Wilbur Smith. LA SPIAGGIA INFUOCATA. Scansione Di Roberto Pellizzaro, 1985. TRAMA.
Centaine de Thiry non può dimenticar...
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Wilbur Smith. LA SPIAGGIA INFUOCATA. Scansione Di Roberto Pellizzaro, 1985. TRAMA.
Centaine de Thiry non può dimenticare Michael Courteney; l'ha conosciuto in Francia, durante la guerra, quando il giovane pilota sudafricano imperversava contro l'aviazione tedesca e l'ha visto partire dopo la vittoria. L'ha ammirato e lo ha amato, senza limiti, e ha capito di doverlo seguire. Ma l'Africa che accoglie la giovane donna, dopo una navigazione avventurosa, non è solo il continente abbagliante e fascinoso dei racconti di Michael, è anche una terra arida, ostile, che respinge con la stessa forza con cui attira. Animata da un disperato coraggio, Centaine affronta a testa alta la drammatica avventura che la sorte le ha preparato, disposta a tutto pur di salvare la propria vita e quella che sta portando dentro di sé.
MICHAEL si svegliò al tuono rabbioso dei cannoni. Era l'osceno rito antelucano di sempre. Dai due lati delle alture le poderose artiglierie avversarie sacrificavano selvaggiamente agli dèi della guerra. Michael rimase sdraiato nel buio sotto il peso delle sei coperte di lana, guardando i lampi delle cannonate attraverso il telo. Sembrava una spaventosa aurora boreale. Le coperte erano fredde e viscide come la pelle di un morto, mentre pioggia e vento schiaffeggiavano la tenda sopra la sua testa. Il freddo cane, che lo mordeva fin sotto le coltri, gli infondeva anche un barlume di speranza: con quel tempo non si poteva volare. Speranza vana, lo capi in fretta dal rombo dei cannoni che si era messo ad ascoltare con maggiore attenzione. Dal rumore era ormai capace di trarre svariate conclusioni. Adesso somigliava a un brontolio lontano: il vento era girato a sud-ovest. Michael rabbrividì e si tirò le coperte fino al mento. Come a confermare la sua valutazione, all'improvviso il vento calò. Il crepitio delle gocce di pioggia sulla tenda diminuì e poi cessò del tutto. Cominciò a sentir gocciolare gli alberi di mele del frutteto, fuori, nel silenzio: poi vi fu un improvviso scroscio, come quando un cane si scrolla l'acqua di dosso, e sul tetto della tenda piovve una scarica di gocce. Decise di rinunciare a dare un'occhiata all'orologio d'oro, sulla valigia chiusa che gli faceva da comodino accanto alla branda. L'ora sarebbe venuta ben presto. Si raggomitolò sotto le coperte umidicce e pensò alla propria paura. Ce l'avevano tutti, anche se le rigide convenzioni in cui vivevano e volavano e morivano proibivano loro di parlarne... anzi, proibivano di farvi pure il più indiretto accenno. Magari sarebbe-stato un conforto riuscire a dire ad Andrew, la sera prima, davanti alla bottiglia di whisky, parlando della missione che li attendeva al mattino: « Andrew, ho una paura matta per quello che ci tocca fare domani ». Sogghignò al buio, immaginando l'imbarazzo di Andrew. Ma sapeva benissimo che aveva paura anche lui. Gliela si leggeva negli occhi, nel tremito incontrollabile di quel nervo sulla guancia, che riusciva a far cessare solo appoggiandoci il dito.
Tutti i veterani avevano tic e piccole manie: Andrew, oltre al tremitO alla guancia, succhiava il bocchino vuoto come fanno i poppanti col ciuccio. Michael, invece, digrignava i denti nel sonno, cosi forte che si svegliava; poi si mordeva l'unghia del pollice sinistro, fino al vivo, e ogni poco si soffiava sulla mano destra come se avesse appena toccato dei carboni ardenti. La paura lI rendeva tutti un po' pazzi, e li spingeva a bere sempre più, quanto bastava per offuscare i riflessi di un uomo normale. Loro però non erano uomini normali, e l'alcol sembrava non produrre effetti particolari: non gli faceva calare la vista, non rallentava il gioco di gambe sui pedali del timone. Gli uomini normali morivano nelle prime tre settimane. Andavano giù in fiamme come alberi colpiti dalla folgore, o si schiantavano sul molle terreno arato con una forza che rompeva loro tutte le ossa e ne faceva spuntare le schegge fuori della pelle. Andrew scampava da quattordici mesi e Michael da undici. Molte volte erano stati risparmiati dagli dèi della guerra che governavano il destino di quegli uomini volanti, a bordo dei fragili apparecchi di fil di ferro, legno e tela. Ecco la ragione dei loro continui soprassalti, dei brividi, dei battiti di ciglia, del whisky che trangugiavano, delle risate sgangherate e urlate a cui seguivano momenti di silenzio e imbarazzo; ecco la ragione per cui all'alba si raggomitolavano sotto le coperte, irrigiditi dal terrore, in attesa di sentire quei passi... Michael li senti in quel momento. Doveva essere più tardi di quanto credeva. Fuori della tenda, Biggs soffocò un'imprecazione mettendo il piede in una pozzanghera, e i suoi stivali produssero un risucchio osceno nel fango. La sua lanterna cieca brillò dall'altra parte del telo mentre sollevava un lembo della tenda ed entrava, chino. « E già tardissimo, signore... » I suo tono era gaio, ma parlava piano per cortesia nei confronti degli uiciali delle tende vicine che quella mattina non volavano. « Il vento è girato a sud-sud-est e pare che ci sarà una bellissima schiarita. Già... sopra Cambrai si vedono brillare le stelle... » Biggs posò sulla valigia-comodino il vassoio che aveva in mano e girò per la tenda, raccogliendo gli indumenti che Michael aveva lasciato cadere qua e là sulle assi del pavimento la notte prima. « Che ora è? » Michael, come sempre, faceva finta di svegliarsi in quel momento. Si stirò, sbadigliò, cosi da nascondere a Biggs i suoi terrori notturni e non intaccare la sua leggenda. « Sono le cinque e mezza, signore », disse Biggs, finendo di piegare gli indumenti. Poi gli porse la tazza di cioccolata. « E Lord Killigerran già si alzo, e l'aspetta in mensa. » « Quel maledetto è fatto d'acciaio », mugugnò Michael. Biggs raccolse la bottiglia vuota di whisky da terra e la mise sul vassoio. Michael scolò la cioccolata mentre Biggs preparava un po' di schiuma da barba in una gavetta. Poi gli tese pennello e rasoio e gli resse lo specchietto davanti al viso mentre Michael si radeva a mano libera, ancora seduto sulla branda, con le coperte sulle spalle. « Qual è la quota? » domandò Michael con voce nasale, sollevandosi le narici con le dita e radendosi il labbro superiore. « Danno tre a uno che lei e il maggiore li buttate giù tutti e due senza farvi beccare. » Michael puli il rasoio considerando le probabilità. Quell'imbroglione del sergente prima della guerra faceva l'allibratore ad Ascot e Aintree. Adesso aveva deciso che c'era una probabilità su tre che Andrew e Michael, o tutti e due, a mezzogiorno fossero morti. « un po' azzardato, non credi, Biggs? » domandò Michael. « Voglio dire, dannazione... tutti e due... »
« Ho puntato mezza sterlina su lei, signore », cambiò discorso Biggs. « Bravo, Biggs, e aggiungine altre cinque da parte mia. » Gli indicò il cilindretto delle sovrane sulla valigia e Biggs fece schizzar fuori cinque monete d'oro. Michael scommetteva sempre su di sé. Era conveniente, perché tanto, se perdeva, che gliene importava... Biggs gli tese i calzoni che aveva fatto intiepidire sopra la lucerna e Michael ci saltò dentro da sotto le coperte. Si infilò la camicia da notte nei calzoni, mentre Biggs continuava la complessa procedura necessaria a difendere il suo uomo dal freddo assassino del volo nell'abitacolo scoperto. Alla camicia da notte si sovrappose una camicia di seta, poi toccò a due golfoni da pescatore, a un giubbotto di pelle, e finalmente a un cappotto da ufficiale con le maniche tagliate per non impigliarsi nei comandi dell'aereo. A questo punto Michael era cosi intabarrato da non potersi nemmenO raggiungere i piedi. Biggs si chinò davanti a lui e gli infilò le calze di seta, poi due paia di calzettoni di lana da cacciatore, e infine gli stivaletti in pelle di kudu che Michael si era fatto in Africa. Attraverso le loro morbide e pieghevoli suole, Michael sentiva benissimo la pedaliera del timone. Quando si alzò, il suo corpo snello e muscoloso era gibbuto e informe sotto il carico di indumenti, e le sue braccia sembravano ali di pinguino. Biggs gli tenne aperta la falda della tenda e gli illumino il camminamento di assi che conduceva alla mensa attraverso il frutteto. Passando tra le altre tende buie in mezzo ai meli, Michael udì colpetti di tosse e piccoli movimenti in ciascuna. Erano tutti svegli, a sentirlo passare, a temere per lui, o forse in qualche caso a rallegrarsi con se stessi per il fatto che non toccava a loro uscire contro i palloni quella mattina. Michael si fermò un attimo al limitare del fNtteto e guardò su verso il cielo. Le nuvole nere stavano allontanandosi verso nord e si intravedevano le stelle, che però già impallidivano, insidiate dall'alba. Queste stelle sembravano a Michael ancora strane, benché ormai riconoscesse le costellazioni boreali. Erano così diverse dalle amate stelle del Sud: la Croce, Achernar, Argo... Abbassò lo sguardo e seguì Biggs con la lanterna baluginante. La mensa dello stormo si trovava in una diroccata chaumière operaia che era stata restaurata e ridipinta, dopo averne coperto il tetto di paglia sconnesso con uno strato di catrame tale da impermeabilizzare e riscaldare l'ambiente. Biggs gli cedette il passo sulla soglia. « Al suo ritorno avrò i suoi quindici bigliettoni in mano, signore », mormorò. Mai avrebbe augurato a Michael buona fortuna, perché non c'era cosa che portasse più scalogna. Nel camino ardeva un ciocco e il maggiore Lord Andrew Killigerran ci stava seduto davanti, coi piedi accavallati davanti al fuoco, mentre un inserviente della mensa sparecchiava. « Porridge, ragazzo mio », disse a Michael, togliendosi il bocchino d'ambra vuoto dai denti candidi e regolari, « con burro fuso e sciroppo. Aringa affumicata ammorbidita nel latte... » Michael rabbrividi. « Mangerò al ritorno. » Lo stomaco già chiuso per la tensione si contorse al penetrante odore delle aringhe. Con la collaborazione di uno zio dello Stato Maggiore che gli garantiva il trasporto immediato, Andrew riforniva lo stormo coi migliori prodotti della tenuta di famiglia sulle Highlands: vitello scozzesee pernice e salmone, cervo e daino, uova e formaggi, prosciutti, fNtta secca... oltre a un raro e fantastico whisky di malto dal nome impronunciabile prodotto dalla distilleria di famiglia.
« Del caffè per il capitano Courteney », gridò Andrew al caporale di mensa, e, quando arrivò, tirò fuori la fiaschetta d'argento da una tasca della tenuta di volo e versò una generosa dose di whisky nel caffè fumante di Michael. Michael trattenne in bocca la prima sorsata, sciacquandosi il palato e godendo la puntura dell'alcol sulle papille. Poi inghiot d, scaldandosi lo stomaco vuoto, e subito send il fiotto alcolico nel circolo sanguigno. Sorrise ad Andrew dall'altra parte del tavolo. « Magico », di chiarò con voce arrochita, soffiandosi sulle punte delle dita della mano destra. « Acqua di vita, ragazzo mio. » Michael amava quell'ometto raffinato come non -aveva mai amato nessun altro uomo: più di suo padre, più di suo zio Sean, che prima era stato il pilastro della sua esistenza. Non era stato così fin dall'inizio: al primo incontro, Michael era rimasto in sospetto di fronte alla bellezza stravagante e qua si effeminata di Andrew: le lunghe ciglia ricurve, le labbra mor bide e piene, il corpo minuto e ben fatto, e l'aria altezzosa. Una sera, poco dopo il suo arrivo al gNppO, Michael sta va insegnando alle altre reclute a giocare a bok-bok. Sotto la [sua direzione una squadra aveva formato una piramide uma na contro una parete della mensa, mentre un'altra cercava di farla crollare prendendo la rincorsa e gettandosi addosso al grappolo. Andrew aveva atteso la fine della mmorosa gara, poi aveva preso da parte Michael e gli aveva detto: « Comprendiamo bene che lei proviene da qualche parte al di sotto dell'equatore, e siamo indulgenti coi coloniali: tuttavia... » Da quel momento il loro rapporto era stato gelido e distante, mentre l'uno assisteva ai voli e alle vittorie dell'altro. Fin da ragazzo Andrew aveva imparato a colpire al volo la pernice rossa che sfreccia sospinta dal vento un palmo sopra l'erica: stessa abilità aveva sviluppato Michael cacciando il bec caccino etiopico e la starna della sabbia, che solcano altrettanto fulmineamente il cielo africano. Entrambi, poi, erano stati capaci di adattare tale destrezza al problema di far fuoco con una mitragliatrice Vickers dal Cruscotto vibrante di un Sopwith Pup lanciato nelle tre dimensio ni dello spazio. Quindi, si erano guardati volare. Volare era un dono. Chi non l'aveva moriva nel corso delle prime tre settimane; chi lo possedeva durava un po' di più. Dopo un mese Michael era ancora vivo, e Andrew tornò a parlargli per la prima volta dopo la sera della gara di bok-bok in mensa. « Courteney, domani usciamo insieme », fu tutto quel che gli disse. Doveva essere un pattugliamento di routine lungo la linea del fronte, per a sgrezzare » due pivelli arrivati il giorno prima dall'Inghilterra col rispettabile bagaglio di quattordici ore di volo a testa. Andrew li chiamava « braccianti del cielo »vano entrambi diciott'anni, la faccia rosea e impaziente. « Avete imparato l'acrobatica? » domandò loro Andrew. « Sissignore. » All'unisono. « Abbiamo fatto tutti e due il giro della morte. » « Quante volte? » Abbassarono gli occhi, vergognosi. « Una », ammisero. « Dio mio! » sbottò Andrew, succhiando rumorosamente dal bocchino vuoto. « E quanti stalli? » Si guardarono ignari, mentre Andrew aggrottava le sopracci glia, brontolando tra sé. « Lo stallo », interloquì in tono gentile Michael. « Sapete, quando si lascia calare la velocità e di colpo l'aquilone cade giù dal cielo. »
Di nuovo insieme scossero la testa. « No, signore, questo non ce l'hanno insegnato. » « Chissà come piacerete, voialtri due, ai crucchi », mormorò Andrew; poi continuò allegramente: « Prima cosa: dimenticate l'acrobatica, dimenticate il giro della morte e tutte le altre stronzate, o, mentre ve ne state a testa in giù, il crucco Vi spara una mitragliata nel culo o nel naso, capito? » Annuirono vigorosamente. « Seconda cosa: seguitemi, fate quello che faccio io, state attenti ai segnali manuali e obbedite all'istante, capito? » Andrew si ficcò in testa il berretto scozzese e loccfissò con la sciarpa ver de che costituiva ormai la sua insegn . « Venitemi dietro, bam bini. » Coi due novellini incastrati in mezzo a loro, diressero verso Arras a quota tremila, coi motori Le Rhone dei Sopwith Pup che rombavano con tutta la forza dei loro ottanta cavalli. Era no i prìncipi dell'aria, le più perfette macchine volanti costruite dall'uomo, quelle stesse che avevano fatto precipitare giù dal cielo Max Immelmann e il suo famoso Fokker Eirdekkers Era una giornata bellissima, con solo qualche cirrocumulo troppo alto per poter nascondere la minaccia di uno stormo te desco, e l'aria così luminosa e limpida che Michael vide il vecchio biplano da ricognizione Rumpler, a una distanza di quindici chilometri, Stava girando piano sopra le linee francesi, dirigen do il fuoco delle batterie tedesche sulle retrovie. Andrew scorse il Rumpler un istante dopo Michael, e fece un laconico segnale con la mano. Avrebbe dato ai novellini lsemozione di mitragliarlo. Michael non conosceva altri coman tanti di squadrone capaci di tenersi da parte al balenare di una facile vittoria: era quella, infatti, la stMda maestra verso le pro mozioni e le agognate decorazioni. Segnalò d'aver capito. Come cani da pastore, spinsero i novellini a planare verso il lento biposto tedesco sottostante, che i loro occhi inesperti non avevano ancora scorto. Lo si capiva benissimo dagli sguardi perplessi che saettavano continuamente in direzione dei compagni veterani. I tedeschi erano così intenti a controllare la precisione delle loro artiglierie che non si accorsero della mortale minaccia costituita dalla formazione di caccia che piombava loro addosso dall'alto. All'improvviso il giovane pilota più vicino a Michael sorrise di gioia e di sollievo, indicando davanti a sé. Finalmente aveva visto il Rumpler. Andrew alzò il pugno sopra la testa nel vecchio segnale della carica di cavalleria e i pivelli puntarono verso terra senza togliere gas. Il Sopwith intraprese una picchiata così brusca che Michael vide la struttura di legno e la tela delle quattro ali piegar si all'indietro per la spinta e la tela raggrinzirsi vicino all'attaccatura delle ali. Il secondo novellino lo seguì con altrettanta furia. A Michael vennero in mente due leoncini che aveva visto in Africa alle prese con una zebra, un maschio pieno di cicatrici e di furbizia. Scalciando, con qualche disdegno, lo stallone se ne era liberato facilmente. Entrambi i pivelli aprirono il fuoco da una distanza di quat trocentO metri, dando un avvertimento prezioso al pilota tede sco che non si era ancora accorto del pericolo. Con una bella evoluzione sotto il naso dei caccia in picchiata si sottrasse al loro attacco e i Sopwith lo superarono di un miglio, coi piloti che si guardavano intorno freneticamente alla ricerca del ricognitore scomparso. Andrew scosse tristemente la testa e guidò la seconda ondata. Arrivarono picchiando proprio in coda al Rumpler, il cui pilota intraprese una stretta virata a sinistra, salendo, per dare al mitragliere di coda la possibilità di sparare ai nemici. Insie-
me, Michael e Andrew virarono in direzione opposta per togliergli questa possibilità, ma, appena il pilota tedesco si accorse della loro manovra e corresse la rotta, controvirarono e l'attaccarono di nuovo in coda. Andrew era davanti. Sparò una breve raffica con la Vickers al mitragliatore di coda dell'aereo tedesco, da una distanza di circa cinquanta metri, e lo colpi. L'aviatore spalancQ le braccia lasciando andare la Spandau, la cui canna prese a mulinare all'impazzata, mentre il corpo del mitragliere era raggiunto e fatto a pezi da una scarica di pallottole calibro 7,62. Il pilota tedesco entrò in picchiata per allontanarsi, e il Sopwith di Andrew quasi andò a sfiorarlo con l'ala superiore. Venne il turno di Michael. Giudicò l'anticipo del Rumpler in picchiata, sfiorò la pedaliera imprimendo all'aereo una leggera deviazione come se si trattasse di colpire un beccaccino con la doppietta, e con l'indice schiacciò il grilletto della Vickers per un secondo, sparando una raffica di quindici colpi. Vide la tela della fusoliera del Rumpler sbrindellarsi proprio sotto il vano del pilota, in corrispondenza del busto. Il tedesco era a non più di venti metri di distanza, voltato verso Michael e intento a fissarlo con terrore. Michael distinse il colore degli occhi sbarrati, che erano azzurri, e vide che quella mattina non si era fatto la barba perché aveva la mascella ricoperta di peluria dorata. Quando le pallottole lo colpirono aprl la bocca, e ne sgorgò il sangue proveniente dai polmoni trapassati dalle pallottole, che si trasformò, vaporizzato dal vento relativo, in una scia rosa, mentre già Michael cabrava per allontanarsi. Il Rumpler si capovolse lentamente, con il morto assicurato ai comandi dalle cinghie, e cominclò a precipitare. Cadde nel centro di un campo schiantandosi in un patetico groviglio di tela e longheroni di legno. Mentre Michael riprendeva posizione al fianco di Andrew, questi lo guardò, annui brevemente e gli segnalò di seguirlo a recuperare i due novellini che, lontano lontano, descrivevano ampi cerchi incrociando freneticamente alla ricerca del Rumpler svanito. La cosa richiese più tempo di quello che avevano previsto, e quando ripresero la formazione originaria si trovarono più a ovest di quanto si fossero mai spinti. All'orizzonte Michael riusci a distinguere il grosso serpente argentato della Somme, che cercava tra i prati verdi la via del mare. Virarono e si diressero di nuovo a est verso Arras, cabrando per sfuggire, ad alta quota, a eventuali attacchi in picchiata dei Fokker Jagdstaffel. Guadagnando altitudine, si apri davanti ai loro occhi il vasto scenario della Francia settentrionale e del Belgio meridionale. La terra era un mosaico di una dozzina di qualità di verde, intercalati dal bruno dei campi arati. Il fronte, da quell'altezza, non si distingueva nemmeno. Anzi si: ecco la linea bruna sottilissima di terra devastata da bombe e cannonate... ma il fango, e la morte e la disperazione dei soldati in trincea si potevano soltanto intuire. I due piloti veterani non smettevano mai neppure per un istante di scrutare il cielo da ogni parte. Nell'abitacolo scoperto le loro teste si muovevano a un ritmo prefissato, con gli occhi mai fermi, mai sfocati, mai ipnotizzati dall'elica rotante in primo piano. Invece i novellini se la godevano spensieratamente. Tutte le volte che Michael guardava dalla loro parte gli rivolgevano cenni di saluto e sorrisi. Alla fine smise di fargli segno di scrutare il cielo, non capivano nemmeno il segnale. Arrestarono la salita a tremilacinquecento metri, il tetto dei Sopwith, e il disagio che aveva attanagliato Michael mentre volava basso su territorio sconosciuto svani appena rivide la città
di Arras balenargli davanti. Sapeva che nel sovrastante banco di cumuli non poteva celarsi alcun Fokker: non erano in grado di volare cosi in alto. Lanciò un altro sguardo d'insieme alle linee. Appena a sud di Mons c'erano due palloni d'osservazione tedeschi, mentre proprio sotto di loro una formazione di monoposto DH2 stava facendo ritorno ad Amiens, il che significava che appartenevano al 24° Stormo. Nel giro di dieci minuti sarebbero atterrati... Michael non finì di formulare il pensiero. A un tratto e come per incanto il cielo tutt'intomo a loro pullulò di aeroplani multicolori e le mitragliatrici Spandau presero a sgranare il ben noto rosario di morte. Benché assolutamente sbalordito, Michael reagi d'istinto. Dando gas, virò alla massima velocità consentita dal Sopwith mentre davanti al naso gli sfrecciava una macchina a forma di squalo, dipinta a scacchi rossi e neri, con sul muso la nera croce di Malta dell'insegna nemica. Un centesimo di secondo più tardi e la raffica delle sue Spandau avrebbe dilaniato Michael. Si rese conto che erano apparsi dall'alto; benché fosse incredibile, erano proprio nascosti nel banco di nuvole sopra i Sopwith. Un apparecchio nemico, dipinto di rosso-sangue, colpi Andrew alla coda e la sua raffica devastò l'ala inferiore sinistra spostandosi inesorabilmente verso l'abitacolo scoperto in cui stava rannicchiato il maggiore, col volto ridotto a una macchia bianca sotto il copricapo noto come tam o' shanter e la sciarpa verde. Istintivamente Michael puntò su di lui e il tedesco, piuttosto di rischiare la collisione, piegò via. « Ngi dia! » urlò Michael. Era il grido di guerra degli zulu. Riuscì a portarsi in coda alla macchina rossa, nella posizione che consentiva la raffica mortale, ma proprio mentre stava puntando la Vickers vide incredulo l'aereo nemico dar manetta e distanziarlo senza fatica, mentre la raffica di un altro di quei terribili apparecchi, che si era messo in coda a lui, tempestava sul Sopwith facendo saltare, con uno schiocco metallico, uno dei fili che azionavano il timone direzionale. Sfarfallò via, mentre Andrew cercava di sfuggire cabrando a un altro apparecchio tedesco che rapidamente lo incalzava tentando di allinearsi alla sua coda e di inquadrarlo nel mortale collimatore. Michael puntò contro il tedesco a corna basse e le ali rosse e nere scherzevedmente lo evitarono, mentre già un altro apparecchio nemico era pronto a sostituirlo. Stavolta Michael non riuscì a scrollarselo di dosso. L'apparecchio scintillante era troppo veloce, troppo potente, e Michael si considerò un uomo morto. Di colpo la raffica della Spandau si interruppe, e Andrew piombò in picchiata accanto all'ala di Michael portandosi dietro il tedesco. Disperatamente Michael si mise a tallonare Andrew e formarono un circolo difensivo, coprendosi vicendevolmente pancia e coda mentre il nugolo di apparecchi tedeschi mulinava attorno in preda a furia omicida. Solo una parte del cervello di Michael sapeva che i novellini erano morti entrambi. Erano stati colpiti al primo istante dell'attacco: uno era precipitato a tutto gas, con le ali danneggiate del Sopwith piegate all'indietro e poi strappate via tal vento relativo un attimo prima dello schianto, e l'altro era andato giù bruciando come una torcia e lasciandosi dietro una densa scia di fumo nero. Miracolosamente come erano apparsi, i tedeschi se ne andarono... incolumi, invulnerabili, scomparvero in direzione delle loro linee, abbandonando i due sforacchiati Sopwith al loro destino.
Andrew atterrò davanti a Michael e si fermarono ala contro ala vicino all'inizio del frutteto. Scesero barcollando dagli apparecchi e vi girarono lentamente attorno, per controllare i danni. Quindi si fermarono a guardarsi in faccia, ancora atterriti dallo shock. Andrew si frugò in tasca e tirò fuori la fiasca d'argento, svitò il tappo, puli l'imboccatura con un lembo della sciarpa verde e la porse a Michael. « To', ragazzo », disse gravemente, « dagli un colpetto. Credo che te lo sia guadagnato. Lo credo proprio. » Quel giorno in cui gli Alleati avevano perso la superiorità aerea sui cieli di Francia, per l'introduzione degli Albatros-D, un perfezionamento degli Jagdstaffel tedeschi, i due erano diventati compagni d'arme per la vita e per la morte, uniti e stretti dalla comune necessità di difendersi vicendevolmente volando ala ad ala o formando il cerchio continuo per tenere a bada i multicolori quanto mortali apparecchi nemici. All'inizio si limitarono a salvare la pelle; in seguito, però, chini nottetempo sulle carte tardivamente procurate loro dallo spionaggio, cercarono i punti deboli delle nuove macchine nemiche. L'Albatros, impararono, era mosso da un motore Mercedes da 160 cavalli, due volte più potente del Le Rhone montato sui Sopwith. Era armato, appresero, di due mitragliatrici Spandau gemelle che sparavano, grazie al sincronizzatore, attraverso l'elica. Il calibro delle loro pallottole era 7,92 millimetri, contro il 7,62 dell'unica Vickers che montavano i Sopwith. Erano dunque superiori sia per potenza sia per armamento. L'Albatros pesava tre quintali più del Pup e poteva assorbire un tremendo volume di fuoco nemico prima di precipitare. « E cosi, vecchio mio, dovremo imparare a fregarli », commentò Andrew. In seguito tornarono a uscire contro le Jasta, le micidiali squadre da caccia tedesche, e scoprirono le tebolezze dei loro nuovi aerei. Erano solo due. I Sopwith avevano la virata più stretta e dunque potevano prenderli d'infilata sul fianco; inoltre il radiatore dell'Albatros era sistemato proprio davanti al posto di pilotaggio. Bastava colpirlo per riversare sul pilota nemico schizzi di vapore bollente, ustionandolo a morte. Ciò sapendo, abbatterono i primi apparecchi e scoprirono che, esaminando gli Albatros, avevano al contempo esaminato se stessi reciprocamente, senza scoprirsi pecca alcuna. Così divennero amici oltre che compagni d'arme, e ben presto cominciarono ad amarsi come e più di fratelli. Ed eccoli all'alba seduti l'uno accanto all'altro, sorseggiando caffè corretto con whisky, in attesa di decollare per l'attacco ai palloni nemici, infondendosi l'un l'altro forza e coraggio. « Tiriamo a sorte? » ruppe il silenzio Michael. Era quasi ora di decollare. Andrew lanciò in aria una sovrana, la prese al volo e la posò sul tavolo, tenendola coperta con la mano. « Testa », disse Michael, e Andrew alzò la mano. « La solita fortuna », deprecò fissando, col compagno, il profilo barbuto e deciso di Giorgio v. « Ti starò in coda », decise Michael, e Andrew aprì la bocca per protestare. « Ho vinto e scelgo », tagliò corto Michael, alzandosi. L'attacco ai palloni frenati ricordava a Michael un incidente frequente nel veld sudafricano. Quando si va in fila indiana e un uomo calpesta la vipera addormentata che chiamano putladder (un serpente velenosissimo che quando è irritato si gonfia, come il cobra, ma appartiene alla specie dell'aspide), la bestia morde colui che viene dopo. In fila indiana si attaccano i palloni frenati: il primo mette in allarme la difesa antiaerea, il secondo ne affronta la furia. Michael aveva scelto apposta la se-
conda posizione perché sapeva che Andrew, se avesse vinto lui, avrebbe fatto lo stesso. Si fermarono a spalla a spalla sulla porta della mensa, infilandosi i guanti e abbottonandosi, con lo sguardo al cielo, le orecchie tese a giudicare il vento dal rombo dei cannoni. « Ci sarà ancora nebbia nelle valli », mormorò Michael. « Il vento di sicuro non è ancora riuscito a disperderla. » « Speriamolo, ragazzo », rispose Andrew. Barcollando infagottati, si bdire-sero verso gli apparecchi acquattati tra gli ultimi alberi del frutteto. Quanto erano sembrati nobili a Michael un tempo! Ma quanto gli parevano brutti ora, col grosso motore a stella che impediva parzialmente la visione anteriore, paragonati ai filanti Albatros dall'aria di squali, col loro motore Mercedes dai pistoni in linea. Quanto sembravano delicati, a paragone della possente struttura degli apparecchi nemici. « Dio, ma quando ci daranno dei veri aeroplani da portare! » borbottò, e Andrew non rispose. Fin troppo spesso avevano lamentato l'interminabile attesa dei nuovi SE5 promessi... gli Scout Experimental n. 5, che forse, finalmente, avrebbero loro permesso di affrontare le Jasta su un piano di parità. Il Sopwith di Andrew era dipinto di verde brillante per fare pendant con la sciarpa, e la fusoliera dietro il vano del pilota era insignita di quattordici circoli bianchi, che rappresentavano i duelli aerei vinti e ufficialmente riconosciuti dal comando, come tacche sul calcio del fucile d'un cecchino. Il nome dell'apparecchio era dipinto sopra il cofano del motore: Frattaglia Volante. Michael aveva scelto un giallo brillante per il proprio aeroplano. Sotto l'abitacolo scoperto aveva fatto dipingere una tartaruga alata dal cipiglio preoccupato e la scritta: Non domandate a me, qui lavoro soltanto. Sulla fusoliera aveva sei cerchi bianchi. Aiutati dai meccanici, montarono sull'ala inferiore e si intrufolarono negli angusti vani di pilotaggio. Michael poggiò le suole sulla pedaliera e schiacciò a destra e a sinistra, guardando dietro se il comando si trasmetteva al timone. Soddisfatto, alzò il pollice in direzione del meccanico che aveva lavorato quasi tutta la notte a riparare il cavo spezzato dalla raffica nell'ultima uscita: al gesto, il meccanico sogghignò e corse davanti alla macchina volante. « Interruttore chiuso? » gridò. « Chiuso », confermò Michael, sporgendosi per farsi vedere di fianco all'ingombrante motore. « Cicchetto! » « Cicchetto », ripeté Michael azionando la pompetta del carburante. Quando il meccanico fece girare l'elica, si sentì il risucchio della benzina nel carburatore sotto il cofano. « Contatto! » ordinò il meccanico. « Contatto! » Al colpo successivo il motore scoppiettò e si accese. Fumo azzurrino uscì dagli scappamenti, mentre l'elica girava a scatti, il motore sputava, riprendeva, e si avviava regolarmente, emettendo una gran puzza di olio di ricino bruciato. Mentre Michael completava i controlli che precedono il decollo, lo stomaco gli rumoreggiava e le viscere gli si torcevano negli spasmi della colica. Il lubrificante dei motori di precisione era olio di ricino, e i suoi vapori davano a tutti i piloti una continua, leggera diarrea. I veterani avevano imparato presto a controllarla: l'whisky aveva un meraviglioso effetto astrin gente, se preso in quantità sufficiente. Tuttavia i novellini, al ritorno dalle missioni di volo, spesso camminavano come sulle uova, tutti rossi in volto, e venivano affettuosamente chiamati,
per la puzza che emanavano, « sporcamutande » o « caga rella ». Michael si mise a posto gli occhialoni e rivolse uno sguardo ad Andrew. Si scambiarono un cenno d'intesa e il maggiore diede gas. L'aereo prese a rullare sull'erba bagnata. Michael lo seguì, col meccanico che correva attaccato alla punta dell'ala sinistra per aiutarlo a imboccare bene la stretta pista fangosa tra i meli. Davanti a lui Andrew era già in aria, sicché anche Michael diede tutto gas. Quasi immediatamente il Sopwith sollevò la coda, conferendogli una migliore visione anteriore, e Michael sentì un rimorso di coscienza per la sua precedente slealtà: era una bellissima macchina, con cui volare era una gioia. Nonostante il fango della pista, si innalzò subito, e a trenta metri di quota Michael si dispose in coda al verde velivolo di Andrew. Ormai la luce era sufficiente per distinguere, a destra il tetto di rame, verde, della chiesa del paesino di Mort Homme, davanti a lui si stendeva il bosco a forma di « T » di querce e faggi, con la parte lunga della « T » perfettamente allineata alla pista d'atterraggio dello stormo, un grande aiuto per orientarsi soprattutto nelle giornate di maltempo e scarsa visibilità. Oltre gli alberi, il castello dal tetto rosa, circondato da prati e giardini, e dietro il castello un poggetto. Andrew piegò leggermente a destra, per superarlo. Michael lo imitò, sporgendosi dal vano di pilotaggio. Sarebbe stata già là? Era troppo presto, il poggetto era deserto. Provò una fitta di delusione e timore. Se era là a salutarli dalla cima della collina, tutto andava bene. Oggi che dovevano attaccare i palloni ne avevano proprio bisogno... avevano un gran bisogno della sua benedizione. La ragazza raggiunse la cima della collina e fece fermare lo stallone. Pochi secondi prima che la superassero, si levò il caw pello e la folta capigliatura nera k piovve sulle spalle. Sventolò il copricapo, e Andrew fece oscillare le ali per salutarla rombando oltre il poggio. Michael si avvicinò di più. Lo stallone bianco arretrò, muovendo il capo preoccupato, mentre la macchina gialla si dirigeva rombando verso di lui, ma la ragazza lo calmò in fretta, continuando a sventolare il cappello in segno di saluto. Michael voleva vederla in faccia. Erano quasi alla stessa altezza, in cima alla collina, e per un istante si guardarono negli occhi. Quelli di lei erano scuri, grandi, e il pilota ebbe il batticuore. Si toccò il casco in segno di saluto, sapendo ora, nel profondo del cuore, che tutto sarebbe andato bene. Poi rimosse il ricordo di quegli occhi dalla sua mente e tornò a guardare davanti a sé. Dopo dieci miglia, dove la bassa catena di colline gessose attraversava il fronte, vide con sollievo che aveva ragione, la brezza non aveva ancora disperso la nebbia mattutina dalle valli. Le colline di gesso erano orribilmente sfigurate dalle esplosioni, non vi rimaneva sopra alcuna traccia di vegetazione, le querce erano tutte smozzicate all'altezza di una spalla d'uomo, e i crateri delle granate si sovrapponevano, pieni d'acqua stagnante. Per quelle colline si era combattuto per mesi e mesi, e al momento erano in mani alleate: erano state conquistate all'inizio dell'inverno precedente, a un tale prezzo di vite umane da non potersi credere. La terra piagata e lebbrosa sembrava deserta, ma era popolata dalle legioni dei vivi e dei morti che marcivano assieme nel fango. La puzza di morte portata dal vento raggiungeva anche i piloti che volavano basso, ed essi penarono a vincere i conati di vomito. Dietro la cresta le truppe alleate, sudafricani e neozelandesi della 3a Armata, stavano attestando capisaldi in previsione della massiccia offensiva germanica che si stava preparando davanti
a loro, e che tutti, dai generali ai soldati ai civili che avevano la disgrazia di abitare lì, sapevano che si sarebbe scatenata contro di loro non appena il tempo si fosse stabilizzato. La preparazione della nuova linea difensiva era gravemente ostacolata dall'artiglieria tedesca, a nord della catena di colline, che inviava un diluvio di ferro e fuoco ed esplosivo ad alto potenziale sulle truppe alleate, quasi senza interruzione. Rombando verso il fronte, Michael distingueva le nuvole gialle create dall'esplosione delle granate degli obici, e immaginava benissimo la disperazione degli uomini annidati nel fango e tormentati dall'incessante martellamento di bombe. Mentre Michael sfrecciava verso le montagnole, il rumore dello sbarramento d'artiglieria superò perfino quello, assordante, del grosso motore a stella Le Rhone, e del vento relativo. Era come il rumore dei cavalloni che si abbattono sulla scogliera, come l'assolo di un tamburo impazzito, come il polso febbrile di questo mondo folle e malato, e il fiero risentimento di Michael contro gli uomini che avevano ordinato loro di volare addosso ai palloni frenati diminui man mano che aumentava il tuono dell'artiglieria. Era un lavoro da fare, se ne rese conto benissimo vedendo quella terribile sofferenza. Tuttavia i palloni frenati costituivano il più temuto degli obiettivi per gli uomini volanti. Ecco perché Andrew Killigerran non ci mandava altri. Michael ora li vide: grossi lumaconi d'argento appesi al cielo dell'alba, sopra le colline. Uno era proprio davanti a loro, l'altro qualche miglio più a est. A questa distanza i cavi che li collegavano a terra erano invisibili, e le ceste di vimini da cui gli osservatori godevano una vista panoramica sulle retrovie alleate non erano che puntini neri sospesi sotto le sfere scintillanti di seta riempita di idrogeno. In quel momento un forte spostamento d'aria urtò i Sopwith facendone tremare le ali, e davanti a loro una fontana di fiamme e fumo si alzò nel cielo, arrotolandosi su se stessa, nera e arancione, a forma di incudine, molto più alta degli apparecchi, costringendoli a virare per evitare la rovente colonna di fuoco. Una bomba tedesca, guidata dai palloni, aveva colpito una polveriera avanzata alleata, e Michael senti crescere in sé il risentimento e la paura, ben presto sostituiti dall'odio, l'odio bruciante per quegli uomini appesi in cielo, dagli occhi d'avvoltoio, che indirizzavano la morte a terra con spassionata freddezza Andrew si rimise in linea con la cresta dei bassi monti, aggirando la colonna dell'esplosione, e prese ad abbassarsi sempre più, col carrello ormai poco sopra i sacchetti di sabbia delle trincee. Dall'apparecchio vedevano le truppe sudafricane muo versi in fila nei camminamenti, bestie da soma, non più uomini, sotto il peso delle armi e degli zaini. Bed pochi si curavano di alzar lo sguardo sulle macchine dipinte a colori vivaci che rombavano sopra le loro teste. Chi lo faceva mostrava facce grige di fango, espressioni vacue, occhi spenti. Davanti a loro si apri l'imbocco di uno dei bassi valichi che tagliavano le colline gessose. La valle era invasa di candida nebbia che, agitata dalla brezza, andava su e giù come se la terra stesse facendo l'amore sotto un piumino argenteo. Vicino, davanti, udi la raffica di una Vickers. Era Andrew che provava la propria arma. Michael virò leggermente per rompere l'allineamento e lo imitò. I proiettili traccianti, con la punta al fosforo, descrissero nell'aria belle linee bianche. Michael tornò ad allinearsi con Andrew e si infilarono nella nebbia, entrando in una nuova dimensione di luce e rumori ovattati. Ilchiarore diffuso creava aloni coi toni dell'arcobaleno attorno a entrambi i velivoli, e l'umidità si condensava sugli occhialoni di Michael. Se li tirò sulla fronte e si mise a scrutare
davanti a sé. Ilpomeriggio prima, Andrew e Michael avevano perlustrato attentamente lo stretto passaggio tra le creste, assicurandosi che non vi fossero ostacoli od ostruzioni, e imparando a memoria svolte e controsvolte della vallata. Restava comunque un passaggio pericoloso con la visibilità ridotta a meno di duecento metri e le pendici di gesso che si alzavano, quasi verticali, a poca distanza dall'estremità delle ali. Michael fissò la coda dell'aeroplano verde e badò solo a seguir quella, confidando in Andrew per uscire dal budello, mentre il freddo umido della nebbia cominciava a morderlo sotto i vestiti intorpidendogli le dita nei guanti di pelle. Davanti a lui, Andrew cabrò all'improvviso, e Michael lo imitò scorgendo il filo spinato dei cavalli di frisia, attorcigliato e arrugginito, sfrecciargli di sotto. « La terra di nessuno », mormorò, e poi subito ecco le trincee tedesche, un rapido balenare di parapetti oltre i quali si affollavano i soldati in uniforme grigia con quei loro bNtti elmi chiodati. Pochi secondi dopo sbucarono dalla nebbia in un mondo illuminato dai primi raggi bassi del sole, in un cielo che li sbalordi, tanto era brillante... e Michael si rese conto che la sorpresa era riuscita alla perfezione. Ilbanco di nebbia li aveva nascosti agli osservatori dei palloni attenuando anche il rombo dei motori. Proprio di fronte a loro il primo pallone galleggiava sospeso in cielo a un'alteza di cinquecento metri, molto più in alto di loro. Il cavo d'acciaio sembrava un filo di ragnatela e dal pallone andava all'argano a vapore piazzato in una buca nel suolo riparata da sacchetti di sabbia. Il pallone sembrava completamente indifeso, ma sui campi sottostanti l'occhio di Michael distinse le mitragliere. I loro nidi sembravano termitai africani, mucchietti tondi di terra bordati di sacchetti di sabbia. Non riuscì a contarli nei pochi secondi a disposizione, erano troppi. Badò solo ai cannoni antiaerei, che sembravano incerte giraffe piazzate sulla base circolare ruotante, ed erano già puntati verso il cielo, pronti a spedire le loro micidiali granate fino a cinquemila metri d'altezza. Li aspettavano. Sapevano che prima o poi sarebbero arrivati gli aeroplani, ed erano pronti. Michael si rese conto che la nebbia aveva fatto loro guadagnare solo pochi secondi: già i serventi correvano ai pezzi. Una delle lunghe canne antiaeree prese a oscillare, a ruotare, puntando contro di loro. Quindi, mentre Michael dava gas e il Sopwith balzava avanti, vide uno sbuffo di fumo bianco levarsi dall'argano a vapore: da terra stavano cercando disperatamente di tirar giù il pallone, almeno fino a portata di tiro delle mitragliatrici. Rapidamente la serica sfera cominciò a scendere, e Andrew cabrò puntando contro di essa. A tutto gas, col motore che urlava, Michael lo segui verso l'alto, diretto a metà cavo, dove calcolava che si sarebbe trovato il pallone nel momento in cui l'avrebbe raggiunto: solo centocinquanta metri sopra la testa di cannonieri e mitraglieri. Andrew aveva quasi duecento metri di vantaggio su Michael, e ancora i cannoni non avevano aperto il fuoco. Adesso era alla quota del pallone e lo stava attaccando. Michael sentì chiaramente il rosario della Vickers e scorse nell'atmosfera gelida le tracce dei proiettili incendiari, che allacciarono per un istante l'aereo verde, lanciato alla massima velocità, al pallone frenato. Quindi Andrew virò, sfiorando con la punta dell'ala il serico globo argenteo che per lo spostamento d'aria oscillò mollemente, continuando a scendere. Toccava a Michael adesso, e, proprio mentre armava la Vickers, da terra aprirono il fuoco. Senti gli spari e i sibili
laceranti degli shrapnel e il Sopwith sobbalzò pericolosamente nella tempesta di proiettili, ma il tiro era lungo: le granate scoppiarono cinquanta o sessanta metri sopra di lui. Erano più precisi i mitraglieri, a quella distanza brevissima. Michael sentì le pallottole forare la struttura del Sopwith e fu circondato dalle righe incandescenti dei traccianti. Cabrò virando al massimo, una manovra da dar la nausea, ma riuscì in questo modo a sfuggire alle strisce di fuoco, caricando il pallone. Sembrava corrergli incontro, la seta faceva l'effetto schifoso di un bruco avvoltolato nel bozzolo argenteo. Scorse gli osservatori tedeschi nella loro cesta scoperta, tutti infagottati per difendersi dal freddo. Uno lo fissava con espressione legnosa, l'altro era sfigurato dall'ira e dal terrore e gli lanciava sfide e maledizioni che si persero nel fragore dei motori e delle raffiche. Inutile puntare la mitragliatrice, il pallone riempiva tutto il suo campo visivo. Michael tolse la sicura e schiacciò la leva: la mitragliatrice cominciò a sobbalzare, scuotendo tutto l'aeroplano, e il fumo di fosforo bruciato delle pallottole incendiarie gli si riversò in faccia, soffocandolo. Adesso che volava dritto e parallelo al terreno i mitraglieri lo ritrovarono, tempestando il Sopwith: ma Michael continuò l'attacco, limitandosi a schiacciare alternamente il pedale destro e sinistro, per far oscillare l'aeroplano di qua e di là pur proseguendo dritto e continuando a innaffiare il pallone di proiettili incendiari. « Brucia! » urlava. « Brucia, dannato, brucia! » L'idrogeno puro non è infiammabile, lo diventa, e diventa addirittura esplosivo, quando si mischia con l'ossigeno in proporzione di uno a due. Il pallone continuava a incassare proiettili senza alcun visibile effetto. « Brucia! » gli gridò ancora. Ba mano che attanagliava la leva di sparo continuava a spedire proiettili incendiari a raffica, mentre i bossoli volavano di lato. Dalle centinaia di fori prodotti nel pallone da Andrew e da lui si sprigionava l'idrogeno, e si mischiava con l'aria. « Ma perché non bruci? » Nel suo stesso grido selvaggio send l'angoscia e la disperazione. Era a ridosso del pallone: ormai doveva virare, se non voleva investirlo. Tutto era stato vano. Ma nel momento stesso in cui si rendeva conto del fallimento, seppe che non avrebbe virato. Se doveva farlo, avrebbe speronato l'aerostato. Proprio mentre lo pensava, il pallone gli esplose davanti. Parve aumentare di centinaia di volte il proprio volume, riempire il cielo intero e nello stesso tempo infiammarsi. Uno sbuffo di drago che alitò sopra il Sopwith e Michael, scottandogli le guance, accecandolo e sollevando uomo e macchina come una foglia secca aleggiante sopra un falò. Michael lottò per controllare l'aereo mentre il Sopwith s'impennava e, dopo un giro della morte, cominciava a precipitare. Lo riprese appena prima dello schianto, e nel riguadagnare quota si guardò alle spalle. Tutto l'idrogeno era bruciato in quell'unica vampa diabolica, e adesso l'involucro di seta precipitava squarciato e sgonfio, piovendo come un ombrello infuocato sopra le ceste degli osservatori. Uno di essi saltò giù e precipitò per centocinquanta metri scalciando convulsamente, nel turbinio delle falde del cappotto, fino a essere letteralmente inghiottito, senza rumore e senza lasciar traccia, dall'erba rasa del prato. L'altro restò nel cesto e fu avvolto dai lembi di seta in fiamme. A terra, i serventi scappavano dalla buca dell'argano a vapore come formiche impazzite, ma la seta incendiata cadeva troppo in fretta e li intrappolò. Michael non provò per loro alcuna pietà, sentì invece
sorgere dentro un senso di grande trionfo, la reazione primordiale al suo stesso terrore. Aprì la bocca per lanciare il suo grido di guerra, e in quel momento davanti al Sopwith scoppiò una granata sparata da uno dei cannoni piazzati sul lato nord del campo. Ancora una volta l'aereo si impennò e le schegge forarono la fusoliera. Mentre Michael cercava di mantenere il controllo dell'apparecchio, la pancia del Sopwith si squarciò, consentendogli di vedere il terreno di sotto, e una ventata gelida gli sollevò le falde del cappotto. Riuscì a tenere l'aereo in linea di volo, ma stavolta il guaio era grosso. Sotto la fusoliera qualcosa sbatteva al vento, e da una parte le ali squarciate avevano perso portanza, inclinando l'apparecchio. Stava su come a forza di braccia, ma finalmente era fuori tiro dai cannoni. Ed ecco che Andrew gli apparve a fianco, guardandolo in ansia, e Michael sogghignò gridando di trionfo. Andrew gli stava facendo un segnale col pollice: « Torna alla base! » Michael si guardò intorno. Mentre cercava di mantenere il controllo dell'aereo, si erano avventurati sempre più a nord, addentrandosi profondamente nel territorio occupato dai nemi ci. Sfrecciarono sopra un incrocio dove si era creato un disastroso imbottigliamento di uomini e mezzi. I soldati in uniforme grigla schizzarono a nascondersi nei fossi. Michael li ignorò e scrutò davanti: a tre miglia, il secondo pallone si librava ancora, serenamente, sopra la cresta delle colline. Michael segnalò ad Andrew che avrebbe portato a termine l'attacco. Il maggiore ripeté l'ordine di tornare alla base, accompagnandolo stavolta col gesto del tagliagole, che significava, con tutta evidenza, pericolo mortale. Michael lanciò un'occhiata allo squarcio che aveva tra i piedi, dove la fusoliera era stata distrutta. Il fracasso era probabilmente prodotto da una ruota del carrello d'atterraggio che aveva schiantato il sostegno e sbatteva al vento. Ali e fusoliera erano sforacchiate dalle pallottole nemiche, e brandelli di tela svolazzavano come bandiere di preghiera buddiste nella scia del vento relativo: ma il motore Le Rhone rombava ancora al massimo, indenne, nel suo urlo guerresco. Andrew stava ancora segnalandogli di tornare, ma Michael gli fece di rimando il segnale « Seguimi! » ed effettuò una stretta virata, mettendo a dura prova le strutture martoriate del Sopwith. Michael era in preda all'esaltazione guerriera, la passione selvaggia del combattente che non teme più né morte né ferite. La sua vista aveva acquistato una lucidità innaturale ed egli pilotava il SopFith danneggiato come se fosse un'appendice naturale del suo corpo. Si sentiva un rondone che si abbassa sull'acqua per bere in velocità, per come sfiorava siepi e alberi con la ruota superstite del carrello; e un falco, per come sogguardava crudelmente il pallone che, frattanto, aveva cominciato piano piano a discendere. Naturalmente avevano scorto l'esplosione dell'altro pallone e stavano correndo ai ripari. Sarebbero riusciti a scendere prima dell'arrivo di Michael. I difensori sarebbero stati all'erta, col dlto sul grilletto. Si sarebbe trattato di un attacco al livello del suolo alle posizioni guarnite... ma, perfino nella sua rabbia suicida, Michael non aveva.perso l'astuzia del cacciatore. Nel volo d'avvicinamento si servlva di ogni copertura possibile. Una stradina di campagna, con la sua fila di pioppi: Michael vi si nascose dietro. Nello specchio retrovisivo piazzato sull'ala controllò di essere seguito dall'aereo verde di Andrew: era vicinissimo, l'elica quasi sfiorava la sua coda. Michael rise, con aria di squalo, tirò a sé la cloche e superò il filare di pioppi con la naturalezza di un cavallo che salta l'ostacolo.
Il pallone si trovava ormai a trecento metri di distanza. Aveva appena raggiunto il terreno. I suoi serventi stavano aiutando gli osservatori a uscire dalla cesta: poi si misero a correre verso il più vicino riparo. I mitraglieri, fino a quel momento impediti dallo schermo dei pioppi, cominciarono a sparare tutti insieme. Michael volava in un torrente di fuoco che riempiva l'aria intorno a lui. Gli shrapnel esplodevano scuotendo il velivolo e risucchiando l'aria, sicché gli dolevano i timpani per i continui sbalzi di pressione. Nelle postazioni vide le facce dei cannonieri alzate verso di lui: erano macchie pallide dietro le canne accorciate dalla prospettiva frontale che emettevano bagliori simili a fuochi fatui. Tuttavia il Sopwith era lanciato a quasi duecento all'ora e aveva solo trecento metri da percorrere. Nemmeno lo schianto delle pallottole contro il blocco motore riusciva a distrarre Michael mentre, sfiorando i comandi, si allineava al pallone. Il gruppo di soldati in fuga dall'aerostato era proprio davanti a lui, e correva verso la trincea. Tra gli altri, gli osservatori erano lenti e goffi, ancora rigidi per il freddo che avevano preso in quota, e impacciati dagli indumenti pesanti. Michael li odiava come si può odiare un serpente velenoso: abbassò leggermente il naso del Sopwith e spedi li in mezzo una raffica. Il gruppo di uomini si disperse da tutte le parti come fumo grigio. Immediatamente Michael alzò la mira della Vickers. Il pallone era ancorato a terra e sembrava la tenda di un circo. Vi sparò dentro e rivide le tracce dei proiettili incendiari che lo colpivano senza alcun effetto. Pur nella furia che coglie il combattente, il cervello di Michael era lucidissirno, e il suo pensiero così rapido che il tempo sembrava scorrere cento volte più lentamente. In pochi microsecondi, avvicinandosi al mostro di seta che incassava imperturbato i suoi colpi, gli parve di vivere unteternità guerriera, e di seguire il volo di ogni pallottola che usciva dalla canna incandescente della sua mitragliatrice « Perché non brucia? » urlava come un ossesso. E gli venne in mente la risposta. L'atomo dell'idrogeno è il più leggero di tutti. Il gas che usciva dai fori si dirigeva verso l'alto, dunque si mescolava all'ossigeno nella parte alta del pallone. Era quindi ovvio che continua va a sparare troppo basso. Perché non l'aveva capito prima? Fece alzare il muso al Sopwith dirigendo il fuoco verso il culmine del pallone, e ancora più su, nell'atmosfera soprastante. All'improvviso, l'aria divampò. Mentre la fiammata si scagliava, avvoltolandosi, contro di lui, Michael cabrò e tolse tutto il gas. Privo di potenza propulsiva, l'apparecchio andò in stallo e la folata della vampa di fuoco, ricevuta sulla piena superficie portante delle ali, rovesciò l'apparecchio in un attimo. Sicché quando Michael diede di nuovo tuttO gas, puntava esattamente nella direzione opposta, allontanandosi dall'orrenda pira funebre che aveva provocato. Dietro di sé vide lampeggiare il verde del velivolo di Andrew che a sua volta, virando, gli passò due metri sotto il carrello danneggiato. Non vi era più fuoco di mitragliatrice contro di loro: evidentemente i serventi si erano distratti per l'esplosione e le improvvise acrobazie, sicché Michael riuscì a riguadagnare indenne il riparo del filare di pioppi. Adesso che era tutto finito, l'ira sbollì quasi di colpo come era cominciata, e Michael scrutò il cielo sopra di sé rendendosi conto che la colonna di fuoco e fumo che si levava.dal pallone distrutto rappresentava per gli apparecchi nemici un faro. Ma, oltre al fumo, in cielo non c'era niente. Provò un bel sollievo e guardò Andrew, sempre volando rasoterra. Era indietro, un po' più in alto di lui: stava preparandosi ad affiancarlo. Si misero in formazione. Era bello avere Andrew all'ala, sor-
ridergli scuotendo la testa e Engendosi pentito di aver disobbedito all'ordine di tornare indietro. A fianco a fianco superarono di nuovo le trincee tedesche, sprezzanti della fucileria che si tiravano dietro; poi, nell'affrontare la salita per superare le alture, il motore di Michael cominciò a sputacchiare, perdendo potenza. L'apparecchio si abbassava verso le colline di gesso. Il motore riprese, scaracchiò e tornò a rombare al massimo, consentendogli di superare di misura la cresta, prima di ricominciare a fare i capricci subito dopo. Andrew era sempre al suo fianco, a incoraggiarlo, mentre il motore ancora una volta perdeva colpi. Michael lo nutriva di inesausti cicchetti, dando gas e sussurrando al Sopwith ferito: « Forza, tesoro. Resisti. Dai che siamo quasi a casa, bello ». Poi sentì che qualcosa cedeva nella struttura dell'apparecchio. I comandi laschi non governavano quasi più. « Resisti! » esclamò Michael: ma all'improvviso ci fu uno scoppio e nelle narici gli si riversò una miriade di piccolissime gocce di benzina. Sfuggiva dal motore, vide il punto di partenza del rivolo immediatamente nebulizzato in una nuvola di vapori d'argento dal vento relativo, che lo disperdeva poi nella scia dietro la sua testa. Fuoco. Era l'incubo dell'aviatore: ma in Michael covavano ancora le ceneri della furia bellicosa, e mormorò ostinatamente: « Si torna a casa, vecchio. Resisti ancora un po' ». Avevano superato le alture, davanti era tutto terreno pianeggiante, e già vedeva il boschetto a forma di « T » che indicava la pista d atterraggio. « Forza, forza. » Sotto di lui i soldati alleati si sporgevano dalle trincee salutandoli con la mano e incoraggiando il Sopwith danneggiato, con una ruota anteriore rivelta, l'altra pendula e il motore sputacchiante. Tutti guardavano in su, urlando incitamenti. Avevano sentito le raffiche di mitragliatrice e le cannonate che avevano accompagnato l'attacco, e visto la colonna di fuoco e fiamme alzarsi in cielo sopra la cresta delle colline. Sapevano che almeno per un po' la tortura del martellamento di artiglieria sarebbe cessata e festeggiavano i piloti che tornavano, urlando a squarciagola i loro ringraziamenti. Michael se li lasciò dietro, ma la loro gratitudine era un balsamo per il morale, mentre già si avvicinavano i punti di riferimento familiari: il campanile tella chiesa, il tetto rosato del castello, il poggetto. « Dai che ce la facciamo, bello mio », disse al Sopwith, ma sotto il cofano del motore un cavo spezzato toccò il metallo del blocco motore e una piccola scintilla azzurra si sprigionò dal contatto. Con una vampa, la scia di benzina nebulizzata si accese, trasformandosi in una lingua di fuoco. D'istinto Michael virò in modo da scostare da sé la fiammata che si limitò a strinarlo liberandogli la vista anteriore. Adesso doveva atterrare, dovunque, comunque, ma in fretta, molto in fretta, prima di finire arrostito al cartoccio nel Sopwith. Si tuffò nel prato che gli si apriva davanti, e già gli bruciavano il cappotto, la spalla e la manica destra. Portò giù il Sopwith, tenendo il muso sollevato per ridurre la velocità, ma il cozzo fu ugualmente cosi violento da spedirgli la lingua in fondo alla gola. Immediatamente l'aereo in fiamme fece una capriola sull'unica ruota, perse un'ala e si conficcò nella siepe che delimitava il campo. Michael picchiò la testa contro il bordo dell'abitacolo scoperto e per poco non svenne, ma il crepitio delle fiamme tutt'attorno lo tenne molto efficacemente in sé. Saltò giù dall'aereo rotolando sul terreno fangoso, e scappando a quattro zampe dal
relitto incendiato, mentre il cappotto continuava a bruciargli addosso. Saltò in piedi e si strappò i bottoni per sfuggire a quel tormento, correndo e mulinando le braccia, con l'unico risultato di alimentare le fiamme, ravvivandole e rendendole più cocenti. Nel crepitio dell'incendio del velivolo, non udi nemmeno il cavallo che si avvicinava al galoppo. La ragazza in groppa al grande stallone bianco puntò verso la siepe e la saltò. Cavallo e amazzone ricaddero in perfetta coordinazione e subito dopo si fermarono, con un'impennata, davanti al relitto incendiato, per dirigere subito dopo verso la figura umana che, avvolta dalle fiamme, era corsa verso il centro del campo. Appena la raggiunsero, la ragazza, che cavalcava su un fianco del cavallo come usavano le donne, saltò giù dal destriero. Atterrò sulla schiena di Michael, che cadde con la faccia nel fango. Un attimo dopo la ragazza si era tolta la gonna da amazzone di spesso gabardine e con quella cercava di soffocare le fiamme, usandola come una coperta, ravvolgendovi Michael e togliendo tutto l'ossigeno al fuoco che guizzava, lingueggiando, dai minimi pertugi. Appena riusci a soffocare completamente il fuoco, tirò via la gonna e fece sedere Michael sull'erba fangosa. Rapidamente gli sbottonò il cappotto, che ancora fumava, glielo strappò dalle spalle e lo gettò lontano. Aveva la spalla e il braccio destro ustionati. Gridò di dolore, quando la ragazza cercò di togliergli la camicia da notte. « Per amor di Cristo! » La camicia di cotone aderiva alle ustioni. La ragazza si chinò su di lui, prese la camicia tra i denti e la lacerò. Poi completò l'opera con le mani, liberando le piaghe dal tessuto con uno strappo. La sua espressione cambiò. « Mon Dieu! » disse, saltando in piedi e andando a calpestare il cappotto che pareva voler bruciare ancora. Michael la fissava, col braccio ustionato che già gli doleva un po' meno. Senza la gonna, la giacca da amazzone le copriva solo l'inizio delle cosce. Ai piedi portava stivaletti da equitazione neri, allacciati di lato mediante gancetti. Aveva le ginocchia nude, e la pelle dietro di esse era liscia e immacolata come l'interno madreperlaceo di una conchiglia, mentre le rotule le si erano infangate quando si era chinata a soccorrerlo. Sopra le ginocchia cominciavano i mutandoni, di un tessuto leggero e semitrasparente che rivelava tutta la luminosità della sua carnagione. Erano allacciati con nastri rosa sopra il ginocchio, e cosi aderenti da farla sembrare... no, quelle curve velate erano molto più eccitanti di quanto lo sarebbe stata la carne nuda. Michael sentì che qualcosa gli si gonfiava in gola. Non riusciva a respirare bene. Quando la ragazza si chinò a raccogliere il cappotto bruciacchiato, egli poté vedere per un momento le sue natiche piccole e sode, tonde come un paio d'uova di struzzo, che emettevano, nella luce del primo mattino, pallidi sbagliori. La fissò cosi intensamente che gli occhi cominciarono a lacrimargli. Quando la giovane tornò a voltarsi verso di lui, Michael scorse all'inforcatura delle sue giovani cosce sode un'ombra scura triangolare profilarsi dietro la seta fine. Con quell'ombra ipnotica a un palmo dal suo naso, la ragazza gli ricopri la spalla ustionata col cappotto ormai spento e rorido di rugiada, mormorandogli paroline dolci col tono di una mamma che consola il figlioletto. Michael capi solo le parole froid e brulé. Era cosi vicina che ne senti l'odore: il muschio naturale di una ragazza sana, sudata dopo una lunga corsa, misto a un profumo come di petali di rosa secchi. Michael cercò di parlare, di ringraziarla, ma tremava ancora per lo shock e il dolore. Le labbra non riuscirono a emettere che un gemito patetico. « Non parlare », lo consolò la ragazza, facendo un passo indietro. La sua voce era arrochita dalla preoccupazione e dall'at-
tività fisica appena esercitata, e aveva un volto di fata dai grandi occhi scuri, celtici. Si domandò se avesse anche le orecchie a punta, ma erano nascoste dalla fitta chioma nera, scompigliata dal vento e ondulata. Il sangue celtico conferiva alla sua carnagione un candore eburneo, accentuato ancor più dalle sopracciglia folte e nere come la chioma. La ragazza ricominciò a parlare, ma Michael non riusciva a dominarsi, e di nuovo abbassò lo sguardo all'invadente triangolo ombroso seminascosto dalla seta. Ella colse il suo sguardo e le guance le si colorarono di rosa. Raccattò la gonna infangata e se l'avvolse intorno alla vita. A Michael dolse più questa gaffe dell'ustione. Per fortuna li distrasse il rombo dell'aereo di Andrew che sorvolava il campo in cerchio. A fatica Michael si alzò in piedi, mentre la ragazza si sistemava la gonna, e sventolò la sinistra per salutare l'amico. Andrew, sollevato, gli restitui il saluto, poi virò e tornò a sorvolarli col Sopwith a non più di cinque metri d'altezza. La sciarpa verde volò giù annodata intorno a qualcosa, e fini nel fango a pochi passi di distanza da loro. La ragazza corse a prenderla e la portò a Michael. C'era attaccata la fiaschetta d'argento. Lui la sventolò per aria e vide balenare il lampo bianco dei denti di Andrew che sogghignava, salutandoli con la mano guantata, prima di andare ad atterrare al campo. Michael si portò la fiasca alla bocca e bevve due sorsi. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, mentre il liquido celestiale gli colava giù per la strozza. Quando fini di bere, si accorse che la ragazza lo guardava. Le offri la fiaschetta. Ella scosse la testa e, seria, gli domandò: « Anglais? » « Qui... non... sud africain. » Aveva ancora la voce rotta. « Ah, vous parlez franfais! » Ella sorrise, per la prima volta, rivelando un candore altrettanto splendente quanto il culetto perlaceo. « A peine... mica tanto », negò subito, sapendo che altrimenti sarebbe stato inondato da un flusso di parole. « Tu sanguina », gli disse lei in un inglese atroce, che Michael capi solo quando vide che accennava alla testa. Con la mano si toccò sotto il casco e la ritirò tutta insanguinata. « Eh già », disse. « Parecchio, scommetto. » L'elmetto probabilmente gli aveva salvato la vita quando aveva picchiato la testa contro il bordo dell'abitacolo. « Pardon? » « J'en ai beaucoup », le tradusse. « Allora parli francese davvero! » Batté le mani in un gesto d'entusiasmo infantile e lo prese sottobraccio con fare possessivo. « Vieni », ordinò schioccando le dita allo stallone. La bestia fece finta di non sentirla. « Viens ici tout de suite, Nuage! » Batté il piede a terra. « Vieni qui subito, Nuvola! » Lo stallone fece finta di niente e continuò a pascolare. Poi con tutta calma si avvicinò di fianco. « Please », gli chiese, e Michael uni le mani per aiutarla a salire in groppa. Era molto agile e leggera. « Vieni su. » L'aiutò a montare sull'ampia groppa del caval lo, dietro di lei. Gli prese una mano e se l'attirò intorno alla vita. La sua carne, sotto le dita di Michael, era soda ed egli ne sentiva il calore attraverso gli abiti. « Tenez, attaccati », l'istruì, e lo stallone prese a dirigersi verso il limitare del campo, alla barriera d'accesso al castello. Michael guardò dietro la carcassa del Sopwith. Restava solo il motore, legno e tela erano bruciati. Provò una fitta di rimpianto per la distruzione dell'apparecchio. Quanta strada ave-
vano fatto insieme. « Come ti chiami? » gli chiese la ragazza al di sopra della spalla. « Michael, Michael Courteney. » « Michael Courteney », ripeté per provare a pronunciarlo. E poi: « Io sono Mademoiselle Centaine de Thiry. » « Enchanté, Mademoiselle. » Michael si interruppe per comporre la gemma successiva della sua conversazione scolastica francese. « E un nome strano, Centaine », disse, e la send irrigidirsi sotto le mani. Aveva usato la parola drole, ossia comico. In fretta si corresse. « Voglio dire, un nome eccezionale. » All'improvviso rimpianse di non aver studiato meglio il francese. Scosso e dolorante com'era, faceva fatica a concentfarsi per cogliere le sue rapide spiegazioni. « Sono nata un minuto dopo mezzanotte del 1° gennaio 1900. » Dunque aveva diciassette anni e tre mesi, era proprio sulla soglia della femminilità adulta. Subito però ricordò che, quando era nato lui, sua mamma, di anni, ne aveva appena compiuti diciassette. Il pensiero lo rallegrò tanto che bevve un altro sorso dalla fiaschetta di Andrew « Mi hai salvato la vita! » le disse allegro, aspettandosi che scoppiasse in una bella risata. Invece la ragazza annuì tutta seria. Le emozioni di Centaine si stavano sviluppando rapidamente nella stessa direzione delle sue. Il suo animale preferito, a parte lo stallone Nuage, era una volta un bastardino che aveva raccolto in un fosso, pieno di sangue e di brividi. L'aveva nutrito e coccolato, e l'aveva amato fino a un mese prima, quando era morto sotto le mote di un camion di tNppe che andavano al fronte. La sua morte aveva lasciato un vuoto doloroso nell'esistenza della ragazza. Michael era magrolino, e sotto tutti quei vestiti laceri, bNciacchiati e infangati, sembrava che avesse addirittura sofferto la fame. Ustioni a parte, ella avvertiva benissimo la durezza della prova a cui lo sottoponeva la guerra. I suoi occhi erano di un meravivlioso azzurro chiaro, ma ella vi lesse una sofferenza terribile, e lui tremava e rabbrividiva proprio come il bastardino. « Si », disse con decisione, « io ti proteggerò. s Il castello era molto più grande di quel che sembrava dal cielo, e molto meno bello. La maggior parte delle finestre erano rotte e sostituite con delle assi. I muri erano scheggiati dalle granate, ma i crateri, nel parco circostante, erano già ricoperti dall'erba. La guerra, nell'autunno precedente, era passata di lì, e il castello era stato bersagliato dall'artiglieria nemica prima che gli Alleati, con una grande controffensiva, riuscissero a ricacciare i tedeschi di nuovo al di là delle alture. La grande magione aveva un'aria triste e abbandonata, e Centaine se ne scusò. « I servitori sono stati richiamati, e donne e bambini sono scappati quasi tutti a Parigi o ad Amiens. Ormai ci stiamo solo in tre. » Si rizzò sulla sella e gridò in un'altra lingua: « Anna! vieni a vedere che cosa ho trovato! » La donna che usci dall'orto dietro la cucina era grassa e tozza, aveva il sedere di una giumenta e due grandi mammelle informi sotto il grembiule infangato. La sua chioma scura, screziata di grigio, era raccolta a crocchia sulla testa, e il suo viso era tondo e rosso come un rapanello. Le braccia, nude fino al gomito, erano grosse e muscolose come quelle di un uomo e piene di schizzi di fango. In mano aveva un mazzo di rape. « Cosa c'è, kleinjie... piccina? » « Ho salvato un coraggioso pilota inglese, ma è gravemente ferito... » « A me sembra che stia benissimo. » « Anna, non far l'oca come sempre! Vieni ad aiutarmi. Bisogna portarlo in cucina. »
Le due donne battibeccavano tra loro e, con sua grande sorpresa, Michael si accorse di capire tutto quanto. « Non farò mai entrare in casa un soldataccio, lo sai benissimo, kleinjie! Non si mette un gattaccio di strada nello stesso cestino della gattina... » « Non è un soldato, Anna, è un aviatore. » « Sì, infoiato come un gatto di strada! » Usò la parola fris, e Centaine ribaeté secca: « Sei una vecchia disgustosa... Su, vieni ad aiutarmi! » Anna guardò bene Michael e cedette, sia pure con qualche riluttanza. « Ha dei begli occhi, ma continuo a non fidarmi. Oh, va bene, va bene, ma se fa tanto di... » « Miao! » fece Michael, aprendo bocca per la prima volta. « La sua virtù non è in pericolo con me, le do la mia parola. Per quanto ella sia affascinante, signora, giuro che saprò controllarmi. » Centaine si girò a guardarlo in faccia, e Anna fece due passi indietro, poi scoppiò a ridere. « Parla fiammingo! » « Parli fiammingo! » si uni all'accusa Centaine. « Non è fiammingo. E afrikaans, l'olandese che si parla in Sudafrica. » « e fiammingo », disse Anna,, avvicinandosi di nuovo. « E tutti coloro che parlano fiammingo sono i benvenuti in questa casa. » Alzò le braccia veeso Michael. « Sta' attenta », le disse in ansia Centaine. « La spalla... » Saltò a terra e in due aiutarono Michael a scendere, poi lo sorressero fino alla porta della cucina. In quella cucina una dozzina di chef avrebbero potuto preparare un banchetto per metà di mille: ma adesso vi ardeva solo un fuocherello. Ci fecero sedere davanti Michael. « Va' a prendere un po' del tuo famoso unguento », ordinò Centaine, e Anna si allontanò in fretta. « Sei fiamminga? » domandò Michael. Era felicissimo che la barriera della lingua fosse crollata. « No, no. » Centaine era occupatissima con un gran paio di forbici, di cui si serviva per ripulirgli le ustioni sulla spalla dai pezzi di camicia bruciacchiata che ancora vi aderivano. « E Anna che è del nord: mi ha fatto da balia quando è morta mia madre, e adesso crede di essere mia madre e non solo una serva. Mi ha insegnato la lingua da bambina. Ma tu dov'è che l'hai imparata? » « Al mio paese la parlano tutti. » « Ne sono contenta », disse, e a Michael non risultò chiaro il motivo perché i suoi occhi rimasero bassi, sulle ferite. « Ti aspettavo ogni mattina », le disse piano. « Lo facciamno tUtti, quando voliamo. » La ragazza non disse niente, ma egli vide le sue guance assumere di nuovo quel magnifico colore rosato. « Ti chiamiamo l'angelo della fortuna, l'ange du bonheur. » Lei rise. « Io ti chiamavo le petit jaune, il piccolo giallo. » Il Sopwith giallo... Michael ebbe un po' di batticuore. L'aveva notato, personalmente. La ragazza prosegui: « Vi aspetto tutti, al ritorno dalle missioni. Conto i miei pulcini, e spesso qualcuno non torna, soprattutto dei nuovi. Allora piango e prego per loro. Ma tu e quello verde tornate sempre, e allora giOiSCo « Sei gentile », cominciò Michael, ma Anna irruppe di nuovo dalla dispensa, portando un mortaio di pietra puzzolente di trementina, e l'urnore cambiò. « Dov'è papà? » domandò Centaine. « In cantina a governare le bestie. » « Dobbiamo tenerle in cantina », spiegò Centaine recandosi all'imboccatura delle scale di pietra, « se no i soldati ci rubano
i polli, le oche e perfino le vacche da latte. Ho dovuto penare anche per tenermi Nuage. » Gridò nel sottoscala. « Papà! Dove sei? » Si udl una risposta in sordina, proveniente da sotto, e Centaine gridò ancora. « Abbiamo bisogno di una bottiglia di cognac. » E qui il suo tono divenne ammonitore: « Chiusa, papà. Non per uso mondano, ma medicinale. Non per te, ma per un ferito. To'! » Centaine lanciò un mazzo di chiavi giù per le scale e pochi minuti dopo, a passi pesanti, un irsuto pancione entrò rumorosamente nella cucina cullando la bottiglia di cognac come un neonato in Draccio. Aveva i capelli folti e scuri di Centaine, ma erano screziati di grigio e spettinati sulla fronte. Aveva anche grossi baffi a punta incerati, sbalorditivi, e guardò Michael dall'unico occhio nero e luccicante. L'altro era coperto da una benda piratesca. « E questo chi è? » domandò. « Un aviatore inglese. » La grinta svanì. « Un commilitone », disse. « Un compagno d'arme, un guerriero, un altro nemico dei maledetti crucchi! » « Sono più di quarant'anni che non ne ammazzi uno, gli fece notare Anna, senza alzar lo sguardo dalle bruciature di Michael, ma egli la ignorò e si fece avanti, allargando le braccia per abbracciarlo, come un orso. « Attento papà, è ferito. » « Ferito! » gridò l'uomo. « Cognac! » come se le due parole fossero in qualche arcano modo strettamente collegate. Trovò due grossi bicchieri di vetro e li piazzò sul tavolo della cucina, vi alitò sopra denunciando che gli piaceva l'aglio, li puli con le falde della giacca e infranse il sigillo di cera rossa della bottiglia. « Papà, guarda che tu non sei ferito », gli disse severa Centaine, mentre l'uomo riempiva entrambi i bicchieri fino alI orlo. « Non insulterei mai un uomo dichiaratamente valoroso costringendolo a bere da solo. » Porse un bicchiere a Michael « Conte Louis de Thiry, al suo servizio, Monsieur » « Capitano Michael Courteney, dei Royal Flying Corps. » « A uotre santé, Capitaine! » « A la votre, Monsieur le Cotte! » Ilconte bevve con palese soddisfazione, poi sospirò, si puli i magnifici baffi neri con il dorso della mano e parlò ad Anna. « Procedi col tuo trattamento, donna. » « Farà male », avverti Anna, e per un attimo Michael pensò si riferisse al cognac, ma poi la donna prese una manciata di unguento dal mortaio e gliela schiaffò sulle ustioni. Michael mugolò e scattò in piedi, ma Anna lo fece sedere di nuovo senza tanti complimenti, con una sola manona rossa e callosa. t « Adesso bendalo », ordinò quindi a Centaine, e, mentre la ragazza eseguiva, il dolore sfumò, e Michael si send pervadere da una piacevole sensazione di tepore. « Sembra che faccia bene », ammise Michael. « Ma naturale », disse Anna con disinvoltura. « Ilmio unguento cura tutto, dal vaiolo alle emorroidi. » « Come il mio cognac », mormorò il conte, riempiendo di nuovo i bicchieri. Centaine andò alla cesta del bucato, che stava in mezzo al tavolone della cucina, e tornò con una camicia stirata del conte. Incurante delle proteste del padre, aiutò Michael a infilarvisi. Poi, mentre si occupava del suo braccio ferito, si udi rombare un motore fuori delle finestre della cucina e Michael vide balenare una faccia conosciuta a bordo di una motocarrozzetta altrettanto conosciuta, che con una derapata frenò sparando un
getto di ghiaia. Ilmotore tossicchiò e si fermò. Nel silenzio una voce agitata gridò: « Michael, ragazzo mio, dove sei? » La porta si apri di scatto e irruppe Lord Andrew Killigerran col suo tam o' shanter in testa, subito seguito da un giovane ufficiale con l'uniforme del Royal Medical Corps. « Grazie a Dio eccoti qua. Non farti prendere dal panico, ti ho portato il segaossa... » Andrew spinse avanti il dottore e poi con sollievo, ma un tantino piccato, disse: « Ma vedo che te la stai cavando benissimo anche senza di noi. Ho fatto irruzione nell'ospedale da campo locale, ho sequestrato questo dottore con la pistola in pugno... mi stavo mangiando il cuore per te, e ti trovo col bicchiere in mano e... » Andrew si interruppe e guardò Centaine per la prima volta, dimenticandosi all'istante tutte le sue preoccupazioni per Michael. Si tolse immediatamente il berretto. « E vero! » declamò in un perfetto e sonoro francese, arrotando la erre nel modo più gallico. « Esistono gli angeli in terra! » « Va' immediatamente in camera tua, bambina mia », berciò Anna, mentre il suo volto assumeva il cipiglio dei dragoni a guardia delle pagode cinesi. « Non sono una bambina », le disse Centaine con un'espressione altrettanto feroce, poi, riatteggiandola ai vezi consueti, tornò a rivolgersi a Michael. « Perché ti chiama ragazzo? Si vede benissimo che hai più anni di lui! » « E scozzese », le spiegò Michael, già punto dalla gelosia, « e gli scozzesi sono tutti matti. Ha anche moglie e quattro figli... » « E una schifosa menzogna », protestò Andrew. « Ammetto i figli, poveri mocciosetti... ma la moglie non ce l'ho, proprio non ce l'ho! » « Ecossais », mormorò il conte. « Grandi guerrieri e gran bevitori. » Quindi, in un inglese passabile: « Posso offrirle un CQgnac, Monsieur? » Stavano creando una babele di lingue, passando dall'una all'altra a metà frase. « Qualcuno mi presenterà a questo faro e campione tra gli uomini, acciò che io possa accettare la sua generosa offerta? » « Le Comte de Thiry, ho l'onore di presentarle Lord Andrew Killigerran. » Michael indicò l'uno all'altro e i due si strinsero la mano. « Tiens! Un genuino milord inglese. » « Scozzese, amico mio, c'è una bella differenza. » Alzò il bicchiere al conte. « Incantato, parola mia. E questa bellissima giovane è sua figlia? La somiglianza... splendida... » « Centaine », si intromise Anna. « Porta in stalla il cavallo e governalo. » Centaine la ignorò e sorrise ad Andrew. Ilsorriso fece svanire perfino le preoccupazioni di Michael, che si mise a fissarla, colpito dalla trasfigurazione che esso operava in lei. Sembrava splenderle sottopelle come una lampada d'alabastro, le accendeva i denti e le faceva brillare gli occhi come un raggio di sole in un vaso di cristallo contenente miele scuro. « Sarà meglio dare un'occhiata al nostro paziente », ruppe l'incanto il giovane medico dell'esercito, facendo un passo avanti per disfare il bendaggio di Michael. Anna comprese il gesto, se non le parole, e rapida si intromise con la sua notevole massa. « Gli dica che se tocca il mio lavoro gli rompo un braccio. » « Il tuo intervento non è gradito, temo », gli disse Michael. « Prendi un cognac », lo consolò Andrew. « Non è affatto cattivo. Niente affatto cattivo. » « Lei è proprietario terriero, milord? » chiese il conte ad Andrew con finezza. « Certamente, vero? » « Bien sir... » Andrew fece un ampio gesto del braccio, evocando migliaia di ettari, e contemporaneamente ponendo il bic-
chiere vuoto nel raggio d'azione del conte che, dopo aver versato il cognac al dottore, tornò a riempire anche il suo. Andrew insisté: « Naturalmente. Le proprietà di famiglia... Lei comprende... » « Ah! » L'unico occhio del conte brillò nel posarsi sulla figlia. « E la sua povera moglie l'ha lasciato con quattro marmocchi? » Non aveva compreso chiaramente le battute di poco prima. « Mente marmocchi né moglie, mio spiritoso amico », disse Andrew additando Michael. « E lui che scherza sempre. Scherzacci inglesi. » « Ah! Scherzi inglesi! » Il conte sghignazzò e stava per allungare una pacca sulla spalla a Michael, che fu salvato dall'intervento tempestivo di Centaine. « Attento papà, è ferito. » « Restate tutti a pranzo », dichiarò il conte. « Vedrà milord, mia figlia è una delle migliori cuoche della regione. » « Sì, con un po' di aiuto » brontolò Anna, disgustata. « Sarà il caso che me ne torni subito all'ospedale », disse il dottore, un po a disagio. « Qua mi sento alquanto superfluo. » « Ma se siamo appena stati invitati a pranzo », l'informò Andrew. « Finisci con calma il tuo cognac. » « Be', allora resto », cedette senza troppe difficoltà il dottore. « E necessario scendere in cantina », dichiarò il conte. « Papà... » cominciò, minacciosa, Centaine. « Abbiamo ospiti! » Il conte le sventolò davanti agli occhi la bottiglia vuota di cognac, ed ella alzò le spalle rassegnata. « Milord, mi farà l'onore di assistermi nella scelta di rinfreschi adatti? » « Onoratissimo, Monsieur le Comte. » Mentre Centaine guardava la coppia discendere sottobraccio le scale che portavano in cantina, aveva una luce pensosa negli occhi. « E un bel tipo il tuo amico. ma molto leale. E corso in tuo aiuto, e guarda come ha subito stregato mio padre. » Michael restò colpito dall'intensità del proprio risentimento contro Andrew in quella circostanza. « Ha sentito l'odore del cognac », mugugnò. « E l'unica ragione per cui è venuto. » « E vera la storia dei quattro bambini? » domandò Anna. « E la madre? » Aveva avuto le stesse difficoltà del conte a seguire la conversazione. « Quattro madri », le spiegò Michael. « Quattro bambini, quattro madri diverse. » « E un poligamo! » esclamò Anna, disgustata e sbalordita. La faccia le diventò ancor più rossa del solito. « No, no », la rassicurò Michael. « Ha ben sentito, nega. t uomo d'onore, e non farebbe mai una cosa del genere. No, non ha mai sposato nessuna delle quattro. » Michael non provava il minimo rimorso. Gli serviva un'alleata in famiglia, ma proprio in quella la coppia riemerse tutta contenta dalla cantina, carica di bottiglie scure. « E la grotta di Aladino », gioiva Andrew. « Il conte si che se ne intende! » Mise una mezza dozzina di bottiglie sulla tavola davanti a Michael. « Guarda qua! Trent'anni di invecchiamento, mica un giorno! » Poi guardò l'amico negli occhi. « Hai un aspetto orribile, vecchio mio. Sembri il ritratto della morte. » « Grazie », gli disse Michael, sogghignando. « Sei davvero gentile. » « Preoccupazione fraterna. E naturale... » Andrew stava armeggiando per stappare una delle bottiglie. Abbassò la voce in un mormorio di complicità. « Perdio, che schianto! » Guardò dall'altra parte della cucina, dove le donne erano al lavoro so-
pra un gran pentolone di rame. « Meglio sentir lei che sentir freddo ai piedi, non ti pare? » Il risentimento di Michael per Andrew divenne odio attivo. « Giudico questa tua frase quanto mai ributtante », disse. « Parlare così di una fanciulla tanto bella, tanto innocente, tanto... tanto... » Michael restò senza parole, mentre Andrew lo rimirava con la testa inclinata da un lato, stupefatto. « Michael, ragazzo mio, questo è molto peggio di qualche bruciatura e ammaccatura, temo... avrai bisogno di cure intensive... » Riempi un bicchiere. « Per cominciare ti prescrivo una dose generosa di questo eccellente chiaretto! » All'altro capo del tavolo,, il conte aveva aperto un'altra bottiglia e riempiva il bicchiere al dottore. « Facciamo un brindisi! » gridò. « Abbasso i dannati crucchi! » « A bas les boches! » gridarono all'unisono, e, appena tracannato il bicchiere, il conte si indicò l'occhio coperto dalla pezza nera. « Sono stati loro a Sedan nel 1870. Si son presi il mio occhio, ma l'hanno pagato caro, quei diavoli! Sacré bleu, come combattemmo! Tigri fummo, tigri... » « Gatti tigrati... » gridò Anna dall'altra parte della cucina. « Tu non sai nulla di guerre e battaglie! Questi giovani prodi, loro si che capiscono! E io bevo a loro! » Lo fece in abbondanza e poi chiese: « Allora, quand'è che si mangia? » Era un saporito stufato di prosciutto, salsiccia e ossi buchi. Anna lo servi in ciotole dal pentolone al tavolo, su cui frattanto Centaine disponeva pagnotte freschissime. « E ora ditemi, come va la battaglia? » domandò il conte spezzando il pane e intingendolo nella ciotola. « Quando finirà questa guerra? » « Non roviniamo questo buon pranzo », cambiò discorso Andrew; ma, coi baffi coperti di briciole, il conte insistette. « G sarà un altra offensiva alleata? » « Si, a ovest, ancora sulla Somme. E laggiù che cercheremo di sfondare le linee tedesche. » Era Michael a rispondere: parlò con tranquilla autorità, guadagnandosi immediatamente l'attenzione di tutti. Perfino le due donne si allontanarono dalla stufa e vennero a sedersi a tavola. Centaine si accomodò sulla panca accanto a Michael, rivolgendogli uno sguardo serio nello sforzo di seguire la conversazione in inglese. « Come fa a saperlo? » gli chiese il conte. « Ha uno zio generale », spiegò Andrew. « Un generale! » Il conte guardò Michael con nuovo interesse. « Centaine! Non vedi che il nostro ospite è in difficoltà? » E, mentre Anna brontolava sulle spine, Centaine si piegò sulla ciotola di Michael e gli tagliò la carne a pezzetti si che potesse mangiare con una mano sola. « Avanti! Continui! » insisteva il conte. « Che succederà poi? » « Il generale Haig piegherà sulla destra e stavolta riusciremo a tagliare le comunicazioni ai tedeschi e a chiuderli in una sacca... » « Ah! Allora qui saremo al sicuro! » Il conte prese la bottiglia di vino, ma Michael scosse la testa. « Purtroppo ho paura di no, almeno non del tutto. Questa parte del fronte sarà affidata a truppe di riserva; dove ora c'è un reggimento ci sarà soltanto un battaglione... tutte le truppe disponibili saranno utilizzate per la nuova offensiva sulla Somme... » Il conte parve allarmato. « E una follia criminale... certo i tedeschi contrattaccheranno qui per cercare di ridurre la pressione sulla Somme... »
« Non sfonderanno da questa parte? » chiese ansiosa Centaine, guardando involontariamente fuori delle finestre della cucina. Da dove erano seduti, si vedevano le colline all'orizzonte. Michael esitò. « Oh, sono sicuro che riusciremo a resistere abbastanza a lungo... specialmente se l'attacco sulla Somme riuscirà bene e in fretta come si prevede. In tal caso la controffensiva qui sarà alleviata dalla pressione alleata sulle retrovie tedesche. » « Ma se la battaglia prosegue più del previsto sulle posizioni originarie? » gli chiese piano Centaine in fiammingo. Per una ragazza, che oltretutto parlava maluccio l'inglese, aveva colto il nocciolo del problema. Michael trattò con rispetto la sua domanda, rispondendole in afrikaans come avrebbe risposto a un uomo. « Allora saremo nei pasticci, soprattutto se l'Unno avrà la superiorità aerea. Potremmo riperdere le alture. » Si interruppe e si accigliò. « Sarebbe necessario chiedere rinforzi... e forse ritirarsi fino ad Arras. » « Arras! » esclamò Centaine. « Ciò significa... » Non fini, ma guardò la propria casa come se già si trattasse di dirle addio. Arras era lontana. Michael annùì. « Una volta che inizi l'attacco, voi qui sarete in grave pericolo. Sarebbe molto meglio abbandonare il castello e sfollare a sud, ad Arras o addirittura a Parigi. » « Giammai! » gridò il conte, tornando al francese. « Un de Thiry non batte mai in ritirata. » « Tranne che a Sedan », brontolò Anna, ma il conte non si degnò di prestarle orecchio. « Starò qui, sulla mia terra avita. » Indicò il vecchio fucile chassepot appeso al muro della cucina. « E l'arma che portavo a Sedan. Il crucco imparò allora a temerla. Imparerà nuovamente la lezione. Louis de Thiry gliela insegnerà ancora! » « Courage! » gridò Andrew. « Brindo a lei! Al valore francese e al trionfo delle vostre armi. » Naturalmente il conte dovette ricambiare con un brindisi « al generale Haig e ai nostri prodi alleati britannici ». « Il capitano Courteney è sudafricano », fece notare Andrew. « Bisognerebbe brindare anche a loro. » « Ah! » riprese entusiasta il conte, in inglese. « Al generale... com'è che si chiama il generale suo zio? Al generale Sean Courteney e ai suoi bravi sudafricani. » « Questo gentleman », prosegui Andrew indicando il dottore che ormai ciondolava, leggermente strabico, sulla panca accanto a lui, « è ufficiale medico del Royal Medical Corps. Gran corpo, la Sanità, e pienamente meritevole di un nostro brindisi. » « Al Royal Medical Corps! » non si fece pregare il conte, e tese la mano per prendere il bicchiere. Ma, prima che riuscisse a ghermirlo, una specie di burrasca scosse il vino rosso entro i bordi del cristallo. Il conte si immobilizzò e tutti alzarono la testa. Anche i vetri delle finestre cominciarono a vibrare, e quindi a un tratto si sentì il rombo dei cannoni da nord. Ancora una volta l'artiglieria tedesca spazzava le colline, abbaiando e ululando come una muta di cani selvatici, e tutti si misero ad ascoltare in silenzio, immaginando senza fatica la sofferenza e la disperazione dei soldati in trincea, al freddo tra il fango e i pidocchi, a pochi chilometri da quella tiepida cucina dove ci si stava riempiendo la pancia di buon cibo e buon vino. Andrew alzò il bicchiere e disse piano: « Ai poveri diavoli delle trincee. Che possano resistere ». E stavolta perfino Centaine bevve un sorso dal bicchiere di Michael, e gli occhi scuri le si bagnarono di lacrime.
« Mi scoccia fare il guastafeste », disse il giovane dottore alzandosi un po' barcollante, « ma quel bombardamento per me è come la sirena per gli operai. Devo andare al lavoro, saranno già in arrivo le ambulanze. » Michael cercò di alzarsi insieme a lui, ma dovette attaccarsi subito al tavolo. « Vorrei ringraziarla, signor conte », cominciò in tono formale, « della sua gentilezza... » Si impappinò e dovette ripetere la parola, ma aveva la lingua troppo impastata e dimenticò il discorsetto. « Saluto in sua figlia, Mademoiselle de Thiry, l'ange du bonheur... » Gli cedettero le ginocchia e svenne. « E ferito! » gridò Centaine, balzando in piedi e riuscendo a prenderlo al volo sotto l'ascella. « Aiutatemi! » chiamò. Andrew si affrettò a soccorrerla e in due sorressero Michael fino alla porta della cucina. « Attenzione al braccio ferito », ansimò Centaine, curva sotto il peso, mentre cercavano di sistemare Michael sul sidecar. « Non facciamogli male! » Michael si abbandonò sul carrozzino con un sorriso beato sul viso incosciente. « Mademoiselle, stia tranquilla! E al di là di ogni dolore, il fortunello. » Fece il giro per mettersi al manubrio della moto. « Aspettami! » gridò il dottore. Sorreggendosi a vicenda, lui e il conte attraversarono vacillando la soglia e scesero incespicando i tre o quattro gradini. « Salta su », l'invitò Andrew. Al terzo tentativo riusci a far partire il motore della moto. L'Ariel si avviò con un rombo e uno sbuffo di fumo azzurrino. Il dottore si arrampicò dietro di lui mentre il conte infilava in tasca ad Andrew una delle due bottiglie di chiaretto rimaste. « Contro il freddo », spiegò. « Lei è un principe tra gli uomini. » Andrew lasciò la frizione e l'Ariel si lanciò in una curva strettissima. « Badi a Michael! » gridò Centaine. « Le mie verze! » gridò Anna, mentre Andrew tagliava per ltorto. « A bas les boches! » urlò il conte, bevendo furtivamente un altro sorso dalla bottiglia di chiaretto che gli era rimasta in mano, prima che Centaine potesse co&argliela e tornare ad alleggerirlo delle chiavi della cantina. Al termine della lunga discesa che portava giù dal poggio del castello, Andrew frenò la motocarrozzetta e a una velocità più umana si unì alla patetica processione che dalle alture stava scendendo, per quella strada, verso le retrovie. I « furgoni del macellaio », come venivano chiamate irrispettosamente le ambulanze, erano stracarichi di feriti, vittime del rionovato bombardamento tedesco. Sobbalzavano tra una pozzanghera e l'altra, con le barelle di tela che saltavano a ogni colpo sul pianale di carico scoperto. Dalle barelle superiori il sangue dei feriti colava addosso a quelli di sotto. Ai margini della strada piccoli gruppi di feriti in grado di camminare si dirigevano a passo strascicato e sorreggendosi a vicenda verso l'ospedale da campo. Avevano buttato via da un pezzo i fucili, improvvisavano bendaggi con le falde dei c« F potti o le camicie sporche, e avevano facce bianche come lenzuoli, occhi senza espressione. Si muovevano come automi, al di là del bene e del male. Mentre la sbornia gli svaniva in fretta, il dottore saltò giù dal sellino e scelse in quella corrente i feriti più gravi. Li fece salire sulla moto, uno al suo posto, uno sul serbatoio della benzina davanti ad Andrew, e altri tre sul sidecar vicino a Michael. Si mise quindi a trotterellare accanto all'Ariel sovraccarica, spingendola fuori delle pozze di fango: e quando, dopo due chilometri, arrivarono all'ospedale da campo, era completamen-
te lucido. Per i bisogni della Sanità era stata requisita una fila di casette all'ingresso del villaggio di Mort Homme. Il dottore aiutò i feriti a scendere dalla moto e poi si rivolse ad Andrew. « Grazie, avevo proprio bisogno di un po' di svago » Poi diede un'occhiata a Michael ancora svenuto sulla carrozzetta. « Attenzione. Non si può andare avanti indefinitamente cosi. » « Michael è solo un po' sbronzo, ecco tutto. » Ma il dottore scosse la testa. « Stress da combattimento. Shock da bombe. Ancora non se ne sa molto, ma sembra che vi sia un limite ben preciso a quello che 'sti poveri disgraziati possono sopportare. Quanto tempo è che vola senza licenze? Tre mesi? » « Starà benissimo », disse fiero Andrew. « Lo supererà. » Mise una mano protettiva sulla spalla ferita di Michael, ricordando che l'ultima licenza se l'era presa sei mesi prima « Lo guardi un po'. Ci sono tutti i sintomi. E magro come un chiodo », proseguì il dottore, « non fa che sussultare e rabbrividire Quegli occhi! Scommetto che a volte si comporta in modo irrazionale... improvvise depressioni alternate a euforie, mi sbaglio? » Andrew annuì con riluttanza. « Un momento chiama il nemico razza di vermi e mitraglia i piloti superstiti degli apparecchi tedeschi, e un attimo dopo li definisce valorosi e nobili swersari... la settimana scorsa ha preso a cazzotti un novellino che aveva chiamato i tedeschi crucchi... » « Eroismi pazzeschi? » Andrew ricordò l'attacco del mattino ai palloni frenati, ma non rispose alla domanda. « Che cosa si può fare? » domandò, scoraggiato. Il dottore sospirò, alzò le spalle e gli porse la mano. « Addio e buona fortuna, maggiore. » Mentre se ne andava, già si toglieva il cappotto e si tirava su le maniche. All'entrata del frutteto, poco prima che raggiungessero il campo dello stormo, Michael si ridestò dal suo torpore all'improvviso e, con tutta la solennità di un giudice che pronunci una condanna a morte, dichiarò: « Sto per vomitare ». Andrew fermò la moto sul ciglio della strada e gli resse la testa. « Tutto quel buon chiaretto », lamentò. « Per non parlare del cognac Napoléon. Ah, se solo si fosse potuto tenerne un po' per dopo! » Sgravatosi rumorosamente, Michael risali ciondolando sul sidecar e disse, con altrettanta solennità: « Ti informo che mi sono innamorato », dopo di che la testa gli cadde sul petto e perse conoscenza un'altra volta. Andrew sedette al manubrio dell'Ariel e coi denti stsppò la bottiglia di chiaretto. « e giocoforza brindare. Beviamo al tuo vero amore. » Porse la bottiglia alla sagoma esanime abbandonata sulla carrozzetta. « Ma come, non ti interessa? » Bevve da solo e, riabbassando il gomito, cominciò irrefrenabilmente a piangere. Cercò di ricacciar giù le lacrime, non piangeva da quando aveva sei anni, e poi gli tornarono in mente k parole del dottore: « comportamento irrazionale »: il pianto lo inondò. Le lacrime che più non cercava di trattenere gli scorsero giù per le guance, e non se le asciugò nemmeno. Se ne rimase curvo sulla moto, scosso da un dolore silenzioso. « Michael, ragazzo mio », sussurrava. « Che ne sarà di noi? Siamo condannati, non c'è speranza per noi, Michael, non ce n'è per nessuno. » Si coprì la faccia con le mani e pianse come se gli Si fosse spezzato il cuore. Michael si svegliò sentendo tintinnare il vassoio di Biggs Si rizzò a sedere sulla branda borbottando, anzi ci provò;
perché subito il dolore delle ustioni lo ricacciò giù di nuovo. « Che ora è, Biggs? » « Sette e mezza di una bella mattina di primavera. » « Biggs, per l'amor di Dio, perché non mi hai svegliato? Ho perso il pattugliamento del mattino... » « Signornò che non l'abbiamo perso... » mormorò tutto contento Biggs. « Siamo stati lasciati a terra. » « Lasciati a terra? » « Per ordine di Lord Killigerran. A terra fino a nuovo ordine, signore. » Biggs mise lo zucchero nella cioccolata e mescolò. « Ed era anche ora, secondo me, signore. Volavamo da trentasette giorni filati. » « Biggs, perché sto così male? » « Secondo Lord Killigerran... 'siamo stati vittime di un tremendo attacco da parte di una bottiglia di cognac', signore. » « Sì, ma prima », cominciò a ricordare Michael, ccho spiaccicato a terra la vecchia tartaruga volante... » « Spalmata su tutta la Francia come burro sul pane tostato, signore. » « Ma li abbiamo sbattuti giù, Biggs! » « Già, tutti e due, signore! » « Il banco paga, spero e confido... non hai perso i tuoi soldi, eh Biggs? » « Grazie a lei, signore, ho azzeccato una bella accoppiata. » Biggs toccò l'altra roba sul vassoio della colazione. « Ecco la sua vincita... » C'era una mazzetta di banconote. « Tre a uno, signore, più la sua puntata. » « Hai diritto alla commissione del dieci per cento, Biggs. » « Possino benedirlo, signore. » Due delle banconote sparirono magicamente in tasca a Biggs. « E adesso, Biggs... cos'altro c'è qua? » « Quattro aspirine, signore... coi complimenti del maggiore. » « E in volo, naturalmente. » Michael inghiottì grato le pastiglie. « Naturalmente signore. Decollassero all'alba. » « Chi gli sta all'ala? » « Il signor Banner, signore. » « Un pivello », mugugnò Michael. « Lord Andrew se la caverà, non si preoccupasse, signore. » « Ma sì, certo. E cos'è 'sta roba? » « Le chiavi della moto di Lord Killigerran, signore. Dice di salutarci il caro conte... non so chi è, ma lui mi ha detto di dirci così... e di... 'porgere i sensi della sua devota mirazione'... alla segnorina » « Biggs... » le aspirine avevano fatto il miracolo, Michael si send di colpo leggero, spensierato e gaio. Le ustioni non gli facevano più male, e neppure la testa. « Biggs », ripeté, « tira fuori la mia roba migliore, e fammi brillare l'aquilotto e gli stivali. Leccali, se necessario! » Biggs gli lanciò un sorriso appassionato. « Facciamo il filo a una, signore? » « E proprio quello che facciamo, Biggs, è proprio quello che facciamo. » Centaine si svegliò nel buio e si mise ad ascoltare i cannoni. La terrorizzavano. Sapeva che non si sarebbe mai abituata a quella tempesta bestiale e insensata che distribuiva così impersonalmente morte e terribili ferite, e le tornarono in mente i mesi di fine estate dell'anno precedente, allorché per un breve periodo il castello era stato a tiro delle batterie tedesche. Allora avevano abbandonato i piani superiori e si erano rifugiati nei sottoscala. Ormai i servitori erano sfollati da un pezzo, tranne Anna, certo, e la stanzetta che ora occupava Centaine era quella di una delle cameriere.
Tutto il loro tenore di vita era drasticamente cambiato da quando li aveva investiti l'uragano della guerra. Benché non avessero mai vissuto in grande stile come altre famiglie aristocratiche della regione, vi erano sempre state cene e feste in casa loro, accudite da venti servitori; ma adesso la loro esistenza era diventata semplice quasi come quella dei loro servi prima della guerra. Centaine saltò giù dal letto in camlcia da notte e corse per lo stretto corridoio di pietra a piedi nudi. In cucina, Anna era accanto alla stufa e la stava caricando con legna di rovere. « Stavo per venire a svegliarti con un secchio d'acqua fredda », le disse, brusca, e Centaine la abbracciò e la baciò finché non sorrise. Poi si sedette davanti alla stufa per scaldarsi. Anna versò dell'acqua bollente nel grosso catino di rame sul pavimento, e quindi ne aggiunse di fredda. « Forza, Mademoiselle », ordinò. « Oh, Anna, devo proprio? » « Muoviti! » Con riluttanza Centaine si alzò la camicia da notte sul capo e rabbrividi mentre il freddo le ricopriva il corpo di pelle d'oca, fin sulle naticuzze tonde. « Sbrigati. » Entrò nel mastello e Anna si inginocchiò davanti a lei bagnando una pezza. I suoi movimenti erano meccanici e spassionati, la strigliava dalle spalle alla punta delle dita, ma non riusciva a celare l'amore e l'orgoglio che provava per la ragazza e che le addolcivano il brutto viso rosso. La ragazzina era fatta benissimo, benché forse seni e posteriore fossero un po' troppo piccoli: Anna meditava di riempirglieli con una buona dieta sostanziosa, quando ciò fosse tornato possibile. La sua pelle era di un colore liscio e burroso, dove il sole non l'aveva toccata, mentre là dove invece era arrivato essa tendeva ad assumere una colorazione bronzea e scura che Anna disapprovava vivamente. « Quest'estate dovrai portare guanti e maniche lunghe », la redargui. « L abbronzatura non si addice alle signore. » « Dai, sbrigati, Anna. » Centaine si stringeva le braccia al petto insaponato, rabbrividendo, e Anna gliele alzò a una a una fregando i folti cespugli neri e ricci sottostanti. I rivoli di schiuma le scorrevano giù per i fianchi snelli dove erano evidenti i solchi delle costole. « Ehi, fa' piano », piagnucolò Centaine. Anna esaminò i suoi arti con occhio critico: erano dritti e lunghi, benché troppo forti per una signora. Colpa di tutte quelle cavalcate, quelle corse, quelle passeggiate. Anna scosse la testa. « Cosa c'è, adesso? » le chiese Centaine. « Sei dura come un ragazzo, hai il ventre troppo muscoloso per far figli », rispose Anna, fregandola con la pezza insaponata. « Ouch! » « Sta' ferma... non vorrai puzzare come un caprone, vero? » « Anna, ti piacciono gli occhi azzurri? » Anna grugni, avendo intuito dove andava a parare la conversazione. « Di che colore avrà gli occhi il bambino se la mamma li ha castani e il papà ha dei begli occhi azzurri? » Anna le frustò le chiappe con la pezza bagnata. « Adesso basta. A tUO padre certi discorsi non piacerebbero. » Centaine non prese sul serio la minaccia. Prosegui con aria sognante. « Come sono coraggiosi gli aviatori, eh, Anna? Devono essere i più coraggiosi di tutti. » Diventò impaziente. « Forza, Anna, se no non farò in tempo a contare i miei pulcini... » Balzò fuori dal mastello, spargendo gocce dappertutto, mentre Anna l'avvolgeva in una salvietta scaldata sulla stufa. « Dai, che c'è già luce fuori. »
« Torna subito », le ordinò Anna. « Oggi abbiamo un sacco ti cose da fare. Tuo padre ci ha quasi affamato, con la sua generosità fuori posto. » « Bisognava assolutamente invitare a pranzo i giovani eroi dell'aria. » Centaine si vesd. Poi si chinò ad allacciarsi gli stivali. « Non perderti nel bosco come al solito... » « Uffa, piantala, Anna », sbuffò Centaine, lanciandosi giù dalla scala. « Torna immediatamente! » le gridò dietro Anna. Nuage la sentì arrivare e nitrl. Centaine gli lanciò le braccia al collo e gli baciò le froge grige e vellutate. « Bonjour, my darling. » Aveva rubato due zollette di zucchero sotto il naso ad Anna e adesso le diede a Nuage, che le inondò la mano di acquolina. La ragazza si pulì il palmo grondante sul collo dell'animale e gli voltò le spalle per prendere la sella. Lo stallone le diede una musata in mezzo alla schiena. Ne voleva ancora. Fuori era buio e faceva freddo. Spronò lo stallone al piccolo galoppo, mentre il volto, sferzato dall'aria pungente, le si arrossava, e gli occhi cominciavano a lacrimarle. Sulla cima del poggio fece impennare lo stallone e si fermò in attesa, guardando il cielo livido dell'alba, che all'orizzonte stava tiventando del colore di un'arancia matura. Alle sue spalle, invece, l'alba artificiale delle cannonate impallidiva, contro i cieli neri della notte che fuggiva. Centaine si mise ad aspettare i velivoli. Ne distinse il rombo lontano sopra quello dei cannoni, ed eccoli evoluire salendo nell'oro dell'alba, fieri, agili e belli come falchi. Come sempre, il polso prese a pulsarle violentemente, ed ella si rizzò in piedi sulle staffe a salutarli. In testa volava l'aereo verde dello scozzese pazzo, con le sue insegne di vittoria. Alzò ambo le mani sopra la testa. « Andate con Dio... e tornate sani e salvi! » gridò. Era il suo solito saluto, e vide il lampo dei denti bianchi sotto il ridicolo copricapo che, l'aveva appreso il giorno prima, si chiamava tam o' shanter. La macchina di giada ebbe un frernito d'ali; il pilota rispondeva al suo saluto; ed ecco che già era andata via, si era tuffata all'insù nelle plumbee nubi che sovrastavano le linee tedesche. Ben presto gli altri aerei della squadra, in formazione di combattimento, seguirono il comandante, e la ragazza restò sola, in preda a un terribile senso di sconforto. « Ah, perché non sono un uomo? » gridò forte. « Perché non posso essere con voi!? » Erano già tutti fuori vista. Fece girare Nuage e scese giù dal poggio. « Moriranno tutti quanti », pensò. « Tutti gli uomini giovani e forti e belli... e a noi resteranno soltanto i mutilati, i vecchi e i brutti. » Il rombo delle cannonate parve voler confermare la sua apprensione. « Io vorrei... oh, io vorrei... » disse forte, e lo stallone rizzò le orecchie per sentire, ma ella non proseguì. Infatti non sapeva neppure lei cosa voleva. Sapeva soltanto che nel suo cuore vasto e bramoso di chissà che, c'era un vuoto, un vuoto che agognava d'esser riempito; e anche una terribile sofferenza per i dolori del mondo. Lasciò andare Nuage dove voleva, e lo stallone si mise a pascolare nel piccolo prato dietro al castello. Lo liberò della sella e si avviò, portan dosela in spalla, verso la scuderia. Suo padre era seduto in cucina ed ella lo baciò distrattamen te. La benda nera sull'occhio gli dava un'aria piratesca; l'altro era Iniettato di sangue, e il viso baffuto era pieno di rughe e pieghe come quello di un cane da caccia. Ilconte puzzava d'aglio e di vino. Come al solito, lui e Anna stavano discorrendo confidenzial mente. Centaine si sedette a tavola davanti a suo padre e prese
in mano la scodella di caffellatte, chiedendosi oziosamente se i due fossero amanti. Subito dopo si diede dell'ingenua e si do mandò come aveva fatto a non pensarci prima. Da buona ragazza di campagna, i misteri della procreazione non erano tali per lei. Andava sempre a vedere, nonostante le proteste di Anna, quando le giumente di tutta la regione circo stante venìvano portate da Nuage. Era l'unica in grado di trattenere il grande stallone bianco quando aveva fiutato la giumenta, e di calmarlo quanto bastava per consentirgli di fare il suo dovere senza ferire né se stesso né la sua bella. Applicando la pura e semplice logica, era pervenuta alla conclusione che anche uomini e donne dovessero fare all inur ca così. Quando l'aveva domandato ad Anna, costei aveva mi nacciato dapprima di raccontare tutto a suo padre, e poi di la varle la bocca col sapone di Marsiglia. Con pazienza Centaine aveva insistito finché Anna, con un preoccupato sussurro, non aveva confermato i suoi sospetti, guardando di sottecchi il con te, all'altro capo della tavola di cucina, come Centaine non l'ave va mai vista fare. All'epoca non aveva capito il significato di quello sguardo, ma adesso sì. Guardandoli discorrere e ridere assieme, tutto tornava a posto... quelle volte che, destandosi dopo un incubo, era corsa in camera di Anna a farsi consolare e non l'aveva trovata... quella volta che misteriosamente aveva rinvenuto una forcina di Anna nel letto di papà... E soltanto la settimana prima Anna era venuta su dalla cantina, dopo aver aiutato il conte a pulire le improvvisate stalle degli animali, con delle pagliuzze appiccicate sulla schiena e sulla crocchia di capelli grigi. La scoperta in qualche modo parve accrescere il senso di desolazione e di vuoto di Centaine. Si sentiva davvero sola ormai, isolata e senza scopo, vuota e dolente. « Esco », disse, saltando in piedi. « Ah no », le tagliò la strada Anna. « Dobbiamo procurarci qualcosa da mangiare in questa casa, visto che tuo papà ha dato via tutto; e tu dovrai aiutarmi, Mademoiselle. » Centaine, però, doveva assolutamente andarsene, star sola, per combattere questa nuova e terribile desolazione del suo spirito. Agilmente passò sotto il braccio proteso di Anna e schizzò fuori della cucina. Sulla soglia incontrò la persona più bella che avesse mai visto in vita sua. Portava stivali scintillanti e pantaloni da cavaliere immacolati, di una gradazione più chiari della giacca kaki dell'uniforme. La vita sottile era stretta da un magnifico cinturone di cuoio e ottone lustro, da cui partiva una fascia diagonale che faceva sembrare ancora più larghe le spalle. Al bavero, il distintivo dell'aviazione hrillava cromaticamente tra lusstrini multicolori e sulle spalline occhieggiavano le insegne del grado, e il berretto era sistemato di traverso, nella maniera sgherra che solo i piloti veterani avevano il diritto di adottare, sopra i suoi impossibili occhi cerulei. Centaine dovette fare un passo indietro e si mise a fissarlo Torreggiava su di lei come un giovane iddio, ed ella provò al l'improvviso una sensazione del tutto nuova. La pancia sembrò trasformarlesi in gelatina, gelatina bollente, pesante come piombo fuso che scorreva in basso, tra le gambe, talché faceva fatica perfino a rimanere in piedi. Penava mokissimo anche a respirare. « Mademoiselle de Thiry. » Quell'immagine di splendore marziale parlava anche, e si toccava il berretto in segno di saluto. La voce era nota, ed ella riconobbe gli occhi: senza contare che il braccio sinistro dell'uomo era sostenuto da una cinghietta di cuoio.
« Michel... » Aveva la voce rotta e si corresse. « Capitano Courteney », e poi cambiò lingua: « Miinheer Courteney? » Il giovanotto le sorrise. Sembrava impossibile che fosse lo stesso uomo bruciacchiato, insanguinato e infangato, coperto di stracci, tremante, gemente e patetico che aveva aiutato il giorno prima. Quando le sorrise, Centaine sentì il mondo intero contrarsi sotto i suoi piedi. Quando si fermò, si accorse che aveva mutato orbita e seguiva un sentiero nuovo tra le stelle. Nulla più sarebbe stato lo stesso. « Entrez, Monsieur. » Si ritrasse per farlo passare, ed egli varcò la soglia, mentre il conte si alzava e correva ad accoglierlo. « Come sta, capitano? Come vanno le ferite? » disse, stringendogli la mano. « Ah, molto meglio. » « Ci vuole un cognac », disse il conte, guardando timidamente la figlia. Lo stomaco di Michael si contrasse e il pilota scosse violentemente la testa. « No », negò con decisione Centaine, e si rivolse ad Anna. « Bisognerà rifare la medicazione al capitano. » Protestando senza convinzione, Michael fu trascinato alla sedia davanti alla stufa e Anna gli slacciò la cinghia, mentre Centaine, da dietro, gli tirava la giacca dell'uniforme giù dalla spalla. Anna sciolse la fasciatura borbottando con aria d'approvazione. « Bambina mia, porta dell'acqua calda. » Con cura gli lavarono e asciugarono le piaghe, poi vi cosparsero nuovo unguento e cambiarono le bende. « Guariscono benissirno », disse Anna riferendosi alle bruciature, mentre Centaine l'aiutava a rimettere la camicia a Michael. Non credeva che la pelle d'uomo potesse esser così morbida sui fianchi e sulla schiena. I suoi capelli scuri si arricciolavano alla base del collo, ed era così snello che le vertebre risaltavano sulla schiena come grani di rosario, tra due fasce di muscoli lisci. Girò intorno a lui per abbottonargli la camicia. « Sei molto gentile », le disse piano Michael, ed ella non ardì guardarlo negli occhi per non tradirsi di fronte ad Anna. Il suo petto era cosparso di peli ricci e duri, quando come per caso le capitò di sfiorarlo on la punta delle dita. I capezzoli sul torace piatto e sodo erano piccoli e color mattone: spuntarono, duri, quando gli sfiorò la pelle, fenomeno che la sbalordì e l'incantò al tempo stesso. Non si sarebbe mai sognata che capitasse anche agli uomini. « Sbrigati, Centaine », disse Anna, e con un sobbalzo la ragazza si accorse che stava fissando il corpo del giovane. « Sono venuto a ringraziarvi », cominciò Michael. « Non intendevo darvi altro disturbo... » « Nessun disturbo. » Centaine ancora non ardiva guardarlo negli occhi. « Senza il tuo aiuto, sarei forse morto bruciato. » « No! » sbottò Centaine, con enfasi ingiustificata. L'idea che la meravigliosa creatura fosse mortale l'offendeva. Adesso finalmente tornò a guardarlo in faccia, e le parve che un cielo d'estate trapelasse dalle finestre degli occhi. « Centaine, abbiamo un sacco di cose da fare », disse Anna in tono ancor più secco. « Lasciate che vi aiuti io », si intromise in fretta Michael. « Tanto mi hanno lasciato a terra. Non posso volare. » Anna assunse un'aria dubbiosa, ma il conte alzò le spalle. « Effettivamente avremmo bisogno di una mano. » « Un piccolo risarcimento... » insisté Michael.
« Ma la sua bella uniforme... » Anna cercava scuse. Abbassò gli occhi sugli stivali lustri. « Abbiamo un sacco di stivali e indumenti da lavoro », interloquì rapida Centaine. Anna levò le mani in segno di resa. Centaine pensò che perfino il serge de nim azzurro, o denim come veniva colloquialmente chiamato, e gli stivaloni neri di gomma gli donassero, tanto era bello. Michael scese agilmente le scale per aiutare il conte a ripulire le lettiere degli animali in cantina. Centaine e Anna passarono il resto della mattinata nell'orto a zappare. Tutte le volte che Centaine si recava in cantina con ogni pretesto possibile, si fermava accanto a Michael che lavorava se guendo le direttive del conte, e i due discorrevano perfetta mente consapevoli del proprio turbamento, finché Anna non scendeva a chiamare Centaine. « Ma dove si è cacciata la ragazzina? Centaine! Cosa diavolo fai? » Sembrava davvero che non lo sapesse. I quattro mangiarono in cucina, omelette insaporite da cipolla e tartufi, formaggio e pane nero, e una bottiglia di vino rosso su cui Centaine aveva finito per cedere, senza però dar le chiavi al padre: era scesa a prenderla-in cantina lei stessa. Il vino li mise di buon umore, perfino Anna ne prese un bicchiere e lo concesse anche a Centaine; la conversazione divenne libera e sciolta, punteggiata dalle risate. « Ora, capitano... » il conte finalmente si rivolse a Michael con un bagliore significativo nell'unico occhio, « ... di che si occupa la sua famiglia, e lei personalmente, laggiù in Africa? » « Siamo agricoltori », rispose Michael. « Fittavoli? » tastò cauto il terreno il conte. « No, no... » rise Michael. « La terra è rrostra. » « Proprietari terrieri? » Iltono del conte cambiò. Come tutto il mondo sa, la terra è l'unica vera ricchezza. « E che estensione hanno le proprietà di famiglia? » « Be', molto vasta... » Michael aveva l'aria imbarazzata. « Vastissima. Vede, mio padre e mio zio non l'hanno ancora di visa... » « Suo zio il generale? » suggerì il conte. « Già, mio zio Sean... » « Un centinaio di ettari? » insisté il conte. « Un po' di più », disse Michael, contorcendosi sulla panca, con la pagnotta in mano. « Duecento? » il conte era così impaziente che Michael non poté più eluderlo. « In tutto, considerando le piantagioni e i pascoli per il be stiame, e un po' di terra che possediamo nel nord del paese, saranno circa quarantamila ettari. » « Quarantamila... » Ilconte lo fissò, poi ripeté la cifra in inglese per essere sicuro di capire bene. « Quarantamila...? » Michael annuì un po' a disagio. Era da poco che si rendeva pienamente conto della ricchezza familiare. « Quarantamila ettari! » Ilconte sospirava con reverenza. Poi però aggiunse: « Naturalmente avrà parecchi fratelli...? » Michael scosse la testa. « Disgraziatamente sono figlio uni co. » « Ah! » disse il conte con evidente sollievo. « Io non mi sentirei affatto disgraziato! » Gli diede una lieve pacca paterna sul braccio. Poi il conte inviò un'occhiata alla figlia. Per la prima volta notò l'espressione con cui stava guardando l'aviatore. « Hai proprio ragione, figlia mia », pensò il conte. « Quarantamila ettari, e figlio unico! » Sua figlia era una donna francese, e conosceva il valore di un soldo e di un franco, sacré bleu,
lo conosceva meglio di lui. Le sorrise attraverso la tavola. Per molti versi era ancora una bambina, per altri però era una giovane francese piuttosto sveglia. Da quando il fattore del conte era sfollato a Parigi, lasciando nel caos il libro dei conti, era stata Centaine a prendere in mano i cordoni della borsa. Il conte non si era mai occupato di soldi, per lui l'unica vera ricchezza restava la terra, ma sua figlia sapeva occuparsene e come. Era intelligente. Gli contava perfino le bottiglie di vino e i prosciutti appesi in cantina. Bevve un sorso di vino rosso e gongolò fra sé. Dopo il grande massacro sarebbero rimasti ben pochi giovani adatti... e quarantamila ettari! quarantamila ettari! « Chérie », disse. « Se il capitano, qui, prendesse la nostra doppietta e buttasse giù qualche piccione, mentre tu vai a cercare i tartufi... credo che ce ne siano ancora parecchi nel bosco... stasera potremmo organizzare una cena coi fiocchi. » Centaine batté le mani, contentissima, ma Anna lo guardò con indignazione dall'altro capo del tavolo. « Verrà con te Anna per farti da chaperon », aggiunse in fretta. « Non si vuol certo dar scandalo... » Tanto vale piantare il semino. Se già non stava germogliando qualcosa... Quarantamila ettari, merde! Il porcello si chiamava Kaiser Wilhelm, per brevità Klein Willi. Era maschio, pezzato, così grosso che, mentre s'infilava nel sottobosco, fece venire in mente a Michael un ippopotamo. Le orecchie appuntite vibravano a lato degli occhietti e la coda a cavatappi puntata verso il cielo esibiva ampie testimonianze del suo sesso, contenute in un sacchetto rosa che sembrava fritto nell'olio. « Vas-y, Willie! Cherche! » gridavano Centaine e Anna all'unisono: ci volevano entrambe per tenere al guinzaglio il bestione. « Cherche! Cerca! » Il verro sniffava ruspando la terra brunastra tra i roveri, tirandosi dietro le due donne. Michael le seguiva, con il badile sulla spalla buona, ridendo per la novità della « caccia » al tartufo, e trotterellando per non farsi lasciare indietro. Nel fitto del bosco attraversarono un rio gonfiato dalle recenti piogge, poi proseguirono lungo la riva con grandi urla d'incoraggiamento al maiale. All'improvviso l'animale grufolò di gioia e si mise a raspare la terra molle con gli zamponi infangati. « Ne ha trovato uno! » strillò eccitata Centaine, trattenendo a tutta forza il guinzaglio con Anna. « Michel! » gridò, voltandosi. « Quando riusciamo a tirarlo via, fa' in fretta col badile! » « Sono pronto! » Dalla tasca della gonna Centaine tirò fuori un vecchio tartufo rinsecchito dall'età. L'infilzò sulla punta di un coltello e lo tese più vicino che poteva al naso del maiale. Per qualche istante la bestia l'ignorò, poi colse l'usta più stagionata e prossima e grugnì ghiotto, cercando di mangiarle la mano. Centaine fece un salto indietro e continuò ad arretrare, mentre il porcello la seguiva. « Sbrigati, Michel! » gridò la ragazza, e lui si diede a scavare col badile. Mezza dozzina di palate gli consentirono di esumare il fungo che Anna si gettò a raccogliere in ginocchio a mani nude. Lo alzò, tutto incrostato di terra: un grumo nerastro gresso quasi quanto il suo pugno. « Che bello! » Alla fine Centaine gettò al porco un tozzo del vecchio tartufo rinsecchito, e quando l'ebbe ingoiato gli consenti di tomare alla buca vuota e grufolare nella terra smossa per accertarsi che l'altro tartufo fosse davvero sparito. Poi tornò a gridargli: « Cherche! » e tutto ricominciò. Nel giro di un'ora il cestello traboccava di quei tozi funghi dall'aria ben poco appetitosa, e
Anna dichiarò chiusa la cerca. « Più di tanti non servirebbero nemmeno. Adesso cerchiamo i piccioni. Vediamo un po' se il nostro capitano africano sa sparare! » Corsero ridendo dietro al maiale, ansimando per i campi e i boschi fino al castello, dove Centaine chiuse i tartufi nella dispensa e Anna riportò l'animale in cantina. Tornata, prese la doppietta dal chiodo in cucina e la porse a Michael, studiando i suoi gesti che verificavano lo stato dell'arma e la pulizia delle canne. Soddisfatto, Michael l'imbracciò due o tre volte e se la mise in spalla. Nonostante le bruciature che l'impacciavano un po', aveva proprio l'aria del buon cacciatore e Anna l'apprezzò con soddisfazione. Quanto a Michael, fu quanto mai sorpreso e felice che l'arma fosse un venerabile Holland e Holland; infatti egli era convinto che solo gli artigiani inglesi sapessero fabbricare doppiette le cui canne non facessero allargar troppo la rosa nonostante la rapidità dello spostamento laterale necessario per il tiro a volo. Annui ad Anna. « Eccellente! » La donna gli porse la borsa di tela delle cartucce. « Ti farò vedere io un posto buono », disse Centaine, prendendogli una mano per guidarlo, e lasciandola immediatamente andare avendo notato il cipiglio di Anna. « Nel pomeriggio i piccioni tomano nel bosco », spiegò. Costeggiarono la macchia. Centaine, in testa, alzava la gonna per evitare di infangarsela nelle pozzanghere, sicché Michael aveva occasione di veder rilucere, di quando in quando, il lampo bianco delle sue caviglie, che gli faceva venire il batticuore. Con le sue gambe corte, Anna ben presto rimase indietro, molto indietro, e i due giovani ignorarono i suoi richiami: « Aspettatemi! Aspettatemi! » All'angolo della foresta (quella « T » che per i piloti costituiva l'agognato riferimento all'a.terraggio) c'era un sentiero fangoso tra due siepi, il posto adatto per aspettare i piccioni al passo. « Arrivano di là », disse Centaine, indicando i campi aperti e le vigne, ora incolti e squallidi per l'abbandono. « E noi da qua li becchiamo. » La siepe offriva un riparo eccellente, e quando arrivò Anna i tre si nascosero e presero a scrutare il cielo. Nuvole basse e grevi avevano cominciato ad affollarsi da nord, minacciando pioggia e fornendo uno sfondo ideale al balenare dei primi volatili subito individuati dall'occhio esercitato di Michael. « Eccoli là che vengono dritti verso di noi », disse. « Non li vedo », disse agitata Centaine. « Dove sono? Ah sì, eccoli! » Filavano, discendendo piano in direzione della foresta. Per un tiratore come Michael non erano un bersaglio difficile. Aspettò che due piccioni si sovrapponessero e col primo colpo li buttò giù entrambi. Il resto dello stormo si disperse, ma Michael fece in tempo a prendere un altro piccione con la seconda cartuccia. Le due donne corsero nel prato a raccogliere gli uccelli « Tre con due tiri! » disse Centaine, tornando accanto a lui e fissandolo ammirata. « Un colpo di fortuna », disse Anna. « Nessuno può beccare due piccioni con un sol colpo; non al volo, almeno. » Lo stormo successivo era più nutrito, e gli uccelli erano rag gruppati. Michael ne prese tre insieme al primo tiro e un quarto col secondo. Centaine si rivolse con aria di trionfo ad Anna. « Un altro colpo di fortuna », la sfotté. « Il capitano è nato con la camicia, si direbbe. » Nella successiva mezz'ora vi furono altri tre passaggi, e Cen taine gli domandò, seria: « Non sbagli proprio mai? »
« Lassù », le rispose Michael indicando il cielo, « se sbagli sei morto. Finora non ho mai sbagliato. » Centaine rabbrividì. La morte... ancora quella parola. La morte li circondava tutti, era sulle alture là in fondo, dove per il momento le cannonate sembravano un brontolio temporalesco lontano, la morte era in cielo sopra di loro. Guardò Michael e pensò: « Non voglio che muoia. Mai, mai! » Poi si riscosse, ricacciando la malinconia, sorrise e disse: « Insegnami a sparare ». Richiesta ispirata. Consentì a Michael di toccarla anche sotto lo sguardo arcigno di Anna. La piazzò di fronte alla siepe, davanti a sé, e la mise nella classica posizione di sparo con il piede sinistro avanzato. « Questa spalla un po' più bassa. » Erano entrambi perfettamente consapevoli di toccarsi. « Gira il fianco un po' più in là. » Le mise le mani addosso per guidarla, e quasi svenne per il turbamento, quando Centaine gli appoggiò le natiche contro l'inguine per seguire i suoi consigli. Il primo sparo di Centaine la spinse indietro, contro il suo torace, dove egli la bloccò con un abbraccio protettivo, mentre i piccioni volavano indenni verso l'orizzonte. « Stai guardando solo la punta della canna e non il piccione », le spiegò Michael, sempre tenendola stretta. « Guarda il piccione, il fucile verrà da sé. » Al tiro successivo colse il bersaglio e il piccione precipitò dal cielo tra gli strilli eccitati delle due donne, ma quando Anna corse a prenderlo, la pioggia che non era caduta fino a quel momento prese a scrosciare, formando su di loro una cortina d'argento. « Il granaio! » gridò Centaine, e li guidò di corsa attraverso il prato. L'acqua sferzava le cime degli alberi, e i goccioloni esplodevano sulla loro pelle come granate in miniatura. Il suo gelo li fece restare per un attimo senza fiato. Centaine arrivò per prima al granaio, con la camicetta appiccicata alla pelle, così che Michael poté vedere la forma precisa dei suoi seni. Ciocche di capelli scuri le si erano incollate alla fronte, e la ragazza si strizzò la gonna ridendo e non facendo il minimo tentativo di sottrarsi al suo sguardo. Il granaio era di fronte al sentiero. Era fatto di massi squadrati, e il tetto di paglia era bucherellato e liso come un vecchio tappeto. Era mezzo pieno di balle di paglia che, da una parte, arrivavano fino al soffitto. « Chissà fino a quando andrà avanti a piovere », disse Anna di pessimo umore, guardando fuori e scrollandosi la pioggia di dosso come un bufalo d'acqua che esca da una palude. « Siamo bloccati. » « Vieni qui, Anna, puliamo i piccioni. » Si sedettero comodamente sulle balle di paglia, Centaine e Michael a spalla a spalla, e si misero a pulire gli uccelli conversando. « Dimmi dell'Africa » gli domandò Centaine. « e davvero così nera? » « Anzi... è la terra più assolata del mondo », rispose Michael. « Forse lo è fin troppo. » « A me piace, il sole », disse, scuotendo la testa, Centaine. « Odio il freddo e l'umido. Per me il sole non è mai troppo. » Le parlò dei deserti in cui non piove mai. « In un anno cade tant'acqua come qui in mez'ora. » « Credevo che in Africa ci fossero solo negri selvaggi. » « No », rise lui. « ci sono anche tantissimi selvaggi bianchi... e gentlemen negri. » Le parlò dei minuscoli pigmei gialli delle giungle di Ituri, che arrivano all'ombelico di un uomo normale, dei giganteschi vatussi che considerano un nano chiunque non arrivi ai due metri, e di quei nobili guerrieri degli zulu che si
chiamano « bambini del cielo ». « Parli come se li amassi », fece notare Centaine. « Gli zulu? » domandò lui, quindi annui. « Si, credo di amarli. Alcuni, almeno. Mbejane... » « Mbejane? » ripeté la ragaza, naturalmente storpiando la pronuncia. « A uno zulu... è cresciuto praticamente insieme a mio zio Sean. » Usò la parola zulu Umfaan e dovette tradurgliela. « Parlami degli animali. » Centaine non voleva che smettesse di parlare. Poteva continuare ad ascoltarlo all'infinito. « Parlami dei leoni e delle tigri. » « Non ci sono, le tigri », le sorrise, « ma, di leoni, ce n'è fin che vuoi. » Perfino le mani di Anna, intente a spennare gli uccelli, Si fermarono mentre ascoltava la descrizione di Michael di un campo che aveva fatto con suo zio Sean nel veld dove erano andati a caccia. Erano stati assediati da un branco di leoni, e avevano dovuto passare la notte svegli, a tranquillizzare i cavalli a forza di abbracci e carezze, mentre intorno a loro, ai margini del chiarore del fuoco, giravano i gattoni chiari ringhiando e ruggendo, nel tentativo di far scappare i cavalli nell'oscurità dove sarebbero stati per loro una facile preda. « Parlaci degli elefanti. » Ed egli le raccontò quanto sapeva di quegli animali intelligenti. Descrisse la loro andatura quasi da sonnambuli, i loro movimenti lenti, sempre accompagnati dallo sventolio delle orecchie per abbassare la temperatura del sangue, e la loro abitudine di raccogliere del terriccio con la proboscide per farsi delle belle docce di sporco sulla testa. Parlò loro delle intricate strutture sociali del branco, di come i vecchi maschi evitassero la confusione creata dai piccoli. « Proprio come tuo papà », disse Anna. E di come le vecchie elefantesse si assumessero il ruolo di bambinaie e governanti; di come le grandi bestie grige intrattenessero rapporti di amicizia, che tra i vari individui potevano durare anche tutta una vita, come accade agli uomini; e delle loro strane preoccupazioni circa la morte. Quando uccidevano un cacciatore che li aveva inseguiti e feriti, spesso ne coprivano il cadavere di foglie verdi, quasi volessero fare ammenda. Raccontò poi che, quando un membro del branco veniva colpito, gli altri cercavano di soccorrerlo, sorreggendolo con la proboscide, affiancandoglisi per tenerlo in piedi con le loro masse imponenti: e quando alla fine cadeva... se era una femmina, il capobranco la montava, come tentando di sconfiggere la morte mediante l'atto della generazione. Quest'ultimo racconto riscosse Anna dalla trance in CUl era caduta ascoltandolo, ricordandole il suo ruolo di chaperon. In tal veste rivolse un'occhiata severa a Centaine. « Ha smesso di piovere », annunciò, conilnciando a raccogliere le carcasse pulite dei piccioni. Centaine stava ancora guardando Michael con gli occhioni scuri spalancati e brillanti. « Un giorno andrò in Africa », disse piano, ed egli ricambiò il suo sguardo e annuì con grande serietà. « Si », disse. « Un giorno. » Era come se si fossero scambiati una promessa. Era una cosa fra loro, salda e condivisa. Fu in quel momento che ella diventò la sua donna e lui il suo uomo. « Venite », insisté Anna dalla porta del granaio. « Venite, prima che ricominci a piovere. » Ci volle da parte loro un grande sforzo per alzarsi e seguirla fuori, in un mondo umido e grondante. Coi piedi di piombo, si trascinarono per il sentiero che portava al castello, a fianco a fianco, senza toccarsi ma così acutamente consapevoli della prossimità dell'altro che era come se procedessero abbracciati.
Ed ecco balzar fuori dal crepuscolo gli aeroplani. Bassi, veloci, li sorvolarono rintronandoli col rombo dei motori. In testa c'era il Sopwith verde. Da dove si trovavano non potevano vedere la testa di Andrew, ma scorsero il cielo attraverso i fori che le mitragliatrici nemiche gli avevano fatto nelle ali: file di fori prodotti dalle raffiche delle Spandau. Anche gli altri cinque velivoll erano altrettanto sforacchiati sulle ali e sulla fusoliera. « Giornata dura », disse piano Michael, con la testa rivolta all'insù. Un altro Sopwith seguiva a distanza gli altri, col motore sputacchiante,. una scia d vapore sprigionantesi dall'elica e un'ala quasi divelta. Centaine, guardandolo, rabbrividì e si avvicinò furtivamente a Michael. « Qualcuno di loro è morto laggiù, oggi », gli sussurrò, senza aspettarsi conferma. « Domani anche tu sarai di nuovo con loro. » « Non domani. » « Il giorno dopo, allora, o quello dopo ancora. » Anche qui non erano necessarie conferme. « Michel, oh, Michel! » C'era nella sua voce un dolore qua si fisico. « Devo vederti da sola. Potremmo non avere mai potremmo non avere mai un'altra possibilità. D'ora in poi do vremo vivere ogni minuto della nostra vita come se fosse l'ulti mo, e considerarlo prezioso. » Lo shock provocato da quelle parole lo colpì come una maz zata. Non riuscì a risponderle niente. La ragazza abbassò la voce. « Il granaio », gli sussurrò. « Quando? » Ritrovò la voce, ma gli uscì bassissima e stroz zata. « Stasera, verso mezzanotte. Verrò prima che posso. Farà freddo. » Lo guardò ardita negli occhi: le convenzioni sociali erano spazzate via, bruciate dalla fornace della guerra. « Devi portare una coperta. » Si allontanò di corsa da lui e raggiunse Anna, lasciando Mi chael in uno stato di incredulità, incertezza ed estasi Michael si lavò alla pompa fuori della cucina e si rimise l'uni forme. Quando rientrò, già sotto la crosta di sfoglia era pronto e fragrante il pasticcio di piccione ai tartufi, mentre Centaine riempiva a volontà di vino rosso, e senza il minimo accenno di protesta, il bicchiere del padre. Faceva lo stesso anche con An na, ma con mano più leggera e astuta, sicché la donna non se ne accorgeva e tracannava inavvertitamente quella quantità di vino che ora la rendeva proclive alle più rauche sghignazzate e sempre più rossa in volto. Centaine nominò Michael addetto al grammofono a tromba, la sua proprietà più cara, e dichiarò suo compito badare a te nere la molla sempre carica e cambiare i dischi quando finivano. Cio che usciva dalla tuba dorata del grammofono era niente meno che l'Aida di Verdi diretta da Toscanini, registrata alla Scala, che fece rimbombare la cucina di melodie immortali. Quando Centaine andò a servire Michael di pasticcio di piccione, gli sfiorò la nuca e gli sussurrò all'orecchio: « Adoro l'Aida, etu? » Quando il conte pVrese a fargli circostanziate domande sulla produzione dei possedimenti di famiglia, Michael trovò difficile concentrarsi sulle risposte. « Un tempo allevavamo migliaia di cavalli da tiro, ma mio zio è convinto che dopo la guerra le macchine a benzina sfonderanno... » « Ah, che peccato che il cavallo debba arrendersi a quei mostri rumorosi e puzzolenti inventati dal diavolo », sospirò il conte. « Ma tuo zio ha ragione. Il motore a benzina ha il futuro
dalla sua. » « Pianteremo alberi adatti alla produzione di cellulosa e di travature per le miniere d'oro. Bisogna, però, vedere se cresceranno. » « Chissà? » « Restano comunque le piantagioni di zucchero e gli allevamenti di manzi. Mio zio è convinto che ben presto navi dotate di celle frigorifere potranno portare la nostra carne in tutto il mondo... » Più ascoltava, e più il conte diventava compiaciuto. « Bevi, bevi, ragazzo mio », l'esortò quasi per palesare tutta la sua approvazione. « Non hai bevuto nemmeno un goccio. Forse il mio vino non ti piace? » « Ah, no! E eccellente. Ma vede, il mio fegato... » Michael si diede due colpetti dove riteneva che fosse. Il conte emise versi di simpatia e preoccupazione. Da buon francese, era convinto che quasi tutti i mali dell'umanità avessero origine dalle disfunzioni di quell'organo. « Non si tratta di cosa grave, peraltro. Ma non vorrei che la mia piccola indisposizione frenasse anche lei... » Michael fece un gesto di autodeprecazione, e il conte, obbediente, riempì soltanto il proprio bicchiere. Sistemati gli uomini, le due donne servirono se stesse e li raggiunsero a tavola. Centaine sedette accanto al padre e parlò poco tutta la sera. Guardava in modo alterno i due uomini, prestando teatralmente attenzione a quanto dicevano. Ma a un tratto Michael sentì una leggera pressione sulla caviglia e si rese conto, con un sobbalzo, che Centaine gli stava facendo piedino sotto la tavola. Distolse gli occhi da quelli del conte, sentendosi un po' colpevole, e non ardì nemmeno guardare Centaine. Fece invece il suo solito gesto di soffiarsi sulla punta delle dita, come se si fosse appena scottato sulla stufa, e sbatté gli occhi diverse volte. Il piede di Centaine si ritirò nascostamente come era avanzato e Michael aspettò due o tre minuti prima di sporgere il proprio. Poi trovò il piede di lei e lo prese tra i suoi; con la coda dell'occhio vide che la ragazza arrossiva, dal collo fino alla punta delle orecchie. Si mise a fissarla incantato, senza riuscire a distoglierne lo sguardo finché il conte non alzò la voce. « Quanti allora? » ripeté il conte con una certa irritazione. Sentendosi in colpa, Michael ritirò immediatamente i piedi. « Mi spiace, non ho sentito... » « Il capitano non sta ancora bene », intervenne pronta Centaine, per quanto fosse un tantino turbata. « Le bruciature gli faranno male. Oggi ha lavorato troppo e questo non avrà certo fatto bene alla sua spalla... » « Non lo tratterremo », intervenne Anna alacremente, « se ha finito di cenare. » « Sì. Sì. » Centaine si alzò. « Dobbiamo lasciarlo andare a riposare. » Il conte sembrò veramente addolorato di aver perso un compagno di bevute, anche se oggi soltanto virtuale, ma Centaine ben presto lo rassicurò. « Non disturbarti, papà, sta' li seduto a finire il vino. » Anna accompagnò la coppia fuori, nel buio della corte, e rimase vicina ai due giovani a braccia incrociate, sorvegliando i loro saluti con sguardo d'aquila. Aveva bevuto giusto la quantità di chiaretto necessaria a intorpidire il suo istinto, altrimenti Si sarebbe certo domandata come mai Centaine aveva voluto per forza accompagnare Michael alla moto. « Posso tornare a trovarla, Mademoiselle de Thiry? » « Se lo desidera, Capitano... » Il cuore di Anna, raddolcito dal vino, era dalla parte dei due
giovani. Dovette fare uno sforzo per decidersi a intervenire. « Addio, Miinheer », disse seccamente. « La bambina si prenderà un raffreddore. Vieni dentro adesso, Centaine. » Il conte aveva giudicato indispensabile lavare via il chiaretto con una hne de champagne o due. Combatteva l'acidità del vino, spiegò tutto serio a Centaine. Fu quindi necessario che le due donne lo portassero a letto. Compì la difficile ascesa cantando la marcia dell'Aida con più gusto che talento. Quando raggiunse il letto, ci cascò sopra come una quercia abbattuta, a pancia in su. Centaine gli tolse gli stivali. « Che tu sia benedetta, piccina, il tuo papà ti vuole tanto bene. » In due lo rizzarono a sedere e gli infilarono la camicia da notte, poi lo lasciarono ricadere giù. Preservato il suo pudore mediante la camicia da notte, gli sElarono i pantaloni e lo fecero rotolare sotto le coperte. « Che gli angeli veglino il tuo sonno, dolcezza mia », sussurrò il conte a Centaine con la lingua impastata. Gli sistemarono sopra il piumino e spensero la candela. Col favore dell'oscurità, Anna sporse una mano e carezzò il cespuglio irsuto sulla testa del conte. Fu ricompensata da una russata sonora e seguì Centaine fuori della camera, chiudendo piano la porta. Centaine giacque distesa ascoltando i rumori consueti dena vecchia casa. Saggiamente aveva resistito alla tentazione di ficcarsi sotto le coperte vestita. Infatti Anna era passata a salutarla di sorpresa, proprio mentre stava per spegnere la candela. Si era seduta sul bordo del letto, garrula per il vino, ma non certo incapace, se si fosse dato il caso, di accorgersi che Centaine non era in camicia da notte. Sbadigliando e sospirando, la ragazza cercò di trasmetterle telepaticamente il sonno, ma, visto che non funzionava, e che il campanile di Mort Homme batteva le dieci, fece addirittura finta di cascare addormentata. Era una sofferenza starsene ferme e controllare il respiro, perché dentro era eccitatissima. Alla fine Anna si rese conto che parlava da sola, e si mise a girare per la camera, raccogliendo e piegando i vestiti di Centaine. Infine si chinò a darle un bacio sulla guancia e uscì con la lanterna in mano. Appena rimasta sola, Centaine si rizzò a sedere, tutta piena di impazienza e trepidazione. Benché avesse chiarissimo in mente come sarebbe andato a finire il suo appuntamento con Michael, la meccanica precisa le risultava ancora alquanto oscura. Soltanto la logica le suggeriva che la cosa non sarebbe stata molto diversa da quanto aveva più volte visto accadere nei campi e sull'aia. Ne aveva ricevuto conferma l'ultima estate, un pomeriggio d'afa, quando un rumoretto proveniente da una delle stalle attualmente vuote aveva richiamato la sua attenzione Si era avvicinata in silenzio e da una fessura aveva visto Elsa, la sguattera, e Jacques, il cameriere, intenti a una fervida attività che quasi subito le fece capire che giocavano a gallo e gallina, stallone e giumenta. Ci aveva poi pensato per giorni e giorni, ascoltando con più attenzione i pettegolezzi delle serve. Alla fine aveva preso il coraggio a due mani ed era andata a chieder lumi ad Anna. Nel complesso le sue ricerche erano risultate confuse e costellate di contraddizioni. Secondo Anna, il procedimento era estremamente doloroso, accompagnato da vaste emorragie e grave pericolo di rimanere incinte o ammalarsi. Ciò però contraddiceva la gioia incondizionata con cui ne parlavano le altre serve, e le risatine e i gemiti di piacere che aveva sentito provenire
da Elsa coricata sulla paglia della stalla sotto Jacques Centaine sapeva di avere un'alta soglia del dolore, perfino il buon dottor Le Brun gliel'aveva detto quando aveva dovuto ridurle senza cloroformio l'avambraccio rotto una volta che era caduta da cavallo. « Neanche un gemito », si era meravigliato. No, Centaine sapeva che era capace di sopportare il dolore come qualunque contadina delle sue terre, e, a parte le regole mensili, le era già capitato di sanguinare lì. Quasi sempre, quando era sicura che nessuno la vedesse, toglieva la sella da amazzone e cavalcava Nuage a pelo, con la gonna arrotolata per poter divaricare le gambe. La primavera precedente, cavalcando così, aveva affrontato con lo stallone il salto del muretto che chiudeva il campo a nord, superandolo dalla parte più bassa e atterrando, dall'altra parte, due metri più in basso. Era ricaduta con violenza sulla groppa dello stallone, e aveva provato un dolore lancinante, simile a una pugnalata. Aveva poi sanguinato, colorando di rosa la groppa di Nuage, sicché, nonostante il dolore, per la vergogna si era fermata a lavarlo allo stagno in fondo al campo prima di tornare a casa zoppicando, con Nuage alla cavezza. No, né il dolore né il sangue la spaventavano. Le sue trepitazioni avevano un'altra causa. Aveva paura di deludere Michael: Anna l'aveva messa in guardia anche su ciò. « Dopo, gli uomini perdono ogni interesse per la donna, quei porci! » « Se Michael perde interesse per me, ne morirò, credo », rifletté, e per un attimo esitò. « Non ci andrò. Non correrò questo rischio. » « Ma come faccio a non andarci? » sussurrò a se stessa subito topo, sentendo il petto traboccare d'amore e di desiderio. « Devo andarci, non posso farne a meno. » In preda all'impazienza, rimase a sentire i rumori ti Anna che si preparava ad andare a letto nella camera accanto. Anche quando vi fu silenzio, continuò ad attendere, e solo allorché l'orologio della chiesa ebbe battuto le dieci e mezzo scivolò fuori del piumino. Trovò gli indumenti piegati da Anna ed esitò, con un piede infilato nella gamba dei mutandoni. « Cosa li metto a fare? » rise poi fra sé, e li allontanò con un calcio. Si infilò la pesante giacca da amazzone di lana e la gonna, poi si mise sulle spalle uno scialle scuro che fece passare anche sopra la testa. Con gli stivali in mano, scivolò nel corridoio e si mise ad ascoltare fuori della porta di Anna. Russava piano e con ritmo regolare. Centaine sgattaiolò in cucina. Qui si infilò gli stivali e poi accese la lanterna cieca con un tizzone della stufa. Aprì la porta della cucina e usci. La luna era all'ultimo quarto, e navigava con la prua affilata tra le rapide onde delle nuvole. Centaine camminò sull'erba, sì da non far scricchiolare la ghiaia sotto gli stivali, e copri la lanterna perché la luce della luna bastava a guidare il suo cammino. Discendeva il sentiero in quell'argenteo chiarore quand'ecco che la cresta delle alture si illuminò colorandosi di arancione, come se fosse l'alba, per poi lentamente scolorire. Subito, attutita dal vento, giunse ltesplosione. « Cannonate! » Centaine si fermò un attimo a chiedersi quand morti e feriti avesse fatto quella mostruosa fioritura di ferro e di fuoco. Quel pensiero la spronò. C'erano tanta morte e tanto odio, e cosi poco amore! Doveva tenere ben stretto in pugno qualunque superstite granello d'amore. Vide finalmente apparire il granaio e si mise a correre. Non si scorgeva la minima luce, nè vi era segno della motocicletta. « Non è venuto. » Il pensiero la fece disperare. Lo deside-
rava pazzamente, e aveva voglia di mettersi a urlare il suo nome Corse alla soglia del granaio e vi si affacciò, quasi cadendoci dentro. « Michel! » Non riusciva più a trattenersi, sentì il panico nella sua stessa voce e tornò a chiamarlo. « Michel! » E aprì al massimo la lanterna. Le stava venendo incontro dall'oscurità del granaio. Alto, le spalle larghe, il viso pallido molto bello alla luce della lampada. « Credevo che non fossi venuto. » Si fermò davanti a lei. « Niente », disse piano, « niente al mondo avrebbe potuto trattenermi. » Rimasero a faccia a faccia, Centaine col mento alzato per guardarlo negli occhi, affamati l'uno dell'altra e tuttavia ignari entrambi di cosa dovessero fare ora, di come superare quei pochi centimetri che si sitendevano tra loro come l'abisso dell'eternità. « Non ti ha visto nessuno? » le domandò lui. « No, no, sono sicura di no. » « Bene. » « Michel? » « Sì, Centaine. » « Forse non sarei dovuta venire... dovrei tornare indietro? » Era proprio la cosa giusta da dire. L'implicita minaccia galvanizzò Michael, che fece un passo avanti e l'abbracciò quasi rudemente. « No, mai... Non voglio che tu te ne vada, mai. » Lei rise, una risatina roca e sommessa, e lui l'attirò a sé e cercò di baciarla, ma fu un goffo tentativo. I nasi si urtarono, e anche l denti, per la fretta, prima che le labbra si trovassero. Tuttavia, una volta che le ebbe sulle proprie, egli scoprì le l« S bra di Centaine calde e morbide, e l'interno della sua bocca di seta e dal gusto di mela matura. Poi lo scialle le scivolò dal capo, sulla faccia, e dovettero separarsi ridendo e senza fiato « I bottoni », sussurrò lei. « I tuoi bottoni mi fanno male, e poi ho freddo. » Rabbrividì platealmente. « Mi dispiace. » Le prese la lanterna di mano e condusse la ragazza in fondo al granaio. Centaine vide che tra la paglia aveva preparato un giaciglio con le coperte grige dell'esercito. « Sono andato a prenderle nella mia tenda », le spiegò mentre abbassava con cura la lampada, e poi si rivolse nuovamente a lei, con impazienza. « Attends! » Gli slacciò il cinturone borchiato. « Se no mi riempi di lividi. » Michael lo gettò da parte e abbracciò di nuovo Centaine. Stavolta si trovarono subito le labbra e si allacciarono. Grandi ondate di sensazioni attraversavano Centaine, così potenti che si sentiva turbata e debolissima. Le cedevano le gambe, ma Michael la teneva su e la copriva di baci sulla bocca, sugli occhi, sulla gola, sicché lei faticava a tenergli dietro... ma voleva che si stendessero sulle coperte. Di proposito abbandonò le gambe e lo sbilanciò. Così Michael le cadde sopra, sulle coperte del giaciglio. « Scusami », disse lui, cercando di togliersi, ma Centaine con una presa ferrea gli tenne la faccia sopra la propria. Con l'altra mano intanto copriva entrambi con le coperte. Si udl emettere guaiti in sordina, come un gattino a cui la madre neghi la tetta, e gli carezzò il volto e i capelli baciandolo con foga. Il peso del suo corpo su di lei le piaceva tanto che, quando cercò un'altra volta di spostarsi, lo bloccò con le gambe per impedirglielo, trattenendoselo addosso. « La luce », gemé lui, e a tastoni cercò la lanterna per spegnerla.
