatoletta di metallo. «Per citare Marguerite» disse «il letto te lo sei fatto tu e devi dormirci.» Liv spostò la poltroncina verso il cestino della cartastraccia foderato di plastica, per mettervi con cautela il cono con il vino che aveva appena assaggiato. «Solo che alcune persone fanno il letto» osservò «altre persone si limitano a dormirci, no?»
«Giusto» disse Jane. «A parlare è la voce dell'esperienza, lievemente inebriata dalla droga.» «Vuoi che ti porti a casa in macchina?» domandò Liv. Jane scosse la testa. «No, sto bene, io.» Poi riprese la borsetta e lasciò cadere la scatoletta metallica nelle sue profondità. «Tu stai bene?» Liv sorrise. «Sì. Quindi finiscila di fare storie.» Jane si alzò e accarezzò Liv sulla guancia. «Non hai cura di te stessa, sorellina. Tuo marito non è mai a casa. Qualcuno deve badare a te.» Liv si appoggiò alla scrivania e allungò le gambe davanti a sé. Esaminò le punte delle scarpe di tela, che si stavano lacerando. «Senti» disse Jane «se si trattasse di me, lo pianterei. Che differenza farebbe? Non siete mai insieme. Ma» e alzò le mani, mostrandone i palmi, «che cosa ne so, io? Ho i miei pregiudizi. So soltanto che una donna deve badare a se stessa, baby.» «Abbiamo parlato a lungo, ieri sera» disse Liv «parliamo molto. Andrà tutto bene tra noi. Ci occorre soltanto tempo.» Jane sorrise e l'abbracciò. «Rammenta soltanto che io sono a portata di mano, se avrai bisogno di me, e non venirmi a dire che stai benissimo quando non è vero.» Liv annuì. Jane prese il maglione e si diresse verso la porta. Si fermò per voltarsi a guardare Liv e le strizzò l'occhio. Liv ascoltò i passi veloci di lei giù per la scaletta di ferro. Poi cercò la borsetta e spense le lampade. Soltanto qualche boccata di fumo d'una sigaretta alla marijuana, qualche sorso di vino, e sarebbe dovuta essere okay. L'università, per Jane, era stata una comunità di studentesse; una giacca di lana a maglia portata a rovescio con un filo di perle; i capelli cotonati; essere appiccicata al buon Curt il depravato, che in ultimo l'aveva piantata con quattro marmocchi; e la graduale consapevolezza che quanto aveva ottenuto facendo la brava ragazza era immeritato e di brevissima durata, mentre tutti gli altri se la spassavano, compreso Curt. L'uomo con il quale Jane aveva vissuto per tre anni era un ex cow-boy ripulito, che manifestamente se ne fotteva delle convenzioni e delle legalità di qualsiasi genere. A differenza di Curt il banchiere, il quale a parole rispettava queste cose, ma poi combinava tutto quello che gli riusciva di fare, Web era stato leale nei suoi rapporti con Jane. L'amava, le era fedele e, con il suo esempio, l'aveva liberata. Era l'«erba» coltivata da Web quella che lei aveva nella borsetta e vi indulgeva come se si fosse trattato di un aperitivo. Lei e Web rispetta-
vano il divieto posto da Liv contro la marijuana in casa sua e, per quanto la concerneva, Liv non intendeva imporre niente di più di questo a Jane. Le sue preoccupazioni, le accadde di pensare, erano più immediate. Andare a fare la spesa al mercato, tornare a casa dai bambini. Capitolo VI «Basta così. Finitela» urlò Liv, udendo il litigio. Il silenzio venne rispettato per un paio di secondi prima che ricominciassero entrambi contemporaneamente con le rispettive lagnanze. «Sarah ha cambiato canale!» disse Travis. «Lui lo ha già guardato cento volte quel nastro!» ribatté Sarah. Liv posò il sacchetto di carta con gli acquisti su una sedia e spense il televisore. «Non è vero» disse Travis. «Sì, invece» disse Sarah. «Piantatela» disse Liv. «Sarah, c'è un televisore anche di sopra. Va' a guardare quello. Travis stava guardando il videonastro prima che tu entrassi. Ha il diritto di finire. Tu vuoi vedere la MTV, no?» «I colori di questo apparecchio sono migliori.» «L'altro apparecchio non ha il videoregistratore» disse Liv. «Se tu guardi la MTV con questo, Travis non può guardare un bel niente. Tu puoi andare di sopra, lui no.» «Non è giusto» si mise a protestare Sarah. «Prendi sempre le sue parti.» «Questo non è vero e lo sai bene. E del resto, la vita stessa non è giusta. Faresti meglio ad abituartici, bambina mia.» Sarah prese i libri che aveva sparpagliato sul divano. Avrebbe potuto piazzarli sul labbro inferiore, tanto faceva il broncio. Cercò di rifilare uno scapaccione al cocuzzolo della testa di Travis mentre usciva a gran passi, ma il bambino schivò il colpo con disinvoltura. Non reagì affatto. «Mi faresti ripartire il nastro, Liv?» domandò. «Vieni qui» disse lei. Lui scese dal divano e le venne accanto. «Questo è il tasto 'Play'» disse Liv. Travis annuì. «Premilo» disse lei. Il bambino mise l'estremità di un dito sul tasto e schiacciò. «Dovrai solamente ricordare che è quello con la striscia verde.»
Travis tornò indietro sul divano. «Il tasto dello 'Stop' ha la striscia rossa.» Lei annuì. Non era la prima volta che cercava di insegnargli queste semplici manovre. Ma sapeva già che Travis si sarebbe rivolto a lei, al momento di fermare il videoregistratore. Sembrava che non volesse padroneggiare i comandi, per quanto fossero semplici, così come sembrava che non volesse imparare a leggere, sebbene conoscesse a menadito le lettere dell'alfabeto. Voleva che fosse lei a far funzionare il registratore, voleva che gli leggesse i libri di favole. Era un modo di avvinghiarsi a lei e Liv non sapeva che altro fare tranne che essere paziente. V'erano una serie di comunicazioni telefoniche e un biglietto applicati allo sportello del frigorifero. Liv lesse gli appunti relativi alle telefonate, constatò che Pat aveva chiamato mentre lei stava facendo la fila al supermarket; ma, quando lo chiamò, non rispose nessuno. Spazientita lasciò ricadere il ricevitore con un tonfo. Seguitavano a non trovarsi a vicenda. Il biglietto della signora Fuller, la governante, la quale diceva di essere costretta ad andarsene, non appena Sarah fosse tornata a casa ed avesse badato a Travis, per farsi curare le gengive. Liv riempì un bicchiere d'acqua e bevve, sperando che le aprisse la gola. Voltò la testa a destra e a sinistra e cercò di rilassarsi le spalle. Aveva ancora troppe cose da sbrigare, quel giorno, per potersi arrendere alla stanchezza che sentiva. Le mani, i polsi, le braccia e la schiena le dolevano a causa della fatica non più abituale... ed era quello che poteva aspettarsi per una settimana o due, dopo mesi di ozio. La stanchezza mentale, però, era dovuta soltanto al ritorno a casa e ai due marmocchi vocianti. Questa doveva scrollarsela di dosso. I suoi genitori sarebbero venuti a cena. Se avesse cominciato subito i preparativi, forse sarebbe riuscita a immergersi per qualche minuto nella vasca prima del loro arrivo. Quarantacinque minuti dopo, le patate si trovavano nel forno e all'insalata mancava soltanto il condimento. Il pesce - costate di squalo mako che aveva avuto la fortuna di trovare al supermarket - intendeva cucinarlo ai ferri all'ultimo momento e poi passarlo con una salsa leggera. Nel frigorifero si stavano gelando due bottiglie di vino della California. Liv si accingeva a togliersi il grembiule quando udì la Cadillac nel viale d'accesso. «Merda» mormorò. «Addio bagno.» Un'altra cosa si sarebbe dovuta aspettare. Marguerite e Doe avevano tra-
scorso l'estate nel Canada e non vedevano i bambini dal mese di giugno. Travis saettò giù dal divano e andò ad aprire la porta a Marguerite, che entrò con un pacco a forma di torta avvolto in carta stagnola. «Tesoro» disse Marguerite, e si chinò per baciare il bambino. Travis si sottomise, poi le saettò intorno, domandando: «Dov'è il nonno?» Marguerite Dauphine si raddrizzò con un'aria di eroica rassegnazione sul viso. I figli di Liv riuscivano sempre a ricordarle che essere nonna era un compito poco piacevole e ingrato come essere madre. Doe attraeva Travis quanto una calamita, così come un tempo aveva attratto la stessa Liv. Guardando Travis che correva fuori della porta con le corte gambette in cerca di Doe, lei notò senz'altro la somiglianza tra nonno e nipote, e, si sa, simile chiama simile, ma non poté fare a meno di sentirsi come uno scoglio nell'acqua bianca di schiuma, qualcosa da aggirare. Fra Travis, che la ignorava beatamente, e l'insolenza a malapena trattenuta di Sarah, lei si sentiva completamente distrutta quando si consentiva il lusso di prendersela inutilmente con la realtà. Liv, con un'aria stanca e tesa, le si fece incontro nel corridoio tra il soggiorno e la cucina. Aveva un nuovo tocco di grigio, nei capelli, che in giugno non era esistito e la faceva sembrare più avanti negli anni di quanto fosse. Marguerite avrebbe dovuto farle capire con tatto che era giunto il momento di tingersi i capelli con discrezione. Era già un guaio che Jane li avesse grigi come un topo e si ostinasse a tenerli così. «Ma'» disse Liv, e baciò sua madre su una guancia. Marguerite ricambiò il bacio e le diede la torta. «L'ha fatta Doe» disse. «Grazie.» Liv impedì risolutamente a se stessa di domandare dove egli fosse. Sua madre avrebbe considerato la domanda soltanto come un'ulteriore prova del fatto che Doe era il più amato. Riteneva di saperlo già, del resto. Senza dubbio egli si era diretto subito in giardino per vedere come andavano le rose. «Doe è in giardino» diede la conferma sua madre. Gredo che Travis lo abbia seguito.» «Oh. Bene, gradiresti un bicchiere di vino?» «Dio, sì.» Si guardò attorno nella cucina mentre Liv le versava un bicchiere di Chablis, e domandò dove fosse Sarah. Naturalmente non si trovava lì, dove sarebbe dovuta stare, ad accogliere la nonna. Era ovvio che, se Liv avesse risposto «in carcere» oppure «in un
ospizio per ragazze madri» o «in un centro per il ricupero dei tossicomani», lei si sarebbe limitata a grugnire, le sue previsioni essendosi avverate. «È di sopra» rispose Liv. Marguerite prese il bicchiere e sorseggiò il vino. «Mmmm, buono» disse. «Con le pive?» Liv si riempì un bicchiere. «Di solito le ha, no?» «È l'età» la giustificò Marguerite. Offrendo quel tanto di consolazione che riteneva Liv meritasse. Liv sedette su uno sgabello. «Lo so. Ma come è andata l'estate?» «Bene.» Marguerite squadrò Liv dall'alto in basso. «Sei dimagrita» disse. «Sì.» «Ne avevi bisogno.» «Sì. Non posso vantarmene, però. Sono stati i fastidi che mi ha dato il dente.» Marguerite annuì. «È tutto risolto, adesso?» «Sì.» «Pat come sta?» Il tono di Marguerite divenne neutro. «Ho parlato con lui stamane. Sembra che stia bene. Prevedono di terminare per la vigilia d'Ognissanti.» Marguerite sorseggiò il vino. «Saresti dovuta andare con lui». Liv alzò le spalle. «Ho un'azienda da mandare avanti. E volevo godermi l'estate sul lago. È il periodo in cui riesco a svolgere un lavoro originale.» «Be', non è affar mio, certo» disse Marguerite, la quale aveva il dono di dire quello che le pareva, riconoscendo al contempo di non averne il diritto. Liv guardò fuori della finestra, al di là dell'acquaio, il giardino. Suo padre e Travis stavano osservando insieme i cespugli di rose. Babbo Orso e l'Orsetto. Erano creature fisicamente robuste, dotate di una forza enorme che accettavano con diffidenza, quasi temessero di poter fare accidentalmente del male ad altre persone. Doe era un patito delle piante, e in particolare delle rose. Farmacista di professione, dopo aver accumulato una modesta fortuna grazie a una catena di farmacie chiamate «L'Uomo delle Medicine», se n'era andato a riposo per dedicarsi al suo hobby. Il viaggio nel Canada era consistito in un giro dei roseti canadesi. Il primo negozio della catena era stato una antiquata farmacia con annessa gelateria, che allora si chiamava «da Pinkham». Quando l'aveva rilevata
da Wilfred Pinkham, Jr., dopo la seconda guerra mondiale, Doe era un giovanotto energico ammogliato con una donna imperiosa, ambiziosa e feconda. Il volume di affari era andato crescendo insieme con la famiglia. Egli non sarebbe riuscito a tenere sua moglie in casa nemmeno se avesse voluto. La gente aveva finito con l'abituarsi al ventre perennemente voluminoso di Marguerite e a vederla con un bambino in grembo, o nella culla in ufficio, con i più grandicelli che si avvinghiavano alla sua gonna. La madre di lei, Nana Martin, dopo aver smesso di fare l'infermiera, era venuta ad abitare con loro, liberando così Marguerite da quasi tutte le faccende domestiche e dal compito di tirar su i bambini. Doe non aveva mai dubitato che fosse stata Marguerite a renderli ricchi. Lo divertiva ancora adesso sentir fare il nome delle sue farmacie; si era trattato di una bizzarra vendetta contro un pomposo medico che, avendocela con Doe per qualche immaginaria invadenza nelle sue prerogative, aveva cominciato a chiamarlo, con scherno, l'Uomo delle Medicine. Doe era soltanto a mezzo un indiano Penobscot, in quanto, nato fuori della riserva, poteva considerarsi completamente detribalizzato. Ma la faccia riflessa dallo specchio era quella non adulterata di un pellerossa, il ritratto sputato del suo lontano cugino Louie Sockalexis che, per un breve periodo di splendore alla fine del secolo precedente, aveva entusiasmato il paese come grande giocatore di baseball, il secondo atleta pellerossa-americano in ordine di grandezza, dopo Jim Thorpe. Louie non era stato il primo grande campione di baseball che non fosse di razza bianca, in quanto un tempo le squadre della federazione non erano segregate (la segregazione era venuta dopo, fino a Jackie Robinson), ma aveva inorgoglito la sua gente e non era stato dimenticato. A Doe piaceva ancora andare nella farmacia più importante della catena per dare una mano, e gli faceva piacere che la gente chiedesse di lui. I clienti si fidavano di Doe più di quanto si fidassero dei loro medici. E, invero, egli aveva salvato vite, a volte, ponendo le domande giuste. Sapeva il dottor Caio, quando ha scritto questa ricetta, signor Sempronio, che lei sta ancora prendendo la medicina X per la sua artrite? Ha detto al suo medico, signor Tal dei Tali, che cinque anni fa si buscò una polmonite? Sua madre aveva il diabete, non è vero, signorina? Glielo ha riferito, al dottore? Lei riesce a dormire, signore? Ne ha parlato al suo medico curante? Non di rado intendeva dire: il dottore glielo ha domandato? Il dottore glielo ha detto? Non ci si poteva aspettare che Marguerite, la quale stava alla cassa, fosse
benvoluta dalla gente come Doe, che non di rado la persuadeva a continuare a far credito a persone già parecchio indietro con i pagamenti. Sapendo quanto lei si sarebbe gloriata di una simile popolarità e quanto la invidiasse, lui cercava di compensarla in altri modi per la delusione. Adesso avevano gerenti molto più giovani di loro che mandavano avanti le farmacie, e si trovavano entrambi ufficialmente a riposo, ma in realtà niente era molto cambiato. Quando non aveva niente da fare nella serra, Doe tornava nella vecchia farmacia, quella appartenuta un tempo a Pinkham, a preparare le ricette, e Marguerite, come amministratrice delegata, si accertava ancora che i crediti venissero riscossi, che gli affari andassero a gonfie vele come sempre e che la rinomanza della catena di farmacie non venisse sminuita da sistemi poco ortodossi. Era tutto molto soddisfacente, o sarebbe dovuto esserlo. Marguerite stava vivendo una vecchiaia comoda e persino elegante. Non ci si poteva stupire se badava a se stessa con l'identica energia e l'identica decisione di cui aveva dato prova accumulando una fortuna. Faceva trionfare la propria volontà anche su Doe. E a Liv era occorso moltissimo tempo per sormontare il disgusto che non poteva non provare nei riguardi di un uomo il quale indossava qualsiasi vestito gli preparasse la moglie al mattino. Ora comprendeva che la cosa non rivestiva alcuna importanza per Doe. Rendeva felice sua madre, e pertanto lui l'accontentava. Ma, in ultima analisi - Liv se n'era finalmente resa conto - egli le consentiva esattamente quel tanto di dominio che gli faceva comodo, per cui, in realtà, non si trattava affatto di dominio. Marguerite si era trovata un marito il quale faceva tutto ciò che lei diceva di fare per quanto concerneva le cose da lei ritenute importanti; l'insoddisfazione tramutatasi in rughe incise intorno alla bocca di Marguerite scaturiva in parte dal sospetto che a lui non importasse un corno di uno qualsiasi dei particolari per i quali lei se la prendeva tanto a cuore. Liv leggeva in faccia a suo padre che lo rattristava non riuscire a rendere felice la moglie, ma Marguerite non poteva modificare il proprio carattere, nemmeno per evitarsi inutili sofferenze. Quando aveva sposato quell'uomo grande e grosso e tranquillo, con la faccia da totem, Marguerite doveva essersi detta che sposava uno come lei, uno il quale si rendeva conto dei danni che possono essere causati da una incontrollata emotività. Quale colpo doveva essere stato per lei rendersi conto che Doe era invece un enorme serbatoio di emozione, come una fossa nel mare profondo; in superficie nulla sembrava turbarlo, eppure era tutto turbinose profondità. Le rose, l'affetto che si meritava dalle persone, e-
rano soltanto i segni visibili del suo stato di grazia. Talmente profonde erano le radici di quel che provava, da far sì che egli sembrasse non sentire la necessità di condividere con altri quei formidabili sentimenti. O forse pensava che, come la propria mole e la propria forza fisica, i muscoli emotivi potessero sopraffare gli altri... in primo luogo Marguerite, che aveva chiuso il proprio cuore per tenerlo al sicuro e lo sentiva indebolirsi e atrofizzarsi fino a divenire fragile come lei aveva sempre temuto che fosse. Prendete quello che vi occorre e pagate pensava spesso Liv, quando i suoi pensieri andavano ai genitori. Ora voltò la testa e sorprese sua madre intenta a fissarla, con la bocca imbellettata (perché le donne anziane si mettono un rossetto così rosso?) insolitamente ammorbidita e gli occhi colmi di preoccupazione. Marguerite arrossì. Il trucco sulle guance parve febbrile contro il rosa naturale della pelle chiara. Liv ebbe a un tratto un capogiro e si dovette vederlo. «Ehi» disse Marguerite, allarmata, e si affrettò a cingere con le braccia sua figlia. «Oh, Dio» mormorò Liv, ricacciando indietro le lacrime. Non voleva piangere alla presenza di sua madre. Marguerite le batté la mano sulla schiena, goffamente. Le due donne si guardarono, ansiose. Incapace di decidere che cosa fare o che cosa dire, Marguerite ripiegò su metodi collaudati e sicuri. «Perché non vai a farti un bel bagno caldo?» mormorò. «Dopo ti sentirai molto meglio. Che cosa rimane da preparare per la cena?» Liv si guardò attorno indifesa. «Bisogna apparecchiare la tavola. Ci sarà pesce.» Marguerite la lasciò andare. «La tavola l'apparecchiamo Sarah ed io» disse. «Devo cucinare il pesce?» «No. Non ci vorrà molto.» «Manda giù Sarah, allora» le ordinò Marguerite, sbrigativa «e fa con comodo. Penseremo noi a tutto.» E come se penserai a tutto, si disse Liv, e immediatamente si sentì ingrata. Marguerite stava facendo quello che poteva. Ed era quello che lei desiderava, no? Un bagno che la calmasse, qualche momento di quiete per distendersi i nervi. Era quasi sonnacchiosa quando qualcuno bussò, in modo discreto, alla porta del bagno.
«Un minuto solo» disse lei, e uscì dalla vasca tendendo la mano verso l'accappatoio. Quando aprì la porta, appena di uno spiraglio, vide che si trattava di Doe; teneva in mano un bicchiere di vino, come la tazzina da tè di un servizio per bambini in una zampa enorme. «Alla tua salute, Livvie» egli disse, e le strizzò l'occhio. «Grazie, papà.» Il bicchiere parve gelido nelle sue mani riscaldate dal bagno. Egli soleva portarle un bicchiere di vino quando lei, adolescente, aveva i crampi del mestruo. Ora Liv scivolò di nuovo dentro la vasca. Forse Jane aveva parlato con loro, inducendoli a ricominciare a viziarla come una bambina. Si domandò se fossero così gentili perché aveva avuto un ascesso a un dente ed era dimagrita e aveva perduto troppe ore di sonno e lo si vedeva, oppure perché sembrava che suo marito non tornasse più a casa. Il solo con il quale avrebbe potuto parlarne era Pat. L'abitudine di rivolgersi a lui la mise di fronte al muro compatto della sua assenza. Il Giorno del Ringraziamento riportò Pat a casa per un'intera settimana. Il martedì successivo, Pat sedeva ingobbito davanti a una tazza di caffè posta sul tavolo di cucina, con la stessa stupida concentrazione di un cavernicolo intento a sorvegliare un osso, si grattava la stoppia della barba e cercava di rientrare in sé. La giornata festiva, con la sua sovrabbondanza di parenti e di cibo, aveva fatto sì che si sentisse gonfio, inutile e fuori del mondo. Travis entrò strascicando i piedi e si arrampicò sulla sua sedia. Sembrava sudaticcio, come se avesse trascorso una notte agitata. Si afflosciò sulla sedia inespressivo, come un vecchio alcolizzato si lascia andare sul bordo del marciapiede in centro. Pat si schiarì la voce. «Hai dormito male dopo la lunga giornata di ieri?» Travis volse verso di lui gli occhi cisposi e cercò nelle tasche del kimono i suoi soldatini. «Emicrania da tacchino» disse Pat. Travis annuì con solennità. «Già» disse Pat. «Per quanto non sopporti affrontare l'argomento, che ne diresti di fare colazione?» Travis gemette. «È esattamente quello che penso io.» Pat fissò la tazza di caffè. Sarah entrò saltellante, guardò loro due e sbuffò. Si avvicinò alla mac-
chinetta del caffè, si riempì una tazza e la portò a tavola. Durante l'ultima assenza di Pat le erano stati tolti gli apparecchietti per raddrizzare i denti. Ora, ogni qual volta Sarah sorrideva, lui pensava che aveva denti spettacolari, come una diva del cinema. Cominciava a portare i capelli avvolti in trecce, o a coda di cavallo da un lato. L'ultimo suo paio di orecchini era un barbaro intrico di perline di vetro, piume e cuoio, che ovviamente a lei sembrava esotico e sofisticato. Marguerite, adocchiandoli il giorno prima, aveva sbuffato di disgusto, e probabilmente questa era stata per Sarah la reazione più soddisfacente ai suoi orecchini, a parte gli strilli acuti delle amiche. Liv era riuscita a mantenere inespressiva la faccia e Pat, dopo il gomito della moglie conficcato nel fianco, ci era riuscito a sua volta. Pat osservò ora sua figlia mentre versava latte nel caffè e rimescolava tre cucchiaini di zucchero. Cominciò a provare un senso di nausea nello stomaco. Sarah assaggiò il caffellatte e arricciò il naso. «Gesù» disse «chi l'ha fatta questa merda?» «L'ho fatto io il caffè» ringhiò Pat. «Bada a come parli, ragazzina.» Sarah disse, arrogante: «Oh, scusa.» Lui prese in considerazione la possibilità di alzare la voce, ma decise che ne avrebbe sofferto più di lei. E sarebbe occorsa troppa energia. Pat e Travis si sbirciarono. Travis, silenziosamente, puntò un dito verso Sarah, poi verso il proprio orecchio destro e tracciò un circolo nell'aria. «Ho visto, sai, stupido» disse Sarah. Travis tirò fuori la lingua. Sarah rispose facendogli le boccacce. «Oh, Dio» disse Pat. Sarah guardò fuori della finestra della cucina. Il cielo era sereno e faceva freddo. «Che giornata splendida» disse. «Andiamo al Mall.» «Sarà un inferno laggiù» osservò Pat. Sarah allargò le braccia, assumendo una posa stravagante. «È un inferno qui.» Travis aveva iniziato una battaglia intorno alla ridotta della zuccheriera. «Ptuiiii» faceva. «Pum!» Pat sbirciò Sarah e si grattò la stoppia della barba. Lei tentò con un altro appiglio. «Ehi, stupido, potresti andare a vedere Babbo Natale.» Travis si fermò in pieno attacco. Guardò Pat. Studiò i soldatini pronti a uccidere e ad essere uccisi. «Okay» esclamò poi.
Pat sospirò e si grattò dietro un orecchio. «Ci tieni davvero ad andare?» Travis si ingobbì sui soldatini e sbirciò Pat. «Credo di sì.» «Io devo assolutamente, Papi» disse Sarah. «Sono indietro con gli acquisti di Natale.» «Ah, be', questo è l'argomento decisivo» disse Pat, sarcasticamente; e poi, per farsi perdonare: «Va bene, va bene. Sarà un manicomio, ma tu sei picchiata e quindi è proprio il caso di andare.» Sarah squittì: «Può venire anche Heidi?» «Domandalo a tua madre» rispose Pat e si alzò da tavola. A stare in piedi gli doleva la testa. Troppa birra con Web e Doe e gli altri della tribù. «Quando andiamo?» domandò Sarah. «Se usciamo presto la baraonda non sarà molta.» L'indomani del Giorno del Ringraziamento forse si sarebbe potuto evitare la ressa nel Mall uscendo di casa alle tre del mattino. Oh, be', chi è in ballo deve ballare, si disse Pat. A tastoni si diresse verso le scale. Un'ora sotto la doccia e, se non fosse morto, probabilmente ce l'avrebbe fatta ad affrontare il Mall. Liv lo incrociò sulle scale. «Porto Travis a vedere Babbo Natale» farfugliò lui. Liv aveva un aspetto splendido, come se il giorno prima non fosse mai esistito. I capelli sciolti e soffici intorno alle spalle, un golf rosa di fettuccia di raso, che faceva pensare alle parole magiche di un incantesimo, pantaloni all'orientale di lamé argento. Gli scostò la ciocca di capelli che gli copriva un occhio, gli tolse dal mento un peluzzo misterioso. «Vuoi proprio andare? Sarà un manicomio.» Aveva fatto male a soffermarsi. Adesso doveva innestare di nuovo la marcia ed era tutto salita, salita, altri otto gradini che sembravano lontani come Ste.-Anne-de-Beaupré da raggiungere in ginocchio. «È un manicomio qui» disse. «Sarà meglio che venga anch'io» si voltò a dirgli Liv. «Avrai bisogno di me.» «Senza di te non mi sognerei nemmeno di andare» disse Pat, e giunse in cima. Quando fu entrato sotto la doccia, senza né scottarsi con acqua troppo calda, né farsi venire una crisi cardiaca con l'acqua troppo gelida, si sentì così soddisfatto di se stesso per aver accettato di fare una pazzia come recarsi nel Mall l'indomani del Giorno del Ringraziamento per portare Travis a vedere Babbo Natale, senza urlare, né bestemmiare né cedere in qualsiasi altro modo a quello che riteneva essere uno stato di debolezza,
riuscendo per giunta a salire al piano di sopra, ad entrare nel bagno e ad ingollare due Excedrine extraforti, che tutti gli impulsi ragionevoli vennero completamente soppressi. La coda richiedeva un'attesa di almeno quarantacinque minuti quando si allinearono dietro agli altri. Babbo Natale era una chiazza rossa entro una minuscola casetta di marzapane grande all'incirca come una cabina telefonica. I muri della casa avevano press'a poco lo spessore del cartone ed erano colorati a chiazze marrone, per cui, veduti da lontano, ricordavano vagamente una torta. Da vicino erano semplicemente malfatti. Finti bastoncini di zucchero, fatti di plastica, incorniciavano l'apertura della porta, che non aveva porta, e le tre grandi finestre, per cui Babbo Natale era visibile da ogni lato. Le finestre avevano telai di plastica colorati a strisce come i bastoncini di zucchero, ma non i vetri, quasi che vandali avessero rotto questi ultimi. Sfere di plastica grandi come arance si accendevano a intermittenza lungo le gronde del tetto bianco. Un fotografo con cappello alla tirolese aspettava lì, in piedi, di tramandare gli incontri tra Babbo Natale e i bambini, se non ai posteri per lo meno ai nonni. Sarah osservò la scena, scambiò sguardi di divertita superiorità con la sua amica Heidi, che era venuta con loro, e tagliò quindi la corda. Avrebbe dovuto tornare lì dopo un'ora e mezza. Pat strinse la mano di Travis, che era già umidiccia. «Hai fame, adesso?» domandò. «Sì» rispose il bambino. «Che ne diresti di andare a prendere un hot-dog per Travis? E vedi se riesci a trovare il nuovo album a fumetti di G.I. Joe, eh?» disse Pat a Liv. «Ma certo» disse lei. «Un hot-dog e un'aranciata?» Travis sorrise nervosamente. Quando lei tornò, la coda si era allungata in modo scoraggiante e Travis e Pat avevano fatto pochi passi avanti. «È lenta?» domandò. Pat annuì. Agenti del Mall si aggiravano lì attorno, allegri ma guardinghi, attenti ai borsaioli, agli inevitabili litigi con i furbastri che cercavano di non stare in coda, agli inevitabili svenimenti. Mentre Travis mangiava l'hot-dog, Pat gli lesse l'album a fumetti. Altri bambini, subito più avanti e subito più indietro rispetto a loro, lo stavano ad ascoltare perché la sua era un'interpretazione drammatica. A Pat piace-
va imitare le varie voci e gli effetti sonori. Anche la donna obesa e anziana immediatamente alle loro spalle si lasciò incantare da lui. Aveva con sé tre marmocchietti, il più grande all'incirca della stessa età di Travis e il più piccolo appena in grado di camminare. La chiamavano Nana. Avevano tutti e tre il naso che colava e la carnagione smorta dei bambini che trascorrono tutto l'inverno intontiti da non curate infezioni alle orecchie, dalla tosse insistente e da violenti raffreddori. Quanto alla donna, era grassa come una tacchina, rosea e sapeva di borotalco. Aveva denti bianchissimi e regolari. Liv, tanto per fare qualcosa, la osservò con discrezione. La donna, a tutta prima, ignorò il racconto, poi cominciò ad ascoltarlo, e ben presto ne fu presa. In ultimo, quando i Joe trionfarono contro i loro nemici, i Cobra, stringeva convulsamente i pugni. I marmocchi le si strinsero attorno, a bocca aperta, pulendosi con le mani il naso che colava. Mentre il racconto si svolgeva, la gente in coda era andata avanti. Babbo Natale si trovava ormai a pochi passi di distanza. Era grasso e gioviale come voleva la tradizione, sebbene, secondo Liv, avesse un volto giovanissimo sotto i lustri riccioli della barba bianca. La pancia, sotto il vestito di velluto rosso, sembrava essere autentica. Il costume che indossava non era per lo meno di scarto, ma sembrava un po' teatrale, non quello che si può portare per un viaggio lungo, gelido e probabilmente accidentato, e inoltre impossibile durante le discese e le risalite nei camini. I conti della lavanderia a secco sarebbero stati paurosi. Pat si accostò a Liv e bisbigliò. «Ricordi l'anno scorso a Lewiston? Il Babbo Natale che molestava i bambini? Spero che si siano informati sul conto di questo tizio.» Lei sbirciò rapidamente Travis. Era pallido e nervoso, troppo distratto perché potesse aver udito. Comunque, si portò un dito alle labbra per tacitare Pat. La donna che, dietro di loro, aveva ascoltato il racconto continuava a essere tutta orecchie. Gli occhi socchiusi, scrutò sospettosamente Babbo Natale. Toccava ormai a Travis. Per un momento il bambino parve aver affondato radici ove si trovava, poi Liv lo spinse avanti. Voltando la testa per fissarla ansiosamente, egli percorse il sentiero come un cadavere vivente e varcò la soglia della casetta. «Chi c'è qui?» tuonò Babbo Natale e si chinò per prenderlo in braccio. Travis cercò con gli occhi Liv e Pat, poi alzò lo sguardo timorosamente
verso Babbo Natale. «Come ti chiami, caro?» domandò quest'ultimo. Travis abbassò il mento sul petto e mormorò qualcosa contro la lampo del giubbotto. «Come?» domandò Babbo Natale, tendendo l'orecchio. «Travis» bisbigliò. Babbo Natale si accigliò. «Travis?» Il bambino fece di sì, rapidamente, con la testa. «Bene, Travis» disse Babbo Natale «sei stato un bravo bambino?» Travis tornò ad annuire. «Oh oh oh» tuonò Babbo Natale. «Oh oh oh.» Travis portò le mani guizzanti allo stomaco. «Bene, Travis» domandò Babbo Natale «che cosa vuoi trovare sotto l'albero?» Travis deglutì a fatica. «Wil' Bill» mormorò. Babbo Natale parve interdetto. «I G.I. Joe» disse Travis. «Wil' Bill è un nuovo personaggio.» «Ah» fece Babbo Natale «certo. Ho sentito parlare dei G.I. Joe. E non vuoi altro?» Poi si chinò verso la scatola di bastoncini di zucchero che si trovava accanto a lui. «Ah» fece Travis, e vomitò in modo esplosivo sulla barba e sul grembo di Babbo Natale. Il vomito era di un color arancione acceso e conteneva pezzettini riconoscibili di hot-dog. «Gesù Cristo!» urlò Babbo Natale, raddrizzandosi con un balzo e mollando Travis sul pavimento. «Mi ha vomitato addosso, il piccolo fottuto mi ha vomitato addosso dappertutto!» Dietro di loro si udì un netto clic di denti falsi da parte della donna anziana, che risucchiò il respiro inorridita. La reazione di Pat fu più fulminea di quella di Liv. Egli giunse per primo accanto a Travis. Travis strillava e sbraitava con lo stesso volume di voce di Babbo Natale. Gli agenti del Mall iniziarono un movimento convergente sulla casetta di Babbo Natale. Gli adulti nella coda fischiavano e fissavano irosamente Babbo Natale che, con gesti frenetici, si spazzava via il vomito dal vestito e dalla barba. Gli urli di lui si ridussero a bestemmie mormorate e a uggiolii. I bambini ridacchiavano, si coprivano la bocca e si avvinghiavano ai genitori o ai nonni.
Travis, singhiozzando più di umiliazione e di paura che di dolore, poiché in effetti il suo mal di stomaco era stato curato radicalmente, nascose la faccia contro il petto del padre. «Ti sen'ti bene, tesoro?» domandò Liv, le mani sul braccio di Pat che allacciava Travis. «Ha bisogno d'aria» disse Pat, e cominciò ad aprire loro un varco tra la ressa. Una donnetta in uniforme, del servizio di sorveglianza del Mall, si fece largo verso di loro. «Sta bene il bambino?» domandò. Pat annuì. Fuori della ressa, ove riuscivano a udirsi a vicenda, Pat si fermò e spostò Travis sull'altro braccio. «Faresti certo meglio a tornare indietro e a cercare Sarah» disse. Liv accarezzò il capo di Travis. «Okay.» «Ci troverai sulla macchina.» Sarah e Heidi stavano aspettando vicino alla casetta di Babbo Natale, stringendo tra le mani tutto un assortimento di sacchetti di carta. Un cartello sopra la porta avvertiva: BABBO NATALE È MOMENTANEAMENTE ASSENTE. Sotto il cartello si trovava un quadrante d'orologio di cartone, con le sessanta tacche dei minuti e le lancette puntate sul decimo minuto. «Che cosa è successo?» domandò Sarah. «Abbiamo sentito dire che un bambino ha vomitato.» «È stato Travis» disse Liv, concisamente, e le condusse verso la macchina. «Oh, che schifo» disse Sarah, svariate volte. Heidi le fece eco. Entrambe continuarono a dirlo salendo sulla giardinetta. Pat aveva preso posto sul sedile anteriore e continuava a tenere in braccio Travis. Pazientemente, stava asciugando con fazzoletti di carta il davanti della tuta da neve di Travis. Travis fissò irosamente, con gli occhi arrossati e rosso in faccia, al di sopra della spalla di lui, le due ragazze. Liv si mise al volante. «Sono così imbarazzata» disse Sarah. «Dio, come puzza questa macchina. Credo che vomiterò anch'io.» Ridacchiando, le due ragazze abbassarono i cristalli dei finestrini posteriori. Liv avviò la macchina. «Sarah» disse «chiudi il becco.»
«Approvo la mozione» disse Pat. Seguì un silenzio risentito, sul sedile posteriore. «Ho ricordi olfattivi incancellabili» disse Pat «di quando ti portai da mia madre all'età di otto mesi. Era agosto. Ci trovavamo a un chilometro e mezzo dalla casa di Ma', e tua madre stava dicendo che eri una viaggiatrice con i fiocchi, quando a un tratto ti prese spettacolarmente il mal d'auto. Quell'automobile puzzava ancora di latte acido vomitato quando la vendemmo nel mese di ottobre. E la vendemmo per questo. Era la Saab che tua madre aveva avuto dall'età di diciassette anni.» «Gesù» disse Sarah. Pat voltò la testa di scatto e colse il suo sguardo. Lei trasalì. «Ero ancora una poppante» disse. «Travis non è ancora abbastanza grande per votare» osservò Liv. «Possiamo pazientare un po' con lui.» «Per giunta non ho nemmeno finito di fare gli acquisti» disse Sarah. «Tu non finisci mai di farli» disse Pat. Era una battuta della quale Sarah e Heidi poterono ridacchiare. Le due ragazze cominciarono a esaminare i rispettivi acquisti. Pat sentì una folata d'aria fresca. Di nascosto, Liv aveva abbassato un po' il cristallo dalla sua parte. Scoccò una rapida occhiata a Travis e parve sollevata. Si sporse in avanti verso il volante e batté le palpebre rapidamente. Si morse il labbro inferiore. Il petto le si sollevò una o due volte in modo sospetto. Sbirciò Pat con la coda dell'occhio e lui si rese conto che stava sforzandosi di non ridere. «Che schifo» le disse silenziosamente, limitandosi a muovere le labbra. Anche lei mosse le labbra, ma tenne gli occhi fissi sulla strada. «Inserisci un nastro» propose poi. Lui frugò pertanto nel ripostiglio dei guanti, tra le varie cassette, e trovò una cassetta di Travis, «Nato per sommare», una parodia della canzone di Springsteen, «Nato per correre». «Oh, Dio» esclamò Sarah, non appena udì la voce tremula e nasale di Bruce Stringbean, ma Travis divenne immensamente allegro. Il fetore era davvero schifoso, e Pat dovette abbassare anche il cristallo dalla sua parte e appoggiare la punta del naso al vetro freddo, vicino il più possibile allo spiraglio, senza che la cosa diventasse manifesta, e irrigidì il diaframma e cercò di respirare il meno possibile, e non appena furono arrivati a casa si precipitò nel bagno al pianterreno e vomitò un intruglio acido che sapeva di aspirina, finché non gli vennero i brividi e cominciò a trema-
re. Si spogliò rimanendo in mutande, si mise a letto, si addormentò, e quando si destò, nel tardo pomeriggio, Travis, anche lui in mutandine, gli si rannicchiava contro. Capitolo VII A metà settimana nevicò e la vigilia di Natale il vento faceva turbinare la neve. Doe e Marguerite aprirono la loro casa come sempre e tutti si trovarono là a scambiarsi i doni eccettuato Pat, che arrivò dalla costa ovest appena in tempo per appendere un suo calzino sotto la mensola del caminetto e per rimboccare le coperte a Travis. Il giorno di Natale era grigio, con un freddo che azzannava le ossa, e toccò a Pat e a Liv ricevere i parenti. La sfilata - quattro sorelle: Jane, la maggiore, quarantenne, Natalie, Josephine e Emily; tre fratelli, Arthur, Noel e Charles; le loro consorti o amanti; i loro rampolli; e la madre di Marguerite, Nana Martin, un'ossuta donna di campagna quasi novantenne, che era sembrata languire per due decenni, come un vecchio generale o il Gatto del Cheshire, invece di andarsene, per cui era più che altro uno scheletro scricchiolante malvestito di carne - cominciò alle otto, del mattino, con Marguerite che sgridava Doe sulla soglia della porta di servizio, dicendogli di non far cadere la scatola di cartone con i pasticci di carne. Come monarchi in visita, portavano tutti qualcosa, qualche simbolico contributo al banchetto, per cui il frigorifero divenne pieno zeppo e non vi fu più posto nemmeno sui piani di lavoro nella cucina. Il pasto doveva essere per necessità di cose un buffet, in quanto i soli rampolli delle sorelle di Liv erano ben quindici, più un paio di figliastri acquisiti in seguito ai nuovi matrimoni. Come se tutti cercassero consapevolmente di essere all'altezza dell'occasione, la festa trascorse più rapidamente e più armonicamente del solito. Vi fu sempre una delle sorelle - di solito Josephine, che diceva spiritosaggini e continuava a togliere la sigaretta dal posacenere per una rapida e ristoratrice boccata di fumo, con le dita insaponate che bagnavano la cartina della sigaretta e la rendevano trasparente, perché si trattava di una donna nervosa, dalla parlata rapida, che doveva fare sempre qualcosa con le mani - davanti all'acquaio in cucina, a sciacquare i piatti e a ricaricare la lavastoviglie, mentre Marguerite faceva altro caffè, una delle cognate toglieva di mezzo posacenere e piatti sporchi e abbandonati, e uno dei fratelli vuotava
il bidone dell'immondizia o apriva il frigorifero per mettervi o prendervi una bottiglia di birra, oppure ghiaccio. Ondate improvvise di sghignazzate o di insulti maschili irrompevano da coloro che stavano seduti davanti al televisore seguendo la partita di football. Le donne accostavano la testa e bisbigliavano, si lasciavano cadere stancamente sulle sedie della cucina con un'altra tazza di caffè e raccontavano, o tornavano a raccontare, episodi di famiglia che il più delle volte terminavano tra sommesse esplosioni di risatine lascive. Gli adolescenti facevano funzionare a tutto volume l'impianto stereo di Sarah al primo piano. Un branco di bimbetti continuò a turbinare intorno alle caviglie degli ospiti e alle gambe dei tavoli dando la caccia a La Povera finché Liv non ebbe misericordiosamente portato la gatta in cantina. Una giornata rumorosa, non di rado vociferante, con troppa gente, caotica, l'aria resa irrespirabile dal calore corporeo di un notevole numero di persone e dal fumo delle sigarette, ma, nonostante tutto ciò, Nana Martin riuscì ad addormentarsi sulla sedia a dondolo in cucina. Prendendo i piatti di portata dalle mani di Pat, in cucina, Liv vide a un tratto la madre di lui sul suo viso. Una silenziosa infelicità; la tensione gli oscurava gli occhi e gli afflosciava il labbro superiore come il profilo del tetto di una stalla in rovina. Desiderò con tutto il cuore che Ellen Russell fosse ancora in vita. Doveva essere duro per lui trovarsi immerso nella sua dilagante famiglia per la seconda volta dopo il Giorno del Ringraziamento ed essere accolto con sospettosità, con tacite accuse, con diffidenza. La porta di servizio si tramutò in una strettoia mentre sorelle e fratelli riunivano le rispettive famiglie per andarsene. Seguirono altro chiasso, altre conversazioni, la distribuzione rituale degli avanzi avvolti in carta stagnola o in fogli di plastica trasparente. Alle quattro del pomeriggio Liv e Jane e Marguerite e Nana Martin, riposata dopo il sonnellino, si trovavano ancora in cucina a finir di rigovernare. Quando Liv andò a dare un'occhiata nel soggiorno, soltanto Web continuava a fissare lo schermo del televisore con gli occhi spenti, rimpinzato di bevande, di cibo, e di altre bevande ancora. Doe si era addormentato sul divano. Pat e Travis erano scivolati insieme nel sonno sulla dormeuse di cuoio blu. Le luci dell'albero di Natale, nell'angolo, continuavano ad accendersi e a spegnersi come semafori. Nana Martin si avvicinò silenziosamente alle sue spalle, la prese per il gomito, ed emise uno sbuffo conclusivo da vecchia. Liv tornò in cucina per continuare la preparazione del passato di brodo di tacchino. Dopo aver tolto le ossa dal brodo, lo filtrò rendendolo più lim-
pido; poi vi aggiunse l'estratto di carne; le patate schiacciate e il purè di zucca per renderlo più denso; le cipolle lesse divenute una crema; i pomodori stufati; le barbabietole tagliate a pezzetti; e i funghi sautés. Gli avanzi dei piselli e delle carote li lasciò da parte per aggiungerli quasi al momento di servire, quando avrebbe aggiunto anche la panna. Le sole cose, si può dire, che non entrarono a far parte della minestra furono le conserve - ma la gelatina di mirtilli sarebbe potuta essere uno dei componenti - l'insalata russa e i dessert: le torte di mele, di frutta secca e al limone, la torta al caffè, il pudding indiano e la panna montata - un piccolo e scherzoso contributo di Doe. Gli avanzi di tutti questi dolci erano stati distribuiti ai parenti al momento del congedo, lasciandone una piccola parte soltanto per i Russell. Ciò nonostante, il frigorifero continuava a sembrare disperatamente pieno. Intanto, i lampioni si erano accesi nel crepuscolo man mano più fitto davanti alla finestra della cucina. Marguerite e Jane e Nana Martin chiusero gli album delle fotografie di famiglia che avevano sparpagliato sul tavolo della cucina e andarono a svegliare Doe e Web davanti al televisore. Seguì un imbarazzante e greve silenzio quando tutti se ne furono andati e soltanto i Russell rimasero insieme nel soggiorno. La casa parve all'improvviso piccola e soffocante e piena di polvere, come se le sue pareti stessero chiudendosi su di loro. Liv si chinò e spense il televisore. «Andiamo a fare una passeggiata» disse. L'assalto dell'aria tagliente e gelida li strappò tutti quanti all'apatia postbaldoria. Il cielo era senza stelle e senza luna. Fitte e impenetrabili nubi sature di neve riflettevano fiocamente le luci della città e i riflettori dell'aeroporto che tracciavano archi come lancette di un orologio lasciando immaginare la superficie inferiore a fossette delle nubi e l'enorme volume d'aria e d'acqua cristallizzata in movimento sopra di loro, simile a un enorme e soffice tetto che faceva pensare a un intimo fuoco e ad aromi di pino nell'intimità delle case, tutto l'opposto delle umilianti e spalancate tenebre di una limpida notte invernale. Lì all'aperto erano completamente soli. Ogni altra creatura esistente al mondo si trovava all'interno delle vecchie case lungo le strade. Il chiarore azzurrognolo dei televisori splendeva dietro ad una o più finestre di ogni casa, come magici fuochi da campo. Percorsero una galleria formata dai tronchi enormi di olmi che dovevano avere un secolo, quasi tutti malati e morenti, con un'arcata scheletrica di rami in alto attraverso i quali splendevano i lampioni stradali, rendendo grottesche le loro ombre sui marciapiedi pavimentati con mattoni.
Liv si domandò di quali diverse parole si sarebbe servito ognuno di loro per descrivere lo stato d'animo evocato dal momento. Sarah aveva sul viso un'espressione sognante: doveva trovare la notte romantica. Travis spalancava gli occhi; non usciva spesso, una volta discesa l'oscurità, e pertanto tutto gli sembrava esotico, naturalmente, ed eccitante, e forse anche un pochino spaventoso. Pat le strinse la mano; lei intuì che si sentiva consolato dalla tradizione e dalla continuità della vita familiare ospitate dalle antiche case vittoriane, segnalate dalle finestre illuminate d'azzurro e sottolineate dalla festività stessa. Anche lei sentiva qualcosa di simile. Ma sentiva altresì il cambiamento nell'aria, il gelo della notte, l'inverno che trionfava, come una scheggia di ghiaccio nel cuore. E sentiva che nulla di tutto ciò era davvero sicuro. Non esistevano alcun conforto, alcuna continuità. Non si poteva far conto nemmeno sulle stagioni. Soltanto sull'inverno si poteva contare; l'inverno veniva sempre, anche quando a malincuore cedeva il passo alla primavera, e anche quando l'estate rimaneva immobile nei campi verdi, l'inverno aspettava sempre di rivendicare la propria egemonia. L'aria pura e gelida era energia per Travis; le mani affondate nelle tasche per riscaldarsele, il bambino saltellava e danzava e canticchiava senza un motivo tra sé e sé un po' più avanti rispetto a loro. Sarah, che era rimasta più indietro di Pat e di Liv, li superò trotterellando e raggiunse Travis. Il canto informe di lui cessò ed egli alzò gli occhi sulla sorella. «Ti sfido a una gara di corsa fino all'angolo» propose Sarah. Travis saettò via con tutta la rapidità di cui era capace. A lei bastò trotterellare per raggiungerlo subito prima che arrivasse all'angolo. «Preso» disse. «Non ce l'hai messa tutta» disse Travis. Sarah fece una spallucciata. Lui proseguì, precedendoli di nuovo. Subito al di là dell'angolo, si fermò e scosse un piede, poi lo fece strisciare avanti e indietro sul marciapiede. «Sarebbe un gioco, questo?» domandò Liv e Travis voltò la testa e le sorrise. «Fa-come-il-primo» disse. Saltellò avanti, poi indietro. Liv fece altrettanto, poi incrociò i polsi dietro la nuca, come una prigioniera, e cominciò a torcersi da un lato e dall'altro mentre saltellava. Pat la seguì, poi la seguì Sarah, poi Travis, dapprima osservandoli attentamente e ridacchiando, poi imitandoli con stravagante precisione. Sarah inventò un suo bizzarro passo dell'oca e la imitarono tutti, seguendola lungo l'isolato.
Poi Pat si voltò e saltellò all'indietro, e in questo modo arrivarono a casa tutti quanti, ilari e con il respiro corto. La casa era adesso calda ed accogliente, di nuovo delle dimensioni giuste, di nuovo il nido. «La tua è stata una bellissima idea» disse Liv a Travis, aiutandolo a togliersi il giubbotto. «Quale?» domandò il bambino. «Fa-come-il-primo» disse Liv. «Oh» fece lui. Sedette e si slacciò le scarpe. «Avevo calpestato una cacca di cane, Liv.» Pat emise un suono strozzato. Liv incrociò il suo sguardo al di sopra della testa china di Travis. Pat la cinse alla vita e la trascinò in cucina. Là risero fino alle lacrime. Lei più tardi lo sentì irrigidirsi, in preda alla tensione, e la felicità l'abbandonò. «Devo tornare al lavoro domani.» Liv si girò tra le sue braccia e si contorse per sottrarglisi, ma Pat le tenne strettamente i polsi e glielo impedì. «Mi dispiace, piccola. Devo.» Lei non volle guardarlo. «Per quanto tempo questa volta?» Parve staccare a morsi le parole, come se fossero state carne cruda e rossa. «Una settimana. Non di più.» Questo significava dieci giorni. «E dopo?» «Dopo potrò restare a casa. Te lo prometto.» Lei continuò a tenere la testa voltata da un lato. «Va bene.» Pat le liberò le mani e le seguì, con una nocca, il contorno della mascella. Con riluttanza Liv voltò il viso verso di lui. Vide che era pallido. Come un cane che sa di essere in colpa. Avvilito, in preda al rimorso, disperato. «Non prendermi più a calci» diceva la sua faccia. «Non ruberò altre bistecche dal tavolo.» «Voglio farti vedere una cosa. Vieni. Voglio che la vedano anche i figlioli.» La stava supplicando. Lei lo seguì, ancora ostinata, nel soggiorno, soffermandosi ai piedi delle scale per chiamare Sarah e Travis e farli uscire dalle loro camere da letto. Pat aveva un'altra videocassetta. Liv si lasciò cadere sul divano. «Un'altra parte del film» suppose, aspettandosi di vedere un altro dei frammenti che egli aveva fatto loro visionare, come i pezzi di un gioco di pazienza ad incastro, man mano che il montaggio procedeva.
«No» disse lui, e premette il pulsante «Play» e venne a sederle accanto e la cinse con un braccio alla vita senza guardarla negli occhi. Stava quasi tremando. Sarah si lasciò cadere sul pavimento. Travis si riarrampicò sulla dormeuse blu. Fece saltar fuori soldatini da una delle tasche e cominciò a disporli sui braccioli. Il nastro girò, senza che si vedesse nulla, intorno ai perni del VCR e poi contemplarono una donna sensazionale nella lussuosa mezza età della costa ovest. Liv si sentì subito una sciattona. La donna si presentò. «Sono Vera Danzig» disse, nel tono professionalmente fiducioso che separa i comuni mortali, mai cinematografati e mai ripresi dalle telecamere, dai presentatori televisivi, «e vorrei mostrarvi una mia proposta esclusiva.» «Uaah!» esclamò Sarah. Era qualcosa da vedersi. Vera Danzig guidò la telecamera attraverso troppe stanze perché si potesse contarle o ricordarle (ma Liv le contò e le ricordò tutte) di una stupefacente villa moderna aggrappata a uno dei dirupi costieri della California. Il giro si protrasse per mezz'ora e comprese la visita di uno studio separato nella proprietà. Il nastro terminò senza che Vera Danzig avesse mai menzionato un prezzo, ma Liv suppose quanto sarebbe costata quella casa sulla costa est, se mai vi fosse stata costruita. E in California, ritenne, sarebbe venuta a costare il doppio, più ancora la metà. Pat si precipitò a premere il pulsante «Riavvolgimento». «Che cosa te ne pare?» «Mi piace» disse Sarah. «Stiamo per acquistarla?» Pat non rispose. Si lasciò cadere accanto a Liv e le mise un braccio sulle spalle. «Ebbene?» Liv si guardò le mani. Poi guardò lui. «È splendida. Ma costerà troppo di sicuro.» «Ora non più» disse Pat. «Abbiamo concluso un accordo con la Warners per la distribuzione. E la Warners mi ha offerto un contratto a parte per il rifacimento di altre due sceneggiature.» «È fantastico» disse Liv, pensandolo sul serio. «È meraviglioso. È quello che tu volevi, lo so.» Pat accentuò la stretta sulle sue spalle. «Sei certo che dobbiamo trasferirci sulla costa ovest?» gli domandò lei. Pat si espresse seriamente, con fervore. «È assolutamente necessario, piccola. Devo trovarmi là. Né posso restare lontano dalla famiglia per un
altro anno come è già accaduto. Tu puoi?» «No» disse lei. «Ma non voglio stabilirmi in California, Pat. Ho un'azienda, qui. Non posso dirigerla da lontano.» «Puoi trasferirla là» disse Pat. «Espandere il mercato.» Liv scosse la testa. «Fai sembrare tutto facile.» «So che non sarebbe facile» disse lui, tutto ragionevolezza. «Ma non possiamo andare avanti in questo modo, Liv.» «No» riconobbe lei. «Lo so.» «Be', io voglio andarci in California» disse Sarah. Balzò in piedi. «Hai il mio voto, papà.» «Grazie» disse Pat. «Non è una questione di voti» osservò Liv. «Dovrebbe esserlo» disse Sarah. «Terremo presente la tua opinione.» «Io non voglio andar via» disse Travis. «Voglio restare proprio qui.» Era rimasto così zitto e tranquillo che si erano dimenticati tutti della sua presenza. «Ti piacerà, laggiù» disse Pat. «Aspetta e vedrai.» «Lasciami il tempo di riflettere» disse Liv. Pat parve sulle spine ed irrequieto. «Non posso fare aspettare in eterno quelle persone, piccola.» «Il fine-settimana» disse lei. «Non finirà il mondo durante il finesettimana.» Il telefono sul tavolino di lato del divano squillò. Liv si protese ed afferrò il ricevitore. «Pronto.» «Buona Giornata del Bottino» disse Bayard Rohrer. «Come va, bellezza? Ne abbiamo di motivi per festeggiare, eh, presumo?» «Sto bene» rispose Liv, come un automa. «Ne abbiamo, vero?» «Le piace la casa?» domandò lui. «Non appena l'ho vista ho detto a Pat, sembra fatta apposta per Liv. E quello studio!» «È imponente» riconobbe Liv. «Le piacerà» promise Bayard. «Non stia ad arrovellarsi per i mobili. Vera ha detto che l'accompagnerà lei nei mobilifici migliori.» «È gentile da parte sua» disse Liv. «Ma prima dovrò vedere la casa.» «Venga qui con Pat domani. Potreste trasferirvi tutti per Capodanno.» «Così presto?» disse Liv. «La casa è libera e il denaro lo hanno già avuto da Pat» disse Bayard. «Che difficoltà vi sono?»
Lei si sentì chiudere la gola. Non rispose a Bayard. Si limitò a domandargli: «Vuole parlare con Pat?» «Grazie, bellezza» disse Bayard. Liv porse il ricevitore a Pat e uscì dalla stanza. Rimise la minestra sul fuoco e aggiunse le carote, i piselli e la panna. Sarah entrò e cominciò ad apparecchiare per la cena il tavolo piccolo in cucina, senza farselo dire. «Mi piace proprio tanto quella casa, mammina» disse, disponendo i cucchiai per la minestra. «Sarebbe semplicemente fantastico risiedere in California. Credi che potrei avere la camera da letto con la finestra ottagonale?» «Non lo so» rispose Liv. Pat entrò, tolse i piatti fondi dalle mani di Sarah e finì di disporli sulla tavola. «Immaginavo che ti sarebbe piaciuta quella camera, piccola» disse. «La casa piacerebbe moltissimo ai figlioli, Liv.» «Sono certa che mi piacerebbe» disse Sarah. «Me lo hai già detto» disse Liv. «E svariate volte.» «Be', dovrei avere il diritto di dire la mia.» «Intendi dire» osservò Liv «che se vuoi qualcosa dovrebbe accadere.» Sarah incrociò le braccia e fece il broncio. Liv si morse il labbro e rammentò a se stessa che Sarah aveva appena tredici anni, anche se ne dimostrava diciassette. «Perché dovremmo restare qui soltanto perché tu non vuoi partire?» volle sapere Sarah. «Basta così, Sarah» intervenne Pat. «Buona domanda» disse Liv, e rimestò la minestra. Pat le si avvicinò alle spalle e le mise le mani, premendo appena, intorno alla vita. Sembrava sentire la necessità di continuare a toccarla. Sperando che lei gli si appiccicasse, Liv pensò, come la Fanciulla Oca. «Vorrei che tu fossi più aperta a questa prospettiva, piccola.» Liv si voltò tra le sue braccia per affrontarlo. «Ma non importa se lo sono o no, vero?» Pat protestò. «No, no, è decisivo.» «Bayard mi ha detto che hai già acquistato la casa» disse Liv. «Sei sicuro che importi se voglio o non voglio?» Pat impallidì. Nella sua voce si insinuò il panico. «Ascolta, piccola, do-
vevo versare un acconto, altrimenti l'avrei perduta.» Divincolandosi, lei si sottrasse alla cerchia delle sue braccia e si addossò al frigorifero. «Ma il fine-settimana è un periodo troppo lungo perché io possa concedermelo per prendere una decisione, e Vera non vede l'ora di aiutarmi ad acquistare i mobili.» «Quel maledetto chiacchierone di Bayard» disse Pat. «Hai ragione» lo approvò Liv. «Dovresti parlargli, al riguardo. E, già che ci sei, pregalo anche di non chiamarmi bellezza.» Pat la fissò. Torse la bocca in preda a un'ira silenziosa. Strinse i pugni. Sarah balzò in piedi. La sedia sulla quale si era trovata si rovesciò e cadde rumorosamente. Lei la ignorò. «Vuoi soltanto rovinare tutto» disse, stridula. Aveva il viso chiazzato di rosso e le nocche delle mani chiuse a pugno sbiancate. «Vuoi soltanto rovinare tutto. Ebbene, io me ne infischio di quello che vuoi tu. Io voglio andare a stare in California con Papi.» «Bene» disse Liv «potrai terminare il semestre qui e poi trasferirti in California con il babbo.» Seguì un attimo di sgomento. Poi Sarah respirò affannosamente, mentre si rendeva conto di quello che Liv aveva detto, e scoppiò in lacrime. Liv attraversò come un automa la stanza ed abbracciò Sarah. Una mano di lei accarezzò i capelli della ragazza, come tante altre volte in passato sin da quando sua figlia era nata, per calmarla e consolarla dopo i bernoccoli e i lividi e i disastri dell'infanzia. Poi Liv trasse un profondo respiro e la lasciò andare. Singhiozzando, Sarah si lasciò cadere su un'altra sedia e nascose il viso tra le braccia poggiate sul tavolo. Pat rimaneva, sbalordito, accanto al fornello. L'aroma della minestra di brodo di tacchino a un tratto lo sconvolse, per cui temette di essere sul punto di vomitare. «Pat» disse Liv, dai piedi delle scale, «prenderò con me Travis e andrò per qualche tempo a Nodd's Ridge.» Lui chiuse gli occhi. «Sono certa che Marguerite e Doe saranno lieti di venire a stare con Sarah» lei continuò. E poi si interruppe. Si voltò verso Travis, che sedeva sull'ultimo scalino, avvolto nella sua vecchia coperta e chino sui soldatini. Aveva un fucile mitragliatoregiocattolo a tracolla sulla spalla. «Ho fame» disse. «È pronta la cena?» Liv si chinò su di lui e gli baciò il cocuzzolo della testa. Fatti dare un po' di minestra da papà. Poi vieni a bussare alla porta della mia camera da letto
e a darmi il bacio della buonanotte, okay?» Subito dopo, si affrettò a salire di sopra perché non voleva dargli il tempo di accorgersi che era sconvolta. Travis la seguì con lo sguardo, poi andò in cucina e si arrampicò sulla sua sedia. «Liv ha detto che devi darmi un po' di minestra, Pat» disse. Pat batté le palpebre. «Oh» mormorò. «Certo.» Si voltò e rimestò la minestra con il cucchiaio di legno. Si accorse poi che i piatti fondi si trovavano già sul tavolo. Travis si tolse dalle tasche i soldatini e li dispose circolarmente intorno al piatto vuoto. Alzò gli occhi su Sarah. Lei aveva ancora la testa tra le braccia poggiate sul tavolo. Le spalle le sussultavano di tanto in tanto, scosse da profondi singhiozzi. Pat si protese oltre la mano destra di Travis per prendere il piatto. «Perché sta frignando?» domandò Travis. Sarah alzò la testa di scatto. «Non sto frignando!» sibilò a Travis. «Sì, invece, frigni» disse il bambino. Sarah batté i pugni sul tavolo, facendo tintinnare piatti e posate. «Ooooh, chiudi il becco, piccolo moccioso!» urlò. Poi, sbattendo la sedia da un lato, uscì a gran passi dalla cucina. «Sarah» le gridò dietro Pat. «Sarah!» Per tutta risposta si udì il calpestìo dei passi di lei su per le scale e fino alla sua camera. Lui sospirò e portò il piatto accanto al fornello per riempirlo. Poi si preparò una tazza di caffè istantaneo e sedette a tavola soffiando sul caffè bollente e sorseggiandolo mentre Travis soffiava sulla minestra e la sorbiva. «Perché sono tutti arrabbiati l'uno con l'altro?» domandò Travis, tra una cucchiaiata e l'altra di minestra. «Credo che siamo tutti stanchi» disse Pat. «È quello che dice sempre anche Liv» osservò Travis. «Vorrei che non vi stancaste tanto. Forse dovreste fare un pisolino.» Travis bussò alla porta di sua madre, venne baciato e gli furono rimboccate le coperte. Lei andò a bussare alla porta di Sarah dicendole di abbassare il volume della musica o di servirsi del Walkman. Sarah rispose aumentando il volume. Liv provò ad abbassare la maniglia; la porta non si aprì. «Apri la porta, Sarah.» Dovette urlare per farsi sentire con quella musi-
ca. Pat, che stava salendo le scale, udì. Girò sui tacchi, discese in cantina e staccò la corrente dalla camera di Sarah. La musica cessò con uno squittio. Sarah corse ad aprire la porta. Il suo viso, quando la spalancò, era sconvolto tanto dall'ira quanto dal panico. Lei si lanciò contro Liv. Liv l'afferrò per i polsi e la spinse contro la parete. Poi ecco di nuovo lì Pat, ansimante per aver salito e disceso e risalito due rampe di scale, e Sarah capì chi era stato a togliere la corrente in camera sua. «Sarah» ansimò lui «per tutto questo mese non adopererai più l'impianto stereo.» Entrò nella sua camera e cominciò a staccare i collegamenti e le prese dei componenti dell'impianto. «E se rifiuterai di nuovo di aprirci la porta, toglierò la serratura. D'ora in avanti, quando qualcuno ti rivolgerà la parola, aprirai quella porta e risponderai.» Sarah si gettò sul letto a faccia in giù. «Buonanotte» disse lui. Seguì un silenzio. «Buonanotte» disse poi Sarah, imbronciata. Pat portò i componenti dell'impianto stereo nell'armadio a muro del corridoio. Quando passò di nuovo davanti alla camera da letto di Sarah, udì sua figlia singhiozzare. Liv era scomparsa nella loro camera da letto. Lui bussò sommessamente ed entrò nella camera della ragazza. «Vattene» disse Sarah contro il guanciale. «Vattene, per piacere.» «Non puoi liberarti di me così facilmente» disse Pat e sedette sulla sponda del letto. Lei si girò, tenendo un braccio sugli occhi. «Baby» disse Pat. «C'è bisogno del tuo aiuto, adesso.» Sarah tirò su con il naso. «Se ci tieni davvero ad abitare in quella casa in California, devi aiutarmi a convincere tua madre. È molto più difficile per lei andarsene di qui di quanto lo sia per te e per me.» Sarah abbassò il braccio quanto bastava per sbirciare suo padre. «Si acchiappano più mosche con il miele che con l'aceto» egli continuò. «Giusto?» La ragazza si calmò. «Ci proverò» disse poi. «Bene.» Pat la baciò sulla fronte. «Ora mettiti a letto e dormi.» Andò poi a fare capolino nella camera di Travis. Il bambino si era già addormentato, dormiva già a mezzo quando Pat lo aveva mandato di sopra.
