SERGE BRUSSOLO LA PRIGIONIERA DELL'INVERNO (La Captive De L'Hiver, 2001) 1 Quel pomeriggio era stata assalita da un pres...
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SERGE BRUSSOLO LA PRIGIONIERA DELL'INVERNO (La Captive De L'Hiver, 2001) 1 Quel pomeriggio era stata assalita da un presentimento che, a tratti, le impediva perfino di respirare. Non sapeva cosa generasse quella strana paura, quel senso di costrizione che, a più riprese, l'aveva indotta a buttare il capo all'indietro, nel tentativo di prendere aria. I segnali nefasti si erano presentati fin dalla mattina. Tre corvi appollaiati sulla statua del santo patrono dell'ordine, nel cortile dell'abbazia. Tre corvi stranamente sicuri di sé, che non si lasciavano spaventare da niente, nemmeno dai conversi che battevano le mani e lanciavano loro dei sassi. Indifferenti a qualsiasi minaccia, erano rimasti là, ostili, caparbi, scrutando la gente che andava e veniva nel monastero con uno sguardo ironico, come a voler dire: «Voi non sapete cosa vi aspetta!» In un primo momento, la loro presenza era risultata fastidiosa, poi inquietante. Anche Marion, di tanto in tanto, interrompeva il lavoro per dare un'occhiata. Ogni volta sperava che quei volatili malefici fossero scomparsi e ogni volta restava delusa. Per un istante, ebbe perfino l'impressione che i corvi la stessero guardando, che stessero fissando lei in particolare. Erano venuti a sorvegliarla? Ma perché? Che idea assurda! Erano sei mesi ormai che viveva presso l'abbazia di Saint Thélème. Era stata ingaggiata per restaurare l'edificio, semidistrutto dalle guerriglie locali, dalle dispute tra i piccoli baroni dei dintorni che, per vincere la noia, attaccavano briga tra loro. Marion ne aveva abbastanza di vagabondare alla ricerca di Noctus, l'angelo decaduto... e in particolare di Malestrazza, la guida che aveva messo in trappola lei e i suoi compagni di pellegrinaggio, coinvolgendoli nella terribile avventura dell'arca di Noè clandestina. Per settimane aveva mangiato la polvere, attraversando l'arida campagna, cercando di rintracciare gli eretici in fuga. Una sera, con le ossa rotte e i piedi sanguinanti, aveva deciso che era tempo di rinunciare a quelle chimere. Un artigiano incontrato in una locanda le aveva parlato di quel monastero, situato in terra normanna, in riva ai mare, dove stavano assoldando scalpellini specializzati per ricostruire la cappella. Era un lavoro onesto, anche se mal pagato... e Marion non aveva scelta. Dal momento che era una donna, poi, i monaci avevano esitato ad asse-
gnarle l'incarico e lei aveva dovuto dimostrare le sue capacità in una gara di abilità contro gli altri marmisti giunti sul posto. Quando a tutti era risultata evidente la sua conoscenza superiore della materia, gli artigiani avevano cominciato a odiarla. A quel punto, le erano state affidate le «statue principali» della cappella - i santi e i monumenti sepolcrali - e da allora nessuno le aveva più rivolto la parola. Invidiosi della sua capacità, della sua arte, gli altri non le avevano perdonato di essere migliore di loro e avevano messo in giro voci malvagie sul suo conto. In tre mesi, Marion aveva rifatto le copie identiche delle effigi andate distrutte, spesso perfezionandone i tratti e donando ai volti maggior espressività. Amava quel lavoro solitario, difficile, col picchiettio dello scalpello che si faceva strada nel marmo, vincendo la resistenza della pietra. Le piaceva architettare strategie: mai lottare contro la materia, ma servirsi delle difficoltà per creare nuove forme. Giocare d'astuzia, aggirare l'ostacolo, mantenere una certa flessibilità. Non accanirsi con colpi brutali e grossolani per vincere a tutti i costi e non impuntarsi per cercare di fare più in fretta. Del resto, Saint Thélème versava in cattive condizioni. Le mura dell'abbazia fortificata erano quasi crollate. Sulla maggior parte degli edifici erano evidenti le tracce lasciate da antichi incendi. «Non abbiamo mai avuto fortuna», le aveva confidato padre Jacques, il cellerario. «Da sempre, il monastero è il bersaglio di attacchi impietosi. I lochlannach, gli uomini del Nord, ci avranno già aggredito venti o trenta volte. Vengono a devastare i luoghi di culto, massacrano i monaci e rubano tutti gli oggetti preziosi. Spesso, poi, violentano le monache o le portano con sé per venderle al mercato degli schiavi o offrirle come tributo ai guerrieri più valorosi. Per anni, la gente del luogo ha vissuto nel terrore di veder apparire all'orizzonte le vele dei drakar vichinghi. E poi le incursioni sono cessate. Si dice che finalmente a questi barbari sia stata rivelata la vera fede, che abbiano così rinunciato al loro credo primitivo, ai loro dei guerrieri, sempre assetati di sangue. A ogni modo, da un giorno all'altro non si sono più visti nei paraggi e nessuno sente la loro mancanza.» L'abbazia portava le cicatrici di quei combattimenti. Aveva l'aspetto di una corazza rattoppata troppo spesso che, nonostante gli sforzi per stare in piedi, si sarebbe squarciata al primo colpo di lancia. Marion non era abituata al mare. Quella massa grigia, sempre in movimento, l'angosciava. Le grida dei gabbiani la perseguitavano perfino nel sonno. Il vento e gli schizzi d'acqua la facevano tremare dal freddo. Figlia
di terre calde, doveva imbacuccarsi dalla testa ai piedi per resistere al morso delle burrasche. «È un luogo infimo, una terra malsana. La landa brulica di anime erranti, massacrate su queste coste. Meglio non arrischiarsi fuori quando cala la notte. Il mare è cattivo, inghiottisce le barche e gli uomini. Solo quei drakar maledetti riescono a sfuggire al suo appetito», le aveva confidato un contadino dei dintorni. Marion non ci aveva messo molto per rendersi conto che tutti laggiù erano sempre all'erta. La prolungata assuefazione alle invasioni aveva innescato negli abitanti del luogo l'abitudine quasi inconsapevole a sorvegliare sempre il mare, con la coda dell'occhio. «Non saremo mai al sicuro. Sappiamo che loro torneranno, è inevitabile, è scritto. E niente potrà proteggerci», mormoravano le pastorelle. Le storie che venivano sussurrate la sera avevano creato quello stato d'animo tanto nei giovani quanto nei vecchi, tutti vittime di un fatalismo contro il quale si sentivano completamente impotenti. «Dopotutto, però, sono anni che nessuno invade più le vostre terre, giusto?» protestava Marion. «È vero, ma succederà di nuovo, è inevitabile. E più il tempo passa, maggiore diventa il pericolo», replicavano i suoi interlocutori. Quella convinzione era così radicata in loro che la ragazza aveva rinunciato a persuaderli del contrario. Del resto, il pessimismo dilagante dei contadini aveva cominciato a influenzarla. Non le piaceva affatto il ghigno dei gabbiani, che sembravano farsi beffe degli umani. Volano a filo delle nuvole, riescono a vedere cose che a noi sfuggono. Hanno scorto il pericolo in lontananza... e ridono della nostra inconsapevolezza, pensava Marion. All'abbazia non aveva fatto amicizia con nessuno. I suoi compagni di lavoro si sarebbero volentieri serviti di lei per dar sfogo alle loro pulsioni sessuali, però Marion stava ben attenta a non trovarsi mai da sola con loro se non era presente un prete. I monaci apprezzavano il suo talento e lo zelo che metteva nella ristrutturazione della cappella, tuttavia avrebbero senza dubbio preferito che si trattasse dell'opera di un uomo. Marion si annoiava. In un primo momento, aveva visto in quel rifugio un modo per guarire dalla febbre che Malestrazza aveva acceso in lei. Dopo due mesi di permanenza, le capitava meno di frequente di pensare a lui.
Riusciva perfino a dimenticarsene per un pomeriggio intero. La ferita si sta cicatrizzando. Quando si sarà sanata del tutto, riprenderò il cammino, si ripeteva con un sorriso triste. I giorni passavano monotoni, in quell'atmosfera grigia e umida, sulla riva del mare. Marion si era dovuta abituare ad avere sempre i vestiti appiccicosi, impregnati di sale. A vivere immersa nell'odore stagnante delle barche sventrate. Era una novità per lei, abituata al sole, alla polvere, alle pietre tanto calde da avere paura a toccarle per non scottarsi le mani. Laggiù, invece, non smetteva mai di piovere. In modo subdolo. La pioggia scendeva a gocce così fini da insinuarsi perfino sotto la stoffa dei mantelli. A lungo Marion aveva pensato che non sarebbe successo nulla... E poi i corvi sono venuti a posarsi sulla statua del santo. E, da allora, quei corvi non avevano mai smesso di guardarla. Che strane idee ti metti in testa! Quegli uccelli ti fissano perché sono attirati dal rumore che fai col martello, tutto qua, si ripeteva. Eppure, non era l'unica ad averlo notato. «Si direbbe che quelle bestiacce si siano affezionate a voi, Marion. Potreste ordinar loro di andarsene? Disonorano il nostro santo patrono», le mormorò il cellerario con una smorfia. Cedendo a un moto di rabbia, la ragazza rispose che lei non aveva nessun potere sui volatili in questione e così il monaco, offeso, si allontanò con passo rigido. Poi Marion uscì a passeggiare lungo la spiaggia e s'imbatté in Perrine, la pastorella, col suo faccino sporco. «Si mette male...» esordì la giovinetta. «Stamattina, nel gregge del mio padrone, è nato un agnello con due teste. Aveva i denti come quelli di un lupo e se n'è servito per divorare le interiora della madre. Ormai ci siamo, sta per succedere qualcosa di terribile. Si sente dall'odore del vento. È diverso, non trovi?» «Io... non saprei», balbettò Marion, sempre più a disagio. «Sì, sì, te lo dico io», ribadì Penine. «Se s'inspira a pieni polmoni, si riesce a sentire il ferro. È qualcosa che viene dal mare e che viene per ucciderci.» Marion s'impose di trattenere un brivido. Istintivamente guardò verso l'orizzonte, ma la nebbia nascondeva le onde. Era inutile sperare di vedere più in là di un tiro di schioppo. «Dobbiamo muoverci, organizzarci... Perché non proviamo a cercare rifugio al castello?» azzardò. La ragazzina sollevò le spalle, come se tutto ciò fosse oltre la sua porta-
ta. «Se così è scritto, non c'è più niente da fare. È il destino», mormorò. Marion strinse i denti, infastidita da quella rassegnazione che le era capitato di vedere troppo spesso nelle persone umili. Colta da un senso di pietà, si chinò e prese la pastorella tra le braccia. «Vuoi venire a dormire al monastero?» le propose. «No! Quando sbarcano, è sempre da là che cominciano...» rispose la ragazza con voce soffocata. «Di chi stai parlando?» chiese Marion. «Dei lochlannach, dei vichinghi. Stanno arrivando...» ansimò. «Che stupidaggini!» si adirò la giovane intagliatrice, per non soccombere alla paura. «Si sono convertiti al cristianesimo. Sono vent'anni ormai che non si fanno vivi. Stai dicendo delle sciocchezze!» «Vedrai!» rincarò l'altra, correndo via. «Non sarai più così spavalda quando ti getteranno sulla paglia per farti la festa!» Il suo visino, contorto dalla cattiveria, ricordava quello di uno gnomo. Le mostrò la lingua, fece una piroetta e si allontanò lungo il fianco della duna, dopo aver radunato le sue pecore. «Piccola peste!» sussurrò Marion tra i denti. I vichinghi? Le storie delle loro spedizioni, raccontate da vecchie sdentate, assumevano un'aura di leggenda. Era passato troppo tempo. La religione li aveva resi pacifici. No, quella faccenda non aveva nessun senso. Marion scosse le spalle e tornò sui suoi passi. Eppure, nonostante tutto, non smetteva di scrutare l'orizzonte in cerca di una vela. Avrebbe fatto ancora in tempo a fuggire. Sarebbe stato sufficiente gettare i suoi pochi averi in un fagotto e mettersi in marcia, senza perdere altro tempo. Cosa la tratteneva? Il lavoro? La parola data? Se fosse fuggita via in quel modo e non fosse successo niente, i suoi compagni si sarebbero di certo divertiti, andando in giro a dire che non si poteva fare affidamento su una donna. Si sarebbe creata una cattiva reputazione. I monaci avrebbero chiesto a quegli stolti di portare a termine le «sue» statue. A quel punto, loro non avrebbero perso l'occasione di rovinarle, d'imbruttirle, martellandole coi loro colpi mal assestati. Ecco cosa le impediva di andarsene. Tornò alla cappella coi pugni serrati, gli occhi bassi per non vedere quei corvi sciagurati, appollaiati sulla testa del santo, imbiancata dai loro escrementi.
