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MICHAEL MOORCOCK LA SPADA DELL'AURORA (The Sword Of The Dawn, 1978) PROFILO DELL'AUTORE MICHAEL MOORCOCK: IL FASCINO DEL MIMETISMO DA JAMES COLVIN A JERRY CORNELIUS Osannato e insultato come curatore di quella testata inglese ormai passata alla storia della fantascienza come la più strenua propugnatrice della cosiddetta new wave, la celebre New Worlds (ereditata nel 1964 da John Carnell e sopravvissuta in seguito per sei anni), Michael Moorcock è certo più noto per la sua incredibile produzione - più di quaranta romanzi e parecchi altri racconti - di genere heroic fantasy. L'eroe più rappresentativo di tale propensione per un genere che miscela, a onor del vero, giuste dosi di heroic fantasy ad altre di sword and sorcery, è Elric il Negromante, legittimo sovrano albino di Melniboné, e accanto a lui spiccano il Dorian Hawkmoon del ciclo del Runestaff (o Bacchetta Magica) e il principe Corum del ciclo delle Spade, oltre a numerosi eroi secondari che meritano fama (o una semplice menzione) nei romanzi e racconti complementari. Elric, tuttavia, costituisce il primo passo di Moorcock verso la stesura dell'enorme ciclo dedicato al mito del Campione Eterno, essendo il primo eroe a scaturire dalla sua penna nel corso del 1960 e il primo ad apparire sulla carta stampata nel giugno 1961, sulle pagine di Science Fantasy (nel racconto The Dreaming City). La genesi di Elric, comunque, è da accreditare indirettamente al Conan di R.E. Howard, personaggio intorno al quale Moorcock aveva già approntato diverse trame e annotazioni quando John Carnell gli consigliò invece di riscrivere il tutto intorno a un nuovo personaggio. Il fatto che l'autore abbia accettato con gioia e che da quel giorno la sua vena in questo campo non abbia mostrato impoverimenti rappresenta un doveroso tributo alla memoria di John Carnell e alla sua capacità di valutare i giovani autori, e ci conferma al tempo stesso che Moorcock, al di là delle sue posizioni critiche «rivoluzionarie», è riuscito a trovare in questo filone un medium esemplare per esprimersi. Che il genere prediletto di Moorcock rappresenti infatti un veicolo idea-
le per la trasposizione di un complesso «compendio» personale è fuori di dubbio; già in un articolo del 1964, 1 Moorcock era in grado di affermare che «Elric ero io... l'io del 1960-61», e in seguito l'allegoria si è fatta ancor più evidente. Allegoria, badiamo bene, che non si applica semplicemente e vacuamente alla propria persona, ma a una «maschera» che con il tempo è passata a rappresentare un prototipo umano assai più diffuso e quotidiano. In una lista messa a disposizione dallo stesso Moorcock, il ciclo del Campione Eterno è suddiviso per gradi e per eroi, iniziando così con John Daker (protagonista nei panni dell'Eternai Champion del romanzo omonimo e del suo seguito), e proseguendo con Elric (in sei romanzi), Hawkmoon (in sette romanzi; i quattro della tetralogia originale, qui presentata, e i tre successivi dedicati al Conte Brass cum compagni), Corum dal manto di porpora (in sei romanzi), Michael Kane (nella trilogia burroughsiana dedicata a Marte), e con i personaggi sparsi della restante produzione,2 non ultimo il Jerry Cornelius di un futuro ormai prossimo (in quattro romanzi e una antologia). Eternamente in lotta contro il Caos e le sue multiformi divinità (umane o meno), le singole parti dell'Eterno Campione rivelano a occhi attenti l'opera di una mano che non lascia molto al caso, e che semmai si diverte a 1
The Secret Life of Elric of Melniboné apparso dapprima nella fanzine Camber (1964) e poi in Weird Fantasy n. 1 (1969). 2 Il ciclo del Campione Eterno, secondo una lettera dello stesso Moorcock, si ripartisce essenzialmente in questo modo: John Daker, nei romanzi The Eternai Champion (1962-70) e Phoenix in Obsidian (1970); Elric, nei romanzi Elric of Melniboné (1972), The Sailor on the Seas of Fate (1975), Stormbringer (1965), The Singing Citadel (antologia, 1970), The Sleeping Sorceress (1971), The Stealer of Souls (antologia, 1963); Hawkmoon, nei romanzi The Jewel in the Skull (1967), The Mad God's Amulet (1968), The Sword of the Dawn (1968), The Runestaff (1969), Count Brass (1973), The Champion of Garathorm (1973), The Quest for Tanelorn (1975); Corum, nei romanzi The Knight of the Swords (1971), The Queen of the Swords (1971), The King of the Swords (1972), The Bull and the Spear (1973), The Oak and the Ram (1973), The Sword and the Stallion (1974); Michael Kane, nei romanzi burroughsiani The City of the Beasi (1965), The Lord of the Spiders (1965), e The Masters of the Pit (1965). Quest'ultima trilogia è nota anche sotto titoli diversi e sotto lo pseudonimo «E.P. Bradbury» (cfr. nota 4).
complicare le cose mentre sembra voglia chiarirle, come nel campo ridotto dei nomi dei singoli eroi. Michael Ashley è già incappato, nel 1975, nei curiosi richiami che molte di queste denominazioni dichiarano apertamente;3 basterà ricordare l'assonanza di nomi come Corum, Corom Bannan (The Eternal Championj, Jermays (Phoenix in Obsidianj, Jhary-a-Conel (ciclo di Corum), Jehamia Cohnahlias (ciclo di Hawkmoon), Jherek Carnellian (An Alien Heat), Jerry Cornell (The Chinese Agent) Jerry Cornelius (nel ciclo omonimo). Diversi di questi eroi, inoltre, si incontrano in storie comuni e si affrontano/spalleggiano, come tante facce di un Giano multifronte non sempre deciso a scendere a patti con le sfaccettature del proprio io. Sulla simbologia dei nomi, Ashley propone uninterpretazione che riconduce a John Carnell, scopritore e primo incoraggiatore di Moorcock in questa direzione, e non scorda neppure la presenza della sigla JC in uno dei numerosi pseudonimi4 di Moorcock, James Colvin (aggiungendo poi il Jesus Christ che Karl Glogauer si ritiene chiamato a impersonare durante il suo viaggio nel passato, in Behold the Man). Quale che sia l'effettiva spiegazione di tali accavallamenti simbolici, resta scontata l'intenzione dell'autore di voler accennare a numerose esperienze personali e genericamente «umane» nel complesso delle sue opere apparentemente meno impegnate, ma tuttavia tale sforzo espressivo incontra agli inizi serie difficoltà; parlando infatti dell'importanza che un simile discorso «mediato» in un prodotto fantastico avrebbe avuto per il mondo attuale, Moorcock ha riconosciuto nel 1964 un parziale fallimento dei suoi primi tentativi: «Ciò è quanto ho cercato di fare nelle storie di Elric... e apparentemente senza molto successo, poiché i temi meno escapisti che io tentavo di comunicare attraverso il mezzo della sword and sorcery sono sfuggiti a gran parte dei lettori. Dovrò ritentare con un mezzo nuovo o modificato».5 È appunto nel corso del 1964 apparirà la «nuova» forma dell'Eterno Campione, stavolta immersa fino al collo in un futuro che è piuttosto facile intuire come dietro l'angolo: Jerry Cornelius. 6 3
Michael Ashley, Behold the Man Called Moorcock, SF Monthly vol. 2, n. 2, NEL, 1975. 4 Come «Desmond Reid», Moorcock ha pubblicato il romanzo Caribbean Crisis nella «Sexton Blake Library», negli anni '60; come 5 Aspects of Fantasy (quarta parte), Science Fantasy n. 64, Nova Publications Ltd., 1964. 6 La seconda parte di questo profilo apparirà nel Fantapocket dedicato a Il segreto del talismano, quarto volume della Grande Storia della Bacchet-
GIANNI MONTANARI BIOGRAFIA Nasce a Londra il 18 dicembre 1939. Inizia giovanissimo a curare fanzines con alcuni amici, e a quattordici anni debutta professionalmente nel campo editoriale con alcune collaborazioni a Tartan Adventures, di cui diventa curatore un anno dopo (collaborando nel frattempo con la Fleetway Libraries e con la collana poliziesca «Sexton Blake»; debutta nella fantascienza «adulta» nel 1959, con un racconto scritto in collaborazione con B. J. Bayley e pubblicato su New Worlds (Peace on Earth). Di questa rivista diventerà curatore nel 1964, su richiesta di John Carnell, e provvederà quindi a renderla celebre grazie all'inserimento di opere insolite e «sperimentali» (fra cui quelle di un suo stesso personaggio, Jerry Cornelius, utilizzato poi spesso e volentieri anche da altri autori). Sposato dal 1962 a Hilary Bailey -autrice anche lei - è padre di tre figli (Sophie, Katie e Max). Autore di sceneggiature per fumetti, di testi musicali (in maggioranza per il complesso Hawkwind), e di un ciclo di heroic fantasy dedicato all'Eternai Champion, di cui fa parte la tetralogia di Dorian Hawkmoon, nonché di diversi romanzi dedicati al ciclo collaterale di Jerry Cornelius. BIBLIOGRAFIA ITALIANA ROMANZI Il veliero dei ghiacci (The Ice Schooner, 1966), 1972, Galassia n. 163, La Tribuna, Piacenza. Il gioiello della morte (The Jewel in the Skull, 1967), 1978, Fantapocket n. 22, Longanesi & C, Milano. L'amuleto del Dio Pazzo (The Mad God's Amulet, 1968), 1978, Fantapocket n. 25, Longanesi & C, Milano. Programma Finale (The Final Programme, 1968), 1970, Galassia n. 123, La Tribuna, Piacenza. Il corridoio nero (The Black Corridor, 1969), 1972, Galassia n. 172, La Tribuna, Piacenza. INRI (Behold the Man, 1969, ampliamento dell'omonimo romanzo breve ta Magica.
vincitore del Nebula Award nel 1968), 1976, Saga n. 8, M.E.B. Editrice, Torino. Il signore del Caos (The Knight of the Swords, 1971), 1973, Delta n. 2, Sugar, Milano. La regina delle spade (The Queen of the Swords, 1971), 1973, Delta n. 7, Sugar, Milano. Gli dei perduti (The King of the Swords, 1971), 1974, Delta n. 11, Sugar, Milano. ANTOLOGIE Leggende alla fine del tempo (Legends from the End of Time, 1976), 1978, Robot Speciale n. 7, Armenia Editore, Milano; contiene i racconti: Pale Roses; White Stars; Ancient Shadows; Constant Fire. RACCONTI Il giardino del piacere di Felipe Sagittarius (The Pleasure Garden of F.S., 1966), 1976, Galassia n. 211, La Tribuna, Piacenza. Un cantante morto (A Dead Singer, 1976), 1978, Robot n. 24, Armenia Editore, Milano. LIBRO PRIMO Quando Dorian Hawkmoon, l'ultimo duca di Köln, strappò l'Amuleto Rosso dal collo del Dio Pazzo e si impossessò del potente talismano, tornò insieme a Huillam D'Averc e Oladahn delle Montagne in Kamarg, dove il conte Brass, sua figlia Yisselda e il suo amico Bowgentle, il filosofo, e tutta la loro gente si trovavano assediati dalle orde dell'Impero Nero, capeggiate dal vecchio nemico di Hawkmoon, il barone Meliadus di Kroiden. L'Impero Nero era diventato così potente da minacciare di distruggere perfino la ben difesa provincia della Kamarg. Se ciò si fosse verificato, Meliadus si sarebbe impossessato di Yisselda e avrebbe a poco a poco trucidato tutti gli altri, trasformando la Kamarg in una distesa di cenere. Soltanto grazie alle possenti forze sprigionate dall'antica macchina della stregoneria che riusciva a sovvertire il tempo e lo spazio, i nemici dell'Impero Nero poterono salvarsi, trasferendosi in un'altra dimensione della Terra. E trovarono così un rifugio. Un rifugio in un'altra Kamarg, dove le disgrazie e gli orrori della Gran Bretagna non esistevano; ma essi sapevano che, qualora la macchina di cristallo fosse stata distrutta, sarebbero ri-
piombati nel caos del loro tempo e spazio. Per un certo periodo vissero nel felice sollievo per lo scampato pericolo, ma a poco a poco Hawkmoon incominciò ad accarezzare la spada e a domandarsi quale fosse stato il destino del suo mondo. LA GRANDE STORIA DELLA BACCHETTA MAGICA CAPITOLO PRIMO L'ULTIMA CITTÀ I sinistri cavalieri spronarono i cavalli da combattimento su per i pendii fangosi della collina, tossendo mentre il fumo nero e denso che saliva dalla valle penetrava loro nei polmoni. Era sera, il sole stava tramontando e le ombre si allungavano sul terreno. La luce del crepuscolo faceva apparire gli individui a cavallo come creature gigantesche dalla fisionomia bestiale. Ciascun cavaliere portava una bandiera, insudiciata dalle battaglie, aveva sul capo una enorme maschera di metallo raffigurante il muso di un animale e adorna di pietre preziose, ed era protetto da una pesante armatura di ferro, ottone e argento, ammaccata e insanguinata; tutti stringevano nella mano destra, guantata, un'arma sulla quale si era incrostato il sangue di centinaia di innocenti. I sei uomini a cavallo raggiunsero la vetta della collina e indussero le proprie cavalcature stronfianti a fermarsi; conficcarono le bandiere nel terreno, e lì rimasero, simili alle ali di un uccello da preda, a ondeggiare nel vento ardente che spirava dalla valle. La maschera da lupo si voltò per guardare la maschera da mosca, la scimmia sbirciò la capra, il topo parve sorridere al cane... un sorriso di trionfo. Le bestie dell'Impero Nero volsero lo sguardo al di là della valle e al di là delle colline verso il mare, poi lo riportarono sulla città in fiamme sotto di loro, dalla quale giungevano i deboli gemiti delle creature massacrate e torturate. Il sole tramontò e cadde la notte, facendo splendere più vivide le fiamme, riflesse dal metallo scuro delle maschere dei Signori di Gran Bretagna. «Bene, signori», disse il barone Meliadus, il gran conestabile dell'Ordine del Lupo, comandante supremo dell'esercito. La sua voce profonda e vibrante rimbombava di sotto la grossa maschera. «Bene, abbiamo conqui-
stato l'Europa, ormai.» Mygel Holst, lo scheletrico arciduca di Londra, capo dell'Ordine della Capra, rise. «Già... tutta l'Europa. Fino all'ultimo centimetro. È anche gran parte dell'Oriente ci appartiene, adesso.» L'elmo della capra annuì, come per manifestare la propria soddisfazione, gli occhi di rubino colsero il bagliore dei fuochi e lampeggiarono malignamente. «Presto», ringhiò allegramente Adaz Promp, gran conestabile dell'Ordine del Cane, «tutto il mondo ci apparterrà. Tutto il mondo!» I baroni di Gran Bretagna, padroni di un continente, strateghi e guerrieri dall'indomito coraggio e dalla grande abilità, incuranti delle proprie vite, uomini dall'animo corrotto e dalle menti folli, ossessionati dall'odio per tutto quello che non era in sfacelo, detentori di un potere privo di alcuna moralità, forze senza giustizia, ridacchiarono, lugubremente compiaciuti, mentre guardavano crollare e morire l'ultima città europea che si era opposta a loro. Era stata una città molto antica. Si chiamava Atene. «Tutto il mondo», fece Jarak Nankenseen, generalissimo dell'Ordine della Mosca, «tranne la Kamarg nascosta...» Il barone Meliadus si abbandonò al malumore, allora, e fece un gesto come se volesse colpire il suo collega generalissimo. La maschera ingioiellata a forma di testa di mosca di Jarak Nankenseen si voltò lievemente per guardare Meliadus e la voce proveniente dal suo interno ebbe un tono di scherno. «Non ti basta averli messi in fuga, barone, mio signore?» «No», ringhiò, «non mi basta». «Non possono rappresentare per noi alcuna minaccia», mormorò il barone Brenal Farnu, gran conestabile dell'Ordine del Topo. «Da quanto hanno previsto i nostri scienziati, essi esistono in una sfera che si trova al di là della Terra, in qualche altra dimensione del tempo e dello spazio. Noi non possiamo raggiungerli, ed essi non possono raggiungere noi. Godiamoci il nostro trionfo, senza consentire che venga rovinato dal pensiero di Hawkmoon e del conte Brass...» «Non posso!» «O è un altro il nome che ti tormenta, fratello barone?» Jarak Nankenseen stava prendendosi gioco dell'uomo che era stato suo rivale in più di una avventura galante a Londra. «Il nome della bella, Yisselda? È l'amore che ti anima, mio signore? Il dolce amore?» Per un momento il lupo non rispose, ma la mano che stringeva la spada si irrigidì, come in preda all'ira. Poi la voce piena, musicale, si fece udire, e
aveva riacquistato la propria compostezza, assumendo un tono quasi frivolo. «La vendetta, barone Jarak Nankenseen, è quella che mi anima...» «Sei un uomo estremamente passionale, barone...» disse seccamente Jarak Nankenseen. Meliadus a un tratto rinfoderò la spada e si protese per afferrare la bandiera, strappandola dal terreno. «Hanno insultato il nostro re imperatore, la nostra patria... e me stesso. Mi impadronirò della fanciulla per il mio piacere, ma non sarà con la dolcezza che la prenderò, nessun sentimento di debolezza mi animerà...» «No, certo», mormorò Jarak Nankenseen, con una sfumatura paternalistica nella voce. «... e quanto agli altri, mi prenderò anche con loro le mie soddisfazioni... nei sotterranei delle prigioni di Londra. Dorian Hawkmoon, il conte Brass, il filosofo Bowgentle, l'essere sovrumano, Oladahn delle Montagne Bulgare e il traditore Huillam D'Averc... tutti costoro dovranno soffrire per lunghi anni. Questo è quanto ho giurato sulla Bacchetta Magica!» Si udì un suono alle loro spalle. Si voltarono tutti per scrutare nella luce baluginante e scorsero una lettiga con baldacchino trasportata su per la collina da una decina di ateniesi prigionieri di guerra, incatenati alle stanghe. Sulla portantina giaceva il non conformista Shenegar Trott, conte di Sussex. Il conte Shenegar quasi non si degnava di indossare una maschera, e quella che portava adesso era una maschera d'argento, di poco più grande della sua testa, modellata in modo da ripetere, in caricatura, i suoi stessi lineamenti. Non apparteneva ad alcun ordine ed era tollerato dalla corte dell'Impero Nero per via delle sue smisurate ricchezze e del suo coraggio quasi sovrumano in battaglia... sebbene apparisse, con la veste ingioiellata e con quei modi indolenti, più simile a uno stupido inebetito. Egli, ancora più di Meliadus, godeva della fiducia (per quello che poteva valere) del re imperatore Huon, perché i suoi consigli erano quasi sempre eccellenti. Aveva chiaramente udito l'ultima parte della conversazione e parlò in tono beffardo. «Un giuramento pericoloso, barone, mio signore», disse con dolcezza. «Uno di quelli che possono, in fin dei conti, ripercuotersi su chi li pronuncia...» «L'ho pronunciato sapendo quello che rischiavo», ribatté Meliadus. «Li troverò, conte Shenegar, non aver paura.» «Sono venuto a ricordarvi, signori miei», disse Shenegar Trott, «che il
nostro re imperatore sta diventando sempre più impaziente di vederci e di ascoltare dalle nostre labbra l'annuncio che tutta l'Europa ormai gli appartiene». «Mi metterò immediatamente in cammino per Londra», disse Meliadus, «perché laggiù potrò consultare i nostri maghi-scienziati e scoprire il modo per rintracciare i miei nemici. Vi saluto, signori». Tirò le redini della cavalcatura, voltando la bestia, e incominciò a discendere la collina nella direzione dalla quale era venuto, osservato dai suoi colleghi. Le maschere bestiali si mossero all'unisono nella luce degli incendi. «Il suo strano modo di pensare potrebbe portarci tutti alla distruzione», sussurrò uno di loro. «Che importanza avrebbe?» ridacchiò Shenegar Trott, «dal momento che tutto verrebbe distrutto insieme a noi...» La risata che gli rispose fu selvaggia, riecheggiata dagli elmi ingioiellati. Era un riso folle, sfumato di odio nei confronti di loro stessi e al contempo di odio per il mondo. Perché era questa la grande forza dei signori dell'Impero Nero: non attribuire valore alcuno a nulla sulla terra, a nessuna dote umana, a niente, sia che appartenesse a loro o ad altri. La diffusione delle conquiste e della desolazione, del terrore e delle sofferenze, era il loro più importante divertimento, un mezzo per occupare il tempo, finché la vita non fosse giunta al termine. Per loro, la guerra rappresentava ih sistema migliore per alleviare la noia... CAPITOLO SECONDO LA DANZA DEI FENICOTTERI All'alba, quando i giganteschi fenicotteri rosa si levavano dai nidi di giunchi e volteggiavano nel cielo con strane danze rituali, il conte Brass era solito soffermarsi sui bordi della palude e osservare le acque e la strana configurazione delle scure lagune e delle isole color bronzo. Quelle forme lo avevano sempre affascinato, e da qualche tempo aveva incominciato a studiare gli uccelli, i canneti e gli specchi d'acqua, cercando di individuare la chiave del misterioso panorama. Quel panorama, pensava, conteneva un messaggio. In esso avrebbe potuto trovare la risposta al dilemma del quale perfino lui era conscio soltanto in parte; avrebbe potuto forse trovare la spiegazione all'angoscia di non
conoscere la crescente minaccia che, lo sentiva, stava per inghiottirlo, psichicamente e fisicamente. Il sole sorse, facendo splendere le acque con la propria pallida luminosità. Il conte Brass udì un suono, si voltò, e scorse la figlia Yisselda che cavalcava a pelo il suo cavallo bianco della Kamarg e sorrideva con aria misteriosa, come se, anche lei, conoscesse qualche segreto che il padre non avrebbe mai potuto comprendere appieno. Il conte Brass pensò di evitare la ragazza allontanandosi rapidamente lungo la spiaggia, ma ella stava già raggiungendolo, agitando la mano in segno di saluto. «Padre... ti sei alzato presto! È non è la prima volta, da qualche tempo in qua.» Il conte Brass annuì, volgendosi di nuovo a contemplare le acque e i canneti, guardando a un tratto in alto gli uccelli danzanti, quasi volesse sorprenderli o, grazie a qualche istintivo lampo di intuizione, imparare il segreto dei loro strani, quasi frenetici moti vorticosi. Yisselda era smontata e si trovava adesso in piedi accanto a lui. «Non sono i nostri fenicotteri», disse. «Eppure sono così simili a essi! Che cosa stai guardando?» Il conte Brass si strinse nelle spalle e le sorrise. «Niente. Dov'è Hawkmoon?» «Al castello. Dorme ancora.» Il conte Brass borbottò qualcosa, stringendo insieme le grandi mani come in un disperato gesto di preghiera. Poi si rilassò e afferrò la figlia per un braccio, guidandola lungo l'argine della laguna. «È meraviglioso», mormorò lei. Il conte Brass fece un lieve gesto di impazienza. «Non capisci...» incominciò a dire, poi si interruppe. Sapeva che non avrebbe mai visto il paesaggio come lo vedeva lui. Egli aveva tentato una volta di descriverglielo, ma Yisselda aveva ben presto mostrato di non nutrire alcun interesse, non aveva fatto alcuno sforzo per vedere i significati delle configurazioni che egli scorgeva dovunque... nell'acqua, nei canneti, negli alberi, nella vita animale che riempiva la Kamarg a profusione. Per lui era la quintessenza dell'ordine, ma agli occhi di lei appariva come qualcosa di piacevole a vedersi, qualcosa di «meraviglioso», da ammirare, in effetti, ma per il suo «aspetto selvaggio». Soltanto Bowgentle, il poeta filosofo, il suo vecchio amico, aveva una vaga idea di quello che egli intendeva; eppure, anche Bowgentle credeva
che ciò dipendesse non dalla natura del paesaggio ma dalla particolare natura della mentalità del conte Brass. «Sei sfinito, disorientato», era solito dire Bowgentle. «I meccanismi che presiedono al funzionamento del tuo cervello stanno lavorando troppo duramente, per cui attribuisci all'esistenza disegni che, in effetti, hanno origine soltanto dalla tua stanchezza e dalla tua agitazione...» Il conte Brass era solito respingere quelle ipotesi con uno sguardo accigliato, poi indossava l'armatura di ottone e se ne andava lontano a cavallo, di nuovo in solitudine, tra lo sconforto dei suoi familiari e degli amici. Aveva trascorso un lungo periodo esplorando quella nuova Kamarg, così simile alla sua; l'unica differenza stava nel fatto che lì non si incontrava alcuna prova dell'esistenza, in una qualsiasi epoca, del genere umano. «È un uomo d'azione, come lo sono io», era solito dire Dorian Hawkmoon, il marito di Yisselda. «La sua mente si arrovella nella ricerca di qualche problema reale nel quale impegnarsi.» «I problemi reali sembrano insolubili», rispondeva invariabilmente Bowgentle, e la conversazione aveva termine, mentre anche Hawkmoon usciva per proprio conto, con la mano sull'elsa della spada. C'era tensione nel Castello di Brass, e anche nel villaggio sottostante la gente era turbata; era lieta di essere sfuggita al terrore dell'Impero Nero, ma non ben sicura di essersi stabilita definitivamente in quella nuova terra, tanto simile a quella che avevano abbandonato. Dapprima, non appena erano giunti, quel territorio era apparso come una versione trasformata della Kamarg, dai colori dell'arcobaleno; ma a poco a poco quei colori erano cambiati, diventando più naturali, quasi che i ricordi delle persone si fossero imposti sul paesaggio, cosicché adesso esisteva soltanto una lieve differenza. C'erano branchi di cavalli e mandrie di tori bianchi da domare, fenicotteri rosa che potevano essere addestrati a portare un cavaliere, ma nel fondo dei pensieri degli abitanti del villaggio esisteva sempre la minaccia che l'Impero Nero riuscisse a trovare la strada per raggiungerli anche in quel rifugio. Per Hawkmoon e per il conte Brass... forse anche per D'Averc, Bowgentle e Oladahn... quell'idea non appariva così minacciosa. C'erano momenti in cui avrebbero accolto come il benvenuto un attacco proveniente dal mondo che avevano lasciato. Mentre il conte Brass osservava il paesaggio, cercando di individuarne il segreto, Dorian Hawkmoon era solito cavalcare veloce lungo le piste della laguna alla ricerca del nemico, disperdendo mandrie di tori e di cavalli, e
inducendo i fenicotteri a levarsi in volo. Un giorno, mentre percorreva la via del ritorno su un cavallo coperto di sudore, dopo una delle sue molte spedizioni esplorative lungo le spiagge del mare violetto (terra e mare sembravano senza limiti), vide i fenicotteri volteggiare nel cielo seguendo linee a spirale, lasciandosi portare dalle correnti e planando di nuovo verso il basso. Era pomeriggio e la danza dei fenicotteri aveva luogo soltanto all'alba. Gli uccelli giganteschi sembravano disturbati da qualcosa, e Hawkmoon decise di investigare. Spronò il cavallo lungo il sentiero tortuoso attraverso la palude, finché non venne a trovarsi direttamente sotto i fenicotteri, e vide che i volatili ruotavano sopra una piccola isola coperta da alti canneti. Scrutò attentamente l'isolotto e credette di intravedere qualcosa tra i giunchi, un lampo rosso che poteva essere la giacca di un uomo. Sulle prime Hawkmoon si disse che doveva trattarsi di un abitante del villaggio intento a tendere trappole per le anatre, ma poi si rese conto che, se così fosse stato, l'uomo gli avrebbe rivolto un cenno di saluto... o almeno gli avrebbe fatto cenno di allontanarsi perché la selvaggina non venisse disturbata. In preda all'incertezza, Hawkmoon spronò il cavallo per indurlo a entrare nell'acqua e farsi portare a nuoto sull'isola e poi sul terreno paludoso. Il corpo poderoso dell'animale si aprì un varco tra le canne rigide mentre procedeva, e di nuovo Hawkmoon scorse un lampo rosso e si convinse di avere davvero visto un uomo. «Ehi!» gridò. «Chi è là?» Non ricevette risposta. Le canne invece si agitarono più violentemente, mentre l'uomo si metteva a correre attraverso di esse senza più alcuna precauzione. «Chi sei?» gridò Hawkmoon, e si rese conto che l'Impero Nero doveva infine essere giunto fin lì, che dovevano esserci uomini nascosti dovunque in mezzo ai canneti, pronti ad assalire il Castello di Brass. Si lanciò, attraverso le canne, all'inseguimento dell'uomo dalla giubba rossa; lo vedeva chiaramente adesso, mentre si gettava nella laguna e incominciava a nuotare verso gli argini. «Ferma!» gridò Hawkmoon; ma l'uomo continuò a nuotare. Il cavallo di Hawkmoon si immerse di nuovo nelle acque. L'uomo era già quasi giunto alla riva opposta e lanciò un rapido sguardo alle proprie spalle; accorgendosi che Hawkmoon gli era quasi addosso, ruotò su se stesso verso destra ed estrasse una lucente e sottile spada di una straordina-
ria lunghezza. Ma la cosa che stupì maggiormente Hawkmoon non fu quella spada... fu l'aspetto dell'uomo, che sembrava non avere faccia! L'intero spazio sotto i capelli lunghi, sudici e biondi era privo di lineamenti. Hawkmoon ebbe un sussulto, mentre estraeva la propria spada. Si trattava forse di qualche strano abitante di quel mondo? Hawkmoon volteggiò per scendere di sella, con l'arma in pugno, mentre il cavallo si inerpicava sull'argine; rimase a gambe divaricate di fronte all'insolito avversario, poi scoppiò a ridere, accorgendosi di come stessero in realtà le cose. L'uomo indossava una maschera di pelle sottile. I tagli per la bocca e gli occhi erano molto ridotti e non potevano essere scorti da una certa distanza. «Perché ridi?» domandò l'uomo mascherato in un tono di voce ragliante, reggendo la spada in posizione di difesa. «Non hai nessuna ragione di ridere, amico, dal momento che stai per morire.» «Chi sei?» domandò Hawkmoon. «Ti conosco soltanto come un millantatore.» «Sono uno spadaccino più bravo di te», rispose l'uomo. «Faresti meglio ad arrenderti, ormai.» «Mi spiace, ma non posso accettare la tua parola sulle mie qualità di spadaccino, o sulle tue», replicò Hawkmoon con un sorriso. «Come mai un così gran maestro della spada è tanto malvestito, per esempio?» Indicò con la spada il giustacuore rosso e impillaccherato dell'uomo, i pantaloni e gli stivali di pelle screpolata. Perfino la sua splendente spada non aveva fodero, ma era stata estratta da un cappio di corda attaccato a una fune che serviva da cintura, e dalla quale pendeva anche una borsa gonfia. L'uomo portava anelli alle dita delle mani, ovviamente di vetro e di vile metallo, e la sua pelle aveva un colorito grigiastro, da ammalato. Era alto ma rinsecchito, e, a giudicare dall'aspetto, mezzo morto di fame. «Un pezzente, suppongo», lo schernì Hawkmoon. «Dove hai rubato quella spada, pezzente?» Ansimò, mentre l'uomo si lanciava in un a fondo improvviso, poi indietreggiò. Il movimento dell'avversario fu incredibilmente rapido e Hawkmoon sentì la guancia che gli bruciava, sollevò una mano al viso e si accorse di sanguinare. «Dovrò continuare a punzecchiarti finché non sarai morto?» lo canzonò lo straniero. «Rinfodera quella tua pesante spada e consegnati prigioniero.»
Hawkmoon rise con vero piacere. «Magnifico! Finalmente un degno avversario. Non puoi credere come tu sia il benvenuto, amico mio. È passato anche troppo tempo da quando ho sentito il tintinnio dell'acciaio risuonarmi nelle orecchie!» E, così dicendo, vibrò una stoccata all'uomo mascherato. Il suo antagonista si difese con destrezza, effettuando una parata che in qualche modo si trasformò in un assalto, bloccato appena in tempo da una efficace mossa di Hawkmoon. Con i piedi saldamente piazzati sul terreno paludoso, né l'uno né l'altro si spostarono di un centimetro dalla propria posizione, combattendo entrambi con grande abilità e freddezza, ciascuno riconoscendo nell'altro un vero maestro nell'arte della scherma. Lottarono per un'ora, assolutamente alla pari, senza subire né infliggere alcuna ferita, e Hawkmoon decise di cambiare tattica, incominciando gradatamente a spostarsi indietro, giù dall'argine verso l'acqua. Credendo che Hawkmoon si stesse ritirando, l'uomo mascherato parve diventare più fiducioso e la sua spada si mosse ancora più veloce di prima, così che Hawkmoon si trovò costretto a impiegare tutta la propria energia per deviare i colpi. Poi Hawkmoon finse di scivolare nel fango, piegandosi su un ginocchio. L'altro si gettò in avanti per trafiggerlo e la lama di Hawkmoon si mosse in fretta, colpendo di piatto il polso dell'uomo. Questi gridò e la spada gli cadde di mano. Subito Hawkmoon balzò in piedi e piazzò lo stivale sopra l'arma, puntando la propria spada alla gola dell'avversario. «Non è un trucco degno di un vero schermidore», borbottò l'uomo dalla maschera. «Mi stufo in fretta», ribatté Hawkmoon. «Stavo diventando impaziente di mettere fine al gioco.» «Bene, e adesso?» «Il tuo nome», disse Hawkmoon. «Prima voglio sapere questo... poi vedere la tua faccia... sapere che ci fai qui... e infine, e forse si tratta della cosa più importante, scoprire come hai fatto ad arrivare in questo luogo.» «Il mio nome lo saprai subito», disse l'uomo con inequivocabile orgoglio. «Sono Elvereza Tozer.» «Non mi è affatto nuovo, in realtà!» esclamò il duca di Köln con una certa sorpresa. CAPITOLO TERZO ELVEREZA TOZER
Elvereza Tozer non era l'uomo che Hawkmoon si sarebbe aspettato di incontrare, qualora gli fosse stato predetto che avrebbe conosciuto il più grande commediografo inglese, uno scrittore i cui lavori erano ammirati in tutta Europa, anche da coloro che sotto ogni altro aspetto detestavano la Gran Bretagna. Dell'autore di Re Staleen, La tragedia di Ratine e Carna, L'ultimo dei Braldur, Annata, Chirshil e Adulf, La commedia dell'Acciaio e numerosi altri lavori, non si era più sentito parlare, negli ultimi tempi, ma Hawkmoon aveva ritenuto che ciò si dovesse alle guerre. Si sarebbe inoltre aspettato che Tozer indossasse abiti sontuosi, fosse sicuro di sé in tutti i sensi, equilibrato e pieno di saggezza. Si trovava invece di fronte un uomo che sembrava essere più a suo agio con la spada che con le parole, un uomo vanitoso, a metà strada tra la stupidità e la vanità, vestito di stracci. Mentre sospingeva Tozer con la sua stessa spada lungo le piste della palude verso il Castello di Brass, Hawkmoon si sentiva perplesso a proposito di tali apparenti paradossi. Stava forse mentendo, quell'uomo? Se così fosse stato, perché mai avrebbe dovuto, fra tante possibilità, dichiararsi proprio un illustre commediografo? Tozer camminava, in apparenza niente affatto turbato dalla sorte avversa, fischiettando un vivace motivetto. Hawkmoon si fermò. «Un momento», disse, e si protese per afferrare le redini del cavallo che lo stava seguendo. Tozer si voltò. Portava ancora la maschera. Hawkmoon era rimasto così stupito nell'udire il nome del suo prigioniero da aver dimenticato di ingiungere a Tozer di togliersi la maschera di cuoio dal volto. «Bene», disse Tozer, guardandosi attorno. «È un bel posto... per quanto un po' scarso di pubblico, suppongo.» «Già», rispose Hawkmoon, imbarazzato. «Già...» Fece un gesto per indicare il cavallo. «Potremmo cavalcare insieme, direi. Sali in sella con me, Mastro Tozer.» Tozer volteggiò per salire sul cavallo e Hawkmoon lo imitò, afferrando le redini e spingendo la cavalcatura al trotto. Procedettero in questo modo finché non raggiunsero le porte della città, le superarono e avanzarono lentamente lungo le viuzze tortuose, su per le strade in salita, fino alle mura del Castello di Brass. Dopo che furono smontati nel cortile, Hawkmoon consegnò il cavallo a un mozzo di stalla e indicò la porta del salone del castello. «Da questa parte, prego», disse a Tozer.
Con una lieve spallucciata, Tozer si avviò pigramente entro il salone e si inchinò ai due uomini che vi si trovavano, di fronte a un gran fuoco fiammeggiante nel camino. Hawkmoon rivolse loro un cenno del capo. «Buongiorno, sir Bowgentle... D'Averc. Ho con me un prigioniero...» «Vedo», disse D'Averc, e le sue fattezze asciutte ma piacevoli si accesero di un blando interesse. «I guerrieri della Gran Bretagna sono di nuovo alle nostre porte?» «È solo, a quanto posso giudicare», rispose Hawkmoon. «Afferma di essere Elvereza Tozer...» «Davvero?» I placidi occhi nel volto ascetico di Bowgentle assunsero un'espressione incuriosita. «L'autore di Chirshil e Adulf? Non è facile crederlo.» Tozer si portò le mani sottili alla maschera e incominciò a dare strattoni alle cinghie che la trattenevano. «Io ti conosco, signore», disse il prigioniero. «Ci siamo incontrati dieci anni fa, quando sono venuto alla rappresentazione di uno dei miei lavori a Malaga.» «Ricordo quella circostanza. Abbiamo parlato di alcuni poemi che tu avevi da poco pubblicato e che io ammiravo. Tu sei Elvereza Tozer, ma...» La maschera era stata slacciata e rivelava una faccia emaciata, astuta, coperta da una barba rada che non riusciva a celare un mento debole, sfuggente, sopra il quale sporgeva pronunciato un lungo naso sottile. La pelle del volto aveva un aspetto malaticcio e recava i segni del vaiolo. «È ricordo la tua faccia... sebbene allora fosse più piena. Ti prego, signore, che cosa ti è accaduto?» domandò Bowgentle intimidito. «Sei forse un profugo alla ricerca di scampo dai suoi stessi compatrioti?» «Ah», sospirò Tozer, scoccando a Bowgentle uno sguardo calcolatore. «Forse. Non avresti un bicchiere di vino, signore? Il mio incontro con il vostro amico soldato, qui, mi ha fatto venire sete, temo.» «Cosa?» interloquì D'Averc. «Avete combattuto?» «All'ultimo sangue», disse torvo Hawkmoon. «Ho l'impressione che Mastro Tozer non sia venuto nella nostra Kamarg in missione pacifica. L'ho scoperto mentre cercava di imboscarsi nei canneti a sud. Credo che sia qui come spia.» «E per quale ragione Elvereza Tozer, il più grande commediografo del mondo, dovrebbe mettersi a fare la spia?» Le parole vennero pronunciate da Tozer in un tono sdegnato che tuttavia riuscì poco convincente. Bowgentle si morse il labbro e diede uno strattone al cordone del campanello per chiamare la servitù.
«È quello che ci aspettiamo di sentire da te, signore», disse Huillam D'Averc con un tono di voce quasi divertito. Tossì con ostentazione. «Cerca di scusarmi, sono un po' raffreddato, suppongo. Il castello è pieno di spifferi...» «E io non ho intenzione di spifferare niente, invece», disse Tozer. Li guardò uno a uno. «Ammesso che abbia qualcosa da spifferare...» «Sì, sì», si affrettò a dire Bowgentle, e si rivolse al servo che era entrato. «Una caraffa di vino per il nostro ospite», gli ordinò. «E vuoi anche mangiare qualcosa, Mastro Tozer?» «'Vorrei cibarmi del pane di Babele e delle carni di Marakhan...'» declamò Tozer con aria segnante. «'Perché tutti questi frutti che gli stolti forniscono, sono semplicemente...'» «Possiamo offrirti soltanto un po' di formaggio, a quest'ora», interloquì D'Averc ironico. «Annata, Atto sesto, Scena quinta», disse Tozer. «Ricordi quel punto?» «Lo ricordo», convenne D'Averc. «Ho sempre avuto l'impressione che quella parte fosse in qualche modo più debole del resto!» «Più sottile», disse Tozer in tono disinvolto. «Più sottile.» Il servo era ritornato con il vino, e Tozer si servì versandosene una generosa dose nella coppa. «Gli interessi della letteratura», disse, «non sono sempre così evidenti per la gente comune. Di qui a un centinaio d'anni il pubblico considererà l'ultimo atto di Annata non, come ha detto qualche stupido critico, frettolosamente scritto e di povero contenuto, ma per quella struttura completa che è in realtà...» «Mi sono ritenuto, in un certo senso, uno scrittore io stesso», disse Bowgentle, «ma devo confessare di non aver visto alcuna sottigliezza... Forse potresti spiegarcela tu». «Qualche altra volta», gli rispose Tozer, con un noncurante gesto della mano. Beve il vino e se ne versò un'altra coppa piena. «Nel frattempo», dichiarò Hawkmoon con fermezza, «forse ci potresti spiegare la tua presenza in Kamarg. Dopo tutto ci siamo ritenuti al sicuro, e adesso...» «Continuate a essere al sicuro, non abbiate timore», disse Tozer, «soltanto io sono arrivato fin qui, naturalmente. Grazie ai poteri della mia mente sono riuscito a proiettarmi fin qui». D'Averc si strofinava scettico il mento. «Grazie ai poteri del tuo... cervello? E come hai fatto?» «Un maestro della filosofia che vive nelle nascoste valli di Yel mi ha in-
segnato questa antica disciplina...» Tozer ruttò e si versò dell'altro vino. «Yel non è quella provincia sudoccidentale della Gran Bretagna?» domandò Bowgentle. «Già. Una terra remota, quasi deserta, popolata da pochi barbari dalla pelle scura che vivono in buche nel terreno. Dopo il mio lavoro Chirshil e Adulf incorsi nello scontento di taluni elementi a Corte, e ritenni più saggio allontanarmi e recarmi laggiù per qualche tempo, lasciando che i miei nemici si godessero tutti i beni, il denaro e le amanti che lasciavo alle mie spalle. Che ne sapevo io delle meschinità politiche? Come facevo a rendermi conto che talune parti della commedia riflettevano gli intrighi che avevano luogo in quel momento a Corte?» «E così, sei caduto in disgrazia?» Hawkmoon guardò con gli occhi socchiusi Tozer. Una simile storia poteva far parte dell'inganno ordito da quell'uomo. «Peggio... ci ho quasi rimesso la vita. Perché l'esistenza campestre mi ha quasi ucciso, come vedete...» «Hai conosciuto quel filosofo che ti ha insegnato a viaggiare attraverso le dimensioni? Allora sei arrivato qui alla ricerca di un rifugio?» Hawkmoon osservò le reazioni di Tozer a quella domanda. «No... ah, sì..."» disse il commediografo. «C'è questo da dire, non sapevo esattamente dove fossi diretto...» «Io credo che tu sia stato mandato qui dal re imperatore per distruggerci», disse Hawkmoon. «Io credo, Mastro Tozer, che tu ci stia mentendo.» «Mentire? Che cos'è la menzogna? E che cos'è la verità?» Tozer rivolse un sorriso ebete a Hawkmoon e poi ebbe un singulto. «La verità», fece Hawkmoon in tono inespressivo, «è che ti troverai un grosso capestro intorno alla gola. Credo che faremmo bene a impiccarti». Sfiorò con le dita le strane gemme nere incastonate nella sua fronte. «Non sono nuovo agli inganni dell'Impero Nero. Ne sono stato troppo spesso vittima per correre il rischio di lasciarmi abbindolare ancora.» Guardò gli altri. «Io dico che lo dobbiamo impiccare subito.» «Ma come facciamo a sapere che è stato davvero l'unico a giungere fin qui?» domandò saggiamente D'Averc. «Non possiamo essere troppo precipitosi, Hawkmoon.» «Sono il solo, lo giuro!» disse Tozer adesso innervosito. «Ammetto, mio buon signore, di essere stato inviato qui di proposito. Si trattava di perdere la vita languendo nelle prigioni sotterranee del Grande Palazzo. Quando venni in possesso del segreto del vecchio, tornai a Londra, convinto che il
mio potere mi avrebbe consentito di venire a patti con i membri della Corte, presso i quali ero caduto in disgrazia. Desideravo soltanto tornare alla mia condizione di un tempo e sapere di avere un pubblico per il quale scrivere ancora. Comunque, quando riferii loro la disciplina appena scoperta, immediatamente quei messeri minacciarono di mettermi a morte qualora non fossi venuto qui e avessi distrutto quello che vi consentiva di vivere in questa dimensione... Perciò venni da voi... lieto, lo ammetto, di poter sfuggire ai miei nemici. Non ero particolarmente desideroso di mettere a repentaglio la mia vita offendendo voi, brava gente, ma...» «Non si premunirono in qualche modo, per costringerti a eseguire il compito che ti avevano assegnato?» domandò Hawkmoon. «Questo è strano.» «A dire la verità», disse Tozer abbattuto, «credo che non fossero affatto convinti del mio potere. Credo che volessero semplicemente accertarsi che lo possedessi. Quando acconsentii ad andarmene, e lo feci immediatamente, devono essere rimasti scossi». «Non è dei signori dell'Impero Nero comportarsi con tanta leggerezza», rifletté D'Averc, con un'espressione accigliata sul volto aquilino. «Eppure, se non sei riuscito a conquistarti la nostra fiducia, questo non significa che non potresti esserti assicurato la loro. Ciononostante, non sono affatto persuaso che tu dica la verità.» «Hai parlato loro di quei vecchio?» si informò Bowgentle. «Potrebbero riuscire a far proprio il suo segreto!» «No, non è così», disse Tozer con un'occhiata furbesca. «Ho detto loro di aver scoperto quel potere per mio conto, nei mesi trascorsi in solitudine.» «Non c'è da meravigliarsi se non ti hanno preso sul serio», fece ridendo D'Averc. Tozer parve offeso, e si versò un altro boccale di vino. «Mi è difficile credere che tu sia riuscito a giungere fin qui esercitando soltanto la forza della tua volontà», ammise Bowgentle. «Sei sicuro di non aver impiegato altri mezzi...» «Nessuno.» «Questo non mi piace per nulla», disse Hawkmoon oscuramente. «Anche se dice la verità, i Lord della Gran Bretagna si saranno ormai domandati da dove ha tratto il suo potere, avranno scoperto tutto su di lui, quasi di sicuro avranno individuato il vecchio... e allora possiederanno i mezzi per giungere fin qui in forze e noi saremo perduti!»
