CECILIA DART-THORNTON LA SIGNORA DI ERITH (The Battle Of Evernight, 2003)
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CECILIA DART-THORNTON LA SIGNORA DI ERITH (The Battle Of Evernight, 2003)
Nel primo episodio di questa storia, una creatura muta, sfigurata e priva di ogni ricordo del suo passato conduce una vita di miseria degradante nella Torre di Isse, una delle dimore dei Cavalieri della Tempesta. I cavalieri, noti anche come «Corrieri», sono messaggeri di alto rango che «cavalcano nel cielo» in sella a quadrupedi chiamati eotauri, e le loro molte torri sono sparse ovunque nelle Terre Conosciute di Erith. Il prezioso metallo chiamato sildron ha la proprietà di respingere il suolo, fornendo così a ogni oggetto la possibilità di levitare: è il materiale usato per forgiare gli zoccoli dei Cavalli Celesti e la struttura delle Navi del Vento, che solcano i cieli. Soltanto un altro metallo, l'andalum, può annullare l'effetto del sildron. Erith è occasionalmente percorsa da uno strano fenomeno chiamato «vento shang», o anche «tempesta magica», un vento oscuro carico di energia misteriosa che porta con sé un tintinnare di campanelle e un improvviso spolverio di scintille colorate. Quando esso spazza la terra, gli esseri umani devono coprirsi la testa coi taltry, cappucci nei quali è cucita una rete di un terzo metallo, il talium, che impedisce alle loro passioni di filtrare attraverso il cranio. Tale protezione è importante durante una tempesta magica, perché il vento shang ha la capacità di catturare e replicare i drammi umani, e il suo arrivo origina immancabilmente la comparsa di fantomatiche scene - immagini del passato, cariche d'intense emozioni che si ripetono interminabilmente finché, nel corso dei secoli, non finiscono per svanire. Il mondo all'esterno della Torre non è popolato solo dai mortali, ma anche da creature immortali, o eldritch wight, soprannaturali incarnazioni del potere di gramarye; alcune di esse sono seelie, cioè benevole verso gli umani, mentre altre sono unseelie, ossia infide e pericolose. La creatura sfigurata fugge dalla Torre di Isse per ritrovare il suo nome, una cura per il suo viso deturpato e la memoria. Dopo aver fatto amicizia con Sianadh, un avventuriero di Erith che le ha dato il nome di Imrhien, apprende che i suoi capelli biondi indicano una discendenza dalla gente
talith, una razza un tempo grande, ma ormai ridotta sull'orlo dell'estinzione. Insieme, i due vanno alla ricerca di un favoloso tesoro e lo trovano nelle caverne sotto una remota cascata, chiamata Scala d'Acqua. Dopo aver prelevato un po' di monete e oggetti preziosi, i due ripartono per la città di Gilvaris Tarv, dove sono ospitati dalla sorella di Sianadh, la Carlin Ethlinn, che ha tre figli: Dirmid, Liam e Muirne. Un incompetente Mago di città, Korguth, tenta di guarire le deformità facciali di Imrhien, ma riesce solo a ridurla in condizioni ancora peggiori, con gran rabbia di Sianadh. Più tardi, al mercato, Imrhien compra la libertà per un cavallo d'acqua seelie. In quell'occasione i suoi capelli d'oro rimangono accidentalmente scoperti per un istante, e lei si accorge di essere stata notata da un individuo sospetto. Quando Sianadh lascia la città per prelevare altre ricchezze a Scala d'Acqua, Imrhien e Muirne vengono prese prigioniere da una banda di malviventi capeggiata da un uomo di nome Scalzo. E soltanto dopo essere state liberate da Diarmid apprendono della tragica morte di Liam e Sianadh a opera di Scalzo e dei suoi complici. Giacché Imrhien ha promesso a Ethlinn di rivelare il nascondiglio del tesoro di Scala d'Acqua soltanto al Re-Imperatore, la fanciulla si unisce a Muirne e Diarmid nel loro viaggio verso la lontana Caermelor, la Città Reale. Lungo la strada, attraverso una terra selvaggia piena di bellezze e di pericoli, Imrhien e Diarmid vengono accidentalmente separati dai compagni di viaggio, ma, per loro fortuna, incontrano Thorn, un attraente esploratore della Confraternita Dainnan, di un coraggio e di un'abilità senza pari. Imrhien se ne innamora. Dopo molte avventure, seguite da un soggiorno a Rosedale con Silken Janet e suo padre, i tre viaggiatori ritrovano Muirne, sana e salva. Lei e Diarmid hanno però deciso di unirsi alle forze armate del Re-Imperatore: i ribelli barbari e gli unseelie si stanno infarti radunando nella terra settentrionale di Namarre, e tutto fa pensare che ben presto Erith sarà sconvolta dalla guerra. Prima di proseguire per Caermelor, Imrhien intende far visita a Maeve, una Carlin con un occhio solo, per chiederle una cura. Ciò significa separarsi da Thorn, e questo la turba profondamente... E il suo turbamento raggiunge il culmine quando, salutandola, Thorn la bacia. Alla fine, nel villaggio di White Down Rory, le deformità che le sfigurano il viso vengono curate e, una volta guarita, la fanciulla ritrova anche la capacità di parlare.
Due dei suoi scopi sono stati raggiunti. Imrhien adesso ha un nome e un volto. Però non ha ancora nessuna memoria del suo passato. All'inizio del secondo libro, Imrhien si accorge che la casetta di Maeve è tenuta sotto sorveglianza e decide di andarsene in segreto, travestita. Con i capelli tinti di nero, eleganti abiti nuovi e una falsa identità - Lady Rohain Tarrenys delle Isole Sorrows - Imrhien giunge al Palazzo Reale di Caermelor, dove informa il Duca di Roxburgh e il Bardo Reale del tesoro nascosto sotto Scala d'Acqua. I magnifici reperti diventano proprietà della Corona, e Rohain viene generosamente ricompensata per la parte avuta nella scoperta: gioielli, una villa in campagna, il titolo di Baronessa, e i servizi della giovane cameriera Viviana Wellesley. Rohain deve restare a Corte finché il Re-Imperatore non potrà darle udienza. Il sovrano è tuttavia occupato coi preparativi per la guerra contro i barbari ribelli di Namarre. In quelle terre si complottano gravi atti ostili, e si teme che l'Impero corra il pericolo di essere attaccato e travolto. La cameriera di Rohain si rivela un'amica e alleata, e il Bardo Reale, Thomas Rhymer, e la Duchessa di Roxburgh prendono la fanciulla sotto la loro protezione. Sono essi a raccontarle dei faêran, la razza di potenti immortali che un tempo usavano frequentare le regioni più amene di Erith. Un'altra cortigiana, Dianella, nipote del Mago Sargoth, si finge amica della nuova venuta. Con immensa gioia, Rohain scopre che il suo amico Sianadh è scampato alla morte. Può finalmente parlargli della sua amnesia, e lui le consiglia di tornare alla Torre di Isse, alla ricerca delle sue origini. Ma la spregevole Dianella, venuta a conoscenza della falsa identità data da Rohain, la costringe ad abbandonare per sempre la Corte e ogni suo avere, minacciando di smascherare pubblicamente l'inganno. Rohain segue allora il consiglio di Sianadh e parte per la Torre di Isse, accompagnata da Viviana. Al Settimo Casato dei Cavalieri della Tempesta, Rohain riesce soltanto a sapere di essere stata ritrovata nei pressi delle Torri della Caccia, l'infernale caldera abitata dagli esseri della Caccia Selvaggia. Decide di recarsi laggiù, ma il suo viaggio viene interrotto dalla notizia che la Torre di Isse è sotto l'attacco dei wight unseelie. Tornata alla Torre, ha la sorpresa di trovarvi Thorn e di scoprire che il giovane è in realtà il Re-Imperatore. La fanciulla fa ritorno al Palazzo Reale di Caermelor al fianco del sovrano, e lì vive un breve periodo di intensa felicità. Qualche tempo dopo, Thorn, in partenza per il conflitto nel settentrione, la lascia al sicuro nell'I-
sola Reale di Tamhania e le regala un anello di foglie d'oro come pegno e protezione. Tamhania è difesa da incantesimi che l'hanno sempre resa inviolabile alla forza unseelie, ma, durante una violenta tempesta, Rohain viene indotta ad accendere il grande Raggio, che apre un passaggio sicuro verso l'interno del porto. Così facendo, dà inavvertitamente accesso alle entità unseelie che vogliono distruggere l'isola. Da lì a poco Tamhania soccombe alla forza esplosiva del suo vulcano, e Rohain deve fuggire via mare con tutti gli abitanti. Molte imbarcazioni s'inabissano, e le altre restano separate dalla tempesta. Rohain fa naufragio su una remota spiaggia, non lontano dalle Torri della Caccia, insieme con Viviana e la giovane Caitri. Consapevole del pericolo che deve fronteggiare, decide di assumere un'altra identità e prende il nome di Tahquil, mentre Viviana le tinge i capelli di castano con l'estratto bollito di una corteccia. Nella foschia delle ceneri vulcaniche proiettate nell'atmosfera dall'esplosione di Tamhania, le tre ragazze si mettono in viaggio a piedi verso le Torri della Caccia. Sulle pendici della caldera abitata dai malvagi componenti della Caccia Selvaggia, Rohain trova un braccialetto d'oro, che le restituisce la memoria perduta. La fanciulla è così in grado di ricordare un tempo lontano, nella terra di Avlantia, quando la città di Hythe Mellyn era stata salvata dall'invasione dei topi grazie a un misterioso Pifferaio, che aveva portato via i perniciosi roditori con la sua musica. La città si era però rifiutata di pagare al Pifferaio la somma pattuita, e costui per ritorsione aveva portato con sé tutti i bambini, conducendoli sotto il Colle di Hob. Soltanto una bambina non aveva ubbidito alla magica chiamata del Pifferaio: Ashalind na Pendran aveva una gamba malata e non aveva potuto seguire i coetanei. Mentre cresceva, in una città tormentata dal dolore, Ashalind aveva continuato a cercare una via per il reame del Pifferaio. Easgathair, uno dei faêran, la razza di immortali che in quel lontano passato ancora frequentava Erith, impietosito, le aveva insegnato il modo di penetrare nel Colle di Hob. Una volta dentro, Ashalind era stata portata dinanzi al Principe Morragan, fratello del Re dei faêran. L'astuta fanciulla era riuscita a rispondere ai tre indovinelli con cui il Principe l'aveva sfidata; in cambio, aveva ottenuto il permesso di riportare i bambini nel mondo dei mortali. Pur così salvati, i bambini avevano cominciato a intristirsi e languire; erano stati colti da una profonda nostalgia del Reame Fatato, un mortale
rimpianto conosciuto come il langothe, per il quale nessuno conosceva la cura. Disperata, Ashalind aveva chiamato Easgathair per chiedergli di consentire ai bambini di tornare nel Reame Fatato, stavolta con le loro famiglie, affinché il langothe allentasse la morsa consentendo loro di sopravvivere. Easgathair aveva esaudito la sua richiesta, annunciando al tempo stesso che le Porte tra il Reame dei faêran e le terre dei mortali presto sarebbero state chiuse per sempre. Il Giorno della Chiusura, i cittadini di Hythe Mellyn avevano abbandonato le loro case per trasferirsi con carri e cavalli carichi di masserizie nel Reame Fatato. Poco prima della Chiusura, Ashalind aveva però scoperto che esisteva una cura per il langothe e aveva così deciso di tornare in Erith. A causa di una scaramuccia tra il Principe Morragan e suo fratello, il Re Angavar, entrambi i membri della famiglia reale faêran erano rimasti chiusi fuori del Reame Fatato, coi rispettivi seguiti. Essi sarebbero stati esiliati per sempre nel mondo dei mortali. Ashalind era riuscita a mantenere aperta la Porta del Bacio dell'Oblio grazie alle condizioni del bitterbynde, l'incantesimo imposto su tutti quelli che l'avessero attraversata. Ma, quando la ebbe attraversata, la Porta era stata sbalzata in una terra lontana e su Erith erano trascorsi mille anni. Dopo molte traversie, Ashalind era giunta alle Torri della Caccia, dove aveva perduto la voce e i ricordi. L'incantesimo della Porta si era chiuso su di lei. Le Terre Conosciute di Erith
1 KHAZATHDAUR GLI ALBERI D'OMBRA
Vanno tra gli alberi spire di fumo lente, s'intrecciano alla brezza voci chiare, triste allora io guardo all'occidente, e l'ansia di partir mi spezza il cuore. Versi di Llewell, Bardo di Auralonde Senza inizio e senza fine, la pioggia cadeva incessante, simile a un tamburellare di dita impazienti. La fanciulla sentiva soltanto quel fruscio liquido e l'ansito roco del suo respiro mentre s'inerpicava lungo il pozzo minerario, muta e priva di memoria, malridotta e sfinita. Era sola, non aveva idea della sua identità, e non ricordava come fosse arrivata in quel posto. Nell'oscurità del sottosuolo aveva continuato ad annaspare alla cieca verso l'alto finché, raggiunta un'apertura, non era rotolata fuori sotto strali di pioggia. Poi si era trascinata tra ruvide rocce e artigli di rovi, indebolita dal langothe e da giorni di fame in quella desolazione, incapace di provare appetito per il cibo di Erith dopo la vista e il sapore delle pietanze faêran. Ogni tanto aveva dormito un poco, o forse era svenuta. Tuttavia insieme coi ricordi aveva dimenticato anche il langothe. Il cagnolino non c'era più. La fanciulla era rimasta distesa a lungo nella miniera dopo il crollo, leccando ogni tanto l'acqua che colava dalla roccia. Sepolta viva, l'avevano data per morta. La Caccia era stata abbandonata, perché i cacciatori non sapevano chi fosse e l'avevano presa per una vagabonda, o una ladra, che aveva ormai trovato la sua punizione sottoterra. Ma lei era sopravvissuta, forse grazie al misterioso dono di Lady Nimriel, o alla sua forza interiore, oppure a qualche altro insondabile elemento. Muovendosi carponi si era allontanata nella fanghiglia e tra i detriti umidi delle miniere abbandonate, inconsapevole dei pericoli e degli orrori che le abitavano, cieca agli ostacoli contro cui si graffiava. Quando aveva trovato un sentiero, si era alzata e aveva camminato, con gambe tremanti che sembravano ricordare a stento la loro facoltà di movimento. Improvvisamente il sentiero era franato sotto i suoi piedi; era precipitata, arrestandosi bruscamente con una lancinante fitta di dolore quando il bracciale che le cingeva il polso si era impigliato in una radice. Come un'esca appesa a un amo, era rimasta a penzolare nel vuoto finché, con uno sforzo enorme, non aveva alzato l'altro braccio in cerca della fibbia e l'aveva fatta scattare. Il bracciale si era aperto e lei era rovinata in un cespuglio di edera
paradossa. Erano trascorse ore. Più tardi, sfigurata dall'edera e avvolta in un abito maschile, era stata scoperta da un carrettiere di passaggio. L'uomo le aveva rubato il suo mantello faêran, e l'aveva consegnata nelle mani di Grethet. Da allora erano accadute molte cose... In quel momento, mentre le memorie tornavano come il fiottare della resina in primavera, una strana euforia sbocciò nella ragazza distesa quasi in trance nei boschi avvolti dalla notte presso le Torri della Caccia. L'esperienza del ricordo la impregnò di energia. Si sentiva come una creatura alata che spaziasse con lo sguardo sul mondo da un'altezza impossibile. Così espansa era la sua coscienza che allungando una mano avrebbe potuto spazzare via la pioggia dalla pianura. Col viso accarezzato dalla fredda umidità delle nubi, alzando le braccia sarebbe riuscita ad afferrare il sole come una palla d'oro. Gli esseri umani si muovevano simili a insetti intorno ai suoi piedi, e nulla poteva toccarla. Aveva sopportato tutto ciò ed era rinata, splendente. Stava vincendo. Fino a quel momento. Le faceva male una spalla. Un artiglio d'acciaio l'aveva afferrata e le scuoteva tutto il corpo. Con un grido inarticolato si divincolò da quella morsa. «Rohain! Padrona!» Davanti a lei c'era un viso tondo e grassottello, dagli occhi azzurri, incorniciato da morbidi riccioli biondi con le radici scure. Tahquil si alzò a sedere e bevve un sorso d'acqua da una bottiglia. Come usavano i guerrieri, si sciacquò la bocca e sputò, poi si asciugò le labbra con una manica sporca di sangue. «Viviana, ti ho detto di non chiamarmi così. E tagliati le unghie.» Si massaggiò la spalla. «Siamo ancora vive?» «Sì, tutte e tre. Voi ci avete salvato.» «Mi piacerebbe essere d'accordo con te, ma il merito del nostro stato di salute va all'anello che ho al dito.» Si portò le mani alla faccia e sfiorò con dita leggere la fronte, il naso e il mento. Esaminò una ciocca dei suoi capelli scuri. «Sono ancora quella che ero? Sono brutta o bella? Ragazzo o fanciulla?» Viviana e Caitri si scambiarono uno sguardo eloquente. «Le vostre vicissitudini alle Torri della Caccia vi hanno sconvolta... Ta-
hquil», disse Caitri. «Venite, lasciate che vi aiutiamo ad alzarvi. Siamo ancora troppo vicine a quel posto.» Mentre si alzavano, la ragazza che era stata chiamata Tahquil vacillò, portandosi le mani al cuore. Appoggiata a un albero di linden, chiuse gli occhi e fece una smorfia. «Signora, cosa vi succede?» domandò Viviana, preoccupata. «Ah, no, non può essere. Ahimè, mi ha preso ancora. Questo, dunque, è il prezzo.» «Cosa vi ha preso?» «Il langothe. Non c'è scampo da esso.» La sofferente spinse via il suo dolore. «Proseguiamo.» Dovrò sopportare l'insopportabile. Si chiese quanto ci avrebbe messo a distruggerla. Era il secondo giorno di Duileagmis, il Mese delle Foglie, l'ultimo mese della primavera. Nei boschi, ogni foglia era una perfetta punta di lancia scolpita in un lucente smeraldo, sbocciata di fresco. Il fogliame nuovo non era ancora stato morso dagli insetti, né strapazzato dal vento e dalla pioggia. Le tre viaggiatrici s'incamminarono su una spianata dove crescevano snelli alberi di cartargento, i cui tronchi erano costellati di nodi scuri che accentuavano il liscio candore della corteccia. Le loro cime svettanti sparivano in una nebbia verdolina sfumata di strisce gialle. La ragazza di nome Tahquil si fece girare intorno al dito il cerchio d'oro dell'anello-foglia. I suoi pensieri corsero a colui che gliel'aveva regalato. Sento la tua mancanza. Ora ho chiuso il circolo. Sono di nuovo qui. E tu, mio amore... potrò mai ritrovarti? L'incertezza la faceva soffrire. La nostalgia le attanagliava il cuore. Ho mille e diciassette anni. Sono Ashalind na Pendran, Lady del Circolo, e vengo da un'epoca in cui ancora non esistevano i venti shang, prima delle Navi del Vento e del sildron. Il regno in cui sono nata è caduto in polvere. Uno dei più potenti faêran di Aia mi dà la caccia... ma perché? È solo perché ho avuto la colpa di origliare, e di sopravvivere alla sua vendetta, oppure lui sa che ho trovato la via per tornare nel Reame? Vuole la mia vita, o ciò che io so? E per tutto questo tempo l'altro potente faêran, il suo regale fratello, ha continuato a dormire in compagnia di tutti i suoi cavalieri sotto chissà quale collina senza nome... Solo una porta per Faêrie è rimasta transitabile: la Porta del Bacio dell'Oblio. E soltanto io posso usarla, soltanto io posso riconoscerla, se riu-
scissi a ricordare dov'è. Ma il passato è tornato in modo imperfetto alla mia mente. Il ricordo più importante di tutti, il luogo in cui si trova quella Porta, è più che mai nascosto nella nébbia dell'oblio... e forse ci resterà per sempre. In effetti anche altre cose accadute al tempo del mio passaggio attraverso quella Porta mi restano oscure. Se potessi tornare nel Reame Fatato con la parola-chiave «elindor», Easgathair avrebbe accesso alle Chiavi chiuse nello Scrigno Verde. Le Porte potrebbero essere di nuovo aperte. I faêran avrebbero allora modo di mandare un messaggero al luogo sotterraneo dove il loro Re dorme perché certo essi sapranno localizzare quel nascondiglio, o trovarlo per mezzo del gramarye - per chiedergli di tornare al più presto e in segreto nel Reame. Se invece sarà il Principe Corvo a scoprire che c'è il modo di aprire le Porte, ed entrerà nel Reame prima di suo fratello, potrà usare la sua seconda posta e costringere Easgathair a chiudere per sempre quelle Porte, condannando così il Supremo Re a un esilio perpetuo e irreversibile. I miei pensieri rotolano l'uno sull'altro, confondendosi sempre più. È come giocare a Re-e-Regine: se faccio così accadrà questo e poi questo, altrimenti potrebbe accadere quest'altro... In ogni caso, molte cose ora sono più chiare. Oggi finalmente so chi mi sta dando la caccia. Pensavo fosse il Cornuto, ma Huon è soltanto uno degli scagnozzi di Morragan e i suoi poteri sono poca cosa in confronto a quelli del suo padrone. So anche chi è il nemico che notò i miei capelli talith nel mercato di Gilvaris Taro, e chi perse le mie tracce dopo l'attacco alla carovana, e chi mi ritrovò dopo che Dianella e Sargoth mi ebbero tradito. Io so chi fu a ordinare alla Caccia Selvaggia di assalire la Torre di Isse, e che mandò i tre Corvi di Guerra attraverso il Canale di Tamhania. So chi m'insegue per distruggermi ovunque io vada... il Fithiach di Carnconnor, Morragan, Principe Corvo di Faêrie. Accigliata, addentrandosi con le compagne nella foresta di faggi, la viaggiatrice dai capelli tinti di nero e con le vesti ornate da ramoscelli di timo tornò col pensiero alla prima volta che aveva visto il suo persecutore, nelle sale di Carnconnor sotto il Colle di Hob. Con gli occhi grigi come il mare meridionale, era il più serio e composto di tutta la compagnia. I suoi capelli scendevano ondulati fino ai gomiti, neri come l'ala di un corvo, dai riflessi azzurri. L'aveva guardata dall'alto in basso, senza una parola. Devo scacciare quel personaggio dalla mente. Mi mette malinconia. I
faêran! Li ho conosciuti, ho parlato con loro. Sanno essere così sereni e gentili come non avrei creduto possibile, e portano delizia ai mortali, ma anche tristezza. Di nuovo accarezzò l'anello d'oro, con un sorriso mesto, e i suoi occhi si annebbiarono di ricordi. Se non avessi visto Thorn toccare il ferro freddo con le mani, direi che nelle sue vene scorre sangue faêran. Sono davvero felice che non sia faêran... ma ora non devo distrarmi pensando a lui. Quando mi lasciai alle spalle la Geata Poeg na Déanainn ero decisa a fare di tutto per rimettere sul trono il Supremo Re dei faêran. Mi chiedo quanto tempo abbia regnato sul Reame Fatato quel sovrano di tutti gli immortali, orgoglioso, consapevole del suo potere e raggiante di gloria anche negli anni della sua decadenza. Per quanti secoli ha occupato il candido trono di Faêrie, giocando con la vita dei mortali, prima d'incontrare il destino degli esiliati? E cosa m'importa se questo antico Re e i suoi guerrieri dormienti giacciono sepolti per sempre sotto le montagne di Erith? Le sfuggì un sospiro. Sapeva già la risposta. Sì, m'importa. Quelli che dormono possono svegliarsi, un giorno. In quest'epoca che non conosce i faêran ho sentito più chiacchiere su di loro di quante ne circolassero in passato. Racconti che parlano di una razza sorprendente, ma pericolosa e crudele. Come tutti i mortali, io sono attratta da loro, ma la storia che ora posso ricordare conferma la mia ostilità. Io detesto i faêran, almeno quanto il Principe Corvo detesta i mortali. Non potrei sopportare che i guerrieri faêran, svegliandosi, volessero impadronirsi della mia Erith. È colpa dei Fatati, delle loro lotte per il potere e delle loro leggi spietate, se oggi sono qui in questa terra pericolosa, lontana da quelli che amo. Mi rendo pienamente conto dei disastri che potrebbero provocare, ridestandosi dal loro sonno incantato. Colei che io ero un tempo, la Ashalind dei miei ricordi, li amava. Io, la sua reincarnazione in questo futuro, sono più saggia. Certo, sono belli e affascinanti... è impossibile non esserne attratti. Ma io, Tahquil-Rohain, odio e temo la loro vita aliena, la loro selvaggia morale, le loro immutabili leggi, il loro arrogante uso del potere. È vero che talvolta, quando gli fa comodo, possono comportarsi con gentilezza, ma ogni racconto li rivela come duri e orgogliosi, sprezzanti, crudeli. Fanno uso e abuso della mia razza. Non ha torto la gente che chiama i faêran «gli Stranieri». Stranieri sono, infatti, brucianti fiamme di gramarye. Devono essere allontanati dal nostro mondo.
Questa è la mia conclusione: i dormienti devono svegliarsi e andarsene. Devono tornare nel luogo cui appartengono. Ogni faêran in Erith dovrà essere rimpatriato. Se il langothe non sarà troppo rapido nei suoi mortali effetti, io tornerò in Arcdur e cercherò la Porta. Poi entrerò nel Reame Pericoloso e userò la parola-chiave per aprire il loro Scrigno delle Chiavi. Questo permetterà ai faêran del Reame di uscire in Erith e rintracciare la collina sotto cui dorme il loro Re. Sveglieranno lui e i suoi nobili guerrieri, e li porteranno via. Altri faranno lo stesso col bel Principe Corvo, che tanto appassionatamente lotta e si ribella contro il suo esilio. Quando essi e i loro affascinanti, fulgidi, ombrosi, terribili compagni se ne saranno andati, le Porte dovranno essere sigillate per sempre. Io non avrò riposo finché non accadrà. Questo è il compito a cui devo dedicarmi. Tra le argentee radici delle betulle spuntavano pianticelle colorate di lupini, alte quanto il ginocchio di un uomo. Ciascuna aveva un colore diverso, e si vedevano foglioline rosa pesca, rosa salmone, giallo albicocca e malva, marrone e lavanda. Cespi di fiortorrette allargavano verdi corone di efflorescenze. Le pratoline si ergevano dritte, coi petali così rigidi e perfetti nelle loro tinte da sembrare artificiali. Le corolle accarezzavano il bordo della gonna delle viaggiatrici. «Dove stiamo andando?» domandò Caitri. «A nord-est. Poi a nord.» Più vicino a Thorn, dunque. E tuttavia non oserò cercarti, mio amato. Non porterò mai fino a te i miei inseguitori. «Avete trovato quello che cercavate, alle Torri della Caccia?» «L'ho trovato. Stanotte, dopo aver cercato un posto sicuro dove riposarci, vi dirò tutto.» «Stanotte voi dormirete», la ammoni Viviana, con fare materno. «Ieri notte non avete chiuso occhio; sembrava che foste caduta in trance. Credevamo vi avessero stregata.» «Perché andiamo a nord?» chiese ancora Caitri. «La regione chiamata Arcdur si trova a nord. Io devo cercare una cosa, lassù... una Porta. Non appena vedrete dei Cavalieri della Tempesta passare su di noi, dovrete chiamarli per farli scendere, e andare via con loro, fingendo di non sapere nulla di me. Voi due avete sofferto abbastanza. Questa mia nuova ricerca non è adatta a delle cortigiane.» «Le vostre parole ci offendono», replicò Viviana.
«Mi dispiace. Ma è così.» Le tre ragazze proseguirono in silenzio. «Non vedremo alcun Corriere», disse Caitri. «Ci troviamo in una zona lontana da quelle attraversate dalle Strade Celesti, che loro percorrono di solito. Inoltre, hanno già perlustrato questa costa. Ci hanno dato per disperse, e non torneranno.» «C'è qualche strada che porta ad Arcdur, da qui?» s'informò Viviana. «Non che io sappia. La Grande Strada del Re arrivava fin lassù, ma da molto tempo è stata inghiottita dalla foresta, o crollata nel mare. So soltanto che Arcdur è una tozza penisola che sporge verso settentrione, nell'estremo nord-ovest di Eldaraigne.» «Allora dovremo seguire sempre la riva del mare, in quella direzione. Se terremo il mare alla nostra sinistra, alla fine giungeremo in Arcdur.» «Questo non è possibile», disse Tahquil-Ashalind. «Le colline lungo quella costa sono tagliate da profondi fiordi, che si addentrano per grandi distanze nel territorio. Senza una barca non riusciremo a passare di là.» Viviana si fermò in mezzo alle felci e raccolse alcune fronde a forma di violino, molto frastagliate, simili a primaverili ricami all'uncinetto. Altri campioni di vegetazione assortiti penzolavano legati con pezzi di filo dalla sua cintura, dalle sue tasche e dai suoi gomiti, nascondendo gli articoli oscillanti e tintinnanti che portava appesi alla castellana. «Non avete mangiato niente fin dall'altro ieri, mia signora», le ricordò la cameriera, guardandola da dietro i riccioli ossigenati che le pendevano disordinatamente sulla faccia. «Non c'è da stupirsi che abbiate mal di pancia.» Tahquil guardò i mazzolini di verdure avvizzite e i tuberi polverosi che anche lei portava appesi addosso. Qualcosa le si agitò nello stomaco, l'euforia la abbandonò: gli esseri umani non potevano vivere solo di ricordi. Le tre compagne sedettero fra i tronchi dei faggi e accesero un fuoco. Viviana disfece i mazzolini di verdure, baccelli ed erbe commestibili. «Via è diventata un'esperta nella ricerca di cibo», spiegò Caitri. «Specialmente da quando voi siete andata nella caldera, lasciandoci sole. Lei ricorda tutto ciò che ci avete insegnato. È tagliata per queste cose.» «Anche le cameriere possono imparare a sopravvivere nelle terre desertiche», soggiunse Viviana. «Allora sarà meglio che v'insegni come si cucinano queste verdure», decise Tahquil. Sarebbe stata una distrazione dalle sofferenze. Quelle colline boscose, dai dolci pendii tondeggianti, facevano parte del-
la Grande Foresta Occidentale: non una giungla impenetrabile ma radi boschi di faggi, querce dalle chiome fruscianti e pioppi verdi di foglie nuove, da cui pendevano rampicanti e liane. Tra gli alberi si aprivano radure pavimentate di erica e cespugli di uvaspina coperti di boccioli. I ruscelli gorgogliavano lungo piccole valli. Le campanule azzurre emanavano una nebbiolina color indaco, attraente quanto pericolosa. Orientandosi col pallido sole offuscato dal fumo che faceva capolino tra le chiome degli alberi, le viaggiatrici camminarono nella foschia rossastra del pomeriggio. Giunta la sera, quando la stanchezza ormai faceva barcollare Tahquil, si arrampicarono su un vecchio e poderoso faggio, trovando rifugio all'intersezione di tre grossi rami. Cicalando come una torma di passeri sulle foglie cadute del sottobosco, una banda di piccoli wight si fermò a fare saltelli e capriole tra le contorte radici. Erano grig, esseri non più alti di due palmi, con le guance rubizze come mele, occhi castani e boccucce ridenti. In testa portavano berretti simili a funghi rossi; avevano braghe color corteccia lunghe fino al ginocchio e bluse di felci verdi. Il loro comportamento era quello tipico degli eldritch dei boschi: uno di loro afferrava un altro per le caviglie e lo spingeva avanti fingendo che fosse una carriola, finché entrambi non ruzzolavano a terra, oppure salivano l'uno sulle spalle dell'altro finché l'esercizio acrobatico non si concludeva nello stesso modo; sembravano trovarlo divertentissimo. Agli occhi del pubblico che li osservava dall'alto, quei giochi apparivano invece noiosi e privi d'ispirazione. «Mi piacerebbe avere qualcosa da tirare in testa a quei piccoli uncouthant», commentò Viviana, stizzita. Distesa sulla congiunzione fra i tronchi, Tahquil si addormentò; col sonno, su di lei scese anche l'oblio. Continuò a dormire quando il vento shang attraversò i boschi, ma Viviana, sempre attenta, tirò il taltry sulla testa della sua padrona. Nella tempesta magica, l'aria ancora invasa dalle ceneri vulcaniche sembrava colma di minuscoli zecchini d'oro. «Prima o poi dovrò dirglielo», sospirò Caitri. Il putrido lucore dell'alba penetrò le ceneri di Tamhania che saturavano l'atmosfera. Le tre viaggiatrici stiracchiarono le membra intorpidite. «Per le Potenze!» esclamò Tahquil, non appena le si schiarì la mente. «Siamo fortunate a essere ancora vive... non abbiamo fatto la guardia, stanotte!» «Voi non l'avete fatta», precisò Caitri, strizzando tra le dita alcune foglie
di timo per liberarne il profumo pungente. «Noi sì.» Tahquil sorrise, sotto la crosta di cenere umida che le si era depositata sulla faccia. «Sono felice di avervi con me.» Si sfregarono foglie di timo sulla pelle e sulle vesti, e fecero colazione con un po' d'acqua. Mentre rimetteva il tappo alla bottiglia, Caitri rialzò lo sguardo sulla padrona. I suoi occhi dalle lunghe ciglia sembravano più larghi, le sue guance erano più pallide del solito. «Dovremo tirare avanti, nonostante tutto», mormorò, oscuramente. «Che c'è, Cait? Vedo nei tuoi occhi che è successo qualcosa di terribile, e negli ultimi tempi mi sei parsa più volte sul punto di dirmi qualcosa. Stavolta devi dirlo... perché sento che è importante per me.» Caitri deglutì saliva. «È così, infatti. Avrei dovuto dirvelo prima, ma non ho potuto. È anche adesso...» «Non interromperti. Dimmi ciò che devi, presto, o l'attesa mi farà impazzire!» «Quel furfante di Sargoth, l'uomo che una volta era Mago Reale...» «Cosa ha fatto?» «È fuggito dalla prigione del palazzo e scorrazza libero in Eldaraigne. Vi sta cercando, e ha giurato di vendicarsi terribilmente su di voi.» Il vecchio faggio allungava le sue braccia verso il cielo fosco. Tra le foglie svolazzavano farfalle color talium, come petali di primule strappati dal vento. «Come sei venuta a saperlo, Caitri?» «Ho origliato, a Tana, il giorno dopo l'arrivo dell'ultima Nave d'Acqua. Con essa era giunta questa notizia odiosa. Non ho potuto dirvi nulla, e parlarne era proibito.» «Chi hai ascoltato?» «Ne discutevano nella camera accanto alla vostra. Il Principe Edward e il Duca di Ercildoune. Io stavo mettendo fiori in un vaso, per voi. Non volevo origliare, ma non ho potuto evitarlo; le loro parole mi arrivavano chiaramente. Il Principe sembrava nervoso e triste. Diceva di voler lasciare l'isola per andare al nord, alla guerra. Diceva di sentirsi un falco in gabbia, col cappuccio, mentre ciò che voleva era volare libero per combattere a fianco dei nostri soldati. Diceva che non era da uomini nascondersi a Tamhania mentre avrebbe dovuto essere sul campo di battaglia con la spada rossa del sangue dei wight. Il Duca tentava di persuaderlo del contrario, dicendo che era ancora troppo giovane per andare in guerra. Il Principe allora disse che almeno avrebbe dovuto perlustrare Eldaraigne in cerca del
Mago fuggiasco, Sargoth, che aveva ucciso i soldati da cui era inseguito e aveva fatto voto di dedicare ogni suo sforzo alla rovina di Lady Rohain.» Caitri si morse un labbro, a disagio nel dover dare quella brutta notizia. «E poi il Duca disse al Principe Edward di tacere, di non parlare a voce così alta, perché senza dubbio il Mago sarebbe stato presto ricatturato, e che non era bene destare inutile allarme rivelando questa minaccia, affinché la mia signora si sentisse al sicuro sull'Isola Reale. E il Principe dopo un po' disse che, sì, questo lui lo sapeva. Poi nessuno dei due disse altro.» «Sei sicura di ciò che hai udito?» «Sì. Non avrei potuto fraintendere. Mi dispiace, ma ho pensato che fosse meglio avvertirvi...» Tahquil-Rohain sembrava osservare la corteccia del faggio. Una pavoncella dai colori sgargianti, simile a una palla di piume rosse e nere, camminava su zampette quasi invisibili. Gli insetti fuggivano a nascondersi negli anfratti della corteccia. «Ti ringrazio, Caitri», disse Tahquil. «Hai fatto bene a informarmi che un altro nemico vuole il mio sangue. Dico davvero. Chi conosce i suoi nemici è meglio attrezzato per difendersi. Quel subdolo Sargoth, ovunque si aggiri, non mi coglierà impreparata!» Ma, al ricordo di Tamhania, Caitri aveva cominciato a piangere. «Povero Edward!» singhiozzò Tahquil, unendosi allo sfogo. «E il caro Thomas!» Quelle lacrime furono un catalizzatore. Le immagini di coloro che aveva amato e perduto sfilarono nitide nella sua mente. L'impatto della tragedia dell'isola, che entrambe avevano tenuto fuori dei loro pensieri, le investì con violenza. L'una accanto all'altra piansero senza trovare consolazione, finché non ebbero più lacrime. Quando si furono sfogate, una vuota tranquillità le avvolse. Poco dopo Tahquil scese dall'albero, sfruttando le irregolarità della corteccia fino al suolo. Atterrò duramente e non alzò lo sguardo. «Andiamo», ordinò con voce roca. «A quest'ora avremmo dovuto essere già lontane da qui.» Sopra il tetto di fronde si stavano radunando nubi gravide. Da lì a poco, la pioggia sciolse i loro capelli d'argento e spazzò via le ceneri e le sostanze corrosive. Il mattino successivo l'aria era pulita, fresca, trasparente come il cristallo.
S'incamminarono verso nord-est nell'entroterra, tenendosi a circa tre leghe di distanza dalla costa. Il vento del nord portava fin lì l'odore selvaggio del mare. I rumori dei wight ribollivano tutto intorno, specialmente di notte: passi, fruscii, risa maniacali o grida. La percezione di presenze invisibili faceva rizzare i capelli o afferrava alla gola come una mano fredda, mentre il cuore martellava nel petto. Ma i tilhal, o l'anello di foglie d'oro, o il buonsenso o la fortuna, o tutte e quattro le cose insieme, fino ad allora avevano protetto le tre viaggiatrici. Di tanto in tanto, Viviana e Caitri ungevano Tahquil col succo delle foglie di timo per impedire che il suo odore fosse identificato, perché vi erano esseri che gli incantesimi e la fortuna non potevano tenere a bada. Tahquil mostrò alle compagne il braccialetto d'oro con inciso il volatile che era il suo simbolo, e raccontò loro tutto ciò che le era tornato in mente nella caldera. Le due ragazze rimasero stupefatte. «Dopo tutto ciò che è stato detto e insinuato, dunque, la mia signora è davvero una lady», commentò Viviana, con la consapevolezza del rango tipica delle cortigiane. «Un diritto assai raro, se posso dirlo!» «Ma per quale miracolo, mia signora, voi non siete polvere?» si meravigliò Caitri durante il cammino. «Nelle storie di Faêrie, quando i mortali tornano fuori da quel reame essi crollano in polvere, non appena messo piede sul suolo erithano.» Cenere alla cenere. «Non lo so. A meno che questo non sia parte del dono di Lady Nimriel, o una proprietà conferita dalla Porta dentro il cui tunnel ho trascorso mille anni.» «Ma voi non ricordate più l'esatta posizione di questa Porta?» «Non ci riesco. Però penso che, se rivedrò quella zona, saprò orientarmi.» «Ed è lassù che stiamo andando... per ritrovarla?» «Sì.» «Ma non dovremmo piuttosto cercare il Re-Imperatore, cosicché possiate informarlo di tutto ciò che avete ricordato?» insistette Caitri. «Perché, se qualcuno può aiutarvi a rintracciare la Porta, questi è Sua Maestà! Con l'Attriod Reale e le Legioni di Erith al suo comando, egli non può fallire!» «Il Re-Imperatore è già fin troppo impegnato con la guerra nel nord», replicò Tahquil. Fece una pausa, come per riconsiderare la cosa, poi aggiunse: «Vorrei tenere il mio signore lontano da questo pericoloso affare delle Porte e dei Principi faêran e dei cacciatori unseelie. Sta già rischiando la vita sul campo di battaglia. Non voglio scaricare su di lui altri pericoli».
«A mio avviso», ribatté Caitri, scegliendo con cura le parole, «ogni decisione contraria a portare le vostre notizie a Sua Maestà non è saggia. Lui è il nostro potente sovrano e un guerriero Dainnan di valore senza pari. I Maghi accorrono ai suoi ordini. Comanda molti soldati vestiti di bronzo e di ferro. La mia signora crede davvero che un tale uomo non possa difendersi contro nemici unseelie? Io dico che lui può... e può anche facilitare la vostra ricerca.» «Ti ringrazio per la franchezza», disse Tahquil con sincerità. «C'è molto di vero in ciò che dici.» E tra il mio amore e me, uniti come siamo, non dovrebbero esserci segreti... «Sicuramente è nostro dovere di cittadini mettere al corrente il nostro sovrano della natura degli inquietanti retroscena di queste agitazioni nel nord», intervenne Viviana. «Sicuramente è suo diritto, come monarca di Erith, conoscere il nome dei nemici dell'Impero.» Un'espressione sofferente contrasse il viso di Tahquil. Tormentata dall'indecisione accelerò il passo, agitando le mani nell'aria come per afferrare delle risposte. Incapace di decidere se permettere alle argomentazioni delle compagne di farle cambiare idea, lasciò che i suoi pensieri divagassero un poco. In effetti, lui guida guerrieri che impugnano il ferro e vestono di bronzo. La sua armatura è fatta di lucido acciaio, e io non l'ho mai visto indossarla. Potrei chiedermi... non per la prima volta, se nelle sue vene c'è sangue faêran. E tuttavia per i Fatati il tocco del ferro è come quello della fiamma per i mortali; nessun nobile faêran può sfiorare il ferro con un dito senza soccombere a un dolore insopportabile. No, lui non è della loro razza. È il mio amore a farmelo vedere più straordinario degli altri uomini. «L'amore è cieco», dicono, invece di: «L'amore trasforma le persone comuni in eroi, i plebei in Principi, i mortali in faêran». Agli occhi di chi ama, la persona amata trascende tra gli eletti, perde ogni difetto e diventa ultraterrena. D'altra parte, come potrebbe non essere un mortale? Lui è il ReImperatore, alla cui nascita era presente il Lord Cancelliere, per non parlare di una folla di levatrici e Carlin. D'un tratto Tahquil rallentò il passo e attese che le altre la raggiungessero. «Agire con la massima rapidità è imperativo», disse, in tono risoluto. «Se noi andassimo in cerca di Sua Maestà, perderemmo troppo tempo. Prima il mio piano sarà messo in atto, prima i faêran se ne andranno da
Erith e ci lasceranno in pace. Esitare significa offrire al Principe Morragan maggiori probabilità di trovare la Porta prima di noi!» «Questo è vero», assentì Caitri. Rassegnata, Viviana si strinse nelle spalle. «Allora, così sia. Io vi seguirò, benché non sia d'accordo.» «Non sei costretta a farlo», ribatté Tahquil. La cameriera sorrise. «Be'...» Allargò un braccio a indicare la vegetazione che le circondava. «Dove altro potrei andare?» Nella boscaglia c'era un laghetto alimentato da un ruscello. Su di esso stagnava un'immobile penombra verde dai toni invernali. Fu lì che le tre viaggiatrici si fermarono a lavarsi le mani e la faccia. Erano attente a ogni indizio di presenza unseelie, consapevoli che nel laghetto potevano celarsi cavalli d'acqua, annegatrici e striscianti fuath. Niente di pericoloso apparve a insidiarle, ma, mentre si stavano allontanando, Tahquil si voltò a guardare e nel gioco di luci e ombre vide un essere dall'aspetto vagamente umano seduto sulla riva, dove poco prima non c'era stato niente. Si sistemò meglio il taltry sulla testa e incitò le compagne ad affrettare il passo. I faggi lasciarono il posto a peri e mandorli in fiore, e da lì a poco le tre ragazze si trovarono a camminare sotto un mare di altri colori: ettari di petali bianchi in una profusione esuberante, tra i quali l'aria pullulava di api indaffarate in una fervida atmosfera nuziale. «Questi sono gli ultimi resti di un vecchio frutteto, forse», commentò Viviana. «Come nelle piane di Cinnarine. Che spettacolo dev'essere questa terra in primavera...» «Cinnarine è troppo vicina ai campi di battaglia, per i miei gusti», replicò Caitri. Le foglie lunghe e strette dei mandorli e quelle quasi circolari dei peri erano ancora strettamente avvolte dentro i boccioli. I petali candidi e cerei non avevano una sola imperfezione. Nebulose di farfalle sciamavano sui fiori, bianche come frammenti di carta. Più in alto, stormi di colombi volteggiavano in una nevicata di ali color latte, e i semi volanti che il vento trascinava via passavano sullo sfondo del cielo come fantasmi di stelle cadenti. Le viaggiatrici cenarono con foglie di cicoria e radici di erbargento. Il loro sapore acidulo indusse Tahquil a ripensare con rimpianto alle pere al miele di Oswyn affogate in salsa d'anice e spolverate di cardamomo, e al pane di mandorle cosparso di nocciole di burro; erano cose che aveva assaggiato per l'ultima volta un millennio addietro, ma non le aveva dimenti-
cate. Neppure il ricordo di quelle prelibatezze riuscì però a stimolarle l'appetito, ottuso dal langothe. Quando il coro con cui gli uccelli salutavano il crepuscolo si fu spento, il cielo sbocciò come una perla grigio-blu, scuro ma spolverato di stelle. Le cime degli alberi erano sospese sulla sua seta. Quella notte, mentre aspettava il sonno rannicchiata in una rete naturale di edera tesa tra i rami di un mandorlo, Tahquil ascoltò il lieve raspare degli opossum. Quando i suoi occhi si adattarono al chiaro di luna, si accorse che uno di quegli animali la stava guardando. La sua compagna, più timida, era fuggita via, spaventata; lui la osservò con calma solenne, poi senza fretta si mescolò alla notte... un piccolo essere selvatico, coraggioso, curioso. Intoccabile. Per un istante, Tahquil fantasticò che avrebbe visto Thorn sdraiato al suo fianco, se avesse voltato la testa. Così non si girò, affinché lui non sparisse. Le sue compagne dormivano profondamente. Il viso triangolare di Caitri, cinto dall'abbondante nuvola di riccioli scuri e sciolti, era in pace. Le sue caviglie sottili riposavano pallide sulle foglie, e la bocca a forma di cuore si era un po' aperta, rilassata. Alle prime luci del giorno, le tre ragazze ripresero il viaggio. Sul lato opposto del frutteto innevato di petali, gli alberi si facevano più radi. Gli spazi tra le loro chiome consentivano di vedere squarci di un cielo polveroso, azzurro come un uovo di gallina selvatica, in cui passavano nubi spettinate dal vento. Poi dinanzi a loro si aprì un'ondulata pianura erbosa, punteggiata di colori morbidi come manciate di cristalli di zucchero candito sparsi su un copriletto. Quelle selvatiche terre di confine erano come orti abbandonati, colme di colori all'epoca della fioritura. Le piogge corrosive causate dall'esplosione di Tamhania non le avevano quasi toccate, e a quella latitudine erano coperte di rododendri, di callistemoni dai grossi fiori scarlatti, di magnolie malva e di hakeas irti di bacche iridescenti. Le viaggiatrici spinsero lo sguardo oltre i prati. A nord, un nastro scuro attraversava l'orizzonte da est a ovest. Da quella distanza sembrava una catena di alture scoscese e muraglie verticali, oppure una fila di giganteschi guerrieri affiancati. «Quella è la sterminata foresta di Timbrilfin», spiegò Tahquil, che si costringeva a non pensare a Thorn e a ricordare le lezioni di geografia di
quand'era bambina. «Io non ci sono mai stata, ma ai miei tempi ne ho sentito parlare e una volta, da una barca, ne ho visto l'estremo confine occidentale. Siamo giunte nella zona dei Prati Arven, nel Marchesato di Timbrilfin.» «Anch'io sapevo che da queste parti c'era una grande foresta, ma non ho mai sentito il nome che avete detto», replicò Viviana. «Forse il nome è cambiato con gli anni», ipotizzò Caitri. «Molte cose cambiano col tempo», disse Tahquil. «La stessa foresta potrebbe essere molto diversa.» «Io non voglio entrarci», ribatté Viviana. «Sembra oscura ed eldritch, anche a questa distanza.» «Può darsi che lo sia», concesse Tahquil. «Eppure dobbiamo attraversarla, perché non c'è modo di girarci intorno. Se anche ci fosse, ci porterebbe molte leghe fuori strada, perché la foresta si estende a ovest fino alla costa, e a est altrettanto lontano.» «Ai tempi vostri, forse», obiettò Viviana. «La sua estensione può benissimo essersi ridotta, in questi mille anni.» «Tu credi? Io non ne vedo la fine, né da una parte né dall'altra.» Dopo aver scrutato con attenzione la linea scura da un orizzonte all'altro, la cameriera dovette dirsi d'accordo. Appesantite dai loro fardelli, le viaggiatrici s'incamminarono tra i fiori. A un osservatore casuale avrebbero potuto sembrare tre contadine con i taltry sulla testa e rozzi stivali; la prima della fila, alta e snella con untuosi capelli neri che le ombreggiavano il viso, la seconda più bassa e grassottella con riccioli biondi che le sbucavano da sotto il cappuccio, e l'ultima piccola e magra con capelli pettinati all'indietro che lasciavano scoperto un volto fanciullesco. Marciavano in un mare di corolle: i tulipani alti fino alla coscia, le peonie dalle gonne di seta, i ranuncoli, i profumati narcisi a forma di trombetta, i berretti di fresia, i grappoli e le campanule di giacinti, i petali filiformi degli amanebbia, le facce innocenti delle primule e i filamenti delle crocuse incrostati di polvere di zafferano. Ogni tanto guadavano torrenti, entrando nell'acqua fino alle ginocchia, o si addentravano in mezzo a schiere di gigli-bandiera che ondeggiavano al vento come orgogliosi stendardi dai petali color ametista. Di sera cercavano isolette o biforcazioni in quei fiumicelli, per dormire tra due barriere d'acqua ed essere al sicuro almeno dai wight minori. Quella era una terra gremita di manifestazioni eldritch. Una notte, men-
tre si preparavano a dormire, piccoli urchen gobbi vestiti come spaventapasseri sbucarono tra i fiori, con occhi sporgenti e lunghi nasi che davano loro un'espressione feroce. Circondarono le ragazze e cominciarono a bersagliarle con piccoli sassi, strillando insulti con voci acute. Nei loro assalti caprioleggiavano avanti racchiusi a palla, e rotolando a quel modo perdevano ogni aspetto umano per trasformarsi in istrici. Poi si raddrizzavano, scagliavano il loro sasso e correvano via a rifornirsi di nuovo. I fiori oscillavano e frusciavano come se l'intera superficie dei Prati Arven brulicasse di quegli esseri. Benché i loro sassi fossero piccoli, gli urchen li scagliavano con forza e avevano una mira accurata, producendo tagli ed escoriazioni dolorosi. Sembrava inoltre che i wight si eccitassero e insistessero nel tormentare le tre vittime quanto più quelle gridavano e agitavano le braccia cercando di cacciarli via. «Ignoriamoli», suggerì infine Tahquil alle compagne. «Prestando loro attenzione non facciamo che incoraggiarli. Ignoriamo la loro presenza e forse si annoieranno.» Alla fine, i wight se ne andarono. «Questi urchen bestiali procurano una cattiva nomea agli istrici», borbottò Cartai. Perdeva sangue da una guancia, dove un sasso acuminato l'aveva graffiata. «Devono essere trascorsi secoli da quando uomini mortali sono passati di qui, dando ai wight l'occasione di aggredire qualcuno.» «Suppongo che non abbiano altro cui pensare», disse Viviana. «Io suppongo che non abbiano niente con cui pensare», sbottò Caitri, sprezzante. Gli urchen tornarono ad attaccarle in altre due occasioni, quasi preoccupandosi che le viaggiatrici trovassero troppo monotone le notti senza la loro compagnia. «Dove trovano tutti quei sassi?» si domandò Viviana. Le stelle ruotavano su di loro, come brucianti fiocchi di neve. Una sera al tramonto, mentre raccoglieva ramoscelli di rododendri per il fuoco, Viviana gridò. Terrorizzata e gemente tornò all'isoletta dove avevano fatto il campo, sollevando alti schizzi dal corso d'acqua. Armate di coltelli e di bastoni, Tahquil e Caitri si misero schiena contro schiena, accanto a Viviana, e si prepararono a difendersi. «Se arrivasse qualcosa di grosso, non avremmo possibilità», mormorò Caitri.
Scrutarono i prati. Le corolle dei fiori ondeggiavano, scosse da uno zefiro leggero, e si udiva l'incantevole cinguettio di un uccello macellaio. Gli orti, tornati allo stato selvatico, apparivano tranquilli. «Cosa hai visto, Via?» domandò Tahquil, senza voltarsi. I suoi nervi vibravano come il sartiame di una nave nella tempesta. «È venuto verso di me. Aveva una faccia come quella di un uomo, ma deforme e cornuta. Era nudo dalla vita in su e alto quattro braccia, con zampe di capra...» «Zampe di capra? Sei certa che fosse alto quattro braccia?» «Be', forse tre e mezzo, forse tre. Non meno di due e mezzo...» «Un urisk.» «Avreste dovuto vederlo! Era orribile!» «Somigliava a quelle statue di marmo che sorreggono la mensola del caminetto del Duca di Roxburgh, al palazzo di Caermelor?» domandò Tahquil. «Be', sì, proprio così. Somigliava a una di quelle, solo...» «Se quello che hai visto è un urisk, non abbiamo nulla da temere.» «Forse lo era. Forse no. Ma era spaventoso.» Sui Prati Arven non si scorgevano segni della presenza di wight. Mentre le viaggiatrici accendevano il loro piccolo fuoco, il libro della notte si aprì su quelle pagine buie dove le rune delle costellazioni parlavano del loro incantesimo, vecchio quanto l'evoluzione. «Ci sono dei trow nei dintorni», rivelò Tahquil il giorno dopo, mentre s'incamminavano sul terreno sassoso e irregolare di un altopiano. «Li vedo ogni notte; si spostano alla luce delle stelle.» «I Vicini Grigi», annuì Viviana. «Per la maggior parte innocui, ma quando si offendono sono vendicativi.» «Nella Torre non vedevamo mai wight di nessun genere», disse Caitri. «Solo se qualcuno tornava tardi, dopo aver raccolto erbe nel bosco oltre il muro di cinta, poteva vedere dei movimenti o degli occhi fosforescenti nel buio, ma non capitava spesso. Io lo sentivo soltanto raccontare.» «A Witham noi avevamo un bruney», raccontò Viviana. «Lo chiamavano Billy il Cieco... un piccolo domestico molto affidabile che teneva la casa linda e pulita. E c'era il wight della mia ex padrona, ad Ararne, che cantava con noi e si dondolava appeso al gancio del camino. Ma non avevo mai visto wight unseelie da vicino, finché...» Un brivido la scosse. «Finché non incontrai gli hobyah sulla strada che porta alla tua Torre, Cait. Quello fu un incontro di cui avrei volentieri fatto a meno.»
«Ora hai visto un urisk», disse Tahquil. «E sospetto che quell'urisk ci stia seguendo. Ripensandoci, credo che ci tenga dietro fin da quando ci fermammo su quel laghetto, nel bosco di betulle.» «Cosa starà cercando?» chiese Viviana, innervosita. «Non lo so.» Quella sera Viviana sganciò dalla castellana il necessario per cucire e riparò uno strappo su una gamba dei suoi calzoni. Durante la notte montò di guardia a turno con le compagne, ma al mattino il suo ditale d'argento era scomparso. «L'avevo lasciato qui, accanto al fuoco!» esclamò. «E ora non c'è più. Qualcuno lo ha rubato.» «I trow non sanno trattenersi dal rubare le cose d'argento», disse Tahquil, accigliata. D'un tratto fu colpita da un ricordo... immagini di un momento più spensierato, fra i trow e gli henkie, al suono di una canzone eldritch. Il Dainnan e la ragazza ripresero allora a danzare... vicini, vicinissimi, ma senza mai toccarsi. I loro movimenti erano così precisi che non una sola ciocca dei capelli di lui le sfiorò la spalla e l'orlo del vestito di lei non gli toccò gli stivali. In seguito, nel ripensare a quella notte, Imrhien non riuscì più a ricordare con chiarezza la lenta bellezza di quelle armonie soprannaturali, né la meraviglia destata in lei da quegli occhi limpidi che le sorridevano. Rammentava soltanto il modo in cui il vento sollevava i lunghi capelli neri di Thorn, simili ad ali allargate. «Controlla bene la tua castellana, Viviana.» La cameriera esaminò la cintura ricamata cui erano assicurate con sottili catenelle molte scatolette contenenti un miscuglio di attrezzi: le forbici, il completo da manicure, le spille, i sali medicamentosi, gli aghi, lo specchietto, il cucchiaio, la tazza-filtro per le bevande, il suo orologio rotto, le scatole per i lavori a maglia e a uncinetto, i ritratti e i tilhal, la penna e il calamaio, la scatola del tabacco da fiuto, la matita. Fece un sospiro. «Questa accozzaglia di oggetti sembra tristemente fuori posto qui, lontano dalla civiltà.» «Possono essere utili», la rassicurò Tahquil. Si distese a riposare sull'erba morbida, e chiuse gli occhi. Vagamente, attraverso il velo di una sobria tenerezza, la conversazione delle compagne penetrava nella sua coscienza. «Non hai nostalgia della tua casa e dei tuoi parenti?» domandò sottovoce Viviana alla giovane amica. «Mi manca mia madre», ammise Caitri, un po' sorpresa da quella do-
manda. «Ma la vita alla Torre di Isse era sgradevole... non è mai stata una vita per me. Ora sono al servizio della mia signora, e sono contenta di seguirla. È questo che mi è stato insegnato. La servo, sto con lei e imparo. A me basta essere uscita dalle mura del Casato dei Cavalieri della Tempesta. Questo mi soddisfa, e non chiedo di più. E tu?» Viviana ci pensò. «Io ho paura dei wight che infestano i luoghi in cui viaggiamo e vorrei che fossimo al sicuro tra quattro mura.» «Le mura non garantiscono sempre la sicurezza», le ricordò Caitri. «Però sembrano sicure, e questo mi rincuora.» «Allora vorresti non dover accompagnare la signora nella sua ricerca?» «No, non dico questo, ma mi sentirei il cuore più leggero se fossi convinta che la nostra avventura ha buone possibilità di successo. Ho paura che le regioni pericolose in cui dovremo addentrarci siano piene di pericoli mortali.» Il mattino successivo ripresero il viaggio. Il territorio era collinoso, gremito di valli e alture boscose tra cui serpeggiavano limpidi fiumicelli. Mentre le tre ragazze si avvicinavano al folto e oscuro confine di Timbrilfin, lasciandosi alle spalle i territori erbosi e fioriti, gli alberi si fecero pian piano più alti e fitti. Mantennero quella direzione di marcia, anche se non c'erano sentieri visibili, per quattordici giorni freddi e nebbiosi, durante i quali piovve più volte. Non parlarono molto tra loro. Il cibo era scarso, come la voglia di conversare. Quindici giorni dopo la partenza dalle pendici della caldera, giunsero al limitare della foresta, che scorreva sulla dorsale delle colline. Il sole si stava abbassando a nord-ovest. L'ombra delle alture e degli alberi cadeva in direzione opposta, gettando una cupa e umida atmosfera sul versante meridionale delle colline. Era un territorio inquietante, dove si avvertiva la presenza degli eldritch. Le viaggiatrici si fermarono, alzando lo sguardo verso quella muraglia vegetale. I tronchi possenti degli autarken si levavano lisci fino a ottanta braccia di altezza, per poi diramarsi a sostegno di un vasto soffitto di fogliame. Nello spazio sottostante, tra quelle magnifiche colonne, regnava un triste e freddo crepuscolo. «Timbrilfin, la Terra dei Grandi Alberi, evitata dai mortali», mormorò Tahquil. Subito si pentì di aver parlato. Aveva l'impressione che gelidi bruchi le scivolassero sulle braccia. «Qualcosa ci ascolta», disse Caitri, dando voce a ciò che tutte pensava-
no. Le tre ragazze si scambiarono uno sguardo e indietreggiarono. Quando furono sicure di essere fuori portata d'udito da ciò che le spiava, si consultarono sottovoce. «Avevo supposto che Timbrilfin fosse come la bella Foresta del Tiriendor, ma sbagliavo», si rimproverò Tahquil. «Nel Tiriendor i pericoli non mancano, però è pieno di aria e di luce. L'ambiente oscuro che abbiamo dinanzi ha un aspetto infido. Può darsi che, nei secoli trascorsi dal mio tempo, tribù di wight unseelie abbiano preso dimora tra questi alberi senza sole. Là dentro potrebbero esserci nuovi e inimmaginabili orrori. Noi non siamo cavalieri Dainnan, non abbiamo difesa contro quegli esseri. È improbabile che riusciamo a passare indenni attraverso il loro dominio.» «Cosa dobbiamo fare?» chiese Viviana. «Come avete detto, a ovest la foresta prosegue fino al mare, mentre a est si estende per chissà quante miglia. Dobbiamo voltare le spalle a questa barriera, dopo esser giunte così lontano? Ci conviene tornare a Corte?» Nella domanda posta dalla cameriera vibrava una nota di speranza. Tahquil mordicchiò uno stelo d'erba, scrutando il cielo con sguardo pensoso. «No. Non torneremo a Corte», rispose. «Ma prima devo riflettere, e tutte noi abbiamo bisogno di riposo. Trascorreremo la notte vicino a quella sorgente che abbiamo oltrepassato poco fa, ai piedi della collina.» La sorgente era una pozza di acqua verdolina, circondata da cespi di canne e iris. Libellule rosse, dorate e smeraldine s'immobilizzavano nell'aria su ali quasi invisibili, poi di scatto andavano a fermarsi altrove, baciando le canne o l'acqua. Si udivano il ronzio dei calabroni e il gracidio delle rane. Le tre compagne sedettero a riposare, mentre i raggi del sole allungavano le ombre accarezzando la pianura con calde dita. Poi le dita si ritrassero in un pugno, che scivolò sotto l'orizzonte. La foresta incombeva minacciosa sulle colline; dava l'impressione di essersi avvicinata mentre le viaggiatrici non guardavano. La scrutarono con preoccupazione. Sul vasto territorio verdeggiante dilagò la sera. Un vento triste frugava tra le erbe selvatiche e i cespugli. Il fruscio delle foglie avrebbe potuto nascondere passi e voci estranei. Tahquil si alzò. «Wight», chiamò. «Urisk.» Non ci fu risposta. Le rane non gracidavano più. Tutto taceva. «Urisk», ripeté lei, a voce più alta. «Fatti vedere.»
Viviana e Caitri sedevano immobili, a parte il movimento delle labbra di quest'ultima che mormorava una specie di filastrocca. L'acqua sembrava aspettare qualcosa, ferma e opaca sotto i piatti delle ninfee. «Obban tesh!» borbottò Tahquil. «Come posso persuaderlo?» Viviana si guardò intorno. «Urisk», chiamò con voce un po' tremula. «Ti prego di venire avanti.» A poca distanza, oltre le canne, si udì un incoraggiante fruscio. «Nel nome del Re-Imperatore di Erith», proclamò Tahquil. «Nel nome di Nimriel del Lago e di Easgathair delle Porte. Io ti prego di apparire, urisk!» Scrutarono i ciuffi di canne. D'un tratto, tessuto nella penombra alle loro spalle, apparve un piccolo individuo di pelle scura con una faccia appuntita ornata da una barbetta caprina. Due tozze corna gli spuntavano sul capo, e una folta peluria copriva i suoi polpacci fino agli zoccoli. Intorno alla vita aveva una cintura di viticci intrecciati, da cui pendeva un gonnellino. Parlò con voce tragicamente blesa, come il vento che fischiasse entro una canna vuota. «Chinatevi», le avvertì. Dal canneto volarono fuori dei sassi, seguiti da risatine stridule. Gli urchen corsero via, lasciando Caitri a massaggiarsi un gomito dolorante e Tahquil con un graffio fresco sul mento. L'urisk restò dov'era. Tahquil si schiarì la gola. Ho chiamato un wight, pensò. Ho invocato una creatura eldritch. Un'evocazione del genere può essere onerosa, può diventare un fardello per chi la fa. Ci sono delle regole da seguire. Ma cosa ne so io di questi wight dalle zampe di capra? Una persona il cui solo nome mi fa dolere il cuore mi disse che gli urisk cercano la compagnia umana, ma il loro aspetto spaventa la gente. Li si può ringraziare, oppure i ringraziamenti li fanno andar via? «Tu ci fai onore», gli disse. «Noi chiediamo il tuo aiuto.» «Ma Voialtre mi temete», borbottò il wight. «Oh, no, niente affatto», lo rassicurò Viviana, fissandolo a occhi spalancati. «Mi spiace di aver gridato, tra i rododendri. Mi avevi colto di sorpresa, tutto qui.» «Io sono abituato a voi, ma non voi a me», si lamentò l'urisk. «La vostra gente non vuole avere a che fare con noi. Dice che portiamo sfortuna.» «Sia come sia», lo interruppe Tahquil, «ora che ti abbiamo invitato a conversare con noi, non vorresti aiutarci a trovare una strada attraverso
Timbrilfin?» «Non sentivo chiamare la foresta con quel nome da molto, molto tempo», commentò l'urisk, facendo qualche passo avanti. «Quello è un vecchio nome, del tempo in cui la foresta era giovane, e i Fatati, che glielo avevano dato, cavalcavano qui nelle loro rade o andavano a caccia nelle verdi praterie. Ma ora non c'è più verde nell'Arda Musgarh Dubh. Tutto è diventato grigio.» «È questo il suo nome, oggi?» domandò Tahquil, senza cercare neppure di pronunciarlo. «Un nome formidabile!» «Per un bosco formidabile!» esclamò l'urisk. «È così che lo chiama la mia gente, o tu dai molti nomi. Bolr Sceadu lo chiamano i bogle, e nei tempi antichi lo conoscevano come Axis Umbru, mentre per i cigni, la cui lingua è ancora vicina a quella dei faêran, è Urlarliath. Ma gli uomini del Fiordo di Vetro Grigio lo chiamano Khazathdaur, che vuol dire Gli Alberi d'Ombra.» «Puoi indicarci una via sicura per attraversarlo?» «Questo è un problema, ecco cos'è. Una via sicura? Non c'è niente di sicuro per i mortali in questa boscaglia qui davanti. Voi tre ragazze non dovreste andare là. È un grande intrico di rami, quello. Non sapete chi ci abita, là dentro?» Le donne scossero il capo. «Esseri stregati», rivelò l'urisk. «Esseri potenti. Giù, sul terreno della foresta, è sempre buio. Gli alberi crescono alti e le foglie bloccano la luce del sole, così il giorno non sorge mai laggiù. È sempre crepuscolo, o notte. E nell'ombra vanno a caccia gli unseelie. Là ci sono gli skriker, e i pixie che ingannano i viaggiatori.» «Io credevo che i pixie fossero simpatici piccoli wight, come i fane, ma con le ali», intervenne Caitri. «No, ragazza, non sono simpatici per niente, i pixie. Con le loro piccole lanterne guidano i mortali nelle paludi, finché non sprofondano nel fango e affogano. Imitano le voci dei vostri amici e vi chiamano, e vi fanno arrampicare sulle colline. V'invitano a uscire di strada e vi fanno perdere nella boscaglia.» Tahquil precisò: «I pixie e gli skriker sono pericolosi, ma se uno sta ben attento può farsi gioco dei piccoli wight. Esclusi i presenti», aggiunse, per non offenderlo. «Badate... io non vi ho ancora detto il peggio. Avete mai sentito parlare di Grim?»
«Ho sentito molte storie su di lui», annuì Viviana con un brivido. «È un cambiaforma, che ama far soffrire i mortali.» «Sì, un cambiaforma che si aggira tra i grandi alberi di Arda Musgarh Dubh. E Annis Nera, anche lei abita qui: la strega dei gatti, che divora bambini mortali. E, a proposito di gatti, anche i malkin grigi cacciano nella foresta.» Le tre viaggiatrici si scambiarono un'occhiata. Nessun incantesimo poteva allontanare i malkin grigi, perché quelle erano bestie lorraly, felini efficienti nell'uccidere. «E se sfuggite a Grim, ad Annis Nera, ai malkin, al cerchio di fuoco e a tutto il resto, dovrete poi vedervela con un altro essere che abita sul fondo di Arda... il Cearb in persona.» «L'Uccisore?» domandò Tahquil, con la bocca improvvisamente secca. «Sì.» «Allora non c'è modo di attraversare il Khazathdaur in sicurezza, senza Navi del Vento o eotauri?» «Auch, un modo potrebbe esserci», ammise il wight. Le ragazze attesero che si spiegasse meglio, ma lui non disse altro. Dietro l'urisk stava sorgendo la luna, e quel chiarore delineava la sua forma cornuta e aliena, inquietante. Tuttavia, pur seminascosta nell'ombra della notte, la sua faccia aveva un'espressione gentile mentre guardava lo specchietto appeso alla cintura di Viviana, in cui si rifletteva una luna in miniatura. «Ho viaggiato nella foresta fin da quand'ero giovane sulle rive di Ishkiliath, che gli uomini chiamano Fiordo di Vetro Grigio», riprese il wight. «Conosco la vita nella foresta e quelli che ci abitano, e so come evitarne la maggior parte. Ma c'è un popolo che vive in alto tra le foglie, e le cui strade penzolano nell'aria, lassù dove passa la luce. Con le loro reti e il loro ferro tengono lontani i malkin e tutti gli altri. Loro potrebbero lasciarvi usare le loro strade, se io li persuado.» «Se adoperano il ferro, non sono sicuramente un popolo eldritch.» «Sono una razza mortale, ma di che genere non saprei dire. Questa notte io li cercherò, perché qui voi siete in pericolo.» «In pericolo?» «Ci sono gli hurchin, tra i cespugli.» Detto ciò, l'urisk si dileguò nel buio. «Badate a voi», le raggiunse la sua voce mentre si allontanava. «Possiamo fidarci di lui?» mormorò Viviana.
La luna salì ancora. Le tre viaggiatrici riposavano sul bordo della sorgente, appisolandosi di tanto in tanto. Tahquil sognò che il tocco della brezza su una sua guancia fosse il respiro di Thorn. Mentre la rugiada inumidiva i cespugli, le rane gracchiavano la loro monotona filastrocca, mandando nella mente delle fanciulle fiochi stralci di pensieri che subito si mutavano in sogni. Uno strillo fece sussultare Tahquil, svegliandola. Viviana era in piedi e si frugava nelle tasche del mantello con gesti concitati. «Per la campana dell'inferno!» gridò. «Rubato, e proprio dalla castellana. Il mio orologio!» Sul limitare della foresta si udivano vocette e fruscii. «Eccoli laggiù!» esclamò Viviana. «I trow... quei dannati ladri!» La ragazza si precipitò in quella direzione prima che le compagne potessero fermarla. Un pallido lucore nacque dall'anulare sinistro di Tahquil. «L'anello mi sta avvertendo», disse a Caitri in tono allarmato. «C'è qualcosa di unseelie, qui vicino. Qualcosa di peggio dei trow.» Raggiunsero la cameriera giusto al limitare delle oscure chiome del Khazathdaur. Grigie facce sbirciavano dall'alto dei tronchi: facce dagli occhi bulbosi e dai lunghi nasi penduli, mosci e rigonfi. La più vicina era una femmina trow, con la testa coperta dalla tradizionale sciarpa grigia. In una mano stringeva l'orologio d'argento dalla cassa cesellata in avorio e bronzo. Dall'ombra, la trow guardò le mortali. Cinquanta braccia sopra la sua testa, una foglia si staccò e cadde, svolazzando come un fiocco di neve nel vago chiarore lunare. «Rendimelo, sporca wight», ordinò irosamente Viviana, tendendo la mano. «Quello è mio. È tutto ciò che ho, in questa olc boscaglia. Dammelo subito.» La femmina trow non rispose. Da qualche parte una volpe latrò, ma con tono troppo roco e rasposo per una volpe. L'anello pulsò di una luce più viva, come un segnale di allarme. D'un tratto i trow spalancarono ancor di più gli occhi bulbosì. Piegarono in basso le labbra, come contratte da un rictus, e indietreggiarono, ritirandosi tra le ombre. «No!» Viviana si fece avanti. «Non provate neppure a...» I trow si voltarono all'unisono e fuggirono nella foresta. «Occorre ben altro chele vostre smorfie per spaventarmi», gridò Vivia-
na, agitando un pugno verso di loro. «Giurerei che abbiano avuto paura di qualcosa», commentò Caitri. «Sì, ma non di noi... di qualcosa che sta arrivando dietro di noi», disse Tahquil, e girò su se stessa. La cosa che correva verso di loro - o camminava, o saltellava - era bipede, più alta di un essere umano. Fra i tronchi degli alberi si agitarono due triangoli neri... gli angoli di un mantello. Si trattava di un uomo? Se lo era, nella sua testa c'era qualcosa di orribilmente sbagliato. Tahquil si sentì le viscere andare in acqua. Le sue membra persero la capacità di muoversi. La testa della cosa-uomo che si avvicinava era piegata tutta di lato, e gli giaceva sopra la spalla sinistra. Era contorta in una posizione che sarebbe stata impossibile, a meno che il collo non fosse stato spezzato. Era la testa di un impiccato. Un raggio di luna fece capolino tra gli alberi. La deforme apparizione ne fu illuminata e, alla vista delle viaggiatrici, mandò un ululato di avidità bestiale. Dalla vegetazione provenne un grido sibilante: «Quello è Collotorto! Non dovete stare lì, voi ragazze. Fuggite se volete vivere!» Sgretolata da quell'esortazione, la morsa emotiva si spezzò. L'energia del terrore proruppe nelle vene delle tre mortali, che ritrovarono la capacità di muoversi e corsero verso la voce dell'urisk. «Da questa parte, da questa parte!» Mentre fuggivano nelle abissali tenebre del Khazathdaur, gli alberi di autarken si chiusero alle loro spalle come torri d'acciaio. La luna non riuscì a seguirle. Il buio aveva l'odore della paura. Nel buio la velocità era ostacolata dalla pressione, come se le ragazze cercassero inutilmente di penetrare in una spugna. L'anello aveva smesso di brillare, quasi fosse consapevole della necessità di nascondersi. «Di qua, di qua!» La voce ottusa dell'urisk era più lontana, ora. «È un trabocchetto!» strillò Viviana. «I pixie ci stanno ingannando.» «No!» gridò Tahquil. Nuotarono contro quella tenebra pastosa. Accecava i loro occhi, penetrava nel naso e nella bocca. Le soffocava. La faccia di Tahquil urtò un pezzo di legno. «Salite!» le incitò la voce del wight dalle zampe di capra. Annaspando nel buio, Tahquil trovò una serie di asticelle di legno paral-
lele: una scala. «Prima tu.» Tirò bruscamente avanti Caitri per un gomito, e la sentì cominciare a inerpicarsi con energia. La scala ondeggiava come un'anguilla. «Ora tu, Viviana.» La cameriera non ebbe bisogno di altre esortazioni. Salì dietro Caitri. Poi esitò, «Mia signora...» «Sali, se ci tieni alla vita. Ci è quasi addosso!» Era così. I funghi che crescevano sui tronchi degli alberi emanavano una fosforescenza sepolcrale sufficiente a mostrare i movimenti delle ombre nell'ombra... e una grossa forma bipede si stava avvicinando con gran rapidità. Tahquil afferrò uno scalino e si tirò su, agitò un piede nel vuoto in cerca di un appiglio, trovò un altro piolo e prese a inerpicarsi su quel serpente di corda. Ma troppo tardi. Qualcosa nella tenebra la raggiunse: una lunga mandibola zannuta. Con un movimento rapido, Tahquil estrasse il coltello e lo scagliò. La lama mandò una vampata blu cobalto quando l'arma si vaporizzò. Fu distrutta all'istante. Ma il colpo era stato sufficiente a far esitare l'avversario, e lei approfittò della pausa per salire oltre la portata di quei denti feroci. Arrampicandosi con tutta la velocità che le sue forze le consentivano, sbatté distrattamente la faccia sugli stivali di Viviana. «Vai su!» le gridò. «Sta salendo dietro di noi!» Inesorabile, la testa reclinata di lato, la creatura si stava arrampicando lungo la scala. Tahquil scagliò in basso un altro coltello. Anch'esso avvampò e sparì come il primo. La bocca dell'inseguitore le addentò il tacco di uno stivale e cercò di morderle la caviglia per tirarla giù. Una nota di flauto scese dall'alto come un refolo di fumo. Una voce ansante e rabbiosa urlò: «Razza di laithron doup, sporco infingardo di un Collotorto, non riusciresti ad acchiapparmi neanche se tu avessi le ruote!» Forse l'insulto non era così rovente da provocare una reazione rabbiosa, ma bastò a far rallentare l'inseguitore, che fu colpito dal potere del suo nome pronunciato ad alta voce. In quell'attimo di tregua Tahquil arrancò verso l'alto e le sue mani ebbero la sorpresa di non trovare altri scalini. Neppure gli stivali di Viviana c'erano più. Ma qualcuno la afferrò da sotto le ascelle e la tirò su di peso, sopra una piattaforma. La scala invece precipitò sul terreno, con la creatura ancora aggrappata a essa. Respirando affannosamente, le tre compagne sedettero con la schiena appoggiata al tronco; erano sole sulla piccola piattaforma. Poco distante,
avvertirono un confuso chiacchiericcio, che andò avanti per qualche secondo e poi si allontanò sempre più. Sembrava che per il momento avessero raggiunto un posto sicuro. «Come avete fatto a tagliare la scala?» chiese Tahquil. «Non siamo state noi», rispose Viviana. «Sono stati degli esseri. Erano qui con noi, ma non sono riuscita a vederli. Ci hanno aiutato con la scala, e poi l'hanno buttata giù.» Tahquil si spostò sul bordo della piattaforma. Una fila di acuminate spine di ferro sporgeva all'esterno. Ne afferrò una per non perdere l'equilibrio e si sporse a guardare giù, nella semioscurità. «Siamo a circa otto braccia dal suolo. Quel mostro potrebbe riuscire ad arrampicarsi fin qui, prima o poi. Dobbiamo salire più in alto.» «Non abbiamo scelta», assentì Caitri, voltandosi a guardare la penombra sopra di loro. C'era un'altra scala a pioli che penzolava lungo il tronco. Alla base dell'albero, sul tappeto di foglie marce, si udiva lo scalpiccio di passi decisi. «Collotorto cammina in silenzio. Laggiù c'è qualcun altro», disse Viviana, deponendo il fagotto che aveva a tracolla. La corda le aveva segnato la pelle. «Più in alto andiamo, e più mi sentirò tranquilla.» Ma lo spavento le aveva spossate. Rimandarono ulteriori ascensioni e rimasero lì appoggiate al tronco, sopraffatte dalla ' stanchezza. Dal tronco degli autarken, a quell'altezza, non sporgevano rami. I possenti pilastri erano lisci fino all'altezza di ottanta braccia dal suolo, dove emergeva una miriade di biforcazioni lunghe e robuste, che s'intersecavano come una griglia a sostenere l'ampio tetto di foglie. Quell'intreccio di rami collegava tutti gli alberi della foresta, anche se nelle parti più alte i rami più sottili erano così delicati che solo le più leggere creature arboree potevano aggirarvisi. Da sotto i piedi delle viaggiatrici provenne un respiro ansante, accompagnato da un rumore di artigli che raspavano la corteccia. Sbirciando tra le spine di ferro della piattaforma, le tre ragazze videro salire rapidamente due occhi simili a fiamme verdi; sotto gli occhi si spalancava una larga bocca orlata di labbra nere, dalle cui rosse gengive grondanti saliva spuntavano zanne simili a pugnali. Stupite dall'insospettata riserva di energia cui seppero fare ricorso, le ragazze balzarono sulla scala a pioli successiva. Prima che arrivassero sull'altra piattaforma, più in alto, un ruggito di rabbia le raggiunse. Guardando in basso, videro due massicce zampe dagli artigli sfoderati avventarsi sul
bordo della piattaforma da loro appena abbandonata. Intrise di veleno, le lunghe spine di ferro produssero nella bestia un ansito stridente quando una delle zampe le colpì. La piattaforma sussultò sotto un urto poderoso dal basso in alto. Metà delle assi di cui era fatta cedettero e si staccarono, e nello squarcio apparve la testa del felino che agitava la grossa coda e ringhiava, scoprendo le zanne. Le tre ragazze non vollero vedere altro; non appena furono sopra l'altra piattaforma si affrettarono a tirare su la scala a pioli. Nel frattempo, altri felini si stavano inerpicando sugli alberi circostanti. Con agilità incredibile per le loro dimensioni, balzavano da tronco a tronco coi grossi artigli che uncinavano la corteccia. Uno dei malkin provò a saltare per raggiungere l'albero su cui si erano rifugiate le umane, ma la distanza era troppa e l'animale precipitò al suolo, contorcendosi. Le tre ragazze erano protette dagli attacchi dei malkin non solo dalle spine di ferro intorno alla piattaforma e dalla distanza che separava il loro albero dai più vicini, ma anche dalle rugginose fasce metalliche che cingevano il tronco a intervalli regolari e che non potevano essere penetrate dagli artigli delle bestie. Incitate da Tahquil, le fuggiasche salirono ancora più in alto, lasciandosi alle spalle i ruggiti dei felini. I fagotti e le bottiglie di cui erano cariche rimbalzavano sulle loro schiene. Ogni quindici braccia la scaletta passava attraverso la botola di una delle piattaforme fissate al poderoso tronco. Quando raggiungevano uno di quei piccoli rifugi riposavano qualche momento, per ritemprare le forze. Alla fine non poterono arrampicarsi più in alto, poiché non vi era nessun'altra scala. Le fungosità luminescenti erano meno fitte in quelle zone superiori, ma oltre gli ultimi strati di fogliame s'intravedeva il riflesso azzurro-argenteo del chiaro di luna. Alcune corde, fissate con ganci e pulegge dove il tronco cominciava ad assottigliarsi, si estendevano orizzontalmente in morbide curve. Le loro estremità si perdevano nel buio. Ansimanti e sudate, le ragazze bevvero senza risparmio dalla loro riserva d'acqua e sedettero ad aspettare la notte come un terzetto di bambole di legno, troppo tese a captare segni di pericolo per cadere in coma. Con la testa appoggiata al tronco, Tahquil aveva l'impressione di sentire il pompaggio idraulico della linfa dentro la corteccia come se fossero le pulsazioni della sua stessa vita. Poi, come sempre, i suoi pensieri si spostarono verso Thorn. Fin dal momento in cui l'aveva visto per la prima volta tra gli alberi del
Tiriendor, la bussola della sua mente era sempre stata orientata su di lui, tanto che a volte si sentiva distaccata dai fatti della vita, quasi fosse un'estranea che osservava dall'esterno se stessa e ciò che aveva intorno. Da quando il langothe aveva fatto ritorno, un altro genere di nostalgia si era aggiunto alle sue pene d'amore e, di fronte alla possibilità che Thorn restasse ucciso in battaglia, quelle due sofferenze si sommavano in un assillo continuo. Era come se il sangue le si assottigliasse nelle vene trasformandosi pian piano in acqua limpida, e le sue ossa e la sua carne perdessero sostanza fino al momento in cui, svuotato dall'angoscia, il suo corpo sarebbe diventato una foglia secca schiacciata tra le pagine del tempo. E tuttavia si aggrappava alla vita, così come le sue mani si aggrappavano alla corteccia dell'autarken, perché in quella foglia secca brillava una luce che non poteva essere spenta dalla disperazione. La fantasia la portava lontano dal Khazathdaur; da qualche parte nel suo cranio, lei era in una radura illuminata dagli astri misteriosi di Faêrie, al fianco di un alto cavaliere, la cui testa bruna era incoronata di stelle come spine. Sempre, oscurando ogni parola e ogni gesto, la nostalgia di ciò che ho avuto spinge la barca della mia anima nei tristi mari delle rimembranze. I suoni si udivano a grandi distanze e acquistavano una strana acutezza nel Khazathdaur. Dal basso sgorgava un cigolio come di ruote in movimento. Quel rumore andò avanti per un poco finché, senza preavviso, non si avvicinò una musica allegra, quasi che una banda di pifferai e violinisti stesse accompagnando un ballo contadino. Vi era però uno strano e spettrale elemento in quella musica. Sembrava che fosse solo una copia, un vuoto tentativo d'imitare un'orchestrina campagnola... o addirittura una parodia. All'improvviso la musica tacque, interrotta a metà di un ritornello. «Se una cosa è certa, è che questo non è un picnic», commentò Viviana. La sua faccia, nella penombra, era mortalmente pallida. La piattaforma ondeggiava appena, seguendo la lenta danza dell'albero; si muoveva al ritmo che il vento impartiva alla grande massa di foglie. La ninnananna della foresta fece scivolare le stanche viaggiatrici in un sonno profondo. La luce si diffuse argentea e diventò un denso crepuscolo verde. Il sole del mattino filtrava attraverso milioni di foglie che mormoravano senza pausa. Il Khazathdaur non poteva mai restare nel silenzio. Le cime degli alberi oscillavano a un vento che non muoveva l'aria sotto le spesse chiome, con un rumore che faceva pensare a immense mani occupate a scavare
dentro una sabbia di minuti cristalli. Migliaia di foglie si staccavano ogni momento e scendevano in verticale verso il basso, come lungo invisibili fili. La nostalgia di lande ultraterrene, che abitava nel petto di Tahquil, inumidì le sue ciglia chiuse con una lacrima in cui si specchiarono le foglie. Al mattino, le tre viaggiatrici videro, sul lato opposto della piattaforma, della verdura fresca. Un mazzo di calici da cui spuntavano broccoli giallastri, alcuni frutti simili a piccole zucche dalla buccia dura, a strisce verdi e nere, un ramoscello di autarken gremito di morbide foglie, tre zucche cave piene d'acqua limpida, e una gabbietta di vimini dentro cui stavano bozzoli di seta che potevano essere dolciumi, uno rosa pastello, uno color zafferano e uno verde pera. Da tutti quei vegetali spuntavano insolite radici lunghe e sottili, forse fibre di cellulosa. Dai calici dei broccoli emanava un profumo di miele così forte da lasciare storditi. Le tre ragazze scoprirono che anche il nettare nel loro interno era commestibile. Le foglie di autarken sarebbero state ancora più saporite condendole in insalata. I frutti verdi e neri, una volta aperti, rivelarono un contenuto rosso che sapeva di carne, mentre la loro corteccia era masticabile come la crosta del pane e aveva quasi lo stesso sapore. Quando Caitri aprì uno dei lunghi bozzoli satinati, un grosso verme pallido ritirò dentro la testa. Con un sussulto la fanciulla lo lasciò cadere, come se scottasse. «Oh, povera bestia.» Subito rammaricata, si affrettò a spingere con un piede il verme e il suo contenitore nella gabbietta. Nessuna di loro osò sfiorare gli altri bozzoli. «C'è da stupirsi che non ci abbiano portato degli uccelli morti», osservò poi Caitri. «Non sento cinguettare uccelli», osservò Tahquil. «Non ci avete fatto caso?» «Io no. A ogni modo questi dolciumi mi bastano», rispose Viviana, con la bocca piena di miele. «Chi avrebbe mai pensato che si potessero mangiare i fiori?» «A Isse si mangiano molti cavolfiori», replicò Caitri. «Anche se a noi, nelle cucine, restavano solo i gambi.» E storse il naso. «Io ho assaggiato le viole candite, e i petali di rosa», aggiunse Tahquil, tagliandosi un'altra fetta di frutto verde e nero. Caitri alzò lo sguardo verso il soffitto grigiastro, immerso nella penombra, da cui ogni tanto cadeva una foglia. «Non vedo fiori qui, né frutti come questi. Probabilmente crescono più in alto, alla luce. Mi chiedo come
abbiano fatto a portarli quaggiù.» «Non ne ho idea», disse Tahquil. «Ma suppongo che l'urisk abbia chiesto agli arborei di aiutarci calando una delle loro scale. Dopotutto era la sua voce quella che ci chiamava, e non quella di un pixie che la imitava per condurci alla morte nell'interno del Khazathdaur.» «Sì, quello strano tipo si è dimostrato degno di fiducia», ammise Viviana. «Non l'avrei mai detto. Anche i trow, senza volerlo, ci hanno aiutato. Se non mi avessero rubato l'orologio dalla castellana, quella cosa chiamata Collotorto ci avrebbe sorprese sedute alla sorgente. Non avremmo avuto il tempo di scappare nella foresta e ottenere l'aiuto degli arborei.» Per un poco tacquero, al pensiero dell'orribile essere. Nella penombra di giada, il mondo della foresta era fatto di forme perpendicolari che rimpicciolivano verso il basso, nel buio, in una prospettiva vertiginosa. Laggiù, al suolo, il pericolo era sempre in agguato. Dalla parte opposta svettavano ramoscelli troppo fragili per sopportare il peso di qualcosa più grande di un opossum. Sembrava che non ci fosse alcun posto dove andare. Tahquil esaminò l'apparato di corde e pulegge fissato ai ganci confitti nel tronco. «Queste corde sono fatte con le fibre che crescono alla radice dei frutti e dei fiori. Robuste e flessibili, quasi indistruttibili se ben intrecciate. Forse dovremmo fabbricarcene qualcuna...» «Se dovremo restare inchiodate qui in eterno, le corde non ci serviranno a niente», obiettò Viviana. «Vorrei che questi arborei tornassero ad aiutarci.» «L'urisk ha detto che hanno le loro strade soprelevate, quassù», intervenne Caitri, indicando i cavi orizzontali. «Credo che questa potrebbe essere una strada, e anche quella che parte dalla piattaforma sotto la nostra.» Tahquil sganciò una puleggia fornita di ruota appesa alla spessa corda fissata al tronco. Dalla puleggia pendeva un altro robusto tratto di corda, in fondo al quale vi era un grosso nodo. «Questo sembra il sistema usato dagli arborei, semplice e funzionale. È quella che dalle mie parti chiamavano funicolare. Pryderi ne aveva costruita una. Andava dal balcone della sua casa fino alla base della collina. Me la lasciava usare quand'ero bambina... e a me piaceva pensare che stavo volando. Se mio padre l'avesse saputo gli sarebbe venuto un infarto.» Si appese alla corda per saggiarne la robustezza. «La ruota è ben assicurata. E, come potete vedere, alla puleggia è legata una seconda corda più sottile.
Si tratta del cavo di richiamo che serve a riportare il tutto alla stazione di partenza, dopo che il viaggiatore è sbarcato all'estremità opposta.» «Si, ma dov'è l'estremità opposta?» domandò Caitri. I cavi ondeggiavano impercettibilmente: lunghe linee pallide che passavano attraverso l'indifferente semioscurità, sotto le quali la giungla dei tronchi era a malapena visibile. «C'è un solo modo di scoprirlo.» Tahquil diede alla puleggia un ultimo strattone. «Andrò per prima io», decise. «Se tutto va bene, manderò indietro qualcosa legato al cavo di richiamo... uno di questi ramoscelli di timo, visto che addosso ne ho anche troppi. Questo cavo mi verrà dietro, perciò dovrà essere libero di srotolarsi senza ostacoli mentre mi allontano, e dovrete arrotolarlo con cura nel riportare indietro la puleggia. Se s'incastrasse da qualche parte, la funicolare si arresterebbe di colpo a mezz'aria e la passeggera potrebbe essere scaraventata via. Qui non c'è una corda di sicurezza.» «Non vorrete viaggiare appesa a questo trabiccolo!» gemette Viviana. «E se cadeste? È un volo molto lungo da qui a terra... Io non posso neanche guardare in basso senza sentirmi mancare.» «Fatti coraggio, Via», cercò di rincuorarla Tahquil. «Non c'è altra scelta.» «È sempre la stessa solfa», si lamentò Viviana. «Non c'è altra scelta. Siamo come foglie al vento in questa ricerca, sbattute da una parte e dall'altra dai capricci di un destino sempre imprevedibile! L'unica scelta che io ho avuto finora è stata quella di accompagnarvi, mia signora, e anche quella non si può dire che fosse una scelta, perché in coscienza non potevo lasciarvi andare da sola.» «Io ho fatto una sola vera scelta in vita mia, e in tutto il resto sono stata costretta ad agire da situazioni causate da altri», replicò Tahquil. «Per sette anni ho cercato i bambini rapiti, ma come avrei potuto non cercarli? Entrai nel Reame Fatato, ma come avrei potuto respingere la possibilità di salvarli? Poi ho scelto di lasciare il Reame Fatato, ma anche allora, se guardo nel mio cuore, so che ho dovuto andarmene, e che in realtà non avevo scelta. Forse hai ragione.» «Le scelte vere le facciamo ogni giorno... quelle piccole», affermò saggiamente Caitri. «Anche se non abbiamo modo di decidere dove la strada della vita deve portarci, possiamo stabilire dove appoggiare i piedi e cosa guardare lungo il percorso.» «Il Duca di Ercildoune soleva dire che siamo noi a scegliere il nostro de-
stino...» cominciò Viviana. «Questa conversazione sta diventando troppo filosofica per me», le interruppe Tahquil. «Quando sarò all'altra estremità darò tre strattoni al cavo grosso, il cavo di sostegno. Questo sarà il segnale di partenza per una di voi. Coraggio, e siate prudenti.» La ragazza si aggrappò alla corda con entrambe le mani e balzò nel vuoto. Mentre lasciava la piattaforma, appoggiò i piedi sul grosso nodo cercando di non guardare in basso. Sopra di lei la puleggia strideva, rotolando rapida in una vertiginosa curva verso il buio e l'ignoto. La sua rotta lungo il cavo di sostegno la stava portando verso il basso a gran velocità, e il vento che le aveva gettato all'indietro il taltry faceva sventolare il suo mantello come se volesse strapparglielo di dosso. A destra e a sinistra i tronchi degli alberi scorrevano via rapidi, dandole l'impressione di essere un uccello in volo nella foresta. La stazione di partenza e quella di arrivo non erano alla stessa altezza. Tahquil se ne accorse soltanto quando vide la piattaforma arrivarle addosso ad allarmante celerità, senza che la puleggia avesse rallentato molto la sua velocità di rotazione. Mentre risaliva nell'ultimo tratto si tenne forte, ma le occorse tutto il suo tempismo per abbassare i piedi sulla piattaforma, quando la raggiunse. La forza d'inerzia la portò avanti con una rapidità tale che le sfuggì un gemito, e dovette lasciar andare la corda per ammortizzare con le mani l'urto contro il tronco dell'albero. Sopra di lei ci fu il tonfo della puleggia che rimbalzava sulla corteccia, per poi cominciare subito a tornare indietro lungo la corda, ubbidendo alla forza di gravità. Tahquil afferrò la corda con un balzo prima che fosse fuori portata. Per qualche istante vacillò sul bordo della piattaforma, e si chiese se non stesse rischiando di ripartire per il percorso inverso; poi riuscì a gettarsi all'indietro e vacillò di nuovo contro il poderoso tronco. La piattaforma su cui si trovava era la seconda a partire dall'alto, e appariva identica a quella da cui era partita. Anche l'albero avrebbe potuto essere il gemello dell'altro, e di tutti quelli del Khazathdaur, ma dalla piattaforma superiore si dipartivano tre funicolari in altrettante direzioni diverse. Quell'albero doveva essere un crocevia aereo. Dopo aver legato alla puleggia un rametto di timo secco, Tahquil diede tre strattoni al cavo di sostegno. Era un cavo vegetale così spesso che il fremito scomparve prima di raggiungere la fine del tratto visibile. Tahquil usò tutta la sua forza per impartirgli altri strattoni, e fu infine premiata nel vedere tendersi il cavo di recupero. Staccò la puleggia dal gancio al quale
l'aveva appesa e la vide filare via e sparire dietro un sipario di ombre. Le venne da pensare che avrebbe dovuto controllare se c'erano pericoli sulla piattaforma superiore prima di chiamare le due amiche. Ormai era troppo tardi. Poco dopo, il cavo di sostegno si tese e cominciò a vibrare. Dalla semioscurità sbucò la figuretta di Caitri. Come un frutto appeso al gambo, la fanciulla si lasciava portare avanti, veloce e a occhi chiusi. «Apri gli occhi!» Il cigolio della puleggia rallentò nell'ultimo breve tratto in salita. Gli stivali della passeggera colpirono rumorosamente la piattaforma. Stordita da quell'arrivo così rapido, Caitri lasciò la corda troppo presto, e per un attimo vacillò sull'orlo della piattaforma. Tahquil però l'aveva già afferrata per il vestito e la trasse a sé con tutta la sua forza. Caddero a sedere sulle assi, con la corda della puleggia che ondeggiava tra le loro teste. «Per le corna del Cacciatore», balbettò Caitri, pallida per lo shock. Segnalarono a Viviana che poteva partire, e da lì a poco anche lei arrivò, ancora più veloce di Caitri a causa del suo peso maggiore. La ragazza atterrò sulla piattaforma con agilità e tempismo perfetti, come se avesse già una lunga pratica. «È stato più facile di quanto mi aspettassi», commentò, senza notare lo stupore delle compagne. «E da qui dove andiamo? Dalla piattaforma sopra di noi, le funicolari vanno in tre direzioni diverse.» «A nord. Dobbiamo sempre andare a nord», rispose Tahquil. «In quanto a dove sia il nord, però, non me lo chiedere. Ho perduto il senso dell'orientamento mentre quell'essere orribile c'inseguiva, e tra questo fogliame non filtra neppure un raggio di sole per indicarci la strada.» Poco dopo cominciò a piovere e l'acqua nutrì le piante aerofaghe e parassite, dando una ripulita al tetto della foresta. Dove si trovavano loro non arrivò neppure una goccia. Quando l'acquazzone passò, le tre compagne salirono sulla scala a pioli fino alla piattaforma superiore. «Guardate!» esclamò Caitri. «Ci sono dei fiori legati al cavo centrale, e la puleggia è al suo posto. Dalle altre due funicolari invece mancano le pulegge.» «Un'istruzione inequivocabile, a quanto pare», commentò cupamente Tahquil. «Ovunque sia il nord, gli arborei ci mandano nella direzione che vogliono loro. Speriamo che siano benevoli come l'urisk ha lasciato capire.»
«Ma qui ci sono i cavi di richiamo. Potremmo tirare indietro una delle altre due funicolari», fece notare Caitri. «Non ho alcun desiderio di offendere questi abitanti della foresta. Qui siamo nel loro regno... non dimenticatelo mai. Hanno il potere di vita e di morte su di noi. Per il momento dovremo fare ciò che vogliono. Ma tenete gli occhi aperti.» Usarono la seconda funicolare allo stesso modo della prima, ed essa li portò a un albero del tutto simile, in una zona indistinguibile dalle altre. «Questi posti tutti uguali sono un incubo», si lamentò Viviana. «Mi sento come se non andassimo da nessuna parte, o girassimo in circolo.» «È impossibile che giriamo in circolo», obiettò Caitri. «Avrai notato che finora abbiamo viaggiato in linea retta.» Come per farsi gioco di quelle sue parole, la rotta della successiva funicolare infiorata era spostata di quarantacinque gradi rispetto a quella delle prime due, e le portò a una piattaforma da cui si vedevano diversi autarken uniti da molti cavi. Proseguendo verso l'interno del Khazathdaur con quel mezzo di trasporto volante, poterono impratichirsi delle manovre di partenza e di atterraggio. E notarono che il numero degli alberi uniti da corde aumentava. «Questa è un'autentica ragnatela», si meravigliò Viviana. Quando ebbero percorso una dozzina di tragitti, nessuno dei quali inferiore alle sessanta braccia, si fermarono a riposare su una piattaforma. Viaggiare appese a una corda era un esercizio fisico insolito, e avevano le braccia e le gambe indolenzite; inoltre, l'assenza di una corda di sicurezza le innervosiva: niente le avrebbe salvate da una caduta mortale, se avessero perso la presa. Nella penombra alla loro destra si distingueva vagamente una geometria di lunghi triangoli. Si sarebbe detto un intreccio di corde fissate tra i lisci tronchi degli alberi a grande altezza. Una volta o due le viaggiatrici ebbero l'impressione di vedere delle figurette che si spostavano lungo quelle funicolari. Dopo aver raggiunto l'albero successivo, scoprirono che il complesso dei cavi era più fitto e che su di essi vi era un certo traffico. Ma invece che tramite funicolari, la loro piattaforma era collegata alle altre per mezzo di ponti sospesi, fatti con tavole di legno legate a due cavi paralleli, con una singola corda come corrimano. Due dei tre ponti tra cui avrebbero potuto scegliere erano chiusi da cordicelle, mentre al corrimano del terzo era legato un mazzetto di foglie.
«Parola mia, questo è un progresso!» esclamò Viviana. «Non avrei mai creduto di potermi avventurare a cuor leggero su dei trespoli così sgangherati, ma dopo aver ballato appesa a una corda con le mani, questi ponti mi sembrano frutto dell'ingegno di rari studiosi.» «Forse ci condurranno nella città degli arborei», commentò Caitri, guardando sulla destra. «La vedrei volentieri, e ancor più mi piacerebbe vedere questa gente.» Percorrere l'intera lunghezza del ponte sospeso non risultò tuttavia facile né divertente. L'intera struttura aerea prese a oscillare e scuotersi come un serpente inferocito fin dal primo istante in cui le viaggiatrici vi misero piede. Ballava su e giù al ritmo non sincronizzato dei loro passi, sbattendo contro gli stivali mentre li appoggiavano oppure sfuggendo sotto di essi e facendole inciampare. Le tre ragazze avanzarono tra molte pause, attente a non guardare in basso. Tra un'asse e l'altra si spalancavano varchi nei quali non vi era che il buio e, quando i movimenti delle chiome degli alberi lasciavano trapelare un raggio di luce, quel vuoto sembrava ancor più abissale e minaccioso. All'improvviso, sulla destra si cominciò a scorgere quella che poteva essere una città arborea. Tra i lunghi ponti, le funicolari, le passerelle, le scale fisse e a pioli, gli autarken qui sostenevano piattaforme più larghe e robuste, alcune fornite di balaustra. Piccole case di rami, dotate di porte e finestre, erano fissate a stretto contatto del tronco degli alberi. Si udiva un mormorio nuovo, appena percettibile: voci nell'aria immobile e, forse, l'eco di canti. «Questo ponte non ci porta affatto nella città degli arborei», si rattristò Caitri. «Che abbiano paura di noi? Ma perché dovrebbero temerci?» «O ci temono, o ci detestano», replicò Viviana. «Oppure hanno deciso di farci fare una brutta fine.» «Perché dovrebbero accoglierci sulle loro strade aeree, se volessero mandarci alla morte?» obiettò Tahquil. «Forse hanno intenzione di consegnarci ai loro macellai e metterci in pentola», ipotizzò cupamente Viviana. «Credo che questo non sia ostilità né timore, ma semplicemente desiderio di non aver a che fare con noi pur mentre ci danno aiuto», disse Caitri. «Vogliono farci andare via per i fatti nostri, senza che gli inciampiamo addosso disturbando la loro vita.» «Ci detestano», ripeté Viviana. Un grido acuto le fece sussultare. Il ponte dondolava come la groppa di
un cavallo imbizzarrito. Da tutte le direzioni, o da nessuna, scaturì un gracidio fatto di parole: Io volo col gufo e faccio piangere molti con voci forti e vuote. Uno sbattere d'ali concitato passò rapido sopra di loro, e poi fu ingoiato dal buio. «Credevo non ci fossero uccelli, qui», si meravigliò Viviana. «Quello non era un uccello.» Allarmate, e con le ginocchia tremanti, si accinsero ad attraversare il ponte successivo. Sembrava che il giorno fosse al termine. Sulle strade aeree stagnava un pallore grigiastro sempre più fosco. Si avvicinava l'ora dei wight. D'un tratto sali tra gli alberi una risata maniacale, punteggiata di gridolini e gemiti striduli. La piattaforma che raggiunsero era circondata da una bassa parete di legno. L'altro lusso era rappresentato dai frutti, le foglie, i fiori commestibili e le zucche d'acqua che trovarono su di essa. «Qui possiamo dormire senza paura di cadere», si rallegrò Viviana. Mangiarono e bevvero; per combattere il freddo della sera, Tahquil diede alle compagne un sorso di Sangue di Drago, il rosso liquido corroborante la cui anforetta, regalatale da Thorn, sembrava non esaurirsi mai. Quella notte, montando di guardia a turno, videro muoversi delle piccole luci nelle remote profondità sulla loro destra, la direzione che identificavano come l'oriente. Era la città degli arborei. Intorno alla piattaforma, le manifestazioni notturne della foresta erano assai più eldritch. Una musica dolce e selvaggia spiraleggiava fin lì con la brezza fredda, con note che toccavano le corde del cuore e cadenze evocanti perduti amori e solitarie cime montuose al chiaro di luna. Nello stesso tempo, molto più in basso, qualcosa d'invisibile camminava a passi risonanti sul terreno melmoso, sbuffando come se fosse incatenato a un peso enorme e se lo trascinasse dietro. Nel profondo della notte le luci della città arborea si spensero, l'una dopo l'altra. Scese il silenzio, e nel buio rimase solo l'incessante sussurro delle foglie. Tahquil, che era di guardia, ripensò a un luogo dove voci dolci cantavano accompagnate da flauti e arpe... ma cercare di riafferrare le im-
magini sfuggenti del Reame Fatato era più difficile che trattenere l'acqua in un setaccio, vano quanto voler costruire corde con la sabbia, inutile come mietere con una falce di stoffa. Tirnan Alainn, la Terra delle Foglie Lunghe... Faêrie. Perché dovrei amare un luogo del genere? si domandò. Una terra di sogni e di leggende, forse non più tangibile di una favola per bambini... una terra che esiste oltre le stelle, e che non troverei più adatta a me del fondo del mare. Perché dovrei sfinirmi dal desiderio per un gioiello che non può essere mai afferrato davvero? Sicuramente il lino tessuto in casa e il semplice pane cotto al forno, o la seta e le paste al miele di Erith, dovrebbero essere abbastanza per me. E invece il langothe sovrasta sia la mia avversione per i faêran sia il mio amore per la terra dove sono nata. Pulsa nelle mie vene col sangue, e non posso liberarmene. Qualcosa nella mia anima risponde alla sua chiamata, un ricordo che sembra venire da un tempo precedente alla mia nascita. È come una memoria razziale che si sveglia, mi afferra e, se non viene soddisfatta, avvelena la mente. Perché quando vidi per la prima volta il Reame Fatato ebbi la certezza di averlo sempre conosciuto. Riconoscevo ogni albero e ogni nuvola, ogni montagna e ogni lago, come se fossero solo quei posti a esaudire i desideri del mio cuore. E anche ora andrei dritta laggiù, se potessi, come una freccia scagliata. Di nuovo si chiese quanto ci avrebbe messo il langothe a ucciderla. Alcuni dei bambini di Hythe Mellyn erano morti poche settimane dopo il loro ritorno su Erith; altri avevano agonizzato per mesi, indebolendosi sempre più. Lei sopportava una continua sofferenza e non c'erano medicamenti che potessero lenirla. Tuttavia le forze non la abbandonavano. Forse era una proprietà dell'anello di Thorn, o forse lo doveva al dono che Nimriel le aveva fatto nel Reame. Qualunque fosse la ragione, il langothe non la uccideva giorno dopo giorno, come lei si era aspettata. Al suo anulare, il cerchietto di foglie d'oro si accese per un attimo. Lo schiocco improvviso di una frusta squarciò il buio. Tahquil andò alla balaustra e guardò in basso, oltre la corona di spine di ferro. Rimpicciolita dalla distanza e illuminata da una fantomatica fluorescenza, una carrozza tirata da quattro cavalli stava arrivando tra gli alberi a gran velocità. Il conducente, a cassetta, portava un cappello a tricorno e una mantellina. La ragazza non riuscì a immaginare chi potesse esservi in quel veicolo nero. Le due pariglie di cavalli si fermarono bruscamente, le bestie scalpitarono ansanti sotto le redini. Uno sportello si aprì.
Un pesante stivale si appoggiò sullo scalino. Un secondo calcò il molle terreno umido della foresta. Accanto alla carrozza vi era una statua. Anche i cavalli erano immobili, e così il conducente seduto a cassetta. Poi, come una sfera che ruotasse su un perno, la testa della statua si girò, e sembrò quasi di udire il rumore di ingranaggi in movimento. Tahquil tratteneva il fiato. Strano come riuscisse a percepire tutto così chiaramente, a quella distanza dal suolo e nella scarsa luce. La scena era aperta dinanzi a lei come su un palcoscenico in miniatura, recitata da figurette meccaniche su un tavolo, avvolte da una vaga luminescenza stregata. Silenziosa com'era apparsa, la forma scolpita sparì. La carrozza oscillò sulle balestre mentre nel suo interno un peso tornava a gravare sul sedile. Lo sportello fu chiuso, i cavalli si mossero con un tintinnio di finimenti, e le orecchie della ragazza furono raggiunti dal secco rumore della frusta. Se quella manifestazione unseelie avesse seguito lei e le sue compagne, Tahquil non avrebbe saputo dirlo. Ma un wight così potente e così vicino non avrebbe mancato d'individuare la sua preda. Si poteva dunque supporre che, per fortuna delle tre mortali, la creatura stesse dando la caccia a qualcos'altro, e che non fosse consapevole della fanciulla che la guardava o della sua presenza nella foresta. Tahquil aveva riconosciuto il veicolo come quello che lei e Muirne avevano visto prima dell'attacco alla Carovana di Chambord. Ormai sapeva senza possibilità di dubbio che si trattava della carrozza del Cearb, il massacratore unseelie di uomini e bestiame che tutti chiamavano l'Uccisore. Giorno dopo giorno le tre ragazze viaggiarono lungo le vie aeree del Khazathdaur, lasciandosi alle spalle la misteriosa città degli arborei. I numerosi ponti che collegavano le piattaforme furono di nuovo sostituiti dalle funicolari, sempre meno fitte. Le braccia e le gambe di Tahquil e delle sue compagne erano continuamente indolenzite; i loro tendini s'irrobustivano, ma a prezzo di una continua sofferenza. Quando veniva il vento shang, gli autarken assumevano un colore bruciato con riflessi di oro vecchio, una morbida luce che ricordava gli ultimi caldi toni dell'estate tra i grappoli maturi di una vigna. Ogni foglia cadente diventava una pagliuzza, ogni cavo una catena di farfalle del fuoco; le chiome fronzute scintillavano come una galassia di luci verdi e dorate. L'unica scena del passato che la tempesta magica replicò per le viaggiatrici fu quella di due bambini che raccoglievano fiori sul terreno della foresta, dove nessun petalo illuminato dalla luce fioriva più da secoli; ma le imma-
gini dei bambini continuavano a esistere laggiù, senza nuocere a nessuno. Nella foresta non c'era nessuna traccia di quei detriti psichici che altrove avevano generato scene drammatiche o appassionate. Ogni notte il Khazathdaur si animava con rinnovato vigore di suoni e creature spettrali. Al livello del suolo si udivano singhiozzi strazianti che si ripetevano con la monotonia di una ruota di mulino, o melodie di campanelle di vetro tintinnanti per la foresta, o il tambureggiare e bussare di creature eldritch che battevano sulla base degli alberi gragnole di colpi. A volte strani anelli di fumo arrivavano fluttuando fra i tronchi degli alberi, prima che una delle rare correnti d'aria li deformasse come ruote spaccate. Distese sulla piccola piattaforma così lontana dal suolo, le viaggiatrici prendevano nota di quei fenomeni inquietanti senza riuscire ad abituarvisi, innervosite dalla consapevolezza che gli elusivi arborei continuavano a sorvegliarle. Cibo e acqua, benché monotoni, non venivano lesinati. Ogni tanto, però, avvertivano anche altri occhi su di loro. Vi erano molte diverse creature lì nel Khazathdaur, tra quelle colonne di legno, sotto i verdeggianti soffitti dove la penombra pendeva come il velo di una vedova, mentre milioni di foglie continuavano a staccarsi dalla luce per affogare nel buio. Era un mondo antico, dove tutto si era da tempo adattato all'assenza del vento e del sole... un mondo che custodiva molti segreti. Le radici contorte affondavano profondamente sotto uno strato di humus e detriti vegetali segnato da impronte misteriose di zampe e di ruote, e quello strato copriva strane cose, dalle quali altre e ancor più strane cose erano cresciute... Nelle propaggini più lontane della foresta, dove gli autarken si mescolavano a enormi querce, l'odore di semi di anice saturava l'aria come un olio denso. I malkin grigi si aggiravano tra i funghi, con occhi che tramutavano la notte in un'aiuola di smeraldi. I loro grossi artigli di predatori non riuscivano a fare presa sulle fasce di ferro fissate intorno ai tronchi, e i felini guaivano frustrati. A volte nel buio echeggiava un ululato non dissimile dai loro, ma dal tono umano... Annis Nera urlava la sua delusione e la sua fame nella caverna che la ospitava, chissà dove, sotto l'humus e le rocce. Una sera le tre ragazze poterono udire un borbottio di parole umane, pronunciate da una monotona voce femminile: L'olmo non ti darà amore, dalla quercia odio tu avrai, il salice ti offrirà dolore
se a tarda ora viaggerai. Quattordici giorni dopo il loro arrivo sotto le chiome di TimbrilfinKhazathdaur, Tahquil atterrò su una piattaforma assai più scalcinata e instabile delle altre. Quando le compagne l'ebbero raggiunta, videro che, invece di essere accolte col solito segnale di foglie sul cavo successivo, lì non c'era nessun'altra funicolare. Quello era il capolinea. Ovunque si trovassero, non restava altra scelta che tornare nel cuore della foresta oppure scendere sulla vetusta scala a pioli che oscillava lungo il tronco e spariva nel buio verso il terreno. A quanto pareva, quello era il confine del territorio frequentato e curato dagli arborei. Tutto intorno, i poderosi tronchi continuavano a riempire la distanza tra le chiome e il suolo, come mute colonne grigie e nere, ma non fungevano più da supporto alle strade aeree. In un angolo della piattaforma le attendeva un'ultima offerta di cibo arboreo, ma la costernazione per quell'imprevista svolta degli eventi aveva tolto l'appetito a tutte. «E ora dove andiamo?» mormorò Caitri, sporgendosi a guardare giù oltre le spine del bordo. La prospettiva vertiginosa le faceva apparire ingannevolmente vicine le basi degli alberi circostanti. «Al suolo», rispose Tahquil. «Senza perdere tempo, se non vogliamo farci sorprendere dalla notte... e faremo bene a portarci dietro queste verdure. Chissà quando potremo trovare del cibo, ora che lasciamo l'ospitalità degli arborei.» «Se mi è permessa un'osservazione», intervenne Viviana, «non ci vorrà molto prima di essere noi a fornire un pasto ai malkin grigi, o ad Annis Nera. Gli artigli di Lady Dianella ci sembreranno dolci al confronto.» «Non sottovalutare le unghie di quella lady», ribatté Tahquil. Le tre compagne scesero per la lunga scala a pioli, oltre i rivestimenti di ferro per bloccare gli artigli dei predatori. La scala terminava a dieci braccia dal suolo, su una piccola piattaforma; intorno a un gancio era arrotolata una corda, con un capo fissato al tronco. L'ultimo tratto di discesa avrebbe dovuto essere superato, spiegò Viviana, passandosi la corda intorno a una coscia e alla spalla opposta, così da potersi calare gradualmente e senza sforzo. «Andrò io per prima», disse la cameriera. «Sono preparata a questo esercizio, perché mio fratello e io scalavamo le querce del parco di Witham, da bambini, anche se la nostra maggiore preoccupazione era di tenere all'o-
scuro mio padre di quelle bravate. Finora la mia signora è sempre stata la prima ad affrontare ogni impresa, perciò adesso è il mio turno. Se non me lo permetterete, non sarò capace di mantenere la calma.» «Allora sia pure come vuoi», annuì Tahquil, commentando con un sorrisetto la determinazione della ragazza. «Nei miei viaggi in terre desolate, anch'io ho appreso qualcosa sull'arte di arrampicarsi sulle corde. Tu, Caitri, guarda e impara. Viviana, se dovessi vedere un pericolo grida forte e cercheremo di tirarti su, anche se temo che questa piattaforma non sia granché come rifugio.» Viviana afferrò la corda a due mani. Intrecciata con le fibre satinate delle piante che crescevano sugli autarken, era liscia e non irritava la pelle. Se la passò dietro una spalla e intorno a una coscia, quindi puntellò entrambi i piedi contro il tronco, strinse i denti con aria accigliata e pian piano cominciò a scendere, esibendo una sicurezza che i suoi occhi rischiavano di smentire. La luce era sepolcrale, al punto che stentava a vedere la corteccia dell'albero, e subito ebbe l'impressione che l'osso della spalla destra le si stesse slogando. I suoi avambracci stavano facendo uno sforzo molto maggiore di quello che avrebbero dovuto, aveva dolore ai polsi, e le mani stavano perdendo sensibilità. Alla fine furono proprio le mani a tradirla. La corda le scivolò via tra le dita, e lei cadde in un gran mucchio di foglie, che schizzarono intorno come acqua. Scrutando verso il suolo, le sue compagne non riuscirono a vedere niente. «Sto bene!» esclamò Viviana, sputando una foglia. «Potete scendere!» Tahquil e Caitri tirarono su la corda. Viviana rifletté che il mucchio di foghe in cui giaceva poteva ospitare creature con cui una ragazza non gradiva avere contatti ravvicinati. Si affrettò ad alzarsi, ma lo strato di marciume umido le arrivava comunque ai polpacci. Tahquil scivolò fino al suolo, seguita da Caitri. Nel lucore emanato dalle efflorescenze, le ragazze si guardarono intorno. «Sarà lecito lasciare la fune così, penzoloni?» domandò Tahquil. «Credo che saremmo tenute a impedire l'accesso degli abitanti del suolo alle strade aeree degli arborei.» Cercarono di gettare su la corda, ma ogni tentativo si rivelò inutile. «Vi chiediamo scusa», gridò Tahquil verso l'alto. «Non riusciamo a chiudere l'ingresso all'albero.» Timorosa di ringraziare i loro benefattori, nel caso che come i wight potessero offendersi, aggiunse: «Abbiamo preso nota della vostra gentilezza. Possano i vostri alberi dare frutti per sempre».
Dalla penombra di giada non giunse risposta. «Andiamocene da qui», suggerì Tahquil, scuotendosi via le foglie dai capelli. «Non possiamo fare altro, e dobbiamo raggiungere un posto sicuro prima che sia notte.» Le tre ragazze si misero in cammino. Tra le radici degli antichi alberi c'erano zone di ombra più o meno fitta. In genere tutto ciò che riuscivano a vedere era la debole luce dell'anello-foglia. Nessuna di loro aveva la minima idea di dove stessero andando; a guidarle era l'istinto, e la convinzione che fosse meglio proseguire nella direzione in cui le avevano indirizzate gli arborei. Il disagio non ci mise molto a diventare preoccupazione. La zona inferiore del Khazathdaur brulicava di cose insalubri e maleodoranti. I piedi affondavano in un marciume freddo che si appiccicava agli stivali, appesantendoli, e cominciarono a temere che invisibili orrori sensibili alla presenza dei mortali si fossero già messi sulle loro tracce. Viviana teneva stretta la castellana sotto il mantello, perché non tintinnasse. A tratti finivano coi piedi dentro profonde pozzanghere, o inciampavano in alti mucchi di detriti vegetali. La preoccupazione diventò una gelida paura che le schiacciava e le indeboliva come un fardello, finché non parve loro che non vi fosse nessun modo di uscire dalla foresta, e che tanto valeva gettarsi al suolo e lasciarsi morire lì in quel mefitico purgatorio. Poi, da lontano, si udì un segnale. Il suono di un corno. Subito, come in risposta, l'aria cominciò a muoversi. Una leggera brezza entrava nella foresta. E, come al seguito di quella corrente fresca, giunse ancora la nota del corno, così chiara e risonante che sembrava echeggiare tra colline fiorite sotto il cielo aperto. Il suono si fece udire una terza volta. Le tre viaggiatrici marciarono in quella direzione con nuova energia, rinvigorite. Ben presto una luce grigia filtrò fra gli alberi, e poi raggi di sole dorati squarciarono il fogliame fino al terreno fangoso, illuminando il sottobosco. Apparvero macchie di ginepri, di mirtilli, e il grigio delle fungosità lasciò il posto al verde. Il morale delle ragazze era subito risalito al pensiero di trovarsi ormai al limite del Khazathdaur, dove avrebbero potuto rivedere il cielo e sentire il vento caldo e pulito tra i capelli. Accelerarono ancora il passo, senza sforzo. Nell'aria tra i grandi tronchi ormai vedevano i riflessi scarlatti e dorati del tramonto. Riuscirono a sorridersi: erano quasi arrivate fuori della foresta!
Tahquil alzò improvvisamente la mano sinistra. L'anello le aveva dato una scossa, vibrando come se qualcosa lo avesse percosso. Nello stesso istante, Viviana balzò di lato con un'esclamazione. «Qualcosa mi ha colpito! Ha colpito il mio sacco!» I cespugli intorno presero ad animarsi di un'attività sempre maggiore. Come vespe rabbiose, strali invisibili sibilarono nell'aria, toccando il suolo con sbuffi di polvere e di foghe secche. Tra le piante fecero capolino le facce astute e feroci dei piccoli arcieri, sormontate da berretti rossi a forma di fungo. Le ragazze fuggirono, sgomente, bersagliate da una pioggia di proiettili appuntiti che colpivano i loro spessi mantelli. L'anello di Tahquil sembrava capace di attirarne molte, e le faceva rimbalzare via senza danni; ma una di esse si conficcò nella cintura di Caitri, un'altra fra i capelli di Viviana. Il terreno pieno di sassi e spunzoni di roccia le ostacolava molto, facendole inciampare e vacillare quasi a ogni passo. Tenettero che non ce l'avrebbero fatta a uscire dal Khazathdaur. Poco più avanti, però, i cespugli si diradarono e le fuggiasche sbucarono all'aperto. Caitri mandò un debole grido e cadde bocconi. «Alzati! Vieni via!» la incitarono le compagne, cercando di aiutarla a rimettersi in piedi. I minuscoli strali grandinavano ovunque. Caitri si contorse, con le mani strette intorno a una caviglia. Tahquil la liberò dello zaino, incurante di rovesciarne fuori le provviste di cibo. Afferrò la fanciulla sotto le ascelle e la trascinò via. Viviana afferrò lo zaino e le seguì, usando il suo sacco e il bagaglio di Caitri per proteggerle dalle frecce che scaturivano dalla foresta. Arrancarono giù per un pendio erboso, con Caitri che penzolava inerte dalle mani di Tahquil. Pian piano i colpi cominciavano ad arrivare corti e fuori bersaglio, sempre più radi, finché, una trentina di passi più avanti, gli eldritch che le stavano tormentando non smisero di prenderle di mira. «Oh, dèi! L'attacco è finito. Fermatevi, che io possa aiutarvi», disse Viviana. Tahquil depose cautamente Caitri sul tappeto di erba, tra due grossi cespugli di fiori gialli. «È stata colpita!» gemette Viviana. «Resterà paralizzata!» «Cait, riesci a sentirmi?» domandò Tahquil, preoccupata. Le palpebre della fanciulla si aprirono di una fessura. Era grigia in faccia, e stava male. «Sto bene», farfugliò con voce impastata. Cercò di alzarsi a sedere, ma
ricadde indietro, con un gemito. «Non sento più la gamba. Il braccio...» «Resisti», la incitò Tahquil. «Ti porteremo al sicuro.» Evitò di dire che il lato sinistro del viso della ragazza era inerte, e che quella parte della sua bocca era rimasta immobile mentre parlava. Caitri sembrava una bambola fatta metà di porcellana e metà di stracci. Un lato del suo corpo era privo di vita. Tahquil sapeva che avrebbe dovuto portarla lontano dai pericoli della foresta. Ma dove potevano rifugiarsi? Si alzò nella luce un po' offuscata del sole, che stava già tramontando sul mare, e si schermò gli occhi con una mano. Si trovavano in una zona collinosa, verdeggiante, e spirava un venticello leggero. Le erbe alte si piegavano in onde morbide. Tahquil guardò verso nord. Il terreno si abbassava in un lungo pendio che terminava sulla riva di un golfo simile a un fiordo. Era la costa occidentale del continente, e il mare penetrava in quell'insenatura lunga e stretta per molte miglia, riempiendola di acque grigie come l'acciaio. Dorate dai raggi del tardo pomeriggio, le rive di quel fiordo roccioso cadevano a picco. Gli uccelli marini che si lasciavano trasportare dal vento sulle onde avevano lunghe ali piegate nella forma del magran, la runa-M. A est e a ovest, e a nord oltre il fiordo, si levavano basse colline. All'estremità più interna dell'insenatura, i colli racchiudevano una valle paludosa, bagnata da molti torrenti che si gettavano nel corso d'acqua principale, del quale il fiordo costituiva la foce. In direzione della valle, ma più vicino, c'era un'estensione di territorio pianeggiante, verde di prati. Intorno crescevano macchie di ontani, faggi e magnolie gremite dai fiori della tarda primavera. Sulla riva dell'insenatura, numerosi tetti di paglia spuntavano tra gli alberi. Da alcuni camini si levavano spire di fumo come boccoli di lana, che la brezza trascinava via. «Un villaggio», mormorò Tahquil, col cuore in gola per il sollievo. «Un'isola umana in una terra selvaggia. Bisogna andare là. Sono certa che tra loro troveremo un curatore... o una Carlin, o un Dyn-Cynnil.» Si voltò a guardare l'alta muraglia della foresta da cui erano fuggite a stento. Gli alberi sembravano piegarsi verso di loro. «Via, dobbiamo intrecciare le mani e prendere ciascuna i polsi dell'altra, per formare un sedile. Poi ci metteremo sulle spalle le braccia della povera Caitri, e in questo modo la porteremo giù per la collina.» Proprio allora, mentre il sole sprofondava nella foschia dell'orizzonte oceanico, una voce profonda e gutturale disse: «Restate qui!» L'ordine era stato pronunciato da un bipede robusto e peloso, simile a un
bruney troppo cresciuto. Era vestito con giubba e calzoni di fustagno, come un wight domestico, ma superava i sei piedi di altezza e aveva spalle robuste e braccia muscolose. Il suo fisico superbo rivelava una grande forza muscolare. «Scappiamo!» gridò Viviana. Corse ad aiutare Tahquil, e le due ragazze presero a trascinare via Caitri. Con un balzo, il wight sbarrò loro la strada. «Dicono che sono un seelie», esclamò. «Giù a Ishkiliath è così che dicono. Io posso curare il veleno degli ælf, io so farlo. Datemi la ragazza.» «Mettila giù, Via», disse Tahquil, evitando deliberatamente di pronunciare il nome intero della compagna. Non distolse lo sguardo dal wight, mentre Viviana appoggiava Caitri sull'erba. «Puoi davvero fare ciò che affermi?» gli domandò. «È così, io posso farlo.» Tahquil esitò. «Con quale altro nome ti chiamano, giù al villaggio?» Il bizzarro individuo s'inchinò. «Finoderee al tuo servizio, signorina. Io aro, semino, raccolgo e falcio. Io zappo e rastrello e trasporto, io costruisco staccionate. Io posso pulire una stalla in un'ora e non chiedo nulla di più di una pignatta di stufato quando ho finito. Io lavoro tutta la notte, e alla sommità della valle di Rushen, sopra i frutteti, c'è la grotta dove vado a sdraiarmi ogni giorno. Io so guarire le frustate e anche un malato, e posso curare questa ragazza mortale.» «Be', signore, non c'è dubbio che tu sappia presentarti, certo», disse Tahquil con cautela. «Sei un individuo robusto, a quanto pare, con sentimenti gentili verso gli esseri umani. Se te la lascio curare, tu cosa chiederai in cambio del tuo disturbo?» La robusta mandibola di Finoderee si aprì, i suoi occhi si spalancarono per la sofferenza. «Ahimè, povero Finoderee, non mandatelo via, lui vuole soltanto aiutare!» «Allora, della ricompensa parleremo dopo», propose Tahquil, allarmata da quell'imprevedibile disperazione. «Tuttavia se sarai capace di curarla senza farle nel frattempo danni peggiori...» «Vorrei scambiare due parole con te, ragazza, se possibile», disse in quel momento una voce nota. Tahquil si voltò e vide che seduto all'ombra di un cespuglio c'era l'urisk. Sorpresa per l'inaspettata comparsa del loro amico, andò da lui, mentre Viviana restava di guardia a Caitri gettando occhiate ostili a Finoderee, che strusciava sull'erba i grossi piedi pelosi. «Auch, la cura è semplice», rivelò l'urisk in tono confidenziale, quando
si furono appartati. «Tu devi trovare la punta di freccia che ha colpito la ragazza e dargliela in mano, e lei si rialzerà più sana di prima. Quelle punte sono pietre che non entrano nella carne, e ciascuna ha un veleno diverso dagli altri. Deve essersi staccata dalla pelle, ormai. Non lasciare che Finoderee la trovi per primo, questo è il mio consiglio. Lui ha curato la vacca rossa di Dan Broome, ma poi se Tè portata via. Tu però non devi permettere che faccia i suoi trucchetti. Devi essere furba, e vedrai che uno come lui può essere ingannato facilmente.» Tahquil annuì, grata, e tornò accanto agli altri. «Finoderee, noi abbiamo bisogno del tuo aiuto», disse ad alta voce. «Per favore, prendi questa...» Staccò la tazza-filtro dalla castellana di Viviana, ignorando le proteste indignate di quest'ultima. «Riempila d'acqua a quel torrente laggiù, e riportala qui.» Con aria energica, Finoderee corse via lungo il pendio con la tazza-filtro in mano. «È d'argento!» si lamentò la cameriera. «Presto, Viviana... dobbiamo trovare la punta di freccia che ha avvelenato Caitri.» Le due ragazze rifecero all'inverso il percorso che avevano seguito nell'allontanarsi dalla foresta, frugando tra i sassi. L'urisk si unì alla ricerca. «Che aspetto ha?» domandò Tahquil, Camminando a quattro zampe con gli occhi fissi al suolo. «Poco importa, io non riuscirei a vederla comunque. È già buio», gemette Viviana. «E voi avete mandato quel Finoderee a compiere un'impresa impossibile. Quando si accorgerà che una tazza bucata non si può riempire, si arrabbierà con noi!» «Non lui», la informò l'urisk. «La sola cosa che lo fa uscire dai gangheri è essere criticato ingiustamente. Se questo accade, guardatevi da lui perché può essere pericoloso. Ma se gli avete affidato un lavoro che lui non riesce a fare, non potrà dire di esser stato criticato ingiustamente, no?» «Qui c'è qualcosa», mormorò Viviana. «Ah, è una spina di ginestra... no, l'ho trovata, credo!» Mostrò loro una piccola freccia con la punta di pietra, triangolare, dagli orli affilati come quelle metalliche. «Ben fatto», approvò l'urisk. Viviana corse giù per il pendio e la mise tra le dita della mano sana di Caitri, esortandola a toccarsi la gamba paralizzata. Ma la speranza che aveva animato lo sguardo della ragazza si mutò in disperazione, e le sue
lacrime rifletterono le prime stelle. «Uefto no fn'siona», farfugliò. «Non vi scoraggiate», le rassicurò l'urisk. «Continueremo a cercare. Vedo che ce ne sono delle altre, qui.» «Tu hai la visione notturna», gli disse Tahquil. «Non è così?» «Sì, ma non posso vedere sotto l'erba. Io non sono di sangue faêran, lo sai!» «Quell'antipatico wight tornerà da un momento all'altro», gemette Viviana. «Se troverà lui la freccia giusta, si porterà via Caitri. E se non la trova nessuno, la poverina resterà paralizzata per tutta la vita!» Frugando intorno, l'urisk mise insieme una manciata di punte di freccia. Galoppò di nuovo fin dove giaceva Caitri. «Ecco, prova queste!» Lei le provò tutte, più volte, senza nessun risultato. «Forfe pot'ei fender giù pe' la colina fe calcuno m'iuta», farfugliò, sfinita. «Sciocchezze», ribatté Tahquil. «Quella dannata cosa deve essere qui, da qualche parte.» Fece bere a Caitri un altro sorso di nathrach deirge, e così facendo toccò un fianco di lei con la mano sinistra. Il suo anello-foglia mandò un debole bagliore. Colta da un'intuizione, tornò su per il pendio, con la mano protesa in avanti, e lasciò che la luce dell'anello la guidasse. Fu così che, frugando in un ciuffo d'erba, trovò fra le radici una piccola freccia dalla punta di pietra, dura e fredda. Subito andò a metterla in mano a Caitri. «Eccone un'altra.» Quella sera, l'ultima del mese e della primavera, dall'orizzonte non era ancora sorta la luna. Nei boschi all'estremità interna della valle, gli uccelli notturni facevano udire i loro richiami. Le stelle spargevano già i loro riflessi sulle vitree acque del fiordo. E al confine del Khazathdaur gli autarken erano una muraglia oscura sotto cui echeggiavano le inquietanti sonorità degli eldritch. «La foresta si sveglia», avvertì sottovoce l'urisk. Tahquil non distoglieva lo sguardo da Caitri. D'un tratto la fanciulla sorrise. Poi si alzò, senza sforzo. «Era quella!» esclamò, aprendo la mano per mostrare loro la freccia degli ælf. «Oh... si è sgretolata in polvere.» «Meglio così», sentenziò l'urisk. «Non potrà fare del male a nessun altro.» Viviana rise, sollevata. Caitri abbracciò lei e Tahquil. «Consiglio migliore non fu mai dato», disse quest'ultima all'urisk, ricorrendo a un giro di parole per mostrarsi grata senza dover ricorrere ai rin-
graziamenti, che offendevano più o meno tutti i wight. «Ci hai raggiunte appena in tempo. Ma come sei arrivato qui?» domandò Caitri al piccolo individuo dai piedi di capra. «Io non sono portato per viaggiare appeso a una corda. Ho seguito i sentieri della foresta», spiegò lui con la sua buffa voce. «A volte ho dovuto fare larghi giri per evitare il pericolo. In ogni modo ora sono qui, e le terre di Ishkiliath sono la mia vera patria. O almeno lo erano un tempo.» «E gli abitanti di quel villaggio laggiù... faranno buona accoglienza a tre viaggiatrici?» «I forestieri di razza umana ben raramente giungono ad Appleton Thorn via terra. I soli che si fermano da queste parti sono i marmai che arrivano in barca, lungo il mare. Gli abitanti del villaggio vi guarderanno di traverso, ma per la maggior parte sono brava gente.» Un paio di deboli luci si accesero nella semioscurità, giù tra gli alberi alle pendici della collina. «Vi accompagnerò per un po'», concluse l'urisk. «Qui siamo sulla dorsale di Colle Creech, e qualche volta i bullbeggar vengono a caccia fin qui. Inoltre Arda Musgarh Dubh è ancora troppo vicino, e le radici dei suoi alberi sono molto lunghe.» «Ma i suoi piccoli arcieri hanno una pessima mira», soggiunse Viviana. «Per nostra fortuna.» Tahquil stava guardando il villaggio, pensosamente. Sarà prudente avventurarsi là, tra gli esseri umani? Potrebbero esserci spie del Principe Morragan, capaci di riconoscermi e di contattarlo. Pochi wight dimorano negli insediamenti umani... quasi tutti domestici, solitari, innocui sedie che non viaggiano e che detestano allontanarsi dalla loro abitazione. Dovrei essere più al sicuro in quel villaggio che in ogni altro luogo, eppure... Alle loro spalle, l'oscura cortina dell'antica foresta si ergeva silenziosa, come un incantesimo non pronunciato. Il servizievole Finoderee era una figuretta china sulla riva del torrente, e stava canticchiando una strana canzoncina le cui parole, nell'aria della sera, giungevano fino a loro: Se imp o elfo voi mi chiamate, a vostro danno questo lo fate. Se mi volete chiamar fatato, vi pentirete di averci provato. Se buon vicino mi chiamerete tale sarò finché mi vorrete.
