PHILLIP MARGOLIN LA TESTIMONE (Heartstone, 1978) A Doreen, Amy e Daniel, in confronto ai quali anche la pubblicazione di...
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PHILLIP MARGOLIN LA TESTIMONE (Heartstone, 1978) A Doreen, Amy e Daniel, in confronto ai quali anche la pubblicazione di un'opera prima appare poco importante. Con speciali ringraziamenti a Martin Bauer, Jed Mattes, Ned Leavitt, e a tutte le persone che mi hanno aiutato nelle ricerche e nell'editing di questo libro. PARTE PRIMA Fantasmi Prologo Mancavano due giorni a Natale, e l'unico amico di Louis Weaver stava morendo in una stanza da un dollaro a notte all'Hotel Cordova. Louis entrò in un androne per riprendere fiato. L'aria gelida gli mozzava il respiro, e la tormenta lo aveva semiaccecato. Si soffiò il naso e bevve una sorsata di whisky di infima qualità dalla fiaschetta che teneva nella tasca dell'impermeabile. Quando erano ancora a Salt Lake City, Willie gli aveva detto che sentiva avvicinarsi la fine e gli aveva fatto promettere che lo avrebbe riportato a casa, a Portsmouth. C'era qualcosa di importante che doveva fare là per la salvezza della sua anima immortale. Erano saliti clandestinamente su un treno merci e Louis era rimasto per ore su un pagliericcio, in un angolo della carrozza, ad assistere il suo amico che peggiorava sempre di più. Negli ultimi tempi Wiliie parlava continuamente di paradiso e inferno, e Louis si era reso conto della profonda angoscia in cui si dibatteva, come se avesse un terribile peso sulla coscienza. Louis era convinto che fosse tutta colpa del predicatore di Forth Worth che lo aveva convertito, perché il suo amico non era mai stato tanto tormentato. Avrebbe voluto aiutarlo, ma Wiliie parlava di quello che lo stava angustiando soltanto quando era ubriaco o in preda al delirio, e allora era difficile afferrare qualche parola di senso compiuto. Tutto ciò che era riuscito a capire era che c'entrava una ragazza
e che era accaduto molto tempo prima. Louis sospirò e ripose la bottiglia nella tasca. Era stanco e infreddolito, ma ormai era quasi arrivato. Il tribunale si trovava ad appena due isolati, e là almeno sarebbe stato al caldo. Avrebbe fatto volentieri a meno di lasciare l'albergo. Aveva speso gli ultimi dollari che gli rimanevano per la stanza, e non si poteva dire che la stesse sfruttando granché. Una raffica di vento gli gettò in faccia della neve gelida e immediatamente si benedì per aver speso quei soldi. Presto Willie sarebbe stato freddo e rigido come quella giornataccia, per sempre. E Willie era il suo unico amico. La radiosveglia suonò, ma Albert Cantoni cercò di ignorarla con tutto il proprio essere. La logica imponeva che restasse nel suo letto caldo e morbido, vicino alla sua calda e morbida moglie. «Tesoro», sussurrò una voce roca e sexy. Due labbra vellutate gli carezzarono il lobo dell'orecchio. «Tesoro, devi alzarti.» «Per favore, Mary», borbottò, implorante. «Lasciami dormire.» Sentì il corpo voluttuoso della moglie stringerglisi contro, e le sue labbra stuzzicarlo con baci insistenti e provocanti. Finalmente si arrese e aprì gli occhi. «Ti odio», gemette, girandosi per abbracciarla. «Ti amo», fece le fusa Mary. Lui la baciò dolcemente e cominciò ad accarezzarle la coscia e il fondoschiena. «Non pensarci nemmeno», lo ammonì la moglie. «Farai tardi se non ti alzi subito.» «Nemmeno una sveltina?» domandò giocosamente Albert. Era eccitato, come ogni volta che aveva Mary vicino. Dopo anni di matrimonio lei gli faceva ancora quell'effetto. «No.» Mary gli diede un bacetto sulla guancia e saltò giù dal letto. «Fila, o arriverai in ritardo e il commissario Hadley non ti concederà i fondi per assumere quegli assistenti che ti servono.» «Hadley. Merda. Se penso che mi tocca rinunciare a questo Ietto caldo e al più gran pezzo di figliola da questa parte delle Montagne Rocciose per quel vecchio stronzo... La prossima volta che mi candido bisognerà far sapere a tutti i sacrifici che mi costa.» «Lo sanno già.» «Senti, fammene due di uova, stamattina. Ho bisogno di una riserva di
energia.» «E la tua dieta?» obiettò Mary, uscendo dalla stanza. «Per un giorno posso fare uno strappo.» Cantoni si stiracchiò e andò alla finestra. La tormenta offuscava lo splendido panorama che solitamente lo salutava al risveglio. Sbadigliò e si diede una grattatina. Sebbene la prospettiva di uscire con quel tempaccio non gli sorridesse, si sentiva felice. In effetti, non ricordava un solo giorno negli ultimi anni in cui non fosse stato essenzialmente felice. Certo, c'era stata qualche piccola delusione, ma aveva una moglie della quale era pazzo, due bambini meravigliosi e un lavoro che amava quasi quanto amava Mary. A trentacinque anni, Al era il più giovane avvocato mai eletto a capo della procura di Portsmouth - un ufficio dove tradizionalmente transitavano brillanti neolaureati, che si fermavano giusto un paio d'anni per farsi le ossa e crearsi utili contatti, prima di passare al più remunerativo esercizio del diritto societario. Dopo il college, Al si era iscritto all'università, frequentando i corsi serali di legge e lavorando di giorno come poliziotto a Portsmouth. Durante l'ultimo anno di giurisprudenza aveva lavorato come investigatore per la procura, e il contatto con il lato criminale gli aveva fatto rapidamente svanire qualunque pensiero avesse mai coltivato di specializzarsi in diritto societario o esercitare come difensore penalista. Poco dopo la laurea, Al aveva chiesto un impiego a Herb Holman, allora procuratore distrettuale. I pubblici ministeri per i quali aveva lavorato gli avevano rilasciato ottime referenze. Così, Albert Cantoni aveva prestato giuramento come pubblico ministero il giorno stesso in cui aveva ricevuto una lettera della Corte Suprema di Stato che lo informava di avere superato l'esame di ammissione all'ordine degli avvocati. La sua folgorante ascesa all'interno della procura di Portsmouth, dovuta sia a circostanze favorevoli sia alla sua scrupolosa diligenza nel lavoro, era culminata nella nomina a procuratore distrettuale. Albert lanciò un'occhiata alla sveglia mentre si sfilava il pigiama. Le cinque e mezzo appena passate. Le sue giornate erano sempre lunghe, ma i sacrifici non lo avevano mai spaventato. Lui non era un figlio di papà, ed era abituato fin da ragazzino a rimboccarsi le maniche. Ricordava ancora quando, all'inizio della carriera, traeva particolare soddisfazione dal mettere all'angolo i brillanti rampolli degli studi legali più prestigiosi tirando fuori un oscuro codicillo scovato dopo ore di zelanti ricerche.
Albert lasciò cadere il pigiama sul letto e si diresse verso il bagno. Passando di fronte allo specchio, si soffermò per un breve e spassionato esame del proprio corpo. Non fu né compiaciuto né dispiaciuto di quello che vide. Vero, la sua bassa figura si era un tantino appesantita e i capelli si stavano diradando. D'altra parte, i muscoli erano ancora abbastanza tonici sotto lo strato di adipe. Diciamo che sto tenendo il perimetro sotto controllo, concluse, con modico rammarico per non avere un po' più di tempo da dedicare alla propria forma fisica. Quando era più giovane aveva praticato diversi sport, ma adesso era già tanto se riusciva a fare qualche flessione, oltre a qualche sporadica partita a golf. Oh, be'. Aveva fatto la sua scelta. Sapeva quanto tempo e impegno il suo lavoro richiedesse, e aveva accettato di buon grado. Insomma, prima o poi doveva morire comunque, e andare in paradiso non sarebbe dipeso dal suo girovita. Prima di infilarsi sotto la doccia, diede una voce a sua moglie: «Tesoro, dammi una fetta di bacon in più, ti spiace?» Erano le dieci e mezzo, e l'atrio del palazzo di giustizia era deserto. Un'ora prima brulicava di giovani pubblici ministeri e dei loro testimoni, ma con l'inizio delle udienze erano tutti sciamati nelle varie aule giudiziarie. Fanny Maser, l'anziana impiegata della reception, squadrò con occhio critico l'ometto male in arnese che aveva appena varcato la porta a vetri e ora stava lì tremante di freddo, lanciando attorno occhiate nervose. Le bastò uno sguardo per classificarlo come un vagabondo alcolizzato, ma dissimulò la propria disapprovazione con un sorriso professionale e gli si rivolse con il suo tono più gentile: «Posso esserle utile?» Louis Weaver si tolse il logoro cappello di feltro e, tormentando la tesa floscia e lisa, avanzò con passo incerto verso il bancone. «È qui l'ufficio del procuratore distrettuale?» indagò con diffidenza. Fanny si accorse di quanto il poveretto fosse spaventato e a disagio, e la compassione ebbe la meglio sulla sua avversione iniziale. «Sì. Dica pure», rispose, incoraggiante. «Devo vedere il procuratore.» «Ci sono cinquanta procuratori legali qui. Desidera parlare con uno in particolare?» «Ma... non è il signor Cantoni, il procuratore? Willie ha detto di chiedere del signor Cantoni.» «Il signor Cantoni è il procuratore distrettuale della contea di Por-
tsmouth, ma non si occupa personalmente dei casi. Forse potrei indirizzarla da qualcun altro, se vuole dirmi qual è il suo problema.» Louis si massaggiò con una mano il mento ricoperto da una barba grigia e ispida. La cosa era più complicata di quanto si aspettasse. La burocrazia, sotto qualunque aspetto, lo intimoriva. Avrebbe voluto farsi un cicchetto, ma lì era fuori discussione. «Si tratta del mio amico Willie. Sta morendo, e gli ho promesso di fargli questo favore. Ha detto che devo parlare con il signor Cantoni e nessun altro. Ha detto che era una cosa importante e che il signor Cantoni sarà interessato.» Qualcosa in lui - il tono della sua voce e il suo evidente desiderio di essere da qualsiasi altra parte - convinse Fanny a venirgli incontro. «Non posso garantirle che il signor Cantoni la riceverà. È sempre molto occupato. Ma se vuole almeno accennarmi il motivo della sua visita, vedrò se può trovare un momento per lei.» Louis aveva la bocca secca e il cuore gli batteva forte. Willie si era raccomandato di dare il messaggio direttamente a Cantoni, ma se adesso non avesse detto a quella donna perché lo cercava, lei lo avrebbe mandato via. «Devo dirgli che Willie Heartstone sta morendo, e vuole dire chi ha ucciso Elaine Murray.» Malgrado il tempaccio, la giornata si stava mettendo decisamente al bello per Al Cantoni. Aveva concluso l'incontro con Hadley in una mezz'ora, riuscendo a spuntarla. Poi, tornato nel suo ufficio, aveva discusso un caso delicato con un giovane procuratore nel quale aveva molta fiducia. Ora, evasa la corrispondenza del mattino, si allungò sulla sua comoda, enorme poltrona in pelle - uno dei pochi lussi che si era concesso - accingendosi a esaminare alcuni fascicoli relativi a recenti casi della Corte Suprema. «Signor Cantoni?» Albert sorrise vedendo la signora Maser affacciarsi alla porta. Era una delle poche persone lì dentro che lo battesse per anzianità di servizio. Gli faceva ancora uno strano effetto che, da quando era stato nominato procuratore distrettuale, lei lo chiamasse signor Cantoni invece che Albert. «Che cosa posso fare per lei, Fanny?» «Non vorrei disturbarla, ma c'è un tale che insiste per vederla. Dice di essere stato mandato a riferirle che un certo Willie Heartstone sta morendo e vuole rivelarle chi ha ucciso Elaine Murray.» La stanza prese a girargli intorno. Il pavimento gli mancò sotto i piedi.
All'improvviso si sentì fluttuare, sospeso nel vuoto. «Signor Cantoni, si sente bene?» William Heartstone. Al respirò profondamente, sforzandosi di dominarsi. La vertigine passò, lasciandolo disorientato e confuso. «Lo faccia accompagnare qui da Pat Kelly. Dica a Pat di non andarci pesante, ma di non farlo andare via. Ah, e mi porti un registratore.» Gli tremava la voce. Alquanto insolito, per lui. Sembrava venisse da molto lontano. Dal passato. Poteva sentirla echeggiare nella solitudine di uno squallido alberghetto, nel giorno del suo unico incontro con William Heartstone. Cantoni andò nel suo bagno privato e riempì un bicchiere di acqua fredda dal rubinetto, desiderando che fosse scotch. Sistemò la camicia nei pantaloni, strinse il nodo della cravatta e indossò la giacca. Il caso MurrayWalters. Dopo tutti quegli anni. Il giornale del mattino era posato su un angolo della sua scrivania. C'era una fotografia di Philip Heider a braccetto con il presidente. Correva voce che avesse buone probabilità di essere nominato procuratore generale. Che effetto avrebbe avuto sulla sua carriera la ricomparsa di William Heartstone? Probabilmente nessuno, rifletté amaramente Cantoni. Heider era una di quelle persone indistruttibili che guadagnano forza da cose che porterebbero altri alla rovina. E, comunque, le sue tracce erano troppo ben coperte. Grazie a lui e a Shindler, non c'erano prove. Soltanto ombre e bisbigli. A ogni modo, Heider non era mai stato il responsabile di ciò che era accaduto nel caso Murray-Walters. Era stato Roy Shindler, fin dal principio. Negli anni successivi al drammatico epilogo del processo a Bobby Coolidge, Cantoni aveva tentato di scoprire se ci fosse del vero nelle orribili voci che aveva sentito circa il ruolo di Shindler in tutta la faccenda, ma si era sempre scontrato con un muro di silenzio. Shindler godeva di troppo rispetto all'interno del dipartimento per essere crocefisso per una sola scivolata nell'illecito. Forse Cantoni, con la sua influenza, avrebbe potuto scoprire la verità, se ci avesse realmente provato, ma il suo riflesso allo specchio lo fissava con uno sguardo di accusa, ricordandogli che lui era responsabile quanto chiunque altro di come erano andate le cose. Tutto il senso di colpa e l'incertezza che aveva stipato nei ripostigli della sua mente tornarono a gravargli sulle spalle. Come se non riuscisse a sostenerne il peso, si lasciò cadere stancamente sulla sua poltrona. Pat Kelly, l'investigatore capo di Cantoni, entrò nell'ufficio. L'uomo al
suo fianco era minuto e spaurito, e palesemente non se la passava affatto bene. Cantoni notò che sembrava piuttosto malfermo sulle gambe e lo invitò a sedersi non appena fatte le presentazioni. «Dunque, signor Weaver, lei è un amico di William Heartstone?» «Willie, vuole dire? Sì, signore. Siamo amici da tanto tempo. Ci siamo incontrati dopo che ha perso la gamba.» «Ha perso una gamba? Non lo sapevo.» «Sì, un gran brutto incidente. È anche rimasto un po' tocco.» Louis si batté un dito su una tempia. «Però non è cattivo, e non ha mai fatto male a nessuno, sul serio.» «Perché ritiene di dover fare questa precisazione, signor Weaver?» Louis chinò la testa e abbassò lo sguardo. «È per via del messaggio. Vede, Willie da un po' si è fissato con la religione, e non fa che parlare della sua anima e delle brutte cose che ha sulla coscienza. Io però non l'ho mai visto fare niente di cattivo. Comunque, da quando si è ammalato, ha cominciato a insistere per tornare a Portsmouth e parlare con lei. È per questo che sono qui.» «Dove si trova adesso Willie?» «È all'Hotel Cordova, sulla Decima.» Cantoni conosceva il Cordova dai tempi in cui era nella polizia. L'albergo aveva cambiato gestione una decina di volte da allora, ma era rimasto la stessa topaia che ospitava alcolizzati, vagabondi e disoccupati. «Sta molto male?» Le dita di Louis torturarono la tesa del cappello. Povero Willie, là da solo in quella stanzetta a tossire, sudare e lamentarsi nel suo inferno privato. «Mi sa che sta tirando gli ultimi.» «È stato visitato da un medico?» Louis scosse la testa. «Non avevamo i soldi. Ho speso i miei ultimi dollari per la stanza. Volevo portarlo all'ospedale, ma lui non ne ha voluto sapere. Non pensa ad altro che a confessarsi con lei e mettersi l'anima in pace.» Cantoni diede istruzioni alla sua segretaria di mandare un medico al Cordova, poi lui, Kelly e Weaver scesero con l'ascensore al pianterreno. Kelly corse fuori a prendere la macchina, e Weaver e Cantoni aspettarono al caldo nell'atrio. «Willie non è nei guai, vero, signor Cantoni? Siamo buoni amici da tanto tempo, e so che ha fatto qualche cosetta. Voglio dire, tutti e due abbiamo rubacchiato una bottiglia, di tanto in tanto. Ma non l'ho mai visto fare
qualcosa di veramente cattivo.» Cantoni affondò le mani nelle tasche del soprabito e fissò gli alberi coperti di neve dall'altra parte della strada. Il piccolo parco di fronte al palazzo di giustizia in estate era sempre affollato e sporco. L'inverno lo aveva svuotato e purificato, rivestendo i suoi alberi stanchi e miseri e la sua erba stentata con un sontuoso manto di neve candida e soffice. Era bello pensare che la natura fosse capace di trasformare quel che era sordido e sozzo in qualcosa di regale, ma Cantoni sapeva che sotto la neve c'era ancora la sporcizia. Anche con il caso Murray-Walters era stato così. Gli anni avevano steso un velo sulle domande e i dubbi, ma Cantoni conosceva bene lo sporco che c'era sotto. Non aveva mai dimenticato quel che Shindler ed Heider avevano fatto, e non si era mai perdonato la propria mancanza di coraggio quando si era trovato a dover scegliere tra la sua carriera e la vita di un altro uomo. «Willie non è nei guai, vero?» ripeté Louis. Pat Kelly fermò la macchina di fronte all'entrata. «Non lo so, signor Weaver», disse Cantoni mentre uscivano nella tormenta. PARTE SECONDA Morte 1 Elaine Murray era così eccitata che le tremava la mano, e sbavò il rossetto. Contrasse le labbra per stenderlo uniformemente. Notò lo sbaffo sotto il labbro inferiore e usò un fazzoletto di carta per cancellarlo. «Oh, dannazione», disse, vedendo che resisteva, poi fece un risolino. Le piaceva imprecare nella privacy della sua stanza o in compagnia di amiche intime, ma usare simili espressioni le causava sempre un risolino nervoso, perché sapeva che i genitori non avrebbero approvato. Erano entrambi molto conformisti. Controllò che i capelli fossero a posto. Erano di un naturale castano ramato, e a volte, quando il sole vi batteva sopra nel modo giusto, Richie diceva che sembravano infuocati. Diede un ultimo ritocco alla pettinatura, poi, soddisfatta, si alzò e andò a mettersi davanti allo specchio a figura intera sull'anta dell'armadio. Si mise in posa e sorrise. Il suo fisico era snello
e atletico, il ventre appiattito dalla ginnastica, la curva dei fianchi armoniosa. Quando soffermò lo sguardo sui seni corrugò un poco le sopracciglia. Avevano una bella forma, ma erano piccoli. Sapeva che gli uomini preferivano un seno abbondante, e sperava che Richie non ne rimanesse deluso. Aveva pensato di mettere un reggiseno imbottito, ma scartò l'idea. Era sicura che quella sarebbe stata la grande serata, e non voleva avere niente di fasullo. Richie doveva sapere esattamente ciò che avrebbe avuto. Inoltre, quello sarebbe stato il loro segreto. Una delle cose che avrebbero condiviso, forse per sempre. Per sempre! Elaine chiuse gli occhi e si stese sul letto. Provò a immaginare lei e Richie sposati. Naturalmente, questo era un po' prematuro. Ufficialmente non era nemmeno la sua ragazza... per ora. Ma dopo quella sera... Elaine si sforzò di tenere i piedi per terra. Forse si stava soltanto illudendo, e lui neanche ci pensava a fare sul serio. Insomma, uscivano insieme da appena un mese. Un mese solo, anche se a lei era parso un'eternità. Non ricordava di essere mai stata così felice. Lei e Richie Walters. Sembrava un sogno. Lui era così bello, con quei riccioli biondi, gli occhi azzurri, il naso perfetto. E poi così intelligente, così profondo. E sempre informato su tutto. Quell'autunno aveva collaborato alla campagna elettorale del presidente Kennedy, e lo aveva persino incontrato di persona quando era stato a Portsmouth per un comizio. Elaine sapeva che Richie aveva presentato domanda di iscrizione a diversi college, e in gamba com'era sicuramente lo avrebbero accettato dappertutto, ma lei sperava che scegliesse l'università statale, così avrebbero potuto frequentarla insieme. Sarebbe stata dura, altrimenti, mantenere il loro impegno reciproco stando separati. Lei era certa che gli sarebbe stata fedele, ma... Ecco, c'era ricascata. Non si è ancora impegnato con te, stupida, si disse. Ma d'altra parte era sicura, sicurissima che lo avrebbe fatto. Wendy Blair stava con Frank Coppella, che oltre a giocare a football con Richie era il suo migliore amico, e lui aveva detto a Wendy che Richie ci stava pensando, ed era tuttala settimana che sembrava con la testa fra le nuvole. Elaine tornò a sedersi alla toilette. Applicò con cura l'eyeliner e il mascara, poi studiò il proprio viso allo specchio, girando la testa di qua e di là. Si trovava graziosa. Non bella come Alice Fay, la reginetta del ballo dell'anno prima, ma graziosa. E c'erano molti ragazzi che la pensavano allo stesso modo. Era una ragazza ponpon, aveva belle parti nelle recite scola-
stiche e alle feste non faceva certo tappezzeria. Infilò un paio di mutandine bianche e agganciò il reggiseno. Poi indossò dei pantaloni marroni alla torero e una camicetta bianca, e sopra un maglione da sci rosso e nero. Era uno strano inverno, rifletté. Era già passato il giorno del Ringraziamento, e non faceva per niente freddo. Meglio così. Lei odiava il freddo. In ogni caso, bastava il pensiero di Richie a mandarla in ebollizione. Lui era un gentiluomo in ogni senso, ma aveva gli stessi impulsi di qualsiasi uomo. Elaine aveva parlato con la mamma del sesso e degli uomini, e lei le aveva raccomandato di tenersi stretta la sua verginità, perché se si fosse mostrata troppo libera con un uomo ne avrebbe perso il rispetto. Lei aveva seguito il consiglio della madre, anche se a volte le era costato molta fatica. Quando era tra le braccia di Richie e lui le carezzava i seni attraverso la camicetta, le veniva voglia di lasciargli fare tutto quello che voleva. Ma era felice di non avergli ancora ceduto. Il corpo di una donna era un dono per l'uomo che avrebbe sposato. Ed Elaine gli sì sarebbe donata solo dopo il matrimonio. E poi, quello che diceva sua madre del rispetto era vero. Bastava vedere quello che i ragazzi dicevano di Eleanor Strom dietro le sue spalle, e lo sapevano tutti fin dove si poteva arrivare con lei. Quella sera, però, aveva preso una decisione. Quella sera, se lui le avesse chiesto di diventare la sua ragazza fissa, gli avrebbe permesso di toccarle il seno. Le sembrava giusto concedergli qualcosa, così lo avrebbe legato di più a lei. Lanciò un'occhiata all'orologio. Porca vacca, le otto passate. Richie sarebbe arrivato da un momento all'altro. Infilò un paio di scarpe da tennis, si diede un ultimo sguardo allo specchio, e in quel momento dal piano di sotto giunse il suono del campanello. Bobby Coolidge si rimirava allo specchio del bagno degli uomini del Bob's Hamburger Heaven. Passando con grande precisione il pettine di plastica nera tra i folti capelli scuri come inchiostro e lucidi di brillantina, li ravviò all'indietro ai lati della testa, formando due ali che si congiungevano sulla nuca in una virgola. Si fermò a esaminare il risultato. Perfetto. Arrotolò ancora una volta il ricciolo che aveva sistemato al centro della fronte. Elvis Presley non aveva mai fatto di meglio, pensò. «Prestami il pettine quando hai finito, fratellino», gli disse Billy, chiudendo la zip dei jeans attillati. «Un secondo solo.» Bobby aveva notato un capello fuori posto. Si allontanò un poco dallo specchio e diede un'altra passata di pettine. Finalmente
soddisfatto, sciacquò il pettine e lo porse al fratello. Billy prese il suo posto davanti allo specchio e Bobby si appoggiò contro la parete, tirando fuori una sigaretta dal pacchetto che teneva in una delle tasche del suo giubbotto di pelle nera. «Che cosa ti va di fare?» domandò. «Non so. Hai qualche idea?» «Per me va bene tutto. Basta non restare a ciondolare qui tutta la sera. Quella Delores mi sta dando il tormento.» «La cameriera con i brufoli?» Bobby annuì e Billy lo vide allo specchio. «Potresti anche farci un giro, Bobby. Harry Capri dice che ci sa fare.» «Be', io ho più classe di Harry Capri. Dico, hai visto con che racchie va in giro?» «Sarà, ma Capri dice che ti lavora al ritmo di Yankee Doodle e ti fa venire all'ultima nota.» «Non dire stronzate.» «Mentirei mai a mio fratello?» «Se è così bollente, perché non te la fai tu?» «Troppo brutta. Quelle brutte le lascio a te.» Bobby rise. Era fortunato ad avere un fratello che era anche un buon amico. I fratelli Coolidge stavano sempre insieme. Si battevano insieme. Andavano a donne insieme. Sorrise, tirò una boccata di sigaretta e fece un pensierino su Delores. No, neanche per idea. Che cazzo, mica era così morto di fame. Billy si scostò dallo specchio e restituì il pettine a Bobby. «Non mi hai ancora risposto», gli fece notare Bobby. «Su cosa?» «Che facciamo stasera.» «Non so.» Billy si strinse nelle spalle. «Potremmo autoinvitarci alla festa di Alice Fay.» Bobby sembrò interessato. «Alice Fay dà una festa?» «Così dice Rog. Possiamo chiedere a lui, adesso che torniamo di là.» Billy aprì la porta del bagno, e i due fratelli aggirarono le tavolate di ragazzini alla moda per raggiungere l'angolo in fondo al locale dove Roger Hessey ed Esther Freemont erano seduti a mangiare i loro hamburger. Esther, come al solito, stava facendo fuori un milk-shake gigante. Guardandola, Bobby si grattò distrattamente il cavallo dei jeans. Esther aveva grandi tette, e a Bobby piacevano le tette grandi: nel complesso non la tro-
vava affatto da buttar via. D'altra parte, lei si scopava qualunque cosa camminasse, e la personale opinione di Bobby era che un tipo di bell'aspetto come Hessey avrebbe potuto rimediarsi qualcosa di meglio. Oltretutto, lei era così appiccicosa. Esther aveva una cotta per Bobby e gli faceva continuamente gli occhi dolci, invitandolo non troppo velatamente a farsi avanti. Bobby avrebbe potuto farsela, se solo avesse voluto, ma sapeva che una come lei non avrebbe tenuto vivo a lungo il suo interesse, e non gli andava di sorbirsi le sue scenate quando l'avrebbe scaricata. Tra l'altro, non c'era da stare molto tranquilli con quella. Una volta aveva accoltellato un ragazzo del loro liceo perché aveva provato ad allungare le mani quando lei non era in vena. No, tutto sommato era molto meglio lasciar perdere. Fosse stata Alice Fay, o Elaine Murray... Quella sì che era classe. Peccato che se la tirassero tanto. Si sarebbe fatto molto volentieri una delle due. «Rog, non dicevi che Alice Fay dà una festa, stasera?» domandò Billy. «Sì. Perché?» «Così. Bobby e io pensavamo che si potrebbe farci un salto.» «Non siete invitati», gli fece presente Roger. «Lo so. Ma non significa che non possiamo andarci.» Roger scosse la testa. «Questo è andare in cerca di guai.» Bobby sogghignò. «Non avrai paura di una piccola scaramuccia, vero?» «Che cazzo, no», ribatté Roger, a disagio. «È solo che non sono dell'umore giusto, stasera.» «Chi dice che devono esserci per forza guai?» replicò Billy. «Io pensavo solo di andare a una festa. Non ho intenzione di mettermi a menare le mani.» «Lo farà qualcuno di quegli armadi della squadra di football.» «Ti preoccupi di quei buffoni? Sono grandi e grossi, ma non valgono niente. Non è vero, Bob?» Bobby annuì. «Be', non contate su di me», dichiarò Roger. «Oh, Rog, perché non andiamo?» intervenne Esther. «Non ho mai visto la casa di Alice Fay.» «Che ci guadagni, una volta che l'hai vista? È solo una qualsiasi casa da rampolli ricchi e viziati.» «Lo so, ma mi piacerebbe andarci», insistette Esther. «Dai, ti prego!» «Te l'ho detto, io non vado a nessuna fottuta festa dove non sono stato invitato.»
«Sentite, io vado», annunciò Billy. «Chi viene con me?» «Io ci sto», si associò Bobby. «Io vado a casa», disse Roger. «Posso venire con voi?» chiese Esther, speranzosa. Bobby lanciò un'occhiata al fratello. Sarebbe stato un peso tirarsi appresso Esther, ma se avessero detto di sì, probabilmente Roger avrebbe cambiato idea per non perdere la faccia. «Certo, Esther, vieni pure.» Roger abbassò lo sguardo sul proprio piatto. «Be', se tu vai, vengo anch'io.» «Bene. Lo sapevo che non eri un vigliacco.» «A chi vigliacco?» si scaldò Roger. Bobby e Billy risero. «Calma, amico. Ti stavamo solo stuzzicando.» «Sì, Rog. Lo sanno tutti che sei un buon elemento quando c'è da battersi.» «Buono quasi quanto questo», disse Billy, e Bobby sentì il familiare scatto del lungo coltello a serramanico di suo fratello che si apriva sotto il tavolo. «Il vecchio passe-partout», lo chiamava Billy, e sicuramente era risultato utile in passato. Bobby sorrise ricordando la volta che Billy lo aveva aperto sotto il naso a un negro, facendolo zampillare sangue come una fontanella. Bobby odiava i negri. Lui e il fratello erano Cobra, e i Cobra di tanto in tanto facevano incursione nel quartiere nero della città e ne pestavano a sangue un paio. Quella volta, però, era stato il negro a cercare rogne. Bobby e Billy erano al cinema a guardarsi tranquillamente un film, e lui, spalleggiato da un suo amico, li aveva provocati. Così Billy gli aveva fatto passare la voglia di fare lo spaccone. Aveva calcolato la distanza in modo da fargli appena un buchino nel naso, ma era stato abbastanza per far scappare lui e il suo socio come lepri. Quando raccontava l'episodio, concludeva sempre dicendo che era stata l'unica volta che aveva visto un negro diventare bianco. Mentre Esther finiva il suo milk-shake, Billy e Roger andarono alla cassa a pagare il conto. Bobby sapeva dove abitava Alice e Roger no, così decisero che Roger ed Esther avrebbero seguito Bobby e Billy. Bobby si sentiva in forma, sapeva che quella notte sarebbe successo qualcosa. Avvertiva quel particolare fremito allo stomaco che aveva quando era nervoso, ma freddo. Come prima di uno scontro tra bande, o prima di entrare in azione con qualche ragazza. L'orologio del locale segnava le otto e cinquantacin-
que. Richie Walters parcheggiò la sua Mercury del '55 lungo il marciapiede di fronte alla casa di Elaine Murray. Prima di scendere si diede un'occhiata nello specchietto retrovisore. Aveva cercato di mimetizzare un brufolo sul lato sinistro del mento e voleva assicurarsi di aver fatto un buon lavoro. Il brufolo era quasi invisibile sotto la crema color carne. Richie sorrise. Quella sera ci teneva particolarmente ad apparire al meglio, perché sarebbe stata una serata speciale. Fuori faceva freddo e Richie infilò le mani nelle tasche del giubbotto mentre andava verso la casa. Si sentiva strano: metà eccitato, metà depresso. Non aveva mai chiesto a nessuna di diventare la sua ragazza fissa, e l'idea lo spaventava un po'. Nonostante il suo bell'aspetto e la sua popolarità, in genere era piuttosto impacciato con le ragazze. Aveva sempre paura di fare o dire la cosa sbagliata. Ma da quando usciva con Elaine, era cambiato tutto. Con lei si sentiva a suo agio. Elaine trovava le sue battute spiritose e approvava le sue opinioni. E gli rispondeva sessualmente - almeno fino a un certo punto. Questo era il solo problema fra loro. Quando lui la baciava o la teneva fra le braccia, perdeva il controllo. Elaine lo lasciava fare per un po', ma se passava il limite lo fermava. Si fidava di lui, lo sapeva, altrimenti non gli avrebbe permesso di spingersi tanto in là, ma quando la riportava a casa si sentiva sempre sospeso tra l'appagamento e la frustrazione. Impegnarsi con lei era un passo importante. Ci aveva riflettuto un po' prima di decidersi. I problemi maggiori sarebbero sorti il prossimo settembre. Richie era pazzo di Elaine, ma si rendeva conto che negli studi non era brillante quanto lui. Lei aveva fatto domanda di iscrizione all'università statale e a qualche altro college locale, lui invece a quasi tutte le università dell'Ivy League e ad altre scuole dell'Est. La statale per Richie sarebbe stata proprio l'ultimo ripiego, e non pensava di incontrare troppe difficoltà a essere accettato da uno dei college più prestigiosi. Oltre ad avere ottimi voti, era anche un buon atleta e alcune scuole gli avevano già offerto una borsa di studio per meriti sportivi. Lui, però, le aveva rifiutate. Aveva intenzione di continuare a praticare sport all'università, ma era più interessato alla propria istruzione. Aveva ascoltato attentamente quel che John Kennedy aveva detto durante la sua campagna per la presidenza. Aveva parlato molto di servizio pubblico e dei disagiati. Richie riteneva di avere tutto dalla vita, e aveva deciso che voleva aiutare quelli che erano stati meno
fortunati di lui. Non sapeva ancora con certezza se volesse diventare medico, oppure occuparsi di legge o magari di scienza. Ma di sicuro, avrebbe fatto qualcosa che gli permettesse di rendersi utile al prossimo. Suonò il campanello, poi lanciò uno sguardo al suo anello del liceo. Da quella sera non sarebbe più stato al suo dito. Sempre che Elaine avesse accettato di impegnarsi con lui. Per un momento fu assalito dal dubbio. E se lei lo avesse respinto? No, non lo avrebbe fatto. Era sicuro che lei ricambiasse i suoi sentimenti. Da dentro casa gli giunse un suono di passi. Diede un'occhiata al cielo. Quel giorno aveva piovuto, ma adesso non c'era più una nuvola e la notte era tersa e stellata. Aveva certamente scelto una serata romantica per chiedere a Elaine di essere la sua ragazza. Aveva già programmato come fare. Prima l'avrebbe portata al cinema. Alice Fay li aveva invitati a una festa, ma lui pensava che il cinema sarebbe stato più intimo. Dopo il film avrebbero fatto un giro in macchina in centro. Richie era molto orgoglioso della sua automobile. L'aveva personalizzata lui stesso e a scuola era una leggenda. Nessuno poteva batterla in una gara di velocità. Più tardi, lui ed Elaine avrebbero potuto mangiare qualcosa, e infine l'avrebbe portata al Belvedere, dove contava di offrirle il suo anello. La porta si aprì e la signora Murray lo invitò a entrare. La madre di Elaine gli era simpatica. Era sempre così allegra. Le fece un complimento e lei lo ringraziò, poi chiamò Elaine dalle scale. Myron Krauss era un rappresentante di ferramenta che si trovava in città di passaggio. Il mercato era fiacco, si lamentava seduto al bancone del bar, cercando qualcuno che gli desse retta. Aveva quarantotto anni, era grasso e stempiato. Abitava a Minneapolis con la moglie e tre figli, ma dopo venticinque anni di matrimonio la vita del padre di famiglia gli era venuta a noia. Lui stesso era piuttosto noioso. Forse per questo non trovava nessuno che gli prestasse ascolto. Dopo un po' annoiò perfino se stesso, così decise di tentare in un altro bar. Si lasciò scivolare giù dallo sgabello di pelle rossa, incespicò e dovette aggrapparsi al bancone per non cadere. Strano, gli girava un po' la testa. Eppure non era ubriaco. No davvero. Myron era molto fiero della sua capacità di reggere l'alcol. Mentre usciva un po' traballante nella fredda aria notturna, due giovani in giubbotto di pelle nera e jeans attillati lo seguirono. Avevano entrambi i
capelli pettinati all'indietro ai lati, con un ricciolo che ricadeva sulla fronte, come Elvis Presley, e tanto lucidi di brillantina da riflettere la poca luce che c'era nel bar. Appena fuori del locale i due furono investiti da un vento pungente. Infilarono dei guanti di pelle e si avviarono a passo veloce dietro il rappresentante ubriaco. Con un perfetto calcolo dei tempi, lo raggiunsero proprio all'altezza di un vicolo laterale. Ralph Pasante gli diede uno spintone da dietro con entrambe le mani, facendolo barcollare nel vicolo. Myron era troppo ubriaco per rendersi conto di che cosa stesse accadendo. La sua faccia mostrò stupore anziché paura. Willie Heartstone sapeva per esperienza che la sua preda avrebbe reagito esattamente a quel modo. Colpì l'ometto al plesso solare. Myron emise un grugnito. Non riusciva a respirare. Pensò che sarebbe morto per mancanza d'aria e spalancò la bocca, annaspando. Willie stette per un momento a guardarlo torcersi e boccheggiare come un pesce prima di sferrargli un pugno al naso. Sentì un soddisfacente scricchiolio di osso rotto e vide un fiotto di sangue scaturire dalle narici. Mentre Myron vacillava, Ralph gli tirò un calcio all'inguine. L'uomo cadde sulle ginocchia con la testa in avanti e batté la fronte contro il selciato. Si accasciò inerte al suolo, e Ralph gli saltò sopra con tutti e due i piedi, tanto per divertirsi. Poi gli frugarono nelle tasche, prendendo sia il portafoglio sia gli spiccioli, gli sfilarono l'orologio e la fede e scapparono dall'altra estremità del vicolo. La loro auto era poco lontano. Dopo aver guidato per qualche isolato, si fermarono in una strada secondaria e Willie contò il denaro. «Quanto?» «Centosessanta dollari e un po' di moneta», disse in tono pratico. Le rapine non lo eccitavano più come una volta, a meno che la vittima opponesse resistenza. Allora sì che si divertiva. Gli piaceva pestare qualcuno che avesse dello spirito. Lo faceva sentire potente. Il tizio di quella sera era uno zero. Willie aveva capito subito che non si sarebbe battuto. «Che facciamo, adesso?» domandò Ralph. «Non so», rispose Willie in tono svagato. «Si potrebbe fare qualche vasca in centro. Sono quasi le dieci e mezzo. L'orario di uscita dai cinema.» Ralph sorrise. Sapeva a che cosa stava pensando Willie. Il venerdì sera, finito lo spettacolo, dai cinema si riversavano in strada frotte di liceali da rimorchiare. Willie si diresse verso il centro di Portsmouth.
Bobby Coolidge fermò la macchina nel cortile di Alice Fay. Alice viveva in una moderna casa di pietra a tre piani che occupava diversi acri del quartiere più elegante di Portsmouth. I suoi erano in vacanza alle Hawaii, così Alice aveva la casa libera. Bobby e Billy si controllarono i capelli nello specchietto retrovisore. Musica rock ad alto volume faceva vibrare l'aria notturna, e attraverso le finestre illuminate si vedevano le sagome dei ragazzi che ballavano e si divertivano. Bobby disse al fratello di muoversi, e Billy chiuse la cerniera del giubbotto. La macchina di Roger si fermò dietro di loro, poi i quattro salirono i gradini del portico. Bobby sapeva che non sarebbero stati i benvenuti, ma non gliene fregava niente. Quelli del giro di Alice non erano certo dei duri. Per lo più atleti o secchioni. Regolari, insomma. Sapeva che la sua presenza li metteva a disagio, e questo gli piaceva. Bobby bussò alla porta e un ragazzo in camicia bianca e pantaloni sportivi venne ad aprire. Era Arnie Klaus, uno della squadra di football della scuola. Era muscoloso, ma come molti atleti, quando c'era da muovere le mani si tirava indietro. L'anno prima Billy gli aveva estorto del denaro in cambio di protezione. Ormai Billy aveva superato quella fase, ma Arnie girava ancora al largo da entrambi i fratelli Coolidge. «Ciao, Arnie», lo salutò educatamente Billy. «Bella festa?» «Sì, Bob», rispose lui, con un po' troppo entusiasmo. I quattro guadagnarono un angolo della sala. Avevano notato il brusio che aveva accompagnato il loro ingresso. Per Bobby e Billy era stata una soddisfazione. Il soggiorno era immenso. La famiglia di Alice aveva un sacco di grana. Tutti apparivano ben strigliati e vestiti con eleganza. Bobby li detestava. Cercava di non farsi il sangue amaro, ma gli sembrava una tale ingiustizia che quei mocciosi pieni di boria avessero tutto servito su un piatto d'argento, mentre lui e Billy avevano sempre dovuto sudarsi qualunque cosa avessero mai avuto, lavorando dopo la scuola. Era così da quando il padre era morto, lasciandoli nella miseria e a guardare la madre annegarsi in una bottiglia. Billy girò lo sguardo per la stanza finché i suoi occhi si fermarono su Alice Fay, vicino alla boccia del punch insieme a Tommy Cooper, il suo ragazzo. Tommy le teneva un braccio intorno alle spalle con fare possessivo. Billy provò un misto di rabbia e disperazione. Non era giusto che lui non avesse alcuna possibilità con una ragazza come Alice. Lei era alta e snella, con il seno abbon-
dante. I suoi occhi brillavano e i suoi denti erano come perle. Era la perfezione fatta persona. La notte, Billy fantasticava su di lei, ma sapeva che era un sogno che non si sarebbe mai avverato. Alice e i suoi amici erano ricchi. Dopo il diploma sarebbero andati al college. Bobby e Billy non erano niente ai loro occhi. Il loro futuro era grigio e fosco. Tommy Cooper fece una battuta e Alice rise. Billy odiava Cooper. Era sia un atleta sia un secchione. Era alto, con i capelli neri tagliati corti, e la sua pelle sembrava abbronzata anche in inverno. Portava con fierezza il suo maglione con la scritta della squadra di football sopra una camicia scozzese e un paio di pantaloni sportivi marrone chiaro, e aveva l'aria disinvolta e rilassata. Bobby notò il modo in cui suo fratello stava guardando Alice. Billy non glielo aveva mai detto, ma lui sapeva che era cotto della ragazza. Arnie si avvicinò ad Alice e Tommy e disse qualcosa, facendo un cenno nella loro direzione. Cooper si girò a guardarli con la faccia torva. «Non mi piace quello stronzo», disse Billy. «Neanche a me», gli fece eco Bobby. «Vogliamo divertirci un po'?» «Ehi, avevo detto che non voglio guai», obiettò Roger, a disagio. «E comunque, sono in troppi per noi.» «Chi ha parlato di guai?» ghignò Billy. «Io ho detto solo 'divertirci.'» «Ti conosco, Billy», replicò Roger. «Senti, Esther, io non mi sento a mio agio, qui. Me ne vado a casa.» Esther spostò lo sguardo da Roger a Billy e Bobby. Roger era il suo ragazzo, ma si stava comportando come un codardo. «Dai, Roger, restiamo. Per favore.» «Ho detto di no. Forza, andiamo.» «Non vuoi mai fare niente di divertente. Io voglio restare.» «Be', io no.» Roger si avviò verso la porta. Esther gli andò dietro. Uscirono discutendo a bassa voce. Cinque minuti dopo Esther rientrò in lacrime. Oh, merda, pensò Bobby. Adesso si sarebbero dovuti tirare appresso Esther tutta la sera. Roger ed Esther litigavano di continuo, e in genere andava a finire che Roger la prendeva a sberle e lei piangeva. «Quel bastardo mi ha mollata», piagnucolò Esther. «Non preoccuparti. Ti portiamo a casa noi», le disse Bobby. Intanto, teneva d'occhio Cooper, che era in un angolo a parlare con i ragazzi più robusti.
«Credo che mi farò un po' di punch», disse Billy. Bobby seguì il fratello al tavolo dei rinfreschi. Billy si riempì un bicchiere di punch e mangiucchiò delle patatine. Gli altri che erano al buffet ignorarono i Coolidge, a parte qualche commento sottovoce. Bobby notò che Cooper si stava avvicinando. Cominciava ad avere dei ripensamenti su quello che stavano facendo. Era tutto il giorno che aveva voglia di attaccare briga, ma adesso che si stava profilando una rissa, non sembrava che le cose si mettessero bene per loro. «Ciao, Alice», disse Billy. «Ciao, Billy», rispose freddamente Alice. «Bella festa.» Lei fece un sorriso forzato e se ne andò. Tommy Cooper la raggiunse e le parlò a voce bassa. C'erano quattro ragazzi alle sue spalle. Due erano del loro liceo. Gli altri due Bobby non li conosceva, ma avevano l'aria da duri. Alice sembrava sconvolta. Bobby la sentì dire qualcosa come «Non voglio guai», poi vide Tommy e gli altri oltrepassarla e dirigersi verso di loro. «Alice dice che non vi ha invitati, Coolidge.» Billy si stava servendo un altro bicchiere di punch, dando di proposito le spalle a Cooper. «No, in effetti. Abbiamo sentito che c'era una festa, e abbiamo deciso di fare un salto.» «Bene, adesso perché non fate un salto fuori di qui?» Billy si girò. Stava sorridendo. Bobby gli aveva già visto quel sorriso, e si mise di traverso per essere più difficile da colpire. «E tu perché non vai a farti fottere?» Cooper sembrò incerto sulla sua prossima mossa. Nel salone era sceso il silenzio. «Sentite...» cominciò, ma non ebbe il tempo di continuare. Uno dei due tipi che Bobby non conosceva si era fatto avanti. Era alto come Billy e Bobby, sul metro e ottanta, con un fisico asciutto e muscoloso. Aveva i capelli tagliati cortissimi come i marines e somigliava a Cooper. L'altro sconosciuto era più alto dei Coolidge, ma era grasso e sembrava fuori forma. «Basta con le chiacchiere, stronzetto», il tipo che somigliava a Cooper apostrofò Billy. «Adesso voi due ve ne andate o vi sbatto fuori a calci in culo.» «È meglio che gli dai retta, Billy», suggerì Tommy. «Mio fratello è in licenza dall'esercito.»
Il pesante scarpone di Billy colpì il fratello di Tommy all'inguine. Mentre il marine si piegava in due, Bobby lo colpì alla tempia con un destro. I ragazzi che spalleggiavano Tommy furono troppo sorpresi per muoversi. Billy ci aveva contato. Ne approfittò per gettare il bicchiere di punch in faccia a Tommy Cooper e dargli un pugno nello stomaco. Il ragazzo grasso fu il primo a reagire. Era inaspettatamente veloce e mise tutto il suo peso dietro un destro che esplose contro la testa di Billy, scaraventandolo all'indietro sul tavolo dei rinfreschi. Bobby colpì il tipo grasso, ma il suo pugno non ebbe grande effetto, e altri due ragazzi gli furono addosso, atterrandolo. Non lo picchiavano: si limitavano a tenerlo fermo. «Ha un coltello!» gridò qualcuno. Bobby non poteva vedere molto dal pavimento. Il ragazzo grasso si spostò nel suo campo visivo, e sentì suo fratello gridare: «Fatti avanti, figlio di puttana, che ti apro in due». «Smettetela!» stava strillando Alice Fay. «Lasciate andare mio fratello e ce ne andiamo da questo posto di merda.» «Lasciatelo», disse Alice, e i due ragazzi che trattenevano Bobby mollarono la presa. Billy era in piedi con la schiena rivolta al tavolo e il coltello in mano. Il ragazzo grasso impugnava una bottiglia di Coca-Cola rotta. «Andiamocene da qui», disse Bobby. Gli spettatori si fecero da parte mentre i due fratelli arretravano verso la porta. Esther era già sul portico. Sembrava terrorizzata. I ragazzi uscirono sul portico per guardarli mentre andavano verso la macchina. Esther salì di dietro e Billy si mise alla guida. Billy aveva la faccia contratta. Bobby poteva vedere una vena pulsare nella sua tempia. «Bastardi», ringhiò Billy in tono teso e tagliente. «Per una volta vorrei essere trattato come un essere umano da quei fottuti figli di puttana.» «Te la sei cercata», fece Esther. Billy inchiodò l'auto pigiando bruscamente sul freno e si girò di scatto sul sedile, puntando un dito rigido di fronte agli occhi sbarrati di Esther. «Chiudi la bocca o te la chiudo io a sberle. Ti piacerebbe essere come quei manichini, vero? Be', non sono altro che schifose sanguisughe che vivono dei quattrini di papà. Nessuno di loro vale la merda che mi esce dal culo. E un giorno o l'altro...» La sua voce si spense nell'oscurità. Le lancette illuminate dell'orologio sul cruscotto segnavano le dieci e venti.
Elaine Murray si controllò i capelli e il rossetto un'ultima volta prima di lasciare la toilette del cinema Paramount. Andare al bagno era stata solo una scusa per allontanarsi qualche momento da Richie. Aveva bisogno di riprendere fiato. Si sentiva stordita e fluttuante. Non aveva visto granché del film. Ricordava soltanto le braccia forti di Richie attorno a lei e la passione dei suoi baci. Si erano seduti nell'ultima fila della galleria, e appena si erano spente le luci aveva sentito il suo braccio scivolarle dietro le spalle. Poi si era lasciata trasportare dal suo ardore e non aveva capito più niente, eccetto che, verso la fine del film, lui le aveva sussurrato che l'amava, e lei per poco non aveva gridato per la gioia. Quando le luci si erano riaccese gli aveva detto che aveva bisogno di rinfrescarsi e si era rifugiata nella toilette, dov'era rimasta seduta a respirare profondamente finché aveva ripreso il controllo delle proprie emozioni. Richie la stava aspettando nell'atrio. Si sentiva felice e incerto su che cosa dire ora che le aveva confessato quello che provava per lei. Elaine lo prese per mano e uscirono insieme dal cinema. I marciapiedi erano gremiti di gente a passeggio e le strade intasate di auto truccate che strombazzavano e facevano rombare il motore. Il centro di Portsmouth il venerdì e il sabato sera si trasformava in una passerella dove chiunque poteva esibirsi. Richie ed Elaine camminarono senza fretta nonostante l'aria fredda. C'era un gruppo di ragazzi vicino all'auto di Richie, e tra loro riconobbero Matt Shaw e Rudy Pegovich. Si fermarono a parlare, ma Elaine sperò che se ne andassero in fretta. Presto Richie li salutò e le aprì la portiera. Si sentiva fiera di sedere nella sua macchina. Tutta la scuola ne parlava. Lei non ne capiva molto di macchine, ma sapeva che il motore era potente e in gara non la batteva nessuno. Aveva già fatto delle corse con lui parecchie volte, ed era sempre stata eccitata dalla velocità dell'auto e dall'audacia di Richie. Mentre si immergevano nel traffico si accoccolò contro di lui. «Vuoi mangiare qualcosa?» le domandò il ragazzo. «Non ho fame», rispose lei, sognante. Richie fu stimolato dalla dolcezza della sua voce. Le passò il braccio destro intorno alle spalle, guidando solo con la mano sinistra, e la baciò quando si fermarono a un semaforo. «Ti va di fare un giro al Belvedere?» propose sapendo già quale sarebbe stata la sua risposta. Lei non disse niente, ma si strinse un po' di più contro di lui. La macchina imboccò Monroe Boulevard, che portava fuori città verso il Belvedere, la vasta area boscosa sulle colline chiamata Lookout Park dalla commis-
sione cittadina per i parchi e meglio nota come «il posto delle coppiette» per chiunque altro. Il parco era molto esteso, con parecchie zone appartate che di giorno venivano usate per i picnic e di notte per fare l'amore. «È così bello stanotte, Richie», mormorò Elaine. Lui avrebbe voluto dirle che era lei a essere bella, ma non ci riuscì. Nonostante l'intimità che avevano raggiunto, si sentiva ancora la lingua bloccata. Aveva così poca esperienza con le ragazze, e aveva paura di dire la cosa sbagliata, o dire la cosa giusta in un modo che suonasse fasullo. Esalare quel «ti amo» al cinema gli era costato maggiore sforzo di qualunque impresa avesse mai compiuto sul campo da football. Invece di parlare, la strinse di più, e lei gli aderì ancora un po' contro il fianco, dandogli un bacetto sulla guancia. Lui cambiò leggermente posizione per adattarsi a lei, e sentì il preservativo che aveva messo nel portafoglio premergli contro la natica. Ne aveva comprato una confezione da un farmacista che lo aveva guardato con un sogghigno. Non lo aveva mai fatto prima, ed era stata un'esperienza molto imbarazzante. Pensandoci, probabilmente avrebbe anche potuto risparmiarsela. Elaine era troppo una brava ragazza per andare fino in fondo. Finora lo aveva tenuto a bada con affettuosi ma fermi no. Ma questo prima che lui le dicesse di essere pronto a impegnarsi. Sarebbe cambiato qualcosa, adesso? Richie ne aveva quasi paura. Era stato soltanto con un'altra ragazza, l'anno prima. C'era stata una festa dopo che avevano vinto il campionato. Una delle ragazze si era ubriacata, e lui e altri tre ragazzi avevano fatto sesso con lei. Richie non aveva fatto una gran bella figura, venendo quasi subito. Non era stato quello che si aspettava. Era sicuro che il sesso sarebbe stato diverso con qualcuno che amava. Monroe Boulevard era deserto a quell'ora di notte. Richie ed Elaine si accorsero della macchina che si era affiancata alla loro a un semaforo rosso soltanto quando fece rombare il motore. C'erano due uomini seduti davanti e una ragazza sul sedile posteriore. Elaine non riusciva a vedere chiaramente le loro facce. Al verde, l'altra macchina partì con una sgommata, lanciandosi in avanti. Richie sorrise a Elaine. Era grato per la distrazione. L'altra macchina si fermò al semaforo successivo, benché fosse verde. Richie si affiancò e il semaforo diventò rosso. Elaine diede una stretta al muscolo del braccio destro di Richie e si scostò per lasciargli spazio. Lo adorava quando era così. Sedeva con la schiena dritta, appena proteso in avanti. La sua mano destra era pronta sul cambio, ma non contratta. La sua espressione era concentrata, ma non nervosa.
Scattò di nuovo il verde. Entrambe le macchine sembrarono balzare in avanti, procedendo fianco a fianco in uno stridio di gomme. Poi la Mercury si portò leggermente in testa. Il lungo rettilineo di Monroe Boulevard si stendeva davanti a loro, senza altri semafori per parecchi isolati. La macchina che li aveva sfidati perse altro terreno, poi con uno scatto rimontò lo svantaggio. Richie premette l'acceleratore a tavoletta. Stava passando di nuovo avanti, quando l'altra macchina sterzò verso di loro. Ci fu uno stridore metallico, e la Mercury sbandò di lato. Elaine strillò e Richie lottò per non perdere il controllo. «Bastardi», imprecò quando si fu rimesso in carreggiata. «Che è successo?» «Quel figlio di puttana ci è venuto addosso. Adesso gli faccio vedere io con chi sta scherzando.» L'altra macchina li aveva lasciati indietro di parecchio, ma sembrava avere un po' rallentato, come sfidando Richie a riprenderla. Elaine non aveva mai visto Richie così torvo. «Non inseguirli, Richie. Lasciali andare. Ti prego.» «Nessuno può fare certi giochetti con me, Elaine.» La Mercury si lanciò in avanti, e quando stava per affiancarsi di nuovo l'altra macchina sterzò nella loro corsia. Richie reagì con prontezza, scartando lateralmente per poi passare di nuovo nell'altra corsia, tagliando la strada agli avversari. Stavolta fu l'altra auto a sbandare. Slittò su un tratto di asfalto bagnato e andò via di coda. Il guidatore cercò di riprendere il controllo, ma la macchina si mise di traverso, puntando verso il marciapiede. Elaine, a bocca aperta, guardò attraverso il lunotto posteriore l'auto sbattere contro un palo del telefono, rimbalzare via e poi fermarsi con una violenta frenata, con il muso rivolto nella direzione da cui era venuta. Richie diede gas per aumentare la distanza tra le due macchine. Mentre la Mercury correva via, Elaine fece in tempo a vedere una traballante figura in giubbotto di pelle nera e jeans aderenti uscire dall'auto finita fuori strada. Richie cominciò a ridere, e rise anche lei, quasi istericamente. Era la reazione alla tensione. «Hai visto che testacoda, quel somaro?» fece Richie. Lei gli diede un bacio, sentendo il cuore gonfio di orgoglio al pensiero di essere la sua ragazza.
La Mercury si inoltrò tra le colline, seguendo una delle strade lastricate che serpeggiavano attraverso il parco, poi imboccò una stradina sterrata che terminava in un prato circondato da sempreverdi. Richie fermò la macchina in fondo al prato. Spense i fari, ma lasciò acceso il riscaldamento. Elaine si era tolta la giacca, mettendola sul sedile posteriore. Richie la guardò al chiarore pallido delle stelle. Gli batteva forte il cuore, ed era così nervoso che aveva paura che la voce lo tradisse. «Elaine, questa sera ti ho chiesto di uscire per un motivo speciale», cominciò. Erano rivolti l'uno verso l'altra, e lui aveva messo le mani su quelle di lei. Aveva provato e riprovato quella frase, ma ora la sua voce suonava strana, e le parole gli uscivano terribilmente stentate. «Elaine, vuoi... vuoi essere la mia ragazza?» Ecco! Lo aveva detto. Elaine pensò che le sarebbe scoppiato il cuore. Non riuscì a parlare. Invece, gli gettò le braccia al collo e si mise a piangere. Lui la baciò e lei aprì la bocca. Le loro lingue si incontrarono. Quando si separarono, Richie si sfilò l'anello e lo offrì a Elaine. Lei lo prese e se lo rigirò tra le mani. Lui le accarezzò una guancia e la trasse a sé. Stavolta i suoi baci furono gentili. Elaine si sentì scivolare lungo il sedile mentre la mano di Richie si insinuava sotto il suo maglione e le si chiudeva sul seno. Inarcò la schiena e gli carezzò il collo e l'orecchio. Quando lui cominciò a sbottonarle la camicetta non gli oppose resistenza come aveva sempre fatto. Richie aveva il respiro affannato. Riuscì ad avere la meglio sui bottoni senza troppa difficoltà. Lei era completamente rilassata, cedevole. Richie le accarezzò un capezzolo attraverso il reggiseno. Poi la sua mano si fece strada dietro la sua schiena, e lei si spostò leggermente per rendergli più facile aprire il gancio. Era estasiata, spaventata e calma allo stesso tempo. Nessun uomo le aveva mai toccato il seno nudo. Era terrorizzata dall'effetto che le sue mani forti avrebbero potuto avere su di lei, eppure desiderava che la stringesse, l'accarezzasse, l'amasse. Lui stava mormorando quanto l'amava. Le baciava i lobi delle orecchie con la punta della lingua. La mano di Elaine scivolò esitante lungo la sua coscia, timorosa di quello che sapeva avrebbe trovato. Lui spostò il proprio peso, e lei all'improvviso lo sentì attraverso i pantaloni. Le sue dita premettero cautamente e subito si ritrassero come cerbiatti impauriti. Le dita di Richie stavano esplorando il suo seno nudo. Elaine fu assalita da strane emozioni. Il suo pene era così grosso e duro. Se gli avesse per-
messo di metterlo dentro di lei avrebbe provato un dolore lacerante? Non le importava. Voleva che lui la facesse impazzire, come le donne nei romanzi rosa. Lo sentì slacciarle i pantaloni. «No», disse istintivamente, premendo la mano sulla sua. «Ti amo», disse lui, intrecciando le dita a quelle di lei. Le sue labbra stavano baciando la mano che aveva tentato di fermarlo. La sua mano le scivolò lungo il ventre, scendendo ad accarezzarla attraverso le mutandine. Lei ora stava gemendo. Lo voleva. Era pronta a fare qualsiasi cosa per lui. «Che cos'è stato?» Richie si era rialzato di scatto a sedere, e fissava attraverso il lunotto dell'auto. Elaine spalancò gli occhi, sorpresa. «C'è qualcuno là fuori», bisbigliò Richie. Elaine era spaventata. Nella posizione in cui si trovava poteva vedere soltanto il tetto dell'auto. Sentì Richie aprire la portiera e le arrivò una folata d'aria fredda. «Richie, non lasciarmi sola», mormorò. «Torno subito.» La portiera si richiuse silenziosamente. Elaine aveva i vestiti sottosopra. Ora sentiva anche lei il rumore là fuori. Lo scricchiolio di pneumatici sui sassolini. Una portiera si aprì e richiuse e dei passi si avvicinarono. Cercò di ricomporsi in fretta e furia. Richie era fuori della macchina. La luce dell'abitacolo era accesa, perché la portiera non si era chiusa del tutto. Non poteva permettere che qualcuno la vedesse in quello stato. Armeggiò freneticamente con il gancio del reggiseno, restando giù per non farsi scorgere. Sentì delle voci rabbiose. Una di esse era quella di Richie. Cercò di chiudersi la camicetta, presa dal panico. Nell'agitazione non riusciva a trovare le asole. Un bottone saltò via. Elaine imprecò sottovoce. Voleva tirarsi su per vedere che cosa stesse succedendo fuori, ma non poteva, senza essersi prima risistemata. Chiunque avrebbe capito che... Un forte impatto fece sussultare la macchina, e per un momento la schiena di Richie ostruì il lunotto posteriore, poi si proiettò in avanti, scomparendo nell'oscurità. Elaine si alzò a sedere. La luce interna le rendeva difficile vedere nel buio. Allungò una mano verso la portiera rimasta socchiusa, e in quel momento Richie gridò. Elaine si sentì gelare il sangue. Richie gridò di nuovo. Udì delle voci maschili grugnire per lo sforzo e qualcuno imprecò. Sbatté la portiera. Richie era in ginocchio, e due uomini in giubbotto di pelle nera gli erano addosso. Uno di loro continuava ad alzare e abbassare il braccio,
e Richie continuava a gridare. Doveva andarsene da lì. Doveva scappare. Cercò le chiavi, ma non erano nel cruscotto. Qualcuno stava gridando nel buio. Qualcuno stava correndo verso la macchina. Elaine si girò a guardare alla sua sinistra e lanciò un urlo. C'era una faccia premuta contro il finestrino. Dei pugni battevano contro la portiera. Il finestrino dall'altra parte si ruppe con uno schianto, e lei si girò di scatto. Un braccio vestito di pelle nera stava brancolando come un osceno ragno, cercando la maniglia. Si rannicchiò in posizione fetale contro la portiera del posto di guida, aggrappandosi al volante, fissando con gli occhi sbarrati. «No, ti prego», singhiozzò. «No, no...» La portiera si spalancò. 2 Gli assistenti del coroner stavano cercando di rimuovere il corpo dal sedile anteriore'della Mercury e metterlo su un telo di plastica. Il rigor mortis rendeva difficile manovrare la testa e il busto intorno all'albero del volante. Uno degli uomini provò a torcere il braccio, e Shindler si voltò dall'altra parte. Quando si accese la sigaretta, si accorse che gli tremava la mano. Shindler era poliziotto da sei anni, e detective della Omicidi da tre. Ormai avrebbe dovuto essere abituato alle scene di violenza, ma questo era veramente troppo. Harvey Marcus, il compagno di Shindler, stava davanti al telo di plastica, guardando senza battere ciglio il macabro scenario. Shindler si domandava come facesse a mantenersi così impassibile. Quando lui aveva visto il cadavere nella macchina, si era dovuto mordere il labbro per controllarsi. La faccia era ridotta a una poltiglia sanguinolenta, il corpo martoriato di ferite. Shindler fece per gettare in terra la sigaretta, poi ci ripensò. Non bisognava inquinare le prove, si disse con una smorfia. Spense il mozzicone e se lo mise nella tasca dell'impermeabile. «Credo che sia stato più d'uno, Roy», gli disse Marcus. «Cosa?» «Dicevo, penso che sia stato ucciso da più di una persona.» «Credo proprio di sì. Cristo, Harvey, hai visto la sua faccia?» Marcus non rispose. Non c'era da vedere nessuna faccia, in senso convenzionale. Un ragazzo così giovane, pensò Shindler. Qualcuno avrebbe
pagato. «Immagino che uno lo abbia accoltellato, e poi un altro lo abbia colpito da dietro. Probabilmente con lo stesso oggetto usato per sfondare il finestrino dell'auto.» «Una chiave inglese?» «Può darsi.» Girarono intorno alla Mercury, tra un andirivieni di agenti che si davano da fare con macchine fotografiche, metri, taccuini e sacchi di plastica. «A sei o sette metri da qui il terreno presenta segni di colluttazione, e su un sasso c'è del sangue che non è stato lavato via dalla pioggia durante la notte.» Shindler cercò di immaginare come qualcuno avesse potuto trascinare un corpo così straziato e ancora caldo per sei o sette metri e caricarlo sulla macchina. Lui non ne sarebbe stato capace. Il solo pensiero lo faceva rabbrividire. «Perché pensi che lo abbiano spostato?» «Occultamento. Sarebbe passato più tempo prima che venisse scoperto.» Un giovane agente appoggiò un sacco di plastica al cofano della macchina, lanciando occhiate nervose al cadavere. Era stato lui a trovare il corpo insanguinato sul sedile anteriore della Mercury, durante un normale giro di pattuglia per il parco insieme a un collega più anziano, ed era visibilmente scosso. «La scientifica ha già fatto i rilevamenti?» lo apostrofò seccamente Marcus, indicando il cofano. L'agente trasalì, distogliendo lo sguardo dal cadavere. «Sì, signore.» «Che c'è nel sacco?» «Alcuni oggetti che abbiamo trovato nell'auto.» Marcus aprì il sacco e sbirciò dentro. Il suo sguardo si fermò sulla borsetta. «Dove l'avete trovata questa?» «Era sotto il sedile anteriore. E sul sedile posteriore c'era una giacca da donna.» Marcus fece per dire qualcosa, ma fu interrotto da un agente in uniforme. «C'è una donna che potrebbe avere visto qualcosa. Si chiama Thelma Pullen e abita al margine del parco, vicino all'entrata da Monroe Boulevard.» Marcus e Shindler seguirono l'agente verso un gruppo di auto della polizia al bordo del prato. Un giovane agente era intento a prendere appunti su
un taccuino mentre parlava con una donna di mezz'età che lanciava continuamente occhiate nervose in direzione dell'ambulanza e del cadavere. «Signora, io sono Harvey Marcus, e questo è il mio collega Roy Shindler. Sembra che lei abbia delle informazioni da darci.» «Sì... ecco, non so se è niente di importante, ma stamattina ho sentilo del... del delitto alla radio, e ho pensato che forse vi poteva essere utile...» Si fermò, spostando lo sguardo da Marcus a Shindler, aspettando un segno di approvazione. «Apprezziamo molto il suo aiuto, signora», la incoraggiò Marcus. «Ora, ci dica qualunque cosa lei abbia visto o sentito.» «Be', io abito vicino all'entrata del parco. Il mio cortile posteriore sconfina nei boschi del parco, e ogni tanto subiamo delle incursioni nella nostra proprietà. Per lo più ragazzi, ma abbiamo avuto anche due furti. Mio marito fa il rappresentante, ed è spesso via per lavoro, e io non mi sentivo tranquilla a stare qui da sola. Così alla fine abbiamo preso due cani da guardia. Pastori tedeschi. «L'altra notte mi sono svegliata perché i cani abbaiavano. Li tengo legati, ma il guinzaglio è lungo e quindi sono abbastanza liberi di muoversi per il cortile. Comunque, mi sono alzata e ho guardato fuori, e ho visto una ragazza scappare. Era buio, e quando mi sono affacciata era quasi fuori della proprietà, ma sono sicura che fosse una ragazza, e sembrava che fosse uscita dal bosco. Almeno, stava correndo nella direzione opposta.» «A che ora è successo, signora Pullen?» domandò Shindler. «Non saprei dirle, di preciso. Non ho guardato l'orologio. Ma ero andata a letto a mezzanotte, quindi è stato sicuramente dopo.» «Bene. Grazie molte, signora Pullen. Ora, se non le spiace, dovrebbe rilasciare una dichiarazione dettagliala all'agente. Apprezziamo che lei si sia presa il disturbo di venire qui. Se ci fossero più cittadini come lei, il nostro lavoro sarebbe più facile.» La donna arrossì e si strinse nelle spalle. «Ho solo pensato che potesse servire.» Tornando alla vettura, Marcus e Shindler si avvicinarono a un uomo basso e snello in abiti civili. «Giannini, hai finito di controllare la macchina?» gli domandò Marcus. «Sì.» «So che avete trovato una borsetta e una giacca da donna. C'era nient'altro che faccia pensare che Walters fosse in compagnia di una ragazza?» «Temo di sì», rispose Giannini. «C'era un bottone che ha tutta l'aria di
essersi staccato da una camicetta femminile sul sedile anteriore, e un pezzo di unghia con dello smalto sotto il volante.» Giannini tornò al suo lavoro e Shindler scosse la testa. «Così, c'era anche una ragazza.» «Sembra logico. Se no che ci faceva qui un bel ragazzo come Walters un venerdì sera?» «Ma allora dov'è?» Shindler si rivolse a un agente: «C'erano documenti nella borsetta?» «Sì, signore. La borsa appartiene a una certa Elaine Murray.» Shindler ci rimuginò su per un momento, poi infilò la testa nella macchina e aprì lo scomparto del cruscotto. Dentro c'erano alcune cartine stradali e una confezione di preservativi. Ricordò che il ragazzo ne aveva uno nel portafoglio. «Non pensi che possa averlo ucciso la ragazza, vero?» domandò a Marcus. «Tutto è possibile, ma avrebbe avuto bisogno di aiuto.» «E se lei non era coinvolta...» «Allora, mio giovane amico, abbiamo qualcosa di più di un omicidio», concluse Marcus. Harvey Marcus era nella polizia da diciotto anni. Quando Shindler era stato trasferito alla Omicidi, Marcus lo aveva preso sotto la sua ala. Il giovane detective era così timido e goffo, e sembrava smarrito in quel suo grande corpo sgraziato. Loro due lavoravano in coppia ormai da tre anni, e Shindler per lui era ancora un mistero. Marcus aveva notato la sua reazione emotiva alla vista del corpo del ragazzo. Ne era rimasto sorpreso, tuttavia quadrava con il carattere di Shindler, che aveva imprevedibili sbalzi di umore ed era capace di passare in un attimo da un'intensa emotività alla più gelida razionalità. Shindler era un uomo solitario. Era scapolo. Un poliziotto ventiquattr'ore su ventiquattro, ma sapeva essere affascinante quando il suo lavoro lo richiedeva. «Siamo arrivati», annunciò Marcus. I Walters vivevano in un ranch ai margini della città. La grande casa a due piani era bianca, costruita in mattoni, e incorniciata da un prato magnificamente curato e ombreggiato qua e là da qualche albero. Shindler parcheggiò la macchina e i due percorsero il vialetto lastricato in ardesia che conduceva alla porta d'ingresso.