« No, voglio vederti in viso. » Gli prese il polso e ritirò la mano di lui, mettendosela in grembo, mentre lo guardava negli occhi. Erano così belli alla luce della lanterna che pensò che il cuore potesse spezzarlesi in petto... poi sentì la mano di lui sopra un seno, e Centaine ve la trattenne finché i capezzoli cominciarono a dolerle. Tutto diventò un delirio di gioia e desiderio, sempre più forte, fino a risultare insopportabile: qualcosa doveva.accadere, altrimenti sarebbe svenuta per la potenza delle sensazioni che provava. Ma non accadde, ed ella si sentì precipitare da quelle altezze, irritandosi e quasi arrabbiandosi per la delusione. Le sue facoltà critiche, intorpidite dal desiderio, ora si ridestarono e si rese conto che Michael era in preda a un senso di indecisione. Allora si arrabbiò davvero. Avrebbe dovuto imporsi come un padrone, portarla là dove voleva arrivare. Centaine gli riprese il polso e gli guidò la mano giù, mentre allo stesso tempo si tirava sul ventre la gonna di lana. « Centaine », sussurrò lui, « non voglio fare niente che tu non desideri. » « Tais-toi! » quasi gli sibilò. « Sta' tranquillo! » e comprese che avrebbe dovuto guidarlo lei, avrebbe dovuto guidarlo lei sempre, perché in lui v'era una timidezza che prima non aveva colto, ma non se ne risentì. In qualche modo la faceva sentire fortissima e sicura di sé. Entrambi gemettero quando egli la toccò. Dopo un attimo, Centaine gli lasciò andare la mano e, quando trovò lui, gemé di nuovo forte, era cosi grosso e duro che si spaventò. Per un attimo si chiese se era all'altezza del compito che si era assunta, ma subito si rinfrancò. Egli si muoveva un po' goffamente sopra di lei, e dovette spostarsi, aiutarlo un po'. E all'improvviso, quando non se l'aspettava, accadde... ed ella rimase senza fiato per lo shock. Ma Anna si sbagliava, non c'era dolore, c'era solo una fantastica sensazione di essere dischiusa e riempita, e, dopo il primo turbamento, un gran senso di potere su di lui. « Si, Michel, si, mio caro. » Lo incoraggiò, mentre egli si contorceva gemendo e dibattendosi nell'abbraccio delle sue membra, ed ella dominò facilmente il suo assalto, sapendo che in quel momento egli le apparteneva in modo totale, e godendo di quella certezza. Quando la convulsione finale l'attanagliò, ella lo guardò in viso, e vide come era cambiato il colore dei suoi occhi alla luce della lanterna: era diventato indaco. Benché lo amasse con una forza che era quasi fisicamente dolorosa, tuttavia nelle profondità della propria coscienza ella avverti che le mancava qualcosa. Non aveva provato l'impulso di gridare come Elsa sotto Jacques nella paglia, e subito dopo averci pensato capi che aveva paura. « Michel », gli sussurrò in fretta, « mi ami ancora? Dimmi che mi ami. » « Ti amo più della mia stessa vita. » La sua voce era roca e rotta, nemmeno per un istante dubitò che fosse sincero. Sorrise per il sollievo e lo tenne stretto stretto, e, quando senti che diventava molle e piccolo dentro di lei, fu travolta da un senso di struggente tenerezza. « Oh, mio caro », gli sussurrò, « oh, caro, caro... » accarezzandogli i ricci sulla nuca. Ci volle un po' di tempo percffié il suo turbamento si placasse abbastanza da consentirle di comprendere che qualcosa era irrevocabilmente mutato in lei nei pochi minuti dell'atto compiuto insieme. L'uomo che stringeva fra le braccia era fisicamente più forte di lei, ma adesso che lo cullava le pareva un bambino, un bambino assonnato. Mentre lei si sentiva molto più saggia e vi-
tale, come se la sua esistenza, che fino a quel momento era trascorsa senza uno scopo preciso e senza direzione, avesse finalmente il vento in poppa e una rotta definita, come una nave che portasse entrambi. « Svegliati, Michel. » Lo scosse piano ed egli ansimò e si stirò. « Non puoi dormire ora... parlami. » « Di che? » « Di quello che vuoi tu. Parlami dell'Africa. Dimmi che ci andremo insieme. » « Te l'ho zià detto. » « Dimmelo ancora. Voglio sentire di nuovo tutto. » Mentre giacevano abbracciati, ascoltò avidamente, rivolgendogli continue domande. « Parlami di tuo padre. Non mi hai ancora detto che faccia ha. » Così se la raccontarono tutta la notte, nel loro nido di coperte grige. Poi, troppo presto per entrambi, i cannoni ricominciarono il loro mortale concerto sulle alture, e Centaine lo strinse con disperata bramosia. « Oh, Michel, non voglio andarmene! » Quindi si staccò da lui, si sedette e prese a rivestirsi e ad abbottonarsi. « e la cosa più bella che mi sia mai capitata », le sussurrò Michael guardandola, e alla luce della lanterna e dei bagliori intermittenti delle cannonate i suoi occhi erano grandi e luminosi. « Andremo in Africa, vero, Michel? » « Te lo prometto. Ci andremo. » « Là partorirò tuo figlio, e vivremo felici e contenti come nelle favole, vero Michel? » Uscirono sul sentiero stretti sotto lo scialle di Centaine, e all'angolo delle scuderie si baciarono intensamente, finché Centaine non si sottrasse all'abbraccio e scappò via per il vialetto lastricato. Allorché raggiunse la porta della cucina, non si voltò indietro, ma scomparve nella gran casa scura, lasciando Michael solo e inspiegabilmente triste quando invece avrebbe dovuto esser contento. Biggs, chino sulla branda, rimase a guardare con affetto Michael che dormiva. Il fìglio maggiore di Biggs, che era morto l'anno prima nelle trincee di Ypres, avrebbe avuto ora la stessa età. Michael sembrava cosi esausto e pallido e consunto che Biggs dovette forzarsi a prenderlo per la spalla e scuoterlo. « Che ora è, Biggs? » farfugliò Michael, rizzandosi esausto. « E tardi, signore, e il sole splende. Ma oggi non voliamo, signore, siamo ancora a terra. » Quindi accadde una cosa strana. Michael gli sorrise, un ghigno sciocco, da idiota, che Biggs non gli aveva mai visto prima. Si allarmò. « Dio, Biggs, come mi sento bene! » « Ne sono felice, signore. » Biggs si domandò preoccupato se non fosse febbre alta. « Come va il nostro braccio, signore? » « Il nostro braccio va benissimo, grazie, Biggs. » « L'avrei lasciata dormire, ma il maggiore vuol vederla, signore. Vuol farle vedere qualcosa di importante. » « Che cos'è? » « Non posso dirglielo, signor Michael. Lord Killigerran me l'ha proibito. » « Bravo Biggs! » disse Michael senza alcuna ragione, e scese dalla branda. « Mai fare aspettare Lord Killigerran. » Michael irruppe in mensa e si stupi di trovarla vuota. Voleva condividere il suo buon umore con qualcuno, possibilmente Andrew, ma non c'era neppure il caporale di mensa. I tavoli della
colazione non erano ancora stati sparecchiati e le riviste e i giornali erario ancora per terra dove, con tutta evidenza, erano stati gettati in fretta. La pipa dell'aiutante, che ancora emanava puzzolenti volute di fumo, giaceva abbandonata in un portacenere, a testimonianza che la mensa era stata lasciata di corsa da tutti. Poi Michael senti voci eccitate in distanza. Venivano dalla finestra aperta che guardava sul frutteto. Si mise a correre verso le voci. La forza dello stormo era di ventiquattro piloti, ma dopo le recenti perdite erano soltanto sedici, compresi Andrew e Michael. Erano tutti riuniti al margine del frutteto. e con loro c'erano i meccanici e il personale di terra, gli artiglieri della contraerea che proteggeva il campo d'aviazione, gli inservienti della mensa... ogni anima viva era al campo, e pareva che parlassero tutti insieme. Erano intorno a un velivolo parcheggiato nella piazzola numero uno, a capo del frutteto. Michael riusciva a vederne solo le ali superiori e il profilo del motore, tra le urla della folla, ma si senti quasi mancare. Non aveva mai visto niente di simile. Il naso della macchina era lungo, e dava l'impressione di una grande potenza: le ali erano ben strutturate, e formavano un diedro che suggeriva gran velocità. Le superfici mobili erano grandi, il che indicava stabilità e facile manovrabilità. Andrew si fece avanti a gomitate nel mucchio di soldati e aviatori eccitati e andò da Michael col bocchino d'ambra all'angolo della bocca e la sigaretta che fumava, conferendogli un'aria sgherra. « Salve, o bell'addormentato che sorgi come Venere dall'acque. » « Andrew, è l'SE5 finalmente, no? » gridò Michael sovrastando le urla e il rombo del motore. Andrew lo prese sottobraccio e se lo tirò dietro verso l'apparecchio. La folla si apri davanti agli assi che si avvicinavano al nuovo aeroplano, che Michael fissò sbigottito da vicino. Al primo sguardo comprese che era più pesante e più robusto anche dell'Albatros Del tedesco... e quel motore! Era enorme! Gargantuesco! « Duecento cavalli », disse Andrew dando una fiera pacca sul cofano motore. « Duecento cavalli vapore... » ripeté Michael. « Ancora più potente del Mercedes tedesco. » Andò davanti ad accarezzare la bellissima elica di legno duro laminato, e guardò la mitragliera dietro la pala. Era una mitragliatrice 7,62 Lewis montata su un affusto Foster nell'ala superiore, un'arma efficace e leggera che sparava al di sopra dell'elica; sotto quella mitragliatrice, davanti all'abitacolo del pilota era piazzata la più pesante Vickers, munita di sincronizzatore per sparare attraverso l'elica. Due mitragliatrici, finalmente avevano due mitragliatrici e un motore abbastanza potente da trasportarle in combattimento. Michael emise il selvaggio grido di battaglia telle Highlands che gli aveva insegnato Andrew, e questi stappò la fiaschetta e sparse qualche goccia di whisky sul cofano motore. « Benedici questo aquilone e chi ci volerà sopra », intonò, poi bevve un sorso dalla fiasca e la passò a Michael. « L'hai già pilotato? » domandò Michael, la voce roca per il whisky, passando la fiasca al più vicino dei suoi colleghi ufficiali. « E chi diavolo credi che l'abbia portato qui da Arras? » rispose Andrew. « E com'è? »
« Come una ragazza che ho conosciuto ad Aberdeen... su in fretta, giù in fretta, e dolce e amorosa in mezzo... » Sorse un coro di schiamazzi dai piloti riuniti. Qualcuno gridò: « Quando avremo la possibilità di provarli, signore? » « Per ordine di anzianità », disse loro Andrew, con un sogghigno rivolto a Michael. « Ah, se solo il capitano Coutteney fosse in grado di volare! » Scosse la testa in segno di finta commiserazione. « Biggs! » gridò Michael. « Dov'è la mia tenuta di volo? » « Pensavo che ci servisse, signore. » Biggs venne fuori dalla folla e porse la giacca a Michael. Il potente motore Wolseley Viper spinse l'aereo per la fangosa pista di decollo, e appena la coda si alzò Michael godette di una vista panoramica al di sopra del cofano motore. Era come star seduti in tribuna d'onore. « Dirò a Mac di tirar via questo piccolo e fastidioso parabrezza », decise, « così sarò in grado di vedere qualunque aereo tedesco voli nel raggio di cento miglia. » La grossa macchina balzò in aria e Michael sorrise notando la potenza della cabrata. « Va davvero su in fretta », pensò, ricordando quel che aveva detto Andrew, con la schiena incollata al sedile e il naso dell'apparecchio sollevato oltre l'orizzonte. Sfruttò le correnti ascensionali e si innalzò come un avvoltoio, volteggiando sopra il campo d aviazione. « Non c'è più nessun Albatros che ci possa guardare dall'alto », si esaltò. A tremilacinquecento metri smise di prender quota e provò una virata stretta a destra, la più stretta possibile, attaccandosi sempre alla cloche per tener sollevato il naso dell'aereo: l'ala doppia di dritta puntava direttamente verso terra, mentre le altre due quasi verticalmente verso il cielo. La forza centrifuga gli spazzò via il sangue dal cervello, la vista gli si annebbiò, poi raddrizzò la macchina puntando in direzione opposta e gridò per l'esaltazione al vento e al rombo del pos sente motore. « Fatevi avanti, bastardi! » Si girò a guardare le linee tede sche. « Venite a vedere cosa abbiamo in serbo per voi adesso! » Quando atterrò, gli altri piloti corsero a circondare l'appa recchio. « Come va, Mike? » « Sale bene? » « Com'è la virata? » Dall'ala inferiore, Michael alzò la mano con le dita unite, ne baciò le punte e poi le aprì rivolte al cielo. Quel pomeriggio Andrew condusse lo stormo in formazione chiusa, a bordo dei Sopwith Pup ancora sbrindellati dal fuoco nemico, all'aeroporto principale di Bertangles. Dall'hangar numero 3, dove si raggrupparono eccitati, il personale di terra fece uscire i nuovi apparecchi e li dispose in fila per gli impa zienti piloti sul bordo della pista. Attraverso lo zio allo Stato Maggiore, Andrew aveva otte nuto l'invio di un fotografo. Con lo sfondo dei nuovi apparec chi, i piloti dello stormo formarono intorno ad Andrew un grup po simile a una squadra di calcio. Ma ognuno di loro era vestito in maniera diversa, nessuno aveva l'uniforme regolamentare. In testa avevano caschi e berretti di cuoio dei tipi più eterogenei, mentre Andrew era come sempre fedele al suo tam o' shanter. tLe giacche erano di marina, di cavalleria, o di pelle foderate di pelliccia: ma tutti portavano sul petto le ali che distinguevano lo stormo. Il fotografo preparò il pesante treppiede di legno e scom parve sotto la cappa nera mentre il suo assistente attendeva vi cino con le lastre in mano. Solo uno dei piloti non si era infi
lato nel gruppo. Hank Johnson era un piccolo texano tosto, non aveva ancora vent'anni, ed era l'unico americano dello stor mo. Prima aveva esercitato il mestiere di domatore di cavalli o qualcosa del genere, il bronco buster, come diceva lui. Si era pagato la traversata dell'Atlantico per unirsi allo stormo La fayette, e da lì si era aperto la strada per il gruppo misto di Andrew, formato da piloti scozzesi, irlandesi e coloniali, il 21° Stormo dell'aviazione britannica. Hank rimase dietro al treppiede con il sigaro in bocca a dare cattivi consigli al fotografo scocciato. « Vieni qua, Hank », lo chiamò Michael. « Abbiamo bisogno del tuo brueo muso per conferire un po' di dasse alla fotografia. » Hank si fregò il naso storto, regalatogli da una scalciata equina, e scosse la testa. « Non lo sapete che porta scalogna farsi fotografare? » Lo coprirono d'insulti, mentre lui affabilmente li salutava sventolando il sigaro. « Forza, forza », li incoraggiò, « ma sappiate che mio padre il giorno che si è fato fare la fotografia è stato morso da un serpente a sonagli. » « Non ci sono serpenti a sonagli in cielo », gli rispose uno. « No », disse Hank. « Ma quello che c'è è peggio di un intero nido di serpenti a sonagli. » Le grida di irrisione persero un po della loro forza. I piloti si guardarono a vicenda e uno fece mostra di volersi allontanare. « Sorridano, prego, signori. » Ilfotografo emerse da sotto la cappa nera, congelando i loro movimenti, ma il sorriso che fu eternato per i posteri nel nitrato d'argento quando la lastra fu esposta alla luce ebbe un che di forzato e di smorto. Andrew agì in fretta per dissipare il cattivo umore che rattristava i piloti allorché il gruppo si scompose. « Michael, scegli cinque uomini », gli ordinò. « Noialtri vi daremo dieci minuti di vantaggio e voi cercherete di intercettarci prima che arriviamo a Mort Homme. » Michael guidò la sua formazione di cinque nella dassica posizione d agguato, controsole e schermata da bave di nuvolaglia, sulla rotta per Mort Homme. Tuttavia, Andrew riuscì quasi a passargli sotto il naso: aveva scelto un avvicinamento molto da sud e volava bassissimo, facendo la barba al terreno. Ce l'avrebbe fatta, se Michael non avesse avuto occhi di falco. Vide il barbaglio del sole sopra un parabrezza a distanza di sei miglia e sparò un razzo rosso che significava « nemico in vista ». Andrew, accorgendosi che erano stati scorti, cabrò incontro a loro, e le due formazioni crearono una mischia di aerei in virata, in cabrata, in picchiata. Michael distinse l'aereo di Andrew e vi si gettò contro. I due amici ingaggiarono un duello aereo intricatissimo, spingendo al massimo le potenti macchine, cercando i limiti di velocità e di resistenza dell'altro; ma, essendo di pari abilità, nessunO dei due riuscì a conquistare la posizione vincente. A un certo punto, per caso, Andrew si trovò in coda a Michael, quasi in linea per mitragliarlo: per istinto, senza variare l'assetto dell'aereo inclinandolo, Michael diede un calcio alla pedaliera e la coda dell'SE5 derapò vorticosamente, facendolo girare così in fretta da rischiare di spezzargli il collo, e Michael si ritrovò a puntare contro l'aereo di Andre v. Si incrociarono sfrecciando, salvati dalla collisione solo dai riflessi esercitati del pilota abituato al combattimento aereo, e subito dopo Michael ripeté la manovra e fu sbattuto senza misericordia contro il bordo dell'abitacolo con la spalla ferita, ritrovandosi però in coda ad Andre v. Questi si mise a zigzagare disperatamente, ma Michael lo imitava senza difficoltà mantenendolo nel mirino delle armi di bordo, e avvicinandosi tanto
da rischiare di cacciar l'elica in coda all'amico. « Ngi dia! » urlò trionfante Michad. « Ho mangiato! » Era l'antico grido di guerra zulu che i guerrieri di re Chaka lanciavano affondando le zagaglie nella carne nemica. Vide il viso di Andrew nello specchietto retrovisivo all'incrocio dei cavi dell'ala superiore sopra l'abitacolo, e distinse nel suo sguardo l'irritazione e l'incredulità per la sua impensabile manovra. Andrew sparò un razzo verde per segnalare allo squadrone di rimettersi in formazione, e per notificare la vittoria di Michael. Lo stormo era disperso nel cielo, ma al richiamo si accodarono ad Andrew che li riportò a Mort Homme. Appena atterrati, Andrew saltò giù dalla macchina e corse da Michael, prendendolo per le spalle e scuotendolo con impazienza. « Come hai fatto? Come diavolo hai fatto? » Subito Michael glielo spiegò. « E impossibile. Una virata piatta... se non l'avessi visto coi miei occhi... » Si interruppe. « Andiamo su. Riproviamoci. » Insieme, i due grandi apparecchi decollarono sulla stretta pista, e tornarono solo quando il crepuscolo stava per calare. Michael e Andrew saltarono giù dagli abitacoli e cominciarono una danza di gioia, tirandosi grandi pacche sulle spalle e facendo il girotondo, sicché, avviluppati negli indumenti di volo sembravano una coppia di orsi da circo. I meccanici rimasero a guardarli con aria indulgente finché non si calmarono un po' e solo allora Mac, il capo meccanico, fece un passo avanti salutando con un gesto della mano al berretto. « Le chiedo scusa, signore, ma quella verniciatura è un lavoro complicato come la vestizione di mia suocera che va a una festa, signore, lungo e sporco... Dio ci aiuti. » Gli apparecchi nuovi avevano ancora la vernice di fabbrica, un colorino scialbo che aveva lo scopo di non renderli troppo visibili al nemico. « Verde, lo voglio », disse Andrew. Alcuni dei piloti nelle opposte file, sia tedeschi sia inglesi, desideravano invece l'effetto opposto. Per loro era un fatto d'orgoglio che la verniciatura vistosa li annunciasse al nemico: si trattava quasi di una sfida personale. « Verde », ripeté Andrew. « Verde brillante, per accompagnarsi alla mia sciarpa, e non dimenticare le tacche. » « Giallo, per favore, Mac », decise Michael. « Chissà perché, ma mi aspettavo che scegliesse il giallo, signor Michael... » scherzò il meccanico. « Ah, Mac, già che ci sei, tira via quel brutto parabrezza e da' una tesata ai cavi delle ali. » Tutti i veterani erano convinti che, tirando i cavi e aumentando in tal modo il diedro formato dalle ali, potevano guadagnare una notevole velocità. « Ci penso io », promise Mac. « Taralo in modo che si possa volare senza mani », aggiunse Michael. Gli assi erano tutti sbruffoni, si sapeva: se l'SE5 era in grado di volare senza le mani del pilota sui comandi, costui le aveva entrambe libere per sparare. « Sarà fatto, signore! » sogghignò Mac con indulgenza. « Ah, Mac, poi fa' convergere le mitragliatrici a sessanta metri... » « Qualcos'altro signore? » « Per ora può bastare, Mac », disse Michael rispondendo al sorriso, « ma ci penserò. » « Ne sono sicuro, signore », scosse la testa rassegnato Mac. « All alba sarà pronto. » « Se sarà pronto davvero, c'è una bottiglia di rum per te »
promise Michael. « E ora, ragazzo mio », disse Andrew prendendolo sottobraccio, « che ne diresti di bere qualcosa? » « Credevo che non ci saresti mai arrivato. E proprio il caso che mi paghi da bere! » La mensa era piena di giovani eccitati che parlavano a voce altissima delle nuove macchine. « Caporale! » urlò Lord Killigerran sopra il baccano. « Tutto quello che si berrà stasera sul mio conto! » I piloti lo festeggiarono felicissimi, prima di andare al banco ad approfittare della generosa offerta. Un'ora dopo, quando tutti gli occhi erano rossi e lucidi e le risate avevano raggiunto la rauca acutezza che giudicava adatta, Andrew picchiò sul banco del bar per ottenere la loro attenzione e annunciò solennemente: « Quale grande campione di bok-bok della provincia di Aberdeen, e della Scozia in generale, per non parlare delle Ebridi esterne, mi onoro di sfidare chiunque a questo antico e onorato sport. » « Attento, fanfarone! » gli disse Michael guardandolo con ironia. « Voglia selezionare la sua squadra, signore », disse poi con la massima correttezza formale. La monetma sfavorì Michael, che dovette formare coi suoi la piramide umana contro la parete lontana della mensa, mentre rapidamente i camerieri mettevano in salvo qualunque cosa potesse rompersi. Poi, uno per volta, i ragazzi di Andrew presero la rincorsa attraverso la mensa e si catapultarono contro la piramide, cercando di farla crollare, nel qual caso avrebbero vinto subito, e di non farsi gettare per terra, nel qual caso avrebbero vinto gli avversari. La squadra di Michael resse all'impeto e al peso degli avversari, sicché ben presto tutti e otto gli uomini di Andrew si ritrovarono appesi a grappolo alla piramide umana di Michael, attentissimi a non sfiorare il pavimento con la benché minima porzione della loro anatomia. Sembravano un branco di scimmie. Dalla cima della piramide Andrew fece allora la domanda cruciale che avrebbe deciso la gloriosa vittoria o la indecorosa sconfitta: « Bok-bok... quante dita ho tirato fuori? » Dalla base della piramide si sentì la vocina di Michael, schiacciato dal peso di tutti quelli che lo sovrastavano. Tirò a indovinare: « Tre... » « Due! » Andrew cantò vittoria e la piramide umana si disintegrò. Nel groviglio, Michael si ritrovò a portata d'orecchio di Andrew. « Puoi prestarmi la moto stasera? » Andrew non riusciva a girar la testa, incastrato com'era, ma girò gli occhi verso Michael. « Torni fuori a prendere una boccata d'aria anche stasera, ragazzo mio? » E, mentre Michael non sapeva cosa rispondergli, prosegui: « Tutto quello che possiedo è tuo, va' pure con la mia benedizione e porgi alla fortunata signora i miei rispetti ». Michael parcheggiò la moto nel bosco dietro il granaio, e con un mano il mucchio di coperte dell'esercito varcò la soglia. Appena entrato, gli balenò in viso il chiarore di una lanterna. « Bonsoir, Monsieur. » Era seduta sulle balle di paglia, con le gambe incrociate, e gli fece un sorriso malizioso. « Che sorpresa incontrarla qui! » scherzò. Michael si arrampicò accanto a lei e l'abbracciò. « Sei in antiapo », fece notare. « Papà è andato a letto presto... » non prosegui, perché la bocca di lui copri la sua. « -Ho visto gli aeroplani nuovi », ansimò quando si separa-
rono per respirare, « ma non ho capito qual è il tuo. Sono tutti uguali. Mi è dispiaciuto non sapere qual è il tuo. » « Domani sarà giallo. Mac me lo sta verniciando proprio ora. » « Dobbiamo concordare dei segnali », gli disse lei, mentre Michael cominciava a stendere le coperte per creare il solito nido d'amore. « Se alzerò la mano sopra la testa in questo modo, guarda. », esegui, « vuol dire che la sera ci troviamo nel granaio », disse Michael. « E il segnale che attenderò con più ansia », disse lei, sorridendogli. « Vieni qua! » aggiunse poi, attirandolo sulle coperte La sua voce era roca e voluttuosa. Molto più tardi, sdraiata con l'orecchio sul suo petto nudo, ascoltando battere il suo cuore, si send dire: « Centaine, non sta bene! Non puoi venire in Africa con me! » Si rizzò subito a guardarlo in faccia, con la bocca che assumeva un'espressione dura, e gli occhi che brillavano taglienti e minacciosi. « Voglio dire, che dirà la gente? Pensa alla mia reputazione... viaggiare con una donna che non è mia moglie... » Continuò a fissarlo, ma ben presto la bocca le si ammorbidi nell'ombra di un sorriso. « Ci deve pur essere una soluzione. » Michael finse di starci a pensare. « Ho trovato! » esclamò, facendo schioccare le dita. « Che ne diresti di sposarmi? » Centaine gli appoggiò di nuovo il volto sul petto. « Solo per salvare la tua reputazione? » sussurrò. « Non ho ancora sentito dire di si. » « Oh si, si! Un milione di volte si! » Quindi, tipicamente, la domanda successiva fu pratica: « Quando, Michel? » « Presto, più presto che si può. Ho conosciuto la tua famiglia; domani ti porterò a conoscere la mia. » « La tua? » Lo allontanò a un braccio di distanza. « Ma la tua famiglia è in Africa! » « Non tutta », le spiegò. « La maggior parte è qui. Non parlo del numero, ma dell'importanza dei membri. » « Non ti capisco. » « Capirai, ma chérie, capirai! » le assicurò. Michael aveva spiegato ad Andrew che cosa intendeva fare. « Se ti fai beccare, dirò che non sapevo niente e presiederò con gran gusto la corte marziale che ti giudicherà, comandando personalmente, poi, il plotone d'esecuzione », l'aveva avvertito Andrew. Michael era atterrato sul terreno compatto del campo nord, sulla proprietà de Thiry. Decollando dalla pista dello stormo, aveva semplicemente dovuto dare gas per superare un filare di querce e il muro di cinta del parco: poi si era posato nel prato al di là. A questo punto Centaine, che l'aspettava, si era messa a correre verso l'apparecchio, ancora col motore acceso. Dall'ala inferiore, su cui si era seduto ad aspettarla, Michael vide che, seguendo i suoi consigli, aveva indossato abiti pesanti: stivali bordati di pelliccia sotto il cappotto giallo di lana, e sciarpa di seta gialla al collo. Su tutto indossava una cappa di volpe, e portava una borsa di morbida pelle in spalla. Michael saltò giù e l'abbracciò. « Guarda! Mi sono vestita di giallo, il tuo colore preferito! » « Ragazza in gamba. » Le porse il casco che si era fatto prestare e le spiegò come calzarlo e come fissare la cinghietta sotto il mento. « Ho l'aria valorosa e romantica? » gli chiese, mettendosi in posa.
« Sei meravigliosa. » Era vero. Aveva le guance rosse per l'eccitazione, e gli occhi luminosissimi. « Vieni. » Michael risalì sull'ala bassa ed entrò nel vano del pilota. « Ma è così piccolo », esitò Centaine, guardando l'abitacolo dall'ala. « Anche tu, ma credo che il problema vero sia la paura, no? » « Paura io? » Gli diede un'occhiataccia e cominciò a manovrare per infilarsi dentro. Era una faccenda complicata, che richiese la risalita della gonna sopra le ginocchia e il bilanciamento in equilibrio sul bordo dell'abitacolo, così da sembrare un bell'uccello che arrivi in volo sul nido per cominciare la cova. Michael non resisté alla tentazione e, mentre lei gli era sopra, fece correre la mano sotto la gonna, fin quasi all'attaccatura delle sublimi cosce rivestite di seta. Centaine squittì per l'offesa. « Correte troppo, messere! » esclamò adagiandoglisi in grembo. Michael allacciò la cintura di sicurezza a tutti e due e poi le fece una carezzina sulla nuca, sotto il casco. « Sei in mio potere adesso. Non puoi più scappare. » « Non credo di averne voglia », rldacchiò lei. Ci volle qualche altro minuto per sistemare tutte le falde e gli ammennicoli di Centaine in modo che non disturbassero le manovre, con lei sempre allacciata sul grembo del pilota. « Tutto a posto », le disse Michael, e avviò l'aereo fino in fondo al campo, per sfruttare al massimo tutto lo spazio di decollo, perché la pista era corta, la terra molle e l'aereo sovraccarico, anche se aveva ordinato a Mac di scaricare i nastri di munizioni delle mitragliatrici e il loro liquido refrigerante, il che gli aveva fatto guadagnare una trentina di chili. « Tienti stretta », le disse all'orecchio. Poi diede gas e il grosso aeroplano balzò in avanti. « Ringraziamo il cielo che c'è vento da sud », mormorò, sentendo l'aereo staccarsi dal fango e, involatosi, ondeggiare un po' prima di superare il muro lontano. Poi eseguì una virata per evitare una quercia più alta e cominciò a prender quota. Centaine era molto rigida in grembo a lui, ed egli pensò che davvero aveva paura. Ci rimase male. « Adesso non c'è più pericolo », le gridò per sovrastare il rombo del motore, e lei girò la testa, consentendogli di leggerle negli occhi non paura ma estasi. « E bellissimo », gli disse, e lo baciò. Vedere che condivideva la sua passione per il volo deliziò Michael. « Sorvoliamo il castello », le disse, e riprese a virare, abbassandosi di nuovo. Per Centaine fu una delle più belle esperienze della sua vita: meglio che cavalcare, meglio della musica, quasi altrettanto bella quanto l'amore con Michael. Era un uccello, un'aquila, e voleva gridare a squarciagola la sua gioia, voleva che quel momento fosse eterno. Voleva restarsene per sempre in alto, col vento che le urlava selvaggiamente in faccia e il saldo braccio dell'uomo che amava a circondarla. Sotto di lei, il mondo era nuovo. Posti familiari, che conosceva fin dalla prima infanzia, acquistavano adesso una dimensione incantevolmente diversa. « E così che devono vedere il mondo gli angeli! » gridò, ed egli sorrise a quella fantasia. Il castello incombeva davanti a loro, ed ella non si era mai accorta che fosse così grosso, né di quanto fosse bello il tetto di tegole rosa. E nel prato dietro le stalle c'era Nuage, che galoppava davanti a loro, gareggiando col rombante velivolo giallo: ella urlava e rideva nel vento. « Corri, bello! » Lo superarono, e Centaine vide Anna, nell'orto, rizzarsi al rombo del motore, mettersi la mano a visiera sopra gli occhi e scrutare nella loro dire-
zione. Era così vicina che vide il cipiglio della sua faccia rossa, e si sporse dall'abitacolo. Sventolò la mano per salutarla, mentre la sciarpa gialla garriva nel flusso dell'elica, godendosi l'espressione di completa incredulità di Anna mentre sfrecciavano via. Centaine scoppiò a ridere nel vento e gridò a Michael: « Va' più in alto. Va' in alto! » Egli le ubbidì, mentre lei non stava mai ferma, continuando a contorcerglisi in grembo per voltarsi di qua e di là, sporgendosi dall'abitacolo. « Guarda! Guarda! Ecco là il convento... ah, se le suore potessero vedermi. Là c'è il canale, là la cattedrale di Arras... oh, e là... » La sua eccitazione e il suo entusiasmo erano contagiosi, e Michael si mise a ridere con lei, e quando si voltò a guardarlo la baciò sulla bocca, ma Centaine subito si girò: « Non voglio perdermi un secondo! » Michael distinse la base dell'aviazione a Bertangles. Le piste formavano una croce nella foresta scura, con gli hangar piazzati al centro. « Ascoltami », le gridò nell'orecchio. « Tieni giù la testa mentre atterriamo! » Lei annuì. « Quando te lo dico io, salta giù e corri tra gli alberi. Alla tua destra vedrai un muro di pietra. Seguilo per trecento metri e troverai la strada, aspettami lì. » Michael si presentò sopra il campo d'aviazione nella maniera prudente prescritta dal regolamento, scrutando con tutta calma l'eventuale presenza di ufficiali superiori o altri potenziali piantagrane. Di fronte agli hangar c'erano una mezza dozzina di aerei, e due o tre militari che giravano tra le baracche. « Sembra che non ci siano problemi », si disse, e virò per disporsi alla discesa finale, con Centaine rannicchiata nell'abitacolo per rendersi invisibile da sotto. Michael arrivò lungo, come un novellino, ed era ancora a trenta metri di quota quando passò davanti agli hangar. Atterrò quasi in fondo alla pista e lasciò che l'inerzia li portasse al limitare della foresta prima di svoltare a destra e frenare. « Fuori! Corri! » disse a Centaine, e la sollevò dall'abitacolo. Nascosta agli hangar e alle baracche dalla fusoliera dell'SE5, la ragazza si ricompose gonna e cappotto, prese la borsa sottobraccio e corse al riparo degli alberi. Michael rullò fino agli hangar e fermò l'aereo sul piazzale. « Meglio che firmi il libro di volo, signore », gli disse il sergente meccanico, quando saltò giù. « Libro di volo? » « E la nuova procedura... tutti i voli devono essere registrati al decollo e all'atterraggio. » « Burocrati del cavolo », deprecò Michael. « Non si può più far niente senza un pezzo di carta! » Ma andò a cercare l'ufficiale di giornata. « Ah, sì, Courteney, c'è una macchina che l'aspetta. » L'autista l'aspettava al volante di una Rolls-Royce nera parcheggiata dietro l'hangar numero uno. Appena vide Michael, però, saltò su e si mise sull'attenti. « Nkosana! » rise felice, coi denti luccicanti nella faccla nera nera, facendosi quasi volar via il cappello per la foga del saluto. Era un giovane zulu molto alto, ancora più alto di Michael, e indossava l'uniforme kaki e le mostrine dell'African Service Corps. « Sangane! » Michael gli restitul il saluto, anch'egli ridendo contento, poi d'impulso l'abbracciò. « Vedere la tua faccia è come tornare a casa », gli disse Michael in buono zulu.
I due erano cresciuti insieme, spazzando le gialle colline erbose dello Zululand coi cani e le lance da caccia. Avevano nuotato insieme nudi nelle fresche pozze verdi del fiume Tugela, dove avevano pescato capitoni lunghi e grossi come un braccio. Avevano arrostito la selvaggina e i pesci al fuoco da campo, e passato la notte insieme accanto a esso, scrutando le stelle e parlando seri seri degli argomenti che interessano ai ragazzi: il futuro, la vita e il mondo che si sarebbero costruiti da grandi. « Che novità ci sono a casa, Sangane? » domandò Michael, mentre lo zulu gli apriva la portiera. « Come sta tuo padre? » Mbejane, il padre di Sangane, era il vecchio servitore, compagno e amico di Sean Courteney, un principe della famiglia reale degli zulu. Aveva seguito il suo padrone in altre guerre, ma ora, troppo vecchio e infermo, era costretto a mandare il figlio al posto suo. Chiacchierarono animatamente mentre Sangane guidava la Rolls fuori della base svoltando sulla strada principale. Sul sedile posteriore Michael si tolse la tenuta di volo rivelando l'uniforme di gala, completa di decorazioni, che indossava sotto. « Ferma là vicino agli alberi, Sangane. » Michael saltò giù e chiamò ansioso: « Centaine! Centaine! » La ragazza uscì da dietro un tronco e Michael la guardò a occhi sbarrati. Aveva approfittato del tempo a disposizione, e ora Michael capl a che cosa le serviva la borsa di pelle. Non l'aveva mai vista truccata, e adesso che lo era, così bene che non ci si rendeva nemmeno conto del fatto, la differenza era fantastica: tutti i suoi punti forti erano esaltati, gli occhi più luminosi, la carnagione più splendente e perlacea. « Come sei bella! » sospirò. Non era più una donna-bambina, aveva tutta un'altra sicurezza e disinvoltura, e si sentì sbigottitito da lei fino all'adorazione. « Credi che piacerò a tuo zio? » gli domandò. « Ti adorerà. Come qualunque uomo! » Il vestito giallo era di una tonalità particolare, che faceva rilucere la sua pelle e conferiva barbagli dorati agli occhi scuri. Dalla borsa aveva tirato fuori un elegantissimo cappellino piumato. Sotto la giacca indossava una camicetta di seta dal colletto di pizzo che le sottolineava il collo slanciato e il volto splendido. Gli stivali foderati di pelliccia erano stati sostituiti da graziose scarpine. Le prese entrambe le mani e le baciò con reverenza, dopo di che la fece salire sulla Rolls. « Sangane, questa donna ben presto sarà mia moglie. » Lo zulu annuì approvando, giudicandola come se si trattasse di una giumenta o di una manza. « Possa darti molti figli », augurò. Quando Michael tradusse, Centaine arrossì e rise. « Ringrazialo, Michel, ma digli che voglio anche almeno una figlia. » Si guardò attorno nella lussuosa Rolls. « Tutti i generali inglesi hanno macchine simili? » « Mio zio se l'è portata dietro dall'Africa. » Passò la mano sugli eleganti sedili di pelle. « Gliel'ha regalata mia zia. » « Tuo zio ha della classe ad andare in guerra con una simile carrozza », annul lei, « e tua zia ha buon gusto. Spero un giorno di poterti fare anch'io un regalo come questo, Michel. » « Ho voglia di darti un bacio. » « Mai in pubblico », gli disse lei in tono vivace, « ma quanti ne vuoi quando siamo soli. Adesso dimmi, andiamo lontano? » « Una decina di chilometri, ma con questo traffico chissà quando arriviamo. » Avevano imboccato lo stradone Arras-Amiens, affollato di veicoli militari, autocarri che rimorchiavano cannoni, ambulan-
ze, camion da carico pieni di cavalli o materiale bellico: sul ciglio marciavano i fanti carichi degli zaini, con gli elmetti che conferivano loro un'aria di fungaia semovente. Michael colse sguardi astiosi e invidiosi, mentre Sangane fendeva il traffico più lento con la grossa Rolls luccicante. Gli uomini che si trascinavano nel fango davano un'occhiata nella berlina e vedevano, sul sedile posteriore, l'elegante ufficialetto con la bella donna accanto. Tuttavia, al sorriso di Centaine che li salutava con la mano, molti si illuminavano e ricambiavano saluto e sorriso. « Parlami di tuo Zio », gli chiese, tornando a rivolgersi a Michael. « Oh, è un tipo normalissimo, non c'è molto da dire di lui. iE stato espulso da scuola per aver picchiato il preside, ha combattuto nella guerra contro gli zulu e ha ucciso il primo uomo quando aveva meno di diciott'anni, ha fatto il primo milione di sterline prima dei venticinque e l'ha perso in un sol giorno. Ha ammazzato alcune centinaia di elefanti in qualità di cacciatore e trafficante d'avorio, e ha ucciso un leopardo a mani nude. Poi, durante la guerra boera, ha catturato Leroux, il generale boero, quasi senza aiuto; dopo la guerra ha fatto un altro milione di sterline e ha partecipato alle trattative da cui è nata l'Unione Sudafricana. E stato ministro nel governo di Louis Botha, ma si è dimesso per partecipare a questa guerra. Adesso comanda un reggimento. E poco più alto di un metro e novanta ed è capace di portare due sacchi di grano da sessanta chili, uno per mano. » « Michel, ho paura di conoscere un uomo simile », mormorò lei, seria. « Perché diavolo... » « Ho paura di innamorarmi di lui. » Michael scoppiò a ridere. « Anch'io ho paura. Paura che sia lui a innamorarsi di te! » Il comando del reggimento era provvisoriamente installato in un monastero abbandonato alla periferia di Amiens. Il giardino del monastero era incolto da quando i monaci erano sfollati l'autunno precedente, e i cespugli di rododendri erano diventati una specie di giungla. Gli edifici erano di mattoni rossi, coperti di muschio e rampicanti che arrivavano fino al tetto grigio. I mattoni erano qua e là bucati dalle cannonate. Un giovane sottotenente li accolse all'ingresso. « Lei dev'essere Michael Courteney... Io sono John Pearce, aiutante di campo del generale. » « Oh, ciao. » Michael gli strinse la mano, esortandolo a dargli del tu. « Che ne è stato di Nick van der Heever? » Era stato a scuola con Michael, e dall'arrivo del reggimento in Francia era aiutante di campo del generale. « Non lo sai? » John Pearce assunse l'espressione grave e consueta in quei giorni quando qualcuno chiedeva di un conoscente. « Ci ha lasciato la pelle. Un giorno, mentre accompagnava il generale al fronte, l'ha beccato un cecchino. » Ma il sottotenente era distratto. Guardava soltanto Centaine. Michael gliela presentò e poi tagliò corto: « Dov'è mio zio? » « Mi ha detto di farvi aspettare. » Il giovane sottotenente li condusse in un piccolo giardino interno, che era probabilmente quello dell'abate. Sui muri c'erano rose rampicanti, e al centro, su un piedestallo di marmo istoriato, una meridiana. Nell'angolo era stata apparecchiata una tavola per tre, al sole. Lo zio Sean teneva fede al proprio stile: argenteria e cristallo, notò Michael. « Il generale vi raggiungerà appena può, ma mi ha detto di dirvi che si tratterà di un pranzo brevissimo. Sapete, l'offensi-
va di primavera... » Il sottotenente accennò alla brocca sul carrello di servizio. « Nel frattempo, se mi consentite di offrirvi uno sherry, o magari qualcosa di più forte... » Centaine scosse la testa, e Michael annul: « Qualcosa di forte, per piacere », disse. Benché amasse suo zio quanto suo padre, il rivederlo dopo tanto tempo lo rendeva un po' nervoso. Aveva bisogno di qualcosa che lo calmasse. L'aiutante di campo versò un whisky a Michael. « E ora scusami ma ho un po' di cose da fare... » Michael lo salutò con un cenno della mano e prese sottobrac Cio Centaine. « Guarda, le rose hanno già i boccioli... e i narcisi... » Si appoggiò a lui. « Tutto comincia a riprender vita. » « Eh... » sospirò Michael. « Per il soldato, la primavera è tempo di morte. » « Oh, Michel... » cominciò la ragazza, ma subito si interruppe guardando la porta a vetri dietro di lui con un'espressione che indusse Michael a voltarsi in fretta. Era arrivato un uomo, un uomo alto, eretto e dalle spalle larghe. Si fermò quando vide Centaine e la guardò con penetrante approvazione. I suoi occhi erano azzurri e la barba folta era curata, della stessa foggia di quella del re. « Sono gli occhi di Michel! » pensò Centaine, ricambiando lo sguardo: ma, si rese conto, erano molto più duri. « Zio Sean! » gridò Michael, lasciandole il braccio. Andò a stringer la mano allo zio, che, guardandolo, si addolà. « Ragazzo mio. » « Lo ama », comprese Centaine. « Si amano molto profondamente. » Studiò la faccia del generale. La pelle era abbron tzata dal sole e pareva cuoio, con profonde rughe agli angoli delLa bocca e attorno a quegli occhi incredibili. Il naso grosso come quello di Michael era curvo, la fronte vasta e alta, inco ronata da capelli inargentati che brillavano nella luce del sole primaverile. Parlavano a cuore aperto, sempre tenendosi per mano, scam biandosi reciproche rassicurazioni sul loro stato di salute: guar dandoli, Centaine colse tutta la loro rassomiglianza. « Sono uguali », s'accorse, « salvo l'età e la forza. Più come padre e figlio che come... » Gli occhi azzurri e duri si posarono su di lei. « E così questa è la ragazza. » « Ti presento Mademoiselle Centaine de Thiry. Centaine, questo è mio zio, il generale Sean Courteney. » « Michel mi ha parlato molto... un sacco... » Centaine si impappinò con l'inglese. « Parla fiammingo! » le disse subito Michael. « Michel mi ha detto tutto di lei », obbedì, e il generale sogghignò deliziato. « Parla afrikaans! » replicò in quella stessa lingua. Quando sorrideva, tutta la sua persona mutava: la sua piega selvaggia, quasi crudele, sembrava del tutto illusoria. « Non è afrikaans », negò Centaine, e subito intavolarono un'animata discussione. Nel giro di pochi istanti Centaine scoprì che egli le piaceva: le piaceva per le sue somiglianze con Michael, e anche per le grandi differenze che cominciava a scorgere tra loro. « Mangiamo! » esclamò Sean Courteney, prendendola sottobraccio. « Abbiamo pochissimo tempo... » La fece sedere a tavola. « Michael, gli facciamo tagliare il pollo. Io mi occuperò del vino. » Sean propose il primo brindisi. « Alla prossima volta che noi tre ci vedremo », e tutti bevvero con gioia, fin troppo con-
sapevoli delle implicazioni di quell'augurio, anche se da lì le cannonate non si sentivano. Chiacchierarono un po' a loro bell'agio, il generale curandosi di riempire i silenzi imbarazzanti, sicché Centaine comprese che, a onta del suo burbero aspetto, egli aveva un animo sensibile. Ma continuava a essere ben consapevole dello scrutinio a cui la sottoponevano quegli occhi spietati e instancabili, e dei processi mentali che, alternando valutazioni e compiacimenti, si svolgevano dietro a quelli. « Molto bene, mon général », pensò con sfida, « guardami fin che vuoi, io sono io e Michel è mio. » Alzò il mento e sostenne il suo sguardo, rispondendogli francamente e senza esitazioni, finché lo vide sorridere e, impercettibilmente, annuire. « Dunque questa è colei che Michael ha scelto », pensava il generale. « Avrei preferito una ragazza della sua gente, che parlasse la sua lingua e avesse la sua stessa fede; avrei preferito poterla conoscere un po' di più prima di dar loro la mia benedizione. Avrei preferito indurli ad aspettare un po' di tempo per riflettere su se stessi e sulle conseguenze del loro passo, ma non c'è tempo. Domani o dopodomani, sa Dio che cosa accadrà. Come posso rovinare quello che potrebbe anche essere il loro unico momento di felicità? » Ancora per un attimo la guardò in cerca di segni di malanimo o meschinità, debolezza o vanità, e scorse solo la piccola mascella decisa, la bocca facile al sorriso ma altrettanto pronta a indurirsi, e gli occhi scuri e intelligenti. « E dura e orgogliosa », concluse, « ma credo che sarà leale e perseverante. » Fu qui che sorrise e annuì, che la vide rilassarsi, che vide anche nascere nei suoi occhi un vero affetto e una vera simpatia nei suoi confronti. Si rivolse a Michael. « E va bene, ragazzo mio, non hai fatto certo tanta strada per venir qui a mangiarti un pollo. Dimmi perché sei venuto, e vediamo se riesci a sbalordirmi. » « Zio Sean, ho chiesto a Centaine se vuol diventare mia moglie. » Sean si puli i baffi col tovagliolo e lo posò lentamente. « Non rovinargli niente di tutto ciò », si ordinava mentalmente il generale. « Non offuscare con la minima nuvola la loro gioia. » Li guardò e sorrise. « Non mi sbalordisci, mi strabilii! Avevo perso ogni speranza di vederti fare una cosa sensata. » Si rivolse a Centaine. « Naturalmente, cara signorina, lei ha avuto il buon senso di rifiutarlo, vero? » « Generale, temo invece di averlo incoraggiato e accettato. » Sean guardò con affetto Michael. « Fortunato mortale! E fin troppo per te, non lasciarla scappare. » « Non tema, signor generale », scherzò Michael. Rise di gioia e di sollievo. Il vecchio sì che sapeva ancora stupirlo! Non si era aspettato un'approvazione così immediata. Tese la mano a Centaine e la strinse, sopra la tavola, mentre la ragazza guardava perplessa Sean Courteney. « La ringrazio, generale, ma lei non sa nulla di me... né della mia famiglia. » Ricordò la catechizzazione a cui suo padre aveva sottoposto Michael. « Ho forti dubbi che Michael intenda sposare la sua famiglia, signorina », disse seccamente Sean. « Quanto a lei, mia cara... deve sapere che io sono uno dei maggiori esperti africani di cavalli. Quando vedo una bella giumenta, la riconosco. » « Mi sta forse dando della cavalla, generale? » inquisi Centaine scherzosamente. « Le sto dando della purosangue... se lei non ha un invidiabile albero genealogico, mi dica che sbaglio », la sfidò. « Suo padre è conte, lei cavalca come un centauro, e hanno
una tenuta quasi tutta a vigneti, ora purtroppo rovinati dalle bombe crucche. » « Ah! » esclamò Sean con aria di trionfo. Centaine fece un gesto di rassegnazione. « Ora tuo zio sa tutto. » « Non tutto... » Sean tornò a rivolgersi a Michael. « Quand'è che avete intenzione di sposarvi? » « Mi sarebbe piaciuto che papà... » Michael non dovette neppure finire la frase. « Il fatto è che abbiamo pochissimo terdpo. » Sean, che sapeva perfettamente quanto fosse poco il tempo a disposizione, annui. « Tuo papà Garry capirà. » « Vogliamo sposarci prima che inizi l'offensiva di primavera », prosegui Michael. « Si, capisco. » Sean si accigliò e sospirò. Alcuni suoi colleghi erano capaci di mandare a crepare i giovani senza batter ciglio, ma lui non era un professionista della guerra come loro. Non si sarebbe mai abituato al dolore e al senso di colpa che comportava il mandare degli uomini a morire. Cominciò a parlare e si interruppe, sospirò ancora e prosegui. « Michael, tienlo per te, anche se presto verrete a saperlo tutti quanti. E stato diramato un dispaccio a tutti gli stormi di aerei da combattimento. L'ordine è di impedire qualsiasi osservazione tedesca sulle nostre linee nel corso delle prossime settimane. Non devono rilevare i nostri preparativi, e impedirglielo sarà compito vostro. » Michael rimase tranquillo al proprlo posto, considerando ciò che gli aveva detto suo zio. Significava, a quanto poteva dedurre, che il futuro gli riservava una serie ininterrotta di combattimenti con le Jasta tedesche. Suo zio lo stava avvertendo che pochissimi piloti avevano la speranza di sopravvivere all'imminente battaglia. « Grazie, signor generale », disse piano. « Centaine e io ci sposeremo presto... il più presto possibile. Posso sperare che ci sarai? » « Posso solo prometterti che farò del mio meglio per venire. » Sean alzò lo sguardo: John Pearce era entrato nel giardinetto. « Che c'è, John? » « Mi spiace, signore, c'è un dispaccio urgente del generale Ranvlinson. » « Vengo subito. Dammi ancora due minuti di tempo. » Si rivolse ai giovani OSpiti. « Brutto pranzo vi ho offerto, eh? Me ne dispiace. » « Ottimo il vino e migliore ancora la compagnia », disse Centaine. « Michael, va' a cercare Sangane e la Rolls. Voglio dire due parole alla signorina in privato. » Porse il braccio a Centaine e seguirono Michael fuori del piccolo giardino e giù dai portici verso l'ingresso di pietra del monastero. Solo quando se lo vide a fianco, Centaine si rese pienamente conto di quanto fosse grosso quell'uomo: zoppicava anche un po', sul lastricato i suoi passi erano disuguali. Parlò tranquillamente ma con decisione, chinandosi su di lei in modo che cogliesse bene ogni parola. « Michael è un bravo ragazzo... è fine, è sensibile, è intelligente. Ma non ha la cattiveria necessaria a questo mondo per arrivare in cima. » Sean fece una pausa e vide che la ragazza lo guardava attentamente. « Lei, invece, credo che questa forza l'abbia. E ancora molto giovane, ma credo che diventerà sempre più forte. Voglio che sia forte per Michael. » Centaine annul, non trovando parole per rispondergli. « Sia forte per mio figlio », disse piano Sean, e lei sobbalzò.
« Suo figlio? » e notò il turbamento negli occhi di lui, subito mascherato. Il generale si corresse: « Sa, suo padre e io siamo gemelli. Mi capita di pensare a lui come a un figlio mio ». « Capisco », disse la ragazza, ma in qualche oscuro modo avvertl che non si era trattato di uno sbaglio. « Un giorno me ne occuperò e scoprirò la verità », pensò, mentre Sean ripeteva: « Si prenda cura di lui, Centaine, e io sarò suo amico fino alle porte dell'inferno ». « Le prometto che lo farò. » Gli strinse il braccio. Erano arrivati al portale in pietra del monastero. Sangane aspettava vicino alla Rolls. « Au revoir, général », disse Centaine. « Si », rispose Sean. « Arrivederci », e l'aiutò a salire in macchina. « Ti farò sapere la data delle nozze », disse Michael, stringendo la mano allo zio. « Anche se non dovessi esserci, sii felice, ragazzo mio », disse Sean Courteney, e rimase a guardare la Rolls che si allontanava dolcemente sul vialetto. Poi con un secco dietro front tornò a imboccare i portici col suo passo claudicante. Centaine era acquattata tra gli alberi in tenuta di volo, con gli abiti eleganti di nuovo nella borsa che teneva in mano. Quando Michael arrivò rullando con l'apparecchio e si fermò davanti a lei, nel punto più lontano dalle baracche del campo d'aviazione, Centaine scattò fuori dal suo riparo e montò sull'ala esterna. Stavolta senza esitazione, si sistemò nell'abitacolo del pilota, in grembo a Michael. « Giù la testa », le ordinò il giovane, e intraprese il decollo. « Tutto a posto, puoi venire su », le disse quando furono per aria. Centaine tirò fuori la testa e subito si sporse a guardare in basso, entusiasta come all'andata. L'apparecchio saliva sempre piùin alto. « Guarda le nuvole, sembrano campi innevati, e il sole le riempie di arcobaleni. » Si agitava in grembo a Michael per guardare la coda dell'aereo. All'improvviso, negli occhi della ragazza si dipinse un'espressione perplessa. Parve perdere ogni interesse per gli arcobaleni. « Michel? » Si mosse ancora sul suo grembo, questa volta apposta. « Michel! » Non era più una protesta. Le sue natiche tonde e sode eseguirono un'astuta circonvoluzione che lo fece gemere. « Scordatelo! » Cercò disperatamente di fuggire il contatto della ragazza, ma il suo posteriore lo incalzava. Ben presto Centaine si girò a fronteggiarlo, allacciandogli il collo con le braccia e sussurrandogli paroline dolci. « Non alla luce del giorno... non a tremila metri di quota! » Era scandalizzato dalla proposta di lei. « E perché no, mon chéri? » Lo baciò voluttuosamente. « Nessuno lo saprà mai. » Michael si accorse all'improvviso che l'SE5 era scivolato d'ala e stava per andare in vite. Lo riprese in fretta, mentre la ragazza l'abbracciava forte e cominciava a muoversi a ritmo lento e voluttuoso sopra il suo grembo. « Non hai voglia? » gli chiese. « Ma... ma... nessuno l'ha mai fatto prima... non su un SE5! Non so se si può. » La voce gli si era fatta più incerta, il volo più capriccioso. « Lo scopriremo », stabill lel. « Tu pensa a pilotare e non seccarmi. » Si sollevò un attimo per arrotolare gonna e cappotto sulle cosce. « Centaine », invocò Michael, incerto, e poco dopo: « Cen taine! » più forte, e infine: « Oh mio Dio, Centaine! »
« B possibile! » gridò trionfante la ragazza, e quasi immediatamente provò sensazioni inedite, che non aveva mai immaginato di albergare in sé. Si sentì risucchiare ed esplodere come se stesse per separarsi dal corpo, portando via con sé anche l'anima di Michael. All'inizio fu intimorita dalla potenza e dalla stranezza delle sensazioni, poi vi si abbandonò e tutto il resto fu spazzato via. Si ritrovò pulsante e tremante, scossa da ondate di piacere, sempre più su, sempre più su, mentre il vento selvaggio le fischiava nelle orecchie e le nuvole iridate le sfrecciavano di fianco... e poi sentì se stessa urlare a squarciagola, e dovette tapparsi la bocca con le dita per soffocare quell'urlo celestiale, ma era troppo possente e non vi riuscì: gettò la testa all'indietro e ululò e rise e pianse di sorpresa e meraviglia, valicando il culmine del piacere e ricadendo dall'altra parte, planando, ro teando, e tornando a posarsi nel proprio corpo come un fiocco di neve, tornando a sentire le braccia di Michael che la stringevano, a percepire i suoi mugolii, i suoi ansiti. Gli prese il viso tra le mani e gli gridò: « Ti amo, Michel, ti amerò sempre! » Appena spense il motore, Mac corse incontro a Michael che scendeva dall'aereo. « E giusto in tempo, signore, c'è riunione dei piloti in sala mensa. Ilmaggiore l'ha cercata; meglio sbrigarsi, signore. » haentre Michael sul camminamento di assi si avviava in direzione della mensa, Mac gli gridò dietro: « Come va ora l'aereo, signore? » « Come un uccello. Ricaricami le armi. » Mac rimase perplesso. Era la prima volta che non protestava per qualche piccolezza. Lo guardò allontanarsi. La mensa era piena di piloti, tutte le sedie erano occupate e c'erano dei novellini in piedi, appoggiati alle pareti. Andrew sedeva sul banco del bar dondolando le gambe e fumando dal bocchino d'ambra. Si riscosse non appena vide entrare Michael. « Signori, sentiamoci onorati: il capitano Michael Courteney s'è graziosamente degnato di raggiungerci. Nonostante urgenti e gravi impegni lo trattenessero altrove, è stato così cortese da dedicarci un'ora o due del suo tempo prezioso per aiutarci a sistemare la nostra piccola controversia col Kaiser Guglielmo II. Ritengo sia il caso di manifestargli il nostro sentito ringraziamento. » Si levarono urla e fischi e una potentissima pernacchia. « Barbari! » disse sprezzante Michael, e si buttò sulla poltrona che subito gli cedette un pilota meno insigne e meno anziano. « Ora sei comodo? » gli chiese, sollecito, Andrew. « Ti spiace se vado avanti? Molto bene. Come stavo dicendo, lo stormo ha ricevuto un dispaccio urgente, consegnato da un motociclista meno di mezz'ora fa, proveniente dallo Stato Maggiore. » Lo prese tra due dita e lo tenne a distanza d'un braccio, turandosi il naso e parlando con voce chioccia e nasale. « Sentirete anche voi la puzza dello stile letterario e dei contenuti... » La scenetta del comandante ottenne qualche educato schiamazzo, ma tutti gli occhi erano concentrati sull'ordine. Qualche pilota pestava i piedi, qualche veterano si faceva schioccare le dita, o si mordeva le unghie. Michael, senza accorgersene, si soffiava sui polpastrelli. Tutti sapevano benissimo che il foglietto -giallo che Andrew stava sventolando poteva contenere la loro condanna a morte. Andrew lesse: DAL QUARTIER GENERALE DI DIVISIONE, ARRAS ALL UFFICIALE COMANDANTE DEL 21° STORMO RFC PRESSO MORT HOMME; Dalle ore 24 del 4 aprile 1917 è vostro compito impedire a
ogni costo qualunque ricognizione aerea del nemico nel settore a voi assegnato. Ciò vale fino a nuovo ordine. « E tutto, signori. Quattro righe, una bagattella pura e semplice; ma lasciate che vi rammenti quell'espressione, 'a ogni costo', senza arzigogolarci troppo sopra. » Si fermò e guardò i piloti che, col viso pallido e tirato, digerivano la brutta novità. « Mio Dio, guarda come sembrano invecchiati di colpo », pensò inopinatamente. « Hank dimostra cinquant'anni, e Michad... » diede un'occhiata allo specchio che rifletteva il suo volto e si passò nervosamente una mano tra i capelli. Nelle ultime settimane si erano diradati molto sulle tempie, creando due ampie baie rosa. Subito tolse la mano e prosegui. « Dalle cinque di domani mattina tutti i piloti effettueranno quattro sortite giornaliere fino a nuovo ordine », annunciò. « Ci saranno ancora i soliti pattugliamenti del mattino e della sera, ma d'ora in poi saranno effettuati dallo stormo al completo. » Si guardò intorno per incoraggiare eventuali domande, ma non ce ne furono. « Poi ogni squadra effettuerà due voli addizionali: un'ora di volo, due ore di riposo. In tal modo garantiremo una presenza continua nel cielo del nostro settore. » Tutti i piloti si contorsero un'altra volta, sulle spine, girandosi a guardare Michael che, essendo il più anziano, era considerato il loro naturale portavoce. Michael si soffiò sui polpastrelli e guardò i compagni a uno a uno. « Qualche domanda? » Hank si schiarì la voce. « Sì? » Andrew si voltò a guardarlo, in attesa, ma Hank sprofondò ancor più nella sua sedia. « Tanto per intenderci. » Alla fine fu Michael a parlare. « Faremo tutti il pattugliamento del mattino e del tramonto, ossia quattro ore di volo: e poi, se ho ben capito, altre quattro ore di volo durante la giornata? Faccio male i conti o ciò significa otto ore di combattimento al giorno? » « La risposta è esatta », si congratulò Andrew. « Allora ti dico subito che questa non andrà giù al mio sindacato. » Tutti scoppiarono a ridere nervosamente, smettendo però quasi subito. Otto ore di combattimento erano davvero tante, troppe, nessuno era in grado di mantenere la vigilanza e la concentrazione nervosa per un periodo tanto lungo neppure per un sol giorno: e si chiedeva loro di farlo indefinitamente. « Altre domande? » « Come si fa per la manutenzione degli apparecchi? » « Mac mi ha promesso di riuscire a garantirla », rispose Andrew ad Hank. « Qualcos'altro? No? Allora accomodatevi al bar, signori, stasera pago io. » Non ci fu tuttavia gran ressa per approfittare dell'offerta di Andrew. Nessuno parlò dell'ordine appena giunto. Bevvero tranquillamente senza parlare ed evitando lo sguardo degli altri. Cosa c'era da dire? Il conte de Thiry, davanti a un lussureggiante panorama di quarantamila acri di terra coltivata, diede subito la sua approvazione al matrimonio, e strinse la mano a Michael come se stesse tirando il collo a uno struzzo. Anna strinse a sé Centaine. « Bambina mia! » mugolò, mentre i lacrimoni le sgorgavano dagli occhi. « Dovrai lasciarmi! Lasciare la tua Anna! » « Non fare l'oca, Anna, avrò ancora bisogno di te. Verrai con me in Africa. » Anna emise un singhiozo sonoro. « In Africa! » Quindi un altro singhiozzo ancora più forte. « Ah, che razza di matrimonio sarà? Non ci sono gli invitati, non c'è il cuoco che è in trincea... Oh, bambina mia, non sembrerà neppure un matrimonio! »
« Il prete verrà di sicuro, e forse anche lo zio di Michel, il generale. Verranno i piloti dello stormo. Sarà un matrimonio meraviglioso », la contraddisse Centaine. « Niente musica, niente abito da sposa, niente luna di miele », mugolò Anna. « Canterà papà che ha una bella voce, tu e io faremo la torta e la porchetta. Adatteremo il vestito della povera mamma e faremo qui la luna di miele, come hanno fatto mamma e papà a suo tempo. » « Oh, bambina mia! » Una volta aperto il rubinetto, le lacrime di Anna non si seccavano più. « Quando sarà? » Il conte non aveva ancora lasciato andare la mano di Michael. « Fissa la data, coraggio! » « Sabato sera alle otto. » « Così presto! » guaì Anna. « Perché così presto? » Il conte, colto da improvvisa ispirazione, si tirò una pacca sulla coscia. « Apriamo una bottiglia del miglior champagne », intimò, « e magari anche una di cognac Napoleon! Centaine, piccola mia, dove sono le chiavi? » Stavolta non poté assolutamente negargliele. Nel loro giaciglio di coperte e paglia giacquero l'uno nelle braccia dell'altra. Con parole smozzicate Michael cercava di spiegarle i nuovi ordini dello stormo. Ma ella non poteva comprendere il loro terribile significato. Capiva solo che Michael si sarebbe trovato in grandissimo pericolo e l'abbracciava stretto stretto. « Ma ci sarai il giorno delle nozze? Qualunque cosa accada, verrai da me il giorno delle nozze? » « Sì, Centaine, ci sarò. » « Giuramelo, Michel! » « Te lo giuro. » « No, no! Devi giurarmelo in ben altro modo, devi fare il più tremendo giuramento che conosci! » « Te lo giuro sulla mia vita e sul mio amore per te. » « Ah, Michel », sospirò la ragazza, stringendosi a lui, finalmente soddisfatta. « Ti guarderò tutti i giorni partire e tornare, e tutte le notti ti aspettero qui. » Fecero l'amore con frenesia, con una sorta di follia del sangue, come se intendessero consumarsi a vicenda, e la furia li lasciò esausti, sicché si addormentarono abbracciati. Quando Centaine si svegliò, era mo'to tardi. Nel bosco cinguettavano gli uccelli e la luce filtrava nel granaio. « Michel! Michel! sono quasi le quattro e mezzo! » Guardò con la lanterna l'orologio d'oro appuntato alla giacca. « Oh mio Dio! » Michael cominciò a vestirsi in fretta. Era ancora mezzo addormentato. « Perderò il pattugliamento del mattino... » « No, se vai subito. » « Non posso lasciarti qui... » « Non discutere! Va', Michel, va'! » Centaine corse per tutto il tragitto, scivolando nel fango del sentiero, decisa però a trovarsi in cima alla collina per la partenza degli apparecchi. Alle scuderie si fermò ansimando e cercò di riprendere fiato. Il castello era immerso nell'oscurità, accucciato nell'alba come una bestia addormentata, e Centaine provò un empito di sollievo. Attraversò lentamente il cortile, dandosi agio di regolarizzare il respiro, e alla porta origliò cautamente prima di far capolino in cucina. Si tolse gli stivali infangati mettendoli a posto vicino alla stufa, poi imboccò le scale e sgattaiolò in camera sua, chiudendo la porta. Si girò verso il letto e sobbalzò dalla sorpresa:
un fiammifero si era acceso all'improvviso, illuminando una lanterna. La camera fu inondata da una luce giallina. Era Anna. Stava seduta sul suo letto, con lo scialle sulle spalle e un berretto da notte di pizzo in testa. Il suo volto rubizzo era di pietra, impenetrabile e arcigno. « Anna! » sussurrò Centaine. « Posso spiegarti... non l'avrai detto a papà? » La poltrona accanto alla finestra scricchiolò e la ragazza, voltandosi di scatto, scorse suo padre seduto, che la fissava severo col suo unico occhio. Non gli aveva mai visto un'espressione simile in faccia. Fu Anna la prima a parlare. « La mia bambina che scappa fuori di notte per andare a puttaneggiare con un soldato! » « Non è un soldato », protestò Centaine, « è un aviatore. » « Meretricio », disse il conte. « Una fanciulla della famiglia de Thiry che si comporta come una sgualdrina qualsiasi! » « Papà, io e Michel ci sposeremo presto. E come se fossimo già marito e moglie. » « No. Non fino a sabato sera. » Il conte si alzò in piedi. Aveva un semicerchio d'insonnia sotto l'occhio buono e un ispido ciuffo di capelli grottescamente rizzato in testa. « Fino a sabato », ruggì la sua voce irata, « te ne starai chiusa in camera, piccina! E ci rimarrai fino a un'ora prima della cerimonia. » « Ma papà, devo andare alla collina... » « Prendi la chiave, Anna. Ci penserai tu a sorvegliarla. Non uscirà di casa. » Centaine rimase in mezzo alla stanza a guardarsi attorno, come in cerca di una via di fuga, ma Anna si alzò e l'afferrò per il polso con una mano callosa tirandola senza complimenti verso il letto. I piloti dello stormo erano sparpagliati a gruppi di tre o quattro lungo gli alberi ai margini del frutteto: stavano parlando sottovoce e fumando l'ultima sigaretta prima del decollo, quando Michael arrivò incespicando sulle assi della passerella, abbottonandosi il cappotto e aggiustandosi i guanti. Aveva perso la riunione pre-volo. Andrew lo salutò con un cenno del capo quando li raggiunse, senza fare nessun commento sul suo ritardo e sul cattivo esempio che dava ai novellini, e Michael non si scusò. Erano entrambi fin troppo consapevoli di quella negligenza; Andrew prese la fiasca e bevve un sorso di whisky senza offrirne a Michael: un gesto di deliberato rimbrotto. « Decollo tra cinque minuti », disse Andrew, studiando il cielo, a e parrebbe la giornata buona per crepare. » Cosi definiva sempre il bel tempo, ma stavolta l'espressione infastidì Michael. « Sabato mi sposo », disse, come se le due cose fossero in qualche modo collegate, e Andrew si bloccò con la fiaschetta in mano, guardandolo sorpreso. « La francesina del castello? » domandò, e Michael annùì. « Centaine. Centaine de Thiry. » « Vecchio mascalzone! » Andrew, abbandonato il cipiglio da comandante, cominciò a sorridere. « Ah, era per questo che... va be', va be', hai la mia benedizione, ragazzo. » Fece un gesto papale, ma con la fiasca: « Bevo alla vostra lunga vita insieme e alla vostra felicità ». Passò la fiaschetta a Michael, ma questi aspettò a bere. « Sarei molto onorato di averti per testimone. » « Non preoccuparti, ragazzo mio, volerò al tuo fianco anche in quell'occasione, te lo giuro. » Diede un pugno scherzoso al braccio di Michael e si sorrisero con amicizia, poi andarono insieme agli apparecchi verde e giallo che li aspettavano in
testa a tutti gli altri della squadriglia. Uno dopo l'altro i motori Wolseley Viper si avviarono, e i fumi azzurrini della benzina annebbiarono gli alberi tel frutteto. Poi tutti i velivoli presero a rullare prima del decollo in massa. Trattandosi di un volo di stormo, quel giorno Michael non avrebbe volato a fianco a fianco con Andrew, ma avrebbe capeggiato la squadriglia B. Cinque altri aeroplani l'avrebbero seguito, e tra i piloti due erano novellini bisognosi di continuo controllo. Hank Johnson capeggiava la squadriglia C, e salutò Michael sventolando la mano mentre questi decollava col proprio gruppo. Subito dopo il passaggio, anche l'americano si allineò alla pista e decollò coi suoi. Appena per aria, Michael segnalò ai suoi di formare una « V » acuta e seguì Andrew, imitando la sua dolce virata a sinistra che li avrebbe condotti al largo del poggetto oltre il castello. Si tirò gli occhialoni sulla fronte e liberò il viso dalla sciarpa così che Centaine potesse vederlo in faccia. Pilotando con una mano sola, si preparò a farle il segnale convenuto per l'incontro nel granaio. Ecco il poggetto... si mise a sorridere, impaziente, ma ben presto il sorriso svanì. Non vedeva Nuage, lo stallone bianco. Si sporse più che poté dall'abitacolo, notando che Andrew, davanti, faceva lo stesso, e si voltava di qua e di là alla vana ricerca della ragazza sul cavallo bianco. Superarono rombando il poggio, ma lei non si vide. Era deserto. Michael si voltò indietro a guardare per accertarsene al di là di ogni dubbio. Aveva le viscere contorte da un brutto presentimento. Lei non c'era, avevano perduto il loro talismano. Si tirò la sciarpa sulla bocca e gli occhialoni sugli occhi. Le tre squadre di aeroplani presero a salire, ricercando l'essenziale vantaggio della quota, intenzionati a superare le alture a quattromila metri prima di rimettere gli aerei in linea per il pattugliamento . La sua mente continuava a tornare a Centaine. Perché non c'era? Era successo qualcosa di brutto? Trovò diSicile concentrarsi sul cielo circostante. « Ci ha portato via la fortuna. Sa che cosa significa per noi e ci ha abbandonato. » Scosse la testa. « Non devo pensarci. Guarda il cielo! Non pensare a niente, se non al cielo e al nemico! » La luce stava aumentando e l'aria era limpida e gelida. Sotto di loro la terra era gcometricamente pezzata di campi e disseminata dei villaggi e delle città della Francia settentrionale: proprio davanti, però, ecco la linea del fronte, bruciacchiata e martoriata, mentre sopra si addensavano le nuvole del mattino, da una parte scure come lividi sulla pelle, dall'altra bordate dall'oro del sole nascente. A ovest si stendeva l'ampio bacino della Somme, il fiume dove si acquattava, pronto a balzare, il mostro della guerra, e a est il sole spediva sul mondo grandi dardi infuocati che bucavano il cielo, inducendo Michael a distogliere gli occhi abbagliati. « Mai guardare il sole », si ricordò, diligente. Per colpa della distrazione, rischiava di fare gli errori del pivello. Sorvolarono le alture, osservando le trincee dei fanti, contorte come vermi bruni nel prato verde. « Non fermare lo sguardo su niente! » si raccomandò Michael. « Mai fissare a lungo un solo oggetto! » Riprese il continuo scrutinio del pilota veterano, la veloce ricerca circolare che copriva in pochi secondi tutti i quadranti.
Nonostante il suo impegno, continuava a pensare a Centaine e alla sua assenza dal poggetto, sicché a un certo punto si accorse che stava fissando una nube a forma di balena da ormai cinque o sei secondi. Ci era ricascato. « Buon Dio, amico, torna subito in te! » abbaiò a se stesso Nel volo di testa, Andrew segnalò qualcosa. Michael aguz zò gli occh per controllare l'avvistamento. Un volo di tre apparecchi, quattro miglia a sud-ovest e duemila metri sotto di loro. « Amici. » Aveva riconosciuto i De Havilland biposto. Perché non li aveva visti prima lui? Era quello con gli occhi più acuti dello stormo. « Concentrati! » Scrutò la linea dei boschi a sud di Douai, la città in mano tedesca poco a oriente di Lens, e scorse al limitare della foresta nuove postazioni d'artiglieria, appena scavate nel terreno. « Circa sei batterie nuove », stimò, e prese un appunto sul taccuino di volo, senza interrompere l'osservazione. Raggiunsero il confine occidentale del loro settore e ogni squadriglia virò in successione. Cominciarono a tornare seguen do la linea del fronte, ma stavolta col sole negli occhi, e la serie di nuvole bluastre e bordate d'oro alla loro sinistra. « Si sta formando una perturbazione », si disse Michael, e all'improvviso si accorse che stava ripensando a Centaine. Era come se fosse scivolata fino alla coscienza da qualche oscura porta della mente. « Perché non c'era? Magari era ammalata. Una notte al freddo e alla pioggia... di polmonite si può anche morire. » L'idea lo terrorizzò. Immaginò la ragazza che soffocava per le sue stesse secrezioni. Davanti al suo naso volò un razzo rosso, ed egli sobbalzò colpevolmente. Andrew aveva sparato il segnale che significava « nemico in vista », mentre lui stava sognando. Michael scrutò freneticamente il cielo. « Ah! » esclamò con sollievo. « Eccolo là! » Sotto, a sinistra. Era un biposto tedesco, un ricognitore solitario in cerca di batterie alleate, appena a est delle alture: anfanava verso Arras, un apparecchio lento e superato, facile preda dei veloci e maneggevoli SE5. Andrew stava facendo altri segnali, rivolto a Michael, con la sciarpa verde che svolazzava e il sogghigno da diavolo sul viso. « Vado all'attacco, copritemi dall'alto. » Sia Michael sia Hank risposero affermativamente col segnale convenuto e rimasero in quota, mentre Andrew picchiava virando in modo da intercettare il nemico piombandogli in cota, seguito dagli altri cinque apparecchi della sua squadra. « Che spettacolo grandioso! » pensò Michael, guardandoli attaccare. Senova in sé l'eccitazione della caccia. Era una carica selvaggia che si rovesciava giù dal cielo, l'impeto della cavalleria celeste che si abbatteva dall'alto, come un fulmine, sulla preda lenta e goffa. Michael guidò il resto dello stormo in una serie di lente e ampie « e », mantenendo la posizione di copertura in quota. Si sporgeva dall'abitacolo, in attesa di assistere all'attacco, quando una sensazione di disagio si impadroni di lui col gelo di un presentimento mortale, che ancora una volta lo attanagliò alle viscere. Si mise a scrutare il cielo sopra e attorno a sé. Era brillante e pacificamente sgombro. Ma poi il suo sguardo scivolò verso l'abbagliante astro del sole, lo copri con la mano e con un occhio solo spiò tra le dita: erano là. Brulicavano, riversandosi fuori della linea di nuvole come un esercito di scintillanti insetti velenosi. Era la più classica delle imboscate. L'esca spedita a volare lenta e bassa per at-
tirare il nemico, e poi il rapido e mortale attacco dall'alto, sferrato col favore del sole e delle nubi. « Santa Madre di Dio! » sospirò Michael, afferrando la pistola lanciarazzi nella fondina accanto al sedile. Quanti erano? Era impossibile contarli. Una sessantina di apparecchi, forse più. Tre intere Jasta di Albatros Dai colori dell'iride che si tuffavano come falconi sopra lo sparuto gruppo degli SE5 di Andrew. Michael sparò il razzo rosso per mettere in guardia i suoi piloti e poi virò in picchiata per intercettare lo stormo nemico prima che raggiungesse Andrew. In un attimo stimò velocità e distanze e concluse che era troppo tardi, quattro o cinque secondi troppo tardi per salvare la squadra di Andrew. Proprio i quattro o cinque secondi che aveva passato fantasticando nell'assistere, futilmente, all'attacco di Andrew al ricognitore nemico che faceva da esca: cruciali secondi in cui aveva mancato al suo dovere, che ora pesavano su di lui come barre di piombo mentre a tutto gas si gettava in picchiata. Il motore dell'SE5 rombava fuorigiri, emettendo la peculiare protesta dei macchinari torturati, mentre l'elica vorticava urlando nell'aria fragorosa, e Michael sentiva le strutture alari flettersi e curvarsi per l'impatto con l'atmosfera di quella picchiata suicida. « Andrew! » urlò. « Guardati alle spalle, amico! » Ma naturalmente sapeva che un avvertimento simile era quanto mai vano. Tutta l'attenzione di Andrew era dedicata alla sua preda. Infatti il pilota tedesco li aveva visti e a sua volta aveva intrapreso una picchiata disperata verso il suolo, tirandosi dietro gli SE5 trasformati, ora toccava a loro, in prede indifese. Gli aeroplani tedeschi proseguirono in massa l'attacco in picchiata, pur consapevoli del disperato tentativo di Michael di intercettarli. Sapevano benissimo, come lui, che non ce lavrebbe fatta. Si erano accorti che era partito in ritardo, sicché gli Albatros avrebbero potuto sorprendere indisturbati la squadra di Andrew, distruggendola magari interamente prima di virare per fronteggiare il contrattacco di Michael. Michael senti una scarica di adrenalina nel sangue, come una lampada a petrolio che si accenda all'improvviso. Il tempo sembrò rallentare dilatando fino all'eternità i microsecondi del combattimento, sicché gli parve di planare con tutta calma invece di picchiare a capofitto verso terra; e l'orda di aeroplani nemici gli sembrarono aquiloni fermi, variopinti, un serto di gemme celesti. I colori e i disegni degli Albatros erano fantastici. Nero e scarlatto i toni dominanti; alcuni erano dipinti a losanghe come arlecchini, altri avevano silhouette di pipistrelli neri o altri uccelli sulle ali o sulla fusoliera. Adesso riusciva a distinguere le facce degli aviatori nemici che si giravano a guardarlo prima di tornare a rivolgersi al bersaglio principale. « Andrew! Andrew! » lamentò in preda al tormento Michael, che a ogni istante di più si rendeva conto che non sarebbe riuscito a impedire il successo dell'imboscata nemica. Con le dita intorpidite dal freddo e dalla paura, Michael ricaricò la pistola lanciarazzi e sparò un altro razzo davanti a S sé, cercando di attirare l'attenzione di Andrew, ma la rossa palla di fuoco piombò verso terra, tracciando una patetica scia di fumo, mentre mezzo miglio più in là Andrew si allineava alla coda del predestinato ricognitore tedesco e cominciava a mitragliarlo. Nello stesso istante l'ondata degli Albatros si abbatté dall'alto sulla squadriglia di Andrew.
Nei primissimi secondi Michael vide due apparecchi amici colpiti in pieno precipitare tra il fumo e le schegge; gli altri si sparpagliarono, inseguiti ognuno da due o tre Albatros che si incrociavano rischiando la collisione per cercare di allinearsi in coda all'SE5 per la raffica mortale. Solo Andrew sopravvisse. Al primo echeggiare delle raffiche delle Spandau, istantaneamente impartì ai comandi dell'aeroplano la virata piatta provata tante volte con Michael: dopo la spericolata manovra si ritrovò a puntare a corna basse contro gli inseguitori, costringendo la squadriglia di Albatros a tisperdersi per evitare lo speronamento e riemergendo, dopo averli incrociati in un lampo, alle loro spalle, apparentemente incolume. « Meno male! » gioì ad alta voce Michael, e poi vide il resto della squadriglia di Andrevv precipitare giù dal cielo, chi in fiamme e chi in vite, e il suo senso di colpa si tramutò in ira. Le macchine tedesche, seminata rapida distruzione, stavano ora virando per fronteggiare le squadriglie di Michael e Hank. Si incrociarono, e tutti gli aeroplani si mescolarono in un vortice, come foglie morte d'autunno. Michael attaccò di fianco un Albatros nero dalle ali scarlat te su cui spiccavano, cimiteriali, due nere croci di Malta. Awi cinandolo, prese di mira l'incrocio delle ali sopra il pilota, dove doveva trovarsi il radiatore, e sparò una raffica. Capì benissimo di aver colpito il punto voluto, ma sfrecciando oltre l'ap parecchio nemico colse una piccola differenza di struttura nell'Albatros all'attacco dell'ala superiore. I tedeschi avevano modificato il punto debole. Il pilota nemico si era chinato nell'abitacolo ed era riuscito a evitare le pallottole di Michael. Un Albatros rosa aveva isolato uno dei pivelli affidati a Michael e gli si era appiccicato alla coda come un vampiro, cercando il momento propizio per spedirgli la raffica mortale. Michael gli passò sotto e con la mitragliatrice superiore Lewis gli innaffiò di piombo il ventre. L'aeroplano nemico si impennò come uno squalo arpionato, poi precipitò a vite. Il pivello sventolò la mano per ringraziare Michael. Erano vicinissimi, e Michael gli segnalò imperiosamente: « Torna alla base! » stringendo il pugno per rafforzare l'ordine. « Vattene via di qui, dannato stupido! » gridava senza esito, sennonché il volto contorto sottolineò il cenno manuale, inducendo il novizio a virare e a far ritorno alla base. Un altro Albatros si diresse contro Michael che virò stretto, cabrando e roteando, sparando al bersaglio intravisto per un attimo, e tornando a virare. Erano soverchiati, sei o sette a uno, e i nemici erano tutti veterani; si capiva da come volavano rapidi, agili e senza paura. Michael riusci a ricaricare la pistola lanciarazzi, e poi sparò il razzo verde che significava ritirata. In simili circostanze la miglior cosa da fare era sparpagliarsi e cercar di riguadagnare il campo d'aviazione. Virò all'improvviso e sparò una raffica a un Albatros rosa e blu: vide le pallottole forare la fusoliera, qualche centimetrO sotto il serbatoio a cui aveva mirato. « Va' all'inferno! » lo maledisse, mentre l'Albatros virava lasciandogli via libera verso l'aeroporto. Vide che gli altri piloti stavano già battendosela: anche lui puntò in direzione del suolo e li segui, volando verso le alture e Mort Homme Girò la testa un'ultima volta, giusto per assicurarsi di non avere nessuno in coda, e in quella vide Andrew. Era a distanza di un migliaio di metri, alla sua sinistra. Era stato tagliato fuori dal combattimento principale e aveva dovuto vedersela da solo con ben tre apparecchi nemici, riuscendò ad abbatterne uno e a sganciarsi verso l'aeroporto come
tutti gli altri superstiti dello stormo. Poi Michael guardò sopra Andrew e si rese conto che non tutti gli Albatros tedeschi erano venuti giù con la prima ondata. Sei o sette erano rimasti in quota, sotto le nubi, guidati dall'unico Albatros dipinto tutto di rosso, dalla punta dell'elica, al timone, e da un capo delle ali a quello opposto. Avevano aspettato che la mischia si diradasse, dopo aver individuato, fra i nemici, i migliori piloti e i combattenti più impavidi: Adesso ci avrebbero pensato loro, la seconda lama della tagliola. Colui che li guidava era una leggenda vivente in entrambi i campi: aveva già abbattuto più di trenta apparecchi alleati. LO chiamavano il Barone Rosso. Gli Alleati cercavano di contrastare la sua leggenda e di infrangere l'immagine di invincibilità che il barone Manfred Fon Richthofen si stava costruendo, definendolo un codardo, una iena che aveva accumulato le sue vittorie evitando sempre il combattimento in condizioni di parità e prendendosela coi pivelli, coi piloti isolati, con gli apparecchi danneggiati. Forse c'era del vero in quell'opinione, perché eccolo là che descriveva ampi cerchi sopra il campo di battaglia come un avvoltoio scarlatto; e Andrew, isolato e vulnerabile al di sotto, vedeva Michael, l'unico alleato in vista, a un chilometro di distanza, e sembrava anche non essersi accorto del pericolo incombente. La macchina scarlatta si tuffò su di lui dall'alto, con il naso da pescecane puntato direttamente sull'apparecchio nemico. Anche gli altri cinque piloti veterani tedeschi, scelti a uno a uno con cura, lo seguirono come un sol uomo. Senza riflettere, Michael cominciò a effettuare la virata che avrebbe consentito di soccorrere Andrew: ma i suoi arti, mani e piedi, quasi animati da vita propria, gli disobbedirono e mantennero il suo SE5 in rotta discendente verso le linee alleate e la salvezza. Michael si guardò al di sopra della spalla e vide, sovrimpresso sulla scena di duello aereo, l'amato volto di Centaine, coi suoi occhioni scuri incupiti dalle lacrime; e le parole che gli sussurrava all'orecchio sovrastavano il rombo dei motori e le raffiche di mitragliatrice: « Giurami che ci sarai, Michel! » Con le parole di Centaine che continuavano a ronzargli in testa, Michael vide la squadriglia tedesca abbattersi sull'apparecchio isolato di Andrew, e ancora una volta il suo amico sopravvisse miracolosamente alla prima micidiale ondata e si volse a fronteggiare gli assalitori. Michael cercò di costringersi a far virare il proprio aereo giallo, ma le mani disobbedivano, e così i piedi sulla pedaliera del timone. Rimase a guardare i piloti tedeschi che si buttavano sull'aeroplano verde come fa una muta di cani da pastore con una pecora smarrita, conducendolo senza posa sotto il fuoco degli altri. Vide Andrew battersi con stupendo coraggio e perizia di volo, con continue piroette e giri della morte, scrollandosi di dosso chi cercava di incollarglisi alla coda: ma c'era sempre un altro nemico che l'assaliva di fianco, crivellandolo di colpi con la Spandau. Poi Michael si accorse che le mitragliatrici dell'amico tacevano. Iltamburo della sua Lewis era vuoto, ed egli ben sapeva che ricaricarlo era un'operazione complicata. Evidentemente la Vickers anteriore, surriscaldata, s'era inceppata. Andrew stava dando dei gran pugni su di essa per sbloccarla, e proprio in quella l'aeroplano scarlatto di Von Richthofen gli si mise in coda, pronto ad abbatterlo. « Oh Dio, no! » si sentì gemere Michael, sempre in volo verso la salvezza, inorridito dalla propria vigliaccheria di fron-
te al pericolo mortale che correva Andrew. E accadde un miracolo: senza aprire il fuoco, l'Albatros rosso deviò e con un'accelerata si portò di fianco all'apparecchio nemico. Von Richthofen doveva essersi accorto che Andrew era disarmato e si era rifiutato di uccidere un pilota indifeso. Passando a pochi metri dall'abitacolo in cui Andrew stava ancora pigliando a cazzotti la sua Vickers inceppata, alzò una mano in un laconico cenno di saluto, un omaggio a un nemico coraggioso: e poi virò a caccia degli altri SE5 in fuga. « Mio Dio, ti ringrazio! » sbottò Michael. La squadriglia di Von Richthofen lo seguì nella virata. No, non tUtti: un Albatros non aveva lasciato la coda di Andrew Era un apparecchio azzurro-cielo, con l'ala superiore a quadri tbianchi e neri come una scacchiera. Riassunse la posizione r d'attacco che Von Richthofen aveva lasuato e Michael senti Vla raffica della sua Spandau. Scoppiò il serbatoio della benzina, e le fiamme avvolsero di colpo la silhouette della testa e del torso di Andrew. Il fuoca, il peggior nemico dell'aviatore, l'avvolse, e Michael vide lamico alzarsi tra le fiamme come un nero insetto bruciacchiato e gettarsi dall'abitacolo nel vuoto, preferendo quella morte rapida alla tortura di bruciare vivo. La suarpa verde attorno al collo di Andrew bruciava. Egli indossò una ghirlanda di fiamme, finché l'accelerazione della caduta libera non ne causò lo spegnimento improvviso a opera del vento relativo, gigante che soffia su un lucignolo. A braccia e gambe allargate, come un crocifisso, Andrew rimpiccioli sempre più, fino a diventare un puntino che Michael perse di vista molto prima dello schianto al suolo, tremila metri più in basso. « In nome di quel che c'è di più sacro, non potevano avvertirci che Von Richthofen era tornato nel settore? » gridò Michael all'aiutante dello stormo. « Possibile che in questo fottuto esercito non ci sia un servizio d'informazioni? Quei dannati scaldasedia del comando di divisione sono responsabili dell'omicidio di Andrew e degli altri sei uomini che abbiamo perduto oggi! » « Ciò è davvero ingiusto, vecchio mio », mormorò l'aiutante tirando una boccata dalla pipa. « Sai bene come lavora Von Richthofen. Gli piace fare le sorpresine. » Von Richthofen aveva escogitato la strategia di caricare i suoi apparecchi su dei camion e spostarli di notte da un punto all'altro del fronte. Apparendo all'improvviso, coi suoi sessanta espertissimi piloti, dove i nemici non se l'aspettavano, seminava morte e distruzione tra le file alleate per qualche giorno o settimana, e poi cambiava ancora destinazione. « Ho telefonato al comando di divisione appena sono atterrati i nostri primi aerei, e avevano ricevuto la notizia un istante prima. Ritengono che il circo 'Von Richthofen si sia attendato temporaneamente alla vecchia pista appena a sud di Douai... » « Quanto a serve saperlo, adesso che Andrew è morto! » Dicendolo, Michael colse tutta l'irrimediabilità del fatto, e presero a tremargli le mani. Un nervo cominciò a contrarglisi sulla guancia. Dovette voltar le spalle all'aiutante di stormo e andare alla finestra. Dietro di lui, l'ufficiale rimase zitto, dando a Michael il tempo di rimettersi. « La vecchia pista di Douai... » Michael infilò le mani in tasca per tenerle ferme, e distolse la mente dal pensiero di Andrew per riflettere invece sugli aspetti tecnici. « Quelle nuove batterie... devono essere state installate per difendere gli aeroplani di Von Richthofen. » « Michael, comanderai tu lo stormo adesso, almeno provvisoriamente, finché il Comando ti confermi o ti sostituisca. »
Michael si voltò, ancora con le mani in tasca, e annuì senza parlare, perché non si fidava ancora della propria voce. « Dovrai preparare il nuovo ordine di servizio », gli suggeri gentilmente l'aiutante, e Michael scosse la testa come per schiarirsi i pensieri. « Non possiamo più uscire se non con lo stormo al completo », disse, « visto che c'è il circo del barone che ci aspetta. Il che significa che non sarà possibile pattugliare il settore per tutta la giornata. » L'aiutante annul, concordando. Era ovvio che istituire voli singoli sarebbe stato suicida. « Qual è la nostra forza operativa? » domandò Michael. « Attualmente otto apparecchi. Quattro sono stati gravemente danneggiati. Se va avanti così, sarà un aprile di sangue, temo. » « Va bene », annuì Michael. « Cancelleremo il vecchio programma. Oggi potremo effettuare ancora due sole sortite. Con tutti e otto gli aerei. Mezzogiorno e sera. Tieni fuori da questa faccenda i pivelli più che puoi. » Mentre l'aiutante prendeva appunti, Michael si concentrava sui suoi nuovi doveri: le mani smisero di tremargli e gli aumentò il pallore cadaverico del volto. « Telefona in Divisione e avvertili che non siamo più in grado di coprire adeguatamente il settore. Chiedi rinforzi. Avvertili che circa sei nuove batterie sono state piazzate... » Michael lesse sul suo taccuino la località dell'avvistamento, a e avvertili anche che ho notato una modifica dell'Albatros, che non ha più il radiatore sistemato sopra il pilota. » Spiegò l'ubicazione nuova del radiatore sugli Albatros del Barone Rosso. « Digli che i crucchi hanno assegnato a Von Richthofen una sessantina di questi nuovi Albatros. Quando hai fatto tutto, chiamami e faremo insieme il nuovo ordine di servizio: avverti i piloti che a mezzogiorno si torna a uscire di pattuglia. Adesso lasciami andare a fare il bagno e la barba. » Per fortuna non vi furono altri momenti nel corso della giornata per ripensare alla morte di Andrew. Michael capeg-giò entrambi i voli di pattuglia a ranghi largamente incompleti e, benché la consapevolezza della presenza di Von Richthofen nel settore agisse pesantemente sui loro nervi, stavolta non incontrarono apparecchi nemici. I due pattugliamenti si svolsero senza alcun combattimento. A sera, quando atterrarono nella luce del crepuscolo, Michael portò una bottiglia di rum a Mac e agli altri meccanici che stavano lavorando al lume delle lanterne per riparare gli apparecchi danneggiati e passò un'ora con loro, a incoraggiarli, perché erano ansiosi e depressi per le perdite della giornata... particolarmente per la morte di Andrew, che tutti adoravano e consideravano un eroe. « Era un tipo in gamba », disse Mac, con la morchia fino ai gomiti, alzando gli occhi dal motore a cui stava lavorando e accettando il bicchierino di rum che gli porgeva Michael. « Era davvero un tipo in gamba, il maggiore », disse a nome di tutti i meccanici. « Non se ne trovano spesso di tipi come lui, Michael tornò passo passo per il frutteto; guardando il cielo : tra gli alberi, vide le stelle. L'indomani si sarebbe certo potuto ; volare, e gli venne una gran paura. « L'ho perso », sussurrò. « Ho perso tutto il mio coraggio. Sono un vile, e la mia viltà ha ammazzato Andrew. » Questa consapevolezza, che la sua mente aveva tenuto a bada per tutto il giorno, ora gli si presentava con la massima chiarezza. Era come quando il cacciatore insegue il leopardo ferito nella macchia, col cuore in gola: si aspetta, sì, di vederlo balzar fuori da un momento all'altro, ma, quando lo scorge davvero,
la vista lo atterrisce e lo agghiaccia lo stesso. « Un codardo », disse forte, crogiolandosi nel dolore che gli procurava la sferzata di quell'insulto a se stesso, e si figurò Andrew sorridente con il testa il tam o' shanter. « Che c'è, ragazzo mio? » Gli parve di sentire la sua voce. Poi lo rivide precipitare con la sciarpa verde incendiata intorno al collo, e ricominciarono a tremargli le mani. « Un codardo », ripeté, e il dolore era davvero troppo per sopportarlo da solo. Si affrettò alla mensa, accecato dal senso di colpa che lo fece incespicare più d'una volta nelle assi del camminamento. L'aiutante e gli altri piloti, alcuni ancora in tenuta di volo, lo stavano aspettando. Era dovere dell'ufficiale più anziano iniziare la veglia funebre, era il rituale dello stormo. Su un tavolo al centro della mensa c'erano sette bottiglie di Johnny Walker etichetta nera, una per ciascun pilota caduto in combattimento. Quando Michael entrò nella sala, tutti si alzarono: non per lui, ma per un ultimo saluto ai compagni morti. « Bene, signori », disse Michael. « Mandiamoli dove devono andare. » L'ufficiale meno anziano, già istruito dagli altri circa i propri doveri, aprì una bottiglia di whisky. Le etichette nere davano un appropriato tocco luttuoso. Andò da Michael e gli riempì il bicchiere, poi dagli altri in ordine di anzianità. Col bicchiere in mano, tutti aspettarono che l'aiutante, ancora con la pipa tra i denti, sedesse al vecchio pianoforte in un angolo della mensa e cominciasse a intonare gli accordi iniziali della marcia funebre di Chopin. Gli ufficiali del 21° Stormo, in piedi sull'attenti, tenevano il tempo battendo i bicchieri sul banco del bar, e uno o due cantavano piano. Sul bancone erano disposti gli oggetti personali dei caduti. Dopo cena sarebbero stati messi all'asta, e i piloti dello stormo se li sarebbero disputati a prezzi d'affezione, così da poter mandare qualche soldarello in più alle vedove e alle madri. C'erano le mazze da golf di Andrew, che Michael non gli aveva mai visto adoperare, e la canna Hardy da trote: tutto il dolore gli tornò addosso all'improvviso, così forte che sbatté il bicchiere sul banco con tanta violenza da rovesciare quasi tutto il whisky. Qualche goccia gli andò anche negli occhi, che si pUn con la manica. L'aiutante giunse al termine del pezzo di musica e si alzò a prendere da bere. Nessuno diceva niente, ma tutti alzarono il bicchiere, meditarono fra sé per qualche secondo, e poi lo scolarono. Immediatamente l'ufficiale meno anziano li riempì di nuovo. Tutte e sette le bottiglie dovevano essere vuotate, faceva parte della tradizione. Michael non cenò, ma rimase al bar ad aiutare a vuotare le bottiglie. Era ancora lucido, il liquore sembrava non fargli alcun effetto. « Devo essere diventato alcolizzato », pensò. « Andrew diceva sempre che ne avevo tutte le qualità. » E il liquore non valse nemmeno a ottundere il dolore rinnovato dal nome dell'amico. All'asta si assicurò le mazze da golf di Andrew e la canna da trote Hardy per cinque ghinee l'una. Ormai tutte le bottiglie erano state vuotate, ne ordinò un'altra per sé e tornò solo alla sua tenda. Sedette sulla branda con la canna sulle ginocchia. Andrew si era vantato di aver pescato una volta un salmone di trenta chili con quella canna, e Michael gli aveva dato del bugiardo. « Uomo di poca fede », aveva replicato lui. « Ti ho sempre creduto », disse Michael accarezzando la vecchia canna e bevendo a collo dalla bottiglia. Poco dopo arrivò Biggs. « Congratulazioni per la sua vitto
ria, signore. » Altri tre piloti avevano confermato l'abbattimento dell'Albatros rosa da parte di Michael. « Biggs, mi fai un favore? » « Ma certo, signore. » « Vaffanculo. » C'erano ancora tre quarti di whisky nella bottiglia quando barcollando Michael andò a prendere la motocicletta di Andrew. Il viaggetto nell'aria fredda della notte gli schiarì le idee, ma lo rese anche fragile e rigido come vetro vecchio. Parcheggiò la motocicletta dietro il granaio e andò ad aspet tare tra le balle di paglia. Lentamente passarono le ore, sottolineate dai rintocchi del campanile, e il suo bisogno di Centaine crebbe fino a diven tare quasi intollerabile. Ogni mezz'ora andava alla porta del granaio per vedere se la ragazza stava arrivando lungo il sen tiero buio, poi tornava alla bottiglia e al giaciglio di coperte. Sorseggiava il whisky, e nella mente quei pochi secondi di combattimento in cui Andrew era perito tornavano a riproporsi senza posa, come un disco rotto. Cercava di scacciare le imma gini, ma non ci riusciva. Era costretto a rivivere continuamen te l'agonia di Andrew. « Dove sei, Centaine? Ho tanto bisogno di te adesso. » La bramava, ma non venne, e ancora una volta vide al suo posto l'Albatros azzurro-cielo con l'ala superiore a scacchi bianchi e neri appiccicarsi alla coda di Andrew e mitragliarlo. E ancora una volta vide Andrew che si girava, pallido, a guardare la mitragliatrice Spandau che apriva il fuoco su di lui. Michael si coprì gli occhi con le dita e schiacciò i globi oculari finché il dolore non fece scomparire le immagini. « Centaine », sussurrò. « Per piacere, vieni da me. » Il campanile della chiesa batté le tre, la bottiglia di whisky era finita. « Non viene. » Infine si era rassegnato. Tornò barcollando alla porta del granaio e guardò il cielo notturno. Sapeva che cosa doveva fare per espiare la sua colpa, il suo dolore e la sua vergogna. Lo stormo decimato decollò nella luce livida dell'alba. Adesso vicecomandante era Hank Johnson e gli volava a fianco. Michael, appena furono sugli alberi, piegò leggermente a destra per sorvolare il poggetto dietro il castello. In qualche modo era sicuro che non sarebbe stata là nemmeno quella mattina, tuttavia si tirò su gli occhiali e la cercò. La cima del colle era deserta, ed egli non si voltò nemmeno. « E il giorno delle mie nozze », pensò, scrutando il cielo sopra le alture. « Il mio testimone è morto, e la mia sposa... » Non finì il pensiero. Le nuvole si erano affollate in cielo durante la notte, e ora costituivano un tetto scuro e inaccessibile a quattromila metri d'altezza, stendendosi da tutte le parti fino all'orizzonte. Sotto, l'atmosfera era libera fino a duemila e settecento metri di quota, dove una nuvolaglia grigia e diffusa formava uno strato di varia densità spesso dai trecento ai cinquecento metri. Michael condusse lo stormo in uno spiraglio di quella nuvolaglia, poi raddrizzò l'aereo appena sotto il banco di nubi principale. Il cielo sottostante era sgombro di apparecchi. A un pivello sembrava impossibile che due grandi formazioni nemiche di caccia potessero perlustrare lo stesso settore senza incontrarsi mai, pur cercandosi con il massimo impegno. Tuttavia! il cielo era così profondo e sconfinato che le probabilità, in realtà, erano contro l'avvistamento, a meno che gli uni sapessero con precisione dove si sarebbero trovati gli altri a una certa ora. Mentre i suoi occhi scrutavano senza posa di qua e di là,
Michael si frugò in tasca del cappotto e si assicurò che ci fosse ancora il pacchetto che aveva preparato poco prima del de coHo. « Come vorrei avere qualcosa da bere », pensò. Aveva la bocca secca e il mal di testa. Gli bruciavano gli occhi, ma ci vedeva sempre benissimo. Si uméttò le labbra screpolate. « Andrew diceva sempre cher solo un inveterato ubriacone può bere la mattina dopo una sbronza. Vorrei aver avuto il coraggio, e il buon senso, di portarmi dietro una bottiglia. » Tra uno spiraglio e l'altro delle nuvole riusciva a orientare perfettamente il volo dello stormo. Conosceva a palmo a palmo il settore, come un agricoltore conosce la propria tenuta. Ne raggiunsero il confine, e Michael virò, con lo stormo sem pre dietro; poi controllò l'orologio. Undici minuti dopo distinse l'ansa del fiume e il boschetto di forma particolare che gli servivano da riferimento. Tolse gas e l'apparecchio giallo rallentò un pochino, sicché Hank Johnson gli si affiancò. Michael guardò il texano e gli fece un cenno d'intesa. Prima del decollo gli aveva manifestato le proprie intenzioni, e Hank aveva cercato di dissuaderlo. Ora questi atteggiò la bocca a corruccio per ribadire la propria disapprovazione, poi alzò un sopracciglio assumendo una espressione arcistufa della guerra e dei suoi orrori. Solo a que sto punto salutò Michael con un gesto della mano. Michael tolse ancora un po' di gas e si abbassò sotto il resto dello stormo. Hank continuò a guidarlo verso est, mentre Michael con una larga virata dirigeva a nord, scendendo di quota. Nel giro di pochi istanti lo stormo scomparve alla sua vista. Michael restò solo nel cielo sconfinato. Continuò a scendere fin ché raggiunse lo strato di nuvolaglia e se ne servì come scher mo. Tra uno spiraglio e l'altro attraversò il fronte qualche mi glio a sud di Douai e poi distinse le nuove batterie tedesche al limitare del bosco. vecchia pista d'atterraggio era segnata sulla carta. Riuscì ad avvistarla da una distanza di cinque miglia o anche più, perché le ruote degli Albatros vi avevano scavato profondi solchi. Da due miglia scorse gli apparecchi nemici, parcheg giati lungo il limitare degli alberi, e tra di essi le tende dei pilOti e dei meccanici. All'improvviso udi come uno sbuffo e una granata antiaerea esplose sopra e davanti a lui. Sembrava un fiocco di cotone, ed era anche ingannevolmente bello nella mezza luce del tempo nuvoloso. « Buongiorno », disse Michael, salutando con qualche preoccupazione la contraerea. Era un colpo di prova, e fu immediatamente seguito da una bordata di tutti i pezzi. L'aria circostante si riempi di fiori bianchi mentre sibilavano le schegge. Michael effettuò la picchiata. La velocità aumentò subito, portando l'indicatore nel settore rosso, e il pilota si frugò in tasca e prese l'involto, mettendoselo in grembo. La terra e i boschi gli balzavano incontro, mentre dietro di lui esplodevano a ripetizione le granate. A cinquanta metri di quota raddrizzò l'apparecchio e si trovò proprio di fronte alla pista. Vide i biplani multicolori parcheggiati in fila, coi nasi da squalo puntati verso di lui. Cercò quello azzurro-cielo con l'ala superiore a scacchi, ma non gli riuscì di scorgerlo. Distinse movimenti frenetici ai lati del campo d'aviazione nemico. Il personale di terra scappava nella foresta, aspettandosi da un momento all'altro rafliche di mitragliatrice. I piloti correvano verso gli apparecchi infilandosi i giacconi. Sapevano benissimo che non sarebbero mai riusciti ad alzarsi in tempo per intercettare l'assalitore, ma ci provavano lo stesso.
Michael afferrò l'impugnatura della mitragliatrice. La fila degli apparecchi nemici era drittissima, e i piloti vi si affollavano attorno. Sorrise, amaro, e abbassò il muso dell'aereo inquadrandoli nel mirino. A trenta metri raddrizzò di nuovo l'apparecchio. Togliendo la mano dalla mitragliatrice, prese l'involto dal grembo e, sorvolando il centro della pista tedesca, si sporse dall'abitacolo e lanciò il pacchetto. Il nastro si sciolse nella scia dell'aereo e l'involto cadde ai bordi del campo. Michael diede gas e riprese quota dirigendosi verso il primo strato di nuvole. Guardando nello specchietto retrovisivo vide un pilota tedesco raccogliere l'involto: subito dopo l'SE5 sobbalzò per gli scoppi vicinissimi di altre granate antiaeree. Una esplose proprio sotto l'apparecchio investendolo di schegge e sbrindellando un po' di tela delle ali inferiori e della fusoliera. Pochi secondi dopo Michael era in salvo tra le nuvole basse, con la mitragliatrice fredda per non aver sparato un sol colpo. Virò in direzione di Mort Homme. Mentre volava, pensò al messaggio che aveva appena recapitato. Dapprima aveva pensato di scriverlo in tedesco, ma ben presto aveva riconosciuto la propria incapacità. Senz'altro nelstormo nemico c'era qualcuno capace di tradurlo dall'inglese. I piloti di Von Richthofen erano aristocratici cosmopoliti. che cosa aveva scritto: Al pilota tedesco dell'Albatros azzurro-cielo con le ali a scacchi bianchi e neri. Signore, l'aviatore britannico disarmato e indifeso da Voi assassinato,era mio amico. Oggi, tra le sedici e le sedici e trenta, sorvolerò i villaggi di Cantin e Aubigry-Au-Bac a quota duemilaottocento metri. mio apparecchio è un SE5 giallo. Spero di incontrarVi. Il resto dello stormo era già atterrato, quando Michael arrivò alla base. « Mac, devo aver preso qualche scheggia di shrapnel. » « L'ho notato, signore. L'aggiusto subito, non si preoccupi. » « Non ho sparato, ma controlla ugualmente il puntamento, per piacere. » « Convergenza a cinquanta metri? » « Facciamo trenta. » « Vuol proprio combattere a corpo a corpo, signore », sibilò Mac tra i denti. « Lo spero, Mac... e, a proposito, guarda che l'apparecchio è un po' pesante in coda. Registramelo in modo che si possa volare senza mani. » « Ci penserò io stesso, signore », gli promise Mac. « Grazie Mac. » « Gliele dia sode a quei bastardi anche per il signor An drew, signore. » L'aiutante lo stava aspettando. « Michael, abbiamo di nuovo tutti gli apparecchi in efficienza. Dodici disponibili sul ruolino di servizio. » « Benissimo. Hank comanderà il pattugliamento di mezzogiorno, e io mi alzerò da solo alle 15 e 39. » « Da solo? » L'aiutante si tolse la pipa di bocca, sorpreso. « Da solo », confermò Michael. « Poi, pattugliamento di stormo al tramonto, come al solito. » L'aiutante prese nota. « A proposito, c'è un messaggio del generale Courteney. Dice che molto probabilmente stasera potrà venire alla cerimonia. » Michael sorrise quel giorno per la primissima volta. Gli
faceva molto piacere che Sean Courteney non mancasse alle sue nozze. « Spero che anche tu ce la faccia a venire, Boò. » « ci puoi scommettere. Dello stormo non mancherà nessuno. Non vediamo l'ora di venire. » Michael aveva una gran voglia di bere qualcosa di forte. Si avvio verso la mensa. « Buon Dio, sono le otto di mattina », gli sovvenne, e si fermò. Si sentiva nauseato e disidratato: del whisky gli avrebbe messo in corpo linfa e calore, e sentì che gli tremavano le mani per il bisogno di bere del liquore. Gli ci volle tutta la forza di volontà per voltar le spalle alla mensa e andare alla tenda. Ricordò che la notte precedente non aveva chiuso occhio. Biggs lo aspettava seduto su una cassa fuori della tenda, lucidando gli stivali di Michael. Scattò sull'attenti, con il viso contratto e privo di espressione. Michael gli sorrise. « Comodo, comodo. Scusami per stanotte, Biggs. Mi sono comportato da maleducato, ma non ce l'avevo con te. » « Lo so, signore. » Biggs si rilassò. « Anch'io volevo molto bene al maggiore. » « Svegliami alle tre del pomeriggio. Devo recuperare un po' di sonno. » Non fu Biggs a svegliarlo, ma gli urli del personale di terra, il rumore di uomini che correvano, e il tuono della contraerea ai bordi del campo insieme al rombo di un motore Mercedes. Michael si affacciò alla soglia della tenda coi capelli scompigliati e gli occhi iniettati di sangue, ancora mezzo addormentato. « Cosa diavolo sta succedendo, Biggs? » « Un aereo nemico, signore. Ha sorvolato il campo. » « Se n'è già andato. » I piloti accorrevano urlando ai margini della pista. « Non ha sparato neanche un colpo. » « L'hai visto? » « Un Albatros azzurro con le ali a scacchi bianchi e neri. Ha fatto la barba al tetto della mensa. » « Ha buttato giù qualcosa, Boò è andato a prenderla. » Michael tornò in tenda a mettersi la giacca e un paio di scarpe da tennis. Sentì avviarsi due o tre apparecchi e corse subito fuori a gridare di non decollare per cercar di intercettare l'apparecchio nemico. Subito i piloti, obbedienti, spensero i motori. Nell'ufficio dell'aiutante c'era gran folla, e anche Michael ci andò. Boò stava aprendo la borsa di tela gettata dal pilota tedesco. Il coro di commenti e domande si interruppe immediatamente quando si resero conto del contenuto della borsa. L'aiutante svolse la sciarpa di seta verde che era stata di Andrew. Era piena di buchi bruciacchiati e macchie di sangue secco. « La sciarpa di Andrew », disse senza necessità, a e la sua fi aschetta d'argento. » Era alquanto ammaccata, ma il tappo dorato brillava e il contenuto gorgogliava mentre se la rigirava in mano. La mise da parte e, a uno a uno, tirò fuori gli altri S oggetti contenuti nella borsa: i nastrini e le medaglie di Andrew, il portasigarette d'ambra, un portasovrane cilindrico a molla che ne conteneva ancora tre, il portafogli di cinghiale. Quando girò il portafogli, ne cadde fuori una fotografia: i genitori di Andrew nel prato davanti al castello. « E questa cos'è? » disse l'aiutante, tirando fuori una grossa . busta sigillata con della ceralacca. « Ah, c'è su l'indirizzo... » Lesse: « « Al pilota dell'SE5 giallo ». L'aiutante guardò sbalordito Michael. « Ma sei tu. Come diavolo... »
Michael gli prese di mano la busta e l'aprì. C'era dentro un sol foglio di carta della stessa ottima qualità della busta. La lettera era scritta a mano e, benché la grafia fosse tipicamente europea, con le maiuscole in gotico, il testo era in inglese perfetto, anche se un po' aulico: Signore, il vostro amico, Lord Andrew Killigerran, è stato sepolto stamane nel cimitero della chiesa protestante di Douai. Questo Jagdstagel gli ha reso onori militari. Ho l'onore di informarVi e altresì di avvertirVi, che non può darsi omicidio tra combattenti in guerra, imperocché suo precipuo scopo è la distruzione del nemico con tutti i mezzi possibili e immaginabili. Non vedo l'ora di incontrarVi, OTTO VON GREIM. Jasta II presso Douai. Tutti guardavano Michael in attesa. Ma egli piegò la lettera e se la mise in tasca. « Hanno raccolto il corpo di Andrew », disse tranquillo, « e l'hanno seppellito con gli onori militari questa mattina a Douai. » « Piuttosto decente da parte loro », mormorò uno dei piloti. « Sì, per degli Unni », disse Michael, e si diresse verso la porta. « Michael », lo fermò l'aiutante. « Credo che Andrew sarebbe d'accordo. Prendila tu. » Tese la fiaschetta a Michael. Michael la prese in mano con riverenza. L'ammaccatura probabilmente era stata provocata dall'impatto col terreno, pensò con orrore. « Sì », annuì. « La terrò io per lui. » Voltò le spalle e si fece strada nel gruppo di taciturni ufficiali. Biggs l'aiutò a vestirsi con attenzione anche maggiore del solito. « Li ho lustrati a specchio », fece notare, porgendogli i morbidi stivali in pelle di kudu. Michael parve non sentire nemmeno. Benché dopo l'episodio del sorvolo fosse tornato a coricarsi, non era più riuscito a dormire. Tuttavia si sentiva calmo, perfino placido. « Che hai detto, Biggs? » domandò vagamente. « Ho detto che ci ho preparato i migliori vestiti per quando torna... e mi sono messo d'accordo col cuoco per ben trenta litri d'acqua calda per il suo bagno, signore. » « Grazie, Biggs. » « Non è mica roba di tutti i giorni, signor Michael. » « E verissimo, Biggs. Basta una volta nella vita. » « Sono sicuro che lei e la signorina sarete molto felici. Io e la mia signora a giugno facciamo ventidue anni di matrimonio, signore. » « Quanto tempo, Biggs! » « E spero che lei batte il mio record, signor Michael. » « Proverò. » « Un'altra cosa... » Biggs era imbarazzato, non alzava gli occhi dagli stivali. « Non dovrebbe andar di pattuglia da solo, signore. E un'imprudenza. Si porti dietro almeno il signor Johnson. Chiedo scusa, signore, so benissimo che non aspetta a me dirci robe del genere a un asso, ma... » Michael mise la mano sulla spalla a Biggs per un momento. Non l'aveva mai fatto prima. « Fammi trovare il bagno pronto, quando torno », disse alzandosi in piedi. Biggs rimase a guardarlo uscire dalla tenda, senza dirgli addio né augurargli buona fortuna, benché gli ci volesse tutto l''autocontrollo per trattenersi. Poi raccolse la giacca di Michael
e la piegò con cura affettata. Quando il motore Wolseley si avviò, Michael diede gas e udì un bel rombo regolare. Lo ascoltò criticamente per una trentina di secondi e poi guardò Mac, che aspettava in piedi sull'ala di fianco all'abitacolo, coi capelli e le falde della tuta che sbattevano al vento dell'elica. « Perfetto, Mac », gridò sopra il frastuono del motore, e Mac sogghignò. « Li faccia correre, signore », disse il meccanico prima di saltar giù a tirar via i ceppi dalle ruote. Istintivamente, Michael tirò un profondo sospiro, come prima di tuffarsi nelle profonde e fredde pozze del fiume Tu ; gela. Poi diede tutto gas e la pesante macchina si avviò in avanti. Ilpoggetto oltre il castello era ancora deserto, ma non si aspettava niente di diverso. Tirò la cloche come per cabrare. poi cambiò idea e sorvolò basso il bosco di roveri. Gli apparve, proprio davanti, il castello. Lo superò facendo la barba al tetto di tegole rosa. Non vide segno di vita e, appena l'ebbe passato, virò e ci tornò sopra. Stavolta vide del movimento. Da una delle finestre al pianterreno, vicino alla cucina, qualcuno sventolava una sciarpa gialla. Non riuscì a distinguere chi era. Virò di nuovo e tornò sul castello, questa volta tenendosi più basso, quasi all'altezza del muretto che circondava l'orto di Anna. Vide Centaine alla finestra. Non poteva sbagliare: gli occhioni, i capelli neri. La sciarpa gialla era quella che aveva indossato il giorno in cui erano andati insieme ad Arras con l'apparecchio, a trovare Sean Courteney. Quando Michael alzò il muso e diede gas per cabrare, si sentì rinvigorito. L'inerzia e la passività che si erano impadronite di lui svaporarono ed egli si sentì ricaricato e vitale. L'aveva vista, e ora tutto sarebbe andato bene. « Era Michel », gridò felice Centaine, voltandosi dalla finestra e parlando ad Anna seduta sul letto. « L'ho visto, Anna, era sicuramente lui. Oh, che bello. E venuto a trovarmi, nonostante papà! » Il viso di Anna si accigliò e si imporporò di disapprovazione. « Porta sfortuna che lo sposo veda la sposa prima della cerimonia il giorno delle nozze », brontolò. « Tutte sciocchezze, Anna, certe volte parli come una stupida. Oh, Anna, come è bello! » « Ma tu non lo sarai, se non finiamo prima di sera. » Centaine andò a sedersi sul letto accanto ad Anna. Prese in grembo il vestito da sposa, di pizzo, e infilò l'ago, passandolo poi ad Anna per stringerle l'abito. « Ho deciso », disse ad Anna che riprendeva a cucire, « avrò solo maschi. Sei figli maschi e neanche una figlia. E così noioso essere una ragazza che non voglio infliggere questa pena a una figlia mia. » Anche lei si mise al lavoro attorno al vestito, e dopo un po' si interruppe: « Sono così felice, Anna, così eccitata. Credi che il generale verrà? Quando pensi che finirà questa stupida guerra, così che io e Michel possiamo andare in Africa? » Ascoltandola chiacchierare, Anna girò la testa in maniera da nasconderle il suo sorriso affettuoso. L'SE5 giallo puntò ardito e possente contro il ventre grigio e morbido del cielo. Michael scelse uno dei varchi nello strato inferiore di nuvole, ci passò rapidamente attraverso e sfociò nel corridoio tra i due ammassi. Alto sopra la sua testa c'era il tetto di nuvole fitte, ma sotto l'aria era limpida come cristallo. Quando l'altimetro segnò duemilaottocento metri, Michael raddrizzò l'apparecchio. Era nel sereno, equidistante dagli
strati nuvolosi di sopra e di sotto: dai varchi riusciva a orientarsi. I villaggi di Cantin e Aubigny-au-Bac erano deserti, scheletri smozzicati dalle granate. Solo qualche camino di pietra era sopravvissuto alle ondate di fuoco che la guerra aveva riversato a più riprese su quelle povere case. E i camini si alzavano dalla terra fangosa e rotta come monumenti funebri. I due villaggi distavano otto chilometri, e la strada che un tempo li univa era ormai cancellata dalle bombe. Ilfronte passava tra i due paesi: le opposte trincee, contorte come vipere ferite, solcavano i campi bruni su cui i crateri delle granate, pieni d'acqua stagnante, brillavano verso di lui come occhi di cieco. Michael guardò l'orologio. Le quattro meno cinque. Gli occhi tornarono immediatamente a scrutare il vasto cielo deserto. Alzò una mano per volta dai comandi e le scrollò flettendo le dita, poi fece lo stesso coi piedi: si scioglieva i muscoli come fanno gli scattisti prima del colpo di pistola del via. Afferrò le manopole della mitragliatrice con ambo le mani e l'aereo continuò a volare mantenendo perfettamente il proprio assetto. Sparò due brevi raffiche, una per ciascuna arma, annui e si soffiò sui polpastrelli guantati. « Ho bisogno di bere », si disse, e prese la fiasca di Andrew dalla tasca. Riempì la bocca con una sorsata di whisky, si sciacquò i denti, inghiotti. Nel fiotto sanguigno fiorì il fuoco alcolico, ma resistette all'impulso di bere di nuovo. Spinse il pedale sinistro per iniziare la virata e proprio in quella distinse un lampo azzurro sotto le nuvole, all'orizzonte. Interruppe la vi rata e sbatté le palpebre per accertarsi di avere visto giusto. L'altro aereo era a 2800 metri, esattamente la sua quo ta, e si avvicinava in fretta da nord, la direzione di Douai. Michael senti l'adrenalina mischiarsi all'alcol nel circolo san guigno. Gli bruciavano le guance e le budella erano contratte da uno spasimo. Diede tutto gas e si lanciò contro l'apparec chio nemico. La velocità risultante era alta e l'aereo che gli veniva incon tro sembrava diventare ogni istante più grosso. Vide l'azzurro cupo del muso annebbiato dal turbine dell'elica, e le ali tese da falcone. Vide la testa del pilota con il casco tra le due mitragliatrici Spandau montate sul cofano del motore, nere, e il lampo degli occhialoni quando si chinò a inquadrarlo nel mirino. Michael diede tutto gas e il motore urlò. Con la sinistra impugnava la cloche come un pitttre regge leggero il pennello: inquadrò il pilota nemico al centro del mirino e con la destra afferrò la manopola di sparo. Odio e ira crebbero man mano che s'ingrandiva l'immagine del nemico. Trattenne il fuoco. L'orologio di combattimento, nella sua testa, prese a rallentare magicamente il tempo. Vide le canne delle Spandau accendersi di bragia rossa sputando contro di lui fuoco e scintille color del pianeta Marte in una notte illune. Mirò alla testa dell'altro pilota e schiacciò il pulsante. La raffica parti facendogli vibrare intorno tutto l'aeroplano. Non pensò nemmeno per un istante di interrompere la carica. Era completamente assorbito dall'impegno di mirare bene, per dirigere il fiume di proiettili in faccia al tedesco, strappargli gli occhi, fargli scoppiare il cervello nel cranio. Sentiva le pallottole delle Spandau abbattersi sulle strutture di legno e tela del suo apparecchio, se le sentiva fischiare vicino alla testa come locuste impazzite, ma non ci badava. Vide le proprie pallottole far schizzare un nugolo di schegge dall elica dell'aereo nemico, e si arrabbiò perché questo le deviava dal vero bersaglio. I due aeroplani erano quasi in collisione, e Michael si irrigidi attaccato alle manopole della
Vickers senza cercar di virare. Poi l'Albatros s'inclinò di colpo da una parte, proprio all'ultimo istante utile prima dello speronamento, e sfilò a dritta in un lampo azzurro. Uno scoppio improvviso scosse l'SE5: le ali si erano sfiorate. Michael vide una striscia di tela strappata pendere, tesa dalla scia del vento relativo, dalla punta dell'ala superiore. Diede un calcio alla pedaliera eseguendo la virata piatta che solo l'SE5 era capace di fare e senti le ali tendersi e piegarsi fin quasi allo schianto: ed ecco che già puntava nella direzione opposta, dietro all'Albatros ormai però fuori tiro. Michael diede gas, diede tutto gas, ma ormai c'era poco da accelerare, il motore urlava già sviluppando il massimo della potenza e l'Albatros continuava a filar via. Il tedesco virò e cabrò a sinistra e Michael lo segui. Presero a salire e salire quasi in verticale, e le macchine persero velocità, ma quella tedesca meno, sicché Michael fu lasciato indietro. E « Non è più lo stesso Albatros », si rese conto Michael con un certo turbamento. Quella del radiatore evidentemente non era stata l'unica modifica. Aveva di fronte un apparecchio di nuovo modello, più veloce e potente del suo SE5. Vide l'intero sviluppo delle ali a scacchi bianchi e neri, e la faccia del pilota tedesco che lo guardava nello specchietto retrovisivo. Cercò di puntare in alto la mitragliatrice, sforzandosi di inquadrare nel mirino il nemico. Ma, prima che ci riuscisse, il pilota tedesco eseguì una virata acrobatica e picchiò verso di lui con le canne delle Spandau che fiammeggiavano di nuovo in carica frontale. Stavolta fu Michael a dover virare e scappare, perché il tedesco aveva il vantaggio della quota e della velocità. Per un attimo cruciale, mentre era sospeso e intento alla virata, quasi fermo, Michael fu alla mercé del nemico. Il tedesco gli girò attorno e gli si mise in coda. Era un bravo pilota, pensò Michael stringendo le natiche. Intraprese una picchiata per guadagnare velocità, e subito una viràta verticale. L'Albatros lo imitò con disinvoltura, ed eccoli glrarsi attorno come due pianeti in immutabile orbita comune. Guardò l'altro pilota, alzando il mento, dato che entrambi erano sulla punta di un'ala. Il tedesco ricambiò lo sguardo: gli occhialoni lo facevano sembrare mostruoso e disumano. iEd ecco che per un attimo lo sguardo di Michael andò oltre la fusoliera azzurra, su verso il tetto di nuvole plumbee che chiudevano il cielo. I suoi occhi da cacciatore erano stati attirati da un piccolo movimento come d'insetti. Per un attimo il cuore gli si fermò in petto e il sangue gli ghiacciò nelle vene. Poi con un soprassalto riprese a battere all'impazzata, mentre il respiro gli sibilava in gola. « Ho l'onore di informarVi, e altresi di avvertirVi », gli aveva scritto il tedesco, « che precipuo scopo della guerra è la distruzione del nemico con tutti i mezzi... » Michael l'aveva pur letto, ma solo adesso capiva. Quelli avevano trasformato la sua balorda idea di singolar tenzone celeste e romantica in una trappola mortale. Come un bambino ci era cascato! Si era messo nelle loro mani. Li aveva informati del tempo, del luogo, perfino della quota. Avevano usato l'apparecchio azzurro semplicemente come esca. Adesso si stupi della propria ingenuità, vedendoli sciamare giù dalle nuvole alte. « Quanti saranno? » Non aveva certo tempo di contarli, co. munque a occhio e croce sembrava un'intera Jasta di Albatros nuovo modello. Almeno una ventina. In picchiata, silenziosi, colorati come gemme sullo sfondo grigio delle nuvole. « Non potrò mantenere la promessa che ho fatto a Centaine », pensò, e guardò in basso. L'altro strato di nubi era un chilometro sotto. Un rifugio lontano, ma l'unico che ci fosse.
Non poteva certo sperare di sconfiggere venti dei più celebrati assi tedeschi; se l'avessero raggiunto, sarebbe durato tre secondi al massimo, e stavano avvicinandosi in fretta, in picchiata, mentre l'apparecchio azzurro cupo lo teneva fermo, come infilzato su uno spillo, in attesa dell'attacco mortale. All'improvviso, di fronte alla prospettiva della morte che pure si era andato a cercare, Michael volle vivere. Aveva tirato a sé la cloche al massimo: ora la spinse tutta avanti e fu proiettato in basso come una pietra fiondata con la massima energia. Michael fu sballottato dalle cinghie mentre la forza di gravità, apparentemente, invertiva la marcia, ma riuscì a controllare la potente macchina e usò lo slancio per gettarsi in una picchiata a capofitto verso il banco di nuvole sottostante. La manovra sorprese l'avversario che però rimediò in fretta e dopo un istante lo seguiva, come un fulmine azzurro-elettrico, mentre il branco multicolore incombeva dall'alto su entrambi. Michael li guardava dal retrovisore, rendendosi conto di quanto più rapida fosse la picchiata dei nuovi Albatros. Guardò giù le nuvole. Le grige pieghe, cosi madide e repellenti fino a un attimo prima, adesso gli sembravano invitanti come la vita e la salvezza stesse. Ora che scappava a gambe levate, il terrore tornò a impadronirsi di lui come un cupo e terribile vampiro che gli succhiasse tutto il coraggio e la risolutezza. Non ce l'avrebbe fatta. L'avrebbero raggiunto prima che riuscisse a nascondersi nelle nuvole. Gelato dal panico paralizante, si aggrappò alla cloche come a una boa. Lo destò la raffica delle Spandau gemelle. Nello specchietto retrovisivo vide le fiammelle rosse danzare sulla punta delle canne, vicinissime, e qualcosa gli inferse un terribile colpo in fondo alla schiena. I,'impatto gli fece buttar fuori tutta l'aria che aveva nei polmoni, mentre ragionava che doveva assolutamente togliersi dalla linea del fuoco delle due Spandau. Pestò la pedaliera con tutta la sua forza, tentando la virata piatta che l'avrebbe rimesso a faccia a faccia coi suoi persecutori: ma l'angolo di picchiata e la velocità erano eccessivi, sicché la manovra non riusci. L'SE5 planò invece in un'ampia virata che porse il fianco al branco di assalitori e, pur scampando all'Albatros azzurro, gli altri gli piombarono addosso tempestandolo uno dopo l'altro a distanza di un secondo. Il cielo si era improvvisamente riempito di ali e fusoliere multicolori. Lo schianto delle pallottole nelle strutture dell'apparecchio era continuo e intollerabile, l'SE5 perse un'ala e cominciò a precipitare in vite. Cielo, nuvole e terra tappezzata di campi, con qualche baleno di Albatros colorati e sputacchianti fuoco, riempirono alternatamente il campo visivo di Michael frastornandolo sempre più. Senti un altro colpo nella gamba, poco sotto l'inguine. Guardò in basso e vide che la raffica aveva trapassato il ventre dell'apparecchio e un proiettile deformato e contorto gli aveva aperto uno squarcio nella coscia. Ilsangue ne sprizzava violentemente, rosso vivo: era sangue arterioso. Una volta aveva visto un portatore zulu, incornato da un bufalo, ferito nello stesso punto della coscia: colpito all'arteria femorale, era morto in tre minuti. Raffiche di mitragliatrice lo raggiungevano ormai da tutte le parti, e non poteva più difendersi perché l'apparecchio non rispondeva ai comandi e cadeva in vite, puntando il muso al cielo e un attimo più tardi, barbaramente, secondo un ritmo incontrollabile, di nuovo verso il suolo. Michael cercò di opporsi alla caduta azionando ogni volta il pedale che spostava il timone in senso opposto, nel tentativo di spezzare il ritmo della vite: per lo sforzo, il cuore accelerò il battito e la ferita alla coscia spruzzò fuori ancora più san-
gue. Per la prima volta Michael senti che gli si annebbiava il cervello. Tolse la mano dalla cloche e si cacciò il pollice nell'inguine, alla ricerca dell'arteria, per interrompere il flusso che lo stava dissanguando. Ci riuscì e il fiotto cessò. Ancora si sforzò di controllare l'aereo in caduta, dando gas per fermare la vite irrefrenabile con un balzo in avanti del e motore. Pareva che l'aereo cominaasse a rispondere, con qualche riluttanza, ai comandi. Insisté, sforzandosi di non pensare alla grandinata di proiettili che gli piovevano addosso da tutte le parti. Terra e nuvole smisero di turbinargli attorno. Era uscito dalla vite, ora picchiava dritto. Con una mano sola fece alzare il muso all'apparecchio e sentì le ali esercitare la portanza tendendo i cavi d'acciaio, avvertì il risucchio della gravità nel ventre, e di colpo il mondo intero si assestò, la terra di sotto, le nuvole in alto. Era riuscito a raddrizzare il velivolo. Guardò nello specchietto retrovisivo e si accorse che l'AIbatros non l'aveva mollato, e stava allineandosi in coda per dargli il coup de grdve. Ma proprio in quella, un attimo prima di sentire una volta ancora il rosario di morte delle mitragliatrici abbinate, e il morso rovente del piombo nelle carni, lo schiaffeggiò la rorida mano grigia delle nuvole che si riversavano nell'abitacolo, riscuotendolo come un secchio d'acqua in faccia. La luce si oscurò ed egli si scoprì in un mondo buio e ovattato, dove le Spandau non potevano più echeggiare dissacrando il silenzio dei cieli. Nelle nuvole non l'avrebbero più trovato. Automaticamente i suoi occhi cercarono i tubetti pieni di glicerina fluida sul cruscotto. Con pochi colpetti ai comandi allineò le bolle alle tacche così da conferire all'aereo in volo cieco un assetto parallelo al terreno e rettilineo. Subito dopo intraprese una larga virata per allinearsi con il villaggio di Mort Homme. Aveva una gran voglia di vomitare, era la prima reazione dopo il terrore e lo stress del combattimento. Inghiottì cercando di resistere ai conati, poi la nausea e il malessere gli tornarono addosso. Era come se avesse un pipistrello imprigionato nel cranio. Le ali molli e nere gli sbattevano negli occhi oscurandogli a sprazzi la vista. Strinse le pupille per combattere il buio incombente e guardò giù. Teneva ancora il pollice premuto sull'inguine, ma ugualmente non aveva mai visto tanto sangue. Aveva la mano tutta rossa fìno all'avambraccio, il giaccone imbevuto fino al gomito. Anche i pantaloni sembravano tutti infangati; ma era sangue, il suo sangue. Sul pavimento dell'aereo ce n'erano delle pozze che si andavano raggrumando come gelatina di ribes su una crostata, mentre rivoletti più recenti venivano sballottati di qua e di là dalle oscillazioni dell'apparecchio. Lasciò andare la cloche per un momento, si chinò in avanti, trattenuto dalla cintura di sicurezza, e con la mano libera si tastò la schiena alla ricerca del foro d'entrata dell'altra pallottola. Lo trovò in basso, a quattro centimetri dalla spina dorsale e tre sopra l'osso del bacino. Non c'era foro d'uscita, quindi il proiettile era ancora nel suo organismo e sicuramente aveva provocato un'emorragia interna. Si sentiva la pancia tirare, dura più che mai, man mano che il sangue gli riempiva lo stomaco. La macchina si inclinò su un'ala e Michael dovette riprendere in mano la cloche Gli occorsero parecchi secondi per quella semplice correzione d'assetto. Le dita gli prudevano, torpide, come punte da mille aghi, e aveva molto freddo. Le sue reazioni diventavano sempre più lente e ogni movimento, per quanto piccolo, gli costava un grandissimo sforzo.
Tuttavia non provava dolore, solo un intorpidimento gratuale che si diffondeva dalla ferita alla schiena alle ginocchia. Tolse il pollice dall'inguine per controllare la ferita alla coscia, e immediatamente ne sprizzò un fiotto di sangue simile a una piuma di struzzo. Subito rimise il dito sull'arteria e tornò a concentrarsi sugli strumenti di volo. Quanto ci voleva ancora per raggiungere Mort Homme? Cercò di calcolarlo, ma anche la mente era torpida. Nove minuti da Cantin, gli sembrava: ma da quanto tempo volava nelle nuvole? Non ne aveva idea. Girò il polso per poter dare un'occhiata all'orologio e si accorse che, come un bambino, doveva contare le suddivisioni del quadrante a una a una. « Non devo uscire troppo presto dal banco, saranno ad aspettarmi », pensò con fatica, mentre il quadrante dell'orologio gli si offuscava davanti al naso. « Ci vedo doppio », osservò. In fretta tirò su la testa e guardò avanti. Le nuvole d'argento gli turbinavano attorno ed ebbe la sensazione di cadere. Provò l'impulso di tirare a sé la cloche, ma il suo addestramento gli impose di controllare prima le bolle di glicerina e vide che erano tuttora allineate alle tacche. I sensi cominciavano a ingannarlo. « Gentaine », disse all'improvviso. « Che ora è? Arriverò tardi al matrimonio. » Un'ondata di panico spazzò via il torpore, e dietro gli occhi le ali della tenebra palpitarono forte. « Gliel'ho promesso, gliel'ho giurato! » Guardò l'orologio. « Le quattro e sei minuti. Impossibile! » pensò frenetico. « Questo dannato orologio non va. » Stava perdendo contatto con la realtà. L'SE5 sbucò fuori dalle nuvole perché aveva raggiunto uno spiraglio. Michael si riparò gli occhi con la mano, non era più abituato alla luce, e poi si guardò intorno. La rotta era giusta, stava volando verso l'aeroporto. Riconobbe la strada, la linea ferroviaria e il campo a forma di stella che si trovava in mezzo. « Altri sei minuti di volo », calcolò. Quell'occhiata a terra era bastata a orientarlo. Si ancorò mentalmente al terreno intravisto e scrutò in alto. Li vide volteggiare come avvoltoi sulla preda, aspettando che uscisse dalle nuvole. Anche loro l'avevano visto subito e ora viravano nella sua direzione, con le ali iridate: ma già Michael si rituffava nelle nuvole all'altro capo del varco. L'umida ovatta nebulosa tornò a ricoprirlo nascondendolo ai loro sguardi crudeli. « Devo mantenere la promessa », farfugliò. Ora che non vedeva più il suolo tornava a confondersi. Di nuovo onde di vertigine gli fecero vacillare la mente. Si abbassò pian piano con l'SE5 e. ancora una volta sbucò nel sereno. Sotto di lui si stendeva la campagna ben nota; si era lasciato da un pezzo alle spalle il fronte, le alture, le trincee: davanti a lui stava il bosco dalla forma familiare, il villaggio dominato dal campanile, una scena idilliaca e piena di pace. « Centaine, vengo a casa », pensò, e un'immensa debolezza si impadroni di lui. Un grave peso parve schiacciarlo nell'abitacolo. Alzò la testa con uno sforzo terribile e scorse il castello dal tetto rosato. Era il suo faro, lo attirava, irresistibile, e il muso dell'apparecchio puntava quasi da solo dalla sua parte. « Centaine », sussurrò. « Sto arrivando... aspettami, sto arrivando. » E la tenebra si stese su di lui, inghiottendolo in un tunnel senza fine. Nelle orecchie gli rombava un fragore come di marosi. Con le ultime energie, fissando in fondo al tunnel che si chiudeva tutt'intorno a lui, cercò il suo caro volto, e tese l'orecchio per
cogliere il suono della sua cara voce sopra il frastuono dei ca valloni. « Centaine, dove sei? Oh Dio, dove sei, amore mio? » Centaine si trovava di fronte allo specchio dalla pesante cornice intagliata e dorata, e stava guardando la propria immagine riflessa con gli occhioni spalancati e seri. « Domani sarò la signora Courteney », dichiarò solennemente, « e mai più Mademoiselle de Thiry. Non è una cosa formidabile, Anna? » Si massaggiò le tempie. « Credi che mi sentirò diversa? Certo, un avvenimento di così grande portata dovrà mutarmi in un modo o nell'altro. Non sarò più la stessa, dopo! » « Svegliati, bimba! » la redarguì Anna. « ci sono ancora un sacco di cose da fare. Non è tempo di fantasticherie. » Le infilò l'abito da sposa dal capo, poi girò dietro per allacciare i gancetti in vita. « Mi chiedo se mamma ci vede di lassù, Anna. Chissà se sa che indosso il suo abito da sposa, se è contenta per me? » Anna borbottò inginocchiandosi a controllare come le cadeva l'abito. Centaine si sistemò sui fianchi l'antico e delicato pizzo e tese l'orecchio alle risate maschili provenienti dagli ospiti in attesa da basso, nel grand salon. « Sono così contenta che il generale sia potuto venire. Non è un bell'uomo, Anna, come Michael? Quegli occhi... li hai notati? » Di nuovo Anna borbottò, ma stavolta con più enfasi, e per un attimo, mentre pensava al generale, le mani le tremarono. « Ecco un vero uomo », si era detta guardando Sean Courteney scendere dalla Rolls e salire la scalinata che portava al salone. « E grandioso, in uniforme e con le medaglie », proseguì Centaine. « Quando Michael invecchierà, gli dirò di farsi crescere una barba come quella di suo zio. Conferisce una presenza... » Da sotto venne un altro scoppio di risate. « Lui e papà han ; no simpatizzato, non credi Anna? Sentili un po'! » « Speriamo che lascino un po' di cognac per gli altri ospiti », brontolò Anna, e si rialzò in piedi, per poi fermarsi con una mano dietro la schiena a osservare l'effetto dell'abito da sposa su Centaine. « Avremmo dovuto apparecchiare la tavola col servizio azzurro di Dresda invece che col Sèvres. Si sarebbe intonato di più alle rose. » « Dovevi pensarci ieri », replicò rapida Centaine. « Non ho nessuna intenzione di ricominciare tutto da capo. » Le due donne avevano lavorato tutto il giorno precedente e quasi tutta la notte per preparare il grand salon, che era rimasto sempre chiuso da quando i servitori erano sfollati. Tende e drappeggi erano pieni di polvere, e il soffitto altissimo era tutto istoriato di ragnatele che oscuravano completamente gli affreschi mitologici. Avevano terminato le pulizie con gli occhi rossi e tra gli starnuti, poi avevano cominciato con l'argenteria. Era tutta annerita e aveva richiesto un pesante tributo d'olio di gomito. Poi si erano messe a lavare e asciugare a uno a uno i piatti rossi e oro del servizio di Sèvres. Anche il conte, benché avesse cercato di sottrarsi adducendo il suo glorioso status di veterano di Sedan e dell'esercito del Terzo Impero, era stato obbligato a collaborare. Alla fine, tutto era pronto. Il salon era tornato a sfolgorare, il parquet a disegni intricatissimi spazzato, incerato e lucidato a specchio; ninfe, fauni e dee del soffitto, spolverati dalle ragnatele, avevano ricominciato a intrecciare graziose carole e a inseguirsi ridendo, e l'illustre argenteria emanava fulgidi bagliori mentre le prime rose sbocciate nella serra di Anna splendevano
come gemme preziose alla luce dei candelabri. « Dovevamo fare più torte », disse preoccupata Anna. « Questi soldatacci mangiano come cavalli. » « Non sono soldati, bensi aviatori », la corresse Centaine, « e abbiamo abbastanza torte da nutrire non solo uno stormo ma l'intero esercito alleato. » Centaine si interruppe di colpo. « Ascolta, Anna! » Anna andò alla finestra e guardò fuori. « Sono loro! » annunciò. « Così presto! » Il camion bruno avanzava macinando la ghiaia del vialetto, con un'aria da vecchia zitella secca e nervosa sulle ruote alte e strette di gomma piena. Sul pianale, tutti gli ufficiali fuori servizio dello stormo incoraggiavano a gran voce il guidatore, che era l'aiutante con la pipa sempre in bocca, il quale non riusciva a tener dritto il volante e avanzava a zig zag con un'espressione terrorizzata sul viso. « Hai chiuso a chiave la dispensa? » domandò preoccupatissima Anna. « Se quella tribù trova la roba da mangiare prima che siamo pronte a servire in tavola... » Anna aveva messo sotto pressione le sue conoscenti e amiche rimaste iD paese, e la dispensa traboccava di manicaretti: paté, pasticci di maiale, e le meravigliose terrines locali; torte di mele e prosciutto, piedini di maiale con tartufo in agrodolce, e dozzine di altre pietanze deliziose. « Non è per mangiare che sono arrivati cosi presto », disse Centaine, avvicinandosi ad Anna alla finestra. « Papà ha le chiavi della cantina, ci penserà lui. » Suo padre era già a metà della marmorea scalinata per acco glierli. L'aiutante frenò così di colpo che due uffluall tranarono sul sedile in un inestricabile viluppo di arti. « Dico io », esclamò l'aiutante per il sollievo di vedersi di DUOvO fermo, « lei dev'essere il buon vecchio conte, non è vero? Noi siamo l'avanguardia, come si dice in francese? l'avant-garde, vero? » « Ma sicuro! » disse il conte, afferrandogli la mano. « I nostri bravi alleati! Benvenuti! Benvenuti! Posso offrirvi un bicchierino di qualcosa? » « Vedi, Anna? » disse Centaine sorridendo e voltando le spalle alla finestra. « Non c'è da preoccuparsi. Parlano la stessa lingua. Sta' tranquilla, la roba da mangiare non corre nessun pericolo, almeno Der ora. » Prese il velo d^a sposa sul letto e se lo mise in testa guardandosi allo specchio. « Dev'essere il più bel giorno della mia vita », sussurrò. « Non deve accadere nulla che possa rovinarmelo. » « E nulla accadrà, bambina mia », replicò Anna comparendole alle spalle e sistemandole il velo. « Sarai la sposa più bella che si sia mai vista. Peccato non aver potuto invitare la nobiltà... » « Basta, Anna », le disse con gentilezza Centaine. « Mente rimpianti! Tutto è perfetto. Voglio il mio matrimonio così e in nessun altro modo. » Inclinò leggermente la testa. « Anna! » La sua espressione si animò. « Che c'è? » « Ma non senti? E lui! » Scappò via dallo specchio. « t Michel! Sta venendo da me! » Corse alla finestra e, incapace di contenersi, si mise a saltare su e giù, danzando come una bambina piccola davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli. « Ascolta! Sta venendo da questa parte! » Riconosceva il rumore del motore dell'apparecchio giallo che aveva udito tante volte. « Non lo vedo », disse Anna, aguzzando lo sguardo tra le nuvole, dietro di lei. « Deve volare molto basso », continuò Centaine. « Sì! Sì!