2 Nella speranza di vincere l'inquietudine, lavorò fino a tardi. Dovette smettere quando alcuni uomini le gridarono di posare lo scalpello, perché non riuscivano a dormire. Piovigginava e Marion non riusciva a riscaldarsi. I monaci pregavano. Sembravano preoccupati. Tutti sapevano che, in caso di attacco, i nemici non avrebbero faticato molto a entrare nell'abbazia, passando per le numerose brecce del muro di cinta. La ragazza si accovacciò sul pagliericcio, formato da alghe secche. La voce della prudenza le gridava: Parti! Parti durante la notte, senza chiedere di saldare il conto! Domani sarà troppo tardi. Al pensiero di ricominciare a vagare senza meta, tuttavia, il coraggio le veniva meno. Senza contare che le strade erano pericolose per una ragazza sola; era già un miracolo che fosse riuscita a giungere fin lì incolume. Chiuse gli occhi e si addormentò rabbrividendo. All'alba fu svegliata da un grido agonizzante. Tutto era ancora avvolto in una spessa foschia, intrisa dell'odore di iodio. Si vedeva a dieci passi di distanza al massimo, eppure, oltre quella barriera, si stava consumando un dramma. Alcune sagome si agitavano, si dibattevano. Un monaco cadde ai piedi della ragazza, la bocca piena di sangue. Non si trattava di un combattimento, ma di uno sterminio in piena regola. Alle orecchie di Marion giunsero gli echi di una lingua che evocava gli ululati di un'orda di demoni inferociti. Subito pensò ai vichinghi. Erano sbarcati alle prime luci dell'alba, riuscendo a portarsi molto vicini alla riva grazie alle loro lunghe imbarcazioni. Erano esperti in quegli attacchi fulminei, chiamati strandhogg, in cui uccidevano e saccheggiavano per poi riprendere subito il cammino, portandosi fuori tiro. Erano esperti navigatori: nessuno sarebbe stato in grado di dar loro la caccia in mare. In confronto ai drakar, le navi franche sembravano zattere, a malapena in grado di navigare lungo le coste. In mare aperto, sarebbero colate a picco al primo acquazzone. Marion gettò i suoi utensili nella sacca di pelle e afferrò un martello, determinata a difendersi. La bruma marina la camuffava alla perfezione, tuttavia esitava a uscire dal suo nascondiglio. Non vedeva nulla, ma percepiva il rumore sordo delle asce che spezzavano le ossa, che penetravano nella carne. I vichinghi
odiavano i cristiani, e in particolare i preti, che si prostravano davanti a un dio crocifisso, una vittima inchiodata a uno strumento di tortura. Secondo loro, quella religione era una pura e semplice aberrazione. I loro templi erano popolati da divinità guerriere, feroci, che escludevano quel tipo di culto. Non c'era posto per i deboli. Ecco perché provavano un piacere sadico nel massacrare i monaci che rifiutavano di difendersi e preferivano invece morire, mormorando stupide preghiere. Era una stirpe terribile, di guerrieri accaniti e sprezzanti del pericolo, che ignoravano qualsiasi forma di prudenza. Una stirpe di predatori, le cui violenze avevano segnato l'esistenza di molti popoli. «Gloria a Dio! Pace agli uomini sulla terra...» gridò un monaco straziato. Marion si appiatti contro il muro, dietro le statue che aveva restaurato negli ultimi mesi. Lanciando un'occhiata ai santi di pietra, pensò: È venuto il momento di aiutarmi, o adesso o mai più. Mi dovete almeno questo. Nella foschia giungevano da ogni parte grida gutturali, rantoli, rumori di corse precipitose. Marion si chiese se fosse meglio fuggire o cercare di nascondersi da qualche parte. Raggomitolandosi nell'incavo di una nicchia, aveva qualche possibilità di passare inosservata. In realtà non ebbe il tempo di fuggire. D'un tratto, una figura enorme si stagliò nella bruma. Era un gigante vestito di pelle, col volto coperto da un elmetto ammaccato. Puzzava di sporco, di sudore, di sangue. Brandiva un'ascia ricoperta di rosso. Senza nemmeno rendersi conto di ciò che faceva, Marion lo colpì al viso col suo martello. Si era gettata contro di lui con tutte le sue forze, eppure il gigante incassò il colpo senza fare una piega. Non prestò attenzione nemmeno al sangue che gli colava sulla barba bionda. Oltre le giunture dell'elmo, i suoi occhi erano fissi sul volto della giovane. Urlò qualcosa nella sua lingua. Un grido che risuonò come il latrato di un cane infernale. Impestava l'ambiente col suo olezzo di mare, di sudiciume, di grasso d'armi, uniti a quell'odore metallico tipico dei guerrieri, come se la ferraglia di cui erano ricoperti trasudasse di ruggine. È la fine. Sono perduta, pensò la ragazza. Sapeva che i vichinghi erano soliti violentare le prigioniere. Quelle che sopravvivevano venivano vendute come schiave ed erano costrette a una vita da bestie, sinché la fatica non avesse avuto la meglio su di loro. Se fosse stata più coraggiosa, si sarebbe gettata nel vuoto dall'alto della torre, come facevano le monache in situazioni del genere. Invece non fece altro che restare immobile, brandendo stupidamente il martello. Si rendeva conto che così, ferma in quella posizione difensiva, offriva la visione grottesca
di una ragazzina che tenta di minacciare un orco. I guerrieri, però, non ridevano. Erano in tre e parlottavano tra loro, muovendosi per circondarla. Uno di loro lanciò un ordine e gli altri rinfoderarono le spade, come se temessero di ferirla. La trovavano forse abbastanza graziosa da pensare di poterla vendere a un buon prezzo? «Lasciatemi! Non vi avvicinate o vi fracasso la testa!» gridò Marion. I guerrieri si gettarono su di lei. La ragazza ebbe l'impressione di trovarsi stretta fra tre tronchi d'albero che cercavano di stritolarla. Colpì a casaccio, senza risultato; allora cercò di morderli, ma si ritrovò tra i denti solo del ferro, della pelle. Infastidito dai suoi continui movimenti, uno dei vichinghi la colpì alla nuca. D'un tratto, Marion fu avvolta dall'oscurità. 3 Quando riprese conoscenza, il primo istinto fu di portarsi le mani al ventre. Contrariamente a quanto temeva, non l'avevano spogliata. Giaceva ancora sulla schiena, al centro del monastero. Nello stesso istante, si rese conto di avere le dita bloccate da due guanti d'acciaio, uniti tra loro da una catena. Si sedette per guardare meglio. In effetti, aveva le mani chiuse in un paio di guanti rigidi, privi di articolazione. Erano manopole di ferro molto simili a quelle di un'armatura, resistenti al punto di non riuscire nemmeno a muovere le dita. Marion tentò di liberarsene, ma si accorse che era impossibile. Un sistema di bracciali a cremagliera faceva in modo che la circonferenza del guanto aderisse sempre di più al polso fino a bloccarsi come una specie di serratura. Che senso aveva tutto ciò? Era la prima volta che vedeva un aggeggio del genere. Si guardò intorno. C'erano delle contadine, delle pastorelle e altre giovinette gettate sui pagliericci, il volto imbrattato di lacrime, i polsi legati con delle corde. Senza dubbio, si trattava delle prigioniere che i vichinghi avevano scelto di portare al di là del mare, nelle terre del Nord. Sparsi ovunque giacevano i cadaveri dei monaci, il saio lacerato e il sangue che sgorgava tutt'intorno. I guerrieri erano intenti a saccheggiare la chiesa. Mordevano gli oggetti di culto per assicurarsi che fossero d'oro e gettavano in grossi sacchi di iuta tutto ciò che aveva valore. Inginocchiata al capezzale di Marion c'era una donna anziana, dai capelli grigi, con una fascia di pelle sulla fronte. Aveva le braccia tatuate fino alle
spalle. Marion immaginò che quelle incisioni fossero rune... o formule magiche. Sembrava che la sconosciuta stesse vegliando sulla sacca in cui lei teneva i suoi attrezzi da lavoro, anche se, a giudicare dalla sua aria truce, si sarebbe potuto pensare che, invece di mazzuoli e scalpelli, là dentro fosse racchiuso un tesoro. Marion distese le mani ammanettate verso la donna, che subito si ritrasse, come se le stessero agitando sotto il naso un serpente velenoso. «Perché?» chiese la ragazza, agitando le manopole in ferro. «Non agitarti», grugnì l'altra. «Mi chiamo Svénia, parlo la tua lingua. Sarò la tua serva. Sta' tranquilla. Se ti agiti troppo, gli uomini avranno paura di te e a loro non piace avere paura.» Marion continuò a fissarla, senza capire. Perché i vichinghi dovrebbero aver paura di me? Era assurdo! Che male avrebbe potuto fargli? Tuttavia non insistette, convinta che Svénia parlasse male la sua lingua e che avesse inteso un'altra cosa. I guanti di ferro erano molto pesanti, così Marion fu costretta a far riposare gli avambracci, poggiandoli sulle cosce. Subito si rese conto che, al minimo cigolio delle manopole, i guerrieri le lanciavano sguardi inquieti. Di cosa avevano paura? Dopotutto, lei era soltanto una ragazza con le mani legate, cui avrebbero potuto spezzare la nuca con un pugno. E perché era lei l'unica a «beneficiare» di quel trattamento, mentre tutti gli altri prigionieri erano stati legati con semplici corde? Cominciò a temere che si trattasse di qualche questione di stregoneria. Per chi l'avevano scambiata? Mio Dio! pensò d'un tratto. Di certo credono che io sia una di quelle sante che guariscono i malati con l'imposizione delle mani. Mi hanno presa per qualcun'altra. Devono aver sbagliato monastero. Forse pensano che la Chiesa sia disposta a pagare un riscatto pur di liberarmi. Ebbe un fremito. Non appena i vichinghi si fossero accorti dell'errore, l'avrebbero uccisa e, prima ancora, si sarebbero vendicati contro di lei. Non sapeva cosa fare. Era il caso di avvisare Svénia o era meglio prendere tempo? Cercò di ricordare se più giù, lungo la costa, ci fosse un'altra abbazia dove risiedesse una qualche santona, la cui fama potesse essere arrivata anche al di là del mare. Forse il loro capo è malato, rifletté. Sono venuti a prendermi per condurmi al suo capezzale. Sono convinti che soltanto io sarò in grado di guarirlo. L'ansia era tale che sentì le tempie bagnarsi di sudore. Per un equivoco
del genere rischiava di trovarsi in una situazione difficile da gestire. Lei era una marmista, era capace di scolpire la pietra, ma non sapeva assolutamente nulla di malattie e guarigioni. «Devi stare tranquilla», le ripeté Svénia. «Non toccare nessuno, nemmeno coi guanti di ferro. Stai alla larga dagli uomini. Di qualsiasi cosa hai bisogno, chiedi a me. Sono qui apposta. Tu dici e io faccio. Hai capito?» «Sì...» balbettò Marion che, in realtà, non riusciva a comprendere nulla di quella faccenda. Un odore di fumo la indusse a voltarsi. Gli uomini del Nord avevano appiccato il fuoco all'abbazia. Avevano messo delle fascine d'erba ai piedi dell'altare per dare subito alle fiamme la figura in legno crocifissa che tanto ripugnava loro. Una religione basata sul vittimismo, una religione per gli allocchi! Come non provare disgusto per un dogma che suggeriva di porgere l'altra guancia ogni volta che si veniva colpiti? Risuonarono degli ordini. Svénia si precipitò verso Marion, per aiutarla ad alzarsi. Dai suoi gesti, era evidente che faceva attenzione a non sfiorare mai le manopole di ferro. «Appoggiati a me. Saliamo sulla barca. Non devi avere paura. I vichinghi sono ottimi marinai: gli skoeio sono imbarcazioni eccellenti, non affondano mai», le disse. «I cosa?» «Gli skoeio... È questo il vero nome delle navi vichinghe. I franchi li chiamano drakar, ma drakar significa 'serpente' o 'dragone' e in realtà si riferisce solo alla prua. Devi sapere queste cose, giacché dovrai vivere con noi.» I guerrieri stavano colpendo le prigioniere per obbligarle ad alzarsi. Marion percorse con lo sguardo il gruppo delle persone catturate. C'erano molti visi familiari. Contadine del vicinato, Penine, la pastorella, una guardiana di oche con cui si era intrattenuta più di una volta sulla spiaggia e altre ancora... La maggior parte piangeva, tirando su col naso, ma alcune sembravano essersi accorte del trattamento di favore riservato a Marion. Perché la sostenevano come un'inferma? Perché le avevano bloccato le mani in quei guanti di ferro? «Non preoccuparti di loro», le sussurrò Svénia. «Loro non contano nulla, non sono niente. Sono solo schiave, carne per soddisfare i piaceri dei marinai. Servono a far passare il tempo ai guerrieri, per questo le portiamo con noi, ma non hanno importanza. Sei tu quella che siamo venuti a cerca-