Ma se wight seelie sarò chiamato vi sarò sempre amico giurato. Le tre viaggiatrici raccolsero i fagotti che avevano lasciato al suolo, mentre il vento di mare le spettinava e giocava coi bordi delle loro vesti. Poi, in compagnia dell'urisk, s'incamminarono giù per la collina verso Appleton Thorn, sulla riva scoscesa del Fiordo di Vetro Grigio. 2 ISHKILIATH CELEBRAZIONI SUL FIORDO DI VETRO GRIGIO
Nella grotta del monte dirupato, l'antico drago coperto di scaglie, dall'alito possente e infuocato, intorno al suo tesoro si raccoglie. Mentre una gran conchiglia si va aprendo nel mar, lambita dall'onda schiumosa, e in essa una sirena sta dormendo, più bella d'ogni perla e deliziosa. I silkie avvolti nel fascino del mare san destare passioni inebrianti, e il cuore dei mortali imprigionare coi loro strani e misteriosi incanti. Vecchia canzone di Tamhania Il vento era impregnato dal pungente odore salmastro delle alghe lasciate allo scoperto dalla marea. Sparse in alto e in basso sulla riva scoscesa e ombreggiate da filari di faggi, le case di Appleton Thorn erano protette, dalla parte di terra, da una palizzata semicircolare. Non si trattava di un qualsiasi recinto, ma di una solida barriera fortificata con assi di quercia e pali di frassino, da cui sporgevano fitti spunzoni acuminati e lame d'acciaio. Era alta almeno otto braccia e sorvegliata da torri di guardia montate
sugli alberi all'interno del perimetro. «Ci sono un Cancello Orientale e un Cancello Occidentale», spiegò l'urisk, guidando le ragazze verso sinistra. «La strada costiera che arriva dalla brughiera conduce al Cancello Occidentale. La strada che va a oriente passa per i rig del Churrachan, i sykie risk, i pericolosi gowan bank e le nebbie dei brae. Nessuna porta è mai stata aperta sul lato sud della Barriera. Non c'è strada che sale su per i choillerais.» «Noi parliamo solo la Lingua Comune», disse Tahquil. «Spiega meglio ciò che stai dicendo, signor mio.» «Auch, dimenticavo. I rig sono quelli che voi potreste chiamare campi, un sykie risk è una palude, un acquitrino. I gowan bank e i brae sono pendii scoscesi e valli, per voi. Devo dimenticare il dialetto delle campagne occidentali... Tante cose sono cambiate dall'ultima volta che ho parlato a gente di città come voi.» L'urisk sospirò. «Quanto al resto... non c'è una strada che sale per Colle Creech verso la foresta, perché la gente del villaggio non va mai lassù, e le creature che vivono nelle ombre di Arda non sono le benvenute tra gli umani.» «Non vedo neppure alberi da ormeggio per le Navi del Vento. Perché mai costoro hanno deciso di vivere in un posto così remoto e dimenticato, e così vicino al Khazathdaur?» chiese Caitri. «Un tempo, gli antenati della gente del villaggio vivevano qui in gran numero», rispose l'urisk. «Col trascorrere degli anni, mentre le creature unseelie si stanziavano sempre più numerose in questa regione, molti se ne andarono. Quelli che vollero restare lo fecero perché questa era la loro terra, o forse a causa del Thorn.» Il cuore di Tahquil perse un battito. «Quale Thorn?» domandò subito. «Il Nobile Thorn, come essi lo chiamano: un albero solitario che cresce nell'errechd, al centro del villaggio. Dicono che sia l'unico della sua specie. Fiorisce solo una volta all'anno, a mezzanotte della Vigilia del Piccolo Sole. In quel periodo, talvolta i marinai risalgono lungo il fiordo con le loro barche, per vederlo.» Le viaggiatrici giunsero alla Barriera e la seguirono verso il Cancello Occidentale, senza che le sentinelle sulle postazioni tra gli alberi imponessero loro di fermarsi. Dall'interno del villaggio non si udivano altri rumori che qualche voce lontana. «Oggi è la Vigilia della Scarrozzata», le informò l'urisk. «Probabilmente stasera sono tutti nella taverna, a bere e a cantare.» Il cancello era di legno e sbarre d'acciaio, alto quanto la Barriera.
«Qui io vi lascio. I posti degli umani mi sono cari, ma ci vado solo quando piace a me.» «Ah, ma ci rivedremo?» domandò Viviana. «Sì, se lo desiderate.» L'urisk parve timidamente compiaciuto. «Addio», lo salutarono le ragazze. Lui s'inchinò e trotterellò via nel buio, sparendo dentro una macchia di cespugli gremiti di bacche. Caitri si voltò a guardare verso la foresta. «Mi è sembrato di udire dei passi che ci seguivano», mormorò. Tahquil prese fiato e gridò verso il cancello: «Ehilà, per favore lasciateci entrare... siamo viaggiatrici, e vi chiediamo ospitalità!» La sua richiesta fu seguita da un improvviso tumulto all'interno del cancello. Si sarebbe detto che qualcuno, pesantemente armato, fosse caduto da un albero. Quella cacofonia fu seguita da alcune imprecazioni soffocate e da un clangore metallico. «Chi va là?» gridò infine una voce maschile. «Tre viaggiatrici in cerca di ospitalità», ripeté Tahquil. «Restate indietro, a nove passi dal cancello!» intimò l'uomo. Da una guardiola di legno montata sopra la Barriera, sulla forcella di un albero, una figura che portava un elmo di metallo lucido si sporse a esaminarle. Costui scambiò alcune osservazioni con un altro individuo che si trovava al suolo, ai piedi dell'albero, poi un grosso naso apparve tra le sbarre del cancello. «Avvicinatevi, e fatevi riconoscere!» Le ragazze si fecero di nuovo avanti. Ci furono altri scambi di parole. La sentinella sull'albero domandò: «Ne sei sicuro?» E quello al suolo grugnì qualcosa d'incomprensibile. «Siete eldritch wight?» le interrogò Naso Grosso, sbirciando tra le sbarre. «No. Siamo di razza mortale.» «Tutte e tre?» «Sì.» Ci furono tonfi e clangori, un laborioso scorrere di catenacci, catene e chiavistelli che venivano manovrati per l'intera larghezza del cancello. Tuttavia ad aprirsi con un ultimo rumoroso cigolio fu solo una porticina in una delle ante. Ne sbucò fuori la testa di Naso Grosso, il quale, dopo aver scrutato le ragazze ancora da capo a piedi, abbassò il mento in direzione di una sua spalla, gesto che esse interpretarono come il permesso di entrare.
«Guardiamo di muoverci, allora», grugnì l'uomo. «Non posso lasciare aperto tutta la notte.» Chinando la testa sotto il basso architrave, le visitatrici entrarono. Naso Grosso si affrettò a chiudere la porticina dietro di loro, senza risparmio di clangori metallici. Nel frattempo Elmo Lucido si era calato giù dall'albero e guardava le nuove venute senza celare il suo immenso stupore. Entrambi i guardiani del cancello indossavano aderenti tuniche grigie strette alla vita da un cinturone, calzoni ficcati negli stivali e mantelline con cappucci in rete di talium non dissimili dai comuni taltry. Su questi indumenti portavano delle mezze armature: bracciali rinforzati di cuoio, con paragomiti e spalline in ferro. Uno aveva un giustacuore di piastre metalliche, l'altro una cotta di maglia di fattura antica. I loro capelli erano lunghi e sciolti, castani. Entrambi impugnavano robuste alabarde e avevano larghi spadoni e coltelli ricurvi appesi alla cintura. Il loro stemma, esibito in mezzo al petto, era un medaglione raffigurante un albero spinoso. Alle loro spalle, a circa quaranta passi di distanza dal cancello, c'era una taverna coperta di edera; era da li che proveniva un brusio di conversazioni. Dai vetri piombati delle finestre filtrava una luce gialla. L'insegna sulla porta recava dipinta l'immagine di un albero dai rami neri e spinosi e la scritta Taverna del Thorn. I guardiani stavano fissando Tahquil a bocca aperta. Lei si agitò a disagio sotto i loro sguardi, finché uno dei due non diede di gomito all'altro ed entrambi si ricomposero. Gettarono una breve occhiata alle due compagne della donna, ma subito tornarono su di lei come aghi di bussola attratti da una calamita. Elmo Lucido si schiarì la gola. «Be', che io sia dannato!» esclamò, grattandosi un orecchio. «Mai vista una roba simile. Tre damigelle che viaggiano a piedi nell'entroterra, tutte sole... c'è da non crederci. Suppongo che abbiate sentito il suono del Corno della Foresta.» «Sarete venute per la Scarrozzata, eh?» ipotizzò Naso Grosso. «E per la Fioritura del Thorn, domattina, col Rogo del Barcaiolo. Penso che una nave vi abbia sbarcate sulla strada costiera. Resterete qui anche per le altre feste dell'estate?» «Purtroppo no», rispose Tahquil, senza smentire le sue supposizioni. «Siamo in viaggio e dobbiamo proseguire.»
Elmo Lucido si batté un dito sul naso e annuì con aria saputa, come uno così addentro nella faccenda da non aver bisogno di fare altre domande. Tahquil pensò che non avesse la minima idea del perché tre ragazze sole viaggiassero «nell'entroterra», ma che supponesse che tutti gli altri lo sapessero, e non volesse rivelare la sua ignoranza. «Ci sono stanze libere alla taverna?» domandò. «Ma certamente, signora!» Elmo Lucido le precedette di corsa, per essere il primo ad annunciare l'arrivo degli stranieri. Naso Grosso chiudeva stolidamente la fila, con l'aria dell'anziano reduce di molte campagne belliche che non vuole permettere a visitatori inaspettati d'interferire col dovere. «Il Rogo del Barcaiolo?» sussurrò innervosita Caitri all'orecchio di Tahquil. «Possibile che questa gente sia così barbara?» «Voglio sperare di no», replicò lei. «Suppongo che sia solo il nome di un'antica usanza.» L'animazione sollevata dalla notizia data da Elmo Lucido si placò all'istante quando Tahquil e le sue compagne entrarono nella taverna. Avevano un aspetto sporco e malandato, sia per la deliberata esigenza di travestirsi sia per le traversie del viaggio. Dinanzi a loro, la sala si presentava come congelata: bevitori col boccale a mezz'aria, gente seduta, sul punto di sedersi o in piedi, clienti nell'atto di voltarsi, bocche aperte, occhi spalancati. Tahquil desiderò di non essere entrata in quel posto. «Che vi prende, ragazzi? Non avete mai visto una signora?» L'uomo che aveva parlato, un individuo abbronzato dal piglio deciso, si guardò intorno coi pollici infilati nella cintura. In contrasto coi capelli bruni e riccioluti degli avventori, i suoi erano lisci e grigi, striati d'argento, come se fosse precocemente incanutito, perché la sua faccia era quella di un uomo sui ventotto inverni. Ridacchiando, ma imbarazzati, i clienti immersero il naso nei loro boccali. La taverna tornò a riempirsi del mormorio di chiacchiere. Nessuno tuttavia cessò di scrutare le tre ragazze con lunghi sguardi inquieti e diffidenti, come aveva pronosticato l'urisk. L'uomo dai capelli grigi le salutò, affabile. «Benvenute e buon divertimento ad Appleton Thorn, sul Fiordo di Vetro Grigio. Io sono Arrowsmith, Borgomastro e Lord dei Cento. Volete cenare, questa sera?» «Questo è il nostro desiderio, signore. Molte grazie.» Mentre Arrowsmith ordinava che portassero da mangiare e da bere, fu
liberato un tavolo per le nuove arrivate. Dopo essersi cautamente presentate come «signora Mellyn», «signora Wellesley» e «signora Lendoon», sedettero, innervosite da quell'eccesso di attenzione. In breve, quasi ogni avventore aveva trovato una scusa per fermarsi vicino al loro tavolo. Naso Grosso, dimentico dei suoi compiti di guardiano, stava dichiarando in tono autoritario: «Sono venute per la Scarrozzata e la Fioritura del Thorn. Hanno seguito la strada costiera, dopo esser state sbarcate da una nave». Tutti fecero commenti. «Non vediamo molte navi da queste parti... ne ricordo solo due o tre all'anno, ultimamente.» «E dopo la tempesta, quando il cielo diventò nero per diversi giorni e arrivarono quelle terribili ondate che si abbatterono sulla scogliera come mai era successo prima... be', da allora qui non è approdata una sola nave.» «Dateci qualche notizia... Cos'è successo nel resto del mondo?» «L'isola reale di Tamhania è stata distrutta dalle forze unseelie», spiegò Tahquil. «L'esplosione del suo vulcano ha originato la grande tempesta di cui parlate. Nel frattempo le armate del Re si ammassano nell'oriente. A nord ci sono stati disordini e scaramucce, ma ancora nessuna grande battaglia, a quanto noi abbiamo saputo.» Quando la moglie del taverniere mise i piatti sul tavolo, i clienti si erano ormai affollati strettamente intorno a esso. Arrowsmith li fece allontanare con gesti impazienti. «Lasciate che le nostre ospiti cenino in pace, gente. Dategli lo spazio per alzare i gomiti! Tu, Wimblesworthy, e tu, Ironmonger, non eravate di guardia al Cancello Occidentale stanotte? Affrettatevi a tornare al vostro posto. Bowyer, vieni qui davanti al caminetto e facci sentire una canzone.» Con aria un po' abbacchiata, Elmo Lucido e Naso Grosso uscirono dal locale. Lusingato nel sentirsi chiamare a intrattenere gli ospiti, Bowyer montò su uno sgabello a tre gambe, si riassettò la blusa, aspettò che le conversazioni si smorzassero e iniziò a cantare: Tutti tacevano a Rocca Montana, quando il cantore cominciò la storia. Mentre fuori nel freddo solo il vento urlava i suoi lamenti nella sera. Narrò il cantore della Grande Strada che percorreva le Terre Conosciute, serpeggiando tra le foreste e i mari,
oltre l'Anello di Pietra e più lontano. Su per i passi dei monti rocciosi, sugli altipiani e i burroni dirupati, e il ponte in ferro che traversa il fuoco. Ma chi viaggiava sulla lunga strada, con in mano la lampada e il bastone? Era Jack il soldato, che cercava l'antica Porta della Terra Perduta. In tasca tre monete, un corvo in spalla, la spada del rivale appesa al fianco, mentre il Vento del Sud aspro soffiava. Quando giunse alla fine della strada, già era scoccata l'Undicesima ora. Nel cielo scuro la tempesta infuriava laggiù sui merli della Torre Nera. «Chi sei, uomo», gli gridò il Guardiano, «tu che bussi di notte alla mia porta? Sappi che, se hai osato alzar la mano, il tuo destino è scritto ormai per certo.» Ma Jack il soldato sguainò la spada, facendo balenar la runa incisa. Subito si placò allora la tempesta e tra le nubi luccicò una stella. Quando Bowyer finì, tutti applaudirono e chiesero un'altra canzone. Le parole «cercava l'antica Porta della Terra Perduta» avevano allarmato Tahquil, ma in quella taverna rumorosa non c'era modo di soppesarle meglio. Bowyer era già a metà della sua seconda esibizione, che la porta si spalancò con fragore. Wimblesworthy corse dentro e con aria spaventata chiese che qualcuno gli desse un arco. «Per tirare a uno shock, che si è appollaiato sul Cancello Occidentale!» «Uno shock, hai detto?» gridarono i clienti della taverna. «Ecco cosa succede, quando lasci il cancello senza sorveglianza!» Tutti corsero fuori della Taverna del Thorn, seguendo Wimblesworthy fino al cancello. Spinta dalla curiosità anche Tahquil andò con loro, affiancata da Arrowsmith.
Una creatura con la testa di asino e una pelliccia liscia come il velluto si era arrampicata sull'architrave di legno che sormontava il cancello. Il suo pelame nero si confondeva con lo sfondo notturno della collina, più indietro. Gli uomini alzarono le torce che avevano acceso al caminetto prima di uscire e si fermarono in semicerchio a pochi passi di distanza dall'intruso. «Che cos'è uno shock, di preciso?» domandò Bowyer, accigliato, fissando l'apparizione. Nessuno lo sapeva. Poterono dirgli solo che gli animali come quello venivano chiamati shock. «Perché non usi il tuo coltello?» suggerì un ometto. «Provaci tu con il coltello!» replicò Wimblesworthy, piccato. «Se hai il coraggio di avvicinarti!» «Sei proprio un bamboccio, Wimblesworthy», commentò un cliente della taverna, che aveva portato il boccale con sé e stava continuando a bere. «Ti fai mettere paura da un pollo. Arrowsmith, a cosa ci serve avere un guardiano che se la fa addosso?» «Te lo faccio vedere io, se sono un bamboccio», grugnì Wimblesworthy. «Adesso farò fuori quell'affare e lo porterò su un tavolo della taverna per aprirgli le budella. Così vedrai che uno shock non è un pollo.» «Dai, allora. Forza, Wimblesworthy», lo incoraggiarono tutti. «Acchiappalo!» Reso baldanzoso dagli incitamenti dei compaesani, il guardiano si fece avanti. Mentre però si accingeva ad attaccare l'animale, questi protese all'improvviso il collo, gli morse una mano e sparì nel buio. Wimblesworthy muggì di dolore e si piegò, stringendosi la mano al petto. I suoi amici corsero ad aiutarlo, lo sorressero e lo riportarono nella taverna. Arrowsmith ordinò che la guardia al cancello fosse sostituita e raddoppiata. Pian piano tutti gli altri se ne tornarono alla Taverna del Thorn. «Che notte!» commentò Ironmonger meravigliato, scuotendo la testa. «Prima le straniere, poi uno shock. Mai visto niente di simile. Cos'altro succederà, adesso?» «Cosa vuoi che succeda?» sbottò Arrowsmith. «A ogni modo, poiché la prudenza non è mai troppa, sarà meglio che queste tre damigelle trascorrano la notte come mie ospiti, in una casa ben protetta. Le mie buone sorelle provvederanno alle loro comodità. Voi che ne dite, signora Mellyn?» Tahquil notò che alcuni degli uomini si davano di gomito. «Non sarebbe opportuno», si schermì. «Vi ringrazio, signore.» «Opportuno? Io sono pronto a dormire nella stalla, se state pensando alla
vostra reputazione. Dividerete la casa con le mie sorelle, e nessun altro.» «Fuorché, naturalmente, domani notte», osservò uno dei presenti in tono ammiccante. Arrowsmith esitò, come colpito da un pensiero improvviso. «Già, domani notte. Be', faremo di necessità virtù. Insisto che voi accettiate la mia offerta di ospitalità... Dopotutto, questo vi consentirà di risparmiare denaro.» Tahquil fu colta da un pensiero. Quanto denaro avevano lei e le sue compagne? Erano in grado di pagare il cibo mangiato quella sera? «Be', signore, se per le vostre sorelle non sarà un disturbo...» «Nessun disturbo, naturalmente!» rise il padrone del villaggio. «E ora, preleveremo le vostre due amiche dalla taverna, e vi scorterò subito alla mia dimora!» Nella Taverna del Thorn, l'uomo ferito sedeva con la mano in un catino di birra, mentre la moglie del locandiere gli asciugava la fronte. «Vediamo cosa si può fare», disse la donna. Coraggiosamente, l'uomo sollevò l'arto morsicato. La birra mista a sangue gli colò lungo la manica, decorandola a motivi quasi floreali. «Ah, guardate che roba!» esclamarono alcuni clienti. «Si porterà sul pollice la cicatrice di quel morso per il resto della vita, non c'è dubbio.» Venire a sapere che sarebbe sopravvissuto fu un balsamo; l'eroe riprese colore in faccia e riuscì a esibire un sorriso annacquato. «Chi è il bamboccio adesso, eh, Cooper?» Poco dopo, le tre ragazze stavano uscendo dalla taverna in compagnia di Arrowsmith e parecchi altri, quando uno dei guardiani appena montati di servizio venne loro incontro con aria perplessa. «Arrowsmith, al Cancello Occidentale c'è Finoderee», riferì. «Dice che ha fatto un lavoro per queste signore qui.» «È una notte movimentata, questa.» Il padrone del villaggio si rivolse alle sue protette. «È possibile che quell'individuo dica il vero?» «Sì», rispose Tahquil. «È possibile.» Tornarono di nuovo al Cancello Occidentale. Finoderee sollevò l'oggetto infangato e gocciolante stretto in una delle sue mani robuste, e lo porse loro attraverso le sbarre. «Ce l'ho fatta!» annunciò, trionfante. «Perde soltanto qualche goccia. Ho dovuto prima ficcare l'argilla nei buchi. Questa tazza aveva bisogno di essere riparata.»
Viviana si affrettò a recuperare la tazza-filtro d'argento. «Non rovesciare l'acqua», la avvertì il wight. «Ben fatto», lo lodò Tahquil. «Ora abbiamo tutto ciò che ci serve. Buonanotte.» Finoderee non si mosse. Restò dov'era e guardò Caitri, annuendo compiaciuto. «Avete incaricato Finoderee di portarvi dell'acqua dentro una tazzafiltro?» chiese Arrowsmith. «È lo scherzo migliore che io abbia sentito, dopo quello dell'albero di pepe dato in affitto!» «Salve, Mastro Arrowsmith», disse Finoderee. «Stanotte andrò a falciare il tuo campo, quello tra gli ontani.» «Bene. Non so come potrei fare senza il tuo aiuto», replicò Arrowsmith. «Io sono il lavoratore più volonteroso che tu abbia mai visto, non è così?» domandò Finoderee. «Senza dubbio», annuì il padrone. «Be', ora sarà meglio che tu vada in quel prato. È già notte da un pezzo, e non manca molto al canto del gallo.» «Io non do ascolto al canto del gallo. Ammucchierò la paglia fino al tramonto della luna o della stella del mattino, e non m'importa dei versi che fanno i pennuti dentro i pollai.» «Finoderee è meraviglioso, nessun dubbio su questo», lo elogiarono gli uomini. Soddisfatto, il robusto wight trotterellò via. Dopo gli animati avvenimenti di quel pomeriggio, le tre viaggiatrici poterono trascorrere una notte di riposo nella casa di Arrowsmith, un edificio in quercia dal tetto di paglia molto inclinato, con mura laterali basse e finestre a due luci. Le giovani sorelle del loro ospite, Betony e Sorrel, le accolsero come lui aveva garantito; l'uomo aveva mandato ad avvertirle in anticipo, e quelle avevano incaricato una serva di preparare i letti. Arrowsmith mantenne la promessa e andò a dormire nella stalla. Come sempre, il langothe non rese facile a Tahquil abbandonarsi al sonno. Distesa sul letto, con lo sguardo rivolto alla finestra, la vista del cielo notturno illuminato dalla luna le ricordò il colore degli occhi di Thorn. Il mattino dopo, svegliarsi su un materasso di piuma d'oca, fare il bagno nell'acqua calda e vedersi servito vino di primule, pane tostato, pesce affumicato e uova di papera - bollite con una manciata di fiori di ginestra per ingiallirle - fu un tale sollievo, che Viviana e Caitri supplicarono Tahquil di considerare l'idea di restare al villaggio per un giorno o due. Anche i
loro ospiti insistettero affinché le ragazze partecipassero alle prossime celebrazioni annuali. Sotto quelle pressioni Tahquil cedette, pur se ciò la rese più ansiosa e il langothe richiese il suo prezzo. Nel suo cuore, l'ultima Porta di Faêrie la chiamava con forza. Anche il pensiero di quello che stava accadendo più a oriente la stimolava a proseguire, perché desiderava più di ogni altra cosa che Thorn fosse vivo. Pregava che non restasse vittima degli insidiosi incantesimi dei wight unseelie, il cui bersaglio privilegiato era senza dubbio il capo dei loro nemici. Tahquil continuava a immaginarlo come doveva apparire sul campo di battaglia: il Re-Imperatore James XVI, in sella al suo destriero da guerra, Hrimscathr, con al fianco la spada Arcturus e i ricami dorati del mantello che brillavano al sole. Era così che lei lo vedeva, scintillante nella sua armatura d'acciaio dagli snodi intarsiati sulle spalle, ai gomiti, ai polsi e alle articolazioni delle dita. Sul suo pettorale ruggiva il leone dei D'Armancourt: un grande felino d'oro, ornato da un'antica corona. Il suo elmo era sormontato da un cimiero di piume di airone fissate in una base d'oro. Dietro il guardanaso si scorgevano gli zigomi alti, il mento forte e gli occhi acuti come pugnali. Forse avrebbe sorriso ai suoi capitani, e piccole rughe gli sarebbero apparse ai lati della bocca. Gli uomini dell'Attriod Reale nel loro splendore piumato lo circondavano, in uno scintillio di pettorali decorati, bracciali e schinieri, elmi dalla celata alzata. E tutto intorno vi erano gli alfieri con gli stendardi, i trombettieri, le Legioni di Eldaraigne e i battaglioni venuti da ogni regione di Erith coi loro vessilli, in una selva di lance e di alabarde. Il Re-Imperatore volgeva lo sguardo sull'ampia pianura che si estendeva fino al mare e sul suo gioiello strategico, gelosamente sorvegliato: il Ponte di Terra di Nenian. E tutti erano in attesa dell'attacco delle orde di Namarre. Molto tempo addietro, nel Tiriendor, in quelli che ora le sembravano giorni felici, Thorn le aveva parlato di Namarre: «I Dainnan sono ovunque. Alcuni si sono perfino addentrati nella Namarre in esplorazione, per raccogliere tutte le informazioni possibili in merito a questo Condottiero che si dice sia apparso tra i briganti namarrani e che pare abbia il potere di unire le diverse fazioni di fuoricasta e fuorilegge. Si ritiene che sia un Mago di grande potere... Qualcuno afferma che ha attirato a sé perfino le creature soprannaturali, promettendo loro grandi ricompense, come la possibilità di distruggere e depredare tutta l'umanità. Se le cose stanno così, però, quell'uomo è un misero illuso, perché le creature unseelie gli si
rivolteranno contro con la stessa rapidità con cui aggrediranno il resto della razza umana.» «Mai prima d'ora, nel corso della storia, un uomo si è alleato con gli unseelie», aveva osservato Diarmid in tono grave. «Mai», aveva confermato Thorn. Tahquil-Ashalind ripensava a quelle parole, e una fredda paura la attanagliò. «È lui», sussurrò. «Deve essere Morragan colui che si è alleato agli unseelie e ai briganti secessionisti di Namarre, contro di noi. Che speranza hanno tutte le nostre armate contro il terribile potere di un Principe faêran? Santo cielo! Soltanto io posso liberare Erith dal Corvo.» Si domandò quante spie di quel Principe si aggiravano tra i mortali, e se qualcuna di loro fosse lì ad Appleton Thorn. Ciò la fece fremere dal desiderio di partire immediatamente, ma ormai aveva dato la sua parola che sarebbero rimaste. Quel giorno, l'ultimo della primavera, le tre ragazze furono condotte a visitare ogni angolo del villaggio appollaiato sulle rupi a strapiombo sul lungo e freddo braccio di mare. S'incamminarono tra le case dai tetti di paglia, i cui giardini brulicavano di fiori: fiorranci e guanti di volpe, viole del pensiero e melifagi rampicanti. I ragazzini fischiavano ritornelli con pifferi di spinamorta e canne cipressine, succhiavano il nettare dei fiori e giocavano a Gallo Guerriero, tirando di scherma coi ramoscelli di platano. Sulle verande immerse nella luce solare color zafferano, le donne anziane intrecciavano panieri di giunchi, e gli uomini fabbricavano corde con l'erba marram. Le visitatrici aggirarono lo stagno in cui nuotavano le anatre e andarono sull'errechd. L'errechd era il luogo in cui si tenevano le pubbliche riunioni, nella piazza quadrata del villaggio; lì campeggiava solitario il Nobile Thorn, coi suoi lunghi rami coperti di licheni. L'antico albero sembrava piegarsi sotto il peso delle conoscenze accumulate nei secoli, e le estremità dei rami spinosi quasi toccavano il prato. Su di essi si potevano vedere piccole foglie nuove, fresche e verdi. Più tardi, le visitatrici furono condotte giù lungo una delle vertiginose scale scavate nella roccia, fino a un'insenatura dov'erano ormeggiate piccole barche. Le onde scure creavano pallide cascate sulla scogliera, e nel cielo color cenere stridevano i gabbiani. Nove fragili imbarcazioni, di pelli incatramate tese su un telaio di cipresso, galleggiavano poco più al largo. Su ciascuna di esse vi era un uo-
mo fornito di falce col manico lungo cinque braccia. I lavoranti immergevano le falci nell'acqua e tagliavano i gambi delle alghe sul fondale, quindi le tiravano a bordo servendosi di un rastrello. Altri, a riva, raccoglievano una diversa varietà di alghe che cresceva sugli scogli lasciati scoperti dalla bassa marea. Alcuni asini andavano su e giù per le scale, carichi di ceste piene di alghe colorate, mitili, datteri, ricci di mare e patelle. Più lontano, verso il centro del fiordo, altre barche da pesca ondeggiavano come foglie sul mare grigio. «Il fiordo è calmo, per la maggior parte dei giorni», osservò il capo dei pescatori, «ma Annie Gentile infesta questa zona della costa e può essere infida. Da nord e da est siamo ben protetti, però capita che Annie mandi una burrasca improvvisa che spacca le barche sugli scogli. La sorella di Annie, Annis Nera, ci spia dall'alto di Colle Creech, dalle ombre del Khazathdaur, ma ci aggredisce solo quando ha molta fame.» «Avete qualcuno che vi protegga, un Mago?» domandò Viviana. «Abbiamo un Dyn-Cynnil esperto di wight. Il suo nome è Webweaver... noi lo chiamiamo Spider.» Durante la passeggiata a cavallo sui pascoli delle pecore, si fermarono a controllare il lavoro fatto quella notte da Finoderee. Oltre che da Arrowsmith, erano accompagnate dal capo dei marinai, dal sovrintendente, dal capo delle guardie e dal giudice, che avevano insistito per unirsi alla comitiva. Sui bordi del sentiero fiorivano le margherite, le campanule, le bocche di leone e gli ametisti; grappoli di giacinti facevano capolino tra le erbe. Vi erano diverse mucche al pascolo, sotto i peri selvatici gremiti di foglie gialle. I cirri spettinati dal vento dividevano il cielo con stormi di ibis, e gli aironi planavano lenti sulle paludi. I campi di orzo sembravano cosparsi di polvere di smeraldo. Un mulino ad acqua cigolava sulla riva del Churrachan, mentre i suoi pesanti erpici stritolavano cespugli di ginestre per farne biada per i cavalli. Più a monte, lungo lo stesso torrente, vi era un mulino per il grano, ben recintato e con un robusto magazzino di pietra. Dalle paludi provenivano il gracidio delle rane e il fitto ronzare degli insetti. Vi erano delle donne, laggiù, che raccoglievano giunchi per fabbricare candele. Un lungo prato appariva falciato di fresco. L'erba era stata lasciata lì a essiccare al sole. «Ha avuto troppa fretta di finire», obiettò Cooper, il capo delle guardie. «Non ha tagliato abbastanza vicino al suolo. Così c'è troppo spreco di fie-
no.» «No», rise Arrowsmith. «Sei troppo pignolo. Per me può andare bene così.» «Tu dici? Guarda come sono lunghi i gambi che spuntano dalle zolle. Tu favorisci quel wight come nessun altro farebbe.» «Io lo favorisco né più né meno di quanto favorirei un mortale.» Fu allora che Tahquil notò un lampo negli occhi di Arrowsmith, uno sguardo inatteso che non era del tutto umano. «Possibile che Finoderee sia riuscito a mietere l'intero campo nel breve spazio di una notte?» domandò allora, per stemperare lo strano antagonismo che sembrava emerso tra il padrone e il capo delle guardie. «Sicuro, l'ha fatto», confermò Cooper. «È un bravo lavoratore, finché lo si tiene sotto controllo.» Il sovrintendente aggiunse: «Quando lavora, si muove con un vigore che fa pensare a una tromba d'aria. La sua falce va tanto veloce che l'occhio umano non la può seguire, e l'erba vola così alta da nascondere il sole! E dovreste vederlo quando trebbia!» «Porta asini carichi di pietre e di alghe per tutto il territorio come un piccolo gigante», aggiunse il giudice. «E quando porta il gregge al pascolo, a volte nel suo entusiasmo riunisce gli stambecchi, i gatti selvatici e le lepri, insieme con le pecore.» «Peccato per quella storia della vacca rossa di Dan Broome», commentò Caitri. «Dan Broome? E chi sarebbe?» si stupirono gli uomini. «Non ci sono Broome ad Appleton Thorn da almeno ottant'anni», disse il giudice. Per l'intera gita, la gente aveva accolto le visitatrici offrendo loro piccoli oggetti di artigianato e dolciumi di produzione locale, finché quelle non si erano convinte che Appleton Thorn doveva essere uno dei posti migliori di Erith. Ma il cuore di Tahquil non cessava di tormentarsi; ogni tanto l'angoscia la induceva a spostare lo sguardo sull'orizzonte, a nord. Arrowsmith, che si era mostrato ospitale e prodigo di gentilezze, non mancò di accorgersene. Mentre tornavano dai campi, l'uomo frenò il cavallo, facendolo accostare a quello di Tahquil. «Voi e le vostre compagne non potrete restare mie ospiti, questa notte», disse, in tono di scusa. «Da anni ormai la mia casa viene infestata da una
misteriosa creatura, durante la Scarrozzata. Ho giurato che stanotte l'aspetterò con un tilhal e una scure, e cercherò di liberarmene una volta per tutte.» «Un wight, volete dire? E di che genere?» «Costui è un maestro degli incantesimi. Tra quanti lo guardano, non ce ne sono due che vedono la stessa cosa. C'è chi vede un grosso mucchio di gelatina simile a una medusa e chi una forma umanoide senza testa. A me appare come un animale privo di gambe.» «È pericoloso?» Arrowsmith scrollò le spalle. «Meglio essere prudenti. Ho preso accordi perché voi, le mie sorelle e la serva siate alloggiate in casa dei miei vicini. Stanotte veglierà da solo.» Quella sera il Trombettiere del villaggio sollevò sull'elegante cavalletto il Corno della Foresta, intarsiato d'oro e curvo come una falce, e lo suonò tre volte. Così faceva ogni sera quando tramontava il sole, come voleva la tradizione. «Serve per indicare la direzione a chi si fosse perduto nella foresta», spiegarono alcuni abitanti. «È un'usanza dei vecchi tempi, quando la gente ancora si recava tra gli alberi, prima che questa regione si riempisse di wight unseelie. Ora nessuno va laggiù. Nessuno ha più bisogno del Corno della Foresta, in realtà, ma è una delle leggi del villaggio che non ci siamo mai preoccupati di cancellare. Se le cose funzionano bene, perché cambiarle?» Quando il sole tramontò dietro le colline, Finoderee fece la sua comparsa al Cancello Occidentale. «Fatelo entrare», ordinò Arrowsmith, in quel momento assai occupato coi preparativi delle cerimonie tradizionali. Ghirlande di fiorranci e foglie di betulla venivano appese in tutto il villaggio, mentre fuori delle porte s'inchiodavano mazzolini di bocche di leone e di boccioli di salice chiamati «colli d'oca», che non potevano essere portati all'interno delle case perché attiravano la malasorte. Cooper scortò Finoderee alla presenza del Borgomastro e Lord dei Cento. «Devo mietere qualcos'altro, stanotte?» domandò Finoderee. «Il campo rotondo, sotto Colle Bonfire?» «Sì, ma che stavolta il lavoro sia fatto bene», rispose Arrowsmith. «Se vuoi farlo, accertati di farlo come si deve. Tu non tagli i gambi abbastanza
vicino al suolo.» «Non abbastanza vicino?» gli fece eco il wight. «Proprio così. La stoppia è troppo lunga.» «Troppo lunga?» ripeté ancora il wight. «Galan Arrowsmith, questo è il sangue mortale che suona nelle tue orecchie. Il retaggio di Siune è così lontano?» «Vai per i fatti tuoi. Stasera sono molto occupato e non ho tempo per le chiacchiere.» Finoderee si allontanò di qualche passo. Poi si fermò. Il suo petto parve gonfiarsi. «Troppo lunga? Te lo farò vedere io se è troppo lunga!» gridò. «Finoderee è un bravo mietitore. Io aro, semino, raccolgo e falcio. Io zappo e rastrello e trasporto, io costruisco staccionate. Io posso pulire una stalla in un'ora e non chiedo nulla di più di una pignatta di stufato quando ho finito. Io non mieterò un palmo di quel campo, se tu non mieterai accanto a me, Arrowsmith. Io farò dieci volte più lavoro di te, e ti farò vedere io se la stoppia è troppo lunga.» «Io ho bisogno che quel campo sia mietuto, ma questa notte ho altro da fare!» Finoderee non si mosse. «E va bene», disse Arrowsmith, esasperato. «Vediamoci all'uhta. Questo ti lascia abbastanza tempo?» «È abbastanza tempo per Finoderee.» «Bene. Ora vai.» «E un'altra cosa, Arrowsmith. Dov'è la mia pignatta di stufato per ieri notte?» «Wainwright te la darà, prima che tu esca.» «Non avevo mai sentito di un villaggio dove si tratta così liberamente coi wight», si meravigliò Caitri, mentre Finoderee s'incamminava verso la taverna scortato da Fletcher. «Qui parlate con loro e trattate con loro come se fossero gente lorraly!» «Appleton Thorn è diverso», tagliò corto Arrowsmith. Una figura senza faccia girava per tutto il villaggio sopra una portantina piatta detta «Scarrozza», sostenuta da due robusti Scarrozzatori. L'individuo si fermò a tutte le case per farsi consegnare qualche moneta, fiori e generi alimentari, dopodiché fece ritorno alla taverna, dove i regali furono divisi tra lui e i due aiutanti. La folla di bambini che lì aveva seguiti nel giro, cantando filastrocche infantili, non ottenne neppure le briciole.
L'enigmatica Scarrozzata era una delle molte piccole cerimonie tradizionali del luogo. Le sue origini erano state dimenticate da lungo tempo, e così il suo significato. Lo Scarrozzato prescelto si vestiva con un abito vecchio coperto di fogliecolla, così fitte che non restava in vista neppure un pezzetto di tessuto. Indossava una maschera di fogliacolla, un cappello coperto di fiori, e prendeva due aste, una per mano. Alle aste, anch'esse decorate con fiori, erano fissate due bandiere: lo stendardo reale di Eldaraigne e il vessillo imperiale. Per quanto poco comprensibile, la cerimonia fu molto allegra e divertì Caitri e Viviana, le quali dichiararono che avrebbe dovuto essere introdotta a Corte. Poi, per i bambini, giunse l'ora di andare a letto. Molti uomini si trasferirono nella taverna per festeggiare e bere birra, ma Arrowsmith non era tra loro. Sedeva in casa sua, da solo, e attendeva. Il villaggio risuonava senza alcun suono. Era un'emanazione eldritch di silenzio, sotto la soglia uditiva dell'orecchio umano. Nella casa accanto, appartenente a un'anziana donna, Tahquil giocherellava con un bastone di legno contorto come una molla, che Arrowsmith le aveva regalato prima di augurarle la buonanotte. Era stato solo allora che lei aveva notato le sue mani: la pelle era ruvida, e tra le dita vi era una sottile membrana traslucida. Le due sorelle, Betony e Sorrel, non avevano mangiato niente per cena. Sedevano con la loro vicina di casa ed esibivano la massima tranquillità. Stavano insegnando a Tahquil e alle sue compagne l'uso di alcune piante locali. «Sì, è naturale, anche voi sapete che non si deve raccogliere la genziana rossa», disse saggiamente Sorrel. «Se la mettete in un vaso, attira il fulmine.» «Ci sono anche altre piante che attirano il fulmine», intervenne la vecchia Hazel, le cui mani erano occupate a rammendare. «Gli anemoni, il finocchio selvatico e i nasturzi, che alcuni chiamano fiori del fulmine.» «A ogni modo, potete proteggere la vostra casa con la limoncella, l'aglio e la verbena», rivelò Sorrel. «E l'iperico», aggiunse sua sorella. Si mordicchiò un labbro e gettò uno sguardo verso la finestra. «E questo a cosa serve?» domandò Tahquil, alzando il bastoncino contorto. Le due sorelle si scambiarono un'occhiata. «È un viticcio di vite rampi-
cante», rispose Sorrel. «La vite rampicante si torce a spirale intorno a ogni sostegno, quand'è verde. Poi, quando il sostegno viene rimosso, il viticcio conserva quella forma per sempre.» «Ma per cosa lo si adopera?» «È soltanto un incantesimo portafortuna.» «Un incantesimo d'amore», mormorò Caitri. Fuori si stava alzando il vento. Qualcosa cadde con un tonfo, o forse era una porta che sbatteva. Nella stalla, un cavallo nitrì e diede un calcio alla parete. Le due sorelle s'irrigidirono, girandosi in direzione della casa dove il loro fratello aspettava, da solo. «Chi è questa creatura che vi disturba ogni anno?» chiese Caitri. «Come fa a entrare oltre la Barriera?» «Ahimè, non lo sappiamo», rispose Sorrel. «Galan pensa che voli nell'aria e scenda giù per il camino, o forse sale da sotto la pietra del focolare, usandola come una botola. È stata vista correre come un cane, e volare più veloce di un'aquila.» «E cosa intende fare?» «Non sappiamo neppure questo. Ci ha proibito di vegliare con lui. Non posso sopportare il pensiero di ciò che potrebbe succedere... Vi prego, continuiamo a conversare. È l'unico modo per distrarre la nostra mente!» Nel silenzio della sua casa vuota, Galan Arrowsmith aspettava su una sedia, con un'accetta sulle ginocchia e un tilhal di legno di frassino in una mano. Sul tavolo erano accese alcune candele di sego, ciascuna con la punta gialla e acuminata come la spina di una ginestra. Nel camino era acceso il fuoco, e il vento scendeva giù per la cappa sollevando vampate di scintille dai ceppi. Era ormai notte fonda quando si udì un pesante tonfo, come se qualcuno avesse lasciato cadere la carcassa di un animale sul pavimento. Arrowsmith alzò lo sguardo. «Il mirtillo ha molti pregi», stava dicendo Betony nella casa accanto, a voce un po' troppo alta. «Ma, di tutte le piante non coltivate negli orti, l'agrifoglio è la mia preferita, con le sue bacche rosse come la passione e le foglie verdi che parlano di freschezza e primavera. I suoi rami spinosi danno asilo e cibo a piccoli uccelli di ogni specie, cosicché i cespugli di agrifoglio sono sempre pieni di cinguettii. Anche nell'inverno hanno una loro
bellezza, quando si stagliano neri contro il cielo grigio.» «Tuttavia le sue spine possono essere crudeli», puntualizzò Sorrel, dopo un rapido sguardo alla finestra. «E, naturalmente, tenerne i fiori in casa porta sfortuna.» «Lo stesso si può dire per il giglio di terra e per tutti i fiori bianchi», le avvertì Betony. «Ah, ma nessuno di essi è pericoloso come il biancospino», intervenne Hazel. «Non negherò che le sue spine siano spietate», riprese Betony, «ma soltanto per gli sciocchi o gli ignoranti che le avvicinano senza precauzioni. In quanto a portarne i fiori in casa... perché uno dovrebbe strappare tale bellezza e vederla appassire, se essa può mostrarsi a lungo nel suo fulgore quando cresce forte e sana sulla pianta, baciata dal sole e dalla pioggia? Si dice che, di tutti i fiori bianchi, il più amato dai faêran fosse il biancospino, e che perciò essi maledicessero chi ne spezzava i rami e li portava nel chiuso delle case.» «Si dice che tutti i cespugli spinosi fossero sotto la protezione dei Fatati», spiegò Hazel. «Alcuni affermano che quella protezione è valida ancora oggi. Quand'ero ragazza, ogni spina che crescesse da sola in un prato era chiamata Spina Faêrie. Oggi la gente dice che non è saggio tagliare quei cespugli. Abbattere un albero dei faêran conduce alla morte e alla follia...» S'interruppe. All'esterno si udivano grida e rumori. Le cinque ragazze e l'anziana vedova si affrettarono a uscire di casa. Un uomo attraversò di corsa l'errechd, gridando: «Venite a vedere! Venite a vedere! Laggiù sulla Strada Occidentale, sulla cima delle colline!» Un gruppo di persone si diresse al Cancello Occidentale, spalancato, dove i guardiani stavano ancora discutendo animatamente di ciò che il Borgomastro inseguiva quand'era uscito di corsa poco prima. Le ragazze presero i mantelli e si avviarono da quella parte; varcarono la Barriera e salirono lungo il pendio. Quando furono in vista del mare, il vento salmastro le investì con forza. C'era burrasca, e gli schizzi arrivavano fin lassù. Le ondate aggredivano la scogliera ribollendo nelle insenature; più al largo galleggiavano strisce di schiuma gialla. Nell'interno, le rocce delle colline, cosparse di minute gocce d'acqua portate dal vento, brillavano come tenebrosi gioielli nella luce zodiacale. Sulla dorsale dell'altura, la creatura era stata raggiunta da Arrowsmith e giaceva al suolo, con l'accetta conficcata addosso. A Tahquil parve un sac-
co di lana bianca. «Non abbiate paura», le disse Arrowsmith, posandole una delle sue rudi mani su una spalla. «È venuto in casa mia. Gli ho dato la caccia, col tilhal in una mano e l'accetta nell'altra. Allora è fuggito e ha preso il sentiero su per la collina, ma io la inseguivo dappresso. Mentre stava per scendere dall'altra parte e buttarsi in mare, ho detto una Parola e ho scagliato l'accetta, che l'ha colpito in pieno.» «Dov'è Spider?» stavano gridando gli abitanti del villaggio. «Chiamate Spider!» Venne fuori che Spider aveva esagerato con le libagioni, dopo la Scarrozzata di quella sera, e dormiva profondamente a casa sua. Fermi a quella che consideravano una distanza di sicurezza, gli intervenuti scrutarono la strana creatura che giaceva in cima alla collina. Non si muoveva. Non vi era modo di capire se fosse viva o morta. Non era neppure possibile sapere quale fosse il suo vero aspetto, perché ogni persona vedeva qualcosa di diverso. «Sarà meglio seppellirla», suggerì uno dei presenti, così un paio di ragazzi corsero a cercare dei badili. Gli uomini gettarono palate di terra sopra la creatura, ricoprendola con un tumulo non troppo alto; poi continuarono a scavare finché non ebbero fatto una profonda buca circolare, affinché nessuno, uomo o bestia, potesse avvicinarsi alla pericolosa creatura e disturbarla. A parte quei pochi volontari, nessun altro abitante del villaggio osò accostarsi tanto. Restarono tra i cespugli, col vento che scuoteva i loro mantelli. Quando l'eccitazione si fu smorzata, e cominciarono a rendersi conto di essere in una zona pericolosa fuori della Barriera, si affrettarono a tornare alle loro case, dando pacche sulla schiena ad Arrowsmith per congratularsi dell'impresa. «Io resterò da solo in casa mia fino a domattina», disse l'uomo. «Per ogni eventualità.» Si volse a Tahquil «Avete sentito il vento lassù, signora Mellyn? Sembrava una voce umana che chiamasse un nome.» «Ho sentito il vento, signore», rispose lei, allontanandosi in mezzo alle altre donne. «Buonanotte, signora Mellyn.» «Buonanotte.» L'uhta svegliò Tahquil da un sogno tormentoso; col ritorno della lucidi-
tà, si accorse che qualcosa la preoccupava. L'alba era ancora lontana. La vista di Caitri e Viviana, sul letto, le ricordò che stava per accadere un altro evento drammatico. Il vento era calato. Tutto taceva. A destarla era stato il rumore di zoccoli sul selciato. Andò alla finestra e vide che Arrowsmith usciva dalla stalla col suo cavallo e saliva in sella; Finoderee aveva preteso che mietesse il campo con lui. Lo strano wight era irritato, e l'urisk aveva detto che poteva essere pericoloso. Anche Betony e Sorrel si erano svegliate. «Volete venire con noi?» proposero. «Gli uomini porteranno Spider sulla collina, dov'è sepolta quella strana creatura. Lui saprà cosa fare. Noi ne approfitteremo per bagnarci la faccia con la rugiada: se una donna fa questo prima dell'alba, nel primo giorno di Uainemis, si assicura una carnagione perfetta. Spariscono anche le lentiggini.» «Verremo con voi.» Tahquil e le due compagne si vestirono in fretta e si gettarono i mantelli sulle spalle. Davanti alla casa, sull'errechd, molte figure grigie si erano già riunite nell'oscurità. Le loro torce bruciavano allegramente, ma non vi era allegria sulle loro facce. Qualcosa aleggiava nel freddo, nel buio, nel silenzio dell'aria prelucana, che poteva immalinconire anche i più spensierati reduci da una notte di bagordi alla taverna. Spider era in ritardo. Tirarlo giù dal letto non era stato facile. Le donne del villaggio sfruttarono quella pausa per bagnarsi la faccia con la rugiada depositata sulle foglie dell'edera rampicante e dei biancospini. «La rugiada di biancospino ti porterà un marito entro la fine dell'anno», si sussurravano le ragazze nubili, ridacchiando. Il magro e anziano Dyn-Cynnil arrivò sbadigliando, e le tre visitatrici si unirono alla processione che uscì dal Cancello Occidentale. Alla luce delle torce, sotto il cielo stellato, la gente risalì lungo il sentiero, conversando sottovoce, finché non giunse sulla collina. Il tumulo era ancora lì, al centro della fossa circolare, col manico della scure che sporgeva dalla cima. Lì la processione si fermò e attese in semicerchio, alle spalle di Spider. Quest'ultimo aveva assunto un'aria solenne. Guardò il mucchio di terriccio. Dietro di esso si estendeva l'immensità del mare, ancor più torbido e cupo del solito. A quell'altezza continuava a soffiare il vento, e il lento sventolare dei mantelli della gente era l'unico movimento sulla dorsale dell'altura. «Devo dare un'occhiata a quella creatura», dichiarò Spider.
Qualcuno gli consegnò un badile. Lui oltrepassò la fossa con un balzo e cominciò a spalare via il terriccio. Aveva affondato il badile nel tumulo per la settima volta quando una luce sepolcrale lo illuminò, e gli spettatori indietreggiarono tra gemiti e grida di spavento. Poi una fitta nebbia uscì dal nulla, avvolgendo Spider in una nuvola grigia. Attraverso quella foschia la gente poté vedere vagamente qualcosa che si tirava fuori dal mucchio di terra. Subito dopo, la creatura rotolò giù per il versante della collina e precipitò in mare, scomparendo sotto l'inquieta superficie ondosa. Esclamazioni sbalordite e domande risuonarono nel buio, ma una sola cosa sembrava certa: la creatura era scomparsa. La nebbia si diradò e fu spazzata via dal vento. Appoggiato al badile, Spider guardava lontano, nel fiordo. «Era solo una foca, o forse un'otaria», sussurrò qualcuno. Gravemente il Dyn-Cynnil scosse il capo. «Gli eldritch wight che abitano nell'aria, sulla terra e nell'acqua sono più numerosi e diversi di quanto potremo mai sapere. Chi siamo noi per pretendere di capirli, o anche solo di vederli bene? Meglio lasciare questo ai Maghi più potenti, o a coloro che hanno la Vista.» Tutti si voltarono e tornarono alle loro case, scuotendo il capo al pensiero di quanto fosse strano il mondo. Sopra le colline, nell'entroterra, il primo grigiore dell'alba schiariva il cielo. Mentre le ragazze rientravano, tre cavalieri sopraggiunsero al trotto dal Cancello Occidentale. Arrowsmith, il giudice e il sovrintendente smontarono di sella. Sui calzoni di Arrowsmith spiccavano delle lunghe strisce umide, rosse come il vino. La sua gamba sinistra era bagnata di sangue. L'uomo rifiutò con un gesto l'aiuto dei compagni e zoppicò verso la porta di casa. Le sue sorelle si precipitarono verso di lui, gemendo. Una volta dentro, le due donne lo fecero sedere con la gamba su uno sgabello, e cominciarono a medicarlo. «Quel miserabile si è dimostrato un vero incosciente!» imprecò Arrowsmith. «Mentre io mietevo mi veniva dietro, aggredendo le radici con tale ferocia che a un certo punto la sua falce mi ha colpito. Le mie gambe avrebbero potuto essere staccate dal corpo, se non mi fossi scostato in tutta fretta. Gli ho detto che dopo avermi ferito in questo modo non avrebbe mai più lavorato per me. Ma lui ha replicato che invece l'avrebbe fatto, e subito è andato a prendere il mio gregge per portarlo al pascolo su Colle Bonfire. Lo abbiamo seguito, ma nel suo zelo vendicativo ha portato le pecore
troppo vicino al burrone, e alcune sono precipitate in mare. Ora chiamerò tutti gli uomini del villaggio, e lo scacceremo dalla nostra terra!» «Temo che con l'uso della forza non riuscirete a liberarvi di lui», osservò Tahquil. «Già, può essere», borbottò cupamente Arrowsmith. Nella luce mielata del mattino, gli abitanti del villaggio si recarono a rendere omaggio al Nobile Thorn. Lo ripulirono e lo adornarono con nastri e fiori. Tre ragazze arrivarono a cavallo di altrettanti montoni e danzarono intorno all'albero, mentre tutti cantavano in coro la Canzone della Fioritura. Poi vi fu un picnic sul prato verde dell'errechd, e si tennero alcune rudimentali gare sportive. Dieci cavalieri in splendidi costumi sopraggiunsero dal Cancello Occidentale per l'annuale Cavalcata Territoriale. L'ispezione dei confini dei pascoli e dei campi comuni all'esterno della Barriera aveva un lato pericoloso, perché si doveva passare sotto le fronde del Khazathdaur, ma tutto andò bene. La Cavalcata era condotta da un giovane scelto per svolgere il ruolo di Trombettiere, che portava la bandiera del villaggio; al rientro in paese dei cavalieri, costui guidò la Carica del Trombettiere inseguendo vittoriosamente un immaginario esercito nemico fino in piazza. Verso sera, quando il sole stava per tramontare, i responsabili della sorveglianza e della difesa di Appleton Thorn fecero il giro delle case per ricevere una moneta da ogni capofamiglia e - secondo quanto prescriveva la tradizione - per riscuotere un bacio da ogni donna che incontravano per strada. I guardiani, il capo dei guardiani, il giudice, il sovrintendente, il custode delle chiavi, il capo dei marinai e il Borgomastro intrapresero quella missione con grande impegno. Erano accompagnati dal Pagliaccio Testadizucca, vestito con una sgargiante tunica e mascherato con una zucca vuota, che distribuiva fette di zucca fritta, condita con miele e spezie, ai capifamiglia che sborsavano la moneta e alle femmine che avevano doverosamente pagato la loro gabella. «Che vergogna! Non hanno nessun pudore!» commentò Caitri, guardando le donne che fra strilli e risatine fingevano di sfuggire alle brame degli allegri esattori. «Tu sei troppo giovane per tutto ciò», la ammonì Viviana, osservando la scena attraverso la lente di vetro appesa alla sua castellana e pizzicandosi le guance per renderle più rosse. «Oh, non temere. Non mi lascerò baciare da quei cialtroni!»
«Io non rifiuterei un bacio di Mastro Arrowsmith», confessò Viviana, che da brava popolana sapeva godersi quelle feste un po' scollacciate. «E il giovane capo delle guardie... ha due spalle che non posso definire odiose.» «Be', io mi chiuderò in casa», decise Caitri. «E quelli là non mi troveranno!» «Lo stesso farò io», disse Tahquil. «Ne ho fin sopra i capelli di queste celebrazioni.» Il langothe affondava in lei i suoi artigli, ogni ora più profondamente. Il lontano mormorio di conversazioni e di risate grattava alle imposte della finestra del primo piano, quando nell'errechd ormai deserto suonò il Corno della Foresta. Le imposte si spalancarono; mettendo per prima oltre il davanzale la gamba ferita, Arrowsmith entrò nella stanza. «Non volevo che gli uomini venissero a disturbarvi», disse. «Ho ordinato alle mie sorelle di chiudere la casa e tenersi la chiave. La scala municipale è mia.» Guardando Tahquil, che sedeva tranquilla accanto a Cartai, zoppicò avanti. «Avete leggi ben strane, qui», commentò Tahquil. «A ogni modo, se siete venuto a reclamare il bacio, io non posso oppormi.» Per un poco l'uomo restò in silenzio. Poi le consegnò una ciotola ornata di nastrini, in cui vi era una fetta di zucca al miele. «Voi non siete del villaggio, signora Mellyn. Non ci dovete niente.» Tahquil accettò il dono. Mentre Arrowsmith si voltava per tornare alla finestra, Caitri lo raggiunse, si alzò in punta di piedi e lo baciò su una guancia velata di barba non rasa. Lui mormorò qualcosa, poi sollevò goffamente una gamba sopra il davanzale. Prima di scendere, esitò ancora un momento. Si voltò verso Tahquil. «Resterete fino alla Festa dei Polli? Potreste ricoprire il ruolo di Regina delle Ghirlande.» «No», rispose Tahquil. «Non posso restare.» Spostò lo sguardo oltre le spalle dell'uomo, come mettendo a fuoco qualcosa di troppo lontano perché lui potesse vederlo. «Ho capito», disse Arrowsmith. Spostò entrambi i piedi sulla scala a pioli e sparì alla vista. Le campanelle echeggiavano per tutto Appleton Thorn, come se un gregge di capre scorrazzasse nel villaggio. Le stradicciole erano il regno della notte. Un cranio di cavallo che apriva e chiudeva la bocca bussava di casa in
casa, chiedendo una manciata di fagioli secchi. La sua intimazione era accompagnata da un terribile clicchettio di denti. I ragazzini lo seguivano a distanza di sicurezza; immune dalla paura, un grosso individuo vestito da donna affiancava lo spettro equino, reggendo il sacco dei fagioli. «Ehi, Sally!» gridò uno dei ragazzini. L'uomo-donna mandò un ruggito e li inseguì, tallonato dall'individuo nascosto sotto una coperta che reggeva il cranio legato a un bastone, il quale non smise di tirare la corda che faceva aprire e chiudere la bocca. Quella era la notte del Rogo del Barcaiolo, ma il Cavallo Incappucciato era una delle varie tradizioni che dovevano precederlo. All'altro capo del villaggio, una strana figura vestita da marinaio fu portata fuori di una casa. Era piuttosto informe, e le sue braccia pendevano flosce sulle spalle dei due volonterosi che la sostenevano. Il suo corpo, più grosso di quello di un uomo, era imbottito di stracci e paglia saturi di trementina e olio di balena; la testa era quella di un orribile spaventapasseri, con due candele accese al posto degli occhi. Dietro di esso una folla si riunì e si mise in marcia. Il pupazzo fu scortato lungo la strada principale, con brevi soste dinanzi alle abitazioni dei più anziani e stimati abitanti del villaggio. Ogni volta i suoi portatori cantarono in coro, su un'unica nota ma con buon effetto: A Pikehall su nel crepaccio si ridusse ahimè uno straccio. Sul Churrachan nella valle si spaccò entrambe le spalle. Di Grassrill alla cascata la sua gamba fu slogata. Sulla Strada Occidentale ruzzolò e si fece male. Giù nel mare cadde a mollo e si ruppe testa e collo. Or gli diamo sepoltura per sventar la sua iattura. A quel punto anche la folla si univa al coro, ripetendo in un boato di voci l'ultima strofa; quindi tutti buttavano giù un sorso di birra dalle giare che portavano con sé, e riprendevano il cammino fino alla tappa successiva. D'un tratto, il Cavallo Incappucciato e Sally col Sacco incrociarono i
percorsi, e vi fu una certa confusione quando i due gruppi si scontrarono. Tahquil e Viviana, cui erano state consegnate due torce accese, si trovarono prese nella ressa. Continuando a cantare in coro e a suonare le campanelle, gli abitanti del villaggio uscirono dal Cancello Occidentale e proseguirono aggirando il punto dove la creatura era stata sepolta la notte prima. Mentre il Cavallo Incappucciato continuava a distribuire morsi alla gente, e l'uomo mascherato da donna allungava sberle ai ragazzini che lo deridevano, tutti scesero in riva al mare. E lì, su una spiaggetta sassosa, tutte le torce furono spente e il Barcaiolo incontrò il suo destino. Gli piantarono un coltello nel petto e lo distesero in una canoa, prima che le candele accese al posto degli occhi cominciassero ad appiccargli il fuoco alla testa. Poi la canoa fu spinta nelle buie acque del fiordo. Mentre il Barcaiolo bruciava, la gente cantò in coro, non filastrocche tradizionali ma canzoni di vario genere. Il fantoccio ardeva gettando riflessi dorati nella corrente che lo portava via. In poco tempo fu lontano dalla riva e rimpicciolì sempre più, ma il rogo prese energia e si alzò verso il cielo come uno sfolgorante fiore di luce, che in quel momento eclissava luna e stelle. Gli spettatori rimasero lì a lungo, sfogandosi nel mescolare voci chiare e roche, acute e basse, tenorili e da soprano. Alla fine il Barcaiolo fu solo una scintilla in un abisso nero. Poi la canoa affondò, il vento portò fino a riva un ultimo refolo di fumo maleodorante, e tutto finì. I fatti all'origine di quella cerimonia erano stati dimenticati da tempo. L'unica torcia rimasta accesa ridiede vita alle altre, e la processione, ora guidata dal Cavallo Incappucciato, risalì su per la scogliera e fece ritorno al villaggio. Le campanelle tacevano, la gente si disperdeva. Cooper era rimasto in fondo alla fila; gli altri avevano appena oltrepassato il Cancello, quando lo sentirono gridare e, voltandosi, videro che indicava una figura distesa ai margini della strada. L'uomo unì le mani a coppa intorno alla bocca. «Qui c'è un ferito!» chiamò. «Venite ad aiutarmi!» Prima che gli altri avessero il tempo di muoversi nella sua direzione, la figura balzò in piedi e crebbe fino alla soprannaturale altezza di dieci braccia. Come una torre su due gambe, prese a inseguire Cooper verso l'ingresso della Barriera. Gridando come un invasato, col mantello svolazzante, l'uomo si precipitò dentro rotolando, mentre con fretta disperata i guardiani chiudevano il Cancello. La figura, che era di nuovo rimpicciolita, mandò una risata selvaggia e si allontanò.
«Il bullbeggar!» gemette la gente. «Il bullbeggar di Colle Creech!» Cooper giaceva bocconi, con la faccia nella polvere, e mugolava smarrito. I suoi amici lo aiutarono a rialzarsi. «Coraggio, Cooper», lo confortarono. «Non c'è niente che una buona pinta di birra non possa rimettere a posto.» Tutti ripararono nella Taverna del Thorn, ma tra loro serpeggiava un inatteso disagio. «Una notte la creatura, il bullbeggar la notte dopo», borbottò uno di loro. «Per non parlare dello shock. Ora dobbiamo senza dubbio aspettarci Annis Nera; sentiremo il rumore dei suoi denti e dei suoi artigli di metallo sulle finestre, quando verrà a rubare i nostri bambini. E allora come li difenderemo?» Qualcuno ricominciò a gettare sguardi inquieti in direzione delle straniere. Nonostante quell'atmosfera tesa, la loro permanenza ad Appleton Thorn si prolungò. Ogni giorno emergeva un motivo nuovo per rimandare la partenza. Tuttavia, benché la maggior parte degli abitanti del villaggio le invitasse a restare e cercasse di convincerle che quella stagione era pericolosa per i viaggi, c'era chi sussurrava che le tre damigelle, le quali viaggiavano da sole in modo così sconsiderato, si erano tirate dietro delle creature sgradevoli, e che prolungando la loro visita avrebbero potuto attrarre qualche minaccia eldritch sulla comunità. Circolavano anche interrogativi su dove stessero andando e perché, e con quali mezzi contassero di viaggiare. Timorose di divulgare notizie che sarebbero servite a eventuali spie, le straniere rispondevano con la sola bugia che avesse un minimo di plausibilità: erano state sbarcate da una nave mercantile all'estremità del fiordo, facendo poi l'ultimo tratto di strada a piedi per assistere alle famose celebrazioni di Appleton Thorn. Intendevano quindi far visita ad alcuni amici nel nord, in una località costiera che contavano di raggiungere nei primi giorni di Grianmis. «Perché non vi siete fatte accompagnare? Tre fanciulle, da sole: non è cosa ben fatta. O avete con voi una qualche protezione speciale?» «L'abbiamo», risposero. Ma non vollero rivelarne la natura. «Ma perché andate a nord? E dove, di preciso?» Arrowsmith le difese contro quell'interrogatorio. «Non occupatevi degli affari delle nostre ospiti. Le costringerete a pensare che siamo dei maleducati». Ma l'unico effetto fu quello di stimolare la curiosità degli abitanti del vil-
laggio, che, privi di fatti, cominciarono a inventare ipotesi. Dal giorno del suo alterco con Arrowsmith, Finoderee si stava rivelando sempre più pernicioso. Usava la sua straordinaria forza per portare alle estreme conseguenze ogni lavoro che la gente osasse affidargli, e il risultato era la perdita di capi di bestiame, la rottura di utensili e attrezzature, la rovina dei terreni produttivi. Continuava a opprimere Arrowsmith col suo eccesso di zelo. «Sta diventando unseelie», si lamentarono gli uomini e le donne di Appleton Thorn. «Si è corrotto. Bisogna fare qualcosa.» Una sera, nel mezzo di Uainemis, il mese verde, dopo che Finoderee ebbe gettato via tutto il fieno tagliato su Colle Bonfire sparpagliandolo in lungo e in largo, Tahquil domandò: «Mastro Arrowsmith, cosa intendete fare con Finoderee?» «Questa stessa sera ci riuniremo», rispose lui a voce bassa. «Il wight è diventato unseelie. Si è messo su una brutta strada, e non possiamo più permettergli di restare sulle nostre terre. Chissà quali altri danni sta facendo, proprio mentre noi siamo qui a parlare.» «Si trova in questa zona da molti anni, vero? Non è vecchio quanto le vostre usanze, o ancor di più?» «Useremo il ferro freddo», continuò lui, senza badare a quella domanda. «Falci e forconi, alabarde e buone spade di Eldaraigne. Spider verrà con noi. E io ho una Parola. Una Parola di gramarye.» «I vostri uomini ne soffriranno gravi conseguenze. Finoderee è forte. Ho sentito dire che una volta sollevò un blocco di pietra che tutti gli uomini del villaggio insieme non erano riusciti a spostare. Volete soltanto vendicarvi di lui, o desiderate sinceramente proteggere la vostra comunità?» «Il desiderio di vendetta è forte. Ma il bene del villaggio ha la precedenza, finché sono io al comando.» «Allora vi prego di fare una cosa.» «E di cosa si tratta, signora Mellyn?» «Una volta... mi sembra sia passata un'eternità, io mi offersi di pagarlo, e lui disse: 'Ahimè, povero Finoderee, non mandatelo via, lui vuole soltanto aiutare!' Dategli un cambio d'abiti, buoni indumenti fatti su misura. Lui veste di stracci come un bruney domestico, e se viene pagato potrebbe andarsene. Del resto, dopo aver lavorato con tanta diligenza per questo villaggio, non siete del parere che meriti una buona ricompensa?» Arrowsmith alzò lo sguardo al cielo. Il vento portava fin lì il rumore del-
le onde all'imboccatura del fiordo, e come già altre volte sembrava che lui se ne nutrisse. Poi riabbassò gli occhi. «C'è del buonsenso in ciò che dite, e io non sono un ingrato. Va bene, ci proverò. Ma, se non se ne andrà, dovremo mandarlo via con la forza, o ucciderlo.» All'uhta gli uomini si riunirono al Cancello Orientale. Portavano l'elmo e un assortimento di armature di vario genere. Le loro picche, le alabarde e i forconi erano una foresta di punte. «Aprite il Cancello», ordinò Arrowsmith. «Sissignore», grugnì Cooper. «Forza, ragazzi, aprite... che Arrowsmith possa andare a mietere con Finoderee. Tutto quello che c'è rimasto sono le stoppie. Vuol dire che le falceranno di nuovo, all'altezza del terreno.» Il Cancello fu aperto. Fuori era già in attesa Finoderee, con un gran sorriso sulla faccia. «Non ci sono altri campi da mietere», gli disse Arrowsmith. «Né fieno da raccogliere.» «Ma c'è un campo di orzo», sorrise Finoderee. «L'orzo è appena spuntato. È troppo presto per mieterlo.» «Meglio troppo presto che troppo tardi», ribatté il wight, che evidentemente voleva l'ultima parola. Arrowsmith si fece avanti e gli porse un fagotto. «Prendi questi abiti, Finoderee. Tu hai lavorato molto e duramente per Appleton Thorn. Meriti una ricompensa.» La faccia di Finoderee cambiò subito, trasformandosi in una maschera di sorpresa e delusione. Esitante, quasi con timore, prese il fagotto e lo aprì. Svolse ogni articolo ripiegato che conteneva, e lo sollevò per esaminarlo da una parte e dall'altra. «Un berretto per la testa», disse. «Ahimè, povera testa! Una giubba per le spalle, ahimè, povere spalle! Braghe per le gambe... ahimè, povere gambe! Se tutto questo sarà tuo, tuo non potrà essere Ishkiliath.» Il muscoloso wight si tolse di dosso i suoi vecchi stracci, spogliandosi nudo lì davanti al Cancello. Indossò gli abiti nuovi, volse le spalle e s'incamminò verso la foresta a lunghi passi, cantando a squarciagola: Non è stato ben falciato! Ora sì, sono arrabbiato! Tutto il fieno ho sparpagliato!
Tutti i campi ho calpestato! Quando fu in cima alla collina sparì alla vista, ma la sua voce si udì ancora per un pezzo, sempre più fioca e lontana... Non andrò mai più a falciare con la luna alta sul mare. Non andrò mai più ad arare, alla notte, per sudare. Non andrò mai più a trebbiare, per sentirmi maltrattare. Finoderee si lasciò alle spalle il Fiordo di Vetro Grigio, con l'aria di chi se ne va per sempre. Gli uomini tornarono alle loro case, si tolsero la ferraglia di dosso e deposero le armi; sui campi e sui pascoli avrebbero dovuto lavorare duramente con le loro mani, senza più nessun aiuto. Tahquil e le sorelle di Arrowsmith videro il padrone di casa arrivare vacillando per la stanchezza, entrare nella stalla e gettarsi lungo disteso sulla paglia. Attesero di sentirlo russare, e poi chiusero la finestra. «Voi non resterete per la Pesatura del Lord dei Cento e la Corsa della Torta, la prossima luna?» domandò Betony. Tahquil scosse il capo. «Il Borgomastro e Lord dei Cento è sempre stato un Arrowsmith», intervenne Sorrel. «Tuttavia non è un titolo ereditario, bensì elettivo, per ballottaggio segreto. Appleton Thorn ha prosperato sotto la guida e la sorveglianza dei nostri antenati. Lo stesso Nobile Thorn ne ha tratto giovamento, vivendo molto più a lungo di qualsiasi altro albero. Qui noi viviamo in isolamento, senza l'aiuto del resto del mondo. Dicono che se gli Arrowsmith se ne andassero, anche la fortuna del villaggio se ne andrebbe, e il Nobile Thorn morirebbe.» «Una mera superstizione, senza dubbio.» «La gente dice che voi avete gettato un incantesimo su nostro fratello», continuò Betony. «E in verità lui era un uomo più felice, prima di vedervi.» «Questo non è certo colpa mia.» «Lui potrebbe essere sposato, oggi, se avesse voluto. A tutte le ragazze piacerebbe sposare il figlio di una silkie. Voi non l'avete visto nuotare nel fiordo, rapido e forte come una foca? Nessun uomo sa prendere i pesci con
le mani e nuotare così veloce, oltre le scogliere e l'imboccatura del fiordo, dove giocano le foche.» «C'è del potere in lui», disse Sorrel. «E ha la Parola. Gliela insegnò sua madre, ma lei non era nostra madre... nostro padre si risposò, dopo la morte della prima moglie. A volte, di notte, Galan si affaccia alla finestra e ascolta l'acqua che mormora nel fiordo. Vorrebbe andare via, nel mare aperto, ma ha detto che resterà se potrà prendere in sposa una donna di terra. Se non sarà così, la terraferma non lo tratterrà ancora a lungo. Nessuna, qui, gli piace abbastanza... non che lui sia di gusti difficili, ma, avendo il sangue che ha, cerca in una sposa qualità diverse da quelle comuni.» «Volete che io prenda i guai del vostro villaggio sulle mie spalle?» esclamò Tahquil, irritata. «Io non ho mai incoraggiato vostro fratello. Non gioco coi sentimenti degli uomini.» «Voi avete tenuto il ramoscello di vite rampicante...» «Si tratta di un gesto significativo? Non conosco le vostre usanze. È lì sopra, riprendetevelo.» Le due sorelle la guardarono tristemente. «Vi prego di non darmi colpe!» disse Tahquil. «Vi darò tre ragioni. La prima è questa: com'è stato dimostrato innumerevoli volte da fatti accaduti, tutte le relazioni sentimentali tra mortali e immortali sono finite in tragedia. Dov'è oggi la sua madre silkie? E dov'è il vostro padre mortale? Non credo di sbagliare dicendo che l'una nuota lontano nel freddo oceano, mentre l'altro giace in una tomba.» «Ah... però resta aperta una questione. Il sangue di nostro fratello sta dalla parte dei silkie oppure degli umani? È mortale, o no? Ma proseguite pure, se così volete.» «La seconda è che il mio cuore è già impegnato. Io amo un altro, e lo amerò finché avrò vita. È stato lui a darmi l'anello che ho al dito. La terza: anche se non fosse così, non posso sposare Galan, perché non c'è un vero amore tra noi. Io lo rispetto e lo ammiro, e lui forse pensa che io sia attraente... Questo è tutto.» Sorrel rigirò il ramoscello di vite rampicante tra le dita. «Allora voi partirete.» «Oggi stesso.» Sorrel gettò il ramoscello a spirale nel fuoco, dove arse di germogli gialli in un'improvvisa, divorante primavera. Tahquil e le sue compagne lasciarono il villaggio dal Cancello Orientale,
a cavallo, insieme con Arrowsmith. Le sorelle dell'uomo e la maggior parte dei loro compaesani vollero accompagnarli per un tratto di strada, chi a piedi, chi a dorso di asino. Lentamente si avviarono tra i campi di orzo e i pascoli dove Finoderee aveva manovrato la falce, e oltre le paludi e la grotta dove il wight non dormiva più durante il giorno. Guadarono il torrente Grassrill e passarono sul ponte di pietra presso il mulino delle ginestre. Attraversarono la piana costiera lungo le acque grigie e spumeggianti del fiordo, dove bianchi uccelli marini lottavano col vento salmastro dell'ovest. Giunti all'estremità settentrionale delle terre di proprietà comune, Arrowsmith e le tre viaggiatrici si accomiatarono dai loro accompagnatori. Lui aveva giurato che le avrebbe portate in salvo fin dagli amici che le aspettavano a nord, e nulla aveva potuto dissuaderlo. Le sue sorelle lo abbracciarono piangendo. Gli uomini gli strinsero la mano e le donne gli rivolsero un inchino. Le tre viaggiatrici e il loro accompagnatore volsero i cavalli verso nord. Mentre si allontanavano, dietro di loro un coro intonò un canto: Soffia il vento tra i rami del cipresso, la gazza chiurla salutando l'alba. Gorgoglia il Churrachan sotto il mulino, dove i colli son verdi e d'oro è il grano. Nella palude tra l'acqua scura e fonda, gracchian le rane e cacciano gli aironi. Nasturzi e gigli, e bocche di leone, crescono sotto i salici e gli ontani. Il vento che dal mar gonfia le vele spinge le barche al fiordo ogni mattina, quando immerge la rete il pescatore, e con la lunga falce miete l'alga. Noi viviamo all'aperto sotto il sole, lungi dall'ombra, fuori della foresta, dove vagano i wight all'uomo ostili, e dai campi scacciamo ogni periglio.
Così, se ora avessi di un passero le ali, più non vorrei star qui, solo e lontano, e volerei sul Fiordo di Vetro Grigio dove io nacqui, e che mi resta in cuore. Là nel profumo del cedro e dell'avena, toseremo le pecore, e poi, in compagnia seduti nella taverna, ogni boccale alzeremo a brindare: Appleton Thorn! Poco prima di arrivare sulla dorsale della collina, i quattro viaggiatori si voltarono a guardare indietro. Le figurette degli abitanti del villaggio erano ancora là, minuscole nella vallata, sotto il cielo immenso. Ma la loro canzone giungeva chiara nella brezza, e ogni mano era alzata in uno sventolio di saturi. 3 LALLILLIR LA TERRA DELL'ACQUA CORRENTE
A Lallillir ascoltai l'acque cadenti nei più segreti luoghi ove il silenzio nutriva umide felci. E la voce dell'acqua che scendeva tra le rocce muschiose nella polla limpida mi chiamò. Dalla raccolta Poesie del Nord Tahquil si annodò una sciarpa sulla parte inferiore del viso non appena la gente del villaggio non fu più in vista. Prima di partire aveva messo anche un paio di guanti, perché l'anello-foglia non tradisse la sua identità ai wight che li avessero visti passare. Il suo vestito, lo sdrucito abito da viaggio trovato nella casupola del pescatore, era intriso di olio di lavanda, dono di Betony e Sorrel. L'intensità di quei fumi le dava alla testa. Nessun wight
avrebbe certo riconosciuto il suo odore, così mescolato a quella densa fragranza... o era gia troppo tardi per espedienti di quel genere? Durante il soggiorno al villaggio, lei aveva involontariamente allentato la vigilanza. Dopo una riflessione decise di togliersi la sciarpa. Andando in giro mascherata avrebbe soltanto rischiato di attirare sospetti. L'inevitabile polvere del viaggio era già una protezione sufficiente. I cavalli erano un comodo mezzo di trasporto. Tre appartenevano ad Arrowsmith e alle sue sorelle, e il quarto era stato prestato loro dal capo dei pescatori. I cavalli rappresentavano un bene prezioso, e prestarli ad altri era un gesto generoso; Tahquil e le sue compagne provavano molta gratitudine per chi le stava aiutando. Uno dei motivi per cui Arrowsmith le accompagnava era la necessità di riportare gli animali ad Appleton Thorn dopo che loro fossero giunte a destinazione. Il Borgomastro avrebbe potuto essere una protezione gradita per le tre ragazze, ma era un personaggio troppo noto in quella regione. La notizia che era partito con delle giovani viaggiatrici straniere non sarebbe sfuggita a wight in cerca d'informazioni da portare al loro signore. La presenza di Arrowsmith rischiava di rivelarsi controproducente. «Le vostre sorelle si sono sciolte in lacrime nel vedervi partire», gli disse Tahquil, quando i loro cavalli si affiancarono. «Eppure voi progettate di essere di ritorno entro due o tre giorni... un tempo troppo breve per giustificare tanta emozione. Devono amarvi molto.» Ma tornerà a casa sua, quando si accorgerà che noi non abbiamo protettori né amici, né alcun mezzo di trasporto per il resto del nostro viaggio? «Alle mie sorelle, e a tutti gli altri, ho detto che sarei tornato entro un paio di giorni, oppure tornerà il mio cavallo senza di me», precisò Arrowsmith. «E se troveranno legata alla sella una manciata di alghe, sapranno dove sono andato.» L'uomo fece avvicinare di più il cavallo, e guardò la giovane donna negli occhi. «Non temete», disse. «Le mie sorelle mi hanno parlato. Dall'anello che avete al dito so che siete legata a un altro. Non vi disturberò con un corteggiamento non gradito.» Strinse i talloni sui fianchi della sua cavalcatura e si portò in testa alla fila. Tahquil si era accorta di quanto gli fossero costate quelle parole, e la compassione le diede una stretta al cuore. Anche solo per quello, in un'altra situazione, avrebbe potuto amarlo.
La pista diretta a nord che stavano seguendo era un'antica strada tagliata sui fianchi delle colline, detta la Via Lunga. Salendo di quota, attraversava una terra di maestose vallate facilmente percorribili, dai rilievi arrotondati e senza alture superiori ai settecento piedi. Era una regione così aperta e immensa che cielo e terra sembravano due scodelle sistemate l'una sopra l'altra, con l'orizzonte visibile in ogni direzione. Le colline fitte di boschi racchiudevano valli ben irrigate da fiumicelli, dove crescevano le primule, gli occhi d'anatra e le felci a forma di cuore; i rosei guanti di volpe facevano capolino tra le rocce. Un antico monolito scolpito di rune, corroso dal vento e dalla pioggia, si ergeva come una solitaria sentinella dal pietrisco di un lontano pendio. Un falco pellegrino girava in cerchio su una corrente ascensionale, appeso nell'aria luminosa. «Dovremo guadare il corso del Kingsdale e aggirare la Fossa Churnmilk», le informò Arrowsmith. «Poi oltrepasseremo Frostrow e Shaking Moss, e Hollybush Spout.» La Via Lunga si addentrava nei boschi, tra olmi e faggi. I cespugli spinosi, maculati, investiti dalla piena luce del sole, non avevano più molto fogliame. I licheni, le felci e i muschi allignavano sui detriti organici che nei secoli si erano accumulati in ogni posto protetto dal vento. Il sottobosco era ricco di valeriana rosa, saggina e orchidee purpuree. Timidi cervi rossi alzavano la testa nell'udire il rumore degli zoccoli dei cavalli, e sparivano svelti come frecce. I galli cedroni prendevano il volo spaventati, mandando alte strida. I cavalli guadavano senza difficoltà i ruscelli dal fondale roccioso che serpeggiavano argentei nella boscaglia. Uscirono su un territorio aperto e continuarono a salire di quota. A oriente, lunghi banchi di nuvole si aggrappavano alle cime di alte colline rocciose, candide come i capelli degli uomini dei ghiacci. «Laggiù a est, la cascata Ashgill precipita dal burrone della Quercia Spezzata», spiegò Arrowsmith. «In autunno, dopo le piogge, la cascata è molto rumorosa e gli alberi sembrano fusi nel rame. Guardate a nord-est... la rupe di Rookhope, che si alza oltre i colli di Briarwood. Tutte le valli hanno un nome, anche se l'uomo non ha mai abitato qui. Soltanto la strada e la Pietraruna sono state fatte dall'uomo, molto tempo fa. Ma la Via Lunga finisce ai piedi di Monte Mallorstang.» Gli ultimi raggi del sole stavano ormai svanendo nel crepuscolo, e nell'aria dilagava una foschia violacea. Le colline, in distanza, avevano assunto sfumature azzurre e si erano incappucciate di nubi. Sulla forcella di una
betulla argentata, un piccolo gufo era già a caccia di topi e scoiattoli tra le alte erbe; alla vista dei cavalieri volò via, in cerca di un posto più tranquillo. Il sentiero cominciò a salire tra cento curve sul lungo versante settentrionale della valle. Gli alberi si fecero piccoli e stenti, e più avanti scomparvero del tutto. Sulle scarpate, i fiori selvatici erano sopraffatti da ciuffi di un'erba folta. Improvvise raffiche di vento scendevano dai canaloni alluvionali. Al tramonto i quattro avevano quasi raggiunto la sommità di Monte Mallorstang, sul confine del Lallillir. Un albero contorto si levava sullo sfondo di un arco di nubi illuminate dal sole morente; più indietro, nella roccia si aprivano due caverne. Una volpe nera si fermò su un prato coperto di rugiada e fece udire due volte il suo latrato, così diverso da quello di un cane che avrebbe potuto sembrare il grido emesso dalla luna, se la luna avesse avuto una voce. Lì i viaggiatori si fermarono a riposare, e accesero il fuoco dentro una delle caverne, nell'eventualità che più tardi piovesse. Mangiarono un poco delle loro provviste: torta di farina d'orzo, pesce affumicato, formaggio, alghe rosse del fiordo e biscotti salati. Nel buio si udiva lo zirlare acuto degli insetti. Caitri suonò alcune note di una canzoncina sullo zufolo di canna bianca di Viviana, finché Arrowsmifh con un gesto non le intimò di tacere. «Non facciamoci sentire», raccomandò l'uomo. «Da queste parti potrebbero esserci dei wight. Non tutti prediligono restare nelle foreste e lungo la costa, a una quota inferiore.» I cavalli, legati agli arbusti, sembravano sentire l'odore di un pericolo. Si mantenevano tranquilli, ma avevano le orecchie dritte; solo qualche occasionale scalpiccio tra l'erba rivelava la loro presenza. Il cielo continuò a scurirsi e apparvero le prime stelle, così grandi e vicine che Tahquil immaginò di poterle toccare. Una cometa viaggiava sulla sua rotta celeste, con la coda che si allungava per cento milioni di leghe. «Torna indietro», mormorò Arrowsmith. Forse lo stava dicendo alla cometa. In ogni caso, la sua richiesta sarebbe caduta nel vuoto. Tahquil scosse il capo. «Sta per scoppiare una guerra», annunciò. «Io posso fermarla.» Per un momento le parve che lui avrebbe riso, ma non fu così. L'uomo si limitò ad abbassare lo sguardo sulle sue mani, appoggiate in grembo. «Non più di due decadi fa, un ragazzo è morto nella zona del Mallorstang», cominciò a raccontare. «Erano partiti in sette, a cavallo... sono tor-
nati in sei. Voi non sopravvivrete là senza aiuto, per quanto siate capaci e decise, neppure con un anello di gramarye. Il Lallillir è una terra pericolosa. Non sareste arrivate neppure fin qui, se non fosse perché molti wight hanno abbandonato questa regione per trasferirsi a oriente. Mai, a memoria d'uomo, ne erano rimasti così pochi.» «Come avete sospettato, noi abbiamo viaggiato da sole», confessò Tahquil. «L'anello che porto è una protezione sufficiente.» Non fu a causa delle sue parole che Arrowsmith s'immobilizzò. All'improvviso ogni muscolo del suo corpo era teso. Senza guardarsi intorno, raccolse l'ultima fetta di torta d'orzo dalla pietra su cui si stava scaldando, accanto al fuoco, e andò a deporla fuori del circolo di luce. Poi riassunse la posizione di prima. Prendendo esempio da lui, Tahquil e le due compagne continuarono a mangiare come se nulla fosse. «L'anello non è una protezione sufficiente», obiettò Arrowsmith. «Lo dimostra il fatto che voi eravate stanche, sporche e affamate quando arrivaste ad Appleton Thorn. Perché andare così indifese se la vostra missione, come dite, è di tanta importanza per ogni regno?» «Per restare nascoste.» «Da chi?» Tahquil sospirò. «Solo tre persone sanno la verità: le mie due compagne di viaggio e io. Siamo già troppe. La conoscenza stessa può essere pericolosa per chi la possiede.» Lui rise piano. «Pensate che non potrei affrontare un pericolo di cui sanno farsi beffa tre fanciulle? E va bene, se non volete dirmelo, così sia. Vi accompagnerò, nonostante tutto. Nel Lallillir vi servirà più che la semplice forza umana.» «Auch, questa è una verità», assentì una voce blesa. «Questa è proprio una verità, Galan figlio di Siune.» Oltre l'alone di luce del fuoco, colui che aveva parlato si appoggiò all'albero contorto, spazzolandosi via dai fianchi pelosi le briciole della torta d'orzo. I suoi zoccoli caprini erano in equilibrio su radici così annodate tra loro che il terreno sembrava il labirintico disegno decorativo dei bordi di un manoscritto. «Urisk», disse Arrowsmith. «Allora sei tornato?» «Auch, salvo che tu non stia sognando», rispose l'altro, asciutto. «È un piacere rivederti, signore», sorrise Viviana. «Amico urisk!» esclamò Caitri. «Vuoi sederti con noi?» lo invitò Tahquil. «Qui accanto al fuoco?»
«Se non vi disturba che io lo faccia.» Ilwight si avvicinò, e sedette agilmente sui talloni. Il bagliore delle fiamme arrossava i suoi lineamenti: le orecchie appuntite, il naso tozzo, gli occhi a mandorla dalla pupilla verticale che alla luce si restringeva. Aveva un aspetto pulito e dignitoso, nei limiti in cui poteva esserlo una creatura dei boschi o un arbusto segnato dal vento e dalla pioggia. Sembrava restare parte del panorama, dello sfondo sul quale il gruppo di umani si muoveva: anche se era entrato all'interno del cerchio di luce, apparteneva all'esterno. «Sei stato via molto tempo», commentò Arrowsmith. «Auch. Fin da quando i figli del balestriere lasciarono la loro casa sul Churrachan per navigare sul Grande Salato, dove io non potei seguirli.» «Della loro vecchia casa ora non restano che pietre crollate, e l'edera si arrampica sulle rovine.» «La casa che io tenevo pulita per loro, sì. Ma è così che vanno le cose. La foresta si allarga, il villaggio si restringe, e la gente se ne va.» «Tu saresti stato il benvenuto in ogni casa di Appleton Thorn.» «Ora non dirmi che non capisci come funziona la cosa, Galan figlio di Siune», sospirò il wight. «È il posto che conta. Il Churrachan è il mio corso d'acqua. Sta nel mio sangue, ed è troppo duro lasciarlo.» «Ma tu non puoi attraversarlo, vero?» domandò Caitri. «Un wight non può attraversare l'acqua corrente. Come hai fatto a venire da questa parte?» «Ragazza, c'è una quantità di cose che tu non sai, a quanto vedo!» ridacchiò l'urisk. «C'è più di un modo per andare dall'altra parte di un corso d'acqua. Io sono andato su alla sorgente, dove l'acqua esce dalla collina. La barriera più grossa contro i wight è l'acqua che scorre verso sud. Il Churrachan scorre a est, altrimenti neanche il figlio di Siune sarebbe qui, adesso. Non hai visto come il suo cavallo era recalcitrante ad attraversare il Grassrill, e come ha galoppato sopra il ponte del Churrachan? Lui sentiva il flusso della corrente influenzare il suo cavaliere. Ma c'è un'affinità anche qui, con l'acqua, e il sangue mezzo mortale è insensibile. Così tu ci cavalchi sopra, figlio di Siune, e poi ti senti male. È vero?» «Non è niente», si schermì Arrowsmith. «Auch, niente a confronto del Lallillir», confermò l'urisk. «Il Lallillir è la Terra dell'Acqua Corrente.» «Cosa puoi dirci di questa terra?» domandò Tahquil. «Molto», rispose lui, e cominciò a parlarne. L'urisk disse loro che a nord c'erano quattro catene montuose parallele alla costa, tra le quali si stendevano tre valli lunghe e strette. I Monti
Swarth, i più alti e più vicini al mare, fermavano le nuvole cariche di pioggia che rendevano fertili quelle valli: la Valle del Fiume Elfin, la Valle del Fiume Nero e la Valle del Fiume Corvo. Il Fiume Elfin era il più occidentale, scorreva verso nord e al termine delle catene montuose girava a ovest verso il mare, dopo aver ricevuto molti piccoli affluenti dai Monti Swarth e dai Monti Bleak. Anche il fiume della valle centrale, il Fiume Nero, scorreva verso nord e poi piegava a ovest, dopo aver raccolto gli emissari che scendevano dai Monti Bleak e dai Monti Wold; lì confluiva nel Fiume Elfin. Il Fiume Corvo percorreva verso nord la valle omonima, la più orientale, e infine girava anch'esso a ovest, quindi si univa agli altri due fiumi, l'Elfin e il Nero. Ne risultava un fiume molto largo e profondo, che manteneva il nome di Fiume Nero e andava a gettarsi in mare. Il Lallillir era dunque composto dalle tre lunghe valli, chiuse tra le quattro catene montuose parallele, e dai tre fiumi, con la loro miriade di affluenti. Vi si trovavano grandi quantità di argento e di electrum, e molte zone erano letteralmente ricoperte di platino, dove l'acqua che sgorgava dalle montagne portava fuori quel minerale dai giacimenti e lo distribuiva lungo le rocce. Ovunque vi erano nidi di cristalli, gemme e pietre preziose che sbucavano da grotte sotterranee. Le zone più elevate delle montagne erano spoglie e fredde, ma le valli pullulavano di felci e gli alberi erano incrostati di muschio. L'aria era umida, illuminata da arcobaleni creati dalle molte cascate. I wight legati all'acqua vivevano ovunque nel Lallillir, ma quella era una terra fatta per essere abitata, non per essere percorsa, perché essi non potevano lasciare i loro corsi d'acqua troppo a lungo senza cominciare a svanire. E i wight della terra non potevano attraversare le acque correnti del Lallillir, poiché quelle acque erano ostili al loro gramarye. Essi dovevano dunque tenersi sulle catene montuose. E tuttavia per chi arrivava dal sud era difficilissimo viaggiare verso nord senza incrociare l'acqua corrente, e impossibile infine attraversare la barriera del Fiume Corvo... salvo che non si volesse tornare indietro fino ad aggirare la sua sorgente, nella zona più meridionale dei Monti Scarrow. E il percorso che essi solevano seguire era chiamato la Via dei Wight. «Nessun mortale può viaggiare sulla Via dei Wight e sopravvivere», affermò l'urisk con voce grave. «Voi non potete andare da quella parte. Non vi resta che seguire i versanti occidentali dei Monti Wold, dove nascono gli affluenti del Fiume Nero. È la zona a nord rispetto alla nostra posizione attuale, e potreste vederla bene dalla cima del Mallorstang. Dovrete attra-
versare una quantità di torrenti, ma ciascuno di essi formerà un ostacolo tra voi e chiunque vi stia seguendo.» «Dei wight potrebbero però aggredirci scendendo dalla dorsale dei monti», osservò Viviana. «In questo caso, il trucco sta nel tenersi nella biforcazione tra due corsi d'acqua. Poi, se dei wight vi mettessero l'assedio, potreste scendere verso valle fino a mettere altri ruscelli tra voi e loro. Ma attenti, perché più scendete a valle e più i corsi d'acqua sono grossi e difficili da attraversare.» «E cosa faremo quando saremo allo sbocco settentrionale della valle, dove il Fiume Corvo gira a sbarrarci la strada?» domandò Tahquil. «Sicuramente un fiume così grande non può essere guadato.» «In quella zona, il Fiume Corvo è attraversato dal Ponte Nero», intervenne Arrowsmith. «È l'unico rimasto, da quando il vecchio Ponte Winch crollò nel fiume. Il Winch faceva parte della Grande Strada del Re, ma in quella regione la strada è andata in rovina.» «Un ponte?» Tahquil si accigliò. «Non posso fidarmi. Un ponte è pericoloso, perché i nostri avversari sapranno per certo che dovremo passare di là, e potrebbero tenderci un'imboscata.» Arrowsmith annuì. «È per questo che avrete bisogno della protezione di un uomo forte, contro questi nemici.» «Uomo-foca!» replicò secco l'urisk, appiattendo le orecchie contro i capelli riccioluti. «Quella che ti vuol bene è l'acqua salata, non quella dolce! Questi torrenti e fiumi sono ben più in alto della linea della marea! Quanto pensi di andare lontano, nel Lallillir, prima che tutta questa acqua corrente ti renda più debole di un bambino? E allora tu sarai solo un peso per queste ragazze.» «Ma, in tal caso, chi le accompagnerà? Tu, forse? Tu saresti ancora peggio di me, Piè-di-capra! Non puoi attraversare neanche il Churrachan. E poi non sei un combattente.» «Non sono un combattente, no. Ma è di un combattente che loro hanno bisogno? Ciò che occorre è l'astuzia, la conoscenza, e forse un po' di gramarye, se queste mortali vogliono sconfiggere il Lallillir.» «Qual è il tuo suggerimento, urisk?» domandò Tahquil. Negli occhi del piccolo wight brillavano fiammelle simili ai colori autunnali della foresta, bronzei e scarlatti. «Non ne ho nessuno.» Inaspettatamente, Viviana intervenne: «Signora, non ricordate la cosa che Dain Pennyrigg trovò nella sua borsa da sella, quando tornammo dalla Torre dei Cavalieri della Tempesta?»
Tahquil scosse il capo e corrugò la fronte, perplessa. «La penna del cigno nero, signora», continuò Viviana. «Voi diceste che era un talismano potente. Forse ora si rivelerà utile.» Tahquil annuì, lentamente. «Se avete un Richiamo con voi, usatelo», consigliò il wight. Tahquil tirò fuori il malridotto astuccio, una delle cose personali che aveva salvato dalla distruzione di Tamhania. Dentro vi era la penna nera, accanto all'anforetta di nathrach deirge; appariva più sporca e spiegazzata che mai. I fatti accaduti negli ultimi mesi l'avevano resa così insignificante che lei si era scordata della sua esistenza. «Auch, non c'è dubbio che sia autentica e impregnata di potere!» commentò l'urisk non appena l'ebbe vista. «Avete più di un modo per attraversare l'acqua corrente. Usala, ragazza!» «Adesso?» domandò Tahquil. Arrowsmith sorrise. L'urisk abbassò il capo in segno di assenso. «E come?» «Pronuncia il tuo messaggio», spiegò Arrowsmith. «Fai volare la penna.» Tahquil si alzò. Ripensò alle parole che aveva pronunciato Maeve la Guercia e le sussurrò alla penna della ragazza-cigno. «Vieni, Whithiue. Aiutaci.» Poi sollevò il braccio e gettò la penna verso il firmamento stellato, aspettandosi di vederla ricadere subito, in quella zona senza vento. Ma una gelida corrente d'aria sbucò dal nulla, s'impadronì della penna e la trascinò via, fuori vista. L'improvviso vortice roteò intorno alla testa di Tahquil, spargendole sulla faccia i capelli tinti col cinnamomo. «E ora?» domandò lei. «Aspettiamo.» Quella notte le tre mortali faticarono a prendere sonno, tese e nervose al pensiero dei pericoli che le aspettavano. Gli altri due, autonominatisi sentinelle, non chiusero occhio. Fu verso l'uhta che lei venne, in quegli effimeri momenti sul confine del giorno e della notte quando la realtà danza ancora col sogno e strane cose possono accadere. Dapprima si udirono uno sbattere di ali e il fruscio dell'aria. Poi una manifestazione femminile emerse dalla grigia immobilità della brina, come se prendesse forma dalle nubi e dal palpito delle ultime stelle. Una sorprendente fascia scarlatta le circondava la fronte, come una corona di rose; il nero mantello del suo piumaggio la copriva dalle spalle ai piedi. Era scalza, ma intorno alle caviglie e ai piedi aveva altre fasce
scarlatte. Il suo aspetto era quello di una fanciulla attraente, tuttavia in lei vi era una stranezza disumana che faceva pensare a freddi stagni boschivi sfiorati dalla nebbia. Rimase lontana da loro e non parlò, silenziosa, remota. Tahquil era già sveglia, col taltry tirato sulla faccia per rivelare il meno possibile di sé e della sua identità. «Ti ho chiamato io», disse. «Ho bisogno del tuo aiuto.» La ragazza-cigno fece udire un leggero fischio sibilante. I cavalli si agitarono innervositi. L'urisk trottò verso la sfuggente wight. Le parlò sottovoce per un poco, e quindi tornò da Tahquil. «L'ho informata delle tue necessità», mormorò. «Lei potrà aiutarti durante l'attraversamento del Lallillir. Nei limiti del possibile, cercherà di farti arrivare viva al Ponte Nero... non più lontano. Non farebbe neppure questo, se non fosse per il suo legame d'onore con la tua penna.» «Capisco.» Lo sguardo della ragazza-cigno fissava Tahquil da una distanza insuperabile. I suoi occhi scrivevano la parola avversione nell'aria tra loro, con lettere di ghiaccio. «Dille che deve aiutarci almeno a superare il fiume fino a Cinnarine.» I due wight parlottarono di nuovo. «Tu hai la sua penna. Lei dovrà mantenere la parola data», riferì l'urisk. «Ma i mortali non piacciono ai cigni... dicono che siete ladri e cacciatori.» «Non ha tutti i torti.» «Il sole sta per sollevare il capo», continuò l'urisk. «Io seguirò un percorso diverso dal vostro, e la ragazza-cigno dovrà volare. Mentre voi viaggerete, lei pattuglierà il cielo. Se vedrà avvicinarsi un pericolo, scenderà ad avvertirti. T'indicherà la via migliore da prendere. Bada, a lei non piace mostrarsi in forma umana sotto l'occhio del sole. Lo farà solo se sarà costretta a parlarti, ma non manterrà a lungo quella forma.» La ragazza-cigno si stava voltando, con la faccia già nascosta dai lunghi capelli corvini. La sua forma snella sparì dietro una roccia. Poi un cigno nero prese il volo con un elegante remigare d'ali, distendendo il collo serpentino, le zampe rosse nascoste tra il piumaggio. Le ali batterono con più energia, come vele al vento, e in breve fu solo un puntino nella foschia. Il sole aprì il suo occhio sui Monti Scarrow. Quando l'alba lasciò il posto al fulgore dell'aurora, l'urisk era scomparso.
In una delle due piccole caverne dietro l'albero contorto, Viviana e Caitri dormivano, l'una stretta all'altra, e i loro volti tranquilli erano morbidi e innocenti come due pesche. Tahquil sedette accanto alle braci fredde del fuoco, e si abbracciò le ginocchia. Alla deriva nel triste mare dei ricordi, il suo sguardo fissava le ceneri senza vederle. I fiori notturni avevano chiuso le corolle e riposavano nell'ombra a capo chino, disturbati dalla luce del giorno. Arrowsmith invece si era già alzato, e aveva appoggiato una mano all'albero, in piedi sul groviglio delle radici. Come al solito il suo viso era girato verso l'ovest. Soffiava un leggero vento di mare, e i gabbiani che si lasciavano spingere nell'entroterra facevano udire le loro roche grida di bambino. Arrowsmith si passò una mano tra i capelli argentati e si voltò, fissando Tahquil con bruciante intensità. Quel mattino i viaggiatori salirono lungo la dorsale del Mallorstang, conducendo i cavali a mano. Nel punto più elevato, un ampio panorama si spalancò sotto di loro. Il cielo era un drammatico affastellarsi di nuvole grigie e tempestose. Il sole ne sfilacciava gli orli in uno stupefacente arazzo bianco e oro; negli squarci, l'azzurro del cielo era profondo e infinito. Dinanzi a loro si allungava fino a confondersi nella foschia la Valle del Fiume Nero, coperta di boschi selvaggi. Le curve serpentine del fiume ne percorrevano il centro, ma soltanto a tratti uno scintillio d'acque appariva tra le fronde. Gli alberi erano alti e fitti, ma sui pendii che gradatamente si alzavano su entrambi i lati la loro altezza diminuiva. A una quota superiore, come giganti addormentati, le cime dei monti si levavano, spoglie di vegetazione, contro l'orizzonte: un mondo dominato dal grigio della roccia nuda e dagli spazi vertiginosi dei burroni, dove il freddo irrigidiva le membra dei viandanti e le raffiche feroci del vento cercavano di coglierli alla sprovvista e precipitarli nel vuoto. Da lassù scendevano, sottili e radi come i capelli di un vecchio, torrenti e corsi d'acqua, che da una cascata all'altra si univano e prendevano corpo. A volte sparivano nel sottosuolo, perdendosi in caverne che mai l'occhio umano avrebbe visto, finché un letto di solida roccia non li costringeva a riemergere, spumeggiando di nuovo sui versanti. Poi era la vegetazione delle quote più basse a nasconderli e a nutrirsi di loro. Oltre le vette occidentali della Valle del Fiume Nero, c'era un'altra e più lontana serie di cime seghettate, violacee sullo sfondo del cielo: i Monti Bleak. Sopra la dorsale opposta, a est, scorreva invece la Via dei Wight, ancora invisibile oltre i banchi di nebbia.
Tenendosi sempre in altura, i quattro viaggiatori presero a destra, senza scendere nella valle. Il terreno era coperto di erba cotonata e di edera a chiazze marroni e verdi; chiurli e beccaccini volavano nell'aria fredda. Il mezzodì li vide raggiungere le propaggini meridionali dei Wold. Quella formidabile catena montuosa, che separava due lunghe vallate, aveva una dorsale dall'aspetto inconsueto: era piatta, lunga e liscia come un nastro di roccia. A tratti si allargava molto, a tratti si restringeva fino a pochi passi di larghezza, e per quasi tutta la sua estensione era limitata da vertiginosi precipizi verticali sui due lati. Chi avesse voluto viaggiare verso nord su quel singolare percorso avrebbe avuto la vista completa di due vallate: quella del Fiume Nero a sinistra e quella del Fiume Corvo sulla destra. Anche lì ogni versante partoriva torrenti e cascatelle, e il viaggiatore riceveva la netta percezione delle forze che costruivano e alimentavano entrambi i fiumi. Quella era la Via dei Wight. Poiché la liscia dorsale scorreva sullo spartiacque e non attraversava neppure il rivoletto più esiguo, le creature eldritch la preferivano a ogni altro percorso. Sotto la luce del mezzodì appariva quieta e invitante. Più tardi non sarebbe stato così. «Ora credo sia il momento di andare verso nord, giù lungo i versanti della Valle del Fiume Nero», propose Tahquil. «È meglio mettere una buona distanza tra noi e quella strada lassù, prima che scenda la notte. Qui, dove la pendenza è più lieve, potremo trovare un percorso agevole. E qui, com'è giusto, dovremo separarci.» «No, non lasciateci, Mastro Arrowsmith», gemette Viviana, prima che l'uomo potesse rispondere. «Non badate alle parole dell'urisk. Io sono certa che voi potete scavalcare questi piccoli corsi d'acqua senza danni... Guardate, quassù sono larghi poche spanne, niente al confronto del Churrachan.» «Tuttavia sono molti», la corresse Tahquil. «E potrebbe rivelarsi necessario scendere più a valle per la nostra sicurezza, dove scorrono torrenti larghi quanto il Churrachan. Il vostro coraggio, signore, non è in discussione. Ma l'acqua fresca, corrente, può essere veleno per voi.» «La sua forza spinge e tira», rivelò lui. «Distrugge crudelmente gli schemi eldritch del gramarye tessuti nelle fibre di metà del mio essere. Tuttavia solo di metà. L'altra metà può farcela.» Tahquil protestò: «Cavalcare o camminare nelle zone più basse del Lallillir consumerà le vostre forze. A salvaguardarci sarà la ragazza-cigno, così come ha promesso. Non potreste lasciarci sotto una protezione miglio-
re». L'uomo scosse il capo. «Andiamo. È pericoloso indugiare qui all'aperto.» Scosse le redini sul collo del cavallo e prese la testa. Timidi ranuncoli spuntavano tra le erbacce e i sassi. Il muschio umido copriva le rocce. In un terreno così infido gli zoccoli dei cavalli scivolavano spesso; quando la pendenza aumentò, i quattro dovettero smontare e guidare gli animali a mano, sempre restando in fila e lasciando che fosse Arrowsmith a decidere il percorso. Poco dopo raggiunsero una cascatella, non più larga dell'acqua versata da una brocca... poi un'altra, e ancora un'altra. Tahquil osservava la schiena di Arrowsmith, il quale scavalcò quei rivoletti senza vacillare. Sulla loro destra i monti erano sempre più alti, e nascondevano la Valle del Fiume Corvo. Più in basso, un mare di alberi ricopriva l'intero territorio. Ovunque si udivano i rumori dell'acqua che gorgogliava, mormorava, sussurrava parole senza voce, discuteva con energia, cicalava, rideva. Sullo sfondo, dietro un arcobaleno di minute gocce che si levavano a grande altezza, ruggivano impetuosi torrenti. Mentre i viaggiatori scendevano, le cascatelle avevano una portata sempre maggiore. «Non potremo mantenere gli stivali asciutti ancora per molto», predisse Viviana, passando da una pietra all'altra per superare un corso d'acqua. Doveva parlare a voce alta per farsi udire sopra il rumore bianco. La pendenza si addolcì consentendo loro di proseguire lungo il versante senza scendere a una quota inferiore, sotto le chiome degli alberi. Nel territorio aperto era più facile essere avvistati, ma vi era più tempo per preparare una difesa contro un pericolo in avvicinamento; tuttavia i cespugli, alti fino alla cintura, fornivano ancora una certa protezione. Le superfici pianeggianti erano rare su quei versanti. Caitri, ridendo, dichiarò che la sua gamba destra stava diventando più corta, e la sinistra più lunga. In quanto ad Arrowsmith, verso sera cominciò a tradire una certa stanchezza. Quando trovarono un breve tratto di terreno sgombro, cinto da cespugli, decisero di fare il campo lì. Dopo il tramonto l'aria estiva era umida, densa, e nei crepacci pieni di humus fertile crescevano piccoli gigli e campanule rosa molto profumate. Al centro di quel piccolo spazio erboso si era formata una polla d'acqua larga qualche braccio, dalla cui superficie nera il fuoco non traeva quasi nessun riflesso. Dopo aver aiutato ad accendere il fuoco, Arrowsmith si era disteso al suolo, respirando a fatica. Rifiutò di mangiare. La sua fronte era costellata da goccioline di sudore, e aveva la faccia rossa e gonfia, come congestio-
nata. Tahquil gli fece bere un po' d'acqua. «Voi siete malato. Tornate indietro», lo esortò. «No. Guarirò.» Caitri era andata a bagnare una striscia di stoffa nella polla, e all'improvviso mandò un grido. Goffamente Arrowsmith si tirò in piedi, col pugnale in mano. «Mi è parso di vedere qualcosa», si giustificò la ragazza. «Qualcosa nell'acqua.» Nel punto da lei indicato non c'era niente da vedere, neppure un'increspatura. Arrowsmith piegò le ginocchia e crollò al suolo. Caitri gli posò sulla fronte la pezza bagnata, mentre Viviana lo copriva col mantello. «Non preoccupatevi», mormorò lui. «Sono un uomo robusto. Farò la guardia.» Un momento dopo le palpebre gli si chiusero. La luce delle stelle dava alla sua faccia lo stesso tono grigio dei capelli, e approfondiva le ombre nere delle orbite. Se non fosse stato per il sollevarsi e abbassarsi del petto, avrebbe potuto sembrare morto. L'acqua continuava a tintinnare, frusciare, borbottare, gorgogliare e mormorare come un coro di voci eldritch. Fu Tahquil a fare il primo turno di guardia. Sedette col volto sporco di fango girato verso la polla, che restava profondamente calma, profondamente nera. Quanti segreti ha l'acqua, e come li nasconde! Può agire come uno scudo e respingere la luce, oppure risucchiarla in un avido gorgo, o stendersi passiva come un elemento neutro che se ne lascia attraversare. Ma, anche se permette alla luce di penetrare, la piega e la ingrandisce, la deforma e gioca scherzi all'occhio. Un braccio in parte immerso appare piegato, slogato, tagliato nel punto d'ingresso. Riflessa nella curva superficie di una goccia, la faccia si rigonfia e gli occhi sporgono all'esterno come quelli di un pesce. Non c'è da stupirsi che molti wight siano legati all'acqua. Questa polla, ora. Scura com'è, e così insondabile, la sua profondità è un mistero. Potrebbe esserci appena un palmo d'acqua su un fondo piatto, non più di una pozzanghera... oppure la sua tenebra potrebbe estendersi giù nel sottosuolo della montagna, dieci braccia, mille braccia, fino a unirsi a un sistema di fiumi sotterranei vasto quanto questa valle... Il Lallillir mormorava ninnananne liquide alle orecchie di Tahquil, can-
zoni che risalivano fin lì dal mare e dalle ombre della costa. L'anello-foglia si strinse intorno al suo dito. Con un sussulto la donna alzò la testa. Ho dormito? Qualcosa era emerso dalla superficie della polla. Una forma scura sporgeva dall'acqua e la fissava, immobile. Tahquil non riusciva a capire bene di cosa si trattasse, ma sembrava la testa deforme di una pecora, o di una capra. Dopo qualche momento l'apparizione s'immerse di nuovo, senza fretta. Al suo posto rimasero sei o sette anelli concentrici di piccole onde, che lentamente si dileguarono. Viviana e Caitri dormivano profondamente. Arrowsmith mormorava qualcosa nel sonno. L'uomo si era girato verso un cespuglio spinoso appoggiandovi una mano, e alcune gocce di sangue gli arrossavano il dorso delle dita; il dolore, però, non lo aveva svegliato. Tahquil si alzò, gli fece spostare il braccio e poi gettò altra legna sul fuoco. Nello stesso istante, l'acqua oscura si gonfiò, solidificandosi in una forma. La forma si sollevò, liscia e silenziosa come un marchingegno lubrificato. Sgocciolando, una grossa capra uscì sul bordo della polla. Gli occhi della capra erano pozzi di tenebra. L'acqua scivolava lungo la sua pelle verdastra. Tahquil guardò il fuath, senza osare muoversi. Rimase dov'era, lasciando che il tempo scorresse lento e silenzioso nella notte. Il cuore le batteva contro le costole, come se volesse uscirne. Un deserto aveva invaso la sua bocca. Con calcolata cautela, cominciò a muovere la mano destra verso il pugnale appeso alla cintura. Le sue dita guantate si avvicinarono lentamente all'elsa, mentre il suo sguardo non lasciava un istante l'apparizione, senza però spostarsi in quegli occhi oscuri. La capra sogghignò. O, piuttosto, arricciò le labbra caprine e scoprì la chiostra dei denti. Inseriti nelle gengive esangui, gommose, questi erano lunghi e appuntiti come spine, gialli come la pergamena antica, e grondavano di bava verde. Il fuoco si spense con un sibilo di vapore. Tahquil girò la testa verso quel rumore. Quando tornò a voltarsi verso il fuath, quello non c'era più. Dalla polla si allontanavano però le sue orme bagnate, impresse nel muschio. I cavalli, legati agli arbusti, cominciarono a scalpitare e nitrire. La ragazza raccolse dal fuoco l'ultimo ramo ancora acceso. In quella luce incer-
ta, vide una forma muoversi tra gli animali impastoiati: non una bestia, ma una donna. La figura balzò avanti. Un cavallo nitrì, sconvolto da un terrore mortale. Subito gli altri cominciarono freneticamente a cercare di liberarsi dalle corde. Una giumenta sradicò l'arbusto al quale era legata, un'altra spezzò la sua corda. Con gli occhi spalancati a mostrare il bianco, i quadrupedi fuggirono. Tahquil corse verso i due cavalli rimasti. Uno giaceva lungo disteso a terra; un terribile fiotto di sangue gli scaturiva dal collo, dove la carne era stata squarciata. L'altro lottava ancora per liberarsi. Una figura stava china sul quadrupede caduto... non più una donna ma una bestia a quattro zampe, come prima. Il fuath alzò la testa mentre Tahquil si avvicinava. I peli della barba della capra gocciolavano sangue. Si stava nutrendo. Il pugnale cadde dalle dita della ragazza, prive di forza. Un osceno puzzo di vegetazione marcia la avvolse, così ripugnante da farla vomitare. Era lo stesso odore di decomposizione che poteva uscire da panciuti vasi nei quali i fiori fossero morti da tempo, immersi nei resti putrefatti dei loro gambi. Poi ci furono dei rumori improvvisi, violenti; quando riuscì ad alzare la testa vide una forma confusa che si agitava sullo sfondo più scuro dei cespugli: non una capra né una donna, ma un uomo e una bestia avvinti nella lotta. In quel caos di movimenti furiosi scintillò il pugnale di Arrowsmith. Viviana stava gridando. Caitri si affannava alla ricerca di un coltello. «Aiutiamolo! Aiutiamolo!» esclamò Tahquil, ma fece appena in tempo a evitare che Arrowsmith e il fuath la travolgessero. I denti del wight cercavano la carne. Lei tentò di colpirlo alla faccia col tizzone infuocato che aveva in mano. Poi vi furono una raffica di vento e il battito di due grandi ali. Con un grugnito il fuath balzò via, e sollevò la testa spalancando le zanne verso il cielo. Cinque erano gli avversari che lo fronteggiavano, quattro dei quali armati col ferro freddo o col fuoco. Per un istante parve che il quinto, piombato giù dal cielo, fosse una donna alata, ma i suoi piedi si staccarono dal suolo e tornò a essere un cigno, con il collo inarcato in avanti e il becco aperto come la bocca di un serpente, mentre le sue ali colpivano agitando l'aria tempestosamente. D'un tratto, con voce femminile fredda e chiara nonostante il tumulto, il fuath gridò: «Raggid forrn!» Quindi si tuffò nella polla d'acqua, che si sigillò sopra di esso senza uno schizzo.
«Viviana, sella il cavallo», ordinò Tahquil. «Caitri, attenta all'acqua. Ravviva il fuoco.» Arrowsmith stava barcollando come un cieco. «Siete ferito?» «No», ansimò lui. «Mi ha ammaccato le costole con gli zoccoli, ma i suoi denti non sono riusciti a mordermi. E voi? Le damigelle...» Puntellandolo con una spalla sotto un'ascella, Tahquil lo fece incamminare verso l'unico cavallo rimasto, che Viviana stentava a tenere per le briglie. Arrowsmith roteava gli occhi e non sembrava del tutto consapevole di ciò che aveva intorno, né di quello che era successo. Indebolito com'era dai molti attraversamenti dei corsi d'acqua, la lotta contro l'unseelie l'aveva portato sull'orlo del collasso. Restare ancora in quella zona gli sarebbe stato fatale. «Salite in sella. Noi vi seguiremo», disse Tahquil, cercando di mettere ardente convinzione in quella menzogna. «I cavalli...» «Sono qui vicino.» «Il mondo gira. Stanco... sono stanco...» «Salite sul vostro cavallo, Galan, nel nome di tutti gli dèi. Qui nel Lallillir c'è solo la morte per voi.» «Ma dovete seguirmi.» Facendo appello alle sue ultime forze, Arrowsmith si arrampicò sulla sella e gettò una gamba dall'altra parte del cavallo. Poi parve perdere conoscenza e si afflosciò sul collo dell'animale. Lo legarono saldamente in arcioni, piazzando i nodi della corda dove avrebbe potuto raggiungerli con le mani quando fosse rinvenuto. Tahquil fece poi voltare il cavallo verso sud, e lo mise in cammino con uno schiaffo sul posteriore. Lieto di poter andare via dopo lo spavento di poco prima, il castrone si allontanò svelto, cercando la strada sul versante nella stessa direzione in cui erano fuggite le due giumente. Tahquil e le sue compagne si voltarono a cercare la ragazza-cigno, ma l'elusiva wight era già sparita. «Non c'è tempo da perdere», disse Tahquil, raccogliendo i fagotti. «Dobbiamo andarcene da qui, prima che il fuath esca per finire il lavoro.» Le tre ragazze avevano le lacrime agli occhi nel passare accanto alla carcassa del cavallo massacrato dall'unseelie. Poco dopo, quando si voltarono a guardare la piccola radura nella penombra lunare, videro una mostruosa forma emergere di nuovo dalla polla, silenziosa.
Camminarono per tutto il resto della notte, spinte dalla paura e dal desiderio di attraversare più acqua corrente possibile. Quando ebbero messo un buon numero di ruscelli tra loro e la polla del fuath, osarono rallentare un poco. «Galan è stato buono e generoso», mormorò Caitri, con le lacrime agli occhi. «Non lo dimenticherò mai, e non scorderò neppure le sue sorelle. Spero che li rivedremo.» «Forse, un giorno o l'altro, se il destino vorrà», disse Tahquil. Il vento dell'ovest le alitava freddo sulla guancia sinistra. «Ha condiviso con noi la sua casa e il suo cibo», aggiunse Viviana. «Siamo in debito con lui.» «D'ora in poi dovremo viaggiare di notte e dormire di giorno», le informò Tahquil, cambiando argomento. «I nostri sensi devono essere freschi e attenti durante le ore dei wight.» «La ragazza-cigno avrebbe dovuto avvertirci di non pernottare accanto a quello stagno infestato dal fuath», sbottò Viviana, indignata. «Ecco come compie il suo dovere! Si è dimostrata una pessima sentinella.» All'uhta dovettero fermarsi, esauste, e si rintanarono in una gola stretta e sassosa alla confluenza di due torrenti. A quella quota crescevano fitte le orchidee-rana, incappucciate di petali giallo-verdi e fornite di lunghe lingue rosse. Più in basso, la valle aveva un aspetto plumbeo in quella mezza luce, e le antiche ondulazioni del territorio scendevano con lenta grazia a incontrare le rive del fiume. «Chiamerò la ragazza-cigno», decise Tahquil. «I wight sono incapaci di mancare alla parola data. Lei ha fatto voto di servire chiunque la convocasse con quella penna.» «Come pensate di chiamarla, adesso?» domandò Caitri. «La penna non c'è più.» «Conosco il suo nome.» Detto ciò, incurante di chi potesse udirla, Tahquil unì le mani intorno alla bocca e gridò: «Whithiue!» Per tre volte chiamò quel nome, rivolta a nord, a sud e al cielo, e la sua voce echeggiò nella valle. Il cigno rispose. Sulla lavagna grigia del cielo si disegnò una runa nera, e il suo lento volo la portò ad atterrare dietro uno spunzone di roccia. Ligia al comportamento abituale dei cambiaforma, la ragazza-cigno eseguì la trasformazione lontano dagli occhi delle tre mortali. Poi uscì dai cespugli oltre l'angolo più basso della gola. Il suo volto pallido era un calice di gi-
glio sopra un gambo oscuro. «Benvenuta», la salutò Tahquil. «Ti prego, siedi qui con noi.» La risposta fu un basso: «Whaiho», forse un commento derisorio. La leggera brezza dell'alba agitava le penne del suo mantello, ma la fanciulla di bellezza ultraterrena rimase immobile. «Be', resta pure dove sei, ma spiegati», ingiunse Tahquil. «Perché non ci hai avvertito come avevi promesso? La nostra vita è stata messa in pericolo da un fuath. Se tu ci avessi informato della sua presenza, non ci saremmo mai fermate presso il suo stagno.» I cigni hanno il loro linguaggio. Lei può capire il mio? Ha la possibilità di rispondere con voce umana? «Whaiho», disse l'altra. Poi si degnò di aggiungere, con voce bassa e mielata: «Le pervicaci ladre sono schizzinose». Ha capito benissimo. La sua padronanza della Lingua Comune sembra notevole... Ha perfino un accento ertish migliore del mio. «Noi non siamo ladre», ribatté Tahquil. «E non siamo neppure schizzinose. Forse per te è difficile capirlo, ma non vogliamo farci ammazzare. Tu hai preso l'impegno d'impedire che questo accada, non è così?» «Da me è stato detto», rispose la ragazza-cigno. «Le belle fanciulle umane non sono ferite, vero?» «Non congratularti con te stessa.» «Il furtivo fuath cacciava la carne degli equini.» «E si sarebbe nutrito anche di quella degli umani», replicò Tahquil, seccata. «Whiath!» La creatura eldritch inclinò la testa. Dietro di lei, sull'orizzonte orientale, si erano schiariti due lunghi nastri di luce. Uno azzurro, cosparso di fiocchi candidi; l'altro, di un delicato color lilla, si stava espandendo su per tutto il cielo. «In futuro dovrai avvertirci di ogni pericolo imminente», la ammonì Tahquil. «Dovrai indicarci il percorso migliore. E dovrai informarci sul posto più adatto per riposare.» «Le stanche viaggiatrici ambiscono un rifugio.» «Sì, lo ambiscono.» «Il cigno farà la guardia contro gli ostili percorritori del suolo.» Il comportamento della creatura eldritch restava cauto, distaccato, freddo. «Proprio così. Tu ci aiuterai finché non avremo oltrepassato incolumi il confine settentrionale del Lallillir. Poi io ti libererò dal tuo impegno. Se siamo d'accordo, ora puoi andare, ma non allontanarti troppo. Potrei chia-
marti in qualsiasi momento.» «Il cigno conoscerà un triste sconforto nell'ubbidirti.» «Ci spezzi il cuore», commentò Viviana, sarcastica. «La tua padronanza della Lingua Comune è eccellente», disse Tahquil alla ragazza-cigno. «Riesci a formare tutti i suoni vocalici. Perché hai imparato la nostra lingua?» «I cigni hanno un parlare dolce. La lingua umana ha suoni aspri. Le sue parole feriscono», rispose con aria sprezzante la bella ragazza-cigno, allungando il collo candido. Un tempo ero evitata per la mia bruttezza, poi sono stata odiata per la mia bellezza, ora c'è chi mi disprezza perché appartengo alla razza umana. Ah, ma non devo prendermela... i pregiudizi sono lo scudo dei narcisisti. «Se non ti piace la nostra lingua, insegnaci la tua.» Ma stava parlando al vuoto. Il cigno nero si levò in volo nella luce che l'aurora spargeva sui Monti Wold. Le viaggiatrici mangiarono il cibo che si erano portate da Appleton Thorn: duro pane nero di segale e alghe secche. Dormirono sotto la luce del sole, montando di guardia a turno e tenendo d'occhio la dorsale dei monti. Il cielo occidentale era un tripudio di sfumature rosa e arancione quando si alzarono dal terreno sassoso, irrigidite e desiderose di altro riposo. Per tirarsi su sorseggiarono dall'anforetta un po' di nathrach deirge. «Stiamo diventando delle creature notturne», dichiarò Caitri. La luna aveva oltrepassato la fase piena; era un fungo d'argento girato di traverso, sotto i cui incerti auspici le tre mortali ripresero il cammino. Quella notte non videro esseri viventi, a parte i gufi e altri animali lorraly delle tenebre, tuttavia continuarono a sentirsi prudere la nuca per la sensazione che qualcuno le seguisse. Il mattino si svolse come un lenzuolo di seta, senza che fosse accaduto nulla di sgradevole, e loro cercarono un posto per dormire. Stava cadendo una pioggia leggera. Distese sotto un lastrone di roccia e avvolte nei loro panni oleati da pescatore, le ragazze restarono all'asciutto. Quella sera sopraggiunse una tempesta shang, e il Lallillir s'illuminò come un palazzo in fiamme, così spettrale e spaventoso, così splendido, che loro dovettero fermarsi a guardare. Stringendo gli occhi nella foschia
umida, videro le rocce coprirsi di cristalli e le felci farsi nere come il carbone, spolverate di scintille; l'acqua divenne argento solido e le canne tintinnarono come bacchette d'oro. I cespugli pullulavano di lampioncini colorati, il cielo era un prato fiammeggiante di fiori. Quello scenario si spostò lento verso ovest, e le ragazze si rimisero in marcia. Poco dopo apparvero stormi di pipistrelli, che volavano così bassi da costringerle a chinarsi per non essere urtate. Viviana, che masticava foglie di dulse, ingannava il tempo rievocando con tono nostalgico le cene di gala a Corte. Le stelle, lassù, non palpitavano come al livello del mare, e fu su quello sfondo freddo che il cigno planò verso di loro. La fanciulla eldritch recitò il suo avviso: «Cercate correnti forti. Ombrosi volatori infestano le vette. Preferite un rifugio lontano dall'acqua ferma e dalle felci nebbiose. Qui soggiornano le cantatrici succhia-spirito, che annusano e pungono col lungo becco affamato. Celate le carni succulente sotto le stuoie corporali». Tali parole furono così interpretate dalle tre mortali: «Deviate il cammino verso il fiume, più in basso. Strani uccelli oscuri volano sulle rupi. Cercate un rifugio lontano dalle paludi. Le culicide cacciano in questa zona, perciò avvolgetevi nelle vesti per evitarne le lingue pungenti e velenose». Scesero di quota fino alla zona in cui crescevano gli alberi, e si avviarono nel buio sotto le loro chiome. Non molto tempo dopo, cominciarono a sentire dei rumori e un fitto mormorio. Per prudenza deviarono sulla sinistra. Il mormorio sembrò allontanarsi, poi se lo ritrovarono di fronte. Cambiarono di nuovo direzione, ma non servì a molto; d'un tratto i rumori e le voci furono inevitabili, e giunsero ai bordi di un mercato vero e proprio. «Siofra?» sussurrò Viviana. «No», disse Tahquil, anche se la scena aveva qualcosa di familiare. Si trattava di un mercato ambulante, e i venditori erano diversi dai piccoli siofra delle foreste di montagna come una scimitarra differiva da un temperino. Lo stesso valeva per le merci. A un primo sguardo, i generi alimentari sembravano più appetitosi che in ogni mercato dei siofra, dove si vendevano lumache e ghiande camuffate - con la magia - da carne scelta e pasticcini fragranti, ma i venditori avevano un aspetto più sporco e truculento. Costoro erano strani subumani deformi, alcuni con facce da gatto, altri con lunghe code pelose, o zampe da rettile, o dorso crestato. Vi era chi aveva occhi sporgenti e sfaccettati come gli insetti, chi pinne da pesce, chi ali da pipistrello assurdamente piccole che gli sporgevano dalle spalle ossute.