Pat bussò alla porta della camera da letto di Liv e sua. Liv venne ad aprire. Era in camicia da notte, con il viso appena lavato e i capelli sciolti. «Hai sentito quello che ho detto a Sarah?» le domandò. «Sì» rispose Liv. «Grazie.» «Posso entrare?» domandò Pat. «Vorrei parlarti.» Liv scosse la testa. «Sono troppo stanca, Pat. Credo che faresti meglio a dormire nella camera degli ospiti, stanotte.» Pat si protese per abbracciarla, ma lei indietreggiò. Egli rinunciò, allora. «Sta bene» disse. «Se è così che vuoi.» Liv chiuse, dolcemente, la porta della camera da letto alle sue spalle. Poi si mise a letto e fissò il cielo attraverso la finestra. V'erano piccoli lustrini luminosi sui vetri, che riflettevano la luce dei lampioni stradali, là ove minuscoli fiocchi di neve, spinti dal vento contro la finestra, si stavano sciogliendo. L'umidità condensata appannava gli angoli e gli orli dei molti vetri della finestra. Liv rabbrividì. La casa era molto silenziosa, i figlioli essendo scivolati infine nella tregua del sonno. Di tanto in tanto lei udiva un occasionale colpo di tosse, il cigolio delle molle del letto nella camera degli ospiti. Pat era ancora sveglio. Fuori, la neve tacitava la notte irrequieta della città. Le nubi dalle quali scendevano i fiocchi sovrastavano la città come un tetto. L'aria era satura di neve per cui le poche persone ancora deste e in giro difficilmente avrebbero potuto respirare senza risucchiare le minuscole, gelide e taglienti particelle di ghiaccio che pungevano dentro il naso e subito si scioglievano. Lei si augurò che esistesse un modo magico per far sì che il suo letto venisse a trovarsi all'aperto, così avrebbe sentito la neve scendere su di sé come baci gelidi, pur restando al calduccio nel bozzolo delle coperte. Non era quella una notte in cui si aspettasse di dormire, ed invece dormì. Parte seconda Una casa vuota è come un cane randagio, o come un corpo nel quale la vita si è spenta. SAMUEL BUTLER Capitolo VIII La casa sembrava sempre uguale. Niente era cambiato. Continuava a dare una sensazione di vuoto.
Liv diede una gomitata a Travis e disse: «Siamo arrivati.» Il bambino sbadigliò e si guardò attorno inespressivo. «Voglio andare a casa.» «Siamo arrivati» insistette lei. Travis si stropicciò gli occhi e batté le palpebre. Non era affatto come tornare a casa. Non si trattava del luogo verdeggiante che si erano lasciati indietro nel mese di settembre. La neve aveva operato la sua magia trascendentale. I rami nudi e scheletrici degli alberi erano decentemente vestiti di brina. Neve pura copriva i resti in putrefazione dell'estate. Ma ovunque regnavano una immobilità e un silenzio di morte, il riposo nel salotto della desolazione. La casa, nonostante il pennacchio di fumo della legna che scaturiva adagio dal comignolo sopra il colmo del tetto, era vuota. Le finestre, con le imposte accostate, sembravano gli occhi vitrei dei morti. Liv si stiracchiò e si riempì i polmoni con l'aria gelida e pura. Poi, facendo scricchiolare la neve, girò intorno alla macchina per aprire la portiera dalla parte di Travis. Il bambino rotolò fuori con i pugni irti di G. I. Joe, simili a bizzarri tirapugni d'ottone, solo che i tirapugni erano parti di corpi in miniatura fatte di plastica, alcune con tute mimetiche, altre con varie uniformi di reparti speciali antiterrorismo. Liv aprì il portellone e fece scattare il gancio che teneva bloccata la porticina della gabbia del gatto. La Povera scivolò fuori e balzò a terra. Simile a una signora che tenga sollevata la gonna, la gatta si diresse con cautela sulla superficie della neve verso i cespugli coperti di neve ghiacciata. Liv e Travis percorsero il viale d'accesso tutto lastre di ghiaccio fino alla veranda posteriore, che era stata sgombrata dalla neve accumulatavisi. La neve tolta di mezzo formava una duna in fondo al curvo viale d'accesso. Legna piccola e ceppi spaccati nelle dimensioni adatte alla stufa si trovavano accatastati sotto un foglio di spessa plastica vicino alla porta di casa. «Walter è stato qui» disse Liv. Mentre varcavano la soglia, La Povera saettò in casa insinuandosi tra i loro piedi. Dentro faceva caldo; l'odore del fumo della legna punzecchiò loro il naso. V'era un biglietto applicato allo sportello del frigorifero sotto una calamita che imitava una tavoletta di cioccolata così realisticamente da far venire l'acquolina in bocca. «Ben tornati a casa! Le provviste sono già nel frigo. Se vi occorre qualcosa chiamatemi. Walter.» Liv aprì il frigorifero. Dentro v'era un freddo che sapeva di muffito, la casa in negativo, un piccolo frammento dei rigori invernali all'esterno
chiuso in una scatola e portato dentro. Latte, uova, burro, una grossa fetta di formaggio dolce, marmellata fatta in casa, con l'etichetta di Walter DALLA CUCINA DI WALTER MCKENZIE/MARMELLATA Di FRAGOLE SELVATICHE, 1983 - non riempivano i ripiani, anzi li facevano sembrare più vuoti, così come la neve tramutava l'esterno nella sala di un'impresa di pompe funebri. Caro, buon Walter. La Povera si contorse intorno alle caviglie di Liv miagolando nel fiutare gli odori, attenuati dal freddo, delle provviste di Walter, ed evocando un déjà vu: l'estate precedente, quando Sarah si trovava al campeggio e Pat nella località degli esterni, la gatta, Travis e Liv erano rimasti soli e malinconici. La casa alitava adesso un silenzio sottile e particolare che era qualcosa di più delle semplici settimane di vuoto. Era come un passaggio segreto noto soltanto a Liv e a Travis. La segretezza lo rendeva condiviso e speciale; dentro le sue pareti si trovavano al sicuro, loro due, ed era troppo facile nascondersi lì. Era troppo facile fingere che il passaggio riconducesse a una tranquilla e placida estate - l'estate era stata una menzogna obnubilata dal dolore - mentre in realtà si trattava di una sorta di tana nella quale rifugiarsi durante l'inverno. Liv passò nel soggiorno ed alimentò il fuoco, che era bene avviato. Walter doveva essere venuto in casa molto di recente. Lei aveva telefonato per avvertirlo quel mattino, non appena l'ora era stata possibile. Egli doveva essersi affrettato a sgomberare il viale d'accesso dalla neve e a riscaldare la casa. Travis si afflosciò su una sedia al tavolo della cucina, sempre stringendo tra le dita i suoi soldatini e fissando lei. Liv si soffiò il naso. «Vuoi aiutarmi a portare dentro i bagagli, o preferiresti fare prima la pipì?» gli domandò. «Non devo fare la pipì, Liv» le rispose Travis, in un tono di voce lievemente aspro. Aveva cominciato a dispiacersi dell'interessamento degli altri alle sue necessità corporali. «Bene» disse lei. Dopo un viaggio di due ore sulla Pacer era sicura che dovesse fare la pipì, ma era affar suo se voleva punire la propria vescica. «Lascia quei soldatini sul tavolo e andiamo a prenderli.» Una volta portati dentro i bagagli, andò lei stessa nel bagno e udì dietro di sé Travis fare scorrere la lampo della tuta da neve. Quando uscì, si avvicinò alla porta del bagno dei bambini e la trovò chiusa. La tuta da neve formava un mucchio sul pavimento dell'ingresso. Si poteva udire un sano e
gagliardo zampillo scrosciare entro il water. Liv sorrise, entrò nella camera da letto di Travis e sollevò sul letto la valigia del bambino. I suoni liquidi cessarono mentre lei cominciava a vuotare la valigia, poi seguì un'altra pista sonora. Travis che si tirava su i calzoni, i quali sempre sembravano scivolargli fino alle caviglie mentre faceva la pipì, perché ancora non aveva imparato il modo di far passare il pene attraverso l'apertura a Y delle mutandine e la chiusura lampo dei jeans. Si udirono poi il suono ronzante della lampo, quello dell'acqua nel lavabo mentre il bambino si lavava e si sciacquava le mani, infine quello della porta del bagno che si apriva, una volta girata la maniglia. «Liv!» chiamò Travis. Lei fece capolino fuori della porta della sua camera. «Sono qui, capo.» Il sollievo gli spianò il viso. «Oh» disse. Entrò nella stanza. A tutta prima stette a guardarla mentre vuotava la valigia, poi salì sul letto di lato a quest'ultima e si girò a pancia in giù. La testa gli penzolava da un lato del letto, le gambe, dalle ginocchia in giù, dall'altro. «Ho fame» disse. «Preparerò la cena non appena avrò finito di disfare i bagagli» disse Liv. Questo lo tenne buono per qualche secondo. Poi si voltò supino, incrociò le mani sul petto e fissò il soffitto. «Siamo completamente soli, qui, Liv?» domandò. Lei chiuse la piccola valigia del bambino. «Sì. C'è una gran pace, qui attorno. Mi sembra che sia una bella cosa, in un certo qual modo. A te no?» «No» rispose Travis. «Fa venire la pelle d'oca. Posso guardare un nastro?» «No» disse Liv. «Va' a giocare con i tuoi soldatini.» Lui scivolò giù dal letto sulle ginocchia, si mise in piedi barcollando e si diresse, sussiegoso, verso la porta. «Posso dire» mormorò, rivolgendosi al soffitto: «che qui ci sarà da divertirsi più di quanto dovrebbe essere consentito agli umani.» Era un'imitazione impeccabile di Pat. Travis voltò la testa e sorrise a Liv. «Giusto» disse lei, e fece per ghermirlo. Lui strillò, la schivò e, a passi di danza varcò la soglia. Liv cominciò a sentirsi un po' meglio. Cenarono alla luce del fuoco, nella notte prematura della fine di dicembre. L'oscurità era come un'altra casa intorno a loro. I riflessi del fuoco,
simili al baluginare di una spada angelica, consentivano di intravedere gli alberi, la sponda, il lago gelato e tutta la solitudine che circondava la casa, separandoli dai loro simili non soltanto con chilometri, ma con altre dimensioni, non minori, tra le quali erano il tempo e il silenzio umano. La gatta dormiva sul focolare, raggomitolata su se stessa come un tappeto a treccia, il muso affondato nel ventre. Il fianco della bestiola si sollevava e si riabbassava dolcemente e la pelliccia rifletteva di tanto in tanto i bagliori delle fiamme per cui, una volta tanto, La Povera era pittoresca, e per conseguenza consolante, se non bella. Travis distribuì le carte sul tappeto e giocarono i semplici giochi che il bambino aveva imparato da Pat e da Doe, poi Liv gli lesse fiabe finché non si fu addormentato contro di lei. Quando un formicolio ai piedi le disse che il peso di Travis le stava ostacolando la circolazione, prese in braccio suo figlio, notando che la cosa cominciava ad essere una fatica, e lo portò a letto. Non lo spogliò, ma gli rimboccò le coperte e lo baciò, accese la lampada notturna e tornò nel soggiorno a coprire il fuoco. Un enorme peso di stanchezza calò su di lei. Entrò nella sua camera da letto, si sciolse i capelli e si distese, ancora vestita. Quando aveva avuto l'età di Travis, era sembrata una tale vittoria, era sembrata una tale affermazione di libertà, dormire vestita! Ricordò suo padre che le strizzava l'occhio mentre la mamma le domandava se per caso credeva di essere un animaletto selvatico. Ma le riuscì impossibile ricatturare quello stato d'animo; si sentì semplicemente sconfitta mentre giaceva sul letto con gli stessi vestiti che aveva indossato quel mattino nella casa a Portland, lontana chilometri e chilometri, dopo una notte insonne. Erano gualciti e sudaticci e sudici, come lei, ma in quel momento sentì che, per quanto avesse potuto lavarsi, non sarebbe riuscita mai più a sentirsi di nuovo pulita. Infine si alzò, si lavò la faccia, si lavò i denti e si spazzolò i capelli. Poi tornò a letto, sempre vestita, sempre distesa sopra le coperte. Giacque supina e aspettò che il telefono squillasse, aspettò che Pat telefonasse, ma Pat non telefonò, o, se lo fece, lei si era già addormentata. La mattina dopo, di buon'ora, Walter McKenzie salì rapidamente gli scalini ed attraversò la veranda posteriore. La signora Russell lo sbirciò dalla finestra della cucina, poi scomparve. Lui bussò piano alla porta e Liv gli aprì immediatamente. Era appena uscita dal letto e si stava facendo scorrere le dita tra i capelli a mo' di pettine, il viso ancora umido dopo esserselo appena spruzzato al
risveglio. Non aveva avuto il tempo di fare di più. McKenzie lo sapeva perché, scendendo il pendio della collina sulla sua Scout, aveva veduto i neri capelli di lei sparsi a ventaglio sul guanciale attraverso la parte superiore della finestra della camera da letto padronale, priva di tende perché tanto alta che nessuno la cui statura fosse normale avrebbe potuto guardare dentro; ma lui, da un'automobile a mezza costa sulla collina, ci era riuscito. La signora non aveva avuto nemmeno il tempo di vestirsi, eppure era vestita, con un paio di jeans e una camicia a quadretti abbastanza gualciti da far pensare che avesse dormito vestita. McKenzie suppose pertanto che così avesse fatto, probabilmente. Era ancora un po' smagrita e non riempiva né i jeans né la camicia tanto quanto piaceva a lui, però non aveva più il colorito giallognolo e malaticcio di un tempo, la qual cosa costituiva un sollievo. Tuttavia non era un buon segno che una donna schizzinosa come lei avesse dormito vestita. Per lo meno, non aveva gli occhi gonfi e rossi e pertanto non si era ubriacata. Egli dubitava, del resto, che fosse mai stata una bevitrice. Non aveva mai notato alcun indizio che bevesse, e indizi del genere non gli sarebbero sfuggiti. Quella sua specie di gatta scarna, che sembrava selvatica, le si stava strusciando intorno alle caviglie perché reclamava la colazione. «'Giorno, signora» disse lui, togliendosi il vetusto cappello a cupola bassa e ad ala rialzata. «Qualcuno deve aver lasciato una porta aperta. C'è un diavolo di corrente d'aria, qui.» McKenzie aveva perduto quasi tutti i denti, la qual cosa non faceva che porre in risalto i dodici o giù di lì rimastigli, piccoli e gialli e affilati, nonché gli orli gonfi delle gengive dalle quali i denti sporgevano in tutte le direzioni. Aveva bisogno di radersi, di farsi tagliare i capelli e, molto probabilmente, anche di fare il bagno, ma puzzava sempre, comunque, di gatti che si moltiplicavano senza alcun controllo nella sua legnaia, di serraglio di animali selvatici, comprendente uccelli, tassi e volpi, che allevava, nonché di vacche, di un vecchio ronzino, di capre, conigli e dei suoi orrendi cani bastardi. Sebbene ritenuto un ottimo partito perché era un ex alcolizzato divenuto astemio, perché non bestemmiava in presenza di donne, perché aveva la piena proprietà, senza ipoteche, della sua fattoria e del bosco, e, nonostante le macchinazioni di numerose vedove del posto che avevano già logorato uno o due mariti, si rifiutava cocciuto di riammogliarsi, e di andare in chiesa. Indossava un impermeabile di tessuto gommato rossastro e calzava galosce di gomma nera che schioccavano aprendosi là dove le fibbie metalliche erano rotte o mancavano.
Liv afferrò l'orlo della porta e gli sorrise. «Brrr» finse di rabbrividire. «Venga dentro e si tolga dal freddo. Una tazza di tè, Walter?» Lui sorrise di nuovo. Un qualcosa nella signora Russell lo faceva sorridere parecchio. Quando stava bene di salute lei aveva un aspetto rugiadoso. E non gli capitava spesso di vedere qualcosa di simile. Russell era uno scemo nato se la stava trattando male. «La gradirei, sì.» Si tolse i due strati di guanti bucati, fatti a maglia in casa, che portava, e li tenne nella stessa mano che teneva il cappello, aspettando compito di sentirsi dire da lei che cosa farne. «Si tolga la giacca, Walter» lei disse. «C'è una gruccia in più nell'armadio a muro dell'ingresso.» Lui percorse il corridoio, udì l'apriscatole in cucina e la gatta che miagolava per incoraggiare l'operazione e gli fece piacere che la signora si fosse ricordata di portare qualcosa da mangiare per la bestiola, in quanto era una cosa che lui aveva dimenticato di scrivere sull'elenco delle provviste. Mentre spostava le grucce, facendole cozzare l'una contro l'altra, non udì il bambino e quando si voltò trasalì. «Ehi, piccolo» disse a Travis. Il bambino alzò gli occhi verso di lui senza batter ciglio e disse: «Salve, signor McKenzie» come se si incontrassero tutte le mattine davanti all'armadio a muro. Il bimbetto sembrava identico a com'era stato alla fine dell'estate, alto per la sua età, con i piedi saldamente piazzati a terra, tranquillo. Non uno di quei marmocchi che sembrano avere i calzoncini in fiamme e non stanno mai fermi, facendo innervosire i vecchi come lui, perché un povero cristo non sa mai dove posare i piedi. Non possono sapere, i marmocchi, che le vecchie ossa si rompono facilmente, ma i loro genitori dovrebbero saperlo. In un certo qual modo, una delle cose che più gli piacevano della signora Russell era la calma di quel bimbetto. Come se Travis sapesse sempre, in ogni momento, di essere al sicuro, perché c'era lì la sua Ma' a badare a lui. Soltanto un grande affetto materno poteva rendere i marmocchi sicuri di questo. Travis lo ricondusse in cucina, muovendosi adagio come un cavallo che si rende conto delle proprie dimensioni e non vuole che gli si faccia fretta. Stringeva in entrambi i pugni dei minuscoli soldatini. Dopo essersi issato su una sedia, li posò sul tavolo e cominciò a disporli in molte file. La signora Russell gli diede un buffetto sulla guancia, passando. Travis la ignorò, come Walter ricordava chiaramente, anche a ottantatré anni, di aver fatto con sua madre. La cosa gli fece venir voglia di ridacchiare. Inve-
ce, si schiarì la voce e sedette su una sedia. Lisciò i tre o quattro ciuffi di capelli arricciati e incolori sul cuoio capelluto a chiazze. Si lisciò i pantaloni di lana verde, tenuti su da bretelle rosse che avevano perduto quasi completamente l'elasticità ed erano diventate vizze e rugose come una vecchia e venivano tenute insieme da un lato grazie a una grossa spilla di sicurezza arrugginita, nascosta in parte dalla stinta camicia di lana a scacchi che lasciava intravedere la lunga maglia di lana, da lui portata sotto, all'altezza del collo e dei polsini, nonché dove i bottoni della camicia erano tesi sul ventre. Walter si disse che non era precisamente vestito per il tè. Possedeva un abito buono, nero, acquistato nei magazzini Sers & Roebuck ai tempi dei primi mesi in carica di Harry Truman, ma lo indossava molto di rado, ormai, tranne che per andare ai funerali. La signora Russell non avrebbe attribuito alcuna importanza alla cosa, del resto, ed era, questa, un'altra delle ragioni per cui lei gli piaceva. Liv portò in tavola il tè, insieme con il latte e con lo zucchero, per tutti e tre. La gatta era balzata sulla quarta sedia e si stava leccando vanesia, come se avesse avuto qualche motivo per esserlo. Walter si passò una mano sulla mascella, dove la barba spuntava attraverso la pelle dello stesso colore di una crosta di neve sudicia, come steli di erba secca immobili e senza vita e talmente incolori da sembrare quasi ombre secche. Il vecchio tornò a schiarirsi la voce. «Ha fatto buon viaggio?» Liv sorseggiò il tè e disse: «È stato piacevolissimo arrivare in una casa riscaldata e trovarvi anche delle provviste. Grazie.» Walter annuì. «Nessun disturbo.» Il bambino si agitò sulla sedia. Trascinò la tazza verso di sé e ne contemplò il contenuto, poi sorseggiò esitante. La gatta balzò sul grembo di Walter. Trasalendo, il vecchio per poco non rovesciò la tazza. Rise, poi strofinò la gatta dietro le orecchie. La bestiola gli si accovacciò in grembo e si sistemò a proprio agio. Walter strizzò l'occhio a Liv. Lei gli sorrise e il vecchio si disse che questa era un'altra delle cose piacevoli di lei. Aveva un bel sorriso. Ancora lievemente sbilenco, anche dopo tutti quegli interventi sui denti, ma questo gli dava un fascino che la perfezione non avrebbe avuto. «Dopo dovrebbe diventare arzilla» disse. Liv annuì. «Ho parlato al telefono con il signor Russell, ieri sera» disse il vecchio,
noncurante come se stessero parlando del tempo. Liv sorseggiò il tè. Lui aspettò, comprensivo. «Oh» esclamò Liv. «Che cosa voleva?» «Voleva che accertassi se era arrivata sana e salva. Ha detto che aveva tentato di telefonare qui, ma senza riuscire a ottenere la comunicazione.» Lei alzò gli occhi rapidamente e sorprese la sua espressione interessata prima che avesse potuto battere le palpebre e cancellarla. «Dannata società dei telefoni» disse. «Eh-eh» approvò Walter. Ma poteva darsi che avesse tolto il ricevitore dal sostegno, poteva darsi che non fosse stata lì la sera prima, anche se lui non riusciva a immaginare dove sarebbe potuta essere. Era capitato, a volte, che si trovasse lì, eppure non vi si trovasse; era lì eppure non era più lì, si trovava in qualche posto che nessuno poteva raggiungere o conoscere tranne lei. Come era accaduto nel corso di quell'estate, quando Liv sembrava svanire, né più né meno, recandosi ovunque potesse recarsi allorché non c'era. Russell temeva di perderla; vi era stato un panico terribile nella voce di quell'uomo, sotto il tono allegro che aveva simulato à beneficio di Walter e per evitare di sentirsi in imbarazzo. «Senta, Walter» aveva detto poi, tutto d'un fiato: «non è più lei, ed io mi cruccio a causa sua; ma questo lascia mia moglie indifferente, è arrabbiata con me, Walter, e non riesco a parlarle. Credo che abbia ragione, ho fatto una cosa che non avrei dovuto fare. Ma ci tenevo tanto che mi sono illuso credendo di poterla convincere. Verrò lì non appena si sarà calmata. Verrò immediatamente se le sembrerà che non sia okay. La tenga d'occhio, vuole?» Walter l'avrebbe tenuta d'occhio anche se non gli fosse stato chiesto di farlo. Una donna sola, con un bimbetto, nei boschi, non era al sicuro, secondo lui. Oh, normalmente lo sarebbe stata, con ogni probabilità più al sicuro che in città, tra tutti quegli sconosciuti disperati, tra tutte quelle persone pigiate insieme come un giardino invaso dalle erbacce. Ma i guai nei boschi erano guai doppi. Quale potesse essere la causa del litigio tra i Russell, lei si sarebbe trovata in un guaio peggiore se il bambino si fosse fatto male o si fosse ammalato nell'infuriare di una brutta tormenta. O se la loro automobile si fosse guastata e fermata. Lui non avrebbe permesso a Mellie di andarsene via da sola; ma, d'altro canto, Mellie non sarebbe mai fuggita, anche se avesse avuto un posto in cui fuggire, e non lo aveva. Qualsiasi cosa lui avesse potuto fare, non a-
vrebbe mai dato motivo a Mellie di andarsene. La signora Russell era sempre sembrata una donna ragionevole, molto più ragionevole del marito, di sicuro, eppure il fatto che fosse venuta lì fuori stagione non lo stupiva. Sembrava anzi che avesse aspettato sin da settembre di ricevere una sua telefonata, di sentirsi chiedere da lei di aprire la casa, e di essere pregato da Pat Russell, al telefono, di tener d'occhio sua moglie. Qualsiasi cosa potesse essere accaduta, era certo accaduta durante la scorsa estate. La sbirciò con un'aria astuta. «Sentiva il bisogno di allontanarsi per un po' dalla città e di riposare?» Una mano posata sulla testa della gatta, sostenendosi con le dita tozze dell'altra mano alla spalliera della sedia, si contorse per seguire con lo sguardo la signora Russell mentre si alzava per inserire la spina del tostapane e per affettare il pane. La pelle sul dorso della mano di lui, tesa e trasparente, era maculata da chiazze di fegato come la pelle di un serpente esotico. Lei voltò la testa verso il vecchio e gli sorrise oltre la spalla, perdonandone la curiosità. «Non esiste al mondo un posto come questo, Walter» disse. «Ci ho pensato per tutto l'autunno.» Walter studiò i residui entro la tazza da tè. Come sempre, per lui non erano altro che frammenti di foglioline di tè. Senza dubbio, lei stessa non sapeva realmente che cosa volesse. Meglio lasciarla oziare per alcuni giorni e forse la noia e la solitudine l'avrebbero ricondotta dal marito. Pian piano egli mise la gatta sul pavimento. La bestiola si stiracchiò e si allontanò. Walter si scostò dal tavolo, prese con una mano sola tazza e piattino e li mise nell'acquaio. «Grazie per il tè» disse. «Se posso fare qualcosa per lei non ha che da chiamare.» Liv si afferrò all'orlo dell'acquaio e, dalla finestra della cucina, lo vide scendere pesantemente gli scalini della veranda posteriore. Travis le venne alle spalle e la cinse con le braccia alla vita. Spalancò la bocca consentendosi un immenso sbadiglio. «Liv» domandò «Walter deve morire?» «Prima o poi» disse lei. Gli scompigliò i capelli, e subito dopo glieli ravviò. «Tutti devono morire, prima o poi. Walter sta invecchiando, ma è un vecchio dalla pelle dura. Scommetto che ha ancora alcuni anni da vivere.» Non disse a Travis: Sta cominciando a dimostrarli gli ottantatré anni che ha. A un certo momento, dopo la primavera precedente, aveva cominciato a camminare curvo, e a strascicare i piedi. Aveva le cornee di un color
giallognolo catarroso, mentre nel mese di maggio erano state ancora di un bianco limpido, con le iridi grigie traslucide come l'acqua del lago sotto la nebbia mattutina di agosto. E la pelle di lui aveva cominciato ad avere quel lustro trasparente, come se stesse per sciogliersi. Le tornò alla mente l'immagine immutabile che tesoreggiava del vecchio come lo aveva veduto una volta incontrandolo: Walter senza camicia, in maglia e mutande di lana, in quanto era estate e lui si adattava alla stagione, come facevano tutti quelli della sua razza, che avevano inventato il look dello spogliarsi a strati come le cipolle moltissimo tempo prima dei turisti. Walter che, con un pezzo di pane, prosciugava il sugo dei fagioli in un piatto, facendo andare costantemente le mascelle sotto la stoppia della barba sempre esattamente della stessa lunghezza, mai più lunga e mai più corta, sempre una barba di tre giorni, come se egli avesse vissuto in una fiaba. O come se fosse stato un Babbo Natale scapolo. No, come in una tiritera per bambini, era il Vecchio Re Cole, un tipo grasso, maleodorante e sempre allegro. Sul tavolo esisteva un solo angolino sgombro, circa trenta centimetri per trenta, ove Walter poteva sistemare piatto e forchetta e boccale. Tutto il resto del tavolo verniciato restava invisibile sotto una catena montuosa di libri e giornali e riviste; di fatture e ricevute; di assegni annullati; di moduli per la dichiarazione fiscale; di lettere pervenutegli dalla nipote, che si trovava nell'Alaska; e di istantanee ingiallite, simili a foglie secche sparse tra le carte, dei pronipoti mai veduti in carne ed ossa; di numeri arretrati di un anno o più delle riviste Field and Stream e Yankee; e di romanzi western spesso senza copertina, comprati per dieci centesimi di dollaro nel negozio di Dzway Linscott in Greenspark. I libri che prediligeva erano di J.C. Devereaux, una donna, in realtà, di nome Bobbie Anderson, che abitava appena centosessanta chilometri più a nord-est, a Bangor; la circostanza aveva divertito da matti Walter quando era venuto a saperla da Liv. Durante l'estate, l'ingombro si riversava anche sulla fredda cucina economica Atlantic, di ghisa, sotto la quale dormiva la puzzolente vecchia cagna da caccia alla lepre di Walter, Fritzie. In estate Walter cucinava su un malconcio fornello a gas a due fuochi che aveva ricevuto da Dewey in cambio di uno dei cuccioli di Fritzie, quando Fritzie era ancora in grado di figliare, parecchio tempo prima. L'unico figlio di lui, andato sotto le armi nel 1941, era morto prima ancora di Mellie, sua moglie. Walt, Jr., non era morto senza progenie; il matrimonio, celebrato nel 1943 e finito nel 1950, sette anni prima che egli morisse di polmonite in un ospedale di Togus, aveva prodotto due figlie.
Una delle nipoti di Walter, Lucinda, risiedeva troppo lontano, perché si potesse aiutarla, con un marito invalido e due figlie che avevano bambini piccoli e redditi insufficienti. L'altra nipote, Jean, aveva sposato uno stupido ragazzo, con più avvenenza - di quella che dura poco e viene rapidamente resa grossolana dagli stenti - che buonsenso, un buono a niente, come tutti per giunta le avevano detto, che, dopo averle fatto fare un figlio, in stato di completa ubriachezza era finito con il suo vecchio camioncino Ford contro un altro camioncino, ammazzandosi e ammazzando la sfortunata famiglia indiana di cinque persone pigiate nella cabina di guida. Dopo aver tirato avanti per parecchi anni lottando da sola, Jean si era rimaritata, con il primo che l'aveva chiesta. Il secondo marito era più anziano di lei e aveva due figli da un precedente matrimonio. Arden Nighswander era conosciuto nella regione come un uomo brutale, pericoloso, vanaglorioso, nonché come un buono a niente. Ben presto egli aveva ridotto Jean in uno stato pietoso, uno straccio di donna tremante. Il figlio di lei, dalla faccia di luna piena e senza carattere, considerato dalla gente del posto poco più che stupido, se l'era cavata meglio di quanto ci si sarebbe potuti aspettare; i figli di Nighswander, pur tormentandolo un po' più di quanto facessero con i loro cani, ma con minor successo nel dar luogo a un'indole perfida, lo avevano al contempo adottato come una sorta di mascotte. Nighswander aveva litigato con Walter come litigava con tutti, e Jean non osava più avere rapporti con il nonno. Così Walter, nella vecchiaia, era in pratica senza figli. Liv si domandava se qualcuno, lì attorno, badasse a lui, se vi sarebbe stato qualcuno ad aver cura di lui in caso di necessità. Capitolo IX Scontro sanguinoso Montaggio preliminare numero 4 In una piazzola panoramica che domina un arco di spiaggia, due giovani poliziotti dall'impeccabile uniforme estiva con le maniche corte, se ne stanno seduti su un grosso macigno la cui sommità è piatta, mangiando panini imbottiti e bevendo bibite. La loro macchina di pattuglia nera, molto compatta e molto pulita, è parcheggiata a un lato della piazzola. Al lato opposto si trovano un grosso barile per i rifiuti e una cabina telefonica del tipo a mezzo busto. Da questo punto panoramico i poliziotti possono vedere non soltanto la spiaggia per tutta la sua lunghezza, ma anche l'ingresso
alla spiaggia, un chiosco situato lungo una curva più bassa della stessa strada. Il cielo in alto è di un azzurro color uovo di pettirosso e in esso alcune tenui e lacere nubi sono talmente sopraffatte da sembrare malinconiche. Il sole è di un bianco incandescente, lo stesso colore della sabbia della spiaggia, che a quest'ora ne ha assorbito il calore quanto basta per scottare i piedi nudi. Parecchie centinaia di corpi umani, alcuni dei quali bianchi come il sole e la spiaggia e molti dei quali abbronzati come la ragazza del tabellone pubblicitario dell'Aeromexico, si interpongono, eroici, tra il sole e la sabbia, facendo temerariamente la corte al cancro della pelle e alle rughe da alligatori. Trattasi, per la massima parte, di adolescenti, con poco addosso quanto lo consente la legge, una grande livellatrice che li rende tutti quasi nudi anziché ricchi ed oziosi o disoccupati. I loro bikini e i loro triangolini francesi danno luogo a un nuovo criterio di classificazione, tra i naturalmente dotati e robusti e gli sfortunati e gracili. Ma esiste un numero minimo di questi ultimi e un massimo dei primi. Si può soltanto supporre se questo accada perché i gracili e i non favoriti dalla natura temono la spiaggia o perché sono per giunta poveri e, di conseguenza, costretti a lavorare anche con la canicola. I giovani hanno ceduto una estremità della spiaggia, ove l'acqua è meno profonda, alle giovani madri, alcune delle quali folleggiavano in bikini l'estate precedente, e ai loro poppanti o marmocchi. Soltanto poche persone anziane sfidano il sole, quelle realmente decise a tramutarsi la pelle in cuoio per borsette. E queste poche persone sono petulanti e nervose; le intimidiscono i giovani, e i giovani, sulla spiaggia che considerano un loro territorio, flettono con delizia i muscoli da bulli, i bicipiti e i quadricipiti unti ben bene e molto abbronzati. Uno dei poliziotti, l'agente di pattuglia William Kerry, come risulta dàlia piastrina con il nome che ha sul taschino della camicia, è abbastanza giovane per essere stato nel passato recente uno dei dominatori adolescenti della spiaggia. Doveva essere continuamente scottato dal sole, come lo è adesso, poiché ha la pelle più bianca della sabbia di questa spiaggia, più bianca del sole. Sta già perdendo i capelli crespi, ricciuti, e ciò espone altro bianco cuoio capelluto ai raggi spietati; inoltre va facendosi più grosso di corpo e di viso e sta mettendo una pancia da poliziotto. Ma sembra contento di essere ancora così vicino alla sua noncurante gioventù. L'altro è più anziano, più snello, un uomo, davvero, che non ingrasserà mai, l'erede della magrezza di persone che non sono mai state sazie e grasse. E ha la pelle di una sfumatura media del bruno, essendo nato con una tintarella che gli adolescenti, ossessionati dall'intensità delle loro abbron-
zature, non conseguiranno mai e che, in effetti, scherniscono considerandola un indizio di inferiorità. Ha un portamento militaresco che l'altro poliziotto può soltanto simulare. La piastrina lo identifica come il sergente Emery Ratcliffe. Lui e Bill Kerry condividono una risata terminando lo spuntino. Il modo di ridere di Kerry è acuto, quasi una risatina, ed egli arrossisce come una zia zitella i cui cassetti siano stati svuotati nel bel mezzo dei grandi magazzini Woolworth. Il rosso acceso che ha sulle guance risalta come una chiazza di belletto contro il lustro traslucido causato da un'ustione solare dopo l'altra. Gli occhi di Ratcliffe si socchiudono formando minuscole rughe quando egli ride di ventre. Rivela una chiostra di denti d'un biancomenestrello, incapsulati a spese del governo durante il servizio militare, quando sorride. Ratcliffe ripone sacchetti di carta per i panini imbottiti e tovagliolini di carta entro un sacchetto scuro più grande e lo getta nel barile dei rifiuti a un lato della piazzola panoramica. La bottiglia vuota della bibita finisce in un apposito piccolo cestino applicato al cruscotto della macchina di pattuglia. Bill Kerry mastica l'ultimo boccone del panino imbottito con mortadella, rutta sonoramente, ed esegue lo stesso rituale in fatto di eliminazione dei rifiuti. «Ora faccio rapporto» dice Ratcliffe a Kerry. «Nulla in contrario se vado a fare un po' d'acqua?» domanda l'altro. Ratcliffe sogghigna. «Tra i cespugli, amico, dove i turisti non possono vederti. Al capo questo non piacerebbe.» Kerry ride di nuovo e si incammina verso un sentiero che conduce nei boschi. Ratcliffe prende posto sul sedile anteriore della macchina ed afferra il microfono della radiotrasmittente. Dà al centralino la sigla della macchina. «Ci troviamo ancora a Pillsbury Beach» riferisce poi. «La gente del posto è tranquilla.» Ascolta i rumori di fondo, poi ecco, una comunicazione chiaramente udibile. «Restate dove siete.» Infine: «Messaggio da casa, Rat. Fa una telefonata a Myrna, eh?» «Okay. Chiudo» risponde Ratclìffe e torna ad agganciare il microfono al cruscotto. Kerry sta tornando in quel momento verso la macchina, alle prese con la lampo dei pantaloni. Ratcliffe sporge la testa fuori del finestrino. «Devo telefonare a casa,
Bill.» Un'ombra di preoccupazione passa sulle fattezze di Kerry. Egli è scapolo e sta prendendo in considerazione la possibilità del matrimonio. Ma le responsabilità sembrano terrorizzarlo. Ratcliffe va verso il telefono pubblico al margine della piazzola, infila una monetina nell'apparecchio, forma il numero di casa e parla con sua moglie. «Ciao, cara» dice. «Che cosa c'è?» «Oh, Tigre, sei tu?» lo saluta la moglie. «Non saprei. Una comunicazione.» Ratcliffe si irrigidisce. «Sentiamo, Myrna.» «È da parte di Denny. Soltanto che non è stato Denny a telefonare, Tigre. È stata quella sua amichetta, quella che aveva con sé in Florida lo scorso inverno.» «La puttanella» dice Ratcliffe. «Già, proprio lei. Barbie Sue, quella che si scoprì le tette quando eravamo fuori in barca. Ha riferito che lui le ha detto di telefonarti e di informarti che Court sta venendo da te. Ha detto di dirti che Court ha tolto di mezzo Jackson e che Taurus lo ha fatto per lui, parole che per me non hanno nessun senso. In ogni modo mi ha pregato di riferirtelo subito perché era urgente.» Ratcliffe chiude gli occhi. «Che cosa significa, Tigre? Barbie Sue sapeva soltanto che, secondo Denny, la cosa era importantissima, ma Denny aveva interrotto subito la comunicazione e lei ignorava dove fosse.» «Sì» dice Ratcliffe. «È davvero importante. Senti, sarò a casa tra un quarto d'ora. Comincia a farmi la valigia, bella. Ti spiegherò quando sarò lì.» Si affretta a riattaccare, senza darle il modo di rispondere o di porre altre domande, e torna al piccolo trotto verso la macchina di pattuglia. «Portami a casa, Bill» dice, mettendosi al posto del passeggero. «Non mi sento bene.» Bill Kerry si affretta a infilarsi dietro il volante e ad avviare la macchina prima di sbirciare, incuriosito, Ratcliffe. «Certo, Rat. Che cosa c'è?» «Ho mal di stomaco» risponde, laconico, Ratcliffe, reclinando il capo all'indietro, contro il poggiatesta. «Quel pollo nel sandwich doveva essere andato a male. Mi sa che sto per rivederlo.»
Kerry scocca un'altra occhiata al compagno. Ratcliffe ha un velo di sudore sulla faccia ed è color cenere. O ha davvero mangiato un sandwich andato a male, oppure dalla moglie ha avuto qualche notizia tanto grave da farlo star male come per un avvelenamento da cibi guasti. Ma se uno dei suoi marmocchi si fosse fatto male o si fosse ammalato improvvisamente lo direbbe, no? E parlerebbe anche se fosse capitato qualche incidente a Myrna. Ma questo è improbabile. Le ha appena parlato e pertanto sua moglie deve star bene. Kerry nasconde le sue turbate fantasticherie dietro l'aria allegra che gli è consueta. Con un braccio premuto contro lo stomaco come se gli dolesse, Ratcliffe prende il microfono e inserisce la trasmittente. «Qui Rat» dice. «Mi sento male, sto peggio di un cane. Devo aver mangiato un sandwich con pollo guasto.» Ha la voce fioca e incerta. «Ricevuto» risponde l'agente di servizio al centralino. Segue una pausa con rumori di fondo mentre l'uomo riferisce. «Il capo dice che Kerry deve portarti a casa e poi tornare al posto di polizia a prendere lui. Per oggi ti sostituirà. Dice di aver cura di te, Rat, e che sei in debito di un favore.» «Obbligatissimo» risponde Rat. «Passo.» Kerry porta la macchina di pattuglia nel viale d'accesso di un ben tenuto villino suburbano. Parcheggiata accanto al garage v'è una biciclettina marca G.I. Joe. Una bimbetta dal grembiule gualcito, sulla sella di una biciclettina rosa, grida «Papà!» La porta di casa è aperta, la porta a zanzariera chiusa. Una giovane donna, più bruna di Ratcliffe, dall'espressione preoccupata, spalanca la porta a zanzariera. «Tigre?» esclama. Poi vede Ratcliffe, che è uscito dalla macchina di pattuglia e si appoggia allo sportello aperto. La bimbetta salta giù dalla biciclettina e corre verso di lui. Ratcliffe si china bruscamente verso un cespuglio di rododendri per vomitare. Sua moglie si mette a correre da quella parte, gridando: «Tigre?» La bimbetta si ferma di colpo, smarrita e improvvisamente spaventata. Bill Kerry la raggiunge con due passi giganteschi e la prende in braccio. «Sylvia!» esclama. «Come hai fatto a diventare così alta? Non ti vedo da una settimana appena e già sei cresciuta di almeno sette centimetri!» Riesce a distrarla. Sylvia ridacchia. Ratcliffe si appoggia per un momento alla moglie, poi la scosta con dolcezza. «Sto bene, Myrna.» Arranca verso la porta. Lei lo segue, lisciandosi nervosamente la gonna.
Dopo essersi issato Sylvia sulle spalle, Billy Kerry la porta in casa. Si odono suoni gorgoglianti nel vicino bagno. Myrna si trova nel corridoio davanti alla porta del bagno e si sta torcendo le mani. Bill Kerry deposita Sylvia sul divano e siede a sua volta. Sulla mensola del caminetto v è una fotografia, incorniciata in oro, del figlioletto di otto anni di Ratcliffe, Joey, con la tenuta dei boy-scout. In una giornata come quella, Joey, probabilmente, sta sguazzando con i suoi compagni nella più vicina piscina pubblica. Kerry guarda, intorno a sé, quello che è il soggiorno perfetto secondo le riviste femminili, eccezione fatta per i pastelli e gli album da colorare di Sylvia sul tavolino da caffè. È di un estremo buon gusto. Ratcliffe definisce Myrna patita per la casa e dice che esagera nel cercare compensi; Bill Kerry interpreta queste parole nel senso che Myrna teme di essere giudicata dai vicini una negra sciattona se non ha una casa di buon gusto e non la tiene schizzinosamente pulita. Per quanto ci provi, Bill Kerry tiene la propria casa alla carlona. Vorrebbe che la casa della sua fidanzata, Doreen, dimostrasse in qualche modo che la ragazza sarà un'abile massaia come Myrna. Ma sua madre, più a ragione che con perfidia, ha detto che la casa di Doreen meriterebbe le sovvenzioni previste dal governo federale nei casi di calamità naturali. I vicini di Myrna considererebbero senz'altro Doreen una sciattona. Ma non potrebbero dire: «Eh, che cosa vi aspettavate? Sono tutti così, un branco di animali», non potrebbero dirlo di Doreen perché lui e Doreen non sarebbero le sole persone di colore dell'isolato. Ratcliffe esce. «Grazie» dice. «Sto molto meglio, adesso.» Ha una cera migliore. «Bene» dice Kerry. «Allora io vado. Riguardati.» Poi sale sulla macchina di pattuglia. Siccome le finestre della camera da letto sono spalancate, riesce ad udire Myrna. «Tigre?» «Non avrai difficoltà, tesoro. Ti lascio il libretto degli assegni. Io mi limito a prendere questo assegno.» «Ma perché? Perché fuggi? Dove stai andando, Tigre?» «Lui sta venendo a farmi fuori, piccola. Sta venendo a farci fuori tutti quanti. Quando sarà possibile senza alcun pericolo, ti farò sapere dove mi troverò. Per il momento è meglio che tu non lo sappia.» «Tigre, accidenti a te, non puoi tagliare la corda in questo modo ed abbandonarmi. Chi è che viene a farti fuori?» «Court» risponde Ratcliffe. «Sta proprio venendo a farmi la pelle.»
Myrna ora sta piangendo. «E Sylvia, e Joey? Che cosa dirò ai bambini?» «Ti telefonerò non appena potrò.» La voce di Ratcliffe è gentile, rassicurante, satura di rimorso. «Court non ti farà alcun male» egli dice. «Vuole soltanto me.» Kerry gira la chiave dell'accensione. Non vuole sentire altro, non vuole sapere in quali guai sia andato a cacciarsi Ratcliffe. Devono essere guai grossi, se lo hanno fatto vomitare. Chiunque possa essere Court, Rat ha paura di lui e qualcuno che fa paura a Rat non può non terrorizzare Bill Kerry, questo è certo. Lui spera soltanto che Rat possa cavarsela. E spera che nessun altro ci vada di mezzo. Sarah piegò la salvietta per asciugare i piatti e la drappeggiò sulla maniglia cromata del forno. Poi si voltò a guardare sua nonna. Marguerite terminò di lucidare l'ultimo bicchiere e chiuse dolcemente lo sportello della credenza sulle file splendenti. Si guardò intorno nella cucina, poi, con un'aria critica. Aveva i lustri capelli bianchi raccolti dentro un fazzoletto a scacchi neri e rossi e portava un pratico grembiule di cotone da fornaio sopra la camicetta di cotone dal collo alto e i pantaloni di lana grigia. Sfoggiava stivaletti bassi, rossi, dai tacchi bassi. Non si muoveva con la sua consueta, energica sicumera; pareva come se fosse stanca, ma decisa a non darlo a vedere. «Va abbastanza bene» disse. Spremette da un tubetto un po' di crema per le mani sul palmo sinistro e si frizionò. «Domani dovremo lavare i vetri delle finestre.» Sarah fece una smorfia. Eccezione fatta per i jeans e la maglietta, e per i capelli lunghi che le ricadevano intorno al viso, e alcune ciocche dei quali rimanevano appiccicate dal sudore alla fronte, alle tempie e alla nuca, sembrava una versione di sua nonna più giovane di cinquant'anni. «Lascia che li lavi la signora Fuller.» Marguerite sorrise. «La signora Fuller non verrà, Sarah. Dato che tua madre e Travis sono via, e che tuo padre parte oggi, le ho detto di prendersi una settimana di vacanza. Tu ed io possiamo sbrigare ogni cosa.» «Gesù» borbottò Sarah. Si addossò alla credenza ed incrociò le braccia. «Che cosa hai detto, cara?» «Niente» rispose Sarah. «Niente». «Bene, sento la necessità di una tazza di caffè» disse Marguerite. Aprì un armadietto e ne tolse una tazza e un piattino. «La vuoi anche tu?» «No» disse Sarah. «Tu lo fai troppo forte. Preferirei una coca.»
«La coca non ti fa bene ai denti né alla carnagione» disse Marguerite e si accertò che non vi fosse polvere nella tazza passando delicatamente un dito al suo interno. «Gesù!» Dalla credenza Sarah balzò al centro della cucina. Involontariamente, si era toccata una piccola protuberanza rossa sul mento, ove sotto la pelle si stava formando un foruncolo. Sembrava che gliene venisse sempre fuori uno pochi giorni prima dell'inizio del periodo. Ora si esaminò le unghie, che erano verniciate di un verde-sedano luminescente. Il lavoro da massaia aveva scrostato e sfregiato lo smalto. «Sarah!» «Be', il caffè non impedisce la crescita?» disse Sarah. Marguerite increspò le labbra, ma continuò con calma a riempire d'acqua la caraffa di vetro e a versare l'acqua nel serbatoio della macchinetta per il caffè. «Difficilmente potrei preoccuparmi di impedimenti alla mia crescita, signorinella, ma tu faresti bene a preoccuparti del tuo modo di esprimerti. E dei tuoi atteggiamenti.» Pat posò la valigia sulla soglia della porta tra il corridoio e la cucina e si schiarì la voce. Si era appena sbarbato e vestito per il lungo viaggio in aereo; portava scarpe comode e si era messo una giacca di pelle scamosciata che non si spiegazzava nemmeno se arrotolata a mo' di cuscino per dormirvi su. Di recente, le cose che indossava sembravano essere le uniche sulle quali avesse una qualche misura di controllo. Sperava di riuscire a dormire sull'aereo; quella notte era stata interminabile ed insonne per lui. Ora aveva avuto troppo freddo, ora troppo caldo, quasi fosse stato febbricitante. Liv non aveva telefonato e l'idea di telefonarle lo intimoriva, ma in ultimo si era deciso a parlare per telefono con Walter McKenzie, al quale aveva mentito dicendogli di non essere riuscito ad ottenere la comunicazione con Liv; perlomeno egli sarebbe andato a vedere come stessero le cose. Marguerite voltò le spalle a Sarah ed aprì un armadietto. Ne tolse un barattolo da due libbre di caffè marca Maxwell House e lo esaminò con aria critica. Preferiva il caffè Folger. Sarah corse verso Pat e gli gettò le braccia al collo. Lui l'abbracciò e la strinse forte. «Caffè, Pat?» domandò Marguerite, allegramente. Pat batté la mano affettuosamente sulla schiena di Sarah e la lasciò andare. «Certo» disse. «Certo.» Marguerite applicò l'apriscatole al barattolo del caffè Maxwell House.
L'apriscatole morse la latta e l'aprì, masticandola con un ronzio da sega. Non appena aperta la chiusura ermetica sottovuoto, la cucina si colmò dell'aroma forte, granuloso del caffè. «Per piacere, posso venire con te, Papi?» domandò Sarah a Pat, a voce bassa. Lui si lasciò cadere su una sedia. «Spiacente, tesoro.» «La odio» disse Sarah, a denti stretti. Pat fissava il pavimento, mordicchiandosi il labbro inferiore. Sarah strinse i pugni. «Nessuno si cura di quello che desidero io. Nessuno.» «Questo non è vero» disse Pat. «Basta così, Sarah» disse Marguerite. Sarah scoppiò in lacrime. Pat si sporse e la prese in grembo. Lei gli premette il viso sulla spalla della giacca di pelle scamosciata, macchiandogliela di calde lacrime; egli si irritò pensando a questo e poi si sentì in colpa per essersi ingiustamente preoccupato delle conseguenze. Si augurò di avere uno di quei morbidi, vecchi pannolini che Liv gli dava sempre quando Sarah e Travis erano piccoli, da mettere sulla spalla per tutelarsi contro i rutti. Goffamente, le batté la mano sulla schiena. Non si era reso conto che stava diventando così alta, oltre a riempirsi nel seno e sulle natiche. Era imbarazzante come tenere sulle ginocchia una donna adulta. Marguerite li ignorò. Finì di misurare la dose di caffè nella macchinetta e piazzò il coperchio di plastica sul barattolo del Maxwell House. Inserì la spina della macchinetta e fece scattare l'interruttore. Il caffè cominciò subito a gorgogliare. Poi lei sedette a tavola di fronte a Pat e a Sarah. «Sarah» disse «va a controllare la lavabiancheria che sta asciugando, ti spiace?» Sarah saltò giù dal grembo di Pat e uscì dalla stanza sbattendo la porta. Quando il rumore dei passi di lei lungo il corridoio si fu dileguato, Marguerite si sporse oltre il tavolo e strinse forte la mano di Pat. «Pat» disse «fai cessare questa sciocchezza subito, prima che diventi un'abitudine. Vuoi forse vivere in questo modo?» Pat alzò gli occhi su di lei. «Ha i nervi molto tesi» disse. «Ha il diritto di essere sconvolta.» Marguerite sospirò. «Se ti riferisci a Sarah, Sarah continuerà a metterti contro Liv in eterno, se glielo consentirai. Se andrai a risiedere in California, nella tua nuova casa, senza Liv e con Sarah, dovrai tirar su una ragazzetta tredicenne che pretende la libertà di una donna adulta e le responsabi-
lità di una bambina di dieci anni. Vivrai con una ricattatrice di classe mondiale. Sfrutterà il tuo senso di colpa, approfitterà della tua ossessione per il lavoro, della tua ira e dei tuoi rimorsi nei confronti di Liv. E la situazione sarà molto costosa, Pat. Non occorreranno soltanto una governante e una cuoca per quella casa di gran lusso, ma anche una scuola privata per Sarah. Inoltre dovrai passarle un tanto alla settimana, commisurato a quello che avranno le sue amiche, e in cambio del quale lei non farà niente. Di qui a non molto dovrà avere un'automobile sua, perché l'avranno anche le altre ragazze. Poi vi sarà la droga, la marijuana e la cocaina, e lei dovrà procurarsele con la sua ridicola sommetta settimanale. Allora ruberà la tua droga, Pat.» «Aspetta un momento» disse Pat. «Soltanto un momento, maledizione.» Marguerite alzò entrambe le mani. «Lasciami finire, per favore. E risparmiami le maledizioni. Non credere che me lo abbia detto Liv. Non sono stupida. Credi che non sappia cos'è il lassativo per bambini in quel cassetto della tua scrivania? Sono sposata da quarantun anni con un farmacista, Pat. E non è che stessi ficcanasando. Non riuscivo a trovare l'elenco del telefono, e così l'ho visto. Non ti sei nemmeno dato la pena di chiudere a chiave il cassetto, Pat. La cocaina ti ha già rinscemito, o vuoi che Liv la trovi, in modo che voi due abbiate qualche motivo in più per litigare? E credi che Sarah non lo sappia?» «Che sappia cosa?» domandò Sarah, entrando dal corridoio. «Non fare la furba con me» disse Marguerite. Si alzò e si avvicinò alla macchinetta per il caffè. «È una legge stupida» disse Sarah, dalla soglia. «Il governo vuole che nessuno se la spassi.» Pat fissò sua figlia. «Sarah» disse. «Ah, così?» disse Marguerite. «Bene, Pat, che cosa le dirai, adesso?» «Senti, Sarah» disse Pat «ho provato la droga, è vero. Ma ora ho smesso. Può davvero distruggere una persona. Posso ritenere che il governo non stia affrontando nel modo giusto la questione, ma questo non significa che, a parer mio, tu o chiunque altro dobbiate drogarvi.» Sarah alzò le spalle e si appoggiò allo stipite della porta. «Tu sei un adulto. Gli adulti dicono continuamente: 'Fa' come dico, non come faccio'. Se puoi drogarti tu, posso drogarmi anch'io.» Pat chiuse gli occhi e digrignò i denti. «Non sei una persona adulta, Sarah, non ancora, che tu lo creda o no.» Anche se ti senti adulta e lo sembri. «Il caffè» disse Marguerite, con dolcezza, mettendogli dinanzi una tazza.
«Grazie» mormorò lui. «Prego» rispose Marguerite. «Esiste un altro detto, Sarah.» «Quale sarebbe?» domandò Sarah, esaminandosi le unghie per far capire quanto si stesse annoiando. «I bambini si dovrebbe vederli, ma non udirli» disse Marguerite. «Questo significa che tu non sai una merda di niente.» Sarah rimase a bocca aperta. Non aveva mai udito sua nonna pronunciare una parolaccia. Era noto che un tempo Marguerite soleva lavare la bocca dei bambini troppo audaci sotto questo aspetto finché Liv, venuta a saperlo, non glielo aveva impedito. Pat rivolse a Sarah uno sguardo preoccupato. «Dovrò andare, adesso, se voglio prendere l'aereo, Sarah, ma parleremo ancora a lungo di questa faccenda. Ti telefonerò domani da Los Angeles. Domani dopo la scuola. Va bene alle tre?» Sarah fece il broncio. «Ho l'allenamento di pallacanestro.» «Quand'è che torni a casa, allora?» «Alle quattro e mezzo.» «Bene. Ti telefonerò alle quattro e mezzo.» Sarah annuì. Lui fissò la tazza. Prendere il caffè avrebbe significato, probabilmente, non dormire sull'aereo. Ma vuotò ugualmente, quasi del tutto, la tazza. «Devo andare» disse. «Fa' buon viaggio» disse Marguerite. Pat baciò Sarah sulla guancia. «Sii buona, tesoro» disse. Vi fu una nota supplichevole nel suo tono di voce. «Sì, certo» disse lei, imbronciata. «Sarà buona» asserì Marguerite, fiduciosamente. Pat tornò nel corridoio, prese la valigia, il cappotto, una sciarpa pesante, e si affrettò a uscire. Sarah e Marguerite rimasero sole in cucina, sedute ai lati opposti del tavolo, fissandosi. Il motore dell'automobile di Pat venne messo in moto nel viale d'accesso, poi la macchina partì. Calò un gran silenzio, l'unico suono nella casa essendo il ticchettio della pendola che si trovava nell'ingresso. Marguerite sorseggiò il caffè. Infine le ciglia di Sarah palpitarono adagio e poi la ragazza fissò il tavolo. Marguerite si schiarì la voce. «Sarah» disse. Sarah non alzò gli occhi. Lacrime silenziose le striavano le guance. «Sarah» ripeté Marguerite «i tuoi genitori dovranno passare sul mio ca-
davere prima di divorziare. Non hai alcuna probabilità di andare ad abitare in quella casa di vetro nella California. Trascorrerai i prossimi cinque anni proprio qui, quindi rassegnati. E sta' allegra. Non sarà così disastroso. Ma dovrai rimandare il momento di fare la scema a quando avrai diciotto anni e frequenterai l'università. Non è troppo tardi, credimi.» Sarah si asciugò gli occhi con il dorso della mano. «Perché sei così perfida?» bisbigliò. «Non sono perfida» disse Marguerite. «Mi sto limitando a dirti la verità. Lo sai che cosa non ti piace di me?» Sarah alzò gli occhi e tirò su con il naso. «Siamo della stessa razza, noi due.» «Ma va là» disse Sarah, pescando un Kleenex dalla scatola che si trovava sul tavolo. Poi si soffiò il naso. «Tu e mia madre siete della stessa razza.» Marguerite batté le palpebre. «Tua madre? Ma va là tu, cara la mia snob.» Si sporse oltre il tavolo e vi picchiò su le nocche. «Tua madre somiglia in tutto e per tutto a Doe. Non riuscirai mai a prevalere contro di lei.» «Perché no?» la sfidò Sarah. «Perché io non sono mai riuscita a prevalere su di lui, ecco perché.» Marguerite si alzò e si versò un'altra tazza di caffè. «Dovresti dirlo a tuo padre, questo, quando gli parlerai. Digli che cambiare uno di quei due è come tentare di afferrarsi a una manciata di neve. Ti si sciolgono in mano, semplicemente, ecco tutto. E tu credi di averli perduti. Poi ti rendi conto di affondare in essi fino ai fianchi e che ti stanno sulla nuca e dentro le scarpe e ti seppelliranno.» Guardò fuori della finestra il cielo gelido. «Lo sapevi, Sarah, che ogni fiocco di neve è diverso da ogni altro e unico: «Così dice mia madre» mormorò Sarah. «Rammenti quando preparò tutti gli ornamenti dell'albero di Natale a forma di cristalli di neve? Mi mostrò un volume che aveva preso in biblioteca, le prime fotografie di cristalli di neve che fossero mai state scattate, da non ricordo più chi, nel Vermont. Soltanto a guardarle mi venivano i brividi.» Marguerite si cinse con le braccia. Poi si voltò, udendo Sarah che singhiozzava. Enormi singhiozzi risucchianti che la scuotevano tutta, e lei nascondeva il viso tra le mani, con quelle unghie dal colore assurdo. Marguerite le andò accanto e le mise le mani sulle spalle. «Povera bambina» disse, poi baciò la nuca di Sarah.