«In effetti, questi sono tempi difficili», disse Tozer, riempiendosi ancora una volta il bicchiere. «Ricordate Re Staleen, Atto quarto, Scena seconda... 'Giorni feroci, cavalieri feroci, e il tanfo della guerra in tutto il mondo!' Ah, ero un veggente e non lo sapevo!» Adesso era, in maniera innegabile, in preda ai fumi del vino. Hawkmoon fissò con severità l'ubriacone dal mento sfuggente, ancora ritenendo quasi impossibile credere che quello era Tozer, il grande commediografo. «Ti meravigli della mia povertà, a quanto vedo», disse Tozer parlando con la lingua impastata. «Il risultato di un paio di righe in Chirshil e Adulf, come ti ho detto. Oh, la malvagità del destino! Un paio di righe, vergate in buona fede, ed eccomi qui, oggi; con la minaccia di un cappio intorno al collo. Vi ricordate quella scena, naturalmente, e il discorso? 'Corte e re, ugualmente corrotti...' Atto primo, Scena prima. Abbiate pietà di me, signori, e non impiccatemi. Un grande artista distrutto dalla potenza del suo stesso genio!» «Quel vecchio», domandò Bowgentle. «A chi somigliava? Dove viveva, di preciso?» «Il vecchio...» Tozer tracannò altro vino. «Il vecchio mi ricordava in un certo senso Ioni, nella mia Commedia dell'Acciaio, Atto secondo, Scena sesta...» «Com'era?» domandò Hawkmoon spazientito. «'Tutto preso dai meccanismi, ogni sua ora dedicata a quei circuiti insidiosi, ed egli invecchiava, senza accorgersene, al servizio di quelle apparecchiature.' Viveva soltanto per la scienza, vedete. Ha fabbricato gli anelli...» Tozer si mise la mano sulla bocca. «Anelli? Quali anelli?» domandò subito D'Averc. «Ho l'impressione che mi dovrete scusare», disse Tozer, alzandosi in piedi e ostentando la parodia di un atteggiamento dignitoso, «perché il vino si è dimostrato troppo forte per il mio stomaco vuoto. Vi chiedo scusa, se non vi dispiace...» In verità la faccia di Tozer aveva assunto un colorito verdognolo. «Benissimo», disse Bowgentle seccato. «Ti accompagnerò.» «Prima che se ne vada», giunse una voce nuova dalla soglia, «domandategli qualcosa sull'anello che porta al terzo dito della mano sinistra». Il tono era lievemente soffocato, un po' ironico. Hawkmoon riconobbe subito di chi era quella voce e si voltò. Tozer ansimò e serrò l'altra mano sull'anello.
«Che cosa ne sai di questo?» domandò. «Chi sei?» «Il duca Dorian qui presente», disse il nuovo venuto, indicando Hawkmoon con un gesto, «mi chiama il Guerriero in Giaietto e Oro». Più alto di tutti loro, coperto da un'armatura e un elmo nero e d'oro, il misterioso guerriero sollevò un braccio e puntò un dito rivestito di metallo contro Tozer. «Dagli quell'anello.» «L'anello è di vetro, niente di più. Non ha alcun valore...» D'Averc interloquì: «Ha accennato all'anello. È l'anello, allora, quello che in realtà lo ha trasportato fin qui?» Tozer esitava ancora, con un'espressione ebete dovuta sia al vino che all'ansietà. «Ho detto che è di vetro, senza alcun valore...» «In nome della Bacchetta Magica, te lo ordino!» tuonò il guerriero con voce terrificante. Con un gesto nervoso, Elvereza Tozer si sfilò l'anello e fece per scagliarlo sul pavimento di pietra. D'Averc lo bloccò e se ne impadronì, esaminandolo. «È un cristallo», disse, «non è vetro. E un tipo di cristallo che ci è ben noto, oltre tutto...» «È della stessa materia con la quale era fatto il mezzo che ti ha portato fin qui», gli disse il Guerriero in Giaietto e Oro. Mostrò la propria mano guantata sulla quale, al terzo dito, si trovava un anello identico. «Ed esso possiede le stesse proprietà... può trasportare un uomo attraverso le dimensioni.» «Come supponevo», disse Hawkmoon. «Non erano le facoltà mentali che ti hanno reso possibile giungere fin qui, ma un pezzo di cristallo. E adesso puoi star certo che ti impiccherò! Dove ti sei procurato l'anello?» «Da quell'uomo... da Mygan di Llandar. Giuro che è la verità. Ne ha degli altri... può farne molti!» gridò Tozer. «Non impiccarmi, ti supplico. Ti dirò esattamente dove potrai trovare il vecchio.» «Questo è quello che dobbiamo sapere», disse Bowgentle pensieroso, «perché è necessario raggiungerlo prima che lo facciano i Signori dell'Impero Nero. Dobbiamo impossessarci di lui e del suo segreto... per la nostra sicurezza». «Che cosa? Dovremmo recarci in Gran Bretagna?» disse D'Averc piuttosto sbigottito. «Si direbbe indispensabile», gli rispose Hawkmoon. CAPITOLO QUARTO FLANA MIKOSEVAAR
Al concerto, Flana Mikosevaar, contessa di Kanbery, si aggiustò la maschera d'oro filato e si guardò distrattamente intorno, scorgendo il resto del pubblico soltanto come un insieme di sgargianti colori. L'orchestra al centro della sala da ballo eseguiva una selvaggia e complessa melodia, una delle ultime composizioni del più grande musicista inglese defunto, Londen Johne, morto due secoli prima. La maschera della contessa era la raffigurazione di un elaborato airone, dagli occhi sfaccettati e composti da un migliaio di minuscole e rare pietre preziose. Il suo pesante abito era confezionato con un broccato luminoso che mutava colore con il variare della luce. Era la vedova di Asrovak Mikosevaar, morto sotto la spada di Dorian Hawkmoon nella prima battaglia per la Kamarg. Il moscovita rinnegato, che aveva creato la Legione degli Avvoltoi per combattere in terra europea e il cui motto era stato La Morte per la Vita, non era compianto da Flana di Kanbery, ed ella non nutriva alcun rancore nei confronti del suo assassino. Dopo tutto, era stato il suo dodicesimo marito e la grave follia di quel sanguinario aveva soddisfatto abbastanza a lungo i suoi piaceri prima che egli partisse per la guerra in Kamarg. Da allora ella aveva avuto diversi amanti e il ricordo rimastole di Asrovak Mikosevaar era confuso, come quello di tutti gli altri uomini, perché Flana era una creatura introversa, che difficilmente sapeva distinguere una persona dall'altra. Era sua abitudine d'altronde eliminare mariti e amanti quando diventavano scomodi per lei. Un istinto, più che una considerazione dell'intelletto, la tratteneva dall'uccidere i più potenti fra loro. Questo non significava che ella fosse incapace di amare, perché era una amante appassionata, che adorava senza riserve l'oggetto del suo amore; ma non riusciva a mantenere a lungo un sentimento. L'odio le era sconosciuto, così come la lealtà. Era un animale neutro. Erano invece molti quelli che la odiavano, che progettavano di vendicarsi di lei per un marito irretito o per un fratello avvelenato, e che si sarebbero vendicati se non si fosse trattato della contessa di Kanbery e della cugina del re imperatore Huon, l'immortale monarca che viveva in eterno nel Globo del Trono. Si trovava al centro dell'attenzione altrui, inoltre, dal momento che era l'unica consanguinea del monarca sopravvissuta, e taluni elementi a Corte ritenevano che, una volta eliminato Huon, sarebbe potuta diventare la regina imperatrice e dimostrarsi utile per i loro interessi. Inconsapevole di ogni complotto che la riguardava, Flana di Kanbery avrebbe continuato a rimanere imperturbabile anche se ne fosse stata al cor-
rente, perché non nutriva la minima curiosità per gli affari di tutti i suoi simili e cercava unicamente di soddisfare l'oscuro desiderio di alleviare lo strano e malinconico anelito della sua anima per qualcosa che non sapeva definire. Molti erano incuriositi sul suo conto e andavano alla ricerca dei suoi favori con il solo scopo di smascherarla, per vedere quello che poteva rivelare il suo volto; ma esso, un volto dalla pelle chiara, dai bei lineamenti, dalle guance sempre lievemente colorite, dagli occhi grandi e dorati, aveva un'espressione remota e misteriosa, più impenetrabile di una qualsiasi maschera dorata. La musica si interruppe, il pubblico si mosse e i colori si ravvivarono, mentre le stoffe turbinavano e le maschere si agitavano, annuivano, facevano cenni. Le maschere delicate delle signore si scorgevano assiepate intorno agli elmi guerreschi di quei comandanti tornati di recente dalle battaglie combattute dai grandi eserciti della Gran Bretagna. La contessa si alzò in piedi, ma non accennò ad avviarsi verso di loro. Vagamente riuscì a riconoscere alcuni degli elmi... in particolare quello di Meliadus, dell'Ordine del Lupo, che era stato suo marito fino a cinque anni prima, quando aveva divorziato. C'era anche Shenegar Trott, servito da nude schiave provenienti dal continente, che oziava su mucchi di cuscini e portava la maschera d'argento simile a una caricatura di volto umano. E scorse anche la maschera del duca di Lakasdeh, Pra Flenn, appena diciottenne e davanti al quale erano cadute già dieci grandi città: un elmo simile alla testa di un drago sogghignante. La contessa riteneva di conoscere gli altri, e si rendeva conto che erano tutti potenti generalissimi tornati per celebrare le proprie vittorie, per dividere fra loro le conquiste territoriali, per ricevere le congratulazioni dell'imperatore. Ridevano molto, si tenevano orgogliosamente eretti, mentre le dame li adulavano; tutti, tranne il suo ex consorte Meliadus, che sembrava evitarle per conferire invece con il cognato Taragorm, Maestro del Palazzo del Tempo e con il barone Kalan di Vitali, dalla maschera di serpente, grande conestabile dell'Ordine del Serpente e capo degli scienziati del re imperatore. Dietro la propria maschera Flana si accigliò, rammentando con indifferenza che di solito Meliadus evitava Taragorm... CAPITOLO QUINTO TARAGORM «E come hai viaggiato, fratello Taragorm?» domandò Meliadus con forzata cordialità.
L'uomo che aveva sposato sua sorella rispose laconicamente: «Bene». Si domandò perché Meliadus facesse approcci con lui in quel modo quando si sapeva benissimo che Meliadus era profondamente geloso dell'affetto che Taragorm si era conquistato presso la sorella di lui. L'enorme maschera si sollevò con un po' di arroganza. Era costituita da un mostruoso orologio dorato e di ottone smaltato, con le ore di madreperla intarsiata e le lancette di filigrana d'argento; la cassa in cui si trovava il pendolo si stendeva sulla parte superiore dell'ampio petto di Taragorm ed era di un materiale trasparente, simile a vetro di un colore bluastro, e attraverso a essa era possibile scorgere il pendolo dorato oscillare avanti e indietro. L'intero orologio era mantenuto in equilibrio mediante un complesso meccanismo, così da adattarsi a ogni movimento di Taragorm. Batteva le ore, le mezz'ore e i quarti, e a mezzanotte e a mezzogiorno suonava le prime otto battute delle Temporali Antipatie di Sheneven. «E come vanno», continuò Meliadus con quella stessa inconsueta e accattivante maniera, «gli orologi del tuo famoso palazzo? Ticchettano tutti i tic e tutti i toc senza mancarne uno?» Occorse qualche minuto prima che Taragorm capisse come in effetti suo cognato stesse cercando di fare lo spiritoso. Non gli rispose. Meliadus si schiarì la voce. Kalan, dalla maschera di serpente, disse: «Ho saputo che stai facendo esperimenti con macchine capaci di viaggiare nel tempo, Lord Taragorm. Si dà il caso che anch'io abbia compiuto esperimenti... con un motore...» «Volevo informarmi, fratello, a proposito di questi lavori», disse Meliadus rivolto a Taragorm. «A che punto sono?» «Ragionevolmente a un buon punto, fratello.» «Hai già viaggiato nel tempo?» «Non personalmente.» «Il mio motore», continuò imperterrito il barone Kalan, «è in grado di far procedere le navi a una velocità incredibile e lungo notevoli distanze. Perciò, possiamo invadere qualsiasi territorio nel mondo, non importa quanto sia lontano...» «Quando raggiungeremo lo scopo?» domandò Meliadus facendosi più vicino a Taragorm. «Quand'è che gli uomini potranno viaggiare nel passato o nel futuro?» Il barone Kalan si strinse nelle spalle e si allontanò. «Devo tornare ai miei laboratori», disse. «Il re imperatore mi ha incaricato di completare con urgenza il mio lavoro. Buongiorno, signori.»
«Buongiorno», rispose Meliadus con aria assente. «E adesso, fratello, potresti dirmi qualcosa di più sui tuoi studi, mostrarmi, forse, quali sono stati i tuoi progressi.» «Potrei», rispose Taragorm in tono scherzoso. «Ma il mio lavoro è segreto, fratello. Non posso farti venire al Palazzo del Tempo senza l'autorizzazione di re Huon. Prima te la devi procurare.» «Ma di certo per me non è necessario richiedere una tale autorizzazione.» «Nessuno è tanto grande da poter agire senza il beneplacito del nostro re imperatore.» «Ma la cosa riveste una importanza straordinaria, fratello», disse Meliadus, in tono quasi disperato. «I nostri nemici ci sono sfuggiti, con ogni probabilità in un'altra era della terra, da quanto ho potuto arguire. Rappresentano una minaccia per la sicurezza della Gran Bretagna!» «Stai parlando di quel branco di ribaldi che non sei riuscito a sconfiggere nella battaglia della Kamarg?» «Quasi li avevamo catturati... soltanto la scienza o la stregoneria li hanno salvati dalla nostra vendetta. Nessuno mi rimprovera per aver fallito...» «Tranne te stesso! O tu non ti rimproveri?» «Nessun rimprovero può essermi mosso, e da nessuna parte. Finirò per portare a termine la cosa, questo è tutto. Sbarazzerò l'impero dai suoi nemici. Che colpa ci può essere in questo?» «Ho sentito voci secondo le quali la tua è più una battaglia privata che pubblica, che ti sei impegnato in compromessi pazzeschi allo scopo di assicurarti una vendetta personale contro coloro che risiedono nella Kamarg.» «È una delle tante opinioni, fratello», disse Meliadus, controllando a fatica il proprio dispetto. «Ma sono preoccupato soltanto del benessere dell'impero.» «Allora parla di questa preoccupazione al re Huon; egli potrebbe consentirti di venire a visitare il mio palazzo.» Taragorm gli voltò le spalle e, mentre così faceva, la sua maschera incominciò a battere le ore, rendendo ogni ulteriore conversazione del tutto impossibile per il momento. Meliadus fece per seguirlo, poi cambiò parere, allontanandosi infuriato dal salone. *
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Circondata adesso da giovani guerrieri, ciascuno intento ad attirare disperatamente la sua attenzione, la contessa Flana Mikosevaar osservava il barone Meliadus andarsene. Dal suo incedere nervoso suppose che doveva essere di umore tetro. Poi lo dimenticò, mentre rivolgeva di nuovo la propria attenzione alle adulazioni dei suoi ammiratori, ascoltando non le parole, che le erano ben note, ma le stesse voci, che costituivano una vecchia e piacevole musica. Taragorm stava adesso conversando con Shenegar Trott. «Devo presentarmi in mattinata al re imperatore», disse Trott al Maestro del Palazzo del Tempo. «Qualche incarico, presumo, che per il momento rappresenta un segreto noto soltanto a lui stesso. Dobbiamo darci da fare, eh, Lord Taragorm?» «In effetti è così, conte Shenegar, altrimenti la noia potrebbe inghiottirci tutti.» CAPITOLO SESTO L'UDIENZA Il mattino successivo Meliadus attendeva con impazienza fuori della sala del trono del re imperatore. Aveva chiesto udienza la sera prima e gli era stato detto di presentarsi alle undici. Erano già le dodici e le porte non si erano ancora spalancate davanti a lui. Le porte, torreggianti nella penombra dell'altissimo soffitto, erano incrostate di gemme che creavano un mosaico di immagini. Le cinquanta guardie dalle maschere di mantide che le custodivano rimanevano in posizione, immobili, con i lanciafiamme pronti a una precisa angolazione. Meliadus andava avanti e indietro a grandi passi dinanzi a loro; dalla parte opposta si stendevano gli scintillanti corridoi dell'allucinante palazzo del re imperatore. Meliadus tentò di ricacciare il proprio risentimento per il fatto che il re imperatore Huon non gli avesse concesso una udienza immediata. Dopo tutto non era forse il suo generalissimo per l'Europa? Non era forse stato sotto il suo comando che gli eserciti della Gran Bretagna avevano conquistato un continente? Non aveva guidato quegli stessi eserciti in Medio Oriente e aggiunto ulteriori territori ai domini dell'Impero Nero? Perché il re imperatore avrebbe dovuto cercare di insultarlo in quel modo? Meliadus, il primo dei guerrieri della Gran Bretagna, avrebbe dovuto avere la precedenza su tutti gli altri mortali, meno importanti. Sospettò che si stesse tramando contro di lui. Da quanto Taragorm e gli altri avevano sussurrato,
traspariva la convinzione che egli fosse sul punto di perdere il suo potere. Erano degli stupidi se non si rendevano conto del pericolo costituito da Hawkmoon, dal conte Brass e da Huillam D'Averc: consentire loro di sfuggire al meritato castigo avrebbe potuto indurre gli altri a ribellarsi, rendendo vana in poco tempo tutta l'opera di conquista. Senza dubbio re Huon non aveva dato ascolto a quelli che parlavano contro di lui. Il re imperatore era saggio, il re imperatore era obiettivo. Se così non fosse, allora non sarebbe adatto a governare... Meliadus scacciò inorridito quel pensiero. *
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Le porte ingemmate cominciarono infine ad aprirsi, fino a consentire il passaggio di un uomo; attraverso quella fenditura, si fece avanti a grandi passi una figura baldanzosa e corpulenta. «Shenegar Trotti» esclamò Meliadus. «Sei stato tu a farmi aspettare per tutto questo tempo?» La maschera d'argento di Trott baluginò nella luce che proveniva dai corridoi. «Ti faccio le mie scuse, barone Meliadus. Mi scuso sentitamente. C'erano diversi particolari da discutere. Ma adesso ho terminato. Mi è stata affidata una missione, mio caro barone... Mi è stata affidata una missione! E che missione, ah, ah!» E, prima che Meliadus potesse ulteriormente sondarlo circa la natura di tale missione, l'altro era già sparito. Dall'interno della Sala del Trono giunse ora una voce giovanile e vibrante, la voce del re imperatore stesso. «Puoi venire da noi, adesso, barone Meliadus.» I guerrieri mantide dischiusero i ranghi per consentire al barone di passare in mezzo a loro e di entrare nella Sala del Trono. In quel salone enorme, dai colori fiammeggianti, ove pendevano le vivaci bandiere delle cinquecento famiglie più nobili della Gran Bretagna, lungo le pareti del quale si allineavano, su ciascun lato, un migliaio di guardie dall'aspetto di mantidi, immobili come statue, il barone Meliadus di Kroiden si fece avanti e si prostrò. Gallerie su gallerie, riccamente ornate, si innalzavano una sopra l'altra verso il soffitto concavo della sala. Lo stemma nero, verde e dorato dei soldati dell'Ordine della Mantide brillava; mentre si rimetteva in piedi, il barone Meliadus scorse in distanza il trono a forma di globo del suo re im-
peratore, un puntolino bianco contro il verde e la porpora della parete dietro di esso. Camminando adagio, Meliadus impiegò venti minuti per raggiungere il globo, e qui si prostrò nuovamente. Il globo conteneva un liquido, di un color bianco latteo ma talvolta striato da venature iridescenti rosso sangue e blu, che si rimescolava adagio e in continuazione. Al centro di quel liquido era rannicchiato lo stesso re Huon, una creatura simile a un vecchio feto, un essere immortale, nel quale le uniche cose a possedere una parvenza di vita erano gli occhi, neri, taglienti e maligni. «Barone Meliadus», fece la voce dorata che era stata strappata alla gola di un bellissimo giovane per dare al re Huon la possibilità di parlare. «Grande Maestà», mormorò Meliadus. «Ti ringrazio per avermi benevolmente concesso questa udienza.» «E per quale scopo volevi un'udienza da noi, barone?» Il tono era ironico, con una sfumatura di impazienza. «Stai cercando nuove lodi presso di noi per i tuoi sforzi nel nostro interesse in Europa?» «Il conseguimento è già di per sé sufficiente, Nobile Sire. Sto tentando di metterti in guardia circa i pericoli che ancora ci minacciano in Europa.» «Cosa? Vuoi dire che non ti sei ancora impossessato di tutto quel continente?» «Sai che l'ho fatto, Grande Imperatore, da una costa all'altra, fino ai lontani confini della Muskovia e oltre. Esistono ben pochi sopravvissuti che non siano ormai nostri schiavi. Ma mi riferisco a coloro che ci sono sfuggiti...» «Hawkmoon e i suoi amici?» «Proprio loro, Potente Maestà.» «Li hai scacciati. Non rappresentano alcuna minaccia per noi.» «Finché vivranno saranno una minaccia, Nobile Sire, perché il fatto che siano scampati potrebbe alimentare le speranze di altri, e noi dobbiamo distruggere le speranze in tutti quelli che abbiamo conquistato, per evitare guai derivanti da ribellioni contro la tua disciplina.» «Hai avuto a che fare con altre ribellioni, prima d'ora. Sei abituato a queste cose. Noi temiamo, barone Meliadus, che tu possa posporre gli interessi del tuo re imperatore agli interessi personali...» «I miei interessi personali sono i tuoi, Grande Maestà, i tuoi interessi sono i miei; le due cose sono inscindibili. Non sono forse io il più leale dei tuoi servi?» «Forse ritieni di esserlo, barone Meliadus, forse ne sei convinto...»
«Che cosa intendi, Potente Monarca?» «Quanto intendo dirti è che la tua ossessione verso il tedesco Hawkmoon e quel branco di bifolchi suoi amici potrebbe non necessariamente coincidere con i nostri interessi. Non ritorneranno... e se osassero tornare, in tal caso ci occuperemo di loro. Temo che sia soltanto la vendetta a spingerti, e che tu abbia razionalizzato la tua sete di vendetta nei convincimento che tutto l'Impero Nero sia minacciato da coloro dei quali ti vuoi vendicare.» «No! No, Principe dell'universo! Ti giuro che non è così!» «Lasciali stare dove sono, Meliadus. Occupati di loro soltanto nel caso che si rifacciano vivi.» «Grande Maestà, essi rappresentano una potenziale minaccia per l'impero. Ci sono altre potenze coinvolte che li sostengono... e inoltre, dove possono essersi procurati la macchina che li ha trasportati via nel tempo quando stavamo per distruggerli? Non posso dartene una prova certa in questo momento, ma se mi lascerai lavorare con Taragorm e servirmi delle sue nozioni per scoprire dove Hawkmoon e i suoi compagni si trovano, allora scoprirò questa prova e tu mi crederai!» «Noi siamo dubbiosi, Meliadus. Continuiamo a essere dubbiosi.» Nella voce melodiosa si udiva adesso una sfumatura di severità. «Ma se ciò non interferisce con gli altri obblighi della corte che intendo affidarti, potrai visitare il palazzo di Taragorm e ottenere la sua assistenza nei tentativi da te effettuati di localizzare i tuoi nemici...» «I nostri nemici, Principe dell'universo...» «Staremo a vedere, barone, staremo a vedere.» «Ti ringrazio per la fiducia che mostri di avere in me, Grande Maestà. Voglio...» «L'udienza non ha ancora avuto termine, barone Meliadus, perché non ti ho ancora spiegato a quali obblighi di corte ho fatto cenno.» «Mi sentirò onorato di soddisfarli, Nobile Sire.» «Hai affermato che la nostra sicurezza è minacciata da un pericolo che ci potrebbe venire dalla Kamarg. Bene, noi siamo convinti di essere in pericolo per minacce provenienti da altri punti della terra. Per essere precisi, le nostre ansie si rivolgono all'Est, da dove potrebbe colpirci un nuovo nemico, potente, a quanto posso arguire, quanto lo stesso Impero Nero. Ora ciò può essere in relazione con i tuoi sospetti circa Hawkmoon e i suoi presunti alleati, perché non è da escludersi un ricevimento per i rappresentanti di quegli alleati, in questi giorni, qui a corte...»
«Grande Imperatore, se così è...» «Lasciaci finire, barone Meliadus!» «Ti chiedo scusa, Nobile Sire.» «L'altra sera sono comparsi alle porte di Londra due stranieri, che hanno dichiarato essere inviati dall'impero dell'Asiacomunista. Il loro arrivo è avvenuto in maniera misteriosa, facendoci capire che possiedono mezzi di trasporto a noi sconosciuti, dal momento che ci dissero di aver lasciato la loro capitale da meno di due ore. Secondo la nostra opinione sono giunti fin qui, così come noi siamo soliti recarci a compiere visite in altri territori ai quali siamo interessati, per spiare le nostre risorse. A nostra volta possiamo cercare di sondare i loro poteri, per il momento in cui, anche se la cosa non è imminente, ci potremmo trovare coinvolti in un conflitto con loro. Senza dubbio le nostre conquiste nel Vicino Oriente e nel Medio Oriente sono giunte alle loro orecchie e li hanno resi nervosi. Dobbiamo scoprire tutto il possibile su di essi, cercare di convincerli che non abbiamo alcuna cattiva intenzione nei loro riguardi, tentare di indurli ad accogliere nostri inviati che restituiscano la visita nei loro territori. Se questo si dimostrerà possibile, voglio che tu, Meliadus, sia uno di tali inviati, perché hai, in questo genere di diplomazia, un'esperienza maggiore di chiunque altro dei miei servi!» «Questa è una notizia preoccupante, Grande Imperatore.» «Già! Ma dobbiamo trarre il maggior vantaggio possibile dagli eventi. Sarai la loro guida, li tratterai con cortesia, cercherai di farli parlare, di far sì che si dilunghino nel descrivere il loro potere e le dimensioni dei loro territori, il numero dei guerrieri comandati dal loro re, la potenza degli armamenti e le capacità dei mezzi di trasporto. Questa visita, barone Meliadus, costituisce, come puoi renderti conto, una potenziale minaccia, assai più importante di quella che potrebbe venirci dal castello scomparso del conte Brass.» «Può darsi, Nobile Sire...» «No... senza dubbio, barone Meliadus!» La lingua prensile guizzò attraverso la bocca grinzosa. «Questo sarà il compito più importante che ti sia mai stato affidato. Se ti resterà del tempo da sprecare, lo potrai dedicare alla tua vendetta contro Dorian Hawkmoon e gli altri.» «Ma, Potente Maestà...» «Resta in attesa delle nostre istruzioni, Meliadus. Mantieni la promessa.» Il tono era minaccioso. La lingua sfiorò la minuscola gemma che galleggiava accanto alla testa e il globo incominciò a oscurarsi, finché non as-
sunse l'aspetto di una sfera nera e compatta. CAPITOLO SETTIMO GLI INVIATI Il barone Meliadus non riusciva ancora a liberarsi della sensazione che il re imperatore avesse perduto la fiducia in lui, che il re Huon stesse deliberatamente cercando i mezzi per limitare i suoi progetti concernenti gli abitanti del Castello di Brass. In verità il re aveva creato una situazione convincente perché Meliadus fosse costretto a impegnarsi con gli strani inviati dell'Asiacomunista; lo aveva addirittura adulato, accennando al fatto che soltanto Meliadus poteva trattare quel problema e avrebbe avuto l'opportunità, in seguito, di diventare non soltanto il primo guerriero d'Europa, ma anche il Supremo Generalissimo dell'Asiacomunista. Ma l'interesse di Meliadus per l'Asiacomunista non era grande come quello nutrito per il Castello di Brass... perché egli sentiva che esisteva la prova per credere alla minaccia non trascurabile costituita dal Castello di Brass verso l'Impero Nero, mentre il monarca non disponeva di alcun motivo per supporre che l'Asiacomunista li stesse minacciando. Rivestito della sua più sontuosa maschera e degli abiti più sfarzosi, Meliadus percorse gli scintillanti corridoi del palazzo verso il salone dove il giorno prima aveva incontrato il cognato Taragorm. In quel momento la sala doveva servire per un altro ricevimento... per dare il benvenuto, con le dovute cerimonie, ai visitatori. In qualità di delegato del re imperatore, il barone Meliadus avrebbe dovuto considerarsi fatto oggetto del più grande onore, perché questo gli conferiva un prestigio inferiore soltanto a quello dello stesso re Huon, ma anche tale consapevolezza non riusciva a placare la sua mente vendicativa. Entrò nella sala al suono delle fanfare. Tutti i nobili della Gran Bretagna si trovavano lì riuniti, rivestiti di ornamenti splendidi e abbaglianti. Gli inviati provenienti dall'Asiacomunista non erano ancora stati annunciati. Il barone Meliadus si fece avanti verso la piattaforma sulla quale erano sistemati tre troni d'oro, salì i gradini e si sedette sul trono centrale. La marea di nobili si inchinò davanti a lui e la sala divenne silenziosa restando in attesa. Lo stesso Meliadus non aveva ancora visto gli inviati. Il capitano Viel Phong dell'Ordine delle Mantidi sarebbe stato la loro scorta da quel momento in poi. Meliadus volse lo sguardo sulla sala, notando la presenza di Taragorm,
di Flana, contessa di Kanbery, di Adaz Promp e Mygel Holst, di Jarak Nankenseen e di Brenal Farnu. Rimase per un momento interdetto, domandandosi che cosa non andasse. Poi si rese conto che fra tutti i nobili guerrieri mancava soltanto Shenegar Trott. Ricordò che il grasso conte gli aveva parlato di una missione. Se n'era già andato per assolverla? Perché lui, Meliadus, non era stato informato dell'incarico di Trott? Stavano forse tenendogli qualcosa segreto? Aveva davvero perduto la fiducia del re imperatore? Con il cervello in subbuglio, Meliadus si voltò, mentre le fanfare risuonavano di nuovo accanto alle porte del salone spalancate per lasciar entrare due figure incredibilmente abbigliate. Con un gesto istintivo, Meliadus si alzò in piedi per accoglierle, sbigottito alla loro vista, perché si trattava di individui barbarici e grotteschi... giganti alti più di due metri che si facevano avanti rigidi come automi. Erano davvero esseri umani quelli? si domandò. Non gli era nemmeno passato per la mente che potessero non esserlo. Erano forse qualche mostruosa creazione del Millennio Tragico? Come gli abitanti della Gran Bretagna indossavano maschere, così da rendere impossibile dire se entro di esse si trovassero volti umani. Si trattava di oggetti di forma allungata, a uovo, di cuoio, dai vivaci colori, dipinti in blu, verde, giallo e rosso a ghirigori, sui quali erano state disegnate fattezze demoniache: occhi splendenti e bocche dalle smisurate dentature. Pesanti mantelli di pelliccia scendevano fino a terra e anche gli abiti che indossavano sembravano di cuoio, anch'essi dipinti a imitazione di membra e organi umani; a Meliadus rammentavano i disegni che aveva visto una volta in un testo di medicina. L'araldo li annunciò: «Il Lord Kommissario Kaow Shalang Gatt, rappresentante ereditario del presidente imperatore Jong Mang Shen dell'Asiacomunista e principe eletto delle Schiere del Sole». Il primo degli inviati si fece avanti. Aveva delle spalle larghe almeno un metro e venti e la sua mano destra reggeva un bastone di comando d'oro incastonato di gemme; avrebbe potuto essere la stessa Bacchetta Magica, vista la cura con la quale egli la reggeva. «Il Lord Kommissario Orkai Heong Phoon, rappresentante ereditario del presidente imperatore Jong Mang Shen dell'Asiacomunista e principe eletto delle Schiere del Sole.» Il secondo inviato si fece avanti, abbigliato in maniera simile al primo, ma senza alcun bastone. «Porgo il benvenuto ai nobili inviati del presidente imperatore Jong
Mang Shen e rendo noto che l'intera Gran Bretagna si trova a loro disposizione per esaudire ogni desiderio.» Meliadus disse questo con le braccia spalancate. L'uomo con il bastone si fermò davanti alla pedana e incominciò a parlare con un accento strano, ritmato, come se la lingua della Gran Bretagna, e in effetti di tutta l'Europa e del Vicino Oriente, non fosse per lui la lingua madre. «Ti ringraziamo con la massima benevolenza per il tuo benvenuto e ti preghiamo di farci conoscere chi sia il potente che così si è rivolto a noi.» «Sono il barone Meliadus di Kroiden, grande conestabile dell'Ordine del Lupo, Supremo Generalissimo d'Europa, incaricato dell'immortale re imperatore Huon XVIII, governatore della Gran Bretagna, dell'Europa e di tutti i reami del Mediterraneo, gran conestabile dell'Ordine della Mantide, controllore dei destini, modellatore della storia, temuto e potente principe dell'universo. Vi saluto come lui vi avrebbe salutato, vi parlo come lui vi avrebbe parlato, agisco in armonia con tutti i suoi desideri perché dovete sapere che, essendo immortale, non può lasciare il mistico Globo del Trono che lo conserva e che è a sua volta protetto dai mille che vegliano su di lui giorno e notte.» Meliadus riteneva preferibile indugiare per un momento sull'invulnerabilità del re imperatore per impressionare i visitatori, in modo da rendere chiaro il fatto che un attentato contro la vita di re Huon era impossibile. Meliadus indicò i due troni identici accanto al proprio e a ciascun lato di esso. «Vi chiedo di accomodarvi, e di divertirvi.» Le due grottesche creature salirono i gradini e, con una certa difficoltà, si sistemarono nelle sedie dorate. Non ci sarebbe stato un banchetto, perché la gente della Gran Bretagna considerava l'atto di cibarsi, nel complesso, come una faccenda personale, dal momento che per far questo era necessario togliersi la maschera. Soltanto tre volte all'anno si lasciavano cadere le maschere e gli abiti in pubblico, nell'ambiente sicuro della stessa Sala del Trono, dove i cortigiani erano soliti abbandonarsi a un'orgia della durata di una settimana davanti agli occhi avidi del re Huon, partecipando a riti disgustosi e cruenti, chiamandosi con nomi che esistevano soltanto nelle lingue dei vari ordini e ai quali non ci si riferiva mai tranne che in quelle tre occasioni. Il barone Meliadus batté le mani perché i divertimenti avessero inizio, i cortigiani si separarono come un sipario e andarono a occupare i propri posti sui due lati del salone; poi si fecero avanti gli acrobati, i giocolieri e i pagliacci, mentre musiche fragorose si diffondevano dalle gallerie in alto.
Piramidi umane ondeggiarono, si chinarono e a un tratto precipitarono per riformarsi subito dopo in disegni ancora più complicati. I pagliacci fecero capriole e si esibirono, uno dopo l'altro, nei pericolosi scherzi che ci si aspettava da loro, mentre gli acrobati e i giocolieri compivano evoluzioni intorno a essi a una velocità incredibile, camminando su fili tesi fra le gallerie, esercitandosi su trapezi appesi in alto, sopra il capo degli spettatori. Flana di Kanbery non guardava gli acrobati e non mostrava alcun divertimento per i lazzi dei pagliacci. Volgeva la sua bella maschera da airone verso gli stranieri e li osservava con quella che per lei era una inconsueta curiosità, pensando vagamente che le sarebbe piaciuto conoscerli meglio, dal momento che essi rappresentavano la possibilità di un passatempo unico; soprattutto se, come lei sospettava, non fossero stati dei veri esseri umani. Meliadus, che non riusciva a togliersi dalla mente il pensiero di avere contro di sé i pregiudizi del suo re e i complotti dei suoi nobili colleghi, faceva tutti gli sforzi per essere cortese con i visitatori. Quando voleva, sapeva suscitare una grande impressione nei visitatori con la sua dignità, la sua intelligenza e virilità; ma quella sera sarebbe stato faticoso, ed egli temeva che tale fatica potesse trasparire nel suo tono di voce. «Trovate il trattenimento di vostro gradimento, miei signori dell'Asiacomunista?» chiedeva di tanto in tanto, e otteneva come risposta un lieve cenno delle enormi teste. «Non sono forse divertenti, quei pagliacci?» e di solito si poteva notare un movimento della mano da parte di Kaow Shalang Gatt, che reggeva il dorato bastone del comando. Oppure: «Quale abilità! Ci procuriamo questi giocolieri nei nostri territori italiani, e quegli acrobati appartenevano un tempo al duca di Krahkov. Avrete atleti di uguale abilità alla corte del vostro imperatore...» e l'altro, a nome Orkai Heong Phoon di solito si agitava sulla sedia, come se si trovasse a disagio. Il risultato fu quello di aumentare il senso di impazienza del barone Meliadus, di dargli l'impressione che le strane creature in qualche modo si sentissero superiori a lui o fossero irritate dai suoi tentativi di mostrarsi civile, e divenne sempre più difficile continuare la conversazione spicciola, che rappresentava l'unica conversazione possibile mentre suonava l'orchestra. Alla fine Meliadus si alzò in piedi e batté le mani. «Basta con questo genere di divertimenti. Congedate gli acrobati. Mostrateci giochi più esotici.» E si rilassò un tantino, mentre i ginnasti sessuali entravano nel salone e incominciavano a esibirsi per i depravati appetiti dell'Impero Nero. Ridacchiò, riconoscendo qualcuno di coloro che partecipavano allo spettacolo e
indicandoli ai suoi ospiti. «Ce n'è uno che era un principe magiaro; e quelle due, le gemelle, erano le sorelle di un re turco. Ho catturato io stesso quella bionda laggiù e lo stallone che vedete, in una scuderia bulgara. Molti di loro li ho educati personalmente.» Ma, per quanto il trattenimento rilassasse i nervi tormentati del barone Meliadus di Kroiden, gli inviati del presidente imperatore Jong Mang Shen continuavano a essere impassibili e taciturni come lo erano stati fino a quel momento. Infine l'esibizione ebbe termine e gli attori si ritirarono, a quanto parve, con sollievo degli inviati. Il barone Meliadus, molto rinvigorito, si domandava se quelle creature fossero di carne e ossa, e diede ordine che le danze avessero inizio. «E adesso, signori», disse alzandosi in piedi, «potremo aggirarci per la sala. Mi sarà così possibile presentarvi le persone qui riunite per onorarvi e per essere onorate da voi». Muovendosi rigidamente, gli inviati dell'Asiacomunista seguirono il barone Meliadus, torreggiando al di sopra delle teste anche dei più alti nella sala. «Volete ballare?» domandò il barone. «Noi non balliamo, mi dispiace», disse Kaow Shalang Gatt con voce inespressiva, e dal momento che l'etichetta richiedeva che fossero gli ospiti ad aprire le danze, nessuno danzò. Meliadus si sentiva infuriato. Che cosa si aspettava da lui il re Huon? Come avrebbe potuto trattare quegli automi? «Non esistono danze nell'Asiacomunista?» domandò, con la voce tremante per l'ira repressa. «Non della specie che suppongo voi preferiate», rispose Orkai Heong Phoon; e sebbene non vi fosse alcuna espressione nel tono in cui lo disse, di nuovo il barone Meliadus fu indotto a pensare che tali attività non convenissero alla dignità di quei nobili. Stava diventando estremamente difficile, si disse torvamente, rimanere compiti di fronte a quegli orgogliosi stranieri; Meliadus infatti non era abituato a soffocare i propri sentimenti quando si trattava di semplici stranieri. Si ripromise di avere a che fare con quei due in particolare quando gli fosse stato offerto il privilegio di capeggiare un esercito qualsiasi per conquistare l'Estremo Oriente. Il barone Meliadus si fermò davanti ad Adaz Promp, che si inchinò innanzi ai due ospiti. «Vi presento uno dei nostri più valorosi generali, il conte Adaz Promp, grande conestabile dell'Ordine del Cane, principe di Parye e protettore di Munchein, comandante dei Diecimila.» La elaborata maschera di cane si inchinò di nuovo.