Molti stavano accovacciati, pelosi e grigi come enormi topi, altri saltellavano alla maniera dei rospi. Le loro voci erano grugniti da suino, cinguettii da passero, gorgheggi, gracidii, muggiti da bovino, squittii da ratto, latrati e miagolii. Alati e zannuti, irti di setole o scagliosi, con mani prensili ma artigliate, quei goblin dei boschi vendevano quello che avevano nelle ceste e nelle scodelle di legno. Le monete che circolavano erano di provenienza umana, anche se consunte e fuori corso, coniate in chissà quale zecca dimenticata da secoli. L'illuminazione era data da lampioncini fluorescenti appesi alle piante. I frutti esposti apparivano freschi e appena colti. Ben lavati, luccicanti, maturi e colmi di succo, spandevano nell'aria un profumo frizzante come la primavera. Erano grosse ciliege rosse, grappoli d'uva imperlati di rugiada, mele simili a grossi rubini, fragole dai riflessi d'ametista, pesche vellutate, fichi turgidi e verdi, arance gialle come topazi, pere e melegrane, e fette di cocomero rosse come il sangue che promettevano alla bocca una succulenta dolcezza e un sapore impareggiabile. Senza pensarci due volte, le viaggiatrici si fecero avanti, accarezzando con gli occhi quelle meraviglie, mentre i venditori ne elogiavano le qualità con le loro voci disumane. «Venite e comprate! Venite e comprate!» era ciò che Viviana e Caitri udivano. Ma alle orecchie di Tahquil quei richiami suonavano come: Venite e morite! Venite e morite! Insistenti e aggressivi, i piccoli wight si stringevano intorno alle tre ragazze e protendevano i loro cesti, le ciotole e i vassoi. I grappoli succosi traboccavano dai cestini come pendenti di lapislazzuli dai candelieri, brillando di una morbida luce interiore. «Non toccate questa roba!» le avvertì Tahquil. Mentre pronunciava quelle parole, fu come se un velo le fosse tolto dagli occhi. Il rosso delle melegrane aveva chiazze di marciume bluastro, le fragole apparivano grigie e livide, e i fichi erano informi pezzi di radici bollite. Le pere grondavano pus acquoso su grappoli d'uva sfarti e anneriti. Le mele erano rigonfie di tumori fibrosi, le arance deformi brulicavano di insetti. Tahquil ripensò a un racconto d'infanzia sui goblin dei boschi. Si rese conto che quella mercanzia era assai più mortale di quella dei pur ingannevoli siofra. Una volta Sianadh aveva mangiato frutta avvolta da un incantesimo dello stesso genere a un mercato dei siofra, e non gli era accaduto nulla di peggio di un mal di pancia. I frutti venduti dai goblin dei boschi invece erano molto diversi. «Venite e comprate!»
Incoraggiate dai richiami degli ambulanti, Viviana e Caitri allungarono le mani sulle mercanzie. Tahquil le afferrò per i gomiti e le tirò indietro. «Non mangiate, è pericoloso!» ordinò severamente. Gli esseri dalla faccia da gatto, quelli dal corpo da topo e gli altri goblin risero e schiamazzarono, nel vedere che le compagne di Tahquil si ribellavano al suo ordine, la respingevano e protestavano, raddoppiando i loro tentativi di afferrare i frutti. «No, no!» gemette Tahquil. «L'anello mi permette di vedere la verità. Quella che avete davanti è roba stregata. Guardate attraverso il mio braccio ripiegato e vedrete che siete vittime di un inganno. Quei frutti sono mortali! Venite via. Non guardateli, non toccateli, non mangiate niente!» Ma le strida dei mercanti che esortavano le mortali a comprare sopraffecero la sua voce. Tuttavia, quando le mani di Caitri e Viviana stavano per chiudersi sui grappoli di uva marcia piena di vermi, i goblin allontanarono la mercanzia. «Dovete pagare!» «Noi non abbiamo denaro!» si disperò Caitri. «Non abbiamo monete d'oro o d'argento, e nemmeno di bronzo.» «Volete la mia castellana come pagamento?» offrì Viviana. «Vi darò il mio medaglione d'argento!» esclamò Caitri. «Sciocche!» gridò Tahquil, costernata, cercando di tirarle indietro con la forza della disperazione. Ma di nuovo le due ragazze la respinsero. I goblin dei boschi, chiassosi e aggressivi, unirono le loro voci in un coro: La ragazza più anziana ci darà un ricciolo prezioso come l'oro. E la giovane una lacrima offrirà, fredda e lucente come ghiaccio puro. In tutta fretta Viviana staccò le forbici dalla castellana e si tagliò una ciocca di capelli. Tahquil gliela fece cadere di mano con uno schiaffo... I goblin si chinarono a raccoglierla. Altri afferrarono Tahquil per i capelli e per le vesti. Urlando e ridacchiando come invasati, le saltarono addosso e la trascinarono, colpendola a calci e pugni. «Datemi la mia frutta!» gridava Viviana. Caitri piangeva. Poi le ceste e i vassoi furono rovesciati addosso a Viviana, che cadde a sedere a terra e si trovò con le mani piene di grappoli e pere e fichi. I go-
blin del bosco la incitarono a mangiare. Tahquil, prigioniera della folla di wight che la spingevano via, non poté far altro che guardare, impotente, mentre Viviana si portava una pera putrefatta alle labbra, apriva avidamente la bocca per morderla... Un vento freddo scosse i cespugli. Sopra quelle raffiche furiose, Tahquil udì un energico sbattere di ali. I lampioncini colorati furono scaraventati al suolo, le ceste rovesciate e il loro insidioso contenuto spazzato via. Una furia vivente piombata giù dal cielo si stava abbattendo sui goblin dei boschi e li colpiva, li aggrediva, li inseguiva, facendoli fuggire e sconvolgendo il loro mercato. Le ali nere del cigno continuarono a imperversare sui wight finché tutti non furono fuggiti e scomparsi nel sottobosco. Di loro non rimase nulla, fuorché le grida che si allontanavano nel buio. Solo allora il cigno si placò. Tahquil barcollò verso le compagne. Il volatile, più grande dei cigni lorraly, allungò il collo sinuoso e sibilò selvaggiamente. Poi risalì di quota nel cielo della radura e scomparve oltre le cime degli alberi. Tra l'erba era rimasta impigliata una ciocca di capelli biondi. Tahquil la raccolse e, alla luce degli ultimi lampioncini rimasti accesi, la osservò. «Mi chiedo cosa ti avrebbero fatto i wight, Via, dopo aver scoperto che il tuo oro è contraffatto.» Lo sguardo di Viviana era freddo e inespressivo come quello di un pesce abissale. «Voi mi avete tolto il mangiare di bocca.» «Ti troverò un cibo migliore... il Buonpane cresce ovunque.» «No. Voi non siete un'amica.» Caitri si asciugò le lacrime, ma non disse nulla. Col trascorrere dei giorni il langothe era diventato un tormento che spegneva la gioia di Tahquil, togliendole l'appetito, le forze, il sonno. Alla fine le avrebbe fermato anche il cuore. Ma un'altra nostalgia la stava spingendo inesorabilmente verso la follia: la sofferenza nata dall'amore. Il pensiero dell'uomo che per lei rappresentava la vita e tutto quello che vi era di buono al mondo era avvelenato dall'intollerabile possibilità che la guerra glielo avesse portato via per sempre. E sembrava che lei avesse perduto anche la lealtà di una cara amica. La loro provvista di cibo era quasi esaurita. Thorn le aveva detto: «Il Buonpane è il frutto di un vischio che ama solo certi alberi: il melo, il nocciolo, il salice, il cipresso, la quercia, l'olmo, la betulla e l'ontano. Non cresce su altri alberi, e non sempre anche su quelli che ti ho elencato».
Ma dov'erano quegli alberi? Lì nella Valle del Fiume Nero non se ne vedeva neppure uno. Forse i salici erano più in basso, sulle rive del fiume, dove i wight erano più numerosi che altrove e le culicide fluttuavano su ali di garza alla luce della luna. Si nutrivano con ciò che potevano raccogliere durante il viaggio, tuttavia il Lallillir in estate non era generoso come il Tiriendor in autunno. Le lezioni apprese in una regione, e in una stagione, servivano a poco in un'altra. Un giorno la ragazza-cigno portò al loro campo tre piccoli pesci, tremolanti come foglie, da arrostire sul fuoco. Tahquil cedette il suo alle compagne. Da quando aveva respirato l'aria del Reame Fatato non riusciva a sopportare il sapore della carne. Non era sempre facile attraversare le onnipresenti acque del Lallillir. In certi posti i torrenti scorrevano sul fondo di canaloni dalle alte pareti, in altri si suddividevano in numerosi canali sparsi su un'ampia zona, o creavano acquitrini le cui sabbie imprigionavano i piedi, oppure la corrente era così forte che guadare significava rischiare di essere trascinate via. Rocce, intrecci di rovi e precipizi sbarravano la strada. Più di una volta le viaggiatrici dovettero tornare sui loro passi e cercare un percorso alternativo, col rischio che fosse peggiore del primo. Come in tutte le zone prive di piste, il terreno era a volte facile, a volte poco transitabile, ma sempre imprevedibile. Viviana restava taciturna e scostante. Caitri invece tornò pian piano espansiva; a differenza dell'altra cameriera, lei non aveva toccato la frutta. «Avevo già sentito parlare del mercato dei goblin dei boschi», mormorò infine. «Quelli che amano la roba succosa non possono fare a meno di ingozzarsi avidamente, tanto sono deliziosi i frutti di gramarye. Assaggiarli una volta li rende per sempre schiavi di quel sapore. Ma poi le loro orecchie non possono più udire i richiami di quegli esseri, che li invitano a comprare e mangiare. E i loro occhi non possono più vedere i frutti dei goblin. Tutto il resto per essi non conta più nulla. Avidi di mangiarne ancora, avvizziscono e languono, poiché non riescono più a dormire e non provano più interesse per il cibo comune. Vivono solo per la loro ossessione: trovare ancora il mercato dei goblin dei boschi e gustare ancora quei frutti... che non troveranno mai, perché non possono più vederli.» «Dunque quei frutti inducono una specie di langothe», commentò Tahquil. «E di un genere maligno, rapido ad agire e perfino più crudele.» «Questo lo dite voi», rispose Viviana, che camminava in testa.
L'alba diluì il buio del cielo che incombeva sui salici, sulla riva di un corso d'acqua. Il vento era girato da ovest quando Tahquil si fermò sotto la verde chioma di un albero e alzò lo sguardo. In quella debole luce, vide dei frutti sferici dall'aspetto morbido, grossi quanto un pugno. Si alzò in punta di piedi e ne staccò alcuni. «Ecco la nostra cena: il Buonpane del salice.» Il frutto aveva un sapore che ricordava la marmellata di prugne e lasciava una sorta di leggera ubriachezza. Il Buonpane stimolava l'energia, il benessere e la serenità, rafforzava il cuore e i tendini, rinfrescava il sangue e rendeva più vigorosi i capelli. Ma non curò Viviana del suo morboso desiderio di cibo goblin. Due giorni dopo il mercato boschivo dei goblin, si trovarono la strada sbarrata da una profonda gola, sul fondo della quale scorreva un torrente così oscuro e possente che le ragazze lo battezzarono Forza Nera. Era troppo largo e impetuoso per poterlo guadare. La ragazza-cigno, durante una delle sue brevi visite, aveva consigliato le viaggiatrici di spostarsi più a valle, dove c'erano delle pietre sopra le quali si poteva passare in un tratto più tranquillo del torrente, poco prima che questi sfociasse nel Fiume Nero. Il versante montuoso da cui sgorgava la sorgente della Forza Nera si presentava così scosceso che soltanto una capra delle rocce avrebbe potuto scalarlo. Le viaggiatrici cominciarono a cercare un altro percorso. Tahquil guardò verso l'alto, in direzione della Via dei Wight. «Mi piacerebbe tentare da quella parte, ma è probabile che la dorsale della montagna sia piena di creature eldritch, anche alla luce del giorno. Tuttavia qui siamo troppo vicine alla loro strada perché mi senta al sicuro. Lo dico con riluttanza, ma dovremo scendere a valle in cerca di quel guado con le pietre.» «Prima dormiamo», obiettò Caitri. Il suo giovane viso era magro e smunto, grigio come quello di una vecchia. Viviana sedette senza dir niente, con gli occhi vuoti. «Dormite», decise Tahquil, impietosita. «Io monterò di guardia.» Era l'alba quando le due compagne si distesero sotto il precario riparo di una sporgenza di arenaria. I primi raggi del sole illuminavano le rocce spoglie e pochi ciuffi di erba che la brina imperlava di minuscoli diamanti. Al tramonto la ragazza-cigno scese dal cielo, distante e imperscrutabile come sempre.
«L'acqua del cielo presto arriverà, scrosciante, dal lontano orizzonte marino occidentale», dichiarò. Il suo impeccabile volto di alabastro era chiuso tra due ali di capelli neri. Una fascia di tessuto scarlatto le cingeva la fronte. Il mantello di penne nere, semiaperto sul davanti, rivelava una striscia di pelle quasi nuda tra i due orli di piume bianche. «Dalle correnti salate l'acqua-vapore è risalita, creando l'immenso vortice che oscura il cielo», proseguì. «Presto nubi pesanti d'acqua bagneranno la Valle del Fiume Elfin, e ogni cima più alta, e poi la Valle del Fiume Nero, e immense quantità di furia liquida scenderanno ai luoghi bassi, tutto travolgendo. Abbiate fretta! Presto agite! Gli esseri senza ali, quali voi, devono oltrepassare la Corrente Rapida finché è piccola. Quando cadrà l'acqua del cielo, essa schiumeggerà possente, vietando ogni passaggio.» «Presumo che la 'Corrente Rapida' sia il torrente che abbiamo davanti», disse Tahquil, con calma. «Prendiamo nota del tuo avvertimento. Tuttavia l'altro giorno non ci hai avvisato che ci stavamo avvicinando ai goblin dei boschi.» La cambiaforma alzò le braccia sottili e il mantello di penne si aprì, rivelando le sue perfette ma efebiche nudità. «Lei-cigno, schiava delle senzaali. Pensava che le senza-ali fossero più sagge.» «In terre sconosciute, perfino le regine dell'aria sono pulcini inermi», replicò Tahquil, incapace di frenare il sarcasmo. «Avvertici di tutto. Non essere più così trascurata nei tuoi doveri.» «Udite», sibilò la ragazza-cigno. Si accostò di un passo. «Là dove i rami sono appesantiti dai frutti, c'è il ganconer dallo sguardo magnetico che parla con voce stregata. Colei che non vuole tessere il suo sudario farà meglio a chiudere occhi e orecchie.» «Un ganconer... Tu parli di un pericolo che troveremo in Cinnarine, se non sbaglio. Ma Cinnarine è lontano, se mai ci arriveremo. Cosa ci aspetta qui e adesso, nel Lallillir?» «I wight d'acqua infestano le sponde della Corrente Rapida... seelie, innocui. Gentili o sgradevoli, dalle chiome lucenti o fangose, vigorosi e profumati oppure strani e pelosi. Parlano bene. I wight bagnati cercano il calore del fuoco. Mostrati ospitale. Digli: 'Benvenuti'.» «I gruagach? Tu parli dei gruagach?» «Verità», disse la ragazza-cigno, o forse a parlare fu il vento, perché lei non era più lì. Lontano, a ovest, molto oltre i Monti Swarth e i Monti Bleak, milioni di
tonnellate d'acqua si stavano avvicinando rapidamente, turbinando a migliaia di piedi d'altezza. Parte dell'oceano era di nuovo evaporata fin nell'alta atmosfera, così come esigeva il processo di circolazione dell'incolore sangue di Aia. Sulle pendici dei monti del Lallillir, un lungo gemito dilagò tra gli alberi e si sparse nella notte: un avvertimento degli eldritch che percepivano la tempesta. La falce di luna accoglieva come un pallido sorriso le nuvole che la oscuravano sempre più spesso. A tratti buia e senza stelle, la notte celava macigni e buche, stagni, radici e altri ostacoli. Le tre ragazze che si affrettavano giù lungo il pendio avevano la sola guida della pendenza del terreno sul lato meridionale della Forza Nera, la vaga luce dei funghi fosforescenti e il rumore dell'acqua tra le rocce sulla loro destra. Da lì a non molto quel pacifico torrente sarebbe stato alimentato dal cielo, i fianchi delle montagne avrebbero veicolato l'acqua verso il fondovalle come imbuti, e Forza Nera avrebbe ruggito trascinando giù macigni e slavine di fanghiglia, stritolando centinaia di alberi e abbattendo ogni ostacolo fino a mettere a nudo le ossa granitiche di Erith. Prima che ciò accadesse, le tre ragazze avrebbero dovuto raggiungere il guado, attraversarlo e allontanarsi da lì. Ansanti e stanche, continuarono a scendere lungo la riva della Forza Nera. Nel sottobosco vi erano molti tronchi caduti a ostacolarle, coperti di efflorescenze scivolose e funghi arancione. Quella zona brulicava di piccoli siofra, che, coi loro berretti rossi, somigliavano a funghi. Le circondarono, cercando di strappare loro i fagotti di mano e di farle inciampare, insultandole, finché Viviana non reagì tirando dei sassi. A quel punto si allontanarono, svanendo nel buio, e intorno alle depresse viaggiatrici rimasero solo il rumore del torrente e l'impressione di essere spiate da occhi antipatici. Poco tempo dopo, le nubi nascosero completamente le stelle. Scivolando e barcollando, le ragazze proseguirono alla cieca nelle tenebre. Nel regno degli unseelie, Tahquil non se la sentiva di togliersi il guanto sinistro per servirsi delle proprietà illuminanti dell'anello. Ostacolate da rocce sporgenti, rupi, crepacci, archi di radici messe allo scoperto dall'ultima inondazione, e masse di felci, le viaggiatrici si chiesero se ci avrebbero messo tutta la notte per arrivare al fiume. I tuoni che rotolavano in distanza si avvicinavano sempre più, mettendo le ali ai piedi di Tahquil e delle sue compagne, ma su quel terreno la peggior nemica era la fretta. Una gamba rotta o una caviglia slogata avrebbero
avuto conseguenze fatali. Oltre al tambureggiare dei tuoni e allo scrosciare dell'acqua, cominciarono a udire un tintinnio di nacchere, un coro di risatine, un cicaleccio di parole incomprensibili in lingue sconosciute... e tuttavia ciò poteva essere uno scherzo della fantasia, un'allucinazione costruita dal miscuglio dei semplici rumori della natura. Tahquil aveva perfino l'impressione di sentire un'orchestra di violini, e la strana melodia continuava a echeggiare attraverso le stanze più interne della sua testa. Non vi fu modo di fermarsi a riposare. A un certo punto cominciarono a cadere grosse gocce di pioggia, che baciavano le guance delle viaggiatrici con gelide labbra. Nessuna parlava. Nessuna emetteva un suono, salvo un ansito quando perdeva momentaneamente l'equilibrio, o un gridolino se un sasso le graffiava una caviglia, o un'esclamazione di sorpresa dinanzi a un'inaspettata eccentricità del terreno. Per tutta la notte continuarono a scendere verso la valle, mentre le nubi si facevano sempre più basse e pesanti sulle loro teste, e il tambureggiare dei tuoni più vicino. Nel cielo si accumulavano immense cariche elettriche. Prima che sorgesse il sole su quel cupo panorama dilagò un agghiacciante gemito eldritch: un coro di voci gracchianti e acute, così selvaggio che le ragazze si sentirono rizzare i capelli sul collo. Fu all'uhta che avvistarono il guado. Per un momento, uno squarcio tra le nubi permise a un raggio di luce di lambire il suolo. La foce di Forza Nera, sulla sinistra, si allargava ampia e quieta. Davanti a loro, notarono una lunga fila di macigni piatti, come la ragazza-cigno aveva detto. Scuro come l'ossidiana, il torrente ne sfiorava i bordi superiori. La riva opposta era nascosta sotto fitte chiome di ombrellifere. Proprio allora il cielo cominciò a riversarsi sulla terra. La pioggia cadeva obliqua, spinta dal vento. La corrente di Forza Nera aggredì con rinnovata esuberanza le pietre piatte, roteando intorno a loro in vortici fruscianti e sollevando schizzi. La superficie delle pietre luccicava, bagnata, e le più basse erano già sparite sotto un velo d'acqua. «È troppo tardi, il fiume ci trascinerà via!» gridò Caitri sotto il frastuono della pioggia, del vento e dei fulmini che crepitavano sui monti. «La ragazza-cigno ci ha dato un consiglio sciocco e impossibile... dobbiamo tornare indietro!» Tahquil volse la faccia rigata di pioggia verso la fanciulla. «No. Se non attraversiamo ora, ci vorranno molti giorni prima che le acque di Forza
Nera tornino ad abbassarsi. È pericoloso indugiare troppo in un posto del genere, pericoloso per quanto ci attende più avanti non meno che per quanto abbiamo dietro le spalle. Non oso perdere altro tempo.» La ragazza tolse dal sacco una corda e se ne legò un capo intorno alla cintura. Ne misurò alcune braccia e fece lo stesso con Caitri, poi offrì l'altro capo a Viviana. «Attraversare adesso è una pazzia!» strillò la cameriera. «Io rimango qui.» «Restare sola nel Lallillir è una pazzia ancor peggiore», la avvertì Tahquil, controllando i fagotti che aveva con sé. «E a ogni momento che sprechiamo qui a discutere, l'acqua si alza. Andiamo!» Scese sulla riva erbosa del corso d'acqua. La pietra più vicina era a due braccia o più di acqua turbinosa. Indietreggiò di un paio di passi, prese la rincorsa e saltò, atterrando senza troppe difficoltà sull'isoletta. Da lì saltò sulla seconda. «Caitri?» Dopo un'esitazione la fanciulla la raggiunse. Tahquil l'aiutò a non perdere l'equilibrio, si voltò e vide che Viviana saltava sulla prima pietra. La pioggia le investiva con violenza, a torrenti, accecandole come una massa solida. Tempestava sulle loro teste, sulle spalle, sui fagotti. Appesantiva gli abiti, riempiva gli stivali, le bocche, le orecchie. Ti piego, ti piego, ti piego, sembrava dire. Ti affogo, ti affogo, ti affogo, le faceva eco la massa d'acqua sempre più alta del torrente. Come improbabili rane, le tre viaggiatrici saltarono da una pietra all'altra, e ogni atterraggio era accompagnato da schizzi. Sotto la pioggia, l'acqua era un drago d'argento; la sua superficie appariva laminata di scaglie formate dalle gocce. E il drago si torceva e rumoreggiava. Tornare indietro era ormai impossibile. Le pietre centrali erano già state raggiunte. Adesso la riva nord distava quanto la riva sud, ed entrambe le rive erano invisibili. Intorno a loro vi era uno spazio oscuro e nebuloso, fatto di pioggia senza confini. Tahquil balzò sull'isoletta successiva. I suoi piedi sprofondarono nel palmo d'acqua che la copriva, e anche così la corrente era tanto forte che la spinta bastò per farla vacillare. D'un tratto la corda legata intorno alla sua cintura le premette dolorosamente contro le ginocchia. Qualcosa la stava tirando in basso con violenza. E Caitri, che fino a un momento prima era un'ombra visibile oltre un sipario di pioggia, era scomparsa. La fanciulla doveva essere caduta nell'acqua, che la stava trascinando via.
Tahquil si accovacciò, piegandosi dalla parte opposta per contrastare la pressione, e trasse a sé la corda con tutta la sua forza. I suoi tendini s'irrigidirono. Con la coda dell'occhio vide la figura di Viviana, anche lei accovacciata, che stava facendo lo stesso. La corrente ribolliva, biancheggiava e si sollevava in schizzi contro la testa di Caitri che emergeva dall'acqua poco più a valle, trattenuta dalla corda. Quando finalmente la tirarono su una pietra, la fanciulla era ancora cosciente, ma Forza Nera aveva portato via tutti i suoi fagotti, e il livello dell'acqua continuava a salire. Tahquil strinse Caitri fra le braccia, e le parlò all'orecchio. «Non ho la forza di portarti di peso. Se cadessimo nel fiume tutte e due insieme saremmo perdute. Devi farcela da sola.» «Tagliate la corda», ansimò Caitri. «Io resto qui. Voi andate.» «No.» Tahquil la rimise in piedi, poi la lasciò e saltò oltre la cortina di pioggia verso la pietra successiva. La sua sola speranza era che Caitri, non riuscendo a slegarsi, ricorresse alla forza della disperazione per seguirla, e quando la vide sbucare dal nulla per piombarle addosso fu un sollievo. Viviana arrivò subito dopo. L'acqua arrivava ormai alle ginocchia delle tre ragazze. Da lì a poco le avrebbe trascinate via come pagliuzze, riempiendo loro non solo gli occhi ma anche i polmoni e gli ultimi momenti della loro vita. Stringendo le palpebre sotto quella doccia incessante, Tahquil intravide una parete scura: gli alberi sul lato settentrionale. Ingoiando aria e acqua, annaspando contro la roccia con gli occhi colmi di buio, alla fine raggiunsero la riva. Per qualche minuto giacquero nella fanghiglia, troppo spossate per aver paura; poi si trascinarono al riparo delle piante, dove continuarono a inzupparsi di acqua. Poco più tardi, un vago lucore le informò che stava spuntando l'alba, e i loro occhi cominciarono a ricevere immagini della foresta a nord di Forza Nera. Tremavano di freddo e, sotto un albero mezzo crollato, sorseggiarono un po' di nathrach deirge. Non appena si furono rinfrancate, si alzarono e barcollarono via, alla ricerca di un posto asciutto dove trascorrere la giornata. Niente, nella vallata, si salvava dalla pioggia; non una foglia, non un ciuffo di erba, non un sasso. Tutto era umido e grondava acqua. Piovve tutto il giorno senza interruzione. Il pane nero, che era quanto restava della loro scorta di cibo, si era infradiciato nei fagotti diventando poltiglia nera. Le tre viaggiatrici bevvero Sangue di Drago e cercarono inutilmente di ripararsi sotto il tronco di un albero caduto. Dormire fu im-
possibile. Il continuo rumore dell'acqua sui cappucci risuonava nelle loro teste; il rombo della pioggia alzava intorno a loro un muro che non consentiva il passaggio a nessun altro suono. Erano sorde a tutto, fuorché al tempestare dell'acqua. Quando scese la sera, il diluvio si placò. Alle ultime luci del giorno, Tahquil andò in cerca di salici nella speranza di trovare qualche sfera di Buonpane. Forse i suoi occhi erano offuscati dalla sabbia della mancanza di sonno, forse quelle piante elusive non crescevano a nord di Forza Nera; qualunque fosse la ragione, non ne vide neppure una. Caitri trovò un tronco d'albero che era caduto sopra un altro. Quello di sotto era così marcio che lei poté sfondarne la corteccia con una mano. Nell'interno vi era una massa di detriti fibrosi disseccati che la pioggia non aveva raggiunto. In breve le ragazze ne fecero un mucchio e gli diedero fuoco. I loro abiti cominciarono ad asciugarsi. Era ormai notte, e Tahquil stava guardando il fuoco, muta e pensosa. Le fiammelle si riflettevano nel fondo dei suoi occhi. Quando l'anello-foglia inaspettatamente le diede una stretta al dito, lei distolse lo sguardo, cercando di riabituare la vista al buio, e mormorò un avvertimento alle compagne: «Qui intorno ci sono dei wight». Qualcosa che sembrava un'efflorescenza verde, alta e sottile, apparve tra i cespugli. La cosa era vagamente luminosa, come una delle strane piante notturne della foresta. Tahquil sbarrò gli occhi nel vederla muoversi. Trattenne il fiato. Possibile che sia una donna talith? La figura vestita di verde si fece avanti. I capelli erano biondi come i narcisi, con sfumature di oro pallido. La veste in cui era drappeggiata sembrava fatta di foglie satinate, stretta in cintura con una fascia di gigli d'acqua. Piccoli fiori verdi erano fissati - o piuttosto radicati - nei suoi capelli. Benché molto attraente, il volto non era umano. La luce del fuoco le costruiva addosso strani riflessi liquidi che la percorrevano da capo a piedi; non appena fu più vicina, si poté vedere che grondava acqua. Quando si fermò, intorno ai suoi piedi si allargò subito una piccola pozzanghera. A differenza dei fuath e dei capelli delle creature del mare, i gruagach non potevano asciugarsi mai. La gruagach aprì i petali della sua bocca di rosa fluviale. «Posso asciugarmi al vostro fuoco?» La sua voce aveva un tono un po' roco, ricco di sfumature in qualche
modo verdeggianti, vegetali. Tahquil ricordò il commento della ragazzacigno: «Parlano bene». «Sei la benvenuta», rispose cortesemente, celando la sua apprensione. Innervosite, Viviana e Caitri si scostarono dalla visitatrice eldritch, che le guardò da sotto le pesanti sopracciglia e allungò le mani dalle lunghe dita verso il fuoco. L'acqua le scivolava lungo le braccia sottili e colava giù dai polsi. «Che le stelle mi salvino», sussurrò Caitri, a occhi spalancati. Si aggrappò agli orli del suo mantello sgualcito, come un mortale in procinto di affogare si sarebbe aggrappato a uno stecco galleggiante. Viviana aveva accostato una mano al coltello che le pendeva dalla cintura. Intercettando il suo sguardo, Tahquil scosse il capo. Dalla notte sbucarono altri gruagach. Fecero la stessa domanda e ricevettero la stessa risposta. Il secondo a farsi avanti fu un wight di aspetto maschile, nudo e peloso. Il terzo, un giovane snello e attraente, vestito con un abito di lattuga verde e papaveri rossi. «Dovremmo già essere in viaggio, a quest'ora», mormorò Viviana a Tahquil, celandosi la bocca con una mano. «Voi avete detto che non abbiamo tempo da perdere.» «Stai suggerendo di lasciare qui i nostri visitatori e andarcene?» replicò sottovoce lei. «Dovremmo offenderli, e poi voltare loro le spalle? No. Finché restano, dobbiamo restare anche noi. Approfitta di questa sosta. Dormi.» Ignorando l'intrigante fenomeno della virilità scoperta del wight, Caitri si stava già appisolando, rannicchiata su se stessa come una gatta. Quando Tahquil tornò a voltarsi verso la femmina gruagach, vide invece una vecchia rugosa e macilenta che protendeva le dita ossute verso il fuoco. L'acqua scorreva lungo le sue braccia magre e sgocciolava dai polsi. Con un brivido, Viviana fece per alzarsi. «Attenta!» la trattenne Tahquil, prendendola per un gomito. Fu insolitamente facile fermare la cameriera; forse non era cosi ansiosa di andarsene, dopotutto, oppure non poteva opporsi alla presa della mano con l'anellofoglia. «Da quando hai toccato quei frutti goblin, non sei più te stessa», disse Tahquil. «Siete voi, quella che è cambiata», sbuffò Viviana. Tahquil guardò la vecchia. Era di nuovo una bella ragazza giovane, con lunghi capelli d'oro come il sole estivo sull'acqua. Una rana di giada era
appollaiata su una sua spalla. «Il latte di mucca è dolce», dichiarò all'improvviso l'individuo nudo e peloso. La sua pelle continuava a essere bagnata. I riccioli bruni e la barba gocciolavano come se fosse appena uscito dal fiume. Una lunga peluria gli copriva il petto e la schiena, le ascelle e il basso ventre, le braccia e il dorso delle mani. «Se avessimo del latte saremmo liete di dividerlo con voi», si scusò Tahquil. «Purtroppo non ne abbiamo.» Sotto le sopracciglia del gruagach gli occhi scintillavano di luce smeraldina, simili a quelli di un'annegatrice. Li rivolse verso il fuoco e allungò su di esso le mani larghe e rozze. L'acqua colò e sfrigolò, e si alzarono refoli di vapore. Dalla parte dei gruagach il terreno era leggermente inclinato; se così non fosse stato, le tre mortali si sarebbero trovate a sedere nella pozzanghera sempre più larga sulla quale galleggiavano minuscoli fiorellini verdi e bianchi. «Shillava shillava, sonsirrilon delahirrina.» La voce del giovane attraente, vestito di verdura verde e fiori rossi, era come il gorgoglio dell'acqua sulla roccia, un sospiro di canne smosse. «Immergi», fu l'enigmatica risposta della ragazza dai capelli d'oro. Quella fu tutta la conversazione coi gruagach che si asciugavano inutilmente al fuoco, e per Tahquil fu un sollievo. Un po' più tranquilla, rinfrancata dal calore, non poté far altro che restare vigile. Poco dopo notò che la bella femmina era di nuovo diventata una vecchia, ancor più decrepita che in precedenza. La loro mente è troppo aliena per me... All'alba, i wight acquatici erano scomparsi. Una traccia d'acqua e di fiorellini bianchi e verdi conduceva giù per il pendio a una quieta insenatura del Fiume Nero. Le tre compagne la seguirono fin sulla riva e si fermarono lì, sotto i cipressi, a guardare la superficie liquida. Dall'acqua sporgevano numerosi ramoscelli, punteggiati di foglie a forma di freccia. I fiori di quelle piante erano tripetali, con uno stame purpureo e lunghi pistilli culminanti con sferette bianche. «I tuberi delle punte-di-freccia contengono amido. Sono commestibili», disse Tahquil. «Ma non ci saranno i gruagach, qui sotto?» si preoccupò Caitri, scrutando l'acqua torbida.
«Ne dubito. Penso che guidarci qui sia stato il loro modo di ricompensarci della nostra alquanto inutile ospitalità.» Tahquil si tolse gli indumenti umidi ed entrò nell'acqua, addentrandosi tra i verdi piatti galleggianti delle ninfee. Il freddo fu una sorpresa, come uno schiaffo in faccia, e il fango le penetrava fra le dita dei piedi. Sentì le masse solide dei tuberi quando ci camminò sopra e le giudicò facili da scalzare; poi prese una lunga boccata d'aria e s'immerse, scavandoli fuori del fondale con le mani. Riemerse poco più lontano, tra le erbe, con l'acqua che le arrivava ai fianchi e i lisci capelli appiccicati al corpo come foglie umide. Tornò verso riva e offrì alle amiche i tuberi che aveva estratto. Loro li presero dopo qualche esitazione, guardandola come se avessero paura di lei. Caitri disse, cautamente: «Forse gli occhi m'ingannano. Voi siete una di quelle creature che...» Tahquil le schizzò acqua in faccia. «Non sono un wight del fiume! Anzi, sono stanca di stare a mollo e non vedo l'ora di asciugarmi. Non sarei sorpresa se mi crescessero le branchie come ai pesci.» E si tuffò una seconda volta. Quando i succulenti tuberi furono raccolti, cucinati e in parte mangiati, il sole aveva raggiunto lo zenit, benché nascosto dallo spesso strato di nuvole che copriva il cielo. Con lo stomaco pieno, le ragazze alimentarono il fuoco e dormirono fino al tramonto. «A quanto ha detto l'urisk, il Ponte Nero attraversa il Fiume Corvo a monte della confluenza col Fiume Nero», illustrò Tahquil, riempiendo lo zaino coi tuberi di punta-di-freccia cotti. «Dobbiamo risalire di nuovo il versante, e proseguire tenendoci sulla destra, lontano dal fiume.» «Del resto, a sentire la ragazza-cigno, la zona bassa della valle è infestata dalle culicide», osservò Caitri. «La pioggia deve averle scacciate, per il momento», replicò Tahquil. «Ma senza dubbio torneranno presto.» S'incamminarono su per il versante dirette a nord-est, dove calcolavano che dovesse trovarsi il Ponte Nero. Quella notte cadde ancora una pioggia monotona e asfissiante. I loro malconci mantelli da pescatore non erano più molto impermeabili, e l'acqua le inzuppò da capo a piedi. Avevano gli stivali pieni di fango. Negli intervalli tra un acquazzone e l'altro, dalle chiome degli alberi colavano gocce ancor più pesanti, e dal suolo si alzava una nebbia fitta. L'oscurità
era così profonda che dovevano tenere le mani davanti alla faccia per non rischiare di essere ferite dai rami. «Ho i capelli pieni di parassiti», si lamentò Tahquil, asciugandosi l'acqua dagli occhi. Cominciava a vedere i vantaggi di un pomeriggio nel deserto. Il venticinquesimo giorno di Uainemis, la pioggia si spostò a oriente. Mentre le viaggiatrici dormivano, o montavano la guardia insonnolite, il cielo si schiarì. Sul Lallillir tornò a brillare il sole dell'estate, e la valle cominciò a fumare come una tazza di vino bollito tra le mani intirizzite di una sentinella notturna. Le tre ragazze ripiegarono i mantelli impermeabili nei loro fagotti. «Non ho bisogno di sporcarmi la faccia per non farmi riconoscere», disse Tahquil. «Sul mio lato rivolto a nord è cresciuto il muschio, come sugli alberi.» I Monti Wold erano calati molto sulla loro destra, e il territorio stava per livellarsi con quello delle valli del Fiume Elfin e del Fiume Corvo. Il giorno dopo le ragazze si lasciarono i monti alle spalle. Verso sera la regione in cui viaggiavano aveva cambiato aspetto. D'un tratto si trovarono il cammino sbarrato da un profondo canyon. Gli abeti di montagna vi crescevano fitti, misti a felci arboree e bassi cespugli. Nella nebbia il terreno si abbassava, una terrazza dopo l'altra, verso la larga e dritta lama di un fiume nero come una fogna: il Fiume Corvo. Lontana, sulla destra, una forma sottile e ardita superava il vuoto con una lunga campata. A sostenerla vi erano archi altissimi di pietra basaltica dura come il ferro. Il Ponte Nero appariva quasi delicato a quella distanza, disegnato e abbellito dalla penna di un architetto geniale quanto folle. Dopo essere scese sotto gli abeti di montagna, le viaggiatrici trovarono uno scomodo rifugio tra le radici degli alberi e lì trascorsero il giorno, in una vaporosa penombra verdolina. Al tramonto si alzò il vento. L'ululato che strappò il mantello della sera non somigliava a nulla che Tahquil avesse mai udito. Né gli eldritch avvisatori di tempesta, né gli uccelli divoratori di carogne emettevano un verso di quel genere. Era un suono gelido e insieme melodioso, che cominciava con una nota bassa e saliva improvvisamente in una serie di toni acuti, per poi scendere di nuovo in un urlo primitivo come l'istinto, selvaggio quanto la fame e il vento, più remoto e solitario della luna. Nell'udirlo, Viviana imprecò in cortigianese e balzò in piedi, voltandosi a scrutare tra gli alberi che davano loro riparo.
«Cos'è che ulula in questo modo?» gemette Caitri seguendo il suo sguardo, come se si aspettasse che qualcosa di terribile incombesse già sopra di loro. «Sei svelta ad arrampicarti sugli alberi?» replicò l'altra cameriera. «Quello era l'ululato dei morthadu!» E afferrò svelta un ramo. Tahquil la trattenne. «A cosa servirebbe metterci in trappola su un albero? I morthadu non sanno arrampicarsi, è vero, ma se sentono il nostro odore ci assedieranno finché non cadremo giù, indebolite dalla fame e dalla sete. Noi siamo sottovento rispetto a loro... sono certa che non ci hanno scoperto. Guardate... il vento che agita le foglie viene da nord-est, ovvero dalla stessa direzione da cui è giunto quell'ululato.» «Ma quella è anche la direzione in cui si trova il ponte», obiettò Viviana. «Io preferirei oltrepassare quel ponte», dichiarò Caitri, «e trascorrere qualche giorno su un albero a mangiare frutta, piuttosto che essere assediata su un abete e avere da mangiare soltanto la corteccia.» «In un modo o nell'altro, poi finiresti nella pancia di quei wight», ribatté Viviana, con una smorfia. L'ululato si fece sentire ancora, echeggiando vertiginosamente nel canyon dove scorreva il fiume. «Non possiamo tornare indietro», rifletté Tahquil accigliata. «E deviare a est oppure a ovest significa soltanto restare nel Lallillir. Dobbiamo lasciarci alle spalle questa umida terra, e l'unico modo è attraversando il Fiume Corvo. Finché il vento continua a soffiare da est siamo al sicuro...» «Oh, sì, e i morthadu resteranno seduti là, naturalmente, dove non possono sentire il nostro odore», disse Viviana, con sarcasmo. «Si muoveranno», ammise Tahquil. «Ma con un po' di fortuna, sempre sottovento rispetto a noi. E comunque...» «Non abbiamo scelta», finì per lei Caitri. In silenzio, per quanto possibile, le tre ragazze s'incamminarono verso il ponte. Qualche ora dopo il sole si alzò, in un tripudio di colori rosati. Non un solo raggio sfiorò il fondo del canyon dove scorreva il Fiume Corvo, che restò nell'ombra. Sulla destra, oltre le ultime propaggini della valle da cui il fiume usciva, grandi uccelli scuri roteavano nel cielo. «Ascoltate», disse Tahquil, con espressione concentrata. Il vento portava con sé i cinguettii dei volatili, vaghi rumoretti del sottobosco e il fruscio dell'acqua.
Dopo un po', Caitri domandò: «Cosa dobbiamo ascoltare?» «L'ululato. Non si sente più.» «I morthadu sono esseri notturni», replicò Viviana. «Credevo che tutti lo sapessero.» «Infatti, e questo significa che forse dormono», disse Tahquil. «Ma se loro dormono, noi siamo sveglie. Oggi, invece di riposare, continueremo il cammino fino al Ponte Nero e lo attraverseremo.» Le compagne non fecero obiezioni, ma erano stanche, dopo aver marciato per tutta la notte. A pancia vuota e senza potersi riposare sedute davanti a un fuoco, tirarono avanti come tre accattone cenciose e sporche. I loro abiti, già malridotti quando li avevano trovati nella casupola del pescatore, erano diventati qualcosa d'indefinibile. Gli stivali, a lungo inzuppati d'acqua e di fango, si stavano spaccando intorno ai loro piedi. La polvere le copriva di uno strato grigio. Perfino i loro occhi non erano più dello stesso colore, perché il bianco della sclerotica aveva una rete di venuzze purpuree. «Cosa indossa di bello la Regina, cosa sfoggia la nobile sovrana? Che gioielli si è messa stamattina, quali stoffe questa settimana?» canticchiò Viviana. «Sono diamanti quelli sulla marsina, è ricamata d'oro la sua lana?» «Abbassa la voce!» la rimproverò Caitri. Viviana rise e continuò a cantare: «No, la sua gonna è uno straccio tignoso, i suoi diamanti sono vetri rotti. L'hanno trovata in un vicolo fangoso, che si vendeva ai passanti più sciatti». «Vuoi rivelare a tutti la nostra presenza?» le chiese Tahquil. «Vuoi che quei wight mi riconoscano?» Viviana scrollò le spalle. «Che io canti o no, fa poca differenza. Chi poteva scoprire che siamo qui lo ha già scoperto. E i morthadu, come avete detto voi, probabilmente dormono.» E mugolò un ritornello senza parole. «Per favore, Via.» La cameriera sorrise, anche se non con gli occhi, e continuò a canticchiare. Caitri si mise le mani sui fianchi. «Via, se non stai zitta, ti getteremo per terra e ti riempiremo la bocca di stracci.» Il mugolio cessò. «È un peccato che la pioggia non abbia potuto lavarti via il ricordo dei frutti goblin», sospirò Tahquil. Due lacrime apparvero negli occhi di Viviana. «Non posso farci niente»,
disse. Poi sbatté le palpebre, le lacrime caddero, e nelle sue pupille tornò a cristallizzarsi uno sguardo freddo, remoto. Quando furono a metà strada lungo il pendio, l'anello-foglia diede una stretta al dito di Tahquil. Lei alzò una mano indicando sulla destra, e le altre due si affrettarono a nascondersi nell'ombra di un tiglio. «Non vedo nessun percolo», disse Tahquil dopo un po'. «Dov'è la ragazza-cigno quando abbiamo bisogno di lei?» si lamentò Caitri. Il dito di Tahquil cominciava a farle male, nella stretta dell'anello. Si tolse il guanto e poi sfilò anche il cerchietto d'oro, tenendolo sul palmo. Intorno all'anulare non era rimasta un'impronta arrossata; la pelle era intatta. Caitri si stava ombreggiando gli occhi con una mano, e fissava con attenzione il Ponte Nero. «Non ne sono certa, ma credo di vedere delle cose che si muovono, laggiù», mormorò. Tahquil guardò ancora. «Potresti aver ragione.» Con un lampo d'ispirazione, si portò l'anello davanti all'occhio destro, come una lente. All'istante il mondo si espanse e si arricchì di dettagli. Tutto appariva ingrandito e molto nitido. Lei mise a fuoco il ponte. La poderosa struttura superava la profonda gola in fondo alla quale l'acqua scorreva liscia come l'olio; vista da vicino appariva di fattura straordinaria quanto malridotta. Tra le grandi pietre basaltiche degli archi a chiave di volta si erano allargati spazi in cui cresceva il muschio, e ogni angolo e spigolo era sbrecciato. Le figure grottesche scolpite ovunque erano consumate da secoli di piogge. Il ponte era una struttura antica, misteriosa, sopravvissuta alla stessa strada di cui aveva fatto parte, e ormai da molto tempo in rovina. All'estremità più vicina del ponte, all'ombra di una delle statue che ornavano le basse spallette, vi erano due quadrupedi snelli e neri, i cui occhi ardevano rossi come braci. Sulla riva opposta le erbe si stavano muovendo in un modo che non poteva essere imputato al vento. «Ce ne sono cinque che camminano da questa parte del canyon, e due fermi all'inizio del ponte», disse Tahquil sottovoce, meravigliata. «Esserilupo. I morthadu. Sospetto che altri della loro razza siano di sentinella dall'altra parte.» Lentamente mosse l'anello verso destra per esaminare il resto del territorio. Due possenti forme feline si scostarono da un albero caduto, e scivolarono flessuose nell'ombra delle felci arboree. «E questo non è ancora il peggio. Laggiù ci sono anche due malkin grigi. Essendo bestie lorraly, mortali fino all'osso, non hanno nessun problema ad attraversare
l'acqua del Fiume Corvo.» Una ciocca di capelli le si spostò sulla faccia. «Obban tesh! Il vento sta girando da sud. Se continuerà a girare, porterà sicuramente il nostro odore fino a loro.» «E adesso?» domandò Caitri. «Siamo in stallo, almeno per il momento. Non possiamo rischiare un attacco dei malkin o dei morthadu... neppure la ragazza-cigno oserebbe affrontarli. Quei grossi gatti la farebbero a pezzi e se la mangerebbero, eldritch o no... e noi faremmo la stessa fine.» «Penso che temano il fuoco», suggerì Caitri, incerta. «E dove lo troviamo un ramo asciutto?» obiettò Viviana. «Per non parlare del materiale per costruire qualche torcia. E poi, se piovesse e le torce si spegnessero? Gli alberi sono ancora così carichi di acqua... vedete?» Scrollò una felce arborea, mollando un calcio al suo tronco fibroso. Una piccola doccia le arrivò addosso. Lei rise e si passò una mano tra i capelli umidi. «Taci!» ordinò Tahquil. «Il vento porta i suoni lontano, e quelle bestie hanno orecchie acute.» «Questo v'impedisce di chiamare la ragazza-cigno, suppongo», ribatté Viviana poco interessata. «Non che ci sia stata di molto aiuto, finora.» Come in risposta, un'ombra rapida passò su di loro. Il cigno nero atterrò dietro un albero e subito riapparve nella sua forma umana, scostando le fronde di malachite. Le sue penne erano un po' arruffate, e per la prima volta sembrava aver abbandonato il suo freddo distacco. Con un gesto da uccello girò la testa per guardarsi intorno, chiaramente innervosita. Le pupille dei suoi occhi avicoli erano dilatate come soli neri. La sua razza detestava assumere quella forma durante il giorno... soltanto una situazione eccezionale poteva averla indotta a quell'iniziativa così estrema. «Rischio», sibilò senza preamboli. «Gli sgradevoli esseri-lupo sorvegliano il terreno. Insieme, cacciano i flessuosi malkin. Felini e unseelie attendono qualcuno. Più indietro altri rischi sopraggiungono dal Lallillir. Molti wight d'acqua, e cantatrici succhia-spirito. Le tre che vanno a piedi devono con urgenza sorpassare le violente acque.» «Come possiamo eludere i felini e gli esseri-lupo che sorvegliano il ponte?» domandò Tahquil. «Tu non puoi portarci in volo oltre il Fiume Corvo, non è così?» «Sono numerosi i modi per la traversata. Seguite. Seguite.» Le viaggiatrici tennero dietro alla ragazza-cigno giù per il versante sco-
sceso del canyon, tra le foglie smeraldine delle felci arboree. Strati di muschio scricchiolavano sotto i loro piedi. Whithiue le stava conducendo a sinistra, più a valle rispetto al ponte. Era impossibile capire cosa si fosse proposta di fare. «C'è un secondo ponte?» ansimò Caitri. «Io ne ho visto uno solo», rispose Tahquil. Il vento aveva girato da sud. Un ululato lungo e triste echeggiò nel canyon. Le ragazze tacquero e si concentrarono sulle difficoltà del percorso. Dopo due ore o forse più, Tahquil rifletté che scendendo con quell'inclinazione dovevano aver ormai raggiunto il fondo del canyon. Il rumore del Fiume Corvo era un fruscio strano e uniforme, intenso, come se le pareti tra cui scorrevano le acque fossero lisce come il vetro. A un certo punto le felci arboree si aprirono e apparve il fiume, appena cinque o sei braccia più in basso. Nessuna roccia sporgeva dal fondo o dalle pareti a ostacolarne il corso, e la superficie del Fiume Nero appariva ingannevolmente liscia e tranquilla; ma le strisce di schiuma correvano via a una velocità incredibile. Le tre viaggiatrici restarono a bocca aperta, sgomente. «Non so su che razza di barca voglia farci salire!» dichiarò Caitri. «Nessun vascello potrebbe navigare su questa corrente. Anche la più grande Nave d'Acqua verrebbe trascinata via fino al mare, senza la minima speranza di approdare alla riva opposta.» La ragazza-cigno si era fermata davanti a una caverna, e fece loro cenno di raggiungerla. Il suo mantello di penne grondava gocce d'acqua dopo il lungo cammino tra le felci ancora bagnate. Stupita, Tahquil vide che quello che le era parso un antro era invece un grande ingresso scavato nella parete del canyon; un portale, alto e imponente, i cui montanti erano bizzarramente scolpiti in forme grottesche uguali a quelle del Ponte Nero, e altrettanto antico e corroso. I rampicanti e il muschio che ricoprivano la parete rocciosa, oltre al terriccio ammucchiato al suolo, non potevano nascondere che in parte la sua origine artificiale. La ragazza-cigno indicò la camera interna, in fondo alla quale si apriva una porta assai più piccola, anch'essa seminascosta dai rampicanti. «Ecco il principio della scala», rivelò. «Essa è profonda. Molti scalini adducono al sottosuolo. Un passaggio prosegue sotto le acque correnti. Esso è la storica Via Sotterranea, preclusa ai wight più di ogni altra perché le acque correnti sopra il suo tetto hanno immensa violenza. E i felini mortali temono questo ingresso.» All'improvviso si voltò a guardare il percorso che avevano appena seguito. Le felci arboree ondeggiavano. «Voi anda-
te in tutta fretta! I selvaggi inseguitori hanno avuto l'odore della carne fresca, e sono qui!» Mentre le tre compagne correvano verso la porta interna, i rumori si avvicinarono. Tahquil fece passare per prime le altre due. Perché i malkin dovrebbero aver paura di entrare qui? si domandò mentre allungava un piede nel buio alla ricerca degli scalini. Ma non c'era tempo per pensare. Nell'aria risuonavano latrati avidi. Corpi che sembravano fatti di energia oscura e in cui pulsavano occhi di brace corsero fuori della vegetazione. Una forma nera spalancò le ali e si lanciò rapida nel cielo: la ragazza-cigno aveva preso il volo. Il primo dei grossi felini fece irruzione nell'atrio e balzò verso la piccola porta sul fondo. Due zanne spalancate cercarono di chiudersi addosso a Tahquil mentre la donna seguiva le compagne, e le sfiorarono una manica, strappandole il tessuto. Ancora non coperto dal guanto, l'anello-foglia mandò un lampo abbagliante come il cuore di una stella. Gli occhi di brace si spostarono e scomparvero. Poi, sotto le suole degli stivali ci fu la polvere umida degli scalini, e le tre ragazze scesero svelte nel sottosuolo. Nella fluorescenza color zafferano dell'anello, discesero per cinquecento e ottantotto corrosi scalini che affondavano nelle profondità della terra quasi in verticale, come un trapano. A volte le pareti si chiudevano in uno stretto budello entro cui la scala sembrava passare a stento. Altre volte intorno a loro si allargava uno spazio tenebroso dove le rampe si addentravano probabilmente sospese sopra pilastri lunghi e sottili, anche se non era possibile vedere niente che le sostenesse. D'un tratto, Tahquil fu costretta a una sconfortante constatazione: la sua anforetta di nathrach deirge era sparita. Durante l'ultima concitata discesa verso il fondo del canyon, mentre doveva correre per stare dietro alle compagne, il laccio con cui la teneva appesa al collo si era impigliato in qualcosa, forse in un ramoscello. D'istinto lei si era liberata da quell'ostacolo senza pensare a niente. Soltanto più tardi, portandosi la mano alla gola, aveva avvertito una scalfittura sulla pelle liscia, dove pulsava la carotide destra, e si era accorta di aver perduto quel dono che per mesi le era stato prezioso. Sentiremo la mancanza di quell'anforetta. Quaggiù regna il freddo. La scala era diversa dalle vie sotterranee del Doundelding e delle caverne di Beithir. Prima di tutto non vi erano fungosità fosforescenti a fornire una comoda illuminazione, e l'aria non aveva quell'odore ionizzato. Era un'aria morta, benché non del tutto: non si trattava di un'aria che per eoni
non era stata smossa dal passaggio di creature viventi, e si capiva che ogni tanto aveva conosciuto il contatto della luce del sole e delle foglie, prima di tornare giù nel sottosuolo. Dunque era ventilata. Chissà se vi erano anche polmoni a respirarla. Quel pensiero aveva risvolti preoccupanti. Perché i malkin hanno paura di avventurarsi sotto il Fiume Corvo? Che la ragazza-cigno si sia irritata al punto di volersi vendicare perfidamente? Ma no, le creature eldritch non possono venir meno alla parola data... e lei ha promesso di farci arrivare salve a Cinnarine. Forse considera la Via Sotterranea come parte di Cinnarine... Dopo aver contato cinquecento e ottantotto scalini, le ragazze giunsero sulla pavimentazione livellata di un tunnel. Molte necessità ora le assillavano, non ultima la fame. Ma la loro scorta di tuberi era finita, e da bere avevano soltanto l'acqua che colava dal soffitto; la scala le aveva portate al di sotto dell'alveo del Fiume Corvo. Caitri si afflosciò al suolo. Da quanto tempo non dormiamo? Il raziocinio di Tahquil era offuscato dalla stanchezza, dalla fame e dalla nostalgia. Il buonsenso mi abbandona. Non riesco a pensare con chiarezza. Non dobbiamo smettere di muoverci. «Caitri non si è mai ripresa del tutto, dopo esser stata colpita dal veleno degli ælf», disse a Viviana. «Forse avremmo dovuto lasciarla ad Appleton Thorn. Dobbiamo continuare a muoverci, per tener calde le membra.» «C'è il Sangue di Drago», suggerì Viviana. «Non voglio usarlo tutto», replicò in fretta Tahquil. Non voleva rivelare la verità in quel momento, per non deprimere ancora di più le compagne. «Ma l'anforetta è inesauribile», obiettò Viviana. «Non esattamente. Lasciamolo per quando ce ne sarà urgenza.» «Cosa potrebbe esserci di più urgente?» Caitri emise un vago gemito, come un uccellino ammalato. «Appoggiati a me», le disse Tahquil. «Non sono abbastanza forte da portarti sulle spalle, ma posso sostenerti.» Finché ci riesco. «Coraggio, Caitri», la incitò. «Pensa a quello che ci aspetta alla fine della Via Sotterranea... i ricchi frutteti di Cinnarine, accarezzati dal vento caldo dell'estate.» Caitri si alzò. Passò un braccio sopra le spalle di Tahquil. Viviana la prese per l'altro braccio. «Sì, la frutta», aggiunse quest'ultima con voce impastata, come se avesse l'acquolina in bocca. «Frutta matura e succulen-
ta, che aspetta solo di essere raccolta e mangiata.» S'incamminarono fianco a fianco. Tahquil aveva il volto imperlato di umidità, e non si trattava di sudore. Lì sotto, quelle goccioline ricoprivano anche le pareti: era brina. La Via Sotterranea era abbellita con sculture meno corrose di quelle in superficie. Un gargoyle cingeva una fontana, vomitando getti d'acqua nella vasca. Più avanti vi erano altre fontane più o meno simili ma vuote, con le condutture ostruite. Il tunnel ruggiva leggermente, come la gola di un predatore. Sopra di loro, la massa d'acqua del Fiume Corvo era una presenza opprimente. Tahquil si chiese quanta acqua stesse passando a breve distanza dalle loro teste. La potente energia di quel fiume, che gli esseri umani non potevano percepire, avrebbe forse deciso il loro destino. Era un veleno mortale per i wight che ci fossero passati sopra o sotto. «Storica» era la parola con cui Whithiue aveva definito la Via Sotterranea. Forse aveva inteso dire antica, così antica che il suo uso apparteneva al passato... perché ormai da secoli era sul punto di cedere. Ogni cosa costruita doveva crollare. Un giorno il fiume avrebbe corroso l'ultimo sottile strato di roccia. Mancava poco a quel momento? Vergogna! si rimproverò Tahquil. È comprensibile che gli abitanti della superficie, abituati alla luce, si sentano oppressi da pensieri morbosi nel mondo sotterraneo, il mondo della sepoltura e della putrefazione. Se questo segreto tunnel ha sopportato il peso del Fiume Corvo per tanti secoli, non c'è motivo per cui debba cedere proprio adesso. Il tunnel passava sotto un'arcata scolpita a bassorilievo con carri carichi di grano, e si allargava in una grande sala rettangolare con soffitto a volta. L'irradiazione gialla dell'anello-foglia si dilatò fino alle pareti più lontane. Tahquil si guardò intorno in cerca di altre uscite. Temeva che quel sotterraneo rivelasse una struttura labirintica, come quelli del Doundelding, un intreccio di caverne in cui ci si poteva perdere per sempre. Sui lati non vi erano altre porte. L'unica era quella di fronte a loro, il proseguimento del tunnel. Mentre attraversavano la sala, la parete di destra ebbe uno scossone e dal soffitto cadde una nuvola di pulviscolo. Il cuore di Tahquil balzò contro le costole, come un uccello in gabbia che cercasse disperatamente di fuggire. «Non fermatevi!» gridò. Avevano l'orribile impressione di stare Camminando dentro una melassa. Le loro gambe, sopraffatte dalla fatica, erano lente a ubbidire.
Un fremito si svegliò e corse lungo una forma flessuosa. Una pinna dorsale si erse in parte, bronzea, come un ventaglio semiaperto. Una superficie scagliosa aprì un occhio e poi lo richiuse. L'uscita dalla caverna si rimpicciolì fino a diventare lontana mille miglia, irraggiungibile. «Continuate a camminare!» Un fruscio e un pesante raschiare provennero da entrambi i lati della sala. Di fronte alle viaggiatrici si aprì una bocca di pietra. Inghiottite, le tre ragazze fuggirono da quel posto gettando sguardi spauriti alle loro spalle. Un fruscio di scaglie sul pavimento polveroso. «Cos'è stato?» «Non lo so.» «Può seguirci? Ci sta seguendo?» Tahquil non rispose. Il braccio di Caitri sulle spalle pesava come un collare di piombo. Dopo un poco Viviana disse: «Ci viene dietro». «Lo so», ansimò Tahquil. Qualunque cosa fosse ciò che le seguiva, manteneva la loro stessa andatura. Accelerarono il passo, mentre il ruggito del fiume vibrava sempre più forte. Su un lato del tunnel vi era uno scranno dall'alto schienale scolpito nella roccia, adorno di candele e di spade. Sopra un piedistallo campeggiava una coppa di pietra. Lungo la schiena delle viaggiatrici scivolavano lumache di ghiaccio. Fu solo dopo che il passaggio si fu allargato in una seconda sala, e che ne ebbero attraversato la maggior parte, che la sensazione di qualcosa ormai molto vicino le indusse a voltarsi di scatto. Le ali del gigantesco verme che strisciava al suole dietro di loro si alzarono e presero vita, scintillando di scaglie multicolori. Una lingua nera e biforcuta si allungò fino al soffitto per assaggiare l'aria. «Ci rivedremo all'altro mondo, care amiche», rise Viviana con isterico sarcasmo. «Non ho mai pensato che sarei stata divorata dai vermi prima di finire nella tomba.» Caitri era ammutolita dal terrore. Tahquil protese la mano con l'anello, ma il colossale verme non fece una piega. Dietro di lui ve ne erano altri; i loro corpi avevano smesso di essere roccia coperta di polvere, e brillavano come arcobaleni. «Non hanno paura dell'anello. Ma ho già incontrato uno di questi vermi», disse Tahquil. «A Gilvaris Tarv.» «Allora ditegli il vostro nome», sbottò Viviana. «Forse si ricorderà di voi e sorriderà, mentre ci mangia.»
«Può darsi che mi abbiano riconosciuta davvero, visto che non ci sono ancora piombati addosso.» «Mangiano la gente?» «Sì, ma forse fanno una scelta.» «Se fanno una scelta, il nostro odore non gli è dispiaciuto, mia dolce signora.» «Il verme che io vidi mangiò solo quelli che l'avevano disturbato.» «Ditegli che noi li adoriamo, visto che siete in così buoni rapporti.» «Viviana, quando sei disgustosa riesci a essere divertente.» «Voglio morire ridendo!» proclamò enfaticamente la signorina Wellesley, avvelenata dai goblin. Per tre volte i mostruosi bestioni circumnavigarono la grande sala, girando i loro occhi di cristallo da tutte le parti. Uno, forse quello che le aveva seguite, spalancò le fauci e allungò la mandibola snodabile, rivelando una seconda serie di denti più all'interno. Anche quelli si aprirono e si chiusero. Con una serie di contrazioni e facendo oscillare le pinne, il verme si voltò e andò via lungo il tunnel. Gli altri si distesero lungo le pareti scolpite e i loro riflessi gemmati si smorzarono pian piano, finché non riassunsero l'aspetto dell'arenaria grigia contro cui stavano accovacciati. «Ci hanno risparmiato», sospirò Tahquil, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Non ero stata io a scommettere la mia pelle», disse Viviana, mentre oltrepassavano l'arcata in fondo alla sala trascinando tra loro Caitri, semisvenuta. L'allarmante vibrazione del fiume si allontanò dietro di loro. Il tunnel passava attraverso un'ultima grande sala, anch'essa un nido dei vermi da guardia, e poi terminava in un atrio chiuso. Sul fondo, videro la porta di una scala che saliva a spirale. Fu là che, allo stremo delle forze, le tre ragazze si distesero sul nudo pavimento e lasciarono che il mantello del sonno le coprisse. Quando si svegliarono, dopo molte ore, intorpidite e doloranti, notarono che sulla pavimentazione intorno a loro erano sparse molte scaglie grigie. I vermi da guardia erano stati lì. Senza che nient'altro le molestasse, bevvero da una fontana scolpita. Poi affrontarono la scala. Gli scalini sembravano non finire mai. Dopo qualche tempo, le ragazze
si rassegnarono a procedere sulle mani e sulle ginocchia, rinunciando anche a sollevare la testa in cerca di un palpito di luce che indicasse la vicinanza dell'uscita settentrionale. Poi Tahquil, che precedeva le altre, alzando la mano sullo scalino successivo mandò un grido di sorpresa. Aveva incontrato un sipario di foglie. Dagli interstizi di quel tendaggio non filtrava luce. «È notte, fuori», sussurrò. «Siamo arrivate nei frutteti di Cinnarine? Sentite l'odore della frutta? Lo sentite?» domandò Viviana, annusando l'aria come un cane. «No, ma i malkin grigi potrebbero essere in agguato. Ci hanno visto entrare nella Via Sotterranea, e sicuramente conoscono la posizione di questa uscita. Devono soltanto attraversare il ponte, appostarsi qui intorno e aspettare che le mosche cadano nella ragnatela.» «Ti ringraziamo, ragazza-cigno», borbottò Viviana, alzando gli occhi al cielo. Tahquil raccolse il suo fagotto, radunò le ultime forze e lo gettò all'esterno attraverso il fogliame. L'oggetto atterrò con un tonfo, e poi tutto tornò immobilità e silenzio. Nessun grugnito, né altri rumori sospetti disturbarono la notte. «Non ci sono malkin», azzardò Tahquil. Scostò i rampicanti e uscì dall'antica porta, prima che Viviana potesse farle notare: almeno, nessuno così idiota da mangiarsi un fagotto di stoffa. Salì un breve pendio e si guardò intorno, nel chiarore lunare. Non vide traccia di frutteti. Alla sommità di quel monticello vi era una fila di pini marittimi, cesellati in nero contro il cielo spolverato di stelle. A nord tutto era chiuso da un versante scosceso. Dalla parte opposta, più in basso, scorreva un fiume lucido e tenebroso - il Fiume Corvo - attraversato dalle grandi arcate basaltiche del Ponte Nero. Erano ancora nella zona inferiore del profondo canyon, ma sulla riva settentrionale. «È pericoloso restare qui», disse Tahquil, mentre sollevavano Caitri per le braccia e la conducevano fuori della porta scolpita. «Dobbiamo salire fuori del canyon. Per Cinnarine si va da quella parte.» Il ricordo di un lungo spettrale ululato le attraversò la mente come un vento freddo e desolato. «Più facile a dirsi che a farsi», commentò Viviana. «Io non posso andare molto lontano se non mangio qualcosa. Ho bisogno di frutta. Mi accontenterei di una pera, o di un grappolo d'uva...»
Caitri gemette. «Prendila per le caviglie», ordinò Tahquil a Viviana, afferrando la fanciulla inerte sotto le ascelle. Non vi erano sentieri lungo le scarpate e tra gli alberi dove portarono Caitri, su per il versante del canyon che la notte riempiva di carbone. Il vento continuava a soffiare dal sud. Trasportando goffamente il loro fardello, Tahquil e Viviana giunsero infine tra i pini che crescevano alla sommità del canyon. Un centinaio di passi oltre gli alberi immersi nell'ombra, si levava una muraglia scura, alta e impenetrabile. Fatta di un viluppo di rovi spinosi, la barriera si estendeva a perdita d'occhio in entrambe le direzioni. Gli uccelli vi nidificavano, e minuscole creature eldritch potevano nascondersi nelle sue viscere, ma nessun wight e nessun animale lorraly sarebbe mai riuscito a penetrare in quel groviglio di spine. La sua origine non era naturale. Al tempo in cui Cinnarine era coltivato, i padroni di quel frutteti ormai scomparsi avevano piantato la barriera di spine lungo il perimetro esterno della Muraglia Frangivento. Fatta di pietra arenaria, la Muraglia Frangivento aveva il compito di deflettere il vento del sud, e di tenere fuori i morthadu che cacciavano nella Valle del Fiume Corvo. Gli stessi coltivatori avevano costruito la Via Sotterranea, installando una porta nei pressi del suo sbocco nella Muraglia Frangivento. Ma i robusti battenti di quercia rinforzati in ferro erano stati da tempo sgretolati, sostituiti dai rovi spinosi della barriera, e all'esterno non si poteva più vedere traccia della sua esistenza. Da sotto i pini, Tahquil e Viviana esaminarono quell'ostacolo e compresero il suo antico scopo. «Preferirei essere dall'altra parte, questo è certo», mormorò Viviana. Le due ragazze andarono avanti e indietro in entrambe le direzioni, alla ricerca di un varco, un punto debole, ma sentivano che non ne avrebbero trovato nessuno, e la loro ricerca lo confermò. Tornarono accanto a Caitri. La fanciulla si era alzata a sedere con la schiena appoggiata al tronco di un pino, e i suoi occhi erano inespressivi come la cenere spenta. «Mi aspetto di sentire da un momento all'altro gli ululati di caccia dei morthadu o di vedere gli occhi fosforescenti di un malkin», disse Tahquil. «Via, hai una corda nel tuo sacco? Io ho perduto la mia nella Via Sotterranea.»
Senza una parola, Viviana tirò fuori il rotolo di corda trovato nella casa abbandonata di Tavron Caiden, presso le Torri della Caccia. Poi restò a guardare mentre Tahquil sceglieva un pino e si arrampicava sui rami inferiori, con la corda a tracolla. La corteccia del pino era molto irregolare, dura e scabrosa come la superficie argillosa di un lago evaporato al sole. Gli orli delle spaccature, curvi all'esterno, graffiavano la pelle nuda. Tuttavia in ogni altra cosa i pini si rivelavano benevoli: i loro aghi coprivano il suolo con strati fragranti che non consentivano la crescita di rovi o edere velenose; i loro rami erano ben distanziati e permettevano una facile arrampicata fin dalla base del tronco. Erano piante nobili e resistenti, e i loro rami più alti, carichi di pigne, giungevano fin sopra la cima della Muraglia Frangivento. La pelle delicata di Tahquil sanguinava da numerosi graffi quando giunse sulla chioma del pino. Aggrappata a un ramo, si girò a guardare oltre l'estremità superiore della barriera di spine. A oriente il cielo si stava schiarendo di una sfumatura appena percettibile; molto lontano, un gallo cantò. Dall'altra parte della barriera, Tahquil vide un mare di verde che si stendeva verso nord. Aguzzò lo sguardo. Il vento del sud agitava dolcemente le fronde di alberi da cui pendevano, alla luce delle stelle, frutti di ogni genere in quantità. Tahquil annodò la corda a un ramo, vicino al tronco. «Caitri», chiamò. «Siamo arrivate a Cinnarine. Afferra la corda e tirati su. Noi ti aiuteremo. Un ultimo sforzo, e poi potrai riposare.» «Non ce la faccio», piagnucolò Caitri. Ma dalla parte del fiume si udì il latrato di un morthadu, e la ragazza si rialzò, afferrò la corda e cominciò ad arrampicarsi. Poco dopo era alla stessa altezza di Tahquil, e da lì strisciò bocconi lungo il ramo che la compagna le indicò. Non fu facile trascinarsi avanti su quella corteccia spietata, nonostante la protezione degli indumenti, col ramo che a un certo punto cominciò a piegarsi sotto il suo peso. Ma Caitri andò avanti, finché a un certo punto, con un grido - di sollievo o di terrore? - non precipitò dall'altro lato della Muraglia Frangivento. Le sue compagne la chiamarono, allarmate, ma la risposta che ricevettero non fu quella che si aspettavano: a poca distanza echeggiarono gli ululati dei morthadu, che stavano arrivando in branco verso di loro. Viviana si arrampicò sul pino come uno scoiattolo. Pochi momenti dopo gli esserilupo unseelie sopraggiunsero a grandi balzi su per il versante del canyon; nella mezza luce dell'uhta si riunirono intorno ai piedi dell'albero, alzandosi sulle zampe posteriori per grattare ferocemente la corteccia con gli arti-
gli. La loro forza era tale che misero a nudo lo strato interno colloso di resina, mentre ringhiavano e cercavano la preda con occhi di brace, i folti peli neri dritti sul collo come spine. Non erano creature mortali. Molto tempo addietro, la bambina Ashalind aveva visto alcuni lupi di Erith: i cuccioli giocavano con buffe movenze, e i loro genitori li leccavano con lingue rosee come quelle dei gatti. Pur selvaggi e spietati, i lupi avevano la fierezza di chi appartiene alla natura libera e alla vita, una nobiltà sconosciuta ai wight unseelie. I morthadu, maleodoranti come la terra dei sepolcri, erano incarnazioni del male. Sembravano fondersi tra le ombre, mescolarsi e separarsi. Affascinate, Tahquil e Viviana fissavano quella massa brulicante. «Coraggio, Via», la incitò Tahquil. «Passa sopra il muro. Caitri ha bisogno di noi.» Fu la volta di Viviana a strisciare lungo il ramo. Tahquil, consapevole dell'avida attenzione con cui il branco aspettava di vederla cadere, la aiutò coi suoi consigli. Viviana andò avanti più svelta che poté. Quando il ramo diventò così sottile che non poté più procedere, si lasciò penzolare in basso, poi mollò la presa e scomparve alla vista. I morthadu diedero il via a un terribile coro di latrati mentre anche Tahquil si allontanava dalle loro fauci. Ormai il cielo si stava schiarendo in fretta; un raggio abbagliante nacque da est, e le chiome degli alberi di Cinnarine si tinsero di oro e di verde. Il sole fece capolino sulle piante da frutta inselvatichite, nello stesso momento in cui Tahquil si lasciava cadere tra di esse. Subito i morthadu tacquero e galopparono via in branco, come un'onda nera, giù per le scarpate del canyon. Sull'altro lato della Muraglia Frangivento, la tiepida brezza del mattino trascinava nubi di polline dorato tra gli alberi e le erbe di Cinnarine. Era il Giorno di Mezza Estate. 4 CINNARINE FRUTTO PROIBITO
Cinnarine, dei Frutti sei Regina nei pigri pomeriggi dell'estate.
Cinnarine, dei Vini sei Regina d'autunno nelle tiepide serate. Cinnarine, dei Canti sei Regina d'inverno davanti ai focolari. Cinnarine, dei Fiori sei Regina in primavera ricolma di colori. Dalla raccolta Poesie del Nord Placidi ruscelli formavano stagni e laghetti nelle cavità di quella terra. I frutteti, abbandonati da secoli, si erano sparsi in ogni dove. Il vento, l'acqua e gli uccelli avevano portato i semi molto lontano dai confini delle piantagioni originali, i cui antichi alberi coperti di muschio restavano nascosti nel cuore segreto di Cinnarine. Quel territorio fertile, lungo Centosettanta miglia da nord a sud, era diventato un selvaggio intrico di alberi da frutta. Alberi che erano invecchiati e crollati e marciti tra l'erba, per dare nutrimento a schiere dopo schiere di generazioni successive. In quella calda stagione, e a quella latitudine, la maggior parte della frutta stava maturando sui rami, all'ombra delle foglie, e assumeva colori rosati e marroncini, viola e scarlatti. Benché un po' asprigne, le prime pesche, le mele, le ciliege, le pere, le susine gialle e quelle nere erano già pronte per essere raccolte. Era invece troppo presto per le albicocche, le arance, i fichi e l'uva. Si trattava di frutta inselvatichita, di bassa qualità, ma ve n'era in abbondanza. Alcuni tipi di bacche, le fragole e i lamponi erano molto succosi. Favi di miele pendevano dagli alberi dove ronzavano le api. L'erba era grassa, brulicante di papaveri e margherite, e negli stagni galleggiavano grandi ninfee gialle. «Questo è un posto dove ci si può saziare di succhi, marmellate e spremute», sospirò Caitri. «Uno può gettare via tutta la frutta che non è matura secondo i suoi gusti, e mangiarne tanta da farsi venire il mal di pancia.» «Bah. Questi frutti sono imitazioni insipide», replicò Viviana. «Dove sono gli alberi dei goblin?» «Dove i goblin dei boschi possono trovarli», rispose Tahquil, misurando un pezzo di corda da usare come cintura. Quella di pelle le si era rotta mentre si lasciava cadere in Cinnarine. Per tenere il metallo, di cui avrebbe potuto esserci bisogno, e non lasciare traccia del loro passaggio, agganciò la fibbia di ferro alla catena del suo tilhal di giada; poi seppellì i monconi
della cintura rotta. Era il terzo giorno dal loro arrivo a Cinnarine, e in quei tre giorni avevano oziato al sole e dormito in capanne di foglie; nel resto del tempo si erano mosse senza fretta verso nord, fermandosi ad assaggiare la frutta più succosa. Il pericolo sembrava lontano, e ciò permetteva a Tahquil d'indugiare col pensiero su Thorn... e di soffrire di nostalgia per la sua lontananza. A volte si aspettava quasi di vederlo sbucare dall'ombra degli alberi col suo passo elastico, rilassato. Viviana restava chiusa nell'oscura prigione del suo appetito stregato, e soltanto Caitri riusciva a godersi la dolcezza di quel territorio silvestre. La ragazza entrò fra i rami bassi di un pesco e si guardò intorno. La pesca che staccò per saggiarne la compattezza era rossa e gialla; dopo averla annusata, andò a mangiarla all'ombra, dove il sole ormai basso giungeva solo con qualche barbaglio che le indorava la pelle e i capelli. Fu allora che notò dei movimenti tra le piante. A un'altezza di dieci o dodici braccia dal suolo, sembrava che l'arcobaleno si fosse condensato a plasmare delle figure traslucide, in apparenza umane, fluttuanti nell'aria. Dozzine di diafane creature erano indaffarate tra le foglie e i rami. Gli strani wight si occupavano soltanto degli alberi, senza badare a nient'altro. Per questa ragione, oltre al fatto che si manifestavano di giorno e avevano un aspetto innocuo, Caitri li osservò senza troppa trepidazione. In effetti quegli esseri arborei avevano un aspetto estetico ultraterreno, affascinante. La loro forma e le loro dimensioni erano umane e adulte, ma non li si poteva identificare come maschi o femmine, poiché mancavano di caratteri sessuali. La loro era la bellezza asessuata dei fanciulli e delle fanciulle ancora impuberi. Le facce avevano il colore rosato della carne; dalle spalle in giù erano avvolti in una specie di aura verdolina, o argentea, o gialla, o rosata, che si schiariva sempre più fino ad assumere riflessi di madreperla all'altezza dei piedi nudi. Si spostavano lungo le chiome degli alberi fluttuando come pesci sott'acqua, e non avevano indumenti, a parte quel trasparente velo di energia che li avvolgeva. Mentre Caitri li studiava, spostarono la loro attenzione su altri alberi e pian piano scomparvero tutti nella vegetazione. Non era la prima volta che le accadeva di vederli. Già altre volte, da quand'erano entrate in Cinnarine, le tre viaggiatrici avevano notato la presenza di quelli e di altri wight arborei, che al loro avvicinarsi sparivano rapidamente su per i rami. Alcuni fluttuavano più in alto delle chiome degli alberi, ma non scendevano mai al suolo, e non cessavano un istante di
svolgere le loro misteriose occupazioni. «La mia amica Meganwy mi parlò di una razza di silfidi nebulose», disse Tahquil. «I coillduine, wight anch'essi arborei, che si nutrono di energia solare. Sono amabili, ma è impossibile capire i loro pensieri. C'è chi afferma che siano privi di mente, come le piante che abitano.» A Viviana non importava nulla delle abitudini dei coillduine. Con instancabile attenzione, cercava i frutti dei goblin. L'inquietudine da cui era animata non si placava mai... e niente la soddisfaceva, anche se le compagne le davano il meglio di rutto. Vorrei sapere come curare questa malattia, pensava Tahquil, disperata. Ora due di noi sono affette da una nostalgia maligna. Si toccò l'anello che aveva al dito, chiedendosi per quanto tempo ancora il suo potere l'avrebbe salvata dal languire fino alla morte. In ogni caso, riteneva di sopportare la sua sofferenza meglio della cameriera. Nei momenti di maggiore frustrazione, Viviana imprecava e prendeva a calci gli alberi, o strappava via i rami più sottili e li usava come bastoni per fare a pezzi i frutti. Verso la fine del pomeriggio del terzo giorno, le viaggiatrici si fermarono a riposare su un pendio erboso, tra i peri e i peschi. Più in basso, alla base dell'altura, si scorgeva un luccichio: uno stagno simile a un occhio verde scuro. Dopo l'incontro col fuath carnivoro, nel Lallillir, simili polle destavano la loro apprensione, ma in quella pacifica regione boscosa niente le insospettiva troppo. Non avevano ancora visto dei wight, a parte le silfidi arboree, che non sembravano né pericolose né interessate alla razza umana. Rilassate, pervase da una sonnolenta tranquillità, cullate dall'aria calda gravida di profumi, le ragazze si distesero sull'erba morbida. Ciascuna sperava vagamente che una delle altre facesse la guardia. Domandare chi avrebbe svolto quel compito era una noia, e forse avrebbe significato vederselo accollare. Era più facile lasciar perdere. Del resto, quale pericolo poteva celarsi lì tra quei frutteti, con la protezione della Muraglia Frangivento e della barriera di rovi? La ragazza-cigno aveva parlato di un ganconer, un wight unseelie... Là dove i rami sono appesantiti dai frutti, c'è il ganconer dallo sguardo magnetico che parla con voce stregata, aveva detto. Colei che non vuole tessere il suo sudario farà meglio a chiudere occhi e orecchie. Tuttavia lì non vi era segno di creature ostili. Probabilmente il ganconer se n'era andato a est da tempo, per unirsi ai ribelli di Namarre. Così le tre compagne si appisolarono. E non notarono che alcuni cespugli si stavano muovendo, benché non vi fosse vento, né che le acque dello
stagno si erano increspate. Scese la sera sulla dolce pianura di Cinnarine. La ricchezza di quel verde, il profondo azzurro dell'orizzonte settentrionale, le poche pigre nuvole bianche sparse nel cielo, i rami allegramente ornati di un fogliame che pendeva ovunque... tutto contribuiva alla serenità di quel tramonto. Gli alberi da frutta erano illuminati da una morbida luce che sembrava filtrata da pannelli di ambra... una luce mielata, di cui la terra stessa si nutriva. L'anello-foglia ebbe un fremito. Le palpebre di Tahquil si aprirono come due lapidi di piombo sotto cui erano sepolti i suoi occhi. Le parve che un uomo fosse uscito dall'ombra. Senza complimenti la ragazza afferrò le compagne per i capelli e le tirò fuori dalla loro letargia. «Sveglia! È qui, il ganconer di Cinnarine! Tappatevi le orecchie e non fissatelo negli occhi: le sue parole e il suo sguardo possono stregarvi...» L'individuo che si stava avvicinando camminava come un animale selvatico, energico e flessuoso, a lunghi passi. Dopo aver gettato uno sguardo a quell'inattesa figura, Caitri, ancora ingarbugliata nella ragnatela dei sogni, mandò un grido e fuggì. Tahquil si affrettò a tenerle dietro per non perderla nel labirinto della vegetazione, e Viviana, che detestava essere abbandonata, le inseguì. Ma, mentre correvano lungo una radura, sentirono il tonfo di pesanti zoccoli sull'erba. Accanto a loro galoppava un cavallo grigio, senza cavaliere. Agile e veloce, il quadrupede le oltrepassò e poi fece uno scarto di lato per bloccarle, cosa che le costrinse a fermarsi e tornare indietro. L'animale le raggiunse di nuovo in pochi momenti; quando girò la testa di lato per guardarle, gli lessero negli occhi che stava giocando con loro. Terrorizzate, deviarono sulla destra alla ricerca di un rifugio, e fu allora che un raggio di luna s'insinuò tra il fogliame a illuminare un paio di corna che spuntavano da una fronte umanoide: una seconda figura sbarrava loro la strada. Furono costrette a fermarsi. Alle spalle di Tahquil, Caitri e Viviana si abbracciarono, indietreggiando contro il tronco di un centenario albero di prugne. Sotto il guanto sinistro, l'anello-foglia mandava fremiti di avvertimento. «State tranquille, ragazze», disse il cornuto, con voce blesa. «Auch, non c'è motivo di aver paura. Questo è un seelie come me, e non vuole farvi del male.» Era un urisk. «No, che non sto tranquilla», replicò Tahquil, ruotando l'anello nel tentativo di proteggersi. «Qui c'è un ganconer, ed è unseelie quanto si può es-
serlo.» Il cavallo grigio non era più nella radura. Da lì a poco, tra le piante riemerse l'uomo che aveva l'andatura di un animale. Posò un ginocchio al suolo e chinò la testa. I suoi lunghi capelli pendevano dritti e pesanti come una criniera. A essi erano intrecciate alghe sottili simili a nastri verdi. Era nudo dalla vita in su, e portava soltanto corti calzoni di tessuto grezzo. La faccia era troppo allungata e ossuta per essere attraente, e la sua pelle aveva un tono grigiastro che faceva pensare alla nebbia, con uno scintillio di umidità visibile anche alla luce delle stelle. Intorno alle caviglie e ai polsi aveva ciuffi di peluria plumbea. «Io sono al tuo servizio, signora», disse, con uno strano accento. «Un cavallo d'acqua, figuriamoci!» esclamò Tahquil. «O abbiamo dinanzi uno strano incantesimo?» «No, signora», rispose il cavallo-uomo. «Io sono il nygel che tu hai già visto, e ti ho seguita per molte notti, da quando tu mi hai reso libero.» «Avrei già avuto a che fare con te? E quando?» Lui sollevò la testa e arricciò le labbra in un sorriso. I suoi occhi non avevano il bianco. Erano gli occhi di un cavallo, grandi dischi scuri e liquidi. «Non mi riconosci?» La mente di Tahquil tornò a quel giorno, nel mercato di Gilvaris Tarv, quando il suo nome era Imrhien e lei parlava ancora col linguaggio dei gesti, ma aveva una borsa di monete d'oro. «Un angelo per il cavallo!» gridò Roisin. Scoppiò una risata generale. «È un'offerta seria?» chiese però il mugnaio, che teneva la cavezza. «Lo è.» Imrhien prese a frugare nella sua borsa. «Che ti prende?» sibilò Muirne. «Sei diventata scothy?» «No. Per favore, mostragli il denaro.» Nessuno offrì di più. I presenti si ritrassero, a bocca aperta per lo stupore. Ben pochi avevano avuto modo di vedere una moneta preziosa come quella. Il mugnaio di Picktree non la lasciò comunque in vista molto a lungo. Dopo aver morso lo spesso disco d'oro per controllarne l'autenticità, lo ripose in tasca, consegnò la cavezza a Roisin e scomparve rapidamente tra la folla, senza dubbio timoroso di diventare il bersaglio di qualche tagliaborse o di ladri anche più pericolosi.
Ora che la transazione era stata effettuata, l'attenzione dei presenti si concentrò sui nuovi proprietari della bestia, e tutti presero a gridare domande e consigli. Tuttavia, avvicinatasi alla creatura terrorizzata, Imrhien la liberò dalla corda. La folla si sparpagliò all'istante. «Oh, sì. Ora ti riconosco.» «Allora sai che ti devo un favore», affermò il nygel. «Tu mi hai reso un buon servizio.» «Non mi devi niente, signor mio.» L'urisk si fece avanti. «Non aver tanta fretta di mandar via un tuo debitore, signora. I favori di un eldritch non vanno presi alla leggera.» «I nygel sono i più seelie di tutti i cavalli d'acqua, ma possono fare dei brutti scherzi», replicò lei. «Sì», annuì l'urisk, «però sanno essere onesti, sinceri e coraggiosi.» Sotto l'albero di prugne, Viviana e Caitri tremavano, abbracciate. Poco convinta, Tahquil guardò meglio l'urisk. La penombra lunare lasciava molto indistinta la sua figura. «Tu sei l'urisk del Churrachan?» «Signora, si può sapere per chi mi hai scambiato?» «Se ti ho offeso, scusami. La mia visione notturna non è buona come la tua. Ma sei tu?» «Sono io.» «Come sei arrivato qui?» «Sulla Via dei Wight. E come, se no? Era quasi deserta, e lungo la strada ho incontrato soltanto altri due. Il primo era il Glashan, in persona.» «Il Glashan!» A Tahquil parve di ricordare il nome. «Non è quel bellissimo cavallo d'acqua, che però è molto più pericoloso di ogni nygel? L'ho incontrato... una volta.» Ebbe un fremito, ripensando alla casetta di Rosedale. Grazie al cielo, in quell'occasione nascosi l'oro dei miei capelli sotto il taltry. «No, quello è il Glastyn, signora. Io sto parlando del Glashan, un hobgoblin. Lui mi ha detto alcune cose... cose che potrebbero benissimo essere di un certo interesse per te.» «Cosa ti ha detto?» volle sapere Tahquil, dimenticando momentaneamente il suo timore del nygel. «'Sto cercando una femmina umana coi capelli gialli', mi ha detto il Glashan», rispose l'urisk, che proseguì: «Ter quale scopo?' gli ho chiesto io. «'Per riferire dove si trova al Signore Huon e al Signore Each Uisge', ha risposto il Glashan.
«'Spia qualcun altro, idiota', ho detto io, e ho proseguito per la mia strada. «Più avanti mi è capitato d'incontrare il nygel, e lui mi ha detto: 'Sto cercando una ragazza coi capelli gialli'. «'E per quale motivo?' gli ho chiesto io, perché non volevo essere di aiuto a uno che intendeva consegnare la tua amica nelle mani di Huon e dei suoi scagnozzi». A questo punto l'urisk si girò verso Viviana, che lo fissava a bocca spalancata, e le rivolse un inchino. «È stato così che il cavallo d'acqua, qui, mi ha parlato del suo debito. 'Allora vieni con me', gli ho detto io, 'perché con la fortuna che hanno la ragazza bionda e le sue compagne arriveranno a Talam Meith, la terra che gli Uomini della Campagna chiamavano Cinnarine.'» Fece una pausa, accigliato. «Vedo però che la ragazza dai capelli gialli non è quella che tu cercavi, nygel. Questa, anzi, ha i capelli scuri.» «È lei», disse il nygel. «Come hai fatto a riconoscermi, signore?» domandò Tahquil, chiedendosi a cosa fossero valsi i suoi tentativi di cambiare aspetto. «Dapprima non ti ho riconosciuta, perché i tuoi capelli sono cambiati», rispose lui. «Da vicino, poi, ho sentito il tuo odore, e visto come ti muovi. Molto tempo fa, nella città, io ti ho osservato bene, stanne certa.» Tahquil incrociò le braccia sul petto e cominciò a camminare avanti e indietro, innervosita. «Questo wight, il Glashan, ti ha riferito che il Signore del Male cerca una ragazza dai capelli biondi», disse infine. «Ti prego, urisk, dammi qualche altra notizia. Parlami del Principe Morragan... dimmi tutto quello che sai.» «Io so soltanto quello che mi hanno detto altri wight. In tutti questi anni ho vagato in molte terre, ma non mi sono mai avventurato nel mondo popolato. Io sono un solitario, come tutti gli urisk. Mi trovo con gli altri ogni nove anni, sulla riva del Lago Katrine, però non sono intervenuto agli ultimi due raduni. «Non ho avuto notizie recenti, salvo che, quando le ali nere dei tre Corvi di Guerra si aprirono nei cieli di Erith per volare a ovest, nessuno ignorava che quelli cercavano te. Seelie o unseelie, domestico o selvatico, cambiaforma o formafissa, strisciante o volante, acquatico o di terraferma... nessuno lo ignorava. Cos'hai fatto, che debbano darti la caccia in questo mo-
do?» Tahquil scrollò le spalle ed evitò lo sguardo dell'urisk. Era una risposta che non avrebbe dato a un umano, tantomeno a un wight. La luna sbatté le palpebre sulla piccola radura. Un'ombra era passata tra cielo e terra. Il verso di un predatore alato echeggiò nella notte. Il nygel alzò la testa e sbuffò. «Cosa c'è?» si preoccupò Tahquil, seguendo il suo sguardo. Il firmamento era pieno di stelle. «Soltanto un uccello», rispose lui, scrollando la capigliatura-criniera. «Siediti, e ti dirò quello che vuoi sapere. Ti racconterò perché è in corso per tutte le terre la caccia a una giovane mortale coi capelli gialli.» «Bene.» Tahquil annuì, cautamente. «La tua storia m'interessa.» Si sedettero sull'erba. Caitri e Viviana presero posto a breve distanza da Tahquil, non molto entusiaste della vicinanza dei due wight. Il nygel si rivelò un narratore minuzioso. Cominciò con la storia di Morragan, Principe della Corona dei faêran, che era rimasto esiliato nelle terre dei mortali contemporaneamente al suo fratello maggiore, il Supremo Re, mentre combattevano uno contro l'altro in Erith. Per molti anni, dopo la Chiusura delle Porte del Reame Fatato, ciascuno dei due aveva viaggiato col suo seguito in tutte le Terre Conosciute, e quel periodo era stato chiamato l'Era della Gloria. Alla fine, stanchi di Erith e impossibilitati a tornare in Faêrie, i due signori avevano deciso di dormire nel secolare Sonno Pendur, circondati da tutti i cavalieri e le dame faêran che erano rimasti esiliati con loro. Si erano così ritirati sotto due colline... colline separate da moltissime leghe, ai capi opposti di Erith, perché la faida dei due fratelli era diventata ancora più aspra dopo la Chiusura delle Porte di Faêrie. Nell'anno 1039 di Erith, sotto la collina di Nido del Corvo, Morragan si era svegliato. Forse, come alcune leggende sembravano indicare, a svegliarlo era stato un incauto pastore avventuratosi dove non avrebbe dovuto andare, o forse la ragione era stata un'altra; alcuni supponevano che fosse stato lui stesso a scegliere di abbandonare la stasi senza tempo del Sonno Pendur, per sperimentare una variazione dell'eternità. Qualunque fosse stato il motivo, era tornato di nuovo nel mondo esterno. E con lui erano usciti i cavalieri e le dame che l'avevano accompagnato fin dall'inizio, prima nell'esilio e poi nel sonno a Nido del Corvo. Nel frattempo, sotto la collina di Nido dell'Aquila, il Supremo Re Angavar e il suo seguito avevano continuato a dormire.
In Erith erano avvenuti dei cambiamenti dopo l'Era della Gloria, quel primo periodo in cui Angavar e i suoi cavalieri avevano offerto molte conoscenze all'umanità e potenti città erano sorte, grandi imprese erano state portate a termine, e splendidi sogni si erano realizzati. Il Principe della Corona e i suoi faêran, lasciando Nido del Corvo, avevano trovato un mondo assai diverso. Gli uomini avevano dimenticato molto di ciò che un tempo sapevano. Durante il sonno dei faêran, la guerra aveva devastato ogni terra. La dinastia dei D'Armancourt era decaduta nell'Era Oscura, per risollevarsi infine sotto James l'Unificatore. I Cavalieri della Tempesta dominavano i cieli. Ma al suolo i wight si erano sparsi ovunque, e infestavano grotte e vecchie case, stagni, campi, corsi d'acqua, pozzi e cimiteri. E quelli di razza unseelie insidiavano e uccidevano gli esseri umani. Il disprezzo di Morragan per la razza degli uomini non era diminuito, e lui non si mescolava coi mortali. Gli eldritch wight erano attirati dai suoi poteri e dalla forza del gramarye che si addensava intorno alla sua persona come una rete di fulmini silenziosi e invisibili. Spinto dalla frustrazione, dalla noia e dalla rabbia per il suo esilio, Morragan tollerava la loro vicinanza. Era incline a favorire gli unseelie, le cui malvagie azioni ai danni dell'umanità gli apparivano divertenti. «Un atteggiamento tipico dei faêran», interloquì con amarezza Tahquil. «La sofferenza dei mortali sembra preoccuparli poco... nei loro cuori non c'è posto per l'amore. Sono spietati, ingiusti e arroganti.» «Attenta, potrebbero sentirti», avvertì l'urisk, guardandosi intorno come se temesse una presenza ostile dietro ogni albero. «Non ho niente da perdere, dicendo la verità. Anche i wight di razza più cortese temono la loro ira», sospirò lei. Scuotendo il capo con aria di rimprovero per la sua imprudenza, il nygel continuò il resoconto. Molto tempo addietro sei potenti wight unseelie, talora chiamati i Signori del Male o i Principi dell'Incubo, erano stati privati del loro capo, il formidabile Waelghast. In un'epoca precedente il loro gruppo costituiva l'Attriod Unseelie, col Waelghast alla testa. Senza quell'entità al comando, il gruppo aveva perso coesione e l'Attriod Unseelie si era sciolto. Isolati da Faêrie dopo la Chiusura, quei Principi dell'Incubo avevano tormentato Erith per molti secoli, agendo a caso e senza scopo. Quando Morragan era uscito da Nido del Corvo, l'Attriod Unseelie si era riformato intorno a lui. I Signori del Male l'avevano eletto loro capo e il Principe, benché non gli importasse nulla di loro, li aveva ugualmente tenuti al suo
servizio. Così raggruppata, quella struttura era diventata la forza più potente di Erith. Approfittando della loro immortalità, si erano compiaciuti di darsi alle attività più cruente, soprattutto agli agguati e alla Caccia all'Uomo. A tale ultimo sanguinoso passatempo tuttavia i faêran non prendevano parte, poiché preferivano cacciare i cervi faêran, una preda che metteva maggiormente alla prova la loro destrezza. Poi il nygel raccontò di come, nell'autunno del 1089, nel mese di Gaothmis, un'intrusa era stata sorpresa all'interno delle Torri della Caccia, la fortezza del Cornuto. La spia era stata inseguita, e dopo una breve fuga era perita nel crollo di una vecchia miniera, o così si pensava. Irritato, Morragan aveva voluto sapere com'era possibile che una mortale fosse penetrata nella fortezza di Huon. Diversi mesi dopo, un duergar era stato scoperto mentre se ne andava furtivamente verso le montagne, in possesso di una treccia di capelli d'oro tagliata alla radice. Terrorizzato da Huon e nella speranza di evitare la punizione, il duergar aveva confessato di aver ricevuto la treccia da una mortale che gli aveva chiesto in cambio di farla entrare di nascosto nelle Torri della Caccia. Lui aveva preso la precauzione di rendere muta la spia, tanto per farle una crudeltà, e si era augurato che la scoprissero e si divertissero a darle la caccia. Nonostante la pronta confessione, il duergar non era sfuggito alla pena. I servi di Huon gli avevano riservato il destino più terribile, per divertire il loro signore e placarne l'ira. Quanto alla donna, tra le macerie della miniera non era stato ritrovato alcun cadavere, cosicché Morragan e l'Attriod Unseelie avevano fatto circolare l'ordine per tutta Erith: Trovate la spia dai capelli gialli. «Ti garantisco che il Principe ti cerca per vendicarsi, perché tu hai origliato mentre parlava», concluse il nygel. «Questo è un grave crimine per i faêran. Lui non ti perdonerà.» Il resoconto del nygel terminò, perché in seguito lui aveva viaggiato in regioni desertiche e non aveva avuto altre notizie. Dopo la sua cattura a Millbeck Tarn, aveva dovuto cercare un altro stagno in cui abitare, e si era sentito costretto a spostarsi verso nord, attirato da una strana Chiamata che induceva tutti gli eldritch a voltarsi da quella parte e ascoltare. L'uno dopo l'altro essi avevano lasciato il loro territorio per rispondere alla Chiamata del Principe Corvo. «Auch, ma noi non dobbiamo fedeltà a quei grandi signori», intervenne l'urisk. «E sebbene io abbia affetto per i faêran, non ballerò alla musica del Principe Morragan, finché lui sarà tra coloro che vogliono farti del male,
ragazza.» «Sei molto gentile», disse Tahquil. «Tu somigli molto a una che conoscevo tanti anni fa. Una della famiglia Arbalister. Sono secoli che non vivo più insieme con una famiglia.» «Anch'io.» «Tra loro io avevo un nome, un nome umano. Tully, mi chiamavano.» «Posso chiamarti anch'io così?» «Sicuro.» Gli occhi dell'urisk brillarono. Era un wight domestico e, benché facesse vita solitaria, la sua natura lo induceva a gradire la casa e la compagnia. Le terre desolate non erano il suo ambiente preferito. Di nuovo Tahquil alzò lo sguardo al cielo, come se temesse la presenza di un pericolo, lassù. «Se Morragan è capace di comprendere i morthadu e farsi ubbidire da loro, le bestie di guardia al Ponte Nero devono averlo già informato del passaggio di tre giovani viaggiatrici... una presenza insolita, in queste terre selvagge.» «È così», confermò l'urisk, annuendo solennemente con la testa cornuta. «È così.» «C'è una bovina bianca in un pascolo verde, qui vicino», intervenne il nygel, cambiando discorso. La sua mente equina non poteva concentrarsi troppo a lungo su una cosa, e balzava ad altre preoccupazioni. «È la Gwartheg Yllin, e ci permetterà di mungerla, questa sera.» «Non abbiamo il secchio.» «Possiamo attaccarci alle mammelle e succhiare.» «Non è nostra abitudine.» «Non sapete quello che vi perdete.» Tahquil tornò a rivolgersi all'urisk. «Da quasi due anni il Principe Morragan sta provocando le armate di Erith... per quale scopo, io posso solo fare ipotesi. Forse il suo disprezzo dei mortali è giunto a tal punto che vuole aizzarci l'uno contro l'altro, e spingerci così alla distruzione. O forse il fratello del Principe, il Supremo Re Angavar, si è svegliato, e questi due grandi signori del gramarye ci usano come pedine nei loro giochi di guerra, per rendere meno tediosa la loro permanenza in Erith. «Chi altri Morragan vorrebbe colpire se non suo fratello, che lo condannò all'esilio e lo impegnò in battaglia perché non potesse rientrare in Faêrie prima della Chiusura? Naturalmente, uno che sta dormendo un sonno stregato sotto una collina non è granché come avversario. Potrei quasi sospettare che, come il Principe Corvo, anche il Re del Reame Fatato sia sveglio
e percorra le regioni di Erith, o tenga Corte coi suoi faêran in qualche zona poco frequentata... per esempio una zona amena e verdeggiante come questa!» Fece una pausa, soppesando l'idea. «Ma, se così fosse, in Erith ci sarebbe qualche traccia della sua presenza, una specie di odore. Come potrebbe il più potente detentore di gramarye di Aia essere sveglio, senza che questo si vedesse in ogni filo d'erba, si sentisse vibrare in ogni pietra, si udisse in ogni refolo di vento, negli scoppi del tuono o nei sussurri delle foglie? Dorme, il Supremo Re dei faêran, oppure si è svegliato?» «A quanto ne so io, il Giusto dorme della grossa», affermò l'urisk, scuotendo le spalle. «Ma io non so molto delle cose del mondo. In questi ultimi decenni sono stato per conto mio. È passata molta acqua sotto i ponti, dall'ultima volta che Tully aveva notizie fresche.» Ci fu un breve silenzio. L'atmosfera era tesa. Tahquil si rivolse a Viviana. «Sembra che Morragan e l'Attriod Unseelie e chissà quanti wight stiano dando la caccia a una ragazza dai capelli gialli che viaggia in terre disabitate. Coi tuoi capelli, sei in pericolo. Bisogna trovarti una tintura scura!» La cameriera si accigliò. Spettinata com'era, sembrava che avesse in testa un cespo di paglia secca. Vicino alle radici, il colore era marroncino. «E anch'io dovrò tingermeli di nuovo, visto come stanno crescendo!» aggiunse Tahquil. «Dovremo guardarci intorno in cerca delle erbe adatte, mentre viaggiamo. Nel frattempo, è urgente proseguire verso nord. Signor cavallo d'acqua, se hai davvero intenzione di aiutarmi, ne approfitterò. Accompagnaci pure, se vuoi. Il tuo aiuto potrà dimostrarsi prezioso durante il viaggio.» Il nygel scoprì i suoi larghi denti in un sorriso da cavallo. «Mi unirò a voi.» «Auch, e io anche», disse l'urisk. «Oh, acciberchia», sbottò Viviana, tornando al cortigianese. «Ora dobbiamo vedercela con un altro sgrugnoso dalla voce strana che storpia la Lingua Comune. Nao es un sevistrazio?» «Ignoratela... è sotto un incantesimo», li avvertì Tahquil. «Non sono tranquilla vicino a questa creatura», sussurrò Caitri a Tahquil. «Una cosa è viaggiare in compagnia di un urisk, un wight domestico, ma un'altra è con un cavallo d'acqua.» «Un cavallo d'acqua, sì, ma uno dei tipi più innocui, e dice che mi deve un favore», replicò Tahquil. «Lo deve a voi, mia signora.»
«Quanto a questo, mi assicurerò che il favore sia esteso alle mie compagne.» Vago e lontano, dal sud provenne uno stridente verso ultraterreno, che la brezza notturna trascinò con sé nel silenzio. Non era la voce di uno degli urlatori che preannunciavano la tempesta, né un lamento che preludeva al verificarsi di una fatalità, e neppure l'ululato di un morthadu. Era un coro di molti versi, i latrati di un branco di segugi demoniaci all'inseguimento della preda. «La Caccia è uscita, stanotte», commentò l'urisk, guardando il cielo. «Era molto tempo che il branco non veniva da queste parti.» «Quei cavalieri del cielo potrebbero vederci, qui sotto gli alberi?» «No, salvo che non passino proprio sopra di noi, o molto vicini.» «Forse hanno modo di seguire la nostra pista», disse Tahquil, con un brivido, lieta di avere il rifugio degli alberi. «Una ragione in più per affrettarci.» L'ombra di un uccello passò di nuovo tra le stelle e il suolo. Al suo seguito, le nuvole nascosero la luna. Il nero mantello della notte si chiuse più oscuro sul mondo. Nel buio, i cinque viaggiatori percorsero le terre boscose di Cinnarine finché l'aurora non dipinse l'oriente coi suoi colori. All'uhta, alcuni rami si mossero benché non vi fosse vento, le acque di uno stagno solitario s'incresparono, e le tre mortali si trovarono a camminare da sole. Ogni mattino il mondo era una coppa di cristallo che risuonava di note da un orizzonte all'altro. Gli uccelli, nelle loro livree lussuose, si gettavano nel cielo con gioia sempre nuova. I coillduine si affollavano intorno agli alberi da frutta dall'alba al tramonto, abbigliati nella loro pallida radiazione opalescente, e col sole alto le loro figure traslucide erano quasi invisibili. «Penne di pavone mi accarezzano le palpebre», mormorava Caitri, che detestava chiudere gli occhi a quel panorama e mettersi a dormire allo spuntar del giorno, ma era troppo stanca per fare diversamente. Poiché la loro scorta era costituita da due wight, le tre compagne dovevano proseguire il viaggio nelle ore notturne; tuttavia non potevano rinunciare a restare all'erta nelle ore più pericolose, quelle diurne, quando riposavano all'ombra. Ogni notte si regolavano con le stelle per dirigersi verso nord. L'urisk Tully trotterellava apertamente al loro fianco; il nygel si teneva più spesso
fuori vista, nella sua forma equina, e frequentava esseri dei quali i compagni non sapevano niente, tradendo la sua presenza col rumore di un tuffo nell'acqua o quella sua strana risata-nitrito che l'urisk chiamava «bramito». Quando il loro percorso era attraversato da un corso d'acqua, l'urisk spariva per qualche tempo e poi le ritrovava, infallibilmente, con un suo metodo misterioso. Dopo due o tre notti, le ragazze cominciarono a sentirsi meno a disagio con i modi e le abitudini dei loro accompagnatori eldritch. E così, a quanto pare, da tre che eravamo siamo diventati sei. Uno ci scorta per sua scelta, un altro per vagare un debito, e... Tahquil gettò un'occhiata al cielo scuro, un altro ancora perché ha l'ordine di farlo. Viviana si aggirava freneticamente tra gli alberi, con l'amarezza che le rodeva il cuore come un tarlo maligno. Stava scendendo il tramonto, ed era sola. Una pera attrasse il suo sguardo, perfetta come una scultura di giada. La staccò dal ramo. Possibile che fosse il frutto di un albero goblin? Affondò i denti nella polpa. Sputò e gettò il frutto a terra. Un rivolo di succo le uscì dalle labbra contratte in una smorfia. «Tutto qui è così bello a vedersi, ma affidabile come una scala di sabbia», gridò a nessuno e agli alberi. Poi strappò frutti e ramoscelli dal pero e li schiacciò sotto i piedi. Aveva lasciato le due compagne a fare colazione tra i ciliegi, nei pressi di un ruscello in cui bere dopo aver mangiato. Inquieta e mossa dai suoi appetiti, Viviana era corsa via per esplorare il bosco nel tepore che ancora restava di quella giornata estiva, alla ricerca degli alberi dei goblin. Tormentata dal doloroso desiderio inflittole dai wight, non riusciva a tenere la mente su altre preoccupazioni o altre necessità. A volte, quand'era di umore più sereno, recitava piccole poesie prive di senso, composte lì sul momento per placare la strana follia che si era impadronita di lei. Oh, la gatta dal muso blu e quel passero lassù son felici in verità quando saltano qua e là. E il maiale è soddisfatto grufolando nel boschetto. Anche io dovrei provare a saltare, a grufolare, come il passero fischiare,
e così potrei volare. Una voce sconosciuta disse: «Potrebbe un usignolo cantare con voce più affascinante?» Gli alberi sospirarono a un vento improvviso. Un cardellino smise di gorgheggiare, e Viviana si portò le mani alla bocca, ammutolita. La domanda era giunta con un refolo di nebbia da un folto di cespugli e vecchi meli, i cui rami carichi sembravano cedere alla stanchezza. A immobilizzare la ragazza non era stato l'improvviso spavento, o la sorpresa di scoprire che non era sola come aveva creduto, bensì la mascolinità di quella voce, il cui tono caldo e profondo le era penetrato nell'animo senza che lei neppure capisse le parole. «Posso osare interrompervi, cortese damigella, se mi è permesso presentarmi a voi?» domandò il giovane nobile, alto e snello, che scostò il fogliame per uscire all'aperto. Il sangue salì al volto di Viviana. «Il Re», ansimò, protendendo una mano per sorreggersi a un tronco muschioso. Vacillò un istante, poi ritrovò l'immobilità. Solo un lieve tremito la percorreva avanti e indietro, come ondulazioni del liquido in una coppa. Dietro quell'apparente stasi, il suo sangue aveva preso fuoco. Si sentiva bruciare, era assalita dal torpore, era ubriaca. I suoi occhi bevevano l'immagine di lui, ma la febbre dell'emozione la divorava. Il giovane era vestito di candido lino, sopra il quale portava una mezza armatura di argento scintillante. La maglia metallica, i bracciali, le spalline, i guanti articolati e i gambali gli davano l'apparenza di un insetto, o di una creatura marina a sangue freddo, ma il suo aspetto bellicoso e virile era sublime. I capelli neri come la notte gli scendevano più in basso delle spalle, incorniciando un volto forte, gentile e sensuale. «No, scusatemi, cavaliere. Vi ho scambiato per un altro», disse Viviana. E infatti, ritrovata una parvenza di calma, poteva vedere che la sorpresa l'aveva confusa. Quel guerriero, il cui aspetto e la cui voce le facevano tremare le ossa, non era il Re-Imperatore. Era più snello, forse un po' più basso, e i suoi occhi non avevano il colore del cielo in tempesta ma del cielo notturno, pieni di pagliuzze come stelle... occhi accesi di una passione calda quanto quella di lei, vibrante, voluttuosa, piena di esaltanti promesse. Era diverso dal Re-Imperatore. Diverso nel senso che - Viviana ne fu sicura - qualsiasi uomo che non avesse avuto esattamente quella statura, quella corporatura, quei capelli,
quegli occhi e quella pelle non sarebbe mai stato abbastanza uomo per lei. Tutti i giovanotti più belli e attraenti conosciuti in passato erano candele in confronto al sole. Lei non aveva mai visto niente di più desiderabile, e pregò che quel momento durasse per sempre e che lui non si allontanasse mai dal suo sguardo. «Posso chiedervi, di grazia, cosa porta una fanciulla di sì gentile aspetto ad avventurarsi da sola in questi boschi?» le domandò, o le cantò, lui, con tono così melodioso che lei non pensò di domandargli il nome, o perché mai non gettasse ombra. Il giovane non sorrideva. La sua espressione era triste, quella di un geniale poeta prigioniero di un destino tragico; ma tanta tristezza non aveva inquinato la sua avvenenza, anzi ne aumentava il fascino. Senza aspettare la risposta di lei, il giovane cominciò a parlare, stavolta in rima, quasi che la metrica della poesia gli venisse spontanea come ad altri il normale discorso in prosa. In effetti, «ganconer» era un termine della Lingua Comune che derivava da gean-cannah, ovvero «colui che parla d'amore». Le parole dei ganconer erano incantevoli nel significato, e droghe per i sensi nel tono. Il sonetto era la forma in cui si sviluppava la sua operazione persuasiva, la tradizionale e seducente eloquenza d'amore. Presa com'era dal suono di quelle sillabe, Viviana non notò nei suoi versi nulla di minaccioso né di osceno: Tu dai capelli d'or dolce ragazza oggi all'amor ti devi dire arresa. Non può diventar vecchia la bellezza, del tempo tu non puoi soffrir l'offesa. Da questo odioso fato per salvarti la mia passione a te giunge bruciante. Ti strapperò alla vita per amarti, la morte ti farà bella e fragrante. Preparati a un amplesso inebriato, la tua carne già agogna la mia spada, un grido e poi ti sarà tolto il fiato e sempre vivrai là nella contrada d'eterna quiete ov'è dimenticato ogni dolor che il vivere ti ha dato. Il suo aspetto drammatico era romantico, eccitante. Nell'animo di Vivia-
na un violino suonava con vibrazioni che le scendevano nel ventre facendole contrarre la muscolatura. «I miei baci ti mozzeranno il respiro», aggiunse il giovane. Poi le si avvicinò, e lei fu percorsa da un brivido gelido come il marmo di una pietra tombale. Una nebbia spettrale scivolò fuori degli alberi e li avvolse, isolandoli dal mondo. «La tua pelle è seta», sussurrò lui, accarezzandole una guancia con un lungo dito. Lei tremava di un tremito frenetico, sconvolta in modo insopportabile dalla sensualità e dalla vicinanza del giovane. Nella cornice dei capelli nerissimi il suo volto era alabastro puro, con appena un velo di barba. Lo sguardo che trafisse le pupille di Viviana andò a colpirla giù in fondo all'anima, e vi aprì una ferita da cui sgorgò sangue ardente. «Tu hai sete di me», disse ancora lui sottovoce, sfiorandole le labbra con un dito che aveva un sapore incantato di pesca. «Non è così, amore mio?» Annientata dalla sua ossessione, lei fu sul punto di afflosciarsi priva di sensi. Gli si aggrappò addosso e lo abbracciò con forza. Le loro bocche si unirono in un bacio famelico; gli occhi di Viviana si fusero negli occhi di lui, i suoi polmoni si empirono del suo respiro. E quel respiro era gelido come il cuore di una cometa. Tahquil sedeva con Caitri e l'urisk nel boschetto dei ciliegi, mentre le ombre della sera si facevano sempre più scure. Nessuno lo diceva apertamente, ma la tensione si allentava sempre durante quelle brevi assenze di Viviana, che si portava via il suo umore morboso e il suo sarcasmo. Le dita di Tahquil giocherellavano con una margherita raccolta tra le erbe. Aveva appena visto il nygel, nella sua forma cavallina, dare la caccia a un branco di piccoli maiali selvatici bianchi scalciando con gli zoccoli posteriori. Stava mangiando, presso il ruscello; dal suo muso pendevano lunghi nastri verdi che avrebbero potuto essere alghe, o le penne di un pappagallo. I nygel sono erbivori come molti animali lorraly, oppure carnivori come quel Principe della loro razza, il crudele Each Uisge, divoratore di mortali? Ripensare al giorno in cui aveva incontrato l'Each Uisge sotto il Colle di Hob le fece tornare in mente le sue esperienze in quelle sale di Carnconnor, un migliaio di anni addietro. «Mangia-cochal», l'aveva definita il sadico Yallery Brown. «Cosa significa la parola cochal?» domandò all'urisk.
«Cochal? È un guscio... no, piuttosto una struttura esterna, come la polpa di una pesca che contiene il succo.» «Perché un wight dovrebbe accusare me di essere una mangia-cochal?» «Soltanto una testa vuota mangerebbe il cochal. I mortali e i wight durante i pasti mangiano sia il toradh, che sarebbe l'interno di una cosa, sia il cochal. Ma il cochal è solo un semplice contenitore esterno, mentre il toradh è la parte buona, quella che dà energia e vita.» «Com'è possibile mangiare solo il succo e non la polpa? Certo, uno potrebbe masticare la polpa e alla fine sputarla, ma non è neppure tanto facile.» «Non è possibile per te, o per me. Soltanto i signori del gramarye, i faêran, possono mangiare il toradh di una pesca, e non il cochal, lasciando il frutto all'apparenza intatto.» «Ma un alimento lasciato senza toradh dovrebbe afflosciarsi, come svuotato.» «Non è così. Devi capire la natura del toradh. Non può essere visto, né toccato, ma riempie ogni spiga di grano, e ogni goccia di latte.» «Cosa succederebbe, se tu o io mangiassimo del cibo da cui è stato rubato il toradh?» «Non ne trarremmo giovamento. Tu potresti mangiarne ogni ora della giornata, e non ne guadagneresti un'oncia di grasso né un palpito di energia. Sopra un carro carico di ghiottonerie moriresti di fame.» «Non noteremmo una differenza nel cibo?» «No. Benché il vero sapore sia stato rimosso insieme col toradh, ne rimane una sembianza... abbastanza da ingannare il palato di semplicioni come te e me. Soltanto i faêran possono sentire la differenza, e questo al crack... all'istante.» «Dunque i faêran devono mangiare per vivere, allo stesso modo dei mortali e dei wight. È così?» Un uccello sorvolò in silenzio le cime degli alberi: un cigno. L'urisk non rispose subito. Sembrava agitato, e spostava lo sguardo tra le fitte ombre degli alberi, dove la sua visione notturna poteva scorgere qualcosa. «No», rispose infine. «I faêran mangiano solo per il piacere di farlo. Non hanno bisogno di cibi e bevande per sostenersi. Per quelli come loro, una pietanza non è fonte di vita, ma parte del divertimento. Un tempo venivano spesso a banchettare nei boschi di Erith, prima della Chiusura, ma i loro tavoli erano imbanditi col toradh rivestito di illusioni, oppure vero cibo che al mattino dopo lasciavano sparso al suolo.»
Le foglie frusciavano. Scivolando in un sogno a occhi aperti Tahquil immaginò una scena in cui Thorn riposava pigramente sull'erba lì accanto, e per toccarlo lei non doveva far altro che protendere una mano. L'urisk continuava a spostare lo sguardo tra i ciliegi. «Ho paura che la signorina Wellesley sia in pericolo», disse. «È assente da troppo tempo, e qualcosa di unket si aggira da queste parti.» L'anello-foglia le strinse il dito, e Tahquil balzò in piedi. Nello stesso istante, una figura femminile avvolta in un mantello di penne nere sbucò tra le piante, dalla parte del ruscello. «Qui c'è il ganconer Lord Vallentyne, dallo sguardo magnetico, che parla con voce stregata», sibilò la ragazza-cigno in tono urgente. «La sciocca ragazza ha ascoltato. È caduta. Colei che non vuole tessere il suo sudario farà meglio a chiudere occhi e orecchie.» L'apprensione attanagliò Tahquil come una morsa allo stomaco. Il sangue le defluì dal volto. «Dobbiamo trovarla subito!» gridò. «Vieni, Cait! Tu, nygel... ora è il momento di darmi aiuto! Obban tesh, non avrei dovuto permetterle di allontanarsi così.» Prese Caitri per mano. «Resta con me, Caitri. Tully, ti prego di non lasciarci. Contro un ganconer, siamo come passeri alle prese col falco.» «Da questa parte, vi faccio strada», grugnì l'urisk. Le due ragazze lo seguirono nell'oscurità dei boschi. Una musica lieve e lontana aleggiava tra gli alberi, tintinnante come se fosse prodotta da aghi appesi a fili, accordati delicatamente e percossi con piccole bacchette di iridium. Un sospiro di vento shang, un refolo laterale sfuggito alla grande tempesta magica in spostamento verso est, stava attraversando Cinnarine. Il gruppo avanzava tra le sue scintille e le sue ombre vellutate. Oltrepassarono colonne di electrum nero da cui si dipartivano rami d'argento, fluttuanti foglie di mercurio tra le quali pendevano frutti d'oro massiccio, e prati di smeraldi e diamanti che palpitavano di scintille. Le due mortali erano incappucciate col taltry, ma non i wight. Quello era il loro elemento, e non prendeva le loro passioni e le scene che vivevano per farne delle repliche. La musica degli aghi veniva da oltre gli alberi; seguendola, essi trovarono Viviana. La morte per punture da spine richiede tempo. La ragazza era ancora viva, anche se aveva già cominciato a morire, inconsapevole delle sue condizioni. Senza il taltry a protezione della testa, sedeva sul bordo della radura, e aveva un lungo paio di guanti rossi. Quando Tahquil e Caitri furono più
vicine poterono tuttavia vedere che le mani di Viviana erano nude. A coprirle era il sangue, che le inzuppava entrambe le braccia fino al gomito. Con ogni mano impugnava robusti pezzi di rovo forniti di lunghe spine, e si colpiva ritmicamente, con aria svagata e un sorriso sognante dipinto sul viso. Non vi erano lacrime sulle sue guance e non sembrava sentire dolore. Intorno alla fronte aveva una coroncina fatta con ramoscelli di salice. Lavorando a quel modo su un braccio e poi sull'altro, cantava con voce dolce una vecchia canzone popolare: Una corona di salice piangente intorno alla mia fronte porterò e se vorrà saper perché la gente a tutti quanti allora io dirò: è la corona fatta dal mio amore partito per cercar la buona sorte e per dimenticar questo dolore ora io la terrò fino alla morte. L'immagine shang della cameriera fluttuava lì accanto. Doveva essere un bel po' che lei ripeteva quel ritornello, ma la figura stampata sull'aria non rivelava alcun cambiamento di espressione; la faccia di Viviana restava serena, sognante, forse un po' triste. Cercarono di toglierle di mano i rovi, ma lei non li volle mollare. Si rifiutò di parlare e non volle guardare le compagne. Tutto ciò che fece fu di sospirare profondamente, come se nel suo animo ci fosse una ferita che non poteva guarire. Per il resto era docile, acquiescente, svuotata dello spirito e di ogni vivacità. La fecero rialzare e la portarono via. Lei li seguì senza opporsi. «È stata risucchiata», mormorò impietosito l'urisk. «Questa poverina è stata risucchiata da Lord Vallentyne.» La tempesta magica si dileguò. Quando si furono allontanati dal ruscello, Tahquil disse, dolcemente: «Viviana, dammi quelle spine. Ti stai facendo del male». Viviana scosse il capo. «Quando la pelle sarà separata dalla carne, io prenderò la pelle e la tesserò.» «Cosa tesserai, Via?» «Tesserò il mio sudario», rispose la cameriera senza nessuna emozione. «Perché ho incontrato il ganconer, in un'ora triste. Credevo che fosse un dolce amante umano, ma le sue labbra erano di ghiaccio sulle mie, e il suo
respiro amaro come la morte. Troppo tardi me ne sono accorta. Non posso più gioire della vita. Lui mi ha lasciato, ma per amor suo dovrò pungermi a morte.» Fu allora che Tahquil capì appieno il significato dell'impotenza, della frustrazione e del dolore. La rabbia salì come un magma in lei, ma dai suoi occhi uscì sotto forma di lacrime. «Tre guardiani per guidarci!» gridò. «Tre, ne avevamo per proteggerci, e non uno, non uno di voi, ha saputo impedire questo. Per centinaia di leghe abbiamo viaggiato da sole, affrontando mille pericoli senza aiuto, e li abbiamo sconfitti. E ora, sotto la vostra cosiddetta protezione, una di noi è condannata. Tully, io non posso incolparti di nulla; tu ci hai dato modo di sopravvivere nel Khazathdaur, e sul pendio di Colle Creech ci hai soccorso. Ma di che utilità sei tu, ragazza-cigno, se giungi in ritardo? E tu, cavallo, a cosa servi?» Il cavallo d'acqua scoprì i denti e appiattì le orecchie. La ragazza-cigno emise un sibilo come di vapore sfuggente da una pentola e sollevò le braccia, di scatto, facendo spalancare il mantello di penne come un fiore nero. «Senza-piume dimentica!» sibilò selvaggiamente. «Il voto di fedeltà del cigno è finito in Cinnarine. Il voto è adempiuto. Il cavallo d'acqua ha giurato di aiutare soltanto la liberatrice. L'umana incantata, sofferente e dolente, non è carico del cavallo o del cigno... nessuno le deve un servizio.» Caitri singhiozzava. Stringendole la mano, Tahquil sentì la pressione dell'anello-foglia sotto il guanto. In qualche modo quella presenza le ridiede fiducia. L'anello di Thorn. Cercò di ricomporsi. «Hai ragione», disse. «Mi dispiace. Ho parlato nell'ira e senza pensare. Scusatemi.» Passò un braccio intorno alle spalle di Caitri. «Coraggio, non perdere la speranza. Forse troveremo una cura.» Ma nel dirlo sentì che quelle parole erano prive di convinzione, stonate come campane rotte. Il cavallo d'acqua e la ragazza-cigno svanirono nelle pagine della notte. «Non sono lontani», la rassicurò l'urisk. «Puoi star certa che non ti hanno abbandonato.» «La ragazza-cigno ha concluso il suo impegno. Perché rimane?» «Quando le riferii le tue parole, con le quali lei si disse d'accordo, tu le chiedesti di aiutarti ad arrivare in Cinnarine, almeno. Credo che lei non dia il tuo stesso significato alla parola 'almeno'. È una cosa troppo indefinita. Potresti, involontariamente, averla legata a te per sempre.» Tenendo Viviana tra loro, a braccetto nonostante i suoi gomiti insanguinati, Caitri e Tahquil ripresero il loro viaggio verso il nord.