Il tragitto in macchina fino all'aeroporto non era lungo abbastanza per riuscire a calmarlo. Pat continuò a premere i pulsanti della radio, a cambiare stazione, cercando la canzone giusta, l'unico rock'n'roll capace di parlargli e di distrarlo. Era uno di quei periodi in cui egli aveva la quasi certezza che il rock'n'roll fosse definitivamente e veramente morto. Sopportò «Lecca su» di Metal Health, trasmesso dalla stazione radio BLM di Lewiston e poi le previsioni astrologiche del Veggente Cosmico, che non era più divertente come un tempo. Seguì Jay-Jay, delle previsioni meteorologiche, riferendo che il tempo si stava mettendo al brutto, gente, neve a bizzeffe, forse una tormenta sui monti stanotte. Pat premette il pulsante e trovò David Bowie che cantava «Bianco Natale» con Bing Crosby. Al successivo semaforo annaspò freneticamente nel cassetto dei guanti, cercandovi una musicassetta, e la inserì nell'alloggiamento senza nemmeno guardare di che si trattasse. Era «Nato per sommare» la parodia rock che avevano ascoltato tornando a casa dal Mall, l'indomani del Giorno del Ringraziamento. Non poté fare a meno di ridere. Il sound di Bruce Stringbean evocava l'immagine del Babbo Natale del Mall, con la lucente barba bianca tinta di arancione dall'aranciata vomitata da Travis, il Babbo Natale che imprecava e urlava. E, come sempre, gli ricordò l'adorazione di Sarah per il vero Bruce. Arrivò così all'aeroporto pensando ai suoi figli. Telefonerò a Liv da Los Angeles, si disse, passando frettolosamente davanti alle cabine telefoniche, sebbene vi fosse ancora tempo. Troppo tempo, in realtà. Era fuggito dalla cucina di sua moglie, dove le cose, in qualche modo sottile, non andavano, dove le credenze erano state riordinate e le superfici erano troppo nude, come se Liv fosse morta e Marguerite si trovasse lì per esorcizzare la sua presenza, per dimostrare all'anima di Liv che la cucina non le apparteneva più, o per purificare la cucina dalla contaminazione della defunta. Era fuggito da Marguerite, seduta all'altro lato del tavolo, con la tazza di caffè, era fuggito dagli occhi vividi e saputi di sua suocera, i quali dicevano so che stai fottendo la mia bambina, bello mio, e non credere, soltanto perché hai fatto di lei una donna onesta, che non scaricherò mai questo fucile, perché tu stai continuando a fotterla; il fucile non un'arma reale, naturalmente, sebbene sia Marguerite, sia Doe, l'amabile Doe simile a un orso, fossero entrambi capacissimi di prenderne uno vero e di fulminarlo. Dolorosamente e solennemente e seriamente e con l'opportuna gravità, per motivi di onore personale. Ed era fuggito da Sarah con le tette e il culetto da donna e con la sua petulante e cieca e cocciuta stupidità di
adolescente. Tra i minuscoli cuscinetti arancione della cuffia del Walkman, sembrava che nulla le passasse per la mente tranne le parole delle canzoni rock'n'roll. Pat non sapeva come spiegarle che per lui quelle canzoni erano un dolce, nostalgico, romantico sogno di una gioventù mai esistita e che ora non poteva più esistere. Non gli era mai accaduto di pensare che Sarah avrebbe creduto davvero a tutte quelle menzogne sull'amore e la ribellione e la bellezza di morire giovani lasciando uno splendido cadavere. Potevano mai esistere creature talmente giovani e talmente stupide da ignorare che non esistono cadaveri splendidi? Lui era fuggito dal lassativo per bambini, nel cassetto della sua scrivania, insieme col minuscolo setaccio, col rasoio e con la scheggia di pietra levigata, cose che non avrebbe potuto spiegare a Sarah nemmeno se lei si fosse sturata le orecchie per ascoltarlo. Come dirglielo? Senti, bambina, avresti dovuto esserci. Il governo mente, sicuro, da quella banda di bastardi e di pazzi che è, mente su tutto per principio, ma non perché voglia che nessuno se la spassi, no, soltanto perché vuole tenere ALTI i prezzi, e quando lo spasso è illegale, qualcuno non può non ricavarne quattrini; lo spasso che costa poco è antiamericano e al governo piace che sia così, dolcezza, al riguardo hai assolutamente ragione. Resta il fatto, però, che questo non rende okay la cosa per le tredicenni e per molte altre persone. È okay soltanto per me. So che questo suona falso, bambina, io ho fumato droga sin dal 1968, non ogni giorno, e neppure ogni settimana, naturalmente, ma di tanto in tanto, e so maledettamente bene che la cosa mi nuoce meno degli alcolici, eppure bevo alcolici ogni giorno, ogni singolo, dannato giorno, due martini prima di pranzo, vino o birra a pranzo, alcune birre dopo pranzo, di tanto in tanto un bicchierino di brandy o un piccolo cognac, e non sento affatto la mancanza delle cellule cerebrali, perché ce n'è a miliardi di quelle piccole bastarde e la maggior parte di esse si limita a oziare e a riscuotere l'indennità di disoccupazione, e a me piace diventare brillo, a me piace inebriarmi con la coca, è come riportare alla vita fottuta tutte quelle defunte cellule cerebrali e crearne di nuove, e tutto questo mi costa soltanto quattrini, qualche Kleenex, un po' di sonno, e un caso blando di diarrea saltuariamente, a causa del lassativo per bambini o di quella qualsiasi altra sostanza con la quale viene tagliata la droga, ma tu devi capire, Sarah, io sono un uomo adulto, ho trentacinque anni, lavoro diciotto ore al giorno, vado in aereo a Los Angeles e ci vogliono tre giorni per superare le conseguenze della differenza di fuso orario, poi torno in aereo all'est e mi occorrono altri tre giorni sempre per la
differenza di fuso orario; tutto questo lo faccio ripetutamente e non posso permettermi di andarci piano, devo produrre ovunque mi trovi, e, a parte questo, so quello che mi faccio, Sarah. Un uomo ne ha di cose da fare, Sarah. Deve guadagnarsi da vivere, tirar su una famiglia, tenere legata a sé una moglie. Ed io sto perdendo mia moglie, tua madre. Pensare a Liv lo desolò a tal punto che si dimenticò di Sarah e si lasciò cadere, infelice, su una poltroncina di plastica nel nuovo terminal. Tutto, intorno a lui, era bianco, o vividamente colorato - di viola, come la poltroncina sulla quale sedeva, o di rosso o di giallo - tutto era nuovo e moderno, con superfici di cristallo che un tizio sembrava lavare in continuazione, e le persone in attesa insieme con lui - in attesa di passeggeri in arrivo, o di partire, o di fuggire come lo stesso Pat - erano allegre prevedendo quello che i prossimi pochi minuti avrebbero portato. Sotto i piedi egli aveva un tappeto sottile, ruvido, dal colore melmoso, che era sembrato logoro e sudicio sin dal primo giorno in cui era stato messo, e lo sarebbe sembrato sempre. I posacenere erano lucenti scatole cromate, con coperchi che si aprivano verso l'interno e si richiudevano scattando, simili a bocche ostili. V'era una fila di televisori azionati inserendo una moneta e gli adulti continuavano a far cadere quarti di dollaro nelle apposite fessure per distrarre bambini annoiati e irrequieti. I bambini guardavano quanto bastava per rendersi conto di essere stati frodati, poi rinunciavano, lasciando che i televisori mostrassero al vuoto le loro immagini granulose, spettrali, ruotanti sugli schermi. Pat aveva veduto tappeti e posacenere e televisori identici in decine di aeroporti. Persino i suoi sogni ne erano invasi. Si augurò di aver telefonato a Liv la sera prima, o quel mattino, o da una delle tante comode cabine telefoniche davanti alle quali era passato venendo all'aeroporto. Nel momento stesso in cui guardava che ora fosse sul suo orologio da polso, vi fu un annuncio inintelligibile, ma si rese conto che si trattava del suo aereo: la gente intorno a lui stava prendendo i bagagli e mettendosi in coda davanti al cancello di sicurezza. Ormai era davvero troppo tardi per telefonare. Stando in fila, con la cinghia del borsello che gli mordeva la spalla, guardò, fuori delle finestre, il cielo. Nuvole chiare e basse promettevano altra neve. Stando alle previsioni meteorologiche, sarebbe potuto nevicare da un momento all'altro, ormai, e avrebbe nevicato per tutta la notte. Le piste erano larghe strade tracciate a carboncino sulla neve color avorio. Un vento leggero che aveva soffiato dalla parte di Casco Bay, il poco tepore delle brevi giornate invernali, la posizione esposta dell'aeroporto, tutto a-
veva contribuito a ridurre l'accumulo di neve a una crosta luccicante, interrotta da tratti di erba gialla e alta. Anche a Los Angeles l'erba sarebbe stata gialla. E non soltanto adesso, ma per la maggior parte dell'anno, a quanto pareva. E anche il cielo sarebbe stato giallognolo, a causa dello smog. E laggiù il clima sarebbe stato umido e afoso, e lui non avrebbe più avuto bisogno del cappotto. Si augurò che Liv si fosse trovata lì con lui, in piedi in quella fila, tenendolo per mano, guardando la sua valigetta sobbalzare sul nastro trasportatore per essere esaminata dall'apparecchio ai raggi x. Domandando scherzosa se la spalla del borsello fosse una deformità permanente. Non vi sarebbe stato il tempo di telefonarle quando avrebbe cambiato aereo a New York, ma l'avrebbe chiamata subito dopo l'atterraggio a Los Angeles. Le avrebbe detto che gli mancava, domandandole poi a bruciapelo se lui le mancava. Forse era così. Forse dovevano soltanto dirsi questo e tutto si sarebbe sistemato. Trovò il proprio posto sull'aereo e si allacciò la cintura. Alcuni fiocchi di neve cominciavano a cadere all'esterno del finestrino che gli sembrava sempre identico a quello della gabbia del gatto. Una hostess accoglieva i passeggeri sull'aereo sorridendo. Pat sganciò la cintura e si alzò. «Mi scusi» disse alla studentessa che stava percorrendo il passaggio. La ragazza gli sorrise, incerta, e lo lasciò passare. Lui continuò a scusarsi finché non fu giunto accanto alla hostess, la quale lo aspettava con le sopracciglia inarcate e un volenteroso sorriso professionale. «Scendo» disse Pat. Il sorriso professionale scomparve. «Oh» fece la hostess. «Oh.» Lui frugò nell'armadietto e ricuperò il borsello. «C'è qualcosa che non va?» domandò la hostess, ansiosamente. «Sì» rispose Pat. «Ma sistemerò tutto.» La ragazza si coprì la bocca con una mano e fece un passo indietro. «Oh» ripeté. Non poteva dirgli di essere lieta che avesse volato con la Delta, in quanto non era così. Poi l'addestramento professionale prevalse. La hostess ritrovò la disinvoltura e gli gridò dietro: «Buona giornata.» Marguerite stava guardando la TV con i piedi sollevati quando lui entrò. Lo sorprese il piacere che provò vedendo l'espressione di stupore sulla faccia di lei. «Sarah dov'è?» domandò. Marguerite accennò con un gesto alle scale. «In camera sua. È andata a distendersi sul letto.»
Lui corse di sopra, due scalini alla volta Non vi fu alcuna risposta quando bussò, piano, alla porta della stanza. Probabilmente Sarah credeva che si trattasse di Marguerite e pertanto fingeva di non udire. Pat provò ad aprire e constatò che la porta non era chiusa a chiave. Le tende erano accostate, come nella camera di un malato. Sarah si trovava raggomitolata sul letto, con un fazzoletto umido piegato sugli occhi. «Sarah» disse Pat. Lei si drizzò a sedere di scatto, afferrando con una mano il fazzoletto mentre le cadeva dagli occhi. Rimase a bocca aperta. «Papà!» Passandole un braccio intorno alla vita, Pat la mise in piedi. «Vieni» disse. «Andiamo a Nodd's Ridge.» «Cosa?» esclamò lei. «Su, vieni» egli ripeté. «Rimetterò insieme questa famiglia.» Muovendosi con una rapidità tale da non darle il tempo di reagire, le afferrò una mano e la spalla e la trascinò giù per le scale. Marguerite li aspettava davanti all'ultimo scalino, gli occhi vividi e curiosi e un po' spaventati. «Andiamo a Nodd's Ridge» disse lui. Marguerite batté le mani. «Era tempo» disse. Pat spalancò la porta dell'armadio a muro, tolse dalla gruccia la giacchetta di Sarah e gliela lanciò. «Aspettate un momento» disse Marguerite. «Non potete partire vestiti così.» Lui e Sarah, distolti dalla sola cosa che avessero in mente, si fermarono e la fissarono. Marguerite fece un gesto spazientito con la mano nella direzione della porta. «Sta nevicando» disse. «Vestitevi nel modo adatto. Tute da neve. Stivali. Guanti. Berretti.» «Giusto» disse Pat. Trascinandosi dietro due vecchie slitte di legno, Liv e Travis si aprivano un varco nella neve, verso lo studio. La Povera procedeva a balzi dietro di loro, leggera abbastanza per riuscire a procedere sulla superficie della neve. Travis afferrò una gamba dei pantaloni da sci di sua madre. «Guarda, Liv» disse in tono imperioso, additando una traccia fresca sulla
neve. Avevano già veduto le impronte delle zampe di scoiattoli e tassi. Queste nuove impronte erano molto più grandi e familiari. «Un cane» disse Liv, toccandole. «Un grosso cane.» FORSE UN COYOTE. «Credevo che qui ci fossimo soltanto noi» disse Travis. «Be', potrebbe essere il cane di qualcuno staccatosi dal guinzaglio» disse Liv. «Oppure un cane randagio.» «Oh» fece Travis. Questa spiegazione parve essere sufficiente per lui. Ma Liv si guardò attorno, mentre si raddrizzavano, e notò che le orme del cane, se di un cane si trattava, sembravano rasentare la loro casa e dirigersi verso i boschi. A lei questo andava benissimo. Ogni cane, staccatosi dal guinzaglio, o randagio, o inselvatichito, poteva essere pericoloso. Perlomeno si trattava di un solo animale. A volte i cani inselvatichiti si riunivano in gruppi per cacciare. E poi v'erano i coyote, tanto odiati da contadini e cacciatori. Liv prese mentalmente nota della necessità di tenere maggiormente in casa La Povera, specie di notte, per evitare che le accadesse qualcosa di brutto. Proseguirono verso lo studio, Liv tenendo gli occhi bene aperti e cercando altre tracce del grosso cane; ma trovarono soltanto nuove tracce di scoiattoli e alcune tracce lasciate da un uccello, che Liv ritenne potesse essere uno degli uccelli dimoranti al suolo e ricercati dai cacciatori, un fagiano, un gallo cedrone o qualcosa di simile. Lo studio aveva l'aspetto dell'abbandono ed era gelido. Liv accese la stufa e scopò via la solita falcidie di mosche accanto alle finestre. «Diamogli un giorno di tempo» disse a Travis «e potremo lavorarci, in questo studio.» Travis discese dallo sgabello sul quale si era appollaiato. «Non dimenticarti l'acqua, Liv.» «Giusto» disse lei. «L'acqua.» Era stata chiusa e, mesi prima, Walter aveva vuotato le tubazioni. Travis provò ad aprire i rubinetti. «Niente» disse. «Sì» riconobbe Liv. «Dovrò far venire Walter a rimettere tutto a posto. Forse verrà oggi stesso e provvederà. In tal caso domani potremo lavorare. E se Walter non potrà venire oggi, ci limiteremo a portare qui un secchio d'acqua da casa.» «Ora possiamo andare a scivolare sulla neve?» domandò Travis.
«Sicuro» rispose Liv. «Subito. Scendiamo dalla collina verso la casa di Miss Alden.» Si incamminarono attraverso i boschi. Dapprima dovettero salire, poi il terreno cominciò a scendere verso il confine della proprietà di Miss Alden. Soffermatasi per riprendere fiato, Liv si addossò al tronco di un albero, poi scivolò dietro ad esso. «Ti ho preso» ringhiò a Travis, e, saltando fuori da dietro l'albero, gli sparò contro il dito indice. «Pum! Pum! Muori, cane di un comunista!» Travis si lasciò cadere sulla neve, artigliandosi il petto con le mani. «Aaaaah!» urlò. Poi girò su se stesso e sparò a sua volta. «Ta-pum! Ta-pum!» Liv si lasciò a sua volta cadere sulla neve, rotolò supina e fissò il cielo. Fiocchi di neve le caddero sulle ciglia e lei batté le palpebre. Aprì la bocca e lasciò che i fiocchi di neve andassero a posarlesi sulla lingua. Mosse le braccia e le gambe tracciando archi per fingersi un angelo. Travis le venne accanto strisciando. «Liv, buon angelo» disse «giochiamo alle truppe d'assalto o no?» Lei rise e si drizzò a sedere. «Ti concederò un po' di vantaggio, okay? Soltanto, non andare troppo lontano.» «Capito» disse Travis, e scomparve tra i cespugli. Lei prese in mano le corde delle due slitte e si incamminò lungo il sentiero procedendo il più silenziosamente possibile; cercava il bambino con lo sguardo e tendeva le orecchie per udirlo. A un certo momento scorse il tacco di uno stivaletto in rapido movimento dietro un cespuglio e, varie volte, udì distintamente le risatine di lui. Giunse accanto al pino segnato in arancione, uno dei tanti che indicavano il confine della proprietà. Lì si guardò attorno alquanto ansiosamente. «Travis!» gridò. «Ci rinuncio. Fatti vedere.» Ma udì soltanto i sospiri del vento tra gli alberi. La neve cadeva adesso senza posa. Liv rabbrividì e arrancò intorno all'albero. «Accidenti, Travis» borbottò. «Questo non è divertente.» Salì sulla sommità di un affioramento di roccia e scrutò i boschi in tutte le direzioni. «Travis!» urlò. Il nome del bambino le venne riecheggiato dai boschi. Lei si lasciò scivolare giù dalla roccia e si incamminò, la gola stretta dalla paura. Poi si udì un ringhio sommesso e Travis le balzò contro alle spalle, facendola cadere a faccia in giù.
Le braccia del bambino intorno alle ginocchia le dissero all'istante che si trattava di lui, ma questo non fu sufficiente per impedirle di urlare, o per evitarle lo spasmo di terrore nelle viscere. Rotolò sulla neve e afferrò Travis sotto le ascelle. «Piccolo bastardo!» urlò, in preda all'ira, poi lo abbracciò e rise. Lui le gettò le braccia al collo, stringendo forte, la baciò e disse, con la voce tremula: «Scusami, Liv.» Liv ricambiò il bacio e si drizzò a sedere. «Maledizione, mi hai spaventata.» Il bambino sorrise. «Sul serio?» Lei gli strappò il berretto dalla testa e gli arruffò i capelli. «Lo sai.» Il visetto gli si illuminò di piacere. Poi Liv lo scostò e si mise in piedi. «Andiamo a scivolare, ragazzino, prima che questa neve ci seppellisca.» «Evviiiiii-vaaa!» si mise a gridare Travis e lanciò in aria il berretto. Il pendio della collina che scendeva verso l'antica casa Dexter era l'ideale per una scivolata. Liv era certa che Miss Alden non avrebbe avuto niente da ridire. Teoricamente poteva trattarsi di violazione di domicilio, ma in pratica tutto si riduceva a una scivolata, la cosa più innocua che si potesse fare. L'antica casa di pietra, con le finestre chiuse dalle imposte, si levava, severa come una pietra tombale, tra la sponda del lago e il frutteto. La neve era arrivata all'altezza delle finestre murate della cantina e aveva coperto completamente il viale d'accesso. Ovviamente, per settimane, forse per mesi, nessuno era venuto lì. Liv decise di scrivere un biglietto a Miss Alden per dirle che la casa era rimasta indisturbata. Forse lei sarebbe stata più tranquilla venendo a sapere che i vandali non avevano colpito, almeno fino a quel momento. Un'ora circa di scivolate, pensò spingendo via Travis per la prima discesa, poi sarebbero dovuti andare al villaggio ad acquistare altro latte e succo d'arancia e un giornale. Il bambino strillò estatico mentre scivolava fino ai piedi della collina. «Ecco che arrivo, cane di un comunista!» gli gridò lei, e si gettò a pancia in giù sulla slitta. Travis stava saltellando. «Vieni a prendermi!» gridò. Capitolo X Motori urlanti frantumarono il silenzio del mezzogiorno. Rombando sul
lago ghiacciato, lanciavano stravaganti pennacchi di neve nell'aria profumata, inseguendosi scherzosamente lungo i circoli e figure a otto, come pattinatori. Gli uomini a cavalcioni degli scooter da neve urlavano e lanciavano grida di guerra. Dai Narrows, i tre scooter si diressero verso la North Bay. Sulla sponda dietro di loro rimasero il rimorchio sul quale avevano trasportato i tre scooter, l'autocarro che lo aveva trainato e Arden Nighswander, seduto nella cabina di guida a guardare i veicoli che si allontanavano. Arden mise la mano a coppa intorno a una sigaretta per accenderla sebbene non vi fosse alcuna brezza che, penetrando attraverso il finestrino dal cristallo abbassato, potesse minacciare la fiammella del fiammifero. Nighswander abbassò la testa verso la Camel, aspirò, poi alzò gli occhi e si guardò attorno, quasi pensasse che qualcuno avrebbe potuto tentare di portargli via la sigaretta. Gli scooter da neve erano diventati piccoli e quasi indistinguibili in lontananza contro lo sfondo bianco. Nighswander grugnì, poi avviò l'autocarro e ripartì, lasciando il rimorchio sulla sponda. Il rombo dei motori, quello dell'autocarro e quelli degli scooter da neve, si dileguò in ultimo e sul posto ridiscese il silenzio. Gli scooter da neve continuarono a viaggiare veloci sul lago, in linea retta, per parecchi chilometri finché il profilo della sponda divenne piatto, confondendosi con la superficie ghiacciata a Merrill Beach, la più settentrionale delle due spiagge pubbliche della cittadina. Rand Nighswander guidò il fratello e il fratellastro sui loro scooter lungo un sentiero tra i boschi. Eccettuato il fatto che Rand indossava un giubbotto mimetico, residuato dell'esercito, si stentava a distinguere l'uno dall'altro i tre che portavano identici occhialoni neri da sci e indossavano identiche tute scure da scooter e procedevano così velocemente. Nel fitto dei boschi, a loro volta resi anonimi dalla velocità, alberi e cespugli e rocce sembravano formare una sorta di muri offuscati a entrambi i lati del sentiero. Anche gli scooter da neve erano quasi identici, sebbene quelli dei fratelli Nighswander fossero un po' massicci e un po' più potenti di quello di Gordy Teed. Poi gli alberi divennero meno vetusti e più ravvicinati, i cespugli più fitti, le rocce più grandi, per cui gli scooter furono costretti a rallentare. Ad uno ad uno si lasciarono indietro la copertura del bosco ed entrarono nella radura situata dietro la casa dei Winslow. Le sdraie, le sedie da giardino, il tavolo per i picnic, tutto era stato riposto, e il motoscafo dei Winslow si trovava al riparo sotto la veranda del cottage. Le tapparelle erano abbassate. Il viale d'accesso non era mai stato sgombrato dopo la prima
neve, in quanto i Winslow appartenevano a quella scuola di residenti estivi secondo la quale un viale d'accesso sgombro poteva soltanto facilitare le cose ai ladri e in ogni modo, per giunta, i pompieri non sarebbero mai arrivati sul posto, in caso di incendio, prima che il villino fosse ridotto in cenere. La neve più recente era stata segnata soltanto dagli scoiattoli, dai tassi e dalle volpi di passaggio, sebbene sotto quello strato fossero seppellite le orme profonde delle scarpe da neve di Walter McKenzie, che aveva controllato il cottage dei Winslow due giorni prima. Rand Nighswander fermò il motore e smontò. Si guardò attorno come se fosse appena diventato l'orgoglioso proprietario della casa e del terreno. «Ricky» disse «cerca sotto la casa il motore di quella barca.» «Questo può farlo buchino» disse Ricky. Rand toccò quasi con dolcezza il gomito del fratello. «Sarebbe capace di farlo cadere e di romperlo.» Gordy ingobbì le spalle e piagnucolò. Ricky Nighswander fece una spallucciata e si diresse verso la veranda. Rand e Gordy salirono gli scalini e si portarono sulla veranda. Rand si soffermò e si guardò attorno, poi sferrò un calcio alla porta con una forza selvaggia. La porta si spaccò, incurvandosi verso l'interno. Gordy ridacchiò. Irritazione balenò negli occhi di Rand, e Gordy deglutì a fatica. Rand si infilò nello squarcio, entro il fascio di luce che esso lasciava penetrare nel buio interno, il soggiorno del cottage. Fece scorrere la lampo della tuta da scooter e pescò un pacchetto di Pall Mall in una tasca interna. Lo scosse, facendone uscire una sigaretta, se la inserì tra le labbra e la tenne lì. I mobili con le fodere, sul tappeto fatto a macchina, riempivano la stanza come macigni nell'acqua bassa. Rand si diresse verso la cucina, uno stretto bugigattolo dall'altro lato del bar, a una estremità della stanza. Sul fornello si trovava un gallo il cui corpo consisteva in un orologio elettrico. Il cordone unto e nero, staccato dalla presa di corrente, gli pendeva dalla coda come una piuma spezzata e malconcia. Tre copriteiere di calicò a forma di gatti raggomitolati coprivano un frullatore, un tostapane e una macchinetta per il caffè. Rand aprì cassetti e vi frugò dentro finché non ebbe trovato una scatola di fiammiferi da cucina. Tenendo la scatola in una mano, ne tolse un solo fiammifero, lo strofinò sulla striscia abrasiva e si ingobbì per accendere la sigaretta. Lasciò poi ricadere la scatola di fiammiferi nel cassetto e chiuse
quest'ultimo sbattendolo, poi si raddrizzò e lo osservò pensieroso. Dietro di lui, sul banco del bar, si trovava un piatto di vetro per dolciumi, a scomparti, a forma di bassotto. Stando dall'altro lato, Gordy Teed controllò accuratamente ogni scomparto del piatto, e trovò soltanto un bacio di cioccolata che si era sciolto nell'involucro di carta stagnola, e un gran numero di mosche morte. «Guarda dentro le credenze» gli disse Rand Nighswander. «Sì, certo» rispose Gordy, con la sua voce acuta. Rand torse la bocca con una smorfia di disgusto. Poi scomparve lungo uno stretto corridoio verso le camere da letto del villino. Gordy spalancò allegramente e richiuse gli sportelli delle credenze, finché non ebbe trovato quella dove i Winslow tenevano i liquori. Persino lui riuscì a capire che si trattava della credenza dei liquori grazie ai segni circolari lasciati dalle bottiglie sul piano di plastica. Ma, a parte questi segni, non v'era altro. «Maledizione merda» disse Gordy in tono luttuoso. Rand, le labbra strette intorno alla sigaretta, uscì dalle camere da letto con una rivoltella penzolante in mano. Era una Smith & Wesson nichelata ed arrugginita, calibro trentadue. Con l'altra mano, delicatamente come se si fosse trattato del seno di una donna, egli reggeva una sbiadita scatola di munizioni contenente trentadue cartucce. «Non hanno lasciato neppure un goccio» annunciò Gordy. Poi vide quello che aveva trovato Rand. «Oh-ooooh.» Rand studiò la calibro trentadue. Si tolse la sigaretta di bocca. «Non hanno lasciato niente che valga una merda» disse. Ficcò la pistola e la scatola di cartucce in una tasca interna della tuta da scooter. Poi si rimise la sigaretta tra le labbra. Un'ombra colse il suo sguardo. Si mise in ginocchio e frugò in fondo alla credenza. «Santa merda» mormorò, intorno alla cicca, e mostrò a Gordy una bottiglia non ancora sturata di Jim Bean. «I vecchi scorreggioni ne hanno dimenticato una.» Gordy si illuminò in faccia e fece per prendere la bottiglia. Rand la tenne lontana da lui. Con due dita si tolse la sigaretta di tra le labbra, la lasciò cadere sul pavimento e la schiacciò con il tacco. «Aspetta un fottuto momento. L'ho trovata io.» Gordy si rabbuiò in faccia. «Già» disse. «È vero. Credo che sia tua.» Rand sturò la bottiglia. Gordy stette a guardarlo, a bocca aperta, mentre se la portava alla bocca ed era intento ad ingollare una sorsata.
«Ah» fece Rand. «Buono, eh?» disse Gordy. «Fa schifo» disse Rand. Gordy sogghignò. «Fa schifo.» «Piscio annacquato» continuò Rand. Gordy annuì e il suo sorriso si accentuò. «Piscio annacquato» ripeté con esultanza. «Devi farmi un pompino se ne vuoi» disse Rand. La contentezza scomparve di nuovo dalla faccia di Gordy. Egli si afflosciò e conficcò nel tappeto la punta del grosso stivale. «Gesù» farfugliò. «Perché mi prendi in giro, Rand?» «Perché sei un tale buchino» disse Rand. E mandò giù un'altra sorsata di liquore. Si udirono bestemmie soffocate e tonfi sotto la casa, poi passi pesanti su per gli scalini e sulla veranda, Ricky Nighswander ficcò la testa nello squarcio della porta. «Quel motore è una merdata, Rand» disse. «L'ho distrutto.» Rand grugnì. «Cos'è che hai lì?» domandò Ricky. Rand gli porse la bottiglia. Ricky bevve a sua volta. «L'ho trovata io» disse Rand. «Buchino, qui, non l'aveva vista.» Gordy diventò torvo in faccia. «Era in fondo» disse. Ricky ridacchiò. «Così è il tuo buco del culo; anche in pieno giorno non riusciresti a trovarlo senza un gruppo di ricerca.» «Gesù» mormorò Gordy. «Questa casa è uno schifo» disse Rand. Tirò fuori la Smith & Wesson e la mostrò a suo fratello. «Si direbbe che l'abbiano vinta con i coperchi di quelle scatole di cereali, no? È proprio il tipo di spaccianegri che poteva avere sotto il guanciale quella vecchia topa rinsecchita.» Ricky rise. Rand tornò ad infilare l'arma nella tasca interna. «Non è stato molto gentile da parte dei cari Winslow lasciare così vuota la fottuta credenza» disse Rand. «Eh no» disse Ricky. «No davvero» riconobbe Gordy. «Chiudi il becco, tu, buchino» disse Ricky. «Okay, okay» disse Gordy.
«Dateci dentro, ragazzi» disse Rand. Ricky sollevò uno sgabello del bar e lo scaraventò attraverso la finestra più vicina. Gordy si chinò e si raddrizzò ridacchiando. «Yu-huuu» gridò e cominciò a scagliare contro le pareti gli scomparti del vassoio per dolciumi a forma di cane. Rand Nighswander rise. Accese un'altra sigaretta. Poi, con la sigaretta tra le labbra, tirò fuori un coltello da caccia e cominciò sistematicamente a squarciare le fodere che coprivano poltrone e divani e le imbottiture. Ciuffi e grovigli di crine volarono in aria. Ricky andò nelle camere da letto. Si poté udirlo mentre fracassava specchi e legno. Vi fu uno schianto soddisfacente quando balzò con tutti e due i piedi sul letto matrimoniale dei Winslow e lo sfasciò. Poi seguì il silenzio. Gordy ululò e corse lungo il corridoio verso la seconda camera da letto, invogliato a fracassare i due letti che arredavano la stanza degli ospiti. Ricky uscì pian piano dalla camera da letto dei Winslow tirandosi su i pantaloni da sci. Fece capolino nella stanza degli ospiti e stette a guardare Gordy che balzava sul primo dei due letti. Il peso fece finire materasso e rete con le molle sul pavimento. Le due estremità del letto caddero verso il centro. Gordy discese dall'intelaiatura fracassata. «Ho lasciato alla signora Winslow qualcosa che completa la sua collezione di stronzi di cane» disse Ricky. Gordy si coprì la bocca e ridacchiò. «Gesù» disse Ricky, facendo roteare gli occhi verso il soffitto. «Andiamocene di qui» gridò loro Rand dal soggiorno. Si affrettarono a raggiungerlo e lo trovarono attaccato alla bottiglia. Ciuffi di imbottitura continuavano a galleggiare nell'aria ferma, alla luce che penetrava attraverso la porta sfondata. Ricky ripeté quel che aveva detto prima, del qualcosa lasciato per completare la collezione di stronzi di cane di Claire Winslow. Rand rise e passò la bottiglia a suo fratello. «Sei un sudicio, piccolo bastardo, Ricky» disse. Ricky sogghignò allegro. Rand lasciò cadere la sigaretta sul pavimento. La osservò per qualche secondo prima di schiacciarla con il tacco. «Mi piacerebbe lasciarla dove si trova e fare di questa tana una torcia. Ma non voglio tra i piedi i fottuti pompieri nel pomeriggio. Non ancora.» Varcò la soglia di casa. «Comincia a fare più freddo» disse. «Dà a Gordy un po' di quell'acquavite, che non gli si geli il piccolo manico.»
Gordy, avidamente, fece per afferrare la bottiglia. Ricky la tenne lontana da lui. «Fammi un pompino» disse. Gordy fece il broncio. «Rand ha detto di darmene un po'.» «Succhiamelo» insistette Ricky. «Rand» disse Gordy a voce alta. «Ricky non vuole darmene.» Ricky pestò con forza un piede a Gordy. Gordy piagnucolò. «Chiudi il becco, buchino» disse Ricky. «Rand ha detto di darmene un po'» insistette Gordy. «Dice che non devo più farti il pompino.» «Quand'è che ha detto questo?» domandò Ricky. «Io non gliel'ho sentito dire.» «Rand dice...» cominciò Gordy, e Ricky di nuovo gli pestò il piede. Gordy strillò e si allontanò da Ricky a passi di danza. Rand si piazzò sulla soglia. «Ehi, perditempo» disse. «Ricky, ti avevo detto di dargli un po' di acquavite.» Ricky passò la bottiglia, con riluttanza, a Gordy. «Non sputarci dentro» disse. Gordy succhiò avidamente. «Su, venite» disse Rand. «Sta cominciando a nevicare. Ho detto a Pa' che saremmo tornati al pontile alle quattro. Ne abbiamo di cose da fare prima di allora.» «Giusto» disse Ricky. Rand scomparve dalla soglia e si udirono i passi di lui scricchiolare sugli scalini. Ricky strappò la bottiglia a Gordy e varcò la soglia. «Succhiamelo» disse a Gordy, così, tanto per dire, e scomparve. «Cattivo» si lagnò Gordy, seguendolo a passi strascicati. «Cattivo, cattivo Ricky» gli gridò dietro. «Sparati una sega» mormorò poi. «Sei un sudicio, piccolo bastardo.» Si soffermò sul gradino più alto. «Non devo succhiartelo» gridò. «Lo ha detto Rand.» Introdursi nel cottage dei Breen fu molto più difficile. La casa aveva soltanto pochi anni ed era stata costruita con materiali di prim'ordine. Le due porte, una sul lato della casa lungo il viale d'accesso e l'altra a battenti scorrevoli sulla veranda, erano entrambe di spesso cristallo e avevano sbarre di ferro incuneate nelle guide per impedire che venissero aperte. Senza le sbarre di sicurezza, naturalmente, sarebbe stato facile forzarle, in quanto le serrature nelle intelaiature di alluminio erano molli come la neve.
Le finestre erano alte, distavano dal suolo quanto la statura di un uomo adulto. Salito sulle spalle di Ricky, Rand riuscì a forzarne una servendosi di una chiave inglese tolta dalla cassetta degli attrezzi del suo scooter da neve e, una volta eliminati i frammenti di vetro, a introdursi nella casa. Sentì la fatica quando ebbe tolto le sbarre di ferro dalle guide della porta a doppio battente sulla veranda. Fece entrare Ricky e Gordy. «Questa dovrebbe essere una casa ricca» disse. «Vedete di essere meticolosi, una volta tanto.» Il soggiorno era un vasto ambiente a forma di cubo, alto due piani, soppalcato; al piano superiore si trovavano le camere da letto. La neve diffondeva la luce che penetrava attraverso due grandi lucernari nel soffitto da cattedrale. Una estremità della stanza serviva da sala da pranzo, con un tavolo dal piano di cristallo, rotondo, e sedie dalle gambe di bambù. Nella vicina parete si apriva il passaggio della cucina. Come dai Winslow, i mobili erano coperti con fodere; ma, a parte questo, si trattava di mobili molto diversi, tutti lisci e moderni, di cristallo ovunque il cristallo potesse essere adoperato, di legno duro lucidissimo e di lucente metallo cromato, con cuscini di tela ruvida dalle tinte accese. Il tappeto del soggiorno era stato arrotolato e coperto di plastica. Ricky tagliò il rivestimento di plastica e lo srotolò. «Bel tappeto» disse. «Troppo grande perché possiamo portarlo via» disse Rand. «Se fosse primavera e avessimo un autocarro, allora sì.» Ricky alzò il coltello sopra il tappeto e lo abbassò di scattò, urlando «Huuh!» Gordy, accosciato davanti al mobile bar, fece un balzo. Poi fischiò sommessamente. Rimessosi all'opera, frugò con tutte e due le mani. Fischiò di nuovo, più forte, e mostrò una bottiglia di vermouth vuotata in parte e un'altra di triple sec, quasi piena. Rand le esaminò. Grugnì. «Contengono dell'alcool. È la sola cosa che si possa dire a loro favore.» Ricky smise di tagliuzzare e squarciare il tappeto e corse su per la scala a chiocciola verso le camere da letto. Gordy svitò il tappo e assaggiò il vermouth. Se lo rigirò in bocca, poi inghiottì rumorosamente. «È okay» assicurò a Rand, serio. «Certo» riconobbe Rand «se ti piace questa specie di piscio di cani.»
Gordy si rabbuiò in viso. Rand seguì Ricky su per la scala a chiocciola. Trovò Ricky nella camera da letto padronale. Il letto era rotondo e specchi rivestivano il soffitto. Ricky ora batteva la mano sul materasso, ora alzava gli occhi verso il soffitto a specchi. Rand fischiò. Ricky si mise a sedere sul letto. «Gesù» disse. «Non so che cosa fare.» «Non è una novità» commentò Rand. «Hai trovato qualcosa?» Ricky scoccò un'occhiata agli specchi. «Quelli» disse. «Perdinci, Rand, ti sei mai veduto scopare in uno specchio?» Rand entrò a passi spavaldi nella stanza. «Certo.» Fissò gli specchi e si leccò le labbra. «Non in questi» ammise. «Non mi dispiacerebbe. È un vero peccato che il pilota non abbia lasciato qui anche sua moglie. A pensarci bene, non si è comportato da buon vicino. Ecco che io mi sento infoiato guardando quegli specchi e non ho nessuno a portata di mano da fottere tranne voi due puzzole.» Ricky ridacchiò e poi si accigliò. «Ci sono troppi posti buoni per farsi una cagata, in questa casa. Quel tavolo di cristallo» e alzò un dito «quel tappeto lussuoso» e ne mostrò due «e questo letto.» Rand rise. «Sicché non sai dove cagare o dove sborniarti.» Ricky sogghignò. «Già.» «Devo sempre pensare io per te» disse Rand. «Non c'è problema, sai.» «Come?» domandò Ricky. Rand gli rifilò una piccola pacca sul cocuzzolo della testa. «Quante probabilità hai di vederti cacare su un letto rotondo?» Ricky si illuminò in viso. Picchiò sul letto con entrambi i pugni, estaticamente. «Aspetta soltanto che io abbia finito qui» disse Rand. V'era un'intera parete attrezzata, comprendente un armadio e un tavolino da toletta. Rand aprì cassetti, vi guardò dentro, poi li scaraventò sul pavimento. Non aveva trovato niente. Passò all'armadio sulla parete opposta. Conteneva, dentro custodie protettive di plastica, alcuni vecchi vestiti. Egli spostò le custodie, ne fece scorrere le chiusure lampo, tastò i vestiti. Da un lato si trovava una serie di ripiani. V'erano cappelli di paglia, un vecchio asciugacapelli, un rasoio elettrico rotto. Rand esaminò rapidamente i vari oggetti finché non fu arrivato a un servizio da barba. Sui lati figuravano le parole «Volate con la Frienfly Skies». Egli aprì l'astuccio, ne palpò l'interno e venne premiato.
«Per tutti i diavoli» esclamò. Tastò la fodera finché non ebbe trovato l'orlo scucito che, lo sapeva, doveva esservi, poi la strappò via. «Che cosa hai trovato?» domandò Ricky. Rand infilò le dita sotto la fodera ed estrasse un pacchetto avvolto in carta stagnola, simile a una confezione di minestra liofilizzata. «Potrebbe essere un preservativo per qualche gigante» disse Rand. «Ma non credo.» Ricky attraversò la stanza per venire a vedere da vicino. Rand aprì con cautela la carta stagnola. Poi arrovesciò la testa all'indietro e ululò di gioia. Il vento sempre più forte frustò con neve pungente gli occhi dei fratelli Nighswander e di Gordy Teed mentre procedevano parallelamente alla sponda del lago, a poche decine di metri di distanza, costringendoli a rallentare. I fratelli avevano truccato gli scooter da neve affinché raggiungessero velocità pazzesche per cui i veicoli tossicchiavano, non potendo andare al massimo, e perdevano colpi. La superficie del lago era per lo meno sempre buona. Ancora alcune ore di una nevicata come quella e gli scooter sarebbero stati bloccati dai cumuli di neve soffice. La breve giornata invernale venne resa ancor più breve dall'inizio della tormenta. Il cielo parve chiudersi su di loro, risucchiando tutta la luce, per cui la sponda del lago divenne sempre più indistinta e loro dovettero accendere i fari. Insieme alla luce del giorno scomparve l'elusivo tepore e i tre giovani sentirono il freddo anche attraverso le pesanti tute da scooter e le maglie di lana. L'apparire della casa dei Russell causò un inespresso sollievo, poiché la dimora offriva un riparo dalla tormenta. Portarono a terra gli scooter e smontarono. Ingobbiti tutti e tre contro il vento, si diressero verso la veranda della casa dalla parte del lago. Soltanto dopo aver salito gli scalini e aver fatto alcuni passi sulla veranda si accorsero che una luce era accesa all'interno della casa. Rand alzò una mano e li fermò. «È soltanto una di quelle lampade a tempo» bisbigliò Ricky. «Per far credere che in casa ci sia qualcuno.» Rand scosse la testa. Fiutò l'aria. «Ti sei sparato tante di quelle seghe da essere diventato scemo» disse. «Non lo senti l'odore del fumo di legna?» Ricky fiutò l'aria. E altrettanto fece Gordy. Poi si guardarono a vicenda. «È davvero fumo di legna» osservò Gordy.
«Va all'altro lato» disse Rand a Ricky. «Vedi se c'è qualche macchina parcheggiata sul viale d'accesso.» Ricky rimase dove si trovava. «Questo posto non è sicuro. Pa' ti concerà per le feste se tenterai di rubare in un posto dove c'è qualcuno.» Rand sbirciò dentro attraverso la porta scorrevole di cristallo. Quello che vide lo fece sorridere. «Pa' non è qui» disse. «Se ne sta seduto accanto al fuoco sulle grasse natiche, ad alzare il gomito con Jeannie.» Fissando il pavimento della veranda e scoccando occhiate innervosite a Rand e a Ricky, Gordy cominciò a borbottare risentito a causa dell'implicita offesa a sua madre. Spostò il proprio peso da un piede all'altro e si stropicciò le mani infilate nei guanti. I fratelli Nighswander lo ignorarono. Ricky esitò ancora un momento, poi andò a fare quello che gli era stato ordinato. Tornò indietro in fretta, palesemente sollevato. «Il viale d'accesso è stato sgombrato dalla neve e ci sono vecchie tracce di pneumatici, che la nevicata sta cancellando. Nessuna automobile.» Rand annuì. «Qualcuno è venuto qui e se n'è andato» disse Ricky. «Ma torneranno» osservò Rand. «Sono andati a fare qualche commissione». «No,» disse Ricky «credo che siano proprio partiti.» Rand lo fissò. Fece scorrere la lampo della tuta e prese il pacchetto di sigarette. «Hanno lasciato un fottuto gatto» disse. Questo chiuse la bocca a Ricky per un minuto. Gordy ridacchiò. Ricky spostò il proprio peso da un piede all'altro sulla veranda. «Allora tagliamo la corda fottuta» disse «perché torneranno.» Rand gli sorrise. «Prima voglio dare un'occhiata. Non lo sai di chi è questa casa?» Ricky sorrise a sua volta. «Dei Russell, no?» «Già» fece Rand. «E a me piacerebbe avere un paio delle mutande della moglie, che ne dici?» Ricky e Gordy si sbirciarono. Ricky ridacchiò. Rand provò ad aprire la porta scorrevole. Dapprima oppose resistenza, poi cominciò a scorrere. «Perdiana» disse Rand. «Lei sapeva che sarei venuto e ha lasciato la porta aperta per me.» Gli altri due lo seguirono dentro. Lasciarono la porta aperta dietro di loro. La neve penetrò a folate e si sparse sul vecchio tappeto orientale che
copriva il pavimento del soggiorno. Si sciolse all'istante, assorbita dalla fitta lana. Da un lato della stanza, scaffali che dal pavimento arrivavano al soffitto contenevano libri e nastri. Alcuni degli scaffali erano stati tramutati in armadietti mediante l'aggiunta di sportelli scorrevoli. V'erano inoltre, nel soggiorno, un comodo divano dai disegni vividamente colorati, una antica sedia a dondolo, una vecchia e massiccia poltrona e, accanto ad essa, una lampada a treppiede. Uno degli angoli era occupato da una scrivania vecchio stile con coperchio avvolgibile. Un basso tavolino, con un mazzo di carte sparpagliate sul piano di cristallo, se ne stava accovacciato sui piedi di ottone davanti al fuoco. Nel caminetto di pietra grezza si trovavano numerose nicchie. Contenevano tutte vasi lavorati a mano, tranne una che, troppo alta e stretta per un vaso, conteneva invece un caleidoscopio Peac. La Povera, raggomitolata sul focolare, dove il fuoco era stato coperto, ma ardeva ancora, aprì un occhio. Si districò, si stiracchiò e miagolò lamentosamente. «Bella gattina» disse Gordy. Tese la mano verso la bestiola. La Povera gli leccò il palmo con la lingua rosea e ruvida. Lui ridacchiò. Ricky spostò uno degli sportelli scorrevoli della libreria e apparve un videoregistratore. «Guarda, guarda» mormorò lui. Poi aprì lo sportello subito più in basso. «E qui c'è il televisore.» Rand grugnì e scomparve lungo il corridoio verso le camere da letto dei ragazzi. Gli occorse soltanto un momento per dare un'occhiata, poi egli tornò indietro e percorse il corridoio più breve che conduceva alla camera da letto padronale. Notò la singola valigia lasciata dietro la porta della stanza, diede un'occhiata al bagno e non vide altro che uno spazzolino da denti, un sacchetto di plastica trasparente con il necessario per il trucco, un flacone di profumo, una cuffia per la doccia. Alzò il coperchio della cesta di vimini che si trovava lì nel bagno e frugò rapidamente tra il contenuto, impadronendosi di un paio di mutandine. Erano di seta, celesti, e molto semplici. Sorridendo, Rand le ficcò sotto la tuta da scooter. Rapidamente, frugò in ogni cassetto dei due cassettoni e in quelli dei comodini ai due lati del letto, ma non trovò altri tesori. Poi provò il letto, mettendosi a sedere sulla sponda, e saggiando dolcemente la morbidezza del materasso con una mano. «Scommetto che si fa fottere come una scrofa» disse sommessamente. Si augurò di avere il tempo di provarci, di lasciarle un biglietto da visita. Sarà per la prossima volta, baby, promise a se stesso. Quando tornò nel soggiorno, Ricky stava inserendo un nastro nel video-
registratore. «Guarda qui» disse Ricky «hanno alcune cassette molto belle.» Le videocassette erano state tolte dagli scaffali accanto al televisore e sparpagliate sul divano e sul pavimento. Rand si mosse così fulmineamente che Ricky non ebbe neppure il tempo di trasalire quando la mano di suo fratello sulla nuca lo mandò a sbattere con la testa contro uno degli scaffali. «Stupido idiota» disse Rand. «Togli quei nastri fottuti dal pavimento». Ricky si massaggiò la fronte e arrancò qua e là per la stanza, ricuperando freneticamente le videocassette e gemendo. Gordy uscì dalla cucina con un polveroso bottiglione da quattro litri di borgogna Gallo e un sorriso enorme sulla bocca, un sorriso che scomparve all'istante quando lui scorse la faccia di Rand e gli annaspamenti di Ricky. «La padrona di casa può tornare da un momento all'altro. Potremmo non avere il tempo di togliere di mezzo questo schifo di disordine e di filarcela. Voglio tornare a fare man bassa qui quando non ci sarà nessuno» disse Rand. «Quindi voi sparaseghe non toccate niente, altrimenti quando torneremo non troveremo più un cacchio da portar via. Avranno ripulito la casa.» Gordy sbirciò, incerto, il bottiglione di vino. «Rimettilo al suo posto, buchino» ringhiò Ricky. Gordy fece una spallucciata e tornò in cucina. «E quelle mutandine, allora?» domandò Ricky, imbronciato. «Lo so che le hai prese. Sei rimasto là dentro quanto bastava.» «Non penserà di sicuro che qualcuno sia entrato e le abbia prese. Crederà che siano finite chissà dove o che la lavabiancheria se le sia mangiate» disse Rand. «Vorrei essere la lavabiancheria» disse Ricky, e ridacchiò. Allontanarsi dalla casa non era stato troppo difficile con la Pacer. Le gomme da neve e il basso centro di gravità della larga automobile accrescevano la fiducia di Liv in essa. Ma adesso, al ritorno, v'era molta più neve fresca e altra ancora ne stava cadendo e rendeva scivolosa la strada. Lei si sorprese a trattenere la Pacer giù per le discese e sulle curve; stringeva convulsamente il volante e si ingobbiva su di esso scrutando la strada dinanzi a sé. Travis, come sempre, intuì ancor prima di lei la tensione nervosa che la dominava. Si sporse dal sedile posteriore, osservando la strada insieme con
lei. «È dura, eh, Liv?» domandò. Lei spinse indietro e abbassò le spalle per allentare la tensione. «Non è uno scherzo» ammise. Il bambino le batté la mano sulla spalla. «Non preoccuparti. Possiamo tornare a casa a piedi se sarà necessario e Walter tirerà fuori la macchina se finirai in un fosso.» «Grazie tante» disse lei. «Cercherò di non finirci.» Parve che avessero impiegato un'eternità e lei ebbe l'impressione di aver fatto rotolare un macigno su per una ripida altura quando giunsero davanti al loro viale d'accesso. Liv decise lì per lì di aver già fatto anche troppo conto sulla propria fortuna; avrebbero disceso a piedi il pendio della collina fino alla casa. Lei e Travis erano vestiti entrambi nel modo adatto, non aveva mai dimenticato le parole che soleva ripetere suo padre: nell'inverno del Maine ci voleva uno stolto di professione per uscire senza stivali e senza gli indumenti adatti, confidando nella protezione offerta da un'automobile. Poteva sempre accadere che si fosse costretti a far conto sui propri piedi nella neve e sul ghiaccio. «Capolinea» disse a Travis, e fermò la macchina nello slargo della strada, all'inizio del viale d'accesso. Travis sospirò e cominciò a ricuperare i suoi G.I. Joe sparsi qua e là, mettendoseli in tasca. Liv prese il sacchetto con i generi di drogheria e aiutò Travis a scendere dall'automobile. Lui le lasciò andare la mano non appena ebbe i piedi a terra. Meglio così. Se uno di loro due fosse scivolato o caduto, l'altro avrebbe evitato di scivolare o cadere a sua volta, come invece sarebbe senza dubbio accaduto se si fossero tenuti per mano. Dovettero poi procedere con cautela, nella crescente oscurità, senza parlare l'uno con l'altra, ma concentrandosi sulla necessità di rimanere in piedi e di arrivare fino alla casa. La neve, invariabilmente, rallegrava Liv. In parte, lei riteneva, perché rendeva il mondo pulito e bello e nuovo di zecca. L'aria sembrava satura della sua gelida, cristallina soavità e la eccitava. Avrebbe voluto rotolarsi nella neve. Non appena messi via il latte e il succo d'arancia nel frigorifero, decise, avrebbe acceso i riflettori in giardino e portato di nuovo fuori Travis per andare a scivolare giù lungo il viale d'accesso. Fu lieta di avere lasciato l'automobile in cima alla salita. Sarebbe stata una festa per Travis giocare all'aperto mentre era quasi notte. Sarebbe andato a letto stanco e con le guance rosee.
Lo riprese per mano quando giunsero davanti agli scalini della veranda dietro casa, e lui le rivolse un sorriso. Era riuscita a riportarlo a casa sano e salvo e la rese ancor più felice rendersi conto del fatto che aveva saputo essere all'altezza della sua fiducia in lei. Il momento terribile nei boschi, quando aveva creduto che si fosse smarrito, mentre poi Travis le era saltato addosso, e poi il difficile tragitto di ritorno in macchina, avevano avuto l'effetto compensativo di raddoppiare la sua felicità. Aprì la porta di casa ed entrò nell'ingresso precedendo il bambino. Alla luce della lampada che aveva lasciato accesa nel soggiorno vide i tre uomini andare verso la porta della veranda sulla facciata. Come un terzetto irreale, voltarono la testa tutti e tre guardandola, e nei loro occhi balenò dapprima lo stupore, poi qualcos'altro, un bagliore predace e lei ricordò chi erano, e si rese conto di averli colti sul fatto ed ebbe paura. Impulsivamente si frappose tra loro e Travis e spinse il bambino all'indietro, verso la porta, con le natiche. «Liv!» esclamò lui, esasperato. Ormai aveva perduto il vantaggio della sorpresa. I tre uomini cominciarono a venire verso di lei. Girò sui tacchi, afferrò Travis e si precipitò oltre la soglia della porta sulla veranda posteriore. Mani cercavano di ghermirla, corpi massicci la incalzavano ansimando, dita le afferrarono il cappuccio, poi le affondarono nei capelli arrovesciandole la testa dolorosamente e facendole perdere l'equilibrio. Lei inciampò e rotolò giù per gli scalini, sempre reggendo Travis, che strillava, e poi qualcuno finì addosso a entrambi, cadendo con loro. Una fitta dolorosa le saettò nel gomito che picchiava con violenza sugli scalini resi scivolosi dalla neve. Urtò con una spalla, si graffiò il mento e Travis le venne strappato dalle braccia. «No!» urlò, e una mano, piazzata sotto il mento, le riportò la testa all'indietro, sulla neve. Lei fissò sopra di sé Rand Nighswander. Poi lui le sferrò un pugno allo stomaco, facendola raggomitolare, con il respiro mozzato, e vomitare sulla neve. «Perché vuole scappare?» lo udì domandare sommessamente e poi udì, dietro di lui, Travis strillare e dibattersi ed essere insultato da uno degli altri. Rand Nighswander l'aiutò a rimettersi in piedi. Le girava la testa, barcollava e lui l'afferrò e la sollevò. La riportò su per gli scalini in casa e la mise con dolcezza sul divano. Liv cercò di drizzarsi a sedere, ma Rand le mise
la mano enorme, di piatto, sullo sterno e di nuovo la spinse giù. «Si rilassi» disse. Girò sui tacchi e si rivolse all'individuo che aveva Travis, quello che gli somigliava. Suo fratello. «Metti giù il bambino» disse. Travis, libero, attraversò di corsa la stanza e subito si avvinghiò a lei. Singhiozzava e tremava tutto di paura. Liv lo strinse a sé, accantonando la propria sofferenza e la propria paura per calmare e consolare il bambino. Rand prese la sedia della scrivania, la voltò e vi sedette appoggiando le braccia alla spalliera. «Abbiamo avuto guai con gli scooter» disse. «Vedendo il fumo del comignolo di casa sua ci siamo detti che avremmo potuto telefonare, ma lei non era in casa. Abbiamo provato ad aprire la porta, nell'eventualità che fosse in casa e non ci sentisse. Non era chiusa a chiave. Ci siamo riscaldati un po' e stavamo per andarcene.» «Lei mi ha colpita con un pugno» disse Liv. Rand sorrise. «Mi dispiace. La verità è che mi ha spaventato da matti. Ho temuto che si mettesse a urlare, cacciandoci nei guai. Non mi ha dato il modo di spiegare, capisce?» Liv chiuse gli occhi. Se avesse finto di credere alla menzogna se ne sarebbero andati? Avevano il vantaggio del numero e della forza muscolare. Non le avrebbe giovato in alcun modo non stare al gioco. «E va bene» disse, evitando di guardarlo. «Non è successo niente di irreparabile. Ma è meglio che se ne vadano, adesso. Hanno spaventato il mio bambino» soggiunse poi, cercando di assumere un tono più lamentoso che di accusa. Rand si alzò e rimise a posto la sedia. Gordy sedeva sul focolare, accarezzando la gatta. Ricky si appoggiava alla mensola del caminetto, rosicchiandosi le unghie. Rand frugò sotto la tuta cercando le sigarette. Insieme col pacchetto vennero fuori le mutandine. Lui tentò di afferrarle mentre veleggiavano verso il pavimento, cercando di nasconderle nel palmo, ma Liv fu più svelta. Sentì Travis alzare la testa che le poggiava tra i seni. Fissò le mutandine e arrossì furiosamente. «Come ha osato?» proruppe. La mano di Rand cadde sulla sua che stringeva le mutandine celesti e la stritolò, per cui lei cercò istintivamente di sottragliela; ma il giovane la trattenne. «È stato facile» disse. La testa di Travis piombò in avanti sulla mano di Rand che stringeva
quella di sua madre, e il bambino vi affondò i denti. Rand urlò e colpì Travis con il dorso della mano. Lei fece rotolare Travis dietro di sé sul divano e, lasciandosi sfuggire un gemito d'ira, se la prese con Rand. «Bastardo» urlò e gli sferrò pugni alle orecchie e gli graffiò la faccia con le unghie. Un manrovescio del giovane la scaraventò di nuovo sul divano. Travis era balzato in piedi, nel frattempo, e si lanciò in difesa di sua madre contro Rand. Ricky Nighswander lo afferrò alle spalle e, noncurante, lo scaraventò supino sul tappeto, mozzandogli il respiro. Con la coda dell'occhio Travis scorse un bagliore metallico, poi sentì contro la gola la lama del coltello di Ricky, affilata come un rasoio, mentre il giovane si accovacciava su di lui. Quando Travis fece roteare gli occhi per vedere dove fosse Ricky, scorse il terzo intruso, quello che sembrava stupido, accovacciato sul focolare. L'idiota li stava contemplando con gli occhi inespressivi spalancati, e la bocca aperta, per giunta, ragion per cui perdeva un po' la bava. La gatta, schiacciata tra le sue mani, emise un verso lamentoso e lui la guardò, sorpreso. I rumori della zuffa cessarono subito. Travis udì i singhiozzi di sua madre e il respiro affannoso dell'uomo dal labbro sbilenco. «Non fate del male al bambino» disse Liv. «Si calmi» disse l'uomo. «Non lo toccheremo, il bambino. Ricky, lascia che si rialzi.» La lama tagliente scomparve, ma Travis sentì all'improvviso di avere il collo molto rigido e indolenzito e si rese conto di aver trattenuto il respiro. Mani rozze lo misero in piedi bruscamente e lo spinsero verso sua madre. Lui le nascose il viso contro il ventre. Liv si lasciò ricadere sul divano stringendo a sé Travis. «Per favore se ne vadano» disse. «Certo» disse Rand. «Soltanto, ricordi una cosa.» Liv alzò gli occhi su di lui. «Quale?» «Qui non è successo niente.» Lei lo fissò, poi abbassò gli occhi. «Qui non è successo niente.» Rand diede di gomito a Ricky. «Muovi il deretano» disse. Gordy mise giù la gatta. «Bella gattina» disse. «Bella gattina.» Ricky si avvicinò alle sue spalle e gli rifilò una sventola sulla nuca. «Rand ha detto di muoversi.» Gordy si massaggiò la nuca. «Okay. Okay.»
Varcò per primo la soglia della porta di casa, seguito da Ricky, che gli rifilò un calcio nel sedere mentre usciva. Gordy incespicò sulla veranda e Ricky scoppiò a ridere. «Piantala» disse Rand e Ricky la piantò e si allontanò nell'oscurità colma di neve. La neve turbinava fuori delle tenebre e penetrava nel soggiorno attraverso la porta aperta. Rand si soffermò sulla soglia, guardandosi indietro. «Non se ne dimentichi» disse. Liv annuì. Poi il giovane scomparve. «Resta qui» disse lei a Travis. Balzò in piedi, chiuse la porta sbattendola e girò la chiave nella toppa. Accostò le tende sul cristallo. Poi corse fino alla porta di servizio e chiuse a chiave anche quella. Passò, sempre correndo, da una camera all'altra per controllare le chiusure delle finestre. Quando fu certa che tutto fosse ben chiuso, si affrettò a tornare nel soggiorno e abbracciò Travis. «Adesso siamo al sicuro. Okay?» Il bambino le affondò il capo tra i seni e si avvinghiò a lei. Liv si protese verso il telefono sul tavolino. «Ora parlo con Walter» disse. «Verrà a stare con noi. Domani torneremo a casa.» Travis alzò il visetto. «Bene» disse. Liv accostò il ricevitore all'orecchio e comprese che la linea era interrotta. Capitolo XI Scontro sanguinoso Montaggio preliminare numero 5 Di nuovo è notte, i fiocchi di neve si sciolgono sull'asfalto e sulle vetrine del bar buio, poi tornano a congelarsi formando uno straterello fragile e sottile che galleggia su una pellicola d'acqua e che, pertanto, si screpola e si muove insieme con l'acqua, un interessante esempio di tettonica microcosmica. I lampioni baluginano sul bagnato scivoloso. La strada è deserta quanto il bar. L'insegna al neon è ricoperta da una crosta di neve instabile, simile a un qualcosa che sia emerso dal fondo dell'oceano, incrostato dai sali e dai minerali che nel mare sembrano svilupparsi con la stessa facilità di organismi. La scialba ombra notturna di un uomo si posa, grazie ai lam-
pioni, simile a un fantasma, su un avviso scritto a mano e applicato mediante nastro adesivo al lato interno della porta a vetri: CHIUSO PER LUTTO. L'uomo-ombra oscura un angusto vicolo tra il bar e l'adiacente parcheggio che conduce, lungo una sfilata di bidoni per le immondizie e di scatole di cartone sfasciate, fino a una robusta porta di servizio sfregiata da cicatrici. L'uomo-ombra passa accanto ad essa e arriva all'angolo dell'edificio. Nel massiccio muro di cemento esiste una sola finestra, simile alla finestra di una cantina, ma molto più alta. Non è chiusa da un'inferriata, ma da un vetro spesso e ondulato. Il davanzale di cemento è profondo e inclinato verso il basso. L'uomo-ombra tasta il davanzale e poi si allontana. Torna pochi secondi dopo, con una cassa di legno trovata tra i rifiuti appena voltato l'angolo. È un trespolo precario. La cassa si spacca in modo udibile sotto il suo peso e lui si irrigidisce. Segue un lungo momento durante il quale l'uomo trattiene il respiro. Infine ricomincia a muoversi, con tanta cautela e delicatezza che i suoi movimenti sembrano stilizzati. Ha in mano un tagliavetro e con esso toglie la lastra di vetro ondulato in un sol pezzo. Mentre si accinge a scendere con cautela, la cassa cede, lui barcolla e per poco non lascia cadere il vetro. Ma si riprende, ritrova l'equilibrio e rimane immobile finché non ha la certezza di non essere stato visto da nessuno. Tolta di mezzo la cassa sfondata, spicca un balzo verso il davanzale, si afferra ad esso e si solleva attraverso l'apertura. All'altro lato di essa si lascia cadere in un'oscurità impenetrabile. Di nuovo aspetta, ansimando un po', a tutta prima, ma quasi immediatamente rallentando il ritmo del respiro, costringendosi ad inspirare e ad espirare adagio e silenziosamente, A tempo debito, si consente alcuni secondi di luce mediante il sottile pennello luminoso di una minuscola lampadina tascabile. In quei pochi secondi di luce scorge l'intera stanza: un rettangolo dall'alto soffitto che contiene tre orinatoi e due sgabuzzini senza porta. Il pavimento è a piastrelle, le pareti sono sudicie e ricche di graffiti, ma in quella luce tenue gli scarabocchi sembrano astrazioni illeggibili. Né si riesce a discernere il colore delle piastrelle e delle pareti. La lampadina tascabile mostra la stanza in chiaroscuro, come la tetra istantanea in bianco e nero di una scuola di fotografia artistica ispirata dal principio il-tetro-e-ilvolgare-sono-la-realtà. L'uomo-ombra attraversa la stanza. Infila la mano sotto la giacca, in prossimità del cuore, e quando la toglie ha in essa qualcosa di nero e di duro. Scivola fuori della porta. Ora fa conto sulla visione notturna e su un
senso del tatto incredibile come quello di un cieco per orientarsi in quella terra di nessuno minata da casse di liquori. Una porta a molla, aperta molto adagio, una frazione di centimetro alla volta, gli consente di entrare nel bar. Lì la luce dei lampioni filtra all'interno e delinea il locale; il banco del bar a forma di ferro di cavallo visto da dietro, le grandi vetrine rettangolari con le insegne al neon, i nomi scarabocchiati in nero a rovescio su di esse, gli spigoli rotondi dei tavolini, le spalliere delle sedie, gli spigoli dei séparé lungo le pareti e la tenebra in essi. L'uomo-ombra scivola, rannicchiato su se stesso, attraverso la porta a molla ed entro la u del banco del bar. Lì rimane accosciato per lunghi momenti. Non può vedere niente, ma può ascoltare e il banco del bar lo protegge su tre lati. Un baluginare di luce, un riflesso dei lampioni stradali, scaturisce dall'oggetto che ha in mano. Nel silenzio sovrannaturale, l'uomo ode il proprio battito cardiaco, il proprio respiro. E poi il respiro di qualcun altro. V'è un fruscio all'altro lato del locale, proveniente dai séparé, ed egli si appiattisce sul pavimento e striscia intorno al banco del bar. Le orecchie tese per udire un qualsiasi suono che possa rivelare la posizione dell'altro, l'uomo è adesso un serpente sul punto di colpire. E poi sente il gelo del metallo contro la nuca. «Non muoverti, figlio di puttana» ringhia l'altro. L'uomo-ombra si irrigidisce, poi, rilassandosi all'improvviso, si affloscia. Tende adagio la mano sinistra, che tiene mollemente la pistola. «Hai vinto, bastardo» dice a voce alta e ride e si gira supino e afferra la canna della pistola e la punta verso l'alto con tutte le sue forze. Lo sparo, quando la pallottola esce dalla camera di scoppio, è assordante. Ma la pallottola è diretta verso il soffitto e non può fare alcun male. L'uomo-ombra strappa, torcendola, la pistola dalla mano dell'altro e la gira per cui adesso l'arma è puntata contro il suo aggressore. Poi l'uomo-ombra accende la minuscola lampadina tascabile e rivela la faccia di Ratcliffe, il poliziotto di pelle nera. «Ah, Ratty» dice l'uomo-ombra e la sua voce e il suo accento rivelano che si tratta di Denny. «Fottimadri» dice Ratcliffe. Denny ride. «Sapevo che saresti stato qui, Ratty.» Ratcliffe tace per un secondo, poi dice: «Vorrei averti fatto scoppiare quel testone da fottimadri.» Denny ridacchia come per rimproverarlo benevolmente. «Dov'è il tuo
senso del cameratismo, Ratty? Ci siamo coinvolti tutti e due in questa storia, sai.» «Un corno se lo siamo» dice Ratcliffe. «Il guaio lo hai combinato tu, sei stato tu a metterci sul gobbo l'Uomo. Si dovrebbe pestarli a te i coglioni.» La sicura dell'arma che Denny gli ha tolto scatta. «Tieni» dice Denny. Volta verso di sé la canna dell'arma e la porge a Ratcliffe. «La tua pistola, compare. Non sono un tuo nemico, Ratty.» Ratcliffe si sporge per riprendersi l'arma. «Come sapevi che sarei venuto qui?» Denny sorride. «Sei stato tu a insegnarmi che il posto più sicuro era sotto una catasta di cadaveri. Eri il più abile combattente della giungla che abbia mai conosciuto.» La mano di Ratcliffe scatta fuori dell'oscurità e afferra Denny alla gola prima che egli abbia potuto fare di più che alzare di taglio la destra per proteggersi. «Ti dirò un'altra cosa, pezzo di stronzo bianco» ringhia Ratcliffe. «Il meglio che potrei fare consisterebbe nel tagliarti la gola bugiarda quanto basta per farti avere due stupidi sorrisi invece di uno solo. L'Uomo, Court, sarebbe soddisfatto, allora, e mi lascerebbe in pace. Questa è una cosa che non ti ho mai insegnato, figliolo, perché di te non ci si può fidare. A volte il solo modo per sopravvivere, bello, consiste nel dare al nemico quello che vuole.» Denny rimase immobile sotto la mano di Rat. Ma ha gli occhi vividi. Scopre tutti i denti in un sogghigno carnivoro. «Ehi, Ratty» protesta «non ci credo.» «Sono più furbo di te» dice Ratcliffe. «La ragione è questa.» «Sì, forse è vero» ammette Denny. «In una cosa hai ragione.» «Quale sarebbe?» domanda Ratcliffe. «Non si tratta della tua rissa, Ratty» dice Denny. «La rissa è tra me e Court. E allora perché non lasci che la risolva io?» Ratcliffe molla la gola di Denny e indietreggia accosciandosi. «Court non lo sa ancora che è tra te e lui.» «Già» dice Denny, e stringe la mano intorno alla pistola e l'alza lungo un arco al rallentatore mentre Ratcliffe reagisce e si tuffa sotto ad essa; ma Denny afferra con l'altra mano la pistola di Ratcliffe, il quale perde la presa su di essa mentre la pistola di Denny si abbatte, colpendolo alla tempia, con lo stesso suono di una mela che piomba su un pavimento di legno, e Ratcliffe si affloscia.