Una donna sulla quarantina dall'aspetto giovanile venne ad aprire. Shindler si sentì stringere lo stomaco e gli si seccò la gola. Dopo tutte le volte che lo aveva fatto, non aveva ancora trovato un modo facile per informare i sopravvissuti delle loro perdite. «La signora Walters?» «Sì», rispose lei attraverso la zanzariera. «Sono il detective Shindler», si presentò, mostrando il distintivo, «e questo è il detective Marcus. Siamo della polizia di Portsmouth.» Nell'arco di un secondo, la faccia della donna mostrò paura, speranza e sconcerto. Fece un passo indietro e li invitò a entrare. «Si tratta di Richie? Lo avete trovato?» «Sì, signora. Suo marito è in casa?» «Certo. Vado a chiamarlo.» Si allontanò di qualche passo lungo un corridoio rivestito di moquette azzurro polvere e chiamò il marito. Shindler lanciò uno sguardo nel soggiorno. L'arredamento era moderno ed elegante, tutto giocato su tenui sfumature di giallo e azzurro. C'era un divano che aveva l'aria di essere comodo. La donna ne avrebbe avuto bisogno, una volta saputo il motivo della visita. «Possiamo sederci?» domandò. In un angolo c'era un mobile bar. Utile anche quello. «Signora Walters, dov'è andato suo figlio ieri sera?» Prima che lei potesse rispondere, un uomo alto e magro con una calvizie incipiente e un atteggiamento affabile e sicuro di sé entrò dal corridoio. Era un uomo abituato a comandare. Tuttavia, pensò Shindler, quel mattino la sua sicurezza doveva essere simulata. Non poteva rimanere tranquillo sapendo della scomparsa del figlio. I due investigatori si alzarono. «Caro, questi sono il detective Shindler e il detective Marcus. Sono venuti per Richie.» C'era una nota ansiosa nella voce della donna. Il signor Walters diede la mano a entrambi. La sua stretta era decisa. Uomo d'affari o avvocato, immaginò Shindler. Sembrava in grado di controllare sia il proprio dolore sia quello della moglie. «Apprezzo molto la vostra sollecitudine.» Marcus lo guardò perplesso. «Prego?» «Abbiamo denunciato la scomparsa di Richie soltanto un'ora fa», spiegò il signor Walters.
«Capisco. Quando ha visto suo figlio l'ultima volta, signor Walters?» «Ieri sera. Aveva un appuntamento ed è uscito intorno alle otto.» Il signor Walters fece una pausa. Per la prima volta, un guizzo di dubbio si insinuò nella sua sicurezza. «Qualcosa non va? Ha avuto un incidente?» Non immaginano mai il peggio. Non ti chiedono mai se è morto. Sondano giusto un po', ma non vogliono realmente sapere. «Con chi era vostro figlio?» «Con la sua ragazza, Elaine Murray. Dovevano andare al cinema. Richie spesso rincasa tardi, il venerdì sera, e non lo sentiamo rientrare. Stamattina pensavo che stesse dormendo, e non ho voluto disturbarlo. Lui chiude sempre la porta della sua camera, quando dorme, così non avevo modo di sapere se fosse rientrato. Poi ho guardato, e ho visto che il letto era intatto.» La signora Walters smise di parlare. A un certo punto durante il discorso la sua mano si era intrecciata con quella del marito e i due si erano fatti un po' più vicini. «Perché avete chiamato la polizia? Non è ancora passato un giorno da quando è uscito.» Il signor Walters sembrò sollevato. «Lo dicevo a Carla che avremmo dovuto aspettare.» Carla Walters si volse verso il marito. Stava cominciando a pensare che avesse avuto ragione lui, che la sua fosse stata una reazione eccessiva. «Io... be', forse sono troppo apprensiva», disse, come per giustificarsi. «Ma ho chiamato i Murray, e nemmeno Elaine è tornata a casa.» «Capisco», annuì Shindler. Ora veniva la parte difficile. Non poteva più tergiversare. Cercò di pensare a un modo diplomatico per dare l'annuncio. Non ce n'era nessuno. «Temo di avere delle pessime notizie per voi.» Poteva immaginare quello che stavano provando in quel momento. La stessa vertigine che lui aveva provato anni prima, seduto in soggiorno con la sua famiglia mentre un detective calvo e con gli occhi stanchi aveva detto che Abe era morto. Si era sentito inghiottire dallo stesso vortice che ora stava inghiottendo i Walters. Shindler posò il referto dell'autopsia sulla scrivania di Marcus e prese una sedia. La sezione Omicidi del dipartimento di polizia di Portsmouth non era diversa da qualunque altra divisione investigativa. Era una grande stanza asettica piena di vecchie scrivanie di legno alle quali sedevano uomini delle più svariate dimensioni e forme. La sola cosa che li accomu-
nasse era il cinismo. «È tutto qui dentro. Ho fatto due chiacchiere con Beauchamp, e lui pensa che siano state almeno due persone, con due armi diverse.» Shindler prese in mano il fascicolo. L'autopsia era stata eseguita dal dottor Francis R. Beauchamp, il medico legale della contea. Aveva riscontrato una frattura depressa al cranio e ferite multiple da taglio e da punta, più varie abrasioni in diverse parti del corpo che indicavano una dura colluttazione. C'erano anche contusioni intorno allo scroto. La frattura del cranio era stata provocata da uno strumento smussato. Le ferite da punta, venti in totale, erano lunghe circa un centimetro e mezzo e larghe tra i trenta e i sessanta millimetri. Alcune erano profonde da sette centimetri e mezzo a nove, dove la lama era penetrata nel diaframma. La morte era dovuta a un'emorragia interna nella cavità toracica sinistra causata da una ferita da punta che aveva perforato il polmone. «Secondo Beauchamp, la coltellata letale è stata inferta da davanti mentre Walters era in piedi.» «E la frattura alla testa?» «Dopo. Quando era già a terra.» «Vuoi dire che lo hanno colpito a quel modo quando era già morto?» Marcus annuì. «Con che razza di animali abbiamo a che fare, Harvey?» «La peggiore, Roy. Vedi dove dice della frattura depressa? Beauchamp mi ha spiegato che ci sono due diversi tipi di frattura: quella lineare, in cui il cranio è semplicemente spaccato o incrinato, e quella depressa, in cui il cranio è spinto fisicamente nel cervello, come un melone schiacciato. Gli assassini si sono accaniti su Walters ben più del necessario. Dovevano sapere che era morto, eppure lo hanno colpito alla testa in diversi punti. C'era una lesione lacero-contusa sopra l'orecchio sinistro così ampia che si poteva vedere il cervello attraverso la ferita, e da un'altra addirittura fuoriusciva la materia grigia.» Marcus parlava con voce bassa e secca. Shindler stava ripensando alla testa del ragazzo, come l'aveva vista sul luogo del delitto. Tutto questo gli era stato fatto dopo che era morto. Poi lo avevano preso e messo nella macchina. «La ragazza non è stata ancora trovata?» domandò in tono spento. Marcus scosse la testa. «Quel parco ha un'estensione di quasi seimila acri, ed è tutto boschi e cespugli, per non parlare delle centinaia di burroni invasi dalla vegetazione e i canali sotterranei. Se è morta e l'hanno nasco-
sta là da qualche parte, potremmo non trovarla mai.» Il telefono suonò. Shindler rispose, grato della distrazione. Era la centralinista. «C'è un certo signor Shultz che dice di avere informazioni sull'omicidio di Richie Walters. Glielo devo passare?» C'era stato il solito assalto di telefonate di mitomani che la polizia riceveva ogni volta che un omicidio veniva reso pubblico, ma Shindler non intendeva trascurare alcuna possibile pista. «Sì, Margie, passamelo pure.» Si sentì un clic, poi una voce maschile: «Pronto?» «Signor Shultz? Sono il detective Roy Shindler. Mi dica.» «Ecco», cominciò l'uomo, un po' esitante, «non so se vi può servire, ma mia moglie ha detto di chiamare. Venerdì sera siamo andati a cena in un ristorante vicino a Monroe Boulevard. Abbiamo finito tardi, verso le undici e mezzo. Mentre stavamo tornando alla macchina, che avevamo parcheggiato sul viale, abbiamo visto due auto che stavano facendo una gara. Una delle due mi è rimasta impressa. Sa, era una di quelle auto personalizzate... si dice così, mi pare. Dava nell'occhio. L'altra, non saprei. Non ci ho fatto molto caso. Stamattina ho letto dell'omicidio al parco, e la macchina che ho visto somiglia a quella descritta dai giornali. Se potessi vederla, saprei dire con certezza se è la stessa.» «Possiamo mandare un agente a prenderla, se per lei va bene.» «Certo. Ma non è tutto. La macchina rossa, quella che mi ricordo, ha mandato l'altra fuori strada.» «L'ha mandata fuori strada, dice?» «Sì. Non so bene come sia successo. Non stavamo guardando, ed eravamo a diversi isolati di distanza. Ma abbiamo sentito un botto, e l'altra macchina, quella scura, si era girata nella nostra direzione. Non doveva avere subito grossi danni, però, perché è ripartita quasi subito.» «Bene, la ringrazio molto, signor Shultz. Ci ha dato delle informazioni importanti. Manderò un agente a prenderla. Grazie di nuovo.» Giannini li aveva chiamati in laboratorio un quarto d'ora dopo la telefonata del signor Shultz. Voleva mostrare loro qualcosa che era stato trovato sul luogo del delitto. «Prima le cose minori», cominciò. «Non c'erano impronte sull'auto, né dentro né fuori. È stata ripulita piuttosto accuratamente. Abbiamo trovato un calzino da uomo sotto la macchina, e un altro vicino al punto in cui la
strada sterrata entra nel prato. C'erano delle fibre corrispondenti ai calzini sotto le spazzole dei tergicristallo. Suppongo che l'assassino li abbia usati per cancellare le impronte, infilandoli come guanti.» «C'è modo di rintracciare una persona per mezzo delle calze?» «Oh, lo sappiamo di chi erano i calzini. Walters era a piedi nudi. Ho già mandato qualcuno a mostrarli alla famiglia. Erano i suoi.» Giannini abbassò lo sguardo sul foglio che aveva in mano. «Poi, pare che il movente non fosse la rapina. C'erano trenta dollari nel portafoglio del ragazzo e venti nella borsetta. Oltre a una macchina fotografica piuttosto costosa sul sedile posteriore.» «Dicevi di avere qualcosa di importante per noi», lo pungolò Shindler. «Infatti.» Giannini si avvicinò a un archivio e frugò in uno dei cassetti di acciaio. «Uno dei miei uomini ha trovato questa roba tra i cespugli vicino alla base della collina che scende dal prato alla strada lastricata.» Shindler aveva un'idea approssimativa del posto. La strada sterrata saliva a serpentina da quella lastricata per un tratto, poi proseguiva diritta attraverso il prato. Se non si passava per la strada, scendendo in linea retta si incontrava una scarpata a tratti piuttosto ripida e coperta di sterpaglie. Giannini estrasse tre oggetti da una busta di carta marrone e li posò sul tavolo: un accendino, un pettine blu a coda e un paio di occhiali femminili in plastica e metallo. Avevano le stanghette di filo metallico giallo-oro e la montatura a farfalla, di plastica rossiccia sopra e giallo-oro sotto. La parte superiore si incurvava in su alle estremità e le punte erano ornate di Strass. L'optometrista stava giusto infilando la chiave nella serratura quando Marcus lo raggiunse nel corridoio dello stabile dove aveva lo studio. «Dottor Webber? Sono il detective Marcus. Mi scuso per averla disturbata nel suo giorno libero, ma è una questione molto importante.» «Nessun disturbo. Non stavo facendo niente di particolare, e questo movimenterà un po' la mia routine. Entri, la prego.» Il medico accese le luci e precedette Marcus attraverso una piccola sala d'attesa, dalla quale passò in un grande studio con scaffali carichi di volumi di consultazione. Si sedette dietro una scrivania ingombra di carte e invitò Marcus ad accomodarsi su una poltroncina. «Greg Heller mi ha detto che lei lo ha aiutato in un caso di furto qualche anno fa.» «Oh, quello.» Webber sorrise. «Sì. Aveva bisogno di rintracciare una persona per mezzo di un paio di occhiali e gli ho spiegato come fare.»
«Io ho lo stesso problema di Greg, ma la situazione è molto più urgente. Immagino che abbia letto del ragazzo ucciso al Belvedere sui giornali del mattino.» «Il figlio dei Walters. Terribile. La sua famiglia è della mia stessa parrocchia. Non li conosco bene, ma il ragazzo godeva di grande stima.» Finora, il quadro generale era quello. Nessuno che avesse da dire qualcosa di negativo su Richie Walters. «Quello che sto per dirle deve restare fra noi. Presto dovremo rendere pubblica la notizia, ma finché è possibile non deve trapelare nulla.» «Può contare sulla mia discrezione.» «C'era una ragazza insieme a Walters, ed è scomparsa. Stiamo perlustrando i boschi e non vogliamo curiosi in cerca di emozioni forti a intralciare le indagini. Inoltre, se è ancora viva, potrebbe trattarsi di un rapimento, e allora è meglio che chi l'ha presa abbia modo di prendere contatto con la famiglia prima che la notizia venga divulgata. «Finora, abbiamo un unico indizio per arrivare alle persone coinvolte: un paio di occhiali da donna. Speravo che lei potesse dirmi come risalire a chi li ha persi.» «Volentieri, ma non sarà una cosa semplice, né rapida. Li ha portati con sé?» Marcus tirò fuori una busta dalla tasca del soprabito e porse gli occhiali al medico. «Gli occhiali da vista sono un po' come le impronte digitali», disse il dottor Webber, rigirandoli tra le mani. «È altamente improbabile trovare due persone con prescrizioni e montature identiche. Ci sono quattro parametri di cui tenere conto, per quel che riguarda le lenti: la curvatura di base, la sfera, il cilindro e l'asse. Nel mio laboratorio ho un apparecchio che somiglia a un microscopio chiamato Lensometer con cui posso esaminare queste lenti per ottenere la prescrizione. «E poi, naturalmente, c'è la montatura. Questa è una American Optical, modello Gay Mount. Vede, è stampato qui, all'interno della stanghetta. E anche la misura varia da persona a persona. Questa è una 46-20. Quindi, ha un altro dato da prendere in considerazione.» «Magnifico. Le sarei grato se potesse farmi avere quella prescrizione.» Il dottor Webber si ritirò in una stanza adiacente per cinque minuti. Quando tornò porse a Marcus un foglio con una serie di numeri. «Qui ci sono tutte le informazioni che le servono. Dovrà fare circolare la prescrizione tra gli optometristi e chiedere di controllare se nei loro sche-
dari ce n'è una che coincida. La ricerca richiederà un certo tempo, temo. Vorrei che ci fosse un sistema più rapido.» «Lo vorrei anch'io, dottore, ma al momento non abbiamo alternative.» 3 Tre giorni dopo la morte di Richie Walters, l'inverno iniziò con inatteso rigore. La temperatura crollò bruscamente verso lo zero. La gente cominciò a chiudersi in casa; il vento e la neve fecero lievitare il prezzo della legna da ardere. E in mezzo a tutto questo, le squadre di ricercatori continuarono a battere quotidianamente il parco. La notizia della scomparsa di Elaine Murray fu pubblicata dai giornali il lunedì mattina. Il corpo dei marines e la guardia costiera misero a disposizione centoventicinque uomini per le ricerche e i boy-scout ne radunarono altri quaranta. Durante i primi giorni il tempo era ancora clemente e la zona circostante il prato pullulava di curiosi. La storia campeggiò per diverso tempo sulle prime pagine dell'Herald di Portsmouth, e molti giornali della costa orientale riportarono la notizia dell'omicidio del «posto delle coppiette» e della caccia alla ragazza scomparsa. Dalle indagini non emersero nuovi indizi e la sola reale traccia, gli occhiali, fu tenuta nascosta al pubblico. Il 28 dicembre 1960 le ricerche di Elaine Murray furono ufficialmente interrotte. Poi, con il 1961, l'insediamento di un nuovo presidente degli Stati Uniti e altri avvenimenti più attuali fecero presa sull'immaginario pubblico e il caso Murray-Walters arretrò sempre di più nelle pagine dell'Herald fino a scomparirne del tutto. Roy Shindler aveva allungato scompostamente il suo metro e novantacinque di statura sulla sua poltrona preferita. Aveva un libro appoggiato a faccia in giù sul grembo, e fissava come ipnotizzato la pioggia fredda e scrosciante che batteva contro la finestra del soggiorno del suo piccolo bilocale. L'appartamento era pulito, ma piuttosto caotico. Shindler tentava di mantenere l'ordine, ma spesso falliva per mancanza di interesse. Il detective era nato e cresciuto a Portsmouth, nella sua parte più povera. Veniva da una famiglia umile. Suo padre faceva il calzolaio, sua madre la commessa in un grande magazzino. Lui era sempre silenzioso, e lei sempre stanca. I ricordi che Shindler aveva della sua infanzia e della sua famiglia erano come una tela dipinta in varie tonalità di grigio, sulla quale spiccava
un'unica pennellata di un bianco abbagliante. Abe. Abe era stato una meteora, costantemente in ascesa. Una persona da ammirare. Lui trascendeva lo squallido appartamento e la loro scialba esistenza. Il sabato, la famiglia poteva guardarlo dalle gradinate della palestra del liceo, unendosi all'entusiasmo della folla che lo incitava mentre volava a fondocampo evitando le braccia protese, tenendo la palla alta sopra la testa, e faceva canestro con la grazia di un ballerino classico. Abe era un campione in tutti gli sport e uno studente modello. Ma, soprattutto, era un ragazzo eccezionale, gentile e generoso. Quando morì, la gente aveva parlato di lui negli stessi termini con cui ora elogiava Richie Walters. Roy era sempre stato bravo a scuola e, nonostante la sua mancanza di grazia, se la cavava bene anche nello sport, ma suo padre non se n'era mai accorto. Non aveva occhi che per Abe. Se Abe non fosse stato la persona che era, Roy avrebbe potuto esserne geloso e perfino arrivare a detestarlo. Ma Abe era Abe, e Roy adorava il fratello maggiore. Dopo il diploma Abe andò al college, grazie a una borsa di studio offerta da una prestigiosa università della costa orientale. Sarebbe diventato medico. I suoi risultati scolastici erano eccellenti e la pagina sportiva dell'Herald riportava spesso i suoi successi sportivi. Poi tornò a casa per le vacanze invernali e morì nella neve mentre rientrava da una serata con i vecchi compagni di liceo. Era stato un omicidio a scopo di rapina. Il suo assassino non fu mai preso. Con la morte di Abe, sembrò morire l'intera famiglia. Roy si ritrovò tutto sulle spalle. Di giorno era costretto a mandare avanti la bottega di suo padre, il quale non riusciva più a combinare niente, e dopo doveva cucinare e occuparsi della casa, perché sua madre si era completamente lasciata andare. Tuttavia non voleva rinunciare ad avere un'istruzione, e si iscrisse ai corsi serali. Inizialmente ottenne buoni risultati, ma poi cominciò a perdere colpi. La stanchezza si faceva sentire, e quando era a casa non riusciva a concentrarsi sullo studio, con i genitori che si aggiravano attorno come fantasmi. Alla fine lasciò perdere ed entrò in polizia. Non sapeva bene nemmeno lui perché avesse scelto proprio quel lavoro. Forse, inconsciamente, sperava che un giorno avrebbe trovato l'assassino di suo fratello. O forse perché i turni di notte gli consentivano di dormire durante il giorno, sottraendosi all'atmosfera opprimente che c'era in casa. Durante il suo secondo anno nelle forze dell'ordine suo padre morì e sua madre lo seguì due mesi dopo. Per Roy fu quasi un sollievo. Tuttavia, è difficile scrollarsi di dosso i condizionamenti di un quarto di secolo. La-
sciò l'appartamento della famiglia, solo per trasferirsi in un altro altrettanto piccolo e spoglio. Si iscrisse di nuovo ai corsi serali dell'università statale. Ci fu anche una ragazza. Era quieta e studiosa. I loro incontri erano una serie di lunghi silenzi interrotti da discussioni volutamente astratte e intellettuali, come se entrambi avessero paura di comunicare qualunque cosa che somigliasse a un sentimento autentico. Avevano vissuto insieme per un breve periodo, ma le barriere fra loro non erano mai cadute, e si erano lasciati come due buoni amici tra i quali una relazione più stretta non aveva funzionato. I colleghi di Roy lo trovavano strano. Estremamente sensibile su questioni astratte, ma freddo come il ghiaccio in situazioni cruciali. Era come se la morte di Abe avesse ucciso la sua affettività, lasciando solo la dura corazza del suo intellettualismo a proteggerlo dalle crudeltà della vita. Il giovane Walters gli ricordava sotto tanti aspetti Abe e l'indagare sul suo omicidio stava riportando allo scoperto il dolore che credeva sepolto ormai da tempo, come un bisturi che asportasse strato dopo strato il tessuto cicatriziale che si era formato sopra le sue personali ferite. Un'ora prima, Shindler aveva tentato di leggere un po', ma la sua mente continuava a divagare, così vi aveva rinunciato. Il caso Walters lo ossessionava. Spesso lo tormentava perfino nei suoi sogni. Harvey Marcus sapeva perché si era preso tanto a cuore quel caso e lo aveva ammonito che lasciarsi coinvolgere personalmente gli avrebbe impedito di svolgere bene il proprio lavoro. Razionalmente, non poteva che dargli ragione, ma non riusciva a evitare di sovrapporre l'immagine di suo fratello a quella di Richie. L'ultima volta che era stato dai Walters, era appena arrivata con la posta la lettera di ammissione ad Harvard. Harvard, nientemeno. Quel ragazzo avrebbe potuto diventare un medico, uno scienziato, qualsiasi cosa. Proprio come Abe. Il telefono lo distolse dai suoi pensieri. Roy sospirò e andò a rispondere. «Roy?» Era Harvey Marcus. «Ci sono novità. Ha appena telefonato un optometrista di Glendale a proposito degli occhiali. Ha ricevuto la circolare e pensa di avere individuato la persona che stiamo cercando.» «Ti ha dato il nome e l'indirizzo?» domandò Shindler. Poteva avvertire l'eccitazione di Marcus. Si generava sempre una certa elettricità quando un serio, scrupoloso lavoro di polizia dava i suoi frutti. «Sì. Dice di aver venduto un paio di occhiali corrispondenti alla descrizione a una certa Esther Freemont, 2219 Ottantaduesima Nord.»
La casa della famiglia Freemont aveva visto giorni migliori. Il giardinetto era infestato di erbacce e l'esterno dell'abitazione avrebbe avuto bisogno di una buona riverniciata. Marcus e Shindler scavalcarono dei giocattoli rotti e salirono gli scricchiolanti gradini del portico. Da dentro giungeva il frastuono di un televisore acceso a tutto volume. Un bambino piangeva e qualcuno stava gridando. Aggirarono un triciclo rovesciato e raggiunsero la porta d'ingresso. Non c'era il campanello, così Marcus bussò energicamente. Si sentirono dei passi strascicati avvicinarsi. Qualcuno scostò la tendina sudicia dal piccolo riquadro di vetro nella metà superiore della porta e una faccia gonfia sbirciò fuori. Marcus mostrò il suo distintivo e la porta venne aperta con diffidenza. La donna nel vano della porta doveva raggiungere tranquillamente il quintale. Era paludata in un informe vestito grigio che non riusciva a dissimulare i flaccidi rotoli di grasso e l'enorme seno cadente, e sopra portava un grembiule macchiato. I suoi occhi erano iniettati di sangue, lo sguardo ostile. Marcus sospettava che stesse bevendo. I capelli scarmigliati, grigi e di media lunghezza, le ricadevano sulla fronte, e una sigaretta le pendeva da un angolo della bocca. L'interno della casa, notò Marcus, rifletteva la personalità della padrona. Nell'aria gravava un odore pesante e sgradevole. Le stanze erano buie e in disordine. Come potevano degli esseri umani vivere a quel modo? Si poneva continuamente domande come quella, senza mai trovare la risposta. «La signora Freemont?» «Una volta. Taylor, adesso.» «Lei è la madre di Esther Freemont?» «Che ha combinato stavolta?» si informò la donna con annoiato disgusto. Senza attendere la risposta, girò la testa verso l'interno della casa e chiamò rabbiosamente la figlia: «Esther! Vieni un po' qua». Una voce rispose qualcosa di incomprensibile tra il rumore di applausi di un gioco televisivo. «Spegni quel dannato affare e vieni qua!» gridò la signora Taylor. Il volume del televisore non diminuì, ma una ragazza sbucò da dietro l'angolo del soggiorno. Quando vide i due uomini con il soprabito si fermò, poi proseguì a passo più lento. Shindler la guardò avvicinarsi come un cacciatore osserva la sua preda. Esther era alta, per una ragazza. Doveva avere sedici anni, a occhio e croce. La sua pelle era liscia e scura, i capelli lunghi e neri, sporchi e arruffati
come quelli di sua madre. Indossava un paio di jeans, e una T-shirt bianca copriva i seni ampi e ondeggianti. Shindler si rese conto che sotto non portava niente e la tensione generata dall'indagine si mescolò a una corrente sotterranea di desiderio. Senza volere, si ritrovò a pensare a lei in termini sessuali. «Questi signori vogliono parlare con te. Sono della polizia. Si può sapere che cos'hai fatto ancora?» I grandi occhi scuri di Esther si spostarono dalla madre ai due detective. Sembrava nervosa, ma non più di qualunque altra persona di fronte alla legge. «Non abbiamo motivo di credere che sua figlia abbia fatto qualcosa che non va, signora Taylor. Vogliamo solo farle qualche domanda in relazione a un'indagine che stiamo svolgendo.» «Oh», fece la signora Taylor. Marcus pensò che sembrava delusa. «C'è un posto dove possiamo parlare?» domandò Shindler. La signora Taylor girò lo sguardo sul soggiorno. Il divano era ingombro di biancheria da lavare e la poltrona più vicina era occupata da un gatto. Decise che era meglio andare in cucina e fece strada verso il retro della casa. C'era un televisore portatile appoggiato sul lavandino. Un bambino su un seggiolone smise di piangere vedendoli entrare. Intorno a un tavolo di formica gialla erano disposte quattro sedie. Marcus e Shindler ne indicarono una a Esther, poi presero posto su due delle rimanenti. La signora Taylor restò in piedi, gravitando intorno alla figlia. «Possiamo?...» domandò Shindler, accennando al televisore. La signora Taylor sembrò confusa per un momento, poi allungò una mano a togliere l'audio, lasciando l'immagine. «Esther, questo è il detective Marcus, e io sono il detective Shindler. Stiamo indagando sull'omicidio di Richie Walters e la scomparsa di Elaine Murray, entrambi studenti della Stuyvesant Highschool.» Marcus la stava osservando. Non c'era traccia di paura sul suo volto. Semmai, sembrò sollevata di sapere che l'indagine non riguardava lei. «È... è morta?» «Prego?» «Elaine. Lei ha detto scomparsa. È morta?» «Non lo sappiamo, Esther. La stiamo ancora cercando.» «Accidenti, che brutta storia. Conoscevo Richie soltanto di vista. Sa, eravamo in classi diverse. Ma essendo della stessa scuola, era come se fos-
simo amici. Ho pianto, quando ho letto di lui sui giornali.» «Conosci Elaine Murray?» «Be', non che fossimo in confidenza, ma la conoscevo. Era... è molto carina. Spero che stia bene.» «Lo speriamo anche noi, Esther. Ricordi dov'eri il venerdì notte in cui Richie è stato ucciso?» Esther guardò nervosamente sua madre, poi di nuovo i detective. «Perché volete saperlo?» «È solo routine, Esther. Dobbiamo eseguire controlli su tutti.» «Non penserete che ha qualcosa a che fare con l'omicidio?» domandò incredula la signora Taylor. Esther fece per alzarsi, presa dal panico. «Volete mandarmi al riformatorio?» Marcus si mise a ridere. Era una risata fasulla che Shindler aveva già sentito altre volte. Esther sembrò confusa. «Nessuno li manderà al riformatorio e nessuno pensa che tu abbia ucciso qualcuno. Ora rilassati e dimmi dov'eri, così potrò completare il mio rapporto. Okay?» Shindler notò che Esther sembrava un animale in trappola. I suoi occhi andavano da una faccia all'altra, e si torceva le mani. «Avanti, diglielo dov'eri», intervenne la signora Taylor, improvvisamente adirata. Poi si rivolse ai due detective: «Mi è appena venuto in mente». Esther abbassò la testa e si morse il labbro. «In giro a ubriacarsi, ecco dov'era. È tornata a casa tardi, e ha vomitato in giro per tutto il bagno!» Nessuno può avere un'aria più derelitta di un'adolescente imbarazzata, pensò Shindler. Esther si faceva sempre più piccola, come se volesse scomparire. «Puoi raccontarci com'è andata?» le domandò Marcus. «Promettete che non mi manderete in una casa di correzione?» Marcus le rivolse il suo sorriso più paterno. «Non preoccuparli, Esther. Siamo interessati soltanto all'omicidio di Richie Walters. Ascolta, è capitato anche a me di bere un po' troppo, quando avevo la tua età. Allora, perché non ci racconti tutto?» «A dire il vero, non ricordo molto bene», ammise Esther, contrita. «Ero piuttosto ubriaca, ed è tutto come annebbialo.» «Dicci quello che ti ricordi.» «Ero andata all'Hamburger Heaven con Roger, il mio ragazzo, e Bobby
e Billy Coolidge. Poi siamo andati a una festa. È stato dopo la festa che ci siamo ubriacati.» Si interruppe e sollevò uno sguardo supplichevole verso Marcus. «Devo dire proprio tutto? Non voglio mettere nessuno nei guai.» «Rispondi alle loro domande», le intimò sua madre. «Te l'avevo detto di non andare in giro con quell'Hessey. È un poco di buono, come il resto di quei teppisti.» «Non preoccuparti, Esther», la rassicurò Marcus. «Nessuno finirà nei guai per questo.» «È stato Billy. Ha grattato qualche bottiglia di vino in uno di quei posti aperti tutta la notte, mentre il commesso non stava guardando. Abbiamo bevuto in macchina, e devo avere un tantino esagerato, perché da quel momento è tutto un po' confuso. Dopo siamo andati a fare un giro in centro, mi pare.» Shindler infilò una mano in tasca. «Tu porti gli occhiali?» Esther non rispose subito. Si inumidì le labbra, esitante. «Ti sei mangiata la lingua? Sì, porta gli occhiali per leggere», rispose al suo posto la signora Taylor. «Li hai qui, Esther?» Esther fissò il tavolo senza dire niente. «Esther, dove sono gli occhiali?» la interrogò sua madre in tono minaccioso. «Dannazione, se li hai persi un'altra volta puoi scordartene un nuovo paio.» «Mi dispiace, mamma», disse Esther d'un fiato. «Me li hanno rubati. È stato tre mesi fa. Non te l'ho detto perché sapevo che ti saresti arrabbiata, e speravo che magari li avrei recuperati...» «Quando ti sono stati rubati, di preciso?» la interruppe Shindler. «Non erano solo gli occhiali. Anche altre cose che avevo in borsa. E non ricordo il giorno esatto. So solo che era l'inizio di novembre.» «Sono questi i tuoi occhiali?» domandò Shindler, mettendo una busta sul tavolo. Esther la prese e ne tirò fuori gli occhiali. «A vederli così sembrano i miei, ma dovrei mettermeli per esserne sicura.» «Fa' pure.» Esther li inforcò, prese una copia di una rivista scandalistica dal piano del lavello e diede una scorsa a una pagina. «Sono proprio i miei. Posso riaverli?» «Temo di no, per ora. Sono un indizio.» «Indizio di cosa?» domandò la signora Taylor.
«Hai perso anche un pettine e un accendino, Esther?» «Sì», confermò lei, titubante. «Dove li avete trovati?» volle sapere la signora Taylor. «Il pettine, l'accendino e gli occhiali sono stati rinvenuti vicino al luogo del delitto. È possibile che la persona che ha rubato gli occhiali di sua figlia sia coinvolta nell'omicidio Walters.» «Allora non può riaverli?» «Non per il momento.» «Dannazione, Esther, è tutta colpa tua! Perdi sempre tutto. Be', se vuoi degli occhiali nuovi dovrai pagarteli da sola!» Quando se ne andarono, Esther era in lacrime. Shindler la guardò attentamente, accasciata sulla sedia, la faccia nascosta tra le esili braccia brune, le spalle scosse dai singhiozzi. Provava per lei un gelido disprezzo, più qualcosa che non osava confessare nemmeno a se stesso. «Sa qualcosa», disse Shindler. «Chi, la ragazza?» replicò Marcus, incredulo. «Quella non sa un bel niente.» «Me lo sento, Harvey.» «Solo perché vuoi sentirlo. Cristo, Roy, era più preoccupata di finire in una casa di correzione per aver violato la legge che vieta il consumo di alcolici ai minori che di essere coinvolta nell'indagine sull'omicidio.» «Senti, io non me la bevo la storiella degli occhiali rubati che, guarda caso, saltano fuori proprio sul luogo del delitto.» «Aspetta un attimo. Gli occhiali sono stati trovati nei dintorni, non sul luogo del delitto. In fondo alla collina, a una buona distanza da dov'era la macchina.» «Esattamente dove qualcuno che stesse scappando in preda al panico avrebbe potuto perderli.» Marcus scosse la testa. «Non sono d'accordo, Roy. Se vuoi insistere sulla pista di Esther Freemont, dovrai farlo per conto tuo.» La radio crepitò. Shindler prese il microfono e diede il loro codice. Dalla centrale li informavano che Elaine Murray era stata trovata. Avevano cercato nei posti sbagliati. La ragazza non era a Portsmouth. C'era una diramazione dell'autostrada che portava alla costa, ed era poco trafficata, specie in quel periodo dell'anno. Un automobilista di passaggio,
diretto a Sandy Cove insieme alla moglie, aveva bucato e si era fermato sul ciglio della strada per cambiare la gomma. Era sceso sotto la pioggia torrenziale e aveva visto il corpo in fondo al fosso. Shindler scese lungo la scarpata, scivolando sul fango. Alcuni agenti stavano battendo l'erba alta in cerca di indizi. Marcus aveva raggiunto un uomo robusto in impermeabile e cappello a tesa larga. Shindler si fermò davanti al corpo. Qualcuno aveva avuto la decenza di stendergli sopra una coperta. Ne sollevò un lembo e guardò. Represse a stento un conato di vomito. La faccia era quasi scarnificata, il cuoio capelluto praticamente marcito. Distolse lo sguardo da quella maschera macabra, facendolo scivolare lungo il corpo. La ragazza aveva un paio di pantaloni marroni alla torero, ma la zip era aperta, come se qualcuno glieli avesse infilati in fretta e furia. L'unico altro indumento che aveva indosso era una camicetta bianca sbottonata. Una falda si era aperta, esponendo il seno sinistro. Shindler si sentiva rimescolare dentro. L'adrenalina stava prendendo il sopravvento sulla nausea iniziale. Poi vide i piedi e cominciò a tremare. Non sapeva perché il fatto che fosse scalza dovesse sconvolgerlo tanto. Che importanza aveva? Era morta. Ma del resto, tutto in quella storia era insensato. Andava contro ogni logica che due ragazzi come quelli fossero stati stroncati all'inizio della loro vita. Shindler ricoprì Elaine Murray e risalì la scarpata, incurante della pioggia. Si fermò vicino alla sua macchina e respirò profondamente finché ebbe ripreso il controllo di sé, poi raggiunse Marcus. «Roy, questo è Larry Tenneck, dell'ufficio dello sceriffo di Meridian County.» I due si strinsero la mano. «È tremendo, vero?» commentò Tenneck. «Una ragazza così giovane.» «Da quanto tempo potrebbe essere laggiù?» «Non saprei. Su questo tratto di strada c'è scarso transito in inverno. Comunque, credo che sia stata uccisa altrove e abbiano abbandonato qui il cadavere immaginando che non sarebbe stato scoperto tanto in fretta.» «Mi sembra verosimile», concordò Marcus. «L'autopsia dovrebbe dirci qualcosa di più.» «A proposito di autopsia, possiamo rimuoverla, adesso? Ho detto ai ragazzi di lasciarla lì fino al vostro arrivo, ma adesso credo che sarebbe meglio toglierla da sotto la pioggia.» «Certamente. Avete fatto le fotografie?»
Tenneck annuì. Fece un cenno a due uomini seduti su un'ambulanza ferma sul ciglio della strada, poi disse: «Immagino che vogliate vedere i vestiti». Shindler lo guardò interrogativamente. «Vestiti?» «Sì, abbiamo trovato il resto dei suoi vestiti laggiù nell'erba, a un centinaio di metri dal corpo. Immagino che prima abbiano scaricato la ragazza, poi abbiano buttato nel fosso il resto della sua roba.» Tenneck mostrò ai due detective un sacco di plastica sul sedile posteriore della sua auto. Marcus aprì la portiera e salì in macchina. Shindler si sedette al suo fianco e Tenneck restò fuori sotto la pioggia, affacciandosi al finestrino aperto. Nella borsa c'erano un maglione da sci rosso e nero, un reggiseno strappato e un paio di mutandine rotte in diversi punti e completamente lacerate vicino al fianco destro. «Bisognerà dire a Beauchamp di controllare se ci sono segni di stupro», disse Marcus con voce cupa e dura. «È la prima cosa che ho pensato quando ho visto questa roba», annuì Tenneck, e Shindler notò che, per la prima volta da quando lo aveva incontrato, aveva perso la sua calma campagnola. «Dovete farmi un favore, voi ragazzi. Prendete quei disgraziati e dategli quel che si meritano.» Shindler e Marcus erano seduti nella sala d'aspetto dell'obitorio di Perryville, il capoluogo di contea di Meridian County. Shindler aveva fumato tutte le sigarette che aveva nel pacchetto e stava valutando i pro e i contro di sfidare gli elementi per andare in cerca di un caffè e una fetta di torta quando la porta si aprì e il dottor Beauchamp si lasciò cadere su un divanetto color pesca sul quale campeggiavano cherubini sorridenti. «Strangolamento», decretò. Aveva l'aria stanca. Era già notte quando lo avevano chiamato dall'ufficio dello sceriffo chiedendogli di raggiungerli là. «Probabilmente è stata uccisa con la corda che hanno trovato infilata nella cintola dei suoi pantaloni.» «Da quanto è morta?» Beauchamp increspò le labbra. «Direi da quattro a sei settimane.» «Il corpo non sembrava ridotto molto male, a parte la testa», osservò Marcus. «È il tempo. Fa freddo, da queste parti. Il freddo ritarda la decomposizione. Sentite, non potrei avere una tazza di caffè e qualcosa da mettere sotto i denti? Sono veramente esausto.» Si vede che è stanco, pensò Shindler. Lo siamo tutti.
«Offro io. Prendi la giacca. Andiamo a vedere se troviamo da farci un hamburger da qualche parte.» «Oh, l'ultimo dei grandi spendaccioni. Voi bastardi mi dovete ben più di un hamburger per questo lavoro.» «C'era qualcos'altro?» domandò Shindler. Sapevano tutti e tre a che cosa si riferisse. «Già. Poverina.» Beauchamp sospirò e si tolse gli occhiali. Chiuse gli occhi e si strofinò le palpebre con il pollice e l'indice. «C'erano emorragie sulla parete anteriore e posteriore dell'utero. A mio parere, potrebbero essere state causate da un colpo al basso ventre, o da rapporti sessuali vigorosi. Nel secondo caso, avrebbe dovuto essere insolitamente attiva. Inoltre, ho trovato sperma morfologicamente identificabile nella vagina.» «Morfologicamente identificabile?» ripeté Shindler. «Sarebbe a dire?» «Sarebbe a dire che si capiva che era sperma. Era morto, ma c'era.» «E questo che significa?» «Secondo me, più di un uomo ha abusato di lei poco prima che morisse. E sempre secondo me, hanno abusato di lei ripetutamente. Poi l'hanno uccisa. Badate, questo non è un parere scientifico, quindi non chiamatemi a risponderne. Del resto, non mi sento molto scientifico, stanotte. Il dottor Harold Murray è un mio buon amico, e ringrazio il cielo di non dover essere io a dirgli quel che è successo a sua figlia.» 4 Era aprile, e Shindler era l'unico detective che ancora lavorasse al caso Murray-Walters. Il problema era che non c'era niente su cui lavorare. L'opinione generale era che la coppia fosse stata assassinata da ignoti, per motivi ignoti, destinati a rimanere tali. Ma Shindler non era d'accordo. Non poteva accettarlo. Doveva esserci un movente. E se non era la rapina, come era stato stabilito fin dall'inizio, doveva trattarsi di qualcosa che era successo prima del fattaccio. Ma per quanto Shindler cercasse, continuava a brancolare nel buio. Aveva compilato un elenco di tutti quelli che conoscevano la coppia, e qualunque persona interrogasse non faceva che confermare che nessuno avrebbe voluto la morte di Elaine Murray o Richie Walters. Alice Fay era una delle ragazze più carine della lista. Per Shindler fu un piacevole diversivo, dopo la mattinata grigia che aveva passato. La ragazza
era a casa da scuola per le vacanze di Pasqua. Suo padre era al lavoro e sua madre in giro a fare compere. Si convinse ad aprire la porta solo dopo che lui ebbe esibito il distintivo. Quando le disse che stava indagando sulla morte dei suoi due compagni di scuola, lo invitò a entrare e lo fece accomodare in cucina, chiedendogli se potesse offrirgli un caffè. Sul tavolo c'era una rivista di moda per teenager aperta su un servizio sul look che sarebbe stato di tendenza al college l'autunno successivo. «Pensa che prenderete chi ha ucciso Richie ed Elaine?» domandò accendendo l'interruttore della caffettiera elettrica. «Non lo so. Non abbiamo fatto molti progressi. È per questo che sto parlando con chiunque li conoscesse. Qualunque cosa le venga in mente potrebbe essere di aiuto.» Alice si mise a sedere. Sembrava sveglia, oltre a essere una bella ragazza, pensò Shindler. L'uomo che se la fosse presa sarebbe stato fortunato. «L'aiuterei, se potessi, ma onestamente non saprei che dirle. Conoscevo molto bene entrambi, ed erano dei bravissimi ragazzi. Richie era così gentile e altruista. Ha vinto parecchi premi sportivi e a scuola era impegnato in politica, ma non si è mai montato la testa. «Elaine era come lui. Ricordo che al terzo anno ci siamo presentate entrambe al concorso per l'elezione della reginetta del ballo. So che Elaine ci teneva davvero ad avere il titolo, ma vinsi io. Nonostante la delusione, lei fu sinceramente felice per me.» Il caffè era pronto e Alice andò al lavello a versarne una tazza per Shindler. «Conosce una ragazza di nome Esther Freemont?» le chiese il detective. Alice sembrò sorpresa. «Esther? Sì, certo. Perché? Non sarà... non è coinvolta, vero?» «No. Volevo solo sapere se la conosce.» «Be', la conosco nel senso che andiamo alla stessa scuola, ma non è mia amica», precisò Alice con una punta di disgusto. «Che tipo è?» «Mah... non saprei. Mica tanto sveglia. Va in giro con un gruppo di balordi.» «I Cobra?» suggerì Shindler. Alice annuì. «Si dice che sia... be', piuttosto leggera, se sa che cosa intendo», disse, arrossendo. «Ma io non la conosco così bene», si affrettò ad aggiungere. Shindler cambiò argomento, riportando il discorso su Richie ed Elaine. Il tempo era volato, e si accorse che si stava facendo tardi. Prese mental-
mente nota di lasciare i colloqui con le belle ragazze a investigatori provvisti di maggiore autocontrollo. «La ringrazio del tempo che mi ha dedicato, signorina Fay», disse, alzandosi. «Se dovesse venirle in mente qualcosa che possa esserci utile, mi dia un colpo di telefono.» Le diede il suo biglietto da visita e lei lo mise vicino al telefono della cucina. «Sa, è strano», disse, voltandosi. «Mi sono appena ricordata che Esther Freemont era alla festa che ho dato la sera in cui Richie è stato ucciso.» Shindler si bloccò. «Mi pareva di aver capito che non foste amiche.» «Non lo siamo. È venuta senza essere stata invitata. Lei, i fratelli Coolidge e qualcun altro. Me ne ricordo per via della rissa.» «Quale rissa?» «È stato piuttosto spaventoso. Tommy, il mio ragazzo, si era arrabbiato perché erano entrati di straforo. Ha cercato di buttare fuori Billy Coolidge e si sono picchiati. Billy aveva un coltello. È andata bene che nessuno si sia fatto male.» «Che tipo di coltello?» «Un coltello a serramanico, credo. Uno degli amici del fratello di Tommy lo aveva colpito e lui lo ha tirato fuori. Grazie al cielo, la cosa è finita lì.» «Prima accennava a un qualche fratello di questo Billy.» «Sì, Bobby. Ha fatto a botte anche lui.» «Perché pensa che siano venuti alla festa, se non erano invitati?» «Non so. Probabilmente per provocare. Billy è sempre in giro ad attaccare briga. Bobby è un po' meglio, ma non mi piace affatto nessuno dei due.» «Ricorda a che ora hanno lasciato la festa?» «Non saprei. Ricordo che era buio e... No, aspetti. Lo so, invece. Tommy era arrabbiato perché nella rissa aveva rotto l'orologio nuovo. Era un regalo di compleanno, e ci teneva molto. Comunque, l'orologio si era fermato alle dieci e venti.» Shindler rifletté un momento sull'informazione. La polizia aveva raccolto la testimonianza di alcuni ragazzi che affermavano di avere visto Richie ed Elaine all'uscita dal cinema. Lo spettacolo era terminato verso le undici e un quarto. Se Esther e i suoi amici erano andati in centro dopo aver rubato il vino, si sarebbero trovati da quelle parti intorno alle undici e trenta. I tempi coincidevano.
«Grazie della collaborazione, signorina Fay. Sarebbe tanto gentile da mettere per iscritto quello che mi ha appena detto e spedirlo al mio ufficio?» «Certamente. Pensa che sia importante?» «Non lo so, ma potrebbe.» Sì, potrebbe, pensò Shindler. George DeBlasio era uno psicologo che si occupava da quindici anni di delinquenza minorile. Roy Shindler lo aveva conosciuto durante i suoi primi anni nella polizia, quando era un agente di pattuglia; diventato detective, aveva avuto meno occasioni di incontrarlo, ma faceva sempre un salto da lui per bere un caffè insieme ogni volta che si trovava dalle parti del centro correzionale, dove avevano sede il tribunale e il carcere minorili e gli uffici degli assistenti sociali. DeBlasio era un uomo sulla cinquantina, con i capelli candidi e radi e una faccia stretta e spigolosa. Il suo studiolo era uno dei tanti stanzini allineati lungo il corridoio dell'ala dell'edificio adibita a consultorio. La porta era chiusa a chiave e il dottore si rivolse a Shindler in tono cospiratore, passandogli due cartellette attraverso il piano della spartana scrivania di metallo alla quale erano seduti uno di fronte all'altro. «Non dovrei farlo. Questo sarebbe materiale riservato.» «Me ne rendo conto, George. Non te lo avrei mai chiesto, se non fosse veramente importante.» George borbottò qualcosa e si appoggiò contro lo schienale della sua sedia mentre Shindler dava una scorsa ai fascicoli. «Sai, li ho seguiti io stesso, per un po'.» Shindler alzò gli occhi, interessato. «I Coolidge?» «Sì. Per un anno, prima che diventassero maggiorenni. Billy era un soggetto particolarmente difficile. Ho avuto fin dall'inizio una spiccata avversione nei suoi confronti.» «Come mai?» «Una cosa epidermica. L'altro, Bobby, era più umano. Billy invece era freddo, scostante. Del tutto privo di un codice morale. Agiva unicamente in base a un criterio di piacere-dolore. Quello che gli dava piacere era bene, quello che gli dava dolore era male. «Se ben ricordo, la prima volta che ho avuto a che fare con lui è stata quando è comparso davanti al giudice per comportamento violento a scuola. Aveva picchiato tre compagni nel giro di una mattinata, sotto l'influsso
di bevande alcoliche. Comunque, nessuno si era fatto male sul serio, così se la cavò con una ramanzina, più l'invito a presentarsi a dei colloqui con uno psicologo del centro correzionale. «Fu assegnato a me, ma non sono mai riuscito ad arrivare a lui. Non mostrava alcun rimorso. La sua unica reazione emotiva era la rabbia contro i ragazzi che avevano fatto la spia.» «E l'altro ragazzo, Bobby?» «Lui è un po' diverso. Credo che ne potrebbe anche venire fuori qualcosa di buono, se solo avesse uno straccio di opportunità. Naturalmente, non ce l'ha. Il padre è morto quando loro erano ancora piccoli. La madre è un'alcolista. Bobby è un ragazzo intelligente. Anche Billy, del resto. Ma a scuola non si applicano.» «Qual era il problema di Bobby?» «Anche per lui l'aggressività. È arrivato qui perché aveva picchiato il figlio di un banchiere a scuola. A dire il vero, quello se l'era cercata, ma suo padre ha fatto un putiferio. Il signorino aveva fatto dei commenti sui vestiti di Bobby. Lui poi mi ha detto che sua madre era ubriaca e se li era lavati da solo. In modo indiretto, ammise che era invidioso dei vestiti dell'altro ragazzo.» «Vuoi dire che ce l'aveva con l'altro perché era ricco?» «Oh, questo era il ritornello preferito di Billy. Sai, è in una banda giovanile. Si chiamano i Cobra. Se lo facevo parlare della banda, non la finiva più. Credeva che l'appartenenza alla banda gli desse importanza. Mi disse che si era guadagnato l'ammissione, e questo lo rendeva migliore dei ragazzi a scuola che erano ricchi solo grazie ai loro genitori. Tutti e due i fratelli provavano rancore nei confronti dei genitori. Sentivano che il padre, morendo, li aveva in qualche modo traditi perché così li aveva condannati a cavarsela da soli.» «Billy o Bobby si sono mai messi nei guai per avere usato un coltello?» George pensò per un momento. «No, che io ricordi.» «George, ti dispiace se tengo questi fascicoli per un giorno? Voglio studiarmeli, e adesso non ne ho il tempo.» «Non dovrei, ma fa' pure. Solo, non farti beccare. Se qualcuno dovesse scoprirlo per me sarebbero guai.» «Non preoccuparti, te li riporterò entro domani.» «È un affare serio, vero?» «Molto. Ti spiegherei tutto, se potessi, ma voglio essere sicuro prima di accusare qualcuno.»
«A domani, allora.» «A domani.» «Ammetto che c'è una possibilità», riconobbe Harvey. «Allora sei d'accordo che sarebbe il caso di convocarli per un interrogatorio?» Marcus sfogliò il fascio di carte che Shindler aveva messo sulla sua scrivania quarantacinque minuti prima. Comprendeva rapporti della polizia, informazioni prese dal fascicolo del centro correzionale e un profilo psicologico di William Ray Coolidge. Il materiale raccolto descriveva due giovani sottoproletari disadattati che nutrivano un profondo astio nei confronti di una società nella quale non riuscivano a inserirsi. Shindler trovava che quadrasse. «Si presentano alla festa per vedere come vive l'altra metà. Sono invidiosi di quei ragazzi. Uno di quelli con cui ho parlato ha detto che Billy potrebbe anche avere una cotta per Alice Fay, la ragazza che aveva dato la festa. «Poi sono costretti ad andarsene, battuti e umiliati proprio dalla categoria di ragazzi che detestano. Si ubriacano. Più tardi si imbattono in Walters e Murray. Li conoscono perché vanno alla loro stessa scuola. Vedono in loro due perfetti esponenti della classe sociale che odiano.» «Bella teoria. Ma non hai niente che colleghi i Coolidge agli omicidi.» «Gli occhiali di Esther Freemont.» Marcus scosse la testa. «Non basta. Secondo lei, non li aveva già più la sera del delitto.» «Sta mentendo. Lo so.» «Ma devi dimostrarlo. E non puoi andare dal procuratore distrettuale con in mano solo delle supposizioni. Devi avere qualcosa di concreto.» «E l'interrogatorio dei Coolidge?» Marcus abbassò di nuovo lo sguardo sull'incartamento. «Va bene, facciamoli portare qui.» Shindler si era creato un'immagine mentale di Billy Coolidge e fu sorpreso di come fosse accurata. Ma soprattutto, lo sorprese la reazione fisica che il ragazzo provocò in lui. Aveva qualcosa che suscitava repulsione. Era di bell'aspetto, in un modo quasi effeminato. Le sue labbra erano troppo carnose e si arricciavano naturalmente in un ghigno. I capelli erano unti di brillantina. Ogni volta che Shindler vedeva uno di quei teppisti con i capel-
li lisciati indietro e il giubbotto di pelle nera sentiva un odio sordo. Significavano troppe cose contrarie ai suoi principi. «Siediti, Billy», disse, facendo un cenno in direzione di una sedia dietro un tavolo di legno. Lui era seduto su una comoda poltroncina dall'altra parte della piccola, spoglia stanza per gli interrogatori. Billy girò attorno uno sguardo cauto. I suoi occhi non trovarono niente su cui posarsi eccetto Shindler, così si fermarono lì. Suo fratello era stato portato a un altro piano da un agente grosso quanto quello che stava in piedi alle sue spalle. Non sembrava esserci molto che potesse fare per sottrarsi al confronto. «Che storia è questa?» domandò. «Vorrei fare due chiacchiere con te», rispose Shindler. «Be', io a te non ho niente da dire. Per cui, fatemi uscire o lasciatemi chiamare un avvocato.» «Non ti serve un avvocato, figliolo. Voglio soltanto farti qualche domanda.» «Su cosa?» «Siediti, prima», lo invitò Shindler, ancora calmo. «Non voglio sedermi e non risponderò a nessuna domanda. Ora, fatemi uscire.» Il tono di sfida. Lo sguardo freddo, sprezzante. Da nazista. Shindler odiava i nazisti. Fece un cenno a un agente che afferrò il braccio del ragazzo e glielo torse dietro la schiena, costringendolo a sedersi. «Stammi a sentire, coglione», sibilò. «Quando il detective Shindler ti chiede di fare qualcosa, tu la fai. Hai capito?» Billy mugolò, tentando inutilmente di divincolarsi dalla presa. Esalò un «okay» e sbuffò per il sollievo quando il grosso agente lo lasciò andare. Si massaggiò la spalla e lanciò indietro un'occhiata impaurita. Era spaventato, adesso. Bene. «Sigaretta?» offrì Shindler. Billy scosse la testa e Shindler se ne accese una. «Sei nato a Portsmouth, vero?» «Che cazzo me lo chiedi a fare, se lo sai già?» L'agente fece un passo avanti e Billy girò di scatto la testa a guardarlo. Shindler alzò la mano. «Va bene. Sì, sono nato a Portsmouth. E allora?» «Tu e tuo fratello praticamente siete da soli, da quando vostro padre è morto, giusto?»
«Già», replicò Billy con riluttanza. «Hai un lavoro, attualmente?» «Lo sai che lavoro alla Esso di McNary.» Billy era imbronciato. Si era girato di profilo e teneva lo sguardo a terra. «Ti piace lavorare da McNary?» «Che cosa sei, un assistente sociale? Ne ho abbastanza. Non intendo rispondere ad altre domande.» «Nemmeno su quello che stavi facendo la sera di venerdì 25 novembre?» Incertezza. Coolidge inclinò la testa e guardò Shindler. «Sarebbe a dire?» «Il 25 dello scorso novembre. Il venerdì dopo il Ringraziamento.» «Come cazzo vuoi che me ne ricordi. Sono passati tre mesi.» «Forse posso aiutarti. Hai avuto un piccolo diverbio a casa di Alice Fay. Te lo ricordi, questo?» «Non ricordo proprio niente.» «Non essere stupido, Billy. Abbiamo una dozzina di testimoni pronti a dichiarare sotto giuramento che quella notte hai avuto uno scontro con Tommy Cooper, suo fratello e qualche altro ragazzo.» «Quel figlio di puttana di Cooper mi ha denunciato?» «Nessuno ti ha denunciato. Vogliamo soltanto sapere che cosa è successo quella notte.» «È stata colpa di Cooper. Volevano buttarci fuori. Io mi sono solo difeso.» «Con un coltello?» Questo lo ha spiazzato, pensò Shindler. Non sa che cosa sappiamo. «Okay, avevo un coltello. Quel bastardo di un grassone che mi ha colpito aveva un collo di bottiglia, e allora io ho tirato fuori il coltello.» «Lo hai con te?» «Il coltello? No, l'ho perso.» «Che peccato. E dove lo hai perso?» «Che ne so. Da qualche parte.» «Quando?» «Te l'ho detto, non lo so.» «Che cosa hai fatto dopo aver lasciato la casa di Alice Fay?» «Non ricordo, di preciso. Sono stato in giro.» «Chi c'era con te?» «Lo sai con chi ero. Hai una dozzina di testimoni, no?»
Si fece di nuovo taciturno, girandosi di sbieco e tornando a fissare il pavimento. «Quanto tempo dopo aver lasciato la casa di Alice ti sei procurato il vino?» «Chi ha detto che mi sono procurato del vino?» «Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Esther Freemont.» «Allora sai già tutto. Perché stiamo qua a perdere tempo?» «Mi piace la tua compagnia.» Coolidge improvvisamente si mise a ridere. «Devi proprio credermi stupido. Ti aspetti che venga qui e ammetta di avere rubato qualcosa? Perché già che ci siamo non mi dai anche le chiavi della prigione, così mi rinchiudo da solo?» «Non ci interessa il vino, Billy. Ci interessa quello che è successo dopo.» «Dopo?» «Dopo che tu, Bobby ed Esther avete bevuto il vino.» «Non è successo niente, dopo. Di che stai parlando?» «Devi solo dirmi che cosa avete fatto dopo aver bevuto, Billy, e poi potrai andartene a casa.» Coolidge sbirciò sospettosamente Shindler. Quando rispose, parlò lentamente e con calma. Dalla sua voce era scomparsa ogni traccia di rabbia e aggressività. «Perché non mi dici quello che pensi che avrei fatto, dopo che, come tu sostieni, abbiamo bevuto quel vino.» «Non è così che funziona, Billy. Ti ho fatto una domanda e voglio una risposta.» Coolidge lo fissò dritto negli occhi. Come in una partita di scacchi ad alto livello, stava studiando il suo avversario, cercando di prevedere la sua prossima mossa, sapendo che un errore gli sarebbe stato fatale. Poi, sorrise e si rilassò. «Certo. Perché no. Se mi prometti che nessuno di noi finirà nei guai per questo... Okay, ammettiamo pure che c'era del vino. Scusa se ho fatto tante difficoltà, ma ho già avuto rogne con la giustizia, e ne faccio volentieri a meno. «Venendo al dopo. Ci siamo fermati a bere in una strada secondaria. Erano un paio di bottiglie. Esther non regge bene il vino e si è ubriacata subito. Poi siamo andati a fare un giro in centro, ma Esther non si sentiva bene e abbiamo dovuto riportarla a casa. Tutto qui.» «Credo che tu abbia tralasciato qualcosa, Billy. Prova a pensarci me-
glio.» Coolidge guardò Shindler. Aveva perso un poco della sua freddezza, ma non certo la faccia tosta. «Non ho tralasciato niente. Abbiamo bevuto il vino, fatto un salto in centro e riaccompagnato Esther a casa. Non c'è altro.» «E il parco?» «Quale parco?» «Il Belvedere.» «Di che stai parlando? Non siamo stati al Belvedere.» Adesso era nervoso. Shindler poteva avvertire la tensione nella sua voce. «Puoi smettere di fare la recita, Billy. Abbiamo trovato gli occhiali di Esther Freemont al parco. Sappiamo che eravate lì quella notte.» Shindler osservò Coolidge. Negli occhi del ragazzo c'era un luccichio di paura, e più in fondo riusciva a intuire qualcosa di alieno e orrido. «Non sono stato al parco, quella notte», insisté Coolidge. Il suo respiro si era fatto più rapido, e lui cambiava continuamente posizione sulla sedia. «Sì che ci sei stato, Billy. Raccontaci tutto, sarà meglio per te.» «Che dovrei raccontare? Io non ho fatto niente e non ero al parco.» «Conoscevi Richie Walters ed Elaine Murray, Billy?» Coolidge spalancò la bocca e fissò il detective con gli occhi sgranati. «È di questo che si tratta? Pensate che... Voglio andarmene da qui. Subito.» La sua voce salì di tono fino a diventare un grido. «Non potete accusarmi di questo! Fatemi uscire!» «Ti farò uscire, piccolo stronzo, quando mi avrai detto la verità», ringhiò Shindler con voce vibrante d'odio. «Quando mi avrai detto come hai pugnalato quel povero ragazzo e come avete stuprato in gruppo quella ragazza.» Si era alzato in piedi, tremante di rabbia. Avanzò lentamente verso Coolidge. Il ragazzo si volse verso l'agente in una muta invocazione di aiuto. Le sue mani erano alzate come a parare un colpo. A quella vista, Shindler per un momento fu accecato dall'ira. Poteva immaginare la ragazza atterrita, nuda, supplicare pietà. Voleva farlo a pezzi con le sue mani. Il ragazzo stava urlando qualcosa. L'agente stava guardando Shindler allarmato. Shindler si rese conto di quello che stava facendo. La sua mano tremava incontrollatamente. Aprì la porta e uscì dalla stanza. C'era un bagno nel corridoio. Vi si rifugiò dentro, appoggiandosi contro la parete. Tutto il suo corpo era scosso da violenti tremiti. Il suo respiro era
affannoso. Lo specchio sopra il lavandino gli rimandò un'immagine che lo spaventò. Non era lui, quello. I suoi lineamenti erano trasfigurati da qualcosa di alieno e bestiale quanto le azioni del ragazzo. Era la faccia del cacciatore primitivo. Si era risvegliato in lui l'istinto primordiale che rendeva l'uomo capace di uccidere. Si gettò in faccia dell'acqua fredda, poi si mise a sedere, riprendendo lentamente il controllo di sé. Harvey era al piano di sotto. Si alzò, uscì dal bagno e scese le scale. Quando bussò alla porta, Marcus uscì e lo guardò con incertezza. «Roy. Che cosa è successo?» Shindler scosse la testa. «Ho perso la calma. È tutto a posto, adesso. Tu ne stai cavando qualcosa?» «Hai perso la calma? Che cosa intendi dire?» domandò Marcus, preoccupato. Non gli piaceva l'accanimento con cui Shindler stava seguendo quel caso. Non lo considerava né sano, né professionale. «Non è successo niente. Qui come sta andando?» «Non penso che il ragazzo sia implicato, Roy.» «Che cosa?» «Si sta mostrando garbato e disponibile. Risponde a tutte le domande e la sua versione coincide con quella della Freemont.» «Ti sbagli, Harvey. Ne sono certo. Avresti dovuto vedere quella faccia da schiaffi di suo fratello. Si sono semplicemente inventati una storia di copertura, tutto qui.» «Oppure stanno dicendo la verità.» «No, dannazione. Sono stati loro. Lo so.» «Roy, queste sono sensazioni del tutto soggettive. Non hai una singola prova che possa incriminare questi ragazzi. Se vuoi saperlo, io penso che ti sia lasciato coinvolgere personalmente dal caso, e questo incide sulla tua capacità di giudizio. Per quel che mi riguarda, rilascerò Bobby Coolidge, e tu dovresti fare altrettanto con suo fratello.» Quella sera Shindier cenò davanti alla TV e bevve una bottiglia di birra, poi si tolse le scarpe e la cravatta e si allungò ancora vestito sul letto. Intrecciò le mani dietro la testa e fissò il soffitto. Notò che c'era una piccola crepa nell'intonaco. Da fuori giunse il rumore attutito di una macchina di passaggio. Chiuse gli occhi e si concentrò sul proprio respiro. A volte aveva la sensazione di essere sul punto di perdere la ragione. Di scivolare lentamente nel mondo della follia. Non era salutare avere incontri
così frequenti con la morte violenta. Quando la morte diventa una presenza quotidiana, comincia a perdere significato. Il passo successivo è che la vita comincia a perdere il suo valore. Il caso Murray-Walters era un'ancora di salvataggio spirituale. Era grato che un fatto di sangue avesse risvegliato in lui qualcosa di umano. Qualcosa che secondo Harvey gli stava rendendo impossibile portare avanti l'indagine. Si sentiva perso. Era questa l'alternativa? O l'insensibilità, o il fallimento? Il successo si pagava rinunciando alla propria umanità? Le sue emozioni lo stavano rendendo cieco alla verità? Harvey gli aveva parlato a lungo dopo che avevano rilasciato i fratelli Coolidge. Aveva cercato di convincerlo che avrebbe dovuto dimenticarsi di loro. Che la verità era altrove. Shindier non era assolutamente d'accordo. Da qualche parte doveva esserci una chiave. Non era mai stato così sicuro a proposito di un caso. Quegli occhiali. La personalità dei soggetti coinvolti. Il coltello. Lo scontro nella stessa serata. C'erano troppe coincidenze. Guardò l'orologio. Era lì disteso al buio da un'ora. Esther Freemont. Poteva vedere i suoi occhi scuri, dolci. Occhi da colomba. Lei non era fatta della stessa fibra dei Coolidge. Era tenera. Si sarebbe piegata alla sua volontà. Avrebbe potuto farla crollare, se stava mentendo. Chiuse gli occhi e ci pensò su. Il mattino dopo sarebbe andato da lei. Shindler aveva già elaborato il suo piano quando arrivò a casa di Esther. La giornata era tiepida e assolata. Non c'era una nuvola in cielo. Disse alla madre di Esther che voleva farle qualche altra domanda sugli occhiali e l'avrebbe riportata a casa presto. Esther lo seguì con riluttanza. Non si rilassò nemmeno per un istante. I suoi occhi si muovevano in continuazione. Le sue mani non stavano mai ferme. Shindler ne fu compiaciuto. La voleva nervosa e senza riserve, così che non ci sarebbe stato altro che la verità quando fosse arrivato il momento. La tenne occupata discorrendo del più e del meno, in modo che non si accorgesse che non si stavano dirigendo alla stazione di polizia. Quando imboccò Monroe Boulevard, la vide guardare fuori del finestrino con incertezza. «Questa non è la strada per il centro.» «Volevo mostrarti dove abbiamo trovato gli occhiali.» «Stiamo andando al parco?»