Eccolo là, appena sopra il bosco. » « Adesso lo vedo. Sta andando ad atterrare nel frutteto? » « No, non con questo vento. Sta venendo direttamente qua. » « E lui? Sei sicura? » « Ma certo che sono sicura. Non vedi il colore? E mon petit jaane... » Anche gli altri avevano sentito l'apparecchio che si avvicinava. Si udirono voci sotto la finestra, e una dozzina di invitati si raggrupparono fuori del salone, sulla terrazza. Erano capeggiati da Sean Courteney in alta uniforme da generale britannico, accanto al conte ancor più risplendente in divisa blu e oro da colonnello di fanteria di Napoleone III. Avevano tutti il bicchiere in mano e facevano allegri commenti ad alta voce. « E proprio Michael », gridava qualcuno. « Scommetto che viene a far la barba al tetto. Vedrete! » « Fa il giro d'onore, e ha ragione, visto chi sta per impalmare! » Centaine si sorprese a ridere con loro e batté le mani, mentre l'aeroplano giallo si avvicinava. Poi si interruppe, preoccupata, a metà di un applauso. « Anna! » esclamò. « C'è qualcosa che non va! » Ormai l'aereo era abbastanza vicino per vedere come volava male. Continuava a scivolare d'ala da una parte e dall'altra, a pochi metri dalla cima degli alberi, pericolosamente. « Ma che fa? » Il tono delle voci sulla terrazza era mutato. « Perdio, è in difficoltà. Credo che... » L'SE5 cominciò una virata insensata a sinistra, mostrando la fusoliera e le ali sbrindellate. Sembrava la carcassa di un pesce mezzo divorato dagli squali. « E crivellato di colpi! » gridò un pilota. « Sì, l'hanno conciato male. » L'SE5 puntò decisamente in basso andando quasi a sbattere contro gli alberi. « Sta cercando di effettuare un atterraggio di fortuna! » Diversi piloti corsero nel prato davanti alla terrazza, facendo frenetici segnali all'apparecchio danneggiato. « Per di qua, Michael! » « Tieni su il muso, amico! » « Attento che va in stallo! Dai gas, dai gas! » Gridavano futilmente questi consigli, mentre l'aereo piombava verso il prato. « Michel! » sospirò Centaine, torcendo il pizzo dell'abito da sposa tra le dita. « Vieni da me, Michel! » C'era un'ultima fila di alberi, faggi secolari che avevano appena messo le gemme, ai confini del prato davanti al castello. L'SE5 giallo scomparve dietro i loro rami contorti, mentre il motore sputacchiava. « Tiralo su, Michael! » « Su il muso perdio! » Tutti gridavano, e Centaine aggiunse la propria voce al coro. « Per piacere, Michel, supera gli alberi. Vieni da me, tesoro mio, raggiungimi! » Il motore Viper ruggì di nuovo a pieno regime, e videro la greve macchina innalzarsi come un fagiano che s'involi. « Ce la fa. » Il naso puntava troppo in alto, se ne accorsero tutti. Pareva ritrarsi con raccapriccio dai rami nudi che volevano ghermirlo come grinfie d'un mostro. Subito dopo il muso giallo tornò ad abbassarsi. « E passato! » gridò uno dei piloti. Ma una ruota urtò contro un grosso ramo curvo e l'apparecchio subì uno scossone a mezz'aria, poi precipitò giù dal cielo.
Colpì la terra molle ai margini del prato, col muso, schiantando l'elica in mille pezzi. Si sentì benissimo il crac della struttura di legno che si rompeva. L'apparecchio crollò su se stesso, spiaccicandosi come una farfalla, con le ali gialle ripiegate sulla fusoliera disintegrata... e Centaine vide Michael. Era pieno di sangue anche in faccia, aveva la testa arrovesciata che pendeva fuori dell'abitacolo assieme al torso assicurato al sedile dalle cinture di sicurezza. Pareva un impiccato. I suoi compagni piloti stavano già correndo attraverso il prato. Centaine vide il generale gettar via il bicchiere, lanciarsi zoppicando giù dalla terrazza, e superare, nonostante il difetto fisico, i giovani nella corsa. I primi avevano quasi raggiunto l'apparecchio quando all'improvviso, come per magia, le fiamme l'avvolsero. Ilfuoco divampò verso l'alto con un rombo spaventoso, in lingue scialbe ma bordate di denso fumo nero. I soccorritori si fermarono di botto riparandosi il volto con le braccia. Sean Courteney li superò di slancio e si gettò tra le fiamme sprezzando i loro morsi roventi; ma quattro piloti gli si lanciarono addosso e lo bloccarono, tirandolo indietro. Sean si dibatteva come una belva, sicché dovettero intervenire altri tre per trattenerlo. Sean urlava, un ululato fondo, incoerente, di gola, come un bufalo maschio in trappola, cercando di raggiungere oltre le fiamme divampanti il corpo dell'uomo imprigionato nell'abitacolo dell'àpparecchio giallo. Poi, all'improvviso, il generale tacque e smise di dibattersi. Se gli altri non l'avessero sostenuto, sarebbe caduto in ginocchio. Le braccia gli cascarono inerti lungo i fianchi, mentre continuava a fissare la parete di fiamme. Anni prima, durante un viaggio in Inghilterra, Centaine era rimasta a guardare orridamente affascinata quattro bambini, i figli del gentiluomo che l'ospitava, che bruciavano l'effigie di un famoso assassino inglese di nome Guy Fawkes su una pira da loro stessi preparata in giardino. L'effigie era fatta con molta cura, e quando le fiamme l'avevano avvolta si era annerita e contorta tremando in maniera davvero impressionante Per settimane, in seguito, quella scena era tornata nei suoi incubi. E ora, mentre guardava dalla finestra al primo piano del castello, udì qualcuno urlare accanto a lei. Pensò che doveva essere Anna. Erano urla di raccapriccio, che la fecero tremare come trema una canna squassata dal vento. Il vecchio incubo tornava. Non riusciva a distogliere lo sguardo, mentre l'effigie si carbonizzava sussultando e gli arti contorti dagli spasimi si scuotevano neri e sempre più torpidi e lenti nel gran calore delle vampe di fuoco. Le urla le riempivano la testa e l'assordavano. Solo dopo un bel po' si accorse che non era Anna a urlare, ma lei stessa. Mentre quelle grida disperate le prorompevano dal petto sembravano rasparla internamente con qualche sostanza abrasiva, come schegge di vetro che le lacerassero la gola. Senti le mani forti di Anna che la sollevavano di peso e l'allontanavano dalla finestra. Lottò contro di esse con tutta la sua forza, scalciando, ma Anna era troppo vigorosa per lei. La mise sul letto e si strinse contro il vasto petto morbido il suo viso, soffocando quelle grida disperate. Quando alla fine Centaine si acquietò, prese a carezzarle i capelli cullandola fra le braccia e consolandola con dolci paroline come quando era piccolissima. Seppellirono Michael al cimitero di Mort Homme, nella tomba di famiglia dei de Thiry. Lo seppellirono quella sera stessa, alla luce delle lanterne. I suoi compagni piloti scavarono la fossa e il prete che avreS be dovuto sposarlo gli celebrò l'ufficio funebre.
« Io sono la resurrezione e la vita, disse il Signore... » Centaine era al braccio di suo padre, con il viso coperto da una veletta di pizzo nero. Anna la sorreggeva dall'altra parte. Centaine non piangeva. Dopo quelle urla, non c'erano state lacrime. Era come se la sua anima fosse stata disseccata e combusta da quelle fiamme fino a diventare di un'aridità sahariana. « Scordate i peccati e le offese della mia gioventù... » Le parole erano remote, come se giungessero dall'altra parte di un muro. « Michel non aveva peccato », si disse Centaine. « Non aveva offeso nessuno. Era giovane, questo si, molto giovane, Signore. Perché doveva morire? » Sean Courteney stava di fronte a lei, dall'altra parte della fossa scavata in fretta e furia. Un passo dietro a lui c'era Sangane, il servitore e autista zulu. Centaine non aveva mai visto prima un negro piangere. Le lacrime gli luccicavano sulla pelle vellutata come gocce di rugiada che scorressero giù per i petali di un fiore scuro. « Chi è nato da donna non ha che un breve tempo da vivere, pieno di dolori... » Centaine guardò, nella profonda fossa scavata nel fango, la cassa di legno grezzo rimediata alla meglio nell'officina dello stormo, e pensò: « Non c'è dentro Michel. Non è vero niente. Sto sognando; è un incubo. Presto mi sveglierò e Michel tornerà in volo, e io l'aspetterò sulla cima del poggetto in sella a Nuage ». Un suono rude la ridestò. Il generale aveva fatto un passo avanti e, col badile che gli aveva porto un giovane pilota, aveva gettato una palata di terra sulla cassa da morto. Zolle e sassolini rimbalzarono sul coperchio e Centaine distolse lo sguardo per non vedere. I « Tu non sei li sotto, Michel », sussurrò dietro il velo nero. « Non è il tuo posto, quello. Per me, sarai sempre una creatura celeste. Per me sarai sempre lassù nell'azzurro... » E infine: « Au revoir, Michel, arrivederci, tesoro mio. Ogni volta che guarderò il cielo penserò a te ». Centaine sedeva presso la finestra. Quando si era messa sulle spalle il velo da sposa di pizzo, Anna aveva aperto la bocca per obiettare, ma poi non le aveva detto niente Si era seduta sul letto, vicino a lei Nessuna parlava Sentivano gli uomini nel salon, da basso. Qualcuno poco prima aveva suonato al piano la marcia funebre di Chopin, e gli altri avevano cantato e battuto il tempo. Istintivamente, Centaine aveva compreso che si trattava dell'ultimo addio dello stormo a uno dei loro, ma non ne era stata affatto commossa. Più tardi aveva sentito le loro voci assumere la rudezza tipica di chi ha bevuto. Si stavano ubriacando, e lei sapeva che anche questo faceva parte del rito. Poi ci furono anche delle risate, risate di ubriachi, con un sottofondo tragico; poi altre canzoni, rauche e stonate. Tutto ciò per lei non significava proprio niente. Era rimasta seduta a ciglia asciutte presso il candelabro, guardando i lampi delle artiglierie all'orizzonte, e ascoltando i rumori della guerra. « Devi andare a dormire, bambina mia », le aveva detto a un certo punto Anna, tenera come una madre, ma Centaine aveva scosso la testa e Anna non aveva insistito. Invece, era scesa a prenderle qualcosa da mangiare, e un bicchiere di vino. Adesso queste vivande, neppure toccate, erano sul tavolino presso il gomito di Centaine. « Devi mangiare, bambina mia », le sussurrò Anna, pur controvoglia. Centaine si voltò lentamente a guardarla in faccia « No, Anna », le disse. « Non sono più una bambina. Quella parte di me è morta oggi con Michel. Non chiamarmi mai più
cosi. » « Te lo prometto. » Centaine tornò a girarsi dalla parte della finestra. L'orologio del campanile del villaggio batté le due e poco più tardi sentirono gli ufficiali dello stormo che se ne andavano. Alcuni erano così ubriachi che gli altri dovevano sorreggerli e gettarli sul camion come sacchi di granturco. Poi, scoppiettando, l'autocarro se ne andò Si senti bussare leggermente aila porta, e Anna si alzò dal letto e andò ad aprire « E sveglia? » « Si », rispose Anna in un sussurro. « Posso parlarle? » « Entri pure. » Sean Courteney entrò e si avvicinò alla sedia di Centaine. Ella sentì l'odore del whisky, ma l'uomo era saldissimo in piedi, come un masso di granito, e la sua voce era bassa e controllata. Nonostante ciò, ella avverti che tra loro c'era come un muro, che imbrigliava il suo dolore. « Devo andare ora, mia cara », disse in afrikaans, ed ella si alzò, lasciando cadere a terra la coperta che Anna le aveva messo sulle ginocchia. Col velo nuziale sulle spalle si fermò davanti a lui guardandolo negli occhi. « Lei era suo padre », gli disse, e l'autocontrollo dell'uomo vacillò. Dovette appoggiarsi con la mano al tavolino, fissandola a occhi sbarrati. « Come fa a saperlo? » le sussurrò, e ora Centaine vide il dolore che gli si stampava in faccia. Permise al proprio di fare altrettanto ed eccola scoppiare in pianto e singhiozzare som messamente, scuotendo le spalle. Il generale le apri le braccia e la strinse al petto. Nessuno di loro parlò per un pezzo, poi i singhiozzi diminuirono e alla fine cessarono del tutto. Quindi Sean disse: « Sarai sempre la moglie di Michael per me, una figlia. Se hai bisogno di me, non importa dove e quando, devi solo farmelo sapere ». Lei annui in fretta, sbattendo le ciglia, e poi si sottrasse con un passo indietro all'abbraccio del generale. « Tu sei forte e coraggiosa », le disse Sean. « Me ne sono accorto il primo momento che ti ho vista. Tu resisterai. » Si voltò e uscì zoppicando dalla camera. Poco dopo si udi il rumore della Rolls che, guidata dal grosso zulu, triturava la ghiaia del viale. All'alba Centaine era sul poggetto dietro il castello, in sella a Nuage, e quando lo stormo decollò per il pattugliamento del mattino si alzò sulle staffe e li salutò sventolando la mano. Il piccolo americano che Michael chiamava Hank volava in testa e la salutò facendo oscillare le ali. Lei sorrise e sventolò la mano, mentre lungo le guance le scendevano le lacrime che, nel vento freddo del mattino, la pungevano come ghiaccioli. Quella mattinay con Anna, chiusero di nuovo il salone, coprirono i mobili con le fodere di tela e misero via il servizio e l'argenteria. Mangiarono loro tre soli in cucina, gli avanzi tella sera prima. Benché Centaine fosse pallida e avesse gli occhi sottolineati da occhiaie fonde e blu come lividi, e benché discorresse normalmente delle cose da fare nel pomeriggio, quasi non toccò cibo. Il conte e Anna la guardavano di sottecchi, incerti sull'interpretazione da dare a quella calma innaturale. Alla fine del pasto il conte non riusci più a trattenersi. « Ti senti bene, piccola mia? » « Il generale ha detto che io resisto », rispose. « Voglio dimostrare che ha ragione. » Si alzò di tavola. « Torno ad aiutarti tra un'ora, Anna. » Prese una manciata di rose che aveva recuperato dal salon
e si recò alle scuderie. Spronò Nuage fino al termine del viale, sulla strada percorsa da colonne di soldati in marcia, curvi sotto il peso degli zaini, che le sorrisero salutandola con la mano. Restitui loro il saluto e prosegui, seguita da tutti gli sguardi. Legò Nuage al cancello del cimitero accanto alla chiesa, e con le braccia piene di fiori andò alla tomba di famiglia dei de Thiry, sovrastata dai rami di un gran tasso. La terra appena smossa sembrava un'aiuola di Anna appena zappata, ma era meno quadrata e anche meno curata. Centaine andò a prendere il badile nel ripostiglio e si mise al lavoro. Alla fine dispose le rose e fece qualche passo indietro. « Ecco fatto », disse con soddisfazione. « Cosi sta molto meglio. Appena trovo un muratore ti farò mettere una lapide Michel, ma intanto torno domani a portarti dei fiori freschi. » Quel pomeriggio lavorò con Anna, senza quasi alzare gli occhi dalle faccende né riposarsi un momento, interrompendosi poco prima del tramonto per andare a cavallo sul poggio ad accogliere gli aeroplani che rientravano da nord. Quella sera ne mancavano altri due, e il suo lutto si estese anche a quei caduti, oltre a Michael. Dopo cena andò a letto non appena ebbe finito di lavare i piatti con Anna. Sapeva di essere esausta e aveva un gran sonno: ma il dolore che per tutto il giorno aveva tenuto a bada ora l'aggredi e dovette affondare il volto nel cuscino e piangere. Tuttavia, Anna l'udi lo stesso, perché tendeva l'orecchio. Venne con la lucerna in mano, in camicia e berretto da notte. Spense la lucerna e si infilò nel letto con Centaine, la prese tra le braccia e la consolò con sussurri inarticolati da mamma, finché non si addormentò.
All'alba Centaine era di nuovo sul poggetto, e cosi passaronO giorni e settimane, sicché cominciava a sentirsi in trappola nella routine della disperazioue. C'erano solo poche variazioni in tale routine: una dozzina di nuovi SE5 in dotazione allo stormo, ancora dipinti col grigio di fabbrica e pilotati da pivelli che a ogni mossa denunciavano perfino a Centaine la loro imperizia. Il numero delle macchine dai brillanti colori che ben conosceva diminuiva a ogni rientro. Le colonne di uomini e cannoni, sulla strada principale che passava sotto il castello, si infittivano ogni giorno di più, creando un'atmosfera di tensione e di allarme che contagiò anche loro. « Adesso, ogni giorno è buono perché cominci l'attacco. Vedrete se non ho ragione », diceva sempre il conte. Infine, una mattina, il piccolo pilota americano virò dopo aver sorvolato Centaine sul poggio e tornò indietro: si sporse dall'abitacolo e lasciò cadere qualcosa. Era un pacchettino legato con un nastro brillante, che cadde oltre la cresta della collina. Centaine spronò Nuage giù per la discesa e trovò il pacchetto impigliato sulla siepe, in fondo. Lo liberò dalle spine, e, quando Hank tornò a vedere, lo alzò sopra la testa per mostrare che l'aveva trovato. Il pilota la salutò sventolando la mano e sali verso le alture. Nell'intimità della sua camera Centaine apri il pacchetto. Conteneva il distintivo dello stormo, le ali spiegate, e una medaglia in una scatola di cuoio rosso. Prese in mano il nastro di seta e alzò la croce d'argento. Dietro c'erano incisi nome e grado di Michael, e la data. Il terzo oggetto, in una busta, era una fotografia. Si vedevano sullo sfondo gli apparecchi disposti a semicerchio sul campo d'aviazione di Bertangles, e davanti,
in posa, un gruppo di piloti dello stormo. C'era Andrew, lo scozzese pazzo, vicino a Michael: gli arrivava appena alla spalla. Michael aveva il berretto all'indietro e le mani in tasca. Era cosi contento e allegro che il cuore di Centaine si strinse al punto che temette di soffocare. Mise la fotografia nella stessa cornice d'argento di quella di sua madre, e la tenne sul comodino. La medaglia e le ali finirono nello scrigno dei gioielli assieme agli altri suoi tesori. Ogni pomeriggio Centaine passava un'ora al cimitero. Sulla fossa aveva disposto dei mattoni rossi trovati nel magazzino degli attrezzi. « Solo finché non trovo un muratore, Michel », gli spiegava lavorando china. Poi raccoglieva tutti i fiori di campo che tro. vava sul prato e nel bosco, e glieli portava. Alla sera, metteva sul grammofono il disco dell'Aida e restava seduta a guardare l'atlante. Studiava un continente a forma di testa di cavallo, l'Africa, e le vaste zone colorate di rosso che costituivano l'impero britannico. Oppure leggeva a voce alta libri inglesi, Kipling, Bernard Shaw, che era andata a pescare nella vecchia biblioteca di sua madre, mentre il conte l'ascoltava attento e correggeva i suoi errori di pronuncia. Nessuno nominava mai Michael, ma tutti pensavano a lui continuamente. Sembrava far parte dell'atlante, dei libri inglesi delle note trionfali dell'Aida. Quando poi Centaine era sicura di essere proprio stanca morta, baciava suo padre e saliva in camera. Tuttavia, appena spegneva la candela il dolore l'aggrediva, dopo pochi istanti Anna entrava e la prendeva tra le braccia, e tutto ricominciava da capo. Fu il conte a spezzare il circolo vizioso. Una notte venne a bussare alla porta della camera di Centaine, svegliandole in quelle buie ore antelucane in cui l'energia delle persone è al minimo. « Che cosa c'è? » farfugliò Anna mezzo addormentata. « Venite! » gridò il conte. « Venite a vedere! » Con la vestaglia infilata in fretta e furia sopra la camicia da notte, le due donne lo seguirono da basso, in cucina, e fuori nel cortile lastricato. Qui si fermarono e si misero a guardare il cielo a oriente, pieni di stupore. Non c'era luna, e brillava di un colore arancio acceso, come se da qualche parte oltre l'orizzonte Vulcano avesse aperto la porta della fornace degli dèi. « Sentite! » ordinò il conte. Tesero l'orecchio al sussurro della brezza notturna, e parve loro che la terra sotto i piedi tremasse per la potenza di quella lontana conflagrazione. « E cominciato », disse il conte, e solo allora compresero che si trattava del bombardamento d'artiglieria che apriva la grande offensiva alleata di primavera sul Fronte Occidentale. Passarono alzati il resto della notte, in cucina, a bere tazze di caffè nero e ogni poco alzandosi a vedere il cielo infiammato d'arancione come se si trattasse di un raro fenomeno atmosferico naturale. Il conte descriveva esultante quanto stava accadendo in quel momento nelle trincee nemiche. « E un bombardamento a tappeto, distruggerà le trincee e raderà al suolo i cavalli di frisia. Il crucco sarà annichilito. Nessuno al mondo può resistere a un bombardamento simile. » Migliaia e migliaia di batterie facevano fuoco ognuna su un fazzoletto di terra di trenta metri quadri, e per sette giorni e sette notti non smisero mai. Il diluvio di ferro e fuoco che scagliarono sulle linee tedesche, cancellò trincee, camminamenti e ripari, e arò e tornò ad arare più volte la terra. Il conte era tutto infiammato di ardore patriottico e guer-
resco. « State vivendo nel cuore della Storia. State assistendo Ea una delle grandi battaglie del millennio... » Ma, per Anna e Centaine, sette giorni e sette notti era un po' troppo. Dopo il primo momento di sbalordimento, ricaddero nell'apatia e nel disinteresse. Continuarono la solita vita al castello, senza più badare al bombardamento lontano, e la notte riuscivano a dormire nonostante lo spettacolo pirotecnico e i reiterati richiami del conte: « Venite a vedere! » Finché l'ottava mattina, mentre facevano colazione, anche loro si accorsero del mutamento di intensità dei cannoni. Il conte saltò su e corse in cortile, con la bocca ancora piena di pane e formaggio e la tazza di caffè in mano. « Ascoltate! Non sentite? E cominciato il fuoco di sbarramento! » Le batterie alleate allungavano il tiro, « eando una barriera mobile di esplosivo ad alto potenziale che nessun essere vivente era in grado di superare, né per avanzare né per ritirarsi. « I bravi alleati saranno pronti per l'assalto finale, adesso... » Nelle trincee avanzate britanniche i soldati aspettavano al riparo. Tutti erano in tenuta da combattimento: tra zaino, fucile, bombe e maschera antigas ognuno aveva addosso una trentina di chili. Il tuono delle esplosioni delle granate d'artiglieria si allontanava da loro, lasciandoli intontiti e con le orecchie che fischiavano. Per la trincea risuonavano i fischietti dei capisquadra: allora i soldati si affollavano alle scalette per uscire all'assalto. Poi, come un'armata in uniforme kaki di quei topi suicidi detti lemmings, si rovesciavano fuori delle trincee, in campo aperto, guardandosi attorno sbigottiti. Si trovavano infatti in mezzo a un paesaggio lunare. La terra era così sconvolta dalle bombe che non restavano un albero, un cespuglio, un filo d'erba. Soltanto i ceppi smozzicati degli alberi spuntavano dal fango giallognolo. Su questa terra da incubo aleggiava la nebbiolina gialla della cordite. « All'assalto! » Il grido correva per tutta la linea del fronte. Di nuovo risuonavano i fischietti e il gregge dei morituri veniva spinto ancora avanti. Coi lunghi fucili Lee-Enfield spianati e la baionetta irmestata, affondando fino al ginocchio nel fango molle, inciampando e cadendo nei crateri delle granate e tirandosene fuori a stento, con la visuale limitata a una decina di metri dai fumi corrosivi delle bombe, avanzavano arrancando i soldati delle prime file, curvi e ondeggianti. Delle trincee nemiche, non vedevano segno alcuno. I parapetti erano spianati e cancellati. Sopra la testa continuavano a fischiare i proiettili del bombardamento d'artiglieria che proseguiva: ogni tanto qualcuno di essi cadeva anche fra loro facendo qualche vittima. « Serrate al centro! » si sentiva allora gridare qualche ufficiale. Amorfe figure in uniforme kaki riempivano i vuoti creati dalle granate amiche nelle folte file dei fanti. « Allineati e coperti! Allineati e coperti! » Gli ordini erano soffocati, quasi, dal rumore degli scoppi. Poi, nella desolazione antistante, tra gli acri fumi della cordite, scorsero un bagliore metallico. Era un basso sbarramento di filo spinato teso tra spezzoni d'acciaio a forma di « X ». I mitraglieri tedeschi li aspettavano da sette giorni e sette notti. Mentre il fuoco di sbarramento britannico avanzava a battere la seconda linea, loro tornavano a far capolino dalle viscere della terra piazzando l'arma sul ciglio fangoso della trincea mezo crollata. Le mitragliatrici Maxim erano munite di una corazza d'acciaio che riparava i serventi dal fuoco di fucileria dei fanti. I treppiedi delle mitragliatrici erano così
vicini lungo la linea della trincea tedesca che i margini della corazza d'acciaio dell'una quasi si sovrapponevano all'altra. La fanteria britannica avanzava dunque allo scoperto verso un muro di mitragliatrici. I soldati in prima fila, alla vista delle-mitragliatrici spianate, si misero a correre urlando per conquistarle alla baionetta. Ma si impigliarono nel filo spinato. Avevano detto loro che i cavalli di frisia sarebbero stati fatti a pezzi dal bombardamento d'artiglieria. Non era vero. L'esplosivo ad alto potenziale nulla poteva contro il filo spinato, che riusciva solo a contorcere e aggrovigliare in un viluppo ancora più insuperabile. E mentre la prima ondata di attaccanti si dibatteva in quella pania, le mitragliatrici tedesche Maxim aprirono il fuoco su di loro. La mitragliatrice Maxim sviluppa un volume di fuoco di cinquecento colpi al minuto. Ha fama di essere la mitragliatrice più resistente e affidabile mai costruita, e quel giorno aggiunse a tale reputazione quella di poter diventare il più letale strumento di morte mai escogitato dall'uomo. I fanti britannici, che a ondate successive si affacciavano dall'acre nebbia delle granate, ancora tentando di mantenere i ranghi serrati e la formazione compatta in fila per quattro, erano il miglior bersaglio possibile per le Maxim. Vere e proprie lame di fuoco falciavano i fanti avanti e indietro, e la carneficina sorpassò qualunque macello fosse riuscito in precedenza sui campi di battaglia della storia. Le perdite sarebbero state anche superiori se i fanti, falcidiati spietatamente dalle mitragliatrici, non avessero rotto le file usando il proprio buonsenso. Invece di quella cieca e balorda avanzata in massa, cercarono di sgattaiolare avanti a gruppetti o a uno a uno, strisciando nel fango, ma anche questa tattica finì per infrangersi contro il muro compatto delle mitragliatrici. Rintuzzata sul nascere, con gravi perdite, l'ennesima grande offensiva alleata sul Fronte Occidentale, le forze tedesche che tenevano le alture di fronte a Mort Homme passarono esultanti al contrattacco. Centaine si rese conto a poco a poco del cessare di quel lontano olocausto, e della strana quiete che seguì. « Cos'è successo, papà? » « Le truppe britanniche hanno conquistato le batterie tedesche », le spiegò tutto eccitato il conte. « Ho una meza idea di prendere il cavallo e andare a dare un'occhiata al campo di battaglia. Voglio essere testimone di questa svolta storica... » « Non farai una simile idiozia », disse rudemente Anna. « Tu non capisci, donna: mentre noi ce ne stiamo qui a aarlare, gli alleati dilagano nelle retrovie nemiche... » « Capisco solo che bisogna dare il fieno alla vacca e pulire la stalla. » « Sì, mentre la Storia ci scavalca ignari », disse il conte, scendendo in cantina a governare le bestie. Poi si sentirono di nuovo i cannoni, molto più vicini, e i vetri delle finestre tremarono. Il conte schizzò di sopra e andò in cortile. « Cosa succede adesso, papà? » « I sussulti d'agonia dell'esercito germanico », le spiegò il conte, « gli ultimi spasmi di un gigante che muore. Ma non ti preoccupare, piccina mia, ben presto gli inglesi conquisteranno tutte le batterie dei crucchi. Non c'è nulla da temere. » Il tuono dei cannoni aumentò in crescendo, accompagnato dal controsbarramento britannico che mirava a devastare le trincee avanzate dove si stavano concentrando le truppe tedesche destinate alla controffensiva. « Dal rumore, mi sembra come l'estate scorsa », disse Cen-
taine, guardando le alture dalla finestra, in preda a cattivi presentimenti. Le colline di gesso fumavano per le granate. « Dobbiamo fare tutto quello che possiamo per loro », disse Centaine ad Anna. « No, dobbiamo pensare a noi », protestò Anna. « Bisogna pur campare, e non possiamo... » « Presto, Anna, stiamo solo perdendo tempo. » Per l'insistenza di Centaine approntarono quattro pentoloni di minestra di rape, patate e piselli, insaporita da ossi di prosautto. Intaccarono gravemente la riserva di farina per preparare filoni di pane, un'infornata dopo l'altra, che poi caricavano sulla carriola e portavano ai soldati in rotta che sfilavano sullo stradone. Centaine ricordava benissimo i combattimenti dell'estate precedente, ma ciò che vedeva ora superava ogni immaginazione. Lo stradone era ingorgato, la marea della guerra lo invadeva da un capo all'altro scorrendo in entrambe le direzioni, arrestandosi, vorticando, e ricominciando a fluire. Dalle alture scendevano i detriti umani della battaglia, i feriti laceri e sanguinanti, mutilati e contusi, accatastati sulle ambulanze che avanzavano a passo d'uomo, o su carrette, o zoppicando con stampelle di fortuna, o in spalla ai compagni più forti, o aggrappati ai camion arrancanti nella strada fan gosa. Nella direzione opposta marciavano le riserve e i rinforzi che andavano a difendere le posizioni attaccate dai tedeschi sulle alture. Erano lunghissime file di soldati già stanchi sotto il peso degli zaini, che non avevano nemmeno il coraggio di guardare il fiume scorrente in direzione opposta, di cui forse tra poco avrebbero fatto parte. Si trascinavano avanti guardandosi gli scarponi, fermandosi se la strada era bloccata, aspettando con pazienza bovina e ripartendo quando si metteva in moto chi li precedeva. Dopo lo shock iniziale, Centaine aiutò Anna a spingere la carriola sul ciglio dello stradone. Poi, mentre Anna riempiva di minestra densa le gamelle, lei le porgeva, assieme a una fettina di pane fresco, ai soldati feriti ed esausti che scendevano barcollando lungo la strada. Ciò che avevano preparato bastava a stento a rifocillare un uomo su cento. Quelli che Centaine sceglieva come più bisognosi d'aiuto tracannavano la zuppa e inghiottivano il pane in un solo boccone. « Grazie, benedetta », farfugliavano prima di riprendere, vacillando, la marcia. « Guardali negli occhi, Anna », le sussurrava Centaine. « Hanno già visto l'oltretomba. » « Basta con queste sciocchezze o ti verranno ancora gli incubi », la sgridava Anna. « Non esistono incubi peggiori di questo », replicava Centaine. « Guarda quello là! » Le schegge di una granata gli avevano cavato gli occhi e ora le orbite vuote erano coperte di stracci insanguinati. Seguiva un altro soldato che aveva entrambe le braccia maciullate. Il cieco gli si attaccava alla cintura e quasi lo faceva cadere quando scivolava sul fango della strada. Centaine li guidò fuori della corrente e portò la gamella alla bocca del soldato senza braccia. « Sei una brava ragazza », le sussurrò. « Hai una sigaretta? » « Mi dispiace... » Scosse la testa e si mise a sistemare le bende al cieco che seguiva. Le cadde l'occhio su quanto c'era dietro e quasi svenne per l'orrore. « Hai la voce da ragazza giovane e carina .. » Il cieco aveva
circa la stessa età di Michael, ed era bruno e capelluto come lui, ma tutto pieno di grumi di sangue secco. « Sì, Fred, è una bella ragazza. » Il compagno l'aiutò a rialzarsi. « Meglio che ora ci rimettiamo in marcia, signorina. » « Che sta succedendo lassù? » « L'inferno in terra, sta succedendo. » « Il fronte terrà? » « Questo non lo sa nessuno, signorina », e i due ripartirono trascinati dalla corrente di quel miserabile fiume. Minestra e pane finirono ben presto e le due donne riportarono la carriola al castello per prepararne ancora. Ricordando la richiesta del soldato ferito, Centaine fece razzia del tabacco di suo padre nella stanza dove teneva i fucili, e poté così offrire anche questo piccolo conforto a chi lo chiedeva, almeno per un po'. « Possiamo fare così poco », lamentò. « Ma è tutto quello che possiamo fare », chiari Anna. « Non ha senso tormentarsi per cose impossibili. » Si prodigarono fino a buio, e oltre, alla fioca luce della lanterna, mentre il fiume dei feriti non si seccava mai, anzi sembrava ingrossare sempre più. I loro visi pallidi e insanguinati danzavano davanti agli occhi esausti di Centaine alla luce della lanterna, diventando indistinguibili l'uno dall'altro, e le poche parole di incoraggiamento che la ragazza mormorava a tutti cominciarono a suonare stereotipate e false alle sue stesse orecchie. Alla fine, ben dopo mezzanotte, Anna riuscì a ricondurla al castello, e dormirono abbracciate indossando ancora i vestiti infangati e insanguinati. All'alba si alzarono a preparare dell'altra minestra e cuocere altro pane. In piedi davanti alla stufa, Centaine alzò la testa dal pentolone, quando sentì il rombo lontano dei motori. « Gli aeroplani! » gridò. « Me li ero dimenticati! Dovranno partire senza di me oggi! Porta disgrazia! » « Oggi tocca a tanta di quella gente, la disgrazia... » borbottò Anna, avvolgendo una coperta intorno alla marmitta per evitare che la minestra si raffreddasse troppo in fretta. Poi la portò fuori della cucina. A metà del viale, Centaine si fermò, lasciando andare la carriola. « Guarda là, Anna! » I campi brulicavano di uomini. Avevano gettato i pesanti zaini, i fucili, gli elmetti e lavoravano in camicia o addirittura a torso nudo nel sole della prima estate. « Che cosa fanno, Anna? » Erano migliaia e migliaia di fanti, che faticavano agli ordini degli ufficiali. Armati di pale appuntite scavavano la terra gialla e l'ammucchiavano in lunga fila, così in fretta che, mentre le donne guardavano, alcuni erano già nella buca fino al ginocchio, e poi fino alla vita, dietro il parapetto di terra che s'innalzava sempre più. « Trincee. » Centaine aveva trovato da sola la risposta alla sua domanda. « Trincee, Anna, stanno scavando nuove trincee. » « Ma perché lo fanno? » « Perché... » Centaine esitò. Non aveva voglia di dirlo forte. « Perché non riusciranno a tenere le alture. » Entrambe guardarono le colline che fumavano di sulfurea nebbia gialla. Quando giunsero in fondo al viale, videro che sullo stradone non si circolava più. Si era creato un gigantesco ingorgo. Veicoli e uomini che andavano in direzioni opposte erano bloccati senza speranza, nonostante gli sforzi della polizia militare di sciogliere il garbuglio e ripristinare la circolazione. Una delle ambulanze era finita nel fosso, aumentando la confusione,
e ora il dottore e l'autista cercavano di slegare le barelle dal pianale e tirarle fuori dal veicolo rovesciato sul fianco. « Anna, dobbiamo dare una mano. » Anna era forte come un uomo, e Centaine altrettanto risoluta. Afferrarono una barella e insieme la tirarono fuori dal retro dell'automezzo. Il dottore uscì dal fango del fosso. « Complimenti », ansimò. Era a testa scoperta, ma sul pa strano aveva le mostrine con la verga e la biscia d'Esculapio che distinguono la Sanità, e, ancor più evidenti, se non fos sero stati coperti di fango, i bracciali con la croce rossa. « Ma lei è Mademoiselle de Thiry! » Aveva riconosciuto Centaine china sul ferito in barella. « Dovevo immaginarlo che era lei! » « E lei naturalmente è il dottore. » Era quello che aveva portato in moto Andrew il giorno in cui Michael era precipitato nel parco, e che aveva aiutato suo padre e gli altri a scolare il cognac Napoléon. Appoggiarono la barella sul ciglio della strada e il dottore si inginocchiò accanto alla figura immobile sotto la coperta rigida. « Potrebbe anche farcela », disse saltando in piedi, « se troviamo un po' d'aiuto in fretta. Ma là sotto ce ne sono degli altri. Dobbiamo tirarli fuori. » Insieme scaricarono tutte le barelle dall'autoambulanza finita nel fosso e le disposero in fila sul ciglio dello stradone. « Questo qua è bell'e andato. » Con pollice e indice il dottore gli chiuse gli occhi sbarrati, poi copri la faccia del morto con un lembo della coperta grigia. « La strada è bloccata, non c'è speranza di passare, e creperanno anche gli altri », aggiunse, indicando la fila di barelle, « se non troviamo un tetto dove curarli. » Guardava negli occhi Centaine, che sulle prime non capi. « A Mort Homme non c'è più posto e la strada è bloccata », ripeté il dottore. « Ma certo », disse in fretta Centaine. « Li portiamo al castello. » Il conte andò loro incontro sulla scalinata marmorea, e quando Centaine gli spiegò le necessità del dottore acconsenti con entusiasmo a trasformare il grand salon in una corsia d'ospedale. Spinsero i mobili contro le pareti per liberare il centro del salone e lo cosparsero di materassi presi dalle camere vuote ai piani superiori. Con l'aiuto del dottore e dell'autista, ci sistemarono i primi feriti. Intanto sullo stradone, avvertita dal dottore, la polizia militare deviava le ambulanze che venivano dal fronte sul viale d'accesso al castello. Con la prima tornò il dottore, a cavalcioni del cofano. Urlando e agitando le braccia attirò l'attenzione di Centaine. « Mademoiselle! Non c'è qualche altro modo di raggiungere l'ospedale militare di Mort Homme? Ho bisogno di materiale... cloroformio, bende, disinfettante... e di un altro medico che venga ad aiutarmi! » Il suo francese era passabile, ma Centaine gli rispose in inglese. « Posso andarci io per i campi, a cavallo. » « Lei è fenomenale. Le do subito la lista di quello che mi serve. » Tirò fuori un quadernetto e vergò un breve messaggio. « Chieda del maggiore Sinclair », disse, strappando e porgendole il foglio. « L'ospedale è disseminato tra le prime case del paese. » « Si, lo so. Ma come si chiama lei? Chi devo dire che mi ., manda, insomma? » Con la pratica che aveva fatto negli ultimi ri tempi, le parole venivano spontaneamente alle labbra di Cen-
taine anche in inglese. « Mi perdoni, Mademoiselle, non ho ancora avuto tempo di presentarmi. Sono Robert Clarke, capitano medico Clarke, ma mi chiamano Bobby. » Nuage sembrò intuire l'importanza della missione e galoppò Lquasi volando sul terreno pesante lungo le vigne. Le vie del S;paese erano piene di soldati e veicoli, e l'ospedale, sistemato nei primi cottages del villaggio, era affollatissimo di feriti e din preda al caos. L'ufficiale a cui Centaine era stata indirizzata era un uomo grosso, con braccia da orso e ricci grigi e folti che gli ricadevano sulla fronte mentre si chinava a operare il ferito di turno. « Dove diavolo è Bobby? » le chiese senza nemmeno guardarla, continuando a concentrarsi sui grossi punti che stava dando allo squarcio che il soldato aveva riportato sulla schiena. Centaine glielo disse in fretta. « Bene, dica a Bobby che gli manderò tutto quello che posdso, ma anche noi stiamo ormai esaurendo il materiale. » Il ferito ricucito fu portato via e al suo posto sul tavolo opeMtorio misero un ragazzo con le viscere che fuoriuscivano in un ammasso disordinato. « E non posso nemmeno mandargli un dottore. Fili via e glielo dica. » Il giovane soldato prese a contorcersi e a gemere, mentre il dottore gli rimetteva le budella nella pancia. « Se mi dà il materiale glielo porto io. » Centaine non se ne andava, e il dottore le dedicò uno sguardo e un amaro sorriso. « Ha un bel coraggio », borbottò. « Va bene, parli con quello là », disse, indicando con il bisturi che aveva in mano un tipo dall'altra parte dello stanzone affollato. « Gli dica che la mando io e buona fortuna, signorina bella. » « Anche a lei dottore. » « Sa Dio che servirebbe a tutti », replicò il medico, tornando a chinarsi sul proprio lavoro. Centaine spronò Nuage come all'andata e lo lasciò in stalla. Vide che in cortile c'erano altre tre ambulanze parcheggiate da cui gli autisti stavano scaricando il fardello di feriti e moribondi. Con la grossa e pesante borsa in spalla li superò, fermandosi sbalordita sulla soglia del salon. Tutti i materassi erano già occupati e altri feriti erano sdraiati sul pavimento o appoggiati ai muri. Bobby Clarke aveva acceso tutti i moccoli del grande candelabro e ora operava a lume di candela sulla tavola del salone. Alzò gli occhi e vide Centaine. « Hai portato il cloroformio? » le chiese, urlando dall'altro capo della sala. Per un attimo non riuscì a rispondergli ed esitò a varcare la soglia, perché il salone già puzzava. L'odore nauseabondo del sangue mischiato agli eWluvi dei corpi e delle uniformi dei soldati da mesi in trincea, nel fango dove si erano putrefatti migliaia di cadaveri... il terribile odore del sudore acre della paura e del dolore... « L'hai portato, sì o no? » ripeté impaziente il dottore, e Centaine si costrinse a varcare la soglia. « Non hanno potuto mandare nessuno ad aiutarti. » « Dovrai aiutarmi tu, allora. Qua, mettiti da questa parte », le ordinò. « Prendi in mano questo. » Centaine entrò così in una nebbia di orrori, sangue e fatica che l'esaurì sia fisicamente sia moralmente. Non c'era tempo per riposare, e pochi minuti per trangugiare il cibo che Anna le preparava in cucina. Appena si convinceva di aver visto e sperimentato il massimo dell'orrore, le capitava una prova ancor più difficile.
Restò accanto a Bobby Clarke che tagliava i muscoli di una gamba all'altezza della coscia, legando i vasi sanguigni e le arterie che incontrava. Quando arrivò al bianco del femore e prese il seghetto d'argento, Centaine credette di svenire per il rumore che faceva: sembrava un falegname che tagliasse un'asse di legno duro. « Portala via! » le aveva ordinato subito dopo Bobby, e lei aveva dovuto costringersi a toccare l'arto tagliato. Subito si era contratto e Centaine aveva fatto un gran balzo indietro. « Non perder tempo », aveva berciato Bobby. Così lei l'aveva afferrata di nuovo. Era ancora calda, e sorprendentemente pesante. « Adesso non c'è più niente che avrei paura di fare », comprese, portando via la gamba. Era andata avanti fino all'esaurimento più completo, anche quando Bobby si era accorto che ormai non stava più in piedi. « Va' a buttarti da qualche parte », le ordinò, invece lei era andata a sedersi accanto a un giovanissimo soldato gravemente ferito. Gli prese la mano, ed egli nel delirio si mise a chhiamarla mamma. Parlava di una villeggiatura al mare di parecchio tempo prima. Poi il ritmo del suo respiro cambiò e prese a serrarle forte la mano, sentendo avvicinarsi il buio. La mano gli diventò viscida di sudore, sbarrò gli occhi e gridò: « Oh, mamma mia, salvami! » e poi di colpo si rilassò. Centaine aveva voglia di piangere, ma in lei non c'erano più lacrime. Così, chiuse quegli occhi sbarrati come aveva visto fare al dottore e andò a sedersi accanto al vicino. Era costui un sergente, un omaccione dell'età di suo padre, con una gran faccia simpatica coperta di una dura peluria grigia, e con un buco nel torace da cui a ogni respiro spuntavano bollicine rosa. Per sentire la sua richiesta Centaine dovette avvicinargli l'orecchio alle labbra. Poi si guardò rapidamente attorno e vide la zuppiera d'argento Luigi XV sul canterano. Andò a prenderla, gliela mise sotto e gli sbottonò i pantaloni, mentre egli continuava a sussurrare: « Mi spiace... per favore mi perdoni, una ragazza giovane come lei... non sta bene... » Così continuarono a lavorare per tutta la notte, e quando Centaine andò a cercare altre candele per sostituire quelle consumate sul tavolo operatorio, era appena arrivata alla cucina che fu colta da una nausea improvvisa, e dovette correre a vomitare nel gabinetto della servitù. Poi, pallida e tremante, si lavò la faccia al lavandino. Anna la stava aspettando. « Non puoi continuare così », la sgridò. « Ma guardati! Ti stai ammazzando di fatica. » Stava per aggiungere: « bambina mia », ma si trattenne in tempo. « Devi riposare un po'. Mangia una scodella di minestra e sta' un momento qui seduta con me. » « Non finisce mai, Anna. Ne arrivano sempre di più. » Ormai i feriti erano debordati dal salone nei sottoscala e nei corridoi del castello, sicché gli infermieri che ne portavano degli altri dovevano scavalcarli con le barelle. Stendevano i morti fuori, presso le scuderie, avvolti ognuno in una coperta grigiastra dell'esercito: la fila si allungava sempre più. « Centaine! » gridò Bobby Clarke dalla cima delle scale. « Si prende troppa confidenza, dovrebbe chiamarti Mademoiselle », sbuffò indignata Anna, ma Centaine saltò in piedi e corse su per le scale, saltando i feriti. « Puoi fare un'altra corsa in paese? Mi servono del cloro formio e della tintura di iodio. » Bobby era esausto, aveva gli occhi iniettati di sangue e la barba lunga, e le braccia nude tutte macchiate di sangue rap preso. « Sì, fuori sta già albeggiando », annuì Centaine.
« Va' a vedere all'incrocio se la strada ,si sta liberando Dobbiamo cominciare a mandar via un po' di questi qua. » Centaine dovette trattenere due volte Nuage sul ciglio del lo stradone ancora strapieno e prendere la scorciatoia per i campi. Quando arrivò all'ospedale di Mort Homme, era giorno fatto. Vide subito che stavano evacuando l'ospedale. Materiale sa nitario e pazienti venivano caricati su un convoglio misto di ambulanze e carri trainati da cavalli, mentre i feriti in grado di camminare si raccoglievano in gruppi e imboccavano lo stra done iniziando la lunga marcia vcrso sud. Il maggiore Sinclair stava urlando ordini ai guidatori delle ambulanze. « Perdio, sta' attento, quest'uomo ha una pallot tola nel polmone... » Poi alzò gli occhi e vide Centaine in sella al grande stallone. « Ancora lei! Maledizione, mi ero dimenticato di voialtri. Dov'è Bobby Clarke? » « E ancora al castello. Mi ha mandato a chiederle... » « Quanti feriti avete là? » « Non lo so. » « Forza, piccola, sono cinquanta, cento o di più? » « Forse cinquanta o poco più. » « Bisogna evacuarli. I tedeschi hanno sfondato a Haut Pommier. » Fece una pausa e la guardò con occhio critico, notando le occhiaie e il colore quasi traslucido della carnagione. « E al lumicino », concluse, poi si accorse che teneva ancora la testa alta e aveva gli occhi che emanavano energia. Cambiò idea. « E di buona stoffa », si disse. « Può resistere ancora. » « Quando arriveranno qui i tedeschi? » gli chiese Centaine. Scosse la testà: « Non lo so, credo presto. Stiamo scavando una nuova linea di trincee appena fuori del villaggio, ma chissà se saremo in grado di tenerla. Dobbiamo tagliare la corda, e anche lei, signorina. Dica a Bobby Clarke che gli manderò tutte le ambulanze che posso. Deve ripiegare fino ad Arras. Lei può .venire via con le ambulanze ». « Bene. » Fece girare Nuage. « Le aspetterò all'incrocio e le guiderò al castello. » « Brava, ragazza », le gridò dietro il vecchio dottore mentre lei spronava lo stallone nei vigneti dalla parte orientale del paese. Oltre questi, imboccò il sentiero che portava in vetta alla collina dove cavalcava tutte le mattine. Quando sbucò sulla cresta, il punto panoramico che preferiva, diede una bella occhiata a nord, verso le alture, e a campi e boschetti che circondavano il villaggio. Il sole del mattino splendeva e l'aria era limpida e serena. Istintivamente, per prima cosa guardò il frutteto alla base del boschetto a forma di a T » dove si distingueva la pista in ;;terra battuta da cui si alzavano gli apparecchi dello stormo di Michael. Le tende non c'erano più e il limitare del frutteto, dove di solito si vedeva la fila degli SE5 pronti a decollare, adesso era deserto. Non c'era più alcun segno di vita, lo stormo se n'era andato durante la notte come un accampamento di zingari, e il morale di Centaine precipitò. Finché erano rimasti lì, era come se qualcosa di Michael vivesse ancora. Ma ora se n'erano andati lasciando un gran vuoto nella sua vita. Si voltò dall'altra parte e osservò le alture. « Al primo sguardo la campagna sembrava assolutamente tranquilla e pacifica. Era l'inizio dell'estate e al mattino presto il mondo era di un bel verde tenero; vicino, cantava perfino un'allodola. Tuttavia, guardando meglio, cominciò a distinguere in lontananza tanti piccoli puntini che scendevano dalle alture come
sciami di insetti. Erano così distanti e insignificanti che era facilissimo non vederli nemmeno, ma adesso che li aveva scorti si fece anche un'idea di quanti erano, e cercò di capire cosa stessero facendo. All'improvviso, in mezzo a un gruppetto di omini fiorì uno , sbuffo giallastro. Quando il fumo si diradò, diversi di quei soldatini proseguirono, ma quattro o cinque rimasero a terra come formicuzze schiacciate. Ecco altri sbuffi di fumo fiorire qua e là sul tappeto verde dei campi; ecco il vento portare fino a lei il rumore degli scoppi. « Granate! » si disse, comprendendo che cosa accadeva laggiù. Erano le truppe che l'attacco tedesco aveva scacciato dalle trincee e che ora scappavano in campo aperto, martellate dall'artiglieria nemica le cui batterie dovevano essere avanzate di parecchio al seguito della fanteria vittoriosa. Adesso, guardando giù alla base del poggetto, ebbe una visione d'insieme della nuova linea di trincee che aveva visto costruire con Anna la mattina del giorno prima. Correvano come una biscia bruna lungo il limitare del bosco di querce, e poi piegavano a sinistra seguendo la riva del ruscello per perdersi infine tra i vigneti che appartenevano alla famiglia Concourt. Vide gli elmetti dei soldati in attesa nella trincea, e le canne delle mitragliatrici sporgenti dai ripari di sacchetti di sabbia. Alcuni soldati in fu-ga raggiunsero la nuova fila di difesa e saltarono dentro la trincea. Centaine sussultò a uno scoppio molto vicino e alla base del colle scorse una batteria britannica. Dalla bocca di un cannone si levava un pennacchio di fumo grigio. I cannoni erano così ben mimetizzati che finché non avevano sparato non li aveva visti. Poi ne scorse degli altri, nascosti nel bosco e nel frutteto, che cominciarono a sparare contro il nemico invisibile; le salve di risposta dell'artiglieria tedesca cominciarono a piovere qua e là lungo la linea delle trincee appena scavate. Da questo spettacolo ipnotico la destò un urlo alle sue spalle. Si voltò e vide un plotone di fanti scollinare sul sentiero della cresta. Erano guidati da un sottufficiale che si sbracciava come un matto verso di lei. « Via di qua, pezzo di cretina! Non vedi che sei in mezzo a una battaglia? » Centaine fece voltare Nuage e a spron battuto prese la discesa. Sfrecciò lungo la fila di fanti e, quando si voltò indietro, stavano già scavando come matti nel terreno sassoso della cresta. Raggiungendo il bivio del viale d'accesso al castello, Centaine diede un'occhiata allo stradone. Gli automezzi erano passati tutti, a parte quelli finiti fuori strada e abbandonati. Tut tavia la strada era ancora piena di fanti in ritirata, curvi sotto il peso degli zaini, delle mitragliatrici smontate e delle cassette di munizioni che erano riusciti a salvare. Alcuni ufficiali li aspettavano al bivio dove, fra ordini urlati e trilli di fischietti, li raggruppavano e li spedivano a presidiare la nuova trincea. All'improvviso sopra la testa le passò un frastuono sibilante come un uragano, e Centaine si chinò atterrita sul cavallo. A un centinaio di passi da lei-cadde una granata e lo scoppio fece impennare Nuage. Riuscì a tenersi in equilibrio e a calmare lo stallone con qualche parola e qualche carezza. Poi vide un camion avvicinarsi al bivio dal villaggio. A un certo momento distinse sul fianco la croce rossa e spronò Nuage per andargli incontro. Nello stesso momento dietro il camion spuntarono dalla curva altre sette ambulanze. Raggiunse il primo camion e si fermò di fianco alla cabina di guida.
« Vi hanno mandati al castello? » « Come dici, bellezza? » L'autista non capiva l'inglese di Centaine, che si contorse irritata sulla sella. « Cercate il capitano Clarke? » ci riprovò, e l'autista capì. « Sicuro! Il capitano Clarke. Dove diavolo è? » « Vienimi dietro! » disse Centaine ad altissima voce, perché un'altra granata era scoppiata al di là del muro del parco e l'atmosfera era percorsa dai fremiti elettrici delle schegge di shrapnel che passavano alte sulle loro teste. « Vieni! » Lo chiamò con un gesto e spronò Nuage per il viale. Seguita dalla fila di ambulanze, galoppò per il viale d'accesso al castello, e vide un cratere di shrapnel vicino alla scuderia e un altro dove era stata la serra, in fondo all'orto. I pezzi di vetro luccicavano al sole dappertutto. « Il castello è un bersaglio naturale », ragionò, e al galoppo irruppe nel cortile. Stavano già portando fuori i feriti e, appena arrivarono le ambulanze, cominciarono a caricarceli. Centaine fece girare Nuage sul lastricato e filò verso la porta della cucina. Dietro di lei una granata colpì il lungo edificio delle stalle, facendo un gran buco nel muro. Per fortuna le stalle erano vuote. Centaine saltò giù dal cavallo ed entrò in cucina. « Dove sei stata? Ero preoccupata... » cominciò Anna. [Centaine la scostò bruscamente con una sPinta e corse in camera sua. Dalla cima dell'armadio tirò giù la borsa a sacco e cominciò a riempirla di vestiti. Da qualche parte al piano di sopra si sentì un crollo assordante. Le caddero in testa dei calcinacci. Centaine gettò nella borsa il portafotografie d'argento, lo scrigno dei gioielli e il nécessaire da viaggio. L'aria era piena di polvere d'intonaco. Un'altra granata scoppiò sulla terrazza, fuori della sua camera, e la finestra davanti al letto esplose. Schegge di vetro volarono contro i muri e una le fece un lungo taglio sull'avambraccio, per fortuna superficiale. Leccò via il sangue, si inginocchiò e fNgò sotto il letto. La borsa di cuoio dei soldi era nell'angolino. La soppesò un attimo in mano, quasi duecento franchi in luigi d'oro, e la mise dentro la borsa. Chiudendola, corse giù per le scale e poi in cucina. « Dov'è papà? » gridò ad Anna. « E salito di sopra. » Anna stava ficcando sfilze di cipolle, prosciutti e filoni di pane in un sacco di juta. Accennò col mento ai ganci-del muro. « Si è portato il fucile e un sacco di bottiglie di cognac. » « Vado a prenderlo », ansimò Centaine. « Tienimi la borsa. » Si sollevò la gonna e corse su per le scale. I piani superiori del castello erano sottosopra. Gli infermieri cercavano di sgombrare il salon e le scale principali. « Centaine! » Bobby Clarke la chiamò dal salone. « Sei pronta a venir via? » Stava reggendo l'estremità di una barella, e doveva urlare per sovrastare gli ordini degli infermieri e le grida dei feriti. Centaine si fece strada a gomitate contro il flusso di persone che scendevano la scala, ma Bobby la prese per la manica. « Ma dove vai? Dobbiamo scappare! » « C'è mio padre, devo trovare mio padre. » Si liberò e continuò a salire. L'ultimo piano era deserto e Centaine l'attraversò di corsa strillando: « Papà! Papà! Dove sei? » Corse per il lungo corridoio. Dalle pareti i ritratti dei suoi antenati la guardavano altezzosamente. « Al termine del corridoio si scagliò contro la doppia porta che conduceva in quello
che era stato l'appartamento di sua madre, che per tutti quegli anni il conte aveva lasciato immutato. Era nell'anticamera, affondato nella poltrona imbottita davanti al ritratto della madre di Centaine. Quando irruppe la ragazza, alzò la testa. « Papà, dobbiamo andarcene immediatamente. » Non parve nemmeno riconoscerla. A terra, accanto ai suoi piedi, c'erano tre bottiglie di cognac ancora chiuse. Un'altra, aperta, ce l'aveva in mano. Era quasi finita e, sempre guardando il ritratto, ne tracannò un lungo sorso. « Per piacere, papà, dobbiamo andarcene! » Il suo unico occhio non batté ciglio, quando un'altra granata si abbatté sul castello, da qualche parte nell'ala orientale. Centaine lo prese per un braccio e cercò di tirarlo in piedi, ma era un uomo grosso e pesante. Un po' di brandy gli si rovesciò sul petto della camicia. « I tedeschi hanno sfondato, papà! Ti prego, vieni con me! » « I tedeschi! » tuonò all'improvviso il conte, spingendola via. « Li combatterò ancora. » Prese il lungo fucile chassepot che aveva in grembo e sparò nel soffitto affrescato. Polvere d'intonaco gli piovve in testa e sui baffi, invecchiandolo di colpo teatralmente. « Lascia che vengano! » tuonava. « Che vengano! Io, Louis de Thiry, sono pronto ad accoglierli come meritano! » Era folle di ubriachezza e disperazione, ma Centaine cercò ancora di farlo alzare in piedi. « Dobbiamo scappare. » « Giammai! » ruggì il conte, e la spinse via più violentemente di prima. « Non me ne andrò. Questa è la mia terra, la mia casa, la casa della mia cara moglie.. » l'occhio gli scintillò follemente « ... la mia cara moglie... » Fece un passo verso il ritratto. « Starò qui con lei. Li combatterò qui sul mio terreno. » Centaine l'afferrò ancora una volta per il polso, ma ancora una volta egli la respinse. Poi si mise a ricaricare il vecchio fucile. Centaine sussurrò fra sé: « Bisogna che chiami Anna per farmi aiutare ». Corse alla porta, mentre un'altra cannonata colpiva il lato nord del castello. Il crollo dei mattoni e degli infissi fu immediatamente seguito dallo spostamento d'aria, che la buttò in ginocchio sul pavimento. Diversi ritratti del corridoio, benché pesantemente incorniciati, furono strappati dalla parete. Centaine si rialzò e si mise a correre per il corridoio. La puzza acre dell'esplosivo si mischiava all'odore pungente del fumo di ciò che bruciava. La scala era quasi deserta. Gli ultimissimi malati stavano evacuando in quel momento. Mentre Centaine balzava in cortile, due ambulanze cariche partirono imboccando il viale. « Anna! » urlò Centaine. Stava legando la borsa e il sacco di juta al tetto di un'ambulanza, ma saltò giù e corse incontro alla ragazza. « Vieni ad aiutarmi », ansimò Centaine. « Si tratta di papà. » Tre granate colpirono in rapida successione il castello, mentre altre piovevano sulle scuderie e nell'orto. Gli osservatori tedeschi dovevano aver notato l'attività nemica intorno all'edificio. Le loro batterie stavano aggiustando il tiro. « Dov'è? » Anna ignorò le cannonate. « Di sopra, nell'anticamera di mamma. E fuori di sé, ubriaco fradicio. Da sola non riesco a smuoverlo. » Appena rientrarono in casa, sentirono l'odore del fumo. Salendo le scale, poi, divenne sempre più forte, e lo videro anche
turbinare intorno a loro in densi mulinelli. « Al secondo piano entrambe tossivano e respiravano a gran fatica. Il corridoio era pieno di fumo, sicché non si vedeva a più di dieci passi. Attraverso il fumo brillava qualcosa di aranciato... guizzava... stava andando a fuoco la serie di stanze che davano sulla facciata, e l'incendio aveva ormai attaccato le porte che si aprivano sul corridoio. « Torna indietro », le disse Anna. « Lo troverò io. » Centaine scosse la testa, ostinatamente, e si avviò per il corridoio. Un'altra salva di mortai si abbatté sul castello, e una parte del muro del corridoio crollò, bloccandolo quasi. La polvere di mattone turbinava assieme al fumo denso, accecandole, sicché dovettero accucciarsi allo sbocco dello scalone. Quando l'aria si liberò leggermente, ripresero ad avanzare, ma l'apertura che si era creata nel muro costituiva un mantice che alimentava l'incendio. Le fiamme divamparono ruggendo e il calore le investì come una parete solida, sbarrando loro la strada. « Papà! » urlò Centaine, mentre cercavano di ripararsi dal fuoco. « Papà! Dove sei? » Il pavimento tremò sotto i loro piedi. Altre granate stavano abbattendosi sull'antico edificio, in cui cominciavano a prodursi crolli assordanti di muri e soffitti, nel divampare sempre più fragoroso dell'incendio. « Papà! » La voce di Centaine era quasi soffocata dal fracasso, ma sopra di lei ruggì Anna. « Louis, viens, cheri... vieni da me, tesoro... » Benché sconvolta, Centaine si rese conto che non aveva mai sentito Anna usare termini del genere con suo padre. Sembrò che ne fosse evocato. Attraverso il fumo e le fiamme apparve il conte, come un fantasma. Lingue di fuoco crepitavano guizzando tutt'intorno a lui, alzandosi da sotto i suoi piedi mentre il pavimento bruciava. Dalle pareti rivestite di legno dardeggiavano fiammate a lambirlo, mentre il fumo lo copriva d'un manto nero, conferendogli l'aspetto di una creatura infernalé. Aveva la bocca aperta ed emetteva versi selvaggi e inarticolati. « Sta cantando », sussurrò Anna. « E la Marsigliese. » « Alle armi cittadini! Costituiamo lo Stato! » Solo adesso Centaine riconobbe il canto di suo padre. « Che scorra il sangue impuro... » Le parole divennero indistinte e la voce del conte si affievoll, mentre il calore l'avvolgeva. Il fucile gli sfuggì di mano e cadde per terra. Anche il conte cadde e prese a trascinarsi verso di loro. Centaine cercò di correre a salvarlo, ma il gran calore la bloccò e Anna la tirò indietro. Macchie marrone scuro cominciarono ad apparire sulla camicia del conte, ma nonostante le bruciacchiature egli continuò a emettere quei terribili suoni, sempre strisciando sul parquet incendiato del corridoio. All'improvviso i suoi capelli neri e folti divamparono: parve allora che indossasse una corona d'oro. Centaine non riusciva a distogliere lo sguardo, non riusciva più a parlare, ma si aggrappava impotente ad Anna sentendola scossa dai singhiozzi. Il braccio della donna anziana si stringeva fortissimo attorno a lei, facendole male. Poi il pavimento del corridoio cedette sotto il peso di suo padre. L'assito si aprì sotto di lui come una bocca munita di zanne di fuoco e lo inghiottì. « No! » esclamò Centaine, mentre Anna la sollevava di peso e la portava di corsa fino alle scale di marmo. Anna stava ancora singhiozzando e lungo le guance carnose e rosse scorre-
vano irrefrenabili le lacrime, ma la sua forza non era affatto scemata. Dietro di loro una parte del soffitto incendiato crollò, tirandosi dietro il resto del pavimento del corridoio, mentre Anna spingeva Centaine giù per le scale. Man mano che scendevano, il fumo diminuiva, e quando alfine sbucarono in cortile l'aria fresca le rianimò. Il castello era in fiamme da un'estremità all'altra. Continuavano a piovergli addosso granate, che scavavano crateri innalzando colonne di fumo, sparando schegge tutt'attorno, anche nei prati e nei campi circostanti. Bobby Clarke stava dirigendo le operazioni di carico dei feriti sulle ultime ambulanze, e il volto gli si accese di sollievo quando vide Centaine. Le corse incontro. Le fiamme le avevano bruciato le punte dei capelli e le ciglia, e aveva le guance nere di fumo. « Dobbiamo andar via di qui. Dov'è tuo padre? » Bobby la prese per il braccio. Centaine non riuscì a rispondergli. Stava tremando; il fumo le aveva bruciato la gola, e gli occhi erano rossi e versavano lacrime a fiurni. « Non viene? » Lei scosse la testa e vide la compassione dipingersi sul viso del medico. Guardò in su verso il castello che bruciava. Poi Bobby la prese per il braccio e la condusse verso la più vicina ambulanza. « Nuage », singhiozzò Centaine, con voce rotta dal fumo e dallo shock, « il mio cavallo. » « No », disse seccamente Bobby Clarke, e cercò di trattenerla, ma già lei si sottraeva alla stretta e correva alla stalla. « Nuage! » Cercò di fischiare come faceva sempre per chiamarlo, ma dalle labbra screpolate stavolta non le uscì alcun suono. Bobby Clarke la raggiunse sulla porta della scuderia. « Non entrare! » le disse con la disperazione nella voce, cercando di trattenerla. Confusa, stravolta, la ragazza cercò di dare un'occhiata all interno. « No, Centaine! » La tirò indietro, ma era riuscita a scorgere il cavallo e proruppe in un grido. « Nuage! » Un'altra cannonata deflagrò, coprendo l'urlo di Centaine che lottava per divincolarsi dalla stretta del capitano medico. « Nuage! » gridò ancora, e lo stallone alzò la testa. Giaceva sul fianco. Una granata gli aveva portato via entrambe le zampe posteriori e l'aveva sventrato. a Nuage! » L'animale aveva udito la voce della padroncina e cercava di rizzarsi sulle zampe anteriori, ma lo sforzo era eccessivo e si accasciò di nuovo. La testa sbatté per terra e dalle nari usci un flebile nitrito. Anna corse ad aiutare Bobby e insieme riuscirono a trascinare Centaine all'ambulanza in attesa. « Non possiamo lasciarlo lì così! » implorava, cercando di resister loro con tutta la forza. « Per piacere, per piacere, non fatelo più soffrire! » Un'altra bordata di colpi piovve sul cortile rimbombando loro nelle orecchie e riempiendo l'aria dei sibili delle schegge. « Non c'è tempo », disse Bobby, « dobbiamo andare via. » Cacciarono Centaine sul veicolo, tra le barelle, e salirono subito anche loro. Immediatamente l'autista ingranò la prima e partì. L'ambulanza descrisse una curva strettissima sobbalzando sul lastrico, poi accelerò sul viale di ghiaia. Centaine si affacciò al finestrino posteriore del veicolo lanciato e guardò il castello. Le fiamme uscivano dai buchi delle
cannonate nel tetto di tegole rosa, e sopra aleggiava un fumo nero che si perdeva in alto nel cielo sereno. « Tutto », sussurrò Centaine. « Mi hai preso tutto ciò che amavo. Perché? Oh, Signore, perché mi hai fatto questo? » Davanti a loro, le altre ambulanze avevano abbandonato il viale e si erano fermate tra gli alberi del parco per evitare le cannonate. Bobby Clarke corse dall'una all'altra a dare ordini, poi rimontò sulla propria, andò in testa al convoglio e lo guidò sullo stradone. Di nuovo le cannonate piovvero intorno a loro, perché gli artiglieri tedeschi battevano l'incrocio. Il convoglio avanzava sinuoso come ùn serpente per evitare i crateri delle granate da una parte e dall'altra della strada, i rottami di veicoli abbandonati, gli animali morti. Dopo la curva, al riparo della collina, serrarono e accelerarono verso il paese. Passando davanti al cimitero accanto alla chiesa, videro che il recinto di ferro battuto era stato divelto, in un punto, da una cannonata. Centaine aguzzò gli occhi, ma non riuscì a vedere la tomba di famiglia dove era stato sepolto Michael. « Torneremo mai, Anna? » le mormorò Centaine. « Ho promesso a Michel che... » La voce le mancò. « Ma certo che ritorneremo. Dove mai potremmo andare se no? » La voce di Anna era rotta per il dolore del suo lutto e i sobbalzi dell'autoambulanza. Entrambe guardarono in direzione del castello. Non si vedeva, da lì, ma sopra il bosco si levava una nera colonna di fumo che indicava la pira funebre della loro casa. Il convoglio di ambulanze raggiunse la retroguardia delle forze britanniche che si ritiravano alla periferia del villaggio. Qui la polizia militare aveva posto un provvisorio blocco stradale, per inviare tutti i soldati abili a presidiare la seconda linea di difesa. In tutti i veicoli cercavano disertori. « Terrà, la nuova linea di difesa, sergente? » chiese Bobby Clarke al poliziotto che stava controllando i suoi documenti. « Possiamo fermarci in paese? Ci sono dei feriti che... » Fu interrotto da una granata che scoppiò su una casa del villaggio. Erano ancora a portata di tiro dell'artiglieria tedesca, seppure al limite. « Non si può ancora sapere, signore », rispose il sergente restituendo i documenti a Bobby. « Ma se fossi in lei, cercherei di arrivare fino ad Arras. Da queste parti presto farà molto caldo. » Cosi cominciò la lunga e lenta ritirata. Erano parte di un fiume solido di traffico che ricopriva la strada fin dove riuscivano a vedere, e procedeva a passo d'uomo. Le ambulanze partivano sobbalzando, facevano pochi metri ed erano nuovamente costrette a fermarsi per un'altra attesa interminabile. Mentre il giorno avanzava, faceva sempre più caldo, e le strade cosi di recente coperte di fango invernale si trasformavano in piste polverose. Dai campi circostanti le mosche accorrevano a banchettare sulle bende insanguinate e sui volti dei feriti distesi sulle barelle, che gemevano continuamente e imploravano acqua da bere. Anna e Centaine andarono a chiederne in una fattoria lungo lo stradone, e la trovarono già abbandonata. Presero i secchi da latte e li riempirono alla pompa. Poi percorsero tutto il convoglio distribuendo ciotole d'acqua ai feriti, detergendo i visi di coloro che avevano la febbre per le piaghe infette, e aiutando gli infermieri a pulire quelli che non erano riusciti a trattenere i bisogni corporali, sempre cercando di trasmettere fiducia e allegria, dando tutto il conforto che potevano nonostante i loro stessi lutti e dolori. A sera il convoglio aveva percorso solo una decina di chilo-
metri. Si sentiva ancora il fragore della battaglia che infuriava alle loro spalle. Ancora una volta le ambulanze si fermarono, bloccate chissà fino a quando. « Sembra che siamo riusciti a fermarli a Mort Homme », disse Bobby Clarke, arrestandosi accanto a Centaine. « Non dovrebbe esserci pericolo a passare qui la notte. » Guardò più da vicino il volto del soldato che Centaine stava dissetando. « Sa Dio che questi poveretti non ne possono più. Hanno bisogno di cibo e di riposo. Dietro la prossima curva c'è una fattoria con un grande granaio. Non è ancora stata occupata da nessuno, ci fermeremo lì. » Anna tirò fuori dal sacco un po' di cipolle e le usò per insaporire la carne in scatola dell'esercito britannico. Servirono lo strano stufato con contorno di gallette e tè nero, il tutto elemosinato presso un camion della Sussistenza bloccato nel traffico poco avanti. Centaine imboccò i feriti che non erano in grado di mangiare da soli, poi aiutò gli infermieri a medicarli. Il caldo e la polvere avevano fatto del loro peggio e molte ferite si erano infettate, erano gonfie, rosse e cominuavano a spurgare pus. Dopo mezzanotte Centaine scivolò fuori del granaio e andò alla pompa dell'acqua nella corte. Si sentiva tutta sudata e sporca, sognava solo di poter fare un bel bagno e poi infilarsi della biancheria lavata e stirata di fresco. Ma non c'era intimità per lavarsi e sapeva che era meglio tenere puliti il più possibile i vestiti di ricambio. Si sfilò la biancheria sotto la gonna e la lavò alla pompa, poi la strizzò, l'appese al cancello e tornò alla pompa a lavarsi viso e braccia con l'acqua fredda. Si lasciò asciugare dalla brezza notturna e si rimise i mutandoni ancora bagnati. Poi si pettinò i capelli e cominciò a sentirsi meglio, benché avesse ancora gli occhi gonfi per il sonno arretrato e il fumo, e nonostante il dolore dei suoi lutti recenti le pesasse sul cuore come una pietra. La spossatezza fisica la schiacciava. Aveva sempre davanti agli occhi l'immagine di suo padre che sprofondava tra le fiamme e quella dello stallone bianco steso a terra. Cercò di scacciarle dalla mente. « Basta! » disse ad alta voce, appoggiandosi al cancello del cortile. « Basta per oggi, piangerò ancora domani. » « Domani non arriva mai », le rispose una voce in cattivo francese, dal buio. Sussultò. « Bobby? » Vide allora la brace della sua sigaretta. Usà dal buio e si appoggiò al cancello accanto a lei. « Sei una ragazza sorprendente », proseguì in inglese. « Ho sei sorelle, ma non ho mai conosciuto una ragazza come te. E, a dire il vero, pochi ragazzi saprebbero starti alla pari. » Lei restò in silenzio, ma, quando il dottore aspirò il fumo della sigaretta, studiò il suo viso alla luce della brace. Aveva circa la stessa età di Michael ed era piuttosto bello. Aveva labbra piene e sensibili, e in lui c'era una gentilezza che prima non aveva notato. « Dico... » All'improvviso il silenzio di lei l'imbarazzava. « Non è che ti do fastidio, se ti parlo, eh? Se no, dimmelo che ti lascio tranquilla. » Centaine scosse il capo. « Non mi dai fastidio. » Per un po' stettero zitti. Bobby fumava, ed entrambi ascoltavano i lontani rumori della battaglia e gli sporadici gemiti dei feriti nel granaio. Poi Centaine si riscosse e gli domandò: « Ti ricordi il giovane pilota, il primo giorno che sei stato al castello? » « Si, quello col braccio ustionato. Come si chiamava, Andrew? » « No, quello era il suo amico. »
« Lo scozzese pazzo. Già, certo. » « Lui si chiamava Michel. » « Sì, adesso me li ricordo. Che ne è di loro? » « Michel e io dovevamo sposarci, ma è morto... » Le emozioni trattenute fino a quel momento ruppero gli argini e la ragazza diede loro libero sfogo. Lui era un estraneo, una persona gentile, e Centaine trovò facile, al buio, parlargli di tutto quello che le pesava sul cuore. Nel suo inglese approssimativo gli parlò di Michael, e del loro progetto di vivere in Africa. Poi gli raccontò di suo padre e di com'era cambiato dopo la morte di sua madre; quanto aveva cercato di consolarlo e di impedirgli di abbandonarsi al bere: quindi gli descrisse quanto era successo quella mattina nel castello incendiato. « Credo che fosse ciò che voleva. A modo suo era stanco di vivere. Credo che volesse morire, tornare dalla mamma. Adesso non ci sono più, né lui né Michel. Non ho più niente. » Alla fine si sentì stanca e svuotata, ma anche tranquilla e rassegnata. « Quante disgrazie ti son capitate », la compad Bobby. Le strinse il braccio. « Vorrei tanto poterti aiutare. » « Mi hai già aiutata. Grazie. » « Posso darti qualcosa per dormire. Un po' di laudano, magari. » Centaine provò un impulso quasi irresistibile di accettare l'oblio che le offriva. Era cosi forte la brama del suo sangue che se ne atterri. « No! » rifiutò con enfasi eccessiva. « Starò subito meglio. » Rabbrividi. « H.o freddo, adesso, ed è tardi. Grazie ancora per avermi ascoltata. » In un angolo del granaio Anna aveva appeso una coperta e dietro aveva sparso un po' di paglia per far loro da giaciglio Centaine cadde immediatamente in un sonno di piombo e Si svegliò all'alba in un bagno di sudore, e di nuovo con la nausea. Ancora mezzo addormentata, si alzò e riusci a vomitare un po' di bile gialla dietro il granaio. Quando si alzò e, appoggiandosi al muro, si puli la bocca, vide al suo fianco Bobby Clarke, con l'espressione preoccupata. Le prese il polso per controllare le pulsazioni. « Sarà meglio che ti dia un'occhiata », le disse. « No. » Si sentiva vulnerabile. Quel nuovo malessere la preoccupava perché aveva sempre avuto una salute di ferro. Temeva che le trovasse qualche terribile malattia. « Sto benissimo, davvero. » Ma lui la condusse ostinato all'ambulanza parcheggiata li vicino, tirò il tendone per creare un minimo di privacy e le disse di stendersi. Ignorò le sue proteste e le slacciò la camicetta per auscultarle il torace. I suoi modi erano cosi clinici e professionali che Centaine smise di discutere e si sottomise docilmente alla visita, rizzandosi a sedere, respirando e tossendo secondo le sue istruzioni. « Ora ti visiterò a fondo » le disse. « Vuoi andare a chiamare la cameriera perché ti assista? » Centaine scosse la testa senza parlare ed egli le disse « Per piacere, togliti gonna e sottoveste ». « Al termine della visita, mentre Centaine si rivestiva, il dottore rimise teatralmente a posto tutti gli strumenti che aveva adoperato e chiuse con cura la propria borsa. Poi Si mise a guardarla con una espressione così strana che lei si spaventò. « E qualcosa di grave? » Scosse la testa. « Centaine, il tuo fidanzato è morto. Me l'hai detto stanotte. » Lei annuì. « E ancora troppo presto per esserne ben certi... ma credo
che ti servirà un padre per la creatura che porti in grembo. » Le mani della ragazza corsero istintivamente al ventre, in un gesto di protezione. « Ti conosco da pochissimo tempo, è vero, ma è stato abbastanza per innamorarmi di te. Sarei onorato di... » Si interruppe, perché era chiaro che lei non l'ascoltava. « Michel », sussurrava. « Il bambino di Michel. Non ho perso tutto. Mi è rimasto un po' di lui. » Centaine mangiò il sandwich di prosciutto e formaggio, preparatole da Anna, con tanta gioia che la donna la scrutò con sospetto. « Mi sento molto meglio, adesso », le disse la ragazza, prevenendo le sue inquisizioni. Aiutarono a nutrire i feriti e a prepararli per il viaggio della giornata. Due dei più gravi erano morti durante la notte e gli infermieri li seppellirono in fretta al margine del campo. Poi le ambulanze si avviarono infilandosi nel traffico dello stradone, che nel frattempo era diventato meno caotico. L'esercito, riorganizzandosi, era riuscito a darsi una parvenza di ordine. Lo scorrimento era ancora lento, ma non vi erano più ingorghi e fermate frequenti. Ai margini dello stradone erano già stati istituiti magazzini provvisori per i rifornimenti e comandi di retrovia. Durante una fermata alla periferia di un piccolo paese seminascosto tra alberi e vigne, Centaine distinse le sagome degli aeroplani dietro un vigneto. Si sporse dall'autoambulanza per vedere meglio e proprio in quella un apparecchio decollò sorvolando la strada a bassissi;ma quota. Il suo disappunto fu grave quando si rese conto che si trattava degli sgraziati ricognitori biposto De Havilland, e non dei filanti SE5 dello stormo di Michel. Li salutò comunque svento -lando il braccio, e uno dei piloti guardò giù e le restituì il fsaluto. Questo in qualche modo la rallegrò, e tornò più contenta ai doveri che si era autoimposta. Scherzò coi feriti nel suo ingle se dal forte accento, ed essi ne furono felici. Uno di loro la chiamò « Raggio di Sole » e il soprannome rimbalzò immedia tamente di bocca in bocca da un'ambulanza all'altra. Bobby Clarke la fermò mentre gli passava accanto. « Fanta stico, ma ricordati di non esagerare. Stai lavorando troppo. » « Va tutto benissimo, non preoccuparti. » « Non ci riesco. » Abbassò la voce. « Hai pensato alla mia proposta? Quando mi risponderai? » « Non adesso, Bobby. » Lo chiamava Bobby, ma ogni volta a lui mancava il fiato per l'emozione. « Ne parleremo dopo ma sei molto gentil. » Adesso lo stradone era di nuovo ingombro perché vi si am massavano le truppe di riserva che andavano a rinforzare la nuova linea del fronte a Mort Homme. Colonne infinite di fanti in marcia le incrociavano, intervallate da camion di mu nizioni, cannoni e rifornimenti. La loro avanzata divenne più lenta e a un certo punto la po lizia militare segnalò alle ambulanze di fermarsi in una strada laterale finché non fosse passata la colonna dei rinforzi. « Dovrò presto mandare indietro le ambulanze, », disse Bobby a Centaine, durante una di quelle soste. « Laggiù al fronte ne avranno bisogno. Appena incontriamo un ospedale da cam po, scarico i feriti e torno là. » Centaine annuì e accennò ad andare all'ambulanza successi va, dove un ferito la chiamava debolmente: « Vieni qui, Rag gio di Sole, vieni a darmi una mano ». Bobby la prese per il polso. « Centaine, quando arriviamo
all'ospedale, ci sarà un cappellano. Basterebbero pochi mi nuti... » La ragazza gli rivolse il suo ritrovato sorriso, e una carezza leggera sul volto ispido. « Sei un brav'uomo, Bobby... ma il padre di mio figlio è Michel. Ci ho pensato, e non ho bisogno di un altro padre. » « Centaine, tu non capisci! Cosa penserà la gente? Un bambino senza padre, una giovane mamma senza marito... Che diranno? » « Finché avrò il mio bambino, Bobby, non me ne importerà... com'è che si dice?... un fico secco! Dicano quello che vogliono: sono la vedova di Michel Courteney. » Nel tardo pomeriggio trovarono l'ospedale da campo che cercavano. Si trattava di due tendoni in un prato fuori Arras, che sarebbero parsi da circo se non fosse stato per le grandi croci rosse. Attorno erano state costruite in fretta e furia baracche di legno e lamiera per aumentare la capienza del complesso. Anna e Centaine aiutarono a scaricare i feriti del convoglio e poi presero i loro bagagli sul tetto dell'ambulanza di testa. Uno dei feriti notò i preparativi di partenza. « Non te ne andrai mica, Raggio di Sole? » chiese a Centaine. Anche gli altri si voltarono a protestare. « Cosa faremo senza di te, bellezza? » Passò tra loro per l'ultima volta, dedicando a ognuno una battuta e un sorriso, chinandosi a baciare i loro visi sporchi e provati dal dolore; infine, incapace di resistere oltre, corse via verso Anna che l'aspettava. Presero il sacco e la borsa e si avviarono verso il convoglio di autoambulanze che stavano facendo il pieno di benzina prima di ripartire verso il campo di battaglia. Bobby Clarke le aspettava. Corse dietro a Centaine. « Torniamo a Mort Homme, ordine del maggiore Sindair. » « Au revoir, Bobby. » « Ti ricorderò sempre, Centaine. » In punta di piedi la ragazza gli diede un bacio sulla guancia. « Spero sia un maschio », le disse all'orecchio. « Sarà maschio », gli confermò lei, seria. « Ne sono sicurissima. » Il convoglio di autoambulanze partì nuovamente verso settentrione. Bobby Clarke si affacciò a sventolare la mano gridandole qualcosa che lei non comprese. Poi le due donne furono inghiottite di nuovo dal fiume di soldati in marcia. « Cosa facciamo, adesso? » chiese Anna. « Andiamo avanti », rispose Centaine. In qualche modo sottile aveva preso il comando, e Anna, sempre più indecisa man mano che si allontanavano da Mort Homme, si affidava a lei. Lasciarono l'affollatissima zona dell'ospedale e, sempre seguendo lo stradone, proseguirono verso sud. In fondo, oltre gli alberi, si profilavano i tetti di Arras contro il cielo crepuscolare. « Guarda, Anna! » le indicò. « C'è Venere... possiamo esprimere un desiderio, si realizzerà. Qual è il tuo? » Anna la guardò perplessa. Che le era capitato? La barnbina aveva appena visto il suo fidanzato e suo padre bruciare vivi, il suo amato destriero sbudellato da una granata... come faceva a essere così ferocemente allegra? Non era mica naturale. « Un bagno e un pasto caldo. » « Oh, Anna, tu chiedi sempre l'impossibile », rise Centaine. Poi cambiò mano alla borsa. « E allora prova un po' a dirmi il tuo! » la sfidò Anna. « Che quella stella ci conduca dal generale, come la cometa i tre Re Magi... »
« Non bestemmiare! » la redarguì Anna. Ma era troppo stanca e dubbiosa per farlo con vera convinzione. Centaine conosceva bene la città, perché vi si trovava il convento in cui aveva studiato da bambina. Era buio quando giunsero in centro. I primi anni di guerra avevano prodotto terribili guasti alla graziosa architettura fiamminga del diciassettesimo secolo. Il pittoresco municipio era sfregiato dalle cannonate e aveva diversi buchi nel tetto. Scoperchiate anche le antiche case di mattoni intorno alla Grande Place, e abbandonate dagli abitanti, mentre in altre, dietro le finestre, si scorgeva luce di candele. La parte più ostinata della popolazione aveva fatto ritorno immediatamente dopo che la marea della guerra si era allontanata. Centaine non aveva badato alla strada che avevano fatto in Rolls il giorno in cui erano andati a trovare il generale Courteney, quindi adesso, col buio, non poteva sperare di ritrovare l'antico monastero. Lei e Anna si sistemarono in una casa abbandonata, mangiando gli ultimi pezzi di pane raffermo e formaggio secco che conteneva il sacco. Poi si sdraiarono sul nudo pavimento appoggiando la testa sulla borsa floscia. La mattina dopo, Centaine temette che il monastero fosse stato abbandonato quando ritrovò la strada che vi conduceva. Ma al cancello principale c'era ancora la sentinella. « Spiacente, signorina. Proprietà dell'esercito, non si passa. » Stava ancora scongiurandolo di farla entrare, quando arrivò la Rolls nera dal viale e si fermò con una frenata davanti al cancello. Era coperta di polvere e fango, e c'era uno sfregio sulla portiera. La guardia riconobbe il gagliardetto e fece segno all'autista zulu di passare, ma Centaine corse avanti e gridò disperata mente verso l'auto. Sul sedile posteriore c'era il giovane uffi ciale che aveva conosciuto con Michael. « Tenente Pearce! » Ricordava anche il nome. Lui si guardò indietro e, riconoscendola a stento, sobbalzò. Subito si chinò a dire qualcosa all'orecchio dell'autista: la Rolls fece manovra e tornò indietro. « Mademoiselle de Thiry! » John Pearce saltò giù dall'auto e corse da lei. « L'ultima persona che mi aspettavo di vedere! Che diamine fa qui? » « Devo vedere lo zio di Michael, il generale Courteney. E molto importante. » « Adesso non c'è », le disse il giovane ufficiale, « ma entri pure con me. Dovrebbe tornare presto, e nel frattempo le tro verò un buco per riposare e mangiare qualcosa. Ho idea che ne abbia bisogno. » Prese la borsa di mano a Centaine. « Venga. Questa donna è con lei? » « Anna, la mia cameriera. » « Può sedere davanti con Sangane. » Fece salire Centaine sulla Rolls. « I tedeschi ci hanno fatto alquanto disperare, in questi giorni », disse, sedendo accanto a lei sul cuoio morbido, « e si direbbe che lei ne sappia qualcosa. » Centaine si guardò gli abiti. Erano stazzonati e polverosi, aveva le mani sporche e le unghie nere. Poteva immaginare in che stato fossero i capelli. « Sono appena tornato dal fronte. Il generale Courteney è andato a dare un'occhiata per conto suo. » John Pearce distol se educatamente lo sguardo, mentre lei cercava di sistemarsi i capelli in qualche modo. « Gli piace andare sempre sul po sto... crede ancora di combattere contro i boeri, il vecchio demonio. Siamo arrivati fino a Mort Homme... » « E il mio paese. » « Non più », le disse tristelnente. « Ora è in mano tedesca, o
quasi. La nuova linea del fronte passa subito a nord del paese, che è tempestato dall'artiglieria nemica. Ormai è quasi tutto raso al suòlo. Sono sicuro che non lo riconoscerebbe neanche. » Centaine annui. « Anche casa mia è stata bombardata e bmciata. » « Mi spiace. » John Pearce s'affrettò a proseguire: « Comunque, pare che siamo riusciti a fermarli. Il generale Courteney è sicuro che la linea di Mort Homme terrà ». « Dov'è lui? » « A un vertice al quartier generale di divisione. Ma ha detto che torna prima di sera. Ah, ci siamo. » John Pearce trovò loro una celletta da monaco e un attendente portò un pasto freddo e due secchi d'acqua calda. Dopo mangiato, Anna tolse gli abiti a Centaine e la lavò tutta sopra uno dei secchi. « Ah, che meraviglia! » « Una volta tanto non protesti », brontolò Anna. Usò la propria sottoveste per asciugarla, poi prese una spazola dalla borsa e si mise a districarle i capelli pieni di nodi. « Oh là, Anna, mi fai male! » « Figuriamoci », sospirò Anna. Alla fine insisté perché la ragazza si sdraiasse a riposare sul lettino, mentre lei si lavava e poi cercava di fare un bucato di fortuna. Ma Centaine non riuscì a sdraiarsi e rimase seduta sul lettino abbracciandosi le ginocchia. « Oh, cara Anna, ho una magnifica sorpresa per te... » Anna si strizzò la treccia grigia guardandola perplessa. « Cara Anna, hai detto? Allora dev'essere proprio una gran bella notizia. » « E lo è, lo è! Aspetto un figlio di Michel. » Anna restò di sasso. Impallidì, divenne addirittura tutta grigia per lo shock, e fissò Centaine senza parole. « Sarà un maschio, lo sento, ne sono sicura. Sarà identico a Michel. » « Come fai a saperlo? » sbottò Anna. « Be', lo so. » Si sollevò la camicia sul ventre. « Guarda che pancia. Come fai a non vedere. Anna? » Ma la sua pancia lattea era piatta come sempre, interrotta solo dall'ombelico. Centaine si sforzava strenuamente di spingerla in fuori. « Ma non hai gli occhi, dunque, Anna? Potrebbero anche essere due gemelli. Il padre di Michel e il generale sono gemelli. E una prerogativa di famiglia. Pensa, Anna, due come Michel! » « No », scosse la testa Anna, attonita. « Questa è una delle tue solite frottole. Non crederò mai che tu e quel soldato... » « Michel non era un soldato ma... » cominciò Centaine, ma Anna proseguì: « Non crederò mai che una fanciulla della casa de Thiry abbia permesso a un qualunque soldato di usarla come una sguattera di cucina .. » « Permesso, Anna!? » Centaine tirò giù la camicia, arrabbiata. « Non gliel'ho permesso, l'ho aiutato a farlo! Lui all'inizio non sapeva che fare, allora gliel'ho detto io, e ce la siamo cavata benissimo! » Anna si turò le orecchie con le mani. « Non ci credo, e non ascolto nemmeno. Io ti ho insegnato a comportarti da signora... non voglio neanche starti a sentire. » « E allora cosa credi che facessimo la notte, quando uscivo a incontrarlo nel granaio? Lo sai che uscivo, vero, mi hai anche beccato, assieme a papà, non è così? » « La mia bambina! » guaì Anna. « Si è approfittato... » « Non dire sciocchezze, Anna, mi piaceva da matti. Tutto
quello che abbiamo fatto mi è piaciuto da matti. » « Ah, no! Non posso crederlo. Non sapevi nemmeno come Si fa, sei così giovane! Stai prendendo in giro la vecchia Anna. Sei cattiva e crudele. » « Sai che ho avuto la nausea al mattino. » « Ma questo non dimostra... » « Il dottore dell'esercito, Bobby Clarke, mi ha visitata e me l ha detto. Aspetto un bambino. » Anna rimase senza parole. Smise di protestare. Non si scappava: la ragazza era davsero stata fuori la notte, era davaero stata male al mattino, e Anna credeva fermamente all'infallibilità dei dottori. E poi c'era l'innaturale e strana allegria di Centaine in mezzo a tutte le avversità che l'avevano colpita. Non Si scappava. « Allora è vero », si convinse. « Oh, Signore, cosa facciamo? Dio ci scampi dallo scandalo e dalla disgrazia... cosa facciamo? » « Cosa facciamo, Anna? » Centaine rise dei suoi teatrali lamenti. « Ma facciamo il bambino, che sarà bellissimo, e se siamo fortunate ne facciamo due, e tu mi aiuterai a tirarli su. Mi aiuterai, vero, Anna? Io non so niente di bambini, e tu sai tutto. » Passato il primo shock, Anna cominciò a considerare non lo scandalo e i commenti della gente, ma il bambino in se stesso. Vivo, vero. Erano diciassette anni che non provava una simile gioia. Adesso, miracolosamente, arrivava un altro piccino. Centaine scorse il cambiamento in lei, vide i primi sintomi dell'incipiente sentimento materno. « Tu mi aiuterai! Tu non ci lascerai! Io e il bambino abbiamo bisogno di te. Prometticelo, Anna! Per piacere, promettimelo subito! » E Anna si lanciò ad abbracciare Centaine sul lettino, avvinghiarKlola con tutte le sue forze, e Centaine rise feiice in quella possente stretta. Era già buio quando John Pearce bussò di nuovo alla porta della cella monacale. « Il generale è tornato, Mademoiselle de Thiry. Gli ho detto che lei è qui, e desidera parlarle appena può. » Centaine seguì l'aiutante di campo per i portici e per il grande refettorio trasformato nel comando di reggimento. Una mezza dozzina di ufficiali stavano studiando l'enorme carta geografica spianata su uno dei tavolini del refettorio. La carta era tutta piena di bandierine appuntate con degli spilli. L'atmosfera della stanza era tesa e grave. Appena Centaine entrò, gli ufficiali alzarono lo sguardo su di lei, ma perfino una ragazza giovane e carina non riusciva ad attirare la loro attenzione per più di pochissimi secondi: subito tornarono ai loro doveri. Dall'altra parte della sala, il generale Sean Courteney le voltava le spalle. La giacca della sua uniforme, piena di nastrini, pendagli e insegne, era abbandonata su una sedia. Chino su di essa, col mento sul palmo della mano, il gomito sulla sedia, il generale stava urlando come un pazzo nella cornetta di un telefono in cui una vocina distorta starnazzava qualche risposta incomprensibile. Sean indossava una camicia di lana con magnifici ricami sulle spalle, una scena di caccia con cani in corsa, e due laghi di sudore sotto le ascelle. Stava ciccando un avana spento. All'improvviso prese ad abbaiare ancora più forte nel telefono senza togliersi il sigaro di bocca. « Tutte balle del pastore! Ero il due ore fa. Lo so! Ci vogliono almeno altre quattro batterie di grosso calibro in quel punto, e mi servono entro l'alba... non tirar fuori delle scuse, fallo e basta, e quando l'hai fatto dimmelo! » Scagliò la cor-
netta nell'inforcatura, alzò gli occhi e vide Centaine. « Mia cara », disse con voce alterata, andandole incontro e prendendole la mano. « Ero in pena per voi. Il castello è completamente distrutto. La nuova linea del fronte corre a meno di un chilometro e mezzo... » Si interruppe e la guardò un momento. Ciò che vide lo rassicurò e le chiese: « E tuo padre? » Lei scosse la testa. « E rimasto ucciso nel bombardamento. » « Mi spiace », si limitò a dire Sean, poi si rivolse a John Pearce. « Porti la signorina de Thiry nel mio alloggio. » Quindi, a lei: « Ti raggiungo tra cinque minuti ». La camera del generale dava direttamente sul refettorio, sicché con la porta aperta Sean Courteney, sdraiato sulla branda, poteva seguire quanto avveniva in sala comando. Non c'erano molti mobili, solo la brandina e una scrivania con due sedie, e un piccolo forziere ai piedi della branda. « Vuole accomodarsi qui, Mademoiselle? » John Pearce le offrì una sedia, e mentre aspettava Centaine si guardò intorno. L'unica cosa interessante della stanza era la scrivania. Sopra c'era una cornice a libro che conteneva due fotografie. La prima era il ritratto di una splendida donna matura, dalla bellezza scura delle ebree. Nell'angolo in basso c'era scritto: Torna a casa sano e salvo da tua moglie che t'ama, Ruth. L'altra foto era quella di una ragazza dell'età circa di Centaine. La somiglianza con la donna matura era evidente, non potevano che essere madre e figlia, ma la bellezza della fanciulla era incrinata da un'espressione di ragazza viziata e petulante. La bocca, benché graziosa, aveva un che di avido e duro, e Centaine decise che quella ragazza non le piaceva affatto. « Mia moglie e mia figlia », disse Sean Courteney dalla soglia. Si era messo la giacca dell'uniforme e la stava abbottonando nell'entrare. « Hai mangiato? » le chiese, sedendosi di fronte a Centaine. « Sì, grazie. » Centaine si alzò e prese la scatolina d'argento dei fiammiferi, ne accese uno e glielo resse davanti al sigaro. Egli apparve sorpreso, poi si chinò in avanti e tirò una boccata. Quando il sigaro fu ben acceso, si appoggiò allo schienale della sedia e disse: « Fa sempre lo stesso anche mia figlia ». Centaine soffiò sul fiammifero, tornò a sedersi e aspettò che lui si godesse tranquillamente le prime boccate del fragrante manufatto cubano. II generale sembrava invecchiato dal loro ultimo incontro. O forse, ragionò Centaine, era soltanto molto stanco. « Quand'è che ha dormito l'ultima volta? » gli chiese, e l'uomo sogghignò. All'improvviso dimostrò trent'anni di meno. « Sembri mia moglie, adesso. » « E molto bella. » « Sì », concordò Sean, dando un'occhiata alla fotografia. Poi tornò a guardare Centaine. « Hai perduto tutto », disse. « Il castello, la mia casa... e mio padre. » Cercò di mantenersi calma, in modo da celare il suo terribile dolore. « Avrai certo dei parenti. » « Certo », ammise Centaine. « Mio zio sta a Lione, e ho due zie a Parigi. » « Allora ti manderò a Lione con... » « No. » « Perché no? » Pareva irritato dal suo brusco rifiuto. « Non voglio andare a Lione né a Parigi. Io vado in Africa. » « In Africa? » Adesso era davvero sbalordito. « In Africa? E perché proprio in Africa, buon Dio? » « Perché l'ho promesso a Michel. Ci siamo promessi a vi-
cenda di andare insieme in Africa. » « Ma, mia cara... » Abbassò lo sguardo, osservando la cenere del sigaro. Centaine si accorse del dolore che gli aveva dato nominando Michael, per un attimo lo condivise con lui, e poi continuò: « Stava per dire: ... ma Michel è morto ». Il generale annuì. « Sì. » La sua voce era quasi un sussurro. « Ho promesso un'altra cosa a Michel, generale. Gli ho detto che suo figlio sarebbe nato al sole dell'Africa. » Lentamente, Sean alzò la testa e la guardò a occhi sbarrati. « Suo figlio? » « Il figlio di Michel. » « Sei incinta di Michael? » « Ouì. » Gli si affollarono alla mente tutte le solite domande banali « Sei sicura? » « Come puoi esserne certa? » « Come faccio a sapere che è figlio di Michael? » Si trattenne dal farle. Doveva riflettere, doveva prender tempo per adeguarsi a questa imponderabile svolta del de stino. « Scusami. » Si alzò e zoppicando pesantemente tornò in sala comando. « Siete riusciti a mettervi in contatto col terzo battaglio ne? » domandò al gruppo di ufficiali. « Sì, ma solo per un momento, poi le comunicazioni si sono interrotte di nuovo. Sono pronti a contrattaccare, ma hanno bisogno dell'appoggio dell'artiglieria. » « Richiamate quei dannati burocrati del comando logistico e cercate di parlare con Caithness in persona. » Si rivolse a un altro membro del suo staff. « Roger, che sta succedendo al primo battaglione? » « Nessun cambiamento, signore. Hanno respinto due attac chi nemici, ma subiscono un pesante bombardamento d'arti glieria. Secondo il colonnello Stevens sono in grado di resi stere. » « Buon soldato », borbottò Sean. Era come cercar di tap pare i buchi di una diga sull'oceano con delle manciate di ar gilla, ma in qualche maniera ci stavano riuscendo, e ogni ora in più che resistevano spuntava la picca dei crucchi. « Saranno risolutivi i cannoni, se riusciamo a farli arrivare in tempo. Com'è il traffìco sullo stradone? » « Sembra che sia un po' più scorrevole, signore. » Se fossero riusciti a farli passare prima del mattino, i can noni di grosso calibro avrebbero fatto pagar caro al nemico ogni centimetro di terra conquistato. Li avrebbero puntati sul saliente così da poterli bersagliare da tre lati con l'artiglieria pesante. Sean sentì che di nuovo gli si abbatteva il morale. Era una guerra a cannonate; alla fine tutto si risolveva sempre nel san guinoso duello delle artiglierie. Con parte della mente Sean tirò le somme, paragonò i rischi ai vantaggi e diede tutti gli ordini necessari, ma nel profondo stava facendo ben altri calcoli. Pensava alla ragazza e alle sue strane pretese. Per prima cosa dovette dominare la propria reazione naturale a ciò che gli era stato appena detto, perché Sean era un figlio della regina Vittoria e si aspettava che tutti quanti, ma specialmente i membri della sua famiglia, seguissero il codice morale istituito nel secolo precedente. Naturalmente i giovanotti dovevano pure sfogarsi, perdio, anche lui si era sfogato, e abbondantemente, in gioventù! e Sean fece un sorrisetto vergognoso al ricordo, ma i giovanotti di buona famiglia lasciavano in pace le ragazze di buona famiglia fino a dopo le nozze. « Sono sconvolto », si rese conto, e sorrise di nuovo. Gli ufficiali al tavolo operativo colsero il sorriso e rimasero
perplessi e a disagio. « Cos'ha in mente il vecchio demonio? » si chiedevano, scambiandosi sguardi nervosi. « Siete riusciti a parlare col colonnello Caithness? » Sean nascose il sorrisetto dietro il suo peggior cipiglio ed essi si ap plicarono con diligenza ai loro doveri. « Sono sconvolto », si disse di nuovo Sean, ancora divertito fra sé e sé ma stavolta attento a mantenere il viso impassibile. « Eppure lo stesso Michael era un figlio dell'amore, il frutto di una delle mie scappatelle. Il mio primogenito... » Il dolore per la sua morte l'assali di nuovo, ma egli lo ricacciò. « E ora, la ragazza. » Cominciò a rifiettere. « E davvero incinta, o è qualche insolito tipo di ricatto? » Non gli ci vollero più di tre secondi per decidere. « Non posso essermi sbagliato così di grosso sul suo conto. No, crede davvero di essere incinta. » Vi erano zone dell'anatomia femminile, come della psiche femminile, che costituivano per Sean un terreno completamente sconosciuto. Tuttavia aveva imparato che quando una ragazza diceva di essere incinta sicurissimamente lo era. Come faceva a saperlo gli sfuggiva, ma era pronto ad accettarlo. « E va bene, è incinta, ma sarà figlio di Michael o di qualche altro giovane mascalz... » Anche qui scartò subito l'idea. « E una ragazza di buona famiglia, sorvegliata dal padre e da quella specie di dragonessa... Come avranno potuto fargliela in barba, lei e Michael, mi sfuggirà sempre... » e qui quasi si rimise a sorridere al ricordo di quanti stratagemmi aveva saputo escogitare allo stesso scopo in gioventù, contro cerberi altrettanto formidabili. « L'ingegnosità del primo amore. » Scosse la testa. « Va bene, l'accetto. E il bambino di Michael. Il figlio di Michael! » Solo allora diede via libera alla gioia interiore. « II figlio di Michael! Qualcosa di lui vive ancora. » Poi si controllò. « Andiamoci piano, però. Lei vuole venire in Africa, ma che diavolo ce ne facciamo? Non posso assolutamente portarla a Emoyeni. » Per un attimo gli si presentò alla mente la bella casa sulla collina, « la casa del vento », in lingua zulu, che aveva costruito per la moglie. Il desiderio di tornarvi assieme a lei gli piombò addosso colpendolo con una mazzata di nostalgia. Dovette ricacciarlo, e tornare a dedicarsi ai problemi immediati. « Tre donne... tre belle ragazze, tutte fiere e piene di volontà, che abitano insieme... » Per istinto sapeva che quella ragazzina francese e la sua amatissima ma viziatissima figlia non sarebbero andate d'accordo, anzi avrebbero cominciato subito ad accapigliarsi come due gatti selvatici chiusi nello stesso sacco. Scosse la testa. « Buon Dio, sarebbe la ricetta ideale per un bel disastro, e io non sarei là a sculacciarle, all'occorrenza. In nome del cielo, che me ne faccio di questa ragazzina incinta? » « Signor generale! signor generale! » uno dei suoi ufficiali lo chiamò, porgendogli la cornetta del telefono da campo. « Sono riuscito finalmente a farmi passare il colonnello Caith ness. » Sean gli strappò la cornetta di mano. « Douglas! » ci abbaiò dentro. La comunicazione era pessima, i rumori di fondo, mugghiando come un mare in tempesta, davano l'idea che la voce di Douglas Caithness venisse di là dall'oceano. « Olà, generale, i cannoni sono appena arrivati... » « Era ora! » grugnì Sean. « Li ho piazzati... » Caithness gli diede i riferimenti topografici. « Stanno già sparando, e il crucco sembra a malpartito. Domani all'alba li attacco. » « Attento, Douglas, non ci sono riserve dietro di te e non potrò mandarti rinforzi prima di mezzogiorno. »
« Va bene, ho capito, ma non possiamo mica aspettare tranquillamente che si riorganizzino. » « Hai ragione. Tienimi informato. Nel frattempo ti faccio mandare altre quattro batterie, e qualche soldato del secondo battaglione, ma non saranno lì prima di mezzogiorno. » « Grazie, generale, mi serviranno proprio. » « Forza! » Sean restituì la cornetta del telefono e, mentre assisteva al trasferimento delle relative bandierine sulla carta geografica, gli balenò la soluzione del suo problema personale. « Garry... » pensò al fratello gemello, e provò la solita fitta di rimorso e compassione. Garrick Courteney, il fratello che Sean aveva reso invalido. Era accaduto moltissimi anni prima, pure ogni istante di quel giorno spaventoso era ancora così chiaro nella mente di Sean che gli sembrava capitato ieri. I due ragazzi stavano litigando a proposito della doppietta che avevano preso di nascosto dalla stanza del padre e caricato a pallettoni, procedendo sull'erba dorata delle colline dello Zululand. « L'ho visto io per primo! » diceva Garry dell'inkonka di cui aveva scorto le tracce il giorno prima. « Ma al fucile ci ho pensato io », diceva Sean, stringendo l'arma, « quindi il colpo lo sparo io. » E, naturalmente, l'aveva vinta Sean. Si imponeva sempre lui. Era stato Garry a girare con Tinker, il loro bastardo da caccia, attorno alla fitta macchia alla base del colle per far scappare l'inkonka verso Sean, che aspettava in cima con il fucile. Sean aveva udito il lontano richiamo di Garry ai piedi del poggio e il latrato eccitato di Tinlcer che aveva colto l'usta dell'inkonka stremato. Poi la disperata corsa nel macchione, l'emozione delle lunghe corna gialle che spuntavano dall'erba alta quando l'inkonka era sbucato all'aperto, diretto proprio dove l'aspettava Sean, sdraiato per terra in cima al colle. Alla luce del sole sembrava una bestia immensa. II panico gli aveva fatto rizzare la criniera in testa, e le lunghe corna torte erano imponenti sul collo possente. Era alto un metro al garrese e pesava sul quintale. Fianchi e torace erano punteggiati, un disegno delicato e regolare che contro la terra scura spiccava bianco come gesso. Era una creatura magnifica, forte e veloce, con delle corna aguzze capaci di sbudellare un uomo o di recidergli l'arteria femorale... e stava andando dritto verso Sean. Sean gli aveva sparato così da vicino da schiantargli il petto e il cuore. L'animale aveva lanciato un alto lamento ed era caduto, scalciando e incornando a vuoto, con gli zoccoli duri che scalfivano la roccia, franando giù dal colle. « L'ho preso! » aveva urlato Sean saltando fuori dal suo nascondiglio. « L'ho preso al primo colpo! Garrick! L'ho beccato! » Garry e Tinker si erano lanciati su per l'erta di corsa, per arrivare primi all'animale morente. Sean aveva in mano il fucile, con la seconda canna ancora carica e il cane alzato. Mentre correva giù, un sasso gli era rotolato sotto il piede ed egli era finito per terra. Il fucile gli era sfuggito di mano. Aveva sbattuto contro il suolo col calcio e la seconda canna aveva fatto fuoco, con uno scoppio assordante. Quando Sean si era rialzato, Garrick era seduto accanto all'inkonka morto, e gemeva. La scarica di pallettoni l'aveva colpito alla gamba, appena sotto il ginocchio, quasi a bruciapelo. L'arto era maciullato, ne pendevano brandelli di carne sanguinolenta tra bianchi pezzi d'osso e zampilli di sangue che sembravano una fontana rossa alla luce accecante del sole. « Povero Garry », pensò Sean. « Un vecchio solo e mutilato. » La donna messa incinta da Sean, che Garry aveva sposato
prima della nascita di Michael, alla fine era impazzita d'odio e amarezza bruciando tra le fiamme che lei stessa aveva appiccato. Adesso se n'era andato anche Michael, e Garry non aveva più niente... niente salvo i suoi libri e i suoi lavoretti da scribacchino. « Gli manderò questa bella ragazza vivace che aspetta un bambino. » La soluzione gli si era profilata dandogli un bel sollievo. « Almeno potrò risarcirlo in parte di tutto il male che gli ho fatto. Gli mando mio nipote, quel nipotino che con gioia rivendicherei per me. Un risarcimento parziale. » Voltò le spalle alla carta geografica e, zoppicando, tornò dove la ragazza l'aspettava. La ragazza si alzò per accoglierlo e rimase tranquillamente in piedi, con le mani giunte in grembo, e Sean scorse il timore e la preoccupazione d'esser respinta in quegli occhioni scuri e nel labbro inferiore che le tremava in attesa del suo verdetto. Il generale chiuse la porta, le si avvicinò e le prese le mani nelle sue zampone pelose. Si chinò su di lei e la baciò con dolcezza. La barba le punse le guance delicate, ma lei singhiozzò di sollievo e gli gettò le braccia al collo. « Scusami, mia cara », le disse. « Mi hai colto di sorpresa Ho dovuto prima abituarmi un po' all'idea. » Sean l'abbracciò; ma senza stringere, perché il mistero della gravidanza era una delle pochissime cose che lo sbigottivano. Poi tornò a sedersi. « Posso andare in Africa? » Sorrideva, anche se aveva gli occhi ancora umidi di pianto. « Si, certo, adesso è casa tua; per quanto mi riguarda, sei la moglie di Michael. La tua patria è laggiù. » « Come sono contenta », gli disse sottovoce, ma nel suo tono c'era più che felicità. C'era un gran senso di sicurezza e protezione: adesso l'aura di potenza ed energia di quest'uomo le si stendeva addosso come un invincibile scudo. « Sei la moglie di Michael », aveva detto. Aveva ammesso ciò che credeva fermamente lei stessa, e tale riconoscimento in qualche modo trasformava la pretesa in un fatto. « Sta' a sentire come facciamo. C'è il rischio dei sottomarini tedeschi, quindi il modo più sicuro di far la traversata è a bordo di una nave ospedale che parta da qualche località francese della Manica. » « Anna... » interloquì rapidamente Centaine. « Ma certo, deve venire con te. Penserò anche a lei. Dovrete far domanda quali infermiere volontarie, però, e guadagnarvi il passaggio... » Centaine annuì con gioia. « Il padre di Michael, mio fratello Garrick Courteney... » cominciò Sean. « Sì, si! Michel mi ha detto tutto di lui. E un grande eroe, decorato dalla regina Vittoria per il coraggio dimostrato in battaglia contro gli zulu... » l'interruppe eccitata Centaine. « Ed è un uomo dotto, che scrive libri di storia. » Sean sbatté le palpebre a questa descrizione del povero Garry, ma naturalmente, per educazione, annuì. « E anche una bravissima persona, un uomo mite, un vedovo che ha appena perduto il suo unico figlio... » Un lampo di comprensione quasi telepatica intercorse tra loro; benché Centaine avesse intuito la verità, d'ora in poi dovevano parlare di Michael sempre come del figlio di Garry Courteney. « Michael era tutta la sua vita, e tu e io sappiamo che perdita dev'essere stata anche per lui, giacché la condividiamo. » Gli occhi di Centaine brillarono di lacrime trattenute. Si morse il labbro inferiore, annuendo con veemenza. « Gli telegraferò. Sarà a Città del Capo ad aspettarti quando arriva la nave. Ti darò anche una lettera per lui. Puoi star
sicura di esser ben accolta e protetta, sia tu sia il bambino di Michael. » « Il bambino di Michael », disse con fermezza Centaine, e poi, con qualche esitazione: « Ma potrò vedere anche lei, generale, qualche volta? » « Spesso », l'assicurò Sean, chinandosi a farle una carezza sui capelli. « Forse anche troppo spesso », scherzò. In seguito, tutto accadde molto in fretta. Avrebbe imparato che con Sean Courteney le cose andavano sempre cosi. Restò al vecchio monastero solo altri cinque giorni, nei quali però fu imbrigliato lo sfondamento tedesco a Mort Homme, sia pure a prezzo di gravi perdite; e, una volta rinsaldata la nuova linea del fronte, Sean Courteney poté dedicarle qualche ora al giorno. Cenavano insieme tutte le sere, ed egli rispondeva alle sue infinite domande sull'Africa, i suoi popoli, i suoi animali, la famiglia Courteney e i suoi membri, con garbata affabilità. In genere parlavano in inglese, benché quando non le veniva una parola Centaine ricorresse tranquillamente al fiammingo. Alla fine della cena lei gli sceglieva e gli accendeva sempre il sigaro, gli versava il cognac e restava a tavola con lui a conversare finché Anna non veniva a prenderla o qualche ufficiale non veniva a chiamare il generale. Allora gli porgeva la guancia da baciare con tale infantile innocenza che Sean si sorprendeva a temere l'imminente distacco da lei. John Pearce forni a Centaine e ad Anna le divise da infermiera. Un grembiulino bianco con la croce rossa sopra un severo abito grigioazzurro. Centaine e Anna, con ago e filo, pensarono alle ultime rifiniture, conferendo all'uniforme un tocco sbarazzino alla francese. Venne il momento di partire, e Sangane caricò il loro magro bagaglio nella Rolls. Sean Courteney venne al portico a salutarle, corrucciato e addolorato per la separazione. « Badi a lei », ordinò ad Anna, e quella lo fulminò con lo sguardo per il consiglio quanto mai gratuito che le dava. « Verrò ad aspettarla al molo al suo ritorno a casa », promise Centaine al generale, e Sean si crogiolò di piacere e d'imbarazzo quando la ragazza, in punta di piedi, gli diede un bacio di fronte a tutto il suo staff. Guardò allontanarsi la Rolls con la ragazza che lo salutava sventolando la mano dal finestrino posteriore, poi girò sui tacchi e si rivolse ai subordinati. « Ebbene, signori, piantiamola di gingillarci. Stiamo facendo la guerra e sembriamo un branco di boy-scout in gita domenicale. » E imboccò zoppicando le scale per la sala operativa, infuriato con se stesso perché già sentiva con pena la mancanza della ragazza. Il Protea Castle era stato un postale della compagnia di navigazione Union Castle. Era un veloce bastimento a tre fumaioli che prima della guerra collegava Città del Capo a Southampton, facendo anche servizio passeggeri, naturalmente, e poi era stato trasformato in nave ospedale, cioè dipinto tutto di bianco con delle grandi croci rosse sulle fiancate e sulle ciminiere. Era attraccato al molo del porto interno di Calais, e imbarcava passeggeri sempre diretti a sud, ma ben diversi da quelli ricchi ed eleganti che trasportava prima della guerra. Sul tronco ferroviario del molo erano arrivati cinque vagoni, da cui un patetico fiume d'umanità si riversava a bordo della nave dagli scalandroni di poppa e di prua. Erano, costoro, i veri rottami del campo di battaglia. La commissione medica li aveva scartati, disperando di poterli mai rappezzare a sufficienza per farli accettare dal dio Baal vorace e mangiauomini del Corpo di Spedizione Britannico. Milleduecento tornavano a pezzi nell'altro emisfero, per es-
sere sostituiti al ritorno, ridipinta la nave con il grigio mimetico dei trasporti truppe, da altrettanti baldi giovani ancora interi e idonei a soggiornare per un po' nell'inferno delle trincee della Francia settentrionale. Centaine era in piedi sul molo accanto alla Rolls e guardava con raccapriccio le disfatte legioni che salivano a bordo. C'erano gli amputati, senza un braccio o una gamba, i più fortunati col moncherino sotto il ginocchio, o il gomito. Salivano per gli scalandroni con le stampelle, o con la manica vuota della giacca ordinatamente appuntata. Poi c'erano i ciechi, guidati dai compagni, e i paralitici sulle barelle caricate dagli infermieri. Le vittime dei gas con le mucose del naso e della gola bruciate dai vapori venefici, e quelle degli shock da bombardamento, che continuavano a sussultare e a roteare irrefrenabilmente gli occhi; gli ustionati, con le terribili cicatrici rosse e callose che tenevano gli arti in posizioni innaturali, o il capo sempre chino col mento contro il torace, sicché sembravano gobbi e deformi. « Puoi anche venire qui a darci una mano, carina », le disse un infermiera che aveva scorto la sua divisa. Centaine si affrettò. Girandosi verso l'autista zulu disse: « Allora presto vedrò tuo padre... Mbejane? » « Mbejane! » Sangane era felice che se ne fosse ricordata il nome. « E gli darò il tuo messaggio. » « Va' in pace, piccola signora », gli augurò lo zulu. Centaine gli strinse la mano, prese dalle sue mani il sacco con dentro i propri averi, e corse ai suoi nuovi doveri seguita da Anna. L'imbarco proseguì per tutta la notte, e solo quando fini, un po' prima dell'alba, furono libere di andarsi a cercare la cabina dove erano alloggiate. L'ufficiale medico anziano era un maggiore dalla faccia malinconica, ed era evidente che aveva ricevuto ordini dall'alto, riguardo alle due donne. « Dove siete state? » domandò quando Centaine si presentò a rapporto nella sua cabina. « Vi aspettiamo da ieri a mezzogiorno. Si salpa tra due ore. » « Sono a bordo da mezzogiorno, sono stata sul ponte C ad aiutare il dottor Solomon. » « Avrebbe dovuto dirmelo », replicò lui freddamente. « Lei non può girare a suo piacimento per tutta la nave a baloccarsi. io sono responsabile di fronte al generale... » si interruppe e prosegui su un altro tono. « Inoltre, il ponte C è per la trup pa... » « Pardon? » Benché ormai avesse fatto parecchia pratica, le finezze della lingua inglese continuavano a sfuggire a Centaine. « Cioè non è per gli ufficiali, e lei d'ora in poi lavorerà esdusivamente per gli ufficiali. I ponti inferiori saranno of limits per lei... of limits », ripeté, scandendo quasi parlasse a un bambino scemo. « Sono stato chiaro? » Centaine era stanca e per nulla avvezza a questo genere di trattamento. « Gli uomini che stanno laggiù sono altrettanto sofferenti degli ufficiali », gli disse furiosa. « Sanguinano e muoiono esattamente come gli ufficiali. » Il maggiore sbatté le p« Ppebre e tornò a sedersi. Aveva una figlia della stessa età di quella francesina tutto pepe, ma non avrebbe mai osato rivolgerglisi in quel tono. « Vedo già che lei mi darà delle grane, signorina », disse minacciosamente. « Sono sempre stato contrario alle infermiere volontarie a bordo. Le donne causano guai. Adesso mi ascolti. Sarete alloggiate nella cabina di fronte a questa », indicò fuori della porta aperta. « Farete riferimento al dottor Stewart e lavorerete ai suoi ordini. Mangerete in mensa ufficiali, e i ponti
inferiori vi saranno interdetti. Mi aspetto da voi un comportamento rispettoso e corretto, e vi garantisco che vi sorveglierò da vicino per assicurarmene. » Dopo un simile esordio, la cabina riservata a lei e Anna costituì una deliziosa sorpresa, e ancora una volta sospettò che vi fosse la mano del generale Sean Courteney. Avevano una suite che prima della guerra sarebbe costata duecento ghinee. Letti gemelli invece che a castello, un piccolo soggiorno con armadi, poltrone e scrivania, doccia e bagno privato, il tutto elegantemente ammobiliato in toni pastello. Centaine si gettò sul letto e si adagiò sospirando sui cuscini. « Anna, sono troppo stanca per svestirmi. » « Dentro la camicia da notte », ordinò Anna. « E non dimenticare di lavarti i denti. » Furono destate dalla campana dell'allarme e dai trilli dei fischietti in corridoio. La nave era già in navigazione, le macchine la facevano vibrare, e rollava. Dopo i primi momenti di panico, lo steward le informò che si trattava di una esercitazione. Si vestirono in fretta e s'infilarono i giubbotti di salvataggio, poi si intrupparono sul ponte e trovarono la loro scialuppa. La nave era appena uscita dal porto e stava addentrandosi nella Manica. Era un'alba grigia e nebbiosa, e il vento sibilava in faccia ai passeggeri ammassati, cosi ci fu un generale mormorio d'approvazione quando il simulato allarme terminò e fu servita la colazione nella sala da pranzo di prima classe, trasformata in mensa per gli ufficiali e i feriti in grado di camminare. L'ingresso di Centaine provocò untagitazione generale. Ben pochi ufficiali si erano accorti che a bordo c'era una bella ragazza, e non riuscivano a celare la loro gioia. Vi furono impo nenti manovre per assicurarsela a fianco, ma subito il primo ufficiale, approfittando del fatto che il capitano era ancora sul ponte, fece valere il proprio grado e Centaine si ritrovò seduta alla sua destra e circondata da una dozzina di gentiluomini attenti e garbati, con Anna piazzata di fronte con cipiglio da bulldog. Gli ufficiali della nave erano tutti britannici, ma i pazienti erano coloniali, giacché il Protea Castle era destinato a proseguire verso oriente dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza. Seduti attorno a Centaine c'erano un capitano della cavalleria leggera australiana che aveva perso una mano; un paio di neozelandesi conciati come bucanieri (uno aveva una benda nera sull'occhio e l'altro una gamba di legno alla Long John Silver); un rhodesiano di nome Jonathan Ballantyne, che era stato decorato sulla Somme, ma aveva pagato la medaglia con una raffica di mitragliatrice nella pancia; e altri giovanotti pieni di voglia di vivere, ciascuno dei quali aveva perso qualche pezzo della propria anatomia. Tutti le portavano del cibo dal buffet. « No, no, non posso fare una gran colazione all'inglese, diventerei grassa e brutta come un maiale. » E sorrideva radiosa alle loro scandalizzate rimostranze. Da quando Centaine aveva quattordici anni c'era la guerra, e, con tutti i giovanotti al fronte, non aveva mai conosciuto il piacere di essere citcondata da un'orda di ammiratori. Vide il maggiore medico che la fulminava con gli occhi dal tavolo del capitano e polemicamente decise di essere carina con tutti i giovani che l'attorniavano. Si sarebbe divertita, decise, sia pur con una fitta di rimorso al pensiero di Michael. « E mio dovere, sono i miei pazienti. Un'infermiera dev'essere buona coi suoi pazienti. » E si mise a ridere e scherzare con loro, che gareggiavano per attirare la sua attenzione, farle piccoli piaceri, rispondere alle sue domande « Perché non navighiamo in convoglio? » domandò. « Non
è pericoloso percorrere la Manica en plein soleil, in pieno sole? Ho sentito del Rewa... » Il Rewa era una nave ospedale britannica con settecento feriti a bordo che era stata silurata da un U-Boot tedesco nel canale di Bristol il 4 gennaio di quell'anno. Fortunatamente c'erano stati soltanto tre morti, ma la propaganda inglese aveva potuto sfruttare molto efficacemente l'episodio. In quasi tutti i locali pubblici c'erano manifesti che dicevano: a La Croce Rossa fa ai crucchi l'effetto che il rosso fa ai tori », con un disegno cbe rappresentava in tutto il suo orrore quell'atrocità. La domanda di Centaine originò una piccola discussione al tavolo. « Il Rewa fu silurato di notte », precisò con ragionevolezza Jonathan Ballantyne. « Il comandante del sommergibile tedesco può benissimo non aver visto la croce rossa. » « Andiamo, andiamo! Quei tipi degli U-Boot sono dei macellai matricolati... » « Non sono d'accordo. Sono tipi normalissimi, come noialtri. E ne è convinto con tutta evidenza anche il capitano di questa nave: ecco il motivo per cui ha imboccato la pericolosissima rotta della Manica in pieno giorno. Così i sottomarini non possono non vedere le croci rosse. Credo che ci lasceranno passare, rendendosi conto di chi siamo. » « Macché, i maledetti unni silurerebbero anche la loro suocera... » « Be', anch'io... » « Questa nave procede a ventidue nodi », disse a Centaine il primo ufficiale per rassicurarla. « L'U-Boot in immersione può farne sette al massimo. Perché possa silurarci, dunque, un sommergibile dovrebbe trovarsi proprio sulla nostra rotta. Le probabilità che questo accada sono infinitesimali. Stia tranquilla, signorina, non c'è pericolo. Si goda la traversata! » Un dottorino alto, dalle spalle tonde, dall'aria dimessa da scienziato e gli occhiali cerchiati d'acciaio, si alzò davanti a Centaine quando la ragazza si accinse a lasciare la tavola. « Sono il dottor Archibald Stewart, infermiera de Thiry, e il maggiore Wright l'ha assegnata a me. » Piacque a Centaine il nuovo titolo: infermiera de Thiry, che aveva un'eco professionale. Non le piaceva mica tanto, invece, l'esser stata a assegnata » a qualcuno. « Ha qualche esperienza medica o infermieristica? » proseguì il dottor Stewart. La simpatia che all'inizio Centaine aveva provato per lui si raffreddò. L'aveva messa in difficoltà nel giro dei primi venti secondi, e di fronte al codazzo degli ammiratori! Scosse la testa, cercando di non fare confessioni compromettenti in pubblico, ma quello proseguì senza pietà. « Lo pensavo. » La scrutò dubbioso, poi parve accorgersi del suo imbarazzo. « Non importa, il primo dovere di un'infermiera è tenere allegri i pazienti. E, dal poco che ho visto, lei in questo è bravissima. Sarà dunque la mia rallegratrice in capo, ma soltanto sul ponte A. Ordine categorico del maggiore Wright. Solo sul ponte A. » La nomina del dottor Archibald Stewart si rivelò ispirata. Fin da piccola Centaine aveva dovuto assumersi al castello i compiti di organizzatrice, assistente domestica del padre e vice massaia. Senza sforzo, prese a modellare la banda di uomini che si era creata attorno a lei, trasformandola in una squadra di addetti al tempo libero. Il Protea Castle aveva una biblioteca di qualche migliaio di volumi, e lei rapidamente istituì un piano di distribuzione per i pazienti « allettati », come si dice nell'esercito, e arruolò una squadra di lettori per i ciechi e gli analfabeti dei ponti infe riori. Organizzò serate musicali, gare di birilli sul ponte e tor
nei di ramino e bridge, di cui il conte era stato un grande ap passionato e le aveva insegnato tutti i segreti. I suoi collaboratori guerci, malmessi e mutilati fecero a gara per accontentarla e inventare maniere di alleviare la noia della lunga traversata; e i pazienti, nelle brande a castello, si misero a escogitare centinaia di pretesti per trattenerla più a lungo pres so di loro quando al mattino faceva i suoi giri non ufficiali tra le brande. Tra i pazienti c'era un capitano dei fucilieri a cavallo del Na tal che era passato da Mort Homme assieme agli altri feriti rico verati nel castello. La prima volta che Centaine entrò nella sua corsia con un pacco di libri sottobraccio, egli la salutò, in estasi; « Raggio di Sole! E Raggio di Sole in persona! » Così il nomignolo la seguì sulla nave. « Infermiera Raggio di Sole. » Quando la chiamò così anche il severo maggiore Wright, l'adorazione per Centaine fu unani me. A bordo era adorata da tutti, In quelle circostanze, il dolore non aveva tempo di torturarla, ma a sera, prima di addormentarsi, Centaine, coricata nel l'oscurità, ricomponeva con gli occhi della mente l'immagine di Michael, e poi congiungeva le mani sopra il ventre. « Nostro figlio, Michel, nostro figlio! » I cieli tempestosi e le onde nere del Golfo di Biscaglia si al lontanarono a poppa nella lunga scia bianca della nave ospedale, mentre davanti alla prua i pesci volanti saltavano fuori dal l'oceano brillando come monetine d'argento sulla superficie di velluto azzurro del mare. « Al trentesimo parallelo nord l'allegro capitano Jonathan Bal lantyne, futuro erede di 100.000 acri di pascolo appartenenti a suo padre Sir Ralp Ballantyne, Primo Ministro della Rhode sia, chiese a Centaine di sposarlo. « Mi par di sentire il povero papà », disse Centaine imitando il conte con tal precisione che lo sguardo di Anna si rannuvolò. « Centomila acri! bambina mia, sei pazza. Come si fa a rifiu ; tarli? » Dopo di che, le proposte di matrimonio divennero un'epidemia contagiosa. Perfino il dottor Archibald Stewart, il suo superiore immediato, sbattendo le ciglia dietro le lenti cerchiate d'acciaio, e sudando nervosamente, si imbarcò in un discorsetto attentamente preparato, e accolse con più sollievo che mortificazione il rifiuto di Centaine, accompagnato da due sonori baci sulle guance. All'Equatore Centaine sostituì il maggiore Wright nel tradizionale sacrificio al dio Nettuno. La cerimonia fu celebrata tra l'ilarità più scatenata e diffusa. L'attrazione principale, naturalmente) si rivelò sempre Centaine, che indossava un costume da sirena di sua realizzazione. Anna aveva protestato strenuamente per il décolleté, ma poi l'aveva aiutata a cucirlo. Il costume incontrò il favore di tutti gli astanti. Presero a emettere fischi e a battere le mani, e subito dopo l'attraversamento dell'Equatore vi fu una nuova epidemia di proposte di matrimonio. Anna continuava a brontolare, ma dentro di sé era molto contenta del mutamento che cominciava a intravedere in Centaine. Davanti ai suoi occhi Centaine si stava trasformando in una donna, dalla ragazza che era, e questo spettacolo era magnifico. Fisicamente stava fiorendo, come capita alle gestanti all'inizio della gravidanza; la sua carnagione aveva assunto una tonalità madreperlacea, aveva perduto ogni traccia della goffaggine adolescenziale e il suo corpo si arrotondava senza perdere minimamente in grazia. Ma ancora più grandi erano gli altri mutamenti. La sua crescente sicurezza, il fascino che stava ora cominciando a esercitare consapevolmente e a pieno ritmo. Anna sapeva benissimo
che Centaine era un'imitatrice nata: era capace di passare in un attimo dall'accento meridionale di Jacques, il cameriere, al vallone delle domestiche e al parigino ricercato del maestro di musica: ma adesso si accorgeva che il talento della ragazza per le lingue andava ben oltre ciò. Centaine parlava già l'inglese con una facilità tale che era in grado di cogliere le differenze d'ac cento tra un australiano, un sudafricano e un inglese che ha studiato a Oxford, e replicarle alla perfezione. A ciascuno si rivolgeva coi vezzi del suo paese: e quando salutava gli australiani coi loro idiotismi più particolari, essi urlavano di gioia. Anna si era anche accorta che Centaine aveva una vera pre disposizione per le cifre e i conti. Quando il fattore era scap pato a Parigi, nei primi mesi di guerra, si era occupata lei del l'amministrazione, e Anna si era meravigliata della sua capacità di sommare una lunga colonna di numeri semplicemente facen dovi scorrere sopra la penna, senza muovere le labbra né utiliz zare le dita, ciò che a lei pareva miracoloso. Adesso Centaine prese a dirnostrare il medesimo acume. Giocava a bridge col maggiore Wright, e formavano una coppia formidabile. Le vincite di Centaine infastidivano Anna, che per la verità era contraria al gioco. Centaine le investiva di nuovo nell'azzardo: con Jonathan Ballantyne e il dottor Stevens pun tavano forte sulle scommesse circa le miglia coperte in un gior no dalla nave, e prendevano sempre il biglietto della lotteria quotidiana. All'attraversamento dell'Equatore, Centaine aveva aggiunto in tal modo quasi duecento sovrane alla pila di luigi d'oro che era riuscita a salvare dal rogo del castello. Anna era sempre stata dell'idea che Centaine leggesse trop po. « Ti farà male agli occhi », le diceva spesso, ma non riu sà a valutare la profondità delle conoscenze che Centaine si era procurata nei libri finché non la sentì sciorinarle in con versazioni e discussioni. Mfendeva la propria opinione contro polemisti formidabili quale il dottor Archibald Stewart, eppu re Anna notò che era così astuta da non inimicarsi l'uditorio con l'ostentazione della propria cultura: sapeva invece conclu dere ogni discussione con una nota conciliante, che permetteva all'antagonista maschio di ritirarsi senza aver troppo scalfito la propria dignità. « Sì », annuiva Anna soddisfatta con se stessa, guardando la fanciulla schiudersi e fiorire come un bel bocciolo al sole dei tropici, « è davvero intelligente, come la sua mamma. » Pareva che Centaine avesse addirittura un bisogno fisico di luce e di calore. Tutte le volte che passava sul ponte alzava il viso al cielo per esporlo al sole. « Oh, Anna, come odiavo il freddo e la pioggia! Non è magnifico il caldo? » « Bada che ti stai abbronzando e diventi brutta », l'avvertì Anna. « E poi, non è affatto da signora. » Centaine si guardò pensosamente le braccia. « Non sto male. i! un colore dorato, Anna! Dorato! » Centaine tanto aveva letto e tanta gente aveva interrogato che sembrava già conoscere a menadito l'emisfero australe dove ora si addentrava la nave. A volte svegliava Anna e la costringeva a seguirla sul ponte come chaperon, mentre l'ufficiale di guardia le indicava le costellazioni meridionali. E, nonostante l'ora tarda, Anna era abbagliata dallo splendore di quel cielo, che ogni notte si rivelava ai loro occhi un po' di più. « Guarda, Anna, si vede Achernar finalmente! Era la stella che Michel preferiva, la sua stella. Dovremmo averne una tutti quanti, diceva, e ne aveva scelta una anche per me. » « E qual è? » le chiedeva Anna. « Quale sarebbe la tua stella? » « Acrux. Eccola là, è la più luminosa della Croce del Sud. Non c'è niente tra lei e la stella di Michel, tranne il perno
dell'universo stesso, il polo sud celeste. Diceva quindi che tra noi due reggevamo l'asse terrestre. Non era romantico, Anna? » « Romantiche sciocchezze », replicava Anna, tirando su col naso, rimpiangendo in segreto che quelle cose nessun uomo le avesse mai dette a lei. Poi Anna giunse a distinguere nella sua protetta un'altra capacità, che sembrava oscurare tutte le altre. Era la capacità di farsi ascoltare dagli uomini. Era assolutamente eccezionale vedere uomini come il maggiore Wright o il capitano del Protea Castle starla ad ascoltare in silenzio quando parlava seriamente, senza il malcelato sogghigno che gli uomini assumono quando Si trovano a dar retta a una donna. « E ancora una bambina », si meravigliava Anna, « eppure la trattano come una donna... no, no, ancora di più, cominciano a trattarla da pari a pari. » Era una cosa davvero sbalorditiva. Quegli uomini le accordavano spontaneamente il rispetto che proprio in quegli anni le « suffragette », com'erano chiamate con un sorriso donne come Emmeline Pankhurst e Annie Kenney, e le loro seguaci, si battevano con tutti i mezzi per ottenere, gettandosi sotto i cavalli da corsa, facendo lo sciopero della fame, subendo dure condanne alla prigione, e fino ad allora invano. Centaine si faceva ascoltare dagli uomini, e moIto spesso li induceva a fare quel che voleva lei, non disdegnando però di usare quei piccoli stratagemmi di civetteria che le donne di tutte le epoche furono sempre costrette a mettere in atto: aggiungendovi Però di suo una lcoica stringente, argomenti incon futabili e forza di volontà. Tutto ciò, assieme al fascinoso sorriso e allo sguardo intenso e diretto dei suoi fondi occhioni neri, le conferiva un potere apparentemente irresistibile. Ad esempio le erano bastati cinque giorni per indurre il maggiore Wright a rimangiarsi l'ordine che la confinava al ponte A. Benché le giornate di Centaine fossero piene fino all'ultimo minuto, nemmeno per un attimo perse di vista la sua destinazione finale. Ogni giorno ardeva sempre più dal desiderio di lanciare il primo sguardo alla terra dove Michael era nato, e dove sarebbe nato anche suo figlio. Per quanto occupata fosse, non perdeva mai il rilevamento di mezzogiorno, quando l'ufficiale di rotta faceva il punto. Pochi istanti prima dello scoccare dell'ora correva sul ponte di comando per la scaletta vietata ai passeggeri, chiedeva ansimando il permesso di entrare all'ufficiale chino sul cronometro (« Permesso accordato ») e si precipitava in plancia. « Sei appena in tempo, Raggio di Sole. » Se ne stava a guardare affascinata gli ufficiali di coperta che si affacciavano al parapetto levando al cielo i sestanti per rilevare il sole a mezzodì, per poi segnare il punto sulla carta e calcolare le miglia di rotta coperte dalla nave nelle ultime ventiquattro ore. « Ecco qua, Raggio di Sole: 17 gradi e 23 primi sud. Centosessanta miglia nautiche a nord est dell'estuario del fiume Cunene. Città del Capo a quattro giorni di navigazione, a Dio piacendo e se il tempo non si guasta. » Centaine studiava avidamente la carta. « Sicché siamo già al largo della costa sudafricana? » « No, no. E l'Africa occidentale tedesca. Era una colonia del Kaiser, ma adesso l'hanno conquistata i sudafricani. » « E che c'è? Giungle, savane? » « Sarebbe bello, Raggio di Sole, ma si tratta di uno dei deserti più dimenticati da Dio che ci siano al mondo. » E Centaine lasciava il ponte di comando e tornava in coperta a guardare a levante, verso il gran continente che giaceva ancora oltre l'orizzonte marino.