«Il conte Adaz ha capeggiato gli uomini che ci hanno aiutato nella conquista del continente europeo nello spazio di due anni, quando noi ne avevamo previsti venti», disse Meliadus. «I suoi cani sono invincibili.» «Il barone mi adula», disse Adaz Promp. «Sono sicuro che voi possedete eserciti migliori nell'Asiacomunista, miei signori!» «Forse, non lo so. I vostri eserciti sembrano decisi come i nostri canidraghi», disse Kaow Shalang Gatt. «Cani-draghi? Che cosa sarebbero?» domandò Meliadus, ricordando infine che cosa voleva da lui il re. «Non ce ne sono in Gran Bretagna?» «Forse da noi si chiamano con un altro nome. Me li puoi descrivere?» Kaow Shalang fece un gesto con la mano che impugnava il bastone. «Sono alti due volte la statura di uno dei nostri uomini, e hanno settanta denti simili a rasoi di avorio. Sono molto pelosi e muniti di artigli come i gatti. Ce ne serviamo per cacciare i rettili che non abbiamo ancora addestrato per la guerra.» «Capisco», mormorò Meliadus, pensando che animali di quel genere avrebbero richiesto tattiche speciali di difesa. «E quanti di tali cani-draghi avete addestrato per combattere?» «Un buon numero», disse l'ospite. Proseguirono, facendo conoscenza di altri nobili e delle rispettive dame, e ciascuno era pronto con una domanda come quella suggerita da Adaz Promp per dare l'opportunità a Meliadus di ottenere informazioni dagli inviati. Ma divenne sempre più evidente che, per quanto cercassero di far apparire le loro forze e i loro armamenti di grande potenza, si mantenevano al contempo troppo cauti nel fornire particolari circa il numero e le capacità dei loro eserciti. Meliadus si rese conto che sarebbe stata necessaria più d'una serata per procurarsi quel genere di informazioni, ed ebbe la sensazione che avrebbe potuto dimostrarsi cosa tutt'altro che facile riuscire a ottenerne. «La vostra scienza deve essere molto progredita», disse, mentre si muovevano in mezzo alla ressa. «Molto più della nostra, forse.» «Forse», rispose Orkai Heong Phoon, «ma io ne so così poco dei vostri progressi scientifici. Sarebbe interessante paragonare le due cose». «Lo sarebbe davvero», convenne Meliadus. «Ho saputo, per esempio, che le vostre macchine volanti riescono a trasportarvi per migliaia di chilometri in un brevissimo tempo.» «Non si tratta di macchine volanti», disse Orkai Heong Phoon.
«No? E allora come...» «Noi li chiamiamo Carri Terrestri... si spostano sottoterra.» «E cosa li fa muovere? Che cosa sposta la terra davanti a loro?» «Non siamo scienziati», interloquì Kaow Shalang Gatt. «Non possiamo pretendere di sapere come funzionino le nostre macchine. Lasciamo questi compiti alle caste inferiori.» Il barone Meliadus, sentendosi una volta di più considerato con sufficienza, si fermò davanti alla bellissima maschera della contessa Flana Mikosevaar. La presentò, ed ella si inchinò. «Siete molto alti», disse con quel suo basso tono mormorante. «Sì, molto alti.» Il barone Meliadus cercò di proseguire, imbarazzato di fronte alla contessa; aveva previsto, senza rendersene perfettamente conto, che gli sarebbe accaduto. L'aveva presentata semplicemente per colmare il silenzio susseguitosi all'ultima osservazione dei suoi visitatori. Ma Flana tese una mano e toccò la spalla di Orkai Heong Phoon. «E le tue spalle sono molto, molto ampie», disse. L'inviato non rispose, ma rimase immobile come un palo. Lo aveva forse insultato con quelle parole? si domandò Meliadus. Ne sarebbe stato quasi soddisfatto, se così fosse stato. Non si aspettava che gli asiacomunisti si risentissero, perché si rendeva conto di come fosse del tutto nel loro interesse mantenersi in buoni rapporti con i nobili della Gran Bretagna; così com'era interesse della Gran Bretagna non guastare quegli stessi rapporti. «Posso offrirvi qualche altro divertimento?» domandò Flana, con un gesto incerto. «Grazie, ma in questo momento non riesco a pensare a niente del genere», disse l'uomo, ed essi proseguirono. Flana li guardò sbigottita, mentre si allontanavano. Non era mai stata respinta prima di allora, ed era interessata. Decise di esaminare ulteriormente quelle possibilità, quando fosse stato il momento opportuno. Erano strani, quegli esseri taciturni, con i loro movimenti rigidi. Sembravano fatti di metallo, si disse. Avrebbe potuto mai esserci qualcosa capace di suscitare in loro un sentimento umano? Le loro grandi maschere di cuoio dipinto ondeggiavano al di sopra delle teste della folla, mentre Meliadus li presentava a Jarak Nankenseen e a sua moglie, la duchessa Falmoliva Nankenseen, che, da giovane, aveva cavalcato in battaglia a fianco del marito. E quando il giro fu completato, il barone Meliadus tornò al proprio trono dorato, domandandosi con crescente curiosità e con un senso di frustrazio-
ne dove fosse sparito il suo rivale, Shenegar Trott, e perché il re Huon non si fosse degnato di onorarlo della propria fiducia informandolo delle mosse di Trott. Meliadus non vedeva l'ora di sbarazzarsi dei propri impegni per precipitarsi ai laboratori di Taragorm, allo scopo di scoprire quali progressi avesse fatto il maestro del Palazzo del Tempo e se esistesse qualche possibilità di scoprire il luogo, situato nel tempo o nello spazio, in cui si trovava l'odiato Castello di Brass. CAPITOLO OTTAVO MELIADUS AL PALAZZO DEL TEMPO Il mattino successivo, di buon'ora, dopo una notte insoddisfacente durante la quale aveva dormito poco e non era riuscito a trovare il piacere, il barone Meliadus uscì per recarsi a far visita a Taragorm nel Palazzo del Tempo. A Londra esistevano ben poche vie ampie. Case, palazzi, magazzini e baracche erano tutti collegati da stretti passaggi che, nelle zone più ricche della città, apparivano di vivaci colori come se le pareti fossero di vetro smaltato, mentre nelle zone più povere erano di pietra scura e dall'aspetto oleoso. Meliadus venne trasportato lungo quei passaggi, in una lettiga chiusa, da una decina di giovani schiave, completamente nude e dal corpo imbellettato (l'unico genere di schiave dalle quali Meliadus volesse essere servito). La sua intenzione era quella di far visita a Taragorm prima che quei noiosi nobili asiacomunisti si destassero. Poteva darsi, naturalmente, che essi rappresentassero una nazione che stava fornendo aiuti a Hawkmoon e ai suoi compagni, ma non ne aveva le prove. Se le sue speranze circa le scoperte di Taragorm fossero diventate realtà, avrebbe allora potuto procurarsi le prove e in tal caso presentarle al re Huon, riuscire a vendicarsi e forse, anche, sbarazzarsi dell'ingrato compito di recitare la parte dell'anfitrione con gli inviati. I passaggi si fecero più ampi e strani suoni incominciarono a udirsi... sordi colpi regolari, frastuoni di meccanismi. Meliadus sapeva che stava ascoltando gli orologi di Taragorm. Nei pressi dell'ingresso del Palazzo del Tempo il chiasso divenne assordante, come se un migliaio di pendoli giganteschi dondolassero a un migliaio di ritmi diversi, come se meccanismi ronzassero e girassero, come se batacchi colpissero campane e gong e cembali, uccelli meccanici strepitas-
sero e altrettanto meccaniche voci emettessero suoni. Era un fracasso incredibilmente confuso perché, sebbene il palazzo contenesse numerose migliaia di orologi di diverse dimensioni, era esso stesso un orologio gigantesco, il centro regolatore di tutto il resto, e sopra ogni altro suono si udiva il lento, poderoso, echeggiante schiocco della massiccia leva di scappamento posta in alto, vicino al tetto, e il sibilo del mostruoso pendolo mentre oscillava nell'aria nel Salone del Pendolo, dove Taragorm effettuava molti dei suoi esperimenti. La lettiga di Meliadus giunse infine dinanzi a una porta di bronzo relativamente piccola, a due battenti, e automi sbucarono fuori per sbarrare il passo, mentre una voce riprodotta meccanicamente risuonava in mezzo al frastuono degli orologi con la domanda: «Chi giunge a far visita a Lord Taragorm al Palazzo del Tempo?» «Il barone Meliadus, suo cognato, con il permesso del re imperatore», rispose il barone, sforzandosi di gridare. Le porte rimasero sbarrate ancora per un pezzo, più di quanto sarebbe stato necessario, pensò Meliadus; poi si aprirono lentamente per consentire il passaggio alla lettiga. Davanti a essa si apriva una sala dalle pareti di metallo incurvato, simile alla base di un orologio, e il rumore divenne più intenso. Il salone era pieno di ticchettii, di colpi, di ronzii, di botti, di vibrazioni sorde, di fruscii e di scampami e, se il capo del barone non fosse stato rinchiuso nell'elmo a forma di muso di lupo, sarebbe stato costretto a premersi le mani sulle orecchie. Anche così incominciò a convincersi che ben presto sarebbe diventato sordo. Passarono da questa sala in un'altra, tappezzata di arazzi che rappresentavano con disegni molto precisi un centinaio di differenti meccanismi per segnare il tempo e che servivano in parte ad attutire il fracasso. Qui le giovani schiave deposero la lettiga; il barone Meliadus dischiuse le tendine con le mani guantate e restò in attesa dell'arrivo del cognato. Di nuovo dovette aspettare un periodo di tempo irragionevole, prima che l'uomo si mostrasse, attraverso le porte all'estremità del salone, con l'enorme maschera a forma di orologio che ondeggiava annuendo. «È ancora presto, fratello», disse Taragorm. «Mi dispiace di averti fatto aspettare, ma non avevo ancora fatto colazione.» Meliadus rifletté, dicendosi che Taragorm non aveva mai avuto il dovuto rispetto per le finezze dell'etichetta, poi esclamò: «Ti faccio le mie scuse, fratello, ma ero ansioso di vedere il tuo lavoro».
«Mi sento lusingato. Da questa parte, fratello.» Taragorm girò su se stesso e uscì attraverso la porta dalla quale era entrato, con Meliadus alle calcagna. Percorsero numerosi corridoi tappezzati di arazzi, finché Taragorm si appoggiò con tutto il proprio peso contro la sbarra che chiudeva una porta enorme; la porta si aprì e l'aria si riempì subito del frastuono di un gran vento e del rumore di un gigantesco tamburo che batteva un colpo penosamente lento. Con gesto meccanico Meliadus sollevò lo sguardo e scorse il pendolo precipitarsi attraverso l'aria sopra di lui... con la lente costituita da cinque tonnellate di ottone raffigurante un'elaborata e splendente immagine del sole, e provocare un risucchio che fece ondeggiare tutti gli arazzi del salone alle loro spalle e sollevare il mantello di Meliadus. Il pendolo provocava il vento e l'invisibile leva di scappamento, molto più in alto, causava il suono simile a quello di un tamburo. Attraverso la vasta Sala del Pendolo si stendeva uno spiegamento di meccanismi nei vari stadi della loro costruzione, su banchi dotati di attrezzature da officina, di strumentazioni di bronzo e di argento, di nuvole di sottili fili dorati, di ragnatele di fili ingemmati, di strumenti misuratori del tempo; orologi ad acqua, movimenti pendolari, sfere ruotanti, orologi, cronometri, planetari, astrolabi, orologifoglia, orologi-scheletri, orologi da tavolo, meridiane. Intenti a lavorare intorno a essi si trovavano gli schiavi di Taragorm, scienziati e ingegneri catturati in una ventina di nazioni diverse, molti di essi i migliori nella loro patria. Proprio mentre Meliadus stava a guardare, da un lato della sala giunse un lampo di luce purpurea, da un altro uno sprazzo verde, da non si sa dove si levò un ricciolo di fumo scarlatto. Egli vide un meccanismo nero crollare in polvere e coloro che vi accudivano tossire, ruzzolare in avanti entro quella polvere e sparire. «E questo che cos'è?» giunse da poco lontano una voce laconica. Meliadus si voltò e vide che Kalan di Vitali, il capo degli scienziati del re imperatore, si era recato anch'egli a far visita a Taragorm. «Un esperimento per accelerare il tempo», disse Taragorm. «Siamo in grado di provocare il processo, ma non riusciamo a controllarlo. Niente, fino a questo momento, ha funzionato. Guarda laggiù», e indicò una grossa macchina di forma ovoidale fatta di una sostanza vetrosa e gialla. «Questa ottiene l'effetto opposto, e anche in questo caso, sfortunatamente, non siamo in grado di esercitare alcun controllo. L'uomo che vedete accanto a es-
sa», indicò quello che Meliadus aveva scambiato per una statua identica a un essere vivente, «è rimasto immobilizzato così ormai da settimane!» «E che mi dici circa i viaggi nel tempo?» domandò Meliadus. «Da questa parte», rispose Taragorm. «Vedete quella serie di scatole d'argento? Ognuna di esse ospita uno strumento che abbiamo creato, capace di proiettare un oggetto nel tempo, sia nel passato sia nell'avvenire. Non sappiamo per quale distanza. Le creature viventi, comunque, soffrono molto quando vengono sottoposte a questi esperimenti. Ben pochi degli animali o degli schiavi impiegati sono sopravvissuti, e nessuno ha evitato di venire colpito da notevoli sofferenze e deformità.» «Se soltanto avessimo creduto a Tozer», disse Kalan, «forse in tal caso avremmo scoperto il segreto di viaggiare nel tempo. Non avremmo dovuto prenderci gioco di lui come abbiamo fatto. Davvero non riuscivo a credere che un tale buffone fosse stato in grado per davvero di scoprire un segreto del genere!» «Di che si tratta? Di cosa state parlando?» Meliadus non aveva saputo nulla di Tozer. «Tozer, il commediografo. Lo credevo morto. Che cosa ne sapeva dei viaggi attraverso il tempo?» «Si era rifatto vivo, cercando di riconquistare il favore del re imperatore con una storia, stando alla quale sarebbe venuto a conoscenza del metodo per viaggiare nel tempo da un vecchio che viveva in Occidente. Un sistema che si basava sulla volontà, affermò. Lo abbiamo portato qui, e ridendo gli abbiamo chiesto di dimostrarci la verità delle sue parole mediante un viaggio attraverso il tempo. Dopo di che, barone Meliadus, quell'individuo in effetti è scomparso!» «Non... non avete fatto nessun tentativo di trattare con lui...?» «Non era possibile dargli credito», interloquì Taragorm. «Tu lo avresti fatto?» «Sarei stato più meticoloso nel metterlo alla prova.» «Era nel suo interesse di tornare, abbiamo pensato. Inoltre, fratello, non era il caso che ci occupassimo di simili inezie.» «Che cosa intenderesti dire con questo, fratello?» domandò subito Meliadus. «Voglio dire che stiamo lavorando nello spirito della più pura ricerca scientifica, mentre tu pretendi risultati immediati per poter continuare nella tua vendetta contro il Castello di Brass.» «Io, fratello, sono un guerriero, un uomo d'azione. Non è nelle mie abitudini starmene seduto a baloccarmi con trastulli o a rimuginare sui libri.»
Salvata la faccia, il barone Meliadus rivolse la propria attenzione alla faccenda Tozer. «Hai detto che il commediografo aveva appreso il segreto da un vecchio in Occidente?» «Così disse», rispose Kalan. «Ma penso che mentisse. Ci ha detto che si trattava di un artificio mentale che quell'uomo era riuscito a mettere in atto, ma non lo abbiamo ritenuto capace di una tale disciplina. Eppure, resta il fatto che si è offuscato ed è svanito sotto i nostri occhi.» «Perché non mi è stato detto nulla di ciò?» borbottò Meliadus in preda allo sconforto. «Ti trovavi ancora sul continente quando è accaduto», precisò Taragorm. «Inoltre, pensavamo che una cosa simile non potesse avere interesse per un uomo d'azione come sei tu.» «Ma quanto egli sapeva avrebbe potuto facilitare il vostro lavoro», disse Meliadus. «Sembrate anche troppo noncuranti a proposito di questa opportunità sfumata.» Taragorm si strinse nelle spalle. «Che cosa possiamo farci, ormai? Abbiamo progredito a poco a poco...» in un punto imprecisato si udì un'esplosione, un uomo urlò e un lampo viola e arancione illuminò la stanza... «e ben presto riusciremo a domare il tempo come abbiamo domato lo spazio». «Di qui a un migliaio di anni, forse!» sbuffò Meliadus. «L'Occidente... un vecchio in Occidente? Dobbiamo scoprire dove si trova. Come si chiama?» «Tozer ci ha detto soltanto che lo chiamavano Mygan... uno stregone dalla saggezza notevole. Ma, come ho detto, sono convinto che stesse mentendo. Dopo tutto, cosa c'è in Occidente tranne desolazione? Niente è sopravvissuto, laggiù, a parte qualche creatura deforme dal tempo del Tragico Millennio.» «Dobbiamo andarci», disse Meliadus. «Non dobbiamo lasciare intentata nessuna via, non dobbiamo lasciarci sfuggire nessuna possibilità...» «Io non verrò, non viaggerò per quelle orribili montagne alla ricerca di un demente», disse Kalan con una spallucciata. «Ho il mio lavoro da svolgere qui, devo adattare i miei nuovi motori entro le navi, navi che ci metteranno in grado di conquistare il resto del mondo con la stessa velocità con la quale abbiamo conquistato l'Europa. Per di più, credo che anche tu abbia delle responsabilità in patria, barone Meliadus. I nostri visitatori...» «Al diavolo i visitatori. Mi costano tempo prezioso.» «Presto sarò in grado di offrirti tutto il tempo di cui hai bisogno, fratel-
lo», gli disse Taragorm. «Concedicene soltanto un po'...» «Ba'! Non riuscirò a sapere nulla qui. I vostri rompiscatole e scassamacchinari fanno cose spettacolari, ma a me non servono per niente. Continua a baloccarti con i tuoi giochetti, fratello. Ti auguro una buona giornata!» Sentendosi sollevato di non dover più mostrarsi gentile con l'odiato cognato, Meliadus gli voltò le spalle e si avviò per uscire, pieno di sussiego, dalla Sala del Pendolo, percorse i corridoi tappezzati di arazzi e i saloni, finché raggiunse la lettiga. Si gettò entro di essa e rivolse un gutturale incitamento perché le ragazze lo sollevassero e lo portassero via. Quando giunse di nuovo al proprio palazzo, Meliadus rifletté sulle nuove informazioni ricevute. Alla prima occasione si sarebbe sbarazzato del suo incarico per partire verso ovest, con lo scopo di mettersi sulle tracce di Tozer e scoprire il vecchio che possedeva non soltanto il segreto del tempo, ma anche i mezzi per consentirgli infine di ottenere piena vendetta sul Castello di Brass. CAPITOLO NONO INTERLUDIO AL CASTELLO DI BRASS Nel cortile del Castello di Brass, il conte Brass e Oladahn delle Montagne Bulgare balzarono sui loro destrieri e cavalcarono fuori delle mura, entro la città dai tetti rossi, e più oltre verso le paludi, come era loro abitudine ormai tutte le mattine. Il conte Brass aveva perduto un poco il suo atteggiamento assorto e aveva ricominciato a desiderare la compagnia di qualcuno, dopo la visita del Guerriero in Giaietto e Oro. Elvereza Tozer veniva tenuto prigioniero in un appartamento posto in una delle torri ed era apparso soddisfatto quando Bowgentle lo aveva rifornito di carta, penne e inchiostro e gli aveva detto di guadagnarsi il mantenimento scrivendo una commedia per un pubblico poco numeroso ma ben disposto. «Mi domando come vadano le cose a Hawkmoon», disse il conte, mentre cavalcavano insieme. «Mi rammarico di non aver estratto la paglia che mi avrebbe consentito di accompagnarlo.» «Anche a me è spiaciuto molto», asserì Oladahn. «D'Averc è stato fortunato. Una vera disdetta che ci fossero soltanto due anelli utilizzabili... quello di Tozer e l'altro del guerriero. Se torneranno con gli altri, saremo
allora in grado di far guerra all'Impero Nero...» «Era una proposta pericolosa, Oladahn, amico mio, quella di suggerire loro, come aveva fatto il guerriero, di visitare la stessa Gran Bretagna e di cercare di scoprire Mygan di Llandar nello Yel.» «Ho sentito spesso dire che talvolta è più sicuro vivere nella tana del leone che fuori di essa», osservò Oladahn. «È ancora più sicuro vivere in una terra dove i leoni non esistono», ribatté il conte Brass con un lieve incurvarsi delle labbra. «Bene, spero che il leone non li divori, conte Brass», disse Oladahn accigliandosi. «Potrà sembrare assurdo da parte mia, ma continuo a invidiare l'opportunità che gli si è offerta.» «Ho la sensazione che non dovremo più stare qui per molto in questa inattività», disse il conte Brass, facendo procedere il cavallo lungo la stretta pista in mezzo alle canne, «perché ho la sensazione che la nostra sicurezza sia minacciata non soltanto da una sola parte, ma da molte...» «Non si tratta di una possibilità che mi preoccupi oltre misura», disse Oladahn, «ma sono preoccupato per Yisselda, Bowgentle e la popolazione della città, poiché essi non traggono alcun vantaggio dalle azioni che divertono noi». I due uomini procedettero con i cavalli verso il mare, traendo piacere dalla solitudine e nello stesso tempo anelando al tumulto e all'attività della battaglia. Il conte Brass incominciava a domandarsi se non valesse la pena di infrangere il congegno di cristallo dal quale dipendeva la loro sicurezza, facendo ripiombare il Castello di Brass nel mondo che avevano abbandonato, e di combattere per esso anche se non esistevano possibilità di difesa dalle orde dell'Impero Nero. CAPITOLO DECIMO I MONUMENTI DI LONDRA Le ali dell'ornitottero battevano nell'aria, mentre la macchina volante si librava sulle guglie di Londra. Si trattava di un grosso apparecchio, costruito per trasportare quattro o cinque persone, e la sua struttura di metallo, decorata da volute e disegni barocchi, scintillava. Meliadus chinò il capo di lato e indicò in basso. I suoi ospiti fecero altrettanto, a malapena compiti. Parve che le alte e pesanti maschere sareb-
bero loro cadute dalle spalle qualora avessero accentuato ancora un po' quel movimento. «Laggiù vedete il palazzo del re Huon, dove siete alloggiati», disse Meliadus, indicando la pazzesca magnificenza della residenza del suo re imperatore. Essa torreggiava sulla maggior parte degli altri edifici e rimaneva isolata, proprio al centro della città, rispetto al resto delle costruzioni. Diversamente dagli altri palazzi, non si poteva giungervi grazie a una serie di passaggi. Le quattro torri che splendevano con una luminosità dorata e intensa si levavano adesso sopra il loro capo, sebbene si trovassero a bordo dell'ornitottero, molto più in alto dei tetti delle altre case. Le serie di piani dai quali erano costituite erano fitte di bassorilievi che illustravano tutte le tenebrose attività che l'impero prediligeva. Statue gigantesche e dall'aspetto grottesco erano poste sugli angoli dei parapetti, con l'aria di voler spiccare un balzo verso i cortili lontanissimi sotto di esse. Il palazzo presentava zone dei più disparati colori, e tutti questi contrastavano fra loro a tal punto che un occhio che si volgesse da quella parte doveva subito essere ritratto, dolorante. «Il Palazzo del Tempo», disse Meliadus, indicando l'edificio decorato in maniera superba e che era anche un gigantesco orologio. «Il mio palazzo.» Si trattava di una costruzione nera, dalla facciata rivestita d'argento. «Il fiume che vedete è ovviamente il Tayme.» Il corso d'acqua era gremito di traffico. Le sue acque rosso sangue ospitavano chiatte di bronzo, imbarcazioni di ebano e teak, adorne di stemmi di metallo prezioso e di pietre semipreziose, con enormi vele bianche sulle quali erano state dipinte o cucite delle figure. «Molto più avanti, sulla vostra sinistra», disse il barone Meliadus, profondamente risentito per il suo stupido incarico, «sorge la nostra Torre Sospesa. Potete notare che sembra sospesa nel cielo, senza appoggiare sul terreno. È il risultato dell'esperimento di uno dei nostri stregoni, che riuscì a sollevare la torre di alcuni metri, ma non di più. Poi, a quanto pare, non gli fu neppure possibile riportarla sulla terra... e così è rimasta in quel modo per sempre». Mostrò loro i moli dove le grandi navi da guerra della Gran Bretagna, dai paranchi bruniti, scaricavano i beni, frutto di ruberie, il quartiere dei Senza Maschera, dove viveva la feccia della città, la cupola dell'enorme teatro, dove una volta si rappresentavano i lavori di Tozer, il Tempio del Lupo, il quartier generale del suo stesso ordine, e i diversi altri templi, tutti
con analoghe teste di animali, simboli dei vari ordini, scolpite nella pietra e poste sulla sommità del tetto. Per una intera giornata volarono sulla città, fermandosi soltanto per rifornire di carburante l'ornitottero e dare il cambio al pilota, mentre Meliadus diventava via via più impaziente. Mostrò loro tutte le meraviglie che colmavano l'antica e sgradevole città, cercando, come aveva chiesto il re imperatore, di impressionare i visitatori con la potenza dell'Impero Nero. Al calar della sera, mentre il sole macchiava la città di ombre minacciose, il barone Meliadus sospirò di sollievo, dicendo al pilota di dirigere l'ornitottero verso la superficie di atterraggio sul tetto del palazzo. Esso si posò con un gran frullo di ali metalliche, uno strepito e un clangore sonori. I due inviati scesero rigidamente, simili ad automi, entrarono dalla porta schermata del palazzo e procedettero giù per la tortuosa rampa, finché vennero infine a trovarsi di nuovo nei corridoi dalle luci mutevoli. Qui incontrarono le guardie d'onore, sei guerrieri di alto grado dell'Ordine delle Mantidi, che li scortarono nelle loro stanze, dove avrebbero mangiato e dormito. Lasciandoli sulla soglia dei loro appartamenti, il barone Meliadus si inchinò e si affrettò ad allontanarsi, con la promessa che l'indomani avrebbero discusso argomenti scientifici, paragonando i progressi dell'Asiacomunista con i conseguimenti della Gran Bretagna. Mentre si lanciava per i passaggi allucinanti, andò quasi a sbattere contro la congiunta del re imperatore, Flana, contessa di Kanbery. «Mio signore!» Egli si fermò, la lasciò passare, rimase in attesa. «Mia signora... le mie scuse», disse. «Hai una tale fretta, signore?» «In effetti è così, Flana.» «Sei anche di uno strano umore, mi sembra.» «Sono depresso.» «Vorresti essere consolato?» «Ho affari dei quali devo occuparmi...» «Gli affari devono essere condotti con la mente sgombra, mio signore.» «Forse.» «Se vuoi placare le tue passioni...» Egli fece per riprendere il proprio cammino, poi si fermò di nuovo. Aveva già sperimentato i sistemi consolanti di Flana prima di allora. Forse aveva ragione. Forse aveva bisogno di lei. D'altra parte doveva compiere i
preparativi per la sua spedizione, non appena gli inviati fossero ripartiti. In ogni caso essi si sarebbero fermati ancora per qualche giorno, come minimo. Inoltre, la notte precedente si era dimostrata insoddisfacente e il suo morale era in ribasso. Se non altro avrebbe potuto mettersi alla prova come amante. «Forse...» disse di nuovo, questa volta con aria più cogitabonda. «Allora affrettiamoci verso il mio appartamento, mio signore», disse lei con un'ombra di impazienza. Con crescente interesse, Meliadus la prese per un braccio. «Ah, Flana», mormorò. «Ah, Flana.» CAPITOLO UNDICESIMO I PENSIERI DELLA CONTESSA FLANA I motivi per i quali Flana aveva desiderato la compagnia di Meliadus erano stati diversi, dal momento che non si sentiva particolarmente attratta da lui. A lei interessavano piuttosto i due che gli erano stati affidati, i giganti dalle gambe rigide provenienti da est. Domandò notizie sul loro conto al barone, mentre giacevano affaticati nel suo enorme letto, ed egli le confidò la propria frustrazione, l'antipatia per il compito affidatogli e per gli inviati, le rivelò la sua reale ambizione, e cioè il desiderio di vendicarsi dei suoi nemici e uccisori del marito di lei, gli abitanti del Castello di Brass; le disse di aver saputo che Tozer aveva incontrato un vecchio in Occidente, nella dimenticata provincia di Yel, il quale poteva forse essere in possesso del segreto necessario per raggiungere i suoi avversari. Le sussurrò, inoltre, i timori di aver perduto il suo ascendente e il suo prestigio, sebbene sapesse che Flana era l'ultima donna alla quale avrebbe dovuto confidare tali pensieri, e che il re imperatore in quel periodo dava la sua fiducia ad altri, ad esempio a Shenegar Trott, e gli usava la confidenza che un tempo riservava soltanto a Meliadus. «Oh, Flana», disse, subito prima di piombare in un sonno agitato, «se tu fossi regina, insieme potremmo far diventare realtà i più alti destini del nostro impero». Ma Flana a malapena lo udì. Aveva quasi cancellato ogni pensiero dalla propria mente, limitandosi a giacere lì. Meliadus non era riuscito ad alleviare le sofferenze della sua anima; aveva appena attenuato il desiderio dei suoi lombi, e la mente di lei indugiava, pensando agli inviati che dormiva-
no soltanto due piani sopra le loro teste. Infine si alzò dal letto, lasciando Meliadus intento a russare e a lagnarsi nel sonno, indossò di nuovo l'abito e la maschera e scivolò dalla sua stanza nel corridoio e lungo i passaggi e su per le scale, finché non giunse alle porte custodite dai guerrieri mantidi. Le maschere a forma di insetto si volsero con aria interrogativa. «Sapete chi sono», disse Flana. Le mantidi lo sapevano e si ritrassero dalle porte. Ella ne scelse una e la spinse per aprirla, entrando nell'eccitante tenebra dell'appartamento degli inviati. CAPITOLO DODICESIMO UNA RIVELAZIONE Soltanto il chiarore lunare illuminava la stanza, facendo scorgere il letto ove una figura si mosse, consentendole di distinguere le ornamentazioni, l'armatura e le maschere delle quali si era sbarazzato l'uomo che vi giaceva. Ella si avvicinò. «Mio signore?» sussurrò. Di colpo la figura balzò su dal letto ed ella vide il volto spaventato, le mani che si affrettarono a coprirlo, ed ebbe un ansito nel rendersi conto di chi aveva davanti. «Io ti conosco!» «Chi sei?» Egli balzò fuori dalle lenzuola di seta, nudo nella luce della luna, e corse avanti per afferrare l'intruso. «Una donna!» «Già...» fece lei in tono carezzevole. «E tu Sei un uomo.» Rise dolcemente. «Non sei affatto un gigante, sebbene tu sia piuttosto alto. La maschera e l'armatura ti fanno apparire più grande di una trentina di centimetri.» «Che cosa vuoi?» «Avevo l'intenzione di intrattenerti, signore, e di essere intrattenuta. Ma sono delusa, perché credevo che tu fossi qualche creatura sovrumana. Adesso so che sei l'uomo che ho visto nella sala del trono due anni fa, l'uomo che Meliadus ha portato alla presenza del re imperatore.» «E così tu ti trovavi là, quel giorno.» La sua stretta si fece più salda e l'altra mano si protese verso l'alto per dare uno strattone alla maschera e coprirle la bocca. Lei gli mordicchiò le dita e gli accarezzò i muscoli
dell'altro braccio. La mano sulla bocca lasciò la presa. «Chi sei?» sussurrò l'uomo. «Lo sa qualcun altro?» «Sono Flana Mikosevaar, contessa di Kanbery. Nessuno ti sospetta, audace tedesco. E non chiamerò le guardie, se è questo quello che temi, perché la politica non mi interessa e non ho alcuna simpatia per Meliadus. In effetti ti sono grata, dal momento che mi hai liberata da un marito importuno.» «Sei la vedova di Mikosevaar?» «Sì, sono io. E ti ho riconosciuto immediatamente dalla gemma nera sulla fronte che hai cercato di nascondere quando sono entrata. Sei il duca Dorian Hawkmoon von Köln, giunto qui in incognito, senza dubbio per venire a conoscenza dei segreti dei tuoi nemici.» «Credo che dovrei ucciderti, signora.» «Non ho intenzione di tradirti, duca Dorian. Almeno, non subito. Sono venuta a offrirti me stessa per il tuo piacere, questo è tutto. Mi hai tolto la maschera.» Rivolse verso l'alto lo sguardo dei suoi occhi gialli, per osservare il bel viso di lui. «Ora puoi liberarmi anche del resto del mio abbigliamento...» «Signora», disse lui con voce rauca, «non posso. Sono sposato». La donna rise. «Come lo sono io. Sono stata sposata innumerevoli volte.» Aveva la fronte madida di sudore mentre ricambiava il suo sguardo, e i suoi muscoli erano tesi quando disse: «Signora... io... non posso...» Si udì un rumore ed entrambi si voltarono. La porta che separava gli appartamenti si era aperta e sulla soglia si trovava un uomo magro e di bell'aspetto, che tossicchiò con intenzione e si inchinò. Anche lui era completamente nudo. «Il mio amico, signora», disse Huillam D'Averc, «è uomo dai rigidi principi morali. Comunque, se posso essere d'aiuto...» Ella si fece avanti verso di lui, guardandolo dalla testa ai piedi. «Sembri un individuo sano», disse. Egli volse altrove lo sguardo. «Ah, signora, è gentile da parte tua dire così. Ma non lo sono, non godo buona salute. D'altra parte», tese la mano e l'afferrò per una spalla, guidandola verso la propria camera, «farò quel poco che posso per darti piacere prima che questo mio cuore indebolito finisca per avere la meglio su di me...» La porta si chiuse, lasciando Hawkmoon scosso da un tremito. Sedette sul bordo del letto, maledicendo se stesso per non aver dormito
con indosso il suo ingombrante mascheramento, ma le fatiche di quella giornata avevano fatto sì che si sentisse indotto ad abbandonare le precauzioni di quel genere. Quando il Guerriero in Giaietto e Oro aveva esposto loro il suo piano, esso non era apparso necessariamente pericoloso. La cosa sembrava abbastanza logica: dovevano scoprire se il vecchio di Yel era già stato trovato, prima di recarsi a cercarlo nella Gran Bretagna occidentale. Ma ormai, a quanto pareva, la possibilità di procurarsi una tale informazione era stata distrutta. Le guardie dovevano aver visto entrare la contessa. Anche se l'avessero imprigionata o uccisa, i soldati avrebbero sospettato qualcosa. Si trovavano in una città che era, come un sol uomo, tesa alla loro distruzione. Non avevano alleati e non esisteva possibilità di fuga una volta che la loro identità fosse diventata nota. Hawkmoon si spremette il cervello per trovare un piano che li avrebbe, come minimo, messi in grado di abbandonare la città prima che venisse messa in allarme, ma tutto sembrava impossibile. Hawkmoon incominciò a mettersi indosso i pesanti abiti e l'armatura. L'unica arma di cui poteva disporre era il bastone d'oro, che il guerriero gli aveva procurato per completare il suo travestimento da nobile dignitario dell'Asiacomunista. Lo soppesò, augurandosi di poter avere una spada. Passeggiando nella stanza, non smise per un momento di pensare a un realizzabile piano di fuga, ma non pervenne a nulla. Stava ancora andando avanti e indietro quando giunse il mattino e Huillam D'Averc si affacciò alla porta e ridacchiò. «Buongiorno, Hawkmoon. Non sei riuscito a dormire, amico? Ti compiango. Nemmeno io. La contessa è una creatura insaziabile. Comunque sono lieto di trovarti già pronto per partire, perché dobbiamo affrettarci.» «Che cosa intendi, D'Averc? Ho cercato per tutta la notte di mettere insieme un piano, ma non sono giunto ad alcuna conclusione...» «Ho interrogato Flana di Kanbery ed ella mi ha detto tutto ciò che ci occorre sapere, perché Meliadus, a quanto pare, le ha confidato molte cose. La contessa è d'accordo per aiutarci a fuggire, inoltre.» «Come?» «Con il suo ornitottero privato. È lì, pronto e a nostra disposizione.» «Ti puoi fidare di lei?» «Dobbiamo. Sta' a sentire... Meliadus non ha ancora trovato il tempo di andare alla ricerca di Mygan di Llandar. Per nostra fortuna è stato il nostro arrivo a trattenerlo qui. Ma sa della sua esistenza. Sa, come minimo, che
Tozer ha appreso il suo segreto da un vecchio dell'ovest, e ha tutte le intenzioni di rintracciarlo. Abbiamo la possibilità di trovare Mygan per primi. Possiamo fare una parte del viaggio con l'ornitottero di Flana, che io piloterò, e poi continuare il viaggio a piedi.» «Ma siamo disarmati... e senza indumenti adatti al viaggio!» «Armi e indumenti li posso ottenere da Flana, e anche maschere. Ha un migliaio di trofei delle passate conquiste nelle sue stanze.» «Dobbiamo andare in camera sua, adesso!» «No. Dobbiamo aspettare che torni qui.» «Perché?» «Perché, amico mio, Meliadus potrebbe ancora trovarsi immerso nel sonno nei suoi appartamenti. Abbi pazienza. Abbiamo avuto un colpo di fortuna. Prega che continui!» Non molto tempo dopo Flana tornò, si tolse la maschera e baciò D'Averc quasi esitante, come può baciare il suo amante una giovinetta. I suoi lineamenti sembravano più dolci e gli occhi meno spiritati, come se avesse scoperto qualche qualità da lei mai prima sperimentata nel modo di fare all'amore di D'Averc... forse la dolcezza, una dote sconosciuta agli uomini della Gran Bretagna. «Se n'è andato», disse, «e io ho una mezza idea di tenerti qui con me, Huillam. Per molti anni ho albergato entro di me un bisogno che non ho mai espresso, né mai soddisfatto. Tu sei arrivato molto vicino ad appagarlo...» Egli si chinò e la baciò lievemente sulle labbra, mentre la sua voce aveva un tono di sincerità quando disse: «Anche tu, Flana, mi hai dato qualcosa...» Si raddrizzò rigidamente, poiché aveva indossato i suoi abiti pesanti e artefatti, e si mise in capo l'alta maschera. «Andiamo, dobbiamo affrettarci, prima che il palazzo si desti.» Hawkmoon seguì l'esempio di D'Averc, indossando il proprio copricapo, e di nuovo i due ripresero le strane, e soltanto in parte umane, forme degli inviati dell'Asiacomunista. Poi Flana li accompagnò fuori dell'appartamento, passando davanti alle guardie dall'aspetto di mantidi che si allinearono dietro di loro, seguendoli lungo i tortuosi e scintillanti corridoi, fino a raggiungere gli appartamenti della contessa. Alle guardie venne ordinato di restare fuori. «Riferiranno che ci hanno scortato fin qui», disse D'Averc. «Ti sospetteranno, Flana!» Ella si sfilò la maschera da airone e sorrise. «No», disse, e attraversò il
folto tappeto verso un lucido scrigno incastonato di diamanti. Ne sollevò il coperchio e ne trasse un lungo tubo al termine del quale si trovava un soffice rigonfiamento. «Questo bulbo contiene un veleno vaporizzato», disse. «Una volta inalato, il veleno fa impazzire la vittima, che si scatena e corre selvaggiamente prima di morire. Le guardie si precipiteranno lungo diversi corridoi, battendosi, prima di cadere morte. Me ne sono servita altre volte prima d'ora. Ha sempre funzionato.» Parlò di uccidere con tanta amabilità che Hawkmoon fu costretto a rabbrividire. «La sola cosa che dovrò fare, vedete», continuò lei, «consisterà nell'infilare la bacchetta forata nel buco della serratura e nel premere il bulbo». Sistemò l'apparecchio sul coperchio dello scrigno e li accompagnò attraverso numerose, splendide stanze eccentricamente arredate, finché non giunsero a una camera con una finestra enorme che si affacciava su una terrazza di grandi dimensioni. Sulla terrazza, con le ali accuratamente ripiegate e dall'aspetto simile a quello di uno splendido airone, argenteo e scarlatto, si trovava l'ornitottero di Flana. Ella si precipitò in un'altra parte della stanza e spalancò una tenda. Ammucchiato là si trovava il suo bottino... abiti, maschere e armi di tutti i suoi antichi amanti e mariti. «Prendete quello che vi serve», mormorò, «e fate in fretta». Hawkmoon scelse una giubba di velluto blu, una calzamaglia di pelle nera di daino, una cintola per reggere la spada di pelle lavorata che reggeva una lama magnifica e ben equilibrata, e un pugnale. Come maschera scelse una di quelle del suo nemico trucidato, Asrovaak Mikosevaar, una maschera dall'aspetto di avvoltoio e dall'aria minacciosa. D'Averc indossò un abito color giallo scuro con un mantello di uno stupendo blu, stivali di pelle di cervo e una spada simile a quella di Hawkmoon. Anche lui scelse una maschera da avvoltoio, riflettendo sul fatto che sarebbe stato verosimile vedere due dello stesso ordine viaggiare insieme. Adesso sembravano entrambi appartenenti all'alta nobiltà della Gran Bretagna. Flana aprì la portafinestra e uscirono tutti nel gelido e nebbioso mattino. «Addio», sussurrò Flana. «Devo tornare dalle guardie. Addio, Huillam D'Averc. Spero che ci incontreremo ancora.» «Lo spero anch'io, Flana», rispose D'Averc con insolita gentilezza nella voce. «Addio.» Balzò nella carlinga dell'ornitottero e avviò il motore. Hawkmoon si af-