Shindler annuì. «Dove Richie?...» «Dove abbiamo trovato gli occhiali.» «Non voglio andarci», disse di getto. Shindler notò che si era aggrappata al sedile con abbastanza forza da far sbiancare le nocche. «Non hai motivo di essere spaventata.» «Sul serio, non voglio andare là. La prego, signor Shindler. Mi fa paura.» «Ti assicuro, Esther, non c'è niente di impressionante. Il posto non sembra più lo stesso. Vedrai. Ti porterò al prato dove abbiamo trovato Richie. Non penseresti mai che lì sia stato ucciso qualcuno.» Lei smise di protestare e Shindler proseguì in silenzio finché raggiunse il posto in cui erano stati trovati gli occhiali. «Ti sembra familiare, Esther?» Lei guardò fuori dal finestrino. Shindler scese dalla macchina e raggiunse il punto esatto. Esther non lo seguì. «Su, vieni a dare un'occhiata», la incoraggiò. «Gliel'ho già detto, non sono stata qui e non so perché mi ci abbia portata.» «Solo per mostrarti il posto, Esther. Pensavo che saresti stata curiosa di vedere dove avevamo trovato i tuoi occhiali.» La ragazza girò la testa dall'altra parte e si morse il labbro. Shindler risalì in macchina e prese la stradina che portava al prato. «Farò ancora una fermata, poi andremo alla centrale.» «Non mi porti là, la prego», lo supplicò Esther con voce incrinata dal panico. «Voglio controllare una cosa. Tu puoi aspettare in macchina.» Si fermò in fondo alla stradina sterrata e girò lo sguardo attorno. Il prato non era cambiato. Era apparso tranquillo persino il giorno dell'omicidio. La violenza era stata aggiunta e poi sottratta. Shindler scese dall'auto e camminò fino al punto in cui si trovava la Mercury. Non ne restava alcuna traccia. Aspettò un po', lasciando a Esther il tempo di vedere qualunque fantasma aleggiasse ancora lì intorno. Poi tornò alla macchina. La ragazza rimase in silenzio per tutto il percorso fino alla centrale. Shindler la condusse nello stesso stanzino in cui aveva interrogato Billy Coolidge. Quel mattino, prima di passare a prenderla, aveva messo la fotografia nel cassetto della scrivania. L'agente che avrebbe presenziato al colloquio era una donna. Cercò di
mettere Esther a suo agio, ma le sue attenzioni riuscirono solo a innervosirla di più. Shindler pensò che la ragazza sembrava un coniglio in gabbia. I suoi occhi guizzavano, cercando una via di fuga. «Non mi hai detto tutta la verità l'altra volta che ci siamo parlati, Esther», cominciò. «Che cosa intende dire?» domandò lei, cauta. Non si fidava di quell'uomo dalla voce suadente. C'era qualcosa di insidioso nascosto sotto la superficie. «Non mi hai raccontato quello che è successo a casa di Alice Fay.» «Io non ho fatto niente», replicò lei in fretta. «No. Ma Billy e Bobby sì. Dimmi che cosa hanno fatto.» Esther distolse lo sguardo da Shindler e fissò il pavimento. «Si sono picchiati con gli altri», mormorò. «Non ti sento.» «Si sono picchiati con gli altri», ripeté a voce più alta. «Io non volevo, giuro. Gliel'avevo detto di andarcene. Volevo soltanto vedere la casa.» «Oh, si sono picchiati? Vuoi dire che hanno affrontato gli altri a mani nude?» Esther sembrò confusa. «Che cosa ha usato Billy?» La ragazza sgranò gli occhi. «Che cosa ha usato Billy, Esther?» insisté Shindler. «Un... un coltello.» Aveva parlato così flebilmente che la sua voce suonò come il ticchettio di un orologio in un'altra stanza. «Esatto. E tu hai pensato bene di nascondermelo, vero?» «No. Giuro. È solo che... non pensavo fosse importante.» «Davvero, Esther? Sapevi che Richie Walters è stato ucciso a coltellate. Venti coltellate, una in fila all'altra. E pensavi che non fosse importante che Billy Coolidge avesse un coltello?» «Be', noi non siamo andati là.» «Là dove?» «Al parco.» «Come fai a saperlo? Dicevi di non ricordare quello che avete fatto.» «Lo so e basta.» «Lo sai e basta», la scimmiottò Shindler. Esther si morse il labbro. «Può dirglielo anche mia mamma», disse poi con improvviso sollievo, come se avesse appena afferrato una ciambella di salvataggio. «Errore, Esther. Tutto quello che tua madre può dire è che sei tornata a
casa tardi e ubriaca. Richie è stato ucciso tra mezzanotte e le due.» Esther abbassò di nuovo gli occhi. Shindler la lasciò stare seduta in silenzio per qualche momento. Il suo sguardo andò a posarsi sul cassetto della scrivania. Poteva vedere la fotografia attraverso il legno e la carta della busta. Bruciava come il fuoco là dentro. L'immagine gli incendiò la mente, riducendo in cenere qualunque pietà avesse potuto provare per Esther Freemont, inaridendolo fino a renderlo duro come pietra. «Parlami del parco, Esther.» «Non sono stata al parco.» «Come puoi dirlo se non lo ricordi?» «Appunto, non ricordo. Per favore, adesso posso andare a casa?» «Richie ed Elaine non possono più andare a casa. Questo lo sai, vero?» «Non parli così, la prego, signor Shindler. Mi fa paura.» «Non ti piace pensare a Richie ed Elaine, eh?» Lei scosse la testa. «Billy li odiava, giusto?» «Non lo so.» «Non mi stai dicendo la verità, Esther. Billy odia i ricchi. Li invidia. Lo so. Ho parlato con abbastanza gente per sapere che cosa succede nella testa di Billy Coolidge. Ora rispondimi. Billy odia i ricchi, sì o no?» «Sì.» «Bene.» Shindler tornò ad appoggiarsi contro lo schienale. «Così va meglio. Allora, chi odiava Billy, in particolare, Esther?» La ragazza desiderò che la smettesse di ripetere il suo nome. Lo faceva suonare sporco, come liquame in una fogna. Sentì le lacrime salirle agli occhi. «Chi?» La voce tagliente di Shindler infierì sui suoi nervi scossi. «La prego... Non lo so chi. I ragazzi ricchi in genere. Non gli piaceva Tommy Cooper. Non so altro. Lui non parlava molto con me.» «Ma quella sera eri con lui.» «No. Io ero con Roger... Hessey. Il mio ragazzo. Ma alla festa abbiamo litigato e mi ha mollato lì. È per questo che ero con Billy.» «E non ricordi niente del parco?» «No, niente. L'ultima cosa che ricordo è che eravamo in centro.» «Esther, tra un momento ti lascerò andare. Ma prima voglio mostrarti qualcosa. Poi ti riporterò a casa.» Per un momento Esther non seppe come prenderla. Se credergli o no. A casa. Fuori da quella stanza. I suoi muscoli contratti si rilassarono di colpo,
e sembrò sgonfiarsi come un palloncino. Shindler aprì il cassetto della scrivania e ne tirò fuori la busta di carta marrone. Sfilò la grande fotografia a colori dalla busta tenendola rivolta in giù, e quando Esther, incuriosita, si sporse in avanti, la girò di colpo. Lei emise un suono strozzato, poi cominciò a strillare. Shindler non se l'aspettava. Ripensandoci, si rese conto che avrebbe dovuto metterlo in preventivo. Esther era scattata in piedi e continuava a gridare, le mani davanti alla faccia, le dita contratte, incurvate a formare piccoli artigli. La osservò con distaccato interesse, come fosse una cavia da laboratorio. La ragazza non riusciva a staccare gli occhi dalla fotografia, né a smettere di strillare. La donna poliziotto la portò fuori dalla stanza, lanciando a Shindler un'occhiata di disapprovazione. Dagli uffici vicini tutti stavano uscendo in corridoio per vedere che cosa stesse succedendo. All'improvviso, alla mente di Shindler si affacciò la consapevolezza di essere stato lui, con le sue azioni, a causare la crisi isterica della ragazza, e la sua compostezza cominciò a sgretolarsi. La gente lo guardava dalla porta. Eppure, lui rimase dov'era, cercando di considerare la situazione in termini logici. Quella ragazza e i suoi due amici erano colpevoli. Avevano macellato due ragazzi meravigliosi. Se Esther doveva soffrire perché la verità venisse a galla, era triste ma necessario. Qualcuno gli chiese se stesse bene. Lui nemmeno rispose. Sulla scrivania c'erano una caraffa e un bicchiere. Bevve un sorso d'acqua e contemplò la fotografia. Provava la stessa rabbia della prima volta che aveva visto il ragazzo. La foto del cadavere disteso sul telo di plastica era stata scattata appena prima che venisse portato via dalla scena del delitto. L'angolazione mostrava per intero le orribili lesioni al volto. Era stato crudele far vedere a Esther quell'immagine, ma Shindler era disposto a tutto pur di trovare chi aveva ucciso Richie Walters. «Ho deciso di toglierti il caso, Roy», annunciò il capitano Webster. Shindler, seduto rigidamente davanti al suo superiore, lo fissò dritto negli occhi, tenendo le labbra serrate come se avesse paura di quello che avrebbe potuto uscirne. «Non so che ti abbia preso, con quella ragazza. Sei fortunato se non ti querela.» «Capo, io... sono sicuro che Esther Freemont sia la chiave del caso Mur-
ray-Walters.» «Lo so quello che pensi. Ho fatto una lunga chiacchierata con Harvey Marcus prima di chiamarti qui. Diamine, Roy, io ti considero uno dei miei migliori detective. Ma questa non è ia Gestapo. Non posso permetterti di torturare la gente per farla crollare. Harvey ritiene che questa tua ossessione per i fratelli Coolidge ti stia impedendo di svolgere correttamente questa indagine e ti induca a trascurare gli altri casi ai quali dovresti lavorare. Per cui, sei rimosso dall'incarico.» «Perché ho fatto vedere quella fotografia alla ragazza?» «Non hai sentito ciò che ho detto? La storia della fotografia sarebbe già abbastanza. È una ragazza di sedici anni, Roy! Ma il motivo non è questo. Ho riesaminato il dossier, ho parlato con altri della Omicidi e sono giunto alla conclusione che non è nell'interesse del dipartimento farti continuare questa indagine.» Shindler fece un respiro profondo. «A chi passerà il caso?» «A Doug Cutler, ma gli dirò di non occuparsene attivamente.» «Non?... Capitano, questo equivale a chiudere il caso.» «Come ti ho detto, ho riesaminato il materiale e non penso che ulteriori indagini possano portare alla soluzione.» Roy Shindler andò a casa e si mise a letto, ma non dormì. Si accese una sigaretta. Era così stanco. E qualcosa dentro gli faceva male. Non qualche organo interno. Più dentro ancora. Dopo qualche ora, Roy si alzò e chiamò l'ufficio del signor Walters. Prima era solito andare a casa loro ogni volta che c'erano degli sviluppi per informarli personalmente, ma aveva smesso a causa della signora Walters. Sembrava sempre ritrarsi in se stessa quando lo vedeva. Suo marito era diverso. Si era indurito, dallo scorso novembre. Si teneva in stretto contatto con Roy, ansioso di conoscere ogni dettaglio dell'indagine. La sua segretaria disse che il signor Walters era in ufficio e sarebbe stato lieto di riceverlo. Roy si vestì e andò in centro. «Volevo dirglielo di persona. Hanno messo la pratica in giacenza.» «Intende dire che hanno chiuso il caso?» domandò incredulo Norman Walters. «In sostanza, è la stessa cosa», ammise Shindler. «È ancora aperto, ma nessuno se ne occupa attivamente.» «Ma lei mi aveva detto che stava seguendo una pista. Che pensava di sapere chi... chi ha ucciso Richie.»
«Infatti. Solo che il dipartimento non è d'accordo.» Il signor Walters lo guardò intensamente. «Le hanno tolto il caso. Chi è stato? Non sono privo di influenza, Roy. Mi dia i nomi ed entro domani riavrà l'incarico.» Roy scosse la testa. «Non è così che funziona. Se anche lei potesse farmi riassegnare il caso, ci sarebbe tanto risentimento che non sarei in grado di svolgere il mio lavoro.» «Allora è tutto finito», disse Walters, avvilito. «Il mio ragazzo è morto e i colpevoli rimarranno impuniti.» «No, non finisce qui, signor Walters. Non finirà mai, per quel che mi riguarda. Lascerò calmare le acque per un po'. Ho ancora accesso al fascicolo e posso seguire l'andamento dell'indagine. Quel che faccio nel mio tempo libero sono fatti miei. No, non è finita, signor Walters.» PARTE TERZA Negromanzia 1 Era il 1965, il giorno dopo il Ringraziamento, e Norman Walters, come faceva ogni anno in quella data dal novembre del 1961, dopo colazione andò nel suo studio e, senza farlo sapere a sua moglie, firmò un assegno e lo mise in una busta insieme a un foglio di carta intestata scritto a macchina. Il testo diceva: Si offrono 10.000 dollari a chi possa fornire informazioni utili per la cattura dei responsabili dell'omicidio di Richie Alien Walters ed Elaine Melissa Murray, avvenuto il 25 novembre 1961. Prego contattare: Norman Walters, Suite 409, Seacrest Building, Portsmouth. Telefono: 237-1329. L'annuncio sarebbe apparso per un mese nello spazio degli avvisi personali sull'Herald di Portsmouth. Farlo pubblicare ogni anno era diventato per lui un rito da compiere per espiare le sue colpe immaginarie e poter sostenere lo sguardo triste e pieno di accusa di Roy Shindler. Per un po', dopo la morte di Richie, lui e il detective si erano visti spesso. All'inizio Norman credeva di avere trovato in lui un alleato motivato
dall'umanità e la serietà professionale, ma presto si era reso conto che era l'odio a unirli. Con il passare del tempo il suo desiderio di vendetta si era smussato, e tra loro si era creata una frattura. Mentre il detective continuava ad accanirsi nella ricerca dei colpevoli, lui e sua moglie avevano faticosamente cercato di tornare a una vita più o meno normale, sviluppando una crescente avversione per qualunque cosa ricordasse loro la tragica perdita che avevano subito. Norman si era incontrato con Shindler sempre meno di frequente, e senza farlo sapere alla moglie. Le rare volte che ancora si vedevano, sembrava quasi che la morte di Richie importasse più al detective che a lui. Non era vero, naturalmente. Ma in cuor suo, sperava che non emergessero nuove prove. Trovare gli assassini di suo figlio dopo tanti anni serviva solo a riaprire le ferite sue e di Carla, acuendo nuovamente il loro dolore. Durante l'ultima settimana, c'erano stati momenti in cui Norman aveva pensato di non spedire l'annuncio. Poi gli si affacciava alla mente l'immagine di Shindler, e il coraggio gli veniva a mancare. Il bambino stava piangendo di nuovo. Alzarsi ad accudirlo le costava ogni volta più fatica. A volte pensava di restare a letto e lasciarlo strillare fino a soffocarsi. Poi si sentiva in colpa. Per una madre era innaturale desiderare che il proprio figlio morisse. Lei amava il suo bambino. Solo, era così stanca. Se almeno ci fosse qui John, pensò. Ma John se n'era andato. L'aveva lasciata a causa del bambino. No, non era stato per il bambino. Anche gli altri l'avevano lasciata, e non c'era stato di mezzo nessun bambino. Era solo colpa sua. Era lei che non andava. Il bambino strillava come un disperato. Esther Pegalosi aprì gli occhi e guardò l'orologio. Erano le quattro del mattino. Fuori era ancora buio. Si sentiva vuota. Che cos'era lei? Una macchina che andava a cibo. Alzarsi, nutrirsi, andare in bagno, dormire. Nessuno scopo. Meno che una macchina. Almeno una macchina serviva a qualcosa. Tappava bottiglie o stampava forme nell'acciaio. Esther si costrinse ad alzarsi. Vide la propria immagine riflessa nello specchio. Aveva perso buona parte del peso messo su durante la gravidanza e stava recuperando la linea. Si tolse la camicia da notte e rimase lì nuda a guardarsi. Le sue gambe erano lunghe, i fianchi ben torniti. L'addome stava riacquistando il tono muscolare. Il seno era ancora pieno e sodo. Agli uomini era sempre piaciuto, il suo seno. Era ben fatta. Aveva un bel corpo, glielo dicevano tutti. Ma per qualche motivo non era mai stato abbastanza.
E non le era servito a tenersi John. Lei faceva la cameriera in un ristorante per camionisti vicino all'interstatale quando lo aveva conosciuto, circa un anno e mezzo prima. Era carina, così i clienti scherzavano con lei e tentavano degli approcci che spesso non disdegnava. Ma con John era stato diverso. Lui non era tipo da pacche sul sedere e apprezzamenti pesanti. Era più posato degli altri, più serio. Avevano cominciato a uscire insieme, e lui si era comportato come un vero gentiluomo. La portava al cinema e una volta le aveva perfino regalato dei fiori. I loro incontri erano sporadici, perché lui era spesso in viaggio, ma Esther si ritrovò ad aspettare con impazienza di rivederlo. Non era certo la passione romantica che travolgeva le eroine dei libri rosa, ma si sentiva a suo agio con lui. Era gentile e la trattava con rispetto, cosa che lei apprezzava. Esther sognava il grande amore, ma si accontentò di avere accanto qualcuno che sembrava volerle bene. I pugni del bambino erano serrati e il suo colorito si era fatto di un rosso acceso. La sua bocca era spalancata, e strillava con tutto il fiato. Strillava sempre. Perché non poteva essere un bambino tranquillo? Non dormiva mai. Non la lasciava mai dormire. Lo prese in braccio e cominciò a cullarlo meccanicamente. Non c'era amore nei suoi gesti. Solo esasperazione. Era cambiato ben poco per Esther, prima che sposasse John. Dopo il liceo, si era trovata un appartamento e un lavoro. C'erano stati molti uomini, ma nessuno era rimasto per molto. Le dicevano di amarla, e a ogni nuova promessa di felicità lei donava tutta se stessa, ma la relazione non durava mai a lungo. Poi John le aveva chiesto di sposarlo. Per una volta le cose sembravano funzionare. Quella avrebbe potuto essere la sua unica occasione. Forse sarebbe stata felice, dopotutto. Fino all'ultimo aveva temuto che lui ci ripensasse. Stentava a credere che un buon uomo come John potesse volere proprio lei. Poi un giudice di pace li aveva dichiarati marito e moglie. Avevano unito i loro stipendi e preso in affitto un piccolo appartamento. Presto, però, John aveva perso il lavoro. All'inizio si era dato da fare per trovarne un altro, ma era difficile, e dopo un po' si era arreso. Se ne stava tutto il giorno seduto davanti alla TV, aveva cominciato a bere più del solito e il sesso fra loro si era fatto saltuario e sbrigativo. Scoprendo di essere incinta, Esther si era illusa che il bambino avrebbe dato nuovo slancio al loro rapporto. Ma John non aveva accolto la notizia con gioia, come lei aveva sperato, anzi si era fatto cupo e taciturno. Le di-
scussioni sui soldi erano all'ordine del giorno. Esther cominciò a odiare il bambino prima ancora che nascesse. La stava allontanando dal marito, incuneando il suo piccolo corpo tra lei e la sola felicità che avesse mai conosciuto. Prima o poi John l'avrebbe lasciata, se lo sentiva. Lui non aveva mai accennato niente al riguardo, ma era nell'aria. Il presagio dell'abbandono aleggiava in ogni stanza del loro appartamento, finché un giorno era diventato realtà. Il bambino succhiò avidamente dal biberon, poi finalmente si rilassò e chiuse gli occhi. Esther avrebbe dovuto cambiargli il pannolino, ma decise di soprassedere. Non voleva rischiare che si svegliasse e si rimettesse a piangere. Lo mise nella culla, sperando che dormisse a lungo. Tornò a infilarsi sotto le coperte e chiuse gli occhi. Era un incubo, starsene rinchiusa lì con suo figlio. Quell'appartamento era la sua prigione, e il bambino il suo carceriere. Era una condanna a vita. A volte pensava che sarebbe stato meglio se fosse morta. Magari durante il parto. Immaginava i medici in camice bianco intorno a lei, le loro facce solenni mentre il diagramma delle sue funzioni vitali si appiattiva lentamente sul monitor. Avrebbero detto a John che lei e il bambino erano morti. Lui avrebbe pianto, ci sarebbero state rose al suo funerale e un pastore avrebbe detto delle belle cose sul suo conto. Ma non era morta. E, talvolta, ancora sperava. Cercava di impedirselo, ma quando era debole o stanca, come adesso, non riusciva a farne a meno. Lei non era un granché, lo sapeva. Ma c'erano altre persone come lei che erano qualcuno. Lei non voleva altro... solo essere qualcuno. Cominciò a piangere silenziosamente. Mark Shaeffer aveva deciso che continuando a rigirarsi nel letto avrebbe solo disturbato il sonno di sua moglie Cindy ed era andato in soggiorno a leggere. Ma le stesse preoccupazioni che lo tenevano sveglio gli impedivano anche di concentrarsi sul libro. Aveva sempre desiderato essere un avvocato, e quando otto mesi prima aveva ricevuto la notizia della sua ammissione all'albo gli era sembrato di toccare il cielo con un dito. Era pronto a iniziare la sua carriera. Il solo problema era che non sapeva da dove cominciare. Era partito armato di entusiasmo e buona volontà, ma sei mesi di tentativi andati a vuoto e promesse finite in niente avevano eroso la sua fiducia. Non aveva nemmeno potuto contare sull'appoggio morale di Cindy. Si erano sposati giovani, e lei era andata a lavorare come segretaria per aiutar-
lo a terminare gli studi. Come Mark, si era aspettata di trovare l'oro non appena lui si fosse laureato, ed era rimasta delusa. Veniva da una famiglia povera, e l'incertezza economica la rendeva nervosa. Non riusciva a capire perché fosse ancora disoccupato e cominciò ad accusarlo di non darsi abbastanza da fare. Erano nate scenate molto sgradevoli in cui Mark aveva alzato la voce, e poi si era sentito in colpa quando lei si era messa a piangere. Alla fine, stanco di accumulare frustrazioni, Mark aveva deciso di mettersi per conto proprio. Era un passo molto impegnativo, per un giovane avvocato inesperto e privo di agganci. Eppure, più ci pensava e più l'idea lo eccitava. Sfortunatamente, Cindy non ne era stata affatto entusiasta. Lei voleva lasciare il lavoro e avere un bambino. Se lui avesse tentato l'avventura di esercitare in proprio invece di lavorare per un grande studio, di quelli che pagavano bene, avrebbe dovuto rimandare ancora, forse per anni. C'erano state altre scenate, ma l'aveva spuntata lui. Da due mesi aveva preso in affitto un piccolo ufficio in un vecchio palazzo di otto piani nel centro di Portsmouth, a tre isolati dal tribunale. Gli piaceva quello che stava facendo, ma gli incarichi erano scarsi e lui aveva cominciato a domandarsi se ce l'avrebbe fatta da solo; con tutte le spese che doveva sostenere, sarebbe bastato che un cliente lo bidonasse per fallire. La tensione era forte, e le frequenti litigate con Cindy non servivano certo ad alleviarla. Succedeva spesso che andassero a letto arrabbiati, qualcosa che era capitato raramente nei primi sei anni del loro matrimonio. Di solito facevano la pace il mattino dopo, ma i continui bisticci e rimbrotti stavano cominciando a esasperarlo. Si era perfino sorpreso a domandarsi se non avrebbero dovuto separarsi per qualche tempo, ma aveva subito scartato l'idea. Tuttavia non riusciva a immaginare come il loro rapporto avrebbe potuto reggere, se la sua attività non avesse decollato. Mark appoggiò la testa allo schienale della poltrona e chiuse gli occhi. Tra poche ore avrebbe dovuto andare al lavoro. Se non poteva dormire, almeno avrebbe cercato di riposare. «Vedi di rallentare, Coolidge. Questa non è la Formula Uno!» Il camion sobbalzò su una buca e lo scotch traboccò dalla bottiglia, schizzando sulle gambe di Mosby. «Bel colpo, Coolidge. Questa roba costa un occhio della testa. Se me ne fai versare un'altra goccia ti faccio il culo.»
«Sempre meglio tu che i vietcong. Sei più carino di quei musi gialli.» «Quei piccoli stronzi non ti toccheranno. Ci sono qua io a proteggerti.» «Potrebbero farcelo a tutti e due il culo, se non rientriamo al campo prima di notte.» Mosby piegò la testa all'indietro e tracannò un'altra sorsata dalla bottiglia. Dio, almeno poteva bere. Avevano entrambi fatto la loro parte da quando erano arrivati a Saigon la sera precedente. Bobby Coolidge risentiva dei postumi della sua sbronza, e doveva concentrarsi con particolare impegno sulle curve della stretta strada che serpeggiava attraverso la giungla. Il fitto fogliame lussureggiante formava una barriera ai due lati, e i rami superiori degli alberi si intrecciavano sopra di loro in una tettoia impenetrabile ai residui raggi di luce del tramonto, oscurando la carreggiata. Era stato un idiota a lasciarsi convincere da Mosby ad aspettarlo mentre si scopava la ragazza che aveva rimorchiato al bar prima di tornare al campo con i rifornimenti, pur sapendo che il viaggio sarebbe stato lungo e quanto fosse pericoloso trovarsi nella giungla di notte. Bobby si accorse solo all'ultimo momento di una curva e sterzò bruscamente, riuscendo a malapena a non far ribaltare il camion. Mosby imprecò. Non avrebbe dovuto guidare, con tutto l'alcol che aveva in corpo, ma che cazzo poteva farci? Mosby era conciato peggio di lui, e li avrebbe mandati a schiantarsi in due secondi. Cullato dal rombo monotono del motore e dai sussulti del camion, Mosby finì per addormentarsi. Coolidge lo sentì gemere nel sonno e gli lanciò un'occhiata. Sorrideva, immerso in qualche sogno osceno. Beato lui. Era tanto che Cooiidge non sognava più qualcosa di piacevole. Le vecchie paure avevano cominciato a riaffiorare, da quando era al campo. Solo un vago barlume; un ammonimento, forse. Ma niente di definibile. C'era ancora l'eccitazione a sostenerlo, allora. Era uscito dal college da poche settimane, e si era lanciato pieno di baldanza in quell'avventura. Si sentiva un eroe. Presto, però, il Vietnam si era rivelato qualcosa di diverso da quello che si aspettava, e cominciò a domandarsi che cosa ci facesse lì. Non riusciva a identificare la gente che uccideva come «il nemico». Troppe donne, troppi bambini, troppi vecchi. Era disorientato. Un giorno smise di sparare durante i combattimenti, anche se non lo confidò a nessuno. Come avrebbero reagito Mosby e gli altri se avessero saputo che cosa stava succedendo nella sua testa? Qualcuno avrebbe potuto capire, forse perfino essere solidale, ma era più prudente tenere per sé i suoi pensieri. Però c'era un prezzo da pagare in termini di angoscia, che gli
tendeva agguati nel sonno, strisciando fuori dal suo inconscio sotto forma di sogni atroci di vampate di fuoco, cadaveri e fiumi di sangue. Gli incubi cominciarono a controllare la sua vita. Bobby era un guardafili. Il suo compito era riparare le linee telefoniche danneggiate in un'area fortemente infiltrata dai vietcong. Doveva arrampicarsi sui pali al buio, poi accendevano un riflettore e lui aveva due minuti per lavorare, pregando che i cecchini non lo individuassero. Ogni secondo durava un'eternità. Era snervante. Durante il giorno non poteva dormire pensando alla notte, e di notte non poteva dormire a causa dei sogni. Non ce l'avrebbe fatta, senza attaccarsi alla bottiglia. Nell'alcol trovava pace e sonni senza incubi. Gli rendeva la guerra più sopportabile. Cominciò a vedere la guerra come se facesse parte della vita di qualcun altro. C'erano due Bobby Cooiidge. Uno beveva, tirava avanti e guardava l'altro recitare senza convinzione la parte del soldato. Nel giro di poco tempo, e senza addestramento formale, stava diventando un uomo di coscienza. Stava rinnegando la violenza della sua gioventù. Non c'era niente di glorioso in essa. Lo aveva imparato sui pali telefonici nell'oscurità e dalle facce dei bambini moribondi nelle stradine dei villaggi vietnamiti. La strada era sempre uguale. L'ondeggiare dei fari lo ipnotizzava, e le sue palpebre si fecero pesanti. Doveva essersi assopito per un momento, perché non ricordava di aver visto il vecchio tagliargli la strada. Se lo trovò davanti all'improvviso, paralizzato dalla luce dei fari come un daino atterrito, gli occhi sbarrati a implorarlo di non ucciderlo. Forse Bobby avrebbe potuto esaudire la sua supplica se fosse stato sobrio, ma fu troppo lento e lo travolse prima di avere pigiato il freno. Ci fu un tonfo e il camion per un momento incontrò resistenza. A Bobby non restò altro da fare che appoggiare la testa sul volante del camion, ora fermo di traverso sulla strada. Il contraccolpo aveva mandato Mosby a sbattere contro il cruscotto. Si guardò attorno, frastornato. «Che è successo?» «Credo di avere investito un uomo.» «Cosa?» «Giuro che non lo avevo visto. Non so da dove sia saltato fuori. Non sono riuscito a schivarlo.» Mosby scrutò nell'oscurità. «Non vedo nessuno.» «Probabilmente è dietro di noi, o sotto il camion.» «Oh, merda.»
Restarono in silenzio per un momento. «Dobbiamo vedere se è morto. Forse è solo ferito.» Bobby era spaventato, ma seguì Mosby, saltando giù dalla cabina del camion sulla strada di terra battuta. Mosby girò attorno lo sguardo. Era buio pesto, fuori dai coni di luce dei fari. Allungò una mano nella cabina a prendere una torcia dal cassetto del cruscotto, poi precedette Bobby dietro il camion, avanzando con cautela. Sulle prime non videro il corpo, perché era stato sbalzato tra gli alberi lungo la strada. Poi il fascio di luce cadde su una gamba piegata. La faccia era impietrita in un'espressione incredula. Non c'erano segni esteriori di morte, eccetto un rivolo di sangue a un angolo della bocca. Mosby diede un colpetto al vecchio con il piede. «È morto?» domandò Coolidge, guardando oltre la spalla di Mosby. «Credo di sì. Non si muove.» «Che facciamo?» «Non lo so. Lasciami pensare un momento.» Mosby girò la torcia tutt'intorno. La zona era deserta. «Senti, è stato un incidente, giusto?» Bobby annuì. Era ancora scosso e si sentiva tutto slegato dentro, come se potesse andare in pezzi da un momento all'altro. «Era vecchio, non ne avrebbe avuto ancora per molto comunque. Se lo tiriamo tra i cespugli nessuno lo troverà per giorni. E se anche lo trovano, chi se ne frega. Non possono collegarci con questa storia, se non ne parliamo con nessuno.» «Non so. L'ho ucciso, Carl.» «Ascolta, Bobby, cerca di ragionare. Questo non è un bianco. È solo un qualsiasi muso giallo. Poteva anche essere un vietcong, per quel che ne sappiamo. Dammi retta, non è il caso di cercarci rogne.» Bobby aveva bisogno di sedersi. Si accovacciò di fianco al camion e tirò fuori una sigaretta. Gli tremavano le mani. Mosby fece un breve giro di ricognizione per cercare il posto migliore dove nascondere il corpo. Quando tornò al camion, Bobby era più calmo. «Okay, hai ragione tu», disse, alzandosi. Si avvicinò al corpo con fare guardingo. Si passò la lingua sulle labbra inaridite e si chinò. Ebbe un piccolo sussulto quando le sue mani toccarono le gambe ancora calde. Mosby afferrò il cadavere sotto le ascelle, e Bobby abbassò lo sguardo mentre sollevavano il vecchio e lo trasportavano nel folto della vegetazione. Tornati indietro, controllarono che non ci fosse sangue sul camion, poi si sedettero nella cabina buia, con il fiato grosso per lo sforzo. Quando si furono ripre-
si, Mosby si mise al volante e ripartirono verso il campo. Era tutto finito. Anzi, non era successo niente, come avevano concordato. Alcune notti dopo, Bobby si svegliò urlando. Stava vagando per un villaggio. C'erano morti dappertutto. I corpi erano nudi e gli intestini fuoriuscivano dai loro ventri squarciati in orridi grovigli che gli si attorcigliavano intorno ai piedi mentre camminava tra essi. Poi, nella luce delle vampate di napalm, aveva visto le facce dei morti fissarlo con gli occhi del vecchio. «Possiamo scordarci di trovarle», disse l'agente Stout. «Tu credi?» domandò retoricamente Shindler. «Se ne saranno andate a Los Angeles o Frisco. Le puttane sono come uccelli migratori. Prendono il volo, e addio fino all'estate prossima.» Stout rise del proprio umorismo, ma Shindler non era in vena di scherzare. Era tutta la notte che girava con Stout, che era pratico della zona, cercando inutilmente due prostitute che erano state testimoni di un omicidio, e si sentiva stanco e depresso. Ci fu una chiamata alla radio, ma Shindler non ci fece caso finché Stout invertì la marcia con uno stridio di gomme. «Che succede?» domandò, riscuotendosi dai suoi pensieri. «Un tentato suicidio a pochi isolati da qui», lo informò l'agente, senza più traccia di allegria nella voce. Parcheggiarono di fronte a una palazzina di quattro piani. Nell'atrio c'era una donna in vestaglia e bigodini. «È al 4B. La porta è chiusa dall'interno. Fate presto!» La raccomandazione era inutile. Stout e Shindler stavano già salendo le scale. Shindler sbuffava quando raggiunsero il pianerottolo dell'ultimo piano e lasciò che Stout, giovane e in buona forma, lo precedesse lungo il corridoio. L'agente si fermò un istante davanti all'appartamento 4B, poi tirò un calcio alla porta vicino alla serratura. Il legno andò in pezzi e Shindler vide l'estremità di una catenella guizzare in aria. La ragazza giaceva nuda sul letto. Sul comodino c'era una boccetta di pillole vuota. Stout gridò che respirava ancora, e Shindler andò al telefono nella stanza che fungeva sia da cucina sia da soggiorno. Quando tornò di là dopo aver chiamato l'ambulanza, Stout aveva sollevato la ragazza e cercava di farla camminare. «Ha lasciato il figlio davanti alla mia porta.» Shindler si voltò. La donna che li aveva accolti di sotto era sulla soglia dell'appartamento e fissava Stout e la ragazza nuda.
«Prego?» disse Shindler. Là donna parlò senza distogliere lo sguardo dalla drammatica scena nella camera da letto. «Ho sentito il bambino piangere. Erano le sei di mattino e mi sembrava più forte del solito. E infatti era proprio di fronte alla mia porta, nel passeggino, legato con la cinghia. Lo aveva vestito e lasciato lì. Ho visto che c'era anche un biglietto. L'ho letto, e ho chiamato subito la polizia.» Dal corridoio arrivarono di corsa due uomini vestiti di bianco con una barella. Shindler raggiunse Stout nella camera da letto per non intralciare il passaggio. Osservò la faccia della giovane donna per vedere se desse qualche segno di vita. Era una bella ragazza. O, piuttosto, sensuale. «Bella» si addiceva di più alle Miss America. Lei era attraente in un modo più oscuro. Gli uomini con la barella gli stavano facendo delle domande. Qualcosa in quella ragazza lo turbava. Aveva la sensazione di conoscerla. «Sa dirmi come si chiama?» domandò alla donna con i bigodini. «Esther Pegalosi», rispose la signora, mentre gli infermieri prendevano in consegna la ragazza, sistemandola sulla barella. Stout, liberato dal suo fardello, si mise a sedere sul letto, asciugandosi la fronte sudata. Shindler guardò di nuovo in faccia la ragazza. Esther! Ma non Pegalosi. «Io vado con l'ambulanza», gridò, affrettandosi a seguire i barellieri fuori dell'appartamento. Stout alzò lo sguardo, sorpreso. Stava per dire qualcosa, ma Shindler era già andato. Si strinse nelle spalle e tirò fuori il suo taccuino. La signora con i bigodini guardò gli uomini correre lungo il corridoio finché scomparvero giù per le scale. 2 Il dottor Tucker aveva avuto una giornata pesante, ma finalmente era alla fine del turno. Un ultimo paziente e poi sarebbe andato a casa. Allora, vediamo un po' che cosa abbiamo qui, si disse, dando una scorsa alla cartella. Bianca, femmina, ventidue anni... Tentato suicidio. Scosse la testa. Che cosa poteva esserci di così disastroso, a quell'età? Comunque fosse, ormai era fuori pericolo. Forse non era sempre un bene volerli salvare a ogni costo. Era una loro scelta. Magari quella ragazza sarebbe stata meglio da morta. La porta si aprì e il dottor Tucker lanciò un'occhiata oltre una spalla. Un uomo alto dall'aria triste e con un soprabito pesante era entrato nella stan-
za. «Posso esserle utile?» lo apostrofò, seccato per l'intrusione. «Sono il detective Shindler, della polizia di Portsmouth. Volevo sapere come sta la ragazza.» Il dottor Tucker stava per rispondere quando la ragazza gemette e aprì gli occhi. Erano ancora vitrei, e faceva fatica a tenere le palpebre sollevate. Shindler si spostò in modo che il medico non gli ostruisse la visuale. «Come si sente?» le chiese il dottor Tucker in un tono che sperava suonasse gioviale. Sembrava che la ragazza volesse dire qualcosa. Si umettò le labbra con la lingua. Chiuse gli occhi per un momento, raccogliendo le energie per sostenere lo sforzo di parlare. Finalmente riuscì a tirare fuori un filo di voce e biascicò qualcosa. Shindler non ne era sicuro, ma gli sembrava che avesse detto: «È morto?» Il medico si chinò su di lei. «Il suo bambino sta bene», la rassicurò. Ma lei lo fissò confusa, poi cominciò a piangere. «Non aveva più la faccia», singhiozzò. Le lacrime colavano fin sul cuscino. Shindler sentì un brivido gelido corrergli lungo la spina dorsale. Il dottor Tucker era esausto, ma fece appello alla sua riserva di disponibilità e cercò di confortarla. «Non lo lasciavano andare. Continuavano a colpirlo.» «Nessuno ha colpito suo figlio, signora Pegalosi. Il bambino sta benissimo.» Lei era in stato confusionale. Smise di piangere, ma scosse la testa, agitata. «Non il bambino. L'hanno colpito. È morto, vero? Oh, Dio.» Stava perdendo di nuovo i sensi. Il dottor Tucker sospirò. Shindler si avvicinò al letto. «Esther, era Richie?» bisbigliò. Il medico si girò di scatto. Si era dimenticato del detective. «È meglio che se ne vada.» «Era Richie?» «Le ho detto di uscire», gli intimò seccamente Tucker. «Dottore, io...» fece per spiegarsi Shindler. «Fuori, ho detto. Questa ragazza è in condizioni critiche.» Shindler abbassò lo sguardo su Esther. La sua testa ciondolava da una parte. Si era riaddormentata. Il medico lo spinse fuori della stanza. «Non so che cosa lei si sia messo in testa di fare, ma...» «Mi dispiace», lo interruppe Shindler.
«Non può permettersi di comportarsi in questo modo.» «Dottore, le ho già detto che mi dispiace. Ora, ho bisogno di parlarle. La sua paziente potrebbe avere importanti informazioni che riguardano un omicidio. Ha cinque minuti da dedicarmi?» Mark Shaeffer aprì la porta di un'affollata aula di tribunale dove si stavano tenendo udienze per reati minori e prese posto su una panca. La corte era presieduta da un giovane giudice. Il pubblico ministero della procura distrettuale, Cantoni, aveva appena ottenuto che all'uomo al banco degli imputati fosse negata la libertà su cauzione. L'ufficiale giudiziario annunciò il prossimo caso: «Lo Stato contro Rasmussen». Mark si alzò e si avvicinò al banco degli imputati. La porta della prigione si aprì e un uomo sulla ventina, in jeans e maglietta, capelli biondi a spazzola, venne condotto in aula. Aveva l'aspetto trasandato ed emanava il puzzo di urina e odori corporei vari di tutti quelli che avevano passato la notte nel gabbione dove gli ubriachi venivano lasciati a smaltire la sbornia. «Vostro onore, sono Mark Shaeffer. Sono stato incaricato di rappresentare il signor Rasmussen solo stamattina. Se fosse possibile, vorrei avere modo di parlare con il mio assistito prima di patrocinare il caso.» «Certamente. Può usare una delle stanze dei colloqui della prigione. Nel frattempo esaminerò un altro caso.» «Lo Stato contro Marsha LaDue», chiamò l'ufficiale giudiziario. La guardia riportò Rasmussen in prigione e Mark li seguì, mentre una giovane donna ben vestita si avvicinava al banco degli imputati, scortata da un uomo anziano e distinto con un'elegante borsa da avvocato. La guardia li accompagnò in uno stanzino con un tavolo e due sedie, poi uscì, chiudendosi alle spalle la porta di metallo. Mark aprì la sua cartella e ne tirò fuori il fascicolo relativo al caso. «Signor Rasmussen, io sono Mark Shaeffer, il suo avvocato d'ufficio.» La mano di Rasmussen era sudaticcia quando strinse quella di Shaeffer. Sorrise imbarazzato e si passò una mano sui capelli. «L'ho combinata bella. E pensare che ero quasi a casa, quando quell'accidente di un poliziotto mi ha fermato.» «Prima di discutere i fatti, dovremmo chiarire la definizione legale di 'guida sotto l'influenza di sostanze alcoliche'. Lei può pensare di aver violato la legge, ma...» «Pensare?» rise Rasmussen. «Diavolo, ero suonato come una campana! Senta, io apprezzo il suo interessamento, sul serio. Ma l'ho violata eccome,
la legge, e adesso voglio soltanto chiudere questa faccenda e tornarmene a casa da mia moglie. Non sa nemmeno dove sono finito.» «Va bene», annuì Mark con riluttanza, «ma perché non mi dice qualcosa di sé? La guida in stato di ebbrezza è un'accusa seria. Forse potrei trovare un accordo con il pubblico ministero in modo che chieda una pena lieve o riduca il capo di accusa a un reato meno grave. Quanti anni ha?» «Ventiquattro.» «Ha figli?» «Un bambino di quattro anni.» «Lavora?» «Vado al college. Sono al secondo semestre. Ho finito il servizio militare circa sei mesi fa.» La corte era in pausa e Albert Cantoni stava parlando con la segretaria del giudice Mercalli, una bionda sexy che stava ridendo di qualcosa che il giovane avvocato della procura distrettuale aveva appena detto. Mark attese che Cantoni avesse finito, poi si schiarì la voce. «Mi scusi... sono Mark Shaeffer. Potrei parlarle un momento a proposito del caso Rasmussen?» «Certo. Qual è l'imputazione?» domandò, sfogliando le sue carte in cerca del fascicolo. «Guida in stato di ebbrezza. Mi chiedevo che tipo di accordo potremmo raggiungere se... be', se si dichiara colpevole.» Cantoni trovò il fascicolo e ne tirò fuori il verbale della polizia e una copia della fedina penale di Rasmussen. «Qui risulta pulito, eccetto una multa per eccesso di velocità qualche anno fa. Vediamo un po'. Il verbale dice che non aveva segnalato una svolta. L'agente lo ha seguito... ha fatto segno di accostare...» Cantoni borbottò tra sé, saltando da una frase all'altra del rapporto. Poi si rivolse di nuovo a Mark: «Be', non mi sembra niente di terribile. È stato conciliante e non ha causato incidenti. Che cosa fa il suo assistito?» «Studia al college. È appena uscito dall'esercito.» «Sa che facciamo? Gli dica di dichiararsi colpevole di guida pericolosa. Mercalli ci andrà leggero, e probabilmente avrà solo una multa.» «Vostro onore, mi sono consultato con il signor Cantoni, e il pubblico ministero acconsente a ridurre il capo di accusa del mio assistito a guida pericolosa. Il signor Rasmussen è disposto a dichiararsi colpevole della
suddetta imputazione.» «È così, signor Rasmussen?» «Sì, signore.» «L'ufficio della procura è d'accordo?» «Sì, vostro onore», rispose Cantoni. «Signor Rasmussen, lei è consapevole che se si dichiara colpevole di questo capo di accusa potrei condannarla a sei mesi di detenzione, o al pagamento di un'ammenda di cinquecento dollari, o entrambi?» «Il mio avvocato me lo ha spiegato.» «E desidera comunque dichiararsi colpevole?» «Sì, signore.» «Molto bene. Che sia messo agli atti. Signor Cantoni, vuole esporre i fatti accertati?» Cantoni porse al giudice il verbale della polizia. Quando ebbe finito di leggere, chiese a Mark se desiderasse dire qualcosa in difesa del suo cliente. «Sì, vostro onore. Il signor Rasmussen è uno studente universitario. Ha appena finito di prestare servizio militare, è sposato e ha un bambino. Questo è il suo primo attrito con la legge, fatta eccezione per una multa per eccesso di velocità nel 1962. Penso che sarebbe appropriato concedergli la libertà condizionata. Per quel che riguarda l'ammenda, pregherei la corte di tenere conto del fatto che io sono stato nominato d'ufficio, e il signor Rasmussen e la sua famiglia vivono di ciò che sua moglie guadagna come segretaria.» «Grazie, avvocato. Signor Cantoni, lei che cosa propone riguardo alla pena?» «Sono d'accordo con il signor Shaeffer, vostro onore. Ritengo che date le circostanze si possa concedere la condizionale.» «Bene. Signor Rasmussen, per questa volta se la caverà con poco, dal momento che non ha precedenti. Con una condanna per guida in stato di ebbrezza, le sarebbe stata sospesa la patente per un mese. Il suo avvocato ha fatto un lavoro eccellente facendo commutare il capo di accusa. La prossima volta potrebbe non avere la fortuna di essere rappresentato dal signor Shaeffer. «E, soprattutto, la prossima volta potrebbe uccidere qualcuno. Ci pensi, prima di mettersi di nuovo alla guida dopo avere bevuto. «Questa corte la condanna a trenta giorni di carcere, con il beneficio della condizionale. L'esecuzione della condanna sarà sospesa per un anno. Se
dovesse essere arrestato di nuovo per guida in stato di ebbrezza, dovrà scontare la pena. È chiaro?» «Sì, signore.» «Nessuna multa», concluse il giudice. Shaeffer lo ringraziò, poi riaccompagnò Rasmussen in prigione. «La ringrazio di cuore», disse Rasmussen. «Sono lieto di esserle stato di aiuto.» «No, davvero. Fosse stato per me, mi sarei dichiarato colpevole dell'altra imputazione e avrei perso la patente. Non avevo idea che si potesse cambiare il capo di accusa.» Mark sorrise. «È a questo che servono gli avvocati difensori.» «Senta, avrebbe un biglietto da visita? Se mai dovessi trovarmi di nuovo nei pasticci, la chiamerò di sicuro.» Mark rise e gli diede diversi suoi biglietti da visita. Parlarono insieme per qualche minuto, poi lui tornò al suo ufficio. Eddie Toller stava davanti alla porta del suo ufficio e guardava i primi clienti che cominciavano a riempire l'interno rosso scuro del Satin Slipper Lounge. Erano per lo più uomini d'affari che volevano un rapido diversivo prima di tornare dalla famiglia nelle loro case fuori città. La gente che arrivava più tardi era di genere diverso, per la maggior parte operai e scapoli. Eddie guardò l'orologio, poi lanciò un'occhiata verso l'entrata, accarezzandosi i baffoni spioventi sale e pepe. Tra poco sarebbe arrivata Joyce. Era impaziente di vederla. Negli ultimi anni lui aveva fatto continuamente dentro e fuori dalla prigione. Mai niente di serio, più che altro furti con scasso e una volta un'auto rubata. Comunque, era stato in gabbia un bel po', e c'era una cosa alla quale non si era mai abituato là dentro: la mancanza di donne. Eddie non poteva farne a meno. Sia chiaro, non era un donnaiolo, né frequentava le prostitute. In effetti, era più corretto dire che aveva bisogno di una donna. Qualcuno che si prendesse cura di lui e gli dicesse che cosa fare. Non lo avrebbe mai ammesso, ma era un fatto certo che Eddie, a trentanove anni, non era capace di badare a se stesso. Quando era giovane, sua madre si era occupata di lui in modo così totale che Eddie non aveva mai imparato a cavarsela da solo. Poi, nell'esercito, c'erano stati i superiori a dirgli quello che doveva fare. Dopo di che, si era ritrovato a dover gestire autonomamente la propria vita. E, guarda caso, era stato proprio allora che aveva cominciato a mettersi nei guai.
Joyce entrò nel locale ed Eddie le rivolse un cenno di saluto. L'aveva conosciuta qualche settimana prima, quando aveva cominciato a lavorare lì come vicedirettore. Lei era una cameriera del locale. Non era una gran bellezza, ma nemmeno brutta. Gli era piaciuta subito la sua figura. Eddie non era attratto dalle forme prorompenti ostentate in modo provocatorio dalle ragazze del locale. A lui le donne piacevano magre, ma con le gambe lunghe, e Joyce era proprio il suo tipo. Non gli importava che fosse più alta di lui. Gli piaceva toccare i suoi lunghi capelli biondi e guardare nei suoi occhi azzurri. E poi era così tenera e protettiva con lui. Si stava innamorando veramente. Era sicuro che fosse la donna giusta, e stava perfino pensando a qualcosa di definitivo. E perché no, in fondo? Cominciava ad avere una certa età, e le cose si stavano mettendo bene. Era uscito di prigione da appena un mese e mezzo, e aveva già un posto fisso non sapeva nemmeno lui dopo quanto tempo - e una donna. «Sei in ritardo», scherzò, guardando l'orologio. «Che vuoi fare, licenziarmi?» «Potrei anche farlo», replicò lui, dandole un bacio sulla guancia. Joyce sorrise. Eddie, con la sua faccia da buono, non riusciva ad avere l'aria da duro neanche per gioco. La prima volta che lo aveva visto, con quegli occhi tristi e i baffi ingrigiti, le aveva ricordato il vecchio terrier di famiglia, quando ormai stanco di correre si aggirava pacioso e contento per casa. «Figuriamoci», ribatté allegramente. «Non potresti mai fare a meno di me.» Lui la guardò serissimo. «È vero, e lo sai.» Arrossirono entrambi. Poi lei si fece pensierosa, come se qualcosa la preoccupasse. «Ehi, che ti succede?» le domandò Eddie, notando il suo improvviso cambiamento di umore. «Andiamo in ufficio, Eddie. Devo parlarti.» «Certo», assentì perplesso. Non entrarono in direzione, anche se Carl, il proprietario e gestore del Satin Slipper, si trovava fuori città per qualche giorno. Eddie aveva un suo ufficio in fondo al corridoio: il primo che avesse mai avuto, a parte la scrivania che occupava nell'esercito quando era un sergente addetto ai rifornimenti. Non era un granché: piccolo, arredato con una minuscola scrivania, un archivio e qualche sedia di legno, ma lui ne era orgoglioso. «Eddie, ho pensato molto a noi due.»
Oh, Gesù, fu il suo primo pensiero. Vuole che smettiamo di vederci. «Tu mi piaci molto, Eddie. E so di piacerti anch'io. Non è così?» «Be'... sì. Io... certo che mi piaci», farfugliò, abbassando gli occhi sulla scrivania. Lei gli mise una mano sulla guancia. «Eddie, voglio che tu smetta di lavorare per Carl.» Eddie alzò di colpo lo sguardo, stupefatto. «Vuoi che mi licenzi? Sei impazzita?» «Eddie, sono preoccupata. Carl si sta approfittando di te, e rischi di ritrovarti in guai seri.» «Carl, approfittarsi di me? Tesoro, Carl mi ha dato questo lavoro, e gliene sarò per sempre grato. Prova a trovare un'altra persona disposta a darmi fiducia con i miei precedenti. E comunque, non sto facendo niente per cui potrei finire nei pasticci.» «Lo sai che non è vero. Qui circola parecchio denaro sporco. C'è la prostituzione. E non credere che non sappia niente della droga.» Eddie si irrigidì sentendo accennare alla droga. «Ti giuro, Joyce, io quella roba non la tocco. Ho chiuso con queste cose.» «Lo so, Eddie», gli assicurò Joyce, posandogli gentilmente una mano sul braccio. «Ti sono abbastanza vicina per saperlo. Però qui ne gira in continuazione, e prima o poi Carl finirà per essere arrestato. Ma ci andrai di mezzo anche tu, dati i tuoi trascorsi.» In quel momento Eddie ebbe la certezza di amarla. Le strinse forte la mano. «Ascolta, Joyce, tu devi avere fiducia in me. Qualunque cosa possa succedere qui, io ne starò fuori. Sono in libertà sulla parola e, credimi, non ho nessuna intenzione di tornare dentro... soprattutto adesso che ho te.» Rimasero a guardarsi in silenzio per un momento, poi si ritrovarono a baciarsi, stretti l'uno tra le braccia dell'altro. Eddie si accorse che Joyce stava piangendo. «Ehi», mormorò, asciugandole le lacrime. Joyce guardò l'orologio, poi disse: «Devo andare a cambiarmi. Il mio turno comincia tra poco». «Non preoccuparti. Prenditi altri cinque minuti.» «Non posso, Eddie. Carl si arrabbierà, se viene a saperlo.» Eddie rise e gonfiò il petto. «Prenditi cinque minuti. Finché Carl non torna, qui sono io il capo.»
La sala d'aspetto del penitenziario era piastrellata di verde, e lungo le pareti erano allineati dozzinali divanetti rivestiti in pelle, fabbricati dai detenuti come parte del programma di riabilitazione. Bobby non lo sapeva, ma era seduto sul manufatto di un timido bibliotecario che aveva risolto i propri problemi coniugali arrostendo vivi la moglie e il suo amante. Due guardie stavano dietro un bancone circolare al centro della stanza, rispondendo alle domande dei visitatori. Bobby lanciò uno sguardo nervoso all'orologio sulla parete di fronte. Mancavano due minuti all'orario di visita. Cambiò di nuovo posizione sul divanetto, guardando un'attraente donna di colore spiegare a un bambino che avrebbe dovuto restare con la nonna mentre lei faceva visita al papà, perché i bambini non potevano entrare. Una delle guardie lasciò il bancone e andò a mettersi di fianco alla porta delle scale che scendevano nella prigione. I visitatori si misero in fila e la guardia perquisì le borse e fece vuotare a tutti le tasche. C'era un cancello di ferro in fondo alle scale. La guardia fece un cenno a un collega seduto in una guardiola e il cancello si aprì automaticamente, scorrendo di lato con un gemito metallico. I visitatori percorsero un corridoio e vennero fatti accomodare in un grande parlatorio, arredato con altri divanetti artigianali e parecchie sedie che si fronteggiavano ai lati di tavolini di legno. Distributori automatici di bibite, caffè e caramelle stavano di sentinella in un angolo. Il colore dominante era lo stesso verde asettico che si alternava al crema in tutta la prigione. Bobby trovò un paio di sedie in un angolo e guardò nervosamente la porta. Un detenuto si era fermato sulla soglia e si guardava intorno. Bobby ci mise qualche secondo a rendersi conto che era suo fratello. Lo trovava piuttosto ingrassato, specialmente in faccia. Si domandò se anche lui avrebbe stentato a riconoscerlo. Billy lo scorse e gli rivolse un cenno di saluto, poi attraversò la stanza con andatura spavalda. Non sembrava affatto a disagio nella sua uniforme da detenuto. Quando raggiunse il fratello, un sorriso si allargò sui suoi lineamenti ancora belli, sebbene appesantiti. «Sei orrendo come sempre», disse dandogli una stretta di mano decisa. «Lo credo bene: ti somiglio», buttò là Bobby, ma la sua risposta era forzata e Billy se ne accorse. «Mamma non te lo aveva detto, eh?» «Non è stata una gran corrispondente.» «Be', non è colpa sua. Le avevo detto io di non fartelo sapere. Sapevo
che avevi già di che preoccuparti in Vietnam, e non volevo darti altri pensieri, tanto più che non avresti potuto farci niente.» «Senti, ma... che cosa è successo? Non ci ho capito molto, da quello che mi ha detto mamma.» Billy si strinse nelle spalle. «Le cose non sono andate per il verso giusto. Avevo un lavoro pagato una miseria, e nessuna prospettiva. Johnny Laturno mi ha proposto di fare un colpetto in un negozio di liquori e io ci sono stato. Il commesso era un vecchio. Non pensavamo che ci avrebbe dato problemi. Invece ha deciso di fare l'eroe e io mi sono arrabbiato.» «Che gli hai fatto?» La domanda era quasi retorica. Bobby aveva partecipato con lui ad abbastanza scorrerie per immaginare che cosa fosse accaduto. «L'ho accoltellato.» Billy scrollò di nuovo le spalle. «È stata colpa sua. Glielo avevo detto che gli conveniva starsene buono.» «Be'...» «Ascolta, non voglio che ti preoccupi per me. Non è poi così male, qui. Tra qualche annetto sarò fuori, e ho abbastanza amici qua dentro per essere lasciato in pace. Ora, raccontami un po' di te. Mamma mi ha detto qualcosa a proposito del college. Che storia è?» «Inizio la settimana prossima. Ho cominciato a pensarci verso la fine del servizio militare. Non ci ho mai provato sul serio con la scuola, e voglio migliorarmi. Non mi va di pompare benzina per tutta la vita. Mentre ero nell'esercito ho riflettuto un po' su tutto e mi sono reso conto che ci sono troppe cose che non so. Così ho deciso di fare un tentativo.» Billy gli diede una manata sulla schiena e sorrise di nuovo. «Sono fiero di te. Sul serio. Sono sicuro che te la caverai benissimo. Sei sempre stato il cervellone della famiglia. Chissà, magari diventerai avvocato e potrai tirarmi fuori da questo buco.» Risero, e Bobby sì rilassò un po'. Era sempre il solito vecchio Billy, dopotutto. «Che studi hai scelto?» «Non so ancora. Per il momento farò cultura generale, poi deciderò.» «Dicono che economia e commercio sia buono. È lì che sono i soldi.» «Già. Be', si vedrà.» Restarono seduti in silenzio per qualche minuto. Bobby cercò di farsi venire in mente qualcosa da dire. Billy girò attorno lo sguardo. Le altre persone a colloquio stavano vicine e si parlavano a bassa voce, cercando di salvaguardare i loro razionati momenti di intimità.
«Posso offrirti una Coca o qualcosa?» chiese Billy, accennando ai distributori. «No, grazie. Ho mangiato prima di venire qui.» «Ah. Be', e come è stato il viaggio?» «Boh. Noioso. Sai, l'autostrada...» Restarono di nuovo a guardarsi. Sembrava non ci fosse altro di cui parlare. «Com'è andata nell'esercito?» «Niente di buono. Meno male che è finita.» «Hai partecipato a molte azioni?» «Un po'. Per la verità, non mi piace parlarne. Hai più avuto notizie degli altri?» domandò Bobby per cambiare discorso. «Qualcuno all'inizio è venuto a trovarmi, ma è un po' che non vedo più nessuno. La banda si è dispersa, dopo il liceo.» Bobby lanciò un'occhiata all'orologio e Billy lo notò. «Senti, se ti sto facendo perdere tempo, basta che me lo dici.» «No, non è questo», si scusò Bobby, imbarazzato. «È solo che devo rientrare. Ho promesso alla mamma di farle qualche lavoretto in casa, e dovrei anche comprare un po' di roba per il mio appartamento.» «Non stai a casa?» «Dopo l'esercito, volevo un po' di privacy.» Billy sorrise e fece un ampio gesto con la mano a indicare l'ambiente circostante. «Posso capirti.» Bobby si alzò. «Tornerò a trovarti la settimana prossima. Porterò anche la mamma.» Si alzò anche Billy e si strinsero la mano. «Sarebbe magnifico. Allora... stammi bene. E fammi sapere come va con la scuola, ok?» «Certo. Abbi cura di te.» L'ora di visita era comunque finita, ma Bobby si sentì ugualmente in colpa e turbato. Avrebbe potuto toccare a lui. Lo sapeva bene, come lo sapeva Billy. E non poteva fare a meno di chiedersi se suo fratello non provasse risentimento per la sua libertà e la sua nuova vita. Il vialetto che dall'uscita dei visitatori portava al parcheggio era fiancheggiato da alberi. Il vento faceva cadere le foglie ingiallite; i colori autunnali rendevano il panorama molto bello ma deprimente. «Esther, c'è qualcuno che vorrebbe parlarti.»
Esther guardò, oltre le spalle del dottor Tucker, l'uomo che si trovava sulla porta della sua camera. C'era qualcosa in lui che la spaventava. Che ragione c'era di avere paura di lui? Era troppo stanca per pensarci. Lasciò ricadere la testa sul cuscino. «Esther, ti ricordi di me?» le domandò l'uomo. «È ancora un po' intontita», avvertì il dottor Tucker. Le loro voci le giungevano come echi lontani. «Mi chiamo Roy Shindler. Ho parlato con te qualche anno fa, quando stavo indagando sulla morte di Richie Walters ed Elaine Murray. Te lo ricordi?» Le stava lentamente tornando alla memoria. Lui era più vecchio e aveva i capelli più radi, ma era quel detective. Quello che... Il dottor Tucker vide la paura sulla faccia della sua paziente e guardò interrogativamente Shindler. Il detective lo ignorò. «Non hai motivo di preoccuparti, Esther. So di averti sconvolta, l'ultima volta che abbiamo parlato, ma non è stato intenzionale. Dico davvero.» «Che vuole?» domandò Esther con diffidenza. Le sue dita erano serrate sull'orlo del lenzuolo; i terribili ricordi la spingevano a rifugiarsi nel letto, come un animale che cerca protezione al riparo della sua tana. Ci risiamo, pensò Shindler. Di nuovo, non pensava a lei come a un essere umano. Anche nelle altre occasioni, aveva provato la sensazione del cacciatore quando intrappola la sua preda. Per lui, sarebbe sempre stata un animale. «Quando il dottor Tucker è venuto a visitarti, ieri, gli hai detto qualcosa. Rammenti che cosa gli hai detto?» Lei guardò il dottor Tucker, poi di nuovo Shindler. Sembrava confusa. «Non ricordo di aver parlato con il dottor Tucker, ieri.» Shindler volse gli occhi al dottor Tucker. «È possibile», disse il medico. «Ha avuto un'esperienza molto traumatica, e l'effetto dei farmaci può aver contribuito.» «Esther, ieri hai raccontato al dottor Tucker di avere visto delle persone colpire qualcuno fino a ucciderlo. Te ne ricordi?» Lei aprì la bocca e sbarrò gli occhi. «Ho visto... Oh, no. Non ho mai...» «Lo hai detto tu, Esther. Io ero presente.» Lei guardò implorante il dottor Tucker. «Per favore... Non posso aver detto questo. Non ho mai visto uccidere nessuno. Gliel'ho già detto. Lo sa che non c'entro niente con la morte di Richie.» «Nessuno dice il contrario, Esther. Ma se hai visto accadere quell'atroci-
tà, puoi esserne rimasta tanto scioccata da non ricordartene.» «No. Io non ho visto niente. La prego, dottor Tucker», supplicò, cominciando a piangere. Il medico si affrettò al suo capezzale. «Temo che dovrà andarsene, adesso», disse a Shindler. «È troppo sconvolta. Mi attenda in corridoio, per favore.» Shindler si chiuse la porta alle spalle e prese una sigaretta. L'aveva appena accesa quando sentì la porta riaprirsi e si volse a guardare il dottor Tucker uscire dalla stanza. «Spiacente di averla dovuta allontanare, ma era sull'orlo di una crisi isterica.» Shindler scacciò il commento con un gesto della mano. «È stata colpa mia. Avrei dovuto rendermi conto che si stava agitando troppo.» Si avviarono lungo il corridoio verso lo studio del medico. «Questa storia del non ricordare... le crede?» Il dottor Tucker lo guardò sorpreso. «Oh, certo. È assolutamente possibile. La signora Pegalosi potrebbe soffrire di amnesia. Certi tipi di persone tendono a rimuovere un'esperienza paurosa con cui non vogliono essere identificate, o che rifiutano come parte della loro vita. In alcuni casi la mente cosciente non è nemmeno consapevole della presenza del materiale represso. Se ha assistito a quell'omicidio... be', sarebbe stato traumatico per chiunque, figuriamoci per una ragazza insicura come lei.» Proseguirono in silenzio per qualche momento. Shindler aspirò distrattamente qualche boccata della sua sigaretta. «Dannazione, dottore, lei sa tutto. Devo trovare il modo di farla parlare.» «Temo che potrebbe essere difficile.» «E perché? Ieri ha ricordato.» «Sì, ma in circostanze alquanto insolite. Era esausta, sotto l'effetto di medicinali, e aveva appena tentato di suicidarsi. Debilitata com'era, i suoi meccanismi di difesa non erano efficienti. Il suo subconscio aveva abbassato la guardia. È un po' come essere ubriachi. Molti sotto l'influsso dell'alcol diventano ciarlieri e parlano di cose che normalmente terrebbero per sé.» «Non c'è un modo per ricondurla a quello stato? Qualche procedura medica?» Il dottor Tucker tacque per un momento. «La memoria è un'interessante area di studio che sta ricevendo molta attenzione. Non sappiamo ancora bene come funzioni, ma ci sono due tipi di
memoria: quella a lungo termine, e quella a breve termine. La memoria a breve termine è probabilmente una reazione elettrica all'interno del cervello e può non essere durevole. È quello che accade per esempio quando si va da qualche parte in macchina e si vedono tante cose lungo la strada; si può ricordarle per un lasso di tempo, ma è improbabile che il cervello le registri permanentemente, perché non hanno connotazioni emotive. «La memoria a lungo termine è probabilmente una modificazione chimica o anatomica che può persistere finché le cellule cerebrali funzionano, ossia per tutta la vita. Sembra che i ricordi a lungo termine restino maggiormente impressi se associati a un qualche tipo di stimolo emotivo. Vengono catalogati e conservati come libri in una biblioteca, quindi, se Esther ha assistito all'omicidio, il ricordo dev'essere archiviato là. Il problema è come aggirare le sentinelle del subconscio che impediscono di accedervi. «A questo proposito, vorrei darle il nominativo di un mio amico che potrebbe aiutarla. È uno psichiatra esperto nell'uso dell'ipnosi, una tecnica spesso usata nel trattamento dell'amnesia. Perché non si mette in contatto con lui e vede se può fare qualcosa?» 3 Shindler prese posto nell'ultima fila dell'auditorium dell'università e ascoltò il dottor Arthur Hollander tenere una lezione sulla storia dell'ipnotismo. Era un uomo robusto con i capelli bianchi, ricordava Babbo Natale. Aveva un modo di esporre vivace e teatrale, e gli studenti pendevano dalle sue labbra: guardandosi attorno, Shindler concluse che li aveva letteralmente ipnotizzati. Al termine della lezione, molti degli studenti si assieparono intorno alla cattedra per parlare con il professore. Shindler si avvicinò senza fretta e attese pazientemente finché anche l'ultimo se ne fu andato. Il dottor Hollander stava raccogliendo i suoi appunti quando si accorse di lui. «Ho molto apprezzato la sua lezione, dottore.» «Grazie. Cerco di essere coinvolgente, e mi gratifica molto quando ci riesco. Non credo di averla mai vista. Lei è uno studente?» Shindler armeggiò con il suo distintivo finché gli riuscì di aprirlo. «Sono della polizia di Portsmouth, dottor Hollander. Il mio nome è Roy Shindler.» Hollander sembrò intrigato. «Spero di non aver fatto niente di disdicevole», disse con un sorriso malizioso.
Shindler rise. «No, lei è a posto, per quel che mi risulta. Ho avuto il suo nome dal dottor George Tucker.» «George. Ma certo. Be', adesso mi ha proprio incuriosito. In che cosa posso esserle utile?» «Potremmo andare a parlare da qualche parte? È una faccenda un po' complicata e vorrei spiegarle con calma. Si tratta di un caso di omicidio che la sua conoscenza dell'ipnosi potrebbe aiutarci a risolvere.» Hollander sembrò sorpreso, lusingato ed eccitato allo stesso tempo. «Farò quel che posso, naturalmente. Non ho mai lavorato con la polizia prima d'ora e non so come potrei essere di aiuto, ma se lei crede... Senta, conosco un locale tranquillo qui vicino. Voi pubblici ufficiali potete bere in servizio, vero?» Shindler sorrise. «Sento che andremo d'accordo, dottore.» «Lei insegna all'università a tempo pieno, dottore?» domandò Shindler. «No, no. Solo un corso di psicologia per il primo anno, tanto per mantenermi giovane. La mia professione mi tiene parecchio occupato, ma mi piace stare in mezzo ai ragazzi. E la prego, mi chiami Art. 'Dottore' è troppo formale, mi fa sentire vecchio, neutralizza ogni giovamento io possa avere tratto dalla mia lezione di stasera.» Shindler rise e si appoggiò contro lo schienale della panca di legno. Erano seduti a un tavolo del Victorian Age, un'imitazione di un pub inglese frequentato per lo più da studenti del college. «Art, che cos'è esattamente l'ipnosi?» «Niente di magico», replicò Hollander con un vago sorriso, come se avesse risposto a quella domanda già migliaia di volte. «Semplicemente una forma di suggestione. Noi siamo qui seduti e io suggerisco di prendere un'altra birra. Lei soppesa l'idea. La birra le va, ma è in servizio e deve essere lucido. Se io però la induco a credere che ogni mio consiglio sia ragionevole, lei smetterà di fare le sue valutazioni e si affiderà a me.» Hollander prese una penna dal taschino e stese un tovagliolo di carta sul tavolo davanti a sé, poi segnò un punto vicino al margine superiore. «Faccia conto che questo punto rappresenti uno stato di totale vigilanza. Lei ora è sveglio e attento. Può vedere e sentire tutto ciò che accade in questo pub, oltre che seguire la nostra conversazione e pensare. Ma ci sono altri stati di veglia che non sono così completi.» Tracciò una linea verticale attraverso il tovagliolo, partendo dal puntino in alto e terminando con un altro in fondo. «Quando si dice 'dormire come
un sasso' ci si riferisce a una persona così profondamente immersa nel sonno che la sua mente è del tutto a riposo. Questo stadio è rappresentato dal punto in basso. Ebbene, lungo questa linea abbiamo vari livelli di coscienza, e a un certo punto c'è uno stato in cui una persona diventa suscettibile alla suggestione. Si può essere in questa fase, mettiamo, una mezz'ora dopo essere andati a dormire. Gli occhi sono chiusi, si è perso il contatto con i suoni generici dell'ambiente circostante, ma si è ancora consapevoli di suoni molto importanti, come il pianto di un bambino o, nel caso di un medico, del dannato squillo del telefono. Una persona in quello stadio può essere svegliata con facilità, perché sta prestando tutta la sua attenzione a una singola cosa.» «Se si facesse una domanda a una persona in questo stato, risponderebbe normalmente?» chiese Shindler. «Voglio dire, così come lei sta rispondendo alle mie domande?» «Oh, sì. Dipende dalla profondità dell'ipnosi. Più si abbassa il livello di vigilanza, più l'attenzione è concentrata e la risposta allo stimolo accurata.» «Dottor... Art. Supponiamo che una persona abbia visto qualcosa di tanto terribile e sconvolgente che ne ha rimosso il ricordo. Ha un'amnesia. Se la si interroga sull'evento, nega di essere stata presente. Mettendo questa persona sotto ipnosi, si potrebbe indurla a parlare del fatto, raccontare quel che è successo veramente?» Hollander inarcò le sopracciglia e osservò Shindler con nuovo interesse. «Rimozione, amnesia... a quanto pare lei e George avete fatto una bella chiacchierata. Deve averle già dato la risposta alla sua domanda, altrimenti lei ora non sarebbe qui con me.» Shindler sorrise. «George pensa che lei sarebbe in grado di farlo. Che ne dice?» «È possibile. L'ipnosi è usata frequentemente nelle amnesie. Uno dei suoi principali impieghi in psichiatria è per richiamare materiale represso del genere a cui lei ha appena accennato.» «Lei che cosa farebbe, in un caso come questo?» «Be', non mi ha dato molte informazioni, ma suppongo che lo farà quando lo riterrà opportuno. In linea di massima, svilupperei uno stato ipnotico per rilassare il soggetto. Quando il paziente è rilassato, i meccanismi repressivi che sorvegliano i ricordi proibiti abbassano la guardia. Il rilassamento permette che vengano fatti riemergere dal subconscio alla mente cosciente.