« Non vedo l'ora di avvistare finalmente l'Africa! » Quel cavallo era un animale del deserto. I suoi lontani progenitori avevano portato in groppa i re e i dignitari beduini per le roventi desolazioni dell'Arabia. Le sue linee di sangue erano state portate a nord dai crociati, al ben più freddo clima d'Europa, e poi, centinaia d'anni più tardi, erano state ricon. dotte in Africa dalla spedizione coloniale tedesca. Erano gli ani mali sbarcati dalla cavalleria di Bismarck nel porto di Luderitz bucht. In Africa si erano incrociati e rincrociati coi possenti ca valli da tiro dei boeri, e con quelli agili e resistenti alle priva zioni del deserto degli ottentotti, finché ne era uscito quest'ani male, una creatura perfettamente adattata all'ambiente e ai compiti che l'aspettavano. Aveva le narici larghe e la testa affilata dei cavalli arabi, zoc coli grandi e spatolati adatti alla terra sabbiosa del deserto, e grandi polmoni nel torace a barile. Il colore, castano chiarissi mo, respingeva gli infuocati dardi del sole, e il pelo crespo l'isola va sia dall'afa più torrida del mezzodì sia dal gelo rigidissimo della notte. Aveva infine cuore e garretti per portare il cava liere fino agli orizzonti lattiginosi del deserto e oltre. L'uomo che lo cavalcava era lui pure un sangue misto e, co me il suo destriero, un prodotto del deserto e della terra scon finata. Sua madre era venuta fin lì da Berlino quando il padre di lei era stato nominato vicecomandante delle forze coloniali tede sche dell'Africa Occidentale. Qui ella aveva conosciuto e, nono stante l'opposizione della sua famiglia, sposato un giovane boe ro di una famiglia ricca solo di terra e di spirito. Lothar era l'unico figlio di quell'unione, e per volere della madre aveva completato i suoi studi in Germania. Si era dimostrato un bra vo studente, ma lo scoppio della guerra boera l'aveva obbligato a interromperli. Quando tornò non annunciato a Windhoek, sua madre apprese che aveva intenzione di arruolarsi nell'eser cito boero. La sua era una famiglia di guerrieri, sicché fu molto orgogliosa di vederlo partire con un servo ottentotto e tre ca valli di riserva per raggiungere suo padre già in campo contro gli inglesi. Lothar aveva trovato suo padre e suo zio Koos De La Rey a Magersfontein. Lo zio Koos era il leggendario comandante boe ro; Lothar ebbe il battesimo del fuoco due giorni dopo, quan do i britannici cercarono di sfondare sulle colline di Magersfon tein per spezzare l'assedio di Kimberley. All'alba di quella giornata campale Lothar aveva esattamen te quattordici anni e cinque giorni. Uccise il suo primo inglese poco innanzi le sei del mattino. Era un bersaglio molto più facile delle cento e cento antilopi e gazzelle che aveva colpito in corsa in precedenza. Lothar divenne uno dei cinquecento tiratori scelti affacciati alla trincea che lui stesso aveva aiutato a scavare ai piedi delle colline di Magersfontein. L'idea di nascondersi in una specie di fosso dapprima aveva ripugnato ai boeri, cavalieri abituati a spaziare liberamente a spron battuto. Tuttavia il generale De La Rey li aveva convinti a sperimentare la nuova tattica. Così le truppe inglesi che avanzavano ignare verso Kimberley gli erano finite in bocca senza nemmeno vedere, alla luce ingannevole dell'alba, la trincea nemica. Comandava l'avanzata inglese nel settore dove si trovava Lothar un uomo forte e sanguigno, dai favoriti rosso-fiamma. Avanzava una decina di passi davanti agli altri, col kilt che svolazzava al vento, l'elmetto coloniale di tre quarti e la spada snudata in mano. In quel momento il sole sorse sopra le colline di Magersfontein. La sua gran luce arancione inondò l'indifferenziata pia-
nura del veld. Incendiò di luce teatrale gli highlanders della fanteria scozzese che avanzavano tra le pile di pietre che i boeri trincerati avevano disposto qua e là per segnare le distanze. Era la luce ideale per il tiro a segno. Lothar puntò in mezzo alla fronte dell'inglese, ma come gli uomini acquattati al suo fianco sentì nascere in sé una certa riluttanza. La faccenda non sembrava molto diversa da un omicidio. Poi, quasi contro la sua volontà, il Mauser fece fuoco rinculandogli contro la spalla. L'elmetto dello scozzese volò via roteando su se stesso. L'omone aprì le braccia e cadde a terra. L'impatto della pallottola contro il suo cranio fu udito anche da Lothar: era il rumore di un melone che si infrange su un pavimento di pietra. La spada balenò al sole, vorticò, cadde insieme al soldato tra i bassissimi cespugli spinosi. Per tutto il giorno centinaia di fanti scozzesi rimasero letteralmente incollati al terreno, senza poter nemmeno alzar la testa perché di fronte a loro, nella trincea a cento passi di distanza, stavano forse i migliori tiratori del mondo. Il sole africano riusciva a morderli dietro le ginocchia anche sotto il kilt. Queste si gonfiarono e continuarono a gonfiarsi finché la pelle si spaccò come la buccia d'un frutto troppo maturo. I feriti invocavano acqua, e alcuni boeri, dalla trincea, tirarono loro le borracce, ma i lanci risultavano corti. Benché da allora Lothar avesse ucciso cinquanta uomini, avrebbe ricordato quel giorno per tutta la vita. Diceva infatti di esser diventato un uomo proprio quel giorno. Lothar non era di coloro che tiravano le borracce. Anzi, aveva stecchito due inglesi che, strisciando, cercavano di raggiungerle. II suo odio per gli inglesi, appreso in braccio alla madre e al padre, quel giorno aveva preso a fiorire appieno e, negli anni che seguirono, non fece che maturare sempre più. Gli inglesi avevano dato la caccia a lui e a suo padre per il veld come animali selvaggi. La sua amata zia e tre cugine erano morte di difterite in un campo di concentramento, ma Lothar si era lasciato convincere che gli inglesi avevano inserito apposta degli ami da pesca nel pane che davano alle donnè boere per lacerar loro la gola. Era proprio una cosa da inglesi, quella guerra alle donne, alle ragazze, ai bambini. Lui, suo padre e i suoi zii avevano continuato a combattere anche dopo che l'ultima speranza di vittoria era svanita. Si autodefinivano con orgoglio i Bitter Enders, pronti a resistere senza tregua, appunto, fino all'amara fine. Quando gli altri, pelle e ossa per la fame, ammalati di dissenteria e coperti di piaghe in tutto il corpo per il sole e gli strapazzi all'aperto, quelle che chiamano a piaghe del veld », vestiti di stracci e con solo tre proiettili a testa nella bandoliera per il fucile, erano andati ad arrendersi agli inglesi a Vereeniging, Petrus De La Rey e suo figlio Lothar non li avevano imitati. « Chiamo Dio a testimone, il Dio della mia gente », aveva invocato Petrus a capo scoperto nel veld, in piedi accanto al figlio diciassettenne Lothar. « La guerra contro gli inglesi non finirà mai. Lo giuro al Tuo cospetto, o Signore Iddio di Israele. » Poi aveva messo la Bibbia rilegata in pelle nera in mano a Lothar e gli aveva fatto fare lo stesso giuramento. « La guerra contro gli inglesi non finirà mai... » Lothar era rimasto accanto a suo padre, a maledire i traditori, i vigliacchi che si arrendevano, Louis Botha e Jannie Smuts, e perfino suo zio Koos De La Rey. « Voi, voi che avete venduto il vostro popolo ai filistei, possiate vivere tutta la vita sotto il giogo inglese e poi bruciare al!'inferno per diecimila anni. » Così padre e figlio avevano voltato i cavalli e spronato, addentrandosi nella sconfinata e arida terra dominata dall'Impero germanico, lasciando tornare gli altri a far pace con l'Inghil-
terra. E poiché padre e figlio erano forti, gran lavoratori e dotati di naturale astuzia e coraggio, poiché la madre di Lothar era una tedesca di buona famiglia con importanti relazioni e un discreto patrimonio, nell'Africa sud-occidentale tedesca essi avevano prosperato. Petrus De La Rey, il padre di Lothar, era un ingegnere autodidatta di considerevole abilità. Ciò che non sapeva, inventava, secondo il proverbio boero: « Noi ci arrangiamo sempre ». Attraverso le relazioni di sua moglie ottenne il contratto della ricostruzione del frangiflutti del porto di Luderitzbucht e, quando esso fu completato con buon esito, quello di costruire la linea ferroviaria diretta a nord, dal fiume Orange a Windhoek, la capitale del sud-ovest tedesco. Insegnò a Lothar tutto quello che sapeva. Il ragazzo imparava in fretta e nel giro di pochi anni, all'età di ventuno, era socio a pieno titolo dell'impresa di costruzioni De La Rey & Figlio. Sua madre, Christina De La Rey, scelse una bella ragazza tedesca, bionda e di buona famiglia, e la inserì diplomaticamente nell'orbita di suo figlio, che la sposò prima di compiere i ventitré anni. Ella diede a Lothar un bel bambino biondo su cui il giovane cominciò a fare grandi progetti. Ma gli inglesi entrarono di nuovo nella loro vita, a sconvolgerla. Minacciando di far crollare tutta la loro economia, i De La Rey presero a opporsi alle legittime aspirazioni imperiali tedesche. Lothar e suo padre andarono dal governatore Seitz offrendosi di costruire a proprie spese depositi di munizioni e di viveri nelle zone più lontane del paese, per render possibile la difesa contro l'invasione inglese che sarebbe sicuramente venuta dall'Unione Sudafricana, ora governata da quei traditori e voltagabbana di Smuts e Louis Botha. A Windhoek, a quell'epoca, c'era un giovane capitano di marina tedesco, il quale capì subito l'importanza dell'offerta dei De La Rey e indusse il governatore ad accettarla. Con padre e figlio costeggiò il pauroso litorale conosciuto col nome quanto mai appropriato di Costa degli Scheletri, per scegliere una base adatta in cui il naviglio germanico potesse far scalo e rifornimento di combustibile, munizioni e viveri anche dopo una eventuale cattura nemica dei porti di Luderitzbucht e Walvis Bay. Scoprirono una baia riparata e fuori mano trecento miglia a nord dei quasi indifesi scali di Walvis Bay e Swakopmund, un luogo quasi impossibile da raggiungere per via di terra, perché circondato da insuperabili deserti. Caricarono un piccolo vapore mercantile del materiale necessario spedito in segreto dalla Germania: cinquecento tonnellate di nafta in bidoni da duecento litri, pezzi di ricambio per motori marini, cibo in scatola, armi leggere e munizioni, granate per cannoni navali e quattordici siluri acustici Mark VII, atti a riarmare i sottomarini tedeschi se mai avessero dovuto operare in quei mari australi. Tutto ciò fu sbarcato mediante scialuppe e interrato sotto le torreggianti dune del vicino deserto. La base segreta di rifornimento fu approntata completamente poche settimane prima dell'attentato a Sarajevo all'arciduca Francesco Ferdinando d'Austria, allorché il Kaiser, per proteggere gli interessi dell'Impero germanico, fu costretto a intervenire contro i rivoluzionari serbi. Immediatamente Francia e Gran Bretagna colsero il pretesto per muovere alla Germania quella guerra che bramavano da tempo. Lothar e suo padre sellarono i cavalli, radunarono i servi ottentotti, dissero addio con un bacio alle donne e ai bambini e scesero di nuovo in campo contro gli inglesi e i loro reggicoda unionisti. Erano seicento uomini, guidati dal generale boero Maritz: raggiunsero a cavallo il fiume Orange e si accamparono
in attesa del mornento di colpire. Ogni giorno venivano raggiunti da altri uomini in armi, uo mini duri, barbuti, rotti al combattimento, con il Mauser in spalla e le bandoliere di munizioni che si incrociavano sull'ampio petto. E ogni volta il nuovo gruppo portava notizie, che erano sempre buone. I vecchi commilitoni si radunavano al grido di « Commando! » Dappertutto i boeri ripudiavano la proditoria pace conclusa da Smuts e Botha con gli inglesi. Tutti i vecchi generali boeri scesero in campo. De Wet si accampò nella Mushroom Valley, Kemp a Treurfontein con ottocento uomini, Beyers e Fourie si pronunciarono anch'essi per la Germania e la lotta agli inglesi in campo aperto. Smuts e Botha non avevano molta voglia di innescare quella che si annunciava chiaramente come una guerra civile tra boeri. Le forze armate dell'Unione Sudafricana consistevano infatti per il settanta per cento di soldati di origine boera. Presero a corteggiare i ribelli, a implorarli, a inondarli di lusinghe e promesse, mandando emissari ai loro campi di raccolta, sfiancandosi allo scopo di evitare spargimento di sangue, ma ogni giorno le forze ribelli diventavano più forti e fiduciose. Poi li raggiunse un messaggio portato da un cavaliere che aveva attraversato a spron battuto il deserto da Windhoek. Era un messaggio del Kaiser in persona, inviato al governatore Seitz. L'ammiraglio Graf Von Spee aveva vinto con i suoi incrociatori una grande battaglia navale a Coronel, sulla costa cilena. Il Kaiser gli aveva ordinato di doppiare Capo Horn e attraversare l'Atlantico meridionale per bloccare e bombardare i porti sudafricani in appoggio alla ribellione dei boeri contro gli inglesi e gli unionisti. Sotto il terribile sole del deserto i boeri cantarono e lanciarono urla di gioia. Adesso erano sicuri che la loro parte era destinata a vincere. Aspettavano solo che gli ultimi generali boeri li raggiungessero per intraprendere la marcia su Pretoria. Koos De La Rey, lo zio di Lothar, divenuto vecchio, debole e indeciso, non si era ancora schierato. Il padre di Lothar gli mandava continui messaggi per sollecitarlo a unirsi a loro, ma egli vacillava, ingannato dalle false promesse di Jannie Smuts e dalla sua malriposta devozione per Louis Botha. L'altro leader boero che aspettavano era Koen Brits, un gigante di granito, alto due metri e cinque centimetri, capace di bere una bottiglia di liquore con l'indifferenza con cui un uomo normale si sarebbe scolato una gazzosa, di sollevare un bue, sputare una cicca di tabacco a venti passi (misurati) e colpire col Mauser un'antilope saltante in corsa a duecento passi. Avevano bisogno di lui perché, una volta che avesse deciso da che parte schierarsi, mille uomini l'avrebbero seguito. Tuttavia, Jannie Smuts mandò a quest'uomo notevole un messaggio così concepito: « Chiama a raccolta i tuoi, Oom Koen, e scendi in campo con me ». La risposta fu immediata: « la, mio vecchio amico, siamo già armati e a cavallo e pronti a partire. Contro chi combatteremo? Tedeschi o inglesi? » Così la causa unionista si assicurò Brits. Infine Koos De La Rey, dirigendosi all'incontro finale con Jannie Smuts, nel corso del quale avrebbe preso la sua decisione, incappò in un blocco stradale della polizia appena fuori Pretoria, diede ordine all'autista di tirare dritto e un cecchino lo stecchì con una pallottola in testa. Fu così che persero anche De La Rey. Naturalmente Jannie Smuts, quel diavolo astuto e gelido, aveva la scusa pronta. Disse che il blocco stradale doveva impedire la fuga di una famosa banda di rapinatori di banche, la
banda Foster, che aveva appena fatto un colpo nella zona, e che la polizia aveva aperto il fuoco per un equivoco sull'identità del generale. Tuttavia i ribelli non la bevvero. II padre di Lothar pianse pubblicamente alla notizia dell'assassinio di suo fratello, e tutti seppero che da allora in poi non si poteva più tornare indietro, bisognava conquistare la terra col fucile in pugno per ché il tempo delle trattative era finito. Tutte le forze dei ribelli, secondo il piano, dovevano riunirsi col generale Maritz sul fiume Orange, ma avevano sottovalutato la nuova mobilità del nemico, che aveva le recenti automobili a benzina. Avevano anche dimenticato che Botha e Smuts si erano già dimostrati, da un pezzo, i migliori generali boeri. Quando alla fine si mossero, i due lo fecero con la mortale rapidità di un mamba irritato. Piombarono addosso a De Wet nella Mushroom Valley e lo distrussero con l'artiglieria e le mitragliatrici. Vi furono perdite terribili da parte ribelle, e De Wet scappò nel Kalahari, inseguito da Koen Brits con una colonna motorizzata che lo catturò nel deserto a Waterburg. Poi gli unionisti tornarono indietro e impegnarono Beyers e i suoi presso Rustenberg. Persa la battaglia, Beyers cercò di fuggire attraversando a nuoto il fiume Vaal in piena. Gli stivali colmi d'acqua lo tirarono a fondo e il suo corpo fu ritrovato quakhe giorno dopo su un sabbione a valle. Sul fiume Orange, frattanto, Lothar e suo padre aspettavano l'inevitabile annientamento, ma prima degli unionisti li raggiunse una pessima notizia. L'ammiraglio inglese Sir Doveton Sturdee aveva intercettato Von Spee alle Falkland e gli aveva affondato i grandi incrociatori Scharnhorst e Gneisenau, nonché il resto della squadra, con solo dieci perdite tra i marinai inglesi. La speranza di soccorso ai ribelli si era inabissata con la flotta tedesca. Tuttavia combatterono, irriducibili, quando arrivarono gli unionisti, ma invano. II padre di Lothar si prese una pallottola nella pancia e il figlio lo portò via dal campo di battaglia cercando di riuscire a condurlo attraverso il deserto a Windhoek. dove la madre avrebbe potuto curarlo. Erano quasi mille chilometri terribili, senz'acqua. La sofferenza del vecchio era tale che Lothar piangeva per lui, la ferita si infettò del contenuto degli intestini perforati e il fetore attirò le iene, che presero a girare intorno al fuoco del campo tutte le notti. Ma il vecchio era un uomo molto forte e gli ci vollero parecchi giorni per morire. « Figlio mio, promettimi », disse con l'ultimo respiro che puzzava di morte, « promettimi che la guerra contro gli inglesi non finirà mai. » « Te lo prometto, padre. » Lothar si chinò su di lui, lo baciò sulla guancia. Il vecchio sorrise e chiuse gli occhi. Lothar lo seppellì nel deserto, in una buca profondissima, così che le iene non potessero fiutarlo e riesumarlo per divorarne il corpo. Poi proseguì verso Windhoek. Il colonnello Franke, comandante tedesco della piazza, riconobbe il valore di Lothar e l'incaricò di addestrare un corpo di esploratori scelti per combattere nel deserto. Lothar mise insieme un pugno di induriti boeri, ottentotti delle truppe coloniali tedesche e guerrieri negri dei villaggi dell'interno e li portò nel deserto ad aspettare l'invasione delle truppe unioniste. Smuts e Botha arrivarono con 45.000 uomini per via mare, sbarcando a Swakopmund e Luderitzbucht. Da lì si diressero verso l'interno, utilizzando la loro tattica abituale: rapide marce forzate, spesso senz'acqua per molti chilometri, accerchiamenti, attacchi da due direzioni. Avevano le autoblindo, e presero a usarle come nella guerra boera avevano usato la cavalle-
ria. Contro quella moltitudine Franke aveva a disposizione 8000 uomini, per difendere un territorio di oltre 500.000 chilometri quadrati con uno sviluppo costiero di quasi duemila. Lothar e i suoi scouts si opposero agli unionisti con una tattica tutta loro. Avvelenarono i pozzi davanti alle truppe nemiche, fecero saltare le linee ferroviarie, aggirarono il grosso e attaccarono i convogli di rifornimenti, disposero insidiosi campi minati, tesero imboscate e si lanciarono in azioni di guerriglia tutte le mattine e tutte le sere, fino agli estremi limiti della resistenza anche di uomini avvezzi alla dura vita del veld come loro. Ma tutto fu vano. Botha e Smuts strinsero in una morsa impossibile da spezzare l'esiguo esercito tedesco, e con perdite limitate a 530 tra morti e feriti imposero al colonnello Franke la resa senza condizioni. Ma non a Lothar De La Rey. Per onorare la promessa che aveva fatto a suo padre morente, egli condusse ciò che restava della sua banda di guerriglieri a nord, nel temuto kakao veld, per continuare il combattimento. La madre di Lothar, Christina, sua moglie e suo figlio furono internati in un campo per cittadini tedeschi istituito dagli unionisti a Windhoek. Là, tutt'e tre morirono. Si trattò di un'epidemia di febbre tifoide, ma Lothar De La Rey ne considerò responsabili i nemici, e nel deserto alimentò il proprio odio e lo fece divampare, perché era tutto ciò che ormai gli restava. La sua famiglia era stata distrutta dagli inglesi, le sue tenute confiscate e la terra divisa. L'odio era il carburante che lo faceva andare avanti. Alla sua famiglia assassinata stava pensando ora, a cavallo, sulla cresta di una delle alte dune che guardavano l'Oceano Atlantico dalle acque verdi dove fumava, nel sole del mattino, la corrente di Benguela. Il viso di sua madre sembrava alzarsi dalle volute di nebbia. Era stata una donna bellissima. Alta e statuaria, con biondi capelli folti che, quando li spazzolava, le arrivavano alle ginocchia, ma che di solito portava intrecciati a crocchia sulla sommità del capo per rendersi ancora più alta e imponente. Anche i suoi occhi erano color del miele, con lo sguardo altero e diretto del leopardo. Cantava Wagner, una parte di Valchiria, e aveva trasmesso a Lothar il suo amore per la musica, la cultura e l'arte. Gli aveva anche trasmesso la sua bellezza dai classici tratti teutonici e i folti ricci che ora ricadevano sulle spalle del giovane da sotto il cappellone tradizionale, detto terai, baldanzosamente adornato di piume di struzzo che, infilate nel nastro, ondeggiavano qua e là. Come quelli di Christina, anche i suoi capelli erano color del bronzo lucidato, ma le sopracciglia erano scure e folte, sopra gli occhi dorati da leopardo che ora scrutavano le nebbie argentee della corrente di Benguela. La bellezza della scena commuoveva Lothar come una musica. Come violini che suonassero Mozart, creava al centro dell'anima sua lo stesso sentimento di mistica malinconia. II mare era verde e calmo, nemmeno uno spruzzo di spuma ne imbiancava la superficie vellutata. Il suo respiro sommesso e dolce sembrava quello dell'intero creato. Tuttavia lungo il bagnasciuga la folta vegetazione di alghe scure assorbiva il movimento del mare e non vi erano bianchi frangenti. Le alghe danzavano un lento e garbato minuetto, chinandosi e ondeggiando al ritmo dell'oceano. I due promontori che chiudevano la baia erano formati di rocce stratificate che si erano spaccate in forme gcometriche. Erano tutte segnate, dagli escrementi degli uccelli marini e delle foche, di strie bianche. I mantelli delle foche brillavano nel sole offuscato dalla nebbia e i loro versi strani echeggiavano
nell'aria senza vento fin dove stava Lothar, in alto sulla cresta della duna. In mezzo alla baia la roccia cedeva a una spiaggia terrosa color manto di leone, e dietro la prima duna si stendeva una laguna molto ampia, di acqua intrappolata e cinta da canne palustri che costituivano in quel paesaggio l'unica vegetazione. In quelle acque torbide sostavano legioni di fenicotteri rosa dalle lunghe zampe. Il colore meraviglioso di questa massa di volatili era acceso come un fuoco ultraterreno, e attirava lo sguardo di Lothar distogliendolo dall'oceano. I fenicotteri non erano gli unici uccelli di quella laguna. C'erano stuoli di pellicani e tante altre varietà di uccelli di palude nutriti da quelle acque fcraci. Le dune dove Lothar aspettava sembravano il dorso scaglioso di un mostruoso serpente che si torcesse e ritorcesse lungo il litorale, alzandosi fino a centocinquanta metri sopra il liveIlo del mare contro il cielo pieno di foschia. Le forme delle dune erano varie e bizzarre. Continuamente rimodellate dal vento marino, alcune erano tondeggianti e gibbute, altre appuntite fino a parer fatte di roccia aflilata e tagliente. All'improvviso in mare ribollì una macchia scura. La superficie di velluto verde prese il colore del ferro brunito. Lothar sobbalzò nervosamente per l'impazienza, aguzzando lo sguardo. Era forse ciò che aspettava ormai da settimane? Alzò il binocolo che portava al collo e provò una fitta di delusione. Era solo un branco di ipesci, ma che branco! Punteggiavano il mare fin dove si stendeva lo sguardo, affiorando a nutrirsi di plancton, il ricco plancton che colorava di verde l'acqua dell'oceano. Si trattava di sardine lunghe non più d'una spanna, ma, con la forza dei milioni e milioni di individui, riuscivano a smuovere il mare, a farlo ribollire di vita. Sopra questa possente moltitudine strillavano isterici i gabbiani e gli altri uccelli marini, che si tuffavano a nutrirsi levando piccoli spruzzi di spuma. Squadroni di foche imperversavano tagliando il banco di pesci in tutte le direzioni, come una cavalleria marina, rompendo l'acqua e banchettando a man salva. In quel ribollire argentato, alte e imponenti come vele, incrociavano rapide le pinne triangolari degli enormi squali oceanici. Per un'ora Lothar rimase a guardare affascinato, poi di colpo, come a un segnale, l'intera massa vivente s'immerse, e nel giro di pochi secondi l'oceano fu di nuovo immoto e silente. L'unico movimento tornò a essere il quieto va e vieni delle alghe con le lente volute dei banchi di nebbia sotto il sole pallido. Lothar scese da cavallo, gli impastoiò le zampe, prese un libro dallo zaino e si sedette a leggerlo sulla sabbia tiepida. Ogni pochi minuti alzava gli occhi dalla pagina e guardava il mare, ma le ore passavano e alla fine si alzò, si stirò e tornò al cavallo. Anche quel giorno la sua attesa era stata vana. Con un piede nella staffa si fermò ancora una volta e tornò a scrutare attentamente il mare ora arrossato dai bagliori del tramonto. E poi, proprio mentre guardava, il mare si aprì davanti ai suoi occhi e ne uscì un'enorme sagoma scura, l'immagine del Leviatano, ma più grande di qualunque cosa viva celassero gli oceani. Scintillando e stillando rivoli d'acqua dal ponte e dalle fiancate d'acciaio galleggiò all'improvviso in superficie. « Finalmente! » gridò Lothar per l'eccitazione e il sollievo. « Credevo non venissero mai. » Guardò avidamente nel binocolo la sinistra sagoma bislunga. Distinse le incrostazioni di molluschi e alghe che ne ingombravano la carena. Era in mare da molto tempo, chissà quanto, sballottato dagli elementi. La sigla sulla torretta era ormai quasi cancellata: « U-32 ». Lothar riuscì a leggerla con difficoltà. Poi dei movimenti sul ponte del sommergibile attirarono la sua
attenzione. Da uno dei boccaporti sbucarono i cannonieri e corsero al pezzo di poppa, che sparava a fuoco rapido. Non intendevano correre rischi. Lothar vide il cannone che brandeggiava verso di lui, pronto a rispondere al minimo gesto ostile proveniente dalla spiaggia. Sulla torretta apparvero delle testoline. Vide binocoli puntati verso di lui. In fretta Lothar prese la pistola lanciarazzi nello zaino. Un lampo rosso descrisse un arco sul mare, immediatamente seguito da uno lanciato dal sottomarino. Lothar spronò il cavallo giù dalla duna. Scivolarono tra rivoli di sabbia smossa. In fondo, Lothar lanciò il cavallo al galoppo sulla spiaggia umida e compatta, sventolando il cappello, in piedi sulle staffe, ridendo come un folle. Irruppe nell'accampamento ai margini della laguna e saltò giù, correndo dall'una all'altra capanna di tela e pali di legno a svegliare gli uomini e farli uscire a calci. « Sono arrivati, dannati dormiglioni! Sono arrivati, cuccioli di sciacalli del deserto! Venite! Alzate le chiappe prima che vi marciscano per terra! » Quella che Lothar aveva riunito era un'eterogenea banda di tagliagole. Herero alti e muscolosi, ottentotti gialli e dagli occhi obliqui, dall'aria mongola, fieri korana e ovambo esili e belli, vestiti con eleganza tribale e indumenti presi ai nesnici uccisi, dove gli elmetti e i cinturoni si accoppiavano ai copricapi di piume di struzzo e alle pelli d'antilope e zebra. Erano armati di fucili Mannlicher e Mauser, Martini Henry e LeeEnfield 303, coltelli e lance, ed erano assetati di sangue come licaoni, selvaggi e imprevedibili come il deserto stesso che li aveva nutriti. Riconoscevano un solo padrone: se chiunque altro avesse osato sfiorarli, gli avrebbero tagliato la gola o piantato una palla nel cranio, ma Lothar De La Rey li fece alzare a calcioni e li spinse fuori delle capanne senza complimenti. « Muovetevi, divoratori di merda di iena; gli inglesi ci balzeranno addosso prima che abbiate finito di spidocchiarvi! » Le due lance con cui la merce era stata scaricata erano state nascoste tra le canne pochi giorni prima dello scoppio della guerra. Nelle settimane passate ad aspettare, questi uomini le avevano calafatate di nuovo con stoppa e catrame, approntando scivoli con la legna recuperata sulla spiaggia per calarle facilmente a mare. Dietro le sollecitazioni di Lothar, andarono a prendere le grosse barche tra le canne, venti uomini per ciascuna, data la loro pesantezza. Erano state costruite per trasportare ognuna quaranta tonnellate di guano, e ancora puzzavano di escrementi di uccelli. Erano larghe e profonde, e scivolando sopra i pezzi di legno hscio messi di traverso suHa spiaggia li facevano affondare. Lasciarono le due lance in riva al mare e corsero indietro a prendere i bidoni di carburante sepolti ai piedi della duna. Li trassero dalla sabbia umida e li fecero rotolare giù per la spiag gia. Già Lothar aveva preparato un arganetto e con questo i capaci bidoni furono issati sulle scialuppe. Durante il lavoro la luce svanì e le tenebre notturne la sostituirono, confondendo il sommergibile con le nere acque dell'oceano. « In acqua le scialuppe! Tutti a dare una mano! » gridò Lothar, e i suoi uomini accorsero dal buio circostante e presero a lavorare al ritmo di un canto negro. Ogni spinta riusciva a fare avanzare le scialuppe di pochi centimetri, finché non cominciarono a galleggiare. Lothar stava ritto a poppa con la lanterna in mano, e i suoi rematori spingevano la lancia, immersa fin quasi agli scalmi, nelle fredde acque nere. Nell'oscurità antistante una pila lampeg-
giava di tanto in tanto a indicar loro la strada, finché all'improvviso la sagoma nera dell'U-Boot non comparve imponente al loro fianco un attimo prima che la lancia andasse a sbatterci contro. I marinai tedeschi erano pronti con le cime e uno diede il braccio a Lothar che con un balzo vi si aggrappò e prese a sgambettare sulla ripida murata d'acciaio per montare a bordo. Il capitano del sommergibile l'aspettava sul ponte. « Unterseeboot Kapitan Kurt Kohler », si presentò, salutando e sbattendo i tacchi. Poi diede la mano a Lothar. « Sono molto contento di vederla, Herr De La Rey, avevamo ancora carburante sufficiente a stento per due giorni di navigazione. » Alla luce della lanterna cieca che c'era sul ponte del sommergibile, la faccia del capitano aveva un colorito malsano. La sua pelle presentava il pallore cereo di una creatura che da molto tempo non vede la luce. Le pupille gli erano affondate nelle occhiaie scure, e la bocca sembrava la cicatrice d'un colpo di sciabola. Lothar vedeva bene che quello era un uomo che era giunto a conoscere intimamente la morte nelle buie e segrete profondità che frequentava. « Ha fatto buon viaggio, Kapitan? » « Centoventisei giorni di navigazione e ventiseimila tonnellate di naviglio nemico affondato », annuì il sommergibilista. « Con l'aiuto di Dio, le auguro di affondarne altrettanto nel viaggio di ritorno », disse Lothar. « Con l'aiuto di Dio, e con il suo carburante », replicò il capitano, e guardò sul ponte, dove i primi bidoni si ammucchiavano a bordo. Poi tornò a guardare Lothar. « Avete siluri? » gli domandò ansiosamente. « Stia tranquillo », lo rassicurò Lothar. « I siluri sono pron ti, solo che ho pensato fosse più prudente rifornirsi di nafta prima di riarmarsi. » « Naturalmente. » Nèssuno dei due aveva bisogno di almanaccare troppo per indovinare le probabili conseguenze di una sorpresa da parte di una nave da guerra inglese. Un sottomarino tedesco in emersione, col serbatoio quasi vuoto, in una piccola baia quasi contro la spiaggia... « Ho ancora un po' di schnapps », cambiò argomento il capitano. « Io e gli ufficiali saremmo onorati... » Mentre Lothar discendeva la scaletta di ferro che portava nelle viscere del sommergibile, ebbe un conato di vomito. Regnava una puzza di carattere quasi solido. Si domandò com'era possibile che degli uomini riuscissero a sopportarla per più di pochi istanti. Era la puzza di sessanta uomini che vivono in uno spazio ristretto per mesi e mesi, senza mai rivedere il sole e l'aria, senza la possibilità di lavare né se stessi né i propri indumenti. Era la puzza dell'umidità onnipresente e del fungo verdastro che faceva marcire loro addosso le uniformi, la puzza d'olio di macchine bruciato e di sentina, di cibo grasso e rancido e della paura che ti fa sudare, l'afrore di lenzuola e coperte in cui qualcuno dormiva da 126 giorni senza mai cambiarle, e il fetore dei buglioli che potevano vuotare solo una volta al giorno. Lothar celò il disgusto e si inchinò sbattendo i tacchi, quando il capitano gli presentò gli ufficiali. Sottocoperta, Lothar doveva chinarsi per non sbattere la testa contro il soffitto. Il corridoio tra gli scompartimenti era così stretto che se due uomini vi si incrociavano dovevano mettersi a pancia a pancia per passare tutti e due. Cercò di immaginarsi di vivere in quelle condizioni e si ritrovò a sudar freddo. « Avete informazioni circa il naviglio nemico, Herr De La Rey? » Il capitano versò piccole razioni di grappa nei bicchierini di cristallo e sospirò quando l'ultima goccia di liquore scaturì dalla bottiglia.
« Mi spiace soltanto che le mie informazioni siano vecchie ormai di una settimana », rispose Lothar, alzando il bicchiere di fronte agli ufficiali del sommergibile. Quando tutti ebbero bevuto un sorso proseguì. « Il trasporto Auckland è attraccato a Durban otto giorni fa a far carbone. A bordo ci sono duemila fanti neozelandesi. Dovrebbe ripartire il 15... » Tra gli impiegati statali dell'Unione Sudafricana vi erano molti simpatizzanti della Germania. Uomini e donne i cui genitori e parenti avevano combattuto la guerra boera, o si erano schierati con Maritz e De Wet contro le truppe unioniste. Alcuni avevano parenti imprigionati o magari fucilati per tradimento da Smuts e Botha dopo la repressione della rivolta. Alcuni erano nelle ferrovie, altri nei porti, altri ancora in posti chiave delle poste e telegrafi. In tal modo informazioni di vitale importanza venivano raccolte, messe rapidamente in codice e passate agli agenti tedeschi o agli attivisti ribelli servendosi dei canali di trasmissione delle stesse poste e telegrafi dell'Unione Sudafricana. Lothar tirò fuori la lista degli arrivi e partenze dai porti sudafricani e di nuovo si scusò. « Le mie informazioni sono ricevute all'ufficio telegrafico di Okahandja, ma da lì il mio uomo ha ancora davanti da cinque a sette giorni di deserto per arrivare qua. » « Capisco », annuì il capitano tedesco. « Nondimeno, le informazioni che mi ha dato saranno di importanza inestimabile per aiutarmi a stilare il prossimo piano d'operazioni. » Alzò gli occhi dal taccuino dove aveva annotato i movimenti del nemico che Lothar gli aveva fornito, e per la prima volta notò il disagio del suo invitato. Mantenne la solita espressione attenta e cortese, ma dentro di sé fiammeggiò. « Grande eroe, sei bello come un dio e coraggiosissimo là fuori, col vento in faccia e il sole alto nel cielo! Come vorrei portarti un po' con me e insegnarti il vero significato del coraggio e del sacrificio! Chissà come ti piacerebbe sentire le navi da guerra inglesi incrociare sopra la tua testa gettando bombe di profondità! Vorrei guardarti in faccia, mentre la carica mortale scende verso di te, quando si sente lo scatto del detonatore, quando l'onda d'urto investe lo scafo e l'acqua entra a rivoli dalle commessure, e la luce va via. Ti piacerebbe fartela addosso dalla paura, sentirtela colare giù per i calzoni, odorarne la puzza nel buio? » Invece sorrise e mormorò: « Vorrei poterle odrire un altro po' di schnapps... » « No, no! » disse Lothar con un gesto secco. Questa creatura d'oltretomba e la sua nave puzzolente lo disgustavano e lo facevano star male. « E stato fin troppo ospitale. Devo tornare a terra a dirigere il carico delle lance. Non ci si può fidare di questi negri, sono cani neghittosi e ladri nati, tutti quanti. Capiscono solo la frusta e il bastone. » Lothar scappò, ringraziando il cielo, su per i ripidi scalini e sbucando sulla torretta aspirò con gratitudine l'aria fresca della notte sul mare. Il comandante del sommergibile lo segui sul ponte. « Herr De La Rey, è fondamentale che riusciamo a completare il rifornimento prima dell'alba. Lei capisce che qui siamo quanto mai vulnerabili, contro la spiaggia, in emersione e coi serbatoi vuoti. » « Se potesse mandar giù qualche marinaio ad aiutarci... » Il capitano esitò. Far scendere a terra una parte del suo prezioso equipaggio l'avrebbe reso ancora più vulnerabile. Soppesò in fretta i pro e contro. La guerra del resto era tutta un azzardo dove accanto a ogni rischio c'era la sua ricompensa, e la posta era la morte oppure la gloria. « Le manderò giù venti uomini. » Aveva preso la decisione in pochi secondi, e Lothar, che aveva capito il rischio che cor-
reva, dovette ammirarlo. Bisognava fare un po' di luce. Lothar accese un falò sulla spiaggia con legna secca, schermandolo però verso il mare e confidando in quel riparo, oltre che nella nebbia, per non farsi vedere da qualche nave inglese che passasse al largo. Alla luce del falò caricarono e ricaricarono le scialuppe e fecero diversi viaggi fino al sottomarino. Man mano che i bidoni di nafta venivano versati nel serbatoio, li bucavano e li buttavano a mare dove rapidamente affondavano celandosi nel groviglio di alghe. Pian piano la sagoma allungata s'immergeva in acqua sempre più. Alle quattro del mattino il serbatoio era pieno di nafta e il capitano dell'U-Boot passeggiava come un leone in gabbia sul ponte di comando del sommergibile, guardando la cresta delle dune che il primissimo annuncio dell'alba faceva spiccare contro il cielo ancora buio, e poi subito la scialuppa che si avvicinava bilanciando il lungo siluro tra un bordo e l'altro. « Presto! » disse nel boccaporto ai suoi uomini. Freneticamente, assicurarono le cime intorno al siluro e con l'aiuto di un arganetto lo tirarono a bordo. Già si avvicinava, con un altro di quei mostruosi ordigni, la seconda scialuppa, mentre la prima schizzava verso la spiaggia a ricaricare. Il siluro fu fatto rotolare nell'apposita fessura sul ponte e silenziosamente calato nel sottostante tubo di lancio vuoto. Lentamente la luce aumentava e il ritmo di lavoro diventava più frenetico. Equipaggio e guerriglieri negri si davano da fare per non esporsi al nemico alla luce del sole. Lothar venne in barca con l'ultimo siluro, seduto disinvoltamente a cavalcioni della slanciata torpedine come fosse il suo destriero arabo, e il capitano che lo guardava dalla torretta lo giudicò ancor più irritante. Si può dire che ormai l'odiava, perché era alto, abbronzato e bello; lo odiava per la sua inconscia arroganza, per le piume di struzzo infilate nel nastro del cappellaccio e i riccioli biondi che gli cascavano sulle spalle; ma più di tutto lo odiava perché presto se ne sarebbe tornato a cavalcare nel deserto, lasciando il comandante dell'U-Boot a immergersi di nuovo nelle acque fredde e letali. « Capitano! » Lothar balzò dalla scialuppa sul sommergibile, poi si arrampicò sulla torretta dove stava il comandante. Costui si accorse che il bel viso del guerrigliero era raggiante ed eccitato. « Capitano, è appena giunto uno dei miei uomini con un telegramma. Ha attraversato il deserto in cinque giorni per portarci delle magnifiche notizie. » Il capitano cercò di non lasciarsi contagiare dall'eccitazione, ma involontariamente si ritrovò con le mani che tremavano. « Il vicecomandante del porto di Città del Capo è uno dei nostri. Ci informa che è in arrivo da Gibilterra l'incrociatore pesante Infexible: è salpato il 5 e si dirige direttamente verso Città del Capo. » Il capitano si tuffò nel boccaporto della torretta. Lothar vinse la ripugnanza e lo segui. Lo trovò che già si chinava sulla carta col compasso in mano, sparando domande all'ufficiale di rotta. « Dammi la velocità di crociera degli incrociatori pesanti nemici di la classe! » L'ufficiale consultò rapidamente i rapporti del servizio segreto. « Ventidue nodi a 260 giri è la stima, comandante. » « Ah! » Il capitano stava tracciando la rotta approssimata che da Gibilterra, girando attorno alla grande protuberanza africana, puntava poi rettilinea sul Capo di Buona Speranza. « Ah! » esclamò di nuovo, stavolta con gioia e impazienza. Entro le diciotto di oggi saremo in grado di intercettarne la rotta, se salpiamo entro un'ora. »
Alzò la testa dalla carta nautice e guardò in faccia gli ufficiali che l'attorniavano. « Un incrociatore inglese da battaglia, signori, ma non uno qualsiasi. E l'InNexible, la nave che ha affondato la Scharnhorst alle Falkland. Un premio, e che premio da donare al Kaiser e a das Vaterland! » A parte le due vedette, il capitano Kurt Kohler era solo sulla torretta dell'U-32 e rabbrividiva dal freddo nonostante fosse ben coperto dal maglione bianco dal collo alto che indossava sotto la giacca dell'uniforme. « Motore! » ordinò nell'interfono, e con soddisfazione sentì l'ufficiale che ripeteva l'ordine di sotto. Subito il ponte sotto i piedi del comandante cominciò a vibrare, e sopra la sua testa lo scappamento emise una nuvola di fumo nerastro e puzzolente di olio bruciato. « Sommergibile pronto a partire », confermò la voce dell'ufficiale. Kohler si sentì come sgravato da un immenso peso. Le ore della vulnerabilità erano finite. Erano riusciti a rifornirsi di armi e carburante. La nave tornava viva e fremente sotto di lui, nelle sue mani e il sollievo gli fece dimenticare la stanchezza. « Macchine avanti a sette nodi », ordinò. « Nuova rotta 270 gradi. » Mentre da basso ripetevano il suo ordine, si tirò su la visiera del berretto e puntò il binocolo verso la spiaggia. Già le pesanti scialuppe erano state tirate in secco e nascoste tra le canne dell'invisibile laguna; restavano soltanto, nella sabbia, le scie create dalle carene. La spiaggia era deserta, salvo un cavaliere. Mentre Kohler lo guardava, Lothar De La Rey alzò il cappellaccio e lo sventolò in un turbine di piume di struzzo. Kohler a sua volta levò il braccio destro a salutare, e il cavaliere spronò via, sempre col cappello in mano, e si infilò nel fitto delle canne in una valletta tra due dune, alzando un volo di fenicotteri allarmati. Cavallo e cavaliere scomparvero. Kohler voltò le spalle alIa terra e guardò la prua affilata dell'U-Boot che fendeva la nebbia del mattino. Lo scafo era a forma di spada, uno spadone lungo sessanta metri proiettato verso la gola del nemico da un motore diesel da 600 cavalli vapore. Kohler si abbandonò all'orgoglio e al senso di pienezza che provava sempre all'inizio di una missione. Non si illudeva affatto che le sorti di quel conflitto mondiale dipendessero da lui, e nemmeno dai sommergibili tedeschi considerati nell'insieme. Ciò che potevano fare era soltanto aiutare a rompere il terribile stallo delle trincee dove due sterminati eserciti si fronteggiavano come due pesi massimi scoppiati, che non avevano più nemmeno la forza di alzare il braccio per colpirsi in maniera decisiva, e marcivano lentamente nel fango. Solo in quelle armi affilate, segrete e mortali risiedeva ormai una piccola speranza di strappare la vittoria con la forza della disperazione, prima che fosse raggiunto, sulla strada della sconfitta, il punto di non-ritorno. Se il Kaiser avesse intuito subito il valore dei sommergibili, le cose sarebbero potute andare molto diversamente. Nel settembre del '14, il primissimo anno di guerra, un solo sottomarino, l'U-9, aveva affondato tre incrociatori britannici uno dopo l'altro, ma anche davanti a questa dimostrazione conclusiva l'alto comando tedesco aveva esitato a utilizzare la nuova arma che aveva in mano, per timore delle reazioni scandalizzate del mondo intero, del giudizio semplicisticamente contrario ai « macellai subacquei ». Naturalmente anche le minacce americane dopo l'affondamento del Lusitania e dell'Arabic, dove erano morti parecchi cittadini degli Stati Uniti, avevano contribuito a limitare l'uso dell'arma sottomarina. Il Kaiser aveva avuto paura di destare il dormiente gigante americano, e di vederlo scagliarsi con tut-
to il suo peso contro l'impero germanico. Solo adesso, che era forse troppo tardi, l'alto comando ricorreva ampiamente agli U-Boot, e i risultati erano incredibili, tali da superare le più ottimistiche previsioni. Gli ultimi tre mesi del 1916 avevano visto più di trecentomila tonnellate di naviglio alleato colare a picco per via dei siluri. Era solo l'inizio: nei primi dieci giorni d'aprile del 1917 fu distrutto un tonnellaggio di 250.000, e in tutto il mese di 875.000. Gli alleati barcollarono sgomenti dopo una mazzata così spaventosa. Ora che due milioni di soldati americani freschi si preparavano a traversare l'Atlantico per partecipare alla guerra, era dovere di ogni ufficiale e di ogni sommergibilista tedesco fare qualunque sacrificio gli fosse richiesto. Se gli dèi della guerra avevano deciso di piazzare un incrociatore inglese dell'illustre stirpe dell'InNexible alla portata dei siluri del suo ammaccato battello, Kurt Kohler era pronto a dare con gioia la sua vita e quello di tutto l'equipaggio per aver la possibilità di lanciare le devastanti torpedini. « Macchine avanti a dodici nodi », disse Kurt nell'interfono. Era la massima velocità dell'U-32 in superficie. Doveva raggiungere il punto d'intersezione con la probabile rotta del nemico il più presto possibile. I suoi calcoli indicavano che l'Ingexible sarebbe passato tra le 110 e le 140 miglia al largo della costa: Kurt non aveva la minima voglia di calcolare le probabilità dell'incontro. Dalla torretta dell'U-32 l'orizzonte era visibile per sole sette miglia. La portata dei siluri era duemilatrecento metri. Per contro, il bersaglio era capace di 22 nodi o anche più. Doveva manovrare per portare il proprio battello a circa un miglio dall'incrociatore in corsa, ma le probabilità erano mille volte contrarie anche al semplice avvistamento. Poteva capitargli di vederlo balenare imprendibile all'orizzonte, con l'inconfondibile sagoma a treppiede delle sovrastrutture; e magari di distinguere solo quelle, perché lo scafo era già sotto l'orizzonte. Scacciò questi pensieri e chiamò in torretta il tenente Horsthauzen. Quando il primo uffficiale sbucò sul ponte di comando, Kurt gli impartì gli ordini necessari a raggiungere nel più breve tempo possibile l'intersezione stim,ata delle rotte, col battello pronto all'immersione rapida. « Chiamami alle 18,30, se non succede niente. » La stanchezza di Kurt era aggravata dal mal di testa provocato dallo scappamento del grosso motore diesel. Diede un'ultima occhiata circolare all'orizzonte prima di scendere a stendersi in cuccetta. I banchi di nebbia venivano man mano dispersi dal vento che rinfrescava, il mare incupiva e la rabbia del capitano aumentava sotto la sferza degli elementi. Il sommergibile fendette un'onda alta e spruzzi bianchi inondarono il ponte. Lo schiaffo gelato finì anche in faccia a Kurt. « Il barometro sta scendendo in fretta, comandante. Ho idea che andiamo incontro alla bufera. » « Prosegui in superficie alla massima velocità », gli disse il comandante, ignorando la sua opinione. Non aveva nessuna voglia di considerare complicazioni. Aveva in mente soltanto l'agguato. Scese la scaletta e andò immediatamente al tavolo di comando a compilare il giornale di bordo. Con grafia meticolosa annotò: « Rotta 270 gradi. Velocità 12 nodi. Venti freschi da nord ovest (15 nodi) ». Firmò col nome per intero e si massaggiò le tempie coi polpastrelli nella speranza di ridurre il mal di testa. « Dio mio, che stanchezza », pensò, e poi vide che l'ufficiale di rotta lo sbirciava nel riflesso dell'ottone lucido del qua-
dro comandi. Tolse le mani dalle tempie, vinse la tentazione di andare immediatamente in cuccetta e disse invece al timoniere: « Ispezionerò il battello ». Si preoccupò di fermarsi in sala macchine a complimentare i macchinisti per la rapida ed efficiente procedura di rifornimento, e a prua, nello scompartimento degli addetti al lancio dei siluri, disse agli uomini che venivano ad affacciarsi ai loro cubicoli di restarsene pure sdraiati in cuccetta. I tre tubi di lancio erano carichi e in compressione, e i siluri di riserva erano stipati ordinatamente nell'esiguo spazio che riempivano quasi completamente rendendo difficile ogni movimento agli uomini. Così costoro erano costretti a passare quasi tutto il tempo nelle cuccette, come animali in una fila di gabbie. Kurt diede un colpetto con la mano ad un siluro. « Presto avrete più spazio, ragazzi », disse. « Non appena avremo spedito a Tommy i primi salutini. » Era una vecchia battuta, ma i sommergibilisti risero doverosamente e, dal timbro delle loro risate, Kurt capi che quelle poche ore all'aria aperta vicino al deserto erano bastate a rinfrancarli tutti. Tornato nel cubicolo protetto da una tenda che era la sua cabina, Kurt poté infine rilassarsi un po'. Immediatamente la stanchezza lo sopraffece. Non dormiva da quaranta ore, e in ogni istante era stato sottoposto a un'inenarrabile tensione. Tuttavia, prima di infilarsi faticosamente nel suo buco, prese in mano la fotografia incorniciata dalla nicchia sopra la sua scrivania e guardò l'immagine della placida giovane con un bambino in calzoncini corti di pelle al fianco. « Buona notte, tesori miei », sussurrò. « Buona notte anche a te, secondogenito che non ho mai visto. » La sirena d'immersione lo svegliò ululando come una bestia ferita ed echeggiando dolorosamente nello scafo d'acciaio, sicché fu strappato dal suo sonno profondo e senza sogni e picchiò la testa nel tentativo di uscire in fretta dalla cuccetta incassata. Immediatamente avvertì il rollio e il beccheggio dello scafo. Tempesta. Il pavimento gli si inclinò sotto i piedi, mentre il sommergibile puntava verso il fondo del mare. Aprì la tenda e si lanciò, già vestito, in sala comando, proprio mentre le due vedette rientravano precipitosamente dalla coperta. L'immersione era stata così rapida che, mentre chiudevano il portello, un fiotto d'acqua di mare gli finì sulla testa. Kurt lanciò un'occhiata al cronometro di bordo. Erano le 18,23. Fece un rapido calcolo e stimò che si trovavano cento miglia nautiche al largo della costa, proprio all'inizio della zona da pattugliare. Anche se hon fosse stato costretto all'immersione rapida, Horsthauzen l'avrebbe chiamato nel giro di pochi minuti. « Quota periscopica », ordinò secco al primo timoniere che stava ai comandi. Mentre costui eseguiva le manovre necessarie a stabilizzare l'assetto dello scafo, il comandante ne approfittò per svegliarsi del tutto e dare un'occhiata all'ultimo punto annotato sul libro di bordo. « Profondità nove metri, signore », annunciò il timoniere raddrizzando il sommergibile. « Su il periscopio », ordinò Kurt, mentre Horsthauzen scendeva dalla scala della torretta e prendeva il suo posto di combattimento. « La nave avvistata è grossa, ci mostra rosso e verde e si trova a 60 gradi », fece rapporto con calma il secondo. « Non sono riuscito a distinguere altri dettagli. » Mentre il periscopio si alzava nel sibilo della pompa idraulica, Kurt si chinò, abbassò le manopole laterali e appoggiò la
faccia nella mascherina di gomma, scrutando nell'ottica Zeiss del periscopio e raddrizzandosi man mano che questo saliva, ruotando già sui 60 gradi dell'avvistamento. La lente era ancora oscurata dall'acqua. Bisognava aspettare un momento. « Crepuscolo inoltrato », disse, giudicando la luce in superficie, poi chiese a Horsthauzen: « Distanza stimata? » « Lo scafo è sotto l'orizzonte. » Ciò significava almeno otto o nove miglia, ma le luci di posizione indicavano che si stava dirigendo dritta verso l'U-32. Che le avessero accese indicava che a bordo della nave si sentivano sommamente sicuri di esser soli sull'oceano. La lente si liberò dall'acqua e Kurt, pian piano, fece ruotare il periscopio. « Eccola là! » esclamò col batticuore. Era così tutte le volte che avvistava il nemico. L'emozione non diminuiva mai. « Rilevamento bersaglio », disse seccamente a Horsthauzen, che inserì prontamente il dato nel quadro operativo. Kurt continuava a fissare la preda, sentendo i lombi dolere e le viscere protendersi in quella che sembrava addirittura una bramosia sessuale, quasi contemplasse una bella donna nuda e disponibile: ma quella che accarezzava dolcemente con le dita della destra era la rotella del collimatore. « Distanza bersaglio », ordinò Kurt, appena le due immagini fornite dal periscopio si unirono nel collimatore a formarne una sola, nitida e perfettamente a fuoco. « Rilevamento 75 gradi, distanza 7650 metri », disse Horsthauzen inserendo entrambi i dati nel quadro operativo. « Giù il periscopio! Nuova rotta 340 gradi! » ordinò Kurt. Il grosso e lubrificato cilindro d'acciaio del periscopio tornò ad affondare nel pozzetto ai piedi del comandante. Anche a quella distanza, e nel crepuscolo, Kurt non intendeva rischiare che qualche accorta vedetta potesse avvistare il baffo di spuma che il periscopio avrebbe prodotto sulla superficie del mare, mentre il sottomarino virava, mettendosi sulla rotta d'intercettazione, verso nord. Kurt guardò il primo ufficiale chino sul cronometro al tavolo operativo. Bisognava dargli almeno due minuti prima del rilevamento successivo. Era completamente assorto nei suoi calcoli: cronometro nella destra, sinistra sulle manopole del quadro operativo, simile a un cinese che maneggi il proprio abaco. Kurt si mise a pensare ai calcoli propri, che avevano a che fare con la luce e le condizioni del mare. Il crepuscolo lo favoriva. Come al solito, il cacciatore aveva bisogno di silenzio e segretezza, ma il mare che si stava ingrossando era una fregatura. Le onde che aveva visto infrangersi sulla lente del periscopio potevano deviargli i siluri. « Su il periscopio! » ordinò. I due minuti erano passati. Ritrovò immediatamente la nave. « Rilevamento bersaglio e distanza. » Adesso Horsthauzen aveva tutti i dati che gli servivano. Rapportando i rilevamenti e le distanze del sommergibile al tempo intercorso tra i due avvistamenti, ricavò rotta e velocità della nave nemica. « Il bersaglio segue rotta per 175 gradi alla velocità di 22 nodi », disse, consultando il quadro operativo. Kurt non distolse gli occhi dal periscopio, ma sentì l'eccitazione dell'agguato inondargli il sangue come un fiotto alcolico. L'altra nave stava venendogli dritto in bocca, e la velocità era proprio quella che ci si poteva attendere da una grossa nave da guerra inglese impegnata in una lunga traversata. Guardò la lontana immagine, nella luce che svaniva: studiò le sovrastrutture
appena visibili tra le luci di posizione. Eppure... eppure... non era completamente sicuro. Forse vedeva quel che voleva vedere. Ma, contro il cielo che si andava oscurando, si profilava davvero una forma vagamente triangolare, la sagoma a treppiede che connotava i nuovi incrociatori inglesi da battaglia di prima classe. « Giù il periscopio. » Aveva preso la sua decisione. « Nuova rotta 355 gradi », quella d'intersezione normale, utile per lanciare i siluri. « Si tratta del nostro obiettivo. » Così gli ufficiali non dubitarono più che si preparavano all'attacco. Vide le loro espressioni tendersi nella penombra del sommergibile, e gli uomini scambiarsi occhiate d'intesa. « E un incrociatore nemico. Attaccheremo coi siluri di prua. Tutti ai posti di combattimento. » In breve, da tutti i settori della nave giunsero le conferme che l'equipaggio era ai posti di combattimento e il sommergibile pronto ad attaccare. Kurt annuiva soddisfatto, davanti al pannello d'ottone degli strumenti, cont.ollando la rotta sulla bussola sopra la testa del timoniere, con le mani in tasca per non mostrare il tremito che le scuoteva nell'imminenza del combattimento. Ma un nervo si mise a ballare su una palpebra, facendolo ammiccare sardonicamente, e anche il labbro inferiore si mise a tremare. Ogni secondo sembrava un'eternità, finché non tornò a chiedere conferma della rotta stimata della nave nemica. « Sempre 175 gradi », gli confermò il marinaio che, alla cuffia dell'idrofono, seguiva il motore della nave nemica. Kurt guardò Horsthauzen. « Distanza stimata? » Horsthauzen non levò gli occhi dal quadro operativo. « Quattromila metri. » « Su il periscopio. » Era proprio là dove doveva essere, dunque non aveva cambiato rotta. Kurt si sentì quasi preso dalla nausea per il sollievo. Se avesse avuto il minimo sospetto della sua presenza, la nave avrebbe potuto con tutta semplicità girare su se stessa e filar via, senza nemmeno curarsi di aumentare la velocità, perché il sommergibile non poteva assolutamente raggiungerla. Ma per fortuna stava venendogli incontro senza sospetti. Ormai sul mondo era calata la notte, e i bianchi spruzzi di spuma del mare si intravedevano appena. Kurt dovette prendere la decisione che aveva rimandato fino all'ultimo momento. Eseguì un'ultima ispezione al periscopio sui 360 gradi dell'intero orizzonte, per accertarsi che non ci fossero navi nemiche alle sue spalle, né piccoli incrociatori di scorta a quello grosso. Poi disse: « Punterò dal ponte ». Perfino Horsthauzen sbarrò gli occhi un attimo, e udì il sospiro sbigottito degli altri ufficiali. Il capitano intendeva riemergere proprio sotto la prua di un grande incrociatore nemico! « Giù il periscopio », ordinò Kurt al primo timoniere. « Ridurre la velocità a cinque nodi e far emergere la torretta. » Vide le lancette degli strumenti vibrare e poi cominciare a spostarsi, mentre velocità e profondità diminuivano. Si recò alla scaletta. « Vado su », disse a Horsthauzen. Salì sulla scaletta e in cima girò la ruota del portello. Quando il sottomarino riemerse, fu la stessa pressione interna a far saltare il portello attorno al perno come un tappo di champagne. Kurt si lanciò fuori, prendendo immediatamente in faccia vento e spuma. Tutt'intorno a lui il mare ribolliva, e il battello rullava e beccheggiava. Proprio su questo contava Kurt per riemergere senza rendere troppo visibile la torretta. Con un
solo sguardo si assicurò che il nemico gli venisse direttamente incontro senza mutar direzione, poi si chinò sul quadro di puntamento nella parte prodiera della torretta e parlò nel portavoce. « Pronti all'attacco! Disporre lanciasiluri di prua! » « Lanciasiluri di prua pronti », disse Horsthauzen da sotto. Kurt cominciò a dargli i dati di distanza e rilevamento, mentre il primo ufficiale li trasformava, sul quadro operativo, in rotta direzionale per i siluri e li passava poi al timoniere che, con piccole, continue correzioni, si teneva sempre allineato al bersaglio. « Distanza 2500 metri », disse Kurt. Era la portata massima di tiro, ma la nave nemica si stava avvicinando in fretta. Sui suoi ponti superiori c'erano le luci accese, ma a parte questo si trattava di una gran massa nera. Non c'era una sagoma ben definita che si stagliasse contro il cielo notturno, benché Kurt riuscisse ora a distinguere, contro qualche rara stella, i tre fumaioli. Quelle luci turbarono Kurt. Nessun capitano della marina da guerra britannica avrebbe trascurato l'elementare precauzione dell'oscuramento. Un venticello di dubbio raffreddò il fervore della battaglia imminente. Restò a guardare l'enorme bastimento e per la prima volta, pur avvezzo com'era a quei momenti di pericolo e tensione, si sentì un po' esitante e incerto. La nave che gli si parava davanti era nella precisa posizione in cui, secondo le sue informazioni, doveva trovarsi l'Inglexible, e seguiva l'identica rotta. Era grande come la nave da guerra, aveva tre fumaioli e sovrastrutture a treppiede, e procedeva a 22 nodi: tuttavia, aveva le luci accese a bordo. « Ripetere distanza, prego » si sentì incalzare da Horsthauzen, di sotto. Kurt sobbalzò. Si era completamente dimenticato di lui. Vide sul quadro la distanza diminuire velocemente e si rese conto che nel giro di trenta secondi avrebbe dovuto prendere una decisione definitiva. « Spariamo a mille metri », disse nel portavoce. Era un tiro a bruciapelo, se così si può dire. Anche col mare mosso non si poteva sbagliare, nemmeno con un siluro solo. Kurt guardò nella lente del collimatore, vedendo le cifre calare in fretta man mano che preda e predatore si avvicinavano. Trasse un lungo sospiro, come un tuffatore in procinto di lanciarsi in fredde acque nere, e poi per la prima volta alzò la voce. « Fuori uno! » Subito Horsthauzen gli diede conferma che il siluro era stato lanciato. Non si udì alcun rumore, non vi fu rinculo. Il lancio della prima torpedine non produsse alcun sensibile effetto sul sommergibile. « Fuori due! » Era la classica salva di tre, il primo a prua, il secondo a metà bersaglio, il terzo a poppa. « Fuori tre! » « Tutti e tre fuori e in corsa! » Kurt alzò gli occhi dal congegno di puntamento e cercò di avvistare la scia dei siluri. La norma era immergersi subito dopo il lancio, e attendere l'esplosione nella sicurezza subacquea: ma stavolta Kurt si sentì quasi obbligato a restare in torretta a vedere. « Quando arrivano? » chiese a Horsthauzen, guardando la gran massa della nave nemica che, ora più vicina, risplendeva di luci come un panfilo da crociera. « Tra due minuti e quindici secondi », gli rispose l'ufficiale. Kurt fece partire il cronometro. Sempre, mentre filavano i siluri, Kurt erà assalito dal rimor-
so. Prima del lancio c'era solo l'emozione della caccia e dell'agguato: adesso pensava agli uomini coraggiosi, marinai come lui, che stava consegnando alle buie e spietate acque dell'oceano. I secondi passavano, e dovette guardare il cronometro per sincerarsi che i siluri non avessero superato la preda senza colpirla. Poi udì il grande scoppio che, anche se atteso, lo faceva sempre sobbalzare, e vide sollevarsi sulla fiancata dell'incrociatore, l'alta colonna d'acqua che scintillava argentea alla luce delle stelle e inondava il ponte di una magica iridescenza. « Il numero uno ha colpito il bersaglio », gridò Horsthauzen nel portavoce, trionfante. Subito un altro tonante scoppio, come se una montagna fosse crollata in mare. « Anche il numero due è arrivato a segno! » Le prime due colonne non si erano ancora posate che arrivò il terzo, a poppa. « Dentro tutti e tre! » Mentre Kurt continuava a guardare, le colonne d'acqua si confusero e poi furono dissipate dal vento, mentre la gran nave proseguiva, come illesa. « Il bersaglio perde velocità », esultò Horsthauzen dal portavoce. « Sta piegando a dritta. » La nave condannata prese a virare senza governo, come voleva il vento. Non sarebbe stato necessario finirla coi siluri di poppa. « Il tenente Horsthauzen sul ponte », disse Kurt nel portavoce. Era il premio d'un lavoro fatto alla perfezione. Sapeva che in seguito l'ufficiale avrebbe raccontato orgogliosamente ai colleghi tutti i particolari dell'affondamento. Il ricordo di quella vittoria l'avrebbe sostenuto, come tutti gli altri membri dell'equipaggio, nei duri giorni di privazioni che sarebbero indubbiamente seguiti. Horsthauzen sbucò dal portello e si mise a spalla a spalla col suo capitano, guardando la colossale vittima. « Si è fermata! » gridò. La nave britannica se ne stava immobile come una roccia in mezzo al mare. « Ci avvicineremo un po' », decise Kurt, e diede gli ordini necessari al timoniere. L'U-32 scivolò innanzi, insinuandosi tra le onde spumeggianti, con solo la torretta che emergeva, avvicinandosi con cautela alla nave colpita. Magari i cannonieri erano ancora ai pezzi e bastava un colpo azzeccato a far colare a picco il fragile sottomarino. « Ascolti! » ordinò a un tratto Kurt, girando la testa per meglio udire i lontani rumori nel vento. « Non sento niente. » « Fermare le macchine! » ordinò Kurt. Subito cessarono le vibrazioni e il brontolio del motore diesel. Adesso si sentiva meglio. « Voci! » sussurrò Horsthauzen. Era un patetico coro quello che portava loro il vento. Urla di uomini feriti e disperati, che si alzavano e svanivano al minimo mutare della brezza; punteggiate da strilli più acuti, forse quelli che si buttavano, o cascavano in acqua dalle murate. « Si è già inclinata molto. » « Affonda di prua. » La gran poppa stava alzandosi, massa nera sullo sfondo stellato. « Va giù fin troppo in fretta. » Sentivano lo schianto delle paratie all'interno dello scafo man mano che l'acqua l'invadeva facendo saltare i compartimenti. « Un uomo al riflettore », ordinò Kurt. Horsthauzen si girò a guardarlo incredulo.
« Ha sentito il mio ordine? » Horsthauzen si riscosse. Andava contro i migliori istinti del sommergibilista farsi vedere così spavaldamente dal nemico; ma si portò lui personalmente al riflettore laterale. « Accenda! » incalzò Kurt, mentre egli ancora esitava. II lungo raggio del riflettore superò con un balzo ottocento metri di mare in tempesta e oscurità, dissipandola e illuminando la fiancata. Era bianchissima. Kurt si gettò sul riflettore, allontanando il suo secondo con una spallata. Afferrò le maniglie e diresse il raggio su e giù per la nave, stringendo gli occhi abbagliati dal candore delle murate: cercò freneticamente e si irrigidì, con le nocche livide per la tensione sulle impugnature. Sotto il fascio di luce balenò il gran simbolo rosso, tragico come un crocifisso. « Madre di Dio onnipotente », sussurrò Kurt. « Cosa ho fatto? » Sbigottito, spazzò le fiancate: il ponte era molto inclinato verso di lui, sicché distinse le figure umane che si affollavano attorho alle lance cercando di metterle a mare. Si vedevano barelle e persone in camice azzurro ospedaliero. Le loro urla e suppliche risuonavano come uno stormo di uccelli che a sera torna al nido. Sotto gli occhi di Kurt la nave si inclinò di botto verso di lui, mandando a gambe levate chi si affollava sul ponte. Tutti rotolarono contro il parapetto uno sull'altro, e cominciarono ben presto, singolarmente o a gruppetti, a scivolare fuori bordo. Una delle lance cadde, capovolgendosi in mare. Dai ponti superiori continuavano a gettarsi persone con alte grida, levando spruzzi candidi quando finivano in acqua. « Che possiamo fare? » sussurrò Horsthauzen accanto a Kurt, guardando la scena illuminata dal riflettore con occhi sbarrati, pallidissimo. Kurt spense il riflettore. Dopo la sua intensa luce, l'oscurità era ancora più tenebrosa. « Niente », rispose Kurt nel buio. « Non ci possiamo far niente. » Poi si voltò e, barcollando, andò verso il portello. In fondo alla scala, aveva recuperato il controllo di sé. La sua voce suonò piatta e inespressiva quando con volto impenetrabile diede gli ordini all'equipaggio. « Vedette sul ponte. Rotta 150 gradi, velocità 13 nodi. » Restò lì, inerte, mentre il sommergibile si allontanava dalla nave che colava a picco, lottando contro l'impulso di coprirsi le orecchie con le mani. Sapeva che mai più sarebbe riuscito a dimenticare quei lamenti disperati e quelle grida: gli sarebbero rimasti nelle orecchie per tutta la vita. « Abbandonare i posti di combattimento » ordinò con la morte nel cuore, i lineamenti cerei imperlati d'acqua di mare e sudore. « Pattugliamento normale. » Centaine era seduta su una cuccetta inferiore della sua corsia preferita sul ponte C. Aveva il libro aperto in grembo. Era una delle cabine più grandi, con otto cuccette, e tutti i giovani lì ricoverati erano feriti alla spina dorsale. Nessuno di loro avrebbe mai più camminato, e nonostante ciò, o forse proprio per questo, costituivano il gruppo più allegro, rumoroso e ciarliero di feriti a bordo del Protea Castle. Tutte le sere, un'ora prima che spegnessero le luci, Centaine si recava da loro a leggere: o questa era la sua intenzione, giacché di solito bastavano pochi minuti perché le opinioni dell'autore scatenassero appassionate discussioni che solo il gong della cena interrompeva. A Centaine tali discussioni piacevano quanto a loro, e sceglieva libri relativi agli argomenti che voleva approfondire, sem-
pre di carattere africano. Quella sera si trattava del secondo volume del Voyage lans l'intérieur de l'Afrique di Levaillant; era scritto in francese, e lei traduceva in inglese leggendo. Era arrivata a un passo che raccontava un'emozionante caccia all'ippopotamo, e tutti ascoltavano avidamente, finché giunse a questa descrizione: « La femmina fu spellata e fatta a pezzi sul posto. Ordinai di portarmi una ciotola e la riempii del suo latte. Sembra meno sgradevole di quello dell'elefante, e il giorno dopo si era quasi tutto trasformato in panna. Aveva un sapore dubbio e un odore veramente disgustoso, ma col caffè era passabile ». Si alzarono urla di schifo dalle varie cuccette. « Mio Dio! » esclamò uno, « 'sti francesi! Uno che beve latte d'ippopotama e mangia rane non può essere che un grandissimo... » Subito tutti si rivoltarono contro di lui. « Sunshine è francese, pezzo di cretino! Chiedile immediatamente scusa! » e lo subissarono di cuscini. Ridendo, Centaine saltò in piedi a ristabilire l'ordine, ma proprio in quella il ponte le si inclinò sotto i piedi e lei ricascò sulla cuccetta, mentre una grossa esplosione rimbombava per tutta la nave. Centaine era appena riuscita a rialzarsi quando si udì un'altra esplosione, ancora più forte della prima. « Che succede? » urlò. Una terza esplosione piombò la nave nel buio e scagliò la ragazza per terra. Nel buio qualcuno le cascò addosso avvolgendola in un viluppo di lenzuola. Si send soffocare e urlò di nuovo. La nave, ormai, echeggiava di grida. « Levati! » Centaine si dibatté per liberarsi, strisciò verso la porta e riuscì a rimettersi in piedi. Nel corridoio regnava una confusione indescrivibile. Grida, ordini, gente che correva da tutte le parti urtandosi: finché l'improvviso inclinarsi del pavimento sotto i suoi piedi non la fece cadere in preda al panico. Si scostò evitando un corpo che le precipitava addosso da una cuccetta superiore, uscì nell'angusto e affollato corridoio e a spintoni e gomitate cominciò a percorrerlo. Nel buio cominciò a suonare l'allarme, un suono acuto e lacerante che aumentava la confusione, e una voce gridò: « La nave affonda, la stanno abbandonando! Resteremo intrappolati qua sotto! » Immediatamente vi fu una corsa alla scaletta in fondo al corridoio, e Centaine si sentì travolta in modo irrefrenabile dalla folla. Dovette cercare disperatamente di restare in piedi per non essere calpestata a morte. D'istinto, cercò di proteggere il ventre, ma fu spinta contro la paratia con una violenza che le fece mordere la lingua. Sentì in bocca il sapore del sangue e si afferrò disperatamente al corrimano della scaletta, riuscendo a restare in piedi nel fiume di gente che le scorreva accanto. « Il mio bambino! » urlò. « Non uccidetemi il bambino! » La nave si inclinò ancora, tra schianti metallici ed esplosioni di vetri; e di nuovo, attorno a lei, scoppiò un tremendo trepestio. « Va a fondo! » strillò una voce accanto a lei. « Dobbiamo uscire! Fammi uscire! » Le luci si riaccesero, e Centaine vide la scaletta che portava al ponte superiore pullulare di uomini che lottavano imprecando, senza più riuscire a salire. « Il mio bambino! » gemé, inchiodata contro la paratia. II ritorno della luce sembrava aver un po' calmato gli uomini che l'attorniavano, inducendoli a vergognarsi del loro cieco terrore. « C'è Sunshine! C'è Raggio di Sole! » urlò una voce. Era un afrikaner grande e grosso, uno dei suoi ammiratori più appas-
sionati. Facendo leva contro la paratia le creò lo spazio necessario a passare sotto le sue braccia e levarsi da lì. « Lasciatela passare. State indietro, bastardi, lasciate passare Sunshine! » Delle mani l'afferrarono e in breve fu issata in cima alla scaletta. « Fa' passare Sunshine! » « Prendi, è Raggio di Sole! » « Passala su! » Perdendo il copricapo e una scarpa, Sunshine arrivò sul ponte superiore, con le carni indolenzite dalla stretta di tutti quegli uomini. Qui, altre mani l'afferrarono e la trasportarono fuori, all'aperto. Era buio e il vento le scompigliava i capelli e le spingeva la gonna tra le gambe. Il ponte era già molto inclinato, ma appena vi mise piede si inclinò ancora di più. Fini contro una manica a vento con una violenza che la fece gridare di dolore. All'improvviso le tornarono in mente i giovani paralizzati che aveva lasciato di sotto, al ponte C. « Avrei dovuto cercare di far qualcosa per loro », si disse, poi pensò ad Anna. Esitando, confusa, si guardò alle spalle. Le scalette erano ancora tutte bloccate dalla ressa. Impossibile tornare di sotto, e tanto meno portar su persone che non erano in grado di camminare. Tutt'intorno gli ufficiali della nave stavano cercando di ripristinare l'ordine: ma la maggior parte di quegli uomini, che pure avevano stoicamente sopportato per mesi o anni l'inferno delle trincee, erano atterriti dalla prospettiva di rimanere intrappolati dentro una nave che affonda, e con gli occhi da pazzi e la faccia stravolta cercavano disperatamente e irragionevolmente di avanzare tutti insieme. Aggrappata alla manica a vento, Centaine era lacerata dalla paura, dall'indecisione e dall'orrore al pensiero delle centinaia di uomini dei ponti inferiori che, l'aveva capito, non sarebbero mai riusciti a raggiungere il ponte. Ma poi, sotto i suoi piedi, la nave riprese a sussultare nelle contrazioni dell'agonia. Dalla manica a vento l'aria uscì sibilando per l'acqua che si riversava a fiotti dalle falle sotto la linea di galleggiamento, e fu quel turbine assordante a decidere per Centaine. « Il mio bambino », pensò. « Devo salvarlo, gli altri non importano. Solo il mio bambino! » « Sunshine! » Uno degli ufficiali l'aveva vista e la raggiunse muovendo cauto sul ponte inclinato e poi prendendola per un braccio. « Devi salire su una scialuppa al più presto, la nave può affondare da un momento all'altro. » Con la mano libera, si tolse il giubbotto di salvataggio e glielo infilò. « Cos'è successo? » ansimò Centaine, mentre l'ufficiale le legava il salvagente. « Siamo stati silurati. Vieni con me. » Se la tirò dietro aggrappandosi a ogni passo, perché era ormai diventato impossibile tenersi in piedi sul ponte inclinato senza servirsi di qualche appiglio. « Una scialuppa! Bisogna che ti ci faccia salire. » Proprio davanti a loro, una scialuppa affollatissima oscillava pericolosamente appesa alle cime dei paranchi che dovevano calarla in mare, mentre un ufficiale urlava ordini nel tentativo di sciogliere il groviglio delle funi. Guardando fuoribordo Centaine vide il mare nero che ribolliva e schiumava. Il vento le spinse i capelli in faccia, quasi accecandola per un istante. Poi, lontano, in mezo al mare, un fascio di bianca luce com-
patta si accese sulle acque nere, e tutti dovettero coprirsi gli occhi per non restare abbagliati. « Il sommergibile! » gridò l'ufficiale che teneva sottobraccio Centaine. « Quel porco è venuto su a vederci crepare. » Il raggio di luce scorreva lungo la fiancata della nave. « Forza, vieni, Sunshine. » La tirò verso la scialuppa, ma proprio in quella la fune del paranco di prua si sciolse prima di quella a poppa e coloro che avevano trovato rifugio sulla lancia furono riversati urlanti in mare, molto sotto, dove le onde si infrangevano spietatamente contro lo scafo della nave colpita. Con un altro bestiale rutto tonante dalle viscere sommerse la nave si inclinò ancora, e Centaine e l'ufficiale scivolarono insieme giù per il ponte cozando contro il parapetto nello stesso istante. Lo spietato raggio del riflettore frugava da una parte all'altra della nave e illuminò anche loro, abbagliandoli, e rendendo ancor più tenebrosa quella notte di tregenda. « Porci! Porci e macellai! » La voce dell'ufficiale era rauca e traboccava d'ira impotente. « Saltiamo giù! » gli gridò Centaine. « Dobbiamo buttarci in mare! » All'esplosione del primo siluro Anna era seduta in cabina, davanti allo specchio. Anche lei aveva passato il pomeriggio con gli uomini del ponte C, e li aveva lasciati solo per aiutare Centaine a prepararsi per la cena. Si aspettava di trovarla in cabina, e quando non la vide si irritò lievemente. « La bimba non ha la minima nozione del tempo », brontolò, ma prima di iniziare la propria toilette le dispose un ricambio di biancheria sul letto. La prima esplosione scagliò Anna giù dalla sedia e le fece battere la nuca contro l'orlo del letto. Restò li stordita mentre esplodevano gli altri due siluri, poi l'oscurità la rese cieca. Si tirò sulle ginocchia, assordata dall'allarme, e si costrinse a cominciare il procedimento che le esercitazioni quotidiane, da quando avevano lasciato Calais, le avevano inciso nella memoria. « Salvagente! » Frugò sotto il letto e tirò fuori il goffo giubbotto, se l'infilò sopra la testa e cominciò a strisciare verso la porta. All'improvviso le luci si riaccesero e, appoggiata allo stipite, si massaggiò ansimando il bernoccolo sulla nuca. La mente le si schiarì e subito pensò a Centaine. « La mia bambina! » Infilò la porta, ma proprio in quella la nave si inclinò e la donna fu nuovamente proiettata dentro la cabina, andando a sbattere contro l'armadio. Dalla toilette cadde lo scrigno di gioielli di Centaine, che Anna raccolse e strinse al seno. « Abbandonare la nave! » strillava una voce fuori della cabina. « La nave affonda! Abbandonare la nave! » Anna aveva imparato l'inglese abbastanza da capire. Il suo senso pratico tornò a imporsi. Lo scrigno dei gioielli conteneva tutto il denaro e i documenti. Tirò fuori dall'armadio la borsa a sacco e ci gettò dentro lo scrigno. Poi si guardò attorno in fretta. Infilò nella borsa le fotografie di Centaine, di sua madre e dello stormo di Michael, incluse nella stessa cornice d'argento, poi apri un cassetto e prese della biancheria pesante e altri indumenti per sé e per Centaine. Chiuse la borsa e si guardò intorno. Aveva preso tutte le cose di valore che possedevano. Tornò alla porta e usci nel corridolo. Immediatamente fu trascinata dal fiume di fuggitivi, quasi tutti uomini che cercavano di infilarsi i giubbotti di salvataggio. Cercò di voltarsi, « Devo trovare Centaine! Devo trovare la
mia bambina! », ma fu trascinata sul ponte verso una delle scialuppe di salvataggio. Due marinai l'afferrarono. « Dai, monta sulla scialuppa, bellezza. Issa! » e, nonostante cercasse di colpirne uno con la borsa, si ritrovò a bordo, in un viluppo di arti appartenenti a estranei. Riuscì a rialzarsi e, sempre stringendo la borsa, cercò di nuovo di scavalcare il parapetto della scialuppa. « Qualcuno trattenga quella stupida », gridò esasperato un marinaio. Mani rudi l'afferrarono e la tennero ferma sul fondo della barca. In pochi istanti la scialuppa si riempì tanto che Anna si ritrovò bloccata tra i corpi altrui, senza poter far nulla se non implorare in francese, fiammingo e stentato inglese. « Lasciatemi scendere. Devo trovare la mia bambina! » Nessuno le badò, e la sua voce fu sommersa dalle grida e dagli ordini, mentre vento e onde scrosciavano ululando contro lo scafo d'acciaio anch'esso agitato da schianti interiori. « Non ce ne stanno più! » gridò una voce autoritaria. « Calatela fuoribordo! » Una discesa rapida e nauseante nel buio, e la scialuppa colpi la superficie dell'oceano con tanta forza da alzare spruzzi che riempirono la barca. Anna si ritrovò di nuovo schiacciata contro il fondo, con la faccia nell'acqua e un viluppo di corpi sopra di lei. Riuscì a riemergere a fatica, e vide che la scialuppa beccheggiava e rollava sbattendo a ogni onda contro la fiancata della nave. « Fuori i remi! » Era ancora la voce di prima, roca e autoritaria. « Tirateli fuori, ragazzi, e via a sinistra! Remate, dannazione, remate! » Si allontanarono dalla chiglia della nave e puntarono al largo per non essere trascinati sott'acqua dal risucchio. Anna, schiacciata sul fondo della barca, stringendo la borsa al petto, guardava l'alta murata che incombeva sopra di loro come una rupe. In quella un gran fascio di luce fiorì dalle tenebre e investi la nave. Scorse lungo la fiancata come un riflettore teatrale, illuminando brevemente scene tragiche: gruppi di uomini che si affollavano disperati al parapetto, barelle che scivolavano lungo il ponte inclinato con su un ferito che si agitava impotente e abbandonato; infine il fascio di luce si fermò per qualche momento sulle grosse croci rosse dipinte sullo scafo candido. « Sì, guarda bene, porco maledetto! » gridò uno degli uomini sulla scialuppa accanto ad Anna, e immetiatamente tutti si unirono a lui. « Assassini! » « Macellai! » Tutt'intorno ad Anna i naufraghi urlavano d'ira e dispera zione. Implacabilmente il fascio del riflettore continuò a frugare, scendendo alla linea di galleggiamento della nave. Il mare era punteggiato dalle teste di chi si era gettato giù dal ponte. Ce n'erano tantissimi, facce bianche che splendevano come specchi nella luce del riflettore, e a ogni istante altri ne volavano giù sollevando alti spruzzi d'acqua, mentre le ondate li sballottavano qui e là, talora sommergendoli o sbattendoli contro la fiancata d'acciaio. Il riflettore risalì al ponte superiore, ormai inclinato a un angolo impossibile, mentre già la prua era immersa e la poppa si sollevava rapidamente stagliandosi contro il cielo stellato. Per un attimo il fascio di luce si fermò su un gruppetto di persone attaccate al parapetto della nave e Anna strillò: « Centaine! » La ragazza era in mezzo al gruppo, con la faccia rivolta al mare, e guardava giù nel tenebroso abisso dove tra poco si sa-
rebbe lanciata, coi capelli neri che le sbattevano nel viso. « Centaine! » gridò nuovamente Anna. Con un agile volteggio ecco la ragazza sopra il parapetto: si bilanciò un attimo in equilibrio, sollevando sulle caviglie la pesante gonna di lana. Era sicura come un'acrobata. Le gambe nude erano bianche, magre e belle, ma mentre saltava giù dal parapetto sembrava fragile come un uccellino, con la gonna a campana che svolazzava nel vento. In un attimo uscì dal fascio di luce del riflettore e cadde nelle liquide tenebre sottostanti. « Centaine! » gridò un'ultima volta Anna, col gelo nel cuore e la disperazione nella voce. Cercò di alzarsi più che poteva, per seguire la caduta di quel corpicino, ma qualcuno la tirò giù, dopo di che il riflettore si spense e Anna, rannicchiata in fondo alla scialuppa, rimase ad ascoltare le grida di chi stava affogando. « Forza, vogate, marinai! Bisogna allontanarsi, o saremo risucchiati giù quando la nave s'inabissa! » Ormai i remi erano stati montati sugli scalmi e gli uomini vogavano a tutta forza. riuscendo tuttavia a spostare solo di poco la scialuppa sovraccarica dalla nave in procinto di colare a piCCO. « Ecco che affonda! » gridò qualcuno. « Oh, mio Dio, che spettacolo! » La poppa della gran nave puntò verso il cielo, sempre più in alto, mentre i rematori si fermavano a guardare. Raggiunta la verticale, la nave rimase ferma per parecchi istanti. La sagoma dell'elica si stagliò contro il cielo stellato: le luci degli oblò erano ancora accese. Lentamente cominciò a scivolare giù di prua, con le tonde luci che tramontavano una dopo l'altra come lune sul mare. Sempre più in fretta, poi, andò a picco, mentre le paratie interne si schiantavano e si sentiva un cigolio sinistro di tutte le strutture, accompagnato dalla fragorosa eruzione di immense bolle d'aria che facevano turbinare il mare circostante di spuma bianca. E di colpo la nave non si vide più, restò solo la spuma bianca ribollente da cui continuavano ad alzarsi colonne d'aria e schiuma in mezzo al nero oceano. Pian piano il fragore cessò e tornarono a distinguersi i richiami dei nuotatori isolati. « Torniamo indietro! Dobbiamo raccoglierne più che possiamo! » Tutto il resto della notte lavorarono sotto la direzione del primo uSiciale della nave, che stava alla barra del timone a poppa della scialuppa. Raccolsero i naufraghi che tremavano dal freddo e dallo shock, accogliendoli a bordo finché la scialuppa non cominciò a imbarcare acqua a ogni movimento. « Basta così! » gridò l'ufiiciale. « Voialtri aggrappatevi ai tientibene! » I nuotatori si affollavano intorno alla scialuppa come topi in attesa ti affogare. Anna era abbastanza vicina a poppa da sentire il primo ufficiale che diceva: « Quei poveretti non dureranno fino al mattino; li spaccerà il freddo, se non ci penseranno gli squali ». Intorno si utivano voci da altre scialuppe, e lo sciacquio dei remi. « La corrente va a quattro nodi in direzione nord-nord-est », sentì dire ancora Anna al primo ufliciale. « Entro l'alba saremo sparpagliati per tutto l'orizzonte. Invece dobbiamo cercare di mantenerci uniti. » Si alzò in piedi e gridò: « Ehi laggiù! Qui scialuppa sedici. » « Scialuppa cinque », rispose una vocina lontanissima. « Vi raggiungiamo! » Remarono nel buio, guidati dalle grida dell'altra barca, e quando accostarono legarono insieme le due scialuppe. Durante
la notte altre due lance di salvataggio infoltirono il gruppo. Nella livida alba grigiastra scorsero un'altra scialuppa a mezzo miglio di distanza. Il mare tra loro era cosparso di relitti e testoline di nuotatori, puntini insignificanti nella smisurata vastità dell'oceano e del cielo. Nelle lance, i naufraghi si stringevano come bestiame nel carro diretto al macello, già caduti in una letargia bovina, indifferenti a tutto, mentre quelli che stavano in acqua andavano su e giù con l'onda sorretti dai giubbotti di salvataggio: una macabra danza della morte, perché già le gelide acque verdastre che a tratti si chiudevano sopra quelle teste avevano succhiato via da quasi tutti i corpi il calore vitale. « Sta' seduta, donna! » berciarono i vicini, quando Anna cercò di alzarsi per guardar fuori. a ci farai finire tutti in acqua, perdio! » Ma Anna ignorò le proteste. « Centaine! » chiamava. « Centaine, dove sei? » Mentre la guardavano senza capire, lei cercava di ricordare il suo soprannome, e alla fine le venne in mente. « Sunshine! » gridò. « Het iemand Sunshine gesienv Qualcuno ha visto Sunshine? » Vi fu un brusio di interesse e animazione. « Sunshine? Era con voi? » La domanda fu rivolta anche ai sopravvissuti che continuavano a galleggiare tra le scialuppe, attaccati ai tientibene. « L'ho vista sul ponte poco prima che la nave affondasse. » « Aveva il salvagente. » « Non è lì con voi? » « No, non c'è. » « L'ho veduta saltare, ma poi l'ho persa di vista. » Anna ricadde giù. La sua bambina era morta. Sentì che la disperazione si impadroniva di lei, rischiando di soffocarla. Guardò fuoribordo i cadaveri che ancora galleggiavano nei giubbotti di salvataggio, e immaginò Centaine uccisa da quelle acque verdi, morta di freddo assieme alla creatura che aveva in grembo. Pianse disperatamente. « No », sussurrò poi. « Dio non può essere così crudele. Non ci credo. Non ci crederò mai. » Questo rifiuto le diede la forza di resistere. « C'erano delle altre scialuppe, Centaine sarà a bordo di una di quelle. » Guardò l'orizzonte offuscato dagli spruzzi. « :E ancora viva, e io la troverò. Dovesse costarmi la vita, la troverò. » Il piccolo diversivo della ricerca della ragazza aveva infranto il torpore causato dal freddo e dallo shock, che aveva colto tutti durante la notte, e adesso tra i naufraghi emersero dei capi capaci di rinfrancare gli altri, equilibrando il peso a bordo delle scialuppe, controllando i rifornimenti d'acqua e di viveri e stabilendo le razioni, visitando i feriti e sciogliendo i cadaveri ancora assicurati alle cime, col giubbotto, per facilitare il lavoro dei rematori. Finalmente si stabili la rotta per la costa, che si trovava cento e più migiia a est. Mettendosi a turno ai lunghi remi, cominciarono a spostarsi pian piano nel vasto mare, lottando contro i flutti che volevano respingerli al largo. « Forza ragazzi! » li esortava l'ufficiale al timone. « Vogate, vogate! » Qualunque attivita serviva a vincere la disperazione, il nemico più pericoloso. « Cantiamo! La sapete Tipperary? Forza, allora! » « It's a long way to Tipperary; it's a long way to go... » Ma vento e mare s'ingrossarono, sballottandoli, impedendo di affondare i remi. Uno dopo l'altro i rematori rinunciarono, accasciandosi sui sedili, e la canzone mori sulle labbra dei naufraghi esausti. Dopo un po' smisero anche di sperare che succedesse qualcosa, e rimasero immobili e come intontiti. Molto do-
po mezzogiorno, il sole fece capolino sotto le nuvole basse per qualche minuto; allora alzarono gli occhi a guardarlo, ma subito la coltre di nubi si chiuse di nuovo sopra l'astro diurno, ed essi chinarono il capo come le margherite spontanee di Namaqua al tramonto. Poi, dalla scialuppa accanto a quella di Anna, una voce disse quasi indifferente: « Non è una nave, quella là? » Per un attimo vi fu silenzio, come se ci volesse un po' di tempo per capire quella frase improbabile. Poi un'altra voce si fece sentire, già più acuta e vivace: « E una nave! » « Dov'è? Dov'è? » Adesso gridavano tutti. « E là, proprio sotto quella nuvola nera. » « Là sotto sì... » « E una nave! » « Una nave! » Qualcuno cercava di alzarsi, altri che c'erano già riusciti sventolavano il giubbotto di salvataggio gridando a squarciagola. Anna strinse gli occhi e guardò nella direzione indicata. Dopo un momento distinse una piccola sagoma triangolare, più scura contro il grigio plumbeo dell'orizzonte. Il primo ufficiale stava già dandosi da fare a poppa: in breve una scia di fumo si alzò nel cielo, e da quella, in alto, sbocciò una corolla rossa e abbagliante. Un razzo di segnalazione. « Ci hanno visti! » « Guardate, guardate, cambiano rotta! » « E una nave da guerra! Ha tre fumaioli! » « Guardate la torretta a treppiede... è un incrociatore di prima classe! » « Perdio, è l'Infexible! L'ho visto l'anno scorso a Scapa Flow! » « Che Dio li benedica! Ci hanno visti! » Anna si ritrovò a piangere e ridere nello stesso tempo, stringendo la borsa a sacco che era l'unico legame che le rimaneva con Centaine. « Andrà tutto bene adesso, bambina mia », le promise. « Adesso Anna ti troverà. Non devi più temere, Anna ti verrà a prendere. » La grigia e paurosa sagoma dell'incrociatore si avvicinava a tutta velocità, fendendo le acque con la prua alta e atElata. Anna era al parapetto dell'InNexible con un gruppo di naufraghi che guardavano avvicinarsi l'immensa montagna a cima piatta appena sorta dall'oceano, a sud. Da quella distanza le proporzioni della montagna erano così perfette, il tavoliere in cima così piatto e ben tagliato, e i ripidi pendii così netti che sembrava scolpita da qualche divino Michelangelo. Gli uomini che stavano intorno a lei erano felicissimi, e si indicavano a vicenda le caratteristiche note del paesaggio man mano che si definivano. Era, per molti di essi, un ritorno che più non osavano sperare, e la loro gioia era patetica e puerile. Anna non condivideva nessuno di questi sentimenti. La vista della terra le causava soltanto un'impazienza corrosiva, che sapeva di non poter dominare a lungo. L'andatura della grossa nave, sotto i suoi piedi, era troppo lenta per lei: il suo cuore considerava ogni minuto trascorso su quell'oceano uno spreco in relazione allo scopo che si era prefissato sulla scialuppa poco prima di essere tratta in salvo, e che era diventato quello centrale della sua vita. Scalpitava, mentre intorno a lei si svolgeva il dramma del
mare e degli elementi, mentre il vento che aveva attraversato senza incontrare ostacoli l'intero Atlantico raggiungeva l'improvvisa massa della grande montagna e, come un cavallo brado che per la prima volta senta il morso, si inalberava sgroppando e creando turbolenze. Davanti agli occhi di Anna una spessa nuvola bianca fiorì sulla cima piatta della montagna e cominciò a ribollire sul margine netto, rovesciando fiotti gelatinosi sul ripido pendio. Mentre gli altri prorompevano in esclamazioni di stupore, lei provava soltanto un irrefrenabile desiderio di metter piede a terra, e avviarsi a nord per cominciare la sua ricerca. Ecco che il vento rabbioso che scendeva giù dal monte investì di nuovo l'oceano, trasformando il suo placido azzurro in una superficie color del piombo, ben presto rotta da bianche creste di spuma. Mentre l'Ingexible doppiava la montagna e s'infilava nello stretto passaggio tra Table Harbour e Roben Island, un altro forte vento, di sud-est, investì Anna all'improvviso, facendola barcollare e obbligandola a girare su se stessa per la violenza della folata. « Al tempo dei velieri, molte grandi navi erano arrivate così vicino alla montagna solo per esserne respinte, con le manovre a pezzi, al largo, senza veder più terra per giorni o addirittura settimane; ma l'Ingexible, una volta conosciuta la forza di quel vento, poté entrare tra i moli di cemento del porto arrendendosi soltanto ai piccoli rimorchiatori a vapore che subito l'attorniarono. Accostò alla banchina con la dolcezza del bacio di un amante, e la folla che l'aspettava sul molo prese a sventolare le mani in segno di saluto, mentre le falde dei vestiti svolazzavano al vento del Capo che recava con sé anche un'interpretazione molto particolare di Rule Britannia da parte della banda. Appena furono abbassate le passerelle, un gruppo di persone si precipitò a bordo: funzionari portuali, ufficiali di marina in bianco tropicale e oro, e altre autorità civili. Adesso, suo malgrado, Anna provò qualche interesse, osservando le bianche costruzioni della città sparpagliate ai piedi delle imponenti alture di roccia grigia. « L'Africa », mormorò. « Tutto qui? Mi chiedo cosa avesse Centaine da... » « Al pensiero della ragazza, tutto il resto svani dalla sua mente: benché continuasse a guardare a terra, non vedeva né udiva più niente, finché un colpetto sulla spalla non la riscosse. Era un mozzo, che l'avverti che un visitatore l'aspettava... Quando fu chiaro che Anna non capiva, il ragazzo la prese per la manica e si fece seguire. All'ingresso del quadrato ufficiali si fece da parte e le accennò di entrare. Anna si fermò sulla soglia, stringendo la borsa e guardando sospettosamente in sala. Ufficiali e visitatori stavano già dando fondo alle riserve di gin and tonic della nave, tuttavia un ufficiale la vide e la riconobbe. « Ah, eccola. Questa è la donna. » Con uno dei civili saliti a bordo si avvicinò ad Anna. Costei lo guardò con attenzione da capo a piedi. Era una figura snella e dall'aria giovanile, che indossava un completo color tortora con panciotto di ottima stoffa e taglio ancora migliore. « Mevrou Stok? » chiese, con qualche diffidenza, e con sorpresa Anna si rese conto che, lungi dall'essere il giovanotto che sembrava, l'uomo aveva una buona ventina d'anni più di lei. « Anna Stok? » ripeté l'uomo. I capelli, radi sulle tempie, incoronavano un'alta e spaziosa fronte da dotto; sulla nuca, però, ricadevano in lunghi ricci ondulati. « Ti taglieremo i boccoli », pensò Anna, e disse: « Ja, sono
Anna Stok ». Egli rispose in afrikaans, che lei comprese senza difficoltà. « Lieto di conoscerla, aangename kennis, sono il colonnello Garrick Courteney, e sono affranto al pari d'i lei per la terribile perdita dei nostri cari ragazzi. » Per un attimo, Anna non capi di che stava parlando. Si diede invece a esaminarlo più da vicino, e si accorse che i capelli incolti dietro gli avevano cosparso le spalle dell'abito di forfora. Dal panciotto gli mancava un bottone, sulla cravatta di seta c'era una macchia d'unto e la punta di uno degli stivali era infangata. « Scapolo- », decise Anna. Nonostante gli occhi intelligenti e la bocca lievemente dura, in lui c'era qualcosa di puerile e vulnerabile, e Anna sentì nascere dentro di sé qualcosa di simile all'istinto materno. L'uomo fece un altro passo nella sua direzione, e quel movimento goffo ricordò ad Anna ciò che il generale Courteney aveva raccontato a lei e Centaine: l'incidente di caccia in cui aveva perduto una gamba. « Dopo la morte in guerra del mio unico figlio », disse Garrick a bassa voce, con uno sguardo cosi malinconico da dissipare le ultime riserve di Anna, « questa nuova perdita è quasi troppo dura da tollerare. Non solo ho perduto mio figlio, ma anche mia nuora e mio nipote ancor prima di conoscerli. » Adesso finalmente Anna fece mente locale e comprese quanto l'anziano gentiluomo le stava dicendo, e di colpo si imporporò con tanta veemenza che Garry, istintivamente, fece un passo indietro. « Non lo dica mai più! » l'incalzò mentre retrocedeva, avvicinando tanto il viso al suo che i nasi quasi si toccarono. « Non osi dire mai più una cosa simile! » « Madam... » balbettò Garry. « Mi spiace, ma non capisco... l'ho forse offesa? » « Centaine non è morta e lei non osi mai più parlarne come se lo fosse! Ha capito? » « Intende dire che la moglie di Michael è ancora viva? » « Sì, Centaine è viva. E naturale che è viva. » « Dov'è? » Gli occhi azzurri di Garrick si illuminarono di gioia. « E quello che lei e io dovremo scoprire », rispose con gran decisione Anna. Garry Courteney aveva preso una suite all'hotel Mount Nelson, su un'altura che domina il centro di Città del Capo. In pratica era l'unico albergo dove un gentiluomo potesse alloggiare, trovandosi a visitare il Capo di Buona Speranza. II suo registro degli ospiti era un libro d'oro: statisti ed esploratori, magnati dei diamanti e ricchi appassionati di caccia grossa, arditi militari e illustrissimi Pari del regno, principi e ammiragli ne avevano fatto la propria temporanea residenza. I fratelli Courteney, Garry e Sean, prendevano sempre lo stesso appartamento d'angolo al piano superiore: da una parte dava sul magnifico parco del governatore della Compagnia olandese delle Indie Orientali, sulle acque della Table Bay e sulle montagne che la chiudevano, lontane e azzurrine; dall'altro lato della suite, i bastioni di roccia grigia della montagna erano così vicini da riempire quasi tutto il cielo. Tali panorami leggendari non distrassero Anna nemmeno per un attimo. Lanciò un rapido sguardo alla sala e poi piazzò la borsa a sacco sul tavolo centrale, mettendosi subito a frugarci dentro. Tirò fuori la cornice d'argento con le fotografie e le mostrò a Garry, che ciondolava indeciso dietro di lei. « Buon Dio, è Michael... » Le prese di mano la fotografia e si mise a guardarla avidamente, poiché era l'immagine più re-
cente, e l'ultima, di Michael. « E così difficile crederlo... » singhiozò Garry prima di continuare. « Potrei averne una copia? » Anna annuì e Garry si mise a guardare le altre due fotografie. « Questa è Centaine? » « Sua madre. » Anna indicò l'altra. « Questa qui è Centaine. » « si assomigliano molto », disse Garry, volgendo le foto alla luce. « La madre è più graziosa ma la figlia sembra più dotata di carattere. » Anna annul di nuovo. « Quindi ora sa perché non può esser morta: è una che non si arrende mai. » I suoi modi diventarono bruschi. « Ma noi stiamo perdendo tempo. Ci serve una carta geografica. » L'inserviente dell'albergo bussò alla porta pochi minuti dopo la chiamata di Garry, e i due spiegarono sul tavolo la carta geografica che aveva portato. « Io non me ne intendo troppo di queste cose », disse Anna. « Mi faccia vedere lei dove è stata silurata la nave. » Garry si era fatto dire la posizione dall'ufficiale di rotta dell'Ingexible e la indicò ad Anna. « Vede? » disse Anna, trionfante. « E a pochissimi centimetri da terra. » Passò il polpastrello sulla costa dell'Africa. « E vicino, è vicinissimo... » « Cento miglia, come minimo. » « Non sia sempre così pessimista! » sbottò Anna. « Mi hanno detto che la corrente va verso la costa, e anche il vento soffiava molto forte verso terra. E comunque io conosco bene la mia ragazza. » « La corrente va a quattro nodi. Quanto al vento... » Garry fece un rapido calcolo. « Non sarebbe impossibile. Ma ci vorrebbero giorni e giorni. » Già Garry si stava divertendo. Gli piaceva questa assoluta sicurezza della donna. Per tutta la vita era stato vittima di dubbi e indecisioni, e non ricordava d'esser mai stato sicuro di niente come questa donna sembrava sicura di tutto. « Dunque, con la corrente e col vento a favore, dove sarà arrivata? Mi faccia vedere il punto preciso della costa. » Garry indicò con la matita il punto che stimava probabile. « Da queste parti, direi. » « Ah! » Anna piazzò un ditone su quel punto della carta e sorrise. Quando sorrideva assomigliava un po' meno a Chaka, il grande e terribile mastino di Garry, che quindi le restituì volentieri il sorriso. « Ecco! E lei conosce questo posto? » « Qualcosa ne so... Ci sono stato con Botha e Smuts nel 1914 come inviato speciale del Times. Sbarcammo qui, a Walvis Bay... la Baia delle Balene... » « Benissimo! » tagliò corto Anna. « Allora non c'è nessun problema, domani ci andiamo e prendiamo Centaine, no? A che ora si parte? » « La fa facile, lei », disse Garry. « Sa, è uno dei deserti più terribili del mondo. » Il sorriso di Anna svanì. « Lei complica sempre tutto », gli disse, corrucciata. « Chiacchiera invece di agire, e intanto che cosa starà succedendo a Centaine? Dobbiamo andarci subito! » Garry la guardò sbalordito. Sembrava che quella donna lo conoscesse già intimamente. Aveva capito subito che era un sognatore e un romantico, contento di vivere nel suo mondo di illusioni, attraverso i personaggi delle sue storie anziché nel duro mondo reale che tanto lo spaventava. « Adesso non è più tempo di chiacchiere, ci sono delle cose da fare. Prima scriviamo una bella lista di queste cose, e poi le facciamo. Cominciamo: qual è la prima? » Nessuno aveva mai parlato così a Garry da quando era bam-
bino. Era colonnello, era insignito di Victoria Cross, era di famiglia ricchissima ed era un famoso storico e Elosofo: il mondo gli tributava il rispetto riservato ai dotti. Intimamente sapeva di non meritare alcuna di quelle distinzioni, e quindi era sempre imbarazzato e confuso. La sua difesa era ritirarsi sempre più addentro nel suo mondo immaginario. « Intanto che fa la lista, dia qua il suo panciotto. » « Madam... » Garry appariva addirittura sbigottito. « Non sono Madam, sono Anna. Adesso dia qua il panciotto, ché ci manca un bottone. » Obbedì pacatamente. « La prima cosa da fare », scrisse Garry, in maniche di camicia, sulla carta da lettera dell'hotel, « è telegrafare al comandante della guarnigione di Windhoek. Avremo bisogno della sua autorizzazione, perché si tratta di una zona militare chiusa. Avremo anche bisogno della sua collaborazione per rifornirci di viveri e acqua. » Adesso che Garry era stato spronato all'azione, lavorava in fretta. Anna sedeva di fronte a lui, attaccandogli il bottone del panciotto con le dita tozze che nascondevano l'ago. « Le provviste, già... dovrà fare un'altra lista per le provviste. » « Certamente... » Garry prese un altro foglio di carta da lettera. « Ecco fatto! » Anna spezzò il filo coi denti e tese il panciotto a Garry. « Adesso può rimetterselo. » « Sì, Mevrou », disse Garry, remissivo e felice. Erano anni che non provava un simile benessere. A mezzanotte passata Garry uscì in vestaglia sul balcone, a respirare una boccata d'aria fresca prima di andare a dormire. E, mentre ripercorreva con la mente gli eventi di quella giornata piena, la sensazione di benessere continuava ad aleggiare in lui. Egli e Anna avevano fatto prodigi. Era già arrivata la risposta del governatore militare di Windhoek. Come sempre, il nome Courteney apriva qualsivoglia porta e procurava l'immediata collaborazione di tutti. Avevano già prenotato i posti sul treno dell'indomani che, in quattro giorni, attraversando il fiume Orange e le desolate Namaqualand e Bushmanland, li avrebbe portati a Windhoek. La spedizione era già quasi completamente pianificata. Garry aveva parlato per telefono, strumento che non godeva delle sue simpatie, al proprietario dei grandi magazzini Stuttaford. Le merci che gli servivano sarebbero state imballate in casse di legno, col contenuto scritto sull'etichetta esterna, e recapitate l'indomani alla stazione ferroviaria. Il signor Stuttaford aveva dato a Garry la sua parola che tutto sarebbe stato pronto per tempo, e aveva mandato subito all'albergo un'auto piena di indumenti da safari sia per Garry sia per Anna. Anna aveva scartato la maggior parte degli indumenti leggeri proposti da Stuttaford come troppo cari o troppo frivoli per lei (« Non son mica una poule! ») scegliendo pesanti abiti lunghi di tela indiana e stivaloni chiodati, e accettando il casco coloniale di sughero solo per le insistenze di Garry: « Il sole africano uccide! » Dietro al casco, la nuca era riparata da una pezza di tela verde. Garry aveva anche procurato di trasferire tremila sterline presso una banca di Wineoek per coprire le spese della spedizione. Tutto era stato fatto con la massima rapidità ed effiaenza. Garry aspirò un'ultima boccata dal sigaro e poi lo lanciò giù dal balcone, rientrando in camera da letto. Gettò la veste da camera sulla sedia e salì, letteralmente, sul letto altissimo, infi-
landosi tra lenzuola fresche come foglie di lattuga. Poi spense la luce. Immediatamente tutti i soliti dubbi e le solite incertezze tornarono ad assalirlo. « E una follia », si disse, e con gli occhi della mente rivide quel terribile deserto fumare nel calore e nella luce accecante del sole. Mille miglia di costa, spazzate da una corrente antartica, così fredda che anche l'uomo più forte non resisteva, vivo, per più di qualche ora... E partivano alla ricerca di una fragile e delicata giovanetta di buona famiglia, incinta, che era stata vista l'ultima volta mentre si tuffava nel gelido oceano da una nave silurata in procinto di affondare, di notte, cento miglia al largo di una costa deserta. Che probabilità avevano di trovarla? Era stupido anche solo provare a calcolarle. « Pura follia », si ripeté, sfiduciato, e di colpo desiderò che Anna fosse lì a spronarlo. Stava ancora cercando una scusa per andare a chiamarla nella sua stanza singola in fondo al corridoio quando cadde addormentato. Centaine pensò che stava annegando. Era stata risucchiata sott'acqua così in profondità che si sentiva spaccare i polmoni sotto la pressione di quell'acqua nera. Aveva la testa rimbombante del fragore della nave che affondava, un fragore mostruoso, e le orecchie che le fischiavano per la pressione. Sapeva di non avere speranza, ma lottò con tutte le sue forze, risoluta a far di tutto per sopravvivere, scalciando e smaniando nell'abbraccio gelido del mare che l'inghiottiva sempre più, opponendosi al bisogno di respirare: la turbolenza dell'acqua e i mulinelli le fecero perdere ogni idea di sopra e sotto, ma continuò a battersi consapevole del fatto che sarebbe morta lottando per la vita del suo bambino. Poi di colpo sentì alleggerirsi la pressione dell'acqua sulle costole, sentì che i polmoni le si gonfiavano in petto e, presa in un turbine di bolle d'aria che uscivano dallo scafo, fu condotta in alto, come una scintilla scaturita da un falò: i timpani le dolevano terribilmente, e il giubbotto di salvataggio le trinciava la carne sotto le ascelle. Giunse in superficie e fu scagliata in alto dalla colonna d'acqua spumante di bolle d'aria. Cercò di respirare, ma nei polmoni le finì ancora l'acqua. Tossì spasmodicamente, finché a un tratto si accorse di inalare dell'aria! Aria dolce e profumata di mare, che però dentro le bruciava come fuoco mentre lei espettorava ansimando come un'asmatica. Lentamente riuscì a controllare la respirazione, ma dalle circostanti tenebre balzavano fuori le onde in successione, sommergendole il capo a sorpresa, sicché per non affogare dovette regolare la respirazione sul ritmo dell'oceano. In mezzo ai marosi spumeggianti, si tastò dappertutto e scoprì di non essere ferita. Non aveva ossa rotte, a dispetto del terribile tuffo dall'altissima murata, e dell'impatto contro l'acqua che le era sembrata dura come selciato. Aveva ancora il pieno controllo degli arti, i sensi funzionavano bene, ma ecco appunto che colse, per la prima volta, l'insidioso insinuarsi del gelo polare di quelle acque tra i vestiti, fin nella carne e nel sangue. « Devo uscire dall'acqua », pensò. « Devo raggiungere una scialuppa. » Si mise in ascolto, e dapprima non sentì che il sibilo del vento e lo scroscio dei marosi. Poi udi delle flebili voci, confuse e lontane, che gridavano aiuto: anche lei aprì la bocca per fare altrettanto, ma arrivò l'onda, bevve ancora e tossi. Le ci volle qualche minuto per riprendersi ma, appena liberati i polmoni, si mise a nuotare verso le voci, rinunciando a chiedere vanamente aiuto a chi non poteva con tutta evidenza darglielo. Le creste delle onde la sommergevano, nonostante il
giubbotto di salvataggio, e lei continuava ad andare su e giù, ma non smise di nuotare. « Devo uscire dall'acqua », si ripeteva, « se no muoio di freddo. Devo raggiungere una scialuppa. » Diede un'altra bracciata e colpi con le nocche qualcosa di solido, escoriandosi, ma l'afferrò all'istante. Era una cosa grossa, che galleggiava sopra la sua testa, ma non presentava appigli e, in preda al panico, si rese conto di essere già troppo esausta per riuscire a issarvisi sopra a forza di braccia. Cominciò a girarci attorno, cercando un modo di salire su quel relitto galleggiante. « Non è molto grosso... » Nel buio giudicò che fosse circa tre metri per due, di legno verniciato ma rotto e scheggiato da una parte, là dove si era scorticata le dita. Il gran freddo, tuttavia, gliele aveva già rese quasi insensibili. Da una parte il relitto era più alto sulla superficie del mare, mentre dall'altra vi si immergeva. Fu qui che riuscì a salire, a pancia sotto. Immediatamente avverti la precarietà dell'equilibrio di quella struttura. Benché fosse salita per metà, e avesse ancora le gambe in acqua, il pezzo di legno si inclinò pericolosamente dalla sua parte, e si senti un'esclamazione di protesta. « Attento, coglione, che ci rovesciamo. » Un altro aveva trovato la zattera prima di lei. « Scusi », anfanò lei, « non l'ho fatto apposta... » « Va be', va be', ragazzo, ma stai attento. » Il naufrago l'aveva scambiato per uno dei mozzi di bordo. « Qua, dammi la mano. » Centaine la tese freneticamente e sfiorò le dita dell'altro, poi riusci ad afferrarle. « Piano, piano che ce la fai. » Scalciava, mentre la mano dell'uomo la tirava sul relitto inclinato e scivoloso; finalmente con la mano libera trovò un appiglio e si stese sul relitto instabile, esausta, tremante, e incapace perfino di alzare la testa. Era fuori dell'acqua. Non sarebbe più morta di freddo. « Tutto bene, figliolo? » Il suo salvatore era steso di fianco a lei, con la testa vicina alla sua. « Sto bene. » Senti la sua mano sulla schiena. « Hai il giubbotto di salvataggio, bravo, ragazzo. Adopera i legacci per attaccarti al relitto. Aspetta, aspetta, te li lego io. » Assicurò Centaine alla struttura con veloci movimenti delle dita esperte. « E un nodo scorsoio; se ci capovolgiamo, tira questo capo, vedi? » « Si. Grazie, grazie tante. » « Aspetta a ringraziare, figliolo. Non siamo ancora salvi. » L'uomo accanto a lei abbassò la testa sulle braccia e giacquero immobili, rabbrividendo, su quel relitto agitato dalle onde e quanto mai instabile. Senza più parlare, senza nemmeno poter scorgere, l'uno dell'altra, più che una sagoma confusa, impararono in fretta ad agire di concerto per tenere in equilibrio la zattera, con piccoli movimenti coordinati del corpo. Il vento aumentava sempre più, ma, benché anche il mare ingrossasse, riuscivano a presentare alle onde il lato più alto del relitto, così da non farsi sommergere ogni volta: solo ogni tanto li schiaffeggiava uno spruzzo d'acqua gelata. Dopo un po' Centaine cadde in un sonno di piombo, quasi una specie di coma. Si svegliò che era già giorno, immersa in una luce livida e grigia che illuminava un mondo di acque e nuvole livide e grige. Il suo compagno sul relitto la stava osservando con gli occhi sbarrati. « Miss Sunshine! » esclamò, quando lei aprì gli occhi e si stirò. « Non l'avevo riconosciuta stanotte, quando è salita a
bordo! » Centaine si rizzò rapidamente a sedere, e il piccolo relitto subito oscillò rischiando di capovolgersi. « Ferma, bellezza; è il prezzo del biglietto », disse l'uomo, tenendola giù con una mano. Sull'avambraccio c'era una sirena tatuata. « Mi chiamo Ernie, signorina, marinaio di prima classe Ernie Simpson. Il suo nome, lo conosco; tutti a bordo conoscevano miss Sunshine, il nostro Raggio di Sole! » Era vecchio e magro, coi capelli grigi incollati alla fronte dall'acqua e dal sale, e la faccia tutta piena di piccole rughe; ma, benché avesse i denti gialli e scheggiati, il suo sorriso era gentile. « Cos'è successo agli altri, Ernie? » Freneticamente, Centaine si guardò intorno, ricadendo subito nell'abisso d'orrore della situazione. « Quasi tUtti affogati. Sia maledetto il crucco che l'ha fatto. » La notte aveva nascosto a Centaine la gravità della loro situazione. La realtà che le si rivelava adesso era di gran lunga più terribile di quanto avesse immaginato. Quando affondavano tra un'ondata e l'altra, i plumbei canyon oceanici sembravano volerli inghiottire; ma allorché si trovavano sulla cresta dell'onda, l'assoluta solitudine circostante costringeva Centaine a chinare gli occhi sul tavolato. Non si vedeva che acqua e cielo, non una scialuppa, non un naufrago, nemmeno un gabbiano. « Siamo soli », sussurrò. « Tous seuls. » « Sta' allegra, bellezza, che finora ci è andata bene. Siamo ancora vivi, e solo questo conta. » Mentre lei dormiva, Ernie si era dato da fare. Dal mare aveva recuperato altri relitti, che ora la piccola zattera si trascinava dietro: un grosso lembo di tela con degli occhielli da cui si dipartivano funicelle come tentacoli sottili di una piovra. « La cappa di una lancia di salvataggio », disse Ernie, cogliendo il suo interesse. « Pezzi di sovrastrutture della nave e altre cosette che potrebbero venir buone... non si sa mai. » Aveva legato assieme quei relitti con parte della corda recuperata dalla copertura della scialuppa. Mentre parlava a Centaine, le sue dita escoriate ma abili stavano continuando ad annodare i vari spezzoni rimasti per allungare la cima. « Ho sete », sussurrò Centaine. Il sale le faceva bruciare la bocca, e aveva le labbra secche e screpolate. « Pensa a qualcos'altro », le consigliò Ernie. « Dammi una mano, piuttosto. Sei capace di impiombare? » Centaine scosse la testa. Ernie s'accinse a insegnarle, e Centaine prevò un empito di simpatia nei confronti dell'anziano marinaio. « E facile, no? Guarda. » Ernie aveva un coltello da marinaio legato alla cintola, e con la caviglia posta all'estremità di esso cominciò ad allentare i legnoli della cima, creando degli occhielli nei quali passava poi uno dei tre piccoli capi dell'estremità disciolta di un altro spezzone. « Ecco, vedi? A uno a uno, come un serpente che s'avvita a un tronco. » Il lavoro l'aiutò a distrarsi un po' dalla terribile situazione. « Sai dove siamo, Ernie? » « Non sono che un marinaio, Sunshine, ma siamo a ovest della costa africana. Quanto sia lontana non lo so, ma è da quella parte. » « Ieri a mezzogiorno era a centodieci miglia di distanza. » « Può darsi benissimo », annui Ernie. « So anche che la corrente ci aiuta, e il vento pure. Ah, se riuscissimo ad approfittarne! » aggiunse, alzando il volto al cielo. « Hai un piano, Ernie? » « Ce l'ho sempre, un piano, anche se, lo ammetto, non sem-
pre è buono. » Le sorrise. « Prima finiamo 'sta cima. » Appena ebbero preparato una cima unica di circa sei metri, Ernie le passò il coltello assicurato alla cordicella. « Legatelo alla vita, bellezza, sarebbe il colmo perderlo adesso. » Si calò in mare di fianco al relitto e, nuotando come un cagnolino, aiutato da Centaine che era rimasta a bordo, usò la corda per assicurare le assi che era riuscito a recuperare dall'affon damento della nave ai fianchi della zattera di fortuna. « Bilancieri », disse Ernie, sputando acqua di mare. « Un trucco che ho imparato dagli indigeni alle Havvaii. » La zattera, adesso, era molto meno incline a rovesciarsi a ogni piè sospinto, ed Ernie si tirò di nuovo a bordo. « Ora possiamo cominciare a pensare a come rizzare un po' di vela. » Ci vollero quattro tentativi falliti per legare insieme a mo' di albero le assi recuperate dal naufragio, e fissarvi la tela che un tempo aveva coperto una scialuppa del Protea Castle. « Non vinceremo sicuramente la Coppa America, ma ci muoviamo. Guarda un po' la scia, Raggio di Solel » Effettivamente dietro la poppa, se così si può dire, del goffo galleggiante si distingueva una scia oleosa. Ernie manovrava il gonfio brandello sbattente con gran serietà. « Facciamo almeno due nodi », giudicò. « Brava, Sunshine, da solo non ci sarei mai riuscito. Sei un tipo in gamba. » Stava appollaiato a poppa della zattera di fortuna, con la scotta della vela in una mano e un'asse che usava da timone nell'altra. « Adesso coricati a riposare un po', bellezza, perché dovremo fare turni di servizio... » Per tutto il resto della giornata il vento li spinse a folate, e per due volte il rozzo albero fu proiettato fuoribordo. Ogni volta Ernie dovette tuffarsi a recuperarlo, e lo sforzo di tornare a fissarlo, sollevandolo insieme alla tela tutta intrisa d'acqua, lasciò Centaine tremante ed esausta. La notte il vento diminuì ma divenne costante, da sud-ovest. Le nuvole si aprirono, sicché a tratti si vedevano le stelle. « Sono stanco morto. Ti toccherà fare un turno al timone, Raggio di Sole. » Ernie le mostrò come manovrare l'asse, che dirigeva a stento la zattera di fortuna. « Quella stella rossa lassù è Antares. La vedi in mezzo alle altre due stelline come un marinaio in franchigia sottobraccio a due belle pupe, con licenza parlando, Sunshine? Comunque, se punti verso Antares a terra ci arriviamo anche noi. » Il vecchio marinaio si rannicchiò ai suoi piedi come un cane fedele, e Centaine si mise a poppa, al timone e alla scotta. Così come era calato il vento, si quietò anche il mare, e l'imbarcazione di fortuna pareva adesso procedere più veloce. Guardando dietro, Centaine vedeva la fosforescenza verde della scia allargarsi in lontananza. Fissava Antares la Rossa con le due compagne salire nella cortina di velluto nero del cielo. Siccome era sola, e atterrita, pensò ad Anna. « Anna cara, dove sei? Sei ancora viva? Hai raggiunto una scialuppa, o anche tu aggrappata a un relitto attendi la sentenza del mare? » Desiderava tanto il senso di sicurezza emanato dalla nutrice che le parve d'esser tornata bambina. e sentì le lacrime infantili salire a scaldarle le ciglia, mentre la luce rossa di Antares si sdoppiava davanti a lei. Voleva strisciare nel grembo di Anna e affondare la faccia nel suo grande seno tiepido e odoroso di sapone; tutta la risolutezza e l'ostinazione di cui aveva saputo dar prova quel giorno si stavano sciogliendo in lei, e cominciò a pensare di abbandonare il suo disperato tentativo di resistenza e sdraiarsi accanto a Ernie, ad aspettare la fine. Singhiozzò forte.
Il suono stesso la fece sussultare, e di colpo si arrabbiò con se stessa per la propria debolezza. Si pulì le lacrime dagli occhi coi pollici, sentendo i granelli di sale che le si erano formati sulle ciglia, e si irritò ancora di più. Poi smise di prendersela con se stessa e invèì contro il destino che l'aveva sottoposta a tante prove. « Perché? » domandò alla grande stella rossa. « Cosa ho mai fatto per meritarmi tutto questo? Mi stai forse punendo? Michel e mio padre, Nuage, Anna... tutti quelli che amavo! Perché mi hai fatto questo? » Si interruppe, rendendosi conto di sfiorare la bestemmia. Si chinò in avanti, appoggiando la mano sul ventre. Rabbrividì dal freddo. Cercò di sentire qualche segno di vita dal bambino che cresceva nel suo corpo, un gon fiore, un movimento, ma fu delusa. e la sua ira rinacque ancora più forte, con un carattere di sfida selvaggia. « Faccio un giuramento. Spietatamente, come sono stata colpita, lotterò per sopravvivere. Tu, Dio o Diavolo, mi hai scagliato addosso tutto questo: ti giuro che resisterò, e che mio figlio resisterà con me. » Delirava. Se ne rese conto, ma se ne infischiò, si era messa in ginocchio e agitava il pugno verso la stella rossa, in segno d'ira e di minaccia. « Forza, vieni! » sfidò. « Vieni giù, e facciamola finita! » Forse si aspettava tuoni e fulmini, ma non ve ne furono. Solo il rumore del vento che gonfiava la miserabile vela, e il ribollire della scia dietro. Centaine tornò a sedersi a poppa afferrando il timone e continuando a puntare mestamente a levante. Alle prime luci dell'alba arrivò un uccello e prese a svolazzarle sopra la testa. Si trattava di un piccolo uccello di mare, grigio-piombo con macchioline bianche. Aveva ali fragili e affusolate ed emetteva stridi solitari e sommessi. « Svegliati, Ernie », gridò Centaine, sputando per lo sforzo, con le labbra quasi tumefatte. Un rivolo di sangue le corse giù per il mento. L'interno della bocca era secco e scabroso come una vecchia pelle di scoiattolo, e la sua sete era una cosa incandescente e viva. Ernie si scosse, si alzò a fatica e si guardò intorno. Durante la notte sembrava essersi prosciugato e ridotto, e aveva le labbra bianche e incrostate di cristalli di sale. « Guarda, Ernie, c'è un uccello! » farfugliò Centaine tra le labbra sanguinanti. « Un uccello », ripeté Ernie fissandolo. « Terra vicina. » L'uccello si volse e sfrecciò via basso sull'acqua, scomparendo immediatamente. A metà mattinata Centaine indicò avanti, con la bocca e le labbra così secche da non poter più parlare. C'era un oggetto scuro che galleggiava davanti alla zattera, sfrangiato. « Alghe! » sussurrò Ernie e, quando arrivarono a portata di mano, le afferrò. Poi gettò il folto cespo di vegetazione a bordo. Erano le cosiddette querce marine, alghe che crescono sulla riva dell'oceano. Hanno un vero e proprio tronco, spesso come un braccio d'uomo, con una corteccia simile a cuoio, e in cima ciuffi di foglie. Evidentemente questo esemplare era stato strappato da poco da una tempesta. Mugolando piano per la sete, Ernie tagliò una sezione del grosso gambo, rivelando sotto la corteccia dura uno strato di polpa attorno all'anima cava. Col coltello raschiò un po' di quella polpa e ne ficcò in bocca a Centaine. Era rorido di linfa. Il gusto era forte e sgradevole, iodico e piccante, ma Centaine gioiva sentendolo scorrere giù per la gola. Si gettarono sulla polpa d'alga, masticandola a lungo e sputandola dopo averla spremuta del tutto. Quindi riposarono un po', sentendo la vita tor-
nare a fluire dentro di loro. Ernie prese di nuovo il timone e diresse la zattera seguendo il vento. Le nubi tempestose erano ormai svanite, e il sole li scaldava, asciugando gli indumenti. Dapprima alzarono grati il viso all'astro diurno, ma ben presto il calore diventò eccessivo, e dovettero rifugiarsi nell'esigua wna d'ombra proiettata dalla vela. Quando il sole raggiunse lo zenit non vi fu più nessun riparo e cominciarono a disidratarsi rapidamente. Si servirono di altro succo d'alga, ma ormai il gusto li nauseava e Centaine comprese che vomitando avrebbero perso liquidi preziosi. Poterono succhiarne solo a poco a poco. Con la schiena appoggiata all'albero, Centaine guardava l'orizzonte, il gran cerchio di acque minacciose che li circondava ininterrotto tranne che a est, dove una linea bassa di nuvole orlava il mare. Le ci volle un'ora prima di rendersi conto che, nonostante il vento, la forma di quelle nuvole non cambiava mai. Avanzavano soltanto, sempre più alte sull'orizzonte. Ormai si distinguevano piccole irregolarità, cime e valli che non cambiavano forma come avrebbero fatto delle nubi. « Ernie », gli sussurrò. « Ernie, guarda un po' quelle nuvole. » Il vecchio marinaio strizzò gli occhi e si alzò in ginocchio. Poi cominciò a emettere uno strano verso gutturale, e Centaine comprese che erano urla di gioia. Si mise di fianco a lui, in ginocchio, e per la prima volta contemplò il continente africano. L'Africa sorgeva dal mare con esasperante lentezza. Poi timidamente si ravvolse nelle vellutate vesti della notte sottraendosi di nuovo al loro sguardo. La zattera proseguì regolarmente nelle ore di buio, mentre nessuno dei due riusciva a dormire. Poi il cielo orientale cominciò a illividire e venne l'alba. Le stelle impallidirono e scomparvero e lì, vicino, davanti a loro, sorsero le grandi dune purpuree del deserto della Namibia. « Che bello! » disse Centaine con un sospiro. « E una terra desolata e terribile », l'avvertì Ernie. « Ma bellissima. » Le dune erano scolpite in varie tonalità di violetto, e quando i primi raggi del sole ne toccarono la « esta, si illuminarono di oro rossastro e bronzeo. « Questione di gusti », farfugliò Ernie. « Personalmente preferisco i prati della vecchia Inghilterra, e tutto il resto vada a farsi fottere, con licenza parlando, Miss Sunshine. » Uccelli marini dal becco giallo volavano in formazione nutritissima da terra verso il largo, abbastanza alti da essere già illuminati dai raggi diretti del sole, e sulla spiaggia si frangevano le onde con un suono che pareva il respiro del continente addormentato. Il vento che da tante ore li sospingeva regolare e costante adesso sentiva la terra e si rompeva in mulinelli e turbolenze. Si rivolse contro la zattera, e l'albero cadde fuoribordo in un groviglio di cime e tela. Si guardarono desolati. La terra era ormai così vicina che sembrava possibile toccarla stendendo una mano, e dovevano passare un'altra volta attraverso la fatica di recuperare albero e vele. Nessuno dei due aveva l'energia richiesta da quest'ultimo sforzo. Alla fine Ernie si tirò su, senza parlare sciolse la cimetta del coltello e lo passò a Centaine, che se lo assicurò alla vita. Intanto il vecchio si calava ancora una volta in mare di fianco alla zattera e, nuotando a cagnolino, andava a recuperare la punta dell'albero gibbuto. In ginocchio, Centaine cercava di sbrogliare il groviglio di tela e cime. Tutti i nodi si erano gonfiati per l'umidità, e doveva usare la caviglia per scioglierli.
Ricostruì poi la cima, e alzò gli occhi quando sentì Ernie gridarle: « Sei pronta, bellezza? » « Pronta. » Attaccata alla cima, si mise a tirare cercando di rimettere in piedi l'albero, mentre Ernie si sforzava di spingerlo su dal mare. Poi qualcosa si mosse dietro la testa del vecchio marinaiov e la ragazza si irrigidì, mettendo una mano a visiera sopra gli occhi. Si domandò perplessa che cosa fosse lo strano oggetto che vedeva filare nell'acqua verde, alto come un torso d'uomo, emettendo barbagli metallici al primo sole. Non era metallo, sembrava piuttosto un bel velluto lucido e scuro. Era a forma di vela, sì, sembrava la vela di una barchetta per bambini... e con una trafittura di nostalgia ripensò ai ragazzini che la domenica si raccoglievano a giocare con le barchette attorno allo stagno del villaggio, prima della guerra, vestiti da marinaretti. « Cosa c'è, bellezza? » Ernie aveva visto che si era fermata e le chiedeva la ragione. « Non lo so », disse, indicando con una mano. « C'è una cosa strana che viene verso di noi... in fretta, molto in fretta! » Ernie si voltò. « Dov'è? Non la vedo... » In quella, un'ondata sollevò la zattera. « Che Dio ci aiuti! » gridò Ernie, schiaffeggiando l'acqua con le mani, cercando freneticamente di risalire sulla zattera. « Cos'è? » « Tirami su! » urlò Ernie, inghiottendo la schiuta che sollevava. « E un grandissimo pescecane! » La parola paralizzò Centaine. Si mise a guardare impietrita la bestia che continuava ad avvicinarsi, mentre la zattera saliva sulla cresta dell'ondata successiva e il sole che ormai illuminava la superficie del mare gliene definiva esattamente i contorni. Lo squalo era di un bel colore blu-notte, lucido ai barbagli del sole sull'acqua, ed era enorme, molto più lungo della loro piccola zattera, con la schiena tonda più grossa delle botti di cognac della cantina paterna a Mort Homme. La coda a pinna doppia guizzava propellendo avanti la bestiaccia che, irresistibilmente attirata dalle convulsioni dell'uomo in acqua, bucava letteralmente le onde. Centaine urlò e si gettò pancia in giù sulla zattera. Gli occhi dello squalo avevano il colore dorato di quelli dei gatti, con pupille nere a forma di picche. Centaine distinse le fessure delle narici sul grosso naso a punta. « Aiutami! » gridò Ernie. Aveva raggiunto il bordo della zattera e stava cercando di issarsi a bordo. Battendo i piedi, alzava spruzzi d'acqua e faceva oscillare terribilmente il relitto, che si inclinava verso di lui. Centaine gli afferrò il polso. Tirò su con tutta la forza del suo terrore, ed Ernie si ritrovò col torso sulla zattera, ma le gambe erano ancora in acqua. Il pescecane parve ingobbirsi, il dorso emerse, blu, stillante, con la pinna dorsale alta e incombente come l'accetta del boia. Centaine aveva letto da qualche parte che gli squali si girano sul dorso per mordere, sicché si trovò impreparata a quel che accadde. Il grande squalo arretrò e l'enorme bocca ghignante parve sbocciare aprendosi di colpo. File e file di zanne acuminate e bianche come porcellana si raddrizzarono a mo' di aculei di un porcospino, mentre le mascelle si aprivano violentemente, per richiudersi poi di colpo sulle gambe scalcianti di Ernie. Centaine sentì chiaramente il cozzo delle zanne sulle ossa, poi lo squalo arretrò, ed Ernie fu strappato indietro a propria volta. Centaine tenne duro, senza mollare il polso, benché scivolasse sulle tavole bagnate della zattera. Questa si inclinò terri-
bilmente per il loro peso combinato e la trazione esercitata su Ernie dallo squalo. Per un attimo Centaine ne scorse la testa sott'acqua. La guardava animato da una ferocia senza nome; poi la membrana scorse sulle sue pupille come una sardonica strizzata d'occhio e lentamente lo squalo si girò in acqua col peso irresistibile di un tronco di tek, esercitando sulle gambe di Ernie, ancora strette nella morsa della mascella, una totsione immane. Centaine udì le ossa delle gambe spezzarsi di netto, come legna secca. La trazione sul corpo del vecchio si interruppe di colpo e la zattera si raddrizzò con un sobbalzo e si inclinò come un pendolo dalla parte opposta. Centaine stringeva ancora il polso di Ernie. Cadde all'indietro, tirandolo sulla zattera. Scalciava ancora, solo che aveva entrambe le gambe grottescamente accorciate, troncate pochi centimetri sotto il ginocchio, coi monconi che spuntavano dai pantaloni da marinaio strappati. Il taglio non era netto, ne pendevano strisce di carne e pelle che sbattevano mentre Ernie scalciava, e il sangue era come una fontana rossa nel sole. L'uomo si girò sulla schiena e si mise a sedere sulla zattera oscillante, fissando i moncherini. « Oh madre santa, aiutami! » gemeva. « Sono un uomo morto! » Dalle arterie troncate il sangue sprizzava a fiotti. Poi scorreva sulle tavole verniciate di bianco della zattera e colava in mare, alimentando una nube rossastra che sembrava fumo nell'acqua. « Le mie gambe! » Ernie si afferrò i moncherini, ma il sangue continuava a scorrere tra le dita. « Le mie gambe non ci sono più. Quel demonio se le è portate via. » Quasi sotto la zattera passò una massa enorme e poco lontano affiorò di nuovo la gran pinna dorsale, fendendo l'acqua arrossata. « Fiuta il sangue! » gridò Ernie. « Non se ne andrà più, quel demonio! E la fine per noi! » Lo squalo si girò sul fianco, sicché ne videro la pancia bianca e l'orrida bocca, e poi tornò indietro, scivolando nell'acqua chiara e trasparente con maestosi colpi di coda. Ficcò il naso nella nuvola di sangue e dischiuse le mascelle, assaporandone il gusto. Cosa che lo fece infuriare di nuovo. Tornò a girarsi. Facendo ribollire la superficie dell'acqua, puntò direttamente sotto la zattera. Si sentì un urto, quando lo squalo cozzò con la schiena sotto il fondo. Centaine, pancia contro le tavole, si aggrappò con tutta la forza ai bordi. « Sta cercando di ribaltarci », gridò Ernie. Centaine non aveva mai visto tanto sangue. Non riusciva a credere che quel magro vecchio ne contenesse tanto, eppure continuava a sgorgare dai monconi. Lo squalo si voltò e tornò indietro. Di nuovo si sentì il colpo di quella carnaccia gommosa contro il fondo della zattera, che si sollevò, sul punto di capovolgersi, ma poi ricadde piatta e oscillante come un tappo sulla superficie del mare. « Non se ne andrà », piangeva piano Ernie. « Ecco che viene ancora. » La gran testa blu dello squalo uscì dall'acqua, la bocca si aprì e addentò il bordo della zattera. Le lunghe zanne bianche si piantarono nel legno che cigolò, schiantandosi, mentre il pescecane continuava a mordere senza lasciare la presa Sembrava fissare Centaine, aggrappata al bordo con entrambe le mani. Sembrava un mostruoso verro blu, che imperversava sbuffando contro il fragile legno della zattera. Ancora una volta sbatté gli occhi, la chiara membrana traslucida che scivolava su quelle imperscrutabili pupille nere era la cosa più
oscena e terrificante che Centaine avesse mai visto, e poi cominciò a scuotere la testa senza mollare la presa, scuotendo la zattera di qua e di là. Furono sballottati senza complimenti, mentre la zattera si sollevava addirittura dall'acqua e si inclinava da una parte e dall'altra. « Buon Dio, adesso ci prende! » Ernie cercò di allontanarsi il più possibile dalla testaccia zannuta. « Non la finirà mai, finché non ci avrà! » Centaine balzò in piedi, agile come un'acrobata, e, bilanciando sopra la testa l'asse che fungeva da timone, la calò con tutta la sua forza sulla punta del naso dello squalo. Il contraccolpo le fece dolere l'attaccatura delle braccia, ma subito vibrò un altro colpo. L'asse andò a segno con un tonfo gommoso, poi rimbalzò ancora sulla gran testa blu senza nemmeno segnarne la pelle scabrosa, e senza causare allo squalo nessun danno ap parente. La bestia continuò a tormentare il bordo della zattera, scuotendola a più non posso, e Centaine perse l'equilibrio e quasi cadde fuoribordo, riprendendosi all'istante e continuando a picchiare con l'asse quella testa enorme e invulnerabile, ansimando per lo sforzo. Un pezzo del bordo della zattera si staccò finendo tra i denti dello squalo, e la testa blu si immerse di nuovo sotto la superficie, dando un momento di sollievo a Centaine. « Tornerà all'attacco », gridò con voce strozzata Ernie. « Continuerà a tornare, non si rassegnerà mai. » A quelle parole, Centaine capì cosa doveva fare. Non si consentì di riflettervi: doveva farlo, per il bene del suo bambino. Quel che importava era il figlio di Michel. Ernie sedeva sul bordo della zattera, coi terribili moncherini sotto gli occhi, quasi voltando le spalle a Centaine, scrutando nella verde profondità del mare sotto la zattera. « Eccolo che torna! » strillò. I capelli grigi, riuniti in ciuffetti bagnati, lasciavano intravedere la nuca pallida oltre la quale ribolliva l'oceano. Ed ecco il grande squalo tornare all'attacco, ecco la gran massa nera sorgere dalle profondità per scagliarsi di nuovo contro il relitto. Centaine si alzò in piedi. La sua espressione era stravolta, gli occhi pieni di orrore, e stringeva l'asse con tutta la forza che aveva. Lo squalo cozzò contro la parte inferiore della zattera, e Centaine barcollò, quasi cadde, poi riusci a riprendere l'equilibrio. « Ha detto lui stesso che è un uomo morto », disse per farsi forza. Alzò la pesante asse e puntò lo sguardo alla nuca rosea di Ernie, poi di colpo vibrò la mazzata con tutta la forza che aveva. Vide il cranio di Ernie cedere sotto il colpo. « Perdonami, Ernie », singhiozzò, mentre il vecchio stramazzava in avanti, verso il bordo del relitto. « Eri già morto, e non c'era altro modo di salvare il mio bambino. » Ernie aveva il cranio sfondato, ma riuscì a girare la testa e la guardò. Negli occhi gli brillava una tempesta di emozioni potenti, e cercò di parlare. Riuscì ad aprire la bocca, ma proprio in quella il fuoco che aveva negli occhi si spense e gli arti si stesero e si rilassarono. Centaine piangeva, quando si inginocchiò accanto a lui. « Che Dio mi perdoni », sussurrò, « ma il mio bambino deve vivere. » Lo squalo si voltò e tornò indietro, con la pinna dorsale più alta della zattera. Pian piano, quasi con tenerezza, Centaine fece rotolare fuoribordo il corpo del marinaio. Lo squalo azzannò Ernie e cominciò a lavorarlo come un mastino fa con l'osso; mentre era così occupato, la zattera filò
via. Il pescecane e la sua vittima scomparvero gradualmente fuori vista nelle verdi profondità, e Centaine si accorse di avere ancora l'asse del timone tra le mani. Cominciò allora a pagaiare con quella, spingendo la zattera verso la spiaggia. A ogni pagaiata singhiozzava, sicché aveva la vista confusa. Tra le lacrime scorse le alghe che avevano soddisfatto la sua sete di naufraga ondeggiare danzando al limitare dell'oceano. Oltre le alghe, le onde si frangevano su una spiaggia di sabbia gialla come ottone. Pagaiò con alacre frenesia, favorita dal giro della corrente che la trasportò più vicino alla spiaggia. Ormai scorgeva il fondo di sabbia corrugata dal moto ondoso sotto la cristallina acqua verde. « Grazie, Dio... oh, grazie, grazie! » sospirò piangendo a ritmo di pagaia, ma ecco di nuovo il ben noto e sconfortante impatto di un corpaccione subacqueo sul fondo del relitto. Centaine si aggrappò ancora, disperatamente, alla zattera di fortuna, col morale a terra. « E tornato! » Vide la massiccia forma allungata passare sotto la zattera, nettamente delineata contro il fondo sabbioso. « Non si arrende mai. » Si era procurata solo una tregua temDoranea. Lo squalo aveva divorato la vittima sacrificale che gli era stata offerta in pochi minuti, poi, attratto dall'odore del sangue ancora sparso sulla zattera, l'aveva seguita nell'acqua ormai così bassa da arrivare alle spalle d'una persona. Il pescecane prese a girare intorno alla zattera e tornò a caricarla da riva, con un impatto stavolta così violento che il relitto non resse più. Le assi sballottate dalla tempesta si staccarono l'una dall'altra sotto il peso di Centaine, che si senti sprofondare e si trovò a cavallo del pescecane, con le cosce escoriate dalla sua pellaccia simile a carta vetrata. Facendo leva sui bordi della zattera si tirò su precipitosarnente come una ginnasta sul cavallo. Era stato un attimo, e già il pescecane inesorabilmente virava per attaccare dal largo. Sulla zattera semisfasciata Centaine riusciva a reggersi a malapena, mentre il pesce stesso la spingeva a riva. Per un momento o due lo squalo rimase arenato nell'acqua bassa che non gli permetteva più di nuotare, poi con un balzo e un tonfo si liberò e tornò al largo con pinna e dorso completamente emersi. Un'ondata si infranse sulla zattera, completando la demolizione iniziata dal pescecane, e il relitto finì a pezzi. Centaine cadde nell'acqua ribollente di spuma e si rialzò a fatica, sputacchiando e tossendo. Era immersa fino alla vita nell'acqua fredda della riva. Sbattendo gli occhi ruscellanti acqua salata, distinse lo squalo tornare a tutta velocità, ostinato e inesorabile, verso di lei. Strillò e cercò di arretrare verso la spiaggia, brandendo l'asse che aveva ancora in mano. « Va' via! » gridava. « Va' via! Lasciami stare! » Lo squalo la colpì col naso scagliandola in aria. Centaine gli ricadde sulla groppa, quella sua vasta groppa blu, e il pesce si scosse ricalcitrando quasi fosse un cavallo selvaggio. Il suo contatto era freddo, tagliente, e inspiegabilmente ripugnante. Fu scaraventata via e poi colpita forte dalla guizzante coda. Comprese che l'aveva presa di striscio, perché altrimenti si sarebbe Atrovata con le costole sfondate. Il folle dimenarsi dello squalo aveva intorbidito l'acqua. Una nuvola di sabbia adesso gli celava la preda, ma ugualmente il pescecane la cercò azzannando alla cieca. Si udì un colpo come di un cancello di ferro che sbatta durante un uragano, e Centaine fu nuovamente strapazzata dall'agghiacciante scodinzolare e contorcersi dell'abrasivo corpaccio blu. A palmo a palmo, sempre lottando, riuscì a farsi strada verso
la declinante riva. Ogni volta che perdeva l'equilibrio riusciva a rimettersi in piedi, sputacchiando semiaccecata e menando gran colpi con l'asse. Le fauci che scattavano a tagliola si chiusero su un lembo della lunga gonna da infermiera e gliela strapparono via, liberandole di colpo le gambe. Quattro rapidi passi indietro ed eccola con l'acqua alla coscia. In quella, la risacca arenò la bestiaccia, che si ritrovò di colpo fuori del suo elemento. Si contorceva guizzando inane sulla sabbia d'oro, infuriato e impotente come un elefante maschio intrappolato in una fossa. Centaine scappò via all'indietro, continuando a fissare lo squalo, con l'acqua che si ritirava lambendole i polpacci, troppo esausta per voltarsi e mettersi a correre... finché si accorse che ormai calpestava miracolosamente la sabbia compatta del bagnasciuga. Gettò via l'asse e, barcollando, si inoltrò sulla spiaggia, verso le torreggianti dune. Ma non aveva più nemmeno l'energia necessaria a raggiungerne la base. Subito dopo il segno dell'alta marea cadde e piombò a faccia in giù nella sabbia, che le copri il corpo e il volto come un velo di zucchero. Li giacque al sole piangendo, scossa da una tempesta di terrore, dolore, rimorso e sollievo che le squassava tutto il corpo. Non sapeva per quanto tempo fosse rimasta sdraiata sulla spiaggia, ma dopo un po' aveva cominciato a sentirsi bruciare dal sole dietro le gambe nude, e pian piano si era rizzata a sedere. Timorosamente tornò a guardare la battigia, aspettandosi di rivedere il bestione blu, ma la marea doveva averlo disincagliato consentendogli di riportarsi al largo. Non ce n'era più segno alcuno. Le sfuggì un sospiro di sollievo e poi, barcollando si alzò. Si sentiva tutta rotta e scorticata, debolissima, e ispezionandosi il corpo vide i guasti prodotti dal contatto con la pelle abrasiva dello squalo. Sulle cosce aveva numerosissime escoriazioni e lividi blu. La gonna le era stata strappata via dal pescecane, le scarpe se le era tolte prima di saltare in mare dalla nave ospedale; sicché nella camicetta madida dell'uniforme e i braghettoni di seta leggera si senti praticamente nuda. Provò un empito di vergogna e si guardò attorno in fretta. Poi si rese conto che probabilmente non era mai stata più lontana da altra anima viva in vita sua. « Qua non c'è nessuno a sbirciarmi. » Istintivamente si era coperta le pudende con le mani, ma a questo punto le tolse, e le capitò di toccare qualcosa di duro che le pendeva sulla coscia. Era il coltellino di Ernie, ancora legato alla vita. Lo prese in mano e lo guardò. Poi guardò l'oceano. I rimorsi I assalirono di nuovo. « Ti devo la vita », sussurrò, « e la vita di mio figlio. Oh, Ernie, quanto vorrei che fossi ancora qui con noi. » La solitudine si impadroni di lei aggredendola in modo cosi prepotente che ricadde a sedere sulla sabbia coprendosi il volto con le mani. Anche stavolta fu il sole a indurla a rialzarsi. Send la pelle che le prudeva e bruciava sotto i suoi dardi malvagi, e di bel nuovo si senti tormentare dalla sete. « Devo ripararmi dal sole. » Si tirò su e si guardò attorno con un po' più d'attenzione. Si trovava su una gran spiaggia gialla dietro cui si ergevano dune alte come montagne. La spiaggia era completamente deserta. Si allontanava curva da entrambe le parti prima di scomparire confondendosi col mare agli estremi limiti della visione... una ventina o trentina di chilometri più in là, giudicò. A Centaine sembrò l'immagine della desolazione. Non una roccia, non una foglia, non un cespuglio, non un uccello, non un animale, e nessun riparo dal sole. Poi guardò al margine della spiaggia, dove aveva lottato con
lo squalo, e vide i resti della zattera in balia dei frangenti. Scacciando il terrore dello squalo, entrò in acqua fino al ginocchio per recuperare la vela e tirarla in secca, oltre il limite dell'alta marea. Si fece una gonna tagliando una striscia di tela e legandosela alla vita con un pezzo di corda. Poi ne tagliò un altro lembo per riparare dal sole il capo e le spalle. « Che sete! » Si portò in riva al mare guardando le alghe che ondeggiavano nella risacca. La sete era più forte del disgusto per il loro sapore medicinale, ma più forte di entrambi era il terrore del pescecane, sicché non ne fece nulla. Benché le facesse male tutto il corpo, e le escoriazioni e i lividi su gambe e braccia fossero rossi e blu, sapeva che l'unica speranza era mettersi a camminare, e c'era una sola direzione da prendere. Città del Capo sorgeva laggiù a sud. Ma prima ancora c'erano quelle città tedesche dai nomi ostrogoti... li richiamò alla mente con uno sforzo, Swakopmund e Luderitzbucht. La più vicina distava probabilmente cinquecento chilometri. Cinquecento chilometri. L'enormità di una simile distanza la sopraffece, le cedettero le gambe e ricadde a sedere pesantemente sulla spiaggia. « Non devo pensare quant'è lontana », decise infine alzandosi. « Devo fare un passo per volta. » Tutto il corpo le doleva per le escoriazioni e gli ematomi. Si avviò zoppicando lungo la riva del mare, dove la sabbia era umida e compatta, e dopo un po' i muscoli si scaldarono e la rigidità scomparve, consentendole di allungare il passo. « Un passo alla volta! » si ripeté. La solitudine era un fardello che l'avrebbe annientata, se ci avesse pensato troppo. Alzò la testa e guardò davanti a sé. La spiaggia non finiva mai. Nel panorama che le si stendeva davanti agli occhi c'era una monotonia spaventosa. Camminava ormai da ore e nulla era cambiato ancora, le sembrava di procedere sulla polvere di una macina gigantesca e invisibile che triturava chissà che. L'oceano uniforme a destra, l'alta muraglia delle dune a sinistra, e su tutto la gran volta azzurra, lattiginosa del cielo. « Sto camminando da un nulla all'altro », sussurrò, e invocò con tutta la potenza del suo spirito la vista di un altro essere umano. Cominciarono a farle male i piedi nudi, e quando si sedette a esaminarli si accorse che l'acqua salata le aveva ammollato le piante e la sabbia gialla abrasiva le aveva quasi spellate. Se le avvolse con strisce di tela e prosegui. Il sole e la fatica le intrisero la blusa di sudore, e la sete divenne una costante compagna spettrale. Il sole era sceso a metà del cielo occidentale quando lontano lontano, davanti a lei, apparve un capo roccioso, e soltanto per veder mutare quel tremendo paesaggio desolato accelerò il passo. Ma ben presto si rese conto di essere ormai esausta. Aveva fatto già fin troppa strada. « Son tre giorni che non mangio e un giorno che non bevo... » Il capo roccioso sembrava non avvicinarsi mai, sicché alla fine dovette fermarsi e mettersi a sedere. Immediatamente la sete cominciò a torturarla. « Se non bevo, presto non potrò più proseguire », sussurrò, aguzzando gli occhi sul basso sperone di roccia nera e rizzandosi incredula. Certo gli occhi l'ingannavano. Li sbatté in fretta e tornò a guardare. « C'è gente! » mormorò, rirnettendosi in piedi. « C'è gente! » Barcollando, riprese ad avanzare. Erano seduti sulla roccia, vedeva che muovevano la tesea sta-
gliata contro il cielo pallido, e si mise a ridere forte sventolando le braccia. « C'è tantissima gente... sto forse impazzendo? » Cercò di mettersi a urlare, ma non le uscì che un gemito patetico. La delusione, poi, fu così intensa che ne risentì come di un colpo fisico. « Foche! » La brezza marina le portava fin lì le lontane e lugubri grida. Per un po' non pensò di poter proseguire. Poi spinse un piede davanti all'altro, procedendo verso il promontorio roccioso. Sulle rocce, sparpagliate, stavano centinaia di foche, e altrettante brulicavano in acqua. La brezza portò a Centaine anche il loro fetore. Mentre si avvicinava, presero a ritirarsi verso l'acqua, saltellando goffe sulle rocce alla loro maniera do vnesca. Centaine si accorse che tra le foche vi erano decine di piccoli. « Se riuscissi a prenderne uno... » Strinse il coltello nella destra e l'aprl. « Bisogna che mangi qualcosa al più presto. » Ma, già allarmate dal suo arrivo, quelle che capeggiavano il branco si gettavano nelle acque verdi dell'oceano, aspettando l'onda, danzando poi nel liquido elemento con mirabile e irri dente agilità. Si mise a correre, e il moto causò un immediato tuffo in massa dal roccione dei neri corpi lucidi. Si trovava ancora a settanta metri di distanza e le più vicine erano già scappate tutte. Smise di correre e si fermò ansimando, debolissima, contemplando la colonia che fuggiva a nuoto. Tra quelle attardate sul roccione, che al suo arresto avevano pensato bene di non muoversi più, si creò una certa animazione. Grida di terrore, tonfi, ululati. Due agili sagome lupesche sbucate da dietro le rocce presero a imperversare tra la folla di foche. Centaine comprese che il loro attacco era stato facilitato dalla distrazione causata dal suo arrivo, il quale dunque era servito solo a favorire questi altri predatori. Non li identificò per le iene che erano Perché le illustrazioni che aveva visto sui libri degli esploratori dell'Africa riguardavano tutte la più grossa e feroce iena maculata. Questi animali erano i « lupi di spiaggia » dei primi coloni olandesi, bruni e grossi come mastini, ma con le orecchie a punta e una lunga e sparuta criniera giallo sporco, ora eretta per l'eccitazione della caccia nella colonia di foche. Senza esitazione, sceglievano i cuccioli più piccoli e indifesi, allontanandoli dalle madri di cui evitavano facilmente i goffi attacchi. Centaine si rimise a correre, e al suo avvicinarsi le femmine rinunciarono a difendere i piccoli e si gettarono in acqua dalla roccia nera. Allora raccolse un bastone dall'ammasso di relitti che segnava il limite dell'alta marea e corse alla base del promontorio roccioso, per tagliare la ritirata alla iena più vicina. Questa era attardata dal piccolo di foca che si trascinava dietro urlante, e Centaine riuscì a pr« ederla. L'animale si fermò e abbassò la testa in atteggiamento minaccioso, sorvegliando l'avanzata della ragazza. Il cucciolo di foca sanguinava abbondantemente dal punto in cui le acuminate zanne del predatore l'avevano addentato sulla pelliccia lustra, e vagiva proprio come un neonato. La iena ringhiò fieramente e Centaine si fermò, fronteggiando la bestia. Si mise ad agitare il bastone che aveva in mano, strillando. « Lascialo andare! Vattene via, bestiaccia! Lascialo andare! » Avvertì che la iena era sorpresa dal suo atteggiamento aggressivo, e, benché ringhiasse ancora, arretrò di qualche passo e si rannicchiò a protezione della preda che continuava a dibattersi strepitando.