frettò a salire dietro di lui. Le ali dell'apparecchio incominciarono a battere l'aria e, con uno strepito metallico, esso si levò nel tetro cielo di Londra, dirigendosi a ovest. CAPITOLO TREDICESIMO IL CORRUCCIO DEL RE HUON Molti sentimenti lottavano nell'animo del barone Meliadus, quando egli entrò nella Sala del Trono del re imperatore, si prostrò e incominciò il tragitto lungo e faticoso verso il trono a forma di globo. Il liquido bianco del globo si agitava con un po' più di energia del solito, e questo mise in allarme il barone. Si sentiva a un tempo infuriato per la scomparsa degli inviati, nervoso a causa della collera del monarca, ansioso di proseguire nella sua ricerca del vecchio che gli avrebbe fornito il mezzo per raggiungere il Castello di Brass. Temeva inoltre di aver perduto i suoi poteri e il suo onore e di essere messo al bando nel quartiere dei Senza Maschera. Le sue dita nervose sfiorarono la maschera a forma di lupo che indossava e incespicò, mentre si avvicinava al globo e guardava ansiosamente la forma del suo re, simile a un feto. «Grande Re Imperatore, sono il tuo servo Meliadus.» Cadde in ginocchio e si chinò fino a terra. «Servo? Non ci hai servito molto bene, Meliadus!» «Mi dispiace, Nobile Maestà, ma...» «Ma?» «Ma non potevo sapere che avessero progettato di andarsene questa notte, facendo ritorno alla loro patria con gli stessi mezzi con i quali sono giunti qui...» «Direi che doveva essere compito tuo intuire i loro piani, Meliadus.» «Intuire? Intuire i loro piani, Potente Monarca?» «Le tue capacità istintive ti stanno venendo a mancare, Meliadus. Una volta non si sbagliavano, e tu ti comportavi in accordo con esse. Ora i tuoi stupidi propositi di vendetta occupano completamente i tuoi pensieri, rendendoli ciechi a qualsiasi altra cosa e facendo sì che anche tu lo sia. Meliadus, quegli inviati hanno sterminato sei delle mie guardie migliori. Come le abbiano uccise non lo so, forse con un incantesimo mentale di qualche genere; ma, dopò averle uccise, in qualche modo sono riusciti a lasciare il palazzo e a tornare a quella strana macchina che li ha portati fin qui. Hanno scoperto molte cose sul nostro conto... e noi, Meliadus, non abbiamo
praticamente saputo nulla sul loro.» «Sappiamo qualcosa delle loro apparecchiature militari...» «Davvero? Gli uomini mentono, Meliadus, lo sai. Gli uomini mentono. Sono scontento di te. Ti incarico di condurre a termine un compito e tu lo esegui soltanto in parte e senza dedicarvi tutta la tua attenzione. Trascorri il tuo tempo al palazzo di Taragorm e lasci gli inviati liberi di mettere in pratica i loro artifici, mentre avresti dovuto intrattenerli. Sei uno stupido, Meliadus. Uno stupido!» «Sire, io...» «Si tratta della tua insensata ossessione verso quel pugno di banditi che vivono al Castello di Brass. È la ragazza che desideri? Per questo li stai cercando in maniera tanto scoperta?» «Temo che minaccino l'impero, Nobile Sire...» «Così come lo minaccia l'Asiacomunista, barone Meliadus... con spade reali ed eserciti reali e navi reali che possono viaggiare sottoterra. Barone, devi dimenticare la tua vendetta contro il Castello di Brass, altrimenti, ti avverto, farai meglio a non fidarti del nostro scontento.» «Ma, Sire...» «Ti ho avvertito, barone Meliadus. Togliti dalla mente il Castello di Brass. Cerca invece di sapere tutto quello che puoi sugli inviati, scopri dove sono andati per risalire sulla loro macchina, come hanno fatto per lasciare la città. Fa' in modo di riabilitarti ai nostri occhi, barone Meliadus, di riacquistare alla tua persona il vecchio prestigio...» «Già, Sire», disse il barone Meliadus a denti stretti, mantenendo sotto controllo la propria rabbia e la delusione. «L'udienza è terminata, Meliadus.» «Grazie, Sire», disse Meliadus, sentendosi la testa in fiamme. Si allontanò, indietreggiando, dal globo del trono. Girò sui talloni e incominciò a percorrere a grandi passi la lunga sala. Raggiunse la porta coperta di gemme, passò oltre le guardie e proseguì lungo i corridoi, risplendenti di mutevoli luci. Continuò a procedere, a passo veloce e con movimenti rigidi, con la mano dalle nocche sbiancate sull'elsa della spada, in una spasmodica stretta. Procedette, finché non ebbe raggiunto la grande sala dei ricevimenti del palazzo, dove i nobili aspettavano con impazienza di essere ricevuti in udienza dal re imperatore, discese le scale che conducevano alle porte, attraverso le quali si poteva raggiungere il mondo esterno. Fece cenno alle schiave di avvicinarsi con la lettiga, vi si arrampicò e si abbandonò pesan-
temente sui cuscini, lasciando che lo trasportassero di nuovo nel suo palazzo nero e argento. Ormai odiava il re imperatore. Detestava la creatura che lo aveva umiliato in tal modo, che lo ostacolava fino a quel punto, che lo aveva insultato così crudelmente. Il re Huon era un pazzo, se non si rendeva conto del potenziale pericolo rappresentato dal Castello di Brass. Un tale demente non era degno di regnare, né di comandare schiavi, e tanto meno di impartire ordini al barone Meliadus, gran conestabile dell'Ordine del Lupo. Meliadus non avrebbe dato retta alle stupide disposizioni del re Huon, non avrebbe fatto quello che lui pensava fosse la miglior cosa da farsi; e se il re imperatore avesse mosso qualche obiezione, allora lo avrebbe sfidato. Poco dopo Meliadus lasciò il proprio palazzo a cavallo. Cavalcava alla testa di venti uomini. Venti uomini armati di picche, che, poteva star certo, lo avrebbero seguito ovunque. Anche a Yel. CAPITOLO QUATTORDICESIMO I DESERTI DI YEL L'ornitottero della contessa Flana si abbassò sempre più sul terreno, sfiorando con il ventre le cime degli alti pini, mentre le ali evitavano di stretta misura di restare impigliate nei rami delle betulle; infine atterrò sull'ispida erica oltre la foresta. La giornata era fredda e un vento tagliente sibilava sulla brughiera, penetrando tra i loro abiti leggeri. Rabbrividendo discesero dalla macchina volante e si guardarono attorno con cautela. Non si vedeva nessuno. D'Averc frugò entro il giustacuore e ne trasse un lembo di pelle sottile, sulla quale era stata scarabocchiata una mappa. Indicò qualcosa. «Siamo diretti da questa parte. Adesso dobbiamo portare l'ornitottero nel bosco e nasconderlo.» «Perché non possiamo lasciarlo dov'è? Le possibilità che qualcuno lo trovi prima di uno o due giorni sono molto scarse», disse Hawkmoon. Ma D'Averc si mostrò serio, quando gli fece osservare: «Non voglio che accada nulla di male alla contessa Flana, Hawkmoon. Se la macchina venisse trovata, potrebbe essere una cosa grave per lei. Andiamo». Trascinarono e spinsero pertanto l'apparecchio di metallo finché non venne a trovarsi nella pineta e lo coprirono con un alto strato di frasche. Li aveva portati fin dove gli era stato possibile con la sua riserva di carburan-
te. Sapevano che non sarebbe stato in grado di farli giungere fino a Yel. Da quel momento avrebbero dovuto proseguire a piedi. Per quattro giorni procedettero attraverso foreste e brughiere, mentre il terreno diventava sempre meno fertile con l'avvicinarsi del confine di Yel. Poi un giorno Hawkmoon si fermò e indicò qualcosa. «Guarda, D'Averc, le montagne di Yel.» Erano proprio quelle, con i picchi violetti nascosti dalle nuvole, al di là della pianura e delle colline in basso, tutti di rocce gialle. Il paesaggio si stendeva davanti ai due uomini con la sua selvaggia bellezza, uno scenario quale Hawkmoon non aveva mai visto prima di quel momento. Ebbe un ansito. «E così ci sono anche in Gran Bretagna spettacoli non del tutto sgradevoli per l'occhio, D'Averc.» «Già, ha una sua bellezza», convenne l'altro. «Ma è anche impressionante. Dobbiamo trovare Mygan in qualche posto, laggiù. A giudicare dalla carta, Llandar si trova molti chilometri all'interno di quelle montagne.» «Allora affrettiamoci», fece Hawkmoon, sistemandosi la cintura che reggeva la spada. «Affrettiamoci. Abbiamo un modesto vantaggio rispetto a Meliadus; non è improbabile che adesso anch'egli sia in cammino verso Yel alla disperata ricerca di Mygan.» D'Averc sollevò una gamba e si strofinò pensieroso il piede. «È vero, ma temo che queste scarpe non resisteranno ancora a lungo. Le ho prese perché mi piacevano, perché erano graziose, non perché mi sembrassero robuste. Ma mi sto accorgendo di aver commesso un errore.» Hawkmoon gli batté la mano sulla spalla. «Ho sentito dire che ci sono cavalli selvaggi da queste parti. Prega che ne incontriamo un paio e che riusciamo a domarli.» Ma non incontrarono alcun cavallo selvaggio e il terreno giallo era duro e roccioso, mentre il cielo sopra di esso divenne sfolgorante di una livida luminosità. Hawkmoon e D'Averc incominciarono a rendersi conto del perché la gente di Gran Bretagna si mostrava tanto superstiziosa a proposito di quella regione: sembrava avere qualcosa di soprannaturale, sia per il terreno sia per il cielo. Si addentrarono infine fra le montagne. Viste da vicino, avevano anch'esse un colore giallastro, striato però di rosso scuro e di verde; erano lugubri e vitree. Animali dall'aspetto strano schizzavano via davanti a loro sul sentiero, mentre i due uomini si arrampicavano sulle rocce frastagliate e strane creature simili a esseri umani, dal
corpo peloso sul quale faceva spicco una testa completamente priva di capelli, alte meno di trenta centimetri, li guardavano tenendosi al riparo. «Quegli esseri una volta erano uomini», disse D'Averc. «I loro antenati vivevano in questa zona. Ma il Millennio Tragico ha combinato loro questo scherzo.» «Come fai a saperlo?» gli domandò Hawkmoon. «L'ho letto nei miei libri. Le terribili conseguenze del Millennio Tragico si sono fatte sentire qui peggio che in qualsiasi altro luogo della Gran Bretagna. Per questo è una zona tanto desolata; gli uomini non sono più voluti restare a viverci.» «Tranne Tozer... e il vecchio Mygan di Llandar.» «Già! Se Tozer ha detto la verità! Potremmo gin-che rincorrere soltanto delle ombre, Hawkmoon.» «Ma anche Meliadus segue la stessa pista.» «Può darsi che Tozer sia soltanto un inveterato bugiardo!» Stava per scendere la notte, quando le creature della montagna sgattaiolarono fuori delle loro caverne molto più in alto e aggredirono Hawkmoon e D'Averc. Erano coperte da una pelliccia unta, con becchi da uccello e unghie da gatto, enormi occhi lampeggianti; quando aprivano il becco rivelavano una fila di denti ed emettevano un orribile suono sibilante. C'erano tre femmine e forse sei maschi, a quanto poterono appurare nella semioscurità. Hawkmoon estrasse la spada, sistemò la maschera da avvoltoio come avrebbe potuto aggiustarsi sul capo un elmo normale e si addossò contro una parete rocciosa. D'Averc prese posizione accanto a lui e in quel momento le bestie furono loro addosso. Hawkmoon colpì per primo, provocando una lunga e sanguinante scalfittura sul petto dell'animale. Esso indietreggiò con uno strido. Un secondo venne centrato da D'Averc, che gli trapassò il cuore. Hawkmoon tagliò nettamente la gola di un terzo, ma le unghie del quarto gli si conficcarono nel braccio sinistro. Egli lottò, sottoponendo i muscoli a uno sforzo, mentre tentava di rivolgere verso l'alto il pugnale che stringeva in pugno per trafiggere il polso della creatura, mentre nel frattempo ne sgozzava un altro che l'aveva assalito dall'altra parte. Hawkmoon tossì e si sentì in preda alla nausea, per la puzza orribile di quegli esseri. Alla fine fece ruotare il braccio e conficcò la punta del pugnale nell'avambraccio dell'aggressore. Quello emise un grugnito e mollò
la presa. All'istante Hawkmoon spostò la lama del pugnale, cacciandola in profondità entro un occhio che lo fissava e lasciandovela, mentre si voltava per occuparsi delle altre creature. Era ormai scesa la notte e riusciva difficile discernere quante bestie fossero ancora rimaste. D'Averc si stava occupando delle proprie, urlando insulti osceni contro quegli esseri mentre muoveva rapidamente la spada qua e là. Hawkmoon scivolò sul sangue e barcollò, andando a sbattere con le reni contro uno spuntone di roccia. Con un sibilo un'altra bestia gli venne addosso, afferrandolo con una presa da orso e inchiodandogli entrambe le braccia contro i fianchi. Poi fece scattare il becco verso la faccia e riuscì a chiuderlo con violenza sulla visiera della maschera da avvoltoio. Hawkmoon faticò per liberarsi della presa, si strappò dalla testa la maschera, lasciandola nel becco della creatura, con uno strattone costrinse la bestia a spalancare le zampe e la colpì violentemente al petto. Essa barcollò all'indietro presa alla sprovvista, senza rendersi conto che la maschera da avvoltoio non era una parte del corpo di Hawkmoon. Questi affondò subito la spada nel cuore di quella creatura e si voltò per andare in aiuto di D'Averc, che si stava difendendo da due di quelle creature. Hawkmoon staccò • completamente la testa dalle spalle di una di esse e si accingeva ad attaccare l'altra quando quest'ultima abbandonò D'Averc e, urlando, si allontanò di corsa nella notte, portando con sé un lembo del suo giustacuore. Avevano avuto ragione di tutti i loro disgustosi aggressori a eccezione di uno. D'Averc ansimava, lievemente ferito al petto, dove gli artigli avevano lacerato il giustacuore. Hawkmoon strappò un lembo del proprio mantello e tamponò la ferita. «Non ci hanno fatto grandi danni», disse D'Averc. Si liberò il capo della maschera da avvoltoio ormai malandata e la gettò via. «Queste sarebbero potute esserci utili, ma non porterò più la mia, dal momento che tu ne sei privo. Quella gemma sulla fronte ti rende inconfondibile, perciò non c'è motivo che io continui a mascherarmi!» Ridacchiò. «Te lo avevo detto che il Millennio Tragico aveva dato origine a talune orribili creature, Hawkmoon, amico mio.» «Ho visto», sorrise Hawkmoon. «Andiamo, faremo meglio a trovarci un
posto per accamparci questa notte. Tozer ha segnato su questa carta un punto sicuro dove potersi riposare. Tirala fuori, così potremo consultarla alla luce delle stelle.» D'Averc frugò nel giustacuore, poi la bocca gli si spalancò in una espressione inorridita. «Oh, Hawkmoon! Siamo proprio sfortunati!» «Perché, amico mio?» «Il lembo del mio giustacuore che la creatura si è portata via comprendeva la tasca in cui avevo riposto la carta fornitaci da Tozer. Siamo perduti, Hawkmoon!» Hawkmoon imprecò, rimise la spada nel fodero e si accigliò. «Non c'è altro da fare», disse, «dobbiamo inseguire la bestia. Era lievemente ferita e potrebbe aver lasciato una traccia di sangue. Forse ha lasciato cadere la mappa nella sua corsa verso la tana. Ci risparmierebbe di doverla inseguire fino alla sua tana e di dover nuovamente combattere per rientrare in possesso della mappa!» D'Averc si accigliò. «Ne vale la pena? Non possiamo ricordarci dove siamo diretti?» «Non con sufficiente precisione. Andiamo, D'Averc.» Hawkmoon incominciò ad arrampicarsi sulle rocce taglienti, nella direzione in cui era sparita la bestia, e D'Averc lo seguì con riluttanza. Per fortuna il cielo era sgombro e la luna splendeva vivida, e Hawkmoon riuscì infine a scorgere sulle rocce qualche macchia luccicante che poteva essere sangue. Un po' più avanti vide un maggior numero di chiazze. «Da questa parte, D'Averc», gridò. Il suo amico sospirò, fece una spallucciata e lo seguì. La ricerca continuò fino all'alba, quando Hawkmoon perse le tracce e scosse il capo. Si trovavano in alto, su per il pendio della montagna, con un'ottima vista delle due vallate che si stendevano sotto di loro. Si passò la mano fra i capelli biondi e sospirò. «Non si vede traccia di quelle creature. Eppure sono sicuro...» «E adesso siamo ancora più fuori strada», disse D'Averc in tono assente, strofinandosi gli occhi affaticati. «Non abbiamo carte, e, oltre tutto, nel nostro nuovo cammino non ne avremmo bisogno.» «Mi dispiace, D'Averc. Pensavo che fosse il piano migliore.» Le spalle di Hawkmoon si incurvarono. Poi a un tratto la sua espressione si animò ed egli indicò qualcosa. «Laggiù! Ho visto un movimento. Andiamo.» E scattò di corsa, sparendo alla vista di D'Averc dietro una sporgenza rocciosa.
D'Averc udì un grido di sorpresa, poi un improvviso silenzio. Il francese sguainò la spada e seguì il suo amico, domandandosi a che cosa egli si fosse trovato di fronte. Poi scorse la ragione dello stupore di Hawkmoon. Là, molto più in basso, nella valle, si stendeva una città tutta di metallo, con superfici brillanti rosse, dorate, arancioni, blu e verdi, con tortuose strade metalliche ed esili torri di metallo. Non era difficile rendersi conto, anche da dove si trovavano loro, che quella città era deserta e cadeva a pezzi, con mura arrugginite e decorazioni cadenti. Hawkmoon rimase a guardare. Indicò qualcosa. C'era il loro antagonista della notte prima che scivolava lungo il fianco roccioso verso la città. «Quello deve essere il luogo dove abitano», disse Hawkmoon. «Non mi piace l'idea di seguirlo laggiù», mormorò D'Averc. «L'aria potrebbe essere avvelenata... quel genere di veleno che fa raggrinzire la pelle sulla faccia, che provoca vomito e morte.» «L'aria avvelenata non esiste più, D'Averc, e tu lo sai. Rimane soltanto per breve tempo e poi si dissolve. Senza dubbio qui non c'è più aria avvelenata ormai da secoli.» Incominciò a discendere il pendio della montagna, inseguendo l'avversario che ancora stringeva tra gli artigli il lembo di giustacuore contenente la mappa di Tozer. «E va bene», borbottò D'Averc. «Andiamo a cercare la morte insieme!» E una volta di più riprese a seguire le orme del suo amico. «Sei un gentiluomo impetuoso e impaziente, duca von Köln!» Mentre le pietre non fissate rotolavano verso il basso, inducendo la creatura che essi inseguivano a correre a tutta velocità verso la città, Hawkmoon e D'Averc facevano del loro meglio per tenerle dietro, poiché non erano avvezzi ai terreni montuosi e le scarpe di D'Averc erano quasi in pezzi. Videro l'animale mettersi al riparo entro la città di metallo e scomparire. Poco dopo anch'essi raggiunsero la città e guardarono con qualche trepidazione le alte strutture metalliche che svettavano indistinte verso il cielo, creando minacciose ombre sotto di sé. Hawkmoon notò numerose macchie di sangue e penetrò, aprendosi la strada fra puntoni e piloni, nella città, scrutando a fatica nella luce incerta. E a un tratto vi fu un suono metallico, un sibilo, uno strano tipo di sommesso brontolio... La creatura gli fu sopra, con gli artigli alla gola che scavavano in profondità, sempre più in profondità. Sentì uno di essi penetrare nella carne, poi un altro. Portò immediatamente le mani in alto e afferrò le dita munite
di artigli per strapparsele di dosso, e sentì il becco scattare vicino alla propria nuca. Poi ci fu uno strido selvaggio, un urlo, e gli artigli abbandonarono la presa. Hawkmoon barcollò, girando su se stesso, e vide D'Averc, ancora con la spada in pugno, che guardava la carogna della bestia stesa a terra. «Questa creatura disgustosa non ha cervello», disse D'Averc allegramente. «Chi potrebbe essere così pazzo da aggredire te e da lasciare me libero di trucidarlo alle spalle?» Tese un braccio e con delicatezza infilzò con la spada il lembo di stoffa mancante che era caduto dagli artigli dell'essere privo di vita. «Ecco qui la nostra mappa, e intatta come prima!» Hawkmoon si ripulì la gola dal sangue. Gli artigli non erano penetrati troppo in profondità. «Povera bestia», disse. «Non ti intenerire, adesso, Hawkmoon! Lo sai come mi mette in apprensione sentirti parlare in questo modo. Ricordati che queste creature ci hanno aggredito.» «Mi domando perché. Non deve esserci carenza delle loro prede naturali fra queste montagne. Ci sono tutti i generi di animali che possono essere divorati. Perché volevano banchettare con i nostri corpi?» «O eravamo il rifornimento di carne più a portata di mano», suggerì D'Averc, guardandosi attorno sui tralicci metallici che li circondavano, «oppure avevano già assaggiato la carne umana». D'Averc rimise la spada nel fodero con un ampio gesto e incominciò ad avanzare in mezzo alla foresta di puntoni metallici che sostenevano le torri e le strade della città sopra di loro. Dovunque si scorgevano in terra rifiuti, insieme a pezzi di carogne di animali, di interiora in putrefazione e irriconoscibili. «Diamo un'occhiata a questa città, già che ci siamo», disse D'Averc, arrampicandosi su una trave maestra. «Potremmo fermarci qui per dormire.» Hawkmoon consultò la mappa. «È segnata qui sopra», disse. «Halapandur, si chiama. Non è troppo lontana dal luogo dove il nostro misterioso filosofo ha la sua caverna.» «Quant'è lontana?» «Circa una giornata di marcia su queste montagne.» «Allora fermiamoci qui a riposare e domani accelereremo i tempi», suggerì D'Averc. Hawkmoon si accigliò per un momento. Poi si strinse nelle spalle. «Benissimo.» Anche lui si arrampicò su per le travature, finché raggiunsero
una delle strane strade tortuose e metalliche. «Potremmo andare su quella torre laggiù», suggerì D'Averc. Incominciarono a procedere, lungo il dolce pendio in salita, verso una torre che risplendeva, colorata di turchese e di un rosso acceso, nella luce del sole. CAPITOLO QUINDICESIMO LA CAVERNA ABBANDONATA Alla base della torre c'era una minuscola porta, che era stata incurvata verso l'interno come dal pugno di un gigante. Insinuandosi nell'apertura, Hawkmoon e D'Averc cercarono di scrutare nella penombra per vedere cosa contenesse la torre. «C'è una scala», disse Hawkmoon, «o qualcosa di molto simile a una scala». Avanzarono barcollando sopra le macerie e scoprirono che si trattava di una rampa, simile a quelle che univano un edificio all'altro nella città stessa. «Da quanto ho letto, questo posto è stato edificato soltanto poco prima del Millennio Tragico», disse D'Averc a Hawkmoon mentre continuavano a salire lungo la rampa. «Era una città interamente affidata agli scienziati. Città della Ricerca, credo che si chiamasse. Scienziati di ogni genere venivano qui da ogni parte del mondo. L'idea era quella di fare nuove scoperte grazie a una reciproca collaborazione. Se la memoria non mi tradisce, la leggenda dice che molte invenzioni strane sono state create qui, sebbene la maggior parte di questi segreti sia ormai andata completamente perduta.» Salirono fino a giungere a una vasta piattaforma, completamente circondata da finestre a vetri. La maggior parte delle finestre era sfondata o completamente distrutta, ma da quella piattaforma era possibile scorgere il resto della città. «Quasi sicuramente veniva usata per sorvegliare quello che succedeva in Halapandur», osservò Hawkmoon. Si guardò attorno. Ovunque si scorgevano i resti di strumenti, le cui funzioni egli non seppe individuare. Esaminarono le forme di oggetti preistorici, tutti entro contenitori piatti e squadrati, incisi con austeri caratteri, completamente diversi dalle barocche decorazioni e dai numeri e dalle lettere correntemente in uso nei tempi moderni. «Una specie di sala di controllo.» D'Averc sporse le labbra e indicò qualcosa: «Si può capirne l'uso...
Guarda, Hawkmoon!» In un punto a una certa distanza, sul lato opposto della città rispetto a quello dal quale erano entrati loro, si scorgeva una fila di uomini a cavallo con gli elmi e le armature delle truppe dell'Impero Nero. «Suppongo che sia Meliadus a guidarli», fece Hawkmoon, sfiorando l'elsa della spada. «Non può sapere esattamente dove si trovi Mygan, ma potrebbe aver scoperto che Tozer ha vissuto in questa città, a un certo momento, e si sarà fatto accompagnare da guide che scopriranno presto la caverna di Mygan. Non possiamo consentirci di riposare qui, D'Averc. Dobbiamo ripartire subito.» D'Averc annuì. «Un vero peccato.» Si fermò per raccogliere un minuscolo oggetto che aveva scorto sul pavimento, riponendolo nel suo lacero giustacuore. «Credo di riconoscere questa roba.» «Che cos'è?» «Potrebbe essere una delle cariche di cui si servivano per le vecchie armi che adoperavano a quei tempi», disse D'Averc. «Se così fosse, potrebbe esserci utile.» «Ma non hai nessuna antica arma!» «Non è sempre necessario averne una!» ribatté D'Averc con aria misteriosa. Si precipitarono giù per la rampa verso l'ingresso della torre. Correndo il rischio di essere scorti dai guerrieri dell'Impero Nero, si lanciarono con impeto, quanto più velocemente poterono, lungo le ampie rampe esterne; poi si lasciarono scivolare di nuovo lungo le travi e al riparo. «Non credo che ci abbiano visti», osservò D'Averc. «Andiamo, dobbiamo dirigerci da questa parte per trovare il covo di Mygan.» Incominciarono a correre su per il fianco della montagna, scivolando e incespicando nella loro ansia di raggiungere il vecchio stregone prima di Meliadus. Scese la notte, ma continuarono a procedere. Erano spaventosamente affamati, perché non avevano in pratica toccato cibo da quando erano partiti, e incominciavano a sentirsi deboli. Ma non cedettero e subito prima dell'alba giunsero alla valle segnata sulla mappa. La valle dove si diceva che vivesse lo stregone Mygan. Hawkmoon accennò un sorriso. «Quei cavalieri dell'Impero Nero si saranno sicuramente accampati per la notte. Avremo tutto il tempo di trovare Mygan, di farci dare i suoi cristalli e di allontanarci ancora prima del loro arrivo!»
«Speriamo», disse D'Averc, pensando entro di sé che Hawkmoon aveva bisogno di riposo, perché i suoi occhi sembravano febbricitanti. Ma lo seguì giù lungo la valle e consultò la mappa. «Quassù», disse, «si dovrebbe trovare la caverna di Mygan, ma non vedo nulla». «La mappa la segna a metà altezza su quella parete laggiù», disse Hawkmoon. «Arrampichiamoci e andiamo a vedere.» Attraversarono il fondovalle, superando con un salto un limpido ruscello che scorreva in un crepaccio della roccia per tutta la lunghezza della vallata. Lì, in effetti, esistevano i segni della presenza dell'uomo, perché si scorgeva un sentiero che conduceva al ruscello stesso e una apparecchiatura di legno che serviva, a quanto si sarebbe detto, a prelevare l'acqua dal fiumiciattolo. Seguirono il sentiero su per la parete di roccia e trovarono vecchi e smussati appigli nella roccia. Non erano stati scavati di recente, ma si trovavano lì da secoli, molto prima che Mygan fosse venuto al mondo. Incominciarono ad arrampicarsi. Non fu facile procedere, ma raggiunsero infine una sporgenza rocciosa sulla quale si trovava un enorme masso. Dietro di esso si intravedeva l'ingresso tenebroso di una caverna! *
*
*
Hawkmoon si fece avanti, pronto a entrare, ma D'Averc prudente gii mise una mano sulla spalla. «Sarà meglio fare attenzione», disse, e sfoderò la spada. «Un vecchio non può farci alcun male», disse Hawkmoon. «Sei stanco, amico mio, esausto addirittura, altrimenti ti renderesti conto che, anche se vecchio, potrebbe avere armi con le quali difendersi. Non ha simpatia per la gente, a quanto afferma Tozer, e non c'è motivo per cui egli ci debba ritenere qualcosa di diverso da intrusi poco amichevoli.» Hawkmoon ne convenne. Sguainò la spada, poi entrambi si fecero avanti. La caverna era buia e sembrava deserta, poi scorsero una luce baluginare in fondo a essa. Avvicinandosi a quella sorgente luminosa, si accorsero che il cunicolo faceva una curva stretta. Svoltando lungo il percorso della caverna, si resero conto di essere giunti in un'altra cavità molto più vasta della prima. Questa era stipata con ogni sorta di apparecchiature, strumenti del tipo di quelli che avevano visto ad
Halapandur, un paio di giacigli, attrezzature da cucina, apparecchi chimici e una infinità di cose del genere. La sorgente di luce era un globo al centro della caverna. «Mygan!» chiamò D'Averc senza ottenere risposta. Ispezionarono la caverna, domandandosi se non ne esistessero altre adiacenti, ma non scoprirono nulla. «Se n'è andato!» fece Hawkmoon in preda alla disperazione, mentre le dita nervose di lui strofinavano la gemma nera sulla sua fronte. «Se n'è andato chissà dove, D'Averc. Forse, dopo che Tozer lo ha abbandonato, ha deciso che non era più sicuro rimanere qui e si è trasferito altrove.» «Non credo», asserì D'Averc. «Avrebbe preso con sé una parte di questa roba, non ti pare?» Si guardò attorno nella caverna. «E quei giacigli sembrano adoperati di recente. Non c'è polvere in nessun posto. Mygan si è forse allontanato per qualche spedizione nei paraggi e sarà presto di ritorno. Dobbiamo restar qui e aspettarlo.» «E come faremo con Meliadus... sempre che fosse lui?» «Possiamo soltanto sperare che proceda lentamente nel suo cammino e che gli occorra un po' di tempo per scoprire questa caverna!» «Se era così impaziente come dici di aver saputo da Flana, non dovrebbe trovarsi più molto lontano da noi», gli fece osservare Hawkmoon. Si avvicinò a un tavolo sul quale si trovavano diversi piatti di carne, verdure e insalate, approfittando di quei cibi con avidità. D'Averc seguì il suo esempio. «Ci rifocilleremo e aspetteremo», disse D'Averc. «È tutto quanto ci resta da fare, amico mio.» Trascorsero un giorno e una notte, e Hawkmoon diventava sempre più irrequieto mentre il vecchio continuava a non dar segno di vita. «Supponiamo che sia stato catturato», disse a D'Averc. «Supponiamo che Meliadus lo abbia incontrato nel suo vagabondare tra le montagne.» «Se così fosse, allora Meliadus sarebbe costretto a riportarlo qui e potremmo guadagnarci la riconoscenza del vecchio liberandolo dal barone», gli fece notare D'Averc con forzata allegria. «C'erano venti uomini con lui, armati di lanciafiamme, se non mi sono sbagliato. Non possiamo farcela con venti, D'Averc.» «Sei giù di morale, Hawkmoon. Siamo riusciti a farcela con venti uomini e anche di più... prima d'ora!» «Già», convenne Hawkmoon, ma era evidente che il viaggio lo aveva spossato molto. Forse, oltre tutto, anche l'inganno alla corte del re Huon aveva costituito una grande fatica per lui, più di quanto lo fosse stato per
D'Averc, dal momento che quest'ultimo sembrava godere degli inganni di questo genere. Alla fine Hawkmoon si portò a grandi passi nella più esterna delle caverne e sul terrazzino davanti a essa. Parve che un misterioso istinto lo avesse spinto fin lì, perché non appena guardò verso il fondo della valle li scorse. Il capo di quegli uomini era, in effetti, il barone Meliadus. La sua sontuosa maschera da lupo splendette con ferocia mentre egli la voltava verso l'alto e scorgeva Hawkmoon nello stesso istante in cui Hawkmoon scorgeva lui. La voce potente echeggiò come un ruggito tra le montagne. Era una voce in cui si mescolavano rabbia e trionfo, la voce di un lupo che sente l'odore della preda. «Hawkmoon!» esplose il grido. «Hawkmoon!» Meliadus balzò a terra con un volteggio e incominciò a scalare la parete di roccia. «Hawkmoon!» Dietro di lui venivano i suoi uomini, ben armati, e Hawkmoon si rese conto che esistevano ben poche possibilità di sconfiggerli. Chiamò dalla soglia della caverna: «D'Averc, Meliadus è arrivato! Sbrigati, amico, o ci intrappolerà qui dentro. Dobbiamo raggiungere la sommità della parete». D'Averc arrivò di corsa dall'interno della caverna, allacciandosi la cintola della spada, lanciò un rapido sguardo verso il basso, rifletté per un momento, poi annuì. Hawkmoon si precipitò verso la parete rocciosa, cercando appigli sulla ruvida superficie e issandosi verso l'alto. Il getto di un lanciafiamme giunse contro la roccia vicino alla sua mano, strinandogli i peli sul polso. Un altro colpì sotto di lui, ma egli continuò a salire. Forse in cima alla parete avrebbe potuto fermarsi e ingaggiare il combattimento, ma doveva proteggere la propria vita e quella di D'Averc quanto più a lungo gli fosse stato possibile, dal momento che la sicurezza del Castello di Brass poteva dipendere da questo. «Haaawkmoooooon!» gli giunse il grido poderoso del vendicativo Meliadus. «Haaaawkmoooooon!» Hawkmoon si arrampicava, graffiandosi le mani sulle pietre, provocandosi abrasioni alle gambe, ma senza fermarsi. D'Averc lo seguiva da vicino. Raggiunsero infine la cima e scorsero un pianoro che si stendeva davanti a loro. Se avessero cercato di attraversarlo, i lanciafiamme sarebbero stati
in grado di falciarli. «Adesso», disse Hawkmoon con aria torva, sguainando la spada, «ci fermeremo e ci batteremo». D'Averc ridacchiò. «Finalmente. Credevo che avessi perduto il coraggio, amico mio.» Diedero un'occhiata oltre l'orlo della parete e videro che il barone Meliadus aveva raggiunto il terrazzino dove si apriva la caverna di Mygan e stava lanciandosi entro di essa, mentre incitava gli uomini ad andare avanti all'inseguimento dei suoi due odiati nemici. Senza dubbio sperava di trovare qualcun altro là dentro... Oladahn, il conte Brass o, addirittura, Yisselda. Ben presto il primo dei guerrieri lupi raggiunse la cima della parete e Hawkmoon gli sferrò un forte calcio al capo ricoperto dall'elmo. L'uomo non cadde, ma stese un braccio e afferrò il piede di Hawkmoon. D'Averc si sporse in avanti, pugnalando l'uomo nella spalla. Questi grugnì, lasciò la presa su Hawkmoon, cercò di aggrapparsi a uno spuntone di roccia sul bordo della parete, lo mancò e cadde all'indietro a braccia aperte, con un urlo prolungato. Ma adesso altri avevano raggiunto la cima. D'Averc ne impegnò uno, mentre Hawkmoon si trovò a un tratto a doverne fronteggiare altri due. Hawkmoon ne colpì uno alla gola, tra l'elmo e la gorgiera, e infilzò l'altro all'altezza dell'ombelico, dove l'armatura non arrivava a coprirlo. Ma subito altri due vennero a sostituire i compagni. Lottarono per un'ora in questo modo, cercando di impedire al maggior numero possibile di essi di raggiungere la sommità della parete, incrociando le spade con quelli che non riuscirono a respingere. Poi vennero circondati, mentre le spade si accalcavano intorno a loro fitte come i denti di un gigantesco squalo, finché le loro gole non si trovarono minacciate da una fila ininterrotta di lame e la voce di Meliadus giunse da un punto imprecisato, colma di avida malvagità. «Arrendetevi, gentiluomini, o sarete massacrati. Ve lo assicuro!» Hawkmoon e D'Averc abbassarono le spade e si scambiarono occhiate scoraggiate. Sapevano entrambi di essere mortalmente odiati da Meliadus. Adesso che erano suoi prigionieri, nella sua stessa terra, non avevano possibilità di scampo. Anche Meliadus sembrava rendersi conto di questo, perché inclinò su un lato la maschera da lupo e sghignazzò. «Non so come abbiate fatto ad arrivare in Gran Bretagna, Hawkmoon e
D'Averc, ma adesso so che siete un bel paio di idioti! State cercando il vecchio? Perché, mi domando. Possedete già quello che lui ha.» «Forse ha anche qualcos'altro», disse Hawkmoon, cercando di proposito di rendere la cosa il più oscura possibile; infatti, quanto meno Meliadus ne avesse saputo, tanto più facile sarebbe stato per loro ingannarlo. «Qualcos'altro? Vuoi dire che possiede altri artifici utili per l'impero? Grazie per avermelo detto, Hawkmoon. Lo stesso vecchio riuscirà senza dubbio a essere più preciso.» «Il vecchio se n'è andato, Meliadus», disse D'Averc con voce dolce. «Lo abbiamo avvertito del tuo possibile arrivo.» «Se n'è andato, eh? Non ne sono tanto sicuro, quanto a questo. Ma, se così fosse, tu certamente saprai dove è andato, Sir Huillam.» «Non io», disse D'Averc, in tono irritato, mentre i soldati lo legavano insieme a Hawkmoon e passavano un nodo scorsoio sotto le braccia dei prigionieri. «Vedremo», fece Meliadus sghignazzando di nuovo. «Apprezzo la scusa che mi offrite per iniziare a torturarvi. Una piccola vendetta, tanto per cominciare. In seguito sperimenteremo tutte le possibilità quando saremo di ritorno al mio palazzo. Quando giungerà quel momento, forse, mi sarò impadronito anche del vecchio e del suo segreto di viaggiare attraverso le dimensioni...» Entro di sé si disse che, in quel modo, gli si offriva la possibilità di riabilitarsi con il re imperatore e ottenere il perdono di Huon per aver lasciato la città senza permesso. La sua mano guantata colpì la faccia di Hawkmoon, quasi affettuosamente. «Ah, Hawkmoon, presto assaggerai il mio castigo; presto...» Hawkmoon rabbrividì fino nei precordi, poi sputò in pieno sulla maschera ghignante di lupo. Meliadus indietreggiò, con una mano sollevata a ripulire la maschera, poi la portò avanti di colpo e percosse Hawkmoon sulla bocca. Ringhiò di rabbia. «Questo ti verrà a costare un altro momento di sofferenza, Hawkmoon. E quei momenti, te lo prometto, ti sembreranno lunghi come secoli!» Hawkmoon voltò il capo in preda al disgusto e alla sofferenza, venne sospinto rudemente in avanti dalle guardie e fatto avanzare, insieme a Sir Huillam D'Averc, fin sull'orlo del precipizio. La corda che li imprigionava impedì loro di cadere fino in fondo, ma vennero calati senza riguardi sul terrazzino e Meliadus li raggiunse di lì a poco.
«Devo ancora trovare il vecchio», disse il barone. «Sospetto che si tenga nascosto da qualche parte nei dintorni. Vi lascerò ben legati entro la caverna, metterò un paio di uomini di guardia all'ingresso, nel caso che in qualche modo riusciate a liberarvi delle corde, e andrò a cercarlo. Non c'è più scampo per te, ormai, Hawkmoon, e neppure per te, D'Averc. Siete finalmente entrambi in mia mano! Trascinateli dentro. Legateli con tutte le corde che vi riuscirà di trovare. Fate buona guardia a questi due, perché sono i giocattoli di Meliadus!» Rimase a guardare, mentre venivano legati insieme e trascinati nella più vicina caverna. Meliadus pose tre uomini a guardia dell'ingresso dell'antro e incominciò a discendere di ottimo umore la parete di roccia. Non sarebbe stata una cosa lunga, si disse, catturare tutti i suoi nemici, quando fosse riuscito a strappare loro con la tortura tutti i segreti, e allora il re imperatore si sarebbe reso conto di chi diceva la verità. E anche se il re imperatore non avesse avuto di nuovo una alta opinione di lui... che cosa importava? Meliadus aveva un piano per rimediare anche a quell'errore. CAPITOLO SEDICESIMO MYGAN DI LLANDAR La notte scendeva fuori della caverna e Hawkmoon e D'Averc giacevano immersi nelle ombre create dalla lampada della seconda spelonca. Le ampie spalle delle guardie ostruivano l'ingresso e le corde che li tenevano legati erano ben tese e di un notevole spessore. Hawkmoon cercò di districarsi, ma i suoi movimenti si limitavano in pratica alla possibilità di muovere la bocca, gli occhi e un po' il collo. D'Averc si trovava in condizioni molto simili. «Bene, amico mio, non siamo stati abbastanza prudenti», disse D'Averc, con il tono più noncurante che gli riuscì di mettere insieme. «No», convenne Hawkmoon. «La fame e la stanchezza rendono stupidi anche gli uomini più saggi. Dobbiamo rimproverare soltanto noi stessi...» «Meritiamo le nostre sofferenze», disse D'Averc, in qualche modo dubbioso. «Ma le meritano i nostri amici? Dobbiamo trovare il modo di fuggire, Hawkmoon, per quanto possa sembrare impossibile.» Hawkmoon sospirò. «Già. Se Meliadus riesce a raggiungere il Castello di Brass...» Rabbrividì.