«Ora, il processo non è semplice. Specialmente quando abbiamo a che fare con un'amnesia dovuta a un'esperienza terribile. Il soggetto potrebbe temere di impazzire, o di essere punito severamente, o comunque di incorrere in qualcosa di molto sgradevole se mai si dovesse scoprire un suo coinvolgimento nel fatto che sta reprimendo. Quando si avvicinano ai ricordi repressi, i pazienti trattati lottano strenuamente per evitare di venire a contatto con essi. Hanno reazioni fisiche che noi chiamiamo di conversione: mal di testa, disturbi di stomaco, diarrea... di tutto, oltre al semplice rifiuto di discutere l'argomento. Non è facile.» «Vuole un'altra birra?» «Certamente. È sempre un piacere approfittare del denaro pubblico.» Shindler fece un cenno alla cameriera e ordinò altre due birre. «Lei riesce a vincere le resistenze?» domandò a Hollander. «Non sempre.» «Le andrebbe di fare un tentativo con un caso molto particolare?» «Roy, sa bene di avere catturato il mio interesse. Mi esponga i fatti.» «Si tratta di un duplice omicidio al quale sto lavorando già da parecchio tempo, Art. Ha mai sentito parlare del caso Murray-Walters?» Bobby Coolidge piegò le dita. Gli era venuto un crampo alla mano a forza di scrivere, e nei pochi secondi in cui si era distratto aveva perso il filo di quello che il professor Schneider stava dicendo a proposito di bilancio preventivo. Non che l'argomento lo appassionasse particolarmente, ma si era ripromesso di mettercisi d'impegno in quel primo semestre per vedere se poteva farcela. Andare al college era stata una grossa decisione. Nessun altro nella sua famiglia lo aveva fatto, perché consideravano gli studenti del college una razza aliena differente dai Coolidge quanto i marziani dai terrestri. Adesso lui era uno dei marziani, e non era facile. Bobby aveva preso in affitto un appartamentino in un quartiere modesto, e con il denaro che aveva da parte calcolava di potersi mantenere per la durata del primo anno accademico senza lavorare. Ma questo significava non concedersi capricci. Il suo unico svago derivava da un televisore portatile di seconda mano, e i suoi pasti consistevano invariabilmente in abbondanti piatti di pastasciutta. E lo studio era pesante. Niente a che vedere con il liceo. La cosa più frustrante era che gli altri sembravano avere molte meno difficoltà di apprendimento. C'erano stati momenti in cui aveva pensato di mollare tutto. Una
volta aveva disertato le lezioni per una settimana. Aveva paura del fallimento. Paura di non essere all'altezza. Poi era stato di nuovo a trovare Billy, e sulla via del ritorno aveva riflettuto: non voleva fare la fine di suo fratello, e non avrebbe buttato via la possibilità di dare alla propria vita un indirizzo diverso. Così era tornato a frequentare i corsi. Il professore annunciò la fine della lezione, e Bobby si ritrovò con un'importante lacuna nei suoi appunti. La ragazza seduta di fianco a lui stava ancora scrivendo. Era molto attraente. Bionda, occhi azzurri. Bobby l'aveva notata fin dall'inizio del corso, ma non le aveva mai rivolto la parola. Doveva essere di buona famiglia, a giudicare dal taglio e dalla varietà dei suoi vestiti. Quel giorno, indossava una gonna scozzese e un maglioncino rosso a collo alto. Quando si chinava per scrivere, i lunghi capelli le ricadevano dalle spalle incurvate e doveva continuamente tirarli indietro. «Scusa...» Bobby attirò la sua attenzione. Lei alzò gli occhi e sorrise. «Mi sono perso gli ultimi minuti della lezione, e mi chiedevo se non potrei copiare i tuoi appunti.» «Certo», rispose lei. «Un secondo solo e ho finito.» «Ti ringrazio. Intanto mi riposo un po' la mano. Se avessi saputo che il professor Schneider parla così in fretta, avrei fatto un corso accelerato di stenografia prima di iscrivermi al suo.» La ragazza rise. Aveva una risata argentina che gli fece pensare alle campane di una chiesa in una limpida giornata invernale. «Hai ragione. Nemmeno io riesco mai a stargli dietro.» «Davvero? È un sollievo sapere che non sono l'unico.» Lei sorrise di nuovo e gli passò gli appunti. Non male, si disse Bobby, cominciando a copiare. Una risata e un sorriso. Sto diventando un vero commediante. «Che cosa c'è scritto qui?» domandò, indicando uno scarabocchio tra altre due parole illeggibili. «Budget.» «Giusto. Ah, io sono Bobby Coolidge. Sono stato seduto vicino a te in tutte queste settimane e non mi sono nemmeno presentato.» «E io sono Sarah Rhodes. Ecco fatto: le formalità sono finite.» Sembrava ben disposta nei suoi confronti. Forse, se glielo avesse chiesto, sarebbe andata a pranzo con lui. Da quando era tornato a Portsmouth, Bobby non era uscito con nessuna ragazza. Gliene mancava il tempo, il denaro, e anche la voglia. Aveva difficoltà ad abituarsi alla vita da civile, i
suoi valori erano nel pieno di un tumultuoso processo evolutivo, e al momento per lui l'istruzione aveva la priorità assoluta, sebbene non fosse ancora arrivato a darsene una motivazione concreta. Date le circostanze, aveva deciso che le donne sarebbero state una distrazione che non poteva permettersi, e se ne era tenuto alla larga. Tuttavia, non vedeva che danno potesse fare mangiare qualcosa insieme, sempre che Sarah avesse accettato. «Grazie mille», disse, restituendole il blocco degli appunti. Si avviò con lei verso la porta. Il professore stava parlando con un ragazzo smilzo con gli occhiali di tartaruga. Tutti gli altri se n'erano andati. «Hai fame?» chiese di getto, e subito si rammaricò della propria goffaggine. Avrebbe dovuto buttare là la domanda con nonchalance. «Perché?» indagò lei, esitante. «Stavo pensando che, in tal caso, potrei invitarti a pranzo. Voglio dire, è uno scambio equo: cibo per il pensiero.» La ragazza afferrò il gioco di parole e rise. Bobby si sentì orgoglioso della sua trovata. Suonava quasi intellettuale. «Certo. Ma sia chiaro, facciamo fifty-fifty. I miei appunti non valgono così tanto.» La mensa della scuola era gremita, e trovarono giusto un tavolino in un angolo dove portare i loro vassoi. «Che confusione!» commentò Bobby, liberando un sandwich dall'involucro di cellophane. «Mi ricorda la mensa al campo base.» Sarah lo guardò interessata. «Sei stato nell'esercito?» «Ne sono appena uscito», rispose lui, tra un boccone e l'altro. «Eri in...» «In Vietnam?» terminò Bobby al suo posto. «Sì.» «Non ti è piaciuto, vero?» osservò lei, notando che la sua espressione si era incupita. «Non è stata un'esperienza piacevole. Sono andato. Sono tornato. Chiuso.» «Scusa», mormorò Sarah, e lui si rese conto di essere stato troppo brusco. «No, sono io a dovermi scusare. Tu non potevi sapere.» «L'ho chiesto solo perché se ne parla tanto, e tu sei il primo che conosco a esserci stato.» «E tu, dove sei stata? Voglio dire, da dove vieni?» chiese Bobby, cambiando discorso con eleganza - o almeno, così sperava.
«Toronto.» «Non sei americana?» Sarah rise. «Non fare quella faccia. Noi canadesi non abbiamo le corna.» Bobby arrossì. «Non intendevo...» «Non c'è problema. Adesso siamo pari.» Si sorrisero, poi Bobby mise giù il suo sandwich e le tese la mano. Lei la strinse. Lui la trattenne un attimo più del necessario, ma Sarah non sembrò farci caso. Mentre facevano la fila al bancone, Bobby aveva dato un'occhiata alla locandina del cinefonim del campus: per la sera dopo c'era in programma Via col vento. Un dollaro per studente. Fece un rapido calcolo mentale delle sue disponibilità economiche e concluse che due biglietti e un paio di birre potevano starci. «Ti piacciono i vecchi film?» domandò. «Sì. Perché me lo chiedi?» Sarah flirtò con lui con lo sguardo, stuzzicandolo giocosamente. «Be'... domani danno Via col vento. Io non l'ho mai visto, ma dicono che sia un buon film. Se tu volessi andarci...» «L'ho già visto.» «Oh.» «Però lo rivedrei volentieri.» Lui si rischiarò in volto, e lei sorrise di nuovo. Stavano entrambi sorridendo parecchio, pensò Bobby. Lanciò uno sguardo all'orologio della mensa e raccolse i suoi libri. «Devo correre. Ho matematica tra cinque minuti e non posso permettermi di saltare una lezione. Se mi dici dove abiti, passo a prenderti domani alle sette.» Lei gli diede l'indirizzo. Bobby conosceva il posto. Era una zona residenziale molto signorile in collina. Si sentì di nuovo nervoso. «A domani, allora», disse alzandosi. «A domani.» Il detective era tornato a trovarla, ma stavolta la sua vista non la spaventò. Si era presentato con delle rose e appariva più buffo che minaccioso, così alto e allampanato, con la giacca troppo corta e il mazzo di fiori che sembrava perdersi nella sua grande mano. «Buongiorno, Esther. Come stai oggi?» «Bene, grazie.» In effetti, si sentiva molto meglio, e si domandava come mai i medici ancora non la dimettessero. Non immaginava che la sua pro-
lungata degenza fosse opera di Shindler. «Ho pensato di portarti questi per scusarmi tardivamente di come ti ho trattata quella volta alla centrale. Mi sento terribilmente in colpa, quando ci penso.» «Fa niente... ormai me n'ero quasi dimenticata. Comunque, grazie. Può metterli in quel vaso.» Non sapeva se credergli o no. C'era qualcosa in lui che non le piaceva. Tuttavia, i fiori erano belli, e si stava comportando come un gentiluomo. Forse si era sbagliata sul suo conto. Shindler sistemò le rose nel vaso sul comodino, poi disse: «Posso sedermi?» Lei lo guardò per un momento senza capire, poi si rese conto che le stava chiedendo il permesso. Non era abituata a quel genere di cose. «Faccia pure.» «Allora, come va?» «Bene. Solo che il dottore non vuole dirmi dov'è mio figlio.» «Il tuo bambino sta bene, Esther. È stato dato in affidamento a una famiglia. Non temere, è solo una cosa temporanea», si affrettò ad aggiungere, vedendo la sua espressione allarmata. «Me ne sto occupando io. Nessuno ti porterà via tuo figlio, Esther. Mi credi?» Lei lo sbirciò con diffidenza. Doveva esserci una trappola, da qualche parte. Aveva di nuovo paura. «Vuoi una sigaretta?» «Il dottore ha detto che non dovrei fumare.» Shindler strizzò l'occhio e gliene porse una. «Ti copro io.» Lei fece per prenderla, ma poi esitò e ritrasse la mano. «No, grazie. Preferisco di no.» «Ti dà fastidio se?...» «No, faccia pure.» Shindler accese la sigaretta. «Mi sembra che ti sia ripresa bene. Sono davvero contento che non ti abbiamo persa, Esther. Tu sei una persona importante.» Ecco. Di nuovo il campanello d'allarme. C'era qualcosa nei modi, nelle domande di quell'uomo che la inquietava. Lei non era importante per nessuno. Non lo era mai stata. «Esther, sono qui per chiederti un favore. Pensi che me lo potresti fare?» «Quale favore?» «So che non ti piace, ma voglio parlarti di Richie Walters ed Elaine
Murray.» Esther sentì il cuore accelerare improvvisamente i battiti. Lo sapeva che c'era sotto qualcosa! Perché quell'uomo non la lasciava in pace? «Gliel'ho già detto, signor Shindler, io non ne so proprio niente.» «Ti piacerebbe chiarire tutto, una volta per sempre?» «Lo farei volentieri, davvero, signor Shindler. Lo so che lei non lo fa per cattiveria, ma mi fa stare male quando parla di quella storia.» «Okay. Lo so che ti turba. Ma prova a pensarla in questi termini, Esther. Mettiamo che tu fossi là.» Lei fece per protestare, ma la fermò alzando una mano. «Non sto dicendo che c'eri. La mia è solo una supposizione. Lo sai che l'assassinio di Richie ed Elaine è stato il più grosso caso di omicidio che abbiamo avuto a Portsmouth, vero?» «Immagino di sì», rispose lei, imbronciata. «Bene. Ora, chiunque possa aiutarci a risolverlo sarebbe una persona parecchio importante. Diventerebbe famosa, e tutti le sarebbero grati per essere stata tanto utile alla comunità. Quindi, puoi capire perché io ti ritengo così importante.» «Ma, signor...» «Adesso ascoltami, d'accordo?» Esther si arrese e si lasciò ricadere sul cuscino. «A volte una persona può trovarsi ad assistere a qualcosa di tanto orrendo che la sua mente si rifiuta di ricordarlo. Hai mai sentito parlare di amnesia?» «Sì. Succede quando si prende una botta in testa, no?» Shindler sorrise. «Sì, ma non solo in quel caso. Vedi, la mente umana è un congegno complicato e ha i suoi meccanismi di difesa. Tu, per esempio, potresti avere sviluppato un'amnesia nel momento in cui hai visto uccidere Richie. Io non penso assolutamente che tu abbia preso parte a quel delitto, Esther. Sono un buon giudice e so valutare le persone. Si arriva a esserlo, quando si è nella polizia da tanto tempo come me. Sono certo che tu sia una ragazza troppo buona e dolce per essere stata coinvolta consapevolmente in un omicidio. Ti ricordi di avermi detto che tu e i fratelli Coolidge vi eravate ubriacati, dopo essere stati alla festa, e che poi ti sembrava che foste andati in centro?» Esther annuì. «Ebbene, mettiamo che a un certo punto i Coolidge abbiano ingaggiato una gara in macchina con Richie, e che Richie li abbia mandati fuori strada. E supponiamo che si siano arrabbiati con Richie e lo abbiano seguito
fino al Belvedere, e che là ci sia stata una lite violenta e tu li abbia visti uccidere Richie. Ora, tu sei una brava ragazza. Non faresti mai niente del genere. Sarebbe stato così orribile per una persona sensibile come te che la tua mente potrebbe aver cancellato quella parte della serata.» «Ma, signor Shindler, non è affatto andata così.» «Come fai a saperlo, Esther? Mi hai detto che eri tanto ubriaca da non ricordare quello che era successo quella sera.» «Sì, lo ero. Ma ricorderei qualcosa come... No, non è successo niente del genere.» Stava cominciando ad agitarsi, e Shindler aspettò che si calmasse. «Esther, ricordi che ho detto che potremmo chiarire questa storia una volta per tutte?» «Sì. Mi piacerebbe, signor Shindler.» «C'è un medico che conosco, il dottor Hollander. È uno psichiatra esperto nell'ipnotizzare le persone.» Esther si passò la lingua sulle labbra. La sua angoscia era evidente. Le sue dita sottili tormentavano l'orlo del lenzuolo. «Il dottor Hollander potrebbe ipnotizzarti. Quando sei sotto ipnosi, la tua mente non può tenere nascosti i brutti ricordi con tanta facilità. Il dottor Hollander sarà in grado di stabilire se mi sono sbagliato.» «Io... non so se voglio farlo. Perché dovrei andare da uno psichiatra? Non sono pazza.» «Non ho mai pensato che lo fossi, Esther. È solo un caso se il miglior esperto di ipnosi che io conosca è anche uno psichiatra. E se ho ragione... be', allora tu diventerai una persona molto famosa. Tutti a Portsmouth ti saranno riconoscenti per aver chiarito il mistero di quell'atroce delitto. Inoltre, sarebbe certamente di grande aiuto, quando andrò dall'assistente sociale per farti riavere tuo figlio, se potessi dire che il tuo contributo è stato fondamentale nella soluzione di un caso di questa gravità.» «Davvero pensa che farà una buona impressione a quelli dei servizi sociali, se vado dal dottore?» «Ne sono certo.» «E crede che sia una cosa importante?» «Molto importante, Esther. Molte persone te ne sarebbero grate.» «Oh. La cosa non finirebbe sui giornali, vero?» Shindler percepì una nota di interesse. «Be', se il dottore scopre che hai assistito all'omicidio, saresti la nostra testimone chiave.»
Shindler lasciò che ci rimuginasse su. Esther rimase a lungo in silenzio, e quando parlò la sua voce tradiva grande nervosismo e apprensione. Ma c'era anche dell'altro nascosto sotto la superficie. Un senso di eccitazione. «Voglio pensarci, signor Shindler. Non posso risponderle subito. Ma forse lo farò, se è così importante.» 4 Il dottor Hollander stava in piedi davanti a uno scrittoio d'antiquariato quando Esther e Roy Shindler entrarono nel suo studio. «Piacere di conoscerla, signora Pegalosi», la accolse con una stretta di mano, sfoderando il suo sorriso più amabile. «Roy mi ha parlato molto di lei.» Esther lanciò un'occhiata nervosa al detective. Il medico se ne accorse e aggiunse con una risata: «Oh, ha detto solo cose buone. È molto contento che lei abbia acconsentito ad aiutarlo, e sono certo che lei troverà tutto questo molto eccitante». Poi assunse un tono serio. «Ora, posso chiederle una cosa personale?» «Che cosa?» domandò Esther, guardinga. L'espressione austera di Hollander fu infranta da un sorriso. «Potrei chiamarla Esther? Detesto chiamare la gente per cognome. È così formale.» Esther sorrise, sollevata. Si era aspettata qualche domanda sulla sua vita sessuale o la sua infanzia, il genere di cose che ti chiedono gli psichiatri. Fu sorpresa di quanto fosse alla mano il dottor Hollander. Non era affatto come se lo era immaginato. «Certo. Esther va benissimo.» Abbassò gli occhi. «Nessuno mi chiama signora Pegalosi, comunque.» «Bene. Allora, Esther, vuoi accomodarti?» Hollander la guidò verso un accogliente divano di colore tenue posto contro una parete rivestita in legno sulla quale campeggiava un dipinto astratto dalle tinte sgargianti. Esther accettò l'invito come se fosse stato un ordine. Lo psichiatra la guardò avvicinarsi meccanicamente al divano e sedersi con la schiena rigida, come un giocattolo caricato a molla. Shindler prese posto su una sedia in un angolo, fuori della loro vista. «Ha un vestito molto bello. È nuovo?» Esther si illuminò al complimento di Hollander. Indossava un tailleur verde e una camicetta bianca che le aveva regalato Shindler. L'aveva porta-
ta a comprarsi qualcosa quando aveva accettato di andare dal dottor Hollander, ed era stata lei a scegliere quel completo. Era il suo primo abito nuovo da anni. «Scommetto che ti senti nervosa, Esther. Ho indovinato?» Lei arrossì e abbassò lo sguardo a terra. «Un po', sì.» «Bene!» esclamò il dottor Hollander con una risata cordiale che la sorprese. «Tutti quelli che vengono da me si sentono nervosi, la prima volta. Questo dimostra che sei perfettamente normale. Ora, perché non mi dici che cosa ti rende nervosa?» Esther si mordicchiò il labbro inferiore, poi si strinse nelle spalle. «Non lo so.» Hollander le rivolse un sorriso incoraggiante e paterno. Stava cominciando a piacerle quell'uomo gentile. «Ti preoccupa l'idea di essere ipnotizzata?» Lei non rispose subito. Hollander attese pazientemente. «Un po', credo», ammise infine. «Okay. Mi fa piacere che tu sia aperta e sincera con me, perché io lo sarò sempre con te. Ora, mi faresti una promessa?» «Quale?» «Mi prometti che ogni volta che avrai qualcosa da chiedermi, non importa quanto possa sembrarti sciocco, lo farai senza problemi? Dico sul serio. Voglio che tu sappia tutto quello che sta succedendo. Non avremo segreti l'uno per l'altra. Sei d'accordo?» «Va bene.» «Perfetto. Ora, dimmi: sei mai stata ipnotizzata prima?» «No.» «Hai mai visto ipnotizzare qualcuno alla TV, o al cinema, o di persona?» «Una volta in TV, e al cinema.» «Okay. Devi sapere che in realtà l'ipnosi è tutta un'altra cosa. È una forma di rilassamento che ti permette di essere più disponibile ad accogliere le suggestioni. Non c'è niente di misterioso. Si tratta di un fenomeno scientifico e del tutto naturale. In TV si vedono malvagi ipnotizzatori rendere schiave delle persone, privarle della volontà e indurle a fare le cose più orribili. Tu pensi che io sia malvagio, Esther?» Esther ridacchiò. «No.» «Bene. Infatti, posso assicurarti che non lo sono. E tutte quelle sciocchezze che vedi nei film sono invenzioni. L'ipnosi non è possibile senza la partecipazione volontaria del soggetto. Non si può costringere una persona
ipnotizzata a fare qualcosa che non vuole, perché ha sempre la facoltà di rifiutare. L'ipnosi è un modo di aiutare la gente, non di nuocerle. È come la medicina.» «E se... se io non potessi essere ipnotizzata?» «Non preoccuparti di questo. Tutti possono essere ipnotizzati, purché si rilassino e non oppongano resistenza. Tu pensa solo a tenere la tua mente passiva e assecondami, e io farò il resto.» Hollander la guardò negli occhi, facendosi molto serio. «Esther, il motivo principale per cui siamo qui è scoprire quello che sai a proposito di un certo fatto. Ma è riduttivo considerare l'ipnosi come un semplice strumento per far riemergere ricordi nascosti. Può essere anche preziosa per aiutarti ad avere un maggiore controllo su te stessa e sui tuoi problemi. Tu recentemente sei stata in ospedale a causa di problemi personali, giusto?» Esther abbassò la testa e annuì. «Bene, Esther, voglio essere molto chiaro su questo punto. Tutti noi vogliamo scoprire quello che sai dell'omicidio di Richie Walters, ma io sono anche interessato a te come persona. Ho saputo da Roy che hai allevato un bel bambino, facendo tutto da sola. Questo dice qualcosa del tuo carattere. Io vedo in te il potenziale per essere una donna forte e sicura. L'ipnosi può aiutarti a concretizzare quel potenziale. Tramite l'ipnosi, io sono in grado di aiutarti a diventare la persona che sono convinto tu possa essere. Quindi, tu aiuterai noi e noi aiuteremo te. Ti sembra che sia un accordo equo?» «Sì», rispose Esther a bassa voce. Era frastornata. Nessuno si era mai interessato tanto a lei prima d'allora. «Magnifico», disse il dottor Hollander in tono più leggero. «A questo punto, credo che potremmo anche cominciare. Vogliamo trasferirci vicino alla mia scrivania?» Fece accomodare Esther su una grande poltrona, sistemandole un cuscino dietro la testa, poi mise una sedia di fronte a lei. «Sei a tuo agio? Molto bene. Ora voglio che ti rilassi e tenga i piedi appoggiati a terra. Ti spiegherò esattamente che cosa succederà passo per passo, così non ci saranno sorprese», disse con voce ferma e suadente. «Mentre procediamo, noterai di essere sempre più rilassata. Probabilmente avvertirai una certa sonnolenza. Non sarà necessario che ti sforzi. Tutto quel che devi fare è mantenere la tua mente passiva e rilassarti. Ti accorgerai che nel frattempo ti accadranno alcune cose. Voglio che ti concentri su queste cose. Te le farò notare via via. Nel frattempo, tieni presente che l'ipnosi è un'esperienza normale. Ogni notte, prima di addormentarti, passi
per uno stato molto simile a quello ipnotico. Ora, io non voglio che ti addormenti, perché desidero che tu sia consapevole di quello che sto dicendo e dei tuoi pensieri. Ma se dovessi sentire che ti stai addormentando, non preoccuparti. Lasciati andare, semmai ti sveglierò io. Voglio che questa sia per te un'esperienza piacevole e rilassante. Non ti farò alcuna domanda che possa metterti in imbarazzo. Mantieni la tua mente passiva e non analizzare i tuoi pensieri e le tue sensazioni. È tutto chiaro?» «Sì.» «Benissimo. Ora rilassati. Sei completamente comoda e a tuo agio?» «Sì.» Hollander allungò una mano per accendere un registratore a bobina poggiato su un tavolo vicino alla testa di Esther. Shindler cambiò silenziosamente posizione sulla sua poltroncina. Nastro numero 1 Dottor Arthur Hollander: Bene, Esther. Perché non appoggi tutt'e due le mani sulle cosce, con il palmo in giù? No, non chiudere gli occhi. Continua a guardare le tue mani. Rilassati, e osserva le tue mani. Concentrati sulle sensazioni tattili. Forse puoi avvertire il peso della tua mano posata sulla coscia. Oppure sentirai la consistenza del tessuto della tua gonna nuova contro il palmo, o il calore della mano sulla tua coscia. O magari un formicolio. Qualunque sensazione provi, voglio che ci pensi. (Pausa) Bene, Esther. Continua a guardare la tua mano. Guarda come è quieta. Come rimane nella stessa posizione. Ma se guardi attentamente, presto noterai un principio di movimento. Da un momento all'altro, una delle dita si muoverà. Sarà interessante vedere quale dito si muoverà per primo. Forse l'anulare, o il pollice, probabilmente della mano destra. Ecco, il pollice ha avuto un piccolo scatto. Sta iniziando a muoversi. Ora noterai che, molto lentamente, gli spazi tra le tue dita cominciano ad allargarsi. Le dita si distanzieranno piano piano, le sentirai allargarsi sempre di più. Ecco, guarda come si aprono, lentamente, poco alla volta. Brava, Esther. Stai andando benissimo. Le dita sono bene allargate. E presto sentirai che tendono a inarcarsi verso l'alto, come se volessero sollevarsi. Guarda come si sta alzando il tuo indice. E adesso anche le altre dita si staccano dalla coscia, si tendono verso l'alto. Lentamente, tutta la mano si solleverà. È così leggera, come una piuma. È come se fosse legata
a un palloncino che la tira su, su. su, sempre più su. Mentre guardi la tua mano alzarsi, noterai che il braccio si sta lentamente sollevando in aria. Sale, sale, sale, sempre più in alto. Continua a guardare la mano e il braccio che si alzano, e presto ti accorgerai che le tue palpebre stanno diventando molto pesanti. Ti senti stanca e rilassata. Hai sonno, molto sonno. Ora il tuo braccio è teso davanti a te. Non puoi distogliere gli occhi dalla tua mano, ma le tue palpebre fanno fatica a restare aperte e il tuo respiro si sta facendo lento e regolare. Respira profondamente. Dentro, fuori. Mentre continui a guardare il braccio e la mano e ti senti sempre più assonnata e rilassata, noterai che la direzione della tua mano sta cambiando. Il braccio si piegherà e la mano si porterà sempre più vicina al viso, e ti sentirai scivolare lentamente in un sonno profondo. Ecco, ora la tua mano sta cambiando direzione. Si avvicina molto lentamente alla tua faccia. Le tue palpebre stanno diventando pesanti. Sei sempre più assonnata. Le tue palpebre battono sempre più velocemente, perché stai cercando di combattere il sonno. Non combatterlo. Lasciati andare. Lascia che i tuoi occhi si chiudano. Quando la tua mano toccherà il viso, sarai profondamente addormentata. Hai tanto sonno. Le tue palpebre sono come piombo. La tua mano è vicina alla faccia. Sta per toccarla. L'ha toccata e i tuoi occhi si chiudono - ora. Bene, Esther. Dormi, dormi tranquilla. Adesso voglio che ti concentri sul rilassamento. Non pensare ad altro. I tuoi muscoli sono rilassati. Non avverti nessuna tensione. Dormi, dormi profondamente. (Pausa) Ora, Esther, ricordi che ti ho detto di essere interessato a te, che vedo in te un grande potenziale? Esther: Sì. H: Ebbene, l'ho detto perché ho fiducia in te e sento che puoi diventare la persona forte e sicura che vuoi essere. Puoi essere qualunque cosa tu voglia. Adesso comincerò a insegnarti come essere quella persona forte e sicura. Questo corrisponde al tuo desiderio? E: Sì. H: Bene. Ora puoi abbassare la mano. Rilassati. Puoi aprire gli occhi, se vuoi. Guardati attorno e rassicurati di quel che ti circonda, poi lascia che i tuoi occhi si richiudano. Ecco, così. Molto bene. Esther, ora ti toccherò il polso. Voglio che presti attenzione a quello che senti. Concentrati sulla sensazione delle mie dita sul tuo polso, e quando
l'avrai bene in mente, in modo che tu possa ricordarla con facilità, puoi avvertirmi dicendo 'sì' senza disturbare minimamente la trance. (Pausa) E: Sì. H: Perfetto. D'ora in avanti, Esther, se per te va bene, ogni volta che io ti prenderò il polso in questo modo e la situazione sarà appropriata, potrai ricordare come ti senti adesso, ed entrerai in una profonda trance ipnotica. Questo ti permetterà di raggiungere qualunque obiettivo ti prefigga, che si tratti di ricordare un avvenimento piacevole del passato, o ignorare un malessere, o sentirti la persona forte e sicura che sai di poter essere. E se il tuo subconscio è incline a rispondere in tale modo, farà sollevare il pollice della tua mano destra. Basta che pensi a quel dito, e si alzerà da solo, sempre più su. Sì. Bene. Bene! Ci siamo, Esther. Ora rilassati. In futuro, ogni volta che ti prenderò il polso in questo modo, potrai rispondere con fiducia, sapendo che al tuo risveglio da questa esperienza sarai un po' più capace di essere il tipo di persona che vuoi realmente essere, e che hai sempre saputo di poter diventare. Con crescente convinzione, Esther, ti sveglierai ogni mattina ansiosa di essere, comportarti e apparire un po' di più come la persona che hai sempre saputo di poter essere. Ora ti chiederò di svegliarti, vincolata a ciascuna di queste tre suggestioni: la suggestione di rispondere rapidamente al tuo segnale, la sensazione delle mie dita sul tuo polso; la suggestione di rispondere con una trance abbastanza profonda da permetterti di raggiungere qualunque obiettivo tu abbia in mente; e la suggestione che puoi rispondere fiduciosa di ritrovarti a essere una persona migliore in ogni senso. Niente di clamoroso. Solo un piccolo miglioramento ogni giorno. E un passo dopo l'altro, sarai sempre di più come vuoi essere. Tra un momento conterò fino a tre e ti chiederò di svegliarti sentendoti bene, ristorata e immensamente soddisfatta. Mentre io conto, il tuo inconscio potrà prestare attenzione alle istruzioni che ti darò per ciascuno dei tre numeri, così che in futuro, non importa chi introduca l'esperienza ipnotica, che tu richiami la trance da sola o permetta a qualcun altro di farlo, sarai in grado di terminarla facilmente e rapidamente seguendo le mie suggestioni. Uno, pensi al risveglio. Due, respiri molto profondamente e senti l'energia tornare a pervaderti tutto il corpo. Tre, sei sveglia, completamente sveglia. (Pausa) H: Allora, che ne dici? Come ti senti?
E: Bene. È stato... non so... buffo. Mi sono mezzo addormentata guardando il mio dito alzarsi da solo. (Risata) H: Ricordi le istruzioni che ti ho dato per metterti in trance da sola? E: Sì... credo di sì. H: Vorresti provare a farlo? E: Non so... be', ci posso provare. H: Bene. E: Posso parlare, intanto? H: Certo. E: Ecco, sto cercando di sentire la mano sul mio polso, ma... H: Tu pensa solo alla sensazione, e io ti aiuterò a ricordare. Basta semplicemente pensarci. Immagina la tua mano. Se vuoi puoi chiudere gli occhi per visualizzarla meglio. Così ti è più facile? E: Sì. H: Bene. Vedi le dita sussultare, muoversi, e poi la mano si solleva. E mentre si avvicina alla tua faccia entri in una trance sempre più profonda. E: E le dita si allargano in questo modo? H: Sì. Vai avanti così, stai andando a meraviglia. Stai facendo esattamente quello che voglio. Quando la mano comincia a muoversi verso il tuo viso, di': «ora». (Pausa) E: Ora. H: Bene. Adesso voglio che cominci a ricordare un'esperienza molto, molto piacevole e gratificante. Un'occasione in cui ti sei sentita forte e soddisfatta e tutti quelli che conoscevi erano contenti e orgogliosi di te. Ricordi un simile episodio? E: Sì. Quando mi sono sposata. H: Stai sorridendo. Vuoi dirmi che cosa stai ricordando, di preciso? E: John, mio marito. Mi aveva portato dei fiori per il matrimonio. Avevo ricevuto dei fiori da un ragazzo soltanto una volta prima di allora. Erano incredibilmente belli. H: Stai andando benissimo, Esther. Sei così brava a controllare la tua trance. Sono fiero di te. Pensi di essere pronta ad andare un po' oltre? E: Credo di sì. H: Bene. Facciamo di nuovo uso di questa tua nuova capacità. Più ti eserciti, meglio è. Comincia a pensare alla sensazione al tuo polso. Quando hai raggiunto la fase in cui la tua mano si sta muovendo verso la faccia, di':
«ora». E: Ora. H: Bene. Esther, ci sono molte cose piacevoli nella vita di una persona. Ci sono matrimoni e compleanni. Qual è il più bel regalo di compleanno che hai ricevuto? E: Mio papà, il mio vero padre, mi ha portato al ristorante e al cinema. Avevo undici o dodici anni, e ci siamo messi tutti eleganti. Papà era in giacca e cravatta e mamma era così carina. Io avevo un vestito nuovo. Era giallo, e papà diceva che era perfetto per me, perché io ero speciale. H: Puoi immaginare di averlo addosso in questo momento? Ecco, sì. Passa la mano sulla stoffa. Stai sorridendo. Sei contenta? E: Sì. Mi piace tanto. Grazie, papà. H: Benissimo, Esther. È stato divertente, vero? Ora rilassati. Adesso, forse puoi ricordare qualche altra cosa. Ricordi una festa nel novembre del 1960? E: Una festa? H: Sì. Nel novembre del 1960. E: Andavo a tante feste, allora. H: Ricordi i fratelli Coolidge? (Pausa) H: Esther, ricordi due ragazzi di nome Bobby e Billy Coolidge? E: Sì. H: Puoi dirmi se sei mai stata a una festa insieme con Bobby e Billy? E: Be', eravamo nello stesso giro. Probabilmente sono stata a tante feste alle quali c'erano anche loro. H: Ricordi una ragazza di nome Alice Fay? E: Sì. È stata reginetta del ballo in terza liceo. H: Sei andata a una festa a casa di Alice nel novembre del I960, vero? (Pausa) H: Esther, ti ricordi di una festa a casa di Alice? E: Forse sì... vagamente. H: Bene. Ora, rilassati, chiudi gli occhi e ricostruisci quella serata con la maggiore precisione possibile. Mentre lo fai, voglio che tu abbia la sicurezza che potrai ricordare per intero o solo in parte oppure dimenticare tutto quello che succede qui oggi, a seconda delle tue necessità inconsce, e che al tuo risveglio ti sentirai rigenerata e sollevata in proporzione a qualunque disagio o ansia tu possa provare durante questa seduta. Ora rievoca quella serata, e quando avrai finito di raccogliere i tuoi ricordi voglio che
tu dica: «ora». (Pausa) E: Ora. H: Bene. Ora, Esther, voglio che tu chiuda gli occhi e immagini di rivivere tutto quello che è successo la sera della festa di Alice. Lo stai facendo? E: Sì. H: Esther, vorresti raccontarmi quello che vedi? E: La casa. H: Quale casa? E: La casa di Alice. H: Ti piace? E: È magnifica. H: Che cosa ti piace di più di quella casa? E: In una stanza c'è una moquette morbidissima. È come camminare su una nuvola. E l'arredamento è così bello. H: Che cosa sta succedendo nella casa? Riesci a vederlo? E: C'è musica, e tutti ballano e si divertono. H: Brava. Stai andando benissimo. Ora, mentre rivedi quello che accade, voglio che tu riviva più fedelmente che puoi le emozioni che provavi in quel momento. Come ti senti, Esther? E: Mi sento nervosa. H: Come mai? E: Non dovremmo essere qui. H: Perché non dovreste? (Pausa) H: Perché non dovreste essere a casa di Alice? E: C'è qualcosa che non va. Io... non lo so. Mi sento nervosa e basta. H: Sono stati Billy e Bobby a renderti nervosa? E: Hmmmm. H: Non ti sento, Esther. Parla chiaramente. E: Può darsi. H: Che cosa hanno fatto per renderti nervosa? E: Chi? H: Billy e Bobby. E: Non so... Non fa caldo, qui dentro? H: Non mi pare. Esther, è stato quando Billy e Bobby sono venuti alle mani con gli altri ragazzi che ti sei innervosita?
E: Non mi sento bene. H: Che cosa c'è che non va? E: Niente. H: È tutto a posto, allora. Rilassati. Senti com'è bello essere così padrona di te stessa. Sentirti sicura di poter essere la donna che vuoi realmente essere. Senti quella sicurezza? E: Sì. H: Sei rilassata e padrona di te? E: Sì. H: Magnifico, Esther. Torna a quella sera. So che hai la capacità di ricordare. Riesci a vedere quella moquette soffice e i bei mobili, e la gente che balla? E: Sì. H: Vedi anche Bobby e Billy, vero? E: Sono al buffet. Si stanno servendo del punch H: È lì che è iniziata la rissa? E: Quale rissa? H: Billy e Bobby hanno attaccato briga con dei ragazzi, ricordi? Non è stalo questo a metterti in agitazione? E: Non ricordo. H: Non ricordi la rissa? E: Billy faceva sempre a botte. H: Anche al parco? E: Come? H: Billy ha avuto uno scontro con qualcuno, al parco? E: Io... non sono stata al parco. H: Non è lì che hai perso i tuoi occhiali? E: No. No, no. H: Quando hai perso gli occhiali? E: Un po' prima. H: Prima di cosa, Esther? E: Prima che... che Richie fosse... che morisse. H: Come te la sei cavata per tutto quel tempo senza i tuoi occhiali? E: Mi servivano solo per leggere. Non ne avevo tanto bisogno. H: Parlami della rissa. E: Che rissa? H: Hai detto che c'è stata una rissa. E: Io?
H: Dove è stato? E: Mi fa male la testa. H: Hai mal di testa? E: Mi pulsa. Non riesco a pensare. H: Quando, Esther? Nel 1960 o adesso? E: Mi fanno male anche le orecchie. H: Esther, voglio che ti rilassi. E: Non riesco a pensare. H: Okay. Esther, voglio ringraziarti per la tua collaborazione. Vedrai che gli sforzi che hai fatto saranno ricompensati. Oggi hai fatto dei progressi in misura proporzionale al tuo impegno. Più lavorerai con me, prima diventerai il tipo di persona che vuoi essere. Tra un momento ti chiederò di svegliarti sentendoti fiduciosa che ogni qualvolta desidererai sviluppare la trance ipnotica nella tranquillità della tua casa o nel mezzo dell'attività del mondo, potrai farlo facilmente, rapidamente e con sicurezza, come ti ho insegnato. Se dovessi voler aumentare la tua concentrazione puoi farlo contando da uno a tre, seguendo le istruzioni che ti ho dato, e ti sentirai più vigile e sicura di te. Quando dico «ora», comincia a contare, uno, due, tre. Ora. Shindler attese che Hollander avesse chiuso la porta alle spalle di Esther. Si era mosso il meno possibile durante l'ora precedente per non distrarre la paziente, cercando di confondersi con l'arredamento. Ora si stiracchiò, senza dire niente finché il medico ebbe completato i suoi appunti. «È stato molto interessante», osservò Hollander, alzando gli occhi dal blocco da stenografo sulla sua scrivania. «Ha notato il mal di testa e di orecchi verso la fine?» «Sì.» «Non vuole parlarne, così il corpo crea dolori che le rendono impossìbile pensare.» «Dunque lei pensa che sappia qualcosa.» «Non posso affermarlo con certezza. È troppo presto. Ma il mio istinto mi dice che qualcosa c'è. Quando me la può riportare?» «Anche domani.» «No. Facciamo la settimana prossima. Voglio che abbia un po' di tempo per pensare.» «Sarebbe utile se la portassi a casa dei Fay e al parco?» «Potrebbe.»
Shindler gli tese la mano. «Grazie, Art. Non so dirle quanto apprezzo la sua disponibilità.» Hollander rise. «Sono io che dovrei ringraziarla. Questa è l'esperienza più eccitante che mi sia capitata in tanti anni di carriera. Le assicuro che è di gran lunga più entusiasmante che ascoltare le lamentele di casalinghe sessualmente frustrate.» Shindler gli strinse la mano e uscì dallo studio. Esther Pegalosi, seduta nella sala d'aspetto, alzò nervosamente lo sguardo vedendolo avvicinarsi. 5 Le luci di Portsmouth brillavano nella notte come stelle, poi il loro luccichio si affievolì quando l'alone rosso dell'aurora apparve sopra l'orizzonte. Bobby Coolidge osservò con occhi stanchi e pesanti il cambiamento, steso sul divano del soggiorno dell'appartamento di Sarah Rhodes, con i piedi appoggiati sul piano di vetro di un tavolino. La brace della sigaretta ardeva nell'oscurità. Il processo di trasformazione della notte in giorno era durato ore, ma lui se n'era perso buona parte tentando con coscienziosa lentezza di mettere insieme i frammenti di un sogno. «C'è qualcosa che non va?» domandò Sarah dalla porta della camera da letto. Vivevano insieme da un mese, e doveva ancora abituarsi ai suoi sbalzi di umore. «No. È solo che non riuscivo a dormire.» Bobby sentì i suoi passi sul pavimento di legno, poi i cuscini accanto a lui cedere sotto il suo peso. «Qualcosa ti preoccupa, Bobby?» gli domandò dolcemente. «Questa è la terza notte di fila che non dormi.» Si girò a guardarla. Aveva addosso una delle sue T-shirt, e notò come il seno tendeva il cotone. «Sono solo nervoso per gli esami», le rispose con una mezza verità. Sperava che si sarebbe accontentata, perché non poteva spiegarle che gli incubi erano ricominciati, strisciando insidiosamente nel suo inconscio durante la notte, quando le sue difese erano abbassate. Si era illuso di averli lasciati in Vietnam, ma poi la pressione degli esami aveva cominciato a pesargli. Tutto, la sua nuova vita, la sua relazione con quella ragazza, sembrava incentrato sulla continuazione dei suoi studi. Se non avesse superato gli esami... se avesse fallito... Era un pensiero fisso che lo tormentava.
«Sei sicuro che non ci sia altro?» insisté lei. Bobby apprezzava il suo sincero interessamento. Era la prima volta che qualcuno si preoccupava di lui. Sentì le sue dita passargli leggere tra i capelli e chiuse gli occhi. «Sono soltanto stressato per gli esami. Ci penso continuamente.» «Non hai motivo di preoccuparti, Bobby. Sono sicura che andrai benissimo.» Gli accarezzò i capelli, e lui posò la testa sulla sua spalla. Era stanco. Sempre lo stesso circolo vizioso. La notte non dormiva abbastanza, quindi si ritrovava troppo esausto per affrontare gli impegni della giornata. E dietro tutto questo c'erano sempre gli incubi. Sentì le labbra di Sarah sfiorargli la guancia e aprì gli occhi. Lei lo stava guardando. Le scostò i capelli dal viso e le accarezzò la guancia, poi si abbracciarono. Il sole intanto si era alzato, inondando di luce la vallata dormiente. Bobby guardò la lieve nebbiolina fluttuare sopra i tetti come vapore che uscisse da una pentola. Sarah era così morbida e cedevole accanto a lui. «So come aiutarti a dormire», gli disse in un bisbiglio roco. Si sorrisero, poi lei si alzò lentamente e si spogliò. Bobby seguì la sua figura sottile in camera da letto. Ma fare l'amore non fu di grande aiuto. Anche mentre era dentro di lei, anche quando venne, non gli riuscì di assaporare appieno il piacere dell'atto. Una parte di lui stava a guardare incredula. Che cosa ci faceva Bobby Coolidge a letto con quella ragazza che non sembrava neanche vera? Che cosa ci faceva al college? Non poteva fare a meno di pensare che all'improvviso tutto questo gli sarebbe svanito tra le mani, come un miraggio. Sarah si accorse che i suoi sforzi per rilassarlo erano falliti. Poteva avvertire la tensione nel suo corpo, e dopo vide la sua tristezza. Bobby era uno strano ragazzo. Niente a che vedere con quelli con cui era uscita al liceo. Era anche questo ad attrarla in lui. La sua età, la maturità dei suoi amici. Molti di loro erano veterani, o quanto meno più vecchi dei ragazzi che le altre studentesse del primo anno frequentavano. La faceva sentire più adulta e sofisticata pensare che un ragazzo che era stato in guerra, che aveva ucciso, la trovasse attraente. Quelli con cui era uscita fino ad allora erano così semplici. Ciascuno la copia carbone dell'altro. Ricchi e sfaccendati. Auto sportiva. Lo stesso passato, presente e futuro. Bobby non era così prevedibile. Aveva angoli bui, segreti. Come la guerra, che era un argomento tabù, o il suo passato, sul quale si limitava a vaghi accenni. A volte,
come quella notte, sembrava così vulnerabile. Una combinazione di forza e debolezza che lei trovava affascinante. «Bobby, tu hai qualcosa, e voglio che me ne parli.» Bobby non disse niente. Restò a fissare il vuoto in silenzio, respirando affannosamente come un facchino con un pesante carico sulle spalle. «Bobby?» ripeté lei. «Ho paura di non farcela. Tu significhi così tanto per me... Penso a mio fratello e a che cosa farò se non passo gli esami.» «Povero tesoro», disse lei, accarezzandogli la guancia e aderendogli al fianco. La sua pelle liscia era così piacevole sotto la sua mano. «Sotto questa scorza dura c'è un tenero coniglietto. Ma io ti conosco, so che sei forte, intelligente e in gamba. E che riuscirai in tutto quello che decidi di fare.» Lui sorrise tristemente e la tenne stretta. «Tu sei una roccia, Sarah. Tra tutte le cose buone che mi stanno capitando, tu sei la migliore. Ma non mi conosci davvero. Tu conosci questo Bobby Coolidge, ma non sai chi ero prima della guerra.» «Le persone non cambiano così tanto, Bobby. In fondo, tu sei sempre la stessa persona.» «No, Sarah. In passato ho fatto cose orribili. Cose che non potrei mai fare adesso.» «Oh, Bobby, a te piace drammatizzare. So che non puoi avere fatto niente di realmente brutto.» «Ti sbagli. C'è del sangue sulle mie mani, Sarah, e non posso dimenticarlo. Ogni volta che mi sento sotto pressione, come adesso, gli incubi ritornano e vedo quello che ho fatto.» «Di che stai parlando, Bobby?» domandò Sarah, cominciando a preoccuparsi seriamente. «Mi spiace di averlo detto... di aver parlato così. Ti prego, fammi un favore. Ci sono cose di me, del mio passato, che non voglio che tu conosca. Non posso rischiare di perderti, e so che succederebbe, se te lo dicessi. Non avrei dovuto cominciare questo discorso. Ti prego, dimenticalo.» «Ma, Bobby...» «Ti prego. Tu sei la cosa più bella, più importante che mi sia mai capitata. Non voglio perderti. Rispetta i miei desideri, solo per questa volta.» Lei lo guardò perplessa, ma si arrese. «Okay, Bobby. Non ti chiederò altro. Volevo soltanto aiutarti.» «Mi stai già aiutando, semplicemente essendo qui. Tu sei la mia principessa delle fiabe, e io ti amo.»
La baciò prima dolcemente, poi con più ardore, e il suo amore per lei divampò incontrollato. Questa volte non ci furono distrazioni. Nastro numero 2 Hollander: Ti senti a tuo agio, Esther? Sei pronta a cominciare? Esther: Sì. H: Bene. Allora, vediamo un po'. Per prima cosa, perché non ti rilassi? Ecco, così. Hai già imparato come fare. Quando senti la mano muoversi verso il viso, voglio che tu dica: «ora». (Pausa) E: Ora. H: Benissimo. Mantieni questa sensazione di benessere mentre torniamo indietro nel tempo. Non andremo indietro di molto, stavolta. Solo fino alla settimana scorsa. Eri in questo ufficio, su questa stessa poltrona, proprio come adesso. Abbiamo passato un'oretta molto soddisfacente, e quando abbiamo finito sei andata via con Roy Shindler. Ora, vorresti ripercorrere con la memoria tutto quello che è successo dal momento in cui siete usciti dal mio studio a quando sei arrivata al tuo appartamento? Non dirmelo. Basta che lo ricordi con più precisione possibile. Fammi sapere quando hai finito dicendo: «ora». (Pausa) E: Ora. H: L'esperienza ti ha in qualche modo disturbata? E: No. H: Saresti disposta a ripeterla per me? E: Usciamo dallo studio e andiamo al parcheggio. Il signor Shindler mi dice che lei ha detto che sono stata brava e che è fiero di me. Saliamo in macchina e partiamo. H: Che strada prendete, Esther? E: Atlanta Boulevard, poi Monroe Boulevard. Abbiamo parlato di lei. Ho detto che lei mi piaceva. H: Oh, grazie mille! E: Ho detto che la trovavo una persona gentile e comprensiva. Poi siamo andati al parco. Il signor Shindler mi ha chiesto di guardarmi attorno per vedere se c'era qualcosa di familiare. Siamo passati per un posto su una collina, e io ho detto che lo riconoscevo. Mi ci aveva già portato una volta per farmi vedere dove avevano trovato gli occhiali. Abbiamo continuato a
salire e Roy ha imboccato una stradina sterrata. Mi ha detto che l'omicidio era avvenuto un po' più avanti. Io ho detto che il posto mi era familiare. Ero un po' confusa, ma sapevo che finiva in un grande spiazzo. Quando ci siamo arrivati, Roy mi ha chiesto se ricordavo una Mercury rossa del '55 con fiamme rosse e gialle sulle fiancata parcheggiata vicino agli alberi nell'angolo in fondo, ma io non la ricordavo. Ci siamo fermati lì per un po', e Roy mi ha chiesto se riuscivo a ricordare di essere stata con Bobby e Billy quella notte, e io ricordavo di essere stata insieme a loro quella sera, ma non fino a tardi. Poi mi ha chiesto se Bobby e Billy avevano fatto una gara con qualche altra macchina su Monroe Boulevard e io ho detto che qualche volta era capitato. Poi abbiamo fatto un giro a piedi lì intorno, e il signor Shindler mi ha fatto guardare giù dalla collina per farmi vedere che. correndo giù, sarei passata più o meno dal punto dove avevano trovato gli occhiali. Ma io non ricordavo di aver fatto niente del genere, così siamo tornati alla macchina. H: Dove state andando, adesso? E: Siamo tornati giù, ma non abbiamo fatto la stessa strada di prima. Siamo passati davanti a una casa e io ho detto che mi sembrava di averla già vista, allora Roy è tornato indietro e ci si è fermato davanti. Siamo scesi dalla macchina e Roy mi ha portata nel cortile e mi ha chiesto se ricordavo dei cani che abbaiavano, e io... H: Sì? E: Be', io non ero mai stata là. Lo so. Ma ho avuto paura. Mi sentivo strana, come quando si sta per svenire. Per un momento ho pensato che qualcosa stesse venendo fuori. H: Riesci a sentirlo, adesso? Saresti disposta a ricreare quella sensazione? E: Preferirei di no. H: Hai detto che non eri mai stata lì prima? E: Non posso dirlo con sicurezza. Ma quando ero lì era come se ci fossi già stata. E quando lui ha detto dei cani, non so perché, ho pensato che si riferisse a un cane di una particolare razza. H: Quale razza? E: Un pastore tedesco. H: Perché proprio un pastore tedesco? E: Non saprei. Ma una volta ne avevo uno. Poi il mio patrigno lo ha ucciso. H: Lo ha ucciso?
E: È stato quando avevo tredici anni. Mia madre ha divorziato dal mio vero padre e ha sposato quest'uomo. Era molto severo. Era stato ricoverato un paio di volte in un ospedale psichiatrico dopo aver lasciato l'esercito. Ed era un alcolizzato. Beveva e poi ci picchiava, giorno e notte. Una volta ha ferito mia madre con un coltello, davanti a me. Allora ce ne siamo andate. H: Mi stavi raccontando del cane. Il pastore tedesco. E: Sì? H: Sì. E: Lo ha ucciso. Era il mio cucciolo. Andavamo sempre in giro insieme per i boschi vicino a casa. Era il mio unico amico. Poi lui lo ha ucciso, per punirmi perché gli avevo disobbedito. Gli ha sparato in un occhio, obbligandomi a guardare. (Pausa) H: Vuoi il mio fazzoletto? E: Grazie. H: Stai bene? Te la senti di continuare? E: Va bene. H: Perché non ti rilassi? Perché non ti stendi sull'erba fresca e lasci che la brezza ti soffi sul viso? Ecco, così. Fai un bel respiro. Quando riesci a sentire la brezza e vedi le nuvole in cielo dimmi: «ora». (Respiri affannosi, poi più calmi) E: Ora. H: Bene. Sei rilassata e stai tornando alla settimana scorsa. Sei con Roy in quel cortile e hai una strana sensazione. Parlami di quella sensazione. Puoi ricrearla, perché sei una donna forte e sicura che un po' alla volta sta diventando come realmente vuole essere. Una donna che controlla il proprio destino. Ti senti rilassata e sicura? E: Sì. H: Allora dimmi che cosa senti. Vedi quel cane come se lo avessi davanti adesso, vero? Rivivi la sensazione che hai provato quando hai visto quel grande pastore tedesco. Se poi c'è qualcosa che vuoi dire, bene. Ma l'importante è che provi quella sensazione. E: So di essere già stata in quel posto. H: Sai di esserci già stata? E: E so che avevo paura. H: Voglio che tu mi dica perché avevi paura. Non starci a pensare. Dimmi la prima cosa che ti viene in mente.
E: Ci avrebbero presi. H: Vi avrebbero presi? E perché? E: Perché eravamo lì. H: E che c'era di male a essere lì? Perché qualcuno avrebbe dovuto prendervi solo per questo? E: Non lo so. Posso fare delle supposizioni, ma non lo so. H: Va bene. Tu come lo spieghi? E: Ci ho pensato su, e mi è venuto in mente che dopo essere andati via di lì, mentre Roy mi accompagnava a casa, mi ha detto che l'omicidio è avvenuto sulla collina direttamente sopra la casa, e che la padrona ha due pastori tedeschi, e quella notte abbaiavano, e allora lei è uscita e ha visto una ragazza scappare. Così, forse ho pensato che potevo essere io. H: Ma avevi paura prima che Roy ti dicesse questo. E: Sì. H: Come mai eri spaventata, se ancora non sapevi dei cani? E: Non lo so. H: Prima hai detto: «Ci avrebbero presi». Chi c'era con te? E: Questo è strano. H: Che cosa? E: Be', quando ero là, sul vialetto d'accesso della casa, ho pensato di esserci già stata due volte. E una volta ero in macchina. H: Capisco. Eri lì in macchina con qualcuno. È stato dopo l'omicidio? È per questo che avevi paura che vi prendessero? E: Non lo so quando è stato. Ricordo solo di essere passata di lì in macchina, e io ero sul sedile posteriore, e mi sembra che ci fosse qualcuno seduto dietro con me. H: Ti hanno fatto salire in macchina dopo che sei corsa giù dalla collina? E: Non riesco a ricordare! H: Rilassati, Esther. Va tutto bene. Lascia che venga fuori! Tira fuori tutto! Ci sono qui io con te. E: Non posso! (Gridando, piangendo.) H: Lascia che riemerga. Lascia che venga fuori tutto, liberati di questo peso. Fallo uscire da te naturalmente, liberamente. E: Non riesco a pensare. (Ancora piangendo.) H: Va bene. Va tutto bene. Stai facendo un ottimo lavoro. Non pensare a niente per qualche momento. (Pausa) H: Ti senti meglio adesso?
E: Non riesco a ricordare. Non posso. Proprio non ci riesco. H: Apprezzo molto i tuoi sforzi. Questo lo sai, vero, Esther? E: Se solo potessi tirarlo fuori... H: Tirare fuori cosa? E: Eh? H: Che cosa vorresti tirare fuori? E: Io... intendevo solo dire... sapere se è successo davvero o no. A volte mi confondo, perché andavamo sempre al parco quando ero al liceo, e non so se quello che sto ricordando c'entra con l'omicidio o cosa... H: Eri già stata lassù? E: Andavamo spesso lì a bere e divertirci. Solo che quando ero sul vialetto di quella casa non mi sembrava familiare per questo. Avevo una sensazione così strana... so di avere paura a ricordare. H: Be', non posso biasimarti. Credo che al tuo posto ne avrei anch'io. E: È come quando sto sognando e mi sveglio di soprassalto. Ho ancora davanti agli occhi qualche immagine del sogno, ma non riesco a ricordarlo. H: Fai dei sogni su questo? E: Qualche volta. H: Parlami dei tuoi sogni. E: A volte vedo la faccia di Richie. È coperta di sangue come nella fotografia che mi ha mostrato il signor Shindler. Poi sto correndo. Qualunque cosa sia successa, è già successa, e io corro giù per la collina. E c'è qualcuno che corre con me, credo una ragazza. Non mi sembra di essere inseguita. Sto solo correndo. E poi siamo su una macchina Sul sedile posteriore. H: Riesci a vedere in faccia la ragazza? E: No. A quel punto mi sveglio. H: Lo hai sognato più di una volta? E: Due volte, da quando siamo andati al parco la settimana scorsa. H: Questi sogni ti turbano? E: Sì. H: Come ti senti quando ti svegli? E: Mi batte forte il cuore e non riesco a respirare. La prima volta per un momento ho creduto che fosse vero. H: E non hai mai fatto questo sogno prima? E: Be', sì. Una volta o due. H: Mi pareva che avessi detto che i sogni sono cominciati dopo essere andata al parco con Roy. E: Sì, ma avevo già sognato la faccia. Quando stavo ancora a casa. Può
chiederlo a mia madre. H: Okay. Bene, Esther, oggi abbiamo avuto una seduta faticosa. Hai tentato con molto impegno e sono fiero di te. Adesso ti dirò qualcosa che ti aiuterà la prossima volta che ti sveglierai spaventata a causa di uno di quei sogni, o quando ti capita di essere sotto pressione, o cominci a dubitare di essere la donna forte e matura che noi sappiamo che sei. Una donna capace di allevare un figlio da sola. Di farcela con le proprie forze. Allora, la prossima volta che hai paura, qui o a casa o altrove, voglio che ti rilassi e ricordi la sensazione della mia mano sul tuo polso. Non occorre che tu visualizzi il polso o chiuda gli occhi, né niente del genere. Basta che tu ricordi la sensazione e presto la tua mano si muoverà verso la tua faccia, proverai un senso di benessere e tutte le tue tensioni svaniranno. Ora, voglio che tu mi prometta di esercitarti a casa. Puoi farlo in qualunque momento. In camera tua o mentre guardi la TV. Mi prometti che lo farai? E: Sì. H: Molto bene. Tra un momento ti sveglierai dalla trance sentendoti ristorata, forte e sicura... «Eddie!» urlò Gary Barrick scorgendo Eddie Toller all'altro capo del bancone del bar del Satin Slipper. Il fumo denso e l'illuminazione soffusa del locale distorcevano i lineamenti del giovane riccioluto che si stava alzando dallo sgabello. «Che mi venga un colpo!» esclamò Eddie vedendo chi lo aveva chiamato per nome. «Che fine avevi fatto?» I due uomini si sorrisero e si scambiarono una vigorosa stretta di mano. «Hai una bella cera per uno che è uscito di prigione soltanto da un paio di mesi.» «Ehi», Eddie girò un'occhiata ansiosa attorno per vedere se qualcuno avesse sentito il commento di Gary. «Non c'è bisogno di mettere i manifesti. Qui lo sanno in pochi che sono stato dentro.» «Scusa, Eddie. Allora, che combini?» «Lavoro qui. Sono vicedirettore», annunciò con una punta di orgoglio. «Niente meno! Ma è magnifico. Sono contento che le cose ti vadano bene.» «Sì, non mi lamento.» Eddie scrollò le spalle. «E tu, come te la passi?» Gary sorrise. «Il solito. Al momento non ho un lavoro, ma lo sto cercando.»
Eddie lo invitò a seguirlo a un tavolo libero e fece un cenno a una cameriera. Un'attraente bionda dalle gambe lunghe si avvicinò ancheggiando. «Cosa posso portarti. Eddie?» domandò. «Per me niente, ma per il mio amico offre la casa. Che cosa bevi, Gary?» Gary ordinò e la bionda si allontanò ondeggiando sui tacchi. «Niente male», commentò Gary, colpito. «Te la fai?» «Sheila? No, ho la mia ragazza. Lavora qui al locale, ma stasera non è in servizio. Quando sei arrivato in città?» «Il mese scorso.» «Hai un posto dove stare?» «Sì. Sto da una ragazza che ho conosciuto. Qualche volta si potrebbe uscire in quattro, che ne dici?» Sheila tornò con l'ordinazione, poi Gary ed Eddie ricordarono fanno che avevano passato nella stessa cella. «Quindi, adesso righi dritto?» chiese Gary. «Sì. Ho chiuso con la vita di prima. Joyce e io ci sposeremo, appena avrò da parte abbastanza grana.» «Ti sposi? Allora è proprio una cosa seria.» «Direi di sì. Il tempo passa per tutti, e a un certo punto bisogna mettere la testa a posto, come si suol dire.» «Peccato», disse Gary con rammarico. «Perché?» Gary lanciò uno sguardo furtivo attorno e si sporse in avanti. «Ho sotto mano un colpetto che è un vero zuccherino, e potrebbe farmi comodo avere con me un uomo fidato.» Eddie ci pensò per un istante, poi scosse la testa. «No, non voglio impegolarmi in nessun pasticcio, Gary. Con il mio lavoro non faccio soldi a palate, ma mi basta, ed è un posto fisso. E poi. non potrei più sopportare di finire di nuovo dentro. Sto diventando troppo vecchio per queste cose.» Gary si strinse nelle spalle. «A ciascuno il suo. Senti, ti lascio il mio indirizzo e il numero di telefono.» «No. Ti ringrazio, ma non sono proprio interessato.» «Non per Quello. Solo per vederci. Mi farebbe piacere conoscere la tua ragazza. I vecchi amici dovrebbero tenersi in contatto.» Esther piegò con cura il bucato del bambino, disponendolo in pile ordinate accanto al suo. Girò lo sguardo per il salotto. Aveva finito di stirare, i piatti erano lavati e il piccolo dormiva. Sprofondò nella poltrona di secon-
da mano sistemata davanti al televisore e tirò un sospiro. Era esausta. Eppure, i lavori di casa non le pesavano più come prima che cominciasse ad andare dal dottor Hollander. Grazie a lui si era resa conto di quanto fosse importante il suo lavoro. Le aveva fatto capire che non tutte sarebbero state capaci di tirare su un figlio da sola, come stava facendo lei. Bisognava essere una persona speciale per farcela. Diede un'occhiata all'orologio. Erano le nove meno un quarto. Poteva guardare gli ultimi quindici minuti di uno spettacolo televisivo, oppure esercitarsi con la trance. Scelse la seconda opzione. Si dedicava a quella pratica con costanza e sempre più volentieri. La aiutava a rilassarsi quando si sentiva tesa o ansiosa, ad affrontare le difficoltà quotidiane e a diventare la donna che lei sapeva di poter essere, la donna forte e sicura che lei realmente voleva essere. La trance le dava un senso di contentezza che non era mai riuscita a ottenere con l'alcol o con le pillole. Le sue giornate erano meno faticose e la notte portava con sé un sonno profondo e rigenerante. E poi, cosa quasi altrettanto importante, la trance la aiutava a pensare alle cose che il dottor Hollander voleva che ricordasse. I nebulosi, elusivi pensieri che si celavano nei recessi ombrosi del suo subconscio. Ogni seduta rafforzava in lei la convinzione che si stesse nascondendo qualcosa a proposito di quella notte. Ne era sicura. Quando il dottore o Roy parlavano delle cose che pensavano lei avesse fatto, sembrava tutto così sensato. Se era successo, doveva essere come dicevano loro. Esther lasciò che i suoi occhi si chiudessero e immaginò le dita del dottore sul suo polso. Avvertì un formicolio, poi cominciò a sentire i suoi muscoli rilassarsi e la sua mano avvicinarsi lentamente alla faccia. Era arrivata ad attendere con impazienza il giorno del suo appuntamento settimanale con il dottor Hollander. Lui era così gentile, così... paterno, era questa la parola giusta. Come avrebbe voluto che fossero stati così gli uomini che si erano avvicendati al posto di suo padre. Sempre pronto a sostenerla, ad aiutarla. Adesso le piaceva perfino Roy. Pensava di essersi sbagliata sul suo conto, inizialmente, perché ora lo trovava così carino. Le comprava sempre qualche cosa. Niente di costoso, a parte i suoi bei vestiti nuovi. Magari dei fiori, o un regalino per suo figlio. Era talmente premuroso, come John all'inizio, e aveva più o meno la stessa età. Gli uomini più maturi sembravano sempre più riguardosi, anche se lei era stata con alcuni che non lo erano. Roy le ricordava John, ma naturalmente era molto più intelligente. Si
sentiva sempre così stupida, quando era con lui e il dottore. Non che loro avessero mai dato a vedere di ritenerla stupida, ma lei lo era, lo aveva sempre saputo. Anche a scuola, í ragazzi si erano sempre interessati a lei unicamente perché era carina e ci stava. John, però, le aveva mostrato rispetto. Come adesso Roy e il dottor Hollander. La notte precedente aveva sognato Roy. Al risveglio si era sentita a disagio, perché era stato un sogno erotico. Erano a letto insieme, ma non le sembrava che si trovassero in una stanza. Forse c'erano nuvole al posto delle pareti. Si accorse di essersi irrigidita e si concentrò sul suo polso e sulla trance. Pensò a quello che Roy e il dottore volevano da lei. Ci teneva tanto ad aiutarli. Ma a volte le loro domande la disorientavano. Per esempio, quando Roy le aveva chiesto se quella notte, mentre era in giro con Billy e Bobby, avessero fatto una gara in macchina con Richie su Monroe Boulevard. Era sicura di no. C'era stata una volta in cui si era trovata in macchina con qualcuno che aveva gareggiato con Richie, ma non ricordava bene se fosse Roger, né se ci fossero stati anche Billy e Bobby. Era passato così tanto tempo. Ma se invece fosse successo proprio quella notte? Lei non lo riteneva possibile. Ma se era davvero così? Allora avrebbe potuto sbagliarsi anche su altre cose. Non si sentiva più rilassata, e riaprì gli occhi. Chissà perché, quella sera non funzionava. 6 Nastro numero 5 Dottor Arthur Hollander. Bene. Tra un momento la mano si muoverà verso la faccia e i tuoi occhi si chiuderanno. Ecco, ci siamo. Brava, così. Completamente rilassata. Ora, Esther, mi chiedevo se saresti disposta a dimenticare qualunque cosa possa risultarti sgradevole nel corso della seduta di oggi. In tal caso, puoi indicarlo con un «sì». Esther: Sì. H: Bene. Se dovessimo avere bisogno di questa informazione in futuro, potrai ricordarla da sola o con il mio aiuto, e dimenticherai qualsiasi fase del nostro lavoro di oggi che non ti senti pronta ad accettare, così come dimentichi un sogno appena dopo esserti svegliata.
Ora, Esther, voglio che tu immagini che la finestra davanti a te sia uno schermo cinematografico. Riesci a visualizzare lo schermo di fronte a te? E: Sì. H: Bene. Ora, se guardi alla base di quello schermo, noterai un piccolo contatore, qualcosa di simile al contachilometri di un'automobile. Lo vedi? Riesci a vedere che segna 1967? E: Uh-huh. H: Perfetto. Ora immagina che il contatore vada all'indietro. Quando arriva a 1960, voglio che tu mi avverta dicendo il numero. E: 1960. H: Bene. Ora vedrai scorrere sullo schermo immagini di cose accadute nel 1960. come se fossi al cinema a guardare un film. Può darsi che tra i personaggi veda anche te stessa. Vuoi descrivermi la prima scena che appare? E: Sono con gli altri al Bob's Hamburger Heaven. Era il nostro ritrovo abituale. H: Chi sono «gli altri», Esther? E: I miei amici. H: Intendi dire i Cobra? E: Alcuni membri. H: Billy e Bobby Coolidge? E: Li conoscevo. H: Che cosa facevi con i Cobra? E: Non lo so. H: Hai mai fatto qualcosa di male con loro? Voglio dire, contro la legge? E: Una volta abbiamo rubato al minigolf. H: Parlamene. Quando è successo? E: Nel '59. In luglio. Ero con tre ragazzi. Hanno fatto la rapina, poi siamo scappati con la macchina. Era del fratello di uno di loro. Abbiamo fatto una corsa pazzesca giù per la collina. La strada era tutta curve, e le macchine della polizia ci inseguivano. Una è finita in un fosso. Siamo riusciti ad arrivare in fondo alla collina, ma poi abbiamo preso un senso unico contromano, e alla fine cinque auto della polizia ci hanno bloccati. H: Hai avuto paura? E: Oh, sì. Non ho guardato per metà del tempo. H: Che cosa ti è successo dopo? E: Be', ero giovane, così ho fatto solo un po' di carcere preventivo al centro correzionale, poi mi hanno lasciata tornare a casa con la mamma.