A metà della notte, quando si fermarono a riposare, Viviana non volle aiutarle a lavarsi il sangue dalle braccia. E non volle neppure guardare i frutti che le misero in grembo. «Non serve a niente cercare di ragionare con lei», osservò l'urisk. Pur consapevoli che le sue parole provenivano da una sapienza antica, Tahquil e Caitri cercarono di tentare l'amica coi frutti più maturi e succulenti, ma i loro sforzi furono inutili. Il mattino dopo, quando l'urisk se ne fu andato e i primi raggi del sole cominciarono a scaldare le tre viaggiatrici attraverso i varchi tra il fogliame, Tahquil si tolse i guanti. «Poco fa, svegliandomi, mi è venuto da pensare che questo anello potrebbe avere anche il potere di guarire», disse a Caitri. Se lo tolse dal dito e lo mise all'anulare sinistro di Viviana. La cameriera non ebbe nessuna reazione e rimase inespressiva, con gli occhi vuoti. «Grazie», mormorò, con l'automatismo di un carillon che suonasse non appena ricevuta la carica. «Glielo lascerò al dito, nella speranza che le faccia un buon effetto», decise Tahquil. «Sarà meglio metterci a dormire», suggerì Caitri. «Dovrei riuscirci, ora che questa brutta notte è alle nostre spalle e il sole ha scacciato la paura.» Mentre si mettevano comode tra l'erba alta che ondeggiava al vento, apparvero i primi coillduine, a occuparsi degli alberi, con le loro auree colorate che li portavano su e giù fino a trenta braccia dal suolo. Quella schiera di coccinelle umane riempiva la pianura di luce ultraterrena. Privi di vista, gli occhi di Viviana restavano fissi in un punto di quel panorama glorioso. Al tramonto, il sole si tirò dietro la notte come un mantello. Quasi che fossero presi anche loro nelle pieghe di quel tessuto, il cavallo d'acqua e la ragazza-cigno riapparvero, seguiti dall'urisk. Il cigno nero volava o camminava, perlustrando dinanzi a loro, l'urisk trotterellava su percorsi paralleli. In forma equina, il nygel sorvegliava alla retroguardia, dimenticandosi le sue responsabilità ogni volta che vedeva uno stagno in cui immergersi e oziare. Erano trascorse due notti dall'incontro col ganconer. La stanchezza aveva scavato il viso delle mortali. Tahquil e Caitri avevano fatto la guardia a turno, anche per tenere d'occhio Viviana, che non dormiva mai. Durante il giorno la cameriera sedeva, e con le mani malconce cercava di ferirsi con
le spine, almeno quelle che le altre due non erano ancora riuscite a toglierle. Era ormai così debole che camminava a stento. Di notte, l'urisk le guidava lungo il percorso più agevole alla luce delle stelle, se agevole poteva chiamarsi il terreno in quella zona ondulata, priva di sentieri, fittamente coperta di alberi e cespugli. Continuavano a salire e scendere, a oltrepassare fiumiciattoli sui quali talvolta erano sopravvissuti robusti ponti di pietra, ad attraversare radure illuminate dalla luna e ad aggirare macchie di rovi così dense che niente avrebbe potuto penetrarvi. Tahquil non cessava di guardarsi intorno in cerca di vegetali da cui ricavare tintura nera o marrone. «Cerca iris e gigli d'acqua», disse al cavallo d'acqua. «Vanno bene anche le noccioline nere, le ciliege selvatiche e le querce.» Ma in quegli stagni crescevano solo canne e giunchi. Verso metà della notte il nygel arrivò di corsa in forma umana, eccitato come un cucciolo. «Il cigno dice di aver visto un boschetto di querce, presso il fiume.» «Non un bosco infestato da wight unseelie, voglio sperare», replicò Tahquil. «No», assicurò lui. «È lontano?» «Sì, dice lei, e fuori strada.» Tahquil guardò le compagne. Viviana era sdraiata sull'erba, immobile, con gli occhi aperti ma vacui. Caitri sonnecchiava accanto a lei. «Loro non possono stancarsi più del necessario. Tully, ti dispiacerebbe proteggerle mentre io sono via? Whithiue...» Parzialmente nascosta nell'ombra di un albero, la bella wight girò la testa nel sentir pronunciare il suo nome. «Puoi stare qui di guardia anche tu?» La ragazza-cigno emise un gridolino. «Lei è d'accordo», tradusse l'urisk. «Sorvegliatele con attenzione», si raccomandò Tahquil. «Con tutta l'attenzione di cui siamo capaci», assicurò l'urisk. «Questa è una promessa, da parte di entrambi.» Mentre lei parlava, il nygel aveva inaspettatamente riassunto la forma equina, alle sue spalle. Trottò via, e Tahquil lo seguì. Se questo è uno scherzo, gli taglierò la coda. Oltre l'intreccio dei rami, le stelle ruotavano lente. La notte era limpida, di una chiarezza straordinaria. Le foghe e i sassi sembravano risplendere. Perfino le ombre avevano un'intensità quasi cristallina.
«Quanto manca?» domandò Tahquil facendosi strada tra i cespugli. Ansimava ed era accaldata, per la fretta. Il cavallo d'acqua nitrì. Emersero dalla boscaglia e si trovarono in una radura circondata da grandi querce, come la ragazza-cigno aveva riferito. Tahquil estrasse il coltello e cominciò a staccare pezzi di corteccia dal tronco più vicino. «Questa andrebbe messa a mollo, preferibilmente bollita», mormorò, più a se stessa che al cavallo d'acqua, che annusava i cespugli nelle vicinanze. «Ma come faccio a bollirla? E avrei bisogno di sale, e di un mordente come la ruggine del ferro...» Il cavallo sbuffò. Lei si voltò a guardare dove puntava la sua lunga testa. Tra i rami, lontano nel cielo sud-occidentale, vi era un vortice di tenebra, come inchiostro versato nell'acqua. Echeggiava un vago latrare di segugi. La Caccia Selvaggia si stava avvicinando. «Credi che possano vederci, sotto queste querce?» gemette Tahquil, rigida per lo spavento. Il cavallo d'acqua scosse il capo, facendo ondeggiare la criniera come un liquido. Una conchiglia ne volò fuori. Il vortice nero roteò nel cielo da quella parte, e in quei fumi divennero visibili segugi e cavalieri. Eccitato dalla vicinanza di quella banda di wight scatenati, il nygel scalpitò, impennandosi. «Riesci a vedere dove stanno andando? Lo vedi?» domandò Tahquil, lasciando cadere i pezzi di corteccia che aveva raccolto. Poi si accorse che dagli alberi da frutta, non distante da lì, si stava levando una colonna di fumo bianco, o di nebbia, e la Caccia deviò per dirigersi rapidamente da quella parte. «Quel fumo!» esclamò. «Proviene dalla zona dove abbiamo lasciato gli altri... È un segnale! Devo tornare da loro! Aiutami, se vuoi onorare il tuo impegno. Lasciami salire in groppa, cavallo.» Pochi momenti dopo, il cavallo d'acqua prese il galoppo tra le piante, con la ragazza in arcioni. Appesi al collo di Tahquil, la fibbia di ferro e il tilhal battevano contro il suo sterno. Caitri era sdraiata sull'erba, al fianco di Viviana che portava ancora la coroncina di salice intorno alla fronte, e sonnecchiava nel tepore di quella profumata notte d'estate. Era consapevole della vigilanza della ragazzacigno, tra gli alberi, e dell'urisk che si era accovacciato lì accanto sui suoi
zoccoli caprini, le braccia strette intorno alle ginocchia pelose. Ed era consapevole dell'immobilità di Viviana, dell'inespressività del suo viso, e del suo respiro lento e irregolare, quasi che la ragazza si dimenticasse d'inalare l'aria e dovesse fare uno sforzo per ricordarselo, ogni volta, appena prima di soffocare. «Sei così fredda, Via.» E passò un braccio intorno alle spalle dell'amica. La luce penetrava tra le dita che gli alberi intrecciavano sul cielo per afferrare le stelle. L'atmosfera era così trasparente, quella notte, da far pensare che il firmamento stesse per precipitare sul mondo. Tre cose accaddero nello stesso istante: la ragazza-cigno mandò un grido, l'urisk balzò in piedi, e Caitri si alzò subito a sedere. «Cosa sta succedendo?» domandò la fanciulla, perché niente sembrava alterare la quiete e lei non riusciva a vedere il motivo di quel comportamento allarmato. «Qualcosa di unket viene da questa parte», sussurrò Tully. Ancora non si vedeva niente. L'urisk aggiunse: «Ed è arrivato. Tappati le orecchie...» Caitri si ficcò le dita nelle orecchie e girò la testa. Un giovane alto e snello di nobile aspetto era sbucato dalla vegetazione e li guardava. I suoi capelli erano lunghi come tende luttuose, e incorniciavano il volto pallido e affascinante di un principe della lussuria. Aveva occhi affamati... due lupi neri. Lo sguardo di Viviana, inchiodato su di lui, parlava di un'adorazione incontrollabile. «Chiedimi di strapparmi il cuore per te, mio amore, e lo farò», mormorò la cameriera. Ma lui ignorava la sua esistenza, come se non la vedesse. «Queste due ragazze appartengono a me», affermò l'urisk, che appariva ridicolo come un nanerottolo di fronte all'elegante bellezza del ganconer. Gli occhi del predatore erano fissi su Caitri. Incrociando quello sguardo ardente, lei si domandò cosa avrebbe provato nel baciare quella bocca, e sorprese se stessa con un palpito di desiderio erotico. L'urisk la spinse indietro e le coprì gli occhi con una mano. «Non guardarlo», le ordinò, brusco. «Finché io sono qui, lui non può avvicinarsi a voi. Salvo che non siate voi ad andare da lui, come caprette al macello.» Ubbidiente, Caitri distolse lo sguardo. Il ganconer aveva cominciato a dirle parole seducenti, ma lei non poteva sentirlo. Al suolo strisciava una leggera nebbia da cui si alzavano refoli e vortici. «Il fumo del ganconer», mormorò l'urisk, a disagio. «Cosa sta cercando
di fare?» La nebbia avvolse gli alberi e s'infittì. In quel grigiore, la ragazza-cigno venne avanti a passi leggeri, come una principessa di favola. Il suo mantello di penne giaceva sull'erba ai piedi dell'albero, e lei indossava soltanto i lunghi capelli che fluttuavano lenti, come seta sott'acqua. «No!» gridò Caitri, quando capì le sue intenzioni. Si tolse le dita dalle orecchie e protese le braccia, sgomenta. «Non devi sacrificarti per me!» Quali che fossero le sue intenzioni, Whithiue ignorò le parole di Caitri. «Non agitarti, lui non può torcerle una penna», la fermò l'urisk, spingendola di nuovo indietro. «Né lei può far del male a lui. Non più di quanto potrebbero ferirsi due alberi della foresta. Non esporti, tu.» «Ma cosa sta facendo?» Da una direzione imprecisabile prese vita un lento suono di cornamuse, vago e attutito. Il ganconer e la ragazza-cigno si guardavano. La nebbia spiraleggiava intorno a loro. Due lunghi diamanti di vapore si solidificarono dietro le scapole di Whithiue, e diventarono grandi ali di farfalla. La cotta di maglia che il ganconer indossava era velata di brina, e la luna vi spruzzava una luce pallida. Il nobile guerriero dall'aria triste e la fanciulla alata dai lunghi capelli neri formavano una strana coppia, bella da mozzare il fiato. Il loro aspetto eldritch dava alla scena l'aspetto di un sogno, o di una visione da molto tempo agognata ma mai realizzata. Caitri capì di stare assistendo a un rituale eldritch che ai mortali era dato raramente di vedere. Il pianto delle cornarmise si fece più forte. Veniva dal sottosuolo, da qualche strada sotterranea, dove sembrava che suonatori di cornamuse mortali, schiavi da millenni, marciassero in un'eterna penombra. I suonatori si fermarono direttamente sotto le zolle su cui sedevano Caitri e Viviana. Il terreno vibrava. D'un tratto il tempo della musica cambiò e le cornamuse presero a suonare La Nobile Sithean. Caitri aveva sentito Thomas Rhymer suonare a una cena di Corte quella canzone, che si diceva fosse stata insegnata nell'antichità a un Arpista Reale dagli stessi faêran. Al ritmo di quelle note, la coppia d'immortali cominciò a muoversi in una danza di grazia squisita. «Vedo che la ragazza-cigno sta cercando di portarselo via», sussurrò roco l'urisk. Il fumo eldritch saliva in una rapida colonna grigia. Nasceva dal suolo e filtrava su tra i rami e le foglie, per vorticare verso le stelle. Nella danza, la ragazza-cigno e il seduttore sembravano cercarsi, ma non si toccavano mai. I loro piedi sfioravano appena il terreno. Nonostante le
dita ficcate nelle orecchie, Caitri udiva la musica: vibrava attraverso la carne fino all'osso e le dava una sorta di estasi voluttuosa, eccitandola come mai niente era riuscito a fare. Poi, oltre i fremiti e il ritmo della musica, oltre la marea delle emozioni, un altro suono la colpì. Era uno squillo basso e insistente, una nota così malvagia e violenta che per Caitri poteva provenire soltanto da uno strumento di colore nero... un corno da caccia sbucato dall'inferno. E una cacofonia di latrati. Caitri corse ad afferrare Viviana per le braccia e la tirò a sedere, ansimando per lo spavento in quell'improvviso uragano di urla feroci, di schiocchi di frusta e di tambureggiare di zoccoli che piombava loro addosso. «Alzati, alzati!» gridò, ma l'altra era una bambola di stracci tra le sue braccia. Il piccolo urisk corse ad aiutarla e si unì ai suoi sforzi, senza molto successo, gridando qualcosa che lei non capì. Le chiome degli alberi venivano scosse furiosamente, molti rami si schiantavano. La nebbia si diradava, spinta via dalle ali della ragazza-cigno che battevano con frenesia, o forse dall'agitarsi dei poderosi cavalli che scendevano dal cielo, portando in arcione terribili e disumani cavalieri. Viviana le fu strappata via dalle mani. I suoi capelli biondi svolazzarono quando fu gettata di traverso su una sella. Caitri alzò lo sguardo, stordita. Su di lei incombeva un cavallo sogghignante, coi denti scoperti; nel suo muso si aprivano le più grandi narici che avesse mai visto... finché non vide le cavernose cavità nasali dell'apparizione che lo montava. Quell'apparizione si piegò verso di lei. L'ultima immagine che Caitri percepì, mentre la Caccia Selvaggia risaliva nel cielo, fu quella di un piccolo cavallo e di una figuretta che lo montava, diretti al galoppo verso la radura. La figuretta era Tahquil. Neri sullo sfondo della notte, i rami degli alberi le correvano incontro. Uno strano fumo aleggiava lì intorno, una specie di nebbia che nasceva dal suolo e saliva rapida. Le urla e i latrati si stavano allontanando verso sudest. Un gufo attraversò la strada della giovane che cavalcava nei boschi di Cinnarine. Il vento le scompigliava le vesti e i capelli, ma per il resto in quella zona non vi erano altri movimenti. Tahquil si voltò verso est, ma era ancora troppo presto per il sorgere del sole.
Il cavallo si arrestò di colpo e cercò di mordere qualcosa. La figuretta che era balzata dietro un albero mise fuori la testa cornuta. «Stai fermo, Tighnacomaire. Sono soltanto io!» lo rimproverò l'urisk. La tensione che aveva tenuto desto ogni senso di Tahquil si spezzò. Fece per smontare, ma si accorse di non riuscirci. «Lasciami andare, Tighnacomaire», sbottò. «Hai dimenticato chi sono io per te?» Liberate dalla soprannaturale aderenza, le sue mani si staccarono dalla liscia criniera. La giovane si piegò in avanti, sollevò una gamba sopra la groppa e scivolò al suolo. «Come hai osato incollarmi alla tua schiena!» Il cavallo d'acqua girò la testa, con aria melensa. «Tu non sei la migliore delle cavallerizze. Ho dovuto tenerti ferma.» «La Caccia ha preso le due ragazze», la informò cupamente Tully. «Il ganconer ci ha tradito. Non abbiamo potuto fare niente.» «Non potevate certo affrontarli», riconobbe Tahquil, accigliata. «E ora dov'è il ganconer?» «Se n'è andato. La ragazza-cigno se l'è portato dietro, lontano da qui.» «È successo quello che temevo... hanno scambiato Via con me.» Sedette sull'erba, con la testa tra le mani, e rimase a lungo immobile, in silenzio. Alla fine alzò lo sguardo e disse: «Le mie compagne hanno voluto aiutarmi, sapendo che questo era pericoloso, e che non ne avrebbero ricavato alcun guadagno. Lo hanno fatto per amicizia. Ora io non ho più compagne, non ho l'anello di gramarye, non ho l'anforetta di elisir rinvigorente, non ho rifornimenti di cibo, non ho il mezzo per accendere il fuoco, non ho armi... ma ho te, Tully, e te, Tighnacomaire, e credo che la ragazzacigno sia rimasta mia alleata. In questa terribile ora, devo rinviare il mio viaggio verso Arcdur e dirigermi a sud-est, perché la Caccia Selvaggia si è allontanata da quella parte. Se le mie amiche sono ancora vive, cercherò di liberarle. In caso contrario, dovrò comunque accertarmi del loro destino, altrimenti non meriterei la stima e l'amicizia di nessuno». «È una missione folle, signora Mellyn!» cercò di farla ragionare l'urisk. «Non sai cosa c'è a sud-est di qui? I frutteti di Cinnarine lasciano il posto a leghe e leghe di territori disabitati dalla razza degli uomini. E più oltre ci sono i labirinti di Firzenholt - o Haythorn, chiamali come vuoi - e poi distese desertiche fino al Ponte di Terra di Nenian. Pochi mortali sarebbero così scriteriati da attraversare quella via sul mare, ed essa conduce a Namarre.» «Se le mie amiche sono state portate a Namarre, io andrò a Namarre.»
«Non possiamo saperlo per certo...» Il cigno sorvolò stancamente le cime degli alberi, atterrò in modo goffo dietro i cespugli e da essi emerse in forma di fanciulla, lisciandosi il mantello di penne. «Notizie della Caccia?» domandò bruscamente Tahquil. «Cavalli e segugi si sono affrettati a condurre lontano le giovani amiche. Gli occhi del cigno hanno visto volare Huon. Le rondini hanno detto che la Caccia non è tornata a sud, ma ha proseguito verso la terra dove gravi fatti accadono, e vi sono campi di battaglia, e le rive del mare freddo.» «Il mare oltre il quale c'è Namarre?» «Con certezza.» Era una svolta nella sua missione. Ancora una volta il destino la portava in una direzione nuova. Doveva abbandonare la sua ricerca della Porta di Faêrie. A quattrocento e quaranta leghe in linea d'aria dal punto in cui Tahquil prese quella decisione, c'erano le propaggini più esterne dei labirinti vegetali di Firzenholt. Il cavallo d'acqua galoppò ogni notte verso est e sud, senza stancarsi mai, saltando ostacoli di legno e pietra, evitando le barriere dell'acqua corrente, e nuotando attraverso stagni così immobili e chiari da sembrare schegge di cielo cadute sul mondo. Era una creatura forte e veloce, dai poteri sconosciuti ai comuni cavalli di terra. La donna che lo cavalcava avrebbe potuto cadere molte volte, se non fosse stata incollata alla sua groppa per magia. Svelto e instancabile era anche il piccolo wight appiedato che correva al suo fianco come una capra, nel buio della notte, mentre alto nel cielo un uccello dal lungo collo teneva il loro passo con le sue forti ali. Era un passo che nessun animale lorraly avrebbe potuto tenere. Uno strano uccello, uno strano bipede, uno strano cavallo. E una strana cacciatrice, che era anche una preda. 5 FIRZENHOLT IL LABIRINTO
Elegante lei naviga nei cieli, sul vento va come schiuma sull'onda, ma nel vederla cercano i mortali di rapirla con brama invereconda. Non dovrebbero osar le loro dita toccare l'eldritch quando lei appare d'avvenenza immutabile vestita per lasciarsi in silenzio rimirare, né quando scende per sfiorare l'acque come riflesso che lo specchio ama. Anche il poeta nel guardarla tacque ammutolito innanzi a tale dama, che di unir la bellezza si compiacque del cigno e della damigella umana. Sonetto per una ragazza-cigno Cavalcare a pelo su un cavallo d'acqua... Quale mortale era mai stata in groppa a una simile cavalcatura tanto a lungo? Su un quadrupede fatto di fredde correnti e convergenze liquide, illusione e magia, e appiccicata a lui come una patella allo scoglio, le cose non apparivano più le stesse. Tahquil-Ashalind aveva l'impressione di viaggiare in un mondo diverso, un mondo di ombre e di leggerezze incendiarie che esplodevano come immagini forgiate dai venti shang. Se fosse stata capace di scherzarci sopra, e se i pensieri e le passioni che la guidavano avessero potuto ordinarsi in una sequenza razionale, si sarebbe chiesta come fosse possibile trovare Thorn ancora vivo, nonostante i terribili pericoli che doveva affrontare. Tuttavia, se davvero lo era, il posto più probabile in cui trovarlo era Namarre. E quando sentì di potersi aggrappare a quella speranza, fu spinta con urgenza ancora maggiore a gettarsi in quella nuova folle impresa. Il percorso che seguivano era il più riparato possibile, perché la Caccia Selvaggia era attiva ogni notte e infuriava da un orizzonte all'altro. Per oltre cinquecento miglia viaggiarono in un territorio aperto e semidesertico; dopo cinque giorni, al sorgere del sole, calcolarono di essersi lasciati alle spalle un centinaio di miglia o più, nonostante la brevità delle notti estive. Il dodicesimo giorno di Grianmis giunsero a Firzenholt. E lì, al limitare di quel territorio dove la flora soccombeva alle bizzarrie dell'artifi-
cio, furono costretti a fermarsi. Davanti a loro si stendevano miglia di siepi sempreverdi, alte e fitte, formate da un'intrecciarsi di verzi, cipressi, ramospini, ginepri e fragranti cespugli di alloro. Per quanto a un nuovo venuto ciò apparisse strano, quelle palizzate di rami venivano sagomate in forme che non erano affatto naturali. Le creature predominanti nell'ambiente ecologico di Firzenholt Haythorn erano i mangiasiepi. Quei piccoli insetti con le mandibole a forbice preferivano i germogli freschi e, a seconda della loro particolare eredità genetica, gli sciami si muovevano in linea retta, o curva, o ad angolo retto orizzontale, oppure in verticale, dando così origine a blocchi di siepi diritte, arrotondate, con cubi, camere interne, spirali, archi, scale, piramidi e altre forme ancora. Ma soprattutto essi creavano muraglie invalicabili, rettilinee, di fitti pruni verdi. Estremamente sensibili alle variazioni climatiche, i mangiasiepi non si erano mai allontanati dal settentrione di Eldaraigne, e in quella regione ve n'erano alcune varietà che si mescolavano. Il risultato era la comparsa di lunghi sentieri rettilinei tra le siepi, bruscamente interrotti da vicoli ciechi, angoli, spirali concentriche e improvvise serie di deviazioni. Ciò dava al Firzenholt l'apparenza di un territorio curato da un giardiniere molto attivo e molto eccentrico. All'interno di queste muraglie vegetali, un vasto intreccio di canali veicolavano l'acqua tra le radici, al livello del suolo; ma nessun animale più grosso di una volpe avrebbe mai potuto insinuarsi in quei cunicoli. Più in alto invece le siepi ospitavano passeri, scoiattoli e altre piccole creature. Così era, da molti secoli, il Firzenholt. Al tramonto, Tahquil si fermò sul bordo di uno stagno ombreggiato dai salici, e alzò le mani per staccare alcuni frutti di Buonpane maturati all'ombra dei rami più bassi. Da lì a poco il sole sarebbe sprofondato oltre l'orlo del mondo. D'un tratto i lunghi ramoscelli del salice, che pendevano fino a contatto dell'acqua, cominciarono a tremare. A provocare quell'effetto erano le vibrazioni dello stagno, e qualche istante dopo la causa di quell'agitazione sbucò alla superficie: la testa di un cavallo, con gli occhi rovesciati a mostrare il bianco, la criniera intrecciata di alghe appiccicata al collo, e le labbra contratte in un rictus che scopriva i denti larghi come pietre tombali. Tahquil balzò indietro e cadde a sedere. «Ti va una cavalcata?» domandò ingenuamente il nygel salendo all'asciutto con un paio di energiche sgroppate. Nitrì con aria soddisfatta e si
scrollò via l'acqua di dosso. «Mi piacerebbe», rispose Tahquil, rialzandosi, «ma qui non è possibile.» Il nygel guardò gli alti bastioni del Firzenholt, scuri sullo sfondo del tramonto. «Ah, sì, dimenticavo.» Agitò la coda scacciando una mosca immaginaria. Tahquil attese che le fosse dato un suggerimento su come avrebbero dovuto procedere, ma nessuno aprì bocca. «Possiamo aggirare la zona?» «Nelle marche meridionali c'è la giungla selvaggia. A nord si levano picchi rocciosi. Sono ostacoli ancor peggiori di questo», rispose il cavallo. «Auch», disse l'urisk, accovacciato come una creatura selvatica tra le radici di un salice. «Auch cosa?» domandò Tahquil. «Soltanto auch.» «Suppongo che non abbiate nessun suggerimento su come affrontare questo... questo giardino un po' troppo cresciuto.» «Io posso ignorare i suoi sentieri, perché sono abbastanza piccolo da strisciare sotto i cespugli e uscire dall'altra parte, ogni volta che trovo un vicolo cieco. Il nygel può nuotare nei canali. Il cigno vola. Ma tu?» L'urisk scosse la testa riccioluta. La ragazza-cigno venne a fare rapporto. Dalla sua ispezione aerea risultava che non vi era nessuna strada percorribile: tutti i sentieri erbosi che si addentravano tra le siepi erano vicoli ciechi, almeno lungo il confine occidentale del labirinto. Invece, più a oriente, aveva visto una strada alquanto tortuosa. «Ho bisogno di alcune cose, per costruirmi l'attrezzatura adatta», disse Tahquil dopo aver riflettuto un poco. Quindi staccò dalla cintura l'ultimo piccolo coltello che le era rimasto e cominciò a recidere rami di cipresso, sia quelli rigidi sia quelli flessibili come corde, privandoli delle foglie. Quando la luna si alzò, Tahquil, tagliando e legando, aveva costruito un paio di oggetti simili alle racchette con cui le cortigiane giocavano a volapalla... ma senza i manici. «Scarpe da siepe», spiegò agli altri tre. «Attraverserò il Firzenholt camminando. Senza queste scarpe, la parte superiore delle siepi non potrebbe sostenermi e sprofonderei nella vegetazione. Ma questa vegetazione è abbastanza fitta da sostenere il mio peso, se lo distribuirò su due suole molto più larghe.»
Si legò le scarpe da siepe sotto gli stivali e fece pratica camminando sull'erba, mentre il nygel la osservava con divertimento e la ragazza-cigno mostrava sdegnosamente d'ignorarla. «Cammini come un'anatra quando esce dall'acqua, mia cara», commentò l'urisk. «Giusto paragone», sorrise lei. «Mi piacerebbe anche volare come un'anatra, ma come potrei fabbricarmi le ali?» Si legò le racchette alla cintura e cominciò ad arrampicarsi sulla siepe più vicina. Sul lato esterno di quel muro verde, nessun ramoscello era abbastanza robusto... tutti le si rompevano tra le mani. Affondando le braccia nel fogliame, trovò rami più grossi. Cercò di far presa su di essi, ma i rami sottili esterni le sfregavano dolorosamente sulla faccia e sul corpo, impedendole di avvicinarsi a quelli capaci di sostenerla. I suoi sforzi non ottennero niente. Alla fine, frustrata, saltò di nuovo sull'erba. «I giardinieri di palazzo potavano la cima delle siepi, ma per arrivare lassù usavano delle scale», disse, ansando di fatica. «Io non ho scale, e con questo coltello non posso tagliare rami abbastanza grossi da costruirne una. Non è proprio possibile aggirare questo labirinto?» «Si estende dal lontano nord al lontano sud», riferì l'urisk. «Dalle colline dirupate alla foresta vergine. Al nord c'è la costa, e la spiaggia è transitabile, ma il cigno dice che è molto sorvegliata.» «Tu non hai bisogno di una scala», disse il nygel, quando ormai Tahquil aveva perduto ogni speranza. «C'è un modo migliore. Salta sulla mia groppa.» «Oh, no. Questa siepe è più alta del tetto di una capanna», obiettò Tahquil. «Se salterai troppo in alto finiremo dall'altra parte e mi romperò ogni osso del corpo; se invece salterai troppo basso finiremo in mezzo ai rami e morirò dilaniata.» Il cavallo d'acqua nitrì e scalpitò. «Credi forse che io sia un cavallo lorraly, con meno buonsenso di una mosca? La mia mira è infallibile. Finora non ho mai sbagliato.» Consapevole che quella era la verità, poiché i wight erano incapaci di mentire, Tahquil gli montò in groppa. Ciò nonostante, mentre lui si allontanava dalla siepe per prendere la rincorsa, la trepidazione le attanagliò la gola con mani adunche come artigli. La notte si era chiusa su di loro, umida e gelatinosa. Tahquil poteva solo presumere che il nygel vedesse la siepe meglio di lei, in quella semioscuri-
tà. Il quadrupede partì al passo, poi accelerò al trotto, quindi al galoppo. Seduta sulla sua groppa pelosa, lei gli stava incollata come se fosse parte del suo corpo possente. La siepe esterna del Firzenholt appariva solida come una muraglia quando il nygel balzò in alto. Subito i loro corpi si separarono, ci fu uno scossone mentre lui sgroppava, e la ragazza fu scaraventata in avanti in una capriola vertiginosa. Per un momento senza tempo si sentì sospesa nella notte, tra il buio del cielo e quello della siepe, poi atterrò bocconi in una massa di vegetazione abbastanza morbida che il suo peso appiattì fino a renderla solida e compatta. Dal basso provennero delle grida. Lei si trascinò carponi fino al bordo, guardò giù e agitò una mano verso l'urisk e il nygel. Una figura alata planò verso di lei e nel passarle accanto sibilò qualcosa. Il cigno deviò di lato e scomparve nel buio. Tahquil si legò le racchette agli stivali, si rialzò e si guardò intorno. Quassù sembra di essere in un altro mondo. Verso oriente si estendevano leghe di strade di velluto nero. A tratti spuntavano agglomerati di strutture così regolari da far pensare al profilo di una città stagliato contro il cielo notturno. In un certo senso era una città arborea, priva di abitanti umani, bizzarra e anti-funzionale, le cui strade erano canali geometrici profondi come piccoli canyon. E non un tronco su cui mettersi a sedere, un posatoio, una superficie solida. È un posto molto diverso dalle siepi dei giardini del Palazzo Reale. Definire «cammino» i progressi che Tahquil fece sopra il tetto della siepe non sarebbe una descrizione completa. Camminava come una bambina dentro gli stivali di suo padre, o come una vecchia centenaria vacillante sotto il peso dell'età. I suoi pensieri in quei primi momenti erano pochi; doveva concentrarsi sui movimenti fisici. E su quei sentieri - rampe, coni, spirali, cubi, blocchi, scale, piramidi e architravi - svolazzavano le creature della notte: gufi e pipistrelli, barbagianni e passeri nittalopi, i cui richiami s'intrecciavano come arabeschi sonori. A intervalli casuali passava la silenziosa ombra del cigno. In quella forma, a differenza del nygel, la wight non poteva parlare nella Lingua Comune. Tahquil non riceveva indicazioni verbali o di altro genere da lei; ma il suo silenzio, nonostante l'ostilità che emanava, era una conferma che lei stava seguendo la strada giusta. Viticci fioriti di magenta s'intrecciavano fitti ai sempreverdi, in un coro di profumi diversi. Dai ramoscelli dei ginepri pendevano bacche rosse, di un tipo dolce e commestibile. A metà della nottata e all'uhta, Tahquil consegnò al cigno la borraccia di pelle legata a una corda. L'uccello gliela ri-
portò stringendola nel robusto becco, dopo averla riempita di acqua da uno dei canali. Allo spuntare del giorno, la ragazza trovò un punto più resistente e piegò i ramoscelli superiori per avere una sorta di branda su cui sdraiarsi. I mangiasiepi, che la notte si ritiravano verso le radici, tornarono al livello delle foglie in cerca di germogli freschi. Lei li guardò falciare la superficie della siepe come un prato, con le loro mandibole a forbice; non si curavano di lei, limitandosi a cercare il cibo nella direzione che un misterioso senso li obbligava a seguire. Per sette notti Tahquil vacillò e annaspò lungo il percorso obbligato che il tetto della siepe le offriva, mangiando bacche. Poteva sembrare sola, ma in effetti aveva fin troppa compagnia: la luna e le stelle, il saltuario passaggio aereo della ragazza-cigno e la minaccia della Caccia che, pur non visibile da lì, lasciava nel vento l'eco dei suoi clamori. E poi il langothe, e i sogni di Thorn, così vividi da farle sospettare di essere già caduta preda della follia. Da quando l'anello-foglia non le cingeva più il dito, il pensiero di ciò che aveva perduto era straziante. Pian piano le sue forze si riducevano. Una sera si svegliò e vide la sua guida wight, manifestata in forma umana e appollaiata su un trapezio fronzuto. «Colei che lenta procede ha trovato con successo il centro del Firzenholt», annunciò la ragazza-cigno. «Da qui, una via sul terreno segue le siepi fino al limitare... una tortuosa via. Il cigno guiderà l'inerme umana.» «L'inerme umana ha udito il cigno e ringrazia», replicò Tahquil. Cercò dei rampicanti robusti ai quali aggrapparsi e cominciò a calarsi verso il suolo. Scendere fu più facile che salire, grazie alla forza di gravità e alla resistenza elastica dei suoi appigli. Pochi minuti dopo saltò al suolo, benché un po' graffiata, e fu raggiunta dall'urisk e dal nygel. «Ci rivediamo, fedeli amici.» Tahquil sorrise, spazzolandosi via detriti e foglie dai capelli... una ciocca dei quali bastava a tenere aperta la Porta che da Erith conduceva in Faêrie. «State bene?» I richiami degli uccelli notturni giungevano ora attutiti dalle muraglie di cipresso che si levavano intorno a lei, torreggiando verso il cielo, ma in compenso si udiva il rumore dell'acqua che scorreva nei canali, seguendo le fondamenta delle siepi. «Stiamo bene!» rispose allegramente l'urisk. Si rimisero in marcia, guidati dal cigno che ogni tanto faceva passaggi a bassa quota per indicare loro la direzione da prendere. Una volta, da una siepe udirono provenire uno strano brusio di risate e gridolini, e Tahquil
spostò una cortina di fragranti foglie d'alloro per sbirciare all'interno. Sulle rive di un canale era in corso una festicciola di siofra, alcuni dei quali remavano sull'acqua a bordo di minuscole barche. I piccoli wight non si accorsero della mortale che li spiava, e lei osservò con meraviglia quel festoso raduno. Stavano mangiando cibarie singolari: bruchi in salamoia, formiche fritte, ali di farfalla, vermi rossi, scarabei arrosto, funghi tritati, fiori di magenta bolliti e altre cose meno identificabili. Più tardi, nella notte si udì sempre più forte un rumore di ruote e ingranaggi, che s'intensificò quando i viaggiatori passarono davanti a un'impenetrabile parete di alloro, e poi si allontanò alle loro spalle. Un paio di volte videro delle faccette rugose, da vecchio, sporgersi a scrutarli. Dopo qualche ora di cammino tra quelle immutabili pareti sotto un tetto di stelle, Tahquil cominciò ad avere l'impressione che stessero girando in cerchio. «Siamo tornati indietro!» esclamò a un certo punto, indicando il firmamento. «Guarda le costellazioni!» «Calmati, ragazza», la rassicurò Tully. «Non sei mai stata dentro un labirinto. Qualche volta devi andare indietro, per andare avanti.» «Sì, ma questo non è un labirinto vero... è un garbuglio a caso. Non c'è una logica. Comunque sia, mi fiderò della ragazza-cigno, per esser portati fuori di qui. Tighnacomaire... Tiggy, te la sentiresti di portarmi in groppa, per fare più in fretta?» Il cavallo d'acqua accettò. Per altre cinque notti, Tahquil cavalcò tra le siepi. Il nygel poteva prendere il galoppo solo lungo i tratti rettilinei più lunghi; in quelli brevi, o tra le continue curve, doveva procedere al trotto o al passo. Sono trascorse sedici notti dalla cattura di Viviana e Caitri... Era un pensiero insopportabile. Una sera giunsero in un punto dove i rampicanti fioriti erano più fitti che altrove. Lì, tra il sentiero erboso e le propaggini di una siepe, erano allineate cinque lunghe canoe di corteccia. «I canali scorrono verso oriente, da qui in poi?» domandò Tahquil. «Quasi in linea retta», confermò l'urisk. «Così dice la Regina degli Uccelli.» «E pensi che i proprietari di queste canoe si arrabbierebbero molto, se io ne prendessi una?» «Questo non so dirtelo. Non ho mai visto canoe come queste. Non c'è modo di sapere chi le ha costruite.»
«Tu non vivi forse da quando esiste il mondo?» «Sì, ma non ho viaggiato molto. Io sono un tipo sedentario.» Il nygel stava brucando distrattamente le foglie dei rampicanti. Il loro profumo acuto riempiva l'aria. «Penso che proseguirò sull'acqua, sarà un percorso più diretto», decise Tahquil. «Come portare una canoa nel canale che scorre sotto le siepi, però, non riesco a immaginarlo... C'è poco spazio tra i rami inferiori e il suolo. Tiggy, tu come faresti?» Per tutta risposta, il nygel si voltò e con gli zoccoli posteriori scalciò energicamente contro la siepe. Numerosi rami e ramoscelli furono spezzati. Continuò fino a quando non riuscì ad aprire un varco abbastanza largo perché Tahquil potesse passare, chinandosi. La donna si tirò dietro una canoa e la spinse nell'acqua. Il canale, largo quattro piedi, scorreva sotto la base del muro vegetale. «Ti prego, tienimi ferma la barca, Tully.» Quando fu a bordo, Tahquil dovette distendersi all'indietro. Con un tonfo, il nygel si gettò nell'acqua e nuotò via. L'urisk salì, diede una spinta, e la barca cominciò a muoversi, trascinata dalla corrente. In quella posizione Tahquil poteva vedere da sotto in su i tronchi che formavano l'ossatura della siepe e tutto il piccolo mondo in essa contenuto. I suoi piccoli abitanti seguivano l'imbarcazione con sguardi perplessi, saltellando tra i rami, e cicalavano in tutti i toni. Coperta di petali di magenta, Tahquil scivolò avanti sulla via d'acqua, preceduta da una testa di cavallo. Un'altra notte umida e languida appassì, come un fiore stanco. All'uhta, l'ora in cui accadevano molte cose, il nygel bloccò il canale col suo corpo massiccio. La canoa gli sbatté addosso. «Abbiamo raggiunto l'orlo.» Tahquil, che stava sonnecchiando, aprì gli occhi. Invece del cavernoso e grigiastro interno della siepe, vide il cielo aperto. Nelle sue infinite profondità trasparenti e perlacee brillava un'ultima stella, e quella vista la indusse ad alzarsi a sedere nella canoa. Subito un vento tiepido le scompigliò i capelli. Il luogo in cui si trovavano era un altopiano arido e spoglio, oltre gli ultimi bastioni delle siepi. Il canale li aveva davvero portati su un orlo: poco più avanti esso si univa ad altri corsi d'acqua dello stesso genere, e subito dopo si gettava nel vuoto. Ai piedi dell'immenso burrone, l'acqua di quella e altre cascate si riuniva in un bacino, da cui usciva un fiume che, dopo aver serpeggiato attraverso una grande pianura desertica, si dileguava verso la lontana costa di un mare grigio.
Il territorio era ancora immerso nella pallida luce dell'alba. Lì, all'aperto e a quell'altezza, era impossibile non sentire intensamente la presenza del cielo, che in Cinnarine e nel Firzenholt era incorniciato o chiuso da pareti vegetali. Ora esso si estendeva in tutta la sua vastità da un orizzonte all'altro, e dava una completa immagine del clima della regione fino alle sue estreme propaggini meridionali, dove si scorgeva una distesa di nubi da cui scendevano veli di pioggia. A oriente stagnava una foschia fumosa, marroncina, che i raggi del sole non ancora apparso illuminavano dal basso. Alle spalle del gruppetto si levavano le barricate di fogliame più orientali del Firzenholt. Ma lo sguardo di Tahquil era rimasto inchiodato a est, oltre i suoi capelli svolazzanti e la criniera del cavallo d'acqua agitata dal vento. Laggiù, su quella grande pianura brulla, era accampato un esercito: le Legioni di Erith. Potrei scendere sulla costa ed entrare in quell'attendamento, per sapere chi c'è. Se tra loro si trova il mio amore, potrò cadere tra le sue braccia e morire felice... ma non è questo che devo fare, perché c'è una cosa molto più urgente... Una domanda la tormentava: Ci sarà il Principe in una di quelle tende, il buon Edward dagli occhi tristi, che mi è caro come un fratello? È sopravvissuto alla distruzione di Tamhania, oppure Erith è rimasta priva dell'unico erede al trono? Chi comanda quelle schiere? Se ancora un ReImperatore regna, chi sarà... James XVI o suo figlio Edward IX? Ma questo non farà differenza. Se il Principe Morragan delle orde unseelie non è ancora riuscito a distruggere qualche obiettivo importante, e se dunque Thorn vive, io non oserò avvicinarlo, per non portare la Caccia Selvaggia su di lui. Se invece Morragan avesse già colpito duramente e ucciso Thorn, a me non resterebbe altra ragione di vita che salvare le mie amiche. Se poi anch'esse fossero state assassinate... allora che Morragan e i suoi seguaci unseelie facciano pure di me ciò che vogliono. Non m'importerà più di niente. Ah... se soltanto quel perverso Morragan e tutta la sua razza lasciassero per sempre la mia patria, la mia Erith, per non tornare più! A lungo Tahquil tenne lo sguardo sul territorio che si estendeva ai suoi piedi. Da qualche parte, in pianura, un gallo cantò. L'aurora accese l'orizzonte di colori pastello. Il sole sorse oltre Namarre e stese i suoi raggi sul Ponte di Terra di Nenian, fino alla costa desolata, dove diede un'ombra a ciascuna delle migliaia di tende e padiglioni, e ai piloni d'ormeggio cui erano
assicurate le Navi del Vento... e infine illuminò il volto della ragazza, ferma sul bordo del precipizio, coi capelli al vento. Ma lui è laggiù? È laggiù? Era una calda giornata estiva. Al riparo del costone più orientale, in una rientranza dove aveva steso il suo giaciglio, Tahquil dormiva, cullata dal fruscio dell'acqua. I falchi volteggiavano sulle correnti ascensionali; lei non li vedeva. I passeracei cinguettavano nella vicina siepe di cipressi e di alloro; lei non li udiva. Un petalo si staccò da un fiore cresciuto sulla roccia e le si posò su un polso; lei non se ne accorse. Il sole fiammeggiò sul Firzenholt e su Cinnarine, poi s'immerse in silenzio nell'oceano, lasciandosi dietro pennellate di colore stese sull'orizzonte come diafane sciarpe. Tahquil si svegliò e si riempì le tasche di fiori profumati, per nascondere il suo odore al sensibile naso dei wight. Una luna di cera assisté alla sua discesa dall'altopiano, guidata da un essere dai piedi caprini che sceglieva il sentiero più adatto lungo le scarpate e le indicava punti d'appoggio sicuri. Verso mezzanotte arrivarono in pianura. La vegetazione era scarsa anche intorno al bacino, orlato di sterpi e canne marroni; dal terreno sassoso emergevano scheletri di alberi bruciati dal salmastro. Niente faceva da barriera al vento, che soffiava dal mare. Il cavallo d'acqua uscì dal fiume e li raggiunse al galoppo, si scrollò via l'acqua di dosso bagnando l'urisk e la ragazza, e poi si rotolò con entusiasmo su un cumulo di sabbia polverosa. «Tu ci porterai addosso i soldati di Erith, armati e pronti ad ammazzarci», grugnì l'urisk. «Le loro sentinelle sono molto vigili.» Una fanciulla fatta di riflessi e di ombre uscì da un affollamento di alberi morti. «Dove?» domandò, con voce piatta. «Sempre avanti, come prima», rispose Tahquil. «Se le tue amiche rondini hanno detto il vero, probabilmente Viviana e Caitri sono state portate in Namarre.» «Simile ipotesi è certezza. Le rondini dicono che la Caccia Selvaggia si dirige senza variazioni verso una stessa abitazione... definita formidabile fortezza.» «Huon e i suoi cacciatori usano un castello in Namarre come base?» «È realtà.» «Scommetto che un altro divide con loro quella fortezza», mormorò Tahquil. «Uno molto più grande di loro... così come un fulmine supera una
scintilla. È sorvegliato il percorso tra qui e quella fortezza? Come posso superare il Ponte di Terra di Nenian?» «Soldati innumerevoli stanno in questa terra desolata», riferì la ragazzacigno. «Vigili mortali respingono incursioni insidiose. Wight selvaggi tengono con la violenza il possesso della striscia di terra che separa i mari.» «Se questa costa è tenuta dalle Legioni di Erith, e il Ponte di Terra dalle forze unseelie, non mi resta altro che aggirare le Legioni e raggiungere Namarre con una barca.» «Lo stretto è sorvegliato dai wight», obiettò Whithiue. «Trovano i vascelli, li affondano. Gli umani sono sommersi e finiscono come cibo per feroci mostri marini.» «Se mare e terra devono essere scartati, cosa rimane? C'è un tunnel sotto il golfo, simile alla Via Sotterranea?» «I tunnel sono ovunque», rivelò l'urisk. «Percorrono il sottosuolo come vermi, in ogni terra. Potrebbe perfino essercene uno sotto i tuoi piedi, dove sei adesso. Il ventre della terra è un intreccio di strade... per la maggior parte scavate dai fridean, che le tengono sgombre. Ma il passaggio sotto il golfo non è per te. Scende nel profondo, molto profondo, e non c'è aria dentro... non aria adatta al respiro dei mortali.» «Aria. Nell'aria, allora... viaggerò nel cielo. Ruberò una Nave del Vento e...» «Nessuna nave di Eldaraigne oltrepasserà il Ponte di Terra, finché le forze di Namarre lo tengono.» Tahquil si batté un dito sulla fronte. «Naturalmente... hai ragione. Penso che questa dieta di bacche di ginepro mi abbia confuso il cervello. Dovrei avere le ali per volare...» Tacque e si voltò a guardare Whithiue, che si stava lisciando i lunghi capelli. «Ti prego, Whithiue, prestami il tuo mantello.» Gli occhi della ragazza-cigno si strinsero come due fessure. Sibilò minacciosamente, allungando il collo. Poi fece un passo indietro, come sul punto di scappare via. «Devo prenderlo per un rifiuto?» «Con veemenza!» «Il mantello è caro agli esseri-cigno più della vita», intervenne l'urisk. «Senza di esso, lei resterebbe per sempre intrappolata nella forma umana, condannata a non salire in cielo mai più.» «Oh, sì, questo lo so. Lo tratterei bene, e lo restituirei... ma capisco che per lei sia impossibile separarsene.»
Però, quanto sarebbe bello volare senza aiuto, con ali mie, come fanno gli uccelli... sentire che mi basta il sostegno delle invisibili correnti aeree. «Be', se non vuoi farmi questo favore, forse vorrai farmene un altro.» Tahquil cercò di non mostrare un tono risentito. «La prossima volta che volerai su questa terra, dovrai scoprire dove si trova il Re-Imperatore di Erith. O meglio... sarò più precisa per evitare malintesi: è James XVI quello di cui voglio notizie, e non un suo successore. Le rondini possono saperlo? O altri cigni?» «Il cigno ti farà il favore. Il cigno domanderà del sovrano.» La prontezza con cui l'altra rispose commosse Tahquil. «Il cigno ha molto coraggio», disse, con convinzione. Il nygel, che stava ficcando il muso tra due pietre per annusare un grosso cardo, fece lo sbaglio di avvicinarsi troppo alle spine e balzò indietro, con un nitrito di dolore. L'urisk si voltò verso di lui. «Hai un consiglio, tu, per la nostra signora?» Il nygel sbuffò e starnutì. «Porterò io la nostra signora oltre i combattenti e attraverso il ponte», dichiarò, con una sicurezza che agli altri parve un po' ingenua. «E in che modo?» chiese Tahquil. «Il giorno che non riuscirò a lasciarmi indietro quei mosci cavalli lorraly sarà il giorno che mi metterò il giogo e comincerò a tirare un aratro. E sul Ponte di Terra, quali altre bestie potrebbero raggiungere un cavallo d'acqua, anche con una mortale incollata alla groppa?» Mentre si accarezzava pensosamente la barbetta caprina, l'urisk era il ritratto della sagacia. La ragazza-cigno si voltò, innervosita. Il vento di mare portava fin lì le voci degli uomini, vaghe e inarticolate, dal lontano accampamento. «Ben detto, signor nygel», si complimentò Tahquil. «Apprezzo molto la proposta. Credo che il tuo piano funzionerà.» I grilli trapanavano sottili fori nell'oscuro metallo della notte. Mille fuochi, uno sciame di lucciole, brillavano sulla pianura. Il pallore lunare e l'arancione delle fiamme strappavano riflessi all'acciaio: punte di lancia affilate come rasoi, mazze ferrate, elmi irti di spunzoni e pennacchi, fibbie, armature e attrezzi da campo. Il vento trasportava l'odore del fumo ed echi di suoni: clangore degli utensili da cucina, nitriti dei cavalli, fruscio di lame affilate sulle mole, ordini abbaiati dagli ufficiali. Due sentinelle in cotta di maglia del Terzo Drusillieri Luindorn, che pat-
tugliavano all'esterno dei loro bivacchi, s'incrociarono e si chiesero la parola d'ordine, identificandosi a vicenda come prescriveva il regolamento, per sventare i tranelli dei wight. «Io sono un mortale, suddito fedele dell'Impero.» Soddisfatte le formalità, scambiarono qualche parola per impedire che la misteriosa voce della notte mandasse brividi di apprensione nella loro schiena. «Novità, Fordward?» «Nel Settore Slegorn, tutto tranquillo. E tu?» «Lo stesso.» Si appoggiarono alle lance, lasciando che il vento giocasse con gli orli dei loro tabarri. Una tenebra più scura cominciava a inquinare la notte, ma le stelle brillavano fulgide. «La Caccia Selvaggia ha impazzato molto nel cielo, nelle ultime quindici o venti notti», disse Fordward. «Credo che abbia fatto molte escursioni nel nord-ovest», osservò il commilitone. «Già, e sono felice che ci siano dei bravi maghi a sorvegliare i nostri confini», annuì Fordward. «Per esempio Feulath, e poi il nuovo mago che ha sostituito quel bastardo di Sargoth.» «Questo nuovo venuto ha messo in atto più astuzie di quelle di cui l'avrei creduto capace, considerando che è un azzeccagarbugli di periferia, venuto da una Torre dei Cavalieri della Tempesta.» «Lo ha scelto personalmente il giovane Principe, a quanto ho saputo.» «Davvero? Edward ha del buonsenso, tra le altre sue doti. Gli uomini lo rispettano, e vogliono mostrargli la loro lealtà. Ringrazio le potenze che l'hanno salvato dalla tragedia dell'Isola Reale.» Un vago tintinnio di campanelle sfiorò il limite del loro udito. Nessuno dei due uomini commentò l'avvicinarsi della tempesta magica; era un evento troppo comune per essere notevole. «Non vedo l'ora che quest'attesa finisca», sussurrò Fordward. «Prima attacchiamo Namarre, meglio è.» «Sarà presto, dicono», replicò l'altro. «Tutti siamo impazienti di entrare in azione. L'attesa troppo lunga rende nervosi gli uomini.» I due conversarono ancora un po' sullo stesso tono. Raramente i loro commenti erano critici sul lavoro che stavano svolgendo o sui loro ufficiali. Tutti i soldati avevano stima dei Dainnan, e la maggioranza vedeva nel codice della Fratellanza un esempio di condotta da seguire. Il giuramento
Dainnan - raddrizzare i torti, punire i criminali, nutrire gli affamati, aiutare i deboli e ubbidire alle leggi del Re-Imperatore -, essendo basato sul coraggio, sull'integrità morale e sulla giustizia, era la guida dei guerrieri di Erith, una luce che si rifletteva su ogni probo cittadino. Armate di picca, le sentinelle degli accampamenti erano attente e prudenti. Anche quando si lasciavano andare a una breve conversazione tra compagni d'arme, la loro sorveglianza non si allentava mai. Nessuno sonnecchiava nella sua postazione, specialmente durante le ore dei wight. Incarnazioni unseelie delle più impensabili varietà avevano attraversato quella regione desolata per più di un anno, provenienti dalle foreste del sud o dai picchi del nord, dirette al Ponte di Terra. Di conseguenza le legioni erano state costrette a stanziarsi lì, accampandosi a semicerchio intorno al vecchio fortino all'ingresso del ponte, perché strategicamente quella era la posizione migliore per difendere Eldaraigne dalle scorrerie dei namarrani. Su quella pianura spoglia, i soldati potevano essere aggrediti da ogni direzione. Lungo il confine occidentale avevano predisposto una recinzione rafforzata dagli incantesimi dei maghi. A nord e a sud avevano eretto argini di terra e palizzate. Sul fronte orientale, le legioni fronteggiavano direttamente le orde nemiche. Presto sarebbero state pronte per un'avanzata il cui scopo era di spazzare via il nemico dal Ponte di Terra, sgombrare la strada per l'interno di Namarre e mettere fine alla ribellione. Nel frattempo gli esploratori cercavano i segni premonitori di possibili attacchi namarrani alle legioni. A causa dell'impossibilità delle Navi del Vento e dei Cavalli Celesti di sorvolare le acque profonde, si sapeva poco di ciò che andava preparandosi in Namarre. Brandelli d'informazioni erano stati raccolti da spie che avevano aggirato Namarre via mare, sbarcando sulla costa orientale... le poche tornate a fare rapporto. Quella terra desolata cambiava aspetto quand'era spazzata dal vento shang. I cardi spalancavano occhi di smeraldo in una cornice di spine ametista. Topi della sabbia dalla pelliccia opalescente sgusciavano tra mucchi di gioielli spezzati pulsanti di luminosità eterea. Forze spettrali alitavano una parvenza di vita sui campi di battaglia dove uomini privi del taltry si erano affrontati in un passato ormai lontano. Le loro tombe erano state coperte di erba, e poi di gelida sabbia, ma i loro simulacri continuavano a combattere molto tempo dopo che le ragioni di quei conflitti erano svanite nell'oblio. Un Cavaliere della Tempesta spronava il suo eotauro nel cielo della piana. Un aeronauta precipitava, roteando, da una Nave del Vento.
Alcuni viaggiatori venivano inseguiti dai wight e si disperdevano, urlando con bocche silenti e occhi sbarrati dallo spavento. «Guarda laggiù!» disse Fordward, richiamando l'attenzione del commilitone. Spirali azzurre scivolarono lungo l'affilata lancia che stringeva nella mano destra. Un falò poco lontano ammiccò e tornò a brillare; un altro ammiccò nello stesso modo, poi un terzo e un quarto. Qualcosa stava passando in silenzio e velocemente tra gli osservatori e quei fuochi. «Non riesco a vedere niente di concreto», ribatté l'altro. «Blocca la luce, perciò è concreto quanto noi.» Con le armi pronte a colpire, i due corsero a indagare. Il vento selvaggio di gramarye scompigliava i capelli di Tahquil, e il suo sangue frizzava come se le scorresse birra nelle vene. Stava china sul collo del cavallo d'acqua, con la criniera che le sferzava il viso. Pervasa dalla vita eldritch che le risaliva tra le cosce e circondata da quegli ultraterreni effetti shang, non sapeva più chi era: se una falena che danzava nel vuoto, o un incantesimo in un corpo di donna, un'illusione, un golena, un vortice di polvere viva. Come daghe puntate duramente su di lei, voci di soldati penetravano in quel suo strano stato di coscienza. «Alt. Chi va là?» Lei era incapace d'identificarli attraverso i miraggi che fluttuavano nella tempesta magica, e comunque non avrebbe avuto la capacità di rispondere: la sua lingua era rigida come il legno. Da parte loro, negli sprazzi di luce dello shang, gli uomini d'arme non riuscivano a distinguere chiaramente l'intrusa. «Un cavallo... ma montato da un cavaliere?» mugolò Fordward. «Nel nome del Re-Imperatore, fermati o sarai ucciso!» intimò il suo commilitone. A un tiro di lancia di distanza, il cavallo mantenne il galoppo. «Non ha nessuno in groppa.» «Si sarà sciolto dal picchetto. Forse qualcosa lo ha spaventato.» «Oppure non è uno dei nostri, ma una bestia non-lorraly diretta in Namarre.» «No... vedi? È soltanto un pony, non un cavallo da guerra, ed è troppo piccolo per essere un aughskie.» «A meno che non sia incantato.» «Io ho un talismano molto potente contro questo genere d'incantesimi, e
vedo solo un pony.» L'oggetto della loro attenzione accelerò il galoppo. In un momento fu oltre la portata delle loro lance e scomparve nel confuso sottofondo di ombre e d'immagini shang, nel velluto della notte stellata. «Diamo l'allarme?» «No. Era sicuramente un nygel, e senza cavaliere.» Coperta del succo odoroso dei rampicanti, Tahquil fu portata attraverso la tempesta magica e l'accampamento delle Legioni Reali. La leggerezza degli zoccoli del nygel, la velocità del suo galoppo e la natura di quella regione combinata con gli effetti della tempesta magica nascosero il loro passaggio a tutti, salvo quelli che avevano la vista più acuta... i quali, nel tempo di un battere di ciglia, non ebbero più niente da vedere. La guancia destra della donna era incollata al fianco peloso della cavalcatura. Impossibilitata ad alzare la testa, si perse la vista degli alti pennoni su cui gli stendardi schioccavano al vento. Sul padiglione più grande erano issati il gonfalone reale, la bandiera dell'Impero e i gagliardetti personali dei membri della famiglia regnante, con gli stessi stemmi ricamati in porpora e oro che ornavano le tende degli ufficiali. Il vento shang abbandonò sulla costa le immagini che aveva strappato a quella terra e si spostò sul mare. Il nygel si lasciò alle spalle gli ultimi fuochi delle linee più avanzate e si addentrò nel buio della terra di nessuno. Oltrepassò a gran velocità due forme distese, immobili, che al posto degli arti avevano monconi neri di sangue raggrumato; ne ignorò un'altra che mandava deboli gemiti e aggirò uno strano volatile che si era gettato in picchiata per aggredirlo, distanziandolo poi tanto che questi rinunciò a inseguirlo. Più avanti passò accanto alle rovine del forte che un tempo sorvegliava l'imbocco del Ponte di Terra. Le sue mura non erano difendibili dal genere di avversari che aggredivano l'Impero. Subito dopo, il nygel e il suo fardello furono sul Ponte di Terra di Nenian. Nella scia della tempesta magica, dall'orizzonte meridionale erano salite pesanti nuvole che in breve coprirono il cielo. Nella penombra, facce eldritch si voltarono, arti wight si protesero, occhi da insetto mandarono lampi, voci squittirono, grugnirono, latrarono. Il nygel non si fermò. Non voltò la testa per controllare se la passeggera stesse comoda; una simile idea non si sarebbe mai addentrata nella foresta
vergine della sua mente. Continuò a galoppare, e di umore assai migliore di prima, perché l'odore del mare gli arrivava da tutti i lati parlandogli di montagne sommerse e di maree, di onde dalle creste spumose e di correnti crudeli che trascinavano i naufraghi giù negli abissi, freddi e spettrali come i desideri degli eldritch. Il nygel non faceva eccezione: come ogni essere della sua razza amava il mare, la madre di tutte le acque. Teoricamente, il confine tra Eldaraigne e Namarre divideva il Ponte di Terra in due parti uguali. Tahquil e la sua cavalcatura avevano quasi raggiunto quel punto centrale quando dalla semioscurità venne loro incontro uno sciame di crisantemi di fuoco, torce brandite da molti guerrieri namarrani guidati da uno dei loro maghi. Cinque o sei robusti individui agitavano un lazo sopra la testa, facendosi avanti con grida eccitate. Uno lo scagliò. Il cappio colpì il collo del nygel e cadde al suolo, ma al contatto della corda il cavallo d'acqua nitrì di terrore. Deviando a zigzag così velocemente che nessun mortale gli sarebbe rimasto in groppa senza l'aiuto di un'aderenza soprannaturale, riuscì a sfuggire... solo per trovarsi addosso una seconda banda di aggressori, anch'essi muniti di lazos. Fu costretto a fermarsi. Quand'era ormai sul punto di soccombere, il nygel captò l'odore della sua ultima risorsa, quella che rappresentava il suo rifugio, il suo elemento vitale. Le due bande di aggressori conversero sulla preda roteando i lazos. Con uno scatto disperato, il nygel scivolò via da quella morsa e si tuffò in una larga buca colma di acqua salata. Si trattava di uno stagno costiero, riempito giornalmente dalla marea ma privo di sbocchi verso l'oceano. Tuttavia era abbastanza profondo perché la preda sparisse alla vista degli inseguitori. Il nygel scese a qualche braccio di profondità, tra le alghe e i pesciolini imprigionati nella buca. Ogni premura per il suo fardello umano era dimenticata, nella foga istintiva che lo costringeva a fuggire nell'acqua per allontanarsi dalle corde. In silenzio rimase laggiù, sul fondale, e lo stesso dovette fare Tahquil, incollata al suo fianco. Dalle narici della ragazza sfuggirono alcune bolle, risalendo lente verso la superficie. I namarrani giunsero sul bordo, si consultarono, corsero intorno alla polla, gettarono pietre nell'acqua e imprecarono. La loro permanenza nella zona fu tuttavia molto breve, perché quasi subito uno di quelli che erano rimasti di sentinella mandò un grido: «Per la coda mozza del demonio! Un mangiacarogne! Attenti, un mangiacarogne sta venendo da questa parte!» Intorno allo specchio d'acqua vi furono alcuni momenti d'indecisione.
Qualcuno si allontanò; altri gettarono sassi nell'acqua, borbottando tra i denti, poi volsero le spalle e se la diedero a gambe anch'essi. La polla tornò a essere una tranquilla superficie liquida in cui si rifletteva una singola stella. Nelle tenebre, qualcosa di massiccio e pesante si stava avvicinando a lunghi passi. Parecchie braccia più in basso, il cuore di Tahquil batteva a un ritmo folle. I suoi occhi erano strabuzzati, i tendini del collo tesi come corde, i polmoni attanagliati in un'agonia insopportabile. Solo quando sentì i deboli pugni di lei battere contro la sua cassa toracica, il nygel si ricordò di non essere solo, lì sotto. La staccò dal suo corpo, sgroppò per liberarsi di lei e la spinse verso l'alto. Non appena emersero, mentre la ragazza annaspava in cerca di aria, lui la spinse di lato col muso e la depositò sulla riva. Le sue premure non andarono oltre; dopo essersi guardato intorno con ansia, si affrettò a immergersi di nuovo. Tahquil giacque bocconi, priva di forze, vomitando e tossendo acqua salata. Ci mise un po' a capire che sopra di lei torreggiava una corpulenta figura vestita di stracci grigi. La figura si tolse di spalla una grossa rete, la depose al suolo e la aprì. Nella rete era contenuto un oggetto ingombrante di forma irregolare. A quell'oggetto fu acclusa Tahquil, che ancora sputacchiava e ansimava. Il mangiacarogne richiuse la rete, se la caricò sull'ampia schiena convessa e si allontanò a passi pesanti. Le nuvole gravide di pioggia che si spostavano a nord avevano ormai invaso tutto il cielo. Sulla distesa paludosa del Ponte di Terra aleggiava una fosforescenza verdastra, sepolcrale. Fu in quella penombra che un urisk venne a fermarsi sul bordo di una polla d'acqua. Allungò una mano a battere tre volte sulla superficie nera come l'inchiostro. Una testa allungata emerse e si guardò intorno. «È sparita», disse, con vacuo stupore. 6 TAPTHARTHARATH FUMO SULL'ACQUA, FUOCO NEL CIELO
Rosso Tapthartharath magma che scorre
nelle profonde vene incandescenti e scuote il cuore antico delle terre spostando rocce sotto i continenti. Squarcian la dura crosta forze immani, vomitano fontane di lapilli, spingono in alto i coni dei vulcani e inondano di lava boschi e valli. Nelle paludi bolle la fanghiglia, s'alzano al cielo fumi velenosi, bruciano gli alberi per miglia e miglia, scrollano il suolo moti spaventosi. E se il Tapthartharath pare dormiente la furia può destarsi immantinente. Canto dei Bardi Namarrani Becchi metallici erano affondati tra le costole di Tahquil, sul braccio sinistro e nelle gambe. Durante le interminabili ore di quel lungo viaggio nell'interno della rete che la stringeva come un bozzolo duro, i nodi della corda e altre cose sporgenti le avevano tormentato le carni senza requie. Rassegnata e stordita, lei aveva cercato almeno di dormire, ma il sonno le dava incubi così sgradevoli che continuava a svegliarsi, tornando in una realtà peggiore dell'incubo. Le sue condizioni mentali erano aggravate dal langothe, che nelle situazioni di sofferenza e angoscia s'intensificava. Nei rari intervalli di lucidità in cui poteva avere ricordi nitidi del Reame Fatato, la nostalgia di quella terra la prendeva alla gola. Le immagini delle montagne incappucciate di neve, delle foreste misteriose, dei laghetti incantati e delle pianure di smeraldo avevano un fascino così doloroso da farle battere forte il cuore, e gli occhi le si riempivano di lacrime. Non aveva sofferto la fame, né la sete, perché prima di partire per quell'incursione si era rifocillata. Nonostante la nebbia, non aveva freddo; l'oggetto pesante che le stava addosso, quel poco identificabile amalgama di stoffa e spunzoni di ferro, era caldo. In alcuni punti le sembrava di sentire un contatto simile a pelle umana un po' pelosa. I momenti di lucidità erano tuttavia così brevi che non riusciva a raccapezzarsi, a capire dove si trovasse e come vi fosse arrivata. Quando i sobbalzi e gli scossoni cessarono, fu calata per terra con un tonfo e un grugni-
to. La rete si allargò e lei rotolò di lato, nella penombra, su un terreno molto irregolare. I becchi affondati nelle sue carni si ritrassero, e altri le si piantarono addosso in nuovi punti. Strinse i denti per non dare voce alla sofferenza. Non era stata lei a emettere quel grugnito. Avvertì un essere che la sovrastava: qualcosa di molto grosso e misterioso, che puzzava come una carogna putrefatta. Forse la creatura notò la scarsezza di segni vitali nella preda da lei catturata, ma fu impossibile capire se questo la compiacesse o la irritasse. Tahquil rimase immobile, cercando di sembrare morta. Il suo catturatore si spostò più a sinistra. Poi le sue mandibole strapparono rumorosamente grossi bocconi di carne, che a giudicare dall'odore doveva essere marcia, stritolando ossa e masticando come macine da mulino. Dopo un'eternità, l'essere si allontanò a passi pesanti, come se avesse sacchi di ghiaia legati alle caviglie. Di nuovo qualcuno grugnì, dietro la testa di Tahquil. Lei cercò di aprire gli occhi e scoprì di averli già aperti. In quel luogo regnava una penombra infernale, con riflessi rossi che non illuminavano niente. Per esplorare intorno a sé dovette usare le mani. Il tatto le rivelò la presenza di qualcosa che riuscì a identificare. Erano le sporgenze e le superfici metalliche di un'armatura, da cui spuntavano elementi più morbidi che sembravano stoffa e carne viva. Un ciuffo di materiale peloso si rivelò essere una barba. Da essa scaturiva un respiro ansante e irregolare. Le dita della giovane trovarono il contatto scivoloso e denso di quello che poteva essere sangue. «Chi sei?» sussurrò, ma l'uomo in armatura non le diede risposta. In un'occasione, in una strada di Gilvaris Tarv, Tahquil - Imrhien, allora - aveva visto dei prigionieri namarrani. Così, dalla forma dei bracciali e degli orecchini, le parve di poter identificare l'individuo per uno di loro. Il suo respiro era gorgogliante, rivelando sangue nei polmoni. Per quanto debole, quel suono si riverberava in un ambiente spazioso, di roccia o di mattoni. Dalle irregolarità del terreno, lei lo giudicò una caverna. La sua preoccupazione più immediata era la rete che la tratteneva addosso all'armatura piena di spunzoni del suo compagno di prigionia, il guerriero namarrano che, a giudicare dal suo respiro, non sembrava averne per molto. Le mani di Tahquil gli tastarono il petto e la cintura, e trovarono un fodero. Ne sporgeva un'impugnatura. Pur ostacolata dalle maghe della rete, lei riuscì a estrarre la lama, afferrò un pezzo di corda e lo tagliò. Il pugnale era affilato, e in pochi colpi recise le rozze fibre vegetali. Febbrilmente
lavorò a tentoni, nel buio, e d'un tratto la lama le morse una mano. L'impugnatura diventò scivolosa di sangue tra le sue dita, e per poco non le sfuggì. Dopo aver tagliato cinque o sei maglie della rete, l'apertura fu abbastanza larga da permetterle di scivolarne fuori. Un crampo le indebolì le dita; il pugnale le cadde di mano e rimbalzando al suolo mandò un suono metallico sulla roccia polverosa. Lei rimase lì accovacciata, a denti stretti, cercando di distendere la muscolatura irrigidita e riportare un po' di sensibilità nel suo corpo. Pian piano, con un prurito quasi doloroso, il sangue tornò a circolare nelle carni che la pressione dei becchi di bronzo dell'armatura aveva intorpidito. Da qualche parte, dietro di lei, il namarrano si mosse e mormorò qualcosa. «Sei teste ho rotto oggi», riuscì a dire, con accento straniero. «La tua sarà la settima.» Quindi mandò un ansito e tacque. Lei gli toccò il petto: non si alzava, né si abbassava. La pietra su cui Tahquil si stava trascinando emanava un certo calore. Da qualche parte proveniva una vibrazione che permeava quel mondo di tenebra soffocante. Il puzzo di carogna le riempiva il naso. Quanto mancava prima che il mostruoso essere tornasse, trascinando i suoi colossali piedi? Si guardò intorno. Sulla sua destra, c'era un vago lucore rossastro, non palpitante e danzante come i riflessi del fuoco, ma fermo. Tahquil si mosse carponi da quella parte. Il suolo della caverna era cosparso di oggetti, e lei li scostò con le mani mentre tastava il terreno per evitare di finire in qualche buca: pezzi di roccia, schegge di metallo, frammenti di ossa, e piccole creature dal carapace articolato che zampettavano ovunque. Il lucore rossastro si allargò. Nella caverna divennero visibili forme irregolari; lunghe stalattiti calcaree pendevano dal soffitto, in corrispondenza di stalagmiti tozze e bulbose. La pavimentazione era ingombra di macigni e detriti. Tra i macigni erano sparse ossa in quantità, di ogni genere e dimensione: costole, vertebre, crani, femori, falangi, piedi, ossa spezzate, stritolate, masticate. Tra quei macabri reperti non mancavano le armi e le armature, malconce e arrugginite. Il metallo era caldo al tatto, e appariva corroso da fumi acidi. Non vi era niente di utilizzabile, e nella polvere si aggiravano scorpioni e scolopendre. A tratti si vedevano nidi di cristalli giallastri, aperti come uova spaccate. La luce rossastra, che proveniva da altre caverne limitrofe, non sembrava di origine artificiale. Forse, rifletté Tahquil, le grotte erano un labirinto come quelle del Doundelding. Di certo si trovavano nelle profondità di una montagna di
roccia scura e fragile, non nel sottosuolo terroso. Poco più avanti, una ventata calda investì Tahquil da un antro laterale, portando con sé un odore diverso e aspro, che lei non seppe identificare subito ma trovò allarmante. Non era quello di carne verminosa che impestava l'altra grotta. Tahquil avanzò più in fretta, ansiosa di lasciarsi alle spalle l'alito ardente di quella fornace. La luce si fece più forte nel cunicolo successivo; alla fine, tremando di stanchezza, la donna sbucò dalle caverne in una zona aperta e si trovò davanti un panorama surreale. Era una terra desolata, di un genere per lei nuovo; non vi cresceva nessun genere di vegetazione. Il cielo era scuro, velato da una nuvolaglia venefica su cui si riflettevano i bagliori sanguigni della terra. Non si trattava delle nuvole che offrono acqua pulita in primavera, e neppure dei cirri neri e tempestosi dell'inverno: quello che occludeva il firmamento era un sudario di fumo e di vapore. La luce del sole, ridotto a un occhio giallastro, lo attraversava a stento. Poco più in basso, il terreno era costellato di buche colme di fanghiglia bollente, ciascuna sovrastata dalla sua colonna di vapore. Intorno alle polle si gonfiavano spessi orli di un deposito cristallino simile a neve o ghiaccio. Vi erano numerosi piccoli crateri, alcuni vuoti come bocche di mummie fossilizzate, mentre altri alitavano gas sulfurei e vapori bianchi. Intorno a quegli sfoghi si ergevano strane spine di cristalli di zolfo, gialle come l'oro. Al suolo si erano accumulati strati di filamenti dello stesso genere, simili a masse di capelli. Su Tahquil torreggiavano grottesche formazioni rocciose, che le ricordarono le paste di zucchero candito sfornate dalla Pasticceria Reale di Caermelor. Tra quelle rupi acuminate si scorgevano le anse di un fiume lento come una melassa, che emanava una fulgida luce aurea e un intenso calore. Pezzi di materiale scuro ne costellavano la superficie, chiusa tra due rive di roccia nera. Più avanti, declivi e terrazze di cenere si perdevano nel buio. Sulla sinistra un altro torrente di ambra fusa sfociava da una grotta per colare in basso, come una poderosa cascata. Tahquil si rese conto che aveva raggiunto il territorio di Namarre. Era stata portata lì da un mangiacarogne, un essere massiccio e ottuso la cui sola preoccupazione era raccogliere provviste per la sua dispensa, e che probabilmente aveva una netta predilezione per la carne umana. L'istinto, o l'abitudine, induceva quelle creature a scegliere prede la cui vita non si fosse ancora spenta del tutto, prede che restassero fresche più a lungo, ma non abbastanza vitali da creare qualche problema o fuggire dalla
loro tana. I malati e i feriti venivano immagazzinati e poi divorati con comodo. Quel mangiacarogne aveva la tana non distante dalla costa occidentale di Namarre, in una zona chiamata Tapthartharath, dove non c'era niente che potesse attirare gli esseri umani. Da alcune storie che aveva sentito raccontare nella sua infanzia, TahquilAshalind sapeva qualcosa del Tapthartharath. Anche dopo mille anni, il suolo era sempre instabile. Sotto di esso si agitavano e ribollivano fuochi inimmaginabili. L'odore di zolfo era lo stesso che aveva accompagnato gli ultimi giorni dell'isola di Tamhania. E tuttavia, pur inquieto com'era, il Tapthartharath non era pericoloso come Tamhania. Le sue forze sotterranee si torcevano e si sfogavano gradualmente, senza mai arrivare al cataclisma esplosivo. Una strada, o quella che sembrava una strada, passava poco lontano dallo sbocco della caverna e serpeggiava via tra le formazioni a pasta-dizucchero. La sua superficie era rocciosa, ondulata, con un fine reticolo di squame e corrugazioni che facevano pensare all'enorme radice di un albero tramutata in pietra. Spinta dal prepotente bisogno di allontanarsi dalla caverna della morte, Tahquil s'incamminò in quella direzione. Il calore le saliva attraverso le suole degli stivali. D'un tratto inciampò goffamente in un nido di lucidi cristalli di calcite. Il sudore le scendeva copioso lungo il collo, e la gola cominciava a dolerle per i fumi irritanti che stava respirando. Perfino la collanina di ferro che aveva al collo le scorticava la pelle. Più avanti, ormai fuori vista della caverna, giunse su un tratto della strada che era collassato. Mentre passava quasi in punta di piedi sull'orlo di quella profonda buca poté vedere il torrente rosso che scorreva più in basso, in un tunnel sotto la superficie. La strada aveva quell'aspetto rugoso perché era in realtà un torrente di lava solidificata, in alcuni punti spessa appena due o tre pollici. Tahquil si allontanò tenendosi sui bordi, che apparivano più solidi. Alla base del lungo pendio vi erano laghi di lava simili a specchi di rubino. Spirali di fumo salivano a migliaia di traverso, nel vento leggero, come una foresta di alberi grigi. Nelle zone basse si erano radunate immense quantità di pezzi di pomice, ma sulle scarpate era la ghiaia di scorie dure a rendere difficile il cammino. Le fumarole potevano fare spiacevoli scherzi, perché ogni tanto ne scaturivano improvvisi getti di fiamma, e si trattava di fiamme alte quanto gli alberi da ormeggio di una Nave del Vento. La loro comparsa lasciava abbagliati gli occhi di Tahquil per parecchi secondi.
Una sete rabbiosa la stava tormentando. L'acqua era ovunque, in migliaia di buche, ma non era potabile; emetteva fumi sgradevoli, forse velenosi. Tahquil camminò tutto il giorno lungo lo stesso percorso seguito dalla lava verso valle, guardandosi continuamente indietro nel timore di essere inseguita dal mangiacarogne. Arrendersi alla stanchezza e fermarsi in un luogo così aperto sarebbe stato troppo pericoloso; non appena il terreno cambiò aspetto, lei cominciò a cercare un posto per nascondersi. Quando il sole scese nella foschia vulcanica che stagnava a occidente, trovò una buca colma di morbida cenere sotto una sporgenza rocciosa che sembrava il relitto di una nave. Lì si abbandonò al sonno. Al mattino fu svegliata dal rombo di un getto di gas infuocato che scaturiva da una fumarola. La sua luce abbagliante faceva esplodere miriadi di riflessi nei vitrei cristalli di zolfo che costellavano la zona. Strane luci rimbalzavano nei frammenti di ossidiana nera e nelle rosse sporgenze di ematite. Da crepacci e piccoli crateri uscivano gas venefici. Tormentata da una sete che le dava miraggi dei laghi di Mirrinor e delle verdi valli del Lallillir, Tahquil si tirò in piedi contro la roccia a forma di relitto e riprese il cammino. Seguendo la colata di lava si trovò in una zona di stagni ribollenti, dove grandi bolle di gas si gonfiavano in una melma arancione. Le bolle scoppiavano lentamente e con un rumore lieve, come in un pentolone di stufato, schizzando intorno. Era impossibile attraversare quella spianata senza essere ricoperti da una pioggia di fango. Tra tutta quella poltiglia giallastra, una polla di quella che sembrava acqua pulita attrasse Tahquil. La sete la costrinse ad avvicinarsi, e si fermò sul bordo a osservare il vapore che emanava, chiedendosi se fosse prudente assaggiarla. Poi, sotto i suoi piedi, il suolo cominciò a tremare. Un rumore gorgogliante salì di tono. Tahquil corse via in cerca di un riparo. Una violenta esplosione spedì un grande getto di acqua bollente a grande altezza. Il geyser eruttò per pochi secondi, con una nube di vapore che il vento trascinò via, e una pioggia calda cadde tutto intorno. Prima che il geyser eruttasse una seconda volta, la ragazza si affrettò a riprendere il cammino. A quel punto, gli spunzoni della roccia su cui doveva camminare avevano seriamente danneggiato le suole dei suoi stivali. La colata di lava deviava a destra, mentre più avanti si vedevano delle tondeggianti dune di cenere. Per salvare ciò che restava delle suole, Tahquil abbandonò la depressione in cui scorreva la lava e prese a inerpicarsi su
quel terreno assai più morbido. Ogni passo, durante la salita, alzava una polvere nera impalpabile come il talco. Affondando fino al polpaccio raggiunse la cima della collinetta. Più in basso, la colata lavica girava come l'ansa di un fiume infernale intorno a un promontorio, facendo tremolare l'aria coi suoi vapori surriscaldati. Oltre le dune di cenere si vedevano dei miraggi: lagune azzurre, tentatrici. A mezzogiorno, sedette nella scarsa ombra di una formazione che ricordava un orso a sei zampe. La sua faccia era una maschera di fango e cenere, rigata da gocce di sudore; i capelli le si appiccicavano al collo come un casco di erbacce polverose. Il buio della notte, quando copri il sole come un miasma uscito da una fogna fumosa, la trovò ancora lì, distesa di fianco su un letto di cenere. Il vento soffiava veli di polvere nera sulle dune, ricoprendo le irregolarità del suolo con mobili strati di quel materiale volatile che arrotondava e addolciva ogni forma. La sete penetrava tormentosa anche nei sogni di Tahquil, offrendole immagini allucinate: Thorn che arrivava al galoppo attraverso una foresta, sotto la pioggia, coi capelli inzuppati appiccicati al volto. Gocciolanti gruagach che le porgevano tazze colme di acqua pura. Una polla trasparente in cui galleggiavano petali, mentre salivano alla superficie le bollicine dell'acqua sorgiva. Una fontana di marmo nella cui vasca fiottava un getto di liquido freddo e cristallino. Una ciotola che le veniva offerta alle labbra screpolate dalla sete, nel chiarore lunare, e da cui beveva avida senza pensare a niente. E lei deglutiva, tossiva semisoffocata, deglutiva ancora, gemendo e ansimando... «Piano, signora. Riprendi fiato», disse la figura che reggeva la ciotola, nel chiarore lunare. «Ancora. Devo bere ancora.» Occhi miei, ditemi che non mi state ingannando. La ciotola le fu restituita, piena fino all'orlo. Di nuovo lei la vuotò e domandò altra acqua. Docilmente la ciotola fece ritorno, dopo che una borraccia ricavata da una zucca l'ebbe rifornita. «Il cigno ha esplorato questa regione senza pausa, giorno e notte», la informò Tully. «Possano i frutti della gioia saziarvi sempre. Tutti e tre», sussurrò debolmente Tahquil. Tenne la ciotola tra le mani. Era piccola, come un pugno, ricavata anch'essa da una zucca verde. Per un poco rimase appoggiata alla spalla di Tighnacomaire, che aveva assunto la sua forma umana, e si
tolse dalla faccia i capelli impastati di polvere. Intorno a loro le lave ardenti e i vapori del Tapthartharath riempivano la notte. I due compagni eldritch le restarono accanto senza parlare, e il loro silenzio aveva la dolcezza di una poesia. Con la pazienza di chi aveva davanti l'eternità, attesero che il suo corpo si reidratasse. Più tardi, quando anche le sue facoltà mentali furono tornate ad assisterla, Tahquil domandò: «La ragazza-cigno... ha trovato notizie del ReImperatore?» «Sì, le ha trovate», rispose Tighnacomaire. «Ma, quali che siano, a noi non ha detto niente.» «Devo parlare con lei. È qui vicino?» «Chi può dirlo?» rispose l'urisk, stringendosi nelle spalle. «Quella viene e va.» «Devo andarmene da questa terra bruciata. Ma il buio è troppo fitto. Il fumo nasconde la luna e le stelle, e non riesco a vedere niente a più di due passi da me.» «Non hai bisogno di vedere», la rassicurò Tighnacomaire. «Posso portarti io.» «Ma non nel fondo di una polla, eh? Anche se il fango di questi stagni fa bene all'epidermide, purché a una ragazza non importi di restare bollita.» Imbarazzato, Tighnacomaire gonfiò le guance e sbuffò. «Non mi tufferò in questi stagni... no, anzi non mi tufferò più da nessuna parte quando tu sarai sulla mia groppa, signora. Ti chiedo scusa.» «Sei proprio uno sciagurato», commentò Tully. «Se vuoi portarmi tu, va bene», disse Tahquil. «Ma conosci la strada?» «La strada per dove?» domandò il pallido uomo-cavallo. «Per la fortezza, il quartier generale della Caccia Selvaggia, dove sono state portate le mie amiche.» Lui si scostò. Con un solo fluido movimento si alzò e partì di corsa intorno alla roccia a forma di orso a sei zampe. Quando ricomparve dall'altra parte, era di nuovo un cavallo. I suoi zoccoli sollevavano nuvolette di cenere. «Lui conosce la strada», mormorò Tully. Il nygel venne avanti, agitò la coda e si abbassò goffamente pancia a terra. Tahquil gli montò in groppa. Lui si raddrizzò e la portò via, seguito dall'urisk. Il panorama incendiario del Tapthartharath emetteva gli stessi sospiri e brontolii, di giorno e di notte. I tre attraversarono le dune di cenere e una
piana colma di pezzi di pomice; poi furono di nuovo nel territorio delle vecchie colate di lava, che serpeggiavano come alvei di fiumi delimitati da argini di sassi neri alti anche molte braccia. Il vento agitava gli orli sbrindellati degli indumenti di Tahquil. La più recente colata di lava, ancora in corso, avanzava come un coccodrillo incandescente. Sulla destra se n'era staccata una diramazione altrettanto lenta e pastosa, che spingeva dinanzi a sé un muro di detriti neri. Ogni tanto le scaglie rosso cupo della sua pelle si aprivano a rivelare la carne d'oro del suo interno, e dalla massa sussultante fiorivano migliaia di spirali di fumo. Il terreno saliva. A ogni passo il rapido tambureggiare degli zoccoli del nygel risuonava su un tratto più elevato del precedente. Le fumarole erano molto numerose, e da ogni crepaccio uscivano getti di vapore, zolfo, anidride carbonica e altri gas irrespirabili. Passarono a guado paludi di fanghiglia calda, attraversarono zone dove il suolo emanava un calore assassino. Un fumo giallastro trascinato dal vento li seguiva ovunque, e d'un tratto s'ispessì facendosi oscuro e irrespirabile come una melassa. Tahquil perse di vista Tully, che fino ad allora aveva trottato dietro di loro. Cominciò a tossire, scossa da spasimi incessanti. Milioni di spilli le torturavano la pelle. I suoi occhi arrossati e gonfi piangevano senza sosta, aggrediti da vapori caustici. «Tiggy, dove mi stai portando?» gemette. Il nygel non rispose. Lei gli immerse la faccia nella criniera e strinse i denti, più indebolita e sofferente che mai. Per tutta la notte il cavallo d'acqua galoppò tra muri di fumo ai quali si alternavano rari spazi di aria meno tossica. Sembrava instancabile. Ogni tanto Tahquil pensò che ormai dovesse essere mattino. Ma, quando infine si fermarono, nessuna luce penetrò tra le sue palpebre socchiuse, gonfie e arrossate. L'aria che arrivava nei suoi martoriati polmoni era però fresca e pura. Tighnacomaire fece staccare i loro corpi, e Tahquil scivolò al suolo. La sua faccia finì nell'acqua fredda, profonda un paio di piedi. Lei bevve e rimase distesa sul bordo della polla, esausta. Le peripezie di quegli ultimi giorni e il tormento del langothe le avevano risucchiato via l'anima dal corpo. Il sonno la sorprese come un ladro nella notte e la portò con sé. 7 DARKE
NOTTETERNA
Scura è la notte che acceca la vista se non c'è affetto a illuminar la via. Scura è l'ombra che l'anima rattrista quando si è soli nella malinconia. Scuro è il cielo anche sgombro di nubi se ho una pioggia di lacrime nel cuore. Scura è la vita che oggi tu mi rubi. Perché mi vuoi lasciare, caro amore? Il Lamento dell'Addio Resta immobile.» Il tono di Tully non ammetteva repliche. Tahquil aprì gli occhi. Sospese nelle profondità di un cielo così azzurro da intossicare la vista, fluttuavano su inconcepibili distanze milioni di stelle, minuscole come nebbia cristallizzata. In ogni direzione si stendevano terreni ricoperti di alberi. Nelle scapole della ragazza penetrò un brivido che sembrava salire dalla stessa terra... una terra fertile, che a oriente e a settentrione era chiusa dal profilo nero delle montagne. Oltre le loro propaggini meridionali, sopra le cime a spina di pesce degli abeti che si stagliavano sul firmamento, l'orizzonte era sormontato da una cintura di buio impenetrabile. La sua altezza era quella di tre palmi, misurati a braccio teso. Più in alto quel buio s'interrompeva, lasciando scoperte le silenziose stelle. Il pericolo vibrava nell'aria. Tahquil, intimorita, ubbidì all'ordine del wight e rimase ferma. Dopo un poco Tully annunciò: «Se ne sono andati». «Chi è andato via?» «Esseri unket», rispose brevemente lui. «Ma non si può dire se torneranno. Copriti di terra, ragazza. L'humus ha un odore forte, e non sentiranno il tuo. Annerisciti la faccia.» Tahquil si alzò su un gomito, raccolse una manciata di terriccio scuro misto a residui vegetali decomposti e fece come le era stato detto. Poi bev-
ve dalla ciotola di zucca alcuni lunghi sorsi rinfrescanti. A poca distanza, il cavallo d'acqua stava brucando. «La notte è lunga», mormorò la ragazza mortale, alzando lo sguardo alla monumentale cupola del cielo. «Non è notte», la corresse Tully. «Altrove il sole splende. Questa è Darke, la terra chiamata anche Notteterna.» «Davvero? Ho sentito parlare di questo posto. Dicono che qui non sorga mai il giorno. Ma non ha senso...» «Quando sei sul fondo di un pozzo e guardi il cielo», disse Tully, con la naturalezza di chi ha già spiegato quella stessa cosa altre volte, «anche se è giorno tu vedi le stelle, come se fosse piena notte. Darke è chiusa da un cerchio quasi completo di alte montagne a nord, a est e a ovest, mentre a sud ci sono i fumi del Tapthartharath, che sono come una muraglia, e per qualche scherzo dei venti non si disperdono mai in questa direzione.» «Notteterna», mormorò Tahquil. «Il paradiso dei wight nittalopi.» «Proprio così», convenne l'urisk. «Una terra piacevole. Se ci abitassero gli uomini, mi piacerebbe restarci e tenere ordine nelle loro case. Ma Darke è preclusa alla vostra razza come il Tapthartharath. Molte creature la abitano, ma poche sono mortali.» «Poche?» «Per lo più creature mortali catturate. Non sopportano di starci a lungo», aggiunse Tully, a disagio. «Tu non saresti dovuta venire qui, signora Mellyn. Sei ancora in tempo a tornare indietro, adesso, finché sei padrona dei tuoi sensi. Il cavallo può riportarti nelle terre degli uomini, rapido come se avesse le ali.» «Non posso. Devo cercare le mie amiche.» «Auch, ma ci sono hobgoblin ovunque, nascosti tra le pietre, e altre cose ancora più unket. Darke non è un posto adatto a te, è pericoloso.» «Non ne dubito. Ma devo affrontare il rischio. Dove si trova la fortezza?» «È sopra la Rupe Nera, che sorge su un pianoro ad alta quota, parecchie leghe più a nord-est. La fece costruire molto tempo fa il Principe Morragan, come residenza dove isolarsi di tanto in tanto. La fortezza è chiamata Annath Gothallamor... significa il Grande Castello della Notte. Alcuni la chiamano la Fortezza Oscura.» Annath Gothallamor. Era un nome reboante, come un coro di cupi tromboni di ottone, o di tamburi rituali faêran. Un nome carico di potere. «Non ti è venuto da pensare che le tue amiche potrebbero essere l'esca di
una trappola?» chiese Tully. «Sì, ci ho pensato. Ma ora muoviamoci.» Tahquil si alzò, vacillò e ricadde a sedere. Si passò le mani sulla faccia. «Non sono molto in forze. Hai del cibo con te?» «No», rispose Tully con la sua voce blesa. «Ho portato dell'acqua... e qui non c'è bisogno di una borraccia: ci sono sorgenti ovunque. Ho anche portato del fuoco, dal Tapthartharath... Guarda.» Tirò fuori di tasca una pietra di forma conica, vuota all'interno. Tolse il coperchio di legno e le mostrò un frammento di lava al calor giallo. «Roccia ardente... cridhe teth. Cuore Caldo, la chiamano gli uomini. Abbiamo il calore e la luce, ma niente cibo.» «Non ha grande importanza», decise Tahquil, alzandosi di nuovo. Non ricordava di aver mai avuto tanta fame, anche se negli ultimi mesi l'aveva spesso sofferta. Le sue gambe pesavano come se fossero di metallo, e con le articolazioni arrugginite. Tighnacomaire alzò la testa e scrutò la giovane con aria interrogativa. I suoi occhi erano monete d'oro nella notte. Lei annuì in silenzio, e lui si avvicinò al trotto. Poco dopo erano di nuovo in viaggio. Sedeva un po' piegata in avanti, una cavallerizza spettinata e miseramente vestita in groppa a un elegante pony. Il nygel procedeva lento, adesso, con la cautela tipica della sua razza, senza far rumore con gli zoccoli e sfiorando appena le erbe e i cespugli. Aggirarono una sorgente che gorgogliava lungo la roccia, e più avanti si levò un vento leggero che rinfrescò il viso di Tahquil. Nell'aria c'era il profumo delle foglie che da poco avevano rivestito quegli alberi, capaci di sopravvivere in assenza di luce. Sotto la cupola del cielo di Notteterna oltrepassarono terreni paludosi dove effimere lingue di fiamma si accendevano tra le canne, e l'acqua ne rispecchiava i mobili bagliori multicolori. Tra le erbe alte, gli zoccoli di Tighnacomaire trovavano sempre i punti d'appoggio più solidi, evitando i sassi e le buche. «Ho già visto luci come queste», mormorò la ragazza. «Molto tempo fa. Per poco non portarono un uomo alla perdizione.» «Wight fatui», spiegò Tighnacomaire. «Fuochi eldritch. Amano le paludi, gli acquitrini.» «Come quelli della tua razza.» «Sììì», nitrì lui. «Mi piacerebbe danzare con loro, se non dovessi cavalcare con te.»
«Mi lusinga che tu dia la precedenza alla mia persona» «Tra loro ci sono Joan-la-Torcia e Jack Lanterna... io li conosco tutti.» «E non sono presagi di morte?» «Soltanto gli spunkie e le candele-funebri avvisano di un lutto. In quanto agli altri, alcuni sono crudeli come i bogle. Attirano i mortali in trappola e li affogano, o li fanno precipitare nei burroni. Ma molte specie vogliono solo farsi due risate, come i boggart, e se di notte trovano un contadino ubriaco che ha perso la strada di casa, lo portano a dormire in un fienile.» «Credo che ci siano pochi contadini da queste parti. In quanto ai mortali, scommetto che io sono l'unica a venirci spontaneamente. Perché si trovano qui, queste luci di palude?» «È la Chiamata. La Chiamata è forte, qui. Viene trasmessa da Annath Gothallamor.» «È molto tempo che qualcuno convoca qui i wight», rifletté Tahquil. La prima volta che lei aveva udito di quel fenomeno si trovava ancora a Gilvaris Tarv, a casa di Ethlinn Bruadair. Con un lieve fruscio di erbe e qualche sciacquio, i tre viaggiatori uscirono dalle paludi e trottarono via sotto le stelle, in un territorio nero e argento che saliva verso una quota sempre maggiore. Nel Darke non pioveva mai, ma tutti i giorni si levava una fitta nebbia dalle paludi, oppure arrivava dal mare. Quando si dissipava, lasciava uno strato di acqua su ogni foglia e ogni stelo d'erba; il terreno la assorbiva, le radici degli alberi crescevano verso le profondità del suolo, le rane brillavano come fossero unte, le sorgenti e le polle risalivano di livello, e le corolle dei fiori si piegavano in basso, colme di liquido, finché non si svuotavano d'un sol colpo e tornavano a raddrizzarsi. Poco alla volta gli occhi di Tahquil si erano adattati alla fioca luce del Darke, grigia e immutabile. La sua percettività era anche incrementata dal contatto fisico con una creatura eldritch. Scorgeva molte figure che camminavano balzelloni sulle irregolarità del terreno: trow grigi avidi d'argento, grotteschi swart che strisciavano e si arrampicavano sui versanti boscosi, hobgoblin amanti degli scherzi. In una radura della foresta danzava un circolo di vampiresche baobansith, simili a fanciulle avvolte in vesti rosse, con fiori velenosi appuntati ai capelli riccioluti. Dalla groppa del nygel, Tahquil si stava facendo un'idea del numero e del genere di quei wight. Darke ne era piena. Si sentiva abbastanza sicura, protetta dalla velocità e dall'abilità di Tighnacomaire, con Tully pronto a informarla e consigliarla, ma in realtà lì non vi era nessuna sicurezza fuor-
ché quella del pericolo, perché avvicinarsi alla roccaforte del suo nemico era una follia. Forse, in qualche modo, attraverso il suo legame con quei compagni eldritch, anche lei aveva cominciato a sentire la Chiamata. E lo scopo della Chiamata, naturalmente, era conosciuto soltanto a colui che ne stava al centro e ne era la sorgente: il comandante supremo di quelle orde. Morragan. Bastava il pensiero di quel Principe faêran a darle un brivido di spavento. Insieme con l'immagine di lui ne venivano sempre altre, di gente e di posti del Reame Fatato. Il langothe affondava gli artigli nel suo buonsenso, nel suo equilibrio. Indebolita dalla fame e dalle fatiche del viaggio, addolorata per la lontananza del suo amore, Tahquil si stava lasciando guidare dalle passioni e dalla sconsideratezza. Si piegò in avanti sul collo del nygel e passò dalla veglia al sonno senza accorgersene. Un mutamento nel ritmo del trotto la svegliò. Tighnacomaire stava rallentando, e infine si fermò. Quando sentì che la pelle del compagno la lasciava andare, Tahquil smontò. Il nygel trottò fino alla superficie satinata di uno stagno, dove i riflessi delle stelle galleggiavano come petali. Entrò nell'acqua. Alcuni anelli concentrici furono tutto ciò che rimase di lui. «Si stava disidratando», la informò la voce dell'onnipresente urisk, che alzò un braccio a indicare più in alto. «Guarda lassù.» A nord, una rupe scura spuntava dal centro di un vasto pianoro. Fili d'acqua scendevano sull'arazzo delle sue pareti scoscese. Il centro della rupe era incoronato da una fortezza munita di molte torri. «Siamo ormai vicini. Lassù, su quell'altopiano che chiamano Pianoro Alto, sorge la Rupe Nera, e, sopra la rupe, il castello.» Il cuore di Tahquil aveva perso un battito. «La storia si ripete», mormorò. «Un'altra fortezza del male, come quella nella caldera, e lui è là, con la Caccia Selvaggia. Se ci sono sentinelle ai bordi del pianoro, possono vedere l'intera parte meridionale di Darke. E se sono nittalopi riescono a vederci anche al buio, mentre ci muoviamo tra questi pochi alberi.» «Puoi star certa che l'intera Darke è sorvegliata, e non solo dal Pianoro Alto ma dal cielo e dagli aiblen, e da ogni posto elevato, da guardiani che hanno molto potere nelle loro mani. Però essi cercano guerrieri mortali o spie non accompagnate da wight. E non accade spesso... anzi, non accade mai, che eldritch e lorraly formino un'alleanza come noi quattro. Ultimamente mi sono stupito io stesso della stranezza di viaggiare in queste terre
con una ragazza mortale. E anche per il cavallo, portarti in groppa è una novità stupefacente... come lo è per la ragazza-cigno il fatto di parlarti.» «Tu perché ti sei unito a me?» L'urisk si grattò lo spelacchiato triangolo della barbetta. «Non lo so, se devo dire la verità.» «Perché hai buon gusto, senza dubbio», replicò lei, scherzosamente. La bocca da pixie si piegò in un sorriso. «Senza dubbio!» I pallidi alberi alzavano chiome di foglie rade, attraverso cui si vedevano le stelle. Le loro lunghe radici uscivano in cerca di acqua sui bordi di un ruscello. Tahquil si fermò a bere. Il liquido cristallino nella coppa delle sue mani era puro, pieno di un pulviscolo scintillante, come se contenesse un'eco del firmamento. «Andiamo», disse. «Io rimonterò a cavallo.» Aveva appena parlato che una croce nera scivolò tra cielo e acqua. Atterrò dietro i cespugli. «An eoincaileag!» esclamò Tully. Dopo un momento la ragazza-cigno usci dalla vegetazione. Niente in lei lasciava capire la natura delle notizie che portava... se fossero buone o malvagie. Tahquil si alzò, appoggiando una mano a un albero per sostenersi. «Che cosa hai saputo?» le domandò, senza convenevoli. «Heihoo! La viaggiatrice mortale è saggia avvicinando la Fortezza Oscura dal lato di meridione, dove fuoco e fumo scoraggiano i soldati mortali. Su altri lati, lontani dalla fortezza, si radunano i nemici. Le orde sciamano e sono accampate sul Pianoro Alto.» «Lascia perdere le manovre dell'esercito di Morragan! Quali notizie hai di James, il Re-Imperatore?» Tahquil si accorse della strana irritazione sul bellissimo volto di Whithiue. Dapprima la ragazza-cigno non volle dire altro. Poi, quando fu incitata a parlare, informò i suoi ascoltatori che, cercando notizie del ReImperatore, era venuta a conoscenza di altre cose. Qualcuno aveva fatto informare tutti i wight di Erith che il Principe Morragan non era l'unico a cercare la ragazza dai capelli gialli. Per motivi noti a lui solo, anche il Supremo Re dei faêran aveva ordinato che chiunque la trovasse doveva portarla da lui. «E così, il Re Angavar si è svegliato, finalmente», commentò Tahquil, intimorita. «E anche lui ha saputo di me.» Di nuovo si domandò perché mai le dessero la caccia. Eppure avrebbe giurato che i suoi inseguitori non sapessero chi era lei in realtà, né che era
venuta dal Reame Fatato per una via segreta. Morragan voleva semplicemente punire una ladruncola senza nome che aveva origliato... e tuttavia, fu costretta a dirsi, Viviana e Caitri erano nelle sue mani, e le due ragazze sapevano tutto di lei. Whithiue disse ancora: «Il cigno servirebbe volentieri Angavar e ubbidirebbe alla sua volontà. Lui è il sovrano del mondo, al quale è giusto sottomettersi. La fedeltà e i sentimenti del cigno sono suoi». «Ti prego di non tradirmi, Whithiue! Io non voglio essere una posta in palio nei giochi dei faêran. Tu non sai perché Angavar e Morragan mi cercano.» E non sarò io a dirtelo! Perché, se sapessero che posso riaprire le Porte del Reame, i miei stessi amici eldritch mi porterebbero subito da questi signori faêran. Sono certa che il Supremo Re mi costringerebbe subito a riaprire la Porta rimasta agibile, se mi avesse in suo potere. Poi, per vendicarsi di suo fratello, tornerebbe in Faêrie col suo seguito, e lascerebbe qui Morragan a sfogare la sua rabbia mandando gli unseelie a tormentare Erith sino alla fine del tempo. E non è questo che voglio. Io voglio che tutti i faêran se ne vadano, dal primo all'ultimo di quella razza presuntuosa e sfrenata. «Questi monarchi e principi faêran non si curano del destino delle mie amiche. Nel conflitto tra potenti signori, gli insignificanti mortali vengono travolti e periscono. Mantieni il mio segreto, ti prego. Non tradirmi!» «Io non ti farò brutti scherzi, ragazza», promise Tully. «E neppure il cavallo. Ma non essere ingiusta coi faêran. Sarà prudente che tu non parli male di loro. E certamente possono essere pietosi e giusti.» «Sono arroganti!» esclamò Tahquil. «Se il cigno avesse udito il volere del sovrano faêran dalla sua stessa bocca, il cigno si affretterebbe a portare l'umana ai suoi piedi», disse la ragazza eldritch, scuotendo indietro i capelli neri. «Sì, certo», osservò Tully in tono ragionevole. «Ma tu hai udito l'editto del Re da qualche stupida rondine o testardo trow. Puoi rompere il voto fatto alla ragazza, a causa di una semplice diceria?» «Il wight del focolare dice bene. Il cigno è tristemente combattuto», rispose Whithiue, incerta. «Non agire affrettatamente», l'ammonì Tighnacomaire. «Tu sei legata alla signora dalla tua penna.» La ragazza-cigno piegò il lungo collo in segno d'assenso. «Quando la mortale avrà visto il fato delle due amiche, il cigno ubbidirà al voto di fedeltà al Supremo Re e gli dirà dove lei si trova.»
Temporaneamente in salvo, Tahquil insisté: «Che notizie hai di James, il Re-Imperatore?» «Il sedicesimo di questo nome è caduto.» Una pietra al calor bianco bloccò la gola di Tahquil. «Spiegati meglio», la sollecitò a voce molto bassa. «Non è riuscito a sopravvivere», disse la ragazza-cigno. «Un odioso wight l'ha ucciso. Il cigno parla con conoscenza. I gabbiani presenti alla sua ultima ora hanno riferito la storia, i wight delle onde l'hanno confermata.» Thorn era morto. Con occhi simili a conchiglie vuote, la ragazza mortale guardò l'immortale... una creatura che non poteva mentire mai. Una pesante porta si chiuse con un tonfo definitivo, lasciandola nella desolazione. Gli uccelli notturni emettevano versi luttuosi. Un flauto di canna cominciò a suonare da qualche parte nei boschi grigio-argento di Darke, note ottuse, sfiatate. Altri si fecero udire. Le loro diverse e separate canzoni confluivano come ruscelli in un fiume la cui armonia straziava l'anima. La brezza era gravida del profumo di viole. «No», disse Tahquil-Ashalind. «No.» La sua ragione andò in frantumi. Non poté trattenersi. Il gemito che le uscì dal petto era come l'acqua di una diga schiantata dopo una lunga agonia, il debole ma irrefrenabile lamento di un'anima caduta nella desolazione più profonda che avesse mai conosciuto. Nel firmamento sereno di Darke le stelle brillavano sui boschi e sulle paludi, sui pascoli e sui laghi, sulle montagne impervie e sulle pianure. I loro raggi tingevano di riflessi satinati i fianchi del cavallo che galoppava con incrollabile energia su per il versante scosceso, con una donna sulla groppa. Quella luce avvolgeva anche la figuretta cornuta che gli correva dietro, e accarezzava le penne dell'uccello dal lungo collo in volo sulle correnti che salivano dalla pianura. Più in alto, sul bordo dell'altopiano, trovarono un rifugio. Nudo e spoglio, era rozzamente scavato nella parete rocciosa. Fu lì che il cavallo si fermò. La cavallerizza scivolò al suolo. Settecento piedi più in basso, sulle crepuscolari colline di Darke, si stendeva il vellutato mantello della foresta ricamato di mille torrenti. Tully sedette a gambe incrociate accanto a Tahquil, che non accennava a
rialzarsi dal punto dove si era afflosciata. «Svegliati, signora», disse, e mormorò un incantesimo del focolare e della casa, una delle piccole cose che gli urisk sapevano fare. Lei si tirò a sedere, pallida e stordita, e si guardò intorno. Il vento che saliva dalla scarpata le sollevava i capelli, tinti di castano scuro, appiccicosi come alghe lasciate in secca dal mare. Bella come l'astro della sera, Whithiue scese per una scala scolpita nel fianco della montagna e giunta davanti a loro spalancò il mantello. Una decina di frutti maturi caddero al suolo: pere, pesche, albicocche e sfere di Buonpane. Uno di essi rotolò fino ai piedi di Tighnacomaire, che lo annusò e lo mangiò, con aria assente. «Tu, razza di goloso», lo rimproverò Tully, dandogli un colpetto sul muso. «Vai a brucare l'erba di fiume, o l'erba di terra. Questa roba è per la signora.» Tighnacomaire abbassò le orecchie, assumendo un'espressione d'imbarazzo equino. Tahquil-Ashalind aveva risucchiato dentro di sé tutta la tristezza che si poteva trovare in ogni angolo di Darke: quella dei nidi depredati, delle tane saccheggiate, dei fiori spezzati, del gufo che si lamentava per aver perso la sua compagna. Il grigio abito della disperazione la avvolgeva, facendo di lei un povero mucchio di cenere o un sasso, immobile e priva della volontà di andare via da dove si trovava. Ormai, per lei, un posto valeva l'altro. Ma la cenere e i sassi non piangevano. Sono un fuoco spento, sono una pietra corrosa dall'acido dell'agonia. Che la pietra si trasformi in cenere, come sono state bruciate le pietre di Tamhania. Io sono un niente, un guscio vuoto. Cammino, ma la fiamma mi ha consumato e aspetto solo di essere sepolta. Di ciò che le sarebbe accaduto, a Tahquil importava poco. Si portò alla bocca un po' di Buonpane, muovendosi come una delle marionette meccaniche negli sfarzosi saloni di Tana. Anche se lui non vive più, io sono qui e devo andare avanti. Manterrò l'impegno di liberare il mondo dai faêran, se potrò, e riporterò a casa le mie amiche. Dopo, ciò che sarà di me non avrà importanza. «Siamo arrivati lontano», disse Tully, dopo che la ragazza ebbe rotto il digiuno con qualche piccolo svogliato boccone. «Se sali quella scala nella roccia, arriverai al bordo del Pianoro Alto. Da lì potrai vedere Annath Gothallamor.»
Lei si avviò su per la scala. I gradini erano spaccati, e nelle fessure crescevano muschio e pianticelle dai piccoli fiori bianchi piegati in basso. Prima di arrivare in cima si fermò, alzandosi in punta di piedi. Allungò il collo e i suoi occhi arrivarono appena un dito più in alto del bordo. L'altopiano che si stendeva davanti a lei era pavimentato di ghiaia mista a pezzi di ossidiana, ma non mancava la vegetazione; a tratti spuntavano ciuffi di erba e gruppi di cespugli. Le stelle sembravano più grandi e più vicine. Sulla cima di una rupe massiccia, al centro del pianoro, sorgeva una fortezza fornita di numerose torri, edifici interni, torrette dal tetto conico e mura merlate. Le feritoie erano illuminate dall'interno dalla luce bluastra dell'uhta, il colore del cielo a tarda notte, una luce stregata che metteva i brividi. Da tutto l'insieme emanava un senso di minaccia, come dalla figura di un drago addormentato. Un movimento attrasse l'attenzione di Tahquil. Lentamente la ragazza si abbassò al di sotto del bordo. A poca distanza si udivano le voci stridule degli spriggan, tra le ombre. Lei si affrettò a scendere la scala. Quando raggiunse il rifugio, Tully la spinse in una larga fessura della parete. Le voci dei crudeli wight si avvicinarono; alcuni sassi rotolarono giù per la scarpata. Tighnacomaire nitrì. Fermo sull'ingresso del rifugio, s'impennò e scalpitò furiosamente con gli zoccoli anteriori. Dall'alto del pianoro gli spriggan lo guardarono, parlottarono tra loro e poi si ritrassero. «Taci, che ci è andata bene!» esclamò Tully. «Per un capello!» Tahquil non riusciva a spiccicar parola. Per lo spavento era rimasta muta, come un tempo l'aveva resa la frusta del duergar. Lottò per ritrovare la calma, ma una parte di lei desiderava che il langothe la facesse morire subito, così da non dover soffrire i suoi effetti in una lenta agonia che avrebbe avuto la stessa conclusione. Quando infine ritrovò la voce, le uscì piatta come lo scoraggiamento che l'aveva invasa. «In che modo potrei attraversare quel pianoro? Non c'è neppure un albero dietro cui nascondersi.» Era la prima volta che parlava, dopo aver udito le notizie della ragazza-cigno. «Le forti ali dei cigni solleveranno il leggero peso della debole mortale», disse Whithiue. «La gente del mare ci presterà una rete da pesca. Quattro cigni avranno la forza di trasportare l'umana da qui alla Fortezza Oscura, volando svelti.» Incapace di capire il motivo di quell'incredibile favore non richiesto, Tahquil assentì. Si sentiva rimossa dalla scena, come se stesse guardando i tre compagni dall'estremità opposta di un lungo tunnel, lì su quel cornicione
scavato artificialmente sul bordo di un precipizio. Il raziocinio era negli occhi dei suoi compagni, ma non nei suoi. La risposta di Tully a Whithiue le parve giungere da una stanza dietro un muro. «Non è possibile. Alle sentinelle al suolo basterebbe alzare lo sguardo per vedere le vostre figure stagliate contro le costellazioni. La ragazza vuole entrare inosservata a Gothallamor, non esserci portata in catene. Hanno già due prigioniere... perché offrirgliene tre?» «E come potrebbe liberare le sue amiche?» intervenne Tighnacomaire. «Cosa può fare un'umana con la mente confusa e stordita? Non sa neppure dove siano tenute quelle due, o se siano vive. È un piano pazzesco, destinato al fallimento.» Tahquil vide che anche gli altri due erano di quel parere. Non si lasciò smontare. «Voi dovete aiutarmi. Fatemi arrivare in segreto a quella fortezza. Non posso rinunciare al mio impegno. Troverò le mie amiche, o morirò nel tentativo.» Era consapevole che Whithiue la giudicava una stupida, che Tully era preoccupato e Tighnacomaire molto perplesso. L'urisk fece per dire qualcosa, poi ci ripensò e tacque, grattandosi la barba. «Ci sarebbero i cunicoli del ghiaccio», suggerì all'improvviso Tighnacomaire. «Sono scavati sotto il pianoro.» «Non ne ho mai sentito parlare», dichiarò Tully. «Sono tunnel costruiti dai fridean?» «Non dai fridean. I cunicoli del ghiaccio sono stati fatti da altri.» «Quei sottopassaggi sono fuori della vista dei cigni, e noi non li conosciamo», riferì Whithiue. «Chi vola in alto vede solo la superficie», sentenziò saggiamente il nygel. «L'acqua cerca i posti che stanno sotto, nascosti e segreti.» «Non starai pensando di portarla in un torrente sotterraneo, eh?» protestò Tully. «La ragazza non può passare in un tunnel pieno di acqua.» «I torrenti pieni di acqua sono giù nella valle. Qui in alto, i cunicoli del ghiaccio sono in secca. Li hanno fatti gli uomini. Uomini astuti, molto tempo fa. I Maghi di Namarre.» «Come posso trovare l'ingresso di uno di questi cunicoli del ghiaccio?» domandò Tahquil. «Aspetta qui», rispose Tighnacomaire. «Lo cerco io.» Il nygel si allontanò al trotto. Procedeva sulle scarpate e i crepacci senza inciampare, trovando appoggi sicuri per gli zoccoli dove non sembravano essercene molti. Il cielo di Notteterna brillava di stelle, e la brezza meridionale portava fin lì un lontano gracidio di rane.
Tighnacomaire rimase assente a lungo, ma tornò giusto quando si era creata una situazione allarmante. Sul bordo dell'altopiano, più in alto, si udivano voci e rumori. Gli spriggan si stavano di nuovo radunando lì. Ogni tanto apparivano, stagliati contro il cielo scuro, agitando gli arti duri e secchi come zampe di granchio. Alcuni gridavano in tono allarmato. Poi una decina cominciarono a scendere la scala di roccia. «Andiamo via di qui!» disse Tighnacomaire. Tahquil gli salì in groppa e fu subito portata al galoppo lungo un cornicione sottile; poi svoltarono dietro una rupe e gli spriggan sparirono alla vista. I muscoli del nygel scattavano e si rilasciavano ritmicamente. Sotto di lui scorrevano burroni pieni di vento, scarpate e crepacci. In qualche modo andò avanti lungo la parete scoscesa sotto l'orlo del pianoro finché non giunsero a una fessura verticale di forma biforcuta, oscura e silenziosa. Lui mise dentro il muso, annusò l'aria, e con cautela si addentrò nel cunicolo. Il buio sigillò gli occhi di Tahquil come catrame. Sotto di sé sentiva il cavallo d'acqua che avanzava lento. Il suono improvviso di una voce la fece sussultare al punto che sarebbe caduta, se non si fosse aggrappata alla criniera. «Auch, facciamo un po' di luce per la ragazza?» Le onde sonore riflesse confusero la voce di Tully. Senza preavviso avvampò una luce. La sua violenza strappò il catrame dagli occhi di Tahquil, finché lei non vide che un cieco bagliore bianco. Repentinamente com'era apparsa, la luce si spense. L'urisk, che aveva posto la domanda per primo a se stesso, mandò un'imprecazione. «Un po' troppo vivida, questa», commentò. Quando scoprì di nuovo il cono che conteneva la roccia del Tapthartharath fu con maggiore cautela. Da sotto il coperchio di legno scaturì un raggio sottile, che rimbalzò su una superficie piana, zigzagò avanti e indietro tra una moltitudine di sfaccettature e si spezzò in un miliardo di frammenti. «Oh», si meravigliò Tahquil, sollevando la faccia dalla criniera di Tighnacomaire. «Oh... Oh... Oh...» mormorarono gli echi. Il cunicolo era un posto pieno di arcobaleni. Era così spazioso che una dozzina di cavalieri avrebbero potuto procedere affiancati. Le straordinarie sfaccettature delle pareti, del soffitto e del pavimento respingevano l'abbagliante luce gialla del Cuore Caldo del Tapthartharath e la moltiplicavano incalcolabili volte, suddividendola nelle sue compo-
nenti colorate come poteva fare solo un prisma. Era come trovarsi dentro un caleidoscopio stregato, e in realtà il cunicolo altro non era che un passaggio scavato nel corpo di un cristallo di dimensioni inimmaginabili. Il suo splendore, benché maestoso, era però freddo e duro, spietato. Tighnacomaire lasciò la pavimentazione di roccia grigia che formava l'apertura del tunnel e che, come un rivestimento esterno, racchiudeva l'enorme cristallo contenuto nel sottosuolo dell'altopiano. Non appena i suoi zoccoli toccarono la superficie vitrea, produssero una nota musicale. Le vibrazioni si propagarono dal suolo alle pareti fino a incrociarsi sul soffitto, e poi continuarono a sovrapporsi creando nuove frequenze con un'alta capacità di penetrazione, e quelle note cristalline chiare come l'acqua pulsarono l'una nell'altra in un lungo accordo. Il nygel si fermò, incerto. L'ultima nota svanì, come il ricordo di una brezza nell'aria del deserto. Il cristallo attese. «Non si può camminare in silenzio», constatò Tighnacomaire. «Silenzio... enzio... enzio...» cantò il tunnel, mandando intorno scintille come pezzi rapiti al sole, al cielo, al mare, al fuoco, al ghiaccio. «Rischiamo», decise Tahquil. Rischiamo... amo... amo... Tully tenne alto il Cuore Caldo e i tre si addentrarono in una canzone, in un arcobaleno musicale. Non era spiacevole. I suoni non si alzavano mai a un livello doloroso, né la morbida illuminazione del Cuore Caldo produceva raggi abbaglianti. Anche quando le sfaccettature si moltiplicavano, i raggi erano palpiti di ambra, di resina scarlatta, o lucori di seta e di oro... non pugnali per gli occhi. Il buio voltava le spalle e fuggiva davanti ai viaggiatori, poi si richiudeva dietro di loro. Erano nelle profondità del pianoro, diretti verso il centro. Dopo qualche tempo il nygel si fermò di nuovo. Gli ultimi echi dei suoi zoccoli e quelli di Tully risuonarono nel buio. «Le luci attraggono l'attenzione», osservò Tighnacomaire. Attenzione... one... one... «È vero!» Tully chiuse subito il coperchio del cono di pietra, tagliando alla radice il fiore al calor giallo. Il buio si abbatté come un sipario di ferro. Proseguirono di buon passo, in una tenebra così densa da sembrare solida. I wight non avevano bisogno di lampade per vedere; ne avevano usata una, ma solo per riguardo a Tahquil. Tuttavia nessuno di loro aveva considerato il pericolo. Ciò forse era comprensibile nel caso del nygel: la sua
mente era una gabbia piena di farfalle che inseguivano il loro riflesso. E Tahquil, nelle sue condizioni emozionali, più che ragionare stava delirando. Tully invece, che aveva il senso comune di un normale wight domestico, avrebbe dovuto pensarci due volte prima di entrare in quel tunnel. Per loro sfortuna, la magia del canto del cristallo, oltre a un incantesimo occulto messo sulla struttura stessa di quei sotterranei, aveva influito sui sensi degli eldritch smorzandoli, rendendoli ottusi, illudendoli, raggirandoli. Annullandoli. Tahquil stava china in avanti e sonnecchiava sulla groppa del cavallo d'acqua. Quand'erano penetrati in quel passaggio, lei aveva temuto, in modo confuso, che sarebbero stati individuati all'istante; poi aveva prevalso la fiducia che Tighnacomaire, coi suoi istinti, sarebbe riuscito ad accorgersene e a fuggire al primo segno di pericolo. Mentre si addentravano sempre più nel tunnel senza che accadesse niente, cominciò a rilassarsi, e i suoi faticosi processi raziocinanti si volsero agli ostacoli che avrebbero trovato alla fortezza, al problema di come entrarci, e a ciò che avrebbe dovuto affrontare laggiù. Erano previsioni incerte e incoerenti, e lei non riusciva a soffermarsi col pensiero su quei problemi. Nel suo stato mentale era del tutto impreparata a ciò che stava per accadere. La caverna si riempì del sussurro che Tighnacomaire sbuffò dalle tasche di velluto delle sue narici. «Acqua», disse. «Ne sento l'odore. E c'è un'altra cosa...» Il buio esplose. Un caos di rumori e di grida si levò da tutti i lati. Una torcia fu accesa, e rivelò la presenza di un vasto abisso davanti a loro, su cui s'inarcava un sottile ponte sorretto da esili dita di diamante. Dal centro di quel ponte stava accorrendo una banda di spriggan che agitavano picche e spadoni. Nella loro fretta s'inciampavano addosso a vicenda. Uno di essi cadde oltre la balaustra, e il suo grido di orrore sovrastò il chiasso dei compagni, perdendosi tragicamente verso il basso. Il nygel si voltò nella direzione da cui erano venuti, ma per la seconda volta si fermò di colpo, sprizzando scintille dagli zoccoli. La torcia illuminava una torma di wight urlanti che scaturivano da fessure nelle pareti, sbarrando ogni via di fuga. Le loro grida rimbalzavano nel cristallo, assordando le orecchie di Tahquil. Tra le sue gambe, il nygel girava su se stesso come l'ago di una bussola. Stordita, lei si preparò a resistere all'assalto. Gli avversari avrebbero cercato di staccarla dalla pelle del cavallo, uccidendola nell'operazione, o si sarebbero limitati a piantarle una lancia nel corpo
mentre sedeva in groppa al cavallo? La morte non le era mai apparsa desiderabile, ma in quel momento non le riusciva del tutto odiosa. La sua testa si rovesciò indietro quando il nygel s'impennò scalciando. Poi il quadrupede fece un balzo per evitare le lance degli aggressori, ricadde sull'orlo dello strapiombo e la loro spinta lo spostò nel vuoto. I capelli di lei furono proiettati all'insù quando il cavallo cadde come un sasso. Di fronte alla sua faccia sventolarono i bordi delle vesti lacere, mentre il cuore le saltava in gola per lo spavento. Stavano precipitando insieme nel baratro. Non ebbe il tempo di gridare, né il fiato per farlo. Il tremendo vento della caduta glielo strappò dai polmoni. Era una bambola di stracci a dorso di cavallo, e stavano scendendo in un pozzo profondo. Colpirono la superficie del fiume sotterraneo con tale violenza che avrebbe potuto essere una lastra di roccia. L'acqua riempì la gola di Tahquil come infuso di cicuta. La pressione li schiacciò, ruggendo. Bolle rosse scoppiarono e sfrigolarono negli occhi di Tahquil. Il nygel la stava di nuovo affogando. Le braccia di lei si agitarono invano. La marea sciabordava nella sua testa. Il suo cervello nuotava come una rana spaventata, e una fascia d'acciaio le stringeva il petto. La sua coscienza rimpicciolì fino a un puntino dorato, ma quel puntino bruciò coraggiosamente e non si lasciò estinguere. Poi la pressione s'invertì, spingendola sul collo e sulle spalle del nygel. L'acqua scivolò via da lei come un indumento. L'aria fresca e libera fece ritorno. Tahquil giacque sul dorso del cavallo, priva della vista e dell'udito, sussultando per i colpi di tosse e gli ansiti rochi del suo respiro. Quando ebbe ripreso fiato, giacque tranquilla nelle tenebre, immersa nell'acqua fino al collo. Niente si muoveva. Il solo rumore era un gorgoglio, un sussurro liquido che sfiorava la roccia. Molto tempo dopo il buio impallidì. Vagamente presero forma le orecchie e la testa di Tighnacomaire. Tahquil cominciò a distinguere pareti che scorrevano via veloci, e più in alto un soffitto come un confuso susseguirsi di forme. Non erano immobili dunque, anzi viaggiavano a grande velocità trascinati dalla corrente di un fiume sotterraneo. Una bassa arcata incorniciava la sorgente della luce. Quella era la direzione in cui stavano andando. «Non aver paura», farfugliò Tighnacomaire, rigenerando un barlume della sua fiducia in lui. Poi l'arcata li prese nella sua tenaglia. La corrente li portò oltre. Sospesa a mezz'aria, Tahquil chiuse gli occhi. Stavano precipitando di nuovo, ma fu solo una caduta breve. La corrente li trascinò rapida in un fiume che scorreva sotto il cielo aperto di Darke.
Tighnacomaire cominciò a nuotare per spostarsi pian piano verso la riva. Trecento braccia più a valle la raggiunse, sali all'asciutto e depositò dolcemente la sua cavallerizza in mezzo a una macchia di insoliti pioppi notturni, dai quali cadevano foglie simili a monete d'argento. Inzuppata fino all'osso, sfinita per le conseguenze dello spavento, Tahquil giacque lì stordita e tremante. La corrente frusciava e sussurrava, sfiorando rive coperte di salici piangenti e ontani, tra cui penetravano nastri di luce lunare. I pioppi di Darke continuarono a lasciarle piovere addosso foglie lucide e scure, che traevano la vita dal chiarore delle stelle invece che dai raggi dorati del sole. Come in sogno, vide Whithiue arrivare tra gli alberi. La ragazza-cigno allargò le braccia e tra esse vi fu uno spazio da cui le stelle erano cancellate. Una neve calda cadde sulla forma distesa di Tahquil, e la avviluppò nel torpore. Il suo corpo smise di tremare. Si addormentò. Nell'atmosfera violacea fluttuava la melodia dei flauti di canna, selvaggia come una volpe, folle come l'amore, strana come il risveglio. Whithiue sedeva lì accanto con le ginocchia sollevate, strette tra le mani. Guardò Tahquil, inclinando la testa di lato. «L'amica è senza macchia, come nuova», mormorò. «Lavata dall'acqua pura.» In effetti, il fango con cui Tahquil aveva cercato di mimetizzarsi era sparito, e le trecce tinte di castano erano state liberate dalla polvere durante il tragitto fluviale sotto il Pianoro Alto. I capelli le si appiccicavano al collo, ancora umidi, in ciocche scure e lunghe. «L'amica gentile è fedele e coraggiosa», disse ancora la ragazza-cigno. Poi notò le radici dei capelli di lei, molto più chiare. «Vahquil ha chiome fulve», aggiunse, pronunciando male il nome. I barbagianni si chiamavano nella notte. Un ramo spezzato diventò una grigia bocca di rospo, poi spalancò ali di gufo come ventagli dipinti e volò via. Ogni dettaglio di Darke era sorprendentemente chiaro negli occhi di Tahquil. La notte non era più impenetrabile, ma luminosa. Gli improbabili misteri delle ombre venivano rivelati. Tully era seduto tra i germogli delle radici di un pioppo. Come le ragazze-cigno, gli urisk erano legati all'acqua; quando vivevano in una casa, solitamente frequentavano uno stagno nelle vicinanze. Tully era arrivato lì seguendo senza difficoltà il torrente sotterraneo. Non sembrava neppure umido; soltanto una goccia, una fragile lacrima, gli brillava tra i capelli
riccioluti, appena lucidi. Tra le sue tozze corna, un ragno stava tessendo la tela. «Adesso loro sanno che siamo qui», borbottò, in tono cupo. «Ti hanno visto, sulla groppa del cavallo. Avranno già dato l'allarme, ragazza... Ora si guardano intorno con occhi di falco in cerca delle tue tracce, e possono arrivarci addosso da un momento all'altro.» Guardò il cielo spolverato di stelle, come se già sentisse gli ululati e il tuonare della Caccia. «Io potrei correre come il vento con te, attraverso il Pianoro Alto», dichiarò un uomo, o quello che sembrava un uomo. Dapprima Tahquil non lo riconobbe. «Ma quelli ci prenderebbero prima di arrivare a metà strada», continuò Tighnacomaire. Erano molti giorni che non riprendeva il suo aspetto umano. In quella forma stava disteso su un fianco, e pigramente costruiva un muro di polvere davanti a una fila di formiche, per confonderle. «E così la tua ricerca è finita, signora», disse mestamente Tully. «Non puoi arrivare alla grande fortezza.» Lepri bianche saltellavano sui prati di Darke, sotto la pioggia di luce argentea di altri mondi e soli lontani. In distanza, ripetuto senza requie, echeggiava una specie di segnale a intervalli regolari: «Ai-eee! Ai-eee!» Nella foresta notturna si udivano delle risate, a volte acute, a volte basse e roche. A esse seguivano gemiti così tristi da spezzare il cuore. Tahquil parlò in tono piatto. «Se non ci fosse altro modo per rivedere Caitri e Viviana, o sapere cosa ne è stato di loro, resterei qui ad aspettare la Caccia. Non protesterei, mi lascerei portare via.» Attenta, anche in quel momento, a non ringraziare i wight, aggiunse: «Tutti voi siete stati molto buoni con me». Abbassò le ciglia, saracinesche contro il mondo. La ragazza-cigno la osservò socchiudendo gli occhi da uccello. «Vahquil si è nutrita di Buonpane, di frutti di Faêrie. Ha viaggiato col cavallo d'acqua, ha compreso i punti di vista eldritch. Ha portato sul dito uno speciale circoletto di forte brillante magia. Ha ottenuto incantesimi curativi dal fauno cornuto del focolare domestico. Le compagne di Vahquil condividono le usanze wight. Guardate, lei non ha più ferro freddo.» Whithiue si alzò, agitò le mani, fece qualche passo avanti e indietro, e solo allora Tahquil si accorse che non portava più il suo prezioso mantello di penne nere. Indossava una sottoveste così trasparente che sembrava fatta di nebbia e ragnatela, stretta alla vita da una cintura di scintillanti granati. I suoi meravigliosi capelli svolazzavano nella brezza del sud. Parlò ancora,
esitante, rivolgendosi soltanto a Tahquil. «È odioso arrendersi! Vola, dunque, alla Fortezza Oscura. I wight non ostacoleranno, non fermeranno un cigno. L'amica si avventurerà in sicurezza. Scenderà tra le alte mura. Abbi certezza, il cigno ti visiterà in seguito, per ritirare il mantello di penne. Abbi certezza, se le penne saranno danneggiate o perdute, l'ostile vendetta della famiglia dei cigni seguirà per sempre.» Le parole della ragazza-cigno stimolarono la memoria di Tahquil. Quello dunque era ciò che l'aveva coperta e che continuava a riscaldarla, mentre giaceva sulla fredda erba di Darke? Abbassò lo sguardo su se stessa. Il mantello di piume la copriva, nero e lucido come il carbone. L'aveva scaldata durante il sonno, e forse l'aveva protetta dai sensi indagatori delle creature notturne che perlustravano quella regione. Il mantello di un cigno non poteva essere consegnato alla leggera da un portatore all'altro, perché, come la legge che impediva ai wight di oltrepassare una soglia di casa senza invito, l'uso di un così straordinario abito richiedeva il permesso, liberamente dato, del proprietario. Era davvero un onore per Tahquil ottenere non solo la protezione del più prezioso tesoro di una wight, ma anche il suo uso, con tutti i poteri che esso conferiva. L'emozione la colse come l'acqua di una sorgente dopo il temporale. Le bruciavano gli occhi, mentre cercava le parole adatte. Con voce tremula cominciò: «Whithiue è generosa...» «La fragranza del cigno nasconderà il puzzo umano», la interruppe Whithiue, e in effetti le penne emanavano un certo odore avicolo, che le ricordava le stalle dei Cavalli Celesti. «Quando il cigno avrà riavuto il mantello di penne, integro e intatto, il suo impegno sarà finito», aggiunse la ragazza-cigno con voce secca. «Sì, dopo che questa impresa sarà stata compiuta, tu non sarai più legata a me da nessun obbligo. Io non ti chiederò mai più nient'altro. Questo lo giuro. Anzi, sarò io in debito con te.» Ma non per molto, perché sento che la treccia della mia vita si è sciolta, pensò cupamente Tahquil. Thorn, presto sarò con te. Whithiue fissò su di lei il suo sguardo alieno. Lontano, sul fiume, l'ululato di una creatura disumana echeggiò nella nebbia. Aspettò che si spegnesse, poi annuì bruscamente, in modo secco e strano, come un uccello che abbassi il becco nell'acqua per afferrare un pesce. La realtà è che, nonostante la loro capacità di prendere la nostra forma fisica, le ragazze-cigno non sono umane. Questo non devo dimenticarlo.