Centaine cercò di dominarla con lo sguardo, fissando gli occhi in quelli gialli e minacciosi della iena, continuando però a gridare e mulinare il bastone. A un tratto la bestia lasciò andare il cucciolo di foca, ormai alquanto malconcio, e corse direttamente incontro a Centaine, snudando le zanne gialle e lanciando versi gutturali. D'istinto, Centaine capì che quello era il momento decisivo. Se si fosse voltata per scappare, la iena l'avrebbe aggredita e sbranata. Corse allora incontro alla bestiaccia, raddoppiando gli strilli e i volteggi del bastone. Evidentemente la iena non se l'aspettava. Tutto il suo coraggio svanì. Si voltò e tornò di corsa alla sua malconcia preda, che azzannò alla collottola e ricominciò a trascinare vla. Ai piedi di Centaine, c'era un crepaccio nella roccia pieno di sassi arrotondati dall'erosione marina. Ne raccolse uno grosso come un'arancia matura e lo scagliò addosso alla iena. Aveva mirato alla testa, ma il tiro era corto e la colpi alla zampa, schiacciandogliela contro il suolo roccioso. La iena guai, lasciò cadere il cucciolo di foca e si allontanò in fretta, zoppicando. Centaine si precipitò avanti col coltello aperto in mano. Era una ragazza di campagna e aveva spesso aiutato suo padre e Anna a uccidere e pulire gli animali domestici. Con un sol colpo misericordioso e abile sgozzò il cucciolo e lo lasciò sanguinare. La iena frattanto aveva descritto un ampio giro e adesso tornava, alquanto irritata e indecisa, ringhiando e guaendo su tre zampe. Centaine raccolse ancora un po' di sassi e glieli tirò contro. Uno la colpì sulla testa giallocrinita. La iena emise un « cai » che risuonò per tutta la spiaggia e si allontanò precipitosamente di una cinquantina di passi prima di fermarsi a guardarla di traverso ringhiando con odio. La ragazza agi in fretta, come tante volte aveva visto fare ad Anna con le pecore. Apri la pancia al cucciolo di foca, angolando l'azione della lama in modo da non bucare stomaco e viscere e premendo sull'osso che negli esseri umani si chiama sterno. Con le mani lorde di sangue scagliò un'altra pietra alla iena che girava intorno, e poi con grande attenzione tirò via lo stomaco al cucciolo di foca. La sete era una febbre che la divorava, e già sentiva che la mancanza di liquido metteva in pericolo la sopravvivenza dell'embrione che portava in grembo: tuttavia, al pensiero di quanto stava per fare le si rivoltava lo stomaco. « Quando ero bambina », le aveva detto una volta Anna, « i pastori lo facevano tutte le volte che moriva un agnellino di latte. » Centaine prese nelle mani unite a coppa il piccolo stomaco del cucciolo di foca. Le pareti erano traslucide e giallastre, sicché ebbe l'impressione di vedere il latte che conteneva. Era chiaro che il cucciolo aveva poppato fino a poco prima dell'attacco della iena, e aveva poppato avidamente. Il piccolo stomaco era teso, colmo di latte. Centaine deglutì per il senso di repulsione, ma poi subito rifletté che se non avesse bevuto l'indomani mattina sarebbe morta assieme alla creatura che portava in arembo. Fece una piccola incisione nella parete dello stomaco e immediatamente ne sgorgò un rivolo bianco e cremoso. Centaine chiuse gli occhi e applicò la bocca al taglietto. Si costrinse quindi a inghiottire il latte tiepido e già mezzo cagliato dai succhi gastrici. Fu aggredita dalla nausea, ma riusci a controllare i conati e non vomitare. Tutto considerato, era una via di mezzo tra il formaggio caprino che faceva Anna e un ipotetico latte di pesce. Dopo un po' si interruppè, e col dorso della mano si puli
del sangue e del muco che le lordavano la bocca. Quasi percepiva il fluido che le irrorava l'organismo disidratato, voracemente assorbito dalle cellule, e una nuova forza le parve irradiarsi per il corpo esausto. Tirò un altro sasso alla iena e poi fini di bere il cremoso contenuto dello stomaco. Alla fine, allargò il taglietto col coltello, affondò la faccia nella vescica aperta e leccò le ultime gocce attaccate alle pareti. Quindi gettò la membrana vuota alla iena. « Facciamo un po' per uno », disse alla bestia ringhiosa. Spellò la carcassa, tagliò via testa e pinne e lanciò anche queste alla iena. Il grosso carnivoro simile a un cane sembrava ormai rassegnato. Sedeva a distanza di una ventina di passi da Centaine, con le orecchie ritte e una comica espressione d'attesa per gli avanzi che Centaine gli gettava. La ragazza ricavò dalla carcassa il maggior numero possibile di striscioline di carne rossa di foca, che avvolse nella tela con cui si era riparata la testa. Poi si ritirò e la iena corse a leccare il sangue colato sulla roccia e a spaccare lo scheletrino con le mascelle ipersviluppate e orribili a vedersi. In cima al promontorio il vento e le ondate avevano scavato nella roccia compatta una grotta che era già servita da rifugio ad altri prima di Centaine. Sul pavimento sabbioso si vedevano i resti di un fuoco da campo e, frugando nella cenere mista a sabbia, la ragazza trovò una selce triangolare che serviva per scalpellare o tagliare, molto simile a quelle che Anna andava a cercare sulle colline di Mort Homme. Ciò le fece venire un attacco di nostalgia, e quando si accorse che stava per essere travolta dall'autocommiserazione mise la selce in una tasca della camicetta e si costrinse a guardare in faccia la dura realtà, invece di ricordare un passato da tempo svanito in una terra lontanissima da li. « Fuoco », si disse, esaminando la cenere, e stese a seccare le preziose striscioline di carne di foca al vento, sulla soglia della grotta. Poi andò a raccogliere una bracciata di legna secca sulla spiaggia. La disp,ose sull'antico focolare e cercò di raccogliere tutte le nozioni che aveva a proposito dell'accendere un fuoco con mezzi di fortuna. « Bisogna strofinare insieme due bastoncini », mormorò. Si trattava di una necessità umana cosi basilare, così scontata che adesso la mancanza del fuoco, del suo calore e del suo conforto, le pareva una privazione insopportabile. I relitti lignei erano impregnati di sale e umidità. Scelse due pezzi, senza avere la minima idea delle proprietà che doveva avere il legno necessario alla bisogna, e iniziò a fare dei tentativi. Lavorò instancabile finché non le si spellarono le dita e i palmi, senza riuscire a far sprizzare la minima scintilla, il minimo fil di furno dai legnetti. Depressa e stanca morta, si appoggiò alla parete della grotta e guardò il sole tramontare nel mare rabbuiato. Fu colta da brividi per il freddo della brezza serotina e si ravvolse nella tela: così facendo, avvertì la forma della pietra che aveva infilato nella tasca della camicia e le premeva sul seno. Notò che di recente i capezzoli le si erano inteneriti, mentre il seno era diventato più grosso e più sodo, e ora si mise a massaggiarlo. In qualche modo il pensiero di essere incinta le conferì nuova energia, e quando guardò a sud rivide la stella di Michael bassa sull'orizzonte, dove l'oceano cupo stava confondendosi col cielo notturno. « Achernar », sussurrò. « Michel... » e, pronunciando il suo nome, le dita tornarono a toccare la pietra focaia in tasca. Era come se fosse un dono di Michael: con le mani tremanti per
l'eccitazione, la fece cozzare contro la lama d'acciaio del coltello, e le bianche scintille schizzarono dappertutto nel buio della grotta. Fece una pallottola con fili strappati dalla tela e schegge di legno, e vi produsse sopra delle scintille con quel metodo. Benché ogni volta vi si riversasse sopra una cascatella di faville incandescenti, dovette andare avanti un pezzo prima di vedere un fil di fumo levarsi dalla pallottola di combustibile e una linguetta di fuoco balenare fievole e gialla. Sulle pietre predisposte dagli sconosciuti che l'avevano pre ceduta arrostì le strisce di carne di foca. Scoprì che avevano un sapore tra il vitello e il coniglio. Ne gustò ogni boccone e dopo mangiato usò il grasso colato sul focolare per spalmarsi la pelle su cui il sole africano aveva già cominciato a far apparire delle dolorose bolle rosse. Le strisce arrostite rimanenti le mise da parte per i giorni a venire, aggiunse legna al fuoco, si ravvolse nella pezza di tela e si rannicchiò contro la,parete posteriore della grotta, col bastone a portata di mano. « Dovrei pregare. . » e, appena cominciò a farlo, Anna le sembrò vicinissima, mtenta a vegliarla come quando era bambina e si addormentava con le braccia incrociate sul petto. « Grazie, o Dio onnipotente, per avermi salvata dal mare, e grazie del cibo e delle bevande che mi hai assicurato, ma... » La preghiera si smonò sulle labbra di Centaine. Capi che stava per lasciarsi andare alle recriminazioni anziché rendere grazie a Dio. « Che bestemmia! » Le parve di sentire il rimbrotto di Anna e in fretta prosegui la preghiera. « O Signore, per favore dammi la forza di affrontare qualunque futura prova Tu abbia in serbo per me, e compiàciTi di darmi anche la saggezza necessaria a scorgere il Tuo disegno e i Tuoi propositi nel riversarmi addosso tutte queste tribolazioni. » Cosi addolcita, la protesta poteva forse andare. Corse il rischio e, mentre stava elucubrando una conclusione appropriata alla preghiera, cadde addormentata. Si svegliò che il fuoco era diventato brace, e dapprima non ricordò dov'era e non comprese che cosa l'aveva svegliata. Poi con desolante irruzione le tornarono in mente le circostanze in cui si trovava, e udi qualche grosso animale muoversi appena fuori della grotta. Sembrava anzi intento a mangiare. In fretta mise altra legna secca sul fuoco e soffiò per ravvivarlo. Allora sulla soglia della grotta scorse l'orrenda figura della iena e comprese che le aveva sottratto l'involto di carne arrostita messa da parte la sera prima. Singhiozzando di rabbia e impotenza, raccolse un ramo infiammato e lo scagliò contro la predatrice. « Maledetta bestiaccia ladra! » gridò alla iena, che guàì e si dileguò nelle tenebre. La popolazione di foche era tutta sdraiata sulle rocce sotto la grotta la mattina dopo, al primo sole. Centaine si svegliò già in preda ai primi morsi della fame e della sete, che la giornata non poteva che aguzzare. Si armò di due pietre della grandezza del pugno e del bastone e con elaborata cautela discese celandosi tra le rocce, nel tentativo di avvicinarsi a portata di tiro. Ma le foche scapparono berciando mentre ancora non era a metà strada, e certo non sarebbero uscite dall'acqua finché lei fosse rimasta in vista. Delusa e affamata, tornò alla grotta. Sulle pietre del focolare c'era ancora del grasso di foca addensato. Lo mischiò a cenere sul palmo della mano e si passò l'unguento nerastro sulla punta del naso e sulle guance scottate dal sole. Poi si guardò attorno. Aveva il coltello e la pietra focaia, il
bastone e la pezza di tela, tutto ciò che possedeva al mondo, nondimeno si sentì alquanto riluttante ad abbandonare il rifugio. Per quakhe ora era stato la sua casa. Dovette farsi forza per voltargli le spalle e discendere alla spiaggia, dove riprese la terribile e monotona passeggiata verso sud. Quella notte, niente grotta né fuoco, ma solo dune, ai piedi delle quali Si accoccolò ravvolta nella sua pezza di tela senza aver mangiato né bevuto niente in tutto il giorno. Per tutta la notte soffìò un venticello fresco che la spolverò di sabbia fine, sicché al mattino si ritrovò coperta come di un velo zuccherino. La sabbia le incrostava le ciglia, e i capelli erano impastati da una fanghiglia di sabbia e sale. Era così irrigidita dal freddo e dalle escoriazioni, e così indolenzita per la camminata, che all'inizio si muoveva come una vecchia, zoppicando, appoggiata al bastone. Quando i muscoli cominciarono a scaldarsi, la rigidità diminul, ma si rendeva conto che si stava indebolendo sempre più con l'alzarsi del sole: già la sete costituiva un urlo continuo e silenzioso nel suo organismo. Aveva le labbra gonfie e screpolate, la lingua grossa e sporca di bava densa che non riusava a inghiottire. Si inginocchiò in riva all'oceano e si bagnò il viso, immerse la pezza di tela che le faceva da scialle e in qualche modo riuscl a resistere alla tentazione di inghiottire un sorso della chiara e fresca acqua del mare. Il sollievo si rivelò solo temporaneo. Quando l'acqua di mare evaporò, i cristalli di sale sulle scottature piagate cominciarono a farle tirare la pelle inaridita al Punto che temette di sentirla spezzarsi da un momento all'altro. La sete costituiva un'ossessione. A metà pomeriggio aguzzò gli occhi perché sulla spiaggia le sembrò di distinguere delle figure nere in movimento. Ben presto si rivelarono quattro grossi uccelli marini dal petto bianco e il dorso nero, che si disputavano un grosso pesce morto gettato a riva dal mare, minacciandosi coi becchi gialli. All'arrivo di Centaine svolazzarono via, lasciando la preda sulla spiaggia, troppo pesante da portare in volo. Centaine si gettò sul pesce, ma, appena l'ebbe afferrato, lo lasciò andare e si pulì le mani sulla gonna di tela. Era marcio e puzzolente; le dita, ghermendolo, erano affondate nella carne putrida e molle come sugna fredda. Strisciò via di quakhe passo e sedette con le braccia attorno alle ginocchia, guardando la carogna e cercando di dimenticare la sete. Le ci volle tutto il suo coraggio, ma alla fine tornò al pesce morto e, distogliendo il viso per non sentire la puzza, staccò un filetto di quella carne bianca della consistenza di un baco. Se ne mise in bocca con cautela un bocconcino. Lo stomaco minacciò di rivoltarlesi sottosopra a quel gusto dolciastro di putrefazione stantia, però Centaine continuò a masticare con impegno, succhiò il marcio, sputò la carne stopposa e tagliò un altro bocconcino dal filetto. Disgustata dal putrido pasto quanto dalla propria degradazione, continuò a succhiare il sugo immondo e, quando giudicò di averne ingerito una tazza, si interruppe per un po'. Pian piano il fluido la fortificò. Si sentì molto più vigorosa di prima, abbastanza per proseguire. Entrò in acqua e cercò di lavarsi bocca e mani per togliersi di dosso la puzza di pesce marcio. Ma l'indimenticabile sapore continuava ad aleggiarle tra papille e narici quando si avviò di bel nuovo a sud lungo la spiaggia. Poco prima del tramonto un altro attacco di debolezza la fiaccò. Cadde sulla sabbia. All'improvviso un sudore gelido le imperlò la fronte, e il mal di ventre, come un colpo di daga, la
piegò in due. Ruttò e il sapore di pesce marcio le tornò in bocca e nel naso. Chinò la testa e vomitò del liquido caldo e mefitico, disperando nel vedere quei pur preziosi fluidi vitali disperdersi nella sabbia. Cercò di resistere, ma non vi riuscì. Subito dopo dovette soccombere anche a un esplosivo e gorgogliante attacco di diarrea. « Mi sono avvelenata. » Riversa sulla sabbia, si contorceva spasmodicamente mentre il suo organismo si purgava, di riflesso, dai succhi tossici ingeriti. Quando l'attacco le passò era già buio, si tolse i mutandoni sporchi e li gettò da parte. Strisciando faticosamente fino al mare si lavò, si spruzzò la faccia e si sciacquò la bocca dal gusto putrido dei residui di vomito, pronta a pagare il temporaneo sollievo con più aspri morsi della sete in seguito. Poi, sempre a quattro zampe, strisciò oltre il segno dell'alta marea e nel buio, tremando di freddo, si stese a morire.
All'inizio, Garry Courteney si fece travolgere dall'entusiasmo e organizzò la spedizione di soccorso nel deserto della Namibia e su quell'arido litorale non a caso chiamato Costa degli Scheletri senza pensare affatto alle probabilità di successo che avevano. A Garry bastava far la parte dell'uomo d'azione. Come tutti i romantici aveva sognato parecchie volte di impersonare quel ruolo, e adesso che l'occasione gli si presentava su un piatto d'argento la colse con frenetica esaltazione. Durante i lunghi mesi seguiti al telegramma del ministero della Guerra, quello squallido foglio laconico (« Sua Maestà è spiacente di informarla che suo figlio, il capitano Michael Courteney, è caduto in combattimento »), la sua vita era stata un nero abisso vuoto, senza scopo né direzione. Poi era arrivato il miracoloso secondo telegramma di suo fratello gemello: VEDOVA MICHAELINCINTA TUO NIPOTINO TRAVOLTAGUERRA PERSO CASA ET GENITORIORGANIZZO SUA TRAVERSATA PER CITTA DEL CAPO PRIMA NAVE DISPONIBILE ACCOGLILA SOT TOTUA PROTEZIONE RISPONDISUBITOSEGUE LETTERA STOP Un nuovo sole era sorto nella sua vita. Quando anche questo era stato crudelmente fatto tramontare dal siluro tedesco nelle gelide acque verdi della Corrente di Benguela, Garry aveva intuito che non poteva rassegnarsi di nuovo alla ragionevolezza e alla realtà, altrimenti sarebbe caduto preda della disperazione. Doveva aver fede, doveva mettere da parte qualunque calcolo delle probabilità e aggrapparsi come uno scervellato alla remota possibilità che la moglie di Michael e il suo bambino non ancora nato in qualche modo fossero sopravvissuti al mare e al deserto e aspettassero solo che lui li andasse a salvare. L'unica maniera di conseguire questo obiettivo era gettarsi ciecamente nell'attività anche più futile e insensata, e quando la speranza l'abbandonava attingere ai capaci serbatoi di fede incrollabile e illusione della saldissima Anna. I due arrivarono a Windhoek, la vecchia capitale dell'Africa Sudoccidentale Tedesca conquistata due anni prima, e furono accolti alla stazione dal colonnello John Wickenham, che ricopriva il ruolo di governatore militare del territorio. « Lieto di conoscerla, signore. » Wickenham era un po' preoccupato. Infatti negli ultimi giorni aveva ricevuto un fascio di telegrammi, tra cui uno del generale Jannie Smuts e uno dell'afflitto Primo Ministro, generale Louis Botha, i quali tutti lo incaricavano di fornire al visitatore
piena assistenza e totale cooperazione. Ma la ragione del suo profondo rispetto non si esauriva li. Il colonnello Garrick Courteney era insignito delle più alte decorazioni sudafricane e il suo libro sulla guerra anglo-boera, The Elusive Enemy, era un testo che studiavano gli ufficiali alla scuola di guerra frequentata a suo tempo da Wickenham; inoltre, l'irdluenza politica ed economica dei fratelli Courteney era leggendaria. « Lasci che le porga le mie più sentite condoglianze per la sua grave perdita, colonnello Courteney », gli disse Wickenham stringendogli la mano. « Lei è davvero cortese », rispose Garry, che si sentiva sempre un impostore quando qualcuno gli si rivolgeva col suo grado militare. Provava sempre il bisogno di spiegare che si trattava di una nomina provvisoria presso un reggimento irregolare in una guerra di quasi vent'anni prima: per mascherare il disagio si rivolse ad Anna, che aspettava rigida accanto a lui in casco coloniale, coprinuca verde e gonna lunga di stoffa pesante. « Mi permetta di presentarle Mevrou Stok », disse Garry passando all'afrikaans a beneficio della donna, e Wickenham lo imitò immediatamente. « Aangename kennis... lieto di conoscerla, Mevrou. » « La signorina Stok era imbarcata sul Protea Castle con mia nuora, ed è stata raccolta dall'Infexible con altri naufraghi. » Wickenham emise un fischio di comprensione. « Che espe rienza sgradevole dev'essere stata », commentò. Poi si rivolse nuovamente a Garry. « Le assicuro, colonnello Courteney, che avrà da me tutta l'assistenza possibile. » Gli rispose Anna. « Avremo bisogno di veicoli, molti veicoli, e di uomini per aiutarci. Ne avremo bisogno al più presto possibile, anzi subito. » Come vettura di testa ebbero da Wickenham una Ford requisita a qualche fattoria e ridipinta dal nero originario a un grigio-sabbia mimetico. Nonostante l'apparenza di fragilità, si era dimostrata un formidabile veicolo da deserto. La carrozzeria leggera di lamiera al vanadio e il motore non certo supercompresso riuscivano a farle superare tratti di sabbia friabile dove altre macchine si sarebbero arenate. Il suo unico difetto era la tendenza a surriscaldarsi e spedire fuori del tappo del radiatore una preziosa colonna di vapore acqueo che andava invariabilmente a scottare guidatore e passeggeri nell'abitacolo scoperto. « Al seguito della macchina, la spedizione sarebbe stata composta, sempre a cura di Wickenham, di quattro camion Austin, della portata di mezza tonnellata l'uno, e di un quinto veicolo modificato dagli ingegneri della compagnia ferroviaria e trasformato in autobotte. Il suo serbatoio era capace di contenere cinquecento litri d'acqua. A ciascun autocarro furqno assegnati un autista e un aiutante, caporali e soldati dell'esercito sudafricano. Con Anna impegnatissima a vincere ogni tendenza di Garry a rimandare, e a controbattere le obiezioni pratiche di meccanici, tecnici ed esperti militari, il convoglio fu pronto a partire dalla vecchia capitale trentasei ore dopo il loro arrivo. Dal siluramento del Protea Castle erano passate due settimane giuste. Uscirono rombando dalla città addormentata alle quattro del mattino, coi camion stracarichi di equipaggiamento, combustibile e cibarie, e i passeggeri imbacuccati nei manti di lana per difendersi dal freddo della notte sull'altopiano. Presero la pista parallela alla ferrovia a scartamento ridotto che conduceva a Swakopmund, lontana circa trecentosessanta chilometri. Era un'antica pista in cui le ruote dei carri avevano scavato profondi solchi dove quelle dei camion restavano imprigionate, senza poteme uscire fino ai rari tratti rocciosi dove la pista assomigliava piuttosto a un torrente asciutto. Faticosamente sce-
sero dall'altopiano, un dislivello di milleduecento metri che coprirono in quattordici ore, continuamente costretti a fermarsi ora a cambiare una gomma ora a riparare una balestra, indolenziti da capo a piedi a causa dei sussulti. Ed eccoli in pianura. Era la costa, disseminata di rovi, su cui poterono tenere la fantastica media di quaranta all'ora, alzando dietro un nuvolone di polvere color sabbia somigliante a un fuoco di rovi. La città di Swakopmund era uno sbalorditivo pezzo di Baviera trasportata nel deserto sudafricano, con tanto di casette della Foresta Nera davanti al lungo molo di cemento che si addentrava nel mare verde. Era domenica, quando l'autocolonna attraversò la città verso mezzogiorno. C'cra una banda tedesca che si esibiva nel parco del governatore, coi suonatori in calzoni di pelle e berretto verde tirolesi. Persero il ritmo e smisero di suonare quando il convoglio di Garry si fermò davanti all'albergo dall'altra parte della strada. La trepidazione della banda era ben comprensibile, perché i muri dell'edificio erano ancora segnati dal bombardamento inglese che aveva preceduto l'invasione. Dopo la polvere e il caldo del deserto, la Pilsner locale, prodotta da un mastro birraio di Monaco, fu accolta come la resurrezione nel Walhalla. « Riempili ancora, barista », disse Garry, godendo di quel momento cameratesco maschile e ancora infervorato dalla soddisfazione d'esser riuscito a trasferire senza danni giù dall'altopiano la spedizione ai suoi ordini. Gli uomini tornarono festanti al banco e, quando alzarono il boccale per brindare, sorridendo, le croste di polvere e sudore che avevano in faccia si sbriciolarono nella spuma della birra. « Miinheer! » Anna si era rinfrescata alla meglio ed era subito ricomparsa al bar. Rimase sulla soglia con le mani sui fianchi, le braccia muscolose e gonfie e la faccia già accesa dal vento e dal sole. Si vedeva che era irritatissima. « Miinheer, lei sta perdendo tempo! » Garry riunì in fretta gli uomini. « Forza, ragazzi, c'è del lavoro da fare adesso. Andiamo, andiamo. » A questo punto non era sfuggito a nessuno chi era il vero comandante della spedizione. Trangugiarono in fretta le birre e tornarono fuori, al sole, pulendosi la bocca dalla schiuma e abbassando gli occhi nello sfilare davanti ad Anna. Mentre gli uomini facevano rifornimento di benzina, riempivano borracce e serbatoi d'acqua e controllavano il funziona mento dei motori, Garry uscì a fare qualche domanda alla stazione di polizia. Il sergente che la comandava era stato avvertito dell'arrivo di Garry. « Mi dispiace molto, colonnello, non l'aspettavamo che tra due o tre giorni. Se avessi saputo... » Era ansioso di rendersi utile. « Si sa ben poco della plaga costiera a nord », disse il sergente con un brivido involontario, guardando fuori della finestra che dava, appunto, su quelle desolazioni, a ma ho a disposizione un uomo che potrà farle da guida. » Prese il mazzo di chiavi che portava alla cintola e condusse Garry alle celle. « Ehi tu, swart donder, tuono nero! » berciò, aprendo una delle celle. Garry sussultò quando la guida scelta per lui si scosse dal sonno guardandosi torpidamente intorno. Era un ottentotto guercio e dall'aria truce, almeno a giudicare dai lampi maligni che balenavano nell'occhio buono: l'altro era coperto da una pezza nera di cuoio. Puzzava come un caprone selvatico. « Questo qua deve conoscere quella terra come le sue tasche », ghignò il sergente. « E lì che, per l'avorio, ammazzava i rinoceronti e gli elefanti che gli costeranno cinque anni di
galera. Non è vero, Kali Piet? » Kali Piet aprì il giubbetto di cuoio e cominciò a cercarsi pensosamente qualcosa tra i peli del torace. « Se la servirà bene e lei avrà la compiacenza di dircelo, potrebbe magari cavarsela con soli due anni di lavori forzati », spiegò il sergente. Kali Piet trovò qualcosa tra i peli e lo schiacciò con le unghie. « E se non sarò soddisfatto di lui? » chiese incerto Garry. Kali, in swahili, significa « cattivo », « malvagio », e non gli ispirava una gran fiducia. « Oh », disse calmo il sergente, « in tal caso non si disturbi a portarmelo indietro. Basta che lo seppellisca in qualche posto dove nessuno lo troverà mai. » L'atteggiamento di Kali Piet cambiò immediatamente. « Padrone buono », guaì in afrikaans, « io conosco tutti gli alberi, tutti i sassi, tutti i granelli di sabbia. Io sarò come un bravo cane per lei. » Anna stava già aspettando Garry sul sedile posteriore della Ford. « Si può sapere dov'è stato fino adesso? » gli domandò. « La mia bambina è là fuori ormai da sedici giorni! » « Caporale », disse Garry, affidando Kali Piet alle cure del graduato più anziano della spedizione. « Se cerca di scappare », ringhiò cercando invano di sembrare un assassino psicopatico, « lo crivelli di palle! » Mentre l'ultimo edificio di mattoni rossi sfilava dietro di loro, l'autista di Garry ruttò educatamente e risentì felice il sapore della birra. Un sorriso sognante gli aleggiò sul viso. « Se la goda », l'avvertl Garry. « Chissà quando ne ritroveremo un barile! » La pista correva lungo il margine della spiaggia, e a sinistra spumeggiava l'oceano. Davanti a loro si stendeva il litorale desolato e sempre uguale, che svaniva in fondo in una nube di foschia. La pista era usata solo dai raccoglitori di alghe, che le adoperavano per fertilizzare i campi: ma a mano a mano che proseguivano verso nord divenne sempre più confusa e alla fine scomparve. « Che c'è davanti? » domandò Garry a Kali Piet, che era stato trasbordato sulla macchina di testa da uno dei camion. « Niente », rispose Kali Piet, e mai Garry aveva sentito tanta minaccia in una parola così comune. « Da qui in avanti, tracceremo noi la pista », disse Garry agli uomini con una sicurezza che era ben lontano dal provare. Per fare altri sessanta chilometri ci misero quattro giorni. C'erano torrenti secchi da almeno cent'anni da attraversare, con le rive ripidissime e i letti cosparsi di sassi grossi come palle di cannone. C'erano pianure insidiose, in cui i veicoli di colpo affondavano nella sabbia fino al telaio, e dovevano essere spinti avanti di peso. C'erano zone accidentate, dove uno dei camion si ribaltò e un altro ruppe un semiasse e dovette essere abbandonato, con una pila di materiale rivelatosi inutile: tende e sedie da campo, tavolini e una tinozza da bagno, cassette di perline e roba consimile per comprare l'amicizia dei selvaggi, cassette di tè e burro in scatola e quant'altro era sembrato indispensabile a Windhoek. Il convoglio abbreviato e alleggerito proseguì arrancando verso nord. « Al calore di mezzogiorno l'acqua bolliva nei radiatori, e proseguivano con sbuffi di vapore che fuoriuscivano dalle valvole di sicurezza, dovendo fermarsi ogni mezz'ora per far raffreddare il motore. In altri luoghi c'erano spiazzi di pietre nere, affilate come coltelli di ossidiana, che bucavano i copertoni delle gom-
me. Un giorno Garry contò quindici soste per cambiare i pneumatici, e quella sera la puzza di gomma liquida che serviva a riparare le camere d'aria accompagnò fino a mezzanotte e oltre gli uomini al lavoro alla luce delle lanterne. Il quinto giorno si accamparono in vista del Brand Berg, la Montagna Bruciata, una mole nuda e spoglia che emergeva dalla foschia purpurea del tramonto davanti a loro. Il mattino seguente Kali Piet era scomparso. Aveva preso un fucile e cinquanta cartucce, una coperta e cinque borracce d'acqua, e anche, tocco finale, l'orologio d'oro e lo scrigno contenente venti sovrane d'oro che Garry aveva piazzato religiosamente accanto al proprio sacco a pelo la sera prima. Furioso, minacciando di sparargli a vista, Garry capeggiò la spedizione punitiva che l'insegui a bordo della Ford. Tuttavia Kali Piet aveva scelto il momento giusto. A poco più di un chilometro dal campo cominciava infatti una zona di colline accidentate e profonde valli dove nessun veicolo poteva seguirlo. « Lasciatelo andare », ordinò Anna. « Senza di lui stiamo più tranquilli, e sono già venti giorni che la mia bambina vaga... » Si interruppe. « Bisogna proseguire, MiEnheer, niente deve arrestarci. Niente. » Ma l'avanzata era lenta e faticosa, e ogni giorno diventava più difficile. Alla fine, di fronte a un'ennesima barriera di roccia che si alzava dal mare come la groppa di un dinosauro e correva alta verso l'interno, seghettata e scintillante al sole, Garry si senti a un tratto fisicamente esausto. « Questa è follia », borbottò tra sé, in piedi sul tetto della cabina di uno dei camion, ispezionando in cerca di un passaggio il roccione che si stendeva davanti a loro. « Gli uomini ne hanno abbastanza. » Erano disanimati e sparsi a gruppetti tra un camion e l'altro. Anche gli automezzi erano tutti ammaccati e coperti da strappi di polvere. « E passato quasi un mese... nessuno può sopravvivere da queste parti tanto a lungo, anche ammesso che sia riuscita a prender terra. » Il moncherino della gamba gli faceva male, e ogni muscolo della schiena, ogni vertebra erano indolenziti dai continui sussulti del camion sul terreno accidentato. « Dovremo tornare indietro. » Scese goffamente dal tetto del camion, muovendosi rigido come un vecchio, e zoppicò verso Anna che aspettava in piedi accanto alla Ford, in testa alla colonna. « Mevrou... » cominciò, e lei si voltò dalla sua parte posandogli una manona rossa sul braccio. « Mijaheer... » Aveva parlato con voce bassa, e quando poi gli sorrise Garry soffocò le proteste che stava per esprimere. Gli venne fatto di pensare, e non per la prima volta, che, a parte la facua rossa e il cipiglio spaventoso di quando Si arrabbiava, era una bella donna. La linea della sua mascella era forte e decisa, i denti erano bianchi e regolari, e nei suoi occhi leggeva una gentilezza che prima non aveva mai scorto. « Miinheer, poco fa pensavo che ben pochi uomini avrebbero saputo portarci cosi lontano. Senza di lei, avremmo dovuto rinunciare già da un pezzo. » Gli strinse l'avambraccio. « Certo sapevo che lei è un uomo dotto, che ha scritto molti libri; ma ora so anche che lei è un uomo forte e risoluto, un uomo che non permette a niente e a nessuno di tagliargli la strada. » Di nuovo gli strinse il braccio. La sua mano era forte e calda. Garry si rese conto di godere di quel contatto. Si raddrizzò, e si aggiustò il cappellaccio in testa secondo un angolo più sgherro. La schiena non gli faceva nemmeno più tanto male. Anna gli sorrise di nuovo. « Io guiderò un gruppetto avanti, sulla riva del mare, a pie-
di: bisogna ispezionare ogni centimetro di costa, mentre lei condurrà il convoglio all'interno, cercando una via per aggirare lo sperone. » Dovettero spingersi all'interno per quasi otto chilometri prima di trovare un passaggio stretto e precario sulla roccia e potersi dirigere di nuovo verso l'oceano. Quando Garry vide la sagoma di Anna che, lontano lontano, arrancava virilmente sulla spiaggia, precedendoli di un bel pezzo, col gruppetto ancor più arrancante alle sue spalle, provò un inaspettato empito di sollievo, e si rese conto che quelle poche ore erano bastate a fargli sentire la sua mancanza. A sera, sedendo a fianco a fianco con la schiena appoggiata alla macchina, mangiando gallette e carne in scatola, bevendo caffè forte troppo addolcito dal latte condensato, Garry le disse timidamente: « Anche mia moglie si chiamava Anna. E morta molto tempo fa ». « Si », annuì Anna, masticando con imPegnO. « Lo so. » « Come fa a saperlo? » Garry era sbalordito. « Michel l'ha detto a Centaine. » -Il nome del figlio pronunciato alla francese sconcertò Garry. « Dimentico sempre che lei sa moltissime cose di Michael. » Prese una forchettata di carne in scatola e rimase a guardare fisso nell'oscurità. Come al solito, gli uomini si erano accampa ti a qualche distanza per garantire loro un po' di privacy: il fuo co di legna secca raccolta in spiaggia da quelli alzava una nuvo letta gialla di fumo e le loro voci erano soltanto un mormorio nella notte. « D'altro canto io non so niente di Centaine. Mi dica qualcosa di lei, per favore, Mevrou. » Era un argomento di conversazione che non diventava mai noioso né per l'uno né per l'altra. « E una brava ragazza », disse Anna, che cominciava sempre con quell'affermazione, « ma vivace e ostinata. Le ho mai raccontato di quella volta che... » Garry rimase seduto accanto a lei, chinandosi come per sentire meglio; ma questa sera non ascoltava affatto. I riflessi del fuoco da campo ballavano sui lineamenti decisi del volto di Anna, ed egli la osservava con un senso di agio e familiarità. Di solito le donne mettevano in imbarazzo Garry, che le temeva: e, più belle e sofisticate erano, più le temeva. Da tanto tempo si era rassegnato al fatto di essere impotente: se n'era accorto durante la luna di miele, e la risata irridente della moglie gli risuonava ancora nelle orecchie dopo più di trent'anni. Non aveva mai più dato a un'altra donna la possibilità di deriderlo, suo figlio non era suo figlio, era stato suo fratello gemello a prendersi quella briga, sicché a più di cinquant'anni d'età Garry era ancora vergine. Ogni tanto, ad esempio adesso, quando ci pensava, si sentiva un po' colpevole. Con uno sforzo allontanò il pensiero e cercò di recuperare il sentimento di calma e soddisfazione, ma adesso era ben consapevole dell'odore del corpo della donna che gli sedeva accanto. Non c'era stata acqua da sprecare per lavarsi dalla partenza da Swakopmund, e l'odore di lei era forte. Sapeva di terra, sudore e altri segreti umori femminili, e Garry si chinò verso di lei per assaporarli meglio. Le poche altre donne che aveva conosciuto profumavano di colonia e acqua di rose, insipide e artificiali, ma questa qua aveva l'odore di un animale forte, caldo e sano. La guardò affascinato e, sempre parlando a voce bassa e roca, ella alzò una mano e si aggiustò alla tempia una ciocca di capelli grigi sfuggiti alla crocchia. Sotto l'ascella comparve un folto ce-
spuglietto scuro di peli ancora madidi del sudore della giornata e, guardandolo, Garry si eccitò di colpo pazzamente. La fissava incapace di muoversi o parlare, e allorché non rispose a una domanda che gli aveva posto, Anna alzò gli occhi dal fuoco e lo guardò in faccia. Pian piano, quasi con tenerezza, alzò la mano a toccargli la guancia. « Ritengo, Miinheer, che sia ora per me di andare a letto. Le auguro buona notte e sogni d'oro. » Si alzò e la si sentì muovere pesantemente dietro il drappo di tela che schermava il suo giaciglio all'altrui vista. Garry si coricò sulla propria coperta, le mani strette a pugno lungo i fianchi, e ascoltò da dietro il telo il fruscio degli abiti di lei, e il corpo gli prese a dolere come per una ferita appena inferta. Ed ecco che da dietro lo schermo provenne un fragoroso risucchio che lo fece sussultare: per un attimo non comprese, poi si rese conto che Anna si era messa a russare. Era il suono più rassicurante che avesse mai udito, giacché era impossibile aver timore di una donna che russava. Gli venne voglia di urlare a squarciagola la propria gioia nel deserto tenebroso. « Sono innamorato », esultò. « Per la prima volta da trent'anni a questa parte, sono innamorato! » Tuttavia, all'alba, il provvisorio coraggio che era riuscito a infondersi durante la notte aveva preso il volo, solo il suo amore era intatto. Gli occhi di Anna erano gonfi e rossi di sonno, la chioma striata di grigio era spolverata della sabbia che il vento della notte vi aveva deposto, ma Garry restò a guardarla in adorazione finché ella non gli ordinò, brusca: « Mangi in fretta! Bisogna muoversi alle prime luci. Ho la sensazione che oggi ci andrà bene. Mangi, mangi su, Miinheer! » « Che donna! » si disse Garry con ammirazione. « Ah, potessi anch'io suscitare una simile devozione, una simile lealtà! » Dapprima la premonizione di Anna parve ben fondata, perché sul loro cammino non si presentarono più barriere rocciose. Una pianura ondulata giungeva fino alla spiaggia: il terreno era solido e cosparso di sassolini e cespugli. Ci si poteva andare in macchina come su un'autostrada, solo badando a evitare i cespugli: così difatti facevano, in colonna, tenendosi sul margine del terreno compatto, ai confini con la spiaggia, per aver modo di scrutarla in cerca di eventuali relitti o altre tracce di naufraghi. Garry sedeva accanto ad Anna sul sedile posteriore della Ford e a ogni sobbalzo le veniva gettato addosso. Mormorava delle scuse, ma lasciava la coscia della gamba buona premuta contro quella della donna, che dal canto suo non accennava a sottrarsi al contatto. All'improvviso, verso la metà del pomeriggio, la fosca e tremolante cortina originata dalla calura si aprì di fronte a loro per un momento e scorsero una linea di dune alzarsi al termine della pianura. Il breve convoglio si fermò e tutti scesero a guardare, sbigottiti e increduli. « Una catena di montagne! » esclamò Garry. « Montagne di sabbia! E nessuno ce l'aveva detto. » « Dev'esserci un modo di superarla. » Garry scosse la testa dubbioso. « Saranno alte due o trecento metri. » « Venga! » disse Anna. « Saliamo in cima! » « Buon Dio! » esclamò Garry. « La sabbia è cedevole, la duna altissima... potrebbe essere pericoloso... » « Andiamo! Gli altri ci aspetteranno qui. » Arrancarono verso l'alto, con Anna in testa, lungo la cresta scolpita a rasoio della prima duna. Molto sotto di loro, ben presto, il gruppo di veicoli parve composto di giocattoli: vi si affaccendavano intorno uomini grandi come formichine. Sotto
i piedi la sabbia arancione scricchiolava, quando vi affondavano fino alla caviglia. Se camminavano troppo vicino alla cresta « Wilata, il bordo cedeva franando da basso come una valanga dalla parte ripida. « E pericoloso! » ripeteva Garry. « Se cade di sotto, la sabbia la seppellirà! » Anna piegò le falde della lunga e pesante gonna e le infilò nei sottostanti pantaloni corti, poi proseguì la salita, mentre Garry le guardava le gambe nude con la bocca secca e il cuore che batteva all'impazzata contro le costole, non solo per la fatica. Erano massicce e solide come tronchi d'albero, ma la pelle dietro le ginocchia era lattea e vellutata, lentigginosa come quella di una ragazzina, la cosa più eccitante che gli fosse mai capitato di vedere. Incredibilmente, Garry sentì il suo corpo reagire ancora, come se una mano gigantesca l'afferrasse all'inguine, e tutta la stanchezza gli passò. Scivolando e incespicando sul terreno sabbioso e cedevole, sgambettò per non perderla di vista, e i grossi fianchi di Anna, ampi come quelli di una giumenta sotto il panno pesante della gonna, oscillavano e ruotavano all'altezza dei suoi occhi sbalorditi. Sbucò senza nemmeno accorgersene in cima alla duna. Anna lo sorprese afferrandolo con la mano. « Mio Dio », sussurrò Garry. « E un mondo di sabbia, un intero universo di sabbia. » Oltre la prima fila di dune, infatti, se ne stendevano infinite altre, a perdita d'occhio. Perfino la fede di Anna vacillò. « Niente e nessuno le potrebbe superare. » Anna lo teneva ancora per il braccio. Ora lo scosse. « Lei è là in mezzo. Riesco quasi a sentire la sua voce che mi chiama. Non possiamo abbandonarla, dobbiamo raggiungerla. Non resisterà ancora a lungo. » « Tentare di proseguire a piedi significherebbe morte sicura. Lì dentro un uomo non resiste un giorno intero. » « Dobbiamo trovare il modo di aggirarle. » Anna si scosse come un grosso cane sanbernardo, liberandosi di dubbi e momentanee debolezze. « Venga. » Lo trasse giù dalla cresta. « Dobbiamo trovare il modo di girarci intorno », ripeté. Il convoglio, con la Ford in testa, svoltò verso l'interno, costeggiando il margine delle alte dune mentre la giornata volgeva al termine e il sole insanguinava la cresta. Quella notte, quando vi si accamparono ai piedi, le dune apparvero nere e remote, implacabili e ostili contro lo sfondo del cielo inargentato dalla luna. « Non è possibile aggirarle », disse Garry, fissando il fuoco. « Vanno avanti all'infinito. » « Domattina torniamo sulla costa », gli disse Anna con calma, e si alzò per andare a dormire, lasciandolo in preda a un lancinante desiderio di lei. Il giorno dopo tornarono sui propri passi, e al calar della sera si ritrovarono nel punto in cui le dune si affacciavano sull'oceano. « Non si passa », ripeté senza speranza Garry. Il bagnasciuga era ai piedi delle dune. Perfino Anna sembrava disanimata. Guardava silenziosamente le fiamme del fuoco. « Se aspettiamo qui », sussurrò con voce roca, « forse Centaine arriverà. Di sicuro sa che la sua sola speranza è dirigersi a sud. Se non riusciamo ad andare verso di lei, dobbiamo aspettare e sperare che sia lei a raggiungerci qui. » « Stiamo per restare senz'acqua », le disse tranquillo Garry. « Non possiamo più... » « Quanto può durare ancora? » « Tre giorni al massimo. »
« Quattro giorni! » implorò Anna, e c'era una tal desolazione nella sua voce e nella sua espressione che Garry agì senza riflettere. Le tese le braccia, e provò un delizioso terrore quando ella gli si fece incontro. Si abbracciarono, lei disperata, lui in preda a uno spaventoso turbine di libidine. Per qualche istante Garry si preoccupò che gli uomini riuniti all'altro fuoco lo vedessero. Poi decise di infischiarsene. « Vieni. » Lei lo tirò su e lo condusse dietro lo schermo di tela. Le mani di Garry tremavano al punto che non riusciva a sbottonarsi la camicia. Anna ridacchiò divertita. « Ecco fatto », disse, dopo averlo spogliato, « bambinone! » Il vento del deserto era freddo sulla schiena e sui fianchi di Garry, ma dentro gli bruciava un'annosa passione repressa. Non si vergognava più della pancia pelosa che gli sporgeva davanti come un barilotto, né delle lunghe cosce magre da cicogna, sproporzionate al resto del corpo. Le montò sopra brancolando, anelante di seppellirsi in lei, di perdersi in quella gran morbidezza bianca, di nascondervisi al mondo che tanto a lungo era stato così crudele con lui. E all'improvviso successe ancora, sentì il calore e la potènza ritrarsi dall'inguine, si sentì raggrinzire e appassire come quell'altra tremenda notte di più di trent'anni prima. E giacque sul materasso bianco del ventre di lei, cullato tra le sue grandi e forti cosce, desiderando di morire per la vergogna. Attese la sua risata di disprezzo. Sapeva che stavolta ne sarebbe stato distrutto. Non poteva scappare, perché le forti braccia della donna lo circondavano e le cosce gli stringevano i fianchi in una morsa carnosa. « Mevrou », balbettò. « Mi spiace, non ce la faccio, non ce l'ho mai fatta. » Anna ridacchiò, un risolino tenero e comprensivo. « Su, su, sta' tranquillo », gli sussurrò con voce roca all'orecchio. « Adesso ti aiuto io. » E Garry sentì la sua mano abbassarsi, schiacciata dai loro corpi nudi. « Dov'è il mio balocco? » chiese, e Garry sentì le sue dita chiudersi attorno a esso: fu colto dal panico. Cominciò a lottare per liberarsi, ma lei lo teneva fermo facilmente e alle sue dita non si poteva sfuggire. Erano dure e scabrose per i lavori manuali, ma astute e insistenti, stimolanti e carezzevoli, e la sua voce era sommessa e provocante. « Ah, ma allora è grosso, uh, com'è grosso... » Non poteva più muoversi, ma ogni nervo e ogni muscolo del suo corpo erano tesi fino allo spasimo, mentre le dita di lei frugavano e carezzavano e la sua voce diventava sempre più profonda e roca, senza fretta, calmandolo finché egli non avvertì che il suo corpo si ridestava. « Ah! » raggiò Anna. « Che sta succedendo al nostro bel balocco grosso? » A un tratto si era creata una certa qual resistenza al suo tocco, un certo irrigidimento, e Anna ridacchiò di nuovo, mentre lui sentiva che le coscione che lo rinserravano si schiudevano lentamente. « Piano, piano », gli raccomandò, sentendo che ricominciava ad agitarsi e annaspare su di lei. « Così! Sì, sì, così! » Lo guidava, cercando di calmarlo, ma lui aveva una fretta disperata. All'improvviso gli giunse alle narici una zaffata calda del suo odore corporale, ricco e forte, il meraviglioso aroma dell'eccitazione di lei: Garry provò un nuovo empito di potenza provenire dal fondo del suo essere. Era un eroe, un'aquila, il vero martello degli dèi. Era forte come un toro, lungo come una spada, duro come il granito. « Oh, sì! » ansimò Anna. « Sì, lì, così! » Ma lui era incontenibile, irresistibile, inarrestabile: si fece avanti, penetrò e sci-
volò nelle profondità di lei, nello squisito calore del miglior posto dove fosse mai stato in vita sua. Con crescente urgenza e violenza, Anna si alzò e si abbassò sotto di lui come sotto una nave in mezzo alla tempesta, emettendo gridolini e spronandolo con voce rotta e gutturale, finché il cielo non gli crollò addosso schiacciandolo contro la terra. Pian piano Garry tornò in sé da un'immensa lontananza, mentre lei lo stringeva, lo carezzava, e di nuovo gli parlava come a un bimbo. « Su, su, bambino mio. Va tutto bene. Va tutto bene, adesso. » E lui sapeva che aveva ragione. Andava tutto bene, adesso. Non si era mai sentito così sicuro, così pieno di gioia. Non aveva mai conosciuto una simile pace totale. Schiacciò il viso tra il suo seno, affondò nella sua carnosa abbondanza materna e desiderò rimanerci per sempre. Lei gli ravviò i pochi capelli setosi sulle orecchie, guardandolo intenerita. La piazza rosea della sua calvizie brillava ai riflessi del fuoco, ridestando nel suo petto il desiderio invincibile di dargli conforto. Tutto il suo amore compresso per la ragazza in pericolo trovò sfogo lì, perché lei era nata per servire e aiutare fedelmente gli altri. Cominciò a cullarlo tra le braccia, parlandogli con tenerezza. Poi, all'alba, Garry scoprì che c'era stato un altro miracolo. Perché quando era scivolato fuori del campo ed era andato alla spiaggia, si era accorto che adesso avevano la strada aperta. Infatti, per via della luna piena e della stagione, l'oceano subiva maree del tutto eccezionali, e adesso che le acque si erano ritirate era comparsa ai piedi delle dune una larga striscia di sabbia bagnata e compatta. Garry tornò di corsa al bivacco e scosse il caporale anziano. a Sveglia, sveglia! » berciò. « Faccia riempire il serbatoio della Ford! Voglio partire entro un quarto d'ora, con viveri e acqua per tre giorni! Cosa sta lì a guardarmi? Scattare, scattare perdio! » Si voltò e corse incontro ad Anna, che stava uscendo in quel momento dal paravento di tela. « Mevrou, la marea! Si può passare! » « Lo sapevo che lei avrebbe trovato il modo, Miinheer! » « Andremo avanti con la Ford, io, lei e due uomini. Viaggeremo finché la marea ce lo consente, poi sosteremo in attesa della bassa marea successiva. Ce la fa a prepararsi a partire in dieci minuti? Bisogna approfittare il più possibile della bassa marea. » Tornò a rivolgersi ai soldati. « Forza, forza! Caporale, li faccia muovere! » Quando poi distolse lo sguardo, il caporale roteò gli occhi e borbottò abbastanza forte da farsi sentire dagli altri soldati: « Ma che gli ha preso a quel vecchio merlo? Tutt'a un tratto si mette a fare il galletto! » Avanzarono per due ore alla massima velocità della Ford, sessanta chilometri l'ora. Questo era possibile quando la sabbia era particolarmente dura e compatta. Quando invece era più molle, dovevano scendere tutti tranne l'autista e spingere, fino al prossimo pezzo cqmpatto allorché rirnontavano urlando felici in macchina e ricominciavano a filare verso nord. Ed ecco la marea ergersi nuovamente verso di loro. Garry scelse un varco tra le dune e vi si infilarono a marcia indietro, spingendo su su i veicoli per un tratto di terreno duro e sabbioso finché non furono ben oltre il segno dell'alta marea. Fecero un fuoco di legna secca trovata sulla spiaggia, prepararono il caffè e mangiarono, poi si misero ad aspettare che la marea calasse, consentendo loro di rimettersi in marcia. I tre uomini si coricarono all'ombra della macchina, ma Anna li la-
sciò e, passo passo, avanzò lungo il segno dell'alta marea, fermandosi ogni poco a guardare, schermandosi gli occhi con la mano per ripararli dal bagliore del mare e della sabbia, per poi tornare ad avviarsi instancabilmente verso nord. Appoggiato a un gomito, Garry la guardava con infinito affetto e gratitudine. Faceva perfino fatica a respirare per la pienezza di questi sentimenti. « Nell'autunno della mia vita mi ha donato la gioventù che non conobbi mai. Mi ha portato l'amore che mi fu rifiutato da giovane », pensava. Quando Anna sparì alla vista dietro l'angolo della duna, non resse all'idea di non vederla per un po'. Si alzò in piedi e si mise a seguirla di buon passo. Dietro l'angolo della duna la scorse a trecento metri di distanza. Era china su qualcosa che aveva trovato sulla spiaggia: proprio in quella alzò gli occhi, lo vide e cominciò a chiamarlo urlando e sventolando le braccia. Il rumore della risacca copriva le parole, ma la sua emozione evidente indusse Garry a partire di gran carriera per raggiungerla. « Miinheer », disse correndogli incontro, ccho trovato... » Non riuscì a finire, ma lo prese per il braccio e se lo tirò dietro. « Guardi un po' qua! » Cadde in ginocchio accanto all'oggetto. Era quasi completamente sepolto nella sabbia, e già la marea montante vi creava intorno dei mulinelli. « E un pezzo di barca! » Garry si inginocchiò vicino a lei, e insieme si misero a scavare nella sabbia a mani nude, cercando freneticamente di liberare il frammento di fasciarne verniciato di hianco. « Sembra una scialuppa standard dell'Ammiragliato britannico », disse ansimando Garry. L'ondata successiva inondò la spiaggia e li bagnò fino alla vita. Quando riflui, aveva portato via la sabbia da loro scavata liberando il nome dipinto a lettere nere sullo scafo sfondato. « Protea C... » Il resto mancava, il fasciame era stato sfondato proprio in quel punto dalla violenza delle ondate. « Il Protea Castle! » sussurrò Anna, pulendo col lembo della gonna le lettere nere. « Ecco la prova! » Si rivolse a Garry, con le lacrime che le scorrevano sulle guance. « Ecco la prova, Miinheer, che la mia bambina ha raggiunto la spiaggia ed è salva! » Pur ansioso di compiacerla come uno sposino, pur desideroso come lei di assicurarsi un nipotino, un figlio di Michael, Garry riluttava a condividere l'azzardata interpretazione. « E la prova che lei è viva. Ci crede adesso o no, Miinheer? » « Mevrou... » disse Garry, fregandosi le mani imbarazzatissimo, « certo si tratta di una buona possibilità. In questo son d'accordo. » « E viva. Lo so. Come può dubitarne? A meno che non creda invece che... » La sua faccia rossa divenne un mascherone minaccioso. Garry capitolò nervosamente. « Ma si che ci credo! Sì, sì! Non c'è dubbio, è viva, assolutamente! » A questa resa immediata Anna si girò a fronteggiare la marea montante e riversò sull'oceano tutta la potenza della sua irritazione. « Quanto tempo dobbiamo fermarci qui, Miinbeer? » « Ebbene, Mevrou, la marea è alta per sei ore e bassa per altrettante », le spiegò in tono di scusa. « Ci saranno altre tre ore da aspettare prima di poter proseguire. » « A questo punto ogni minuto può significare la vita o la morte », gli disse Anna con gran serietà. « Ebbene, sono desolato anch'io, Mevrou. » Umilmente Garry prese su di sé ogni responsabilità relativa al ritmo dell'uni-
verso, e Anna parve raddolcirsi un tantino. Si guardò attorno per controllare che fossero soli e poi infilò la mano nell'incavo del gomito di Garry. « Be', almeno sappiamo che è ancora viva. Continueremo appena potremo. Nel frattempo, Miinheer, abbiamo tre ore... » Lo guardò con aria complice, e le ginocchia di Garry cominciarono a tremare così forte che riusciva a stento a reggersi in piedi. Nessuno dei due parlò più mentre lei lo guidava verso una fratta tra due alte dune. Allorché la marea cominciò a calare, riportarono la Ford sulla sabbia. Le ruote posteriori sollevavano argentei spruzzi di sabbia mista ad acqua di mare mentre filavano ancora verso nord. Due volte nel giro di una decina di chilometri trovarono altri relitti sulla spiaggia: un giubbotto di salvataggio e un remo rotto. Ovviamente erano rimasti esposti agli elementi per un tempo considerevole e, benché nessuno fosse marcato, valsero a confermare la fiducia di Anna. Sedeva nel sedile posteriore della Ford con lo scialle annodato sotto il mento, tenendoselo in testa con una mano, e ogni poco Garry si voltava a guardarla con l'aria adorante di un fox-terrier innamorato di un bulldog. Ormai la marea era calata e procedevano a quaranta all'ora. Fu allora che all'improvviso capitarono su un banco di sabbie mobili. Non c'erano stati molti segnali: la spiaggia sembrava dura e compatta come al solito, benché la linea della battigia presentasse una lieve variazione. Era più lucida e la superficie tremolava come gelatina per il tracimare dell'acqua marina sotto il fango: ma andavano troppo forte per accorgersi di questi indici di pericolo, e ci finirono dentro a tutta velocità. Le ruote anteriori sprofondarono nella poltiglia molle e si fermarono. Fu come andare a sbattere contro una montagna. L'autista fu proiettato contro il volante. Con un forte schianto le razze si infransero e il perno d'acciaio gli entrò nello sterno, bloccandolo come un pesce fiocinato al posto di guida: la punta aguzza gli uscì dalla schiena, poco sotto la scapola. Anna, sul sedile posteriore, fu scagliata in alto. Dopo un gran volo finl a capofitto nella fanghiglia cedevole. Garry picchiò la fronte contro il cruscotto, un lembo di pelle si staccò fino all'osso e gli rimase appeso davanti agli occhi, mentre la sua faccia diventava una maschera di sangue. Quanto al caporale, finì a gambe all'aria tra i bagagli rompendosi un braccio con uno schianto secco. Anna fu la prima a riprendersi e, con la fanghiglia fino al ginocchio, andò ad aiutare Garry sorreggendolo fuori della macchina, fino al terreno solido. Garry cadde in ginocchio. « Non ci vedo più! » sussurrò. « E solo un po' di sangue! » Anna gli pulì il viso con un lembo della gonna. Ne strappò via una striscia e rapidamente rimise a posto il lembo di pelle della fronte, bendandogli poi la testa. Lo lasciò lì e tornò a guado verso la Ford. Stava affondando pian piano, inclinata anteriormente. Già il cofano era coperto di fanghiglia giallastra che gorgogliava entrando da ogni pertugio fin dentro l'abitacolo. Anna prese l'autista per le spalle e cercò di tirarlo via dal posto di guida, ma era ormai senza vita, ciondolava la testa di qua e di là, e al primo strattone Anna sentì l'acciaio del perno del volante stridere contro le ossa del torace. Lo mollò e si dedicò al caporale. Gemeva, contorcendosi spasmodicamente, e stava riprendendo coscienza solo allora. Anna lo liberò dai bagagli che gli erano caduti addosso e lo riportò di peso sul terreno solido, ansimando, tutta rossa per lo sforzo. Lui gemeva per il dolore al braccio che pendeva e ruotava intorno all'osso fratturato, men-
tre Anna lo adagiava sulla sabbia compatta. « Miinheer », disse la donna, scuotendo rudemente Garry. « Bisogna salvar l'acqua prima che affondi. » Garry si alzò in piedi vacillando. Aveva la faccia tutta coperta di sangue, e anche la camicia era chiazzata, ma adesso l'emorragia si era interrotta. Seguì la donna alla macchina condannata e in due riuscirono a salvare le taniche d'acqua. « Non c'è più niente da fare per l'autista », borbottò Anna. Rimasero fermi a guardare la Ford scomparire col cadavere, inghiottita dalle sabbie mobili. Nel giro di pochi minuti non ve ne fu più traccia. Allora si dedicarono al caporale. « L'osso è fratturato. » L'avambraccio si stava gonfiando in maniera allarmante, e il poveraccio, pallidissimo, soffriva le pene dell'inferno. « Aiutami! » Mentre Garry lo sosteneva, Anna raddrizzò il braccio rotto e con un'assicella piatta trovata sulla spiaggia lo bendò nella posizione giusta. Poi strappò un'altra striscia di tela dalla gonna e, mentre gli infilava il braccio al collo, Garry disse, con la voce rotta dallo shock: « Credo che abbiamo una settantina di chilometri da fare per tornare indietro... » ma non poté finire, perché Anna lo fulminò con un'occhiata. « Parli già di tornare indietro? » « Mevrou », disse lui con un timido gesto conciliante, « siamo costretti a tornare. Abbiamo dieci litri d'acqua e un ferito... Saremo molto fortunati a salvarci. » Anna continuò a fissarlo fiammeggiando per qualche secondo, poi a poco a poco le si incurvarono le spalle. « Siamo così vicini a trovarla, siamo a un passo da Centaine! Lo sento! Potrebbe essere al di là del primo promontorio. Come possiamo abbandonarla? » Era la prima volta che egli la vedeva remissiva, e gli sanguinò il cuore d'amore e di pena. « Non l'abbandoneremo mai! » dichiarò. « Non metteremo mai fine alle ricerche! Questa è solo un'interruzione temporanea. Torneremo a cercarla finché non la troveremo! » « Me lo prometta, Miinheer », disse Anna, abbandonando la precedente confidenza a beneficio del ferito che seguiva preoccupato la discussione. Alzò gli occhi imploranti « Garry. « Giuri che non ci rassegneremo mai, che non dubiterà mai nemmeno per un momento che la mia Centaine e il suo bambino siano ancora vivi. Me lo giuri qui e subito, davanti a Dio: lei non interromperà mai le ricerche del suo nipotino. Mi dia la mano, e giuri! » Inginocchiandosi a faccia a faccia sulla sabbia, con la marea montante che li lambiva, tenendosi per mano, si scambiarono il giuramento. « Adesso possiamo tornare indietro », disse Anna rialzandosi pesantemente. « Ma ripartiremo, e continueremo a cercarla finché non la troveremo. » « Sì », concordò Garry. « Torneremo. » Certo Centaine era passata attraverso una piccola morte, perché quando riprese conoscenza avvertl la luce del giorno dietro le palpebre ancora chiuse. La prospettiva di un'altra giornata di tormento e sofferenza l'indusse a serrare ancora più forte gli occhi e a cercar di ritirarsi di nuovo nel buio dell'oblio. Poi divenne cosciente di un rumoretto come di brezza mattutina tra steli secchi, o di un insetto che zampetti su una superficie pietrosa. Il rumore la preoccupò al punto da indurla al tremendo sforzo di girare la testa e aprire gli occhi. C'era un minuscolo gnomo umanoide accucciato a tre metri da lei. Doveva essere un'allucinazione. Centaine sbatté rapidamente le palPebre due o tre volte, e la cispa secca che le in grommava strisciò contro la pupilla confondendole la vista. Intravide tuttavia una seconda figuretta accucciata dietro la pri-
ma. Si strofinò gli occhi e cercò di alzarsi a sedere, e questo movimento causò un nuovo crepitio strano da parte delle due allucinazioni. Le ci volle qualche secondo per comprendere che i due gnomi stavano parlando tra loro, con un'eccitazione repressa, e che erano esseri reali, non fantasmi della debolezza e della malattia. Quella più vicina a Centaine era una donna: un paio di sacche flosce le pendevano dal torace, fino un bel pezzo sotto l'ombelico. Sembravano borse del tabacco in vescica di maiale vuote. Era una vecchia... no, Centaine si rese conto che la parola non era adatta a descrivere la sua vetustà. Era pivna di rughe come un grappolo d'uva passa. Non c'era un centymetro di pelle del suo corpo che non pendesse raggrinzito o non fosse solcato e piegato. Le rughe non erano allineate in una sola direzione, ma si incrociavano in complicati disegni, come costellazioni. Il seno penzolante era rugoso, come il piccolo ventre prominente, e anche da ginocchia e gomiti pendevano filacce di pelle raggrinzita. In uno stato onirico, Centaine guardava a bocca aperta, affascinata. Non aveva mai visto esseri umani che assomigliassero seppur lontanamente a questi, nemmeno al circo che ogni estate, prima della guerra, si fermava a Mort Homme. Si rizzò a fatica su un gomito e si mise a fissare quell'apparizione. La minuscola vecchietta era di un colore straordinario, al sole sembrava risplendere come ambra. A Centaine venne in mente la pipa di suo padre. Ma questo colore era più chiaro, era quasi un color albicocca matura, e a dispetto della gran debolezza un sorrisetto aiggiò sulle labbra di Centaine. Immediatamente la vecchia, che stava studiando la ragazza con identico interesse, ricambiò il sorriso. La rete di rughe le si strinse intorno agli occhi, riducendoli a due fessure come quelli dei cinesi. Tuttavia, in quelle nere e lucide pupille si leggeva una tale gaiezza che a Centaine venne voglia di abbracciarla, come avrebbe abbracciato Anna. I denti della vecchia donna erano consumati fin quasi alle gengive e avevano macchie scure color tabacco, ma non ne mancava alcuno e sembravano molto forti. « Chi siete? » sussurrò Centaine a fatica, tra le labbra gonfie e nere, e la donna le rispose con una sequela di sibili e schiocchi. Sotto la pelle raggrinzita, i lineamenti del cranio erano pic coli e regolari, e il viso era a forma di cuore. La chioma era grigia, e l'acconciatura era a piccoli cernecchi ritorti della grandezza di un pisello tra i quali appariva il cuoio capelluto. Aveva orecchie piccole e appuntite come quelle delle fate dei libri di Centaine bambina, ma erano prive di lobi, e il contrasto tra gli occhi luminosi e le orecchie drizzate le conferiva un'espressione sempre tra l'attento e l'attonito. « Avete acqua? » sussurrò Centaine. « Acqua. Per piacere. » La vecchia girò la testa e parlò in quella sua lingua tutta sibili e schiocchi col vicino. Sembrava il suo gemello, aveva la stessa carnagione luminosa e grinzosa color albicocca e gli stessi cernecchi gli punteggiavano il cranio. Aveva gli stessi occhi brillanti e le stesse orecchie a punta senza lobi: ma era maschio. Questo era più che evidente perché il perizoma di pelle che indossava, per la posizione accovacciata, lasciava in mostra un pene del tutto sproporzionato alle sue dimensioni che pendeva liberamente, sfiorando il terreno con la punta non circoncisa. Aveva la particolare arroganza e tensione semieretta del membro di un giovanotto. Centaine si accorse di fissarlo sbalordita e distolse gli occhi. « Acqua », ripeté, e stavolta fece anche il gesto di chi beve. Immediatamente tra i due vecchiettini si accese un'animata di scussione. « O'wa, questa ragazza sta morendo di sete », disse la vec-
chia al consorte ormai trentennale. Si trattava di una coppia di boscimani. La prima sillaba del nome del marito, convenzionalmente resa con quella « O » seguita da un apostrofo, si pronuncia in realtà come un bacio schioccante: il nome intero suona dunque all'incirca smack-uàt « E già morta », rispose subito il boscimano. « E troppo tardi, H'ani. » Il nome della moglie iniziava con una aspirazione netta ed esplosiva e terminava con uno schiocchetto della lingua contro i denti superiori, schiocchetto che dalle nostre parti esprime una leggera irritazione. « L'acqua appartiene a tutti, vivi e moribondi, è la prima legge del deserto. Lo sai benissimo, vecchio nonno. » H'ani cercava di risultare particolarmente persuasiva, per cui usava quell'appellativo che in seno al loro popolo denotava un grandissimo rispetto. « L'acqua è di tutti », ammise l'uomo, annuendo e sbattendo le palpebre. « Ma questa qua non è mica una San, non è una persona. Non è dei nostri. » Con questa breve asserzione O'wa aveva sinteticamente espresso come il boscimano vede se stesso in relazione al mondo circostante. Il boscimano fu il primo uomo. Le sue memorie tribali risalgono alla notte dei tempi, fino all'epoca in cui i suoi avi erano soli sulla terra. Dai lontani laghi settentrionali alle montagne del drago a sud, il loro terreno di caccia comprendeva il continente intero. Erano gli aborigeni. Erano gli uomini, i San. Le altre erano creature a parte. I primi erano arrivati da nord, lungo le vie dell'immigrazione: grandi uomini neri che spingevano avanti le loro greggi e mandrie. Molto più tardi erano giunti quelli con la pelle color della pancia dei pesci, che al sole diventava rossa, e gli occhi sbiaditi che sembravano ciechi. Erano venuti dal mare, da sud. Questa femmina era una di loro. Sui vecchi terreni di caccia dei boscimani essi avevano allevato ovini e bovini, sterminando la selvaggina di cui vivevano i San. Senza più mezzi di sostentamento, i boscimani si erano rivolti alle greggi e mandrie che avevano sostituito la selvaggina nei pascoli del veld. Non avevano il senso della proprietà privata; tra loro non si erano mai annoverati dei proprietari. Così avevano razziato greggi e mandrie come selvaggina qualsiasi, recando mortale offesa agli allevatori. Bianchi o neri che fossero, i pastori avevano dichiarato spietatamente guerra ai boscimani, sterminandoli con ferocia: una ferocia aguzzata dalle freccette che i piccoli uomini scagliavano con i loro archi da bambini intrise di un veleno che non perdona e conduce a morte tra terribili sofferenze. Riuniti in impis, gruppi armati di zagaglie a lama doppia, o in squadre a cavallo dotate di armi da fuoco, i popoli di allevatori avevano combattuto i boscimani come animali nocivi. Li avevano trafitti con lame e proiettili, chiusi nelle caverne e bruciati vivi, avvelenati e torturati, risparmiando dal massacro solo i bambini più piccoli. Incatenati a plotoni, quelli di loro che non morivano di crepacuore venivano a domati » e si tramutavano in schiavetti fedeli, attivi e di indole amabile. A questo genocidio deliberato bande di boscimani si sottrassero ritirandosi nelle terre aride e deserte dove essi soli, con la loro fantastica conoscenza del territorio e degli animali che nutriva, riuscivano a sopravvivere. « Non è dei nostri », ripeté O'wa, « ed è già bell'e morta. L'acqua basta appena al nostro viaggio. » H'ani non aveva mai distolto gli occhi dal viso di Centaine, ma adesso, silenziosamente, si rimproverava. « Vecchia donna, non era necessario discutere dell'acqua. Se gliela davi subito, non c'era bisogno di affrontare la stupidità maschile. » Cosi meditando, si voltò a sorridere al marito.
« O saggio nonno, guarda la fanciulla negli occhi », perorò. « Vi è vita ancora, nonché coraggio. Costei non morrà fino all'ultimo respiro del suo corpo. » Con decisione H'ani si tolse la bisaccia da tracolla e, ignorando il sibilo di disapprovazione del marito, ribadì che « nel deserto, l'acqua appartiene a tutti senza distinzione, non solo ai San, come tu giustamente hai detto or non è molto. » Dalla bisaccia tolse un uovo di struzzo, un globo quasi perfettamente sferico del color dell'avorio polito. L'uovo era stato amorevolmente decorato torno torno con figure di uccelli e animali. In cima c'era un tappo di legno. Il contenuto sciabordava mentre H'ani muoveva la rudimentale borraccia, e Centaine uggiolava come un cucciolo a cui venga negata la tetta. « Vecchia donna ostinata », disse O'wa, disgustato. Era la maggior protesta che gli consentissero le usanze boscimane. Non aveva il diritto di darle degli ordini, non aveva il diritto di proibirle alcunché. Un boscimano può solo consigliare un altro, non ha nessun diritto su di lui; tra loro non vi sono capi né comandanti, e sono tutti uguali, uomini e donne, giovani e vecchi. Cautamente H'ani tolse il tappo di legno dall'uovo di struzzo e l'avvicinò a Centaine. La sorresse con la mano dietro il collo e le portò l'uovo alle labbra. Centaine inghiottì avidamente e s'ingozzò, rovesciando un po' d'acqua che le colò giù per il mento. Stavolta sia H'ani sia O'wa emisero un sibilo di disapprovazione, perché ogni goccia era preziosa come il sangue vitale. H'ani tirò indietro l'uovo e Centaine, gemendo, cercò di raggiungerlo, protendendosi con la lingua fuori. « Sei maleducata », l'ammoni H'ani. Portò l'uovo alle proprie labbra e si riempì la bocca d'acqua fino ad averne le guance gonfie. Poi infilò la mano sotto il collo di Centaine, si chinò verso di lei e posò le labbra su quelle della ragazza. Con cautela iniettò delle gocce d'acqua in bocca a Centaine e, prima di dargliene ancora, aspettò che l'avesse inghiottita tutta. Passata l'ultima goccia, attese che l'assorbisse e fosse pronta per una nuova trasfusione. Allora gliene iniettò in bocca un'altra sorsata, e poi un'altra e un'altra ancora. « Questa femmina beve come un'elefantessa incinta », disse acido O' va. « Ha già inghiottito abbastanza acqua da inondare l'uadi di Kuiseò. » H'ani dovette ammettere, sia pure con riluttanza, che aveva ragione. La ragazza aveva già consumato la razione giornaliera di una persona adulta. Rimise il tappo all'uovo di struzzo e, benché Centaine l'implorasse tendendo le braccia e mugolando dispeMtamente, infilò la naturale borraccia nella sacca di cuoio. « Ancora un pochino, per pietà », sussurrava Centaine, ma la vecchia l'ignorò e si rivolse al consorte. Si misero a discutere gesticolando, gesti aggraziati, da uccellino, arruffando le dita. La vecchia portava una fascia di perline bianche e piatte alla fronte, e intorno al collo e alle braccia ne aveva un'altra dozzina di fili. Alla vita un gonnellino di cuoio e su una spalla una cappa di pelliccia maculata. Entrambi gli indumenti erano fatti di una pelle sola, informe e senza cuciture. Il gonnellino era tenuto a posto da una correggia a cui erano appesi numerosissimi contenitori di zucca e corno d'antilope, e la vecchia portava un bastone piuttosto lungo, rinforzato all'estremità da una pietra a punta. Centaine, sempre distesa, la guardava intensamente. Intuiva che stavano discutendo della sua sopravvivenza e che la vecchia donna era dalla sua parte. « Tutto quello che dici, vecchio e riverito nonno, è indubbiamente verissimo. Siamo in viaggio, e in viaggio si deve abbandonare chi non tiene il passo e mette in pericolo gli altri.
E l'usanza. Tuttavia, se aspettiamo tanto così », fece un gesto indicando un tratto di cielo che il sole percorre in circa un'ora, « questa fanciulla potrebbe riprendere le forze, e una tale attesa non ci metterebbe affatto in pericolo. » O'wa continuava a emettere un profondo suono gutturale, agitando le mani all'altezza della vita. Era un gesto espressivo che mise in allarme Centaine. « Il nostro viaggio è lungo e difficile, e abbiamo ancora una grande distanza da percorrere. La prossima acqua è a molti giorni: attardarsi qui è follia pura. » O'wa portava in testa una corona, e a dispetto della sua situazione Centaine se ne sentì incuriosita, finché all'improvviso non comprese di che si trattava. Era una fascia di cuoio, in cui il vecchio portava quattordici piccole frecce. Questi dardi erano fatti di canne palustri, avevano alette stabilizzatrici di penne, e le punte rivolte al cielo erano bianche, d'osso, tranne l'estremità, colore del cioccolato. A Centaine tornarono in mente i libri di Levaillant sull'Africa. « Frecce avvelenate! » sussurrò, rabbrividendo. Poi ricordò un'illustrazione del libro. « Sono boscimani. Sono veri boscimani, vivi! » Cercò di alzarsi in piedi, ed entrambi i piccoletti si voltarono a guardarla. « E già più forte di prima », osservò H'ani, ma O'wa abbandonò la posa accucciata e si alzò. « Siamo in viaggio, è un viaggio importantissimo, e il tempo passa. » All'improvviso l'espressione di H'ani mutò. Stava fissando il corpo di Centaine. Quando Centaine riusci a rizzarsi a sedere, la camicetta di cotone, già sbrindellata, le si apri rivelando un seno. Scorgendo l'interesse della vecchia, Centaine si accorse della propria nudità e si copri in fretta, ma adesso la vecchia le balzò vicino e si chinò su di lei. Con impazienza le scostò le mani e con dita sorprendentemente forti per le sue manine in apparenza delicate strizzò il seno di Centaine. La ragazza cercò di sottrarsi con gridolini di protesta, ma la vecchia era decisa e autoritaria com'era sempre stata Anna. Aprì la camicia sbrindellata, prese tra pollice e indice un capezzolo e si mise a mungerlo con delicatezza. Sulla punta del capezzolo comparve una gocciolina chiara. Borbottando qualcosa tra sé, H'ani spinse di nuovo Centaine giù sulla sabbia. Le infilò le mani sotto la camicia e cominciò a tastarle e palpeggiarle l'addome. Alla fine H'ani si rimise accucciata sui talloni e rise annunciando trionfalmente al consorte: « Adesso non la puoi più abbandonare! » raggiò. « E la più ferrea tradizione dei San! Non si abbandona la donna che porta in sé una nuova vita, a qualunque popolo appartenga. » O'wa fece uno stanco gesto di resa, e si rimise anch'egli accucciato sui talloni. Adottò un'aria di superiore distacco, mentre la moglie trotterellava fino alla riva del mare con il bastone appuntito in mano. Ispezionò con attenzione la sabbia bagnata, mentre le ondine le lambivano le caviglie. A un tratto conficcò la punta del bastone nella sabbia e tracciò un solco diritto. Sotto la sabbia l'attrezzo preistorico cozzò contro qualcosa di duro, che H'ani si precipitò a raccogliere scavando con le dita. Poi lo infilò nella bisaccia. Quindi ricominciò da capo. In breve tornò dove Centaine continuava a giacere e rovesciò una piccola cascata di molluschi sulla sabbia. Erano conchiglie bivalve e Centaine si diede della stupida tra sé e sé. Per giorni e giorni aveva rischiato di morire di fame e di sete camminando su una spiaggia addirittura infestata di succulenti frutti di mare.
La vecchia ne apri uno con una lama d'osso, tenendolo dritto per non far traboccare dal bordo di madreperla nemmeno una goccia di liquido prezioso. Poi lo passò a Centaine. La ragazza sorbi ghiotta il sugo prima di strappare il mollusco con le dita e divorarselo. « Bon! » disse a H'ani, col viso stravolto dalla gioia di masticare. « Très bon! » H'ani annui sogghignando, mentre già apriva un'altra conchiglia. La sua lama d'osso, però, era un attrezzo piuttosto inefficiente per quella bisogna. Sbriciolava il guscio, che poi finiva tra i denti a Centaine. Dopo tre altre ostriche, Centaine prese il coltello che portava legato alla cintola e l'aprì. O'wa aveva finora manifestato la propria disapprovazione accucciandosi a qualche distanza a contemplare il mare, ma allo scatto del coltello si girò verso Centaine e spalancò gli occhi con immenso interesse. I San erano ancora all'età della pietra ma, benché l'estrazione, la fusione e la lavorazione dei metalli fossero oltre i confini della loro cultura materiale, avevano visto in parecchie occasioni che cosa si poteva fare con uno strumento di ferro. O'wa aveva veduto quelli che il suo popolo raccoglieva dai campi di battaglia dei giganti neri, e quelli che rubava di nascosto dagli accampamenti degli esploratori. O'wa aveva anche conosciuto un San che era riuscito a procurarsi un coltello identico a quello che adesso maneggiava Centaine. Il nome di quell'uomo era Xia, lo schiocco interdentale con cui il cavaliere incita il cavallo; trentacinque anni prima, Xia aveva sposato la sorella maggiore di O'wa. Da giovane, Xia aveva trovato lo scheletro di un uomo bianco morto di sete accanto a un pozzo secco ai margini del Kalahari. Il corpo del vecchio cacciatore di elefanti giaceva accanto allo scheletro del cavallo e al grosso fucile capace di stendere quei pachidermi. Xia non aveva toccato il fucile, perché sapeva sia dalle leggende sia da amare esperienze che quello strano bastone magico imprigionava il tuono; ma, raccogliendo il coraggio, si era messo a frugare nelle bisacce del cacciatore, rosicchiate dalle iene, e aveva scoperto tesori tali che i boscimani neppure li sognavano. Per prima cosa, una borsa di cuoio contenente del tabacco, una provvista per un mese. Xia se n'era infilato felice un pizzico sotto il labbro superiore, e aveva continuato a esaminare il resto. In fretta aveva scartato un libro e un rotolo di cartone contenente dei pallini di pesante metallo grigio, cose brutte e completamente inutili. Poi trovò una bella fiaschetta di metallo giallo legata a una cinghia di cuoio. La fiaschetta era piena di una polvere grigia senza alcuna utilità, che sparse per terra, ma la fiasca in sé era così lucida e splendente che sapeva che nessuna donna avrebbe saputo resisterle. E Xia, che non era né un grande cacciatore né un grande danzatore o cantante, da tempo corteggiava la sorella di O'wa, il cui riso pareva acqua ruscéllante: non aveva nemmeno osato tirare nella sua direzione la freccia piumata con il rituale arco d'amore, ma con quella fiaschetta luccicante in mano non poteva più dubitarne: alfine sarebbe stata sua. Poi Xia trovò il coltello e seppe che con quello si sarebbe assicurato il rispetto degli altri uomini della tribù, che agognava quasi quanto la leggiadra sorella di O'wa. Erano circa trent'anni che O'wa non vedeva né Xia né sua sorella. Erano partiti per le solitarie e aride distese orientali, esiliati dal clan per l'odio e l'invidia che il coltello aveva suscitato presso gli altri uomini della tribù. Adesso O'wa guardava sbalordito un coltello analogo tra le mani di questa femmina che facilmente apriva le ostriche e ne
divorava il meglio sorbendo il sugo. Fino a questo momento il gran corpo di quella femmina gli aveva fatto solo schifo. Era più grossa di qualunque San, e aveva mani e piedi smisurati. In testa, poi, sembrava che le crescesse un cespuglio. La pelle rossa sembrava quella di un gambero. Però guardando il coltello, tutti i confusi sentimenti di trent'anni prima tornarono a inondargli l'animo e comprese che a notte avrebbe vegliato insonne, pensando all'inestimabile attrezzo. O'wa si alzò. « Basta », disse a H'ani. « E ora di muoversi. » « Ancora un momento. » « Donna gravida o no, nessuno può mettere in pericolo la vita degli altri. Dobbiamo proseguire. » Ancora una volta, H'ani sapeva che aveva ragione lui: avevano già atteso anche troppo, al limite dell'incoscienza. Si alzò e si aggiustò la bisaccia a tracolla. Vide il panico balenare negli occhi di Centaine, che aveva intuito le loro intenzioni. « Aspettatemi! Attendez! » Centaine si rizzò faticosamente in piedi, atterrita al pensiero che l'abbandonassero. Intanto O'wa si metteva in spalla il piccolo arco, infilava il pene penzolante sotto il perizoma di cuoio e stringeva la correggia che lo fissava alla vita. Poi, senza più guardare le donne, si avviava lungo il margine della spiaggia. H'ani si incamminò dietro di lui. I due trotterellavano ondeggiando lievemente, e Centaine notò per la prima volta le loro natiche molto pronunciate, enormi protuberanze che puntavano all'indietro cosi acute e sporgenti che la ragazza si sentiva sicura di poter cavalcare H'ani come un pony: l'idea la fece ridacchiare. H'ani in quella si girò a osservarla, le restituì un bel sorriso d'incoraggiamento e poi tornò a guardare davanti a sé. La schiena della vecchia sussultava e tremolava, tutta pieghe e grinze pendule, mentre il seno floscio le sbatteva a ogni passo contro il ventre. Centaine fece un passo dietro a loro e poi fu travolta da un empito di delusione. « Non è quella la strada! » gridò. « Avete preso la direzione sbagliata! » I due pigmei puntavano verso nord, allontanandosi da Città del Capo, Walvis Bay e la civiltà tutta. « Ma da che parte andate! Tornate qua! Non potete lasciarmi qua da sola! Non potete... » Centaine era disperata e stravolta. La solitudine del deserto l'aspettava pronta a inghiottirla come una belva affamata, se l'avessero nuovamente abbandonata a se stessa. Ma se si metteva a seguire quei folletti, voltava le spalle alla sua gente e al soccorso che poteva venirle da li. Fece qualche passo incerto dietro H'ani. « Per pietà, non andatevene! » La vecchia comprese l'appello, ma sapeva che c'era un solo modo di far muovere la ragazza. Non si voltò. « Per piacere! Per piacere! » « Al piccolo trotto, i due nanerottoli si allontanavano a una velocità sconcertante. Per qualche momento ancora Centaine esitò, voltandosi verso sud, lacerata e senza speranza. H'ani era già a trecento metri di distanza e non dava segno di rallentare. « Aspettami! » gridò Centaine, raccogliendo il suo bastone. Cercò di correrle dietro, ma dopo un centinaio di passi si stabilizzò su un'andatura un po' stentata ma decisa e regolare. Verso mezzogiorno le due figurine che seguiva si erano trasformate in puntini quasi invisibili. Poi erano sparite nella foschia in cui si perdeva l'interminabile spiaggia. Tuttavia, le loro impronte rimanevano ben distinguibili sulla sabbia giallastra.
Erano tracce nette, da bambini, e Centaine si concentrò su di esse. Chissà come trovò la forza di resistere e camminare tutta la giornata. Poi, verso sera, quando la sua risolutezza stava per esaurirsi, alzò gli occhi dalle impronte e lontano lontano vide un fil di fumo levarsi dalla spiaggia. Véniva da un gruppo di massi gialli sopra il segno dell'alta marea. Con le ultime forze riusci a raggiungere l'accampamento dei San. Si lasciò cadere sulla spiaggia, completamente esausta, accanto al fuoco di legna secca portata dal mare. H'ani la raggiunse, la salutò scoppiettando e spernacchiando, e, come fanno gli uccelli coi piccoli, la dissetò a bocca a bocca come già al mattino. L'acqua era calda e viscida della bava della vecchia, ma Centaine non aveva mai assaggiato nulla di cosi delizioso. Come al mattino, la quantità era nettamente insufficiente, ma la vecchia tappò l'uovo di struzzo molto prima di aver soddisfatto l'inestinguibile sete di Centaine. La ragazza distolse lo sguardo dalla bisaccia piena di uova e cercò l'uomo. Dopo un po' riusci a scorgetlo. Se ne vedeva solo la testa. Era in mare e stava frugando tra le alghe. Indossava solo le collane di perline bianche e si era munito del bastone appuntito di H'ani. A un tratto Centaine lo vide immobilizzarsi come un cane da punta. Poi scagliò il bastone a mo' di fiocina e, dopo un attimo, eccolo lottare con qualche preda grossa e molto vivace, che faceva ribollire l'acqua tutt'intomo. H'ani lo incoraggiava gridando e battendo le mani, e finalmente il vecchio riuscl a trascinare sulla spiaggia una creatura contorta e riottosa. Debole ed esausta com'era, Centaine procurò di mettersi in ginocchio, e proruppe in un'esclamazione di stupore. Aveva riconosciuto la preda. Effettivamente l'aragosta era uno dei suoi piatti preferiti, ma in questo caso temette di avere le traveggole. Era troppo grossa! O'wa non riusciva quasi a reggerla. La sua gran coda corazzata tracciava un solco nella sabbia, dibattendosi clamorosamente, e le antenne che O'wa impugnava superavano abbondantemente l'altezza del boscimano. H'ani corse sulla riva del mare con in mano un sasso grosso come la sua testa. In due ammazzarono con una gragnuola di colpi l'enorme crostaceo. Prima di buio O'wa ne prese altre due, grosse quasi come la prima, poi lui e H'ani scavarono un buco nella sabbia cospargendolo di foglie d'alga. Mentre preparavano la buca per cucinarli, Centaine esaminò i tre smisurati crostacei. Si accorse subito che non avevano chele come l'aragosta dell'Atlantico settentrionale, il che le rendeva simili piuttosto a quella del Mediterraneo, che aveva gustato alla tavola di suo zio al chateau presso Lione. Ma non erano certo così grosse. Avevano le antenne lunghe come un braccio di Centaine, grosse alla radice come il suo pollice. Erano così vecchie che alla corazza si erano abbarbicati, come su uno scoglio, molluschi e alghe. O'wa e H'ani le seppellirono nella buca con le foglie di alghe, le stesse che sulla zattera avevano dissetato Centaine e lo sventurato Ernie, poi coprirono la fossa di un sottile strato di sabbia e vi accesero sopra un falò. Alla luce delle fiamme che facevano risplendere il loro corpo color albicocca, si misero a chiacchierare allegramente. Quando il fuoco si spense, O'wa saltò in piedi e iniziò una danza intorno alla brace, cantando in falsetto. H'ani gli dava il ritmo battendo le mani ed emettendo una specie di mugolio gutturale, oscillando, seduta, di qua e di là. O'wa non la finiva mai di danzare, e Centaine, che giaceva esausta e sbalordita dall'energia del vecchio boscimano, si chiedeva quale fosse il senso di quella danza e il significato delle
parole. « Io ti saluto, spirito del ragno rosso marino, e dedico a te questa danza », cantava chioccio O'wa, saltellando freneticamente sul posto così che le natiche nude, che sporgevano da sotto il perizoma di cuoio, sobbalzavano come gelatina. « Ti offro la mia danza e il mio rispetto, perché sei morto affinché noi viviamo... » E H'ani sottolineava la canzone con strilli acuti da zampogna. O'wa, l'esperto e astuto cacciatore, non aveva mai ucciso una preda senza render grazie allo spirito della selvaggina caduta sotto le sue frecce o nelle sue trappole. E nessuna creatura era troppo piccola o meschina da non aver diritto a un simile onore. Essendo egli stesso una creatura minuscola, riconosceva l'eccellenza di tante altre piccole cose: sapeva che il pangolino, lo scaglioso mangiatore di formiche, andava onorato anche più del leone, e la mantide religiosa, un insetto, aveva meriti maggiori dell'elefante e dell'antilope detta gemsbok: in loro risiedeva una parte speciale della natura divina del mondo, che egli venerava. O'wa non si considerava più degno o importante di qualsivoglia altra creatura, né rivendicava su di loro diritti che esulassero dalle esigenze della sopravvivenza sua e del dan. Sicché ringraziava gli spiriti delle prede per avergli donato la vita. Alla fine della danza, aveva creato intorno alla brace del fuoco un cerchio di terra battuta. Lui e H'ani scavarono poi cenere e sabbia e liberarono le enormi aragoste, il cui rosso appariva adesso ben vivo. Fumavano sul letto odoroso di alghe. Scottandosi le dita, ridendo felici e contenti, strapparono le code scagliose dei crostacei e si misero a mangiare la soda polpa bianca. H'ani invitò Centaine ad avvicinarsi con un gesto, e la ragazza si accucciò tra loro. Le zampe del crostaceo contenevano cilindretti di polpa grossi come un dito, e il torace era pieno di interiora gialle che la cottura aveva trasformato in una poltiglia apprezzatissima, come salsa, dai San, che con gran gusto vi intingevano la polpa. Centaine non ricordava di aver mai mangiato con più piacere. Col coltello tagliava bocconi di polpa dalla coda. H'ani le sorrideva alla luce del fuoco del bivacco, con le guance gonfie di cibo, dicendo « Nam! » e poi ancora « Nam! » Centaine ascoltò attentamente e poi ripeté la parola con la stessa intonazione della vecchia. « Nam! » H'ani emise un gridolino di gioia. « Hai sentito, O'wa? La fanciulla ha detto 'Buono!' » O'wa borbottò qualcosa, guardando il coltello tra le mani della femmina. Si era reso conto che non riusciva a distoglierne lo sguardo. La lama affettava la polpa così nettamente da lucidarla. Chissà come doveva essere adilata, pensava O'wa, e il pensiero di quella lama taglientissima gli fece passare la fame. Con la pancia piena da farle quasi male, Centaine si sdraiò vicino al fuoco. H'ani le si avvicinò e le scavò sotto l'anca una piccola buca nella sabbia. Centaine riconobbe che cosi stava più comoda e tornò a coricarsi, ma già H'ani cercava di farle capire un'altra cosa. « Non devi appoggiare la testa al suolo, bimba Nam », le spiegava. « Devi tenerla su cosi. » H'ani si sdraiò sul fianco, puntò il gomito nella sabbia e reclinò la testa sulla spalla senza farle toccare il terreno. Era una posizione che sembrava acrobatica e scomodissima. Centaine la ringraziò con un sorriso, ma continuò a sdraiarsi come preferiva lei. « Lasciala fare come vuole », borbottò O'wa. « Quando stanotte lo scorpione le striscerà nell'orecchio capirà. »
« Si, per oggi ha imparato abbastanza », concordò H'ani. « Hai sentito quando ha detto 'Nam'? E la sua prima parola, e sarà il nome che le darò. Nam », ripeté, « bimba Nam. » O'wa emise un altro borbottio e si inoltrò nelle tenebre per evacuare. Capiva bene il motivo dell'innaturale interesse della moglie per la straniera e il bambino che portava in grembo, ma avevano davanti un viaggio spaventoso e quella donna poteva rivelarsi un pericolosissimo fastidio. E poi c'era la storia del coltello... pensare al coltello lo faceva arrabbiare. Centaine si svegliò gridando. Aveva fatto un sogno terribile, confuso ma sconvolgente. Aveva rivisto Michael, non nell'aereo incendiato, ma a cavallo di Nuage. Il suo corpo era ancora nero e carbonizzato, e i capelli gli bruciavano come una torcia: sotto di lui, Nuage era lacerato e mutilato dalle granate, e il suo sangue rosso spiccava contro il mantello bianco come la neve. Mentre galoppava, perdeva le budella dal ventre squarciato. « Ecco lassù la mia stella, Centaine », le indicava Michael col dito nero di una mano che sembrava un artiglio. « Perché non la segui? » « Non posso, Michel », gridava Centaine. « Non ci riesco! » E Michael spronava Nuage tra le dune, diretto a sud, mentre invano Centaine gli gridava dietro: « Aspettami, Michel, aspettami! » Stava ancora urlando, quando la scossero mani gentili. Si svegliò. « Sta' tranquilla, bimba Nam », le sussurrava H'ani. « Hai la testa piena di diavoli del sonno... ma vedi che adesso se ne sono andati? » Centaine stava ancora singhiozzando e tremando. La vecchia le si sdraiò vicino, copri entrambe con la propria pelliccia maculata e l'abbracciò accarezzandole la testa. Il corpo della vecchia emanava un odore di grasso animale, fumo ed erbe che non era sgradevole, e il suo calore confortò Centaine. Dopo un po' si riaddormentò, e non ebbe più incubi. H'ani non dormiva. I vecchi non hanno bisogno di sonno come i giovani. Ma anche lei si sentiva più tranquilla e in pace. Il contatto corporeo con un altro essere umano era qualcosa che da tantissimi mesi le mancava. Fin da bambina ne apprezzava l'importanza. I piccoli San vengono portati imbragati addosso al corpo della madre, e vivono tutto il resto della loro vita a stretto contatto fisico con gli altri membri del clan. In esso si ripete il detto: « La zebra solitaria è facile preda del leone », e il clan costituisce tra i San una potentissima unità. Cosi meditando, la vecchia donna si rattristò di nuovo, e la perdita dei suoi prese a gravarle sul cuore come una pietra troppo pesante da portare. Il clan di O'wa e H'ani era composto di diciannove persone. I loro tre figli, le rispettive mogli e undici nipotini. Il più piccolo poppava ancora e la più grande, una ragazzina che amava teneramente, aveva appena avuto le prime mestruazioni quando l'epidemia si era abbattuta sul clan. Una calamità del genere non aveva riscontro negli annali del clan e del popolo San in generale. Era stata cosi improvvisa e ferale che ancora H'ani non riusciva a darsene ragione. Tutto era cominciato con un mal di gola ben presto accompagnato da una gran febbre che faceva bruciare la pelle a un punto tale che chi la toccava si scottava. Insieme veniva la sete, una sete inestinguibile, quale nemmeno il Kalahari stesso, che i boscimani chiamano « il Gran Secco », sa generare. A questo stadio i piccoli erano morti, un giorno o due dopo i primi sintomi, e i grandi erano cosi indeboliti dalla malattia che non avevano nemmeno la forza di seppellirli, sicché i corpicini in breve si erano decomposti nel grande calore.
Poi la febbre era passata, e si erano illusi di scampare. Avevano sepolto i bambini. ma erano ancora troPPo deboli Per salutarli con le danze rituali e i canti che dovevano accompagnarli nel loro viaggio verso l'aldilà. Non erano guariti. La malattia aveva solo cambiato forma. Tornò la febbre; stavolta, però, i polmoni si riempiv,ano d'ac qua, e i San morivano soffocati cercando invano di espettorare. Erano morti tUtti, tUtti tranne O'wa e H'ani: ma anche loro c'erano andati cosi vicini che occorsero molti giorni e molte notti prima che tornassero abbastanza in sé da comprendere le proporzioni del disastro che si era abbattuto su di loro. Quando i due vecchi si furono un po' ripresi, danzarono per il clan ster minato dalla malattia, e H'ani pianse per i bambini che non avrebbe mai più potuto prendere in braccio, raccontando fiabe incantate. Poi avevano discusso tra loro le possibili cause di tanta tra gedia. Ne avevano parlato all'infinito, accanto al fuoco la sera, divorati dal dolore fin nell'intimo del loro essere, finché una notte O'wa aveva detto: « Quando ci saremo rimessi abbastanza in forze per il viaggio, e tu sai bene, H'ani, quale terribile viaggio sia, torneremo al Posto di Tutta la Vita, perché solo là potremo scoprire il significato di questa cosa, e conoscere il modo di placare gli spiriti irati che ci hanno così duramente punito ». H'ani ridiventò consapevole del fertile e giovane corpo che stava stringendo tra le braccia, e un po' di tristezza le passò. Sentì rinascere in sé l'istinto materno, benché il suo seno fosse ormai senza latte e il suo grembo fosse divenuto sterile dopo la grande malattia. « Potrebbe darsi », pensò, « che gli spiriti si saano già un po' addolciti perché abbiamo cominciato il pellegrinaggio, e ab biano deciso di dare a questa vecchia donna la gioia di sentire un'altra volta, prima di morire, il vagito di un bambino che nasce. » All'alba H'ani prese uno dei corni d'antilope cavi che por tava alla cintola e ne estrasse un unguento profumato con cui coprì le piaghe che il sole aveva aperto sulle guance, sul naso e sulle labbra di Centaine. Ne spalmò anche sulle escoriazioni e sui tagli che si era fatta su gambe e braccia, chiacchierando men tre ungeva la ragazza. Poi le porse una razione d'acqua, misu rata con cura. Centaine la stava ancora sorseggiando, assaporan dola come se si trattasse di un rarissimo bordeaux, quando senza ulteriori cerimonie i due San si alzarono, rivolsero il viso a nord e si avviarono lungo la spiaggia con quel loro piccolo trotto ritmato. Centaine balzò in piedi costernata e, senza più sprecare il fiato in vani richiami-, raccolse il bastone, si mise in testa la pezza di tela per ripararsi dal sole e si avviò dietro a loro. Fin dal primo chilometro si rese conto che il cibo e il riposo l'avevano grandemente rinvigorita. All'inizio riuscì perfino a rimanere in vista delle due figurine trotterellanti. Vide H'ani frugare nella sabbia col bastone appuntito, trovare e raccogliere senza quasi fermarsi un mollusco e passarlo a O'wa, poi prenderne un altro per sé e mangiarselo senza rallentare. Centaine appuntì il proprio bastone col coltello e cercò di imitarla, in un primo tempo senza successo: poi si accorse che le ostriche stavano solo in certe tasche della spiaggia, e che H'ani doveva avere un metodo per individuarle. Era inutile cercare a caso. Da allora in poi cercò solo dove H'ani aveva già segnato la sabbia coi suoi solchi, e anche lei poté assaporare grata i roridi molluschi senza quasi interrompere l'andatura. Ma di lì a poco inevitabilmente dovette rallentare e i due San la lasciarono indietro. Rimpicciolirono fino a diventare dei
puntini e di nuovo scomparvero alla vista. Verso mezzogiorno Centaine già strascicava il passo. Comprese che doveva fermarsi presto a riposare. Decidendosi a farlo, alzò gli occhi e riconobbe in fondo alla spiaggia il promontorio roccioso delle foche. Era come se H'ani avesse intuito gli esatti limiti della sua resistenza. Infatti i due San l'aspettavano nel rifugio che aveva già adoperato anche lei, e al vederla apparire H'ani sorrise e si mise a chiacchierare amabilmente mentre la ragazza esausta si lasciava cadere sul pavimento della grotta vicino al fuoco. H'ani le diede una razione d'acqua e questo originò una nuova discussione tra i due boscimani, che Centaine si mise a seguire con interesse, notando che, ogni volta che H'ani la indicava, pronunciava la parola « Nam ». I gesti dei due vecchietti erano così espressivi che Centaine capì benissimo che O'wa intendeva proseguire subito mentre H'ani cercava di convincerlo ad aspettare che lei si riposasse un po'. Ogni volta che H'ani indicava il proprio consorte faceva uno strano schiocco con le labbra. A un tratto Centaine interruppe la discussione indicando anch'essa il piccolo boscimano e dicendo « O'wa! » I due la guardarono sbalorditi, poi accolsero con grandi strilli di gioia quell'exploit di Centaine. « O'wa! » H'ani dava di gomito al marito nelle costole e sghignazzava. a O'wa! » Il vecchio si batteva sul petto, annuendo impetuosamente, tutto contento. Per il momento la discussione era dimenticata, come aveva sperato Centaine. Appena placatosi il primo entusiasmo, la ragazza indicò la vecchietta, che fece in fretta a capire il suo intendimento. « H'ani? » azzardò incerta Centaine. « Al terzo tentativo Centaine azzeccò alla perfezione lo schiocchetto finale. H'ani fu rapita da un empito di gioia. « Centaine », disse poi la ragazza battendosi il petto. Ma ciò originò acuti strilli di diniego. « Bimba Nam! » disse H'ani propinandole una pacca sulla spalla, e Centaine si rassegnò a un secondo battesimo. « Bimba Nam » ripeté. « Dunque, vecchio e riverito nonno », riprese a adulare il marito H'ani, « la bimba Nam non sarà una bellezza, ma impara in fretta, e aspetta un bambino. Per cui noi oggi ci fermiamo qui, e ripartiamo domani. Non c'è altro da dire! » Borbottando tra i denti, O'wa uscì dalla grotta. Quando tornò, verso il tramonto, aveva in spalla un grosso cucciolo di foca. Centaine era così in forma per il riposo di cui aveva potuto fruire che si unì alla danza di ringraziamento, urlando e battendo le mani a tempo come faceva H'ani, mentre O'wa trepestava attorno al fuoco su cui arrostiva la foca. L'unguento di cui H'ani le aveva spalmato le piaghe funzionava. Cominciavano già a guarire, mentre la pelle attorno si abbronzava rapidamente assumendo il colore del legno di tek, benché Centaine cercasse di coprire coi capelli ingrommati di sabbia e sale la maggior parte del viso. Ogni giorno che passava diventava più forte, e il suo organismo rispondeva all'impegno fisico e alla dieta di frutti di mare, ricca di proteine. Ben presto con le sue gambe lunghe riuscì a tenere il passo di O'wa e non venne più lasciata indietro, né fu più motivo di discussioni tra i coniugi perché aveva bisogno di troppo riposo. Per Centaine era diventato quasi un punto d'onore riuscire a star dietro all'anziana coppia dall'alba al tramonto. « Ti farò vedere io, vecchio demonio », brontolava tra sé, perfettamente consapevole dell'antipatia di O'wa nei suoi con-
fronti, ma convinta che fosse dovuta alla sua debolezza e inesperienza, che riuscivano di freno alla coppia in cammino. Un giorno, mentre stavano per mettersi in marcia, nonostante le proteste della vecchia H'ani, Centaine prese metà delle uova di struzzo contenenti la provvista d'acqua e le infilò nella pezza di tela che le faceva da scialle e copricapo. Una volta comprese le sue intenzioni, H'ani acconsentì di buon grado e, quando si incamminarono, punzecchiò spietatamente il vecchio. « La bimba Nam porta la sua parte di carico, come una donna San », disse, dopodiché si avvicinò a Centaine e prese a dedicarsi alla sua istruzione, indicandole le varie cose e nominandole finché Centaine non mostrava di aver imparato la parola o la lezione. All'inizio, Centaine si limitava ad accontentare la vecchia, ma ben presto si appassionò a quella vera e propria scuola di sopravvivenza, e il cammino della giornata le parve meno pesante man mano che il corpo si rinvigoriva e la sua esperienza aumentava. Quella che in un primo momento aveva giudicato una terra nuda e desolata si rivelava invece un mondo pullulante di vita, tutta particolare e meravigliosamente adattata all'ambiente. Tra le alghe e gli scogli sommersi c'erano tesori di crostacei, molluschi e frutti di mare: di tanto in tanto la bassa marea imprigionava in qualche pozza tra gli scogli dei piccoli branchi di pesci. Erano pescioni tubolari e grassi, dalle scaglie che parevano di metallo brunito e la carne un po' verdastra: ma arrostiti erano più buoni del rombo. Una volta passarono in mezzo a una colonia di pinguini. Se ne stavano su un'isola rocciosa, collegata alla terraferma da un tratto di scogli e acqua bassa che il terzetto guadò durante la bassa marea, benché Centaine fosse ancora atterrita dal ricordo della sua avventura con lo squalo. Centinaia e centinaia di pinguini bianchi e neri avevano fatto il nido sulla nuda roccia: mentre i boscimani ne raccoglievano le grosse uova verdastre, sibilavano e trepestavano. Riempito il fagotto, tornarono sulla spiaggia e quella sera mangiarono uova arrostite sotto la cenere. Erano buonissime, con l'albume gelatinoso e trasparente e il tuorlo di un giallo acceso, ma così grasse che non se ne poteva mangiare più di uno per pasto. Così la riserva durò parecchi giorni. Perfino le dune ripide e cedevoli albergavano qualche animale: le lucertole della sabbia e una razza di serpenti velenosi dal procedere sbieco che se ne cibavano. I boscimani ammazzavano a bastonate entrambe le bestie e le arrostivano nella loro pelle squamosa: vinta l'iniziale avversione, anche Centaine cominciò a mangiarne, scoprendo che la loro carne ricordava quella del pollo. Procedendo sempre più verso nord, le dune diventavano meno ammassate e non presentavano più al mare un ininterrotto bastione. Tra esse ora si aprivano vallate dal fondo solido, ben ché nude e arroventate al pari delle dune. H'ani condusse Centaine su quel terreno pietroso e le indicò delle piante simili in tutto e per tutto a dei sassi. Scavando sotto le foglie sottili e quasi invisibili si trovava un tubero grosso come un pallone da football. Centaine rimase a guardare mentre H'ani grattugiava la polpa col suo raschietto di pietra, poi prendeva una manciata di quel tritume, lo sollevava sopra il volto tenendo il pollice puntato in giù come una tetta di vacca e lo spremeva. Un liquido lattiginoso colava lungo il pollice e le gocciolava in bocca: poi, quando ne aveva spremuto tutto il succo, adoperava la polpa quasi asciutta per strofinarsene viso e braccia, ridendo di pia-
cere. Subito Centaine seguì il suo esempio. Il sugo era amaro come chinino, ma dopo il primo impatto Centaine scoprì che spegneva la sete molto meglio della semplice acqua; e, una volta cosparso il corpo con la polpa, si accorse che l'aridità del vento, del sole e del salmastro risultava alleviata, e la pelle diventava più liscia e pulita. L'effetto fu di renderla, per la prima volta dopo il naufragio, di nuovo attenta a se stessa. Quella sera, mentre accanto al fuoco aspettavano che gli spiedini di rettili misti arrostissero a puntino, Centaine aguzzò un legnetto e poi lo adoperò come stuzzicadenti. Quindi con l'indice intinto in un po' di sale che aveva raschiato dalle rocce in riva al mare si fregò i denti. H'ani la guardò comprensiva, e dopo mangiato si accucciò accanto a Centaine. Parlandole dolcemente, cominciò a disfarle i nodi che aveva tra i capelli con un pettinino di spine, poi glieli acconciò a treccioline. Centaine si destò che era ancora buio, con la sensazione che mentre dormiva fosse cambiato qualcosa. Benché il fuoco fosse acceso, la luce era diffusa e ovattata, e le voci eccitate di H'ani e O'wa giungevano in sordina, come da molto lontano. L'aria era fredda e piena di umidità, e ci volle un po' prima che Centaine si rendesse conto che erano avvolti in una fitta nebbia arrivata nottetempo dal marew H'ani saltellava per l'eccitazione e l'impazienza. « Vieni, bimba Nam, presto! » Il vocabolario di Centaine ormai conteneva circa un centinaio delle parole principali dei San, sicché balzò subito in piedi. « Porta qua. » H'ani le indicò il fagotto di tela con dentro le uova di struzzo; poi, raccogliendo la propria sacca di cuoio scomparve nella nebbia. Centaine le corse dietro timorosa di perderla di vista, perché il mondo era cancellato da una caligine perlacea. Nella valle tra le dune H'ani s'inginocchiò per terra. « Guarda, bimba Nam. » Prese il polso di Centaine e la tirò giù accanto a sé, indicandole la pianta desertica che ora si era aperta e appiattita contro il terreno. La spessa pellicola liscia che copriva le foglie simili a pietre aveva assunto un colore identico a quello del suolo circostante. « Acqua, H'ani! » esclamò Centaine. « Acqua, Nam! » H'ani rideva tutta contenta. L'umidità si era infatti condensata sulle foglie lisce scorrendo giù per la superficie inclinata fino a raccogliersi in una specie di coppa che l'arbusto formava spuntando dalla terra. La pianta era un efficientissimo raccoglitore di umidità. Con grande meraviglia, ora Centaine comprese come faceva il tubero sottostante a riempirsi di liquido: si « caricava » tutte le volte che veniva la nebbia. « Presto! » ordinò Hani. « Sole viene presto! » Prese un uovo di struzzo vuoto, lo stappò e lo appoggiò per terra vicino alla piantina, in piedi, facendo penetrare il fondo nel terreno ora molle e rorido di rugiada. Poi appallottolò un lembo di pelle spugnosa di qualche animale e con quella assorbi l'acqua dalla coppa dell'arbusto, spremendola poi con grande attenzione nel foro dell'uovo di struzzo. Dopo la dimostrazione, porse a Centaine un'altra pezza. « Lavora! » le ordinò. Centaine si mise all'opera in fretta come la vecchia H'ani, ascoltando le sue chiacchiere spensierate e felici, e comprendendo solo una parola ogni tanto, mentre schizzavano da una pianta all'altra. « E una vera benedizione. Gli spiriti sono stati benevoli a mandare il fumo d'acqua dal mare. Adesso la traversata fino al Posto di Tutta la Vita sarà meno ardua. Senza il fumo d'acqua
potevamo perire. Ci hanno sDianato la strada, bimba Nam, e forse il tuo bambino nascerà nel Posto di Tutta la Vita. Sarebbe di ottimo augurio. Perché allora tuo figlio avrebbe su di sé, per sempre, il marchio speciale degli spiriti, e diventerebbe senz'altro il più gran cacciatore, il più bravo cantante, il più agile danzatore e il più fortunato del clan. » Centaine non capiva quasi niente, ma rise con la vecchia donna, sentendosi allegra e felice anche lei: e il suono della propria risata la stupì. Quanto tempo che non lo udiva...! Rispose in francese alle chiacchiere di H'ani. « Avevo davvero cominciato a odiare questa vostra terra spietata, H'ani. Ero impaziente di vederla, dopo tutte le meraviglie ch,e mi aveva raccontato Michel e quel che avevo letto; ma come mi è sembrata diversa, come mi è sembrata crudele e malvagia! » Udendo il tono della sua voce, H'ani si fermò con la pezza intrisa in mano, l'appoggiò sull'uovo di struzzo e la guardò perplessa. « E adesso mi è appena capitato di ridere. E la prima volta da quando sono in Africa! » Centaine rise ancora, e H'ani la imitò, piena di sollievo. Poi ricominciò a prestare attenzione al suo lavoro. « Oggi, l'Africa mi ha fatto la prima gentilezza. » Centaine si portò alle labbra la spugnetta impregnata e ne succhiò la fresca rugiada. « E una giornata speciale, H'ani, è una giornata speciale per me c per il mio bambino. » Quando tutte le uova-borracce furono piene fino-all'orlo e accuratamente tappate, si lasciarono andare, bevendo la rugiada a sazietà. Solo allora Centaine si guardò attomo e cominciò a capire cosa significava la nebbia per le piante e le creature del deserto. Grandi fommiche rosse erano uscite dai loro formicai scavati a gran profondità per approfittarne. Le operaie passavano da una piantina all'altra, succhiando le goccioline fino a riempirsi l'addome, che diventava gonfio e trasparente. Solo quando sembrava prossimo a scoppiare, imboccavano la via del ritorno sotto terra. All'ingresso delle loro gallerie si affollavano altre caste di formiche rosse, quelle che facevano parte del volo nuziale. Da tutti i buchi di tutti i formicai le giovani regine s'involavano coi principi consorti. Con bianche ali cartacee prendevano l'aere nebuloso e svolazzavano via: la maggior parte destinate a perire nel deserto, ma alcune a sopravvivere e a fondare nuove colonie. Le lucertole della sabbia erano venute giù dalle dune a banchettare a spese delle formiche sciamantij e c'erano piccoli roditori rossicci come lo zenzero che saltavano sul fondovalle come canguri sulle ipertrofiche zampette posteriori. « Guarda, H'ani, cos'è questo? » Centaine aveva scoperto uno strano insetto delle dimensioni di una locusta che giaceva a testa in giù in una posizione ridicola. La rugiada si condensava in goccioline sulla corazza cornea, iridescente e pian piano scivolava incanalata nel becco ricurvo della creaturina. « Buono da mangiare », disse H'ani. Senza cerimonie afferrò l'insetto, se lo mise in bocca, lo masticò bel croccante e l'inghiottì con gusto. Centaine scoppiò a ridere. « Che simpatica vecchietta che sei! » Poi tornò a guardarsi intorno, studiando la piccola vita segreta del deserto. « Che terra incantata è mai l'Africa! Adesso finalmente capisco un po' di quel che Michel cercava di spie garmi. » Ed ecco che con la brutale immediatezza africana, che non stupiva già più Centaine, tUttO lo scenario cambiò. La coltre di nebbia evaporò, il sole prese a splendere in cielo con la consueta potenza e nel giro di pochi secondi tutta la rugiada seccò
sulle piantine simili a pietre. Le formiche tornarono a rifugiarsi sotto terra, chiudendo gli ingressi del formicaio in superficie, e le lucertole della sabbia ripresero la via delle dune. Solo le alette cartacee delle formiche sciamanti che erano state divorate al volo continuavano a fluttuare a mezz'aria nella brezza marina. In un primo momento le lucertole, ancora intirizzite dalla nebbia, si fermarono sul pendio sabbioso a farsi scaldare dal sole: ma in pochi minuti il caldo diventava intollerabile anche per loro. Allora varcavano la cresta della duna, e si rifugiavano all'ombra. In seguito, verso mezzogiorno, quando tutte le zone ombrose fossero scomparse, avrebbero trivellato un buco nella sabbia per rifugiarsi nei più freschi strati inferiori. H'ani e Centaine si misero in spalla le borse e, curve sotto il peso dell'acqua raccolta, tornarono alla spiaggia. O'wa era già ad aspettarle accanto al fuoco, con una sfilza di lucertoloni e un bel carniere di roditori color zenzero, i cosiddetti topi del deserto. « Oh, marito mio, che gran sostegno sei mai tu! Quanto cibo riesci sempre a procurare! » H'ani posò la sporta piena d'acqua per meglio lodare le capacità del vecchio. « Non è mai nato tra i San un cacciatore abile ed esperto come te. » In brodo di giuggiole, O'wa si crogiolava senza pudore nelle lodi sperticate della consorte. H'ani distolse un attimo gli occhi da lui per lanciare a Centaine un messaggio nel linguaggio segreto delle donne. « Sone come i bambini », diceva con tutta chiarezza il suo sorriso. « Dagli otto agli ottant'anni non cambiano mai. » E Centaine scoppiò nuovamente a ridere e si unì alla pantomima della piccola H'ani, applaudendo felice. « O'wa bravissimo! O'wa intelligentissimo! » Il vecchio annuiva di continuo, solenne, con un'aria di grande importanza. Mancavano quattro o cinque giorni alla luna piena, sicché dopo cena l'astro splendeva abbastanza da gettare nelle valli tra le dune lunghe e fonde ombre rossastre. Erano ancora eccitatissimi per la visita della nebbia e non riuscivano a dormire Centaine cercava di seguire la conversazione dei due vecchi bo scimani, e a volte si azzardava a intervenire anche lei. Ormai Centaine aveva imparato i quattro tipi di schiocco labiale che facevano parte del linguaggio dei San, e il verso gutturale che dava l'impressione che il parlante fosse in procinto di morire strangolato. Tuttavia non dominava ancora le variazioni di tono. Per un orecchio occidentale, i differenti toni erano quasi indistinguibili, e solo nel corso degli ultimi giorni Centaine si era accorta della loro importanza. Rimaneva perplessa ad ascoltare H'ani che le ripeteva cento colte una parola che credeva di aver pronunciato bene: e poi all'improvviso, come se le avessero tolto dei tappi di cera dalle orecchie, prese a distinguere le cinque diverse intonazioni, alta, media, bassa, crescente e calante, che cambiavano non soltanto il senso delle parole, ma il loro rapporto col resto della frase. Era una lingua difficile e impegnativa. Seduta accanto a H'ani, le stava guardando le labbra quando a un tratto emise un'interiezione di sorpresa e si toccò il ventre con le mani. « Si è mosso! » La voce di Centaine era piena di stupore. « Si è mosso! Il bambino si è mosso! » H'ani capl subito e in un baleno le aveva sollevato la camicia e le tastava la pancia. Nelle profondità del corpo di Centaine vi fu un altro sussulto di vita. « Ai! Ai! » strillò H'ani. « Senti! Senti come scalcia! Pare uno stallone di zebra! » Dagli occhi le colavano lacrime di gioia, che scintillavano alla luce del fuoco e della luna sui suoi zigomi rugosi da orientale. « E fortissimo! E un eroe fortissimo! Vieni a sentirlo, vecchio e riverito nonno! »
O'wa non poteva restare indifferente a un invito simile, e si alzò anche lui a tastare Centaine sotto la camicia. La ragazza non provò il minimo imbarazzo al tocco del vecchio. « Questa », annunciò solennemente O'wa, a è una cosa molto, ma molto propizia. E il caso di danzare per celebrarla. » E O'wa si alzò e si mise a ballare al chiar di luna in onore del figlio non ancora nato di Centaine. La luna si era appena tuffata nel cupo e pauroso oceano che già il cielo verso l'interno aveva assunto i bagliori aranciati dell'alba. Centaine si svegliò e rimase coricata solo per qualche secondo. Era stupita che i due vecchietti fossero ancora sdraiati accanto alle ceneri del fuoco della sera prima, ma si sbrigò ad alzarsi convinta che anche quel giorno il viaggio sarebbe iniziato prima del sorgere del sok. A qualche distanza dal campo si accovacciò a evacuare, poi si tolse gli stracci che la coprivano e corse in mare, rabbrividendo al suo gelido e ritemprante abbraccio, nel quale prese a mondarsi strofinandosi con delle manciate di sabbia. Poi si infilò gli indumenti, ancora bagnata, e tornò di corsa al campo. I due vecchietti erano sempre distesi, immobili, e Centaine provò un attimo di panico: ma poi H'ani tossl e si mosse. « Meno male, sono ancora vivi », pensò Centaine e, sorridendo, si mise a raccogliere la sua poca roba, sentendosi virtuosa perché di solito era H'ani che doveva spronarla. Adesso invece dormicchiava, farfugliando qualcosa. Centaine comprese solo le parole « Aspetta, riposare, dormi ». Dopo di che H'ani tornò ad avvolgersi nella coperta. Centaine restò perplessa. Aggiunse al fuoco qualche ramoscello secco e si sedette ad aspettare. Venere, la stella del mattino, brillava sopra le dune, ma ormai impallidiva all'avvicinarsi del sole: eppure i due San continuavano a dormire. Centaine cominciò a irritarsi di questa inattività. Era già così forte e piena di salute che in realtà non vedeva l'ora di mettersi in moto. Solo quando il sole ebbe superato la cresta delle dune, H'ani si sedette, sbadigliò, ruttò e cominciò a grattarsi. « Andare? » Centaine usò il tono ascendente che trasformava l'affermazione in una domanda. « No, no. » H'ani fece uno sventolio negativo con la mano. « Aspettare... notte... luna... andare là. » E con uno scatto deciso del pollice indicò le dune « Andare terra? » chi,ese Centaine, incerta di aver capito bene. « Andare terra », confermò H'ani, e Centaine provò un sussulto di emozione. Finalmente stavano per lasciare la costa. « Andare adesso? » domandò impaziente Centaine. Due volte, nel corso degli ultimi giorni, quando si erano fermati ad accamparsi, Centaine si era arrampicata sopra la duna più vicina e si era messa a osservare l'interno. Una volta aveva intravisto una lontanissima catena di montagne azzurre contro il cielo che si andava oscurando, e si era sentita consolata per questo cambiamento che differenziava il misterioso interno dalla costa desolata e sempre uguale. « Andare adesso? » ripeté, scalpitando, e O'wa le rise in faccia venendo a sedersi accanto al fuoco. « La scimmia ha voglia di conoscere il leopardo » disse, « ma, quando ci riesce, che strilli! » H'ani lo rimproverò, e poi si rivolse a Centaine. « Oggi ci riposiamo. Stanotte comincia la parte più difficile del viaggio. Stanotte, bimba Nam, hai capito? Stanotte, alla luce della luna. Stanotte, mentre il sole riposa, perché non esiste uomo o donna che possa attraversare sotto il sole la terra della sabbia che canta. Stanotte. Adesso riposa. »
« Stanotte », ripeté Centaine. « Adesso riposare. » Ma si allontanò dal campo e di nuovo si arrampicò sulla sabbia cedevole della duna, raggiungendo in breve la cresta. Sulla spiaggia, centocinquanta metri sotto di lei, le due figurette sedute accanto al fuoco erano insignificanti puntini. Si voltò verso l'interno e vide che la duna su cui era salita era nulla in confronto alle montagne di sabbia che si ergevano di fronte a lei. Il colore delle dune variava dal giallino all'oro all'arancio al porpora e al sangue di bue: al di là di quel mare di sabbia le parve nuovamente di intravedere le montagne fantasma dalle cime dentellate. Ma, proprio mentre scrutava, l'orizzonte divenne azzurro e lattiginoso, l'aria fu distorta dalle onde di calore che celarono le lontananze, e dal deserto uno sbuffo d'inferno, come l'alito infuocato di un drago, l'investi. Davanti ai suoi occhi, mentre cercava di sottrarsi a quel soffio incandescente avvolgendosi negli indumenti, tutta la terra si coprì dei mobili barbagli vitrei dell'ingannevole fata Morgana. Si voltò e tornò al campo ai piedi della duna. Né O'wa né H'ani erano completamente inattivi. Adesso il vecchio stava preparando punte di freccia d'osso, mentre la sua consorte stava facendo un'altra collana con dei pezzi di guscio d'uovo di struzzo da cui abilmente, con l'ausilio di due sassi, traeva dei dischetti che poi forava con una punta d'osso e infilava in una sottile striscia di budello. Guardandola lavorare, a Centaine tornò vivida alla memoria Anna. Si alzò in fretta e di nuovo si allontanò dal campo, seguita dallo sguardo di H'ani. « La bimba Nam è infelice », disse. « L'acqua non le manca e ha la pancia piena », borbottò O'wa affilando una punta di freccia. « Non ha ragione di essere infelice. » « Ha nostalgia del suo clan », sussurrò H'ani, e il vecchio non rispose. Entrambi capivano benissimo, e rimasero in silenzio ricordando i propri cari che avevano sepolto in mezzo al deserto. « Adesso sono tornata forte », disse parlando a se stessa ad alta voce Centaine. « Ho imparato a sopravvivere. Non sono più obbligata a seguirli. Potrei dirigermi a sud da sola. » Restò incerta un attimo, cercando di immaginarsi come sarebbe stato: poi, fu l'ultima parola che aveva pronunciato a deciderla. « Sola », ripeté. « Ah, se ci fosse ancora Anna, se sapessi dove andare! Allora potrei farcela, forse. » Si lasciò cadere sulla sabbia e si abbracciò le ginocchia a testa china. « E impossibile tornare indietro. Non posso che proseguire insieme a loro. Vivere alla giornata, come un animale, come un selvaggio, assieme a dei selvaggi. » Guardò gli stracci che la coprivano. « Devo andare avanti, non posso far altro, e non so nemmeno dove andiamo. » La disperazione la sopraffece. Cercò di sconfiggerla, come se si trattasse di un avversario in carne e ossa. « Non mi arrenderò », farfugliò, « non mi arrenderò mai, punto e basta; e, quando tutto questo sarà finito, non mi troverò mai più nel bisogno. Non soffrirò mai più la sete, la fame, non indosserò più stracci puzzolenti e pelli d'animale. » Si guardò le mani. Le unghie erano rotte e nere di sporcizia. Fece il pugno per nasconderle. « Mai più. Mio figlio e io non saremo mai più nel bisogno, lo giuro. » Era ormai tardo pomeriggio quando passo passo tornò al campo ai piedi delle dune. H'ani alzò la testa e si mise a ridere come una scimmietta contenta, e Centaine provò un empito d'affetto per lei. « Cara H'ani », sussurrò. « Sei tutto ciò che mi resta. » La vecchia donna si alzò e le andò incontro, portando con entram-
be le mani la collana di gusci che aveva terminato. Si sollevò sulle punte dei piedi e con cura gliela infilò intorno alla testa, sistemandogliela poi sul petto con grande orgoglio e soddisfazione. « E bellissima, H'ani », le disse Centaine con la voce roca e intenerita. « Grazie mille », e a un tratto scoppiò a piangere « E ti ho chiamato selvaggia! Oh, perdonami. Con Anna sei la più cara e dolce persona che abbia mai conosciuto. » Si inginocchiò, cosi che i loro visi fossero l'uno di fronte all'altro, e abbracciò la vecchia con tutta la sua forza, premendo la guancia contro quella grinzosa di H'ani. « Perché piange? » domandò O'wa, dal focolare « Perché è felice. » « Ragione quanto mai stupida. Ritengo che questa femmina sia lunatica e un po' tocca. » Si alzò e, sempre scuotendo la testa, fece gli ultimi preparativi della partenza. I due anziani boscimani, notò Centaine, erano insolitamente solenni nel caricarsi di equipaggiamento e provviste. H'ani si avvicinò a lei e controllò la solidità del suo fagotto, poi si inginocchiò ad aggiustarle le pezze che si era avvolta ai Piedi. « Cosa c'è? » Il loro atteggiamento serio preoccupava un po' Centaine. H'ani comprese la domanda, ma non cercò di spiegare. Invece la chiamò e si misero alle spalle di O'wa. O'wa cominciò con un'invocazione. « Spirito della Luna, questa notte donaci la luce per indicarci il cammino. » Usava il falsetto chioccio che a suo dire gli spiriti gradivano in modo particolare e, mentre procedeva nell'invocazione, eseguiva sulla sabbia qualche veloce passo di danza. « Spirito del Gran Sole, dormi bene, e domattina quando ti alzi non arrabbiarti e non bruciarci nella sabbia che canta. Quando avremo compiuto la traversata, e saremo sani e salvi ai pozzi-da-succhiare, ti ringrazieremo con una grande danza e un bel canto. » Fini il breve balletto con un salto e un battito del piedino infantile. Per ora poteva bastare, era un piccolo anticipo, il saldo sarebbe stato corrisposto quando gli spiriti avessero onorato la loro parte del contratto. « Vieni, vecchia nonna », disse. « Assicurati che la bimba Nam stia vicina e non cada a terra. Sai bene che se resta indietro non potremo tornare a cercarla. » E col solito passo trotterellante si avviò, risalendo la spiaggia verso l'inizio della valle tra le dune, mentre la luna sorgeva all'orizzonte nel già notturno cielo orientale e cominciava il suo viaggio tra le stelle. Era strano viaggiare di notte. Il deserto sembrava assumere dimensioni nuove e misteriose: le dune sembravano più alte e incombenti, addobbate dal chiar di luna e dalle fonde ombre purpuree, e le valli tra esse erano canyon di silenzio, mentre sopra tutto la gran panoplia delle stelle, della via lattea e della luna brillava più chiara e vicina di quanto Centaine avesse mai creduto possibile. Ci si poteva illudere di poterle afferrare facilmente, tendendo la mano, come frutti dal ramo. Il ricordo dell'oceano restò con loro a lungo anche dopo che il mare divenne invisibile. Lo scalpiccio lieve dei loro passi sulla sabbia pareva riecheggiare il frangersi dei marosi sulla spiaggia gialla, e l'aria era ancora rinfrescata dalla vicina massa di acque verdi. Seguivano la valle ormai da un quarto del cammino della luna in cielo, quando all'improvviso Centaine fu avvolta da un vortice di calore. Dopo il fresco dell'aria oceanica era come incappare in una barriera solida. Centaine ansimò, sconcertata, e H'ani mormorò senza interrompere il ritmo del suo trotterel lare: « Adesso comincia ». Ma rapidamente superarono il trat-
to irrespirabile e al di là l'aria sembrò a Centaine così fredda, per contrasto, da rabbrividire e doversi avvolgere nei suoi stracci. La valle cambiava direzione dietro l'angolo di un'alta duna che torreggiava cosparsa di ombre livide: e a quella svolta il deserto tornò ad alitare sopra di loro. « Sta' vicina, bimba Nam. » Sembrava di avanzare in un brodo bollente, in una viscosa colata di lava. A mezzanotte faceva più caldo che nello stanzino del bucato a Mort Homme, col pentolone sul fuoco di legna di rovere. Respirando, il calore entrava nei corpi come un invasore, ed espirando ci si sentiva derubati dalla propria preziosa umidità. Fecero una breve sosta, bevendo un sorso dall'uovo di struzzo. H'ani e O'wa sorvegliarono Centaine, ma la ragazza ormai aveva imparato la lezione e si conteneva. Quando il cielo cominciò a schiarire, O'wa rallentò il passo e due o tre volte si fermò a studiare la valle con occhio critico. Era evidente che stava cercando il posto adatto per fermarsi. Quando alla fine si arrestarono, lo fecero al riparo del lato ripido di una duna. Non c'era legna da bruciare, e H'ani offri a Centaine un pezzo di pesce avvolto in foglie d'alga. Ma la ragazza era troppo stanca per mangiare, e temeva che il pesce secco le avrebbe fatto venire troppa sete nel corso della giornata. Bevve la sua razione d'acqua dall'uovo-borraccia e poi, stanchissima, si allontanò di qualche passo dagli altri. Ma, appena si accovacciò, H'ani emise uno strillo di rimprovero e corse da lei. « No! » ripeté, e Centaine si ritroyò alquanto imbarazzata e confusa, mentre la donna frugava nella bisaccia e ne estraeva la zucca secca che adoperava da zuppiera. « Qua dentro », disse a Centaine, che continuava a non capire. Esasperata, la vecchia si mise la zucca tra le gambe e ci orinò dentro. « Così! Anche tu! » Tornò a porgere la scodella a Centaine. « Non ci riesco, H'ani, non ce la faccio davanti a tutti! » protestò pudica Centaine. « O'vva, vieni qua », gridò H'ani. « Fa' vedere alla bimba. » Il vecchio le raggiunse e ribadi rumorosamente la dimostrazione di H'ari. Nonostante l'imbarazzo, Centaine non poté trattenersi da un moto d'invidia. « Lui fa presto! » « Forza! Falla anche tu! » disse H'ani, porgendole nuovamente la zucca cava, e Centaine capitolò. Si girò dall'altra parte per pudore e, coi due vecchietti alle spalle che facevano il tifo incitandola a gran voce, aggiunse il proprio rivoletto ruscellante alla zucca comune. H'ani la portò via trionfante. « Sbrigati, bimba Nam », la ammonì. « Il sole arriva tra poco. » E le mostrò come scavarsi una piccola trincea nella sabbia, in cui stendersi a giacere. Il sole colpì la duna di fronte, dall'altra parte della valle, ed essa rifletté il calore come uno specchio di bronzo lucido. Nella loro striscia d'ombra si stesero nelle trincee. Il sole si alzò, l'ombra si restrinse. Il caldo aumentò e riempì la valle di miraggi argentei. Le dune presero a danzare, e poi le sabbie cominciarono a cantare. Era una vibrazione bassa e diffusa, come se il deserto fosse la cassa armonica di un gigantesco liuto. La vibrazione si alzava, diminuiva, s'interrompeva e pOi ricOminciava. « Le sabbie stanno cantando », le disse tranquillamente H'ani, e Centaine capì. Giacque con l'orecchio incollato al terreno, ascoltando la strana e meravigliosa musica del deserto. Il caldo aumentò ancora. Seguendo l'esempio dei due San, Centaine si coprì la testa con la pezza di tela e restò immobile.
Faceva troppo caldo per dormire, ma cadde in una specie di coma, e le parve di cavalcare le lunghe e montanti ondate di calore come se fossero il rumore della risacca. Più caldo ancora. L'ombra scomparve, il sole culminava e non c'era più riparo ai suoi dardi spietati. Centaine giaceva ansimando come un animale morente, e a ogni respiro corto e stentato l'aria sembrava rasparle la gola e bruciarle tutta l'energia dell'organismo. « Non può diventare peggio di così » si disse. « Presto il caldo diminuirà, per forza. » Si sbagliava. Il caldo aumentò, e il deserto prese a sibilare e vibrare come una bestia torturata. Centaine quasi non apriva più gli occhi per paura che il sole glieli bruciasse. Poi udì la vecchia muoversi e, sollevando un lembo della pezza di tela che si era messa in testa, la vide stemperare della sabbia nella zucca piena di urina. Quindi si avvicinò a Centaine e spalmò sulla sua pelle cotta la poltiglia ottenuta. « Al contatto fresco Centaine sospirò di sollievo. Prima che potesse seccare al gran calore, H'ani riempi la fossa in cui stava coricata Centaine di sabbia fino all'orlo, seppellendo la ragazza sotto un leggero strato e poi sistemandole la pezza di tela sopra la testa. « Grazie, H'ani », sussurrò Centaine, e la vecchia andò a coprire il marito. Con la sabbia umida sulla pelle e lo strato protettivo sopra, Centaine poté superare le ore più calde della giornata nel deserto, finché con rapidità tutta africana senti cambiare la temperatura sulle guance, apri gli occhi e non vide più il bagliore incandescente del sole, ma una luce color del burro, più morbida. « Al cader della notte si alzarono dalle fosse e si scrollarono la sabbia di dosso. Bevvero con trasporto quasi religioso. Ancora una volta Centaine non si senti di mangiare; subito dopo O'wa si mosse, alla loro testa. Ormai il viaggio notturno non riservava più incanti a Centaine; e i corpi celesti non erano più meraviglie da contemplare con sbigottimento religioso, ma un orologio che segnava il lento e faticoso trascorrere del tempo. La terra sotto i piedi cominciò a cambiare carattere. La sabbia cedevole, che rendeva faticosa l'avanzata, si tramutò in una dura piana cosparsa di mica luccicante e di quei cristalli chiamati « rose del deserto », dai bordi taglienti come lame. Spesso laceravano le pezze con cui Centaine si era avvolta i piedi, e doveva fermarsi a sistemarsele. Poi la pianura fini e salirono un'altra duna, al di là della quale si stendeva una nuova grande vallata che sembrava pronta a inghiottirli sbadigliando. O'wa non esitava mai, non era mai incerto sul cammino da prendere. Benché Centaine comprendesse che tutte quelle montagne di sabbia dovevano continuamente spostarsi e cambiar forma sotto l'azione dei venti, determinando un paesaggio sfuggente e inconoscibile, il vecchio le attraversava o le costeggiava sicuro come un marinaio fende le acque turbinose dell'oceano. Il silenzio del deserto colava come cera fusa nel cervello di Centaine, ottundendole l'udito, riempiendole i padiglioni auricolari dei sussurri del nulla, come quando si porta all'orecchio una conchiglia. « Ma non finirà mai questa sabbia? » si domandò. « Cos'è, un continente di dune? » All'alba si fermarono e prepararono le difese per resistere all'assedio del sole. Durante le ore più calde della giornata Centaine, sdraiata in quella malaugurante fossa, cosparsa di palta all'urina, sentì muoversi forte il figlio nella pancia, come se anche lui cercasse di combattere il caldo e la sete. « Abbi pazienza, tesoro mio », gli mormorò. « Risparmia le
forze. Dobbiamo imparare le lezioni di questa terra, per non dover mai più soffrire così. Mai più. » Quella sera, alzandosi assetata ed esausta dalla sabbia, per il bene del bambino mangiò un po' di pesce secco, ma, proprio come aveva previsto, quel cibo le procurò una sete quasi intollerabile. Tuttavia, le diede l'energia necessaria per superare il cammino della notte. Seguendo l'esempio dei due vecchi, non sprecò più fiato a parlare. Ognuno cercava di conservare energie e umidità corporea evitando azioni e parole inutili: Centaine alzò gli occhi al cielo, che effettuava la sua poderosa rivoluzione, e scorse la stella di Michael accanto alla propria, al di là del piccolo spazio nero che indicava il Polo Sud. « Per favore, fate che finisca », pregò silenziosamente le stelle. « Fate che finisca presto, perché non so quanto potrò resistere ancora. » Ma non finiva mai. Le notti sembravano diventare sempre più lunghe, la sabbia pareva sempre più vischiosa attorno alle caviglie, mentre ogni giorno era più caldo del precedente e l'afa picchiava su di loro come il maglio del fabbro batte il ferro incandescente sopra l'incudine. Centaine si accorse di aver perso il conto dei giorni e delle notti. Nella sua mente tutto si era fuso in un tormento interminabile di stanchezza, sete e calore. « Cinque o sei giorni? O sette? » si chiese, confusa. Poi contò le uova di struzzo vuote. « Devono essere sei », decise. « Ne restano solo due piene. » Centaine e H'ani ne presero uno a testa, dividendosi esattamente il carico. Poi mangiarono gli ultimi pezzi di pesce secco e si alzarono per affrontare la marcia notturna, che però stavolta non cominciò immediatamente. O'wa si mise a scrutare a oriente, girando la testa pian piano, come in ascolto, e per la prima volta Centaine lesse un po' d'incertezza nel suo modo di rizzar la testa incoronata di frecce. Poi O'wa prese a cantare piano con il timbro che Centaine aveva imparato a riconoscere, il timbro che si adopera per parlare con gli spiriti. « Spirito della grande stella del Leone », disse guardando Sirio che splendeva nella costellazione del Gran Cane, a sei il solo che può scorgerci qui, perché tutti gli altri spiriti evitano la terra della sabbia che canta. Siamo soli, e il viaggio è più difficile di quanto ricordassi. Passai di qui da giovane, e il cammino ora mi è diventato oscuro, o grande stella del Leone: ma tu hai l'occhio acuto dell'avvoltoio e vedi tutto. Guidaci, ti prego. Illuminaci la via. » Poi prese dalla bisaccia di H'ani l'uovo di struzzo pieno d'acqua e ne versò un po' per terra. Sulla sabbia si formarono bolle e craterini rotondi, e Centaine emise un gemito soffocato e cadde in ginocchio. « Vedi, spirito della grande stella del Leone, dividiamo l'acqua con te », cantò O'wa tornando a tappare la primitiva borraccia. Centaine, con gli occhi fissi all'acqua sparsa sulla sabbia, continuava a gemere piano. « Calmati, bimba Nam », le sussurrò H'ani. « Per ricevere una grazia speciale è necessario, a volte, sacrificare quel che è più preziOSO. » La prese per il polso e la rialzò dolcemente in piedi, poi si voltò e si avviò dietro a O'wa, che aveva ripreso la marcia tra le infinite dune. Nel silenzio assordante, stanchissima e assetata, Centaine si trascinava senza capire più niente. Non vedeva più che le due figurette che danzavano come gnomi al chiar di luna davanti a lei, aveva perso ogni senso del tempo, della distanza e della
direzione. Si fermarono così di colpo che a momenti Centaine andò a sbattere contro H'ani, e sarebbe caduta se la vecchia non l'avesse sostenuta, trascinandola poi a terra con lei, senza far rumore. Rimasero sdraiate a fianco a fianco nella sabbia. « Cosa... » cominciò Centaine, ma H'ani le chiuse la bocca con la mano, facendole capire di star buona. O'wa era sdraiato accanto a loro. Quando Centaine si fu tranquillizzata un po', le indicò la cresta che si profilava poco lontano. Lentamente strisciarono ad affacciarvisi. Era l'ultima duna. Cento metri più in basso, ai suoi piedi, cominciava una pianura piatta, inondata dai raggi d'argento della luna. Si stendeva fino agli estremi limiti della visione not turna di Centaine, piatta, sconfinata, uguale, e la ragazza si consolò del fatto che almeno fosse finita la sabbia. La pianura era punteggiata da gruppetti di alberi secchi da secoli. Parevano grigi di lebbra alla luce lunare, e alzavano al cielo indifferente rami contorti e mozzi da mendicante artritico. La scena infuse a Centaine un terrore superstizioso, e quando poi qualcosa di grande e informe si mosse tra gli antichi alberi come un mostro mitologico, rabbrividì e si strinse a H'ani. I due San erano eccitatissimi e tremavano come cani da caccia al guinzaglio. H'ani scosse Centaine e in silenzio le indicò qualcosa. Gli occhi della ragazza cominciarono a distinguere altre forme vive oltre a quella che aveva visto prima: ma erano immobili, come grandi macigni grigi. Ne contò cinque. Coricato sul fianco, O'wa stava tendendo la corda del suo piccolo arco da caccia, e una volta controllata la tensione scelse un paio di frecce tra quelle che portava infilate nella banda di cuoio attorno alla fronte, fece un segnale a H'ani e poi scivolò oltre la cresta della duna. Quando non rischiò più di profilarsi contro il cielo, saltò in piedi e prese a scendere tra le pieghe e le ombre della sabbia. Le due donne rimasero dietro la cresta, ferme e silenziose come ombre. Centaine stava imparando la pazienza animale che questo antico ambiente selvaggio esigeva da tutte le sue creature. Il cielo cominciò a schiarirsi preannunciando l'alba, e gli animali immobili nella pianura sottostante si distinsero meglio. Erano grandi antilopi. Quattro giacevano tranquillamente, mentre l'ultima, la più grossa e massiccia di collo e di spalle, stava in piedi un po' discosto. Centaine giudicò che era il capo del branco. Al garrese era alto come Nuage, il suo amato stallone, ma aveva un magnifico paio di corna, lunghe, dritte e acuminate, che ricordarono alla ragazza l'arazzo La Dame à la Licorne che aveva visto, dodicenne, al museo di Cluny, dove l'aveva accompagnata suo padre. La luce aumentò e il grosso maschio rivelò il suo colore morello. Il muso era striato di righe più scure che si dipartivano a diamante, sicché sembrava che avesse una mordacchia, ma in esso aleggiava una tale selvaggia dignità che qualunque idea di costrizione riferita a quell'animale sembrava inconcepibile. Girò la testa verso il punto dove si trovava Centaine. Alzò le orecchie scampanate a trombetta e, inquieto, staffìlò l'aria con la coda simile a quella di un cavallo. H'ani strinse ii braccio di Centaine, e si acquattarono dietro la cresta. Il maschio guardò nella loro direzione per molti minuti, rigido e immobile come una statua di marmo, ma nessuna delle donne si mosse più, e alla fine riabbassò la testa e si mise a scavare con lo zoccolo nero appuntito il terriccio della pianura. « Ah, sì! Cerca il tubero dolce del bai, o grande e splendido toro », lo esortò mentalmente O'wa. « Non alzare più la testa, o magnifico re di tutti i gemsbok, pascola bene, e io imbastirò
per te una tal danza che tutti gli spiriti dei gemsbok ti invidieranno in eterno! » O'wa giaceva a cinquanta metri di distanza da dove si trovava il maschio, ancora fuori portata del suo piccolo arco. Aveva lasciato l'ombra protettiva della duna da un'ora buona, e in tutto quel tempo aveva fatto meno di cinquecento passi. C'era una leggera depressione nella pianura, forse un dislivello di una spanna, ma anche nella mezza luce dell'alba O'wa l'aveva vista col suo infallibile occhio di cacciatore e vi si era infilato strisciando come un serpentello ambrato. Sempre a mo' di serpente si era poi messo a procedere nascosto da quel piccolo riparo verso il gemsbok, strisciando sinuosamente sul ventre e inviando silenziose preghiere agli spiriti della stella del Leone, che l'aveva guidato a quella preda. All'improvviso il gemsbok alzò la testa di scatto e si guardò attorno insospettito, con le orecchie ben aperte. « Non allarmarti, dolce toro », gli ordinò telepaticamente O'wa. « Fiuta il bai e lascia che la pace entri di nuovo nel tuo cuore. » I minuti passavano. Poi la bestia sbuffò brevemente e tornò ad abbassare la testa. Il suo harem di antilopi brune, che si erano tutte voltate a guardarlo, si tranquillizzò visibilmente, e tutti ricominciarono a ruminare. O'wa scivolò un po' più avanti, sempre nascosto dall'esiguo margine della depressione, con la guancia incollata alla terra per non far scorgere la testa, avanzando su gomiti, alluci e ginocchia. Il gemsbok aveva estratto il tubero e lo stava masticando con gusto, rumorosamente, tenendolo schiacciato a terra con uno zoccolo e strappandone dei pezzi a morsi. Frattanto O'wa diminuiva con furtiva ed elaborata pazienza la distanza che li separava. « Pascola bene, o dolce toro: senza di te tre persone e un bambino non ancora nato moriranno prima di domani. Non andartene, o grande gemsbok, sta' lì ancora un po', un pochino solo... » Ormai si era avvicinato al massimo consentito dalla prudenza, ma era sempre troppo lontano. Il fianco del gemsbok era sodo, e la pelle dura. La freccia invece era di canna leggera, e la punta era di osso, che non si può affilare e appuntire come il ferro. « Spirito della stella del Leone, non voltarmi le spalle proprio adesso », implorò O'wa, e alzò la mano sinistra in modo da mostrare il palmo roseo al gemsbok. Per circa un minuto non accadde niente. Poi il maschio notò la manina scarnita che sembrava spuntare dalla terra, alzò la testa e si mise a fissarla. Sembrava troppo piccola per essere pericolosa. Dopo un minuto di immobilità totale, O'wa cominciò a muovere le dita cercando di adescare il maschio. Questo infatti sbuffò e alzò il muso per fiutare la strana cosa, ma O'wa era controvento e aveva dietro le spalle le prime ingannevoli luci dell'alba. Fermò nuovamente le dita della mano e poi, pian piano, l'abbassò di lato. Il maschio fece qualche passo nella sua direzione, sporgendosi perplesso in avanti, fiutando e tendendo l'orecchio e scrutando la buca in cui O'wa riusciva a non farsi vedere schiacciandosi contro il terreno senza respirare. Poi la curiosità condusse l'animale a portata di tiro. Con un movimento fulmineo, come il morso di un serpente, O'wa si rotolò da una parte, tese l'arco e scoccò la freccia. Questa volò come un'ape per lo spazio che separava preda e cacciatore e poi si piantò col rumore di uno schiaffo nella guancia ri-
gata dell'antilope, conficcando la punta dentellata nella pelle soffice, sotto l'orecchio a trombetta. Il maschio fece due passi indietro a quella puntura e poi si girò e galoppò via. Immediatamente il suo harem lo seguì a tutta velocità, sollevando una nuvola di polvere. Il maschio scuoteva la testa cercando di liberarsi della freccetta che gli pendeva dalla guancia. Perciò anMnche a strofinare la testa contro il tronco degli alberi morti. « Sta' piantata! » O'wa si era alzato in piedi e gridava, agitando le braccia in segno di trionfo. « Sta' piantata, freccia, e portagli nel cuore il veleno di O'wa! Portaglielo subito, piccola freccia! » Le donne corsero giù dalla duna per raggiungerlo. « Che cacciatore fenomenale! » lo lodava H'ani. « Che infallibile arciere! » Centaine, senza fiato, era invece preoccupata. Il branco di antilopi non si vedeva già più. Si era come dissolto nella pianura buia, immersa nel grigiore che precede il sorgere del sole. « Andato? » chiese a H'ani. « Aspetta. Seguire presto », le rispose la vecchia. « Adesso guarda, O'wa fa magia. » Il vecchio aveva messo da parte le proprie armi, tranne due frecce che si era sistemato sulla testa a imitare le corna del gemsbok. Poi portò le mani a coppa alle orecchie, per dar l'idea di quelle a trombetta dell'antilope, e alterò leggermente l'andatura e l'inclinazione della testa. Sbuffò dalle narici e scalpitò, e davanti agli occhi di Centaine si trasformò in un gemsbok. L'imitazione era così riuscita che Centaine si mise a battere le mani, deliziata. O'wa rifece la pantomima della mano adescatrice, del sospettoso avvicinarsi della bestia, del volo preciso della freccia. L'episodio fu rappresentato così fedelmente che Centaine provò una sensazione di déjà vu. O'wa galoppò via con lo stesso passo del gemsbok, ma ben presto si mise a barcollare e inciampare. Ansimava. Scrollava la testa di qua e di là. Centaine provò una fitta di commiserazione per la bestia colpita. Pensò a Nuage e le vennero le lacrime agli occhi, ma H'ani stava battendo le mani ed emettendo piccoli strilli d'incoraggiamento. « Oh adorato toro, muori, così che noi possiamo vivere! » O'wa si mise a girare descrivendo un ampio cerchio, ciondolando la testa. Poi si lasciò cadere a terra e mimò le ultime convulsioni dell'antilope spacciata dal veleno. Era così convincente che già Centaine non vedeva più il piccolo San, ma la gran bestia che stava ritraendo. Non dubitò nemmeno per un momento dell'efficacia della fattura accattivante che O'wa stava inviando alla preda. « Ah! » gridò H'ani. « E caduto. Il gran toro è finito. » Anche qui Centaine credette senza discutere. Bevvero un po' d'acqua dalle uova di struzzo, e poi O'wa strappò da uno degli alberi morti un ramo dritto e vi applicò in cima la punta di lancia, ricavata da femore di bufalo, che portava nella bisaccia. Finito di legare la punta, soppesò la lancia in mano. « E tempo di andar dietro al toro », annunciò, e si avviò per la pianura. La prima impressione di Centaine era giusta. Si erano ormai lasciati indietro le dune, ma la pianura che si stendeva ora davanti a loro era altrettanto proibitiva, e le forme strane degli alberi della foresta secca trasmettevano una fortissima e quasi ultraterrena sensazione di disagio. Centaine si domandò quanto tempo prima fosse morta la foresta, e rabbrividi rendendosi conto che quegli alberi potevano essere in quelle condizioni da mille anni, conservati dall'aria secca come le mummie dei farao-
ni in Egitto. O'wa stava seguendo le tracce del branco di gemsbok. Perfino sulle distese pietrose della pianura, dove Centaine non vedeva il minimo segno del loro passaggio, il piccolo San le guidava senza rallentare il trotto. Si fermò una volta sola, a raccogliere la/+ di cui il maschio era riuscito a liberarsi strofinandosi contro ùp albero secco. La mostrò alle donne. « Guardate, la punti è rimasta conficcata. » Infatti mancava. O';ra aveva assottigliato apposta la freccia subito dietro la punta,d'osso, in modo che lì si spezzasse facilmente, lasciando perSdentro la parte avvelenata. La luce « Nava in fretta e H'ani, che trotterellava davanti a Centaine, le indicò qualcosa col bastone. Dapprima Centaine non riuscì a vedere niente, poi notò una specie di vite secca con qualche foglia bruna raggrinzita che strisciava per terra. Era il primo segno di vita vegetale da quando avevano lasciato la costa. Poiché ormai sapeva dove e come guardare, Centaine cominciò a notare altre piante giallastre e spelacchiate, apparentemente insignificanti: ma aveva imparato abbastanza del deserto per indovinare cosa poteva celarsi sotto di quelle. Il morale le si rialzò un tantino, notando poi qualche chiazza d'erba argentea e secca del deserto. Avevano superato il territorio delle dune, e la terra che li circondava ricominciava a vivere. La brezza del mattino che aveva aiutato O'wa nell'agguato continuò anche dopo il levarsi del sole, sicché il caldo si dimostrò meno intollerabile che nel paese delle dune. I due San erano di umore più allegro e spensierato, e anche senza le rassicurazioni di H'ani, « Buono adesso, mangiare, bere presto » Centaine intuiva che la parte più dura del viaggio era passata. Dovette comunque stringere gli occhi e ripararseli con la pezza che le faceva da scialle e turbante, perché sulla pianura cosparsa di pezzi di mica il sole si rifletteva bianco e lattiginoso dissoIvendo gli orizzonti, bruciando tutti i colori e alterando forma e solidità del paesaggio. Lontano, davanti a loro, Centaine vide il grosso maschio di antilope a terra, circondato dalle quattro femmine fedeli e impaurite. Si decisero ad abbandonarlo solo quando i tre umani furono a meno di un chilometro di distanza. Se ne andarono al galoppo e ben presto svanirono nelle onde di calore. Il maschio giaceva proprio come aveva mimato O'wa: ansimava, così indebolito dal veleno della freccia da ciondolare la testa avanti e indietro, roteando le corna di qua e di là. Negli occhi gli brillavano lacrime. Aveva ciglia lunghe e curve come quelle di una bella donna: tuttavia all'arrivo di O'wa cercò di alzarsi per difendersi, e tirò due o tre cornate con quelle punte aguzze che potevano anche, con un po' di fortuna, impalare un leone adulto. Poi ricadde giù. O'wa gli girò cautamente intorno, aspettandoò che si scoprisse. Di fronte al gran massa della bestia, con la piccola lancia già puntata, il cacciatore boscimano sembrava fragilissimo. Ma il bestione non si scopriva. Trascinando il corpo semiparalizzato, si girava a propria volta, continuando a presentare a O'wa la pericolosissima testa cornuta. La punta della freccia pendeva sempre dalla pelle dietro l'orecchio, e il bel disegno a righe bianche e nere del muso dell'antilope era a questo punto confuso dalle macchie di sangue coagulato uscito dalla ferita. Centaine pensò di nuovo a Nuage, e desiderò che quella sofferenza terminasse in fretta. Appoggiò a terra la bisaccia, si tolse la camicia, la impugnò come una cappa da matador, e aggirò il maschio dalla parte opposta a O'wa. « Sta' pronto, O'wa, sta' pronto! » « Al suono della sua voce, il maschio si voltò. Centaine gli sventolò la camicia davanti al
muso e la bestia cercò di caricarla, con le corna appuntite che sibilavano in aria come scimitarre; ma la ragazza fu lesta a scostarsi, e l'antilope cercò di inseguirla con due passi stentati, alzando polvere coi grandi zoccoli. Mentre il bestione era così distratto, O'wa si lanciò avanti e gli conficcò la lancia nella gola, affondando profondamente la punta d'osso e rigirandola per troncare la carotide. Il sangue arterioso rosso vivo sprizzò alto nel sole, e O'wa saltò indietro e lo guardò morire. « Grazie, grande toro. Grazie che ci fai vivere. » Insieme girarono la carcassa sulla schiena, ma quando O'wa si preparò a incidere la pelle col suo coltello di pietra, Centaine aprì il proprio e glielo porse. O'wa esitò. Non aveva mai toccato quella splendida arma. Credeva che, facendolo, gli si sarebbe attaccata alle dita, e non sarebbe più riuscito a restituirla. « Prendi, O'wa », l'invitò Centaine e, vedendolo esitare ancora, guardando il coltello con timida reverenza, con un lampo d'intuizione la raga za capl il vero motivo dell'antagonismo di O'wa nei suoi confronti. « Vuole il coltello, ci sta morendo dietro. » Quasi le venne da ridere, ma riuscì a trattenersi. « Prendi, O'wa », ripeté, e l'omino tese lentamente la mano e lo afferrò. Il boscimano lo rigirò amorosamente tra le dita. Accarezzò l'acciaio della lama, poi la saggiò col pollice. « Ahi! Ahi! » esclamò guardando il rivoletto di sangue che la lama d'acciaio gli aveva fatto scaturire dal polpastrello. « Che arma! Guarda, H'ani! » Le mostrò orgogliosamente il pollice col taglio. « Guarda com'è affilato! » « Sciocco marito mio, serve per tagliare la selvaggina e non il cacciatore! » O'wa scoppiò a ridere felice a questa battuta, e si chinò per mettersi al lavoro. Prese lo scroto dell'antilope nella sinistra e lo tirò, poi con un taglio netto lo recise. « Ohi! Com'è ailato! » Mise da parte lo scroto, i testicoli alla griglia erano una squisitezza e il sacchetto di pelle morbida avrebbe costituito un'ottima borsa per punte di freccia e altri piccoli oggetti di valore, e tornò a chinarsi sull'antilope. Partendo dalla ferita tra le zampe posteriori tracciò un'incisione longitudinale, angolando la lama in modo da non bucare le fasce muscolari facendo uscir le viscere. Guidava il taglio con l'indice infilato nella pancia della bestia, sotto il coltello con la lama rivolta in alto. Arrivò in tal modo fino alla punta della mascella. Operò tagli rotondi intorno alle quattro zampe e al collo, poi ripiegò la pelle delle zampe fino a incontrare il primo lungo taglio laterale. Con le donne che alzavano i lembi della pelle, infilando il pugno tra essa e la carne dell'antilope, dura di muscoli bluastri, spellarono completamente la carcassa. Staccandosi, la pelle crosciava come un pezzo di cartoncino strappato: poi la stesero a terra, col pelo sotto. Quindi-O'wa aprì la cavità addominale con la precisione di un chirurgo, staccò il malloppo sanguinolento delle viscere e le posò sulla pelle. H'ani si allontanò di corsa a raccogliere una bracciata di sbiadita erbetta del deserto. Dovette fare un lungo giro, perché le chiazze erano molto rade. Poi tornò indietro e dispose l'erba nella zucca vuota, mentre O'wa incideva la bianca sacca scivolosa del rumine e ne estraeva una manciata di contenuto. Dalla vegetazione non ancora digerita ruscellò dell'acqua ancora prima che O'wa si mettesse a spremerla. Usando l'erba secca come filtro, O'wa riempl di quel fluido la zucca e poi con entrambe le mani se la portò alla bocca. Bevve avidamente, chiudendo gli occhi dal gran piacere, e ab-
bassando la scodella emise un tonante rutto, rise e la passò a H'ani. Anche lei bevve rumorosamente, coronando la bevuta con un rutto e qualche apprezzamento gioioso. Si pulì la bocca col dorso della mano e passò la zucca a Centaine. Centaine esaminò il liquido tra bruno e verdastro. « Non è che un succo vegetale », si consolò. « Non è ancora stato masticato. Non è nemmeno misto ai succhi gastrici... » e portò la zucca alle labbra. Si rivelò molto più facile di quanto si era immaginata, perché aveva un bel saporino di brodo di verdura e spezie, col retrogusto amarognolo del bai. Porse la zucca vuota a O'wa, e, mentre egli cercava di vuotare e strizzare fino in fondo il contenuto del rumine, le vennero in mente la gran tavola da pranzo a Mort Homme, tutta apparecchiata con argenteria, cristalli e porcellana di Sèvres, e Anna che brontolava sempre per la freschezza dei fiori, del pesce, la temperatura del vino e la tonalità di rosa del filetto. Scoppiò a ridere forte. Quanta strada aveva fatto da Mort Homme! I due piccoli San risero con lei, senza capire perché, e tutti e tre bevvero ancora. « Guarda la bimba », disse H'ani al marito. « Nella terra della sabbia che canta ero preoccupata per lei, ma già si riprende come i fiori del deserto dopo la pioggia. i! forte, ha un fegato da leonessa... Hai visto come ti ha aiutato al momento di ammazzare il gemsbok? Non ha avuto nessuna paura di attirare l'attenzione del gran toro cornuto. » H'ani si mise a ridere annuendo. Poi ruttò. « Avrà un bel figlio... da' retta alla vecchia H'ani... avrà un bellissimo figlio. » O'wa, con la pancia piena d'acqua, ghignò e quasi stava per approvare, quando l'occhio gli cadde al coltello, per terra tra i suoi piedi, e il riso smorì. « Vecchia stupida, vai ciarlando come una gallina mentre la carne va a male. » Tirò su il coltello. L'invidia era un sentimento così alieno alla sua natura che O'wa si sentiva infelicissimo e non capiva perché: ma il pensiero di dare indietro il coltello alla ragazza lo riempiva di rabbia, una rabbia corrosiva che non aveva mai provato prima. Mentre sbudellava l'animale, tagliando via striscioline di trippa bianca che mangiava cruda, bofonchiava, accigliato. A metà mattina avevano appeso ai rami di uno degli alberi morti lunghe strisce rosse di carne di gemsbok. La calura era ormai tale che la carne scurì e seccò quasi immediatamente. Faceva troppo caldo per mangiare. H'ani e Centaine tesero la pelle dell'antilope su un'intelaiatura di rami secchi e tutti vi si rifugiarono sotto per difendersi dal sole, rinfrescandosi l'organismo coi fluidi in evaporazione dello stomaco secondario del gemsbok. « Al tramonto O'wa tirò fuori i bastoncelli duri con cui accendeva il fuoco e cwominciò la laboriosa impresa di ottenerne qualche scintilla. Centaine, impaziente, gli portò via di sotto la pallottola di rami secchi da accendere. Finora era sempre stata troppo intimidita dai piccoli San e dal suo senso di inferiorità in quell'ambiente per mostrare qualunque iniziativa: ma adesso, il fatto di aver attraversato il territorio delle dune e di aver dato una mano alla cattura dell'antilope la imbaldanziva. Dispose quindi tra le proprie gambe l'esca e cominciò a proiettarvi sopra scintille col coltello e la pietra focaia. Subito dopo si chinò a soffiare e in breve accese un bel fuoco. I San si misero a strillare, sbalorditi: e quando il fuoco cominciò ad ardere regolarmente, si avvicinarono a Centaine studiando con grandi esclamazioni di meraviglia pietra focaia e coltello. Sotto la guida di Centaine, anche O'wa riuscì in quel modo a far sprizzare le scintille, e la sua gioia fu spontanea e puerile.