re.» Marion s'irrigidì. I suoi sospetti erano stati confermati. Avevano sbagliato persona. Sentendosi completamente svuotata, lasciò che la serva la conducesse verso l'imbarcazione. Il fuoco crepitava. L'aria si riempì di scintille. Prima che il barone avesse mandato qualcuno a vedere cosa fosse successo, i vichinghi sarebbero già stati lontani. «Siamo qui già da tre giorni. Tu non ci hai visto, ma ti tenevamo d'occhio», proseguì la vecchia. «Tenevate d'occhio me?» balbettò la ragazza. «Sì. Per tutto il tempo, io sono stata accovacciata tra le dune, proprio alle tue spalle. Abbiamo raggiunto la riva con una canoa per esaminare il posto e accertarci che tu fossi davvero qui. Abbiamo attraversato il mare per venirti a prendere. Dovresti esserne orgogliosa.» Svénia incespicava nelle parole, così proseguì nella sua lingua e Marion non riuscì a capire nient'altro. La barca era ormeggiata sulla spiaggia. Il suo scafo in quercia, quasi piatto, straordinariamente stabile, aveva un che di prodigioso. Sarebbe stato possibile caricarci sopra dei cavalli e sbarcare al galoppo senza correre il rischio di capovolgersi. Le assi del ponte, imbrattate di escrementi d'uccello, avrebbero potuto sopportare le peggiori alterazioni senza mai cedere. Lunghi - apparentemente interminabili - e costruiti grazie a una tecnica sconosciuta nel suo Paese, i drakar avevano la forma di un rettile. Marion si era sempre immaginata quelle imbarcazioni come serpenti che strisciavano sulla superficie dell'acqua. I poeti nordici le chiamavano kenningar, che significava «cavallo del mare». «Vieni. Abbiamo preparato una tenda per te sul fondo», disse Svénia. Sconcertata, la ragazza superò una passerella sistemata lì per i prigionieri. Il vento le colpiva forte il viso, le tirava i capelli. Svénia la teneva per un braccio, per impedire che perdesse l'equilibrio. La lunga imbarcazione, con trentaquattro postazioni per i vogatori, vibrava come se fosse pronta a prendere il largo. Marion non era mai andata per mare e si stupì quando sentì lo scafo danzare sotto i suoi piedi, quasi fosse animato di vita propria. Ammassate una all'altra, le prigioniere erano state gettate sulla passerella. I guerrieri si stavano togliendo le armature, preparandosi a prendere il proprio posto. Si liberavano delle spade per impossessarsi dei remi. L'importante, in quel momento, era allontanarsi dalla co-
sta. Una volta al largo, non avrebbero più rischiato niente. Svénia condusse Marion fino a una piccola tenda allestita a poppa. La ragazza vi entrò, rendendosi conto che gli sguardi delle altre prigioniere erano tutti fissi su di lei. Il rifugio si rivelò arredato con tappeti in pelliccia e cuscini. Era evidente che si trattava di un alloggio pensato per un'ospite di riguardo. «Stenditi. Abbiamo un lungo viaggio davanti», disse la vecchia. «Durante la traversata, t'insegnerò a parlare la lingua vichinga. Non prenderla troppo alla leggera, perché, là dove stiamo andando, nessuno parla la tua lingua e, se io dovessi morire, non ci sarebbe nessun altro in grado di aiutarti.» «Sei una schiava?» chiese Marion. «Sì», rispose Svénia. «Mi hanno portato via da qui quando avevo quattordici anni. A quel tempo, mi chiamavo Margot. È passato tanto tempo ormai, e talvolta mi sembra che si tratti perfino di un'altra vita, mai esistita. Non sono stata troppo sfortunata, dopotutto. Quando li conosci bene, sai cosa devi fare per non adirarli. Ecco perché mi dovrai prestare ascolto. La tua magia non ti proteggerà da tutto. Mettitelo bene in testa. Sono violenti, collerici. Prima colpiscono con la spada e soltanto dopo riflettono. Nella cultura vichinga, le virtù maschili - e i difetti che ne derivano - sono portate all'eccesso. Non dimenticarlo mai. Rispettano solo la forza e il coraggio. Non temono la morte. Il loro unico scopo è morire combattendo, brandendo la spada. Disprezzano i vecchi, perché sono stati troppo prudenti. Per loro non c'è cosa migliore che morire in battaglia. E vogliono farlo prima di avere anche un solo capello grigio in testa.» Marion l'ascoltava senza prestare troppa attenzione. Da uno spiraglio della tenda, osservava i movimenti dell'orda guerriera. Erano tutti giovani. Pochi tra loro superavano i venticinque anni. Sembravano attivi, meticolosi, avvezzi alla disciplina di chi va per mare. In pochi gesti, si erano impossessati dei lunghi remi e avevano preso a vogare all'unisono. Il drakar si allontanò dalla riva e puntò verso il largo. Le saldature scricchiolavano mentre esso danzava, immergendosi in profondità per poi riaffiorare. Il serpente dalla lunga coda che adornava la prua sembrava spruzzare il suo veleno in direzione del cielo. Gli uomini remavano, emettendo grugniti cadenzati. La marea era così forte che, in un primo momento, Marion faticò a tenersi in equilibrio e rotolò sul letto di pelliccia. «Stai tranquilla. Il byrr, il vento soffiato per bocca degli dei, gonfierà le
nostre vele», le disse Svénia. «Se non sei mai andata per mare, potresti stare male. Quando sentirai lo stomaco brontolare, dimmelo. Ti darò da bere una pozione che calmerà la nausea.» Marion rimase distesa supina. I polsi bloccati le impedivano di muoversi a suo piacimento; inoltre i guanti di ferro erano pesanti da portare. Si lasciò cadere le braccia sul petto, per riposarsi. Si sentiva in colpa per il trattamento di favore che le era stato riservato, mentre le altre prigioniere se ne stavano ammassate a prua, battendo i denti, bagnate dalla schiuma delle onde. Vide Svénia sistemare con cura in un bauletto la sacca di pelle in cui erano racchiusi i suoi strumenti di lavoro. Santo Cielo! Chissà cosa s'immagina! Quella sacca contiene solo tre mazzuole e un assortimento di scalpelli e ceselli... mica oggetti di culto! Non riuscì a proseguire oltre nelle sue riflessioni, perché il mal di mare stava cominciando a farsi sentire. Vedendola impallidire e stringere i denti, Svénia prese a mescolare del liquido in una coppa. «Bevi», le ordinò. «Questo ti darà un po' di capogiro, ma almeno non vomiterai. Alcuni prigionieri stanno male da morire durante la traversata, svuotati di tutti i liquidi. Se dovesse succederti una cosa del genere, Rök, il nostro capo, non ce lo perdonerebbe mai. Ci condannerebbe tutti a morte. Dopotutto, abbiamo attraversato l'oceano per venire a cercarti. Te e te soltanto.» La vecchia continuava a farneticare, però Marion non ebbe la forza di opporsi. Aveva il cervello annebbiato dai fumi di qualcosa di simile all'oppio. Si buttò sui cuscini che sapevano di capra. Il parlottio ininterrotto della serva s'insinuò nelle sue orecchie come una strana melodia. «Rök è il nostro capo», ripeté la donna. «È l'ultimo rappresentante della razza vichinga, l'unico a vivere ancora secondo gli antichi principi. Tutte le altre tribù sono state contaminate dal cristianesimo. È stato un processo lento, ma al giorno d'oggi resta soltanto una manciata di veri guerrieri che adorano gli dei del Walhalla: Thor, Odino... La razza ha perso la propria potenza. Gli uomini del Nord, ormai, non sono altro che mercanti e hanno la testa infarcita di problemi da bottegai. Si travestono da cristiani per farsi accettare dagli altri popoli. Hanno sostituito il Mjollnir, il mantello sacro di Thor, con una tunica decorata con la croce! Che vergogna! Sono ancora astuti, certo, ma non incutono più timore. Rök non è come gli altri. Lascia che siano loro a diventare vecchi.» La voce le vibrava, fiera, come se anche lei risplendesse della gloria di coloro che a suo tempo l'avevano rapita. Ma sono i tuoi aguzzini... avrebbe voluto obiettare Marion. Tuttavia la
lingua impastata le impediva di parlare. «Noi non siamo una tribù di mercanti», insistette Svénia. «Noi non ci accontentiamo di girare il mondo a caccia di affari. Rök vuole restare un predatore, un lupo.» Marion chiuse gli occhi. Le girava la testa. Avrebbe tanto voluto che la vecchia smettesse di parlare... «Vedrai», proseguì la serva. «Rök è terribile, senza pietà, e la sua ira è imprevedibile. Può tranciarti la testa o mozzarti una mano, se osi contraddirlo. Ma è proprio perché è così crudele che noi gli portiamo rispetto. Se sarà contento di te, diventerai una specie di regina. Se invece lo deludi, ti farà morire in preda ai tormenti più atroci. Preferisco metterti in guardia. Si aspetta molto da te, la tua fama è giunta fino a lui, oltre il mare. Ecco perché ha ordinato questa spedizione, comandata dal suo fratello di latte, Gunar-dagli-occhi-rossi.» Stordita dalla droga, Marion provò un vago senso d'angoscia. Ormai, era praticamente certa che i vichinghi avessero attaccato il monastero sbagliato. Per quale santona l'avevano scambiata? Quali malattie si aspettavano che guarisse? Mi faranno a pezzi, pensò, immersa nel suo torpore. Una volta scoperto l'errore, la delusione sarà tale che si vendicheranno. Cosa poteva fare, però, se non cercare di guadagnare tempo? Avrebbe potuto tentare la fuga al momento dello sbarco... Ma come sarebbe sopravvissuta con le mani imprigionate in quei guanti di ferro? Finì per lasciarsi andare al dormiveglia. L'imbarcazione oscillava sulla cresta delle onde, ma lei non stava più male. Avevano ritirato i remi e issato la vela. La costa si allontanava: ben presto la terra sarebbe sparita all'orizzonte. Un pensiero che avrebbe terrorizzato Marion, se lei fosse stata in condizioni normali. Ma quella medicina troppo potente la faceva vagare al margine dei sogni, dei presagi. Non si rese nemmeno conto che stava calando la notte. Alcune grida la scossero dal suo torpore. Svénia le spiegò che i guerrieri si stavano «divertendo» con le prigioniere, come facevano di solito, una volta issate le vele. Lo stupro era un modo per indurre ad arrendersi anche le più combattive. Inoltre, se le avessero messe incinte, avrebbero aumentato il loro valore e le avrebbero vendute al mercato degli schiavi a un prezzo migliore. Le spiegava quelle cose con assoluto distacco: non sembrava che lei stessa avesse vissuto la stessa esperienza, molti anni addietro. Marion si sentì ancora più in colpa. Sapeva bene che le sue compagne di
prigionia non le avrebbero mai perdonato quel trattamento privilegiato, mentre loro erano costrette a sottomettersi alle brame dei guerrieri. «Non farti problemi per loro. Non è poi così terribile, in realtà. Più gli uomini sono eccitati e meno è dura! Ed è comunque meglio che farsi tagliare la gola», le disse Svénia, come se le avesse letto nella mente. Disgustata, senza ben sapere cosa stesse facendo, la ragazza si alzò, barcollando, e tentò di uscire dalla tenda. Ma le gambe non la ressero e lei cadde sul ponte. La notte, sul mare, era spaventosamente buia. C'era solo una torcia che brillava da qualche parte, a prua. Per il resto, tutto era immerso nelle tenebre, come se il sole si fosse eclissato per sempre. In preda ai fumi della droga, Marion riuscì a distinguere alcuni corpi nudi di donna, gettati a terra sul pontile, ammassati l'uno contro l'altro. Nella luce fioca, la loro pelle appariva pallida, quasi fossero effigi di marmo. Per un istante, ebbe l'impressione che i vichinghi stessero fornicando con le statue dei santi che lei stessa aveva scolpito durante la sua permanenza al monastero. Avrebbe voluto alzarsi, ma le mani chiuse nei guanti di ferro glielo impedivano. Se mi aggrappo al parapetto, il peso delle manopole mi tirerà verso il basso, rifletté. Non sarebbe stato meglio morire annegata piuttosto che affrontare i tormenti cui l'avrebbero sottoposta una volta scoperta la sua vera identità? Cercò di spingersi verso il parapetto, ma Svénia l'afferrò sotto le ascelle e la trascinò di nuovo dentro la tenda. «Cosa credi di fare?» grugnì la vecchia. «Non è uno spettacolo che fa per te. Devi restare pura, nessuna macchia dovrà intaccarti. È Rök che l'ha ordinato.» Non sono la persona che pensate! cercò di gridare Marion. Nonostante lo sforzo, però, riuscì a emettere solo un mugugno, reso impercettibile dalle grida delle donne violentate. Svénia la sistemò di forza sul letto di pelliccia e le fece bere un'altra tazza di medicinale. Infine Marion sprofondò nel sonno. 4 Il giorno successivo, calò la foschia. Il drakar proseguiva alla cieca nella nebbia fitta; a prua era stato issato il serpente, per tenere lontane le divinità
marine. Faceva freddo. Marion batteva i denti, la testa ancora pesante per gli effetti della droga. Poco più avanti, le prigioniere se ne stavano rannicchiate sotto una pensilina di tela, resa impermeabile grazie all'olio di balena. Alcune piangevano, altre fissavano il vuoto con sguardo vacuo, come se l'anima avesse già abbandonato i loro corpi. La piccola guardiana di pecore lanciò a Marion uno sguardo carico d'odio, che sembrava dire: «Tu hai visto tutto, ma non hai fatto nulla per aiutarmi». Liberi dalle loro bardature da combattimento, gli uomini sembravano meno terribili. Tuttavia Marion notò che erano ben più massicci dei franchi e tanto biondi da fare impressione. Quasi tutti avevano barba e trecce. La guardavano di soppiatto, come se avessero paura di lei. Quando si voltava verso di loro, i più giovani si affrettavano perfino ad abbassare gli occhi. Era curioso - e piacevole al tempo stesso - scoprire di avere un potere su quei giganti sanguinari. Ormai è certo. Mi hanno scambiato per una maga, pensò. Svénia la trasse indietro. «Basta così», brontolò. «A che gioco stai giocando? Cosa ti salta in mente di andare a fare la smorfiosa con gli uomini?» La giovane non rispose. Le era venuta un'idea: perché non farsi amico uno dei guerrieri per fuggire dalla barca? Le era parso, seppure in modo fuggevole, che uno di loro - il più giovane forse - la guardasse, ardente di desiderio, di una brama irrefrenabile che di solito i maschi non erano capaci di trattenere e che li spingeva a compiere le peggiori meschinità. Se fosse stato così, c'erano buone probabilità che quel ragazzo accettasse di aiutarla. Ma doveva fare in fretta, agire prima che il drakar si fosse allontanato troppo dalla costa. Non ho scelta. Alla fine del viaggio mi attendono la tortura e la morte, si disse. «Non devi fare la civetta!» borbottò la serva, trascinandola al riparo, dentro la tenda. «Non dimenticarti che io ho anche il compito di sorvegliarti. Oltretutto nessuno di quei ragazzi risponderà alle tue moine. Hanno troppa paura di Rök.» Marion non ne era così sicura. Durante le ore seguenti, dovette piegarsi agli ordini di Svénia, che insistette per lavarla così da renderla presentabile. Marion non ci teneva affatto a farsi toccare da una donna. A differenza delle nobildonne, non era abituata a lasciare che una serva si prendesse cura di lei. «I vichinghi sono un popolo pulito, non come voi, i franchi, che vi crogiolate nel vostro olezzo da un anno con l'altro. Si lavano spesso e non hanno paura dell'acqua. Una