Denny si solleva sopra di lui. «Ma non glielo dirai mai, a Court, che la rissa è tra lui e me, signor Onnipotente e Scaltro Negro, non abbastanza scaltro.» E si china accanto alla testa di Ratcliffe e dopo preme il grilletto. Nell'oscurità all'aperto i tre scooter ringhiavano tra ondulati veli di neve. I fasci di luce dei loro fari non illuminavano realmente le tenebre, ma piuttosto le miriadi di fiocchi di neve, tanti di quei fiocchi da formare un velo simile a garza davanti agli occhi, sebbene fossero più che altro come ragnatele che si scioglievano pungenti e gelide sulla carne nuda. Meri frammenti trasparenti, resi concreti dall'infinità del loro numero, riflettevano la luce e al contempo l'assorbivano. Risucchiavano tutta la luce nella loro struttura cristallina, finché sembravano non tanto specchi quanto fonti luminose, galassie riversate nello spazio e fotografate in bianco e nero, fotografie scattate all'esterno dell'atmosfera distorcente del pianeta. L'oscurità della notte era soltanto il vuoto, come lo spazio esterno, e la neve lo riempiva. Un vento frenetico spingeva la neve in tutte le direzioni contemporaneamente. Gli scooter si fermarono, accostati l'uno all'altro. I tre giovani si riunirono nella luce sovrapposta dei tre fari anteriori. Avevano i passamontagna abbassati per difendersi dal vento gelido e dilaniante. Istintivamente si accosciarono e accostarono la testa. «Non riesco a vedere un fottuto accidenti di niente!» sbraitò Ricky a Rand. Rand, mantenendo agilmente l'equilibrio, cacciò una mano dallo spesso guantone sotto la tuta e tirò fuori il pacchetto di sigarette e l'accendino. Dovette spingere la faccia sin quasi sulla fiammella, tenendo l'accendino sottovento al proprio corpo, per accendere la sigaretta. «È senza dubbio uno schifo di notte» disse, calmo. «Come lo troveremo Pa', in questa merda?» domandò Ricky. Gordy Teed mostrò il bianco degli occhi mentre si guardava attorno timoroso. «Non lo troveremo mai il vostro Pa', in questa merda» disse. Rand lo fissò. «Proprio così, Gordy. Meglio rifugiarsi in qualche posto finché non smetterà di nevicare.» «Ma Pa' ci cercherà» protestò Ricky. Rand fece cadere la cenere della sigaretta proprio dalla sua parte e Ricky trasali. «Pa' si sta scaldando il grasso deretano accanto al fuoco, non preoccuparti» disse.
Ricky spostò il proprio peso su una gamba sola e si guardò attorno. Non si vedeva più in là di un metro o due e la già scarsa visibilità cambiava ad ogni capriccio del vento. «Ma dove possiamo rifugiarci, Randy? Non riusciremo a vedere se stiamo andando avanti o tornando indietro.» Rand aspirò pensieroso la sigaretta prima di rispondere. «Meglio tornare là da dove veniamo. Non abbiamo fatto molta strada.» Gordy Teed rimase a bocca aperta. Un filo di saliva luccicò contro le radici maleodoranti dei denti di lui nella luce artificiale dei fari. Ricky ridacchiò. «Gesù Cristo, Rand. Ormai quella cagna avrà chiamato la polizia. O il marito, o il vecchio Walter, magari. Qualcuno in ogni caso.» «No, non ha chiamato nessuno» disse Rand. «Ho tagliato il cavo del telefono mentre voi due perdevate tempo per far partire gli scooter.» Ricky ululò e conficcò il gomito nel fianco di Gordy Teed. Gordy Teed sussultò. «Non ci voglio tornare là, Rand» piagnucolò. «Si sta al calduccio, là» disse Rand. «Non ci accoglierà a braccia aperte» osservò Ricky. «Lo sai. Dovremo entrare con la forza. Facendo questo ci cacceremo in un sacco di guai. Se non è già successo.» «Ma sentilo il cinico, piccolo bastardo» disse Rand. «La signora Russell è una buona cristiana. Non ci lascerà fuori a gelare in una notte come questa.» «Oh, sicuro» disse Ricky. «Spalancherà la porta e dirà: 'Entrate, amici. Vi andrebbe di bere qualcosa?'.» «Potrebbe anche darsi» disse Rand. Ricky ululò di nuovo. «Allora si offrirà di riscaldarci tutti e tre, è così, Rand? Di abbracciarci appassionatamente?» Rand esaminò il mozzicone della sigaretta. «Potrebbe essere.» «Me per primo» disse Ricky. Rand lo fissò. Ricky si mise in piedi e sferrò un calcio alla neve. «Sarò il secondo, allora.» «Ci cacceremo in un mucchio di guai» disse Gordy Teed. «Non è così?» Rand si alzò a sua volta e si scrollò la neve dalle spalle. «Se voi due fottuti animali vi comporterete come si deve, no, non avremo guai.» Gordy si rimise in piedi a fatica. «Per prima cosa, non dovrete agire come due barbari. Comportatevi co-
me persone civili. Tirate fuori i 'per favore' e i 'grazie'. Ficcatevi in quegli spessi crani che abbiamo a che fare con una donna sola con un marmocchio. Perché non ha il marito con sé? Perché non vanno d'accordo, ecco perché.» «E tu come lo sai?» domandò Ricky. Rand sorrise. «Glielo fiuto addosso» disse. Ricky ridacchiò beffardo. «Su quelle mutandine, eh?» «Sto dicendo che se giochiamo bene le nostre carte, lei potrebbe essere davvero gentile con noi. Con uno di noi, o magari con tutti e tre. Soltanto, ricordate che l'idea è stata mia. L'ho scoperta io. Lo dico io chi se la gode.» «Hai tutta l'aria di avere l'intenzione di tenerla per te» disse Ricky, imbronciato. «E se anche fosse?» domandò Rand. «Ne ho il diritto, no?» «Ti comporti come se lo avessi» disse Ricky. «Parli come se lo avessi. Non è così?» «Proprio così, maledizione» disse Rand. «E che cosa farai, signor Pezzo Grosso, se griderà di essere stata violentata?» domandò Ricky. «Dovrà provarlo, stupido. Sarà la sua parola contro la nostra.» «Come con Loretta Buck?» «Come con la cara Loretta» riconobbe Rand. «Strillò parecchio, quella là, non è vero?» domandò Ricky, assalito da improvvise reminiscenze. «Su, andiamo» disse Rand. «Mi si stanno proprio gelando le palle.» Adagio tornarono indietro quasi alla cieca verso la sponda del lago, verso la casa estiva dei Russell. Lasciati gli scooter sulla neve alta della sponda, si avvicinarono alla casa il più silenziosamente possibile. Le tende erano state accostate e non riuscirono a vedere niente all'interno. «Che cosa facciamo, adesso?» bisbigliò Ricky a Rand. «Sfondiamo una finestra?» «Sei davvero un fottuto barbaro» disse Rand, sprezzante. «Busseremo alla fottuta porta.» «Oh, certo» disse Ricky. «Voglio proprio vedere.» I tre giovani arrancarono intorno alla casa fino alla veranda posteriore. Rand aprì la porta doppia e, con noncuranza, bussò alla porta interna. Voltò la testa per rivolgere un rapido e vivido sorriso a Ricky. Liv udì bussare dal bagno ove stava aiutando Travis a lavarsi. Intensificando spasmodicamente la presa sulla saponetta, il bambino alzò gli occhi
innervosito. «Forse è Walter, venuto a vedere se tutto è tranquillo» disse Liv. Il sollievo apparve negli occhi del bambino. «Forse è Papi» disse Travis. Liv si chinò per scostargli i capelli dalla fronte chiara e ampia. «Vado a vedere» disse. «Tu non stare a preoccuparti, okay?» Travis annuì e conficcò le unghie nella saponetta. Liv si asciugò le mani sui jeans e si costrinse ad uscire dal bagno riscaldato e bene illuminato. Esitò, poi spense la luce nell'ingresso e si diresse, nell'oscurità, verso la porta di servizio. Non poté fare a meno di sbirciare innervosita a destra e a sinistra e di aggirare adagio gli angoli. Sebbene fosse lieta di avere accostato le tende in modo che nessuno potesse vederli, si sgomentò, al contempo, rendendosi conto di non poter vedere niente all'esterno. Non aveva modo di sapere sé qualcuno stesse girando furtivamente intorno alla casa. Non si riusciva a sentire niente a causa degli ululati del vento e dei cigolii della casa che opponeva resistenza alle raffiche. Passò davanti alla porta di servizio ed entrò in cucina senza accendere la luce, poi si accostò alla finestra che dava sulla veranda posteriore. Naturalmente, aveva lasciato la luce accesa quando lei e Travis si erano recati al villaggio, sapendo che al loro ritorno avrebbe già fatto buio, e adesso la lampadina continuava ad essere accesa. Per un attimo credette di essere sul punto di svenire, sentì il cuore darle un balzo, vedendoli, e poi ecco che Rand la stava fissando alla luce della veranda. Liv rabbrividì e indietreggiò. Aveva voluto credere che fosse stato il vento a spezzare la linea telefonica, ma adesso ecco che i giovinastri erano di nuovo lì. Facendo un altro passo indietro e uno di lato, spense la luce sulla veranda. Poi si irrigidì, incapace di respirare o di pensare al da farsi. Si augurò disperatamente di avere una pistola, poi ricordò i coltelli da cucina. Tornò indietro silenziosamente, cercò a tastoni, confidando nella memoria, il cassetto giusto e vi prese il trinciante. Si riavvicinò poi alla porta della cucina e aspettò. Quando la luce della veranda si spense, Rand bestemmiò sommessamente. Ricky cominciò a bestemmiare a voce alta. Rand gli pestò un piede e lui chiuse il becco. Gordy Teed uggiolò. «Non ci farà entrare» bisbigliò poi, speranzoso, a Rand. «Andiamo a rifugiarci in qualche altro posto. Dalla vecchia lesbica, magari.»
Rand lo ignorò e tornò a bussare, in modo più incalzante. Quando nessuno venne ad aprire, bussò ancora e gridò: «Signora Russell, non vogliamo farle alcun male. Stiamo gelando, signora Russell. Non vuole consentirci di adoperare il suo telefono, soltanto questo, per avvertire mio padre e dirgli che venga a prenderci?» Ricky gli diede di gomito, ridacchiando. Rand gli pestò di nuovo il piede, più forte, e lui indietreggiò, zoppicando e borbottando. Dall'altro lato della porta, Liv si sforzava di respirare. Se il giovinastro non sapeva che la linea telefonica era interrotta, forse non era stato lui a tagliarla. O forse stava cercando di ingannarla. In ogni modo non si poteva telefonare e lui non sarebbe stato in grado di parlare con Arden Nighswander anche se gli avesse aperto la porta, e pertanto perché avrebbe dovuto aprirgli? Non poteva dirgli, però, che la linea era interrotta, a causa di quello che lui avrebbe potuto fare sapendola completamente isolata dal mondo esterno. D'altro canto, se già lo sapeva, se era stato lui a tagliare la linea, avrebbe fatto in ogni caso quello che voleva. Avrebbe sfondato la porta entrando con la forza. E poi? Non sopportava neppure di immaginarlo. Rand tornò a bussare. «La prego, signora Russell. Ci smarriremo, in questa tormenta. Potremmo morire congelati.» Lei chiuse gli occhi, ma non vide nulla con maggior chiarezza. Una donna con un bimbetto, spaventata e sola, aveva il diritto di rifiutare un riparo ad estranei, a qualcosa di peggio che estranei, a nemici? E se davvero fossero morti di freddo? Si sarebbe trattato di assassinio? No, di omicidio colposo, decise. Sì, sarebbe stato omicidio preterintenzionale e si finiva in prigione per questo, anche essendo la madre di un bimbetto. Anche se gli individui finiti all'altro mondo erano ladri e vandali o peggio. Non udì sguazzare nell'acqua, né i piccoli passi sulle piastrelle del bagno, né la porta del bagno che si apriva. All'improvviso, ecco materializzarsi nel corridoio buio un piccolo fantasma nudo, scivoloso e gocciolante acqua e schiuma di sapone sulla passatoia. «Mammina?» disse Travis, con un tremito nella voce. Lei posò il trinciante sul piano di lavoro dietro di sé, si chinò e tese le braccia. Stringendo il corpo scivoloso di suo figlio, sentendo la rotondità del torace, la robustezza del bambino, pensò: Sono ridiventata mammina, per la prima volta da quando aveva tre anni, ed è bastato spaventarlo quasi a morte.
Pugni piombarono irosamente contro la porta e loro due trasalirono. «Signora Russell» urlò Rand. «Stiamo gelando!» Travis si avvinghiò a lei freneticamente. «Sono loro» disse, e il terrore nella voce del bambino la decise. Lo strinse forte, poi lo spinse verso il corridoio. «Torna nel bagno» bisbigliò. «Chiudi la porta a chiave. Non aprire finché non verrò io a dirtelo.» Il bambino annuì. «Non lascerai che ti facciano del male, vero?» bisbigliò a sua volta. «No» rispose lei. «Ora va'.» Travis si allontanò nell'oscurità del corridoio. Lei riprese il coltello ed aspettò. «Non la beve» disse Ricky, e sogghignò allegramente. A labbra strette, Rand picchiò il pugno sul palmo sinistro. Non voleva guardare Ricky. Indietreggiò fino al termine della veranda e fissò la porta. Abbassata la testa stizzosamente, si riavvicinò a passi silenziosi alla porta e vi poggiò su i palmi pesantemente. Abbassò gli occhi sui propri stivali e sul pavimento della veranda. Chiuse le mani a pugno. All'improvviso alzò la testa di scatto e picchiò i pugni sulla porta, infuriato. «Fammi entrare, cagna!» urlò. «Fammi entrare!» Continuò a picchiare i pugni sulla porta per circa un minuto. La porta vibrava e si incurvava sotto la violenza dei colpi. Poi Rand smise e reclinò il capo contro di essa, origliando. Entro la casa non vi fu alcuna reazione. Lui si scostò dalla porta e girò sui tacchi. «Venite» borbottò e si precipitò selvaggiamente giù per gli scalini nel turbinio della neve. Ricky fece una spallucciata e lo seguì. Gordy Teed emerse dal buio dietro di loro, come un cane bastardo con la coda tra le gambe. Dietro ai tre la doppia porta sbatteva nel vento. Liv rimaneva accovacciata dietro la porta, trasalendo ad ogni colpo. Ascoltava Rand con un lieve sorriso, più che altro una bravata. Per qualche tempo, dopo aver capito, dai tonfi pesanti degli scarponi sulla veranda, che se n'erano andati, non riuscì a muoversi. Poi strisciò verso la finestra e sbirciò fuori. La veranda era deserta, colma soltanto di oscurità e di neve spinta dal vento. Si affrettò a recarsi nel soggiorno e scostò appena le tende. Poté scorgere una luce offuscata sulla sponda, i fari degli scooter da neve, poi il tossicchiare capriccioso di un motore tra gli ululati del vento. Liv lasciò ricadere
la tenda e si afflosciò contro di essa. Le doleva lo stomaco ove era stata colpita con un pugno, ma anche perché aveva trattenuto a lungo il respiro. Le dolevano inoltre le radici dei denti a furia di serrare spasmodicamente le mascelle. Le dita che avevano stretto l'impugnatura del coltello erano irrigidite. Lo mise con dolcezza nella nicchia più vicina del caminetto. Si massaggiò poi la mascella, deglutì a fatica e si affrettò verso il bagno. Bussò sommessamente alla porta e mormorò: «Travis, sono io.» La serratura scattò e Travis, avvolto in un asciugamano, aprì la porta e si gettò tra le sue braccia. Lei lo strinse a sé e gli arruffò i capelli. «Ehi» disse, fingendo un'allegria che non provava affatto, «è tutto okay.» Il bambino le si rannicchiò contro ancora di più. «Se ne sono andati?» domandò. «Sì» rispose Liv. «Sono andati via.» Lo avvolse meglio nell'asciugamano, che si era scomposto. «Devi aver freddo. Sarà meglio rivestirti» disse. Pensò che il ritorno immediato alla routine sarebbe stato rassicurante, e aveva ragione. Il bambino le consentì di finire di asciugarlo senza protestare, poi si lasciò avvolgere di nuovo nell'asciugamano e portare in braccio lungo il corridoio fino alla sua camera da letto. Dietro la porta della camera da letto l'oscurità non era proprio assoluta; la luce del cuore di E.T. rimaneva accesa, piccola e opacamente rosea, accanto al letto di Travis. Fa freddo si disse Liv, non appena lo sentì. Fa freddo qui dentro. Esitò sulla soglia. Travis si irrigidì contro di lei. Dalla penombra, Rand balzò loro addosso. Vi fu un attimo in cui lei urlò, un suono senza sillabe, del tutto animalesco, e al contempo un suono emotivo che fu come una terribile lacerazione e uno strappo, mentre Rand la faceva stramazzare. Travis strillò insieme con lei. Liv cercò di voltarsi, di interporsi fra Travis e Rand, mentre il peso di Rand li scaraventava all'indietro, nel corridoio, dapprima contro la parete opposta, poi sul pavimento, e riuscì a far sì che il bambino rotolasse via. Travis si rimise in piedi e balzò un po' più in là. «Scappa!» urlò lei. Si dibatté contro Rand, torcendosi e divincolandosi per cercare di sottrarsi al suo peso mentre lo martellava con i pugni. Una
delle mani di lui le afferrò i capelli e le arrovesciò la testa, mentre l'altra, piazzata sotto il mento, spingeva all'insù. Con la nuca lei urtò il pavimento e vi fu un'esplosione di tenebre. Fiocamente, udì Travis gridare e sentì il peso del bambino mentre balzava inaspettatamente su Rand e Rand perdeva l'equilibrio e l'intero peso morto di Rand finiva su di lei insieme con quello di Travis, tra imprecazioni, e il gomito di Rand le urtava il mento e lei perdeva i sensi del tutto. Arden Nighswander si appoggiò al pilastrino sbilenco della veranda posteriore e pisciò a getti interrotti nella tormenta. Sogghignò per il dolore, scoprendo il ponte anteriore fino alla gengiva, con una smorfia che si sarebbe prestata alla maschera di un teschio, la vigilia d'Ognissanti. In seguito avrebbe sentito un dolore sordo e terribile all'inguine, ma questo era una bazzecola in confronto alla sofferenza che provava con la vescica piena o al bruciore che lo torturava facendo acqua. L'urina di lui era dello stesso colore del caffè non troppo forte lasciato sedimentare per qualche tempo e poi mosso e reso torbido dai sedimenti. Era così da alcuni mesi. Ma lui teneva la cosa per sé, dicendosi che i medici del servizio sanitario pubblico a Togus erano tutti ciarlatani, e che i medici da pagare di tasca sua (sebbene in realtà non li pagasse mai, a meno che non vi fosse costretto da una sentenza del pretore) erano ancor più somari. Soltanto Jeannie lo sapeva perché lo udiva bestemmiare di notte all'altro lato della parete di assi di legno che separava la loro camera da letto dal bagno. Loro due conoscevano le abitudini di tutti quanti nella casa, distinguevano i ragazzi dal momento, dalla durata e dalla frequenza dei loro movimenti, li riconoscevano dai suoni caratteristici del loro stiracchiarsi e grugnire, distinguevano persino il suono frusciante delle pagine delle riviste pornografiche sfogliate che crepitavano poi lievemente mentre Ricky o Gordy si masturbavano. Perlomeno le camere da letto dei ragazzi, quella grande, di Rand, e la più piccola e disordinata condivisa da Ricky e da Gordy, si trovavano al lato opposto della casa, per cui Jeannie e Nighswander non dovevano udire quello che vi accadeva di notte. Rand vi faceva entrare donne; vi aveva fatto entrare donne sin dall'età di quindici o sedici anni. Jeannie aveva protestato una sola volta, togliendo dal suo letto un lenzuolo sporco di sangue e mostrandolo al padre di Rand. Data un'occhiata al lenzuolo, Nighswander si era messo a sghignazzare, rifilando scherzosamente un pugno alla spalla del ragazzo.
«È abbastanza avanti negli anni?» aveva domandato. «Se è abbastanza avanti negli anni per pisciare ha l'età giusta per me» era stata la risposta di Rand, data con un sorriso. Nighswander aveva sghignazzato e si era grattato il petto. «Sto invecchiando. Un tempo le sverginavo io.» I ragazzi avevano doverosamente riso, scambiandosi occhiate come per dire: «Eh, figurati.» Nighswander si era voltato a un tratto verso Jeannie. «Be', perché continui a tenermi sotto il naso quel lenzuolo sporco di topa? Si direbbe che il sangue sia tuo e dimostri che l'hai conservata per le nozze. Ma naturalmente tu dovresti simularlo, non è così?» Era scoppiato a ridere e questa volta i ragazzi avevano riso insieme con lui senza riserve. Tranne Gordy, rosso in faccia, con un'aria confusa. Anche Jeannie era arrossita, affagottando il lenzuolo. «Non è una cosa giusta» aveva borbottato. Le sembrava che vi fosse troppo sangue, più di quello che ricordava della sua prima volta, avvenuta, a dire il vero, sul pianale del camioncino Ford '51 di Harry Teed, prima che lui diventasse suo marito. Altre spiegazioni, ad esempio che Rand fosse stato inutilmente brutale, o che non si trattasse in realtà del sangue della prima volta, ma di sangue mestruale, non le erano venute in mente. Jeannie era riservata come tutte le contadine per quanto concerneva i suoi mestrui. Al primo marito non ne aveva mai parlato tranne prima del matrimonio, sulla cabina di guida del camioncino Ford '51, quando, imporporandosi in viso, si era decisa a dirgli che non le venivano da due mesi. Dopo che la birra gli era andata di traverso, il padre di Gordy l'aveva fissata irosamente domandandole se fosse proprio sicura. E poi, dopo il suo mesto sì, aveva voluto sapere se fosse proprio sicura che il padre era lui, sebbene ne avesse già l'assoluta certezza. Di nuovo lei si era limitata a rispondere con un mansueto sì, addolorata, ma aspettandosi di esserlo, in quanto presumeva che egli avesse il diritto di offenderla con quella insinuazione di promiscuità. Lo esigeva il suo orgoglio di uomo. Nighswander inorridiva schizzinoso alla vista del sangue mestruale e lo disprezzava. Lei aveva finito con l'aspettare ansiosamente il giorno del mese in cui poteva dirgli a voce bassa: «Il periodo del mestruo si avvicina, devo andare a Greenspark per comprare quello che mi necessita» e lo vedeva arricciare le labbra per il disgusto e poi frugarsi in tasca e darle il denaro, il solo denaro in contanti che vedesse mai, in quanto ad ogni altro acquisto
provvedeva lui. Poi egli la portava in macchina a Greenspark e rimaneva seduto sull'automobile davanti alla farmacia, aspettando che comprasse il necessario. Era un'occasione per guardare i rossetti e i profumi esposti sul banco dei cosmetici, nonché le riviste dai colori vistosi e la misteriosa superfluità di altri prodotti come shampoo e dentifrici e aspirine e creme per la pelle, tutte cose che loro non vedevano mai, in quanto Nighswander comprava a litri, dai commissari del governo, uno shampoo che sapeva di catrame, e bicarbonato di soda per lavarsi i denti, e niente altro; diceva infatti che non avevano bisogno di simili cianfrusaglie. Era soltanto un'occasione, quella, e lei non osava indugiare, ma si limitava ad acquistare il necessario, scoccando occhiate nervose ed avide ai lussi che non le erano consentiti. Il tragitto di ritorno a casa, come quello fino a Greenspark, si svolgeva nel più assoluto silenzio. Poi, naturalmente, non appena il mestruo cominciava Nighswander la lasciava in pace finché lei non gli diceva che era finito, mentendo a volte per assicurarsi un giorno di grazia in più. Lui, del resto, non la cercava mai, se non quando era ubriaco, e in quelle occasioni il più delle volte diventava impotente, sebbene nessuno dei due avesse mai posto in rapporto le due cose. Jeannie sapeva soltanto che, in una certa fase della sbornia, lui cominciava a brancicarla, ma il più delle volte tutto finiva in niente tranne le botte perché non era riuscita ad eccitarlo a sufficienza. Nighswander le diceva chiaramente che la colpa era sua, l'accusava di essere brutta e vecchia, e lei sapeva che tutto questo era vero. Aveva perduto le attrattive di un tempo, quando era stata giovane e fresca, e i grossi seni che in passato avevano attratto il padre di Gordy e poi Nighswander erano ormai cascanti e rugosi, come tutto il resto di lei. Il fatto che Nighswander fosse invecchiato non meno antiesteticamente non rivestiva importanza per nessuno dei due. Jeannie sapeva che lui aveva altre donne quando riusciva a trovarle. Le donne che egli pescava nei bar o agli angoli delle strade, quando si recava a Portland o a Boston per affari - vale a dire invariabilmente per presentare qualche reclamo contro l'Amministrazione dei Veterani - erano, nel migliore dei casi, sgualdrine e nel peggiore vere e proprie prostitute, della più infima categoria, spremute quanto lei o ancora di più e per giunta non pulite come lei si vantava di essere. Ala non si era mai lagnata per questo, nemmeno quando aveva dovuto essere curata per lo scolo che lui si era beccato da una di quelle donnacce, per poi contagiarla. L'aver impestato sua moglie non era stato affatto imbarazzante per Nighswander; anzi, egli
si era avvalso della cosa come di un pretesto per accusarla di essergli infedele e per riempirla di botte. Jeannie sapeva - lo aveva sempre saputo, sebbene ignorasse la fonte di quelle informazioni - che gli uomini erano diversi: avevano bisogno di più sesso e di svariate donne, non si sarebbero mai potuti accontentare dei soli rapporti coniugali. Questo la faceva sentire meno in colpa per quanto concerneva i suoi fiaschi come oggetto sessuale e per quanto concerneva il sollievo che provava essendo lasciata in pace. Qualsiasi cosa egli potesse dirle, o dire di lei, Jeannie sapeva di essere una donna onesta, anche se al suo primo matrimonio non era arrivata vergine. Una prova non trascurabile di questo consisteva nel fatto che non si era mai goduta l'atto sessuale. A quanto ne sapeva lei, le sole donne che godessero, o che ammettessero di godere, erano bagasce. Persino il disprezzo di Nighswander nei suoi riguardi quando aveva il mestruo era sopportabile, non soltanto perché naturale e giusto, in quanto lei stessa si sentiva sudicia in quei periodi, ma anche perché meritava il disprezzo di lui essendo lieta di averle. Ora Nighswander fece scorrere la lampo dei pantaloni con mani tremanti e rientrò. L'orologio alla parete segnava le cinque e mezzo. Fuori tutto era più nero e più gelido dell'inguine di una strega. Egli avrebbe dovuto andare ad aspettare i ragazzi al pontile vicino a Narrows, ma non sarebbe riuscito a vedere più in là del cofano dell'autocarro tanto la neve veniva giù fitta e tanto il vento soffiava violento. Jeannie alzò gli occhi dal tavolo. Stava sbucciando patate che lasciava poi cadere nel secchio ai propri piedi. Gli scoccò un'occhiata furtiva. Pensò che Nighswander aveva di nuovo una brutta cera. La vescica continua a dargli fastidi. Si dispiaceva per questo soltanto perché lo rendeva più intrattabile e più perfido, ma sapeva che se avesse insistito affinché si recasse da un medico, con ogni probabilità si sarebbe beccata un occhio nero come ringraziamento. «Vai a prendere i ragazzi?» gli domandò. «Cristo onnipotente!» esplose lui. «Non sono mica la Renna Magica.» Sputò contro la stufa. «C'è un dannato e fottuto inferno, fuori, donna.» Jeannie si asciugò le mani nel grembiule. «I ragazzi troveranno un riparo, no?» «Rand e Ricky lo troveranno di certo» disse Nighswander. «Ma Gordy non ha abbastanza buon senso per cavarsela.» «Oh, andiamo» disse Jeannie. «Gli altri due baderanno a lui.» Nighswander grugnì.
«Vorrei che non fossero fuori, però» disse lei. Si alzò e scostò la tenda per guardare fuori della finestra. Rabbrividì. «Non riesco a capire perché si siano ficcati in testa di andare proprio oggi, con le previsioni del tempo così disastrose.» «La nevicata non doveva cominciare fino a stanotte» disse Nighswander. «Avrebbero avuto tutto il tempo.» Jeannie lasciò ricadere la tenda e lo fissò. «Per fare cosa?» gli domandò. «Tutto il tempo per fare cosa?» «Una corsetta nei boschi» scattò Nighswander. «È forse un fottuto affar tuo?» Walter McKenzie eliminò l'ultimo sugo di fagioli dal piatto con un pezzo di pane e se lo ficcò in bocca. Lo mandò giù con tè freddo e respinse il piatto per qualche centimetro. L'ingombro accumulatosi sul tavolo non gli consentì di spingerlo molto più in là, ma si trattava soltanto di un gesto abituale, del segnale con il quale faceva capire di aver terminato il pasto; lo aveva dato a sua moglie per decenni e continuava a darlo, sebbene da troppi anni lei non fosse più in vita e non potesse captarlo. Poi il vecchio si appoggiò comodamente allo schienale della sedia e scorreggiò sommessamente. Sul pavimento davanti alla stufa, la cagna Fritzie aprì un occhio. Sollevò il muso dalle zampe per un secondo, poi lo lasciò ricadere. Gemette. «Andiamo» disse Walter. «Ho sentito anche troppo la puzza delle tue, che è peggiore di quella delle mie.» Fritzie richiuse l'occhio e brontolò di gola. Walter portò i piatti nell'acquaio e li sciacquò. La finestra dietro l'acquaio era appannata dalla brina tramutatasi in ghiaccio. Il vento ululava nel comignolo e la casa vibrava. «Tempaccio da cani, là fuori» disse Walter. Fritzie russò. L'orologio a pendolo appeso alla parete, sopra il fornello a gas, suonò l'ora. Erano le sei del pomeriggio. Walter si asciugò le mani con un antiquato e sudicio asciugamano a rullo, poi percorse il corridoio fino al tavolino sul quale, sopra una ingiallita tovaglietta di pizzo, si trovava un telefono nero risalente a trentacinque anni addietro. Non esisteva alcuna sedia davanti al tavolino; Walter McKenzie faceva le telefonate restando in piedi. Si serviva del telefono soltanto per ricevere e trasmettere messaggi, non per chiacchierare. Le chiacchiera-
te erano gratuite nell'ufficio postale, nella tavola calda o quasi ovunque, tranne che al telefono. Sollevò il ricevitore e pescò, nella tasca posteriore dei calzoni, il piccolo taccuino rilegato in cuoio marrone nel quale annotava i numeri di telefono. Borbottando tra sé e sé le necessarie cinque cifre per aiutare la memoria, rimise il taccuino nella tasca e formò il numero della casa estiva dei Russell. Aspettò paziente, con il ricevitore accostato all'orecchio. Il segnale era disturbato dal maltempo infunante. Si udirono ticchettii e crepitii. Poi un silenzio prolungato ed assoluto poiché anche il segnale scomparve. Walter si accigliò. Formò il numero del centralino e chiese che gli venisse passata la comunicazione con i Russell. Dopo un minuto il centralinista tornò in linea e gli disse che il numero non rispondeva per un guasto. Walter tornò ciabattando in cucina e spostò in avanti il bricco del tè sulla stufa a legna, scrollandolo un po' per farsi un'idea della quantità d'acqua che conteneva. «Il telefono della signora Russell è guasto» si rivolse a Fritzie. Fritzie si girò nel sonno e rimase supina. I peli che aveva sul ventre erano radi e bianchi. La mascella le penzolava un poco. Walter percepì l'odore dell'alito della cagna. Era spaventoso. Tenne le mani sopra la stufa e le stropicciò nel crescente tepore. «La cosa non mi va molto a genio, vecchia mia» mormorò. Toltosi di tasca un fazzoletto appallottolato, si avvicinò alla finestra e pulì uno dei vetri appannati. Fiocchi piatti finivano contro il vetro dall'altro lato, si scioglievano e scendevano a rivoletti. Sembrava che l'oscurità fosse già fitta, fuori, come se mura fossero calate intorno alla casa. Walter si grattò la nuca. La signora Russell disponeva di legna in abbondanza, a questo aveva provveduto lui. Non si sarebbe dovuta trovare in difficoltà. Sperò che lei e il bambino non si spaventassero, tutti soli laggiù. Il bricco cominciò a sibilare. Lui si chinò su Fritzie e le massaggiò dolcemente il ventre. «Non appena farà giorno, vecchia mia» disse «andremo a dare un'occhiata.» Il primo telefono pubblico che Pat trovò a Greenspark era una cabina telefonica in un malconcio centro d'acquisti. Puzzava di piscio stantio. Inoltre il telefono era guasto, come lui poté constatare dopo che gli aveva divorato le ultime due monetine da dieci centesimi di dollaro. Schiaffò giù con violenza il ricevitore e tornò a gran passi verso la macchina, imprecando. Sarah lo aspettava rannicchiata nell'automobile.
«Il dannato apparecchio è guasto» borbottò lui. «Oh» disse Sarah. «Che bello.» A Greenspark tutti i negozi erano ormai chiusi. Nella Main Street niente era aperto, nemmeno il posto di polizia al pianterreno del tribunale; lì Pat scosse la maniglia della porta e chiamò senza alcun risultato mentre Sarah aspettava in macchina. La cittadina si trovava sotto l'incantesimo del sonno. Le case erano tutte buie; rimanevano accese soltanto le lampade nelle verande o le luci notturne nei bagni e nelle camere dei bambini, oscurate dalle tendine della brina, a loro volta velate dalla nevicata, per cui era quasi come se egli le stesse guardando da una grande distanza. Entro le case, la gente si trovava ben rimboccata a letto, al calduccio e al sicuro. Non avrebbe certo gradito un brusco risveglio né la necessità di andare ad aprire a uno sconosciuto facendo sfuggire il prezioso tepore. Eppure Pat non seppe che altro fare, tranne bussare alla porta di qualcuno e chiedergli il favore di servirsi del suo telefono finché non scorse l'arrugginita indicazione di un telefono pubblico di lato a una pizzeria. La pizzeria era chiusa come tutti gli altri locali della cittadina. Ma l'apparecchio telefonico si trovava all'esterno, applicato alla parete di cemento e protetto da una tettoietta di dura plastica. Appoggiando i gomiti alla stretta mensola sotto il telefono ed ingobbendosi, egli aveva la testa quasi completamente riparata dalla tettoietta, ma la neve si insinuava nel varco tra il colletto della camicia e il berretto di lana, scivolandogli giù per la schiena. Esaminò gli spiccioli che aveva in tasca ed infilò nella fessura un quarto di dollaro. Pur non spettandosi di ottenere il resto, aprì il palmo sotto l'apposita apertura. Mai in vita sua un telefono del New England gli aveva restituito il resto di un quarto di dollaro e il miracolo non avvenne nemmeno questa volta. Non soltanto doveva pagare venti centesimi di dollaro per una telefonata che in molte altre località del paese costava dieci centesimi, ma se le uniche monete di cui disponeva erano quarti di dollaro, i telefoni del New England si impadronivano di altri dieci centesimi in più, quelli che Liv definiva «Di Nuovo il Resto Sbagliato, Allocco, è una Tassa». Rabbrividì quando il rivoletto di neve sciolta e gelida gli arrivò alla vita. Altra neve gli si stava sciogliendo sulla punta del naso e sulle ciglia. Batté i piedi ed aspettò ed ascoltò i suoni del telefono, clic e tonfi metallici e voci spettrali di conversazioni su altre linee prima che un centralinista intervenisse per domandargli quale numero stesse chiamando, in un tono brusco e spazientito, insinuando che, senza dubbio, aveva sbagliato, no? Infi-
ne, a tempo debito, gli venne detto che la linea era interrotta. Lui si trovò in tasca un altro quarto di dollaro, ci rimise «Di Nuovo il Resto Sbagliato, Allocco, è una Tassa» e formò il numero di Walter McKenzie. Mentre aspettava di avere la comunicazione, si sfilò di tasca un fazzoletto piegato e lo scosse per aprirlo. Walter rispose a metà del secondo squillo. «Sì?» disse. «Spiacente di averla svegliata» disse Pat, e si soffiò il naso nel fazzoletto. «Eh?» domandò Walter. «Come dice?» Pat urlò: «Spiacente di averla svegliata.» Seguirono un silenzio, poi un tintinnio. «Merda» disse Walter. Un nuovo silenzio. Poi: «Mi sono caduti gli occhiali bifocali sul pavimento» spiegò il vecchio. «È lei, Russell?» «Sì» disse Pat. «Spiacente di averla svegliata, Walter.» «Sì, sì» disse Walter. «Anche a me dispiace che mi abbia svegliato. Vuole dirmi per quale motivo lo ha fatto?» «Non riesco a parlare con Liv» disse Pat. «Il telefono è guasto.» Walter grugnì. «Lo so. E per giunta la strada non è stata sgombrata dalla neve. La squadra della società dei telefoni non potrà riparare la linea fino a domani.» «Oh.» Pat si asciugò la punta del naso, poi si rimise il fazzoletto in tasca. «Senta» disse Walter «sua moglie ha legna per riscaldarsi, e candele e lanterne. Se la caverà. Non è il caso di stare a crucciarsi. Io andrò là per prima cosa domattina, con le racchette da neve, se necessario.» Pat annuì come se Walter avesse potuto vederlo. Voleva sentirsi dire dal vecchio che a Liv non sarebbe accaduto niente. «Spero che non siano troppo spaventati» disse. «Oh, sua moglie non si spaventa facilmente, ed avrà cura del bambino» disse Walter. «Adesso perché non se ne va a letto? Si faccia una dormita. Come me.» «Grazie, Walter» disse Pat. Walter riattaccò con uno scatto metallico. Pat agganciò il ricevitore e fece una spallucciata, per cui il colletto della camicia gli salì un poco sulla nuca. Walter non gli aveva domandato dove si trovasse e tanto meno se avesse una sistemazione per la notte. I motel di Greenspark e dei dintorni erano gremiti da sciatori durante le festività invernali. A Nodd's Ridge, ammesso che fossero riusciti ad arrivarvi quella notte, si trovavano soltanto due piccole locande che rimanevano chiuse da
ottobre ad aprile. Se non avessero potuto arrivare a casa, da Liv e da Travis quella notte, sarebbero stati costretti a tornare indietro, oppure a dormire sull'automobile. Ma stentava a reggersi in piedi; non ce l'avrebbe fatta a tornare indietro. Pertanto non avrebbero potuto fare altro che proseguire, oppure dormire sulla macchina. Perlomeno avevano buoni stivali caldi ed erano più che coperti. Tornò accanto a Sarah sull'automobile. «Walter dice che il nostro telefono è guasto, ma è sicuro che Ma' e Travis stiano bene. Hanno legna e candele e provviste in abbondanza.» «Riusciremo ad arrivare là questa notte?» domandò Sarah. Pat esitò. «Voglio provarci. La cosa peggiore che potrebbe capitarci consisterebbe nel dormire in macchina.» «Oh» disse Sarah. Poi alzò le spalle. «L'estate scorsa ho passato una notte in tenda mentre infuriava il temporale. Non mi sono sciolta.» Pat si sporse per prenderle la mano e stringergliela. «Brava figliola» disse. Ma, naturalmente, il pericolo non consisteva nella possibilità di sciogliersi, bensì in quella di morire congelati. E così ripartirono, adagio, verso la strada rialzata Pondicherry e Nodd's Ridge. Si trovavano ormai sulla strada rialzata Pondicherry quando lui si rese conto, sonnacchiosamente, di non riuscire a scorgere i macigni che delimitavano i margini della rotabile. Non riusciva a vedere un dannato niente tranne la neve, bianca e bianca e bianca. Capitolo XII Liv riprese i sensi sul divano del soggiorno. Travis si trovava raggomitolato contro di lei, ancora completamente nudo e tremante. La stava fissando, con gli occhi terrorizzati. Le unghie del bambino le affondavano nelle braccia. Quando gli toccò il visetto pallido per asciugare le striature delle lacrime, un tremito lo percorse come se fosse stato investito da una corrente elettrica. Liv si guardò attorno. La Povera si trovava sul focolare, sdraiata su un fianco, e la stava fissando con occhi vividi e indecifrabili. Rand sedeva accanto alla gatta, avendo il fuoco alle spalle. Le maniche del maglione pesante di lui erano rimboccate fino ai gomiti, per cui sotto spuntava la maglia di lana. Suo fratello, Ricky, era stravaccato sul tappeto accanto a lui. Gordy rimaneva goffamente accoccolato su una sedia. Si pulì il naso con il dorso della mano, guardò che cosa ne era uscito, poi asciugò la mano sui jeans. I tre giovani si erano tolte le tute da scooter, gettandole sulle spallie-
re delle sedie. Avevano messo sul focolare gli stivali da neve, che ora stavano formando piccole pozze d'acqua. Indossavano tutti jeans e maglioni sopra le mutande e le calze di lana. Il tepore del fuoco faceva scaturire dagli stivali e dalle mutande l'odore del sudore, con un lieve sottofondo di orina stantia. Liv si sollevò su un gomito. «Il mio bambino ha freddo» disse. «Va a togliere una coperta da qualche letto» disse Rand a Ricky. Ricky si mise in piedi e scomparve. Rand si voltò verso Gordy. «Va a prendere quel bottiglione» disse. Gordy balzò in piedi e corse verso la cucina. «Porta anche qualche bicchiere» gli gridò dietro Rand. Ricky ricomparve con la trapunta del letto di Travis. Goffamente, la porse a Liv. Lei l'afferrò con una mano sola, tenendo Travis con l'altra, poi l'avvolse intorno al bambino. Fissò irosamente Rand. La furia della donna lo eccitò. Gordy tornò indietro con il bottiglione di vino Gallo e una pila di bicchieri da bibita. Rand esaminò i bicchieri con un'aria critica prima di prenderne due; mentre Gordy sgattaiolava di nuovo verso la sua sedia. Rand attraversò la stanza e si accovacciò accanto a Liv per porgerle un bicchiere con un po' di vino rosso. «Su, beva» disse. «Si sentirà meglio.» Lei accettò il bicchiere. Rand passò il bottiglione a Ricky, che subito se lo portò alla bocca. Rand gli rifilò una gomitata nel fianco. «Ahi» si lamentò Ricky «mi hai fatto male, Rand.» Ma abbassò il bottiglione. «Dammi un bicchiere» ordinò a Gordy. Gordy lo fissò, fissò i bicchieri che aveva in mano, poi si affrettò a passarne uno a Ricky. Ricky si rimise a sedere sul pavimento, servendosi del focolare come appoggio per la schiena. Quando Gordy porse l'ultimo bicchiere rimastogli, Ricky vi versò vino, poi tenne il bottiglione in equilibrio contro l'inguine. «Bene» disse Rand. Si espresse in tono sommesso e serio. Sempre rimanendo accosciato, si sistemò più comodamente e ficcò le mani unite tra le cosce. «Mi spiace se l'abbiamo spaventata. Ma lei avrebbe dovuto farci entrare. Si potrebbe morire congelati all'aperto, stanotte» la rimproverò con un sorriso. «Non è stato un comportamento da buona vicina, il suo, O-livi-a.» Liv bevve un altro sorso di vino. Era asprigno, ma la rinfrancò e fece sì
che non si sentisse più la gola stretta. «Lei non è un mio vicino» disse. «Lei è un barbaro.» Rand arrovesciò la testa all'indietro e rise. «Non sto cercando di essere gentile?» Liv trasse Travis un po' più accanto a sé. «Ha terrorizzato il mio bambino già due volte, ormai. Mi ha aggredita per due volte. Per due volte si è introdotto con la forza in casa mia.» «Sì» disse Rand. «Le chiusure delle sue finestre fanno schifo, sa» le confidò, come se fosse il capo di un ufficio municipale creato per l'occasione, Pubblico Collaudo delle Chiusure. Ricky Nighswander ridacchiò e tornò a riempirsi il bicchiere. Liv chiuse gli occhi, spossata. Travis le strinse la mano e lei ricambiò la stretta. Aveva un dolore tormentoso alla mascella. Si sentiva contusa dappertutto. Ma doveva sforzarsi di migliorare il più possibile la situazione. Trasse un profondo respiro e aprì gli occhi. «Senta» disse a Rand. «Ormai siete entrati. Non vi voglio qui, ma non posso costringervi ad andarvene. Posso soltanto chiedervi di comportarvi da esseri umani civilizzati finché resterete. Non voglio che il mio bambino si spaventi di nuovo. Quindi lasciateci in pace, lasciateci alle nostre normali abitudini ed io non farò storie quando questa faccenda sarà finita. Non vi denuncerò per esservi introdotti con la forza in casa mia e per avermi aggredita.» Rand si stropicciò le mani sulle cosce. «Non potrei chiedere un accordo migliore di questo, O-liv-i-a.» Voltò la testa, guardando Ricky e Gordy. «Giusto, ragazzi?» «Giusto» gli fece eco Gordy. «Sì» disse Ricky. Poi si sdraiò supino. «Ho fame» soggiunse, rivolto al soffitto. Rand sbirciò Liv con un'aria di aspettativa. «Non avrebbe forse qualcosa da mettere sotto i denti per noi, O-liv-i-a?» Liv si drizzò a sedere. Travis rimase avvinghiato a lei, che gli tenne un braccio intorno alla vita. «Prima quello che è più importante. Voglio infilare un pigiama a Travis. Poi vi darò da mangiare.» «D'accordo» disse Rand. Lei aggiustò meglio la coperta intorno a Travis. Poi si alzò adagio e con cautela, sempre tenendo stretto a sé il bambino, lottando contro il capogiro. Rand Nighswander si protese per aiutarla. Istintivamente Liv gli si sottrasse.
«Sto bene.» «Come vuole» disse lui, e sorrise a Travis, quasi stesse condividendo una battuta di spirito con il bambino. Liv ci avrebbe tenuto moltissimo ad aprirgli qualche vuoto nei denti bianchi e regolari. Irrigidì invece la spina dorsale e condusse Travis lungo il corridoio verso la sua camera. Alle spalle di lei, Rand disse: «Ricky, controlla la casa.» Liv girò sui tacchi irosamente. Ricky e Gordy erano già in piedi, sul punto di eseguire l'ordine di Rand. «Non rompete niente» li ammonì Rand. «Non si preoccupi per questo, O-liv-i-a. Voglio soltanto evitare sorprese, ecco tutto.» «Se avessi avuto un'arma in casa» disse Liv «mi creda, me ne sarei già servita.» Rand sorrise, indulgente, e fece cenno a Ricky e a Gordy di andare. I due si diressero verso la camera da letto di Liv. Lei prese per mano Travis e andò verso la camera da letto del bambino. Rand li seguì come se avessero avuto bisogno della sua protezione. Il corridoio parve a un tratto più lungo e più buio. Ad ogni passo avanti avevano più freddo. Gli asciugamani di Travis formavano un mucchietto aggrovigliato davanti alla porta della sua camera da letto. Sebbene stesse già costringendo se stessa a proseguire, Liv doveva per giunta trascinare Travis. Il bambino strascicava i piedi e si afferrava con una presa ferrea a una gamba dei suoi jeans. Una volta arrivata alla stanza, lei lasciò che restasse indietro. Aprì la porta con una piccola spinta, dicendo a se stessa che non c'era nessuno là dentro, che i mostri si erano già palesati e si trovavano alle sue spalle. La luce nel cuore di E.T. splendeva accanto alla scura forma da catafalco del letto di Travis. Il gelo la fece rabbrividire. Allungò il braccio nella quasi-oscurità, trovò l'interruttore e accese la luce. La stanza così rivelata parve nuda e piccola. L'unica finestra rimaneva spalancata e il davanzale era ancora incrostato dalla fanghiglia degli stivali passativi sopra. La neve finiva turbinando sul tappeto e vi si scioglieva. Il vento agitava le tende e sfogliava le pagine degli album a fumetti lasciati da Travis sul pavimento. I termosifoni elettrici vibravano cercando di lottare contro il freddo. Liv attraversò rapidamente la stanza e chiuse la finestra. La maniglia era distorta essendo stata forzata, spaccature serpeggiavano nel legno dell'intelaiatura. Travis sbirciò sua madre facendo capolino da dietro lo stipite. Lei gli ri-
volse un rapido sorriso, più coraggioso di quanto si sentisse in realtà. Tolse una tutina da notte da un cassetto del cassettone, poi il kimono di Travis dalla gruccia dentro l'armadio, quindi andò a prendere le pantofoline accanto al letto e la vecchia copertina sotto il guanciale. Rand Nighswander seguiva ogni sua mossa rimanendo sulla soglia. Il sorriso sulla faccia di lui ricordava un gatto in attesa accanto alla tana del topo. Liv gli passò accanto rapidamente, spegnendo la luce e chiudendosi la porta alle spalle. Travis le afferrò una gamba. Lei lo prese per mano e lo condusse nel bagno, raccattando gli asciugamani abbandonati mentre passava. «Qui fa più caldo» disse. Era vero, ma non di molto. Rand rimase di nuovo sulla soglia della porta aperta. Travis le consentì persino di aiutarlo con le fibbie del pigiama. E lei si avvalse di ogni pretesto che riuscì ad escogitare per toccarlo, per accarezzarlo, per abbracciarlo, cercando di consolare e di rassicurare il bambino silenziosamente. Mentre Travis infilava le pantofole e indossava il kimono, Liv tolse dalla vasca i suoi G.I. Joe e li avvolse nel tappetino bagnato del bagno. Lo aiutò poi a metterli nelle tasche del kimono e infine riordinò rapidamente il bagno mettendo nella cesta della biancheria sporca il tappetino, gli asciugamani e la biancheria di Travis. La cucina era troppo poco spaziosa per consentire sia a Rand Nighswander, sia a Travis di seguire come ombre ogni sua mossa. Liv allentò la presa di Travis sulla sua gamba e lo piazzò sulla solita sedia al tavolo di cucina. Rand si soffermò sulla soglia, tirò fuori dalle maniche del maglione il necessario per fumare, accese una sigaretta e si appoggiò allo stipite. Liv versò in una pentola il contenuto del barattolo «Minestra di pollo con taglierini» e mise la pentola sul fuoco. Preparò tartine al tonno. Ogni volta che alzava lo sguardo, vedeva Travis osservarla con occhi tristi. Quanto a Rand, non aveva bisogno di sbirciarlo; intuiva che lui la stava osservando. Sentendo la necessità di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di tenersi occupata, prese la scatola di cacao Nestlé che Walter premurosamente, e forse sentimentalmente, aveva procurato e preparò la cioccolata. Dovette rimestare a lungo. Ricky e Gordy entrarono per riferire che non avevano trovato niente. Rand li congedò. «Non c'è spazio abbastanza perché possiate mangiare tutti a questa tavola» disse Liv a Rand, quando ogni cosa fu pronta. «Se dessi da mangiare a Travis qui e portassi a voi vassoi nel soggiorno?»
Rand fissò accigliato la sigaretta, poi la gettò nell'acquaio. Il mozzicone sfrigolò e si spense. Lui si disse che non sarebbe stato così tonto da perderli di vista tutti e due. Forse la donnina non voleva che il bambino si trovasse accanto a Ricky e a Gordy nel caso che i due avessero combinato qualcosa ignorando i suoi ordini, ma questo era impossibile. «Certo, O-liv-i-a. Le darò io una mano. Ma non faccia mangiare il marmocchio da solo. Gli porti la cena insieme alla nostra.» Liv si morse il labbro e continuò a rimestare la cioccolata. L'idea di mangiare in compagnia di quei farabutti le ripugnava. Non voleva che Travis restasse con loro nella stessa stanza. Ma sembrava che non vi fosse nulla da fare. Nel soggiorno, Ricky aveva aperto di nuovo gli armadietti e sparpagliato i videonastri sul tappeto. Trasalì vedendo Rand e lasciò cadere la cassetta che aveva in mano. «Lasciate che vi dia una mano» disse e si mise in piedi, interponendo spazio tra se stesso e le prove che lo incriminavano. Rand gli ringhiò: «Stupido str...» Ricky mostrò a Liv tutti i denti che aveva. «Ne ha un mucchio di film, qui, Olivia» disse. «Li rimetterà tutti a posto» disse Rand a Liv. Lei li ignorò. Spinse Travis sul divano e gli mise davanti un vassoio. «Possiamo vedere un film?» domandò Ricky. «Certo» rispose Liv. «Perché no?» Gli fu quasi grata perché aveva avuto l'idea. Per qualche tempo nessuno l'avrebbe sorvegliata e lei non avrebbe dovuto sorvegliare loro. Durante un'ora e mezza circa, un film avrebbe potuto distrarli tutti e tre. «Bene» disse Gordy Teed, con la bocca piena. Nauseata, Liv piluccò il cibo, poi respinse il piatto. Ricky passò in rassegna l'intera collezione di videonastri, con un panino imbottito in mano, staccandone come un automa morsi enormi. Smetteva spesso di masticare e studiava il titolo, poi lo pronunciava silenziosamente muovendo le labbra. Ma, perlomeno, inghiottiva prima il boccone. Rand trangugiò due panini imbottiti, sorbì la cioccolata e posò sul focolare la minestra di pollo. La Povera si avvicinò con cautela e cominciò a leccarla. Rand stette a guardare la gatta per un minuto, poi la respinse. Prese il piatto di minestra e lo offrì a Gordy. «È più di quanto riesca a mandar giù. La vuoi, Gordy?»
Gordy prese la fondina, ne vuotò il contenuto nel proprio piatto vuoto e sorbì rumorosamente la minestra. Rand sollevò La Povera e cominciò ad accarezzarla. Ricky dispose a ventaglio una mezza dozzina di videocassette davanti a Rand. «Che ne diresti di una di queste, Rand?» Rand alzò le spalle e guardò Liv. «Domandalo a O-liv-i-a.» Ricky sgattaiolò accanto a Liv e le mostrò le videocassette. «Le piace uno di questi film, O-liv-i-a?» Attacco al posto di polizia 13, Harry l'osceno, Io il giurato. Lei pensò a titoli più appropriati che avrebbe potuto aggiungere. Furia silenziosa. Cani randagi. «Credo che nessuno di questi film sia adatto a Travis» disse. «Ma se ne scegliete uno potrei portare il bambino nella mia camera da letto e leggergli qualcosa.» Ricky fece il broncio. «Non ci sono cartoni animati?» domandò Gordy Teed, e venne ignorato. «No» disse Rand. «Rimarremo tutti qui. Metti Harry l'osceno. Io l'ho già visto. Non è un film sexy. Soltanto una storia di sbirri. Il drive-in era pieno di mocciosi, quella sera.» Travis diede di gomito a Liv e bisbigliò: «L'ho già visto anch'io. È okay, Liv.» Liv si arrese. Anche Travis aveva bisogno di essere distratto. «Questo cos'è?» domandò Ricky e le mostrò una videocassetta contrassegnata Scontro sanguinoso, montaggio preliminare parziale. Impulsivamente Liv si sporse e la prese. Era di Pat. «È una parte del film che sta realizzando mio marito» disse. «Benissimo!» esclamò Ricky. «Di che si tratta?» «Ammazzamenti sanguinosi» disse Travis. «Racconta di certi soldati. Lo ha scritto mio padre. C'è anche lui. Lo ammazzano. Ma è soltanto per finta.» Liv strinse il ginocchio di Travis. Il bambino alzò gli occhi su di lei e le rivolse un pallido sorriso. «Cavolo!» esclamò Ricky. «Devo vederla, questa merdata.» Sbirciò, speranzoso, Rand. «Magari possiamo avere un po' di quello zucchero per il naso, eh, mentre vediamo il film?» «Ci penserò su» rispose Rand. «Avete già il vino.» Ricky fece una spallucciata. Rand teneva sempre il meglio per sé e lui si aspettava che non avrebbe voluto condividere nemmeno la donna. A meno
che non valesse niente a letto. Quella che Rand chiamava una-pappafredda-da-fottere. Aveva diviso con loro Loretta Buck soltanto perché la ragazza era talmente ubriaca e spaventata che sembrava di scopare il cuscino di un divano. «Vediamo com'è» disse Gordy Teed. «Mi piacciono i film di guerra. Certe volte sono divertenti come i cartoni animati.» «Chiudi il becco, buchino» disse Ricky. «Bada a come parli, Ricky» scattò Rand. Ricky sbirciò Liv di sotto le ciglia da ballerina. «Scusi» mormorò, poi guardò Rand. Infine esaminò il videoregistratore. «Come funziona questo aggeggio?» domandò. «Lo faccio funzionare io» disse Travis, e scivolò giù dal divano. «Si fa così.» Premette il pulsante «On» poi il pulsante «Eject». Ricky gli porse la videocassetta. Travis la inserì, poi fece scattare la chiusura. «Ora bisogna accendere il televisore» disse. «E poi premere il pulsante con la striscia verde.» Ricky annuì. «Questo?» domandò, indicandolo con il dito. «Sì.» Travis tornò accanto a Liv e le si rannicchiò contro. Per il momento, si era dimenticato di aver paura. Era stato Pat, il suo film, l'accenno a lui, a tranquillizzarlo. E, in qualche modo, questo sembrava importante. Capitolo XIII Scontro sanguinoso Montaggio preliminare numero 6 Una pista nella giungla. Soldati mimetizzati attraversano silenziosi un tratto paludoso fino al margine di una radura. L'uomo in testa è il sergente, Court. Le facce, sotto il fango e la stoppia della barba, sono inequivocabilmente americane, sebbene la gamma vada dalla pelle sbucciata e bluastra e dagli occhi color saliva del bifolco Jackson alla pelle chiara, bruciata dal sole, e agli occhi azzurri di Taurus, l'irlandese del Michigan, all'ammirabile abbronzatura ed agli occhi castani e liquidi di Denny Corriveau, il Cajun, alla pelle nero-bluastra e ai balenanti occhi neri di Ratcliffe. L'unica faccia in qualche modo non americana è quella di Court. Egli è un tartaro dal torace possente e dalle gambe corte, troppo robusto per poter essere un vietcong, eppure, nelle sue fattezze, v'è una sorta di ponte tra le razze in guerra.