Appena la notte portò sollievo dal caldo bestiale della giornata, prepararono un banchetto di fegato arrostito, rognone e trippe avvolte nel merletto bianco del grasso intestinale. Mentre le donne lavoravano al fuoco, O'wa danzò per lo spirito del gemsbok e, come aveva promesso, balzò alto come da giovane e cantò finché non gli si ruppe e affievoll la voce. Poi si accovacciò vicino al fuoco e cominciò a mangiare. I due San mangiavano col grasso che colava sul mento, e fin sul petto: mangiarono finché la pancia non si tese a barilotto, e poi ancora, quasi a crepapelle, e continuarono a mangiare anche molto dopo che Centaine, sazia e quasi nauseata, aveva smesso. Ogni tanto Centaine temeva di vederli crollare: la masticazione rallentava e i due si inviavano sguardi sonnacchiosi sopra il fuoco come due gufi che caschino dal sonno. Ma poi O'wa si piazzava entrambe le mani sopra la pancia prominente, si sollevava su una natica e, con la faccia rugosa tutta contorta si metteva a grugnire e tendersi finché non riusciva a emettere una sonante scoreggia. Dall'altra parte del fuoco, H'ani gli rispondeva altrettanto trionfalmente, senza perdere una sola battuta, dopodiché ambedue si congratulavano con alte risa e rico . . . . mmaavano a mgerlre carne. Quando Centaine, con la pancia piena, si alzò per andare a coricarsi, comprese che quell'orgia di cibo era naturale, per un popolo avvezzo a mangiare tanto poco, in un paese dove non si poteva conservare la carne, quando erano così fortunati da trovarsene di fronte una vera montagna. Quando si svegliò, all'alba, i due stavano ancora banchettando. Allorché sorse il sole, i due San si sdraiarono sotto la pelle di gemsbok, a pancia all'aria, e russarono per tutto il giorno: al tramonto riaccesero il fuoco e ricominciarono a banchettare. Ormai quanto rimaneva del gemsbok puzzava anzichenò, ma ciò sembrava soltanto aumentare il loro appetito. Quando O'wa si alzò e barcollando si allontanò dal fuoco per dedicarsi a una faccenda privata, Centaine notò che le sue natiche, prima raggrinzite e penzolanti, adesso erano tese, tonde e lustre. « Come i cammelli », ridacchiò Centaine tra sé, e H'ani si unì al suo riso e le offrì un cicciolo dorato. Ancora una volta passarono la giornata a dormire, come pitoni dopo un banchetto gargantuesco, ma al tramonto, con le bisacce piene di strisce dure e nere di carne secca di gemsbok, O'wa si avviò a est per la pianura illuminata dalla luna. Portava in testa, piegata e arrotolata, la pelle di gemsbok. Gradualmente, la pianura che attraversavano cambiava. Tra l'erbetta secca del deserto cominciarono ad apparire cespugli bassi, che non arrivavano nemmeno al ginocchio di Centaine; e una volta O'wa si fermò e indicò lontano una sagoma alta e spettrale, che trotterellava veloce nella notte, un corpo scuro con pennacchi bianchi. Solo quando fu sparito nelle tenebre, Centaine si rese conto di aver visto uno struzzo. All'alba O'wa tese la pelle di gemsbok a mo' di tenda, come già avevano fatto, e sotto quel riparo attesero che trascorresse la giornata. Al tramonto bevvero le ultime gocce d'acqua delle uova-borracce, e si avviarono di nuovo, silenziosi e seri. I due San sapevano che, senz'acqua, la morte era vicinissima. All'alba, invece di accamparsi immediatamente, O'wa si mise a osservare il cielo a lungo, e poi percorse un largo semicerchio, precedendo le due donne, come un cane da caccia che fiuti la selvaggina. Alzava la testa e la girava lentamente di qua e di là, annusando l'aria. « Che sta facendo O'wa? » chiese Centaine.
« Fiuta », rispose H'ani, facendole vedere come. « Fiuta l'acqua. » Centaine non riusciva a crederci. « Non ha odore l'acqua, H'ani. » « Sì! Sì che ce l'ha! Vedrai. » O'wa frattanto era giunto a una decisione. « Venite! Per di qua! » urlò. Le donne raccolsero le bisacce e si affrettarono ad avviarsi per raggiungerlo. Centaine capì che se O'wa si fosse sbagliato sarebbe morta nel giro di un'ora. Le uova erano vuote, e il calore del sole stava già prosciugandola di tutto il liquido che conteneva il suo organismo. Sarebbe morta disidratata ancora prima di mezzogiorno, quando il sole picchia davvero. O'wa si mise a correre. Era l'andatura che i San chiamano « le corna », ovvero quella che assume il cacciatore quando vede stagliarsi all'orizzonte le corna della preda. Le due donne, cariche com'erano, non potevano assolutamente stargli dietro. Un'ora dopo distinsero la sua figuretta davanti a loro, molto lontano, e quando alla fine lo raggiunsero egli le accolse con un gran sorriso. e con un ampio gesto della mano dichiarò: « O'wa vi ha portato infallibilmente al pozzo-da-succhiare dell'elefante sdentato ». Le origini del nomew tramandato oralmente in seno ai San, si perdevano nella notte dei tempi. O'wa raggiava di gioia mentre le faceva scendere nel letto del fiume, lungo il lieve declivio della sponda. Era un fiume largo, ma Centaine si accorse subito che era completamente secco. Era pieno di sabbia fine e friabile come quella delle dune che avevano attraversato, e guardandosi attorno si senti vincere dalla disperazione. Il fiume, dai meandri serpentini, era largo una trentina di metri e tagliava la piana sassosa. Benché fosse del tutto secco, sulle sue rive la vegetazione cresceva molto più abbondante che nel resto dell'arida pianura. I cespugli arrivavano quasi alla vita, e qualcuno era addirittura verdastro. I due San chiacchieravano allegri, e H'ani stava fiera al fianco del marito che avanzava pavoneggiandosi senza vergogna sulla sabbia dell'aridissimo letto. Centaine vi si lasciò cadere, ne raccolse una manciata e sconsolata la fece scivolare tra le dita. PQi all'improvviso si accorse che il letto del fiume era tutto calpestato dalle zampe dei gemsbok. In certi punti era anche scavato, come da bambini intenti a costruire dei castelli di sabbia sulla spiaggia. O'wa stava appunto esaminando con grande attenzione una di queste buche. Centaine si alzò di nuovo faticosamente in piedi e si trascinò da lui, per vedere che cosa aveva trovato. Il gemsbok doveva essersi messo a scavare sul letto sabbioso del fiume, ma la sabbia era ricaduta nella buca quasi riempiendola di nuovo. O'wa annuì con aria competente, poi si rivolse a H'ani. « E un posto buono. Qui faremo il succhiapozzo. Prendi con te la bimba e insegnale a costruire un riparo. » Centaine aveva tanta sete da sentirsi quasi delirare, ma riusci ad avviarsi dietro H'ani e ad aiutarla a tagliare qualche cespuglio di quelli che crescevano fitti sulle rive. Poi nel letto del fiume eressero due ripari rudimentali, piantando i rami lunghi e flessibili nella sabbia in cerchio e piegandoli fino a collegarne le cime. Quindi fecero un tetto alla capanna, da una parte con la pelle puzzolente di antilope e dall'altra con qualche stenta frasca. Si trattava di un riparo assai primitivo, una capanna senza pareti e col pavimento di sabbia, ma Centaine si lasciò cadere felice all'ombra e si mise a guardare O'wa. Dapprima egli tolse la punta avvelenata alle sue frecce, maneggiandole con grandissima attenzione perché un solo graffio sarebbe stato fatale. Poi le mise in tanti sacchettini di vescica
e le infilò in un cornetto cavo che portava alla cintola. Infine cominciò a collegare le frecce una all'altra, unendole con palline di resina d'acacia, fino a ottenere una canna vuota più alta di lui. « Aiutami, fiorellino mio », disse allegro a H'ani, e si misero a scavare con le mani nella sabbia. Per evitare che tornasse a cadere, fecero la buca a forma d'imbuto, larga ai bordi e sempre più profonda in mezzo, finché testa e spalle di O'wa non vi scomparvero ed egli non cominciò a estrarre manciate di sabbia più scura e umidiccia. Scavò ancora più giù, finché H'ani non dovette aflferrarlo per le caviglie, mentre tutto il suo corpo era scomparso nella buca. Alla fine, in risposta alle grida soffocate che venivano dal basso, la vecchia gli passò la lunga canna cava. A testa in giù nel buco, O'wa infilò la canna nel punto più profondo, piazzando sul foro un filtro di foglie e steli perché la sabbia non l'otturasse. Quindi le due donne lo tirarono fuori per le caviglie ed egli sbucò tutto coperto di sabbia arancione. H'ani gli ripuli amorosamente la faccia e le orecchie. Con cura, una manciata per volta, O'wa riempì nuovamente la buca, senza spostare filtro e canna, e alla fine schiacciò ben bene la sabbia intorno a quest'ultima, lasciandola sporgere un poco. Mentre O'wa dava i colpetti finali al suo pozzo, H'ani sceglieva un ramoscello verde e dritto, lo liberava della corteccia e delle spine, e con l'aiuto di Centaine disponeva in fila accanto al pozzo le uova di struzzo col tappo di legno vicino. O'wa si stese per terra a pancia in giù e applicò la bocca alla canna. H'ani si accucciò seria accanto a lui, col ramoscello dritto e verde in mano. « Io son pronta, cacciatore del mio cuore! » gli disse, e O'wa cominciò a succhiare. Dalla capanna, Centaine lo vide trasformarsi in un mantice umano. Il petto gli si gonfiava e sgonfiava ritmicamente, e quando inspirava sembrava raddoppiare di volume. A un tratto, Centaine si accorse che nel rudimentale tubo si era creato un ingorgo. O'wa strizzò forte gli occhi, che scomparvero dietro una ragnatela di grinze, e il suo volto per lo sforzo scuri fino a diventare color cioccolato. Il suo corpo pompava e pulsava, si gonfiava come una rana-toro e si afflosciava per poi tornare subito a gonfiarsi, sforzandosi di sollevare un gran peso dal fondo della canna sottile. A un certo pufito emise un gorgoglio gutturale, senza rompere il ritmo delle poderose suzioni, e H'ani stese la mano e dolcemente gli applicò all'angolo della bocca il rametto pelato. Di tra le labbra di O'wa fiori una brillante goccia d'acqua e scivolò giù lungo il rametto nell'uovo di struzzo che H'ani ci teneva sotto. « Buona acqua, o cantore dell'anima mia », l'incoraggiava H'ani. « Buona acqua dolce! » Dalla bocca del vecchio ora scendeva un argenteo, regolare, ritmico fiotto a ogni espirazione. Lo sforzo richiesto era enorme, perché O'wa stava succhiando l'acqua da quasi due metri di profondità, e Centaine assisté sbigottita al riempimento prima di un uovo di struzzo, poi d'un altro e un altro ancora, senza un attimo di pausa. H'ani, accucciata accanto al vecchio, lo incitava teneramente, aggiustando rametto e borracce: e all'improvviso Centaine fu sopraffatta da un'immensa simpatia per i due vecchietti. Comprese che erano stati forgiati dalla gioia, dalla tragedia e da quell'ambiente impietoso fino a diventare una cosa sola. Capi che i lunghi anni insieme avevano donato loro una grande ricchezza a base di allegria, umorismo, sensibilità, saggezza e forza, ma soprattutto di amore, e si ritrovò a invidiarli sia pur senza acredine.
« Ah », sospirò, « se potessi essere unita a un altro essere umano come sono uniti loro! » In quel momento, comprese che era giunta ad amarli. Alla fine O'wa si rotolò da una parte e giacque nella sabbia sussultando, tremando e ansimando come un maratoneta dopo la corsa. Intanto H'ani portava una borraccia a Centaine. « Bevi, bimba Nam », le offrì. Quasi con riluttanza, perfettamente consapevole della fatica che era costata ogni preziosa goccia, Centaine bevve. Bevve poco, religiosamente, e poi restitul l'uovo di struzzo. « Buona acqua, H'ani », disse. Benché fosse torbida, sabbiosa e mista alla saliva del vecchio, ormai Centaine aveva capito perfettamente perché i San definivano « buona acqua » qualunque liquido capace di far sopravvivere una persona nel deserto. Centaine si alzò e andò da O'wa, ancora sdraiato sulla sabbia. « Buona acqua, O'wa. » Si inginocchiò accanto a lui, e vide che lo sforzo l'aveva completamente sfibrato: tuttavia egli le sorrise debolmente e annuì, ancora incapace di alzarsi. « Buona acqua, bimba Nam », concordò. Centaine slegò il nodo che le teneva il coltello assicurato sui fianchi e lo prese con ambo le mani. Le aveva già salvato la vita una volta. Poteva forse salvargliela ancora, se se lo teneva, nei giorni verosimilmente duri che sarebbero seguiti. « Prendi, O'wa », disse, offrendoglielo. « Coltello per O'wa. » L'omino guardò fissamente il coltello e impallidi. La ragnatela di rughe del suo volto smise di essere irrorata dal sangue, e una gran devastazione parve svuotargli gli occhi di ogni capacità espressiva. « Prendi, O'wa », insisté Centaine. « E troppo », sussurrò il vecchio, fissando il coltello con occhi sbarrati. Era un dono inestimabile. Centaine si avvicinò ancora di più, gli prese il polso e gli girò la mano con il palmo verso l'alto. Ci mise il coltello e chiuse intorno a esso le dita di O'wa. Seduto al sole fiammeggiante col coltello in mano, O'wa sospirava fremendo come prima, quando succhiava l'acqua dal pozzo. Una lacrima gli comparve all'angolo dell'occhio e ruscellò giù per il profondo solco alla base del naso. « Perché piangi, o vecchio sciocco? » gli domandò H'ani. « Piango di gioia per questo dono. » O'wa cercava di mantenere la compostezza, ma la voce gli tremava. « Che stupida ragione per piangere », gli disse H'ani, e si mise a ridacchiare coprendosi la bocca con la mano. Seguirono il letto del fiume secco verso est, ma adesso non avevano più fretta come quando avevano attraversato a marce forzate, di notte, il territorio delle dune. Adesso sapevano che sotto la sabbia c'era l'acqua. Si avviavano prima del sorgere del sole, e proseguivano finché non faceva troppo caldo. Allora costruivano un riparo e si riposavano: nel tardo pomeriggio ripartivano e si fermavano a notte alta. Il procedere era lento, perché per via cacciavano e si rifornivano di vegetali commestibili. H'ani approntò per Centaine un bastone appuntito simile al suo, indurendone la punta al fuoco, e poi le mostrò come adoperarlo. Nel giro di pochi giorni la ragazza cominciò a riconoscere le piante utili e i tuberi che crescevano anche in quelle desolazioni. Ben presto comprese che, sebbene O'wa fosse un cacciatore quasi soprannaturaie per come sapeva seguire le tracce di un animale e sopravvivere trovando acqua nel deserto, erano le cose raccolte dalle donne che assicuravano al loro piccolo clan le basi della sopravvivenza. Infatti poteva capitare di non incontrare selvaggina anche per giorni o addirittura settimane, e in quel caso vivevano solo delle piante che riuscivano
a trovare le due donne. Benché Centaine imparasse in fretta e i suoi occhi giovani fossero dotati di una vista molto acuta, si rendeva conto che non sarebbe mai diventata brava come la vecchia. H'ani riusciva a trovare tuberi e insetti di cui in superficie non si scorgeva la minima traccia, e quando scavava col suo bastone appuntito il duro terriccio schizzava in tutte le direzioni. « Come fai a trovarle? » le chiese infine, ormai padroneggiando, grazie alle chiacchiere quotidiane della vecchia donna, la lingua dei San. « Come O'wa, che trova i pozzi-da-succhiare da lontano, H'ani fiuta, bimba Nam. Fiuta! Usa il naso! » « Tu mi prendi in giro, vecchia e riverita nonna! » protestò Centaine, ma dopo di allora si mise a osservare attentamente H'ani, e si accorse che veramente trovava a fiuto i profondi termitai dove razziava il bianco e croccante « pane » di formiche, con cui faceva una pappa dal sapore davvero schifoso, ma nutriente. « Proprio come Kaiser Wilhelm » si disse Centaine, e cominciò a gridare a H'ani: « Cherche! » come lei e Anna facevano col maiale quando andavano per tartufi sulla collina di querce a Mort Homme. « Cherche, H'ani! » e la vecchia rideva, raggiante di gioia, allo scherzo che non comprendeva; poi, a un tratto, accadde un miracolo. Lei e Centaine erano rimaste un po' indietro rispetto a O'wa nella tappa del tramonto, perché il vecchio le aveva precedute cercando un nido di struzzi che ricordava nei dintorni dalla sua ultima visita, moltissimi anni prima. Si erano messe amichevolmente a discutere. « No, no! Bimba Nam, non devi mai scavare due radici nello stesso posto. Devi sempre saltarne una prima di rimetterti a scavare. Te l'avevo già detto! » la sgridava H'ani. « Perché? » chiedeva Centaine, alzandosi e scostandosi i capelli dagli occhi, cosa che le lasciava sulla fronte un segnaccio di fango e sudore. « Devi lasciarne una per i bambini. » « Vecchia sciocca! Non ci sono bambini! » « Ci saranno... » H'ani indicava significativamente il ventre di Centaine. « Ci saranno. E se non gli lasciamo niente da mangiare, cosa diranno di noi mentre moriranno di fame? » « Ma ci sono tante di quelle piante! » Centaine era esasperata. « Quando O'wa trova il nido dello struzzo, lascia sempre qualche uovo. Quando trovi due tuberi, lasciane uno, e vedrai che tuo figlio crescerà forte e sano e sorriderà quando dirà il tuo nome ai suoi bambini. » H'ani aveva terminato la lezioncina ed era corsa avanti dove aveva visto un tratto di terreno nudo e pietroso sul letto asciutto del fiume. S'era chinata fiutando il terreno. « Cherche, H'ani! » la sfotteva Centaine, e H'ani, restituendole il sorriso, s'era messa a scavare. Poi s'era inginocchiata e aveva estratto qualcosa dal buco. « E il primo che vedi, bimba Nam. Senti che profumo. Ha un sapore molto buono. » Le aveva offerto il tubero a forma di patata, incrostato di terra e bitorzoluto. Centaine lo aveva annusato, tutta contenta, e aveva sbarrato gli occhi all'indimenticabile aroma. In fretta lo aveva ripulito del terriccio e ci aveva affondato avidamente i denti. « Cara vecchietta! » aveva gridato a H'ani. « E un tartufo! Un vero tartufo! Ha un'altra forma e un altro colore, ma quanto a odore e sapore è come quelli che crescono da noi! »
O'wa aveva trovato il nido di struzzo, e Centaine sbatté una delle uova nel suo guscio, vi unì il tartufo sminuzzato e sopra una pietra piatta sul fuoco cucinò un'enorme omelette aux truEes. Era leggermente grigiastra e sabbiosa per lo sporco che Centaine aveva sulle dita, c'erano dentro anche dei pezzettini di gUSCio, ma la mangiarono con gran gusto. Fu soltanto in seguito, giacendo sotto il primitivo riparo di pelle e arbusti, che Centaine si abbandonò alla nostalgia di casa che le aveva messo addosso il tartufo. Appoggiando il viso nell'incavo del gomito, si mise a singhiozare. « Oh, Anna! » sospirò. « Darei tutto, tUttO, pur di rivedere la tua brutta faccia! » Proseguendo lungo il letto asciutto del fiume, le settimane diventarono mesi, e il pancione di Centaine cresceva con dentro il figlio che doveva nascere. La dieta irregolare ma sana e l'esercizio quotidiano delle camminate, delle raccolte, e del trasporto non fecero mai diventar grosso il bambino, che portò sempre alto, ma i seni le si colmarono e qualche volta, spalmandosi il corpo col succo del bai, se li guardava orgogliosamente ammirando il fiero rizzarsi dei capezzoli rosa rivolti all'insù. « Vorrei che li vedessi adesso, Anna », mormorava. « Non potresti più dire che sembro un ragazzo. Ma come al solito ti lamenteresti delle gambe muscolose e troppo sottili. Oh, Arma, chissà dove sei! » jUna mattina all'alba, quando già marciavano da molte ore, Centaine si fermò sulla vetta di una bassa collina e si guardò lentamente intorno. L'aria era ancora fresca dalla notte, e così limpida che si vedeva fino all'orizzonte. Più tardi, col caldo, si sarebbe ispessita fino a un'opalescenza lattiginosa mentre il sole avrebbe prosciugato il paesaggio da qualsiasi colore. I miraggi si sarebbero fatti più vicini, distorcendo grottescamente tutte le forme e trasformando i più banali gruppi di massi in orrendi mostri tremolanti. Adesso però i connotati del territorio erano ancora netti e forniti di tutto il loro colore. La piana ondulata era cosparsa di chiazze d'erba argentea, e c'erano alberi, veri alberi vivi, non quelle vecchie mummie incenerite dal caldo che avevano trovato subito dopo le dune. Queste erano acacie, grandi acacie che crescevano ben separate l'una dall'altra. I loro tronchi massicci, ammantati dalla corteccia scabrosa a scaglie come di coccodrillo, contrastavano con gli ampi ombrelli fronzuti di foglioline grigioverdi. Nella più vicina gli uccelli tessitori avevano costruito un nido comune della grandezza di un covone di fieno: ogni generazione di quegli uccelletti insignificanti, color fumo di Londra, ingrandiva la città aerea, finché un bel giorno il peso sarebbe diventato eccessivo e il grande albero si sarebbe schiantato. Centaine ne vedeva altri per terra, accanto a un'acacia abbattuta, ancora attaccati al ramo che li aveva sostenuti: gli enormi nidi collet. tivi degli uccelli tessitori puzzavano, rigurgitanti di pennuti morti e uova spiaccicate. « Al di là di questa rada foresta c'erano colline ripide che si alzavano a sorpresa dalla pianura, i kopie d'Africa, battuti dal vento e scavati dal sole fino ad assumere forme gcometriche acute come denti di drago. La luce morbida del primo mattino illuminava su di essi tratti color seppia, rosso, e bronzo tra le pareti rocciose: le cime erano incoronate dal koicrboom, un albero antidiluviano dal tronco carnoso e la chioma che ricorda quella della palma. Centaine si fermò appoggiandosi al bastone appuntito, in preda allo sbigottimento di fronte a quella scena vasta ed ele-
mentare. Sulla pianura polverosa pascolavano sterminati branchi di gazzelle. Erano chiare come fumo, e altrettanto incorporee in apparenza: animaletti graziosi dalle corna ricurve a forma di lira. Il dorso color caffellatte era separato dal ventre bianco da una riga netta color cioccolato. Mentre Centaine le ammirava, le più vicine si impaurirono per la prossimità dell'uomo e cominciarono a saltare, rimbalzando a zampe rigide nel caratteristico atteggiamento d'allarme, al quale si deve il loro nome, springbok. Abbassavano il muso fin quasi a terra e poi schizzavano in alto, come spinte da molle, e contemporaneamente aprivano la lunga saccoccia di pelle ripiegata che corre per tutta la loro groppa, liberando la bianca criniera vaporosa che si nasconde in essa. « Oh, guarda, guarda, H'ani! » gridava Centaine. « Che belle! » Quei balzi a molla erano contagiosissimi. In breve tutta la pianura brulicò di centinaia di springbok rimbalzanti, in alto, con le bianche criniere al vento. O'nva posò il carico, abbassò la testa e imitò alla perfezione le gazzelle mettendosi a saltellare sulle gambe rigide, agitando le dita sulla schiena, sì da sembrar trasformato in una di quelle vivaci bestiole. Le due donne cominciarono a ridere forte, e in breve dovettero sedersi e continuare a ridere per terra, abbracciate. Quel momento di gioia si protrasse a lungo anche dopo la scomparsa delle alture nella foschia opalina, che alleviò la tortura del sole di mezzogiorno. Durante le lunghe soste meridiane, O'wa prese a staccarsi dalle due donne, e Centaine si abituò a vedere la sua figuretta seduta a gambe incrociate all'ombra di un'acacia non lontana. Pareva intento a raschiare col coltello la pelle di gemsbok, spiegata in grembo. La portava accuratamente arrotolata in testa durante la marcia notturna, e una volta che Centaine, per caso, si era messa a guardarci dentro, O'wa si era talmente arrabbiato che lei aveva dovuto scusarsi. « Non intendevo far niente di male, vecchio nonno. » Ma ormai la sua curiosità era stata destata. Il vecchio era un abilissimo artigiano, e di solito era fiero di mostrare i propri lavori. Non aveva protestato quando Centaine era rimasta a guardare mentre lui staccava da un tronco di kokerboom un tratto di corteccia gialla e duttile, l'arrotolava per farne una faretra per le freccette, e la decorava con disegni di uccelli e animali per mezzo di un tizzone acceso. Le aveva mostrato come si fabbricano le punte di freccia, da un pezzo d'osso duro pazientemente affilato su una pietra liscia: e Centaine era rimasta sorpresa dai risultati che era possibile ottenere anche in quel modo primitivo. Si era portato dietro Centaine perfino quando era andato a raccogliere gli elementi costitutivi del veleno che aveva atterrato il grande gemsbok, e che poteva uccidere un uomo in poche ore. L'aveva aiutato a scavare sotto un certo tipo di cespuglio, per raccogliere nel terriccio i bozzoli marroni che contenevano i grassi bachi biancastri dell'insetto diamphidia. Maneggiando i bachi con grandissima cautela, dato che la minima quantità dei loro succhi corporei che fosse penetrata attraverso un taglietto nella circolazione sanguigna,avrebbe significato morte sicura, O'wa li schiacciava, ottenendone una poltiglia che poi univa al succo della sansevieria selvatica. Con quella mistura appiccicosa e letale ungeva poi la punta delle frecce. Della sansevieria usava anche la fibra, per legare la punta d'osso all'asta di canna delle frecce. Ammetteva Centaine come spettatrice perfino quando fabbricava i flauti d'osso con cui poi si accompagnava, con fischi sesquipedali, nelle sue danze scatenate; e quando intagliava de-
corazioni nella pesante clava da lancio con cui colpiva gli sfreccianti francolini al volo, spennacchiandoli, o i lucertoloni dalla testa blu che poltrivano ignari sui rami più alti delle acacie. Ma, adesso che era impegnato sulla pelle di gemsbok, se ne andava a una certa distanza e lavorava in solitudine. L'asciutto fiume di sabbia che avevano seguito tanto a lungo si contorse alla fine in una serie di stretti meandri, simili alle volute di una vipera bastonata, e poi di colpo sfociò in una pianura di sale, così ampia che gli alberi dall'altra parte non erano che una linea tremolante quasi invisibile all'orizzonte. La superficie di questo antico bacino era di un candore abbacinante e il riflesso del sole allo zenit su di essa trasformava il cielo in un lampo incandescente. I boscimani lo chiamavano « il gran posto bianco ». Sulla ripida riva della conca del bacino costruirono ripari più solidi e meglio che mai forniti di frasche, così da conferire al campo un'aria più definitiva, e i due piccoli San si abbandonarono a una rilassata routine, benché sotto sotto Centaine subodorasse qualcosa di strano. « Come mai ci fermiamo qua, H'ani? » Ogni giorno che passava, uguale agli altri, la rendeva più impaziente e frenetica. « Aspettiamo di fare la traversata », si limitava a risponderle la vecchia donna. « La traversata per dove? Dove stiamo andando? » insisteva Centaine, ma H'ani rimaneva sul vago, indicando genericamente a levante, e nominando una località che Centaine sapeva tradurre solo come « il posto dove niente deve morire ». Il bambino nel grembo di Centaine cresceva molto in fretta. A volte la ragazza faceva fatica a respirare, e non riusciva più a addormentarsi facilmente sulla nuda terra. Così si approntò un pagliericcio d erba del deserto nella propria capannuccia, il che destò l'ilarità dei due vecchietti. A loro la terra bastava e avanzava, e per cuscino usavano la spalla. Centaine, annidata nel pagliericcio, cercava di ricostruire i giorni e i mesi trascorsi da quando era stata con Michael: ma il conto le risultava impossibile. Tutto si confondeva, era soltanto sicura che doveva partorire presto. Ma questo gliel'aveva saputo dire anche l'esperta H'ani, dopo averle tastato il pancione. « Il bambino cavalca in alto e lotta per liberarsi. Sarà un maschio, bimba Nam », le promise, e condusse Centaine nel deserto a raccogliere le erbe speciali che servono alle partorienti. A differenza di tand altri popoli ancora all'età della pietra, i San erano perfettamente a conoscenza del processo riproduttivo, e non consideravano l'atto sessuale a sé stante ma come il primo passo del lungo viaggio verso la nascita. « Dov'è il padre del tuo bambino, bimba Nam? » le chiese H'ani, e quando vide le lacrime negli occhi di Centaine si rispose da sé: « E morto lassù a nord, ai confini della terra, vero? » « Come fai a sapere che vengo dal nord? » le chiese Centaine, felice di cambiar discorso e allontanare il penoso ricordo di Michael. « Perché sei grande, sei più grande di ogni San del deserto », le spiegò. « Quindi devi venire da qualche terra ricca, dove la vita è facile, dove c'è tanta pioggia e tanta roba da mangiare. » Per la vecchia H'ani, l'acqua era tutto nella vita. « Il vento che porta la pioggia viene da nord, quindi anche tu devi venire da nord. » Impressionata da quella logica, Centaine le domandò sorridendo: « E come fai a sapere che vengo da lontano? » « La tua pelle è chiara, non scura come quella dei San. Qui al centro del mondo il sole sta sopra la testa, ma non va mai né a nord né a sud. A est e a ovest, poi, è sempre basso e de-
bole; quindi devi venire da lontano, dove al sole manca la forza e il calore per scurire la pelle. » « Conosci altra gente come me, H'ani, persone grandi dalla pelle chiara? Ne hai mai viste, prima di me? » le chiese avidamente,Centaine, e quando vide la vecchia H'ani distogliere lo sguardo la prese per il braccio. « Dimmi, dimmi, vecchia e saggia nonna, dove hai visto la mia gente? Da che parte, e quanto lontano? Potrei raggiungerli? Per piacere, dimmelo! » Gli occhi di H'ani si velarono d'incomprensione. La vecchia estrasse un granulo di muco secco dalla narice e si mise a esaminarlo minuziosamente. « Dimmi, H'ani! » insisté Centaine, scuotendola delicatamente. « Ho sentito i vecchi che ne parlavano, a volte », ammise controvoglia H'ani. « Ma io non ho mai visto quella gente, e non so dove sta. » Centaine si accorse che H'ani mentiva. Poi, d'impulso, H'ani sbraitò: « Ma sono cattivi come leoni e velenosi come scorpioni, e i San si nascondono da loro... » Saltò su, inquieta, raccolse la bisaccia e il bastone a punta e si allontanò dal campo per non tornarvi che al tramonto. Quella notte, dopo che Centaine fu andata a coricarsi sul suo pagliericcio d'erba, H'ani sussurrò a O'wa: « La bimba ha nostalgia della sua gente ». « Mi sono accorto che guardava a sud con la tristezza nel cuore », ammise O'wa. « Quanti giorni di cammino ci vogliono per raggiungere la terra dei giganti chiari? » domandò con riluttanza H'ani. « Quant'è lontano il suo clan? » « Meno di una luna », borbottò O'wa, e i due rimasero in silenzio per un bel po', guardando le fiamme bluastre del ciocco d'acacia. « Voglio sentire ancora una volta il vagito di un bambino che nasce, prima di morire », disse alla fine H'ani, e O'wa annuì. Insieme si voltarono verso levante, scrutando nelle tenebre in direzione del Posto di Tutta la Vita. Una volta, H'ani trovò Centaine inginocchiata a pregare nel deserto e le chiese: « Con chi parli, bimba Nam? » e Centaine si trovò in imbarazzo a spiegarglielo. Infatti, benché la lingua San fosse ricchissima di parole atte a esprimere nei minimi particolari la complessità della vita materiale nel deserto, era estremamente difficile piegarla a esprimere concetti astratti. Tuttavia, dopo lunghe discussioni protrattesi per parecchi giorni nel deserto dove andavano a raccogliere tuberi e piante, o accanto al fuoco, cucinando i pasti, Centaine riuscì a descrivere il suo concetto della natura divina, dopo di che H'ani si mise a grugnire, borbottando e annuendo dubbiosamente nel considerare tutta la faccenda. « Parli con gli spiriti? » le domandò. « Ma quasi tutti gli spiriti vivono nelleJstelle, e se parli così piano come fanno a sentirti? Bisogna proprio danzare e cantare e fischiare forte per attirare la loro attenzione. » Abbassò la voce. « E anche così non è detto che ti stiano a sentire. Ho notato che gli spiriti delle stelle sono piuttosto volubili e smemorati. » H'ani si guardò attorno con aria da cospiratrice. « L'esperienza mi insegna che Mantis ed Eland sono ben più degni di fede, bimba Nam. » « Mantis ed Eland? » Centaine cercava di non lasciar trapelare il proprio divertimento. Mantis è la mantide religiosa. Eland è la più grossa antilope africana, dalle corna ritorte, facilmente addomesticabile. « Mantis è un insetto dai grandi occhi che vedono tutto, e dalle braccia da omino. Eland è un animale... oh, sì, molto più grande del gemsbok, con la pancia così piena di grasso dolce da sfiorare il suolo. » L'amore dei San per il grasso era inferiore
solo a quello per il miele. « Ha corna ritorte che sfiorano il cielo. Se siamo fortunate, le troveremo tutte e due nel posto dove stiamo andando. Nel frattempo, parla pure con le stelle, bimba Nam, perché sono belle, ma poni la tua fede in Mantis ed Eland. » Così, semplicemente, H'ani le aveva spiegato la religione dei San. Quella sera lei e Centaine sedettero sotto il cielo luminosissimo, e H'ani indicò alla ragazza la costellazione di Orione. « E il branco delle Zebre Celesti, bimba Nam... e guarda lassù il Cacciatore Incapace », indicò la stella Aldebaran, a mandato in cerca di cibo dalle Sette Mogli » e additò le Pleiadi con uno scatto del pollice. « Guarda dove ha tirato la freccia! E passata alta sopra le Zebre, ed è caduta ai piedi del Leone. » Sirio, la più brillante delle stelle fisse, sembrava avere davvero un carattere leonino. « E adesso il Cacciatore ha paura di andare a riprendersi la freccia, ha paura di tornare dalle Sette Mogli, e se ne sta lì seduto in eterno, tremando, il che è proprio da uomo, bimba Nam! » continuò H'ani prima di mettersi a sghignazzare, dando un gran colpo col pollice nelle costole sparute del marito, che si mise a bofonchiare. Dunque anche i San amavano le stelle, e il legame affettivo di Centaine con loro si rinsaldò. Indicò ai due vecchi la stella di Michael, e la sua, sopra il lontano sud. « Ma, bimba Nam! » protestò O'wa. « Come può essere tua quella stella? Le stelle sono di tutti e di nessuno, come l'ombra dell'acacia e l'acqua del pozzo e la terra che calpestiamo. Sono cose di tutti e di nessuno. Nessuno possiede l'Eland, ma tutti possono mangiarne il grasso se ne hanno bisogno. Nessuno possiede il bai, ma possiamo coglierlo, se ne lasciamo qualcuno per i bambini. Come puoi dire che quella stella è solamente tua? » Era un'espressione della filosofia che costituiva la tragedia di quel popolo. Non comprendevano la proprietà, e questo li aveva destinati a una spietata persecuzione, al massacro e alla schiavitù; oppure all'esilio nelle desolazioni del deserto, dove nessun altro popolo sapeva sopravvivere. Così i monotoni giorni dell'attesa passarono tra oziose discussioni e la routine della caccia e della raccolta, finché una sera entrambi i San si misero a guardare verso nord, in preda a uno stato di gioiosa eccitazione. Le loro faccine color dell'ambra e a forma di cuore si volsero verso il cielo boreale, azzurro intenso e limpido come non mai. A Centaine occorsero diversi minuti per capire: poi vide la nuvola. Bordava l'orizzonte settentrionale come il dito di una mano gigantesca, e guardandola cresceva, cresceva, appiattendosi come un dorso d'incudine, mentre il lontanissimo ruggito del tuono echeggiava come quello di un leone in caccia. Ben presto la nuvola giganteggiò nel cielo, arsa dai colori del tramonto e lampeggiante di guizzanti fulmini interiori. Quella notte O'wa danzò e fischiò e cantò le lodi dello spirito delle nubi, finché non cadde esausto a terra. Ma al mattino il tonante fronte nuvoloso era sparito. Tuttavia il cielo non era più di quell'impeccabile azzurro profondo. Molto in alto c'erano i fiocchi delle classiche pecorelle, che lo macchiavano qua e là. Anche l'aria sembrava cambiata. Era carica di elettricità statica che faceva prudere la pelle a Centaine. L'afa era pesante e languorosa, anche peggiore dell'incandescenza secca dei mezzodì precedenti. I cumuli temporaleschi sfilavano all'orizzonte settentrionale, slanciando le mostruose cupole gonfie nel cielo. Ogni giorno diventavano più alti e numerosi, mentre l'umidità aumentava e CeJntaine sentiva il bimbo pesarle nella pancia come un grosso macigno. Ogni giorno le nubi nere si ammassavano a nord come una legione di giganti, marciavano a sud
e si disperdevano stendendo una coltre di umidità insopportabile. « Ma quando piove? » sussurrava Centaine tutti i giorni, madida e anfanante. « Speriamo che piova! » Di notte O'wa cantava e danzava. « Spirito delle nuvole, guarda come la terra ti attende tremando al pari della femmina di eland che il maschio si accinge a montare. Scendi giù dal cielo, spirito delle nuvole che noi veneriamo, e riversa il tuo fluido seminale sulla moglie terra. Monta la tua innamorata, e dal tuo seme falle partorire nuova vita in abbondanza! » A questo punto, anche Centaine si univa ormai con la massima convinzione agli strilli di H'ani, e le due donne accompagnavano la danza di O'wa implorando acutamente la pioggia. Una mattina il sole mancò. Le nuvole si stendevano, solida massa grigia, da una parte all'altra dell'orizzonte. Basse fin dall'inizio, si abbassarono sempre più, e all'improvviso uno stupendo fulmine saettò dal loro ventre plumbeo e sterminato schiantandosi a terra con tanta violenza da farla tremare sotto i piedi. Una goccia isolata colpì Centaine in mezzo alla fronte: era pesante come una pietra. A quel tocco, la ragazza emise un gridolino e fece un passo indietro, sorpresa. Poi le nuvole incombenti si aprirono di colpo e la pioggia si riversò giù fitta e spessa come un volo di locuste. Ogni goccia, cadendo sulla superficie del lago asciutto, si trasformava in una pallina di fango, oppure colpendo i cespugli della riva li agitava come se vi fosse appena atterrato uno stormo di uccellini. La pioggia frustava la pelle di Centaine. Una goccia la colpì nell'occhio e per un momento l'accecò. La ragazza sbatté le palpebre per togliere l'acqua e scorse O'wa e H'ani saltellare giubilanti sul fondo del lago asciutto. Rise, vedendoli ballare nudi, gioiosamente, accompagnando con gridolini le sferzate dell'acqua sulla loro pelle ambrata. Anche Centaine si liberò dei propri stracci e, nuda come mamma l'aveva fatta, aprì le braccia e alzò il volto al cielo. La pioggia l'inondò. In un istante i capelli lunghi e scuri le si incollarono alla faccia e alle spalle: li spostò con la mano e aprì la bocca, spalancandola più che poteva. Era come star sotto una cascata. La pioggia le si riversava in bocca più in fretta di quanto potesse inghiottire. L'altra riva del lago asciutto era scomparsa dietro un velo azzurro d'acqua, e la superficie si era trasformata in una distesa di fango giallastro. La pioggia era così fredda che a Centaine venne la pelle d'oca, e i capezzoli scurirono e indurirono, ma rise di gioia e corse a ballare assieme ai San, mentre il tuono rimbombava come grandissimi macigni fatti rotolare in cielo. La terra sembrava dissolversi sotto le spesse cortine d'acqua argentea. Ormai il lago asciutto non era più tale, ci si sguazzava con l'acqua alle caviglie, e il fango molle filtrava tra le dita dei piedi. La pioggia dava al terzetto nuova vita, nuova forza, e ballarono e cantarono finché di colpo O'wa si interruppe e rizzò la testa ad ascoltare. Centaine non sentiva nient'altro che il tuono e lo scroscio della pioggia, ma O'wa lanciò un avvertimento. Corsero fino alla riva del lago e salirono scivolando nel fango e nell'acqua che ormai arrivava alle ginocchia. Dall'alto della riva Centaine udì il rumore che aveva allarmato O'wa, un mugghio lontano come di vento che urli tra i rami alti degli alberi. « Il fiume », disse O'wa, indicando tra la fittissima pioggia d argento. « Il fiume rivive. » Arrivò come una bestia infuriata, un mostruoso pitone giallo e guizzante che tornava a impadronirsi del suo letto sabbioso:
sibilava da una riva all'altra, travolgente, spaventoso, trascinando con sé alberi e animali affogati. Irruppe nella conca del lago con l'onda di piena che s'infrangeva possente su tutte le rive e, traboccando, lambiva i piedi dei tre minacciando di tra scinarli via. Stringendo al petto le loro poche cose, si trasferirono un po' più in alto, sostenendosi a vicenda con la mano libera. Le nuvole foriere di pioggia anticiparono la notte, che trascorsero abbracciati, tremando dal freddo, dato che era assolutamente impossibile accendere il fuoco. Per tutta la notte la pioggia cadde senza mai rallentare il suo ritmo. L'alba torpida e plumbea rivelò un paesaggio allucinante. C'era acqua dappertutto, un lago increspato dalle gocce che continuavano fittissime a cadere, con qua e là gli ombrelli piatti delle acacie che sporgevano come dorsi di balena, e qualche isoletta dove il terreno era più elevato, da cui l'acqua si riversava a torrenti. « Ma non finirà mai? » sussurrò Centaine. Batteva i denti incontrollabilmente per il freddo cane, che pareva aver raggiunto anche il bimbo che le cresceva nell'utero, visto che si era messo ad agitarsi e a scalciare. « Per favore, che finisca presto! » implorò. I San sopportavano il freddo con la stessa stoica pazienza che mostravano in tutte le altre avversità. Invece di diminuire, la pioggia sembrava aumentare sempre più in vigore, nascondendo la mesta terra inondata dietro una vitrea barriera Poi smise di colpo. Non vi fu preavviso, nessuna diminuzione né di ritmo né di intensità. Ora veniva giù la solita cascata torrenziale, e l'attimo successivo più niente. Il cielo di nuvole basse si spaccò e si slabbrò come la buccia di un frutto maturo, rivelando l'azzurro intensissimo e limpidissimo del cielo. Il sole prese a splendere sopra di loro con accecante intensità, stordendo ancora una volta Centaine coi contrasti improvvisi di quel continente selvaggio. Prima di mezzogiorno la terra assetata aveva assorbito tutta l'acqua caduta dal cielo. La piena sparl. Solo nella conca del lago, da riva a riva, restava un po' d'acqua baluginante, gialla come zolfo. Però la terra era pulita e vivida di colori. La polvere che aveva coperto tutti i cespugli e tutte le foglie d'acacia era stata lavata via e Centaine vide dei verdi che non aveva mai sospettato in quella terra bruna o color mantello del leone. La terra, ancora umida, era ricca di ocre, di varie tonalità di arancione, di rossi, e si sentiva dappertutto il canto allegro delle allodoline del deserto. Stesero al sole le loro poche cose, che in breve asciugarono fumando. O'wa non riusciva a trattenersi, e danzava, in estasi. « Gli spiriti delle nuvole ci hanno aperto la strada. Hanno riempito i pozzi dell'est. Preparati, H'ani, mio piccolo fiore del deserto, perché all'alba di domani ci incammineremo. » Durante il primissimo giorno di cammino entrarono in una terra completamente diversa, sì che Centaine stentava a credere che potesse trovarsi sul medesimo continente. Qui le antiche dune si erano compattate e consolidate in dolci colline che ora nutrivano un'abbondante vita vegetale. File e file di alberi di mopani e alti kiaat si alternavano, quasi impenetrabili, fin sulle creste delle antiche dune erose dall'aria e dall'acqua e rese meno affilate. Di tanto in tanto un monumentale baobab si alzava di parecchie decine di metri sopra gli altri alberi. Nelle vallate, prati d'erba dorata e acacie sparse, di quelle che nutrono le giraffe, davano al paesaggio l'aspetto di un parco. Anche qui era piovuto, e nei punti più bassi si era raccolta
l'acqua. La terra sembrava ronzare e brulicare di vita. Nei prati gialli comparivano sprazzi di verde tenero. Distese di fiori di campo, margherite, gigli, gladioli e cinquanta altre specie che Centaine non conosceva si schiudevano come sotto la bacchetta magica di una fata, deliziandola coi loro colori e la loro delicata bellezza, e facendola ancora una volta meravigliare della gran fertilità dell'Africa. Raccolse un po' di fiori e ne adornò se stessa e la vecchia H'ani, che gongolava come una sposina. « Oh, vorrei avere uno specchio per farti vedere quanto sei carina! » Centaine l'abbracciò. Anche dal cielo l'Africa riversava la sua generosa abbondanza. C'erano stormi di quelea, fitti come sciami d'api, e, nel sottobosco, pernici, quaglie, fagiani, beccaccini e francolini grassi come polli. Sui bordi delle pozze d'acqua stagnante gallinelle e anitre razzolavano con le cicogne e i fenicotteri. « Che bello », esultava Centaine. Il viaggio diventava ogni giorno più lieve e spensierato dopo la durezza delle aride pianure occidentali; e quando si accampavano potevano bere a volontà, ciò che ormai le sembrava un vero lusso, e banchettare cOo,n la seHvaggma, i frutti spontanei e le noccioline procurati da Una sera O'wa si arrampicò in alto sulla chioma di un monumentale baobab e affumicò un favo d'api che da tempo immemorabile (gliene aveva parlato il nonno come di una scoperta di suo nonno) nidificavano in una certa cavità. Scese con un favo traboccante di miele scuro e denso, che aveva il gusto dei fiori gialli d'acacia su cui bottinavano le api. Ogni giorno incontravano nuove specie d'animali. Antilopi della sabbia, nere come la notte e dotate di lunghe corna a scimitarra rivolte all'indietro fin quasi ai quarti posteriori, e bufali del Capo con testoni spaventosi provvisti di corna intagliate e ritorte, che puzzavano come branchi di bovini domestici « Sono venuti dal grande fiume », spiegò O'wa. « Seguono l'acqua, e quando tutto seccherà di nuovo torneranno indietro a nord. » Nella notte Centaine si svegliò a un rumore sconosciuto, infinitamente più spaventoso dell'ululato dello sciacallo nero e delle allucinanti risate e dei gemiti dei branchi di iene. Era un suono temporalesco che riempiva le tenebre, alzandosi in un impossibile crescendo e poi smorendo in una serie di profondi boati; Centaine usà di corsa dalla propria capannuccia e corse da H'ani. « Cos'era, vecchia nonna? E un verso che trasforma il sangue in acqua! » Centaine si accorse che stava tremando, e la vecchia l'abbracciò forte. « Anche l'uomo più coraggioso trema la prima volta che sente il ruggito del leone », la consolò « Ma non aver paura, bim ba Nam, O'wa ha fatto una magia per proteggerci. Il leone troverà un'altra preda. » Ma per tutto il resto della notte si strinsero vicino al fuoco, alimentandolo di sempre nuovi ceppi, sicché apparve chiaro a Centaine che H'ani credeva quanto lei all'efficacia della magia di O'wa. Il branco di leoni prese a girare attorno al campo, tenendosi appena fuori della luce del fuoco, cosi che Centaine vide solo qualche sporadico movimento tra i cespugli immersi nell'oscurità; al mattino, il loro spaventoso coro si allontanò con le belve che si spostavano più a est, e, quando O'wa le condusse a vedere le impronte da gattone che avevano lasciato, era addirittura garrulo per il sollievo. Poi, la mattina del nono giorno trascorso da quando avevano lasciato la conca del « gran posto bianco », stavano avvicinandosi a un altro pozzo in mezzo alla foresta di mopani al-
lorché davanti a loro si udi uno scoppio, simile a un colpo di cannone. Si irrigidirono tutt'e tre. « Che cosa c'è, H'ani? » Ma, con un gesto, la vecchia donna la fece tacere. Centaine udi altri schiocchi, come di sottobosco calpestato, e poi di colpo un'esplosione di suoni, squillanti come acuti di tromba. Subito O'wa saggiò il vento come Centaine gli aveva già visto fare all'inizio di ogni caccia, e poi cauto le condusse per un lungo giro nella foresta, Enché si fermò all'ombra di un verdissirno mopani, dove posò armi e bisaccia. « Vieni! » segnalò a Centaine e, rapido e agile come una scimmia, prese ad arrampicarsi sull'albero. Per nulla irnpacciata dal pancione, Centaine lo segui sulla pianta e da un'alta forcella si mise a guardare la valle erbosa sottostante nel cui fondo si trovava la pozza d'acqua a cui stavano dirigendosi. « Elefanti! » Centaine riconobbe immediatamente i bestioni. Stavano scendendo il pendio opposto della vallata, anch'essi diretti all'acqua, rapidi, con la loro andatura greve e trotterellante, scuotendo la testa, sventolandosi con le orecchie e facendo vibrare, per riflesso, la proboscide che già pregustava l'acqua dolce. C'erano vecchie regine dalle orecchie sbrindellate e le vertebre sporgenti sulla schiena, giovani maschi dalle zanne gialle, cuccioli ancora sdentati e scatenati alcuni dei quali, ancora poppanti, correvano per tener dietro alle nutrici; e, alla testa di tutti, avanzava maestoso il capobranco. Era alto più di tre metri alla spalla ed era grigio e grinzoso, con borse di pelle che pendevano alle ginocchia e tra i quarti posteriori. Aveva le orecchie spiegate come vele di una grossa goletta, e le sue zanne erano lunghe e grosse il doppio di quelle degli altri maschi di minor conto. Sembrava vecchio eppure senza età, smisurato e ispido, pieno di una grandezza e di un mistero che a Centaine parvero riassumere l'intima essenza di quella terra. Lothar De La Rey incrociò le tracce del branco di elefanti tre giorni dopo che avevano lasciato il fiume Cunene. Lui e i suoi battitori ovambo le studiarono con grandissima attenzione, spargendosi sul terreno pestato come cani da punta. Quando al termine dell'esame si riunirono tutti, Lothar fece un cenno al capo dei battitori. « Parla, Hendrick. » L'ovambo era alto come Lothar ma più largo di spalle. La sua pelle era scura e liscia come cioccolata calda. « Un bel branco », stimò Hendrick, « quaranta femmine molte col piccolo, e otto giovani maschi. » Intorno al capo, Hendrick aveva il turbante scuro da guerriero: era un uomo imponente, e l'ampio,petto era ornato da ghirlande di quelle perline con cui i mercanti europei inondavano l'Africa; ma indossava pantaloni da cavaliere e portava a tracolla una bandoliera di munizioni. « Il capobranco è vecchio: così vecchio che le sue impronte sono smussate, che non ce la fa più a masticare il cibo e i suoi escrementi sono duri, pieni di scorze e rametti. Le zampe anteriori lasciano impronte più profonde: procede piegato dal peso dell'avorio. E un animale da seguire », disse Hendrick, passandosi il fuale Mauser nella destra, e già pregustando la caccia. « Le tracce sono già state confuse dal vento », osservò Lothar, « dagli uccelli e dagli insetti. Saranno vecchie di tre giorni, ormai. » « Stanno pascolando », disse Hendrick, aprendo le braccia. « Avanzano sparsi, rallentati dai piccoli. Vanno piano. » « Dovremo mandare indietro i cavalli », insisté Lothar. « Non possiamo portarli nella zona della mosca tse-tse. Riusciamo a
prenderli lo stesso, a piedi? » Lothar si tolse il fazzoletto che portava al collo e si asciugò il viso. Rifletteva. Si era diretto a nord verso il fiume Cunene appena i suoi esploratori l'avevano informato che c'erano state delle buone piogge. Sapeva che la nuova vegetazione e le pozze d'acqua in superficie avrebbero attirato i branchi di qua dal fiume, fuori del territorio portoghese. « A piedi li raggiungiamo in due giorni », promise Hendrick, ma, siccome tutti sapevano che era un inveterato ottimista, Lothar si mise a sfotterlo. « E tutte le sere, al campo, troviamo dieci belle ragazze herero a testa, con un orcio di birra ad aspettarci. » Hendrick scoppiò a ridere, gettando indietro la testa: una risata di gola, rauca. « Facciamo tre giorni, allora », concesse ridacchiando, « e magari una sola ragazza herero, ma molto bella e accondiscendente. » Lothar valutò le probabilità ancora un momento. C'era un bel maschio, e anche i giovani avrebbero avuto buone zanne: quanto alle femmine, potevano fruttare dieci chili d'avorio a testa anche loro, e l'avorio era pagato quarantacinque sterline circa al chilo. Aveva con sé dodici dei SUOi uomini migliori, e, sebbene due dovessero tornare indietro coi cavalli, restavano abbastanza tiratori da sterminare il branco. Se riuscivano a raggiungerlo, avevano ottime probabilità di impadronirsi di tutto l'avorio. Lothar De La Rey era senza il becco d'un quattrino. Aveva dilapidato il patrimonio familiare, era stato dichiarato traditore e fuorilegge per aver continuato a combattere dopo la resa del colonnello Franke, e aveva una taglia sulla testa. Forse questa era la sua ultimissima possibilità di rimpinguare le sue finanze. Conosceva gli inglesi abbastanza bene da indovinare che, finita la guerra, si sarebbero messi subito ad amministrare i territori conquistati. Ben presto, dunque, sarebbero arrivati funzionari e commissari di distretto perfino nelle zone più remote, a far rispettare la legge fino in fondo: e specialmente quella sul contrabbando dell'avorio. I giorni del libero bracconaggio erano probabilmente sul punto di finire per sempre. Questa poteva anche essere la sua ultima caccia all'elefante. « Manda indietro i cavalli! » ordinò. « Seguiamo le tracce! » Lothar indossava indumenti leggeri da caccia e i suoi uomini erano tutti temprati e induriti da lunghi anni di guerra. Si misero a correre sulle tracce del branco di elefanti, alternandosi alla testa come corridori ciclisti in fuga. Nel tardo pomeriggio entrarono nella zona delle mosche tse-tse. Quelle terribili bestiole sciamarono fuori dall'ombra della foresta a tormentarli, posandosi leggere sulle schiene e conficcando profondamente nella carne le proboscidi succhiasangue. Senza fermarsi, gli uomini strappavano manciate di foglie verdi dagli alberi e si scacciavano a vicenda le mosche dalla schiena. Prima del tramonto avevano guadagnato due giornate sul branco, e le tracce erano cosi fresche che il formicaleone non aveva ancora avuto il tempo di costruire le sue trappole a imbuto nell incavo delle impronte Li fermò l'oscurità. Si sdraiarono sulla dura terra e dormirono sodo, come una muta di cani, ma quando la luna spuntò sopra gli alberi di mopani Lothar li fece alzare a calci. Il chiar di luna infatti li favoriva. Le impronte si distinguevano bene, e i tratti di mopani scortecciati dagli elefanti brillavano come specchi guidandoli nella notte. « Al sorgere del sole allungarono il passo. Un'ora dopo l'alba uscirono di colpo dalla zona della mosca tse-tse. Il territorio di questi piccoli assassini alati era netta-
mente delimitato, e il confine si poteva varcare in un centinaio di passi, dal sanguinoso e mulinante assalto alla tranquillità più totale. Unico ricordo della prova, restavano i ponfi pruriginosi alla base della nuca. Due ore prima di mezzogiorno raggiunsero una buona pozza d acqua in una valle della foresta di mopani. Ormai erano a poche ore di distanza dal branco. « Bevete in fretta », ordinò Lothar, guadando l'acqua ancora color caffellatte per via del recente bagno dei bestioni. Riempi il cappello e si versò l'acqua in testa. I riccioli d'oro rossastro gli Si incollarono alla fronte e sospirò di piacere. L'acqua era acre e amara dei sali dell'urina d'elefante, i pachidermi vuotano sempre la vescica all'impatto con l'acqua fredda, ma i cacciatori bevvero e riempirono le borracce. « Presto », li incitava Lothar, a voce bassa, dato che la macchia propaga i suoni e il branco era vicino. « Capo! » lo chiamò Hendrick con urgenza, e Lothar andò subito da lUi, sulla riva della pozza. « Cosa c'è? » In silenzio il grande ovambo gli indicò la traccia perfettamente impressa sulla creta gialla. Era sopra un'impronta di elefante. In fondo vi si raccoglieva qualche goccia d'acqua. « Uomini! » esclamò Lothar. « Sono passati dopo gli elefanti. » Hendrick lo corresse con livore. « Non sono uomini, sono San. I nanetti gialli che ammazzano il bestiame. » Gli ovambo sono un popolo di allevatori, che amano profondamente il bestiame, loro sola ricchezza. « I cani del deserto che tagliano le mammelle alle nostre vacche più belle », la tradizionale vendetta dei San per le atrocità commesse contro di loro, « sono di poco avanti a noi. Potremmo prenderli in meno di un'ora. » « Il rumore degli spari farebbe scappare il branco. » Lothar condivideva l'odio del suo soprastante nei confronti dei boscimani. Anche un suo prozio era morto durante una delle grandi cacce al boscimano di cinquant'anni prima: una piccola freccia d'osso aveva trovato la strada dietro la pelle di vacca in cui s'era avvolto a mo' di armatura, e la storia di famiglia aveva registrato la sua morte in tutti i dettagli più penosi. Perfino gli inglesi, con la loro morbosa sensibilità nei riguardi delle razze nere, si erano resi conto che non c'era posto per i San nel mondo del ventesimo secolo. Gli ordini di Cecil Rhodes alla polizia britannica sudafricana contenevano istruzioni precise di eliminare in segreto, con i cani randagi, tutti i San incontrati durante i pattugliamenti. Le due specie, evidentemente, erano considerate una sola. Lothar era tentato, incerto tra il piacevole dovere pubblico di seguire e annientare il gruppetto di San e il suo personale interesse di braccare gli elefanti per l'avorio. « L'avorio », decise infine. « L'avorio è più importante che eliminare qualche babbuino giallo. » « Capo... guarda qua! » Hendrick era girato intorno all'orlo della pozza e si era fermato di colpo. Il suo tono era tale da richiamare immediatamente Lothar accanto a lui. I due si accucciarono per meglio osservare quest'altra impronta. « Non è un San! » sussurrò Hendrick. « Troppo grossa. » « Ma è una donna », replicò Lothar. Il piede stretto e la forma piccola e aggraziata dell'alluce erano segni inconfondibili. « Una donna giovane. » L'alluce era penetrato nel fango più profondamente del calcagno, il che indicava un passo molleggiato, da persona giovane. « Non è possibile! » Hendrick si accucciò ancora di più e, senza toccare l'impronta, considerò più da vicino l'arco formato dalla pianta del piede. Lothar si tirò indietro scuotendo
la testa dai riccioli bagnati. I neri d'Africa, che vanno a piedi nudi fin dal primissimo passo della loro vita, lasciano un'impronta caratteristicamente piatta. « E una che portava scarpe », disse Hendrick pian piano. « Una donna bianca? Non è possibile! » proruppa Lothar. « Non qui, assieme a dei selvaggi San! Per l'amor di Dio, siamo a centinaia di chilometri dalla civiltàl » « E proprio così, è una ragazza bianca, prigioniera dei San », confermò Hendrick, e Lothar si accigliò. Le tradizioni di cavalleria nei confronti delle donne della sua razza erano parte integrante dell'educazione di Lothar, erano anzi uno dei pilastri della sua religione protestante. Essendo soldato e cacciatore, era il suo mestiere leggere le impronte sul terreno: e sapeva farlo così bene che, guardandole, era come se si vedesse davanti la bestia o l'uomo, o la donna, che le aveva lasciate. Adesso, accucciato davanti a quest'orma nella creta, gli si formò un'immagine nella mente. Vide una ragazza dalle ossa sottili e le gambe lunghe, ben proporzionata ma forte e fiera, col passo elastico e molleggiato sulle punte. Era, sicuramente, anche una donna coraggiosa e decisa. In quelle desolazioni non c'era posto per i deboli, e questa ragazza, con ogni evidenza, vi prosperava. Mentre l'immagine si formava in lui, Lothar divenne acutamente cosciente di un gran vuoto nell'anima sua. « Dobbiamo seguire questa donna », disse piano, « e liberarla dai San. » Hendrick guardò il cielo e, dalla zucca che conteneva il tabacco da fiuto, si versò un po' di polvere sul palmo rosa della mano. « Il vento è contrario », sentenziò, indicando con la mano la direzione in cui si allontanavano le impronte. « Si tengono sottovento e non li prenderemo mai. » « Trovi sempre cento buone ragioni per non fare quello che non hai voglia di fare », disse Lothar, riunendo i capelli lunghi e tornando a legarli con il laccio sulla nuca. « Non sono animali, quelli che seguiamo, ma San. Da che parte tira il vento non ha nessuna importanza. » « I San sono animali », incalzò Hendrick, tappandosi una delle larghe narici col pollice e aspirando una presa di tabacco rossastro con l'altra. « Con questo vento ci fiuteranno a tre chilometri di distanza, molto prima che riusciamo ad avvistarli. » Si spolverò le mani e il labbro superiore. « Bravo, bravo », disse Lothar con un ghigno. « Stavolta hai superato te stesso, anche se sapevo già che sei il più gran ballista dell'Ovamboland. » Dopo di che, bruscamente: « Basta chiacchiere. Seguiamo la ragazza bianca ». Dall'alto dell'albero di mopani, a cavallo della diramazione, Centaine assisteva con crescente divertimento all'abbeverata degli elefanti alla pozza. Una volta superata la trepidazione per la loro grandezza e bruttezza monumentale, si accorse in fretta del legame di affetto che sembrava unire tutti i membri del branco. A questo punto cominciarono a sembrarle quasi umani. Il patriarca era un tipo capriccioso, e si vedeva che le giunture artritiche lo facevano tribolare. Tutti lo trattavano con rispetto, e gli riservavano un lato della pozza. Lui beveva rumorosamente, spruzzandosi l'acqua nella strozza. Poi si accucciava nel fango, grugnendo di piacere e docciandosi il testone polveroso. L'acqua giallastra gli scivolava sulle guance e sugli occhi, che socchiudeva estaticamente. Dall'altra parte della pozza i giovani maschi e le femmine bevevano e si bagnavano, schizzando acqua dalle proboscidi come pompieri, innaffiandosi il petto e i fianchi a vicenda, alzan-
do la testa e spruzzandosi acqua in gola con la proboscide arricciolata, in un tripudio di rumori idraulici. Una volta soddisfatti, se ne stavano felici con le proboscidi intrecciate, assistendo raggianti alle evoluzioni dei piccoli intorno alle zampe e sotto la pancia degli adulti. Uno dei cuccioli più giovani, non molto più grande di un maiale e altrettanto grasso, cercò d'infilarsi sotto il tronco di un albero caduto nella pozza e si impelagò nel fango. Preso dal panico, emise uno strillo di allarme e di terrore. Tutti gli elefanti del branco reagirono istintivamente, cambiando subito umore, passando dalla beata indolenza all'ira più terribile. Si precipitarono tutti nella pozza, pestando l'acqua e inferendo a essa gran colpi di zanna. « Credono che un coccodrillo abbia afferrato il piccolo », le spiegò O'wa a bassa voce. « Povero coccodrillo! » sussurrò in risposta Centaine La madre recuperò il piccolo da sotto il tronco, prendendolo per le zampe posteriori con la proboscide, e quello schizzò come un fulmine alla tetta, poppando con furia e sollievo quasi isterico. Il branco irato si calmò, mostrando però anche, con tutta evidenza, la delusione di non aver potuto fare a pezzi nessun coccodrillo. Quando il vecchio maschio si rialzò e, tutto luccicante di fango, si avviò di nuovo nella foresta, le madri radunarono in fretta la prole, sottraendola ai piaceri del bagno col mulinare delle proboscidi, e obbedientemente tutti si incolonnarono dietro il patriarca. Molto tempo dopo la loro scomparsa tra gli alberi, Centaine continuò a sentire il rumore dei rami spezzati e il borbottare delle enormi viscere piene d'acqua, mentre il branco si dirigeva, pascolando, verso sud. Scesero dall'albero di mopani sorridendo di piacere. « Che birichini, i piccoli », disse Centaine a H'ani. « Sembrano bambini. » « Noi li chiamiamo 'g,ente grande' », concordò H'ani, « perché sono saggi e affettuosi come i San. » Scesero in riva alla pozza e Centaine considerò sbalordita le montagne di sterco giallastro che gli elefanti avevano disseminato in giro. Già i francolini saltabeccavano nei mallopponi fumanti in cerca di bacche e semi indigeriti. « Quanto bel letame per l'orto di Anna! » Si riscosse. « Non devo pensare al passato. » Si chinò a lavarsi la faccia, perché anche quell'acqua fangosa dava sollievo alla calura montante, ma all'improvviso O'wa si irrigidì e drizzò la testa, girandola verso nord, la direzione da cui proveniva il branco di elefanti. « Che cosa c'è, vecchio nonno? » H'ani aveva colto subito il mutamento d'umore. Per un momento O'wa non rispose, ma aveva lo sguardo preoccupato e le labbra gli tremavano nervosamente. « C'è qualcosa, qualcosa nel vento... un rumore, un odore, non sono sicuro », sussurrò. Poi, a un tratto: « C'è pericolo. Vicino. Dobbiamo andar via ». H'ani saltò in piedi all'istante e raccolse le uova di struzzo che aveva appena riempito, mettendole nella bisaccia. Non discuteva mai le intuizioni di O'wa, che già molte volte avevano salvato la vita a entrambi. « Bimba Nam », disse a voce bassa ma con urgenza, « sbrigati. » « H'ani... » Centaine si girò verso di lei, con disappunto. « Fa un caldo da morire, vorrei... » « C'è pericolo, molto pericolo. » I due San scattarono verso il riparo della foresta come beccaccini impauriti. Centaine capì che nel giro di pochi secondi sarebbe stata piantata in asso, e
poiché la solitudine era ancora il suo maggior terrore, schizzò fuori della pozza spruzzando acqua dappertutto, afferrò la bisaccia e il bastone e corse dietro ai due boscimani. O'wa filava tra gli alberi di mopani, descrivendo un semicerchio, fin quando il vento non gli soffiò sulla nuca. Come i bufali e gli elefanti, i San scappavano sempre sottovento quando erano impauriti da qualcosa, o qualcuno, perché così la brezza avrebbe portato sempre l'usta dell'inseguitore. O'wa si fermò ad aspettare Centaine. « Che cosa c'è, O'wa? » gli chiese ansimando la ragazza. « Pericolo. Pericolo mortale. » L'agitazione dei due vecchietti era evidente e contagiosa. Centaine aveva già imparato a non far tante domande in situazioni del genere. « Cosa devo fare? » « Cancella le impronte come ti avevo fatto vedere », le ordinò O'wa, e Centaine ricordò la paziente lezione che le aveva dato un giorno in materia, insegnandole a cancellare orme e tracce di ogni genere in modo da sfuggire a qualunque inseguitore. Era questa una delle prove d'abilità da cui dipendeva la sopravvivenza stessa dei San. « Prima H'ani, poi tu », ordinò O'wa, ormai in tono di comando. « Seguila e fa' come fa lei. Io verrò dietro e cancellerò i vostri errori. » La vecchia era veloce e agile come un francolino bruno. Filava per la foresta evitando i sentieri degli animali, le radure e i tratti di terreno nudo dove le loro orme si sarebbero stampate nitidamente, scegliendo sempre la via più difficile, infilandosi tra i rovi dove un inseguitore meno si sarebbe aspettato che passasse, salendo sul tronco degli alberi caduti e seguendolo il più possibile, cambiando continuamente passo, saltando di lato su terreno più duro, e insomma applicando tutti i trucchi che aveva imparato in una vita lunga e strappata coi denti ad avversità d ogni genere. Centaine la imitava con minor agilità, lasciando qua e là qualche impronta confusa, pestando qualche stelo e qualche foglia. O'wa la seguiva da vicino rimediando agli errori con una ramazza improvvisata: scompigliava l'erba e il terriccio, si chinava a raddrizzare gli steli calpestati che, come frecce indicatrici, segnalavano la direzione della loro fuga. Dalla retroguardia, O'wa indirizzava a H'ani fischi e richiami da uccello, e lei ubbidiva subito piegando a destra o a sinistra, accelerando, rallentando o fermandosi per dare modo al marito di mettersi in ascolto e annusare la brezza per coglier l'usta degli inseguitori. Poi, al suo segnale, ripartiva di buon passo. All improvviso si trovarono davanti un tratto di terreno scoperto, largo quasi un chilometro, punteggiato di acacie a ombrello. Al di là si alzavano basse colline, fitte di arbusti e di ebani, che costituivano la meta di O'wa. Egli sapeva infatti che le colline erano di terreno calcareo compatto quasi come roccia, dove nessun essere umano sarebbe mai riuscito a stargli dietro. Se riuscivano a raggiungerle erano in salvo, ma dovevano superare il tratto spoglio, e se li avessero colti proprio lì sarebbe stata la fine, soprattutto se gli inseguitori erano armati-del fumo che uccide da lontano. Perse qualche secondo prezioso a fiutare la brezza. Era difficilissimo giudicare la distanza degli inseguitori dall'usta sottile che inquinava la brezza, un misto di sapone di Marsiglia e tabacco, di indumenti sporchi e del grasso animale con cui gli ovambo si spalmano il corpo, ma capì che dovevano rischiare l'attraversamento della radura Infatti con tutta la buona volontà non poteva cancellare ogni traccia lasciata dalla bimba Nam sul terreno sabbioso e molle. I suoi sforzi potevano al massimo rallentare gli inseguitori, ma
sapeva che l'abilità degli ovambo a seguir tracce nella foresta era quasi pari alla sua. Soltanto sulla collina calcarea poteva essere sicuro di seminarli. Fece il fischio dell'averla dal petto rosso e H'ani, ubbidiente, si inoltrò nella radura, trotterellando tra l'erba bassa e giallastra. « Corri, uccellino », le mormorò O'wa. « Se ci prendono allo scoperto, siamo tutti morti. » « Ci hanno fiutato », disse Hendrick guardando Lothar. « Vedi? Si sono messi a confondere le tracce. » Infatti al margine della foresta le prede sembravano essersi involate come uccelli. Ogni traccia era sparita. Hendrick fece un brusco segnale ai cacciatori ovambo che in fretta si sparsero sul terreno. Cominciarono ad avanzare formando un largo semicerchio. Un uomo all'ala destra fece un fischio e, sventolando la mano, li guidò in una nuova direzione. « Hanno piegato sottovento », mormorò Hendrick a Lothar. « Dovevo immaginarlo. » Gli inseguitori si avviarono dietro la nuova traccia, subito confermata con un fischio e un segnale manuale dall'uomo all'estrema sinistra. Accelerarono l'andatura, assumendo una specie di trotto. Proprio davanti agli occhi Lothar notò una piccola differenza di colore sul terreno apparentemente intatto, un trattino di sabbia più chiara, e si chinò a esaminarlo. Era quanto restava di un'orma poi sapientemente cancellata con delle frasche. Lothar fischiò e indicò la nuova direzione. « Adesso ci credi che i San hanno un fiuto da elefanti? » gli chiese Hendrick, affiancandoglisi. « Credo solo a quello che vedo », rispose Lothar. « Quando vedrò un boscimavo annusare il terreno ci crederò. » Hendrick ridacchiò, ma il suo sguardo era serio e freddo. « Guarda che avranno le frecce », disse. « Non lasciateli avvicinare », rispose Lothar. « Sparate a vista, ma attenti alla donna bianca. Ucciderò chiunque le faccia del male. Passa parola agli altri. » Gli ordini di Lothar furono trasmessi in un sussurro per tutta la fila. « Ammazzate i San, ma attenzione a non far male alla donna bianca. » Due volte persero le tracce e dovettero tornare all'ultimo segno scoperto e cercare tutto intorno. A ogni controllo i San guadagnavano tempo e terreno, e Lothar fremeva. « Ci stanno seminando », gridò a Hendrick. « Io corro avanti in questa direzione, voi intanto continuate a cercare qua attorno. » « Attento! » gli gridò dietro Hendrick. « Potrebbero ten derti un agguato. Occhio alle frecce. » Lothar ignorò l'avvertimento e corse via, nella foresta di mopani, senza più seguire le tracce ma tentando di azzeccare la direzione a caso e piombare sui boscimani di sorpresa, costringendoli magari ad abbandonare la prigioniera. Non si curò dei rovi che gli strappavano i vestiti. Curvo sotto i rami più bassi dei mopani, allontanava a calci i ciocchi caduti che si trovava tra i piedi e procedeva alla massima velocità possibile. A un tratto sbucò dalla foresta in una radura e si raddrizzò ansimando, col sudore che gli ruscellava negli occhi e intrideva la camicia tra le scapole. Dall'altra parte della radura, sotto la bassa linea di colline boscose, distinse un movimento. Macchioline scure sull'erba giallastra che ondeggiava nel vento. Sali sulla prima biforcazione dell'albero più vicino per ottenere una visione migliore. Ansimando follemente, tirò fuori dalla borsa da caccia il cannocchiale d'ottone e lo allungò al massimo. Gli tremavano le mani, così fece fatica a metterlo a fuoco, ma poi ci riuscì e perlustrò l'altra estremità della radura.
Nel campo rotondo della lente apparvero tre figure umane. Erano in fila indiana, e si stavano allontanando da lui per la via più breve. Erano quasi arrivate all'inizio degli alberi. Sopra l'erba si distinguevano solo le spalle e la testa: una era più alta delle due. Correvano. Poté guardarle soltanto per pochi secondi prima che raggiungessero il limitare della foresta. Due vi scomparvero immediatamente, il terzo e più alto individuo inciampò su un ciocco e si girò a guardare indietro la radura, in direzione di Lothar. Era una ragazza. I suoi capelli neri e lunghi erano grossolanamente scriminati e le ricadevano sulle spalle. Col cannocchiale Lothar poté studiarne l'espressione, impaurita ma fiera. Le linee di mento e sopracciglia erano aristocratiche, la bocca piena e decisa, gli occhi scuri orgogliosi e lucenti e la pelle molto ambrata, sì che per un istante pensò che la ragazza fosse di sangue misto. Mentre guardava, la ragazza passò la bisaccia da una spalla all'altra e così facendo gli stracci che le coprivano il busto si aprirono per un momento. Lothar vide un lampo di pelle bianchissima, non toccata dal sole: la forma di un bel seno giovane, ben fatto e dalle punte rosa. Gli si piegarono le ginocchia, e non per la lunga corsa. Per un attimo gli mancò il fiato e, quando ansimando riusci di nuovo a respirare, gli rimbombò nelle orecchie. La ragazza distolse la testa dalla sua direzione, mostrandogli il profilo, e in quell'istante Lothar si convinse che non aveva mai visto donna più bella. La ragazza gli voltò le spalle e leggiadra saltò fuori dal cerchio della lente e sparì. I rami al limitare della foresta tremarono per qualche secondo dopo la sua scomparsa. Lothar si sentiva come un cieco dalla nascita che per un breve istante abbia conosciuto il bene della vista, solo per essere ripiombato immediatamente nella tenebra. Guardò imbambolato in direzione della ragazza ormai invisibile, con un senso di privazione così spaventoso da non potersi muovere per parecchi secondi: poi saltò giù dall'albero, molleggiandosi sulle ginocchia ruzzolò per terra e si rialzò dopo una capriola. Fece un fischio e si senti subito rispondere da Hendrick, molto più indietro, tra i mopani, ma non rimase ad aspettare i suoi uomini. Attraversò la radura a tutta velocità, ma ugualmente gli sembrava di avere i piedi di piombo. Raggiunse il posto dove la ragazza si era fermata a guardare indietro e trovò il ceppo in cui era inciampata. Vicino, nel terreno molle, si stampava l'orma del suo piede. Più avanti, però, cominciava il calcare duro delle colline e le orme non si vedevano più. Il terreno era come marmo e Lothar sapeva benissimo che non poteva più seguire il terzetto di fuggitivi, ma sali ugualmente in vetta alla collina, sperando di poter dare un'altra occhiata alla ragazza. La foresta lo inghiotti, e dai rami più alti di un baobab Lothar si mise a scrutare il mare grigiastro e proibitivo che si stendeva a perdita d'occhio. Scese dall'albero e tornò sui propri passi. « Al margine della radura si fermò ad aspettare i suoi uomini. In breve lo rag giunsero. « Li abbiamo bell'e persi sul terreno duro », disse Hendrick. « Avanti, avanti, dobbiamo scovarli », ordinò Lothar. « Ho già visto, non ci sono tracce. » « Non possiamo rinunciare. Troveremo bene il modo... Non possiamo lasciarli andare. » a Tu li hai visti », disse piano Hendrick, osservando il viso del padrone. « si. » « Era una ragazza bianca », insisté Hendrick. « Hai visto la
ragazza, vero? » « Non si può lasciarla qui, in questo deserto », continuò Lothar, distogliendo gli occhi. Non voleva che Hendrick scorgesse tutta la profondità del suo vuoto interiore. « Bisogna trovarla. » « Ci riproveremo », concordò Hendrick, e poi, con un ghigno rivelatore: « Era bella, questa ragazza? » « Si », sussurrò Lothar, sempre senza guardarlo. « Era bella. » Si riscosse, come risvegliandosi da un sogno, e il profilo della mascella gli si induri. « Spedisci gli uomini su per la collina », ordinò. Si misero in càccia come una muta di cani, ispezionando ogni centimetro della dura roccia gialla, chinandosi l'uno sull'altro e muovendo in fila, lentissimamente: con tutto ciò riuscirono a trovare solo un'altra traccia del passaggio dei San e della ragazza. Una ciocca di capelli era rimasta impigliata tra gli arbusti, all'altezza delle spalle di Lothar, là dove la ragazza si era chinata per passare seguendo i due piccoli San. Erano capelli duri e ricciuti, lunghi come il suo avambraccio, e al sole risplendevano come seta nera. Lothar se l'avvolse con cura intomo al dito, e poi, mentre i suoi non lo guardavano, apri il medaglione che portava al collo appeso a una catenina d'oro. Dentro c'era un ritratto in miniatura di sua madre. Ci mise sopra la ciocca e richiuse il pendaglio. Lothar li fece continuare a cercare finché non fu buio, e al mattino, appena vi fu luce sufficiente, ripresero la battuta. Li divise in due squadre, Hendrick a capo di una lungo il versante orientale della catena di colline, e Lothar a capo dell'altra dalla parte opposta, dove il calcare digradava fino a confondersi con le sabbie del Kalahari, cercando di trovare il punto in cui gli inseguiti erano scesi dalle alture. Quattro giorni dopo, non avevano ancora trovato alcuna traccia, e due degli ovambo avevano disertato. Se l'erano squagliata durante la notte, portandosi dietro i fucili. « Cosi se ne andranno tutti », l'avverti tranquillamente Hendrick. « Dicono che è una follia, non riescono a capire perché ti ostini. Già abbiamo perso il branco di elefanti, e non c'è più alcun profitto in quest'affare. Abbiamo perso anche k tracce dei San e della ragazza: chissà dove saranno, ormai. Non li troveremo più. » Hendrick aveva visto giusto, era diventata un'ossessione. Una sola fuggevole occhiata a quel volto di donna l'aveva fatto impazzire. Lothar sospirò, e lentamente volse le spalle alla catena di colline dove la caccia si era arrestata. « Molto bene. » Alzò la voce in modo che tutti gli uomini lo sentissero. « Interrompiamo le ricerche. Non ci sono p.ù tracce da seguire. Torniamo indietro. » L'effetto sul morale di quei guerrieri abbacchiati fu istantaneo. Tutti gli occhi ricominciarono a brillare di vita. Lothar rimase sulla sommità della collina, mentre gli altri cominciavano lieti la discesa. Guardò la foresta che si stendeva a levante, verso il misterioso interno dove ben pochi uomini bianchi si erano mai avventurati, giocherellando col pendaglio. « Dove sei andata? Davvero laggiù, nel cuore del Kalahari? Perché non mi hai aspettato, perché sei scappata via? » Non c'erano risposte. Infilò nuovamente il pendaglio nel colletto della camicia. « Se mai incrocerò di nuovo il tuo cammino, non perderò le tue tracce così facilmente, bella mia. La prossima volta ti seguirò fino in capo al mondo », sussurrò, e prese anche lui a discendere la collina. O'wa svoltò e segùì la cresta delle colline verso sud, evitando sempre di profilarsi contro il cielo, e costringendo le donne
a correre più che potevano sul terreno duro. Non consentiva loro di riposare, benché Centaine ormai cominciasse a essere stanchissima e non facesse che implorarlo di fermarsi un po'. Solo a metà del pomeriggio permise loro di posare le bisacce e sdraiarsi a terra mentre lui scendeva a cercare un punto dove il calcare delle colline procedeva in piano tra le sabbie del deserto per un tratto che consentisse loro di addentrarvisi abbastanza da non essere più rintracciabili. A mezza costa si fermò a fiutare la brezza. Distinguendovi un odore di putrefazione, si mise a cercare nei pressi e trovò la carcassa di un vecchio maschio di zebra. Dalle tracce ricostrui la sua fine, per mano, se così si può dire, di un branco di leonesse che l'avevano ghermito al di là della cresta e poi trascinato e divorato in quel punto. Era successo diverse settimane prima: restavano pochi brandelli secchi di carne e di pelle, e le ossa erano sparse tra le rocce. O'wa cercò in fretta e ritrovò tutti e quattro gli zoccoli della bestia. La iena non era ancora giunta a sgranocchiarli e polverizzarli. Col coltello il vecchio San liberò lo zoccolo vero e proprio dal metatarso e corse indietro dalle donne. Le condusse fino all orlo del terreno soffice e si inginocchiò davanti a Centaine. « Porterò via prima la bimba Nam, poi tornerò a prenderti », disse a H'ani, mentre legava gli zoccoli di zebra ai piedi di Centaine con fibre di sansevieria. « Bisogna sbrigarsi, vecchio nonno, potrebbero essere vicinissimi », disse H'ani, fiutando la brezza ansiosamente, con la testa ritta a sentire il minimo rumore della foresta sulla collina. « Chi sono? » Centaine non solo aveva ripreso fiato, ma anche giudizio e curiosità. « Chi ci insegue? Non ho visto né sentito nessuno. Sono gente come me, O'wa? E la mia gente? » In fretta si intromise H'ani, prima che O'wa potesse rispondere. « Sono uomini neri. Grandi uomini neri del nord, non la tua gente. » Benché sia lei sia O'wa avessero visto l'uomo bianco dalla cresta della collina, quando si era fermato ad aspettare gli altri, si erano accordati in due parole di tenere con loro la bimba Nam. « Sei sicura, H'ani? » Centaine vacillava sugli zoccoli di zebra come una ragazzina che porti per la prima volta i tacchi alti. « Non erano chiari di pelle come me? » La tremenda possibilità di star fuggendo dai suoi salvatori le era venuta in mente all'improvviso. « No! No! » rispose H'ani agitatissima, smaniando. Il bambino stava per nascere... e assistere alla sua venuta al mondo era la sola cosa che le interessasse nella vita. « Non sono di pelle chiara come te. » Pensò agli esseri più spaventosi che annovera la mitologia dei San. « Sono grandi giganti neri che mangiano carne umana. » « Cannibali! » Centaine si ritrasse atterrita. « Sì! Sì! i! per quello che ci seguono. Ti sventreranno, prenderanno il bambino e... » « Andiamo, O'wa! » ansimò Centaine. « Presto! Presto! » O'wa, con l'altro paio di zoccoli ai piedi, guidò Centaine lontano dalle colline, camminando dietro di lei in maniera da dar l'idea di una zebra che, abbandonato il terreno duro, vagabondasse per la foresta. A un paio di chilometri dalle colline nascose Centaine in una macchia di rovi, le tolse gli zoccoli di zebra dai piedi, rovesciò quelli che calzava lui e, calPestando le sue stesse orme di poco prima, tornò da H'ani. I due, poi, raggiunsero la macchia di rovi seguendo la stessa tecnica. Qui si liberarono delle strane calzature e si avviarono immediatamente tutti e tre verso est.
O'wa le tenne in movimento per tutta la notte, e all'alba, mentre le donne dormivano esauste, tornò sui propri passi e andò a mettersi di guardia alla macchia di rovi, per sincerarsi che gli inseguitori fossero caduti davvero nel tranello della zebra. Benché nulla gli facesse pensare il contrario, per altri tre giorni e tre notti ordinò marce forzate, senza far fuochi e continuando a usare tutti gli accorgimenti che gli suggeriva il terreno per rendere difficile un eventuale inseguimento. La terza notte si sentì abbastanza sicuro da dire alle donne di accendere il fuoco. E alla sua luce tremolante danzò con grata frenesia e cantò le lodi di numerosi spiriti, tra cui Mantis ed Eland: perché, come spiegò con gran serietà a Centaine, non si sapeva con certezza chi li aveva aiutati a fuggire, chi aveva indirizzato il vento in maniera da avvertirli dell'arrivo dei guerrieri, e chi poi gli aveva fatto trovare così tempestivamente la carogna della zebra. « E dunque necessario ringraziarli tutti. » Danzò fino al tramonto della luna, poi dormì fino all'alba. Quindi ripresero il solito ritmo di marcia tranquillo, fermandosi perfino a caccia, il primo giorno, quando O'wa trovò una colonia di lepri salterelle. « E l'ultima volta che possiamo cacciare, gli spiriti ci favoriscono ancora. Nessun cacciatore San può uccidere un essere vivente a meno di cinque giorni di marcia dal Posto di Tutta la Vita », spiegò a Centaine. Poi raccolse qualche ramo particolarmente lungo e flessibile dai cespugli di grewia, li scorticò e li annodò l'uno all'altro fino a ottenere una canna lunga e flessibile di una decina di metri. Nell'ultimo tratto lasciò un ramoscello laterale che si dipartiva a forcella dal principale, formando un angolo acuto, come una specie di rozzo amo da pesca: ne aguzzò la punta e l'indurl sul fuoco. Poi esplorò lungamente l'ingresso delle tane dei leprotti prima di scegliere quello che faceva al caso suo. Mentre la donna si inginocchiava al suo fianco, introdusse nella tana la forcella e, operando come uno spazzacamino, la spinse pian piano sempre più giù, introducendola abilmente in tutte le curve e i gomiti del cunicolo finché quasi tutta la lunghezza della canna non fu sottoterra. All'improvviso, l'attrezzo si mise a vibrargli forte in mano, e immediatamente O'wa lo ritirò di scatto come fa il pescatore quando il pesce abbocca. « Adesso sta cercando di allontanare la canna con le zampe posteriori », spiegò O'wa, spingendo questa ancora più avanti nel buco, cercando di indurre il leprotto intrappolato a scalciare ancora. Stavolta, al nuovo strappo di O'wa, la canna continuò a vibrare. « L'ho preso! » Si gettò all'indietro di scatto, per far penetrare meglio la punta nella carne del leprotto. « Scava, H'ani! Scava, bimba Nam! » Le due donne si misero a scavare nel terriccio friabile coi loro bastoni appuntiti, procedendo di lena. Ben presto si cominciarono a udire i gemiti attutiti del leprotto trafitto, che divennero sempre più forti man mano che O'wa recuperava la preda, finché a un bel momento eccolo fuori del buco. Sembrava un gattone giallo e saltava disperatamente tutt'intorno, impalato all'estremità della canna pieghevole, sulle zampe posteriori ipertrofiche da canguro: finché H'ani non lo finì con una gran bastonata in testa. Prima di sera ammazzarono altre due lepri salterelle e, dopo averle ringraziate come al solito, banchettarono con le carni tenere e dolci, le ultime che avrebbero potuto gustare per un bel po'. « Al mattino, quando ripartirono per l'ultimo tratto del viag-
gio, un vento teso e torrido soffiava loro in faccia. Benché la caccia fosse ormai tabù per O'wa, il Kalahari pullulava di selvaggina e vegetazione, sia in superficie sia sottoterra. C'erano fiori e piante verdi da mangiare in insalata, radici e tuberi, frutti e noci ricche di proteine, e i pozzi stracolmi d'acqua erano a pochissima distanza l'uno dall'altro. Solo il vento li tormentava, soffiando sempre contrario, bollente e abrasivo di sabbia, costringendoli a coprirsi il volto con le bisacce di CUOio e a chinare la testa. Grandi mandrie di zebre belle grasse e di gnu azzurri, con le loro rade criniere e le zampette magre, pascolavano sull'erbetta che le piogge avevano fatto crescere nel deserto, ai margini dei pozzi. Dal fondo delle conche saline, appena sciolte dall'acqua e ricompattate dal sole, si alzava una Polvere fine come talco che offuscava il cielo e appannava il globo del sole, si che gli estremi dell'orizzonte si avvicinavano molto. Nei pozzi, questa polvere galleggiava in superficie formando una schiumetta spessa che nelle narici si trasformava in fango e strideva tra i denti. Negli occhi seccava formando cispe fastidiose agli angoli, sulla pelle provocava screpolature a cui H'ani e Centaine ovviavano aspergendole con il succo del bai e poi spalmandosi con l'olio estratto dai semi arrostiti e schiacciati del baobab. Tuttavia ogni giornata di cammino pareva rinvigorire i due vecchi, farli diventare sempre più attivi ed eccitati. Sembravano far sempre meno caso al vento contrario che li sfenava con frustate di sabbia. Nel loro passo c'era una baldanza nuova, e camminando discorrevano animatamente, mentre Centaine restava indietro e si trascinava a fatica quasi come all'inizio. La quinta sera, dopo aver attraversato la catena di colline, Centaine arrivò barcollando all'accampamento che i San avevano collocato ai margini dell'ennesima conca asciutta. Centaine si stese sulla nuda terra, troppo accaldata ed esausta per raccogliere un po' d'erba da usare come giaciglio. Quando H'ani andò da lei con del cibo, la ragazza lo spinse via con stizza. « Non lo voglio. Non voglio niente. Odio questa terra. Odio il caldo e la polvere. » « Presto », cercò di consolarla H'ani, « molto presto raggiungeremo il Posto di Tutta la Vita, e là nascerà il tuo bambino. » Ma Centaine allontanò la testa di nuovo. « Lasciami. Lasciami stare. » Si svegliò alle grida dei due vecchi, e si rizzò a fatica, sentendosi grassa e sporca e ancora stanchissima, anche se aveva dormito cosi a lungo che ormai il sole stava illuminando la cima degli alberi dall'altra parte della conca asciutta. Immediatamente si accorse che durante la notte il vento era cessato e la maggior parte della polvere si era posata. Quel che restava in aria trasformava l'alba in un caleidoscopio di sfolgoranti colori. « Bimba Nam, lo vedi o no!? » le gridò H'ani, e poi si mise a trillare come la slitta di Babbo Natale, esprimendo tutta la sua eccitazione con suoni inarticolati. Centaine si alzò pian piano e guardò la scena che la nuvola di polvere le aveva celato la sera prima. Dall'altra parte della conca asciutta si alzava dal deserto, improvvisa, una grande montagna fatta a groppa di balena, ripida ai lati e tondeggiante in cima. Accesa di tutti i rossi e ori dell'alba, pareva un mostro senza testa. Certe parti della montagna erano spoglie, rocce color arancione che declinavano dolcemente, mentre altre apparivano fittamente alberate. In vetta vi erano alberi molto più alti e forti di quelli che stentavano in piano. La strana luce rossastra soffusa di polvere e i silenzi profondi dell'alba africana conferivano alla montagna una maestosa serenità
Centaine, guardandola, si sentì consolata di tutte le sue mi serie e privazioni. « Il Posto di Tutta la Vita! » Mentre H'ani ne pronunciava il nome, in un rispettoso sussurro, tutta l'agitazione svaniva. « Ecco la visione per cui abbiamo tanto viaggiato e penato! Adesso possiamo anche morire. » O'wa taceva, annuendo. « E qui che finalmente troveremo pace, tra gli spiriti della nostra gente. » Centaine provava lo stesso religioso senso di sbigottimento che aveva provato ad Arras, entrando per la prima volta nella cattedrale, tenuta per mano da suo padre: così aveva guardato le splendenti, coloratissime vetrate in alto, nella torreggiante navata. Si rendeva ben conto di trovarsi sulla soglia di un sacrario. Si inginocchiò, circondandosi il ventre con le mani. La montagna era molto più lontana di quanto si sarebbe detto nella luce rossastra dell'alba. Man mano che si avvicinavano, sembrava arretrare invece che approssimarsi. E col mutamento di luce pareva cambiare umore. Diventava remota e austera, e le balze rocciose brillavano nel sole come scaglie di coccodrillo. O'wa cantava, trottando in testa alla fila. Guardate, spiriti dei San, veniamo al vostro posto segreto con le mani pulite, non macchiate di sangue. Guardate, spiriti di Eland e Mantis, veniamo a trovarvi con cuore gioioso) e canzoni per dilettarvi... La montagna cambiò ancora, cominciò a vibrare e tremolare nel caldo che aumentava. Non era più di pietra massiccia, ma come d'acqua fluente, come fumo volvente. Si liberò dalla terra e prese a fluttuare per aria, scintillante miraggio. O montagna-uccello che voli nel cielo noi ti lodiamo o montagna-elefante, più grande di qualunque bestia della terra e del cielo, noi ti salutiamo, cantava O'wa, e, mentre il sole superava lo zenit e l'aria tornava a rinfrescarsi pian piano, la Montagna di Tutta la Vita si posava nuovamente sulla terra, incombendo alta sopra di loro. Raggiunsero le prime pendici cosparse di detriti e macigni, e si fermarono a guardar la cima. Le rocce erano coperte di licheni, che le coloravano di giallo sulfureo e verde caustico. I piccoli roditori di montagna producevano scolature scure di deiezioni contro quello sfondo, come lacrime da occhi d'elefante. Su una sporgenza, a una cinquantina di metri d'altezza, stava una piccola antilope rupestre. Si impaurì per la loro presenza e saltò via, scomparendo in breve a balzi da un masso all'altro con la leggerezza d'un camoscio alpino. Si arrarnpicarono sulla prima scarpata ripida fino a raggiungere la parete di roccia. Era liscia e fresca, e incombeva su di loro sporgendo dolcemente come un tetto di cattedrale. « Non arrabbiatevi, o spiriti, se veniarno nel vostro posto segreto », sussurrò H'ani, col vecchio volto giallo e raggrinzito solcato dalle lacrime. « Veniamo umilmente, e in pace, o buoni spiriti. Veniamo per sapere quale fu il nostro fallo, e come possiamo rimediarvi. » O'wa si avvicinò, prese per mano la moglie e li restarono, fermi come due bambinetti nudi, davanti alla roccia liscia. « Veniamo a cantare e danzare per voi », sussurrava O'wa. « Veniamo in pace, per essere con la vostra santa grazia riuniti ai bimbi del nostro clan che morirono della grande febbre in
un posto molto lontano da qui. » In quell'attimo di raccoglimento c'era una tale vulnerabilità che Centaine si senti imbarazzata a guardarli. Si scostò dai due anziani e si mise a vagare da sola lungo la base della montagna di roccia, che a un certo punto cominciò a sporgerle sopra la testa, formando una concavità. Di colpo si arrestò. Sbigottita, osservò a bocca aperta la parete di roccia che le si parava davanti. « Animali », sussurrò. Send che le veniva la pelle d'oca sugli avambracci per il timore superstizioso. La parete era decorata di affreschi, animali suggestivi dalla forma puerilmente stilizzata che conferiva all'opera una bellezza sognante, di una somiglianza con gli esemplari autentici tale da commuovere. Riconobbe le sagome massicce degli antichi elefanti, dalle enormi zanne, e dei rinoceronti cornuti tra le mandrie innumerevoli di bestie minori, antilopi e bufali dalle corna ritorte, che si affollavano compatte, a mille a mille, sulla parete di pietra. « E persone! » mormorò Centaine, cogliendo le piccole sagome a bastoncino dei cacciatori che inseguivano le bestie. Erano folletti, l'autoritratto dei San, armati d'arco e incoronati di frecce; gli uomini adorni di peni trionfalmente eretti, sproporzionatamente grossi, e le donne di grandi seni ed enormi natiche, le insegne della bellezza femminile. L'opera si innalzava tanto, sulla parete di roccia liscia, che gli autori dovevano sicuramente essersi serviti di ponteggi, come Michelangelo nella Cappella Sistina. Le prospettive erano ingenue, l'uomo era più grosso del rinoceronte che inseguiva, ma ciò sembrava aumentare l'incanto dell'opera. Centaine si dimenticò di tutto nell'ammirarla, chinandosi e sedendosi infine a seguire una cascata delle grandi antilopi eland, di un'abbondanza quasi infinita, bellissime di corna, spalle gibbute e ventri penduli, con tutta evidenza degne del posto speciale che avevano nella mitologia dei pigmei. H'ani la raggiunse e si accucciò accanto a lei. « Chi ha dipinto queste cose? » le domandò Centaine. « Gli spiriti dei San, tantissimo tempo fa. » « Non gli uomini? » « No! No! Gli uomini non sono capaci. Sono disegni degli spiriti. » L'arte si era quindi perduta. Centaine provò una Stta di delusione. Aveva sperato che quella donna fosse un'artista, per poterla vedere al lavoro. « Tantissimo tempo fa », ripeté H'ani, « prima ancora di mio padre e di mio nonno. » Centaine deglutì e si rimise in contemplazione dell'opera meravigliosa. Ormai era quasi sera, ma finché vi fu un po' di luce proseguirono lentamente il giro del costone, con la faccia volta verso la parete, ad ammirare le pitture che continuavano per un bel pezzo. Qua e là la roccia si era spaccata, le tempeste e i venti susseguitisi nelle ere avevano cancellato le pitture rupestri; ma nei punti più riparati e sotto le cenge i colori erano ancora così vividi, i rossi i bianchi i neri e gli ocra così brillanti che sembravano stesi quella mattina stessa. Negli ukimi minuti di luce raggiunsero un riparo dove altri prima di loro si erano accampati, perché la terra era cosparsa di un alto strato di cenere e la roccia era scurita dal fumo. C'era anche della legna secca accatastata e pronta per l'uso. « Domani sapremo se gli spiriti ci sono ancora ostili, o se ci sarà permesso di procedere », disse a Centaine la vecchia H'ani. « Partiremo prestissimo, perché dobbiamo raggiungere il posto segreto prima del levar del sole, quando fa ancora fre-
sco. Infatti col caldo i guardiani diventano attivissimi e pericolosi. » « Di che posto si tratta? » insisté Centaine, ma ancora una volta la vecchia restò nel vago, fingendosi distratta. Si limitò a ripetere una parola dei San che aveva vari significati, da « nascondiglio segreto » a « posto sicuro » a « vagina », e non disse altro. Come aveva annunciato H'ani, l'indomani partirono molto prima dell'alba. I due vecchi erano raccolti, calmi ma, sospettò Centaine, anche piuttosto intimoriti. Il cielo stava appena schiarendo quando a un tratto il sentiero fece una svolta a gomito dietro un angolo del costone e si inoltrò in un'angusta valle, il cui suolo era coperto di una vegetazione così lussureggiante che Centaine intul che doveva esserci sotto « buona acqua » in abbondanza. Il sentiero qui era mal definito, chiaramente non era battuto da parecchi mesi o addirittura anni. Dovevano chinarsi per passare sotto i rami degli alberi, scavalcare i tronchi abbattuti per traverso. Sui picchi, in alto in alto, Centaine distinse i grossi nidi degli avvoltoi, a cui si affacciavano le brutte bestie dal roseo cranio pelato. « Il Posto di Tutta la Vita », disse H'ani, scorgendo il suo interesse Per gli uccellacci annidati. « Qui nascono creature tutte speciali, benedette dagli spiriti. Perfino gli uccelli sembrano saperlo. » I picchi si chiusero sopra di loro man mano che la valle si stringeva, finché il sentiero terminò davanti alla roccia dove l'anfratto finiva. Il cielo non si vedeva più. O'wa si fermò davanti alla parete di roccia e si mise a cantare con il timbro di voce riservato agli spiriti. « Vogliamo entrare nel vostro posto più segreto, o spiriti di Tutte le Creature, spiriti del nostro clan. Apriteci la via. » Distese le braccia in gesto di preghiera. « Che i guardiani di questo passaggio ci lascino attraversare », invocò. O'wa chiuse le braccia, si chinò e scomparve inghiottito dalla pietra nera. Centaine sobbalzò allarmata e cercò di corrergli dietro, ma H'ani la fermò prendendola per il braccio « C'è molto pericolo adesso, bimba Nam. Se i guardiani ci negano il passo, moriremo. Non correre, non agitare le braccia. Avanza piano, ma con decisione, e mentre passi chiedi la benedizione degli spiriti. » H'ani le lasciò il braccio ed entrò nel crepaccio seguendo il marito. Centaine esitò. Ebbe anche la tentazione di fare dietrofront e tornare sui suoi passi, ma alla fine la curiosità e la paura di restar sola l'ebbero vinta, e andò alla fenditura in cui erano spariti i due boscimani. Era una strettissima fessura nella roccia, verticale, da cui si poteva entrare solo mettendosi di fianco. Tirò un profondo sospiro e scivolò dentro. Qui si fermò un po', per abituare gli occhi all'oscurità, e ben presto distinse un lungo e buio cunicolo. Era una caverna naturale, dalle pareti mai intaccate dall'uomo, con diramazioni laterali e camini che si aprivano in alto. Sentì lo scalpiccio dei due vecchietti che la precedevano sul suolo roccioso, e poi distinse un altro rumore. Era come un ronzio, un mormorio, come la risacca marina udita da molto lontano. « Seguici, bimba Nam. Sta' vicino a noi », la raggiunse la voce di H'ani. Centaine prosegui pian piano, scrutando la tenebra, cercando di individuare la fonte del ronzio. Che cosa poteva provocare quella profonda vibrazione? Nella semioscurità sopra di sé, vide strane forme, escrescenze lisce che sporgevano dalla parete come funghi dal ceppo, o ali di libellula. Erano così vicine alla sua testa che a volte doveva chinarsi... e, con un brivido improvviso, capì in quale luogo si trovava.
La caverna era un solo, immenso alveare. Quelle grosse strutture simili ad ali erano favi, cosi enormi che ognuno poteva contenere centinaia di litri di miele. Adesso cominciava anche a vedere gli insetti che volteggiavano pullulando intorno a essi, appena distinguibili nella penombra fitta, e le vennero in mente le raccapriccianti storie che le aveva raccontato Michael a proposito delle api africane. « Sono più grosse e più scure delle vostre », aveva detto, « e così cattive che le ho viste io ammazzare un bufalo a furia di punture. » Consentendosi di respirare appena, con la pelle tutta tirata in previsione della prima stilettata bruciante, riuscendo a stento a non mettersi a correre, seguì le due figurine davanti a sé. Le brulicanti masse di insetti velenosi svolazzavano a pochi centimetri dalla sua testa, e il ronzante coro sembrava aumentare fin quasi ad assordarla. « Da questa parte, bimba Nam. Non avere timore, perché il piccolo popolo alato sente l'odore della tua paura », la chiamò piano H'ani, mentre un'ape approdava leggera sulla guancia di Centaine. D'istinto la ragazza alzò la mano per scacciarla, ma si trattenne appena in tempo. L'ape zampettò alacremente fino al labbro superiore. Un'altra si posò sull'avambraccio alzato di Centaine. La guardò con orrore. Era enorme, nera come il carbone, con dei cerchi d'oro scuro intorno all'addome. Le alette trasparenti erano chiuse come lame di forbici e gli occhietti multipli balenavano maligni nella fievole luce. « Per piacere, apina, apuccia, per piacere... » sussurrò Centaine. L'insetto arcuò la schiena e dall'addome cerchiato fece spuntare l'acuminato pungiglione rosso. « Per piacere, lascia passare me e il mio bambino! » L'ape s'incurvò e il pungiglione toccò la pelle molle e abbronzata dell'interno del gomito. Centaine si irrigidi. Sapeva che il dolore della puntura sarebbe stato immediatamente seguito dall'odore dolciastro del veleno, che avrebbe fatto infuriare tutto lo sciame pullulante sopra di lei. In un lampo si vide a terra, a contorcersi tutta coperta di api prima di morire della più terribile morte. « Per favore », sussurrò. « Lasciate nascere il mio bambino nel vostro posto segreto, e noi vi onoreremo finché avremo vita. » L'ape rinfoderò il pungiglione pulsante ed etsegui sul braccio della ragazza una danza complicata, piena di giravolte e soprassalti: poi, con un lampo argenteo delle alucce, sfrecciò via. Centaine prosegui piano, con un riflesso giallastro negli occhi. L'insetto che aveva in faccia le stava scendendo sulle labbra, sicché non poteva più parlare, ma pregò mentalmente « 'Benché io vaghi per la valle delle ombre dei morti', per piacere, piccola ape, lasciami passare per amore del mio bambino. » Un improvviso ronzio e anche quest'ape le sfrecciò davanti agli occhi, volando lontano da lei. Con la pelle ancora tutta raggrinzita dal recente contatto con le cornee zampette degli insetti, prosegui a passo regolare e composto, con le mani aderenti ai fianchi. La strada sembrava non finire più, invece a un tratto, dopo una leggera salita, la galleria sbucò nel chiarore dell'alba. Le si piegarono le ginocchia dal terrore. Sarebbe anche caduta, se O'wa non l'avesse afferrata. « Sei salva, adesso. I guardiani ci hanno permesso di entrare nel sacrario. » Le parole la scossero, e, benché ancora tremebonda e ansimante, Centaine si guardò intorno.
Erano penetrati in un perfetto anfiteatro circolare nel cuore della montagna. Le pareti erano a piombo, alte centinaia di metri. Nere e lustre, parevano affumicate da una fornace infernale, ma in alto si apriva il cielo. La profonda conca di roccia doveva essere larga un paio di chilometri nei punti più distanti. A quell'ora il sole non vi penetrava ancora fino in fondo, e i boschetti di alberi erano freschi e rugiadosi. Erano alberi che a Centaine ricordavano l'olivo, con foglioline argentate e frutti rossi e gialli che pendevano dai rami. Il fendovalle era in leggera pendenza, fatto a ciotola, e, seguendo H'ani giù per la discesa, Centaine notò che il suolo era tutto coperto di frutti caduti. H'ani ne raccolse uno e l'offri a Centaine. « Mongongo... molto buono. » Centaine vi affondò i denti e berciò, incontrando subito l'enorme nocciolo. C'era solo un sottilissimo strato di polpa, ma aveva la consistenza e il sapore del dattero, anche se era un po' meno dolce. Dai rami che si aprivano sopra di loro parti un volo di grassi piccioni verdi. Centaine si accorse che la conca era piena di vita, uccelli e ogni sorta di animaletti che banchettavano nel chiarore dell'alba coi frutti caduti dagli alberi di mongongo. « Il Posto di Tutta la Vita », sussurrò, affascinata da quella bellezza arcana che nasceva dal contrasto tra le nude rocce nere e il fondovalle sparso di boschetti idilliaci. O'wa si affrettò per il sentiero che conduceva giù nel centro della conca, e seguendolo Centaine scorse tra gli alberi, davanti, una collinetta di roccia vulcanica nera. Era simmetrica e a forma di cono, posta nel centro esatto dell'anfiteatro come il puntale degli scudi antichi. Anche la collina, come il fondovalle, era fitta di alberi. Alta erba degli elefanti e alberi di mongongo crescevano a profusione sulle nere pendici vulcaniche. Un branco di scimmie li accolse schiamazzando dai rami degli alberi, scuotendo la testa e mostrando i denti: poi, impaurite, si dispersero. Quando Centaine e H'ani raggiunsero O'wa, lo trovarono in attesa davanti a una grotta scura che si apriva sul fianco della collinetta. Sembrava l'ingresso di una miniera, ma sbirciandovi dentro Centaine si accorse che la discesa era lieve. Spinse da parte O'wa per guardare meglio, ma il vecchio la prese per il braccio. « Non avere fretta, bimba Nam, dobbiamo fare tutto nella maniera giusta. » La tirò indietro e gentilmente la condusse via. Un po' più avanti c'era un vecchio campo dei San tra ripari di roccia. Per terra si vedevano resti di capanne di frasche, crollate su se stesse. O'wa le bruciò tutte, perché le capanne disabitate ospitano spesso serpenti e scorpioni: poi le due donne ne costruirono altre con rami freschi ed erba appena tagliata. « Ho fame. » Centaine si ricordò che non mangiava dalla sera prima. « Vieni. » H'ani la condusse in un boschetto, dove riempirono le bisacce di frutti di mongongo caduti dall'albero. Di nuovo al campo, H'ani mostrò a Centaine come liberare il nocciolo e poi schiacciarlo tra due pietre piatte. Dentro c'era una specie di mandorla secca. Ne mangiarono un po' per calmare la fame. Avevano il sapore delle noci comuni. « Le faremo in tanti modi », le promise H'ani. « Vedrai come cambiano gusto, arrostite. bollite e in insalata. E l'unica cosa che si può mangiare in questo posto dove non si può uccidere nessun animale. » Mentre preparavano il pasto, O'wa tornò al campo con un mazzo di radici appena colte, e si appartò a prepararle in pri-
vato, grattugiando e tagliuzzando con l'amato coltello. Prima di buio bSangiarono, e Centaine trovò inaspettatamente sostanzioso il pasto di noci. Appena riempito lo stomaco, l'effetto dell'emozione e della stanchezza della giornata la sopraffece, e riusci appena a trascinarsi al riparo della capanna. Si svegliò rinfrancata e con un senso di inspiegabile agitazione. I San erano già occupati intorno al fuoco da campo, e appena Centaine si uni a loro, accucciandosi in cerchio, O'wa, esaltato da un'impazienza nervosa per qualche sua ignota responsabilità, disse loro: « Adesso dovremo prepararci alla discesa nel posto più segreto di tutti. Sei d'accordo per la purificazione, vecchia nonna? » Era con tutta evidenza una domanda retorica. « Sono d'accordo, vecchio nonno », disse H'ani, applaudendo piano in segno d'assenso. « Sei d'accordo per la purificazione, bimba Nam? » « Sono d'accordo, vecchio nonno. » Anche Centaine applaudi imitando H'ani. O'wa annui solennemente più volte e prese un corno cavo che portava alla cintola. La punta era bucata, e O'wa aveva riempito il corno delle radici sminuzzate e delle erbe che aveva raccolto il giorno prima. Ora prese un tizzone dal fuoco e l'inseri nel corno, accendendo la mistura. Ci soffiò sopra ed ecco alzarsi volute di fumo azzurrino. Una volta accesa quella che si sarebbe rivelata una rudimentale pipa, O'wa si alzò e si pose dietro le due donne accucciate. Portò la punta del corno alla bocca e aspirò profondamente, poi soffiò il fumo su di loro. Era acre e aveva un odore sgradevolissimo, e Centaine, respirandolo, senti l'amaro in gola. Mormorò una protesta e fece per alzarsi, ma H'ani la tenne giù. O'wa intanto continuava a tirare e sbuffare, e dopo un po' Centaine giudicò il fumo meno fastidioso. Si rilassò e si appoggiò a H'ani. La vecchia le passò il braccio attorno alla spalla. Pian piano Centaine cominciò a provare un magnifico senso di benessere. Il corpo le pareva diventato leggero come quello di un uccello, e aveva l'impressione di fluttuare nelle volute di quel fumo azzurrino. « Oh, H'ani, come sto bene! » le sussurrò. L'aria intorno le sembrava diventata limpidissima e addirittura brillante, e la vista le si era acutizzata al punto da distinguere ogni crepa e ogni sporgenza delle rocce circostanti: i boschetti le sembravano fatti di cristallo verde. Riflettevano la luce del sole con eterea radiosità. Si rese conto che O'wa si inginocchiava davanti a lei, e gli sorrise, trasognata. Le stava offrendo qualcosa, tendendoglielo con ambo le mani. « E per il bambino », le disse, e la sua voce sembrava venire da lontanissimo ed echeggiarle stranamente in testa. « E la stuoia natale. Avrebbe dovuto fargliela suo padre, ma non era possibile. To', bimba Nam, prendila, e partoriscici sopra un bravo figlio. » O'wa si inchinò e le mise il dono in grembo. Le ci volle un bel po' prima di accorgersi che si trattava della pelle di gemsbok, che O'wa aveva lavorato con instancabile cura. La stese con religioso rispetto. Era stata raschiata e conciata fino ad assumere la pieghevolezza di una stoffa finissima. Ci passò sopra i polpastrelli: sembrava raso. « Grazie, vecchio nonno », disse con voce fonda e lontana che le echeggiava in modo stranissimo nelle orecchie. « E per il bambino », ripeté lui, e tirò un'altra boccata dalla pipa di corno. « Per il bambino, si », annuì Centaine, e la testa le parve levitare abbandonando il corpo. O'wa le sbuffò dolcemente il fu-
wo in faccia e lei non tentò di evitarlo, anzi si chinò a guardare meglio il boscimano negli occhi. Le pupille di O'wa erano diventate due puntini neri, e le iridi erano color dell'ambra scura, incorniciate da petali di linee nere. La ipnotizzarono. « Per il bene del bambino, lascia entrare nella tua anima la pace di questo luogo », disse O'wa tra il fumo, e Centaine sentl che era proprio quanto le stava accadendo. « Pace », mormorò, e nel centro del suo esseie si diffuse una meravigliosa quiete, una calma monumentale. Tempo, spazio e luce bianca del sole si mescolarono e divennero una cosa sola. Ella sedeva al centro dell'universo, sorridendo serenamente. Sentiva O'wa cantare, lontanissimo, e si dondolava piano a quel ritmo ascoltando ogni battito del proprio cuore che pompava lento il sangue nelle vene. Sentiva anche il bambino. Profondamente annidato in lei, curvo in atteggiamento di preghiera: e poi incredibilmente senti il suo piccolo cuore che batteva come quello di un uccellino in trappola, e un senso di meraviglia invase tutto il suo essere. « Siamo venuti per purificarci », cantava O'wa. « Siamo venuti per lavare tutte le colpe, siamo venuti a espiare... » Centaine senti la mano di H'ani insinuarsi nella sua come un fragile animaletto. Allora si voltò e sorrise al vecchio e amato volto grinzoso. « E tempo, bimba Nam. » Centaine si mise sulle spalle la pelle di gemsbok. Non fece nessuna fatica ad alzarsi in piedi: levitava sopra la terra, con la piccola mano dìtH'ani tra le proprie. Andarono alla grotta sul fianco della collina e, benché fosse buia e ripida, Centaine vi entrò sorridendo, e non senti nemmeno la dura pietra vulcanica sotto i piedi. L'ingresso scendeva per un breve tratto, poi diventava pianeggiante e si apriva in una caverna naturale. Seguirono giù O'wa. La luce filtrava alle loro spalle e da un gran numero di piccole aperture nel soffitto della grotta. L'aria era tiepida e umida, piena di vapori. A nuvolette, questi provenivano dalla superficie della poza circolare che riempiva completamente la caverna. Lo specchio d'acqua turbinava bullicando piano, e il vapore aveva un forte odor di zolfo. L'acqua era opalescente e verdastra. O'wa gettò sul pavimento di pietra il perizoma ed entrò nella piscina naturale. L'acqua gli arrivava alle ginocchia: dopo due passi, però, era dentro fino al collo. Anche H'ani lo segui nuda nella poza, e infine Centaine, spogliatasi dei suoi stracci e della pelle di gemsbok. L'acqua era molto calda, scottava quasi. Era una sorgente termale che sgorgava dalle viscere della terra, ma Centaine vi entrò senza timore. Fece due passi avanti e si inginocchiò con l'acqua fino al mento. Il fondo era una ghiaia pungente. Il calore dell'acqua le entrò nel corpo. A turbini e mulinelli scorreva intorno a lei, strigliandole la pelle, riversandosi in continuazione nella poza dalle profondità della terra. O'wa cantava piano, nascosto dai fumi e dai vapori. « Vorremmo espiare », cantava O'wa. « Imploriamo perdono per le offese agli spiriti... » Centaine vide formarsi una figura nel vapore, un fantasma oscuro e incorpooreo. « Chi sei? » sussurrò, e l'ectoplasma si materializzò. Riconobbe gli occhi... gli altri lineamenti rimasero nebulosi. Era il vecchio marinaio che aveva sacrificato allo squalo. « Perdonami! » proruppe. « Ti scongiuro, perdonami! L'ho fatto per il bambino. Per piacere, perdona la mia colpa. » Una certa comprensione le parve concretarsi per un attimo in quei vecchi occhi tristi, poi l'immagine impallidì e svanl nella neS
bia, sostituita da una folla di altri fantasmi e creature oniriche, a cui prese a parlare. « Oh, papà! Se fossi stata abbastanza forte! Avrei potuto riempire il vuoto lasciato dalla povera mamma... » Nei vapori, sentì anche le voci dei due San, che gridavano accogliendo i propri fantasmi e i propri ricordi. O'wa tornava a caccia coi suoi figli, e H'ani rivedeva progenie e nipotini, e tornava a vezzeggiarli con amore e rimpianto. « Oh, Michel », i suoi occhi erano di un azzurro meraviglioso, « ti amerò sempre. Sì, oh sl, e darò il tuo nome al bambino. Te lo prometto, amore mio, porterà il tuo nome. » Non sapeva da quanto tempo si trovasse nella piscina, ma pian piano immagini e fantasmi svanirono, e a un certo punto si sentl prendere per mano da H'ani e condurre alla sponda rocciosa. L'acqua caldissima sembrava averle sottratto tutte le forze. Il suo corpo splendeva, color mattone, libero ormai ogni poro dalla polvere del deserto che prima l'ingrommava. Si sentiva le ginocchia molli, che la reggevano a stento H'ani l'avvolse nella pelle di gemsbok e itaiutò a risalire il cunicolo verso l'esterno. La notte era già calata e la luna splendeva quanto bastava per generare ombre ai loro piedi. H'ani la guidò fino alla capanna di frasche e la coprì con la pelle di gemsbok. « Gli spiriti ci hanno perdonato », le sussurrava. « Sono compiaciuti del pellegrinaggio. Hanno mandato i miei bambini a salutarmi e a dirmelo. Puoi dormire tranquilla, bimba Nam, non abbiamo più colpe sulla coscienza. Siamo i benvenuti in questo posto. » Centaine si svegliò confusa, incerta di quanto le stava capitando, senza più nemmeno sapere dov'era ma convinta per i primi istanti di trovarsi nella sua camera a Mort Homme, con Anna seduta di fianco al suo letto. Poi sentì l'erba e la dura terra sotto di sé e l'odore della pelle che la copriva, e subito dopo il dolore le tornò. Era come una tagliola che le si fosse chiusa intorno al corpo, sotto, una crudele tagliola che la martoriasse. Si piegò in due, tenendosi il ventre. Col dolore, la realtà la travolse di nuovo. Dopo le allucinazioni del giorno prima, la mente le era tornata acuta e chiara. Comprese che cosa le stava accadendo, e per istinto seppe che l'immersione nell'acqua calda della sorgente e il fumo delle droghe che aveva inalato dovevano aver affrettato il parto. « H'ani! » gridò, e la vecchia donna si materializzò dal grigiore ddl'alba. « I; cominciato! » H'ani l'aiutò ad alzarsi, poi raccolse la pelle di gemsbok. « Vieni », le sussurrò. « Dobbiamo andare dove si può star sole. » H'ani doveva aver già scelto il posto, perché senza esitare condusse Centaine in una piccola forra nei pressi del campo, nascosta da un boschetto di mongongo. Stese la pelle di gemsbok alla base di un grosso albero e vi fece sedere Centaine. Si inginocchiò su di lei e le sfilò la gonna, ormai a brandelli, poi con dita forti e veloci fece una breve ma fruttuosa esplorazione. Quindi tornò ad accucciarsi sui talloni. « Tra poco, bimba Nam. Tra pochissimo », sorrise felice, ma la risposta di Centaine fu interrotta da un'altra contrazione. a Ah, il bambino è impaziente! » annul H'ani. Lo spasimo cessò e Centaine si stese, boccheggiando, ma aveva appena ripreso fiato che tornò a irrigidirsi. « Oh, H'ani, tienimi la mano... per piacere! Per piacere! » Qualcosa esplose nell'organismo di Centaine, e un liquido caldo si riversò fuori di lei, colandole giù per le gambe. « Ormai ci siamo quasi », l'avvertì H'ani, e Centaine emise un piccolo strillo.
« Adesso... » H'ani la tirò su, a sedere, ma Centaine si coricò di nuovo. « Tirati su! » sbottò H'ani. « Adesso devi aiutarlo. Tirati su. Non puoi aiutare il bambino se te ne stai sdraiata. » Costrinse Centaine in una posizione accovacciata, con piedi e ginocchia divaricati, la posizione naturale dell'evacuazione. « Attaccati all'albero! » le ordinò con urgenza. « Qua! » Guidò le mani di Centaine sulla corteccia ruvida e Centaine gemette, e Ppoggiò la fronte al tronco. « Adesso! » H'ani si inginocchiò dietro di lei, circondandole il corpo con le braccia piccole ma forti. « Oh, H'ani! » Il grido di Centaine si alzò all'improvviso, acuto. a Sì! Ti aiuterò a spingerlo fuori. » E aumentò la stretta, mentre Centaine, d'istinto, si tendeva per lo sforzo. « Su, spingi, bimba Nam! Forza! Forza! Spingi! » l'incitava H'ani, sentendo i muscoli del ventre della ragazza contrarsi e diventare come d'acciaio. C'era una grossa ostruzione dentro di lei e Centaine, aggrappata all'albero, si dimenava spingendo come una pazza e mugolando. A un tratto l'ingortbro si mosse un po', poi si bloccò di nuovo. « H'ani! » gridò, e le piccole braccia si strinsero intorno al suo ventre, la vecchia donna prese a gemere sforzandosi a tempo con lei. Il corpo nudo di H'ani era premuto contro la schiena inarcata di Centaine, che sentiva l'energia della vecchia carne raggrinzita trasmettersi alla propria come una scarica elettrica. « Ancora, bimba Nam! » le sibilò H'ani nell'orecchio. « Ormai è vicino, vicinissimo! Adesso spingi, bimba Nam! Spingi forte! » Centaine spinse con tutta la forza e tutta la volontà. Aveva i denti serrati al punto che temeva si rompessero da un momento all'altro, e che gli occhi le schizzassero fuori delle orbite. Poi senti che qualcosa si lacerava, provò una fitta di dolore cocente, ma continuò a spingere convulsamente. A un tratto l'ingombro si mosse di nuovo, ed ecco che con un grande risucchio qualcosa di pesantissimo ed enorme scivolò fuori da lei, mentre le mani di H'ani, sotto le natiche, l'accoglievano, lo guidavano e proteggevano. Miracolosamente il dolore svanl, lasciandola tremante come per l'effetto di una febbre alta e tutta madida di sudore: ma sgravata, se Dio voleva sgravata, quasi che le viscere tutte si fossero riversate fuori di lei. H'ani allentò la presa e Centaine si appoggiò all'albero, respirando profondamente. Poi sentì qualcosa di caldissimo, bagnato e scivoloso muoversi tra i suoi piedi. Esausta, si staccò dal tronco e guardò in basso. Un budello ritorto pendeva ancora da lei, e attaccato a quel cordone, mezzo avvolto tra le sue spire, il neonato giaceva in una pozza di liquido sanguinolento sulla stuoia di pelle di gemsbok. Era piccolo, così piccolo che ne rimase sorpresa, ma agitava spasmodicamente gli arti scalciando e smaniando. La faccia era rivolta da un'altra parte, ma vide la testolina bagnata, coperta di riccioli neri appiccicati al cuoio capelluto. Da dietro, H'ani prese il bambino e glielo nascose alla vista. Immediatamente Centaine provò un terribile senso di privazione... ma era troppo debole per protestare. Sentì tirare e muoversi il cordone ombelicale, mentre H'ani maneggiava il bambino, e a un tratto un furioso, lacerante vagito colpi Centaine al cuore. La risata di H'ani fece subito coro agli strilli del neonato. Centaine non aveva mai udito una così inequivocabile esplosio-
ne di gioia. « Ma sentilo, bimba Nam! Ruggisce come un leoncino! » Centaine si girò goffamente, impacciata dal cordone che le pendeva ancora dal corpo, collegandola al neonato. Costui si dibatteva tra le mani di H'ani, tutto bagnato e fiero, con la faccia rossa di rabbia e gli occhi gonfi e chiusi, ma la bocca rosa e sdentata ben aperta a urlare tutta la sua furia. « E un maschietto, H'ani? » chiese ansimando Centaine. « Oh si », rise H'ani, « è proprio un maschio », e con la punta dell'indice gli stuzzicò il piccolo pene. Subito sporse rigido, come ad accompagnare quella furia, e al tocco di H'ani emise un potente e arcuato getto d'orina. « Guarda! Guarda! » H'ani rideva a crepapelle. « Piscia sul mondo! O spiriti tutti di questo sacro luogo, siete testimoni della nascita di un vero leoncino, oggi! » Presentò il neonato urlante e rosso in volto a Centaine. « Puliscigli gli occhi e il naso », le ordinò, e, come una gatta, Centaine non ebbe bisogno di ulteriori chiarimenti. Gli leccò il muco dalle palpebre piccole e gonfie, dalla bocca e dalle narici. Poi H'ani girò il bambino, maneggiandolo con consumata esperienza, e gli legò il cordone ombelicale con le flessibili fibre bianche interne alla corteccia del mongongo. Poi tagliò il cordone ombelicale con un colpo secco del suo coltello d'osso. Infine avvolse l'estremità recisa nelle foglie medicinali del cotogno selvatico e la fissò sull'ombelico con una strisciolina di cuoio che girava attorno al ventre del bambino. Seduta sulla pelle insanguinata del gemsbok, in una pozza di sangue e liquido amniotico, Centaine la guardava darsi da fare con occhi brillanti. « Fatto! E adesso è pronto per attaccarsi al petto », disse H'ani, annuendo tutta soddisfatta di sé. Porse nuovamente il neonato a Centaine. Non vi furono molte cerimonie. H'ani strizzò il seno di Centaine e avvicinò le labbra del neonato al capezzolo. Il piccolo vi si attaccò subito come una sanguisuga, cominciando a poF pare con ritmo e vigore. Per qualche istante Centaine fu stupita dalle violente contrazioni che le iniziarono in grembo appena il bimbo si mise a succhiare, ma ben presto anche questo stupore si dissolse nel mistero e nell'incanto di quella sua incredibile impresa. Con delicatezza gli prese la manina e gliel'aprl, meravigliandosi della perfezione di quelle dita in miniatura, tutte rosa, con le unghiette non più grandi di un chicco di riso. Quando poi il bambino le strinsz l'indice con forza sorprendente, sentì che il cuore le batteva più in fretta. Gli asciugò la testa, e i ricciolini neri si sollevarono. Il pulsare che vedeva sotto la sottile membrana che copriva la fessura del cranio le dava un senso di sbigottimento. Il bambino smise di succhiare e rimase fermo e tranquillo tra le sue braccia. Poté staccarlo dal seno e guardarlo in faccia. Sorrideva. A parte gli occhi un po' gonfi, era ben fatto, con lineamenti armonici e non pesti e gommosi come quelli di altri neonati che le era capitato di vedere. Aveva la fronte larga e alta e il naso grosso. Pensò a Michael... no, era più arrogante del naso di Michael... e poi si ricordò del generale Sean Courteney. « Eh già! » ridacchiò. « E il naso dei Courteney fatto e finito. » Il neonato si irrigidì e fece vento sia da sopra sia da sotto. Un rigurgito di latte gli uscì dall'angolo della bocca, e all'istante il piccolo si rimise in cerca del capezzolo materno, succhiando a vuoto e girando la testina di qua e di là. Centaine lo passò
sull'altro braccio e gli porse il secondo capezzolo. Accovacciata davanti a lei, H'ani stava lavorando tra le sue ginocchia. Centaine sbatté gli occhi e si morse il labbro quando uscì la placenta, che H'ani avvolse in una gran foglia della pianta che gli africani chiamano « orecchie d'elefante » e portò nel boschetto. Al suo ritorno il bambino dormiva in braccio alla madre, a gambe larghe e con la pancia gonfia come un pallone. « Se permetti, vado a chiamare O'wa », le disse H'ani. « Avrà già sentito i vagiti del bambino. » « Sì, sì, portalo qui subito! » Centaine si era dimenticata del vecchio, ma adesso era tutta contenta di mostrargli la sua sbalorditiva creazione. O'wa si avvicinò timidamente e si accucciò a qualche distanza, mostrando la solita reverenza maschile di fronte al mistero femminile della nascita. « Vieni qua, vecchio nonno », l'incoraggiò Centaine, e O'wa si avvicinò zampettando sui talloni, guardando fisso il neonato addormentato. « Cosa ne pensi? » gli domandò Centaine. « Diventerà un cacciatore bravo e coraggioso come O'wa? » O'wa emise gli schiocchetti riservati alle rarissime occasioni in cui restava senza parole, con la faccia tutta accigliata e segnata da una ragnatela di rughe, rincagnato e smorfioso come un pechinese. In quella, il bambino scalciò e vagì nel sonno, e il vecchio scoppiò in una gran risata. « Mai pensavo di rivedere una cosa del genere », commentò. Rallegrato, prese in mano un piedino del bimbo. Il neonato scalciò ancora e questo fu davvero troppo per O'wa. Saltò in piedi e si mise a danzare. Saltava e pestava i piedi a terra, girando intorno alla madre e al bambino sulla pelle di gemsbok. H'ani resisté per tre giri e poi si unl con un balzo alla danza del marito. Lo segul con le mani sui fianchi, saltando quando saltava lui, ancheggiando con le natiche prominenti o facendole tremolare e cantando in coro assieme a O'wa la canzone di lode al neonato: Le sue frecce voleranno alle stelle e quando gli uomini faranno il suo nome sarà udito così lontano... H'ani si unì al ritornello: E troverà buona acqua, ovunque andrà troverà buona acqua. O'wa lanciò uno strillo, pestò i piedi e fece vibrare le spalle. Il suo occhio acuto vedrà la selvaggina dove nessun altro la vede. Senza fatica seguirà le tracce sul terreno roccioso... E troverà buona acqua, a ogni campo troverà buona acqua... Le ragazze più belle gli sorrideranno e in punta di piedi andranno al suo fuoco la notte... H'ani ripeteva il ritornello con la sua voce acuta: E troverà buona acqua, ovunque andrà troverà buona acqua. Stavano benedicendo il bambino, augurandogli tutti i beni più preziosi per i San. Centaine sentì che stava per sciogliersi d'amore per i due vecchietti e per il fagottino rosa che aveva in braccio. Alla fine, quando i due non ce la fecero più a cantare e ballare, si inginocchiarono davanti a Centaine. « Come bisnonni del bambino, vorremmo dargli un nome », spiegò timidamente H'ani. « E permesso? » « Parla, vecchia nonna. Parla, vecchio nonno. » « Vorremmo chiamarlo Shasa. »
Dagli occhi di Centaine, commossa dal grande onore, sgorgarono le lacrime. Gli avevano dato il nome della cosa più preziosa e vitale nella cultura dei San. « Shasa... Buona Acqua. » Centaine sbatté le ciglia e sorrise ai due. « Chiamo questo bambino Michel Shasa de Thiry Courteney », disse piano, solennemente; e i due vecchi, a turno, si avvicinarono a toccargli occhi e bocca per benedirlo.