H: Perché lo avete fatto? La rapina, voglio dire. E: Non lo so. Ero ubriaca e non ricordavo bene com'era andata. Anche al processo, quando ho dovuto testimoniare, non ho saputo dire se fosse stata una cosa programmata. So solo che avevamo bevuto parecchio, poi Bones è andato alla cassa e ha puntato un coltello alla gola della cassiera. Non le ha fatto niente, però. Credo che sia stata una improvvisata, comunque. Eravamo così, allora. Vivevamo alla giornata. I Cobra dicevano sempre qualcosa del genere. H: Ti ha spaventata l'arresto? E: No, non molto. Più che altro mi faceva paura andare al centro correzionale. C'ero già stata, e non mi piaceva essere rinchiusa. H: Eri già stata arrestata in precedenza? E: Sì, per avere ferito un ragazzo. H: Hai ferito un ragazzo? E: Con un temperino che tenevo sempre in tasca. Non gli ho fatto un granché, in realtà. Volevo solo spaventarlo. Mi hanno rilasciata quando la mamma è venuta a prendermi. H: Perché hai ferito quel ragazzo? E: Mi aveva messo le mani addosso. Aveva bevuto e ha cercato di spingermi sul sedile posteriore della sua macchina. Io non volevo... Era brutale. A me piace che i ragazzi siano gentili, che mi dicano cose carine. Io non sono... H: Okay, Esther, ora rilassati. Vedo che ti stai agitando. Possiamo lasciar perdere questo argomento e andare avanti, se sei d'accordo. Sì? Bene. Vedi ancora lo schermo? Continua a guardarlo, e presto la scena svanirà e ne apparirà un'altra. Siamo ancora nel 1960, ma un po' più avanti, in novembre. Sullo schermo puoi vedere una festa. La vedi? E: Vedo solo una festa di Natale. H: No, Esther. Sei andata troppo avanti. Siamo a novembre. Abbiamo già discusso di questa particolare festa. Era a casa di Alice Fay. Voglio che tu veda sullo schermo la casa di Alice. C'era quella moquette soffice, ricordi? Era come camminare su una nuvola. E: Sì... è così morbida. H: Stai sorridendo. È una bella sensazione, vero? Dimmi, Esther, c'è altra gente lì con te? E: Certo. È una festa. H: Che cosa stanno facendo gli altri? E: Ballano. Si divertono.
H: Tu con chi sei lì? E: Con Roger. E ci sono anche Billy e Bobby Coolidge. H: Chi è Roger? E: Roger Hessey. È il mio... era il mio ragazzo, allora. H: Però non sei tornata a casa con lui, vero? E: No. Lui è andato via quando sono cominciati i guai. H: Ti riferisci allo scontro tra i fratelli Coolidge e Tommy Cooper e i suoi amici, giusto? E. Sì. Billy li aveva provocati. Roger se n'è andato perché non voleva essere coinvolto. H: Perché non sei andata via con lui, Esther? E: Non lo so. Roy Shindler: Guarda lo schermo, Esther. Riesci a vedere la scena dello scontro? E: Non vedo bene. È successo tutto così in fretta... S: Billy è davanti al tavolo dei rinfreschi, vero? Vedi come è vestito? E: Come al solito. Con un giubbotto di pelle nera con scritto Cobra sulla schiena e jeans stretti. S: Lo vedi chiaramente? E: Billy era sempre vestito così. S: Okay. E vedi anche che cosa ha in mano? E: In mano? S: Sì. Non ha in mano un coltello? Il suo coltello a serramanico. E: Io non... non vedo nessun coltello. S: Billy aveva un coltello così, non è vero, Esther? Non lo esibiva continuamente in giro? E: Io... non ricordo. È passato tanto tempo... H: Rilassati, Esther. Non hai motivo di agitarti. Ricorda, stai guardando uno schermo cinematografico. Delle cose che accadono su uno schermo non possono farti alcun male, giusto? E: Giusto. H: E io sono qui ad aiutarti. Lo sai, vero? E: Sì. H: Ti sto aiutando a diventare la donna forte e sicura che hai sempre voluto essere, come ti avevo promesso, non è così? E: Sì, è così. H: E tu vuoi aiutare me e Roy, vero, Esther? E: Sì.
S: Te la senti di rispondere ancora a qualche domanda, Esther? E: Va bene. S: Brava. Allora, torniamo a quella sera. Hai lasciato la festa di Alice Fay con Bobby e Billy Coolidge. Billy ha procurato del vino. Lo ricordi questo, Esther? E: Sì. S: Avete bevuto il vino in macchina. Riesci a vederlo? E: Ah-ah. S: Poi siete andati a fare un giro in centro, vero? E: Credo di sì. S: Adesso sei in Monroe Boulevard. Riesci a vedere il viale, Esther? E: Sì, lo vedo, ma... non ricordo se... S: Ma dovevi passare per Monroe Boulevard per andare a casa, no? E: No. Di solito per tornare a casa dal centro passavo per Marshall Road. S: Ma avresti potuto andarci anche da lì. E: Sì. (Bisbigli) S: Okay, Esther, voglio che tu visualizzi Monroe Boulevard e voglio che ci dica quello che vedi. Siamo nel novembre del 1960. E: Non ricordo di esserci passata, quella notte. S: Quale notte? E: Quando... lo sapete, quella dell'omicidio. H: Non c'è problema, Esther. Immagina di esserci stata. Vedi il viale sullo schermo? E: Sì. H: Bene. E che cosa vedi? E: Non molto. Dei negozi. (Bisbigli) H: Sì. Su che tipo di macchina sei? E: Che cosa volete che dica? H: Solo la verità. Che cosa vedi sullo schermo? E: Be', a dire il vero... io non mi vedo su nessuna macchina. S: Che tipo di macchina avevano Bobby e Billy Coolidge? H: Santo cielo, non lo so... Una Dodge o una Ford. Qualcosa del genere. S: Di che colore era? E: Hmm... Blu scura, mi pare, o nera. Un colore scuro. S: Sai che macchina aveva Richie, vero? E: Non ricordo la marca.
S: Però la conosci. E: A scuola era una leggenda. Una volta ero con Billy e Bobby quando hanno fatto una gara con Richie. S: Eri con loro? E c'era qualcun altro? E: Non mi pare. S: Uscivi abitualmente da sola con i Coolidge? E: Forse c'era qualcun altro. Probabilmente Roger. Non ricordo, è passato tanto tempo. S: Che cosa è successo durante la corsa? E: È stata solo una gara. S: Non c'è stato un incidente? E: Non credo. Non lo so. Sono confusa. Me lo ricorderei un incidente, no? S: Mi hai detto che non riuscivi a ricordare quello che era successo quella notte perché eri ubriaca. E: Infatti. S: Quindi può essere che abbiate fatto una gara con Richie su Monroe Boulevard. E: Sono terribilmente stanca. Non credo di poter andare avanti per oggi. «Sei molto silenziosa, stasera», osservò Shindler. Esther smise di fissare fuori del finestrino e si volse a guardarlo. Le stava sorridendo. Questo la fece sentire ancora peggio. Sapeva che li stava deludendo con la sua incapacità di ricordare, e nonostante questo lui era così gentile, come se la cosa non avesse importanza. «Sono solo stanca», disse. «Posso capirlo. Queste sedute non devono essere molto piacevoli per te. Sia io sia il dottor Hollander apprezziamo molto i tuoi sforzi.» Shindler imboccò l'uscita dell'autostrada ed Esther abbassò gli occhi a fissarsi le mani. Era stanca e si sentiva a terra. Il pensiero di restare sola nel suo appartamento le dava un senso di vuoto. Avrebbe voluto che le sedute non la lasciassero così depressa. Ogni volta le aspettava con tanta impazienza che quando finivano aveva la sensazione di avere perso qualcosa. Esther chiuse gli occhi per un momento mentre Shindler si fermava davanti al portone del palazzo dove lei abitava. Non voleva che se ne andasse. Le venne in mente che prima aveva detto di avere fame. Magari... «Vuole... le va di fermarsi per cena? Potrei preparare degli spaghetti.» Shindler fu sorpreso e compiaciuto di quell'invito. Durante le ultime se-
dute aveva notato che lei era meno tesa in sua presenza, ma questo era più di quanto sperasse. Esther si aspettava che lui rifiutasse. E, comunque, era stata un'idea sciocca. Come cuoca non valeva molto, e di che cosa avrebbero mai potuto parlare? Si era già pentita di averglielo proposto. Poi lui accettò e lei fu presa dal panico. La serata sarebbe certamente stata un disastro. Shindler pagò la baby-sitter ed Esther andò in cucina a preparare la cena. Il bambino stava già dormendo. Shindler le chiese se ci fosse un negozio nei paraggi dove potesse comprare del vino. Esther non lo sapeva. Non comprava mai vino da bere ai pasti. Si sentiva una frana. Shindler disse che sarebbe uscito a cercarlo. Mentre lui era fuori, Esther si cambiò d'abito, indossando il tailleur che le aveva regalato, senza rendersi conto di quanto fosse poco appropriato per l'occasione. «Sei molto carina», si complimentò Shindler quando tornò con il vino. Lei arrossì, esattamente la reazione che lui aveva contato di provocare. Era una ragazza così facile da manipolare. Del resto, lo erano quasi tutti, se si aveva il tempo di studiarli. Esther apparecchiò la tavola e Shindler versò da bere. Lei aveva l'impressione di non fare niente di giusto. A parte John, non aveva mai cucinato per un uomo. Nelle sue precedenti relazioni non erano previste cenette in casa. Gli altri uomini era già tanto se la portavano a bere qualcosa in un locale dove si suonava musica country prima di concludere la serata in un motel. E non era mai stata con nessuno come Shindler. Lui era così intelligente e a volte parlava di cose che lei non capiva. «Ti senti meglio?» si informò Shindler quando ebbero finito di mangiare. Il vino l'aveva aiutata a rilassarsi, ed era anche leggermente euforica. «Sì, sto bene», rispose. Lui l'aiutò a portare i piatti in cucina e in quello spazio ristretto i loro fianchi si sfiorarono casualmente. La sua vicinanza la eccitava e lui percepì la sua reazione. «Sei molto bella, stasera», le disse, e lei distolse lo sguardo, spaventata dai pensieri che all'improvviso la assalirono. Le tornò in mente il sogno che aveva fatto e si sentì in colpa per il desiderio che provava. Cominciò a lavare un piatto per distrarsi, ma lui glielo tolse di mano e chiuse il rubinetto. Esther alzò gli occhi a guardarlo in faccia. Era così alto. Era brutto, ma lei questo non lo vide. Vedeva solo quello che lui voleva che vedesse. Quello che lei voleva vedere. Un padre che si prendesse cura di lei. Qualcuno che le dicesse che cosa fare. Lui le accarezzò i capelli. Era tutto talmente facile.
«Hai messo questo vestito apposta per me?» Lei gli rispose in un bisbiglio così fioco che la sentì a malapena. Le accarezzò il mento e glielo sollevò gentilmente, costringendola a guardarlo negli occhi. La prese per mano e la guidò come una bambina in camera da letto. Il cuore le batteva così forte che era certa che lui potesse udirlo. Si sentiva come liquida dentro. Lui le tolse i vestiti e lei seppe che appena l'avesse toccata si sarebbe sciolta. Shindler la fece stendere sul letto e passò una mano sul suo corpo. I suoi seni erano pieni e le punte erette. Cominciava a sentirsi eccitato, ma anche il suo desiderio era sotto controllo. Lei aveva gli occhi chiusi, e lui la osservava clinicamente. Esther gemette e si inarcò sotto il suo tocco. Lui fu sopra e dentro e intorno a lei. Il piacere era intollerabile. Per lei non era mai stato così, prima. Con gli altri uomini, anche John, era stata consapevole dell'odore del sudore e di dove si trovava, del tutto presente a se stessa in ogni momento. Con Roy, invece, era completamente persa. Shindler la sentì fremere e rilassarsi. Venne e rimase dentro di lei. Esther stava piangendo. La baciò e la tenne fra le braccia. Le sue lacrime si mescolarono al sudore sulla sua spalla. La accarezzò e vezzeggiò come un cagnolino. Sarebbe stato molto più facile, adesso. 7 «Ascolta, Ted, i comunisti devono essere fermati, e preferisco che lo si faccia in Vietnam piuttosto che a Disneyland.» «Gesù, non posso crederci», si scandalizzò Ted Wolberg. «Come si fa a ragionare con un simile reazionario?» Ted e Bobby Coolidge erano nell'appartamento di George Rasmussen, e come al solito Ted e George si erano lanciati in una discussione sulla guerra. Bobby prestava poca attenzione a quello che dicevano, perché erano tutte cose che aveva già sentito mille volte. Sembrava che ormai ovunque non si parlasse d'altro che del Vietnam. «Tu che ne pensi, Bobby?» lo interpellò Ted. Bobby lo guardò. Non gli piaceva essere trascinato in discussioni accademiche, perché ancora non si sentiva abbastanza sicuro per avventurarsi nell'arena del confronto intellettuale. Preferiva restare defilato e ascoltare. Il problema era che, quando si trattava del Vietnam, lui era considerato l'e-
sperto locale. Lo tiravano sempre in mezzo, e si aspettavano che conoscesse come le sue tasche qualunque cosa avesse attinenza con la guerra. In realtà, lui ne sapeva di meno sul Vietnam, la sua storia e la situazione politica rispetto a George, che aveva prestato servizio militare a Washington, o a Ted, che era all'ultimo anno di scienze politiche e per hobby studiava l'Estremo Oriente. «Io penso che abbiate ragione entrambi, in un certo senso», rispose cautamente. «La mia opinione è che non dovremmo essere laggiù...» «Visto?» esclamò Ted. «Esattamente quello che hanno detto i due prigionieri di guerra che sono appena stati rilasciati.» «...ma non sono d'accordo con te quando paragoni il nostro paese alla Germania nazista. Voglio dire, non mi pare che la polizia segreta sia venuta a portarti via per le tue affermazioni palesemente sovversive, o sbaglio?» «Ti stai lasciando ingannare dall'apparente tolleranza esercitata dal sistema militaristico-industriale che governa questo paese. Marcuse dice...» «Chi?» domandò George. Ted stava per rispondere quando suonò il campanello. George andò ad aprire la porta e tornò in soggiorno insieme a Sarah. Lei aveva in mano una lettera. Quando Bobby la vide, il cuore cominciò a battergli forte e all'improvviso gli si inaridirono le labbra. Era tutta la settimana che stava aspettando l'esito degli esami di fine semestre e la busta sembrava proprio quella che la scuola usava per comunicare i risultati. Si aspettava il peggio, e si rese conto di non volere che i suoi amici lo scoprissero, se i suoi voti erano scarsi. «Scusa, George, potrei parlare con Sarah in camera tua?» «Certo, basta che sistemate prima di andarvene.» «Sei un porco, George», commentò Sarah, seguendo Bobby lungo il corridoio. «Allora?» domandò nervosamente Bobby appena chiusero la porta della camera da letto. Lei lo guardò senza espressione per un momento, e lui sentì una stretta al cuore. Poi Sarah scoppiò a ridere e gli gettò le braccia al collo. «Sei andato benissimo, sciocco. Hai avuto perfino la nota di merito! Sono così fiera di te.» Lui tentò di districarsi dal suo abbraccio. Non aveva bene afferrato quello che aveva detto. «Cosa?» domandò quando se la fu scollata di dosso, tenendola per le
spalle. «Un trionfo. Tre A, un B+, e un C+ in matematica.» «Mi stai prendendo in giro?» «Bobby, se tu potessi vedere la tua faccia!» rise Sarah. Bobby camminò avanti e indietro per la stanza, fissando il foglio. Era lì, nero su bianco. «Sarah, fatti bella, stasera. Ti porto fuori.» «Non è necessario, Bobby», replicò lei, conoscendo le sue ristrettezze economiche. «Oh, al diavolo. Voglio festeggiare. Tu non sai che cosa significhi questo per me, Sarah. Per tutta la vita ho creduto di essere uno stupido che non avrebbe mai combinato niente di buono. Non hai idea della paura che avevo a scuola. Sono stato sul punto di mollare tutto una dozzina di volte.» Lei non disse niente, ma lo sapeva, eccome. Lo aveva sentito lamentarsi nel sonno, lo aveva visto sudare sui libri, lo aveva tirato su di morale quando era troppo scoraggiato per andare avanti. «Sai, questo è il punto di svolta della mia vita, Sarah. Non tornerò indietro, mai più.» Nastro numero 8 Dottor Arthur Hollander: Sono contento di trovarti così in forma, Esther. Esther: Mi sento molto bene, in queste ultime settimane. H: Quale pensi che sia il motivo? E: Io... be', credo che siano queste sedute e la pratica della trance a casa. Mi sto mettendo d'impegno e tutto sembra andare molto meglio. H: In che senso? E: Ecco, intanto, con mio figlio. Sa, prima... be', non è che lo odiassi, ma... sa, a volte pensavo che fosse un castigo. H: Un castigo per cosa? E: Non so. Per non essere riuscita a tenermi mio marito, forse. Lo so che è assurdo, ma avevo la sensazione che se non avessi avuto il bambino, John sarebbe rimasto, e ce l'avevo con lui per questo. Solo che non me n'ero resa conto, prima di cominciare a venire da lei e riflettere su me stessa. H: E adesso è diverso? E: Sì. Io... be', prima non riuscivo a volergli davvero bene. Adesso invece sto lì a guardarlo, lo abbraccio e lo bacio di più. E lui è molto più tranquillo. Non è più così assillante.
H: Pensi che questo succeda perché si accorge che il tuo atteggiamento è cambiato? E: Non lo so. Non sono una psicologa, io. Potrebbe. H: E dici che ci sono altri cambiamenti? E: Be', sa che noi parliamo sempre di diventare il tipo di persona che voglio essere. Ecco, sento che sta succedendo. H: Che cosa te lo fa pensare? E: Adesso sono più calma, meno spaventata. Quando sono inquieta, mi rilasso con la trance, poi penso a quello che mi mette in agitazione, e di solito riesco a trovare il modo di gestirlo. H: Questo mi fa molto piacere. Sono contento che io... che tu pensi ti sia stato di qualche aiuto. E: Le sono molto riconoscente, e ci tenevo a dirglielo. H: Grazie. E: Sa, dottore, è tutta la settimana che ci penso, e ho deciso che questa volta ce la metterò tutta per ricordare, perché so che c'è qualcosa che non riesce a venire a galla e voglio fare del mio meglio per lasciarlo uscire. H: Magnifico! Sono felice di sentirti parlare così. È una gioia assistere alla tua trasformazione da ragazza spaventata a giovane donna forte e sicura. E se tu sei d'accordo, oggi proveremo qualcosa di nuovo che potrà aiutarci ad accelerare il processo. E: Di che si tratta? H: Ti inietterò del sodium amytal. Ricordi che abbiamo parlato dei guardiani che il tuo subconscio schiera quando ci avviciniamo ai momenti cruciali? E: Sì. H: Ecco. Il sodium amytal ti mette in uno stato di dormiveglia e riduce la tua vigilanza. Ti sentirai come ubriaca, e questo renderà più difficile a quei guardiani proteggerti dai tuoi ricordi, allo stesso modo in cui il bere rallenta le tue reazioni. Capisci? E: Credo di sì. H: Mi autorizzi a usare il farmaco? E: Se lei pensa che serva, per me va bene. H: Perfetto. Allora indurremo l'ipnosi come al solito, poi la rafforzerò con l'amytal e procederemo con la tecnica della proiezione sullo schermo. E: Sa, a casa a volte ci provo. Immagino lo schermo e vedo le cose più impensate. Le confesso che questo mi preoccupa. Non vorrei fare di un sassolino una montagna immaginando cose che non sono successe real-
mente. Ho paura di lasciar correre troppo la fantasia anche quando lo facciamo qui. H: Be', ma non è così, vero? Le cose che mi hai detto finora non te le sei inventate. E: Oh, no! H: È tutto a posto, allora. E comunque, faremo in modo che non accada. Ora, direi di cominciare. Stavolta ti farò stendere sul divano, così sarai più comoda. E: Potrei avere un cuscino per la testa? H: Certamente. Sistemati più comodamente che puoi. Ora, quando sarai in trance ti somministrerò l'amytal, poi ti chiederò di contare a ritroso finché saprò che ha fatto effetto. Adesso fai dei respiri profondi e rilassati. Quando sei pronta, puoi alzare la mano. (Pausa) H: Bene. Tra un momento sentirai una piccola puntura e comincerai a sentirti ancora più assonnata di adesso. Mentre inietto il farmaco, voglio che tu inizi a contare a ritroso partendo da 100. Ora. 100. E: 100. H: 99... Così, bravissima. Continua a contare e lasciati andare al torpore. E: ...80, 79, 78, 77, 76, 75, 74, 73, 72, 71... H: Molto bene. Adesso puoi rilassarti e cominciare a ricordare cose importanti. I fatti di quella sera di novembre del 1960 si stanno facendo sempre più chiari nella tua mente. E mentre ricordi, sentendoti molto calma e sicura di te, ti sarà facile parlarne, sapendo che dopo potrai dimenticare, ricordare o alterare il ricordo secondo le tue esigenze. Ecco. Rivedi mentalmente ogni episodio di quella sera con la maggiore chiarezza possibile. Provi una sensazione piacevole, vero? Rilassati e lascia fluire i ricordi. E: Ho finito di contare? H: Sì. Ora puoi descrivermi quello che c'è nella tua mente. E: Non c'è niente. H: Pensa a quella sera. Ricordi che eri con i tuoi amici al Bob's Hamburger? E: Sì. H: E avete deciso di andare alla festa di Alice Fay. E: Mmm. H: C'è stata una rissa alla festa, vero? E: Sì.
H: Chi si è picchiato? E: Billy e Bobby e Tommy Cooper e dei ragazzi che non conoscevo. H: E Billy ha tirato fuori un coltello? E: Sì. H: Te lo ricordi? E: Sì. H: Riesci a vederlo chiaramente sullo schermo? E: Lo vedo. H: Com'è Billy quando lasciate la festa? E: Arrabbiato. H: Con Tommy Cooper? E: Con i ragazzi ricchi. H: Perché? E: Perché erano ricchi. Non dovevano lavorare come lui. Ha detto che li odiava. H: Ha detto proprio così? E: Sì. H: Bene. Stai proprio cominciando a ricordare. Sono fiero di te. Dimmi, dove siete andati dopo la festa? E: A... al negozio. H: Quale negozio? E: Uno aperto tutta la notte. Billy ha rubato del vino. H: Quanto? E: Un paio di bottiglie. E ce n'era già dell'altro in macchina. H: Dove avete bevuto il vino? E: In una strada secondaria, mi pare. Forse vicina a un parco, o al cortile di una scuola. H: Un parco o il cortile di una scuola? E: Sì. Non c'erano case intorno. Siamo andati lì perché nessuno ci avrebbe visti. H: Dove siete andati dopo avere bevuto il vino? E: È sfocato. A casa? H: Guarda bene lo schermo, Esther. Vedi una gara con un'altra macchina su un rettilineo? E: Oh, se ne facevano in continuazione. H: In questa, tu eri in macchina con Billy e Bobby, e la macchina con cui stavate gareggiando vi ha fatto fare un testacoda. Eravate in Monroe Boulevard.
E: S-sì. H: Te ne ricordi? E: Billy è furioso. H: Che cosa lo ha fatto infuriare? E: Eh? H: Perché Billy è furioso? E: Non lo so. H: Che cosa fa Billy, adesso che è furioso? E: Insegue la macchina. H: È la macchina di Richie? E: Non ho detto questo. H: Riesci a ricordarlo? E: No. H: Ma tu sai riconoscere la macchina di Richie. La vedi sullo schermo? E: Sì. H: È quella che vi ha mandati fuori strada? E: Non ne sono sicura. H: È possibile? E: Sì, è possibile. H: Bene, quindi Billy ha inseguito la macchina. Dove va? E: Credo di essere andata a casa. H: Tu pensi di essere andata a casa? E: Hmmm. H: Con la macchina di Billy? E: Non ricordo. H: Va bene. Concentrati un po' di più. Vedrai che ti ricordi. Eri là. Puoi ricordare. Sei sulla macchina di Billy. Siete in Monroe Boulevard. Ripartite dopo che una macchina vi ha battuti in una gara. Andate verso il parco? E: Forse. H: Okay. State andando su per una collina. Vedi le panchine? E: Sì. H: L'altra macchina è andata da quella parte? E: Non lo so. H: Ma la stavate seguendo? E: Hmm. H: Chi altro c'è con te in macchina? E: Bobby. H: Nessun altro?
E: Forse Roger. H: Non avevi detto che se n'è andato poco dopo che siete arrivati a casa di Alice Fay? E: Credo di sì. H: Quindi non poteva essere in macchina con voi. Guarda lo schermo. Lascia che la tua mente ritorni a quella sera. Ti vedi in macchina con Billy? E: Sì. H: Okay. C'è anche Roger con voi, là nel parco? E: No. H: Bene. Allora, tu e Bobby e Billy siete nel parco in macchina. Billy è furioso. State seguendo quella macchina. È notte. Che cosa succede adesso? E: L'ho vista. H: Hai visto che cosa? E: L'altra macchina. H: Bene. Che cosa succede adesso che l'hai vista? E: Io... mi sto svegliando. Ho detto qualcosa? H: Sì. Mi stavi raccontando che tu, Billy e Bobby avete fatto una gara con un'altra macchina, che vi ha buttati fuori strada. Billy si è infuriato e l'ha seguita nel parco. E: Io ho detto questo? H: Sì, Esther. Posso farti sentire la registrazione, se vuoi. (Colpo di tosse) E: Posso avere un po' d'acqua? H: Certo. Ecco l'acqua. E: È una macchina della verità, quella? H: Questo? No, è solo un registratore. Okay, Esther. Vuoi dirmi chi stava guidando, quando eravate nel parco? Era Billy o Bobby'? E: Billy... Dovevo dire Billy, giusto? H: Riesci a vedere Billy al volante? E: Sto cercando di ricordare quello che mi avete detto... H: Dovresti dire quello che ricordi. E: Ricordo che abbiamo bevuto il vino e poi siamo andati a casa. H: Ricordi di avermi detto di Monroe Boulevard e del Belvedere? E: Uh... probabilmente me lo sono inventata. H: Non pensi che fosse la verità? E: Non potrei avere mentito?
H: Ne dubito. Esther, sei del tutto sveglia, adesso? E: Credo di sì. H: Puoi dire «Sotto la panca la capra campa»? E: Sotto la panca la capra campa. H: Sì, sei sveglia, altrimenti non ci saresti riuscita. Okay, credo che per oggi possiamo smettere. Eddie Toller controllò l'indirizzo, poi si avviò su per una rampa di traballanti scale di legno che correvano lungo l'esterno di una vecchia casetta bifamigliare. Bussò alla porta, e le voci nella casa tacquero. Sentì dei passi avvicinarsi, poi la porta si schiuse, lasciando filtrare un odore pungente di marijuana nell'aria notturna. «C'è Gary?» domandò alla ragazza che lo sbirciava sospettosa attraverso la fessura. «Sono Eddie Toller. Mi sta aspettando.» «Ah, sì», disse lei, lasciandolo entrare. Il corridoio era illuminato solo da candele, ma a Toller quel tenue chiarore fu sufficiente per correggere di una decina d'anni la sua iniziale valutazione dell'età della ragazza. Era il modo in cui era vestita che a prima vista l'aveva fatta sembrare più giovane. Si presentò come Laura Kinnick, la ragazza di Gary, e lo guidò attraverso una tenda di fili di perline in un soggiorno arredato in stile countryguru. Gary, che stava accovacciato su un grande cuscino rivestito di una stoffa indiana, si alzò, abbandonando la sua posizione del loto, e presentò Eddie alle altre due coppie nella stanza. Gli uomini avevano i capelli lunghi e non gli fecero affatto una buona impressione. Avevano un'aria molto trasandata, e lui avrebbe scommesso che puzzavano, sebbene non potesse sentirlo con l'odore di erba che saturava la stanza. «Allora, come va, amico?» gli domandò Gary quando furono da soli in cucina. Eddie aveva rifiutato quando gli era stato passato lo spinello, facendo inarcare le sopracciglia agli amici di Gary, e invece aveva chiesto una birra. Gary era andato a prendergliela e lui lo aveva seguito. Ora lo guardò aprire una confezione da sei. «Non troppo bene, Gary. È per questo che volevo vederti.» «Che succede?» «Quei figli di puttana della commissione per la libertà condizionata. Hanno beccato Carl, il proprietario del Satin Slipper. Smerciava roba attraverso il locale. Sono stato arrestato anch'io, ma non c'entravo niente, così mi hanno rilasciato. Ma hanno informato il mio responsabile, e quello ha detto che non posso restare a lavorare in un posto del genere. Gli ho fatto
notare che lì ero in regola, e con la mia fedina penale me lo scordo di trovare un altro posto così, ma non ha voluto sentire ragioni. Morale: sono a spasso.» «Che stronzi», commentò comprensivamente Gary, scuotendo la testa. «Già. Be', ormai è fatta. Solo che devo trovare il modo di fare un po' di grana. Joyce lavora ancora, ma non posso certo farmi mantenere da lei.» «Ti farei volentieri un prestito, Eddie, ma sono a corto anch'io.» «Ehi, guarda che non sono venuto a chiedere l'elemosina. Volevo sapere qualcosa di più di quel lavoretto che hai in programma.» «Vuoi entrarci?» «Dipende. Prima voglio sentire di che si tratta. Sono troppo vecchio per tornare in gabbia. Con i miei precedenti, se mi beccano un'altra volta è dura. Quindi, non mettermi in qualche casino.» «Tranquillo, Eddie. È una cosa assolutamente sicura. Ho già pensato a tutto.» «Okay. Sentiamo.» «Laura lavora al Medical Building di Cameron Street. La porto al lavoro al mattino e poi vado a riprenderla, così sono quasi di casa lì, e ho avuto modo di guardare bene in giro. Laura ha una chiave che apre la porta esterna degli uffici e la farmacia al pianoterra. È là che faremo il colpo.» «E che c'è di interessante?» «Droga, Eddie.» «Questo l'ho capito. Ma io non faccio più uso di droga e non ho i contatti per smerciarla.» «Il contatto ce l'ho io. Uno disposto a rilevare tutta la partita. Pagamento alla consegna, sull'unghia.» «Chi è questo tizio?» «Uno che ho conosciuto in prigione. È uno grosso, Eddie. Conosce tutte le persone giuste.» «Come sai che puoi fidarti?» «Ho già fatto affari con lui.» Eddie fece un cenno con il capo in direzione del soggiorno. «E lei?» «Laura? Non ne sa niente. Ho fatto una copia delle chiavi senza che se ne accorgesse.» «Non so.» «Che c'è da sapere? È un gioco da ragazzi. Abbiamo le chiavi del castello. Niente può andare storto. Che ne dici di martedì?»
«Sono molto orgoglioso di te», bisbigliò Roy. Esther fece le fusa come una gatta e gli diede un bacio. Era così contenta. Sperava tanto di riuscire a ricordare tutto quello che Roy voleva ricordasse. Sarebbe stato talmente importante per lui. Erano le quattro e mezzo, e tra poco avrebbero dovuto vestirsi e andare dal dottor Hollander. Avrebbe voluto rivelare al dottore il segreto che condivideva con Roy, ma lui le aveva raccomandato di non parlarne a nessuno. Avrebbe anche voluto che Roy stesse di più con lei, non soltanto prima e dopo le sedute. Le aveva spiegato che se si fosse venuto a sapere della loro relazione, la cosa avrebbe potuto essere male interpretata quando si fosse eventualmente giunti a un processo. Lei si rendeva conto che aveva ragione, ma come potevano bastarle quelle poche ore rubate, quando passava ogni momento della sua giornata a pensare a lui? Roy andò in bagno a fare la doccia. Esther si affrettò a rassettare il letto: presto sarebbe arrivata la baby-sitter, e non doveva sospettare niente. Si sentiva molto bene, quel giorno. Molto ottimista. Era certa che stavolta avrebbe ricordato. Doveva. Voleva farlo per Roy. Lui le aveva detto che ormai le sue barriere erano quasi cadute, e lei stessa lo percepiva. Ultimamente stava facendo strani sogni. Ma se fosse stata soltanto la sua immaginazione? All'improvviso si sentì depressa. Un tempo Bobby le era piaciuto molto. Non voleva fargli del male. Se non era vero niente, e lei affermava di sì... Non voleva pensarci. Era tutto vero. Roy aveva detto che le cose erano andate così. Si sforzò di scacciare i pensieri negativi. Nastro numero 10 Esther Pegalosi: Ricordo una gara con un'altra macchina. Roy Shindler: Okay. Ricordi qualcosa di particolare a proposito della corsa? E: L'altra macchina ci fece fare un testacoda. Dottor Hollander: Molto bene! Vedi? La tua memoria sta tornando, poco per volta. Puoi descrivere l'altra macchina? E: No. So solo che era rossa... e c'erano delle fiamme. H: Fiamme? L'altra macchina stava andando a fuoco? E: Io... so cosa ci si aspetta che dica, e non voglio essere influenzata. H: Non voglio che tu sia influenzata da quello che sai. Voglio che tu di-
ca quello che ricordi. Non avevi promesso che oggi ci avresti detto la verità? E: Sì... H: Bene. Allora, perché dici che c'erano fiamme sulla macchina? Era una decalcomania? Le fiamme erano dipinte? E: So com'era la macchina di Richie, ed è tremendamente difficile non sovrapporla a quello che ricordo. H: Non voglio che tu faccia questo. E: Non ricordo, in realtà. Sembrava fuoco. A me non piace correre così forte. Probabilmente non guardavo perché avevo paura. H: Va bene. E dopo la corsa, che cosa è successo? E: Si sono arrabbiati. H: Chi si è arrabbiato? E: Billy. Voleva prenderli. Conosceva la ragazza. H: Billy conosceva la ragazza? E: Oh... H: Puoi parlare chiaramente? Non ti sento. E: È successo la stessa notte. H: Che cosa? E: Non mi sento molto bene. H: Stavi andando benissimo. Chi era la ragazza, Esther? (Singhiozzi) H: Su, ora rilassati. Prendi il mio fazzoletto. Stai andando benissimo. È passata? Okay. Bevi un sorso d'acqua, poi fa' un bel respiro. Brava. Ora, dimmi. Dillo a Roy. Chi era la ragazza? E: Posso dirlo sottovoce? H: No, Esther. Oggi è il giorno della verità. Oggi devi essere la donna forte e sicura che Roy e io sappiamo essere diventata. Vuoi dircelo? E: (Singhiozzando) Potrei?... H: No, Esther. Rispondi alla domanda, se vuoi aiutarmi. Chi era la ragazza? E: Elaine Murray. Billy l'aveva riconosciuta. H: Bene. E così, Billy si è arrabbiato? E: Sì. H: Che cosa ha fatto? E: Imprecavano perché avevano perso di vista la macchina. H: La stavano inseguendo? E: Sì, ma non riuscivano più a trovarla.
H: Dove sono andati? E: Nel parco. Credo. Non sarà solo una mia fantasia? H: No. Oggi stai ricordando molto chiaramente. Che cosa è successo, una volta nel parco? E: Va bene se fumo? H: No. Tra pochi minuti ti lascerò fumare. Adesso andiamo avanti. E: È così difficile perché so quello che hanno fatto e so che cosa vi aspettate che dica. Siamo sicuri che sto ricordando davvero e non sto dicendo tutto questo soltanto perché so già le risposte? H: Quello che ci aspettiamo che tu dica potrebbe non essere vero. Voglio che ti concentri su quello che ricordi. E: Okay. Siamo entrati nel parco. Non so da che parte ci siamo arrivati. Era una strada nel bosco piena di curve. Billy guidava come un pazzo e faceva alzare un sacco di polvere. Mi sembra che siamo andati avanti e indietro nella stessa zona per un pezzo. Poi siamo passati davanti a un posto dove c'erano delle panchine e siamo andati su per una stradina, e in fondo ho visto qualcosa. H: Che cosa hai visto? E: Non ricordo... preferisco non ricordare. H: Sappiamo che preferiresti non ricordare, ma devi farlo. Dopo starai meglio. È successo qualcosa, nel parco? E: Hmmm. H: Che cosa? Stai scuotendo la testa. Che cosa è successo? E: Io non ho visto. H: Che cosa non hai visto? E: Sono scappata. H: Da che cosa sei scappata? E: Io... H: Va tutto bene. Ecco, prendi un fazzoletto. Noi ti proteggeremo. Sei al sicuro qui. E: Io... H: Fa' un bel respiro. Va tutto bene. Che cosa ti ha fatto scappare? E: (Piangendo) L'omicidio. H: Non ho sentito bene. Puoi ripetere? E: L'omicidio! H: Tu hai assistito all'omicidio? E: Gridavano... H: Chi?
E: Tutti. Stavano per picchiarlo. H: Chi è che volevano picchiare? E: Il ragazzo dell'altra macchina. H: Perché non è scappato con la macchina? E: Perché era stato offeso. H: Come, offeso? E: Billy aveva insultato la sua ragazza. H: E che cosa ha fatto allora il ragazzo? E: Voleva far rimangiare a Billy quello che aveva detto, e Billy gli ha dato un pugno, e hanno cominciato a picchiarsi. Mi pare, almeno. Non lo so se è andata davvero così o... H: Sì, Esther. Stai ricordando perché adesso sei pronta per farlo. Siamo molto fieri di te. Sei una donna ammirevole. Continua così. E: Billy e Bobby gli sono saltati addosso in due, poi sono andati a prendere la ragazza. H: Dov'era la ragazza? E: In macchina. H: E tu che cosa hai fatto? E: Non mi sento bene. Possiamo fermarci, adesso? H: No, Esther. Ci fermeremo tra poco. E: Non ricordo altro. H: Sì che ricordi. Coraggio, dicci che cosa vedi. E: Non aveva faccia. H: Chi? E: Richie! H: Richie non?... Calmati, Esther. Vuoi un fazzoletto? (Singhiozzi) E: Sono scappata. H: Sei scappata quando hai visto la faccia di Richie? Stai facendo segno di sì. Dov'era la ragazza? E: La stavano trascinando nel prato. È tutto quello che so. Poi sono corsa via. H: Sei caduta mentre correvi? E: Sì. H: E hai perso qualcosa? E: Gli occhiali. Mi sono caduti fuori dalla borsa. H: E quando ti sei rialzata che cosa hai fatto? E: Ho continuato a correre verso la strada.
H: Ti sei trovata davanti dei cani? E: Sono entrata nel cortile e i cani... non li ho visti finché mi si sono lanciati contro. H: Come sei riuscita a scappare? E: Erano legati. H: Okay, quindi sei scappata dai cani. Poi dove sei andata? E: Sulla strada. Volevo andare a casa. H: Sei arrivata a casa tua a piedi? E: Sono troppo sveglia, adesso. È finito l'effetto di quella roba. Non ricordo più quello che dovrei dire. H: Non voglio quello che dovresti dire. Voglio quello che ricordi tu. E: Sì. Mi sono confusa. Io sto dicendo la verità. Non sto inventando niente, sul serio. H: Lo so, Esther. Ora chiudi gli occhi e rilassati. Tra un momento ti inietterò ancora un po' di amytal. H: Come sei andata a casa, Esther? E: In macchina. H: Con chi? E: Bobby e Billy e... Si sono fermati lungo la strada e mi hanno fatto salire. H: Chi guidava? E: Bobby, credo. H: Dov'era Billy? E: Seduto dietro, con la ragazza. H: Elaine? E: Sì. H: Lei in che condizioni era? E: Era... era viva. Mi guardava. Sembrava solo un po' stordita. Bobby la teneva per le spalle. Non credevo che... che le avrebbero fatto del male. H: Dove l'hanno portata? E: Non lo so. Mi hanno lasciata davanti a casa e se ne sono andati. H: Non ti hanno detto niente? E: No. Forse è per questo che il giorno dopo non ho collegato le cose quando ho letto la notizia sul giornale. H: Puoi spiegarti meglio? E: Ho letto che Richie era stato ucciso, ma non avevo visto da vicino il ragazzo del parco, così ho deciso che non poteva essere lui e me ne sono
scordata. Ero piuttosto ubriaca, del resto. H: Perché stai piangendo? E: Sono stanca. H: Ma ora ricordi di aver visto uccidere il ragazzo? E: No, io questo non l'ho visto. Pensavo che lo avessero solo picchiato, come facevano di solito. H: Non hai detto di aver visto la faccia di Richie? E: L'ho vista in seguito. H: Bobby e Billy ti hanno mai detto qualcosa a proposito di quanto è successo quella sera? Ti hanno minacciata? E: No. Probabilmente davano per scontato che non avrei detto niente. Eravamo dello stesso giro. E poi, dopo la storia della rapina al minigolf, io sarei finita al carcere minorile se mi fossi messa di nuovo in qualche guaio. E comunque, praticamente non li ho nemmeno più visti. H: Neanche a scuola? E: Avevano avuto un incidente in macchina appena dopo Capodanno ed erano finiti tutt'e due all'ospedale. Poi io ho smesso di andare in giro con i Cobra e stavo di più a casa. Ricordo che riuscirono a diplomarsi per misericordia. Probabilmente solo perché la scuola voleva sbarazzarsi di loro. H: Ed Elaine Murray, l'hai più vista, dopo quella sera? E: No. Quando ho saputo che era scomparsa, io... io non ricordavo niente, giuro. H: Ne sono convinto. Esther. E: Io non immaginavo... Nemmeno al parco, non mi ero resa conto... H: Che cosa avresti fatto, se avessi saputo che avrebbero violentato e ucciso Elaine? E: Li avrei fermati. H: Come? E: In qualunque modo. Non avrebbero fatto niente... H: Sì, piangi pure, Esther. Sfogati. E: Io non penso... non credo che lo abbiano fatto intenzionalmente. Non posso credere che avessero voluto farlo. H: Non riesci a immaginare Bobby e Billy fare qualcosa del genere? E: Bobby non era certo uno stinco di santo, ma... H: E Billy? (Pausa) E: Non so. Lui, magari sì. Gli piaceva la violenza. Ricordo di averlo visto picchiare a sangue qualcuno più di una volta. Forse è andato troppo ol-
tre senza accorgersene. Roy Shindler: Esther, al parco, là sulla collina, chi è stato il primo a scendere dalla macchina? E: Billy. Il ragazzo... Richie, era già fuori. S: La ragazza dov'era? E: Non so. In macchina, credo. S: Billy o Bobby avevano qualcosa in mano quando sono scesi dall'auto? E: Non lo ricordo. S: Hai visto uno dei due colpire il ragazzo alla testa? E: No. S: Hanno gettato a terra il ragazzo? E: Non l'ho visto. S: Quando ti hanno fatto risalire in macchina dopo che eri scappata e hai visto la ragazza sul sedile posteriore con Billy, lei aveva qualcosa intorno al collo? E: No. S: Una corda, qualcosa del genere? E: Era buio in macchina e non vedevo bene. E poi ero ubriaca e spaventata... sapete, per via di quei cani che mi avevano quasi aggredita... S: Esther, la verità. E: Un momento. Quante volte vi ho mentito su questa storia? Non voglio... H: Dicci quello che ricordi e non preoccuparti se è vero. Quello che ricordi sarà sicuramente vero. 8 Il giudice Samuels era appena rientrato in aula dopo essere stato costretto a interrompere l'udienza per ricevere i due avvocati nel suo ufficio. La pubblica accusa stava seguendo una linea a dir poco spregiudicata, ma non sufficientemente scorretta per invalidare il processo, come aveva chiesto la difesa, che peraltro aveva scioccamente aperto la strada alle pregiudizievoli insinuazioni del pubblico ministero. Samuels era disgustato da entrambi. Jamison era un buffone incompetente. Non ne aveva fatta una giusta, in quei quattro giorni di dibattimento. Era scandaloso che un simile babbeo potesse esercitare l'avvocatura, e chiunque avesse la sventura di essere difeso da lui era certamente da compiangere.
Ed Heider... Quella era tutta un'altra storia. Trovandosi davanti Philip Heider in tribunale per la prima volta, si poteva essere tratti in inganno dai capelli rossi e le lentiggini che davano al giovane e brillante procuratore un aspetto un po' alla Tom Sawyer. Ma chi lo conosceva sapeva che era freddo, pragmatico e senza scrupoli. Tutto suo padre, pensò Samuels. Vizioso, cinico, immorale... avrebbe potuto andare avanti a lungo, volendo. Stewart Heider aveva fatto i soldi in modo poco pulito nel campo dell'edilizia. Aveva tentato di comprarsi la rispettabilità mandando suo figlio nelle migliori scuole. Ma c'era pur sempre l'ereditarietà. La stessa vena criminale che si diceva stesse dietro la ricchezza di suo padre si manifestava nel modo in cui Philip Heider gestiva le sue cause in tribunale. Il problema era che, come suo padre, non raggiungeva mai un comportamento decisamente scorretto. E come il padre, dovette riconoscere a malincuore Samuels, era in gamba, molto in gamba. Ne aveva visti di avvocati durante i suoi diciassette anni nella magistratura, e sebbene Heider fosse relativamente inesperto - lavorava in procura da appena due anni - era uno dei migliori che il giudice avesse mai incontrato. Ora, accingendosi a riprendere il controinterrogatorio dell'imputato, Heider lanciò soltanto una breve occhiata verso il banco della difesa. Jamison non era un avversario abbastanza valido per mostrarsi fiero di averlo messo all'angolo. Qualunque avvocato degno di tale qualifica gli avrebbe dato del filo da torcere in quella causa. La giuria probabilmente sarebbe stata clemente con un bibliotecario sessantasettenne senza precedenti accusato di avere ucciso un balordo di colore, ma non con un vecchio pervertito che aveva assassinato il suo giovane amante. E quell'inetto di Jamison, sostenendo la tesi della legittima difesa, era stato tanto stupido da tirare fuori che la vittima, Bobby Washington, era un omosessuale che aveva avvicinato il suo assistito, Lowell Boggs, il quale lo aveva pugnalato dopo avergli strappato il coltello con cui lo minacciava. Da lì, per Heider era stato facile come rubare le caramelle a un bambino rovesciare la situazione a proprio vantaggio, facendo notare alla giuria che la ferocia con cui Boggs aveva colpito Washington faceva pensare a un delitto passionale. Certo, Samuels prima del dibattimento lo aveva diffidato dal tirare in ballo la presunta omosessualità dell'imputato, non essendocene prove certe, ma dal momento che era stata la difesa a introdurre l'argomento, si era dovuto limitare a invitarlo a non insistere troppo su quella linea. Ormai, Heider aveva la vittoria in tasca. Era stato fin troppo semplice, per i suoi gusti, ma come si suol dire, a caval donato non si guarda in bocca, e una causa vinta
in più non poteva certo nuocere alla sua reputazione. Inoltre, non gli dispiaceva mandare quel piagnucoloso finocchio dietro le sbarre. Boggs era un debole, lo aveva visto subito, e lui odiava i deboli. Lanciò un'occhiata all'imputato seduto al banco dei testimoni, poi abbassò lo sguardo sui suoi appunti e passò alla domanda successiva. Cinque ore più tardi, Heider passò davanti al banco di Fanny Maser con un sorriso soddisfatto sulle labbra e si diresse verso l'ufficio del procuratore distrettuale, tallonato da due giornalisti. «Colpevole?» domandò un giovane procuratore, incrociando nel corridoio i tre uomini che avanzavano in formazione a cuneo. «Che altro?» replicò Heider, e i due al suo seguito risero. A loro piaceva Heider. Era brillante e sempre pronto a parlare con la stampa. «Signor Heider», gli gridò appresso Fanny. «Il signor Holman vuole vederla. Dice che è urgente.» Heider si domandò di che cosa volesse parlargli il procuratore distrettuale. Oltre a essere il suo capo, Herb Holman era un vecchio amico di famiglia che in buona parte doveva la sua attuale posizione all'appoggio economico e polìtico di Stewart Heider. Heider si scusò e i reporter si sedettero a un tavolino a buttare giù appunti per i loro articoli. L'ufficio di Holman era al lato opposto della procura, e prima di raggiungerlo Heider incontrò parecchi dei suoi colleghi, ma pochi gli fecero le congratulazioni sul caso Boggs. Non godeva di molta simpatia tra gli altri avvocati della procura, in parte per l'evidente favoritismo che Holman mostrava nei suoi riguardi, e in parte per le sue arie di superiorità. Quando Heider entrò nell'ufficio, un largo sorriso apparve sulla faccia rubizza di Herb Holman. «Ottimo lavoro», si complimentò, tendendogli la mano. «La segretaria del giudice Samuels mi ha telefonato.» Heider si strinse nelle spalle e sogghignò. «Con Jamison dall'altra parte, era come avere un assistente.» Holman rise, ed entrambi si misero a sedere. «Phil, stai ancora pensando seriamente a candidarti come deputato il prossimo anno?» «Ne ho parlato con papà», rispose Heider, un po' perplesso per quella domanda. «Lui pensa che Faulk si possa sistemare, e io sono d'accordo.» «Okay. Be', è saltato fuori qualcosa che potrebbe aiutarti a ottenere la
nomina. Ti dice niente il caso Murray-Walters?» «Murray-Walters», ripeté Heider. «Duplice omicidio e stupro. È successo al Belvedere, cinque o sei anni fa, se non sbaglio.» «Esatto.» «Andavo al college, allora. Ricordo che ne parlarono anche i giornali di altri Stati.» «Questo pomeriggio ho ricevuto la telefonata di un detective di Portsmouth, Roy Shindler. Lo conosci?» «Certo. Ha lavorato a un paio dei miei casi. Molto acuto.» «Sì, sono d'accordo. Shindler pensa di avere abbastanza elementi per procedere all'incriminazione dei responsabili. Voglio che parli con lui. Se ti sembra che ce ne siano i presupposti, porta il caso davanti al gran giurì e vai fino in fondo.» Heider sentì il cuore battergli un po' più forte. Il binomio «MurrayWalters» era entrato a far parte del lessico familiare, a Portsmouth. I genitori lo usavano ancora come spauracchio per tenere i figli adolescenti lontano dal parco di notte. Portare in tribunale quel processo significava titoli in prima pagina per mesi. Calcolando di poter ottenere l'autorizzazione a procedere entro un mese e arrivare al processo entro tre, la pubblicità lo avrebbe portato sulla cresta dell'onda giusto fino alla presentazione della sua candidatura. Holman sorrise. «Immaginavo che saresti stato interessato. Diamine, se pensassi di avere degli oppositori il prossimo autunno, avrei preso il caso io stesso. Shindler aspetta che tu lo chiami. Tratta la faccenda con i guanti. E, Phil, che non trapeli niente.» «Ricevuto.» «Bravo ragazzo.» Heider pensava e ascoltava mentre Shindler parlava e guidava. L'intera storia era fantastica. Comportava un problema non indifferente: come convincere una giuria a credere a una testimone che non aveva creduto lei stessa di essere una testimone fino a sei anni dopo il crimine? I giornali lo avrebbero definito un «processo-voodoo». Tuttavia, Shindler non era un ragazzino esaltato. Era affidabile, intelligente, non un tipo da decisioni avventate. Tutto dipendeva dalla ragazza. Per questo aveva insistito affinché Shindler lo portasse da lei. Se non le credeva lui, era escluso che le credesse la giuria. «Il dottor Hollander è sicuro che stia dicendo la verità?»
«Oh, assolutamente. Abbiamo riesaminato tutta la storia dozzine di volte.» «E lei adesso ha una memoria indipendente dei fatti? Non ha bisogno di ascoltare i nastri?» «No, ora può raccontare tutto a memoria. Ricorda ogni cosa. Il dottor Hollander dice che il blocco è stato rimosso quando l'amytal ha fatto breccia nelle sue difese.» «Perché se non riesce a ricordare senza i nastri, sembrerà una montatura.» «No, nessuna montatura. Abbiamo altri testimoni che conforteranno la sua versione. L'uomo che ha visto le due macchine gareggiare e la signora della casa con i cani da guardia. E poi, tutti quelli che hanno visto Billy Coolidge tirare fuori il coltello alla festa.» Heider guardò il paesaggio scorrere via dal finestrino. Shindler ricordò a se stesso di non parlare troppo. Era talmente eccitato. Aveva lavorato per tanto tempo e tanto duramente a quel caso che sembrava disperato, e ora che ne intravedeva la soluzione sentiva una grande calma fisica che nascondeva una tremenda esaltazione interiore. L'appartamento di Esther era poco più avanti. L'aveva chiamata dopo la telefonata di Heider per avvertirla che stavano arrivando. Erano due settimane che non si faceva vivo, e lei gli aveva fatto le feste come un cagnolino. Quando le aveva detto che stava andando a trovarla, ma che con lui ci sarebbe stato il procuratore, si era subito messa in agitazione, ma l'aveva calmata promettendole che quella sera sarebbe tornato a farle visita da solo. «Ci siamo», disse, accostando al marciapiede. «Hai portato la torcia?» domandò Eddie. «Sì. Eccola», disse Gary, porgendogliela. «Cerca di calmarti, okay? Stai facendo innervosire anche me.» «Non sono nervoso. Volevo solo assicurarmi che abbiamo tutto.» «Bene. Adesso sei soddisfatto?» Eddie chiuse la zip del giubbotto e alzò il bavero per nascondere la faccia. Non dovevano esserci guardiani, ma preferiva non correre rischi. Gary aveva parcheggiato sul retro del Medical Building. Eddie guardò l'orologio per la terza volta negli ultimi due minuti e si passò nervosamente la lingua sulle labbra. Erano le tre di una notte senza luna. Il palazzo era situato in una tranquilla zona residenziale, e a quell'ora non c'era in giro nes-
suno. Per diverse notti di fila lui e Gary avevano perlustrato i paraggi senza incontrare una sola pattuglia della polizia. Gary infilò i guanti e prese le federe che aveva portato per mettervi la refurtiva. Il parcheggio era deserto, e aveva messo la macchina proprio vicino alla porta posteriore. Il retro del palazzo era buio, ma Eddie era in apprensione perché la farmacia, che affacciava verso la strada, era illuminata. Lo aveva fatto notare a Gary, ma Barrick aveva spiegato che la stanza in cui tenevano le droghe era sul lato interno, ed era difficile da vedere dalla strada. Gary tirò fuori dalla tasca le copie delle chiavi e ne inserì una nella serratura della porta sul retro che si aprì senza difficoltà. Gary sorrise precedendo Eddie nell'interno buio dell'edificio deserto. «Sarà una passeggiata, Eddie», bisbigliò. Eddie si guardò attorno con circospezione. Portava male dire che un lavoro sarebbe stato facile e, soprattutto, in quella storia c'era stato fin dall'inizio qualcosa che non lo convinceva. In fondo al corridoio Gary svoltò a destra. Eddie poteva vedere la strada attraverso il vetro dell'entrata principale. Gary fece una corsetta verso sinistra e si fermò davanti a una pesante, solida porta di legno. Mentre Gary armeggiava con le chiavi, Eddie puntò nervosamente la torcia su e giù per il corridoio. Sentì Gary imprecare e si girò per vedere quale fosse il problema. «Questa dannata chiave non entra.» «Cosa?» «Non va, ecco cosa.» «Fammi provare.» Passò la torcia a Gary e tentò prima con una chiave, poi con l'altra. Nessuna delle due era adatta alla serratura. «Che storia è questa?» sbottò con una nota di panico nella voce. «Non lo so. Ero convinto che aprisse anche la farmacia.» «Come sarebbe a dire, eri convinto? Non l'avevi provata?» «Cristo, Eddie, poteva vedermi qualcuno!» «Oh, merda. Si può sapere perché credevi che avrebbe aperto questa dannata porta?» «Una volta ho sentito Laura dire che una apriva la porta sulla strada e l'altra apriva gli uffici.» «Oh, no. Evidentemente diceva i suoi di uffici, razza di...» Gary lo interruppe alzando una mano. «Non ti agitare. Non è niente di grave. Conosco questo posto come le mie tasche e so dove tengono un pie-
de di porco. Ci vorrà solo più tempo, tutto qui. Non ti muovere.» Eddie fece per replicare, ma Gary era già sparito lungo il corridoio. Doveva essere andato su per una rampa di scale, a giudicare da come echeggiavano i suoi passi. Eddie pensò che avrebbe fatto bene a filarsela. Aveva un pessimo presentimento. Gli sembrò di udire un rumore nell'oscurità e si affrettò a spegnere la torcia, acquattandosi in un angolo vicino alla porta. «Accendi quella dannata luce, Eddie, sono io», bisbigliò Gary. Era tornato con le braccia cariche di arnesi. Li depositò davanti alla porta e scelse un piede di porco. Eddie si sedette per terra con le spalle contro il muro, ripetendosi «lo sapevo io, lo sapevo», mentre Gary si dava da fare per scassinare la porta. Lo sentì sbuffare e grugnire per qualche minuto, poi finalmente la porta si aprì e Gary gli fece segno di seguirlo. Eddie gli andò dietro, senza capire perché camminasse curvo, ma appena varcata la porta si affrettò a imitarlo. La farmacia era illuminata a giorno e la parete anteriore era interamente in vetro. In posizione eretta, chiunque avrebbe potuto vederli dalla strada. Sgattaiolarono in una piccola stanza le cui pareti, se non altro, erano di vetro soltanto dalla metà in su. C'erano scaffali zeppi di farmaci, e sul fondo un frigorifero. «Muoviamoci», disse Gary, raddrizzando la schiena e cominciando a riempire di boccette una delle federe. «Aspetta un attimo», obiettò Eddie. «Che è questa roba? Per me non vale un accidenti.» «Certo che vale», ribatté Gary, passando allo scaffale successivo. Mentre Gary spazzava í ripiani. Eddie prese qualche scatola e guardò di che cosa si trattasse. Erano antidolorifici, tranquillanti, sciroppi per la tosse. Niente stupefacenti. «E il tuo amico pagherebbe per questa merda?» domandò, scettico. «Proprio così. Senti, bello, finiscila di piantare grane e datti una mossa.» «Cristo, Gary, questa roba non ha nessun valore!» insisté Eddie. Gary ebbe uno scatto d'ira e sbraitò: «Adesso basta! Non sai fare altro che lamentarti! Ti ho offerto di venire con me perché da come ti vantavi in galera sembravi il numero uno dei ladri, e invece sei solo uno stronzo. Adesso riempi queste fottute federe, o...» Gary si bloccò e strabuzzò gli occhi. Eddie si girò a guardare, poi si precipitò appresso a Gary, che se l'era già data a gambe. C'erano due poliziotti che li fissavano attraverso la vetrata anteriore. La macchina. Doveva arrivare alla macchina. Eddie svoltò un angolo e si
rese conto di avere perso Gary. Be', che andasse a farsi fottere. Non si sarebbe trovato in quel guaio, non fosse stato per quell'imbecille... Dannazione, ma dov'era l'uscita? Doveva aver girato nella direzione sbagliata. Fece un rapido dietrofront e svoltò dalla parte opposta. Ah, ecco laggiù la porta. Poteva sentire dei passi dietro di lui. I poliziotti erano entrati nell'edificio! Si lanciò disperatamente verso la salvezza... All'improvviso, vide un poliziotto incorniciato nel rettangolo di vetro della porta, piantato a gambe larghe, le mani strette sul calcio di una pistola puntata dritta contro di lui. I passi alle sue spalle erano sempre più vicini. «Fermo dove sei, coglione», gli intimò il poliziotto attraverso il vetro. Eddie si lasciò cadere a terra e intrecciò le mani dietro la testa. Norman Walters guardò la porta del suo ufficio nascondere alla sua vista Shindler, e desiderò di poterlo far scomparire con altrettanta facilità dalla sua vita. «Non passatemi nessuna chiamata», disse nell'interfono. Si sentiva molto vecchio e molto stanco. Avrebbe voluto chiudere gli occhi e dormire, non pensare più a niente. Ma sapeva che invece avrebbe dovuto fare appello alle poche riserve emotive che gli erano rimaste dopo la morte del figlio e andare a casa per dirlo a Carla. Carla. Doveva dirglielo. Si sentiva morire al solo pensiero. Nei sei mesi successivi all'assassinio di Richie aveva visto sua moglie invecchiare. La scintilla che sembrava mantenerla eternamente giovane si era spenta dalla visita di Shindler. Si era a poco a poco ripresa: il tempo guarisce, ma mai del tutto. Adesso era più silenziosa. Più stanca. Anche lui era cambiato. Molta della sua sicurezza gli era sfuggita di mano. Le cose alle quali un tempo teneva tanto, il suo studio legale, le sue automobili, le sue partite a golf, non gli interessavano più. Alla vita di entrambi mancava una dimensione. Ma nonostante tutto erano andati avanti, e il trascorrere degli anni aveva aiutato ad attenuare il ricordo del ragazzo sano e affettuoso che era stato il figlio. Fino a ora. Fino a quando Shindler aveva acuito di nuovo il suo dolore, facendoglielo sentire forte come il primo giorno. E presto avrebbe dovuto andare a casa e infliggere a Carla quello stesso dolore. Il detective Avritt sbatté la portiera della macchina dal lato del conducente e Shindler diede uno sguardo all'auto della polizia che li aveva seguiti dal tribunale. Heider lo aveva chiamato non appena il gran giurì aveva
rilasciato l'autorizzazione a procedere, e lui si era precipitato al palazzo di giustizia per farsi firmare i mandati da un giudice. Strada facendo, aveva ripensato alla vergogna e alla frustrazione che aveva provato quando il caso gli era stato tolto. Nessuno al dipartimento sapeva delle sue visite settimanali al dottor Hollander. Aveva portato avanti le indagini nel suo tempo libero. Una volta raccolte le prove necessarie, le aveva presentate al suo capo, e ancora assaporava la soddisfazione delle scuse che gli aveva fatto riaffidandogli l'incarico. Dopo avere ottenuto i mandati, era passato dall'ufficio di Norman Walters. Si era aspettato una reazione diversa dal padre di Richie, ma poteva capire le emozioni che l'uomo doveva aver provato ricevendo la notizia che suo figlio sarebbe stato finalmente vendicato. Walters si era mostrato freddo nei suoi confronti negli ultimi anni, ma Shindler immaginava che fosse perché aveva deluso le sue aspettative. Invece ora si sarebbe riscattato anche ai suoi occhi. Shindler toccò distrattamente il mandato di arresto nella tasca interna della giacca e alzò lo sguardo alle finestre dell'appartamento di Sarah Rhodes. Il suo orologio segnava le undici e trenta. Era una giornata calda e soleggiata. L'inizio della primavera. Entro una mezz'ora, altri detective sarebbero arrivati al penitenziario di Stato muniti di un simile mandato. Gli agenti in uniforme adesso erano scesi dalla loro auto, e Shindler, seguito da Avritt, entrò nel palazzo. La calma era ancora dentro di lui. Quella era la sua rivincita dopo tanti anni di amarezze e frustrazioni. Shindler si fermò davanti alla porta dell'appartamento e aspettò gli altri. Quando lo ebbero raggiunto, suonò il campanello. Una ragazza venne ad aprire. «La signorina Rhodes?» «Sì.» Mostrò il suo distintivo. La ragazza sembrò confusa. Una voce maschile la chiamò dall'altra stanza e il battito cardiaco di Shindler accelerò. «È in casa Bobby Coolidge?» «Sì. Qualcosa non va?» Shindler sorrise. Si sentiva come un pescatore che avesse appena agganciato una grossa preda. Sentiva la lenza tirare. Tra poco avrebbe avuto il suo trofeo. «Abbiamo una questione da discutere con il signor Coolidge. Sarebbe tanto gentile da chiedergli di venire qui un momento?» «Certo», disse lei, esitante. Scomparve in un'altra stanza, e gli agenti si
schierarono davanti all'ingresso. Sarah ritornò con Bobby. Shmdler lo studiò mentre si avvicinava lungo il corridoio. Non aveva più lo stesso taglio di capelli, né l'aria arrogante di una volta, e aveva messo su un po' di peso, ma Shindler non aveva dubbi: era la stessa persona che aveva visto quella sera del '61 in cui i fratelli Coolidge erano stati portati alla centrale per essere interrogati. «Robert Coolidge?» «Sì.» «Ho un mandato di arresto per lei. Dovrà venire con noi alla centrale.» Bobby sorrise e spostò lo sguardo da Shindler agli altri poliziotti. «È uno scherzo?» «Temo di no», replicò Shindler, porgendogli una copia del mandato. Bobby non lo guardò. «Di che cosa sono accusato?» «Signor Coolidge, lei è in arresto per l'omicidio di Elaine Murray e Richie Walters.» PARTE QUARTA Ombre e bisbigli 1 Bobby era di nuovo al villaggio e aveva paura. Non c'erano stelle e, come il fondale di un set di Hollywood, il cielo nero e compatto sembrava non avere la dimensione della profondità. La densa foschia si insinuava tra le capanne dal tetto di paglia e avvolgeva i corpi straziati, creando l'inquietante illusione che i gemiti e le grida fossero emessi dalla nebbia. Bobby stava cercando il resto della sua compagnia, ma non trovava nessuno. Percepì un suono lieve, come un ragno che zampettasse nell'oscurità, poi un sinistro fruscio tra gli alberi. Strinse la carabina al petto e avanzò guardingo, tenendosi curvo, gli occhi saettanti nella bruma tenebrosa. Urtò qualcosa con la punta di un anfibio e fece un salto indietro, spaventato. La nebbia fluttuante si dissipò davanti a lui. Un vecchio giaceva a terra, riverso nella polvere. Era morto, eppure sembrava vivo. I suoi occhi lo guardavano imploranti, e Bobby fu assalito da un cieco terrore. Balzò sul vecchio, pugnalandolo selvaggiamente, gridando. Il suo coltello lo colpì ripetutamente, e c'era sangue dappertutto. Fontane di sangue proiettavano fiotti rossi fin su nel cielo notturno, mentre il vecchio continuava a suppli-
carlo con lo sguardo e lui ascoltava la cacofonia delle proprie grida. «Falla finita, dannazione!» «Cosa...» Bobby sbarrò gli occhi, svegliandosi di soprassalto. Era nella sua cella, e parecchie voci stavano gridando di fare silenzio. «Ho detto di stare zitto o ti faccio tacere io!» sbraitò qualcuno in fondo al corridoio di pietra. Bobby farfugliò delle scuse. Era fradicio di sudore. Si passò una mano sulla faccia. Aveva il cuore in gola. Se non altro, non era nella giungla. Si rese conto che la coperta gli si era attorcigliata intorno alla gola. Se ne liberò e buttò le gambe giù dalla branda, mettendosi a sedere con la testa fra le mani. Non riusciva a calmarsi. Respirare profondamente non gli fu di giovamento. Aveva dentro una voragine. Quando gli avevano letto di che cosa era accusato, tutto quello che aveva costruito, tutto quello che aveva sognato era svanito nel nulla. Erano passate diciotto ore dal suo arresto, il pomeriggio del giorno prima. Lo avevano messo in isolamento e non aveva ricevuto visite, eccetto i detective, con i quali si era rifiutato di parlare. Si domandava perché Sarah non fosse venuta a trovarlo. La cella era piccola. Una cuccetta e la toilette, nient'altro. Aveva abbastanza spazio per camminare, ma nessuna voglia di muoversi. Si sentiva uno straccio e ogni gesto gli costava uno sforzo. Era come se le sue ossa si fossero fluidificate, e il suo cuore palpitava come un uccellino timoroso del minimo bisbiglio. Quando si erano spente le luci per la notte aveva pianto, non di rabbia, ma per la disperazione. Si sentiva perso. Voleva che qualcuno lo abbracciasse e gli assicurasse che non era la fine di tutto. Voleva nascondere la faccia nel grembo di Sarah e lasciare che lei gli accarezzasse i capelli e parlasse del loro futuro insieme. Voleva credere. Rimase a lungo seduto sul bordo del letto, finché il suo respiro si fece più regolare e sentì la stanchezza sopraffarlo. Si lasciò ricadere sul materasso, si tirò addosso la coperta e chiuse gli occhi. Non appena lo fece, fu assalito dalla paura. Era di nuovo nel passato, in Vietnam, e prima ancora. Dormire significava sognare. Oh, Dio, ti prego, lasciami riposare. Ma nella sua testa c'era un rombo continuo. La veglia era la diga che bloccava il flusso dei sogni, il sonno la leva che lo liberava. Là non c'erano alcolici e non c'era Sarah. Riaprì lentamente gli occhi e fissò il soffitto. Poteva sentire qualcosa muoversi nell'oscurità. Le unghie di un topo che grattavano sul
pavimento di cemento. Quando Mark Shaeffer arrivò nel suo studio, trovò un'attraente giovane donna e un uomo dall'aspetto vagamente familiare seduti nella sala d'attesa. «Non so se si ricorda di me», disse l'uomo. «Sono George Rasmussen. Qualche mese fa mi ha tirato fuori da un pasticcio.» Il nome gli rischiarò la memoria. Quello era lo studente del college che era stato arrestato per guida in stato di ubriachezza. Si domandava se la ragazza fosse sua moglie. Aveva difficoltà a staccarle gli occhi di dosso. Erano entrambi visibilmente tesi. Li fece entrare nel suo ufficio privato. «Qual è il problema?» domandò quando si furono seduti. Il suo sguardo fu di nuovo calamitato dalla ragazza. Indossava un paio di pantaloni sportivi e un maglioncino aderente che metteva in risalto la sua figura. C'era qualcosa in lei che lo stimolava sessualmente. Sembrava morbida e smarrita, e la sua vicinanza suscitava in lui il desiderio di toccarla e proteggerla. I suoi rapporti con Cindy erano molto sporadici, ultimamente, e si accorse che stava cominciando a eccitarsi. «Il mio ragazzo è stato arrestato ieri», disse lei, con un tremito nella voce. Mark prese un blocco per appunti e una penna. «È in prigione, adesso?» «Sì. Non ce lo lasciano vedere. George ha suggerito di rivolgerci a lei.» «Vi siete informati sulla cauzione?» «Abbiamo chiesto, ma non c'è nessuna cauzione.» «Come, non c'è cauzione? Con chi avete parlato?» «Non ricordo il nome. Era un sergente.» «Dove? Alla prigione della contea?» «Sì.» «Ci penso io.» Mark ruotò sulla sua sedia girevole e prese il telefono. «Come si chiama il vostro amico?» «Bobby. Bobby Coolidge. Sarà stato registrato come Robert, immagino.» «Hanno detto che non c'è libertà su cauzione per un'accusa di omicidio», aggiunse George. Mark mise giù il telefono. Sentiva un formicolio alla nuca. «Il vostro amico è accusato di omicidio?» La ragazza guardò nervosamente George. «È quello che hanno detto a Sarah quando lo hanno arrestato», spiegò
lui, «e lo hanno detto anche a me quando ho chiamato.» «Sono sicura che Bobby non può aver fatto niente del genere. Siamo stati insieme quasi costantemente negli ultimi mesi. Quando avrebbe potuto farlo? È assurdo.» «Chi dicono che avrebbe ucciso?» «Due persone. Un uomo e una donna. Non ricordo i nomi.» La parola «omicidio» ha un che di mistico per chi esercita l'avvocatura. Il suo suono provoca un sottile cambiamento nell'atmosfera. Il livello di elettricità nell'aria aumenta. Mark dimenticò la ragazza, per il momento, e fece il numero della prigione. «Sono l'avvocato Mark Shaeffer. Mi risulta che abbiate in custodia un detenuto in attesa di giudizio di nome Robert Coolidge.» Sarah osservò Mark mentre parlava. Sembrava troppo giovane per affidargli la sorte di Billy, ma George aveva parlato molto bene di lui, e dava l'impressione di essere intelligente e coscienzioso. Lo sentì ripetere una data, 1960, e vide un'ombra di sconcerto sulla sua faccia. «Sì, verrò subito a fargli una visita. Potrebbe fare in modo che io possa incontrarlo in privato, e non in parlatorio? Perfetto. La ringrazio molto.» Mark riattaccò e si girò a guardare Sarah. «Signorina, le dicono niente i nomi Elaine Murray e Richie Wallers?» Sarah notò un cambiamento nell'atteggiamento di Mark. Adesso era teso anche lui. Cominciò a sentirsi a disagio. «Mi sembra siano i nomi delle persone che secondo la polizia Bobby avrebbe ucciso.» «Sì, ma sa chi sono e quando sono state uccise?» Sarah guardò George. Sembrava perplesso, come se i nomi significassero qualcosa per lui, ma non sapesse bene che cosa. «Io... No, non ricordo di averli mai sentiti.» «Lei vive a Portsmouth? È di qua?» «No, vengo dal Canada. Toronto.» Mark fece un respiro profondo e si appoggiò contro lo schienale della sua sedia. La sua mente correva. Quella poteva essere la sua occasione per uscire dall'anonimato. Il caso Murray-Walters aveva avuto grande risonanza, e il processo avrebbe certamente fatto scalpore. Se ne sarebbero occupati i giornali e la TV, il che significava un mucchio di pubblicità gratuita. «Signorina Rhodes, circa sette anni fa un giovane di nome Richie Walters fu ucciso al Belvedere di Portsmouth. Diverse settimane dopo, la sua ragazza, Elaine Murray, fu trovata morta lungo l'autostrada costiera.