volta arrivata, dovrai fare attenzione a non mostrarti mai trasandata», insistette Svénia. Marion dovette rassegnarsi a farsi mettere le mani addosso. Senza più prestare ascolto al soliloquio della vecchia, si concentrò sul suo piano. Una volta terminata la toilette, dovette lasciare che Svénia la imboccasse. Le manopole le pesavano come se portasse delle palle di piombo ai polsi. Non ce la faceva più ad avere le dita immobilizzate. È come se fossi paralizzata, si disse. Era chiaro, invece, che Svénia era soddisfatta del suo ruolo. Una volta che la prigioniera ebbe terminato di mangiare, decise di pettinarla e prese quindi a sbrogliarle i capelli con un pettine in osso di capodoglio. Nominava ogni oggetto in lingua vichinga e insisteva perché Marion ripetesse quelle parole finché la sua pronuncia non suonava perfetta. «Devi renderti conto che per te sta per cominciare una nuova vita», mormorò. «Con un po' di fortuna, diventerai la compagna di un uomo importante. Può essere addirittura che. Rök ti voglia nel suo letto, chi può saperlo? Sei graziosa e forte, due qualità che apprezza. Se vuoi, posso insegnarti io i giochi d'amore che preferisce. Conosco bene i suoi gusti, mi è capitato spesso di dormire ai piedi del suo letto mentre si dava al piacere. Ti dirò cosa devi fare. In cambio, tu mi terrai al tuo servizio anche quando non ti sarò più utile. Sai che laggiù gettano i malati e gli anziani dall'alto di un dirupo?» «No», confessò Marion. «È così. Sono un popolo di giovani e come tutti i giovani sono spietati. Le guerre, i combattimenti non gli lasciano il tempo d'invecchiare. Sono egoisti e si liberano volentieri dei deboli, degli infermi, che gli fanno ribrezzo... Non hanno pietà per gli anziani. Sono convinti che diventare vecchi significhi aver vissuto una vita all'insegna dell'ozio», mormorò Svénia. «Me l'hai già detto!» tagliò corto Marion, infastidita dai continui discorsi su quelle usanze atroci. «È perché sono in pericolo», gemette la serva. «Ti propongo un patto. Io ti aiuterò a sopravvivere laggiù se tu mi proteggerai. Ti basterà, per esempio, fingere di non aver ancora imparato la lingua del Nord. Sarà sufficiente perché mi lascino al tuo servizio.» «D'accordo», sospirò Marion. «Dopotutto non si tratterà nemmeno di una bugia, visto che non riuscirò mai ad apprendere questa lingua barbara. Sembrano più dei guaiti che delle parole!» La nebbia si dissolse e Marion ne approfittò per cercare di scorgere la
terra. A quel punto, volendo, avrebbe ancora avuto una speranza di raggiungerla a nuoto. Sarebbe bastato aggrapparsi a un barile vuoto o a una cisterna in pelle di maiale ben gonfia e battere forte i piedi. Di certo l'acqua era ghiacciata, ma, ricoprendosi di grasso, sarebbe riuscita a sfuggire alla morte. Aveva buone possibilità di farcela, pensò, e non poteva più aspettare. Una volta che il drakar fosse stato in mare aperto, la distanza da percorrere sarebbe diventata insostenibile. Finse un attacco di nausea, così che Svénia la sostenne fino al parapetto. Tutti gli uomini le voltarono le spalle, a parte uno, come al solito: un ragazzo dalle lunghe trecce, con una cicatrice sopra l'occhio destro. Quella volta, Marion gli puntò gli occhi addosso, cercando di mettere nello sguardo un invito sensuale. Non aveva scelta. Se c'era qualcuno che poteva aiutarla a fuggire, era senz'altro lui. «Va meglio?» chiese la serva. «Sì, sì...» mentì la ragazza. Scrutò l'acqua grigia che fluttuava lungo i fianchi dell'imbarcazione. Cercò di figurarsi in balia delle onde gelide, mentre nuotava alla cieca, nelle tenebre. Svénia la prese per un braccio e la spinse a tornare nella tenda. «Una volta giunta alla fine del viaggio», le spiegò, «dovrai abituarti a non toccare mai gli oggetti volgari. Le tue mani saranno considerate sacre. Se verranno contaminate, perderanno all'istante il loro valore sacrale e tu sarai condannata a morte... o ti saranno amputati gli arti all'altezza dei polsi, con un colpo d'ascia. Hai capito? Quello che sto dicendo è molto importante.» «Sì, sì», rispose Marion con scarso interesse. «Ci penserò io a nutrirti, a lavarti e, quando dovrai andare a fare i bisogni, verrò ad aiutarti. Per tutti questi gesti che riguardano la vita quotidiana, dovrai comportarti come se non avessi le mani. È chiaro?» ripeté la vecchia. «No.» «Fa' uno sforzo, per gli dei! I vichinghi non scherzano, quando si tratta di religione.» «Va bene, va bene. Mi comporterò come se fossi monca. È questo che devo fare?» «Sì, per la tua sicurezza e la tua salvaguardia.» Svénia annuì, soddisfatta. «All'inizio, porterai le manopole di ferro. Poi, se saranno contenti di te, te le sostituiranno con qualcosa di meno ingombrante. Dovrai imbottirle di
pelliccia... Fa talmente freddo laggiù che ti resterà la pelle incollata al ferro se non prenderai le giuste precauzioni. È una terra tremenda, dov'è necessario respirare a piccole boccate per non rischiare di gelarsi i polmoni. Anche la luce è accecante... Certi giorni, bisogna perfino bendarsi gli occhi e guardare il mondo filtrato da una stoffa.» Marion credeva solo alla metà di quei racconti. Si chiese se la vecchia non avesse perduto il senno. D'altronde, aveva poca importanza, dal momento che aveva in programma di fuggire. Aveva già architettato il piano. Avrebbe finto di soffrire di mal di mare per chiedere a Svénia di prepararle un bel boccale di quella miscela che induceva il sonno. A quel punto, le avrebbe fatto credere di berla, e invece l'avrebbe rovesciata nella caraffa d'idromele da cui la serva attingeva di continuo. Con un po' di fortuna, la donna si sarebbe addormentata prima dell'alba. Da quel momento, dunque, Marion s'impegnò a recitare la commedia e, per cominciare, corse verso il parapetto, fingendo un altro attacco di nausea. Ancora una volta, ne approfittò per cercare lo sguardo del giovane dalle trecce bionde, che era sempre più nervoso. Quando Svénia le offrì la pozione - seguendo dunque il suo piano alla lettera - la ragazza si distese gemente sul letto di pelliccia. Non appena la vecchia si assentò per andare a procurarsi del cibo, sollevò il coperchio della caraffa e vi svuotò il bicchiere di medicinale. A quel punto, non le restava che aspettare. Non era un piano perfetto, eppure Marion non era riuscita a pensare a niente di meglio. Inoltre sapeva che le strategie all'apparenza più folli talvolta possono risultare le migliori. Non aveva molto da perdere e il tempo giocava a suo sfavore. Una volta lontani dalla costa, non avrebbe più potuto pensare a un'evasione. Doveva solo portare pazienza. Come previsto, dopo essersi scolata tre pinte d'idromele, Svénia si accasciò sul pagliericcio e cadde addormentata. Era ormai calata la notte. La lunga imbarcazione procedeva dritta nelle tenebre, come un serpente che sfiorava la superficie dell'acqua. Faceva freddo, era umido. Marion aspettava, nervosa, pronta a tutto. Finalmente una mano scostò il telone che proteggeva l'ingresso del rifugio. Era il giovane guerriero dalle trecce bionde. Esitava, i tratti tesi, come se avesse paura di spingersi oltre. Marion non capiva perché un uomo tanto impietoso, che aveva già ucciso avversari a decine, sembrasse terroriz-
zato da una ragazza con le mani bloccate da due manopole di ferro, una prigioniera che avrebbe potuto tranquillamente sottoporre al suo volere imbavagliandola, o puntandole una daga alla gola. Cosa mai gli avranno raccontato? si chiese la ragazza. Mi crede una dea, una fata... ed è proprio questo che lo eccita: l'idea di fornicare con un essere superiore. Un'esperienza di cui si potrà vantare sino alla fine dei suoi giorni. Non osava fargli cenno di avvicinarsi. Il ragazzo scivolò dentro la tenda. Marion sentì subito l'uomo; il sudore gli bagnava la fronte, nonostante il freddo della notte. Era evidente che era molto più agitato di quanto non gli capitasse in battaglia. La luce della torcia che s'infiltrava nelle trame della tenda ne accentuava i lineamenti selvaggi. Era una bellezza brutale, la sua, come quella di un giovane lupo, un predatore carnivoro indurito dai massacri compiuti. Sulla tempia destra spiccava una cicatrice, che apriva un solco nella capigliatura, senza però nuocere alla sua bellezza. Si fermò appena prima del letto e, col fiato corto, sollevò una mano. Il suo sguardo fisso tradiva la paura, l'attrazione per il proibito. S'immobilizzò, il palmo della mano che sfiorava il ventre di Marion. Gli tremavano le dita. Servendosi delle parole apprese da Svénia, Marion cercò di spiegargli ciò che voleva: «Tu... io... barca... partire». Ripeté con impegno quelle parole. Il ragazzo la guardava, stupito, il palmo della mano ancora sollevato. Cosa penserà? Che una dea l'abbia scelto tra tutti i mortali per aiutarla nel suo lungo viaggio? si chiese Marion. Non le importava. Cercando di sollevarsi, agitò la catena legata alle sue manopole. Quel semplice rumore fece sussultare il ragazzo, che scrutò i guanti di ferro con un'espressione terrorizzata, come se le mani della giovane potessero trasformarsi da un momento all'altro in orribili artigli. Devi approfittarne. È l'unica possibilità che hai di svignartela, si ripeté la ragazza. «Tu... io... barca... partire», mormorò di nuovo, indicando la costa, ma il giovane guerriero non faceva altro che scuotere la testa, sgranando gli occhi, chiedendosi come mai non fosse stato ancora ridotto in cenere. A quel punto ci fu un sobbalzo, la tenda si aprì e tre figure massicce fecero irruzione nel rifugio, afferrando il ragazzo per le trecce bionde. Uno di loro reggeva una torcia, la cui luce accecò Marion. I vichinghi si preoccuparono di verificare che la prigioniera non avesse subito maltrattamenti, esternando la loro rabbia con latrati furiosi. L'uomo a capo del gruppo tirò
un calcio nelle costole a Svénia, poi la prese per i capelli e cominciò a scrollarla, come se volesse staccarle la testa dal collo. Il colpevole fu trascinato all'esterno, Svénia pestata a sangue, poi la tenda fu richiusa, impedendo a Marion di vedere cosa stesse succedendo sul ponte. Le urla furibonde del capo risuonarono a lungo nella notte. Accovacciata sul suo pagliericcio, Svénia tremava come una cagna bastonata, tirando su col naso il muco misto a lacrime e sangue. «Perché l'hai fatto? Non dovevi attirarlo... È peccato», singhiozzò. «Non l'ho obbligato a venire», replicò la ragazza. «Sì, invece!» replicò la serva. «L'hai guardato, ti ho visto. Gli hai lanciato la sfida. Un vichingo è costretto a rispondere a tutte le sfide, altrimenti perde l'onore agli occhi degli altri, ma anche ai suoi stessi occhi. Sapeva che stava facendo qualcosa di proibito, che stava tradendo il suo clan... ma non aveva scelta. Era un obbligo morale per lui. Tu non puoi capire. L'hai messo in trappola. Gli hai detto: 'Provaci!' e lui si è sentito obbligato ad andare sino in fondo, a costo di perdere la vita.» Marion strinse i denti. «Cosa gli faranno? Lo uccideranno?» «Non lo so. Sono crudeli. Si chiama Knut, è un grande guerriero ed è il cugino di Rök, il nostro capo, ma ha infranto una regola. Ha voluto toccarti. Avrebbe potuto contaminarti, non glielo perdoneranno», mormorò Svénia, asciugandosi le lacrime. «Va' a dirgli che non mi ha fatto niente. Non voglio che lo uccidano. Va'!» gridò Marion. «Non servirà a nulla. È il principio che conta.» «Va' lo stesso!» strillò Marion. La vecchia uscì, la schiena ricurva. La ragazza la sentì parlottare con voce esile nella lingua del popolo del Nord. Di tanto in tanto, quel sibilo era interrotto da un ululato rimbombante. Infine Svénia rientrò nella tenda. «Hai vinto. Gli lasceranno una possibilità. Se gli dei l'assistono, forse sopravvivrà», disse. «Cosa gli faranno?» chiese Marion. «Vedrai», sospirò la serva, distendendosi sul pagliericcio. 5 Il giorno seguente, alle prime luci dell'alba, i guerrieri ordinarono alle due donne di uscire sul ponte.