Il Cajun succhia un'enorme sigaretta alla marijuana, poi la passa, con una gomitata, a Jackson. Il bifolco sogghigna, mostrando parecchi vuoti tra i denti piccoli e giallognoli. Ha i denti malconci come quelli delle vecchie megere, le mamme vietcong, che lavano i panni dei G.I. perché, a trenta o quarant'anni, sono ormai troppo vecchie per poter essere prostitute. Dietro a Taurus, altri due uomini della pattuglia divengono visibili nell'ombra. Uno di essi è un robusto soldato semplice di pelle nera, dalla calvizie incipiente, con un orecchino d'oro. Sta sudando abbondantemente e fa roteare nervosamente gli occhi cercando di guardare in tutte le direzioni contemporaneamente. L'altro è un bianco la cui statura di un metro e ottanta viene sminuita dalla statura del negro, per cui la sua snellezza sembra fragilità. Occhiali cerchiati di tartaruga inforcano un naso che ricorda alquanto la magistratura, un autoritario naso a becco, ma sottile abbastanza per respirare l'aria rarefatta della Boston raffinata. Gli occhi dietro le lenti sono color nocciola. Nervosamente egli scosta un ciuffo di fini capelli biondi dalla fronte alta da intellettuale. I gradi sulle spalline attestano che è un tenente. Il tenente si porta all'inizio della fila e si accovaccia per qualche momento accanto al sergente Court. I due uomini studiano una carta topografica, poi segnali significativi con le mani vengono scambiati, dapprima tra loro due, poi con gli altri uomini. Il sergente e il tenente avanzano nella radura. Gli altri aspettano nervosamente. Il tenente si ferma e si guarda attorno, poi si volta e fa segno agli altri di avanzare. In quel momento tiri di fucile falciano lui e scaraventano il sergente nella palude. I G.I. si gettano a terra o in acqua, riparandosi ovunque possono e rispondendo ai tiri. Ratcliffe striscia nella palude e trascina il sergente in una posizione più protetta. Court è gravemente, forse fatalmente, ferito. La sparatoria diviene assordante e ben presto appare chiaro che gli americani sono nettamente inferiori di numero. Court afferra il polso di Ratcliffe. «Chiama gli elicotteri» ansima. Ratcliffe, madido di sudore, cinereo, fa cenno agli altri. Il radiotelegrafista, l'altro uomo di pelle nera, esegue l'ordine. Ma la sparatoria continua. Trascorre un periodo di tempo eterno, terrificante, prima che il rombo degli elicotteri sommerga i colpi laceranti delle mitragliatrici. Gli elicotteri entrano in azione mentre i G.I. si appiattiscono contro il fango. Poi un'esplosione enorme, accecante, scuote il terreno mentre un elicottero, colpito in pieno, precipita nella giungla, ad appena pochi metri di distanza. Adesso un muro di fiamme divampa dietro gli alberi, tramutandoli in nere e con-
torte astrazioni simili a ideogrammi cinesi. Sotto il ruggire del fuoco, forti suoni crepitanti e laceranti, come se un qualche enorme mostro stesse divorando qualcosa, e poi immense ombre nere, i giganteschi bulldozer corazzati, si profilano ben presto contro la luminosità dell'incendio. Quando i tiri nemici si dileguano, infine, e la battaglia si sposta più avanti, i bulldozer la seguono e rimangono soltanto i sibili avidi del fuoco. Ratcliffe assume il comando perché il sergente è ormai morto o privo di sensi, e segnala di rimandare indietro gli elicotteri. Taurus trova il radiotelegrafista quasi tagliato in due dai tiri degli elicotteri. Taurus toglie la radio al morto e trasmette l'ordine, chiedendo lo sgombero dei feriti. Ratcliffe torna a strisciare nella palude, tenendo bassa la testa nell'eventualità che vi siano ancora vietcong non del tutto morti o ambiziosi, e trascina fuori il cadavere del tenente. Disteso accanto al sergente, l'ufficiale è quasi irriconoscibile. Sembra che un lato della faccia sia stato asportato dal proiettile; misericordiosamente, è talmente coperto di melma e di sangue che i particolari cruenti rimangono invisibili. Ma sul lato della faccia che resta, una metà degli occhiali, con la lente scheggiata e sudicia, continua a penzolargli dall'orecchio. «Quello è il mio Pa'» disse Travis. «Ci sono volute quattro ore per mettergli tutta quella poltiglia sulla faccia e per farlo sembrare così coperto di sangue.» Sì, pensò Liv, e mi dà il voltastomaco. L'aveva crucciata l'idea che Travis vedesse quella sequenza. Ma era stata molto più sconvolgente per lei, e continuava a sconvolgerla più di quanto sconvolgesse il bambino. «I bambini sono molto abili nel distinguere tra le fantasticherie e la realtà» le aveva assicurato Pat, e sembrava che avesse ragione, perlomeno in questo. Liv diede di gomito a Travis. «È ora di andare a letto.» Le unghie del bambino le affondarono nel palmo della mano. «È meglio che tu dorma in camera mia» disse lei. «Credo che la tua stanza sarà troppo fredda, stanotte.» Travis parve tranquillizzato. Smise di conficcare le unghie nel palmo. Rand si alzò e gettò il mozzicone della sigaretta nel caminetto. «Metta il marmocchio nella sua camera» disse. Liv all'improvviso si spaventò. «Non andrà mai a dormire là, stanotte.» Strinse a sé il bambino. «Che ne diresti di dormire invece nella camera di Sarah?»
«Perché non posso dormire con te?» domandò Travis. Ricky Nighswander sghignazzò. Un'occhiataccia di Rand lo fece smettere. «Non questa notte» disse Liv. «Domani, okay?» Travis rinunciò a insistere. Aveva ombre azzurre sotto gli occhi. Rand li seguì nel bagno e poi nella camera da letto di Travis, dove Liv staccò dalla presa la lampada notturna di E.T. Parve fuori posto nella camera di Sarah, in fondo al corridoio, ma Travis sembrò consolato dalla presenza della tenue luce. Appese al pilastrino del letto l'accappatoio con le tasche piene di G.I. Joe e si infilò sotto le coperte volentieri. Liv sedette sulla sponda del letto e cercò di fingere che Rand Nighswander non si trovasse in piedi sulla soglia a guardare e ascoltare. «Vorrei che tu potessi restare qui» disse Travis. «Lo vorrei anch'io» disse Liv. «Ma sarò molto vicina, okay?» Travis annuì, ma Liv, con la mano sul suo petto, sentì la tensione nel bambino. Era di nuovo spaventato, per giunta. E lei non sapeva come tranquillizzarlo. Non riusciva a immaginare come avrebbe potuto addormentarsi con i nervi così tesi. Lo baciò. «Torno subito.» Nel corridoio, fermò Rand. «Non riuscirà ad addormentarsi. Ha i nervi troppo tesi.» Rand alzò le spalle. «E con questo?» «Ho del Valium» disse Liv. «Vorrei dargliene un po' in una tazza di cioccolata. In questo modo dormirà profondamente.» Rand la fissò. «Forse è una buona idea.» Gli splendettero gli occhi. Le mise una mano sul fianco. Liv indietreggiò per cui egli la sfiorò appena. Se l'avesse toccata di nuovo, forse si sarebbe messa a urlare, o lo avrebbe schiaffeggiato. Non sapeva che cosa avrebbe potuto fare e temeva di poter perdere l'autocontrollo quasi quanto temeva lui. «Vada a prendere il Valium» egli disse. Lei si affrettò a entrare nel proprio bagno. Tolse dalla mensola più alta dell'armadietto dei medicinali il flaconcino che conteneva alcune compresse di Valium da 2 mg. Proprio mentre stava per chiudere l'armadietto, si rese conto degli altri flaconcini che si trovavano su quella mensola. Le ricerche di Ricky e Gordy non erano state accurate, tutto sommato. O forse l'armadietto dei medicinali era stato l'ultimo posto nel quale avevano cercato droga. Oppure leggere le etichette riusciva loro troppo difficile. In o-
gni modo, la cosa non rivestiva alcuna importanza. L'importante era che non li avessero veduti. Flaconcini e flaconcini di sonniferi e calmanti - una mezza dozzina di compresse bianche che sembravano comuni aspirine, ma erano in realtà Talwin da 50 mg, sette o otto grosse losanghe rosse di Darvocet-N da 100 mg, quasi due dozzine di piccole capsule rosa di Darvon da 65 mg, tredici capsule rosse e bianche di Darvon-Compound-65, nove Motrin da 400 mg che sembravano caramelle all'arancia, cinque compresse gialle di Percodan - dimenticate e lasciate lì alla fine dell'estate, un retaggio del mal di denti estivo. Liv voltò rapidamente la testa. Rand si trovava nella camera da letto e accendeva un'altra sigaretta, contemplando la neve fuori della finestra. «Mi scusi» disse lei, con la fretta nella voce. «Un bisogno naturale.» Chiuse la porta del bagno e girò la chiave. «Ehi, un momento» disse Rand, ma nel momento stesso in cui scuoteva la maniglia si rese conto che era troppo tardi. Liv lo udì ansimare dall'altro lato della porta. «La butto giù, questa porta fottuta, se ci mette troppo tempo» disse lui. «Okay» rispose Liv, fingendosi impermalita, una reazione che sembrava più naturale di parole di scuse o di una risposta impaurita. «Esco subito.» Facendo scorrere con una mano la lampo dei jeans, strappò con l'altra un asciugamano dal portasciugamani. Vi mise con cura i flaconcini tolti dalla mensola più alta, cercando di non farli tintinnare. Poi mise l'asciugamano arrotolato davanti alla tazza del water. Spinse giù sui fianchi i jeans e le mutandine, sedette sulla tazza ed orinò. Nel frattempo si chinò tra le ginocchia ed aprì ciascun flaconcino formando un mucchietto di compresse e di pillole sul pavimento. Non appena ebbe terminato e si fu tirata su i jeans, scaricò l'acqua del water. Mentre l'acqua scrosciava, inserì compresse e pillole dentro i calzini e le spinse giù in modo che andassero a disporsi sotto l'arco e tra le dita dei piedi. Nascose i flaconcini vuoti dietro la tazza del water e nel portascopino. Poi aprì il rubinetto del lavabo e si lavò le mani. Una volta girata la chiave nella toppa ed aperta la porta, uscì con l'asciugamano nella mano libera e continuò ad asciugarsi le mani. Rand si trovava proprio lì a succhiare spazientito la sigaretta, infuriato da matti. «Non mi chiuda altre porte in faccia, O-liv-i-a» ringhiò. «Le piace vedere le donne pisciare?» gli domandò Liv. «È per caso una specie di maniaco?» Egli le rifilò un manrovescio con tanta fulmineità che lei non lo vide arrivare.
Indietreggiò barcollando e la maniglia della porta del bagno le affondò nel rene destro. Cadde in ginocchio, in preda al dolore. «Se l'è voluto» mormorò Rand. Lei alzò gli occhi. «No, ci teneva a picchiarmi» fece in un balbettio. Rand si chinò e le afferrò il gomito. Rudemente la rimise in piedi e la spinse verso il bagno. «Prenda le maledette pillole per il marmocchio.» Il Valium si trovava dove l'aveva lasciato. Lo prese e se lo mise nel taschino della camicia. Si intravide nello specchio e si affrettò a voltare le spalle. In cucina riscaldò la cioccolata avanzata a cena e vi lasciò cadere una delle compresse di Valium da 2 mg; poi mescolò finché la compressa non si fu sciolta ed andò a portare la cioccolata a Travis. Ignorò Rand mentre la teneva d'occhio. Il bullo credeva di averle dato una lezione. Come si aspettava, Travis era ancora completamente desto e si drizzò a sedere sul letto quando la scorse sulla soglia. Lei esitò, ma, a quanto pareva, il bambino non aveva udito il breve subbuglio nella camera da letto di sua madre. «Ti ho portato un po' di cioccolata calda» gli disse. «Ho pensato che potrebbe aiutarti a dormire meglio.» «Buona idea, Liv» disse Travis, solennemente. Lei gli sedette accanto mentre sorbiva la cioccolata. Travis ci andò piano e la sbirciò oltre l'orlo della tazza ogni volta che beveva un sorso. Infine le restituì la tazza vuota. Emise un sospiro enorme. «Era buona questa cioccolata, Liv» disse. «Grazie» rispose lei, e gli scompigliò i capelli. «Ti dispiace se resto qui ancora un poco con te?» Il bambino scosse la testa. Tese la mano e le toccò il viso dove Rand l'aveva colpita. «Hai la faccia rossa» disse. «Sono andata a sbattere contro la porta del bagno» si affrettò a dire Liv. «Il dente ti duole?» domandò Travis. «No» rispose lei. Il bambino chiuse gli occhi. Liv sbirciò Rand poi gli voltò le spalle e si strinse a Travis. Dopo alcuni momenti sentì che il giovane se n'era andato e, quando tornò a sbirciare, non vide nessuno sulla soglia. Dal soggiorno giunsero spari di mitragliatrici nel film e la voce di Ricky che approvava. Accanto a lei Travis si era rilassato e respirava più regolarmente. Liv ricordò il giorno che era tornata a casa dopo essersi fatta estrarre il
dente; entrata subito nel bagno per prendere un'aspirina e lavarsi il viso, era stata seguita da Travis. «Posso vedere il buco?» aveva domandato il bambino. «Fa impressione» era stato avvertito da lei. «E ha l'odore del sangue.» Travis aveva alzato le spalle per cui, aperta la bocca, Liv si era lasciata guardare la gengiva sanguinante. Dopo alcuni secondi di ammirata contemplazione, suo figlio le aveva battuto la mano sulla spalla per consolarla. «Se metti il dente sotto il guanciale, la fata ti porterà dei soldi.» Lei non si era aspettata di ridere subito dopo l'estrazione, ma non aveva potuto farne a meno, sebbene la mascella le dolesse. E poi aveva abbracciato suo figlio. Un dente non era poi una gran perdita. «Non te ne andare» disse ora Travis, sempre con gli occhi chiusi. «No» disse lei. Il viso continuava a pulsarle, là dove Rand l'aveva colpita. Il rene piombato contro la maniglia della porta le doleva. Si sentiva irrigidita e stanca come se si fosse dedicata a una qualche faticosa attività fisica, come spaccare legna o lavare i vetri delle finestre o darsi da fare in giardino per tutto il giorno. Eppure non aveva sonno. E invidiava a Travis il rapido effetto del Valium. Si domandò se ne avesse abbastanza per riuscire ad addormentarsi, una dose sufficiente a far sì che nulla riuscisse a destarla, quella notte. In tal caso, qualsiasi cosa avesse potuto farle Rand Nighswander, lei perlomeno non se ne sarebbe accorta. Rabbrividì pensando a come egli la guardava. E poi bisognava tener conto di Ricky e dello stupido Gordy. Che cosa sarebbe successo se Rand non avesse più potuto, o voluto, tenerli a freno? Tutto quello che le aveva detto di loro Joe Nevers le tornò alla mente e parve ancor più minaccioso. Ma non poteva addormentarsi. Doveva proteggere Travis. E non aveva altro che i calzini pieni di pillole. Si fermò per voltarsi a guardare il bambino. Poster di Bruce Springsteen, di Clarence Clemons, di Miami Steve Van Zandt e di Roy Bittan lo contemplavano dalle pareti, come i quattro angeli in Ora mi corico per dormire. Forse i farabutti se ne sarebbero andati prima che Travis si destasse, la mattina dopo. Liv chiuse dietro di sé la porta della camera da letto. Capitolo XIV La mano di Rand Nighswander le piombò sulla spalla. «Bastardo» sibilò lei. Il giovane sorrise e la cinse alla vita. «Si rilassi, mammina.»
Liv cercò di liberarsi ma Rand le piazzò le mani intorno ai polsi e la spinse indietro, verso il soggiorno, mormorando: «Su, faccia la brava, adesso.» Gordy e Ricky si trovavano stravaccati sul pavimento e fissavano lo schermo del televisore. La mano sinistra di Ricky poggiava, possessiva, sul bottiglione di vino vuotato a mezzo. Quando Rand si chinò e incurvò le dita intorno al collo del bottiglione, Ricky reagì istintivamente e si allungò di scatto cercando di afferrarlo; lo mancò e agguantò invece la caviglia di Rand. «Figlio di puttana» urlò. Si trovava nello stadio dell'ubriachezza in cui la combattività di un uomo è disastrosamente compromessa da una innegabile incapacità di coordinazione. Egli venne sconfitto dall'alcool prima ancora che avesse potuto cominciare. Rand se lo scrollò di dosso con noncuranza. «Figlio di puttana» gridò Gordy, imitando Ricky. Strinse i pugni e si martellò le cosce. «L'ho trovato io il vino! Era mio!» Rand batté la mano sulla spalla di Gordy. «Ne hai già bevuto più di quanto puoi reggere, vecchio ronzino, non ti pare?» Gordy tornò a sdraiarsi sul tappeto che sollevò un luttuoso «Sciii», simile al sibilo dell'aria che sfugge da un pneumatico. «Tra poco vomiterai sul tappeto.» Rand spinse Liv verso la sua camera da letto. «Su, venga, adesso. Andiamo a berci un altro bicchiere di vino e a rilassarci.» Ricky e Gordy li fissavano a bocca aperta. Rand strizzò l'occhio. I due ridacchiarono. Liv trasse un profondo respiro. «Il vino non mi va affatto» esclamò. «Se invece preparassi altra cioccolata per tutti?» Gordy si sollevò sui gomiti. «Una tazza di cioccolata mi andrebbe.» Ricky, con un colpo di taglio della mano, gli tolse l'appoggio del gomito. «Se ne fottono tutti di quello che piace a te.» Rand afferrò con fermezza il gomito di Liv. «Non la vuole nessuno la cioccolata, O-liv-i-a.» «Oh.» Divenendo inerte, Liv lasciò che lui la conducesse via. Ci aveva provato, ma senza che loro la bevessero. Avrebbe potuto mettere sonniferi nel vino, riuscendo forse a fare addormentare Rand, ma poi? Offrire il vino rimasto a Ricky e a Gordy nella speranza che bastasse per demolire anche loro prima che avessero anch'essi idee pericolose? Ma se avesse drogato il vino e poi fosse stata costretta a berlo anche lei da Rand? Qualsiasi solu-
zione alla quale riuscisse a pensare era troppo imprevedibile. Rand la spinse verso il letto. Lei si afferrò alla colonnina e lo affrontò irosamente. Rand mise il vino sul cassettone. «Accidentaccio» disse «ho dimenticato i bicchieri. Be', dovremo passarci il bottiglione.» «No» disse Liv. «Preferirebbe un po' di droga, O-liv-i-a?» domandò Rand, battendo la mano sulla manica sotto la quale soleva mettere il pacchetto delle sigarette. Lei scosse la testa. Il giovane sospirò. «Ho sentito dire che al suo vecchio piace la coca. Non mi stupisce, visto che deve vivere con una topa di ghiaccio come lei.» «Vada a farsi fottere, signor Nighswander» disse Liv. Rand la fissò irosamente. Annaspò dentro la manica del maglione come se stesse cercando le sigarette. Ma si trattava dell'altro braccio, pensò Liv; poi lui le mostrò la pistola. «Graziosa, no? Una piccola ammazzanegri da quattro soldi, eh? La sua tonta vicina, la sgualdrina scema con gli stupidi cagnetti - di che razza sono? Stronzate da giardino zoologico? - ha lasciato quest'arma per me. Gentile da parte sua, no? Naturalmente, la prossima estate, non avrà più niente per impedire a qualche donnetta di violentarla, eh?» All'improvviso si sporse, afferrò Liv per i capelli e le accostò la pistola alla faccia. «Potrei fartela mangiare, sgualdrina.» Liv sputò sull'arma. Rand le afferrò i capelli sulla nuca e le conficcò la pistola in bocca. Poi le tirò indietro la testa con uno strattone. Sangue zampillò dalle labbra spaccate. Lei ebbe un conato di vomito e sputò denti spezzati e frammenti di otturazione sulla pistola e sulla mano di Rand. Egli la scaraventò sul letto. «Stupida potta» borbottò, e di nuovo infilò la pistola dentro la manica. Liv si nascose il viso tra le mani. I miei denti, pensò, Gesù mio, i denti. Lo spasmo iniziale di dolore parve venire dall'esterno ed esploderle dentro. Lei sondò le frastagliature e i vuoti con la lingua lacerata, sentendo il sapore del sangue e toccando gli orli tagliati delle gengive e delle labbra. Gli incisivi avevano subito il danno peggiore. Nel più profondo del suo essere Liv era stordita dallo choc. «Mettiti a sedere» le ordinò Rand. Dovette sollevarla e quindi metterla seduta. Poi le tenne un asciugamano bagnato contro la bocca. L'acqua gelida le causò dapprima una fitta bruciante, ma poi attutì un poco il dolore.
Rand smise di sostenerla. Lei si raggomitolò come una palla sul letto. Egli la scrollò per la spalla. «Hai qualche calmante?» Una risatina nervosa la fece sussultare. Non poteva dirgli che li aveva tutti nei calzini. Rand borbottò un'imprecazione ed andò nel bagno. Lei lo udì frugare nell'armadietto delle medicine e nei cassetti. Sbirciò oltre l'orlo dell'asciugamano bagnato e lo vide nello specchio. Stava fissando l'ultima mensola dell'armadietto delle medicine. Studiava i cerchi lasciati sulla polvere da tutti i flaconcini che non si trovavano più lì. Liv frugò freneticamente in un calzino e prese tra due dita la prima cosa che sentì, una compressa piuttosto grossa - una compressa di Percodan, ritenne - se la cacciò in bocca e la inghiottì insieme con minuscoli frammenti di denti rotti, veri e di ceramica. Poi affondò la bocca nell'asciugamano. Lui tornò indietro sfilandosi dalla manica un pacchetto avvolto in carta stagnola. Quando strappò via quest'ultima, Liv scorse una bustina piena per due terzi di polvere bianca. La cocaina della quale aveva parlato. «Apri la bocca» le ordinò. Lei gli si sottrasse. Rand le strappò l'asciugamano, lo lanciò lontano e fece per afferrarle il mento. Liv rotolò via. Egli si mise la bustina tra i denti per avere libere entrambe le mani e si accinse a placcarla. Il letto dondolò sotto il suo peso mentre lui si lanciava e la inchiodava, dapprima con il corpo, poi con una mano sul collo. La strozzò, né più né meno, finché Liv non ci vide più e smise di dibattersi. Poi la cavalcò tra le ginocchia e si tolse la bustina dalla bocca. Versò una piccola quantità di cocaina nel palmo di una mano e le ficcò in bocca, tra le labbra spaccate, le dita dell'altra mano per poi spargere approssimativamente la polvere sulle gengive squarciate e sui denti spezzati. L'immediata sensazione di intorpidimento causata dalla cocaina spense in lei ogni volontà di resistere, ammesso che avesse avuto la forza di opporgli ancora resistenza. «Ahi» fece lui e le tolse le dita dalla bocca. «Diavolo fottuto, mi sono tagliato un dito su qualcosa.» Aveva le dita imbrattate dal sangue delle labbra di lei e da saliva rosa. «Apri» le ordinò. E le guardò in bocca. «Che schifo. Schegge frastagliate.» Premette le punte delle dita nel palmo dell'altra mano e le incipriò le labbra. «Ecco» disse. Fiutò il resto della polverina. Poi rotolò giù da lei e le si distese accanto. «Ahhh, è droga di buona qualità, questa.» Liv si sentiva un po' stordita. Il dolore in bocca continuava, attenuato
dall'effetto della cocaina. La strana sensazione causata dalla droga, in combinazione forse con il Percodan, che probabilmente cominciava ad agire, le impediva di accentrare l'attenzione sul qui e il subito. È una cosa interessante questa che mi sta capitando, pensò. Esteriormente era sempre la stessa: Liv, nuda sotto i vestiti, con le dita macchiate dall'argilla, la mascella indolenzita e la bocca dolente che adagio stava macchiando di sangue la trapunta ricamata a mano sul letto, ma poteva sentire la terminazione di ogni singolo capello che aveva sulla testa e vedere il lato interno delle palpebre e accorgersi del gonfiore e del torpore della lingua nella bocca. Sentiva un sapore amaro e gessoso in fondo alla gola. Quando aprì gli occhi, non vollero mettersi a fuoco. Li richiuse. «Mi spiace per tutto questo» disse lui. Non si stava scusando; non provava il benché minimo rimorso per il male che le aveva fatto. Si dispiaceva soltanto per avere impedito la realizzazione delle sue fantasticherie erotiche a proposito della bocca di lei. «È la peggiore nemica di se stessa, sa.» «Hmm» fece Liv. Sapeva, e come, chi era il suo peggior nemico. Soltanto, era troppo faticoso costringere la bocca e la mascella indolenzite a dirlo. «Dovrebbe fiutarne un po'» disse Rand. Il letto sussultò mentre si drizzava a sedere. Liv lo udì aprire di nuovo la bustina e tirar su con il naso. Poi tornò a chinarsi su di lei, le passò un braccio sotto il capo e la sollevò. Liv aprì gli occhi, lo fissò irosamente e cercò di rendersi pesante. Rand le applicò il palmo alla faccia e le arrovesciò la testa all'indietro. Una parte della cocaina le si sparse, semplicemente, sul viso e lei la sentì come piccole punture obnubilanti sulla pelle. Ma la maggior parte venne aspirata nel naso dal suo inalare istintivo. Le tornò, in fondo alla gola, il sapore amarognolo e gessoso. Ebbe un singulto, poi starnutì. Rand rise e la lasciò andare. «Va meglio?» le domandò. Andava meglio, sì. Si sentiva decisamente strana, ma anche molto meglio. All'improvviso divenne molto consapevole della neve che finiva contro i vetri delle finestre e della casa che cigolava sotto gli assalti del vento infunante. Sono completamente sola, pensò. Non ho scampo. Il panico le dilagò bruciante sotto lo sterno, poi scomparve rapidamente. Ogni cosa era tutta e assolutamente chiara e reale. Vide Rand alzarsi e andare di nuovo nel bagno. Ne uscì con due bicchieri di carta presi nell'armadietto e vi versò vino dal bottiglione. «No» disse lei, e alzò debolmente una mano per respingere il bicchiere
offertole. «Come vuoi» disse Rand. Si rimise sul letto e vi sedette con le gambe incrociate. «E adesso sentiamo, dove sono le medicine che si trovavano nell'armadietto?» Liv rise. «Quali medicine?» domandò. Rand vuotò il minuscolo bicchiere di carta e, sporgendosi, prese di nuovo il bottiglione. «Lo sai. Quelle che hai nascosto.» Liv spalancò gli occhi. Scosse la testa. «Non ho nascosto niente» disse adagio. Parlare era doloroso. Aveva le labbra gonfie. Finse di pensarci su. «Forse» con un gesto nella direzione del soggiorno, per indicare Ricky «le ha prese lui.» Rand divenne torvo. «Il sudicio, piccolo bastardo» mormorò. «Potrebbe averle prese davvero.» La fissò. «Non le terrà a lungo. Di che diavolo fottuto si trattava?» Liv corrugò la fronte. «Non lo so» disse. «Non sapevo che ci fossero medicine.» «Ah no?» disse Rand. «Io scommetto di sì, invece.» Liv si sforzò di sorridere, ma era troppo doloroso. «No.» Rand si grattò dietro l'orecchio. Lei sperò che si decidesse ad affrontare subito Ricky. Avrebbe potuto avere il modo di togliere le pillole dai calzini e di nasconderle altrove prima che lui si fosse accertato che Ricky non le aveva. Per lei sarebbe stato okay se i due si fossero ammazzati a vicenda per questo. Purché non destassero Travis. Ma Rand aveva altre cose in mente. Si protese e le toccò il colletto della camicia. «Una lezione a quel puzzone di mio fratello posso dargliela quando voglio» disse. «Adesso mi va di fare un po' all'amore.» Liv si scostò da lui, contorcendosi. Rand rise e vuotò di nuovo il bicchiere di carta. «Fa' pure. Continua a sgattaiolar via. Una cosa sola mi piace più del dare la caccia. Ricorda soltanto che quando sarò stufo di darti la caccia avrai finito di sfuggirmi.» Lei trasse un profondo respiro e si sollevò appoggiata ai gomiti. «No» protestò furiosamente. Poi fece ancora uno sforzo, sebbene parlare fosse doloroso da matti. «Non riesce a ficcarsi un 'no' nella testa di cocainomane?» Rand rise di nuovo. «Non sono il solo ad avere la testa di cocainomane, qui.» Tirò fuori la bustina e gliel'agitò sotto il naso. «Un'altra fiutatina, Oliv-i-a?»
Lei voltò la testa dall'altra parte. «No.» «Io sì» disse Rand e si mise un pizzico di polvere dentro una narice, come se fosse stata tabacco da fiuto. Chiuse la bustina e la ficcò di nuovo sotto la manica. Poco dopo si sporse, afferrò Liv alla gola e la spinse giù, lunga distesa sul materasso. La forza della mano di lui le troncò un grido nella gola. Dibattendosi, Liv si risollevò e di nuovo venne scaraventata giù da una spinta brutale del braccio di Rand. «Ora stammi a sentire, O-liv-i-a» egli le disse, mentre giaceva sul letto ansimante: «dovrai muovere il deretano. Se questa non sarà la migliore scopata che mi sia mai fatto, metterò fuori nella tormenta quel tuo marmocchio, stanotte. Si troverà proprio bene, là fuori, con il suo grazioso pigiamino, imbottito com'è di sonnifero, ti pare?» Ciò detto la lasciò andare e discese dal letto. Liv non poteva fare a meno di respirare profondamente, ma ad ogni respiro tremava e singhiozzava, e questo stava a dimostrare fino a qual punto il teppista fosse riuscito a spaventarla. Il timore e l'umiliazione provocarono odio e una violenta secrezione di adrenalina che intensificò ulteriormente il tremito. Odiava quell'individuo perché aveva minacciato Travis, perché si era servito di suo figlio contro di lei, e riconobbe amaramente che era sempre, e sempre lo sarebbe stato, così. Le donne potevano invariabilmente essere intrappolate intrappolando i loro figli. Il farabutto l'aveva sconfitta. E nella sconfitta, nella paura, nell'odio e nell'ira, Liv trovò, o così credette, la forza di chi perde. Avrebbe fatto vedere a Rand Nighswander qual era il potere di una schiava. Egli voleva che muovesse le natiche, che gli desse la migliore scopata mai avuta. Lei riteneva che non sarebbe stato difficile dare il meglio mai provato a quel barbaro dei boschi che si era sempre accoppiato con adolescenti ubriache e con bagasce dei bar. Voleva scopare. Bene, lo avrebbe fatto scopare fino al rincitrullimento, se non fino alla morte. Rand sfilò dalla manica del maglione la bustina con la droga, il pacchetto di sigarette, i fiammiferi e mise ogni cosa sul comodino. Dall'altra manica tolse la pistola e la scatola di cartucce e le osservò pensieroso. Poi le mise nella tasca dei jeans. Si sfilò il maglione e lo gettò sul pavimento. Infine andò nel bagno. Liv lo udì fare scorrere la lampo dei jeans e udì lo scroscio mentre orinava. Lui fece scorrere l'acqua e tornò indietro, con la lampo dei jeans ancora aperta.
«Il mio fratellino» disse «non è bene educato, sai. Dovresti essere contenta che non ci sia lui al mio posto. Ti piscerebbe addosso.» Liv voltò la faccia dall'altra parte, fingendosi disgustata. Non voleva lasciar capire a Rand che il Percodan, o la cocaina, o tutti e due, stavano cominciando a fare effetto. Le sembrava di cadere, come una foglia morta dall'albero, galleggiando casualmente sulle correnti d'aria. Si sentì prendere dal panico; non voleva perdere l'autocontrollo. Rand tornò nel bagno e di nuovo frugò in un cassetto. «Voltati» disse, quando rientrò. Aveva in una mano un rotolo di adesivo bianco e nell'altra la pistola. Liv era troppo paralizzata dalla confusione causata dalla droga per poter reagire. Mentre si sforzava di rientrare in sé, Rand interpretò erroneamente la sua esitazione come paura. Sogghignò. «Cribbio, hai una mentalità oscena, O-liv-i-a. Il tuo vecchio deve essere un invertito. Be', io non lo sono. Divertirsi con la porta di servizio rincitrullisce gli uomini.» Finalmente lei capì. Il teppista le stava dicendo che non l'avrebbe sodomizzata. Immediatamente il noncurante stordimento tornò, in parte a causa della coca, ma anche per il sollievo autentico che provava; la divertì inoltre, inaspettatamente, il fatto che Rand la stesse rassicurando per quanto concerneva la sua rettitudine riguardo lo stupro anale. Non che non fosse grata per questo. Lo era. Sarebbe stata un'idiota a non esserlo. La violenza carnale è violenza carnale, ma le sue varianti difficilmente sono più sopportabili. Con cautela si girò. «Volta la faccia dall'altra parte e tieni giù la testa» disse Rand. Lei fece come le era stato detto. Udì il tonfo sordo della pistola contro il legno. L'intelaiatura del letto, pensò. Rand strappò un pezzo di nastro adesivo dal rotolo. Grugnì mentre si dava da fare. «Okay» disse poi. Quando lei alzò gli occhi, non aveva più la pistola né la scatola di cartucce. Lasciò cadere il nastro adesivo sul comodino. Aveva applicato l'arma all'intelaiatura del letto in modo che lei non potesse né arrivare a prenderla né vederla. «Non che non mi fidi di te, Olivia» disse. «Non mi fido per niente.» Poi cominciò a spogliarsi. Di nuovo lei voltò la testa dall'altra parte ed ascoltò i fruscii crepitanti dei jeans, il tonfo soffice quando caddero sul tappeto.
Intuì, più che vederla, la sua nudità quando lui salì sul letto e le toccò il braccio. «Guardami» disse. Vedendolo nudo, Liv si rese conto di quello che le era sempre sembrato familiare nel suo aspetto. La qualità narcisistica del modello maschile. Uno di quegli stupefacenti giovanotti muscolosi, dalla mascella quadrata, che si vedono negli annunci pubblicitari su carta patinata delle Pall Mall o di Paco Rabanne. Nel mondo della pubblicità, i muscoli avevano qualcosa a che vedere con i cappelli a bombetta, con i cappelloni da cow-boy, o con una toga, o con lenzuola scompigliate in qualche soffitta dall'aspetto artistico della metropoli. Si trattava di un mondo implicitamente, e talora esplicitamente, eterosessuale, sebbene lei avesse sempre l'impressione, guardandoli, che quei modelli fossero più probabilmente innamorati dei loro maestri di ginnastica, o di se stessi. I veri muratori erano panciuti a furia di bere birra, i veri cow-boy avevano la pelle simile a cuoio e polmoni altrettanto robusti nonché sterco di vacca o di cavallo sui tacchi degli stivali, e la battuta mancante, nell'intima conversazione sexy tra Mr. Goodbar sul letto delle scopate e la bella dell'ultima notte, al telefono, era questa: il Bullo del Sesso diceva a Mutandine Bollenti che avrebbe potuto avere il suo aggeggio alla Paco Rabanne, ma avrebbe avuto anche il suo erpete. Era facile immaginarsi Rand Nighswander intento a sollevare pesi davanti allo specchio. Era peloso per essere biondo, aveva il petto rivestito da una ricciuta villosità rossiccia e abbondanti ciuffi di peli nelle ascelle e sull'inguine. Il pene, già eretto a mezzo, era grosso e non circonciso. Pigramente, quasi inconsapevolmente, la mano di lui discese su di esso e lo strattonò. Liv notò tutti questi particolari e la nausea le sconvolse lo stomaco. Non perché lui puzzava di sudore rancido, o perché esisteva quel narcisismo sconvolgente, sebbene tali fattori le ripugnassero. Tutto si riduceva a una assoluta assenza di desiderio nei riguardi di Rand e questo rendeva nauseante l'idea del sesso con il giovane. Pat era stato il suo unico amante per tutti gli anni del loro matrimonio. L'intimità con questo individuo, imposta o meno, svalutava la sua intimità con Pat in un modo che lei sentiva fisicamente. Si trattava di un'invasione che le faceva capire per la prima volta quale fosse il significato della parola. Rand annaspò con i bottoni della camicia di lei. Liv gli respinse la mano. «Mi spoglio da sola» disse. «Prima vado in bagno.» Egli ricadde indietro. «Sì.» Si sporse per prendere le sigarette. «Lascia la
porta aperta.» Liv si scostò da lui e discese incespicando dal letto. Rand strinse i denti intorno alla sigaretta che aveva in bocca e rise. Lei ritrovò l'equilibrio e a tastoni entrò nel bagno. Il non opporsi all'effetto del Percodan e della droga le consentì di essere goffa mentre si liberava dei vestiti. Causando un certo strepito, e barcollando qua e là per il bagno, nei punti che le convenivano, riuscì a far restare le pillole dentro i calzini mentre se li toglieva e a raccoglierle tutte insieme. Parve una buona idea mandar giù un'altra pillola, già che ve n'era la possibilità, ma aveva la mente troppo confusa, e per giunta troppa fretta per darsi la pena di accertare di che cosa si trattasse. Ficcò i calzini nella tasca dell'accappatoio di spugna che aveva lasciato appeso all'attaccapanni dietro la porta. Una volta nuda, ebbe immediatamente freddo. Rabbrividendo, si allacciò con le braccia, poi alzò la testa, raddrizzò la spina dorsale e uscì dal rifugio del bagno. Rand la guardò, placido, e grugnì. Lei si avvicinò al letto con tutta la dignità che riuscì a chiamare a raccolta e non incespicò né barcollò una sola volta. Poi si rese conto che sarebbe stata costretta a strisciargli addosso; il maiale, deliberatamente, non si era spostato per farle posto. Arrossì intensamente e si accinse a girare intorno al letto, per salirvi dall'altro lato. Rand l'afferrò per il gomito e la tirò indietro con uno strattone. «Sali su di me» disse. Liv lo fissò con ira, ma, naturalmente, non aveva più scelta. Appoggiò un ginocchio sull'orlo del materasso e si chinò sopra Rand, protendendosi verso il letto dall'altro lato. Rand aspettò che avesse il sedere sopra di lui, poi vi rifilò su una pacca. «Huuurrà!» Liv guaiolò e sobbalzò, cadendogli addosso. Supino e sorridente, Rand succhiò un'ultima volta la sigaretta. Poi lasciò cadere il mozzicone nel bicchiere di carta colmo del vino rifiutato da Liv. La cicca sfrigolò e nell'aria si diffuse, fuggevolmente, l'odore del vin brulé. Lui passò la mano sull'arco del proprio pene e rotolò su Liv, schiacciandolesi contro il ventre. L'alito che le soffiò sulla faccia puzzava di sigaretta. Liv voltò la testa e digrignò i molari. Mettendogli le mani sulla schiena, all'altezza della vita, seguì il contorno delle natiche. Questo parve eccitare l'uomo, che smise di schiacciarla contro il mate-
rasso. «Si rilassi» gli disse lei nell'orecchio sinistro. Era davvero sudicio. Rand si ritrasse e la fissò. Liv gli fece scorrere il polpastrello del pollice sul capezzolo sinistro, poi fece rotolare il capezzolo tra pollice e indice. Rand ansimò. «Sì» disse. «Fallo ancora.» Lei si domandò sardonicamente per quale motivo egli avesse creduto che esistessero i capezzoli maschili... soltanto per simmetria? Glieli pizzicò entrambi molto energicamente. La cosa gli piaceva. Il pene, contro la coscia di Liv, gli divenne prodigiosamente duro. Poi gemette. Le ficcò una mano tra le cosce, le divaricò, e immediatamente conficcò il pene in lei. Fu doloroso. Liv gridò e cercò di scostarsi, spingendogli le spalle e contorcendo il corpo, nel tentativo di scivolar via. Lui la inchiodò e continuò a penetrarla a forza, sebbene stesse scorticando il suo stesso organo contro la resistenza della carne di Liv. Si sarebbe accorto delle lesioni che si stava causando soltanto in seguito, quando la tumescenza non avrebbe più reso insensibili le terminazioni nervose. Le mani di Liv, che flagellavano l'aria, gli trovarono i capelli sulla testa; ne afferrarono una manciata e diedero uno strattone con tanta violenza da farlo guaire. Rand le rifilò un ceffone, forte quanto bastava per farla quasi svenire. Poi si sollevò e di nuovo affondò in lei, liberandole le spalle, ma afferrandole i polsi e inchiodandoglieli contro il guanciale. «Muovi il culo, puttana» le urlò. Per un attimo Liv non riuscì a far niente. Il farabutto le stava facendo male, si trovava dentro di lei, la fotteva, la lacerava. La stava stuprando. Niente di quanto lei aveva Letto o sentito dire o immaginato era riuscito a prepararla in qualche modo alla realtà della violenza carnale. A parte le sensazioni fisiche, non provava niente, era come paralizzata. Terrore, furia, e la forza stessa dei suoi muscoli, tutto le era stato risucchiato. Il niente che restava era disperazione. In quel momento, l'idea di farlo scopare a morte divenne per Liv un lazzo insopportabile. Egli le stava urlando parole, le urlava cose oscene e degradanti a proposito di quello che stava per farle, e si vantava di essere un terribile toro da monta. Lei sentì i rivoletti delle lacrime ardenti scorrerle sulle guance prima di rendersi conto che stava piangendo. Poi ebbe di nuovo un capogiro tremendo e temette di essere sul punto di svenire, ma non svenne. Le sue percezioni divennero all'improvviso più
chiare e più acute. Al di là della spalla di Rand poté vedere il lucernario. Quando la casa era riscaldata, il vetro rimaneva sufficientemente tiepido per far sì che la neve si sciogliesse e scorresse via. E anche quando la casa non era riscaldata, o quando nevicava così abbondantemente che la neve finiva con l'accumularsi, non appena il sole tornava a splendere, il suo tepore, che aumentava attraversando i cristalli di neve, riscaldava il vetro, per cui lo strato nevoso scivolava via e finiva sul tetto, talora all'improvviso e tutto in una volta, talora a grossi frammenti. Ma quella notte il vetro del lucernario era come il vetro di un dipinto che rappresentasse neve, non una nevicata, ma neve compressa e compatta come un muro, una fenditura in un cumulo di neve. Le lampade accese nella camera da letto baluginavano sui cristalli di neve all'altro lato della lastra di vetro, splendendo come la fodera di raso di una cassa da morto. Ma al di là v'era tenebra. L'immagine in negativo del giorno assolato. Il gelo della notte si moltiplicava attraverso gli strati di cristalli di neve e rendeva gelido il vetro. Lei si sentì gelida e nuda, in quel momento, e curiosamente calma, come se fosse già morta. Il peso di Rand le gravava addosso. Era intensamente consapevole del suo corpo, del sudore fresco sovrapposto al sudore vecchio sovrapposto all'odore di tabacco, dei peli e della pelle di lui, del suo ansimare. Si concentrò sulla sensazione dell'uomo dentro di lei. Lo hai voluto tu, pensò. Bastardo. E poi tese i muscoli vaginali. Rand esitò. Lei tornò a tenderli. Rand si fermò. «Lo stai facendo apposta?» le domandò. Liv tenne la faccia voltata dall'altra parte e tornò a tendere i muscoli, stabilendo un ritmo. «Mi sto muovendo» disse. «È quello che voleva.» Egli oppose resistenza per qualche secondo, poi lasciò fare a lei. «Non so se mi piace» disse. Ma non le disse di smettere e lei non smise. Continuò a risucchiarlo e a liberarlo, a risucchiarlo e a liberarlo. Quando lo sbirciò, furtivamente, aveva chiuso gli occhi, con un'espressione tormentata. Lei dovette reprimere una risatina. Nessuna delle piccole adolescenti brille o drogate che il bullo aveva terrorizzato o sedotto in passato gli aveva mai dato un'idea di come potesse essere la cosa in realtà. Il terrore di Liv si dileguò. Non era necessario farlo scopare fino alla morte. Bastava umiliarlo. Sentiva ormai il proprio potere e con calma, deliberatamente, dapprima con un ritmo più rapido, seguito, dopo un secondo di tregua, da una pressione irresistibile, lo
portò all'immediato orgasmo. È stato come spremere l'ultima pasta dentifricia dal tubetto, pensò. Lui gemette e si contorse contro il suo corpo, poi si sollevò sui gomiti e la fissò irosamente. «Cagna» disse. «Non volevo finire.» Lei voltò il viso dall'altra parte per nascondergli un sorriso. Rand le mise la mano a coppa sotto il mento e le alzò la testa di scatto verso di sé. «Mi hai fatto venire» l'accusò. Lei si sforzò di restare inespressiva. «Spiacente» disse. Rand alzò il pugno come se fosse stato sul punto di colpirla. Liv gli sorrise, mostrandogli le rovine degli incisivi. Rand lasciò ricadere il pugno e uscì da lei con la stessa noncuranza con la quale l'aveva penetrata. Seduto sulla sponda del letto, ingollò il vino rimasto nel bicchiere e prese la droga sul comodino. «Non abbiamo finito ancora» disse astiosamente. «Vedrai.» Il piacere della vittoria svanì. Liv si sentì enormemente stupida e si vergognò del proprio sciocco orgoglio. Il potere della schiava non era stato altro che vuote parole suggerite dalla droga. Non poteva esservi alcuna vittoria con quell'individuo. Egli sarebbe divenuto soltanto più pericoloso per Travis e per lei. Opponendogli resistenza, non aveva fatto altro che provocarlo. Scivolò via dal suo fianco con l'intenzione di andare in bagno. Lui le afferrò il braccio e la tirò indietro con uno strattone. «Dove credi di andare?» Silenziosamente Liv additò la porta del bagno. Rand la scrollò di nuovo, con violenza. «Ci sei già stata anche troppo. Lascialo colare.» Liv si rimise sul letto e aspettò. «Mettiti a sedere» disse lui. Liv si puntellò sui gomiti. Era gelida e stanca e si sentiva sudicia. Rand mise sotto il naso il palmo della mano con un pizzico di cocaina. «Aspiralo, O-liv-i-a. Ti fa bene.» Liv voltò la testa dall'altra parte. Lui le afferrò il mento e la costrinse a voltarla nel senso opposto. «Fa come ho detto prima che ti rompa altri denti per costringerti. Sbrigati.» Liv chinò la testa verso il suo palmo, si turò una narice e aspirò la polverina con l'altra. Le fece il solletico e bruciò un poco. Ma poi si sentì meglio. Rand accese una sigaretta. «La senti allentarsi, la potta?»
Lei lo ignorò. Non osava resistergli più di così. Rand succhiò per un po' la sigaretta, poi la posò sull'orlo del comodino. Liv pensò di dirgli che, una volta consumata, la sigaretta avrebbe bruciato il legno; poi la cenere sarebbe caduta di certo sul tappeto, sporcandolo; e il mozzicone, squilibrato, avrebbe potuto cadere esso stesso sul tappeto e bruciarvi un buco. O incendiarlo. Ma lui si stava brancicando il pene con una mano e le palpava i seni con l'altra; poi le pizzicò un capezzolo con tanta violenza da lacerare la pelle, strappando un grido a Liv e inducendola a respingergli la mano. «Ohilà» disse Rand e si sporse per prendere la bustina con la droga. «Rimediamo subito.» Affondò la punta di un dito nella polverina. Liv si coprì il capezzolo irritato con una mano a coppa. «Come vuoi» disse lui. «Ho un'idea migliore.» Mise un generoso pizzico di cocaina sul palmo di una mano e vi passò su le punte delle dita. Poi cominciò a spargerle la polvere sulle grandi labbra. «Che effetto fa?» domandò. «Punge» disse lei. «Intorpidisce.» Rand parve compiaciuto. Continuò l'applicazione finché ebbe il palmo vuoto. Sperimentalmente, le pizzicò le grandi labbra e lei non sentì niente. Rand fiutò un po' di cocaina egli stesso, poi le ordinò di allargare ancora le gambe. Le piazzò una mano con fermezza sul monte di Venere e cominciò a inserire piccole quantità di polvere nella vagina. Liv si contorse e cercò di stringere le gambe. «Sta' ferma» disse lui «se non vuoi che ti strizzi ancora le tette.» Era come la biopsia di sette anni prima, dopo un Pap test falsamente sospetto. Il ginecologo aveva portato il minuscolo lembo di tessuto nel suo studio dopo averle iniettato un anestetico locale il cui effetto era press'a poco come quello della Novocaina o di uno degli altri anestetici impiegati dai dentisti. O almeno così le era sembrato. A parte l'iniezione vera e propria. Ora stava assorbendo cocaina direttamente attraverso la membrana mucosa. Si domandò quali lesioni avrebbe potuto causarle, quanta di quella sostanza potesse tollerare il suo organismo e con che cosa la cocaina fosse stata tagliata. Rand si sollevò sui gomiti accanto a lei e fiutò ancora un po' di coca. Poi le prese le mani e gliele mise sul pene. «Drizzamelo» disse. «Vorrei che tu non avessi la bocca piena di denti spezzati e frastagliati.» «Lo vorrei anch'io» disse lei, massaggiandogli il membro. Rand rise. «Potrei eliminare anche le punte che restano.»
«Grazie» disse Liv. «Ha già fatto abbastanza.» «Gli fai pompini a tuo marito?» domandò lui. Non gli rispose. Tra le sue mani era diventato di nuovo grosso e duro. Gli massaggiò con dolcezza la base del pene, poi accarezzò il glande. Questo lo distrasse quanto bastava. La spinse giù e la montò, penetrandola con la stessa crudeltà e la stessa violenza di prima. «Ho sempre voluto fottere un paio di grammi di coca» disse. Liv lo sentiva dentro di sé, ma non sentiva quasi altro. I suoi muscoli non reagivano. Stava cominciando a provare una sensazione molto strana, come se si fosse trovata lontano, chissà dove. Sentiva il cuore martellarle forte, ma in lontananza. Aveva il corpo reso viscido da un gelido sudore. Rand continuò a cavalcarla con violenza per quello che parve moltissimo tempo. Lei non seppe più per quanto. Era come trovarsi in una canoa sul fiume. Il fiume la stava trascinando con sé. La spinta del remo si limitava a dare il ritmo, la teneva sul filo della corrente. Poi l'acqua divenne più densa come se si fosse trovata in una rete di erbe, e lei si inarcò per evitarle. Mentre l'intrico di erbe la lasciava andare, si rese conto di quanto stava accadendo, ma era ormai troppo tardi. Gridò, non però, come credette Rand Nighswander, di piacere. Ma di disperazione. Le lampade si spensero. Rand bestemmiò. Liv lo colse di sorpresa e lo respinse. Si contorse, rotolando giù dal letto, cercando freneticamente la pistola che lui aveva fissato lì con il nastro adesivo. Rand le passò un braccio intorno al collo e la tirò indietro. Giacquero aggrovigliati sul letto, ansimando. Udirono Ricky e Gordy che incespicavano qua e là nel soggiorno e imprecavano. Tutto a un tratto, forse perché le tenebre della notte avevano invaso la casa, Liv sentì un gran freddo. Sembrava davvero straordinario, adesso, che la corrente non fosse mancata già da un pezzo. Trionfante, il vento ululava intorno alla casa. Rand la scrollò per una spalla. «Dove le tieni le candele?» «Nel comodino» rispose Liv. Poi si districò da lui e rivoltò le coperte rimboccate insieme col lenzuolo, infilandosi poi sotto, voltando le spalle a Rand e raggomitolandosi per riscaldarsi. Il giovane cercò a tastoni i fiammiferi. Alla luce di uno di essi aprì il cassetto del comodino. Un mozzicone di candela rotolò dal fondo del cas-
setto. Rand grugnì e lo prese. Gli occhi di Liv, riparati dalla fiammella del fiammifero e poi da quella esile della candela, si adattarono rapidamente all'oscurità quasi totale. Ma la paralizzavano la confusione, il dolore e i farmaci che aveva ingerito. Non riusciva a pensare a niente con molta chiarezza. Ricky bussò violentemente alla porta della camera da letto. «Rand!» urlò. «È mancata la fottuta corrente!» Rand si alzò e andò ad aprire la porta. «Me ne sono accorto» disse. Ricky varcò incespicando la soglia. «Hai una candela» osservò. «Già» fece Rand, poi si rivolse a Liv. «Ce ne sono altre, O-liv-i-a?» domandò. «In cucina» rispose Liv. «Sopra il frigo.» La faccia di Gordy Teed apparve, simile a una luna fiocamente illuminata, davanti alla porta della camera da letto. «È mancata la corrente» disse Gordy. «Ci sono candele in cucina» disse Rand. «Guarda nell'armadietto sopra il frigorifero.» «Credi di esserne capace?» domandò, sarcastico, Ricky a Gordy. Gordy annuì rapidamente e sgattaiolò via. Si poté udirlo mentre urtava svariate volte contro qualcosa e bestemmiava a mezza voce. Ricky rivolse uno sguardo significativo al letto. «Come è stata?» domandò. Liv si fece piccola sotto le coperte. «Accertalo tu stesso» disse Rand. Ricky fece un fischio. «Posso avere un po' di coca?» Rand gli drappeggiò un braccio sulle spalle. «Senti» disse, poi gli bisbigliò all'orecchio. Gli occhi di Ricky splendettero; egli si coprì la bocca e ridacchiò. Rifilò una gomitata al petto di Rand. «Cavolo, benissimo» disse. «Tu stai a guardare?» Rand prese le mutande e cominciò a infilarsele. «Hai bisogno della claque?» domandò. Ricky fece una spallucciata e si stropicciò le mani. «Si tratta di un'idea tua, ecco tutto.» Rand si avvicinò al letto e prese le sigarette. Accostò al letto la sedia a dondolo e vi si sdraiò. «Che cosa stai aspettando?» domandò. Ricky si sfilò il maglione dalla testa e fece scorrere la lampo dei jeans. Poi si avvicinò rapidamente al letto e si chinò su Liv. «Ehi, Olivia» disse, mostrandole la bustina con la droga. «Ho qui qual-
cosa per la tua potta stretta.» Liv fremette e si raggomitolò ancora di più. Una luce baluginante si avvicinò nel corridoio. «Ehi» disse Gordy «le ho trovate quelle candele.» Rimase sulla soglia, sorridendo. Nessuno parve interessarsi molto del suo successo. Rand continuò a fumare sulla sedia a dondolo e Ricky continuò a sfilarsi i jeans con una mano e ad agitare la bustina con l'altra. Gordy ci pensò su per un minuto circa. Sembrava che Rand avesse dato a Ricky un po' dello zucchero per il naso. Sembrava che Rand stesse permettendo a Ricky di sbattere a sua volta la donna. Gordy entrò a passi strascicati nella stanza per vedere più da vicino. «Ehi» domandò «che cosa stai facendo?» Ricky si liberò con un calcio dei jeans, poi si divincolò per togliersi i mutandoni di lana. «Che cosa, secondo te, buchino?» «Posso avere un po' di zucchero?» domandò Gordy. Si fece un po' più vicino al letto. La candela gli faceva colare cera liquefatta sulle dita, ma lui sembrava non accorgersene. Rand rise. Ricky tirò indietro con uno strattone le coperte e montò sul letto. «Tocca a me, adesso, O-liv-i-a» esclamò, esultante. Liv si ritrasse da lui. «Lasciami stare» disse. «Sta' lontano da me, schifoso.» «Ma è il mio turno» spiegò Ricky. «Non mi toccare» disse Liv. «Non toccarmi.» Ricky infilò una mano sotto il lenzuolo, portandola sul ventre di Liv. «Andiamo, Olivia.» Liv gli respinse la mano con un colpo secco. Non senza stupore da parte sua, egli indietreggiò e guardò Rand. «Andiamo» disse in tono lamentoso. «Tocca a me.» Rand sospirò e si alzò. Si chinò sul letto. «Non hai alcuna tecnica, ecco tutto» spiegò. «Devi dirle le parole giuste.» Ricky si rabbuiò in viso. «Non devo dirle un corno di niente.» Rand si accosciò e accostò la faccia a quella di Liv. «È meglio che lo lasci fare, O-liv-i-a, altrimenti lo mette invece al tuo marmocchio.» Liv esplose fuori del letto, lacerando il lenzuolo mentre balzava su di slancio e facendolo finire addosso a Ricky e a Gordy. Colpì Rand al petto, passando, e lui barcollò all'indietro e cadde sul deretano. Prima che avesse-
ro potuto reagire, lei si trovava già fuori della stanza e nel corridoio. Nella camera da letto, Ricky e Gordy si dibattevano, bestemmiando, per districarsi dal lenzuolo. Si udirono una vampata violenta e urli isterici. Una luce si rifletté come un'ombra sulla parete. Una delle candele, o entrambe, avevano incendiato il lenzuolo. Le ombre dei tre giovinastri danzavano sulla parete negli stessi atteggiamenti di tormento dei dannati all'inferno. Ricky riuscì a liberarsi dal lenzuolo in fiamme e incespicò tra le braccia di Rand, urlando. Rand lo scaraventò da un lato. Gordy, con il lenzuolo ancora avvolto intorno a sé, si dibatteva freneticamente per sottrarsi alle fiamme che gli lambivano le caviglie e le ginocchia, come se venisse bruciato vivo sul rogo. Continuava a urlare con un grido acuto, simile al sibilo del bricco del tè sul fuoco. Quella delle fiamme era l'unica luce rimasta nella stanza. Gordy si trovava tra Rand e la porta dalla quale era fuggita Liv. Rand esitò, poi balzò su Gordy, scaraventandolo sul pavimento. «Asciugamani!» urlò a Ricky, che si stava facendo piccolo accanto alla porta del bagno. L'abitudine di ubbidire a Rand prevalse. Ricky poteva sempre fare qualcosa, qualsiasi cosa, se qualcuno gli impartiva ordini. Si lanciò nel bagno, strappò asciugamani dagli appositi sostegni e dalle mensole e li lanciò, attraverso la porta aperta, nella direzione di Rand. Rand afferrò gli asciugamani a mezz'aria e soffocò con essi le fiamme. Gordy si drizzò a sedere e picchiò i pugni sugli asciugamani, spegnendo l'incendio, dapprima istericamente, poi irosamente. La stanza divenne all'improvviso di nuovo buia. Rand balzò al di là di Gordy e si precipitò nel corridoio inseguendo Liv. Nel soggiorno buio lei urtò contro i mobili, fece cadere vassoi sui quali ancora si trovavano piatti e inciampò su La Povera, che parve saltar fuori dal niente, come se fosse stata formata dall'oscurità stessa. Liv corse verso il caminetto, trovò, guidata dalla memoria, e tastò, la nicchia ove aveva lasciato ore prima il coltello. Poi riattraversò di corsa il soggiorno verso il corridoio e la camera da letto di Sarah, dove dormiva Travis. Rand balzò fuori dalle tenebre, intercettandola nel corridoio. Non vi fu nemmeno il tempo di urlare. Liv lo colpì con il coltello. Sentì la resistenza della carne mentre la lama gli sfregiava un lato della faccia. Le dita di lui le si serrarono come una manetta intorno al polso e cominciarono a torcere. Liv sentì l'ulna torcersi insieme alle dita. Tutto il suo corpo venne sollevato e i piedi nudi si staccarono dal pavimento. Gridò di dolore e di disperazione. Mentre cercava di intensificare la stretta sull'impugnatu-
ra del coltello, si rese conto di aver perduto il controllo delle proprie dita. Sembravano disossate. E parvero allentarsi di loro iniziativa. Rand le scosse lievemente il polso, come un cane potrebbe scuotere per il collo un'anatra morta, e le dita di lei mollarono la presa. Rand afferrò il coltello con l'altra mano mentre cadeva. Poi, con noncuranza, spinse Liv nel soggiorno. Lei si lasciò cadere sul divano e si raggomitolò rabbrividendo. Rand ansimava. Si tastò la faccia e poi si guardò le dita. «Cagna» disse. «Mi hai tagliato.» Ricky entrò a piedi nudi nel soggiorno e sbirciò loro due. «L'hai presa, Rand?» Rand grugnì. Osservò il coltello. «Va' a prender qualche altra candela.» Ricky corse in cucina. Gordy venne a sua volta nel soggiorno, strascicando i piedi. Stava piangendo. Emanava un puzzo di stoffa bruciata e di urina. Ricky tornò dalla cucina con una manciata di candele. «Gordy si è pisciato addosso» disse. «Troppo tardi per spegnere le fiamme, ma ci ha provato.» Ridacchiò. «Sei perfido» piagnucolò Gordy. «Sei sempre perfido con me.» Si avvicinò al focolare e si afflosciò sul pavimento allacciandosi le ginocchia. Rand si mise sotto il braccio il trinciante e tolse una candela dalla mano di Ricky. «Fiammiferi?» Ricky fece una spallucciata. Rand si guardò attorno spazientito, poi si avvicinò al caminetto. Prese l'attizzatoio e rimestò la cenere finché non ebbe trovato braci ancora accese. Arrotolò a cono un pezzo di carta di giornale, lo accese accostandolo alle braci, poi accese con esso la candela. «Rand» piagnucolò Gordy. «Mi sono scottato, Rand. Fa male, Rand.» Rand si accovacciò ed esaminò le ustioni di Gordy. Gordy gli mostrò le vesciche che aveva sulle mani, sui piedi e sulle caviglie. «Non sono belle a vedersi» disse Rand. «Ma sopravvivrai.» Guardò Ricky. «Va' nei bagni e vedi se riesci a trovare qualche crema o qualche spray per le scottature.» «Nel bagno dei bambini» disse Liv. «Lo spray contro le ustioni è là.» Rand fece un cenno del capo. «Grazie, O-liv-i-a.» Ricky accese una candela con quella di Rand e si affrettò ad allontanarsi. Rand si tolse il coltello da cucina di sotto il braccio e sedette sul divano accanto a Liv. «Dovrei tagliarti la gola» disse piacevolmente. «Dovrei ta-
gliare la gola al marmocchio.» Liv si dondolava adagio. Aveva un gran freddo, tremava di freddo, era gelida fino alle ossa, come se fosse stata tutta superficie e tutta scoperta. Ricky tornò portando lo spray contro le ustioni. Sbirciò Rand e lo diede a Gordy. «Non potrai più dire che non ho mai fatto niente per te» osservò. Gordy prese con gratitudine la bomboletta dello spray. «Oh, no, Ricky, non dirò più che non hai mai fatto niente per me. Mai più.» «Ricky» domandò Rand «dov'è la coca?» Ricky trasalì. «Che possa essere fottuto» disse. «Credo di averla lasciata cadere. Vado a cercarla.» «Hai freddo?» domandò Rand a Liv. Liv annuì. «Bene» disse Rand. «Dovrei metterti fuori di casa, accidenti.» Ricky rientrò dietro la luce baluginante della candela. Mostrò a Rand un asciugamano carbonizzato e su di esso i resti della bustina. Le fiamme avevano fuso sia la plastica sia la polverina, formando un grumo maleodorante e poco allettante. «Magnifico» disse Rand. «Magnifico.» «Già» disse Ricky. Rand toccò con il coltello da cucina il seno nudo di Liv. «Vieni, O-liv-ia» disse, e si alzò. Liv si sollevò a fatica dal divano e si mise in piedi. Rand le afferrò il gomito e la spinse verso la camera da letto. L'aria era satura del fumo causato dal piccolo incendio. Rand girò la maniglia di una finestra e l'aprì. Il fumo sfuggì all'esterno, insieme al tepore della stanza, e la neve si ingolfò all'interno, a folate che raggelavano fino alle ossa. Liv tolse una coperta di riserva dall'armadio e si avvolse in essa. Rand guardò al di là della spalla di lei e prese una coperta per sé e una per Ricky, che era ancora nudo come un verme. Ricky ridacchiò e se l'avvolse intorno alla vita. «Cerca i tuoi vestiti» disse Rand. «E i miei.» Chiuse la finestra. «Rifa questo letto, O-liv-i-a.» «Mi riuscirebbe più facile se avessi addosso qualche vero indumento» disse lei. Rand annuì. Liv si infilò una camicia da notte. «Ho i piedi gelati» disse.