Bobby è accusato di avere commesso quegli omicidi nel I960.» Mark studiò la reazione della ragazza. Si era fatta cinerea in volto e sembrava incapace di parlare. George si sporse in avanti. «Questo è ridicolo. Insomma, Bobby è quasi un pacifista. Non vuole nemmeno parlare delle sue esperienze in guerra. No, non ci credo.» «Non sto dicendo che è colpevole, George. Vi sto solo spiegando qual è il capo di imputazione del signor Coolidge. Signorina Rhodes, detesto intavolare questo discorso, ma prima o poi dovrei comunque farlo, e penso che in un caso così serio sia meglio essere franchi l'uno con l'altro. Non esiste un caso di omicidio semplice. Anche il meno complicato richiede molto tempo e lavoro. Da quel che so di questo caso, credo di poter dire con sicurezza che sarà molto complesso. Stiamo parlando di un delitto commesso sette anni fa. Dovrò dedicare un'enorme quantità di tempo alle indagini e ai preparativi. Potrebbe essere necessario richiedere la consulenza di esperti che si prestino a testimoniare, e forse anche ingaggiare un investigatore privato che mi assista. E con ogni probabilità dovrò rifiutare altri incarichi, perché non avrò il tempo di occuparmene. Quello a cui voglio arrivare è questo: Bobby ha la possibilità di assumere un legale? Gli costerà parecchie migliaia di dollari.» Sarah sembrò in difficoltà. Mark vide che era combattuta. Aveva già visto quell'espressione sulla faccia di persone vicine a qualcuno che era stato accusato di un crimine. Significava il principio del dubbio. L'insorgere degli interrogativi. Si stava chiedendo chi fosse realmente Bobby Coolidge. Stava dando il primo sguardo a un lato oscuro di cui forse non aveva mai sospettato l'esistenza. Quando l'accusa era di omicidio, era particolarmente difficile darsi delle risposte. «Bobby non ha denaro... non così tanto, almeno.» «Stiamo parlando di una somma che si aggira sui diecimila dollari.» Sarah tacque per un lungo momento, squadrando Mark. Diecimila dollari! Lei che cosa sapeva di Bobby, in realtà? Dare una somma del genere a un tizio mai visto né conosciuto per difendere un uomo che... Che cosa? Stava presupponendo che Bobby fosse colpevole. Perché doveva essere quella la sua prima reazione? All'improvviso si sentì in colpa. Come aveva potuto essere così meschina? La sua famiglia era ricca, e lei stessa aveva un sostanzioso conto in banca. «Sono abbastanza sicura di poter mettere insieme il denaro», disse finalmente. «La mia famiglia è... è benestante. Mi servirà solo un po' di tempo per parlare con i miei genitori.»
«Va bene. Adesso vado alla prigione per parlare con Bobby. Le telefonerò questa sera. Saprà darmi una risposta, per allora?» «Farò del mio meglio.» Mark si alzò, e George e Sarah lo seguirono alla porta. Sarah si girò a dargli la mano. Sembrava sgomenta, ma controllata. Mark le strinse la mano, trattenendola nella sua. «Grazie del suo aiuto, signor Shaeffer. Quando vede Bobby, gli può dire che ho tentato di vederlo? Gli chieda se possiamo fare qualcosa per lui.» «Le farò sapere stasera.» George gli strinse la mano, e lui e Sarah se ne andarono. Mark stentava a contenere la propria eccitazione. Gli era già capitato di difendere qualcuno accusato di un reato serio, ma un omicidio era diverso da qualunque altra causa penale. Oltretutto, quella era una causa molto particolare. E la parcella. Se Sarah Rhodes fosse riuscita a mettere insieme i soldi, diecimila dollari lo avrebbero messo a posto per il suo primo anno di attività. Era il tipo di causa su cui qualunque avvocato all'inizio della propria carriera avrebbe sognato di mettere le mani. Forse perfino Cindy sarebbe stata soddisfatta e avrebbe finalmente smesso di tormentarlo perché rinunciasse a esercitare privatamente. Era diventata una tale lagna. Da una parte poteva anche comprendere il suo punto di vista, ma anche lei avrebbe potuto sforzarsi di capire. Be', magari se la cospicua entrata che si stava profilando si fosse concretizzata, le cose si sarebbero aggiustate tra loro. Chissà. La prigione della contea era stata costruita in un'epoca antecedente l'architettura moderna, quando gli edifici venivano progettati in modo che somigliassero a quello che si supponeva che fossero. Ospitava imputati in attesa di processo, e la loro paura e incertezza saltava agli occhi a qualunque visitatore avesse un minimo di sensibilità. Là non si facevano distinzioni tra il trasgressore al codice stradale che non poteva pagare la cauzione e lo stupratore. Erano tenuti tutti insieme, finché il tribunale avesse sentenziato se mandarli al penitenziario o rimetterli in libertà. Dato il suo particolare status, Bobby Coolidge era stato messo in una delle rare celle singole di massima sicurezza. Mark lo stava aspettando in una stanzetta al piano interrato il cui arredamento consisteva in un lungo tavolo e diverse sedie di legno. Aveva scelto la sedia più lontana dalla porta in modo di avere qualche attimo in più per le prime impressioni quando Coolidge fosse entrato.
La porta si aprì con un clangore metallico. Un giovane uomo di neanche trent'anni apparve sulla soglia, scortato da una guardia. Indossava un paio di jeans e una camicia da lavoro blu con il taschino mezzo strappato. Mark notò immediatamente l'alone di sconfitta che si portava appresso. Teneva gli occhi bassi e non accennò a entrare finché la guardia non glielo ordinò. Allora si fece avanti lentamente. Il suo sguardo si posò su Mark, ma fuggì via non appena lui tentò di guardarlo negli occhi. Ispezionò la stanza con rapidi, bruschi movimenti della testa, come se si aspettasse di scoprire qualcosa nascosto nei suoi recessi. In quel momento, Mark si rese pienamente conto della responsabilità che si sarebbe accollato accettando di difendere quell'uomo. La guardia richiuse la porta e Bobby si lanciò un'occhiata alle spalle. Mark si alzò e aspettò che l'uomo si girasse verso di lui. «Mi chiamo Mark Shaeffer», disse, tendendogli la mano. «Sono un avvocato.» Coolidge lo guardò per un momento, poi gli diede la mano. C'era poca vitalità nella sua stretta, ed entrambi lasciarono rapidamente la presa, un po' imbarazzati. Mark si sedette e gli indicò una sedia. Coolidge vi si lasciò cadere sopra. «Sarah mi ha chiesto di dirle che ha tentato di vederla, ma non l'hanno lasciata entrare. C'era anche George Rasmussen con lei.» «Sarah... che ne pensa di questa storia?» «È con lei, signor Coolidge. Verrà a trovarla domenica.» «Questa è già una buona notizia», commentò con voce stanca. La sua mano si mosse verso il taschino della camicia, ma si fermò a metà strada. «Ha una sigaretta?» «Mi spiace, ho smesso un anno fa. Posso chiedere a una guardia.» Coolidge scosse la testa. «No. Fa niente.» Tacque per un momento. «Signor?...» «Shaeffer. Mark Shaeffer.» «Signor Shaeffer, prima di andare avanti, devo avvertirla che non posso pagare un avvocato.» «Se ne occuperà la signorina Rhodes.» Bobby scosse di nuovo la testa, stavolta con più energia. «No. Non voglio che lei sia coinvolta.» «Senta, le conviene essere pratico. Innocente o colpevole, lei è accusato di due omicidi. Ha bisogno di assistenza professionale. La signorina Rhodes ha i mezzi per assumermi e lei no. Può rifiutare il suo aiuto per orgo-
glio, ma senza un avvocato ci sono buone probabilità che lei passi il resto della sua vita dietro le sbarre. È questo che vuole?» Coolidge si fissò le scarpe in silenzio. Quando rialzò gli occhi, l'avvocato capì che non ci sarebbero state altre proteste. «Okay», disse Mark. «Lei è accusato di avere ucciso una donna di nome Elaine Murray e un uomo di nome Richie Walters il 25 novembre del 1960. Lo ha fatto?» «Assolutamente no. No.» «Li conosceva?» «Certo. Andavamo allo stesso liceo.» «Perché pensa che la polizia l'abbia arrestata?» «Non lo so. Non riesco a spiegarmelo. Mio fratello e io siamo stati fermati poco dopo il fatto, ma ci hanno subito rilasciati. Perché avrebbero aspettato tanto ad arrestarmi, se pensavano che fossi colpevole?» «Non ho modo di darle una risposta, per ora. Tutto quello che ho visto è l'atto di accusa suo e di suo fratello.» «Billy! È stato arrestato anche lui?» «Suppongo di sì.» Bobby si passò la mano sulla bocca, e per qualche istante rimase immerso nei suoi pensieri. «Bobby, qualcuno di questi nomi le è familiare? Roy Shindler, Thelma Pullen, Esther Pegalosi, dottor Arthur Hollander. Sono le persone comparse a testimoniare davanti al gran giurì.» «No. Mai sentiti nominare.» Mark rifletté per un momento. «Bobby, prima accennava che la polizia la fermò poco dopo che avvenne il fatto. Su quali basi?» Bobby si strinse nelle spalle. «Non lo so. Credo che sospettassero di noi per una cosa che era successa la stessa sera. Avevamo fatto a botte con dei ragazzi a una festa, e mio fratello tirò fuori un coltello. E mi sembra che c'entrassero anche degli occhiali che appartenevano a una ragazza che conoscevamo. La polizia li aveva trovati nel parco, vicino al posto dove Richie era stato ucciso. Ma non mi risulta che ci fosse altro.» «Mi dica tutto quello che riesce a ricordare di avere fatto la sera del 25 novembre.» «Non so... è passato tanto di quel tempo. Ricordo che ero con Billy, mio fratello, e... uh... Roger, Roger Hessey. E poi c'era la ragazza degli occhiali, Esther Freemont.»
«Un momento», lo interruppe Mark. «È possibile che Esther Freemont sia Esther Pegalosi? Si è sposata?» Bobby scrollò la testa. «Non ne ho idea. Subito dopo il liceo sono andato a fare il servizio militare, e non ho più saputo niente di lei. Non eravamo grandi amici.» Mark prese degli appunti sul suo blocco. «Vada avanti.» «Okay. Abbiamo saputo che una ragazza dava un festa, e ci siamo andati senza essere invitati.» «Come si chiamava la ragazza? D'ora in avanti, quando parla di qualcuno voglio nome, cognome e indirizzo, se li ricorda.» «Per i nomi non dovrebbe esserci problema, ma gli indirizzi, non saprei.» Bobby raccontò dell'incidente alla festa e del furto del vino. Mentre lui parlava, Mark annotò ogni cosa, e intanto lo osservava attentamente, cercando di inquadrarlo. Bobby era intelligente e articolato nell'esprimersi. Il tipo di cliente che sarebbe stato in grado di assisterlo nell'indagine. Ma stava dicendo la verità? Era sembrato sìncero quando aveva negato la sua colpevolezza. Era stata la prima volta che aveva parlato con decisione. Tuttavia, nonostante la sua inesperienza, Mark aveva avuto abbastanza clienti per sapere che era molto difficile capire se una persona stava mentendo. «Che cosa faceste, dopo aver bevuto il vino?» domandò. Coolidge si strinse nelle spalle. «Mi pare che abbiamo fatto un giro in centro, poi abbiamo portato Esther a casa e siamo andati a casa anche noi.» «Le pare?» «Be', è passato molto tempo. Ma per quel che ricordo, è andata così.» Mark mise giù il suo blocco e si rilassò contro lo schienale della sedia. «Okay, per oggi può bastare. Andrò in procura a vedere se riesco ad avere qualche informazione su quei testimoni.» Mark si alzò e Coolidge alzò gli occhi a guardarlo. Prima di parlare si passò nervosamente la punta della lingua sulle labbra. «Signor Shaeffer, che gliene sembra?» «Non posso dire niente, finché non avrò scoperto che cos'ha in mano il procuratore.» Bobby abbassò di nuovo lo sguardo al pavimento. «Lei pensa... pensa di potermi tirare fuori di qui? Voglio dire, non c'è una cauzione, o quel che è?» «Il giudice non è tenuto a fissare una cauzione in un caso di omicidio. E
anche se lo facesse, temo che sarebbe così alta che non potrebbe mai pagarla.» «Oh», mormorò Bobby con una voce che fu quasi un sospiro. «Be', veda se può fare qualcosa, vuole? Ho passato una notte terribile. Sinceramente, non so quanto potrò resistere qui dentro.» Eddie Toller entrò nel parlatorio della prigione della contea e vide il suo avvocato d'ufficio seduto in fondo alla stanza a leggere un giornale. Non era affatto ansioso di rivedere quel giovane buono a nulla. Il loro unico precedente incontro era durato all'incirca dieci minuti, subito dopo la chiamata in giudizio. In pratica non aveva fatto altro che dargli il suo biglietto da visita, dirgli di non preoccuparsi, e tanti saluti. Eddie si era perfino dimenticato il suo nome. Mentre si avvicinava, notò che sembrava riluttante a mettere giù il suo giornale, e bofonchiò un «vaffanculo». Dubitava che quel cialtrone avrebbe capito di che cosa stesse parlando, se anche lo avesse sentito. «Bene, signor Toller, ho brutte notizie per lei», annunciò l'avvocato quando Eddie si fu seduto. «Magnifico. Di che si tratta?» «Ho parlato con il procuratore che si occupa del suo caso, e dati i suoi sostanziosi precedenti, temo che non sia disposto a patteggiare. Comunque, mi ha detto che se si dichiarerà colpevole prima del processo, si asterrà dall'avanzare richieste riguardo la sentenza e lascerà fare al giudice. In caso contrario, chiederà il massimo della pena, ossia vent'anni. Considerate le prove schiaccianti che la pubblica accusa ha contro di lei, mi sembra che non abbiamo scelta.» «Sarebbe a dire? Dovrei beccarmi vent'anni senza muovere un dito?» «Be', non è detto che il giudice le dia vent'anni. Lei non ha opposto alcuna resistenza all'arresto, e questo andrà a suo favore.» «No. Non se ne parla nemmeno. Senta, gli sbirri non mi hanno letto i miei diritti finché non siamo arrivati alla centrale. Questo non significa niente?» «Temo di no, signor Toller. Vede...» L'avvocato blaterò qualcosa sui suoi diritti e su come non fossero stati violati, ma Eddie non lo stava ascoltando. Qualcosa sulla prima pagina del giornale dell'avvocato aveva attirato la sua attenzione. Era la fotografia di una ragazza che gli sembrava di avere già visto, tanti anni prima. Allungò il collo per dare una sbirciata al titolo. Il giornale era piegato, e poteva ve-
dere soltanto metà della pagina. «Signor Toller?» «Eh?» «Le ho chiesto come vuole che proceda», ripeté l'avvocato, visibilmente seccato per la sua disattenzione. «Be', veda un po' lei. È il mio avvocato, no? Solo, io non ci sto a farmi vent'anni.» «Certamente non le conviene arrivare al processo. È stato colto in flagrante e ha confessato non una, ma due volte.» «Senta, lei da che parte sta? Con me o con il procuratore? Se lui non vuole patteggiare, voglio un processo. Oltretutto il colpo non era nemmeno una mia idea. È stato Gary Barrick a fare il piano, e non ho nessuna intenzione di addossarmi tutta la colpa.» L'avvocato fece per alzarsi. «Bene, vedrò che cosa posso fare. Lei però pensi a quello che le ho detto, d'accordo?» «Certo. Senta, mi lascerebbe dare un'occhiata al suo giornale?» L'avvocato sembrò infastidito, ma gli diede il quotidiano. Eddie lo spiegò. Il titolo diceva: Omicidio Murray-Walters: due arresti. Dopo sette anni il mistero è risolto? Eddie diede una rapida scorsa all'articolo, poi si concentrò sulla fotografia della ragazza. Doveva essere lei. L'avvocato sembrava spazientito, così gli restituì il giornale, mentre un sorriso si allargava sulla sua faccia. «Grazie, grazie mille», disse calorosamente, stringendogli la mano con enfasi. L'avvocato, confuso, ricambiò il suo sorriso e se ne andò. Eddie rimase seduto a pensare. Una volta tanto, la fortuna stava girando dalla sua parte. Se lo sentiva. L'avvocato si fermò alla porta e gli lanciò un'occhiata perplessa. Toller gli fece ciao con la mano e pensò: Addio, coglione. Non credo che mi servirai più. Mark trovò Esther Pegalosi sull'elenco telefonico, ma decise di non chiamare. Invece, si segnò l'indirizzo e andò direttamente al suo appartamento. Bussò alla porta, poi suonò il campanello. Da dentro non giungeva alcun rumore. Suonò di nuovo. Stavolta sentì dei passi felpati avvicinarsi alla porta, e immaginò di essere scrutato attraverso lo spioncino. «Signora Pegalosi?»
«Chi è?» «Mi chiamo Mark Shaeffer, signora Pegalosi. Sono un avvocato, e vorrei parlarle.» «Di cosa?» «Potrei entrare un momento? È un po' scomodo, così. Se non si fida, posso passarle uno dei miei biglietti da visita sotto la porta.» Mark sentì scatti di serrature e chiavistelli, poi la porta si schiuse abbastanza perché lui potesse infilare un biglietto da visita attraverso la fessura. La donna che lo prese era piacente in modo piuttosto volgare. Era a piedi nudi, in jeans e T-shirt, e i lunghi capelli neri erano scarmigliati, ma i seni che ondeggiavano sotto la maglietta erano abbastanza abbondanti da destare l'attenzione di Mark, e la sua carnagione scura e i grandi occhi marroni erano attraenti. Lei esaminò il cartoncino attraverso le lenti di un paio di occhiali da lettura. «Che vuole?» «Sono incaricato di rappresentare Bobby Coolidge, un suo vecchio amico. È in prigione, accusato di un crimine molto grave. So che lei ha testimoniato davanti al gran giurì, e mi interesserebbe sapere qualcosa della sua deposizione.» La donna era visibilmente allarmata e sembrò sul punto di richiudere la porta. «Le porterò via solo pochi minuti. Sono interessato quanto la polizia a conoscere i fatti. Forse il signor Coolidge è colpevole...» «Sì», affermò lei con voce aspra. «Lo è.» «In tal caso, avrei proprio bisogno di parlare con lei per sapere cosa consigliare il mio cliente. Perché pensa che sia colpevole?» «No, non voglio discuterne. Hanno detto che non sono obbligata a parlare con nessuno se non voglio farlo, e io non voglio.» «Chi le ha detto questo, signora Pegalosi?» «Roy... il signor Shindler e il signor Heider.» «Heider? Il procuratore Heider?» «Sì. Ha detto che potevo rifiutarmi di parlare con chiunque venisse a farmi domande.» «Be', è naturale. Non posso certo costringerla a parlare con me, se lei non vuole. Ma in tribunale dovrà comunque rispondere alle mie domande, se sarà chiamata a testimoniare. Perché la preoccupa tanto fare due chiacchiere con me adesso?» «Ho detto che non voglio parlarne. La prego, se ne vada.»
C'era una sfumatura di panico nella voce di Esther, e Mark trasalì quando gli sbatté la porta in faccia. Era adirato e, per un momento, fu tentato di prendere a pugni la porta finché lei avesse aperto. Poi si rese conto che non aveva alcun diritto di imporsi e dirottò la propria collera su Heider che l'aveva consigliata in quel modo. Guardò l'orologio. Si stava facendo tardi. Aveva gli indirizzi di Pullen, Shultz e Hollander. In base alla dichiarazione di Esther, Shindler era presumibilmente un poliziotto. Decise di tentare con Thelma Pullen. Mark ritornò in ufficio alle sette. Si tolse la giacca, arrotolò le maniche della camicia e chiamò sua moglie. Il telefono suonò a vuoto per un po', poi finalmente Cindy rispose. «Mark! Dove sei? Ho chiamato il tuo ufficio e mi hanno detto che eri fuori a indagare su un caso.» «Non un semplice caso. Non indovineresti mai chi sono stato incaricato di rappresentare.» Cindy avvertì l'eccitazione nella voce di Mark. «Chi?» domandò in tono cauto. «Hai letto il giornale oggi? Hai visto la prima pagina?» «Allora?» «Sono stato incaricato di assumere la difesa di Bobby Coolidge. uno dei due uomini accusati del delitto Murray-Walters.» «L'omicidio?» domandò lei, esitante. «Esattamente.» Ci fu una pausa di qualche secondo. «Mark, sei sicuro di... È una cosa talmente grossa. Pensi di avere l'esperienza necessaria?» Mark fu deluso e irritato. Si era aspettato che Cindy fosse eccitata come lo era stato lui tutto il giorno, e la sua reazione era stata una doccia fredda. «Sì, penso di potermela cavare», rispose freddamente. «Ti pagheranno bene?» «Ho chiesto diecimila dollari.» Questa era la grande sorpresa che aveva in serbo per lei, ma Cindy aveva sgonfiato il suo entusiasmo proiettando su di lui la sua insicurezza, il suo senso di inadeguatezza. «Diecimila? Oh, Mark!» Adesso era contenta, pensò Mark, amareggiato. Solo per il denaro, non perché qualcuno aveva avuto abbastanza fiducia nelle sue capacità per affidargli un caso di quella portata.
«Ti hanno già pagato?» «Devo telefonare stasera per avere la conferma che hanno messo insieme la somma.» «Allora non è ancora sicuro.» Cindy sembrava contrariata. Ci fu un altro silenzio imbarazzato. «Quando torni a casa?» «Tra poco. Ti darò un colpo di telefono prima di lasciare l'ufficio», rispose Mark. La verità era che al momento avrebbe preferito non tornarci del tutto. «Mark, sono davvero felice che tu abbia avuto questo incarico.» Un po' tardi, commentò Mark tra sé. «A dopo», le disse. Le mandò un bacio e mise giù la cornetta. Sbuffò, poi cercò il numero di Sarah nel fascicolo ancora scarno del caso Coolidge. Provò una strana eccitazione mentre lo componeva. In parte perché presto avrebbe saputo del suo compenso, ma si rese conto che era anche perché aveva voglia di risentirla. «Sarah? Sono Mark... Mark Shaeffer.» «Oh... Sì. Mi dica.» La voce della ragazza suonava ansiosa. «Le avevo detto che l'avrei chiamata stasera, ricorda?» «Sì. Per i soldi. Ha visto Bobby?» «Abbiamo parlato per un'oretta. Poi sono stato fuori tutto il pomeriggio a parlare con i testimoni. Domani andrò dal procuratore.» «Come si mette?» «Non posso ancora dirlo. L'unica testimone che mi interessava davvero non ha voluto parlare con me. Ho visto altre due persone, ma niente di quello che hanno detto sembra collegare Bobby al delitto. Spero di saperne di più domani.» «Come sta Bobby?» «Piuttosto a terra. Gli ho detto che andrà a trovarlo domenica. Ho fatto in modo che possiate vedervi in privato, invece che in parlatorio insieme agli altri.» «La ringrazio.» Mark attese che andasse avanti, ma lei non aggiunse altro. «Ehm... per la mia parcella. Ha parlato con i suoi?» «No. Io... Non li ho trovati. Continuerò a chiamare. Posso darle una risposta domani? Se ha tempo, passerei dal suo ufficio.» Mark cominciava a sentirsi nervoso. Si era già impegolato abbastanza in quel caso, solo sulla sua parola. «Certamente», disse. «Verso che ora vuole venire?» «Va bene nel tardo pomeriggio? Verso le cinque?»
Mark controllò gli appuntamenti sulla sua agenda. «Benissimo. La aspetto.» Chiusero la comunicazione e Mark rimase con la mano posata sul telefono. Cercò di visualizzare il volto e la figura di Sarah. Ricordava fin troppo bene come il suo seno tendeva la maglia. Per un momento lasciò correre la fantasia, immaginandola nuda su un letto. Poi si interruppe. Pensò a Cindy e a quello che stava succedendo al loro matrimonio, e si rattristò. «È venuto qui un tizio. Ha detto di essere un avvocato. Come ha fatto a trovarmi? Avevi detto che avrei dovuto parlare soltanto al processo!» Esther era quasi isterica. Shindler la afferrò per le spalle. Non poteva permettere che sì facesse saltare i nervi proprio adesso. «Basta. Ora calmati», le ordinò, perentorio. Esther gli gettò le braccia al collo e scoppiò a piangere. «Meno male che sei arrivato! Credevo di impazzire. Me lo sono trovato davanti alla porta. Io...» Shindler la tenne stretta. Aveva temuto di trovarla in quello stato, sentendo com'era agitata quando lo aveva chiamato alla centrale. Appena messo giù il telefono si era precipitato da lei. «Chi era?» le domandò appena si fu calmata. «Ho il suo biglietto da visita», rispose Esther, sciogliendosi dal suo abbraccio. Gli diede il biglietto di Mark Shaeffer e si sedette al tavolo della cucina. «Ha detto di essere un avvocato», aggiunse con voce tremante di paura. «Probabilmente lo era», disse Shindler. Non era mai riuscito a capire perché gente come Esther avesse timore degli avvocati. «Tu che hai fatto?» «Quello che mi avete detto tu e il signor Heider: che non volevo parlargli.» Lui andò a mettersi dietro la sua sedia e cominciò a massaggiarle le spalle. «E lui?» «Se n'è andato.» «Bene», disse Shindler con voce carezzevole, sentendo i muscoli delle sue spalle cominciare ad allentarsi sotto il cotone della maglietta. «È stato facile, no?» Esther annuì senza molta convinzione. «Sei stata brava», la blandì lui. «Hai dimostrato di sapertela cavare.» «Be' sì», disse lei timidamente. «Ma mi sono spaventata. Non sapevo
come mi avesse trovata, ed ero sola.» «Tu non sei sola, Esther. Hai me. E quell'avvocato può avere avuto il tuo nome in mille modi: vecchi giornali, l'atto di accusa o quant'altro.» «Immagino di sì», ammise Esther. «È solo che... be', negli ultimi tempi non ci siamo visti molto. E mi è tornata la paura, come prima che cominciassi ad andare dal dottor Hollander.» «Non c'è niente di cui aver paura», la rassicurò Shindler. «Su, ora alzati e guardami in faccia.» Lei obbedì, ma evitò di guardarlo negli occhi. Lui le sollevò il mento con una mano, facendole alzare la testa. «Hai ancora paura?» le domandò. «No, Roy», rispose Esther, rigida come un pezzo di legno. Lo voleva così tanto. Voleva sentirlo vicino, dentro di lei. Voleva aggrapparsi a lui ed essere al sicuro. «Il bambino dorme?» si informò Roy. Esther annuì. Lui alzò una mano ad accarezzarle il seno attraverso la maglietta. Le tremavano le ginocchia. Lui fece un passo indietro per poterla guardare e lei si sfilò la maglietta e si tolse i jeans, rimanendo con indosso soltanto le mutandine di seta rossa che a lui piacevano tanto. Stette davanti a lui quasi sull'attenti, con la testa china, senza osare guardarlo in faccia. Roy tese la mano ad accarezzarle i capelli, e lei si mise a piangere. 2 Albert Cantoni rispose al telefono. Era Philip Heider, e voleva vederlo immediatamente. Al sistemò ordinatamente le carte sulla sua scrivania e andò nell'ufficio di Heider, in fondo al corridoio. Quando saltava fuori un caso grosso come il Murray-Walters, era consuetudine che la procura incaricasse un avvocato di occuparsi esclusivamente di quello. Spesso il titolare poteva scegliersi un assistente, al quale venivano assegnati pochi incarichi di ordinaria amministrazione. Al considerava un onore essere stato scelto tra tutti gli avvocati della procura distrettuale per assistere Heider in una causa di tale rilievo. Senza dubbio avrebbe inciso molto favorevolmente sulla sua carriera. Non aveva mai lavorato con tanto entusiasmo come in quelle ultime settimane. Per una volta poteva concedersi il lusso di occuparsi con calma di un caso. Aveva già spulciato la montagna di verbali della polizia che si erano accumulati nei sette anni trascorsi dal delitto. Adesso che c'erano due
sospetti, era sorprendente quanto fossero rilevanti alcuni piccoli particolari che aveva scovato tra quelle scartoffie. Heider gli indicò la sedia davanti alla sua scrivania e finì di dettare una lettera. Non era facile lavorare per lui, ma Al apprezzava il suo zelo e ammirava la sua intelligenza. Heider era un perfezionista. Era preciso perfino nel parlare al dittafono. E se Al stava lavorando più di quanto avesse mai fatto, aveva anche modo di assimilare preziosi insegnamenti su come prepararsi a un processo. «Conosci un avvocato di nome Mark Shaeffer?» «Shaeffer? Sì. L'ho avuto contro in un processo, e ho patteggiato con lui in diverse cause.» «Che impressione ti ha fatto?» «Non saprei. Sembra competente. Non un principe del foro, ma nemmeno un idiota. È difficile dirlo, dopo un solo processo. Perché?» «Sarà qui tra poco. Ha assunto la difesa di Bobby Coolidge.» «Lui?» Cantoni ne fu sorpreso. «Immaginavo che se ne sarebbe occupato qualcuno con più esperienza.» Heider si strinse nelle spalle. «Tanto meglio per noi. Sai se ha mai dibattuto una causa penale di una certa serietà?» Al scosse la testa. «Non lo so. Ma posso controllare.» Heider scrisse qualcosa su un blocco per appunti, poi disse: «Voglio che tu assista all'incontro e mi aiuti a inquadrarlo. Poi ho un piccolo incarico da darti. Un detenuto della prigione della contea, un tale Eddie Toller, ha contattato una guardia ieri. Sostiene di avere informazioni sul caso Murray-Walters e dice che parlerà solo con un procuratore. Non sarà niente, ma è meglio verificare. Là c'è anche Coolidge, e potrebbe aver detto qualcosa a questo tizio. Quando avremo finito con Shaeffer, voglio che tu faccia un salto a parlarci. Ho fatto controllare la sua fedina penale e ha una lista di precedenti che non finisce più. Niente di violento. Per lo più furti e un po' di droga. Adesso è dentro in attesa di giudizio e abbiamo prove blindate contro di lui. Con ogni probabilità ti racconterà una favoletta nella speranza di combinare un accordo. Scopri quello che sa. Non promettergli niente. Digli che sei il mio assistente e non puoi concludere trattative senza la mia autorizzazione. È tutto chiaro?» Al sorrise e annuì. «Okay. Ora, torniamo a Shaeffer. Secondo te, quando dovremmo scoprire le nostre carte?» «Non so. Credo che dovremmo fornirgli almeno un profilo sommario
del caso. Ma eviterei di dargli la trascrizione delle sedute di ipnosi di Esther, perché c'è troppo su cui potrebbe giocare.» «Sono d'accordo. La mia idea è dargli qualcosa per farlo preoccupare, ma niente verbali o trascrizioni di interrogatori, a parte una copia delle dichiarazioni rilasciate dal suo cliente quando fu interrogato nel '61. Naturalmente, dovrò consegnargli le deposizioni dei testimoni il giorno prima che vengano chiamati alla sbarra, ma a quel punto sarà troppo indaffarato con il processo perché possano servirgli molto.» Suonò un cicalino, ed Heider premette un tasto dell'interfono. «Lo faccia passare», disse. Poco dopo, Mark Shaeffer era seduto accanto ad Al. «Che cosa posso fare per te?» domandò Heider, sorridendo gentilmente. Mark era nervoso. Conosceva di fama Heider e si sentiva troppo al di sotto del suo livello. Lo rendeva insicuro avere di fronte qualcuno con l'esperienza di Heider. Inoltre, era consapevole che le leggi dello Stato gli davano diritto a ben poche informazioni. Non voleva indisporre Heider, o il procuratore avrebbe potuto non dirgli niente del tutto. Tuttavia, sapeva che prima o poi durante quell'incontro avrebbe dovuto tirare fuori il rifiuto di Esther Pegalosi, bissato quel mattino dal dottor Hollander, di discutere il caso con lui. «Sono stato incaricato di rappresentare Bobby Coolidge.» «Sì, ne sono al corrente. Bel colpo. Con Bobby e Billy, l'attenzione della stampa è assicurata. Sembrano un duo country&western. Bei ragazzi, anche. È il tipico caso che mi fa rimpiangere di non esercitare privatamente.» Heider gli strizzò l'occhio e Mark rise. Forse trattare con Heider non sarebbe stato poi così difficile. Certamente non sembrava che volesse andare giù duro. «Mark, posso offrirti un caffè?» «No, grazie.» «Allora, che cosa vuoi sapere?» «Be', intanto, il motivo per cui avete arrestato il signor Coolidge dopo tutti questi anni.» «È semplice. Abbiamo il materiale per incriminarlo.» Mark notò la disinvoltura con cui il procuratore aveva risposto e il modo rilassato con cui stava allungato sulla sua poltroncina, con la giacca aperta e del tutto a suo agio. In lui non c'era ombra né di nervosismo né di tensione. Mark avrebbe voluto avere solo una piccola parte della sua sicurezza. «E in che cosa consiste questo materiale?» domandò, cercando di dissi-
mulare la sua agitazione dietro un inefficace sorriso. Heider si chinò in avanti. «Lo sai, Mark, non sarei tenuto a rivelarti niente, ma visto che questo è un caso talmente insolito, voglio dirti qualcosa. Nel 1960, quando Richie Walters fu assassinato, la polizia trovò in fondo alla collina dove era stato commesso il delitto un paio di occhiali e alcuni altri oggetti chiaramente appartenenti a una donna. È tutto sui giornali dell'epoca. Gli occhiali permisero di risalire a quella donna, Esther Freemont, la quale dichiarò che le erano stati rubati diverso tempo prima. Ora, è venuto fuori che Esther soffriva di un'amnesia dovuta al trauma di aver assistito all'uccisione del ragazzo. L'abbiamo fatta seguire da uno psichiatra...» «Il dottor Hollander?» Heider annuì. «E lui è riuscito a vincere le sue resistenze. Adesso lei ha una memoria indipendente degli eventi. Possiamo collocarla in compagnia del tuo cliente e suo fratello, come risulta dalle loro stesse dichiarazioni, approssimativamente all'ora del delitto. E abbiamo vari testimoni pronti a dichiarare sotto giuramento di aver visto Billy Coohdge estrarre un coltello a serramanico durante una lite la sera del 25 novembre. Il coroner testimonierà che un coltello del tipo descritto sarebbe stato capace di provocare le ferite che uccisero Richie Walters.» «Sta dicendo che Esther ha visto i Coolidge uccidere Walters e la ragazza?» «Ha visto quello che è successo sulla collina.» «Come è... come sostiene che si siano svolti gli eventi?» Heider tornò ad allungarsi sulla sua sedia, inclinandola precariamente all'indietro per poter appoggiare i talloni sulla scrivania, e gli rivolse un sorriso sornione. «Temo che dovrai aspettare il processo per saperlo. Oppure, puoi chiederlo a Esther.» «Ci ho già provato, Phil», replicò Mark, un po' impacciato nel rivolgersi a Heider in tono così confidenziale. «Sono stato da lei ieri, e pare che tu le abbia dato istruzioni di non parlare con me.» «Frena», obiettò Heider, alzando una mano. «Io non ho fatto niente del genere. Le ho semplicemente detto che stava a lei decidere con chi parlare. Immagino che abbia preferito evitare di discuterne più di quanto sia costretta a fare. Cerca di capire, è una ragazza spaventata. Non si può assistere a qualcosa di tanto atroce senza restarne traumatizzati. Non dimenticare, quell'esperienza per lei è stata talmente orribile che ha sviluppato un'amnesia perché la sua mente cosciente non era in grado di sopportarne il ricor-
do.» «Nemmeno il dottor Hollander ha voluto parlare con me.» Heider si strinse nelle spalle. «Certe persone sono fatte così. Mi spiace di non poterti essere di aiuto in questo.» «Potresti chiamarlo e dirgli che non c'è problema a parlare con me.» «Sai, Mark, io penso che queste siano scelte che ciascuno deve fare autonomamente. Non intendo influenzarlo, in un senso o nell'altro.» «In altre parole, non gli dirai che può discutere il caso con me», disse Mark, cominciando a irritarsi. «Ma è quello che gli ho detto quando me lo ha chiesto. Non dipende certo da me, evidentemente preferisce non farlo.» «Capisco», bofonchiò Mark. «Bene.» Heider sorrise con il compiacimento di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico. Mark sentì un impellente bisogno di andarsene dal suo ufficio. Discussero alcune questioni preliminari riguardanti date e durata del processo, e Heider diede a Mark una copia del verbale dell'interrogatorio di Bobby Coolidge del 1961. Quando Shaeffer fu uscito, Heider si girò verso Cantoni e rise. «Uno zuccherino», commentò. Sarah Rhodes non aveva dormito molto la notte prima, con tutti i pensieri che le giravano per la testa. Che cosa ne sapeva di Bobby Coolidge? Sembrava un ragazzo a posto. Perfino più maturo della sua età. Era stato questo ad affascinarla. Le esperienze che aveva fatto, la gente che frequentava. Le dava un tono essere vista in compagnia di uno come lui. Ma c'era un altro lato di Bobby che lei non conosceva. Il suo arresto per omicidio le aveva riportato vividamente alla memoria le sue notti insonni e la strana conversazione che avevano avuto una volta nel soggiorno mentre fuori cominciava appena ad albeggiare. Poteva ancora sentire la sua voce colma di dolore mentre le diceva della persona che lui era stato prima della guerra. La persona che aveva fatto «brutte cose». Era sembrata una frase così infantile. Così fuori luogo, detta da un uomo forte come lui. Ma era davvero un uomo forte, poi? In superficie, sì. Bisognava esserlo, per passare attraverso la guerra come aveva fatto lui. In qualche momento di debolezza, Bobby le aveva raccontato alcuni episodi, e Sarah sapeva che lei non avrebbe mai potuto resistere. E aveva dimostrato forza di carattere anche decidendo di farsi un'istruzione. Eppure, a volte dava l'impressione di essere come un delicato vaso di porcellana che poteva andare in frantu-
mi da un momento all'altro, facendo pressione nei punti giusti. C'erano dei sensi di colpa nascosti negli armadi della sua coscienza che lo rodevano lentamente. Sensi di colpa che potevano essere facilmente spiegati con la consapevolezza di avere ucciso a coltellate un ragazzo, e violentato e strangolato una ragazza. E se questo era vero -se lui era un uomo capace di fare una cosa simile, con premeditazione, a sangue freddo - allora come potevano andare avanti? Come le sarebbe stato possibile abbracciare un uomo del genere, lasciare che la toccasse, sapendo quello che avevano fatto le sue mani? Questi pensieri l'avevano tenuta sveglia quasi tutta la notte mentre si dibatteva nell'incertezza di chiamare o no i suoi genitori. Dopo che lei e George avevano lasciato lo studio di Mark, aveva comprato il giornale. Aveva visto i titoli e letto gli articoli che parlavano del caso Murray-Walters con abbondanza di dettagli agghiaccianti, e ne era rimasta sconvolta. Avrebbe mai potuto chiedere ai suoi genitori il denaro per aiutare un uomo accusato di avere commesso una mostruosità come quella? Sì, se - ed era un «se» enorme - lei lo amava. Ma lo amava davvero? Era questo il punto, e l'incertezza era lacerante. Bobby era differente da qualunque altro uomo lei avesse mai conosciuto. La attraeva fisicamente e la loro intesa sessuale era buona; ma questi erano aspetti dell'amore, non amore di per sé. Lei non sapeva che cosa fosse l'amore o se ne fosse capace. Come poteva stabilire se quello che provava per Bobby era amore? Così, aveva pianto, ma non aveva chiamato i suoi genitori. Decise di utilizzare, per il momento, il suo conto in banca, e adesso era seduta nello studio di Mark Shaeffer, pronta a mentire. Non poteva abbandonare Bobby, ma nemmeno se la sentiva di coinvolgere i suoi, prima di averlo incontrato a faccia a faccia. Quell'acconto le sarebbe servito a prendere tempo. «Mio padre era via per affari quando ho chiamato. Tornerà tra una settimana, e allora gliene parlerò. Comunque, sono sicura che dirà di sì.» Mark guardò l'assegno di tremila dollari e si perse buona parte di quello che Sarah stava dicendo. Non aveva mai percepito un compenso tanto alto, ed era soltanto un anticipo. Nemmeno lo sfiorò il pensiero che il saldo avrebbe potuto non arrivare. «Ma certo. Questo sarà più che sufficiente per cominciare.» «Che cosa le ha detto il procuratore?» si informò ansiosamente Sarah. Mark notò che quella sera sembrava meno sicura di sé. Avrebbe voluto of-
frirle conforto, ma non osava. Era da solo con lei nel silenzio del suo ufficio, e già aveva dovuto ricacciare indietro delle fantasie sugli sviluppi che avrebbe potuto avere la situazione, così gli sembrava più prudente non andare sul personale. «Il procuratore non mi ha detto molto che già non sapessi, eccetto che hanno una testimone, una ragazza che sembra si trovasse con Bobby e suo fratello all'ora dell'omicidio.» «Li ha visti farlo?» domandò lei, incredula. «È quello che lei afferma, secondo il procuratore. Ma questo non significa che stia dicendo la verità. Ci sono alcune cose che trovo alquanto strane, e mi piacerebbe saperne di più. Per esempio, perché non si è fatta avanti sette anni fa? Heider dice che ha avuto un'amnesia causata dal trauma di aver assistito all'uccisione delle vittime, ma com'è che tutt'a un tratto le torna la memoria? E poi, perché Heider ha detto ai suoi testimoni chiave di non parlare con me? Non credo che lo avrebbe fatto, se non ci fosse sotto qualcosa di poco chiaro.» «Lei... Mark, tu pensi che Bobby sia...» «Che sia colpevole?» Mark si sporse verso di lei attraverso la scrivania. «Non ho opinioni al riguardo, per il momento. Bobby dice di non essere stato lui, e per me questo è abbastanza.» Sarah si vergognò di avere dato voce ai propri dubbi. «È meglio che vada», disse, alzandosi. «Posso darti un passaggio? Sto uscendo anch'io.» «Oh, non voglio che ti disturbi...» «Nessun disturbo.» Mark sorrise e lei notò quanto fosse attraente. Ricambiò il sorriso e accettò l'offerta. Lungo il tragitto, Mark evitò di parlare del caso per non turbare ulteriormente Sarah. Invece, mentre manovrava nel traffico cittadino, fece un po' di conversazione. «Come mai hai scelto un'università americana?» «Così. Mi sembrava eccitante andare a studiare in un paese straniero», rispose lei con un sorriso. I finestrini erano abbassati, e il vento scompigliava i suoi capelli dorati. «E ti trovi bene tra gli indigeni?» «Non male.» «I tuoi devono essere ricchi da fare schifo.»
Sarah rimase per un momento a bocca aperta per la sorpresa, poi gettò indietro la testa e rise. «Che sfacciato!» Mark si strinse nelle spalle. «Hai detto che!a tua famiglia sta bene a quattrini, e vivi in una zona della città piuttosto esclusiva.» «Ebbene, sì. Abbiamo soldi a palate», rispose. Mark stava cominciando a piacerle. Era contenta di avere assunto una persona così in gamba per rappresentare Bobby. «Sei invidioso?» Mark ci pensò su. «Be', non mi dispiacerebbe essere ricco. Risolverebbe parecchi problemi.» «Oh, presto nuoterai nell'oro. Gli avvocati fanno un sacco di soldi.» «Alcuni.» «Ho fiducia in te», disse Sarah, sorridendo. «Altrimenti non ti avrei assunto.» Mark si girò verso di lei e i loro occhi si incontrarono per un momento. Poi distolse lo sguardo, sentendosi molto insicuro di sé. Era stata la sua immaginazione, o Sarah voleva fargli intuire più di quanto avesse detto? Mentre Mark guidava su per le colline, Sarah guardò fuori dal finestrino. Preferiva evitare lo sguardo di Mark perché l'occhiata che le aveva rivolto l'aveva confusa. Fu sollevata quando arrivarono davanti a casa sua. Non voleva mandargli segnali di disponibilità. Tuttavia, avrebbe potuto essere vantaggioso alimentare un interesse nei suoi confronti, data la sua indecisione sulla faccenda denaro. Tra l'altro, non le sarebbe stato difficile indurlo a pensare che lei lo trovasse attraente, perché era così. Lungo il percorso era riuscito a farla ridere, e almeno fino al momento in cui si erano guardati negli occhi, le aveva fatto dimenticare i suoi problemi. Guardò la macchina di Mark scomparire oltre la collina e improvvisamente si sentì in colpa. Bobby era il suo ragazzo, ed era in prigione accusato di omicidio. La situazione si stava facendo troppo complicata per lei. Stavano succedendo troppe cose tutte insieme. Aveva bisogno di non pensare per un po'. Mise un disco sullo stereo e si sedette al buio ad ascoltare la musica. «Signor Toller, sono Albert Cantoni, della procura distrettuale. Mi risulta che lei abbia delle informazioni sul caso Murray-Walters.» Toller diede appena un'occhiata a Cantoni, poi il suo sguardo andò oltre di lui, verso la porta della stanza per i colloqui privati. «Dov'è Heider? Non è lui che si occupa di questo caso?» «Io sono l'assistente del signor Heider. Sarebbe venuto lui stesso, ma so-
no sorte delle questioni che richiedevano la sua personale attenzione.» «Ah, sì? Be', anch'io richiedo la sua attenzione, se volete sapere che cosa è successo a quella ragazza.» «Quale ragazza?» «Quella che secondo voi i Coolidge avrebbero ucciso. Io so che non sono stati loro.» «Sta parlando di Elaine Murray?» «Non ricordo il nome, ma è lei. Ho visto la sua fotografia sul giornale e l'ho riconosciuta subito.» «Se i fratelli Coolidge non hanno ucciso Elaine Murray, chi è stato?» Toller si allungò sulla sedia e squadrò a lungo Albert Cantoni. Poi si mise a ridere. «Gesù, lei deve proprio credermi stupido. Sono qui con la prospettiva di farmi vent'anni, ho una rivelazione-bomba da fare sul più grosso caso giudiziario che abbiate avuto per le mani, e lei si aspetta che io le spifferi quello che so senza avere niente in cambio. Be', se lo può scordare. Io voglio trattare, è chiaro?» «Signor Toller, non sono autorizzato a trattare alcun accordo. Il signor Heider ne ha i poteri, ma non prenderà in considerazione nessun negoziato senza prima sapere che cos'ha da offrirci.» «Se vi dico tutto, che garanzie ho che non mi freghiate?» «Nessuna. In compenso, posso garantirle che se io adesso me ne vado, nessun altro procuratore si scomoderà a venire da lei.» La spavalderia di Toller cominciò a sfumare, e Cantoni vide che ci stava ragionando su. «Signor Toller, perché non dice al suo avvocato quello che sa e lascia che se ne occupi lui?» Toller liquidò il suggerimento con un gesto della mano, come per scacciare una mosca. «Quell'incapace? Figuriamoci. Tonto com'è, dubito che riuscirebbe a ricordarsi tutto. Senta, se lo dico a lei, e l'informazione risulta valida, che cosa può fare per me? Avevo in programma di sposarmi, prima di farmi beccare. Lo so di avere fatto una stronzata, ma avevo perso il lavoro ed ero parecchio a terra, e quando sono a terra non ne faccio mai una giusta.» «Signor Toller, non dovrebbe discutere il suo caso con me. Non dimentichi che il mio ufficio è la controparte.» Toller rise di nuovo, ma stavolta la sua risata fu amara. «Senta, so benissimo che stavolta non me la cavo. Se non concludo questo accordo, sono finito. Sa, avevo incontrato una ragazza, Joyce. Una donna eccezionale.
Avevo deciso di mettere la testa a posto, una buona volta. E poi ho mandato tutto all'aria. Non so nemmeno se vorrà ancora stare con me, se anche uscissi. Ma forse avrei ancora un'opportunità. E comunque, sto diventando troppo vecchio per la prigione.» «Ha la mia comprensione», disse Al, ed era sincero, «ma non posso garantirle niente. Dovrà fidarsi di me. Se vedo che mi sta dicendo la verità, le prometto che cercherò di aiutarla. Naturalmente, se l'informazione è importante.» Toller si esaminò le unghie e Cantoni restò ad aspettare. Poi finalmente Toller alzò la testa e sospirò. «E va bene. Immagino che dovrò correre il rischio.» Cantoni tirò fuori un taccuino dalla sua cartella. Era la seconda settimana di gennaio del 1961, ed Eddie Toller si sentiva una merda. Si sentiva sempre così dalla fine di novembre alla fine di gennaio. Poi, a febbraio, cominciava a riprendersi gradualmente. La causa del suo periodico malessere spirituale era il pilastro della democrazia americana, il capitalismo, e il consumismo promosso da quella dottrina economica. Dagli ultimi giorni di novembre ai primi di gennaio era tutto un susseguirsi di feste - il Ringraziamento, Natale, Capodanno - e per ciascuna giù valanghe di campagne pubblicitarie che magnificavano la famiglia americana e le gioie di trascorrere tali ricorrenze con uno di quegli esempi di perfezione. E questo, in poche parole, era il problema di Eddie. Gli mancava la mamma, perché era morta, e suo padre se n'era andato da tempo, il che significava niente famiglia americana, niente focolare domestico e due mesi di depressione. Essendo la seconda settimana di gennaio, la crisi di Eddie era in fase discendente, ma si sentiva ancora abbastanza giù da cercare conforto nelle bottiglie del bar a due passi dall'alberghetto di infima categoria dove alloggiava in attesa di trovare un lavoro a Portsmouth. Quella sera, se non altro, non era solo al bancone. Aveva fatto conoscenza con un giovane uomo mal rasato che portava un giubbotto da motociclista di pelle nera e i capelli pettinati come Elvis Presley. Era stato il giubbotto lo spunto da cui era partita la conversazione. Eddie ne sapeva parecchio di motociclette, e l'altro, che si era presentato come Willie Heartstone, ne era un appassionato. Dalle moto passarono ad altri discorsi, finché arrivarono, entrambi
sbronzi a puntino, all'argomento predominante nei discorsi maschili da bar in alternativa allo sport: donne. I due si scambiarono aneddoti piccanti, sghignazzando sguaiatamente. A un certo punto Eddie rideva così scompostamente che rovesciò il boccale di birra sul bancone e il barista dovette invitarli a controllarsi. «Sai che ti dico?» fece Eddie, pagando un altro giro. «Ora come ora, non mi dispiacerebbe per niente farmene una.» Heartstone era ubriaco quanto Eddie, ma stavolta non si unì alla risata scrosciante che fece seguire alla sua affermazione. Stava pensando, e aveva assunto un'espressione calcolatrice. «Sai, io so dove trovare della carne fresca. Però costerà un po'. Sei disposto a pagare per della merce di prima scelta?» Eddie dovette rifletterci su. Si appoggiò al bancone, quasi mancandolo con il gomito. Per qualche ragione lo sgabello su cui stava seduto non voleva stare fermo. Quando si fu stabilizzato, allungò lentamente una mano a prendere il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni. Aveva trentacinque dollari, più, naturalmente, un po' di denaro che aveva nascosto nella sua stanza. «C'è da pagare molto? Perché sto rimanendo a corto di liquido, e in questa città non sembra facile trovare lavoro.» Willie si sporse a sbirciare nel portafoglio di Eddie. «Ah, al diavolo, amico. Mi sei simpatico. Per te, facciamo cinque dollari. Che ne dici?» Eddie pensò al poco denaro che gli era rimasto, poi a tutto il tempo che era passato dall'ultima volta che era stato con una donna, e saltò giù dallo sgabello. «Andiamo. Si vive una volta sola.» Willie gli diede una pacca sulla schiena. «Ben detto, amico.» Eddie buttò qualche spicciolo sul bancone, poi i due uscirono vacillando dal bar. La macchina di Willie era nel parcheggio. Partirono a rotta di collo per strade gelate che minacciavano di sbalzarli fuori dalla carreggiata a ogni curva. La guida spericolata di Willie stava cominciando a far smaltire la sbornia a Eddie, ma su Willie la velocità aveva l'effetto opposto, e più ne era inebriato e più correva come un pazzo. Eddie doveva essersi assopito per un po', perché quando aprì gli occhi non erano più in città. I fari illuminavano degli alberi e l'auto era inclinata su un pendio. Willie lo stava scrollando, ed Eddie si accorse che erano fermi su una stradina sterrata di fronte a una malridotta casetta di legno. «Siamo arrivati. Il bocconcino che ti ho promesso ti aspetta», disse Wil-
lie con un ghigno che rivelò parecchi denti marci. Willie inciampò in una latta di vernice vuota sul portico e imprecò ad alta voce. Poi spalancò la porta di botto, irritato per non essere riuscito a infilare la chiave nella serratura se non al terzo tentativo. Eddie stava sghignazzando, e una volta dentro Willie riattaccò a ridere. «Chi cazzo è che fa 'sto casino?» sbraitò una voce da una stanza sul retro. Eddie sbirciò nel corridoio per vedere da dove venisse la voce, ma era troppo buio. «Sono io, Ralph. C'è qui un mio amico che vuole farsi una scopata.» Eddie sentì qualcuno saltare giù da un letto in fretta e furia. Lanciò un'occhiata nel soggiorno. Il posto era un porcile. C'erano lattine di birra sparse sul pavimento e l'imbottitura usciva dai cuscini di un divano. Un uomo venne avanti lungo il corridoio, infilandosi i pantaloni. Quando vide Eddie si fermò e la collera alterò la sua faccia. Prese bruscamente Willie per un braccio. «Pezzo di idiota, chi è quello?» Willie sembrò infastidito, ma non tentò di divincolarsi. «Sta' buono, Ralph. Questo è il mio amico Eddie. Ne sa più lui di moto e donne di chiunque al mondo.» «E lo porti qui? Ma sei pazzo? Vuoi finire in...» Ralph lanciò un'occhiata torva a Eddie e lasciò la frase in sospeso. «Senti, porta il culo fuori di qui», gli disse. Eddie guardò Willie. Per la prima volta, si rese conto di non sapere dove fosse e di non conoscere troppo bene Willie. Decise di non fare questioni e arretrò verso la porta, ma Willie si liberò da Ralph e lo raggiunse, trattenendolo. «Che cazzo, Ralph, aspetta un momento. Eddie è a posto, e ha detto che è disposto a pagare dieci dollari per una scopata. Non è vero, Eddie?» Willie gli strizzò l'occhio ed Eddie si guardò bene dal contraddirlo sui termini dell'accordo. «Sì, certo. Ma non voglio problemi. Se il tuo amico...» «Tranquillo, nessun problema. Aspetta qui un attimo intanto che parlo con Ralph. Poi andiamo a divertirci.» Willie e Ralph si allontanarono lungo il corridoio. Eddie li sentì discutere a bassa voce, ma non riuscì a cogliere che qualche parola qua e là. La porta della stanza in cui si erano ritirati si aprì e i due ritornarono. Willie passò un braccio sulle spalle di Eddie con fare paterno e lo prese in disparte in un angolo del corridoio.
«Ascolta», gli bisbigliò all'orecchio, «il mio amico è così preso da questa ragazza che non vuole darla al primo che capita, ma gli ho spiegato che sei in gamba, e si è calmato. Solo, ho dovuto dargli venti dollari. Per te va bene, vero?» chiese, dandogli una stretta virile alla spalla. «Vedrai, è roba che ne vale almeno cento.» Eddie cominciava ad avere paura. Poteva sentire il fiato puzzolente di Willie sopra l'odore della birra, e non gli piaceva per niente il modo in cui Ralph lo fissava minaccioso attraverso il corridoio. «Certo, venti va benissimo», accettò, mettendo insieme un sorriso fiacco. «Bene!» Willie rise fragorosamente, battendogli una manata sulla spalla. «Dai, tira fuori la grana, così poi andiamo a spassarcela.» Eddie diede a Willie i venti dollari e lui li consegnò a Ralph. Poi Willie lo guidò in una cucina buia. Di fianco al frigorifero c'era una porta chiusa con un robusto lucchetto. Willie l'aprì e accese la luce, una lampadina rischiarava a malapena lo scantinato. La fatiscente scala di legno scricchiolava a ogni passo e, nello stato in cui era, Eddie dovette reggersi al corrimano per non ruzzolare di sotto. Era così concentrato sugli scalini che non notò nient'altro finché ebbe i piedi ben piantati sul solido cemento. Nella cantina faceva freddo, ma una vecchia stufa in fondo al locale irradiava un po' di tepore. Willie si diresse da quella parte, ed Eddie credette di sentire qualcosa muoversi nella semioscurità. «Allora, che te ne pare?» gli domandò piano Willie. La sua voce era cambiata, arrochita da un ruvido strato di libidine. La luce fioca lasciava in ombra l'angolo che Willie stava indicando, ma Eddie riuscì a distinguere una figura rannicchiata sotto una coperta su un vecchio materasso maleodorante, con delle macchie in un angolo che sembravano sangue secco. L'unica parte della persona che non fosse nascosta dalla coperta era la testa. Eddie si avvicinò e vide che era una ragazza. Non si era mossa da quando erano entrati nel suo campo visivo, ma i suoi occhi erano spalancati e seguivano ogni loro movimento. I suoi capelli erano sporchi e scarmigliati, e inizialmente Eddie ebbe difficoltà a stabilirne il colore; poi, quando fu più vicino, vide che erano castani. «L'abbiamo addestrata per benino questa, Eddie», disse Willie, poi si rivolse alla ragazza: «Non è vero, bellezza?» La ragazza non rispose, come se non avesse nemmeno sentito. La sua faccia era inespressiva, assente.
«Farà tutto quello che vuoi, da brava bambina.» Eddie sentì il respiro ansimante di Willie mentre si levava il giubbotto. Lo vide sfilarsi la pesante cintura di cuoio dai passanti dei pantaloni, senza distogliere lo sguardo dal volto della ragazza. All'improvviso, Willie le strappò di dosso la coperta. La ragazza indossava un paio di pantaloni e una camicetta sbottonata che si teneva chiusa sul petto con una mano. Privata della protezione della coperta, ebbe un piccolo sussulto, accompagnato da un gemito e un tintinnio metallico. Eddie individuò l'origine di quel suono in una catena agganciata a un'estremità alla caviglia della ragazza e all'altra a un anello di ferro fissato alla parete. Eddie cominciava ad avere la nausea. Quel genere di cose non faceva per lui. Avrebbe voluto tirarsi indietro, ma aveva troppa paura di Willie e Ralph per contrariarli. «Sei contenta di vedermi, dolcezza?» le domandò Willie con voce melensa, battendosi la cintura piegata in due sulla coscia. Gli occhi della ragazza fissavano la cintura, e cominciarono a colmarsi di lacrime. Willie si accovacciò sui talloni e le prese il mento in una mano, costringendola a guardarlo negli occhi. «Ti ho chiesto se sei contenta di vedermi.» La ragazza singhiozzò qualcosa che suonò come un sì. Willie ridacchiò e le lasciò andare il mento. «Ne ero sicuro. Perché tu sai cosa c'è sotto queste mutande, vero? Sai bene che c'è di bello per te.» La ragazza si morse il labbro per trattenere le lacrime, ma il suo sforzo fu inutile. Vederla così impotente sembrò alimentare il sadismo di Heartstone. Le batté pigramente la cintura sulle natiche. Eddie era sicuro che non avesse usato abbastanza forza da farle male, ma lei sobbalzò come se fosse stata colpita con violenza. «Questo è il mio amico Eddie, tesoro. Voglio che gli mostri la merce.» Eddie voleva farla immediatamente finita con quella storia, ma sapeva che al primo passo falso sarebbe morto. Lo sapeva per certo. La ragazza si stava abbassando i pantaloni con gesti rapidi, a scatti. Ogni minimo sforzo sembrava causarle dolore. Heartstone le tirò giù i pantaloni sulle caviglie. Sotto era nuda. «Adesso la camicia», la esortò Willie in un roco bisbiglio. «Fa' vedere a quest'uomo quelle belle tette.» La ragazza obbedì come un automa, poi si lasciò ricadere sul materasso con le gambe aperte. Heartstone fece strisciare la cintura lungo il suo addome finché l'estremità si fermò dove iniziava ad arricciarsi il pelo pubico,
e si girò a guardare Eddie, sogghignando. «Visto com'è brava? C'è voluto un po' per insegnarle a sdraiarsi e allargare quelle gambe, ma è sveglia e ha imparato a comportarsi come si deve. E, comunque, devo dire che le lezioni sono state interessanti.» Scosse la testa e chiuse gli occhi, assaporando il ricordo. Poi si rivolse di nuovo alla ragazza: «Tratta bene il mio amico Eddie, e magari domani ti daremo anche da mangiare». Nonostante la repulsione, Eddie non riusciva a distogliere lo sguardo dal corpo della ragazza. Era molto emaciata. Le si potevano contare le costole, e aveva gli occhi cerchiati da ombre scure. Eddie era certo che Willie l'avrebbe presa per primo mentre lui guardava, ma a un tratto Heartstone sembrò perdere ogni interesse per lei. Si richiuse i pantaloni e indietreggiò. «Devo pisciare», annunciò. «Tu divertiti. E se non fa tutto quello che vuoi, basta che me lo dici.» Eddie sentì i passi di Heartstone salire le scale, poi il suono della porta che si chiudeva e lo scatto del lucchetto. Per un momento ebbe paura di essere rimasto imprigionato anche lui e fece per avviarsi verso le scale. «No», lo trattenne la ragazza con un filo di voce. «Non te ne andare, ti prego.» Si girò a guardarla sconcertato. «Senti, io non so che diavolo sta succedendo qui, ma puoi stare sicura che non ti farò niente», bisbigliò, timoroso quanto lei che Heartstone potesse sentirli. Tutto quello che voleva era andarsene da lì, e pensava che per la ragazza sarebbe stato già un sollievo, ma invece lei prese a singhiozzare sommessamente. «No. Fa' quello che devi. Per me sarà anche peggio se scoprono che tu non... che non ho fatto quello che hanno detto.» Girò la testa di lato. «Basta che fai in fretta.» La voce di Toller si era fatta sempre più bassa mentre il suo racconto volgeva al termine. Ascoltandolo, Cantoni avvertì la paura e la repulsione che l'esposizione di quei fatti sembrava aver rievocato nel detenuto. Quando Toller finì di parlare, nella stanza scese un pesante silenzio. «Ha avuto un rapporto con lei?» domandò Cantoni tirando fuori la voce a fatica. Toller scosse la testa. «No. Non potevo. Non sono uno stinco di santo, ma non ho mai fatto niente di simile a nessuno in vita mia.» «Che cosa fece quando Heartstone tornò?» «Non ritornò. Dovetti picchiare contro la porta. Mi chiese com'era anda-
ta e io mi inventai qualcosa. Poi mi riaccompagnò in città, facendomi sborsare altri cinque dollari per la benzina. Per tutta la strada ho avuto una fifa dannata, ma Willie si comportava come se fosse tutto normale. Il mattino seguente presi armi e bagagli e lasciai la città. Dopo qualche giorno lessi che avevano trovato il corpo della ragazza in un fosso lungo l'autostrada. L'avevo riconosciuta dalla foto sul giornale.» «Perché non andò alla polizia?» «Alla polizia? Figuriamoci. Con i miei precedenti, e poi non avevo denunciato subito la cosa. Ho avuto paura. La polizia non ha mai fatto niente per me, e nemmeno io potevo fare niente per la ragazza. Era morta, ormai.» Già, si disse Cantoni. Probabilmente aveva ragione. Era già morta, prima ancora che la uccidessero. Provò a immaginare quel che doveva avere passato, rinchiusa in una cantina fredda e umida, tanto terrorizzata da non osare nemmeno parlare. «Ha più rivisto Heartstone o Ralph?» «No, mai più. E se li avessi visti, sarei scappato dalla parte opposta.» «Conosce il cognome di Ralph?» «No. Heartstone lo chiamava per nome, e io non gli ho certo chiesto le generalità.» Cantoni finì di buttare giù gli ultimi appunti, poi ripose il blocco nella borsa. «Bene, signor Toller. Parlerò con Heider, e se lui è d'accordo potremo cercare una soluzione per lei. Badi, non le sto promettendo niente. Ma apprezzo che lei si sia fatto avanti con questa informazione.» Toller sembrò lusingato e imbarazzato dalla sincerità di Cantoni, e per un momento dimenticò il vero motivo per cui lo aveva contattato. Si salutarono con una stretta di mano, poi Cantoni se ne andò. L'incontro con Toller lo aveva turbato, e fu grato di trovarsi di nuovo fuori alla luce del sole. 3 Al ritorno di Cantoni, Shindler era nell'ufficio di Heider, come ogni pomeriggio durante l'ultima settimana, ad aiutare il procuratore a fare una cernita del materiale che si era accumulato durante anni di indagini. Heider si accorse subito dell'agitazione del suo assistente e lo invitò a sedersi. «Allora, che novità ci sono?» «Qualcosa che dovremmo approfondire. I Coolidge potrebbero non essere colpevoli.»
Heider lanciò una rapida occhiata a Shindler. Il detective non si era mosso, ma sembrava essersi leggermente irrigidito. «Dicci tutto, Al. Non tenerci sulle spine», lo esortò Heider in tono leggero. Nella sua testa gli ingranaggi si erano già messi in moto, aspettando che venissero inseriti nuovi dati per rifare i calcoli. L'ufficio della procura distrettuale si era compromesso pubblicamente, dichiarando alla stampa di essere pronto a dimostrare la tesi che i Coolidge avevano ucciso Murray e Walters. Heider ne era stato il portavoce, quindi sarebbe stato lui a rimetterci la credibilità e la carriera politica se i Coolidge si fossero rivelati innocenti. «Ho parlato con quell'uomo in prigione, Eddie Toller. Pare che si trovasse a Portsmouth nel 1961, a metà gennaio. Era in un bar e ha incontrato un uomo di nome Willie Heartstone. Toller ha buttato là che aveva voglia di farsi una donna, e Heartstone ha detto che poteva procurargliene una per pochi soldi. Lo ha portato in una casa fuori città, dove viveva un certo Ralph. Toller pensa che abitasse là anche Heartstone, ma non ne è sicuro. Comunque, Ralph e Heartstone tenevano una ragazza rinchiusa in cantina. Aveva una catena alla caviglia. Toller dice che era stata seviziata e pareva denutrita. Pochi giorni dopo, quando è stato ritrovato il corpo, ha visto la fotografia di Elaine Murray pubblicata sui giornali e ha capito che si trattava della stessa ragazza. Non si è fatto avanti a suo tempo perché aveva già avuto guai con la giustizia e preferiva stare alla larga dalla polizia, e inoltre aveva paura di Ralph e Heartstone.» «Capisco», commentò scetticamente Heider. «E quali prove ha fornito il signor Toller per la sua storia?» «Nessuna, eccetto... la sua parola. Ma io gli credo. Era realmente sconvolto quando parlava della ragazza. Non penso che avrebbe potuto simulare in modo così convincente.» Shindler rise. «Al, mi meraviglio di te. Sei stato un poliziotto. Nessuno ha mai tentato di farti bere delle frottole?» Al arrossì. «Un milione di volte. Però non credo che quest'uomo mi stia imbrogliando.» «Forse no», concesse Heider. «Forse sta dicendo la verità così come lui la vede. Ma avrebbe potuto trattarsi di un'altra ragazza.» «No. Era assolutamente sicuro che fosse lei. Ha visto la fotografia solo pochi giorni dopo. Inoltre la sua descrizione dell'abbigliamento della ragazza corrisponde con quello che la Murray aveva indosso quando è stata trovata. E anche il colore dei capelli coincide.»