Knut aspettava, nudo, circondato dai suoi compagni di battaglia. Non era legato e non presentava segni di sevizie. Non appena vide Marion, la guardò fisso negli occhi, come se volesse dirle: «Non ha importanza, non ho rimpianti, ma se sei una dea aiutami, o adesso o mai più». «Cosa gli vogliono fare?» mormorò la ragazza rivolta a Svénia. «Lo legheranno all'estremità di un remo», borbottò la serva. «Uno di quei lunghi remi che usano per far avanzare l'imbarcazione quando cala il vento. Poi, seguendo il ritmo dei rematori, lui sarà immerso e tirato fuori dell'acqua, per tutto il giorno. Seguirà il movimento del remo... un po' nell'acqua, un po' fuori dell'acqua. Due uomini faranno da vogatori. Via via che si stancheranno, Knut resterà immerso più a lungo. Quando non avranno più la forza per tenere il remo sollevato, annegherà. Gli lasceranno la possibilità di scegliere i rematori. Certo, potrà selezionare i due guerrieri più forti, ma può anche darsi che non siano suoi amici e che non abbiano intenzione di spezzarsi le braccia per salvargli la pelle. Se invece deciderà di mettere la sua vita nelle mani dei compagni che più gli sono cari, allora non è detto che siano anche i più energici tra gli uomini che ci sono a bordo.» «Che usanza folle!» esclamò Marion. «È colpa tua. Non avresti dovuto sfidarlo. Che ti serva di lezione», ribadì Svénia. Come annunciato dalla serva, i guerrieri legarono Knut all'estremità di un lungo remo, la testa rivolta verso il basso, poi affidarono l'impugnatura dello strumento a due vogatori già sistemati ai loro posti. Coi muscoli tesi, i due si sforzavano di tenere il remo fuori dell'acqua il più a lungo possibile; ma il giovane era troppo pesante. D'un tratto i due cedettero e Knut s'inabissò tre le onde. «Ecco qua. E sarà così fino al calare del sole. Se hai dei poteri magici, è il momento di usarli, altrimenti quel ragazzo morirà prima di mezzogiorno», commentò Svénia. Marion sentì il sangue gelarlesi nelle vene. Nessuno la guardava. Ebbe l'impressione di essere diventata invisibile. Il rumore dei remi, che ritmicamente s'inabissavano, aveva qualcosa d'inquietante. La ragazza non riusciva a staccare gli occhi dal corpo nudo del giovane, legato a quell'asta, grondante, che gonfiava il petto d'aria ogni volta che riemergeva in superficie. «È sempre così. All'inizio i vogatori sono ancora nel pieno delle forze, ma, col passare delle ore, faranno sempre più fatica a sollevare il remo e la
durata delle immersioni si prolungherà», le fece notare Svénia. «Stai farneticando!» tagliò corto Marion. «Io non sono responsabile di ciò che sta passando quel ragazzo.» In realtà, sapeva di aver detto una menzogna. Passarono le ore. A bordo, gli uomini si erano fatti silenziosi. Solo il comandante, di tanto in tanto, lanciava un urlo per correggere la rotta. Marion avrebbe voluto tapparsi le orecchie per non sentire più il rumore dei remi che s'immergevano tra le onde. «Perché desideri così tanto quel ragazzo? Sei così vogliosa di sesso da non poterne fare a meno neanche per una notte?» chiese Svénda. «Idiota!» grugnì Marion, arrossendo. «Non volevo fare l'amore con lui, speravo solo che mi aiutasse a fuggire.» La serva scosse la testa. «Non era male come idea», ammise. «Quando si viene scelti da una dea fra tanti altri uomini, non si può far altro che obbedirle ciecamente. Tu hai già capito tutto della vanità maschile, e la vanità dei vichinghi è senza limiti.» Fece una smorfia. «Ora, però, devi fare i conti con un altro problema. Se dovesse morire, i suoi familiari ti riterranno responsabile e penseranno solo a vendicarsi. I vichinghi amano la vendetta, lo scoprirai presto. Certe famiglie si fanno la guerra da decine di anni, e per motivi che si perdono nella notte dei tempi. Talvolta è sufficiente un piccolo torto per dare il via a uno spargimento di sangue che si protrae per anni.» «A darti ascolto, si direbbe che stiamo per attraccare sulle rive dell'inferno», sospirò Marion. «Pressappoco è così, in effetti», confermò Svénia. «Mi auguro davvero che i tuoi poteri magici siano abbastanza forti da proteggerti dalla furia della tribù, altrimenti ti aspetta una fine atroce.» Marion abbassò lo sguardo sulle manopole di ferro. Aveva la fastidiosa impressione di aver perso l'uso delle mani. Era una sensazione terribile per un'artista la cui abilità consisteva proprio nel saper maneggiare scalpello e cesello. «E se dovessero scoprire che non possiedo nessun potere?» chiese. «Allora potrebbero riscaldare per bene quelle manopole fino a cuocerti le mani», rincarò la vecchia. «Dubito assai che una cosa del genere ti farebbe piacere, ma spesso Rök ha idee curiose in materia di punizioni. Una volta ha catturato un cavaliere cristiano e, senza neppure togliergli l'armatura, l'ha legato a uno spiedo e l'ha messo a rosolare, come se si trattasse di un cinghiale. Quando il metallo ha cominciato a diventare incandescente, il
grasso di quel poveraccio ha preso a colare dalle fenditure dell'armatura. Dev'essere stato un brutto momento per lui. Spero non ti capiti la stessa cosa.» Quando il sole raggiunse lo zenit, Marion insistette per uscire sul ponte e verificare le condizioni di Knut. I suoi compagni di battaglia, aggrappati al remo, mostravano segni di cedimento. Ormai faticavano persino a sollevare lo strumento a pelo d'acqua, e il giovane aveva dunque solo qualche istante per riprendere fiato. Aveva la pelle blu per il freddo e le corde gli penetravano nella carne rigonfia. Il suo aspetto era quello di un morto annegato. È colpa mia, pensò Marion, con una stretta allo stomaco. Chissà quanto mi odia. Se dovesse sopravvivere, non me lo perdonerà mai. «È spacciato», borbottò Svénia con aria da intenditrice. «Non tirerà fino a sera. Peccato, era un bel ragazzo. Se annega, i suoi compagni si rivolteranno contro di te, ti vorranno morta. E allora dovrai sempre guardarti alle spalle.» 6 Knut non morì. Quando calò la notte, sollevarono il remo e lo deposero sul pontile. Il ragazzo, livido per il freddo, tremava, ma senza lasciarsi sfuggire un lamento. Per liberarlo, fu necessario tagliare le corde, intrise d'acqua, che gli avevano tagliato la carne. Tra i mormorii d'ammirazione dell'equipaggio, Knut si mise seduto e uno dei suoi amici gli gettò una pelliccia sulle spalle. Marion lo guardava, il cuore oppresso dal senso di colpa. Le sembrava che, nonostante il tremore, Knut cercasse con lo sguardo il suo viso. Lei non si nascose e, quando gli occhi del ragazzo incontrarono i suoi, si stupì, scorgendo in essi un lampo di fierezza, unito a un singolare ossequio nei suoi confronti. Sembrava che il ragazzo stesse cercando la sua approvazione. Ne restò turbata. Nello sguardo di Knut non c'era traccia di rancore nei suoi confronti, benché lei fosse una sconosciuta e l'avesse quasi condannato a morte. Al contrario, sembrava contento di essere stato all'altezza della prova che lei gli aveva inflitto. Per un istante, Marion ebbe l'impressione di trovarsi di fronte a uno di quei cavalieri glorificati dall'amore cortese, che rischiano la vita soltanto per il piacere di veder apparire un sorriso sulle labbra della loro bella dama. È forse un demente? si chiese. Tutte quelle
sciocchezze sull'«amore nobile» l'avevano sempre infastidita e certo non condivideva quei sentimenti. «Hai visto? È come se aveste firmato un patto. Quel ragazzo è pronto a morire per te», le sussurrò Svénia. «Ne ho abbastanza di queste stupidaggini!» esclamò Marion, stizzita. «Mi hai forse preso per una di quelle dame che combattono la noia accalorandosi per le commediole che mettono in piedi i trovatori?» E girò sui tacchi per tornare alla tenda. Lo sguardo di Knut la perseguitò sino a notte fonda, tanto da impedirle di prendere sonno. Quando infine stava per assopirsi, le numerose informazioni apprese da Svénia le assalirono la mente. Walhalla significava «castello dei morti». Era lassù che Odino raggruppava i guerrieri caduti in battaglia, così da formare un'armata in grado di affrontare i giganti, quando fosse suonata l'ora del Ragnarok, il crepuscolo degli dei. Le Valchirie erano donne che «indicavano i condannati a morte»; avevano il temibile privilegio di sorvolare i campi di battaglia e scegliere i futuri defunti. Fenrir era il... Infine raggiunsero la terra del Nord. Un'isola rocciosa di cui Marion non comprese il nome e che, vista dal mare, sembrava piuttosto piccola. La ragazza calcolò che avevano viaggiato all'incirca per tre settimane. Ormai non sopportava più l'umidità dell'imbarcazione, il freddo, il senso di nausea costante. Per via delle pozioni di Svénia, aveva passato la metà del viaggio in uno stato di profondo torpore, dubitando a tratti perfino della realtà che la circondava. Anche quella mattina riuscì con difficoltà a convincersi che ciò che vedeva era reale. L'arrivo del drakar non fu accompagnato dal minimo entusiasmo. Marion ebbe l'impressione che stessero sbarcando come clandestini, con una fretta che rasentava il panico. Dal numero dei pacchi che venivano ammucchiati e legati sulle slitte e dalla presenza di animali da tiro, comprese pure che il gruppo si preparava a mettersi in viaggio. Il freddo pungente le faceva battere i denti. Svénia le gettò una pelliccia sulle spalle, dicendo: «Dovrai farci l'abitudine. Non è niente a paragone di ciò che ci aspetta sulle montagne. Qui il mare rende il clima più mite». Sulla riva, li attendeva una specie di comitato d'accoglienza, formato dal capotribù e da alcuni consiglieri.