«E allora mettiti un paio di calze» disse Rand. «I miei calzini sono nel bagno.» «Va' a prenderli.» Lei si infilò rapidamente i calzini, muovendo le dita del piede ed inarcandolo per ridistribuire i sonniferi nei vuoti tra le dita e sotto il piede. Quando uscì dal bagno, Rand, inginocchiato accanto al letto, stava staccando la pistola e le munizioni che aveva fissato all'intelaiatura mediante il nastro adesivo. Mentre Ricky toglieva di mezzo a calci gli asciugamani e il lenzuolo bruciacchiati, poi separava i propri indumenti da quelli del fratello, e mentre i due giovani si vestivano, Liv tolse dal letto l'altro lenzuolo e lo rifece usando biancheria pulita. «Hai portato via dal bagno delle pillole?» domandò Rand a Ricky. «No» rispose Ricky. «Per niente. Chi lo ha detto?» «O-liv-i-a pensava che forse potevi averle tu.» «È una maledetta bugiarda» disse Ricky. «Scommetto che le ha proprio lei.» «Lo hai sentito, O-liv-i-a» disse Rand. Liv scosse le lenzuola di bucato per distenderle sul letto. «Forse non sono mai state nell'armadietto.» «Forse» disse Rand. «Forse dovrei consentire a Ricky di tirartele fuori.» Liv si chinò sul letto, rifacendolo. «C'era qualcosa nell'armadietto, signor Nighswander» disse. «Un mucchio di sonniferi e di calmanti. Tutti i calmanti più forti che si possono trovare. Bene, vuole che il suo ripugnante fratellino e quella creatura patetica, là fuori, si avvelenino prendendone una dose eccessiva? Se così vuole, le mostrerò immediatamente dove sono. Me ne infischio se creperanno prendendoli.» «Ehi» disse Ricky. «Hai sentito come mi ha chiamato?» «Chiudi il becco» disse Rand. «Non riesco a pensare se continui a far andare quella boccaccia.» Ricky fece il broncio e Liv finì di rifare il letto prima che Rand parlasse di nuovo. «Ricky» disse «prendi un paio di queste coperte e tu e Gordy mettetevi a dormire sul pavimento del soggiorno. Riaccendete il fuoco. Non avremo altro per scaldarci, stanotte.» «E quelle pillole?» domandò Ricky. «Non ne hai bisogno» disse Rand. «Tieni, prendi il bottiglione. Il vino
basterà.» «Benissimo!» rispose Ricky, e se ne andò con il bottiglione. «Sei proprio sicura di non voler mettere qualche pillola in quel vino?» domandò Rand a Liv. «Mi piacerebbe» disse Liv «però dovrebbe farselo ridare.» Rand rise. «Non provi nessuna compassione per le vesciche del povero, buon Gordy?» «Un poco» rispose Liv. «A lui un paio di pillole potrei darle.» «Te ne sarei grato» disse Rand. «Ricky lo maltratta troppo. È un povero uomo scemo, sai.» «Devo andare in bagno» disse Liv. Rand fece un cenno di assenso. Si mise sulla sedia a dondolo e sfilò una sigaretta dal pacchetto. Era l'ultima. Nel lampo di luce del fiammifero la faccia di lui parve molto stanca. Se anche non aveva fatto altro, Liv era riuscita a spossarlo. Andò silenziosamente nel bagno e si chiuse a chiave la porta alle spalle. Estrasse dai calzini due Darvocet e due Darvon 65. Le Darvon le inghiottì lei stessa, poi si lavò i denti, si lavò il viso ed infine le cosce, dove il seme di Rand si era disseccato. Infine orinò nell'improvviso lusso dell'intimità. Facendo acqua, sentì bruciori e questo la rese consapevole del fatto che era stata presa violentemente. V'era sangue, nell'urina, come filamenti di inchiostro rosso. Debiti. Qualcuno doveva qualcosa a qualcun altro. Una volta uscita dal bagno, porse a Rand le due compresse. Lui chinò il capo a mo' di ringraziamento e la lasciò sola nella camera da letto. Liv si infilò sotto le coperte. Lì si stava più al caldo. I radiatori elettrici non funzionavano più. Le camere da letto sarebbero diventate molto gelide prima del mattino. Rand tornò. «Sono andato a vedere il marmocchio» disse. «Dorme ancora.» «Stupefacente» disse Liv. Le Darvon stavano cominciando ad agire. La tiravano sotto, era come essere completamente ubriaca. Come avere soprascarpe di cemento. La tiravano giù, fino al fondo della profondità, della profondità di un qualcosa. Le correnti la tenevano eretta e le sollevavano i capelli dal cuoio capelluto. I capelli le finivano davanti agli occhi. Oscillò con le correnti finché non le affondarono radici anche dentro e lei non si rese nemmeno più conto del fatto che stava oscillando. Parte terza
...quale che sia il muto inverno dei tuoi denti o l'odio dei tuoi occhi, quale che sia la guerra di bestie moriture che il nostro oblio custodiscono, in qualche dominio dell'estate, siamo una cosa sola... ...lanciati nel tuo dolore come una tortora, come neve sui morti... PABLO NERUDA «Le Sventure e le Furie» Capitolo XV Scontro sanguinoso Montaggio preliminare numero 7 Myrna Ratcliffe sta riordinando il soggiorno. Non è più la stanza che era l'estate precedente. Sulla mensola del caminetto v'è uno strato di polvere, ci sono giocattoli dappertutto, dal cesto della biancheria si riversano asciugamani non piegati e capi di vestiario, un sottile indizio di disordine, rispecchiato dalla stessa Myrna, che indossa una vestaglia dalla tasca scucita e calza logore pantofole. «Maledetti marmocchi» borbotta, chinandosi a raccattare pastelli sparsi qua e là sul tappeto e pezzi di carta coperti da scarabocchi infantili. Lascia cadere i pastelli in una scatola di latta sopra le riviste ammonticchiate sul tavolino da caffè ed appallottola i pezzi di carta ficcandoli nell'altra tasca della vestaglia, quella che non è scucita. Mette insieme una pila di album da colorare e li ficca sul piano inferiore del tavolino da caffè. Raddrizzandosi, si comprime con le mani il fondo schiena. Osserva la stanza, chiude gli occhi e scuote la testa. Prende un bicchiere da cocktail sul tavolino, beve qualche sorso, poi siede a gambe incrociate sul tappeto davanti al caminetto. Contemplando il fuoco, si toglie di tasca i pezzi di carta appallottolati e comincia a gettarli sulle fiamme. Quando sono stati consumati tutti, sospira, beve un altro sorso, poi intreccia le mani in grembo. «Sai una cosa» dice, rivolta al fuoco: «sai una cosa, Emery Ratcliffe? Ti odio.» «Per tutti i diavoli» esclama l'uomo alle sue spalle. «Questo significa che esiste una possibilità per me?»
L'urlo di Myrna, mentre si volta, viene soffocato da una mano piazzata sulla sua bocca. L'altra mano dell'uomo si trova sotto il mento di lei e le spinge la testa all'indietro. Il dibattersi della donna apre la vestaglia e fa saltare il bottone più in alto della giacca del pigiama. L'uomo spinge indietro facilmente Myrna sul tappeto e le mostra un coltello. Poi, adagio, le toglie la mano dalla bocca. «Court» alita lei. «Dopo tredici anni di nuovo qui come la maledizione di una strega.» Court si accovaccia e si scosta dalla fronte un ciuffo di ruvidi capelli. «Proprio così, Miss Myrna» dice. Myrna si drizza a sedere con calma, abbottona la giacca del pigiama e torna ad avvolgersi nella vestaglia. «Non ho paura di lei, Court» dichiara. «Lei mi ha già fatto tutto il male che poteva.» Court si liscia i baffi. «Non ce l'ho con lei, Miss Myrna» dice. «Voglio soltanto scambiare una parola con Rat, ecco tutto.» «Anch'io voglio scambiare una parola con Rat» dice Myrna. «Posso riavere il bicchiere?» Court si guarda attorno, si sporge per prenderlo, glielo passa. Lei lo prende senza dire grazie e beve. La prima sorsata è dolorosa. Si palpa la gola. «Le mie scuse, Miss Myrna» dice Court. Myrna lo guarda sprezzante. «Può ficcarsele nel buco del culo, le sue scuse» dice. Court fa picchiettare la punta del coltello sui denti e sospira. «Penso di essermelo meritato, questo, Miss Myrna. Be', non importa. Mi dica soltanto dove si trova Rat e me ne andrò. Sarò ben contento di dirgli che è infuriata con lui.» Myrna contempla il fuoco al di là di Court. «Non lo so dove si trova Rat, quindi non insista.» Court rimane accovacciato in silenzio per un lungo momento. Poi si sposta accanto a Myrna e la cinge con un braccio. «A me non mentirebbe, vero, Miss Myrna?» domanda. Lei gli si sottrae con uno strattone. Egli le afferra i polsi e le torce le braccia dietro la schiena. Myrna grida di dolore. La giacca del pigiama torna a sbottonarsi. Il seno sinistro è quasi completamente scoperto. «Dove si trova?» domanda Court. «Non lo so» geme lei «non lo so.» E scoppia in singhiozzi.
Tenendole il coltello contro un lato della faccia, intensificando la pressione sul polso della donna, egli dice: «Sia ragionevole Miss Myrna. Trasformerò in pezzi di carne da stufato quei suoi graziosi marmocchietti se non mi dice immediatamente dove si trova il fottuto Rat.» «Tocchi i miei bambini» urla Myrna «e sarà un uomo morto.» Court sorride e le dà uno strattone al braccio. Lei trasale. «Perché ci tiene tanto a trovare Rat?» domanda Myrna. «Io so perché lo voglio, il figlio di puttana, ma lei perché lo sta cercando?» «Abbiamo un vecchio conto da regolare» dice Court. «Lo stesso conto che ha regolato con Jackson?» domanda Myrna. «A lei che importa, Miss Myrna? Lo odia anche lei, Rat. Gliel'ho sentito dire.» «Io ho una buona ragione per farlo fuori. Qual è la sua?» Court le accarezza il seno nudo. «È un assassino» dice. «Mi tolga la mano dalla tetta» dice Myrna. Court ride. «Rat è un figlio di puttana perché mi ha piantata, ma non è un assassino» dice Myrna. «La cosa accadde qualche tempo fa. Probabilmente ha già dimenticato tutto. Qualcuno che assassinò durante la guerra.» «Chiunque Rat possa avere ucciso durante la guerra, lo ha ucciso per autodifesa. Non ha mai assassinato nessuno» insisté Myrna. «L'assassino è lei. Lei ha fatto fuori Jackson. Lo ha detto Denny.» A un tratto è riuscita ad assicurarsi tutta l'attenzione di Court. «Corriveau? Quand'è che lo ha visto?» «Non l'ho visto» dice Myrna. «Ha telefonato il giorno in cui Rat è partito.» «Sono insieme, allora.» «Non lo so.» Court le lascia andare il braccio. Lei si massaggia il polso e fa una smorfia. Con noncuranza, Court le drappeggia un braccio sulle spalle. Lei sbircia con disgusto la mano dell'uomo che le penzola accanto alla clavicola. Cerca di riabbottonarsi la giacca del pigiama. Court sorride, le serra la gola con il braccio e la spinge indietro facendole perdere l'equilibrio. Con un solo, agile movimento la stende sul pavimento e la cavalca. Myrna si irrigidisce sotto di lui, poi cerca di liberarsi contorcendosi. Court le si getta addosso, l'avambraccio poggiato sul collo, tenendole la punta del coltello sotto l'occhio destro.
«Le dirò io chi assassinarono, Miss Myrna. Assassinarono una ragazza di nome May. Una ragazza all'incirca come lei.» Myrna trema. Se anche prima Court non le faceva paura, ora lo teme. «So come far tornare a casa Rat, Miss Myrna» dice Court, come se stesse conversando del più e del meno. «So come preparare una piccola trappola per Ratty.» «La cosa non mi interessa» dice Myrna, con una spavalderia che Court sa essere un bluff. Court si solleva sui gomiti. «Le farò quello che fecero a lei» dice. «A chi?» domanda Myrna. «Chi lo fece e a chi?» Con la mano libera egli le strappa via la cintola. Lei cerca di scostargli le mani. Court la schiaffeggia con violenza, tanto forte che Myrna quasi non geme e, in seguito, rimane inerte e stordita. Court comincia a strapparle via i pantaloni del pigiama. Lei solleva le ginocchia con un movimento protettivo. «Io sono un'eccezione a questo mondo» ansima Court «e pertanto non la violenterò come violentarono May, ma la crocifiggerò, Miss Myrna, come loro crocifissero May, e non dovrò più cercare Rat perché sarà lui a venire da me.» Myrna volta la testa da un lato e dall'altro sul tappeto, poi fissa il soffitto. «Vuole fare quello che fecero loro» dice. «È questa la sua idea della giustizia? Vuole essere anche lei uno stupratore e un assassino?» Ride amaramente e, sollevando la testa con uno sforzo enorme, sputa in faccia a Court. Court si irrigidisce. La saliva gli scorre giù sulla faccia. «Perché no?» le domanda. «Perché non dovrei?» E comincia a piangere. Quando Pat si destò, raggomitolato sul sedile anteriore, la neve copriva, come tendine, i finestrini dell'automobile. Se non lo avessero smentito le lancette dell'orologio sul cruscotto, che dalle otto erano passate alle cinque, sarebbe stato logico pensare che fosse ancora notte piena. La neve era penetrata attraverso la minuscola fessura che egli aveva lasciato alzando il cristallo del finestrino anteriore dalla parte del passeggero, e incipriava il cruscotto, le sommità dei sedili, il volante. Aveva formato uno strato più spesso negli angoli, negli interstizi del cruscotto e dentro le curve dei sedili. Nonché su Sarah, che stava cominciando a muoversi sul sedile posterio-
re. Temendo i gas di scarico, avevano fatto a meno del riscaldamento. Il loro alito si tramutava in pennacchi bianchi nell'aria gelida. Pat provò ad aprire la portiera più vicina, dalla sua parte, la parte del guidatore. Era bloccata dal ghiaccio. L'aprì sferrando calci e discese. Avanzò a fatica nella neve fino al cespuglio più vicino e urinò sotto la nevicata. Riusciva almeno a vedere il punto in cui l'urina colorava di giallo la neve. La visibilità era migliorata quanto bastava per consentirgli di sapere dove si trovava e, come aveva temuto, erano arrivati a pochi metri appena dalla strada rialzata Pondicherry, sopra lo stretto. Riuscì a distinguere la strada rialzata del Jago grazie al profilo dei guardrail, che avevano fatto sciogliere la bianca superficie della neve. La strada rialzata correva appena poco più di un metro più in alto del lago. Ogni pochi metri, grossi macigni spuntavano più in alto dei guardrail. Su di essi si trovavano, in precario equilibrio, alti cappucci di neve, qualcuno dei quali cadeva all'improvviso a causa di un cambiamento di direzione del vento. Sul lato dell'automobile dalla parte del passeggero, rimasta al riparo dal vento, la neve arrivava ai mozzi delle ruote. Mucchi di neve bloccavano le portiere e la neve rivestiva i cristalli dei finestrini, strisciava con lunghe dita sul cofano dalla parte del guidatore. Quando egli risalì in macchina, parte della neve accumulatasi sul tetto cadde sul sedile. Pat la eliminò e tolse la neve anche dai cardini e dall'intelaiatura. Sarah appoggiò i gomiti sullo schienale del sedile anteriore. «Devo proprio andare in quel posticino, Papi» disse. «Spiacente, figliola» rispose lui. «Dovrai servirti della toilette di Madre Natura, come ho fatto io.» Sarah sospirò e scavalcò la spalliera del sedile anteriore. «Anche le portiere posteriori sono bloccate dal gelo.» Pat le tenne aperta quella anteriore. Lei si inoltrò barcollando nella neve alta. «È così indecente la situazione» disse. Pat rise. «Non lasciarti mordere dal gelo.» Sarah rise a sua volta. Pat si portò dietro la macchina e sgombrò la neve con le mani per liberare lo scappamento; fortunatamente aveva spessi guanti da sci, foderati con gommapiuma. Sarah tornò scivolando sulla neve. Lui si infilò sul sedile anteriore, accanto a lei, poi si strinsero l'uno contro l'altra, condividendo il tepore del loro corpo. Dopo avere riscaldato con l'alito la chiave dell'ac-
censione, Pat la inserì. Il motorino d'avviamento girò per qualche secondo, poi si fermò. Lui si costrinse ad aspettare finché sul quadrante dell'orologio la lancetta lunga non si fu spostata di due minuti. Poi tentò di nuovo e questa volta il motore partì e ruggì. Aveva voglia anche lui di ruggire d'esultanza. «È partito!» gridò Sarah. Pat lasciò girare il motore per parecchi minuti prima di inserire il riscaldamento. Non appena il tepore cominciò a farsi sentire, misero entrambi le mani sugli sbocchi dell'aria calda. Sarah ridacchiò e cantò brani di «Accendi il mio fuoco.» L'aria calda era quasi dolorosa. Pat flette le mani e le stropicciò l'una contro l'altra per stimolare la circolazione. Ma, anche dopo, si godette il tepore soltanto quanto bastava per sentirsi di nuovo quasi normale. Inserì poi la prima. Non si aspettava, in realtà, di poter viaggiare, non con novanta centimetri di neve, ed infatti l'automobile non si mosse. Vibrò e sobbalzò e ringhiò ed ululò quando lui abbassò sul serio il pedale dell'acceleratore, ma in realtà non si mosse. Pat riportò il motore al minimo e sedette ancora per qualche minuto nel tepore. Presto, con il miglioramento della visibilità, le squadre che tenevano sgombre le rotabili si sarebbero rimesse al lavoro. Ma quando avrebbero raggiunto la strada rialzata? E loro due dovevano aspettarle o proseguire a piedi? Pat cercò di ricordare che cosa vi fosse, entro un raggio ragionevole, in fatto di possibili rifugi. V'era il «porticciolo», con rimesse per imbarcazioni e una pompa di benzina. Ma durante l'inverno rimaneva chiuso. Il pontile era pubblico, ma i patiti degli scooter da neve e della pesca sul ghiaccio che si servivano del pontile non si sarebbero fatti vedere quel giorno. Il ghiaccio non poteva essere raggiunto e gli scooter sarebbero affondati nella neve alta e soffice. Alle loro spalle, verso Greenspark, si trovavano fattorie, l'ultima a due o tre miglia di distanza. V'erano fattorie e case all'altro lato della strada rialzata, al di là di Little Partridge Hill. E, più vicine di tutte, esistevano le case estive sul lago. Alcune di esse ad appena alcune centinaia di metri di distanza, vuote e non riscaldate, ma, in qualche modo, una serie di rifugi che, simili a una catena, conducevano a Liv e a Travis. Il lago continuava per sette miglia da un lato della strada rialzata, verso la North Bay, dove si trovava casa loro. Più vicino avrebbero trovato un riparo se fossero entrati in una delle rimesse del porticciolo o se fossero arrivati a Little Partridge, ma avrebbero potuto recarsi direttamente da Liv e da Travis soltanto camminando sul lago. Sarebbe stato più facile con le racchette da neve, ma questo Marguerite non lo aveva previsto.
«Quest'automobile non si muoverà fino a quando le squadre non avranno sgombrato la strada» disse a sua figlia. «Vuoi restare qui o vuoi provare a camminare sul lago? Saranno forse cinque miglia a volo d'uccello; in linea retta, come diresti tu.» Sarah rabbrividì. «Se resteremo qui, l'automobile ci terrà al calduccio.» «Per breve tempo, sì» riconobbe Pat. «Ma poi la benzina si consumerà e la batteria si scaricherà.» Sarah si chinò per sbirciare l'indicatore di livello della benzina. «Il serbatoio è quasi vuoto.» «Infatti.» La ragazza sospirò. «Credo che questa sia la volta in cui dobbiamo fare tutto nel modo più faticoso.» Pat rise. «Spegnerò il motore, bambina, e lascerò la chiave dell'accensione sul cruscotto. Gli uomini che devono sgombrare la strada potranno aver bisogno di spostare la macchina.» Girò la chiave e il motore si fermò. Il silenzio parve ossessivo. «Su, vieni» disse a sua figlia, e aprì la portiera. Sarah scivolò fuori. Sottobraccio, si diressero verso i rami inclinati di un vetusto abete rosso, potato ad altezza d'uomo. Fu un'impresa difficile, il primo esempio di quello che avrebbero trovato in qualsiasi direzione. Si sentivano infreddoliti e affamati e irrigiditi per avere trascorso la notte sulla macchina. Ma il mondo intorno a loro era di una bellezza da estasi. Avrebbe potuto ucciderli, pensò Pat; li avrebbe uccisi, qualora se ne fosse presentata l'opportunità. Ma in ogni caso era e sarebbe stato ugualmente bello. Nulla di ciò che loro potevano fare o non fare contava, in realtà, non nel contesto di quel luogo. Ma più di ogni altra cosa, egli si disse, voleva rivedere Liv e accertarsi che lei e Travis stessero bene. Con risolutezza si lasciarono indietro il riparo dell'abete e si diressero, al di là dell'argine, verso il lago. Era come salire scale costruite per un gigante. Un piede sollevato, in equilibrio sull'altro, spostavano il proprio peso all'indietro finché sentivano il duro spigolo della neve contro la parte posteriore del ginocchio, poi si protendevano goffamente in avanti con il piede alzato e lo abbassavano facendo forza con tutto il loro peso per conficcarlo nella neve, e il piede affondava, affondava tanto che dovevano lottare per non cadere a faccia in giù, come non di rado accadeva; in ultimo parve che stessero strisciando o nuotando sul lago, ma non nell'acqua, bensì attraverso una cipria malevola. La strada rialzata e l'automobile scomparvero nella neve turbinosa prima
che fossero andati molto oltre. E poi, molto, molto rapidamente, si smarrirono, anche se Pat non lo disse a Sarah e anche se lei si limitò a scoccargli occhiate ansiose di tanto in tanto. E, con la stessa rapidità, divennero troppo intorpiditi per poter fare qualcosa di diverso che continuare ad arrancare. Walter McKenzie si grattò il petto e sbadigliò. Il suo fiato appannò il vetro della finestra nella camera da letto. Egli strofinò il vetro con il palmo della mano e sbirciò il mondo esterno. Si poteva vedere ben poco, tranne neve già caduta o che cadeva, accumulata dal vento o trascinata via dal vento, neve che turbinava qua e là, per cui uno poteva distinguere l'alto dal basso e una cosa dall'altra soltanto restandosene al sicuro in casa, dove la situazione delle cose poteva, per estrapolazione, essere riferita all'aperto. Walter scosse la testa. Infilò i pantaloni di lana sopra la maglia-mutanda con la quale aveva dormito e discese passando per la scala di servizio, una mano sulla ringhiera per sostenersi, badando a dove metteva i piedi. Il rivestimento di gomma sugli scalini si era allentato pericolosamente col trascorrere degli anni, ma Walter non pensava mai a fissarlo, o a sostituirlo, o semplicemente a toglierlo; si limitava a compensare, inconsciamente, la sua trascuratezza rallentando il passo e servendosi della ringhiera. Il fuoco nella stufa a legna era arrivato al nadir dopo aver impedito per tutta la notte che l'acqua gelasse nelle tubazioni in cucina. Walter poté sentire il freddo del linoleum attraverso le due calze di lana che gli servivano da pantofole. Fritzie era andata a rannicchiarsi sotto la stufa quando aveva sentito il tepore diminuire. Ora si trascinò fuori e si rotolò per una buona grattata mattutina. Walter, quando aprì la porta di servizio per fare uscire la cagna, constatò che la neve si era accumulata contro la porta fino all'altezza della vita, e pertanto dovette sollevare Fritzie e spingerla fuori. La cagna guaì e scomparve in una nuvola di neve. Walter chiuse la porta e andò a infilarsi un altro paio di calze di lana, una camicia di lana, un vetusto maglione bucato sui gomiti e la giacca pesante. Fritzie stava già latrando davanti alla porta di servizio per essere fatta entrare. Trascinando neve dietro di sé come una cascata, rotolò in casa quando lui andò ad aprirle. Questa volta occorse una certa fatica per chiudere di nuovo la porta contro il peso della neve. Dopo aver dato da mangiare a Fritzie, egli accese la radio e ascoltò il bollettino meteorologico di Mount Washington, nel New Hampshire, che concerneva l'intera regione. Stando al bollettino, la tempesta di neve anda-
va diminuendo dopo aver depositato in tutta la regione uno strato alto da novanta centimetri a un metro e venti, oltre al preesistente strato ghiacciato di venti centimetri. I venti avevano raggiunto una velocità massima di ottanta chilometri all'ora e andavano indebolendosi. Erano previste schiarite al cader della notte. Vi erano state frequenti interruzioni dell'energia elettrica, il vento e la neve avendo abbattuto alberi e tagliato le linee. Le strade venivano sgombrate lentamente, a causa del considerevole accumulo di neve e si consigliava la massima prudenza, invitando a evitare i viaggi non indispensabili. Le scuole erano chiuse, naturalmente, e questo significava da un canto che gli ingombranti autobus scolastici non circolavano, ma, dall'altro, che vi sarebbero stati bambini intenti a giocare all'aperto. Dopo aver ascoltato il bollettino, Walter infilò due paia di guanti, tutti bucati, ma con i buchi quasi sempre in posizioni diverse, per cui, sovrapposti, formavano quasi un paio senza buchi, poi si calcò sulla testa un berretto di lana con i copriorecchie e si avvolse intorno al collo e alla metà inferiore della faccia una sciarpa di lana. «Andiamo in guerra» disse a Fritzie, e tolse il badile dal deposito degli attrezzi. Gli occorse un'ora per aprirsi una strada fino alla jeep. Le racchette da neve si trovavano dietro il sedile. La lama spartineve era già in posizione, la qual cosa gli consentiva di guadagnare tempo e di evitare fatiche. In effetti, era propenso a lasciarla sempre così, nonostante il consumo in più di benzina e il fatto che rendeva la jeep meno manovrabile. Il guaio era che non gli andava più di toglierla e di metterla senza l'aiuto di qualcun altro. Gli occorreva un qualche pretesto per recarsi nel garage di Reuben Styles, e non era facile, in quanto cambiava lui stesso l'olio e provvedeva a quasi tutti i lavori di manutenzione della jeep; ma, quando riusciva a escogitare qualcosa, la necessità di una qualche riparazione, talora inventando, il che era pur sempre plausibile, in quanto è ben noto che le automobili hanno a volte inconvenienti misteriosi, i quali se ne vanno per conto loro, come succede con i disturbi delle persone, oppure vengono riparati per caso affannandosi intorno ad esse, ma senza che il meccanico sappia esattamente che cosa ha fatto; be', allora Walter diceva: «Reuben, non mi daresti una mano con questa fottuta lama?» e Reuben, cortesemente, lo aiutava in quanto la cortesia vuole che si dia una mano al vicino, di qualsiasi età, quando si tratta di spostare un oggetto così pesante. Walter decideva allora se la lama dovesse essere lasciata su o tolta, a seconda di come sembrava mettersi il tempo.
Walter sgombrò ora il cortile di casa sua e poi il lungo viale d'accesso di terra battuta fino alla strada. La strada era già stata sgombrata e gli uomini della squadra, passando, avevano chiuso il viale d'accesso con un enorme argine di neve, ma lui non gliene volle per questo. Non potevano soffermarsi ad aprire i viali d'accesso di tutti quanti, e, a parte questo, sapevano che lui era attrezzato. Una volta eliminato l'argine di neve, si diresse verso la strada rialzata. Gli itinerari più diretti dalla sua fattoria alla North Bay erano strade a una sola corsia che, lui lo sapeva grazie a una lunga esperienza, avrebbero richiesto più tempo del percorrere la strada rialzata Pondicherry per seguire poi la Strada 5 in direzione nord, attraverso il villaggio di Nodd's Ridge, e quindi voltare di nuovo verso il lago lungo la Dexter Road. Questo significava una non breve e faticosa discesa giù per la collina Little Partridge, con la jeep che avrebbe fatto forza contro i freni slittando a dritta e a manca prima di arrivare in fondo, ma si trattava dell'unico inconveniente di quel giro più lungo. Scorse per la prima volta la luce rossa lampeggiante ai piedi della collina, dal lato opposto della strada rialzata. Ben presto riuscì a distinguere lo spartineve giallo della cittadina. Era fermo accanto a un'automobile abbandonata sull'altro lato della strada. Walter fermò e discese. Frankie Styles e Bo Linscott si trovavano in piedi al riparo dal vento dietro lo spartineve, ingobbiti sotto i mantelli impermeabili e intenti a fumare sigarette tenute goffamente con gli spessi guantoni. Frankie fece un laconico gesto di saluto scorgendo Walter. «Figlio di puttana di un tempaccio» disse Bo. Walter annuì. «La radio ha detto che sta per mollare.» Bo e Frankie risero. «Sarebbe ora, cribbio» disse Bo. Walter si raschiò ripetutamente la gola e sputò catarro sulla neve. «Cos'è che vi ha fermati?» Bo alzò le spalle. «Qualche buchino ha piantato qui la macchina, stanotte. Dio solo sa dove sia.» «Così l'abbiamo trovata arrivando qui» disse Frankie. «Proprio in mezzo alla strada. Deve esserglisi fermato il motore in piena tormenta,» Walter annuì. «Ha infuriato, stanotte.» «Figlio di puttana di un tempaccio» disse Frankie. Bo annuì e gettò il mozzicone della sigaretta sulla neve. «Forza, Frankie» disse. «Dobbiamo togliere di mezzo quel mucchio di merda e avverti-
re lo sceriffo.» Walter arrancò verso la giardinetta abbandonata. La scrutò socchiudendo gli occhi. Poi girò sui tacchi e agitò il braccio nella direzione di Bo, che stava risalendo sulla cabina di guida dello spartineve. «Bo!» urlò, reso rauco dall'agitazione. «Pat Russell! Questa è la giardinetta di Pat Russell!» Bo rimase in precario equilibrio sul predellino della cabina di guida. «Che diavolo ci sta facendo qui in questa stagione?» gridò, e si tolse il berretto per lisciarsi i capelli all'indietro con interdetto disgusto. Frankie Styles si avvicinò frettolosamente a Walter. «Gesù, Walter» disse «credi che si stia aggirando in qualche posto qui attorno?» Walter alzò le spalle. «Spero di no, in nome di Dio» disse. Frankie osservò, con un'aria luttuosa, il mozzicone della sigaretta, poi lo gettò nella tormenta. Sbirciò Walter di sotto a ciglia lunghe e fanciullesche. Frankie era la quintessenza dei diciannove anni, biondo e con un viso aperto come lo era stato suo padre alla stessa età. «Non andare a raccontare a Pa' che ho fumato, okay?» disse a Walter. Walter sorrise, scoprendo tutti i denti marci. «Non faccio la spia, Frankie. Però lo sai che quei chiodi per bare non giovano alla tua salute.» Frankie parve sulle spine. «Sì, sì.» Poi sbirciò di nuovo Walter. «E non andare a raccontare a Pa' che ho bestemmiato, okay?» Walter gli batté la mano sulla spalla. «Frankie, non andare a raccontare a tuo padre che te l'ho detto, ma, quando aveva la tua età, soleva bestemmiare alquanto anche lui. Quasi tutti i giovani bestemmiano, perché credono, così facendo, di sembrare più uomini. Ma tuo padre sa che sei stato educato come si deve e che sei un ragazzo di buon senso. Se fossi in te non starei a preoccuparmi tanto di mio padre.» Frankie annuì. «Sì.» «Se proprio vuoi preoccuparti a causa di qualcuno» disse Walter, contemplando il lago: «dovresti crucciarti per Pat Russell. Se si trova laggiù con questo finimondo è nei guai.» Frankie seguì la direzione dello sguardo di Walter. «Non deve avere un briciolo di sale nella zucca» disse. Walter sospirò. «Eh sì, avrebbe dovuto avere il buonsenso di non allontanarsi, da un'automobile nella quale si sarebbe potuto riparare, con questo tempaccio di merda. Ma non posso biasimarlo. Probabilmente voleva arrivare a casa sua.»
Jeannie mise altra legna nella stufa e stette a guardare mentre si accendeva. Poi si lasciò cadere su una sedia davanti alla stufa e si ingobbì nel tepore. Arden Nighswander ciabattò in cucina alle sue spalle, si raschiò la gola e sputò nell'acquaio. Poi sbirciò fuori della finestra. Jeannie riattizzò il fuoco e aggiunse un altro pezzo di legno. «I ragazzi sono tornati?» domandò, rendendo neutro il tono della voce per nascondere il nervosismo. Nighswander scostò una sedia dal tavolo, trascinandola, e venne a sedersi accanto a lei prima di rispondere: «No, non sono tornati.» Lei sospirò, chiuse lo sportello della stufa e si alzò. Dopo aver riempito d'acqua una pentola e averla messa sulla stufa, tornò a sedersi. «Non sono mai rimasti fuori tutta la notte con un tempaccio simile» osservò. Nighswander scosse, spazientito, una sigaretta fuori del pacchetto spiegazzato. «Merda, Jeannie, sono cresciuti. Probabilmente stanno andando a caccia di femmine.» Lei lo fissò incredula. «Con questa tormenta?» Nighswander spostò il proprio peso da una natica all'altra e scorreggiò. Fissò Jeannie irosamente. «Maledizione, sanno badare a se stessi.» «Dovresti avvertire lo sceriffo» disse Jeannie. «E se avessero avuto un incidente?» Nighswander aprì lo sportello della stufa e gettò nel fuoco il pacchetto di sigarette vuoto. Fissò le fiamme stizzosamente. «No, non lo avverto il dannato sceriffo» disse. «Ora chiudi il becco e lasciami in pace.» Jeannie gli voltò le spalle e guardò fuori della finestra, oltre l'acquaio. Si aggrappò disperatamente all'orlo di quest'ultimo. «Qualcosa è successo, lo sento.» Nighswander la fissò. «Ti ho detto di chiudere il becco.» Lacrime sgorgarono dagli occhi vitrei di Jeannie, mentre lei continuava a guardar fuori della finestra. «È tutto un disastro» disse la vecchia. Nighswander scostò la sedia dalla stufa spingendola all'indietro. «Tienila chiusa la boccaccia fottuta!» le urlò. Lei si fece piccola. Nighswander le scorse le lacrime sulle guance e strinse i pugni. Se muoversi non fosse stato così doloroso per lui l'avrebbe riempita di botte. Si abbandonò invece contro lo schienale della sedia. «Quei ragazzi sanno sbrogliarsela da soli» borbottò. «Si saranno rifugiati in una delle case estive.» Alzò gli occhi su di lei. «Se avverto il dannato sceriffo, li accuserà di
violazione di domicilio. Vuoi ficcarti in quella testa dura che preferiscono di gran lunga cavarsela da soli anziché finire nella prigione di Shawshank?» Jeannie si coprì la bocca e tornò a voltarsi verso la finestra. La neve, fuori, era come un muro opaco. Non si vedeva niente sopra ad essa o intorno ad essa. Lo sceriffo era già stato lì altre volte con mandati di perquisizione. Arden e i ragazzi rimanevano in piedi scuri in faccia, borbottando imprecazioni, mentre i vice dello sceriffo perquisivano la casa, la stalla e gli edifici annessi. Ogni volta lo sceriffo e i suoi vice se n'erano andati a mani vuote, ma non prima di aver detto chiaro e tondo che presto o tardi li avrebbero beccati tutti quanti. Lei aveva sempre ritenuto che fossero vittime di pregiudizi, perché altrimenti avrebbe dovuto ammettere che erano ladri e vandali e anche peggio. C'erano tutte le ragazze messe nei pasticci da Rand e a proposito delle quali tutti loro scherzavano. Lei non era mai riuscita a dire a se stessa: Rand è uno stupratore. E tutte le difficoltà che Ricky aveva sempre incontrato a scuola, finché non era diventato grande abbastanza per smettere di studiare, non erano dovute soltanto ai disturbi della crescita, Jeannie questo lo aveva sempre saputo, ma non era mai riuscita a credere che egli fosse come dicevano gli insegnanti - immaturo, con turbe mentali, paranoico, violento. Nighswander era così sicuro che i ragazzi venissero perseguitati! Lei aveva sempre creduto che, ammettendo la stupidità del suo Gordy, sarebbe stata abbastanza sincera per salvare la faccia. Ma era tutto vero, tutte le perfidie delle quali venivano accusati i ragazzi erano vere, ormai lo sapeva, e aveva paura. E non perché i ragazzi potevano finire in prigione. Affrontando la verità, ormai inevitabile, Jeannie riteneva che sarebbero dovuti essere condannati alla prigione, anche Gordy, che pure era un irresponsabile ai fini della legge, e non si rendeva conto delle conseguenze delle sue azioni; dovevano finire in prigione perché erano scatenati e pericolosi e chiunque sia scatenato e pericoloso dovrebbe essere rinchiuso. Jeannie non temeva che fossero morti di freddo; credeva a Nighswander, sapeva bene quanto lui che erano in grado di sbrogliarsela da soli. A parte questo, non aveva il presentimento che fossero morti e lo avrebbe avuto di certo, ne era sicura, se fosse accaduto il peggio. Ma temeva ciò che ignorava. Dove si trovavano? Che cosa avevano fatto per salvarsi? Che cosa nascondeva la neve, che il vento sollevava a veli ondulati e ammucchiava formando muri? Jeannie non riteneva che, quando tutto fosse finito, sia lei, sia Nighswander avrebbero voluto sapere quale fosse la
verità. Il freddo destò Travis. Il bambino rotolò giù dal letto di Sarah e, con gli occhi ancora annebbiati, andò nel bagno a fare la pipì. Il pavimento a piastrelle era gelido sotto i piedi. L'intera casa era di gran lunga troppo gelida. Travis tornò nella camera di Sarah. Seduto sul letto, mentre infilava le pantofole sopra il pigiama, notò che la luce nel cuore di E.T. era spenta. A titolo di esperimento fece scattare l'interruttore della lampada sul comodino di Sarah. Non accadde niente. Anche la radiosveglia di Sarah, che era antiquata e aveva un orologio a quadrante, risultava ferma sulle 12,13. A quell'ora doveva essere mancata la corrente, o a mezzogiorno o a mezzanotte. Ma adesso non era più mezzanotte, non faceva buio abbastanza. Doveva essere il mattino molto presto. Travis si mise il kimono e affondò le mani nelle tasche per riscaldarsele. Silenziosamente contò i G.I. Joe. Poi si diresse verso la camera da letto di sua madre. Siccome tutte le lampade erano spente e la neve continuava a cadere ininterrottamente all'esterno, la casa era alquanto buia e paurosamente silenziosa, come se stesse dormendo con una coperta sulla testa. Nel soggiorno, due uomini dormivano sul pavimento, avvolti in vecchie trapunte di riserva. Travis li scrutò quanto bastava per stabilire che erano Ricky e Gordy. La Povera se ne stava raggomitolata sul ventre di Gordy. Non si destò quando Travis le passò accanto. I vassoi dello spuntino davanti alla TV erano stati rovesciati. Piatti rotti o capovolti erano sparsi qua e là sul tappeto, macchiato dai cibi. Sul focolare, due piatti sporchi contenevano mozziconi di candele. Braci ancora accese ammiccavano rosse nel mucchio di cenere dentro il caminetto. Travis avrebbe aggiunto un po' di legna, ma la pila di ceppi che Walter McKenzie aveva ammonticchiato in bell'ordine lì accanto era scomparsa e al suo posto si trovavano soltanto pezzi di corteccia e schegge. Travis proseguì lungo il corridoio fino alla camera da letto di sua madre e di suo padre. Nella fioca luce, poté scorgere due sagome addormentate sul letto. Facendosi un po' più avanti, vide la mano di sua madre, inerte sul copriletto. Si portò da quella parte del letto e si chinò su di lei. Aveva le labbra gonfie dischiuse. L'alito sapeva come quando si era fatta estrarre il dente. Come se qualcosa le fosse morto in bocca, così aveva scherzato lei, allora. Saliva, colorata da un qualcosa di scuro che lui sapeva essere sangue, si era essiccata sulla guancia partendo dall'angolo della bocca. I capelli formavano un nero intrico sul guanciale. Travis mise la mano sulla
guancia di sua madre. Liv aprì gli occhi. Erano inespressivi, come se non vedessero, come se fossero ciechi. Poi si misero a fuoco. Lei affiorò in essi e lo riconobbe. Una tensione le percorse il corpo. Si protese verso il bambino, gli toccò il viso e i capelli. L'uomo sull'altro lato del letto era immobile e respirava in modo ritmico. Travis si sentì a disagio vedendolo là dove si era sempre trovato soltanto suo padre. Ma era questa una cosa che voleva ignorare. Sapeva benissimo che quell'individuo, e gli altri due, si erano introdotti con la forza nella casa. Si trattava di nemici, di ladri, di uomini malvagi. Travis sapeva che sua madre, da quando quei tre erano entrati, non aveva fatto niente che non avesse lo scopo di proteggere lui. Odiava quei tre e li temeva, anche perché gli ricordavano che era un bimbetto indifeso, incapace di impedire loro di fare del male a sua madre mentre lei cercava disperatamente di impedire che facessero del male a lui. Rapidamente e silenziosamente Liv lo trasse sotto le coperte e lo abbracciò, proprio come avrebbe fatto se vi fosse stato il babbo a dormirle accanto, anziché l'uomo che gli altri due chiamavano Rand. Fu consolante sentire la lana calda e spessa della sua camicia da notte, quella che lei teneva in quella casa per l'inverno, quando venivano per sciare o semplicemente per trascorrere il fine-settimana in campagna. Travis sapeva che Liv portava i calzini; sua madre se li metteva sempre per andare a letto durante l'inverno. Nell'altra casa in città aveva persino due pigiama con i piedi, come i suoi, soltanto che quelli di lei erano a strisce bianche e rosse dappertutto. Le erano stati regalati da Sarah, un Natale. Sarah e il babbo andavano a letto a piedi nudi; soltanto Travis e sua madre soffrivano il freddo ai piedi, di notte. Liv si pulì la bocca con il dorso della mano e fece una smorfia. Nella casa regnava un gran silenzio. Il vento, fuori, sembrava essere meno forte, anche se doveva essere ancora tagliente. La casa era buia, ma non si trattava più dell'oscurità di mezzanotte. Senza la radiosveglia, o un orologio, Liv poteva soltanto fare supposizioni, ma riteneva che, se proprio non era giorno, mancava poco. La mano nella mano, lei e Travis scivolarono giù dal letto e vi girarono attorno. Erano arrivati davanti alla porta della stanza quando vi fu un movimento sul letto, alle loro spalle. Lei si irrigidì e Travis le finì addosso. «Dove stai andando?» domandò Rand, la voce resa confusa dal sonno.
Liv stentò a parlare. «In bagno» disse. Sembrava che niente funzionasse nel modo giusto. L'uomo si drizzò a sedere e sbadigliò. La trapunta gli scivolò giù dal corpo. Aveva il torace tutto peloso, come quello del padre di Travis, e aveva scuri ciuffi di peli anche nelle ascelle. Gli occhi erano orlati di rosso, come se fosse rimasto sveglio per tutta la notte. «Ciao, marmocchio» disse Rand. «Com'è che ti sei già alzato?» «Fa freddo» rispose Travis. «Il fuoco è quasi spento.» Rand tirò su con il naso, si schiarì la voce e annuì. «Sì, è fredda la casa. Più fredda della tetta di una strega. Hai una sigaretta in qualche posto?» Liv scosse la testa. Lui scostò le coperte e tolse la mano destra di sotto al guanciale quanto bastava perché entrambi vedessero la pistola, poi si servì della pistola per agganciare le mutande lunghe di lana sul pavimento. «Va' in bagno. Penso io al fuoco.» Liv spinse Travis verso il bagno. Rand lasciò cadere le mutande intorno alle caviglie e afferrò Travis con una mano. Travis fissò la pistola che Rand lasciava penzolare, noncurante, dalle dita. «Il marmocchio verrà con me.» Rand abbassò gli occhi su Travis. «Scommetto che hai già pisciato, vero?» Travis annuì. Liv lo lasciò andare. «Il marmocchio può aiutarmi con la legna» disse Rand. Rand si vestì e condusse Travis fuori della stanza. Liv afferrò i suoi vestiti sul pavimento e corse in bagno. Le doleva la mascella quando la muoveva; l'interno della bocca, la lingua, le labbra, tutto era reso enorme dal gonfiore, come se fosse stato riempito di sabbia. Tolse un paio di pillole dai calzini e le inghiottì senza mandarle giù con un sorso d'acqua. Non intendeva lasciare Travis in compagnia di Rand più di quanto le occorresse per vestirsi. Aveva troppa fretta e si limitò a sbirciarsi con la coda dell'occhio. Non voleva sapere che aspetto avesse, perché le sarebbe rimasto impresso nella mente. Promise a se stessa che avrebbe dimenticato tutto di quelle ultime ventiquattr'ore, completamente e assolutamente, non appena possibile. Trovò Travis sulla soglia della porta di servizio aperta, intento a prendere la legna che Rand gli passava dalla pila accatastata sulla veranda posteriore. La stava ammonticchiando in bell'ordine nel corridoio. Segatura di legna e pezzetti di corteccia aderivano alla stoffa pelosa del pigiama. Ave-
va già le mani rosse a causa del freddo. Ma le sorrise e questo la rinfrancò e le diede forza. Bisognava eliminare in qualche modo il freddo. Prese un po' di legna piccola e corse nel soggiorno. Ricky si mosse e aprì gli occhi. Gordy continuò a giacere supino a bocca aperta, con il respiro che gli sibilava attraverso la bocca piena di saliva. Liv si inginocchiò davanti al caminetto e mise sopra le braci giornali appallottolati e legna minuta. La porta di servizio venne chiusa e Rand si fece avanti seguito alle calcagna da Travis; entrambi reggevano una bracciata di legna. Ricky si puntellò sui gomiti. «Gesù Cristo se fa freddo» disse. Rand si accosciò davanti al focolare, tenendo tra le mani un pezzo di legno, in attesa che la legna piccola prendesse bene. «Colpa tua. Ce l'hai una sigaretta?» Ricky rise. «Tutti incolpano sempre me di qualcosa.» Balzò in piedi mostrando la sua nudità. «Dove credi che potrei avercela una sigaretta, Rand?» Rand lo ignorò. «Che ore sono secondo te?» domandò a Liv. Liv si alzò, spolverandosi i jeans all'altezza delle ginocchia. «L'orologio in cucina funziona a pile. Vado a vedere.» Afferrò la mano di Travis, passandogli accanto, e lo condusse in cucina. L'orologio sul tavolo segnava le 6,27. «Rimani qui» ordinò a Travis e lo sollevò sulla sua sedia. Nel soggiorno, disse a Rand: «Sono le sei e ventisette.» Ricky era in piedi, nudo come un verme, sbadigliava e si grattava. Con noncuranza, sferrò un calcio a Gordy. «Svegliati, buchino» disse. La Povera balzò giù da Gordy, finì accanto a Liv e si stiracchiò adagio e voluttuosamente prima di salire sul focolare e di piazzare la propria parte posteriore piacevolmente vicino al fuoco. Gordy sbuffò, tossì, si girò. Guardò Liv con occhi resi vitrei dal dolore. Liv provò una sensazione di nausea allo stomaco. Rand, gettò due pezzi di legna sul fuoco. «Come vanno le tue ferite di guerra?» domandò a Gordy. Gordy tirò su con il naso. «Mi fanno molto male, Rand.» Rand guardò Liv. «Scusatemi» disse lei e corse verso la sua camera da letto. Udì Rand alzarsi e seguirla, ma non rallentò l'andatura. Egli la raggiunse sulla porta della stanza. «Sono venuta a prendere qualche pillola per Gordy.» «Bene.» Rand frugò dentro la manica del maglione e le mostrò la pistola. La spinse contro la porta. «Adesso fammi vedere dove sono le pillole
prima che mi venga la voglia di servirmi di questa pistola.» «Volentieri» disse Liv. «Ma voglio sapere quando ve ne andate.» «Non ti sto proponendo uno scambio» disse Rand. «No, a meno che tu non abbia delle sigarette in qualche posto. Anche una vecchia cicca rancida mi sembrerebbe buona, in questo momento.» «Può darsi» disse Liv. Si avvicinò all'armadio e cominciò a frugare nelle tasche dei vestiti che Pat aveva lasciato lì alla fine dell'estate. Vestiti vecchi, informi, oppure lisi sui gomiti o sul colletto, alcuni di essi residui dei tempi in cui Pat insegnava letteratura inglese e storia del teatro all'università, affidati alla casa estiva invece di essere gettati via, a Liv erano sempre parsi fausti presagi, se non altro perché costituivano la prova del fatto che Pat non era disposto a rinnegare il proprio passato. E ora si dimostrarono redditizi. Nel taschino di una vecchia giacca sportiva di pelle grigia, trovò un pacchetto di Pall Mall quasi pieno. «Cribbio» esclamò Rand, quando lei glielo gettò. Ne fece uscire una sigaretta, scuotendolo, e l'accese con reverenza. Liv si tolse una scarpa di tela servendosi del tacco dell'altra, poi si servì delle dita del piede per liberarsi anche di quest'ultima. Si sfilò i calzini e glieli porse. «Tutte quelle che ho, dalla prima all'ultima, maledizione» disse. «Le prenda pure. E che possa servirsene nella malattia; spero che si tratterà di cancro terminale ai polmoni.» Rand prese i calzini e li scrollò. Poi rise intorno alla sigaretta che aveva in bocca. «O-liv-i-a, sei grande.» «Manca la corrente» disse Liv. «Il maltempo sta cessando. Lo sente, il vento? Perché non fa levare le tende al povero scemo e non taglia la corda prima che arrivino qui Walter McKenzie o gli operai della centrale elettrica? Dimenticherò che siete entrati in casa mia.» Rand ficcò i calzini in una manica, poi la pistola nell'altra. «Bene» disse. «Non daresti prima qualcosa da mangiare a me e ai ragazzi?» «Non posso cucinare niente» disse Liv. «Ma ci sono cereali e latte.» Rand annuì. «Va bene così.» Lei prese un paio di calzini nel cassettone e si affrettò a tornare in cucina. Travis sedeva dove l'aveva lasciato. Si era tolto di tasca i G.I. Joe, disponendoli intorno alla tovaglietta. Liv gli corse accanto e lo abbracciò. Il bambino ricambiò l'abbraccio. «Che ne diresti di mangiare qualcosa?» gli domandò lei.
Rand si accovacciò accanto a Gordy ed esaminò una manciata di pillole. Non avevano lo stesso aspetto delle amfetamine che gli erano familiari. Infine scelse quattro delle più grosse, in base al ragionamento che, quanto più erano grosse, tanto più dovevano calmare il dolore. Gordy le inghiottì con gratitudine, mandandole giù con il vino inacidito rimasto nel bottiglione; il vino andò a prenderlo Ricky nella camera da letto per ordine di Rand. «Olivia sta preparando un po' di cereali» disse loro Rand. «Sono porcherie da marmocchi» protestò Ricky. «Non le posso soffrire quelle porcate.» «Forse ci sarà anche marmellata» disse Gordy. Rand li ignorò. «Faremo colazione e poi voi due andrete nella casa di Miss Alden.» Ricky lo fissò, poi emise un sibilo. Rand si portò un dito alle labbra per farlo smettere. «Olivia non deve saperlo. Io vi raggiungerò là.» Gordy si spostò e trasalì di dolore. «Gesù, Rand.» «Tra poco non sentirai più niente» gli disse Rand. «Lasciagli il tempo di agire, alle pillole. Ti verrà voglia di metterti a ballare.» Gordy annuì. Se lo diceva Rand... Ricky sbirciò Rand con un'aria scaltra. «Perché non puoi venire con noi?» domandò. «Hai qualcosa di meglio da fare?» Rand sorrise. «Può darsi.» Gordy ridacchiò. «Gesù, Rand» disse. Ricky si accigliò. «Com'è che a me non ne tocca niente?» Rand lo fissava. «Non ci terrai più, quando avrò finito» disse. Ricky lo fissava a sua volta. Rand sfilò la pistola dalla manica e la osservò. Disse: «Vuoi finire per un bel po' a Shawshank? Vuoi che ti allarghino il buco del culo?» «Prima devono pescarci» osservò Ricky. «Pa' non lo ha sempre detto?» «Già» fece Rand. «E Pa' ha ragione. Olivia continua a promettere che, se ce ne andremo, dimenticherà la nostra presenza qui. Però io non mi fido di lei. Non intendo fidarmi di lei. Così, ora sai.» «Che cosa?» domandò Gordy. «Terrò il tuo deretano lontano da Shawshank» disse Rand. Ricky ridacchiò. «Ma perché prima non posso spassarmela anch'io?» «Perché sei un sudicio, piccolo bastardo» disse Rand «e io non voglio buscarmi niente da te.»
«Ehi» protestò Ricky «questo non è detto.» Rand mise via la pistola e si alzò. «Andate a farvi dare i cereali dalla signora e poi smammate. Voglio che sfondiate la porta della casa di Miss Alden e che mi aspettiate là.» Questa prospettiva rallegrò Ricky. A furia di gomitate e urtoni egli spinse Gordy in cucina. Liv e Travis uscirono dalla cucina quasi subito dopo che Ricky e Gordy si erano seduti a tavola e trovarono Rand stravaccato davanti al fuoco, intento a fumare, con un'aria soddisfatta, un'altra delle sigarette muffite. «Va a prendere qualcosa da metterti» disse Liv a Travis «e poi vieni a vestirti qui.» Il bambino corse nel corridoio fino alla sua camera. Liv lo vide fermarsi, dopo una scivolata, davanti alia porta della camera da letto, socchiuderla con cautela e sbirciare all'interno prima di entrare. Lei cominciò a riordinare il soggiorno, pulendo i vassoi con uno strofinaccio umido, sovrapponendoli l'uno all'altro, togliendo i piatti dal pavimento. La Povera li aveva furtivamente ripuliti, togliendo i pezzetti di pollo dalla minestra versata sul pavimento. Anche i punti in cui il brodo aveva macchiato il tappeto erano stati leccati fino ad appiattire e a rendere lucida la lana. Ora la gatta, accovacciata sul focolare vicino a Rand, si stava leccando le zampe e si lavava il muso. Travis tornò di volata nel soggiorno. Liv smise di rimettere al loro posto le poltrone per aiutarlo, ma il bambino si accigliò e lei fece un passo indietro. «So vestirmi da solo, Liv» disse Travis, e sorrise affinché sua madre non la prendesse come un'offesa personale. Si avvicinò al fuoco quanto più poteva, mantenendo al contempo la distanza da Rand, e cominciò a vestirsi. Liv si mise al lavoro meravigliandosi dell'adattabilità dei bambini. Aveva temuto che Travis non volesse più entrare da solo nella sua camera da letto. Ed ecco che invece egli stava esibendo la propria indipendenza. Ricky e Gordy tornarono nel soggiorno a prendere la loro roba per andare all'aperto. Gordy zoppicava, ma gli analgesici gli avevano ovviamente giovato. Ricky finì per primo di vestirsi per uscire. Si rigirò nelle mani, pigramente, alcuni videonastri, poi, a un tratto, si sporse e afferrò Liv. «Ehi» protestò Rand. Liv pestò i piedi a Ricky e cercò di respingerlo. Travis, dal focolare, si lanciò contro le gambe di Ricky. Rand balzò in
piedi e trascinò via il bambino. «Basta così» ammonì Rand. Ricky stava ridacchiando eccitato. «Soltanto un piccolo spasso» gridò. Poi piazzò una mano sulla nuca di Liv e la costrinse a premere la bocca contro la sua. Lei quasi svenne a causa dell'improvvisa e acuta fitta di dolore causata dalla pressione sulle sue labbra gonfie. Egli le ficcò la lingua in bocca. Liv morse energicamente, anche se fu doloroso per i suoi denti spezzati quanto per lui. Ricky portò indietro di scatto la testa e mollò la presa per potersi coprire la bocca con tutt'e due le mani. Gli occhi cominciarono a lacrimargli. «Gesù!» balbettò. «Mi ha morso!» Rand rise. «Bene!» Liv interpose il divano tra sé e Ricky. Travis si sottrasse a Rand e andò ad abbracciare le gambe di sua madre. Lei si chinò e lo strinse a sé. «Hai avuto quello che meritavi» disse Rand. Poi spinse Ricky verso la porta di servizio. «Va' al diavolo fuori di qui, subito.» Gordy li seguì strascicando i piedi, scoccando furtivamente occhiate stupite e intimorite a Liv. Rand tornò indietro e sedette. Tirò fuori di nuovo le sigarette trovate nella giacca di Pat. «È stato doloroso, scommetto.» Liv annuì. «Vuoi qualcosa per calmare il dolore?» domandò lui e pescò, nella manica del maglione, uno dei calzini pieni di calmanti. «No» rispose Liv, poi una nuova fitta le fece cambiare idea. Spinse Travis dietro di sé. «Sì» disse. «Per favore.» Rand le porse il calzino. Lei lo scosse facendone uscire una manciata di pillole, poi frugò tra esse scegliendo due Darvon. Rand frugò nella manica e le mostrò la pistola. «Perché non ne prendi qualcuna di più? Quanto bastano per addormentarti?» Lei lo fissò. «Così da darci alcune ore di tempo prima di cominciare a cantare» soggiunse Rand. Liv respinse il calzino e scosse la testa. «Vuoi che faccia del male al bambino?» domandò Rand. Liv inghiottì a gola asciutta le Darvon. «Faccia questo e finirà in galera.» «Soltanto se tu sarai viva per raccontarlo» disse Rand.
Travis la stava abbracciando ancora più strettamente. «Vada a farsi fottere, signor Nighswander» disse lei. Rand si irrigidì, poi costrinse se stesso a rilassarsi. «Senti» disse in tono assennato «sii ragionevole, O-liv-i-a. Voglio che tu e il bambino dormiate per un po', ecco tutto.» Liv si voltò e prese in braccio Travis. «Andremo nella camera da letto e vi resteremo finché Walter, o qualcun altro, non si farà vivo. È il massimo cui sono disposta.» Rand sospirò. «E va bene. Non dimentico che mi hai trovato le sigarette.» Poi la squadrò dalla testa ai piedi. «Sei stata okay stanotte.» Liv increspò le labbra, ma tenne a freno la lingua. «Si gelerà, là dentro. Voglio che possiamo indossare le tute da neve, per non soffrire troppo il freddo.» Rand la scrutò. La scena che si proponeva di lasciare dietro di sé sarebbe stata tragica, ma tale da non incriminarlo: una donna e un bambino uccisi da una dose eccessiva di calmanti. Suicidio. Con un incendio, come quello scoppiato durante la notte, ma più violento, per distruggere le prove. Le tute da neve stonavano. D'altro canto, non poteva sparare a lei e al bambino perché l'autopsia avrebbe trovato le pallottole nei cadaveri. «Sta bene, prendete le tute» disse. Quando si fossero trovati nella camera da letto, avrebbe escogitato il modo per farle inghiottire le dannate pillole. Quanto al marmocchio, una volta partita lei, gliele avrebbe fatte ingollare per forza. Si avviarono verso la camera da letto, soffermandosi davanti all'armadio a muro per prendere le tute. Liv volle a tutti i costi prendere i guanti di lana, le manopole e i calzettoni di lana affinché non dovessero soffrire il freddo alle estremità. Rand glielo consentì facendo una spallucciata. La camera da letto continuava a essere gelida e puzzava di lenzuola bruciate e di tappeto bruciacchiato. La Povera apparve sulla soglia, si insinuò oltre le caviglie di Liv e balzò sul letto. Cominciò a girare su se stessa, preparandosi un nido. Liv si piegò su un ginocchio per aiutare Travis a mettersi la tuta da neve. «Aspetta» disse Rand. Fece un gesto nella direzione del bagno. «Metti il marmocchio nel bagno per un po'. Digli di restarci.» Liv lo fissò. L'aveva colta di sorpresa e non riuscì a escogitare il modo di reagire. «Avanti» disse Rand. «Non vorrai fargli venire un complesso, no?» Travis si avvinghiò a lei. Rand era riuscito a terrorizzarlo di nuovo.
Con dolcezza Liv spinse il bambino nel bagno, lo abbracciò e lo pregò di aspettare. Irrigidito dalla paura, Travis sedette sul sedile abbassato della tazza del water e intrecciò le dita. Chiudendo la porta e lasciandolo al buio, lei poté vederne il viso pallido e gli occhi sbarrati, come una maschera. Scoccò a Rand un'occhiata d'odio feroce. Lui rise sommessamente. «Come va la bocca?» domandò. «Ha dimenticato che cosa ho fatto a quello schifoso di suo fratello?» gli disse Liv. Rand l'afferrò e l'accostò a sé. Le accarezzò i capelli. «Io non sono Ricky. Stanotte ti è piaciuto, e come.» Liv lo respinse. «La odio.» «Continua pure a dirmi 'vada a farsi fottere'» disse lui. «Mi suggerisce alcune idee.» Le lasciò cadere le mani sulle spalle e applicò su di esse tutto il suo peso. Liv oppose resistenza, si contorse per sottrarglisi, ma lui continuò a esercitare una pressione decisa, affondandole le unghie nelle spalle, finché la costrinse a cedere con un ansito e a cadere in ginocchio. Fece allora scorrere la lampo dei jeans e infilò una mano nel varco. Ricky e Gordy avanzarono a fatica, nella neve che arrivava sopra le ginocchia, fino agli scooter lasciati sotto gli alberi lungo la sponda del lago. La fila di alberi era ormai la sola cosa che consentiva di distinguere il lago deserto dal territorio circostante. Il vento stava scolpendo dune fantastiche, per cui sembrava che il lago potesse essersi tramutato in ghiaccio all'improvviso mentre l'acqua era in violento movimento. Gordy si accosciò al riparo degli alberi. Era cinereo in faccia, con la pelle lucida e gli occhi un po' vitrei. Ricky si chinò su di lui e fece una smorfia. «Hai un brutto ceffo fottuto» urlò, per vincere gli ululati del vento. Lacrime causate dal gelo, più che dalle sofferenze - poiché i calmanti stavano facendo cessare queste ultime - striavano le guance di Gordy. Il vento le congelava sulla pelle, arrossandola. Se egli fosse rimasto sufficientemente a lungo all'aperto, le guance bagnate di lacrime sarebbero state la prima parte di lui ad essere morsa dal gelo. Ricky avviò lo scooter di Gordy e lo aiutò a salirvi, poi salì sul suo e guidò Gordy sul lago. A testa bassa per difendersi dal vento, procedettero adagio, parallelamente alla sponda, verso la casa di Miss Alden. Avrebbero dovuto impiegare cinque minuti. Ne occorsero invece quindici. Gli scooter uscirono dal lago e attraversarono la spiaggia nella direzione della
casa deserta. Ricky condusse Gordy al riparo e fermò il suo scooter accanto all'altro. «Ora ci divertiremo» disse. Smontò e, con le dita accostate, diede un colpetto al petto di Gordy. «Perlomeno possiamo toglierci dal freddo.» Gordy si sforzò di sorridere. «È okay per me, Ricky.» Ricky salì a balzi i gradini della veranda. Saltava spazientito da un piede all'altro, ma Gordy lo seguiva molto adagio sulla neve alta. «Forza, vieni!» gli gridò Ricky. Aprì la porta esterna e bloccò la molla per tenerla aperta. Gordy si fermò. «Non ce la faccio» disse. «Mi fa male.» «Balle» disse Ricky e afferrò l'antica maniglia in ferro battuto della porta. La scosse furiosamente. Poi fece un passo indietro e alzò una gamba. Gordy arrivò ai piedi degli scalini. Ricky sferrò un calcio alla porta che scricchiolò ma non cedette. Gordy si sforzò di arrivare sul secondo scalino. Ricky indietreggiò di nuovo e sferrò con tutte le sue forze il secondo calcio. Lo stipite con gli antichi cardini si spaccò. Ansimante, Gordy arrivò sull'ultimo scalino. Ricky lanciò un grido e sferrò un calcio alla porta per la terza volta. Cadde adagio, pesantemente, verso l'interno. Lui lanciò un altro grido e balzò oltre la soglia. Sentì la lieve pressione del filo metallico sul petto mentre lo investiva, ma non ebbe nemmeno il tempo di domandarsi che cosa fosse prima che il fucile sparasse. Lo colpì in pieno al petto e lo scaraventò sulla veranda. Ricky morì così fulmineamente che non lanciò nemmeno un grido. Ma Gordy gridò. Indietreggiò, barcollante, contro la ringhiera degli scalini, urlando, dapprima di stupore, poi di spavento, poi di orrore. Cadde in ginocchio e di nuovo salì gli scalini fissando Ricky. Rimase senza fiato a furia di urlare. Singhiozzando, strisciò là dove Ricky giaceva. Il petto di Ricky sembrava carne tritata. Gordy si avvicinò ancora, sempre strisciando, quanto bastava per guardare Ricky negli occhi. Erano spalancati. Neve scivolava giù dalla ringhiera della veranda e incipriava le ciglia di Ricky. «Morto» disse Gordy, spruzzando saliva sulla faccia di Ricky. Aveva veduto un numero sufficiente di cervi e alci e altri animali morti, uccisi legalmente o cacciati di frodo. Aveva veduto numerosi cani e gatti morire per mano dei Nighswander. Sapeva riconoscere la morte quando la vedeva. La sua era una dichiarazione di morte valida quanto quella di un medico.