Gli parve, dopo il suo breve incontro con i nobili della Gran Bretagna, che Meliadus fosse ancora più squilibrato di prima. Si trattava delle sconfitte subite, più d'una volta, da Hawkmoon e dagli abitanti del Castello di Brass? Si trattava della mancata vittoria, quando il Castello di Brass era sparito? Hawkmoon non avrebbe potuto dirlo. Sapeva soltanto che il suo antico nemico gli sembrava meno padrone delle proprie facoltà mentali di quanto lo fosse stato in precedenza. Non si poteva prevedere che cosa avrebbe potuto fare in quello stato di disordine mentale. Hawkmoon voltò la testa con un'espressione aggrondata, convinto di aver udito un rumore provenire dall'interno della caverna. Dal punto in cui giaceva, riusciva a scorgere in parte la caverna illuminata. Sollevò il capo, udendo di nuovo il suono. D'Averc mormorò a voce molto bassa, in modo che le guardie non potessero sentire: «C'è qualcuno là dentro, ci giurerei...» Poi un'ombra cadde su di loro ed entrambi si trovarono a fissare il volto di un vecchio, alto di statura, con una faccia larga e grinzosa che sembrava scolpita nella pietra e una zazzera di capelli bianchi che contribuiva a dargli un aspetto leonino. Il vecchio si accigliò, mentre osservava da capo a piedi i due uomini legati. Sporse le labbra e guardò fuori, dove i tre soldati montavano la guardia, riportò lo sguardo di nuovo su Hawkmoon e D'Averc. Non disse nulla, si limitò a incrociare le braccia sul petto. Hawkmoon vide che sulle sue mani brillavano anelli di cristallo. Tutte le dita, tranne il mignolo, avevano un anello. Doveva trattarsi di Mygan di Llandar! Ma come era arrivato nella caverna? C'era un ingresso segreto? Hawkmoon lo guardò con un'espressione disperata, muovendo le labbra, senza emettere suono, per pronunciare una supplica, per chiedere di essere aiutato. Il gigante sorrise ancora e si chinò un poco in avanti per poter udire il mormorio di Hawkmoon. «Ti prego, signore, se sei Mygan di Llandar, sai che ti siamo amici, che siamo prigionieri dei tuoi nemici.» «E come faccio a sapere se dici la verità?» disse Mygan, sempre in un bisbiglio. Una delle guardie si mosse all'esterno, incominciando a voltarsi, nel dubbio di aver udito qualcosa. Mygan indietreggiò entro la caverna. La guardia grugnì. «Che cosa state borbottando, voi due? Vi domandate che cosa farà di voi
il barone, eh? Bene, non riuscirai nemmeno lontanamente a immaginare i divertimenti che si ripromette di riservarti, Hawkmoon.» Hawkmoon non rispose. Quando la sentinella riprese la sua posizione ridacchiando, Mygan si chinò di nuovo su di loro. «Tu sei Hawkmoon?» «Mi conosci?» «So qualcosa sul tuo conto. Se sei Hawkmoon, può darsi che tu mi stia dicendo la verità. Sebbene viva in Gran Bretagna, non sono incaricato della difesa dei signori che governano a Londra. Ma come fate a sapere chi sono i miei nemici?» «Il barone Meliadus di Kroiden è venuto a conoscenza del segreto che hai rivelato a Tozer, il quale è stato tuo ospite fino a poco tempo fa...» «Rivelato! Se ne è impadronito con le lusinghe, mi ha rubato uno degli anelli mentre dormivo, e se ne è servito per fuggire. Voleva ingraziarsi i suoi padroni a Londra, suppongo...» «Hai ragione. Tozer parlò di un suo potere, vantandosi che si trattava di una capacità della mente, e, per dare una dimostrazione di quel potere, ha finito con il ritrovarsi in Kamarg...» «Senza dubbio del tutto per caso. Non ha nessuna idea di come si debba usare esattamente quell'anello.» «È quanto abbiamo sospettato.» «Ti credo, Hawkmoon, e temo questo Meliadus.» «Ci libererai, così che possiamo tentare di fuggire di qui e proteggerti da lui?» «Dubito di aver bisogno della vostra protezione.» Mygan scomparve dalla visuale di Hawkmoon. «Mi domando che cosa si riprometta di fare», disse D'Averc che era rimasto silenzioso di proposito, fino a quel momento. Hawkmoon scosse il capo. Mygan riapparve. Aveva tra le mani un lungo coltello. Si protese e incominciò a tagliare le corde che legavano Hawkmoon, finché il duca di Köln non riuscì a liberarsi, tenendo d'occhio con circospezione le sentinelle all'esterno. «Passami il coltello», sussurrò, e, dopo averlo ottenuto, incominciò a recidere le funi che trattenevano D'Averc. Udirono voci provenire dall'esterno. «Il barone Meliadus sta tornando», disse una delle guardie. «Si direbbe
di pessimo umore, a sentirlo.» Hawkmoon scoccò uno sguardo ansioso a D'Averc ed entrambi balzarono in piedi. Messo in allarme da quel movimento, uno dei soldati si girò, gridando per la sorpresa. I due uomini si slanciarono avanti. La mano di Hawkmoon impedì all'uomo di sguainare la spada. D'Averc passò un braccio intorno alla gola di un altro, mentre con l'altra mano estraeva la spada della guardia, la sollevava e la faceva ricadere sulla sua testa prima che l'uomo riuscisse a urlare. Mentre Hawkmoon lottava con la prima guardia, D'Averc impegnò la terza. Il clangore delle lame incominciò a risuonare nell'aria ed essi udirono Meliadus gridare di sorpresa. Hawkmoon gettò a terra il suo avversario e gli piazzò un ginocchio nell'inguine, sguainò il pugnale che ancora pendeva al fianco dell'uomo e lo conficcò nella gola del soldato. Nel frattempo D'Averc aveva finito il suo uomo, e rimaneva ansimante in piedi accanto al cadavere. Mygan gridò dal fondo della caverna. «Vedo che portate anelli di cristallo, come quelli che porto io. Sapete come servirvene?» «Sappiamo soltanto come fare per tornare in Kamarg! Un giro a sinistra...» «Già. Bene, Hawkmoon, ti voglio aiutare. Devi ruotare il cristallo prima sulla destra e poi sulla sinistra. Ripeti il movimento sei volte e poi...» La grande mole di Meliadus si stagliò sull'ingresso della caverna. «Oh, Hawkmoon, mi stai ancora procurando guai. Il Vecchio! Prendetelo, uomini!» I guerrieri superstiti incominciarono a entrare nella caverna. D'Averc e Hawkmoon ripiegarono davanti a loro, combattendo disperatamente. Il vecchio urlò infuriato: «Indietro, intrusi!» Si precipitò avanti, brandendo il lungo coltello. «No!» gridò Hawkmoon. «Mygan, lascia a noi il lavoro delle spade. Togliti. Non puoi difenderti contro gente del genere!» Ma Mygan non indietreggiò. Hawkmoon cercò di raggiungerlo, lo vide cadere sotto un fendente e colpì quello che aveva ferito Mygan. La caverna era piena di confusione, mentre si ritiravano verso la spelonca più interna. Il clangore delle spade echeggiava nell'antro, ma soprattutto si udivano le urla infuriate di Meliadus.
Hawkmoon trascinò Mygan ferito nella seconda caverna, parando i colpi che piovevano su entrambi. All'improvviso si trovò a fronteggiare la lama dello stesso Meliadus, che la vibrava con entrambe le mani. Hawkmoon sentì un colpo tremendo sulla spalla sinistra e si accorse che il sangue incominciava a inzuppargli la manica. Parò un altro colpo, poi fece un a fondo, e raggiunse Meliadus a un braccio. Il barone mugolò e barcollò all'indietro. «Adesso, D'Averc!» gridò Hawkmoon. «Adesso, Mygan! Ruota il cristallo! È la nostra unica possibilità di scampo!» Fece ruotare il cristallo nel suo anello prima a destra e poi a sinistra. Meliadus brontolò e si gettò di nuovo su di lui. Hawkmoon sollevò la spada per bloccare il colpo. Poi Meliadus scomparve. E così la caverna, e così i suoi amici. Si trovava solo in mezzo a una pianura che si stendeva piatta in tutte le direzioni. Doveva essere mezzogiorno, perché un enorme sole splendeva nel cielo. La pianura era coperta d'erba che cresceva bassa sul terreno e il profumo che da essa si levava ricordò a Hawkmoon la primavera. Dove si trovava? Mygan lo aveva giocato? Dov'erano gli altri? Poi la figura di Mygan di Llandar incominciò a materializzarsi accanto a lui, coricato sull'erba e intento a serrare le mani sulla ferita più grave. Era coperto da una decina di tagli causati dalle spade, il suo volto leonino era pallido e sfigurato per la sofferenza. Hawkmoon rinfoderò la spada e balzò verso di lui. «Mygan...» «Ah, sto morendo, temo, Hawkmoon. Ma se non altro sono riuscito a rendermi utile nel foggiare il tuo destino. La Bacchetta Magica...» «Il mio destino? Che cosa vuoi dire? E che cosa c'entra la Bacchetta Magica? Ho sentito parlare tanto di questo misterioso oggetto, eppure nessuno mi ha ancora detto esattamente come mi riguardi...» «Lo saprai quando sarà il momento. Nel frattempo...» A un tratto apparì D'Averc, guardandosi attorno sbigottito. «Funziona! Ringrazio la Bacchetta Magica! Credevo che saremmo stati tutti inevitabilmente massacrati.» «Devi... devi cercare...» Mygan incominciò a tossire. Del sangue gli sgorgò dalla bocca, tra i denti, e gli colò sul mento. Hawkmoon gli cullò il capo fra le braccia. «Non tentare di parlare, Mygan. Sei gravemente ferito. Dobbiamo andare in cerca di aiuto. Forse, se tornassimo al Castello di Brass...»
Mygan scosse il capo. «Non puoi.» «Non posso tornare? Ma perché? L'anello ha funzionato per portarci qui. Un giro a sinistra...» «No. Una volta che tu lo abbia spostato in quel senso, l'anello deve essere risistemato.» «E come si fa?» «Non te lo dirò!» «No? Vuoi dire che non puoi?» «No. Era mia intenzione portarti attraverso lo spazio in questa terra, dove tu potrai adempiere a una parte del tuo destino. Devi cercare... Ah... ah! Che dolore!» «Ci hai giocati, vecchio», disse D'Averc. «Vuoi farci recitare qualche parte in un intrigo che ti riguarda! Ma stai morendo. Dicci come possiamo tornare al Castello di Brass e potremo procurarti qualcuno che ti curi.» «Non è stato l'egoismo quello che mi ha indotto a portarvi qui. Si tratta della conoscenza della storia. Ho viaggiato in molti luoghi, ho vissuto in diverse epoche, per mezzo degli anelli. So molte cose. So a che cosa puoi essere utile, Hawkmoon, e so che deve venire il momento per te di avventurarti in questo paese.» «Dove?» disse Hawkmoon disperato. «In che epoca ci hai condotti? Come si chiama questa terra? Sembra essere costituita soltanto da questa pianura senza fine!» Ma Mygan stava tossendo e vomitando di nuovo sangue, ed era evidente che la morte non avrebbe tardato molto a giungere. «Prendi i miei anelli», disse, respirando a fatica. «Potrebbero esserti utili. Ma prima cerca di trovare Narleen e la Spada dell'Aurora... che si trova nel sud. Poi recati a nord, quando avrai fatto questo, e cerca la città di Dnark... e la Bacchetta Magica.» Tossì di nuovo, poi il suo corpo venne scosso da un violento spasimo e la vita lo abbandonò. Hawkmoon sollevò lo sguardo su D'Averc. «La Bacchetta Magica? Allora siamo nell'Asiacomunista, dove si ritiene essa si trovi?» «Sarebbe comico, se si considera il nostro precedente stratagemma», disse D'Averc, tamponandosi una ferita alla gamba con il fazzoletto. «Forse è proprio questo il paese in cui ci troviamo. Non me ne curo. Siamo lontani da quel bifolco di Meliadus e dalla sua comitiva assetata di sangue. Il sole in cielo è caldo. A parte le ferite, stiamo notevolmente meglio di quanto siamo mai stati.»
Guardandosi intorno, Hawkmoon sospirò. «Non ne sono sicuro. Se gli esperimenti di Taragorm hanno avuto successo, potrà trovare la via per giungere nella nostra Kamarg. Vorrei piuttosto trovarmi laggiù, invece di essere qui.» Sfiorò con le dita l'anello. «Mi domando...» D'Averc tese una mano. «No, Hawkmoon. Non lo guastare. Sono incline a credere al vecchio. Inoltre, sembrava ben disposto verso di te. Poteva avere buone intenzioni nei tuoi confronti. Forse voleva dirtelo che posto era questo, impartirti più esplicite direttive su come si possono raggiungere i luoghi abitati, ammesso che si tratti di luoghi abitati, dei quali parlava. Se cerchiamo di servirci dell'anello adesso, non si può dire dove andremo a finire. Forse potremmo ritrovarci con quella spiacevole compagnia che abbiamo appena lasciato nella caverna di Mygan!» Hawkmoon annuì. «Forse hai ragione, D'Averc. Ma cosa facciamo, adesso?» «Prima di tutto seguiamo il consiglio di Mygan e gli togliamo gli anelli. Poi ci dirigiamo a sud, verso quella località... come l'ha chiamata?» «Narleen. Ma potrebbe non essere una località. Potrebbe trattarsi di una persona. O di qualcos'altro.» «In ogni caso la direzione è verso sud, e andremo a cercare questa Narleen, luogo, persona o cosa che sia. Andiamo!» Si chinò sul cadavere di Mygan di Llandar e incominciò a sfilargli gli anelli dalle dita. «Da quello che ho potuto vedere nella sua caverna, sono quasi sicuro che abbia trovato questa roba nella città di Halapandur. Tutta l'attrezzatura che aveva nella caverna proveniva evidentemente da là. Questi anelli devono essere stati una delle invenzioni di quella gente vissuta prima dell'inizio del Millennio Tragico...». Ma Hawkmoon lo ascoltava appena. Stava invece indicando qualcosa nella pianura. «Guarda!» Il vento si stava levando. In distanza qualcosa di gigantesco e di color rosso purpureo stava venendo avanti, emettendo bagliori di lampi. LIBRO SECONDO Come Dorian Hawkmoon, anche Mygan di Llandar serviva la Bacchetta Magica (sebbene in maniera consapevole), e il filosofo di Yel aveva ritenuto opportuno depositare Hawkmoon in una strana terra ostile, fornendo-
gli scarse informazioni, allo scopo, secondo il suo punto di vista, di favorire la causa della Bacchetta Magica. In tal modo molte sorti si trovavano concatenate: quelle della Kamarg con quelle della Gran Bretagna, quelle della Gran Bretagna con quelle dell'Asiacomunista, quelle dell'Asiacomunista con quelle dell'Amarehk; e inoltre: i destini di Hawkmoon con i destini di D'Averc, quelli di D'Averc con quelli di Flana, quelli di Flana con quelli di Meliadus, quelli di Meliadus con quelli del re Huon, quelli del re Huon con quelli di Shenegar Trott, quelli di Shenegar Trott con quelli di Hawkmoon. Così molti fati si intrecciarono insieme per eseguire i compiti della Bacchetta Magica, che erano cominciati quando Meliadus aveva pronunciato su di essa il suo solenne giuramento di vendetta contro gli abitanti del Castello di Brass, stabilendo in tal modo il disegno degli eventi. Paradossi e ironie della sorte erano soltanto apparenti in quella trama, e sarebbero diventati sempre più chiari a coloro i cui destini si trovavano intessuti in essa. E mentre Hawkmoon si domandava dove mai si trovasse nel tempo e nello spazio, gli scienziati di re Huon perfezionarono più potenti macchine di guerra, che aiutarono gli eserciti dell'Impero Nero a invadere sempre più in fretta territori sempre più lontani sulla terra e a macchiare il globo di sangue... LA GRANDE STORIA DELLA BACCHETTA MAGICA CAPITOLO PRIMO ZHENAK-TENG Hawkmoon e D'Averc osservarono la strana sfera avvicinarsi, poi stancamente sguainarono le spade. Erano coperti di stracci, con i corpi pieni di ferite sanguinanti, pallidi per la fatica del combattimento; nei loro occhi non brillava alcuna luce di speranza. «Ah, ce la farei con i poteri dell'amuleto, adesso», disse Hawkmoon riferendosi all'Amuleto Rosso che, dietro consiglio del Guerriero in Giaietto e Oro, aveva lasciato al Castello di Brass. D'Averc sorrise scialbamente. «Ce la farei se soltanto avessi un po' di comune energia mortale», disse. «Eppure dobbiamo fare del nostro meglio, duca Dorian.» Raddrizzò le spalle. La sfera tonante si fece più vicina, rimbalzando sull'erba. Era una cosa enorme, piena di baluginanti colori, e non erano certo le spade a potersi
mostrare efficaci contro di essa. Rotolò fino a fermarsi con uno smorzato e borbottante suono accanto a loro, sovrastandoli con la sua mole torreggiante. Poi incominciò a ronzare e una fenditura apparve al suo centro, ampliandosi tanto da dare l'impressione che la sfera si sarebbe spaccata in due. Dalla spaccatura fuoriuscì adesso del fumo bianco e delicato, che venne a formare una nuvola accanto al terreno. La nuvola incominciò poi a dissolversi, rivelando una figura alta e ben proporzionata, dai lunghi capelli biondi tenuti scostati dagli occhi da una corona d'argento, il corpo bronzeo rivestito da un corto gonnellino aperto, di un colore marrone chiaro. A quanto pareva l'uomo era disarmato. Hawkmoon lo guardò circospetto. «Chi sei?» domandò. «Che cosa vuoi?» L'occupante della sfera sorrise. «Questa è la domanda che avrei voluto fare a voi», disse con uno strano accento. «Vi siete trovati in una battaglia, a quanto vedo, e uno dei vostri è morto. Sembra vecchio per essere stato un guerriero.» «Chi sei?» domandò di nuovo Hawkmoon. «Sei ostinato, guerriero. Io sono Zhenak-Teng, della famiglia di Teng. Dimmi chi hai combattuto qui. Si trattava dei Charki?» «Il nome non mi dice niente. Non abbiamo combattuto nessuno qui», disse D'Averc. «Siamo viaggiatori. Quelli che abbiamo combattuto si trovano a una grande distanza, adesso. Siamo venuti qui per trovare scampo da loro...» «Eppure le vostre ferite sembrano recenti. Volete venire con me al TengKampp?» «È questa la vostra città?» «Non abbiamo città. Andiamo. Potremo aiutarvi, bendare le vostre ferite, forse anche riportare in vita il vostro amico.» «Impossibile. È morto.» «Possiamo risuscitare i morti talvolta», disse con disinvoltura quel bell'uomo. «Volete venire con me?» Hawkmoon fece una spallucciata. «Perché no?» Lui e D'Averc sollevarono il cadavere di Mygan e si fecero avanti verso la sfera, seguendo Zhenak-Teng. Si accorsero che l'interno della sfera era in effetti una cabina nella quale potevano trovare posto confortevolmente diversi uomini. Senza dubbio quel veicolo costituiva un comune mezzo di trasporto, da quelle parti, poi-
ché Zhenak-Teng non tentò in alcun modo di aiutarli, lasciando che si arrangiassero da soli nel trovarsi un posto dove mettersi a sedere e sistemarsi per il viaggio. Mosse la mano sul quadro dei comandi della sfera e la fenditura laterale incominciò a richiudersi. Poi partirono, sobbalzando dolcemente sull'erba a una velocità fantastica, e riuscendo soltanto vagamente a scorgere il paesaggio mentre procedevano. La pianura si stendeva senza fine. Non scorsero un solo albero, una sola roccia, o colline o fiumi. Hawkmoon incominciò a domandarsi se tutto ciò non fosse, in realtà, qualcosa di artificiale... o fosse stato artificialmente livellato nel passato. Zhenak-Teng teneva gli occhi fissi e molto accostati a un imprecisato strumento mediante il quale, presumibilmente, poteva vedere dove doveva dirigersi. Aveva le mani su una leva, collegata a un volante che egli ruotava nell'una o nell'altra direzione di tanto in tanto, senza dubbio facendo svoltare quello strano veicolo. A un tratto passarono a una certa distanza da un gruppo di oggetti in movimento che non riuscirono a identificare attraverso le pareti della sfera in moto. Hawkmoon li indicò. «Charki», disse Zhenak-Teng. «Se saremo fortunati, non ci attaccheranno.» Sembravano esseri grigi, del colore della pietra scura, ma con numerose gambe e protuberanze mobili. Hawkmoon non riuscì a stabilire se si trattasse di creature o di macchine, o di qualcos'altro ancora. Trascorse un'ora e infine la sfera incominciò a rallentare. «Siamo vicini al Teng-Kampp», annunciò Zhenak-Teng. Poco dopo la sfera sobbalzò per fermarsi e l'uomo dalla pelle bronzea si appoggiò all'indietro, sospirando di sollievo. «Bene», disse. «Ho scoperto quello che ero andato a cercare. Quel gruppo di Charki si sta nutrendo in una direzione sud-occidentale e non dovrebbe arrivare troppo vicino al Teng-Kampp.» «Che cosa sono i Charki?» domandò D'Averc, con un gemito, mentre si muoveva e le ferite ricominciavano a dolergli. «I Charki sono i nostri nemici, creature fatte apposta per distruggere il genere umano», rispose Zhenak-Teng. «Si nutrono sottoterra, succhiando l'energia dai Kampp nascosti del nostro popolo.» Spostò una leva e, con un sobbalzo, il globo incominciò a scendere, sprofondando nel terreno.
La terra parve inghiottirli e chiudersi poi sopra di loro. Il globo continuò la sua discesa per qualche minuto, poi si fermò. Una luce vivida si accese all'improvviso ed essi si accorsero di trovarsi in una minuscola camera sotterranea, ampia appena quanto bastava per contenere la sfera. «Teng-Kampp», disse Zhenak-Teng laconicamente, toccando un bottone nel quadro di controllo che fece di nuovo aprire la sfera. Misero piede sul pavimento della camera, portando con sé Mygan, chinandosi per passare sotto un architrave e per emergere in un altro locale, dove uomini vestiti con abiti simili a quelli di Zhenak-Teng si precipitarono avanti, a quanto pareva per occuparsi della sfera. «Da questa parte», disse l'uomo alto, guidandoli in un cubicolo che incominciò a ruotare lentamente. Hawkmoon e D'Averc si appoggiarono contro le pareti del cubicolo, sentendosi in preda alle vertigini, ma infine l'esperienza ebbe termine e Zhenak-Teng li condusse in una stanza dal pavimento coperto da folti tappeti e arredata con mobili semplici e di aspetto confortevole. «Questo è il mio appartamento», disse. «Manderò a chiamare i membri della mia famiglia che conoscono la medicina e che potrebbero essere in grado di aiutare il vostro amico. Scusatemi.» Scomparve in un'altra stanza. Poco dopo tornò sorridendo. «I miei fratelli saranno qui quanto prima.» «Lo spero», disse D'Averc infastidito. «Non sono mai stato molto entusiasta della compagnia dei cadaveri...» «Non ci vorrà molto. Andiamo, venite in un'altra stanza dove troverete da rifocillarvi.» Lasciarono la salma di Mygan dov'era e passarono in una camera dove vassoi di cibo e bevande sembravano galleggiare nell'aria, senza sostegno, sopra pile di cuscini. Seguendo l'esempio di Zhenak-Teng sedettero sui cuscini e approfittarono delle cibarie. Erano deliziose, e si sorpresero a mangiare quantità enormi di quella roba. Mentre mangiavano, due uomini dall'aspetto simile a quello di ZhenakTeng entrarono nella stanza. «È troppo tardi», disse uno di loro a Zhenak-Teng. «Mi dispiace, fratello, ma non possiamo risuscitare il vecchio. Le ferite, e il tempo trascorso dalla morte...» Zhenak-Teng guardò con aria di scusa D'Averc e Hawkmoon. «Ecco... temo che abbiate perduto il vostro compagno per sempre.» «Allora, forse, potrete dargli una degna sepoltura», disse D'Averc, quasi
con sollievo. «Ma certo. Faremo tutto il necessario.» Gli altri due se ne andarono per una mezz'ora circa, poi tornarono proprio mentre D'Averc e Hawkmoon terminavano di mangiare. Il primo di loro si presentò come Bralan-Teng e il secondo disse di chiamarsi PoladTeng. Erano entrambi fratelli di Zhenak-Teng ed esercitavano la medicina. Esaminarono le ferite di Hawkmoon e di D'Averc e le medicarono. Quasi subito i due uomini incominciarono a sentirsi molto meglio. «Adesso dovete dirmi come siete arrivati nella terra dei Kampp», disse Zhenak-Teng. «Vediamo pochi stranieri nelle nostre pianure, a causa dei Charki. Dovete parlarmi degli avvenimenti negli altri paesi della terra...» «Non sono sicuro di riuscire a dare una risposta comprensibile alla prima delle tue domande», disse Hawkmoon, «o di poterti fornire notizie per te interessanti del nostro mondo». E gli spiegò, come meglio poteva, con quale mezzo erano arrivati fin lì e dove si trovava il loro mondo. ZhenakTeng lo ascoltò con profonda attenzione. «Già», disse, «avete ragione. Posso capire ben poco di quello che mi dite. Non ho mai sentito parlare di nessuna Europa o Gran Bretagna e il congegno che descrivete è sconosciuto alla nostra scienza. Ma vi credo. Come potreste essere arrivati tanto all'improvviso nella terra dei Kampp?» «Che cosa sono i Kampp?» domandò D'Averc. «Hai detto che non sono città..» «Non lo sono. Sono case per le famiglie, che appartengono a un clan. Nel nostro caso, la casa sotterranea appartiene alla famiglia Teng. Le altre famiglie più vicine sono i Sek, gli Ohn e i Neng. Anni fa ce n'erano molte, moltissime. Ma i Charki le hanno trovate e le hanno distrutte.» «E che cosa sono i Charki?» si affrettò a domandare Hawkmoon. «I Charki sono i nostri nemici da sempre. Sono stati creati da coloro che una volta cercarono di distruggere le case delle pianure. Quei nemici distrussero se stessi, in ultimo, mediante qualche genere di esperimento esplosivo, ma le loro creature, i Charki, continuano a vagare nella pianura. Hanno un micidiale sistema per sconfiggerci, e possono alimentarsi con la nostra energia vitale.» Zhenak-Teng rabbrividì. «Si alimentano con la vostra energia vitale?» disse D'Averc accigliandosi. «Di che si tratta?» «Qualsiasi cosa ci dia la vita, qualsiasi cosa sia vita, loro se ne impossessano e ci lasciano prosciugati, inutili, a morire lentamente, incapaci di muoverci...»
Hawkmoon stava per porre un'altra domanda, poi cambiò idea. Era evidente che il soggetto riusciva penoso a Zhenak-Teng. Domandò invece: «E che cos'è questa pianura? Non mi sembra una cosa naturale». «Non lo è. Era un tempo il luogo dove si trovavano i nostri campi di atterraggio, perché noi, appartenenti alle Cento Famiglie, eravamo una volta potenti e molto influenti... fino all'arrivo di coloro che crearono i Charki. Volevano le nostre cose e le fonti del potere per sé. Si chiamavano Shenatar-vron-Kensai e portarono i Charki con sé dall'est, essendo la loro unica vocazione quella di distruggere le Cento Famiglie. E riuscirono a distruggerle, fatta eccezione per quel pugno di esse che ancora sopravvive. Ma a poco a poco i Charki le scoprono con l'odorato...» «Si direbbe che non abbiate speranze», disse D'Averc, in tono quasi accusatore. «Siamo semplicemente realisti», rispose Zhenak-Teng, senza prendersela. «Domani ci piacerebbe rimetterci in cammino», disse Hawkmoon. «Avete delle carte geografiche, qualcosa che ci possa aiutare a raggiungere Narleen?» «Ho una carta, sebbene sia molto sommaria. Narleen era una grande città commerciale sulla costa. Questo, secoli fa. Non so cosa sia diventata.» Zhenak-Teng si alzò in piedi. «Vi mostrerò la stanza che avevo preparato per voi. Potrete dormirvi questa notte e incominciare il vostro lungo viaggio nella mattinata.» CAPITOLO SECONDO I CHARKI Hawkmoon si destò al suono di una battaglia. Si domandò per un momento se avesse sognato e si trovasse di nuovo nella caverna e se D'Averc fosse impegnato con il barone Meliadus. Balzò dal letto e tese la mano per afferrare la spada posta lì accanto, su uno sgabello, insieme agli abiti a brandelli. Si trovava nella stanza dove lo aveva lasciato Zhenak-Teng la sera prima e sull'altro letto era disteso D'Averc, anch'egli desto e con un'espressione spaventata. Hawkmoon incominciò a darsi da fare con i vestiti. Da dietro la porta giunsero grida, il cozzare delle spade, strani suoni uggiolanti e lamenti. Quando si fu vestito, si avvicinò rapido alla porta e ne fece scattare la serratura.
Rimase sbigottito. Le persone dalla pelle bronzea e di bell'aspetto del Teng-Kampp si davano un gran da fare cercando di massacrarsi a vicenda. E non erano le spade, dopo tutto, a provocare quei clangori, ma coltelli da macellaio, sbarre di ferro e una strana collezione di utensili domestici e scientifici utilizzati come armi. Tutte le facce avevano espressioni irate, bestiali e allarmate, e i contendenti avevano la bava alla bocca, mentre gli occhi di tutti erano fissi e allucinati. Una ignota forma di pazzia si era impossessata di tutti loro! Fumo di un colore blu scuro incominciò a riversarsi lungo il corridoio; si sentiva un puzzo che Hawkmoon non riuscì a definire, si udiva un fragore di vetri infranti e di metallo sfondato. «Per la Bacchetta Magica, D'Averc», ansimò. «Sembrano ossessi!» Un groviglio di uomini che lottavano si accalcò a un tratto contro la porta, spalancandola, e Hawkmoon venne a trovarsi in mezzo alla mischia. Li respinse e balzò di lato fuori della stanza. Nessuno aggredì lui o D'Averc. Continuarono a massacrarsi a vicenda come se fossero inconsapevoli degli spettatori. «Da questa parte», disse Hawkmoon, e si allontanò dalla stanza, con la spada in pugno. Tossì, mentre il fumo azzurrino gli penetrava nei polmoni e gli faceva bruciare gli occhi. Dovunque c'era lo sfacelo. I cadaveri giacevano fitti nel corridoio. Insieme lottarono lungo il passaggio finché non raggiunsero le stanze di Zhenak-Teng. La porta era chiusa a chiave. Freneticamente Hawkmoon bussò contro di essa, servendosi dell'elsa della spada. «Zhenak-Teng, siamo Hawkmoon e D'Averc! Sei qui dentro?» Ci fu un movimento dall'altro lato della porta, poi essa si spalancò e Zhenak-Teng, con gli occhi colmi di un terrore selvaggio, li trascinò dentro e si affrettò a chiudere di nuovo a chiave la porta. «I Charki», disse. «Doveva essercene un altro branco che vagabondava in qualche posto. Ho fallito nel mio compito. Ci hanno preso di sorpresa. Siamo condannati.» «Non vedo nessun mostro», disse D'Averc. «I tuoi parenti si stanno sgozzando a vicenda.» «Già, è così che i Charki ci sconfiggono. Emettono onde, raggi mentali di qualche genere, che ci fanno impazzire, ci fanno vedere nemici nei nostri più intimi amici e fratelli. E mentre ci battiamo, penetrano nel nostro Kampp. Ben presto saranno qui!» «Il fumo azzurrino che cos'è?» domandò D'Averc.
«Non ha niente a che fare con i Charki. Proviene dai nostri generatori fracassati. Non abbiamo energia, adesso, anche se potremmo ripararli.» Da chissà dove giunsero colpi terribili e scrosci che scossero la stanza. «I Charki», mormorò Zhenak-Teng. «Presto i loro raggi raggiungeranno anche me...» «Perché non ti hanno ancora raggiunto?» domandò Hawkmoon. «Taluni di noi sono più forti nell'opporre resistenza. Tu, evidentemente, non ne sei influenzato affatto. Altri soccombono in fretta.» «Non c'è via di scampo per noi?» Hawkmoon lanciò rapidi sguardi nella stanza. «La sfera con la quale siamo venuti qui...?» «Troppo tardi, troppo tardi...» D'Averc afferrò Zhenak-Teng per una spalla. «Andiamo, uomo, se facciamo in fretta riusciremo a fuggire. Puoi guidare la sfera!» «Devo morire con la mia famiglia, la famiglia che ho contribuito a distruggere.» Zhenak-Teng era quasi irriconoscibile, non sembrava certo più l'uomo controllato e civile con il quale avevano parlato il giorno prima. Tutto il coraggio lo aveva abbandonato. I suoi occhi erano già vitrei e parve a Hawkmoon che ben presto egli sarebbe stato travolto dallo strano potere dei Charki. Pervenne a una decisione, sollevò la spada e colpì rapidamente. L'elsa raggiunse la base cranica di Zhenak-Teng, ed egli svenne. «Adesso, D'Averc», disse torvo Hawkmoon, «portiamolo sulla sfera. Presto!» Tossendo, mentre il fumo azzurrino diventava più denso, barcollarono attraverso la stanza e lungo il corridoio, trasportando il corpo privo di sensi di Zhenak-Teng. Hawkmoon ricordava la strada per arrivare al luogo dove avevano lasciato la sfera e guidò D'Averc. Adesso l'intero corridoio si scuoteva in maniera allarmante, tanto da costringerli a fermarsi per riprendere l'equilibrio. Poi... «La parete! Sta crollando!» strepitò D'Averc, e barcollò all'indietro. «Presto, Hawkmoon, dall'altra parte!» «Dobbiamo raggiungere la sfera!» gridò di rimando Hawkmoon. «Non possiamo tornare indietro!» In quel momento incominciarono a cadere pezzi di soffitto e una forma grigia come la pietra si insinuò nella fessura della parete e nei corridoio. Una estremità della creatura era costituita da un apparato simile a una ventosa, del tipo di quelle di cui sono munite le piovre, e si muoveva come una bocca desiderosa di baciarli.
Hawkmoon rabbrividì inorridito e vibrò una stoccata alla cosa con la spada. Essa indietreggiò, poi, un po' imbronciata, come se il gesto l'avesse soltanto un tantino offesa e quasi desiderando di fare amicizia, la cosa ricominciò a farsi avanti. Questa volta Hawkmoon riuscì a colpirla e si udirono un grugnito e un sibilo acuto dall'altro lato della parete. La creatura parve sorpresa che qualcosa le resistesse. Reggendo Zhenak-Teng sulle spalle, Hawkmoon sferrò un altro colpo al tentacolo, poi spiccò un salto per superare l'impedimento e incominciò a correre lungo il corridoio pericolante. «Andiamo, D'Averc! Alla sfera!» D'Averc saltò al di sopra del tentacolo ferito e seguì l'amico. Adesso la parete era crollata del tutto e lasciava scorgere una massa di braccia che si agitavano, una testa pulsante e una faccia simile alla parodia di una fisionomia umana, che sorrideva in modo accattivante e idiota. «Vuole che la coccoliamo!» gridò D'Averc con macabro umorismo, mentre schivava un tentacolo proteso. «Non vorrai ferire in questo modo i suoi sentimenti, Hawkmoon!» Hawkmoon stava affannosamente cercando di aprire la porta che dava accesso alla stanza della sfera. Zhenak-Teng, che giaceva sul pavimento accanto a lui, incominciava a lamentarsi e si afferrava la testa tra le mani. Hawkmoon aprì infine la porta, bilanciò di nuovo Zhenak-Teng sulle spalle e passò nella camera dove si trovava la sfera. Nessun suono veniva da essa, adesso, e i suoi colori erano cambiati, ma rimaneva aperta quanto bastava per consentire loro l'accesso. Hawkmoon si arrampicò su per la scaletta e scaricò Zhenak-Teng sul seggiolino di comando, mentre D'Averc lo raggiungeva. «Metti in moto questo aggeggio», disse a Zhenak-Teng, «o saremo tutti divorati dai Charki che puoi vedere là», disse, indicando con la spada la creatura gigantesca. Numerosi tentacoli strisciarono su per i fianchi della sfera verso di loro. Uno di essi sfiorò sulla spalla Zhenak-Teng, ed egli gemette. Hawkmoon urlò e lo troncò. Il tentacolo cadde sul pavimento. Ma altri si stavano agitando tutto intorno a lui e avevano saldamente aderito ai corpo dell'uomo dalla pelle bronzea che sembrava accettare quel contatto in maniera del tutto passiva. Hawkmoon e D'Averc gli urlarono di mettere in moto la sfera, mentre tentavano disperatamente di tranciare le decine di arti ondeggianti. Hawkmoon tese la mano sinistra e afferrò per la nuca Zhenak-Teng. «Chiudi la sfera, Zhenak-Teng! Chiudi la sfera!»
Con un movimento incerto, Zhenak-Teng obbedì, premendo un pulsante che fece ronzare e frusciare la sfera, ed essa incominciò a splendere con tutti i colori dell'iride. I tentacoli cercarono di resistere al deciso movimento delle pareti, mentre l'apertura si richiudeva. Tre di essi superarono la difesa di D'Averc e si fissarono su Zhenak-Teng che gemette e si afflosciò. Di nuovo Hawkmoon tranciò i tentacoli, mentre la sfera finalmente si chiudeva e incominciava a salire verso l'alto. Uno dopo l'altro i tentacoli scomparvero e la sfera si innalzò, mentre Hawkmoon respirava di sollievo. Si rivolse all'uomo dalla pelle bronzea: «Siamo liberi!» Ma Zhenak-Teng fissava senza espressione davanti a sé, con le braccia abbandonate sui fianchi. «Sto male», disse lentamente. «Mi ha sottratto la vita...» E scivolò di fianco, cadendo a terra. Hawkmoon si chinò su di lui, ponendo la mano sul petto dell'uomo per sentirgli il cuore. Rabbrividì inorridito. «È gelido, D'Averc, incredibilmente gelido!» «Ma vive ancora?» domandò il francese. Hawkmoon scosse il capo. «È morto.» *
*
*
La sfera stava rapidamente salendo e Hawkmoon balzò accanto ai comandi, guardandoli disperato, senza distinguere uno strumento dall'altro, senza osare toccare nulla per timore di trovarsi a discendere di nuovo dove i Charki banchettavano con la forza vitale della gente del Teng-Kampp. A un tratto emersero nell'aria libera e rimbalzarono sull'erba. Hawkmoon sedette al posto di comando e afferrò la leva come aveva visto fare a Zhenak-Teng il giorno prima. Con precauzione la spinse di lato, e si accorse, pienamente soddisfatto, che la sfera incominciava a dirigersi da quella parte. «Credo di riuscire a guidarla», disse al suo amico. «Ma non riesco a immaginare come potrò fermarla o aprirla!» «Dal momento che siamo riusciti a lasciarci indietro quei mostri, non mi sento troppo preoccupato», disse D'Averc con un sorriso. «Dirigi questo aggeggio verso sud, Hawkmoon. Se non altro, andremo nella direzione voluta.»