Le acque sulfuree e minerali della sorgente sotterranea avevano straordinarie proprietà. Sempre, mezzogiorno e sera, Centaine andava a bagnarvisi, e le lacerazioni del parto guarirono con una rapidità portentosa. Naturalmente Centaine era in perfetta forma fisica, non aveva nemmeno un grammo di grasso, e questo, oltre a facilitare il parto, aveva influito sulla non co mune bellezza del neonato. Inoltre, i San consideravano il parto un episodio banale, e non la vezzeggiarono più di tanto né l'incoraggiarono a considerarsi un'invalida. I muscoli giovani, elastici e ben allenati, ripresero in fretta la forza e la compattezza consuete. La pelle le rimase priva di smagliature, perché non era stata tirata troppo, e il ventre le tornò concavo in brevissimo tempo. Solo le mammelle le rimasero grosse e gonfie di latte abbondante, che Shasa poppava a volontà fiorendo come una pianta del deserto dopo la pioggia. Anche a lui faceva bene l'acqua minerale. « E strano », le disse H'ani, « ma tutte le madri che allattano bevendo quest'acqua crescono figli dalle ossa dure come roccia e denti bianchi e splendenti come avorio levigato. E una delle benedizioni degli spiriti che governano questo luogo. » A mezzogiorno il sole entrava da una delle aperture della volta della caverna, creando un solido fascio di luce che pioveva giusto in mezzo alla vasca naturale. A Centaine piaceva moltissimo bagnarsi nelle acque calde sotto quella pioggia incantata di luce, che seguiva nei suoi spostamenti. Se ne stava con l'acqua fino al mento nella verde piscina termale, circondata dai vapori illuminati dal sole, ascoltando i rumorini soddisfatti di Shasa addormentato sulla pelle di gemsbok, sul bordo della vasca, dove poteva vederlo semplicemente girando la testa. Il fondo della piscina era cosparso di sassolini. Ne raccolse delle manciate per guardarsi sotto il fascio di luce solare: erano bellissimi e stranissimi. C'erano agate piene di venature, levigate dall'acqua e lucenti come uova di rondine, pietre di un magico azwrro solcato da linee rosse, o rosa o gialle; diaspri e corniole di cento tonalità di rosso, onici nere e lustre, occhi di tigre giallastri e cangianti. « Farò una collana per H'ani », si disse Centaine. « Un dono di ringraziamento, da parte di Shasa! » Cominciò a raccogliere le pietre più belle, più interessanti e insolite per forma e colore. « Ho bisogno di un pendaglio centrale », decise, e raccolse infinite manciate di sassolini, lavandoli nelle acque verdi ed esaminandoli sotto il raggio di sole finché non si convinse di aver trovato proprio quello che voleva. Era una pietra incolore, chiara come l'acqua pura, ma colpita da un raggio di sole, si vedeva che imprigionava l'arcobaleno, un fuoco interno che ardeva di tutti i colori dello spettro. Centaine passò un'ora d'ozio nella vasca, girando lentamente questa pietra sotto il fascio di luce per farla lampeggiare e risplendere, guardando con diletto nelle sue profondità, fissan-
dola mentre esplodeva in meravigliose cascate di luce. Non era molto grossa, forse quanto un frutto maturo di mongongo, ma era un cristallo simmetrico e sfaccettato che andava benissimo come pendaglio centrale. Progettò la collana per H'ani con cura infinita, nel corso di parecchie ore, con Shasa al seno: ordinava e riordinava la sua collezione di pietre, finché alla fine non trovò la successione che più le piaceva. Tuttavia non rimase ancora completamente soddisfatta, perché la pietra centrale incolore, così brillante e regolare, in qualche modo faceva scomparire tutte le altre pietre colorate, che apparivano opache e insignificanti accanto a quella. Tuttavia procedette nel tentativo di infilare le pietre e qui incontrò subito dei problemi. Una o due si rivelarono abbastanza tenere da poter essere forate, con pazienza e ripetuti esperimenti, mediante un punteruolo d'osso. Altre, troppo fragili, andarono in mille pezzi, mentre alcune erano al contrario troppo dure. In particolare il cristallo lucente resisteva a tutti i suoi sforzi più accaniti, restando intatto anche dopo che Centaine ci ebbe spuntato sopra una mezza dozzina di punteruoli d'osso. Chiese aiuto a O'wa, che, una volta compreso il suo proposito, si mise a disposizione con entusiasmo infantile. Provarono in cento modi e fallirono sempre, finché non decisero di incollare le pietre più dure a un reticolo di fibre di sansevieria mediante la resina d'acacia. Centaine prese quindi a comporre la collana, non senza condurre O'wa quasi alla disperazione scartando continuamente le fibre che le proponeva. ff Questo filo è troppo grosso », gli diceva ad esempio, oppure « questo non è abbastanza resistente ». E O'wa, che era a sua volta un perfezionista quando lavorava coi propri metodi e strumenti, prendeva il problema con molta serietà. Alla fine Centaine sfilacciò l'orlo della gonna e, torcendo insieme i fili di tela e le fibre di sansevieria, ottenne un laccio abbastanza sottile e resistente da accontentare tutti e due. Quando finalmente la collana fu pronta, la soddisfazione di O'wa non fu inferiore a quella di Centaine. Come se idea, composizione ed esecuzione fossero state interamente opera sua. Risultò più un pettorale che una collana, con un solo filo di pietre dietro e invece, davanti, un trionfo di pendagli di pietre collegate a rete, con il grosso cristallo trasparente al centro e attorno un mosaico colorato di agate, diaspri e corniole. Anche Centaine era tutta contenta del risultato del suo lavoro manuale. « E molto più bella di quel che pensavo », disse a O'wa soprappensiero, in francese, alzandola per guardarla controluce. « Quelle di Cartier sono un po' meglio », continuò, ricordando il dono di nozze di suo padre a sua madre, che le era stato permesso di indossare in occasione del suo compleanno, « ma non c'è affatto male per essere il primo tentativo di una ragazza selvaggia in un posto selvaggio! » La consegna del regalo avvenne nel corso di una piccola cerimonia. H'ani sedeva, raggiante come un folletto ambrato, mentre Centaine la ringraziava e lodava in lei la nonna esemplare e la più brava delle ostetriche annoverate dai San; ma, quando mise il dono intorno al collo della vecchia donna, apparve subito un po' troppo grosso e pesante per quel fragile corpo pieno di rughe. « Ah, vecchio, sei così orgoglioso di quel tuo coltello, ma esso è niente in confronto a questo dono! » disse H'ani a O'wa, accarezzando il pendaglio tutta felice. « Questo si che è un regalo. Guarda! Ora porto al collo la luna e le stelle! » Rifiutò di togliersi la collana. Quando scavava col suo bastone appuntito, essa le batteva pesantemente sullo sterno, e
quando si chinava sul fuoco a cucinare le pendeva tra le sacche vuote delle mammelle. Anche di notte, quando dormiva con la tests reclinata sulla spalla, capitò a Centaine di vederle addosso la lucente collana, che pareva schiacciare a terra il corpicino della vecchia San. Risolta la questione della collana, Centaine cominciò ben presto a sentirsi prigioniera tra le altissime pareti di roccia dell'antico cratere vulcanico. Ormai aveva superato tutti i postumi del parto, aveva recuperato in pieno le energie, e cominciava francamente ad annoiarsi. La vita quotidiana non richiedeva sforzo alcuno. Mentre raccoglieva noci, bacche e frutti, non faceva fatica a wrtare Shasa in braccio, oppure legato alla schiena, alla maniera dei San, quando andava a far legna con H'ani. Ricominciò ad avere le mestruazioni e a sentir formicolare nell'organismo un soprap più di energia. Le venivano anche improvvisi attacchi di depressione. Allora perfino le innocenti chiacchiere di H'ani l'irritavano, e se ne andava in giro da sola col bambino. Benché costui dormisse della grossa anche in quei momenti, se lo teneva in grembo e si metteva a raccontargli un sacco di cose in francese o in inglese. Gli parlava di suo padre e del chateau, di Nuage e di Anna e del generale Courteney: e questi ricordi, questi nomi le facevano venire un'indefinita e profonda malinconia. A volte di notte, quando non riusciva a dormire, restava sdraiata ad ascoltare la musica che risuonava nella sua testa: le melodie dell'Aida, o le canzoni dei contadini di Mort Homme nei giorni di vendemmia. Così passavano i mesi e si susseguivano le stagioni del deserto. Gli alberi di mongongo fiorirono e tornarono a dar frutto, e un bel giorno Shasa si rizzò carponi e, tra il divertimento , di tutti, intraprese la sua prima esplorazione della vallata. Tuttavia gli stati d'animo di Centaine erano più mutevoli delle stagioni. A volte era felice e contenta in compagnia di Shasa e dei due vecchi San: altre volte, invece, si sentiva un'ergastolana in quella conca chiusa. « Loro sono venuti qui a morire », si rese conto, quando vide i due vecchi abbandonarsi senza rimpianti alla routine della vita quotidiana, « ma io non voglio morire. Io voglio vivere, vivere! » H'ani la osservò con attenzione, senza darlo a vedere, per un po', poi prese una decisione. « Domani io e la bimba Nam usciamo dalla valle », annunciò a O'wa. « Perché, vecchia donna? » O'wa era sbalordito. Si trovava benissimo lì e non aveva mai nemmeno pensato di andarsene. « Abbiamo bisogno di medicine, e di un cambiamento di dieta. » « Non sono ragioni sufficienti per rischiare il passaggio tra i guardiani della galleria. » « Andremo all'alba, quando le api sono insonnolite dal fresco, e torneremo a tarda sera... inoltre, ormai i guardiani ci hanno accettato. » O'wa stava per aggiungere altre proteste, ma lei tagliò cor to. « E necessario, vecchio nonno. Ci sono cose che un uomo non capisce. » Come H'ani aveva intuito, Centaine fu eccitata e felice della promessa di uscire, e cominciò a scuotere H'ani molto prima dell'ora concordata. Scivolarono tranquillamente fuori del tunnel delle api, e, con Shasa strettamente legato alla schiena e la bisaccia in spalla, Centaine corse felice e contenta giù per la stretta valle e quindi fuori, negli sconfinati spazi del deserto, come uno scolaretto il primo giorno di vacanza. Il suo buon umore durò per tutta la mattina. Vagando tra gli alberi in cer-
ca delle radici di cui H'ani aveva detto d'aver bisogno, le due donne chiacchieravano tutte contente. Nel caldo di mezzogiorno trovarono riparo sotto un'acacia, e, mentre Centaine allattava il bambino, H'ani, coricata all'ombra, si mise a dormire come un vecchio gatto giallo. Una volta nutrito Shasa, anche Centaine si allungò a dormicchiare con la schiena appoggiata al tronco. Un calpestio di zoccoli e nitriti cavallini la riscossero, e la ragazza aprì gli occhi, pur rimanendo assolutamente immobile. Un branco di zebre si era avvicinato sottovento al gruppetto addormentato, senza notarlo tra l'erba alta fino alla vita. C'erano almeno un centinaio di animali. Puledrini dalle zampe troppo lunghe per il corpo lanuginoso e le strisce ancora mal definite, color cioccolato, che se ne stavano vicino alle madri guardandosi attorno con gli occhioni attoniti e scuri; puledri un po' cresciuti che si rincorrevano zigzagando sicuri tra gli alberi; giumente mature e gravide, dalle criniere a spazzola, alcune con le mammelle nere già gonfie di latte. Poi c'erano gli stalloni dai quarti poderosi che arcuavano fieramente il collo quando si sfidavano tra loro o andavano ad annusare qualche giumenta, e questi ricordavano vividamente a Centaine Nuage nel suo massimo splendore. Osando appena respirare, la ragazza giacque appoggiata al tronco d'acacia e rimase a guardare il branco di zebre con profondo piacere. Si avvicinarono ancora. Stendendo il braccio, avrebbe potuto accarezzare un puledrino che passò vacillando accanto a lei. Sfilarono così vicino che vide quanto ogni animale fosse diverso dall'altro. Gli intricati disegni sul manto erano unici al pari di impronte digitali, e le strisce nere avevano un alone aranciato che faceva di ogni zebra un capolavoro a sé. Mentre guardava, uno degli stalloni, un magnifico animale imponente e dalla coda folta che sferzava l'aria tra-i quarti posteriori, tagliò fuori dal resto del branco una giovane giumenta, mordicchiandole coi dentoni gialli i fianchi e il collo, ostruendole la strada quando cercava di riguadagnare il folto e spingendola sempre più lontano dalle altre giumente, ma più vicino all'albero di acacia, prima di incominciare a rabbonirla strofinandosi il muso sul suo collo. La giumenta civettava, ben consapevole della propria condizione di alta desiderabilità. Roteando gli occhi, morsicò ferocemente il maschio sulla spalla muscolosa e quello stronfiò arretrando, ma poi tornò aggirando la femmina e cercò di infilarle il naso sotto la coda, là dove era più gonfia e più calda. Essa strillò a quell'attentato al suo pudore e scalciò con ambo gli zoccoli posteriori, neri e lustri, che passarono alti sopra la testa del maschio: dopodiché si girò a fronteggiarlo, scoprendo i dentoni. Centaine s'accorse d'essere indicibilmente turbata. Condivideva la crescente eccitazione della giumenta, e apprezzava la commedia della riluttanza che non faceva che aumentare l'ardore dello stallone. Questo continuò ad aggirarla, finché alla fine la giumenta si sottomise e restò perfettamente immobile, a coda sollevata, mentre lo stallone l'annusava delicatamente. Centaine sentì il proprio corpo irrigidirsi per l'impazienza e poi, quando lo stallone montò sopra la femmina e affondò la sua lunga radice pulsante completamente in lei, Centaine gemette e strinse forte forte le ginocchia l'una all'altra. Quella notte, nella rozza capanna di frasche presso la sorgente calda, sognò Michael e il vecchio granaio, svegliandosi poi con un'acuta sensazione di solitudine e di generale insoddisfazione, che non svanì nemmeno quando attaccò al seno Shasa e lo sentì tirare con forza, esigente. L'umor nero continuava ad affliggerla e le pareva che le alte
pareti rocciose della valle volessero chiudersi sopra di lei per soffocarla. Tuttavia passarono altri quattro giorni prima che riuscisse a convincere H'ani della necessità di un altro giretto all'esterno. Tra i mopani Centaine si mise in cerca del branco di zebre, ma stavolta la foresta sembrava stranamente deserta e la selvaggina che incontravano era diffidente ed evasiva. Appena scorgeva le loro forme umane scappava subito. « C'è qualcosa », mormorò H'ani mentre riposavano all'ombra verso mezzogiorno. « Non so che cos'è, ma anche gli animali lo sentono. Mi mette a disagio. Dovremo tornare subito nella valle a parlarne con O'wa. Lui di queste cose se ne intende più di me. » « Oh, H'ani, non ancora », la scongiurò Centaine. « Stiamo qui ancora un po', mi sento più libera. » « Non mi piace quello che sta succedendo qua, qualunque cosa sia », insisté H'ani. « Le api! » proruppe Centaine, trovando la scusa buona. « Fino a notte non si può passare per il cunicolo. » H'ani, sia pur di malavoglia, dovette convenirne. « Ma da' retta a questa vecchia donna, c'è qualcosa di strano nell'aria, qualcosa di brutto... » Si mise a fiutare la lieve brezza. Nessuna delle due riuscì a chiudere occhio nel torpore meridiano. H'ani le prese Shasa appena Centaine l'ebbe allattato. « Come cresce! » sussurrò con un'ombra di rimpianto nello sguardo. « Vorrei poterlo vedere quando sarà grande come un albero di mopano. » « Lo vedrai, vecchia nonna », le sorrise Centaine. « Vivrai di certo fino a vederlo cresciuto. » H'ani non la guardò negli occhi. « Voi due ve ne andrete via presto. Lo sento, tu vuoi tornare tra la tua gente. » La sua voce era rauca dal dispiacere. « Te ne andrai, e allora non ci sarà più niente nella vita di questa povera vecchia. » « No, vecchia nonna », disse Centaine prendendole la mano. « Forse un giorno ce ne dovremo andare davvero: ma torneremo da te, te lo prometto. » Con delicatezza, H'ani si sottrasse alla stretta di mano e si alzò in piedi. « Il gran caldo è passato. » Tornarono verso la montagna, camminando a grande distanza tra loro, pur badando sempre a non perdersi di vista, soprattutto quando il bosco si faceva più fitto. Come al solito, Centaine parlava al bambino addormentato in francese, per abituare il suo orecchio alla lingua e per non dimenticarla lei stessa. Avevano quasi raggiunto la scarpata sassosa alle prime pendici del monte, quando Centaine vide le impronte di un paio di stalloni profondamente impresse nel terreno soffice un passo avanti a lei. Ecco le zebre, dunque... sotto la guida di H'ani, aveva sviluppato acute facoltà d'osservazione, mentre O'wa le aveva insegnato a leggere con sicurezza le tracce nel territorio. In quelle impronte, però, c'era qualcosa che non la convinceva. Procedevano afhancate, come se le bestie fossero state legate assieme. Spostò Shasa sull'altro fianco e si mise a osservarle più attentamente. Si interruppe con un sobbalzo che allarmò il piccolo, il quale si mise a piangere per protesta. Centaine rimase impietrita dallo shock a guardare le impronte, ancora incapace di leggere in ciò che stava vedendo. Poi di colpo una piena di emozioni e deduzioni l'investì e la fece arretrare. Comprese il comportamento spaventato delle creature selvatiche, e il brutto presentimento di H'ani. Cominciò a tremare, piena a un tempo di timore e di gioia, confusione ed eccitazione. « Shasa », gli sussurrò, « non sono mica impronte di ze-
bra. » Infatti gli zoccoli che le avevano lasciate erano bordati da mezzelune d'acciaio. « Sono cavalieri, Shasa, uomini civili che cavalcano cavalli ferrati! » Pareva impossibile. Qui, in questo deserto desolato! D'istinto portò le mani ai suoi stracci, da cui le mammelle uscivano spudoratamente. Si coprì e si guardò intorno impaurita. Coi San aveva imparato ad accettare la nudità come fatto del tutto naturale. Adesso però si accorgeva che la sottanella le copriva appena le cosce, e si vergognava. Arretrò dalle impronte come davanti a un dito accusatore. « Un uomo... un uomo civile », ripeté, e subito le si formò nella mente l'immagine di Michael. La sua brama superò ogni ritegno. Tornò cautamente alle impronte e si mginocchiò accanto a esse, fissandole avidamente, senza osare toccarle per paura che svanissero come un'allucinazione. Erano fresche, così fresche che, proprio mentre guardava, il margine sabbioso di una di esse crollò all'interno. « Un'ora fa, Shasa, sono passati un'ora fa e non di più. » I cavalieri andavano al passo, a una velocità inferiore ai dieci chilometri all'ora. « In questo stesso momento un uomo civile si trova a meno di dieci chilometri da noi, Shasa. » Saltò su e si mise a correre dietro alle impronte, facendo una cinquantina di passi prima di fermarsi e inginocchiarsi di nuovo. Prima non se ne sarebbe accorta, senza le istruzioni di O'wa era come cieca, ma ormai era capace di scorgere immediatamente un pezzetto di metallo, anche se grosso come l'unghia del pollice. in una chiazza d'erba secca. Lo raccolse e lo guardò sul palmo della mano. Era un bottone militare d'ottone, col filo rotto ancora nei buchi. Lo guardò come se si trattasse di un gioiello prezioso. Aveva visto gli stessi bottoni sull'uniforme del generale Courteney; vi erano impressi un unicorno e un'antilope che facevano la guardia a uno scudo. Sotto c'era un motto incorniciato da un nastro: Ex Unitate Vires. Lo lesse ad alta voce. Era il motto del Sud Africa: L'Unione fa la forza. « E un soldato, Shasa! Un uomo del generale Courteney! » In quella si udì un fischio lontano, il richiamo di H'ani, e Centaine balzò in piedi, esitando indecisa. Aveva una gran voglia di mettersi a correr dietro a quei cavalieri e scongiurarli di riportarla alla civiltà, ma poi H'ani fischiò ancora e si voltò indietro. Ormai sapeva quanta paura avevano i San degli stranieri: i due vecchi le avevano raccontato tutte le storie dei massacri e delle persecuzioni brutali. « H'ani non deve vedere queste tracce. » Si riparò gli occhi con la mano e si mise a guardare nella direzione delle tracce, ma nulla si muoveva tra gli alberi di mopani. « Cercherà di impedirci di seguirli, Shasa; lei e O'wa faranno di tutto per fermarci. Come facciamo a lasciare i due vecchi? Eppure non possono venire con noi, correrebbero un grave pericolo... » Era tormentata e indecisa. « Ma non possiamo lasciarci sfuggire questa occasione. Potrebbe essere l'unica... » H'ani fischiò di nuovo, stavolta molto più vicino, e Centaine intravide la sua figurina che si avvicinava tra gli alberi. La mano della ragazza si chiuse con qualche senso di colpa sul bottone d'ottone e lo ficcò in fondo alla bisaccia. « H'ani non deve vedere le tracce », si ripeté, e dopo aver dato un'attenta occhiata alla montagna, in modo da orientarsi e poterle ritrovare, si voltò, corse incontro alla vecchia e la condusse via, verso l'imbocco della valle segreta. Quella sera, mentre sbrigavano le solite faccende al campo,
Centaine faticò a nascondere la propria eccitazione. Rispose svogliatamente alle domande di H'ani. Appena ebbe mangiato, nel brevissimo crepuscolo africano, andò alla sua capanna di frasche e si coricò come per dormire, coprendo se stessa e il bambino con la pelle di Remsbok. Anche se se ne stava immobile, regolando il respiro, internamente era in preda a una grande frenesia, e si sforzava di prendere una decisione. Non poteva sapere chi fossero i cavalieri, ed era decisa a non far correre il minimo pericolo ai San: però era anche determi nata a non perdere quell'occasione di seguire le tracce che po tevano riportarla nel mondo civile, sottraendola a una dura esi stenza che senz'altro avrebbe finito per abbrutirla assieme al suo bambino. « Dobbiamo scappare subito, in modo da raggiungere i ca valieri prima ancora che H'ani e O'wa si rendano conto che ce ne siamo andati. Così non ci seguiranno e non correranno pe ricoli. Ce ne andremo al sorgere della luna, piccino mio. » Giacque immobile e tesa, fingendo di dormire, finché la luna non fece capolino dall'orlo del cratere. Allora si alzò in silenzio e raccolse le proprie cose, mentre Shasa mormorava nel sonno, avviandosi per il sentiero. All'angolo della collina si girò a guardare indietro. Ormai del fuoco ardevano le braci, ma il chiaro di luna entrava nella capan na dei due vecchi. O'wa era nell'ombra, non più che una piccola forma indistinta, mentre H'ani era illuminata dall'astro nottur no. La sua pelle ambrata risplendeva nella luce morbida, e la testa appoggiata alla spalla sembrava contemplare Centaine. La sua espressione pareva dolente e disperata, presaga della terri bile sorpresa che, Centaine lo sapeva, avrebbe avuto l'indo mani, e sul suo vecchio petto ossuto brillava fioca la collana di pietruzze colorate e trasparenti. « Addio, vecchia nonna », sussurrò Centaine. « Grazie per la tua grande umanità e gentilezza nei nostri confronti. Ti vor rò sempre bene. Perdonaci, piccola H'ani, ma dobbiamo pro prio andare. » Centaine dovette farsi forza per svoltare l'angolo che avreb be reso invisibile il campo. E, correndo su per il sentiero sas soso che portava alla galleria delle api, le sue lacrime le offuscarono il chiarore lunare, recando un sapore di acqua salmastra agli angoli della sua bocca. Proseguì a tentoni nell'oscurità più totale che regnava nella galleria, immersa in un fortissimo odore di miele, e finalmente sbucò, accolta dalla luna, nell'angusta valletta successiva. Si fermò in ascolto di un eventuale trepestio di piedi nudi che l'inse guissero, ma si udiva solo l'ululato di una muta di sciacalli nella piana sottostante. Centaine si rimise dunque in cammino. Quando raggiunse la pianura, Shasa frignò dimenandosi tra le sue bracua. Senza fermarsi, Centaine sistemò la correggia che lo sosteneva in modo che potesse nutrirsi al seno. Vi si attaccò avidamente, e lei prese a sussurrargli all'orecchio, traversando la foresta: « Non aver paura, piccolo, anche se è la prima volta che giriamo soli di notte. I cavalieri saranno accampati a poca distanza da qui. Li raggiungeremo certo prima dell'alba, prima ancora che H'ani e O'wa si sveglino. Non guardare le ombre, non immaginarti brutte cose, Shasa... » Continuò a mormorare così, cercando di fare coraggio soprattutto a se stessa, perché la notte era piena di mistero e di minaccia, e solo in quel momento si rendeva conto di quale e quanto affidamento avesse sempre fatto sui due vecchietti. « Ormai avremmo dovuto trovare le tracce, Shasa. » Centaine si fermò, incerta, e cominciò a guardarsi intorno. « Al chiar di luna tutto sembrava diversissimo. « Magari le abbiamo smarrite. »
Girò su se stessa, guardandosi attorno preoccupata. « Sono certa che erano in capo a questa radura. » E poi, con un sospiro di sollievo: « Eccole. Prima, la luna non ci favoriva ». Adesso invece le impronte degli zoccoli risaltavano chiaramente, orlate d'ombra dove i ferri avevano fatto affondare il terriccio sabbioso. Quante cose le aveva mai insegnato O'wa! Vedeva le tracce così bene che poteva quasi seguirle di corsa. I due cavalieri non avevano fatto nessun tentativo di cancellarle, né c'era vento che potesse confonderle. Avevano sempre seguito la via più facile, ai piedi della montagna, prendendo i sentieri battuti dagli animali, senza mai forzare i cavalli. A un certo punto Centaine riconobbe il luogo dove uno era smontato, e per un tratto era andato avanti col cavallo alla cavezza. Quell'uomo, notò Centaine con un empito di gioia, portava gli stivali. Stivali da cavallerizzo, col tacco abbastanza alto e le suole un po' consumate. Anche in quella luce fioca Centaine era in grado di dedurre dalla distanza delle impronte che si trattava di un uomo alto, dai piedi lunghi e stretti e un passo molleggiato e agevole. Tutto ciò sembrava confermare le sue migliori speranze. « Aspettaci! » invocò. « Per piacere, signore, aspetta che io e Shasa ti raggiungiamo! » Stava guadagnando terreno in fretta. « Bisogna cercare il loro fuoco da campo, Shasa. non saranno lontani. ormai... » Si interruppe di colpo. « Ehilà! Cosa c'è, Shasa? L'hai visto anche tu? » Si mise a scrutare la foresta. « Sono sicura di aver visto qualcosa. » Si guardò intorno. « Ma adesso non c'è più. » Cambiò spalla al fardello di Shasa. « Stai diventando davvero un peso! Ma tanto arriveremo presto. » Si incamminò di nuovo. Poco dopo, gli alberi si diradarono, rivelando un'altra vasta radura. Sull'erba corta il chiaro di luna riversava una scialba velatura metallica. Impaziente, perlustrò con lo sguardo la distesa sgombra, concentrando l'attenzione su tutte le macchie scure irregolari, sperando di vedere due cavalli legati accanto alle braci di un fuoco e due figure avvolte nelle coperte. Ma le macchie scure erano tutti formicai o ceppi, meno, dall'altra parte della radura, un branco di gnu intenti a pascolare. Alzarono la testa e, allarmati, scapparono subito creando un vero pandemonio, sciamando tra gli alberi e lasciandosi dietro, nella radura, una gran nuvola di polvere. « Cosa li avrà spaventati, Shasa? Abbiamo il vento in faccia, non possono averci fiutato. » Il rumore del branco in fuga si allontanava. « Qualche predatore! » Si guardò attorno preoccupata. « Macché, mi sto immaginando tutto. Vedo quello che non c'è. Non cominciamo ad aver paura delle ombre. » Si avviò con decisione. Pochi passi dopo, si fermò ancora, spaventata. « Hai sentito, Shasa? C'è qualcosa che ci segue. Prima udivo dei passi, ora non più. Ci sta spiando, lo sento. » In quella una nuvoletta coprì la luna e il mondo piombò nel buio. « Presto spunterà di nuovo la luna », disse Centaine, stringendo Shasa cosi forte che il bambino emise un verso indignato. « Scusa, piccolo. » Allentò la stretta e, ricominciando a camminare, inciampò. « Ma perché sono venuta qua? No, no, Shasa, dovevamo farlo. Coraggio, bambino mio. Non possiamo seguire le tracce senza la luna. » Si stese a riposare, guardando il cielo. La luna si intravedeva appena oltre lo strato plumbeo di nubi. Poi si affacciò da un varco e per un attimo tornò a inondare della sua morbida luce
al platino la radura. « Shasa! » strillò Centaine. C'era qualcosa li attorno, una sagoma immensa, grande come un cavallo, ma con un'andatura furtiva, sinistra, per nulla equina. « Al suo strillo si lasciò cadere nell'erba, sparendo. Centaine saltò in piedi e cominciò a correre verso gli alberi ma prima che ci arrivasse la luna spari di nuovo e, nel buio Centaine fini ancora lunga distesa. Shasa si mise a frignare. « Per piacere, sta' buono, bambino mio », lo consolò Centaine cullandolo, ma il piccolo avvertiva il suo terrore e piangeva a squarciagola. « Non piangere, Shasa. Cosi ce lo tiri addosso. » Centaine tremava come una foglia. Quella grossa cosa chiara che aveva intravisto nel buio rappresentava una minaccia ultraterrena, emanava una palpabile aura maligna, e lei sapeva bene che cos'era. Perché l'aveva già vista. Si appiatti a terra, cercando di coprire Shasa col proprio cor po. Poi esplose un rumore, come un tuono tempestoso e tale da riempire la notte, la sua testa, la sua anima e l'universo in tero. L'aveva già sentito, quel rumore, ma mai cosi vicino, mai cosi raccapricciante. « Madonna santa », invocò. Era il ruggito di un leone, quanto di più spaventoso si possa udire nelle selvagge plaghe africane. In quel momento la luna sbucò di nuovo dalle nuvole e Centaine vide il leone chiaramente. La fronteggiava a una cinquantina di passi di distanza, ed era immenso, con la criniera spiegata che sembrava una pelosa coda di pavone intorno alla grossa testa piatta. La coda sferzava l'aria di qua e di là, regolare come un metronomo. Poi, il leone tese il collo, inarcò la schiena, apri la bocca cosi da far balenare come pugnali le lunghe zanne eburnee al chiar di luna... e ruggi un'altra volta. In quella spaventosa esplosione sembrava esser concentrata tutta la ferocia e la crudeltà dell'Africa. Benché avesse letto e riletto le descrizioni di esploratori e cacciatori, non era minimamente preparata a una cosa del genere. Il ruggito sembrò investirla materialmente, facendole scoppiare cuore e polmoni in petto. Per un pelo non se la fece addosso. Tra le sue braccia, Shasa smaniò, strillando, e bastò questo a far emergere Centaine dal suo parossistico terrore. Il leone era un vecchio maschio rosso solitario. Aveva zanne e artigli consumati, il manto pieno di cicatrici e spelacchiato tra le spalle. Nella lotta col maschio più giovane che l'aveva spodestato e scacciato dal branco aveva perso un occhio per una zampata. Era malandato, magro e affamato. Dalla pelle gli sporgevano costole quanto mai spigolose. Divorato dai morsi della fame, tre giorni prima aveva aggredito un porcospino: e mal glien'era incolto, perché adesso aveva pure una ventina di aculei infetti conficcati nel collo e sul muso, dove le piaghe stavano già suppurando. Era vecchio, debole e incerto, senza più fiducia in se stesso, ed era quanto mai stufo dell'uomo e del suo odore. Le sue memorie ancestrali, la sua stessa lunghissima esperienza gli suggerivano di starsene alla larga dagli insidiosi bipedi, ingannevolmente fragili. Quei suoi ruggiti erano il sintomo del suo nervosismo e della sua incertezza. Una volta, affamato com'era adesso, si sarebbe avvicinato rapidamente e silenziosamente alla preda. Le mascelle potevano ancora schiantare di netto un cranio o un femore, e una zampata era ancora capace di spezzare la spina dorsale di una persona. Tuttavia esitò, e si mise a girare intorno alla preda. Forse senza luna sarebbe stato più ardito, o se gli fosse già capitato di assaggiare la carne umana, o se gli aculei gli avessero fatto meno male. Ma, conciato co-
m'era, ruggi ancora, indeciso. Centaine saltò in piedi per istinto. A volte a Mort Homme aveva osservato il gioco mortale del gatto col topo, e la reazione immediata del felino a un tentativo di fuga della vittima designata. Così intuiva che, se si fosse messa a correrel il gattone si sarebbe scagliato immediatamente su di lei. Gridò e, levando il bastone appuntito, fu lei a scagliarsi contro il leone. Quello si girò e trottò via tra l'erba per una cinquantina di passi, dopodiché si fermò e si rimise a osservarla brontolando irritato e sferzando l'aria con la coda. Sempre senza voltargli le spalle, con Shasa sotto il braccio e il bastone nell'altra mano, Centaine cominciò ad arretrare. Lanciò uno sguardo sopra la spalla. Il primo mopani era un po' staccato dagli altri. Era un albero alto e robusto che formava una bella forcella molto sopra il terreno, ma sembrava agli antipodi tanto era lontano da dov'era lei. « Non dobbiamo metterci a correre, Shasa », sussurrò con voce rotta dal terrore. « Piano. Piano, adesso. » Il sudore le colava a fiotti negli occhi, gelido, facendola continuamente rabbrividire. Il leone si mise ad aggirarla, diretto verso il margine della foresta, caracollando a testa bassa e orecchie ritte: Centaine vide lampeggiare il suo unico occhio come un pugnale. « Dobbiamo arrivare all'albero, Shasa. » Il bambino frignò scalciandole il fianco. Il leone si fermò e Centaine lo udì fiutare. « Oh Dio, com'è grosso. » Inciampò e quasi cadde. Il leone scattò avanti, grugnendo terribilmente, esalando zaffate tonanti, come una vaporiera. Centaine urlò brandendo il bastone ap puntito. Il leone si fermò, ma stavolta non si allontanò. Restò lì a scrutarla a testa bassa, minaccioso, agitando la coda dal fiocco nero, e quando Centaine ricominciò ad arretrare, mosse avanti, quasi strisciando sul terreno. « L'albero, Shasa, dobbiamo arrivare all'albero! » Il leone accennò di nuovo a tagliarle la strada. Centaine diede un'occhiata alla luna. Da settentrione stava venendo a coprirla un'altra nuvola nera. « Per piacere, non oscurare la luna! » invocò disperata Centaine. Comprendeva che la loro vita era legata al filo del chiarore lunare, e intuiva che il bestione, al buio, si sarebbe fatto oltremodo ardito. Ormai descriveva cerchi sempre più stretti, Si avvicinava, sempre cauto e incerto, ma sorvegliandola e forse cominciando a capire quale facile preda fosse in realtà. L'attacco decisivo e mortale della belva non poteva essere rimandato per più di pochi secondi. Qualcosa la colpì alla schiena e strillò, rischiando di cadere, prima di rendersi conto che era arrivata, sempre arretrando, fino all'albero di mopani. vi si aggrappò, sospirando di sollievo, perché le gambe non la reggevano più. :Tremando come una foglia, tolse le uova di struzzo piene d'acqua dalla bisaccia. Poi ci infilò dentro Shasa, prima i piedi, in modo che la testa sporgesse, e la spostò sulla schiena. Shasa, con la faccia tutta rossa, piangeva a squarciagola, rabbioso. « Sta' bravo, per piacere sta' bravo... » Raccolse il bastone appuntito e se l'infilò alla cintola a mo' di spada. Fece un salto e raggiunse con le mani il primo ramo, aggrappandovisi. Poi coi piedi nudi sulla corteccia scabra riuscì a issarsi su in un modo che mai avrebbe ritenuto possibile. Evidentemente la disperazione scatenava intatte riserve di energia psicofisica. A forza di braccia e gambe riuscì dunque a montare, sempre col bambino in spalla, sul primo ramo. Tuttavia si trattava di un'altezza di nemmeno due metri, e
il leone si avvicinava brontolando spaventosamente, al trotto. Centaine salì in piedi sul ramo e raggiunse un'altra presa, e poi un'altra, issandosi successivamente su rami sempre più alti. La corteccia era dura e abrasiva come pelle di coccodrillo, e le sanguinavano polpastrelli e piante dei piedi quando alfine arrivò alla forcella del mopani, a dieci metri buoni dal suolo. Il leone sentì l'odore del sangue, che gli scatenò il bestiale appetito. Ruggendo, balzò ai piedi del mopani trattenendosi ad annusare le uova di struzzo con l'acqua che Centaine aveva lasciato giù. Poi riprese a ruggire. « Siamo salvi, Shasa », disse Centaine piangendo di sollievo, seduta nella biforcazione dell'albero, stringendo al petto il bambino e sbirciando giù, tra l'intrico di foglie e rami, la groppa muscolosa del vecchio leone. Si accorse che adesso si vedeva meglio: l'alba già schiariva il cielo orientale. Si scorgeva perfino il colore rossastro del gattone. A difierenza delle illustrazioni che aveva visto, la criniera non era nera, ma dello stesso color ruggine. « O'wa li chiama diavoli rossi », si ricordò, stringendo Shasa al seno e cercando di calmare il suo pianto disperato. « Quanto mancherà al sorgere del sole? » Guardò ansiosa a levante e vide sopraggiungere l'alba in uno splendore di rossi ramati, da fu cina. « Presto farà giorno, Shasa », disse. « Allora quella bestiaccia se ne andrà. » Sotto di lei, il leone si rizzò sulle zampe posteriori, con le anteriori appoggiate al tronco, e si mise a fissarla. « Ha un occhio solo. E guercio. » L'orbita nera e vuota in qualche modo rendeva il giallo balenare dell'unico occhio ancora più micidiale e minaccioso. Centaine fu scossa da un tremito irrefrenabile. Il leone affondò gli artigli delle zampe nella corteccia del mopani, abbandonandosi a un altro bestiale ruggito. La doppia zampata produsse trucioli arricciolati e segatura, creando nell'albero solchi stillanti linfa. « Va' via! » gli gridò Centaine. Il leone si raccolse sulle zampe posteriori e si lanciò su, aggrappandosi al tronco con gli artigli delle quattro zampe. Michael le aveva raccontato, e aveva poi letto sul Levaillant, che i leoni non si arrampicano sugli alberi; ma questo gattone rosso non doveva saperlo e veniva su strisciando intorno al tronco del mopani. si issò sul grande ramo basso, a tre metri da terra, e lì, ritto, in perfetto equilibrio, si mise a contemplarla. « Shasa! » Si rese conto in quel momento che il leone stava per balzare a ghermirla, e che l'arrampicata era servita solo a rimandare di poco la fine. « Devo salvarti! » Proseguì la salita, rizzandosi in piedi sulla forcella e aggrappandosi a uno dei due rami laterali. « Ecco! » Sopra di lei un ramoscello rotto sporgeva come un piolo. Usando tutte le residue energie riuscì ad assicurarvi la bisaccia contenente il figlio. « Addio, mio tesoro », singhiozzò. « Forse H'ani ti troverà. » Shasa scalciava come un matto, facendo oscillare la bisaccia appesa. Centaine tornò a sedersi sulla forcella ed estrasse il bastone appuntito che portava alla vita. « Zitto, bambino mio, sta' zitto », disse, sorda al suo pianto disperato, senza più alzare la testa a guardarlo ma continuando a sorvegliare il leone. « Se non piangi, forse non ti vedrà e si accontenterà di me. » Il leone si stirò avanzando le zampe anteriori, in equilibrio sul ramo, e ruggì ancora. Adesso Centaine ne sentì anche il fiato immondo, l'odore di ferite marce, il puzzo di carogna. La beStiacCia si tirò ancora più su.
Con gli artigli che laceravano la corteccia, aggrappato con le quattro zampe, salì sul tronco con una serie di balzi convulsi. Aveva la testa sollevata, la bocca aperta e l'unico occhio giallo puntato su Centaine. Dalle pestilenziali fauci rosee i mostruosi ruggiti l'investivano sempre più da vicino, mentre la belva saliva a ghermirla. Centaine urlò e, con tutta la forza che aveva, gli conficcò il bastone appuntito nelle fauci. Sentì la punta aguzza e indurita dal fuoco penetrare nella mucosa molle della gola, vide lo spruzzo di sangue scarlatto: poi il leone addentò la picca, con uno scossone della criniera fulva gliela strappò di mano e la gettò di sotto. Quindi, sanguinando dalle fauci e nebulizzando una spruzzata rosa a ogni ruggito, il leone arrischiò una zampata Centaine ritrasse le gambe cercando di schivarla, ma non fu abbastanza rapida. Un artiglio giallastro e ricurvo, lungo quanto l'indice di un uomo, le affondò nella caviglia nuda, e la tirò ferocemente verso il basso. Strappata dalla forcella, si aggrappò con ambo le braccia a uno dei rami laterali, e cercò di resistere con tutta la forza che aveva. Sentì il suo corpo straziato, tirato giù dal peso intollerabile del leone che le disarticolava le giunture del ginocchio e del bacino, mentre un lampo di dolore insopportabile le schizzava lungo la spina dorsale esplodendole nel cranio come una granata. Send l'artiglio del leone lacerarle la carne, e le braccia cominciarono a cederle. Centimetro per centimetro il leone la strappava dall'albero. « Pensa al mio bambino », gridò. « Mio Dio, ti prego, proteggilo tu. » Era un'altra idea peregrina, Garry ne era assolutamente convinto, anche se naturalmente non era cosi pazzo da dirlo. Il solo pensiero lo faceva sentire vagamente colpevole. Sbirciò al suo fianco la donna che amava. Nei diciotto dolcissimi mesi da che la conosceva, Anna aveva imparato l'inglese e aveva perso un po' di peso, cosa quest'ultima che Garry avrebbe evitato, se avesse potuto: infatti cercava di ingolosirla con ogni sorta di buoni bocconi. Di fronte all'hotel Kaiserhof di Windhoek, dove aveva preso residenza fissa, c'era una buona pasticceria tedesca. Non passava mai davanti al negozio senza entrare a comprare una scatola di quegli ottimi cioccolatini fondenti, o una torta alla crema, quella di ciliegie della Foresta Nera era la sua preferita, che poi portava ad Anna. Quando faceva le parti tagliando la carne, le riservava sempre i pezzi più grassi e succulenti, e le riempiva il piatto senza ascoltar proteste. Tuttavia, Anna continuava a dimagrire. Perché non passavano abbastanza tempo nella suite dell'albergo, deprecava lui. Non facevano che battere le plaghe più desolate: come adesso, per l'appunto. Appena riusciva a farle riprendere due o tre etti, partivano per un'altra spedizione nel deserto, seguendo vaghissime tracce sulla Fiat scoperta che aveva sostituito la Ford; e, dove la pista finiva, abbandonando anche quella in favore di muli e cavalli, per superare pietrose catene di montagne, farsi inghiottire da canyon sbadiglianti, attraversare le sconfinate pietraie dell'interno, dietro alle voci più vaghe e incontrollate, alle ciance e alle balle di chi deliberatamente li ingannava. « I due vecchi matti », li chiamavano ormai, Die twee ou onbeskofters, titolo che si erano guadagnati abbondantemente da un capo all altro del territorio. Garry ne provava un raffinato piacere, e sapeva di averlo anche pagato caro, quel titolo: perché, quando aveva provato a far la somma di quanto aveva
speso correndo dietro alle chimere, era sbiancato. Ma subito dopo aveva pensato: « Per chi altri posso spendere io, se non per Anna? » E dopo una breve riflessione ulteriore: « Che altro c'è, se non Anna? » Forte di queste scoperte, era ormai pronto a gettarsi a capofitto in qualunque follia. Certo, a volte si svegliava nel bel mezzo della notte e ci pensava freddamente e con lucidità. Si rendeva conto che il nipotino non esisteva, e che la nuora mai conosciuta era affogata diciotto mesi prima nelle gelide acque verdi dell'Atlantico, portando con sé in quegli abissi l'ultimo possibile legame con Michael. Allora il terribile lutto l'assaliva di nuovo, minacciando di stritolarlo: finché non si rivolgeva a tentoni ad Anna, addormentata accanto, che perfino nel sonno pareva cogliere il suo stato d'anirro e lo abbracciava, consolandolo. La mattina dopo si svegliava ritemprato, di nuovo ignaro della logica e pieno di cieca fede, impaziente di partire per la prossima fantasiosa spedizione. Garry aveva fatto stampare cinquemila manifesti a Città del Capo e li aveva distribuiti a tutte le stazioni di polizia, corti di giustizia e scali ferroviari del Sud Africa occidentale. Dovunque capitava assieme ad Anna, prendeva il pacco di manifesti sul sedile posteriore della Fiat, o in una tasca della sella, e andava ad affiggerli in tutti gli spacci, i bar, gli alberi ai bivii più sperduti; o li distribuiva, con qualche spicciolo di mancia, a tutti i monelli neri, bianchi o mulatti che incontrava per strada, coll'incarico di portarli al paese loro, o fattoria, cantiere, villaggio di frasche, per mostrarli ai grandi. 5000 STERLINE DI RICOMPENSA 5000. Per qualunque informazione che conduca al ritrovamento di CENTAINE DE THIRY COURTENEY, superstite della NAVE OSPEDALE PROTEA CASTLE barbaramente sdurata da un SOTTOMARINO TEDESCO il 28 agosto 1917 al largo della costa a nord di SWAKOPMUND. LA SIGNORA COURTENEY sarebbe stata sospinta a terra approdando SOLA NEL DESERTO O PRESSO INDIGENI SELVAGGI. Ogni informazione in proposito può essere utilmente inoltrata al sottoscritto presso I hotel KAISERHOF di WINDHOEK. COL. G.C. COURTENEY Cinquemila sterline erano una fortuna, vent'anni di salario di un lavoratore medio: bastavano per comprarsi una fattoria e popolarla di pecore e bestiame, assicurando a un individuo prosperità e benessere per tutta la vita. Si può immaginare in quanti saltarono fuori a provarci, propinando a Garry vaghe promesse, storie misteriose e vere e proprie balle. Così al Kaiserhof lui e Anna si trovarono improvvisamente occupatissimi a intervistare, speranzosi, personaggi che non si erano mai avventurati oltre la ferrovia, ma si dicevano pronti a capeggiare una spedizione nel deserto; altri che sapevano esattamente dove si trovasse la fanciulla sperduta, e altri ancora che avevano avuto occasione di vedere Centaine coi propri occhi e avevano solo bisogno di un anticipo di mille sterline per andare a prenderla. C'erano cultori di spiritismo e chiaroveggenti in costante contatto con lei, su un piano più elevato, e si fece avanti anche un tale pronto a vender la figlia a prezzo d'occasione per sostituire la donna scomparsa. Garry incontrò tutti di buon grado. Ascoltò le loro storie e partì a verificare teorie e istruzioni, o sedette davanti alla tavoletta ouija manovrando il bicchierino con gli spiritisti. Ne seguì anche uno per un migliaio di chilometri di deserto, dietro al pendolino da radioestesista con appeso un vecchio anello di Centaine. Conobbe tutta una serie di gentili signore, dal biondo al caffellatte, che sostenevano di essere Centaine de Thiry Courteney, e comunque pronte a fare per lui quant'altro vo-
lesse. Alcune al suo rifiuto presero a inveire strillando e dovettero essere cacciate fuori da Anna in persona. a Non c'è da stupirsi che tu dimagrisca », si disse Garry, chinandosi a dare una pacca sulla coscia ad Anna seduta accanto a lui sulla Fiat scoperta. Gli venne in mente la canzonaccia sgrammaticata e ribalda che fa: Di quello che abbiamo Signor. ti ringraziamo: contenti saremmo se avremmo di più. Le sorrise affettuosamente, dicendole: « Ormai dovremmo esserci quasi ». Lei annuì e rispose: « Stavolta sono sicura che la troviamo. Ho un presentimento infallibile ». « Sì », disse rispettosamente Garry. « Stavolta sarà diverso. » Era poco ma sicuro. Nessun'altra spedizione era iniziata in maniera così misteriosa. Un manifesto era tornato al mittente piegato e sigillato con la ceralacca. Era stato timbrato quattro giorni prima a Usakos, un piccolo scalo ferroviario a metà strada tra Windhoek e la costa. L'affrancatura era inesistente, Garry era stato obbligato a pagare la multa, e l'indirizzo era stato vergato da una grafia sbrigativa ma colta, inconfondibilmente tedesca. Nell'involto era disegnata una piantina del luogo in cui, con poche parole, lo si convocava a un appuntamento. Non c'era firma. Garry telegrafò immediatamente all'ufficio postale di Usakos, sicurissimo che in quella remota località le lettere fossero così rare da potersele ricordare a una a una. Infatti l'impiegato postale ricordava perfettamente le circostanze della spedizione Aveva trovato il plico una mattina sulla soglia dell'ufficio, e l'aveva inoltrato senza avere idea di chi potesse averlo lasciato lì. Come si proponeva il misterioso corrispondente, tutto ciò destò la curiosità di Garry e Anna, che decisero subito di recarsi all'appuntamento. Era in una località deserta a duecentoventi chilometri da Windhoek, nella desolata regione del Kamas Hochtland. C'erano voluti tre giorni per coprire l'atroce pista che vi conduceva, e dopo essersi persi una mezza dozzina di volte e aver forato altrettante, dormendo sulla dura terra accanto alla macchina, stavano finalmente per raggiungere il luogo dell'appuntamento. Il sole sfolgorava impietoso da un cielo senza nuvole, e il vento, che soffiava da dietro, sollevava turbini di polvere rossastra su di loro, mentre avanzavano in macchina traballando sui sassi. Anna sembrava indifferente al caldo e alla polvere, sicché Garry, che la guardava ammirato, rischiò di perdere per l'ennesima volta la pista, tirando dritto laddove questa girava a gomito. Stavolta gli sarebbe costato caro: oltre la curva difatti si apriva una profondissima voragine. Tirò il freno a mano e si misero a guardare giù. Erano sul ciglio di un canyon enorme che tagliava l'altopiano desertico come un colpo d'ascia. La pista vi discendeva a tornanti convulsi che facevano pensare all'agonia di un serpente infilzato. Centinaia di metri più in basso il fiume era uno stretto nastro argenteo che gettava riflessi abbaglianti sulle pendici aranciate della valle. ff Ecco il posto », disse Garry, « e non mi piace affatto. Laggiù saremo alla mercé di qualunque bandito o assassino. » « Miinheer, siamo già in ritardo per il rendez-vous » « Chissà se ne usciremo vivi. Troveranno soltanto le nostre ossa in questo canyon. » « Andiamo avanti, MiEnheer, e parliamone poi. » Garry trasse un profondo sospiro. A volte c'era qualche con-
troindicazione a vivere con una donna dalla forte volontà. Staccò il freno a mano e la Fiat si tuffò oltre il ciglione: una volta imboccata la discesa, non c'era più niente da fare se non arrivare fino in fondo. Fu un incubo. La pendenza era così ripida che i freni fumavano, e le curve così strette che era necessario far più di una manovra. « Adesso so perché il nostro amico ha scelto questo posto. Laggiù saremo in sua balia. » Quaranta minuti dopo sbucarono sul fondovalle. Le pareti incombenti erano così ripide che il sole non riusciva a penetrare fin li. C'era dunque ombra, ma lo stesso un caldo terribile. Non c'era brezza che spirasse in fondo a quel budello, e l'aria che si respirava aveva un sapore pietroso. Lungo il fiume vi erano due anguste fasce di terreno pianeggiante, coperte di fitti cespugli di rovo. Garry usci di pista, tirò il freno a mano e scesero, tutti irrigiditi, a sbattere i vestiti impolverati. Poco sotto la riva rocciosa il fiume ribolliva, di un giallo velenoso come lo scolo di un'industria chimica. « Ebbene », disse Garry dopo aver scrutato entrambe le rive del fiume e le pendici del canyon, « pare che il nostro amico non si sia fatto vedere. Abbiamo il posto tutto per noi. » « Aspetteremo », decise Anna, parando l'obiezione più prevedibile. « Ma naturale, Mevrou. » Garry si tolse il cappello e si spol verò la faccia col fazzoletto che portava al collo. « Potrei nel frattempo suggerire una tazza di tè? » Anna prese il bricco e andò in riva al fiume. Assaggiò diffidente l'acqua e poi lo riempì. Quando tornò su, Garry aveva acceso il fuoco tra due sassi. Mentre l'acqua giungeva a bollore, Garry andò a prendere una coperta sulla Fiat e la bottiglia di schnapps. Ne versò una generosa porzione nelle gamelle, aggiunse abbondante zucchero e ci versò sopra il tè bollente. Si era accorto che lo schnapps, come il cioccolato, aveva su Anna un effetto emolliente, e non mancava mai di portarsene dietro una bottiglia. Forse il viaggio non sarebbe stato completamente inutile, pensò, aggiungendo una buona dose di schnapps alla tazza di Anna e portandola dove lei l'aspettava, seduta su un tappetino, accanto al fuoco. Ma, prima che potesse raggiungerla, Garry emise un grido di stuporq e si versò il tè bollente sugli stivali. Fissò la boscaglia alle spalle della donna e alzò le mani. Anna si guardò rapidamente attorno, balzò in piedi afferrando un lungo tizzone ardente e cominciò a brandirlo minacciosa. Garry accorse subito al suo fianco, ovvero al riparo della sua massa protettiva. « Via di qui! » urlava Anna. « Vi avverto che spacco la testa al primo che... » Ma ormai erano circondati. La banda li aveva sorpresi avvicinandosi di nascosto dalla boscaglia fitta. « Oh, mio Dio! Lo sapevo che era una trappola! » esclamò Garry. Li circondava infatti la più tremenda banda di tagliagole che si potesse immaginare. « Non abbiamo denaro né altro che valga la pena di rubare... » Accidenti quanti erano, pensò disperato. Quattro... no, ce n'era un altro dietro quell'albero... cinque assassini fatti e finiti. Il capo era chiaramente quel gigante nerissimo dalle bandoliere incrociate sul torace, e il Mauser imbracciato. Una fitta barba incorniciava il suo largo volto africano come la criniera di un leone mangiauomini. Gli altri erano tutti armati, una banda mista di selvaggi ottentotti e ovambo, che indossavano uniformi scompagnate e stracci laceri e bisunti, pieni di rammendi, toppe e buchi. Alcuni erano a piedi nudi, altri avevano stivali ormai informi tanto
erano consumati dalle marce. Soltanto le armi brillavano, lustre d'olio e portate con l'amore di un padre che palleggi il primogenito. Garry rivolse un fuggevole pensiero alla pistola d'ordinanza che teneva sotto il sedile della Fiat, accuratamente riposta nella fondina: ma subito scacciò quell'opzione disperata. « Non fateci del male », implorò, stringendosi ad Anna; e subito dopo, incredulo, si ritrovò abbandonato, perché la donna si era lanciata all'attacco. Mulinando il tizzone ardente come un'ascia vichinga, si scagliò dritto contro il gigantesco capo dei briganti. « Indietro, porco! » ruggiva in fiammingo. « Via di qua, nero figlio di una puttana infernale! » Colti di sorpresa, i tagliagole si dispersero berciando e cercando di schivare il tizzone che vorticava sfrigolando sopra le loro teste. « Come osate, bastardi fetenti partoriti da troie impestate... » Ancora tremante per lo shock, Garry assisteva a questa scena con gli occhi fuori della testa. L'amante non cessava di stupirlo. In vita sua aveva già udito gente sboccata. Durante la rivolta degli zulu, c'era un leggendario sergente maggiore che la gente veniva a sentire in piazza d'armi da centinaia di chilometri di distanza: ma in confronto ad Anna era un chierichetto. Per Anna, si potevano vendere i biglietti. La sua eloquenza era superata solo dalla sua destrezza col tizzone. Riusci a dare a un ottentotto un gran colpo tra le scapole che lo proiettò nella boscaglia con la giubba che fumava, accesa dalla brace, urlante come un cinghiale ferito. Altri due, riluttanti a confrontarsi con l'ira di Anna, saltarono insieme nelle acque gialle del fiume, sollevando alti spruzzi. A fronteggiare la donna infuriata restò solo il gigantesco ovambo. Era un uomo molto agile per le sue dimensioni, e riusciva a schivare i colpi nascondendosi dietro un albero vicino. Danzando sui piedi, riusciva sempre a frapporre il tronco tra sé e il tizzone, finché Anna, senza fiato, dovette fermarsi ansimando con la faccia tutta rossa. « Figlio malcagato di un babbuino dalle palle blu, vieni fuori che ti possa ammazzare... » Garry era sempre più sbigottito, soprattutto dalle pennellate di colore. L'ovambo continuava a mantenersi fuori tiro, scuotendo la testa come addolorato. « No! No! Non siamo qua per aggredirvi, siamo venuti a prendervi... » disse in afrikaans. Lentamente, Anna abbassò il bastone. « Hai scritto tu la lettera? » L'ovambo scosse la testa. « Siamo venuti a portarvi dall'uomo che l'ha scritta. » L'ovambo ordinò a due dei suoi di rimanere a guardia della macchina. Poi condusse Garry e Anna lungo la riva del fiume, in fondo al canyon. Benché vi fossero tratti agevoli, in certi punti il canyon si restringeva, consentendo il passaggio a una persona per volta. Questi passaggi erano guardati da altri guerrieri, di cui Garry riusci a intravedere solo la punta della testa e la canna del fucile. Ne dedusse che il luogo dell'appuntamento era stato accuratamente scelto in modo che nemmeno un esercito potesse venire a salvarli. Erano completamente alla mercé di quegli uomini duri e crudeli. Garry cominciò a sudare ancor di più in quel fondovalle senz'aria. « Saremo fortunati se potremo raccontarla », borbottò fra sé, e poi ad alta voce: « Mi fa male la gamba, non possiamo fermarci? » Nessuno gli badò. Non si voltarono nemmeno a guardarlo. Garry accelerò il passo per avvicinarsi il più possibile ad Anna. In maniera del tutto inaspettata, proprio quando Garry era caduto in preda alla più nera e abietta rassegnazione, la guida
ovambo, girando intorno a un enorme monolito giallo, si fermò in un accampamento provvisorio sotto una cengia formata dalla parete del canyon. Esausto e contrariato com'era, Garry notò nondimeno che di li si dipartiva un sentierino in salita, chiaramente una via di fuga in caso di un attacco di sorpresa. « Hanno pensato a tutto. » Toccò il braccio di Anna e le indicò il sentiero, ma lei badava solo all'uomo improvvisamente comparso dalle ombre della grotta. Era un uomo giovane, aveva metà degli anni di Garry, ma fin dai primi istanti dell'incontro riusci a far sentire stupido e inetto Garry. Non dovette dire neanche una parola. Si limitò a piazzarsi al sole e a mettersi a fissare Garry dall'alto della sua statura imponente, immobile come un felino. Bastò questo a ricordare al colonnello tutto ciò che lui non era. Lo sconosciuto aveva i capelli biondissimi e lunghi fino alle spalle, qua e là sbiaditi dal sole, ma cremosi come latte appena munto. Con i lineamenti marcati e abbronzatissimi facevano un contrasto sorprendente. Quel volto poteva un tempo essere stato bello come quello di una ragazza, ma le fiamme della fornace della vita avevano bruciato ogni mollezza, e, come sul ferro, erano rimasti in esso segni evidenti dell'incudine. ;Era alto ma niente affatto smilzo o con le spalle curve: era robusto, con muscoli lisci e duri. Indossava solo pantaloni e stivali da cavallerizzo. Sul petto nudo i peli biondi brillavano come fili di rame. « Al collo portava una catenina con pendaglio, cosa che nessun gentiluomo inglese avrebbe mai fatto. Garry cercò di sentirsi superiore, ma sotto quello sguardo fermo e disinvolto gli riusciva piuttosto difficile. « Colonnello Courteney », disse, e di nuovo Garry fu preso alla sprovvista. Benché il suo inglese avesse accenti impropri, la voce era di un uomo istruito e colto: e anche la bocca, quando sorrise, perse gran parte della sua durezza. « Ma non si allarmi, la prego... Lei è il colonnello Courteney, vero? » « Si. » Garry dovette fare un certo sforzo per riuscire a parlare. « Sono il colonnello Courteney. E lei che mi ha mandato questa lettera? » Prese il manifesto piegato dalla tasca della camicia e cercò di aprirlo, ma gli tremavano le mani e riuscì solo a lacerarlo. L'uomo sorrise, leggermente ironico, confermando: « Si, sono io che l'ho mandata a chiamare ». « Sa dove si trova la ragazza scomparsa? » gli chiese Anna, impaziente, facendo un passo verso di lui. « Forse si », rispose l'uomo, alzando le spalle. « L'ha vista? » insisté Anna. « Prima quello che viene prima. » « Lei vuole il denaro... » disse Garry a voce un po' troppo alta. « Ebbene, sappia che non ho portato con me neppure una sovrana. Stia sicuro che, se ha intenzione di rapinarci, non a troverà addosso niente di valore. » « Ah, colonnello », rise il biondo, cosi inaspettatamente spontaneo, cordiale ed esuberante che perEno il cipiglio di Anna si addolà, « il naso mi dice che lei sta mentendo. » Fiutò platealmente l'aria. « Lei ha qualcosa di grandissimo valore... Avana! » disse fiutando ancora. « Non c'è il minimo dubbio. Avana! Colonnello, mi toccherà avvertirla che potrei anche uccidere per un sigaro avana. » Involontariamente, il colonnello fece un passo indietro prima di capire lo scherzo. Poi riuscì a sorridere e si frugò in tasca alla ricerca della scatola di sigari. Il biondo esaminò il lungo sigaro scuro. « Romeo y Julieta! » mormorò con reverenza, poi l'annusò con trasporto. « Una boccata di Paradiso. » Staccò la punta con un morso e accese il
fiammifero sulla suola dello stivale. Incendiò estaticamente la punta del sigaro a occhi chiusi. Quando li riapri, s'inchinò leggermente ad Anna. « Le domando scusa, Madame, ma son più di due anni che non fumo un buon sigaro. » « E va bene », disse Garry, già un po' rinfrancato. « Sa il mio nome, fuma il mio sigaro. Il meno che può fare è presentarsi. » « Mi perdoni. » Si raddrizzò e batté i tacchi alla prussiana. « Sono Lothar De La Rey, al suo servizio. » « Oh, mio Dio! » Tutto il nuovo coraggio di Garry svaporò. « So tutto di lei. Lei ha una taglia sulla testa... Se la prendono, l'impiccano. Lei è un criminale ricercato e un noto fuorilegge, signore. » « Mio caro colonnello, preferisco considerarmi un soldato e un patriota. » « I soldati non continuano a combattere e razziare dopo una resa regolare. Il colonnello Franke si è arreso quasi quattro anni fa... » « Ma io non riconoscevo il diritto del colonnello Franke ad arrendersi », l interruppe sdegnosamente Lothar. « Io ero un soldato del Kaiser e dell'Impero Germanico. » « Anche la Germania si è arresa tre mesi fa. » « S3, lo so », disse Lothar. « E da allora non ho più perpetrato atti di guerra. » « Ma lei è sempre sul campo », proruppe Garry, indignato. « Lei è tuttora in armi, e... » « Non mi sono consegnato per l'ottima ragione che lei ha poc'anzi ricordato. I suoi compatrioti m'impiccherebbero. » Come se si rendesse conto solo adesso, sotto lo sguardo penetrante di Garry, di essere a torso nudo, Lothar prese la giubba. Appena lavata, pendeva da un ramo a lato dell'ingresso della caverna. Come se la mise, facendo brillare i bottoni d'ottone, Garry strinse gli occhi. « Dannazione, signore, la sua insolenza è intollerabile! Que sta è una uniforme dell'esercito inglese. Lei è travestito da bri tannico e questa sarebbe una ragione più che sufliciente per fu cilarla sul posto! » « Preferirebbe che girassi nudo, colonnello? Dovrebbe essere evidente perfino a lei che ci troviamo in circostanze un po' speciali. Non mi dà proprio nessun piacere indossare una divisa inglese. Disgraziatamente, non ho altra scelta. » « Lei insulta l'uniforme con cui è caduto mio figlio! » « Non mi fa piacere la morte di suo figlio come non mi fa piacere mettermi questi stracci. » « Perdio, che insolenza veramente... » Garry stava caricandosi per impartire al brigante una solenne lavata di capo da colonnello, sennonché Anna gli tolse la parola. « Miinheer De La Rey, ha visto la mia bambina? » Lothar si volse verso di lei e Garry si tranquillizzò. Il fuorilegge aveva un'espressione stranamente compassionevole. « Ho visto una ragazza. Sì, ho visto una giovane fanciulla bianca nel deserto, ma non so se è quella che cerca. » « E in grado di condurci da lei? » domandò Garry, e Lothar lo guardò freddamente, con l'espressione di nuovo dura. « Potrei mettermi alla sua ricerca a determinate condizioni. » « Soldi », disse piatto Garry. « Chissà perché i ricchi sono sempre ossessionati dai loro soldi », osservò Lothar, aspirando una boccata dal sigaro e convogliando il fumo fragrante intorno alla lingua. « Sì, certo, colonnello, avrò bisogno anche di qualche soldo », concesse. « Ma non cinquemila sterline. Me ne serviranno un migliaio per equipaggiare una spedizione e inoltrarmi nelle plaghe desertiche
dove l'ho vista. Ci vorranno buoni cavalli, i nostri sono quasi scoppiati-, carri-cisterna per l'acqua, e dovrò pagare gli uomini. Mille sterline basterebbero per queste spese. » « E poi? » domandò Garry. « Ci sarà bene qualche altro prezzO » « Sì », ammise Lothar. « C'è. Sono stufo di vivere all'ombra della forca. » « Un'amnistia per i suoi delitti! » proruppe Garry, guardandolo con incredulità. « Che cosa le fa pensare che sarebbe in mio potere ottenerla? » « Colonnello, so che lei è un uomo potente. E amico personale sia di Smuts sia di Botha. Suo fratello è generale e ministro del governo Botha... » « Non ho nessuna intenzione di interferire nel corso della giustizia. » « Colonnello, io ho combattuto onorevolmente. Ho combattuto sino alla fine, come fecero un tempo i suoi amici Smuts e Botha nella loro guerra. Non sono un criminale, non sono un assassino. Ho perso mio padre, mia madre, mia moglie e mio figlio in guerra, dunque ho pagato abbondantemente la sconfitta. Adesso voglio avere il diritto di vivere come tutti gli altri... e lei vuole questa ragazza. » « Non accetterò mai. Lei è un nemico », sbottò Garry. « Lei trovi la ragazza », disse tranquillamente Anna, « e sarà un uomo libero. Ci penserà il colonnello Courteney. Le do la mia parola. » Lothar le diede untocchiata, poi tornò a guardare Garry, e fece un sorrisetto, avendo capito chi davvero comandava. « Allora, colonnello, siamo d'accordo? » « E come faccio a sapere chi è questa ragazza? Come faccio a sapere se è davvero mia nuora? » Garry si torceva, a disagio. « Sarebbe disposto a fare una prova? » Lothar alzò le spalle. « Se crede. » Garry si rivolse ad Anna. « Fagliele vedere », disse. « Che scelga lui. » Era un accorgimento che avevano escogitato per riconoscere millantatori e sciacalli attirati dalla ricompensa. Anna aprì la voluminosa borsa che portava a tracolla e ne trasse una busta gonfia. Conteneva una risma di fotografie formato cartolina, che porse a Lothar. Egli studiò la prima. Era una posa di giovane fanciulla dal fotografo, una bella ragazza in abito di velluto e cappello piumato, coi riccioli bruni che le cascavano sulle spalle. Lothar scosse la testa e mise la foto in fondo alla serie. Rapidamente scorse le altre, tutte di fanciulle, e poi restituì la risma ad Anna. « No », disse. « Mi dispiace di avervi fatto venire fin qui per niente. La ragazza che ho incontrato io non è tra queste. » Si rivolse al gigantesco ovambo. « Bene, Hendrick, riportali alla macchina. » « Un momento, Miinheer », disse Anna, gettando le foto in fondo alla borsa e prendendone un altro mazzetto. « Ce ne sono altre. » « S furba lei », sorrise Lothar, che aveva capito perfettamente il trucco. « Che vuole, sapesse quanti hanno cercato di imbrogliarci... Cinquemila sterline sono un sacco di soldi », disse Garry, ma Lothar non alzò nemmeno gli occhi dalle foto. Ne scartò due e si fermò sulla terza. « Questa è lei. » Centaine de Thiry, nel vestitino bianco della cresima, lo guardava sorridendo civettuola. « Adesso è cresciuta, certo, e i capelli... » Lothar fece un gesto a indicare un cespo d'insalata riccia. « Ma gli occhi sono inconfondibili. E lei. »
Sia Anna sia Garry rimasero senza parole. Era un anno che aspettavano questo momento, e adesso che era arrivato non riuscivano a crederci. « Devo sedermi! » disse Anna quasi venendo meno, e Garry la sostenne fino al ceppo all'ingresso della grotta. Mentre cosi faceva, Lothar tirò fuori dal colletto della giubba il pendaglio e l'apri. Prese la ciocca di capelli che conteneva e la porse ad Anna. Ella, tremante, la prese, e dopo un attimo la portò alle labbra. Chiuse gli occhi, mentre all'angolo delle palpebre si formavano due grossi lacrimoni densi e luccicanti. Lentamente, presero a scorrerle giù per le guance. « Non è che un ciuffetto di capelli. Potrebbero essere di chiunque, come fai a saperlo? » disse Garry, sempre più a disagio. « Che sciocco che sei! » gli disse roca Anna. « Glieli avrò spazzolati diecimila volte. Sono proprio i suoi, li riconoscerei tra milioni di altri. » « Quanto tempo ci vorrà? » chiese ancora Garry, e Lothar ebbe un fremito d'irritazione. « Per l'amor della bontà divina, quante volte glielo devo dire che non lo so? » I tre erano seduti accanto al fuoco, davanti all'ingresso della caverna che si apriva sotto la cengia di roccia. Stavano parlando ormai da ore, e le stelle balenavano nell'esigua striscia di cielo visibile tra le alte pareti del canyon. « Vi ho raccontato dove l'ho vista, e le circostanze dell'incontro. Non avete ancora capito? Devo ripetervelo un'altra volta? » Anna alzò una mano per placarlo. « Ci scusi, siamo molto in pensiero e facciamo un sacco di domande sciocche. » « Benissimo. » Lothar tornò ad accendere il mozzicone del sigaro con un tizzone ardente raccolto dal fuoco. « La ragazza era prigioniera di selvaggi San. Sono astuti e crudeli come bestie. Quando si sono accorti che li seguivamo, ci hanno fatto perdere le tracce con gran facilità. Se per caso li ritroviamo, possono farlo ancora. La zona da perlustrare è vastissima, grande quasi come il Belgio. Siccome è più d'un anno che ho visto la ragazza, potrebbe essere morta di qualche malattia, o uccisa da qualche animale feroce, o da uno di quei micidiali scimmiotti gialli dei San. » « Non lo dica neanche per scherzo, Miinheer », raccomandò Anna. Lothar alzò entrambe le mani « Non lo so proprio », disse. « Qualche mese, un anno? Chi può dirlo? Non si sa quanto tempo ci vorrà. » « Noi dovremmo venire con lei », brontolò Garry. « Dovremmo poter prendere parte alle ricerche, o almeno sapere con preasione dove l ha avvistata. » « Colonnello, lei non si fida di me e va bene. Ma anch'io non posso fidarmi di lei. Appena la ragazza è in vostre mani, la mia utilità per voi è cessata. » Lothar esaminò il mozzicone di sigaro. Non era possibile estrarne più neppure una molecola di fumo. Tristemente,-gettò il mozzicone nel fuoco « No, colonnello, quando troverò la ragazza procederemo a uno scambio formale: l'amnistia per me e la ragazza per lei. » « Accettiamo, Miinheer », disse Anna, dando di gomito a Garry. « Noi le consegneremo la somma di mille sterline quanto prima. Quando lei avrà Centaine sana e salva nelle sue mani, ci farà sapere il nome del suo stallone bianco. Soltanto lei può dirglielo, e in tal modo noi avremo la certezza che non ci sta imbrogliando. A questo punto le consegneremo l'amnistia firmata. » Lothar porse la mano al di sopra del fuoco. « Siamo d'accordo, colonnello? »
Garry esitò un momento, ma Arma gli tirò una tal gomitata nelle costole che il colonnello, gemendo, strinse la mano che gli veniva offerta. « Siamo d'accordo. » « Un ultimo favore, signor De La Rey. Preparerò un pacco per Centaine. Avrà sicuramente bisogno di vestiti, cose da donna. Glielo consegnerò con i soldi. Glielo darà, appena la trova? » chiese Anna. « Se la trovo », annui Lothar. « Quando la trova », precisò Anna con fermezza. A Lothar occorsero quasi cinque settimane per fare tutti i preparativi necessari e tornare alla remota pozza sotto il fiume Cunene, dove aveva trovato l'impronta di Centaine. Nella pozza c'era ancora dell'acqua. Era stupefacente che quei bacini paludosi e assolati la mantenessero tanto a lungo col caldo che faceva nel deserto, e Lothar si chiese, come già gli era capitato altre volte, se non vi fosse piuttosto, ad alimentare le pozze, qualche sorgente sotterranea proveniente dai grandi fiumi che scorrevano più a nord. Tuttavia, il fatto che le pozze contenessero ancora dell'acqua era segno che i tre sarebbero stati effettivamente in grado di spingersi ancora più a est, la direzione che allora avevano preso, e dove da tanto tempo avevano fatto perdere le tracce. Mentre i suoi uomini riempivano d'acqua i barili, Lothar fece il giro della pozza circolare e ritrovò, incredulo, l'impronta della ragazza perfettamente conservata nell'argilla, come l'aveva già vista. Vi si inginocchiò davanti e col dito tracciò la forma di quel grazioso piedino. La creta era diventata terracotta. Mentre tutt'intorno c'era una gran confusione di tracce di bufali, rinoceronti ed elefanti, quell'unica impronta delicata era rimasta intatta. « E di ottimo auspicio », si disse, e poi si mise cinicamente a sghignazzare. « Ma io non ho mai creduto ai presagi. Perché dovrei cominciare a crederci proprio adesso? » Tuttavia era di ottimo umore quella sera, quando riunì gli uomini intorno al fuoco da campo. A parte servitori e carrettieri, aveva quattro uomini armati a cavallo ad aiutarlo nelle ricerche. Tutti e quattro erano con lui dai tempi della sollevazione. Avevano combattuto e sanguinato insieme, bevuto dalla stessa bottiglia proveniente da qualche bottino, diviso la coperta o gli ultimi fili di tabacco nei bivacchi. Anche se non si fidava di loro, li amava un po'. C'era Swart Hendrick, Enrico il Nero, il gigantesco ovambo dalla carnagione scurissima dai riflessi purpurei, e Klein Boy, il Ragazzino, suo figlio bastardo avuto da una donna herero. C'era Vark Jan, Gianni il Porco, il khoisa tutto giallo e rugoso. Nelle sue vene scorreva il sangue dei nama, dei bergdama e perfino dei San, perché sua nonna era una schiava boscimane, catturata da bambina in una delle razzie che nel secolo passato fecero i boeri contro quel popolo. C'era infine Vuil Lippe, l'ottentotto dalle labbra curve e simili a fegato appena tagliato, che, unitamente al suo linguaggio volgare, gli erano valse il nome di Labbra Sporche. « Ecco la mia muta di cani da caccia », sorrise Lothar, tra l'affezionato e il disgustato, nel contemplarli. Applicato a loro, il termine « fuorilegge » aveva un senso davvero letterale, perché quegli uomini erano al di là delle leggi tribali o tradizionali dell'Africa. Ne studiò i volti alla luce del fuoco da campo. « Come lupi mezzo addomesticati, al primo segno di debolezza si rivolterebbero contro di me », pensò. « E va bene, figli della grande iena, ascoltatemi. Cerchiamo dei San, i piccoli assassini gialli. » I loro occhi brillarono. « Cer-
chiamo la ragazza bianca loro prigioniera, e ci sono cento sovrane d'oro per chi ne trova le tracce. Procediamo così nella nostra ricerca... » Lothar lisciò la sabbia con gli stivali e poi vi tracciò il piano d'azione con un ramoscello. « I carri-cisterna seguiranno la linea dei pozzi, da qui a qui, mentre noi Ci spargeremo a ventaglio così e così. Noi cinque possiamo perlustrare in questo modo ottanta chilometri di territorio al giorno. » Partirono quindi verso oriente, come aveva pensato subito di fare, e nel giro dei primi dieci giorni intercettarono le tracce di un gruppetto di San. Lothar mandò a chiamare tutti i suoi e si misero a seguire la serie di piccole impronte infantili. Si mossero con estrema cautela, perlustrando sempre il terreno davanti a loro con il cannocchiale di Lothar ed evitando i luoghi propizi alle imboscate. L'idea di beccarsi una freccia avvelenata non sorrideva affatto a Lothar. Pallottole e baionette erano i ferri del suo mestiere, ma davanti agli schifosi veleni che i boscimani distillavano perdeva tutta la sua baldanza, sicché prese a odiarli ogni nervoso chilometro di più. Dalle tracce Lothar comprese che il gruppetto che stavano seguendo era composto di otto San, due maschi adulti e due donne, probabilmente le mogli. C'erano anche quattro bambini piccoli, due che poppavano ancora, e altri due che avevano appena cominciato a camminare. « I bambini li rallenteranno », notò Vark Jan con gioia maligna. « Non potranno tenere questo passo. » « Ne voglio uno vivo », li avvertì Lothar. « Voglio notizie della ragazza. » La nonna schiava di Vark Jan gli aveva insegnato abbastanza della lingua dei San per poter interrogare un prigioniero, ed egli sogghignò. « Prendetene uno e io lo faccio parlare, state tranquilli. » I San stavano cacciando e raccogliendo piante e quindi la banda di Lothar guadagnò rapidamente terreno. Ormai avevano solo un'ora di vantaggio: ma a questo punto, con le loro percezioni animali, i boscimani avvertirono la loro presenza. Lothar trovò il posto in cui ciò era accaduto, quello dove le loro tracce sembravano svanire. « Vogliono seminarci », ruggi. « Scendete da cavallo e cercate le minime tracce. » « I bambini sono troppo piccoli per saper cancellare le tracce. Li portano in braccio le donne, ma si stancheranno presto. » Benché gli occhi di Lothar non distinguessero più nessunissima traccia, Vark e Swart Hendrick riuscivano ancora a trovare piccoli segni del passaggio dei San. Certo ormai si procedeva a piedi, molto più lentamente, tuttavia continuavano a seguire il gruppetto di boscimani: e quattro ore dopo Swart Hendrick annui con un sogghigno. « Le donne si stanno stancando in fretta. Vanno più piano e lasciano più tracce. Abbiamo ricominciato a guadagnare terreno su di loro. » Molto più avanti le donne San, curve sotto il peso dei bambini, si guardarono alle spalle gemendo. Ormai i cavalli si distinguevano nella gran pianura. Ingranditi dal miraggio, incombevano volando come mostri mitologici, ma nemmeno la vista degli inseguitori riusciva più a spronare la fuga delle donne stanche. « Dovrò fare il piviere », disse il più anziano dei cacciatori San. Si riferiva all'abitudine del piviere di fingersi ferito per attirare il predatore lontano dal suo nido. « Se riesco a farmi seguire da loro, potrei fargli scoppiare i cavalli », disse al suo clan. « Poi, quando arriverete al prossimo pozzo, dopo aver bevuto e riempito le uova di struzzo... » Porse alla moglie un corno
sigillato e fece a meno di pronunciare le parole fatali. Avvelenare un pozzo era un'azione cosi ignobile che nessuno aveva voglia di parlarne. « Se i cavalli moriranno, sarete salvi », disse il cacciatore. « Cercherò di assicurarvi il tempo necessario. » Il vecchio cacciatore San andò in fretta da ciascun bambino e gli sfiorò con le dita labbra e palpebre in segno di addio e benedizione. mentre tutti lo guardavano solenni. Quando poi andò dalla donna che gli aveva dato due fìgli, costei si lasciò sfuggire un breve singhiozzo. Egli l'ammoni con un'occhiata che chiaramente diceva: « Non mostrare paura di fronte ai bambini ». Quindi, raccogliendo le proprie cose nella bisaccia, il vecchio San sussurrò al più giovane, suo compagno di mille cacce: « Sii un padre per i miei figli ». Poi gli porse la bisaccia di cuoio e fece un passo indietro. « Adesso andate! » Mentre guardava il suo clan che partiva trotterellando, il vecchio tese la corda dell'arco e con grande cautela tolse i cappucci di cuoio alle punte delle frecce. La sua famiglia scomparve nella vasta pianura ed egli le voltò le spalle e si avviò incontro agli inseguitori. Lothar stava segnando il passo. Benché sapesse che le prede erano a un'ora di cammino, aveva perso le tracce e spedito i suoi uomini a ventaglio per ritrovarle prima di proseguire. Erano in territorio pianeggiante e desertico, delimitato soltanto dall'orizzonte e dal cielo. Qua e là vi era qualche macchia di cespugli spinosi, molto bassi, che il miraggio faceva danzare e contorcersi quando li inquadrava nel cannocchiale. A poco più di un chilometro di distanza era impossibile distinguere una figura umana tra i rovi. I cavalli erano quasi scoppiati, bisognava dissetarli quanto prima. Ben presto, quindi, sarebbe stato costretto a richiamare gli uomini e tornare al carro-cisterna. Alzò di nuovo il cannocchiale, ma un urlo selvaggio lo fece sobbalzare e lo indusse a guardarsi intorno. Swart Hendrick indicava a sinistra. L'ultimo uomo da quella parte, Vuil Lippe, l'ottentotto, stava controllando a fatica il proprio cavallo che si era impennato e arretrava, sollevando una nuvola di polvere. Lothar aveva sentito dire che i cavalli, fiutando i boscimani, reagiscono come quando fiutano il leone, ma non ci aveva mai creduto. Vuil Lippe era impotente, aggrappato al cavallo con ambo le mani, il fucile infilato nella custodia della sella. Lothar lo vide cadere sopra un cespuglio di rovi e rotolare per terra. Ed ecco che, come per magia, un'altra sagoma d'uomo parve sorgere dalla terra. La figurina nuda, simile a un folletto, si era alzata in piedi a una ventina di passi dal cavaliere disarcionato. Per impossibile che potesse sembrare, era saltato fuori da un rovo cosi piccolo che pareva non poter nascondere neanche una lepre. Mentre Lothar guardava agghiacciato, il piccolo guerriero puntò l'arco e fece partire una freccia. Lothar la vide volare, come un granello di polvere in un raggio di sole. Subito il boscimano nudo voltò le spalle ai nemici e si allontanò di corsa per la via più breve. Gli uomini di Lothar stavano gridando tutti insieme e cercando di salire in sella. Ma il terrore aveva contagiato i cavalli, che si impennavano e giravano su se stessi per non farsi montare. Lothar fu il primo a riuscirci. Non toccò le staffe ma saltò in sella da dietro, con un volteggio, girò a sinistra e mise il cavallo al galoppo. Già il boscimano stava sparendo tra i bassi cespugli che le onde di calore distorcevano nel consueto miraggio. Trotterellava via, ondeggiando, a un'incredibile velocità. L'uomo che aveva colpito aveva lasciato andare il cavallo e si era rialzato in piedi. Aveva le braccia aperte e vacillava leggermente da una
parte e dall'altra. « Tutto a posto? » gli gridò Lothar, arrivando al galoppo. Proprio in quella vide la freccia. Pendeva sul petto, ma era conficcata nella guancia di Vuil Lippe, che fissava Lothar con espressione attonita. Lothar saltò giù dal cavallo e lo scosse per le spalle. « Sono un uomo morto », disse piano Lippe, con le braccia abbandonate lungo i fianchi. Lothar prese la freccia e cercò di svellerla. La guancia di Vuil Lippe si era già gonfiata e indurita, e l'uomo barcollò urlando. Stringendo i denti, Lothar ci provò di nuovo, e stavolta la canna della freccia si spezzò, lasciando conficcata in faccia a Lippe solo la punta d'osso. Il ferito cominciò ad agitarsi. Lothar l'afferrò per i capelli e gli piegò la testa all'indietro per esaminare la ferita. « E sta' fermo, maledizione. » Un pezzo di punta sporgeva dalla piaga. Era incrostata di una patina nera gommosa. « Lattice di euforbia. » Lothar aveva già avuto occasione di vedere le armi dei San, perché suo padre un tempo possedeva una collezione di manufatti tribali. Così ora riconobbe il veleno, che in questo caso era il lattice distillato dalle radici delle rarissime piante di euforbia che crescono nel deserto. Anche mentre guardava, si vedeva il veleno spargersi sottopelle, fino a farla diventare di un cupo color lavanda e facendola ribollire lungo il percorso dei capillari come cristalli di permanganato di potassio gettati nell'acqua. « Quanto tempo? » Lippe guardò fisso negli occhi Lothar, cercandovi conforto. Il lattice sembrava appena distillato, e quindi dotato della massima potenza, ma Vuil Lippe era grosso, forte e sano, e il suo organismo avrebbe lottato contro le tossine Ci sarebbe voluto del tempo, qualche ora d'agonia, un'eternità. « Non puoi tagliarla via? » implorò Lippe. « E affondata un bel po', moriresti dissanguato. » « Bruciala dentro, allora. » « Ti farebbe ancora più male » Lothar lo aiutò a mettersi seduto, mentre sopraggiungeva Hendrick con gli altri. « Due uomini restino con lui », ordinò Lothar. « Hendrick, io e te andiamo dietro a quel piccolo maiale giallo. » Spronarono i cavalli stanchi e nel giro di venti minuti scorsero il boscimane che correva davanti a loro. Sembrava dissolversi e danzare nel miraggio, e Lothar sentì una gran rabbia impadronirsi di lui, quella specie di rabbia che un uomo può provare solo contro qualcosa di sommamente odioso che giace sepolto in profondità anche nell'anima sua « Vai a destra! » disse a Hendrick con un gesto della mano « Se cambia direzione, tagliagli la strada. » E spronarono incal zando l'omino che scappava sempre più da presso « Ti farò crepare peggio di Lippe », gli promise tetro Lothar, sciogliendo la coperta assicurata alla sella Sotto c'era una pelle di pecora che adoperava come materasso, capace di fermare la corsa mortale delle frecce avvelenate. Se l'avvolse intorno al torso e su naso, bocca e guance. Poi si calò il cappellaccio a larga tesa sulla fronte, lasciando solo un pertugio per gli occhi. Ormai il boscimano in fuga era a centocinquanta metri di distanza. Era tutto nudo, tranne l'arco e le frecce infilate a corona nella fascia di cuoio che portava in testa Il suo corpo luccicava di sudore, ed era color dell'ambra chiara, che al gran sole sembrava addirittura trasparente. Correva leggero come una gazzella, coi piedini che parevano volare mulinando a un millimetro da terra.
Un colpo di Mauser e una fontanella di polvere si alzò, come lo spruzzo d'un capodoglio in mare, davanti ai piedi del boscimano. Egli sussultò e, incredibilmente, si mise a correre ancora più forte, distaccando i cavalli che gli inseguitori spingevano al galoppo. Lothar guardò Hendrick mentre, abbandonate le redini, ricaricava il Mauser. « Non sparare! » gli gridò, adirato. a Lo voglio vivo! » Hendrick abbassò il fucile. Il fuggitivo continuò a correre con quel ritmo per altri due chilometri, poi pian piano rallentò. Ancora una volta l'affiancarono. Lothar si accorse che cominciavano a cedergli le gambe. Esausto, trascinava i piedi come un maratoneta, ma anche il cavallo di Lothar era quasi scoppiato. Era tutto coperto di schiuma e quando lui lo spronava la bestia gli sbavava sugli stivali. Dopo pochi altri passi il boscimano esausto si girò ad affrontarlo, ansimando come un mantice, col sudore che gli colava dalla barbetta a forma di cuore. Fissandolo con fieri occhi fiammeggianti, incoccò una freccia. a Dài, tira, mostriciattolo! » gli urlò Lothar nella speranza di indurlo a mirare a lui e non al cavallo. Il trucchetto riusci. Il boscimano alzò l'arco e lasciò partire la freccia in un solo movimento, e Lothar fu colpito all'altezza della gola. Ma la freccia rimbalzò sulla pelle di pecora e rotolò giù. Sbatté contro la punta dello stivale e fini, innocua, sull'arida terra. Il boscimano cercava disperatamente di incoccare un'altra freccia, ma Lothar caricò come un giocatore di polo e gli diede un gran colpo sulla tempia col calcio del Mauser. L'omino cadde. Lothar arrestò il cavallo e saltò a terra, ma già sopraggiungeva Hendrick, che vibrò un altro colpo in testa al boscimano col calcio del fucile. Lothar lo prese per la spalla e lo allontanò con violenza, facendolo quasi finire a gambe all'aria. « Vai!, t'ho detto! » ringhiò Lothar, inginocchiandosi vicino al corpo esanime. Un rivolo di sangue gli usciva dall'orecchio, e Lothar provò una certa preoccupazione nel tastare la carotide del boscimano. Per fortuna era ancora vivo, capi con un sospiro di sollievo. Raccolse l'arco minuscolo e lo ruppe sul ginocchio, gettando lontano i pezzi, poi col coltello da caccia tagliò la banda di cuoio in testa al boscimano e spuntò con cura tutte le frecce, scagliando più lontano che poteva, attentissimo a non ferirsi, le estremità avvelenate. Poi voltò il boscimano faccia a terra, gridando a Hendrick di portargli le lunghe corregge che teneva appese al pomo della sella. Con quelle legò stretto il prigioniero, sorprendendosi del suo perfetto sviluppo muscolare e dei graziosi piedini e manine che aveva. Collegò polsi e gomiti a caviglie e ginocchia, stringendo i nodi con tanta forza che la correggia penetrò nella carne ambrata. Poi sollevò il boscimano con una mano sola, come fosse una bambola, e lo caricò sulla sella. Il movimento fece tornare in sé l'omino, che alzò la testa e apri gli occhi. Erano color del miele fresco, con le cornee opache e giallastre. Sembrava di guardare negli occhi un leopardo intrappolato. Involontariamente Lothar fece un passo indietro. « Sono animali », disse, e Hendrick annui. « Peggio che animali, perché hanno l'astuzia dell'uomo senza essere umani. » Lothar prese in mano le redini e pian piano riportò il cavallo esausto dove avevano lasciato Vuil Lippe. Gli altri l'avevano avvolto in una coperta di lana grigia e coricato su una pelle di pecora. Era chiaro che intendevano se ne occupasse Lothar, il quale non ne aveva nessuna voglia. Sapeva che non c'era niente da fare per il ferito, e rimandò il
momento di vederlo fermandosi a scaricare il prigioniero. Lo gettò a terra come un sacco e lui si arricciò sulla sabbia, in guardia. Lothar impastoiò le zampe al cavallo e raggiunse gli uomini che circondavano il ferito. Vide subito che il veleno stava agendo in fretta. Un lato del volto di Lippe era grottescamente gonfio e solcato di vivide linee purpuree. Un occhio era chiuso, e la palpebra gonfia sembrava una prugna matura, nera e lustra. L'altro occhio era sbarrato, con la pupilla ridotta a una capocchia di spillo. Non diede segno di riconoscere Lothar, quando si chinò su di lui. Probabilmente aveva già perduto la vista. Respirava con estrema difficoltà, lottando allo stremo per ogni respiro, col veleno che già gli paralizzava i polmoni. Lothar gli toccò la fronte. La pelle era fredda e viscida come quella di un rettile. Lothar era perfettamente consapevole che Hendrick e gli altri lo guardavano. Molte volte l'avevano visto curare una ferita d'arma da fuoco, aggiustare una gamba rotta, cavare un dente ed eseguire tante altre banali operazioni chimrgiche. Si aspettavano dunque che facesse qualcosa per il moribondo, ma non c'era proprio modo di intervenire, e la sua impotenza di fronte a simili aspettative fece infuriare Lothar. A un tratto Lippe emise un urlo strozzato e prese a tremare come un epilettico, arrovesciando l'occhio sbarrato, mostrando la cornea giallastra e iniettata di sangue, inarcando il corpo sotto la coperta. « Ha le convulsioni come se l'avesse morsicato un mamba. Ormai se ne sta andando. » Il moribondo aveva la lingua fuori. Digrignando i denti se la morse e, senza nemmeno accorgersene, la fece a pezzetti, mentre futilmente Lothar cercava di tenergli aperta la bocca, disperato. Il sangue colò giù nei polmoni semiparalizzati dell'ottentotto, che prese a gemere e tossire a mascelle serrate. Inarcò il corpo per un'altra rigidissima convulsione e sotto la coperta si udì un'esplosione spetazzante. Il suo organismo intossicato si vuotava. La puzza riusciva ancora più nauseante nel caldo tropicale. Fu una morte lunga e penosissima, e quando finalmente arrivò, anche gli uomini più induriti erano scossi e di pessimo umore. Scavarono una fossa e ci calarono dentro il cadavere di Vuil Lippe, ancora avvolto nella coperta sporca. Poi lo coprirono in fretta, come per liberarsi al più presto della propria nausea e del proprio orrore. Uno di loro accese un fuoco di sterpi e fece il caffè. Lothar andò a prendere una mezza bottiglia di brandy sudafricano nella tasca della sella. Se la passarono di mano in mano ser za guardarsi in faccia e senza guardare il boscimano nudo, legato e ancora rannicchiato nella sabbia. Accucciati in cerchio, bevvero il caffè in silenzio e poi Vark Jan, quello che parlava la lingua dei San, gettò quel che restava della tazza sul fuoco e si alzò in piedi. Andò dal prigioniero e lo sollevò per i polsi legati, torcendogli indietro le braccia che sostenevano tutto il suo peso. Lo portò vicino al fuoco e prese in mano un tizzone ardente. Sempre tenendolo sollevato con una mano sola, gli accostò il ramo acceso alla punta del pene. Il San si contorse freneticamente mentre sul glande, subito, si formava una grossa vescica. Sembrava una molle lumaca argentea. Gli uomini attorno al fuoco si misero a ridere forte. In quella risata echeggiavano la loro stessa paura di morire avvelenati come il compagno, il lutto per lui, il desiderio di vendicarsi e il bisogno sadico di infliggere dolore e umiliazione, i peggiori che riuscissero a escogitare. Lothar si sentì scosso da quella risata, vide vacillare i pilastri
della sua stessa umanità e sentì sorgere in sé le medesime feroci passioni. Con un supremo sforzo le represse. Si alzò in piedi. Sapeva che non avrebbe potuto impedire quello che stava per succedere, esattamente come non si possono distogliere dal loro pasto i leoni affarnati che hanno appena ammazzato la preda. Se ci avesse provato, si sarebbero rivoltati contro di lui. Stornò lo sguardo dal volto del boscimano, da quegli occhi selvaggi e braccati. Era chiaro che non ignorava che l'aspettava la morte, ma nemmeno lui riusciva a indovinare quale. Invece Lothar guardò i suoi uomini in faccia, e si sentì male, si senti sporco, per quello che vi scorse. I loro lineamenti erano distorti, come accade a ciò che si guarda da una finestra opaca, ispessiti e abbrutiti dalla foia. Sapeva che il boscimano sarebbe stato montato a turno da loro, violentato come fosse una donna, dopodiché avrebbe probabilmente accolto con sollievo la morte. a Ah », disse Lothar, cercando di mantenere un'espressione indifferente, ma con la voce piena di ripugnanza. « Io ora torno ai carri. Il San è vostro, ma voglio sapere se ha visto o sentito parlare della ragazza bianca. Deve rispondere a quest'unica domanda. Questo è tutto. » Lothar andò al cavallo e montò in sella. Spronò verso il carrocisterna senza voltarsi indietro. Solo una volta, molto lontano udì un tal grido di oltraggio e agonia da fargli accapponare la pelle, ma il vento del deserto lo spense subito con il suo sibilo lamentoso. Molto più tardi, quando gli uomini arrivarono al campo, Lothar era sdraiato sotto la tenda del carro e leggeva alla luce della lanterna la sua vecchia e fedele copia di Goethe. Ammaccata e lacera, l'aveva sostenuto mille volte quando gli era parso che la sostanza stessa del suo essere si andasse assottigliando. Le risate degli uomini che scendevano di sella avevano un suono grasso e soddisfatto, come di chi abbia ben banchettato e bevuto a sazietà. Swart Hendrick gli si avvicinò barcollando come un ubriaco, con le braghe macchiate di sangue. « Il San non aveva visto la donna bianca, ma aveva sentito sussurrare qualcosa di strano e inspiegabile accanto al fuoco, incontrando altri San nel deserto: il racconto di una donna e un bambino, provenienti dalla terra dove il sole non splende mai, che vivevano assieme a due vecchi San. » Lothar si girò, appoggiandosi sul gomito. Si ricordava benissimo i due piccoli boscimani che aveva visto con la ragazza. « Dove? Ha detto dove stanno? » domandò con impazienza. « C'è un posto, nel cuore del Kalahari, che è sacro per tutti i San. Ci ha detto la direzione in cui si trova... » « E dov'è, Hendrick, che il diavolo ti porti, dov'è? » « Piuttosto lontano. Per loro, una quindicina di giorni di viaggio a piedi. » « Che razza di posto è? Come facciamo a riconoscerlo? » « Questo », ammise tristemente Hendrick, « non l'ha detto. La sua volontà di vivere era meno forte di quel che pensavamo. t morto prima di potercelo dire. » « Domani ci avvieremo in quella direzione », ordinò Lothar. « Ma ci sono gli altri San che oggi abbiamo perduto. Domani, coi cavalli freschi, sarà un giochetto prenderli. Hanno con sé le donne... » « No! » tuonò Lothar. « Andiamo nel deserto a cercare questo posto sacro. » Quando la gran montagna spoglia si alzò all'improvviso dalla pianura, Lothar dapprima credette che si trattasse di qualche scherzo di luce del deserto. Infatti non c'erano storie tribali né tradizioni orali a far credere possibile una simile apparizione. I soli uomini bianchi che
avessero percorso quelle plaghe, Livingstone e Oswell lungo la strada che li avrebbe condotti a scoprire il lago Ngami, e Anderson e Galton in uno dei loro safari interminabili, non avevano mai parlato di una montagna simile nelle loro relazioni. Sicché Lothar dubitò di quanto vedeva nella luce incerta del tramonto, così carica di polvere e spettrale da far pensare soprattutto a un miraggio. Tuttavia, alle prime luci del mattino successivo, quando la cercò impaziente, la sagoma della montagna era ancora là, scura e nettamente profilata contro il cielo che l'alba stava dipingendo di madreperla. Cavalcandole incontro, la montagna si elevava sempre più dalla pianura, diventando sempre più alta e incombente finché un bel momento si staccò da terra e prese a fluttuare in aria sul suo stesso baluginante miraggio. Quando alfine Lothar si trovò sotto le sue alte pendici, non dubitò che fosse quello il posto di cui aveva parlato il San prima di morire, e la sua convinzione diventò ancora più salda quando, salita la scarpata, scoprì le meravigliose pitture rupestri sul primo contrafforte di roccia. « Il posto è questo, ma è vastissimo », si rese conto Lothar. « Se la ragazza è proprio qui, potremmo anche non trovarla mai. Ci sono troppe caverne, anfratti e posti per nascondersi. Non finiremo mai di cercarla » Divise ancora gli uomini e li mandò a esplorare a piedi le prime pendici della montagna. Poi lasciò i carri in un boschetto appartato, in custodia a Swart Hendrick, quello di cui si fidava meno, e portandosi dietro un cavallo di ricambio partì per girare attorno alla montagna. Dopo due giorni di viaggio, durante i quali prese appunti e schizzò una rozza mappa con l'aiuto della bussola tascabile, poté stimare con qualche approssimazione che la montagna era lunga una cinquantina di chilometri e larga otto o dieci, una massa di gneiss con intrusioni di arenaria a strati Girò l'angolo orientale della montagna e dedusse per mezzo della bussola che stava tornando indietro, lungo il versante opposto a quello dove aveva lasciato i carri. Ogni volta che qualche particolarità delle pareti attirava la sua attenzione, un varco o un complesso di caverne, ad esempio, legava i cavalli e si arrampicava a vedere. Così una volta scoprì una piccola sorgente d'acqua dolce che sgorgava alla base della montagna e ruscellava in una pozza naturale di roccia. Riempì le borracce d'acqua, poi si spogliò e lavò i vestiti. Alla fine fece il bagno, con un brivido di delizia al freddo dell'acqua, e proseguì rinfrancato Anche in altri luoghi trovò le pitture rupestri dei San, e tornò a meravigliarsi dell'abilità dell'artista che aveva raffigurato con la massima esattezza, anche al suo occhio di cacciatore, antilopi e bufali. Tuttavia si trattava di testimonianze antiche e non c'era segno di presenze umane più recenti. La foresta e la pianura sotto le falde della montagna brulicavano di selvaggina. Non gli fu difficile prendere ogni giorno una giovane gazzella o antilope e rifornirsi così di carne fresca. La terza sera uccise una femmina di impala e si preparò un kebaò di trippa, rognone e fegato infilzati su un ramoscello verde e arrostiti sul fuoco L'odore della carne fresca, tuttavia, attirò sul suo accampamento l'attenzione di un ospite sgradito. Dovette passare il resto della notte in piedi accanto ai cavalli e col fucile in mano, mentre un leone affamato s'aggirava brontolando e ringhiando appena fuori del cerchio del fuoco. L'indomani mattina esaminò le tracce e scoprì che si trattava di un maschio adulto, anzi quasi vecchio, con una zampa ferita che lo faceva zoppicare. « Bestia pericolosa », borbottò, e sperò che se ne fosse an-
dato. Ma quella sera stessa, allorché i cavalli, al calar del sole, cominciarono ad agitarsi e impennarsi, scoprì che era una speranza vana. Il leone doveva averlo seguito a distanza durante il giorno, e adesso, imbaldanzito dall'oscurità, tornava ad avvicinarsi e brontolare attorno al fuoco da campo. « Un'altra notte in bianco. » Si rassegnò e aggiunse legna al fuoco. Preparandosi a far la guardia, si mise la giubba e si irritò accorgendosi che aveva perso un bottone dorato poiché il varco nella chiusura della giacca lo avrebbe esposto al freddo notturno. Fu una nottata lunga e sgradevole, finché poco dopo mezzanotte il leone, evidentemente stufo della veglia inutile, si allontanò. Lo sentì emettere un'ultima serie di brontolii al margine della radura, a circa un chilometro di distanza, e poi vi fu completo silenzio. Stanchissimo, Lothar controllò le cavezze dei cavalli, si avvolse tutto vestito nelle coperte e si stese accanto al fuoco senza nemmeno togliersi gli stivali. Nel giro di pochi secondi era caduto in un sonno profondo e senza sogni. Si svegliò di soprassalto, ritrovandosi addirittura seduto e col fucile in mano, mentre nelle orecchie gli rimbombava il fragore dei ruggiti di un leone infuriato Il fuoco era spento, ma già gli alberi si stagliavano contro il cielo schiarito dalle prime luci. Lothar si liberò delle coperte e si alzò in piedi. I cavalli erano allarmati, tendevano le orecchie fissando la radura di cui si vedeva l'erba argentea tra le ultime piante di mopani. Il leone ruggì di nuovo. Era a meno di un chilometro di distanza, nella direzione in cui stavano guardando i cavalli. Il ruggito del leone, di notte, è trasportato dall'aria così nitidamente che un orecchio inesperto lo giudica molto più vicino, e non sa individuarne la direzione: gioca strani scherzi da ventriloquo alle orecchie. Ancora una volta il terribile rumore riempì la foresta. Lothar non aveva mai sentito una di queste bestie comportarsi così, non aveva mai sentito ruggiti che esprimessero tanta ira e tanta disperazione. Ed ecco che ebbe un sobbalzo. Nell'intervallo tra un ruggito e l'altro aveva udito un altro rumore inconfondibile: l'urlo di terrore, agghiacciante, di un essere umano. Lothar reagì senza pensare. Afferrò la cavezza del cavallo preferito e gli saltò in groppa senza stare a sellarlo. Gli affondò i calcagni nelle costole, per farlo galoppare, e lo guidò con le ginocchia verso la radura. Abbracciato al collo del cavallo, i rami bassi dei mopani gli sfrecciavano a un palmo dalla testa, ma ben presto sbucò nella radura dove poté alzarsi e guardarsi freneticamente intorno. Da quando si era destato, poco prima, la luce era aumentata e ora il cielo a levante pulsava illuminato d'arancione. C'era un albero isolato di mopani a qualche distanza dal resto della foresta, circondato dall'erba bassa e secca della radura. In alto, tra i rami, si vedeva una mole bruna, mentre un movimento indistinto ma violento scuoteva la chioma dell'albero che si stagliava contro il cielo. Lothar spronò il cavallo in quella direzione, e tra i ruggiti del leone distinse ancora lo strillo acutissimo di poco prima. Proprio in quella riuscì a capire ciò che stava accadendo sul mopani, e gli parve del tutto incredibile. « Gran Dio! » esclamò sorpreso: non aveva mai visto un leone arrampicarsi su un albero. Ma eccolo lassù, il gattone ambrato, tra i rami ondeggianti, aggrappato con le zampe posteriori e intento a cercar di raggiungere a zampate, con quelle anteriori, la figura umana appena fuori della sua portata. « Ya! Ya! » Lothar spronò il cavallo a gomitate e colpi di calcagno, facendogli raggiungere la massima velocità, e, arrivan-
do al mopani, si lasciò scivolare giù da dietro, assorbendo con una corsetta l'impatto inerziale. Poi alzò il fucile e puntò in alto, tra l'intrico dei rami, cercando il varco adatto per fulminare il leone. Disgraziatamente questo e la vittima formavano una massa confusa e unica contro il cielo. Un tiro da sotto poteva indifferentemente colpir l'una o l'altro, e a tutto ciò si aggiungeva la difficoltà dei rami che rischiavano di deviare il proiettile. Lothar si spostò di lato finché trovò un varco adatto, e tornò a puntare il fucile, ma era ancora un colpo troppo difficile. Però in quella il leone riusci quasi a ghermire la preda umana, minacciando di tirarla giù dall'albero, e si sentirono urla così disperate, così agghiaccianti, che Lothar non esitò oltre. Mirò alla spina dorsale del leone, alla radice della coda, il punto più lontano possibile dal corpo della vittima che si contorceva, ancora precariamente aggrappata alla forcella dei rami, in alto. Sparò e colpi proprio dove voleva. La grossa pallottola del Mauser spaccò una decina di vertebre distruggendo le terminazioni nervose che governavano il moto delle zampe posteriori, prima di uscire dal centro della groppa del leone. Con uno spasimo, le zampe posteriori persero forza e presa, perché automaticamente anche gli artigli si ritrassero nelle guaine tra i cuscinetti delle zampe. Il gattone scivolò giù dal tronco ruggendo e contorcendosi, spezzando i rami più bassi, mostrando le fauci rosee deformate da una smorfia di dolore. Trascinò giù con sé anche la sua preda umana, sempre agganciata agli artigli e scossa dalle spasmodiche convulsioni del leone. Insieme atterrarono con un botto che si ripercosse sugli stivali di Lothar il quale, mentre cadevano, si era scostato: ma ora scattò di nuovo avanti. Le zampe posteriori del leone erano divaricate come quelle di un rospo, e la donna ci era finita in parte sotto. Il leone si rizzò sulle anteriori e, trascinandosi dietro le posteriori paralizzate, strisciò verso Lothar a fauci spalancate, ruggendo. Il suo fiato puzzava di carogna e putrefazione, mentre la bava caldissima e nauseabonda, per l'impulso dei ruggiti, giungeva nebulizzata fin sul volto e sulle braccia nude dell'uomo. In quella boccaccia spaventosa Lothar si limitò a infilare il Mauser e far fuoco senza nemmeno mirare. La pallottola sfondò il palato della bestia, gli fece scoppiare il cervello e usci dalla nuca in una fontana di sangue e materia grigia. Il leone rimase ritto sulle zampe anteriori ancora per un secondo, poi con un sospiro sfiatato gli si vuotarono i polmoni e rotolò solennemen te su un fianco. Lothar gettò il Mauser e si inginocchiò vicino alla grande carcassa ancora scossa dai sussulti dell'agonia, cercando di raggiungere il corpo umano sottostante: ma ne sporgevano solo le gambette abbronzate e il bacino avvolto da un perizoma di rozza tela. Allora Lothar saltò in piedi, prese il leone per la coda e tirò con tutta la forza. A un tratto la bestia rotolò sulla groppa, liberando il corpo sottostante. Una donna, vide subito, e si chinò a prenderla in braccio. La testa nera e ricciuta oscillava esanime, e Lothar le mise la mano sotto la nuca, come si fa coi neonati. Poi la guardò in viso. Era il volto della fotografia, il volto che aveva intravisto tanto tempo prima dall'altra parte di una radura con il cannocchiale, il volto che l'avevarstregato e attratto: ma non c'era più vita in quel viso. Le lunghe ciglia nere erano aggrovigliate tra loro, i lineamenti abbronzatissimi erano privi di qualunque espressione, e la forte bocca larga era socchiusa: le morbide labbra rivelavano i denti piccoli e bianchi, e un rivolo di saliva le scorreva già dall'angolo della bocca. « No! » esdamò Lothar, scuotendo la testa con veemenza.
« Non puoi essere morta... no, non è possibile, dopo tutto questo... Non voglio... » S'interruppe. Dalla gran capigliatura riccia usci un serpente che prese a strisciarle in fronte e sull'occhio, un serpente di sangue rosso scuro. Lothar si slacciò il fazzoletto dal collo e le asciugò il viso, ma, come puliva il sangue, altro ne sgorgava. Scostò i capelli e trovò la ferita sul bianco cuoio capelluto, un taglietto profondo là dove, nel cader giù dall'albero, aveva sbattuto contro un ramo del mopani. In fondo alla ferita si vedeva biancheggiare il cranio. Lothar uni i lembi della ferita e la fasciò strettamente col fazzoletto. Appoggiò la testa della ragazza sulla propria spalla, tizzando il corpo esanime a sedere. Iln seno saltò fuori dalla rozza camicia, ed egli provò un sussulto quasi blasfemo di fronte a quel candore tenero e vulnerabile. Lo copri in fretta, sentendosi in colpa, poi rivolse la sua attenzione alla gamba ferita. Era un vero strazio. Gli artigli del leone le avevano scavato ptofondissimi solchi nel polpaccio sinistro, scarnificandolo fino al calcagno. Lothar depose delicatamente a terra la ragazza e si inginocchiò, sollevandole la gamba e già temendo lo sptuzzo improvviso del sangue arterioso. Ma non venne, colava soltanto lo scuro sangue delle vene, ed egli sospirò di sollievo. « Dio ti ringrazio. » Si tolse la pesante giubba militare e ci appoggiò sopra la gamba per isolarla dalla sporcizia del terreno, poi si tolse anche la camicia. Non la lavava da due giorni, ossia da quando aveva trovato la fonte ai piedi della montagna, e già puzzava di sudore. « Ma non ho altro. » La fece a strisce e bendò la gamba stra ziata. Sapeva qual era il vero pericolo, la cancrena . I carnivori come il leone hanno sempre, tra gli artigli, cumuli di germi e batteri, sicché le ferite si infettano con esiti quasi altrettanto letali come le frecce avvelenate dei boscimani. In particolare, gli artigli del leone sono contenuti in profonde guaine, tra i cuscinetti delle zampe, dove sangue vecchio e rimasugli di carne putrefatta diventano fonte di tremende setticemie e cancrene fulminanti. « Dobbiamo portarti al campo, Centaine. » Usò il suo nome per la prima volta, il che gli diede un piccolo brivido di piacere, subito smorzato dalla paura allorché, toccando la pelle, avvertl il viscido gelo mortale che la rinserrava. Rapido, le sentì il polso e restò sbigottito al suo pulsare debolissimo e irregolare. Le sollevò le spalle e l'avvolse nella pesante giubba, poi si guardò attorno in cerca del cavallo. Era andato dall'altra parte della radura a pascolare. Nudo fino alla cintola e tremante dal freddo, Lothar gli corse dietro e lo riportò al mopani. Mentre si chinava per tirar su la ragazza svenuta, si irrigidì in preda allo shock. Dall'alto proveniva uno strepito lacerante, tale da far vibrare ogni singolo nervo di Lothar e da scatenare i suoi più riposti istinti. Erano gli strilli di un bimbo angosciato. Lothar si rizzò immediatamente e si mise a scrutare tra i rami e il fogliame del mopani. C'era una bisaccia appesa molto in alto, che oscillava freneticamente qua e là. « Una donna e un bambino. » Le parole del boscimane moribondo gli tornarono in mente all'improvviso. Posò la testa della fanciulla svenuta sul fianco morbido e caldo del leone morto e, con un salto, si aggrappò al ramo più basso del mopani. Prese lo slancio e con un volteggio vi fu sopra anche coi piedi, poi si issò sul ramo. In fretta si arrampicò fino al fardello appeso, una bisaccia di pelle. La prese e ci guardò dentro. Un faccino indignato si mise a strillare ancora più forte nel vedere un volto sconosciuto. -Il ricordo del proprio figlio assalì Lothar in maniera cosi im
provvisa e lancinante che quasi precipitò dall'albero. Strinse al petto il bambino urlante e sorrise, un sorriso obliquo e stento. « Che vociona per un ometto cosi piccolo », gli sussurrò, rauco. Nemmeno per un attimo l'aveva sfiorato il pensiero che potesse trattarsi di una femminuccia. Quell'ira, quell'arroganza erano da maschio. Si rivelò più facile spostare l'accampamento sotto il mopani dove giaceva Centaine che fare il contrario. Dovette portarsi dietro il bambino, ma riuscì a far tutto in meno di venti minuti. Aveva paura a lasciare sola la madre, indifesa com'era, e quando arrivò coi cavalli e tutta la sua roba respirò di sollievo. Centaine era ancora svenuta. Il bambino se l'era fatta addosso e stava urlando affamato. Puli il culetto rosa del bimbo con una manciata d'erba secca, ricordando d'aver fatto lo stesso, a suo tempo, con il proprio figlio, quindi infilò il bambino sotto la giubba, dove avrebbe potuto facilmente raggiungere il seno della madre. Poi mise a bollire sul fuoco una pentola d'acqua e ci buttò dentro, per sterilizzarli, ago e filo di refe che adoperava per le piccole aggiustature degli indumenti, e che teneva in una bustina di tela. Si lavò le mani in una ciotola d'acqua bollita con del sapone disinfettante, la vuotò, vi mise dentro altra acqua bollita e cominciò a pulire le profonde ferite sul polpaccio della ragazza. L'acqua scottava, ma, facendo schiumare il sapone e intingendovi il dito, passò e ripassò nelle ferite fino in fondo, le tisciacquò con acqua caldissima, e ricominciò da capo più e più volte. Centaine gemeva, agitandosi debolmente, ma Lothar la teneva ferma e continuava a pulire le spaventose lacerazioni. Alla fine, non ancora soddisfatto ma conscio del fatto che, se avesse continuato con quella rude disinfezione e pulizia, avrebbe irreparabilmente danneggiato i delicati tessuti della fanciulla, andò alla tasca della sella e prese una bottiglia da whisly che si portava dietro da quattro anni. Gliel'aveva regalata un missionario luterano tedesco, un medico che gli aveva curato le ferite ricevute nella campagna contro gli invasori Smuts e Botha. « Un giorno potrebbe salvarle la vita », gli aveva detto il dottore. Ormai l'etichetta scritta a mano era illeggibile. « Acriflavina », ricordò con uno sforzo di memoria. Il liquido giallobruno era a metà svaporato. Lo versò nelle ferite aperte e lo sparse dappertutto col polpastrello dell'indice, assicurandosi che penetrasse in ogni ferita fino in fondo. Le ultime gocce di disinfettante le adoperò per il taglio sulla testa di Centaine. Poi ripescò nell'acqua bollita l'ago e il filo di refe. Con la gamba della ragazza in grembo, trasse un profondo sospiro. « Meno male che è ancora svenuta », si disse ringraziando Dio, e cominciò a ricucjre le lacerazioni. Gli ci vollero quasi due ore per rimettere assieme la carne straziata del polpaccio. I suoi punti erano rozi ma efficaci, un lavoro da velaio più che da chirurgo. Per bendare la gamba usò poi una delle sue camicie pulite, sempre convinto che, nonostante tutti i suoi sforzi, l'infezione era comunque garantita. Quindi si occupò del taglio in testa. Tre punti bastarono a ricucire questa ferita, dopodiché le emozioni della mattinata ebbero il sopravvento su di lui e si senti tutt'a un tratto uonvolto e stanchissimo. Dovette farsi forza per continuare il lavoro. Scuoiò il leone e stese la pelle tra due rami dritti tagliati dal mopani, col pelo verso l'alto. Ce la fìssò mediante lunghe corregge di cuoio per formare una barella di fortuna. I cavalli si innervosirono alla puzza del leone morto, ma in breve riuscì a calmarli e ad attaccare la barella al cavallo di scorta, un animale da tiro. Poi, deli-
catamente, sollevò il corpo di Centaine avvolto nella sua giubba, lo adagiò nella lettiga e ve lo assicurò saldamente con strisce di corteccia di mopani. Portando il bambino nella bisaccia, adesso dormiva!, si avviò passo dopo passo, coi cavalli alla cavezza, verso i carri. Calcolava che fossero a una giornata di cammino, e ormai era mezzogiorno passato, ma non poteva certo accelerare per tema di nuocere alla ragazza trascinata sulla lettiga. Poco prima del tramonto Shasa si svegliò berciando come un lupo affamato. Lothar impastoiò le zampe ai cavalli e lo portò dalla madre. Qui esitò, mentre sotto la giubba militare Shasa scalciava piangendo disperato e mettendo Lothar di fronte a una difficile decisione. « E per il bambino, e lei non saprà mai », si disse. Alzò le falde della giubba ed esitò ancora prima di decidersi a toccarla così intimamente. « Perdonami, ti prego », disse per scusarsi alla ragazza ancora svenuta, prendendo in mano una mammella nuda. Il peso, il tepore e il contatto vellutato della pelle gli trasmisera una scarica di desiderio alla base della spina dorsale, ma egli cercò d'ignorarlo. Schiacciò e spremette, con Shasa che labbreggiava poppando freneticamente accanto alle sue dita, ma invano. Si accucciò sui calcagni e ricopri Centaine con la giubba. « E adesso cosa diavolo facciamo, ragazzino? Tua mamma ha perso il latte. » Lo prese in braccio. « Inutile che provi con me, amico, anch'io sono a secco. Dovremo fermarci qua, e io ne approfitterò per andare a far la spesa. » Tagliò dei cespugli spinosi e li dispose a cerchio per tener lontane le iene e gli altri predatori pericolosi, e nel mezzo accese un gran fuoco. « Dovrai venire con me », disse al querulo poppante e, mettendosi in spalla la bisaccia col bambino dentro, montò in sella al cavallo da caccia. Dietro l'angolo della montagna trovò un branco di zebre. Nascondendosi dietro il cavallo, riusci ad avvicinarsi a distanza di tiro dal branco e mirò a una femmina con il piccolo a fianco. La colpi alla testa e cadde fulminata sul posto. Quando andò a prenderla, a piedi, il suo piccolo si allontanò di qualche passo, poi esitando tornò. « Ti chiedo scusa, amico », gli disse Lothar, spedendogli un proiettile nella testa. L'orfanello non aveva la minima probabilità di sopravvivere e quello era un gesto di semplice misericordia. Quindi Lothar si inginocchiò accanto alla femmina morta e le spostò le zampe mettendo in luce le mammelle nere e gonfie. Riusci a mungere una mezza ciotola di latte denso e cremoso. Dilui il liquido giallo con un'eguale quantità di acqua tiepida e vi intinse un lembo di tela strappato da una camicia pulita. Shasa sputava e girava la testa disgustato, ma Lothar insisté. « E tutto quello che passa il convento. » All'improvviso Shasa imparò il trucco. Il latte prese a colargli sul mento, ma parte gli andava anche in pancia, e cominCiò addirittura a prenderci gusto, urlando impaziente tutte le volte che Lothar gli strappava la falda per tornare a intingerla nel latte. Quella notte Lothar dormi con Shasa stretto al petto, e si svegliò prima dell'alba, quando il piccolo cominciò a reclamare la colazione. Restava un po' di latte di zebra dalla sera prima. Una volta nutrito il fanciullo, e lavato in una pentola d'acqua calda, il sole era già sorto. Quando Lothar lo mise per terra, Shasa parti gattoni verso i cavalli, emettendo alte grida eccitate. Lothar senti quell'empito del cuore che non provava dalla morte di suo figlio, e mise il bimbo in groppa al cavallo. Shasa
si mise a ridere e sgambettare, mentre il cavallo girava la testa e l'annusava tendendo le orecchie. « Diventerai un cavaliere prima ancora di imparare a camminare », rise Lothar. Tuttavia, quando andò alla lettiga e con delicatezza cercò di scuotere Centaine, tornò a preoccuparsi. Non aveva ancora ripreso coscienza, anche se quando le toccava la gamba gemeva e scuoteva la testa. La gamba era gonfia ed escoriata. La benda era nera di sangue rappreso. « Mio Dio, che sfacelo », mormorò, ma quando nell'interno della coscia cercò le strisce livide della cancrena non le trovò. Fece però un'altra sgradevole scoperta. Centaine aveva bisogno delle stesse attenzioni igieniche di suo figlio. La svestì in fretta. Il gonnellino e la camicia lacera di tela erano i suoi unici indumenti, e, guardandola, cercò di mantenersi indifferente e clinico. Ma non ci riuscl. Fino ad allora Lothar aveva basato il suo concetto di bellezza femminile sulle placide grazie tondeggianti e un po' alla Rubens di sua madre, e dopo di lei, di sua moglie Amelia. Adesso si accorse all'improvviso che i canoni si erano rovesciati. Questa donna era snella come un levriero, con un ventre incavato di cui si leggevano i muscoli sottopelle, uno per uno. E la stessa pelle, anche dove non era abbronzata dal sole, sembrava panna quando non addirittura latte puro. I peli del suo corpo, anziché essere chiari e radi, erano folti, neri e ricci. I suoi arti erano lunghi e flessibili, non tondi e pieni di fossette ai gomiti e alle ginocchia. Era soda al tocco, e le dita non le affondavano nella carne come affondavano in quella di altre donne che aveva conosciuto; e dove il sole aveva raggiunto le gambe, le braccia e il viso, la carnagione era del colore del tek chiaro strofinato con la cera. Cercò di non soffermarsi su simili considerazioni e la girò bocconi al più presto, ma appena vide le natiche, tonde, dure e bianche come un paio di perfette uova di struzzo, qualcosa gli si rivoltò nello stomaco e dovette sbrigarsi a finire di pulirla con le mani che gli tremavano incontrollabilmente. Non che quel lavoro gli facesse schifo. Era una cosa naturale, come « cuparsi del bambino. Alla fine, l'avvolse di nuovo nella giubba militare e si accucciò accanto a lei per studiarne meglio il viso. Ancora una volta trovò i suoi lineamenti diversi dalle sue precedenti concezioni di bellezza femminile. Quella corona di capelli fitti, neri e ricci era quasi africana. Le sopracciglia nere erano forse troppo marcate, il mento troppo sporgente ed energico, e tutto il complesso dei lineamenti del viso dava l'idea di una volontà troppo forte a paragone della gentile acquiescenza di quelle altre donne. Anche se adesso era del tutto rilassata, Lothar riusciva ugualmente a leggere nei tratti del suo volto i segni di duri patimenti e traversie forse altrettanto tragiche delle sue, e nel toccare la morbida guancia abbronzata si sentl attratto da lei quasi fatalisticamente, come se fosse stato stabilito dal destino fin dal primo momento che l'aveva vista, di sfuggita, tantissimi mesi prima. Di colpo scosse il capo, irritato dal sentimentalismo ridicolo che si stava impadronendo di lUi. « Io non so niente di te, né tu di me. » Alzò gli occhi e con un soprassalto si rese conto che il bambino era andato, gattoni, tra gli zoccoli dei cavalli. Lo stavano annusando perplessi, mentre lui ridacchiava per il solletico. Portando in braccio il bambino e tenendo alla cavezza il cavallo da tiro, Lothar raggiunse i carri quel pomeriggio stesso, sul tardi. Swart Hendrick e gli inservienti gli corsero incontro, curiosi,
e Lothar ordinò subito: « Voglio una capanna a parte per la donna, vicino alla mia. Fate il tetto di paglia perché stia al fresco, e pareti di tela che si possano aprire per fare entrare l'aria. Voglto che sia pronta per stanotte ». Portò in braccio Centaine fino alla propria branda e la lavò di nuovo prima di metterle una delle camicione da notte fornite da Anna Stok. La ragazza era sempre incosciente, benché una volta aprisse gli occhi. Il suo sguardo era vago e sognante, e mormorò qualcosa in francese, sicché lui non capl. Le disse: « Lei è salva, tra amici » Le sue pupille reagivano alla luce, il che, lo sapeva, era buon segno, ma ben presto richiuse le palpebre e ricadde nel sopore, da cui egli si guardò bene dal destarla. Di nuovo vicino alla propria scorta di medicine, Lothar poté rimedicarle le ferite, cospargendole generosamente di un unguento, vera panacea, che aveva imparato ad apprezzare da sua madre. Poi le avvolse in bende pulite A questo punto il bambino era di nuovo affamato, e non mancava di farlo sapere a tutti. Lothar aveva con sé una capretta: la munse e nutrì Shasa diluendo il latte con acqua. Poi cercò di far bere un po' di brodo a Centaine, ma lei distolse il capo e quasi si strozzò. Cosi Lothar si limitò a trasportarla alla capanna che nel frattempo i servi avevano rizzato, sdraiandola su una brandina di corregge intrecciate con su un materasso di pelli di pecora e coperte pulite sopra. Le mise il bambino accanto e durante la notte, interrompendo un sonno leggero, andò a vederli più d'una volta. Poco prima dell'alba, quando infine era caduto profondamente addormentato, si senti scuotere forte. « Cosa c'è? » Automaticamente aveva steso la mano per afferrare il fucile. Ma era Swart Hendrick che gli sussurrava roco all'orecchio: « Vieni subito! Il bestiame è nervoso, come se ci fosse in giro un leone ». « E allora? » disse irritato Lothar. « Non puoi pensarci tu? » « Il fatto è che non dev'essere un leone, ma qualcosa di molto peggio. Selvaggi San! E tutta la notte che strisciano intorno al campo. Credo che facciano la corte alle nostre bestie. » Lothar tirò le gambe giù dalla branda e cercò gli stivali. « Sono tornati Vark Jan e Klein Boy? » Più numerosi fossero stati, meglio era. « Non ancora », rispose Hendrick scuotendo la testa. « Va bene, andremo a cercarli da soli. Sella i cavalli. Non dobbiamo lasciare troppa iniziativa ai diavoletti gialli. » Alzandosi, controllò se il Mauser era carico. Poi tolse dalla branda la pelle di pecora e usci di corsa verso il luogo dove Swart Hendrick l'aspettava con le cavakature. O'wa non aveva osato avvicinarsi a più di duecento passi dal campo degli stranieri. Perfino a quella distanza gli strani odori e rumori che ne provenivano lo frastornavano. Si sentivano colpi d'ascia sui ceppi, cigolio di secchi, versi di capre: e tutti quei rumori sconosciuti l'allarmavano, suggerendogli la fuga. Poi, sentiva odor di paraffina e sapone, caffè e indumenti di lana sporchi: e, come se non bastasse, gli arrivavano le voci degli uomini, che parlavano una lingua sconosciuta, piena di sibili strani e spaventosi, come di serpenti. Acquattato a terra, con un gran batticuore, sussurrò a H'ani: « La bimba Nam è tornata infine dalla sua gente. L'abbiamo perduta, vecchia nonna. E follia seguirla, malattia della testa. Sappiamo benissimo che gli altri ci uccideranno, se scopriranno che siamo qui ». « La bimba Nam è ferita, hai visto anche tu le tracce ai piedi
del mopani dove c'era la carcassa del leone spellato », gli sussurrò H'ani in risposta. « Hai visto anche tu il suo sangue per terra. » « E tornata con i suoi », ripeté O'wa, ostinato. « Si occuperanno loro di lei. Non ha più bisogno di noi. Se n'è andata di notte e ci ha abbandonato senza una parola di addio. » « Vecchio nonno, lo so che quello che dici è vero, ma come potrò di nuovo ridere se non so quanto gravemente è ferita? Come farò a dormire, se non vedrò Shasa sano e salvo poppare al suo seno? » « Rischi la vita di entrambi per dare un'occhiata a una che ci ha lasciato. Sono morti per noi, lasciali in pace. » « Rischio la mia vita, marito mio, perché per me non ha più alcun valore se non so se la bimba Nam, figlia del mio cuore se non del mio grembo, è ancora viva e destinata a restarlo. Rischio la mia vita per un'ultima carezza a Shasa. Non ti chiedo di venire con me. » H'ani si alzò e, prima che l'uomo potesse protestare, spari nelle tenebre diretta verso il chiarore del fuoco da campo che s'intravedeva fievole tra gli alberi. O'wa si rizzò in ginocchio, ma di nuovo gli mancò il coraggio e si stese, coprendosi la testa col braccio. « Oh, stupida vecchia donna », lamentò. « Non sai che senza di te il mio cuore è un deserto? Quando ti uccideranno, tu morirai una volta e io mille. » H'ani si avvicinò all'accampamento girandoci intorno, per tenersi controvento. Sapeva infatti che le bestie altrimenti avrebbero fiutato la sua presenza, e si sarebbero innervosite mettendo in allarme il campo. Ogni pochi passi si stendeva a terra e si metteva ad ascoltare con tutta l'anima, fissando le tenebre tra i carri e le rozze capanne del campo, timorosa di veder comparire da un momento all'altro i giganteschi uomini neri con le armi scintillanti e metalliche in mano. Ma dormivano tutti. Ora riusciva a distinguerne le ombre coricate intorno al fuoco, e ne coglieva anche l'odore, che la faceva rabbrividire per la paura. Si costrinse a rialzarsi e a andare avanti, nascondendosi dietro un carro finché non arrivò alle grandi ruote posteriori. Era sicura che la bimba Nam fosse in una delle capanne dal tetto di paglia intrecciata, ma bisognava scegliere quella giusta, se no era un disastro. Decise di provare la più vicina e, strisciando carponi, raggiunse l'entrata. Ci vedeva molto bene al buio, quasi come un gatto, ma ora scorgeva solo una massa informe su una struttura sollevata da terra all'altra estremità della capanna. Poteva trattarsS' di un essere umano, ma non c'era modo di assicurarsene. L'ombra si girò nel sonno, tossi e borbottò. « E un uomo! » Il cuore le batteva cosi forte che ebbe paura di svegliarlo. Si ritirò e strisciò alla seconda capanna. Anche qui c'era un'ombra addormentata. H'ani si avvicinò con grandissima cautela, e dopo pochi passi avvampò, lieta di sentire l'odore latteo di Shasa e quello della pelle di Centaine che, per la vecchia donna, era dolce come quello del melone selvatico. Si inginocchiò presso la branda e Shasa avverti la sua presenza e vagì. H'ani gli carezzò la fronte e poi gli fece scivolare il mignolo in bocca. Era un segnale che tutti i bambini boscimani conoscevano, e H'ani l'aveva insegnato anche a lui: si calmano e stanno subito zitti e fermi, perché può andarne della sopravvivenza di tutto il clan. « Al contatto e all'odore familiare della vecchia donna, Shasa si calmò. H'ani cercò con la mano il viso della bimba Nam. Era caldo, aveva dunque un po' di febbre. Si chinò a sentirne il fiato. Era
un po' forte per via del dolore e della febbre, ma non si trattava della puzza rancida e fatale che contraddistingue le infezioni virulente. H'ani desiderava con tutto il cuore esaminare e curare le ferite, ma sapeva che questo era impossibile. Allora, invece, avvicinò le labbra all'orecchio della fanciulla e le sussurrò: a Cuore mio, uccellino mio, invoco a tua protezione tutti gli spiriti del clan. Il tuo vecchio nonno e io danzeremo per te, per ridarti forza e salute ». La voce della vecchia donna dovette raggiungere qualche profondo livello inconscio. Nella mente della fanciulla addormentata si formarono immagini di sogno. a Vecchia nonna », mormorò sorridendo al bel sogno. « Vecchia nonna... » « Sono qui con te », le rispose H'ani. « Sarò con te sempre e sempre... » Riuscì a dire solo questo, perché non poteva rischiare di dar fiato al gemito che le si stava formando in gola. Toccò entrambi ancora una volta, la madre e il bambino, sugli occhi chiusi e sulle labbra, poi si alzò e scivolò fuori della baracca. Le lacrime l'accecàvano, il dolore anche, così passò troppo vicino al recinto di cespugli spinosi dove stavano i cavalli. Uno di essi, a quell'acuto odore insolito, si era innervosito e si era messo a stronfiare e scalpitare. Mentre H'ani spariva nella notte, uno degli uomini coricati attorno al fuoco si era alzato, aveva gettato le coperte ed era andato a calmare i cavalli. A metà strada aveva scorto una piccola impronta nella polvere. Era strano come H'ani, adesso, si sentisse stanchissima, mentre tornava con Obwa verso la valle segreta, girando intorno alla montagna sacra. Seguendo le tracce della bimba Nam e di Shasa, si era sentita giovane e forte, capace di correre all'infinito, se necessario, per salvare i due giovani esseri che amava ormai altrettanto teneramente del vecchio marito. Però adesso che li aveva salutati per sempre sentiva tutto il peso dell'età, e questo peso la schiacciava, indolenzendole la schiena e rallentando la sua andatura. Davanti a lei, O'wa si muoveva con altrettanta fatica, ed ella vedeva quanta pena gli costasse ogni passo. Nel tempo che il sole si alza in cielo di una spanna, entrambi erano stati privati della forza e della decisione che sole rendono possibile la so pravvivenza in quelle aride plaghe. Ancora una volta avevano perduto le persone care, ma adesso non avevano più l'energia per superare il terrlbile colpo. Davanti a lei, O'wa si fermò e si lasciò cadere sui calcagni. In tutti quegli anni di vita in comune, non l'aveva mai visto così sconfitto. Quando si accucciò accanto a lui, egli volse lentamente la testa dalla sua parte. « Vecchia nonna, sono stanco », le sussurrò. « Vorrei dormire tantissimo tempo. Il sole mi fa male agli occhi. » Alzò la mano a ripararseli « La strada è stata lunga, vecchio nonno, ma adesso siamo in pace con gli spiriti del clan, e la bimba Nam è al sicuro tra la sua gente. Dunque possiamo anche riposarci un po', ormai. » All'improvviso il singhiozzo che le covava in petto si sfogò, ma non sparse lacrime. Non poteva: pareva che tutti i fluidi si fos sero seccati nel suo vecchio corpo grinzoso. Ma aveva tanta voglia di piangere, era come se avesse una freccia conficcata nel cuore, e cominciò a dondolarsi sui calcagni gemendo piano, di gola, per sfogare il suo dolore. Cosi non udi i cavalli che si avvicinavano. Fu O'wa che tolse la mano dagli occhi e alzò la testa allo scalpitare lontano nell'aria ferma del mattino, e, quando H'ani vide il suo spavento, si mise ad ascoltare e li senti anche lei. « Siamo scoperti », disse O'wa, e per un attimo H'ani si senti priva anche della voglia di fuggire e nascondersi.
« Sono già vicinissimi. » Negli occhi di lui c'era la stessa rassegnazione, e questo spronò la vecchia donna. Lo fece alzare in piedi. « Sul terreno scoperto ci raggiungeranno facilmente, come il ghepardo la gazzella. » Si girò a guardare la montagna. Erano ai piedi della scarpata cosparsa di pietre, che saliva con lieve pendenza a innestarsi al primo contrafforte di roccia. « Se riusciamo ad arrivare in cima alla montagna », sussurrò H'ani, « i cavalli non potranno seguirci. » « Troppo alto, troppo ripido », protestò O'wa. « C'è una via. » Col dito ossuto H'ani indicò il sentiero debolmente tracciato che si inerpicava sulle pendici di arenaria della montagna, di traverso alla vasta parete di roccia nuda. « Guarda, vecchio nonno. Vedi? Gli spiriti della montagna ci mostrano la via. » « Quelli sono saltarupi », brontolò O'wa. Si trattava delle piccole antilopi, simili a camosci, che popolano certe montagne africane. « Non sono gli spiriti della montagna », ripeté O'wa, guardando gli animaletti bruni, allarmati dall'avvicinarsi dei cavalieri nella foresta sottostante, che si arrampicavano sempre più in alto con una serie di balzi quasi verticali. « Ti dico che sono spiriti in sembiante d'antilope. » H'ani lo trascinò alla scarpata. « Ti dico che ci stanno davvero mostrando la via per sfuggire ai nemici. Forza, vecchio uomo stupido e polemico, non c'è altro modo di scampare. » Lo prese per mano e insieme, saltando di pietra in pietra, salirono con l'agilità un po' stentata di due vecchi babbuini sulla china pietrosa. Tuttavia, prima ancora di raggiungere la base del monte, O'wa, stanco, faticava a tenere il passo di H'ani, e alle sue incitazioni non riusciva a ottemperare. « Il petto », anfanava barcollando. « Mi fa male, c'è dentro un animale che mi morde le carni, sento i denti... » e cadde pesantemente tra due massi. « Non possiamo fermarci », implorò H'ani, chinandosi su di lui. « Dobbiamo andare avanti. » « Che male, che male », gemeva O'wa. « Sento i suoi denti che mi straziano il cuore. » Con tutta la forza che aveva, H'ani riuscì a tirarlo su fino a farlo sedere per terra, e proprio in quella si udi un flebile grido proveniente dai piedi della scarpata. « Ci hanno visto », disse H'ani, guardando giù e vedendo i due cavalieri che sbucavano dalla foresta. « Ora saliranno a prenderci. » Li guardò saltar giu dalle cavalcature, legar loro le zampe e affrontare la ripida pietraia. Uno era negro, l'altro aveva una testa risplendente come un raggio di sole su una distesa d'acqua ferma. Mentre salivano la scarpata, gridarono ancora, un grido fiero e gioioso, come quello dei cani che tutti insieme si gettano, cogliendo l'usta, in direzione della preda. Quel grido spronò O'wa che, con l'aiuto di H'ani, si alzò faticosamente in piedi, con le mani al petto. Aveva le labbra esangui e gli occhi di una gazzella ferita mortalmente, che atterrirono la consorte ancor più delle grida degli uomini che li incalzavano da sotto. « Dobbiamo proseguire. » Tirandolo e spingendolo, riusci a farlo arrivare dove iniziava la parete di roccia. « Non ce la faccio: » La sua voce era un flebile sussurro che H'ani riusciva a cogliere solo appoggiandogli l'orecchio alla bocca. « Non riuscirò mai a salire lassù. » « Si che ce la fai », gli disse lei con decisione. « Vado avanti, metti i piedi dove li metto io. » E affrontò la parete per il ripidissimo sentiero scavato dagli zoccoli duri e aguzzi dei saltarupi.
Il vecchio la segui vacillando. Trenta metri più in alto trovarono una piccola cengia che li riparò alla vista degli inseguitori. Continuarono ad arrampicarsi, e l'abisso che si spalancava sotto di loro sembrò rinfrancare il passo di O'wa. Si diede a inerpicarsi con più decisione. Ma una volta che si fermò esitando e vacillò, minacciando di finire di sotto a capofitto, H'ani tese una mano e lo prese per il braccio, finché non gli fu passato l'attacco di vertigini. « Seguimi », gli disse. « Non guardar giù, vecchio nonno. Guarda dove metto i piedi e fai come me. » Continuarono a salire sempre più in alto sulla parete di roccia. Mentre gli inseguitori erano celati dalla curva del monte, la pianura infinita si stendeva sotto di loro. « Ancora un po' più su », gli disse. « Guarda, la vetta è là, se ci arriviamo siamo salvi. Su, dammi la mano. » E gliela porse per aiutarlo a superare un brutto passo, dove bisognava scavalcare il vuoto. H'ani guardò giù, tra i piedi, e li rivide, scorciati dalla distanza e dalla prospettiva. I due inseguitori erano sempre alla base della parete, proprio sotto di loro, e li stavano guardando. La faccia del bianco splendeva come una nuvola, così chiara eppure così maligna, pensò lei. Quello alzò le braccia e le puntò il lungo bastone che portava con sé. H'ani non aveva mai visto prima un fucile e non cercò nemmeno di ripararsi, continuò a guardarlo. Sapeva di essere molto lontano, fuori portata di qualsiasi freccia e di qualunque arco: così, senza nessuna paura, si sporse a guardar meglio, dall'angusto cornicione su cui si trovava, i due inseguitori. Vide sobbalzare il braccio teso dell'uomo bianco e nascere un fiocchetto di fumo candido dalla punta della canna. Non sentì il colpo, perché la pallottola arrivò prima del rumore. Era una pallottola di Mauser, dalla punta di piombo dolce, ed entrò nel suo corpo dal basso ventre trapassandola trasversalmente, squarciandole intestini, stomaco e un polmone, e uscendole dalla schiena a pochi centimetri dalla colonna verztebrale. La violenza dell'impatto la scagliò contro la roccia, pOi il suo corpo senza vita pencolò oltre il ciglio per un attimo e filii a capofitto da basso. O'wa lanciò un urlo terribile e cercò di afferrarla prima che cadesse. Riuscì solo a sfiorarla con la punta delle dita. Poi H'ani piombò neiiXabisso e lui rimase, barcollando, sul ciglio. « Vita mia! » le gridò dietro. « Cuoricino mio! » Il dolore e il dispiacere gli riuscirono intollerabili. Continuò a sporgersi in avanti, e superando il centro di gravità gridò sottovoce: « Vengo con te, vecchia nonna, sino alla vera fine del viaggio ». E si lasciò cadere nel vuoto. Il vento della caduta l'investì sibilandogli nelle orecchie, ma lui non emise altri suoni, mai più. Lothar De La Rey dovette arrampicarsi per decine di metri prima di raggiungere il luogo dove il corpo di uno dei bosamani si era incastrato in un crepaccio. Vide che era il corpo di un vecchio, tutto rugoso e scheletrito. La caduta l'aveva sfracellato strappando via dalle ossa del cranio la pelle e la carne della faccia. C'era però pochissimo sangue, come se il sole e il vento avessero disseccato il corpicino fin da quando era ancora in vita. Portava un piccolo perizoma di cuoio e alla cintola esigua e infantile, assicurato a una correggia di pelle, un coltello della marina inglese dal manico di corno, che Lothar non si sarebbe mai aspettato di vedere addosso a un boscimano ucuso nel W mezzo del Kalahari. Slacciò il nodo e s'infilò il coltello in tasca. Non c'era nient'altro di qualche valore o interesse sul cadavere, e certo lui non avrebbe perso tempo a sotterrarlo. Lasciò il vecchio sfracellato nel crepaccio e si arrampicò dove l'a-
spettava Swart Hendrick. « Cos'hai trovato? » gli domandò Hendrick. « Era solo un vecchietto, ma aveva questo. » Lothar gli mostrò il coltello e Swart Hendrick annuì con indifferenza. « Ja. Sono ladroni terribili, come le scimmie. Ecco perché giravano intorno al campo. » « Dov'è caduto l'altro? » « In quella forra, tra i rovi. E pericoloso scenderci. Io lascerei perdere. » « Sta' qua, allora », gli disse Lothar. Anto sul ciglio della profonda forra e guardò giù. Il fondo era tutto coperto di fittissimi rovi, e la discesa era davvero pericolosa, ma Lothar sentì il desiderio malizioso di contraddire Swart Hendrick e prese a scendere. Gli ci vollero venti minuti per raggiungere il fondo della forra, e altrettanti per trovare il corpo del boscimane a cui aveva sparato. Era come cercare un fagiano nel folto senza l'aiuto del cane da caccia. Alla fine, solo il ronzare dei mosconi blu lo condusse alla mano che sporgeva dai rovi, col palmo rivolto verso l'alto. La prese per il polso e tirò fuori il cadavere rendendosi conto che era una femmina, una vecchia strega grinzosa fino all'impossibile e con le mammelle penzolanti come un paio di borse da tabacco vuote. Grugnì di soddisfazione quando vide il buco del proiettile esattamente nel punto dove aveva mirato. Era stato un tiro estremamente difficile, a un bersaglio lontano, dal basso in alto. Subito la sua attenzione si spostò dal foro d'entrata della pallottola mortale alla straordinaria decorazione che la vecchia portava al collo. Lothar non aveva mai visto nulla di simile prima nell'Africa meridionale, benché suo padre avesse posseduto a suo tempo una collana masai, proveniente dall'Africa orientale, vagamente simile. Tuttavia il gioiello masai era stato fatto con le perline del commercio europeo, mentre per questa collana la vecchia aveva raccolto pietre colorate che poi aveva organizzato e composto con notevole gusto estetico. Infine con grande ingegnosità aveva infilato le pietre fino a creare un pendaglio a un tempo resistente e decorativo. Lothar comprese che, per la sua rarità, avrebbe avuto un valore notevole. Quindi girò il cadavere dall'altra parte per sfilarglielo. Dal foro d'uscita del proiettile uno sbocco di sangue aveva intriso il filo, sporcando anche qualche pietra colorata: Lothar si mise a pulirle con cura. Molte pietre erano state inserite nella loro forma cristallina originale. Altre da tempo immemorabile erano state rese lisce e lucide dall'acqua corrente. La vecchia le aveva raccolte probabilmente nei banchi di ghiaia dei letti asciutti dei fiumi. Mise il gioiello controluce e sorrise contento ai bagliori che produceva al sole. Avvolse il pendaglio nel fazzoletto e lo ripose con la massima cura nella tasca della camicia. Un'ultima occhiata alla boscimana bastò a convincerlo che non c'era nient'altro di interessante in lei, e Lothar la abbandonò a faccia in giù dedicandosi al difficile compito di risalire dalla forra e raggiungere il luogo dove Swart Hendrick lo stava aspettando. Centaine cominciò ad accorgersi del contatto del corpo con della tela morbida e pulita, sensazione ormai così obsoleta che quasi ricondusse la ragazza sulla soglia della coscienza. Pensò che era sdraiata su qualcosa di soffice, ma sapeva come ciò fosse impossibile; eppure, eppure, era impossibile anche quella luce, verde, filtrata da una tenda di tela. Però era troppo stanca per mettersi a ponderare queste cose. Quando cercava di tenere gli occhi aperti, le palpebre tornavano a chiudersi contro la sua vo-
lontà. Cominciò dunque a rendersi conto del proprio stato di estrema debolezza. Si sentiva come un uovo appena bevuto, di cui restava, duro e quasi intatto, soltanto il guscio. Quest'idea le fece venir da ridere, ma anche quello era uno sforzo eccessivo per lei. Scivolò di nuovo tra le braccia accoglienti delle tenebre. La volta successiva riprese coscienza a una voce che cantava piano. Giacque a occhi chiusi e si accorse di comprendere la lingua della canzone. Era una canzone d'amore, il rimpianto di un soldato per una ragazza che aveva conosciuto prima della guerra. Era una voce maschile, che le parve tra le più belle che avesse mai sentito. Non voleva che la canzone finisse, ma all'improvviso cessò e l'uomo si mise a ridere. « Allora, ti piace, eh? » disse in afrikaans. Il bambino balbettò: « Pà! Pà! » così forte e chiaro che Centaine sbarrò gli occhi, di colpo sveglia. Era la voce di Shasa. Tutti i ricordi di quella notte col leone sul mopani l'assalirono di colpo, e le venne l'impulso di rimettersi a gridare: « Il bambino, salvate il bambino! » Guardando di qua e di là vide però che era sola, in una capanna dalle pareti di tela e il tetto di paglia. Giaceva su una brandina da campo, e aveva addosso una lunga e fresca camicia da notte di cotone. « Shasa! » gridò forte, e cercò di mettersi a sedere. Riusci solo a fare uno scatto spasmodico, e a emettere un rauco mormorio. « Shasa! » Stavolta ci mise tutta la forza. « Shasa! » Ne risultò un verso strozzato. Si udirono un'esclamazione sbalordita, una stoviglia rovesciata al suolo, due passi concitati. Un lembo della capanna si alzò. Centaine intravide un uomo stagliarsi nell'apertura, con Shasa in bracuo. Era alto, con le spalle larghe, ma essendo controluce non si vedeva la faccia. « La bella addormentata si è svegliata! » Quella voce profonda, conturbante. « Meno male! Era quasi ora! » Sempre col bambino in braccio, si avvicinò alla branda e si chinò su di lei. « Eravamo preoccupati », le disse con dolcezza. E lei vide il volto dell'uomo più bello che le fosse mai capitato di vedere, un uomo d'oro, con i capelli d'oro e gialli occhi di leopardo in mezzo al viso abbronzato, color del miele. Shasa, in braccio a lui, si agitava e scalciava, tendendo le braccia verso di lei. « Mam-ma! » « Bimbo mio! » Alzò una mano, e lo sconosciuto le mise Shasa sulla brandina, al fianco. Poi la sollevò un po' ripiegandole un cuscino dietro la testa. Aveva mani forti e abbronzate, ma dita eleganti come quelle di un pianista. « Chi è lei? » gli chiese con voce bassa e roca, fissandolo con occhi cerchiati da profonde occhiaie rossastre. « Mi chiamo Lothar De La Rey », rispose l'uomo, mentre Shasa stringeva il pugnetto e colpiva la spalla della madre in un empito di irrefrenabile affetto. « Piano! » Lothar gli prese il polso per impedirgli di tirare altri cazzotti. « Tua mamma non è ancora in grado di ricevere siinili dimostrazioni d'amore! » Ella notò come l'espressione di Lothar si intenerisse ogni volta che guardava il piccolo. « Cosa mi è successo? » domandò Centaine. « Dove sono? » « E stata assalita e artigliata da un leone. Quando io gli ho sparato è caduta giù dall'albero. » Ella annuì. « Sì, questo me lo ricordo, ma dopo? » « Cadendo, ha battuto la testa. Poi le ferite degli artigli hanno fatto infezione... »
« Quanto tempo è che...? » « Sei giorni, ma ormai il peggio è passato. Tuttavia la sua gamba è ancora molto gonfia e infiammata, Mevrou Courteney. » Ella sobbalzò. « Ha usato quel nome... come lo sa? » « So che si chiama Mevrou Centaine Courteney e che è scampata al naufragio della nave ospedale Protea Castle. » « E come fa a sapere queste cose? » « Suo suocero mi ha mandato a cercarla. » « Mio suocero? » « Il colonnello Courteney, e quella donna, Anna Stok. » « Anna? Anna è viva? » Centaine l'afferrò per il polso. « Ah, non c'è il minimo dubbio su ciò! » rise Lothar. « I; vivissima. » « Ah, che meraviglia! Pensavo che fosse annegata... » Centaine si interruppe, accorgendosi che gli stringeva ancora il polso. Lasciò la presa e si riadagiò sul cuscino. « Mi racconti », gli disse sottovoce, « mi racconti tutto. Come sta? Come faceva a sapere dove mi trovavo? Dov'è adesso « Anna? Quando la vedrò? » ; Lothar si rimisé a ridere. Aveva denti bianchissimi. « Quan .te domande! » Si mise a sedere accanto alla brandina. « Da dove vuole che cominci? » « Da Anna. Mi dica tutto di lei. » Lothar si mise a parlare, e Centaine ad ascoltare avidamente, guardandolo negli occhi, ponendogli un'altra domanda subito dopo ogni risposta, lottando contro la propria debolezza per crogiolarsi al suono tella sua voce, nel piacere intenso di risen tire liete onde di realtà provenienti dal mondo da cui per tan to tempo era rimasta esclusa, di parlare con uno della sua razza e guardare nuovamente un volto bianco e civile. La giornata era quasi finita, la penombra della sera calava sulla capanna quando Shasa emise urla imperiose e Lothar s'in terruppe. « Ha fame. » « Lo nutrirò, se avrà la compiacenza di allontanarsi un at timo, Miinheer. » « No », scosse la testa Lothar. « Lei non ha più latte. » Centaine sussultò come se avesse ricevuto una sberla in fac cia. Lo guardò con la mente ribollente di pensieri che si acca vallavano. Fino a quel momento era stata così intenta ad ascol tare e far domande che non aveva considerato il fatto che in Xquel campo l'unica donna era lei, e che per sei giorni era rima sta incosciente, per cui qualcuno l'aveva cambiata, lavata, nu Vtrita, servita e medicata. Ma quelle parole così intime pronun ciate con tanta oggettiva indifferenza la fecero riflettere meglio sull'argomento, e, continuando a fissarlo, si accorse di arrossire per la vergogna. Le guance le fiammeggiavano. Quelle lunghe dita abbronzate dovevano averla toccata senz'altro dove solo un uomo l'aveva toccata prima. Si send bruciare le palpebre al pensiero di quel che sicuramente avevano visto di lei quegli occhi gialli come il miele. Si accorse di avvampare dall'imbarazzo. Che fu subito segui to, incredibilmente, da una vergognosa eccitazione, sicché ebbe difficoltà a respirare, abbassò gli occhi e girò la testa in modo da non mostrare all'uomo le guance scarlatte Lothar sembrava del tutto ignaro del suo problema. « Avan ti, soldato, facciamo vedere alla mamma cos'hai imparato. » Prese Shasa e cominciò a nutrirlo con un cucchiaio. Shasa s'agitava sulle sue ginocchia facendo: Am! Am! quando vedeva partire il cucchiaio, dopodiché vi si lanciava incontro a bocca spalancata. « Lei gli piace », disse Centaine.