Capitolo XVI In lontananza, vi fu uno sparo. Rand si immobilizzò, spaventato. Liv afferrò La Povera e la lanciò sulla faccia di Rand. Gatta e uomo urlarono contemporaneamente. Lui incespicò all'indietro artigliando la bestia, mentre la bestia, per riflesso, gli artigliava la faccia. La porta del bagno si spalancò ed ecco Travis ritto sulla soglia, in preda all'ansia. Liv afferrò sul comodino la lampada con il basamento di ceramica e, arrovesciandosi all'indietro, la scaraventò sulla testa di Rand. Un frammento enorme di ceramica volò via dal basamento della lampada e andò a infrangersi sul pavimento. La lampada rotolò giù dalla testa di Rand e finì sul tappeto. Lui si afflosciò con una sorta di sospiro. La gatta balzò via e comparve fulmineamente fuori della porta. «Mettiti la tuta» ordinò Liv a Travis, strappandola via dal pavimento e lanciandogliela. Si guardò attorno con frenesia, poi afferrò una manciata di cravatte penzolanti nell'armadio. Si mise a cavalcioni del corpo inerte di Rand e gli legò le mani, poi i piedi. Aveva già ripreso i sensi in parte, roteava gli occhi, incominciava a muoversi, emetteva versi incomprensibili. Con le mani tremanti, Liv aiutò Travis a fare scorrere la lampo della tuta. «Che cos'era quel colpo, Liv?» le domandò Travis, ansiosamente. Tenne gli occhi fissi su Rand mentre si metteva un berretto di lana. «Un colpo di fucile» rispose Liv. Stava infilandosi a sua volta la tuta da neve e ne faceva scorrere la lampo; tolse poi le calze e i guanti e il berretto dal pavimento. Si liberò, scalciando, delle scarpe di tela. Travis cominciò a togliersi rapidamente le sue. Si infilarono le calze di lana, i guanti. Lei afferrò la mano del bambino e lo trascinò dalla camera da letto all'armadio a muro nel corridoio, dove rapidamente infilarono gli stivali da neve. Non vi fu il tempo di fare scattare le fibbie di quelli di Travis né di allacciare i suoi. Liv spalancò la porta e trascinò fuori Travis nella tempesta di neve. Rand rotolò contro la parete e, spingendo con i piedi, riuscì a mettersi in posizione seduta. Scosse la testa per schiarirsela, ma continuava a fargli un
male da matti là dove il basamento della lampada si era rotto. Egli applicò i denti ai nodi delle cravatte. La donna aveva avuto troppa fretta per cui riuscì a liberarsi in mezzo minuto. Si mise in piedi e barcollò verso il soggiorno per prendervi la tuta da neve e gli stivali. Reggendo gli stivali per le stringhe strette tra i denti, continuò a camminare mentre si vestiva e pertanto aveva le gambe dentro i pantaloni da sci, si era infilato il giubbotto mimetico e aveva fatto scorrere a mezzo la lampo al momento di arrivare zoppicante davanti alla porta di servizio. Liv non l'aveva chiusa. La neve stava penetrando nella casa a piccoli sbuffi gelidi. Lui si soffermò sulla veranda per infilare gli stivali. Scoccando una rapida occhiata al cielo, vide che la neve non scendeva più fitta come prima, ma veniva spinta capricciosamente dal vento, che ne spargeva i fiocchi leggeri in tutte le direzioni. Le orme lasciate dalla donna e dal marmocchio erano ancora visibili, ma non lo sarebbero state a lungo. A testa nuda, Rand si lanciò all'inseguimento nei boschi. Alle sue spalle, La Povera varcò con delicatezza la soglia della porta aperta, seguendo il sentiero di neve calpestata sulla veranda. Seguì con lo sguardo l'uomo che si affrettava a entrare nel bosco. L'uomo teneva gli occhi fissi al suolo, seguendo le orme. Incuriosita, la gatta cominciò a seguirlo, balzando leggera sulle tracce lasciate dagli stivali di lui. Gordy rimase accovacciato accanto al cadavere di Ricky, piagnucolando. Dopo pochi minuti cominciò a sentire il freddo. Gli accadde di pensare che avrebbe dovuto chiamare aiuto. Si guardò attorno, fissando il lago, i boschi, quella parte del frutteto che riusciva a scorgere sulla collina dietro la casa di Miss Alden. Il viale d'accesso, che scendeva serpeggiando il pendio dalla strada dei cottage, era seppellito sotto la neve. Rand si trovava più vicino di chiunque altro, là nella casa dei Russell. Probabilmente stava scopando di nuovo quella donna. Sarebbe andato su tutte le furie se lui lo avesse disturbato, e si sarebbe infuriato ancora di più venendo a sapere che Ricky era morto. Ma non c'era modo di evitarlo. Doveva venirlo a sapere, così come dovevano venirlo a sapere Pa' e Ma'. Forse nessuno di loro avrebbe incolpato lui, che era già stato scottato dal fuoco. Forse tutti avrebbero detto: «Povero Gordy.» Gordy si rimise in piedi sostenendosi alla ringhiera della veranda. Non stava pensando affatto a Ricky. Non si era ancora detto che le meschine torture e le molestie di Ricky avevano avuto termine. E non pensò alla necessità di coprire il cadavere o di portarlo in casa, al riparo dalle intempe-
rie. Chi è morto è morto. Il cadavere aveva un aspetto raccapricciante, sì, ma, a parte questo, non rivestiva alcun interesse. Gordy si rendeva conto soltanto vagamente che Ricky aveva fatto scattare qualche sorta di trappola, ma non si domandava chi l'avesse disposta, o perché. La cosa non era diversa da quello che lui e Ricky e Rand e Pa' avevano fatto a centinaia di animali nel corso degli anni, ed egli non si domandava il perché più di quanto se lo fossero domandati quegli animali negli spasimi della morte. Si pulì la bocca con il dorso del guanto. Il vento infuriò sul lago con un lungo ululato. A un tratto, Gordy si sentì bagnato e si rese conto di essersi pisciato addosso. Di nuovo. Si imporporò in viso per la vergogna. Adesso poteva aspettarsi davvero di essere punito. Si mise a piangere. Le lacrime ardenti gli bruciarono le guance, ricordandogli che aveva un gran freddo. Rabbrividì e si voltò istintivamente verso la protezione della casa. Ma tra lui e la soglia v'era il cadavere di Ricky. Gordy sbirciò la penombra nella casa di Miss Alden. A tutta prima scorse soltanto forme vaghe e ombre, ma all'improvviso vide, riconoscendone all'istante l'importanza, il bagliore luminoso del disco di plastica trasparente del telefono. Avrebbe potuto telefonare a Rand. Scavalcò frettolosamente il cadavere di Ricky. Poi ricordò che Rand aveva tagliato la linea telefonica di casa Russell. Questo era scoraggiante ed egli si accinse a girare sui tacchi. Ma un qualcosa fece girare anche i lenti ingranaggi del suo cervello, rammentandogli che avrebbe potuto telefonare a Pa'. Goffamente, mentre si voltava, calpestò la mano di Ricky e si sentì pervadere da una nuova ondata di imbarazzo, soprattutto a causa della propria goffaggine. La cosa non era molto diversa da quello che avrebbe provato se Ricky fosse stato ancora vivo e avesse imprecato contro di lui per questo. In casa, dove il vento non lo investiva tagliente come un coltello né gli scagliava neve granulosa negli occhi, si stava meglio, ma l'oscurità lo costrinse ad aspettare per qualche secondo che gli occhi si adattassero alla penombra. Ma la luce che penetrava dalla porta aperta lo aiutò un poco. Fece un passo avanti e sentì qualcosa sfiorargli il braccio. Qualcun altro, dai riflessi più pronti, avrebbe forse fatto un passo indietro. Ma Gordy non era così fulmineo. E la sua già scarsa prontezza veniva ostacolata dalle ustioni ai piedi e alle gambe. Barcollò e il secondo colpo di fucile gli sfracellò il braccio destro. Istintivamente lui risucchiò il respiro e svenne per lo choc prima ancora di avere potuto gridare. Liv udì il secondo colpo di fucile da quella casetta da fiaba che era lo studio. Aveva aperto lo sportello del forno; quest'ultimo era grande abba-
stanza perché sia lei sia Travis potessero nascondervisi. Ma prima doveva togliere le rastrelliere e le forme di argilla per la cottura delle ceramiche. Lo sparo la immobilizzò. Tutto a un tratto si rese conto che le loro orme conducevano direttamente allo studio e rinunciò al suo proposito. Non aveva bisogno di guardarsi attorno per rendersi conto del fatto che si trovavano in una trappola, con una sola porta, nessun punto all'interno non visibile dalle finestre, e nessuna via d'uscita. Rand non avrebbe dovuto fare altro che appiccarvi il fuoco. Qualora non si fosse limitato a entrare e a spalancare armadi e sportelli. Afferrò Travis per la mano e lo trascinò verso la porta. Mancava anche il tempo per spiegargli che cosa stava facendo. Si lanciarono fuori della porta e nella neve. Rand irruppe fuori del bosco e lanciò un grido di trionfo. Videro entrambi il riflesso luminoso della pistola che impugnava. Lei e Travis si gettarono tra gli alberi. Liv udì Rand ridere e gridare, ma il vento ne trascinò via le parole. Non si accorsero del colpo di pistola finché il proiettile non si conficcò con un fischio nel tronco di un albero subito più avanti. Il vento ululava e la neve turbinava intorno a loro. Le corte gambette di Travis non potevano mantenere il suo stesso passo; il peso del bambino sembrava disarticolarle il braccio mentre lei lo trascinava. Liv continuò a zigzagare, gettandosi dietro agli alberi e ai cespugli. Nei brevi silenzi durante i quali il vento tratteneva il respiro poteva udire Rand, più indietro, ansimare in contrappunto con gli ansiti disperati suoi e di Travis. Al pari di loro due egli era costretto adesso ad arrancare nella neve alta, non tanto correndo su di essa quanto scalandola. La neve li rallentava e li spossava tutti e tre, cedendo avari compensi in cambio di tante fatiche. Liv pregò Dio affinché un gran colpo di vento, un turbine, potesse accecare Rand e coprire le loro tracce. Chi aveva sparato con il fucile, e contro che cosa? Un amico o un nemico? Si trattava forse di qualcuno disposto ad aiutarli? Stavano discendendo un pendio, perché tale era la conformazione del terreno. Non si trattava tanto di una direzione che avessero scelto, quanto di una direzione verso la quale erano stati sospinti. Lei sapeva che Ricky e Gordy si erano recati nella casa di Miss Alden. E anche gli spari erano venuti da quella parte; ne aveva avuto la certezza udendo il secondo. Era stato uno sparo più vicino, e più vicini alla casa si trovavano anche lei e Travis, perché lo studio era situato dalla parte dell'abitazione di Miss Alden. Sarebbe stato troppo sperare che il fato avesse portato Miss Alden a casa
sua, che lei avesse respinto Ricky e Gordy, forse addirittura ferendoli o uccidendoli, e che potesse esservi un rifugio, laggiù, per loro due, una possibilità di sottrarsi a Rand? Se le cose non stavano in questo modo, lei e Travis venivano sospinti verso una trappola, proprio tra le braccia collettive di Ricky e di Gordy. Liv decise di avvicinarsi alla casa di Miss Alden - qualora le fosse stato possibile - quanto bastava per dare un'occhiata. Se avessero strisciato tra gli alberi e nel frutteto con cautela, forse sarebbero riusciti a vedere che cosa era accaduto. In ogni modo, non potevano più tornare indietro. Travis barcollò e cadde. Perdette la presa sulla mano di Liv. Lei lanciò un grido di esasperazione e di paura. Voltandosi verso la direzione dalla quale erano venuti, scorse la scura sagoma di Rand tra gli alberi. Egli la vide nello stesso momento e, piegandosi su un ginocchio, prese la mira. Afferrando Travis sotto le ascelle, Liv sollevò il bambino. Il peso di lui le fece quasi perdere l'equilibrio. Barcollò all'indietro. La pallottola di Rand arrivò bassa lungo una traiettoria sbagliata e la colpì al ginocchio destro. La spessa tuta da neve la rallentò ulteriormente, deviandola, e inoltre trattenne le une contro le altre le ossa frantumate e cominciò ad assorbire il sangue. Liv cadde, lasciando andare Travis. Subito, si rimise in piedi, afferrò per la mano il bambino e lo trascinò avanti. Il sangue spruzzava gli aghi dei sempreverdi, i cespugli di ginepro e la neve. Anche se riusciamo a far sì che Rand ci perda di vista, pensò lei, potrà ugualmente seguire le nostre tracce. Soltanto cercando il sangue. Lei e Travis raggiunsero il confine della proprietà di Miss Alden prima di fermarsi. Rand si trovava in qualche punto dietro di loro, ma, in qualche modo, miracolosamente, erano riusciti a guadagnare terreno. Forse conoscevano quei boschi un po' meglio di lui. Spinse Travis sotto i cespugli, si strappò via la sciarpa e la legò intorno al ginocchio. Dopo essersi guardata attorno rapidamente, si gettò, attraverso la neve, nella direzione di un enorme e vetusto abete canadese che sovrastava il cammino seguito da loro due attraverso il bosco. A questo punto udì Rand avvicinarsi. Afferrò un ramo basso dell'abete e lo tirò indietro e ancora indietro, in modo che esso e lei rimanessero nascosti dal tronco. Trattenne il respiro e si schiacciò contro la ruvida corteccia. Rand apparve correndo lungo il sentiero aperto da loro due. Impugnava la pistola. Liv aspettò che avesse quasi raggiunto l'abete prima di mollare il ramo. Le sfuggì dalle mani frusciando. Frustò la neve, facendola esplodere. Rand guaì quando il ramo gli finì sulla faccia,
facendolo stramazzare all'indietro. La pistola gli volò via dalla mano e finì sulla neve. Lui rimase supino, con il respiro mozzato, gli occhi accecati dagli aghi di pino finitigli sulla faccia. Travis volò letteralmente in aria quando Liv lo tirò fuori da sotto i cespugli. Il primo passo di lui sulla neve fu un passo di corsa. Rand giacque stordito per alcuni preziosi minuti. A poco a poco la vista gli si schiarì e, mentre guardava, in alto, i rami dell'abete, la gatta vi si materializzò all'improvviso, accovacciata sull'albero come un uccello malevolo, e intenta a fissarlo. Il gelo e la neve che gli finiva sulla faccia lo spronarono a muoversi. Ma, quando si mosse, la testa cominciò a dolergli in modo atroce. Si accosciò sulla neve, reggendosi la testa e rabbrividendo. La neve gli frusciava giù per la nuca. Lui si asciugò con il dorso delle mani il naso che gli colava. Il gelo gli faceva bruciare le orecchie e le dita. Il tepore del corpo stava sciogliendogli la neve sui capelli, per cui aveva la testa bagnata. La neve sciolta gli scorreva a rivoletti sulle tempie, nonché dalle orecchie sotto il colletto. Battendo le palpebre, fece cadere goccioline d'acqua dalle ciglia. Il mondo intorno a lui divenne bruscamente silenzioso quando la donna e il bambino si portarono al di là della portata del suo udito. A tastoni, senza metodo, cercò la pistola sulla neve, ma era scomparsa. Cercò di riflettere nonostante il ruggito della furia che lo dominava. La donna lo aveva messo due volte fuori combattimento. Era riuscita a sfuggirgli. Dietro di sé lui aveva lasciato una chiara prova della sua colpevolezza che Walter McKenzie avrebbe ormai trovato da un momento all'altro: lo scooter da neve. E in qualche punto, più avanti, la donna e il bambino erano testimoni viventi. Lei lo avrebbe fatto condannare per violazione di domicilio, aggressione, violenza carnale, reati sufficienti per tenerlo a Shawshank fino a quando fosse stato un vecchio grasso e senza uccello come suo padre. Al massimo poteva sperare che la donna finisse proprio tra le braccia aperte di suo fratello Ricky. Ricky si trovava là, insieme con Gordy. Ma là v'era anche qualcun altro che aveva un fucile, e che se n'era servito due volte. Gli spari li aveva uditi, infatti, nella direzione della casa di Miss Alden. Avrebbe illuso se stesso non presumendo che Ricky e Gordy fossero stati così sfortunati da trovare in casa la vecchia invertita in persona e che lei fosse riuscita a difendere se stessa e la sua proprietà. Se Miss Alden aveva fatto fuori Ricky e Gordy, questo significava che la donna e il marmocchio potevano mettersi al sicuro nella casa della formidabile vecchia cagna. E, se riusciva a capirlo lui, lo avrebbe capito anche
la donna. Senza dubbio stava andando da Miss Alden. Adesso Rand sapeva almeno dove era diretta. E non era più costretto a inseguirla. Poteva tornare indietro, prendere lo scooter e arrivare sin là con lo scooter. Dandole il tempo di innervosirsi a furia di domandarsi dove fosse o forse anche inducendola a commettere l'errore di pensare che avesse rinunciato. Bastò questo a farlo sorridere. Si mise in piedi e si incamminò, a passi un po' malfermi, a tutta prima, nella direzione dalla quale era venuto. Dietro di lui la gatta si lasciò cadere dall'albero, finendo sulla neve su tutte e quattro le zampe, come vuole la saggezza popolare, poi balzò via sulla neve nella stessa direzione, non già seguendo lui, bensì limitandosi a servirsi delle sue orme, alla maniera pratica dei gatti. A un certo momento Liv smise di pensare. Continuò semplicemente a camminare. Di tanto in tanto cadeva sul ginocchio ferito e poi barcollava mentre le faceva soffrire le pene dell'inferno. Ma, già dopo la prima volta, imparò a non appoggiarsi troppo su di esso. Questo non fu sufficiente, tenuto conto del terreno accidentato, per evitare ogni disagio; tuttavia aveva analgesici nel sangue ed era in preda allo choc quanto bastava per essere aiutata a resistere. Vi fu un attimo di sollievo quando si rese conto che lei e Travis stavano arrancando giù per una ripida discesa, là dove il terreno scendeva bruscamente verso la casa di Miss Alden. Alcuni secondi dopo, sbucarono fuori del bosco e vennero a trovarsi sullo stesso pendio giù dal quale avevano scivolato il giorno prima. Subito sotto di loro ecco la casa di Miss Alden, l'antica dimora Dexter dalle mura massicce come una fortezza. Le imposte erano chiuse e dal comignolo non usciva neppure un filo di fumo. La casa sembrava deserta e senza vita come lo era stata il giorno precedente. Il viale d'accesso non era stato sgombrato dalla neve; non si vedeva alcuna automobile né alcun veicolo a quattro ruote motrici. La vaga speranza che Miss Alden potesse essersi trovata lì a difendere la sua proprietà svanì e Liv provò una stretta al cuore. Si domandò se il vento non l'avesse tratta in inganno, deformando il suono degli spari, così da farle credere che provenissero da quella direzione. Si portò il dito indice alle labbra, segnalando a Travis che doveva tacere. Il bambino non avrebbe potuto parlare neppure volendo; gli mancava il respiro ed era quasi completamente sfinito. Ma non importava, decise Liv, anche se Miss Alden non si trovava lì con la protezione di un fucile. Se loro due fossero riusciti a entrare nella casa, avrebbero potuto nascondervisi. Vi sarebbero stati al sicuro fino a
quando Walter, trovata deserta e in disordine la loro casa, non fosse venuto a cercarli. Ormai non avrebbe potuto tardare ancora molto. Liv non pensò al ginocchio ferito. Al riguardo non poteva far niente. Doveva pensare soltanto a dove potevano trovarsi Ricky e Gordy, e a quanto vicino poteva essere Rand. «Travis» bisbigliò «adesso saremo truppe d'assalto.» Il bambino annuì. Era il loro, familiare, vecchio gioco. Strisciarono di albero in albero, nel frutteto, finché furono vicini alla casa. Liv continuava a guardarsi indietro, nella direzione del bosco, ma Rand non appariva, né lei udiva alcun rumore che potesse far pensare alla vicinanza di lui. E anche davanti a loro, nella casa, non si udiva alcun rumore di abitazione o di battaglia - si udivano soltanto gli ululati del vento, che sembrava volerli sollevare in aria e scaraventarli contro il lato della casa. Si addossarono al muro di pietra e cominciarono ad avvicinarsi adagio all'angolo della casa. Poi Liv sbirciò con cautela oltre l'angolo. Poté vedere, nel senso della lunghezza, la veranda posteriore. Scorse qualcuno che giaceva là, davanti alla porta. La neve lo stava rivestendo con lunghe dita piumate. Liv riuscì a scorgere i capelli color paglia e le sfumature rosee della neve posatasi sul petto immobile e devastato in modo sconvolgente. Ricky, se ne rese subito conto, era morto. A un tratto si sentì svenire. Indietreggiò e si piegò sul ginocchio sinistro, quello sano. Non fletté la gamba destra, ma la lasciò scivolare un poco di lato, in modo che, momentaneamente, non sostenesse alcun peso. Travis le si accovacciò accanto. «Mammina?» bisbigliò. Lei gli coprì la bocca, dolcemente, con la mano. Poi trasse un profondo respiro. «Rimani qui» bisbigliò. Si trascinò, sul ginocchio sano, fino all'angolo della veranda. Di là poté vedere il giardino. V'erano le tracce di due scooter da neve provenienti dalla spiaggia; stavano scomparendo rapidamente sotto la neve fresca. Lei girò intorno all'angolo, poi si fermò, tenendosi giù in modo da non essere visibile a chiunque si trovasse in casa. Sull'ultimo scalino sedeva Gordy. Un braccio gli penzolava, ridotto a brandelli, al fianco. La tuta da neve che indossava era inzuppata di sangue dal colletto agli stivali. Aveva gli occhi chiusi. Liv tornò indietro rapidamente e fece cenno a Travis. Il bambino girò di corsa intorno all'angolo. Lei lo fermò e lo abbracciò. «C'è un morto» bisbigliò «e uno di loro è ferito gravemente. Non guardare, se non vuoi.»
Travis le strinse le mani. Liv si appoggiò un poco al bambino mentre si avvicinavano agli scalini e si stupì constatando quanto sostegno Travis sembrava essere disposto a offrirle ed essere in grado di darle. Ma, alla vista di Gordy, Travis, involontariamente, si lasciò sfuggire un gemito. Liv lo strinse forte a sé. Gordy aprì gli occhi. Lei trattenne udibilmente il respiro e Travis le afferrò con forza la gamba, facendola trasalire. Gli occhi di Gordy rotearono. Egli si sforzò di metterli a fuoco. Si spinse avanti e scivolò con un tonfo sullo scalino successivo. Le rivolse un sorriso simile a una smorfia. Con la mano illesa trovò la ringhiera della veranda e, la faccia deformata da un rictus a causa dello sforzo, riuscì a mettersi in piedi. Discese barcollando sull'altro scalino, poi sull'ultimo. Lasciò andare la ringhiera e rimase in piedi, barcollante, davanti a loro. Liv e Travis indietreggiarono di un passo. Gordy tese verso di loro la mano intatta, poi piombò a faccia in giù sulla neve. Liv si accosciò accanto a lui e lo voltò, il più dolcemente possibile. Gordy le sorrise. Mosse il braccio sano nella neve, su e giù, come un angelo munito di un'ala soltanto. «La vecchia megera» disse. «Trappola.» Parve ridacchiare, ma poi Liv si rese conto che stava soffocando. Gli sollevò la testa, in modo che la bocca di lui si aprisse. Servendosi dei denti, si strappò via il guanto, poi gli conficcò le dita in gola. La lingua era scivolosa; come sforzarsi di far presa su un pezzo di fegato crudo. Ma infine Liv riuscì nell'intento e la estrasse. Lui giacque ansimante e sussultante come un pesce moribondo. Liv venne percorsa da un'ondata di ripugnanza e, con frenesia, si pulì le dita nella neve. Sospirò, poi, con dolcezza, riabbassò la testa di Gordy sul gelido guanciale della neve. Gli mise le dita nude sull'arteria della carotide. Le pulsazioni erano sempre più lente e deboli. Vedendo lo stato in cui si trovava il braccio di lui, Liv pensò che il giovane stava morendo dissanguato; forse aveva già perduto troppo sangue per poter essere salvato, anche se i soccorsi fossero già stati lì. In piedi accanto a lei, Travis fissava Gordy. «Ha detto trappola, no?» domandò lei. Era la prima volta che non bisbigliava, da quando erano usciti di casa. Sperava di distrarre Travis; ma, so-
prattutto, voleva avvertire chiunque potesse trovarsi in quella casa che amici, e non nemici, erano giunti sul posto. Travis annuì. «Forse ce ne sono altre» disse lei. «Dovremo essere prudenti.» Alzò gli occhi su Travis e gli prese la mano. «Non possiamo fare niente per Gordy, Travis» disse. Il bambino batté le palpebre, liberandole da fiocchi di neve. «Forse Walter arriverà qui presto. In tempo per salvarlo.» Liv annuì. Sapeva che Walter non sorvegliava la casa di Miss Alden. Ma, naturalmente, da un momento all'altro sarebbe potuto arrivare a casa loro, ormai. Forse ancora in tempo per aiutarli. Riteneva però che non esistesse la benché minima probabilità di salvare Gordy. Condusse Travis su per gli scalini della veranda. Interponendosi tra lui e la casa. Esibendo se stessa. Si soffermarono per guardare Ricky. Liv tremò e Travis si afferrò con le mani guantate alle mani di lei. Al di là della porta sfondata potevano vedere ben poco dell'interno buio della casa. Aspettarono e non giunsero loro né suoni né segnali. Liv si guardò attorno. «Sdraiati sul pavimento» disse a Travis e il bambino, ubbidiente, si sdraiò ventre a terra, a pochi centimetri appena dal cadavere di Ricky. Liv strisciò lungo la parete della veranda fino alla grande finestra del soggiorno. V'era, all'esterno, una controfinestra, mentre all'interno si trovavano le sprangate imposte indiane. Liv si guardò attorno nella veranda. Tutte le antiquate poltroncine di vimini erano state tolte. Ma dall'altro lato del cadavere di Ricky, incuneati nell'angolo, si trovavano due vasi da fiori di argilla rossa, grossi come bocce da bowling e pieni di sabbia. L'estate precedente avevano contenuto vari tipi di piccoli cactus, ricordò lei. Ma Miss Alden doveva aver trapiantato i cactus per portarli con sé a Wellesley. Forse aveva lasciato i vasi a portata di mano per poter spargere sabbia sugli scalini qualora fosse tornata lì durante l'inverno. Liv zoppicò con cautela intorno al cadavere di Ricky e prese uno dei vasi. Mentre si chinava, bisbigliò a Travis: «Volta la faccia dall'altra parte. Okay, così. Adesso i pezzi di vetro voleranno in tutte le direzioni.» Il bambino annuì. Lei si appoggiò, ad angolo rispetto alla finestra, contro uno dei pilastri ad arco della veranda, tirò su il colletto della tuta e sollevò il vaso. Non appena lo ebbe lanciato, si coprì la faccia e si chinò. Seguirono un tintinnio soddisfacente di vetri infranti e il tonfo del vaso contro il legno delle im-
poste, seguito dal frantumarsi dell'argilla rossa sul pavimento di legno della veranda. Liv sentì pezzi di vetro pioverle sulla tuta da neve e sul berretto di lana che si era calcato fino alle orecchie. Travis trasalì e soffocò un grido. «È tutto okay» lo rassicurò lei. Si spazzò via di dosso frammenti di vetro. Travis, esitante, fece altrettanto con quelli finiti addosso a lui. Liv camminò, frantumandoli, su pezzi d'argilla e di vetro e andò a esaminare la finestra. Rimanevano ancora grossi frammenti di vetro frastagliati nell'intelaiatura. Li smosse nel mastice secco finché non riuscì a estrarli e li appoggiò con cautela in un angolo della veranda. Poi si gettò con tutto il proprio peso contro le imposte, che si incurvarono facendo forza contro il chiavistello; ma l'esito del tentativo la scoraggiò. Sembravano molto solide. Si domandò come diavolo avessero fatto, i Nighswander, a entrare in quella fortezza negli anni precedenti. Sfondare le porte sembrava essere il massimo delle loro capacità. Poi ricordò che Ricky Nighswander, al pari di Rand, aveva un coltello... e, anche se prima esso le era sembrato minaccioso, ora pensò quasi con bramosia alla resistenza della lama affilata. Zoppicò verso il cadavere di Ricky. Travis si sollevò un poco per osservarla. Alcuni frammenti di vetro erano andati a conficcarsi sulla faccia e sulle mani di Ricky e altri scintillavano sulla neve rosea che gli copriva il petto, ma nessuno di essi aveva fatto sgorgare sangue. Liv sbirciò Travis. Il bambino aveva guardato Ricky, per poi voltare la testa rapidamente e fissare Gordy. Quella essendo la sua natura, la neve stava formando una collinetta su Gordy. Liv palpò con cautela i resti insanguinati della tuta da neve di Ricky finché non sentì la dura lama del coltello nel fodero, infilato dentro la manica sinistra. Dovette sollevare il braccio per estrarre il coltello. Era inerte e pesante. Si affrettò a lasciarlo ricadere. Zoppicò di nuovo fino alle imposte ed estrasse il coltello che ora le sembrò non tanto qualcosa di barbaro quanto qualcosa di concreto. Fu facile inserirne la lama tra le due imposte, che non erano state costruite con l'intenzione di farle combaciare ermeticamente. La lama raschiò contro il chiavistello di ferro. Lei la estrasse e cominciò a tagliuzzare il legno su ciascun lato delle imposte, così da mettere a nudo l'intero chiavistello. La mano di lei si sollevava e si abbassava freneticamente. Più di una volta Liv voltò la testa per guardarsi alle spalle. «Tengo gli occhi bene aperti» le assicurò Travis, e lei si costrinse a sor-
ridergli. Finalmente la dura lama del coltello trovò l'alloggiamento nel davanzale, un semplice foro nel legno che rivelò il chiavistello. Rannicchiandosi il più possibile senza perdere il punto di appoggio, Liv inserì la punta del coltello tra la fine del chiavistello e il legno e spinse all'insù la sbarretta di acciaio. Chinandosi ancora di più, fece scorrere dentro il muro l'imposta di sinistra. Poi sedette con la schiena contro il muro. «Pfuuuiii» sospirò e si asciugò la fronte. Travis le sorrise. Lei si sollevò di nuovo, puntellandosi, e scrutò l'interno della casa attraverso il vetro polveroso della finestra interna. La nuova fonte di luce illuminò le forme dei mobili antichi e familiari di Miss Alden. E fece scintillare una ragnatela di fili metallici che si intersecavano nella stanza in tutte le direzioni, ad altezze che andavano da sessanta centimetri a un metro e mezzo. Nella penombra, Liv riuscì a distinguere le canne di una dozzina di fucili e il bagliore occasionale di un occhio di vetro nelle teste impagliate dei trofei di caccia di Miss Alden. Ricadde sul pavimento, senza fiato a causa dello choc. Travis strisciò intorno al cadavere di Ricky e venne a raggomitolarlesi accanto. «Mammina?» disse. «È davvero una trappola» disse lei, fiocamente. Travis sbirciò oltre il davanzale della finestra, poi risucchiò il respiro. Liv gli passò un braccio intorno alla vita e lo trasse giù accanto a sé. «Spaventato, eh?» «Secondo me Miss Alden deve essere matta» disse lui. Un sorriso fuggevole fece guizzare le labbra di Liv. In quel momento udirono, dalla parte del lago, il rombo lontano e intermittente di un singolo scooter. Lo udirono entrambi nello stesso momento. Travis si irrigidì contro Liv. Lei si spostò verso l'alto, allungando il collo per guardare di nuovo oltre il davanzale. «Ti ricordi del passaggio segreto?» domandò. Travis annuì avidamente e le strinse la mano. «Potremmo strisciare» soggiunse lei. «Credi che riusciremmo ad aprire la porta segreta senza toccare uno dei fili?» Travis balzò su e poi giù. «Se non l'apriamo fino in fondo.» Liv trasse un profondo respiro. «Dobbiamo tentare. Non possiamo nasconderci in nessun altro posto.» Lei non avrebbe potuto arrivare in nessun altro posto, ma non intendeva dirlo a Travis.
Infilò il coltello nella manica. Impossibile sapere se avesse potuto servirsene ancora. Decise che sarebbe stato inutile richiudere l'imposta. A Rand non sarebbero sfuggiti i pezzi di vetro, non con Ricky che giaceva lì, sul pavimento, simile a un portaspilli; né gli sarebbe sfuggito il chiavistello posto allo scoperto. Ma, quel che più contava, lei e Travis avevano bisogno della luce in più che entrava dalla finestra, se volevano avere la possibilità di arrivare vivi al passaggio segreto. «Riempi di neve i berretti» ordinò Liv a Travis, passandogli il suo. «Ci servirà per cercar di coprire le nostre tracce.» Ubbidiente, il bambino strisciò verso gli scalini e riempì i berretti. Lei fece scorrere la lampo della tuta da neve, poi cacciò sotto la tuta il berretto pieno di neve; Travis fece altrettanto. Quando Liv cominciò a spingersi verso la porta, si stupì constatando che Travis si trovava già al suo fianco destro e cercava di aiutarla. La cosa la rallegrò, misteriosamente e le fece venir voglia di ridere forte. Poi, altrettanto inaspettatamente, si sentì fiacca, in preda al capogiro. Ma il bambino era lì per lei, ansimante e rosso in faccia, ma concreto in modo incoraggiante. Ostinato in modo rassicurante, come suo nonno. Al di là della soglia, vi fu all'improvviso più silenzio, in quanto il vento imperversava fuori degli spessi muri. Lei si riposò contro lo stipite, appoggiata all'anca sinistra, il ginocchio lievemente flesso, tenendo la gamba destra allungata dinanzi a sé. Travis le si accosciò accanto. Il vento aveva spinto neve nella stanza, incipriando il pavimento, privo dei tappeti fatti con pelli di animali, come un grande ventaglio bianco che arrivava quasi al centro della stanza. Davanti a Liv e sopra a Liv, la rete di fili metallici si intersecava come una culla di gatto, l'intreccio di un pezzo di spago tra le dita delle mani, che diverte i bambini. Le estremità di due di quei fili metallici spezzati si avvolgevano a spirale dentro lo strato di neve sul pavimento e fuori di esso, a portata delle loro mani. Grazie alla luce che penetrava dalla finestra, Liv riuscì a scorgere qua e là, negli angoli bui della stanza, parti di numerosi fucili - una luccicante, lunga canna, simile a un osso, la pupilla dilatata di un foro d'uscita, con l'orlo d'acciaio che fungeva da iride, il lustro del legno lucidato di un calcio, i quadrettini incisi nella parte più sottile di quest'ultimo - quasi una dozzina di fucili. I fili metallici dovevano essere doppi o tripli e molti di essi conducevano allo stesso grilletto. La testa di leone ruggiva silenziosamente contro di loro da una delle zone d'ombra. La lingua della bestia penzolava, di un color rosso sangue, so-
pra i denti bianchi. Il pianoforte era scomparso. Miss Alden doveva averlo portato via con sé. Non volendo che venisse danneggiato da un colpo di fucile, forse, pensò Liv. Al lato opposto della stanza, ceppi di betulla erano stati disposti nell'enorme camino, presumibilmente in previsione di un ritorno di Miss Alden. Nel portafiammiferi di ottone appeso alla parete accanto alla porta segreta si trovava una scatola di zolfanelli Blue Diamond. La legna sembrava essere sufficiente per un falò all'aperto, ma il caminetto era di tipo coloniale, uno di quelli dentro i quali possono trovar posto in piedi un uomo o una donna non troppo alti di statura, e, senza dubbio, il tiraggio dell'enorme cappa doveva essere disastroso. Il caminetto avrebbe consumato grandi quantità di legna senza riscaldare molto di più della pietra. I fili metallici più bassi della trappola sembravano trovarsi a circa quarantacinque centimetri dal pavimento. Travis avrebbe dovuto farcela, se non si fosse lasciato prendere dal panico. Se nessuno avesse fatto irruzione all'improvviso nella casa. Liv abbracciò il bambino. «Prima tu. Alla maniera delle truppe d'assalto, strisciando sul ventre... Tieni la testa bassa e il sedere giù, e andrà tutto benissimo. Quando sarai arrivato dall'altra parte, rotola dentro il caminetto. Una volta nel caminetto, potrai restare in piedi. Io ti seguirò. Se succede qualcosa spargi la neve che hai nel berretto sul pavimento, in modo che le tue tracce non siano più tanto vistose, e poi entra nel passaggio segreto e restaci. Non fare alcun rumore. Aspetta Walter, okay?» Travis sospirò. Poi saltò su e la baciò sulla guancia. «Okay.» E sgattaiolò via. Lei tolse dalla tuta il berretto pieno di neve e lo mise nella piega del ginocchio, tanto per avere le mani occupate e non protendersi ad afferrare suo figlio. Poi, di colpo, egli fu al di là della sua portata. Mentre lo osservava, Liv si meravigliò della disinvoltura con la quale il bambino stava procedendo e della naturalezza che sembrava avere ogni suo movimento. Soltanto un altro gioco delle truppe d'assalto. Il vento, fuori, continuava a imperversare, ora più impetuoso, ora meno, capricciosamente, sputando neve nella stanza, sopra la sua gamba allungata. Nei momenti più calmi Liv poteva udire il rombo dello scooter che si avvicinava. Poi il vento tornava a cancellare il suono. Temette sempre più che Rand potesse capitare lì senza alcun preavviso. Ma quando voltò la testa, guardandosi nervosamente alle spalle, non vide altri che Ricky, i cui
occhi spalancati si stavano riempiendo di neve. Al di là di lui, ai piedi degli scalini, il vento continuava a seppellire Gordy. Impossibile capire se fosse già morto. Travis rotolò, flessuoso, da sotto i fili metallici nel caminetto e finì contro la legna piccola e i ceppi. Si drizzò a sedere, si scostò i capelli dagli occhi e le rivolse un sorriso trionfante. Lei sentì che la gola le si chiudeva e lottò per respingere le lacrime. Il bambino era salvo. «Ci arrivi alla porta segreta?» gli domandò. Travis si spostò lateralmente, si sporse e annaspò toccando qua e là il rivestimento a pannelli. Uno dei pannelli a un tratto si aprì in parte. «L'ho trovato!» si mise a esclamare lui, e afferrò l'orlo della porticina. «Attento» lo ammonì Liv, protendendosi in avanti, ma soltanto per pentirsi subito dopo. «Fino a che punto puoi aprirla?» Lui spinse con dolcezza e si insinuò nel varco che aveva aperto. Fu stupefacente la rapidità con la quale scomparve entro lo spiraglio e fu sbalorditivo il buio che v'era là dentro. L'apertura distava appena quattro o cinque centimetri dai fili metallici più vicini. Il bambino sgusciò di nuovo fuori. «Oplà» cantilenò. Liv rise, soffocando lo sgomento. Sarebbe stato duro per lei insinuarsi nell'apertura senza far partire uno dei fucili e segnalare la loro presenza. Ma prima doveva arrivare sin là. Naturalmente, se non fosse arrivata, la neve nel berretto di Travis non avrebbe fatto alcuna differenza. Rand avrebbe avuto tutte le prove possibili del fatto che lei era entrata in quella casa. Sollevò la gamba destra e la portò dietro di sé, poi si voltò adagio sul fianco sinistro. Sollevò la gamba destra e l'appoggiò sulla sinistra. Poi si girò supina. Si sentì alquanto simile a una sirena. Era una posizione scomoda e goffa, ma non poteva permettersi di lasciare una non camuffabile traccia di macchie di sangue. Con la faccia che sfiorava il pavimento, portò avanti entrambe le mani di piatto e disse: «Travis, ti voglio bene.» «Anch'io ti voglio bene, mammina» pigolò lui. «Non preoccuparti, puoi farcela.» Ma gli tremava la voce. Lei fu lieta di non poter alzare la testa e di non poterlo vedere in viso. Si spinse avanti con il piede sinistro, si tirò avanti con le mani e venne a trovarsi sotto i fili metallici. «Fantastico» disse il bambino, incoraggiandola. Sotto la tuta da neve Liv era viscida di sudore. È un gioco, soltanto un gioco. I fucili non esistono. Ricky non è morto sul serio. Gordy non sta
morendo sul serio. All'improvviso vi fu una sosta nei sibili del vento. E in quel momento non si udì più il rombo dello scooter, né lontano, né vicino. Liv esitò. Non riusciva quasi a respirare. «Mammina!» bisbigliò Travis in tono incalzante. Lei proseguì. Trascinandosi e spingendosi e contorcendosi. Si fermò e si guardò attorno tanto quanto osava senza alzare la testa, per vedere dove fosse arrivata. «Okay, mammina» disse Travis. «Sei okay.» Lei lasciò ricadere la testa, stancamente, e continuò a strisciare, centimetro per centimetro. Sembrava che stesse strisciando da un'eternità. Non poteva permettersi di sentire il proprio panico, o la propria paura, o il proprio terrore, ma la preoccupazione e l'impazienza di Travis giungevano fino a lei. Immaginò che il suo affetto per il bambino fosse come un robusto cavo metallico lungo il quale poteva trascinarsi fino a lui. Poi sfiorò qualcosa con la spalla e di colpo si afflosciò sul pavimento, lasciando che la gamba destra finisse dove voleva. Il dolore la fece quasi svenire. «Mammina» gridò Travis. «Rimani lì» gracidò lei. «Rimani dove sei.» Poteva sentirlo, tutto teso sull'orlo del focolare, pronto a gettarsi sotto i fili metallici. Poteva udirne il respiro, rapido e spaventato. Voltò la testa per cercare di vederlo. Sopra di lei, la rete mortale dei fili di metallo luccicava qua e là. Con la coda dell'occhio riuscì a scorgere quello che aveva toccato, ma non vide Travis. Il vento si concesse una tregua. Passi, ai limiti della portata del suo udito, fecero scricchiolare la neve. «Mammina!» ripeté Travis, e v'era l'angoscia nella sua voce. Aveva udito anche lui. I tacchi dei suoi stivaletti raschiarono il focolare. Liv si protese di nuovo, trascinandosi avanti il più energicamente possibile. Le mani del bambino le sfiorarono i capelli. Singhiozzando, lei continuò a trascinarsi verso le mani. Le dita di Travis le affondarono nei capelli come avevano fatto talora, per caso, quando lei ancora lo allattava. Poi vennero a trovarsi faccia a faccia e lui la stava tirando per i capelli come se avesse voluto trarla in salvo in quel modo. Insieme rotolarono sul focolare e finirono contro la legna. «Dentro» bisbigliò lei. «Dammi il tuo berretto.» Travis glielo mise nelle mani e scomparve nel passaggio segreto. Liv si sollevò sulla gamba valida contro il lato del caminetto. Poi, appoggiandosi
alla legna, lanciò a manciate la neve contenuta dai berretti, cercando non tanto di nascondere le loro tracce, poiché non ve n'era abbastanza per questo, quanto di confonderle. L'ultima neve la sparse sul focolare e sulla legna dentro il caminetto, poi ficcò i berretti sotto la tuta. Dolorosamente si sfilò lo stivale destro, poi il sinistro. Tenendoli sotto un braccio, si accovacciò sul ginocchio sano, poi impresse nella neve l'orma dell'uno e quella dell'altro, quest'ultima volutamente di sghembo, nella neve. Soltanto dopo aver terminato si accorse che lo stivale destro era insanguinato tutto intorno all'orlo. Una ispirazione improvvisa la indusse a capovolgerlo sopra i ceppi. Alcune gocce di sangue caddero sul legno chiaro di betulla. Si rimise allora, di nuovo, gli stivali sotto il braccio, si raddrizzò e si spostò, rasente la parete, verso la porta segreta. Travis l'aprì un po' di più per lei e si sporse per prendere gli stivali. Liv si afferrò avidamente all'orlo della porta, come se fosse stato un'altra gruccia, oltre a quella rappresentata dalla parete, e, con somma cautela, si infilò nell'apertura. Non appena fu passata richiuse ermeticamente la porta e diede di gomito a Travis affinché salisse sugli scalini di pietra. Si lasciò cadere su di essi e si sollevò, come fa un bimbetto che impara a salire e a scendere le scale, con il sedere. Salirono fino a circa metà scala, poi lei si protese e toccò Travis. Il bambino scivolò giù accanto a lei e si abbracciarono. Liv gli mise le dita sulle labbra. Travis si sporse e chiuse le labbra di sua madre con le proprie dita grassocce. Sapevano della vecchia cenere di legna che si trovava nel caminetto. Rand appoggiò la schiena al grosso tronco di un abete canadese e accese una sigaretta con le dita tremanti. Da quel punto poteva vedere il giardino e la casa, ma chiunque si trovasse all'interno di quest'ultima era improbabile che riuscisse a scorgere lui attraverso i veli della neve sospinta dal vento e nell'oscurità sotto l'albero. Al pari di Liv, egli notò subito l'assenza di veicoli e di fumo dal comignolo, indizi del fatto che la casa era abitata. La vecchia cagna doveva essere arrivata a piedi, o con le racchette da neve, e se ne stava tutta infagottata dentro quella casa, giocando il gioco dell'attesa. Sembrava che le cose stessero in questo modo. Rand riusciva a scorgere il profilo del corpo sulla veranda e guardò a lungo quanto bastava e attentamente quanto bastava per essere certo che si trattava di Ricky e che Ricky era morto. Prima di morire, aveva sfondato la porta di casa, che rimaneva spalancata, lasciando entrare il maltempo. Una delle imposte della finestra che dava sulla veranda era aperta, probabil-
mente si trattava di un punto di osservazione. A Rand era occorso un po' più di tempo per scorgere Gordy, sotto un sudario di neve, ai piedi degli scalini. Soltanto allora aveva deciso che la neve veniva giù fitta abbastanza per nascondere un po' di fumo di sigaretta tra gli alberi vicino alla spiaggia. Non gli importava un corno di Gordy; non si trattava di una perdita. Gordy non era mai stato altro che uno sbavante fardello dal giorno in cui il padre di Rand aveva portato a casa, sulla sua Cadillac vecchia di dieci anni, Jeannie McKenzie Teed e Gordy, annunciando che Jeannie era la sua nuova moglie. Arden Nighswander non aveva accennato a Gordy, ma Gordy esisteva, già grasso come un maialino, e due volte più stupido. Il corpo di lui sembrava essersi fermato in un punto intermedio dell'adolescenza, senza completare il proprio sviluppo, con radi peli rossicci nelle ascelle e sull'inguine, ma ancora con un pene da bambino e uno scroto da bambino, i testicoli non essendo ancora discesi nei primi anni della ventina. Bene, ora non sarebbero discesi mai più e al mondo vi sarebbe stato un idiota in meno. Ma Rand era infuriato a causa di Ricky. Non perché fosse molto più affezionato al fratello minore di quanto lo fosse stato a Gordy. Ricky aveva causato ancora più guai. Il mondo sarebbe stato migliore se i testicoli di Ricky fossero rimasti al calduccio e al sicuro. Ricky aveva più cattive abitudini di quante fosse possibile contarne ed era assolutamente incapace di liberarsene. Rand sapeva che Ricky sodomizzava talora Gordy e, molto più spesso, lo costringeva alla fellatio; a tutta prima era stato blandamente divertito e al contempo blandamente disgustato dalla cosa. Ma in seguito gli era sembrato che Ricky avesse finito con il trovare troppo comoda e troppo piacevole la faccenda. Come l'abitudine di Ricky di pisciare davanti a tutti, quella che un tempo era sembrata più che altro una manifestazione di esuberanza aveva finito con il tramutarsi in predilezioni definitive e imbarazzanti. Ciò nonostante, per quanto avessero litigato e si fossero reciprocamente ostacolati, Ricky era suo fratello. Assassinando Ricky, la vecchia cagna aveva trasmesso un messaggio a Rand e lui lo interpretava benissimo: il prossimo sarai tu. Rand finì di fumare la sigaretta e si sentì più calmo e più deciso. Accovacciandosi, tenendo la testa bassa, cominciò a zigzagare nel giardino, e passò da un albero a un cespuglio ogni qual volta impedivano che si potesse vederlo. A pochi metri dalla casa, tornò ad accovacciarsi. Avrebbe quasi potuto toccare Gordy. Così da vicino poté vedere come fosse stata calpe-
stata la neve intorno agli scalini della veranda. Altra neve aveva quasi cancellato le tracce, ma ovviamente qualcuno era stato lì. Più di una persona, e non soltanto Ricky nei suoi ultimi momenti di vita, si era servita degli scalini, ma lui non sarebbe stato in grado di dire quante. Girò intorno alla casa, verso il frutteto, e si persuase che la donna e il marmocchio erano arrivati lì. Le orme venivano coperte rapidamente ma restavano ancora chiaramente visibili, le orme di loro due, e lei trascinava una gamba. La certezza che avessero raggiunto la casa e vi fossero entrati lo rallegrò. Adesso si trovavano là con la vecchia cagna, e avrebbe potuto eliminarli tutti contemporaneamente. Era tornato nella casa dei Russell a prendersi il berretto e i guanti e aveva gettato un ceppo in fiamme e braci accese sul vecchio tappeto davanti al caminetto, lasciando poi cadere nel fuoco le pillole dategli da Olivia. Nell'eventualità che fosse stato così jellato da essere preso, non voleva essere accusato di possesso illegale di narcotici. Nella migliore delle ipotesi la casa, pensò, sarebbe stata ben bene in fiamme prima che arrivasse il vecchio Walter e poi sarebbe occorso qualche tempo prima che sopraggiungessero i pompieri. Sarebbero stati impegnatissimi tutti quanti, e a lungo, nel tentativo di salvare la donna e il bambino, che invece non si trovavano lì. In seguito avrebbero discusso la situazione, rammaricandosi di dover tirar fuori dalle macerie le salme che secondo loro erano sotto le rovine. Nella peggiore delle ipotesi, l'incendio si sarebbe limitato a distruggere o a rendere meno evidenti le prove lasciate da lui, da Ricky e da Gordy - le lenzuola bruciate in seguito all'incidente toccato a Gordy, la serratura della finestra, nella camera del bambino, forzata. Nel frattempo lui, Rand, avrebbe regolato i conti con la vecchia cagna, con la donna e con il suo marmocchio. E appiccato un secondo incendio, un incendio in grande stile, quest'ultimo, tale da consumare non soltanto i suoi nemici, ma anche Ricky e Gordy. Soltanto lui avrebbe saputo quello che era successo in realtà; soltanto lui e forse suo padre, se avesse deciso di dirlo al vecchio. Sarebbe stato necessario spiegare dove erano finiti Ricky e Gordy, e tra loro due, lui e suo padre, avrebbero fatto circolare la voce che Ricky era andato a cercare lavoro nel Massachusetts o nel New Hampshire, o magari sotto le armi, forse per aver messo incinta qualche ragazza, e che Gordy era stato ricoverato in un ospizio. Nessuno si sarebbe stupito molto. Ma, a pensarci meglio, a questo avrebbe dovuto provvedere suo padre. Quanto era accaduto poteva essere il modo scelto da Dio per dire a lui, Rand, che era tempo di recarsi in qualche località più calda. La California. Il Texas. Forse il Messico.
Rand fece il giro completo della casa. Le finestre della cantina erano state murate. I muri portanti erano stati costruiti con pietre enormi, maledizione, e con calcina fatta sul posto, sin dall'Anno Uno. Egli origliò a lungo, in vari punti, e non udì alcun suono all'interno della casa. La vecchia sgualdrina lo stava aspettando. Come poteva essere così sicura che lui sarebbe venuto, che erano in tre? Era stata la donna, naturalmente, ad avvertirla, se già lei non lo sapeva per suo conto. Una ragione in più per ringraziare O-liv-i-a. Rand si accosciò accanto agli scalini della veranda, riflettendo. Era soltanto logico aspettarsi che una donna la quale non sfruttava la propria potta, così ricca di talento, per accumulare una fortuna, fosse una cagna arrabbiata. Probabilmente un'invertita, proprio come Miss Alden. Ma non avrebbe potuto fare un gran che; lui l'aveva conciata quanto bastava per metterla fuori combattimento. Dal marmocchio non v'era niente da temere, naturalmente. Pertanto aveva contro soltanto la vecchia cagna, che poteva contare su almeno un fucile. La sola arma da fuoco che fosse stata in suo possesso, la pistola nichelata rubata alla padrona dei cagnetti, si trovava nei boschi ad arrugginire. Ulteriormente. Rand tornò all'angolo della veranda, si afferrò alla ringhiera con tutte e due le mani e volteggiò al di sopra di essa finendo sulle punte degli stivali e subito rotolando via e accovacciandosi nell'angolo più lontano. Lo sorpresero lo scricchiolio del vetro infranto e poi una dozzina di bruciori nel palmo delle mani e sulle dita, là dove piccoli frammenti di vetro avevano penetrato i guanti quando lui era venuto a trovarsi carponi. «Gesù!» gridò, strappandosi i guanti. Quasi tutti i pezzi di vetro vennero via mentre se li sfilava, ma dalle mani il sangue stava scorrendo. Con la forza della volontà si costrinse a rimanere immobile. Non si udiva alcun suono all'interno della casa, nemmeno un respiro affrettato, o un passo, o il cigolio di un'imposta socchiusa. Rand si sentì sufficientemente al sicuro per esaminarsi le mani. Ad uno ad uno, estrasse una mezza dozzina di frammenti di vetro. Era sicuro che ve ne fossero di più, ma non poteva estrarli senza le pinzette. Quando pensò alla cocaina che era bruciata e alle pillole che aveva gettato con noncuranza nel fuoco, gli venne voglia di prendersi a calci. Avrebbe avuto bisogno, in realtà, di un anestetico locale, qualcosa come lo spray contro le ustioni che aveva procurato a Gordy. Soltanto che lo spray stava bruciando, adesso, insieme con la casa. La cosa era quasi buffa, ma proprio per questo lo mandò ancora più in bestia. Soltanto in questo momento si domandò da dove fossero venuti i pezzi
di vetro. A questo interrogativo fu facile rispondere. Il vetro della controfinestra nella parete della veranda era scomparso. E, tra i pezzi di vetro, si trovavano i cocci di un vaso da fiori che dimostravano in qual modo il vetro fosse stato rotto. L'imposta, più che aperta era stata forzata, mettendo a nudo il chiavistello. Nel corso delle loro precedenti imprese, lì, si erano sempre limitati a sfondare la porta. Perché Ricky si era dato la pena di venire alle prese con la finestra, di forzare l'imposta, e di sfondare poi la porta? Non aveva senso. Poteva essere stata la donna a fare questo. Ma perché? Perché la vecchia cagna non si era limitata a fare entrare in casa lei e il bambino? I due non avrebbero dovuto fare altro che darle una voce. Rand strisciò sotto la finestra, aspettandosi di vederne sporgere da un momento all'altro la canna di un fucile. Si proponeva di afferrare l'arma dal basso e di strapparla dalle mani della vecchia cagna. Aspettò, pertanto, per parecchi minuti, ma continuò a non udire alcun rumore, né alcun fucile apparve oltre il davanzale. Egli fece sporgere un guanto, centimetro per centimetro, al di là dell'orlo del davanzale. E ancora non accadde niente. Osò allora dare un'occhiata, alzando la testa ancor più adagio di quanto avesse alzato il guanto, pronto ad abbassarsi fulmineamente al benché minimo suono. Sudando come un porco, pensò che avrebbe detto suo padre. Quasi sul punto di farsela sotto. Era confuso. A tutta prima gli parve che la cosa non avesse senso e non riuscì a raccapezzarsi; poi, di colpo, capì. La vecchia cagna non si trovava lì. Ma gli aveva lasciato ugualmente un messaggio, ed era sempre il medesimo: il prossimo sarai tu. Si spostò con cautela verso la porta. La neve sul petto di Ricky era come uno spesso cuscinetto di garza, imbevuto al centro di un rosso-scuro che, verso gli orli, diventava rosa. Sul resto di lui formava un lacero velo, coprendogli completamente gli occhi, come per rispettare una qualche norma imposta dalla decenza. Ma i muscoli della mascella si erano allentati per cui la bocca rimaneva aperta e la lingua sporgeva tra le labbra. Lì la neve si raccoglieva soltanto negli angoli e non nascondeva una colorazione sempre più violacea. Quando il vento spazzò via la neve, lasciando scoperta una piccola parte della guancia di Ricky, la pelle di lui parve non avere più colore - anzi meno - di quanto ne avesse avuto la neve stessa. Un'ondata di ripugnanza rivoltò lo stomaco di Rand. Pa', pensò, dapprima supplichevole, poi virtuosamente collerico, Pa', vorrei vomitare. Passò accanto a Ricky e scrutò dentro la casa. La neve vi era penetrata. Qualcuno l'aveva smossa, passandovi su e trascinandola ancora più avanti.
Qualcuno si era accosciato appena pochi centimetri più in là della porta, subito oltre la soglia, perdendo un po' di sangue. Non Ricky. Il sangue di Ricky aveva spruzzato gli stipiti della porta e la porta sfondata e il pavimento, ma risultava distribuito in modo uguale e v'erano lembi di tessuto oltre che sangue, distribuiti in modo comprensibile. Lo sparo aveva scaraventato Ricky fuori della casa, uccidendolo all'istante. Qualcuno aveva sparso neve dal lato opposto della stanza, dal caminetto, sul pavimento, rendendo meno chiara, ma non cancellando la prova, simile alla traccia lucente d'una lumaca, di un avanzare a pancia in giù sotto i fili metallici. Le tracce di più di una sola persona, ma meno di molte. La donna e il marmocchio. Erano entrati sotto la trappola della vecchia cagna, avevano raggiunto il caminetto ed erano scomparsi. Rand studiò i fili metallici, certo ormai che si facesse scattare la trappola urtando contro uno dei fili, e che non esistesse alcun altro pericolo, a meno che la donna non si fosse impadronita di un fucile trovato nell'armeria della vecchia cagna. Poté constatare quanto sarebbe stato facile il passaggio per il marmocchio e vide inoltre che sarebbe stato possibile, se non facile, per la donna. Il filo più basso sembrava distare quarantacinque centimetri dal pavimento. Passare non sarebbe riuscito impossibile nemmeno a lui poiché, anche se misurava circa sessantacinque centimetri da una spalla all'altra, avrebbe potuto strisciare bocconi, come doveva aver fatto la donna. Tuttavia le probabilità di fallire sarebbero state di gran lunga maggiori nel suo caso. Uno starnuto sarebbe bastato per fargli sfracellare il cranio da una pallottola. Non avrebbe potuto sollevare la testa nemmeno di un paio di centimetri per vedere dove si trovasse e tanto meno per accertare se qualcuno non gli si stesse avvicinando furtivamente con un fucile nelle mani. Ferita o no, O-liv-i-a, Nostra Signora della Potta ricca di Talento, era una combattente della giungla. Era riuscita a sfuggirgli, no? Lui doveva supporre, pertanto, che si fosse impossessata di uno dei fucili della vecchia cagna e che stesse aspettando di coglierlo di sorpresa. Dove si trovava? V'era la scala per salire nella camera da letto; ma, per arrivare alla scala, la donna e il marmocchio avrebbero dovuto strisciare in un'altra direzione. Invece le tracce sulla neve conducevano direttamente dentro il caminetto, dove si trovava già preparata la legna. No, v'era una lievissima spolveratura di neve sulla legna. E macchie scure - puntini sparsi - sulla corteccia di betulla che non potevano essere né nodi del legno né macchie naturali e che avevano tutta l'aria di essere invece macchie di sangue. Rand quasi grugnì di soddisfazione. La donna aveva tentato di cancel-
lare le proprie tracce, ma senza riuscirvi del tutto. Lei e il marmocchio erano nascosti dentro la canna fumaria. Rand aveva guardato una o due volte su per quella canna fumaria, in occasione delle loro visite precedenti, e sapeva che v'era una sporgenza larga abbastanza per appoggiarvi i piedi. Aveva guardato in alto e veduto un lembo di cielo grande quanto lo schermo di un televisore. Quel particolare comignolo era grande abbastanza per contenere la metà degli abitanti di Nodd's Ridge. Di conseguenza la donna avrebbe dovuto abbandonare il nascondiglio per sparargli contro; ma non sarebbe riuscita a far questo senza che lui la udisse. D'altro canto, Rand non vedeva come avrebbe potuto andare a incunearsi sotto quei fottuti fili metallici dove, anche udendo O-liv-i-a, non gli sarebbe stato possibile muoversi abbastanza in fretta per salvarsi. Era una dannata jella che non fosse riuscito a colpirla alla schiena, o in qualche altro punto più vitale, per fermarla. Ed era una fottuta jella che non potesse regolare i conti, per ora, con la vecchia cagna; ma, prima o poi, avrebbe sistemato anche lei. Rand si schiarì la voce. «O-liv-i-a» disse. «Mammina bella. Come va la gamba, O-liv-i-a? Ti duole un po'? Sta sanguinando un po'? E la tua potta come va, Olivia? Sta sentendo la mia mancanza, O-liv-i-a?» Aspettò. Tastò il pacchetto floscio delle sigarette. Rimaneva una sola sigaretta stantia. Avrebbe aspettato di fumarla quando tutto fosse finito. Forse sarebbe riuscito ad accenderla con il dito mignolo di O-liv-i-a. Non vi fu alcuna risposta. Rand sospirò udibilmente. «Sono ferito, O-liv-i-a. Non mi ami più?» Infine rise. «Merda.» Tossì. «So dove sei» disse. «Ora vengo a prenderti.» Poi se ne andò. Capitolo XVII Una volta al di là della strada rialzata, era divenuto immediatamente manifesto che avrebbero dovuto scegliere uno dei lati del lago e seguire l'andamento della sponda poiché, non appena il lago fosse divenuto ampio, la scarsa visibilità avrebbe impedito loro di capire dove si trovavano. Avrebbero potuto, in ultimo, girare in tondo in mezzo al lago. Così avevano seguito la sponda nord e si erano quasi smarriti ugualmente. I cottage sulla sponda del lago offrivano un rifugio, ma loro due li avevano ignorati poiché, per quanto potessero essere vicini, recarvisi significava allontanarsi dalla direzione giusta.