Così è quello il famoso Rök, pensò Marion, esaminando il gigante che aveva davanti. L'uomo teneva le mani ben salde sui fianchi e sembrava davvero giovane. Lei non avrebbe saputo spiegare perché, ma si aspettava d'incontrare un uomo maturo, dalla barba brizzolata. Come tutti i suoi compagni, anche Rök aveva l'aspetto di un predatore. Un lupo in piedi sulle zampe posteriori, decise tra sé la giovane. Ne percepiva la violenza appena contenuta, la forza fremente. Il suo sguardo scrutatore brillava di una luce allucinata. La guancia destra era solcata da una ragnatela di piccole cicatrici. La barba e i capelli sembravano un prolungamento della pelliccia in cui era avvolto, e il fatto che sia il colore sia la consistenza fossero simili gli conferiva un aspetto animalesco, che metteva a disagio. Pareva un lupo mannaro così potente da potersi permettere di andare in giro anche alla luce del giorno. Aveva un'aria tetra e ogni particolare in lui faceva pensare a un uomo che viveva in perenne stato d'allerta, nell'attesa di un'imboscata. Sostenuta da Svénia, Marion scese dall'imbarcazione. «Sta' attenta», le bisbigliò la serva. «Non parla la tua lingua, ma credo la capisca abbastanza bene. D'ora in avanti, la tua sopravvivenza dipende dai servigi che sarai in grado di rendere alla tribù.» Marion non si preoccupava più di camuffare il suo tremore. Aveva paura e più di ogni altra cosa temeva che le chiedessero di fare qualche miracolo. Era sicura che l'avrebbero condotta al capezzale di un ferito, di un malato e che avrebbero preteso da lei la guarigione attraverso l'imposizione delle mani. Trenta passi soltanto la separavano da Rök. La ragazza si sforzò di riprendere il controllo e di assumere l'atteggiamento che ci si aspettava da una dea. Tenendo gli occhi bassi, Svénia cominciò a tradurre: «Sta dicendo che noi siamo gli ultimi rappresentanti della razza dei veri vichinghi. Gli altri si sono lasciati corrompere dai preti missionari, hanno abbracciato il credo del Crocifisso. Adorano un cadavere appeso a una croce. Perché non un impiccato, allora, o una spoglia carbonizzata che si sgretola sul rogo? Dice che si tratta di religioni per vittime, per popoli privi d'orgoglio, votati al massacro. Nessun vichingo degno di questo nome può accettare una cosa simile... Ecco perché lui ha preso le distanze dagli altri, per proseguire sulla retta via. Lui e i suoi uomini continuano ad adorare gli antichi dei. Le divinità del Walhalla». Rök parlava con voce reboante, ma in tono affannoso, come se le parole gli premessero in bocca. L'intera tribù lo ascoltava. «Dice che ha sentito parlare di te dai preti missionari», continuò Svénia.
«Un certo Azaël gli ha cantato le tue lodi. Sei la persona che stava cercando. È per questo che ha inviato una spedizione in terra normanna.» Marion dovette fare uno sforzo per non mostrare il proprio stupore. Padre Azaël era dunque diventato missionario? Cosa poteva aver raccontato a quei selvaggi? Di certo non che era una santa capace di compiere miracoli... ma forse si era spiegato male e i barbari avevano capito una cosa per un'altra. Si accorse che, da qualche istante, Rök stava fissando le manopole incatenate ai suoi polsi. Nello sguardo del vichingo c'era un fervore mistico che le metteva paura. Marion avrebbe voluto gridare: «Vi state sbagliando, io so solo scolpire la pietra. Non posso fare niente per voi. Lasciatemi andare!» Invece restò in silenzio e Rök riprese a parlare con la sua voce cavernosa. Per imitazione, Svénia assunse lo stesso tono del capo: «Dice che arrivi giusto in tempo per salvare la tribù. L'inverno sta per terminare, l'aria si riscalda e, tra qualche settimana, gli dei non proteggeranno più il clan e potranno succedere le cose peggiori. Tu devi intervenire subito. Seguilo e ti mostrerà cosa si aspetta da te». Marion era in preda a una grande confusione. Aveva l'impressione di muoversi dentro un incubo incomprensibile. Il gruppo si mise in marcia. Faceva freddo, ma la coltre di neve si stava già assottigliando. D'un tratto la ragazza scorse alcune capanne senza finestre, col tetto ricoperto di terra e di erba. Quelle abitazioni provvisorie, senza aperture sull'esterno, davano l'idea di prigioni. Dovevano essere particolarmente buie e fetide. Al centro di quel villaggio improvvisato, in balia del vento, s'innalzavano alcune statue scolpite nel ghiaccio. Il caldo le stava rovinando e alcune avevano i tratti già in parte squagliati. I guerrieri s'inginocchiarono. Svénia fece cenno a Marion d'imitarli. La ragazza sentì la neve che le inumidiva le vesti e le ghiacciava le ginocchia. «Sono le divinità che vegliano sulla tribù», le spiegò la serva. «Laggiù, ci sono le Valchirie, le nove figlie di Odino che sorvolano i campi di battaglia per prelevare le anime morte. Quello è Odino, il dio più importante, colui che ha donato agli uomini il fuoco, la scrittura. Accanto a lui c'è Thor, il dio dal martello...» Proseguì con quell'enumerazione, elencando nomi che non dicevano niente a Marion, vista la sua scarsa familiarità con
le credenze germaniche. La ragazza non si sforzò nemmeno di memorizzarli, concentrandosi sulle sculture di ghiaccio che si stavano sciogliendo. Per via del calore, piangevano lacrime che stavano rovinando il loro viso. A quel ritmo, ben presto i lineamenti si sarebbero completamente sciolti. Ammirando quell'opera di grande maestria, Marion sentì una stretta al cuore al pensiero che quelle statue si sarebbero ridotte a una pozzanghera di acqua putrida. Bisognava avere un gusto un po' perverso per scolpire cose tanto belle usando un materiale destinato a dissolversi. «Quelle sono le Norne che tessono e tagliano il filo della vita... Laggiù c'è il serpente-mondo che circonda la terra piatta con le sue spire...» proseguì Svénia. Iscrizioni runiche ornavano ciascuno dei piedistalli, ma anch'esse si stavano squagliando. «Perché non sono state intagliate nella pietra?» chiese Marion. «Perché sono gli dei del Nord, gli dei del freddo», rispose la vecchia. «Il ghiaccio è l'unico materiale adatto a rappresentare la loro natura. Il ghiaccio è la loro carne, la sostanza che permette d'incarnarsi tra gli uomini.» Rök le zittì, infastidito da quel brusio. Intimorita, Svénia si piegò su se stessa e il guerriero riprese il suo monologo. «Gli dei del Walhalla si possono materializzare solo nella neve o nel ghiaccio», tradusse la serva. «Non amano né la roccia né il legno. Coloro che commettono l'errore di scolpirli servendosi di un tronco d'albero non fanno altro che affievolirne il potere. Per beneficiare appieno della protezione delle divinità, occorre offrire un'immagine di sé che loro gradiscano. Ma, quando sopraggiunge il primo caldo primaverile, il ghiaccio si squaglia e i visi delle statue si deformano. Allora gli dei, scontenti del loro aspetto, si trasferiscono altrove, lasciando la tribù allo sbaraglio, senza protezione. Gli dei e le dee vogliono apparire belli, le statue devono celebrare la perfezione delle loro figure. Disprezzano le rappresentazioni approssimative, le effigi grossolane. Sono esigenti per quanto riguarda la qualità del lavoro e fanno visita solo alle tribù che rendono loro onore nel modo appropriato.» Marion cominciava a intuire dove Rök volesse arrivare e, un po' sollevata, trasse un sospiro di sollievo. «Tu sei colei che ridà forma agli dei cristiani, è stato Azaël, il monaco, a dircelo», riprese Svénia. «Tu sei la migliore, dalle tue parti. Si narra che tu abbia scolpito con tale abilità la statua di un santo che questi ha preso a camminare.» Marion capì che Rök si riferiva alla scultura di san Gaudémon e alle leg-
gende nate intorno a un certo pellegrinaggio. «Rök non si fida più di lui. Ha paura che distrugga le statue», sussurrò la vecchia. «Come si chiama?» «Björn, che significa 'orso'. Per tanto tempo è stato il migliore, ma ora non lo è più. Intagliare il ghiaccio è difficile. Quando fa freddo, le dita restano attaccate agli utensili di ferro e, ogni volta, si perde un po' di pelle. Qui nei dintorni non c'è nessuno abbastanza bravo da restaurare il suo lavoro. Ecco perché Rök ha ordinato che venissimo a prenderti fino nel tuo Paese. Solo tu puoi evitare che gli dei ci abbandonino.» Sentendo parlare Svénia, era difficile immaginare che fosse di origine cristiana. Gli anni di prigionia sembravano aver plasmato il suo spirito. «Suppongo di non avere scelta», sospirò Marion. «E cosa ne sarà di me se dovessi far saltare la testa di Odino con un colpo di cesello mal assestato?» «Ti uccideremo», grugnì la serva. «Non ti è concesso fallire. Se sfiguri gli dei, sarai punita subendo lo stesso trattamento. Non per crudeltà, ma per chiedere perdono davanti a loro. Se rompi il naso di una Valchiria, noi taglieremo il tuo.» «Capisco. Quindi è nel mio interesse riuscire al primo colpo», mormorò la ragazza. Le sarebbe piaciuto toccare il ghiaccio per capire fino a che punto era già sciolto. Era già troppo tardi? «Stasera caricheremo le statue sulle slitte. Abbiamo già aspettato troppo. È tempo di andare incontro al freddo. Una volta che saremo in cima ai ghiacciai, si rinforzeranno», disse Svénia. Rök riprese il suo monologo, agitando le mani. «Dice che la tribù deve marciare verso l'inverno, andare là dove fa così freddo che anche l'arcobaleno si congela e diventa un ponte di ghiaccio. Dice che se incontreremo uno di questi ponti sarà sufficiente attraversarlo per raggiungere gli dei.» «Digli che accetto la sfida. Che farò del mio meglio per restaurare le vostre statue», intervenne Marion. Svénia si affrettò a tradurre. I guerrieri scossero il capo, senza mostrare particolare entusiasmo. Di sicuro, avevano qualche perplessità sul fatto di dover mettere la propria vita nelle mani di una donna. Rök prese da parte Svénia e sembrò impartirle alcuni ordini; poi, senza degnare Marion di uno sguardo, si allontanò, seguito dai suoi guerrieri. Ma guarda... Ciò significa che non ci sarà nessuna festa per celebrare il mio arrivo... pensò la giovane. Aveva intuito che il malessere della tribù
non dipendeva soltanto da quella faccenda delle divinità che si scioglievano. C'era qualcos'altro, una minaccia covava nell'ombra e l'espressione sui loro volti ne era la prova. Un po' ovunque risuonavano ordini. Gli uomini si affrettavano a caricare le slitte. Sembrava più una fuga precipitosa che non una partenza. «Cosa succede? Perché sembra che tutti abbiano il diavolo alle calcagna?» chiese Marion. Svénia rispose con un gesto vago. «La nostra tribù ha nemici potenti. E negli ultimi tempi abbiamo subito diverse sconfitte, giacché la protezione degli dei nei nostri confronti comincia a venire meno. Ecco perché ti aspettavamo con tanta impazienza», mormorò la vecchia. Poi ebbe un fremito e concluse con tono irritato: «Ora basta chiacchierare, il tempo stringe. Vieni, ti mostro la slitta. Tu ti accomoderai dietro e io condurrò i cani». Marion non sapeva granché della vita nelle terre del Nord. Osservava stupita i vestiti, i mezzi di trasporto montati sopra gli sci e i bizzarri carretti senza ruote, trainati da cani più pelosi di orsi e dagli occhi azzurri. Gli uomini, le donne e i bambini erano imbacuccati nelle loro pellicce, un abbigliamento che donava loro l'aspetto di grossi e goffi animali che camminavano sulle zampe posteriori. Svénia le indicò la loro slitta: era una specie di letto, su cui uno dei due viaggiatori si sdraiava, mentre l'altro stava seduto davanti per guidare i cani. Marion non aveva mai visto un trabiccolo del genere. «Le slitte vanno più veloci sul ghiaccio che non sulla neve», le spiegò la vecchia. «Per non impantanarsi, bisogna cospargere le lamine con un po' di neve mista a fango e lasciarla gelare.» Marion non la stava ascoltando. Era intenta a osservare gli uomini impegnati a caricare le statue di ghiaccio su alcune carrette dotate di sci. Erano tesi, terrorizzati all'idea di lasciar cadere una delle preziose effigi. E le maneggiavano servendosi di bastoni, come se non potessero neppure toccarle. «Da quando comincerai a intagliare i volti degli dei, le tue mani saranno considerate sacre», disse Svénia. «Non potrai più toccare nulla. Le persone saranno convinte che il semplice tocco delle tue dita possa polverizzarle. Non credere di poter stringere un rapporto di amicizia con coloro che ti circonderanno. Ti temeranno come una strega e, se ti faranno dei doni, sarà solo per tenere sotto controllo la tua collera. Vieni ora, dobbiamo partire. Sdraiati sulla slitta e lascia che ti ricopra con una pelliccia. Ti passerò anche del grasso di foca sul viso per evitare che si congeli. Ha un cattivo odore, ma funziona.»