«Devi ammettere che capelli castani, pantaloni e camicetta non è precisamente fuori del comune», fece notare Shindler. «Oltretutto, quel Toller potrebbe aver preso i dettagli dai giornali di questi giorni. Stanno rispolverando tutta la storia, adesso che il caso è tornato agli onori della cronaca.» «E stai dimenticando un punto molto importante», aggiunse Heider con sussiego. «Sarebbe?» «Quand'è che questo Toller avrebbe visto Elaine Murray viva?» «La seconda settimana di gennaio, pochi giorni prima che venisse rinvenuto il suo cadavere.» «Al, secondo il rapporto dell'autopsia del dottor Beauchamp, Elaine Murray è stata uccisa da quattro a sei settimane prima del ritrovamento. Come poteva essere viva nella seconda settimana di gennaio?» Cantoni sembrò confuso, poi ricordò qualcosa. «Il corpo. Il corpo della ragazza. Non appariva deteriorato come ci si sarebbe aspettati dopo essere stato all'aperto per tutto quel tempo. Era scritto in uno dei tuoi rapporti, Roy. Forse Beauchamp ha commesso uno sbaglio. Se ben ricordo, il suo rapporto teorizzava che il freddo avesse mantenuto il cadavere in buono stato di conservazione.» Heider scosse la testa. «Non regge, Al. Questo Toller è solo uno che cerca di fare il furbo.» Al dissentì vigorosamente. «No, non ci credo. Avresti dovuto esserci. Quell'uomo era addirittura spaventato mentre raccontava la storia. Io penso che dovremmo andare a fondo di questa faccenda.» «Okay, Al. Incaricherò Roy di occuparsene. Tu torna pure a quelle trascrizioni.» Cantoni sembrò ammorbidirsi, adesso che si era assicurato che Heider non avrebbe trascurato l'informazione. Discussero alcune altre questioni, poi se ne andò. Non appena la porta si fu richiusa alle sue spalle, Heider si rivolse a Shindler. «Che ne pensi?» «Tutte balle. Quel tizio si è inventato la storia di sana pianta.» «Puoi augurartelo. Io mi ci gioco il culo su questo caso. Non posso permettermi un fiasco. Va' alla prigione. Parla con Toller. Se c'è qualche problema, fammelo sapere. A tutto c'è rimedio.» Roger Hessey se la passava bene. Si era sposato con una ragazza dolcissima e aveva due belle bambine. In società con il suocero aveva aperto un
fast food che faceva parte di una catena di ristorazione specializzata in pollo fritto. L'attività era risultata più redditizia del previsto, e Roger aveva potuto sistemare la sua famiglia in un villino fuori città a pochi minuti di strada da un centro commerciale, un campo da golf e una scuola. «Che tempi, quelli del liceo», commentò, scuotendo la testa. «Ne combinavamo di tutti i colori. Dica, posso offrirle una birra o qualcosa?» «No, grazie, signor Hessey», rifiutò Mark Shaeffer. Erano seduti su delle sdraio nel portico della casa di Roger, e le sue due bambine correvano e schiamazzavano nel cortile. Roger sorrise con nostalgia e scrollò di nuovo la testa. «Le dirò, quando ho letto che Billy e Bobby erano stati arrestati ci sono rimasto male, però non è che la cosa mi abbia poi sorpreso.» «Come mai?» «Be', visto che lei è l'avvocato di Bobby, posso essere franco. Erano due disgraziati. Voglio dire, lo eravamo un po' tutti, allora. Sempre a fare casini. Ma Billy era uno tra i peggiori. Spacciava anche un po' di droga. Erba, più che altro, ma non dimentichi che era il 1960. A quei tempi tutti pensavano che quella roba fosse peggio dell'eroina.» «Sbaglio, o sta facendo una distinzione fra Bobby e Billy?» «Be', Bobby era una testa calda, ma non era cattivo come suo fratello. Voglio dire, lui era uno scapestrato, ma non più degli altri. Anch'io ho fatto cose di cui ora non vado fiero.'Sa, gli scontri tra bande e tutto il resto. Ma era... ecco, per così dire, tutto nello spirito del sano divertimento, in linea di massima. Insomma, se picchiavamo uno gliele suonavamo per bene, ma senza mai conciarlo veramente. È difficile spiegare la linea che la maggior parte di noi tracciava, ma ce n'era una. Poi, invece, c'erano quelli come Billy. Lui non si dava dei limiti. Faceva paura perfino a tanti del gruppo.» «Lei conosceva anche Esther Freemont, vero?» Roger gettò indietro la testa e lanciò una sorta di sonoro raglio. Le bambine si bloccarono, spaventate dall'improvviso rumore, poi videro che era solo il padre che rideva e tornarono ai loro giochi. «Che c'è di tanto divertente?» domandò Mark. «Oh, niente. È solo che pensare a Esther mi fa tornare in mente alcuni ricordi molto, molto piacevoli. Aveva il più gran paio di tette...» Roger scrollò la testa, e Mark, a disagio, si agitò sull'intreccio di plastica della sua sedia dal telaio in alluminio. Roger abbassò lo schienale della sua, mettendosi comodo. Indossava una camicia a fiori hawaiana, un paio di bermuda a scacchi e occhiali neri. Di tanto in tanto si batteva con soddi-
sfazione una mano sul ventre gonfio di birra, o beveva un sorso da una lattina. Il sole era forte e Mark rimpianse di non essere andato a farsi una nuotata, invece di lavorare anche nel week-end «Che cosa ricorda della notte in cui Elaine e Richie furono uccisi?» «Non molto, temo. L'ho già detto diverse volte alla polizia. Eravamo andati da Bob's, una paninoteca dove ci trovavamo abitualmente. Credo che non esista neanche più, ormai. Poi non so se Bobby o Billy ebbe l'idea di imbucarci alla festa di Alice Fay. Sapevo che ci sarebbero stati guai e dissi che non ci stavo, ma non volevo prendermi del vigliacco, così alla fine sono andato con loro. Quando ho visto che tirava una brutta aria, però, ho lasciato la festa, così in sostanza non ho visto niente.» «Mi parli un po' di Esther.» Roger si chinò in avanti e abbassò la voce. «Non male a letto, ma niente in mezzo alle orecchie, mi spiego? Era quella che a quei tempi si definiva una ragazza perduta. Certo, era prima della 'rivoluzione sessuale' e qualunque ragazza che non arrivasse vergine al matrimonio... be', ci siamo capiti. Comunque, Esther era nel giro dei Cobra. C'erano due tipi di ragazze che stavano con il gruppo: le ragazze fisse e quelle che bazzicavano intorno, ma non stavano con nessuno in particolare. Esther era una via di mezzo. Era abbastanza carina per uscirci un po' di volte, ma tutti se ne stancavano piuttosto in fretta.» «Per quale motivo?» «Ah, era un tormento. Non faceva che chiederti se eri innamorato di lei, e poi erano scenate.» Hessey si strinse nelle spalle. «Ha presente il tipo, no?» Mark prese qualche appunto. Quella conversazione non stava portando a niente. Fece ancora qualche domanda, poi ringraziò Hessey e si preparò ad andare. «Come mai hanno aspettato tanto ad arrestare Bob?» domandò Hessey mentre lo accompagnava al cancello. «A quanto dice il procuratore, Esther ha sofferto di un'amnesia per tutto questo tempo, ma l'hanno fatta curare, e adesso sostiene di ricordare di avere assistito al delitto.» «Che cosa li aveva portati a credere che fosse in qualche modo coinvolta?» «Avevano trovato i suoi occhiali sul luogo del delitto.» «Intende dire al parco?» «Già.»
«E questo che significa?» «Ritengono li abbia persi quella notte.» «Non li ha persi allora.» «Come?» «Glieli ho fatti saltare via io con una sberla, là al parco, circa una settimana prima che Richie ed Elaine fossero uccisi.» Sarah sbirciò l'orologio, sperando che Bobby non se ne accorgesse. Ancora venti minuti alla fine dell'orario di visita. Sembrava che il tempo non passasse mai. La visita era stata un disastro fin dal momento in cui la guardia aveva chiuso la porta di metallo dietro di loro. Il bacio di Bobby era stato troppo lungo, e Sarah aveva avuto la sensazione che si stesse aggrappando a lei, come un naufrago a un pezzo di legno portato dalla corrente. La loro conversazione iniziò con una dozzina di variazioni sul tema del «come stai» e degenerò in un inibito scambio di banalità, punteggiato da lunghi e imbarazzati silenzi. Più stava con lui, più le appariva chiaro che l'uomo seduto di fronte a lei, con le spalle curve e lo sguardo sfuggente, non era lo stesso con cui aveva diviso il letto negli ultimi mesi. Il suo amante era un uomo solido. Quello era un essere senza sostanza, un'ombra. Provava pietà per il detenuto, e si sentiva a disagio in sua presenza. La guardia avvertì da dietro la porta che mancavano cinque minuti. Era il momento di fargli la domanda che le premeva. Per questo era andata a trovarlo. «Bobby», disse Sarah, interrompendolo. Lui la guardò, già sapendo quello che stava per dire. Lo aveva capito dal tremito nella sua voce. Aveva temuto quel momento, immaginandolo mille volte nella solitudine della sua cella. «Hai davvero?... Quelle due persone... Devo saperlo.» Gli ci volle tutto il suo coraggio per prenderle la mano e guardarla negli occhi. «No, Sarah. Io non...» «Ricordi quella notte che abbiamo parlato? Era la notte prima degli esami, e non riuscivi a dormire. Perché mi hai detto che c'era del sangue sulle tue mani? Perché non hai voluto che ti facessi altre domande?» Le parole di Sarah lo colpirono come un pugno. Ricordava molto bene quella notte, e aveva sperato che lei se ne fosse dimenticata. Si sentiva come se qualcosa gli si stesse spezzando dentro. «Io... In Vietnam... È lì che è successo. Ho ucciso un uomo... un vec-
chio. Fu un incidente...» Andò avanti, raccontandole di quella notte, domandandosi se lei gli credesse. Cominciava a essere davvero troppo per lui. Se lo amava, perché glielo aveva chiesto? Non avrebbe potuto semplicemente fidarsi di lui? Si mise a piangere. Lei lo abbracciò e lo lasciò piangere sulla sua spalla. Provava imbarazzo. Tutto qui. Voleva andarsene da lui, da quella stanzetta asettica e opprimente, dall'odore della sconfitta. «Sarah, tu sei tutto quello che ho. Devi credermi. Io non... Sei tutto quello che ho.» La guardia bussò alla porta, e lei lo aiutò ad alzarsi e ricomporsi. In autostrada, guidando verso casa, pensò al loro incontro. Le aveva detto la verità quando aveva negato di avere ucciso i due ragazzi? Non appena glielo aveva chiesto, si era resa conto che la risposta non aveva realmente importanza, perché Bobby Coolidge non le interessava più. Esther stava seduta al buio vicino alla finestra, defilata in modo che nessuno potesse vederla dalla strada. Le dita della sua mano destra stringevano l'orlo della tendina, tenendola leggermente scostata per poter sbirciare fuori senza essere notata. Era sicura che qualcuno la stesse spiando. Prima l'avvocato si era presentato alla porta del suo appartamento; poi, qualche giorno più tardi, le aveva telefonato. Esther gli aveva ripetuto che non voleva parlare con lui, e aveva minacciato di chiamare la polizia. Quella sera aveva creduto di sentire qualcuno muoversi per il suo appartamento, ma quando aveva acceso le luci non c'era nessuno. A volte c'era una strana eco nel telefono, ed era certa che una Ford bianca e azzurra fosse passata almeno quattro volte da quando l'avvocato aveva chiamato. Aveva riferito tutto questo a Roy, e lui le aveva assicurato che era solo la sua immaginazione. Allora Esther gli aveva detto che tutto sarebbe andato bene se solo fosse stato lì con lei. Che insieme a lui si sentiva al sicuro. Non poteva confessargli che era inquieta perché stava pensando a Bobby, a come potesse sentirsi rinchiuso in prigione a causa sua. In una cella per il resto della sua vita. Sarebbe stata questa la sentenza, le aveva detto Roy. Le parve di scorgere un movimento in un androne, ma in strada non c'era nessuno. Doveva essersi sbagliata. Tuttavia, era troppo agitata per andare a dormire. Cercò di immaginare le dita del dottor Hollander sul suo polso, ma non riuscì a concentrarsi abbastanza a lungo perché funzionasse. Continuava a pensare a Bobby e a come sarebbe stato guardarlo dal banco dei testimoni e dire davanti a lui le stesse cose che aveva detto in privato a
Roy e al dottor Hollander. Perché l'idea l'angosciava tanto? Non stava forse dicendo la verità? Il dottor Hollander ne era convinto. Era stata l'amnesia a impedirle di ricordare, finora. Era per questo che ricordava tutto soltanto adesso. Sapeva che era la verità, e anche Bobby lo avrebbe saputo, in tribunale. Non avrebbe potuto odiarla, perché non stava dicendo altro che la verità. Guardò il telefono sul tavolino accanto al divano. Forse avrebbe dovuto chiamare Roy. Era molto tentata di farlo. Solo che lui era sembrato così brusco, l'ultima volta che gli aveva telefonato. Ma voleva sentire la sua voce. Anche se era irritato. Si alzò e andò al telefono. Perché non avrebbe dovuto chiamare? Non erano amanti? Non le aveva bisbigliato tante cose carine? Le aveva detto quanto lei fosse importante. Se era importante per lui, poteva chiamarlo. Toccò la fredda plastica nera del ricevitore, ma non si risolse a sollevarlo. Si portò le mani alla faccia e dondolò avanti e indietro. Voleva telefonargli. Ti prego, Roy, lascia che ti chiami. Non essere in collera con me. Non sopportava l'idea di farlo arrabbiare, perché allora lui avrebbe potuto lasciarla, e lo amava tanto, aveva tanto bisogno di lui. Pensò di sentire un movimento nella camera da letto. Fece per andare a vedere, ma a un tratto ebbe paura. Doveva chiamare Roy Se c'era un intruso in casa, non avrebbe potuto adirarsi. Si sedette sul divano e compose il numero, senza staccare lo sguardo dalla porta della sua camera. 4 Mark bussò alla porta una seconda volta, domandandosi se Sarah fosse in casa. Stava cominciando a preoccuparsi. Lei aveva saltato due appuntamenti quella settimana, e al telefono era stata evasiva. Cindy si lagnava di tutto il tempo che lui stava dedicando al caso Coolidge e ogni santo giorno gli chiedeva quando sarebbero arrivati gli altri soldi. Anche Mark era preoccupato, ma non solo per quello. Voleva vedere Sarah. Pensava continuamente a lei. Immaginava i suoi lineamenti delicati e i suoi lunghi capelli biondi e il desiderio di toccarla diventava sempre più forte. Quando lei aprì la porta rimase a bocca aperta, era bella come la ricordava, ma non gli sfuggì lo sguardo che gli rivolse. Era un misto di sorpresa e imbarazzo, come se l'avesse colta a fare qualcosa di cui si vergognava. «Che c'è che non va?»
La domanda lo sorprese. «Niente. Io... volevo solo vederti. Per il caso.» «Entra.» Sarah sembrava distratta. Seguendola in soggiorno, Mark la vide passarsi una mano nei capelli. «Ti aspettavo allo studio venerdì», le disse quando furono seduti sul divano. «Non ho potuto venire. Io... mi scuso per non averti avvisato. C'è stato un imprevisto all'ultimo momento.» «Non importa», si affrettò ad assicurare Mark. Non voleva farle pensare che la stesse criticando, e cercò di dissimulare il proprio disappunto per la sua palese bugia. «Come procede la... la questione di Bobby? Dicevi di avere qualche novità.» «Infatti», annuì lui, grato dello spunto per evitare il confronto. «Ho trovato un testimone che potrebbe aiutarci.» Le raccontò di Roger Hessey, parlando in fretta, timoroso di perdere la sua attenzione. Lei fece finta di ascoltare, ma il suo sguardo guizzava nervosamente per la stanza. Avrebbe tanto voluto che se ne andasse. Sapeva che le avrebbe chiesto del denaro, e non sapeva ancora bene come cavarsela. «Sembra incoraggiante», commentò, cercando di simulare un po' di entusiasmo. «Be', non voglio darti delle illusioni, ma comincio a pensare di avere in mano qualcosa.» Rimasero in silenzio per un momento. Sarah non sapeva che cosa dire. Le stava venendo il mal di testa e voleva soltanto essere lasciata in pace. «Oh... prima che me ne dimentichi», accennò Mark, «hai parlato con i tuoi per... ehm... la parcella?» «Il denaro, Mark. No. Non ho mai chiamato i miei genitori.» Mark era senza parole. La guardò negli occhi, sbalordito. Era seduto così vicino che poteva vedere la grana della sua pelle levigata, e il suo desiderio per lei gli rese difficile capacitarsi di quello che aveva appena detto. «Ma hai detto che avresti...» Lei gli toccò il braccio, e fu come una scossa elettrica. «Non voglio che tu mi detesti, Mark, ma non ho potuto. Avevo intenzione di farlo. Non ti ho mentito su questo. Quando Bobby è stato arrestato, non potevo crederci. Poi l'ho visto in prigione.» Sarah lasciò ricadere la mano dal suo braccio e abbassò lo sguardo. Mark ebbe l'impulso di abbracciarla. Di confortarla. Gli faceva male ve-
derla così in difficoltà. «Mark, io non so più che cosa pensare. Se Bobby ha ucciso quella ragazza... non voglio che tu continui a occuparti del caso, se non vuoi farlo. Io non ce l'ho il denaro. Ti ho mentito. Non all'inizio, ma poi non me la sono sentita di parlarne con i miei. Che avrei potuto dirgli?» Le tremò la voce, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Come facevo a chiedere aiuto per un uomo che ha violentato e strangolato una ragazza che avrei potuto essere io?» Sarah scoppiò in singhiozzi. Mark si fece più vicino e l'abbracciò, cercando di consolarla, mentre dentro di lui le emozioni erano in tumulto. Poteva vedere la città che si estendeva ai piedi della collina attraverso la finestra panoramica. Un aeroplano argenteo solcò l'azzurro del cielo estivo. Le lacrime rotolavano come minuscole perle lungo la morbida curvatura delle guance di Sarah. Le asciugò con piccoli baci, e improvvisamente si ritrovò a baciarle le labbra e si abbracciarono con un'intensità tale da lasciarlo senza fiato. Che cosa stava facendo? Si ritrasse di scatto, spaventato dalla profondità della sua passione per lei. «Mark», mormorò Sarah. Lui si alzò e si allontanò di qualche passo. «Mi dispiace. Io...» «Non devi giustificarti. Non hai fatto niente di sbagliato.» Mark si voltò speranzoso verso di lei. Sarah vide l'espressione nei suoi occhi. «Mark, non posso. Non adesso. Ti prego, cerca di capire. Sono troppo confusa. È successo tutto talmente in fretta. Tieni il denaro che ti ho dato. Di' a Bobby di cercarsi un altro avvocato.» «Non posso farlo», replicò lui. «E comunque... Non preoccuparti per il denaro. Se tu soltanto...» Lei scosse la testa. Sarebbe stato più facile se si fosse arrabbiato con lei. Poteva vedere quanto fosse turbato, e non sopportava più di stargli vicino. Mark fece un passo verso di lei, poi ci ripensò. Quando la porta si chiuse, Sarah si lasciò cadere sul divano. Guardando verso la finestra scorse la propria immagine riflessa nel vetro e subito volse gli occhi altrove. L'appartamento a un tratto era così buio e vuoto. Si sentiva sporca. Shindler passò davanti al bancone dell'atrio dirigendosi verso l'ufficio di Heider. Era esausto, perché aveva passato metà della notte a cercare di calmare Esther. Era molto preoccupato per lei. Se fosse crollata, il processo avrebbe seguito la stessa sorte. Per ora non aveva detto a Heider delle
sue telefonate notturne, o delle scenate che lei le aveva fatto nel suo appartamento. Le aveva fatto prescrivere dei sedativi da Hollander, e sperava che con quelli avrebbe retto per il tempo che ancora mancava al processo. Il processo. Scosse la testa. Non ci sarebbe stato nessuno là ad aiutarla quando avrebbe dovuto testimoniare. E se fosse crollata mentre era alla sbarra? Oltretutto, lei aveva già tentato il suicidio una volta. Shindler aveva preso in considerazione la possibilità di andare a stare da lei per un po', ma subito aveva scartato l'idea. Troppo rischioso. Se mai fosse saltato fuori che l'investigatore incaricato del caso si portava a letto la testimone chiave, Heider non avrebbe mai ottenuto la condanna. «Roy.» Shindler si fermò e si guardò attorno. Al Cantoni lo stava chiamando dalla soglia del suo ufficio. «Che posso fare per te?» «Mi chiedevo se hai trovato qualcosa su Toller.» «Chi?» «Eddie Toller. Il detenuto che dice di aver visto Elaine Murray viva a metà gennaio.» Shindler si rabbuiò. «La questione è archiviata. Scordatene.» «Hai controllato?» «Non c'era niente di vero.» «Non so. Sembrava così sincero. Forse dovremmo parlarne agli avvocati dei Coolidge. Abbiamo il dovere di informare la difesa se abbiamo delle prove in discolpa...» «Stammi a sentire», disse Shindler a voce bassa, «non c'è niente di discolpante in un'assurda storiella senza fondamento che un delinquente qualsiasi si è inventato per portare il culo fuori dalla prigione. Quei due bastardi hanno stuprato e strangolato una ragazza indifesa e macellato un ragazzo che valeva dieci di loro. Hai visto quelle fotografie? Hai visto la faccia del ragazzo? E vuoi ancora informare i difensori? Perché se lo fai, perderemo questa causa e tu sarai responsabile di aver fatto mettere in libertà quei due assassini.» Cantoni rimase di stucco vedendo Shindler perdere la calma a quel modo. Di solito il detective era sempre così controllato... «Non intendevo parlargliene subito, Roy. Solo se ci fosse qualcosa di vero nella storia di Toller...» «Mi spiace di essere esploso così», si scusò Shindler appena si rese conto di quello che aveva fatto. «Ho passato una nottataccia e sono nervoso.
Senti, ho parlato con Toller. La storia è fasulla. L'ho torchiato un po', e ha fatto marcia indietro su parecchie cose.» «Per esempio?» «Dettagli», rispose evasivamente Shindler. «Al momento non mi viene in mente niente di specifico. Ascolta, mettici una pietra sopra, okay? Adesso devo vedere Heider.» Shindler se ne andò e Cantoni rientrò nel suo ufficio. Non era affatto convinto. C'era qualcosa che non quadrava. Il problema era che cosa fare. Non voleva correre da Heider e piantare una grana senza avere in mano niente di consistente, e di certo non voleva raccontare di Toller alla difesa se la sua storia era davvero fasulla. E c'era la questione dei tempi che non coincidevano. Se il coroner aveva ragione, allora Toller o si sbagliava o mentiva. Cantoni scartabellò un fascio di carte finché trovò il rapporto sull'autopsia di Elaine Murray del dottor Beauchamp. Quando lo aveva letto la prima volta qualcosa gli era suonato strano, ma non ci aveva fatto molto caso, perché ancora non sapeva di Eddie Toller. Trovò il paragrafo e lo rilesse. Non ne sapeva abbastanza di biologia per sapere se avesse ragione o meno, ma conosceva qualcuno che avrebbe potuto aiutarlo. Alzò la cornetta del telefono e fece il numero della clinica universitaria. Il giorno dopo, alle undici del mattino, l'interfono di Cantoni suonò. «C'è in linea un certo dottor Rohmer per te. Vuoi prendere la chiamata?» «Sì», disse Cantoni, cercando di contenere la propria eccitazione. Kyle Rohmer era un giovane ginecologo che lavorava alla clinica universitaria. Lo aveva conosciuto a una festa, e da allora si erano incontrati diverse volte in simili occasioni. «Al, ho l'informazione che volevi», annunciò Rohmer. «Fortunatamente il dottor Gottlieb ha svolto una ricerca sull'argomento, così ho potuto trovare materiale abbastanza in fretta.» «Spara.» «Okay. Mi hai detto che il medico che ha eseguito l'autopsia sulla ragazza sostiene che fosse morta da quattro a sei settimane prima del ritrovamento, e che nella sua vagina fosse presente dello sperma morfologicamente identificabile. Ora, questo è semplicemente impossibile. Il dottor O.J. Pollak, in un suo articolo, afferma che il tempo di sopravvivenza morfologica degli spermatozoi è generalmente compreso tra i trenta minuti e le ventiquattr'ore. Il dottor Bornstein, in un suo articolo, lo protrae fino a qua-
rantott'ore. I dottori Gonzales, Vance, Helpern, Milton, Charles e Umberger affermano che gli spermatozoi si possono reperire nella vagina fino a tre o quattro giorni dopo la loro introduzione. Il più ampio arco di sopravvivenza che io sia riuscito a trovare nella letteratura è di quattordici giorni, ma si trattava di spermatozoi nella vagina di una donna viva, e la relazione fu screditata da numerose altre autorità nel campo. Il dottor Gottlieb ritiene che il limite massimo di sopravvivenza si possa fissare a settantadue ore. Può esserti utile?» «Sì. Moltissimo. Potresti spedirmi copie degli articoli a cui hai fatto riferimento?» «Certo. C'è qualcos'altro che posso fare per te?» «No, ti ringrazio. Mi sei stato di grande aiuto.» Cantoni riattaccò il ricevitore e chiuse gli occhi. Come procedere? Adesso aveva prove concrete a sostegno della storia di Toller. Poteva andare da Heider e riferirgli quello che aveva scoperto, ma qualcosa gli diceva che non era opportuno. Cantoni aveva sentito abbastanza voci di corridoio e aveva lavorato con lui così a lungo da sapere che Heider puntava alla carriera politica, quindi contava sulla pubblicità che un caso eclatante come quello gli avrebbe fruttato. Per lui l'importante era che il suo nome fosse sui giornali ogni settimana, e non avrebbe rinunciato a un'opportunità come quella solo per alcuni articoli trovati su qualche rivista medica. Specialmente quando l'accusa aveva pesanti testimonianze che facevano pendere la bilancia dalla sua parte. E qui stava il dilemma di Cantoni. Aveva esaminato le prove e credeva che i Coolidge fossero colpevoli. La storia di Toller sollevava il dubbio che non lo fossero, ma era soltanto una possibilità, e anche piuttosto esigua. Tuttavia la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva stabilito che l'accusa era obbligata a consegnare alla difesa qualunque prova in suo possesso tendente a scagionare l'imputato, e tale era la testimonianza di Toller se corrispondeva a verità. Se l'accusa avesse tenuto nascosta la storia di Toller e la difesa lo avesse scoperto, i Coolidge avrebbero avuto un pretesto per chiedere l'annullamento della sentenza. E cosa ancora più importante, almeno dal punto di vista di Cantoni, se l'accusa non avesse rivelato alla difesa le informazioni avute da Toller, avrebbe violato il codice etico. Sempre che Toller stesse dicendo la verità! Cantoni sospirò. Era di nuovo al punto di partenza. Doveva pur esserci il modo di accertare la veridicità della dichiarazione di Toller. E infatti c'era, realizzò improvvisamente. Trovare Heartstone. E pensava anche di sapere
come. Uno come lui con ogni probabilità aveva dei precedenti penali. Forse era stato arrestato recentemente, e in tal caso doveva esserci un fascicolo su di lui in archivio. Andò subito a controllare. Cantoni aveva visto giusto. Undici mesi prima William Lewis Heartstone era stato arrestato per ubriachezza molesta. Cercò l'indirizzo sul rapporto della polizia, ma lo spazio era in bianco. Guardò il nome dell'agente che lo aveva arrestato. McGivern. Forse lui avrebbe saputo come rintracciarlo. Tornato nel suo ufficio, chiamò la centrale di polizia. McGivern era fuori di pattuglia, ma l'agente che gli rispose si offrì di contattarlo via radio. Venti minuti più tardi, l'agente McGivern era al telefono, e alle cinque e mezzo di quella sera era seduto al tavolo di un bar a diversi isolati dal palazzo di giustizia a sorseggiare un caffè, mentre Cantoni gli esponeva l'incarico confidenziale che desiderava affidargli. «Sì, ricordo vagamente», disse McGivern dopo aver studiato la copia del rapporto che Cantoni aveva portato con sé. Il poliziotto era giovane, alto e atletico, con gli occhi azzurri, un sorriso simpatico che metteva in mostra la dentatura perfetta, e i capelli biondo sabbia che si stavano prematuramente diradando. «Che fine ha fatto? Non è mai stato processato, vero?» «No. Heartstone è stato rilasciato su cauzione e non si è presentato alla data stabilita per l'udienza.» «Non mi sorprende. Con tutto l'alcol che aveva in corpo, probabilmente non si ricordava nemmeno di essere stato arrestato.» «Pensa che sarebbe in grado di trovarmelo?» «Posso provarci, ma non garantisco niente. Era un vagabondo, se ben ricordo. Potrebbe non essere neanche più in città.» «Me ne rendo conto, ma è molto importante. Ah, un'altra cosa. Voglio che tutto questo resti tra noi. Non dovrà dire a nessuno quello che sta facendo e per chi lo sta facendo, inclusi colleghi, procuratori, chiunque.» McGivern corrugò le sopracciglia e guardò Cantoni con sospetto. «Non sarà qualcosa di illegale?» «No, non è illegale, ma il lavoro che sto svolgendo è molto delicato. Se la voce giungesse alle orecchie sbagliate, potrebbero essere guaì», replicò Cantoni, evitando di precisare che sarebbero stati guai per lui. Tirò fuori uno dei suoi biglietti da visita, vi scrisse dietro il numero telefonico e l'indirizzo di casa e lo porse all'agente. «Appena ha notizie di Heartstone, me lo faccia sapere. Giorno e notte.» McGivern si rigirò il biglietto da visita tra le dita, prima di infilarlo nel portafoglio. I due uomini si strinsero la mano, poi Cantoni se ne andò.
Bobby Coolidge si trovava sulla loggia di una residenza signorile di campagna. La grande casa padronale era una bizzarra combinazione di colonne ioniche, blocchi di cemento e tavole di legno grezzo. La costruzione era incompleta, e saloni arredati di tutto punto con tappeti persiani e lampade Tiffany si aprivano su stanze spoglie dalle pareti inesistenti e con il cielo per soffitto. Bobby girò lo sguardo sulla distesa ondulata di un prato verde e lussureggiante. Una bassa siepe separava la proprietà da un bosco tenebroso e sinistro, e un graticcio ad arco era il solo passaggio per accedere alla foresta. Sarah stava sotto le rose rampicanti abbarbicate alla struttura di legno dell'arco verniciato di bianco. Indossava un vaporoso abito bianco con crinolina e sembrava uscita da un ballo dato nella fastosa dimora del proprietario di una piantagione della Georgia nell'epoca precedente la guerra di secessione. Aveva un'orchidea nei capelli, e le lunghe ciocche bionde volarono dietro di lei come ali dorate mentre si girava di scatto e correva nella foresta, scomparendo e riapparendo tra gli alberi in un balenare di fluttuanti sottane bianche. Bobby guardò impotente la sua figura danzante addentrarsi sempre di più nell'oscurità del bosco. Poi, colto dal panico, corse per i corridoi della casa deserta cercando una via di uscita. All'improvviso si trovò in cima a una scalinata che scendeva a spirale nel vasto salone delle feste. Qualcuno gli stava andando incontro su per le scale, il volto nascosto nell'ombra, la mano tesa verso di lui. Poi alzò la faccia, e Bobby gridò guardando in fondo agli occhi del vecchio. La giovane guardia ascoltò la richiesta di Bobby di essere visitato da un medico e assicurò che avrebbe provveduto. Più tardi la annotò nel suo rapporto, insieme a quelle di numerosi altri detenuti. Nella sua cella, Bobby era sdraiato sulla cuccetta, l'avambraccio premuto contro le palpebre chiuse, domandandosi come avrebbe potuto superare un'altra notte, come avrebbe potuto sopravvivere al processo. Rifletté sul significato del sogno. La grandiosa casa lasciata a metà - le sue speranze. Il bosco buio e impenetrabile - il suo futuro. La fuggevole visione di Sarah che svaniva nel silenzio della foresta... su questo rifiutò di soffermarsi. Pensò all'inferno. Lo conosceva bene, perché era là che attualmente ri-
siedeva. La morte sarebbe stata preferibile alla prospettiva di passare il resto della sua vita in prigione, specialmente adesso che aveva intravisto uno scorcio di paradiso. Gli venne in mente che avrebbe potuto alzarsi e fare un po' di ginnastica. Stava perdendo peso, ma il suo corpo cominciava a diventare flaccido. Fare esercizio gli sarebbe stato utile per mantenersi in forma. Lo sapeva, ma non trovò energie per muoversi, né motivazioni. PARTE QUINTA Inquisizione 1 «Sì?» sbadigliò Cantoni. Il telefono lo aveva strappato a un sonno profondo. Le lancette fosforescenti della sveglia indicavano l'una di notte. «Signor Cantoni, sono l'agente McGivern. Mi spiace di averla svegliata, ma mi aveva detto di chiamare a qualsiasi ora.» Cantoni si sedette e accese la lampada sul comodino. «Ha trovato Heartstone? Dov'è?» «Al Cedar Arms, stanza 310. È un alberghetto dove alloggiano i vagabondi, tra la Terza e Wallace.» Cantoni annotò l'indirizzo sul blocco che teneva vicino al telefono. «Sarò lì tra mezz'ora», disse. «Non mi aspetti proprio davanti, potrebbe vederla.» «Non si preoccupi», lo rassicurò McGivern. «Sarò all'angolo con la Prescott, così posso tenere d'occhio l'entrata.» Cantoni riagganciò e si vestì. Ci teneva a incontrare Heartstone, ma avrebbe preferito che McGivern lo avesse trovato in un'altra notte. I fratelli Coolidge avevano optato per processi separati, e quello di Bobby era iniziato la settimana prima. Erano stati necessari diversi giorni per la selezione dei giurati, e adesso l'accusa stava presentando le prove. Mentre Heider portava avanti il processo, per Cantoni era un continuo dentro e fuori dall'aula, coordinando testimoni, cercando sottigliezze del diritto penale e occupandosi delle emergenze. Il ritmo era stato estenuante, e il lavoro non si fermava quando la corte si ritirava al termine della seduta. Alle cinque lui ed Heider erano di nuovo in ufficio a prepararsi per la successiva giornata di processo. Quella sera era tornato a casa alle dieci, completamente esausto.
Cantoni tirò fuori la macchina dal garage e si diresse verso il centro. Sbadigliò e accese la radio perché gli facesse un po' di compagnia. Finora non c'era stata alcuna digressione dal copione che lui ed Heider avevano così accuratamente orchestrato. Certo, finora i testimoni erano stati tutti poliziotti coinvolti nell'indagine e alcuni civili, come i parenti delle vittime, chiaramente schierati dalla loro parte. La fase cruciale, quella che avrebbe collegato i Coolidge con il delitto, sarebbe cominciata il giorno seguente, quando Heider avrebbe chiamato alla sbarra Roger Hessey, perché conducesse la giuria fino alla festa a casa di Alice Fay, seguito dalle persone che erano state presenti e avevano assistito alla rissa. Dopo di loro sarebbe toccato a due ragazzi, ora uomini adulti, che avevano parlato con Richie Walters ed Elaine Murray fuori del cinema la sera del delitto e furono le ultime persone a vederli vivi. Il signor Shultz avrebbe raccontato alla giuria della gara tra le due automobili in Monroe Boulevard, e diverse persone bene informate avrebbero descritto la macchina a bordo della quale Bobby e Billy Coolidge si trovavano la sera del 25 novembre 1960. Thelma Pullen avrebbe raccontato alla giuria della ragazza che aveva visto correre attraverso il suo cortile dopo che i cani l'avevano svegliata. Il dottor Webber avrebbe spiegato come gli occhiali avevano permesso di risalire a Esther. Il dottor Trembler avrebbe identificato gli occhiali come appartenenti a Esther. Il dottor Hollander avrebbe dato ai giurati una lezione su ipnosi e amnesia ed esposto come aveva curato Esther. Infine Esther avrebbe testimoniato, e il dottor Beauchamp avrebbe concluso lo show con una descrizione dettagliata della causa della morte, supportata da alcune delle fotografie più macabre e raccapriccianti che Cantoni avesse mai visto. Se da un lato Cantoni era eccitato per come stava andando l'aspetto tecnico della causa, dall'altro era contrariato dal misero spettacolo offerto dalla difesa. Shaeffer sembrava confuso e preoccupato. Aveva sollevato poche mozioni preprocessuali che lui ed Heider avevano previsto, e anche quelle erano state poco approfondite e mal argomentate. Il giudice Samuels, che presiedeva la corte, aveva perso la pazienza con Shaeffer più di una volta a causa della sua scarsa preparazione. Cantoni adesso sentiva più che mai l'urgenza di chiarire il mistero attorno alla storia di Toller. Non desiderava aiutare la difesa, ma possedeva un forte senso della giustizia. Shaeffer stava facendo un lavoro così inefficiente che la verità non sarebbe mai emersa da quel processo. Il che rendeva
cruciale il suo incontro con Heartstone. Cantoni parcheggiò dietro la macchina di McGivern, e i due scesero dalle rispettive auto. L'agente gli porse una foto segnaletica di Heartstone. Cantoni era sempre sconcertato da quello che la vita poteva fare agli esseri umani. La faccia sulla fotografia era lunga e scarna, con guance scavate e denti marci visibili tra due labbra fessurate e deturpate da cicatrici. Heartstone non era il peggiore esemplare di uomo disperato che Cantoni avesse visto, ma evocava forti sensazioni di pena e repulsione. «Andiamo», disse Cantoni. «Quando arriviamo all'hotel voglio che lei aspetti fuori. Devo parlare con lui da solo.» «Potrebbe essere pericoloso», obiettò McGivern. «Me ne rendo conto, ma non si può fare diversamente.» L'entrata del Cedar Arms era una stretta porta di vetro sulla quale era fissato con del nastro adesivo un cartello con la scritta CAMERE IN AFFITTO. Non c'era portineria. Una rampa di scale rivestite di linoleum saliva verso un pianerottolo illuminato da una lampadina da pochi watt. Le pareti scrostate trasudavano odore di chili in scatola. Cantoni cercò di respirare il minimo indispensabile. Il numero della stanza era appeso sulla porta a testa in giù, attaccato soltanto al chiodo inferiore. Cantoni dubitava che la porta avesse visto una mano di vernice da quando l'edificio era stato costruito. Bussò energicamente. Da una camera in fondo al corridoio arrivava il suono di una radio. Nella stanza di Heartstone le molle di un letto cigolarono e una voce biascicò un poco cordiale: «Chi diavolo è?» «Signor Heartstone», chiamò Cantoni a bassa voce, bussando di nuovo. «Sto arrivando, dannazione», disse la voce, e il rumore di passi mal coordinati risuonò nella stanza. La serratura scattò e la porta si schiuse. La faccia della foto segnaletica sbirciò fuori attraverso la fessura. Cantoni fu quasi sopraffatto dall'alito dell'uomo. Non ebbe bisogno di vedere i suoi occhi vacui e iniettati di sangue per capire che aveva bevuto parecchio. La vista di un uomo con la giacca ebbe su Heartstone l'effetto di una doccia fredda. Il suo quoziente di intelligenza era basso, ma compensato in parte da una certa astuzia animale. Nel suo ambiente gli uomini vestiti a quel modo significavano guai, solitamente con la legge. Non disse niente e attese che si identificasse. Cantoni gli passò un biglietto da visita attraverso la fessura. «Signor Heartstone, mi chiamo Al Cantoni. Sono della procura distrettuale e ho bisogno del suo aiuto per un caso di cui mi sto occupando.»
Aveva usato di proposito le parole «ho bisogno del suo aiuto». Immaginava che fosse passato molto tempo dall'ultima volta che qualcuno aveva chiesto il suo aiuto, o che lui era stato in grado di offrirne. «Di che si tratta?» domandò Heartstone, incuriosito. «Preferirei non discuterne stando qua fuori, dove altri possono sentirci», replicò Cantoni in un tono che sperava suonasse cospiratore. Per un momento Heartstone tentò di valutare le possibili alternative, ma l'impresa si dimostrò eccessiva per le sue capacità e concluse che la cosa più semplice era lasciar entrare Cantoni. La stanza puzzava di vestiti sporchi e corpi non lavati. Un letto sfatto era collocato sotto una finestra aperta sulla strada, attraverso la quale entravano i rumori della notte. Qualcuno aveva messo un centrino di pizzo sopra il cassettone. Qualcun altro lo aveva macchiato. Cantoni si sedette su una poltrona malridotta con accanto una vecchia lampada a piantana mentre Heartstone andava al lavandino attaccato a una parete a gettarsi un po' d'acqua fredda in faccia. Lo vide fissare per un momento la propria faccia riflessa in un piccolo specchio scrostato appeso sopra il lavandino e poi fregarsi gli occhi, come se stentasse a credere a quel che vedeva. Heartstone si asciugò la faccia e si sedette sul bordo del letto, di fronte a Cantoni. Sul comodino c'erano una bottiglia di whisky scadente piena per metà e un bicchiere. Heartstone si versò da bere e buttò giù una sorsata, tossì e si pulì la bocca con il dorso della mano, poi, ricordandosi improvvisamente della presenza di Cantoni, gli offrì la bottiglia. «No, grazie, signor Heartstone», rifiutò educatamente Cantoni. «Come le pare», bofonchiò Heartstone, riempiendosi di nuovo il bicchiere. Pareva che l'alcol lo rendesse più sobrio. «Sono qui per chiederle delle informazioni riguardanti un fatto accaduto tempo fa...» Heartstone scattò in piedi. Sembrava più saldo sulle gambe di quando si era seduto, e la sua faccia era più cattiva. «Se è per quella vecchia storia del bar, può anche andarsene. Io non ho fatto niente. È stato quell'altro figlio di puttana che...» «Quel che voglio sapere non ha niente a che vedere con quell'incidente, signor Heartstone», lo rassicurò Cantoni. Heartstone sembrò calmarsi e si rimise a sedere. A ogni buon conto, Cantoni lanciò un'occhiata alla porta e alla finestra, valutando le possibili vie d'uscita nel caso l'uomo fosse diventato violento, quindi girò lo sguardo attorno per vedere se ci fosse qualcosa che eventualmente potesse esse-
re usato come un'arma. Heartstone prese la bottiglia, tenendola per il collo. «Lei si trovava a Portsmouth, nel 1960 e 1961?» «Certo», rispose sospettosamente Heartstone. «Sono sempre stato qui.» «Dove abitava a quell'epoca?» Heartstone si passò la mano libera davanti alla faccia, come cercando di aprirsi un varco tra le ragnatele che velavano i corridoi della sua memoria appannata dall'alcol. «Merda, non lo so», disse infine. «Abitava con qualcuno di nome Ralph?» La faccia di Heartstone si rabbuiò e la sua voce assunse una vibrazione di potenziale violenza. «Perché mi chiede di Ralph? Non lo vedo da anni. Se n'è andato in Arizona.» «Vogliamo parlare con lui.» «Di cosa? Che storia è questa?» Cantoni decise che era ora di parlare chiaro. «Riteniamo che Ralph abbia ucciso una ragazza nel gennaio del 1961.» Non vide la bottiglia, ma sentì il ringhio animalesco che uscì dalla gola di Heartstone quando lo colpì alla tempia. Si accasciò a terra, momentaneamente accecato dal dolore, battendo la testa. L'impatto con il pavimento fu duro, e quello dello scarpone di Heartstone contro la sua nuca fu ancora più duro. Quando riprese i sensi era passata mezz'ora e la stanza era vuota. Heartstone se l'era svignata con tutta la sua roba. Il piccolo armadio era aperto e vuoto. Due cassetti erano semiaperti. Cantoni poteva vedere tutto questo dalla sua posizione sul pavimento. Sentiva un terribile dolore alla testa che peggiorò quando tentò di alzarsi. Strinse i denti e serrò gli occhi, ma poté solo rimettersi giù. Si sentiva un perfetto idiota. Come aveva fatto quell'alcolizzato a coglierlo di sorpresa? Non si sarebbe mai aspettato che si muovesse con tanta rapidità. Tentò di nuovo di alzarsi, e questa volta ce la fece rotolando sul fianco e mettendosi in ginocchio, riuscendo anche a non tagliarsi con le schegge di vetro sparse tutt'intorno. Si tastò la testa. Era abbastanza dolorante da strappargli una smorfia, ma miracolosamente non sanguinava. Si alzò e andò al lavandino a lavarsi la faccia. Si domandò perché McGivern non fosse salito a cercarlo, poi ricordò di avergli detto di aspettare di sotto. Che imbecille era stato. Supponeva che Heartstone ormai fosse lontano. Doveva esserci un'uscita sul retro. Se fosse passato dal davanti McGivern lo avrebbe fermato, e comunque sarebbe salito a vedere perché lui non era sceso. Stava cominciando a concludere di essersi meritato il
calcio alla testa che Heartstone gli aveva rifilato. Aveva fatto proprio un bel capolavoro. Appena se la sentì si avviò cautamente giù per le scale. McGivern era fuori, appoggiato a una macchina, e vedendolo uscire barcollando dall'albergo gli corse incontro. «Che cosa è successo?» «Mi ha colpito con una bottìglia di whisky e qualcos'altro», rispose Cantoni. «Si sente bene?» «Credo di sì.» «Diramerò la descrizione di Heartstone per radio. Lo prenderemo.» «No», disse in fretta Cantoni. Tutto quello che stava facendo era all'insaputa di Heider e potenzialmente dannoso alla causa. Non poteva rischiare che ne giungesse voce al suo superiore. McGivern gli rivolse un'occhiata perplessa, poi alzò le spalle. «Almeno lasci che la porti all'ospedale a fare i raggi.» «D'accordo. Ma prima voglio fare un salto alla prigione. C'è un detenuto con cui devo parlare.» L'entrata principale della prigione della contea faceva pensare al portale di un castello medioevale. Cantoni suonò un campanello elettrico che sembrava anacronistico incassato tra i freddi blocchi di pietra, e un attimo dopo il cancello automatico a sbarre di ferro rosso si aprì. Cantoni salì la breve rampa di scale dalla quale si accedeva a un'area di ricezione circolare. Vedendolo arrivare, la guardia seduta dietro il bancone posò la copia di True Detective che stava leggendo, tirò giù i piedi dalla scrivania e si alzò. «Sono della procura distrettuale. Ho urgenza di vedere un detenuto di nome Eddie Toller.» La guardia controllò il tesserino di riconoscimento di Cantoni, poi glielo restituì. «Lo faccio chiamare subito», disse, premendo un tasto dell'interfono. Si sentì un crepitio e una voce rispose. «C'è una visita per il detenuto Eddie Toller», annunciò la guardia. Ci fu un breve silenzio, poi la voce all'interfono disse: «Non mi risulta che ci sia nessun Eddie Toller qui. Sicuro che il nome sia giusto?» La guardia guardò Cantoni e lui annuì. «Controlla nello schedario, ti spiace? Ho qui un procuratore distrettuale che vuole parlargli.»
Un'altra pausa. «Trovato», disse la voce. «È stato rilasciato da una settimana e mezzo.» «Gli chieda perché», disse Cantoni. Stava succedendo qualcosa che non gli piaceva affatto. «La procura ha lasciato cadere le accuse», disse la voce. «È tutto quello che so.» «Lasciate cadere? Chi è il procuratore che ha preso il provvedimento?» «L'ordine di scarcerazione non lo specifica.» McGivern accompagnò Cantoni all'ospedale e attese finché lo lasciarono andare, alle quattro del mattino. Poi lo riportò alla sua macchina. Cantoni non desiderava altro che andare a dormire, ma aveva preso una decisione che gli avrebbe negato questo piacere. Non era stato facile, perché teneva davvero molto al suo lavoro e quello che stava per fare poteva costargli caro. Inoltre non era nemmeno certo che fosse la scelta giusta, non solo perché temeva che avrebbe aiutato a mettere in libertà due assassini, ma perché la sua soluzione era un compromesso. In cuor suo, sapeva che avrebbe dovuto mettere al corrente il giudice Samuels di quel che sapeva, ma questo avrebbe posto fine alla sua carriera. Invece, aveva scelto una via di mezzo. Arrivato al palazzo di giustizia, mostrò il tesserino alla guardia notturna in servizio e salì in ascensore agli uffici della procura. Faceva uno strano effetto camminare per quei corridoi deserti immersi nella penombra, e a ogni angolo gli sembrava di sentire dei passi, o qualcuno respirare. Trovò quello che stava cercando e portò il materiale alla fotocopiatrice. Alle sei ritornò a casa, si fece la doccia e la barba, consumò una colazione sostanziosa e si vestì per andare in ufficio. 2 «Il suo prossimo teste, signor Heider», disse il giudice Samuels. «Lo Stato chiama a testimoniare Roger Hessey, vostro onore.» Mark Shaeffer guardò l'ufficiale giudiziario convocare Hessey dal corridoio. Hessey varcò le elaborate porte dell'aula vestito più come uno scapolo in giro a divertirsi che come un testimone a un processo per omicidio. Era nervoso e la sua mimica facciale passava continuamente da una solennità mortale a un sorriso esagerato e del tutto fuori luogo mentre Philip Heider ripercorreva con lui le tappe degli eventi del 25 novembre 1960.
Shaeffer si fregò gli occhi, desiderando di poter fare un sonnellino. Quel processo lo stava sfinendo. La notte lavorava fino a tardi, e poi dormiva poco e male. Diede un'occhiata a Coolidge, seduto al suo fianco. Aveva di nuovo lo sguardo perso nel vuoto. Si chinò a bisbigliargli qualcosa, giusto per dare l'impressione che l'imputato partecipasse in qualche modo al proprio processo. Mark aveva sottolineato con insistenza l'importanza che una giuria avrebbe attribuito a un atteggiamento di indifferenza da parte dell'accusato, ma Coolidge era passato attraverso la prima settimana di processo senza mostrare alcun segno di coinvolgimento. A volte i suoi occhi apparivano vitrei, quasi che, come uno zombie, fosse già morto e solo il suo corpo fosse sottoposto a giudizio. Mark aveva preso in seria considerazione la possibilità di chiedere una sospensione del processo affinché Coolidge venisse visitato da uno psichiatra per stabilire se fosse o meno in grado di coadiuvare la difesa, ma aveva concluso che il suo assistito non era mentalmente incapace, aveva soltanto perso la volontà di lottare. Il giorno prima, quando la corte si era ritirata, Mark aveva guardato Bobby mentre lo conducevano in cella ed era stato improvvisamente assalito da un senso di vertigine simile all'angosciante disorientamento che accompagna i déjà vu. Forse era l'angolazione del sole, ma la vista di Coolidge in manette, la testa china, le spalle curve, la figura che rimpiccioliva allontanandosi verso il fondo del lungo corridoio, una scena alla quale si era trovato ad assistere in numerose occasioni, gli aveva fatto un effetto terribile. Si era reso conto con spaventosa chiarezza delle proprie responsabilità, ed era stato sul punto di arrendersi per la disperazione. Quando Shaeffer si era girato verso Coolidge, aveva scorto Sarah seduta in ultima fila. La sua presenza lì lo aveva irritato. Aveva fatto in modo che lei potesse andare a trovarlo a suo piacimento, ma si era sempre rifiutata, costringendo Mark a raccontare al ragazzo un sacco di fandonie. Sarah aveva evitato Mark sin da quel giorno nel suo appartamento, e lui un po' alla volta aveva cominciato a capire che lo aveva usato. Avrebbe voluto affrontarla, ma il senso di colpa per il desiderio che provava per lei lo rendeva impotente. Si domandò perché insistesse ad assistere ogni giorno al processo e concluse che voleva vedere avallate le sue supposizioni sulla colpevolezza di Bobby, in modo da poter così razionalizzare sia il suo abbandono di un uomo che l'amava, sia le bugie che aveva raccontato a lui. «Signor Hessey, l'imputato era membro di una banda giovanile chiamata
i Cobra, non è vero?» domandò Heider. «Sì», rispose Hessey. Il giudice Samuels alzò lo sguardo dai fogli che stava leggendo e lo volse verso Shaeffer per vedere la sua reazione all'ultima domanda di Heider, ma il difensore sembrava ignaro del pericolo che si profilava così chiaramente. Gli dispiaceva per Shaeffer. Sembrava un bravo ragazzo, ma non avrebbe mai dovuto accettare un caso di quel calibro. Rendendosi conto dell'inesperienza del giovane avvocato, Samuels aveva cercato di dargli velati suggerimenti su come condurre la difesa, ma Shaeffer sembrava distratto e nervoso, e non recepiva i suoi messaggi. «Qual era la finalità di questa banda, signor Hessey?» «Che... uh... cosa facevamo, intende?» replicò lui, incerto. Si era rivelato un testimone ansioso, sempre con lo sguardo rivolto al giudice o ai giurati in cerca di approvazione quando rispondeva a una domanda. «Esattamente.» Hessey si agitò sulla sedia e passò le mani lungo i braccioli. «Be', si stava insieme. Si facevano delle feste...» «I membri della banda non erano costantemente coinvolti in risse e?...» «Signor Shaeffer», tuonò il giudice Samuels, «non intende opporsi a questa domanda?» Mark alzò di colpo gli occhi dai suoi appunti. Era così intento a pensare a Sarah che gli erano sfuggite le ultime domande di Heider. La sua confusione fu palese, e Samuels avvampò di indignazione rendendosi conto che l'avvocato non sapeva di che cosa stesse parlando. L'incompetenza di Shaeffer lo stava costringendo a sconfinare discutibilmente oltre i limiti del suo ruolo nel processo, tuttavia la sua coscienza e il suo senso dell'etica professionale gli rendevano impossibile starsene lì a guardare giorno dopo giorno mentre Heider passava come un rullo compressore sul suo avversario. «Mi spiace, io...» balbettò Shaeffer. Samuels lo incenerì con un'occhiata, poi rivolse la propria ira contro Heider. «Sta diventando sempre più evidente a questa corte che gli avvocati di entrambe le parti hanno dimenticato la regola della pertinenza nell'esame dei testimoni. Signor Heider, una persona della sua esperienza dovrebbe sapere che tutta questa linea di interrogatorio non è ammissibile.» Heider si alzò, accettando la sfida del giudice. Non sembrava affatto piccato per il rimbrotto; anzi, il suo atteggiamento era ossequioso. «Vostro onore, se questa linea di interrogatorio è impropria, mi guarderò bene dal
seguirla oltre. Non essendoci state obiezioni da parte della difesa, supponevo che le domande fossero pertinenti.» Quel figlio di puttana aveva sempre la risposta pronta, pensò Samuels. Con quella replica non avrebbe perso punti agli occhi dei giurati, e per di più aveva fatto fare una brutta figura a Shaeffer. Heider riprese a esaminare il teste, guidandolo attraverso gli eventi alla festa di Alice Fay. Infine gli domandò quale fosse l'atteggiamento di Bobby e Billy nei confronti dei ricchi. Shaeffer, come per rimediare alla sua precedente distrazione, sollevò numerose obiezioni, molte delle quali vennero respinte. «Non ho altre domande», concluse Heider. «A lei il teste, signor Shaeffer.» «Grazie, vostro onore.» Mark controllò un'ultima volta i suoi appunti. Era eccitato dalla prospettiva di controinterrogare Hessey. Per la prima volta dall'inizio del processo, aveva la possibilità di segnare qualche punto. Lo Stato stava basando l'accusa sulla credibilità di Esther Pegalosi. L'aveva collegata alla scena del delitto tramite i suoi occhiali. Mark ora si preparava a distruggere l'anello di congiunzione tra la testimone chiave e l'omicidio. «Signor Hessey, nel 1960 lei usciva spesso con Esther Pegalosi, non è vero?» «Suppongo di sì.» «Lei e la signora Pegalosi avevate rapporti sessuali, è esatto?» Hessey abbassò la testa e sorrise imbarazzato. «Io e praticamente tutti quelli che conoscevo.» Heider balzò in piedi, obiettando con vigore, mentre gli spettatori ridevano. «Signor Hessey, si limiti a rispondere alle domande», intervenne il giudice Samuels. «Signor Hessey, Esther portava gli occhiali?» «Non sempre. Li usava in classe, o al cinema. Situazioni del genere. A volte li teneva anche dopo.» «È corretto dire che nel 1960 il Belvedere era molto frequentato da giovani coppie in cerca di intimità?» Hessey sorrise. «Sì, signore», confermò con un po' troppo entusiasmo, suscitando di nuovo l'ilarità del pubblico. «Lei è mai stato in intimità con una ragazza al Belvedere?» «Sì, signore», rispose Hessey con ancora maggiore entusiasmo, facendo
ridere anche Philip Heider e il giudice Samuels. «Lei è stato in intimità con una ragazza al Belvedere approssimativamente una settimana prima dell'omicidio di Richie Walters ed Elaine Murray?» Heider si rannuvolò in volto e l'eco delle risa si spense nell'aula. «Dove vuole arrivare?» bisbigliò Heider a Cantoni. Il suo assistente scosse la testa e si concentrò sulle domande. «Sì, signore. Circa una settimana prima.» «Come mai se lo ricorda?» «Be', ricordo che quando trovarono Richie Walters con gli amici si scherzava sul fatto che avrebbe potuto toccare a me, visto che ero stato nello stesso posto soltanto la settimana prima.» «Dunque ne è assolutamente certo?» «Sì.» «Prima di appartarvi nel parco, lei e quella ragazza eravate stati da qualche parte?» «Al cinema.» «Vuole dirci chi era la ragazza?» «Esther.» «Quando andaste al parco, Esther portava ancora gli occhiali?» «Sì.» «Come mai lo ricorda?» Hessey si fece improvvisamente serio e imbarazzato. «Ecco... mentre eravamo lì in macchina avevo cercato di toglierglieli, ma lei... be', non ci stava.» «A togliere gli occhiali?» «No, a... sì, insomma... a fare sesso.» «Per quale motivo?» «Avevo iniziato a uscire con un'altra ragazza», spiegò Hessey, stringendosi nelle spalle. «Immagino che fosse gelosa.» «Quando le disse che non voleva fare sesso, lei si arrabbiò?» Hessey abbassò la testa. «Sì, abbastanza.» «Che cosa fece?» «Be', Esther stava cominciando a farmi una scenata per quella ragazza, non ricordo nemmeno più come si chiamasse. Io alzai la voce e lei corse fuori dalla macchina.» «Le corse appresso?» Hessey annuì.
«Deve parlare a voce alta, signor Hessey.» «Sì.» «In quale zona del parco vi trovavate quando Esther saltò giù dalla macchina?» «Nel prato.» «Il prato? Si riferisce allo stesso prato dove è stato trovato il corpo di Richie Walters?» «Sì. Era lì che si andava, di solito. D'estate quasi non c'era posto per parcheggiare.» «Che cosa fece quando raggiunse Esther?» Hessey mugugnò qualcosa. «Risponda in modo chiaro, signor Hessey. Che cosa fece?» «La presi a sberle.» «E gli occhiali?» «Le saltarono via.» Nell'aula corse un mormorio di sorpresa. Molti dei giurati stavano scrivendo freneticamente. Heider e Cantoni erano impegnati in una consultazione a raffica. «Non ho altre domande», dichiarò Shaeffer. Sentiva il sangue pulsargli nelle tempie e gli tremavano le mani. «Signor Heider?» disse il giudice Samuels, segretamente divertito dalla costernazione del procuratore. «Un momento, vostro onore, se non le spiace.» Shaeffer si volse a guardare come Bobby avesse reagito alla bomba che aveva fatto scoppiare. Per la prima volta dall'inizio del processo, Coolidge era proteso in avanti, attento. Poi Mark si girò verso Sarah, ma lei evitò il suo sguardo. Heider e Cantoni terminarono la loro conversazione. «Signor Hessey, lei aveva l'abitudine di prendere a schiaffi le donne, quando era più giovane?» domandò Heider. «Come ho già detto, a quei tempi ho fatto molte cose di cui non sono fiero.» «Aveva mai dato uno schiaffo a Esther, prima?» «Sì.» «Le aveva mai fatto saltare via gli occhiali?» Hessey pensò per un momento. «Una volta, credo.» «E che cosa fece Esther?» Hessey aveva l'aria di voler sprofondare. «Pianse.» «No, signor Hessey. Mi riferivo agli occhiali.»
Hessey fece una breve pausa. «Li raccolse, suppongo.» «E che cosa fece quando lei le fece saltare via gli occhiali quella volta al parco?» Hessey fissò Heider a bocca aperta, poi scosse la testa. «Non lo ricordo.» «La accompagnò a casa in macchina dal parco?» «Sì, mi pare proprio di sì.» «È probabile che si fosse dimenticata i suoi occhiali?» «No», rispose pensosamente Hessey. «Ricorda se li aveva raccolti?» «No, non ricordo.» «Ma non giurerebbe il contrario?» «No. Non sono sicuro.» «Le era caduta la borsetta quando lei l'aveva presa a schiaffi, signor Hessey?» «No... non mi sembra.» «Le cadde anche un accendino, oltre agli occhiali? E un pettine a coda di plastica blu?» «No, solo gli occhiali.» Heider sorrise al testimone. «Non ho altre domande.» Il giudice Samuels guardò Mark per vedere se desiderasse porre qualche altra domanda. Mark si limitò a scuotere la testa. «Penso che sia un buon momento per aggiornare la seduta», decretò il giudice. «La corte tornerà a riunirsi domani mattina alle nove e mezzo.» «Ci ha fatti a pezzi, eh?» commentò amaramente Bobby mentre la giuria si ritirava. «No, penso che abbiamo comunque messo a segno dei punti con Hessey», replicò Mark, ma non ci credeva nemmeno lui. Era scornato. Si rendeva conto di non aver fatto un buon lavoro, ma aveva sperato di riscattarsi con Hessey. Adesso non gli restava niente. Heider aveva completamente neutralizzato la testimonianza di Hessey sugli occhiali, e inoltre aveva stabilito che Esther ne era ancora in possesso una settimana prima del delitto. «A domani, avvocato», disse sarcasticamente Bobby mentre la guardia lo portava via. Mark, con un'ombra di amarezza, guardò Heider andarsene, poi cominciò a raccogliere le sue carte. «Mark, ti devo parlare.» Mark alzò lo sguardo. Albert Cantoni era alle sue spalle. Aveva parlato a voce tanto bassa che Shaeffer lo aveva udito a malapena.
«Possiamo vederci nel tuo studio, stasera?» «Certo», disse Mark, perplesso. Cantoni si stava guardando attorno, come se avesse paura che qualcuno lo vedesse parlare con lui. «Qual è il problema?» «Non posso spiegartelo qui. Promettimi che non accennerai a nessuno del nostro incontro. Nemmeno a tua moglie.» Mark fece per chiedergli perché tanti misteri, poi cambiò idea. Cantoni era spaventato, e lui lo rispettava abbastanza per accettare la sua richiesta senza discutere. «Non ne farò parola.» «Alle otto», disse Cantoni, poi lasciò in fretta l'aula. Albert Cantoni stava aspettando nell'ombra dell'atrio quando Mark raggiunse il palazzo dove aveva l'ufficio. Rifiutò di parlare finché furono al sicuro nello studio di Mark. Appena chiusa la porta, posò la valigetta sulla scrivania. «Ci sono alcune condizioni che voglio mettere in chiaro prima che io ti dica qualunque cosa», cominciò. Mark notò la tensione nella sua voce e il nervosismo con cui le sue dita tamburellavano sul piano della scrivania. «In primo luogo, devi giurarmi che mai e per nessun motivo parlerai a qualcuno di questo incontro. Se lo facessi, potrebbe costarmi il posto.» «Al, ha qualcosa a che vedere con Bobby? Perché in tal caso, non so se mi sia eticamente possibile promettertelo.» «Be', ti converrà fare uno strappo all'etica, perché quello che ho da dirti potrebbe farti vincere questa causa, ma non ti dirò niente finché non avrò la tua parola.» Mark esitò, ma alla fine acconsentì alla richiesta di Cantoni. «Bene. Ora, parte di quello che sto per dirti potrebbe creare le basi per l'annullamento del processo, ma solo se io fossi chiamato a testimoniare. Ho la tua parola che non tenterai mai di citarmi come testimone, qualunque cosa io ti dica?» «Sei a conoscenza di qualcosa che potrebbe portare all'invalidamento del processo e vuoi farmi promettere che non ti citerò?» ripeté Mark, sbigottito. «Esatto. Le altre informazioni che ti darò potrebbero discolpare il tuo cliente, quindi quello che so potrebbe non essere necessario. Ma, in ogni caso, non potrai appoggiarti a me.» «Ovviamente no», commentò Mark. «Ti ho dato la mia parola.»
Cantoni sospirò e si allungò sulla sua sedia. Per la mezz'ora seguente raccontò di Eddie Toller, le sue dichiarazioni e la sua successiva scomparsa, e dell'incontro che lui aveva avuto con Heartstone. Parlò inoltre delle ricerche che il dottor Rohmer aveva svolto dietro sua richiesta. «Il problema è che niente di quello che ho scoperto può essere provato. Toller è sparito, quindi non può testimoniare, e Heartstone ha tagliato la corda. Ci sono buone probabilità, dati i precedenti di Toller, che la sua storia sia una frottola inventata allo scopo di strappare un accordo. E Heartstone potrebbe essere scappato per ragioni indipendenti dall'omicidio di Elaine Murray.» «Deve pur esserci qualcosa che possiamo fare», disse Mark. «Ci ho pensato, e ho un'idea. La reale importanza della storia di Toller è che colloca Elaine Murray in quella cantina, ancora viva, quasi sei settimane dopo che i Coolidge in teoria l'avrebbero uccisa. Il tuo cliente ha un alibi per le prime settimane di gennaio?» Mark rifletté per un momento, poi il suo volto si illuminò. «Erano in ospedale. Avevano avuto un incidente d'auto o qualcosa del genere. Aspetta, ce l'ho nei miei appunti.» Scartabellò le sue carte finché trovò il foglio giusto. «Sì. Dal 3 gennaio 1961 fino ai primi di febbraio.» «Bene», disse Cantoni. «Se riesci a dimostrare che Elaine Murray in gennaio era ancora viva, otterrai il proscioglimento.» «Ma come posso farlo?» «Chiedi che il cadavere venga riesaminato.» «Cosa?» «Devi far riesumare il corpo.» Mark lo fissò come chiedendosi se stesse dicendo sul serio. Cantoni ricambiò lo sguardo senza traccia di umorismo. Mark sentiva che gli eventi gli stavano sfuggendo di mano. Cantoni gli stava chiedendo troppo. «E come dovrei fare, secondo te? Dici che non vuoi essere coinvolto. Non vedo come potrei convincere il giudice Samuels a firmare l'autorizzazione.» L'atteggiamento negativo di Shaeffer irritò Cantoni. Si era aspettato che Mark fosse eccitato, invece sembrava spaventato dalle sue nuove responsabilità. «Ho pensato anche a questo. Recluti i migliori ginecologi di Portsmouth e li riunisci per un consulto. Testimonieranno che l'acidità della vagina avrebbe distrutto ogni traccia di sperma poco dopo la morte della Murray. Dopo di che mostri a Samuels il referto dell'autopsia del dottor Beau-
champ, e hai le basi per la tua richiesta.» Mentre Cantoni parlava, Mark buttò giù degli appunti. L'idea era buona, ma una volta pagati i medici sarebbe rimasto ben poco del denaro avuto da Sarah. Di quel passo, avrebbe finito per lavorare senza alcun margine di guadagno. «Ho portato qualcos'altro che potrebbe esserti utile», aggiunse Cantoni, mettendo un fascio di fogli sulla scrivania. «Questa è una copia della trascrizione delle sedute di ipnosi di Esther Pegalosi. Ti aiuterà a preparare il controinterrogatorio.» Cantoni si alzò e chiuse la sua valigetta. «Io... ti sono veramente grato per tutto questo», disse Mark. «Mi rendo conto del rischio che stai correndo e...» «Non ringraziarmi, Mark. Prega solo che io non ti abbia aiutato a mettere in libertà un assassino.» 3 «Che ne pensa?» domandò Mark. «Ritengo ci siano ottime probabilità che Esther non abbia visto uccidere il ragazzo», fu la risposta del dottor Nathan Paris. Mark tirò un profondo sospiro di sollievo. Si sentiva preparato a controinterrogare Esther Pegalosi, ma aveva bisogno di pezze d'appoggio se voleva convincere i giurati che la sua testimonianza non era attendibile. Il dottor Paris vantava un diploma dell'American Board of Psychiatry and Neurology, era docente universitario di psichiatria e un rispettato autore e conferenziere nel campo della memoria e dell'ipnosi. In aggiunta alle sue credenziali, aveva anche l'aspetto da bravo ragazzo e l'atteggiamento franco e diretto che influenzavano positivamente una giuria. Erano appena tornati all'ufficio di Mark dal tribunale dopo che il dottor Hollander aveva testimoniato. Come parte della sua deposizione, erano state sentite le registrazioni delle sue sedute con Esther Pegalosi. Il dottor Paris aveva avuto il permesso di ascoltarle per poterne dare una valutazione. Mark lo aveva preparato dandogli la trascrizione da studiare durante il fine settimana. «Per quale motivo pensa che stia mentendo?» domandò Mark. «Non sta necessariamente mentendo. Lei ha familiarità con il termine 'confabulazione'?» Mark scosse la testa.