Con gesto riverente, Whithiue sollevò il mantello di penne dal corpo della mortale. Tahquil si alzò; al pensiero di ciò che stava per accadere, fu scossa da un brivido di paura. «Cosa devo fare?» domandò, con voce roca. Whithiue cullò la cascata di penne sulle braccia come fosse un bambino molto amato. «Predisponi la mente! Abbi fede!» esclamò. I suoi occhi brillavano di quella che avrebbe potuto essere rabbia o dolore o paura, o un'emozione eldritch incomprensibile ai mortali. «Vola in alto!» Depose il mantello sulle spalle di Tahquil, e lo lasciò lì. L'indumento le aderì, morbido, caldo... e la costrinse a cambiare. Gridando di paura, sconvolta, Tahquil ebbe l'impressione che tutti i nervi del suo corpo penetrassero all'interno di ogni piuma, e sentì la brezza sollevare le penne maestre, dandole la sensazione della leggerezza e del volo. Sbilanciata, vacillò su gambe improvvisamente instabili. A parte il suo strano contatto percettivo con le penne, si sentiva immutata. Il mondo invece era mutato. Era mutato moltissimo. Ognuno dei suoi occhi riceveva l'immagine di metà di quel nuovo universo. La sua consapevolezza si era drasticamente alterata. Sul terreno, la perpetua notte di Darke era diventata una specie di giorno verdolino, come attraverso un vetro colorato. L'orizzonte era un'alta fascia grigio-ferro. Ovunque era visibile, e seducente, l'acqua. In precedenza lei non aveva mai notato che ve ne fosse tanta. Scintillava oltre le chiome degli alberi e le canne. Le rane mandavano sonorità deliziose, che richiamavano alla mente i rumori di una cucina. Accanto a lei vi erano tre figure, tutte molto alte. Due sembravano indistinte, ma la terza era Whithiue, bellissima e vestita di stelle. Come gli esseri che accudivano gli alberi di Cinnarine, ciascuno dei tre aveva intorno un'aura colorata. Tahquil girò il lungo collo verso il cielo, e ciò che vide fu un cielo sconosciuto. Con un altro senso, che la sua esperienza umana traduceva come «vista», percepiva la presenza di energie che stagnavano in aria e al livello del suolo: campi di forza fatti di particelle infinitesimali rotanti lungo le stesse orbite, come perline infilate su un filo. In cielo tali energie andavano da un orizzonte all'altro, e formavano reticoli intorno a qualunque cosa. Erano di un colore che lei non aveva mai visto, un colore indescrivibile, e si torcevano come se fossero vive e senzienti. Oltre al loro fluire, avevano anche un moto meno evidente, e giravano intorno al mondo in senso antiorario. A volte in esse avvenivano rapidi cambiamenti, quasi che si aggiu-
stassero meglio. In certi posti, violente tempeste ne disturbavano gli schemi con travolgenti scariche. In alto, i campi di forza si estendevano per miglia oltre l'atmosfera, fino a incontrare una specie di vento che proveniva dal sole. In quello strato di aria rarefatta le particelle vibravano, intrappolate. Benché il polo non fosse visibile oltre l'orizzonte, nel cervello del cigno-umano era stampata la certezza che sulle calotte polari il vento del sole spingeva quelle particelle dentro l'atmosfera per creare l'aurora boreale e l'aurora australe. Lontanissime, le stelle mandavano fin lì radiazioni che penetravano nei flussi di energia. Le traiettorie di quelle correnti pulsavano nel cielo dandole un senso di affidabilità, come strade sicure. E in effetti erano strade, o piuttosto cartelli stradali. Servivano come guida agli esseri volanti nei loro viaggi intorno al mondo, anche sugli oceani dove mancavano i punti di riferimento della terraferma. Strutturate intorno al corpo sferico di Aia, che ruotava nello spazio, quelle forze garantivano a chi poteva percepirle che avrebbe sempre ritrovato la via di casa. Poi Tahquil allargò le ali. Istintivamente lasciò che il vento facesse presa su di esse. Il mantello l'aveva cambiata, o aveva cambiato il mondo. Non aveva bisogno che qualcuno le insegnasse a volare. Le ali batterono con forza. Un cigno nero si alzò in volo. Il mondo girava. Chiuso intorno a esso come una cintura, il Cerchio delle Tempeste shang ribolliva: un muro che separava Erith dalla sconosciuta metà settentrionale di Aia. Al di sopra, lenti flussi di energia elettromagnetica scintillavano delicatamente. Gli occhi del cigno-umano potevano captare non solo i campi magnetici, ma anche ogni forma di energia visibile o invisibile agli occhi dei mortali. Gli occhi del cigno, non allineati come quelli umani, guardavano lungo le ali e vedevano le forti penne lavorare come muscoli. Sotto le ali, visto dalla quota di duecento braccia, il Pianoro Alto dava l'impressione di essere molto più piatto di quanto non fosse in realtà. La fortezza sulla rupe aveva una curiosa prospettiva, perché le sue torri sembravano più larghe nel tratto superiore e più strette giù verso la base, tra l'intrico di tetti. L'uccello cambiaforma vide che a nord della fortezza si stava radunando una grande orda, pronta a mettersi in marcia. Vi erano battaglioni di guerrieri umani, mortali, che lei percepiva come rettangoli di calore rosso. Il
loro numero era scarso paragonato alle Legioni di Erith accampate sull'altro lato del Ponte di Terra, ma su entrambi i lati delle tende dei namarrani, fin tra le rocce e i cespugli, vi era una grande quantità di altre creature che risultavano visibili come larghe chiazze di colore grigiastro. Il loro non era un accampamento di tende e padiglioni; si trattava di wight di ogni specie, il cui unico tratto in comune era l'odio verso l'umanità. Alcuni tipi di wight - soprattutto gli hobyah e gli spriggan -stavano uniti in gruppo. Gli altri non avevano, in apparenza, nessuna disciplina e nessun capo. Tuttavia quell'orda informe e disordinata era diretta, in effetti, da un Comandante. Gli occhi acuti del cigno-umano percorsero quel vasto panorama. Vide un cavallo che galoppava veloce, verso la fortezza. Il cavaliere aveva lunghi capelli neri che svolazzavano al vento. Un altro individuo, appiedato, aveva afferrato la coda del cavallo e si faceva trascinare, correndo dietro di lui. A sud, bande di spriggan pattugliavano a passi rapidi il vertiginoso precipizio lungo il bordo dell'altopiano. In lontananza, i fumi vulcanici del Tapthartharath stagnavano nella parte bassa del cielo come una fascia di foschia sporca, a tratti illuminata da bagliori rossi. Ancora più lontano, a ovest, oltre le montagne, si scorgeva una linea di vaghi bagliori metallici che avrebbe potuto essere il mare, nella zona del Ponte di Terra di Nenian... ma non era il mare. Erano le armi e le armature di un altro esercito. Il vento era leggero, una culla per gli uccelli. Il cielo, con le sue rotte energetiche da seguire, era il territorio ignoto della libertà senza confini. Tuttavia le ali del cigno-umano, non abituate agli sforzi prolungati, cominciavano a stancarsi. Tahquil si voltò allora controvento, e si preparò a scendere. Il freddo impeto della corrente d'aria la sbilanciò, ma solo per un momento. Localizzò subito le zone d'aria dove un uccello poteva volare senza fatica, spiraleggiando giù tra le torri e i bastioni di Annath Gothallamor. Gli occhi del cigno-umano videro, senza comprenderla, una fantasiosa e complessa architettura stagliarsi contro il firmamento notturno. Foreste di torrette e pinnacoli sembravano sfidare le stelle, sorgendo da edifici troppo decorati: arcate sostenute da colonne realizzate a motivi floreali, finestre circolari sporgenti o rientrate che ornavano le facciate, finestre a più luci scolpite con una profusione di fiori di pietra. Le torri maggiori, rotonde, quadrate, esagonali, spesso erano unite alla base con edifici dall'aspetto poderoso, ornati da sculture grottesche. Animali di pietra sorreggevano gli architravi dei portoni, con effetto elegante e maestoso, mentre le grondaie
e gli scarichi erano a forma di bestie mostruose e feroci. Il cigno planò tra quelle scalinate e terrazze, riuscendo a sbirciare attraverso i vetri delle finestre. Ciò che vide furono vaste sale, piccole stanze, corridoi, scale interne e lunghe gallerie. Erano locali dal soffitto alto, e contenevano mobili, tendaggi, sottili colonne. Talvolta vide delle figure muoversi, quasi sempre armate. Il cigno-umano continuò a volteggiare, con le ali sempre più pesanti e affaticate. I piccoli arcieri wight che stazionavano sui bastioni e sulle torri lo videro, e parvero ignorare la sua presenza come se non fosse degna di nota. Di fronte a una grande finestra ad arco, l'animale si fermò, sbattendo le ali per stabilizzarsi, e cercò di guardare dentro. All'improvviso lo spavento s'impadronì di Tahquil, e la giovane sentì la presenza di un sole nero che sorgeva dal sud. Allontanandosi tra torrette e pinnacoli si accorse che tre figure alate si avvicinavano alla fortezza, e seppe che erano i Corvi di Guerra. Freneticamente il cigno girò un angolo, si trovò dinanzi una finestra rotonda dai bordi scolpiti come il rosone di una cappella, e di nuovo si avvicinò per guardare nell'interno. Ma, agitato com'era, sbatté contro i vetri. L'occupante della stanza si voltò, sorpreso dal rumore, ma non si mosse. Il cigno perse quota, cadde lungo l'esterno della torre, atterrò goffamente su un tetto e chiuse le ali. Mentre riposava, le penne si separarono dal suo sistema nervoso e dalla sua carne, trasformandosi di nuovo in un mantello che racchiudeva le sue spalle tremanti. I suoi bordi si agitarono nella corrente d'aria, come se volesse volare ancora. Dove il tetto sporgeva dalla parete della torre, vi erano due colonne scolpite a forma di uomini ammantellati che sorreggevano un terrazzo sulle spalle. Tahquil andò ad appoggiarsi al muro tra di essi, come una terza statua, e aspettò che le minacciose ombre dei tre Corvi scivolassero via, fredde e sepolcrali. Al loro passaggio gli arcieri sui bastioni si ritrassero al coperto. Con lunghe strida roche, i tre uccelli sparirono alla vista. Una piuma nera svolazzò verso il suolo. Nella scarsa luce di Notteterna, Tahquil rimase lì, paralizzata dall'indecisione. Come pezzi di seta nera, i pipistrelli entravano e uscivano dalle nicchie degli edifici. Su un lato del tetto, le tegole scendevano fino a una grondaia di piombo, da cui sporgevano grondoni neri a forma di rospi alati. D'un tratto, Tahquil si accorse che stava arrivando qualcuno, nascosto dagli alti camini e dagli abbaini. Prima di essere scoperta, scivolò giù fino alla grondaia, vi si aggrappò e si lasciò cadere sul tetto sottostante. Da lì si poteva andare soltanto verso una finestra, semiaperta, incorniciata da tralci di edera di pietra. Più in alto, i passi sul tetto si avvicinavano. Qualcuno
doveva aver sentito il rumore che lei aveva fatto cadendo sulle tegole. Per un attimo il pensiero di essere stata scoperta la terrorizzò al punto di toglierle le forze. Con uno sforzo mentale si costrinse a raggiungere la finestra e ad aprirla, attenta a non perdere il mantello. Salì sul davanzale, saltò dentro e atterrò su un pavimento di marmo. Col cuore in gola rimase lì, ascoltando i passi sulle tegole sopra di lei. Sembravano passi di piedi artigliati. Un corvo gracchiò. Poi tutto tornò immobilità e silenzio. Annath Gothallamor si chiuse intorno a Tahquil. 8 ANNATH GOTHALLAMOR, PARTE PRIMA LA FORTEZZA OSCURA
E gli eroi tutti, dove sono andati? Nel settentrione, sull'amara costa e poi verso il desertico pianoro che Pian della Battaglia fu chiamato per affrontar l'oscura orda del male là dove solo le stelle danno luce e il corvo le sue nere ali spalanca sui bastioni di Annath Gothallamor. Canzone che circolava per le strade di Caermelor Le stelle lucevano come diamanti in una miniera di carbone, dietro l'intricato reticolo dei vetri piombati. Appesa a una catenella dorata, una lampada di filigrana d'argento irradiava una fredda luce che parlava di gramarye... Sicuramente nessuna fiamma lorraly avrebbe bruciato dentro un simile oggetto. L'intrusa si fermò sul pianerottolo tra una rampa di scale diretta verso l'alto e un'altra che scendeva. La balaustra era a motivi floreali e trifogli di bronzo battuto. Lungo la parete esterna delle scale, sottili colonne di rame si curvavano graziosamente a sostenere il soffitto con di-
ramazioni complesse. Tahquil cominciò a salire. I suoi piedi producevano rumori lievissimi sugli scalini. Il mantello di penne li accarezzava in un sussurro. Nell'aria si respirava l'odore del gramarye. Al pianerottolo superiore, l'eccitazione e l'energia fornite dal mantello del cigno erano già svanite. Era stanca, come mai era stata stanca. Si costrinse a proseguire, ma la sua mente era così torpida che neppure lei riusciva a leggerla. Salì per tre piani; giunta al terzo, trovò una porta aperta. Si fermò sulla soglia per guardare nell'interno. Era una stanza non molto grande, a pianta circolare. Si trattava di quella con la finestra a rosone davanti alla quale si era fermata poco prima. Le pareti, tappezzate con pannelli di quercia, avevano numerose altre minuscole finestre dai vetri colorati, attraverso le quali entrava la luce delle stelle assumendo una polverosa sfumatura ametista. Vi erano però anche nove lampade dorate, ciascuna deposta su un piedistallo alto dieci piedi che sembrava d'oro massiccio; illuminavano un soffitto alto trenta piedi e fittamente scolpito con cornici floreali che circondavano motivi araldici. Sotto quelle fantasiose decorazioni, i mobili erano anch'essi in quercia, elaboratamente intagliati da artigiani di straordinaria abilità. Sopra un tavolo ottagonale dalle lucide gambe ricurve erano posti otto piccoli scaffali contenenti quaderni rilegati in pelle. Lì accanto stavano uno scrittoio con numerosi eleganti cassettini, un leggio a forma di torre con terrazza e balaustra, e una seggiola fatta a «X». In ogni angolo, nicchie dorate ospitavano urne di pietra, poste su piedistalli. E su un architrave a destra della finestra erano splendidamente incise sette parole: LA VERITÀ È COSÌ DIFFICILE DA TROVARE? Quella stessa parete, seminascosta da pesanti tende di velluto, era un'unica grande libreria, alta fino al soffitto. Era piena di volumi le cui costole formavano palizzate di pelle blu stampata in oro. Uno di quei volumi giaceva aperto sul leggio; l'occupante della camera distolse lo sguardo dalla pagina e si voltò di scatto. Due occhi neri si sbarrarono alla vista dell'intrusa. Tahquil fece tre passi nella stanza, protese le braccia avanti con un gesto accorato e cadde in ginocchio sulle mattonelle, scossa da un tremito. «Caitri», sussurrò, ancora a braccia tese. «Sei tu mortale, e fedele all'Impero?» la interrogò la fanciulla, con voce
querula, afferrandosi le pieghe della gonna incrostata di perle con nocche bianche per la tensione. «Sì, io lo sono... e tu?» «Sì!» Caitri s'inginocchiò davanti a Tahquil e la strinse tra le braccia, mormorandole parole rassicuranti in tono dolce come il tubare di una colomba. «Mia signora!» esclamò infine con voce carica di emozione. «Non riesco a credere di avervi ritrovata! Che gioia, vedervi! E che dolore, che sia qui in questo posto!» Si affrettò ad asciugarsi le lacrime, condusse Tahquil alla sedia e la fece sedere, poi prese una caraffa di cristallo e versò del vino in un calice ornato di zaffiri. Il vino era nero come notte liquida, e in esso palpitavano scintille d'argento simili a stelle affogate. «Avete il mantello di piume! Allora eravate voi l'uccello che ha sbattuto contro la finestra, il cigno selvatico!» disse Caitri. «Avrei dovuto farvi entrare, ma ho avuto paura. Voi state male! Sanno che siete qui? Io vi nasconderò, mi prenderò cura di voi finché non starete meglio. Poi volerete via.» Tra un sorso e l'altro di vino, Tahquil scosse il capo. «No, no!» «Tacete! Vi sentiranno. In questo posto, si viene ascoltati da cose che non avreste mai creduto capaci di farlo. Tacete! Ora dovete riposare.» Il vino stellato era senza dubbio potenziato dagli incantesimi che stagnavano nell'aria: forze preoccupanti che irradiavano dalle lampade e dai muri, impregnando i mobili di Annath Gothallamor, fino all'ultima imbottitura di seta dorata e all'ultimo chiodo degli sgabelli. La potenza di quella corrente attraversò le vene di Tahquil per giungere alle radici dei suoi capelli e alla punta dei piedi, rinfrescante come un fiume sceso dallo spazio siderale. Con la mente più lucida, fortificata, depose il calice e si guardò intorno. «Dov'è Viviana?» «Dorme, al piano di sotto.» «Sta bene?» «No... sì. Cioè, voglio dire, è viva, e la maligna nostalgia eldritch l'ha abbandonata, ma dorme in una specie di trance da cui non ho potuto svegliarla.» «Grazie al cielo, vi ho ritrovato! Siamo al sicuro qui? Possiamo sussurrare senza essere ascoltate?» «Andiamo a nasconderci dietro la tenda della libreria, nel caso che qual-
cuno metta dentro la testa.» Tahquil cominciò a fare domande. Un pezzo dopo l'altro, Caitri le raccontò l'intera storia. «Quando la Caccia ci catturò, ero certa che non ci avrebbero lasciato vivere a lungo. Ma quelle orribili creature ci scaricarono qui. Poi fummo portate davanti a lui.» «Lui chi?» «Morragan in persona, il Principe della Corona del Reame Fatato», disse Caitri, con una certa nervosa reverenza nel pronunciare quel nome. «Il Principe Corvo, del quale voi ci parlaste dopo che la memoria vi tornò, mentre ci allontanavamo dalle Torri della Caccia.» Tahquil deglutì un blocco di pietra. «E come si è comportato con voi?» «Siamo state interrogate... non dal Principe, ma in sua presenza. Lui non ci ha rivolto la parola direttamente, perché non eravamo degne di questo onore. Io non riuscivo a guardare la sua persona, ma neppure a distogliere lo sguardo del tutto... Non so dire dove guardassi, né cosa io abbia detto. Non mi ero mai sentita così in vita mia. Ero attirata da lui, ma anche terrorizzata, perché in lui c'è qualcosa di pericoloso.» «Ma non vi hanno fatto del male?» «Oh, no. Anzi, Viviana era in un tale stato di agitazione che 'miagolava e si agitava come una gatta in calore', per dirla con le parole di uno dei signori faêran che stavano lì. Così le hanno fatto qualcosa. Non so se sia stato un semplice gesto del Principe, o qualche altro incantesimo, ma all'improvviso lei si è azzittita e ha raddrizzato le spalle, poi si è inchinata, e ha ricominciato a comportarsi come la perfetta cameriera di Corte che io avevo conosciuto. Tutti i guai che aveva sono scomparsi, e ha potuto rispondere alle loro domande; io credo di aver fatto lo stesso. Poi, quando lui è stato soddisfatto, ci ha mandate via. Siamo state portate fuori di quella grande sala e semplicemente abbandonate.» «Spiegati meglio!» «La nostra scorta se n'è andata, lasciandoci lì ad aggirarci da sole nei corridoi, per le scale e nei cortili.» «Senza darvi nessun ordine? Senza mettervi limiti?» «No... sì. Cioè, nessun wight ci ha disturbato, anche se spesso li vedevamo passare nei corridoi, sparire dietro un angolo o giù per le scale. Però c'è qualcosa che ci tiene prigioniere qui... barriere che non possiamo vedere, ma c'impediscono di entrare in certi posti o di uscire all'esterno. Abbiamo vagabondato ovunque, cercando una via d'uscita. Quando parlava-
mo di mangiare, o di bere, nella stanza successiva dove entravamo vi era sempre del vino sul tavolo. Quando parlavamo di lavarci o fare il bagno, trovavamo vasche di acqua calda. E ci sono stati dati degli abiti da gran signora.» «E quando parlavate di andare via?» «Quando parlavamo di andare via... non trovavamo niente. Dopo qualche giorno, o settimana - non ho idea del tempo trascorso -, abbiamo cominciato a starcene sempre in questa torre, la Torre dell'Incrocio. Sembra la più stabile. Da ogni altra parte, nella fortezza, la pianta degli edifici è in continuo cambiamento: i muri spariscono, compare un nuovo corridoio, le stanze mutano forma e posizione. Una non riesce mai a capire dove si trova o come farà a tornare indietro... è troppo facile restare confuse. È stato così che un giorno Viviana si è perduta. Quando l'ho ritrovata, giaceva per terra e stava dormendo. Non sono riuscita a svegliarla. Due servi wight l'hanno presa e portata via. Io li ho seguiti. L'hanno deposta su un catafalco, nella grande sala al pianterreno di questa torre. Da allora è lì che dorme, con le mani unite sul petto. Ma respira, e le guance si arrossano se le pizzico, e le sue labbra si curvano, come se sorridesse dei suoi sogni. Temevo che lo stesso destino sarebbe occorso a me, ma ora siete arrivata voi!» «Ahimè, povera Via! E tu... come occupi le tue giornate, se giornate possono chiamarsi?» «In continua solitudine. Vado su e giù per le scale della torre, siedo accanto a Viviana, e a volte le sistemo una manica del vestito, o una ciocca di capelli. Crescono così in fretta, oltre il bordo del catafalco e fin sul pavimento. A volte glieli pettino col mio piccolo pettine di madreperla. A forza di lavaggi avevano già perso la tinta biondo-paglia, tornando castani. Ogni tanto mi ritiro in questa stanza e guardo le bellissime illustrazioni dei libri. Oppure osservo Notteterna dalla finestra, e mi perdo nei miei pensieri per ore e ore. Ma ho tanto desiderio di un po' di compagnia. Volete un altro bicchiere di vino?» «Grazie... no.» «Non abbiamo cibo, qui. Solo questo strano e delizioso vino. È una sostanza che sostiene come cibo solido e liquido insieme, e, nutrendosi di esso, non si hanno più certi...» - tossicchiò delicatamente - «bisogni corporali. E poiché quei bisogni corporali sono una caratteristica dei mortali, che i faêran non conoscono, qui alla fortezza non ci sono latrine. Se i wight hanno necessità di espletare i loro bisogni come le creature lorraly...»
«Continua, ti prego», la esortò Tahquil. «Sì. Se hanno questi bisogni, io non lo so, ma se li hanno provvedono a espletarli fuori delle mura di Annath Gothallamor, per non offendere i faêran. Qui non è mai freddo, né caldo. Uno può mettersi vestiti leggeri oppure pesanti, come gli pare. Spesso ho visto caminetti in cui brillano allegramente le fiamme, ma sono senza calore. E il legno che vi brucia è strano, perché non si consuma e non viene mai danneggiato dalla furia del fuoco. Ho visto cestoni colmi di fiori, di gioielli e di crani ardenti. Questo castello è grande e bizzarro, come una terra straniera.» «E lui... il Principe Morragan... l'hai visto, nei tuoi vagabondaggi?» «Dopo il nostro primo incontro, non ho visto mai più né lui né altri nobili e dame faêran. Ma ogni tanto odo della musica che echeggia nelle grandi sale, e frammenti di risa e di conversazioni. Quella musica mi commuove molto. Quando l'ascolto ho l'impressione che qualcosa di assai vero, qualcosa di bello e raro che stavo per afferrare, mi sia scivolato via tra le dita e non lo rivedrò mai più. Ogni nota mi colpisce il cuore e mi fa soffrire per la nostalgia.» Caitri abbassò la testa sul mantello di penne e chiuse gli occhi. «Caitri, mia dolce amica, sorellina mia», mormorò Tahquil. «Non essere triste. Io sono venuta a salvarti.» La fronte della fanciulla si corrugò un momento, poi si rasserenò. Tahquil disse ancora: «Quanto puoi avvicinarti a un'uscita, prima che queste barriere di gramarye ti proibiscano il passaggio?» «Al pianterreno, nella sala dove dorme Viviana, le pareti sono rivestite di grandi arazzi ricamati. Lungo una parete ce ne sono quattro che raffigurano le stagioni dell'anno. Dietro quello dell'inverno, nel muro di pietra c'è una fessura. Una volta ho notato che l'arazzo si muoveva, come se una corrente d'aria lo scuotesse. Guardandoci dietro ho visto una porta che si apriva nel buio, alta dieci o dodici piedi e larga quattro. Lì non ho sentito alcun muro di pressione che mi spingesse indietro, niente che m'impedisse di entrare. Ma l'aria che ne usciva era gelida, e non ho osato avventurarmi in quel buio. Forse conduce fuori, forse no, ma in quell'aria fredda ho sentito odore di foglie e di bosco. Passando presso l'arazzo dell'inverno mi è parso, a volte, di udire fioche grida oltre il muro, e un suono di campanelle.» «Bisogna che veda io stessa.» «Ma, mia signora, come pensavate di salvarci?» «Proprio ora, i nostri tre compagni eldritch si stanno affrettando verso
Annath Gothallamor. Può darsi, in effetti, che siano già qui. Loro entreranno facilmente, senza che nessuno li fermi, e mi cercheranno, cercheranno noi, nei meandri di questo maniero.» «Ma come ci troveranno?» «Tu hai visto il mantello di penne che ho sulle spalle. Whithiue è stata generosa, ma non avrà pace finché non sarà riuscita a recuperarlo. Non dubitare: anche tra queste correnti di gramarye lei sarà attirata dal mantello. Poi Tighnacomaire ci porterà via sulla sua groppa, non appena troveremo una via d'uscita attraverso la barriera di cui hai parlato, che imprigiona i mortali. Quell'apertura dietro l'arazzo dell'inverno sembra promettente.» Caitri annuì, pensosa. «È una buona prospettiva. Spero che si possa realizzare.» Inclinò la testa di lato. «I vostri capelli sono d'oro alla radice, mia signora. Da questo, e dal vostro viso e dal vostro odore, quelli che vi cercano potranno senz'altro riconoscervi.» «Il mantello di penne confonde il mio odore, e penso di poterlo usare per mascherarmi il viso affinché mi prendano per una ragazza-cigno. Ma vorrei che tu mi aiutassi a tingere i capelli, prima di lasciare questa stanza. Ho visto un calamaio, su quello scrittoio. Il suo contenuto dovrebbe bastare. È importante che nessuno mi riconosca, qui. L'odore del mantello ingannerà il naso dei wight, ma le radici dei capelli biondi mi tradirebbero di certo.» Caitri riuscì a fare il lavoro senza sporcare in giro, e in breve tempo i capelli furono di nuovo neri. Mentre se li asciugava davanti a una finestra aperta, Tahquil guardò fuori e vide, molto più in basso, un cavallo con una figura in groppa entrare dal portone esterno della fortezza, seguito da un'altra figura appiedata che correva. «Prego il cielo che quelli siano Tighnacomaire e Whithiue», mormorò, con fervore. «E quello che li seguiva di corsa... potrei sbagliarmi, ma potrebbe essere il fedele Tully. Vieni, sorellina, conducimi giù nella grande sala, prima che qualcuno ci scopra e mandi all'aria le nostre speranze.» Come lo scheletro capovolto di un enorme vascello, le travi che sostenevano il soffitto della grande sala s'incurvavano fino a centoventi piedi dal pavimento. Tutte le travi più grandi, di quercia bianca, erano scolpite con una quantità di piccoli uomini e donne forniti di ali, che sembravano sul punto di gettarsi in volo attraverso il vasto golfo interno. Snelle colonne di bronzo, riunite in gruppi di sei, sostenevano il sistema di travature del soffitto, dal quale pendevano elaborati candelieri di alabastro. Sotto gli stucchi rappresentanti grappoli d'uva che correvano lungo la fascia superiore
delle pareti, erano appesi lunghi arazzi tessuti d'oro. Il pavimento era un mosaico di piastrelle, nel quale si vedevano cervi, lupi, uccelli, e fiori multicolori. Viviana giaceva immobile, come Caitri aveva detto, su un catafalco di marmo riccamente scolpito. I suoi capelli, scostati di lato, ricadevano fino al suolo come un drappo di seta marrone. Era vestita con un lungo abito azzurro dai bordi di broccato, una blusa di seta bianca ricamata di stelle, e una cintura di piastre d'avorio. Ai piedi aveva pantofole gialle lucide come il quarzo. «Cara Viviana», sussurrò Tahquil. Si piegò a baciarle la fronte e la sentì calda, viva. La scrutò nella speranza di vedere una reazione, un fremito delle palpebre o delle guance rosate come mele, ma non vi fu nulla. Per un poco indugiò, stringendo una mano della giovane cameriera, finché Caitri non la avvertì: «È pericoloso rimanere qui!» Corsero insieme verso l'arazzo dell'inverno. Stavano per arrivarci quando un angolo del pesante tessuto fu agitato da una corrente d'aria. Le due ragazze furono colpite da quell'alito gelido. Tahquil scostò l'arazzo e mise allo scoperto una porta rettangolare, nella parete retrostante. All'improvviso la corrente d'aria invertì la direzione, e l'arazzo fu risucchiato con tale violenza che per poco Tahquil non cadde. «Arriva qualcuno!» ansimò Caitri, e si schiacciò con lei tra l'arazzo e il muro, mentre un gruppo di piccole figure grigie dall'andatura non umana passava davanti a una porta sul lato opposto della sala. «Qui non siamo al sicuro», decise Tahquil, non appena i trow si furono allontanati. «Torniamo di sopra, nella stanza dei libri.» Le due compagne s'incamminarono verso la porta più vicina, ma un confuso scalpiccio nel corridoio le costrinse a tornare indietro. Si nascosero in modo assai precario dietro un gruppo di sei sottili colonne, trattenendo il fiato per la tensione. Lo scalpiccio, un rumore come di zoccoli sulle mattonelle di ceramica, s'interruppe, poi ricominciò. Un'ombra disumana attraversò la soglia. Nella memoria di Tahquil si accese il lampo del riconoscimento. Gli zoccoli risuonarono sulle piastrelle del mosaico. Tighnacomaire entrò nella sala, con Whithiue al suo fianco. La ragazza-cigno mandò un grido e corse verso le altre due. «È intatto! È intatto!» esclamò. «Sì, prendilo.» Per nulla meravigliata che la ragazza-cigno si preoccupasse solo delle condizioni del mantello, Tahquil si rassegnò all'idea di restituirlo alla proprietaria. Era un sollievo liberarsi dall'obbligo di averne
cura; d'altra parte ciò significava che non avrebbe potuto usarlo, se fosse stato necessario per fuggire in volo. Un istante prima di toglierselo di dosso esitò. Quali incantesimi potevano essere all'opera lì ad Annath Gothallamor? «Tu ti chiami Whithiue?» domandò. «È vero. Il cigno è così chiamato.» «Allora il mantello è tuo», annuì Tahquil, accantonando i suoi sospetti. «Tighnacomaire, devi prenderci in groppa, in questo stesso istante. Ho paura che stiano per scoprirci. Ma Viviana non può essere svegliata... Cosa possiamo fare?» Nel frattempo, anche l'urisk era arrivato. Senza esitare corse accanto al catafalco, e mormorò un incantesimo accompagnato da una serie di brevi gesti magici, lo stesso semplice rimedio casalingo con cui aveva rianimato Tahquil quando per poco non era affogata. Viviana alzò un braccio e si girò di fianco. Per sua fortuna, Tully era da quella parte e la fermò prima che cadesse. La cameriera sorrise, insonnolita. «Ho dormito?» «Non c'è tempo per le spiegazioni», disse Tahquil, che nel vederla muoversi aveva mandato un grido di gioia. «Presto, Viviana... sali sul cavallo. Caitri e io monteremo dietro di te, quando la sua groppa si allungherà. Tighnacomaire, se non puoi trovare un'uscita per noi mortali, prova dal passaggio segreto che c'è dietro quell'arazzo laggiù.» Dal corridoio provennero echi di voci stridule. Qualcuno stava gridando ordini concitati. Una porta sbatté a qualche distanza, poi risuonò un rumore di passi cadenzati in rapido avvicinamento. «Ehi, c'è anche Tiggy», si compiacque Viviana con un sorriso, del tutto inconsapevole del pericolo. «Salve, amico.» Il cavallo d'acqua piegò le zampe anteriori inchinandosi davanti a lei. «Quanto sei galante», disse la cameriera. «È un piacere rivederti... oh!» Le mani robuste di Tully la issarono sulla groppa di Tighnacomaire. La rumorosa truppa che stava arrivando era sempre più vicina, e il nygel cominciò a scalpitare per la paura di essere scoperto. «Ci prenderanno! Gli spriggan ci faranno pentire di essere venuti qui ad aiutarti!» esclamò roteando gli occhi. «Salite su di me, salite!» Viviana comprese finalmente il pericolo e si piegò verso Caitri. Le loro mani si unirono. «Salta su, mentre io ti sollevo», gridò Viviana. Ma l'altra non si era an-
cor mossa che una cacofonia di urla esplose nel corridoio esterno, così oscene e spaventose da dare gli incubi. Quell'onda sonora dilagò nella sala degli arazzi come un tornado che fece tremare i mobili e le pareti, ribollendo di sete di sangue, voglia di vendetta e trionfante ferocia. Tighnacomaire indietreggiò. Fu appena un accenno di movimenti - i suoi zoccoli si spostarono di un palmo - ma bastò perché Caitri scivolasse al suolo, e Viviana perse la presa sulle sue mani. In quell'istante un vortice di malvagità, aggressività e follia proruppe nella sala, su zoccoli e talloni artigliati, ali da pipistrello e larghi piedi piatti. «Fuggi, Tiggy. Fuggi!» gridò disperatamente Tahquil. Gli zoccoli risuonarono, le ali sbatterono. Il cigno prese il volo negli ampi spazi tra le colonne e le travi di sostegno. Il grande rettangolo di stoffa rigida appeso al muro si scosse. Il cavallo, terrorizzato, si gettò d'impeto nella fredda corrente d'aria che entrava nella stanza. Un momento dopo era scomparso nel buio, portandosi Viviana sulla groppa. Caitri si rialzò dal pavimento e si guardò intorno. Insieme con Tahquil e Tully, era al centro di un circolo di wight armati fino ai denti, un'orda animalesca dagli occhi pieni di feroce ostilità. Uno di essi stava appartato, e Caitri sentì un brivido di disgusto quando lo guardò. Era piccolo di statura, solido e segaligno come un arbusto, e indossava indumenti color marrone i cui bordi erano sagomati come i petali della radicchiella. Dentro le sue maniche si agitavano piccoli e inquieti ratti, e dal mento simile a un fungo informe gli pendeva una rada barbetta caprina. La sua faccia era l'immagine stessa della malignità incapace di rimorsi, e aveva uno sguardo di trionfo che diede a Caitri una stretta al cuore. Era stato lui a urlare gli ordini alla truppa, con voce stridula e bestiale. Le labbra del wight si torsero in un sogghigno. «E così c'incontriamo di nuovo, erithbunden?» ringhiò. Un ratto gli corse su per un braccio. «Yallery Brown», disse Tahquil con voce spenta. «Proprio io, erithbunden, proprio io. Lunga la caccia, ma dolce la conclusione. Spia, origliatrice, ladra di segreti... sappiamo che tu conosci la via del ritorno nel Reame, e ora dirai dov'è, e lo dirai spontaneamente. Poi, che tu l'abbia detto o no, pagherai il prezzo della tua falsità.» Tahquil non vide nessuna via di uscita a quella situazione. «Se questo è ciò che volete, va bene», replicò. «Ma lasciate andare i miei compagni. Loro non hanno fatto niente di male.» «L'esca, la servetta di Lord Vallentyne di Cinnarine, ha il permesso di andarsene in groppa al nygel... ma quello non sarà il destino di costei»,
affermò Yallery Brown puntando un dito ossuto verso Caitri, «né il tuo. In quanto all'urisk, anche lui come il nygel conta meno di una mosca, e forse sarà schiacciato o forse no.» In quel momento una voce chiara parlò dalla porta, in tono autoritario. Subito il gruppo di wight uscì e tornò ai suoi compiti, allontanandosi in fretta nel corridoio... salvo Yallery Brown, che si limitò a farsi rispettosamente da parte. In sala erano entrati tre nobili faêran. Le loro fattezze, di un'incorruttibile bellezza, emanavano una luce regale. I loro capelli, ornati da coroncine d'argento, sembravano immuni dalla gravità, e fluttuavano intorno alla testa sostenuti da un'energia gramarye, quasi fossero immersi nell'acqua limpidissima di un lago. La stessa forza sollevava i bordi dei loro preziosi abiti scuri, che davano l'impressione di essere in preda a un vento di tempesta. «Ashalind na Pendran», disse il più alto dei tre, quello che aveva già parlato. Nel tono in cui pronunciò il suo nome, e nello sguardo con cui tutti e tre la stavano fissando, Tahquil-Ashalind sentì la prepotenza del loro desiderio. La conoscevano. Lei rappresentava la loro unica e travolgente speranza, la chiave senza prezzo, la lampada che illuminava la notte della loro disperazione. Lei era la sola che avrebbe potuto offrire la via del ritorno a casa agli esiliati. «Lord Iltarien ti saluta», continuò l'alto nobile faêran, rivolgendole un inchino alquanto sarcastico. «Vi prego di rilasciare i miei amici», ripeté lei. «Loro non sanno nulla di questa faccenda.» «Quelli che sono qui, qui restano.» «So cosa volete da me. Sì, io sono tornata in Erith dopo la Chiusura. Sono tornata attraverso una porta, ma non ricordo dove si trova. Se i faêran l'hanno cercata senza trovarla, che possibilità ho di trovarla io?» Lord Iltarien si scurì in volto. «Seguitemi», ordinò, girando sui tacchi. E Tahquil-Ashalind, con Caitri al fianco e la maligna presenza di Yallery Brown alle spalle, dovette seguirlo. Ma Tully fu lasciato indietro perché le misteriose arti dei faêran gli impedirono di lasciare la sala. Nell'attraversare gli eleganti corridoi di Annath Gothallamor, le due mortali non riuscirono a capire se stessero camminando con le loro gambe o se fossero trascinate senza sfiorare la pavimentazione. Intorno a loro fluttuavano ombre sottomarine, balenavano luci, palpitavano stelle. Il gra-
marye era così denso da impregnare l'aria, e crepitava tra le loro dita come se stessero afferrando manciate di scintille. Dopo aver salito uno scalone di ametista, giunsero in un'ala dell'edificio dove le pareti e il tetto erano più trasparenti del cristallo. Attraverso quelle mura brillavano le stelle di Darke. O forse non vi erano affatto mura... ai faêran non piacevano i luoghi chiusi. E infatti, mentre le mortali si avvicinavano con la loro scorta, sentirono che un odore di pini e di pioggia saturava quella stanza spettrale, quella pineta, quella prigione, o qualsiasi cosa fosse. I tre lord faêran si fermarono sulla soglia. «Voi entrate», ingiunse Iltarien. Le due ragazze andarono avanti da sole, e la porta si chiuse alle loro spalle. Lui sedeva da solo nella stanza, dando le spalle all'ingresso. Nel sentire i loro passi si alzò, voltandosi. Caitri vacillò e si portò le mani alla bocca, con un grido. Nel vederlo, Ashalind restò paralizzata, colta da un gelido shock. E tuttavia non era paura o apprensione ciò che provava, ma piuttosto una raffica di vento invernale, o il getto di acqua fredda che risveglia un inquieto dormiente. Sbalordita, in equilibrio tra la gioia e il terrore, non riuscì ad aprir bocca. Gli occhi di lui erano grigi come le nubi colme di pioggia. Il suo volto aveva la luce e il calore di un raggio di sole. «Thorn...» Ashalind si fermò a un passo di distanza, affogando nell'estasi della sua vicinanza, avida di guardarlo e di essere guardata. L'indecisione la attanagliava... Voleva toccarlo, e non osava per timore che si rivelasse un fantasma. Ma il sorriso di lui era dolce, comprensivo. «Parlami, mia cara», le disse, con la voce bassa e melodiosa che lei conosceva così bene. «Ahimè», mormorò lei. «Hanno fatto prigioniero anche te!» «Prigioniero?» Lui le posò una mano su un polso, un contatto gentile, che però la scaldò come una fiamma. Sorrise, osservandola in modo curioso e insondabile. «Sei davvero la più deliziosa tra le ragazze.» «Oh, mio Thorn, ho avuto bisogno di te come l'albero ha bisogno dell'acqua! Che gioia rivederti! Ma... quanto è amaro che il nostro incontro avvenga qui, in questa prigione!» Lui scosse il capo, con un sospiro. «Anche se il tuo amore lo vorrebbe, esso non basta a farci andare via da qui. Una sola cosa può ottenere questo:
dimmi dove si trova l'ultima Porta di Faêrie, e come la si può aprire, se pure è possibile.» «Vedo che ti hanno già informato della mia storia, amore, anche se non credo che abbiano scoperto tutta la verità. Vorrei poterti descrivere la zona della Porta. Io so solo che si trova da qualche parte in Arcdur, e che soltanto la mia mano la può aprire. Vorrei poter mandare Morragan e tutti i suoi simili attraverso di essa, e liberare Erith per sempre da quella gente.» «Sei molto ostile ai faêran.» «Quale mortale non lo sarebbe? Loro ci opprimono e giocano con noi, c'ingannano, ci tentano... per i Fatati, noi non siamo che giocattoli da gettare da parte quando sono rotti. La loro crudeltà e indifferenza non ha freni. In tutta sincerità, mio amore, se potessi ricordare dov'è la Porta, te lo direi. Ma nel passare da quella Porta io dovetti sottostare al bitterbynde, l'incantesimo che mi fece perdere la memoria, fino al giorno in cui non ritrovai questo bracciale che ora ho al polso. Nel solo vederlo, la serratura della mia mente si aprì, ma neppure allora la memoria mi fu del tutto restituita. E anche se riuscissi a ricordare dove si trova la Porta, niente garantisce che essa si trovi ancora là, perché è una Porta Vagante.» Lui la prese tra le braccia, e l'emozione fu tale che per poco Ashalind non svenne. Sotto il velluto azzurro della sua blusa, le braccia di lui erano forti come l'acciaio. «Vagante o no, è certo rimasta dove tu l'hai vista l'ultima volta. Devi ricordare», insistette. «E se tu mi ami, ci riuscirai.» Il torrente dei suoi capelli neri cadde su di lei e li avvolse entrambi come una tenda. Ashalind alzò una mano e v'immerse le dita. I battiti del cuore la riempivano come il tambureggiare sotterraneo del Tapthartharath, facendola fremere in ogni cellula del corpo. Qualcosa s'impadronì di lei... qualcosa come gli aneliti del langothe, una fame così terribile che nulla l'avrebbe saziata, e desiderò ardentemente i suoi baci, che almeno potevano lenire quell'agonia. «La tua passione è un dolce tiranno, in questo incontro», mormorò lui. «Perché dovremmo negarlo?» Lei alzò lo sguardo al suo colletto ricamato, aperto, che al centro lasciava scoperta la base del collo, e poi più su, alla curva mascolina della gola. I suoi occhi seguivano ogni dettaglio, dalla linea scolpita della mandibola, appena ombreggiata di barba scura come i suoi capelli, agli zigomi cesellati di un volto così bello che nessuna donna avrebbe potuto guardarlo senza provare un tuffo al cuore.
«Non sospirare più, uccellino mio. Ora mi avrai per te finché vorrai, e ancor di più», disse lui in tono divertito. «Voglio dedicare il mio tempo a godermi sino in fondo la tua presenza.» La prese in braccio, come se fosse una bambina, e la depose sul divano imbottito di seta rosa. La sua maschia bellezza la incantava. I pensieri di lei erano concentrati sulla sua vicinanza, escludendo qualsiasi altra cosa. La luce delle stelle scivolava lungo i capelli di lui tingendoli della luce azzurrina della sera, mentre l'uomo si slacciava il cinturone con le dita forti e lo gettava da parte. Il fodero incrostato di gemme della daga colpì le mattonelle col suono di una campanella, e lei fu assalita dal ricordo della mano di lui sul suo polso, pochi momenti prima. Ashalind balzò in piedi, afferrando il tilhal che le pendeva dal collo. La catenina di ferro si ruppe, e il tilhal di foglie di giada cadde al suolo. Le sue mani corsero alla fibbia della cintura e la slacciarono. Caitri, del tutto dimenticata, sedeva con aria smarrita al capo opposto della stanza. Imbarazzata dall'intimità dei due amanti di cui era involontaria testimone, si era coperta gli occhi con una mano, ma quei rumori e quei movimenti improvvisi la costrinsero a guardare di nuovo. «Mio signore...» Ashalind deglutì e respirò a fondo un paio di volte. «Vedo che tu porti una daga. Perché mai i nostri catturatori consentono a un prigioniero di restare armato?» Una brezza più energica soffiò in quel luogo aperto. «I faêran non temono le lame dei mortali», rispose lui con calma, guardandola negli occhi. «Il mio signore portava la daga sul lato sinistro. Come poteva estrarla, se non con la mano destra?» Lui sorrise. Il sorriso di un lupo bianco. Ashalind sentì un brivido nella schiena. «Chi siete voi?» Caitri apparve al suo fianco. «Signora, cosa state dicendo?» esclamò, prendendola per una manica. «Vostra Maestà, vi prego, non badatele. La mia signora è confusa...» Ashalind la spinse via. «Chi siete voi?» «Non mi riconosci, Elindor?» I lineamenti di lui mutarono un poco. Qualunque cosa fosse cambiata, non fu molto. Ma bastò. «No!» Sgomenta, Ashalind scosse il capo con forza. «No!» Invece era vero. Non era Thorn, fermo davanti a lei - né, come per un istante aveva temuto, il ganconer Vallentyne di Cinnarine -, e la giovane
divenne pallida come un giglio. «Pronuncia il mio nome», ordinò lui. Le lacrime pungevano come vespe gli occhi di Ashalind. «Dillo», ripeté lui. «Morragan.» «Con quanta tenerezza le labbra di una donna plasmano il nome del suo primo amore.» «Voi sbagliate, signore. Io non vi ho mai amato.» Lui la guardò con aria saputa, derisoria. «Ogni volta hai cercato con grandi sforzi e impegno di vedermi, nelle mie dimore... due volte a Carnconnor, una volta alle Torri della Caccia, e ora qui a Gothallamor. In ogni occasione sei venuta dinanzi a me vestita di stracci. Vedo che in questa visita non ci sono miglioramenti. Non potevi fare di meglio? Potrei considerarti con maggiore interesse, se ti presentassi con abiti adeguati. Devi darti da fare con più arte, se vuoi ottenere i miei favori.» «Io non vi ho mai cercato per amore.» «Non hai forse deciso di lasciare il Reame per seguirmi nel mio esilio? Tu fingi il contrario, ovviamente, com'è appropriato per una casta damigella, ma le tue azioni proclamano ciò che non osi dire a voce. Sembra proprio che tu non riesca a stare lontana da me.» Un dubbio cominciò a pungere Ashalind, e col dubbio l'orrore. In quelle affermazioni sembrava esserci un seme di verità, ma com'era possibile? Di nuovo ripeté, con minor convinzione: «Voi sbagliate». Freddo, calcolatore, lui osservò: «Dovrai imparare a conoscere la tua stessa mente. Fai in modo che sia presto, o mi stancherò della novità che tu rappresenti e, quando verrai a supplicarmi, ti scaccerò. Tu sei soltanto una mortale, attesa dal decadimento fisico. Molte donne, meno effimere di te, agognano i miei favori». «Favorisci loro!» osò rispondere lei. Le pareti, se pareti erano, crepitarono. Vene di fiamma argentea vi si arrampicarono. Morragan accarezzò una guancia di Ashalind, le passò le dita tra i capelli, ne strinse una manciata. Lei resistette al dolore, rifiutando di gridare. «Io ho il ferro freddo!» esclamò, afferrando la fibbia della sua cintura. «Lasciami, o ti brucerò!» Lui rise. Le strappò la fibbia dalle dita prive di forza, e tenne il piccolo oggetto di ferro luccicante sul suo palmo. Poi chiuse le dita intorno a esso e, quando le riaprì, apparve soltanto un mucchietto di ruggine rossa, che il
vento spazzò via. Ashalind impallidì. «Ti abbassi a questo, ora?» ansimò. «Un Principe faêran che violenta una mortale? Dov'è il tuo orgoglio?» «Potrei costringerti facilmente a servire i miei piaceri.» La risata di lui era bassa, il ruggito di un leone. «E intendo farlo, anche se non nel modo che immagini tu. Se fosse l'orgoglio a fermarmi, sciocca creatura, dovresti rattristarti, e per una sola ragione... perché starei rimandando la più dolce deflorazione che una donna mortale abbia mai conosciuto. Ma se fosse il mio sdegno a impedirmi di sprecare tempo con un'ignorante femmina umana, allora renditi conto del tuo stato e augurati di migliorare, per potermi compiacere.» La lasciò andare. «Vai, ora», ordinò seccamente il Principe faêran, stagliato contro uno sfondo di stelle e fuoco freddo. «Ripulisciti e vestiti come si conviene a una mia ospite, perché mia ospite rimarrai finché non troverai quella Porta per me. Così com'è certo che l'acqua scorre e che i gioielli illuminano la tua effimera bellezza, puoi essere certa che quello che dico sarà fatto.» La confusione stringeva Ashalind in una rete d'incertezza. Le fiamme che si alzavano dal pavimento al soffitto bruciavano in silenzio, lingue di luce lunare. Un'improvvisa rivelazione le balenò alla mente, una rivelazione i cui aspetti sorprendenti la sbalordivano e che le stava facendo dimenticare ogni altra cosa. La sua nostalgia di Thorn le aveva giocato un brutto scherzo, così come la disperazione e la calura di un deserto possono costruire miraggi per gli occhi dell'assetato. Il viandante che vaga per quella desolazione non solo vede realmente quello che non c'è ma vi mette la forma di ciò che desidera. Alcuni dettagli parziali bastano perché il cervello costruisca sopra di essi... finché l'illusione dell'acqua fresca non si rivela per una manciata di sabbia. Poi il velo del miraggio viene crudelmente strappato via. Nel riconoscere il Principe Corvo, Ashalind aveva perso, ma nello stesso tempo anche ritrovato, il suo Thorn. L'eccitazione le risollevò il morale. Ma parlare con un Thorn che non era Thorn, era un tradimento? Abbassò le palpebre, sperando che Morragan non avesse intuito quei suoi pensieri... speranza che, come sapeva, era inutile. Il Principe aveva letto la sua agonia come in un libro stampato. La stava fissando con un sorrisetto derisorio. Prima di quell'incontro, il ricordo dei lineamenti facciali del Principe era stato assai vago nella memoria di Ashalind, perduto con l'immagine della Porta e altre elusive immagini. Alla luce del ricordo, in quel momento, un
pensiero la tormentava. Un'altra domanda esigeva una risposta. L'interno della camera era in marmo rosa e pietra, con un soffitto a volta le cui arcate erano sorrette da alberi di legno vivo. I triangoli in cui le costolature dei rami fronzuti dividevano il soffitto erano dipinti con ghirlande di rose. Le finestre a due luci, fornite di una colonnetta centrale in pietra, e con le doppie tende di velluto e seta aperte, lasciavano cadere la luce delle stelle sulle mattonelle azzurre e oro del pavimento. I muri erano coperti da pannelli di acero chiaro scolpiti a motivi floreali. Tutti i mobili erano in quercia: uno scrittoio intarsiato d'avorio, l'armadio, il cassettone, un tavolo largo e pesante, un tavolino, le sedie delicatamente intagliate, un divano, un paravento, gli sgabelli e i piccoli scaffali. Su un'angoliera di mogano, con inserti di madreperla e di specchio, era deposta una caraffa di vino. Massicci candelieri di ottone sostenevano candele su cui ardevano fiammelle d'argento. L'acqua usciva da tre fontane a muro, in tre getti che s'inarcavano come collane di diamanti precipitando nella vasca di porfido. Da quella limpida polla il liquido defluiva nello scarico, rinnovandosi di continuo. I tre getti avevano diametri diversi e producevano rumori diversi, cristallini e gradevoli, che mescolandosi costruivano un melodioso sottofondo di suoni. Gli alberi che fungevano da colonne di sostegno erano querce, i cui rami non si limitavano a fungere da travature per il soffitto ma producevano anche piccole foglie verdi e bronzee. Rimaste sole, Ashalind e Caitri si aggirarono sotto quegli alberi. «È una cosa alla quale non avevo mai pensato», mormorò Ashalind. «Quanto è strano. Forse è un effetto dovuto al bitterbynde, l'incantesimo della Geata Poeg na Déanainn... un ritorno della memoria incompleto. La prima volta che vidi Thorn, non mi resi conto della somiglianza. Avevo dimenticato tutto, compresa la faccia di Morragan, il Fithiach di Carnconnor. Più tardi ripresi possesso della maggior parte della memoria che mi era stata rubata dal bacio di quel cagnolino, subito dopo la mia fuga dalle Torri della Caccia. Comunque sia, tre aspetti della mia vita precedente restarono avvolti nella nebbia. Primo: la posizione della Porta. Secondo: il motivo per cui decisi all'ultimo momento di uscire dal Reame Fatato, lasciando laggiù amici e parenti, per sopportare il langothe in Erith. Terzo: la faccia di Morragan, il Principe dei Corvi. Quando l'ho rivisto, poco fa rivisto davvero con occhi non annebbiati dalla nostalgia per l'uomo che amo -, quella nebbia si è sciolta. Ma prima, per qualche minuto, l'avevo
scambiato per Thorn, e sono così simili che potrei scambiarlo per lui anche adesso. Come può un mortale somigliare tanto a un faêran, di animo così diverso dal suo? Questo mi ha sconvolto al punto di pensare, anche se è incredibile, che siano... fratelli.» La parola faticò a uscirle di bocca. «Sciocchezze», replicò Caitri. «Il Principe Corvo sì è rivestito di un incantesimo, per farci credere di essere Sua Maestà.» «No. Dimentichi che i faêran non possono mentire. Lui ha visto che io lo scambiavo per Thorn e ha lasciato che il malinteso continuasse, ma non ha mai detto di essere lui. E quando io ho capito che era Morragan, non lo ha negato. Solo ora posso ricordare la sua faccia, come la vidi nelle sale di Carnconnor.» «Ma voi state dicendo che il Re-Imperatore era un impostore? Che non era James della dinastia D'Armancourt?» «Io ho nascosto a Thorn molti segreti», continuò Ashalind, parlando più a se' stessa che all'amica. «E lui ne ha nascosto molti a me. Sì, lui era... lui è un impostore. E quanto a questo devo ringraziarne il cielo, perché il mio amato è immortale. Lui è vivo, e io non posso cessare di amarlo, ma allo stesso tempo odio la razza faêran, di cui fa parte. Sì, lui mi ha ingannata e offesa, perché sono stata la pedina del suo gioco... e, peggio ancora, perché continuo ad amarlo anche dopo aver capito la verità. Il Re-Imperatore di Erith, colui che io conobbi come Thorn, altri non è che il fratello maggiore di Morragan: Angavar, Re dei faêran.» Le lacrime scivolavano sul suo bel viso come nastri di vetro. «Impossibile», obiettò ancora Caitri. «La nascita di Sua Maestà è avvenuta in pubblico, come tutte le nascite reali. Ed è stato allevato dinanzi agli occhi di tutti, come ogni erede al trono.» «Io non so quando e come sia avvenuta la sostituzione. So solo che c'è poco che i faêran non possano fare, se lo vogliono.» In Ashalind tornò, come un contraccolpo emotivo, la constatazione che Thorn era vivo, e che non sarebbe mai morto. La gioia e la sofferenza si scontrarono come due mondi nel vuoto dello spazio. Le due ragazze si lasciarono cadere su un divano e piansero finché non ebbero più lacrime. Più tardi, mentre gli ipnotici fumi del sonno le saturavano il cervello, Ashalind mormorò: «Spero con tutto il cuore che Viviana sia riuscita a fuggire». Ma le ciglia di Caitri erano già chiuse, come due mezzelune di scuro cinabro, e il suo respiro era lento e regolare. Non era facile conservare la sensazione del tempo a Darke, dove i giorni non scorrevano, e neppure le stagioni differivano molto l'una dall'altra.
Quando Ashalind e Caitri si svegliarono, la camera appariva immutata, e l'unica novità erano gli eleganti abiti appesi a un albero. Per Caitri, un abito a gonna color uovo di pernice, un giustacuore di velluto azzurro ornato di nastri bianchi, un filo di perle, un mantello con l'orlo di taffettà e un cappellino di tessuto argenteo, con spille di perle e ciuffo di piume di ibis. Per Ashalind, un abito di seta dorata con le maniche strette che le coprivano anche il dorso delle mani, una blusetta di velluto blu ricamato in oro e chiusa da una cintura di zaffiri, e un mantello dello stesso tessuto, ricamato a gigli d'oro e con uno spesso orlo di seta. Il tutto era completato da una collana di perle a torciglione e da un cappellino in tessuto dorato con velo argenteo, che le copriva i capelli tinti con l'inchiostro e le scendeva fino ai fianchi. Le due ragazze esaminarono gli abiti e gli accessori, ma non li indossarono. «Non mi va di fare il bagno e spogliarmi in questo posto», disse Caitri. «Ho l'impressione di essere spiata da molti occhi.» Andarono alla fontana e si lavarono le mani e il viso. L'uccello bianco inciso sul bracciale d'oro di Ashalind sembrava svolazzare tristemente. «Come io sia riuscita a tenere con me questo regalo di mio padre, durante tutte le peripezie degli ultimi mesi, non lo so proprio», sospirò. «È l'unico gioiello che per me vale qualcosa. Non ho nessuna intenzione di indossare quelle cose faêran.» Ma aveva appena finito di parlare che numerosi corvi si gettarono su di lei dai rami delle querce, e col becco e con gli artigli le stracciarono l'abito malridotto che aveva addosso sin da prima della partenza da Appleton Thorn. Poi, gracchiando soddisfatti, tornarono ad appollaiarsi sui rami. «Non solo ci stanno guardando, ma ci ascoltano», s'irritò Caitri, mentre aiutava Ashalind a infilarsi l'abito dorato. «E purtroppo voi non avete più il tilhal, e il mio mi è stato strappato dal collo da uno di quei maligni rapitori della Caccia. Quegli uccellacci vi hanno fatto male?» «Non mi hanno neppure toccata», rispose lei. «Ma è una vergogna che ci sottopongano a questi soprusi.» «Credete che ricorderete presto la posizione di quella Porta, così che ci lascino libere?» «Anche se la ricordassi, i faêran non hanno affatto promesso che poi ci lasceranno andare», obiettò Ashalind, spingendo le braccia nelle strette maniche del vestito. «Non hanno detto nulla di preciso. Giocare sull'equivoco è la specialità della loro razza. Se qualcuno ha dovuto impararlo a sue
spese, quella sono io.» «Suppongo che cercare una via di fuga sia inutile.» «Più che inutile. Qui è all'opera un potente gramarye, e Morragan ne è il padrone.» «Povera Viviana. Mi chiedo dove sia», mormorò Caitri. «Tiggy si prenderà cura di lei?» «Lo farà... sempre che abbia perso il vizio di nascondersi negli stagni col cavaliere in groppa.» «Dove la porterà?» «Forse oltre il Ponte di Terra, dove sono accampate le Legioni Reali...» «Non riesco a credere che il Re-Imperatore sia in realtà il Supremo Re dei faêran travestito», disse Caitri, allacciando i bottoni di zaffiro fino ai gomiti di Ashalind. «Sì, è un amaro boccone da ingoiare, e io non riesco a mandarlo giù. Un tempo immaginavo che il loro Supremo Re fosse un individuo barbuto di mezz'età. Dimenticavo che i faêran non mostrano mai segni d'invecchiamento, salvo che non lo vogliano. Entrambi i fratelli hanno già vissuto per millenni.» Quella constatazione colpì solo allora Ashalind nel suo pieno significato, e rendersene conto fu come una doccia di acqua gelida. Thorn era il Re, il Supremo Re del Reame Fatato, il dominatore di una razza i cui poteri andavano molto oltre quelli degli uomini. Il vento, il mare, la pioggia, il tuono, il fulmine... tutto era soggetto al dominio di Thorn-Angavar. Gli uccelli e gli animali, gli insetti, gli alberi e i fiori, perfino le rocce, s'inchinavano al suo comando. Tutti i wight gli dovevano ubbidienza, anche i più sfrenati e temuti unseelie. Nel mondo di Aia, niente e nessuno gli stava alla pari. Soltanto suo fratello aveva poteri quasi simili. E un giorno, che sembrava molto lontano, il Supremo Re dei faêran aveva abbassato lo sguardo sul volto deforme di una fanciulla, sulla strada per White Down Rory, e si era rivolto a lei con queste parole: «Dimmi cosa vuoi chiedermi davvero». Il pensiero affiorò spontaneo nella mente di Imrhien. Un bacio. Ma lei si augurò che Thorn non lo avesse intuito dalla sua espressione. Confusa, mosse le mani in maniera incerta, tracciando malamente i segni. Vorrei dirti con la mia voce che desidero la tua benedizione per la mia impresa. Ora andrò dalla Carlin che dimora qui, nella speranza che possa risanare il mio volto e recuperare qualcosa di ciò che ero... E ti chiedo di augurarmi buona fortuna.
Thorn annuì e indugiò per un momento, come riflettendo. In fretta, prima che lei potesse capire cosa stava succedendo, si chinò in avanti e le posò con gentilezza una mano sotto il mento e l'altra dietro la testa, baciandola sulle labbra. Soltanto due volte, prima di allora, c'era stato tra loro un contatto diretto. Scariche di energia simili a quelle di Brithir, ma dolci come estasi, trapassarono Imrhien dalla testa ai piedi, più e più volte, sino a convincerla che sarebbe morta. Poi lui la lasciò andare e si allontanò su per la collina, mentre lei fuggiva tra gli alberi, piangendo. Era stato Angavar in persona a mettere la mano sulla sua gola muta e ferita, resa priva di voce dalla frusta eldritch del duergar. Lui aveva posato la bocca con passione e dolcezza sulla sua, dandole un bacio così improvviso e sconvolgente da bruciarle i nervi, un bacio quasi insopportabile e fatale per una mortale. Con quel bacio lui le aveva offerto la realizzazione del desiderio da lei espresso: la guarigione del volto. Era stato lui, non la Carlin, a restituirle la bellezza di un tempo... e qualcosa di più. Quel bacio aveva eliminato i pochi difetti che si potevano trovare nella simmetria dei suoi lineamenti, riplasmandoli con un distillato di gramarye. La ragazza seppe, in quel momento, che la sua era una bellezza che soltanto un Re dei faêran poteva donare. E il bacio del Re dei faêran era potente come una forza della natura. Le sue virtù curative avevano anche altri effetti, e da quel giorno erano giunti dei sogni: la memoria aveva cominciato il suo lungo processo di risveglio. Thorn aveva inteso restituirle il volto e la voce; tuttavia i suoi poteri avevano annullato in buona parte il bitterbynde, l'incantesimo della Geata Poeg na Déanainn. Quanto avevano infuriato i venti fuori stagione, dopo che gli uomini di Thorn avevano perso le tracce di Ashalind, a White Down Rory! Mascherata nell'aspetto e nelle vesti, e con un nome diverso, lei era fuggita a piedi e poi in carrozza, trovando ospitalità al palazzo di Caermelor. Nel frattempo la pioggia e il vento, la neve e le burrasche marine infuriavano, perché il Re dei faêran l'aveva perduta e ogni suo tentativo di ritrovarla si rivelava inutile. Potenti com'erano, belli e arroganti, i faêran non erano abituati a veder svanire i loro desideri. Lui aveva sfogato la sua ira con le tempeste. Governare gli elementi era parte stessa della natura dei faêran. Il loro sovrano dominava la pioggia e il vento. A posteriori era facile vedere che in passato lui aveva manipolato il tempo atmosferico come gli faceva più comodo, portando su di loro giorni tiepidi e soleggiati quando viaggiavano
nella Foresta di Glincuith. Nei pomeriggi in cui erano usciti a cavallo lei aveva riso, rossa per l'esercizio fisico, mentre una brezza profumata le accarezzava il volto e faceva sventolare i lunghi capelli neri di lui. Una sera aveva fatto l'elogio della pioggerellina primaverile, e subito dopo aveva avvertito il leggero tamburellare delle gocce d'acqua. In quel periodo il clima l'aveva spesso compiaciuta con l'ubbidienza, rispondendo subito ai suoi capricci. Anche durante il loro primo viaggio insieme, quegli indizi sarebbero stati facili da leggere, se solo lei avesse avuto il sospetto giusto. Era stato Thorn a chiamare il vento per spazzare via le culicide nel Mirrinor, era stato lui a guarire le ferite di Diarmid a Rosedale, ed era stato lui a infondere ammirazione nei timidi trow danzando sotto la luna presso Emmyn Vale. Se solo lei gli avesse rivelato tutta la sua storia, lui avrebbe potuto restituirle già allora ciò che aveva perso: la voce, la faccia, la memoria completa, e liberarla dal langothe. E tuttavia... cosa sarebbe successo? Lei avrebbe ricordato la posizione precisa della Porta e offerto ad Angavar-Thorn il modo di tornare nel suo Reame. Lui avrebbe lasciato in Erith i suoi giocattoli mortali, e non vi sarebbero mai stati quei giorni di gioia a Caermelor, quei rari e preziosi momenti che lei teneva cari tra i suoi ricordi. Ashalind non poteva dubitare che lui ignorasse chi era lei, in quel periodo. Fino al momento della loro separazione sulla strada di White Down Rory, lui non aveva sospettato niente. Se avesse conosciuto la sua storia, certo non l'avrebbe lasciata andare senza interrogarla a fondo. E ormai, quante cose aveva scoperto? Thorn pensava ancora che Morragan la cercasse per punirla di aver origliato, oppure sapeva che lei era uscita dal Reame attraverso una Porta, e che avrebbe potuto ritrovarla e riaprirla? Tuttavia, nonostante i suoi poteri, Thorn-Angavar era stato separato da Ashalind una seconda volta. Morragan aveva mandato i Corvi di Guerra a infrangere le difese di Tamhania e risvegliare la furia esplosiva del vulcano. Dopo la distruzione dell'Isola Reale, perché il Re del Reame Fatato non aveva smosso mari e monti per ritrovare la sua amata? Era stata davvero tanto abile nel nascondersi, o forse a Thorn non importava più di lei? Caitri sedeva al tavolino da toeletta intarsiato d'avorio, e aveva aperto il piccolo scrigno delle spille per capelli. Mentre le pettinava i capelli, Ashalind cominciò a districare i suoi ricordi di Thorn: le parole che lui aveva
detto, e quelle lasciate non dette. «Il mio nome Dainnan è Thorn», aveva detto al loro primo incontro, nella Foresta di Tiriendor. Non aveva mai dichiarato di essere James D'Armancourt. Il suo aspetto eccezionale, il suo magnetismo, la sua abilità di cacciatore, la sua esperienza in ogni campo, il modo in cui l'astore e tutti gli altri animali si piegavano alla sua volontà... l'insieme di tali attributi aveva, nelle paludi del Mirrinor, indotto Ashalind a sospettare Thorn di possedere sangue faêran. Usando il linguaggio manuale aveva comunicato le sue congetture a Diarmid, che non era stato dello stesso parere. La razza antica, i... Lei aveva esitato, non conoscendo il gesto per indicare i faêran. Il Popolo Fatato, gli immortali. È possibile che in lui ci sia il loro sangue? «Il Popolo Fatato? Ah!» Diarmid aveva scosso il capo. «Quegli immortali sono diventati leggenda molto tempo fa. Inoltre, come tutte le creature soprannaturali, essi non sopportavano il contatto col ferro, mentre Thorn maneggia una lama d'acciaio, ha frecce con la punta d'acciaio... e scommetto che la fibbia della sua cintura è fatta dello stesso metallo. No, non dubito che sia un mortale... Però non è un uomo comune, è una persona che ispira gli altri a seguirlo. Forse è un Mago, non saprei dirlo... Ma non è cortese parlare così di lui, alle sue spalle, quindi non intendo proseguire questa discussione.» Quello era il mistero: se il ferro freddo era un pericolo per i faêran, come potevano i reali faêran esserne immuni? Avevano un potere così grande da modificare la loro stessa natura? «Un soldo per i vostri pensieri», le domandò Caitri. «Oh, stavo pensando ai faêran. A Thorn... cioè, al Re-Imperatore.» «Non rimproveratevi per esservi innamorata di lui», la consolò Caitri. «Credo che abbiate avuto poca scelta. Tutti i Fatati sono belli oltre ogni immaginazione. Mia madre mi raccontava storie su di loro. Hanno un tale effetto sugli esseri umani che noi dobbiamo per forza innamorarci. La nostra razza è sempre stata attratta dalla loro. E viceversa, almeno qualche volta.» Ogni immagine mentale di Thorn le causava un miscuglio di gioia e sofferenza. Lui è vivo! Ma se è un faêran... colui che amo è un mio nemico. «Tutte le unioni tra mortali e immortali sono destinate a finire in tragedia», mormorò Ashalind. Nei suoi occhi, una lacrima brillò e cadde. Prima che toccasse i capelli di Cartai, una mano la catturò sul palmo aperto. Nella mano di Morragan, la lacrima si solidificò in un diamante. Lui
chiuse il gioiello tra le dita, poi lo gettò in aria, dove si trasformò in un bianco uccello marino che aprì le ali e volò via. «Una lacrima per Angavar», disse sottovoce il Principe Corvo, visibile nello specchio come una fiamma di tenebra. «Pregate per l'Aquila.» Cartai balzò in piedi, rovesciando lo sgabello. Le sedie, il tavolo, la libreria erano scomparsi, e così le pareti. Il tavolino da toeletta era in una radura illuminata dalla luna. Il soffitto si era spalancato per diventare lo splendido firmamento di Notteterna. Svanita era anche la fontana murale, ma la sua musica restava nel cinguettio degli usignoli celati tra gli alberi. Le stelle erano così luminose che il cielo sembrava colmo dei raggi di un sole d'argento. Ai margini della vasta radura vi erano padiglioni in legno di quercia. La nebbia scivolava sottile al livello del suolo, girando in lenti gorghi intorno alla base degli alberi. Tra le radici e le rocce si estendeva un tappeto di campanule azzurre, da cui sembrava emanare un tintinnio come se fossero davvero campane in miniatura. Sotto le chiome degli ontani spirava un vento dolce, che faceva oscillare i fiori di timo selvatico sulle rive di un ruscello. Viole e labbra-dibue annuivano, tra i biancospini e le rose muschiate. Su entrambe le rive fiorite del ruscello si era data convegno una piccola folla di eleganti dame e gentiluomini. Alcuni indossavano vesti molto elaborate, altri erano completamente nudi, vestiti solo della bellezza dei loro corpi e di qualche fiore tra i capelli. Per la maggior parte erano faêran, e a essi aderiva un'aura baluginante, come luce di candela sul cristallo. Gli altri appartenevano a razze assai diverse. Ashalind e Caitri li guardarono. Tra i presenti vi erano anche Yallery Brown e Gull, il capo degli spriggan, che una volta Ashalind aveva visto nella piazza del mercato di Gilvaris Tarv. Costui era più robusto dei suoi simili, e superava il braccio e mezzo di altezza; stava maneggiando un arco alto il doppio di lui e indirizzava strali agli uccelli canori appollaiati sugli alberi. Ashalind vide anche il maligno Each Uisge, con una cotta di maglia d'argento fatta a scaglie di pesce e un mantello verde-alga; una fascia ricamata di perle ornava la sua ampia fronte e gli teneva la criniera scostata ai lati della faccia, pallida e fredda come quella del cadavere di un affogato. Due esseri umani alti e robusti erano accanto al Principe dei cavalli d'acqua, vestiti con sbrindellati abiti da marinaio che grondavano acqua, armati di picche e con i resti di alghe marine tra i capelli; Ashalind sapeva che si trattava di Iainh e Cae-
linh Maghrain, reduci da una tragedia del mare e schiavi dell'Each Uisge. Tra i cavalli d'acqua ve n'era un altro che lei riconobbe: un giovanotto con le orecchie appuntite seminascoste dai riccioli neri. Accorgendosi che lei lo stava guardando, il Glastyn le indirizzò un inchino, senza sorridere. Quel wight unseelie non era riuscito a identificare la preda di Morragan, dopo essersi introdotto nella casa di Silken Janet, a Rosedale. Aveva bussato alla porta, una notte, ma lei stava in guardia... D'istinto si coprì la testa col cappuccio, tirandolo in avanti in modo da nascondere bene i propri lineamenti deturpati. Di nuovo, tre colpi caddero sulla porta - più vigorosi - chiedendo che venisse aperta. ImrhienAshalind dovette prendere una decisione. Quello era il segnale che Janet le aveva spiegato in tono grave, e lei non doveva venir meno alla sua ospite. Presa con sé una candela si diresse verso la soglia, spingendo rumorosamente indietro i chiavistelli di ferro e aprendo il battente. Soltanto la protezione del taltry aveva fatto la differenza tra la libertà e la cattura, perché di certo il Glastyn avrebbe riferito al Principe Corvo se avesse visto il colore talith dei suoi capelli. Insieme con quegli eldritch, vide altri individui a lei già noti, compreso uno snello giovane cavaliere con una cotta di maglia argentata: i suoi capelli erano neri come la depravazione, e dalla sua pipa di terracotta usciva una nebbia lattescente che si spargeva tra l'erba. La sua bella faccia era quella di un geniale poeta oppresso da un destino crudele, un seduttore molto pericoloso per le donne che se ne lasciavano affascinare; era Lord Vallentyne, il quale aveva condannato Viviana a suicidarsi in modo lento quanto sgradevole. Procaci fanciulle si aggiravano sul tappeto di campanule azzurre; alcune giocavano tirandosi a vicenda una palla dorata. Si trattava della controparte femminile dei ganconer: le lhiannan-shee, solitamente invisibili a tutti fuorché ai mortali che stregavano con la loro sensualità, e oltre a esse vi erano le vampiresche baobansith, meno sottili e più voraci con le loro vittime. Tutte sarebbero passate facilmente per femmine umane, se non le si esaminava troppo da vicino. A prima vista apparivano amabili, e vestivano abiti assai elaborati: gonne fatte di foglie vive o fiori intrecciati, corpetti di spessa tela di ragno o d'ali di farfalla, cappelli di piume abitati da piccoli gufi, mantelli di pelliccia fissati sulle spalle da rospi e scarafaggi d'argento con mandibole clicchettanti, collane lunghe fino ai piedi fatte con crani di topo o di rana con gemme al posto degli occhi, larghi orecchini che oscillavano appesi ai lobi. Erano creature dalla vita sottile e dai fianchi arcuati;
con colli eleganti e seni procaci, ma ogni tanto l'agitarsi di una gonna scopriva un artiglio da uccello dove ci si sarebbe aspettati una candida caviglia, o una mossa della bella testa metteva in mostra orecchie pelose da volpe sotto i capelli elaboratamente acconciati. Un sollevarsi delle palpebre lasciava scorgere pupille verticali da basilisco o da gatto. Oppure una cintura di pelliccia si scioglieva dalla vita, rivelandosi per una coda. Mescolati a quell'assemblea, gli spriggan e gli hobyah apparivano tozzi e repellenti come rospi. E nell'ombra più profonda del bosco, un uomocavallo massiccio e dalla testa cornuta stava passando in un sentiero tra gli alberi. Almeno metà dei membri dell'Attriod Unseelie è qui con Morragan. Lui è il loro capo, nello stesso modo in cui suo fratello è il capo dell'Attriod Reale, il gruppo di mortali più potenti. Solo tre Principi dell'Incubo non vedo qui: il Cearb, detto l'Uccisore, il Fuathan e il mostruoso Athach. Forse però anche questi perversi unseelie non sono lontani. Dietro il Principe Morragan stavano il suo cameriere personale e il suo bardo. Al collo del bardo era attorcigliato un pitone dalle scaglie a disegni romboidali e con gli occhi di diamante, e dalla cintura gli pendeva un piffero di legno. Non appena vide lo strumento, Ashalind lo riconobbe come quello un tempo appartenuto a Cierndanel, il Bardo Reale dei faêran. Era il Piffero Leantainn, lo stesso che aveva portato la sventura su Hythe Mellyn. I ricordi della sua infanzia le diedero una stretta al cuore, e non poté trattenere un gemito. Ai piedi del Principe sedeva una ragazza-cigno. Altre tre di loro erano mescolate ai presenti, e una, notò con stupore Ashalind, era Whithiue, con una coroncina di rose canine sui capelli. Nell'accorgersi che Morragan la guardava, Whithiue gli rivolse un sorriso e s'inchinò profondamente. Dinanzi a loro comparve Yallery Brown, che disse: «Il mio signore non ha che da farmi un cenno, e io strapperò fuori il ricordo della Porta dal cranio della mangia-cochal. Quando le tue carni tenere incontreranno il fuoco e una lama affilata, scommetto che ti tornerà la memoria». Gettò un topo in grembo a Caitri. L'animale la morse, e lei lo scagliò tra i cespugli di timo. Nell'ombra delle piante un cervo si volse stupito, ma non fuggì. Una volpe argentata azzannò il topo e corse via, col roditore tra i denti. «Cosa ti piacerebbe fare alla mia bella prigioniera smemorata, Brown?» domandò pigramente il Principe. Il wight glielo spiegò, senza risparmiare i particolari. «Fantasioso», commentò il Principe quando l'altro ebbe finito. «E la tua
inventiva merita un premio. Gull, abbatti il piccione più vicino, e Yallery Brown potrà averlo.» Con un sogghigno felice, il capo degli spriggan alzò il lungo arco, incoccò una freccia e la scagliò. La freccia passò da parte a parte un piccione, che sbatté le ali e cadde in mezzo a un cespuglio fiorito. «Vai a raccoglierlo», ordinò Morragan a Yallery Brown. Questi si fece strada tra i rovi e raccolse il volatile ucciso. «Suonami una giga divertente, Ergaiorn», chiese Morragan al suo bardo. «Voglio vedere la gente ballare.» Il musico si portò alle labbra il piffero di Cierndanel e cominciò a suonare. Mille anni addietro quel piffero aveva parlato con voce irresistibile. I ratti di Hythe Mellyn erano stati incantati dalle sue note, che dipingevano appetitosi scenari di ghiottoneria. Poi, ai fanciulli della città, il piffero aveva suonato una musica diversa, promettendo pony e giocattoli, allegre danze, divertimento e dolciumi prelibati. Nessun uomo o donna in età adulta aveva provato le stesse sensazioni, ma quelle note li avevano fatti piangere, al pensiero dei giorni perduti della loro infanzia, e li aveva tenuti coi piedi inchiodati al suolo. Nessuno dei loro giovani figli aveva udito i loro richiami disperati mentre, dimentichi di tutto, seguivano il pifferaio fuori città verso un miraggio di balocchi e delizie. Una generazione prima lo stesso piffero aveva costretto i cittadini di Gilvaris Tarv a ballare finché non avevano chiesto pietà. Nelle sale boschive di Annath Gothallamor, lo strumento intonò una canzone dal ritmo allegro e vivace che fece ballare tutti i wight a portata di udito. Soltanto Ashalind e i faêran sembravano immuni da quell'incantesimo, benché la gamba sinistra della giovane dolesse nel punto dove se l'era fratturata cadendo da cavallo, da bambina. Cartai invece, senza affatto volerlo, ebbe un sobbalzo e cominciò a ballare con gli altri, con un'espressione sbalordita stampata sulla faccia. In mezzo al cespuglio, Yallery Brown lasciò cadere il piccione e diede inizio a una serie di saltelli e passi di danza. Più forte il piffero suonava e più in alto lui saltava, mentre le spine gli strappavano i vestiti e ferivano la carne, riducendogli a pezzi la giubba e le braghe. Lungo le braccia e le gambe gli colavano rivoli di sangue nero. Ergaiorn aumentò ancora il ritmo e, nel vedere gli inconvenienti ai quali stava andando incontro Yallery Brown, gli altri wight cominciarono a ridere e schiamazzare, divertiti. «Mio signore, Vostra Altezza», ansimò Yallery Brown. «Vi supplico, di-
te al nobile Ergaiorn di smetterla, prima che il vostro fedele servo perisca! Lasciatemi andare, e giuro che non vi offenderò più.» «E come mi avresti offeso?» domandò Morragan in tono distaccato. «Ora capisco che Vostra Altezza non gradisce che io tormenti la prigioniera», rispose a fatica il wight, e terminò la frase con un grido di agonia. «Salta fuori da quei cespugli», disse Morragan, accennando al bardo di abbassare il piffero, «e vattene dove vuoi.» Yallery Brown si affrettò a ubbidire e fuggì nel bosco, seminudo e coperto di sangue, inseguito dalle urla derisorie degli spriggan. Non appena la musica tacque, l'incantesimo si sciolse. Mentre i danzatori wight si facevano vento con ali di piccione, accaldati da quell'esercizio, una piccola figura si avvicinò ad Ashalind per offrirle un boccale di vino. «Bevi un sorso, ragazza. Ti darà coraggio.» «Oh, Tully!» esclamò Caitri, senza fiato per la sorpresa e la gioia. Senza una parola, Ashalind prese il boccale, bevve un sorso e lo passò alla giovane amica. Dover osservare la tortura del wight l'aveva nauseata, e sentiva una morsa allo stomaco. «Io sono libero di andare e venire, finché questo non dispiacerà a Sua Altezza», spiegò l'urisk. «Non credo che a lui importi di me, anche nel caso che abbia notato la mia presenza.» «Hai notizie di Viviana?» domandò Ashalind. «Sì. La ragazza è salva, per il momento, tra le tende delle Legioni del Re-Imperatore.» «Almeno lei se la passa bene!» «Dovremmo cercare di raggiungerla. Tu puoi aiutarci a fuggire?» chiese Caitri. «No, ragazza», rispose l'urisk, rammaricato. «Non c'è niente che un poveraccio come me possa fare. Mi è stato anche ordinato di non portare fuori i tuoi messaggi. Purtroppo ho le mani legate.» Il Principe Corvo appoggiò un piede contro il tavolino da toeletta e lo rovesciò, in un clangore di oggetti che rotolavano ovunque. Lo scrigno di spille per capelli distribuì il suo contenuto sulla riva di una polla d'acqua, lucida come platino fuso. Quindi Morragan prese Ashalind per un gomito e la portò sul bordo della polla; la pressione delle sue dita provocava brividi di delizia nella donna. Prese nella rete di forze interne e correnti e superfici acquose che scivolavano l'una sull'altra, vi erano le mutevoli impressioni dei lenti e possenti cicli nei quali ogni goccia ruotava da sempre: le grandi forme dei cirri che
navigavano nel cielo come galeoni, i veli di pioggia cadente attraverso migliaia di piedi d'aria elettrificata, l'esplosione delle gocce che si frammentavano su una faccia rivolta all'insù, l'effervescente tamburellare sulla roccia e sul terreno, i lenti flussi e riflussi delle maree, le nebbie che si levavano dal mare come stormi di aironi. L'acqua conteneva i suoi ricordi, così come il vento shang preservava le storie umane. Morragan parlò, rivolto all'acqua: «Rivela». I riflessi delle foglie e delle stelle ondeggiarono. Le loro immagini si dissolsero, mentre un tremito increspava la superficie. Quando essa si schiarì, nella polla apparve un panorama molto diverso. Arcdur. Davanti agli occhi di Ashalind prese a scorrere un territorio di rocce e di pini, di acqua e nuvole, di deserti pietrificati e aspri pendii, dove la pioggia e il vento spazzavano la roccia nuda. Solo nei crepacci crescevano il muschio e le tenaci radici degli arkenfir, una varietà di abeti verdazzurri. Le rupi alte centinaia di piedi erano chiazzate di licheni color acquamarina. Il vento che fischiava tra le gole e i macigni aveva il solo accompagnamento dello scrosciare dei torrenti stagionali. Lo scenario continuava a cambiare, come se la superficie della polla fosse un occhio che frugava tra le colline spoglie. Ashalind era costretta da una forza invisibile a non distogliere lo sguardo. «Cerca!» ordinò una voce affilata come una lama d'acciaio, dentro la sua testa. «Cerca la Porta!» Ma sembrava che a quella ricerca vi fosse un ostacolo. Più volte lei ebbe l'impressione di riconoscere un particolare macigno, o il profilo di una rupe. Ed era come se fosse spinta ad avvicinarsi da una sorta di confidenza, per guardare meglio. Ma ogni volta la trasparenza si confondeva diventando opacità, e ciò che era parso familiare diventava confuso. Alla fine, dopo molto tempo, Ashalind fu troppo stordita per capire qualcosa. Cercò di chiudere gli occhi e non vi riuscì. Cercò di staccarsi da quel territorio desolato, ma non ne fu capace. «Lasciami andare», mormorò. «Non posso trovarla.» Un vento freddo le soffiò in faccia semi di cardo. Come se rientrasse a ritroso in un tunnel, i confini del suo campo visivo rimpicciolirono; rocce rosate, pini verdastri e licheni azzurrini sparirono. Sullo sfondo di un cielo scuro, chiome di quercia e stelle lontane scintillarono sulla superficie della polla. Sciami di semi di cardo svolazzavano e s'immergevano in quel riflesso.
Liberata dall'incantesimo, Ashalind scosse indietro i capelli. A qualche passo da lei, il Principe Corvo era accanto al tronco rugoso di una quercia, circondato dai suoi faêran. Il suo volto era cupo e accigliato come una montagna d'inverno. Per un poco rimase pensoso, in silenzio, sotto il chiarore lunare. Poi, con un improvviso scoppio di violenza, colpì l'albero con un pugno che lo spaccò in due, mandando a rovinare al suolo i rami e la chioma fronzuta. Tuttavia, poiché a toccarlo era stata una mano faêran, il moncone di tronco ancora radicato al suolo cominciò subito a emettere nuovi germogli. «Non basta», disse il Principe. «Tu cercherai ancora, Elindor.» Ashalind rimase in ginocchio tra le erbe fiorite, sul bordo della polla. «Lui ha messo il suo sigillo su di te», continuò il Principe, «ed è per questo che il mio potere non riesce a portarti al ricordo completo. Soltanto tu, o lui, potete fare questo. Avvicinati a me.» Morragan si piegò verso di lei, e i suoi capelli scuri caddero in avanti sfiorandole il volto in una carezza leggera quanto l'ala di una falena, impalpabile come la passione. «Trovare la Porta andrà a vantaggio tuo, Elindor, e mio. Desidero portarti con me nel Reame.» «E se trovassi la Porta, e la aprissi», ribatté lei in tono di sfida, «chi la attraverserà, e chi resterà in Erith?» Caitri trattenne il fiato, intimorita. Tra i cortigiani passò un fremito di paura, ma Morragan replicò, con una nota derisoria nella voce: «Tu chi ti auguri che la attraversi?» Anche Ashalind lo temeva, come tutti, ma la rabbia per essere stata catturata e soggiogata la indusse a parlare. «Presumo che saranno quelli del tuo seguito da cui sei stato compiaciuto. E scommetto che lascerai languire in esilio tuo fratello senza alcun rimorso.» «Come lui ha voluto esiliare me, ricevendo tuttavia ironicamente la stessa punizione.» Lui sorrise, affascinante. «Mio fratello ha deciso di diventare un governante tra i mortali. Che continui pure a esserlo.» «No...» «Non ti stai augurando, Elindor, che io lo lasci qui in esilio per te? Sembra che tu abbia voluto illuderti di amarlo, credendolo un mortale. Ma il suo è davvero amore, se gli ha permesso di nasconderti tanti segreti? Perché non ti ha rivelato tutto, se ti ama davvero? Non avere dubbi... colui che si è indegnamente mascherato da mortale, facendosi chiamare Thorn, è mio fratello. È il Supremo Re Angavar, mio gemello, partorito solo un
paio di battiti di cuore prima di me. E ha ereditato il trono del Reame per un capriccio del caso... il Figlio Fortunato.» Morragan la guardò intensamente, come se aspettasse una risposta. «Sì. Deve essere così», disse lei. «So che questa non è una menzogna. Tuttavia non so perché lui abbia voluto comportarsi in questo strano modo.» Sulla radura passò in volo uno stormo di corvi. Uno di essi atterrò su un ramo accanto al Principe, gracchiando. Lui lo guardò per un momento. Una comunicazione senza parole sembrò passare tra il volatile e il faêran, che poi fece un cenno di assenso. «I tuoi ordini sono chiari. Preparati per la battaglia». Morragan rivolse di nuovo la sua attenzione su Ashalind. «Lo specchio ora ti mostrerà il passato. Osservalo.» E fece il gesto di gettare qualcosa nell'acqua, ma niente di visibile lasciò la sua mano. Per la seconda volta, la superficie della polla s'increspò. I suoi confini si allargarono. Per il tempo di un battito di ciglia parve che dalle profondità dell'acqua un solenne volto femminile li guardasse, il volto di una bellissima strega acquatica asrai, incorniciato da capelli verdi. Poi una ventata lo spazzò via come una ragnatela, e il sipario si alzò sulle quinte di un altro teatro. La scena: un bosco di olmi, faggi e betulle. Rugiada sulle foglie. I raggi del sole mattutino che sfioravano l'erba come petali di luce. Il fruscio di un mare di foglie e i trilli flautati degli uccelli. Poi, a incrinare quella tranquillità idilliaca come un colpo di frusta, la stridula nota di un corno da caccia... In un limpido mattino dell'anno 45, il Re-Imperatore William D'Armancourt uscì dalla sua residenza estiva per una partita di caccia nella Foresta di Glincuith. Benché vanitoso e avventato, il giovane Re era un guerriero forte che non mancava di coraggio, e con sé aveva i cacciatori più esperti della sua terra. Verso mezzogiorno, seguendo i cani, aveva distanziato i battitori e i suoi nobili compagni di caccia. In groppa al suo cavallo, si addentrò in una foresta e da lì a poco giunse in una vasta radura. All'improvviso un magnifico cervo attraversò quello spazio aperto. Al suo inseguimento galoppava il branco di cani più bizzarri che William avesse mai visto. Avevano una pelliccia bianca come la più pura neve invernale, e quando il sole spuntò tra gli olmi si poté vedere che avevano occhi rossi e luminosi come i carboni di una forgia accesa. In pochi istanti, William e i suoi segugi giunsero al centro della radura.
Gli insoliti cani avevano già gettato al suolo il cervo, ma lui li scacciò e incitò i suoi segugi ad aggredire la bestia ferita. Avrebbe dovuto capire che quei cani bianchi non erano creature lorraly, e che sarebbe stato più prudente non intromettersi, ma nella sua eccitazione agì in modo affrettato. Smontò da cavallo, rovesciò indietro la testa del cervo e gli tagliò la gola. In quel momento fece il suo ingresso nella radura uno straniero alto e bruno, vestito di verde scuro, che montava uno splendido stallone grigio. Il nuovo arrivato tirò le redini e fermò la sua cavalcatura. «William D'Armancourt di Erith, vi ho riconosciuto, ma non vi saluterò come richiede il vostro rango. Non avrei mai creduto che un uomo di stirpe regale e di buona reputazione potesse impadronirsi con tanta scortesia di una preda altrui. Siate certo di questo: anche se non ritengo lecito vendicare questo torto facendo del male alla vostra persona, tuttavia intendo portare la disgrazia su di voi.» William guardò lo sconosciuto. In vita sua non aveva mai avuto paura di nessuno, ma di fronte a quello sguardo irato si sentì scosso. Comprendeva di essere dalla parte del torto, e ciò gli procurò un umiliante senso d'imbarazzo. «Signore, mi sento in obbligo di riparare alla mia scorrettezza, e sono disposto a darvi soddisfazione.» «In quale modo?» domandò lo sconosciuto. «Se mi date il vostro nome, cercherò un modo appropriato», rispose William. L'alto cavaliere rispose: «Io sono Angavar, Supremo Re del Reame Fatato». William fu allora certo del pericolo che stava correndo. «Io vi saluto, o sovrano di tutti i sovrani. Capisco che non è un mortale il cacciatore da me offeso, ma il più potente di tutti i signori del gramarye. Vi prego di chiedermi il risarcimento che volete, purché sia in mio potere darvelo, e io vi accontenterò, per guadagnare di nuovo il vostro favore e restare in buon accordo con voi.» «In questo caso, ascoltate», disse il Re dei faêran. «Nel Regno di Faêrie io sono tormentato dal Waelghast, che è il signore di tutti gli unseelie. Il mio potere è maggiore del suo perché, come voi ben sapete, io sono superiore a tutti su Aia: wight, uomini e faêran. Nonostante ciò, lui cerca di osteggiarmi, e i suoi seguaci sfidano i miei cavalieri in ogni occasione. Nella sua follia, lui si vanta con chi gli sta intorno che io non potrò mai sconfiggerlo.
«È stato deciso che, una volta ogni anno erithano, lui e io ci batteremo a duello, e che il vincitore sarà proclamato il più forte. Ci siamo già battuti una volta. Ci batteremo ancora, a dodici mesi esatti da oggi. Io vi chiedo di svolgere la mia parte in quel duello. Se accettate, vi conferirò subito le mie sembianze e vi manderò nel Reame Fatato al mio posto. Laggiù, né i faêran, né i wight, né i visitatori mortali potranno mai accorgersi che voi non siete me. L'incantesimo con cui muterò il vostro aspetto non potrà essere penetrato dalle loro arti.» «Tuttavia se voi non avete ucciso il Waelghast nel primo duello, come potrei riuscirci io?» obiettò William. «C'è un solo modo di vincere il duello. Col vostro primo colpo dovrete mettere a terra il Waelghast, gravemente ferito. Lui cadrà in ginocchio, e vi supplicherà di essere pietoso e dargli il colpo di grazia per sollevarlo dai tormenti dell'agonia. Questo lo farà con le sembianze di un valoroso e attraente cavaliere, e con parole studiate per risvegliare la vostra compassione. Già una volta io mi sono trovato di fronte a quella sua supplica, e ci sono buone probabilità che la stessa cosa accada la prossima volta. Ma voi non dovrete farvi persuadere in nessun caso. Se lo colpiste una seconda volta, lui si alzerebbe di nuovo, risanato e in possesso delle sue forze. Dovrete quindi limitarvi a ferirlo con un unico colpo, e la pace regnerà di nuovo.» «Erith dovrà restare senza governo, mentre io sarò in Faêrie?» «Così come darò a voi il mio aspetto, io prenderò il vostro. A Caermelor farò le vostre veci, e nessuno sospetterà che io non sono William D'Armancourt.» William guardò il nobile cervo cui aveva tagliato la gola. Il getto di sangue che aveva arrossato l'erba si era fermato. Sul suo collo non c'era più traccia della ferita, e il pelo era di nuovo bianco, immacolato. Il quadrupede si alzò e andò a leccare una mano di Angavar. «Un cervo di Faêrie», spiegò questi. «Li alleviamo apposta per lo sport. Io ho dato la caccia a questo animale innumerevoli volte, e lui mi ha offerto un sano divertimento.» Si rivolse al cervo. «Ora vai, la Porta è aperta.» Poi tornò a girarsi verso William. «Facciamo in fretta... cavalcheremo insieme. Dobbiamo giungere ai confini del Reame prima del tramonto.» I due si avviarono per un sentiero che aggirava i boschi. William non si accorse di passare attraverso nessuna Porta, ma quando il sole sfiorò la linea dell'orizzonte notò che il panorama cambiava, e comprese di essere entrato nel Reame Fatato.
Quando furono a poca distanza da un'antica foresta, tirarono le redini. William si voltò a guardare il Re faêran e vide se stesso, in groppa al suo cavallo. Abbassò gli occhi sul proprio corpo e vide il corpo di Angavar in sella allo stallone grigio. Ne fu così stupito che gli si mozzò il respiro, e il suo cuore ebbe un balzo. «La vostra nuova dimora è dinanzi a voi», disse Angavar. «Tornate nella Foresta di Glincuith tra un anno e un giorno. Io sarà là, e ciascuno di noi riprenderà il suo vero aspetto.» «Aspettate un minuto!» lo fermò William. «Quando io mi batto, uso soprattutto la mano sinistra. La vostra gente se ne accorgerà...» «Non preoccupatevi», replicò Angavar. «Il fatto che siate mancino non potrebbe venire più a proposito. Sono mancino anch'io. Ora andate sempre dritto in questa direzione.» I due si accomiatarono, e Angavar parve fondersi nel territorio. William, seguito dal branco di cani bianchi, si addentrò nell'antica foresta. Quella era la dimora di Angavar. Si trattava di un palazzo, ma non edificato come i palazzi dei Re mortali. Filari di alberi formavano i corridoi e le sale. Le stanze erano siepi di sempreverdi, con fogliame e rampicanti fioriti al posto della tappezzeria, pavimentate con muschio vivo invece che con tappeti, e in alcuni posti con lastre di roccia liscia naturale. Quella residenza reale era aperta al cielo, tuttavia era chiaro che gli interni non venivano mai investiti dalla pioggia. A illuminarla erano stelle di straordinario fulgore, lampade appese agli alberi e gabbiette di insetti fosforescenti. Non mancavano tutte le possibili e immaginabili comodità. I gentiluomini e le dame faêran gli diedero il benvenuto che spettava a un Re. Si occuparono personalmente di lui, gli prepararono un bagno all'acqua di rose e gli versarono del vino. I suoi indumenti polverosi furono gettati via e sostituiti con eleganti abiti di seta verde e oro. Poi gli fu servito il pranzo in un magnifico salone, più lussuoso e splendido di quello che avrebbe mai immaginato. Ai tavoli, con William, sedevano tutti i gentiluomini e le dame del suo seguito. Le loro voci erano chiare e melodiose come le note di strumenti musicali, le loro facce più belle di quanto potessero esserlo quelle dei mortali, e indossavano vesti verdi e dorate, o argentee, scintillanti di gemme. Succubi dell'incantesimo di Angavar che avvolgeva William, neppure i più potenti di loro lo riconobbero per un mortale; se in ciò il Supremo Re dei faêran aveva voluto vedere anche uno scherzo ai danni dei suoi simili, lo scherzo era pienamente riuscito.
Fu così che William governò il Reame Fatato come legittimo Re, e ciò gli piacque, tanto che quell'anno fuggì via veloce come un cervo inseguito dai cacciatori. Il giorno del duello col Signore degli Unseelie si avvicinò, e nel Reame Fatato si sparse un'atmosfera di eccitante attesa. Il duello doveva avere luogo sul guado di un fiume. Il mattino stabilito, i faêran si riunirono su una riva e le orde unseelie sull'altra, e di fronte a quel vasto schieramento uno dei cavalieri di Angavar si fece avanti accompagnato da due alfieri, per leggere ad alta voce la pergamena del patto. «Questa non è una sfida tra le nostre razze, ma soltanto tra i nostri capi. Di conseguenza è stato pronunciato il giuramento che non vi sarà battaglia tra i nostri popoli, e che accetteremo il risultato del duello tra i nostri capi, riconoscendo la superiorità e l'autorità di colui che otterrà la vittoria.» Dal pubblico di entrambe le fazioni si alzò un boato di acclamazioni, e il Waelghast e William si prepararono allo scontro. Come Angavar aveva detto, il suo avversario aveva preso le sembianze di un giovane cavaliere, affascinante e di nobile aspetto. Si era allacciato la spada sul fianco destro e impugnava la lancia con la sinistra, poiché - essendo nella natura dei wight usare indifferentemente entrambe le mani - preferiva contrastare in modo speculare le armi dell'altro contendente. Protetti dalle loro bellissime armature, i duellanti montarono in sella ciascuno sulla sua riva del fiume, e abbassarono le visiere. Un corno suonò una nota bellicosa. A quel segnale essi imbracciarono le lance da torneo, tennero saldi gli scudi e spronarono i cavalli nel fiume. Le zampe dei possenti animali sollevarono alti schizzi mentre acceleravano verso il centro del guado. E fu lì che si scontrarono, con un violento clangore metallico che fece volare in aria pezzi di armatura e schegge di legno. Ma William incassò il colpo senza che il suo scudo cedesse, mentre la sua lancia spezzò lo scudo del Waelghast e gli perforò il pettorale d'argento; la punta penetrò nel petto del guerriero unseelie proprio sotto il cuore. Senza dubbio la lancia di Angavar era impregnata di un gramarye invincibile, per infliggere una tale ferita a un eldritch di così grandi poteri. Il giovane cavaliere cadde di sella e si abbatté nell'acqua bassa del guado, perdendo rivoli di sangue nero che fece sfrigolare la rapida corrente del fiume. William balzò giù da cavallo e avanzò su di lui, estraendo la spada. L'affascinante giovane alzò lo sguardo sull'avversario con una smorfia di dolore agonizzante, e gridò: «Re Angavar, io ti supplico nel nome di ciò che ti è più caro nel Reame di Faêrie. Metti fine alla mia sofferenza. Fini-
sci ciò che hai cominciato. Colpiscimi una seconda volta, con tutta la forza dell'arma che impugni». Nel guardare quel nobile cavaliere, il Re mortale ripensò alle guerre di quegli ultimi anni, e al coraggio e alla lealtà con cui sapeva di averle combattute. Ripensò alle volte in cui era stato messo a terra dai suoi maestri d'armi, o sconfitto dai suoi compagni durante l'addestramento. Per un attimo gli parve di vedere se stesso seduto lì, con la mano protesa per chiedere aiuto, e la pietà riempì il suo cuore mortale. Poi quel momento passò, e William ricordò che l'avversario sconfitto non era un umano, ma un eldritch wight, e che la supplica di ottenere il colpo di grazia celava un vile inganno. Non permise ai suoi occhi di rivelare il freddo divertimento che la situazione gli dava, né il senso di trionfo misto all'orrore e alla ripugnanza per quella creatura. Ordinando al suo cuore di diventare una fredda pietra, pensò: Se fossi io il sovrano di questo reame, mi sarei lasciato impietosire da questa commovente petizione. Mi chiedo perché il Waelghast l'abbia ripetuta, sapendo che un anno fa lo stesso trucco non gli è servito a niente. Forse, dentro di sé, anche lui riconosce la superiorità di Angavar. Abbassò la spada. «La tua richiesta è rifiutata», dichiarò, con voce piatta. «Non ti colpirò una seconda volta.» Notando la luce dura nello sguardo del Re, il Signore degli Unseelie chiamò i suoi seguaci e si fece trasportare fuori del guado, perché sapeva che a causa della ferita ricevuta prima del tramonto ogni suo potere sarebbe svanito e lui sarebbe diventato l'ombra di se stesso, una povera cosa contorta, non superiore all'ultimo degli eldritch. Così, con un solo colpo, William di Erith sconfisse il Waelghast e mantenne la promessa fatta ad Angavar di conservare la pace nel Reame dei faêran. L'orda unseelie s'inginocchiò per rendergli omaggio, e in tutto il Reame si tennero feste e cerimonie. William tuttavia non si trattenne più del necessario. Aveva mantenuto la parola e ora il suo soggiorno giungeva al termine; era ansioso di tornare ai suoi doveri nella terra dov'era nato. Il Reame Fatato era affascinante oltre ogni descrizione, ma non era la sua patria. Partì da solo e si recò a cavallo nella Foresta di Glincuith, dove cercò la radura in cui un anno addietro aveva incontrato il Supremo Re dei faêran. Laggiù, tra gli alberi carichi di foglie, un cavaliere lo aspettava in silenzio: Angavar, nella sua vera forma. Abbassando lo sguardo su di sé, William
scoprì che anche lui aveva riacquistato le sue sembianze. Il loro secondo incontro fu assai diverso dal primo. Stavolta i due Re si salutarono con allegro cameratismo. Angavar non ebbe bisogno di domandare come se la fosse cavata William nel duello; sapeva già tutto ciò che era accaduto nel Reame Fatato in sua assenza. Ascoltò comunque con gran divertimento quando William raccontò la sua storia, e rise, congratulandosi col Re-Imperatore per il suo successo. «Da parte mia, ho assicurato al tuo regno prosperità e libertà, e nel corso di queste quattro stagioni ho eliminato le divergenze intestine», disse Angavar. «Puoi star certo che i sudditi non hanno sofferto durante la tua assenza.» «Sire, non ne dubitavo!» replicò William. Con un sogghigno, aggiunse: «In quanto a me, non avevo mai vissuto un'avventura così bella come questa permanenza di un anno nel tuo dominio. Te ne sarò grato per sempre, e giuro che ti sarò amico finché vivrò». «E io lo stesso!» dichiarò Angavar. «Raramente ho conosciuto uomini onorati e meritevoli quanto te. Ora dobbiamo separarci, ma prima c'è una cosa che devo fare, se voglio che tu viva felice da oggi in poi.» Posò una mano sulla testa di William e disse, a bassa voce: «Dimentica. Dimentica il desiderio della terra di delizie oltre le stelle». Fatto ciò, si dissero addio e William tornò al galoppo a Caermelor. Quando arrivò a palazzo, le sue guardie lo salutarono e i suoi assistenti gli diedero il benvenuto come se fosse partito soltanto quel mattino. Lui esultò alla vista della sua gente e della sua dimora, ma era anche circospetto, e nascose il suo buonumore. Il giorno seguente convocò i suoi ministri e domandò loro se avessero approvato il suo governo nell'anno appena trascorso. Essi non risposero subito, ponderando sul motivo di quella domanda, poi il più rispettato di loro disse: «Mio signore, da quando siete salito al trono avete governato con giustizia e correttezza, ma nell'ultimo anno avete dimostrato di essere un grande uomo politico e di saper condurre il regno con sagacia in tutti gli affari interni. Prima di quest'anno non avevate mai prestato orecchio con tanta attenzione ai desideri del popolo, e le Terre Conosciute non avevano mai prosperato come oggi. Non è un caso se i vostri sudditi ora vi chiamano William il Saggio». Gli rivolse un inchino e concluse: «Possa Vostra Maestà compiacersi di continuare a governare come ha fatto in questi ultimi dodici mesi». «Onorerò la vostra richiesta», assicurò William. «Vi ringrazio di avermi
fatto il vostro rapporto, signori.» Guardò le facce oneste dei ministri che aveva davanti e notò in loro una lieve perplessità. In lui stava salendo un'ilarità che non si sentiva più capace di contenere. Non era mai stato un uomo che amasse le finzioni e gli stratagemmi, almeno nelle questioni che riguardavano i suoi collaboratori. D'un tratto scoppiò a ridere. «Signori, non devono esserci segreti, tra noi», disse. E con stupore dei suoi ministri, raccontò loro per filo e per segno la sua prolungata visita al Reame Fatato, concludendo con l'informarli della sua alleanza tra lui e il Supremo Re Angavar. I ministri furono lieti di quella notizia; mantennero il segreto, ed esso fu rivelato soltanto molti anni più tardi, dopo la morte del Re-Imperatore. Per il resto della sua lunga vita, William rimase un caro amico del Re Angavar, e i due presero l'abitudine di vedersi, ogni tanto, per cacciare insieme nella Foresta di Glincuith. In quelle occasioni si scambiarono sempre doni preziosi. William il Saggio morì alcuni anni dopo la Chiusura delle Porte tra il Reame Fatato ed Erith. Qualche tempo addietro, Angavar aveva offerto al suo amico mortale una quantità limitata, ma pur sempre immensa, di un nuovo e straordinario metallo, il sildron, consigliandolo poi su come comportarsi coi venti shang che sarebbero stati originati dalla rottura dei confini tra i due mondi. Dopo la Chiusura, Angavar, in esilio, seppe che un giorno o l'altro sarebbe entrato nel Sonno Pendur, il metodo più facile per lasciar passare in fretta i secoli. Di conseguenza diede a William il Coirnéad, un corno da caccia di fattura faêran, e promise a lui e a tutti i discendenti della Casa D'Armancourt che se, in caso di pericolo, l'avessero suonato per chiedere il suo aiuto, lui sarebbe subito intervenuto. Era un corno ornato con fasce d'argento, bianco come il latte... Le dita di Ashalind disturbarono la superficie dell'acqua. Dove prima vi erano stati i due Re, uno dei quali vecchio e fragile, e l'altro ancora giovane e forte, ormai fremevano soltanto increspature e nebbia. La visione del passato era scomparsa. «Thorn...» mormorò. Lo scorrere degli anni non lo aveva scalfito. Non era cambiato da quando lo aveva visto per la prima volta. Un pesce balzò fuori dalla polla e rotolò tra i fiori. Caitri lo toccò, ma era soltanto una foglia. «L'inizio di questa amicizia tra le due case reali avvenne prima della mia nascita», disse Ashalind. «Ma non ne ho mai sentito parlare a corte, né
altrove. Dopo mille anni, quella storia deve essere stata dimenticata da tutti.» «Fuorché da alcuni bardi istruiti», la corresse Tully. «È una storia vera?» domandò Ashalind. «Verissima», rispose seccamente Morragan. «Signora», intervenne Caitri, «io credo che il Re dei faêran sia stato pietoso, e non abbia voluto eliminare per sempre quel suo nemico.» «Non farmi perdere la pazienza, piccoletta», minacciò Morragan, ammutolendo Caitri. In lontananza, nel cuore del bosco, si udì un grido che parve levarsi sempre più acuto fino alle stelle e poi svanì nel vento. Gli usignoli smisero di cantare. I cortigiani del Principe mormorarono tra loro, come campi di orzo percorsi dalla brezza; in quella solenne quiete, l'Each Uisge esplose in una risata cavallina, roca e selvaggia. «C'è di più», continuò il Principe Corvo, senza fare una piega. «Neppure una dozzina di anni fa, la Casa D'Armancourt conobbe un giorno di tristi necessità, e fu suonato il Coirnéad. Per loro fortuna, mio fratello sembrò aver considerato quel risveglio un cambiamento non spiacevole. Anche il Sonno Pendur diventa noioso, alla lunga. Guarda di nuovo nello specchio, gabbianella mia, e aggiornati.» Le profondità della polla vorticarono e si schiarirono. In esse apparve un panorama marino, in una notte limpida. Le onde rotolavano verso una spiaggia in lunghe linee di schiuma. Nel chiarore lunare, due figure umane riccamente vestite passeggiavano sulla stretta striscia di terra che divideva il mare da una palude di acqua dolce. Al fianco del nobiluomo era appeso il Coirnéad, ma colui che camminava sulla spiaggia non era Thorn. Si trattava di un giovane feorh, il genitore effettivo del piccolo Edward, allora appena un infante. Quello dunque era il vero D'Armancourt, il Re-Imperatore James XVI, in compagnia di Katharine, la sua Regina-Imperatrice. I due avevano lasciato molto più indietro le guardie e i cortigiani, per stare un po' soli e godersi la reciproca compagnia in privato. Era una notte tranquilla, e niente faceva prevedere un pericolo. All'improvviso i due si accorsero che qualcosa stava andando verso di loro. La sua forma mostruosa li spaventò, ma con l'acqua da entrambi i lati non potevano allontanarsi in quella direzione, e sapevano che sarebbe stato imprudente voltare le spalle a creature soprannaturali e fuggire. Così la coppia reale si fece coraggio e proseguì, anche se non allo stesso passo svelto. Quando la figura fu più vicina, essi la riconobbero con orrore. Era Nuckelavee.
La parte inferiore di quell'essere unseelie somigliava al corpo di un grosso cavallo, con pinne da pesce che gli spuntavano dalle zampe. Dove avrebbe dovuto trovarsi il collo sorgeva invece il torso di un uomo largo come un barile, fornito di un unico lungo braccio che toccava il suolo. La testa larga tre piedi era fornita di un solo enorme occhio, rosso come una stella morente, e oscillava da una parte e dall'altra quasi che stesse per staccarsi dal collo. La bocca era spaventosa, da squalo, e ne usciva un alito caldo quanto il vapore di una pentola bollente. Ma ciò che ai due mortali apparve più repellente era che non aveva pelle o pelo a coprire il suo corpo, la cui superficie sembrava orribilmente scorticata: il sangue nerastro correva in grosse vene scoperte e i tendini bianchi muovevano larghe fasce di muscoli nudi, violacei. Il Re si parò davanti alla Regina, per farle scudo. La coppia reale continuò a camminare lentamente, terrorizzata, con la pelle d'oca e una sensazione di gelo che li faceva sudare freddo. Ma sapevano che fuggire sarebbe stato peggio; decisero che, se dovevano morire, preferivano farlo insieme affrontando la minaccia, piuttosto che voltare le spalle ed essere uccisi durante la fuga. Mentre proseguivano, la paura attorcigliò la loro mente in un groviglio confuso e li privò della capacità di riflettere con chiarezza. Non pensarono che al fianco del Re-Imperatore pendeva il Coirnéad. Lui ricordò solo di aver sentito dire che Nuckelavee aveva un'avversione per l'acqua dolce, così portò sua moglie sul lato della striscia sabbiosa più vicino alla palude. Il momento drammatico arrivò quando la testa del mostro oscillò verso di loro. L'orribile bocca si aprì come un crepaccio. L'alito investì i mortali come l'esalazione di un forno, e il lungo braccio si protese per abbrancarli. Per evitare di essere toccati, si spostarono ancora più vicini all'acqua dolce. James entrò nell'acqua e, scalciando, ne mandò qualche schizzo sulle gambe anteriori del centauro, che uscì in un grugnito tonante e si spostò sull'altro lato del percorso. I due videro la possibilità di fuggire, e corsero con tutta la rapidità delle loro gambe, mentre il mostro galoppava dietro di loro, ruggendo come un mare in tempesta. Più avanti, un canale tagliava la striscia di sabbia; attraverso di esso la palude scaricava in mare l'eccesso di acqua. I due erano consapevoli che, se fossero riusciti ad attraversarlo, avrebbero preso un buon vantaggio. La Regina si era sollevata la pesante gonna che le ostacolava i movimenti e correva con tenacia. Suo marito le teneva un braccio intorno alla vita, un po' trascinandola avanti e un po' sollevandola dal suolo. La donna stava
dando il massimo, ma i suoi deboli piedi non potevano reggere il confronto coi poderosi zoccoli di Nuckelavee, e l'orribile centauro guadagnava terreno. «Il Coirnéad!» ansimò disperatamente la Regina Katharine, sapendo in cuor suo che era già troppo tardi. James afferrò il corno, ma perse momenti preziosi, poiché tutti i suoi sforzi erano tesi a portare la sua sposa oltre quel piccolo corso d'acqua. Mentre ne raggiungevano la riva, il lungo braccio fece un altro tentativo di afferrarli. I due erano ormai sfiniti e anelavano solo a oltrepassare l'acqua dolce. Non vi arrivarono mai. Katharine cadde. Nuckelavee la azzannò con un muggito di trionfo. Re James portò il corno alle labbra e soffiò con tutto il fiato che aveva in corpo, poi si voltò per gettarsi sul mostro e lottare con lui. Limpido e forte, vibrante di mille toni, il richiamo del Coirnéad risuonò nell'aria. La nota emessa dal magico corno faêran era sconvolgente e terribile nella sua potenza. Perfino Nuckelavee alzò l'orrida testa e si fermò un momento, quando l'eco di quel suono dilagò nel cielo notturno fino alle stelle. L'aria parve addensarsi e le onde dirette alla spiaggia rallentare. Se nelle vicinanze vi fossero stati alberi, essi avrebbero risposto a quel richiamo estraendo le radici dal suolo e mettendosi in cammino. Se vi fossero stati macigni, si sarebbero scalzati dalla terra per rotolare in direzione del corno. Senza perdere neppure un poco della sua forza, la risonante nota si allontanò sulle alture e sulle valli, sui fiumi e sui boschi, attraversando l'intera Erith fino a un certo colle verdeggiante. Alto e selvaggio, Nido dell'Aquila dominava le terre circostanti. Sulle sue pendici crescevano alberi e rovi così fitti che nessuno sarebbe mai riuscito a scalarlo fino alla sommità, dove un cerchio di antiche querce troneggiava come una corona. Era un colle sorvegliato dal gramarye, e gli uomini l'avevano chiamato Nido dell'Aquila perché soltanto la regina del cielo poteva posarsi sulla sua cima. Il suo interno cavo era il luogo scelto da Angavar e dal suo seguito di gentiluomini e dame faêran quando, stancatisi di Erith, avevano smesso di aggirarsi tra i mortali per entrare nel Sonno Pendur. Lì essi dormivano ancora. Un altro colle traforato di caverne, molto lontano da quel luogo, aveva ospitato per secoli Morragan e i suoi seguaci. Ma essi si erano già svegliati quarant'anni addietro, per andarsene altrove. Alcuni dicevano che a sve-
gliare Morragan fosse stato un pastore di nome Cobie Will, che si era avventurato là per caso e aveva creduto che i faêran fossero i cavalieri della leggenda, quelli che avrebbero messo le loro armi al servizio di Erith in caso di necessità. Altri affermavano che nessun mortale avrebbe potuto svegliarli, e che l'avevano fatto di loro iniziativa, stanchi di dormire. Qualunque fosse la ragione, le caverne sotto Nido del Corvo erano vuote. Fu però a Nido dell'Aquila che il drammatico richiamo del Coirnéad giunse, vibrando come il grido di un gigante ferito, portato dal vento della notte. Sotto le verdi pendici di Nido dell'Aquila vi era una vasta e comoda sala, il cui soffitto era fatto di antiche radici intrecciate grosse come rami. Le pareti scintillavano di venature di metalli preziosi: gemme rosse e cristalli verde-foglia riflettevano la luce del fuoco al centro della sala. Nella vaga penombra dove quella luce faticava a giungere, dormivano un centinaio di splendidi cavalli e sessanta coppie di cani da caccia. Senza bisogno di nulla che lo alimentasse, il fuoco palpitava come un enorme fiore di seta opalescente. La sua luce dorata illuminava cento eleganti letti a baldacchino arricchiti da tende e coltri di stoffe preziose. Su di essi giacevano, da soli e immobili come statue scolpite sul coperchio di un sarcofago, i nobili e le dame faêran rimasti esiliati col loro Re il giorno della Chiusura. Alcuni indossavano fantastiche armature ornate di pietre preziose. Altri portavano solo mezze armature, oppure vesti di tessuti ignoti ai mortali e che sembravano fatte di ombra e di luce. I loro visi, nella cornice degli elmi o dei capelli, erano di una bellezza in cui si poteva leggere la perfezione dell'universo. Ma tra tutti ve n'era uno che risaltava perfino in mezzo a quella così straordinaria compagnia. Nel lungo silenzio del Nido incantato penetrò la bronzea lancia di un suono distruttivo. Caldo e forte, esso gridava il Richiamo del Coirnéad: «Svegliatevi! Svegliatevi!» come in un'eco delle chiamate alle armi dei tempi eroici di Faêrie di un millennio addietro. Un istante dopo che il suono ebbe raggiunto l'interno a forma di campana del salone, facendone vibrare le luminose pareti, i dormienti si mossero. Alcuni si alzarono su un gomito. Ma il loro risveglio era tardivo. Il più sontuoso dei letti, occupato quando ancora il silenzio regnava, era già vuoto. Ancor prima che la nota del corno avesse lasciato quell'immutabile aria, il Supremo Re Angavar non era più tra loro. I cavalieri e le dame del Reame Fatato caddero nuovamente nel Sonno
Pendur. Sulla spiaggia distante molte leghe da Nido dell'Aquila, il boccaglio d'argento del Coirnéad fu strappato dalle labbra di James quando Nuckelavee abbrancò il giovane Re e gli spezzò la spina dorsale con animalesca ferocia. La bocca del mostro si aprì per azzannare l'uomo e spegnere l'ultimo barlume di vita nel suo corpo mortale. Ma all'ultimo istante qualcosa fermò il wight. Sulla riva del mare tuonò una voce, risonante e pericolosa. Una Parola fu pronunciata. Un comando fu scritto in lettere di fuoco sul cielo stellato. James si sentì deporre delicatamente sulla sabbia accarezzata dalle onde. La sua sposa, Katharine, giaceva accanto a lui. L'uomo non poteva muoversi, non poteva neppure voltare la testa, ma non provava dolore. L'amabile viso di Katharine non recava traccia di violenza, e i suoi occhi erano aperti. Non vi era luce in essi, come se una nube li avesse coperti mentre lei aspettava qualcosa. Poco distante, nel mare, Nuckelavee urlava e si contorceva in mezzo a onde annerite dal suo sangue, mentre la quasiimmortalità lo abbandonava pian piano, con la lentezza necessaria affinché potesse conoscere la sofferenza prima della fine. La terribile vendetta di Angavar era sopra di lui. Il Re faêran si chinò sui mortali. «È troppo tardi per la tua signora», disse a James. «La morte l'ha portata oltre le mie possibilità di curarla. Tu invece puoi ancora essere guarito.» Ma James si sentiva abbandonare dalla vita; vedeva le stesse nuvole che erano negli occhi della sua sposa, e seppe che avrebbe potuto ritrovarla soltanto se l'avesse seguita. «No, amico», sussurrò ad Angavar, perché tra loro vi era un legame, pur non essendosi mai incontrati. «Non voglio separarmi dalla mia Kate. Lascia che io accolga l'ultimo grande dono fatto ai mortali. E se tu vuoi aiutarmi nel nome della nostra amicizia giurata, promettimi solo questo... prendi il mio posto, come un giorno lontano prendesti il posto del mio antenato William. Veglia su questa terra finché il mio piccolo Edward non avrà l'età per essere incoronato Re-Imperatore. Lascia che Erith creda che il suo sovrano vive, poiché altrimenti sarebbe scossa fin nelle fondamenta e le antiche guerre tornerebbero a farla a pezzi. Mantieni l'Impero unito e ben governato, finché non potrà passare nelle mani di mio figlio.» Ansimò, in cerca di aria, e un sottile rivolo rosso gli scese da un angolo della bocca. «Ho la tua parola su questo, Angavar, Re dei faêran?»