7 La carovana si mise in marcia attraverso la pianura. Il cielo aveva un colore rosa violaceo. Basso e greve, sembrava restringere l'orizzonte. Si aveva l'impressione che le nuvole, colme di brina, fossero ormai diventate troppo pesanti per continuare a fluttuare e che stessero per scendere, scendere... fino a schiantarsi contro la terra e gli uomini. Le slitte filavano emettendo un rumore lancinante, simile a un continuo sfrigolio. Sdraiata sulle pellicce, Marion si lasciava trasportare. Di tanto in tanto, le colpivano il viso schizzi di neve o schegge di ghiaccio sollevate dai cani che trottavano immersi in quel tappeto bianco, da cui spuntavano appena la testa e il dorso. La distesa ghiacciata sembrava infinita, anche se il riverbero della luce confondeva i contorni e rendeva difficile rendersi conto delle distanze. Per quanto stessero procedendo a gran velocità, si aveva l'impressione di essere sempre nello stesso punto. Quando cominciò a imbrunire, la carovana si fermò. Formarono un cerchio e accesero un piccolo fuoco. Svénia disse a Marion che la legna era rara e preziosa; tuttavia dovevano tenere lontani i lupi, attirati dalla presenza dei cani. «Possono attaccare a branchi di centinaia, così veloci da non lasciare via di scampo», le spiegò. «È come dover combattere contro un'arma a quattro zampe che ti salta alla gola. Se sono affamati, arrivano perfino a portare via i neonati.» Poi si mise all'opera per montare una rudimentale tenda di pelle che le avrebbe riparate dalle raffiche di vento. I guerrieri avevano provveduto a sistemare le statue di ghiaccio lontano dal fuoco, ma la luce danzante delle fiamme illuminava a tratti i loro volti selvaggi. Mentre preparava un pasto a base di pesce affumicato, Svénia prese a delineare un ritratto sommario della mitologia nordica, piena di dei tenibili, armati fino ai denti e sempre pronti a lasciarsi andare a terribili attacchi d'ira. Parlò del serpente-mondo, che con le sue spire avvolgeva la terra piatta; parlò di Yggdrasil, un frassino enorme, i cui rami permettevano di salire fino in paradiso, mentre le radici affondavano all'inferno... In mezzo a una tale confusione di personaggi fantastici, Marion perse ben presto il filo. Poi vide che un uomo, in apparenza spuntato dalle tenebre, si stava avvicinando alle statue. Si fermò di fronte a ognuna di esse
abbozzando un gesto, senza osare toccarle. Era un vecchio di corporatura robusta, con la barba bionda che stava diventando grigia. Per quanto fosse avvolto nella pelliccia, non sfuggiva la sua magrezza, accentuata dalle braccia solcate dai tendini ben in vista. «È Björn», sussurrò Svénia. «Il vecchio scultore, quello di cui stai per prendere il posto. Penso che abbia cominciato a odiarti ancora prima di conoscerti. Non fidarti di lui. Non ti perdonerà mai per averlo privato dei suoi privilegi.» Marion era sul punto di fare un passo indietro, nel tentativo di nascondersi, ma proprio in quel momento l'uomo si voltò verso di lei e le lanciò un'occhiata. La ragazza non volle mostrarsi debole. Björn avanzò verso di lei. Quando fu nel cerchio di luce, Marion si accorse che aveva occhi azzurri, incredibilmente chiari, dal colore appena accennato. Era meno vecchio di quanto facessero pensare i capelli brizzolati, ma tutta la sua figura sembrava agitata da un fuoco che gli bruciava dentro. La sua espressione le ricordava quella che aveva avuto modo di scorgere diverse volte sui volti dei monaci esaltati, dediti solo alla religione. Svénia disse qualcosa in lingua nordica e l'uomo chinò il capo per entrare nel rifugio. Si abbassò il cappuccio, liberando i lunghi capelli argentati. Quanti anni aveva? Cinquanta? Troppi per un vichingo. Vent'anni di vita di troppo, probabilmente. Ora che non intaglia più il ghiaccio, è entrato a far parte degli inetti, di coloro che saranno sacrificati alla prossima carestia, intuì Marion. Björn si sedette accanto al focolare. Con fare ostentato, si tolse i guanti di pelliccia e distese le mani verso il fuoco. Alcune dita erano tranciate, altre prive di una o due falangi. Fissò la ragazza con sguardo beffardo, poi prese a parlare con voce monocorde. «Dice che devi vedere ciò che ti aspetta», tradusse Svénia. «Dice che spesso il ghiaccio è più duro della più dura delle pietre e che tu non avrai nemmeno la forza di scalfirlo. Il freddo rende gli utensili fragili come vetro. Ti intorpidisce le mani, al punto che non sei più in grado di calibrare la forza dei colpi. Allora commetti errori di valutazione, dai una martellata troppo forte e fai saltare l'orecchio di Odino.» Per chiarire il senso delle sue parole, Björn si scostò una ciocca di capelli dalla tempia, rivelando un mozzicone lacerato al posto del lobo del suo orecchio. Marion s'irrigidì e l'uomo sogghignò, soddisfatto. «Dice che, se fai del male agli dei, gli dei fanno del male a te», mormorò Svénia, a disagio. «È la regola. È il rovescio della medaglia. Ogni volta che recherai danno all'effigie di uno di loro, ti sarà imposto lo stesso sup-
plizio, sarai menomata nello stesso modo. È la legge. Se non paghi per l'errore commesso, l'ira degli dei sarà terribile ed essi si vendicheranno contro la tribù.» Björn si liberò del mantello. Senza badare alla temperatura, si slacciò la camicia per mostrare il petto nudo. Le cicatrici lo percorrevano da una parte all'altra, come se avesse combattuto per una vita intera, riportando numerose ferite. Svénia riprese il suo parlottio. «Dice di guardare bene, perché ogni piaga corrisponde a un colpo di scalpello mal assestato, a una scheggia di ghiaccio saltata via dal corpo di un dio. È il prezzo da pagare. Se rompi un naso, ti taglieranno il tuo; se provochi una crepa, t'incideranno sulla pelle una ferita della stessa lunghezza. Non è concesso opporre resistenza. Finché si ha la mano ferma, si conduce una vita principesca, ma, non appena la mano inizia a tremare, vivere diventa un calvario di dolore e tormento.» Marion si sforzava di non lasciarsi impressionare, ma il corpo martoriato dell'anziano scultore le faceva orrore. S'immaginò sfigurata, ricoperta di cicatrici. Vedendola vacillare, Björn ci prese ancora più gusto a girare il coltello nella piaga. Spostò i peli della barba e le mostrò il labbro superiore, per metà amputato. «Dice che non resterai intera a lungo, perché non sei nata qui e non hai sensibilità col ghiaccio», sussurrò Svénia. «L'acqua gelata non ha niente a che fare con la pietra. Può esplodere come il vetro. Sembra solida, ma si volatilizza tra le dita al primo colpo di scalpello. Lui ha cominciato da bambino per poter diventare lo scultore degli dei, ma tu no. Dice che non hai il tocco, che vai incontro al peggio. Puoi dire addio alla tua bellezza. Quando ti avranno amputato le orecchie, il naso e la punta dei seni, nessun uomo ti vorrà più.» «È tutto?» chiese Marion. «No», proseguì Svénia. «Ti cede i suoi strumenti. Lui non ne ha più bisogno. Ti augura buona fortuna. Ha vissuto troppo a lungo nel terrore per essere geloso di te. Infatti ci tiene a farti sapere che non t'invidia e che faresti un errore a pensarlo. Sarà sempre disponibile se avrai bisogno di un consiglio. Non è contrario a cederti i suoi segreti.» «Ringrazialo da parte mia», sospirò Marion, sforzandosi di sorridere. Björn s'inchinò, si rivestì e lasciò la tenda. «Parlava seriamente?» chiese la ragazza, una volta che lo scultore si fu allontanato. «Sì», rispose Svénia. «Non ha più niente di cui vivere. In questa tribù,
gli inetti non vengono nutriti. È costretto a mendicare dei lavoretti di restauro. Dipinge gli scudi, decora le impugnature delle spade, niente d'importante. In cambio, gli lasciano degli avanzi.» «Pensi che eleggerlo a mio consigliere potrebbe servirmi?» «Forse. Se gli darai da mangiare, perlomeno eviterà di sabotare il tuo lavoro durante la notte. È già qualcosa.» Marion fece una smorfia. Non aveva pensato a quell'eventualità. «Credi ci si possa fidare di lui?» Svénia si strinse nelle spalle. «Fino a un certo punto. Quando avrà la pancia piena, l'invidia prenderà di nuovo il sopravvento, questo è certo. Per tutta la vita è stato venerato come un santone. Non doveva far altro che alzare un dito per avere ciò che desiderava. E ciò valeva per qualsiasi cosa: selvaggina, vino, donne, cavalli... Ogni suo capriccio veniva soddisfatto. Non c'era bisogno che fosse un bravo guerriero per essere considerato un eroe; le sue mani preziose lo mettevano al riparo da qualsiasi incombenza. Le cose sono andate avanti così per anni, finché, con la vecchiaia, non ha perso la sensibilità manuale e ha iniziato a commettere errori. E così è iniziato il suo calvario. Ogni volta doveva pagare col suo stesso sangue, scusarsi davanti agli dei per il male che aveva fatto loro. Confesso che mi divertivo, quando lo torturavano sulla piazza del villaggio. Quei piccoli spettacoli mi ripagavano di tutte le volte in cui, da giovane, ero stata costretta a infilarmi nel suo letto e a soddisfare i suoi appetiti viziosi. Ascolta i suoi consigli, ma sta' sempre all'erta. Non ci si rassegna mai al potere perduto. Presto o tardi cercherà di vendicarsi.» La cena era pronta e, ancora una volta, Marion dovette lasciarsi imboccare come una bambina. Cominciò a temere che le si sarebbero anchilosate le mani, così immobilizzate, compresse dentro la loro prigione di ferro. «Dovrò portare queste manopole per sempre?» grugnì tra un boccone e l'altro. «No. Una volta che avrai appreso le regole e che ci fideremo di te verrai liberata. Ma di certo non accadrà domani! Nel frattempo, fa' attenzione a non toccare nessuno. Se vuoi essere almeno accettata, ti consiglio di tenere sempre le mani dietro la schiena, quando apparirai in pubblico. Ti procureremo altre manopole, in materiali diversi. Ne esistono in avorio e in osso di capodoglio: sono le più graziose da portare, ma sono molto rigide e danno l'impressione di essere paralizzati», le spiegò Svénia. «Ma è assurdo! Mi si anchiloseranno le mani e perderò la sensibilità al tatto», si lamentò Marion.