Hawkmoon fece come suggeriva D'Averc e per ore procedettero sopra la ininterrotta pianura finché, alla fine, non scorsero una foresta. «Sarà interessante vedere come si comporterà la sfera, una volta raggiunti gli alberi», disse D'Averc quando Hawkmoon gli indicò il bosco. «È evidente che non è stata progettata per un terreno del genere.» CAPITOLO TERZO IL FIUME SAYOU La sfera andò a sbattere contro gli alberi con un poderoso strepito di vetri infranti e di lamiere contorte. D'Averc e Hawkmoon si trovarono scaraventati in fondo alla cabina di comando, a tener compagnia al cadavere spiacevolmente gelido di ZhenakTeng. Poi vennero scaraventati verso l'alto, quindi di lato, e se le pareti della sfera non fossero state accuratamente imbottite sarebbero morti o si sarebbero spezzati le ossa. Finalmente la sfera rallentò, fino a fermarsi, sussultò per qualche istante, poi di colpo si spaccò, e Hawkmoon e D'Averc finirono sul terreno. D'Averc borbottò: «Ecco un'esperienza niente affatto necessaria per uno già malandato come me». Hawkmoon ridacchiò, in parte per la spiritosaggine dell'amico, e in parte di sollievo. «Bene», disse, «ce la siamo cavata meglio di quanto osassi sperare. Alzati, D'Averc, dobbiamo andare avanti. Verso sud!» «Credo che un po' di riposo ci sia indispensabile», fece D'Averc stiracchiandosi e guardando in alto verso i verdi rami degli alberi. Il sole penetrava obliquo fra essi, facendo apparire la foresta dorata e color smeraldo. C'era un pungente odore di pino, misto a quello di betulla, e da un ramo sopra le loro teste uno scoiattolo, con i vividi occhietti neri dall'espressione ironica, li osservava. Alle spalle dei due, i rottami della sfera giacevano in mezzo a un intrico di rami e radici. Numerosi piccoli alberi erano stati spezzati e altri sradicati. Hawkmoon si rese conto che se l'erano cavata con molta fortuna, incominciò a tremare, adesso, per la reazione e comprese il significato delle parole di D'Averc. Sedette su una collinetta erbosa e distolse lo sguardo dal rottame e dal cadavere di Zhenak-Teng, che si scorgeva su un lato della sfera. D'Averc si era sdraiato lì accanto e si girò sulla schiena. Trasse di sotto
il giustacuore lacerato uno spesso foglio di pergamena ripiegato diverse volte su se stesso, la carta che Zhenak-Teng gli aveva dato poco prima che andassero a dormire la sera precedente. D'Averc la spiegò e la esaminò. La pianura vi si trovava segnata con notevole accuratezza, riportando l'ubicazione dei vari Kampp del popolo di Zhenak-Teng e quello che sembrava essere il tracciato seguito dai Charki nelle loro spedizioni di caccia. Sulla maggior parte degli insediamenti sotterranei si vedevano croci; presumibilmente stavano a indicare dove i Charki avevano portato la morte. Indicò un punto vicino a un angolo della carta. «Qui», disse. «Qui c'è la foresta, e proprio a nord è segnato un fiume, il Sayou. Questa freccia punta a sud, verso Narleen. Da quanto posso arguire, il fiume ci guiderà alla città.» Hawkmoon annui. «Allora ci dirigeremo verso il fiume, appena ci saremo ripresi. Prima giungeremo a Narleen, meglio sarà. Là potremo sapere finalmente dove ci troviamo rispetto al tempo e allo spazio. È stata una sfortuna che i Charki abbiano attaccato proprio in quel momento. Interrogando Zhenak-Teng saremmo riusciti a sapere da lui dove ci troviamo.» Dormirono nella pace della foresta per un'ora e più, poi si levarono e, rabberciandosi gli abiti laceri e le armi malandate, si misero in cammino verso nord e verso il fiume. Mentre procedevano, il sottobosco diventava più intricato e gli alberi più fitti, e le colline sulle quali gli alberi crescevano più ripide. Verso sera si sentirono stanchi e di cattivo umore, e scambiarono fra loro ben poche parole. Hawkmoon frugò nella borsa appesa alla cintura, e trovò, tra i pochi oggetti ivi contenuti, una scatoletta dal disegno complicato nella quale si trovava l'esca per accendere il fuoco. Camminarono ancora per una mezz'ora, finché non raggiunsero un ruscello che alimentava uno stagno chiuso da alti argini su tre lati. Accanto a esso si trovava una piccola radura e Hawkmoon disse: «Trascorreremo qui la notte, D'Averc, perché non ce la faccio più ad andare avanti». D'Averc annuì e si gettò a terra sulla riva dello Stagno, bevendone avidamente le chiare acque. «Sembra profondo», disse, rialzandosi e asciugandosi la bocca. Hawkmoon stava accendendo il fuoco e non gli rispose. Ben presto le fiamme si levarono alte. «Potremmo, forse, cercare di catturare qualche preda», disse D'Averc
pigramente. «Incomincio a essere affamato. Non conosci nessun trucco, Hawkmoon?» «Qualcuno», disse Hawkmoon, «ma non ho appetito, D'Averc». E, dopo aver detto ciò, si distese e si addormentò. *
*
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Era notte, faceva freddo. Hawkmoon venne destato a un tratto da un urlo terribile del suo compagno. Balzò in piedi immediatamente, scrutando nella direzione che D'Averc stava indicando, mentre sguainava la spada. Trattenne il fiato per l'orrore di fronte a quello che vide. Dall'acqua dello stagno emergeva una creatura simile a un rettile, con neri occhi sfavillanti e scaglie anch'esse nere. Soltanto la bocca del mostro, spalancata, balenava per il candore di una serie di denti acuminati. Con un fragoroso suono schioccante si stava sollevando dall'acqua e veniva verso di loro. Hawkmoon barcollò all'indietro, facendosi piccolo di fronte a quell'essere spaventoso. La testa dell'animale scattava avanti e verso il basso, le mascelle si serravano a pochi centimetri dalla sua faccia, e il fiato disgustoso quasi lo asfissiava. «Corri, Hawkmoon, scappa!» urlò D'Averc, e insieme incominciarono a incespicare nel bosco. Ma la creatura era ormai uscita dall'acqua e stava incominciando l'inseguimento. Dalla sua gola usciva un suono terrificante e gracchiante. Hawkmoon e D'Averc si afferrarono per mano e si tennero vicini, mentre avanzavano a fatica nel sottobosco, quasi alla cieca a causa delle tenebre notturne. Il suono gracchiante si fece udire ancora, e questa volta una lunga lingua soffice sibilò come una frusta nell'aria e circondò alla vita D'Averc. Questi urlò e cercò di colpirla con la spada. Hawkmoon gridò e balzò avanti, sferrando colpi all'essere nero con tutte le sue forze, mentre tratteneva la mano di D'Averc e cercava di non perdere terreno. Inesorabilmente la lingua trascinava entrambi verso la bocca spalancata dell'animale acquatico. Hawkmoon si rese conto che era inutile cercare di salvare D'Averc in quel modo. Lasciò andare la mano dell'amico e balzò di lato, sferrando colpi di spada alla spessa e nera lingua. Poi afferrò la spada con entrambe le mani, la sollevo sopra la propria te-
sta e l'abbatté con tutte le proprie forze. L'animale gracchiò di nuovo e il terreno tremò, ma la lingua venne mozzata e un sangue fetido incominciò a sgorgare da essa. Allora si udì un urlo spaventoso e gli alberi presero a spezzarsi e a cadere, mentre la bestia acquatica si muoveva pesantemente in mezzo ai tronchi. Hawkmoon afferrò D'Averc, lo rimise in piedi e spinse da parte la viscida massa della lingua mozza. «Grazie», ansimò D'Averc mentre correvano. «Questo posto incomincia a non piacermi più, Hawkmoon. Sembra ancora più pericoloso dei nostri paraggi!» Gemendo, gracchiando e gridando la propria insensata rabbia, l'essere uscito dallo stagno li stava inseguendo. «Ci è di nuovo quasi addosso!» urlò Hawkmoon. «Non possiamo sfuggirgli!» Si voltarono, scrutando nell'oscurità. Tutto quello che riuscivano a vedere adesso erano gli occhi balenanti e neri della creatura. Hawkmoon bilanciò la spada nella mano, cercando di equilibrarla. «C'è soltanto una possibilità», disse, e scaraventò la spada diritta verso gli occhi malvagi. Si udì un altro urlo gracchiante e un gran dibattersi in mezzo agli alberi, poi i risplendenti globi disparvero e i due udirono la bestia allontanarsi con un gran strepito di rami spezzati, mentre si dirigeva verso lo stagno. Hawkmoon sospirò di sollievo. «Non l'ho uccisa, ma senza dubbio ha deciso che non eravamo le facili prede per le quali ci aveva in un primo tempo scambiate. Andiamo, D'Averc, cerchiamo di raggiungere il fiume quanto più in fretta possiamo. Voglio uscire da questa foresta!» «E che cosa ti induce a credere che il fiume sia meno pericoloso?» domandò D'Averc in tono ironico, mentre ricominciavano a procedere nella foresta. *
*
*
Due giorni dopo sbucarono dalla foresta. Si trovavano sui pendii di una collina che scendevano ripidi verso una vallata. Nel fondovalle scorreva un grande fiume, senza dubbio il fiume Sayou. Erano entrambi coperti di sudiciume, con la barba lunga e gli abiti laceri. Hawkmoon aveva come arma soltanto un pugnale, e D'Averc, sbarazzatosi infine del giustacuore a brandelli, era a torso nudo. Corsero giù per la collina, inciampando nelle radici, lasciandosi sferzare
dai rami, incuranti di qualsiasi sofferenza nella loro smania di raggiungere il fiume. Che cosa avrebbe potuto offrire loro quel corso d'acqua non lo sapevano, ma desideravano soltanto abbandonare la foresta e i suoi mostri, perché, sebbene non si fossero imbattuti in niente di così spaventoso come la creatura dello stagno, avevano scorto altri mostri in distanza e scoperto le tracce di altri ancora. Si gettarono in acqua e incominciarono a togliersi di dosso il fango e la sporcizia, scambiandosi sorrisi. «Ah, deliziosa acqua!» esclamò D'Averc. «Ci porterai alle città e ai paesi e alla civiltà. Non mi importa che cosa potrà offrirci questa civiltà, ma sarà sempre più familiare e anche più gradita di questo sudicio posto naturale.» Hawkmoon sorrise, senza condividere appieno i sentimenti di D'Averc, ma riuscendo a comprendere il suo modo di pensare. «Costruiremo una zattera», disse. «Siamo fortunati perché la corrente scorre verso sud. Dovremo soltanto limitarci a lasciare che la corrente ci conduca alla nostra meta, D'Averc!» «E potremo pescare, Hawkmoon, procurandoci gustosi pranzetti. Non sono abituato al cibo semplice del quale ci siamo dovuti accontentare negli ultimi due giorni. Basta con bacche e radici!» «Ti insegnerò anche come si pesca, D'Averc. L'esperienza potrebbe dimostrarsi utile, se ti troverai in una situazione del genere in futuro!» E Hawkmoon rise, battendo una mano sulla spalla dell'amico. CAPITOLO QUARTO VALJON DI STARVEL Quattro giorni dopo la zattera li aveva portati per molti chilometri a valle del grande fiume. Alle foreste si erano sostituite, su entrambe le sponde, dolci elevazioni e vastissime estensioni di cereali selvatici. Hawkmoon e D'Averc sopravvivevano nutrendosi dei grassi pesci che pescavano nel fiume e dei cereali e della frutta che raccoglievano sulle rive, e divennero più rilassati mentre la zattera andava alla deriva verso Narleen. Avevano l'aria di naufraghi, con quegli abiti laceri e le barbe che diventavano sempre più folte, ma i loro occhi non avevano più lo sguardo selvaggio causato dalla fame e dall'essere rimasti per lungo tempo esposti a
ogni genere di pericoli. Non si erano mai sentiti così su di morale. Nel tardo pomeriggio del quarto giorno videro una barca e balzarono in piedi per fare frenetici segnali con le mani allo scopo di attirare l'attenzione. «Forse quella barca viene da Narleen!» gridò Hawkmoon. «Forse ci potranno dare un passaggio per quella città!» La barca aveva la prua alta, di legno, ed era tutta dipinta con vivaci colori, soprattutto rosso, oro, giallo e blu. Sebbene attrezzata come una goletta a due alberi, era munita anche di remi che venivano adesso impiegati per farla procedere controcorrente verso di loro. Inalberava un centinaio di bandiere colorate e gli uomini sul ponte indossavano abiti che si armonizzavano con esse. L'imbarcazione affondò i remi e accostò. Una faccia molto barbuta si affacciò per scrutarli. «Chi siete?» «Viaggiatori. Siamo stranieri da queste parti. Possiamo farci ingaggiare a bordo per pagarci un passaggio fino a Narleen?» domandò D'Averc. L'uomo barbuto rise. «Certo che potete. Salite a bordo, signori.» Venne calata una scaletta di corda e Hawkmoon e D'Averc si arrampicarono, ben felici di trovarsi sul decorativo ponte della nave. «Questo è il Falco del Fiume», disse l'uomo barbuto. «Ne avete sentito parlare?» «Te l'ho detto, siamo stranieri», disse Hawkmoon. «Già! Bene, appartiene a Valjon di Starvel. Avrete senza dubbio sentito parlare di lui.» «No», disse D'Averc. «Ma gli siamo riconoscenti per aver mandato questa barca sulla nostra strada», sorrise. «E adesso, amico, che ne dici di farci pagare con l'ingaggio un passaggio fino a Narleen?» «Be', se non avete denaro...» «Nemmeno un soldo...» «Faremmo meglio a chiedere allo stesso Valjon che cosa ha intenzione di farsene di voi.» L'uomo barbuto li accompagnò fino a poppa, dove un uomo magro se ne stava a rimuginare, senza degnarli di uno sguardo. «Lord Valjon?» disse l'uomo barbuto. «Che c'è, Ganak?» «I due che abbiamo preso a bordo non hanno soldi, e vorrebbero essere ingaggiati per pagarsi il viaggio.» «Bene, lasciamoli fare, Ganak, se è questo ciò che vogliono.» Valjon
sorrise scialbamente. «Lasciamoli fare.» Non guardò in faccia Hawkmoon e D'Averc e i suoi occhi malinconici continuarono a fissare il fiume. Con un cenno della mano li congedò. Hawkmoon si sentì a disagio, guardandosi attorno. Tutta la ciurma stava lì a guardare, con vaghi sorrisi sulle labbra. «Che scherzo è?» domandò, perché era evidente che qualcosa non guidava. «Scherzo?» domandò Ganak. «Nessuno scherzo. E adesso, signori, volete spingere un remo se avete intenzione di arrivare a Narleen?» «Se è questo il lavoro che ci consentirà di raggiungere la città», disse D'Averc con una certa riluttanza. «Sembra un lavoro piuttosto duro», disse Hawkmoon. «Ma non siamo troppo lontani da Narleen, se si può prestar fede alla carta. Facci vedere qual è il nostro remo, Ganak, amico mio.» Ganak li condusse lungo il ponte, finché non raggiunsero la passerella fra i rematori. Qui giunti, Hawkmoon rimase impressionato dalle condizioni in cui si trovavano i marinai. Sembravano tutti mezzi morti di fame e sporchi. «Non capisco...» incominciò a dire. Ganak rise. «Bene, capirai molto presto.» «Chi sono questi rematori?» domandò D'Averc costernato. «Sono schiavi, signori... e anche voi lo siete. Non prendiamo nessuno a bordo del Falco del Fiume se non ne possiamo trarre un guadagno. Dal momento che voi non avete denaro, e un riscatto sembra improbabile, vi terremo come schiavi per remare in nostra vece. Mettetevi ai vostri posti!» D'Averc sguainò la spada, e Hawkmoon il pugnale, ma Ganak balzò indietro facendo cenno agli uomini dell'equipaggio. «Prendeteli, ragazzi. Insegnate loro qualche nuovo trucco perché, a quanto pare, non hanno capito che cosa devono fare gli schiavi.» Dietro di loro, lungo la passerella, si fece avanti un buon numero di marinai, tutti con lucenti spade in pugno, mentre un'altra squadra di uomini veniva verso di loro dalla parte opposta. D'Averc e Hawkmoon si prepararono a morire portando con sé un buon numero di marinai, ma in quel momento un altro uomo si precipitò dall'alto, lungo una corda che scendeva dalla crocetta dell'albero, e li colpì una volta, due volte sulla testa con un randello nodoso, facendoli precipitare nella stiva dei rematori. Il tizio sghignazzò e balzò sulla passerella, gettando via il randello. Ganak rise e gli batté una mano sulla spalla. «Buon lavoro, Orindo. Questo giochetto è sempre il più efficace e ci risparmia inutili spargimenti di san-
gue.» Altri marinai balzarono giù per disarmare i due uomini storditi e legarli per i polsi ai remi. Quando Hawkmoon si riebbe, lui e D'Averc sedevano affiancati su un duro banco e Orindo stava facendo dondolare le gambe sopra di loro seduto sulla passerella. Era un ragazzo di forse sedici anni, con un sorriso impertinente sulle labbra. Gridò rivolto a qualcuno più in alto che non si riusciva a scorgere: «Sono rinvenuti. Possiamo rimetterci in cammino adesso... per tornare a Narleen». Ammiccò a Hawkmoon e a D'Averc. «Cominciate, signori», disse, «cominciate a vogare, per piacere». Parve imitare una voce che aveva sentito. «Siete fortunati», soggiunse. «Andiamo con la corrente. Il vostro primo compito sarà facile.» Hawkmoon si inchinò in modo burlesco sul remo. «Grazie, giovanotto. Apprezziamo la tua sollecitudine.» «Vi darò altri consigli di tanto in tanto, perché questo si accorda con la gentilezza del mio carattere», disse Orindo, balzando in piedi, raccogliendo la veste rossa e blu intorno a sé e saltellando sulla passerella. Poco dopo comparve la faccia di Ganak. L'uomo pungolò le spalle di Hawkmoon con una gaffa acuminata. «Metticela tutta amico, o sentirai il morso di questa nelle budella.» Ganak scomparve. Gli altri rematori si chinarono per eseguire il proprio compito e Hawkmoon e D'Averc si trovarono costretti a seguire gli altri. Faticarono per la maggior parte del giorno, con il puzzo del proprio corpo e di quelli altrui nelle narici, e a mezzogiorno venne distribuita soltanto una scodella di brodaglia. Il lavoro spezzava le reni, sebbene fosse soltanto un assaggio in confronto alla fatica necessaria per remare controcorrente. La notte giacquero ai loro posti, a malapena capaci di ingoiare la seconda razione di quella brodaglia nauseabonda. Hawkmoon e D'Averc erano troppo stanchi per parlare, ma compirono qualche tentativo di liberarsi dai ceppi. Risultò impossibile, perché erano troppo deboli per sciogliere i nodi delle corde stretti tanto solidamente. Il mattino successivo la voce di Ganak li destò. «Tutti i rematori in azione. Avanti, voi, feccia! Dico a voi, signori! Forza! Forza! C'è una preda in vista e, se la perdiamo, dovrete subire la collera di Lord Valjon!» A quella minaccia, i corpi emaciati degli altri rematori entrarono subito in attività e Hawkmoon e D'Averc piegarono la schiena con i compagni,
spingendo la grossa barca controcorrente. Dal ponte giungeva il suono dei passi degli uomini, mentre questi si davano da fare preparando la nave per la battaglia. La voce di Ganak ruggiva dalla poppa, impartendo gli ordini alla ciurma in nome del suo padrone, Lord Valjon. Hawkmoon credeva di morire per lo sforzo, sentiva il cuore martellare e i muscoli spezzarsi nello sfinimento della fatica. Per quanto fosse allenato, quell'esercizio era insolito e metteva in funzione parti del suo corpo che non erano mai state sottoposte a uno sforzo di quel genere prima d'allora. Era coperto di sudore e i capelli gli si appiccicavano sulla faccia, teneva la bocca aperta ansimando affannosamente. «Oh, Hawkmoon...» disse con voce rotta D'Averc. «Questo... non... è... mai... stato... il mio ruolo... nella vita...» Hawkmoon non riuscì neppure a rispondere, a causa del dolore che gli attanagliava il petto e le braccia. Si udì adesso un acuto stridore, mentre la nave si scontrava con un'altra imbarcazione e Ganak urlava: «Vogatori, immergete i remi!» Hawkmoon e gli altri obbedirono immediatamente e si afflosciarono sui banchi, mentre il fragore della battaglia aveva inizio sul ponte. Si udiva il clangore delle spade e le voci degli uomini morenti, ma tutto sembrava soltanto un vago sogno per Hawkmoon. Sentiva che, se avesse continuato a remare sulla galera di Lord Valjon, sarebbe morto di lì a non molto. Poi, a un tratto, udì un grido gutturale sopra di sé e sentì un grosso peso che gli cadeva addosso. La cosa si dibatté, strusciò sulla sua testa, poi gli cadde davanti. Si trattava di un marinaio dall'aspetto di un bruto, con il corpo coperto da peli rossi. Nel mezzo del corpo dell'uomo era conficcata una corta sciabola. Egli ansimò, fremette, poi morì, lasciando cadere il pugnale che stringeva nella mano. Hawkmoon lo fissò intontito per un momento, poi il cervello incominciò a funzionargli. Allungò un piede e scoprì che arrivava a toccare il pugnale caduto. A poco a poco, interrompendosi spesso, lo trascinò verso di sé finché non venne a trovarsi sotto il suo banco. Allora, esausto, ricadde appoggiandosi al proprio remo. Nel frattempo, il suono della battaglia si era smorzato e Hawkmoon venne riportato alla realtà dall'odore di legno bruciato. Guardandosi intorno in preda al panico, si rese conto di cosa stesse accadendo. «È l'altra nave quella che sta bruciando», gli disse D'Averc. «Siamo a bordo di una nave pirata, Hawkmoon, amico mio. Una nave pirata.» Sorri-
se ironicamente. «Che indegno impiego, e con una salute delicata come la mia, per di più...» Hawkmoon rifletté, con un certo senso di autocritica, che D'Averc, a quanto sembrava, reagiva meglio di lui nella situazione in cui erano venuti a trovarsi. Trasse un profondo respiro e raddrizzò le spalle come meglio poteva. «Ho un coltello...» incominciò in un sussurro. Ma D'Averc annuì rapidamente. «Lo so. Ti ho visto. Hai riflettuto tempestivamente, Hawkmoon. Non sei poi in così cattive condizioni, dopo tutto. Tanto meglio! Credevo che saresti spirato da un momento all'altro.» Hawkmoon disse: «Riposiamo tutta la notte, finché non comincerà ad albeggiare. Poi fuggiremo». «Già», convenne D'Averc. «Dobbiamo risparmiare le forze più che possiamo. Coraggio, Hawkmoon, presto saremo di nuovo uomini liberi!» Per il resto della giornata avanzarono rapidamente lungo il corso del fiume, interrompendo la voga soltanto a mezzogiorno per la solita scodella di brodaglia. A un certo punto, Ganak si accovacciò sulla passerella e batté sulla spalla- di Hawkmoon con la gaffa. «Bene, amici miei, un altro giorno e vedrete esaudirsi il vostro desiderio. Attraccheremo al molo di Starvel, domani.» «E che cos'è Starvel?» gracchiò Hawkmoon. Ganak lo guardò sbigottito. «Dovete venire ben da lontano se non avete sentito parlare di Starvel. Fa parte di Narleen, anzi è la parte migliore. La città è circondata da mura, dove hanno la loro dimora i più grandi principi del fiume, e Lord Valjon è il più grande di tutti.» «Sono tutti pirati?» domandò D'Averc. «Attento, straniero», disse Ganak accigliandosi. «Ci impadroniamo di diritto di qualsiasi cosa si trovi sul fiume. Il fiume appartiene a Lord Valjon e ai suoi pari.» Si raddrizzò e se ne andò a grandi passi. Remarono fino al cader della notte, poi, dietro ordine di Ganak, smisero di vogare. Hawkmoon aveva trovato quel lavoro più facile, adesso che i suoi muscoli e il corpo avevano incominciato ad abituarsi alla fatica, ma era ancora sfinito. «Dobbiamo dormire a turno», mormorò a D'Averc mentre vuotavano la scodella di brodaglia serale. «Tu per primo, e poi io.» D'Averc annuì e si lasciò scivolare immediatamente nel sonno. La notte si fece fredda, e Hawkmoon riuscì a malapena a impedirsi di
cadere addormentato. Udì il cambio della prima guardia, poi quello della seconda. Con sollievo, incominciò a prendere a gomitate D'Averc finché non si svegliò. D'Averc borbottò e Hawkmoon si addormentò subito, rammentando le parole dell'amico. All'alba, con un po' di fortuna, sarebbero stati liberi. Poi sarebbe venuta la parte più difficile, quella di lasciare la nave senza essere visti. Si svegliò, sentendosi stranamente leggero, e si rese conto con crescente entusiasmo di avere le mani libere dai remi. D'Averc doveva aver lavorato nella notte. Era quasi l'alba. Si voltò verso il compagno, che gli sorrise e gli strizzò l'occhio. «Sei pronto?» mormorò D'Averc. «Sì...» rispose Hawkmoon con un gran sospiro. Guardò con desiderio il lungo coltello che aveva in mano D'Averc. «Se avessi un'arma», disse, «ripagherei Ganak per qualcuna delle sue ingiurie». «Non abbiamo tempo per queste cose, adesso», gli fece osservare D'Averc. «Dobbiamo svignarcela il più silenziosamente possibile.» Con circospezione si alzarono dai banchi e fecero sporgere il capo al di sopra della passerella. All'estremità più lontana uno dei marinai montava la guardia e, sul ponte di poppa, nel suo atteggiamento meditativo e astratto, si trovava Lord Valjon, con il pallido volto intento a fissare il fiume nell'oscurità della notte. Il marinaio girava loro le spalle e Valjon non sembrava disposto a voltarsi. I due uomini si issarono sulla passerella, avviandosi di soppiatto verso la prua della nave. Ma proprio in quel momento Valjon si voltò e disse poi nella sua voce sepolcrale: «Che succede? Due schiavi stanno fuggendo?» Hawkmoon rabbrividì. L'intuito di quell'uomo sembrava misterioso, perché era evidente che non li aveva scorti; forse li aveva soltanto uditi in quel momento. La voce di lui, per quanto tranquilla e sommessa, in qualche modo giunse dappertutto nella nave. Il marinaio di guardia si girò e urlò. Lord Valjon voltò il capo e la faccia mortalmente pallida splendette nella loro direzione. Numerosi marinai apparvero dal ponte inferiore, bloccando la strada sul fianco. I due fuggiaschi invertirono la direzione e Hawkmoon incominciò a correre verso la poppa e Lord Valjon. Il marinaio estrasse la corta sciabola e si gettò su Hawkmoon, ma quest'ultimo era in preda alla furia. Si piegò
velocemente per evitare il colpo, afferrò l'uomo alla vita e lo sollevò, scaraventandolo poi sul ponte dove giacque con il fiato mozzo. All'istante Hawkmoon, anche troppo stanco di essere inattivo, raccolse la pesante spada e con essa staccò la testa all'uomo. Poi si rivolse verso Lord Valjon, rimanendo a fissarlo. Il pirata parve impassibile di fronte a quel pericolo così immediato. Ricambiò lo sguardo di Hawkmoon con gli occhi scialbi e vacui. «Sei un pazzo», disse lentamente, «perché io sono Lord Valjon.» «E io sono Dorian Hawkmoon, duca di Köln! Ho combattuto e sconfitto i Signori dell'Impero Nero di Gran Bretagna, ho resistito alle loro più potenti magie, come testimonia questa pietra nel mio cranio. Non ti temo, Lord Valjon, sei soltanto un pirata!» «Allora abbi paura di quelli», mormorò Valjon puntando un dito ossuto alle spalle di Hawkmoon. Hawkmoon girò sui talloni e scorse un gran numero di marinai precipitarsi verso di lui e D'Averc. E D'Averc era armato soltanto di un coltello. Hawkmoon gli gettò la corta sciabola. «Prendi questa, D'Averc. Io mi occuperò del loro capo!» E balzò sulla poppa, afferrandosi alla balaustra e issandosi al di sopra di essa, mentre Lord Valjon, con un'espressione di blanda sorpresa sulla faccia, indietreggiava di un passo o due. Hawkmoon si fece avanti verso di lui, con le mani tese. Di sotto la veste ampia, Valjon sguainò una sottile lama puntandola contro Hawkmoon, senza fare il tentativo di attaccare, bensì indietreggiando. «Schiavo», mormorò Lord Valjon, con un'espressione confusa sul volto torvo. «Schiavo!» «Non sono uno schiavo, e te ne renderai presto conto.» Hawkmoon si lanciò, evitando la lama della spada e cercando di afferrare lo strano capitano dei pirati. Valjon indietreggiò rapidamente, sempre tenendo la spada davanti a sé. Evidentemente l'attacco portatogli da Hawkmoon non aveva precedenti, perché Valjon sapeva a malapena come comportarsi. Era stato disturbato da qualche stato di trance in cui lo avevano portato le sue meditazioni e fissava Hawkmoon come se fosse qualcosa di irreale. Hawkmoon balzò di nuovo, evitando la spada tesa verso di lui. E ancora una volta Valjon indietreggiò. Sotto di loro, D'Averc aveva le spalle contro il ponte di poppa e riusciva soltanto a trattenere i marinai che gremivano la stretta passerella. Gridò rivolgendosi a Hawkmoon: «Sbrigati con quello che stai facendo, Hawkmo-
on, amico, altrimenti di qui a non molto mi troverò una decina di spade conficcate in corpo». Hawkmoon prese di mira la faccia di Valjon con un pugno, sentì contro le nocche la carne fredda, asciutta, vide la testa dell'uomo scattare all'indietro e la spada cadergli di mano. Hawkmoon la raccattò, ne ammirò il perfetto equilibrio, e sollevò Valjon privo di sensi, puntandogli l'arma alla gola. «Indietro, feccia, altrimenti il vostro capo morirà!» urlò. «Indietro!» I marinai, sbigottiti, incominciarono a indietreggiare, lasciando tre cadaveri a terra ai piedi di D'Averc. Ganak arrivò correndo dietro i suoi uomini. Indossava soltanto un gonnellino e reggeva in mano una spada sguainata. Rimase a bocca aperta scorgendo Hawkmoon. «E adesso, D'Averc, forse ti farebbe piacere venire quassù a raggiungermi», gridò Hawkmoon quasi allegramente. D'Averc aggirò la poppa e si arrampicò sulla scaletta che portava sul ponte. Sorrise all'amico. «Ottimo lavoro, mio caro.» «Aspetteremo fino all'alba!» annunciò Hawkmoon. «Poi, voi marinai dirigerete la nave sulla riva. Quando avrete fatto ciò, e noi saremo liberi, forse consentiremo al vostro padrone di restare vivo e di andarsene.» Ganak si accigliò. «Sei un pazzo a trattare così Lord Valjon. Non sai che è il più potente principe del fiume a Starvel?» «Non so niente della tua Starvel, amico, ma ho osato sfidare i pericoli in Gran Bretagna, avventurandomi proprio nel cuore dell'Impero Nero, e dubito che tu possa costituire un pericolo più sofisticato di quelli. La paura è un sentimento che provo di rado, Ganak. Ma ricordati questo... mi vendicherò di te. I tuoi giorni sono contati.» Ganak rise. «La tua buona fortuna ti ha reso idiota, schiavo! La vendetta è una prerogativa della quale potrà avvalersi soltanto Lord Valjon!» L'alba stava già incominciando a schiarire l'orizzonte. Hawkmoon ignorò il sarcasmo di Ganak. Un secolo parve trascorrere, prima che il sole apparisse infine e cominciasse a dorare la cima degli alberi sul lontano argine del fiume. Si trovavano ancorati vicino alla riva sinistra, in prossimità di una minuscola insenatura che poteva essere scorta soltanto a circa mezzo chilometro di distanza. «Impartisci l'ordine di remare ai vogatori, Ganak!» gridò Hawkmoon. «Dirigi sulla riva sinistra.» Ganak si accigliò e non accennò a obbedire.
Il braccio di Hawkmoon circondò la gola di Valjon. L'uomo incominciava a sbattere le palpebre, riavendosi. Hawkmoon gli batté sullo stomaco la spada. «Ganak, posso far morire Valjon di una morte lenta!» A un tratto, dalla gola del capo dei pirati uscì una lieve e ironica risatina. «Morire lentamente...» disse. «Morire lentamente...» Hawkmoon lo fissò interdetto. «Già. So dove è meglio colpirti per concederti un più lungo tempo e una più intensa sofferenza prima che giunga la morte.» Valjon non emise alcun altro suono, limitandosi a rimanere passivamente in piedi, con la gola sempre stretta nella presa del braccio di Hawkmoon. «Avanti, Ganak! Impartisci gli ordini!» gridò D'Averc. Ganak trasse un profondo respiro. «Vogatori!» gridò, e incominciò a dare gli ordini. I remi cigolarono, le schiene dei vogatori si piegarono e lentamente la nave incominciò ad avanzare verso l'argine sinistro del fiume Sayou. Hawkmoon sorvegliò attentamente Ganak per timore che l'uomo tentasse di giocarli, ma Ganak non si mosse, limitandosi semplicemente ad assumere un'espressione accigliata. Mentre l'argine diventava sempre più vicino, Hawkmoon incominciò a rilassarsi. Erano ormai quasi liberi. A terra, sarebbero riusciti a sottrarsi a qualsiasi inseguimento da parte dei marinai, i quali sarebbero stati in ogni caso senza dubbio riluttanti a lasciare la nave. Poi udì D'Averc urlare e lo vide indicare verso l'alto. Scrutò nella stessa direzione e vide una sagoma arrivare con un sibilo giù lungo una corda, subito sopra la sua testa. Era il ragazzo, Orindo, che stringeva un nodoso randello tra le mani e aveva un sorriso feroce sulle labbra. Hawkmoon lasciò andare Valjon e sollevò le braccia per proteggersi, incapace di fare la cosa più ovvia, che era quella di sollevare la spada per colpire Orindo mentre scendeva. Il randello lo colpì con violenza sul braccio ed egli barcollò all'indietro. D'Averc si precipitò avanti e afferrò Orindo alla vita, trattenendogli le braccia. Valjon, trasformato, schizzò verso la scaletta del boccaporto, urlando in maniera strana e inarticolata. D'Averc spinse Orindo dietro di lui con una imprecazione. «Ci siamo lasciati sorprendere dallo stesso giochetto per la seconda volta, Hawkmoon. Meritiamo di morire, per questo!»
Marinai vocianti, guidati da Ganak, stavano salendo adesso dalla scaletta del boccaporto. Hawkmoon cercò di colpire Ganak, ma il barbuto marinaio bloccò il colpo, sferrando un micidiale fendente diretto alle gambe di Hawkmoon. Questi si trovò costretto a balzare indietro, e Ganak poté così arrivare sulla poppa e affrontarlo direttamente con un sorriso beffardo sulle labbra. «E adesso, schiavo, vedremo come combatti con un uomo!» disse. «Non vedo nessun uomo», ribatté Hawkmoon. «Soltanto qualche specie di animale.» E rise, mentre Ganak cercava di nuovo di colpirlo. Parò l'assalto con la spada meravigliosamente ben bilanciata che aveva sottratto a Valjon. Combatterono avanti e indietro sul ponte, mentre D'Averc si dava da fare tenendo a bada gli altri. Ganak era un maestro con la spada, ma la sua corta sciabola non poteva reggere il confronto con la brillante arma del capo pirata. Hawkmoon lo colpì alla spalla con un fulmineo fendente e barcollò all'indietro, mentre l'arma dell'avversario si scontrava con l'elsa della sua spada. Poi si riprese e riuscì a colpire di nuovo Ganak al braccio sinistro. L'uomo barbuto uggiolò come un animale e si gettò avanti con rinnovata ferocia. Hawkmoon raggiunse di nuovo il bersaglio, questa volta ferendo l'avversario al braccio destro. Il sangue adesso copriva entrambe le braccia muscolose dell'uomo e Hawkmoon era indenne. Ganak si gettò addosso a Hawkmoon; ormai era in preda a una specie di feroce panico. Il successivo colpo di Hawkmoon si diresse al cuore, liberando così Ganak da ogni ulteriore sofferenza. La punta della spada penetrò nella carne, strusciò contro l'osso, e la vita sfuggì dal corpo di Ganak. Ma ormai i marinai avevano costretto D'Averc a indietreggiare ed egli si trovava circondato da uomini che lo tagliuzzavano con le corte sciabole. Hawkmoon liberò l'arma dal cadavere e balzò avanti, colpendo uno degli avversari alla gola e un altro sotto le costole ancora prima che si fossero accorti della sua presenza. Schiena contro schiena, adesso, Hawkmoon e D'Averc tennero testa ai marinai, ma sembrava che ben presto sarebbero stati sopraffatti, perché sempre nuovi rinforzi venivano ad aggiungersi ai compagni. Di lì a non molto, la poppa si riempì di cadaveri, e Hawkmoon e D'Averc, coperti di tagli, sanguinavano da una decina di ferite. Eppure conti-
nuavano a combattere. Hawkmoon intravide Lord Valjon accanto all'albero maestro intento a guardarsi attorno con gli occhi infossati, e a fissarlo intensamente come se volesse imprimersi nella mente la sua fisionomia per il resto della vita. Hawkmoon rabbrividì, poi riportò tutta la sua attenzione agli assalti dei marinai. Un colpo di piatto di una delle corte sciabole lo raggiunse al capo ed egli barcollò contro D'Averc, sbilanciando il suo amico. Caddero insieme sul ponte, divincolandosi per rimettersi in piedi, sempre battendosi. Hawkmoon raggiunse uno degli uomini allo stomaco, colpì con un pugno alla faccia un altro che si stava chinando, e si sollevò in ginocchio. Poi di colpo i marinai indietreggiarono, con gli occhi fissi sulla sinistra. Hawkmoon balzò in piedi. D'Averc lo imitò. Un'altra nave veniva avanti sull'acqua, stava uscendo dalla baia, con le bianche vele gonfie per la brezza fresca che spirava da sud; lo scafo era dipinto in maniera elaborata di blu scuro e di nero, splendente nel sole del primo mattino. I marinai, armati, erano allineati lungo le fiancate. «Un pirata rivale, senza dubbio», disse D'Averc, e sfruttò il vantaggio per abbattere l'uomo più vicino e per precipitarsi verso la balaustrata di poppa. Hawkmoon seguì il suo esempio e, con la schiena appoggiata contro di essa, continuarono a battersi, sebbene la metà dei loro nemici stesse correndo giù per la scaletta del boccaporto, per presentarsi a Lord Valjon e ricevere gli ordini. Una voce gridò dall'altra imbarcazione, ma era di gran lunga troppo lontana perché le parole fossero comprensibili. In qualche modo in mezzo alla confusione Hawkmoon udì la voce profonda, terribilmente stanca di Valjon pronunciare una sola parola, una parola piena di disgusto. Quella parola fu: «Bewchard!» Poi i marinai furono di nuovo loro addosso e Hawkmoon sentì una delle corte sciabole raggiungerlo alla faccia. Si voltò con occhi fiammeggianti verso l'avversario che l'aveva colpito e mosse la spada in modo da conficcargli la lama nella bocca e da fargliela penetrare nel cervello; udì l'uomo urlare, un urlo prolungato e orribile. Hawkmoon non provò pietà, estrasse la spada e ne colpì un altro al cuore. E continuarono così a combattere, mentre la goletta nera e blu si avvicinava sempre più. Per un momento Hawkmoon si domandò se la nave fosse amica o nemi-
ca. Poi non ebbe più tempo per porsi domande; i vendicativi marinai li stringevano da presso, con le pesanti e corte sciabole che si alzavano e si abbassavano. CAPITOLO QUINTO PAHL BEWCHARD Mentre la nave nera e blu si scontrava fragorosamente contro quella di Valjon, Hawkmoon udì la voce di questi gridare un ordine. «Lasciate perdere gli schiavi! Lasciateli stare! Tenetevi pronti a respingere i cani di Bewchard!» I marinai superstiti indietreggiarono cautamente dagli ansimanti Hawkmoon e D'Averc. Hawkmoon fece il gesto di colpire ancora, inducendoli ad allontanarsi più in fretta, ma non aveva la forza di inseguirli, per il momento. Rimasero a osservare i marinai, tutti vestiti con giustacuori e calze degli stessi colori della nave, che appesi, alle corde, atterravano sul ponte del Falco del Fiume. Erano armati di pesanti asce da guerra e sciabole e combattevano con una precisione che i pirati non potevano imitare, sebbene facessero del loro meglio per esserne all'altezza. Hawkmoon cercò con lo sguardo Lord Valjon, ma egli era scomparso, probabilmente sottocoperta. Si rivolse a D'Averc. «Bene, abbiamo fatto la nostra parte per oggi, amico mio. Che ne diresti di dedicarci a un'azione meno letale? Potremmo liberare i poveri miserabili ai remi!» E così dicendo scavalcò con un balzo la balaustra di poppa e atterrò sulla passerella, protendendosi poi verso il basso a tagliare le corde annodate che incatenavano gli schiavi ai remi. Quegli uomini guardarono verso l'alto sorpresi, senza rendersi conto, per la maggior parte, di che cosa stessero facendo per loro Hawkmoon e D'Averc. «Siete liberi», disse loro Hawkmoon. «Liberi», ripeté D'Averc. «Ascoltate il nostro consiglio, e lasciate la nave appena potete, perché non sappiamo come si risolverà la battaglia.» Gli schiavi si alzarono, stiracchiandosi le membra dolenti; poi, uno alla volta, si issarono sulla fiancata della nave e scivolarono in acqua. D'Averc li guardò allontanarsi con un sorriso. «È un vero peccato che non possiamo fare altrettanto per quelli che si trovano dall'altra parte», disse.
«E perché no?» domandò Hawkmoon, indicando un portello che si apriva sul lato sotto la passerella. «Se non mi sto sbagliando, questo conduce sotto il ponte.» Appoggiò la schiena contro il fianco della nave e sferrò un calcio al portello. Dopo alcuni calci, esso si aprì. Si fecero avanti nell'oscurità e strisciarono sotto le tavole, udendo subito sopra le proprie teste lo strepito della battaglia. D'Averc si fermò, spaccando con la spada spuntata un cofano. Da esso caddero numerosi gioielli. «Il loro bottino», disse. «Non abbiamo tempo per queste cose, adesso», lo ammonì Hawkmoon, ma D'Averc stava ridacchiando. «Non progettavo di occuparmi di questa roba», disse all'amico, «ma odio l'idea che Valjon se ne vada con il suo bottino se la battaglia si risolve a suo favore. Guarda...» e indicò un grosso oggetto circolare situato sul fondo della stiva. «Se non mi sbaglio, questo farà entrare un po' dell'acqua del fiume nella nave, amico!» Hawkmoon annuì. «Mentre ti dai da fare con quello, mi affretterò a liberare gli schiavi.» Lasciò D'Averc al suo compito e raggiunse il portello più lontano. Il portello cadde verso l'interno, trascinando con sé due uomini che lottavano. Uno di essi indossava l'uniforme della nave attaccante, l'altro era un pirata. Con un rapido movimento, Hawkmoon liquidò l'uomo di Valjon. L'altro lo guardò sorpreso. «Sei uno di quelli che abbiamo visto combattere sul ponte di poppa!» Hawkmoon annuì. «Di chi è la vostra nave?» «È la nave di Bewchard», rispose l'uomo asciugandosi la fronte e pronunciando quel nome come se fosse una spiegazione sufficiente. «E chi è Bewchard?» L'altro rise. «Ma come!? È il nemico giurato di Valjon, se ancora non lo sai. Ti ha visto combattere anche lui, ed è rimasto impressionato dalla tua abilità come spadaccino.» «Lo credo», ridacchiò Hawkmoon, «stavo facendo del mio meglio, oggi. E come poteva essere diversamente? Stavo combattendo per salvarmi la vita!» «Questo rende spesso tutti noi degli eccellenti spadaccini», convenne l'uomo. «Mi chiamo Culard, e sono tuo amico se sei nemico di Valjon.» «Meglio che ti avverta, allora», disse Hawkmoon. «Stiamo affondando la nave. Guarda!» Indicò nella penombra il punto in cui D'Averc stava lot-
tando con la zeppa rotonda. Culard annuì subito e si chinò per passare nella stiva dei rematori. «Ci rivedremo quando tutto questo sarà finito, amico», gridò mentre se ne andava, «se saremo ancora vivi!» Hawkmoon lo seguì, strisciando lungo il corridoio per tagliare le corde che legavano gli schiavi. Sopra di lui, gli uomini di Bewchard sembrava stessero respingendo i pirati di Valjon. Hawkmoon sentì a un tratto la nave muoversi e vide D'Averc che si affrettava a uscire dal portello. «Penso che sarebbe meglio cercare di raggiungere la riva», disse il francese con un sorriso, indicando con il pollice gli schiavi che sparivano oltre la murata, «seguendo l'esempio dei nostri amici». Hawkmoon annuì. «Ho avvertito gli uomini di Bewchard di quello che stava succedendo. Abbiamo ormai ripagato Valjon, credo.» Si mise sotto il braccio la spada del pirata. «Cercherò di non perdere quest'arma. È la migliore che abbia mai usato. Una lama di questo genere fa diventare un campione qualsiasi spadaccino!» Si arrampicò su un lato della nave e vide che gli uomini di Bewchard avevano spinto i marinai della nave pirata all'estremo opposto, ma stavano adesso tornando sui propri passi. Culard aveva evidentemente diffuso la notizia. L'acqua incominciava a ribollire attraverso il portello. La nave non ci avrebbe messo molto ad affondare. Hawkmoon si voltò e si guardò alle spalle. C'era ben poco posto fra i due scafi per nuotare. Il miglior sistema di fuga sarebbe stato quello di passare sulla goletta di Bewchard. Informò D'Averc dei propri piani. Il suo amico annuì ed entrambi si equilibrarono sulla balaustra, poi spiccarono un salto e atterrarono sul ponte dell'altra imbarcazione. Non c'erano rematori su di essa e Hawkmoon si rese conto che i vogatori di Bewchard dovevano essere uomini liberi, e facevano parte dell'equipaggio della nave intento a combattere. Questo, gli parve, era un sistema più saggio, meno rovinoso di quello che impiegava gli schiavi. Mentre pensava a questo, una voce gridò dal Falco del Fiume: «Ehi, amico. Tu, con quella gemma nera in fronte. Stai progettando di affondare anche la mia nave?» Hawkmoon si voltò e vide un giovane di bell'aspetto, con un abito interamente di pelle nera e un mantello blu dall'alto colletto gettato sulle spalle, con l'ascia in una mano e la spada nell'altra, sollevata nella sua direzio-
ne dalla balaustrata del galeone ormai condannato. «Siamo soltanto di passaggio», gridò Hawkmoon. «La tua nave è al sicuro per quanto dipende da noi.» «Aspetta un momento!» L'uomo vestito di nero saltò sulla balaustra del Falco del Fiume tenendovi-si in equilibrio. «Voglio ringraziarvi per aver fatto metà del nostro lavoro.» Con riluttanza Hawkmoon aspettò finché l'uomo non fu di nuovo balzato sulla propria nave e si fu avvicinato a loro sul ponte. «Sono Pahl Bewchard e questa è la mia nave», disse. «Ho aspettato diverse settimane prima di poter catturare il Falco del Fiume. Potrei non esserci riuscito, se voi non vi foste incaricati di far fuori la maggior parte dell'equipaggio e non mi aveste dato la possibilità di uscire dall'insenatura...» «Già», disse Hawkmoon. «Bene, non voglio intromettermi oltre in una disputa fra pirati.» «Mi stai giudicando male, amico», rispose Bewchard con disinvoltura, «perché ho giurato di liberare il fiume dai Lord Pirati di Starvel. Sono il loro più accanito nemico». Gli uomini di Bewchard stavano sciamando di nuovo sulla propria nave, tagliando i grappini di arrembaggio, mentre tornavano a bordo. Il Falco del Fiume girava su se stesso, sulla corrente, con la poppa ormai sotto la superficie dell'acqua. Qualcuno dei pirati saltò nel fiume, ma non si vedeva traccia di Valjon. «Dove è scappato il loro comandante?» domandò D'Averc scrutando lo scafo. «È come un topo», rispose Bewchard. «Senza dubbio è scivolato via non appena si è reso conto che per oggi la partita era perduta. Mi hai aiutato molto, perché Valjon è il peggiore dei pirati. Te ne sono riconoscente.» E D'Averc, che non si perdeva mai di spirito quando la cortesia e i suoi stessi interessi si trovavano coinvolti, rispose: «E noi siamo grati a te, capitano Bewchard, per essere arrivato quando le cose sembravano perdute per noi. Il debito è saldato, a quanto pare». Sorrise con un'espressione accattivante. Bewchard chinò il capo. «Grazie. Comunque direi che avete bisogno di qualcosa che contribuisca a rimettervi in sesto. Siete entrambi feriti, i vostri abiti... i vostri abiti non sono esattamente, come si può vedere, gli abiti che di solito sceglie di indossare un gentiluomo. Voglio dire, in parole povere, che mi sentirei onorato se voleste accettare l'ospitalità del mio galeo-
ne, per quello che può valere, e l'ospitalità della mia dimora, quando arriveremo in porto.» Hawkmoon si accigliò, mentre rifletteva. Aveva preso in simpatia il giovane capitano. «E dove pensi di approdare?» «A Narleen», rispose Bewchard. «Dove abito.» «Eravamo diretti a Narleen, in effetti, quando siamo stati catturati da Valjon», incominciò a dire Hawkmoon. «Allora potete senz'altro continuare il viaggio con me. Se vi posso essere d'aiuto...» «Grazie, capitano Bewchard», disse Hawkmoon. «Accettiamo con piacere la tua offerta di aiutarci a raggiungere Narleen. E forse, durante il tragitto, ti sarà possibile fornirci quelle informazioni delle quali manchiamo.» «Volentieri.» Bewchard fece un gesto verso la porta posta sotto il ponte di poppa. «La mia cabina è da questa parte, amici.» CAPITOLO SESTO NARLEEN Attraverso la finestra della cabina del capitano Bewchard videro gli spruzzi della scia mentre la nave procedeva a vele spiegate lungo il fiume. «Se dovessimo incontrare un paio di imbarcazioni di pirati», disse loro Bewchard, «avremmo poche possibilità di cavarcela. Per questo andiamo a una simile velocità». Il cuoco portò infine in tavola le vivande e dispose i piatti davanti a loro. C'erano diversi tipi di carni, pesci e verdure, frutta e vino. Hawkmoon mangiò il meno possibile, incapace di resistere però ad assaggiare tutto quello che si trovava sulla tavola, ma consapevole che il suo stomaco non era ancora pronto ad accogliere un cibo tanto sostanzioso. «Questo è un pranzo adatto a celebrare l'avvenimento», disse loro allegramente Bewchard, «dal momento che ho dato la caccia a Valjon per mesi». «Chi è Valjon?» domandò Hawkmoon tra un boccone e l'altro. «Sembra uno strano individuo.» «Diverso da qualsiasi pirata immaginabile», interloquì D'Averc. «È un pirata per tradizione», gli rispose Bewchard. «I suoi antenati sono sempre stati pirati, e hanno depredato i trafficanti del fiume per secoli. Per lungo tempo i mercanti hanno versato enormi contributi ai Lord di Starvel, ma alcuni anni fa hanno incominciato a opporsi e Valjon è passato alle
rappresaglie. Poi un gruppo di noi ha deciso di costruire navi da combattimento, come quelle dei pirati, e di attaccarli sull'acqua. Io comando una di tali navi. Da mercante di mestiere mi sono dedicato a una occupazione più militaresca, e continuerò così finché Narleen non si sarà sbarazzata di Valjon e dei suoi simili.» «E come vanno le cose?» domandò Hawkmoon. «Non è semplice dirlo. Valjon e gli altri Lord Pirati restano sempre inattaccabili nella loro città circondata da mura. Starvel è una città nella città, all'interno di Narleen, e finora siamo riusciti soltanto a contenere un poco le loro imprese piratesche. Eppure non ci sono state fino a questo momento importanti prove di forza da nessuna delle due parti.» «Hai detto che Valjon è un pirata per tradizione», incominciò a dire D'Averc. «Già, i suoi antenati sono giunti a Narleen molti secoli fa. Erano potenti e noi relativamente deboli. La leggenda dice che un antenato di Valjon, Batach Gerandiun, aveva anche la stregoneria ad aiutarlo. Costruirono le mura intorno a Starvel, il quartiere della città che scelsero per sé, e sono rimasti sempre là.» «E come reagisce Valjon nei vostri confronti quando vede le sue navi attaccate come è successo oggi?» Hawkmoon bevve un lungo sorso di vino. «Ci rende la pariglia con tutti i mezzi possibili, ma stiamo riuscendo a renderli più prudenti nell'avventurarsi sul fiume, in questi giorni. C'è ancora molto da fare. Mi piacerebbe ammazzare Valjon, se appena mi fosse possibile. Questo potrebbe spezzare le reni all'intera comunità dei pirati, ne sono sicuro, ma riesce sempre a sfuggirmi. Ha un sesto senso per il pericolo. È sempre capace di evitarlo, anche prima di esserne minacciato.» «Ti auguro di essere così fortunato nel trovarlo», disse Hawkmoon. «Adesso, dicci, capitano Bewchard, sai qualcosa di una spada chiamata Spada dell'Aurora? Ci hanno assicurato che l'avremmo trovata a Narleen.» Bewchard parve sorpreso. «Già, ne ho sentito parlare. È collegata con la leggenda alla quale ho appena accennato, quella concernente l'antenato di Valjon, Batach Gerandiun. Il potere magico di Batach si diceva dipendesse dalla spada. Batach era diventato un dio, a quell'epoca. I pirati lo hanno deificato e lo venerano nel tempio che gli hanno dedicato, il tempio di Batach Gerandiun. Sono gente superstiziosa, quei pirati. Il loro modo di pensare e il loro comportamento sono spesso incomprensibili per un mercante dalla mentalità pratica come la mia.» «E dove si trova adesso la spada?» domandò D'Averc.