Pat aveva rinunciato al tentativo di asciugarsi il naso. A causa della crescente insensibilità delle mani, si rendeva conto di avere un principio di congelamento. Ma non soffriva troppo. A crucciarlo soprattutto era il timore che la mano di Sarah potesse scivolar via dalla sua senza che lui se ne rendesse conto; in tal caso sarebbero rimasti separati e l'uno avrebbe perduto di vista l'altro nel turbinio della neve. Ma lei gli si avvinghiava alla mano, sforzandosi di restargli al fianco, come se lo avesse saputo. Riusciva difficile pensare a qualcosa di più della necessità di continuare a tenere per mano Sarah e di mettere un piede davanti all'altro. Pat si sentiva gelato fino alle ossa e sfinito. Imprecò contro se stesso per non essere rimasto nell'automobile, o per non avervi lasciato almeno lei. Ma non potevano più tornare indietro, ormai, si erano spinti troppo oltre. Poi Sarah gli diede uno strattone. Subito più avanti, una piccola penisola sporgeva nel lago. Alla sua estremità si trovava una rimessa per imbarcazioni in rovina. Sarah lo condusse incespicando al riparo sul lato sottovento. Là si accovacciarono e si riposarono. Sarah lo scrutò ansiosamente. Alzò le dita toccandogli la faccia. «Senti niente?» gli domandò. Lui scosse la testa. «Merda» disse lei. «Hai un principio di congelamento. Ti stavo toccando.» Pat le afferrò il polso e se lo portò alle labbra. Sarah si affrettò ad abbracciarlo. Poi ricadde indietro e si guardò attorno. «Non siamo lontani, ormai. Lo sai dove ci troviamo?» La neve trascinata dal vento gli sferzava gli occhi. «No. Non ne ho idea.» «Questa è la rimessa degli Spellman.» «Magnifico» disse Pat. «Proseguiamo.» La mano di Sarah sul gomito lo tirò indietro. «Hai bisogno di riposare.» «Ho bisogno di un riparo. Ho bisogno di arrivare a casa, baby.» Il sorriso di lei divenne comprensivo, materno. «D'accordo. La casa di Miss Alden si trova tra qui e casa nostra. Che ne diresti se andassimo là, dove potresti ripararti dal maltempo? Io potrei poi percorrere l'ultimo tratto e tornare indietro con Ma'.» «Grazie» disse lui «ma posso farcela fino a casa.» «Va bene.» Sarah cedette. «Ma ci riposeremo ancora un po', okay? E poi rimarremo sempre vicini alla sponda, per ogni eventualità.» «Okay.»
Riposando, Pat cercò di pensare al soggetto che ne avrebbe ricavato. La sua vendetta contro gli elementi. Un'esperienza simile non poteva andare sprecata. Doveva ricavarne qualcosa, in un modo o nell'altro. Il guaio era che non gli veniva in mente un bel nulla. Eccolo lì, un eroe americano cui si stavano congelando le palle e che vagava qua e là su un lago ghiacciato insieme con la figlia adolescente, la quale sembrava più in grado di lui di farcela e di sopravvivere all'esperienza. Per lui era una tentazione quasi irresistibile restare, semplicemente, accosciato dove si trovava, sforzandosi di risolvere il problema. Ma, dopo qualche tempo, Sarah gli strattonò con dolcezza il braccio e lo ricondusse sul ghiaccio. Poco dopo, egli le afferrò il polso e la fermò. «Sento odore di fumo» disse. Sarah fiutò l'aria. «Anch'io.» «Fumo di legna?» domandò lui. Sarah scosse la testa. «Non credo.» Poi, mentre scrutavano il turbinio della neve, si resero conto che una parte di quanto turbinava sopra la fila di alberi sempre più familiari, lungo la sponda, non era neve. Appoggiati l'uno all'altra, videro il fumo ispessirsi, poi cominciare a divenire turbinoso e baluginante di scintille. «È una casa» disse Pat. «Si tratta di un incendio troppo grosso.» «Mamma!» urlò Sarah, e si strappò alla stretta di Pat. Fece alcuni passi di corsa, poi si ricordò di lui e si fermò. Egli le stava correndo dietro, a modo suo, come un bambino che stesse appena incominciando a imparare i primi passi. La luce filtrava intorno alle due porte per cui, sia nel punto più alto, sia in quello più basso del passaggio segreto, si riusciva a vederci un poco. Ma al centro, dove il passaggio girava intorno alla canna fumaria, l'oscurità era talmente fitta che, anche dopo essersi adattati ad essa, non vedevano quasi niente. Per qualche tempo rimasero abbracciati, poi Liv bisbigliò: «Trav, dobbiamo sapere come stanno le cose nella camera da letto.» Il bambino le strinse la mano. «Togliti gli stivali» lo consigliò lei e, mentre Travis ubbidiva, cominciò a spostare le natiche da un gradino all'altro, salendo. I gradini di pietra erano ruvidi e gelidi, ma il sistema le ricordò la sua infanzia e la rallegrò, o forse quello che provò fu soltanto sollievo per essere riuscita a mettersi al sicuro. Travis, in calzini, la raggiunse e aprì il pannello in alto. Liv poté
vederlo bene e il suo coraggio venne meno. Il viso del bambino, nella luce che penetrava dall'apertura, sembrava fatto di cera di candele fusa, tanto era traslucido e pallido. Le accadde di pensare che, probabilmente, lei aveva un aspetto ancora peggiore e, per non spaventare Travis, indietreggiò un poco nella protezione dell'oscurità. Poi si costrinse a concentrarsi su quella parte della stanza che era visibile attraverso l'apertura della porta segreta. Vi si trovava un solo fucile, collocato su un treppiede e puntato verso l'unica finestra della camera da letto, ma la stanza era fittamente intersecata dai fili metallici della trappola, tranne che in un angusto spazio immediatamente dietro il fucile, tra quest'ultimo e la porta del passaggio segreto. Vedere come stavano le cose lì fu rivelatore. «Miss Alden ha fatto prima questo» bisbigliò Liv a Travis. «Ha disposto il fucile qui e poi è discesa lungo il passaggio segreto.» Travis si dichiarò d'accordo facendo di sì con la testa. La cosa parve eccitarlo. Lei gli tirò la manica e il bambino chiuse l'apertura segreta. Ridiscesero fino alla curva del passaggio. «Potrei prendere quel fucile» bisbigliò Liv. «Ma in tal caso lui potrebbe passare dalla camera da letto.» Travis le si rannicchiò contro. «Restiamo qui.» Liv gli mise un dito sulle labbra. Nel silenzio che seguì poterono udire il vento risucchiare l'aria dal comignolo, ma il suono sembrava lontano a causa delle massicce mura di pietra che li racchiudevano come in una tomba, proteggendoli dal maltempo. Il freddo nel passaggio segreto era il gelo delle pietre stesse, non riscaldate dal sole o dal fuoco. Percorsa da un lungo brivido, Liv si rese conto di essere gelida tanto per la perdita di sangue quanto per l'assenza di ogni tepore lì dove si trovavano. Mentre sedeva immobile nell'angusto passaggio, con Travis stretto contro di lei, poté rendersi conto, anche senza toccare la gamba, che la ferita sanguinava meno. Sentiva i tessuti impregnati di sangue asciugarlesi contro la pelle. All'improvviso divenne sonnacchiosa, ma era anche troppo gelata per riuscire ad addormentarsi. Travis invece, addossato a lei, si era assopito. Le bestemmie di Rand, sulla veranda, lo destarono. Lei mise la mano sulla bocca del bambino e lo tenne stretto. Travis le si schiacciò contro, irrigidito dalla paura. Liv pensò quanto sarebbe stato bello se avessero udito uno dei fucili sparare e spedire Rand all'inferno. Ma, sebbene ascoltasse molto attentamente,
ben pochi suoni penetravano nel passaggio. Egli stava strisciando qua e là, davanti alla casa, soltanto di questo lei poté essere certa. Poteva darsi, però, che si trovasse già avanti sul pavimento del soggiorno, intento a seguire il loro stesso cammino sotto i fili metallici, sebbene, a causa del suo torace possente, l'impresa non potesse non essere più lenta e più rischiosa per Rand di quanto lo fosse stata per lei. L'attesa fece sì che il tempo sembrasse passare più adagio, divenendo interminabile, per cui, quando egli infine le parlò, Liv provò, in effetti, una sensazione di sollievo. La chiamò per nome in tono beffardo. Lei lisciò i capelli sulla fronte del bambino. Attraverso i muri di pietra le parole non sempre erano intelligibili, ma lo erano la furia e la minaccia. L'ultima frase giunse molto chiara. «So dove sei» egli disse. «Ora vengo a prenderti.» Di lì a poco lei avrebbe saputo se la falsa pista era stata persuasiva. Si domandò dove si trovasse Walter, dove si trovasse Pat. Poi udì il rombo di uno scooter, nei pressi immediati della casa, e sedette più eretta, pervasa da una felicità indicibile. Le minacce erano state soltanto vanterie. Rand se ne stava andando. Rand si accosciò accanto al cadavere di suo fratello per sfilare i guanti di polivinile con i quali Ricky guidava lo scooter. Le dita e le mani poste a nudo erano bianche come una candela e spaventose, tranne le punte delle dita che stavano diventando azzurro-nerastre sotto le unghie. Tra le dita di Rand, le dita di suo fratello erano inerti, il rigor mortis non essendosi ancora instaurato; ma, come quelli di un navigatore dello spazio, gli spessi guanti foderati con gommapiuma, risultarono rigidi. Rand gettò via i propri guanti lacerati e insanguinati e infilò quelli di Ricky. La morbida imbottitura gli protesse i palmi tagliuzzati dai frammenti di vetro. Lui discese gli scalini della veranda, si diresse verso gli scooter da neve che Ricky e Gordy avevano lasciato sul lato della casa riparato dal vento, avviò quello di Ricky e lo portò nel frutteto. I vetusti meli formavano una sorta di basso ed esteso tetto che riusciva a tenere a bada il vento e mimetizzava Rand grazie alla corteccia maculata e alle ombre. Il giovane mise il motore in folle e a poco a poco ne ridusse i giri, cercando di imitare il rombo man mano più fioco di uno scooter che si allontana. Un varco nel tetto di rami incorniciava l'unica finestra della camera da letto. Gli parve di distinguere lo scuro riflesso di una canna da fucile. Anelando all'ultima sigaretta rimasta nel pacchetto, tastò la manica per individuarla, simile a un dito sottile dentro il pacchetto spiegazzato. Ma doveva fumarla dopo. Emi-
se un lungo sospiro e smontò. Ingobbendosi contro il vento, abbandonò lo scooter e tornò verso la casa, il più rapidamente possibile, ma senza fare alcun rumore. Di nuovo si portò all'angolo della veranda. Questa volta si issò in piedi sulla ringhiera e, di lì, si protese verso il tetto. Afferrandosi alla grondaia si sollevò sul tetto della veranda. Lo strato sottile di neve rivestiva uno strato di ghiaccio formatosi sulle antiche scandole. Rand scalciò selvaggiamente, cercando un punto d'appoggio per i piedi e, al contempo, un appiglio per le mani. Lì i guanti spessi e scivolosi lo sfavorivano, inceppandogli le dita e rendendogliele insensibili. Il vento sferzava il colmo del tetto e gli sputava in faccia duri granelli di neve gelata. Imperversava a folate, ululava e, all'improvviso, una delle traditrici scandole cedette facendogli perdere l'appoggio sotto i piedi e la tenue presa. Si sentì precipitare come in sogno, il tetto gli scivolò sotto e lui, freneticamente, cercò di afferrarsi alla grondaia. Riuscì a farvi presa con un sobbalzo che parve strappargli le braccia dalle articolazioni e vi rimase appeso. Mentre dondolava nel vento, la grondaia fece cigolare i ganci di attacco. Lui sentì il canale di metallo deformarsi, allargarsi sotto la trazione del suo peso. Cercò di fermare le oscillazioni del proprio corpo per ridurre lo sforzo imposto alla grondaia. Digrignando i denti per resistere al dolore nelle mani e nelle spalle e per arginare le bestemmie che gli ruggivano nella mente, cercò di sollevarsi adagio e gradualmente come avrebbe potuto fare esercitandosi alla sbarra. La grondaia sussultava e vibrava sotto il suo peso. Rand sentì che stava staccandosi dal tetto, chiodi, ganci di attacco e tutto. Il sudore gli gocciolava dalle sopracciglia sulle ciglia e lui se ne liberò battendo rapidamente le palpebre. Mentre si sollevava al di sopra dell'orlo del tetto, il vento lo aggredì di nuovo, frustandogli neve negli occhi. Quando fece una smorfia a causa dello sforzo, sentì il sudore, che già stava gelandoglisi sulla faccia, crepitare. La grondaia vibrò, si abbassò di parecchi centimetri e Rand cadde con essa, svuotando i polmoni di tutta l'aria che contenevano, a causa dello spavento improvviso. Ma la grondaia resistette sui ganci deformati, una decina di centimetri sotto il cornicione. Rand ansimò e si afferrò con tutte e due le mani al tetto. La grondaia stridette, liberata all'improvviso dal suo peso. Con la saldezza di una trave di legno nella sua presa, Rand sollevò dapprima una gamba, poi l'altra sull'orlo del tetto e di nuovo cercò con i piedi un punto d'appoggio. Questa volta aveva la testa in basso e il corpo parallelo al cornicione, che lo proteggeva dal vento. Si trovava in una posizione di gran lunga più sicura, ma anche nella direzione sbagliata. Sog-
ghignò e cominciò a spostarsi a tentoni nella direzione opposta a quella delle lancette dell'orologio, finché venne a trovarsi disteso a pancia sotto, sorretto soprattutto dalla forza delle mani aperte. Sembrava che fosse stato crocifisso sul tetto, a faccia in giù, voltato verso il colmo del tetto. Udiva la grondaia, sotto di sé, tintinnare ad ogni capriccio del vento. Brancolò in cerca di un punto d'appoggio per i piedi, lo trovò e si sollevò finché non venne ad essere ingobbito come un ragno con quattro zampe. Riuscì a spostarsi come un granchio di alcuni passi verso l'alto, scivolò, ritrovò il punto d'appoggio e scivolò di nuovo. Il tetto della veranda si collegava alla casa mediante un basso timpano. Nel timpano si apriva una feritoia per ventilazione che dava aria alla bassa soffitta. Il tetto della casa, un po' meno ripido di quello della veranda, era situato più in alto d'una settantina di centimetri, un dislivello facilmente superabile per Rand. La linea di colmo formava un angolo di novanta gradi rispetto al tetto della veranda. La constatazione peggiore fu questa: il tetto era rivestito con lastre di ardesia incrostate da neve vecchia. La neve fresca rivestiva il tetto capricciosamente qua e là, e il vento continuava a scagliargliela negli occhi, nelle orecchie, sotto il colletto e dentro le maniche, e persino dentro gli stivali. Una tormentosa eternità parve trascorrere prima che le dita di Rand toccassero il faldale di rame alla base del comignolo, che il vento aveva mantenuto libero dalla neve. Non si trattava di un gran che come appiglio, ma la pietra ruvida più in alto, sebbene incrostata dal ghiaccio e dalla neve, era ancora scabra abbastanza per offrirgli una presa quasi perfetta. Si ingobbì contro il comignolo, sottovento, guancia a guancia con la pietra abrasiva, e il primo, lieve odore di fumo gli solleticò le narici. Istintivamente sbirciò in alto, aspettandosi di vedere il fumo uscire dal comignolo, ma non v'era niente sopra di lui tranne il cielo bianco e la neve sospinta dal vento. Poi, simile a un profumo, il fumo stesso dichiarò la propria provenienza. L'eccitazione parve gonfiarsi nel petto di Rand ed egli voltò la testa guardando dalla parte della casa dei Russell. Turbini di neve impedivano la visuale, ma gli fu ugualmente possibile scorgere vortici di fumo dal colore minaccioso lacerati e spinti in alto dal vento. Li considerò un buon presagio. Incuneati tra i muri del passaggio segreto, Liv e Travis condividevano il tepore del loro corpo e aspettavano. Stanca e sempre più debole e confusa, Liv si era ripresa un poco udendo il rombo dello scooter. Travis continuava a spostarsi irrequieto contro di lei e di tanto in tanto scivolava con il sedere più in su o più in giù di alcuni scalini, oppure si spostava con le sole
calze ai piedi, nella speranza di udire qualcos'altro oltre ai sibili e agli ululati del vento. E poi udirono effettivamente rumori, raschi e tonfi. Ogni volta, Liv stringeva la mano di Travis e bisbigliava: «Rami sul tetto» e il bambino ricambiava la stretta per farle sapere che si trovava d'accordo con lei e che non era spaventato. Walter McKenzie portò con cautela la jeep lungo le strade secondarie, abbassando lo spartineve quando era necessario, procedendo a una velocità calcolata per consentire al veicolo di superare i tratti soffici, quelli ghiacciati, e di restare sul lato destro della strada. Il turbinio della neve faceva sì che la visibilità continuasse ad essere pericolosamente scarsa. Un'ironica consolazione consisteva nel fatto che, perlomeno, nessun altro sembrava essere così pazzo da avventurarsi lungo le strade. Walter scelse quelle più vicine al lago e continuò a cercare con lo sguardo Pat, vale a dire una sagoma umana intravista nel modo più vago nella pianura di ghiaccio senza ripari. Ma non lo scorse mai. Quando giunse in Dexter Road, Walter stava dicendosi molto seriamente che Pat doveva essersi riparato in qualche posto, in qualche casa estiva, o in una rimessa per imbarcazioni o in un altro posto qualunque, come avrebbe fatto qualsiasi uomo sano di mente; oppure doveva essere miracolosamente arrivato a casa sua e doveva trovarsi, in quel momento, davanti al caminetto acceso. Walter era talmente intento ad assicurare a se stesso che Pat doveva trovarsi al sicuro in qualche posto, con quella parte della sua mente non impegnata nel compito di percorrere Dexter Road fino alla casa dei Russell (un compito che un uomo con la sua esperienza per quanto concerneva i capricci del ghiaccio e della neve non affidava affatto alla sola esperienza), o con quella parte della mente non intenta a notare la sagoma della Pacer coperta di neve, alla svolta, rendendosi immediatamente conto del fatto che Liv aveva, a ragione, preferito lasciarla lì la sera prima, che vide il fumo soltanto quando, dopo che aveva voltato a lume di naso nel viale d'accesso dei Russell, mentre spingeva via la neve davanti a sé, i fiocchi scagliati dal vento sul parabrezza divennero a un tratto nerastri. Fuliggine finì sul parabrezza come fiocchi di neve e i tergicristalli la sparsero ad archi e lui si ingobbì sul volante, premendo ripetutamente il pulsante per il lavaggio del tergicristallo e scrutando attraverso le striature. Il cuore gli martellava forte. Lottò contro l'impulso istintivo di fermare bruscamente la jeep; su quella discesa, con lo spazzaneve abbassato, avrebbe cominciato a slittare, come è certo che i fagioli causa-
vano scorregge, e lui sarebbe stato fortunato se non fosse finito a testa in giù nella neve, com'era successo al vecchio Joe Nevers un anno prima, nella proprietà dei Christopher. Abbassò il cristallo del finestrino con una mano e allungò il collo all'esterno per vedere dove stesse andando. Neve e fuliggine si ingolfarono all'interno, insieme al crepitio furioso di un incendio. Poté vedere bene la casa, con un bagliore infernale dietro i vetri delle finestre, e percepì il tragico odore di una casa in fiamme, l'odore di tutto ciò che stava bruciando, l'odore minaccioso e tragico del legno, della plastica, delle masserizie, delle stoffe, della carta, dei rivestimenti isolanti, mentre la vita di qualcuno veniva sconvolta. Il solo odore ancor più terribile che conoscesse era quello della carne umana bruciata; aveva fatto soltanto poche volte quell'esperienza, ma non sarebbe mai riuscito a dimenticarsene. Non aveva mai dimenticato i nomi dei morti estratti dalle rovine degli incendi; né quello di Dana Bartlett, l'avvocato di Portland perito quando era bruciata l'antica dimora Christopher, anni prima; né quelli di Matthew e Brandy McAvoy, i nipoti dell'anziano medico, periti nell'incendio di una roulotte nel 1979; né quello di Binny Porter, l'eremita di Pigeon Hill, bruciato accidentalmente vivo dall'interno all'esterno quando, dopo aver bevuto antigelo malamente distillato, nello stordimento dell'ubriachezza si era messo in bocca una sigaretta dalla parte accesa, appena due inverni prima. Le narici di Walter si dilatarono, assorbendo l'aria inquinata e cercandovi, tra tutti gli altri, quel particolare fetore, però senza trovarlo. Walter fermò la jeep sul primo tratto pianeggiante, e saltò fuori. «Signora Russell!» urlò, ma il rombo dell'incendio soffocò il grido. Lui galoppò allora sulla neve verso la veranda posteriore. Pur nella frenesia di trarre in salvo Liv e Travis, se si trovavano ancora dentro la casa, notò lo stato in cui era la porta di servizio. La porta interna sembrava malconcia come se qualcuno le avesse sferrato calci. Tenendo aperta la porta esterna con la spalla, Walter mise con cautela le mani guantate sulla maniglia e subito le ritirò di scatto. Sfiorò i pannelli della porta e anch'essi erano ardenti. Indietreggiò, poi girò di corsa intorno alla casa, affondando fino alle anche nella neve, spiccando salti per guardare dietro i vetri delle finestre anneriti dal fumo o frantumati dal calore. Fece il giro completo della casa, passando davanti alla veranda anteriore dove le fiamme infuriavano visibilmente dietro le porte a vetri, tornando indietro dall'altro lato e finendo, ansimante e boccheggiante, contro la fiancata della jeep. Spalancò lo sportello, salì e quasi rotolò fuori di nuovo mentre cercava di chiudere lo spor-
tello dietro di sé. Con le mani tremanti accese la ricetrasmittente e staccò il microfono dal suo sostegno sul cruscotto. Premendo freneticamente i pulsanti riuscì a mettersi in contatto con Reuben Styles a casa sua. «Che mi dici?» domandò Reuben, cordiale. «I-i-i-incendio!» balbettò Walter, e poi, infuriato con se stesso, urlò nel microfono. «Dai Russell, lungo la Dexter Road! Possono esserci persone nella casa!» Reuben, che era notevolmente pronto, se necessario, reagì immediatamente. «Incendio dai Russell, lungo la Dexter Road» ripeté. «Sei tu, Walter?» Walter bestemmiò a tutto spiano. «Do l'allarme, Walter» disse Reuben e il microfono captò la sua voce mentre si voltava e urlava qualcosa a uno dei ragazzi. Poi Reuben riprese a parlare. «Si tratta dell'itinerario trentuno, vero, Walter?» «Sì» rispose il vecchio. «Possiamo arrivare sin lì con le autopompe?» «Io sono qui, no?» scattò Walter. «Mica sono arrivato in volo.» «Avresti potuto arrivarci con le racchette da neve» disse Reuben. «Non ho una dannata ricetrasmittente applicata alle racchette da neve» urlò Walter. «Veniamo» disse Reuben. Walter avviò la jeep e sgombrò la neve in fondo al viale d'accesso dei Russell per poter fare l'inversione di marcia. Mentre risaliva il viale d'accesso, continuò a respirare a fatica. Sentiva un bruciore nei polmoni e la testa gli doleva da matti. «Dannazione all'inferno» bisbigliò rauco e si asciugò le lacrime dalle guance con le nocche delle mani infilate nei guanti. I guanti lavorati a maglia rimasero lievemente impigliati nei peli ispidi della barba lunga. «Maledizione all'inferno» ripeté lui, irosamente, e picchiò i pugni sul volante. Poi si dominò e smise di sprecare energie. Sgombrò altra neve per aprire uno spazio di parcheggio accanto alla Pacer, quindi parcheggiò la jeep per toglierla di mezzo, lasciando però la chiave di accensione sulla macchina perché era obbligatorio lasciarla su qualsiasi veicolo in prossimità di un incendio. Poi saltò di nuovo giù e fissò dapprima la strada, tendendo le orecchie per udire il rombo delle autopompe, quindi volse lo sguardo verso il viale d'accesso e la casa in fiamme più in basso. Infine non riuscì ad aspettare ancora a lungo le autopompe e corse a piedi giù per il viale d'ac-
cesso, scivolando e slittando. Finì svariate volte con il deretano sulla neve, si rimise tuttavia in piedi e proseguì, troppo in ansia per sentirsi umiliato. Una volta giunto di nuovo in fondo al viale d'accesso, andò per un po' avanti e indietro, poi fece di nuovo il giro della casa. Questa volta l'impresa parve più facile, poiché si era già aperto un sentiero prima, ansimando e sbuffando. Soltanto adesso gli accadde di notare che v'era un altro sentiero. Qualcun altro aveva girato intorno alla casa dopo l'inizio della nevicata e, sebbene la neve avesse coperto in parte le tracce e il vento le avesse in parte cancellate, esse erano ancora visibili e molto vicine alla casa, come se qualcuno si fosse tenuto accostato ad essa. Seguì il sentiero che non era stato aperto da lui fino alla spiaggia e vide che anche lì la neve era stata disturbata, da almeno uno scooter, e di recente. Inoltre appariva chiaro che più di uno scooter era rimasto sulla spiaggia per un periodo di tempo notevolmente lungo. Seguì la traccia quasi chiara e recente in direzione nord, lungo la sponda, per qualche metro; poi, udendo le sirene delle autopompe, ritornò indietro. Ansimò e sbuffò, una volta di più, dalla sponda del lago alla casa e si trovava ai piedi del viale d'accesso quando Reuben Styles balzò giù dall'autopompa che stava frenando. «Maledizione all'inferno» disse Walter. Reuben era troppo impegnato dalla necessità di urlare ordini ai volontari e si limitò a salutare Walter con un cenno del capo. Ma, alla prima occasione, condusse il vecchio lontano dalle autopompe e dallo strepito e domandò: «C'è qualcuno dentro?» Walter alzò le spalle. «Il diavolo mi porti se lo so.» Reuben stropicciò l'una contro l'altra le mani guantate, luttuosamente. «Non possiamo fare niente, sai» disse, sbirciando la casa in fiamme. «Merdaschifosa» disse Walter. «La signora Russell e il bambino erano qui. Non so dove si trovino.» Reuben annuì. «Ho parlato per radio con Frankie. Ha detto che la giardinetta di Pat è stata abbandonata sullo stretto.» Walter fissò la casa. «Potrebbe esserci anche lui.» Poi sbirciò Reuben. «C'è qualcosa che dovresti vedere» disse a voce bassa. «Non riesco a capire.» Reuben scrutò Walter, poi tornò dai suoi uomini e sbraitò una serie di altri ordini. Infine venne a mettere una mano sotto il gomito di Walter. «Vediamo» disse. Walter lo condusse sulla sponda del lago. «Ho tentato di aprire la porta
di servizio» disse. «Qualcuno aveva cercato di abbatterla a calci.» Reuben si fermò e voltò la testa verso la casa. «I ragazzi l'hanno ormai abbattuta con la scure» disse. «Non c'è più niente da fare.» Walter grugnì. «Come con queste tracce. In men che non si dica scompariranno. Sarà meglio che tu le veda come testimone.» «Certo» disse Reuben. Osservò la neve calpestata, le tracce degli scooter e si chinò per esaminarle più da vicino. «I Russell non hanno scooter» disse Walter. «Pensi che Pat possa averne preso uno?» domandò Reuben. Walter si strinse nelle spalle. «Queste tracce risalgono a stanotte. Ce n'è più d'una. Ma quest'altra, questa è di stamane. Potrebbe essere stato lui, se si è impadronito temporaneamente di uno scooter. Ve ne sono alcuni in rimessaggio nel porticciolo. Non mi è sembrato che qualcuno abbia forzato la porta della rimessa, laggiù, ma non ho guardato molto attentamente. La cosa avrebbe potuto sfuggirmi.» Reuben si raddrizzò e si tolse il berretto. Si grattò dietro l'orecchio, poi si rimise il berretto e sospirò. «Spero che si sia impadronito di uno scooter e sia venuto qui a portar ria la sua famiglia, Walter.» «Se non lo ha fatto, sta vagabondando da quelle parti» disse Walter, indicando il lago. «Dannato idiota.» «Già» disse Reuben. «Forse l'incendio lo aiuterà ad orizzontarsi. Dovrebbe essere visibile fino alla strada rialzata.» «Se non è venuto lui» disse Walter «chi è stato qui? A sferrare calci alla porta?» Reuben fissò di nuovo Walter. «Spero, in nome di Dio, che non siano venuti qui certi tipi. Potrei nominarli.» Walter rimase a bocca aperta e fiocchi di neve vi penetrarono, puntini gelidi sulla lingua e sulle gengive. Non aveva mai sentito Reuben Styles fare invano il nome di Dio. Reuben tornò a voltarsi verso l'incendio. «Dove potrebbero essere andati?» gli rivolse la parola Walter. Reuben arrancò sulla sponda del lago. «Chi?» «Tutti loro» sbraitò Walter, infuriato. «La signora Russell. Il bambino. Chiunque si trovasse su quegli scooter, cribbio!» Reuben tornò a fissarlo. «Che cosa ci viene a fare, qui, questa gente, in questa stagione, Walter?» domandò. «Non sono di queste parti.» Guardò la casa in fiamme. «Non possiamo fare un corno di niente per loro. Sono troppo lontani dall'abitato. Quando veniamo a saperlo, il fuoco ha già avu-
to la meglio. Mi vien da vomitare, vedendo questi disastri. Che cosa si vorrebbe che facessimo?» Walter lo raggiunse. «Dobbiamo tentare» disse. «È il meno che possiamo fare.» I due uomini tornarono indietro fino alla casa. Stettero a guardare mentre il tetto crollava. Ansel Partridge si avvicinò passandosi una mano sulla fronte e spargendovi fuliggine. Era un ometto calvo e aveva sempre dimostrato cinquant'anni sin da quando era quindicenne. Laureato in agricoltura, possedeva la fattoria meglio coltivata della cittadina. «Questo incendio è un figlio di puttana» disse. «Possiamo soltanto aspettare che le fottute ceneri si raffreddino.» Reuben annuì. Ansel esitò. «Chi si trovava nella casa si è salvato?» domandò. Reuben alzò le spalle. Ansel fece una smorfia. «Dobbiamo sperarlo.» Walter si allontanò, lottando contro le lacrime. Si diresse a passi strascicati verso il bosco, cercando la solitudine. Chiuse gli occhi e pregò non con le parole, ma con un desiderio inespresso. Ti prego, fa che la situazione non sia tragica come sembra. Un qualcosa gli si avvolse intorno alle caviglie. Lui aprì gli occhi e vide quelli dilatati e terrorizzati della gatta La Povera, che gli si strofinava contro gli stivali. Chinandosi a fatica a causa dell'artrite, la prese su. «Bene, bene» disse. All'improvviso, Reuben gli fu accanto. «Da dove è venuta la gatta?» domandò, facendo per prenderla. Walter gliela diede. «Ho soltanto aperto gli occhi ed era lì.» I due uomini abbassarono lo sguardo, scrutando intorno ai loro piedi per individuare le impronte delle zampe della gatta. «Probabilmente è rimasta fuori tutta la notte» osservò Reuben. «Può darsi» riconobbe Walter. Di gran lunga più dell'osservazione di Reuben lo interessavano le impronte della gatta. La Povera era sbucata fuori del bosco. E là, al margine del bosco, si era servita di un sentiero aperto da esseri umani. Al pari di altre tracce, anche quest'ultimo era confuso e riempito in parte dalla neve, ma rimaneva visibile. «Qualcuno è stato in questo bosco» disse Walter, esultante. Reuben annuì. «E anche oggi stesso.» «Lo studio della signora si trova da quella parte» osservò Walter, addi-
tando nella direzione del sentiero. «Vado a dare un'occhiata» soggiunse. Reuben gli restituì la gatta. «Te la senti di andare da solo?» «Sto benissimo» dichiarò il vecchio in tono brusco. Reuben sorrise. «Okay. Se non sarai tornato entro mezz'ora verrò a cercarti.» Walter mise giù la gatta e si inoltrò nel bosco. La Povera gli trotterellò alle calcagna. Liv e Travis ascoltarono i rumori sul tetto. Rami, tornò a bisbigliare Liv al bambino. Il vento, che frustava il tetto con i rami degli alberi più vicini. Ma i raschi erano troppi, e improvvisamente cessarono. Rand si trovava sul tetto, pensò Liv, ma non disse niente a Travis perché, proprio in quel momento, il bambino le strinse forte la mano e lei si rese conto che sapeva. Qualcosa rotolò giù lungo la canna fumaria. Travis ansimò. Liv gli mise una mano sulla bocca e fece sommessamente «Scccc». D'istinto si strinsero l'uno contro l'altra. Liv aveva la bocca secca che sapeva di sangue raggrumato, di carogna, come dopo l'estrazione del dente. Scostò Travis e cominciò a spostarsi rapidamente giù per i gradini del passaggio segreto, fino al fondo. Rand udì le sirene delle autopompe e alzò gli occhi dopo avere scrutato la canna fumaria. Sogghignò e ricominciò a studiare il problema che doveva risolvere. Non si vedeva altro che tenebra. Ma la donna si trovava là sotto, ne era sicuro. La donna con il marmocchio. Si nascondevano là, irrigiditi come scovoli dalla paura, aderendo alle pareti fuligginose dell'antica ed enorme canna fumaria, in precario equilibrio sulla sporgenza interna. Si trattava, calcolò, di un salto di due piani - un metro e venti di comignolo dal tetto in su, più i due metri e dieci del primo piano e i due metri e dieci del pianterreno. Complessivamente, un po' meno di cinque metri e mezzo. Meno di tre volte la sua statura. Se si fosse calato dalla sommità, le sue braccia avrebbero diminuito il salto di una sessantina di centimetri, avvicinandolo a due volte la sua statura. Sarebbe riuscito a farcela. Immaginò di piombare dall'alto su quei due, di ghermirli cadendo, di trascinarli giù sulla legna, nel caminetto. Il terrore li avrebbe immobilizzati. Gli sarebbe stato possibile, inoltre, spaventarli urlando; il salto era corto abbastanza perché la cosa non facesse alcuna differenza, sarebbe ugualmente piombato loro addosso prima che avessero avuto il tempo di reagire. Rand si issò sul comignolo e spostò le gambe all'interno. Un frammento di calce vecchia ro-
tolò giù lungo la canna fumaria. Lui si immobilizzò e rimase in ascolto. Gli parve di udire un ansito, uno zittio soffocato nel momento stesso in cui il calcinaccio rotolava giù. Poi si udì una sorta di fruscio, qualcuno che si spostava, in basso. Merda, pensò. Stanno uscendo dalla canna fumaria. Rimarranno accovacciati sul focolare finché non si saranno persuasi che la canna fumaria è di nuovo sicura. Aspettò, contemplando i boschi. Gli ululati delle sirene erano cessati. Il fumo al di sopra degli alberi era costellato di scintille. Rand non riteneva che la donna avrebbe tentato di strisciare di nuovo su quel pavimento, sotto i fili. Prima che vi fosse riuscita, lui sarebbe venuto a trovarsi appollaiato come un falco sul tetto della veranda, pronto a saltarle addosso quando avesse disceso gli scalini. Pertanto le avrebbe dato il tempo di persuadersi che era stato soltanto il vento a far cadere il calcinaccio, o le ghiande nascoste da qualche scoiattolo, e che lui se n'era andato, se n'era davvero andato. Dopo lunghi momenti di silenzio, si spostò di nuovo, con somma cautela, e lentamente si calò, sospeso per le braccia, nel comignolo. Mai in nessun momento gli passò per la mente che la canna fumaria potesse non essere dappertutto della stessa larghezza. Una volta aveva guardato all'insù dal caminetto, vedendo il cielo azzurro e ritenendo che le dimensioni di quel lembo di cielo dipendessero soltanto dalla lunghezza della canna fumaria, ma si era sbagliato. Rand urlò: «Ecco che arriva Babbo Natale!» e lasciò la presa. Si stupì moltissimo fermandosi dopo una caduta di un metro e ottanta. Gli occorse qualche momento per rendersi conto che era bloccato da una sporgenza, là ove la canna fumaria arrivava all'altezza del primo piano. Liv stava aspettando davanti alla porta del passaggio segreto quando udì l'urlo di Rand e lo sentì piombar giù per un breve tratto. Allorché egli venne fermato dal restringersi della canna fumaria, vi fu una pioggia di fuliggine e di calcinacci sul focolare; poi si udì una serie di tonfi, gli stivali di lui contro le pareti della canna fumaria. Liv fece scorrere soltanto in parte la porticina e strisciò sul focolare. Dall'alto continuava la cascata di fuliggine e di calcinacci, di bestemmie e di oscene minacce. Turandosi il naso e la bocca con le mani e battendo le palpebre per tenere lontano dagli occhi le minuscole particelle, lei indietreggiò fino al passaggio e si rannicchiò lì, incerta sul da farsi. Travis fece capolino. Gli bastò guardarlo per rendersi conto che il visetto del
bambino rispecchiava tutto il terrore provato da lei. Una nuova, impetuosa pioggia di fuliggine e di calcinacci crepitò sul focolare. Era chiaro che Rand sarebbe riuscito a liberarsi di lì a poco, anche a costo di trascinare giù con sé l'intera, vetusta canna fumaria. Liv si spinse contro la porta del passaggio, chiudendola. Adagio prese i fiammiferi nell'apposito contenitore di ottone. Il crepitio del fiammifero sfregato contro la pietra del caminetto le parve fortissimo, ancora più forte delle ininterrotte imprecazioni di Rand. Lei riparò la fiammella con una mano a coppa e si accovacciò sul focolare. Pian piano accostò il fiammifero acceso alla legna piccola sotto i ceppi. La legna secca cominciò a carbonizzarsi nella minuscola fiammella, poi si accese bluastra e cominciò ad ardere. Lei spostò altrove il fiammifero e, anche lì, la legna piccola prese fuoco rapidamente. Il fiammifero si era ormai consumato sin quasi alle sue dita, ma Liv lo spostò in un terzo punto sotto la legna. Si sentì scottare la punta delle dita e lo mollò, allora, lo lasciò cadere nelle fiamme. La legna piccola stava ormai bruciando impetuosamente e lei si domandò da quanto tempo si trovasse ad asciugarsi nel caminetto, mentre le fiamme cominciavano a carbonizzare la corteccia dei ceppi e poi la corteccia sprizzava scintille e bruciava. Dopo aver acceso per anni i forni delle terraglie, Liv sapeva esattamente come avrebbe bruciato quel fuoco, tenuto conto dell'enorme tiraggio dell'antiquata canna fumaria, delle dimensioni del caminetto, e della corteccia dei ceppi, secca e frusciante come carta. In alto, i movimenti frenetici cessarono all'improvviso. In qualche modo, un po' di fumo riuscì a filtrare accanto a lui, che bloccava la canna fumaria, e a fargli il solletico nel naso. Al contempo, gli parve di sentire calore salire dal basso. Per un momento Rand rimase troppo sbalordito per poter fare qualsiasi cosa. Non riusciva a credere che la donna avesse acceso il fuoco sotto di lui. Il fumo salì, incontrò l'ostacolo nella canna fumaria e si arricciolò verso il basso. Discese vorticando sotto la mensola del caminetto e uscì. Non poteva andare in nessun altro posto. Liv si spostò fino alla porta segreta e bussò. Travis l'aprì, lei si infilò dentro e la richiuse ermeticamente. A gesti incalzanti, invitò il bambino a portarsi in alto nel passaggio e lo seguì spostandosi sulle natiche; ma salirono entrambi al rallentatore, temendo di causare il benché minimo rumore e di lasciar capire dove si trovavano. Travis era silenzioso e teso. Liv si domandò se si rendesse conto di quello che lei aveva fatto.
Poi sedettero entrambi immobili nelle tenebre e ascoltarono. Viticci di fumo si insinuarono attraverso le connessure del pannello segreto. Le fecero bruciare gli occhi e lei cominciò a versare lacrime. Il calore aumentò e Rand ricominciò a dibattersi, questa volta spingendosi in alto, anziché in basso. «Puttana fottuta!» urlò. Era tutto il fiato che poteva consentirsi di perdere per gli improperi. Mentre si dimenava, altro fumo riuscì a passargli attorno e quella che all'inizio era stata appena una traccia fastidiosa e acre, cominciò a fargli bruciare gli occhi, e poi i polmoni, poiché non poteva fare a meno di respirare il fumo. Si dibatté ancor più violentemente e sentì, mentre il cuore gli balzava in petto per la gioia, che la sporgenza si stava disintegrando. Ma subito venne preso da un panico ancor più grande, poiché a questo punto sentì il puzzo della gomma bruciata e si rese conto che gli stivali stavano prendendo fuoco. L'intonaco non si sgretolava abbastanza rapidamente e gli stivali si incendiarono, il tessuto sintetico della tuta da neve si incendiò e si sciolse, le fiamme gli lambirono gli organi vitali facendolo urlare, e quando non urlava risucchiava il fumo ardente e tossico riempiendosene i polmoni. Infine l'intonaco cedette e fu libero. Ma, sebbene cercasse di protendersi verso l'alto artigliando le pareti della canna fumaria, non trovò alcun appiglio e poté soltanto cadere, cadere nel fuoco, sempre urlando. Rotolò sul focolare, una massa di fiamme, e finì nella stanza insieme con i ceppi che rotolavano con lui. In qualche modo si mise in piedi e si lanciò verso l'uscita. Non sentì mai i fili metallici che spezzò. Vi fu il rombo di un'esplosione di spari e gli urli cessarono. Dentro il passaggio segreto, Liv e Travis si avvinghiarono l'una all'altro singhiozzando. Dondolandosi avanti e indietro. Un bagliore ultraterreno penetrava attraverso gli spiragli della porta segreta. L'aria era divenuta densa di fumo e si stentava a respirare. Si sarebbe detto che fossero seduti davanti alla porta dell'inferno. Walter McKenzie aveva seguito le tracce di Liv e di Travis fino al confine della proprietà di Miss Alden quando udì i colpi di fucile. Si fermò bruscamente. «Che cribbio sta succedendo?» domandò a se stesso, poi proseguì in fretta.
Anche Reuben Styles udì i colpi di fucile. Alzò la testa di scatto, il naso nel vento, come un cane che punta. Lasciò cadere la manichetta che stava aiutando ad arrotolare e urlò nuovi ordini. Poi corse verso il bosco, nella direzione degli spari. E altrettanto fecero quasi tutti i volontari. Gli autisti salirono nelle cabine di guida e cominciarono a voltare le autopompe verso il viale d'accesso, seguendo Reuben da Miss Alden, come era stato loro ordinato. Pat Russell udì gli urli, ma non attribuì importanza alla cosa. Ritenne che fosse stato uno scherzo del vento. Sarah gli diede uno strattone al braccio. «Hai sentito?» domandò, con un tremito nella voce. Si fermarono, premendosi le mani sui fianchi indolenziti, ansimando spossati. La gatta si materializzò in un turbine di neve e si avvolse intorno alle caviglie di Sarah. Lei la prese e affondò il viso nel tepore di La Povera. Poi i fucili spararono. La gatta le saettò fuori delle mani e filò via sul ghiaccio. Si resero conto, allora, della direzione degli urli e degli spari. Più vicino di casa loro. «Da Miss Alden?» domandò Pat, incredulo. «Credo di sì» riconobbe Sarah, nervosamente. Ancora pochi metri, poi voltarono alla curva e videro. Fumo si riversava dal comignolo della casa di Miss Alden e dalla veranda posteriore. Uno spasmo di gioia strinse la gola di entrambi, mentre si dicevano che si erano sbagliati, che l'incendio era lì e non nella loro casa. Ma quando volsero lo sguardo nella direzione di casa loro, videro che il fumo continuava a levarsi anche laggiù, un segnale di incendio, e ricaddero nel terrore, di nuovo confusi. Poi Pat scorse la tozza sagoma di Walter McKenzie sbucare fuori del bosco dondolando come un marinaio dalla gamba di legno, un attimo prima che anche Sarah la scorgesse. «Walter!» gridò lei. E si misero entrambi a correre, come meglio potevano, verso la casa di Miss Alden. Walter ansimava dolorosamente quando giunse nel giardino di Miss Alden. Gli lacrimavano gli occhi a causa del fumo acre che si riversava fuori della casa. Poi intravide Pat Russell - chi altri poteva essere? - incespicare
verso di lui dalla spiaggia di Miss Alden. Al fianco di Pat - e questo stupì ancora di più il vecchio - v'era la sua figliola, Sarah. Walter si fermò e si afferrò le ginocchia, boccheggiante. Quando Pat e Sarah lo raggiunsero, stava cominciando a respirare un po' più liberamente. «Walter!» gli urlò nell'orecchio Pat. Walter si raddrizzò e gesticolò nella direzione della casa di Miss Alden, poi nella direzione della casa dei Russell. «I pompieri» ansimò. «E dove sono mia madre e Trav?» gridò Sarah. Il vecchio scosse la testa. Pat mise un braccio sulle spalle di Sarah e la trasse a sé. Gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime. Il vento soffiò il fumo verso di loro e, involontariamente, lo respirarono. Cominciarono a tossire tutti e tre. Si spostarono per sottrarsi al fumo, cercando un punto riparato. Insieme incespicarono contro il mucchio di neve che copriva Gordy Teed. «Gesù Cristo!» esclamò Pat. «Oh Dio!» disse Sarah. Walter cadde, ammutolito, in ginocchio e spazzò via la neve dal morto. Capì subito chi era, ancor prima di avergli tolto la neve dalla faccia. Doveva essere accaduto qualcosa di terribile. Pat indietreggiò di alcuni passi, in preda all'orrore, poi alzò gli occhi verso la casa e, per la prima volta, si rese conto che il qualcosa davanti alla porta era un altro cadavere. Al di là della porta sfondata si vedevano fiamme, come attraverso la mica dello sportello di una stufa. «Rimani qui» ordinò a Sarah. La ragazza stava tremando tutta e sembrava sul punto di vomitare. Ma gli disse, con un cenno di assenso, di aver capito. Poi si accosciò accanto a Walter e prese una mano del vecchio tra le sue per consolarlo. Ma non guardò il morto nella neve. Pat corse verso la veranda e su per gli scalini. Quando giunse sull'ultimo, ebbe la certezza che il cadavere non era quello di Liv, ma quello di un uomo. Lo scavalcò e scrutò dentro la casa. Al centro della stanza qualcosa stava bruciando; guardando meglio, si rese conto che si trattava dei resti carbonizzati di un essere umano. Le fiamme illuminavano un intrico di fili metallici le cui estremità aggrovigliate giacevano sul pavimento. Alcuni dei fili attraversavano la stanza e finivano sul grilletto di un fucile. Altri fucili si trovavano negli angoli della stanza, o sul pavimento, o penzolavano da sostegni fissati alle pareti. Pat indietreggiò, in preda allo choc. Con il
tacco urtò contro la concretezza del cadavere sulla veranda. Lo fissò, allora, ma senza vederlo. Tremando, lo scavalcò e tornò accanto a Walter. Uomini dai giubbotti di gomma nera, con i cappelli gialli dei pompieri, stavano sbucando di corsa dal bosco e attraversavano il giardino. Venivano da casa sua, pensò lui confusamente. Riconobbe alcune facce. Uomini del posto. Pompieri volontari. Si chinò su Walter. «Dove sono Liv e Travis?» domandò, la voce resa rauca dalla disperazione. Walter alzò gli occhi su di lui. La faccia del vecchio era striata di lacrime e grigia. Si sarebbe detto che quel rudere avesse centottanta anni. Scosse la testa. La grossa mano di Reuben Styles cadde sulla spalla di Pat. Pat si raddrizzò e si voltò verso di lui. «Mia moglie e mio figlio?» domandò. Reuben scosse la testa. «Non lo so.» Sbirciò poi la casa di Miss Alden. «Che cosa è successo, qui?» Toccò a Pat, questa volta, scuotere la testa. Walter afferrò i pantaloni di lana di Reuben. «Reuben» disse, rauco: «Gordy è stato assassinato.» Reuben lo fissò. La gatta balzò, come se saltasse fuori dal nulla, sul petto di Gordy, e miagolò nella direzione di Reuben. All'improvviso, tutto quello che Pat aveva veduto assunse concretezza. «Gesù, è vero» egli disse. Poi, girando sui tacchi, gridò agli uomini che stavano salendo gli scalini della veranda: «Non entrate, per amor di Dio!» I pompieri si fermarono e lo fissarono. Reuben sollevò una mano, il segnale di stop. «Ha ragione.» Poco dopo si rivolse a Pat. «E adesso mi dica che cosa sta succedendo.» Nel passaggio segreto, il suono della voce di Pat elettrizzò Liv e Travis. «Papi!» esclamò il bambino. Liv si drizzò a sedere. «Oh, Dio, credo proprio di sì.» Scivolarono rapidamente, con il sedere, giù per gli scalini e Liv aprì appena di uno spiraglio il pannello della porta segreta, sbirciando la stanza. Una nuvola di fumo li investì, facendoli tossire e soffocare. Il fuoco al centro del soggiorno ardeva vivido, visibile anche attraverso il fumo. Mostrò a Liv molte cose che lei non voleva vedere. Si affrettò a richiudere il pannello.
«Non possiamo uscire?» domandò Travis. «C'è un incendio, lì fuori.» Travis le affondò la testa sotto il braccio. «Voglio Papi» disse. Lei gli lisciò i capelli. «Usciremo» mormorò. «Vedrai.» Cominciò a issarsi su per gli scalini. Il passaggio segreto stava diventando più caldo. Il fuoco divorava l'ossigeno, pensò lei. Il sudore le scorreva dall'attaccatura dei capelli, striandole le guance come lacrime. Le gocciolava anche dalle ascelle. Travis arrivò in cima prima di lei e fece scorrere il pannello. L'aria pura proveniente dall'alto fu un sollievo che la ricaricò. Le autopompe seguirono l'uomo sulla motoaratrice di Walter McKenzie fino alla casa di Miss Alden. Trovarono tutti gli altri riuniti in gruppo, malinconici e interdetti,, nel giardino davanti alla casa. Eseguendo gli ordini impartiti da Reuben da quella che egli riteneva fosse una distanza di sicurezza, i volontari salirono sul tetto, vi aprirono un foro sufficientemente grande e vi fecero passare le manichette per spegnere l'incendio all'interno. Non senza stupore, cominciarono a domarlo quasi subito. Circostanza ancora più stupefacente, l'acqua, cadendo sui fili metallici rimasti, fece scattare il resto della trappola. Dopo la prima sorpresa, fu un po' come il Quattro Luglio, ed essi salutarono con evviva ogni sparo. Reuben diede notizie via radio all'ufficio dello sceriffo, poi si unì a Pat, che rimaneva accosciato accanto a Walter e al cadavere di Gordy. Porse a Pat una tazza di caffè versato da un thermos. «Era una trappola, no?» disse Reuben. «Una sorta di miserabile trappola.» Pat si scaldò le mani intorno alla tazza di plastica prima di bere un sorso di caffè. Il tepore era meraviglioso. «Ho visto tutti quei fili metallici e quei fucili» disse, parola per parola quanto aveva già ripetuto svariate volte. Reuben batté la mano sulla spalla di Walter. «Chi sono costoro?» domandò Pat. «Il nipote di Walter» rispose Reuben concisamente, indicando Gordy. Poi fece un cenno del capo nella direzione della casa. «Quello sulla veranda è Ricky Nighswander. Presumo che quell'altro, dentro, sia il fratello maggiore, Rand. Mi piacerebbe sapere come ha fatto a bruciare vivo.» «Gli spari non potrebbero essere stati sufficienti per incendiargli i vestiti?» domandò Pat. Reuben scosse la testa. «Non lo so. Questo dovranno accertarlo i periti della polizia statale.»
All'improvviso si udì un altro colpo di fucile e un tintinnio di vetri infranti. Trasalirono tutti, poi alzarono gli occhi, stancamente, verso la casa. Forse quello sarebbe stato l'ultimo sparo. Poi qualcuno lanciò un grido dal tetto e un secondo uomo gridò e apparve chiaro che stava succedendo qualcos'altro. «Questo sparo è venuto dall'altro lato della casa» disse Reuben, pensieroso. Poi si mise a correre da quella parte, gridando nuovi e incomprensibili ordini a proposito dell'automezzo con la scala. «Papi!» gridò un bambino. Pat alzò gli occhi. Cominciò a trottare dietro a Reuben. Poi si mise a correre. Due uomini che reggevano una scala tolta da un autocarro lo superarono. «Ha fatto saltare la finestra della camera da letto!» gridò Ansel Partridge, dal tetto. Walter McKenzie alzò il viso. Con dolcezza mise giù la testa di Gordy e faticosamente si alzò in piedi. La gatta malconcia attraversò al trotto la veranda. Salì con delicatezza sul cadavere davanti alla porta. Diede una leccatina alla neve insanguinata, poi discese e sedette per guardare l'interno della casa. Il fuoco al centro della stanza si era spento. Fetido fumo e vapore uscivano ancora dalle finestre e dalla porta. Ma all'interno, dalle manichette, attraverso lo squarcio nel tetto, si riversava una fredda pioggia. Cominciò subito a gelare, rivestendo di ghiaccio i mobili e il pavimento. Ghiaccioli rendevano barbute le teste dei trofei di caccia, i cui occhi erano appannati. I resti dell'uomo bruciato vivo giacevano ancora sul pavimento, come un insetto attratto dalla luce che lo uccide. Sarebbe occorso ancora qualche tempo prima che l'acqua si tramutasse in ghiaccio anche sul cadavere, ma, prima o poi, sarebbe accaduto. Dal tetto si levò un applauso. Epilogo Condotta via da tre uomini di mezza età con il camice bianco, Miss Alden sembrava davvero una pazza. Indossava un semplice vestito scuro abbottonato sul davanti e aperto sul petto là dove mancava un bottone, e portava logore scarpe da tennis senza calze di qualsiasi tipo. Non aveva un cappello né un fazzoletto sul capo. I capelli erano una zazzera gialla e bianca tagliata alla meglio. E sembravano molto sudici. Lei aveva le labbra
screpolate e sembrava intontita. «La professoressa Alden» disse il commentatore televisivo «si è consegnata alle autorità dopo aver rassegnato le dimissioni. Verrà estradata nel Maine e accusata di pluriomicidio premeditato.» Liv si drizzò a sedere sul letto d'ospedale, afferrò le rose che si trovavano sul comodino e le lanciò contro il televisore posto sul braccio girevole. Fu la sua testimonianza a indurre la giuria a riconoscere Miss Alden colpevole non già di omicidio premeditato, ma di omicidio colposo, raccomandando clemenza al giudice. Miss Alden, di nuovo irreprensibile e formidabile, accettò compita la libertà condizionata, l'obbligo di servire la comunità e di attenersi ai consigli di uno psichiatra; dichiarò dinanzi alle telecamere di ritenere che la sentenza fosse stata grosso modo giusta, tornò a casa e si sparò con la pistola di ordinanza di suo padre durante la seconda guerra mondiale, un'arma che nessuno sapeva fosse ancora in suo possesso. Un nuovo testamento di Miss Alden provvedeva affinché la sua compagna per tutta la vita, Elizabeth Royal, venisse curata fino all'ultimo dei suoi giorni, e lasciava la proprietà di Nodd's Ridge, nota come casa Dexter, nonché il bastone da passeggio, a Olivia Russell, e l'esercito di soldatini di stagno a Travis Russell. «Proprio quello che mi occorre» disse Liv, togliendo via la carta che avvolgeva il bastone. Travis ridacchiò. Le loro reazioni rallegrarono, quasi, Pat. Occorrevano ben due ore per riuscire a far sì che Travis si addormentasse. Pat gli leggeva a voce alta una fiaba per lungo tempo, poi lo rimboccava e lo baciava. «Torno subito» prometteva, e poi usciva, fumava una sigaretta e rientrava nella stanza. Travis lo aspettava, con i nervi tesi e gli occhi spalancati. Allora Pat gli si sedeva di nuovo accanto e potevano conversare oppure no, e magari Pat lo teneva stretto tra le braccia per un po'. E Travis lisciava la barba che Pat si stava facendo crescere per nascondere le cicatrici lasciate dal congelamento. Dopo qualche tempo, Pat diceva: «Torno subito» e usciva per qualche minuto e poi rientrava. Le cose continuavano in questo modo per un minimo di due ore. Infine
Travis si addormentava. Ma, il più delle volte, si destava in piena notte, urlando. Pat era costretto a questo perché Liv doveva restare a lungo in ospedale, dove le stavano rimettendo in sesto il ginocchio. Ma Pat riteneva che Travis stesse migliorando. Sarah attraversò un periodo infernale e taciturno di sconforto e di senso di colpa. Lasciò la squadra di pallacanestro e si dedicò con frenesia ai lavori domestici e alla cucina, cercando di sostituire sua madre. Marguerite la trovò in lacrime davanti a lenzuola che accidentalmente aveva tinto di azzurro lavandole insieme con un paio di blue-jeans nuovi, e pose termine alla faccenda. Promise un premio a Sarah purché tornasse a far parte della squadra di pallacanestro e consentisse alla signora Fuller di svolgere il suo lavoro. Il premio consisteva in una serie di lezioni private di guida che avrebbero consentito a Sarah di ottenere la patente a quindici anni. Senza dire niente a nessuno, Pat si recò, tutto solo, in un cinematografo e sedette nell'ultima fila per assistere alla proiezione del film. SCONTRO SANGUINOSO Crocifisso su una rozza croce nella palude, Denny Corriveau ha la faccia striata di sangue e di sudore. «Come hai saputo che ero io?» domanda a Court. «Me lo ha detto Rat» risponde Court. Denny ride incredulo. «Suvvia, Rat è morto.» «E uccidendolo, tu lo hai ammesso» dice Court. Il sorriso di Denny Corriveau si spegne. «Ma non l'ho assassinato. Si è trattato soltanto di legittima difesa.» «Foste iu e Jackson e Taurus e Rat» dice Court. «Ma la uccidesti tu.» «E tu, allora?» urla Denny, facendo forza sulle corde che gli legano i polsi alla croce. «Hai ammazzato Jackson, potresti benissimo aver fatto fuori anche Taurus e Rat.» «Meritavano tutti di crepare per quello che faceste a May» risponde Court. «E quello che fece lei a noi, allora?» sbraita Denny. «Ci fece cadere in trappola. Sapeva dove saremmo stati, perché si trattava del suo villaggio e
glielo avevi detto tu, affinché potesse salvare la sua famiglia.» «Non fu lei» dice Court. «Allora come sapevano che saremmo arrivati?» domanda Denny. «Lo sapevano e basta» si limita a dire Court. «Era il loro villaggio. La loro casa.» «E noi continuiamo ad ammazzarci a vicenda per questo» dice Denny. «Già» dice Court. «Continuiamo a morire per questo.» «Il tuo guaio è che non sai più vivere. Pensi soltanto a far fuori gli altri» dice Denny. Sta osando molto, ma puntare sul senso di colpa e sul rimorso di Court sembra essere la sua sola possibilità di cavarsela. Court rimane in piedi davanti alla croce, corrugando la fronte, gli occhi come braci nelle quali splendono cruccio e irritazione. Quante persone sono morte in nome della giustizia da rendere a May? Quante vittime sono sufficienti? Estrae un coltello dal fodero che ha sulla cintola e taglia le corde che legano le caviglie di Corriveau. Denny sorride con gratitudine. «Bravo» lo incoraggia. «Lo sapevo che in fondo al cuore sei un brav'uomo.» Court scocca un'occhiata gelida a Denny, ma Denny, in preda a un estatico sollievo, non se ne accorge. Court alza il coltello e recide la corda sul polso sinistro. Denny grida di dolore, penzolando dal polso destro. «Vacci piano» supplica. «Sì» dice Court, alzando il coltello. Lo tiene, come se stesse celebrando una cerimonia, rasente alla corda avvolta intorno al polso destro di Denny, poi la recide. Denny cade a terra come un gatto, ritrova l'equilibrio e si mette in piedi massaggiandosi i polsi. «Grazie, amico» dice. «Ringrazia May» dice Court. Denny tende la mano. Court si limita a guardarla, poi gira sui tacchi, stancamente. Denny lo osserva mentre si allontana nella palude. Poi, sorridendo, prende lo zaino, ne toglie una pistola e spara, colpendo Court alla schiena. Court si volta, tende la mano e cade a faccia in giù nella palude. Mentre la sala del cinematografo si svuotava, Pat rimase seduto nella penombra e pianse. La luce era ancora accesa nella camera di Liv quando tornò a casa e per-
tanto passò da lei. «Com'è stato?» gli domandò Liv, sebbene lui non le avesse detto che sarebbe andato a vedere il film. Pat sedette sulla sponda del letto. «Vorrei poter dire che è fantastico. Non lo è. Non è nemmeno molto bello.» Lei gli prese la mano. «Mi dispiace» disse, e Pat si rese conto che era sincera. Liv gli si rannicchiò contro e lo baciò. «Il prossimo sarà migliore.» Diciotto mesi dopo, Pat portò in macchina Liv e i figlioli a Nodd's Ridge. Aveva smesso di dire a voce alta che non intendeva tornarvi mai più, su consiglio dello psicanalista, il quale riteneva che Liv e Travis dovessero tornare là, invece, per fare pace, in un certo qual modo. Ma non trovò niente da dire durante il lungo viaggio e, varie volte, credette che sarebbe stato costretto a fermare l'automobile per saltar giù e vomitare. Anche nessuno degli altri sembrava aver qualcosa da dire. Ma nel retrovisore Pat poté vedere che Sarah stava stringendo la mano di Travis. Aveva il piede destro ingessato essendosi slogata la caviglia durante gli allenamenti della squadra di pallacanestro. Aveva lasciato a casa il radioregistratore Walkman. E si era già premurata di annunciare che lei sarebbe rimasta sulla macchina. La Povera continuava a rigirarsi irrequieta nella gabbietta. Liv discese dall'automobile senza essere aiutata. Si servì del bastone da passeggio di Miss Alden per mantenere l'equilibrio mentre girava intorno alle macerie della loro casa estiva. Tutti i medici sembravano ritenere che il ginocchio non si sarebbe mai rimesso definitivamente in sesto e che un giorno, prima o poi, Liv avrebbe avuto bisogno di un ginocchio nuovo. Quanto alla bocca, anch'essa sarebbe rimasta sempre un po' storta perché, in qualche modo, un nervo era stato distrutto. La gatta balzò nel bosco, godendosi la libertà. Travis lasciò penzolare le gambe dall'automobile mentre osservava ansiosamente sua madre. A un tratto, Liv tornò indietro. «Andiamo a vedere la casa di Miss Alden» disse. Pat sbirciò Travis. Lo psicanalista aveva detto di non contrariarlo. Travis annuì. Pertanto Pat li portò in macchina fino alla casa di Miss Alden. La gatta li aveva preceduti e si inoltrava schizzinosamente tra le rovine. La maggior parte della casa rimaneva in piedi, ma sembrava più brutta a vedersi. Liv zoppicò per qualche tempo qua e là, respirando fino in fondo ai polmoni
l'aria fresca e profumata, poi risalì in macchina. Travis trovò nel giardino un G.I. Joe, deteriorato dal maltempo di un altro anno, e ululò di gioia. Pat ricuperò La Povera. Arrivarono nel villaggio senza che nessuno avesse aperto bocca. «Sarebbe stato un bel posto per costruire» disse Liv. «La proprietà di Miss Alden. Migliore del nostro terreno. So esattamente che cosa mi piacerebbe avere.» Pat era allibito. Lei gli sorrise e accarezzò la mano di Travis sul sedile posteriore. «Una grossa e panciuta stufa a legna, e una canna fumaria fatta con blocchi di cemento» disse. «Abbiamo bisogno di un posto in cui nasconderci» soggiunse, poi distolse lo sguardo, contemplando il lago che scintillava sfarzosamente ai piedi del Ridge, sotto il cielo color zaffiro. Da quel punto, era impossibile dire dove si fosse trovata la loro casa o dove si trovasse quella di Miss Alden, e sembrava che non fosse mai accaduto niente. Era come un giardino murato in luoghi selvaggi, bisognava sapere della sua esistenza per potervi entrare. Bisognava superare una sorta di prova. «Non capisci?» disse Liv. Tornò a voltarsi verso Pat, che teneva le mani irrigidite sul volante. «Ho combattuto per questo. Adesso il posto è sicuro. Mi appartiene.» Riportò lo sguardo sul lago. «Non esiste luogo al mondo come la casa» disse, e sorrise il suo sorriso sbilenco. FINE