«Ti do la mia parola, James di Erith», disse dolcemente Angavar, mentre la luce si spegneva negli occhi dell'uomo. «Ti giuro che sarà fatto.» I corpi di James XVI e della Regina Katharine furono portati a Nido dell'Aquila sul cavallo faêran. Là essi rimasero, nell'atmosfera incantata che li preservò dal decadimento, distesi l'uno accanto all'altra con la mano nella mano. Tre increspature percorsero la superficie della polla; la scena si mescolò e fu sostituita da un'altra. Quando i cortigiani e le guardie di James udirono il suono del Coirnéad e accorsero, trovarono il Re-Imperatore in condizioni disastrose. Giaceva sulla spiaggia, semisommerso dalle onde che arrivavano a lambirlo, e intorno a lui l'acqua era rossa di sangue. «Il mostro ha ucciso Kate», mormorò, mentre lo portavano all'asciutto. Ma non trovarono mai i resti della poverina, solo il braccio staccato di un uomo, lo zoccolo di un cavallo e pochi brandelli di carne spellata, gettati a riva dal mare. Furono chiamati i Maghi più esperti. Con la loro assistenza - o così si pensò - il Re-Imperatore ritrovò la salute e le forze. In quei primi giorni, con l'incantesimo che lo mascherava, Angavar somigliava perfettamente a James. Ma, pur tenendo fede al suo voto, egli desiderava essere visto come se stesso, e non con una maschera. Negli anni che seguirono alterò pian piano l'aspetto che mostrava agli altri, con tale gradualità che quel cambiamento non fu notato dalla popolazione. Allo stesso tempo, usò i suoi poteri per mutare il profilo del Re sulle monete, l'aspetto delle statue che lo raffiguravano e le fattezze del viso sui molti ritratti che erano stati fatti a James in passato. Ognuna di quelle immagini, modificata a più riprese, finì per diventare quella di Angavar. A coronare tale cambiamento, egli fece infine sapere che aveva deciso di tingersi i capelli di nero, e l'unica conseguenza fu che molti cortigiani, che amavano imitare i capricci del Re, si adeguarono a quella moda. Soltanto quattro mortali conoscevano la vera identità del Re-Imperatore di Erith: il giovane Principe, i due Duchi, e Alys di Roxburgh. Edward aveva solo cinque estati al tempo della morte del padre. Quando ebbe l'età di capire, gli fu rivelato il destino dei suoi genitori. Soffrì a quella notizia, ma Angavar teneva una mano su una spalla del ragazzo, e il dolore non fu così insopportabile. Col passar degli anni, egli imparò ad amare lo straordinario signore del gramarye che manteneva intatti l'onore
di suo padre e l'unità del regno, così come aveva promesso. A Nido dell'Aquila, anche sette mortali avevano condiviso il Sonno Pendur con Angavar, e ora stavano dormendo coi faêran. Lui decise di svegliare soltanto loro, per avere un po' di compagnia durante la sua permanenza a Corte. Molti secoli addietro, prima che le Vie per Faêrie fossero chiuse, prima del giorno in cui Ashalind era stata messa al mondo, Thomas Learmont di Ercildoune e Tamlain Conmor di Roxburgh avevano abitato nel Reame Fatato. I faêran avevano ascoltato l'arpa di Thomas, e si erano invaghiti della sua abilità di bardo. Asrhydmai delle Arpe era andato in Erith per guidarlo lungo la Strada Verde nel Reame Fatato, e Thomas aveva accettato volentieri di seguirlo. Era rimasto coi faêran a lungo, suonando e cantando per loro alla Corte di Faêrie. Era stato Asrhydmai a fargli dono di un incantesimo che proteggeva la sua voce esaltandone i toni, anche se una delle sue conseguenze secondarie fu di legare la sua voce all'obbligo di dire sempre la verità. Angavar provava molta simpatia per Thomas, che divenne intimo amico del Re faêran. Tamlain Conmor, Duca di Roxburgh, era anch'egli stato invitato nel Reame Fatato prima della Chiusura. Come Thomas, era assai apprezzato dai faêran, che ammiravano la sua rettitudine. Angavar si teneva cara l'amicizia di quei mortali, ed essi amavano il Reame. Al termine della loro permanenza in Faêrie, Angavar li aveva liberati dal langothe, che altrimenti li avrebbe uccisi, e li rese altresì immuni dagli effetti del tempo trascorso. «Buon viaggio, Thomas», aveva augurato al primo. «Che la buona fortuna sia sempre con te... e anche la verità», aveva aggiunto in tono scherzoso. E a Tamlain: «Vai, e porta con te la tua saggia sposa Alys. La mia benedizione sarà sempre su di voi e sulla vostra figlia primogenita, concepita nella terra di Faêrie». Tuttavia entrambi gli uomini odiavano il pensiero di lasciare per sempre quel luogo incantevole. Quando Angavar se n'era reso conto, aveva dichiarato: «Non è necessario che sia per sempre». E così, Thomas e Tamlain avevano potuto vivere metà del tempo in Erith e metà in Faêrie, perché erano sotto la protezione di Angavar, e spesso lui li aveva portati con sé in una rade, o alla caccia col falco, o a feste e banchetti nei boschi. Affascinata da quelle scene di tanto tempo addietro, Ashalind, in ginocchio sul bordo della polla, sbatté le palpebre. Una lacrima solitaria cadde nell'acqua. Un solitario specchio si riempì di riflessi. Lo specchio si allar-
gò. Le rivelazioni proseguirono... Lady Rosamonde era nata nel Casato di Roxburgh quando sua madre aveva già partorito tre volte. Quelli prima della Chiusura erano stati anni sereni e spensierati, ma dopo che il Principe Morragan ebbe causato la Chiusura delle Vie d'Ingresso, il Bardo e l'altro Duca avevano sentito l'amarezza scendere nei loro cuori. Non potevano sopportare il pensiero di non vedere mai più il Reame. Avevano camminato sui prati verdi di Faêrie, respirato i suoi venti profumati, alzato il viso sotto le sue dolci piogge e visto la possente forza della sua natura riempire di vita ogni stagione. L'idea che Erith fosse separata dalla Terra Oltre le Stelle li faceva soffrire. Pur essendo liberi dal langothe, avevano allora chiesto ad Angavar di poterlo seguire nel Sonno Pendur, finché la forza dei venti di gramarye non avesse fatto crollare le Porte, oppure il mondo fosse finito. Era stato così che si erano avventurati nel lungo sonno, e Tamlain aveva portato con sé la sua famiglia. Per mille anni quei sette mortali dormirono nella grande caverna sotto Nido dell'Aquila, col Re dei faêran e il suo seguito. Poi, quando Angavar fu destato dal Coirnéad e costretto a diventare Re-Imperatore, lui li svegliò. «Amici miei, volete tenermi compagnia?» domandò loro, ed essi non esitarono a seguirlo, poiché volevano riprendere la loro vita e viverla sino in fondo. I desideri e i capricci dei mortali potevano cambiare, anche durante il sonno. Thomas andò con Roxburgh e la famiglia di lui a vivere a Corte. In seguito, il Re-Imperatore restituì ai due Duchi le terre che erano state di loro proprietà tanto tempo addietro, tornate in possesso della Corona dopo la loro scomparsa. Evidentemente, quei mortali privilegiati, si portarono dietro più di un incantesimo faêran lasciando Nido dell'Aquila... Fatto sta che, dopo la restituzione delle loro terre, tutte le genti di Erith dimenticarono che un tempo le cose erano state diverse. Il Principe Edward, Thomas il Bardo, Tamlain e Alys erano i quattro mortali al corrente del segreto reale. Alla bella Rosamonde e ai suoi tre fratelli non era stato concesso quel privilegio, e il ricordo del Sonno Pendur e dei loro anni trascorsi in Faêrie li aveva dolcemente abbandonati, lasciando soltanto una vaga sensazione di rimpianto. Così, otto dormienti da Nido dell'Aquila si erano trasferiti a Caermelor,
mentre tutti i cavalieri faêran di Angavar restavano nel sonno. Ma la città non era l'ambiente che lui preferiva, e spesso se ne allontanava per viaggiare nelle terre aperte. Confinarsi entro le mura dei castelli e delle case non era nella natura dei faêran. E quando si aggirava, da solo o in compagnia, nelle zone meno frequentate di Erith lo faceva con la sua divisa e il suo nome da Dainnan. Era stato così che Ashalind l'aveva visto la prima volta. Il Dainnan indossava una camicia di lana di buona qualità, con ampie maniche arricciate sulle spalle e arrotolate fino ai gomiti; su di essa portava una tunica di morbido cuoio, che gli arrivava alle ginocchia ed era aperta su entrambi i lati per tutta la lunghezza della coscia, in modo da dargli libertà di movimento. Sotto, aveva calzoni di cuoio. Su entrambe le spalle era ricamato lo stemma reale, una corona sovrastante il numero 16 e fiancheggiata dalle rune J ed R; intorno all'avambraccio destro, era avvolta una polsiera di morbida pelle di vitello, trattenuta da lacci di cuoio. Un balteo reggeva un corno dalle finiture in argento, bianco come il latte, e un secondo corno giallo come il sole, rifinito in ottone. Dalla cintura, gli pendevano una borraccia, un paio di sacche e un rotolo di corda, mentre il cinturone delle armi reggeva il fodero di una daga, un coltello più piccolo e un'ascia dalla corta impugnatura. Raccolto un secondo balteo dai ricchi intarsi, il Dainnan se lo passò sulla spalla destra e di traverso sul petto. Adesso, da sopra la spalla gli sporgevano un arco lungo e una faretra, le cui frecce erano decorate con fasce oro e verde, le piume d'oca tinte negli stessi colori. Ad Annath Gothallamor, nelle profondità della polla, il liquido sembrò irrigidirsi; una fine polvere d'oro - il polline delle campanule - ricoprì la superficie e la opacizzò. Le immagini del passato erano scomparse. Ashalind non poté frenare un sospiro. «Non hai visto nulla di utile, Elindor?» Il tono in cui Morragan aveva parlato fece voltare le formose fanciulle umanoidi che giocavano sul prato, e la palla d'oro sfuggì dalle loro mani. Anche alcuni spriggan che curiosavano senza parere, tenendosi per prudenza al riparo di alcune querce, indietreggiarono di colpo e caddero goffamente l'uno sopra l'altro, nell'impulso di allontanarsi dal pericolo che avevano sentito in quelle parole vellutate. Come altre volte, Ashalind fu incapace di rispondere. «Avvicinati», ordinò il Principe Corvo, e lei dovette ubbidire. Lo sguar-
do di lui era ipnotico. «È tempo che tu lo riconosca. Le tue illusioni sono andate in pezzi. Sospirare per un riflesso nell'acqua non è da te. Dubiti ancora che nel vedere in Angavar un'eco del tuo primo amore continui a ingannare te stessa?» «Non è così», rispose Ashalind. Ma la sua fiducia era scossa. Molto tempo addietro, prima di aver conosciuto Thorn-Angavar, era rimasta colpita in modo senza precedenti dall'aspetto di Morragan. Nelle sale di Carnconnor, lui le aveva offerto una scelta tentatrice. Lei non l'aveva dimenticato. «Hai anche una terza scelta, Ashalind-Elindor», disse sottovoce il Principe Morragan. «Non uscire da nessuna Porta. Personalmente, non amo i mortali, e non sarei addolorato se la tua razza scomparisse; tu, però, sei gradevole d'aspetto, coraggiosa e astuta. Resta ad abitare qui e io giuro che sotto la mia protezione non ti sarà fatto del male.» Sotto le sopracciglia dritte, gli occhi color fumo erano acuti e indagatori; ciocche di capelli neri dai riflessi azzurrini incorniciavano il volto immobile. Il faêran era più attraente di qualsiasi mortale e possedeva un potere terribile. Il desiderio di vivere nel Reame era come una ferita aperta per Ashalind e lui, facendo leva su questo, parlò ancora, con voce più morbida che mai: «Posso portarti in palazzi di fuoco e castelli di vetro, posso portarti attraverso l'acqua e l'aria, nell'alto del cielo e sul fondo del mare. Avrai la facoltà del volo e più ancora... Non puoi nemmeno immaginare quali meraviglie si offrono a chi gode del favore di un faêran». Per qualche istante la fanciulla vacillò, stordita da quello sguardo penetrante; poi il pony alzò la testa per annusarle una spalla. All'improvviso contatto delle sue froge calde, lei fece un sospiro e abbassò gli occhi. «Signore, io devo riportare i bambini a casa.» Mai prima di allora era stata preda di un'attrazione simile. Non ne dubitava, si era sentita vicina ad arrendersi. Poteva esserci della verità nelle parole del bellissimo Principe? «Thorn ha riposto la sua fiducia in me», insistette. «Lui mi amava.» Ma cominciava a non credere alle sue stesse parole. Nell'udire la risata di Morragan, le ragazze-cigno fremettero nei loro mantelli di penne. Il giovane Vallentyne lasciò cadere la pipa fumante in un turbine di scintille, e perfino il selvaggio Each Uisge fece una smorfia. Caitri, attanagliata dal timore dell'ira di Morragan, ebbe l'impressione di vedere il Principe dei cavalli d'acqua farsi ancora più pallido. «Sembra che lui abbia giocato un poco con te», disse Morragan ad A-
shalind. «In esilio, il tempo non passa mai per gli immortali. Si cercano piaceri per vincere la noia. Alcuni si danno alle uccisioni, altri alla caccia, altri ancora alle donne. Rifletti, adesso, mia Elindor. Quali promesse precise ti ha fatto?» Lei ripassò i suoi ricordi di Thorn. Non era difficile, perché alcuni momenti erano marchiati nella sua mente così a fondo che nessun incantesimo avrebbe potuto rimuoverli. Torre di Isse, verso sera: un terrazzo illuminato dalle stelle e una figura che le aveva mozzato il fiato, appoggiata alla balaustra. «Ti ho cercato a lungo», disse infine Thorn, sottovoce. «Verrai a Corte con me?» «Verrò.» Terrore e delizia brillarono negli occhi di lei, dolci e selvaggi. «Voglio che tu appartenga a me e a nessun altro.» Così, semplicemente, senza preamboli. Lei era troppo stordita per fare domande. «È già così. Sarò tua, per tutta la vita.» Sta dicendo sul serio? Non sono impazzita? «Lo giuri?» «Sulla Stella, sulla mia vita e su tutto ciò che puoi nominare, io lo giuro.» Lui le porse la mano destra e Rohain sentì una scossa che la percorse dal braccio fino ai piedi. «Ora siamo fidanzati.» Gli alberi nel bosco di querce fremettero. Sopra di loro, le foglie si contrassero come trucioli nel fuoco. Caitri gemette. «Lui ha detto...» Ashalind esitò, a disagio. «Non ha mai detto che vuole sposarmi», fu costretta ad ammettere. «E ne sei sorpresa, razza d'ingenua?» la derise Morragan. Si voltò verso Whithiue, facendo ondeggiare i capelli nero-azzurri. «Illumina la mortale.» Un servitore offrì al Principe un calice dorato, che lui rifiutò. Sedotta dalla sua attenzione, la ragazza-cigno s'inchinò e venne avanti. «Io sono sempre stata una buona amica del Principe Morragan», disse, parlando con una naturalezza e una proprietà di linguaggio che non le avevano mai udito. «Lo stesso non posso dire di te, e delle tue sciocche amiche.» Caitri era sbalordita. «Cosa?» esclamò. «Tu hai sempre parlato con noi usando toni distaccati e leziosi. Dunque sai parlare correntemente la Lingua Comune. Perché ce lo hai nascosto? E ora sembra che ti sia messa contro di noi. Cos'altro ci hai nascosto, traditrice?»
La ragazza-cigno sibilò come un serpente irritato e parve sul punto di gettarsi su di lei. Poi si chiuse nel suo mantello nero. «Perché dovrei dare confidenza a voi mortali?» sbottò. «Siete una razza di ladri e di ingrati! Inoltre non mi piace parlare la vostra rozza lingua. Hooiss shoshalnai souhuena whai mahaan! Se qui lo faccio è solo per rispetto al nostro grazioso ospite.» Morragan le scoccò un'occhiata in tralice, per nulla compiaciuto dei modi rabbiosi della ragazza wight. Lei allora assunse un atteggiamento deferente, ma nei suoi occhi da uccello rimase una luce di odio eldritch. «Rifletti. Come porrebbero i nobili Fatati provare sentimenti profondi per una femmina della vostra razza infetta?» domandò ad Ashalind. «Gli umani sono buoni soltanto a ingozzarsi di carne morta. Concupiscono lascivamente la pura bellezza delle eldritch, divorano i cigni e le altre bestie, e insozzano il mondo coi loro rifiuti corporali! Come potrebbero amarvi, gli aristocratici faêran?» «Thorn ha diviso il cibo con me», obiettò Ashalind. «Abbiamo mangiato insieme molte volte.» «Per i Fatati è facile ingannare i mortali con un incantesimo», la derise Whithiue. «Non lo hai forse visto qui, coi tuoi occhi? Soltanto il toradh viene assunto, e il cochal è scartato. Oppure al toradh viene data la forma esteriore di un cibo solido, un'illusione.» Questo è vero! Ciò che mangiava Thorn non doveva essere vero cibo, visto che non ha mai mostrato di volersi appartare per le sue necessità corporali... «I cigni si nutrono di vermi che trovano nel fango», replicò Caitri, invelenita. L'altra le sbatté i bordi del mantello sulla faccia, costringendola a indietreggiare. «Lascia stare la mia amica!» sbottò Ashalind. «Whithiue, tu mi hai aiutata, e quand'eri ferita sei stata aiutata da una Carlin umana. Allora dimmi, se i faêran ci considerano così sporchi, perché vengono a cercarci?» «Voi umani tenete in casa animali da compagnia, che in fondo disprezzate. Allo stesso modo i Fatati si divertono con gli umani», rispose la ragazza-cigno. I wight che ascoltavano la loro conversazione risero sguaiatamente a quelle parole, e indirizzarono alle mortali strida e pernacchie. «No, tu sbagli», ribatté Ashalind, cercando di non dubitare di quello che diceva. «Chi, se non una ragazzina inesperta, smemorata, stordita dalla paura dei
suoi nemici, potrebbe credere che il più nobile di tutti i Re potrebbe prendere in moglie una mortale, una popolana qualsiasi? A quante altre illusioni campate in aria ti ha portato la tua ingenua vanità?» «La ragazza-cigno parla per partito preso!» la accusò Caitri. «Parla per ipotesi, ma di persona non ha visto niente, e non sa niente.» «Le unioni tra i mortali e gli immortali ci sono sempre state», continuò Whithiue, «spesso forzate, a causa del furto di un mantello o di una pelle. Queste unioni sono sempre finite in tragedia... Vahquil non lo ha mai sentito dire?» «Non ascolterò altro.» Ashalind si tappò le orecchie con le mani. «Vattene! Lasciami in pace, ragazza-cigno! Tempo fa ho creduto che tu volessi aiutarmi, ma ora vedo che volevi soltanto facilitare il mio passaggio nella tela del ragno. Sei infida.» «Whistahey! Tu non mi hai capito, Vahquil», sospirò la bella wight. «Un cigno legato da giuramento a un'umana può solo cercare di aiutarla e togliere le alghe dai suoi occhi annebbiati. Un cigno non può ingannare, come non può mentire. Che tu non abbia nessuna gratitudine per me, è semplicemente triste.» Se ne andò, avvolgendosi nel mantello di penne. «Non hai mai capito le vere intenzioni di Angavar?» sussurrò il Principe, piegandosi verso di lei. Ma Ashalind, emozionata e scossa, non riuscì a rispondere. Si passò una mano sul viso, e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, il bosco di querce e tutti i suoi frequentatori erano scomparsi, e si trovava di nuovo nella camera che le era stata assegnata. Foglie cadute dagli alberi che sostenevano il soffitto e polvere dorata coprivano il pavimento di marmo. Tully e Caitri erano con lei. Il tavolino da toeletta era rovesciato al suolo, lo specchio ridotto in schegge. Nell'ombra aleggiava ancora l'eco di un'ingiunzione: «Tu cercherai ancora, Elindor». Nelle profonde gole e valli ombrose, tra i boschi di betulle silenziose, tra piante impenetrabili e odorose, su rupi solitarie e nebulose, nei deserti e in terre misteriose le grandi Porte son per sempre chiuse. Canzone popolare di Luindorn
9 ANNATH GOTHALLAMOR, PARTE SECONDA L'AQUILA E IL CORVO
Nei tuoi occhi stanotte sto leggendo l'inquieta voglia di viaggiar sui mari. In questo triste giorno tu, partendo, da ogni gioia e piacere mi separi. Avvolta dalla notte, io qui attendo. Nella casa dove ti ho tanto amato anche l'ombre si fuggono a vicenda e non so se t'ho avuto oppur sognato. Canzone d'amore di Taviscot Nella biblioteca dalla finestra a rosone di Annath Gothallamor, Tully sedeva a gambe incrociate sul tappeto, un prato di fieno dorato e campanule azzurre. Stava suonando il suo piffero di canna. Su una sedia accanto a un'alta finestra aperta sulla notte, Caitri intonò una canzone: E a qual posto appartengo, se non a casa mia? È forse il mio destino star sempre per la via? I passi del viandante si fanno più leggeri sol quando torna al luogo dei propri desideri. Molte dimore abita colui che il mondo gira, ma nessuna lo lega, nessuna mai l'attira. Gli anni della vita spende in terre lontane, porti e città straniere, in cui poco rimane. Ma nel suo cuore mai smette di pensare alla casa natale, dove vorrà tornare. «Ah, Caitri», sospirò Ashalind. «Ti prego, non cantare più questa triste canzone. Il langothe è sempre presente in me, e quelle parole lo risvegliano come la paglia alimenta il fuoco. Solo immergendomi in questi libri antichi
riesco a dimenticare la tristezza e la nostalgia. Meditare sulle loro pagine è l'unica attività che mi distrae dalla nostra situazione attuale. Perfino il sonno mi trascina in sogni tormentosi.» Si toccò il braccialetto intarsiato. Stava cominciando a sembrarle rozzo e di poco valore, in confronto agli squisiti gioielli faêran esibiti dagli abitanti della fortezza. Dai loro piedistalli d'oro massiccio, le nove lampade spandevano luce sul soffitto, facendo tremolare le ombre dei bassorilievi e delle pesanti travi. Le costole istoriate dei tomi deposti sul tavolo ottagonale erano illuminate di riflessi. Sul leggio era aperto un altro libro, che Ashalind stava leggendo con attenzione. «Qui», disse, indicando una pagina, «c'è un'illustrazione che raffigura un uomo dal volto sorridente, e un altro che piange. Tra loro c'è una singola rosa rossa, che entrambi stanno guardando. Come possono due persone avere reazioni così diverse davanti allo stesso oggetto? E cosa significa?» La sua compagna restò perplessa quanto lei. In silenzio, andò a osservare la pagina. «Quale fiducia possiamo dare alle parole della ragazza-cigno, o del Principe?» domandò infine Caitri, soprattutto a se stessa. «Senza dubbio entrambi non mentono... non potrebbero. Ma sono assai sottili nel dire la verità. Parlano per ipotesi e per enigmi. Aggirano l'argomento, evadono le domande. Secoli di pratica li hanno resi così esperti che una verità detta da loro può ingannare quanto la menzogna.» «Vero», annuì l'urisk, che a forza di stare in compagnia dei mortali aveva perso i modi un po' alieni dei wight. «E le figure in movimento viste nella polla?» continuò Caitri. «Non do molta fiducia a quelle che mostravano la morte del Re-Imperatore e della sua Regina. So per certo che andavano a cavallo sulla spiaggia, quando quell'orribile Nuckelavee li assalì.» «Fidati di quello che dice lo specchio d'acqua, ragazza», consigliò Tully. «Esso mostra fatti accaduti. È il passaparola invece che altera la verità. Le storie cambiano a forza di essere raccontate; ogni narratore è portato ad abbellirle, credimi pure. La fantasiosa aggiunta dei cavalli mi fa pensare a un'altra notizia inesatta, quella dell'allergia dei faêran al ferro freddo.» Caitri si accigliò. «Cosa vuoi dire? Stai affermando che i Fatati non temono il ferro, e che non è pericoloso per loro?» «Sì, è proprio così. Il ferro freddo è veleno per i wight, ma non per i faêran. Loro possono toccarlo, come toccano l'oro o il sildron o altri metalli. Quella storia è nata nell'Era Oscura, per via del fatto che noi wight non
sopportiamo il contatto del ferro. Ma in quel periodo i faêran stavano dormendo, e non poterono confutare la bugia. Poi la diceria si è sparsa, perché ai mortali piace pensare che loro, potendo maneggiare il ferro, sono in qualche modo superiori.» «Si dice che la conoscenza è potere», rifletté Ashalind. «Se io avessi saputo la verità molto tempo fa, le cose sarebbero andate diversamente. È stata solo la vista di Thorn che maneggiava il ferro a convincermi che era di sangue mortale, e non faêran.» «Comunque sei una ragazza avveduta, perché il suo incantesimo impediva agli altri mortali di avere quel sospetto», ridacchiò Tully. «Chi avrebbe mai pensato che il Re dei mortali era in realtà il Re del Reame?» «E gli altri wight? Non conoscevano la sua identità?» «Alcuni sì, suppongo, ma la maggior parte no. Io, per esempio, non lo sapevo. E a quelli che sapevano, deve essere stato chiesto di giurare che non avrebbero detto niente, altrimenti l'Impero sarebbe andato a pezzi.» «Il Re Angavar è potente», osservò Caitri. «Perché non ha creato un'altra Porta?» «Ci sono cose impossibili anche al Supremo Re», rispose Ashalind. Poi tornò al suo libro, e Tully al suo piffero di canna. Il vento si lamentava intorno alle torri di Gothallamor, con parole tristi e vuote. Dopo un po', Ashalind annunciò: «Ho trovato la risposta all'enigma delle due facce e della rosa! L'uomo che piange possedeva un giardino, il più bello e grande di Aia. Ora tutto ciò che gli resta è quell'unico fiore. E l'uomo che ride osservando la rosa una volta era cieco». «Enigmi, enigmi», sorrise Caitri. Il suo sguardo si spostò sulla finestra aperta e sullo spolverio di stelle seminate nel cielo come perle. Più in basso, vi erano i tetti di Annath Gothallamor e il Pianoro Alto, dove si potevano distinguere vaghi movimenti. «Non c'è stata nessuna tempesta magica, da quando ci troviamo qui», fece notare agli altri due. «Il Fithiach ha bandito il vento shang dalle vicinanze della fortezza, perché reca con sé immagini di uomini», spiegò Tully. «Finché lui starà nella fortezza, non ci saranno tempeste magiche.» «Qui leggo una cosa strana», disse Ashalind, alzando lo sguardo dal libro. «C'è una poesia dedicata a questa fortezza. Tully, cosa significano le parole Riachadh na Catha?» «Be', questo è il vecchio nome del Pianoro Alto», rispose l'urisk. «E significa Pian della Battaglia. Alcuni lo chiamavano Campo di Battaglia dei Re.»
Ashalind si voltò a guardare la scritta in lettere d'oro sull'arcata, presso la libreria: LA VERITÀ È COSÌ DIFFICILE DA TROVARE? «Riachadh na Catha», ripeté tra sé, lentamente. Chiuse il libro. La musica del piffero di Tully tesseva una melodia filiforme tra i riflessi di luce che impigrivano sui vetri piombati. Era una musica che Ashalind aveva già sentito, una le cui parole non avrebbe potuto dimenticare. Un giorno Thorn l'aveva cantata per lei sotto le lussureggianti fronde della Foresta di Glincuith, dopo averla incoronata con una ghirlanda di fiori... Il vento è la mia mano che ti tocca La pioggia è il bacio mio sulla tua bocca Il sole è la risata, la mia gioia Le nubi sono la mia triste noia Il cuore mio che batte, questo è il mare La mia ira è del cielo il tempestare I sogni miei son luce delle stelle La nebbia che m'avvolge è il mio mantello Il tempo freddo è il mio cattivo umore Il fuoco è la passione del mio cuore Io son l'autunno, sono la notte nera Sono il verde dei campi in primavera Sono l'estate colma di vento afoso E l'inverno son io, duro, pericoloso. Quelle parole erano piene di significati, in quel momento. Dov'era Thorn-Angavar? Stava pensando a lei? Erano vere le parole della ragazzacigno? Il suo desiderio di farla felice non era stato che un capriccio passeggero? Quel pensiero le spezzava il cuore, e tuttavia peggio della sua indifferenza sarebbe stata la sua ira. Senza dubbio Thorn aveva ormai saputo che era stata lei, Ashalind-Rohain, ad accendere il Raggio di Tamhania consentendo così l'ingresso dei tre Corvi di Guerra. Lei, e nessun altro, doveva essere incolpata per la distruzione dell'Isola Reale. Chi avrebbe potuto biasimare Thorn se ciò aveva destato la sua rabbia e spento il suo ardore? Forse lei avrebbe dovuto essere contenta se Thorn si era limitato a deci-
dere di non cercarla più, augurandosi che fosse morta nell'esplosione di Tamhania. Poteva succederle di peggio: avrebbe potuto cercarla per punirla. Tuttavia l'aveva fatta cercare, se quanto la ragazza-cigno aveva riferito corrispondeva al vero. Come Morragan, alla fine doveva aver saputo in qualche modo che lei era la chiave per il suo Reame. Quanto doveva essersi arrabbiato, Thorn, scoprendo - troppo tardi - di aver avuto quella preziosa chiave a portata di mano per molto tempo. Indifferenza o rabbia, ecco cosa doveva aspettarsi. Dopotutto, la saggezza popolare era confermata dalle cronache: l'unione tra mortali e immortali era destinata a finire in tragedia. Ma come aveva fatto Morragan a scoprire che l'intrusa alle Torri della Caccia era la mortale entrata in Erith attraverso una Porta? Una Porta che, pur chiamandosi Porta del Bacio dell'Oblio, non era riuscita a tener fede sino in fondo all'incantesimo legato al suo nome, e poteva ancora consentire a quella mortale di tornare nel Reame. L'urisk mise termine alla sua musica con una lunga nota che pian piano si spense. «Tully», disse Ashalind, nel silenzio, «ti prego, dimmi come il Principe ha saputo della mia presenza qui in Erith.» «È una lunga storia», mormorò l'ometto dai piedi caprini, mettendo da parte il piffero. «In questi giorni mi sono mescolato ai wight, ho tenuto le orecchie aperte, e mi sono fatto raccontare molte cose, per rimettermi in pari dopo decenni di solitudine.» Cominciò a raccontare ciò che aveva appreso. Dopo che la presenza di Ashalind alle Torri della Caccia era stata scoperta, e che la vagabonda senza nome era stata inseguita e poi creduta morta nel crollo di una vecchia miniera, e dopo che il duergar fuggiasco era stato catturato e trovato in possesso di una treccia di capelli d'oro... dopo tutti quegli avvenimenti, due spriggan avevano avuto l'occasione di mettere gli occhi su quella treccia. Quando si erano avvicinati e avevano sentito il suo odore, nella loro memoria era scattato il ricordo di un fatto ben preciso, e avevano detto: «Questi capelli appartengono alla femmina mortale che entrò dalla Porta del Colle di Hob un migliaio di anni fa. Come può essere arrivata qui? Le sue ossa dovrebbero essere polvere da secoli.» Quegli spriggan erano Scrimscratcher e Spiderstalkenhen, le due guardie che avevano scortato Ashalind attraverso i corridoi di Carnconnor, quando
lei era andata là per salvare i bambini di Hythe Mellyn. L'informazione era stata subito portata a Morragan. Uno dei suoi cavalieri gli aveva consegnato i capelli con un inchino. Quando il Principe aveva avuto tra le mani quella treccia d'oro così chiaramente talith, nei suoi occhi si era accesa un'improvvisa speranza, per la prima volta dopo dieci secoli di avvilente disperazione. I suoi sottoposti non l'avevano mai visto così eccitato. «Se i due spriggan hanno buona memoria», aveva commentato, «la fanciulla cui appartengono questi capelli non è altri che Ashalind na Pendran, che dopo aver liberato i bambini di Hythe Mellyn ottenne il permesso di far entrare nel Reame tutti i suoi concittadini e si trasferì là, con la sua famiglia. Com'è possibile che si trovi in Erith? A quanto ne so io, al tempo della Chiusura era nel Reame insieme con gli altri. Per essere passata in questo mondo deve avere usato una Porta di cui non sappiamo nulla. Trovare quella ragazza significa trovare la via di ritorno nel Reame. Oggi dunque abbiamo una speranza di mettere fine a questo esilio. Deve essere rintracciata e portata qui!» Ai signori degli unseelie, aveva detto solo: «Trovate la spia!» «Vostra Altezza», gli aveva risposto Huon, «dopo che la spia fuggì dalla mia fortezza, il Cearb la inseguì sulle pendici esterne della caldera, e le fece crollare addosso la miniera in cui si era rifugiata. Senza dubbio la sgualdrina è morta là sotto.» «Allora portatemi il suo cadavere», comandò il Principe. Ma era tardi per una ricerca di quel genere. Non fu trovato nessun cadavere. Dal sottosuolo fu recuperato un mucchio di ossa umane assortite, ma tutte appartenevano a minatori morti da secoli. Si fece l'ipotesi che i resti della spia fossero stati scavati fuori e mangiati dai lupi, ma Morragan interrogò i lupi, gli uccelli, le altre bestie e i wight della regione, e nessuno aveva visto una femmina mortale con quei requisiti, viva o morta, a parte le poche discendenti del popolo talith che ancora vivevano in Erith e che erano ben conosciute. Molti wight furono mandati a esplorare il territorio in lungo e in largo, senza alcun successo. La spia era svanita, e non vi era mortale o wight o faêran che sapesse dov'era. «Se la ragazza è viva, cercherà il Supremo Re», disse Morragan ai più importanti dei suoi cavalieri. «Ma dovrà essere fermata prima che lo trovi, e portata da me. E non fate sapere ad altri il motivo per cui la cerchiamo, perché, se esiste una Porta per tornare nel Reame, questa notizia non deve giungere a chi non è mio stretto alleato!»
I cavalieri faêran di Morragan, i loro servi wight e l'Attriod Unseelie avevano mantenuto una continua sorveglianza su Erith, in attesa che apparissero tracce di una ragazza talith. E intanto, nella Torre di Isse, una giovane serva priva della memoria lavorava col taltry tirato sopra la testa, anche al chiuso e quando non tirava il vento shang, per nascondere la faccia deturpata dall'edera paradossa. Era stato in quel periodo che Morragan aveva cominciato a mettere in atto una tattica diversiva, per polarizzare altrove l'attenzione di Angavar, affinché non avesse molte occasioni di prestare orecchio a eventuali voci sulla presenza di Ashalind. Un po' come certi uccelli, che fanno acrobazie aeree perché i predatori non si accorgano dei loro nidi pieni di uova. A tale scopo, i suoi servi wight si erano alleati coi mortali che già da tempo fomentavano la ribellione nell'inquieta Namarre. Essi avevano alimentato le bramosie dei ladroni da strada, la voglia di potere dei nobilotti locali e la rabbia degli scontenti, esortandoli a unirsi contro l'Impero. Avevano parlato in modo grandioso dell'aiuto degli eldritch e di un potente mago, promettendo un premio in denaro per ogni nemico ucciso e un ricco bottino finale. I namarrani erano stati indotti a credere che le loro orde avrebbero potuto distruggere facilmente le legioni, composte da soldataglia scontenta e pronta a disertare, per dilagare poi nelle terre del sud e detronizzare il Re-Imperatore. Inebriati da visioni di gloria e di ricchezza, i namarrani si erano riuniti per organizzarsi in un esercito. Morragan aveva dato il via alla Chiamata, e la situazione aveva cominciato a farsi preoccupante. Il suo scopo non era la guerra, bensì provocare una tensione sempre maggiore. Con manovre e scorrerie, gli eldritch di Morragan intendevano tenere occupato Angavar-James e l'Attriod Reale, per focalizzare i loro pensieri sui confini con Namarre. La guerra su larga scala alla maniera umana non rientrava nella mentalità dei wight; come i tagliagole da strada, essi eccellevano nelle imboscate e nelle razzie, ma non nelle imprese organizzate con scopi strategici. Tale attività bellica ottenne il suo scopo. Nessun sospetto penetrò nei pensieri di Angavar. Il segreto della fanciulla arrivata attraverso una Porta restò tra Morragan e i suoi principali aiutanti. Neppure l'Attriod Unseelie ne era al corrente. In quanto alle due guardie spriggan che avevano riconosciuto l'odore dei capelli, Morragan le aveva fatte rinchiudere nella più profonda segreta delle Torri della Caccia dove, immerse nei loro rifiuti corporali, potevano oziare e godersi gli insetti di migliore qualità, una stagione dopo l'altra.
Quella precaria situazione sarebbe durata chissà quanto tempo, se non fosse stato per un fatto che si verificò in un giorno di Uvailmis dell'anno successivo... lo stesso giorno in cui un certo nygel ritrovò la libertà. Nella piazza del mercato di Gilvaris Tarv, il capitano degli spriggan di nome Gull si stava guardando intorno, abilmente travestito in mezzo a un gruppo di mercanti stranieri, quando vide l'inconfondibile oro talith dei capelli di Imrhien - come si faceva chiamare Ashalind a quel tempo - spuntare da sotto il suo cappuccio. Lo spriggan radunò un gruppo dei suoi e le diede la caccia, ma la Carlin Ethlinn Bruadair lo prevenne con astuzia. Pur di non dover informare Huon e il Principe del loro fallimento, gli spriggan insistettero nella ricerca e piantonarono la casa della Carlin. Fu tutto inutile, perché la fanciulla dai capelli d'oro si dileguò sotto i loro pur sensibilissimi nasi. La fuggiasca aveva eluso la cattura ancora una volta, però ormai Morragan sapeva per certo che era viva, perché le poche femmine talith di Erith potevano essere controllate e nessuna si era recata al mercato di Gilvaris Tarv. Al Principe Corvo non restava che reclamarla ufficialmente come preda di sua proprietà, prima che a farlo fosse Angavar, se questi avesse scoperto la sua esistenza. In quei giorni, una fanciulla muta e la sua amica ertish languivano in una casa in riva al fiume, ma quasi subito furono salvate e partirono per un viaggio sfortunato e travagliato verso Caermelor. Nelle terre selvagge dove finì per trovarsi, in compagnia di Thorn, Ashalind rimase per un po' di tempo al sicuro. I rispettivi segreti furono la barriera che impedì al Re faêran in incognito di apprendere dalla fanciulla che una Porta era ancora agibile. Lui nascondeva entrambe le sue identità, facendosi passare per un qualsiasi Dainnan, mentre lei aveva dimenticato la propria... eppure tra loro nacque un legame, in quei giorni d'autunno, mentre viaggiavano sulla Strada di Caermelor, e quel legame diventò un sentimento forte e profondo. Nell'ultima settimana di quell'anno, il Mago Reale Sargoth si recò in piena notte nella foresta presso Caermelor. Giunto là, pronunciò un incantesimo di sette parole. Subito il buio lo avvolse e lo trasportò a folle velocità tra gli alberi fin dinanzi a Gull, il capo degli spriggan. Il Mago aveva da lungo tempo contatti con gli unseelie, cosa che pochi mortali osavano, allo scopo di guadagnarsi il favore degli eldritch e ottenere maggiori poteri magici. Agiva come spia, e riferiva a Morragan tutto ciò che Angavar faceva. Il Principe Corvo aveva sempre saputo che suo fratello stava ricoprendo un ruolo che non gli competeva. Il fatto che un Supremo Re faêran
si fingesse un mortale e si occupasse degli affari umani lo disgustava e lo riempiva di rabbia. Come ricompensa per il suo lavoro, Sargoth riceveva favori di diverso genere: imboscate tese dagli spriggan ai suoi nemici personali, oggetti impregnati di gramarye per rendere più impressionanti gli spettacoli di magia che lui dava a Corte, e l'immunità per i ricchi viaggiatori che si difendevano dai wight coi costosi tilhal confezionati dal Mago Reale. Su richiesta di Gull, Sargoth era sempre stato all'erta per controllare se in città fosse arrivata una sconosciuta talith. Quando sua nipote Dianella gli parlò del vero colore dei capelli dell'ultima ospite di Corte, dunque, il Mago andò dritto dal capo degli spriggan. «Chi altri sa di quella sgualdrina?» gli domandò Gull. Sargoth non rispose subito. Prima enumerò gli oggetti magici e i vantaggi che voleva, e pretese che uno spriggan andasse da Morragan per avere la sua garanzia personale. Poi disse: «Soltanto una Carlin sa di lei: Maeve la Guercia, e il suo ragazzo tuttofare». Il Mago fece ritorno a Caermelor, ma Gull ordinò alla sua scorta di aggredirlo prima che uscisse dalla boscaglia e picchiarlo, per insegnargli a essere meno avido nelle sue pretese. Subito dopo, il capo degli spriggan mandò i suoi sgherri ad ammazzare Maeve. La Carlin e Tom Coppins furono costretti a fuggire, e alla fine trovarono rifugio in fondo a un pozzo vuoto. Incapaci di raggiungerli, gli spriggan si appostarono intorno al pozzo e li imprigionarono là dentro. Un messaggio fu mandato a Huon, alle Torri della Caccia: «Tenetevi pronti». All'ora prefissata, la Caccia piombò sul Settimo Casato dei Cavalieri della Tempesta. Se Huon fosse arrivato un giorno prima avrebbe avuto successo. Sfortunatamente per il Cornuto e per Gull, i loro piani andarono all'aria. Le manovre del Mago erano state scoperte. Angavar-James aveva sempre saputo dell'infedeltà di Sargoth, e lo aveva usato per far pervenire agli avversari le informazioni che lui voleva. Quel giorno, scese dal cielo con tutti i suoi cavalieri e prese alle spalle la Caccia, che fu costretta a fuggire. La preda sfuggì così a chi l'aveva cercata alla Torre di Isse. Subito Morragan fu informato degli ultimi sviluppi: Ashalind era tornata ad abitare a Corte. Fu allora che, per qualche tempo, il Principe Corvo si convinse che tutto era perduto, poiché non poteva dubitare che Angavar avrebbe scoperto tutto della fanciulla talith. Sicuramente si sarebbe fatto raccontare la sua strana storia, e avrebbe saputo da lei dove si trovava la Porta. Ma il Princi-
pe Corvo non poteva immaginare che lei fosse sotto il bitterbynde, l'incantesimo della Porta del Bacio dell'Oblio. Nella sua situazione di amnesia e di false identità, così complicata da sfiorare la farsa, si era introdotto un altro fattore: l'amore, che acceca il raziocinio. E così, se Ashalind non sospettava che James-Thorn fosse in realtà Angavar, quest'ultimo non avrebbe mai sospettato che Rohain delle Isole Sorrows fosse una persona proveniente dal passato. La sua natura di faêran lo induceva a vivere con intensità il presente, senza preoccuparsi troppo di ciò che era accaduto nel passato. Angavar non conosceva la paura, e quindi il passato non conteneva minacce per lui. Inoltre, la sovranità sugli elementi, la conoscenza della lingua di tutte le creature, e molti altri poteri, avevano reso arrogante il Supremo Re dei faêran. L'onniscienza non aveva bisogno degli astuti sotterfugi di chi deve indagare e raggirare per scoprire le cose; il guaio di chi la possiede è l'incapacità di dubitare dei propri limiti. Morragan aveva finito per accorgersi di come stavano le cose. E si era stupito della sua fortuna. Quando il Re-Imperatore era andato a ispezionare le sue armate nel nord, Ashalind era stata lasciata nella relativa sicurezza dell'isola di Tamhania. Morragan aveva riorganizzato le sue forze e le aveva messe al lavoro contro le difese dell'isola. Il suo primo attacco era stato subito un successo: la Porta dell'isola seelie si era aperta da sola, dinanzi a un abile inganno, e la tragedia l'aveva annientata. Tuttavia in quel cataclisma la talith era sfuggita a chi perlustrava il mare e le sue coste: invece di mettersi in viaggio per le terre civili, come chiunque avrebbe fatto al suo posto, si era diretta verso nord. In quelle terre selvagge e pericolose aveva fatto perdere le sue tracce, e ogni ricerca era stata vana. Tra le colline, nelle foreste oscure, ad Appleton Thorn, e nei territori aperti più a settentrione, Ashalind e le sue compagne di viaggio erano state viste solo dai wight locali, così indipendenti o senza legge che ignoravano la Chiamata di Morragan. Invece, in Cinnarine, un ganconer si era per caso imbattuto nelle fuggiasche. Dopo essersi soddisfatto con una di loro, secondo l'inclinazione della sua razza, aveva mandato un messaggio ad Annath Gothallamor. «E il resto lo sai», concluse Tully. Si portò il piffero alle labbra e ricominciò a suonare. La musica eldritch si alzava nell'aria come un falco in volo. Era evocativa, liberava Ashalind dal pensiero della sua prigionia e rinfrescava ricordi meno recenti. Dal confine del Pianoro Alto, il suono di un corno wight
giunse alle finestre della biblioteca. Le riportò alla memoria un altro strumento simile, il corno faêran che aveva suonato l'ultima Chiamata a Faêrie, il giorno della Chiusura. In quell'occasione, Ashalind si trovava con suo padre nella Torre di Guardia, mentre, fuori del confine del Regno, Angavar e Morragan sì scontravano in un'aspra battaglia... Ben presto una vera folla di faêran - ai quali si erano uniti wight, uccelli e altri animali - si precipitò fuori della Geata Poeg na Déanainn per aiutare il Re a tornare in patria... benché non fosse molto probabile che sarebbero riusciti a raggiungere il sovrano prima della Chiusura, dato che le due fazioni in lotta si trovavano a più di un miglio dalla Porta. Ashalind taceva, ma era sempre più tormentata da desideri contrastanti. Girò ancora lo sguardo sui cavalieri che si battevano nel territorio oltre la Finestra, colpita dal furore di quella mischia nella quale non veniva versata una sola goccia di sangue. D'un tratto le si mozzò il respiro e fu come se il suo spirito fuggisse da lei per involarsi nel cielo di Erith. «Padre, perdonami!» fu costretta a dire. «Devo tornare laggiù.» Leodogran la guardò, sconvolto. «Perché?» «È solo che...» Lei si sforzò di trovare le parole. «Il mio futuro è in Erith, lo sento. Se il Supremo Re non rientrerà in tempo...» Quell'episodio, di cui soltanto ora Ashalind recuperava il ricordo, fu una rivelazione. Lei aveva visto una faccia... la faccia di Angavar, per la prima volta, pur se da una certa distanza. Le venne da pensare che proprio la vista di lui l'avesse indotta a decidere di tornare in Erith all'ultimo momento, per quanto ridicolo e pericoloso fosse. «Naturalmente», mormorò a se stessa. «Lui è un faêran, e tutti i mortali s'innamorano dei membri di questa razza, non appena mettono gli occhi su di loro. Quanto più forte è l'attrazione esercitata dal loro sovrano? Io sono stata adescata. Come una falena verso la fiamma. Tuttavia mi fa piacere ricordare questo, e sapere che il motivo per cui sono tornata in Erith è Thorn. Questo conferma il mio amore per lui... anche se non è reciproco. In ogni caso, un'unione di questo genere non avrebbe avuto futuro.» E sentì una stretta al cuore. Le sue riflessioni furono interrotte. Dalle alte travature del soffitto fluttuò giù un fiocco di neve, atterrando sul leggio. Tully scostò il piffero dalle labbra. Ashalind raccolse il candido frammento e su di esso vide scritte alcune parole, in un inchiostro d'argento che scorreva come acqua. Perplessa, le lesse ad alta voce:
Pur non avendo braccia da allungare ogni orizzonte io posso toccare. Pur non avendo nave per viaggiare io posso navigare su ogni mare. Pur non avendo eotauro da montare ogni cielo io posso attraversare. E per ben sette anni posso stare senza il mio piede al suolo mai posare. Un brivido di terrore e delizia percorse la lettrice. «È un indovinello», commentò, guardandosi intorno. La biblioteca sembrava vuota, a parte Tully e Caitri. «Dammi un momento», intervenne l'urisk. «Troverò io la risposta.» Due ali forti sbatterono fuori della finestra. Un grosso corvo si posò sul davanzale, piantando gli artigli nel legno. Impaurita, Caitri abbandonò la sedia e corse a rannicchiarsi ai piedi di Ashalind. Gli occhi tondi del corvo li fissavano con sguardo freddo. «Vediamo, quale può essere la soluzione?» mormorò Tully, grattandosi la testa. «Lascia perdere», disse Ashalind. «La so già.» Le sue pulsazioni avevano accelerato come quelle di un uccello in gabbia. «La risposta all'indovinello è: un uccello marino, l'elindor.» «Sei molto acuta», disse la voce del Principe Morragan, in tono seccato. L'individuo uscì fuori dal nulla, o così parve, e allungò un braccio. Il corvo volò nella stanza e gli si appollaiò sul polso. La biblioteca si velò di luce stellare, perché d'improvviso il soffitto si era dileguato senza rumore e la stanza era aperta al cielo notturno. Le fiammelle delle nove lampade non si riflettevano più sul lucido legno della libreria, al cui posto vi erano ampi varchi da cui entrava il vento. I muri sul lato delle finestre si rivelavano come monoliti di basalto incoronati da capitelli di arenaria. Entro quel circolo primitivo, i mobili intarsiati restavano immutati, un po' incongrui. Alcune figure entrarono dai varchi: i cortigiani del Principe, seguiti da numerosi wight addetti al servizio dei faêran. Tra essi, apparve l'Each Uisge in armatura da campo, simile a una scultura di metallo. Dai coprispalla articolati gli spuntavano lucidi corni ricurvi, e così anche dalle ginocchiere, dai coprigomiti e dall'elmo, mentre i bracciali erano istoriati a scaglie di pesce, con disegni di perle fissate al metallo argenteo che s'intonavano a
quelli sul pettorale. Sull'esterno del bracciale sinistro era saldato un piccolo scudo di bronzo rettangolare, e sotto la cintura aveva un gonnellino di cuoio bianco borchiato, con ricami d'argento. I guanti articolati sembravano scintillanti chele di granchio. Il minaccioso wight si spostò alle spalle di Ashalind. Con aria pigra e annoiata, Morragan le accarezzò i capelli, rigirandosene una ciocca intorno a un dito. Lei arrossì. «Guarda fuori della finestra, lhiannan», le suggerì. Tra due colonne di basalto si stendeva la tela di un ragno, imperlata di rugiada. Da essa s'irradiò un velo di nebbia, che si divise in due come un sipario e aprendosi rivelò una scena: non l'eterna notte di Darke, ma l'abbagliante giorno dell'arida Arcdur. Una volta ancora il gramarye rivelò quella terra di rocce e radi pini. Una volta ancora Ashalind non riconobbe alcun punto di riferimento per localizzare l'elusiva Porta del Bacio dell'Oblio. La scena prese a scorrere come le altre volte, e ben presto le parve di essere priva di energia, come se quel panorama gliela risucchiasse dalle ossa. «Basta, per favore», supplicò, dopo qualche tempo. Ma non ebbe risposta. La ricerca continuò e fu più lunga delle precedenti. Le sue spalle erano curve per la fatica. Quando la bella voce di Morragan ordinò: «Cambiamo posto», la schiena le doleva come se avesse lavorato nei campi per tre giorni e tre notti. Lo scenario di Arcdur scomparve, e il suo posto fu preso da un altro territorio: un campo di battaglia al tramonto. L'orizzonte era segnato da lunghe ferite rosse. Da dietro una montagna, una sottile falce di luna si levò pian piano in un cielo nebuloso, verdastro come il riflesso delle chiome degli alberi in una palude. Nei bagliori sanguigni del giorno morente, una spedizione di soldati ertish si stava confrontando con una vasta orda di namarrani. Le truppe si affrontarono su un terreno aperto dove già scendeva il buio. Ogni battaglione ertish si componeva di tre gruppi disposti a rettangolo: lancieri, arcieri e balestrieri, con una squadra di cavalleria pesante sulla destra e una squadra di cavalleria leggera sulla sinistra. I lancieri, che costituivano la parte più avanzata di ogni battaglione, posarono un ginocchio a terra e, al riparo degli scudi, puntellarono al suolo il fondo delle lance tenendole inclinate di circa trenta gradi. A quel modo le lance, puntate verso il nemico, formavano una barriera quasi impenetrabile per i cavalli. Dietro di loro erano pronti gli arcieri e i balestrieri. Gli arcieri, anch'essi con un ginocchio posato a terra, avevano la protezione di un piccolo scudo fissato al
braccio sinistro, e lo abbassavano soltanto mentre incoccavano un altro dardo. I cavalieri si portarono in fondo a ogni battaglione, per restare al riparo della fanteria fino al momento più opportuno per tentare una carica. I cavalli dei ribelli rifiutarono di gettarsi contro quel muro di lance. La fanteria ertish era al sicuro, fino a quando avesse potuto mantenere quella formazione, ma senza mobilità le sarebbe stato quasi impossibile sconfiggere il nemico. Per un po' di tempo le forze ribelli sottoposero i guerrieri ertish a un incessante lancio di frecce e giavellotti. Quel continuo tormento irritò gli uomini, e alla fine la loro disciplina cedette. Alcuni lancieri si alzarono e cominciarono ad attaccare. Per conservare intatta la capacità difensiva del muro di lance, gli altri furono costretti a seguirli. Mentre i finvarnani avanzavano sul terreno irregolare, attenti soprattutto a ripararsi dalle frecce e dalle lance tirate loro addosso, non furono in grado di mantenere una formazione regolare. Nei loro ranghi si aprirono dei varchi, e la cavalleria pesante nemica vide l'occasione di gettarsi in quegli spazi. Una volta giunti nel cuore della formazione ertish, i namarrani cominciarono a battersi con le spade, le mazze ferrate e le accette. Gettata nel caos, la fanteria ertish non riuscì più a contrastare la cavalleria nemica: gli uomini ruppero i ranghi e si dispersero nel buio. Non appena le orde dei barbari videro che gli avversari cedevano, mandarono avanti anche la fanteria e tutte le loro forze. I finvarnani furono travolti. Ma quella era una battaglia di poco conto, che non avrebbe deciso le sorti della guerra. Lo scontro decisivo era ancora lontano. Tra i pilastri di pietra, l'immagine cambiò ancora. Il sole appena sorto gettava raggi obliqui sul Ponte di Terra di Nenian, illuminando le facce dei cavalieri che affiancati avanzavano verso la gloriosa luce dell'aurora. A ranghi serrati, le loro lance e gli stendardi si levavano come una foresta multicolore. I riflessi delle lucidissime armature si vedevano a molte leghe di distanza. Sopra di loro, numerose Navi del Vento si alzavano e abbassavano tra le nuvole, e dodici squadroni di Cavalieri della Tempesta passavano in volo come grandi uccelli da preda. Tra i Cavalieri della Tempesta vi erano Lord Voltasus, Ustorix, Isterium, Valerix e Oscenis. Diarmid Bruadair era tra i legionari, tenente in seconda del Reggimento Imperiale. Non distante da lui cavalcava una soldatessa dai capelli sciolti con una lunga faretra a tracolla: il caporale Muirne Bruadair, della Compagnia degli Arcieri Reali; al suo fianco, il giovane arciere Eochaid, di Gilvaris Tarv.
Più indietro marciavano compagnie di fanti meno disciplinati nel mantenere la formazione. Le loro armature erano fantasiose, e consistevano soprattutto in cuoio martellato con rinforzi in borchie di ferro. Alcuni erano a bordo di carri, altri in groppa a quadrupedi dal più diverso aspetto, altri ancora marciavano gagliardamente e cantavano, ma non nella Lingua Comune. I loro capelli e le loro barbe disordinate avevano un colore rossastro come i bagliori sparsi nel cielo dall'aurora. Ogni tanto qualcuno gridava un commento triviale, e le risa e gli schiamazzi degli altri si udivano da lontano. Uno di loro, robusto e corpulento come un bue, in sella a un cavallo da guerra dai garretti pelosi, brandiva ascia e scudo. Era Sianadh Kavanagh, e le canzoni che cantava insieme con quelli che gli stavano accanto, mentre seguivano il capitano Mabhoneen degli Ert di Finvarna, si sarebbero meglio adattate a una taverna piena di ubriachi e prostitute che a un campo di battaglia. Con le legioni cavalcavano anche gli Arysk, gli Uomini dei Ghiacci, tre battaglioni di rimaniani con armature che scintillavano come il sole sulla neve; i robusti uomini bruni di Severnesse e i feroci soldati di Luindorn avanzavano tra i cavalieri. I Dainnan indossavano cotte di maglia sotto tunichette bianche, il cui scopo era d'impedire che il sole scaldasse troppo il metallo. Sir Heath era tra loro, coi cavalieri Tide, Firth, Dale, Flint, Gill, Tor, e tutti i compagni dei loro thriesniun. Alla loro testa cavalcava l'Attriod Reale: Tamlain, Duca di Roxburgh; Thomas, Duca di Ercildoune; Lord Octarus Ogier, Capitano dei Cavalieri della Tempesta; Lord John Dromdunach, Comandante delle Guardie Reali; Richard di Esgair Garthen, Ammiraglio del Mare; Istoren Giltornyr, Ammiraglio del Cielo. E colui che cavalcava alla testa di quei thriesniun, di quei battaglioni, di quei Maghi, di quelle Navi del Vento e di quei cavalieri avanzava con la fierezza di un leone. Il condottiero che portava il nome di James XVI, ReImperatore, precedeva gli altri di parecchie lunghezze in sella al suo cavallo da guerra, Hrimscathr. Al suo fianco pendeva il fodero con la spada Arcturus, costellato di gemme che riflettevano i raggi del sole. Era esattamente come Ashalind lo aveva una volta immaginato, splendido nella sua armatura da campo finemente cesellata e con inserti a forma di conchiglia. Le piastre protettive dei gomiti, delle spalle e delle ginocchia erano intarsiate di gemme rosse che formavano disegni di rose. Il leone dei D'Armancourt ruggiva sul suo pettorale. Anche l'elmo era ornato da un leone d'oro, cinto all'altezza del torace da una corona incrostata di stelle. Ai lati del
guardanaso erano visibili gli zigomi alti e gli occhi dallo sguardo penetrante come pugnali. Si voltò a sorridere a uno dei suoi capitani, e piccole rughe gli apparvero agli angoli della bocca. L'Attriod Reale, nel suo piumato splendore, gli stava intorno. Quella era l'avanzata in pompa magna delle Legioni di Eldaraigne e dei battaglioni di tutte le nazioni di Erith, con i loro stendardi, i gonfaloni e le bandiere al vento. Erano soldati orgogliosi e decisi, che puntavano lo sguardo sulle terre aperte del Ponte di Terra e avanzavano dritti verso Namarre. L'intera scena durò pochi istanti. Mentre Ashalind guardava, l'oscurità scese sul territorio, nel cielo si accesero le stelle, e le ombre di Darke riapparvero sulla ragnatela tra i due pilastri. Ashalind chinò il capo, stanca. «Devi fare di meglio in questa ricerca, se vuoi ottenere i miei favori», disse Morragan, con una nota pericolosa nella voce. Fece avvicinare il faêran col vassoio dei vini. «Se non troverai la Porta, Elindor, dovrò scatenare le mie orde contro i soldati che hai visto.» «Daresti battaglia a tuo fratello, il Re al quale hai giurato fedeltà?» domandò Ashalind, alzandosi di scatto. Morragan non rispose. Si allontanò a lunghi passi, col mantello che svolazzava come a un vento rabbioso. Il faêran col vassoio dei vini si voltò verso di lei, dicendo: «Tu stessa hai creato questa situazione, con la tua visita alle Torri della Caccia. Hai offerto l'oro dei tuoi capelli a un duergar, e così l'esistenza di una Porta è stata rivelata. Le nazioni del mondo sono in guerra solo per distrarre Angavar dal pensiero di ciò che tu puoi fare». «Come potete esser certi che il Supremo Re non sappia già della Porta?» «Se solo sospettasse la sua esistenza, Angavar andrebbe in Arcdur con i cavalieri e le dame del suo seguito. Se avesse fatto questo, l'avremmo saputo all'istante. Perfino ora tu ci sottovaluti?» «Siete riusciti a distrarlo come volevate. Ora mettete fine al conflitto.» «Sua Altezza Reale desidera la distruzione di tutti coloro che hanno fatto lega con Angavar: le Legioni di Erith, i Dainnan e i sette mortali. Le forze eldritch qui radunate sono potenti. E potenti sono anche i wight dell'Attriod Unseelie. Le ambizioni dei namarrani vanno oltre il bottino che i loro capi cercavano: oggi sono un popolo che cerca la libertà dall'Impero.» «I vostri alleati wight e mortali non hanno nessuna ragione per aggredire gli uomini di Erith», replicò debolmente Ashalind. Collassò sulla sedia e accettò il calice di vino che l'altro le offrì. «Loro non hanno fatto del male
a nessuno.» «Tutti i mortali sono ladri e spie», sentenziò il faêran, in tono sprezzante. «Bugiardi e ingannatori, avidi, egoisti, sfrenati e disordinati, maleducati e rissosi. E tuttavia il Fithiach non si degnerebbe di far loro guerra, se non fosse per il fatto che Angavar li ama.» «Te lo ripeto: non c'è ragione di fare la guerra, ora che io sono qui!» Lord Iltarien le si avvicinò. «Visto che i preparativi sono arrivati a questo punto, il nostro Principe ha deciso di portare la cosa alle sue logiche conclusioni. Angavar è stato informato che tu sei qui con noi, a Gothallamor, benché sia arrivato tardi alla verità. Sa che dietro questa rivolta c'è il nostro Principe. Attaccherà. Ha già oltrepassato il Ponte di Terra, e avanza in Namarre. Noi siamo pronti.» L'elegante Each Uisge intervenne, con voce gorgogliante come acqua in una fognatura: «Le ali del corvo si allargheranno sui cieli di Erith, quando il potere di Angavar verrà indebolito dalle nostre armi». «Allora voi tutti state cospirando contro il vostro Re!» esclamò Ashalind, gettando il bicchiere in faccia al più vicino dei cavalieri faêran. «Siete dei traditori!» Il vino si solidificò a mezz'aria. Lacrime di rubino precipitarono sul pavimento come una collana rotta, e su di lei piombò una tenebra così fitta che le parve di aver perso la vista, mentre nell'aria echeggiava un grido minaccioso. Poi qualcosa la afferrò e la scaraventò al suolo. 10 LA BATTAGLIA DI NOTTETERNA DELL'AMORE E DELLA GUERRA
Un verde colle silente e abbandonato, immobile stagliato contro il cielo, muta reliquia di un tempo passato, s'erge sotto le stelle, il sole e il gelo. Copre come un eterno manto l'erba la sala dove giacciono i dormienti, nella cava di pietra che conserva armi e gioielli ed ori scintillanti. Ma perché i cavalieri hanno voluto
intoccati dal tempo riposare? E chi li sveglierà il giorno dovuto da questo loro sonno secolare? Versi da I Dormienti, antica ballata Il cantore faêran finì la canzone dei Dormienti, e le sensibili dita dell'arpista si fermarono. Lady Sildoriel, una dama della Corte in esilio del Principe Morragan, si avvicinò ad Ashalind. Portava un vestito di ali di farfalla e penne di pavone: azzurro, turchese e verde, iridescente. «Non pochi mortali hanno pagato con la vita offese meno gravi della tua, fanciulla», disse. «Tu invece partecipi alle nostre feste. Dovresti essere lieta se sei stata favorita dal Principe... per ora, almeno.» E sorrise, di un sorriso che sembrava fatto in parte di fuoco e in parte di mistero. Veder sorridere una di quelle creature magicamente belle dava davvero l'impressione di essere privilegiati, favoriti dalla sorte. Era come spaziare con lo sguardo su un'immensa pianura verde, fino alle montagne lontane. Era come volare. «Sì», mormorò Ashalind, colpita. «Sono davvero fortunata.» Distolse lo sguardo dalla faêran e si avvicinò a Caitri, anche lei seduta sul monticello fiorito. Quel giorno l'amica indossava un abito di broccato e seta selvaggia, con la pesante gonna aperta sull'erba costellata di margherite e non-ti-scordar-di-me. Intorno alla fronte aveva una ghirlanda di fiori selvatici che le era stata regalata da una faêran, ma il suo giovane viso era esangue. Un vassoio di fragole attendeva accanto a lei; nessuno dei piccoli frutti rosa, freschi e imperlati di rugiada, era stato toccato. Tully ne prese uno e ne mangiò un boccone, annuendo con l'aria di apprezzarne da intenditore la perfetta maturazione. Dopo aver provocato l'ira dei faêran ed esser stata gettata sul pavimento della biblioteca, Ashalind era stata sommersa da un improvviso e invincibile accesso di sonno. Non sapeva bene quanto tempo avesse dormito, ma svegliandosi si era trovata in un altro luogo, un altro misterioso angolo nelle viscere di Gothallamor. Lì scorreva un torrente che emanava una fosforescenza azzurra, orlato di salici piangenti tra i quali ogni tanto facevano capolino femmine asrai, verdi di capelli, timide e curiose. Da un ramo pendevano abiti nuovi, per lei e per Caitri. I vecchi avevano cominciato a disfarsi, effimeri come ali di falena, e sembravano già indumenti rimasti a marcire per decenni in fondo a un cestone. Mentre le ragazze si rive-
stivano, sul corso d'acqua era sopraggiunta una barca di legno carica di fiori, che procedeva da sola e senza guida. La barca si era accostata alla sponda con un leggero tonfo. Ashalind e Caitri erano salite a bordo, poiché sembrava non esservi altra scelta, e l'imbarcazione le aveva portate lungo un tunnel dalle pareti di foglie, che sfociava in un frutteto. L'ambiente era quello di un crepuscolo primaverile. I meli in fiore emanavano una luce morbida, come stelle chiuse dentro un tessuto traslucido. Nelle radure tra gli alberi, sotto il chiaro di luna, snelle figure danzavano accompagnate dalla musica più dolce e appassionante che mai orecchie mortali avessero ascoltato. Ashalind e Caitri si erano guardate intorno, liete e affascinate, e c'era voluto un po' prima che si accorgessero che Tully le aveva raggiunte. Quando le danze erano finite, tre dame della Corte del Principe si erano avvicinate alle due mortali che sedevano sull'erba come in preda a un incantesimo, ed erano rimaste con loro finché il bardo faêran non aveva terminato la canzone dei Dormienti. «Qui è sempre buio», osservò Ashalind, cercando di reprimere la sua angoscia. «Ma quella musica rievocava giorni colmi di sole. Ho nostalgia del sole. Perché il Principe abita a Notteterna?» «Si adatta al suo umore, in questo periodo», rispose Sildoriel. «Ma tu potresti renderlo più allegro.» Ashalind distolse lo sguardo. «Presto non ne avrai più l'occasione», aggiunse la dama faêran, «perché con la festa di oggi celebriamo la partenza da Gothallamor.» Ashalind si voltò di scatto. «La partenza? Dove andremo?» Sildoriel sorrise. «Tu non partirai, figlia di Niamh. Ci uniremo alla battaglia. Il Principe se ne andrà tra poco, coi suoi cavalieri. Tu resterai qui, in attesa del suo ritorno.» Un improvviso senso di desolazione costrinse Ashalind a chiudere gli occhi. Dietro le palpebre vedeva lampi di luce nera. Chinò la testa. I capelli, sciolti, le si versarono in grembo come vino chiaro. Un piccolo wight dalle lunghe orecchie, con guance bulbose e ginocchia rigonfie, si avvicinò con aria servile. Era miseramente vestito con una giubba di pelle di lucertola e pantaloni di paglia intrecciata, e offriva in giro un vassoio con delle conchiglie ripiene di una polpa marrone. Caitri fece una smorfia. «No, grazie. Questi frutti di mare sono fatti col fango!» protestò, accennandogli di allontanarsi. Lui fece per andarsene, ma una delle compagne di Lady Sildoriel lo fermò con un gesto. «A quanto pare, dolce passerotta, tu non conosci le delizie del xoco-
huatl», osservò Lady Gildianrith. Quindi, prese una conchiglia spiraliforme e ne spezzò la cima. «Il xocohuatl è fatto coi semi di un albero faêran, che fu portato in Erith e cresce solo in luoghi nascosti. Informa la erithbunden, Snafu.» Il wight assunse un atteggiamento più importante, e squittì: «Semi arrostiti. Alcuni spremere per fare burro. Altri bollire, mischiare con latte, burro di xocohuatl e zucchero. Versati in forme, fatti raffreddare, indurire. Buono mangiare». Le aristocratiche faêran guardarono il wight con evidente disgusto. «Prego, eseguite la procedura del pasto», disse Sildoriel alle mortali. «Vero cibo faêran», si rallegrò Tully. Prese una conchiglia color cinnamomo e se la mise in bocca. Poi ne afferrò un'altra manciata. «Chocoluatl!» «Questa roba marrone non incontrerebbe mai il gusto della nostra Corte», sussurrò Caitri in un orecchio di Ashalind. Le mortali rifiutarono quei pasticcini. Snafu si allontanò tra gli alberi e fu accerchiato da una banda di hobyah. Ben presto da quella direzione provennero voci e grugniti goblin, mentre Snafu fuggiva, squittendo. Caitri si rivolse a Sildoriel: «Le vostre fragole, mia signora, o, piuttosto, quelle imitazioni che vediamo qui... hanno la compattezza e il profumo delle fragole vere. Senza dubbio ne possiedono anche il sapore e la bontà. Sono cibo autentico?» «Il nutrimento è autentico», rispose Sildoriel scrollando le spalle, «e così anche il sapore e l'odore, poiché sono fatte per essere degustate. Soltanto l'immagine è un'illusione.» «Allora da dove viene la loro bontà?» «Affinché questi simulacri siano saporiti, piccola ragazza, in qualche luogo di Erith sono rimaste delle fragole prive di ogni sapore... dei semplici involucri, con appena una sembianza di sapore. Ordunque le mangi non ne ricaverà alcun nutrimento.» «Da quelle fragole è stato rubato il toradh, allora», osservò Caitri, cercando prudentemente di non farla sembrare una critica. «Proprio così», annuì l'amabile cortigiana. «Hai mai notato che certa gente può mangiare grandi quantità di cibo e restare pelle e ossa? Quella gente mangia soltanto cochal.» «E perché», continuò Caitri, infervorata, «i faêran privano del nutrimento quella gente, mentre ad altra gente è permesso d'ingrassare?» «Percepisco una nota di disapprovazione in te, dolcezza», osservò in to-
no indifferente Sildoriel, prendendo con una mano il mento di Caitri. «Rassicurati, perché noi faêran scegliamo a caso qua e là, o per scherzo, com'è nostro diritto. Ma quando sono i wight a rubare, essi rubano sempre dalle stesse vittime. I loro furti sono motivati dal disprezzo, o dalla gelosia.» Lasciò andare la ragazzina e rise della sua espressione, ben sapendo quale fosse l'effetto del tocco dei faêran sui mortali. Dopo che Gildianrith, Sildoriel e l'altra dama faêran si furono alzate con un fruscio di penne di pavone ed ebbero lasciato il monticello, Tully si rivolse sottovoce alle due ragazze. «Ho delle notizie per voi, dal campo di battaglia.» Eccitate e ansiose, Ashalind e Caitri attesero le sue parole. «Non molto tempo fa, i mortali hanno combattuto contro i mortali nell'occidente di Namarre, oltre i confini di Darke. La battaglia è cominciata con gli arcieri e i balestrieri che tiravano da ambo le parti, per colpire la fanteria nemica. I lancieri restavano dov'erano, per proteggere gli arcieri. Per un po' non è accaduto niente, fuorché questa pioggia di frecce. Io avevo già visto questa guerra di posizione in altre battaglie umane del passato. Entrambe le parti cercavano di costringere il nemico a venire alla carica per primo.» «E chi ha attaccato per primo?» domandò Caitri, col fiato mozzo e a occhi sbarrati. «Auch, le truppe imperiali sono ben disciplinate. Hanno rifiutato di farsi attirare dai namarrani, nonostante le provocazioni degli arcieri e della cavalleria leggera. Irritati da questo, i namarrani si sono lasciati vincere dall'impulsività e hanno lanciato un attacco sul terreno aperto.» «Ha avuto successo?» «No. La prima carica non è stata molto spettacolare», continuò Tully, col tono di un soldato rotto a tutte le esperienze. «Nessuno schieramento ha guadagnato un vantaggio. I capitani namarrani hanno usato la fanteria per mascherare gli spostamenti della cavalleria, e poi hanno ordinato una serie di assalti. Nel frattempo, i battaglioni imperiali mantenevano la loro formazione lasciando che le truppe namarrane si stancassero, come ondate che colpissero inutilmente una riva rocciosa. Quando hanno giudicato che i ribelli avessero esaurito le forze, hanno lanciato un breve incisivo contrattacco, vincendo la battaglia.» «Sia ringraziato il cielo», mormorò Ashalind. «Allora il Re-Imperatore continua ad avanzare in Namarre?» «Sì», rispose l'urisk. «Dritto verso di noi. In questo momento le sue Le-
gioni sono a poco più di dieci leghe dalla fortezza.» «Così vicino!» Un fremito di eccitazione scosse le due ragazze. «Tuttavia questa notte», aggiunse cupamente il wight, «i wight unseelie colpiranno.» Stava per dire di più, quando tornò a farsi udire la musica delle cornamuse, dei flauti e dei tamburelli. Le danze ripresero. Tra gli alberi fioriti si mescolarono i gridolini eccitati e le risa. Una figura alta che parve sbucata dal crepuscolo venne a raggiungere quanti erano seduti sul monticello erboso. Le dame faêran si alzarono dai seggi di fiori intrecciati e s'inchinarono, flessuose ed eleganti come aironi che ammirassero la loro immagine nell'acqua. Anche Ashalind e Caitri si ritrovarono in piedi. Senza una parola, il Principe Corvo porse una mano ad Ashalind. Lei la prese, pur avendo l'impressione di aver afferrato la lama di una spada. Lui si limitò a condurla nella radura, per danzare. Nessuna poesia o volo di fantasia avrebbe potuto descrivere quel ballo. Le torri di Annath Gothallamor si arrampicavano nel cielo trapunto di zecchini d'oro, come sentinelle con la celata dell'elmo abbassata sul volto. Alla sommità della torre più alta svettava una banderuola segnavento a forma di corvo con una freccia nel becco. Massicci camini sporgevano dai tetti d'ardesia incrostati di muschio, e sottili ponti aerei univano gli edifici, a più livelli. La pioggia caduta quel mattino sgocciolava ancora dalle grondaie di rame. "Nella zona alta della cittadella vi era un vasto cortile, in cui si aprivano numerose arcate, su ciascuna delle quali campeggiava il corvo, lo stemma del Principe della Corona. Da tali arcate uscirono alcune decine di cavalieri dall'armatura d'argento, seguiti dai loro servi eldritch. In quello spazio chiuso risuonavano i clangori delle piastre metalliche, dei finimenti dei cavalli e dei loro zoccoli sulle lastre di pietra, e le voci dei guerrieri eccitati dall'avvicinarsi della battaglia. Tuttavia essi non stavano per scendere in campo... non ancora. La loro missione li avrebbe portati a cavalcare nell'arida Arcdur, per cercare ancora tra quelle rocce cotte dal sole qualche traccia dell'ultima misteriosa e perduta Porta di Faêrie. Gli splendidi cavalli faêran potevano galoppare nel vuoto sostenuti dai magici poteri del gramarye, senza bisogno del sildron; i loro finimenti erano adorni soltanto di gemme dai gelidi colori dell'inverno. In effetti, le capacità dei guerrieri faêran erano tali che avrebbero potuto volare da soli, ma l'atmosfera di Aia non era il loro ambiente naturale. In confronto all'aria rarefatta del Reame, quella densa di Erith era come sci-
roppo per quei nobili personaggi. Viaggiare senza cavallo significava procedere lentamente; le loro cavalcature invece erano meglio adattate al mondo dei mortali, e capaci di procedere con rapidità anche levitando. Quei faêran erano i cavalieri più fedeli a Morragan, coloro che mille anni addietro lo avevano seguito in una sortita fuori del Reame e che si erano trovati con lui troppo lontani dalla Porta, quand'era risuonata l'ultima chiamata prima della Chiusura. Mentre montavano a cavallo, la luce delle stelle si rispecchiava pura come brina in ogni lucida curva delle loro fantastiche armature. Avevano movenze orgogliose e altere, e dominavano con mano ferma i loro vivaci e scalpitanti destrieri. Radunati lì, in quel piazzale, sembravano figure scolpite in cristalli di ghiaccio e di tenebra, fusi nell'iridium e nell'ombra, intarsiati di fuoco lunare; la morbida emanazione del gramarye si avvolgeva intorno a loro come nebbia. Ridevano e si scambiavano battute scherzose, consapevoli della battaglia in arrivo dall'ovest come segugi che avvertissero l'odore di un cervo. Induriti com'erano dalle battaglie di molti secoli, non si poteva dire che uno solo tra loro fosse un guerriero di capacità mediocri: tutti erano nel pieno delle loro forze e della loro destrezza. Eleganti e leggere come fiori, le dame faêran passarono tra i cavalieri; ognuno ebbe il foulard di colei che lo favoriva, da annodarsi a un braccio. Sul lato occidentale del cortile, dove un'arcata si apriva verso la parte bassa della fortezza, il Principe Morragan stava guardando il Pianoro Alto. Dietro di lui, uno stalliere attendeva accanto al suo cavallo da guerra; il quadrupede, nero come l'eclisse di luna, scintillava di migliaia di gioielli. Benché i cavalli di Faêrie non avessero alcun bisogno di gualdrappe e complicati accessori, la passione dei faêran per gli ornamenti li portava a curarsi molto dell'aspetto delle loro cavalcature. L'alfiere del Principe infilò una corta spada in un fodero fissato alla sella del cavallo. Mentre Morragan si voltava verso Ashalind, una forte raffica di vento penetrò fra le mura. La ragazza ne fu sbilanciata, perché era sempre più indebolita dal langothe, nonostante il vigore dato dal vino rosso faêran. Per non cadere, dovette appoggiarsi allo stipite dell'arcata. «Sappi questo», le disse il Principe. «Finché crederai di essere innamorata di mio fratello, la tua ricerca della Porta sarà vana. Quando il velo si solleverà dalla tua coscienza, quando capirai che il tuo supposto amore non è altro che un'immagine su un vetro, quando abbandonerai la vanitosa aquila per volare col corvo, allora forse la tua memoria tornerà completa.» Stai cercando di prevaricarmi, pensò lei. Sono gli ultimi residui dell'in-
cantesimo della Porta ad annebbiare la mia memoria, e non l'amore per Thorn. Vedendo che Ashalind non rispondeva, lui continuò: «Ora andrò in Arcdur. Nel frattempo, sarai libera di muoverti nella fortezza e nel Pianoro Alto. Usa bene il tuo tempo. Rifletti. Se tornerò senza aver trovato niente, dovrai essere tu a darmi ciò che cerco. E bada di non deludermi!» Il Principe montò sul cavallo da guerra con un movimento così fluido che parve non essere mai avvenuto. Segnalò ai suoi cavalieri di muoversi. Dopo un ultimo sguardo ad Ashalind, spronò il cavallo e questi balzò nell'aria come un lampo d'argento, accelerando nel cielo alla testa dello squadrone. Le ultime parole del Corvo echeggiavano ancora tra i muri di pietra. Bada di non deludermi! Ashalind andò davanti alla finestra. Indossava un abito color lavanda con la gonna pieghettata, il cui orlo grondava di ricami che strisciavano sul pavimento, ma non faceva caso a ciò che aveva addosso. L'angoscia le aveva raggrinzito il cuore come una prugna secca. Come sempre, il suo sguardo si spinse verso l'ovest. Dietro di lei, Caitri era languidamente seduta sul grande divano imbottito, con un braccio piegato dietro la testa. «Perché mai il Principe lascia la fortezza in un momento come questo, con le truppe del Re-Imperatore a neppure una lega da qui?» si domandò a voce alta. «Forse la battaglia che si prepara non gli interessa molto», opinò Ashalind. Rifletté un poco, poi aggiunse sottovoce: «Un giorno, a Caermelor, quando uscivo a cavallo in compagnia dei più nobili personaggi del regno, ed ero ricca e avevo tutto ciò che si poteva volere, e il sole splendeva sulla mia vita, tu mi dicesti così: 'Signora, io vorrei augurarvi ogni fortuna, ma sarebbe inutile, perché voi non mancate di nulla... né della salute, né della bellezza, né della felicità, né dell'amore'. E io ti risposi: 'Caitri, nessuno può dire di possedere queste cose, se non ha anche la garanzia che la sua fortuna resterà per sempre immutata. La salute, la bellezza, la felicità, l'amore... tutto è a rischio continuo, e può essergli strappato in un istante'. Sapendo questo, la donna saggia vive per cogliere l'attimo. La donna sciocca vive nel timore di perdere ciò che ha. E ciascuna di noi è saggia e sciocca». Caitri replicò: «Conviene essere come l'uomo sorridente nell'indovinello della rosa, o come l'ottimista assetato che vedendo il bicchiere mezzo pie-
no di vino ne gioisce, mentre dinanzi allo stesso bicchiere il pessimista si lamenta che è mezzo vuoto». «Ma non è forse il cosiddetto ottimista, a essere in realtà un pessimista?» obiettò Ashalind. «Se non si fosse aspettato un bicchiere completamente vuoto, non si sarebbe rallegrato nel vederlo mezzo pieno. D'altra parte, il cosiddetto pessimista è deluso perché si era aspettato la dose completa... dunque il vero ottimista è lui.» «A quanto pare, siete stata capace di fare un ragionamento molto più profondo del mio», osservò Caitri, divertita. «Può darsi», mormorò Ashalind, voltandosi a guardare l'amica. «Cercare di riflettere a fondo sulle cose è sempre stata la mia forza e la mia debolezza. Non sono fisicamente robusta, o capace nell'uso delle armi. Tutto ciò che posso fare è usare il cervello e le mie conoscenze, quando ce n'è bisogno.» Si voltò di nuovo verso la finestra. «Guarda, tutti i wight se ne sono andati. Il pianoro è vuoto. Resta soltanto un esercito di sassi, e le loro ombre marciano alla velocità della grande ruota astrale delle stelle. Ma credo di vedere un movimento laggiù... sì, sembrerebbe un cavallo. Che sia Tighnacomaire? Ma no... i miei occhi m'ingannano. Era soltanto uno scherzo della luce delle stelle.» La lenta e oscura brezza di Notteterna, pungente come una spina d'argento, entrò dalla finestra e scompigliò i lunghi capelli di Ashalind. Lei alzò una mano a scostarsi una ciocca dal volto. «Guarda qui, Cait... nei punti dove qualche goccia di vino faêran mi ha inumidito i capelli, sono tornati del loro colore originale. L'inchiostro è scomparso. Ho le chiome chiazzate di giallo... come il pelo dei gatti di Avlantia.» «Sì, è vero», assentì distrattamente l'amica. «Sembra che questo non ti colpisca. Ma mi è venuta un'idea. Qui sul tavolo c'è una coppa, accanto a una caraffa di vino rosso ambra... Vorresti lavarmi i capelli?» Ashalind scosse via le ultime gocce dalle luminose ciocche dei suoi capelli talith appena lavati. Se li raccolse tra le dita, lisci e pesanti come fili d'oro. «Sono molto belli. Volete che ve li pettini?» domandò Caitri. Oltre i confini del pianoro, sembrava sul punto di formarsi una tempesta magica. I suoi primi fremiti penetravano già nelle ossa di Ashalind e le gonfiavano i capelli, sollevandoli, come sempre accadeva all'arrivo del
vento shang. Filamenti di luce brillante le fluttuavano davanti al viso, incoronandola con un'aureola di fuoco dorato che ricordava la luce del sole, al centro della quale i suoi occhi spalancati erano gioielli... gemme che guardavano fuori della finestra, fissi su un luogo lontano. «Il Principe non è qui a fermare le immagini umane portate dalla tempesta magica», constatò Caitri. Gettò dalla finestra quello che restava del vino, poi si sporse dal davanzale a guardare in basso. «Ne vedo una che sta venendo proprio da questa parte. Mi chiedo quali spettri possa aver disturbato il vento shang su un altopiano così desolato e fuori del mondo. Quali eventi umani possono essere accaduti qui, dove soltanto i wight e i faêran hanno abitato per tanto tempo?» «Posso immaginare che cosa abbia destato il vento shang», rispose Ashalind, avviandosi alla porta. «Dove state andando?» Caitri lasciò cadere la coppa, che si spaccò, e corse dietro l'amica, sorpresa e allarmata. Ashalind si fermò. «Lui ha detto che mi sarà permesso andare anche sul Pianoro Alto, ma non oltre. Le sue parole e i suoi incantesimi non mi consentiranno di uscire da quel confine. Ho intenzione di andare là fuori, ora che i wight hanno lasciato questa distesa di pietre per affrontare il nemico più avanti.» Inorridita, Caitri protestò: «Volete semplicemente fare quattro passi in quel deserto sassoso per prendere un po' d'aria, come se fosse il giardino del palazzo di Caermelor? Perché?» «Perché soffro per quello che ho perduto, e il langothe mi sta uccidendo. Perché devo uscire da queste mura. Perché si avvicina il vento shang.» Caitri sfiorò una manica ricamata della sua padrona. «Non andate là», mormorò. «Ho paura di seguirvi là fuori.» «Resta qui», disse Ashalind con un pallido sorriso. «Non aver paura per me, ma non seguirmi. Aspettami.» Diede un bacio sulla fronte a Caitri, e un momento dopo era sparita. La tempesta magica arrivò sul pianoro dal Burrone Nero. Quando investì la fortezza, le torri s'illuminarono di brillanti incrostati su ogni angolo, ogni cornicione, ogni tetto e grondone, e tutto pulsò di luci verdoline in lunghe file spettrali. Annath Gothallamor vibrava e risuonava come un immenso carillon, sotto la pressione delle correnti di gramarye che s'insinuavano in ogni interstizio tra le pietre. Nelle camere e nei corridoi del castello i mobili si accesero come se il legno si fosse mutato in cristallo ardente. I muri si facevano traslucidi. Le grandi lampade appese ovunque
parvero incendiarsi e da esse piovvero fiori di fiamma che svanivano al contatto col suolo. Pipistrelli dagli occhi di smeraldo volavano avanti e indietro. Le mattonelle dei pavimenti erano nere come abissi e davano l'impressione della profondità. Caitri si arrampicò sul piedistallo di una statua e rimase lì abbracciata, con la faccia nascosta tra le sporgenze di marmo. D'un tratto, cose misteriose presero a svolazzare intorno a lei, frusciando come foglie rinsecchite dall'autunno in una grande foresta, tra barbagli aurei di tesori indescrivibili, mentre risuonava una musica selvaggia. Quando osò aprire gli occhi, tutte le paure la abbandonarono, e si sentì pervasa da un'eccitazione esilarante e impiegabile, così saltò giù dal piedistallo e danzò nel vento. Fantomatici cavalieri la sollevarono nel loro abbraccio, e le sue pantofole di seta fluttuarono a un palmo dal suolo. Più tardi, quando le mura di Annath Gothallamor ebbero ripreso il solito fosco aspetto e le loro mutevoli abitudini, Caitri andò a cercare Ashalind. Dopo aver esplorato molte sale senza riuscire a trovarla, la paura di non vederla più le fece venire le lacrime agli occhi. Alcuni solitari trow la seguirono per un poco, poi si allontanarono lungo cunicoli sotterranei. Un'arcata dava accesso a una scala che scendeva in un cortile. I muri erano pesantemente scolpiti con bassorilievi di foglie e ghiande. Lì Caitri sedette con la schiena appoggiata a una colonna e attese, in solitudine. Dopo un poco finì con l'addormentarsi. A svegliarla fu un rumore leggero. «Siete una mortale, e fedele all'Impero?» domandò Caitri per prudenza. «Io sono Ashalind. E tu?» rispose lei, altrettanto cauta. «La vostra fedele amica Caitri!» Con sollievo, le due ragazze si abbracciarono. «Siete davvero andata a passeggiare sul Pianoro Alto in mezzo alla tempesta magica?» «Sì. Dapprima ho cavalcato, perché ho trovato Tighnacomaire che si aggirava là fuori, e lui mi ha preso in groppa. Galoppare su un cavallo d'acqua attraverso il vento shang... oh, è una cosa fantastica, un sogno! Ma non lo si può fare a lungo, perché si rischia d'impazzire. Tiggy è rimasto sul pianoro: non osa entrare qui, ma non vuole neppure abbandonarci del tutto. Ha trovato un piccolo stagno di cui per ora si accontenta, anche se deve dividerlo con un paio di manifestazioni meno seelie di lui. Credo che di questo non gli importi molto. Ora torniamo nella biblioteca, se la stanza ci è ancora accessibile. Sul leggio c'è un tagliacarte col manico di avorio e la lama affilata. Voglio che tu lo usi per tagliarmi i capelli.» Sbalordita, Caitri domandò: «Siete impazzita? La tempesta magica vi ha confuso la mente?» «La mia mente è stata già confusa da altri fatti», mormorò Ashalind, ac-
cigliata. «Fin dal giorno della Chiusura, credo, quando guardai da una finestra della Torre di Guardia e vidi, fuori della Porta di Faêrie, la faccia di uno di loro... Vieni. Se non vuoi aiutarmi, dovrò fare da sola.» Le due mortali salirono nella biblioteca della torre. Caitri prese a reciderle manciate di capelli vicino al cuoio capelluto. Quando ebbe finito, fece un passo indietro e guardò la sua padrona, le cui trecce giacevano al suolo, come un mucchietto di oro. «Ora lui non mi troverà più attraente», spiegò Ashalind. «Le mortali di aspetto ordinario non gli piacciono, e vorrà allontanarmi da sé. Saremo libere.» Si portò le mani alla testa e palpeggiò quegli ispidi rimasugli. Per un momento le parve di essere di nuovo nella Torre di Isse, con Grethet. Scacciò quel ricordo e sorrise. Caitri scosse il capo. «È inutile. Non fa differenza. Voi restate sempre bella.» «Ho un'altra ragione per volere che lui veda in me un relitto, un misero simulacro di me stessa», aggiunse Ashalind. «Spero che gli venga il dubbio che la vera Ashalind sia stata allontanata dalle sue grinfie, e sostituita con una copia più insipida. Questo potrebbe infastidirlo, se mai mi ha davvero guardata com'ero prima.» «Una speranza vana.» Ashalind sembrò non averla udita. «Bruciamo queste stoppie», disse, togliendo una candela accesa da un candeliere d'argento. Le ore volarono via come corvi ciechi. Un battito cominciò a udirsi nei muri, un continuo bussare e martellare che ricordava i tunnel del Doundelding. Improvvise luci balenarono da finestre poste in alto. Dalle mattonelle del caminetto, nella biblioteca, provenne un raspare, come se qualcuno stesse scavando sotto il pavimento. Le ragazze uscirono, spaventate. Un mostruoso hobgoblin dai piedi piatti stava andando avanti e indietro del corridoio esterno e, nel vederle, le inseguì. Le due mortali corsero a rifugiarsi in un corridoio laterale e s'imbatterono in una rampa di scale mai vista prima. Salirono in fretta fino in cima alla torre, e lì trovarono una piccola stanza illuminata da una candela, dove numerose vecchie filavano la lana lavorando di buona lena su cigolanti filatoi di legno. La scena ricordò ad Ashalind le decrepite filatrici che aveva visto nelle caverne di Rosedale. Seguì Caitri nella stanza e chiuse la porta alle sue spalle, con un
tonfo. Distratta dal suo lavoro, una delle anziane donne si voltò. Aveva un lungo naso a becco che quasi incontrava il mento, davanti alla bocca sdentata. «Venite, venite», le invitò con voce rasposa, senza perdere un giro della ruota e manovrando il fuso con abilità. «Sedetevi.» «C'è un hobgoblin, dabbasso...» «Qui non verrà a infastidirvi», assicurò la vecchia, in tono fiducioso. «Non verrà a infastidirvi», ripeterono in coro tutte le altre filatrici. «Ma noi siamo mortali», fece notare Ashalind. «Non vi dà fastidio, se restiamo a guardarvi?» «E perché dovrebbe?» La vecchia ridacchiò. «In voi c'è qualcosa di più di quello che hanno i mortali, figliole. Non ve ne siete accorte?» Rassicurate dalle risatine e dai cenni d'assenso di quelle wight seelie, le ragazze sedettero su sgabelli a tre gambe e guardarono la filatura, mentre aspettavano che l'hobgoblin se ne andasse. Accanto a ogni filatoio vi era un mucchio di quella che sembrava comune paglia gialla, ma che nel percorso su quei marchingegni rudimentali si raffinava, diventando filo d'oro. Incapaci di stupirsene, le due mortali restarono a guardare, tendendo le orecchie a eventuali rumori dell'hobgoblin fuori della porta. «Questo filo che fabbrichiamo servirà a tessere stoffe d'oro», spiegò la vecchia. «Forse ne faranno un vestito per lui.» «Sì, per lui», annuirono le altre. Le ruote cigolavano, la massa di filo intorno ai loro fusi s'ingrossava sempre più, e la paglia sembrava non finire mai. Il ritmo dei filatoi era una ninnananna, e l'odore caldo e amichevole della paglia ricordava quello di un fienile in un pomeriggio d'estate. Le filatrici cominciarono a raccontare degli aneddoti. Per la maggior parte riguardavano il Principe Morragan: emozionanti episodi di caccia, esempi della sua abilità nei giochi e nello sport, delle sue capacità amatorie, della sua generosità, e della durezza di cui dava prova quando i mortali infrangevano le regole faêran o lo infastidivano in altri modi. «È stato lui a mandare Nuckelavee sulla spiaggia, la sera in cui c'erano il Re-Imperatore mortale e la sua Regina», rivelò una di loro. «Lo ha irritato, perché aggredisse i mortali.» «Lo ha molto, molto irritato», rincarò un'altra, con aria saputa. «E qualcuno dice che l'abbia fatto solo perché il Re-Imperatore suonasse il Coirnéad e svegliasse Re Angavar», aggiunse la prima vecchia. «Lui si annoiava, in esilio, e voleva che qui ci fossero altri faêran.»
Ashalind non riuscì più a trattenersi. «Il Principe è malvagio!» esclamò, disgustata. «Soltanto un essere perverso e odioso può aver ordinato un assassinio così terribile!» Con uno schiocco, tutte le candele si spensero. Quando gli occhi delle due mortali si furono adattati alla debole luce delle stelle, poterono vedere che la stanza era vuota. Tutto ciò che restava delle filatrici era qualche mozzicone di candela e una decina di mucchi di paglia sparsi sul pavimento. «Può darsi che il Principe non volesse la morte della coppia reale», commentò Caitri, pensosa. «Forse contava che Nuckelavee li spaventasse e che il Re suonasse subito il Coirnéad, così Angavar avrebbe avuto il tempo di salvare loro la vita...» «Sei anche tu sotto il suo incantesimo?» sbottò Ashalind, frustrata. Senza più pensare all'hobgoblin, aprì la porta delle scale e scese ai piani inferiori della torre. Per sua fortuna, il mostruoso unseelie non era più da quelle parti. Un vento rabbioso spazzava la fortezza. Gli edifici, se tali erano, tremavano fino alle fondamenta. Rombi di tuono provenivano da occidente. In distanza si udivano le note di una fanfara, che, pur deboli e vaghe, percorrevano il cielo stellato di Notteterna come un gorgoglio di acqua corrente. Wight di basso rango squittivano spaventati correndo per i corridoi e i cortili di Annath Gothallamor. «Cosa sta succedendo?» domandò Caitri. Le due amiche si tenevano per mano, in una delle più remote stanze della fortezza, e guardavano il pianoro da una feritoia rivolta a est. «Non lo so.» Da lì a poco lo appresero. Tully, che le aveva lasciate lì per uscire in cerca di notizie, fece ritorno di corsa. «Cosa hai saputo?» «Lasciatemi riprendere fiato, ragazze», ansimò lui. «Ho saputo qualcosa. Morragan sta tornando da Arcdur. Sarà qui tra poco.» Ashalind sentì una stretta al cuore. All'improvviso ebbe la certezza che gli eventi stessero precipitando, e provò il bisogno di fuggire. Ma non vi erano posti in cui nascondersi. Caitri era grigia in faccia. «Cosa possiamo fare?» gemette. «Cos'altro potremmo fare, se non aspettare?» rispose Ashalind. «Il nostro destino non è nelle nostre mani. Non ancora.»
«Cosa volete dire?» Caitri la tirò per una manica. Ma non vi era tempo per le spiegazioni. Il tuono ruggì ancora, più vicino, e si udì il rumore argentino degli zoccoli dei cavalli faêran che battevano contro le invisibili strade del cielo. Poi dall'ovest apparve la magnifica cavalcata: quadrupedi dalla criniera al vento, cavalieri ammantellati di nero, riflessi di metalli e di gioielli, come uno stormo di straordinari volatili. Planarono verso i tetti della fortezza, che si scuotevano come sotto la pressione di un temporale. Si udirono grida in tono di comando. Mentre l'ultimo dei cavalieri girava in cerchio sul cortile nell'attesa di avere lo spazio per atterrare, Tully mormorò: «Qualcosa mi fa sospettare che il Fithiach non sia troppo di buonumore». Anche Ashalind aveva avvertito l'atmosfera pesante scesa su Annath Gothallamor. Si tirò il cappuccio del mantello sulla testa, e il suo volto scomparve nell'ombra del pesante tessuto. «Forse non penserà ai vostri capelli», disse Caitri con voce tremula, stringendole una mano. «Poche cose sfuggono ai suoi occhi. Ma sono certa che sa già che me li sono tagliati. Smettila di tremare così! Pensi forse a lui come a un nostro tutore, che ci metterà in castigo perché non ci siamo comportate bene? Cosa credi che importi a quell'individuo, se io mi taglio i capelli oppure tutta la testa?» «Si arrabbierà. Ne sono sicura.» «All'inferno Morragan e la sua rabbia», sbottò Ashalind, seccata. Ma stava tremando. Nella stanza penetrò un odore di brina e vegetazione marcia. Due uomini apparvero sotto un'arcata ornata di foghe di edera. Intorno a loro emersero dall'ombra alcuni spriggan, che agitavano la coda con impazienza vendicativa. I wight s'inchinarono alle due ragazze, ma agitandosi e facendo smorfie come se un pungolo li tormentasse. Evidentemente li irritava aver avuto l'ordine di comportarsi con rispetto. «Voi... venite!» crepitarono le loro voci. I due uomini stavano rigidi e impassibili. Passando loro accanto per unirsi al gruppo di spriggan, Ashalind notò che erano i due servi mortali dell'Each Uisge, condannati da un incantesimo - alla servitù eterna. Pallidi come cadaveri di affogati e con occhi inespressivi, fecero dietrofront e s'incamminarono alle spalle delle due ragazze, completando la scorta. «Che il cielo abbia pietà di noi», mormorò Caitri, spaurita, gettando un'occhiata ai gemelli Maghrain che marciavano in silenzio, gli occhi fissi
in avanti; quindi si portò una mano al collo, dove un tempo teneva il tilhal, ma la catenina col talismano le era stata strappata durante il rapimento a opera della Caccia. Ashalind si tirò il cappuccio di velluto intorno al viso, cercando di capire cosa stessero ciangottando tra loro gli spriggan. Avrebbe voluto chiedere notizie della battaglia, ma gli sguardi maligni che le gettavano in tralice non incoraggiavano la conversazione. Percorsero in fretta gli spaziosi corridoi e i saloni della fortezza, locali vasti come radure nella boscaglia, nei quali ci si sentiva piccoli come insetti che strisciassero sul pavimento. Cinquanta piedi più in alto, tra le intricate travi dei soffitti, facce grottesche o bellissime guardavano in basso, talune sorridenti, altre accigliate. Per la maggior parte si trattava di bassorilievi scolpiti nel legno o nella pietra; altre non erano sculture. «Hai notato qualcosa?» domandò Ashalind a Caitri, con un angolo della bocca. «No. Cosa?» «I rumori di scavo nelle pareti. Sono cessati.» Caitri tese le orecchie oltre gli squittii e i grugniti degli spriggan. «È vero. Anche i dunter non osano rischiare d'irritarlo.» Ashalind si voltò verso la loro scorta umana. «Iainh!» chiamò. «Caelinh!» I due uomini delle Isole non le diedero risposta. Neppure un palpito di ciglia indicò che avessero sentito pronunciare i loro nomi. «Figli di Maghrain!» chiamò ancora lei. Gli spriggan si agitarono come se ballassero su una griglia arroventata. Le loro code sferzarono l'aria. I loro occhietti mandarono lampi. «Niente parlare!» strillarono, con sguardo minaccioso. «Tu zitta!» Le due prigioniere non osarono più voltarsi verso gli schiavi umani dell'Each Uisge. Salirono tortuose rampe di scale, e attraversarono cortili di marmo verde occupati da larghe vasche piene di riflessi. I rampicanti si torcevano intorno alle colonne dei chiostri e alle fontane, lasciando cadere nell'acqua i petali dei loro fiori. A un certo punto passarono accanto a una finestra che non era affatto una finestra, ma piuttosto uno spazio rettangolare in una siepe, incorniciato di rose. Un luccichio attrasse lo sguardo di Ashalind, che si scostò dalla scorta per arrampicarsi sul bordo di una vasca marmorea davanti a quell'apertura. Osservando l'esterno, si accorse di poter vedere a grande distanza, come se un incantesimo amplificasse la sua visuale fin oltre i confini di Notteterna, nell'occidente di Namarre.
Era l'uhta, l'ora più cupa che precede l'alba, e alla luce delle stelle due eserciti si fronteggiavano in una fascia di territorio piatto, tagliato in due da un fiume che luccicava come un nastro metallico. Sul lato namarrano, alcuni assembramenti di pini si stagliavano all'orizzonte da cui presto sarebbe sorto il sole. Il resto del territorio, cosparso di scarsa vegetazione cespugliosa, era delimitato da un'altura scabra su cui sorgevano le rovine di un antico castello. Il lato occidentale della pianura era invece liscio e scuro come una lastra di ossidiana, un lago di insondabile immobilità. Al momento stabilito dai loro comandanti, le truppe imperiali mandarono un ruggito, e dal loro schieramento s'innalzò nell'aria una tempesta di armi da lancio: migliaia di strali, accompagnati dagli ululati e dai tonfi dei proiettili infuocati delle catapulte, molte delle quali venivano azionate a bordo delle Navi del Vento. Le catapulte imperiali lanciavano a grande distanza barili colmi di nafta ardente, che quando si schiantavano al suolo esplodevano come vulcani e davano fuoco a tutto ciò che si trovava entro una cinquantina di passi. Dalle linee namarrane si alzarono incendi, che ben presto dilagarono in una lunga fascia. Sotto la protezione di quel fuoco di copertura, le truppe imperiali avanzarono in lunghe file tra i cespugli della terra di nessuno, scagliando grandini di frecce, finché non furono quasi a contatto delle linee namarrane. Lì si fermarono, in attesa del segnale degli ufficiali. Le Navi del Vento si erano nel frattempo fatte avanti, sotto la spinta della brezza occidentale di cui avevano aspettato l'arrivo, e continuavano a tempestare l'esercito di Namarre. Le truppe imperiali, fiancheggiate dagli Arcieri Reali, ripresero a muoversi finché non furono all'altezza degli incendi che avevano investito lo schieramento nemico. Da lì in poi il ritmo della loro avanzata sarebbe stato dettato dalla velocità con cui il fuoco di copertura si spostava verso oriente. Gli uomini attraversarono la prima linea namarrana senza trovare opposizione: tutti i nemici che si trovavano lì erano retrocessi al riparo dei pini, lasciando al suolo centinaia di cadaveri che bruciavano. I superstiti tornarono allo scoperto poco più tardi, in piccoli gruppi, per arrendersi. Alcuni legionari erano avanzati troppo, finendo in mezzo al fuoco amico, e rimasero ustionati, anche gravemente. «Vieni via!» ringhiò uno spriggan, afferrando Ashalind per una manica. Altri le vennero intorno. «Muoviti!» Lei li ignorò, concentrata su ciò che accadeva sul campo di battaglia. Seguendo da vicino il fuoco di copertura che continuava ad avanzare, le truppe imperiali attraversarono una fitta macchia di pini. Una trentina di
passi più avanti, molti nemici avevano trovato riparo in un canalone alluvionale; fuggirono all'arrivo della fanteria imperiale, e gli arcieri li abbatterono tutti. Sui pendii dell'altura, le fiamme gialle della nafta palpitavano come fiori infernali, in mezzo a nuvole di fumo nero e oleoso. L'incendio non si stava però espandendo alla vegetazione cespugliosa, ancora bagnata dalla pioggia di quella notte. Nelle retrovie imperiali si diffuse una certa eccitazione alla notizia che l'attacco procedeva bene. I battaglioni di riserva presero posizione sulla dorsale dell'altura e spinsero lo sguardo sul versante opposto: le Navi del Vento volavano lente e lanciavano proiettili infuocati, sullo sfondo di un cielo dove già l'aurora spandeva piume rosse e gialle. I missili di nafta lasciavano nell'aria lunghe scie di fumo, diretti contro le rovine alla sommità della collina. Le truppe che non avevano partecipato al primo attacco avanzavano in formazione compatta, mentre i carri delle salmerie si tenevano sul terreno pianeggiante. La cavalleria attraversava la zona degli incendi al trotto, con un rumore tintinnante di piastre e fibbie metalliche, mentre gli arcieri di riserva stavano mettendo le corde ai loro archi. Visto che il primo obiettivo era ormai preso, una brigata di fanteria proseguì l'attacco risalendo il versante meridionale dell'altura, a ovest del fiume. Il battaglione guidato dal Re-Imperatore guadò invece il corso d'acqua e continuò ad avanzare. Una compagnia di cavalieri si era intanto fermata su un monticello di terreno; dal loro atteggiamento parve che si aspettassero una forte resistenza dalla seconda linea dei namarrani, appoggiata alle rovine del vecchio castello. Quelle macerie ospitavano molti guerrieri barbari ed erano protette dal vecchio fossato del castello e dai resti delle mura esterne, alti pochi piedi. Gli spriggan cominciarono a tirare Ashalind per le braccia. Lei li spinse via, spazientita. «Ora basta!» gracidarono. «Troppo tempo affacciata tu stai a finestra.» «Aspettate un momento! Vengo subito!» replicò lei, incapace di distogliere lo sguardo dal campo di battaglia. Ormai il fumo dei proiettili incendiari e il polverone limitavano molto la visuale. Non avendo più punti di riferimento su cui regolarsi, la cavalleria si fece sotto e risalì il versante, tenendosi vicina al fuoco di copertura delle Navi del Vento e pronta ad attaccare le postazioni avversarie che avesse trovato da quella parte. Quella tattica si rivelò efficace. In più occasioni le truppe si gettarono avanti non appena il fuoco di copertura s'interrompeva, costringendo il nemico a fuggire in preda al panico. Vi furono scontri fac-
cia a faccia e brevi mischie a colpi di spada e di accetta, ma in generale l'opposizione fu debole. La rabbia degli spriggan stava raggiungendo il culmine, e alcuni di loro afferrarono le caviglie di Ashalind per tirarla giù dal bordo della vasca. Lei li prese a calci in faccia senza nessuna timidezza. «Sbrigati, sbrigati!» strillarono loro. «Devi andare dal padrone, altrimenti lui si arrabbierà!» «Ancora un minuto... solo un minuto, ho detto!» urlò lei. La Compagnia degli Arcieri Reali, che con la fanteria saliva verso le difese nemiche a nord delle rovine, fu fermata da una postazione di balestre a tiro rapido che difendeva un passaggio obbligato. Ciò costrinse le truppe ad attestarsi in punti riparati, poiché avventurarsi allo scoperto su per la salita era troppo pericoloso. Poi una Nave del Vento scaricò proiettili infuocati nelle vicinanze e, riparati dal fumo della nafta, gli imperiali poterono tentare una sortita. Una donna riuscì con tre frecce successive a colpire tre addetti alle balestre; il capitano e un tenente ne approfittarono per raggiungere la postazione e attaccare gli altri balestrieri, che fuggirono. Quando gli arcieri e i fanti oltrepassarono i resti delle mura crollate, i namarrani abbandonarono l'antica rovina per ripiegare lungo il versante orientale. Lì furono però sorpresi dalla cavalleria imperiale, che aveva aggirato la collina, e sterminati. La battaglia si era sviluppata e conclusa in un tempo molto breve, e furono catturate armi e catapulte. Gli Arcieri Reali perlustrarono le rovine e uccisero tutti i namarrani che si erano nascosti nella zona, vendicando così i crimini commessi dai ribelli per mare e per terra. L'Ottavo Severnesse e il Battaglione del Re-Imperatore bivaccarono sulla cima della collina del vecchio castello, che costituiva il loro primo obiettivo. Le truppe della retroguardia salirono anch'esse sulla collina, e si poté chiaramente capire che i loro comandanti stavano facendo una pausa solo per studiare le difese del nemico sulla successiva catena di alture. Le Legioni di Erith avanzavano verso il Pianoro Alto. I briganti da strada e i ribelli messi insieme da Morragan si disperdevano e si ritiravano, senza opporre troppa resistenza. Dei wight unseelie, stranamente, ancora non si era vista nessuna traccia. Ashalind lasciò la finestra e saltò giù dalla vasca. «Padrone molto arrabbiato! Tu cammina subito!» squittirono gli spriggan, inveleniti, agitando minacciosamente le picche. Ashalind tornò accanto a Caitri. «Le truppe imperiali hanno preso un
vantaggio», mormorò. Poi, mentre uscivano dal cortile, si voltò a guardare la finestra di foglie. Non era stata che un trucco? Le sembrava di aver visto un lampo dorato sul dito mignolo di una mano, quella priva di guanto del comandante supremo dell'Esercito Imperiale... Dal cortile di marmo verde passarono in un lussuoso salone, con un grande tappeto giallo scuro. Era ammobiliato con pesanti mobili di legno scolpito, fitto d'intarsi rossi e avorio. In giro, su piccoli bracieri di bronzo, ardeva il fuoco. Le mensole dei due grandi caminetti erano ornate con sculture di snelle lucertole dalle ali di pipistrello. Le gambe delle sedie terminavano con grossi artigli dall'aria terribile; facce grottesche campeggiavano sugli schienali. Una di quelle aprì la bocca e parlò. «Credevi di esserti liberata di me, eh, erithbunden?» Era Yallery Brown, che piegò le labbra in un sogghigno pieno di denti giallastri. Un topo di fogna magro e spelacchiato mise fuori la testa dal groviglio dei suoi capelli, pieni di radicchielle secche. Ashalind sentì Caitri trattenere il fiato. Anche lei aveva avuto un brivido, ma tirò diritto, dopo appena un breve sguardo allo sgradevole wight. «Vai pure, vai pure», lo sentì dire, alle sue spalle. «Yallery Brown non sarà mai troppo lontano da te!» Oltre il salone giallo prendeva inizio una galleria color albicocca, dalle pareti tappezzate con carta rosa a motivi floreali. Dalla cornice che scorreva lungo le pareti, presso il soffitto, pendevano festoni di foglie dai colori autunnali. Gli spriggan si chinavano spesso ad annusare il fogliame del pavimento, in cerca di larve. I fratelli Maghrain continuavano a marciare stolidamente in fondo al gruppo. Ogni pochi passi si aveva l'impressione di attraversare un velo simile a una ragnatela, ed era come se il tempo stesse facendo strani scherzi... senza dubbio uno dei misteriosi incantesimi del gramarye della fortezza. Tuttavia le due ragazze non provarono disagio, né paura. «È arrivata la Lady del Circolo!» annunciò una voce cristallina. Davanti a una porta a due battenti, chiusa, stavano due cortigiani faêran. La porta era candida come il ghiaccio, fornita di artistici cardini e rinforzi metallici, alta tre volte più dei cavalieri di guardia. Ashalind si annodò stretti sotto il mento i cordoni del cappuccio. Che Morragan e i suoi abbiano trovato la Porta, in Arcdur? si domandò. Ma fu subito certa del contrario. Quei due non sarebbero stati così taciturni, se avessero scoperto il modo di tornare in patria. Gli occhi di Lord Iltarien si
spostarono su Caitri, freddi e distaccati. Le posò una mano sulla testa e aggiunse: «Accompagnata dalla sua giovane cameriera». Si fece da parte e disse: «Entrate!» La candida porta si spalancò. Un soffio di aria gelida investì Ashalind e Caitri, e fece frusciare le foglie della galleria. Le due mortali avanzarono in un biancore dove fluttuavano minuscoli fiocchi simili a piume di cigno. Era una sala da ballo, e stava nevicando. Dai candelieri pendevano lunghi ghiaccioli, e le pallide fiammelle delle candele sembravano congelate. La neve aveva formato una spessa crosta zuccherina sul pavimento e si era accumulata contro le gambe dei divani, dei tavolini, e alla base dei muri incrostati di ghiaccio scintillante. Reticoli di stelle coprivano gli specchi. La brina orlava ogni cosa con riflessi argentei, e tutto appariva indistinto attraverso quell'aria rigida e nevosa. Le due mortali vagarono in quella nebulosità. Davanti a loro si materializzò il bardo del Principe. «Qualcuno ha lasciato la finestra aperta», commentò Ashalind. Ergaiorn rise. Con un gesto così rapido da essere impercettibile, gettò qualcosa verso di loro. Con un crepitio simile a una macina da mulino sulla ghiaia, una sfera di cristallo rotolò sul pavimento, fermandosi dinanzi ad Ashalind. Lo sguardo di lei fu attratto dal suo limpido cuore, dove prendeva forma un'immagine. «Guardate!» le esortò Ergaiorn. «Le Legioni di Erith sono giunte a Notteterna.» Sormontate dalle cupe torri di guardia, le mura esterne di Annath Gothallamor sovrastavano le profondità oscure del Burrone Nero. Un sentiero serpeggiava fino alla distesa aperta del Pianoro Alto. La spianata era costellata di rocce gibbose, macigni dalla forma bizzarra che nella vaga luce stellare davano a volte l'impressione di muoversi, o tirar fuori all'improvviso arti legnosi, o sparire tra i cespugli e i radi alberi tormentati dal vento. Il Pianoro Alto pullulava di wight. Oltre il bordo di quel piccolo altopiano era visibile un vasto mare di luci palpitanti: i fuochi da campo delle cinque armate dell'Impero. «Quelle che vedi sono le Legioni di Erith accampate a poca distanza dalla base delle scarpate», spiegò Ergaiorn ad Ashalind, che guardava le immagini in movimento nel cristallo. «I ribelli di Namarre sono stati sconfitti... presi prigionieri, o uccisi, e gli altri sono fuggiti. Così le Legioni si sono spinte fin qui, ma sbagliano se credono che la vittoria sia alla loro
portata, perché gli eldritch wight, pur avendogli dato qualche fastidio, non hanno ancora mostrato tutta la loro capacità di nuocere. Gli scontri tra le Legioni e i wight sono stati vuote simulazioni di battaglie, il cui scopo era di illudere i mortali che il loro compito fosse facile. Ora le orde unseelie sono pronte per scatenare la devastazione. Quando i poteri eldritch saranno usati in pieno, i mortali conosceranno la rovina. Gli umani di Erith sono stati abili nell'uso dei proiettili infuocati contro quel misero nemico, ma le loro armi non serviranno contro il gramarye, che può evitare la forza bruta per aggirare chi la usa e sfruttarne le debolezze a suo vantaggio.» Ashalind distolse lo sguardo dal centro del cristallo. Lì nel salone invernale, a fianco di Caitri, sentiva il sangue scorrerle forte e caldo nelle vene, nonostante la neve. Ergaiorn si chinò a raccogliere la sfera. Il Piffero Leantainn, di ebano intarsiato d'argento, pendeva dalla sua cintura. «Quali debolezze?» gli domandò lei. «Il cuore che governa le nostre teste? La paura del buio? Questo non significa essere deboli. Il divertimento che non sa trasformarsi in profonda gioia, gli appetiti dei sensi mai così forti da diventare sofferenze d'amore... queste sono le vere debolezze, e non appartengono alla mia razza!» Fece un passo verso il bardo, resa bellicosa dalla rabbia e dal dolore. «Hai una coscienza, Ergaiorn? Sei legato da un giuramento. Tu e tutti i seguaci di Morragan avete giurato. Opponendovi ad Angavar avete rotto l'impegno di fedeltà col vostro sovrano.» Lui replicò, freddamente: «Tu sei stata favorita da Fithiach, e finora hai goduto della sua indulgenza. La bellezza delle donne mortali è una cosa che attrae i faêran, perché è effimera. Questo la rende preziosa». Scosse il capo. «È vero, tutti i faêran hanno giurato di non prendere mai le armi contro il Supremo Re. Questo voto noi lo rispettiamo. Abbiamo giurato di non aiutare i suoi nemici. E anche a questo voto teniamo fede. Ma non abbiamo mai promesso di ostacolare i suoi nemici, così non li ostacoliamo. In quanto agli umani, i wight osteggiano la vostra razza da millenni... dovrebbe importarcene?» «Allora voi giocate con le parole», esclamò Caitri. «Come i mercanti di bestiame di Erith, potete sempre dimostrare che la colpa non è vostra, ma dell'ingenuo che si è fidato di voi.» «Tu hai la lingua troppo lunga, dolcezza», la ammonì il bardo con un freddo sorriso. «Bada di non inciamparci coi piedi, perché potresti cadere.» Poi continuò, palleggiandosi da una mano all'altra la sfera trasparente e rigirandola tra le dita: «Le Legioni Reali erano troppo forti per i barbari; così hanno raggiunto Notteterna. La loro avanguardia è stata costretta a
fermarsi alla base dell'altopiano. Laggiù saranno vulnerabili agli attacchi lanciati dall'alto, dalle foreste sui loro fianchi e dai fridean che scavano nel sottosuolo. Ma non fraintendermi; il piano di battaglia è già stato fatto. La strategia del Fithiach è precisa. Quando le forze imperiali minacceranno Annath Gothallamor, si troveranno alla mercé del Corvo. Con un solo semplice gesto il Fithiach potrà distruggerle». Come a dimostrarlo, gettò la sfera in aria e la lasciò cadere. L'oggetto si spaccò sul pavimento in un pulviscolo di diamanti, con un tonfo che fece sobbalzare Caitri. «Ma gli uomini dell'Impero hanno un protettore», ribatté Ashalind con voce tremula. «Tu credi che un membro della famiglia reale userebbe il gramarye contro un altro membro della famiglia reale? Credi che Angavar farebbe questo a suo fratello? Il Supremo Re e il Principe della Corona si scambiarono parole dure, davanti alla Porta, il giorno della Chiusura, ma non ci fu altro.» Il suo tono si fece incisivo. «Se i fratelli reali scatenassero l'uno contro l'altro tutti i loro poteri, le stesse forze della natura sarebbero sconvolte da una lotta che farebbe crollare le montagne e ribollire i mari. I cieli si scurirebbero di tempeste così terribili da spazzare via le città degli uomini e annientare le creature viventi. No, i signori del Reame non hanno alcun desiderio di essere i distruttori di Erith. Noi amiamo troppo la terra dei mortali, nonostante le sue pecche e l'indegnità dei suoi abitanti.» «Indegnità!» esclamò Caitri, perdendo di nuovo la calma. «Come puoi parlare così dei mortali? Non è forse indegno tenerci qui contro la nostra volontà?» «Il cinguettio dell'usignolo ha perso la sua dolcezza», osservò una voce mascolina. Nella candida nebulosità prese forma una figura elegante, che subito si rivelò per un guerriero alto e virile, vestito con gli indumenti di pelle che i faêran portavano sotto l'armatura. Dietro di lui numerose altre figure rimasero vaghe e indistinte, in attesa. Era il Principe Morragan. I fiocchi di neve non osavano toccarlo, o forse si fondevano prima di raggiungerlo. Le due mortali s'inchinarono, e tennero lo sguardo rivolto a terra, perché qualcosa nel Principe feriva gli occhi se lo si fissava direttamente. Le parole che Ashalind stava per dire diventarono polvere nella sua gola, e nel gelido involucro della sua carne si sentì bruciare come una torcia. «Vola via!» ordinò il Principe. Al tocco della sua mano, un uccellino si
alzò in volo dal punto in cui era stata Caitri. Compì un giro nell'aria, due giri, tre giri, poi con un cinguettio acuto si diresse a una finestra e scomparve all'esterno. Sgomenta, Ashalind si guardò intorno tra i refoli di nebbia. «No! Questo è troppo crudele. Cosa ne sarà di lei?» Invece di rispondere, Morragan le strappò via il cappuccio dalla testa. I fiocchi di neve le bagnarono il cuoio capelluto quasi nudo, le orecchie, il collo. La ragazza restò immobile, mentre lui la fissava in silenzio con un volto inespressivo, senza tradire alcun segno di emozione. Infine, a un suo cenno, un servitore si fece avanti col vassoio, mescé vino in un calice e lo porse al Principe, con un inchino. «Bevi!» A quell'ordine Morragan fece seguire il gesto, e accostò l'orlo del calice alla bocca di Ashalind. Lei non poté fare a meno di bere un sorso. All'istante il liquore le schizzò nel sangue, come oro fuso da un crogiolo. Era diverso da qualunque vino lei avesse assaggiato. Correva nelle sue vene, diramandosi in tutti i capillari alla ricerca degli angoli più remoti del corpo. Ashalind ansimò, tossì, e col fiato mozzo sentì l'intollerabile potenza del liquore aggredirle le dita delle mani e dei piedi. Poi le arterie glielo portarono alla testa, e lì esso esplose in milioni di bollicine frizzanti. Il sangue le ruggiva nelle tempie. Lei strinse gli occhi con forza, vacillando, mentre il fulmine la colpiva alle gambe. Le sue ginocchia cedettero e Ashalind si afflosciò al suolo. Alla fine del tunnel, riuscì ad aprire le palpebre. Si alzò in ginocchio all'interno di un albero. Intorno a lei la corteccia era una crosta d'oro in cui scorreva la linfa. Una pioggia di filamenti dorati le pesava sulle spalle e sul collo, ed era la chioma più lussureggiante e folta che avesse mai avuto. Alzò le mani ad aprire la corteccia e scosse all'indietro le lunghe trecce. Nella lussuosa sala bianca, la neve aveva smesso di cadere. Con uno sguardo che avrebbe potuto essere un misto di tenerezza e di rabbia, Morragan pronunciò il suo nome. «Ashalind, ricorda dov'è la Geata Poeg na Déanainn», le ingiunse, «altrimenti tu sarai responsabile della distruzione delle Legioni.» Lei si tirò su, ma quello che ricordò fu invece un'altra cosa, una frase che Tully le aveva detto... Per i Fatati, non c'è alcun onore nel prendere le armi contro i mortali. «Tu non userai i tuoi poteri per distruggere dei mortali, che non hanno il
gramarye per difendersi», mormorò, cercando di farsi forza. «Sei troppo cavalleresco per fare questo, signore. Le tue minacce non si tradurranno in fatti.» «E in verità io non alzerò un dito contro di loro, né lo faranno i miei cavalieri. Tuttavia ci sono altri che gioiranno nel vedere il sangue dei mortali, e che ne verseranno a fiumi. Con un piccolo sforzo di memoria, tu puoi fermarli.» «Se tu scatenassi tutti i wight unseelie contro gli uomini di Erith, Angavar li ricaccerebbe indietro!» Il vero nome di Thorn aveva un sapore strano sulla sua lingua. «Vuoi davvero metterlo alla prova?» la derise Morragan. Nella mente di Ashalind si accesero visioni di massacri su larga scala. D'un tratto non riuscì più a sostenere lo sguardo del Principe, i cui acuti occhi grigi sembravano leggerle nei pensieri fin quasi a penetrare in quello strato di memoria che ancora le restava inaccessibile. Chinando il viso, si nascose dietro il sipario dei suoi capelli appena ricresciuti. Dopo un momento, rispose: «No. Lascia che io cerchi la Porta ancora una volta. Farò il possibile per trovarla». Nelle sue mani fu messa un'altra sfera, fredda e trasparente. Ashalind si chiese cosa aiutasse il suo sangue a scorrere caldo, in quella gelida sala invernale. Ma subito la perla di cristallo assorbì tutta la sua concentrazione. La ricerca era cominciata da poco quando fu interrotta. Le nuove immagini di Arcdur si offuscarono. Lei alzò lo sguardo. Nella sala era entrato un messaggero, che si stava inchinando dinanzi al Principe. Era un soldato mortale, un robusto capitano Dainnan che Ashalind aveva già conosciuto: il nobile Tor del Quinto Thriesniun. Indossava un'armatura di cuoio rinforzata in bronzo, e non portava armi, poiché un ambasciatore aveva l'obbligo di entrare disarmato nella fortezza del nemico. Sotto la barba bruna, il suo volto era pallido. Benché non fosse un uomo attraente, per Ashalind fu un piacere guardarlo, poiché era il primo mortale, a parte Viviana e Caitri - e i due fratelli Maghrain, se li si voleva ancora considerare tali -, che lei vedesse da quando avevano lasciato Appleton Thorn. «Puoi parlare, mortale», gli concesse languidamente il Principe Corvo. «Vostra Altezza, vi porto un messaggio del Re-Imperatore.» All'istante una cappa di torpore calò sulla testa di Ashalind e le si chiuse sulle orecchie. Il capitano Dainnan espose il messaggio, ma le sue parole erano smorzate e incomprensibili, quasi che parlasse sott'acqua. Quando
tacque, la voce del Principe Morragan tagliò quella barriera sonora come una lama. «Sei stato coraggioso, mortale, a entrare fra queste mura. Un bravo servo di Angavar, il tuo falso sovrano. Non aver fretta di tornare da lui. Altri araldi gli porteranno più velocemente la mia risposta.» Una rete di fuoco rapida come un fulmine guizzò intorno al Principe e si disperse. Le pareti congelate della sala diventarono trasparenti. Dall'alto dei bastioni provenne un ululato così stridulo da far gelare il sangue. Il nobile Tor, che stava indietreggiando, rabbrividì e si portò una mano al tilhal che gli pendeva sul petto. Una tempesta di cenere scese dal cielo, accompagnata dalla rabbiosa cagnara di un branco di segugi infernali. La Caccia Selvaggia, guidata da Huon il Cornuto, partì da Annath Gothallamor come un vento di tempesta. E non fu la sola a lasciare la fortezza, perché i Principi dell'Incubo dell'Attriod Unseelie la accompagnarono. L'oscura cavalcata si diresse a ovest, fino ai fuochi ormai semispentí del campo militare. Più nera del cielo notturno, simile a fumo sullo sfondo stellato, la cavalcata unseelie volteggiò e piombò sopra le Legioni di Erith. Sebbene l'attacco avesse luogo a più di una lega di distanza, ad Ashalind parve di udire i latrati dei segugi assetati di sangue, lo scattare delle mandibole, le vibrazioni degli archi, i sibili degli strali, i clangori delle spade che colpivano le armature sollevando sprazzi di scintille, le urla degli uomini, i nitriti dei cavalli, il rumore odioso delle ossa fracassate e il lungo, disperato pulsare del sangue mortale. Il cuore di lei era stretto dalla paura. «Ti prego, metti fine a questo massacro», implorò, ma avrebbe potuto rivolgersi a una pietra. Morragan si era voltato e non le prestava attenzione. Osservava da lontano la scena dell'attacco, con le eleganti dita della mano destra posate sull'elsa ingioiellata della spada. Il Principe Corvo era inavvicinabile. Quella che sembrava una statua di ghiaccio in un angolo della sala si rivelò viva. Yallery Brown scrollò via i frammenti della crosta bianca e cominciò a fare capriole, preda di un'eccitazione irrefrenabile dinanzi alla devastazione abbattutasi sugli uomini di Erith. Le creature unseelie riunite sul pianoro si rovesciarono come una marea sul campo erithano. Ma non si trattava di una battaglia a senso unico, perché i nobili dell'Attriod Reale erano ovunque, protetti dai potenti tilhal ricevuti dal loro sovrano. Perfino Thomas Rhymer, il gentile bardo, cavalcava con gli occhi accesi dalla furia della battaglia: forse era protetto da un
gramarye messo su di lui dal Supremo Re. In effetti, i sette compagni più stretti di Angavar erano circondati da un'aura che dava loro l'apparenza di guerrieri usciti da un'antica saga, simili agli stessi faêran, e doveva essere quello il potere che li rendeva capaci di attraversare senza danni la carneficina degli unseelie assetati di violenza. Il paggio del palazzo di Caermelor indossava l'uniforme di alfiere; lo stendardo che aveva il compito di portare, l'orifiamma del Re-Imperatore, era fissato a una lancia, e lui faceva di tutto per tenerlo bene in vista. Di seta rossa, con splendidi stemmi ricamati in oro, quello stendardo che sventolava con bellicoso orgoglio era un punto di richiamo, e nel caos della battaglia dava coraggio e forza ai soldati. Spronando il cavallo per tener dietro al suo signore, il ragazzo mandò il grido di guerra del Battaglione Imperiale. Le figure scure degli uomini si stagliarono sullo sfondo delle fiamme mentre si gettavano con impeto contro le orde unseelie, e le armi si abbatterono facendo schizzare il sangue. Sopra di loro, la Caccia Selvaggia vorticava e si tuffava, eludendo le lente manovre aeree delle poderose Navi del Vento e lasciandosi indietro i Cavalieri della Tempesta come il falco si lascia indietro un merlo. Dove Cuachag e il Cearb si fermavano, gli uomini cadevano. Dove piombavano Gull e l'Athach, le tende crollavano in fiamme. L'Each Uisge galoppava in forma equina per l'accampamento, lasciandosi dietro una scia di sangue e di morte. Alla testa di quello stormo infernale caricava un cavaliere dal cui cranio spuntavano grandi e terribili corna, Huon, che con le mani pelose manovrava un lungo arco. La sua arma era una continua fonte di tragedie e di devastazione, e colpì a morte numerosi avversari finché un cavaliere non volò come una meteora contro di lui. Huon precipitò dal cielo, con le corna spaccate e la testa mozzata di netto dalla spada che balenava nella mano sinistra di Angavar; perché era stato il Supremo Re ad affrontarlo, nel cuore della mischia, con una violenza che sprizzava sicurezza e potere. Poi, da lontano, si udì il limpido richiamo di un corno faêran. Nel salone di Annath Gothallamor, un mormorio si sparse tra i cavalieri e le dame del Principe. Tra loro dilagò subito un senso di stupore, o forse di aspettativa. Si voltarono nella direzione da cui era giunto il corno e spinsero lo sguardo nel cielo, tesi, silenziosi. A sud-ovest, presso l'orizzonte, una vaga luminosità nacque e cominciò a crescere come l'alba, lì dove non avrebbe potuto esserci nessuna alba. Avvolta nel fulgore che emanava, apparve una compagnia di cavalieri. Le
loro armi e armature pullulavano di barbagli argentei; le loro trombe cantarono un inno di sfida mentre venivano avanti. «I Dormienti si sono svegliati!» gridò una voce che Ashalind riconobbe per la sua, ma molte altre stavano già dicendo la stessa cosa. I faêran presenti in sala si erano irrigiditi. I cavalieri in avvicinamento erano forti e risoluti. Le loro spade sprizzavano fiamme, le lance scintillavano, i capelli erano nere eclissi tessute di stelle. Fu contro l'orda unseelie che si gettarono i cavalieri di Angavar, non appena usciti dal loro secolare riposo sotto Nido dell'Aquila. In formazione a punta di lancia, i vendicatori penetrarono nell'orda nera, la spezzarono in due e dispersero i cacciatori unseelie, spazzandoli via dal cielo con le loro lame faêran. L'Attriod Unseelie e gli altri eldritch che poterono sopravvivere a quel primo assalto devastante fuggirono in disordine e volarono via, mentre i wight che erano al suolo si ritirarono nella boscaglia o si nascosero sottoterra attraverso tane e crepacci, scomparendo alla vista. Su tutta la zona risuonarono le acclamazioni di migliaia di uomini. La gioia di Ashalind a quella svolta degli eventi durò poco. L'agitazione all'interno della fortezza era diventata tumultuosa. A una parola del Principe Morragan, i suoi cavalieri si armarono e corsero a prendere i cavalli, bramosi di entrare in azione. Un vento gravido di gramarye e di cattivi presagi spazzò la sala invernale; con raffiche furiose sgretolò il ghiaccio che incrostava le pareti, distruggendone il magico aspetto traslucido e trasformandole di nuovo in nuda roccia. Dal grande cortile centrale, la cavalleria faêran balzò in volo e lasciò la fortezza per affrontare il nemico. Ma già i cavalieri di Nido dell'Aquila caricavano attraverso l'altopiano. Dopo aver fatto a pezzi la Caccia Selvaggia, stavano inseguendo i superstiti in fuga, e giunsero sul bordo del Pianoro Alto proprio mentre i cavalieri di Morragan scendevano di quota nello stesso luogo. I due schieramenti tirarono le redini e si fronteggiarono, senza attaccare battaglia. I gagliardetti che ornavano le loro lance sventolavano sopra gli elmi piumati dei cavalieri, nel vento che agitava i loro preziosi mantelli affibbiati alle spalle. Immobili e pronti a tutto, silenziosi, si squadravano con cautela. A separare le due formazioni era un tratto abbastanza vasto di terreno irregolare cosparso di rocce, tra le quali le ombre dei wight in fuga scivolavano via come una marea che scorresse tra gli scogli. Più indietro, le Le-
gioni si stavano riunendo nella semioscurità di Darke e gli uomini battevano le armi sugli scudi, smaniosi di avanzare e vendicarsi, benché i loro comandanti li tenessero in riga. Intorno ad Annath Gothallamor, alle spalle dei cavalieri di Morragan, molti wight unseelie si erano raggruppati nel buio, e da quella massa di forme nere in movimento si levavano ululati e risate stridule, grida e singhiozzi, improvvisi rumori frenetici di lotta seguiti da minacciosi silenzi, in uno scenario che sembrava orchestrato per dare gli incubi. Tra i seguaci del Principe Morragan, erano i cavalieri faêran a tenere in pugno la situazione; i cinque membri superstiti dell'Attriod Unseelie restavano nel buio insieme con quelli della loro razza. Le ombre che stagnavano al suolo erano macabre, anche se sopra di esse vigilavano gli sciami di luci del firmamento stellato. Le armi faêran scintillavano come una presenza ultraterrena. I cavalieri di Morragan esibivano una preferenza per le stoffe scure e gli ornamenti argentei, mentre fra quelli di Angavar prevalevano le tinte chiare e le finiture in oro. Il Supremo Re era in sella al suo alato Hrimscathr, con la spada Arcturus che riposava nel fodero. Non portava l'elmo; i lunghi capelli scuri gli incorniciavano il volto dagli zigomi scolpiti, la bocca stretta in una piega dura, gli occhi penetranti come pugnali. Gli uomini dell'Attriod Reale erano schierati intorno alla sua figura, armati fino ai denti e coi cavalli che scalpitavano. Morragan distolse lo sguardo da quella scena, dall'alto della torre da cui studiava i cavalieri in attesa di un suo comando. «Iltarien, scendi sul pianoro e parla a mio nome», ordinò a uno dei tre nobili faêran rimasti al suo fianco. «Quando mio fratello lancerà la sua sfida, tu digli questo.» E gli diede un messaggio nella lingua dei faêran. La lingua era sconosciuta ad Ashalind, e tuttavia aveva qualcosa di stranamente familiare, come il ruggito del mare o il cinguettio degli uccelli che, pur incomprensibile agli uomini, comunica loro qualcosa in modo sottile. Quando Morragan tacque, a lei non rimase nessuna conoscenza delle sue parole, a parte una specie di melodia che continuava a danzarle intorno alla testa. «La vittoria è quasi nelle mie mani», mormorò il Principe, mentre il cavallo di Iltarien si lanciava nell'aria dal cortile. «Tuttavia una premonizione mi assale improvvisa. Andare là sulla piana significa affrontare un destino avverso, perché c'è qualcuno che mi tradirà... sarai tu?» «Padrone», disse una voce mielata, «se la erithbunden si rivelasse più perfida di quanto...»