«Ecco, si dice che sia la spada che i pirati venerano nel tempio. Essa rappresenta il potere, per quella gente, così come lo era per Batach. State cercando allora di impossessarvi della spada, signori?» «Non...» incominciò Hawkmoon, ma D'Averc lo interruppe placido. «In effetti è così, capitano. Abbiamo un parente, uno studioso davvero molto saggio, che vive nel nord, il quale ha sentito parlare della spada e desiderava esaminarla. Ci ha inviati qui per vedere se poteva essere acquistata.» Bewchard rise di cuore. «Si può acquistare, amici, si può acquistare, ma con il sangue di un mezzo milione di combattenti. I pirati combatteranno fino all'ultimo uomo per difendere la Spada dell'Aurora. È un oggetto al quale attribuiscono un valore superiore a quello di qualunque altra cosa.» Hawkmoon sentì il proprio coraggio svanire. Mygan li aveva forse inviati a compiere una ricerca impossibile? «Ah, be'», rispose D'Averc, stringendosi nelle spalle con filosofia. «Allora dobbiamo sperare che finalmente tu sconfigga Valjon e gli altri e metta all'asta le loro proprietà, un giorno o l'altro.» Bewchard sorrise. «Non credo che quel giorno arriverà nel corso della mia vita. Occorreranno molti anni prima che Valjon possa dirsi definitivamente sconfitto.» Si alzò da tavola. «Scusatemi per un momento. Devo andare a vedere come procedono le cose sul ponte.» Lasciò la cabina con un lieve e cortese inchino. Quando se ne fu andato, Hawkmoon si accigliò. «Che facciamo adesso, D'Averc? Ci siamo arenati in questa terra straniera, incapaci di procurarci quello che stiamo cercando.» Tirò fuori di tasca gli anelli di Mygan e li fece tintinnare nel palmo della mano. Ce n'erano undici adesso, perché lui e D'Averc si erano tolti quelli che portavano. «Siamo fortunati ad avere ancora questi. Forse potremmo servircene, balzare a caso nelle dimensioni del tempo sperando di ritrovare la strada per tornare in Kamarg.» D'Averc sbuffò. «Potremmo ritrovarci di colpo alla corte di re Huon, o in pericolo di vita di fronte a qualche mostro. Io dico che dobbiamo andare a Narleen e trascorrere là qualche tempo, anche soltanto per renderci conto di quanto sia difficile ottenere la spada del pirata.» Prese qualcosa nella tasca dell'abito. «Mentre parlavi, a momenti mi dimenticavo di possedere questo piccolo oggetto.» Glielo mostrò. Era la pallottola di una delle armi di cui si servivano gli abitanti della città di Halapandur. «E che importanza ha questa roba, D'Averc?» domandò Hawkmoon. «Come ti ho detto, potrebbe dimostrarsi utile per noi.»
«Senza una pistola?» «Senza una pistola», annuì D'Averc. Mentre riponeva la pallottola in tasca, Pahl Bewchard rientrò nella cabina. Sorrideva. «Fra meno di un'ora, amici, attraccheremo a Narleen», disse. «Credo che la nostra città vi piacerà.» Poi soggiunse con una risatina: «Se non altro, la parte dove non abitano i Lord Pirati». *
*
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Hawkmoon e D'Averc si trovavano sul ponte della nave di Bewchard e rimasero a osservare come venisse abilmente fatta entrare nel porto. Il sole splendeva caldo nel cielo limpido e azzurro, e faceva risplendere la città. Gli edifici erano per la maggior parte bassi; raramente superavano i quattro piani, ma erano riccamente decorati con ornamenti rococò dall'aspetto molto antico. Tutti i colori si erano alterati, sbiaditi, ma ciò non di meno rimanevano ancora distinguibili. Nella costruzione delle case era stato impiegato molto legno: pilastri, balconi e facciate erano tutti scolpiti nel legno; ma alcune dimore avevano ringhiere di metallo verniciato e anche porte metalliche. I moli erano pieni di ceste da imballaggio e di merci che venivano caricate o scaricate dalle miriadi di navi che gremivano il porto. Gli uomini lavoravano con gli argani per sollevare i carichi, issandoli sulle banchine o nelle stive, trasportandoli su e giù per le passerelle d'imbarco, sudando nella calura del giorno, nudi fino alla cintola. Ovunque si udivano frastuono e clamore e Bewchard sembrava godersi tutto ciò, mentre scortava Hawkmoon e D'Averc lungo la passerella d'imbarco della sua goletta e attraverso la ressa che aveva incominciato a formarsi. A Bewchard venivano rivolti saluti da ogni parte. «Com'è andata, capitano?» «Avete trovato Valjon?» «Avete perduto molti uomini?» Bewchard infine si fermò, ridendo di ottimo umore. «Bene, concittadini di Narleen», gridò. «Devo dirvi tutto, a quanto vedo, altrimenti non ci lascerete passare. Sì, abbiamo affondato la nave di Valjon...» Ci fu un ansito generale tra la folla, e poi il silenzio. Bewchard balzò su
una cassa di imballaggio e sollevò le braccia. «Abbiamo affondato la nave di Valjon, il Falco del Fiume, ma probabilmente sarebbe riuscita a sfuggirci, se non fosse stato per questi miei due compagni.» D'Averc sbirciò Hawkmoon con burlesco imbarazzo. I cittadini fissarono i due con espressione di sorpresa, come fossero incapaci di credere che individui così stracciati e morti di fame come loro potessero essere qualcosa di diverso da due modesti schiavi. «Sono questi i vostri eroi, non io», continuò Bewchard. «Da soli, hanno resistito all'intero equipaggio della nave pirata, hanno ucciso Ganak, il secondo di Valjon, e fatto sì che lo scafo diventasse una facile preda per il nostro attacco. Poi hanno affondato il Falco del Fiume!» La folla esplose adesso in un grande applauso. «Imparate i loro nomi, cittadini di Narleen. Ricordateli come amici della città e non negate loro nulla. Sono Dorian Hawkmoon dalla Gemma Nera e Huillam D'Averc. Non avete mai incontrato persone più coraggiose né più abili spadaccini!» Hawkmoon era sinceramente imbarazzato da tutto ciò, e si accigliò; guardò Bewchard, cercando di fargli cenno di smetterla. «E cosa ne è stato di Valjon?» domandò uno dei presenti. «È morto?» «Ci è sfuggito», fu costretto a rispondere con rammarico Bewchard. «È sparito come un sorcio. Ma un giorno o l'altro avremo la sua testa.» «O lui la tua, Bewchard!» Aveva parlato un uomo riccamente vestito, che si era fatto avanti. «Tutti quanti voi non avete fatto altro che mandarlo in collera! Per anni ho pagato le mie tasse fluviali agli uomini di Valjon e sono stato lasciato in pace. Adesso tu e quelli come te hanno detto: 'Non pagate le taste', e io non le ho pagate, ma da quel giorno non ho più avuto pace, non posso dormire senza la paura di quello che potrà fare Valjon. Valjon è costretto alle rappresaglie. E non può prendersela soltanto con voi per fare le sue vendette! E che cosa ne è degli altri di noi, di quelli che vogliono la pace dell'anima e non la gloria? Mettete a repentaglio tutti quanti!» Bewchard rise. «Sei stato proprio tu, Veroneeg, se non sbaglio, a cominciare per primo a lagnarti dei pirati, a dire che non potevi più far fronte alle elevate pretese di quella gente, a sostenerci quando abbiamo fondato la lega per combattere Valjon. Bene, Veroneeg, lo stiamo combattendo, ed è una cosa dura, ma vinceremo, non temere!» La folla applaudì di nuovo, ma questa volta gli applausi furono un po'
più freddi e la gente stava incominciando a disperdersi. «Valjon si vendicherà, Bewchard», ripeté Veroneeg. «I tuoi giorni sono contati. Corrono voci secondo le quali i Lord Pirati stanno raccogliendo le forze, e hanno soltanto scherzato con noi. finora. Possono distruggere Narleen, se vogliono!» «Distruggere la fonte dei loro mezzi di sussistenza! Sarebbe una cosa idiota da parte loro!» Bewchard fece una spallucciata, come per congedare il mercante di mezz'età. «Idiota forse... quanto lo è il vostro modo di agire», disse con il fiato corto Veroneeg. «Ma fate in modo che ci odino a sufficienza, e il loro odio potrebbe far loro dimenticare che siamo noi a nutrirli!» Bewchard sorrise e scosse il capo. «Dovresti ritirarti dagli affari, Veroneeg. Le difficoltà della vita del mercante non fanno più per te.» La folla si era quasi completamente dispersa ormai, e c'erano espressioni ansiose sulle facce di molti di quelli che soltanto pochi momenti prima avevano applaudito gli eroi. Bewchard saltò giù dalla cassa e mise le braccia sulle spalle dei suoi compagni. «Andiamo, amici, non stiamo qui ad ascoltare quel povero vecchio Veroneeg. Riesce sempre ad avvelenare ogni trionfo con le sue chiacchiere deprimenti. Andiamo nella mia dimora e vediamo se riesco a trovarvi abiti più degni per dei gentiluomini. Poi, domani, potremo andare in giro per la città a comperare un nuovo guardaroba a entrambi!» Li guidò per le vie brulicanti di Narleen, vie che sembravano seguire direzioni tortuose e prive di ogni logica, strette e sature di numerosi odori che si fondevano gli uni con gli altri, affollate di marinai e spadaccini, mercanti e scaricatori di porto, vecchie, graziose fanciulle, venditori ambulanti che offrivano le proprie merci, e cavalieri che si aprivano la strada in mezzo a chi andava a piedi. Li condusse lungo le vie acciottolate su per una ripida collina e in una piazza, un lato della quale era libero dalle costruzioni. E da quella parte si stendeva il mare. Bewchard si fermò per un momento a fissare quello spettacolo. Le acque baluginavano nel sole. D'Averc gesticolò, indicando da quella parte. «Commerciate al di là dell'oceano?» Bewchard si slacciò il pesante mantello e se lo gettò su un braccio. Aprì il colletto della giacca e scosse il capo, sorridendo. «Nessuno sa cosa ci sia di là dal mare... probabilmente nulla. No, commerciamo lungo le coste per circa due o trecento chilometri in ciascuna direzione. Questa zona è gremi-
ta di ricche città che non hanno risentito molto degli effetti del Millennio Tragico.» «Capisco. E come si chiama questo continente? È forse, come sospettiamo, l'Asiacomunista?» Bewchard si accigliò. «Non l'ho mai sentito chiamare così, sebbene io non sia uno scienziato. L'ho sentito definire con diversi nomi come 'Yarshai', 'Amarehk' e 'Nishtay'.» Si strinse nelle spalle. «Non ho mai saputo con certezza dove si trovi, rispetto ai leggendari continenti che si dice siano situati altrove nel mondo». «Amarehk!» esclamò Hawkmoon. «Ma ho sempre pensato che fosse la leggendaria dimora di qualche creatura sovrumana.» «E io avevo creduto che la Bacchetta Magica si trovasse nell'Asiacomunista!» disse ridendo D'Averc. «Non si dovrebbe, Hawkmoon, amico mio, riporre troppa fiducia nelle leggende! Forse, dopo tutto, la Bacchetta Magica non esiste!» Hawkmoon annuì. «Forse.» L'espressione di Bewchard andava oscurandosi. «La Bacchetta Magica... le leggende... di che cosa state parlando, signori?» «È una questione della quale parlava il sapiente cui abbiamo accennato», si affrettò a dire D'Averc. «Sarebbe noioso spiegare.» Bewchard si strinse nelle spalle. «Non sopporto di annoiarmi, amici», disse, e li guidò di nuovo lungo le viuzze. Si erano lasciati indietro la parte della città in cui si svolgevano i traffici, e si trovavano su una collina dove le case sembravano più eleganti e meno assiepate le une alle altre. Alte mura circondavano giardini nei quali, come si poteva constatare, crescevano alberi fioriti e zampillavano fontane. Bewchard si fermò infine davanti a una di tali dimore circondate di mura. «Benvenuti a casa mia, miei cari amici», disse, battendo al portone. Uno spioncino si schiuse e un paio di occhi scrutarono fuori. Poi il portone venne spalancato e un servo si inchinò a Bewchard. «Benvenuto a casa, padrone. Il viaggio è stato fruttuoso? Tua sorella ti aspetta.» «Molto fruttuoso, Per! Ah, e così Jeleana è qui ad accoglierci. Vi piacerà Jeleana, amici!» CAPITOLO SETTIMO L'INCENDIO
Jeleana era una bella ragazza dai capelli corvini e dalle maniere vivaci; conquistò subito D'Averc. Alla cena di quella sera le fece la corte e fu deliziato all'allegra reazione di lei. Bewchard sorrise nel vederli scherzare con tanto spirito, ma Hawkmoon trovò penoso guardarli, perché la fanciulla gli ricordava dolorosamente Yisselda, la moglie che lo attendeva lontana migliaia di chilometri al di là del mare e forse centinaia di anni nel tempo (perché non poteva sapere se l'anello di cristallo lo avesse trasportato soltanto attraverso lo spazio). Bewchard parve scorgere una espressione malinconica negli occhi di Hawkmoon e cercò di rallegrarlo con aneddoti e scherzi. Hawkmoon lo assecondò coraggiosamente, senza però riuscire a liberare la propria mente dal pensiero della diletta moglie, la figlia del conte Brass, e da quello che poteva esserle accaduto. Taragorm aveva forse perfezionato i suoi meccanismi per viaggiare nel tempo? Meliadus aveva trovato un altro sistema per raggiungere il Castello di Brass? Più ci si inoltrava nella serata e meno Hawkmoon riusciva a continuare quella conversazione spicciola. Alla fine si alzò in piedi e si inchinò compitamente. «Mi scuso, capitano Bewchard», mormorò, «ma sono molto stanco. Il tempo che ho passato sulla galera... i combattimenti di oggi...» Jeleana Bewchard e Huillam D'Averc non si accorsero che si era alzato, perché completamente assorbiti l'uno dall'altra. Bewchard si alzò in piedi anch'egli, con uno sguardo preoccupato sul bel viso. «Ma certo! Mi scuso, duca Hawkmoon, per essere stato così poco comprensivo.» Hawkmoon sorrise scialbamente. «Non è vero che sei stato poco comprensivo, capitano. La tua ospitalità è stata magnifica. Comunque...» Bewchard fece il gesto di suonare un campanello ma, prima che ci riuscisse, un servo bussò all'improvviso alla porta. «Avanti», disse Bewchard. Il servo che li aveva fatti entrare in precedenza nel giardino, quello stesso giorno, si trovava adesso sulla soglia. «Capitano Bewchard! C'è un incendio nel porto. Una nave sta bruciando.» «Una nave? Quale?» «La tua nave, capitano, quella che ti ha riportato a casa oggi!» Immediatamente Bewchard si precipitò verso la porta. Hawkmoon e D'Averc lo tallonavano da vicino, e dietro di loro veniva Jeleana. «Una carrozza, Per», ordinò. «Presto! Una carrozza!» Un momento dopo, una carrozza chiusa, tirata da quattro cavalli, svoltò
davanti alla casa e Bewchard vi salì, aspettando con impazienza che Hawkmoon e D'Averc seguissero il suo esempio. Jeleana tentò di salire sul veicolo, ma il fratello scosse il capo. «No, Jeleana. Non sappiamo che cosa stia succedendo sui moli. Aspettaci qui!» Poi la carrozza partì, sobbalzando sui ciottoli a una velocità preoccupante, diretta verso il porto. Le strette strade erano illuminate da torce, sostenute da bracci fissati nelle facciate delle case, e al suo passaggio la carrozza gettava ombre scure sui muri, traballando e precipitandosi fragorosamente lungo le vie. Raggiunsero infine il porto, illuminato molto meglio di quanto avrebbero potuto farlo le torce. Regnava una gran confusione dovunque, mentre i padroni delle imbarcazioni sopraggiungevano per comandare gli uomini rimasti a bordo allo scopo di allontanare i vascelli da quello di Bewchard, nel timore che il fuoco si propagasse. Bewchard balzò giù dalla carrozza, seguito dappresso da Hawkmoon e D'Averc. Corsero lungo il molo, aprendosi la strada a gomitate in mezzo alla calca, ma una volta giunto sul limitare della banchina Bewchard si fermò e chinò il capo. «Non c'è più nulla da fare», mormorò disperato. «È finita. Questa può soltanto essere opera di Valjon...» Veroneeg, con il volto sudato e acceso nel bagliore della nave in fiamme, sbucò dalla folla. «Lo vedi, Bewchard... Valjon si sta vendicando! Ti avevo avvertito!» Si voltarono al rumore di un cavallo che giungeva al galoppo e videro un cavaliere trattenere la propria cavalcatura, mentre arrivava nei loro pressi. «Bewchard!» gridò l'uomo. «Pahl Bewchard, quello che afferma di aver affondato il Falco del Fiume!» Bewchard alzò lo sguardo. «Sono io Bewchard. Tu chi sei?» Il cavaliere era abbigliato con una strana eleganza e nella mano sinistra stringeva un rotolo di pergamena che brandì. «Sono uno degli uomini di Valjon, il suo messaggero!» Gettò il rotolo verso Bewchard, che lo lasciò dov'era caduto. «Che cos'è?» domandò poi, a denti stretti. «È un conto, Bewchard. Un conto per cinquanta uomini e quaranta schiavi, per una nave e tutti i suoi arredi, più venticinquemila pezzi per il valore del tesoro. Anche Valjon può recitare la parte del mercante!» Bewchard guardò torvamente il messaggero. La luce dello scafo incendiato faceva danzare ombre sul suo viso. Sferrò un calcio al rotolo di carta,
mandandolo a finire nell'acqua coperta di rottami. «Stai cercando di spaventarmi con questa scena melodrammatica, a quanto pare!» disse con voce ferma. «Bene, di' a Valjon che non intendo pagare il suo conto e che non sono affatto impaurito. Digli, se vuol 'recitare la parte del mercante', che lui e i suoi avidi antenati devono al popolo di Narleen assai di più dell'ammontare di quel conto. Continuerò a esigere quel debito.» Il cavaliere aprì la bocca come se volesse parlare, poi cambiò idea, sputò sul selciato e voltò il cavallo partendo al galoppo nell'oscurità. «Finirà per ammazzarti, Bewchard», disse Veroneeg quasi in tono di trionfo. «Ti ammazzerà, adesso. Spero che si renda conto che non tutti noi siamo pazzi come te!» «E io spero che noi non ci mostreremo tutti stupidi come te, Veroneeg», rispose Bewchard in tono insolente. «Se Valjon mi sta minacciando, significa che ho avuto successo. Se non altro, almeno in parte, facendolo innervosire!» Si avviò a passi decisi verso la carrozza e rimase accanto a essa, aspettando che Hawkmoon e D'Averc vi salissero. Poi seguì il loro esempio, sbatté lo sportello e bussò contro il soffitto del veicolo per segnalare al cocchiere di far ritorno a casa. «Sei sicuro che Valjon sia tanto debole come hai lasciato intendere?» gli domandò Hawkmoon in tono esitante. Bewchard sogghignò. «Sono sicuro che è più forte di quanto abbia lasciato intendere, forse più forte di quanto supponga Veroneeg. La mia opinione è che Valjon sia ancora in un certo senso stupito della nostra temerarietà nell'attaccare la sua nave, come abbiamo fatto oggi, e che ancora non abbia messo in gioco tutte le sue risorse. Ma non era necessario dirlo a Veroneeg, non è vero, amico?» Hawkmoon guardò Bewchard con ammirazione. «Sei molto coraggioso, capitano.» «Forse è soltanto la forza della disperazione, Hawkmoon, amico mio.» Hawkmoon annuì. «Credo di sapere quello che intendi.» Il resto del tragitto di ritorno si svolse in un silenzio assorto. I cancelli della dimora, quando vi giunsero, erano spalancati e poterono così avviarsi direttamente lungo il viale d'accesso. Trovarono, ad attenderli sulla porta d'ingresso, Jeleana, pallida in viso. «Stai bene, Pahl?» domandò, mentre scendevano dalla carrozza.
«Ma certo», rispose Bewchard. «Mi sembri terribilmente spaventata, Jeleana.» Ella si voltò ed entrò di nuovo in casa, nella sala da pranzo, dove la tavola era rimasta apparecchiata dopo l'interruzione della cena. «Non... non è stato l'incendio della nave a ridurmi in questo stato», disse tremando. Guardò il fratello, poi D'Averc, e infine Hawkmoon. Aveva gli occhi sbarrati. «Ho avuto una visita, mentre voi non c'eravate.» «Una visita? Chi era?» domandò Bewchard, mettendole un braccio attorno alle spalle scosse da un tremito. «È... è venuto da solo...» incominciò. «E cosa c'è di tanto eccezionale, se qualcuno viene a farti visita da solo? Dov'è adesso?» «Era Valjon, Pahl... Lord Valjon di Starvel in persona. Mi...» si passò una mano sul volto «... mi ha schiaffeggiata... mi ha guardata con quei suoi occhi vacui, non umani, mi ha parlato con quella voce...» «E che cosa ha detto?» domandò subito Hawkmoon, con un'espressione truce. «Che cosa ha detto, Lady Jeleana?» Di nuovo il suo sguardo passò dall'uno all'altro, prima di rivolgersi infine a Hawkmoon. «Ha detto che sta soltanto scherzando con Pahl, che è troppo orgoglioso per dedicare tutto il proprio tempo e le proprie fatiche nel tentare di vendicarsi contro di lui. Ha detto che se Pahl non proclamerà nella piazza della città, domani stesso, che smetterà di infastidire i Lord Pirati con la sua... la sua 'stupida' azione di disturbo contro di loro... verrà punito come merita per il suo particolare misfatto. Si aspetta che tale dichiarazione sia fatta entro mezzogiorno di domani.» Bewchard si accigliò. «È venuto qui, nella mia stessa casa, per dimostrare il disprezzo che nutre nei miei confronti, suppongo. L'incendio della nave è stato soltanto una dimostrazione... e un diversivo per farmi andare al molo. Ha parlato con te, Jeleana, per farmi capire che può raggiungere i miei cari e coloro che amo di più, in qualsiasi momento lo voglia.» Bewchard sospirò. «Non ci sono più dubbi, ormai, sul fatto che egli non minaccia più soltanto la mia vita, ma anche quella di chi mi è più vicino. È uno scherzo che mi sarei dovuto aspettare, che quasi mi aspettavo, eppure...» Alzò gli occhi per scrutare Hawkmoon, con una espressione a un tratto stanca. «Forse sono stato un pazzo, dopo tutto, Hawkmoon. Forse Veroneeg ha
ragione. Non posso combattere Valjon, non lo posso fare dal momento che lui combatte per la sicurezza di Starvel. Non possiedo armi come quelle delle quali si serve lui contro di me!» «Non posso consigliarti», disse Hawkmoon in tono sommesso. «Ma posso offrirti il mio aiuto, insieme a quello di D'Averc, se vorrai continuare nella tua lotta.» Bewchard guardò diritto negli occhi Hawkmoon, poi rise, raddrizzando le spalle. «Non mi dai consigli, Dorian Hawkmoon dalla Gemma Nera, ma mi fai capire che cosa dovrei pensare di me qualora rifiutassi l'aiuto di due spadaccini quali voi siete. Già! Continuerò a combattere. Domani trascorrerò la giornata riposandomi, ignorando gli avvertimenti di Valjon. Jeleana, voglio che tu resti prudentemente in casa. Manderò a chiamare nostro padre e gli dirò di portare con sé le guardie per proteggere entrambi. Hawkmoon, D'Averc e io stesso... ecco... andremo domani a fare acquisti.» Indicò gli abiti che i due uomini avevano ricevuto in prestito e che ancora indossavano. «Vi ho promesso abiti nuovi e, immagino, Hawkmoon, che avrai bisogno di un buon fodero per la spada di cui ti sei impadronito. Ci comporteremo come se niente fosse, domani. Mostreremo a Valjon e, quello che più conta, al popolo di questa città che le minacce dei Lord Pirati non ci hanno spaventati.» D'Averc annuì calmo. «È l'unico atteggiamento da adottare, ritengo, se non si vuole che il coraggio dei tuoi concittadini sia completamente distrutto», disse. «Poi, anche se tu morissi, moriresti da eroe, e saresti di esempio per coloro che verranno.» «Io spero di non morire», disse Bewchard con un sorriso, «perché amo molto la vita. Però staremo a vedere, amici. Staremo a vedere». CAPITOLO OTTAVO LE MURA DI STARVEL Il giorno si preannunciò caldo come il precedente e Pahl Bewchard se ne andò a zonzo con i suoi amici. Mentre percorrevano le vie di Narleen, apparve chiaro che erano ormai in molti a essere al corrente dell'ultimatum di Valjon e a domandarsi che cosa avrebbe fatto Bewchard. Bewchard non fece nulla. Si limitò a sorridere a tutti quelli che incontrava, a baciare la mano a qualche dama, a salutare un paio di conoscenti e a
condurre Hawkmoon e D'Averc verso il centro della città, dove si trovava un mercante di sua fiducia. Il fatto che quel mercante avesse il negozio a un tiro di sasso dalle mura di Starvel si adattava bene ai propositi di Bewchard. «Dopo mezzogiorno», disse, «andremo a fare una visita alla bottega. Ma, prima di quel momento, pranzeremo in una taverna che vi posso garantire. Si trova nei pressi della piazza centrale e molti dei cittadini più in vista si recano là a bere. Ci faremo vedere tranquilli e senza preoccupazioni. Ci dedicheremo a una conversazione spicciola, senza accennare affatto alle minacce di Valjon, non importa quanti tentativi verranno fatti per intavolare quell'argomento». «Stai chiedendo molto, capitano Bewchard», osservò D'Averc. «Forse», rispose Bewchard, «ma ho la sensazione che molto dipenda dagli eventi di oggi, forse più di quanto riesca a rendermi conto in questo momento. Sto puntando la mia posta su questi eventi, perché potrebbe essere proprio questo il giorno decisivo per la mia vittoria o la mia sconfitta». Hawkmoon annuì, ma non fece commenti. Anche lui sentiva qualcosa nell'aria e non se la sentiva di contestare l'intuizione di Bewchard. Si recarono nella taverna, dove mangiarono, bevvero e finsero di non notare gli occhi degli avventori costantemente puntati su loro, destramente evitando ogni tentativo di essere interrogati circa quello che intendevano fare a proposito dell'ultimatum di Valjon. Venne mezzogiorno. Passò un'altra ora, e Bewchard restò lì seduto a chiacchierare con i suoi amici. Infine si alzò, posò la coppa del vino e disse: «E adesso, signori, il mercante di cui vi ho parlato...» Le strade erano stranamente vuote, mentre le percorrevano in atteggiamento disinvolto, avvicinandosi sempre più al centro della città. Ma c'erano molte tendine che si muovevano, quando passavano, si scorgevano molte facce dietro i vetri delle finestre; Bewchard ridacchiò, come se godesse di quella situazione. «Siamo i soli attori sul palcoscenico, oggi, amici miei», disse. «Dobbiamo recitare bene la nostra parte.» Poi, infine, Hawkmoon poté gettare il primo sguardo sulle mura di Starvel. Si levavano al di sopra dei tetti delle case, candide e orgogliose e piene di mistero, in apparenza prive di aperture. «Esistono poche porte e sono di piccole dimensioni», disse Bewchard a Hawkmoon, «ma vengono usate di rado. Dispongono invece di un'enorme
galleria sotterranea in cui si trovano un canale navigabile e i moli. Tale canale porta, com'è ovvio, direttamente al fiume». Bewchard li guidò in una stradetta secondaria e indicò una insegna circa a metà di essa. «Eccoci arrivati dal nostro mercante, amici miei.» Entrarono nella bottega ingombra di rotoli di stoffe, mucchi di mantelli, giustacuori e pantaloni di ogni tipo, spade e pugnali di tutte le fogge, belle armature, elmi, copricapi, stivali, cinture e qualsiasi altra cosa possa desiderare di indossare un uomo. Il proprietario del negozio, un uomo di mezz'età, di bell'aspetto e cortese, dalla faccia colorita e i capelli candidi, stava servendo un altro cliente, quando entrarono. Sorrise a Bewchard e il cliente si voltò. Era un giovane i cui occhi si spalancarono, quando scorse i tre che si trovavano sulla soglia della bottega. Il giovane mormorò qualcosa e fece l'atto di andarsene. «Non vuoi la spada?» domandò il mercante sorpreso. «Potrei calare il prezzo di un tantino, ma non di molto.» «Un'altra volta, Pyahr, un'altra volta», rispose il giovane, e, senza nascondere la fretta, si inchinò brevemente a Bewchard e uscì dal negozio. «Chi era quello?» domandò Hawkmoon con un sorriso. «Il figlio di Veroneeg, se non mi sbaglio», rispose Bewchard. Rise. «Ha ereditato la vigliaccheria del padre!» Pyahr si fece avanti. «Buongiorno, capitano Bewchard. Non mi aspettavo di vederti qui oggi. Non hai fatto l'annuncio che ti è stato chiesto?» «No, Pyahr, non l'ho fatto.» Pyahr sorrise. «Lo sapevo che sarebbe andata così, capitano. In ogni caso, adesso corri un grave pericolo. Valjon darà un seguito alla cosa, non è vero?» «Ci proverà, Pyahr.» «Ci proverà al più presto, capitano. Non sprecherà tempo. Sei certo di fare la cosa giusta venendo così vicino alle mura di Starvel?» «Devo dimostrare che non ho paura di Valjon», rispose Bewchard. «Inoltre, perché dovrei cambiare i miei piani per far piacere a lui? Ho promesso ai miei amici qui presenti che avrebbero potuto scegliersi degli abiti dal miglior mercante di Narleen, e non sono uomo da venir meno a una promessa di questo genere!» Pyahr sorrise e fece un gesto rassegnato con la mano. «Ti auguro buona fortuna, capitano. E adesso, signori, avete già visto qualcosa che vi piace?» Hawkmoon prese un mantello di un vivido rosso, sfiorandone con le dita il fermaglio dorato. «Ci sono molte cose che mi piacciono. È una bella bot-
tega, la vostra, mastro Pyahr.» Mentre Bewchard chiacchierava con il mercante, Hawkmoon e D'Averc si aggirarono con calma per il negozio, prendendo qui una camicia e là un paio di stivali. Trascorsero due ore prima che riuscissero a fare infine le proprie scelte. «Perché non andate nel mio spogliatoio a provare gli abiti?» suggerì Pyahr. «Credo che abbiate fatto delle ottime scelte, signori.» Hawkmoon e D'Averc si ritirarono nello spogliatoio. Hawkmoon aveva scelto una camicia di seta di una intensa sfumatura del color lavanda, un corsetto di morbida pelle scamosciata di un colore chiaro, una sciarpa color porpora e bei pantaloni, anch'essi di seta, dello stesso vistoso color porpora della sciarpa. Indossò gli abiti, infilò i pantaloni aderenti entro stivali della stessa pelle del corsetto che lasciò sbottonato, si passò in vita un'alta cintola di pelle e infine si gettò un mantello di un blu intenso sulle spalle. D'Averc indossò una camicia scarlatta e pantaloni attillati della stessa tinta, un corsetto di lucida pelle nera e stivali anch'essi di pelle nera che gli arrivavano quasi al ginocchio. Su tutto ciò, gettò un mantello di pesante seta di uno scuro color porpora. Stava allacciandosi la spada quando si udì un grido nella bottega. Hawkmoon scostò le tende dello spogliatoio. La bottega si era improvvisamente riempita di uomini, evidentemente pirati di Starvel. Avevano circondato Bewchard, che non aveva nemmeno avuto il tempo di estrarre la spada. Hawkmoon si voltò e raccolse la spada dal mucchio di abiti che si era tolto, precipitandosi poi nel negozio e andando a sbattere contro Pyahr che barcollava all'indietro mentre il sangue gli sgorgava dalla gola. In quel momento i pirati stavano indietreggiando verso l'ingresso e Bewchard non era nemmeno più visibile. Hawkmoon trafisse uno dei pirati direttamente al cuore e si difese da un altro colpo. «Non cercate di combatterci», ringhiò il pirata che aveva cercato di infilzarlo, «vogliamo soltanto Bewchard!» «Allora ci potrete uccidere prima che rinunciamo a difenderlo», gridò D'Averc che si era unito a Hawkmoon. «Bewchard sarà punito per aver insultato Lord Valjon», gli disse il pirata, mentre gli indirizzava un fendente. D'Averc balzò indietro, sferrando un colpo che fece cadere di mano l'arma al pirata. L'uomo ringhiò e scagliò il pugnale che stringeva nell'altra
mano, ma D'Averc deviò anche quello, gettandosi avanti e raggiungendo l'uomo alla gola. Adesso una metà dei pirati si era allontanata dai compagni e veniva avanti verso D'Averc e Hawkmoon, che si trovarono sospinti verso il fondo della bottega. «Sono fuggiti con Bewchard», disse Hawkmoon disperato. «Dobbiamo aiutarlo.» Si gettò selvaggiamente contro i propri aggressori, cercando di aprirsi una strada per andare a soccorrere Bewchard, ma in quel momento udì D'Averc che gridava: «Ne stanno arrivando ancora degli altri dall'uscita posteriore!» Questa fu l'ultima cosa che udì, prima di sentire l'impugnatura di una spada colpirlo alla base cranica e di cadere in avanti su un mucchio di camicie. *
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Riprese i sensi e, sentendosi soffocare, si voltò sulla schiena. Stava facendosi buio all'interno della bottega e regnava ora uno strano silenzio. Si alzò barcollante, con la spada ancora stretta in pugno. La prima cosa che vide fu il cadavere di Pyahr disteso accanto alla tenda dello spogliatoio. La seconda fu quello che gli parve il cadavere di D'Averc, che giaceva disteso su una catasta di stoffa arancione con il volto quasi completamente coperto di sangue. Hawkmoon si avvicinò all'amico, gli infilò una mano sotto il giustacuore e udì con sollievo che il cuore batteva ancora. Come lui stesso, anche D'Averc sembrava essere stato soltanto stordito. Senza dubbio i pirati li avevano risparmiati intenzionalmente, perché volevano che qualcuno raccontasse ai cittadini di Narleen cosa succedeva a coloro i quali, come Pahl Bewchard, osavano offendere Lord Valjon. Hawkmoon barcollò verso il retro del negozio e trovò una brocca d'acqua. La portò dove giaceva il suo amico e portò il recipiente alle labbra di lui, poi stracciò una striscia di stoffa dalla pezza sulla quale D'Averc era caduto e gli inumidì il volto. Il sangue era sgorgato da una vasta ma superficiale ferita presso la tempia. D'Averc incominciò a muoversi, aprì gli occhi e guardò direttamente in quelli di Hawkmoon.
«Bewchard», disse. «Dobbiamo andare in suo soccorso, Hawkmoon.» Hawkmoon annuì con tristezza. «Già. Ma ormai si trova a Starvel.» «Nessuno lo sa, tranne noi», disse D'Averc, mettendosi rigidamente a sedere. «Se potessimo andare in suo aiuto e riportarlo indietro, pensa che cosa significherebbe una cosa simile per il morale dei cittadini.» «Benissimo», disse Hawkmoon. «Andiamo a fare una visita a Starvel, e preghiamo il cielo che Bewchard sia ancora vivo.» Ripose la spada nel fodero. «Dobbiamo scalare quelle mura, in qualche modo, D'Averc. Dobbiamo procurarci delle attrezzature.» «Senza dubbio potremo trovare tutto quello che ci serve in questo negozio», rispose D'Averc. «Andiamo, cerchiamo di sbrigarci. È quasi scesa l'oscurità, ormai.» Hawkmoon sfiorò con le dita la nera gemma posta nella sua fronte. I suoi pensieri tornarono a Yisselda, al conte Brass, a Oladahn e Bowgentle, domandandosi quale fosse stato il loro destino. Tutto il suo essere era teso a dimenticare Bewchard, a dimenticare gli ordini di Mygan e la leggendaria Spada dell'Aurora, a dimenticare l'altrettanto leggendaria Bacchetta Magica. Desiderava solo impadronirsi di una delle navi del porto e salpare verso il mare aperto alla ricerca dei suoi beneamati. Poi sospirò e si raddrizzò sulla persona. Non potevano abbandonare Bewchard al proprio destino. Dovevano cercare di soccorrerlo o farsi uccidere. Pensò alle mura di Starvel, così vicine. Forse nessuno aveva tentato di scalarle prima d'ora, perché erano molto ripide e ben guardate. Forse non si trattava di un'impresa impossibile. Avrebbero tentato. CAPITOLO NONO IL TEMPIO DI BATACH GERANDIUN Con più di una ventina di pugnali a testa infilati nella cintola, Hawkmoon e D'Averc incominciarono a scalare le mura di Starvel. Hawkmoon veniva per primo, avvolgendo strisce di tessuto intorno all'impugnatura di un pugnale e cercando un crepaccio tra le pietre entro il quale inserire la punta del coltello, battendo poi con delicatezza per fissarlo in luogo e pregando che nessuno in alto udisse il rumore e che l'appiglio reggesse. Ascesero lentamente lungo la parete, saggiando i pugnali man mano che procedevano. A un certo punto Hawkmoon sentì una delle lame che incominciava a cedere sotto il suo piede, e si aggrappò al coltello che aveva
appena fissato sopra il proprio capo, e sentì che anche quello incominciava ad allentare la presa. La strada correva una trentina di metri più in basso. In preda alla disperazione trasse dalla cintola un altro coltello e cercò una nuova fenditura nella roccia, la trovò e vi inserì il pugnale. Questo tenne, mentre l'altro sul quale poggiava il piede cedeva e precipitava in basso. Udì un lieve tintinnio, quando il metallo cadde sul selciato della via. Si trovava appeso, adesso, incapace di andare avanti o di tornare indietro, mentre D'Averc cercava di conficcare un altro coltello tra le pietre. Vi riuscì infine e Hawkmoon respirò di sollievo. Si trovavano ormai nei pressi della sommità delle mura. Dovevano superare ancora soltanto pochi metri, e non sapevano affatto che cosa li aspettasse lassù o al di là delle mura. I loro sforzi erano forse stati inutili? Forse Bewchard era già stato ucciso? In quel momento sarebbe stato del tutto vano indugiare in simili pensieri. Hawkmoon divenne ancora più cauto mentre raggiungeva la vetta. Udì un suono di passi sopra di sé e si rese conto che stava passando una sentinella. Interruppe il proprio lavoro. Ancora un pugnale e sarebbe stato in grado di giungere in cima. Guardò verso il basso, e vide D'Averc con una espressione truce sul volto messa in risalto dalla luminosità della luna. Il suono dei passi svanì in lontananza, ed egli continuò a conficcare il coltello. Poi, proprio mentre stava issandosi sulla sommità del muro, i passi tornarono dalla sua parte, più affrettati adesso. Hawkmoon guardò verso l'alto, e si trovò faccia a faccia con un allarmato pirata. Immediatamente Hawkmoon giocò il tutto per tutto, spiccò un balzo per raggiungere la cima delle mura, si aggrappò all'uomo che stava estraendo la spada, volteggiò sopra la sommità e colpì l'altro, con tutta la forza, alle gambe. Il pirata ansimò, cercò di rimettersi in equilibrio e poi precipitò senza un suono. Con il fiato corto, Hawkmoon si protese e aiutò D'Averc a raggiungerlo. Correndo sull'alto delle mura si imbatterono in altre due guardie. Hawkmoon si fece avanti, estrasse la spada e si preparò allo scontro. Il metallo cozzò fragorosamente con il metallo, mentre D'Averc e Hawkmoon impegnavano i due pirati. Fu un breve scambio di colpi, perché i due amici avevano poco tempo da perdere ed erano disperati. Quasi contemporaneamente le loro lame trafissero al cuore le sentinelle dei pirati, affondarono nella carne e vennero ritirate. Quasi all'unisono le guardie cad-
dero e rimasero immobili. Hawkmoon e D'Averc sbirciarono da una parte e dall'altra lungo le mura. A quanto pareva, non erano stati ancora individuati dal resto degli uomini. Hawkmoon indicò una scala che conduceva in basso. D'Averc annuì ed entrambi si diressero da quella parte, discesero in punta di piedi con la massima velocità consentita, sperando che non salisse nessuno proprio in quel momento. In basso e all'interno delle mura regnavano la calma e l'oscurità. Sembrava una città di morti. Molto lontano, al centro di Starvel, baluginava un faro, ma ovunque tutto era immerso nelle tenebre, fatta eccezione per le sottili strisce di luce che sfuggivano dalle imposte alle finestre, o dalle fessure delle porte. Mentre si avvicinavano al terreno, udirono alcuni suoni provenienti dalle case, lo scrosciare di una risata triviale o il chiasso di una baldoria. A un tratto una porta si aprì, mostrando una stanza affollata, piena di ubriachi, e ne uscì un pirata barcollante, in preda ai fumi dell'alcool; ma fatti pochi passi, cadde a faccia avanti sui ciottoli. La porta si richiuse, e il pirata non si mosse. Gli edifici di Starvel erano più semplici di quelli che si trovavano al di là delle mura. Non recavano le ricche decorazioni comuni a Narleen, e, se Hawkmoon non avesse saputo bene come stavano in realtà le cose, sarebbe stato indotto a ritenere di trovarsi nella parte più povera della città. Ma Bewchard gli aveva detto che i pirati ostentavano la propria ricchezza sulle navi, nei cortili delle loro case e nel misterioso tempio di Batach Gerandiun, dove si diceva che si trovasse la Spada dell'Aurora. Scivolarono lungo le vie, con la spada pronta. Anche supponendo che Bewchard fosse ancora vivo, non avevano alcuna idea di dove potesse trovarsi imprigionato, ma una specie di intuito li guidò verso il faro che splendeva al centro della città. Poi, quando giunsero quasi in prossimità della luce, il sonoro rimbombo di un tamburo riempì a un tratto l'aria, echeggiando entro le buie strade deserte. Poi udirono uno scalpiccio di passi e lo scalpitare degli zoccoli di cavalli che si andavano avvicinando. «Che succede?» sussurrò D'Averc. Sbirciò cauto dall'angolo di un edificio, poi rapidamente tirò indietro il capo. «Stanno venendo verso di noi», disse. «Mettiamoci al riparo!» Il baluginare delle torce incominciò a suscitare ombre nella via davanti a loro. Hawkmoon e D'Averc indietreggiarono nell'oscurità e osservarono la processione che incominciava a sfilare.