« Siamo amici », ammise Lothar, pulendo con una pezzuola bagnata il bambino che si era coperto di pappa fin dietro le orecchie. « Ci sa fare coi bambini », sussurrò Centaine, scorgendo all'improvviso un lampo di bruciante dolore passargli negli occhi appannandone per un momento il bagliore dorato. « Una volta avevo un figlio », disse lui, rimettendo Shasa al fianco della madre e allontanandosi con cucchiaio e scodella. « E dov'è orav » chiese a voce alta Centaine. Lothar si fermò all'ingresso della capanna. « Mio figlio è morto », le rispose, piano. Era matura, più che matura per l'amore. La sua solitudine era una fame così intensa che sembrava impossibile da saziare; non vi riuscivano nemmeno le lunghe e languide conversazioni sotto la veranda di tela del carro allorché, con Shasa di mezzo, trascorrevano discorrendo le ore più torride di quelle pigre giornate africane. Generalmente parlavano delle cose che le erano più care, la musica e i libri. Per quanto egli preferisse Goethe a Victor Hugo e Wagner a Verdi, sapeva difendere le proprie opinioni con argomenti che davano luogo a spassose e interessanti dispute. Nel corso di queste Centaine non faticava a rendersi conto che la cultura di Lothar, e i suoi studi, erano di gran lunga più profondi dei suoi: ma, stranamente, non se ne risentiva. Si limitava ad ascoltare la sua voce con più attenzione. Era una voce meravigliosa, dopo gli schiocchi e i grugniti del linguaggio San: se la godeva come una musica, si faceva cullare dal suo timbro e dalla sua cadenza. « Mi canti una canzone! » gli ordinò, una volta che erano rimasti, per il momento, a corto di argomenti di conversazione. « Sia io sia Shasa gliel'ordiniamo. » « Servo vostro », sorrise lui, accettando con un ironico inchino. Poi si mise a cantare senza la minima affettazione. « Prendi il pulcino e la gallina ti seguirà »: aveva sentito mille volte Anna ripetere il vecchio proverbio, e, vedendo Shasa cavalcare per l'accampamento in spalla a Lothar, Centaine Xne capì tutta la verità, perché il suo cuore e i suoi occhi segui vano entrambi con la stessa gioia. All'inizio si inquietava un po' quando vedeva Shasa acco gliere Lothar con grandi urla: a Pà! Pà! » Quell'appellativo avrebbe dovuto essere riservato a Michael. Ma naturalmente, ricordò con una fitta di dolore, Michael giaceva sottoterra al cimitero di Mort Homme Così poi le riusci facile sorridere quando Shasa, tentando i prirni passi e finendo lungo disteso al suolo, si mise a piangere forte e a gattonare verso Lothar per farsi consolare. Furono la tenerezza e la gentilezza di Lothar verso suo figlio a incorag giare la sua affezione e il suo bisogno di lui. Centaine ben com prendeva infatti che, al di là della bellezza esteriore, egli era un uomo fiero e duro. Vedeva come lo rispettavano e lo teme vano i suoi uomini, gente dura anch'essi. Una volta, una volta soltanto, le capitò di assistere alla sua ira fredda e omicida, che terrorizzò lei come l'uomo contro cui era rivolta. Vark Jan, il khoisan giallo e rugoso, per indolenza e ignoranza aveva sellato il cavallo preferito di Lothar, quello con cui andava a caccia, con una sella sbagliata, che escoriò la groppa della creatura fin quasi all'osso. Con un pugno in testa Lothar aveva abbattuto Vark Jan, dopo di che gli aveva ta gliato a striscioline giubba e camicia a furia di staffilate con lo sEambok, la frusta di pelle d'ippopotamo attorcigliata, lunga un metro e mezzo, che in breve lo ridusse. svenuto, a terra, in una pozza di sangue. L'atto di violenza aveva atterrito e sconvolto Centaine, che
ne aveva visti tutti i più brutali dettagli dalla branda. Più tar di, tuttavia, sola nella capanna, la repulsione svani dando luogo a una trepida ilarità e a una sensazione di calore alla bocca dello stomaco. « Che uomo pericoloso », pensò, « pericoloso e crudele. » Tornò a rabbrividire. Non riusciva ad assopirsi. Restò coricata ad ascoltare il suo respiro regolare, dalla capanna vicino alla propria, pensando che le sue mani, mentre lei era incosciente, l'avevano svestita e toccata. La sua carne fremette a quell'idea e, nel buio, avvampò. Con impressionante contrasto, il giorno dopo egli fu tenero e gentile quando le tolse i punti, sostenendole la gamba in grem bo, strappando il filo di cotone dalla carne gonfia e infiammata. Restavano dei puntolini scuri sulla pelle. Lothar si piegò sulle ferite e le annusò. « Ormai sono pulite. Quei segni rossi sono provocati dal corpo che tentava di liberarsi dei punti. Adesso che li ho tolti, vedrà che guarirà in fretta. » Lothar aveva ragione. Nel giro di due giorni Centaine poté mettere per la prima volta il naso fuori della capanna, aiutandosi con una stampella di legno che le aveva fabbricato Lothar. « Ho le gambe molli. Sono debole come Shasa », protestò. « Presto tornerà forte come prima. » Lothar le passò il braccio intorno alle spalle per sorreggerla e lei fremette al tocco della sua mano, e sperò che non se ne accorgesse e non la togliesse. Si fermarono al recinto dei cavalli e Centaine li accarezò, felice di risentirne l'odore. « Voglio ricominciare a cavalcare », gli disse. « Anna Stok mi ha detto che è un'ottima cavalleriza. Mi ha detto anche che aveva uno stallone, uno stallone bianco. » « Nuage. » « Al ricordo le spuntarono le lacrime agli occhi. Le nascose affondando il volto sul fianco del cavallo preferito di Lothar. « Era una nuvola bianca. Era bellissimo, forte e agile. » « Nuage », ripeté Lothar, prendendola sottobraccio. « Che bel nome. » Poi prosegui: « Sì, cavalcherà ancora, prestissimo. Abbiamo un lungo viaggio da fare, per andare dove ci aspettano suo suocero e Anna Stok ». Fu la prima volta che Centaine pensò che anche quel magico interludio avrebbe avuto fine. Si staccò dal cavallo e guardò Lothar, al di là della groppa. Non voleva che finisse, non voleva che la lasciasse; e sapeva che tra breve sarebbe accaduto. « Sono stanca », disse. « Non credo di essere ancora in grado di cavalcare. » Quella sera, seduta sotto la veranda di tela con un libro in grembo, e fingendo di leggerlo mentre in realtà guardava Lothar di sottecchi, fu sorpresa da un suo sguardo improvviso e distolse gli occhi, arrossendo confusa. Lothar sogghignò come chi conosce benissimo i propri polli. « Sto scrivendo al colonnello Courteney », le disse, seduto al tavolino pieghevole con la penna in mano. « Domani mando un cavaliere a Windhoek, ma gli ci vorranno come minimo due settimane per andare e tornare. Do appuntamento al colonnello Courteney il giorno 19 del mese prossimo. » ;;Voleva dire: « Cosi presto? » ma si limitò ad annuire in ^silenzio. « Sono sicuro che non vede l'ora di riunirsi alla sua fami -glia, ma non credo che potremo arrivare prima di quella data. » « Capisco. » « Tuttavia sarò lieto di mandare una sua lettera col cavaliere tta Windhoek, nel caso voglia scrivere. » « Magnifico! Ah, Anna, cara Anna, giubilerà come una vec chia gallina! »
Lothar si alzò. « Si sieda qua e usi pure tutta la carta che vuole. Intanto io do da mangiare al signorino Shasa. » Con sua gran sorpresa, una volta scritto l'inizio della lettera (Mia cara, carissima Anna) non le riusci di continuare. Le parole le sembravano tutte insensate. Ringrazio Dio che tu sia sopravvissuta quella notte terribile; ti ho pensata tutti i giorni da allora... » La diga delle parole crollò ed esse inondarono la carta. « Dovrò spedirla con un mulo a parte », disse Lothar, com parendole dietro le spalle. Centaine sussultò, accorgendosi di aver scritto una dozina di fogli, fittissimamente. « Avrei ancora un sacco di cose da dirle, ma il resto può aspettare. » Centaine piegò i fogli e li sigillò con la ceralacca contenuta in una scatola d'argento. Lothar le resse la candela. « Ma che strano », sussurrò. « Avevo quasi dimenticato co me si fa a impugnare la penna. Quanto tempo, quanto tempo! » « Non mi ha mai raccontato che cosa le è successo, come Si è salvata dal naufragio, come ha fatto a sopravvivere tutto que sto tempo, come è arrivata nell'interno a centinaia di chilome tri dalla costa dove sarà approdata... » « Non ho nessuna voglia di parlarne », tagliò corto Centaine. X Per un attimo rivide con gli occhi della mente le faccette rugose, ambrate, a forma di cuore, e represse un po' di rimorso che sotto sotto covava, per averli abbandonati cosi brutalmen f te. « E non voglio nemmeno pensarci. La prego di essere cosi gentile da non sollevare mai più l'argomento, signore. » Lo disse in tono quanto mai sferzante e severo. « Naturalmente, signora Courteney. » Prese le due lettere sigillate. « Voglia scusarmi, ma le darò subito a Vark Jan, che partirà domani prima dell'alba. » Aveva il volto teso e risentito per il rabbuffo. Lo guardò andare al fuoco dei servi e udì il mormorio degli ordini che dava a Vark Jan. Quando tornò al riparo della veranda di tela, Centaine fece finta di essere impegnata nella lettura, sperando che lui l'interrompesse: ma Lothar sedette al proprio tavolino e prese a stilare il suo diario rilegato in pelle. Era il rito di ogni sera. Centaine restò ad ascoltare lo scricchiolio della penna sulla carta, risentitar a sua volta, che non si occupasse minimamente di lei. « Ci è rimasto così poco tempo », pensò, a e lo perde in quel modo! » Chiuse rumorosamente il libro ma lui non alzò nemmeno gli occhi. « Che sta scrivendo? » gli domandò. « Lo sa bene, ne abbiamo già parlato, signora Courteney. » « Ma scrive tutto, nel diario? » « Quasi tutto. » « Scrive anche di me? » Lothar posò la penna e si mise a fissarla. Lei fremette, sulle spine, sotto lo sguardo fermo di quei sereni occhi gialli, ma non riuscì a costringersi a scusarsi. « Lei voleva ficcare il naso in cose che non la riguardano », gli disse Centaine. « Si », ammise lui. Per dissimulare il proprio disagio, la ragazza gli chiese: « E che cosa ha scritto di me sul suo famoso diario? » « Adesso è lei, signora, a far domande indiscrete », le rispose Lothar, chiudendo il diario e infilandolo nel cassetto del tavolino. « E ora mi scusi, devo fare il mio solito giro del campo. » Cosi Centaine imparò che non poteva trattarlo come aveva trattato suo padre, e nemmeno come aveva trattato Michael Courteney. Lothar era un uomo orgoglioso che non le avrebbe permesso invadenze, un uomo che aveva lottato tutta la vita
per il diritto di disporre liberamente di sé. Non le avrebbe permesso di approfittare del suo spiccato senso di cavalleria nei confronti di lei e del piccolo Shasa. Imparò che non poteva fare la prepotente con lui. La mattina dopo si scopri dispiaciuta e delusa del suo comportamento rigidamente formale, ma col trascorrere della giornata si arrabbiò addirittura. « Un bisticcio da nulla. e fa il bron cio come un bambino viziato », si disse. « Be', vedremo chi la dura più a lungo. » Il secondo giorno, la rabbia lasciò il posto alla solitudine e all'infelicità. Si ritrovò ad aver nostalgia del suo sorriso, a rim Xpiangere il piacere perduto della sua conversazione, del suo canto e della sua risata. Guardava Shasa girellare per il campo, tenuto per mano da Lothar, impegnati in lunghe e loquaci conversazioni che capi vano soltanto loro: e scoprì, sbigottendo, che era gelosa di suo figlio. « Darò io da mangiare a Shasa », gli comunicò freddamente. « E ormai tempo che riassuma i miei doveri, e non c'è più bisogno che si disturbi lei, signore. » « Naturalmente, signora Courteney. » E aveva voglia di gridare: « Scusi, mi dispiace tanto ». Ma l'orgoglio di entrambi s'ergeva come una montagna frammezzo a loro. Quel pomeriggio Centaine restò sempre con l'orecchio teso nella speranza di sentire il suo cavallo tornare. Udi soltanto lontani colpi di fucile: Lothar arrivò molto tardi, quando sia lei sia Shasa erano già a letto. Giacque nel buio, ascoltando le voci e i rumori dei servi che scaricavano le gazzelle e cominciavano a scuoiarle. Fino a tardi Lothar restò seduto al fuoco dei suoi uomini e gli scoppi delle risate giungevano fino al suo letto. Alla fine lo sentì entrare nella capanna dalle pareti di tela vicina alla sua, lo sentì lavarsi al secchio che gli avevano por tato, lo sentì spogliarsi e stendersi sulla branda. La svegliò il pianto di Shasa. Capì subito che qualcosa non andava. Si sedette sulla branda e a tastoni cercò il figlio in quella vicina. Un fiammifero prima e, subito dopo, una lanterna si accesero nella tenda di Lothar. « Sst! Sta' buono, piccolo mio! » Se lo strinse al petto. Il suo corpicino scottava, e Centaine si spaventò. « Posso entrare? » chiese Lothar dall'ingresso. « Oh, si. » Entrò scostando la falda della tenda e posò la lampada. « Shasa sta male. » Le prese il bambino. Lothar indossava solo un paio di bra ghe e aveva petto e piedi nudi. I capelli avevano ancora la pie ga impressa dal cuscino. Toccò le guance rosse di Shasa e poi gli infilò l'indice nella bocca urlante. Shasa interruppe l'urlo a metà e azzannò il dito, come un pescecane. « Un altro dentino », sorrise Lothar. « L'avevo già sentito stamattina. » Restitùì il bambino alla madre, e Shasa emise un vagito di delusione. « Torno subito a trovarti, soldatino », disse Lothar. Uscì e Centaine lo sentì rovistare nella cassa dei medicinali inchiodata al fondo del carro. Quando tornò aveva un bottiglino in mano. Centaine arricciò il naso al pungente odore di chiodi di garofano che si sprigionava da quell'olio. « Adesso lo sistemiamo noi quel brutto dentaccio, sta' tranquillo. » Lothar massaggiò le gengive al bambino con l'indice, che Shasa gli succhiava ghiotto. « Bravo, soldatino, bravo. » Rimise Shasa sulla sua brandina. Nel giro di pochi secondi
il bimbo si addormentò di nuovo. Lothar riprese in mano la lanterna. « Buona notte, signora Courteney », le disse tranquillamente, e andò verso l'uscita. « Lothar! » Il suo nome sulle proprie labbra la sbalordì quanto lui. « Per piacere », gli sussurrò. « Sono stata tanto tempo sola... per piacere, non essere più crudele con me. » Gli tese le braccia ed egli la raggiunse e si sedette sulla brandina, vicino a lei. « Oh, Lothar... » La sua voce era rauca e bassa. Gli circondò la nuca con le mani. « Amami », lo implorò, « per piacere, amami », e la bocca di lui si posò sulla sua, ardente come per una febbre, le braccia di lui la strinsero così forte da farle emettere con un sospiro l'aria dei polmoni. « Sì, sono stato crudele con te », le disse Lothar sottovoce, con le parole che gli tremavano in gola, « ma solo perché desideravo pazzamente stringerti, perché soffrivo tutte le pene d'amore per te... » a Oh, Lothar, stringimi forte e amami, e non lasciarmi andare mai... » I giorni che seguirono furono la piena ricompensa delle dure traversie e della solitudine dei mesi e degli anni passati. Era come se il destino avesse cospirato per riversare tutte insieme su Centaine le delizie che per tanto tempo le aveva negato. Ogni mattina si svegliava nella stretta branda e, prima ancora di aprire gli occhi, lo cercava a tastoni col terribile timore che non ci fosse più... ma c'era sempre. A volte fingeva di dormire, allora lei provava ad aprirgli le palpebre con pollice e indice, e quando ci riusciva Lothar arrovesciava gli occhi all'insù in modo da mostrare solo il bianco. Lei rideva, e gli infilava la lingua nell orecchio, avendo scoperto che era l'unica tortura che non riusciva a sopportare. Sulle sue braccia nude si diffondeva, immediata, la pelle d'oca e lui si svegliava come un leone, l'afferrava e trasformava le sue risatine in sospiri e poi in gemiti Nel fresco del mattino andavano a cavallo insieme, con Shasa sulla sella davanti a Lothar. Per i primi giorni tennero i cavalli sempre al passo e rimasero nei pressi dell'accampamento. Tuttavia, man mano che Centaine recuperava le forze, cominciaro V no ad avventurarsi più lontano finché una volta percorsero l'ultimo paio di chilometri, tornando al campo, al galoppo più sfrenato, tra gli strilli eccitati di Shasa, al sicuro tra le braccia di Lothar. Irruppero nel campo eccitatissimi e affamati. I lunghi meriggi del deserto li passavano sotto il tetto di u paglia delle capanne, seduti separati, toccandosi solo di sfuggita nel passarsi un libro o Shasa, ma carezzandosi con gli occhi e con la voce, finché l'attesa non diventava uno squisito tormento. Quando il caldo diminuiva un po', e il sole diventava meno feroce, Lothar faceva preparare nuovamente i cavalli e andavano ai piedi della montagna, dove li lasciavano con le zampe impastoiate e salivano per una delle strette valli. Qui, sotto un vasto affresco degli antichi boscimani, seminascosta da una fitta vegetazione, Lothar aveva trovato un'altra sorgente termale che sgorgava dalla roccia e si raccoglieva in una piccola pozza. La prima volta che ci andarono, fu Lothar il più restio a liberarsi dei vestiti, mentre Centaine, felice, ritrovava la gioia della nudità che le aveva insegnato il deserto, gli spruzzava l'acqua addosso e lo sfotteva finché anche lui, quasi con aria di sfida, si calò le braghe e si tuffò in fretta in piscina. « Tu sei senza vergogna », le disse, tra il serio e il faceto. La presenza di Shasa li limitava, si sfioravano e accarezzava S no furtivi, nascosti dalle acque verdi della pozza, eccitandosi S sempre più, finché Lothar non resisteva oltre e si dirigeva verso di lei con l'espressione decisa che Centaine aveva imparato a
leggergli sulla mascella. Allora gli sfuggiva con strilli virginei, balzava fuori della pozza e si infilava gli indumenti dimenando il culetto roseo per il calore dell'acqua. « L'ultimo che arriva a casa salta la cena! » Era solo quando Shasa dormiva nella propria branda, a lampada spenta, che Centaine scivolava furtiva nella capanna di Lo thar. Egli l'aspettava, stimolato dalle moine, le provocazioni e i sapienti rimandi di tutta la giornata. Si avventavano l'una sull'altro in disperata frenesia, quasi fossero avversari stretti in un combattimento mortale. Molto più tardi, sdraiati nel buio, abbracciati, parlando molto piano per non disturbare Shasa, si mettevano a fare progetti e promesse per il futuro che si stendeva davanti a loro come se si trovassero sulla soglia stessa del Paradiso. Sembrava fosse partito da pochi giorni quando, a metà d'un torrido pomeriggio, su un cavallo coperto di schiuma, Vark Jan entrò nell'accampamento. Portava un pacco di lettere cucite in un sacchetto di tela sigillato con del catrame. Una lettera era per Lothar, un foglio solo che egli lesse con un'occhiata: Ho l'onore di informarla che sono in possesso di un documento di amnistia in suo favore firmato sia dall'Attorney General del Capo di Buona Speranza sia dal Ministro della Giustizia dell'Unione del Sud Africa. Mi congratulo per il successo dei suoi sforzi e non vedo l'ora di incontrarla nel giorno e nel luogo fissato, quando avrò il piacere di darle il documento. Cordiali saluti COL. GARRICK COURTENEY Le altre lettere erano entrambe per Centaine. Una era ancora di Garry Courteney, che dava a lei e Shasa il benvenuto in seno alla famiglia assicurandole tutto l'amore, la considerazione e i privilegi che ciò comportava. Dalla creatura più misera, immersa in un dolore intollerabile, lei mi ha trasformato di colpo nel più felice e gioioso dei padri e dei nonni. Non vedo l'ora di abbracciarvi entrambi. Venga presto quel dì!. Il suo affezionato e devoto suocero, GARRICK COURTENEY. La terza lettera, molto più lunga delle altre due messe insieme, era nella grafia goffa e quasi illetterata di Anna Stok. Il volto di Centaine raggiò di eccitazione e gioia: rideva forte, con gli occhi pieni di lacrime. Centaine lesse passi della lettera a Lothar, e alla fine piegò entrambe le missive con gran cura. « Ho una gran voglia di vederli, pure sono riluttante a lasciare che il mondo si intrometta nella nostra felicità, mia e tua. Voglio andare, ma voglio anche restare qui con te per sempre. Non è stupido? » « Sì », rise lui. « Stupidissimo. Partiamo al tramonto. » Viaggiarono di notte per evitare la calura del deserto di giorno. Con Shasa addormentato nella branda sul carro, cullato dai sobbalzi delle ruote, Centaine cavalcava a staffa a staffa con Lothar. I capelli del giovane risplendevano al chiar di luna, e le ombre addolcivano i segni della guerra e delle sofferenze sui suoi lineamenti, sicché le riusciva difficile staccare gli occhi dal suo ViSO. Tutte le mattine, prima dell'alba, si accampavano. Se erano vicini a qualche pozza d'acqua, prima di mettersi all'ombra del telone del carro davano da bere agli animali. Nel tardo pomeriggio, mentre i servi toglievano l'accampamento e preparavano le bestie al viaggio notturno, Lothar usci-
va a caccia. All inizio Centaine andava con lui, perché non poteva sopportare la sua assenza nemmeno per un'ora. Poi, una sera che già ci si vedeva poco, Lothar sbagliò il colpo e la pallottola del Mauser bucò la pancia alla gazzella senza ucciderla. Con energia sbalorditiva, la piccola e graziosa gazzella superò i cavalli correndo col viluppo delle budella che le pendevano dal ventre. E quando alla fine crollò, alzò la testa a guardare Lothar che smontava da cavallo col coltello in mano. Dopo questo, Centaine restò al campo quando Lothar lo lasciava per procurare carne fresca a tUtti. Cosi Centaine era sola quella sera, quando il vento si alzò di colpo da nord, costante e fresco. La ragazza sali sul carro di Lothar a prendere un indumento più pesante per il bambino. L'interno del carro era pieno di roba accatastata in previsione della partenza imminente. Per arrivare alla borsa che conteneva gli indumenti inviatile da Anna, dovette scavalcare una cassa di legno giallo. La gonna lunga l'impacciò e, per non cadere, si attaccò alla prima cosa che le capitò sottomano, la maniglia d'ottone del cassetto del tavolino pieghevole di Lothar. Il cassetto si aprì di due o tre centimetri. ff Si è dirnenticato di chiuderlo a chiave », pensò Centaine. « Dovrò avvertirlo. » Lo richiuse e passò sopra la cassa, raggiunse il sacco, tirò fuori l'indumento pesante per Shasa e stava tornando indietro quando l'occhio le cascò di nuovo sul cassetto. Si fermò a guardarlo, punta dalla tentazione. In quel cassetto c'era il diario di Lothar. « E davvero una canagliata », si disse, mentre la mano tornava a toccare la maniglia d'ottone. « Cosa avrà scritto di me? » Aprì lentamente il cassetto e contemplò il gran libro rilegato in pelle. « Voglio saperlo davvero? » Prese a chiudere di nuovo il cassetto, poi cedette all'irresistibile tentazione. « Leggerò solo quel che mi riguarda », promise a se stessa. Strisciò furtiva all'apertura del carro e sbirciò fuori. Swart Hendrick stava preparandosi ad aggiogare i buoi. « E tornato il padrone? » gli gridò. « No, signora, e non abbiamo sentito spari. Stasera farà tardi. » « Chiamami se lo vedi venire », gli ordinò, e tornò al tavolino. Si accucciò sulla cassa col librone in grembo e scoprì con sollievo che era scritto quasi tutto in afrikaans, tranne qualche passaggio in tedesco. Scorse le pagine finché non trovò la data del suo salvataggio. Quel giorno Lothar aveva scritto quattro facciate, un record paragonato agli altri giorni. Aveva raccontato per filo e per segno l'attacco del leone e il salvataggio, il ritorno ai carri con lei svenuta, e c'era anche una descrizione di Shasa. Sorrise leggendola. Un ragazzino gagliardo, della stessa età di Manfred quando lo vidi per l'ultima volta. Mi sono affezionato subito a lui... Ancora sorridente, scorse la pagina in cerca di una descrizione di se stessa, e si soffermò sul brano: Non c'è dubbio che la donna sia questa, anche se è cambiata rispetto alla fotograha e al ricordo del nostro breve incontro Ha i capelli ricci e folti come quelli di una ragazza nama, la faccia bruna e sottile da scimmia, Centaine sussultò, offesa, tuttavia, quando aprì gli occhi un momento temetti che mi si spezzasse il cuore, tanto erano grandi e dolci. Leggermente consolata andò avanti, girando le pagine in fretta, con l'orecchio teso, come una ladra, agli zoccoli del cavallo di Lothar. « Al successivo paragrafo la colpi una parola scritta in nitide lettere teutoniche: Boesmanne. Si soffermò un momento e infine comprese che significava a boscimani ». Col batticuore, lesse il brano col massimo interesse.
Boscimani introdottisi nell'accampamento stanotte. Hendrick ha trovato le impronte vicino al recinto dei cavalli e delle bestie. Li abbiamo seguiti alle prime luci dell'alba. Una caccia difhcile... La parola jap attirò l'attenzione di Centaine. « Caccia) » si domandò perplessa. Era una parola che si riferiva solo all'uccisione di animali. Rapidamente prosegui la lettura. fPresto raggiungemmo i due boscimani, ma quasi ci sfuggiro Xno arrampicandosi sul monte con l'agilità di babbuini. Non po itevamo seguirli e li avremmo perduti, se non si fossero dimo strati anche curiosi come babJuini. Uno di loro si è fermato in cima, sporgendosi a guardare. Era un tiro ditScile, lunghissimo e con un gran dislivello da superare Centaine impallidì mortalmente. Non riusciva a credere a quanto leggeva. Ogni parola le echeggiava nel cervello come in una caverna vuota e rimbombante. Nondimeno, l'ho colpito e l'ho tirato giù dalla montagna. Poi bo assistito a un incidente notevole. Non ho doruto sparare un secondo colpo, perché l'altro boscimano è caduto nel vuoto da solo. Da sotto, anzi. è parso addirittura che si buttasse volontariamente giù. Tuttavia non credo sia anlata così, gli animali non sono capaci di suicidarsi. B più probabile che il panico e il terrore gli abbiano fatto mettere un piede in fallo. Entrambi i corpi caddero in luoghi difficili da raggiungere. Tuttavia ero ben deciso a esaminarli, essendo i primi San selvaggi che cadevano sotto il mio piombo. L'arrampicata fu difficile e pericolosa, ma i miei sforzi furono ben compensati. Il primo corpo, che era di un uomo molto vecchio, quello che era caduto giù da solo nel burrone, non aveva niente di speciale tranne un coltello pieghevole marcato « Joscph Rodgers, Shelfield » assicurato alla cintola. Centaine prese a oscillare la testa di qua e di là. « No! » sussurrava. « No! » Penso che l'abbia rubato a quakhe altro viaggiatore. Il vecchio mascalzone probabilmente era penetrato nel nostro accampamento in cerca di altro simile bottino. Centaine rivide il minuscolo O'wa accucciato al sole col coltello in mano e lacrime di gioia che gli scivolavano giù dalle guance grinzose. « In nome della misericordia divina, no! no! » gemeva, mentre il suo sguardo era spietatamente attratto dalla nitida serie delle brutali parole. Fu però il secondo cadavere ad assicurare il maggior trofeo. Era il corpo di una donna forse ancora più vecchia dell'uomo, ma intorno al collo portava una decorazione quanto mai insolita... Il libro cadde dalle mani di Centaine, che si coprì il volto, disperata. « H'ani! » gridò nella lingua dei San. « Mia vecchia nonna, mia vecchia e riverita nonna, eri venuta a trovarci. E lui ti ha sparato! » Si dondolava avanti e indietro, lanciando gemiti gutturali, alla maniera dei San in lutto. All'improvviso, si scagliò sullo scrittoio. Tirò fuori il cassetto, facendo volare dappertutto, sul pavimento del carro, pezzi di ceralacca, fogli di carta da lettera e penne. « La collana », piangeva, « la collana. Voglio essere sicura. » Prese la maniglia di uno dei cassettini inferiori e tirò. Era chiuso a chiave. Afferrò uno scalpello appeso al bordo del carro assieme ad altri attrezzi e scardinò il cassetto. Conteneva una foto in cornice d'argento, che raffigurava una donna bionda e grassoccia con un bambino in grembo, e un fascio di lettere legate da un nastro di seta. Centaine sbatté tutto per terra e scassinò il cassetto succes-
sivo. C'era una pistola Luger in una scatola di legno e una confezione di proiettili. Li gettò sulle lettere e in fondo al cassetto trovò una scatola di sigari. Alzò il coperchio. Conteneva un involto. Scostò i lembi di un fazzoletto colorato e l'alzò con mani tremanti. Ne scivolò fuori la collana di H'ani. La guardò come si trattasse di un serpente velenoso, con le mani dietro la schiena per l'orrore, balbettando: « H'ani... oh, mia vecchia nonna... » Portò le mani alla bocca, serrando le labbra per arrestarne il tremito incontrollabile. Poi tese la mano e raccolse la collana, tenendola a distanza di un braccio da sé. « Ti ha assassinata », sussurrò, singhiozzando alla vista delle macchie nere di sangue sul gioiello. « Ti ha sparato come a una bestia. » Strinse al petto la collana, e ricominciò a dondolarsi avanti e indietro, con gli occhi strettamente serrati per ricacciare le lacrime. Era ancora in quello stato, quando send scalpitare un cavallo e udl le grida dei servi che accoglievano Lothar di ritorno dalla caccia. Si alzò barcollando, colta da un attacco di vertigini. Il dolore l'affliggeva come una grave malattia, ma appena sentì la sua voce: « To', Hendrick, prendi il cavallo! Dov'e la signora? » la pena si trasformò in qualcosa di diverso. Benché le mani le tremassero ancora, alzò il mento e aprì gli occhi che ora non bruciavano più per le lacrime, ma fiammeggiavano d'ira. Prese la Luger, azionò l'otturatore e vide il proiettile di ottone lucido suvolare in canna. Poi mise la pistola nella tasca della gonna e uscì dal carro. Saltò giù che già Lothar le veniva incontro col volto illuminato dalla gioia di rivederla. « Centaine... » Si interruppe, scorgendo la sua espressione. « Centaine, c'è qualcosa che non va? » La ragazza alzò la mano che stringeva la collana. Le gemme lampeggiavano e tintinnavano tra le dita tremanti. Non riusciva a parlare. Il volto di lui s'incupì e il suo sguardo si fece irato e duro. « Hai frugato nel mio scrittoio! » « L'hai uccisa! » a Chi? » Era davvero perplesso. Dopo un attimo: « Ah, la boscimano... » « H'ani! » « Non capisco. » a La mia nonnina. » Adesso era allarmato. « Stai prendendo un granchio, lascia che ti... » Fece un passo verso di lei, ma Centaine arretrò strillando. « Sta' lontano! Non toccarmi! Non toccarmi mai più! » Cercò in tasca la pistola. « Centaine, calmati! » Si fermò appena le vide la Luger. « Sei impazzita? » La guardò sbalordito. « Su, da' qua. » Fece un altro passo verso di lei. « Assassino, mostro che non sei altro, l'hai ammazzata! » Puntò la pistola con due mani, con la collana attorcigliata in torno alla canna che oscillava scompostamente. « Hai ucciso la mia piccola H'ani! Ti odio! » « Centaine! » Lothar tese la mano per prenderle la pistola. Vi fu un lampo di fumo azzurro e la Luger volò in alto, sol levando di scatto le braccia di Centaine. Lo sparo echeggiò come un gran colpo di frusta, assordandola. Il corpo di Lothar fu proiettato indietro. I suoi capelli bion di ondeggiarono come grano maturo al vento, mentre cadeva sulle ginocchia, e poi avanti, a faccia in giù. Centaine abbassò la Luger e arretrò, appoggiandosi contro il
bordo del carro, mentre Hendrick sopraggiungeva di corsa e le strappava l'arma di mano. « Ti odio », disse ansimando a Lothar. « Muori, maledetto. Muori e va' all'inferno! » Centaine cavalcava con le redini lente, lasciando che il ca vallo scegliesse il passo e il percorso che voleva. Aveva in brac cio Shasa, assicurato a tracolla da una fascia. Con la testa nel l'incavo del gomito della madre, il bimbo dormiva tranquillo. Il vento spazzava il deserto ormai da cinque giorni, senza posa, e la sabbia che trasportava sibilava e si alzava da terra Vcome schiuma sulle onde del mare. I cespugli rotolavano come palloni da football per tutta la pianura. Piccoli branchi di gaz zelle voltavano le spalle al vento con la coda ripiegata tra le zampe posteriori. Centaine si era avvolta intorno alla testa un foulard, a guisa di turbante, e una coperta per riparare entrambi. Curva sulla sella, mentre il vento fresco scompigliava la lunga criniera del cavallo e faceva sbattere le falde della coperta, strizzò gli occhi sferzati dai granelli di sabbia e, lontano lontano, vide il Dito di Dio. Era ancora molto distante, e indistinto nell'aria turbinosa e fosca, ma si stagliava contro il cielo basso, visibile anche in fquelle condizioni meteorologiche a dieci chilometri di distanza. ;Era la ragione per cui Lothar De La Rey l'aveva scelto come luogo d'incontro: era unico, impossibile a confondersi con qua ;lunque altro segno del paesaggio. ;Centaine tirò le redini e lanciò il cavallo al trotto. Shasa emi se un vagito di protesta nel sonno, al cambio di andatura, ma Centaine si raddrizzò sulla sella, cercando di scrollarsi di dosso il peso del dolore e dell'ira che, gravando su di lei, minacciavano di stritolarle l'anima. Pian piano la sagoma del Dito di Dio si fece più nitida con tro il cielo giallo di polvere. Era uno snello obelisco di roccia che si slanciava nel cielo per allargarsi, alla sommità, come la testa di un cobra che si prepara ad attaccare, alto sessanta me tri sul livello della pianura. Guardandolo, Centaine provava lo stesso sbigottimento che doveva aver ispirato agli ottentotti che anticamente popolavano i dintorni il nome di Mukuroò. Ed ecco che, alla base del gran monumento di pietra, un lampo di luce, riflesso da una superficie metallica, l'abbagliò. XRiparandosi con la coperta, guardò meglio. « Shasa », gli sussurrò. « Ci sono! Ci stanno aspettando! » Spronò il cavallo al piccolo galoppo e si alzò in piedi sulle fstaffe. All'ombra del pilastro di roccia era parcheggiato un veicolo a motore, accanto al quale era stata rizzata una tenda verde a casetta. Davanti alla tenda c'era un fuoco acceso, da cui si al zava, subito disperso dal vento, un fil di fumo azzurro come una piuma d'airone. Centaine si levò il turbante dalla testa e prese a sventolarlo come una bandiera. « Qua! » gridava. « Sono qua! » Le due figure indistinte sedute accanto al fuoco si alzarono e presero a scrutare nella sua direzione. Centaine continuò a sventolare il fazzoletto e a urlare, spingendo il cavallo al galoppo, e una delle due figurine si mise a correrle incontro. Era una donna, una donna massiccia in gonna lunga. Se la tirava su fino alle ginocchia, trepestando concitatamente sul soffice terreno sabbioso. Aveva il volto acceso per lo sforzo e l'emozione. « Anna! » gridò Centaine. « Oh, Anna! » Sulla larga faccia rossa scorrevano le lacrime. Anna lasciò andare le falde della gonna e aprì le braccia. « Bambina mia! »
gridò, e Centaine saltò giù dal cavallo e, stringendo al seno Shasa, corse ad abbracciarla. Piangevano entrambe, stringendosi forte, cercando di parlare insieme, incoerentemente, tra le risa di gioia e i singhiozzi: finché Shasa, schiacciato tra loro, non emise un urlo di protesta. Anna glielo strappò di dosso e l'abbracciò. « E un maschio. Un maschio. » « Michel. » Centaine singhiozzava di gioia. « L'ho chiamato Michel Shasa. » Shasa emise un lungo vagito e si aggrappò con entrambe le mani a quella faccia meravigliosa, grande e rossa da parere un ghiotto frutto maturo. « Michel! » Anna pianse, coprendolo di baci. Shasa, che sapeva tutto circa il baciare, spalancò la bocca e le cosparse il mento di tiepida bava. Sempre con Shasa in braccio, Anna trasse Centaine verso la tenda e il fuoco da campo. Una figura alta, dalle spalle tondeggianti, si diresse esitante verso di loro. Aveva capelli grigi ormai radi pettinati all'indietro, che scoprivano una fronte spaziosa da dotto: i suoi occhi dolci e vagamente miopi erano di un azzurro un po' meno puro di quelli del povero Michael; il naso, pur altrettanto grosso come quello del generale Sean Courteney, sembrava in qualche modo vergognarsi di se stesso. « Sono il padre di Michael », le disse timidamente, e a Centaine parve di guardare una vecchia foto sbiadita del suo Michael. Provò una fitta di pena, perché non aveva mantenuto i voti fatti alla memoria di Michael, e adesso era come trovarselo davanti. Per un attimo ricordò quel corpo carbonizzato e contorto nella carlinga dell'aereo in fiamme: vergognosa e contrita, corse incontro a Garry e gli gettò le braccia al collo. « Papà! » disse, e a quella parola ogni diffidenza di Garry crollò. Singhiozzò e la strinse a sé. « Avevo perso ogni speranza... » Garry nuare. Alla vista delle sue lacrime. anche non riuscì a contiAnna riprese a singhiozzare, il che fu troppo per Shasa. Un funereo uèee si levò anche da lui, e tutt'e quattro, in piedi sotto il Dito di Dio, si misero a piangere come fontane. I carri sembravano nuotare verso di loro nella polvere, soW balzando e traballando sul terreno ineguale, e, aspettando che li raggiungessero, Anna mormorò: « Dobbiamo essere eternamente grati a quell'uomo... » Era seduta sul sedile posteriore della Fiat, con Shasa in grembo e Centaine accanto. « Sarà ben pagato. » Garry teneva uno stivale sul parafango anteriore della macchina. Aveva in mano un documento arrotolato e legato con un nastro rosso, che sbatacchiava ritmicamente contro la gamba artificiale. « Non potrai mai ripagarlo abbastanza », affermò Anna, cullando Shasa tra le braccia « E un rinnegato e un fuorilegge », berciò Garry. « Va contro tutte le buone regole... » t« Per favore, dagli quanto gli dobbiamo, papà », disse piano Centaine, « e poi mandalo via. Non voglio mai più vederlo. » Il ragazzetto nama seminudo che conduceva i buoi aggiogati al carro li fermò con un fischio e Lothar De La Rey scese len tamente di cassetta, stringendo i denti per lo sforzo. A terra, si fermò un momento appoggiato con la mano sini stra al bordo del carro. L'altro braccio era al collo. Il viso era giallastro e sofferente sotto l'abbronzatura della pelle liscia. Gli occhi avevano profonde occhiaie nere, e le rughe amare agli angoli della bocca erano molto accentuate. Un velo di barba Xchiara gli copriva le mascelle splendendo anche nella luce fioca.
« E ferito », mormorò Anna. « Che gli è successo? » Accan to a lei, Centaine girò la testa dall'altra parte, in silenzio. Lothar si riscosse e avanzò lentamente incontro a Garry A metà strada tra la Fiat e il carro si strinsero brevemente la ma no. Lothar offrì, con qualche imbarazzo, la sinistra. Si misero a discorrere a voce bassa: le parole non giungevano fino a Centaine. Garry gli porse il rotolo di pergamena: Lothar sciolse il nastro coi denti e con la mano buona apri il rotolo sulla coscia, chinandosi a leggere. Dopo un po' si raddrizzò e lasciò che il rotolo di pergamena tornasse ad avvolgersi da solo. Annùì a Garry, dicendogli qualcosa. Il suo volto era senza espressione, e Garry tentennò, a disagio, porgendogli di nuovo, con gesto incerto, la mano. Ma, accorgendosi che Lothar non stava guardando lui, la ritrasse. Lothar guardava Centaine, e si avviava, a passi lenti e faticosi, verso di lei, superando Garry. Immediatamente, Centaine prese Shasa dal grembo di Anna e si rannicchiò nell'angolo più lontano del sedile, voltandogli le spalle e nascondendogli il bim bo. Lothar si fermò, alzò la sinistra verso di lei in una sorta di invocazione, e la lasciò cadere appena vide che la sua espressione non mutava. Perplesso, Garry guardava alternativamente ora l'uno ora l'altra. « Possiamo andare, papà? » disse Centaine con voce chiara e secca. « Ma certo, mia cara. » Garry andò davanti alla Fiat e si chinò ad afferrare la manovella. Appena il motore si accese, andò in fretta al volante a regolare l'aria. « Non hai niente da dire a quest'uomo? » le chiese, e, come lei scosse la testa, la Fiat partì con un sobbalzo. Centaine guardò indietro una volta sola, dopo ottocento metri di sobbalzi sulla pista sabbiosa. Lothar De La Rey era un puntino immobile, ancora in piedi sotto il torreggiante monumento di roccia: una figuretta solitaria nel deserto, e li guardava ancora. Le colline verdeggianti dello Zululand erano così diverse dalle desolazioni del Kalahari e dalle mostruose dune del Namiò che Centaine stentava a credere che si trovassero sullo stesso continente. Ma qui, rifletté, erano dall'altra parte dell'Africa, a più di duemila chilometri dal Dito di Dio. Garry Courteney arrestò la Fiat sull'orlo della ripida discesa che portava nella valle del fiume Baboon Stroom, spense il motore e aiutò le due donne a scendere dalla macchina. Prese Shasa a Centaine e li condusse sul ciglio del precipite .abisso. « Laggiù », indicò. « Quello è Theunis Kraal, dove sia io sia Sean, e poi Michael, siamo nati. » Era ai piedi della discesa, molto più in basso, circondato da giardini in declivio. Anche da quella distanza Centaine vedeva che i giardini era no incolti e troppo rigogliosi come la giungla tropicale. Alte palme e alberi fioriti di spathodea erano collegati da festoni -rampicanti di bugainvillea, mentre i laghetti ornamentali ver deggiavano di alghe putrescenti. « Certo la casa ha dovuto essere ricostruita dopo l'incendio », disse esitante Garry, e un'ombra gli passò dietro gli opachi oc chi azzurri, perché in quell'incendio era morta la madre di Mi chael, poi continuò, in fretta: « Pian piano, nel corso degli anni, ho aggiunto le varie ali ». Centaine sorrise. La casa la faceva pensare a una vecchia da ma svanita che indossasse a casaccio uno sull'altro indumenti Xdi fogge scompagnate, nessuno dei quali le andava più bene. AColonne greche e mattoni rossi alla Georgiana copulavano scon
;sideratamente con gli arricciati timpani bianchi caratteristici fdello stile olandese del Capo. I camini di pietra color zucchero di canna spuntavano perplessi dai tetti assieme a pinnacoli ri torti puramente decorativi. Oltre la casa, si stendevano fino all'orizzonte verdi campi di canne da zucchero ondeggianti alla brezza come un mare estivo. « E laggiù c'è Lion Kop. » Garry si girò a indicare a occi dente, dove la valle formava un anfiteatro fittamente alberato intorno alla città di Ladyburg. « Quella è la terra di Sean tutta sua, a partire dal mio confine. Là, fin dove si riesce a ve dere. Tra noi due possediamo tutta la vallata. Quella là, di cui si intravede solo il tetto, è la casa di Lion Kop. » « Che bello », sospirò Centaine. « Ma guardate, ci sono mon tagne laggiù in fondo, con la neve in cima! » « Le montagne del Drakensberg, a duecento chilometri di distanza. » « E quella? » Centaine indicò i tetti della città, digradanti oltre il complesso delle fabbriche, raffinerie di zucchero e se gherie, fino a un'elegante villa bianca sulle prime pendici della valle. « Anche quella è terra dei Courteney? » « Sì. » L'espressione di Garry cambiò. « Di Dirk Courteney, il figlio di Sean. » « Non sapevo che il generale Courteney avesse un figlio. » « A volte vorrebbe non averlo », mormorò Garry, quindi a voce alta esortò le due donne a risalire in macchina. « E quasi ora di pranzo, e se per caso è arrivato il nostro telegramma i servi ci staranno aspettando. » « Quanti giardinieri ha, Miinheer? » domandò Anna, mentre la Fiat affrontava sputacchiando il viale d'accesso a Theunis Kraal, lungo e pieno di curve, considerando con cipiglio il rigoglio e la confusione vegetale circostante. « Quattro, mi pare, o forse cinque. » « Ebbene, Miinheer, non si guadagnano la paga », gli disse severa Anna, e Centaine sorrise, sicura che d'ora in poi l'ignaro manipolo di giardinieri sarebbe stato obbligato a sudarsi ogni centesimo. Quindi la sua attenzione fu attratta da qualcos'altro. « Oh, guardate! » Si alzò in piedi all'improvviso, sull'auto scoperta, afferrando lo schienale del sedile anteriore con una mano e tenendosi il cappello in testa con l'altra. Dall'altra parte dello steccato bianco che in quel tratto costeggiava il viale d'accesso alla casa padronale, un branco di puledri spaventati, ma per finta, dall'avanzata sputacchiante della Fiat scappavano al galoppo, criniere al vento e manti luccicanti al sole, per il prato lussureggiante e verdissimo d'erba kikuyu. « Uno dei tuoi compiti, mia cara, sarà badare che i cavalli siano sempre in esercizio. » Garry si girò a sorriderle. « E dovremo scegliere un pony per il giovane Michel qui presente. » « Ma se non ha ancora due anni », intervenne Anna. « Non si è mai troppo giovani », scherzò Garry. Poi il suo sorriso si rivolse ad Anna, diventando un sogghigno lascivo. « O troppo vecchi... » Benché il suo cipiglio restasse immutato, Anna non riusci a evitare che lo sguardo le si addolcisse prima di distogliere gli occhi da lui. « Ah, bene! I servi ci stanno davvero aspettando, allora! » esclamò Garry, e frenò davanti alla porta principale di tek. I servi allineati in ordine di anzianità si presentarono a turno, facendo un passo avanti, a cominciare dal cuoco zulu dall'alto cappello bianco per finire agli sguatteri, ai giardinieri e mozzi di stalla, tutti a batter le mani rispettosamente e a sorridere producendo lampi di denti bianchissimi cosi che Shasa, -eccitato, prese a saltellare emettendo gridolini in grembo a Centaine.
« Ah, Bayete », rise lo chef, prodigando a Shasa addirittura il titolo reale, « tUtti ti salutano, piccolo capo, che tu possa crescere forte e dritto come tuo padre! » Entrarono nella casa di Theunis Kraal, orgogliosamente intro ydotti da Garry nelle grandi sale un po' in disordine. Anna pas sava l'indice su tutto ciò che le veniva a tiro, impolverandosi il polpastrello e accigliandosi sempre più: tuttavia, dalla lunga e splendida sala da pranzo, con le pareti coperte di trofei di cac cia, alla biblioteca, dotata di libri non meno impolverati e costo ;si, ma più sulla scrivania e perfino per terra che al loro posto sugli scaffali, per la dimora di Theunis Kraal spirava un'aria benigna e amichevole. Centaine si senti a casa quasi immediatamente. « Ah, che bello avere di nuovo dei giovani per casa, e belle ragazze, e un bambino piccolo! » diede voce ai propri senti tmenti Garry. « Questo vecchio posto aveva proprio bisogno di un po' di vita. » X« Anche un po' di pulizia non guasterebbe », borbottò Anna, ;ma già Garry stava scattando verso lo scalone centrale, elastico come un giovanotto per l'eccitazione. « Venite che vi faccio vedere le vostre stanze. » La stanza cke Garry aveva scelto per Anna era accanto al la propria suite, e, benché il significato di ciò sfuggisse a Cen taine, Anna abbassò gli occhi assumendo un'aria da bulldog mansueto quando notò una porticina che la collegava al vesti bolo di Garry. « Questa sarà la tua stanza, mia cara. » Garry condusse Cen taine per il corridoio superiore e la fece entrare in una grande stanza soleggiata che dava su una vasta terrazza da cui si poteva contemplare il giardino. n« E bellissima! » Centaine batté le mani tutta contenta e cor se fuori, in terrazza. « Certo bisognerà ridecorarla, dovrai scegliere tu stessa i co lori che preferisci per le pareti, le tende e i tappeti... e adesso venite a dare un'occhiata alla stanza del giovane Michel » Appena Garry spalancò la porta che nel corridoio si apriva di ; fronte a quella della stanza di Centaine, il suo umore cambiò visibilmente, e come Centaine vi mise piede ne comprese la ragione. Era la stanza di Michael. Dalle foto incorniciate alle pareti egli le sorrideva ancora: eccolo in tenuta da rugby, assieme ad altriquattordici giovani robusti e sogghignanti; eccolo in tenuta da cricket con la mazza in mano, eccolo con la doppietta e una sfilza di fagiani. Lo shock fece impallidire Centaine. « Pensavo di dare a Michel la stanza di suo padre », mormorò in tono di scusa Garry. « Ma naturalmente, mia cara, se non sei d'accordo ci sono altre quindici stanze tra cui scegliere. » Lentamente, Centaine si guardò attorno. Doppiette nella rastrelliera, canne da pesca, mazze da cricket negli angoli, libri sugli scaffali sopra lo scrittoio, impermeabili e giacche di tweed appese agli attaccapanni. « Sì », annuì. « Sarà questa la stanza di Shasa, e non cambieremo niente. » « Oh, bene! » annuì tutto contento Garry. « Sono felice che tu sia d'accordo. » E schizzò nel corridoio a gridare ordini in lingua zulu ai servi. Centaine si aggirò lentamente per la stanza, toccando il letto in cui Michael aveva dormito, fermandosi a premer contro la guancia una delle sue giacche di pungente tweed e immaginando di poter risentire nell'abito l'odore particolare, fresco, del suo corpo; spostandosi alla scrivania a passare il polpastrello sulle sue iniziali, MC, che egli aveva inciso sul piano di rovere;
prendendo un libro dallo scaffale, Jock oX the Bushaeld, e scorgendovi nel frontespizio lo scherzoso ex libris: « Questo libro è stato sgraffignato a Michael Courteney ». Richiuse il volume e andò alla porta. In corridoio c'era movimento. Garry stava tornando assieme a due sesi zulu chini sotto il peso di un'enorme culla. I pattini arrotondati e la struttura in mogano massiccio potevano facilmente contenere un leone adulto. « Era quella di Michael... Penso debba contenere anche suo figlio, che ne pensi, mia cara? » Prima che Centaine potesse rispondere, nel salone, da basso, squillò imperioso il telefono. « Digli tu dove la devono mettere, mia cara », disse Garry, tornando in fretta giù dalla scala. Restò via quasi mezz'ora mentre Centaine sentiva il telefono squillare a intervalli irregolari. Quando Garry tornò precipitevolmente di sopra, sbuffava. « Quel dannato telefono non la finisce mai. Tutti vogliono conoscerti, mia cara. Sei famosissima. Un altro grande giornalista ti vuole intervistare... » « Spero che tu gli abbia detto di no, papà. » Negli ultimi due mesi, tutti i giornalisti del Sud Africa le avevano chiesto un'intervista. La storia della ragazza dispersa in mezzo al mare e ritrovata, col suo bambino, in piena Africa selvaggia aveva suscitato l'interesse di tutti gli editori di giornali da Johannesburg e Sydney a Londra e New York. « L'ho mandato al diavolo », le garantì Garry. « Ma c'è qualcun altro che ha una gran voglia di rivederti. » « Chi? » « Mio fratello, il generale Courteney. Lui e sua moglie sono da poco arrivati a Lion Kop dalla loro casa di Durban. Ci hanno invitati a pranzo da loro domani, e poi a passare la giornata insieme. Ho accettato anche per te, ho fatto male? » « Anzi, hai fatto benissimo! Hai fatto benissimo! » Anna si rifiutò di accompagnarli a Lion Kop. :a C'è troppda fare qui! » dichiarò. I servi di Theunis Kraal l'avevano già soprannominata Checha, « Sbrigati! » la prima parola zulu che Anna aveva imparato. Tutti quanti avevano già concepito per lei un cauto ma crescente rispetto Così Garry e Centaine andarono da soli a Lion Kop, con Shasa in braccio alla mamma, e, quando si fermarono davanti alla grande dimora, una massiccia e ben nota figura barbuta scese le scale all'ingresso zoppicando leggermente e andò a stringere entrambe le mani di Centaine. « S come vederti tornare dal mondo dei morti », le disse sottovoce Sean Courteney. « Non ci sono parole per esprimere quello che provo. » Poi prese Shasa dalle braccia di Garry. « Sicché questo è il figlio di Michael! » Shasa ridacchiò tutto contento, afferrando con due mani la barba del generale e cercando di sradicarla. Ruth Courteney, la moglie di Sean, a quell'epoca era tra i quaranta e i cinquant'anni, l'età in cui una donna stupenda rag giunge lo zenit di bellezza ed eleganza. Baciò Centaine sulla guancia e le disse con dolcezza: « Michael era una persona specialissima per noi, e tu prenderai il suo posto nel nostro cuore ». In attesa dietro di lei c'era una giovane che Centaine riconobbe immediatamente dalla foto incorniciata che il generale teneva sulla scrivania in Francia. Storm Courteney era ancora più bella che in fotografia, aveva la pelle come un petalo di rosa e i brillanti occhi ebraici della madre: ma sulla sua bocca c'era un broncio da bambina viziata e sempre scontenta. Salutò Centaine in francese. « Comment vas-tu, chérie? » Il suo accento era atroce. Si guardarono negli occhi e il loro non piacersi fu subito lampan-
te, intenso e reciproco. Dietro Storm c'era un giovane alto e smilzo dall'aria seria e gli occhi buoni. Mark Anders era il segretario privato del generale, e a Centaine riuscì immediatamente simpatico quanto gli era riuscita antipatica la ragazza. Il generale Sean Courteney prese Centaine sottobraccio, e al fianco di sua moglie l'introdusse nella dimora di Lion Kop. Benché le due case fossero separate da pochissimi chilometri, non potevano essere più diverse l'una dall'altra; c'erano mondi di differenza, addirittura. Il pavimento ligneo di Lion Kop scintillava, giallo di cera. Alle pareti erano appesi quadri dai colori chiari e vivaci: Centaine riconobbe una scena tahitiana, alquanto maliziosa, di Gauguin. Dappertutto, c'erano grandi mazzi di fiori freschi. « Se ci scusate un attimo, signore, Garry e io ci appartiamo un po' e vi lasciamo alle cure del giovane Mark. » Sean condusse il fratello nel suo studio, mentre il segretario versava alle signore del cordiale. « Ero in Francia col generale », disse Mark a Centaine, porgendole il bicchiere, « e conosco bene il suo villaggio natale. Vi eravamo acquartierati in attesa di andare al fronte. » « Ah, che bello, un ricordo di casa mia! » proruppe Centaine, toccandogli impulsivamente il braccio. Dall'altra parte della sala, Storm Courteney, accoccolata in posa languida sul sofà rivestito di seta, scoccò a Centaine un'occhiata così carica di veleno concentrato da farla esultare tra sé. « Alors, chérie! Dunque è così che stanno le cose », pensò Centaine. Tornò a rivolgersi a Mark Anders e lo guardò negli occhi, esagerando l'accento nasale francese. « Rammenta forse il castello oltre la chiesa a nord del villaggio? » gli domandò, facendo risuonare nella domanda come uno stuzzicante invito a delizie proibite. A questo punto Ruth Courteney intul che si stavano addensando nubi nere e intervenne con abilità. « Adesso, Centaine, vieni a sederti qui vicino a me », le ordinò. « Voglio sentire tuttO della tua incredibile avventura. » Così Centaine ripeté per la cinquantesima volta la versione edulcorata del siluramento e i successivi vagabondaggi nel de serto. « Straordinario! » esclamò a un certo punto Mark Anders. « Ho ammirato spesso gli affreschi dei boscimani nelle caverne dei monti Drakensberg: alcuni sono davvero bellissimi, ma non sapevo che vi fossero ancora boscimani selvaggi. Sono stati scacciati da queste montagne sessant'anni fa... tipetti davvero insidiosi sotto ogni punto di vista... e credevo che fossero stati sterminati tutti. » Sul serico sofà Storm Courteney alzò platealmente le spalle. « Non riesco proprio a immaginare come hai potuto sopportare che uno di quei mostriciattoli gialli ti toccasse, chérie. So che io sarei morta sul colpo. » « Bien sur, chérie, ma ti saresti persa l'emozione di assaggiare lucertole e locuste vive, non ti pare? » disse Centaine. Storm impallidl. Sean Courteney rientrò e le interruppe. « Bene, bene, mi fa piacere vedere che fai già parte della famiglia, Centaine. So già che tu e Storm diventerete grandi amiche, non è vero? » « Indubbiamente, papà », mormorò Storm, e Centaine si mise a ridere. « S così dolce, la sua Storm, che sento già di amarla. » Centaine scelse a colpo sicuro l'aggettivo giusto per far fiammeggiare di collera le guance rosee e perfette della ragazza. « Bene! Bene! Il pranzo è pronto, amore mio? » Ruth si alzò a dare il braccio a Sean e tutti insieme sfilarono nel patio, dove sotto le fronde di jacaranda era stata apparecchiata la ta-
vola. L'aria stessa pareva colorata di verde e porpora dai raggi del sole che attraversavano i rami fioriti, sicché sembrava di trovarsi in una grotta sottomarina. I servi zulu, che da un po' fremevano impazienti, a un cenno di Sean portarono via Shasa, come un principe, nelle cucine. Il piacere del bambino attorniato da tante facce nere sorridenti era evidente, come la passione dei servi per lui. « Attenta che, se glielo permetti, lo vizieranno », l'avvertì Ruth. « C'è una sola cosa che gli zulu amano più del bestiame, e sono i maschietti. Ora, perché non ti siedi accanto al generale, mia cara? » Durante il pranzo Sean fece di Centaine il centro dell'attenzione generale, con la sola Storm che distoglieva lo sguardo, in atteggiamento di annoiata superiorità, a un capo del tavolo. « E adesso, mia cara, voglio sentire tutta la storia. » « Buon Dio, papà, l'abbiamo appena sentita: ne abbiamo piene le scatole. » Storm roteò gli occhi. « Parla da signora », l'ammonì Sean, e poi subito a Centaine: « Comincia dall'ultima volta che ti ho vista e non tralasciare niente, siamo d'accordo? Neanche un particolare! » Per tutto il pranzo Garry rimase pensieroso e zitto, in contrasto con l'umore allegro delle ultime settimane, e dopo il caffè si alzò subito in piedi quando Sean disse: « Bene, gentef scusateci per qualche minuto. Garry e io dobbiamo fare una chiacchieratina con Centaine ». Lo studio del generale era tutto rivestito di mogano. I libri negli scaffali erano rilegati in pelle di vitello, mentre le sedie erano trapuntate in cuoio. A terra c'erano tappeti orientali e, sull'angolo della scrivania, un bronzetto squisito di Anton Van Wouw. Per ironia della sorte raffigurava un cacciatore boscimano con l'arco in una mano, che scrutava il deserto riparandosi gli occhi con l'altra. Ricordò così vivamente O'wa a Centaine che per un attimo send il cuore accelerare i battiti. Con un cenno del sigaro Sean la invitò ad accomodarsi nella poltrona a braccioli davanti alla sua scrivania, che parve inghiottirla. Garry prese una sedia e si mise accanto a lei. « Ho parlato a Garry », disse Sean senza preliminari. « Gli ho raccontato le circostanze della morte di Michael prima del matrimonio. » Sedette alla scrivania e cominciò a giocherellare con la catena d'oro dell'orologio, pensieroso. « Noi tutti qui sappiamo che in ogni senso, tranne quello legale, Michael era tuo marito e il padre naturale di Michel. Tuttavia, tecnicamente Michel è... » Esitò. « Michel è illegittimo. Agli occhi della legge è un bastardo. » La parola colpì Centaine. Fissò Sean tra le volute del fumo azzurrino del sigaro, mentre il silenzio si protraeva. « Non possiamo accettare una cosa simile. » Fu Garry il primo a parlare. « E mio nipote. Non possiamo accettarla. » « No », concordò Sean. « Non possiamo accettarla. » « Col tuo consenso, mia cara », continuò Garry con una voce che era quasi un sussurro, « avrei pensato di adottare il ragazzino. » Centaine voltò lentamente la testa a guardarlo, ed egli ricominciò a parlare in fretta. « Sarebbe solo una formalità. Un accorgimento legale per assicurare la sua posizione sociale. Si potrebbe fare nel modo più discreto, e non altererebbe minimamente i rapporti tra te e il bambino. Saresti sempre sua madre e ne avresti la custodia, mentre io sarei onorato di diventare il suo tutore, e fare per lui tutto quello che suo padre non può fare. » Centaine strizzò gli occhi e Garry tossicchiò. « Perdonami, mia cara, ma dobbiamo parlarne. Come ha detto Sean, noi tutti ti consideriamo la vedova di Michael, e vorremmo che portassi il nostro cognome per trattarti a pieno titolo da mem-
bro della famiglia, come se la cerimonia, quel giorno, avesse avuto luogo. » S'interruppe e tossicchiò ancora. « Nessuno verrebbe a saperlo oltre noi tre in questa stanza e Anna. Daresti il tuo consenso per il bene del bambino? » Centaine si alzò e raggiunse la sedia di Garn. Cadde in ginocchio davanti a lui e gli appoggiò la testa in grembo. « Grazie », sussurrò. « Sei l'uomo più buono e gentile del mondo. Adesso hai preso davvero il posto di mio padre. » I mesi che seguirono furono i più felici che Centaine avesse mai trascorso: nella sicurezza, luminosi e soddisfatti, pieni delle risate di Shasa, con la presenza benevola pur se un po' schiva di Garry Courteney sullo sfondo e quella ben più sostanziale di Anna in primo piano. Centaine cavalcava tutte le mattine prima di colazione e poi ancora, nel fresco della sera; e spesso Garry l'accompagnava, narrandole aneddoti sull'infanzia di Michael e raccontandole la storia di famiglia, mentre salivano le pendici della valle tra gli alberi della foresta o si fermavano ad abbeverare i cavalli alle pozze sotto le cascatelle del fiume, dove acqua e schiuma precipitavano da trenta metri d'altezza sulle rocce nere. Il resto della giornata di Centaine se ne andava tra la scelta di tende e tappezzerie, la supesisione degli artigiani che stavano ridecorando la casa, la consultazione di Anna sul rivolgimento dell'organizzazione domestica di Theunis Kraal, le ruzzate con Shasa, le sgridate ai servi zulu che rischiavano di viziarlo irreparabilmente, le lezioni di guida da parte di Garry Courteney sulla grossa Fiat scoperta, l'esame degli inviti stampati che arrivavano con la posta di ogni giorno, c la direzione generale dell'andamento e dell'amministrazione di Theunis Kraal, come già aveva fatto per l'azienda agricola al castello di Mort Homme. Ogni pomeriggio lei e Shasa prendevano il tè con Garry nel suo studio, dove rimaneva rinchiuso quasi tUttO il giorno. Allora si infilava gli occhiali cerchiati d'oro e leggeva ad alta voce quello che aveva scritto quel giorno. a Dev'essere meraviglioso possedere un dono simile! » esclamò una volta Centaine, ed egli abbassò il foglio. « Ammiri quelli che scrivono? » le chiese lui. « Siete una razza particolare. » « Sciocchezze, mia cara, non siamo che gente comune con l'assurda convinzione che ad altri può interessare quanto abbiamo da dire. » « Vorrei saper scrivere anch'io. » « Ma tu scrivi molto bene. » « Voglio dire, scrivere sul serio. » « Puoi benissimo: prendi la carta e comincia pure, se è questo che vuoi... » « Ma », disse Centaine, fissandolo sbigottita, « di che potrei scrivere? » « Ad esempio, di quello che ti è successo laggiù nel deserto. Mi sembra un ottimo inizio, direi. » Le ci vollero tre giorni per avvezzarsi all'idea e prepararsi all'impresa. Poi fece portare dai servi un tavolo nel gazebo in fondo al prato all'inglese e vi si sedette con la matita in mano, una risma di carta bianca di Garry davanti e il terrore nel cuore. Da allora in poi, provò tutti i giorni lo stesso timore davanti al primo foglio bianco: timore che svaniva in fretta, però, man mano che a ranghi serrati le parole si susseguivano l'una dopo l'altra, riempiendo il vuoto. Portò nel gazebo cose belle e a lei care per alleviare la solitudine dell'impegno creativo, un bel tappeto da mettere sul pavimento di cotto, un grazioso vaso a un capo del tavolo, che Anna tutti i giorni colmava di fiori freschi, e davanti a sé mise
il coltello di O'wa. Lo adoperava per far la punta alla matita. A destra mise un portagioie dall'interno di velluto, con dentro la collana di H'ani. Ogni volta che l'ispirazione l'« Wandonava, posava la matita e prendeva in mano la collana. Giocherellava con le pietre come fanno i greci col loro rosario scacciapensieri, e il contatto delle brillanti e lisce superfici sembrava tranquillizzarla e rinnovare la sua risolutezza. Tutti i pomeriggi, dal termine del pranzo fino all'ora del tè con Garry in biblioteca, scriveva al tavolo nel gazebo, mentre Shasa dormiva in una cesta accanto a lei o cercava di arrampicarlesi sulle gambe. Non ci volle molto perché Centaine si rendesse conto che non avrebbe mai potuto mostrare ad anima viva quanto andava scrivendo. Scoprì infatti che non riusciva a tacere nulla, e scriveva con una sorta di brutale candore che non ammetteva riserve o equivoci. Che si trattasse dei particolari della sua storia d'amore con Michael, o della descrizione del gusto del pesce marcio mentre si trascinava mezzo morta sulla spiaggia dell'Atlantico, sapeva benissimo che nessuno avrebbe potuto leggere cose del genere senza sentirsi turbato o addirittura orripilato. « E solo per me che scrivo », decise allora. Alla fine di ogni seduta di lavoro, quando metteva i fogli sulla collana di H'ani e li rileggeva, provava un gran senso di soddisfazione e aveva la sensazione di aver fatto qualcosa di importante. Nondimeno in questa sinfonia di gioia c'erano anche delle note stonate. A volte in piena notte si svegliava di soprassalto cercando con la mano, accanto a sé, lo snello corpo dorato che avrebbe voluto trovarci, bramando il contatto di quei lisci muscoli duri e dei capelli lunghi e serici dal profumo d'erbe del deserto. Quando tornava pienamente cosciente, giaceva nel buio odiandosi per quel desiderio vergognoso, che tradiva la memoria di Michael, di O'wa e della cara, piccola H'ani. Una mattina Garry Courteney la mandò a chiamare e, quando si fu accomodata davanti alla sua scrivania, le porse un plico. « S arrivato da un avvocato di Parigi, con una lettera d'accompagnamento per me. » « E che dice, papà? » « Il mio francese è terribile, temo, ma credo di aver capito che si tratta della vendita delle terre di tuo padre a Mort Homme, per pagare i debiti. » « Oh, mio povero papà! » « Ti credevano morta, mia cara, e la vendita è stata autorizzata da una sentenza del tribunale francese. » « Capisco. » « L'avvocato, poi, ha letto su un giornale di Parigi la storia del tuo ritrovamento, e mi ha scritto spiegandomi la situazione. Disgraziatamente i debiti del conte de Thiry erano ingenti, e come purtroppo sai il castello e tutto ciò che conteneva erano andati distrutti nell'incendio. L'avvocato presenta il rendicon to: una volta pagati tutti i debiti e le spese legali, tra cui la sua non trascurabile parcella, ti rimane ben poco. » I sani istinti amministrativi di Centaine si destarono. « Quan to, papà? » domandò secca. « Poco meno di duemila sterline, temo. Ti manderà un ac credito bancario quando gli avremo reso il rendiconto debita mente firmato e approvato. Fortunatamente, tra l'altro io sono notaio e potremo far tutto privatamente. » Quando l'accredito finalmente arrivò, Centaine ne depositò la maggior parte alla banca di Ladyburg all'interesse del 3,5 per cento, indulgendo soltanto alla sua novella passione per la velocità. Comprò infatti per centoventi sterline una Ford mo
dello « T », tutta nera e scintillante d'ottone. Quando per la prima volta imboccò a sessanta all'ora il viale d'accesso a Theu nis Kraal, dalla casa uscirono tutti a vedere la macchina. Perfino Garry Courteney si affrettò fuori del suo studio, con gli oc chiali d'oro sulla fronte: e fu la prima volta che la sgridò. « Ma, mia cara, prima di fare queste cose devi consultarmi Non mi va che sperperi cosi i tuoi risparmi. Ci sono io, no? per queste cose. Inoltre », aggiunse con aria lugubre, « stavo pensando di regalarti proprio la macchina per il tuo complean no. A adesso come faccio? » « Oh, papà, perdonami, ti prego. Ci hai già dato moltissimo, e perciò ti amiamo. » Era la verità. Era giunta ad amare questa persona gentile per molti versi, come aveva amato suo padre, e per altri aspetti anche di più, perché i suoi sentimenti nei confronti di Garry erano accresciuti dal rispetto che provava per le sue qualità non sbandierate, anzi nascoste, la sua profonda umanità e la sua forza nell'affrontare un destino che l'aveva cNdelmente privato di una gamba, della moglie e del figlio, e gli aveva ne gato, fino a tarda età, le gioie degli affetti familiari. Quanto a lui, la trattava da padrona di casa. Una sera, eccolo infatti discutere con lei la lista degli invitati per una cena che tintendevano dare di li a poco. « Sarà meglio metterti in guardia su questo Robinson. Sono stato a lungo incerto se invitarlo o no. » Ma, poiché Centaine stava pensando a tutt'altro, sussultò, perplessa. « Scusami tanto, papà », disse, « non ho sentito cos'hai det to. Temo che stavo fantasticando. » « Oh, povero me », le sorrise Garry. « Credevo di essere l'unico sognatore della famiglia. Ti stavo solo mettendo in ;guardia contro il nostro ospite d'onore. » XGarry dava delle cene due volte al mese, non di più, e per tdieci persone al massimo. « Sai, mi piace sentire quel che hanno da dire gli altri, chiun que siano », le spiegò, « e non mi va di perdere una bella sto ria perché sono seduto all'altro capo del tavolo. » Era un grande intenditore di cibi e di vini e vantava una delle cantine meglio fornite del paese. Aveva portato via lo chef zulu al Country Club di Durban, sicché i suoi inviti erano am ;bitissimi, anche se l'accettarli costringeva a un viaggio in treno e a un pernottamento a Theunis Kraal. « Questo Joseph Robinson sarà anche baronetto, come tanti altri mascalzoni senza princìpi ma abilissimi a non farsi mai beccare; sarà anche più ricco di Cecil Rhodes ai suoi bei tempi, possiede due miniere d'oro e di diamanti e la Banca Robinson, ma resta un tanghero, capace di spendere diecimila ster line per un quadro senza batter ciglio e negare dieci centesimi a uno che muore di fame. i! anche un bullo, e l'uomo più avido, spietato e tirchio che abbia mai conosciuto. La prima volta che il Primo Ministro propose la sua nomina a baronetto vi furono proteste cosi sdegnate che dovette lasciar cadere l'idea. » X« Se è un tipo così, perché l'invitiamo, papà? » Garry fece un sospiro teatrale. « Si tratta di un prezzo che devo pagare per la mia arte, cara. Cercherò di spremere a que Xsto galantuomo alcuni fatti, che probabilmente è l'unico essere vivente a potermi raccontare, di cui ho assolutamente bisogno per il mio nuovo libro. » « Vuoi che cerchi di affascinarlo? » « Oh no, no! Non c'è bisogno di spingersi a tanto. Ma po y tresti magari metterti qualche bel vestitino » Centaine scelse il taffettà giallo col corpetto ricamato che le lasciava scoperte le spalle, ancora un po' abbronzate dal sole
del deserto. Come al solito, fu Anna a spazzolarle i capelli e ad aiutarla a vestirsi per cena. Centaine arrivò dal suo bagno personale, uno dei grandi lussi della sua nuova vita, ancora stillante d'acqua e avvolta nell'accappatoio, con un asciugamano a mo' di turbante intorno alla testa. Andando al tavolo da toilette, lasciò l'impronta dei piedi bagnati sul legno giallo del parquet. Anna era seduta sul letto e le stava ricucendo il corpetto con ago e filo. « Te l'ho allargato di tre centimetri. Cara la mia signora, ho idea che stai mangiando un po' troppo, con tutte 'ste cene di gala. » Terminò di ricucire il corpetto, posò con cura il vestito sul letto e si alzò per piazzarsi alle spalle di Centaine. « Dovresti cenare con noi », brontolò Centaine. « Qui non sei una serva. » Centaine avrebbe dovuto avere le fette di salame sugli occhi per non accorgersi della relazione amorosa che stava fiorendo tra Garry e Anna. Finorar tuttavia, non aveva mai avuto occasione di parlarne, anche se desiderava condividere la gioia di Anna, sia pure in maniera vicaria. Anna prese la spazzola d'argento e cominciò a impartire alla chioma di Centaine vigorose spazzolate che le trascinavano indietro la testa di scatto a ogni colpo. « Vuoi che perda tempo a sentire tutte quelle chiacchiere vane? » Imitò i vezzi della conversazione mondana anglosassone in maniera da far ridacchiare divertita Centaine. « No, grazie, non ci capisco un cavolo... La vecchia Anna è più contenta e più utile in cucina, a sorvegliare quei ghignanti imbroglioni neri. » « Eppure, papà Garry vorrebbe tanto che ti unissi alla compagnia. Me ne ha parlato diverse volte. Credo ti si stia affezionando moltissimo. » Anna arricciò il naso. « Ora basta con queste sciocchezze, bella signora », disse in tono definitivo, dopodiché posò la spazzola e sistemò sulla chioma della fanciulla la retina gialla, che catturava i riccioli ribelli adornandoli di lustrini. « Pas mal! » giudicò, dopo averla contemplata a qualche passo di distanza. « E ora il vestito. » Andò a prenderlo sul letto, mentre Centaine si alzava e si liberava dell'accappatoio con una scrollata di spalle. Lo lasciò scivolare a terra e rimase in piedi, nuda, davanti allo specchio. « La cicatrice sul polpaccio sta guarendo bene, ma sei ancora troppo nera », lamentò Anna, poi s'interruppe di colpo e rimase immobile col vestito giallo in mano, fissando accigliata Centaine. « Centaine! » disse in tono secco. « Quand'è che hai avuto le tue cose l'ultima volta? » Centaine si chinò a raccogliere l'accappatoio, coprendosi, sulla difensiva. « Sono stata molto male, Anna. Ho picchiato la testa... poi mi è venuta l'infezione... » « Quand'è che hai avuto le tue cose l'ultima volta? » « Non capisci. Sono stata malata... anche quando mi è venuta la polmonite ho saltato il ciclo, non ricordi? » « Non le hai più avute da quando eri nel deserto! » esclamò Anna, rispondendo da sé alla sua stessa domanda. « Con quel tedesco, quel mezzosangue tedesco afrikaner! » Gettò il vestito sul letto e scopri Centaine, aprendo le falde dell'accappatoio. « No, Anna, sono stata molto male... » Centaine stava tre mando. Fino ad allora aveva chiuso letteralmente la mente al l'atroce possibilità appena prospettatale da Anna. XCostei le appoggiò la grossa mano callosa sul ventre e Cen taine si contrasse tutta. « Non mi sono mai fidata di lui, con quegli occhi da gatto, quei capelli gialli e quel malloppone gonfio nelle braghe! »
Xbrontolò furiosa Anna. « Adesso capisco perché non gli volevi pill parlare, perché lo trattavi più da nemico che da salvatore. » « Anna, mi è capitato altre volte di saltare un ciclo. PotreS be benissimo... » « Ti ha violentata, povera bambina mia! Ti ha stuprata! Non hai potuto impedirlo. B questo che è successo, vero? » Centaine individuò la via di scampo che Anna le additava, ;e desiderò imboccarla. « Ti ha costretta a soggiacere, vero? Dillo ad Anna! » « No, Anna. Non mi ha violentata. » « Hai dunque acconsentito? L'hai lasciato? » L'espressio ne di Anna era stupefatta. « Ero tanto sola... » Centaine si accasciò sulla sedia, coprendosi il volto con le mani. « Erano quasi due anni che non vedevo un bianco; e lui era cosi gentile, così bello... Gli dovevo la vita... Non capisci, Anna? Per piacere, di' che mi capisci! i Anna l'abbracciò forte con le sue braccia grosse, e Centaine affondò il viso nel suo petto tiepido e molle. Entrambe restarono un po in silenzio, scosse e preoccupate. « Non puoi tenerlo », disse infine Anna. « Dovrai liberar tene. » Quelle parole colpirono come una Pugnalata Centaine, che riprese a tremare come una foglia, cercando di sfuggire all'atroce pensiero. « Non possiamo portare un altro bastardo a Theunis Kraal, non lo ammetterebbero. Troppa sarebbe la vergogna. Ne hanno accettato uno, ma Miinheer e il generale non ne sopporterebbero un altro. Per il bene di tutti, per la famiglia di Michael e Shasa, per te stessa e tutti quelli che amiamo, non c'è scelta. Devi liberartene. » « Anna, non posso farlo. » « Ami l'uomo che te l'ha messo nella pancia? » « Ora non più. Lo odio », le sussurrò. « Oh Dio, quanto lo odio! » « Allora liberati del suo marmschio prima che distrugga te, Shasa e tutti noi. » La cena fu un incubo. Centaine sedeva a un capo della lunga tavolata e sorrideva radiosa, benché negli occhi le ardesse la vergogna e sentisse il bastardo che aveva nel ventre come una vipera raggomitolata e pronta a mordere. L'uomo anziano che le sedeva accanto continuava a discorrere a voce alta, rivolgendosi quasi esclusivamente a lei, nella maniera più irritante. La testa calva e abbronzata dal sole pareva un uovo di piviere, e gli occhi erano stranamente spenti, come quelli di una statua di marmo. Centaine non riusciva a concentrarsi su quel che diceva, che le suonava incomprensibile come una lingua straniera. La sua mente vagava molto lontano, tra le nuove preoccupazioni ertesi di colpo a minacciare la sua esistenza e quella di suo figlio. Sapeva che Anna aveva ragione. Né il generale né Garry Courteney avrebbero tollerato un bastardo a Theunis Kraal. Anche se l'avessero perdonata, ma era al di là di ogni ragione e ogni speranza che potessero farlo, non le avrebbero mai consentito di riversare il disonore e lo scandalo non solo sulla memoria di Michael, ma sull'intera famiglia. Non era possibile. Quella di Anna era l'unica maniera di evitare la disgrazia incombente. A un tratto sobbalzò sulla sedia e quasi si mise a urlare. Sotto la tavola apparecchiata, l'uomo che le sedeva accanto le aveva messo una mano sulla coscia. « Scusate. » Spinse indietro la sedia di scatto e Garry la guardò preoccupato. « Devo andare un momento di là », e scappò in cuana.
Anna si accorse che era sconvolta e le corse incontro; l'accompagnò in dispensa e chiuse la porta a chiave. « Oh Anna, stringimi, per piacere, sono così frastornata e impaurita... e quel mascalzone di là... » L'abbraccio di Anna la calmò, e dopo qualche istante mormorò: « Hai ragione tu, Anna. Bisogna proprio che me ne liberi ». « Ne parliamo domani », le disse con dolcezza Anna. « Adesso lavati gli occhi con dell'acqua fredda e torna in sala da pranzo senza far scenate. » La reazione di Centaine aveva raggiunto lo scopo. Il pelato re delle miniere, quando la giovane tornò a sedersi accanto a lui, non la degnò neanche di uno sguardo. Stava parlando con la donna seduta dall'altra parte, ma l'intera brigata lo ascoltava con l'attenzione dovuta a uno degli uomini più ricchi del mondo. « Quelli sì erano bei tempi », stava dicendo. « Il paese era a disposizione, e c'erano vere fortune sotto ogni sasso, caspita, sotto ogni sasso! Barnato ha cominciato come venditore ambulante di sigari, e anche sigari schifosi, ve lo dico io: ma quando Rhodes l'ha liquidato, ha dovuto staccargli un assegno da tre milioni di sterline... l'assegno più grosso mai firmato fino ad X allora, benché in seguito io stesso ne abbia compilati di più grossi diverse volte... » « E lei come ha iniziato, Sir Joseph? » « Con cinque sterline in tasca e la capacità di distinguere f un diamante da un 'bidone'... Ecco come ho cominciato! » « E come si fa, Sir Joseph? Come si fa a distinguere un vero diamante da uno schlenter? » « Mio caro, la maniera più rapida è immergerlo in un bicchier d'acqua. Se vien fuori bagnato, è un 'bidone'. Se vien fuori asciutto è un diamante. » Queste parole scivolarono su Centaine senza apparentemente farle alcuna impressione, perché era preoccupatissima e Garry, dall'altra parte della tavola, le stava segnalando che era tempo di condurre via le signore. Tuttavia, le parole di Robinson dovettero lasciarle qualche impronta nell'inconscio perché il pomeriggio seguente, mentre X sedeva al tavolo di lavoro nel gazebo e guardava vagamente i prati inondati di sole giocherellando con la collana di H'ani tra le dita, quasi senza pensarci versò un bicchier d'acqua dalla brocca di cristallo. Poi vi immerse la collana. Dopo qualche istante la tirò fuori e la guardò distrattamente. Le pietre colorate erano tutte bagnate, ma le venne il batticuore notando che il pendaglio centrale, la grossa pietra trasparente al centro della collana, sembrava proprio asciutto. Rimise la collana nell'acqua e la tirò fuori ancora. Le mani incominciarono a tremarle forte. La pietra di mezzo sfolgorava più di tutte le altre stillanti, ma era assolutamente priva della più piccola e insignificante gocciolina, come il bianco petto del cigno. Si guardò attorno facendo finta di nulla. Shasa dormiva succhiandosi il pollice nella sua cesta e i prati erano deserti nella calura meridiana. Per la terza volta immerse la collana nell'acqua e, quando la pietra trasparente ne uscì ancora asciutta, si mise a mormorare piano: « H'ani, mia vecchia e amata nonna, sarai dunque tu a salvarci di nuovo? i! mai possibile che vegli ancora su di me? » Centaine non poteva certo consultare il medico di famiglia dei Courteney a Ladyburg, sicché con Anna escogitò l'impellente necessità di un viaggio nel capoluogo, che era il porto di Durban. La scusa era la solita e prediletta dalle donne: degli acquisti da fare. Avevano sperato di potersi allontanare da sole da Theunis
Kraal, ma Garry non volle saperne. « Mettermi da parte? Giammai! E un secolo che mi tormentate perché mi faccia fare un vestito nuovo, e questa è l'occasione buona di far visita al sarto. Già che ci sono, poi, potrei anche approfittarne per comprare qualche bagattella da regalare a due signore di mia conoscenza. » Si trattò dunque di una spedizione di famiglia, con Shasa, le balie zulu e le due macchine necessarie a trasportare l'intera combriccola per i trecento polverosi chilometri che separano Ladyburg dalla costa. Scesero al Majestic, sulla spiaggia dell'Oceano Indiano, dove Garry prese le due suites migliori. Centaine e Anna dovettero fare ricorso a tutta la loro astuzia per liberarsi di Garry per qualche ora, ma alla fine ci riuscirono. Anna aveva compiuto indagini discrete, procurandosi l'indirizzo di un dottore che riceveva nel suo studio, dotato di salottini separati per l'attesa dei clienti che non desideravano farsi notare, in Point Road. Usarono nomi di comodo e il dottore confermò loro quel che già sapevano. « Mia nipote è vedova da due anni », gli spiegò Anna con tatto. « Non può affrontare lo scandalo. » « Mi dispiace, signora. Non posso aiutarvi », rispose recisamente il dottore, ma quando Centaine gli pagò l'onorario di una ghinea mormorò: « Le darò una ricetta », e scrisse un indirizzo su un pezzo di carta. Per strada, Anna la prese sottobraccio. « Abbiamo ancora un'ora di tempo. Andiamo subito a prendere appuntamento. » « No, Anna », s'impuntò Centaine. « Devo pensarci su. Voglio starmene un po' sola. » « Non c'è proprio niente da pensare », disse arcigna Anna. « Lasciami andare, Anna, sarò di ritorno per l'ora di cena. Domani ci andiamo. » Anna conosceva bene quel tono e quelltespressione. Alzò le braccia al cielo e montò sul risciò in attesa. Mentre il corridore zulu la portava via sul risciò a due posti, Anna le gridò dietro: « Pensaci finché vuoi, bambina, ma domani si fa a modo mio ». Centaine la salutò con un sorriso, sventolando la mano, e appena il risciò sparl dietro l'angolo girò sui tacchi e tornò in fretta verso il porto. Aveva notato la bottega poco prima, quando c erano passate davanti: M. NAIDOO. GIOIELLIERE. L'interno era piccolo, ma ordinato e pulito, con gioielli di poco valore in mostra nelle teche vetrate. Appena entrò, un indiano grassoccio e nero si affacciò dal retrobottega scostando una tenda a perline. Indossava un abito piuttosto elegante e adatto al clima dei tropici. « Buon pomeriggio, onorata signora, io sono Mister Moonsamy Naidoo al servizio di madàm. » Aveva una faccia affabile incoronata da capelli nerissimi, ondulati e unti con olio di cocco fino a farli risplendere come carbone appena estratto dalla miniera, sopra il volto pure molto scuro. « Vorrei dare un'occhiata alla sua mercanzia », disse Centaine, osservando i braccialetti di filigrana esposti nella vetrinetta più vicina. « Un dono per l'amato bene, naturalmente, buona signora: si tratta di braccialetti di purissimo argento lavorati a mano dai migliori artigiani del mondo... » Centaine non rispose. Sapeva bene i rischi che stava per correre, e intendeva farsi un'opinione dell'uomo. Lo stesso faceva lui con lei, guardandole guanti e scarpe, infallibili segni rivelatori della classe di una signora. « ... ma pur sempre bagattelle, ninnoli indegni di lei. Se la
stimatissima signora gradisce vedere qualcosa di veramente principesco... » « Lei tratta anche... diamanti? » « Diamanti, illustrissima? » La faccia grassoccia dell'indiano si arricciò in un sorriso. « Sono in grado di mostrarle un diamante degno d'un re... o di una regina. » « Anch'io », disse tranquillamente Centaine, e piazzò l'enorme pietra sul vetro della teca, tra di loro. Il gioielliere indiano emise un gemito di sorpresa, sbattendo le braccia come un pinguino. « Dolce signora! » esclamò. « Lo copra, lo copra! Abbia la compiacenza di nasconderlo al mio sguardo! » Centaine rimise la pietra nella borsa e fece per avviarsi alla porta, ma il gioielliere la raggiunse prima di lei. « Ancora un attimo del suo tempo, pia signora. » Chiuse le imposte davanti alla vetrina e all'uscio della bottega. Poi diede un giro di chiave alla porta. Quindi tornò da lei. « Vi sono pesantissime condanne », le disse con voce malferma. « Dieci anni di lavori forzati del tipo peggiore... e io non sono un uomo vigoroso. Inoltre i carcerieri sono gentaglia, a quanto mi risulta; buona signora, i rischi sono infiniti... » « Non la disturberò oltre. Apra la porta. » « Di grazia, cara signora, voglia seguirmi di là... » Indietreggiò scostando la tenda di perline con la schiena, inchinandosi e facendo ampi gesti d'invito con la mano. Il retrobottega era angusto, e la scrivania vetrata lo riempiva tutto, lasciando ai due pochissimo spazio. C'era una sola finestrella alta. L'aria era immobile e odorosa di curry. « Posso rivedere l'oggetto, buona signora? » Centaine lo posò in mezzo alla scrivania e l'indù si infilò nell'orbita un oculare prima di prendere in mano la pietra e metterla contro la luce della finestra. « E permesso chiedere dove se l'è procurato, gentile signora? » « No. » Lo girò pian piano tra le dita sotto la lente d'ingrandimento; poi lo pesò sul bilancino di precisione. Così facendo, ripeteva sottovoce: « Incauto acquisto di diamanti... è un gravissimo reato, signora. La polizia non perdona ». Soddisfatto della caratura, aprì il cassetto della scrivania e ne trasse un rozzo tagliavetro a forma di penna, con un nero diamante industriale sulla punta. « Che cosa intende fare? » domandò sospettosa Centaine. « L'unica prova risolutiva, madàm », le spiegò il gioielliere. « Un diamante incide qualunque altra cosa al mondo, tranne un altro diamante. » Per fare un esempio tracciò col tagliavetro un segno netto sul cristallo della scrivania. Lo stridio fece accapponare la pelle e stringere i denti a Centaine, e ne risultò una profonda incisione biancastra sul piano di vetro. Il gioielliere alzò lo sguardo per chiederle il permesso di effettuare la prova: appena la ragazza annuì, tenne ferma la pietra contro il vetro della scrivania e provò energicamente a inciderla. Come lubrificata, la punta di diamante scivolò silenziosamente su una faccia senza produrvi la minima incisione. Una goccia di sudore si formò sul mento dell'indù e andò a infrangersi sul vetro della scrivania. Ci riprovò. Calcando con forza sulla punta di diamante cercò di segnare l'altra pietra: invano. Niente rumore, niente graffio. La mano prese a tremargli. Stavolta si appoggiò sul tagliavetro con tutto il peso del braccio e della spalla. Il manico di legno dello strumento si spezzò con un colpo secco. Il bianco cristallo restò immacolato. Entrambi lo fissarono con gli occhi sbarrati, finché Centaine chiese a bassa voce: « Quanto? »
« I rischi sono gravi, buona signora, e io sono un uomo troppo onesto. » « Quanto? » « Mille sterline », sussurrò. « Cinque », replicò Centaine. « Madàm, cara e dolce madàm, ho la fortuna di godere di una reputazione impeccabile. Se fossi trascinato in tribunale per incauto acquisto... » « Cinque », ripeté lei. « Due », gorgogliò il gioielliere, e Centaine fece per riprendersi la pietra. « Tre », corresse in fretta, e Centaine si fermò. « Quattro », disse con fermezza. « Tremila e cinquecento, cara signora, ed è la mia ultimissima e più generosa offerta. Tremilacinquecento sterline. » « Affare fatto », disse Centaine. « Dove ha i soldi? » « Ma, buona signora, vuole che tenga simili somme sulla mia persona? » « Tornerò domani alla stessa ora col diamante. Prepari il denaro. » « Non capisco », disse Garry Courteney torcendosi le mani, infelice. « Perché non ti possiamo accompagnare? » « No, papà. è una cosa che devo fare da sola. » « Almeno uno di noi, io o Anna... come si fa a lasciarti andare ancora via da sola? » « Anna deve star qui a badare a Shasa. » « Allora vengo io. Avrai ben bisogno di un uomo laggiù... » « No, papà. Ti scongiuro di essere comprensivo e indulgente. i! una cosa che devo fare per conto mio, completamente sola. » « Centaine, sai benissimo quanto abbia già imparato a volerti bene. Avrò pure qualche diritto, no? Il diritto di sapere dove vuoi andare, cosa vuoi fare? » « Sono desolata, perché per quanto anch'io ti voglia molto bene non posso dirtelo. Farlo renderebbe priva di senso la mia partenza. Consideralo un pellegrinaggio che mi sono impegnata a fare. E tutto ciò che posso dirti. » Garry si alzò dalla sedia, andò alla finestra del suo studio e si mise a guardar fuori con le mani unite dietro la schiena. « Quanto tempo starai via? » « Non lo so ancora », gli rispose tranquilla. « Non sa quanto tempo ci vorrà. Come minimo qualche mese, ma forse molto di più. » Egli abbassò il capo e sospirò. Quando tornò alla scrivania, Garry era triste ma ormai rassegnato. « Che posso fare per aiutarti? » le domandò. « Niente, papà, tranne che dare un'occhiata a Shasa mentre sono via e perdonarmi per non poterti dire di più. » « Ti occorrono soldi? » « Sai che ho il denaro dell'eredità. » « Lettere di presentazione? Mi consentirai di fare almeno questo per te? » « Mi saranno utilissime, grazie. » Con Anna non fu altrettanto facile. Siccome in parte sospettava quello che aveva intenzione di fare Centaine, si arrabbiò e si oppose ostinatamente. « Non ti lascio andare. Tu vuoi tirarci addosso la disgrazia Basta con questa follia, liberatene come avevamo stabilito, in maniera rapida e definitiva. » « No, Anna, non posso assassinare il mio bambino, non hai il diritto di chiedermelo. » « Ti proibisco di partire. » « No. » Centaine le si avvicinò e la baciò. « Sai che non puoi fare nemmeno questo. Su, stringimi forte un momento... e bada
a Shasa mentre non ci sono. » « Di' almeno alla tua Anna dove vai. » « Basta con le domande, carissima Anna. Promettimi soltanto che non tenterai di seguirmi, e che impedirai di farlo anche a papà Garry, perché sai benissimo cosa scoprirebbe in tal caso. » « Ragazzaccia ostinata! » Anna l'« Wracciò e la strinse forte « Se non tornerai più, spezzerai il cuore di questa povera vec chia. » « Non dirlo neanche per scherzo, vecchia sciocca! » L'odore del deserto era come quello della pietra focaia che batte sull'acciaio, un odore secco di bruciaticcio che Centaine riusciva a distinguere sotto l'odore più acre del fumo della locomotiva a carbone. Il treno sferragliava sugli scambi facendo ondeggiare ritmicamente il vagone. Centaine sedeva sul cuoio verde e guardava fuori del finestrino. Una pianura piatta e giallastra si stendeva fino all'estremo orizzonte, mentre in cielo si intravedevano appena lontanissime montagne azzurrine. Branchi di gazzelle popolavano la pianura, disperdendosi a balzi quando il treno fischiava, tra il fumo grigiastro. La più vicina fece un salto altissimo e a Centaine venne dolorosamente in mente il vecchio O'wa che danzava imitando le prede appena uccise per onorarne lo spirito. Poi il dolore svanì, lasciando spazio solo alla gioia del ricordo, ed ella sorrise, contemplando il deserto. I grandi spazi resi incandescenti dal sole le risucchiavano l'anima come la calamita il ferro. Pian Piano si sentì diventare sempre più impaziente, come accade al viaggiatore che, dopo un lunghissimo cammino, si trova a un solo chilometro da casa. Più tardi, quando le ombre della sera colorarono di viola la pianura sconfinata, i suoi vari connotati si precisarono. Ondulazioni e basse colline si stagliarono proiettando ombre nette, mentre svaniva il miraggio creato dalle onde di calore che tutto distorcevano fino a poco prima. Centaine guardò il vasto e severo paesaggio con una gioia profonda. « Al tramonto si mise un mantello sulle spalle e usci sul balconcino in coda al treno. In un tripudio di vapori rossi e arancio il sole affondava dietro l'orizzonte, mentre nella notte tinta di porpora si affacciavano le stelle. Alzò gli occhi: eccole là, la sua e quella di Michael, separate soltanto dalla nebulosa di Magellano, argentea polvere di stelle. « Non avevo più guardato il cielo, da quando ho lasciato questa terra selvaggia », pensò, e all'improvviso i campi verdi della Francia natia e le colline lussureggianti dello Zululand non furono per lei più che uno sbiadito e insignificante ricordo. « E questo il mio paese, ormai. La mia patria è il deserto. » L'avvocato di Garry Courteney andò a prenderla alla stazione di Windhoek. Gli aveva telegrafato prima di partire da Città del Capo. Si chiamava Abraham Abrahams, ed era un ometto azzimato dagli occhietti sempre vivi, molto simile a una piccola volpe del deserto dalle orecchie a punta come quelle dei pipistrelli. Mise via senza leggerla la lettera di presentazione di Garry che Centaine gli aveva appena porto. « Mia cara signora Courteney, da queste parti la conoscono tutti. La storia della sua incredibile avventura ci ha appassionato moltissimo e oso dire che lei è una leggenda vivente. Sono lieto di mettermi a sua completa disposizione. » L'accompagnò in macchina al Kaiserhof Hotel e, quando si fu assicurato che aveva una buona stanza e il personale di servizio, la lasciò libera per qualche ora, cosi che potesse fare il bagno e riposare un po'. « Ah, il carbone s'infila dappertutto, anche nei pori della pelle », disse amabilmente.
Quando Centaine tornò, si sedettero a prendere il tè al bar dell'albergo. « Ebbene, signora Courteney », le chiese l'avvocato allora; « che cosa posso fare per lei? » « Moltissime cose », rispose lei, porgendogli una lunga lista. « Come vede, la prima è trovarmi un uomo. » « Non sarà difficile. » Esaminò la lista. « Quest'uomo è ben conosciuto; anzi oserei dire che è famoso quanto lei. » La strada era composta di pietre aguzze, appena frantumate dalle mine, taglienti come lame di rasoio. Lunghe file di lavoratori negri a torso nudo, lucidi di sudore, rompevano con le mazze le più grosse per spianarla. « Al passaggio di Centaine sulla polverosa Ford di Abrahams, si spostavano sul ciglio della strada, appoggiandosi alle mazze, rispondendo con un sogghigno e un gesto del pollice rivolto all'insù alle sue domande. Man mano che si addentrava tra le montagne la strada diventava sempre più ripida, sicché a un certo punto Centaine fu costretta dalla pendenza a salire in retromarcia. Infine non riuscì più a proseguire. Un caposquadra ottentotto le corse incontro giù per il pendio sventolando una bandiera rossa. « Pasop, signora! Attenzione! Stanno per far brillare le mine! » Centaine accostò al ciglio della strada in costruzione, sotto un cartello che diceva: IMPRESA DI COSTRUZIONI DE LA REY STRADE, INGEGNERIA CIVILE Scese dall'auto e si stirò. Indossava calzoni corti, stivali e una camicia da uomo. Il caposquadra ottentotto restò li imbambolato a guardarle le gambe finché non gli disse secca: « Adesso basta, torna al lavoro se non vuoi che lo sappia il tuo padrone ». Si tolse lo scialle che portava in testa e si scompigliò i capelli. Poi immerse un fazzoletto nel serbatoio di tela appeso, per mantenere fresca l'acqua, alla fiancata della Ford e si tolse la polvere dal viso. C'erano cento chilometri da li a Windhoek, e lei guidava da prima dell'alba. Prese il cestino dal sedile posteriore e si mise a consumare il pasto preparatole in albergo, panini al prosciutto e uova sode accompagnate da un thermos di tè freddo, perché tutt'a un tratto le era venuta fame. Mangiando, guardava la pianura che si stendeva ai piedi della montagna, vasta e sconfinata si era dimenticata come brillava argentea al sole l'erba del deserto. Le tornò in mente all'improvviso anche una capigliatura bionda che splendeva nello stesso modo, e senza volerlo le si indurirono i capezzoli e senti un gran calore all'inguine. Subito si vergognò della sua momentanea debolezza e si disse fieramente: a Lo odio, come odio questa cosa che ha lasciato dentro di me ». Quasi destato da quel pensiero, il bambino si mosse in lei, un movimento profondo e segreto, e l'odio di Centaine vacillò come la fiamma di una candela a una corrente d'aria improvvisa. « Devo essere forte », si disse. « Devo essere decisa, per il bene di Shasa. » Dietro le sue spalle, dalla cima del passo, si udirono lontani fischi d'avvertimento, seguiti da un silenzio teso. Centaine si alzò a guardare, riparandosi gli occhi con la mano, involontariamente ansiosa. A un tratto la terra le sussultò sotto i piedi e l'onda sonora dell'esplosione le investì i timpani. Una colonna di polvere si alzò nell'aria serena del deserto e la montagna si fendette come per un gigantesco colpo d'ascia. Strati di roccia grigioazzurra si staccarono dalla parete precipitando nella valle sottostante. Di balza in balza echeggiava l'esplosione, allontanandosi sem-
pre più, mentre anche la polvere pian piano si dissolveva nel cielo azzurro. Centaine restò in piedi a guardare in cima al pendio. Dopo un po' si profilò sulla cresta un uomo a cavallo. Lentamente scese giù per il sentiero sassoso e sconnesso che il cavallo saggiava, diffidente, con lo zoccolo. Ritto in sella, il cavaliere era flessuoso come un alberello al vento. « Se solo non fosse cosi bello », disse piano tra sé Centaine. Il cavaliere alzò il cappello a larghe tese con piume di struzzo nel nastro e si spolverò i calzoni con quello. I capelli d'oro splendevano come un faro, e Centaine si senti lievemente vacillare. Ai piedi del pendio, a un centinaio di passi da lei, scavalcò con la gamba il collo del cavallo, saltò a terra e porse le redini all'ottentotto . Il caposquadra nero gli parlò concitato, indicandogli Centaine. Lothar annui e si incamminò in discesa verso di lei. A metà strada si arrestò di colpo e si mise a fissarla. Anche a quella distanza Centaine vide gli occhi illuminarglisi emettendo ba gliori dorati, come di zàffiri al sole. quindi l'uomo si DreciDitò verso di lei. Centaine rimase immobile. Restò lì impalata a fissarlo, e a dieci passi di distanza egli vide la sua espressione e si bloccò di nuovo. « Centaine! Mai più pensavo di rivederti, tesoro mio... » Fece un passo verso di lei. « Non mi toccare », gli disse freddamente, lottando col panico che interiormente l'inondava. « Te l'ho già detto... non toccarmi mai più. » « E allora perché sei venuta? » sbottò lui. « Non ti basta tormentarmi nel ricordo? In tutti questi mesi non ho fatto che pensare a te. Vuoi tormentarmi anche di persona? » « Sono venuta a proporti uno scambio », disse lei con voce gelida, nuovamente padrona di sé. « Una specie di baratto. » « Uno scambio? Se ne fai parte, accetto incondizionatamente fin d'ora. » « No », scosse il capo lei. « Preferirei morire. » L'uomo alzò fieramente la testa, anche se aveva gli occhi tristi e cupi. « Sei senza pietà. » « Devo aver imparato da te. » « Dimmi che cosa vuoi. » « Voglio che mi riporti nel deserto dove mi hai trovata. Provvederai al trasporto, ai servi e a tutto quel che sarà necessario per raggiungere la montagna e trattenersi laggiù per un anno. » « E perché ci vuoi andare? » « Questo non ti riguarda. » « Non è vero, mi riguarda e come. Perché ti rivolgi a me? » « Potrei cercare il posto per anni e morire senza averlo trovato. » Egli annui. « Hai ragione, naturalmente, ma quel che mi chiedi comporta spese ingenti. Tutto quello che possiedo è investito nell'azienda, non ho neanche uno scellino in tasca. » « Voglio solo il tuo lavoro », gli disse. « Pagherò io i veicoli, l'equipaggiamento e i salari dei servi. » « Allora è possibile... ma io cosa ci guadagno? » « In cambio », disse Centaine, posandosi la mano destra sul ventre, « ti darò il bastardo che hai seminato dentro di me. » Egli la guardò boccheggiando. « Centaine... » Una lenta e profonda gioia cominciò a diffondeglirsi in volto. « Un bambi no! Avremo un bambino! » Istintivamente fece ancora un passo verso di lei. « Sta' indietro », l'avvertì. « Non è il nostro bambino, è solo tuo. Non voglio avere niente a che fare con lui una volta che sarà nato. Lo prenderai dalla culla e ne farai quel che vorrai.
Lo odio... e odio l'uomo che l'ha messo in me. » Coi carri di Lothar il viaggio dal Posto di Tutta la Vita al Dito di Dio, dove avevano appuntamento con Garry Courteney, aveva richiesto settimane. Il ritorno alla montagna sacra richiese invece otto giorni soltanto, e si sarebbe potuto fare anche più in fretta coi camion, se in certi punti i veicoli fossero passati dalle strettoie e non fosse stato necessario, in certi altri, sbancare la roccia con le mine per superare le ripide rive dei letti dei fiumi secchi. Il convoglio era costituito dalla Ford e da due camion, comperati da Centaine a Windhoek. Lothar aveva scelto sei servi per il campo, due autisti neri per i camion, e, come guardia del corpo di Centaine e soprastante dell'accampamento, aveva scelto Swart Hendrick, il suo braccio destro ovambo di sempre. « Non mi fido affatto di lui », aveva protestato Centaine. « E una bestia feroce. » « Puoi fidarti », l'assicurò Lothar, « perché lui sa che se ti disobbedisce o ti manca di rispetto l'ucciderò molto, molto lentamente. » Lo disse di fronte a Swart Hendrick, che si mise allegramente a ridere. « E vero, signora, è già capitato con qualcuno. » Lothar viaggiava sul camion di testa con Swart Hendrick e gli operai neri. Nelle foreste saltavano giù dal camion costretto a procedere lentamente e correvano avanti ad aprire la strada, quindi tornavano su e il convoglio accelerava alquanto. Il seconto camion, stracarico di materiale e provviste, seguiva il primo, e Centaine chiudeva la fila con la sua Ford. Ogni sera ordinava che le rizzassero la tenda ben distante dalle altre. Mangiava il, da sola, e dormiva con una doppietta carica accanto alla branda. Lothar sembrava aver accettato i termini del contratto; il suo atteggiamento era orgoglioso, ma diventava sempre più taciturno e le parlava solo per ragioni pratiche. Una volta, a metà mattinata, si fermarono all'improvviso e Centaine saltò giù dalla Ford e andò a vedere cosa succedeva in testa. Il primo camion era incappato in una colonia di conigli sprofondando nei cunicoli delle tane e rompendo un semiasse. Lothar e l'autista stavano cercando di aggiustarlo. Lothar era a torso nudo e le voltava le spalle, ignaro della sua presenza. Centaine si fermò di colpo vedendo gonfiarsi i muscoli della schiena di Lothar che azionava il martinetto per sollevare il camion. Dove la pallottola della Luger gli aveva bucato la schie na c'era un'orrida cicatrice rossastra, che lei guardò sbigottita. « Deve avergli sfiorato il polmone! » Provò una rapida fitta di rimorso e si allontanò in fretta, senza dar fiato all'irosa protesta che si era proposta di esprimere per la fermata imprevista della colonna. Quando finalmente, l'ottavo giorno, apparve la montagna sacra fluttuando sul lago scintillante del miraggio come un immenso arco di pietra arancione, Centaine si fermò a contemplarla ritta sul cofano della Ford. Guardandola, riviveva centinaia di ricordi e si sentiva percorsa da mille contrastanti emozioni, dalla gioia di tornare a casa al grave peso del lutto, alla lacerazione del dubbio. Fu Lothar a destarla dal suo fantasticare. Era tornato indietro a piedi lungo la colonna senza che lei nemmeno se ne accorgesse. « Non mi hai detto dove vuoi che ti porti esattamente. » « All'albero del leone », gli disse. « Il posto in cui mi hai trovata. » I segni degli artigli si vedevano ancora sulla corteccia del mopani, e le ossa della belva erano ancora sparpagliate tra l'erba sottostante, bianche come stelle e scintillanti al sole.
Lothar mise al lavoro gli operai e in due giorni costruirono il campo base. Intorno all'albero del leone, che era un po' isolato e lontano dal margine della foresta, fu rizzato uno steccato di pali di mopani, rinforzato all'esterno da una barriera di cespugli spinosi in modo da impedire l'accesso ai predatori. Di fianco allo steccato fece scavare un pozzo nero sopra il quale costruì una latrina sempre di pali di mopani. Poi al centro del recinto, all'ombra del mopani fatale, fece rizzare la tenda di Centaine davanti alla quale piazzò un focolare di pietra. All'entrata dei recinto mise un pesante cancello di legno e una garitta per la sentinella. « Ci starà Swart Hendrick, sempre a portata di voce », disse a Centaine. « Al limitare della foresta, a circa duecento passi di distanza, rizzò un altro e più grande steccato all'interno del quale avrebbero alloggiato servi e operai. Quando tutto fu pronto, tornò daCentaine. « Ho fatto tutto il necessario. » Ella annui. « Si, hai tenuto fede alla tua parte dell'accordo », disse. « Torna fra tre mesi e io farò fede alla mia. » Egli parti nel giro di un'ora col secondo camion, portando con sé solo l'autista nero e una riserva d'acqua e benzina sufficienti per arrivare a Windhoek. Guardando il camion che spariva tra i mopani, Centaine disse a Swart Hendrick: « Domani mattina alle tre ti sveglierò. Voglio che vengano con noi quattro operai. Dovranno portarsi dietro coperte e provviste per dieci giorni ». Fu la luna a illuminare il cammino, mentre Centaine li conduceva, risalendo l'angusta valle, alla caverna delle api. Davanti al buio ingresso spiegò agli uomini dove stava per portarli, e Swart Hendrick tradusse le sue parole a coloro che non comprendevano l'afrikaans. « Non c'è pericolo, se rimanete calmi e non vi mettete a correre. » Ma, quando sentirono il profondo ronzio risonante nella caverna, gli operai girarono sui tacchi, buttarono a terra gli zaini e si raccolsero in un crocchio riottoso e mugugnante. « Swart Hendrick, di' loro che hanno questa scelta », ordinò Centaine. « O mi seguono nella grotta o tu li fai fuori a fucilate uno per uno. » Hendrick passò l'informazione con evidente buona volontà, e imbracciò il Mauser con un'efficienza militare più che sufficiente perché gli uomini si rimettessero il carico in spalla e si allineassero di nuovo dietro a Centaine. Come al solito, il passaggio nella caverna fu snervante ma rapido, e, sbucando nella valle segreta, rividero la luna illuminare gli alberi di mongongo e le alte pendici del cratere. « C'è molto lavoro da fare e finché non avremo finito vivremo qui, in questa valle, sicché dovremo passare solo un'altra volta dalla caverna delle api, ossia quando ce ne andremo. » Abraham Abrahams aveva spiegato per filo e per segno a Centaine come disporre i picchetti per delimitare legalmente una concessione mineraria. Le aveva compilato un facsimile della documentazione e le aveva insegnato come adoperare una rotella metrica d'acciaio per delimitare i riquadri della concessione per mezzo delle diagonali, consigliandole di aver l'avvertenza di sovrapporre ogni riquadro di qualche decimetro l'uno sull'altro per non fornire il minimo appiglio legale agli sciacalli che, rivendicando eventuali finestre tra un riquadro e l'altro, avrebbero potuto darle grossi fastidi. Restava tuttavia un lavoro noiosissimo, faticoso e spossante in quel caldo torrido. Anche coi quattro operai e Swart Hendrick ad aiutarla, Centaine dovette eseguire personalmente tutte le misurazioni, scrivere il relativo atto di rivendicazione e
appenderlo ai picchetti in legno d; mongongo che i negri piazzavano dove diceva lei. Ogni giorno all'imbrunire Centaine si trascinava esausta alla sorgente calda nella grotta in mezzo al cratere, lavando il sudore e la polvere nell'acqua fumante. Cominciava già a sentire tutto il peso dell'avanzata gravidanza. Stavolta era diventata più grossa e la gestazione si annunciava molto più faticosa di quella di Shasa » quasi che il feto intuisse i suoi sentimenti nei propri confronti e si proponesse di fargliela pagare. Soprattutto la schiena le faceva molto male, sicché alla fine del nono giorno si convinse che non poteva resistere ancora per molto senza riposarsi un po'. Tuttavia quasi tutto il fondovalle era già percorso da un reticolo di picchetti numerati e perfettamente allineati, ognuno al centro del suo ordinato mucchietto di sassi. Gli operai si erano ormai abituati a quel lavoro che procedeva alquanto speditamente. « Ancora un giorno », promise a se stessa, « poi riposerai. » La sera del decimo giorno era tutto fatto. Aveva picchettato tutto il fondo del cratere. « Di' di far fagotto », ordinò a Swart Hendrick. « Stasera ce ne arxdiamo. » E appena si mise in moto: « Bravo, Hendrick, sei un vero leone e puoi star certo che al momento di pagarti me ne ricorderò ». Il duro lavoro condiviso li aveva resi compagni. Hendrick le rivolse un sorriso: « Se avessi dieci mogli forti e lavoratrici come lei, signora, potrei starmene seduto all'ombra a bere birra tutto il giorno! » « E il più bel complimento che mi abbiano mai fatto », replicò Centaine in francese, trovando inopinatamente in sé il fiato necessario per una breve risata. Di nuovo al campo base dell'albero del leone, Centaine si riposò per un giorno e la mattina dopo si mise a tavolino a compilare i moduli di rivendicazione di concessione mineraria. Anche questo era un lavoro impegnativo e noioso, perché le concessioni da richiedere erano risultate 416 e bisognava trasferire sulla mappa della valle interna, schizzata il meglio possibile, il numero dei picchetti al vertice di ogni riquadro, che doveva ricopiare dagli appunti senza fare errori. Abraham Abrahams si era soffermato a spiegarle quanto ciò fosse importante, perché ogni rivendicazione sarebbe stata controllata dall'ispettore ministeriale, un ingegnere, e il più piccolo errore poteva invalidare l'intera proprietà. Le ci vollero altri cinque giorni per compilare tutti i moduli, infilarli in una busta di solida carta da pacchi e sigillarla con ceralacca. Quindi scrisse all'avvocato. Caro signor Abrahams, la prego di depositare a mio nome gli acclusi moduli di concessione mineraria presso l'u.#hcio del ministero competente, pagando i relativi diriffi col denaro del mio conto corrente, di cui ha la procura, presso la Standard Bank di Windhoek. Le sarò grata inoltre se riuscirà a procurarsi la consulenza del miglior esperto minerario disponibile sulla piazza per una perizia sulla proprietà, naturalmente una volta acquisiti i diritti di sfruttamento. Sarei molto lieta se questi arrivasse all'accampamento con lo stesso veicolo che le porta questa lettera. Veda anche di far caricare il materiale, di cui le accludo l'elenco, che la prego di acquistare sempre col denaro del mio conto. Un ultimo favore. Le sarei riconoscente se, senza rivelargli dove mi trovo, telegrafasse al colonnello Garrick Courteney a Theunis Kraal chiedendo notizie di mio hglio Michel e della mia amica Anna Stok, rassicurandoli che sto bene e non vedo l'ora
di poterli riabbracciare. La ringrazio di tutto cuore e le porgo i migliori saluti. CENTAINE DE THIRY COURTENEY. Diede plico e lettera all'autista del camion e lo spedi a Windhoek. Siccome ormai la pista era ben tracciata e i punti difficili sistemati, il camion tornò otto giorni dopo, con un signore anziano molto alto seduto accanto al guidatore. « Pertnette che mi presenti, signora Courteney? Mi chiamo Rupert Twentyman-Jones. » Sembrava più un impresario di pompe funebri che un esperto minerario. Era vestito di nero, con camicia dal collo alto e cravatta nera. Anche i capelli, lustri e lisci oltre la stempiatura, erano nerissimi, salvo una spruzzata d'argento sopra le orecchie. Aveva il naso e i lobi delle orecchie tutti ulcerati dal sole tropicale, sicché sembrava che nel sonno l'avesse rosicchiato un topo. Sotto gli occhi aveva borse flosce come quelle di un basset hound e inalberava la stessa malinconica espressione. « Lieta di conoscerla, signor Jones. » « Dottor Twentyman-Jones », la corresse, funereo. « Ho due cognomi, come una doppietta. E ho una lettera per lei del signor Abrahams. » Gliela porse come fosse una notifica di sfratto. « Grazie, dottor Twentyman-Jones. Gradisce una tazza di tè, mentre la leggo? » Abrahams, nella lettera, la rassicurava: Non si faccia impressionare dal portamento da becchino del nostro uomo. Era assistente del dottor Merensky quando scoprì le alte terrazze diamantifere dello Spieregebied, e ora è regolarmente consultato dai dirigenti della compagnia mineraria De Beers. Se desidera altre prove della sua bravura, consideri che la sua parcella per questa perizia ammonta a milléduecento ghinee. Il colonnello Courteney mi assicura che sia Anna Stok sia suo figlio Michel godono di ottima salute. Tutti la salutano sperando che torni il più presto possibile. Le ho mandato il materiale richiesto. Dopo averlo pvgato, e aver saldato in anticipo l'onorario di Twentyman-Jones, restano sul suo conto alla Standard Bank sei sterline, undici scellini e sei pence. I documcrti di proprietà e le conscssioni governative alla miniera sono al sicuro nella cassaforte della banca di Windhoek. Centaine ripiegò accuratamente la lettera. Quelle sei sterline erano tutto ciò che restava della sua eredità e della vendita del diamante di H'ani. Non aveva nemmeno i soldi del treno fino a Theunis Kraal, se non vendeva i camion. Tuttavia il dottor Twentyman-Jones era stato pagato e le provviste accantonate al campo bastavano per altri tre mesi. Lo guardò. Stava sorseggiando il suo tè, seduto sulla sedia da campo. « Milleduecento ghinee, signore! » esclamò Centaine. « Dev'essere davvero bravo! » « No, signora », replicò lui, scuotendo luttuosamente il capo. « Sono semplicemente il migliore. » Quella notte Centaine accompagnò Twentyman-Jones attraverso la grotta delle api, e quando sbucarono nella valle segreta l'uomo sedette su un masso asciugandosi il volto col fazzoletto. « Bisognerà far qualcosa per quelle bestiacce ripugnahti, signora. Sarà meglio liberarsene. » « No », rispose secca Centaine. « Non voglio che venga fatto il minimo danno a questo luogo e alle sue creature, almeno finché... » « Finché, signora? » « Finché non siamo sicuri che sia necessario. »
« Non mi piacciono le api. Se mi pungono, mi gonfio terribilmente. Le renderò il denaro della parcella e si rivolgerà a un altro perito. » Fece per alzarsi in piedi. « Aspetti! » lo fermò Centaine. « Ho esplorato la cima del cratere. C'è modo di entrare in questa valle anche di lì. Bisognerà purtroppo installare un sistema di funi, e un cesto che possa contenere una persona... » « Sarebbe una gran complicazione per il mio lavoro. » « Per favore, dottor Twentyman-Jones, senza il suo aiuto... » L'uomo fece qualche borbottio per nulla impegnativo e si alzò, con la lanterna in mano. Man mano che la luce aumentava, cominciò il sopralluogo preliminare. Tutto il giorno Centaine rimase seduta all'ombra di un mongongo, a guardarlo girare qua e là, col mento affondato nel petto, fermandosi spesso a raccogliere un pezzetto di roccia o una manciata di terra, e poi tornando a sparire tra gli alberi e i massi. Era tardo pomeriggio quando tornò dove l'aspettava Centaine. « Ebbene? » gli disse. « Se mi sta chiedendo un'opinione, signora, temo sia un tantino prematuro. Mi ci vorrà qualche mese per... » « Mese? » esclamò allarmata Centaine. « Ma certo... » Poi vide il suo viso, e cambiò tono. « Non vorrà avermi pagato tutti quei soldi per una semplice impressione. Dovrò effettuare degli scavi, e guardare che cosa c'è sotto. Ci vorrà tempo e sarà un lavoro duro. Avrò bisogno di tutti i suoi operai, oltre a quelli che mi sono portato dietro io. » « Non ci avevo pensato. » « Mi dica; signora Courteney », le chiese gentilmente. « Che cosa spera di trovare qui? » Centaine trasse un profondo sospiro e dietro la schiena fece le corna, il che, secondo Anna, evitava il malocchio. « Diamanti », disse poi buttando fuori il fiato, atterrita all'idea che dirlo forte potesse menar gramo. « Diamanti! » ripeté Twentyman-Jones, come fosse la notizia della morte di suo padre. « Be', vedremo. » La sua espressione era quanto mai lugubre. « Vedremo! » « Quando cominciamo? » « Cominciamo, signora Courteney? Ma lei resterà fuori della valle. Non tollero nessuno intorno mentre sto lavorando. » « Ma come? » protestò. « Non posso nemmeno stare a guardare? » « E questa una regola a cui non sono mai venuto meno, signora Courteney. Dovrà pazientare, temo. » Così Centaine fu bandita dalla sua vallata, e le giornate al campo dell'albero del leone cominciarono a trascorrere lentamente. Dal recinto vedeva la squadra di Twentyman-Jones arrampicarsi sulla montagna col materiale in spalla e scomparire oltre la cresta. Dopo quasi un mese di attesa fece l'ascensione anche lei. Fu un'arrampicata penosissima, e ogni passo la costringeva a ricordarsi del fardello che aveva in grembo: tuttavia, dalla cima poté godere una fantastica vista sulla pianura che sembrava stendersi fino ai confini della terra, e quando poi guardò nella valle interna, le parve di contemplare il cuore del mondo. Il sistema di funi per scendere dalla cima del cratere sembrava ridicolo e fragile come una ragnatela. Le vennero i brividi al pensiero di doversi infilare in quel cesto e calarsi giù, nelle profondità dell'anfiteatro segreto. Molto più in basso distingueva il formicolare della squadra di prospezione, e i mucchietti di terra che gli scavi avevano creato dappertutto. Riusci anche a distinguere l'allampanato Twentyman-Jones che pas-
sava da uno scavo all'altro con la sua tipica camminata. Gli mandò giù un biglietto nel cesto. « Ha trovato qualcosa, Sir? » La risposta tornò un'ora dopo con lo stesso sistema. « La pazienza, Madame, è la virtù dei forti. » Non salì più sul bordo del cratere. Ormai il bambino era cresciuto come un tumore maligno. Aveva dato alla luce Shasa con gioia, ma questa gravidanza le dava solo pena, dolore e infelicità. Non trovò conforto nemmeno nei libri che si era portata dietro, perché non riusciva a concentrarsi neanche sino alla fine della prima pagina. Sempre gli occhi tornavano al sentiero sulla montagna, dove speravano di distinguere il segaligno geologo che tornava. Il caldo aumentava tutti i giorni, mentre l'estate avanzava, fino alle giornate da suicidio della fine di novembre, quando non riuscì più neanche a dormire. Stesa nella branda, passava la notte insonne a rigirarsi e sudare, sentendosi sempre più sola e disperata. In compenso mangiava, mangiava troppo, l'unica soddisfazione che poteva concedersi in quelle giornate vuote, afose e penose. Aveva sempre voglia di rognone in salsa piccante, e Swart Hendrick usciva ogni giorno a caccia per procurargliene. La pancia cresceva e il bambino diventava sempre più grosso. Ormai quando si sedeva doveva tenere le ginocchia allargate. Il bambino continuava a muoversi dentro di lei, e a dar pugni e calci come un grosso pesce preso all'amo, al punto che Centaine, gemendo, sbottava: « Sta' fermo, mostriciattolo... Oh Dio, come non vedo l'ora di sgravarmi di te! » Finché un bel pomeriggio, quando ormai disperava, Twentyman-Jones scese dalla montagna. Swart Hendrick lo avvistò per primo sul sentiero e venne ad avvertirla in tenda, per darle il tempo di alzarsi dalla branda, lavarsi la faccia e indossare abiti puliti. Quando Twentyman-Jones entrò nello spazio recintato, col suo tipico passo dinoccolato, lei l'aspettava seduta al tavolo da campo, che nascondeva il pancione, e non si alzò ad accoglierlo. « Ebbene, signora, ecco la mia perizia. » Mise un grosso plico sul tavolo davanti a lei. Centaine l'aprì. Si trattava di pagine e pagine tutte coperte di parole e cifre fitte, in una grafia pedante e chiara. Lesse numeri astronomici e termini che non aveva mai udito, voltando le pagine mentre il dottor Twentyman-Jones la osservava con una certa mestizia. Una volta scosse la testa e parve sul punto di parlare; invece estrasse il fazzoletto dal taschino e si soffiò rumorosamente il naso. Alla fine Centaine alzò lo sguardo su di lui. « Mi spiace », sussurrò, « ma non capisco nulla di tutto ciò. Me lo spieghi lei. » « Sarò breve, Madame. Ho fatto quarantasei buchi di prospezione profondi quindici metri, a intervalli di un metro e ottanta circa l'uno dall'altro. » « Sì », annuì Centaine. « Ma che cosa ha trovato? » « Ho trovato uno strato di terreno giallo su tutta la proprietà per uno spessore di undici metri circa. » Centaine si sentì all'improvviso girare la testa. « Terreno giallo »: sembrava una cosa di pessimo auspicio. TwentymanJones siinterruppe per soffiarsi nuovamente il naso. Era ormai evidente che esitava a dire a Centaine le parole fatali, che avrebbero spazzato via in un attimo tutte le sue speranze e i suoi sogni. « Per favore, vada avanti », gli sussurrò. « Sotto questo strato, siamo incappati in... » abbassò la voce, come se non avesse cuore di comunicarle la ferale notizia
« ... uno strato di roccia blu. » Centaine si portò la mano alla bocca. Aveva paura di essere sul punto di svenire. « Roccia blu »: sembrava anche peggio che terreno giallo. Il bambino sussultò in lei, e la disperazione la sommerse come un fiume di lava incandescente. « Tutto è stato vano », pensò, senza più ascoltare il perito che proseguiva. « E la classica formazione a camino, con breccia decomposta sopra e uno strato duro e impermeabile di ardesia sotto. » « Quindi i diamanti non ci sono », disse piano Centaine. Il geologo la fissò. « Diamanti? Be', signora, ho calcolato una media di ventisei carati per cento carichi di materiali smossi. » « Continuo a non capire », disse lei, scuotendo stolidamente la testa. « Che vuol dire cento carichi di materiali? » « Approssimativamente ottanta tonnellate di terra. » « E che significa ventisei carati? » « Cara signora, il rapporto carati estratti/terra smossa della miniera di Jagersfontein è di undici a cento, mentre la Wesselton arriva a sedici. Si tratta delle due miniere di diamanti più ricche del mondo. Questa proprietà ne contiene più del doppio. » « Allora i diamanti c'erano davvero? » Lo fissò. Dalla tasca del vestito nero il geologo trasse un mazzo di bustine tenute insieme da uno spago, e le appoggiò sopra il plico del proprio rapporto. « Badi di non mischiarle, signora Courteney, perché ogni bustina contiene le pietre trovate in un foro di prospezione ben preciso, e sono tutte accuratamente annotate. » Con dita torpide e gonfie, Centaine sciolse il nodo e apri la prima bustina. Riversò il contenuto sulla mano. Alcune pietre non erano più grosse di un grano di sale; una era delle dimensioni di un pisello maturo. « Diamanti? » chiese ancora, bisognosa di conferme. « Sì, signora, e di qualità particolarmente buona, in media. » Centaine guardò ottusamente il mucchietto di pietre che aveva in mano, che le sembrava del tutto insignificante. « Mi scuserà la libertà, signora, se le faccio una domanda? Naturalmente può anche non rispondere. » Lei annui. « Lavora per qualche grande compagnia mineraria? Ovvero ha dei soci in questa impresa? » Centaine scosse la testa. « Intende dire che è l'unica proprietaria e titolare di questa concessione? Che ha scoperto la vena e picchettato la zona da sé e per conto proprio? » Lei annui ancora una volta. « In tal caso », scosse la testa in modo lugubre, a in questo momento, signora Courteney, lei è probabilmente la donna più ricca del mondo. » Twentyman-Jones rimase al campo base dell'albero del leone altri tre giorni. Le spiegò la sua relazione parola per parola, chiarendo tutti i dubbi che aveva. Apri tutte le buste di diamanti dei sondaggi e con una pinzetta da gioielliere scelse le pietre più notevoli o inconsuete e gliene illustrò le caratteristiche. « Alcune sono cosi piccole... come possono avere qualche valore? » chiese Centaine sciorinando sul palmo della mano, con la punta dell'indice, diamanti grossi come granelli di zucchero. « Sono quelli industriali, signora, e costituiranno il suo pane e burro. Le pagheranno le spese. Mentre le grandi pietre da
gioielleria, come questa, costituiranno la marmellata da spalmarvi sopra. Marmellata di fragole, signora, della miglior qualità... diciamo Crosse and Blackwell, se vuole! » Era ciò che più si avvicinava a una battuta di spirito che avesse mai pronunciato, e anche qui la sua espressione rimase dolente. L'ultima parte del rapporto consisteva di ventun pagine di consigli per iI migliore sfruttamento della proprietà. « Lei è molto fortunata, signora, a poter sfruttare sistematicamente l'intera vena. Tutte le altre grandi vene diamantifere, da Kimberley a Wesselton, furono picchettate originariamente da centinaia di cercatori indipendenti, ognuno dei quali lavorava alla sua maniera, spesso contraria a quella del vicino. Il risultato è stato un terribile caos. » Scosse la testa, passandosi la mano stanca sulle tempie grige. « S'immagini centinaia di lotti di dieci metri quadri l'uno accanto all'altro, con sentierini intricatissimi per raggiungerli e un groviglio di cavi, picconi, pale e secchi. Il caos, signora, il pandemonio! Costi alle stelle, cercatori uccisi in continui crolli, necessità di mano d'opera sempre più numerosa e specializzata... Una vera follia! » Alzò gli occhi a guardarla. « Mentre lei, signora, qui ha la possibilità di organizzare una miniera modello, e il mio rapporto », vi posò sopra la mano, « le spiega esattamente come fare. Ho perfino piantato dei picchetti numerati per facilitarle il compito. Ho calcolato i volumi di terra da smuovere nei vari stadi. Ho stabilito che inclinazione devono avere i primi pozzi, e le ho illustrato il modo di progettare ogni livello successivo di scavo. » Centaine interruppe la dissertazione di Twentyman-Jones. « Dottor Twentsman-Tonesv continua a dire 'lei'. Non penserà che io sia in grado di svolgere personalmente lavori cosi complicati, vero? » « Buon Dio, no! Lei dovrà assumere un ingegnere, un tipo in gamba, con esperienza precisa in movimenti di terra. Ma prevedo già che tra non molto, di ingegneri, lei ne avrà parecchi, e centinaia se non migliaia di minatori, qui alla... » Esitò. « Come si chiamerà la miniera? Miniera Courteney, forse? » Ella scosse la testa. « Miniera H'ani », gli disse. « Bizzarro. Che significa? » « E il nome della donna San che mi ha portata qui. » « In tal caso, va benissimo. Ora, come le stavo dicendo, avrà bisogno di un bravo ingegnere per realizzare i primi lavori che le ho indicato. » « Lei ha qualcuno in mente che potrebbe andar bene? » « Non è facile », disse. « I migliori lavorano quasi tutti in esclusiva per la De Beers, meno uno che però di recente è saltato in aria su una delle sue mine. » Ci pensò un momento. « Ultimamente ho sentito parlare molto bene di un giovane impresario afrikaner... Non ci ho mai lavorato, comunque pare che... ma come si chiama... ah, sl: De La Rey. » « No! » sbottò Centaine. « Oh, mi scusi, signora. Lo conosce? » « Si, non lo voglio. » « Come preferisce... cercherò di farmi venire in mente qualcun altro. » Nella sua branda, quella notte, Centaine non fece che rigirarsi insonne, cercando invano una posizione comoda dove il pancione non la disturbasse. Pensò al suggerimento di Twentyman-Jones e si rizzò a sedere, lentamente. « Perché no? » si disse ad alta voce, nel buio. « Tanto deve già tornar qua. Un estraneo, a questo punto, potrebbe vedere più di quel che mi conviene. » Si sostenne il ventre greve con le mani. « Ci sarà bisogno di lui solo per i primi lavori. Scriverò subito ad Abraham Abrahams di ingaggiare Lothar. » Ac-
cese la lanterna e si mise a tavolino. La mattina dopo, Twentyman-Jones era pronto a partire. Tutta la sua roba era già caricata sul camion e i suoi lavoratori negri ci sedevano sopra. Centaine gli porse il suo rapporto. « Mi fa il piacere di consegnare la perizia al mio avvocato di Windhoek, signore, assieme a questa lettera? » « Naturalmente, Madame. » « Vorrà farsela illustrare da lei, e quindi, siccome l'ho incaricato di chiedere un grosso finanziamento in banca, probabilmente anche il banchiere vorrà sentire quali sono le prospettive della miniera. » « Me l'immaginavo », annuì il perito. « Stia tranquilla che gli leverò ogni dubbio sull'immenso valore della sua proprietà. » « Grazie. In questa lettera do all'avvocato Abrahams istruzioni di corrisponderle nuovamente, dal prestito che otterremo in banca, l'ammontare della sua parcella. » « Questo non è necessario, signora, ma è molto generoso da parte sua. » « Vede, dottor Tsrentyman-Jones, ho la sensazione che prima o poi potrei aver bisogno di lei quale consulente fisso per la miniera H'ani, e vorrei lasciarle una buona opinione di me. » « Inutile sborsare denaro per questo, signora Courteney, perché già la ritengo una giovane straordinariamente animosa, intelligente e graziosa. Considererei un onore lavorare di nuovo con lei. » « Infine, devo chiederle un ultimo piacere. » « Qualunque cosa, signora. » « Per favore, non parli a nessuno delle mie condizioni personali di cui eventualmente si sia potuto render conto qui. » Gli occhi dell'uomo caddero per un fuggevole istante sul pancione di Centame. « La discrezione, signora, non è la qualità meno importante nella mia professione. Inoltre, non potrei mai danneggiare un'amica. » « Una buona amica, dottor Twentyman-Jones », l'assicurò Centaine porgendogli la destra. « Un'ottima amica, signora Courteney », concordò lui, stringendole la mano. Per un incredibile momento parve che il perito stesse per sorridere. Ma riusci a controllarsi e si avviò verso il camion in attesa. Ancora una volta il viaggio degli autocarri dal campo dell'albero del leone a Windhoek e ritorno richiese otto giorni, e Centaine si domandò più di una volta se non aveva aspettato troppo. Il bambino, dentro di lei, era grosso e impaziente di nascere. Sicché, quando sentì il ronzio lontano dei motori che tornavano, trasse un sospiro di sollievo. Assisté all'arrivo dei camion dalla veranda di tela della tenda. Lothar era sul primo. Centaine cercò di mantenersi indifferente, ma non ci riuscì: quando lo vide scendere, le venne il batticuore. Era alto, elegante e agile come al solito, anche se coperto di polvere e sudore per il lungo viaggio. La successiva passeggera che Lothar fece scendere dal camion sbalordì Centaine. Si trattava di una suora in cuffia e veste da benedettina. « Gli avevo detto un'ostetrica, non una suora », borbottò arrabbiata. Dal retro del camion scesero due ragazze nama. Pelle di bronzo dorato e faccette allegre, avevano ciascuna un bambino in braccio, e i seni gonfi di latte sotto il vestito di cotone stampato. Sembravano sorelle, tanto erano simili l'una all'altra. « Le balie », comprese Centaine. Adesso che erano arrivate
quelle due estranee di un'altra razza che avrebbero dato il seno al suo bambino, Centaine provò la prima acuta e vera fitta di rimorso per quello che si proponeva di fare. Lothar venne alla tenda, sempre altero e riservato, e, prima di presentarle la suora, le porse un pacco di lettere. « Suor Ameliana dell'ospedale di Sant'Anna », le disse poi. « Appartiene alla famiglia di mia madre, è mia cugina. B un'ostetrica diplomata, ma parla solo tedesco. Possiamo afIidarci a lei senza riserve. » Era una donna segaligna, dal viso candido, sulla quale aleggiava un odore di petali secchi di rosa. Guardò Centaine con espressione severa, poi disse qualcosa a Lothar. « Desidera visitarti », tradusse lui. « Tornerò dopo a parlare del lavoro che intendi affidare alla mia ditta. » « Non le piaccio affatto », disse Centaine, restituendo a suor Ameliana il freddo sguardo ostile. Lothar esitò prima di spiegarle il perché. « Non approva il nostro accordo. Tutta la sua vita è dedicata alla nascita e alla cura dei bambini. Non capisce come puoi abbandonare il tuo bambino, e, quanto a questo, non lo capisco neanch'io » « Dille che anche lei non piace a me. Faccia quello che è venuta a fare e non si permetta di giudicare. » « Ma Centaine... » protestò lui. « Diglielo », insisté Centaine. I due confabularono brevemente in tedesco. Poi Lothar tornò a rivolgersi a Centaine. « Dice che vi siete capite subito a vicenda, e questo è un bene. E venuta solo per il bambino. Quanto al giudizio, lo lascia al Padreterno. » « Allora dille che può visitarmi. » Quando suor Ameliana ebbe finito e se ne fu andata, Centaine lesse la posta. C'era una lettera di Garry Courteney con le ultime notizie da Theunis Kraal, firmata, con l'impronta del pollice, anche da Shasa. Un voluminosissimo plico era coperto dalle grosse e sgraziate lettere di Anna. Benché di didìcile decifrazione, la sua missiva la lasciò di ottimo umore. Infine lesse la lettera del suo procuratore Abraham Abrahams. Mia cara signora Courteney, la sua lettera e la relazione del dottor Twentyman-Jones mi hanno gettato in uno stato di stupore febbrile. Non trovo parole per esprimerle la mia ammirazione per il suo fenomenale successo e il piacere che mi fa la sua gran buona fortuna. Ma non l'annoierò oltre con le felicitazioni e passo subito agli agari. Il dottor Twentyman-Jones e io abbiamo trattato lungamente coi dirigenti della Standard Bank, che hanno esaminato la perizia e stimato i campioni. La banca ha deciso di concederle un primo prestito all'interesse del 5,5 per cento all'anno per l'ammontare di centomila sterline, con l'intesa che se necessario gliene saranno concessi altri dietro semplice richiesta. A garanzia di questo finanziamento stanno i titoli di proprietà e i diritti di sfruttamento della miniera H'ani. Il dottor Twentyman-Jones ha poi parlato col signor Lothar De La Rey illustrandogli dettagliatamente i lavori necessari per un primo sfruttamento della proprietà. La ditta De La Rey ha accettato l'incarico dietro compenso di 5000 sterline. In virtù della mia procura, ho già provseduto a stipulare il relativo contratto versando un anticipo di mille sterline, di cui le acdudo ricevuta da parte del signor De La Rey... Centaine lesse in fretta il resto della lettera, ridacchiando al seguente commento di Abrahams: Le ho mandato il materiale richiesto, benché le due dozzine
di zanzariere mi lascino alquanto perplesso. Forse un giorno mi spiegherà a cosa le servono, soddisfacendo in tal modo la mia bruciante curiosità... Mise da parte la lettera, con l'intenzione di rileggerla più tardi, e mandò a chiamare Lothar. Venne immediatamente. « Suor Ameliana mi ha assicurato che tutto va bene, la gravidanza procede normalmente, senza alcuna complicazione, ed è quasi giunta a termine. » Centaine annul e l'invitò con un cenno a sedersi al tavolino da campo, di fronte a lei. « Non mi sono ancora congratulato con te per la grande scoperta », disse accomodandosi. « Il dottor Twentyman-Jones dice che tre milioni di sterline sono una prudentissima stima del valore della miniera. S una cosa che supera ogni immaginazione, Centaine. » Ella inclinò leggermente la testa da una parte e gli disse con voce pacata e naturale: « Dato che ora lavori per me, e data la natura dei nostri rapporti personali, ritengo che d'ora in poi sarà più corretto che mi chiami 'signora Courteney'. L'uso del nome proprio suggerisce infatti una confidenza e una familiarità che tra noi non esistono più ». Il sorriso gli morì sulle labbra. Non rispose. « E ora, signor De La Rey, parliamo del lavoro che la sua ditta si è assunto. » « Desidera che cominciamo subito? Non dopo il parto? » « Immediatamente, signore », disse lei, secca, « e sovrintenderò di persona alla disinfestazione della galleria che conduce nella valle, che è il primo passo. Si farà domani sera. » « Al tramonto tutto era pronto. Il sentiero che risaliva l'angusta valle fino all'imbocco della grotta era stato allargato e spianato, e gli operai di Lothar avevano portato su e sistemato a portata di mano grandi cataste di legna di mopani. Sembrava che le api della grande caverna fossero consapevoli della minaccia perché, mentre il sole tramontava, i suoi raggi, penetrando nella grotta, illuminarono migliaia di insetti dorati che sfrecciavano ronzando forte. L'aria surriscaldata della grotta echeggiava del ronzio di centinaia di minuscole operaie che vorticavano affannosamente intorno agli enormi favi. Se non avessero avuto le zanzariere addosso, certo sarebbero stati punti ripetutamente tutti quanti. Quando calò la notte, tuttavia, gli insetti disturbati si rifugiarono nelle viscere della montagna. Centaine lasciò passare un'ora per permettere alle api di tranquillizzarsi e prepararsi alla notte. Poi disse calma a Lothar: « Può accendere i fumogeni ». Quattro operai, i più fidati di Lothar, si chinarono a raccogliere delle grosse scatole di latta bucherellate, che un tempo avevano contenuto tre chili di carne ciascuna ma ora erano piene di carbonella e di erbe indicate da Centaine. Il segreto delle erbe era uno di quelli trasmessile da O'wa, e ripensò al minuscolo boscimano non appena l'acre odore del fumo sprigionato dalle scatole le giunse alle nari. Gli operai di Lothar assicurarono le scatole fumogene a brevi tratti di corda e facendole roteare fomentarono la combustione. A Centaine vennero in mente i chierichetti con l'incenso il Venerdi Santo nella cattedrale di Arras. Quando tutt'e quattro i fumogeni furono ben accesi, Lothar diede un ordine ai quattro operai, che mossero verso l'ingresso della caverna. Alla luce delle lanterne sembravano fantasmi. Indossavano stivaloni e braghe di cuoio, e in testa avevano le zanzariere che proteggevano volto, braccia e torso. Erano proprio le zanzariere bianche a farli sembrare degli spettri. A uno a uno entrarono nella caverna, mentre dalle latte mulinanti si alza-
vano turbini di fumo. Centaine lasciò passare un'altra ora prima di entrare a propria volta, assieme a Lothar, nella caverna. Il fumo acre annebbiava l'interno si che non si vedeva a un passo di distanza. Le nuvole azzurrastre davano la nausea. L'immenso insieme di alveari non produceva più un forte ronzio: moltitudini di insetti se ne stavano attaccati al soffitto della caverna, intontiti e drogati, e solo pochi volitavano ancora. Centaine corse fuori della caverna e scostò la zanzariera dal viso sudato, inghiottendo a pieni polmoni l'aria fresca della notte per vincere la nausea. Quando riusci di nuovo a parlare, disse a Lothar: « Adesso possono cominciare ad accatastare la legna sotto i favi, stando bene attenti a non disturbare le api, però. Sono tutte attaccate al soffitto ». Non rientrò più nella caverna buia, ma rimase seduta su un macigno mentre gli uomini di Lothar accumulavano legna nella grotta. Dopo mezzanotte Lothar uscì a farle rapporto. « E tutto pronto. » « Prenda con sé tutti gli operai e si rechi in fondo alla valle. Ci rimanga per due ore, poi torni qua. » « Non capisco. » « Desidero star sola qui per qualche tempo. » Restò ad ascoltare i loro passi che si allontanavano verso il nero fondovalle. Quando tutto tacque, alzò gli occhi al cielo in cui brillava, proprio sopra la vallata, la stella di O'wa. « Spirito della grande stella del Leone », sussurrò, « perdonerai ciò che sto per fare? » Si alzò in piedi, muovendo pesantemente verso la parete del monte. Alzò la lanterna e illuminò le pitture rupestri dei boscimani, splendenti nella luce giallastra. Le figure tremolavano, cosi che le gigantesche raffigurazioni degli spiriti di Eland e Mantis sembravano pulsare di vita. « Spiriti di Eland e Mantis, perdonatemi. E voi, guardiane del Posto di Tutta la Vita, perdonatemi questo massacro. Non lo faccio per me stessa ma per procurare buona acqua al bambino nato nel vostro posto segreto. » Tornò all'ingresso della caverna, muovendosi pesantemente, gravida del bambino, di rimorso e di colpa. « Spiriti di O'wa e H'ani, mi state guardando? Mi toglierete la vostra protezione, una volta che avrò commesso questo? Amerete e proteggerete ancora la bimba Nam e Shasa, dopo questo terribile tradimento? » Cadde in ginocchio e pregò silenziosamente tutti gli spiriti delle divinità San, e non si accorse che le due ore erano passate finché non risend le voci degli uomini che risalivano la valle. Lothar De La Rey comparve davanti a lei, all'ingresso della grotta, con due latte di benzina in mano. « Esegua! » disse lei, ed egli entrò nella caverna delle api. Senti il rumore del coltello che bucava la latta di benzina, poi il gorgoglio del liquido versato. La puzza di benzina uscì dalla stretta crepa nella roccia, investendola, e nelle orecchie le echeg giò il ronzio di centinaia di migliaia di api destate dal loro stupore drogato dall'odoraccio infame. Correndo all'indietro, Lothar uscì dalla grotta spargendo sul suolo roccioso le ultime gocce di benzina, lasciando una traccia liquida ininterrotta al suo passaggio: poi scagliò lontano la latta vuota e la superò di corsa. « Presto! » ansimò. « Prima che escano le api! » Già stavano sfrecciando nel raggio di luce della lanterna, piombando sulla rete che proteggeva loro il viso, mentre altre a mille a mille sbucavano da tutte le fenditure della parete roc-
ciosa. Centaine fece qualche passo indietro e poi, roteando la lanterna a petrolio sopra la testa, la lanciò a infrangersi sulla soglia della grotta. La fiammella giallastra vacillò e parve sul punto di spegnersi. Poi di colpo la benzina versata s'innescò. Con un boato sibilante che parve scuoterle la terra sotto i piedi, una gran lingua di fuoco esplose nel cuore delia montagna e si riversò fiammeggiando fuori da tutte le aperture. L'entrata della grotta si stagliò incandescente come la bocca di una fornace, mentre più in alto, da tutti i pertugi, uscivano lingue di fuoco illuminando a giorno l'intera valle. Si alzò un gran vento e portò il clamoroso sfrigolio d'un milione di api arrostite, poi nel giro di pochi secondi restò solamente il rombo regolare della grande fiammata. Mentre le cataste di mopani cominciavano a bruciare come pire, il calore sfiatò dalla caverna come una bestia mostruosa e selvaggia, e Centaine si fece ancora più indietro, contemplando affascinata l'orrida scena di distruzione. Ora dalla grotta si udivano provenire altri strani rumori, soffici tonfi di masse pesanti che cadevano sul pavimento di roccia: sembrava ch'e, dall'alto, corpi vivi precipitassero sul fondo della caverna. Non capi di che cosa si trattava finché non vide il fiume di liquido scuro che usciva serpeggiando, lento e viscoso come nafta, dall'entrata della caverna. « Miele! » esclamò sottovoce. « Si sciolgono i favi! » I grandi alveari, prodotti da secoli di lavoro di miliardi di api, si scioglievano al gran calore e cadevano, un quintale l'uno, dal tetto della grotta nelle fiamme sottostanti. Il rivolo di miele misto a cera sciolta divenne un ruscello e poi un fiume impetuoso e bollente che vorticava e sfrigolava uscendo dalla bocca della fornace. Il profumo di miele bruciato pareva render l'aria più spessa, mentre la colata di cera fusa faceva scappare a gambe levate Centaine. « Oh mio Dio », sussurrava, « oh mio Dio, perdonami per quello che ho fatto. » Centaine restò in piedi a guardare le fiamme fino all'alba, che illuminò le rocce della valle tutte annerite dai fumi. La caverna era un sozzo camino fumante e il fondovalle era costituito ormai di uno strato di miele caramellato, nero, lustro e zuccherino. Quando Centaine rientrò barcollando nel recinto del campo dell'albero del leone, suor Ameliana la sorresse fino alla branda e l'aiutò a lavarsi il viso e le membra inzaccherate di poltiglia dolciastra. Un'ora dopo mezzogiorno cominciò il travaglio. Più che un parto, fu una lotta mortale. Centaine e il bambino lottarono l'uno con l'altra senza esclusione di colpi per tutto il resto di quel torrido pomeriggio e la nottata che segùì. « Non piangerò », ripeteva Centaine stringendo i denti, « non riuscirai a farmi piangere e gridare, maledetto. » Il dolore arrivava a ondate che le facevano tornare « Ma mente quelle spumeggianti dell'Atlantico che si infrangeva sulle spiagge spoglie della Costa degli Scheletri. Si mise a cavalcarle, dalla cresta alla conca paurosa. Ogni volta, al culmine del dolore, cercava di rimettersi nella posizione accovacciata insegnatale da H'ani; ma suor Ameliana tornava a costringerla supina, e il bambino non voleva nascere, sembrava incastrato dentro di lei. « Ti odio », ringhiò alla suora, mentre il sudore che sgorgava copiosamente l'accecava. « Ti odio, e odio questa cosa che ho dentro di me! » Il bambino avverd il suo odio e la ripagò lacerandola e muovendo gli arti in modo da bloccarsi. « Fuori! » sibilò Centaine. « Esci da me! » Invocava le manine esperte di H'ani, che l'aiutassero a spinger fuori il na-
scituro. Una volta Lothar si affacciò alla tenda a chiedere: « Come va, sorella? » La suora rispose: « E una cosa terribile. Lotta come un guerriero, non come una madre ». Due ore prima dell'alba, con un ultimo spasimo che parve raschiarle la spina dorsale e svellerle l'articolazione di femori e bacino, Centaine spinse fuori la testa del bambino, grossa e tonda come una palla di cannone: e un attimo dopo echeggiò nella notte il primo vagito. « Tu hai urlato », sussurrò Centaine trionfante, « non io! » Adagiandosi sulla branda, tutta la forza, la decisione e l'odio fluirono fuori da lei, e non fu più che una buccia vuota e dolente. Quando Centaine si svegliò, al suo capezzale c'era Lothar. L'alba cominciava a illuminare la tenda dietro le sue spalle, sicché ne distingueva solo la silhouette. « E un maschio », le disse. « Hai un figlio. » « No », gracchiò lei. « Non è mio. S tuo. » Un figlio, pensò Centaine, un bambino... parte di me, parte del mio corpo, sangue del mio sangue. « E biondo come l'oro », disse Lothar. « Non volevo saperlo... era il patto... » Cosi i suoi capelli risplenderanno al sole, pensò, sarà bello come suo padre? « Si chiama Manfred, come il mio primogenito. » « Chiamalo come vuoi », sussurrò lei, « e portalo subito via, il più lontano possibile da me. » Manfred, figlio mio, e si send spezzare il cuore, lacerantosi nel suo petto come seta. « Ora lo sta nutrendo la balia. Se vuoi vederlo, te lo faccio subito portare. » « Mai. Non voglio vederlo mai. Questo era il patto. Pòrtatelo via. » E i seni gonfi di latte le facevano male, bruciavano dalla voglia di nutrire il suo bambino dai capelli d'oro. « Molto bene. » Lothar attese per un momento che parlasse ancora, ma lei distolse il volto. « Lo porterà via suor Ameliana. Partono per Windhoek. » « Dille di andar via subito col tuo bastardo. » La luce era alle sue spalle, sicché non vide la faccia di LotharX che si voltò e uscì dalla tenda. Dieci minuti dopo Centaine sentì il rumore del camion che partiva allontanandosi nella vasta pianura. Giacque nella tenda silenziosa a contemplare il sole che sorgeva di là dal telo verde. Respirava l'aria tagliente del deserto che tanto amava, ma il suo odore era guastato da quello del sangue, dolciastro, il sangue tra cui era nato suo figlio: o era quello della minuscola donna San che si coagulava tra le rocce al gran sole del Kalahari? L'immagine del sangue di H'ani sulle rocce le si tramutò nella mente in un rivolo scuro di miele ribollente che sgorgava, come acqua di fonte, dai luoghi sacri dei San: e l'odore zuccherino del fumo di miele caramellato scacciò quello del sangue. Tra il fumo, le parve di scorgere il visetto a forma di cuore di H'ani, che la guardava con grande tristezza. « Per il bambino », mormorò Centaine. « Per Shasa. » Il volto di H'ani svani e comparve al suo posto quello del primogenito. « Shasa, bambino mio, che tu possa sempre trovare buona acqua. » Ma anche la sua immagine si confuse, e i suoi capelli scuri diventarono biondi come l'oro. « Anche a te, piccino mio, anche a te auguro buona acqua. » Apparve ora il viso di Lothar, o forse di Michael... non era
sicura. « Sono così sola! » gridò negli spazi silenti dell'anima sua. « E non voglio essere sola! » Poi ricordò le parole: « In questo momento, signora Courteney, lei è probabilmente la donna più ricca del mondo ». « Darei tutto », pensò, « fino all'ultimo diamante della miniera H'ani, per il diritto di amare un uomo, ed esserne amata a mia volta... per la possibilità di avere entrambi i miei bambini, entrambi i miei figli, sempre accanto a me. » Ricacciò irritata il pensiero. « Questi sono i frusti sentimentalismi di una donnetta debole e vile. Sei stanca e non stai bene. Ora dormi », si disse aspramente. « E domani », chiuse gli occhi, « sarai di nuovo coraggiosa. Domani. » Fine.