«Yallery Brown, questa è una figlia di mortali. Cosa potrei aspettarmi da lei, fuorché un atto ostile? Una figlia di mortali, né più né meno... ma che avrebbe potuto essere qualcosa di più.» Morragan si voltò verso Ashalind. Ogni particella di lei s'illuminò e fluttuò via, finché non diventò parte della totalità, e la totalità invase la sua esistenza, e il sangue fluttuò con le correnti dei fiumi, e l'oceano salì nel cranio con maree che erano il lento battito cardiaco della luna. Lunghe foglie verdi spuntarono dal suo cuoio capelluto e la resina scivolò nelle sue vene come la primavera, e un vento morbido come capelli scuri frusciò attraverso un panorama inesplorato. Fu sollevata, in una regione dove le stelle brillavano attraverso le palpebre dei suoi occhi, e da qualche parte dentro di lei i profondi fuochi del sole fondevano la materia. Il Principe Corvo aveva appoggiato la bocca contro la sua, col respiro dolce come il profumo dei garofani. «Se torcerai un capello a questa ragazza, giuro che t'infilerò allo spiedo sulla mia spada», disse poi a Yallery Brown. Lontano da lì, il cavallo di Lord Iltarien atterrò tra i guerrieri di Nido del Corvo, e Angavar si avvicinò al messaggero. Era chiaro che il Supremo Re stava contestando a Morragan il possesso dell'altopiano e della fortezza, e che pretendeva anche qualcos'altro. Cupo in faccia e orgoglioso, Lord Iltarien gli ripeté il messaggio che il Principe aveva previsto di dovergli mandare, senza aggiungere niente di suo, perché soltanto i due gemelli reali sapevano quali fossero le vere questioni in ballo tra loro. Il tono del messaggio tuttavia non lasciava dubbi: alla sfida, Morragan rispondeva con una sfida. Non intendeva concedere niente, nessun terreno per le trattative, nessuna speranza di riconciliazione. La voce di Angavar suonò forte e chiara, e nella Lingua Comune, affinché tutti potessero capire: «Allora, fratello mio, poiché non c'è modo di accordarci, tu dovrai affrontarmi in battaglia». Quindi ordinò all'Attriod Reale di retrocedere oltre i ranghi dei suoi fedeli cavalieri e unirsi alle legioni sul territorio sottostante, allo scopo di guidarle e difenderle contro le forze unseelie. Ma sopra l'altopiano, suonarono i corni di ottone. Le lance della prima fila di entrambe le fazioni, che erano state puntate all'oscurità del cielo stellato, furono abbassate. I cavalieri dei ranghi centrali estrassero le spade dai foderi con un fruscio metallico. Poi i corni da guerra suonarono la carica, e i due schieramenti partirono al galoppo l'uno verso l'altro. Si scontra-
rono con un terribile ruggito, violento come l'infrangersi dei marosi su una scogliera, e il contraccolpo di quella collisione fece tremare il suolo fino a grande profondità. Mentre i faêran si davano battaglia, sul pianoro anche i due Attriod si stavano scontrando, mentre una fitta nebbia usciva dalla foresta e si levava da ogni corso d'acqua per velare il campo di battaglia. In mezzo a quella foschia, furono viste forme mostruose sbucare dalla boscaglia, dalle paludi e dagli antri del sottosuolo, e non poterono esservi dubbi sui loro propositi assassini. Tuttavia tra quelli si muovevano manifestazioni eldritch di un altro genere, che difendevano i soldati di Erith. Mai visibili allo sguardo diretto, potevano essere individuati solo con la coda dell'occhio: urisk, uomini fieri dai capelli grigi che impugnavano tridenti, cani neri grossi come somari, piccoli individui armati di alabarda, figure incappucciate munite di lanterne, e altri esseri troppo elusivi per essere visibili in qualsiasi modo. Le lame faêran si abbattevano e colpivano, scintillando alla luce delle stelle. Per Ashalind quella mischia furibonda era un caos, una baraonda indecifrabile, una confusa danza di morte e distruzione. Sgomenta e stupefatta, poteva soltanto osservare dall'alto della torre in rovina, incapace di distogliere lo sguardo. Angavar non si era unito ai suoi cavalieri. Precipitandosi avanti aveva attraversato al galoppo i ranghi dei seguaci di Morragan ignorandoli, come a ricordare loro che erano soltanto dei traditori. Sbalorditi, quelli si erano fatti da parte, senza opporgli resistenza. Invece di dirigersi verso la fortezza, però, Angavar aveva compiuto una virata, tornando giù verso chi aveva maggior bisogno di lui: Hrimscathr lo portò di nuovo sul terreno più basso, e lì egli affiancò l'Attriod Reale che stava affrontando la sua maligna controparte, a difesa delle Legioni Reali. Il grande Cuachag cadde sotto la spada Arcturus, e anche l'Athach fu sopraffatto. Ma Octarus Ogier fu gettato giù dal suo eotauro da una freccia di Gull, il più grosso degli spriggan. L'uomo cadde tra le tende in fiamme, e lì fu squartato dall'Each Uisge, mentre il Cearb impalava il coraggioso John Dromdunach, spaccandogli il cuore prima che Angavar potesse farsi strada nella mischia per accorrere in suo aiuto. Tutti videro la rabbia di Angavar esplodere, e il Re cominciare a macellare le incarnazioni unseelie con terribile foga vendicativa. Arcturus non scintillava più, troppo inzuppata di lurido sangue nero. Nella parte più elevata della cittadella di Annaffi Gothallamor, dove l'e-
dera si aggrappava alle pietre corrose e i gigli spuntavano dalle crepe, uno stallone faêran stava scalpitando sui suoi zoccoli d'argento. Lo sguardo pensoso del suo padrone tornò a posarsi su Ashalind. Morragan indossava l'armatura, notò la donna, e nei suoi occhi si leggevano propositi ai quali non avrebbe rinunciato. Lei era irritata con se stessa per aver ceduto ai poteri del faêran, pur sapendo che nessun mortale al suo posto avrebbe potuto opporre resistenza. Si stringeva addosso ciò che restava della sua dignità come i resti laceri di un vecchio mantello. Non aveva aperto la bocca per protestare, e non l'avrebbe fatto, consapevole che sarebbe stato inutile e umiliante. Di conseguenza si mostrava docile, benché dietro quella facciata le sue passioni ribollissero. Il Principe la sollevò da terra. La mise a sedere di traverso sul cavallo, e poi montò dietro di lei. Il poderoso quadrupede si avviò al trotto, non in volo nell'aria ma giù per le scale della torre e poi fuori, attraverso il portone principale delle mura di Annath Gothallamor, lungo il sentiero che aggirava il Burrone Nero. Dietro di loro cavalcavano il cameriere personale di Morragan, il bardo, e le dame della sua Corte. Al seguito dei faêran veniva poi una moltitudine di servi wight. Il Principe della Corona andava a parlamentare con suo fratello. Nonostante l'indignazione per i soprusi sopportati e l'emozione indotta dalla vicinanza della virilità faêran di Morragan, l'imprevisto approssimarsi dell'incontro con Thorn-Angavar gettava Ashalind in bilico tra la paura e il desiderio. In lei saliva la tensione. Agognava di rivederlo, ma non sapeva immaginare fino a che punto lui fosse arrabbiato o disgustato di lei. La più piccola ombra d'indifferenza o disprezzo nel suo sguardo sarebbe stata impossibile da sopportare. «Ti piace cavalcare sul mio destriero?» mormorò d'un tratto Morragan. La stranezza della domanda mise sull'avviso la ragazza. Cercò di dargli una risposta prudente, ma una moneta di piombo le appesantiva la lingua, e non riuscì a parlare. Morragan ne fu divertito. Lei sentì vibrare la risata attraverso la spalla. «Credevi che ti avessi baciata perché ti amo?» disse lui. «Fanciulla illusa e vanitosa. Ahimè, le tue speranze sono vane.» Ashalind si sentì offesa e disperata. Con quel bacio, Morragan l'aveva resa muta. La sua unica possibilità di cavarsela stava nell'uso di quella che era l'arma esclusiva dei mortali: la capacità di mentire. E invece era stata privata ancora una volta della parola, e per un istante in lei vibrò l'irrazio-
nale paura che tornassero anche tutte le altre menomazioni, trasformandola di nuovo in una miserevole creatura senza nome, senza memoria e dalla faccia orribilmente deformata. In qualche modo Morragan doveva avere avvertito le sue intenzioni. C'è qualcuno che mi tradirà... sarai tu? Perché in effetti lei aveva pensato di gridare e di tradirlo, se avesse potuto. Ma ormai quella era una porta chiusa. Tuttavia, mentre cavalcava col Principe giù lungo il Burrone Nero, un'altra idea prese debolmente forma e continuò a crescere. Morragan e il suo seguito si avvicinavano al luogo dello scontro, e grida di avvertimento si alzarono da tutti i cavalieri faêran; i due gruppi ostili cominciarono a separarsi, cessando di battersi. Quelli impegnati con maggior furore in duelli privati furono avvertiti dai compagni e anch'essi rinfoderarono le armi. Le ostilità ebbero fine anche più in basso, dove le legioni lottavano coi wight assetati di sangue mortale. Come se un segnale li avesse avvertiti, tutti si voltarono verso il Pianoro Alto. L'Aquila e il Corvo si fecero incontro. A pochi passi di distanza, i cavalieri smontarono, ma Morragan trattenne per un polso la sua prigioniera e non la lasciò andare. Poter finalmente rivedere Thorn riempiva Ashalind di eccitazione. Guerrieri fatti entrambi di fiamma e di ombra, come due eroi di leggenda, i due fratelli rivali che si fronteggiavano in quell'aspra sfida erano belli da mozzare il fiato, e pericolosi più di chiunque altro. Era la prima volta che Ashalind vedeva Thorn senza che lui si celasse dietro un'identità falsa, la prima volta che lui le si mostrava per ciò che era davvero. Non vi era rimprovero nel suo sguardo, né amarezza per il fatto che lei non gli avesse confidato il suo segreto. Lui la guardò con tanta intensità e tristezza da farle pensare che per i faêran fosse possibile amare davvero, perché era passione profonda quella che lei vide nei suoi occhi. Ne fu meravigliata, e subito la invase una gioia così intensa da farle male. Poi si senti contrita al pensiero di aver dubitato di lui ingiustamente, e la comprensione purificò il suo animo da ogni veleno, anche se forse troppo tardi. Angavar-Thorn non le sorrise e, dopo quel primo breve sguardo in cui tante cose furono dette, non volse più gli occhi su di lei. Sembrò concentrare tutta la sua attenzione su Morragan, ma in realtà restava consapevole di ogni movimento della giovane. «La chiave è nelle mie mani», dichiarò con freddezza Morragan, senza preamboli.
La risposta di Angavar fu pacata e liscia come la superficie del mare prima della tempesta. «Non è una chiave, è un essere umano. Se tu avessi la chiave saresti già volato oltre la Porta.» «Lei è la chiave», ribatté Morragan. «E tu lo sai bene, anche se l'hai appreso troppo tardi. Potrei ucciderla o pietrificarla con un pensiero, prima che tu riesca a impedirmelo.» «E se lo farai, dove finirà la tua chiave?» «Se tu agissi contro di me, e se m'impedissi di tornare nel Reame, cosa m'importerebbe di distruggere la chiave? Dovrei forse preoccuparmi perché anche tu rimarresti in esilio?» Il sorriso del Principe era offensivo. Ashalind avrebbe voluto dire ad Angavar-Thorn: Lui non lo farà. Non mi farà del male. Ma la sua lingua era un pezzo di legno, e il polso le bruciava nella stretta delle dita di Morragan. «Tu non farai del male a questa caileag. Dimentichi che io conosco le tue emozioni.» «Altri forse dimenticano», replicò il Principe Corvo. «Non io.» A quelle parole Yallery Brown, che si era avvicinato furtivamente, si agitò innervosito. «Dipende solo da te», disse con freddezza Angavar. «Vuoi mettermi alla prova?» lo sfidò il fratello. Vi fu una pausa di silenzio, teso e sgradevole, fatto di rabbia trattenuta a stento. I due potenti faêran si fissavano negli occhi con bruciante intensità, come se fossero già avvinti nella lotta. Le loro facce erano così terribili che nessun mortale avrebbe potuto sopportarne la vista, e la stessa Ashalind fu costretta a distogliere lo sguardo. «Se la ucciderai, non avrò riposo finché non ti avrò strappato il cuore con la mia spada», minacciò Angavar. «Te lo giuro.» «Quanto ti annoierai, a restare senza riposo per l'eternità.» A quelle parole seguì un altro silenzio, ancora più furibondo e pericoloso del primo. «Siamo in stallo», fece notare Morragan. «Questo colloquio non serve a niente», replicò Angavar, con più durezza. «Anche la battaglia non servirà a niente. I nostri cavalieri sono di pari forze. Io potrei annientare le orde unseelie con una sola mano. Non c'è scopo in una carneficina. Tu e io ci batteremo a duello, senza far uso del gramarye, per decidere chi avrà la vittoria.» «Incroceremo le spade, se è questo che desideri, ma non questa volta. Per il momento sono io ad avere ciò che tu vuoi. Se hai intenzione di ve-
nirne in possesso, giura che deporrai le armi.» La voce di Angavar suonò metallica. «Tu hai oziato troppo a lungo in questa fortezza buia, mi fithiach. Hai perduto l'abitudine all'azione.» «È in questa fortezza che puoi trovare le azioni migliori, fratello, poiché qui la compagnia è piacevole», lo provocò Morragan. «Ma la mia spada non si è arrugginita riposando nel fodero.» Da un abisso oltre il tempo spirava un vento gelido. Le raffiche sollevavano i capelli del Supremo Re in lunghe ciocche, simili ai raggi di un sole nero. Quando Angavar parlò, il suo tono era ancora più pericoloso. «La spada che hai al fianco è così rara che hai fatto voto di non estrarla mai dal fodero, Signore dei Corvi? Si dice che la lama di un codardo non abbia mai bisogno di essere riparata.» La mano destra di Morragan corse all'elsa della spada. «La mia spada ha un fodero delizioso, nel quale sta assai comoda.» Quella risposta ironica fece esitare Angavar, che gettò uno sguardo ad Ashalind. «Chi combatte senza scudo viene giudicato un guerriero di valore», osservò. «Chi si fa scudo dietro una donna viene chiamato con un nome peggiore.» A quelle parole Morragan spinse da parte Ashalind, e a prenderla per un braccio fu Lord Iltarien. Risuonò un sibilo rabbioso e cristallino. Il Principe Corvo aveva sfoderato la sua spada, Durandel. Arcturus era già nel pugno di Angavar. I cavalieri del Supremo Re si fecero avanti per togliere Ashalind dalle mani di Iltarien. «Fermi!» ruggì questi. «Fermatevi, o ci sarà più di un duello. Non cercate di toccarla!» Angavar sferzò l'aria con la spada, rivolgendosi al fratello: «Ora, conoscerai l'ira del Supremo Re dei faêran». L'intera Erith era il centro intorno a cui ruotava l'occhio dell'uragano. Da ogni angolo delle Terre Conosciute, le creature mortali e immortali stavano guardando verso Namarre. Nelle foreste, i taglialegna si fermarono accanto agli alberi appena intaccati, con le accette appoggiate al suolo e la fronte imperlata di sudore... senza sapere perché. Nei corsi d'acqua verdolini, le fanciulle acquatiche asrai si alzarono, fissando lontano gli sguardi ingenui e privi di passione. Presso gli stagni dei villaggi, le giovani guardiane di oche dimenticarono di tener d'occhio i loro pennuti vagabondi, lasciando posate sull'erba le
sottili verghe di salice; ma le oche avevano smesso di starnazzare per girare il lungo collo, silenziose e tranquille, verso l'orizzonte. Nel sottosuolo di Rosedale, le ruote delle filatrici eldritch persero il ritmo e si fermarono. Le filatrici alzarono le grosse teste dal loro lavoro, il filo cessò di scorrere tra le loro dita nodose. Sotto il Doundelding, tutti i rumori delle manifatture s'interruppero. Non una piccozza, non un martello batté un altro colpo; non una ruota fece un altro giro. Al largo, negli oceani, gli uomini-foca salirono in superficie e sedettero sugli scogli di isole rocciose, per ascoltare il vento del nord. Nelle stalle dei Cavalieri della Tempesta, i destrieri alati smisero di scalpitare e agitarsi. Non un secchio di biada dondolò, non uno sperone tintinnò. I fabbri restarono inattivi accanto alle loro forge. I contadini cessarono di affondare la zappa nei campi. I Maghi abbandonarono i loro esperimenti. Sulle Navi del Vento e sulle Navi d'Acqua, i capitani dettero ordine di sciogliere il sartiame delle vele, e quelle svolazzarono senza più offrire trazione finché anche il vento non si placò, e poi penzolarono inerti. Nelle case degli uomini, il fuoco nei caminetti si spense e tutti si voltarono verso le finestre. Dove stava cadendo la pioggia, le nuvole si asciugarono e trattennero il loro liquido. Le foglie dell'alloro e del mirtillo, della quercia e del faggio s'immobilizzarono come se fossero scolpite nella pietra. Le onde dell'oceano rallentarono, con la terribile apparente serenità della violenza controllata. Leoni dal pelo ambrato si svegliarono tra le rovine consunte delle città di Avlantia, dove le foglie rosse frusciavano sul selciato pieno di crepe delle strade. In Finvarna, i branchi di alci giganti che pascolavano sulle torbiere alzarono le pesanti teste, e sembrarono trattenere il moto delle stelle conficcando tra esse i loro grandi palchi di corna. In Rimany, gli orsi della neve si bloccarono come sculture congelate sui ghiacci delle colline. Negli allevamenti di ragni da seta di Severnesse, i ragni restarono appesi sulle loro lucenti tele come trafitti da invisibili spilli. Stormi di passeri si riunirono nel cielo di Erith, scesero ad appollaiarsi sui rami più alti degli alberi e restarono lì, col becco chiuso, la testolina piegata di lato. Negli ondulati territori presso Scala d'Acqua, un silenzioso cuinocco, l'elusivo cavallo fornito di un corno candido e trasparente come il cristallo, girò la testa sottile, all'ombra di un albero del pepe, e guardò a nord. Ovini e bovini stavano immobili sui pascoli, come bianchi ricami su un arazzo verde. Le culicide chiusero le tenui ali intorno ai loro corpi sottili.
Le farfalle che svolazzavano sulle paludi si posarono come foghe iridescenti sui sottili gambi delle piante acquatiche. L'intera Erith tacque, e trattenne il fiato. Forse anche in Faêrie lo sentirono, dietro le Porte chiuse, quel conflitto tra i due più potenti signori faêran. Le spade del Supremo Re e di Morragan lampeggiavano di rubini e di zaffiri nella penombra del Pianoro Alto, con un furore e un'abilità che mai spadaccini mortali avevano mostrato. Così veloci erano le loro parate, le finte e le risposte, che un occhio umano non poteva seguirle - tutto ciò che si vedeva era un vortice di riflessi e movimenti, come cristalli che continuassero a schiantarsi senza sosta - e le spade erano sfolgoranti, e terribili raggi di luce si scontravano in una tempesta di scintille, come maligne fiamme di ghiaccio o schegge spezzate di cobalto e rame. Da qualche parte, nel cuore di quel gelido fulgore, i due guerrieri s'incontravano in una danza di impossibile precisione, velocità e tempismo. Il tuono scuoteva le radici dei monti di Namarre. Il fulmine si arrampicava spaventato nei cieli di Darke. Gli spettatori si tenevano a distanza dal luogo del duello. Quelle scintille potevano bruciare e penetrare la carne, le ossa e i tendini, ferendo gravemente anche un corpo immortale e portandolo sul bordo del grigio e immenso deserto del nulla. In un ampio circolo, sulla sella dei loro animali, i cavalieri di Nido del Corvo e Nido dell'Aquila osservavano lo scontro con occhi faêran che non perdevano un solo movimento. Anche i superstiti di entrambi gli Attriod erano lì a guardare, nonostante le loro ferite, e così anche molti uomini delle Legioni che si erano arrampicati sul versante dell'altopiano. Vi erano guerrieri Dainnan e Cavalieri della Tempesta, e wight maligni o benevoli, gruppetti di spriggan e di hobyah, e il folle goblin Berretto Rosso, con un artiglio insanguinato e morto che gli pendeva dalla cintura. Yallery Brown era nelle vicinanze, e così anche Whithiue, e Tully, che teneva per la criniera Tighnacomaire. Vi erano il goblin Snafu e i gemelli incantati Maghrain, e Vallentyne coi suoi fratelli ganconer Romeus e Childe Launcelyn, e altri wight troppo numerosi per poterli menzionare tutti. Gli occhi dei faêran erano pieni di dolore. «Possibile che siamo arrivati a questo?» mormorò Lord Iltarien. «Possibile che i migliori di noi, i gioielli del Reame, abbiano preso le armi l'uno contro l'altro? Maledetto sia il giorno in cui ho seguito il Fithiach... eppure non potevo far altro, perché mi era più caro di un fratello e la mia lealtà
non poteva spaccarsi in due.» «Continuiamo a sostenerlo solo perché era un nostro compagno», annuì Lord Ergaiorn, «e per una perversa e folle questione d'onore.» Il duello proseguiva, e fu chiaro che Morragan e Angavar possedevano doti e poteri molto simili, poiché nessuno dei due stava prendendo il sopravvento. Ma Tamlain Conmor gridò: «Il Re Angavar è stanco per la battaglia di oggi, mentre Morragan esce fresco dalla fortezza. Il vantaggio del Principe non è giusto!» A quelle parole, entrambe le parti mandarono ruggiti di approvazione o di disaccordo, ma nessuno poté contraddirlo, e Ashalind, intoccabile ma inerme a fianco di Lord Iltarien, sentì un brivido di paura. Le spade azzurre lampeggiavano, e ogni fendente era un colpo da maestro. D'un tratto ogni discussione cessò, perché i due padroni della terra e del cielo, del mare e del fuoco, si erano separati. Entrambi si liberarono in un sol colpo delle armature usando il gramarye, e rimasero l'uno di fronte all'altro in camicia e pantaloni lunghi. Per un poco si guardarono ansimando, e gettarono indietro i lunghi capelli che l'esercizio fisico aveva inumidito di un sudore dolce e fragrante come il profumo dei pini. Era soltanto una pausa nello scontro, fatta per mutuo accordo, e ciascuno scrutava i movimenti dell'altro per tenersi pronto a reagire al suo improvviso attacco. Morragan disse qualcosa in tono beffardo, nella lingua dei faêran. Angavar gli rispose poche parole sprezzanti. Il caso aveva voluto che, nella posizione in cui si era fermato, il Supremo Re fosse rivolto verso Ashalind, mentre Morragan le dava le spalle e non poteva permettersi di distogliere l'attenzione dall'avversario per girarsi a guardarla. La donna sfruttò quell'occasione per muovere in fretta le mani, rivolgendosi ad Angavar nel linguaggio dei gesti. Lui le scoccò un'occhiata e annuì impercettibilmente. Molti, di quanti li osservavano si accorsero che tra i due era intercorsa una comunicazione di qualche genere, ma nessuno poté capirne il significato. «Sgualdrina infida!» stridette Yallery Brown, muovendosi contro Ashalind. Ma Lord Iltarien lo spinse via. Prima che Morragan gettasse uno sguardo alle sue spalle per capire cosa fosse accaduto, Angavar balzò avanti con un grido senza parole. Il Principe rispose ruggendo con furia, e il duello ricominciò. «Cosa gli hai detto, erithbunden?» sbottò Iltarien. Ma Ashalind, con la
lingua ancora paralizzata dal gramarye di Morragan, poté soltanto scuotere il capo. In quel momento, penetrando nei rumori aspri dello scontro per virtù del semplice contrasto, sui presenti dilagò un dolce tintinnio argentino, come di gemme che rimbalzassero su un lago di cristallo. Si fece sempre più intenso, ma tutti se ne accorsero solo quando la brezza cominciò ad agitare i bordi dei mantelli e le criniere dei cavalli. Il Pianoro Alto si scurì ancora di più, e d'un tratto si riempì di piccole scintille colorate. Le stelle esplosero di fulgore incandescente, avvolte negli inattesi vortici del vento shang che si era svegliato sul Riachadh na Catha, l'antico Campo di Battaglia dei Re. Traslucide figure di monarchi si gettavano l'una contro l'altra in violenti duelli, avvolte nelle loro preziose armature e mulinando spade, accette o mazze ferrate. Già una volta la tempesta magica aveva attraversato quell'arida piana, quando Ashalind era uscita da Annath Gothallamor senza il taltry a protezione della testa, confusa e disperata, fantasma tra i fantasmi di guerrieri che ripetevano per lei antiche scene cruente. Ma il vento shang che ora tornava era stato svegliato da un comando di Angavar. E Ashalind vide se stessa, la fanciulla che quella notte aveva attraversato il pianoro sollevandosi il bordo della gonna per camminare tra le pietre. Era esattamente ciò che si aspettava, ma fu una sorpresa quando vide quel simulacro di sé voltarsi a guardarla dritta negli occhi. I capelli tinti di luce bronzea dalla luna le arrivavano ai fianchi, e tra essi erano intrecciate collane di perle e di zaffiri. La veste era ricamata di filo d'oro, con orli di candida schiuma del mare. E il viso... un ovale di purissima simmetria, delizioso e incantevole. Una maschera per celare la tristezza. Anche Angavar vide quella rievocazione e gridò. Stupita dalla passione di quel grido, Ashalind impiegò qualche battito di cuore per capire che lui aveva chiamato il suo nome. Morragan voltò la testa, guardò l'immagine shang, ed esitò. Fu soltanto un brevissimo istante, perché subito capì che quella visione era un simulacro... un'esitazione più breve del tempo che sarebbe occorso alla fiamma di una candela per incenerire l'ala di una falena, e tuttavia bastò. I due avversari erano di livello così eguale che la più piccola opportunità poteva permettere a uno di loro di entrare nella guardia dell'altro e far pendere la bilancia dalla sua parte. Una lingua mortale capace di dire una bugia non era, dopotutto, stata ne-
cessaria. L'aneddoto raccontatole da Sianadh sull'eroe Callanan, che aveva ingannato la donna guerriera Ceileinh con un espediente simile, era ancora nella memoria di Ashalind, e l'aveva ispirata. Chiama la tempesta magica, aveva detto ad Angavar, nel silenzioso linguaggio dei gesti con cui un tempo gli aveva parlato nella Foresta del Tiriendor. Il mio fantasma cammina dentro di essa. Quando il Principe Morragan ritrovò la padronanza di sé era troppo tardi: la spada di Angavar l'aveva già colpito al fianco destro. Il sangue sgorgò dalla ferita, non nero sotto la luce lunare, come appariva quello degli esseri umani, bensì cremisi, con striature di azzurro reale. Vacillò, ma non cadde. Angavar si fece indietro e abbassò l'arma. Lord Iltarien gridò. Approfittando di quell'occasione, Ashalind si divincolò e gli sfuggì. Aveva fatto appena qualche passo quando Yallery Brown le balzò addosso e la morse a una spalla, affondandole nella carne le sue zanne gialle e infette, fino all'osso. La donna urlò di dolore, ma subito Morragan fu al suo fianco. Il Principe strappò via da lei il maligno wight, che rotolò nella polvere del pianoro. Poi, con un crudele gesto che gli costò uno sforzo supremo, Morragan alzò la spada e mantenne la minaccia che aveva fatto a Yallery Brown, trafiggendolo con la lama. Il corpo del wight sfrigolò come se una fiamma lo arrostisse, mentre una gran quantità di liquido scuro e fumante colava al suolo. Poi un mostriciattolo lebbroso simile a un rospo cercò di allontanarsi a balzelloni per nascondersi sotto una pietra. Lo stivale di Morragan lo spiaccicò. Angavar era già accanto ad Ashalind, e col braccio destro la strinse a sé. Il suo tocco la attraversò come una saetta di energia, risanandole la spalla all'istante e spegnendo ogni dolore. Ma quello sforzo era costato caro a Morragan. La violenza del movimento aveva allargato la ferita al fianco. Il colpo di spada di Angavar non avrebbe avuto conseguenze così gravi, se il Principe si fosse fermato invece d'infierire su Yallery Brown. Il sangue che poco prima era un rivoletto diventò un ruscello, e sul suo volto si dipinse un grande stupore. Lui, l'invulnerabile, non era più tale. Lui, l'immortale, vedeva incombere un destino che, pur non essendo la morte, era tuttavia il vuoto, gelido e separato da ciò che formava la vita. Cadde in ginocchio. Le sue dita si aprirono, e la spada Durandel rotolò al suolo. «Addio, lhiannan», disse ad Ashalind, piegando la bocca in un sorriso così debole che non raggiunse i suoi occhi grigi.
La lingua di lei non era più irrigidita. «No, signore... ti prego, non lasciarci», balbettò, con gli occhi pieni di lacrime. «Piangi...» mormorò lui, vacillando, «per me.» La spada Arcturus era là dove Angavar l'aveva lasciata, piantata verticalmente in una roccia della piana, e vibrava ancora. Lord Iltarien, Lord Ergaiorn, il cameriere del Principe e tutti i cavalieri di Nido del Corvo si radunarono intorno al loro signore e posarono un ginocchio a terra, levandosi l'elmo, silenziosi e a capo chino. Anche i cavalieri di Nido dell'Aquila e l'Attriod Reale smontarono da cavallo, mentre tutti i wight che si trovavano sul pianoro tacevano rispettosamente. Il Supremo Re dei faêran aveva la manica destra lacera, e il fine tessuto era bagnato di sangue. Si chinò accanto al fratello. Morragan si afflosciò al suolo e giacque lì, con la testa e le spalle sostenute dalle braccia di Angavar. Un tono mesto e impietosito riempì la voce di quest'ultimo quando parlò al Principe Corvo. «Non posso guarire la tua ferita. Né questa, né altre inferte dalle mie mani. Il danno non era letale, ma con lo sforzo che hai fatto subito dopo lo è diventato. O ionmhuinn brathair, mi cairdean, i fithiach de cumhachd, laidir a briaga... Ricordi i Campi di Lys? Abbiamo combattuto e gareggiato laggiù, ma mai così duramente come oggi. Ahimè, quanto siamo stati accecati dall'orgoglio. Non andartene, ti prego... non prima di essere tornato con me sui prati della nostra patria...» La sua bella voce si spezzò. Chinò la testa e non disse altro. Il pianoro scintillava come una galassia. Pian piano i re guerrieri del vento shang si dileguarono. Morragan mormorò qualcosa in lingua faêran, e Angavar gli rispose. Il Principe della Corona fece per parlare ancora, ma fu scosso da un tremito e la testa gli ricadde indietro. In netto contrasto col nero intenso dei capelli, la sua faccia sembrava cesellata nell'alabastro più fine, pallida ed esangue. Giacque in silenzio, e intorno a lui tutta Erith si fermò e tacque. Una volta, molto tempo addietro, nel Reame di Faêrie, era echeggiato un coro di grida quando le Porte si erano chiuse lasciando in esilio Angavar e Morragan. La seconda volta che Ashalind aveva udito quelle grida era stato mentre i cavalieri di Nido dell'Aquila arrivavano al galoppo nel cielo, per dare battaglia ai loro simili sul Pianoro Alto. In quel momento un terzo coro nacque, da miriadi di gole, e fu il più difficile da sopportare, perché non tutte quelle voci erano faêran. Parve che venisse da vicino e da lontano, da grande altezza e dalla profondità del
suolo, e in esso vi erano un'angoscia e un senso di perdita senza paragoni. Dalle braccia di Angavar si liberò un grosso corvo, che prese il volo su ali di ombra. A mani vuote, il Supremo Re si alzò e lo guardò allontanarsi nel cielo. Sul pulviscolo di stelle si disegnò una croce scura che, dopo aver palpitato un attimo, scomparve. Gli astri, lassù nel pianoro, erano grandi. Il firmamento sembrava una cupola di vetro sulla quale fossero venute a schiantarsi milioni di comete, ciascuna delle quali aveva aperto un foro da cui si dipartivano crepe simili ai raggi di una ruota. Morragan se n'era andato. Qualcuno sulla spianata più in basso, giù dall'altopiano, gridò un ordine. Gli arcieri puntarono gli archi contro la costellazione del guerriero e tirarono. Diecimila frecce sibilarono su nel cielo in segno di saluto, e dopo una lunga parabola ricaddero innocue sulle tende dell'accampamento. Poi Ergaiorn si portò alle labbra un corno d'oro e suonò il Ceol na Slàn, la Canzone dell'Addio. A quelle note, anche i guerrieri più duri piansero. I ranghi serrati dei nobili cavalieri che si erano inginocchiati sul pianoro rimasero in quella posizione. Rendevano omaggio al vincitore, il Supremo Re del Reame Fatato. Anche tutti gli eldritch wight s'inchinarono a lui in segno di ubbidienza, tranne i membri dell'Attriod Unseelie, che erano fuggiti via. Intorno alla spada piantata in verticale, dove il sangue del Principe Corvo era colato sulla roccia, cominciò a fiorire un giardino di strani papaveri, i cui petali ricurvi erano traslucidi come lingue di fiamma bianca. «Questi fiori si moltiplicheranno finché l'altopiano non ne sarà ricoperto», disse Angavar. «L'intero Riachadh na Catha diventerà un giardino. Ma io bandirò il siangha da Erith. Mai più i venti di gramarye vagheranno senza meta.» Prese per mano Ashalind, tramutando in una burrasca i sentimenti di lei. «Andiamo via da qui, eudail, Capelli d'Oro. Ora dovrai insegnarmi come soffrono i mortali.» Addio, uccello nero. Sotto le stelle su ali silenti cominci il tuo viaggio, come una grande ombra che improvvisa alta si libra nella notte serena.
Vola veloce, uccello nero, sui fedeli venti, con forte ritmo, sali libero e dritto, perché qualcosa di meraviglioso e raro se ne va con te. Vola in alto, uccello nero, non voltarti mai verso quelli da cui devi separarti. Le tue ali remano nelle correnti come un cuore che batte. Vola rapido, uccello nero, non guardare giù. Sul tuo destino non ci sono dubbi, ma qui nel mondo che ti guarda andare una luce si è spenta. E lo sai quanti cuori vorrebbero partire insieme con te? Il Lamento di Ergaiorn (tradotto dal faêran) 11 BITTERBYNDE, PARTE PRIMA LA PORTA DEL BACIO DELL'OBLIO
Dolce Faêrie, prendi le mie ossa. Per quanto a lungo vivere io possa a ogni cosa potrei rinunciare pur di tornare a te, per camminare tra i tuoi alberi verdi e profumati, sulle rive dei tuoi mari incantati, e respirare ancora il vento lieve e i tuoi monti veder, bianchi di neve. Dolce Faêrie, prendi le mie ossa,
e riposerò in pace nella fossa. Il Canto dell'Esiliato Sulla groppa di Hrimscathr, Ashalind volò con Angavar fino alle tende, alla base dell'altopiano. Per lei, i confini tra la veglia e il sonno si erano confusi. In quell'estatica sospensione di coscienza le sembrava di vedersi dall'esterno, come se il suo corpo fosse solo un'immagine impressa nel vento shang, mentre la vera Ashalind fluttuava altrove. Ma le braccia di Angavar la cingevano, e lei non desiderava altro; ciò bastava a ottunderle i sensi e allontanare ogni preoccupazione, per il momento. Si appoggiò contro di lui e sentì, sotto le calde pieghe della camicia di lino, il suo cuore battere lento e forte. Tre anelli gli ornavano le mani, che, invece di tenere le redini, poggiavano sugli avambracci di lei; ogni cavallo gli ubbidiva senza bisogno delle redini. All'anulare destro, l'anello d'oro dei D'Armancourt era stato sostituito dal Sigillo del Reame Fatato, meravigliosamente cesellato e splendente di giada e di smeraldi. Alla falange centrale del mignolo sinistro portava l'anello di foglie d'oro che Ashalind aveva dato a Viviana per protezione... che evidentemente gli era stato restituito. E una sottilissima treccia fatta di tre capelli d'oro era stata annodata all'anello sull'anulare della sinistra. Ashalind alzò lo sguardo. Oltre la curva della gola di lui e della mandibola scolpita, oltre le ciocche di capelli del colore delle ciliege nere mature che si aprivano lussureggianti sulle sue spalle, scintillavano le fitte stelle di Darke. Il cielo era una lastra di metallo lucido spolverato di gocce d'inchiostro. «Le mie amiche», mormorò Ashalind nel sussurro del vento. «Viviana e Caitri.» Il Re faêran abbassò la testa. Il suo respiro era caldo sulla guancia di lei, odoroso di spezie. «La tua cameriera è stata curata di tutti i mali, e ti aspetta alle tende. Hai perduto la ragazzina?» «Caitri è stata trasformata in un passero da un incantesimo.» «Allora manderò gli uccelli a cercarla.» «L'astore Errantry... lui potrebbe uccidere un passerotto.» «Non avere questo timore, ionmhuinn.» Elegante come un cigno, Hrimscathr atterrò accanto a una baracca di legno dorato eretta presso il padiglione reale. Con un fruscio simile a una raffica di vento tra i cipressi, il cavallo da guerra ripiegò le grandi ali e
permise a uno stalliere di condurlo via. Angavar e Ashalind, accompagnati da alcuni ufficiali, passarono tra due soldati di guardia all'ingresso ed entrarono nella tenda, illuminata da alcune lampade. Tra quelle pareti ricurve e lucenti come petali di una primula, Ashalind ritrovò Viviana. Dopo essersi abbracciate a lungo, piangendo di gioia, le due ragazze conversarono per un poco, e alla fine Ashalind volle sapere: «Cosa hai visto che possa averti fatto cadere in quel profondo coma, ad Annath Gothallamor?» Viviana non seppe dirglielo. Forse i faêran si erano stancati di lei e l'avevano fatta addormentare, o a giocarle quello scherzo era stato qualche wight, o una zona più densa di gramarye delle altre l'aveva mesmerizzata. La cosa sarebbe rimasta uno dei misteri della fortezza al centro del Pianoro Alto. Poco dopo, sfinita dalle fatiche di quella lunga giornata, Ashalind si addormentò su un divano coperto di pelliccia, con l'amica seduta accanto a lei. Angavar uscì coi suoi ufficiali e s'incamminò tra gli uomini delle Legioni, per guarire i feriti come soltanto lui poteva fare, con un semplice tocco del gramarye. L'interno della tenda era lussuoso, ammobiliato con un tavolo, sedie di faggio intarsiato, un leggio in legno di rosa. In un angolo, un complesso attaccapanni sorreggeva i vari pezzi dell'armatura, che luccicavano di riflessi come conchiglie incrostate di ragnatele. Quando Ashalind fu del tutto sveglia, mangiò la carne avanzata dalla cena che aveva condiviso con Viviana. Le doleva la testa e si sentiva debole. Da lì a poco entrò Angavar, lasciando fuori della tenda i suoi accompagnatori. Con un sorriso e un cenno del capo, il Re salutò Viviana e la invitò a uscire. A occhi spalancati, la cameriera s'inchinò e indietreggiò verso la porta, gettando sguardi eccitati a lui e ad Ashalind. Il suo rossore e la fretta con cui uscì indicavano che credeva di aver capito perché lui volesse restare solo con la sua amata. «Finalmente un po' di tranquillità», sospirò il sovrano faêran, gettando il mantello su una sedia. «Ora dobbiamo rimetterci in pari con tutto quello che non ci siamo detti in questi lunghi mesi.» Lei gli posò una mano su un braccio. «Prima devo chiederti un piacere», mormorò, in tono sofferente. «Tutto ciò che vuoi. Cosa c'è che non va?» «Il langothe mi sta consumando...» «È il langothe, dunque?» Lui non chiese altro. La guardò meglio e solle-
vò le sopracciglia. «A questo porremo subito rimedio. Guardami.» Lei lo stava già facendo. Angavar la fissò coi suoi occhi faêran, serio e attento. Poi annuì. «Dimentica», disse infine. «Dimentica il desiderio della terra di delizie oltre le stelle.» E il langothe, quel tormento che consumava le ossa, quella nostalgia dolorosa che era diventata familiare come una parte della sua vita, abituale come il respirare, scomparve. Ashalind si sentì alleggerita da un peso e libera, come se il suo spirito fosse diventato un cigno. Angavar fece un sospiro. «Molto tempo fa, quando ci separammo sulla strada di White Down Rory, fui sul punto di chiederti se avessi mai visitato il Reame. In te c'erano sensazioni che me lo facevano sospettare. Ma pensai che fosse impossibile, con le Porte chiuse da mille anni. Non mi fidai del mio intuito, non potevo credere che fosse vero. Vorrei avertelo domandato. «Presto tu ritroverai la memoria», continuò, «e poi riapriremo la Porta e torneremo nel mio regno, per poterci sposare tra la mia gente. Vorrei farlo subito, ma la promessa che feci a James mi trattiene qui. Io non potrò lasciare Erith finché Edward non sarà stato incoronato.» Ashalind rimase immobile come se non lo avesse udito, più immobile di un cristallo fisso nel cuore di una montagna. Il langothe era stato strappato via come una tenda nera da una finestra chiusa e sigillata della sua mente, e il sole che entrava da quella finestra la abbagliava. Tutto ormai era chiaro. Dove la nostalgia aveva annebbiato tutto, lei vedeva un'immagine. Lì stava la sorgente del langothe, la sua radice, la sua origine, il portale che conduceva laggiù, la catena che aveva legato l'anima di Ashalind alla terra che rappresentava per lei tormento ed estasi. Un'alta roccia grigia simile a una gigantesca mano, e uno snello obelisco inclinato verso di essa, del color di un petalo di rosa. Entrambi i monoliti erano sormontati da una roccia che sembrava l'architrave di una porta. Lì vicino, in una depressione di granito, una scura polla d'acqua alimentata da una sorgente. «Vedo la Porta del Bacio dell'Oblio», mormorò, «disegnata nell'aria.» Angavar s'irrigidì bruscamente, come una creatura selvatica che sentisse nel vento l'odore dei cacciatori. «E la strada per arrivare là?» chiese, con voce controllata. «Questo no, non ancora. Ma ora conosco la Porta, la sua forma esteriore.
E la troverò.» «Che aspetto ha la Via per Faêrie?» Lei gli disse tutto ciò che poteva ricordare. Avvertiva in lui un'ansia e una disperata inquietudine, una nostalgia così pressante e terribile che lei ne ebbe paura. «Mi sembra che tu abbia fretta», gli disse. «Vuoi che prendiamo una nave per Arcdur? Anche se non puoi ancora lasciare Erith, nulla c'impedisce di localizzare la Porta. Può essere aperta, affinché i tuoi cortigiani vadano avanti e indietro.» Un'ombra gli attraversò il viso. «No. Può darsi che, con le intemperie di Arcdur, i tuoi tre capelli siano stati spazzati via dal vento, o dalla pioggia, o da qualche animale selvatico di quella zona.» «È possibile che la Porta si sia chiusa da sola?» «Non si può escludere. Tuttavia la cosa più probabile è che la Porta sia ancora come l'hai lasciata. Per il momento preferisco pensare che sia così, piuttosto che sbattere la faccia contro una delusione. Non c'è fretta di andare a vedere. L'ultimo giorno dell'eternità non sarà più vicino.» «Ma più aspettiamo, più aumentano le probabilità che succeda qualcosa... la pioggia e il vento, le bestie e gli insetti di Arcdur sono al lavoro ogni giorno.» «No, non lo sono più.» Naturalmente. Ashalind stava dimenticando l'estensione dei poteri di lui. L'influenza del Supremo Re sugli elementi naturali era abbastanza forte da arrestarne gli effetti erosivi. A quel pensiero piegò le labbra in un sorriso. Il vento è la mia mano che ti tocca. La pioggia è il bacio mio sulla tua bocca... Sullo sfondo chiaro delle pareti della tenda, la visione di quel remoto angolo di Arcdur si dissolse in una chiazza irriconoscibile. Senza preavviso una scura forma alata si scontrò con quell'immagine e la mandò in pezzi. Ashalind scosse il capo, come per schiarirsi la vista. Poi esitò, meravigliata. «Il corvo...» mormorò. «Cosa vuoi dire?» Angavar si era accigliato. «Lui se n'è andato, tuttavia rimane con noi, in un certo senso», spiegò lei. «Volerà anche lui in Faêrie, quando la Porta sarà aperta? Ora, se non altro, non può domandare più a Easgathair Gufo Bianco la seconda posta della loro scommessa. Il Guardiano delle Porte aveva mantenuto la prima posta: chiuse le Porte, come Morragan aveva preteso. Non fu colpa sua se
io restai chiusa nel passaggio interno di una Porta, né dentro il Reame né fuori. Ora che Morragan ha perso la sua forma faêran, di certo Easgathair non si sentirà obbligato a pagargli la seconda posta. In ogni caso, Morragan non ha più voce per chiederglielo. La parola magica per aprire lo Scrigno delle Chiavi è ormai conosciuta a molti, e ciò significa che tutte le Porte potranno essere riaperte e restare sempre agibili. I faêran e i mortali avranno di nuovo i rapporti che avevano un tempo!» «In forma di corvo, Morragan ha perso la maggior parte dei suoi poteri», disse Angavar pensosamente, arrotolandosi una ciocca di capelli intorno a un dito. «Non tutti. Gli resta una rudimentale capacità di parlare. Lui è di sangue reale... non è facile distruggere uno di noi. Se gli accadesse d'incontrare Easgathair Gufo Bianco, avrebbe la possibilità di chiedergli di ubbidire a un suo ordine. Io potrei cercarlo e renderlo muto e cieco col gramarye, o costringerlo a non rientrare in Faêrie. Ma non sono certo di poterlo rintracciare. Se riaprissimo una o più Porte, dunque, Morragan resterebbe un pericolo.» «Perché lo hai lasciato volare via?» «La mia mano è stata fermata dalla compassione. Come avrei potuto, io che ho risparmiato il Waelghast, non fare lo stesso per mio fratello?» L'attenzione del Re faêran sembrò spostarsi sui suoi pensieri intimi. Il suo bel volto era scuro come il cielo d'inverno. «Mio fratello, nella cui caduta ho giocato una parte importante.» Dopo una breve pausa, continuò: «Non so dire se sia volato in qualche lontana foresta, o se nella strana mente di un uccello possa restare ancora il desiderio di tornare nel Reame Fatato. Il mio atto compassionevole gli ha lasciato questa possibilità». Gli occhi spalancati di lei lo bevevano, assaporando ogni dettaglio. Lui era una fiamma, e lei una candela troppo vicina. Angavar la trasse a sé. Nel sentire il suo odore di cinnamomo, lei si scostò. Lui non puzzava di sudore e di cuoio, il suo alito non sapeva di cipolla, né i suoi capelli di fumo di legna. Era una cosa che lei non poteva più ignorare... quello non era un essere umano. Perplesso, un po' irritato, lui la rimproverò: «Non scostarti da me!» Lei esitò, incapace di sostenere il suo sguardo. «Tu sei di sangue faêran, e io no.» «Questo cosa significa?» Una pressione le schiacciava il petto. «Come puoi amarmi?» Nei suoi occhi, le lacrime premevano per uscire. «Per quelli della tua razza, noi siamo bestie.»
«Non dire mai più una cosa simile!» esclamò lui, con voce arrochita da una passione indecifrabile. Poi, incredulo: «Tu dubiti di me?» «Io appartengo a una razza imperfetta. In fede mia, se guardo la mia razza con occhi faêran...» «Dunque è così. Sembra che tu dubiti del mio amore.» Lei rialzò il viso, e ciò che vide minacciò di fermarle il cuore. «No!» «Non dubitare mai di me, Capelli d'Oro. Mai!» Ashalind aveva un nodo in gola, come se avesse inghiottito il suo stesso cuore. «Siamo stati separati a lungo», disse. «Ma tu sei rimasto sempre nei miei pensieri. Giorno e notte ho visto la tua faccia davanti a me. Nella mia mente sentivo la tua voce. Ogni carezza del vento era la tua carezza, ogni sogno era una ricostruzione del tuo aspetto. Oggi che tu sei davanti a me, talvolta ho paura di chiudere gli occhi, perché potrei riaprirli e scoprire che sei scomparso. E ogni fibra del mio essere grida il suo bisogno di te.» «E il mio per te è lo stesso, stanne certa.» Dall'esterno della tenda provenivano le voci degli uomini, un suono di strumenti musicali, il tonfo soffocato degli zoccoli dei cavalli che si muovevano per il campo. Ashalind ripensò a una delle provocazioni di Morragan ad Angavar: La mia spada ha un fodero delizioso, nel quale sta assai comoda. Un altro modo faêran di distorcere la verità, usando una frase ambigua per ingannare senza mentire. Ad Angavar, disse: «Per irritarti, Morragan ti ha fatto credere che ci sia stato qualcosa tra me e lui... ma non è così». «Lo so.» Lui la prese tra le braccia e posò una guancia sulla sua testa. Lei ebbe l'impressione di perdersi in quei capelli neri che le ricadevano davanti al viso, come se ogni filamento fosse una catena, una corda per legare i suoi pensieri. Tra i faêran, il sesso era comunemente considerato uno sport e un piacere piuttosto che un atto legato a una passione duratura. Ogni storia riguardante quella razza lo dimostrava. Stringersi a lui, sentire nelle sue spalle una tensione erotica così forte da farlo tremare, avvertire il suo desiderio fisico e sapere che gli costava uno sforzo respingerlo, lottando contro la sua natura, commosse Ashalind. Da ciò comprese quanto lui la rispettasse. Altrettanto d'istinto, in modo irresistibile, i mortali erano attirati dai faêran. Gli immortali del Reame erano creature fatte per il divertimento e per l'amore, così come gli uccelli erano fatti per volare. Nel trattenere se stes-
sa, Ashalind agì in modo non meno onorevole del suo straordinario amante. Nella negazione, c'era l'affermazione. «È mio desiderio rispettarti», mormorò lui. «Presto sarai la mia sposa. Quando giaceremo assieme, tu e io, conoscerai una delizia che i mortali possono soltanto sognare, e raramente ottenere... una gioia che sarà senza fine.» «Tu governi due mondi», osservò lei. «Qualcuno potrebbe dire che non ti manca niente. Puoi avere oceani pieni di oro, e fiumi di gioielli. Io non posso darti tesori simili. Quando avremo fatto il voto nuziale, potrò offrirti soltanto quel dono che nessun altro in ognuno dei due mondi può chiedermi, e che ogni donna può dare una volta sola.» «Un dono che io apprezzerò per tutta la vita.» All'improvviso Ashalind fu assalita dalla consapevolezza che la durata della loro vita era troppo diversa. Nel Reame, i mortali potevano prolungare quegli anni di vita, ma non diventare immortali. Lui avrebbe continuato a camminare sulle verdi colline di Erith finché ci sarebbero stati umani su quella terra e oltre, molto tempo dopo che lei fosse scomparsa. Scacciò quel pensiero, irritata per avergli permesso di guastare la sua felicità. Una lieve brezza agitava la tenda, facendo fluttuare le ombre; quel lieve sipario non arrestava i rumori esterni, e dall'esercito che bivaccava per oltre una lega tutto intorno a loro giungevano risa e voci, canti di vittoria, rumori di stoviglie e di utensili. I fuochi da campo proiettavano migliaia di ombre sulle scarpate dell'altopiano. Le sentinelle camminavano sui loro percorsi di ronda, messaggeri andavano e venivano. «Ti ho cercato a lungo», disse con dolcezza Angavar. «Ho mandato ovunque uccelli, animali ed eldritch wight. In questi lunghi mesi ho fatto sorvegliare ogni strada, ogni pista, ogni città e villaggio. Tu hai ingannato i miei servi coi percorsi scelti e coi tuoi travestimenti. Negli ultimi giorni la tua cameriera mi ha raccontato le vostre disavventure. Vorrei aver saputo prima ciò che so oggi. Ogni volta che i miei servi tornavano a riferire di non aver trovato traccia di te, nel mio cuore esplodeva un tumulto. Sembrava che tu fossi svanita dal mondo. Ti avrei cercata io stesso, se avessi potuto accantonare per qualche tempo l'organizzazione delle Legioni. Come hai potuto nasconderti da me con tanta abilità? Io ho il dominio dei mari, del cielo e di ogni angolo della terra. Il Corvo Reale poteva celarsi alle mie ricerche, ma nessun mortale ci sarebbe riuscito... tranne te! E lo hai fatto per ben due volte!»
Ashalind scosse il capo. «Non so come ci sia riuscita. Deve essere stato per puro caso... o per sfortuna. Avrei voluto che tu potessi salvare almeno Tamhania dalla distruzione.» «Non ho saputo che l'isola era in pericolo finché non è stato troppo tardi. A Tana, nessun isolano seppe vedere i sintomi di ciò che stava accadendo, e non mi fu mandata nessuna richiesta di aiuto. Quando infine mi arrivò la brutta notizia, la distruzione era avvenuta. Il mio Cavallo Celeste mi portò sull'Isola Reale, ma non ne restavano che pochi scogli fumanti.» «Quando l'isola s'inabissò, non pensasti che io fossi morta nel disastro?» «Gli abitanti del mare mi riferirono che il tuo corpo non c'era. Ma per qualche tempo fui convinto della tua morte, perché i miei servi avevano perlustrato quella zona di Erith, e si doveva dedurre che il tuo corpo fosse rimasto completamente distrutto, oppure irriconoscibile.» «Irriconoscibile?» «Bruciato, mangiato, o addirittura incenerito o annientato nell'esplosione vulcanica. Ma parliamo di cose meno sgradevoli. Oggi ti ho ritrovata, Capelli d'Oro, e questo ci fa dimenticare ogni sofferenza.» «Ora possiamo finalmente stare insieme», mormorò lei. «Finché vorremo», annuì lui. «E ci racconteremo tutta la nostra vita, come prima non potevamo e non volevamo fare!» In un angolo del padiglione reale, Errantry era appollaiato su un alto posatoio. Al centro vi era un tavolo di quercia scolpita, con un piano di noce arricchito da intarsi di bosso. Ashalind trovò Thomas di Ercildoune e Tamlain di Roxburgh seduti a quel tavolo con Richard di Esgair Garthen e Istoren Giltornyr, stanchi per la battaglia ma incolumi. «È una gioia vedere ancora l'Attriod Reale», li salutò. I quattro uomini si alzarono e le rivolsero un inchino. Thomas il Sincero le baciò la mano. «Avete combattuto con gran valore», disse lei. Roxburgh era scuro in faccia. «Sì, signora, ma il successo ci è costato caro.» Scosse il capo e tacque. «Dromdunach e Ogier non sono più con noi», sospirò Ashalind, sedendo al tavolo. «I loro assassini hanno pagato», disse Roxburgh, cupamente. «Ora, se non altro, la pace è tornata in Erith.» La guardò, e Ashalind vide nei suoi occhi quel desiderio che anche lei conosceva fin troppo bene. «Dunque c'è una Via ancora agibile...»
Lei annuì. «Sì. C'è una Via. Io la ritroverò.» Un paggio venne a mescere il vino, ma i boccali rimasero intoccati. «Ci è stato detto che voi avete scoperto il nostro segreto, mia signora», intervenne Ercildoune, «e noi siamo venuti a sapere il vostro. Se avete passato i mille anni, noi siamo ancora più vecchi. La nostra storia finirà per diventare una favola.» «Lo era già diventata ai miei tempi», replicò Ashalind. «Ricordo che, quand'ero bambina in Avlantia, la mia balia mi raccontava la leggenda del bardo che viveva metà del tempo nel Reame Fatato e metà in Erith. Anche allora si pensava che fosse una fantasia, inventata dai cantastorie che giravano per le campagne. Ma di voi cosa mi dite, signore?» domandò a Tamlain Conmor. «So che anche voi eravate laggiù, ma non riesco a immaginare come ci siate andato.» «Una distrazione dai pensieri che abbiamo oggi sarà la benvenuta», affermò il Bardo, prima che Roxburgh potesse obiettare. «Consentite che a narrarvi quella storia sia io, vi prego.» Lei annuì, e l'uomo continuò: «Sulle terre dei Roxburgh, c'è una zona verdeggiante chiamata valle di Carterhaugh. Laggiù si trova un giardino segreto dove crescono delle rose selvatiche, che una volta fiorivano solo in primavera. Molto tempo fa, prima della Chiusura, strane cose accaddero a Carterhaugh. Si verme a sapere che quelle rose fiorivano in tutte le stagioni dell'anno, perfino sotto la neve nei giorni più freddi dell'inverno. Ed erano rose grosse il doppio del normale, con boccioli lussureggianti che aprendosi rivelavano petali dagli splendidi colori, lisci come la seta, di una bellezza mai vista in Erith. Il loro profumo, diceva qualcuno, era così intenso da intossicare chi si avvicinava troppo. «Pochi tuttavia osavano recarsi laggiù, perché quei fiori così insolitamente rigogliosi erano segno di un'attività soprannaturale. I genitori proibivano ai figli di avventurarsi da quelle parti, ammonendoli che gli sarebbe accaduto qualcosa di brutto. Ma il fascino del proibito attraeva i più ardimentosi, non ultime alcune ragazze che volevano cogliere quelle rose straordinarie, per metterne i petali profumati tra la biancheria nei loro cassetti, o intrecciarsi i fiori tra i capelli. «Dopo qualche tempo cominciò a circolare una voce. Si sussurrava che le fanciulle mortali sorprese a Carterhaugh sarebbero state catturate da un giovane cavaliere, di cui si diceva che fosse il guardiano delle rose. Costui non le avrebbe lasciate libere finché loro non avessero pagato un prezzo, e quel prezzo era il loro mantello oppure la loro verginità. Sapendo che se
fossero tornate a casa senza il mantello sarebbero incorse nelle ire dei genitori, e considerato che quel giovane cavaliere era piuttosto attraente, non poche fanciulle preferivano mantenere il segreto sull'imbarazzante faccenda e tornarsene a casa col mantello ancora sulle spalle. «Ma prima o poi tutti i nodi venivano al pettine. «Non passò molto che qualche ragazza fu costretta a vuotare il sacco, e l'infame ricatto del giovane cavaliere divenne noto alla gente. Circolava voce che fosse un faêran, e questo allarmò ancor di più i benpensanti, che con severe intimazioni ammonivano le figlie a non avvicinarsi per nessun motivo a Carterhaugh. Ma una ragazza più testarda - qualcuno avrebbe detto più pazza e capricciosa - delle altre, la figlia di un nobile, decise di andare laggiù a dispetto di ogni monito, curiosa di vedere coi suoi occhi come stessero le cose. La ragazza era una persona singolare, una che portava abiti verdi, e li ostentava sfacciatamente, solo per dimostrare che non si lasciava intimorire dalle superstizioni. Fu così che un giorno, senza dir niente a nessuno, uscì di casa e andò a Carterhaugh, da sola. «Quando arrivò nel giardino di rose, il loro profumo la riempì di un gioioso languore. Si guardò intorno tra i cespugli, che si piegavano fin quasi al suolo sotto il peso di quei grossi fiori, e non vide traccia di creature viventi. «Rassicurata, cominciò a scegliere le rose più belle. Ne aveva colte appena un paio, quando il giovane cavaliere apparve dinanzi a lei. «'Signora, non raccoglietene altre', le disse. 'Perché siete venuta a Carterhaugh senza il mio permesso?' «La ragazza si piantò baldanzosamente le mani sui fianchi e lo guardò negli occhi. 'Io vado e vengo dove mi pare, caro signore', gli rispose, 'e non ho alcun bisogno del vostro permesso.' «Quella sera fece ritorno a casa di suo padre che era ormai buio, e col mantello ancora sulle spalle. Ma la sua gonna era spiegazzata, e c'erano delle smagliature come se fosse stata presa tra i rovi. Nessuno vi fece caso, perché la ragazza non aveva mai avuto troppa cura dei suoi abiti. E in seguito ella si recò spesso a Carterhaugh, e nessuno sospettò niente. «Poi un giorno suo padre la prese in disparte. Era un gentiluomo dai modi garbati, e amava molto la figlia... forse anche troppo. «'Ahimè, figlia mia', le disse, non irritato ma triste. 'Temo che tu aspetti un bambino. Dimmi il nome di suo padre, e se è uno dei miei cavalieri farò in modo che lui ti sposi.' «'Be', se aspetto un bambino, la colpa è soltanto mia', rispose lei. 'Ma
nessuno dei tuoi cavalieri gli darà il suo nome, perché il padre è un altro, e io non ho intenzione di rinunciare al mio amore per sposare uno di loro.' «'E dunque, chi è l'uomo che ami?' domandò il padre. «'Non è un uomo di Erith, bensì un cavaliere del Reame Fatato. Il suo destriero è più veloce del vento, e ha gli zoccoli anteriori ferrati in argento, e quelli posteriori in oro.' «Allora il padre chinò mestamente il capo, perché non c'era nulla che potesse fare. «Non appena poté, quella fanciulla si acconciò bene i capelli, mise la sua spilla d'oro, e si affrettò a tornare a Carterhaugh. Una volta là, vide che il destriero del cavaliere stava pascolando, ma lui non c'era, e apparve soltanto quando lei ebbe colto due o tre rose. Poi le fu dinanzi, ed era più attraente che mai, inutile negarlo. «'Ragazza, non raccogliere altre rose!' le disse. 'Perché vieni qui a strappare i fiori? Se tu giacessi con me, metteresti in pericolo la vita del bambino che abbiamo concepito insieme.' «Lei non aveva questo timore. 'Durimi, amore mio', lo pregò. 'Sei un cavaliere di Erith? Sei un uomo mortale?' «'Sì', rispose lui. 'Ero a caccia nel bosco, e poiché cavalcavo più veloce dei miei compagni me li sono lasciati indietro. Ero solo, e stava calando la sera, quando vidi una strana e splendida processione che cavalcava lentamente attraverso gli alberi. Al centro c'era un baldacchino di seta verde montato su quattro lance, sostenute da altrettanti cavalieri, abbigliati con lusso. Sotto il baldacchino c'era una gran dama dei Fatati, in sella a un cavallo bianco. All'improvviso ogni timore di essere in pericolo mi abbandonò, e sentii che potevo accostarmi a lei. Spronai allora il cavallo e galoppai furiosamente, ma per quanto veloce io andassi non riuscivo ad avvicinare la processione, che avanzava al passo. Quando alla fine potei raggiungerla e vidi più da vicino la creatura che mi aveva incantato il cuore, il mio cavallo inciampò e io caddi. Restai ferito, e avrei potuto morire lì, ma lei mi guarì e mi prese con sé... ed era una dama di altissimo rango, la Regina Leilieln delle Ginestre Fiorite. Lei si compiacque di condurmi nel Reame e mi tenne con sé, perché aveva visto che ero bello e prestante. Fu così che rimasi là, e vi abito da ormai sette anni. È un luogo piacevole in cui vivere, tuttavia oggi ho una ragione per andarmene, e questa ragione sta ora davanti a me. «'C'è una Via che conduce dal Reame Fatato a Carterhaugh. Mi è stato permesso di usarla, e di restare qualche tempo qui, nel mondo dei mortali.
Ma non posso distrarmi troppo dal mio lavoro, perché mi è stato affidato il compito di sorvegliare le rose della Regina Leilieln e di chiedere una tassa ai ladri. Ma questa è la notte in cui la Corte dei faêran cavalca nell'oscurità, nell'ora più buia. Quelli che vogliono ottenere la persona amata devono andare al pozzo che c'è al quadrivio, e aspettare là.' «'I faêran sapranno che io ci sono e cercheranno di nasconderti in mezzo a loro', disse lei. 'Come potrò riconoscerti, tra tutti quegli attraenti e valorosi cavalieri di Faêrie?' «'Mia signora', rispose lui, 'tu lascia passare per primi i cavalli neri, e poi lascia passare i morelli. Quando vedrai un cavallo bianco come il latte, corri e tira giù il cavaliere. Io sarò sul cavallo bianco, il più vicino alla città, perché un tempo ero un cavaliere di Erith. Avrò la mano sinistra guantata, mia signora, e la destra nuda. Porterò i capelli pettinati lisci, e un berretto con una piuma. Se riuscirai a fare questo, io potrò venire con te.' «'In che modo i faêran cercheranno di sventare il mio scopo?' domandò lei. «'Quando sarò tra le tue braccia, mi tramuteranno in un ramarro, o in un serpente. Ma tu tienimi stretto e non lasciarmi, perché io sono il padre di tuo figlio.' «'Io ti terrò stretto', affermò coraggiosamente lei. «'Allora essi mi trasformeranno tra le tue braccia in un orso, e poi in un leone ruggente. Ma tu tienimi stretto come stringeresti a te il tuo bambino, e non aver paura di me.' «'Non avrò paura!' «Allora essi mi tramuteranno tra le tue braccia in un crogiolo di ferro fuso. Ma tu tienimi stretto e non temere, perché non ti farò male.' «'I loro trucchi non mi faranno fuggire.' «Allora essi mi trasformeranno in una spada fiammeggiante. Tu gettami nel pozzo, e io diventerò di nuovo un uomo, completamente nudo. Dovrai coprirmi col tuo mantello e tenermi nascosto alla loro vista.' «'Farò tutto ciò che mi hai chiesto', promise lei. «Quella sera, la ragazza si recò da sola al pozzo presso il quadrivio, e si nascose. Tutto era immobile e silenzioso. La faccia d'argento della luna era l'unica altra faccia che lei vedeva. A metà della notte udì un tintinnio di campanelle e di finimenti, e fu lieta di sentirlo come lo sarebbe stata di un rumore lorraly. La rade faêran si avvicinò, cavalcando al trotto. I cavalli avevano ricche gualdrappe, e li montavano molte bellissime dame faêran e molti eleganti cavalieri. Prima passarono accanto al pozzo i cavalli neri, e
poi i morelli. Non appena la ragazza vide il cavallo bianco, corse avanti e afferrò il cavaliere, tirandolo giù di sella. «Quando la Regina Leilieln delle Ginestre Fiorite si voltò e vide cosa era successo, si scatenò una tempesta di gramarye. Quella fanciulla mortale, il cui nome era Alys, non era timida né vile. Aveva capito bene cosa doveva fare per combattere gli incantesimi, e tenne stretto il cavaliere nonostante tutte le orribili forme in cui lo tramutarono. Fu così che vinse la sfida e lo coprì col suo mantello. «Questo però non piacque alla Regina Leilieln delle Ginestre Fiorite, che in preda all'ira gridò: 'La mortale che ha osato prendere il mio cavaliere lo ha avuto e potrà tenerselo. Ma non per molto, perché pagherà a caro prezzo ciò che ha fatto! Un'atroce malattia la condurrà alla morte. In quanto a lui, se avessi saputo che meditava di tradirmi, lo avrei trasformato in un albero, e tale diventerà dopo la morte di lei'. E quando ebbe pronunciato la sua maledizione si allontanò seguita da tutti i suoi faêran. «Ma il cavaliere, il cui nome era Tamlain Conmor, sposò la sua amata. E la bambina che lei diede alla luce fu partorita nel giardino delle rose, sulla Via tra Faêrie e i regni dei mortali, dove crescevano le rose più belle che si fossero mai viste. In onore di quei fiori, la bambina fu battezzata Rosamonde». A quel punto il racconto fu proseguito da Roxburgh. «Insieme con sua madre Alys e me, Rosamonde entrò nel Sonno Pendur sotto Nido dell'Aquila.» La sua espressione cupa si era raddolcita nel pronunciare il nome della figlia. «Dopo il nostro risveglio, lei venne con noi alla Corte di Angavar-James. Rosamonde e il Principe Edward trascorsero l'infanzia insieme. Tra loro è nata un'affettuosa amicizia, come certo voi sapete.» In effetti, il sentimento tra Edward e Rosamonde era ben noto a Corte, e ci si aspettava che un giorno o l'altro si sarebbero sposati. «E la maledizione di Leilieln?» domandò Ashalind. «Angavar la spazzò via.» «È una bellissima storia», commentò lei. «Ora capisco molte cose! Ma, Thomas, come ha potuto la vostra lingua condannata alla sincerità evitare di rivelarmi questi avvenimenti?» «Perché è una lingua astuta», rispose Ercildoune con l'ombra di un sorriso. «Così come i faêran e i wight sono esperti nel girare intorno alla verità, io sono diventato un maestro nel mimetizzarla.» «E ora eccoci qui, insieme», sospirò Ashalind. «Tre mortali che hanno camminato nel Reame, respirandone l'aria e il fascino.»
«Forse era destino, fin dal primo giorno che veniste a Caermelor», osservò Ercildoune. «I compagni di viaggio sanno riconoscersi tra loro, in qualche modo imperscrutabile. Nessun mortale che sia entrato nel Reame può uscirne immutato.» «Saprete ritrovare la Porta?» domandò Roxburgh, all'improvviso. Vi era qualcosa di selvaggio in quella domanda, come se il suo sangue di guerriero, scaldato dalla battaglia, non si fosse ancora raffreddato. Ashalind si voltò verso il comandante dei Dainnan. «Farò tutto ciò che posso», dichiarò. «Ve lo giuro.» Fra le tende, non si faceva altro che parlare delle meraviglie accadute, la più grande delle quali era stata la vista del Re-Imperatore che impugnava una spada faêran per duellare con un Principe faêran. Angavar incaricò allora l'Attriod Reale di rivelare l'intera verità sulla morte di James e sulla sua identità. Benché non ancora maggiorenne, Edward era ormai abbastanza maturo da poter salire al trono e assumere il rango che gli spettava. La promessa fatta da Angavar a James poteva considerarsi mantenuta. Quella notizia si sparse tra le Legioni in poche ore. «Il Re James è morto. Lunga vita a Re Edward!» Ma molti soldati non riuscirono a capire bene cosa fosse accaduto, e credettero che il Re-Imperatore fosse stato ucciso nella battaglia appena conclusa. Fu per tale motivo che negli anni seguenti, nonostante le cerimonie che presto si sarebbero tenute a Caermelor, la verità finì per restare inevitabilmente distorta. E le canzoni composte dai bardi sul sovrano saggio e giusto che essi avevano amato, anche se era un sovrano faêran, nel futuro sarebbero diventate canzoni dedicate a Re James XVI, il padre di Edward. Angavar emise la sentenza sul destino dei cavalieri di Nido del Corvo, condannandoli in perpetuo al Sonno Pendur sotto la collina. In ciò fu pietoso: l'alto tradimento era un crimine punibile con la pena capitale. «Siete già degli esiliati», disse loro. «E tali rimarrete, finché a me piacerà. Quando io e i miei seguaci torneremo nel Reame, non vi saranno traditori tra noi.» Se tra i cavalieri di Nido del Corvo scese la più nera disperazione, i cavalieri di Nido dell'Aquila festeggiarono, poiché si avvicinava il giorno in cui sarebbero finalmente tornati in Faêrie. Ashalind non poté unirsi alla loro felicità. Seduta sui cuscini di seta del padiglione dorato, la ragazza pianse, in preda a una desolazione che non
poteva definire. Neppure Viviana seppe confortarla. Le tende si aprirono con un fruscio e Angavar fu di nuovo lì, di ritorno dal padiglione centrale dove aveva tenuto consiglio con i suoi comandanti e l'Attriod. «Lasciaci soli», disse con cortesia a Viviana. La cameriera s'inchinò e uscì goffamente a ritroso, sopraffatta dalla sua presenza. Senza fretta, Ashalind alzò il viso verso il Re faêran. Non riusciva a guardarlo con facilità. Il respiro le si mozzò in gola e la lasciò senza parole, finché l'emozione della sua vicinanza non si placò. «C'è qualcosa che non va?» domandò lui. «Sì», ammise lei. «Ora ti ho finalmente ritrovato, mio amore, e questa è una felicità immensa. Ma sento di aver perduto qualcosa di prezioso, non so di preciso cosa...» Per una ragazza non ancora diciottenne, Ashalind aveva visto fin troppi orrori durante la Battaglia di Notteterna, e in lei restavano ancora i residui dello shock. Dopo tutte le disavventure che l'avevano fisicamente esaurita, non vi era da stupirsi se quell'ultima goccia aveva fatto traboccare il vaso, gettandola nella depressione. Non faceva altro che pensare alla tragica caduta del Principe Morragan. Viviana, dopo essere tornata in libertà, aveva restituito al Re l'anellofoglia; da quel giorno lui l'aveva sempre tenuto al dito. In quel momento lo infilò di nuovo all'anulare sinistro di Ashalind, e le asciugò le lacrime dagli zigomi con baci caldi come il sole. «Sì, la perdita di uno come lui è una cosa che può uccidere la gioia», le disse, intuendo i suoi pensieri. «Ma non per sempre.» Non era nella natura dei faêran lasciarsi abbattere dal cattivo umore, non per molto tempo, almeno. Ashalind ripartì per Caermelor con Angavar e Viviana, a bordo di una Nave del Vento. Il Principe Edward li attendeva a palazzo. Il giovane era stato persuaso a restare nella capitale, contrariamente ai suoi desideri, invece di recarsi nel nord per unirsi alle Legioni. Essendo l'unico erede, la sua vita era troppo preziosa per rischiarla sul campo di battaglia. Quando la Nave del Vento uscì dalle cortine di fumo che circondavano la zona meridionale di Darke, e la sua elegante forma navigò di nuovo nell'aria illuminata dal sole, un verso stridente fece salire tutti in coperta. L'astore Errantry stava planando da grande altezza, con un uccellino tra gli artigli. Una volta deposto sul ponte, quel piccolo fardello piumato si tra-
sformò nella figura di Caitri, pallida e smarrita, col volto sporco di sangue. Angavar la curò con le sue mani, la aiutò a rialzarsi, e lei lo guardò vacillando, di nuovo fisicamente sana ma stordita. Ashalind la abbracciò e la baciò, tenendola stretta a sé. «Caitri, tu non dovrai più servire me, né nessun altro», le promise. «Tu e Viviana avrete una vostra tenuta. Finché tutto non sarà pronto, vi chiedo di restare mie ospiti al palazzo di Caermelor.» Ancor prima che la Nave del Vento giungesse alla capitale, una squadra di cavalieri su eotauri sbucò dalle nuvole, e in testa a tutti era il Principe Edward. Evidentemente, dopo aver ricevuto le ultime notizie da un Cavaliere della Tempesta, il ragazzo era impaziente d'incontrare Angavar e Ashalind nel loro trionfante ritorno. Con mano sicura, il ragazzo fece atterrare il destriero sul ponte di coperta; smontò, si tolse l'elmo, e posò un ginocchio sul tavolato, chinando la testa. «Altezza Reale, Baronessa, chiedo il permesso di salire a bordo.» Angavar lo fece alzare e lo abbracciò, lieto di rivederlo. Ma Ashalind si accorse subito che il Principe appariva pallido e stanco, con gli occhi cerchiati, come se negli ultimi tempi non avesse dormito o fosse stato malato. «La vostra assenza mi ha dato un'ansia continua», spiegò il ragazzo. «Vedervi tornare è un vero sollievo.» Aveva le guance arrossate, quasi fosse febbricitante, e il suo petto si alzava e abbassava come quello di un nuotatore sul punto di affogare. Ashalind era preoccupata. «Ti senti poco bene, Edward?» «Sto benissimo», rispose lui, con un sorriso forzato. «Ora che siete di nuovo a casa, tutto andrà meglio.» «Allora dobbiamo festeggiare!» esclamò Angavar. Fu così che la ragazza giunta a Caermelor di soppiatto e sotto il falso titolo di Dama delle Isole Sorrows fece ritorno in grande stile nella Città Reale. Non aveva dimenticato il giorno in cui era giunta lì in carrozza, sola e spaventata, né quando vi era arrivata in volo sul destriero del ReImperatore, ma in quel momento - yan, tan tethera - era a bordo di una Nave del Vento, a braccetto di un amante cui solo le parole di un poeta avrebbero reso giustizia, e tutte le verità erano state finalmente rivelate. Tuttavia la sua storia non sarebbe finita così. A piedi o a cavallo, le Legioni di Erith lasciarono l'oscura Darke e si misero in viaggio sulle terre illuminate dal sole. Attraversarono Namarre e il Ponte di Terra di Nenian, passando in Eldaraigne. Poi scesero a sud ed
entrarono a Caermelor con una parata trionfale, in alta uniforme e gli stendardi al vento. Nel viaggiare verso sud i soldati erano stati continuamente disturbati da presenze che facevano rizzare loro i capelli sul collo. Intorno a essi passavano forme e bagliori che sparivano se fissati direttamente, e di notte i loro sogni erano tormentati da immagini che li facevano svegliare di soprassalto, inorriditi. Tuttavia quei fenomeni non erano altro che il ritirarsi di una marea, il ritorno dei wight unseelie alle loro tradizionali dimore: stagni, torrenti, pozzi, sorgenti, tane e caverne, boschi, montagne, antiche città in rovina e altri luoghi dimenticati dall'umanità. I wight che tornavano erano meno di quelli partiti, così com'erano di meno i soldati che avrebbero rivisto la loro terra, perché tale era l'inevitabile conseguenza della guerra, vinta o persa che fosse. Sopra di loro, vasti stormi di uccelli scurivano il morbido azzurro cielo degli ultimi giorni di Teinemis, come una migrazione fuori stagione, benché su Erith vi fosse ancora l'amabile calore dell'estate, e nelle Terre Conosciute i campi ormai mietuti si stessero seccando al sole. I legionari cantavano nel marciare, e alzavano lo sguardo agli stormi di volatili estesi fino all'orizzonte, vedendoli come un portento di qualche genere, o forse una celebrazione della loro vittoria, o semplicemente un'altra manifestazione dell'inquietudine della natura che li circondava. Perché l'intero mondo sembrava essersi svegliato: i fiumi scorrevano più veloci e gioiosi, i venti soffiavano energici e puliti, nelle profondità delle foreste fremeva la vita, i fiori sbocciavano con vigore, e gli animali selvatici mettevano da parte la timidezza e si lasciavano vedere ovunque con una frequenza senza precedenti. L'estate, la prosperosa ragazza dai capelli d'oro, stava lasciando il posto alla più matura donna dell'autunno, dalla chioma rossa, che arrivava coi primi giorni di Arvamis, il mese del grano. A Caermelor, le Legioni erano state accolte con manifestazioni di entusiasmo popolare. Durante la parata trionfale, la gente aveva coperto di fiori le strade principali. Poi, mentre i festeggiamenti ancora proseguivano, furono intrapresi i preparativi per il funerale di Re James, le cui spoglie erano state prelevate da Nido dell'Aquila, e che sarebbe stato sepolto accanto alla sua Regina nella Cripta Reale. Una cerimonia funebre fu tenuta per dare l'addio ai due nobili dell'Attriod Reale, Octarus Ogier dei Cavalieri della Tempesta e John Dromdunach della Guardia Reale. Si diede anche inizio ai preliminari dell'incoronazione di Edward, che sarebbe stata più solenne e fastosa che mai. Il Gran Siniscalco di Palazzo,
responsabile dell'organizzazione di quelle celebrazioni, lavorava freneticamente, notte e giorno. L'Alto Cancelliere, il Maestro di Palazzo e il Maestro delle Cerimonie stavano assumendo personale e davano lavoro a tutti gli artigiani della città. Cominciarono ad arrivare i regali per il Principe, che sarebbe stato incoronato il giorno del suo sedicesimo compleanno. In aggiunta a tali attività incessanti, la gente comune stava preparando l'ormai prossima Festa di Samdain, per il giorno dell'Equinozio d'Autunno, con la cerimonia di Ringraziamento del Buon Raccolto, durante la quale la città si sarebbe riempita di ghirlande e il vino di cedro e di mele sarebbe corso a fiumi. Con grande meraviglia dei popolani, dei nobili e dei cortigiani di Caermelor, gli eleganti cavalieri e le bellissime dame faêran di Nido dell'Aquila si aggiravano apertamente tra loro, raccontando storie e cantando canzoni del Reame Fatato. Trasportata sull'onda di quell'entusiasmo generale, Ashalind dimenticò la malinconia in cui l'avevano gettata gli orrori della guerra, e superò il senso di perdita che l'aveva intristita. Dopo il funerale di Re James, vi furono molte occasioni di distrarsi e rallegrarsi, nell'atmosfera di giustizia, speranza e amore. Le sale del palazzo di Caermelor e le strade cittadine risuonavano di risa e canti. Sianadh fece ritorno a Corte, zoppicando ostentatamente da una gamba rimasta ferita in qualche modo imprecisato, e fu guarito da un tocco di Angavar. Andava in giro battendo grandi pacche sulle spalle alla gente e raccontando le sue valorose imprese di capitano di una Nave del Vento, che diventavano più valorose a ogni ripetizione. Lo accompagnavano Diarmid e Muirne, che in battaglia si erano meritati molta stima. Le Carlin Ethlinn e Maeve furono invitate a restare a Corte per i festeggiamenti. Con loro giunsero Eochaid, Roisin Tuillimh, e il garzone di Maeve, Tom Coppins. I Corrieri cavalcavano nei cieli per portare inviti all'incoronazione. Silken Janet Trenowyn arrivò a Caermelor con il padre e la madre Elasaid, da poco ritrovata, e coi sette fratelli da lei salvati, i cui capelli erano simili al piumaggio delle cornacchie; il dito mignolo sinistro della donna era amputato. «Mi è rimasto congelato», spiegò ad Ashalind. «Quella serratura era ghiacciata.» Il giardino di Janet era diventato famoso per miglia intorno a Rosedale. Tutto vi fioriva in modo rigoglioso e lussureggiante. Dal suo fertile suolo
crescevano strane piante, che davano i fiori e i frutti più belli. Gli insetti che volavano tra esse erano grossi e luminosi, e attiravano coloratissimi uccelli canori. E le galline che razzolavano nutrendosi di quegli insetti erano grasse, floride, e ognuna di esse faceva almeno due uova al giorno. «È stata la polvere di Faêrie a far prosperare il tuo giardino», sussurrò Ashalind a Janet. In quanto ai figli di Trenowyn, erano rimasti tanto a lungo sotto incantesimo che la loro natura ne era ancora influenzata. Erano ciarlieri come cornacchie, chiassosi e sfrenati. Non si adattavano bene alle usanze della gente di città; in effetti quei ragazzi vigorosi sembravano appartenere al mondo degli eldritch. Come la bella Rosamonde di Roxburgh, quei figli di mortali erano stati toccati dal gramarye. Non apparivano più del tutto umani, e avevano qualcosa in comune coi faêran, dai quali erano molto attirati; i Fatati, da parte loro, adoravano quei ragazzi, così come apprezzavano tutte le creature selvatiche. Alcuni vecchi amici erano assenti. Il tragico prezzo in vite umane della distruzione di Tamhania era stato elevato. Roland Avenel era morto in mare; nessuno aveva più ritrovato il suo corpo. E tuttavia in qualche modo era riuscito a salvare dalla furia delle onde due ragazze di Tana, Annie e Molly Chove. La famiglia Wade, naturalmente, era sopravvissuta; aveva uno stretto legame con l'oceano. Georgiana Griffin era stata portata fuori pericolo sulla barca di Mastro Sevran Shaw e, poco più tardi, i due si erano sposati. Ashalind ebbe la sorpresa e la gioia di ricevere anche la famiglia Caiden, i pescatori che una volta abitavano nella casetta non lontano dalle Torri della Caccia. Tavron e Madelin dovettero accettare da lei ricchi doni. I loro figli, Tansy e Darvon, avevano portato il piccolo cagnolino bianco. L'animale fece molte feste ad Ashalind e cercò di leccarle la faccia. Lei rise, lo prese in braccio e gli accarezzò la testa. «La tua linguetta umida è adorabile», esclamò. «Ma il guaio che mi hai fatto con quel bacio... be', ora non potrai più cancellarmi il passato dalla mente, piccolo mascalzone!» Una Nave del Vento fu mandata ad Appleton Thorn, e fece ritorno carica di passeggeri. Quasi l'intero villaggio aveva accettato quell'invito così raro e prestigioso. Ironmonger e Wimblesworthy giunsero abbigliati con le loro armature, ben oliate e lucidate. Bowyer, Cooper, Spider, il suonatore di corno del villaggio, il giudice, il sovrintendente, il custode delle chiavi e il capo dei guardiani... tutti arrivarono con le loro famiglie. Tra i passeggeri
vi erano anche Betony e Sorrel Arrowsmith, ma il loro fratello non le aveva accompagnate. «Galan non è più tornato indietro», raccontò tristemente Betony. «Soltanto il suo cavallo riapparve in paese, con un po' di alghe intrecciate alla criniera.» «Eppure il cuore mi dice che un giorno lo rivedremo», aggiunse Sorrel, con l'aria di chi cerca un po' di speranza nel deserto della disperazione. Lord Voltasus, Condottiero della Tempesta del Settimo Casato, era caduto in battaglia. Lord Noctorus, il nuovo Condottiero, aveva inaspettatamente trasferito l'erede di Voltasus, Lord Ustorix, in un solitario porticciolo delle Isole Turnagain. Per contro, l'uomo annunciò che la sorella di Ustorix, Heligea, sarebbe diventata la nuova signora del Settimo Casato. La ragazza era stata invitata a Corte, e giunse a Caermelor su una Nave del Vento insieme con sua madre, Lady Artemisia. Anche i lord Sarores, Isterilirti, Callidus e Ariades erano sulla nave, come il loro nuovo Mago, Andrath, e parecchi servi della Torre di Isse, tra i quali Brand Brinkworth, Keat Featherstone, Dain Pennyrigg, Tren Spatchwort, Carlan Fable e Teron Hoad. Sopra Caermelor, le nuvole ribollivano e s'inseguivano come sciami di semi di mela nella bufera. Le chiglie delle navi tagliavano quei vapori, tra i quali apparivano le pance rigonfie delle vele tese dal vento. Arrivarono vascelli da tutti i dodici casati dei Cavalieri della Tempesta, ciascuno scortato da uno squadrone di Cavalli Celesti. Persefonae, la sorella di Heligea, giunse insieme con suo marito Valerix, con Lord Oscenis del Quinto Casato e Lady Lilaceae. Lady Dianella, fidanzata ufficialmente con un anziano Conte delle Isole Sorrows, non era stata invitata alle cerimonie. Di suo zio, il Mago Sargoth, al quale da tempo si dava la caccia, non si avevano molte notizie. Qualche tempo addietro, alcune guardie forestali nell'oriente di Eldaraigne avevano visto un vagabondo, a piedi nudi e vestito di stracci, che si aggirava nella campagna. L'individuo aveva gridato loro minacce e incantesimi, avvertendoli di non avvicinarsi a lui, poiché era un Mago potente e avrebbe potuto ucciderli. Era però del tutto privo di strumenti magici. Le guardie forestali avevano riso, lasciando andare il mentecatto per la sua strada. L'imponente mole quadrata del maschio torreggiava sul Giardino d'Autunno del palazzo di Caermelor. Le mura di pietra del parco erano ornate da festoni di foglie cremisi di grappoli d'uva. Sotto le vaste chiome dei tupeli, con le loro foglie rosse e i fiori di un lucido blu, fiorivano ricchi
cespugli di malvarose scarlatte. I cespugli erano una mescolanza delle piante autunnali più classiche: le fragole di montagna, le cui bronzee foglie ovali stavano diventando color fiamma, le vitree cotonelle sempreverdi, gli agrifogli scuri coi loro mazzetti di baccelli sanguigni, le spine di fuoco, e i pyracantha dalle foghe simili a orecchie di asino. Intorno alle radici dei ciliegi invernali l'erba era piena di piccoli frutti gialli, brillanti, come se collane di topazi e corniole si fossero rotte, spargendo al suolo le loro gemme. L'astore Errantry era appollaiato sui rami di un gingko fronzuto, le cui foglie a forma di ventaglio si ergevano immobili sotto il cielo mattutino, come larghe mani dalle dita arancione. Sopra i ciliegi in fiore troneggiavano le chiome dei verzi, dal tronco venato d'ambra. Fiorivano le camelie, i cui petali si agitavano alla brezza come sottane danzanti. Dai rami dei melograni pendevano frutti grossi quanto il pugno di una donna. Immobile tra le foglie accumulate dal vento, un verme torceva le sue spire dai riflessi arcobaleno intorno al piedistallo della statua di Re William il Saggio. Il profumo dolce e intenso delle gardenie permeava il giardino. L'aria era piena del cinguettio dei passeri. Quel giorno, mentre fervevano i preparativi per l'incoronazione di Edward, due persone stavano passeggiando tra le aiuole, e conversavano pacatamente. Ogni tanto dovevano scostare i lunghi rami dorati dei salici piangenti, le cui foglioline gialle si staccavano fluttuando come neve. Angavar indossava una tunica verde scuro e un giustacuore di velluto rosso ricamato coi suoi stemmi faêran: l'aquila dalla corona di stelle, inghirlandata di biancospini. Un bellissimo mantello ricamato in filo d'oro gli copriva le spalle, tenuto fermo sul petto da una fascia ingioiellata e fibbie a forma di losanga; le sue pesanti pieghe erano arricchite da ricami floreali. I calzoni erano infilati negli stivaloni col risvolto, alti fino a metà coscia, e i capelli erano tenuti a posto da una fascia dorata intorno alla fronte. La sua compagna portava un abito frusciante di seta color calce, ricamato con pentafogli d'oro. Le maniche strettamente abbottonate giungevano a coprirle il dorso delle mani. Intorno alla gola aveva una collana d'oro rosso incastonata di smeraldi e di rubini. I suoi capelli erano riuniti in due lunghe trecce, e scintillavano come fiori di ginestre; sottili collane di piccoli smeraldi tenevano ferme le trecce per tutta la lunghezza. Intorno alla sua fronte, una coroncina di foglie autunnali e bacche fatte con topazi e corniole, tenuta insieme da uno spesso filo d'oro. Sulle braccia aveva una stola di ermellino bianco, e la sua cintura era fatta di piastre quadrate d'oro cospar-
se di pietre preziose, in uno stile che si accoppiava con la collana. «Com'è cominciato tutto questo?» domandò Ashalind con un sorriso. «Tu eri andato a caccia, e William di Erith cercò di rubarti la preda. Ma tu fosti magnanimo con lui, e così nacque l'amicizia tra Erith e Faêrie. Ora ho l'impressione che la caccia non ti attiri più.» «In Erith non ci sono cervi faêran», rispose lui. «È nostro costume cacciare soltanto animali di gramarye, che invece di morire tornano alla vita dopo esser stati abbattuti. Quegli animali sono già esperti in manovre evasive, e per prenderli occorre molta abilità. Essi non temono il dolore e la morte, perché sanno che non sono esperienze durevoli, e durante la caccia si divertono quanto il cacciatore, come i bambini quando giocano a nascondino.» Allungò una mano a palpeggiare le foglie di un salice piangente. «Dopo aver vissuto tanti anni tra i mortali, ho imparato a rispettare più di prima la fragile vita di chi è atteso dalla morte. Ma questo genere di compassione ha posto un grave fardello su di me.» Ashalind sentiva di capirlo. Il suo amato aveva un rispetto per la vita che solitamente i faêran non conoscevano. Ciò era contrario alla sua natura: aveva perduto qualcosa dell'indifferenza innata negli immortali, che non erano fatti per simili preoccupazioni. Tali pensieri, alla lunga, potevano distruggere il loro cuore e la loro mente, e a essi non mancava il tempo di raggiungere quel sottile genere di distruzione. La luce che filtrava tra i rami dei salici si spargeva come uno sciroppo sulla pelle di Ashalind. Colui che camminava con passi da tigre al suo fianco era la fragranza delle foglie, l'essenza dei raggi solari. I suoi capelli scintillavano come se vi fossero imprigionate gocce di rugiada. Dai ricordi di Ashalind riemersero i versi goffamente tradotti di un'antica canzone talith: Il giorno era tutto suo, e anche la notte. Appartenevano a lui la pioggia, il vento, il sole, la luna e le stelle, la neve, il ghiaccio, il gelo, il fuoco, la pietra. Suo era il potere delle tempeste e delle maree, del terremoto che scuote le rocce, delle montagne di fuoco, dei gorghi e delle onde. La goccia di brina che trema sulla ragnatela, e cattura la luce dell'alba,
le ali colorate della farfalla, il fiore in boccio, la foglia, il ramoscello, la canzone del merlo... anche questo era suo. Il gufo bianco nel cavo dell'albero, la volpe rossa, l'aquila dorata, la carpa d'argento che nell'acqua balza. Ogni cosa rara, gioiosa e terribile, risate, divertimento, canzoni, rabbia e vendetta, tutto ciò era suo. Ed era suo il sorgere del sole, come il suo tramontare. Lo spirito della giovane donna provò l'improvviso bisogno di rivedere il Reame. «Io posso darti il mondo», disse Angavar, fermandosi tra le cortine ambrate dei salici. «C'è qualcosa che tu desideri, e che ancora non hai?» Di nuovo, ai margini della sua coscienza, un uccello nero sbatté le ali. Ashalind lo ignorò. «Sì, che c'è!» esclamò. «Insieme, raddrizzeremo tutti i torti. Gli schiavi saranno cercati e liberati, e i mercanti di schiavi perseguiti senza pietà. Picchiare i servi sarà proibito dalla legge, e in ogni casa saranno ospitati wight domestici, specialmente nelle dimore dei Cavalieri della Tempesta, perché capiscano la giustizia. I tesori trovati a Scala d'Acqua saranno distribuiti tra i poveri e i meritevoli, a Gilvaris Tarv e ovunque essi siano!» Le parole le uscivano di getto, mentre si scaldava. «Regaleremo ad Appleton Thorn un nuovo mulino per macinare le ginestre, un aratro degno di questo nome, una dozzina di falci d'acciaio di Eldaraigne e venti robusti cavalli da tiro. Oh, ci sono tante cose che sento di dover fare... Penserò a tutte, al più presto. Non ultima, una revisione dell'etichetta di Corte!» Le rughette di un sorriso divertito apparvero intorno alla bocca di Thorn. «Ciò che tu desideri sarà realizzato», le promise. «Ma non dimenticare: sarà Edward a fare le leggi di Erith, da ora in poi, non io.» «Sono sicura che lui sarà d'accordo, se i suggerimenti proverranno da te. Lui ti vuol bene, e rispetta la tua saggezza.» «Cosa che forse tu non fai. Insomma... sembra che tu voglia porre rimedio a tutte le cose che io, governando questa terra, non ho saputo migliorare.» «No, affatto! Ma se tu fossi stato consapevole dei maltrattamenti ai ser-
vi, avresti subito posto rimedio alla situazione, ne sono certa! Quand'ero bambina in Avlantia, non avevo mai sentito dire che esistessero le ingiustizie delle quali fui vittima alla Torre di Isse. Potrei scommettere che tali angherie contro gli inermi non accadevano nei giorni in cui la gente passava spesso tra Erith e il Reame. A quel tempo i governanti avrebbero proibito gli abusi e punito i padroni crudeli.» «Ma, tu, cosa ne sai delle usanze faêran?» «A Hythe Mellyn, i maestri della conoscenza c'insegnavano ciò che sapevano delle usanze faêran. La mia insegnante era Meganwy, una Carlin...» Ashalind s'interruppe. Fin da bambina, ogni volta che la conversazione aveva toccato i Fatati, lui era stato una figura favolosa nella sua immaginazione, una remota e gloriosa leggenda vecchia come il tempo, che poteva soltanto essere sognata ma mai vista o toccata, non più di quanto si potessero toccare le stelle. Era difficile riconciliare quelle visioni col fatto che lui stava li accanto a lei, che parlavano insieme, e che lui era Thorn. «... esperta nelle regole seguite dai tuoi sudditi», continuò, intimidita, per un momento incapace di guardare nella sua direzione. «So con quanta severità vengono imposte queste regole.» «Noi condanniamo il sudiciume», disse con franchezza Angavar. «La gente sciatta e sporca merita di essere punita.» «Forse, ma non a bastonate», obiettò Ashalind. «In questo siamo diversi, tu e io.» Esitò ancora, poi riprese, non molto sicura di ciò che stava dicendo: «E le differenze non sono poche. Più ti conosco, più mi sembri strano». Le sfuggì un sospiro. «Ma la tua stranezza mi fa bollire il sangue...» «I confini possono essere attraversati», osservò lui. Si piegò verso di lei, mostrando un vasetto di vetro intarsiato, verde come la fiamma del filo di rame ardente. Era coperto da intricate decorazioni di foglie e uccelli, così splendidi e pieni di vita che Ashalind ripensò all'anello-foglia. «Vuoi provare l'effetto di questo unguento?» le domandò. Una lunga ciocca dei suoi capelli si spostò dalla spalla, accarezzando una guancia di Ashalind, e per un momento lei fu incapace di parlare. Dai rami più alti di un gingko, un merlo fischiò tre note. La ragazza si schiarì la gola con un colpo di tosse, e ritrovò il controllo di se stessa. «Non ho mai visto nulla di simile... ma penso di sapere cosa sia. Ho sentito una storia.» Angavar aprì il coperchio, e lei vide che il contenuto era una sostanza verde come l'erba nuova in primavera. Ne tolse una ditata e gliela spalmò sulle palpebre. Lei restò senza fiato. «Santo cielo!» esclamò,
meravigliata. «Non è lo stesso unguento usato dalla levatrice nella storia di Eilian? La vecchia che la aiutò a partorire, dopo che lei aveva sposato un nobile faêran?» «È così.» «Ora sarò in grado di vedere la tua gente, anche quando vuole nascondersi ai mortali!» «Infatti. Nessun mortale può vedere i faêran, se essi non vogliono. Ma con questo unguento tu potrai vederli, che essi vogliano o no. E potrai anche vedere attraverso tutti gli incantesimi eldritch.» «Un utile espediente! Ma tutto ciò che vedo qui sembra immutato», osservò lei, incerta. «Non ci sono illusioni, intorno a noi.» Ashalind rise. «È divertente! Sei generoso coi tuoi doni!» «Chiedimene ancora. Il tuo piacere è il mio.» «Sì, te ne chiederò ancora. In effetti, devo chiederti una cosa. Vorrei averci pensato prima... Da tempo desidero poter rendere in qualche modo la libertà ai servi dell'Each Uisge, la vita dei quali fu rovinata per un momento di follia giovanile.» «Prima che il sole tramonti tre volte, essi saranno ritrovati dai Cavalieri della Tempesta.» Lei rise ancora, meravigliata e stupita. Com'era facile tutto quanto! «Stento a credere che questo stia succedendo davvero.» Il lento sorriso di Angavar era bello, un raggio di sole. «Credici!» Alla Corte di Caermelor non si erano mai visti personaggi tanto straordinari. Come gioielli viventi, i faêran si muovevano e danzavano tra la gente. Le loro canzoni e le loro poesie incantavano i mortali e li divertivano, anche se qualcosa in quelle liriche talvolta li riempiva di una strana euforia, oppure, al contrario, di un opprimente senso di tragedia e di perdita. E i paesani di Appleton Thorn, i servi della Torre di Isse, i pescatori di Tana, un'agitata famiglia di Rosedale, un bislacco ertish con un nipote fanfarone e un'avventata nipote, un mercante di via delle Corde di Gilvaris Tarv, dei ragazzini con le dita palmate e i capelli color dello stagno... tutti venivano accolti come pari dai cortigiani, la cui iniziale perplessità dinanzi a quegli arrivi si era mutata in fascino e in piacere. I modi snob dei nobili, dapprima sgradevoli e sorprendenti per i nuovi venuti, si erano fatti assai più affabili. I cavalieri e le dame del palazzo di Caermelor scoprivano un interesse e un divertimento fuori di ogni loro esperienza. Il buffone di cor-
te, Goblet, strinse una grande amicizia con Sianadh, che sapeva essere pericoloso per la dignità di chiunque. Non vi era fine agli scherzi di quei due, ma la maggior parte della gente aveva imparato a non prendersela. Altri personaggi si potevano vedere soltanto di notte, nei giardini o intorno agli appartamenti reali. Poteva trattarsi di un urisk, o di un cavallo d'acqua dall'aria innocua, oppure di un giovane dai capelli scuri vestito di foglie e muschio al cui fianco trottava un piccolo maiale. A volte, quando Angavar passeggiava con la sua fidanzata tra gli stagni del Giardino d'Autunno, una ragazza-cigno si fermava a parlare con loro, snella e flessuosa come un ramo di salice. In breve, quel giardino cominciò a essere evitato dalla maggior parte dei cortigiani e dei mortali... aveva fama di essere infestato. Si diceva che gli stagni fossero collegati al mare con cunicoli sotterranei, e che le genti acquatiche, i benvarrey e i silkie arrivassero attraverso quei passaggi, e così anche le morgan marine e i merrow, e i maighdeanna na tuinne, e gruagach gocciolanti d'acqua, e creature rivestite di conchiglie che ridevano sguaiatamente. Ma i cittadini non si sorprendevano che numerose manifestazioni eldritch fossero attratte dal palazzo di Caermelor, poiché si era sparsa la notizia di un evento straordinario: il Re dei faêran era in visita a Corte, accompagnato dai suoi sudditi. Per la stessa ragione non vi era cuore di donna che non palpitasse, né un solo essere umano che non fosse emozionato. Vinegar Tom e vari imp domestici spiavano i passanti dai cespugli del Giardino d'Autunno. Tra le alte chiome dorate degli alberi si muovevano piccole figure, che ridevano e chiacchieravano nel linguaggio di Khazathdaur, stendendo corde e scalette ovunque finché tutti gli alberi non furono collegati. Come farfalle, i coillduine svolazzavano intorno alle vaste masse di fogliame, avvolti in aureole di morbido fuoco. Anche molti esseri unseelie infestavano i terreni del palazzo, perché costoro amavano i faêran non meno di quanto li amassero i seelie... ma alcuni incantesimi impedivano loro d'insidiare i cittadini mortali di Caermelor. Anche Finoderee si fece vedere una sera, vestito dei suoi abiti nuovi. In quanto a Edward, il futuro Re-Imperatore, appariva lieto e malinconico allo stesso tempo. A palazzo si sussurrava che la prospettiva di governare un Regno lo riempisse di eccitazione e di timore. «C'è una richiesta urgente che devo farti», disse un giorno ad Ashalind. «Vorrei che tu e Angavar andaste a cercare la Geata Poeg na Déanainn, in Arcdur. Subito, prima dell'incoronazione. Dovrete viaggiare per mare, perché non ci sono alberi da ormeggio in quel deserto settentrionale. Tutte le
mie Navi d'Acqua sono a vostra disposizione.» «Se entrassimo nel Reame, potrebbero trascorrere anni prima di un nostro ritorno in Erith», gli ricordò la ragazza. «Inoltre, la promessa fatta da Angavar a tuo padre non è ancora del tutto mantenuta.» «Allora non passate dalla Porta. Limitatevi a contrassegnarne la posizione, e lasciate là degli uomini di guardia in attesa del vostro ritorno.» «Sei impaziente che la Porta sia ritrovata.» «No. Ma vedo bene quanto lo siano Angavar e gli altri faêran. Forse il solo fatto di ritrovarla li renderà meno inquieti, per un po'.» «Sei premuroso.» Ma quando Ashalind presentò quella richiesta ad Angavar, lui non parve molto soddisfatto. «È stato Edward a proporlo?» «Sì, e sono contenta di aver scoperto cosa lo preoccupa. Negli ultimi tempi è stato cupo e malinconico come un vecchio...» - stava per dire corvo, ma si fermò in tempo - «come un vecchio gufo.» «Io credo che non sia l'inquietudine dei faêran a rodergli l'animo.» «E allora cosa? L'avvicinarsi dell'incoronazione?» Ma Angavar non volle dire altro. In tutta Erith la gente si chiedeva che fine avessero fatto i venti shang. Non accadeva più che le terre abitate fossero illuminate da sciami e foschie di luci multicolori. Le scene spettrali appartenenti a un passato inquieto e tragico non si ripetevano più, in quel silenzio che sconvolgeva la mente. Il Supremo Re aveva bandito le tempeste magiche. Col trascorrere delle settimane, la gente cominciò a capire che non sarebbe più stata visitata dal vento shang, e tuttavia molti erano riluttanti ad abbandonare la vecchia abitudine del taltry, il cappuccio in cui era intessuta la rete di talium. Dopo il rientro a Caermelor, Angavar aveva messo da parte il Leone dei D'Armancourt e indossava apertamente abiti con lo stemma dell'Aquila, il simbolo della regalità faêran. I cortigiani e tutti coloro che lo conoscevano erano stati informati della verità: Re James aveva chiesto al Supremo Re dei faêran di regnare al suo posto, finché Edward non avesse raggiunto la maggiore età. La notizia, però, non aveva cambiato affatto la vita dei semplici popolani, dei soldati e dei contadini, i quali identificavano la faccia del loro sovrano con quella che appariva sulle monete coniate dalla zecca reale. Il Re-Imperatore godeva fama di essere un sovrano senza paragoni, il più popolare che vi fosse stato nella storia di Erith. La gente lo avrebbe seguito e ubbidito senza esitare, in pace e in guerra. Molti, di conseguenza,
trovavano difficile accettare l'idea che l'Impero fosse stato sotto incantesimo per tutti quegli anni, e che il monarca tanto amato non fosse uno della loro razza. La storia che prese piede tra il popolo fu dunque che il ReImperatore era stato ucciso nella Battaglia di Notteterna, e che il suo alleato, il Supremo Re faêran, era poi sopraggiunto per schiacciare i nemici e ristabilire la pace. Fu in quei giorni che, da ogni angolo delle Terre Conosciute, cominciarono ad arrivare i talith. I superstiti di quella razza quasi estinta si riunirono a corte per incontrare la Baronessa Ashalind, la promessa sposa del Re faêran, la fanciulla i cui capelli brillavano di quella particolare sfumatura dorata che li distingueva. Vennero i vecchi e i giovani: i pochi benestanti che vivevano con la rendita delle loro terre, i pochi indigenti che lavoravano come servi e che spesso dovevano vendere i loro pregiati capelli ai fabbricanti di parrucche; e venne la maggioranza, che si guadagnava la vita con decoro e dignità. Se molti talith furono perplessi nel vedere quella fanciulla sconosciuta, che non risultava imparentata con nessuno di essi, misero da parte per il momento ogni domanda. Forse la loro naturale curiosità fu smorzata dal gramarye che stagnava in pesanti veli intorno al palazzo, e aleggiava come odore d'incenso nelle sale e nei corridoi. Gli esuli di Avlantia poterono così raggrupparsi intorno ad Ashalind per un'ora o due tutti i giorni, per cantare le antiche canzoni della loro terra, riparlare delle usanze e della storia del loro popolo, rispolverare la loro innata eloquenza, dare prova d'istruzione e di abilità nella poesia, nella musica, nel teatro e nelle gare sportive. Con l'unguento sulle palpebre, Ashalind vedeva i faêran risvegliati di Nido dell'Aquila, talvolta dove tutti potevano osservarli, talaltra dove solo lei era in grado di farlo. Piuttosto di restare al chiuso, essi preferivano trascorrere il tempo nei giardini, o cavalcare e praticare la falconeria nella Reale Riserva di Caccia di Glincuith. Lei li giudicava egoisti, forniti di una morale bigotta, indifferenti, crudeli, ma anche gentili, con un'innata capacità di essere cortesi e di godersi la vita. Erano svelti a ricompensare come a punire. Li vide aiutare la gente con un gesto della mano, ma anche mandare piccoli wight a pizzicare i servi pigri e i cortigiani sciatti. Si sarebbe potuto dire che non erano migliori né peggiori degli esseri umani, e le occasioni in cui punivano i vizi e premiavano le virtù erano peraltro poco frequenti. In generale, i faêran ignoravano i mortali. A volte cercavano la compagnia dei talith, ma soltanto una mezza dozzina di mor-
tali riscuoteva la loro incondizionata attenzione: Ashalind, il Principe Edward, Ercildoune, Roxburgh, Alys e la giovane Rosamonde. Una sera, uno stormo di eotauri arrivò a gran velocità nelle ultime luci del tramonto. I Cavalieri della Tempesta portavano notizie dei fratelli Maghrain. «Altezza Reale», ansimò il capitano dello squadrone, dopo un profondo inchino, «i due uomini sono stati trovati dove voi avevate detto, accanto a un lago nero. Le acque ribollivano, come se una violenta tempesta avesse squassato la superficie.» Angavar annuì. «In questo momento, i Dainnan li stanno portando qui a bordo di una fregata di pattuglia.» «Avete fatto un buon lavoro», si complimentò il Re. Quella stessa notte, una Nave del Vento attraccò agli alberi d'ormeggio del palazzo di Caermelor. I fratelli Maghrain furono condotti dinanzi ad Angavar e Ashalind. La ragazza guardò, a metà tra la gioia e l'orrore, i due individui dai capelli rossi. Stavano sull'attenti, con facce inespressive. Nessuno dei due aprì bocca. I loro abiti grondavano acqua, e avevano alghe impigliate tra i capelli. Ashalind si voltò verso il suo promesso sposo. «Sono ancora sotto incantesimo! Ti prego, puoi liberarli?» «Capelli d'Oro, questi uomini si trovano in Erith da molto più della normale durata della loro vita», rispose Angavar. «A differenza di te, essi hanno vissuto e respirato per ogni momento mortale degli ultimi mille anni. Tu sai cosa succederebbe, se l'incantesimo fosse spezzato?» Lei impallidì. «A questo non avevo pensato.» Per lo spazio di sei battiti di cuore tacque e ci pensò sopra. «Un tempo uno di loro diceva sempre la menzogna, e l'altro sempre la verità. È ancora così?» «No. Quello fu un incantesimo posto su di loro all'unico scopo di sottoporre te a un esame. Come a quel tempo, possono dire soltanto due parole. In tutti questi secoli hanno avuto il permesso di dire 'sì' oppure 'no', perché l'Each Uisge detesta il suono della voce umana.» Lei andò di fronte ai due uomini, studiando i loro visi impassibili. «Volete restare sotto incantesimo?» domandò loro. «No», rispose uno dei fratelli. Su un lato del suo collo una vena pulsava con forza. I suoi tendini erano tesi come se lottasse contro una forza terri-
bile. Ma sulla sua faccia, e su quella del fratello, non si vedeva nessuna emozione. «Sapete cosa vi accadrà, quando sarete liberati?» «Sì», disse l'altro fratello, sulla cui fronte continuava a sgocciolare acqua di mare. Aveva i denti stretti e le nocche delle mani bianche, come se tentasse di vincere la compulsione che gli impediva di parlare. Ashalind si morse un labbro. Baciò entrambi i fratelli sulle guance. La loro pelle, che per secoli aveva conosciuto solo il contatto dell'acqua marina, era fredda. «Allora possa il cielo avere pietà di voi, e il sole brillare sempre sui vostri capelli, e il vento essere dolce sulla vostra faccia.» Angavar posò una mano sulla fronte di uno di loro. «Tu sei risanato», disse. E ripeté il gesto e la frase anche con l'altro. I due fratelli si guardarono. Sui loro volti si dipinse lentamente un'espressione di gioia, e con un grido roco si mossero per abbracciarsi, ma già in quell'istante la condanna del tempo si stava abbattendo su di loro. Prima che potessero toccarsi, due colonne di polvere si afflosciarono al suolo. Così fine era quel polline che la lieve brezza della notte bastò per sollevarne ogni particella e disperderla all'istante. A volte, pensò Ashalind, essere al fianco del padrone del gramarye era un'esperienza terribile. Ma poteva anche essere esaltante. Trovarsi alla presenza di un faêran era sempre un'emozione. Era come la sensazione che precede un temporale, quando si alza il vento e il cielo si fa scuro, e l'aria vibra di magia. Sulla soglia del temporale il mondo è un posto alterato dove tutto è possibile, dove uno diventa così leggero che una raffica di vento potrebbe portarlo via con sé sopra le cime degli alberi, nel suo dominio elementale di aria turbolenta e vapori umidi. Tale era la sensazione che dava la compagnia di un faêran. Ancora più eccitante se questi era il Re dei faêran. «Quando sono con te, mi sembra di volare!» esclamò Ashalind. A quelle parole, Angavar rise forte. «Mi piacerebbe vederti, mentre assapori la sensazione del volo», replicò, e la portò nel cielo con sé. Volare senza alcun mezzo di sostentamento visibile è un antico sogno. I mortali hanno sempre desiderato viaggiare nell'aria come gli uccelli... ma
non era questo il modo di Angavar. Non era come avrebbe potuto fare un cigno, che dipendeva dallo sforzo muscolare e dall'equilibrio sulle improvvise correnti d'aria. Né era come il metodo di chi usava il sildron, basato sulla meccanica degli opposti vettori nello spostamento verticale e sulla forza del vento per quello orizzontale. Il modo in cui levitavano i faêran era quello di un granello di polvere, di una mosca, di una foglia, di una farfalla, di un merlo, di una freccia, di un'aquila, di un fuoco artificiale, di una nuvola di tempesta, di un pallone ad aria calda e anche qualcos'altro, il tutto combinato insieme... perché esso consentiva di salire più in alto delle possibilità di un uccello, a migliaia di piedi dal suolo, dove la temperatura scendeva ai limiti estremi e l'aria si faceva troppo sottile per i polmoni. Significava fluttuare senza peso su tra le chiome degli alberi, passando fra strati di foglie che si agitavano, verdi e appuntite come punte di lancia... una cosa che gli uccelli non avrebbero potuto fare senza rimetterci qualche penna. Significava penzolare sospesi su una limpida polla, o sulle onde di un immenso mare grigio, e poi allungare un piede in basso e immergerlo nell'acqua. Significava tuffarsi dalla cima di un colle, a braccia spalancate, e piombare giù nell'abisso, per poi risalire in una dolce curva, o prendere la corrente ascensionale alla sommità di un'altura, o fluttuare orizzontalmente lungo una parete a strapiombo fermandosi su punti irraggiungibili con altri mezzi. Significava essere leggeri come un filo di ragnatela, o camminare su un prato fiorito senza schiacciare un solo petalo, o cavalcare dietro una tempesta col tuono nelle orecchie e il vento che frusta la faccia, tra i cirri oltraggiati che torreggiano tutto intorno come una gigantesca città. Significava sentire ogni cambiamento nella pressione dell'aria, nella velocità del vento, nella direzione, e tuttavia controllare ogni cosa ed essere capaci di mutare altitudine e rotta, con la stessa naturalezza con cui le creature legate al suolo padroneggiano l'arte del camminare. E tuttavia per i faêran il volo era un passatempo non molto usato. Lo si considerava troppo lento per i viaggi sulle lunghe distanze, specialmente nell'aria pesante di Erith. I faêran vedevano la levitazione come la fatica di un nuotatore nella scia di una barca a vela, o quella di un pedone che arranca dietro un carro, al confronto di un comodo e veloce viaggio in sella a un cavallo alato, o su una Nave del Vento. Di conseguenza, Ashalind e il suo compagno scelsero due eotauri, per recarsi in visita di piacere nelle regioni di Erith che amavano di più. In ogni località, una volta arrivati, essi smontavano dai loro quadrupedi e
proseguivano la visita in volo... senza alcun sostegno che il gramarye. A Lallillir sorvolarono le cascate avvolte dalla nebbia, e scesero sui corsi d'acqua dove i gruagach, nudi e snelli, sedevano tra le canne della riva a pettinarsi i lunghi capelli chiari. Risaliti a cavallo andarono a Haythorn-Firzenholt, e passeggiarono sulla cima delle siepi senza spostare neppure una foglia con i piedi, perché potevano camminare privi di peso dove altri sarebbero affondati nella massa verdeggiante. Al tramonto, nella terra dei cuinocco, un flessuoso cavallo bianco si accostò timidamente alla coppia e chinò la testa cornuta, tremando di piacere quando Angavar gli accarezzò il lucido collo arcuato. «La mia gente lo chiama unicorno», disse. A Rosedale i rovi fiorivano fuori stagione, costellando l'intera valle di spine rosa e bianche, delicate come gli artigli di un gattino. Quanto era diversa Erith vista dall'alto, illuminata dal fulgore del sole. Le piante dei boschi si protendevano verso la luce, allungando le braccia per riceverne il più possibile. Teneri germogli verdi e dorati spuntavano più in basso, dalla vecchia corteccia scura. Le ragazze-cigno del Mirrinor si riunirono intorno ad Ashalind e Angavar come fiori neri, mentre la coppia navigava sui placidi laghi in una barca di vetro, o fluttuava sulla superficie dell'acqua prima d'immergersi nel diafano mondo degli asrai. I fiumi di lava del Tapthartharath non potevano ustionarli, ed essi volarono tra le gialle fumarole, immuni dai vapori nocivi che scaturivano da quel desolato panorama vulcanico. Volare era una cosa in se stessa divertente. Lontani dagli occhi dei cortigiani, i due amanti giocavano sulle correnti ascensionali come cuccioli su un prato. Libera dalla gravità e vestita col dusken da campo dei Dainnan, Ashalind imparò a fare capriole nell'aria, tuffi, planate, giri della morte e altre manovre acrobatiche. Era tornata bambina. Non indulgeva in quei giochi da quando aveva sette anni, un millennio prima. Non era mai stata incoraggiata a fare sciocchezze così puerili, ma in quel momento poteva volare nell'aria con un compagno di danza la cui bellezza la rendeva debole. Errantry li seguiva scrutandoli con occhi freddi; per gli uccelli da preda, il volo era uno strumento per procurarsi da mangiare. «Vorrei restare sempre così, senza peso», commentò Ashalind, mentre fluttuava con Angavar sopra le chiome più alte di una quercia. «La gravità è una condizione troppo... grave.» «Ahimè, la tua razza non è fatta per vivere troppo a lungo in assenza di
peso», replicò lui. «Le vostre ossa perdono densità, i vostri tendini si atrofizzano. In mancanza di esercizio, il vostro cuore s'indebolisce.» «È un'ingiustizia!» esclamò lei, nuotando in un verde mare di foglie. «Ma non importa, purché ogni tanto io possa volare con te.» «E ora dove andiamo?» domandò Angavar. «Nel Tiriendor. Voglio vedere quella foresta in autunno, il periodo in cui la amo di più.» Nel Tiriendor, i liquidambar erano cosparsi di gioielli caduti dal tramonto, e le querce avevano toni bronzei. Una luce di sogno era nell'aria, come se tra gli alberi stagnasse una nebbia di polvere d'oro. Le foglie morte roteavano nel vento, che le strappava dai rami e le trascinava via, fruscianti e secche, per poi abbandonarle dimenticate tra le rocce, come mani supplichevoli e vuote rivolte all'insù. Le mele selvatiche pendevano dai rami come lanterne verdi e rosse, e tra le radici crescevano grossi funghi scarlatti simili ai cappelli dei goblin. I rovi non riuscivano più a impigliarsi negli abiti di Ashahnd. I rami e le spine si scostavano prima del suo passaggio. E gli animali e gli uccelli non fuggivano, anzi accettavano volentieri di farsi toccare da Angavar, docili e senza paura. Alcuni era lui a chiamarli, altri venivano a cercarlo. Timidi cerbiatti e cauti lupi, morbide colombe, falchi, orsi, scoiattoli... tutti lo avvicinavano con fiducia, cercando le sue carezze. Anche le bianche falene della sera giravano intorno alla sua testa, incoronandolo di pallidi e freddi bagliori palpitanti. «Perché gli animali non venivano da noi in questo modo, la prima volta che passammo di qua?» «Io li facevo allontanare. Non ti sarebbe sembrato sospetto un Dainnan con un tale seguito di creature selvatiche?» «Ma io sospettavo ugualmente di te!» ribatté lei con un sorriso. Altri stormi di ragazze-cigno fecero loro visita, oltre a un gran numero di baobansith e wight di ogni specie. Pochi erano stati al corrente della vera identità del sedicente Re-Imperatore di Erith. Il suo incantesimo protettivo era troppo forte, impenetrabile. Quei pochi che lo sapevano avevano avuto la notizia dall'Attriod Unseelie, che era stato informato dal Fithiach. Che i wight fossero seelie o unseelie non significava niente per i faêran, i quali non temevano né gli uni né gli altri. Un Re mortale avrebbe forse punito quelli che avevano risposto alla chiamata di Morragan; Angavar invece non ordinò nessuna rappresaglia. Secondo il codice faêran, non avevano fatto niente di male. Non era un crimine se i wight si radunavano
convocati da un Principe faêran, né se aggredivano e uccidevano i mortali. Per tradizione, i faêran non s'intromettevano nelle cose che riguardavano i wight e i mortali. Mentre manteneva la sua promessa di proteggere l'Impero, e quando si era aperto la strada tra i wight che attaccavano la Torre di Isse per trovare Ashalind, Angavar si era battuto contro le orde unseelie. Tuttavia la maggior parte dei wight sconfitti da Angavar e dai suoi cavalieri non conservava rancore contro i vincitori. Perfino il Waelghast, un tempo capo degli unseelie più feroci, aveva sfidato Angavar solo per orgoglio e per il perverso desiderio della gara. A volte gli unseelie provocavano i faêran allo scontro, perché la violenza era nella loro natura, ma non provavano ostilità per loro. Un'eccezione era rappresentata da alcuni dei membri dell'Attriod Unseelie, ma costoro erano ormai stati dispersi. Angavar e Ashalind si recarono in visita nel sottosuolo, insieme con il loro seguito di faêran. Fu lì che videro le oscure catacombe e i dimenticati sarcofagi di antiche popolazioni umane. Poi passarono nelle caverne dei fridean, cosparse di sculture e lunghi trafori, e da lì giunsero nelle miniere sotterranee. Piccoli wight si affollavano intorno a loro, abbandonando i picconi e i badili, e s'inchinavano con timore e meraviglia. «È davvero lui? Sì, è proprio lui!» cicalavano, attirati irresistibilmente dalla presenza del sovrano faêran. I Cavalli Celesti portarono Angavar e Ashalind nella terra delle cascate. I lupi di Ravenstonedale, belli e dignitosi, si accostarono al Re faêran e alla sua compagna con timida grazia, mostrando con orgoglio i cuccioli ai visitatori. Sembravano avere una completa fiducia nei faêran, al punto di accettare la presenza di Ashalind dopo essersi limitati ad annusarla incuriositi. «Aggredire gli esseri umani non è nel loro istinto», spiegò Angavar, accarezzando dietro le orecchie un cucciolo giocherellone. «I loro ululati non significano fame o sete di sangue; sono soltanto un modo di comunicare. Le favole che voi umani raccontate ai bambini non fanno giustizia ai lupi. Essi cacciano per il cibo, giocano coi cuccioli e vivono in armonia con la foresta.» Rise. «Come cacciatori spietati, non stanno alla pari degli uomini!» Svuotate dei tesori di origine faêran, le caverne sotto Scala d'Acqua erano spettrali. In esse echeggiavano ancora vaghi suoni di risa e voci, sia mortali sia faêran, che s'intrecciavano come collane di margherite e di stel-
le. «Questi oggetti preziosi erano di proprietà della mia gente», osservò Angavar. «Risalivano all'Era della Gloria. Fummo noi a nasconderli qui, prima di andare nel Sonno Pendur. La scritta sul portale... quelle sono le parole di un antico indovinello che i cigni cantano, volando. Se la parola 'cigno' viene pronunciata ad alta voce in lingua faêran, il portale si apre.» «Thomas il Sincero ha tradotto quell'indovinello per noi», raccontò Ashalind. «Ma i cigni cantano davvero, quando volano? Io sono stata un cigno, e non l'ho notato.» «Tu non sei stata un vero cigno, Capelli d'Oro», replicò Angavar. «Le penne dei veri cigni hanno proprietà insolite, ed emettono le note di una musica quando essi volano nell'aria. Ma non tutte le orecchie possono udirle.» Ashalind fluttuò col suo amato sopra le montagne, e sulle spiagge arrossate dal tramonto. Insieme sorvolarono i panorami nevosi di Rimany, le risaie di Severnesse, i campi di zafferano del Luindorn, le aspre coste di Finvarna e le rovine delle dimenticate città di Avlantia. La luce di quelle giornate dava l'impressione di essere sempre all'alba di un mattino dorato. Il sole sembrava stagnare a lungo nel cielo settentrionale color miele e ambra, dolce come una pesca matura, e creava morbide ombre sulla terra. In quella stagione, i suoi raggi spandevano un riflesso dorato che si perdeva tra gli alberi. Le foglie la assorbivano come sottili lastre di vetro, assumendo tonalità d'oro vecchio, rosso sangue, viola, e tramutavano gli alberi in sculture d'acciaio su un lato e masse d'ombra sull'altro. In quei raggi di luce obliqua, gialli come il grano, regnava un eterno mattino... il Giorneterno dell'autunno. Quando la stagione era ormai inoltrata, essi fecero ritorno nell'indaffarata città di Caermelor. Nella terrazza coperta del Palazzo Reale, numerosi ceppi e pigne bruciavano sulla grata di un caminetto riccamente scolpito con gli stemmi e gli emblemi di Eldaraigne. Le pareti scintillavano di una vaga luce dorata emessa dal composto di cromo mescolato all'intonaco. Gli arazzi di filo argentato riflettevano barbagli multicolori. Due levrieri al guinzaglio, con larghi collari ornati di rubini, erano accovacciati sullo spesso tappeto a losanghe. Su un tavolino di quercia intagliata stava una scacchiera, coi pezzi di diaspro e di onice; su un altro tavolino era posato uno scrigno ingioiellato, dai rinforzi metallici e con una robusta serratura. Una foresta di
candele accese brillava sui candelieri e sui grandi candelabri appesi al soffitto. Un servitore stava immobile accanto alla porta, con un cuscino di seta tra le mani. Un musico seduto su uno sgabello titillava con fare sognante le corde di una grande arpa dorata. Le note dello strumento vagavano come lacrime di luce solare, fin da quando Edward era entrato, perché raramente il giovane sovrano faceva a meno di un sottofondo musicale. Viviana e Caitri sedevano presso una finestra, occupate a ricamare e a chiacchierare sottovoce. Edward aveva consentito loro - con un distratto cenno della mano, come se alzandosi al suo ingresso l'avessero disturbato di restare sedute in sua presenza. Il riflesso rosato della luce esterna creava un alone intorno alle figure delle due modeste fanciulle. Oltre i vetri, il cielo appariva chiazzato e butterato come un ananas maturo. I raggi del sole lo attraversavano, simili a lunghi cristalli di rubino. Il giovane ReImperatore non ancora incoronato era fermo accanto al caminetto, con un gomito appoggiato alla mensola. Scuro in volto, muoveva la suola di una scarpa sul parafuoco di ferro nero. «Ti prego, Edward, guarda questo anello», stava dicendo Ashalind, che gli era accanto. «Cosa ne pensi? Credi che piacerà al mio signore?» Edward spostò la sua attenzione sul cerchietto dorato che lei gli mostrava sul palmo di una mano. Lo raccolse tra pollice e indice. Il lato esterno del cerchietto era lavorato finemente, con piume d'aquila intrecciate a piume di elindor. Sul lato interno erano incise le parole: Ti amo. «È uno splendido regalo», commentò il giovane sovrano, dopo averlo esaminato da vicino. «Eccellente lavorazione. Non ci si potrebbe aspettare di meno, dall'Orafo Reale.» «Per ricavarne questo anello, gli ho dato il mio braccialetto bianco con l'uccello marino, da fondere», spiegò Ashalind, toccandosi il polso un tempo circondato da quel monile. «L'orafo mi ha detto che era di una lega contenente poco oro. Gli ho chiesto: 'Basterà per l'anello che ho disegnato?' Lui ha risposto: 'Lo farò bastare'.» «Ma... il tuo braccialetto!» protestò l'erede D'Armancourt. «Non mi dicesti che era un regalo di tuo padre?» Ashalind infilò l'anello in una borsetta di velluto verde chiusa da un nastro. «Sì. Ma, vedi, Edward, era l'unica cosa in mio possesso che non mi fosse stata data dal mio signore. Mio padre avrebbe saputo capirmi, credo. Per me il significato di quel bracciale era molto superiore al suo valore mate-
riale. Volevo donare al mio promesso una cosa che mi fosse preziosa, per sigillare il nostro amore. E questo anello contiene un segreto. Arrotolati in un condotto interno ci sono tre miei capelli.» «Molto originale», commentò Edward, fissando il fuoco. L'arpa tacque. Nella terrazza rimase un insolito silenzio. «Suona», ordinò Edward. Le mani del musico si rimisero subito all'opera. «Il tuo compleanno si avvicina rapidamente», disse Ashalind, cercando un argomento piacevole per disperdere l'atmosfera cupa che sembrava aver improvvisamente invaso la sala. «Compiere sedici anni, ed essere incoronato Re-Imperatore nello stesso giorno... che gioia sarà per te!» Per lui non è un'età lieta e spensierata! pensò. E non è stata allegra neppure per me, che ora ho diciassette inverni. Non c'è molta differenza di età tra noi. A parte quei mille anni... «Hai già visto gli ultimi regali che ti sono arrivati?» continuò, sperando di schiarire il cipiglio di Edward con un po' di conversazione vivace. «Ce ne sono così tanti! Ne hanno immagazzinato alcuni perfino nel guardaroba dell'ultimo piano.» «La gente è generosa», mormorò lui. «In questo momento stanno lavorando a un dono che io ho ordinato per te. Tra le cose in tuo possesso ce ne sarà un'altra che non ti è stata data da Angavar.» «Un regalo? E di che si tratta? Oh, dimmelo, ti prego!» «Un regalo che raddoppierà una cosa perfetta. Uno specchio...» Lei restò un attimo senza fiato, e per darsi un contegno tossicchiò discretamente, portandosi una mano alla bocca. Nel tono di lui, e nello sguardo che le aveva rivolto prima di voltarsi di nuovo in fretta verso il fuoco, aveva percepito un significato recondito. Ma lui restò girato, per nasconderle il viso. «Eccolo, è laggiù!» squittì in quel momento Viviana. La ragazza aveva aperto la finestra e indicava qualcuno, all'esterno. Caitri le corse accanto e le due ragazze si sporsero sul davanzale a guardare in basso. Nel cortile stava passando un capitano delle Guardie Reali. Il giovanotto alzò la testa e salutò con una mano, sorridendo. «Mi sembra di capire che in cortile ci sia il tuo innamorato, Via», disse Ashalind. «Puoi raggiungerlo, se vuoi... ma usa le scale.» «Davvero, posso?» «Sì, ma non senza un'accompagnatrice, come richiede il decoro. Vai con lei, Caitri.»