Era guidata dallo stesso Valjon, con la sua faccia rigida e inespressiva, gli occhi fissi davanti a sé mentre cavalcava un destriero nero attraverso le viuzze, verso il luogo dove brillava il segnale. Dietro di lui venivano i tamburini, che traevano dai loro strumenti un ritmo lento e monotono, e dietro di essi un altro gruppo di uomini armati e a cavallo, tutti riccamente abbigliati; si trattava evidentemente degli altri Lord Pirati di Starvel. Anche le loro facce erano tese e stavano in sella rigidi come statue. Ma fu quello che veniva dopo quei Lord Pirati ad attrarre soprattutto l'attenzione di chi li stava osservando. Si trattava di Bewchard. Braccia e gambe di lui erano fissate su una grande struttura di ossa di balena ricurve, fissata verticalmente su una piattaforma montata su ruote e trascinata da sei cavalli, guidati da pirati in livrea. Era pallido e il suo corpo nudo era coperto di sudore. Soffriva molto, senza dubbio, ma le sue labbra erano fieramente serrate. Aveva strani simboli dipinti sul torso e disegni simili erano tracciati anche sulle sue guance. I muscoli di lui sembravano tesi nello sforzo di liberarsi delle corde che lo stringevano ai polsi e alle caviglie, ma era ben assicurato. D'Averc fece un movimento per gettarsi avanti, ma Hawkmoon lo trattenne. «No», sussurrò. «Seguiamoli. Potrebbe presentarsi un'occasione migliore per salvarlo.» Lasciarono passare il resto della processione e poi scivolarono dietro di essa. Procedettero lentamente, finché non entrarono in un'ampia piazza illuminata dal grande faro. Questo splendeva sulla soglia di un alto edificio, dalla strana architettura asimmetrica, che sembrava quasi essersi formato naturalmente dalla colata di una sostanza vulcanica e vetrosa. Era una costruzione sinistra. «Il tempio di Batach Gerandiun, non ci sono dubbi», mormorò Hawkmoon. «Mi domando perché lo abbiano portato qui.» «Andiamo a cercare di scoprirlo», disse D'Averc, mentre la processione entrava nel tempio. Attraversarono velocissimi, e insieme, la piazza e si acquattarono nell'ombra accanto alla porta. Era semiaperta e, a quanto sembrava, nessuno aveva adottato la precauzione di mettere qualcuno di sentinella. Guardandosi attorno per accertarsi di non essere visto, Hawkmoon scivolò verso la porta e la spinse dolcemente per aprirla. Si trovò di fronte a un corridoio tenebroso. Al di là di un gomito del passaggio, giungeva un
bagliore rossastro e il suono di una litania. Quando D'Averc gli giunse vicino, Hawkmoon incominciò a inoltrarsi nel corridoio. Hawkmoon si fermò una volta raggiunto l'angolo. Uno strano odore gli giunse alle narici, un puzzo disgustoso che era a un tempo familiare ed estraneo. Rabbrividì e fece un passo indietro. La faccia di D'Averc si contorse per la nausea. «Ah... ma cos'è?» Hawkmoon scosse il capo. «Qualcosa che riguarda... l'odore del sangue, forse. Eppure, non soltanto del sangue.» D'Averc aveva gli occhi sbarrati, mentre fissava Hawkmoon. Sembrava essere sul punto di dichiarare che non sarebbero andati oltre, poi raddrizzò le spalle e afferrò più saldamente la spada. Si tolse la sciarpa che portava al collo e se la premette sul naso e sulla bocca, con un gesto di ostentazione che ricordò a Hawkmoon molto bene il normale carattere di D'Averc e lo indusse a sorridere; ma imitò l'amico e si tolse dal collo la sciarpa per coprirsi con essa parte della faccia. Poi ricominciarono a farsi avanti, svoltando all'angolo del corridoio. La luce divenne più vivida. Proveniva da una porta all'estremità del corridoio e sembrava pulsare al ritmo del salmodiare, che era diventato adesso più forte e aveva raggiunto una intensità terribilmente minacciosa. Il puzzo, inoltre, diventava sempre più insopportabile man mano che avanzavano. A un certo momento una figura passò davanti alla fonte dalla quale si riversava la radiazione pulsante. Hawkmoon e D'Averc rimasero del tutto immobili, ma non vennero scorti. La sagoma scura scomparve ed essi continuarono a procedere. Proprio come il tanfo aggrediva le loro narici, così la litania incominciò a infastidire il loro udito. C'era qualcosa di stranamente stonato in essa, qualcosa che irritava loro i nervi. Mezzi accecati in quella luce rosea, avevano l'impressione di avere tutti i sensi sottoposti contemporaneamente a una spiacevole sollecitazione. Ma continuarono a spingersi avanti, finché non giunsero a un passo o due dalla soglia. Si trovarono davanti agli occhi una scena che li fece rabbrividire. La sala era press'a poco circolare, ma con un soffitto la cui altezza variava in misura spropositata: in certi punti si trovava a pochi metri dal pavimento, in altri spariva nelle tenebre piene di fumo. In questo rispecchiava l'aspetto esteriore dell'edificio, che sembrava essere meno artificiale che armonico, elevandosi e abbassandosi in maniera del tutto arbitraria per quanto poteva giudicare Hawkmoon. Tutte le pareti vetrose riflettevano la
radiazione rosea e di conseguenza l'intera scena era soffusa di quella luce rossa. L'illuminazione scaturiva da un punto situato in alto sul soffitto e ciò indusse Hawkmoon a guardare, trasalendo, verso l'alto. La riconobbe immediatamente, riconobbe l'oggetto che pendeva lassù, dominando la sala. Era senza alcun dubbio la «cosa» indicata da Mygan. «La Spada dell'Aurora», sussurrò D'Averc. «Quella sudicia cosa non può senza dubbio avere nessuna parte nel nostro destino!» L'espressione di Hawkmoon era truce. Fece una spallucciata. «Non è questa la ragione per cui ci troviamo qui adesso. È per lui che siamo venuti qui...» e fece un cenno con la mano. Sotto la spada si trovavano distese una decina di persone, tutte sulle strutture di stecche di balena, sistemate in un semicerchio. La maggior parte degli uomini e delle donne sulle strutture era ancora viva, ma la loro morte era ormai imminente. D'Averc distolse lo sguardo da quello spettacolo; poi, però, con una espressione di profondo orrore, si costrinse a guardare di nuovo in basso. «Per la Bacchetta Magica!» ansimò. «È... è una cosa barbara!» Le vene di quelle persone erano state recise, e da quelle vene il sangue vivo fluiva lentamente. I poveretti sulle strutture di ossa di balena venivano fatti morire per dissanguamento. Coloro che erano ancora vivi avevano i volti sfigurati dalla sofferenza e il loro dibattersi diminuiva gradatamente man mano che il sangue sgocciolava entro la pozza sotto di essi, una pozza scavata nella roccia di ossidiana. Si trattava di una cavità nella quale, inoltre, si muovevano alcune creature che salivano alla superficie per lappare il sangue fresco, mentre colava, e che poi si inabissavano nuovamente. Quanto era profonda quella pozza? Quante migliaia di individui erano morti per poterla riempire? Quale peculiare proprietà faceva sì che il sangue contenuto nella pozza non si coagulasse? Intorno a essa erano assiepati i Lord Pirati di Starvel, che salmodiavano e si dondolavano, con i volti sollevati verso la Spada dell'Aurora. Direttamente sotto di essa, con il corpo disteso sulla struttura di ossa di balena, si trovava Bewchard. Nella mano di Valjon c'era un coltello, e non esistevano dubbi circa l'uso al quale intendeva destinarlo. Bewchard guardava fissamente in basso, verso di lui, con una espressione di disgusto, e disse qualcosa che Ha-
wkmoon non riuscì a udire. Il coltello scintillò come se già fosse intriso di sangue, il salmodiare divenne più alto e la voce stonata di Valjon si udì al di sopra di esso. «Spada dell'Aurora, nella quale dimora lo spirito del nostro dio e antenato; Spada dell'Aurora, che hai reso invincibile Batach Gerandiun e che ci hai sempre dato la vittoria su tutti; Spada dell'Aurora, che fai risuscitare i morti e fai continuare a vivere i viventi; Spada dell'Aurora, che trai la tua luce dal sangue vivo degli uomini; Spada dell'Aurora, accetta questo nostro ultimo sacrificio e sappi che sarai venerata per sempre finché rimarrai nel tempio di Batach Gerandiun. Allora Starvel non potrà mai cadere! Accetta questo nostro nemico, divenuto a un tratto importante, prendi questo Pahl Bewchard appartenente alla stirpe volgare che si definisce dei 'mercanti'!» Bewchard parlò di nuovo, con le labbra contorte, ma la sua voce non poté essere udita al di sopra dell'isterica cantilena degli altri Lord Pirati. Il coltello incominciò a muoversi verso il corpo di Bewchard e Hawkmoon non seppe trattenersi. Il grido di battaglia dei suoi antenati gli salì d'improvviso alle labbra ed egli emise il selvaggio strido del rapace e pronunciò le parole: «Hawkmoon! Hawkmoon!» E si slanciò avanti verso quella riunione di avvoltoi, verso quel pozzo disgustoso e i suoi spaventosi abitatori, verso le costruzioni sulle quali erano sospesi i morti e i morenti, verso la splendente e terrificante spada. «Hawkmoon! Hawkmoon!» I Lord Pirati si voltarono, smettendo di salmodiare. Gli occhi di Valjon si dilatarono per la rabbia ed egli si aprì la veste per mostrare una spada che era la gemella di quella impugnata da Hawkmoon. Il pirata scagliò il pugnale nel pozzo colmo di sangue e sguainò la spada. «Pazzo! Non lo sai che nessuno straniero, che sia entrato nel tempio di Batach, lo ha mai lasciato finché dal suo corpo non è uscita l'ultima stilla di sangue?» «Sarà il tuo corpo a sanguinare stanotte, Valjon!» gridò Hawkmoon, e si gettò sul suo nemico. Ma a un tratto ci furono venti uomini a bloccargli la strada verso Valjon, venti lame contro la sua unica. Egli vibrò la spada con furia contro di loro, con la gola chiusa a causa del puzzo spaventoso, gli occhi abbagliati dalla luminosità della spada. Affondò la spada e un uomo morì, vibrò un fendente e un altro barcollò all'indietro, finendo nel pozzo per essere trascinato sul fondo dalle creature che lo infestavano, colpì di nuovo e un altro pirata perse una mano. Anche
D'Averc si stava comportando bene e insieme riuscirono a tenere a bada i pirati. Per qualche tempo parve che il loro impeto li avrebbe portati a raggiungere Bewchard attraverso lo schieramento degli avversari e a liberarlo. Hawkmoon si aprì una strada nel gruppo, colpendo senza posa, e manovrò in modo da raggiungere l'orlo del terribile pozzo pieno di sangue, tentò di tagliare i legami che trattenevano Bewchard e nello stesso tempo di combattere. Poi i piedi gli scivolarono sul bordo del pozzo, ed egli vi affondò fino alle caviglie. Sentì qualcosa che gli sfiorava un piede, qualcosa di sinuoso e di abominevole; si tirò indietro quanto più in fretta poteva e si sentì afferrare per le braccia dai pirati. Gettò indietro la testa e gridò: «Mi dispiace, Bewchard, sono stato impetuoso. Ma non c'era più tempo, non c'era tempo!» «Avrei voluto che non mi aveste seguito!» gli rispose il grido di Bewchard, in preda alla disperazione. «Adesso anche voi dovrete subire il mio destino e finire in pasto ai mostri della pozza! Non avreste dovuto seguirmi, Hawkmoon!» CAPITOLO DECIMO UN AMICO DALL'OMBRA «Temo, Bewchard, amico mio, che la tua generosità sia andata sprecata con noi!» Anche in quella situazione D'Averc non seppe resistere alla tentazione di fare dell'ironia. Insieme a Hawkmoon, si trovava legato a braccia aperte al fianco di Bewchard. Due delle vittime del sacrificio erano state rimosse ed essi le avevano sostituite. Sotto di loro i neri esseri della pozza venivano a galla e si tuffavano nel sangue, senza posa. Sulle loro teste, la luce della Spada dell'Aurora gettava la sua rossa luminosità su tutta la sala, e si rifletteva sui volti in attesa e rivolti verso l'alto dei Lord Pirati, sulla faccia di Valjon, i cui occhi cogitabondi fissavano quasi con una espressione di trionfo i corpi imprigionati dei suoi nemici. Si udivano strani rumori nel liquido sotto di loro, mentre le creature della pozza nuotavano nel sangue, in attesa senza dubbio che il sangue fresco cadesse dall'alto. Hawkmoon rabbrividì e si trattenne a stento dal vomitare. Gli doleva la testa e si sentiva le membra prive di forza e incredibilmente doloranti. Pensò a Yisselda, alla propria casa, e ai suoi sforzi per entrare in
guerra contro l'Impero Nero. Ormai non avrebbe mai più rivisto sua moglie, non avrebbe mai più respirato l'aria della sua Kamarg, né avrebbe contribuito alla caduta della Gran Bretagna, quando il momento fosse venuto. E aveva perduto tutto questo nel vano tentativo di salvare uno straniero, un uomo che conosceva appena, e le cui lotte erano lontane e prive di importanza rispetto alla lotta contro l'Impero Nero. Adesso era troppo tardi per pensare a queste cose, perché stava per morire. Sarebbe morto in una maniera orribile, dissanguato come un porco, sentendo le proprie forze fluire da lui con ogni battito del cuore. Valjon sorrise. «Non lanci più adesso il tuo orgoglioso grido di battaglia, schiavo, amico mio? Mi sembri silenzioso. Non hai nulla da domandarmi? Non vorresti supplicarmi per aver salva la vita, supplicarmi di tornare a essere il mio schiavo? Non vuoi scusarti per aver affondato la mia nave, per aver ucciso i miei uomini, per avermi insultato?» Hawkmoon sputò nella sua direzione, ma lo mancò. Valjon fece una lieve spallucciata. «Sto aspettando che mi portino un nuovo coltello. Quando lo avranno portato e sarà stato opportunamente benedetto, allora ti aprirò le vene qua e là facendo attenzione che la tua morte sopraggiunga molto lentamente, che tu sia in grado di vedere il tuo sangue nutrire quelli che vivono lì sotto. I vostri cadaveri dissanguati verranno inviati al sindaco di Narleen, lo zio di Bewchard, se non sbaglio, come prova del fatto che noi di Starvel non dobbiamo essere disobbediti.» Un pirata si fece avanti nella sala e si inginocchiò ai piedi di Valjon, porgendogli un lungo e tagliente coltello. Valjon lo prese e l'uomo si allontanò indietreggiando. Valjon mormorò adesso alcune parole sopra il coltello, volgendo spesso lo sguardo sulla Spada dell'Aurora, poi lo afferrò con la mano destra e lo sollevò, finché la sua punta non arrivò quasi a sfiorare l'inguine di Hawkmoon. «E adesso ricominceremo», disse Valjon, e lentamente riprese a salmodiare la litania che Hawkmoon aveva già udito. Hawkmoon sentì in bocca il sapore della bile, mentre tentava di liberarsi facendo forza sulle corde che lo tenevano prigioniero. La cantilena cominciò con un suono ronzante, poi crebbe di intensità, raggiungendo un parossismo isterico. «... Spada dell'Aurora, che fai risuscitare i morti e fai continuare a vivere i viventi...»
La punta del coltello colpì la coscia di Hawkmoon. «... che trai la tua luce dal sangue vivo degli uomini...» Distraendosi, Hawkmoon si domandò se, in effetti, la rosea spada traesse la sua particolare luminosità, in qualche maniera strana, proprio dal sangue. Il coltello lo toccò su un ginocchio, ed egli rabbrividì di nuovo, maledicendo Valjon e divincolandosi frenetico nelle corde che lo trattenevano. «... sappi che sarai venerata per sempre...» A un tratto Valjon interruppe la cantilena e ansimò, fissando un punto al di sopra della testa di Hawkmoon. Anche quest'ultimo inclinò all'indietro il capo e non poté impedirsi di ansimare a sua volta. La Spada dell'Aurora stava scendendo dal soffitto! Calava lentamente, e infine Hawkmoon poté vedere che pendeva in mezzo a una specie di ragnatela di corde metalliche. E c'era qualcos'altro nella ragnatela, adesso... La sagoma di un uomo! L'uomo portava un alto elmo che gli nascondeva tutta la faccia. L'armatura e gli ornamenti erano neri e dorati e al suo fianco pendeva un enorme spadone. Hawkmoon non riusciva a crederci. Conosceva quell'uomo... se era davvero un uomo. «Il Guerriero in Giaietto e Oro!» esclamò. «Per servirti», disse una voce ironica di sotto l'elmo. Valjon ringhiò di rabbia e scagliò il pugnale contro il Guerriero in Giaietto e Oro. La lama colpì l'armatura e cadde nella pozza. Il guerriero afferrò con una mano guantata l'impugnatura della Spada dell'Aurora e con cura tagliò le cinghie che trattenevano i polsi di Hawkmoon. «Tu... tu stai profanando il nostro oggetto più sacro», disse Valjon incredulo. «Perché non sei punito? Il nostro dio, Batach Gerandiun, si vendicherà. La spada è sua, in essa è contenuto il suo spirito.» «Lo so meglio di te», disse il guerriero. «La spada è di Hawkmoon. La Bacchetta Magica ha visto giusto, una volta, nel servirsi del tuo antenato Batach Gerandiun per i propri scopi, dandogli il potere su questa lama rosea. Ma adesso tu hai perduto tale potere e Hawkmoon lo ha conquistato!» «Non capisco quello che stai dicendo», fece Valjon confuso. «Inoltre tu chi sei? Da dove vieni? Sei per caso... potresti mai essere tu... Batach Gerandiun?» «Potrei esserlo», mormorò il guerriero. «Posso essere molte cose, molti
uomini.» Hawkmoon pregò affinché il guerriero riuscisse a terminare in tempo. Valjon non sarebbe rimasto così annichilito per sempre. Si aggrappò alla struttura alla quale era legato non appena ebbe liberi i polsi, prese il coltello che il guerriero gli tendeva, e incominciò a recidere con cautela le cinghie che gli trattenevano le caviglie. Valjon scosse il capo. «È una cosa impossibile. Un incubo.» Si rivolse ai suoi compari pirati. «Lo vedete anche voi... l'uomo che è disceso dalla nostra spada?» Gli altri annuirono in silenzio, poi uno di loro incominciò a correre verso l'ingresso della sala. «Andrò a cercare degli uomini. Qualcuno che ci venga in aiuto...» Hawkmoon allora spiccò un balzo. Saltò addosso al pirata più vicino e lo afferrò per la gola. L'uomo strepitò, cercò di strapparsi di dosso le mani di Hawkmoon, ma questi gli piegò il capo all'indietro finché l'osso del collo non si spezzò; allora velocissimo si impadronì della spada che il morto portava nel fodero appeso alla cintola e lasciò poi cadere a terra il cadavere. Rimase lì, nudo nella luce della grande spada, mentre il Guerriero in Giaietto e Oro liberava dai legami i suoi amici. Valjon indietreggiò, con un'espressione incredula negli occhi. «Non può essere. Non può essere...» Adesso D'Averc si trovava al fianco di Hawkmoon e anche Bewchard venne loro vicino. Tutti e due erano nudi e disarmati. Perplessi a causa dell'indecisione del loro capo, gli altri pirati non si muovevano. Dietro il terzetto di uomini nudi, il Guerriero in Giaietto e Oro brandì la grande spada trascinandola più vicina al suolo. Valjon urlò e si aggrappò alla spada, strappandola dalla rete di metallo. «È mia! È mia di diritto!» Il Guerriero in Giaietto e Oro scosse il capo. «Appartiene a Hawkmoon, appartiene a lui di diritto!» Valjon strinse a sé la spada. «Non l'avrà! Sterminateli!» In quel momento entro la sala si stavano precipitando uomini armati di tizzoni, e i Lord Pirati sguainarono le spade e incominciarono a farsi avanti verso i quattro che si trovavano presso la pozza. Il Guerriero in Giaietto e Oro trasse dal fodero la propria enorme spada e la vibrò davanti a sé come una falce, ricacciandoli indietro e uccidendone diversi. «Impadronitevi delle loro spade», disse a D'Averc e a Bewchard. «Ades-
so dobbiamo batterci.» Bewchard e D'Averc fecero quanto aveva ordinato il guerriero e, seguendolo, si spinsero avanti. Ma sembrava ormai che un migliaio di uomini gremisse la sala, tutti con occhi scintillanti e smaniosi di togliere la vita a quei quattro intrusi. «Devi impossessarti di quella spada e sottrarla a Valjon, Hawkmoon», urlò il guerriero al di sopra del frastuono del combattimento. «Prendigliela... altrimenti finiremo per essere sopraffatti tutti!» Di nuovo vennero a trovarsi sull'orlo della pozza di sangue e alle loro spalle si udì un suono soffocato. Hawkmoon lanciò una rapida occhiata verso la pozza e urlò per l'orrore. «Stanno uscendo di lì!» In quell'istante le creature stavano nuotando verso l'orlo della pozza e Hawkmoon vide che somigliavano agli esseri muniti di tentacoli che avevano incontrato nella foresta, ma più piccoli. Evidentemente appartenevano alla stessa razza, portati lì secoli prima dagli antenati di Valjon e gradatamente abituati a passare da un ambiente idrico a uno costituito da sangue umano! Sentì uno dei tentacoli sfiorare la propria carne nuda e rabbrividì in preda a un gelido terrore. Il pericolo alle sue spalle accrebbe le sue energie ed egli si gettò con tutte le forze contro i pirati, cercando Valjon che era nei paraggi, stretto alla Spada dell'Aurora che lo avvolgeva nella luce rossa e magica. Vedendosi in pericolo, Valjon sollevò la mano portandola sull'elsa della spada, gridò qualcosa e rimase ad aspettare. Ma quello che si aspettava accadesse non si verificò, ed egli ebbe un ansito, mentre si precipitava contro Hawkmoon con la spada alta sul capo. Hawkmoon si fece da parte, bloccò il colpo e barcollò, semiaccecato dalla luce. Valjon urlò e vibrò la rosea spada di nuovo. Hawkmoon si piegò sotto il colpo e portò avanti la propria arma, raggiungendo Valjon alla spalla. Con un grande grido, sbigottito, Valjon cercò ancora di colpire e i suoi fendenti vennero tutti schivati dal suo avversario. Valjon interruppe gli assalti, studiando l'espressione di Hawkmoon, con un'aria di terrore e di sbigottimento. «Come può essere?» mormorò. «Come può essere?» Hawkmoon scoppiò allora a ridere. «Non lo domandare a me, Valjon, perché tutto questo è un mistero per me come lo è per te. Ma mi è stato detto di sottrarti la spada ed è quello che farò!» E, così dicendo, sferrò un altro colpo a Valjon, che il Lord Pirata deviò con un rapido movimento
della Spada dell'Aurora. Era adesso Valjon a voltare le spalle alla pozza, e Hawkmoon vide le cose, con i fianchi coperti di scaglie, che stavano incominciando a strisciare sul pavimento. Hawkmoon costrinse il pirata a indietreggiare sempre più verso le spaventevoli creature. Vide un tentacolo protendersi e afferrare una gamba di Valjon, udì l'uomo gridare in preda al terrore e lo vide cercare di tagliare il tentacolo con la spada. Hawkmoon si avvicinò, allora, vibrò un pugno alla faccia di Valjon e con l'altra mano strappò la spada alla presa del pirata. Poi lo guardò con aria truce, mentre Valjon veniva trascinato lentamente entro la pozza. Valjon tese le braccia verso Hawkmoon. «Salvami, ti prego, salvami, Hawkmoon!» Ma gli occhi di Hawkmoon erano inespressivi ed egli non si mosse, limitandosi a rimanere con le mani strette sull'elsa della Spada dell'Aurora, mentre Valjon veniva trascinato sempre più vicino alla pozza di sangue. Valjon non disse più nulla, ma si coprì la faccia con le mani, e prima una gamba, poi l'altra vennero trascinate nella pozza. Si udì allora un lungo urlo disperato, che terminò con un gorgoglio di terrore, e Valjon scomparve sotto la superficie della pozza. Hawkmoon si voltò e sollevò la pesante spada, meravigliandosi per la luce che essa emanava. La prese con entrambe le mani e si guardò attorno per vedere come se la cavassero i suoi amici. Si tenevano strettamente raggruppati, lottando e respingendo decine di avversari, ed era evidente che ormai sarebbero stati sopraffatti, se in quel momento la pozza non si fosse messa a rigurgitare. Il guerriero si accorse che Hawkmoon si era infine impadronito della spada e gridò qualcosa, ma il duca non riuscì a udire. Era costretto a servirsi della spada per difendere se stesso, mentre un gruppo di pirati gli veniva addosso; li respinse e riuscì a passare in mezzo a essi nello sforzo di raggiungere i suoi compagni. Gli esseri della pozza si stavano ammucchiando adesso sul bordo, scivolavano sul pavimento, e Hawkmoon si rese conto che la posizione di loro quattro era in effetti senza speranza, perché si trovavano presi fra un'orda di spadaccini da una parte e dalle creature della pozza dall'altra. Di nuovo il Guerriero in Giaietto e Oro tentò di gridargli qualcosa, ma Hawkmoon non udì nemmeno stavolta. Continuò a battersi, disperatamente, cercando di raggiungere il guerriero.
La voce del guerriero risuonò di nuovo e Hawkmoon finalmente riuscì a capire le sue parole. «Chiamali!» tuonò. «Chiama la Legione dell'Aurora, Hawkmoon, altrimenti saremo perduti!» Hawkmoon si accigliò. «Che cosa stai dicendo?» «È nel tuo diritto comandare la Legione. Invocala! Nel nome della Bacchetta Magica, invocala).» Hawkmoon parò un fendente e fece a pezzi l'uomo che lo aveva aggredito. La luce della spada parve attenuarsi, ma quell'impressione poteva essere dovuta al fatto che la luce era adesso in concorrenza con quella delle decine di torce che baluginavano nella sala. «Chiama i tuoi uomini, Hawkmoon!» gridò disperato il Guerriero in Giaietto e Oro. Hawkmoon si strinse nelle spalle e, senza alcuna fiducia, gridò: «Io ti invoco, Legione dell'Aurora!» Non accadde nulla. Hawkmoon non si era affatto aspettato che accadesse qualcosa. Non credeva nelle leggende, come aveva affermato in precedenza. Poi si accorse che i pirati stavano urlando e che nuove figure erano apparse dal nulla... Strane figure, splendenti di una luce rosea, che colpivano intorno a sé con ferocia, abbattendo i pirati. Hawkmoon trasse un profondo respiro e si meravigliò di quello che vedeva. I nuovi venuti indossavano armature pesantemente decorate, che sembravano appartenere in qualche modo a un'epoca precedente. Erano armati di lance ornate da ciuffi di peli colorati, di enormi clave nodose, coperte da sculture elaborate, e gridavano, ridevano e uccidevano con incredibile ferocia, respingendo molti dei pirati dalla sala nel giro di pochi minuti. Avevano la pelle scura, le facce erano coperte da disegni colorati in mezzo ai quali enormi occhi neri lanciavano fieri sguardi; dalle loro gole usciva uno strano e lamentoso canto funebre. I pirati continuavano a combattere con accanimento, abbattendo gli splendenti guerrieri. Ma quando uno di essi cadeva e moriva, il suo cadavere scompariva e un nuovo guerriero subito appariva dal nulla. Hawkmoon cercò di capire da che parte arrivassero, ma non vi riuscì mai. Voltava la testa e, quando guardava di nuovo dalla stessa parte, si vedeva immancabilmente davanti un nuovo guerriero. Ansimando, Hawkmoon si unì ai suoi compagni. I corpi nudi di Be-
wchard e di D'Averc erano coperti da una decina di tagli, ma nessuna delle ferite sembrava grave. Rimasero a osservare, mentre la Legione dell'Aurora sterminava i pirati. «Questi sono i soldati che servono la Spada», disse il Guerriero in Giaietto e Oro. «Grazie a loro, perché questo si adattava ai piani della Bacchetta Magica, gli antenati di Valjon si fecero temere a Narleen e nei suoi dintorni. Ma adesso la Spada si volge contro la gente di Valjon per riprendersi quello che ha loro concesso!» Hawkmoon sentì qualcosa che gli sfiorava la caviglia, si voltò e gridò inorridito. «Le creature della pozza! Le avevo dimenticate!» Tranciò il tentacolo con la spada e balzò indietro. Istantaneamente decine di guerrieri splendenti vennero a trovarsi fra loro e i mostri. Le lance ornate da ciuffi di peli colorati si alzavano e si abbassavano, le clave si abbattevano e i mostri tentarono di battere in ritirata. Vennero circondati, trafitti e fatti a pezzi, finché sul pavimento della sala rimase soltanto una confusa serie di macchie nere. «È finita», disse incredulo Bewchard. «Abbiamo vinto. Il potere di Starvel è infine stato abbattuto.» Si chinò e raccolse una torcia. «Andiamo, Hawkmoon, amico mio, guidiamo i tuoi guerrieri magici nella città. Uccidiamo tutti quelli che incontriamo. Mettiamo tutto a fuoco.» «Già...» incominciò Hawkmoon, ma il Guerriero in Giaietto e Oro scosse il capo. «No, non è per uccidere i pirati che la Legione dell'Aurora si trova ai tuoi ordini. È ai tuoi ordini per eseguire i compiti della Bacchetta Magica.» Hawkmoon esitò. Il guerriero mise una mano sulla spalla di Bewchard. «Adesso che quasi tutti i Lord Pirati sono morti e Valjon è distrutto, non c'è più nulla che possa impedire a te e ai tuoi uomini di tornare a Starvel e di terminare il lavoro che avete iniziato questa notte. Ma Hawkmoon e la sua spada sono necessari per compiere grandi imprese. Devono lasciarvi al più presto.» Hawkmoon si sentì allora in preda all'ira. «Ti sono grato, Guerriero in Giaietto e Oro, per il tuo aiuto. Ma vorrei ricordarti che non mi sarei trovato affatto qui se non fosse stato per i tuoi progetti e per quelli del defunto Mygan di Llandar. Devo tornare a casa, al Castello di Brass e ai miei cari. Dispongo io di me stesso, guerriero, voglio essere io padrone di me stesso! E deciderò io stesso il mio destino.» Il Guerriero in Giaietto e Oro si mise allora a ridere. «Sei sempre un ingenuo, Dorian Hawkmoon. Tu sei l'uomo della Bacchetta Magica, credimi.
Sei convinto di essere venuto in questo tempio semplicemente per aiutare un amico che aveva bisogno di te. Ma questo è il sistema di operare della Bacchetta Magica! Non avresti mai affrontato i Lord Pirati se si fosse semplicemente trattato di impadronirti della Spada dell'Aurora, dal momento che alle leggende non credi; ma hai osato farlo per soccorrere Bewchard. Le trame della Bacchetta Magica sono complicate. Gli uomini non sono mai consapevoli degli scopi delle loro azioni, quando esse concernono la Bacchetta Magica. Adesso devi portare a termine la seconda parte della tua missione ad Amarehk. Devi recarti a nord. Potrai aggirare la costa del continente, perché Bewchard, ne sono sicuro, ti presterà una nave, e devi trovare Dnark, la Città dei Grandi Buoni che avranno bisogno del tuo aiuto. Laggiù troverai la prova che la Bacchetta Magica esiste.» «Non mi interessano i misteri, guerriero. Voglio sapere che cosa ne è stato di mia moglie e dei miei amici. Dimmelo, stiamo vivendo nella stessa epoca?» «Già», disse il guerriero. «Questa era è contemporanea del periodo che hai lasciato in Europa. Ma, come tu sai, il Castello di Brass esiste altrove...» «Questo lo so.» Hawkmoon si accigliò mentre rifletteva. «Bene, guerriero, forse sono d'accordo nel prendere la nave di Bewchard e recarmi a Dnark. Forse...» Il guerriero annuì. «Andiamo», disse. «Andiamocene da questo luogo immondo e torniamo a Narleen. Là discuteremo con Bewchard la questione della nave.» Bewchard sorrise. «Tutto ciò che possiedo, Hawkmoon, è tuo, perché hai fatto molto per me e per tutta la mia città. Hai salvato la mia vita ed è tuo il merito di aver distrutto i nemici di Narleen. Puoi chiedermi venti navi, se le desideri.» Hawkmoon stava riflettendo intensamente. Aveva in mente di ingannare il Guerriero in Giaietto e Oro. CAPITOLO UNDICESIMO IL CONGEDO Il pomeriggio successivo Bewchard li accompagnò ai moli. Ovunque i cittadini erano in festa. Una spedizione di militari aveva invaso Starvel, scacciandone anche l'ultimo pirata. Bewchard pose una mano sul braccio di Hawkmoon. «Vorrei che potessi
restare, Hawkmoon, amico mio. Ci saranno festeggiamenti ancora per una settimana, e tu e il tuo compagno dovreste essere qui. Sarà triste per me festeggiare senza la vostra presenza, perché siete voi i veri eroi di Narleen, e non io.» «Siamo stati fortunati, capitano Bewchard. Si deve alla nostra buona fortuna se i nostri destini sono legati. Tu ti sei liberato dei tuoi nemici, e noi abbiamo ottenuto quello che cercavamo.» Hawkmoon sorrise. «Adesso dobbiamo andarcene.» Bewchard annuì. «Se dovete farlo, non potete venir meno ai vostri impegni.» Guardò francamente negli occhi Hawkmoon e sorrise. «Suppongo che tu ormai non sia più convinto che io creda a occhi chiusi alla tua storia di un 'parente studioso' interessato alla spada che porti adesso al fianco!» Hawkmoon rise. «No! Ma d'altra parte, capitano, non avevo una storia migliore da raccontarti. Non sapevo perché dovevo trovare la spada...» Batté con la mano sul fodero che conteneva adesso la Spada dell'Aurora. «Il Guerriero in Giaietto e Oro ha detto che tutto questo fa parte di un più grande destino. Eppure io sono uno schiavo involontario di questo destino. Tutto quello che desidero è un po' d'amore, un po' di pace, e la vendetta su coloro che hanno devastato la mia terra. Eppure mi trovo qui, su un continente lontano migliaia di chilometri da dove vorrei trovarmi, in giro per il mondo alla ricerca di un altro oggetto leggendario... e senza averne nessuna voglia. Forse con il tempo riusciremo a comprendere queste cose.» Bewchard lo guardò con un'espressione seria. «Credo che tu serva un grande scopo, Hawkmoon. Sono convinto che il tuo destino sia molto nobile.» Hawkmoon rise. «Non mi struggo affatto, comunque, per un nobile destino. Ne desidero semplicemente uno tranquillo.» «Forse», disse Bewchard. «Forse. E adesso, amico, la mia nave migliore è pronta per te, ed è stata ben rifornita. I più abili marinai di Narleen mi hanno implorato perché consentissi loro di salpare con te, e ora ne costituiscono l'equipaggio. Buona fortuna per la tua ricerca, Hawkmoon. E buona fortuna anche a te, D'Averc.» D'Averc tossì dietro la mano. «Se Hawkmoon è un servitore involontario di questi più 'grandi destini', allora questo che cosa fa di me? Un grande stupido, forse? Non godo buona salute, sono debole di costituzione fin dalla nascita, eppure mi trovo trascinato in giro per il mondo al servizio di questa mistica Bacchetta Magica. Ma questo aiuta ad ammazzare il tempo, suppongo.»
Hawkmoon sorrise, poi si voltò quasi con impazienza per salire sulla passerella di imbarco che conduceva alla nave. Il Guerriero in Giaietto e Oro si agitò impaziente. «A Dnark, Hawkmoon», disse. «Devi cercare la stessa Bacchetta Magica a Dnark.» «Già», disse Hawkmoon. «Ti ho sentito, guerriero.» «La Spada dell'Aurora è necessaria a Dnark», continuò il Guerriero in Giaietto e Oro, «e tu hai bisogno di maneggiarla». «Allora farò come tu desideri, guerriero», rispose Hawkmoon con disinvoltura. «Non parti con noi?» «Ho altre cose delle quali occuparmi.» «Ci incontreremo ancora, senza dubbio.» «Senza dubbio.» D'Averc tossì e alzò una mano. «Allora, arrivederci, guerriero. E grazie per il tuo aiuto.» «Grazie a voi per il vostro», rispose il guerriero enigmatico. Hawkmoon impartì l'ordine di togliere la passerella d'imbarco e di mettere in mare i remi. Di lì a non molto la nave veniva portata fuori della baia verso il mare aperto. Hawkmoon rimase a osservare le figure di Bewchard e del Guerriero in Giaietto e Oro diventare sempre più piccole, poi si voltò e sorrise a D'Averc. «Bene, D'Averc, sai dove siamo diretti?» «A Dnark, così ho capito», rispose D'Averc con ingenuità. «In Europa, D'Averc. Non m'importa affatto dei destini che continuano a tormentarmi. Voglio rivedere mia moglie. Attraverseremo il mare, D'Averc, ci dirigeremo verso l'Europa. Là potremo servirci degli anelli per tornare al Castello di Brass. Voglio rivedere Yisselda.» D'Averc non disse nulla; si limitò a voltare la testa verso l'alto per guardare le vele candide gonfie di vento, mentre la nave incominciava a prendere velocità. «Che ne dici, D'Averc?» domandò Hawkmoon con un sorriso, battendo una mano sulla schiena dell'amico. D'Averc si strinse nelle spalle. «Dico che per me un periodo di riposo nel Castello di Brass sarebbe il benvenuto!» «C'è qualcosa che non va nel tono con cui lo dici, amico; una sfumatura di ironia...» Hawkmoon si accigliò. «Di che si tratta?» D'Averc gli rivolse uno sguardo in tralice che si accordava con il suo to-
no. «Già, già, forse non sono così sicuro come lo sei tu, Hawkmoon, che questa nave troverà la strada verso l'Europa. Forse, ho un maggiore rispetto per la Bacchetta Magica.» «Tu... credi in leggende di questo genere. Ecco, si presume che Amarehk sia un posto di gente simile agli dei. È ben lontana da questo, eh?» «Credo che tu insista un po' troppo sulla 'non esistenza' della Bacchetta Magica. Ritengo che la tua ansia di rivedere Yisselda ti possa influenzare in maniera esagerata.» «È possibile.» «Bene, Hawkmoon», disse D'Averc, scrutando il mare. «Il tempo ci dirà quanto sia potente la Bacchetta Magica.» Hawkmoon gli rivolse uno sguardo interdetto, poi fece una spallucciata, allontanandosi lungo il ponte. D'Averc sorrise, scuotendo la testa mentre osservava l'amico. Riportò la propria attenzione sulle vele, domandandosi se avrebbe mai rivisto il Castello di Brass. FINE INDICE Profilo dell'autore Biografia Bibliografia italiana LIBRO PRIMO I - L'ULTIMA CITTÀ II - La danza dei fenicotteri III - Elvereza Tozer IV - Flana Mikosevaar V – Taragorm VI - L'udienza VII - Gli inviati VIII - Meliadus al Palazzo del Tempo IX - Interludio al Castello di Brass X - I monumenti di Londra XI - I pensieri della contessa Flana XII - Una rivelazione XIII - Il corruccio del re Huon
V X X 1 3 7 14 23 26 29 35 44 51 53 56 58 64
XIV - I deserti di Yel XV - La caverna abbandonata XVI - Mygan di Llandar LIBRO SECONDO I - Zhenak-Teng II - I Charki III - Il fiume Sayou IV - Valjon di Starvel V - Pahl Bewchard VI – Narleen VII - L'incendio VIII - Le mura di Starvel IX - Il tempio di Batach Gerandiun - Un amico dall'ombra XI - Il congedo
67 76 85 93 95 101 107 113 127 132 140 146 152 161 171