«La parola latina fabula, da cui deriva, ha diverse accezioni: discorso, racconto, favola o rappresentazione. Per confabulazione normalmente si intende una conversazione appartata e di tono misterioso, ma in neuropsichiatria indica quel tipo di storia costruita per impressionare l'ascoltatore che è di fatto una rappresentazione della realtà a cui il narratore ricorre quando ha un vuoto di memoria. In altre parole, il paziente inventa una 'fabula' per compensare una lacuna della memoria. Lo si può riscontrare negli alcolizzati con danno cerebrale: magari sono ricoverati in ospedale da mesi, ma se gli domandi dove si trovavano il giorno prima ti rispondono che erano nel tal posto a divertirsi.» «La confabulazione è limitata a persone con danni cerebrali?» «No. Psichiatri e neurologi usano il termine riferendosi all'invenzione di una storia. C'è un interessante studio condotto nel 1954 da due ricercatori di Yale, Rubenstein e Newman. Volevano verificare la validità delle affermazioni di soggetti sotto ipnosi. Pensarono che un modo per controllare che i ricordi di fatti passati fossero autentici, e non si trattasse invece di confabulazione o suggestione, fosse mettere un soggetto in stato di trance ipnotica e chiedergli di immaginarsi dieci anni dopo e descrivere quello che stava accadendo. Se poteva descrivere quello che stava succedendo nel futuro, c'era di che dubitare della veridicità dei suoi ricordi di fatti passati. «I ricercatori tentarono l'esperimento con cinque soggetti, e riscontrarono che erano in grado di 'rivivere' esperienze future quando veniva loro suggerita un'età o una data. Il futuro che si creavano era plausibile e nell'ambito delle probabilità, in base a uno studio della personalità effettuato in precedenza su ciascuno dei soggetti. Dunque, in sostanza, sotto ipnosi si possono avere ricordi di cose realmente accadute, cose accadute solo nella fantasia, e cose mai accadute del tutto.» «E nel caso di Esther?» «Quando a una persona in trance ipnotica si somministra l'amytal allo scopo di ridurne ulteriormente lo stato di coscienza, questa viene a trovarsi in una condizione di grande suggestionabilità. Se un paziente soffre di amnesia, noi usiamo l'ipnosi o particolari farmaci per far sì che le sentinelle dei suoi ricordi repressi abbassino la guardia, lasciando che riemergano. Questa, però, è un'arma a doppio taglio, perché il paziente risulta molto più aperto alle suggestioni, intenzionali o meno, di chi lo interroga, dal momento che le sue difese psicologiche sono abbattute e le sue capacità di distinguere il reale dall'irreale indebolite. «L'impressione che ho avuto di Esther Pegalosi ascoltando i nastri e leg-
gendo la trascrizione è che sia una persona con un'autostima estremamente carente. Una volta ha anche tentato il suicidio. Anela a essere una donna forte e sicura di sé, e ha un disperato bisogno di amore. Io penso che il dottor Hollander, e in minore misura il detective Shindler, durante le sue sedute terapeutiche siano diventati figure paterne e oggetti di amore. Come tali, qualsiasi cosa potessero suggerire sarebbe stata prontamente accettata per paura di perdere il loro affetto, oltre che per il desiderio di compiacerli. «Esther inizialmente affermava di avere bevuto così tanto quella sera da non essere in grado di ricordare che cosa avesse fatto. Ed ecco la nostra lacuna della memoria, che aspetta solo una 'fabula' che colmi il periodo di tempo mancante. Posso indicare diverse occasioni durante le sedute di ipnosi in cui le domande riguardanti questioni cruciali sono state poste a Esther in modo tale da suggerire la risposta. Per esempio, nel nastro numero 5, le viene detto di essere andata in centro con i Coolidge dopo aver finito di bere il vino rubato. Poi le viene suggerito di essere passata da Monroe Boulevard per andare a casa. Lei respinge questa affermazione, sostenendo che abitualmente per tornare a casa dal centro passava per Marshall Road. E allora le viene detto 'ma avresti potuto passare anche da lì', intendendo Monroe Boulevard. Poi le si chiede di fare conto di essersi trovata in Monroe Boulevard la sera del delitto. «Inoltre, la stessa tecnica di far proiettare al paziente quello che vede su uno schermo immaginario si presta di per sé alla creazione di fantasie. E senta alcune delle altre cose che Hollander dice», aggiunse il dottor Paris, consultando alcune pagine della trascrizione che aveva contrassegnato con fermagli. «Ecco, qui, nel nastro numero 8, subito dopo averle somministrato l'amytal, le dice che può dimenticare, ricordare, o alterare il ricordo, a seconda delle sue esigenze. O sul nastro numero 10: 'Dicci quello che ricordi e non preoccuparti se è vero. Quello che ricordi sarà sicuramente vero'. Questi sono aperti inviti alla confabulazione. E c'è un'altra cosa che mi convince che ci siano forti probabilità che la storia di Esther sia frutto della sua immaginazione.» «Che cosa?» «Trovo inaccettabile l'intera tesi che abbia sviluppato un'amnesia a causa del trauma subito vedendo assassinare Richie Walters. Questa ragazza è stata esposta alla violenza per tutta la vita. Parla liberamente di aver visto il patrigno accoltellare sua madre. E poi l'inseguimento della polizia dopo la rapina al minigolf. E il patrigno che spara al suo amato cucciolo e la costringe a guardare. Ma in nessuna di queste circostanze è scattata l'amne-
sia. No, io...» Squillò il telefono. Erano passate le cinque e la segretaria di Mark se n'era già andata, quindi dovette rispondere lui. «Parlo con Mark Shaeffer?» domandò una donna. «Sì.» «Lei è quello che sta difendendo quel Coolidge?» «Sì, sono io.» «Ho qualche informazione da darle sul caso. Deve sapere come hanno torturato Esther.» «Prego?» disse Mark, credendo di non aver capito bene. «Esther non ha visto nessun omicidio. È la polizia che glielo ha fatto dire.» «Capisco», replicò stancamente Mark, domandandosi come mettere fine a quella conversazione. Un'altra delle numerose chiamate di mitomani che aveva ricevuto dall'inizio del processo. «Lei come fa a sapere che la polizia ha torturato Esther?» «Ho visto quello che le hanno fatto. Sono sua madre.» L'ometto pelato a torso nudo che aprì la porta aveva un aspetto vagamente scimmiesco. L'interno della casa era buio, in contrasto con la luce abbagliante del sole all'esterno. Dal soggiorno giungeva la telecronaca di una partita di baseball. «Sono l'avvocato Shaeffer», si presentò Mark. «La signora Taylor ha chiesto di vedermi.» «È a letto», replicò l'uomo con ostilità. Aveva in mano una lattina di birra, e con la mano libera si asciugò il sudore dal petto villoso. «Chi è?» chiese una voce dal retro della casa. «La stanza in fondo», disse l'uomo. Mark si aspettava che lo accompagnasse, ma invece tornò alla sua partita in televisione, lasciando che si arrangiasse da solo a localizzare la provenienza della voce. La signora Taylor era una montagna di carne puntellata contro una pila di cuscini. La faccia grassa e flaccida aveva un colorito cereo, e i capelli grigi erano scompigliati. Boccette di pillole e sciroppi erano allineati sul comodino accanto a una lampada e qualche rivista scandalistica. Su un tavolino era appoggiato un televisore portatile sintonizzato su una soap opera. «Si sieda», disse, indicando una sedia su cui erano ammucchiati vestiti sporchi. «Butti tutto a terra. Diamo un po' di lavoro a quel figlio di puttana
di mio marito.» L'ultima frase era stata pronunciata con voce abbastanza alta da essere sentita nel resto della casa. L'unico suono che giunse in risposta dal soggiorno fu la voce del cronista che annunciava un punteggio di tre a due. «Spiacente di non potermi alzare, ma sono malata.» Mark annuì comprensivamente. «Diceva di avere delle informazioni su Esther Pegalosi», la esortò. La madre di Esther scrollò la testa. «Non avrei mai dovuto lasciarla parlare con quel poliziotto», disse quasi tra sé. «Gli sbirri portano sempre guai.» «Quale poliziotto9» «Quel, come si chiama... Shindler. È lui che l'ha torturata.» «Questa 'tortura' a quando risale, signora Taylor?» «Era il 1961, appena dopo che è successo tutto il fattaccio. Adesso mia figlia è una diva della TV. Ma nessuno è venuto a intervistare me. Avrei potuto raccontare un paio di cosette interessanti. Quella ragazza mente per ciò che lui le ha fatto.» «Che cosa esattamente le ha fatto il detective Shindler?» La signora Taylor chiuse gli occhi e lasciò affondare la testa nei cuscini. «Esther non è mai stata su quella collina», disse dopo un momento. «L'hanno spaventata talmente che sarebbe stata pronta a dire qualunque cosa.» «In che modo l'hanno spaventata?» «Con la fotografia. Sa, da quando l'ha vista ha avuto continuamente incubi finché è andata via di casa, ed è stato anni dopo. Avevo anche pensato di fare causa a quello Shindler. Avrei fatto bene.» «Di che fotografia sta parlando?» domandò Mark, cominciando a spazientirsi. «Shindler la portò alla centrale e le fece vedere una fotografia della faccia mezza spappolata di quel ragazzo, Walters. Esther rimase così scioccata che se la sognava tutte le notti e si svegliava urlando.» «Ha mai chiesto a sua figlia se ha assistito all'omicidio di Richie?» «Certo che gliel'ho chiesto. Non ha visto un bel niente. Ma mi ha raccontato che Shindler voleva farle dire per forza che era là, e lei continuava a dire di no, e allora lui le ha fatto vedere la fotografia.» «E questo è accaduto nel 1961, subito dopo il delitto?» «Già. Le hanno fatto il lavaggio del cervello, glielo dico io. Da quando ha visto quella foto non è più stata la stessa. Ma una cosa è certa, ha sem-
pre negato di aver visto uccidere il ragazzo.» «Non posso farlo!» gridò Esther tra le lacrime. Shindler la teneva stretta, frenando a stento l'impulso di prenderla a sberle. «Sono tutte bugie!» «È la verità, Esther. Lo hai detto sia a me sia al dottor Hollander. Se avessimo pensato che stessi mentendo non ti avremmo fatto testimoniare.» Si sforzava di sembrare calmo, ma era in subbuglio dal momento in cui aveva ricevuto la sua telefonata. Era isterica, e lui aveva avuto paura che tentasse un'altra volta di uccidersi. Mentre correva da lei aveva pensato agli anni di laboriose indagini e meticolosi preparativi per arrivare a quel processo. Ormai mancava così poco. Non poteva andare tutto in fumo per i capricci di una bamboccia. «Non so più che cosa è vero e che cosa mi hai messo in testa tu», singhiozzò Esther. «Io non ti ho messo in testa proprio niente, Esther. Tu eri là...» «No.» «E hai visto Bobby e Billy Coolidge colpire Richie Walters alla testa fino a ridurla a una poltiglia sanguinolenta...» «No.» «E poi hanno preso quella ragazza e l'hanno violentata e strangolata...» Esther singhiozzò ancora più forte e cominciò a tremare. «E tu lo dichiarerai in tribunale, Esther...» «Oh, Dio.» «Altrimenti ti lascerò e non mi vedrai mai più. Hai capito?» Le sollevò il mento perché lo guardasse negli occhi. Lei non voleva. Aveva paura del fuoco. Vi vedeva dentro l'inferno. Ma lui non le diede scampo, tenendole il mento nella sua mano dura e callosa in modo che non potesse abbassare la testa. Esther avrebbe voluto morire. Il suo corpo era scosso da tremiti, la sua faccia rigata di lacrime. «No, ti prego», lo supplicò. «Non mi vedrai mai più, Esther. Vivrai sola e morirai sola.» «No», singhiozzò lei, lasciandosi cadere lentamente in ginocchio, aggrappandosi alla stoffa leggera dei suoi pantaloni, nascondendo la faccia contro le sue ginocchia. Shindler guardò la figura prostrata ai suoi piedi e provò solo disgusto. 4
«Vuole per favore dire il suo nome per intero e compitarlo per la messa agli atti?» chiese il cancelliere. «Esther Pegalosi. P-e-g-a-1-o-s-i.» «Grazie. Può accomodarsi.» Esther prese posto al banco dei testimoni. Indossava un nuovo completo di maglia grigio che Roy le aveva comprato per l'occasione. L'aveva anche mandata dal parrucchiere, e i suoi capelli erano lustri e impeccabili. Dopo essersi seduta si lisciò la gonna e toccò distrattamente la montatura degli occhiali che Roy le aveva fatto mettere. Concentrò la propria attenzione sul procuratore Heider, come le era stato detto di fare. In ogni caso, non avrebbe avuto il coraggio di guardare in direzione di Bobby. Le mani cominciarono a tremarle, così le strinse una nell'altra per tenerle ferme. L'aula era così affollata. Era stato terrificante quando Roy e gli altri poliziotti l'avevano scortata fin lì attraverso il palazzo di giustizia, con tutta quella gente che si accalcava intorno a lei, premendo e spingendo. I giornalisti parlavano tutti insieme e lei non riusciva ad afferrare le loro domande. Una vecchia aveva cercato di toccarla. Il rumore nel corridoio sembrava il sordo frastuono di un treno in corsa in una galleria buia. Ma la paura che aveva avuto là fuori era niente in confronto al panico che l'aveva assalita quando le porte dell'aula si erano chiuse dietro di lei e aveva dovuto procedere da sola fino alla sbarra. Avanzando tra le file di spettatori, aveva tenuto gli occhi fissi sul giudice. Sembrava così severo e altero. Anche adesso poteva sentire la sua presenza incombere su di lei, alla sua destra, il suo sguardo scrutarla dall'alto, come un dio pronto a punire inesorabilmente ogni sua bugia. «Signora Pegalosi, lei risiede a Portsmouth?» le domandò Philip Heider. «Sì.» «Da quanto tempo vive a Portsmouth?» «Da quando sono nata.» «Chiedo scusa, vostro onore», intervenne una voce proveniente da un punto un po' più avanti sulla sinistra. «Non riesco a sentire la testimone.» «Sì, signora Pegalosi», risuonò dall'alto la voce del giudice, «deve parlare in modo che il signor Shaeffer e i giurati possano udirla.» Esther si vergognò come se avesse fatto qualcosa di male. Cercò di tirare fuori la voce, ma aveva la gola riarsa. Si passò involontariamente la lingua sulle labbra. «Si potrebbe avere un bicchier d'acqua per la signora Pegalosi?» chiese Heider.
Il cancelliere riempì un bicchiere d'acqua e lo porse a Esther, che accettò con gratitudine. Era un pretesto per rimandare il momento di parlare, anche se di poco. «Lei frequentava il liceo negli anni 1960 e 1961?» riprese Heider quando fu pronta. «Sì.» «Bazzicava la banda giovanile dei Cobra?» «Mi oppongo, vostro onore, alla caratterizzazione come banda giovanile», intervenne Shaeffer. «Oh, vostro onore...» comincio Heider. «Ci siamo già passati, signor Heider», lo ammonì il giudice Samuels. «Molto bene. Lei frequentava un gruppo conosciuto come i Cobra?» «Sì.» «L'imputato era un membro di tale gruppo?» domandò Heider, ponendo enfasi sull'ultima parola. «Sì.» «E suo fratello, Billy Coolidge?» «Sì.» «E Roger Hessey?» Esther annuì. «Ora vorrei che focalizzasse la sua attenzione sul 25 novembre del 1960. Lei attualmente ha un ricordo indipendente di ciò che fece quella sera?» Esther sentì un brusio nell'aula. Mosse la testa, perché il collo cominciava a essere indolenzito per la tensione, e scorse Bobby, seduto con la schiena dritta, intento a guardarla. Si affrettò a distogliere gli occhi. «Signora Pegalosi», la richiamò Heider. «Sì.» «Lei ne ha una memoria indipendente?» «Sì.» «Vuole per favore riferire a questa corte e a questa giuria che cosa fece quella sera?» «Uscii di casa verso le sei e mezzo e andai da Bob's per...» «Perdoni l'interruzione, ma cos'è Bob's?» «Un posto dove facevano hamburger, milk-shake...» «E questo locale era un ritrovo dei Cobra?» «Sì.» «Vada pure avanti.» «Là trovai Roger, Billy e Bobby.»
«Intende Roger Hessey e i fratelli Coolidge?» «Sì. A un certo punto non so se Billy o Bobby ha proposto di sfondare a una festa. Roger non voleva, ma alla fine disse di sì.» «Chi dava questa festa?» «Alice Fay.» «Quando dice 'sfondare,' che cosa intende?» «Be', non eravamo invitati. Sa, a quei ragazzi noi non piacevamo un granché. Ma Billy voleva andarci lo stesso.» «Che tipo di ragazzi erano Alice Fay e i suoi amici?» «Erano ricchi... più ricchi di noi. Non avevano simpatia per i Cobra.» «A Billy e Bobby piacevano i ragazzi di quell'ambiente?» «Billy diceva...» «Obiezione. Billy Coolidge non è sotto processo in questa sede.» «Accolta», disse il giudice Samuels. «Si limiti all'imputato», le diede istruzioni Heider. «No. A Bobby non piacevano. Pensava che avessero tutto con facilità e non lo meritassero.» «Che cosa accadde alla festa?» «Appena arrivati Billy cominciò a cercare grane. Roger si innervosì e voleva che ce ne andassimo. Io uscii con lui e litigammo, così tornai dentro da sola. Quando rientrai, Billy andò al tavolo dei rinfreschi e là iniziò una rissa.» «Chi fu a scontrarsi?» «Bobby e Billy con Tommy Cooper, il ragazzo di Alice, e alcuni suoi amici.» «Come si batterono i fratelli Coolidge? A mani nude?» «Bobby sì, ma Billy aveva un coltello.» «Che tipo di coltello?» «Un coltello a serramanico.» «Lei aveva già visto quel coltello in precedenti occasioni?» «Certo. Come tutti noi. Billy si vantava sempre di come...» «Obiezione. Questo è un pettegolezzo», protestò Mark Shaeffer. «Vostro onore, non stiamo cercando di avvalorare la tesi dell'accusa con affermazioni riportate. Intendiamo semplicemente dimostrare che il fratello dell'imputato usava questo coltello in varie occasioni.» «Questo è inammissibile, vostro onore. Possono essersi verificati altri incidenti. Noi qui stiamo parlando di un fatto specifico.» «Sì, signor Heider. Atteniamoci ai fatti di quella sera», decretò il giudi-
ce. «Benissimo. Mentre si stava battendo armato del coltello, Billy disse qualcosa?» «Sì... disse che avrebbe aperto in due uno dei ragazzi.» «E come andò a finire?» «Alcuni ragazzi avevano atterrato Bobby, ma Billy aveva il coltello e disse di lasciarlo, che ce ne saremmo andati. E così è stato.» «Quando lasciaste la festa, come si comportarono Bobby e Billy?» «Bobby era piuttosto calmo. Anzi, sembrava contento di andare via. Ma Billy era furioso. Urlava contro i ragazzi ricchi... non ricordo le parole esatte. E quando gli dissi che era stato lui a cominciare se la prese anche con me.» «Dunque, era arrabbiato.» «Molto.» «Dove andaste dopo?» «Facemmo un giro in macchina, poi Billy entrò in un emporio aperto tutta la notte e rubò del vino. Andammo a berlo vicino a una scuola, e io mi ubriacai.» «Quanto avete bevuto?» «Non lo so di preciso, ma parecchio. Quando tornai a casa diedi di stomaco.» «Che cosa avete fatto dopo aver bevuto?» Esther esitò. «Signora Pegalosi, ha sentito la domanda?» chiese il giudice. «Andammo in centro.» «Passaste per Monroe Boulevard?» «Obiezione, vostro onore. Il pubblico ministero sta imbeccando la testimone.» «Sì, signor Shaeffer, direi anch'io. Obiezione accolta.» «Racconti alla giuria che cosa accadde mentre eravate in centro.» «Girammo in macchina per un po'. Era l'ora di uscita dai cinema, e c'era un sacco di gente in giro. Poi dissi che non mi sentivo bene perché avevo bevuto troppo e Bobby disse che era meglio portarmi a casa. Imboccammo Monroe Boulevard, e arrivammo a un semaforo rosso. C'era anche un'altra macchina ferma, con un ragazzo e una ragazza, e Billy disse che conosceva la ragazza. Si affiancò e fece una sgasata, e quando scattò il verde iniziò una corsa con quello dell'altra macchina.» «Lei vide chi c'era a bordo della macchina contro la quale stavate gareg-
giando?» «No. Non allora.» «Come mai?» «Be', Bobby era venuto dietro con me e stava... sì, insomma, ci stava provando, e io... be', non mi dispiaceva, anche se non stavo molto bene. Poi Billy ha cominciato a correre, e io avevo paura perché andava troppo forte e preferivo non guardare.» «Che cosa successe poi?» «Billy si avvicinò troppo e li urtammo. Poi fu l'altra macchina a venire addosso a noi, e ci fece fare un testacoda. Strillai, ma Billy riprese il controllo e ci fermammo.» «Come reagirono Bobby e Billy?» «Erano arrabbiati. Dissero che avrebbero dovuto riprendere quello dell'altra macchina e fargliela pagare, così partirono all'inseguimento.» «Riuscirono a trovare l'altra macchina?» «Non subito. Prima andarono troppo avanti lungo Monroe Boulevard, e sembrava che li avessero persi. Poi Bobby disse che scommetteva che erano andati al parco, così tornammo indietro e andammo là.» «Di che parco si tratta?» «Il Belvedere. Girammo un po' attorno, ma non riuscivamo a trovarli. Poi vidi la macchina sul prato.» «La polizia l'ha accompagnata al prato dove è stato trovato il corpo di Richie Walters, non è vero?» «Sì.» «E le è stata mostrata la macchina in cui lo hanno trovato, giusto?» «Sì.» «Il prato su cui vide la macchina era lo stesso dove è stato trovato il corpo di Richie Walters?» «Sì.» «E la macchina che vide era quella di Richie Walters?» «Sì.» «Poi che cosa accadde?» Esther bevve un altro sorso d'acqua dal suo bicchiere. Poteva sentire su di sé lo sguardo di Bobby, e automaticamente ruotò la testa verso il tavolo della difesa. Si sarebbe aspettata di vedere paura e rabbia nei suoi occhi. Invece, non vi trovò niente. Era come se Esther fosse trasparente e Bobby stesse fissando qualcosa oltre di lei, una scena visibile a lui solo. «Billy si fermò nel prato dietro l'altra... dietro la macchina di Richie. Ri-
chie aprì la portiera e scese.» «Potevi vedere che era Richie?» «Penso che fosse lui. Era buio e non vedevo molto bene.» «Che cosa accadde poi?» «Si misero a litigare e all'improvviso Billy colpì il ragazzo, allora saltò giù anche Bobby e corse dal fratello.» «E lei che cosa fece?» «Scesi a guardare.» «Aveva paura?» «No. Non proprio. Pensavo che lo avrebbero soltanto picchiato. Avevo visto Billy farlo altre volte.» «Vada avanti.» Esther a un tratto fu assalita da un'ondata di nausea accompagnata da una vertigine. «Signora Pegalosi, si sente bene?» si preoccupò il giudice Samuels. «È solo... Potrei avere ancora un po' d'acqua, per favore?» «Se vuole possiamo fare un'interruzione», offrì il giudice. Esther fece segno di no con la testa. Non sapeva nemmeno lei perché, dal momento che all'improvviso sentiva di non poter restare nell'aula un istante di più. Ma era come paralizzata dalla paura. Avrebbe voluto che Roy fosse lì. Se solo avesse potuto vederlo... Il cancelliere le restituì il bicchiere dopo averlo riempito, e lei bevve un lungo sorso. «Adesso sto bene», sentì dire la propria voce, come se appartenesse a qualcun altro. «Che cosa successe dopo che lei scese dalla macchina?» «Colpirono il ragazzo... Richie, diverse volte, e lui cadde a terra. Poi loro continuarono a colpirlo...» «Li ha visti colpire Richie con un qualche oggetto?» «Non so... Non ho visto, perché stavo guardando la ragazza nella macchina.» «La ragazza?» «La luce interna era accesa perché la portiera non si era chiusa del tutto, e prima non c'era... sembrava che non ci fosse nessun altro nella macchina. Poi questa ragazza si è alzata a sedere e Billy l'ha vista, e lui e Bobby sono corsi là. Allora io mi sono avvicinata al ragazzo steso a terra.» «Lo ha guardato?» Esther sentì le lacrime salirle agli occhi, e quando cercò di rispondere le
si strinse la gola. Non riusciva a parlare. Poté solo piangere. «Signora Pegalosi, so che tutto questo è penoso per lei, ma dobbiamo sapere. Questa giuria deve sapere. Che cosa vide quando guardò il ragazzo steso nell'erba di quel prato la sera del 25 novembre 1960?» «Non aveva la faccia!» Esther sentì se stessa gridare. «Non aveva la faccia!» Fu necessario sospendere la sessione prima che Esther potesse andare avanti. Il signor Heider e Roy si sedettero con lei in una piccola stanza adiacente l'aula, e Roy le parlò con voce suadente. Lei avrebbe voluto morire. Disse che non avrebbe mai potuto tornare là dentro con tutta quella gente che la fissava dopo essersi resa così ridicola. Loro le assicurarono che andava tutto bene e lei si fece piccola, come cercando di ripiegarsi in se stessa, ma alla fine acconsentì a continuare. «Signora Pegalosi, che cosa fece dopo aver visto Richie steso sull'erba?» «Scappai. Corsi giù per la collina, senza fermarmi.» «E dove arrivò?» «Prima in un cortile, dove dei cani da guardia si misero ad abbaiare e mi si lanciarono contro. Scappai via dal cortile e raggiunsi la strada.» «Quale strada era?» «Monroe Boulevard.» «Che cosa accadde poi?» «Cominciai a camminare e ogni volta che arrivava una macchina saltavo nei cespugli per non farmi vedere. Ma alla fine mi resi conto che non potevo andare a casa a piedi e che avrei dovuto trovare un passaggio. Così quando vidi dei fari avvicinarsi uscii dai cespugli e la macchina si fermò, ed erano loro.» «Chi?» «Billy e Bobby e la ragazza.» «Quale ragazza?» «Elaine Murray.» «Come sapeva che era Elaine Murray?» «La conoscevo di vista. Andava alla mia stessa scuola ed era molto popolare.» «Ci dica quello che ebbe modo di osservare.» «Bobby stava guidando ed Elaine era dietro con Billy. Lui la teneva per le braccia e le spalle. Sembrava, non so, stordita.»
«Disse qualcosa, o cercò di scappare?» «No.» «Che cosa successe quando lei salì in macchina?» «Niente. Mi portarono a casa.» «Le dissero qualcosa?» «No. Mi fecero scendere e basta.» «E vide ancora i fratelli Coolidge, in seguito?» «Non molto. Poco tempo dopo ebbero un incidente d'auto e finirono in ospedale. Poi ci furono le vacanze, e mia madre mi aveva proibito di uscire ancora con quel gruppo perché ero tornata a casa ubriaca e mi ero sentita male.» «Signora Pegalosi, ora le mostrerò alcuni oggetti precedentemente registrati come reperti 35, 36 e 37.» Heider porse a Esther una busta di plastica contenente un paio di occhiali da donna, un pettine a coda blu e un accendino. «Li riconosce?» «Sì. Li persi quella sera, mentre scappavo.» «Lei è stata contattata dalla polizia a proposito di questi oggetti poco dopo l'assassinio di Richie Walters, giusto?» «Sì.» «Lei che cosa disse alla polizia degli occhiali?» «Dissi che mi erano stati rubati tre mesi prima.» «Per quale motivo lo disse?» «Era quello che allora credevo.» «Non pensava di averli persi durante una lite al parco con Roger Hessey, poco tempo prima dell'omicidio di Walters?» «No. Ricordo quella lite con Roger: mi fece saltare via gli occhiali con uno schiaffo, ma poi li raccolsi.» «Signora Pegalosi, lei si è sottoposta a diverse sedute con il dottor Arthur Hollander durante le quali è stata ipnotizzata e, a volte, le è stato somministrato sodium amytal?» «Sì.» «Quante sedute, in tutto?» «Non so... parecchie. Almeno dieci, di sicuro.» «Prima di queste sedute ricordava quello che ci ha detto oggi?» «No, assolutamente.» «E quello che ci ha riferito oggi a proposito di quanto accadde la sera del 25 novembre 1960 è quanto lei ora effettivamente ricorda, dopo che la terapia ha sbloccato la sua memoria?»
«Sì, certo.» «Non ho altre domande.» Mark diede un'ultima scorsa ai suoi appunti e controllò che tutti i documenti che avrebbe usato durante il controinterrogatorio fossero in ordine. Avevano tirato a lucido Esther, facendola apparire come una segretaria, o una maestrina. Rispettabile. Ma nervosa. Molto nervosa. Era convinto che la spiegazione clinica che il dottor Paris aveva dato della sua deposizione fosse esatta. Stava mentendo o le avevano fatto il lavaggio del cervello. Adesso toccava a lui convincere anche la giuria. «Signora Pegalosi, io ho tentato per due volte di parlare con lei di questo caso, non è vero?» «Sì.» «E lei ha rifiutato di discuterne con me entrambe le volte, è così?» Lei annuì. «Bene, stavolta finalmente parleremo. Lei ha dichiarato che dopo aver bevuto il vino con i fratelli Coolidge siete andati in centro, poi lei ha chiesto di essere accompagnata a casa perché era ubriaca e non si sentiva bene, esatto?» «Sì.» «E i fratelli Coolidge presero Monroe Boulevard per portarla a casa?» «Sì.» Mark si alzò e andò a mettere una carta stradale di Portsmouth su un cavalletto vicino al banco dei testimoni. «Monroe Boulevard non era la via più breve per raggiungere casa sua dal centro di Portsmouth, vero?» Esther fissò la cartina, poi Mark. «Io... non saprei.» «Be', perché non guarda la cartina e dice alla giuria quale strada faceva solitamente per andare a casa dal centro?» «Non mi pare che ci fosse una strada in particolare che facevo abitualmente.» «No, signora Pegalosi? Questo è interessante.» Mark tornò al tavolo della difesa e prese una scheda sopra un fascio di carte. «Ricorda questa serie di domande e risposte durante la seduta terapeutica registrata sul nastro numero 5? H: Poi siete andati a fare un giro in centro, vero? E: Credo di sì. H: Adesso sei in Monroe Boulevard. Riesci a vedere il viale, Esther?
E: Sì, lo vedo, ma... non ricordo se... H: Ma dovevi passare per Monroe Boulevard per andare a casa, no? E: No. Di solito per tornare a casa dal centro passavo per Marshall Road.» «Non me ne ricordo.» «Vuole che le faccia riascoltare la registrazione?» «No, io...» «Non è un fatto, signora Pegalosi, che la strada che lei faceva abitualmente per andare a casa dal centro di Portsmouth nel 1960 era Marshall Road?» «Suppongo di sì.» «E non è vero che lei ha ripetutamente detto al dottor Hollander di non ricordare di essere stata in Monroe Boulevard quella sera?» «Questo era prima che...» «Prima che le facessero il lavaggio del cervello, portandola a convincersi del contrario?» Heider balzò in piedi, presentando la sua obiezione. «Ritiro la domanda, vostro onore», disse Mark, tornando al tavolo della difesa. «Lei ha dichiarato di aver perso i suoi occhiali, il pettine e l'accendino la sera del 25 novembre 1960?» «Sì.» Mark scelse un verbale della polizia dai suoi documenti e lo aprì a una pagina contrassegnata. «Durante la seconda settimana di gennaio del 1961, ricorda di avere ricevuto la visita di due investigatori della polizia, Roy Shindler e Harvey Marcus?» «Non ricordo la data esatta, ma vennero a parlarmi. Il detective Shindler più di una volta.» «Sto parlando della prima visita, a casa sua, in presenza di sua madre.» «Sì, me ne ricordo.» «Ricorda di aver detto agli investigatori che gli occhiali le furono rubati tre mesi prima?» «Lo dissi, ma...» «Si limiti a rispondere alla domanda, per favore.» «Sì.» «E tre mesi prima della seconda settimana di gennaio si avvicinerebbe a quando Roger Hessey glieli fece saltare via con uno schiaffo, più che alla data dell'omicidio di Richie Walters, giusto?»
«L'ho detto perché...» «Vostro onore», disse Mark, «vorrebbe per favore invitare la teste a rispondere alle mie domande?» «Signora Pegalosi, deve rispondere al signor Shaeffer», le intimò il giudice Samuels. Esther lanciò un'occhiata verso gli spettatori. Erano silenziosi, e le sembrava che la fissassero con aria di accusa. «Suppongo di sì. Non ho fatto il calcolo.» «Quando prima la interrogava il signor Heider, lei ha detto di aver raccontato alla polizia che gli occhiali le erano stati rubati perché credeva che fosse la verità.» «Sì.» «E quando ha smesso di crederlo?» «Dopo essermi resa conto che avevo delle informazioni da dare.» «E questo quando è successo, signora Pegalosi?» «Dopo... Quando sono entrata in terapia con il dottor Hollander e ho cominciato a vedere... ho cominciato a conoscere la verità.» «Era la verità ciò che lei diceva durante le sedute con il dottor Hollander?» «Sì.» Mark scelse un'altra scheda e la lesse, tenendo la testimone sulle spine. La fronte di Esther si imperlò di sudore. Aveva lo stomaco in subbuglio e la tensione le stava annebbiando la mente. Aveva bisogno di rilassarsi. Provò a immaginare la voce suadente del dottor Hollander, le sue dita sul suo polso. «Signora Pegalosi, ricorda queste affermazioni nella seduta registrata sul nastro numero 8? H: Ricordi di avermi detto di Monroe Boulevard e del Belvedere? E: Uh... probabilmente me lo sono inventata. H: Non pensi che fosse la verità? E: Non potrei avere mentito? H: Ne dubito.» Esther si passò di nuovo la lingua sulle labbra e guardò verso il procuratore. Heider stava seduto al suo posto con aria annoiata. L'aveva avvertita che non le avrebbe dato alcun sostegno durante il controinterrogatorio, perché la giuria avrebbe potuto interpretarlo come un tentativo di influen-
zarla, ma lei aveva bisogno di appoggio, e sperava che facesse uno strappo alla regola, giusto per quella volta. «Signora Pegalosi, le ho chiesto se ricorda questa sequenza di domande e risposte.» «No. Non di preciso.» «Capisco. E questa, allora? Nastro numero 10. H: Dove sono andati? E: Nel parco. Credo. Non sarà solo una mia fantasia? H: No. Oggi stai ricordando molto chiaramente. E: Va bene se fumo? H: No. Tra pochi minuti ti lascerò filmare. Adesso andiamo avanti. E: È così difficile perché so quello che hanno fatto e so che cosa vi aspettate che dica. Siamo sicuri che sto ricordando davvero e non sto dicendo tutto questo soltanto perché so già le risposte?» «Non ricordo niente di tutto questo.» «No? Vuole sentire il nastro?» «No. È solo che... quando sei sotto l'effetto dell'ipnosi e del siero della verità è un po' come se stessi sognando e dopo è difficile ricordare quello che hai detto.» «Suppongo che non ricordi nemmeno di aver detto, un po' più avanti: 'Non ricordo più quello che dovrei dire'.» Esther continuò a pensare alle dita del dottor Hollander, cercando di concentrarsi sul senso di calma, di rilassamento. Non doveva lasciarsi prendere dal panico. «No, non lo ricordo.» «Sembra che la memoria non sia il suo punto forte.» «Gliel'ho detto», ribatté lei, la voce resa un po' più acuta dal nervosismo, «è normale, con il siero...» «E: 'Un momento. Quante volte vi ho mentito su questa storia?' Ricorda di averlo detto, questo?» «No», disse Esther. Appena la parola le fu uscita di bocca si rese conto di avere alzato un po' troppo la voce. Doveva controllarsi. «Quante volte ha mentito al dottor Hollander?» «Non l'ho mai fatto.» «Quante volte ha mentito?...» Mark si fermò a metà frase. Guardò le mani di Esther. La destra stava accarezzando ritmicamente il polso sinistro.
«Signora Pegalosi, che cosa sta facendo con le sue mani?» Lei smise immediatamente. Gli occhi dei giurati erano puntati sul suo polso. «Niente», rispose con aria colpevole. «L'ho vista massaggiarsi il polso. Sta cercando di ipnotizzarsi? Vostro onore, chiedo che la corte avverta la testimone che non può autoipnotizzarsi durante il controinterrogatorio.» Heider era scattato in piedi. «Questo è ridicolo. Signor Shaeffer, che cosa?...» Il giudice Samuels batté il suo martelletto per ristabilire l'ordine. «Gli avvocati delle due parti si siedano. Faremo una breve pausa.» Il cancelliere accompagnò i giurati nella stanza a loro riservata. Il giudice attese che la porta venisse richiusa dietro di loro, poi volse la propria attenzione a Mark. «Allora, qual è il suo problema, signor Shaeffer?» «La testimone stava accarezzandosi ritmicamente il polso durante il contraddittorio, vostro onore. È così che si autoinduce la trance ipnotica. Era nelle registrazioni.» Samuels corrugò la fronte, pensoso. Poi si girò verso Esther. «Signora Pegalosi, non voglio impaurirla, ma deve darmi una risposta sincera. Stava cercando di mettersi in stato di ipnosi poco fa, mentre il signor Shaeffer la interrogava?» «Io...» Esther abbassò lo sguardo, contrita. «Sì.» «Non può farlo. È chiaro? Se lei fosse sotto l'effetto di psicofarmaci o ubriaca non potrei farla testimoniare. Lei dev'essere totalmente lucida. Mi sono spiegato?» «Sì.» Esther lo disse così sommessamente che il giudice dovette chiederle di ripetere la risposta. «Non deve più tentare di ipnotizzarsi, capito?» «Sì.» «Molto bene. Cancelliere, richiami la giuria.» «Signora Pegalosi, per quale motivo pensa di non aver ricordato l'omicidio di Richie Walters per tanti anni?» «Io... Il dottor Hollander mi ha detto che vedere il corpo... sa, la faccia, tutto quel sangue... Mi faceva troppa paura. In più avevo bevuto...» Si strinse nelle spalle. «Lui dice che è stato per questo.» «Be', direi che è comprensibile», commentò Mark, sorridendo. «Sarei
rimasto scioccato anch'io da tanta violenza. Mi dica, signora Pegalosi, quella è stata la prima volta che ha visto della violenza in vita sua?» «No», rispose lei con voce bassa e tremante. «Di fatto, c'è stata parecchia violenza nella sua vita, non è vero?» «Ecco... io non direi proprio molta...» «Su, non sia modesta. Dica alla giuria del ragazzo che ha ferito con un coltello, Andy Trask.» «Non sono stata condannata per quella storia.» «Non ho detto il contrario. Ma è stata arrestata e affidata per un breve periodo a un centro correzionale, giusto?» «Sì.» «E non era la prima volta, vero?» «No.» «È stata in casa di correzione la prima volta per essere scappata di casa, poi per aver ferito Andy Trask, e infine per una rapina, è esatto?» «Sì.» «E che sia stata condannata o meno, resta il fatto che lei ha accoltellato Andy Trask.» «Sì.» «E ricorda dettagliatamente la vicenda, vero?» «Sì.» «Ricorda di aver visto il suo patrigno accoltellare sua madre?» Esther si mise a piangere. Mark ripeté la domanda e Heider scattò in piedi. «Vostro onore, la difesa sta intimidendo la teste. Tutto questo è irrilevante.» «È molto rilevante, vostro onore. La signora Pegalosi si presenta qui dicendo che tutt'a un tratto, dopo tanti anni, si è ricordata che questo giovane uomo è un assassino. E afferma che se n'era dimenticata perché troppo spaventata dalla violenza. Io ho ogni diritto di dimostrare che non è estranea alla violenza, e che ricorda con molta chiarezza altri episodi di violenza.» «Sono d'accordo, signor Shaeffer. L'obiezione è respinta. Tuttavia, non le consentirò di tormentare la testimone.» «Vostro onore, non sono certo io a farla piangere. Se la sua coscienza...» «Ha sentito quello che ho detto, signor Shaeffer?» «Sì, vostro onore.» «Signora Pegalosi, ha mai visto il suo patrigno accoltellare sua madre?»
«Sì.» «Dica alla giuria quello che ricorda dell'incidente.» Esther si asciugò gli occhi con un fazzoletto. «Stavo dormendo e sentii mia madre gridare. Lui era di nuovo ubriaco. La porta si aprì di colpo e sentii mamma correre in cucina e lui inseguirla bestemmiando.» «Vada avanti.» «Mamma aveva in mano un coltello da cucina e disse che lo avrebbe usato se lui le fosse andato vicino, ma lui la bloccò con le spalle contro il frigorifero e le strappò il coltello.» «Ho difficoltà a sentirla, signora Pegalosi», disse Mark. Esther bevve ancora un sorso d'acqua. «Lui la colpì, e vidi il sangue sul frigorifero bianco, e mamma cadere a terra. Lui lasciò cadere il coltello e disse: 'Che cosa ho fatto?' e se ne andò. È tutto.» «E lei questo lo ricorda?» domandò Mark in tono sommesso. Nell'aula non si sentiva volare una mosca. «Sì», mormorò Esther. «E ricorda un uomo chiamato Bones rapinare il minigolf e scappare inseguito dalla polizia mentre era con lei?» «Sì.» «Lo ricorda dettagliatamente?» «Sì.» «E nella sua deposizione ha affermato che inizialmente non ha avuto paura quando ha visto che Bobby e Billy e Richie si stavano picchiando, perché aveva già assistito a scene simili. Si riferiva ad altri episodi in cui c'è stato spargimento di sangue?» «Sì, anche.» «E potrebbe raccontare dettagliatamente qualcuno di questi episodi alla giuria, se glielo chiedessi?» «Sì.» «Anche quelli in cui c'è stato spargimento di sangue?» «Qualcuno.» Mark fece una pausa. Poteva sentire il battito del proprio cuore rimbombare nel silenzio dell'aula. Poteva vedere gli occhi dei giurati fissi su Esther. Poteva vedere con chiarezza il volto della ragazza, il suo colorito terreo, le guance rigate di lacrime. «Lei una volta aveva una cane, vero?» domandò in tono quieto. «Oh, no», gemette Esther. «Chiedo alla corte di invitare la testimone a rispondere alla domanda.»
«Signora Pegalosi, deve rispondere.» «Sì.» La voce le uscì in un bisbiglio strozzato. «Dica alla giuria come morì il suo cane.» Esther impallidì. «Signora Pegalosi», la incalzò Mark. «Io... non posso!» Esther alzò uno sguardo implorante al giudice. Samuels la invitò a rispondere. «Mio... il mio patrigno gli sparò.» «In un occhio?» Esther stava di nuovo piangendo e poté solo annuire. «E lei se ne ricorda dettagliatamente, vero?» «Sì.» «Lei amava molto quel cane, vero?» «Sì.» «Eppure riesce a ricordarlo, questo.» «Vostro onore!» insorse Heider. «Si sieda, signor Heider. Questo è un controinterrogatorio appropriato.» Il giudice si volse verso Mark. «Intende continuare ancora per molto su questa linea, signor Shaeffer?» «No, vostro onore. Credo che il punto sia abbastanza chiaro.» Esther, al banco dei testimoni, era ripiegata su se stessa. Qualcuno le aveva dato un fazzoletto. Il giudice ordinò una sospensione di dieci minuti. «Signora Pegalosi», domandò Mark quando la sessione riprese, «lei nella sua deposizione ha affermato di aver visto la faccia massacrata di Richie Walters poco dopo che fu assassinato.» «Sì», confermò Esther con voce monocorde. Aveva pianto così forte e a lungo che si sentiva completamente svuotata. Sapeva che presto la corte si sarebbe ritirata. Ormai il peggio era passato: doveva solo sostenere la sua parte finché fosse calato il sipario. «E fu la vista della sua faccia a scioccarla al punto di provocare l'amnesia?» «È quello che mi ha detto il dottor Hollander.» «Quando si rese conto di avere visto la faccia di Richie?» «Dopo che... quando il dottor Hollander mi diede il siero della verità.» «Signora Pegalosi, lei forse vide la faccia di Richie solo un po' di tempo dopo l'omicidio?» «Che cosa intende dire?»
«Ricorda questo scambio di battute tra lei e il dottor Hollander? E nel nastro numero 10. H: Ma ora ricordi di avere visto uccidere il ragazzo? E: No, io questo non l'ho visto. Pensavo che lo avessero solo picchiato, come facevano di solito. H: Non hai detto di aver visto la faccia di Richie? E: L'ho vista in seguito. «Quando in seguito, Esther?» «Non so che cosa voglia dire.» «Ricorda di aver detto al dottor Hollander le parole che ho appena riportato?» «Le ho detto che non posso ricordarlo, perché ero sotto l'effetto del siero.» «Vuole che le faccia ascoltare la registrazione?» «No. Se lei dice che è quello che ho detto...» «Testualmente. Esther, si è mai svegliata urlando in piena notte a causa di incubi nei quali vedeva la faccia insanguinata di Richie?» «Sì. Molte volte.» «Quegli incubi non cominciarono subito dopo l'omicidio, è vero?» «Non ricordo esattamente quando.» «Ha mai incontrato un detective di nome Roy Shindler?» Per Esther fu un colpo basso. Guardò dritto in faccia Mark, sbiancando in volto, stringendo convulsamente il fazzoletto che aveva in mano. «Signora Pegalosi?» «Sì», rispose lei con voce rauca. «I suoi incubi ebbero inizio poco dopo avere incontrato il detective Shindler?» «Non capisco che cosa voglia dire.» «Io penso di sì, Esther. Il detective Shindler è lo stesso detective che l'ha portata dal dottor Hollander, vero?» «Non mi ha obbligata. Ci sono andata perché io lo volevo.» «Per quale motivo, Esther?» «Per capire se quello che diceva era vero.» «E che cosa diceva?» «Che avevo assistito all'omicidio. Lui lo sapeva già allora.» «Allora quando?»
«Lo aveva capito fin dall'inizio. Me lo ha detto.» «Ma non si è limitato a questo, vero? Le ha anche mostrato la scena.» «Sì.» «L'ha portata là e le ha suggerito come una ragazza avrebbe potuto perdere gli occhiali scappando giù per la collina lungo un certo percorso.» «Non è andata così.» «Le ha suggerito che quella notte lei e i suoi amici avevate fatto una gara in macchina con Richie, anche se lei non lo ricordava.» «Era tutto nascosto nel mìo subconscio. Me lo ha spiegato il dottor...» «Le ha mostrato quella fotografia che l'ha spaventata talmente tanto da provocarle una crisi isterica e farle avere incubi per anni.» Esther si irrigidì. «Quale fotografia?» chiese, esitante. «Quale? Lo dica lei alla giuria.» «Non so di che fotografia stia parlando.» «Non ricorda che nel 1961 il detective Shindler la accompagnò alla centrale di polizia per interrogarla e le mostrò una fotografia a colori?» Esther non riusciva a respirare. Non poteva distogliere lo sguardo dalla faccia di Shaeffer. Lo vide alzarsi e avvicinarsi lentamente a un tavolo sul quale erano deposti i documenti e gli oggetti esibiti come prove. Lo vide chinarsi e scegliere una busta di carta marrone. Oltre il rombo che le risuonava nelle orecchie, lo sentì dire: «Forse questo l'aiuterà a ricordare», e all'improvviso si sentì catapultare indietro nel tempo. Era di nuovo alla centrale di polizia, ed era la mano di Roy a estrarre lentamente la fotografia a colori dalla busta, girata a faccia in giù, e lei guardava mentre veniva voltata verso di lei, e stava di nuovo gridando. Sarah gli aveva passato il biglietto mentre lui stava lasciando l'aula. Era un foglio giallo strappato da un blocco per appunti; evidentemente lo aveva scritto durante l'udienza. Lui se lo era infilato nella tasca dei pantaloni e lo aveva recuperato quando aveva di nuovo indossato la sua divisa da detenuto. Quella sera, dopo cena, si era sdraiato sulla sua branda, troppo stremato dalla tensione della giornata per fare qualunque altra cosa. Aveva tenuto in serbo il biglietto, nonostante l'impazienza di leggerlo, perché era la prima reale comunicazione che aveva con Sarah dopo tanto tempo. Lei era stata in aula ogni giorno e aveva parlato con lui durante le pause, ma le loro conversazioni erano state superficiali, inoltre lei aveva sempre qualche scusa per non andare a trovarlo in prigione.
Consegnandogli il biglietto aveva evitato di guardarlo in faccia. Lui aveva tentato di parlarle, ma era subito scappata via. Bobby aveva paura di quello che vi avrebbe trovato scritto. Spiegò il foglio e lo rivolse verso la luce. Il messaggio era molto breve. Diceva che stava per partire e non voleva rivederlo mai più. Che voleva credere che lui fosse innocente e la ragazza stesse mentendo, ma quel giorno aveva visto Mark Shaeffer torturare quella poveretta, e se n'era andata con il voltastomaco al pensiero di avere permesso che lui la toccasse. Bobby lasciò ricadere la mano lungo il fianco. Il foglio giallo svolazzò a terra, andando a posarsi sul pavimento di cemento. 5 Mark Shaeffer appoggiò la sua cartella sul tavolo della difesa e aprì le fibbie. Ogni posto riservato al pubblico nell'aula era già occupato e il corridoio brulicava di aspiranti spettatori in attesa che qualcuno se ne andasse. Mark sorrise al pensiero che tra poco avrebbe potuto riprendere a esaminare Esther Pegalosi. Si sentiva in ottima forma. Sembrava che il processo stesse prendendo una buona piega per lui, e aveva già trovato parecchi nuovi clienti grazie alla pubblicità che stava ricavando dalla stampa e dalla televisione. Bobby non era ancora in aula, e Mark aveva alcuni punti da chiarire con lui. Stava per chiedere a una guardia di portare giù il suo assistito, quando il segretario del giudice gli fece un cenno di richiamo. Mark sistemò un fascio di carte, poi andò alla porta dell'ufficio del giudice. Cantoni e Heider erano seduti davanti alla scrivania. Samuels non aveva ancora indossato la toga. Avevano tutti un'espressione tetra. «Si sieda, signor Shaeffer. Ho una notizia sconcertante da darle.» Mark lanciò un'occhiata a Cantoni, ma lui non ricambiò il suo sguardo. «Circa un'ora fa ho ricevuto una telefonata dalla prigione», lo informò Samuels. «Temo che il processo sia finito. Il signor Coolidge si è suicidato durante la notte.» Esther era rimasta in silenzio per tutto il tragitto dal tribunale a casa, e Shindler ne era contento perché così aveva avuto il tempo per pensare. Il processo era stato troncato così improvvisamente. Che senso aveva tutto questo? Per anni si era preparato al momento in cui un giudice avrebbe letto il verdetto della giuria, e adesso quella soddisfazione gli era stata nega-
ta. Si sentiva vendicato dal suicidio, ma senza un verdetto che sancisse ufficialmente la colpevolezza di Coolidge, l'opera rimaneva incompiuta. Già qualcuno della stampa gli aveva chiesto del biglietto che era stato trovato nella cella di Bobby. Il giornalista voleva sapere della ragazza che lo aveva scritto. Avrebbero detto che era morto per amore. A ogni modo, restava sempre Billy. Avrebbero ricominciato daccapo con lui, e stavolta sarebbero arrivati alla sentenza. Shindler parcheggiò davanti al palazzo dove abitava Esther. Lei continuò a fissare dritto davanti a sé, senza accennare a voler scendere. «Stai bene?» le domandò. Non vedeva l'ora di sbarazzarsi di lei, ma ne aveva ancora bisogno per il processo a Billy. «No, per niente.» La durezza del suo tono lo sorprese. «Non è stata colpa tua, Esther. Si è ucciso perché sapeva di non avere scampo.» «Si è ucciso perché ho mentito.» «No, Esther. Ne abbiamo già parlato un'infinità di volte. Tu eri là. Ieri, mentre eri alla sbarra, hai detto solo la verità, e la ripeterai al processo di Billy.» «Non ci sarà un altro processo, perché io non testimonierò», dichiarò lei con fermezza. Non c'era alcun piagnucolio nella sua voce. Nessuna indecisione. «Ma certo che ci sarà un altro processo. È solo che adesso sei sconvolta.» Lei scosse la testa e lo guardò. La sua espressione era inflessibile. «Io so com'è desiderare di morire, ricordi? Sentire di non avere più niente per andare avanti. Adesso dovrò vivere il resto dei miei giorni sapendo di aver fatto sentire Bobby a quel modo a causa tua, Roy. Tu mi hai usata, sapendo che avrei fatto qualunque cosa per tenerti con me. Ma adesso basta.» Aprì la portiera e scese dalla macchina. Lui la seguì, raggiungendola all'entrata del palazzo. «Esther», cominciò, trattenendola per un braccio. Lei si divincolò e lui l'afferrò di nuovo. Stavolta si volse a guardarlo. I suoi occhi erano pieni d'odio. «Non toccarmi mai più. Non venirmi mai più vicino. Se lo farai, tutti sapranno come mi hai portata a causare la morte di Bobby. Racconterò come mi baciavi, come mi facevi inginocchiare ai tuoi piedi. Ne riempirò i giornali. Io ti vedo, Roy. Ti vedo come sei realmente. Non provare mai più ad
avvicinarmi o a chiamarmi, o farò in modo che lo vedano anche tutti gli altri.» Gli sbatté la porta davanti alla faccia. Lui la guardò allontanarsi attraverso il vetro. Rimase lì attonito, lo sguardo fisso, anche dopo che Esther fu scomparsa alla sua vista, domandandosi: E adesso che faccio? PARTE SESTA Heartstone Epilogo Cantoni scrutò fra i mulinelli di neve in cerca di un'indicazione stradale che gli dicesse quanto mancava ancora all'Hotel Cordova. Non ne vide nessuna. La macchina slittò su un tratto di strada gelato e Louis Weaver si aggrappò alla maniglia. Cantoni tornò ad appoggiarsi contro lo schienale del suo sedile e ascoltò il fruscio del tergicristallo sul parabrezza. Non c'era mai stato un secondo processo. Esther Pegalosi aveva ritrattato la sua deposizione e le accuse contro Billy Coolidge erano cadute. Philip Heider non se n'era curato più di tanto. Aveva ottenuto comunque la sua candidatura a deputato, e in seguito aveva vinto le elezioni generali, per poi diventare senatore degli Stati Uniti. Nemmeno Shaeffer ci aveva rimesso. Il caso Murray-Walters aveva fatto di lui uno dei penalisti più famosi dello Stato e, poco dopo il divorzio dalla sua prima moglie, aveva investito i proventi di quella pubblicità in uno studio legale altamente remunerativo. Adesso toccava raramente una causa penale, concentrandosi invece sul diritto societario e la consulenza fiscale. Esther Pegalosi se n'era andata e Cantoni non ne aveva saputo più nulla. Billy Coolidge aveva scontato il resto della sua pena detentiva, per poi essere ucciso con un colpo di pistola in un parcheggio semideserto poco dopo la scarcerazione. Sul corpo erano state trovate tracce di cocaina e si pensava a un regolamento di conti per questioni di droga, ma il caso non era mai stato risolto. Infine, Roy Shindler. Erano circolate delle voci sul suo conto dopo che Esther aveva lasciato la città, ma nessuno ne aveva mai dimostrato la fondatezza. Shindler era ancora nella polizia, ma era cambiato dopo il caso Murray-Walters. Era sempre bravo nel suo lavoro, ma sembrava farlo senza più passione. L'intensità che lo aveva contraddistinto era svanita. Cantoni si era avvalso di lui come testimone diverse volte, dopo il processo, e
aveva parlato con lui per questioni di lavoro in molte occasioni, ma in tutti quegli anni Shindler non aveva mai più accennato al caso Murray-Walters. Cantoni chiuse gli occhi e passò mentalmente in rassegna il cast dei protagonisti della vicenda. Ne aveva saltato uno: Albert C. Cantoni, il più giovane procuratore distrettuale mai eletto nella storia di Portsmouth. Bobby Coolidge si sarebbe tolto la vita se lui fosse andato dal giudice Samuels con le informazioni di cui era in possesso? Per un po' Cantoni aveva cercato di mettere a tacere la propria coscienza convincendosi che se aveva agito a quel modo era perché non voleva che un assassino restasse impunito a causa della sua impulsività. Ma sapeva che le cose non stavano così. Quello che Heider e Shindler avevano fatto era sbagliato, a prescindere che Coolidge fosse colpevole o meno. Avevano occultato delle prove, e questo era un reato, oltre che un affronto all'etica. Lui avrebbe dovuto informarne il giudice, ma non lo aveva fatto, e adesso sapeva che aveva agito per ragioni del tutto egoistiche. Aveva avuto paura di giocarsi la carriera, tutto qui. Così, quando si era trovato di fronte alla più grande decisione morale della sua vita, aveva scelto la via di mezzo. E un uomo era morto. L'Hotel Cordova somigliava vagamente al Cedar Arms. Mentre saliva le scale per raggiungere la stanza di Heartstone, Cantoni avvertì lo stesso senso di gelo che aveva provato tanti anni prima salendo altre scale poco illuminate per incontrare Heartstone la prima volta Louis Weaver aprì la porta della stanza e si fece da parte per lasciar entrare Cantoni e Pat Kelly. Nell'aria gravava l'odore stagnante di malattia e di morte. Le tende erano tirate e l'oscurità rendeva l'atmosfera ancora più funerea. Heartstone dormiva, e Cantoni non riusciva a distinguere i suoi lineamenti nell'ombra. «Willie?» bisbigliò Louis quando la porta fu chiusa e le tende scostate dalla finestra. Cantoni trovò difficile credere che l'uomo sul letto fosse ancora vivo. La faccia era talmente scarna che si potevano vedere i contorni del teschio. Le vene contorte trasparivano dalla pelle delle mani sottile come carta velina, pateticamente strette sul lenzuolo sudicio. Heartstone tossì e aprì gli occhi. Gli ci volle un momento per mettere a fuoco le figure che aveva davanti. Poi un sorriso si fece strada sul suo volto devastato. «Sei venuto», disse in un sussurro appena percettibile. Cantoni mise una sedia accanto alletto e si chinò verso Heartstone. «Willie, come ti sei ricordato di me?» domandò dopo avere avviato il registratore.
Willie sorrise ancora. «Il biglietto...» Sussultò, cercando di trattenere un accesso di tosse, e fece un cenno a Weaver. Louis tirò fuori da una tasca un cartoncino sporco e spiegazzato. Era il biglietto da visita che Cantoni aveva dato a Heartstone quella notte di tanti anni prima. «Lo hai tenuto per tutto questo tempo?» Cantoni era stupefatto. «Accogliete in voi Gesù nostro salvatore e diventerete figli di Dio.» L'espressione di Willie era serena. Con grande fatica, tese la mano tremante a Cantoni. Lui la prese. «Dimmi, Willie. Chi ha ucciso Elaine Murray?» «Il prezzo del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna attraverso Gesù Cristo nostro Signore.» «Dimmelo, Willie.» Gli occhi dell'uomo morente si colmarono di lacrime. Cantoni sapeva che Heartstone non era molto più vecchio di lui, eppure sembrava che avesse cent'anni. «Dimmelo», ripeté a bassa voce. «È stato Ralph. L'abbiamo tenuta per un po', poi Ralph si è stancato.» Parlare gli costava un grande sforzo, e fu colto da un altro attacco di tosse. Cantoni si domandò se sarebbe durato fino all'arrivo del medico. «Stancato, Willie? Che vuoi dire?» «Darle da mangiare. Occuparsi di lei, quel po' che facevamo.» Cominciò di nuovo a piangere. «Raccontami tutto, Willie», lo incoraggiò Cantoni. «La uccise e poi la lasciammo lungo la strada.» «Quando?» «Non lo so. È stato dopo Capodanno.» «Willie, tu conoscevi un uomo di nome Eddie Toller?» Willie sembrò confuso. «Un uomo a cui vendeste Elaine per fare sesso.» «Ce ne sono stati talmente tanti», singhiozzò Willie. «Potrò salvare la mia anima? Ho peccato per così tanto tempo. Non voglio bruciare all'inferno.» «Se mi confessi ogni cosa, Dio ti perdonerà, Willie. Ora dimmi di Toller.» «Non mi ricordo di lui. La vendemmo a così tanti uomini. Lei all'inizio ci supplicò di non farlo, ma noi la picchiammo e la lasciammo senza mangiare finché si rassegnò.» Willie fu di nuovo sopraffatto dal rimorso e Cantoni lo lasciò piangere.
Sospirò, scrollando la testa. Si sentiva spossato. «Dunque, Bobby Coolidge era davvero innocente.» «No! Colpevole! Peccatore!» Heartstone aveva pronunciato quelle parole con tanta forza da far trasalire tutti i presenti. «Ma hai appena detto...» cominciò Cantoni, attonito. «Aveva il marchio di Caino. Viveva nella menzogna e nel peccato. Innocente?» Heartstone rise, e la crudeltà di quella risata bruciò come ghiaccio nel silenzio della stanza. «Chi credi che ce l'avesse venduta?» Elaine Murray non aveva smesso di piangere da quando avevano lasciato Esther davanti a casa. Prima che scendesse, Billy l'aveva afferrata per la gola bisbigliandole qualcosa all'orecchio. Aveva parlato troppo piano perché Bobby potesse sentire, ma dall'espressione che si dipinse sulla faccia della ragazza non era difficile immaginare che l'avesse minacciata. Esther era completamente ubriaca e molto spaventata, e Bobby era certo che non avrebbe comunque detto niente, se non altro per paura di rimanere immischiata in ciò che era successo quella notte. Billy stava pensando al da farsi mentre guidava verso la campagna. Bobby aveva suggerito di portare Elaine in una casa abbandonata che la banda a volte usava per le feste. Era un posto isolato, quindi non avrebbero dovuto preoccuparsi di ficcanaso e occhi indiscreti. Il problema era che cosa fare di lei una volta là. Walters era morto. Su questo non c'era alcun dubbio. Billy lo aveva accoltellato e Bobby gli aveva spaccato la testa con un cric. Non potevano lasciarla andare, ma, anche per loro, uccidere una ragazza a sangue freddo era differente dall'uccidere un uomo durante un pestaggio. I piagnucolii di Elaine stavano cominciando a dargli sui nervi. Bobby, seduto di dietro con lei, la stava tenendo per essere certo che non tentasse di scappare, ma era lui stesso in stato di choc. Billy voleva bene a suo fratello, ma Bobby in fondo era un tenero. Oh, non si tirava certo indietro se c'era da menare le mani, ma non aveva l'istinto di uccidere, solo il desiderio di combattere e fare male. Bobby aveva colpito Walters unicamente perché era stato preso dal panico. Billy aveva gustato ogni coltellata che aveva inflitto a quel bastardo. Gli era piaciuto pugnalare Walters, che per lui rappresentava Cooper e ogni altro ricco snob che lo aveva guardato dall'alto in basso e trattato come se lui non esistesse. Solo che Walters si era accorto eccome dell'esistenza di Billy Coolidge. Se n'era accorto ogni volta
che il suo coltello gli era affondato nella carne. Gliene aveva dato atto con ogni grido che lui gli aveva strappato. Sicuramente si era reso conto che Billy Coolidge se voleva poteva distruggerlo - e aveva deciso di farlo. Billy trovò la strada sterrata che conduceva al casolare. Era stato costruito verso la fine dell'Ottocento da un contadino; in seguito era stato ristrutturato, ma poi il contadino era morto, i figli se n'erano andati e da allora era rimasto disabitato. Era una massiccia casa a due piani. La sua sagoma tozza e nera si stagliava contro il cielo notturno che già cominciava a schiarirsi. «Falla stare un po' zitta, Bobby!» gridò Billy. «Tranquilla, Elaine. Andrà tutto bene. Non avere paura.» La ragazza continuò a piangere. Billy parcheggiò sul retro, in modo che la macchina restasse nascosta. Scese e corse lungo il fianco della casa. Sbirciò attraverso la finestra laterale che dava sulla cucina. Non sembrava che ci fosse qualcuno. L'ultima volta avevano dovuto far sloggiare in malomodo alcuni vagabondi che l'avevano occupata. Billy stava andando a dare un'occhiata anche dalla finestra sul davanti, per maggiore sicurezza, quando sentì Bobby imprecare. Tornò di corsa sul retro. La macchina era vuota e la portiera posteriore dal lato del conducente era aperta. Scorse una figura confusa correre affannosamente tra l'erba alta che un tempo era stata un campo di grano, e si lanciò all'inseguimento. Sentì un grugnito e un acuto grido femminile. Due corpi caddero a terra. Un attimo dopo Billy aveva tirato via suo fratello dalla ragazza, le si era seduto sopra a cavalcioni e la prendeva a schiaffi, facendole girare la faccia da una parte all'altra, gridandole «Puttana!» con una voce colma di odio e brama animalesca. «Smettila! La ucciderai!» Bobby lo aveva afferrato per le braccia. Il suo petto sussultava. La ragazza gemeva. Le colava sangue dal naso. Billy fece un respiro profondo. Fissò la ragazza con cupa intensità. Era sessualmente eccitato alla vista di qualcuno che aveva desiderato ma non aveva mai potuto avere, e che adesso era impotente, sotto il suo controllo. «Portiamola in casa», disse. La costrinsero ad alzarsi e la trascinarono dentro, poi su per le scale, in una camera da letto al piano superiore. C'erano alcuni materassi sul pavimento, portati là in occasione dell'ultima festa e lasciati per il futuro. Billy la buttò rudemente a terra, poi si girò a guardare Bobby. «Aspetta fuori.»
«Ma, Billy...» Bobby fece per obiettare, ma un'occhiata alla faccia del fratello bastò a zittirlo. Mezz'ora più tardi la porta della stanza si aprì. Billy sembrava completamente svuotato. Aveva sfogato tutto il suo odio e la sua rabbia. Fece un cenno in direzione della ragazza nuda rannicchiata sul pavimento. «È tua, se la vuoi», disse stancamente. Bobby scosse la testa. Non ce la faceva. Non erano solo la paura o la stanchezza. L'orrore per quello che avevano fatto si era insinuato in lui mentre aspettava suo fratello nel corridoio buio. La sua mente aveva percorso una dozzina di direzioni, cercando una soluzione al problema costituito dalla ragazza. «Billy, dobbiamo sbarazzarcene.» «Ucciderla, vuoi dire?» domandò Billy. Era troppo esausto per farlo quella notte. Bobby scosse la testa. «No, non intendevo questo.» «Non possiamo lasciarla andare. Sa di Walters.» «Ho un'idea. Ricordi quei due a cui devi dei soldi per la faccenda dell'erba?» «Pasante e Heartstone?» Bobby annuì. «Sei ancora in debito con loro, no?» «Già.» «Vedi se vogliono la ragazza.» «Come pagamento?» «O per... per farlo al posto nostro. Billy, io non me la sento. Non così.» Billy lo guardò. «Posso farlo io.» «No, Billy, non farlo», scongiurò Bobby, disperato. «E poi, se li beccano con Elaine, tutti penseranno che sono stati loro a uccidere Richie.» «Non mi piace. Potrebbero lasciarla andare, o lei potrebbe scappare.» A quel punto Bobby crollò. I singhiozzi scuotevano tutto il suo corpo. Billy non sapeva come reagire. Non era virile piangere, tuttavia comprendeva vagamente quello che stava passando suo fratello. «D'accordo, fratellino. Ci proverò.» Bobby si era girato dall'altra parte. Lo lasciò piangere. Comunque si sarebbe tolto di mezzo quella ragazza. Era là, rannicchiata nell'angolo, e lo fissava. Billy la guardò con disprezzo. «Ci diede cento dollari per ucciderla. Saldò il debito vendendo erba per noi. Gli avevamo detto che l'avremmo uccisa subito. Non fu così, ma lui
non lo seppe mai. Credeva che l'avessimo fatto già la prima sera.» Heartstone riprese a tossire. Stavolta iniziò a sputare sangue, e sembrava che non avrebbe più smesso. Cantoni si alzò e andò alla finestra. Colpevole e innocente. Non gli era mai passato per la testa che fossero state persone diverse a commettere i due omicidi. «Signor Cantoni!» gridò Louis Weaver. Al tornò in fretta vicino al letto. Gli bastò uno sguardo per capire che Willie era morto. La neve aveva cessato di cadere e il traffico delle cinque stava cominciando a intasare le strade. Cantoni stava seduto a occhi chiusi sul sedile posteriore della macchina. Era tutto finito. Coolidge era stato un assassino, in fin dei conti. Adesso che lo sapeva, non sembrava fare molta differenza. Si era reso conto che quello che aveva fatto in gioventù era né più né meno quello che tutti i suoi simili avevano fatto prima o poi. Era stato idealista e ingenuo, ed era sceso a compromessi con i suoi principi perché era un essere umano. Non era perfetto, ma aveva sempre cercato di essere una brava persona. Se in quell'occasione aveva fallito, in molte altre aveva avuto successo. Cantoni guardò il registratore che aveva sulle ginocchia e tirò fuori la cassetta. Meglio non lasciarla in giro, si disse. Domani avrebbe cancellato il nastro. Era troppo stanco per farlo adesso. «Torniamo alla base?» domandò Pat Kelly dal posto di guida. «No, Pat. Credo che andrò a casa.» FINE