Le due ragazze s'inchinarono graziosamente e lasciarono la terrazza. Pochi istanti dopo entrò un paggio in livrea, che posò un ginocchio al suolo dinanzi a Edward. «Cosa c'è?» chiese il giovane, brusco. «Vostra Maestà Imperiale, vi porto gli ossequi di Sua Altezza la Duchessina Rosamonde di Roxburgh, che attende in anticamera.» «Grazie, Griflet. La chiamerò io stesso, tra un momento.» Edward accennò al paggio che poteva andare. «Ti prego di scusarmi, Edward», disse Ashalind. «Ci sono alcune cose di cui devo occuparmi.» E s'inchinò. «Una regina non deve inchinarsi», la rimproverò lui. Aveva la voce roca. Lei sentì una vampa di rossore alle guance. «Io non sono ancora una regina. E tu sei il mio Re-Imperatore, il mio sovrano.» Edward non rispose, ma la prese una mano, gliela baciò e fece un gesto di assenso. Mentre lei usciva dalla sala, il giovane tornò a voltarsi verso il fuoco. Ashalind scese lo scalone a spirale e s'incamminò lungo un corridoio già invaso dalle ombre. I suoi passi sembravano avere un'eco, il che era strano, perché i pavimenti di legno erano coperti da passatoie rosse. Poi gli echi rallentarono, benché lei camminasse sempre allo stesso ritmo. Allora si fermò di botto, voltandosi. Avrebbe giurato di essere seguita da qualcuno; poteva addirittura sentirne l'odore. Il silenzio era assoluto. In quel corridoio non giungeva il brusio delle conversazioni della Sala Grande, né il morbido fruscio delle pantofole dei paggi che a quell'ora giravano ad accendere lampade e candele. Non si udivano le voci dei militari di servizio nel cortile, né il tubare dei colombi nella piccionaia, né i latrati dei segugi nei canili, né il clangore degli zoccoli dei servi sul retro... non si sentiva nessuno dei normali rumori del palazzo. «Vieni fuori», ordinò lei, in quella quiete. Non vi fu alcun movimento. «Vieni fuori, dico a te», ripeté lei a voce più alta. «So benissimo che sei lì.» Il corridoio rimase silenzioso. Spazientita, lei minacciò: «Se non ubbidisci, chiamerò una guardia e ti farò gettare nelle segrete!» Una figura magra uscì da una nicchia murale e si fermò a pochi passi da
lei, con le mani sui fianchi. Quel ragazzo era sempre riuscito a irritarla. Gli faceva pietà, con quel suo patetico vezzo di scivolare da un'ombra all'altra, con le sue assurde paure, con quel piede storto e zoppicante; ma soprattutto la irritava, e qualche volta ne aveva anche avuto paura. «Vedo che le cose non ti sono andate male, alla Torre di Isse, eh, Pod? Sembra che ti abbiano promosso servo, dalla nullità che eri prima.» Pod scrollò le spalle, sgarbatamente. La sua faccia era illeggibile come una pagina non scritta. «Perché sei venuto qui? Mi stavi cercando? O forse è una cura, quella che vuoi... speri che io ti porti dal Re dei faêran, perché guarisca la tua deformità? Lui potrebbe farlo, se io glielo chiedessi...» «No!» Il ragazzo aveva gridato. L'eco di quella parola rimbalzò dai muri, strappando una smorfia ad Ashalind, che fece un passo indietro. «E allora cosa vuoi?» sbottò, nascondendo il suo disagio dietro un tono petulante. «Volevo vedere il palazzo. Volevo allontanarmi da Heligea.» «Heligea ha altro da pensare. Lei non sa neanche che tu esisti.» «Lo sa.» «Ah... e scommetto che non le piaci. O forse vuole punirti, perché hai fatto o detto qualcosa che l'ha irritata, eh?» Le labbra di Pod tremarono. «Non essere antipatica con me», borbottò in tono lamentoso. «Cercavo da mangiare. Ho fame.» Ashalind si placò. «A questo c'è rimedio. Ti mostrerò dove sono le cucine. Vieni.» Ma vide che lui non si muoveva. «C'è troppa gente.» «Ah, capisco. Sei ancora com'ero io un tempo, nelle viscere della Torre di Isse, quando evitavo la compagnia e non mi piaceva che gli altri mi guardassero, vero? Be', seguimi fino al canile. Dirò al ragazzo che bada ai cani di portarti una ciotola di stufato e del pane. Soltanto lui e i cani ti vedranno. Tuttavia... tu puoi essere guarito, come sono guarita io. Lui può farlo. E forse, con gli anni, potrai diventare un grande Mago o qualcosa del genere. Tu hai un dono che...» «No!» ribatté con veemenza Pod. «Tu non me lo toglierai!» E la guardò inorridito, ostile. «Nessuno pensa di toglierti il tuo dono. Chi vorrebbe farlo?» «Io non lo avrei più, se facessi quello che tu dici.»
In quel momento Ashalind ricordò che, secondo la superstizione del ragazzo, il suo piede deforme era collegato alla sua capacità profetica, un po' come le diverse carenze fisiche delle Carlin erano i requisiti per i loro poteri. «Anche se tu guarissi, il tuo potere resterebbe immutato», gli disse. Lui le oppose una smorfia testarda. «Se non credi a me, fattelo dire dal mio signore. Lui non può mentire!» Pod mantenne un silenzio ostinato. «Insomma, razza di stupido!» gridò lei, esasperata. «Perché rifiuti di essere aiutato?» «Non voglio il tuo aiuto», mugolò lui, guardandosi intorno selvaggiamente, come se fosse stato intrappolato e non avesse via di fuga. «Allora non te lo offrirò più! In ogni caso, non sei intelligente come credi. Le tue premonizioni non valgono un fico secco. Sei capriccioso e inaffidabile. Dicesti che lui e io non avremmo mai trovato la felicità insieme... be', hai sbagliato. Sbagliato... mi capisci? Io sto per sposare il mio signore nella terra di Faêrie, e niente si metterà tra noi!» Mentre pronunciava quelle parole, in lei dilagò un'inspiegabile paura. Subito si pentì di averle dette. Una volta aveva sentito Thomas di Ercildoune citare, in uno dei suoi rari momenti di pessimismo: «Proprio quando gli esseri umani assaporano la massima felicità, già l'ascia si prepara ad abbattersi. Alcuni dicono che una grande gioia è solo il preludio di una grande infelicità». Ashalind attese, senza respirare. Negli occhi di Pod vi fu un lampo. Il ragazzo scosse il capo. «Resta il fatto che tu e lui...» «Chiudi la bocca!» gridò lei, mettendosi le mani sulle orecchie. «Non voglio ascoltarti! Non voglio!» Si voltò e fuggì via. Per impedire che quelle parole odiose le arrivassero ai timpani, cominciò a ripetere un ritornello che Caitri aveva canticchiato quel mattino prima di colazione, una cosa un po' macabra forse sognata quella notte: Su rapide ali di cuoio la notte il vampiro mi tocca, esangue e famelica muoio bocca sulla sua bocca. Corse sino in fondo al corridoio, su rapide ali di cuoio, su rapide ali di cuoio, e poi girò l'angolo, bocca sulla mia bocca, bocca sulla mia bocca, ma anche attraverso i muri di pietra e le sue dita strette e tremanti, le ulti-
me parole del ragazzo zoppo continuavano a raggiungerla: «... non troverete mai la felicità insieme...» «Bugiardo di uno sciancato», ansimò. «Possa essere tu a non trovarla mai, la felicità!» Ma un servo della Torre di Isse non conosceva neppure il significato di quella parola. Fu in un luminoso giorno di Gaothmis, il Mese del Vento, che ebbe luogo l'incoronazione del nuovo Re-Imperatore Edward IX della Casa di D'Armancourt e Trethe, Sovrano della Grande Eldaraigne, di Finvarna, di Severnesse, di Luindorn, di Rimany e di Namarre, Signore dei Reami e dei Territori Uniti. Contrariamente a quanto accadeva di solito in quella stagione, il vento non era impetuoso né freddo, perché gli era stato impedito di essere più di una leggera e tiepida brezza, quanto bastava per spargere nell'aria sciami di coriandoli lievi come baci durante la sfilata reale nelle vie della città. Il cielo era azzurro come un campo di fiordalisi. Fiocchi di nuvole si riunivano all'orizzonte in strati opachi e argentati. La luminosità della giornata era straordinaria. Riempiva l'atmosfera di vita, dandole la trasparenza di un cristallo limpido. I Re e i nobili di ogni regione dell'Impero vennero a giurare fedeltà al Re-Imperatore, e a fargli omaggio. Oltre seimila ospiti parteciparono alla cerimonia dell'incoronazione e alle feste, che durarono tre giorni e tre notti. Ogni giorno, quando scendeva il sole, venivano montati ampi padiglioni aperti sul campo dove si svolgevano i tornei. Sul terreno soprelevato a nord del campo troneggiava il largo padiglione reale, di seta purpurea e dorata, dove si tenevano i banchetti. Nei primi raggi del tramonto, quel vasto spazio sbocciava di colori come un prato in fiore, circondato da una foresta di alti pali da cui sventolavano bandiere: comprendevano quella del Reame Fatato, con la sua aquila incoronata; lo stendardo dell'Impero; la bandiera reale dei D'Armancourt; il vessillo di Eldaraigne; le insegne delle altre terre dell'Impero; il gonfalone dell'Attriod Reale, e numerosi gagliardetti dei Dainnan, dei Maghi, dei Cavalieri della Tempesta; i gran pavesi delle Navi del Vento, gli orifiamma malconci e insanguinati di antiche battaglie; i pennoni lunghi quattro braccia da cui pendevano gli scudi delle divisioni reali; quarantotto vessilli su cui erano raffigurati leoni d'oro in campo rosso incorniciati da losanghe e cinquanta stendardi decorati con spade e gigli; mille e cinquecento piccoli gagliardetti a coda di rondine su cui apparivano cigni, stalloni, levrieri, vermi da guardia e falchi; centinaia
di insegne a strisce rosse e bianche; trecento gonfaloni su cui erano ricamate rose rosse in campo dorato e bianco. La cerimonia d'incoronazione del Re Edward sarebbe stata ricordata come «la Festa delle Meraviglie» perché, con discrezione, i faêran avevano influenzato ogni aspetto dell'organizzazione. Ai banchetti serali, le portate che vennero servite furono superiori in numero e qualità a quelle di qualsiasi altra festività della storia di Erith. Mai la carne arrosto era stata così succulenta e le verdure tanto saporite, mai si erano assaggiati dolciumi così appetitosi e fragranti. Nessuno poteva ricordare budini gelatinosi che torreggiassero tanto alti sui piatti senza collassare, né creme che scivolassero così gradevolmente sulla lingua, né tartufi più grossi e freschi. Un centinaio di botti di vino rosso furono giudicate della miglior vendemmia ricordata a memoria d'uomo. Oltre al rosso da pasto, furono distribuite centinaia di botti di sarceal bianco, di paxaretta secco e frizzante, di birra, di hippocras rosato dei vigneti occidentali, e di vino liquoroso speziato. Un parziale inventario delle vivande comprendeva mille e cinquecento staia di pane, centoquattro manzi, sei tori selvatici, dodici orsi, novecento pecore, trecentoquattro capre, trecento montoni, duemila oche, un migliaio di grassi capponi, duecento maiali, un centinaio di pavoni, una quantità imprecisata di piccioni e galline, conigli, passeri e fagiani, undicimila uova, cinquecento tra cervi, caprioli e cinghiali, mille e cinquecento pentole di stufato di cacciagione mista, seicentosette tonni e lucci, dodici delfini e foche, centoventi bidoni di latte, venti bidoni di crema, mille e trecento pentole di gelatina, duemila tartine fredde, novanta bidoni di crema caramellata e innumerevoli staia di zucchero, biscotti e altre delicatezze. La varietà delle pietanze fu incalcolabile. Ogni torta fu fatta con quarantotto diverse sostanze, salvo la più grande di tutte. Quando quest'ultima fu aperta, si scoprì che conteneva ventisei musici i quali cominciarono subito a suonare i loro strumenti. Il campo dei tornei era rallegrato da canzoni eseguite da cornamuse, trombe, tamburi, garglamuse, pifferi e liuti. Tra una portata e l'altra avevano luogo intrattenimenti che sarebbero stati ricordati e discussi dagli ospiti per anni. Ogni artista eseguì il suo spettacolo senza errori; nessuno dei musici suonò una nota sbagliata. Grazie alla seconda vista conferita dall'unguento verde, Ashalind era in grado di percepire più degli altri mortali presenti alle cerimonie. Le era occorso un po' per distinguere tra le cose visibili a tutti e quelle visibili soltanto a lei e ai faêran. La prima volta che vide una dama faêran passare
tra gli ospiti e prelevare cibo dai loro piatti, ne fu scandalizzata. «Mi chiedo con che coraggio Dama Lindorieth osi rubare così sfacciatamente!» mormorò a Ercildoune. «Prima o poi qualcuno protesterà, e lei per ritorsione gli scaglierà addosso un incantesimo. Possibile che non ci sia nulla di suo gusto al tavolo dei faêran?» Il Duca si accigliò, con aria perplessa. «Non capisco di cosa state parlando, mia signora», replicò. Angavar sedeva accanto ad Ashalind, così vicino che i capelli di lui le accarezzavano le spalle quando si muoveva, provocandole ogni volta un fremito sulla pelle. Le parole della giovane gli fecero inarcare un sopracciglio. «Lindorieth prende ciò che desidera, dove e quando vuole», mormorò. «È un suo diritto. Alcuni tra noi scelgono di approfittare di questo diritto, altri no.» Ashalind si accorse che nessuno dei commensali i cui piatti venivano saccheggiati sembrava accorgersi di niente. La dama faêran, squisitamente bella, prendeva soltanto il toradh, dal cibo, lasciandone sul piatto l'aspetto esteriore all'apparenza intoccato. «Ma sta rubando la capacità nutritiva del cibo dai piatti dei commensali più magri!» «Questo spiega perché sono magri.» «Non c'è logica in questo.» Angavar girò su di lei i suoi occhi grigi. «Hai molto da imparare sulle nostre usanze, Capelli d'Oro», le ricordò. «Io credevo che i faêran fossero portati a punire i golosi.» «Hai notato il modo in cui divorano il cibo quelli scelti da Lindorieth? Mangiano a crepapelle. Non si può certo dire che in questi giorni di bagordi siano deperiti.» «D'altra parte non mi sembra che abbiano un aspetto sano. Tutto ciò che posso dire è che i loro vicini li guardano con un po' d'invidia perché si buttano sul cibo senza doversi preoccupare di mantenere la linea. Questo fatto di privarli del toradh, dunque, è una punizione o un premio? Non riesco a capire.» Lui parve divertito dalle sue perplessità. «Guarda quel tipo vestito di velluto rosso, laggiù.» Angavar le indicò l'individuo a capotavola di un tavolo dove sedevano ricchi cortigiani e dame ingioiellate. La faccia del Marchese di Early - il cui monumentale addome minacciava di far esplodere i bottoni del giusta-
cuore e della blusa - era contratta dal dolore. L'uomo aveva scostato dal tavolo la poltrona imbottita e si stava asciugando il sudore dalla fronte con un fazzolettino di seta. Un giovane cavaliere faêran, a lui invisibile, gli stava premendo lo stomaco sporgente col manico di un pugnale, e non la smise prima di avergli fatto affiorare alle labbra un rigurgito di vomito. Un altro faêran, subito dopo, nel passargli accanto gli calpestò un piede. L'anziano gentiluomo mandò un gemito, si afferrò faticosamente il piede e se lo massaggiò. «Il Marchese ha la gotta. Ne soffre perché ha il vizio di esagerare nel mangiare», spiegò Ercildoune, che aveva seguito lo sguardo di Ashalind. «No, no», protestò lei, indignata. «Sono le prepotenze dei faêran a farlo soffrire.» «Thomas dice la verità, come al solito», intervenne Angavar. «Quell'uomo è un ghiottone. Merita una lezione.» «Queste vostre leggi sono dure», sospirò Ashalind. «Se Early potrà essere persuaso a cambiare le sue abitudini alimentari, tu curerai la sua gotta?» Angavar rise. «Se si metterà a dieta, questa sarà la cura migliore.» Il suono della sua risata e la sua allegra vicinanza allontanarono dalla mente di Ashalind ogni preoccupazione per il Marchese di Early. La natura così palesemente faêran di Angavar la stordiva, inebriandola come un liquore al quale non sapeva resistere. Con uno sforzo si controllò, e spostò di nuovo lo sguardo sul campo dei tornei, poco più in basso. Ogni sera, mentre i servi disponevano i tavoli e preparavano la cena, Feulath - ora Mago Reale, al posto del traditore Sargoth - teneva uno spettacolo pirotecnico così straordinario da far impallidire tutti i suoi precedenti lavori come un incendio avrebbe fatto impallidire una candela. Al termine dei fuochi artificiali, sfere di luce dai colori pastellosi si accendevano tra gli spettatori, sulle tende e sull'erba, tra i pennoni delle bandiere. Non potevano essere raccolte, e svanivano quando qualcuno provava a farlo, per riapparire più tardi. Intorno al campo dei tornei erano stati costruiti palchi soprelevati per i bardi e i musici, e una vasta piattaforma per le danze. Con grande stupore e delizia dei ballerini, i loro piedi scivolavano sulle tavole di legno leggeri come bolle di sapone sull'acqua. Durante i banchetti furono suonate molte canzoni, tenuti molti discorsi, proposti molti brindisi alla salute del nuovo sovrano di Erith, del Re faêran uscito da sotto la collina e della sua promessa sposa. L'ultima sera, dopo i consueti brindisi e gli interventi di un paio di oratori, Thomas il Sincero
tenne un lungo discorso in onore di Ashalind. Senza divulgare la complicata storia della sua vita passata, narrò dei suoi viaggi nelle pericolose terre disabitate, in termini così elogiativi che la ragazza, divertita e imbarazzata, si chiese se parlasse di lei o di qualche fiabesca avventuriera. Sianadh fu lodato come il campione che l'aveva aiutata nel primo viaggio, mentre Viviana e Caitri vennero celebrate per la loro fedeltà e le risorse dimostrate nei viaggi successivi. Neppure il ruolo svolto da Diarmid e Muirne fu dimenticato. Ercildoune terminò il suo intervento annotando che un giorno aveva danzato con Ashalind a Corte, e che per lui era un onore essere amico della futura Regina di Faêrie. Fu solo allora che Ashalind comprese appieno l'enormità del passo che stava per fare. I pericoli vissuti durante i mesi precedenti, le disavventure e le emozioni le avevano impedito di soffermarsi su quelle riflessioni. Nel diventare la sposa di Angavar-Thorn, sarebbe ascesa al rango di Regina del Reame Fatato. Sembrava qualcosa di improbabile, un sogno assurdo... eccitante e terribile. Spostò lo sguardo sul suo attraente compagno. Era un faêran, uno di quella razza affascinante ma pericolosa che amava e allo stesso tempo opprimeva gli umani. Le unioni tra mortali e immortali erano sempre finite male... però quelle tragedie appartenevano al passato. Ashalind pensava che per lei le cose sarebbero andate diversamente; nonostante gli ostacoli e le opinioni contrarie, il suo amore per Thorn era forte e sincero, era il perno d'acciaio che univa le due metà di una spilla, una di diamante e l'altra di vetro. Vi furono brindisi alla salute di Sianadh, di Viviana e di Caitri. Poi, a un tavolo appartato dagli altri, un uomo si alzò. S'inchinò in direzione della tavola alta, e i commensali tacquero. «Parla», lo esortò Edward con voce chiara. «Come tutti sanno, la gente del mare è la benvenuta tra noi. Tu ci hai giurato fedeltà, e i doni dell'oceano che hai portato sono molto preziosi.» Ashalind si era subito accorta che quell'uomo dai folti capelli grigi era Galan Arrowsmith. Alla sua destra sedeva una ragazza dal sorriso enigmatico, le cui chiome avevano il colore del mare illuminato dai raggi della luna. A sinistra aveva Betony e Sorrel, lietamente riunite al fratello. «Il nostro sovrano di Erith è generoso», esordì il mezzo-silkie. «Possa regnare a lungo.» Tra i presenti corse un mormorio di assensi. Lui riprese: «Abbiamo udito come l'Orso di Finvarna abbia dato molto aiuto a Dama Ashalind. Questo può essere, ma io pure, non molto tempo fa, l'ho accompagnata in un viaggio pericoloso. Mia signora, se avessi saputo a chi eri
fidanzata...» Lei lo interruppe: «Galan Arrowsmith... a te, amico mio, io devo molto». Lui s'inchinò. «Tu ci hai dato ospitalità nel tuo villaggio, e non solo questo», proseguì lei. «Hai messo al nostro servizio i tuoi cavalli e il tuo forte braccio. La tua cortesia non sarà mai dimenticata.» «Tuttavia io penso che, per quanto ho fatto per te, questo non sia abbastanza», replicò Arrowsmith. E, dopo una rapida occhiata a Ercildoune, aggiunse in tono secco: «Non ho mai danzato con te, mia signora». Calò un improvviso silenzio, gravido di tensione. Poi intorno all'uomo dilagarono risatine nervose. Ashalind guardò Angavar e vide che stava sorridendo. Appollaiato sullo schienale della sua sedia, Errantry arruffò fieramente le penne. «In questo caso, accomodati sulla pista», lo invitò Ashalind. E si alzò. L'uomo andò sul vasto rettangolo pavimentato in legno, e Ashalind lo raggiunse. Lui le baciò la mano, i musici cominciarono a suonare e i due ballarono senza sbagliare un passo, tra i commenti divertiti e gli applausi della gente. Quando la musica tacque, Arrowsmith si piegò ancora sulla mano di lei. «Credo che mi occorrerà qualche tempo per far placare i battiti del mio cuore», disse ad alta voce, ma scherzando solo per metà. Volgendosi verso un tavolo affollato di ertish, tra cui Sianadh, aggiunse: «Kavanagh, mangiati il fegato». Sianadh, che aveva già bevuto più del necessario, ruggì una risposta gioviale ma incomprensibile e alzò verso Arrowsmith il boccale di birra, rovesciando parte del contenuto su quelli che gli stavano accanto. «Non ho mai ballato neppure con lui», affermò Ashalind. Arrowsmith la guardò coi suoi occhi da creatura del mare. Tra i commensali cadde di nuovo il silenzio, mentre tutti scrutavano sia Angavar sia la coppia sulla pista. Erano orribilmente consapevoli di cosa potesse significare la gelosia di un faêran, se risvegliata. «Ah... cosa si è perso!» esclamò audacemente l'uomo, tenendole una mano. Alla tavola alta, un angolo della bocca di Angavar ebbe un fremito. Tra i presenti corsero mormorii preoccupati. Con fare galante, Arrowsmith accompagnò Ashalind al suo posto, e poi posò un ginocchio a terra dinanzi ad Angavar. «Vi chiedo perdono, Maestà, se vi ho offeso.»
«La mia promessa sposa danza con chi vuole», replicò lui, per nulla contrariato. «Che abbia scelto voi è un complimento, perché è una dama che sa scegliere bene.» Sembrava appena un po' divertito dal modo in cui il mezzo-silkie aveva osato corteggiare in pubblico la sua fidanzata. Ma non era tipo da essere geloso: conosceva Ashalind troppo bene, e inoltre era un faêran, e in quelle circostanze i faêran apprezzavano certi atteggiamenti spregiudicati. Un mormorio di risate si levò dai commensali. La tensione si sciolse come nebbia al sole, sostituita da un'atmosfera di sollievo e soddisfazione. Il banchetto continuò. Il giorno successivo, il campo fu sgombrato per i giochi e le gare, le giostre e i tornei. I cavalieri faêran si esibirono in una gara di lanci. Al termine della tenzone, la squadra perdente svanì e al suo posto comparve uno stormo di grossi scarafaggi alati, che si alzarono in volo sul terreno dei tornei. La posta che quei cavalieri dovettero pagare per la sconfitta fu un volo intorno ai confini di Eldaraigne sotto forma di insetti, ma nessuno protestò e tutti sopportarono la pena sportivamente. Alla fine anche quella lunga giornata si concluse, e i festeggiamenti ebbero termine. Da lì a qualche giorno, la Sovrana D'Armancourt sarebbe salpata da Caermelor e, scortata da sei vascelli Dainnan, avrebbe fatto vela per le pietraie desertiche di Arcdur con a bordo Ashalind, Angavar, Ercildoune, Roxburgh e numerosi servitori di palazzo. A essi si sarebbero uniti i cavalieri e le dame faêran di Nido dell'Aquila, tutti ormai disperatamente ansiosi di trovare la Porta. Una spedizione così numerosa sarebbe stata in grado di affrontare qualsiasi pericolo incontrato lungo la strada. Del resto, i loro nemici erano stati sconfitti: cosa avrebbe potuto minacciarli? Il commiato di Ashalind da Edward fu più sgradevole del previsto. «Devi andare», insisté lui, dopo averla ricevuta in privato nei suoi appartamenti. «È destino che tu parta, e prima te ne andrai meglio sarà.» Ma non riuscì a impedirle di notare che stava lottando contro le lacrime. «Non sarà una separazione definitiva», lo rassicurò lei. «Quando il mio signore e io avremo trovato la Porta, tutte le altre Porte saranno di nuovo aperte! Il tempo non scorrerà più in modo diverso, perché il mio signore ha promesso che sincronizzerà il tempo del Reame e quello di Erith. Tutto tornerà com'era prima della Chiusura, con la differenza che un'ora trascorsa nel Reame non significherà più tornare in Erith e scoprire che qui è pas-
sato molto più tempo. Questo renderà possibile un maggiore traffico tra i due mondi, e tu e io potremo farci visita in qualsiasi momento.» «Non è questo che volevo dire», mormorò lui, e Ashalind finalmente capì quanto fosse stata cieca. «Inoltre», continuò Edward, «io sento nel mio cuore che la nostra separazione sarà più lunga di quanto credi. Temo che...» Non poté continuare. «Non aver paura. Come potrebbe accadermi qualcosa di brutto, se sarò accanto a lui?» disse Ashalind, ma subito si pentì di quelle parole. Lui le rivolse uno sguardo angosciato. «Sì, lui può darti tutto», le disse. «Tutto. Io vi amo entrambi. Voglio che siate felici. Tra tutti i mortali che ho conosciuto non ce n'era uno che lo meriti come voi. E siete così belli, insieme. Quando userai lo specchio, pensa a me.» Attanagliata da un improvviso imbarazzo lei poté soltanto annuire, con un nodo in gola. Fu così che si separarono. Dai moli di Caermelor, sull'estuario, le navi che componevano la spedizione partirono per Arcdur quel giorno stesso. I pennoni della Sovrana D'Armancourt si stagliavano in un cielo azzurro pallido. Spirava un venticello fresco. I passeggeri rimasero a lungo voltati verso i moli e le banchine dov'erano ormeggiate navi di tutte le dimensioni. A sud, la rupe del Vecchio Castello emergeva dal mare; c'era alta marea, e le onde coprivano la strada che lo collegava alla terraferma. Di fronte a quella scabra sentinella di pietra si alzava il promontorio di Caermelor, dalle scogliere bianche di schiuma. Il palazzo, sulla dorsale, era un'immagine scura su uno sfondo di brume. I suoi tetti, le torri e i bastioni erano ravvivati da centinaia di bandiere che sventolavano come ali. Un'improvvisa lancia di luce dorata scaturì dall'armatura di una guardia che si muoveva dietro i merli. Anche molti edifici civili sul fianco della collina erano ornati dalle bandiere issate per celebrare l'incoronazione. A tribordo, la linea costiera, confusa nella foschia autunnale, curvava intorno a Capo dei Venti. Sulla sinistra il mare aperto era una coppa di cristallo piena di vino verde-blu, pulito e freddo. Le acque scintillavano come cosparse di diamanti. Lontano, tra le onde, si vedevano nuotare forme snelle; talvolta emergevano presso la nave per salutare i marinai, agitando le mani verso i faêran e i mortali che erano a bordo. Il vascello fece rotta a nord-ovest, navigando sottocosta, e mantenne quella direzione finché non ebbe girato intorno a Capo dei Venti. Da lì, il
capitano diresse la prua a nord per attraversare il Golfo di Mara. Nei giorni che seguirono, la nave passò sopra il punto dove un tempo la bella isola di Tamhania si levava dal mare. Non vi era più alcun segno che lì fosse esistito un lembo di terra. Le onde rotolavano lisce e indifferenti sulla tomba sommersa dell'Isola Reale, e il sole autunnale le tingeva di una luce giallastra. Il capitano fece il punto, controllò la carta nautica, e mise in panne la nave; poi i marinai cantarono la malinconica Canzone dell'Addio, e un mazzo di fiori fu gettato sulle acque. Angavar notò che il vento calava, così chiamò una vivace brezza del sud a gonfiare le vele. La nave prese velocità, superando i vascelli Dainnan, e cominciò a tagliare le onde come una lama affilata. Lo scafo beccheggiava appena, e continuò a sfruttare il vento in poppa anche quando il mare si fece più agitato. La prua affondava nelle onde scagliando a destra e a sinistra ventagli di schiuma, mentre le vele erano così gonfie che tutto il sartiame cigolava sotto sforzo. Su lato nord del golfo molti erano in coperta quando la vedetta in coffa gridò: «Terra!» indicando la bassa linea grigia della costa. Da lì a poco anche i passeggeri poterono vedere Capo delle Maree. Il timoniere deviò rapidamente a sinistra, e il promontorio rimase a tribordo rispetto alla nave finché non giunsero allo stretto braccio di mare tra la terraferma e la prima isola della Catena delle Fumaiole. Subito dopo, la linea costiera si allontanò sulla destra. La nave fece rotta a nord-nord-est, e il vento continuò a spingerla da poppa. Poi continuarono a navigare a buona velocità paralleli alla costa, rifacendo al contrario il percorso fatto un tempo da Ashalind viaggiando a bordo di un peschereccio. Ma nell'avvicinarsi ad Arcdur, in lei nacque un senso di disagio. I ricordi che si affollavano erano troppi. Mentre guardava la costa, appoggiata alla murata, una fila di uccelli neri si alzò in volo dagli alberi per allontanarsi nell'entroterra. Appollaiato sul sartiame, Errantry aprì il becco ricurvo e squittì, in quello che le parve un cattivo presagio. Un contatto improvviso la fece sussultare. Si girò e vide che Angavar l'aveva raggiunta in silenzio, passandole un braccio intorno alla vita. Per un poco restarono così, guardando la terraferma. «Perché i Cavalieri del Corvo avevano tradito il loro Re?» «Tu l'hai visto, Capelli d'Oro. Hai sentito il potere della sua personalità. Per poco non ne sei stata affascinata anche tu.» Ashalind ripensò al Colle di Hob, in Avlantia, e alla Via che passava sotto di esso: un lungo tunnel verde dalle pareti di alberi, oltre i quali si
ergevano le colline di Erith. Cantavano le allodole, un falco planava nel cielo, le siepi erano spoglie e nere oltre i campi incolti, e in lontananza una spirale di fumo azzurro si alzava nel cielo. Da qualche parte suonavano le campane. La voce era stata nitida e volitiva come metallo scuro, quando aveva detto: «Resta ad abitare qui e io giuro che sotto la mia protezione non ti sarà fatto del male. Posso portarti in palazzi di fuoco e castelli di vetro, posso portarti attraverso l'acqua e l'aria, nell'alto del cielo e sul fondo del mare. Avrai la facoltà di volare e più ancora... Non puoi nemmeno immaginare quali meraviglie si offrano a chi gode del favore di un faêran!» Più tardi quella voce aveva chiamato il suo nome, e lei aveva inciampato. Ma il caldo odore di avena del suo pony l'aveva richiamata in Erith, e il rumore dei passi dei bambini l'aveva colpita, riportandole l'immagine del suo perduto fratellino. «Ashalind.» Stavolta lei cadde in ginocchio e non riuscì a rialzarsi. Altri bambini la sorpassarono. Sarebbe stato così facile voltarsi a guardare, ubbidendo a colui che governava il gramarye ed era lì, con tutto il Reame Fatato alle spalle, pronto a offrirle un intero mondo... Sarebbe stato così dolce guardarlo voltarsi per andare via, e seguirlo. Lentamente, si tirò in piedi e, nonostante il suo desiderio, non si girò e non guardò indietro ma si rimise in marcia a fatica, spingendo avanti un piede dopo l'altro come se camminasse nel miele. Come poteva un Principe come lui aver sviluppato un odio così violento per l'umanità? Come poteva lei avergli permesso di toccare le corde del suo cuore? Che lui non vivesse più, fuorché in forma quasi incorporea, la lasciava sospesa tra il sollievo e la tristezza. La pressione di quei sentimenti opposti la rendeva perplessa e riapriva una ferita incomprensibile. Il ponte della Sovrana D'Armancourt che beccheggiava sotto i suoi piedi la riportò al presente. Angavar la stava scrutando con aria interrogativa. «Ora capisco», disse lei. «Il carisma di Morragan li aveva legati. Prima erano stati attirati da te, ma erano anche affascinati da lui. Tu eri andato via, in Erith... e loro non avevano, come me, un pony al quale aggrapparsi e dei bambini che gli ricordassero a chi dovevano essere fedeli.» «Pochi potevano resistere al suo carisma, quando lui voleva legare a sé qualcuno.» «Io l'ho fatto.» «Questo lo so. Lo sa bene anche lui, e non lo dimenticherà.»
«Ma ora lui ha perduto il potere del gramarye!» «Un uccello vola nell'aria. Può gettarsi sulla preda e ucciderla. Non c'è potere in questo?» Lei non riuscì a trovare una risposta. «Mi sono pentito di aver permesso al Corvo di volare via», disse Angavar, voltandosi verso l'orizzonte. «Avrei dovuto catturarlo, metterlo in gabbia. Benché quasi privo di forze, ora è libero per il mondo. Può volare nel cielo come una freccia scagliata da un arciere cieco, e cercarsi un bersaglio a caso.» L'aguzza prua della nave scivolò in un'insenatura rocciosa nota al capitano. Lì, tra alte rupi spoglie, rallentò. Le vele persero il vento e restarono a penzolare flosce dai pennoni, coi leoni dorati seminascosti tra le pieghe. Gli uomini dell'equipaggio mollarono le drizze e si arrampicarono sulle griselle, con lo sguardo rivolto alle cime degli alberi che affondavano nel cielo come lance. L'ancora fu calata con un clangore di catene. Gli uomini portarono a riva i canapi da assicurare agli alberi e ai macigni. Poiché il fondale lo permetteva, la nave poté avvicinarsi a terra abbastanza da calare una passerella su un tratto di roccia; ciò permise subito un rapido sbarco dei cavalli e dei rifornimenti. La spedizione si mise in viaggio verso nord, in un territorio cosparso di alte rupi e canaloni dalle pareti di granito. La notizia dell'esistenza della Geata Poeg na Déanainn si era sparsa in fretta, e le creature eldritch erano ormai consapevoli della possibilità di vedere riaperte le Vie d'accesso al Reame Fatato. Tutti i faêran lo sapevano, ma pochi mortali erano stati messi al corrente. La notizia non era stata comunicata alla popolazione di Erith perché i faêran non volevano che diventasse materia di pettegolezzi tra gli umani. Pochi mortali, quindi, cavalcavano con la spedizione. Di essa facevano parte novanta cavalieri faêran e nove dame di Nido dell'Aquila, Thomas di Ercildoune, il Duca di Roxburgh e sua moglie Alys; Istoren Giltornyr era rimasto a Caermelor con Richard di Esgair Garthen. Una simile compagnia non avrebbe richiesto la scorta di Maghi o uomini armati, tuttavia erano arrivati ad Arcdur anche i migliori cavalieri Dainnan e le due potenti Carlin, Ethlinn e Maeve. Inoltre, alla spedizione si erano uniti Sianadh, che aveva perduto alle carte la sua Nave del Vento, e quattro degli irrequieti fratelli di Silken Janet Trenowyn, che sotto l'influsso dell'incantesimo avevano assunto un aspetto eldritch, e che - come l'ertish - erano desiderosi di compiere imprese eccitanti.
Ashalind aveva l'impressione di essere scortata soltanto dai mortali, perché i faêran scivolavano senza rumore tra le rupi, come se i loro cavalli fossero fatti di nebbia. Li vedeva di sfuggita, quasi confusi con lo sfondo di colori neutri, simili a immagini dipinte ad acquerello sul vetro, confusi tra i pini e i macigni e le pareti di arenaria incrostate di muschio marroncino. Nelle depressioni tra una collina e l'altra, al mattino la nebbia stagnava fitta. I licheni si abbarbicavano al lato settentrionale di ogni roccia. Il caldo diurno e il freddo della notte lavoravano sulle nude ossa di Arcdur. Ai piedi delle pareti rocciose si accumulavano strati di scaglie che l'escursione termica sbriciolava in polvere ancor più minuta. Nei punti da cui si erano staccate, la permanenza del materiale più duro formava strani bassorilievi che la sera gettavano intrecci di ombre sorprendenti. L'aspetto di Arcdur non era affatto cambiato dall'ultima visita di Ashalind... fuorché in un bizzarro particolare. In tutti i suoi viaggi attraverso Erith, lei si era abituata a vedere gli uccelli e gli animali fuggire prima dell'arrivo degli esseri umani. Lì, al contrario, le creature selvatiche si avvicinavano nel sentire il rumore degli zoccoli dei cavalli. Gli uccelli svolazzavano intorno a loro e si posavano dove potevano essere accarezzati; ciò costringeva Angavar a far volare Errantry alto e lontano da loro. Volpi e capre sbucavano dai crepacci per assistere al passaggio dei cavalieri. Letargici serpenti si svolgevano dalle spire; scarabei scintillanti ronzavano intorno e cercavano d'immergersi tra i capelli di Angavar. Perfino gli animali notturni si svegliavano e uscivano dalle tane per salutare i faêran e il loro Re. Se l'aspetto esteriore del territorio non appariva cambiato, Ashalind percepì un'importante differenza. Un tempo i macigni e i burroni e i monti granitici di Arcdur avevano sopportato l'attacco della pioggia e del vento con torpida indifferenza. Avevano dormito per millenni, perduri nei loro remoti sogni minerali, senza accorgersi della carezza della nebbia e dei licheni che crescevano su di loro, mutando aspetto a un ritmo troppo lento per essere notato da ogni creatura mortale. Ad Ashalind invece sembrò che le rocce si fossero svegliate, e così anche gli alberi e l'acqua. Sentiva ovunque un'attenzione, una presenza di cose eccitate. L'aria e il suolo vibravano di una sorta di coscienza vitale eldritch. Non era difficile immaginarne la causa. Da quando Angavar si era spogliato del suo aspetto mortale, non vi era cosa vivente che potesse restare inerte alla presenza di quel potere elementale. Se gli uccelli e gli a-
nimali venivano attratti dalla compagnia dei fatati, lo stesso accadeva per le incarnazioni eldritch. I mortali della spedizione potevano vedere un gran numero di wight. Agli occhi di Ashalind, che usava l'unguento per le palpebre, ne erano visibili assai di più: odiosi e affascinanti, maligni e benevoli. Quelle presenze le davano i brividi, ed era lieta che accanto a lei vi fosse una persona capace di sottometterli tutti, se necessario. I wight di minore importanza si limitavano a guardarli di lontano, senza uscire del tutto dai crepacci o dalle polle d'acqua. La loro presenza era rivelata a volte soltanto da cerchi che si allargavano sulla superficie degli stagni, o da un fremito delle felci nel punto in cui qualcosa aveva spiato prima di dileguarsi. Sedute sulla cima di irraggiungibili macigni, fanciulle dalla pelle dorata si pettinavano serenamente. A volte, vaghi echi di musiche giungevano da sotto gli zoccoli dei cavalli. Ogni ombra, ogni albero contorto, ogni pozzo e laghetto, ogni grotta sembravano ospitare una manifestazione eldritch. Perfino quando il vento soffiava tra gli aghi di pino, quel sospiro aveva una voce diversa. Angavar era consapevole dell'attenzione destata dal suo passaggio, e permetteva che qualunque creatura si avvicinasse; ma non si aspettava manifestazioni di ossequio e sottomissione. Era il supremo sovrano del gramarye e non aveva bisogno che altri riconoscessero e convalidassero quel fatto. Da un orizzonte all'altro, quella regione offriva una vista del cielo priva di ostacoli. Il panorama delle nuvole, visto nella totalità delle sue immense distanze, era uno spettacolo vertiginoso. A occidente si stavano addensando cirrocumuli che si alzavano candidi fino alla stratosfera, scompigliati da un rigido vento salmastro. Nell'avvicinarsi, essi nascosero il sole, che poté solo limitarsi a infilare a tratti i suoi raggi abbaglianti ed effimeri. Il territorio cominciò a scurirsi di ombre. Il vento strappò da sotto il berretto di Ashalind tre ciocche di capelli, che le fluttuarono davanti al viso. Nell'aria stagnava una pesantezza che faceva presagire la pioggia. Sottile come la puntura di uno spillo, una goccia d'acqua le cadde sul dorso di una mano. Angavar cavalcava davanti a lei, perché quella zona era così scoscesa da obbligarli a procedere in fila. La ragazza lo vide alzare il viso a scrutare il cielo. Non vi fu altro. Non fece gesti con le mani, né evocò un incantesimo. Se pure mormorò qualche parola, lei non lo senti. Ma il vento girò. Cominciò a soffiare da sud, e subito, in alto, i torreggianti castelli di umidità si misero in movimento. Roteavano e cambiavano
aspetto, esplodendo lentamente dall'interno e reinventando se stessi in nuove e fantastiche forme. Poi si riempirono di buchi, lasciandosi attraversare dal sole. Quando quelle nuvole appesantite dalla pioggia si furono allontanate verso nord, una prepotente luce bianca dilagò sulle desolazioni di Arcdur, fornendo ogni roccia di una nitida ombra dai riflessi bluastri. Dietro Ashalind cavalcavano alcuni servitori. Lei li sentì mormorare: «Guardate, lui ha mandato via il temporale». Le sue cameriere e i Dainnan provavano un sacro timore per lui, o per ciò che lui era diventato. Ma Angavar si voltò sulla sella e sorrise, e il cuore di lei fu così riscaldato da quel sorriso che accelerò le pulsazioni, come un leprotto che giocasse su un prato. «Siamo sempre sulla strada giusta?» le domandò lui. Ashalind ordinò al suo cuore di calmarsi. «Credo di sì.» E, in effetti, i ricordi e una voce interiore le stavano dicendo che la direzione era quella, e che da qualche parte più a nord si trovava il posto dal quale era barcollata fuori sotto la pioggia, molto tempo prima, allontanandosi dalle delizie del Reame Fatato alla ricerca di un uomo che aveva visto solo per un attimo. Presto avrebbe oltrepassato quella Porta al fianco di Angavar. Poi sarebbe entrata nel mondo di lui, un reame favoloso, strano e selvaggio, dove abitavano i suoi amici, i suoi familiari, e tutti i talith che avevano abbandonato Avlantia. Lei li avrebbe ritrovati e abbracciati. E stavolta sarebbe rimasta con loro. La pista si allargò, e Angavar poté di nuovo affiancarsi a lei. Un piccolo goblin delle rocce balzò tra le zampe del suo cavallo faêran, squittendo. La risata di Angavar fu accattivante, contagiosa, e lei dovette ridere con lui. Ma il panorama di Arcdur continuava a essere monotono, sempre uguale a se stesso, e non offriva ad Ashalind nessun luogo che le fosse familiare. «È possibile che l'aspetto esterno della Porta sia cambiato, negli anni trascorsi dall'ultima volta che l'ho vista?» «Possibile, ma non probabile», rispose Angavar. «Vento e pioggia non possono aver eroso il terreno in così pochi anni. Certo, non è escluso che un terremoto abbia fatto inclinare qualche roccia o precipitare dei massi.» «Ma se un moto tellurico avesse colpito le fondamenta della Via interna, la Porta potrebbe essersi chiusa, oppure spalancata!» «Non proprio. Non è facile influire sul gramarye del passaggio dimensionale che chiamiamo Via. Una semplice scossa sismica non può far chiudere una Porta tra i mondi.»
Ad Ashalind erano occorsi molti giorni per attraversare a piedi quella regione di Arcdur, quando vagava senza meta, debole e affamata. In compagnia di Angavar, il primo giorno di viaggio bastò a portarli molto lontano, e quella sera cavalcarono ancora per diverse leghe sotto le stelle, finché i mortali della spedizione non furono stanchi. Il cielo di Arcdur era un ingioiellate splendore, così vasto e brillante da far pensare che fosse una cupola di cristallo in cui erano incastonate gemme di ogni colore. «C'era una volta un mondo ora in rovina», raccontò Angavar mentre proseguivano verso nord-est, «dove la gente viveva in possenti città, annebbiate da un fumo malsano che stagnava in perpetuo sopra di esse. E le città di notte erano illuminate da luci create dalle macchine, così intense da offuscare le stelle, o nasconderle del tutto. Questi umani, di un'epoca lontana e ormai scomparsa, non capivano perché i poeti antichi elogiassero lo splendore del firmamento, che essi scorgevano a malapena come un debole spolverio d'insignificanti puntini luminosi. Solo viaggiando nei deserti e nelle zone elevate, lontano dalle loro città, potevano vedere le costellazioni così come noi vediamo quelle di Erith. E in quanto alle stelle del Reame... be', loro potevano vederle soltanto nei sogni.» Nell'ascoltarlo, Ashalind lo guardava. Il suo volto era illuminato dalla luce di soli lontani; i suoi capelli li nascondevano. Meraviglia e passione le saturavano l'animo con una forza quasi palpabile. E cominciava a credere che anche un faêran fosse sensibile a quelle emozioni. Dopo un poco, lui le disse: «Ti amo. Ah, quanto ti amo». Angavar decise di accamparsi in un boschetto di arkenfir, tra le radici che sporgevano dal suolo, dove gli aghi di pino si erano depositati una stagione dopo l'altra fino a formare dei profondi e morbidi giacigli. Su quello strato vegetale furono stesi robusti teli e sacchi a pelo. Tra i rami nacquero piccole luci e al suolo si accesero da soli fuochi fatui, che spargevano calore senza incendiare i residui resinosi. Non furono eretti padiglioni di seta, né orgogliosi stendardi a proclamare che quello era il luogo di pernottamento scelto da un Re. Non vi era alcun bisogno di un riparo. La pioggia non sarebbe caduta, né il vento avrebbe osato insinuarsi come un ladro tra i giacigli, per scuotere le vesti con dita irrispettose. Non vi era necessità di piazzare delle sentinelle contro eventuali pericoli. Sotto gli arkenfir si tenne una ricca cena, al termine della quale i Dain-
nan andarono a coricarsi. Ercildoune e Roxburgh li imitarono, e da lì a poco anche le cameriere di Ashalind. «Dormi bene», le augurò Angavar, quando la lasciò per cercare il suo giaciglio. Ma lei restò sveglia a lungo, accanto alle sue cameriere, rigirandosi l'anello-foglia tra le dita. «Non temere nulla dai wight, mia amata, né da creature mortali», le aveva detto lui. «Quando io sono con te, sei al sicuro da ogni male. Quando non ci sarò, ti lascerò alle cure di chi saprà proteggerti, oppure in qualche posto sicuro.» In alto, i rami fruscianti annuivano, neri sullo sfondo del cielo. Ashalind guardò le stelle che si muovevano lente su un arco di dimensioni immense, lontane innumerevoli leghe. Era stanca e avrebbe voluto dormire, ma il bisogno della vicinanza di Angavar era quasi doloroso, e a tenerle aperti gli occhi erano le canzoni dei faêran, di cui intravedeva le figure chiare muoversi tra le rocce. Perché i Fatati non dormivano... e lei si domandò se dormissero mai. Per tutta la notte li sentì muoversi e parlare, divisi in gruppi, e cantare canzoni talora divertenti e talaltra così tristi da farle venire le lacrime agli occhi. Il suo sonno, quando si addormentò, fu rasserenato da sogni piacevoli. Il mattino dopo, la spedizione superò una catena di alture coperte di conifere. A ovest, uno scintillio sull'orizzonte rivelava la presenza del mare. In una spoglia valle sotto le colline, un limpido corso d'acqua si faceva strada tra rocce di calcedonio. I cavalli si addentrarono nella gelida corrente sollevando alti spruzzi che scintillavano come schegge di cristallo. Più avanti ripresero a inerpicarsi verso il cielo, col vento che li sospingeva sussurrando quello che sembrava un incitamento a proseguire. Giunti sulla dorsale, si fermarono per studiare il territorio che si estendeva più in basso. Errantry prese il volo e si perse nella vastità del cielo colmo di luce. Le cornacchie sfruttavano le correnti ascensionali per poi gettarsi in picchiata sugli scarafaggi alati. Il grigio pallore delle rupi e dei macigni era interrotto solo da chiazze di licheni e pochi assembramenti di arkenfir. Il vento cantava tra le formazioni di sporgenze rocciose; i torrenti cicalavano e gorgogliavano. Alte centinaia di piedi, le rupi erose a cima piatta sembravano torte cotte in una monumentale cucina: una aveva la forma di una pagnotta; un'altra, più lontana, torreggiava come una pila di focacce gigan-
ti. Le pulsazioni di Ashalind accelerarono. Quei punti di riferimento le erano familiari. «Ci stiamo avvicinando al posto!» disse. «È in questa zona!» Angavar annuì appena, ma dalla tensione dei suoi lineamenti lei si accorse che quella notizia lo emozionava. Si avviarono giù per un pendio ripido, lasciando che i cavalli cercassero punti sicuri dove appoggiare gli zoccoli per non scivolare. Da lì a poco furono su un fondovalle irto di pinnacoli. Ashalind era rossa in viso; i suoi occhi avevano una luce febbrile. «È qui, da qualche parte! Siamo ormai sulla soglia!» Si guardò intorno con intensità, scrutando ogni formazione rocciosa. «Dobbiamo procedere lentamente. Se ci avviciniamo dalla parte sbagliata, potrei non vederla.» «Una roccia alta e grigia, simile a una mano gigantesca», canticchiò sottovoce Angavar, ripetendo la descrizione di lei, «e uno snello obelisco inclinato da quella parte, del colore di un petalo di rosa. Entrambi i monoliti sovrastati da una roccia simile all'architrave di una porta. E lì accanto, in una cavità di granito, una polla oscura alimentata da una sorgente.» Per un momento Ashalind si meravigliò degli eventi casuali - o forse predeterminati dal destino? - che l'avevano ricondotta in quel luogo e in quel tempo, mille anni dopo. I cavalieri faêran avanzavano in formazione sparsa. Il vago tintinnio dei loro finimenti ornati di campanelle ricordava i venti shang che non avrebbero più spirato su Erith per risvegliare il suo passato. Tra due alti pinnacoli, nel cielo orientale, apparve una macchia scura. Come un refolo di fumo trascinato dalla brezza, si avvicinò rapidamente, finché non fu possibile vedere che si trattava di un grande stormo di uccelli. Angavar fece fermare la spedizione. L'astore scese in picchiata e venne ad affondare gli artigli sulla fascia di cuoio intorno al polso sinistro del padrone. Il rapace stridette e sibilò, sbattendo le ali, con gli occhi d'oro che brillavano come monete ardenti. Ercildoune e Roxburgh si accostarono al condottiero, e questi chiamò i faêran, nella loro lingua. Molti di loro si stavano già indicando l'un l'altro il cielo. Con voce cupa, Angavar disse: «È lui. Il Corvo ritorna». Ashalind sentì una fitta al cuore, come se la sottile estremità di una frusta l'avesse colpita. «E ora?» ansimò. «Si è avvicinato troppo alla Porta. Ed è essenziale che sia lontano da qui quando essa si aprirà, perché nella sua rabbia e sete di vendetta potrebbe
trovare il modo di scivolare dentro prima di me, e poi chiudercela in faccia. Io non voglio essere esiliato una seconda volta!» Gli uccelli neri continuavano ad avvicinarsi; il loro gracchiare riempiva il cielo. Oltre ai corvi, vi erano anche cornacchie e avvoltoi dal piumaggio grigio scuro. Ashalind riusciva a vedere le emozioni crude che si agitavano dietro la maschera controllata del volto di Angavar; ma aveva l'impressione che, sebbene irritato da quella mossa del fratello, una parte di lui avesse quasi desiderato qualcosa di simile, perché aveva amato Morragan e soffriva per lui, a suo modo. Il richiamo di Angavar si fece udire di nuovo, e tutti i faêran gli si radunarono intorno. «Ordinaci di scacciare il Corvo!» gridò Roxburgh, alzandosi in piedi sulle staffe e agitando un pugno verso il cielo. «Una tua parola, e gli daremo la caccia fino in capo al mondo!» L'espressione di Ercildoune era allarmata. «Bisogna catturarlo e metterlo nell'impossibilità di nuocere, prima che riesca a farci davvero del male», ammonì. «È vero, ma quest'impresa esula dalle possibilità dei mortali», replicò Angavar. «Ci penserò io, con metà dei miei cavalieri.» Si voltò verso Ashalind. «Capelli d'Oro, questa caccia non è cosa per te. Thomas e Tamlain ti resteranno accanto, insieme col resto dei faêran e coi cavalieri Dainnan. Mentre io sarò assente, tu continua a cercare la Porta. Farò ritorno al più presto.» Con un gesto rapido ed energico gettò in aria Errantry. L'astore si alzò in volo. Ashalind fu colta da un improvviso terrore. Sentiva che, se Angavar se ne fosse andato ora, lei non lo avrebbe rivisto mai più. «Non lasciarmi, mio signore», balbettò. «Ti prego.» Lui fece accostare il cavallo e si piegò a parlarle in un orecchio. Il suo respiro era caldo e dolce sulla guancia della ragazza. «Perché hai questi dubbi, eudail?» le domandò sottovoce, stupito. «Non temere. Metà dei cavalieri di Nido dell'Aquila ti faranno scudo, guidati dai migliori di tutti, Dorliroen e Naifindil. Cosa c'è di cui aver paura?» «Non ho paura per me, mio signore, ma per te...» Lui rise. «Cosa potrebbe farmi del male?» Le prese il mento con una mano e la baciò. «Non devo perdere tempo. Quello stormo si sta già allontanando verso sud. A presto.»
Il suo destriero partì al galoppo con l'impeto di una raffica di vento. Pochi momenti dopo era già scomparso tra le rocce. Cinquanta tra cavalieri faêran e dame lo seguirono; i loro cavalli accelerarono a velocità soprannaturale e il rumore dei loro zoccoli si perse in distanza. I servi al seguito di Ashalind mormorarono, meravigliati. Lei si ombreggiò gli occhi con una mano e guardò da quella parte; ciò che vide fu un vasto stormo di creature alate levarsi in volo dalle rocce e allontanarsi coi cavalieri, all'inseguimento dei corvi. Avevano becchi ricurvi e ali che sbattevano con forza. Si trattava di uccelli da preda... falchi, o forse aquile. «Credo che il mio signore sia attratto da suo fratello», mormorò Ashalind, preoccupata. «È per questo che gli è andato dietro, anche se quello stormo si sta allontanando. Ma Morragan ha perduto la sua forza di un tempo, dunque perché i corvi e gli avvoltoi lo seguono? Che siano unseelie? Cercheranno di farci del male?» «Sono soltanto uccelli normali, ragazza», disse Maeve la Guercia, che si era avvicinata. «Non si tratta di wight! E non stanno minacciando noi né aiutando il Corvo; si limitano ad accompagnarlo. Come gli altri, sono attirati da lui. Ma per una ragione diversa. Gli uccelli lo credono uno di loro, però con un'aura di gramarye che non hanno mai visto, e ne sono affascinati.» «Questa faccenda è sospetta», borbottò accigliato Thomas di Ercildoune. «Bah!» sbottò Roxburgh. «Non c'è niente di sospetto. A me dispiace solo non poter andare a caccia del Corvo.» «Prosegui, Ashalind», la incitò Alys. «Noi ti seguiamo.» Non trovando nessuna ragione di restare lì, Ashalind fece quello che le veniva chiesto, senza smettere di guardarsi indietro ogni tanto. Accanto a lei cavalcava Alys. I due duchi si tenevano a destra e a sinistra delle dame, mentre dietro di esse cavalcavano Sianadh e le Carlin, e poi quattro robusti giovanotti, i più anziani dei fratelli Trenowyn, in groppa a vivaci cavalli neri, seguiti dai Dainnan e dai faêran rimasti coi mortali. Il cielo di Arcdur aveva assunto un aspetto fosco. Dall'orizzonte salivano nuvole nere. Sul territorio gravava un silenzio strano, come se fosse caduta la notte o un'improvvisa gelata, perché i versi degli uccelli non si udivano più. I monoliti che torreggiavano intorno ad Ashalind non le sembravano familiari, ma dentro di lei saliva la certezza che la Porta del Bacio dell'Oblio fosse vicina.
Da sotto gli zoccoli dei cavalli provenne un rombo. Il terreno tremò. Gli animali scalpitarono e si agitarono, sbuffando la loro inquietudine. Nei pensieri di Ashalind s'insinuarono le immagini della distruzione e dei cataclismi di Tamhania. «Cosa sta succedendo?» gemette Alys. Ma i cavalieri faêran lo sapevano già. «Il Cearb viene da questa parte!» gridò Dorliroen, guardando giù verso il fondovalle, tra le rocce. Naifindil trattenne il cavallo, che indietreggiava. «E, con lui, ci sono gli altri mostri dell'Attriod Unseelie!» Gli altri faêran sfoderarono le spade scintillanti. «Noi siamo pronti!» esclamarono. Molti di loro risero soddisfatti e agitarono le armi sopra la testa, impazienti di finire l'opera che avevano cominciato a Notteterna. Il terreno vibrava sempre più forte sotto i passi del Cearb, l'Uccisore, colui che portava un cappello a tricorno e aveva la capacità di spianare le colline e far tremare il suolo. Non era l'unico signore degli unseelie che apparve nella valle. Le acque di Arcdur furono risucchiate nelle loro sorgenti quando si avvicinò il Principe dei cavalli d'acqua. Gli scorpioni e le vipere dilagarono all'arrivo di Gull, il più grosso e veloce degli spriggan. I tre capi degli unseelie avevano giurato di vendicarsi contro i mortali che avevano preso le armi contro di loro. Tuttavia stavano per affrontare un avversario troppo superiore di numero; sembrava certo che il loro attacco li avrebbe condotti alla distruzione. «I malvagi portano con sé la follia», mormorò Maeve la Guercia, stupefatta. E in effetti sembrava che lo stesso terreno di Arcdur fosse impazzito. Le pietre camminavano. O, almeno, davano l'impressione di camminare. Come sradicate dalla posizione in cui erano state interrate chissà quanto tempo addietro, oscillavano da una parte e dall'altra, scosse dalle vibrazioni sotterranee. Precipitarono cascate di sassi; fessure e crepacci cominciarono ad allargarsi. «Non temere, Ashalind!» la rassicurò Naifindil, facendo accostare il cavallo per poterle parlare. «Impediremo a quei mostri di avvicinarsi. Con te ci sono i guerrieri Dainnan e le due Carlin. Ti proteggeranno, mentre noi avremo il piacere di sconfiggere coloro che ci hanno sfidato. Ti prego, prosegui nel tuo cammino, bella signora. Cerca la Porta!» Ashalind si rese conto che i faêran erano attirati dalla possibilità di combattere. «Andate, allora!» disse. Lui s'inchinò, mormorò un cortese saluto,
poi fece girare il cavallo e lo spronò. Gli altri cavalieri faêran lo seguirono per affrontare i nemici, mentre i mortali stringevano le file intorno ad Ashalind. Le rocce oscillanti di Arcdur ostruivano in parte la visita. Tra quegli alti monoliti non si poté vedere molto dello scontro tra gli eldritch wight e i faêran, salvo ogni tanto delle schegge di granito che schizzavano in alto e una tempesta di luci lampeggianti. D'un tratto, Ercildoune si accigliò. «Tre wight contro una cinquantina di cavalieri faêran!» esclamò. «La cosa avrebbe dovuto essersi già conclusa, ma sembra che invece di attaccare battaglia quei tre ripugnanti esseri stiano indietreggiando rapidamente, per portare i faêran lontano da noi. Cosa sperano di ottenere con una simile strategia non posso immaginarlo. Sono impazziti! Noi siamo al sicuro da ogni pericolo di origine unseelie.» «Credo che l'apparizione del Corvo fosse un diversivo, il cui scopo era attirare Angavar e i suoi cavalieri lontano da noi, affinché i malvagi potessero colpire», intervenne Alys, insospettita. «Possibile che ci siamo fatti ingannare così facilmente?» «Vuoi dire che Angavar sì è lasciato raggirare?» obiettò Ercildoune, irritato da quella situazione. «Non ho mai conosciuto un comandante più astuto di lui.» «Sospetto che il suo raziocinio sia stato offuscato», mormorò Ashalind. «A me piacerebbe raggiungere i cavalieri faêran in battaglia!» ringhiò Roxburgh, ma aveva avuto l'ordine di restare accanto ad Ashalind e non poteva disubbidire. L'uomo aveva appena finito di parlare che un crepaccio si allargò al suolo proprio in mezzo ai loro cavalli. Tre cavalieri Dainnan furono trascinati giù dal terreno che franava e scomparvero alla vista. «Siamo sopra uno scavo dei fridean!» gridò Ercildoune. «Fuggite! Si salvi chi può!» Sconvolte dalla percussione dei passi del Cearb, le fondamenta di Arcdur si disintegravano, collassando in profondi crepacci. Situati a poca distanza dalla superficie, i soffitti dei tunnel fridean si spaccavano, e sembrava che quell'area fosse traforata come un termitaio dalle caverne dei wight. Ashalind e i suoi compagni si guardarono intorno disperatamente alla ricerca di un tratto di terreno solido, ma, ostacolati dalle labirintiche formazioni rocciose, non seppero capire da quale parte avrebbero potuto trovare la salvezza. Ovunque vi erano slavine e crolli, ed enormi rocce che si capovolgevano. I cavalieri, col terreno che gli cedeva sotto, scivolavano
e precipitavano negli abissi. Le Carlin affondarono i loro bastoni nei crepacci; grandi radici si allungarono come tentacoli, ramificandosi per irretire il suolo e tenerlo insieme. Ma il gramarye delle due Figlie di Grianan non era abbastanza rapido. Gli uomini e i cavalli venivano inghiottiti dal suolo che crollava sotto di loro. Ashalind e i suoi compagni erano inermi contro un pericolo assai più vasto di quello rappresentato dagli eldritch. A una certa distanza da lì, alcuni cavalieri faêran videro cosa stava accadendo e girarono i cavalli, per tornare al galoppo verso il gruppo di Ashalind. Una luce nebulosa, come l'aura che avvolgeva i faêran, dilagò intorno ai mortali in difficoltà, e li avvolse. Nella confusione Ashalind era stata separata dalle sue guardie del corpo mortali, ma due cavalieri faêran la raggiunsero al galoppo e la condussero verso il terreno solido. Il suo cavallo si fermò, sudato e tremante, sotto un fronzuto arkenfir. Uno dei faêran prese le redini. «Dama Ashalind, devi restare qui finché non avremo annientato il nemico», le disse. «Le radici di questo grande abete sono profonde e solide. Tengono insieme il terreno con forza. Chi si ripara sotto questi rami è su solide fondamenta. Non muoverti da qui, qualunque cosa accada. Finché resterai qui sarai al sicuro, in attesa del nostro ritorno.» Quindi la lasciarono sola e galopparono via per raggiungere i loro camerati. Ma quando i mortali riuscirono finalmente ad allontanarsi dalla zona di terreno che si squarciava, la maggior parte dei cavalieri assegnati alla protezione di Ashalind stava combattendo contro due dei capi unseelie. Il Cearb, in qualche modo, aveva evitato lo scontro. Ashalind se ne rese conto, e ne fu meravigliata. Con tanti faêran scatenati alla caccia di così pochi avversari, quella scaramuccia avrebbe dovuto essere finita da un pezzo. Il Cearb sembrava stranamente elusivo. Era evidente che la bellicosa eccitazione e il gusto per la caccia avevano trascinato i faêran più lontano di quanto fosse prudente. All'improvviso il Cearb sbucò da dietro un assembramento di macigni. Quando il mostruoso wight prese ad avanzare, continuando a produrre quello strano effetto-terremoto a ogni passo, il suolo cominciò a spaccarsi anche nei posti che poco prima erano parsi sicuri. I massi che precipitavano dalle rupi per schiantarsi al suolo sollevavano nell'aria nuvole di polvere. Per quanto sforzasse gli occhi, Ashalind non riusciva quasi più a vedere le figure dei faêran oltre il polverone, né quella poderosa del Cearb che ora si allontanava senza accorgersi di lei. Era come
cercare di vedere qualcosa in uno specchio offuscato dall'alito. Soltanto il tronco dell'arkenfir, lì accanto, sembrava concreto. Oltre quella foschia si udivano i richiami dei faêran, le strida bellicose degli avvoltoi e una voce che imprecava furiosamente in ertish. Un vortice di vento trascinò via il polverone e, come all'improvviso sollevarsi di un sipario, Ashalind vide apparire dinanzi a sé un gruppo di sette duergar, il capo dei quali agitava nervosamente una frusta. I mostruosi nani si accorsero di lei nello stesso momento e si fecero avanti, mandando lampi dagli occhi. «Fermatevi!» gridò la ragazza. «Non mi fate paura! Sono in un posto sicuro, e da qui non mi muovo. Andatevene!» Il capo dei duergar sogghignò, alzò il braccio e fece schioccare la frusta. In preda al panico, la giumenta di Ashalind s'impennò. Quando lei riuscì a calmarla, vide che i sette wight erano scomparsi. Nuovi suoni si mescolavano a quei clamori; non provenivano dal terreno avvolto nella nebbia, bensì dall'alto, insinuandosi come falci tra le erbe fruscianti. Tre richiami striduli artigliarono il cielo: tre cardini rugginosi, tre porte cigolanti, gutturali richiami di strani bambini, rochi profeti che predicevano la fine del mondo. Tre grandi uccelli neri sbucarono dalla nebbia. Folle di paura, la giumenta fece uno scarto, scaraventò al suolo la ragazza e fuggì al galoppo. Stordita e dolorante, Ashalind si aggrappò a una radice dell'arkenfir e si tirò in piedi. Come un trio di pietre tombali, i corvi scesero ad appollaiarsi l'uno accanto all'altro sopra un'alta roccia. I loro becchi si spalancarono e si richiusero di botto. I loro occhi erano vuote cavità in cui nessuno avrebbe osato guardare senza sentirsi risucchiato nell'abisso abominevole della follia. Ashalind si sentì ancora più sola, abbandonata e vulnerabile; avrebbe voluto soltanto voltarsi e scappare. «Lasciatemi stare!» gemette, impaurita. «Macha, Neman, Morrigu... credete che non vi abbia riconosciuto? Pensate che non sappia che volete farmi fuggire via? Ma non spezzerete la mia volontà. Io resto qui!» Per un lungo momento i Corvi di Guerra fissarono la mortale col vuoto infernale dei loro occhi. Poi, come in risposta a un segnale, allargarono i vasti archi delle loro ali e con deliberata lentezza si alzarono nel cielo. I rumori della battaglia erano cessati. Lo scontro era finito, e il polverone che si stava abbassando lasciò allo scoperto un panorama dirupato e una polla d'acqua ai piedi di una sporgenza di roccia granitica. Ashalind vide dei cavalieri, mortali e faêran, tornare verso il boschetto di arkenfir. Le parve di sentir chiamare il suo nome, ma non poté esserne certa. Esausta
dopo il confronto coi wight, si sentiva stordita e desiderava soltanto un po' di riposo. Confusa com'era, aveva l'impressione tormentosa che il suo amato l'avesse abbandonata. A poca distanza dagli alberi, la superficie della polla si aprì. Dall'acqua sbucò un essere semi-umano dalla grossa testa pendula, fornito di un solo occhio. Il suo dorso spuntava dalla groppa di un cavallo, e dalla bocca fuoriusciva un puzzolente vapore bianco. Non appena vide Nuckelavee, Ashalind si perse d'animo. Le visioni che aveva avuto nello specchio d'acqua di Morragan e le storie che aveva sentito raccontare su quel mostro le balzarono alla mente in un'esplosione di cieco terrore. Secondo l'usanza dei faêran, Angavar aveva debilitato, ma non distrutto, quell'essere, uno dei più odiosi e abominevoli wight unseelie. E costui, dopo l'assassinio dei genitori di Edward, aveva lentamente ricostruito il suo corpo. Con un debole grido, la ragazza fuggì. Mentre correva le parve di udire il suo nome gridato da qualcuno in tono allarmato, ma assai più alti e vicini erano il rumore dei sassi sbriciolati dagli zoccoli e il sibilo di vapore bollente del respiro del mostro. Il terreno su cui lei avanzava era pieno di crepacci, da cui stavano strisciando fuori, come vermi da una carogna, gli abitatori del sottosuolo disturbati dal terremoto. Il sangue le pulsava nelle orecchie con la forza di un tamburo; dietro la nuca aveva un calore ardente, come se il respiro di Nuckelavee le stesse ustionando la carne. Non osava voltarsi neppure un attimo a guardare quanto fosse vicino, per paura che rallentare le sarebbe stato fatale, ma nei recessi della sua mente traeva un po' di coraggio proprio da quel rumore, perché gli zoccoli del mostro scivolavano sul terreno duro e s'incastravano nelle spaccature. Quello era l'unico elemento che gli impediva di raggiungerla, come invece sarebbe accaduto in una zona più aperta. Tuttavia un brivido le faceva contrarre la schiena nell'attesa del colpo che si sarebbe abbattuto su di lei, schiacciandola contro le acuminate sporgenze granitiche. Nel fuggire si guardava disperatamente intorno, invocando soccorso. Tra le alte rupi poteva vedere un cielo azzurro pallido attraversato da strisce di nuvole che sembravano disegnate col gesso. Davanti a lei apparve una roccia grigia a forma di un'enorme mano. Inclinato verso di essa vi era uno snello obelisco dai toni rosati. Una roccia orizzontale poggiava sopra i due monoliti, simile all'architrave di una porta. Sulla sinistra, una vasta buca ospitava una polla scura d'acqua sorgiva. Aggredita dalle ombre che si allungavano, e non più bizzarra di altre
formazioni rocciose, anche quella si stava confondendo nel grigiore uniforme del tramonto, ormai più antica delle vite di molti Re: la Porta dalla quale lei era uscita. E tuttavia non sembrava esattamente nelle stesse condizioni in cui l'aveva lasciata. Su un lato, dove una sottile fessura rivelava che il battente era socchiuso, una rete di spaccature incrinava la roccia. Quello era il rifugio che avrebbe potuto tenere lontano il suo mostruoso inseguitore. Le dita di Ashalind scivolarono nella quasi invisibile fessura verticale. Al suo tocco, il massiccio portale si spostò di lato con la leggerezza di una piuma; all'interno si scorgeva un tunnel appena illuminato da una luce diafana. Polvere e sassi caddero al suolo dalle spaccature della roccia quando il terreno tremò, mentre a breve distanza il tonfo rabbioso degli zoccoli di Nuckelavee si faceva più vicino. Ma non fu quello a farla esitare; aveva l'inquietante sensazione di essersi dimenticata qualcosa di fondamentale importanza. In quei brevi momenti dinanzi alla soglia, le continue vibrazioni del suolo fecero crollare qualcosa. Una grandine di polvere e ghiaia si staccò dall'alto. Privato di quel punto d'appoggio, un macigno che era stato in precario equilibrio s'inclinò e precipitò. Il contraccolpo di quell'impatto fece aprire altre fessure, e un grosso topo balzò fuori da una di esse e corse sopra i piedi di Ashalind. La paura e la ripugnanza la riscossero dall'esitazione. Con un grido di rabbia, scivolò attraverso la Porta, scalciò via i tre capelli e il coltello rotto che l'avevano tenuta aperta, e la vide chiudersi in perfetto silenzio, fondendosi nella pietra. Ashalind vacillò contro la parete e vi si appoggiò per riprendere fiato. Una radiazione ambigua e strana illuminava un tunnel distorto, con una porta a ciascuna delle estremità. Il soffitto presentava una lunga spaccatura; in certi punti s'incurvava in basso come una borsa piena di acqua. Le pareti, di materiale indefinibile nel tratto centrale, diventavano sempre più concrete e grigie dal lato della porta di granito. Dall'altro, dove un battente argenteo era incernierato su cardini d'oro, i muri si tramutavano in alberi fronzuti i cui rami intrecciati formavano il soffitto. In tali particolari, la Via tra il Reame ed Erith non era affatto cambiata. Sulla pavimentazione liscia Ashalind vide il coltello dal manico di corno che suo padre le aveva dato prima della separazione. In quella luce incerta era impossibile scorgere i tre capelli che avevano tenuto aperta la Porta
durante le peregrinazioni della ragazza. «Porta... oh, Porta!» sussurrò Ashalind, tra i due Reami. Nella sua mente echeggiava una triste e dolce canzone. Pian piano ritrovò la calma, e a mente fredda ricordò la cosa che le aveva dato da pensare, poco prima di mettere piede oltre la Porta. Non temere nulla dai wight, mia amata, né da creature mortali, le aveva detto Angavar. Quando io sono con te, sei al sicuro da ogni male. Quando non ci sarò, ti lascerò alle cure di chi saprà proteggerti, oppure in qualche posto sicuro. Una volta Sianadh le aveva dato un consiglio: Metti da parte la paura, perché solo allora vedrai chiaramente ciò che devi fare. Le sue parole si erano rivelate vere. Il terrore aveva lavorato contro di lei, privandola della capacità di pensare in modo razionale. Né i duergar, né i Corvi di Guerra avevano potuto aggredire la promessa sposa del Supremo Re dei faêran, e non l'avrebbe potuto fare neppure Nuckelavee, se lei avesse confidato in quelle parole e mantenuto la sua posizione. In quanto al piccolo roditore, era soltanto una creatura lorraly in cerca di un rifugio. Non appena ebbe raggiunto tali conclusioni, altri pensieri la fecero accigliare. Da quanto tempo si trovava lì? Cinque minuti? Forse dieci? Mordendosi un labbro si affrettò a tornare alla Porta e la toccò, per farla aprire. All'esterno, il territorio cosparso di rupi e di macigni era immerso nel buio della notte. Sembrava deserto, immobile, privo di ogni essere vivente. Le stelle bianche erano congelate in un cielo così nero che avrebbe potuto risucchiarle l'anima. La loro luce scivolava sui fianchi dei monoliti, lasciando enigmatiche ombre nei crepacci e nelle profonde spaccature. Una sconosciuta quantità di tempo era trascorsa. Lei era sola. Un amaro senso di dolore e di perdita strinse il cuore di Ashalind in una morsa gelida. Il suo mondo era stato capovolto dalla paura che le aveva tolto il raziocinio, e lei imprecò contro se stessa. Il suo gemito si perse in quella desolazione di pietra spoglia, acqua fredda e alberi contorti, ma non poteva chiamare ciò che se n'era andato per sempre. Non poteva far tornare indietro il tempo. 12 BITTERBYNDE, PARTE SECONDA LA SPOSA DEL RE-IMPERATORE
Io vi parlerò del suo aspetto e dei suoi modi, della sua voce melodiosa, del colore dei suoi capelli, dei suoi occhi limpidi come i giorni d'estate. Io vi parlerò di questo e altro, ma lei non c'è più. Antica canzone talith Nella fredda notte di una terra dove pochi alberi contorti si abbarbicavano alla roccia, il vento ululava tra i canyon e sibilava nei crepacci polverosi, infuriava tra le colline dirupate e cantava nelle valli irte di rupi. Un temporale di passaggio lavò le chiome degli arkenfir, lasciando ogni ago ornato di una goccia d'acqua simile a nebbia condensata. La pioggia cadde sulla superficie delle gelide e oscure polle, gonfiò i torrenti che scesero dalle alture come nastri di platino e andò a radunarsi nelle zone più basse, facendo nascere un lago. Non lontano dallo specchio d'acqua sorgeva una rupe grigia simile a una gigantesca mano. Uno snello obelisco dal colore rosato s'inclinava verso di essa, ed entrambi i monoliti erano sovrastati da un lastrone che ricordava l'architrave di una porta. Non più rumorosa del sospiro del vento, una figura uscì dall'ombra delle rocce. I suoi lunghi capelli lisci erano annodati in trecce morbide e lucenti. I suoi occhi erano due fiori verdi imperlati di rugiada. «Che cosa ho fatto?» Si fermò, depose accuratamente una ciocca di capelli al suolo, nell'ombra. Poi appoggiò una mano su un lastrone di roccia ed esso scivolò di lato, senza però chiudere del tutto la soglia. Quindi la ragazza s'incamminò sulla riva del lago, nella notte. Frusciandole intorno, il vento raccolse di passaggio le sue ultime parole e le portò via con sé. «Devo trovarlo.» Ma non era sola come credeva. Proprio in quel momento e in quel luogo, il destino aveva voluto offrire un insperato colpo di fortuna a un uomo che la fortuna aveva dimenticato da un pezzo. Era un vagabondo che viveva alla giornata, sempre sul confine tra la disperazione e la pazzia, tormentato da molte paure. Guardato con sospetto dallo strato più basso della popolazione, viveva lontano dal con-
sorzio umano; i soldati del Re avevano l'ordine di arrestarlo a vista. Un tempo aveva abitato alla Corte del Re-Imperatore, occupando una carica che gli conferiva molto potere; ormai vestiva di stracci e mendicava un tozzo di pane nei posti più sperduti di Eldaraigne. Qualche tempo addietro, dei villici ai quali aveva rubato un paio di galline l'avevano inseguito per molti giorni verso nord, costringendolo a vagare in quella terra desolata dove era stato aggredito da una banda di spriggan. Aveva dovuto ricorrere a mille espedienti per non farsi raggiungere, e temeva che gli spriggan fossero nei dintorni, ferocemente decisi a seguire la preda. Ma quella notte la sua buona stella era tornata a fargli visita, perché l'uomo si trovava nel posto giusto e nel momento giusto per realizzare i suoi sogni di vendetta. Ciò che il vagabondo stava osservando era una ragazza bionda, il cui comportamento misterioso non era meno straordinario del fatto che si trovasse lì, del tutto sola, in quella desolazione. Alla luce delle stelle l'uomo la spiò di nascosto; quando le sue cognizioni gli permisero di capire cosa stesse facendo, l'eccitazione gli mozzò il fiato. Ma si controllò e prese ben nota di ogni sua mossa. Poi la segui con lo sguardo mentre si allontanava, scomparendo nel buio. Non troppo lontano da lì, le pietre - oppure le ombre tra le pietre - avevano preso vita. Gli spriggan scivolavano verso la loro preda con una serie di movimenti fluidi, saltellando e correndo. Ogni tanto si fermavano e una testa si sollevava cauta, come per annusare l'aria. L'uomo sì diresse in fretta verso il punto dove aveva visto la ragazza bionda. Una volta giunto lì, sì accorse che le cose stavano proprio come gli era parso: per non rischiare di sbagliare posto al suo ritorno, la ragazza aveva usato qualche espediente per lasciare la Porta socchiusa, e le sue mani non riuscirono ad aprirla di più... ma la fessura era sufficiente perché un uomo molto magro riuscisse a entrare, girandosi di traverso. Fu ciò che lui fece. Mentre l'orlo sdrucito del suo mantello spariva, gli spriggan sbucarono dal buio, guardandosi intorno con fare perplesso. Per un poco annusarono il terreno nel punto dove la pista dell'uomo terminava. Poi anch'essi svanirono, dissolvendosi nell'oscurità. L'editto del Principe Corvo aveva sbarrato il passaggio da quella Porta ai faêran, agli eldritch wight seelie e unseelie, alle creature prive di parola e a tutti i mortali. Ma Morragan aveva perso la sua forma originale, e con essa i suoi poteri. La maggior parte degli incantesimi da lui imposti erano di conseguenza indeboliti, o annullati.
Ashalind stava seguendo la riva del lago apparso nel lasso di tempo da lei trascorso all'interno della Porta... un lago la cui formazione era forse una conseguenza delle scosse di terremoto che avevano sconvolto la zona. Quanto tempo poteva esser occorso perché quella depressione si riempisse di acqua piovana? E perché sulle sue rive la roccia appariva fusa e annerita, come sulle pendici di un vulcano? Non ne aveva idea, e indagare in merito non le interessava. Un solo pensiero le occupava la mente: ritrovare Angavar. Dietro un macigno alto come un armadio scorse una vecchia tenda ridotta a un cencio e le ceneri di un fuoco da campo. Resti inaspettati e un po' grotteschi che non potevano offrirle niente, tantomeno indizi su dove si trovasse il suo amore, così la ragazza passò oltre. Per tre giorni e tre notti camminò verso occidente, bevendo l'acqua dei torrenti ma senza trovare niente da mangiare. Quella zona era un vero deserto di pietra. La superficie delle rocce spaccate di recente era molto pulita; i muschi e i licheni non avevano avuto il tempo di metterci radici, e per quell'indizio lei ringraziò il cielo, piangendo di gioia: forse non erano trascorsi troppi mesi dalla sera del terremoto... Lentamente proseguì il cammino, una lega dopo l'altra, finché i piedi non cominciarono a sanguinarle ed ebbe le ginocchia coperte di escoriazioni per le continue cadute. Non incontrò nessun essere vivente, né un uccello, né un insetto, neppure un solitario wight. Ogni tanto si rannicchiava in un anfratto per dormire, e veniva visitata da strani sogni di una bellezza quasi dolorosa, come le immagini della rade faêran che un tempo aveva seguito fino al Colle di Hob. Al tramonto del terzo giorno vide, sulla cima di un'altura lontana, una torre assai diversa da quelle create dall'erosione degli elementi. Sembrava opera dell'uomo, anche se la sua altezza era inferiore a quella delle torri d'osservazione costruite in Erith, e non sembrava neppure una delle Torri d'Interscambio dove approdavano le Navi del Vento. Se era stata edificata da esseri umani, forse là avrebbe trovato qualcuno, pensò. Quella vista le diede nuova energia, e si affrettò su per il pendio. Tuttavia quando finalmente giunse all'ombra della torre non incontrò nessuno, né mortale né immortale. Solo silenzio e immobilità. Non vi era segno di attività umane recenti, a parte i resti di calcina lasciati sullo spiazzo circostante. La base della torre era costituita da quattro arcate, una per lato, aperte a
tutti i venti ma chiuse ciascuna da un'inferriata. Sbirciando attraverso le sbarre, nella fitta penombra del crepuscolo, Ashalind vide una forma chiara distesa sopra una piattaforma di pietra. Giaceva del tutto immobile, come senza vita. Quando una nuvola si scostò dal sole, lasciando entrare i raggi orizzontali, lei vide che si trattava di una statua: una figura femminile dormiente, in posizione supina e con le braccia incrociate sul petto. Delle rose di marmo bianco erano posate accanto alla testa e ai piedi, come cristalli di ghiaccio. Ciò le fece intuire che rappresentava una persona morta; dunque la torre era un monumento, un mausoleo. Ashalind si appoggiò all'inferriata, e il suo peso la fece aprire. Sorpresa, barcollò nella camera della statua. L'inferriata emise un breve squittio di cardini rugginosi e poi tacque. In quella statua, che rappresentava una donna giovane, qualcosa attirò il suo sguardo. Si avvicinò al catafalco e si fermò a osservare quel volto tranquillo. Per qualche istante rimase lì, prima che il significato di ciò che vedeva penetrasse nella sua mente stanca. Poi si afflosciò sul pavimento accanto alla piattaforma. Qualche ora dopo, quando le tenebre avevano avvolto da un pezzo Arcdur in un manto di velluto, Ashalind aprì gli occhi, ma rimase distesa lì accanto alla statua di marmo che rappresentava una perfetta immagine di lei stessa. La notte trascorse. Nelle prime ore del mattino il silenzio fu rotto da un rumore di zoccoli, tintinnanti campanelle da briglie e voci mascoline. Su per la collina stavano arrivando due cavalieri, che si tiravano dietro un terzo cavallo carico di fagotti. Gli uomini smontarono ed entrarono nel mausoleo. Subito dopo indietreggiarono rapidamente e, quando furono fuori, corsero verso i cavalli, ansimando. Soltanto prima di rimontare in sella si fermarono, e per un po' non fecero che guardarsi in faccia, pallidi per lo spavento. Poi sfoderarono le spade e con cautela si riavvicinarono alla torre. Mentre oltrepassavano l'inferriata, uno di essi teneva proteso in avanti un tilhal, oltre alla spada, e l'altro mormorava con fervore le parole di uno scongiuro. «Non c'è dubbio, è lei... è la Baronessa!» esclamarono con un fil di voce. Ashalind si alzò a sedere e chiese del cibo. I due uomini si affrettarono ad accontentarla, non appena ebbero la certezza di non trovarsi davanti a un'illusione. Ma non smisero di guardarla con timore. «Come siete arrivata qui, signora?» domandarono.
«Sono venuta attraverso una Porta», rispose lei, non meno perplessa di loro. La sconvolgente scoperta della sua immagine scolpita su un sarcofago, un'opera funebre dedicata alla memoria di una persona morta, l'aveva stordita al punto che faticava a rendersi conto della realtà. Quella notte doveva aver pianto, perché si sentiva gli occhi gonfi e aveva sulla lingua il sapore salato delle lacrime. «Quale porta? Questa inferriata?» «No. Una Porta faêran.» I due si scambiarono uno sguardo significativo. «Sua Maestà deve essere informato», decise uno di loro. «Manda i piccioni, Robin.» Robin andò a prendere una gabbia appesa al carico del cavallo da soma. Scrisse faticosamente un messaggio tre volte, su altrettanti pezzi di pergamena. Poi legò i messaggi alle zampe dei piccioni, che furono subito liberati. «Dov'è Angavar?» chiese lei. Le facce preoccupate dei due uomini si fecero inespressive, come porte chiuse. «Signora Baronessa, noi vi porteremo da Sua Maestà Imperiale Re Edward, ma per tutto il resto noi non diremo niente.» «Non capisco!» «Pensiamo che non sia saggio, signora. La nostra conoscenza è limitata; senza volerlo potremmo darvi delle informazioni sbagliate. Sarà meglio se le risposte alle vostre domande verranno dalle labbra di Sua Maestà. Noi siamo soltanto servi, mandati ad accudire la vostra... la tomba della Baronessa.» «Ditemi almeno una cosa», li pregò lei. «Per quanto tempo sono rimasta assente?» «Sono trascorsi sette anni dall'ultima volta che la signora Baronessa è stata vista», le riferirono. Poi non vollero dirle altro, sebbene lei li supplicasse pietosamente. I due uomini diedero ad Ashalind un mantello fornito di un grosso cappuccio e la fecero salire sul migliore dei tre cavalli; quindi la condussero lungo quel territorio senza piste, fino alla costa, dove era ancorata una Nave d'Acqua. Mentre attendevano che una scialuppa fosse mandata a terra per prelevarli, uno di loro le raccomandò di tirarsi il cappuccio sulla faccia e non farsi riconoscere da nessuno. «Se vogliamo che arriviate a Caermelor, la vostra presenza dovrà essere
nota soltanto a noi. Ci sono troppe persone di dubbia fedeltà che sarebbero interessate a una notizia del genere. Non sappiamo di chi possiamo fidarci, tra l'equipaggio, perciò non ci fideremo di nessuno. Tenete nascosto il viso.» Lei non volle discutere. D'altra parte, era una precauzione che le riusciva familiare. Col tempo buono, benché la brezza orientale la costringesse a manovre continue, la nave partì per il sud. Non era salpata da più di mezza giornata, tenendosi a poca distanza dalla costa di Arcdur, quando accadde qualcosa che fece rabbrividire i membri dell'equipaggio e li indusse a guardare con preoccupazione la passeggera incappucciata. Il mare era calmo e il cielo sereno quando all'improvviso tutto intorno si levò un rumore simile al sospiro di molte voci, o al fruscio di migliaia di tende di seta. Subito dopo vi fu una grande raffica di vento, come se un immenso uccello avesse sfiorato la nave. La luce del sole assunse una sfumatura ambrata, che tinse di rosa il cielo da un orizzonte all'altro; le curve delle onde diventarono petali di camelie. La brezza portò un profumo di fiori selvatici, così dolce ed evocativo da dare una stretta al cuore, e molti di quelli che lo respirarono caddero in ginocchio sul ponte, piangendo. Poi la nave superò la cresta di un'onda e il misterioso vento passò oltre e si allontanò sul mare, portando con sé la strana luce. Sulla nave rimasero soltanto il cigolio del sartiame e lo sciacquio delle onde contro lo scafo. Fu come se una lampada si fosse spenta. Dopo molte ore, anche il profumo di fiori svanì. Nessuno riuscì a spiegare lo strano fenomeno, ma tutti furono certi di una cosa: il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Tra gli uomini dell'equipaggio aleggiavano nervosismo e malumore, e i loro sospetti si accentrarono sulla misteriosa passeggera; alcuni borbottarono che sarebbe stato meglio gettarla in mare. Per fortuna di Ashalind, a bordo vi erano anche alcuni uomini del Re e cavalieri Dainnan. Questi ultimi tennero sotto controllo gli umori della ciurma, e la ragazza fu lasciata in pace. La nave proseguì il viaggio senza altri eventi degni di nota e, giunta al porto di Caermelor, fu accolta da un drappello di guardie a cavallo. La ragazza incappucciata fu trasferita a bordo di una carrozza, con ogni precauzione affinché non mostrasse la faccia. La scorta si stringeva intorno al
veicolo, ma lei sbirciò fuori scostando le tendine di seta. In quei sette anni la città era cambiata. Non vi erano più alberi da ormeggio e mancava anche la grande Torre d'Interscambio dei Cavalieri della Tempesta. Nessuna Nave del Vento fluttuava all'ancora. «Cosa significa questo?» si preoccupò Ashalind. Ma gli uomini che la accompagnavano non le diedero risposta. «Non fatevi vedere, mia signora», la ammonì Robin, nervosamente, richiudendo le tendine. La scorta condusse Ashalind alla presenza di Edward, nella terrazza coperta del Palazzo Reale. I suoi camerieri, i musici e gli altri cortigiani erano stati mandati via. Nel vasto locale vi era soltanto un paggio mezzo addormentato, seduto in un angolo in attesa degli ordini del padrone. Il giovane Principe che lei ricordava era diventato un uomo adulto, di ventitré armi. Il suo sguardo era serio e riflessivo, il suo atteggiamento maturo. Non appena furono lasciati soli, Ashalind gettò indietro il cappuccio. Per un poco si guardarono muti, come se nessuno dei due sapesse cosa dire. Poi Edward allungò una mano. Le sue dita tremavano. «Vieni a sederti con me», mormorò il Re. Andarono a sedersi davanti a un'alta finestra, fianco a fianco. Fuori il cielo si era scurito molto, e prometteva pioggia. Stava scendendo la sera. Un gufo passò via su ali silenziose come il pensiero. «Sai per quanto tempo ti ho aspettato?» domandò Edward. Lei annuì. La paura minacciava di sommergerla, trattenuta solo dalla diga della sua forza d'animo. «Sette anni, credo. E Angavar? Cosa ne è stato di lui?» «Se n'è andato.» «Andato via? Non è possibile!» «Sì. Angavar e i faêran se ne sono andati. Non li vedremo più.» «Non posso crederci!» gridò Ashalind, disperata. «Come può essere?» Lui non smetteva di fissarla. Nel suo sguardo brillava una luce di stupore, come se la vedesse per la prima volta. Le prese una mano, con dolcezza. «Non aver fretta, Ash», le disse. «Tutto ti sarà chiaro, a suo tempo. Per le Potenze, tu sei viva... e io ero convinto che non ti avrei rivisto mai più. Com'è successo questo miracolo?» «Ero con Angavar. È arrivato il Corvo, e lui lo ha inseguito. Io ho trovato la Geata Poeg na Déanainn. La paura mi ha spinto a entrare, e ho chiuso la Porta dietro di me. Il tempo scorre più rapido in quelle regioni, e quando
sono uscita, pochi momenti dopo, erano trascorsi sette anni. Ma ora ti prego, dimmi di Angavar. Non sopporto di restare ancora senza sue notizie.» Edward le raccontò quello che era successo. Sette anni prima, in Arcdur, gli esseri unseelie che avevano aggredito i cavalieri di Nido dell'Aquila erano stati sconfitti, e il Corvo era fuggito. Col senno di poi si era compreso che la presenza di Morragan in Arcdur, anche in forma di corvo, aveva attirato là i capi degli unseelie, e con essi erano arrivati anche wight perniciosi come i duergar e Nuckelavee. La sfortuna aveva voluto che Ashalind restasse separata dai compagni. Quando lei era scomparsa, non aveva lasciato traccia di sé, e nella zona non era stata trovata nessuna Porta. Nel sentire ciò, la ragazza assentì, accigliata, ricordando che, una volta ermeticamente chiusa, una Porta cessava di esistere, all'esterno. Poiché neppure i faêran più potenti erano riusciti a rilevare la sua presenza nel sottosuolo, nell'acqua e nell'aria, si era creduto che Ashalind fosse morta, e il suo corpo divorato. Né i faêran né i wight avevano potuto trovare tracce dei suoi resti o dei suoi abiti. La sua scomparsa aveva provocato una tale costernazione che nessuno aveva pensato alla possibilità che avesse trovato la Porta e vi fosse entrata. In quanto alla Porta, non era mai stata individuata. I membri della spedizione avevano esplorato ogni angolo di quel territorio, alla ricerca di una grande roccia a forma di mano e di un sottile obelisco inclinato verso di essa, di colore rosa, entrambi sormontati da un lastrone simile a un architrave. Ma cercare una cosa sentita descrivere a parole era molto diverso che cercare una cosa vista coi propri occhi, e in Arcdur, terra gremita di monoliti di ogni genere, le formazioni rispondenti a quelle caratteristiche non erano uniche. Tra migliaia di milioni di rocce e macigni di tutte le forme e di tutti i colori, era come cercare una goccia d'acqua nell'oceano. Nella zona dove i cavalieri avevano visto Ashalind per l'ultima volta era stato trovato Nuckelavee, e Angavar, già disperato dopo giorni di ricerche inutili, aveva pensato che quel maligno wight avesse ucciso e divorato la sua amata. Nella sua rabbia aveva schiacciato Nuckelavee con tale violenza che nel punto dove si trovava l'unseelie si era formato un largo cratere. Negli anni seguenti quella depressione si era riempita di acqua diventando un lago, battezzato Lago della Vendetta del Re, una località evitata dagli animali e dagli uccelli. Fin da allora era nata la leggenda che Nuckelavee vagasse ancora nelle sue profondità. Sconvolto dal dolore e dall'amarezza per aver perso sia il Reame Fatato
sia la donna amata, Angavar aveva maledetto il suo esilio in Erith. In un accesso di rabbia aveva deciso di ritirare anche i doni un tempo fatti ai mortali, annullando il potere del sildron, dell'andalum e del talium. In ogni angolo dell'Impero, le Navi del Vento si erano abbassate fino al suolo e non avevano più potuto risollevarsi. Privi dei loro magici ferri di cavallo, gli eotauri non erano più stati in grado d'involarsi nel cielo, e i Dodici Casati dei Cavalieri della Tempesta erano andati in rovina. Il disgusto del Re faêran era così profondo che aveva fatto ritorno a Nido dell'Aquila ed era rientrato nel Sonno Pendur. «Io non amo più questa terra. Non voglio più svegliarmi in Erith», aveva affermato. Con lui erano andati anche Ercildoune, Roxburgh e la famiglia di quest'ultimo, con l'eccezione di sua figlia Rosamonde. Edward aveva voluto far erigere un monumento in Arcdur, e ogni tanto lo faceva ispezionare, per mantenere pulito il marmo e strappare via le erbacce e i rampicanti che avrebbero potuto invadere la torre. «E ora tu sei tornata», disse il giovane Re, al termine del racconto. «Ho deciso che farò abbattere quel memoriale. Voglio cancellare questi sette anni dalla mia memoria, e ritrovare la serenità.» Qualcosa stava battendo contro i vetri della finestra, dall'esterno. Ashalind non fece caso all'ultima frase. «Ma ora non è più necessario che Angavar dorma per sempre. La Porta è ancora là, e io l'ho lasciata aperta... Dov'è il Coirnéad? Dobbiamo suonarlo subito, per svegliare i dormienti. Nulla è ancora perduto! Il Reame può essere raggiunto, e io andrò là con Angavar, per ritrovare la mia famiglia!» Edward la guardò a lungo. «Ma tu non mi ami?» mormorò, alla fine. Stupita, lei balbettò: «Sai che provo molto affetto per te. Tu mi sei caro come un fratello». La rapida ombra di due ali chiare attraversò la stanza. Inaspettatamente, Edward si piegò in avanti e baciò Ashalind sulla bocca. Quando il giovane si ritrasse, scostando le labbra dalle sue, lei rimase immobile e inespressiva come una bambola. Edward sorrise. Lei non mostrò nessuna reazione. «Chi sono io?» domandò lui. Lei cercò la risposta, perplessa, poi scosse il capo. Il sorriso del giovane non si smorzò. «Sono Edward», disse, scandendo le parole come per ricordarle un fatto ovvio. «E tu sei Ashalind, la mia amata. La mia promessa sposa.»
Fuori dei vetri della finestra, un gufo bianco volò via. «Sono la tua promessa sposa?» chiese lei. I suoi occhi spalancati erano ingenui e vuoti come quelli di una neonata. «Oh, sì.» Per sette anni le genti di Erith avevano cercato il modo di adattarsi alle ristrettezze, perché il commercio e la produzione agricola avevano avuto un duro colpo dal collasso delle vie di comunicazione aeree. La mancanza del sildron aveva arrecato danni a tutti: nobili e contadini, mercanti e ladri, fornai e fabbricanti di armi, Carlin e Maghi, soldati e massaie, pescatori e minatori. Era stato come se il carro su cui viaggiavano quelle nazioni avesse perduto le ruote, lasciando a piedi tutti quanti. Dopo la costosa Guerra Namarrana, e i sette anni di miseria e sacrifici che l'avevano seguita, il popolo era desideroso di avere qualche buona notizia. Le campane di Caermelor suonarono a stormo. Il Re-Imperatore stava finalmente per prendere moglie. Tuttavia la sposa non era quella che tutti si aspettavano... la bella Dama Rosamonde di Roxburgh. Edward aveva scelto Ashalind-Rohain Tarrenys delle Isole Sorrows, Baronessa di Arcune. Nelle Terre Conosciute non si parlava d'altro che del ritorno di Ashalind. Famosa per la sua bellezza, la ragazza era sopravvissuta per sette anni in una terra selvaggia. Era un peccato che l'uomo con cui era stata fidanzata il cui nome doveva essere pronunciato sottovoce - fosse misteriosamente scomparso. Ed era ancor più un peccato che la povera signora, dopo aver sopportato una prova così dura in quella terra desertica, avesse perduto la memoria. Era così delicata che la si doveva tenere in isolamento, sottoposta alle cure dei migliori Maghi e Dyn-Cynnil del Re. Finché non avesse recuperato le forze, non avrebbe potuto ricevere visite né mettere piede fuori del palazzo di Caermelor. Ma la sua bellezza non ne aveva sofferto, così si diceva, e il giovane Re-Imperatore era molto innamorato di lei, con gran dispiacere di Dama Rosamonde, la quale, come tutti sapevano, lo amava fin dal tempo della loro infanzia. Una sera, sul tardi, Ashalind era seduta in biblioteca con due dame di compagnia. Non era raro trovarla tra libri e rotoli di pergamena, alla ricerca... di cosa, non lo sapeva neppure lei. Qualche ora addietro le dame di compagnia si erano addormentate. An-
che Ashalind era ormai sul punto di appisolarsi, quando colse un movimento con la coda dell'occhio e si voltò verso uno dei grandi arazzi appesi al muro. Ciò che vide fu una faccia dall'apparenza giovane e nello stesso tempo vecchia, come quella di un bambino prematuramente diventato adulto e saggio. Ashalind si alzò dalla sedia. Lisciò le pesanti pieghe dell'abito di velluto rosso e attraversò la sala, per investigare. Un giovane stava sollevando un angolo dell'arazzo; aveva una spalla più bassa dell'altra. «Vieni con me», le disse con aria misteriosa, posandosi un dito sulle labbra. Divertita, lei domandò: «Chi sei? Cosa vuoi? Come sei arrivato qui?» Lui scosse il capo. «Segui Pod, e lo saprai.» Non aveva brutti ricordi a renderla sospettosa, così la ragazza, che conosceva soltanto persone gentili e alla peggio un po' noiose, non aveva paura di nulla. Addentrandosi nella penombra oltre l'arazzo, vide il giovane chinarsi in un'apertura buia simile a una stretta porta nel muro di pietra. Gli tenne dietro lungo polverosi cunicoli nascosti dentro le mura del palazzo, e su per strette rampe di scale, alla luce di una candela. La guida non aveva esitazioni e procedeva, zoppicando, assai sicura del fatto suo, come se quegli strani posti segreti e silenziosi gli fossero perfettamente conosciuti. Dopo un po' si fermò e premette sulla parete. Un pannello girò sui cardini aprendosi su una stanzetta priva di mobili, in cui l'unica luce era data da una torcia fissata in una nicchia. Ashalind lo seguì lì dentro. L'unica altra apertura sembrava essere una feritoia, da cui si scorgeva una fetta di cielo nero cosparso di punti d'argento. Dalla feritoia entrava una corrente d'aria fredda come il ghiaccio, il cui odore pulito faceva pensare a un torrente di montagna. Due persone li attendevano in quella stanza: una ragazza fehor, vestita in maniera elegante, e un piccolo individuo coi capelli riccioluti, il cui mento era ornato da una barbetta appuntita. Nel vedere Ashalind, la ragazza corse verso di lei, ma subito si fermò. Le sue braccia ricaddero, e s'inchinò goffamente. Ashalind sorrise. «Una scena interessante. A che gioco state giocando? Volete dirmi cosa significa? Tu chi sei?» La ragazza s'inchinò ancora e, quando parlò, la sua voce era molto tesa. «Sono Caitri Lendoon, mia signora. Ero vostra amica, una volta.» «Tu dici? Ma Edward non mi ha mai parlato di te...» «Forse lui non vi aiuta a recuperare la memoria, mia signora.» Ashalind corrugò le sopracciglia. «Credo non abbia ancora avuto abba-
stanza tempo per aiutarmi a ricordare tutto. È così indaffarato, e ci sono tante cose di cui parlare.» Fece una pausa e annusò l'aria. «Com'è profumata, la brezza che entra dalla finestra.» «Oggi sono stata sui campi», si affrettò a dire Caitri. «Sono ricoperti di margherite gialle, e le farfalle volano su di essi a sciami, come se il vento avesse strappato nuvole di petali a un frutteto. A occidente il sole si stava abbassando in un'esplosione di colori rosa e oro, mentre a oriente, oltre le cime verdi dei pini, il cielo si riempiva di nuvoloni neri e blu. Poi le ombre si sono allungate sull'erba e sui campi dorati, e un fiume di nebbia grigia è scivolato fuori del bosco.» «Com'è attraente il quadro che dipingi. È da molto tempo che non esco sui prati», mormorò Ashalind, guardando verso la feritoia nella parete. «Com'è successo che avete perduto la memoria, mia signora?» «Mi ero smarrita in una zona desertica. Sono caduta e ho battuto la testa su un sasso.» «No, no! Siete entrata in un portale incantato per la seconda volta e, come già vi era successo, dopo esserne uscita siete stata baciata da qualcuno nato in Erith!» «Le tue parole non hanno senso. Ma aspetta... cosa ti proponi di ottenere? Sono curiosa di conoscere i tuoi scopi. Basta con le domande! Chi sono questi individui in tua compagnia?» Caitri indicò quello che aveva fatto da guida. «Lui è Pod, mia signora. E questo è Tully.» L'ometto dalla barba caprina s'inchinò appena. La parte inferiore del suo corpo era in ombra. «Vorrei raccontarvi una storia», disse Caitri. «Fai pure, mia cara. Ma sii breve, ti prego.» Ashalind sollevò l'orlo della gonna per scostarlo dalla povere che copriva il pavimento. «Qui fa freddo. Più che una stanza sembra la dispensa di una cucina.» «È un posto segreto, mia signora, e il modo in cui i mortali possono trovarlo è noto soltanto a Pod. Vi abbiamo portato qui perché ci sono molte cose che dovete apprendere prima di sposare Edward. Potreste essere stata ingannata.» Ashalind si accigliò ancora. «Non mi fido di voi.» Si voltò per uscire, ma Pod le sbarrò il passo con la sua figura magra. «Lasciami passare, egregio signore», comandò freddamente Ashalind. «Non voglio sentire altro. Non capisco perché io ti abbia seguito fin qui.» «Mi hai seguito», replicò ottusamente lui, e strinse i denti.
«Questa non è una risposta. Lasciami passare, ti ho detto.» «Aspettate. Vi prego, mia signora», implorò Caitri. «Forse non ci sarà un'altra possibilità. Sarò breve.» «E va bene.» Vedendo che non c'era modo di far spostare quell'individuo testardo di nome Pod, Ashalind si rassegnò. Caitri cominciò a raccontare: «Il Casato dei D'Armancourt è antico e onesto, e gode di ottima reputazione. Io sono certa che non vi sono state dette bugie, tuttavia possono avervi dato false impressioni omettendo certe notizie. Un tempo voi eravate promessa sposa a un'altra persona». A tali parole, Ashalind trattenne il fiato. «Quest'altra persona vi credette morta», continuò Caitri, «quando voi vi smarriste in quella terra desertica. Nel suo dolore per avervi perso, lui e il suo seguito si ritirarono sotto una collina verde, e caddero in un profondo sonno incantato che chiamano Sonno Pendur. Essi pensavano che non sarebbero stati svegliati in Erith, e infatti non c'era modo di svegliarli, perché il Coirnéad, il corno che poteva riuscirci, fu rotto quando il sildron restò privato del suo potere, e non sarà suonato mai più.» «Un sonno incantato? E chi sarebbe costui che tu dici era il mio promesso sposo?» «Era il Supremo Re dei faêran.» Ashalind rise, incredula. «Ti prendi gioco di me!» Caitri la guardò dritta negli occhi. «No, mia signora. Era il Supremo Re di Faêrie, colui che vi amava. Siete in grado di dirmi con sincerità che perfino ora, perfino sotto il bitterbynde della Porta del Bacio dell'Oblio, non sentite nulla per lui? Neppure un lieve bussare alla finestra della memoria? Il suo potere era più grande di ogni altra forza, e l'amore tra voi era una forza grande come quella che unisce la luna alla marea.» «Non parlare di questo», replicò Ashalind. «Finisci il tuo racconto, in modo che io possa lasciare questa malinconica cella.» «Come volete», assentì Caitri, delusa. «Dovete sapere che non troppo tempo fa una strana cosa accadde. Fu poco prima che vostra signoria fosse riportata in città da Arcdur... in effetti, dev'essere accaduta mentre voi stavate viaggiando via mare. Senza dubbio l'avete sentita, e forse anche altri sulla vostra nave. Tutto il mondo l'ha sentita. È stata impressionante, acuta come una lama di cristallo, e di una bellezza che faceva male. Si trattava dei faêran. «Inaspettatamente, tutte le Porte del Reame erano state riaperte, e attraverso di esse i Fatati dilagarono in Erith come un arcobaleno. Essi andaro-
no a Nido dell'Aquila, dove il loro Re dormiva con gli altri cavalieri, e lo portarono via, ancora addormentato. Nessun uomo lo vide, ma i wight riferirono che la sua gente lo portò in barca attraverso il Lago Amarach, nella nebbia che sempre stagna sulla superficie dell'acqua. Al centro del lago sorge un'isola, e una volta sull'isola essi passarono attraverso una Porta aperta, che li condusse nel Reame Fatato. Non furono mai più visti dai mortali di Erith.» «Un racconto emozionante», affermò Ashalind, «senza dubbio appreso da un libro di favole o da un cantastorie itinerante. Com'è successo che queste Porte si siano riaperte?» «I wight lo sanno, e vi sarà detto da uno di loro.» Il piccolo individuo con la barba appuntita si fece avanti. Ashalind poté così vedere le sue gambette pelose terminanti con due zoccoli da capra, e per lo spavento fece un passo indietro. «Non temete, mia signora... non è pericoloso», le assicurò Caitri. «Anzi, è un caro amico. Così come lo sono Sianadh, Viviana ed Ethlinn, e tutti quelli che si sono prodigati per condurci qui. Oh, mia signora, se soltanto sapeste...» Tully s'inchinò di nuovo. «Be', l'intera storia mi è stata raccontata da gente che la conosceva bene. Accadde che in qualche modo un Mago vagabondo - un criminale, fuggito da Caermelor - riuscì a entrare nel Reame. Vi arrivò insinuandosi nella Geata Poeg na Déanainn. Alcuni spriggan che gli davano la caccia lo seguirono per la stessa Via. Quando i faêran del Reame si accorsero della presenza di quel singolare individuo, il primo e unico viaggiatore arrivato da Erith dopo la Chiusura... auch, la notizia si sparse come un uragano, puoi starne certa. Per darsi importanza, quel Mago, che si faceva chiamare Sargoth, raccontò ai faêran che aveva aperto la Porta con l'osso di un dito umano.» «Non vi seguo, signore», disse Ash. «Inoltre, voi parlate con un accento poco familiare.» «Auch», mormorò il wight. «La mia parlata è molto strana, sì. È un po' che non parlavo la lingua dei mortali.» Caitri allargò le braccia, in gesto di supplica. «Questo Mago, Sargoth, aveva un vecchio rancore contro di voi, mia signora. Indirettamente foste voi a causare la sua rovina e quella di sua nipote Dianella. Senza dubbio lui vi aveva visto uscire da quella Porta, ma mentì ai faêran, per farvi dispetto. Subito dopo i Fatati, accorgendosi che costui era un farabutto di una specie con cui non desideravano avere a che fare, lo gettarono fuori
del Reame. Io sentii dire che alcuni vendicativi wight lo aspettavano al varco, e lo portarono via. Nessuno, da allora, ha più sentito parlare di lui.» Ashalind scrollò le spalle, spazientita. L'urisk riprese il racconto. «Una volta dentro il Reame Fatato, gli spriggan rivelarono la Parola che apriva lo Scrigno delle Chiavi. Da molti anni essa era conosciuta, qui in Erith, perché Morragan non si era preoccupato di tenerla segreta coi suoi. I faêran la usarono subito per riaprire tutte le Porte. Poi vennero in Erith per riprendere il loro coraggioso Re e i suoi baldi cavalieri. Quando il Re Angavar fu portato in Faêrie, si svegliò; poi fece un giro nel suo Reame, e fu felice. Ma i faêran non poterono evitare di accorgersi che la sua felicità era guastata dalla tristezza per ciò che aveva perso. «'Io non voglio alcun ricordo di Erith', disse Angavar, e ordinò che le Porte tra i mondi fossero chiuse di nuovo, stavolta per sempre. Ma prima chiamò fuori da Erith suo fratello, la cui forma era quella di un corvo, perché il Re non era così crudele da punire un suo parente che era caduto in disgrazia. Morragan sentì che la via del ritorno a Faêrie era aperta, e arrivò in volo come una freccia. Ma mentre l'uccello nero volava dentro il Reame, dall'interno un gufo bianco uscì in Erith. E poi le Porte si chiusero.» «E che importanza ha tutto questo?» domandò Ashalind. «Easgathair Gufo Bianco, il Custode delle Porte dei faêran, si è autoesiliato», spiegò Caitri. «Ha portato il suo obbligo con sé, affinché Morragan, relegato nella forma di un corvo ma ancora capace di esigere il pagamento della sua vincita, non potesse pretendere l'ultima posta in palio.» «Quale posta? Quale Custode delle Chiavi?» Ashalind era sempre più confusa. Una volta Easgathair era il Custode delle Chiavi dei faêran, e ha pensato di meritare l'esilio come punizione, per la vergogna che aveva attirato su di sé. Ha dovuto ammettere che tutti i guai dei faêran erano nati dalla sua passione per il gioco, perché era stato lui a perdere due partite con Morragan, mille anni fa. E di conseguenza aveva dovuto promettere di pagare due poste, stabilite dallo stesso Principe. Una posta, che aveva avuto come conseguenza la Chiusura di tutte le Porte, le cui chiavi furono sigillate nello Scrigno, era stata pagata. Ma restava, e tuttora resta, l'altra. In ogni modo, ora le Porte sono state chiuse di nuovo, e Morragan si trova nel Reame.» Un'espressione preoccupata contrasse il volto di Caitri. «Se Easgathair, il Custode delle Chiavi, non è nel Reame, Morragan non può chiedergli nient'altro. La possibilità di riaprire le Porte è ora nelle mani del
Supremo Re Angavar. Ma, ahimè, io temo che non vorrà mai annullare una decisione nata dal suo cuore spezzato.» «Se tutto ciò è accaduto nel Reame, dove noi non abbiamo più accesso, voi come avete fatto a saperlo?» chiese Ashalind. «È stato lo stesso Custode delle Chiavi a raccontarmelo», rispose l'urisk. «Benché abbia la forma di un gufo, noi urisk possiamo ancora conversare con lui.» Nella sua nicchia, la torcia crepitava e fumava. Ashalind distolse il viso dalla luce. Andò avanti e indietro per la stanza. «Così questa è la vostra storia?» mormorò alla fine. «Io ero promessa in sposa a un immortale, il quale non sarà rivisto mai più? E questi Fatati delle favole sono andati via per sempre? E in Erith si aggira un gufo bianco, immortale, che in realtà non è un uccello ma una creatura di gramarye?» Scrollò ancora le spalle. «A cosa mi serve sapere tutto ciò? Anche se fosse vero, cosa di cui dubito, come potrei utilizzarlo? Sarebbe stato meglio lasciare queste parole non dette. Ora consentitemi di cercare la felicità, per favore. Non rovinate ciò che il futuro ha in serbo per me.» Attraverso i muri giunsero rumori attutiti. «Credo che la mia assenza sia stata scoperta», concluse Ashalind. «Lasciatemi andare, prima che il vostro nascondiglio sia trovato e voi siate gettati nelle segrete.» Pod indietreggiò nell'apertura del muro, lasciandole lo spazio per uscire. Caitri si fece avanti con aria implorante, e le parole sgorgarono dalla sua bocca così in fretta da accavallarsi. «Re Edward è il nostro amato sovrano, ma un difetto guasta le sue molte doti: il desiderio di prendervi in sposa ha offuscato la sua cognizione del bene e del male. Lo ha indotto a mettere in disparte Lady Rosamonde e a dimenticare la sua lealtà verso il Re faêran che aveva aiutato la sua famiglia nel momento del bisogno. Ha perfino voluto ingannare voi, mia signora, allo scopo di legarvi a lui. Nella mia mente non c'è dubbio che vi abbia amato fin da quando vi ha conosciuto. Io ho degli amici tra i servi di palazzo, e uno di questi udì il colloquio tra voi e Sua Maestà quando tornaste dal vostro mausoleo in Arcdur, mentre la vostra memoria era ancora intatta. Il Re-Imperatore vi disse che Angavar dormiva per sempre, implicando che era perciò irraggiungibile. Poi, allo scopo di scoprire se voi accettavate questa situazione e prendevate lui come sostituto, vi domandò se lo amavate. Lui sperava che accettaste l'idea che i Dormienti non potevano essere svegliati, ma la vostra risposta gli fece capire di essersi sbagliato. Allora seppe che gli restava una sola scelta, poiché conosceva il bitterbynde della
Porta del Bacio dell'Oblio, e avvicinò le labbra alle vostre. È stato lui a farvi perdere la memoria.» «Come puoi dire simili assurdità?» gridò Ashalind. Le parole della ragazza avevano sollevato in lei una tale tempesta di passioni contrastanti che si sentiva sull'orlo della follia. Ma gli occhi di Caitri brillavano di lacrime. Strisce lucenti ruscellarono giù sulle sue guance. «Edward è il nostro sovrano e nessuno osa discutere i suoi decreti», replicò. «Ma, per essere più sicuro, egli ha deciso di tenervi isolata dai vostri amici finché non sarete sua sposa. Ha distorto i vostri pensieri, come li distorceva la vecchia Grethet nella Torre di Isse quando vi lasciava credere che foste un ragazzo! Fidandovi di Sua Maestà voi credete in tutto ciò che vi dice, e lui vi dice che non siete ancora pronta ad affrontare il mondo esterno. Lady Rosamonde, che lo ha amato per tutta la vita, ha sofferto molto nel vedersi mettere da parte, e ha fatto voto di non sposare mai un altro...» Ashalind la interruppe. «Basta con le tue disgustose bugie, traditrice!» sbottò, andando all'uscita. «Non capisco di cosa parli, e non voglio sentire altro!» Prima di lasciare la stanza esitò, come colpita da un altro pensiero. «Voglio credere che voi siate in buona fede. Forse siete soltanto degli strumenti nelle mani di qualcun altro e avete agito così nella speranza di averne un guadagno. Perciò ecco, prendete queste.» Si tolse di tasca una manciata di monete d'oro e le gettò sul pavimento. Poi uscì, e il fruscio della sua gonna di velluto si allontanò nel buio. Caitri rimase lì, ammutolita, le mani premute sulla bocca e lo sguardo fisso sulla porta. I suoi occhi vedevano ancora il pallido volto di Ashalind, segnato da un'umida traccia di pianto. EPILOGO
Amore mio, voglio soltanto te, e faccio voto di appartenere a te finché avrò vita.
Il Giuramento degli Amanti Dopo che le Porte si chiusero per la seconda volta, non fu dato sapere se si sarebbero mai riaperte. Alcuni dicono che questo sia accaduto. Almeno in un'occasione. Il regno di Edward durò molti anni. È certo che il vento shang non colpì mai più Erith, fuorché nella regione dove imperversava il Cerchio delle Tempeste, la cui violenza continuava a impedire ai naviganti di recarsi nell'emisfero settentrionale del mondo. E le navi sostenute dal sildron non volarono più, mentre i Cavalieri della Tempesta persero il loro dominio dei cieli e i loro grandi Casati decaddero. A quel tempo sì diceva - e in effetti fu scritto negli annali di Erith - che la sposa di Edward fosse una ragazza di grande bellezza, benché avesse occhi strani e quieti, remoti. Tuttavia il loro matrimonio fu senza figli. Alla morte del Re-Imperatore, salì al trono un lontano consanguineo della Casa D'Armancourt. La vedova di Edward si ritirò in una tenuta di campagna, dove visse per uno straordinario numero di anni. La sua bellezza, anche se alla fine la abbandonò, svanì lentamente. Altri aggiunsero sorprendenti particolari alla vicenda. Quelle persone giurarono che la ragazza presa in moglie da Edward non fosse la stessa alla quale il Re-Imperatore di Erith aveva desiderato unirsi, bensì un'altra donna, e che egli non l'amò mai altrettanto profondamente. Secondo tale versione, colei che Edward stava per sposare fu rapita proprio durante la cerimonia nuziale. Il giorno del loro matrimonio, mentre si stavano svolgendo i preliminari dello sposalizio, uno sconosciuto alto e assai virile d'aspetto si fece avanti e li interruppe; un gufo bianco era appollaiato sulle sue spalle. Prima che i voti matrimoniali fossero scambiati lo straniero domandò un favore a Edward e, con gran stupore di tutti i presenti, il favore gli fu concesso. Allora l'uomo prese la sposa tra le braccia e la baciò. Subito dopo, l'intera Corte rimase a bocca aperta per la meraviglia, perché dove prima stava lo straniero era apparsa una grande aquila. Al suo fianco volava un candido uccello marino, e i due erano uniti da una catena d'oro. Poi il tetto si aprì come la corolla di un fiore e li lasciò uscire. Essi volarono via, e nessuno in Erith li rivide mai più.
In realtà, prima di questi eventi, vi era stato un breve periodo durante il quale Angavar e Ashalind si erano trovati in Erith contemporaneamente, benché l'uno all'insaputa dell'altra. Ciò era accaduto l'ultima volta che la ragazza era uscita dalla Porta di Arcdur, poco prima che lui fosse portato via da Nido dell'Aquila per tornare in Faêrie. Numerosi wight minori e creature selvatiche dovettero vederla, quando lei uscì dalla Porta per recarsi nella zona dove avrebbe trovato la torre che era il suo memoriale. Sembra che quella Porta fosse rimasta semiaperta, e che molti di quei wight ne approfittarono per scivolare in Faêrie. Fu uno di costoro a rivelare ad Angavar che la sua amata era viva. Di conseguenza egli riaprì provvisoriamente le Porte, tornò in Erith e la rubò a Edward proprio il giorno delle nozze. Angavar aveva il potere di gettare incantesimi d'illusioni sull'intera popolazione di Erith. Aveva già usato quella magia per far sì che le differenze fisiche tra lui e il vero Re-Imperatore non fossero notate. Quando rapì Ashalind e fece ritorno in Faêrie con lei, lasciò un velo di confusione ad alterare i ricordi della gente. La verità fu dunque che Edward finì per sposare Rosamonde, che lo aveva sempre amato. Era una giovane di grande bellezza e dai modi strani, calmi e distaccati. La vita di Rosamonde era stata insolita e impregnata di gramarye: senza dubbio era quella la causa del suo comportamento. Per la stessa ragione, ella visse molto a lungo. Angavar e Ashalind volarono via, in Faêrie, dove lui risanò la memoria dell'amata e la sposò. Ashalind poté così finalmente riunirsi con i suoi familiari e i suoi amici di un tempo, e la vita che essi vissero insieme fu più felice di quanto si possa immaginare o narrare per iscritto. APPENDICE
PAROLE IN ERTISH andalum: metallo azzurro che ha il potere di neutralizzare l'azione repulsiva del sildron culicide: insetti mortali simili a zanzare. Non sono eldritch
eldritch: soprannaturale gramarye: magia lorraly: naturale, opposto a ciò che è eldritch e soprannaturale obban tesh: [un'esclamazione] scothy: folle seelie: benevolo verso l'umanità shang: un vento di gramarye che riceve e riemette impronte visive di eventi umani, di solito drammatici sildron: lucido metallo argenteo con la proprietà di respingere il terreno a distanza costante taltry: cappuccio in cui è tessuta una reticella metallica di talium, che protegge il portatore dall'influenza del vento shang tilhal: amuleto che può proteggere contro i wight unseelie di basso ordine uhta: l'ora prima dell'alba unket: soprannaturale unseelie: malevolo verso l'umanità PAROLE IN LINGUA ANTICA briagha: bello caileagh foileagh: ragazza-cigno codiai: l'aspetto esteriore del cibo privato del toradh eudail: cara ionmhuinn: amato nathrach deirge: letteralmente «Sangue di Drago». Un elisir per scaldare e nutrire i viaggiatori seirm ceangail: anello protettivo toradh: il valore nutritivo del cibo RINGRAZIAMENTI
L'olmo non ti darà amore - Ritornello corale di una tradizionale canzone popolare del Somerset, riportata da Ruth Tongue in Forgotten Folk Tales of the English Counties, Routledge & Kegan Paul, London, 1970. Io volo col gufo - Citato da The Life of Robin Goodfellow, un pamphlet
del XVII secolo ripubblicato da J.O. Halliwell-Phillips in Illustration of The Fairy Mythology of The Midsummer Night's Dream, Shakespeare Society, London, 1945. Finoderee: «Io posso pulire una stalla in un'ora e non chiedo nulla di più di una pignatta di stufato quando ho finito / un berretto per la testa. Ahimè, povera testa! [...] Porta asini carichi di pietre e di alghe per tutto il territorio come un piccolo gigante [...] a volte nel suo entusiasmo riunisce gli stambecchi, i gatti selvatici e le lepri, insieme con le pecore». Le citazioni qui sopra, e l'ispirazione per l'episodio di Finoderee, vengono da A Second Manx Scrapbook di Walter Gills, Arrowsmith, London, 1932. Vengono anche dagli aneddoti raccontati da Train nel suo Account of Man citati da Keightley in The Fairy Mythology Illustrative of the Romance and Superstition of Various Countries, Bohn Library, London, 1850. La poesia «Non è stato ben falciato» è tradotta da Yn Folder Gastey, una tradizionale canzone su Finoderee, o Fenodoree, come talvolta è chiamato. La traduzione, di Walter Gill, è citata da A Second Manx Scrapbook, Arrowsmith, London, 1932. Il Pagliaccio Testadizucca - Ispirato a una cerimonia reale che ha luogo a South Queensferry, West Lothian, nel Regno Unito, ogni anno il secondo venerdì di agosto. La Cavalcata Territoriale - Ispirata a un'antica usanza che un tempo era parte della vita quotidiana in Britannia, e ancor oggi rivive in occasioni come La Cavalcata dello Sceriffo, a Lichfield, Staffordshire, e altri posti, inclusi Berwick-sul-Tweed, Manchen nel Northumberland, Carmarthenshire, e Richmond nel North Yorkshire. La Notte della Scarrozzata - Anch'essa ispirata a una colorita usanza britannica che sopravvive dai tempi antichi. Se imp o elfo voi mi chiamate - Adattata da Popular Rhymes of Scotland, di Robert Chambers, W. & R. Chambers, Edinburgh, 1870. Lo Shock: «Una creatura con la testa di asino e una pelliccia liscia come il velluto [...] Mentre però si accingeva ad attaccare l'animale, questi protese all'improvviso il collo, gli morse una mano e sparì nel buio». Le citazioni sono da: County Folklore I, Gloncestershire, Ed. E. S. Hartland, Folklore Society, 1892. L'episodio dello shock è ispirato da questo libro. Annie Gentile - Ispirato da una descrizione in A Dictionary of Faêries, di Katharine Briggs, Penguin Books, 1976.
La Creatura - Ispirato da Shetland Traditional Lore, di Jessie Saxby, Norwood Editions, ristampa, 1974. La Fioritura del Thorn - Non c'è nessun rapporto col rito eseguito ogni anno nel villaggio inglese di Appleton Thorn, salvo che per gli ornamenti dell'albero. Il Rogo del Barcaiolo - Ispirato a Bruciando Barile. Non ci sono però riferimenti all'usanza che si svolge annualmente a West Witton, nel North Yorkshire, Inghilterra. La canzone deriva da un'antica versione, riportata qui sotto, ancora cantata durante questa cerimonia attuale: Al Burrone di Pennhill si strappò i suoi stracci, / A Hunter's Thorn suonò il corno, / A Capplebank Stee ebbe la sfortuna di rompersi un ginocchio, / A Grassgill Beck si fratturò il collo, / A Wadham's End non poté ripararsi, / A Grassgill End trovò la sua fine. / Gridate, ragazzi, gridate! Il Cavallo Incappucciato - Ispirato da molte cerimonie e usanze con protagonisti i cavalli praticate nel Regno Unito. Il bullbeggar - Ispirato da Country Folklore VIII, Somerset Folklore, Folklore Society, 1965. Riunito e pubblicato da Ruth Tongue. I nomi di località - del capitolo 3 sono tratti dalla geografia di alcune regioni inglesi. Per esempio: «Dovremo guadare il corso del Kingsdale e aggirare la Fossa Churnmilk», le informò Arrowsmith. «Poi oltrepasseremo Frostrow e Shaking Moss, e Hollybush Spout.» I goblin dei boschi - Ispirato dal magnifico poema di Christina Rossetti Goblin Market (1862). I coillduine - Ispirato dai disegni del chiaroveggente dei primi anni del XX secolo, Geoffrey Hodson, in Fairies at Work and Play, Teosophical Publishig House, Wheaton, Illinois, 1925. La festa siofran - «[...] lei osservò con meraviglia quel festoso raduno. Stavano mangiando cibarie singolari: bruchi in salamoia, formiche fritte, ali di farfalla, vermi rossi, scarabei arrosto, funghi tritati, fiori di magenta bolliti e altre cose meno identificabili.» Questo menu è parzialmente tratto dal poema Oberon Feast di Robert Herrick (1591-1674) pubblicato nel 1647. Il ganconer / Colui che parla d'amore - Un meraviglioso poema su questo seduttore soprannaturale fu scritto dalla poetessa inglese Ethna Carbery (1866-1902). È stato ristampato in The Four Winds of Erinn, un'antologia dei suoi versi, e può essere reperito nel sito web di Cecilia Dart-Thornton: http://www.dart-thornton.com. La Canzone di Viviana - «Una corona di salice piangente intorno alla
mia fronte porterò...» è una tradizionale canzone popolare inglese. I due Re - Ispirato da un tradizionale racconto gallese di fate su Pwyll, Principe di Dyved, e il suo incontro col Re di Faêrie, Arawn. Nuclcelavee - Basato su un articolo di Traili Dennison in Scottish Antiquary, poi ristampato in Scottish Fairy Tales and Folk Tales, di Sir George Douglas, Walter Scott, London, 1873. Per amore di precisione, l'aneddoto è parzialmente citato da quest'ultima fonte. Il racconto di Thomas Rhymer, Duca di Ercildoune - Adattato dalla tradizionale «Ballad of True Thomas», che narra la storia di Thomas Rymour di Erceldoune. Può essere reperito in The English and Scottish Popular Ballads, edizione F.J. Child, Little, Brown; Shepard, Clark & Brown. Boston, 1857-58. La ballata è basata su una storia del quattordicesimo secolo, che può essere letta su Fairy Tales, Legends and Romances Illustrating Shakespeare, di W. Carew Hazlitt, F. & W. Kerslake, London, 1875. Il racconto di Tamlain Conmor, Duca di Roxburgh - Adattato da un'altra ballata popolare: «Young Tarn Lin», della quale esistono molte versioni. La più completa è in The English and Scottish Popular Ballads, edizione F.J. Child, Little, Brown; Shepard Clark & Brown, Boston, 1857-58. Il Vernacolo Scozzese - Questo dialetto da me usato in molti dialoghi è appreso da Bawdy Verse and Folk Songs Written & Collected by Robert Burns, Macmillan, London, 1982. Scene di battaglia - Cercate in The War of the Crusades 1096-1291, di Terence Wise; Osprey Publishing P/L 1978. Informazioni sono state anche prese da Word War 1, Diaries of Squadron Leader W. Pastra. La festa dell'Incoronazione - Ispirata da menu di veri banchetti medievali, reperiti in The English Medieval Feast, di W.E. Mead, 1931, e More Medieval Byways, di L.F. Salzman, 1926. I musici nella torta - Adattato da un documento di Olivier de la Marche, cronista del quattordicesimo secolo. La battaglia di Notteterna - trae ispirazione anche dalla grande storia irlandese di fate e d'amore Midhir and Ethain, che ha indotto molti poeti e drammaturghi a creare opere basate su di essa. I Fatati [...] tutti attribuiscono un grande valore ai capelli dorati dei mortali. Un bambino dai capelli dorati è in pericolo di essere rapito più di uno dai capelli bruni. Era spesso una ragazza bionda a essere attirata, sedotta e presa in sposa da un Fatato... A volte i Fatati adottavano ragazze di particolare bellezza, soprattutto se dotate di capelli biondi, per fame
loro protette. E se non potevano proteggerle vendicavano i torti fatti a esse. Katharine Briggs, A Dictionary of Faêries, Penguin Books, 1977. NOTA DELL'AUTRICE
Parte dei proventi della vendita di questo libro sarà donata al programma del Royal Melbourne Zoo per la conservazione degli elefanti nei loro ambienti naturali, come Sumatra. Tuttavia la mia donazione non coprirà che una minima parte dei fondi necessari a questo programma. Se desiderate fare un'offerta, vi prego di inviarla per vaglia postale: al direttore del Dipartimento di Conservazione e Ricerche, Royal Melbourne Zoo, Elliot Avenue, Parkville, 3052, Australia. Se desiderate saperne di più sul progetto del Royal Melbourne Zoo, potete contattare il sito web: http://www.zoo.org.au. Una precisazione: oltre alla donazione di parte dei suoi proventi della vendita di questo libro, Cecilia Dart-Thornton non è associata, direttamente o indirettamente, col Royal Melbourne Zoo, e di conseguenza non può accettare la responsabilità circa eventuali azioni od omissioni da parte del Royal Melbourne Zoo. Letture raccomandate: When Elephants Weep: The Emotional Lives of Animals, di Jeffrey Moussaieff Masson e Susan McCarthy (trad. it. Quando gli elefanti piangono, Milano, 1996). Ringrazio molto i seguenti scrittori (in ordine alfabetico) per la loro amicizia e il loro aiuto: James R. Allison, Kimberley Bradford, Jan Corso, Diane Coyle, Crystal Edwards, Roger Eichorn, Charles Coleman Finlay, Elisabeth Glover, Karin Lowachee, Steve Nagy, S.K.S. Perry, Nancy Proctor, Marsha Sisolak, James Stevens-Arce, e Michelle Thuma. Per varie ragioni, l'autrice desidera esprimere la sua gratitudine anche a: Linda Addison, John Berlyne Pat Cadigan. Alan Dean Foster, Ellen Key
Harrys e Matthew Hughes. FINE