«Io non posso farci niente. È la legge», sospirò Svénia. Marion ricordò tutte le mani di legno che aveva intagliato nel laboratorio di suo padre, gli ex voto che i pellegrini di san Gaudémon portavano appesi al collo o alla cinta durante il pellegrinaggio. Era curioso che fosse ancora lo stesso simulacro a gravare su di lei, adesso che si trovava lassù, ai confini del mondo. «Basta parlare», decise la serva. «È ora di dormire. Domani sarai messa alla prova davanti all'intera tribù. Spero che sarai in grado di sistemare la fisionomia dei nostri dei senza distruggerli, altrimenti la tua morte è assicurata. Finirai con la testa in una morsa di legno.» 8 Marion faticò a prendere sonno. Le terribili cose apprese da Björn la perseguitarono sino a notte fonda. Infine sprofondò in un incubo orrendo, popolato di giganti, serpenti e frassini enormi. Svénia la svegliò all'alba. «Devi prepararti. Stanno venendo a toglierti le manopole. Te lo ripeto: quando avrai le mani libere non dovrai sfiorare nessuno.» «Ho capito, smettila di blaterare! Farò attenzione», esclamò la ragazza. «Vuoi mangiare?» chiese la serva. «No», balbettò Marion, ormai in preda alla nausea per la paura. Una volta vestite, le due donne uscirono dalla tenda. Il vento gelido sferzava loro il viso. La tribù si era radunata intorno alle statue e tutti avevano un'espressione cupa. Rök avanzò verso di loro, con in mano la chiave delle manopole di ferro. Una volta fatto scattare il lucchetto, si allontanò prudentemente. Le manopole caddero nella neve. Marion si affrettò a muovere le articolazioni, per cercare di restituire alle mani un po' di flessibilità. Quando sollevò gli occhi, Svénia non era più accanto a lei. La sacca di pelle con gli strumenti da lavoro giaceva a terra. Marion la prese e si fece strada verso le statue. Il freddo ostacolava la respirazione. Stava morendo di sete. Tutti la guardavano con un misto di terrore, odio e speranza. La neve le scricchiolava sotto le suole e le sembrò che la distanza che la separava dagli dei di ghiaccio fosse incredibilmente lunga. Infine giunse ai piedi dei totem. Il forte, gelido vento notturno li aveva resi più solidi e non erano più ricoperti dalla patina bagnata che faceva pensare si stessero squagliando. Tuttavia il disgelo aveva avuto tempo per compiere la sua opera: i visi e le membra
apparivano senza dubbio deformati. Una mollezza sospetta affievoliva la vitalità di quei titani; le bocche, fatte per soffiare tempeste, avevano il labbro inferiore pendente. Le effigi, concepite per essere venerate, avevano qualcosa di grottesco. Marion aprì la sacca e scelse lo scalpello più fine, nonché un martello sottile, visto che in quel caso non aveva a che fare con un blocco di marmo da affinare. Si issò sulla slitta per esaminare la prima statua, quella di Odino, padre degli dei. Il freddo le paralizzava le mani. Nel suo Paese, anche durante l'inverno più rigido, una temperatura del genere non era neppure concepibile. La ragazza si sforzò di mettere da parte la paura e si concentrò. Con una statua in pietra non avrebbe avuto difficoltà a eseguire quei piccoli lavori di restauro. Sarebbe stato sufficiente riprendere i tratti che avevano perso forma e donar loro compattezza e solidità. Era la fragilità del materiale a complicare le cose. Gli ordinarono di scolpire l'acqua gelata... Pensò al dragone della leggenda cui era stato chiesto d'intrecciare trame di sabbia. Il compito che le veniva imposto quel giorno le sembrava altrettanto assurdo. Trattenendo il fiato, prese ad attaccare il blocco di ghiaccio a piccoli colpi. Non aveva scelta, non poteva aspettare oltre, perché ben presto le dita avrebbero perso del tutto la sensibilità. Doveva agire finché riusciva ancora a percepire gli oggetti. Ridefinì i contorni del naso, quelli della barba e la curva dell'occhio. Tremava al pensiero che quella testa vitrea potesse esploderle tra le mani al successivo colpo di cesello. Svénia non le aveva forse detto che a lei sarebbe toccata la stessa fine? Proseguì finché il torpore dovuto al freddo non le paralizzò completamente le mani. Non sentiva più niente, né lo strumento né il ghiaccio. A stento riusciva ancora a percepire il battito dello scalpello. Decise di fermarsi, di riporre gli utensili. La tribù avrebbe forse protestato? Tanto peggio, lei non se la sentiva di correre altri rischi. Dopo un attimo di esitazione, Rök le si avvicinò e, col volto teso, esaminò il lavoro della prigioniera. Ciò che vide parve rassicurarlo, tanto che invitò altri guerrieri ad accostarsi. Tutti annuirono. Anche Svénia era già accorsa, brandendo le manopole di ferro. «Sono soddisfatti di te», mormorò. «Stentano quasi a crederci. Li hai convinti, ora sei ufficialmente Colei-che-dà-forma-agli-dei. Godrai dei privilegi che questa responsabilità comporta, potrai esigere qualsiasi cosa tu voglia: pellicce, gioielli, un cavallo... un uomo. La tribù ti tratterà come una princi-
pessa, finché non commetterai errori.» Marion non replicò e Svénia proseguì: «Infilati le manopole di ferro... Gli metti paura se resti così, a mani nude. Non vedi che trattengono il fiato?» Diceva la verità. Il silenzio si era fatto pesante e gli uomini la guardavano, terrorizzati. Marion trasse un sospiro e obbedì. Non appena Rök richiuse il lucchetto della catena, la tensione si allentò e si udì perfino qualche risata di sollievo. 9 I giorni passavano. La tribù fuggiva dall'avanzare della primavera, le cui manifestazioni si facevano sempre più evidenti sia in pianura sia tra le valli. Era curioso vedere quella gente comportarsi al contrario dei comuni mortali. Le persone normali si precipiterebbero verso il sole. Si rallegrerebbero dell'arrivo del caldo. Qui, invece, sembrano tutti spaventati al semplice pensiero di non avere più freddo, constatò Marion. Quel paradosso la confortava. Non c'era niente di strano, in fondo, nell'idea di essere finita in mezzo a una banda di eretici; tutte le religioni finivano per generare simili aberrazioni. C'era sempre qualcuno pronto a dichiararsi più realista del re! Da qualche tempo, Rök si era rivelato particolarmente loquace. Durante le soste, capitava che s'intrattenesse a «parlare» con Marion. Svénia faceva da interprete e traduceva con voce esile, tenendo la testa bassa. Il più delle volte, Rök parlava senza aspettare una risposta, gli occhi fissi sulla linea dell'orizzonte. Raccontava dell'arcobaleno magico - Bifrost - che conduceva all'Åsgard, la dimora degli dei. Diceva che il suo desiderio era quello di arrivare dove faceva così freddo che gli arcobaleni gelavano nel cielo e le nubi, a furia di riempirsi di fiocchi di brina, diventavano così pesanti da perdere quota e scendere a sfiorare le pianure, come balene sfinite. Sembrava credere a quelle storie e, via via che parlava, la sua voce si faceva ansimante. La condensa che emanava dalla bocca creava intorno al suo viso un alone che, a lungo andare, gli dava le sembianze di un fantasma. «Solo al freddo ci preserveremo», ripeteva. «E preserveremo le statue degli dei. Da quando hai cominciato a occupartene, la sfortuna ha smesso di accanirsi contro di noi. I nostri nemici hanno perduto le nostre tracce. Non siamo più perseguitati dalla malasorte. Continua a lavorare come stai facendo e tutto andrà bene per te.»
Quell'affermazione conteneva una velata minaccia che non sfuggì a Marion. Sapeva bene quanto fosse precario il suo potere. Sarebbe stato sufficiente un colpo di scalpello mal assestato per ribaltare la situazione da un momento all'altro. Ogni mattina, ispezionava le effigi divine per verificare che non avessero subito danni durante il trasporto. Aveva finito per accordarsi con Björn, il vecchio scultore, perché le insegnasse i segreti del mestiere. In cambio di cibo e di qualche pelliccia, l'uomo le aveva ceduto i suoi utensili e, con infinita pazienza, le aveva spiegato come maneggiare lo scalpello d'osso di foca. «La cosa che più gli interessa è essere considerato ancora utile. Finché avrai bisogno di lui, Rök non darà ordine di gettarlo in un burrone insieme coi malati e con gli inetti», grugnì Svénia. Marion lo considerava un personaggio bizzarro e commovente al tempo stesso. Capiva il dolore di quell'artista decaduto, obbligato a lasciare le sue opere nelle mani di qualcun altro, di una sconosciuta che rischiava di rovinarle, di trasformarle. Probabilmente ne soffriva molto, benché non osasse darlo a vedere. Le mani amputate non gli lasciavano nessuna speranza di riprendere l'attività. Lui era una nullità, ormai, ma le sue statue avrebbero continuato a vivere, fintanto che Marion si fosse occupata di loro. Con la mediazione di Svénia, l'uomo spiegò alla ragazza i segreti del mestiere. «È più complicato di quanto sembri. Il freddo non è per forza il miglior amico del ghiaccio. Quando la temperatura cala troppo, i blocchi possono esplodere come se fossero di vetro...» Mostrò a Marion come accorgersi per tempo della formazione di una crepa e come tapparla, facendovi colare dell'acqua. «I colpi cui sono sottoposte durante il trasporto sono letali per le sculture», mormorò. «I blocchi sono meno compatti di quanto si possa immaginare. Al loro interno, si formano interi grappoli di bolle d'acqua che indeboliscono la struttura. E poi c'è il vento. Il vento trasporta scaglie di brina che si staccano dai cumuli di neve. Quando sferza le statue, ne erode i visi, ne deturpa la fisionomia. Bisogna sempre stare in guardia. Il vento è un avversario invisibile con cui ti troverai a fare i conti. Lo vedrai cancellare i lineamenti degli dei, notte dopo notte. Ogni mattina, i profili che avevi sistemato la sera precedente ti appariranno più molli, deformati. È per effetto del vento: se lo làsci fare, ben presto le tue statue si trasformeranno in blocchi senza sagoma né forma.» Quando non parlava del suo lavoro, Björn raccontava la mitologia nordica, con le sue mille leggende barbare, i suoi episodi fantasmagorici. Marion cominciò a farsi un'idea più precisa dei volti che ritoccava ogni matti-
na. Anzitutto c'era Odino, il dio cieco da un occhio, capo degli Ases, la razza divina per eccellenza; ma c'era anche Loki, il buffone malefico, perennemente impegnato a seminare malvagità e discordia. In quella religione stravagante, le divinità si comportavano come una famiglia di paesani, invidiosi l'uno dell'altro, sempre pronti a farsi le scarpe. Per certi versi, la loro vita non era affatto diversa da un'interminabile scena quotidiana, ricca di tradimenti amorosi, bugie, complotti, imbrogli e congiure. Quei giganti dai poteri sovrumani apparivano, per molti versi, stranamente umani... e in qualche modo più simpatici dei santi cristiani, dall'atteggiamento troppo sublime. Via via che le soste si prolungavano, Marion prendeva consapevolezza dei suoi privilegi. In un primo tempo, non osava reclamare ciò che le spettava. Piuttosto si sarebbe lasciata morire di fame. Era stata Svénia a ricondurla alla ragione. «Tu sei colei che dona un volto agli dei», le aveva ripetuto, quasi a volerla ammaestrare. «La tribù ha il dovere di provvedere ai tuoi bisogni. Quando camminiamo tra le tende, non devi far altro che scegliere ciò che desideri. Nessuno potrà rifiutarsi di donartelo. Vestiti, pellicce, gioielli, cibo, è tutto per te. Devi sbrigarti... Se non prendi ciò che ti spetta, moriremo di fame. I vichinghi non fanno la carità. La vista dei deboli e delle vittime li indispone.» Volente o nolente, Marion cominciò a prelevare il suo salario. Tuttavia si sentiva in colpa per dover privare dei propri beni quelle persone, bisognose quanto lei. «Pensa ai tuoi servitori. Ci sono io e c'è Björn. Anche noi mangiamo. E tu hai tutto il diritto di tenere qualcuno al tuo servizio», insisteva Svénia. Un po' alla volta, Marion si lasciò catturare dalla subdola ebbrezza del potere. Nel suo Paese, era solo una donna come tante altre, da cui si pretendevano obbedienza e discrezione. Nessun uomo aveva mai tremato di fronte a lei; i preti la consideravano al pari di un demonio, una creatura senz'anima, incapace di autocontrollo. I nobili, invece, vedevano in lei una serva, buona solo da far rotolare tra la paglia di un fienile... Lassù era tutto diverso. Anche i guerrieri più temerari chinavano il capo al suo passaggio. Era considerata una strega da cui temevano perfino di essere sfiorati. Girava tra le tende, gustando il piacere di vedere i suoi carcerieri distogliere lo sguardo al suo passaggio. Era loro prigioniera, eppure incuteva timore. Amava vederli rabbrividire non appena udivano scattare la serratura delle manopole di ferro. Sapeva che avrebbe potuto azzardare qualsiasi richie-
sta... Svénia glielo ripeteva in continuazione. «Dovresti scegliere un uomo per la notte. Da quando sei stata catturata, non hai ancora fatto l'amore e questo non va bene. Alla tua età, ignorare così i piaceri del letto...» mormorava. Vedendola arrossire, la serva faceva ancora di più la ruffiana. «Non dovrai far altro che rilassarti e chiudere gli occhi. Vedrai come sarà eccitante sentirli tremare di paura tra le tue cosce. Saranno terrorizzati, però anche onorati di soddisfarti, perché i vichinghi devono essere i migliori in qualsiasi cosa. Poi li caccerai fuori con un calcio nel sedere. Non aspetterei un secondo, se fossi in te. Non capita tutti i giorni che una donna possa godere di un tale potere! Sei proprio stupida a non approfittarne. I privilegi di cui godi non dureranno in eterno.» Turbata, Marion cercava di difendersi. Nel labirinto di tende, le era capitato più volte d'incrociare lo sguardo di Knut, il ragazzo dalle trecce bionde che aveva rischiato di annegare per causa sua. Ogni volta provava una fitta al cuore. Sentiva che doveva farsi perdonare in qualche modo. Non era forse lei la responsabile dei tormenti che gli erano stati inflitti? Rivedeva il suo corpo nudo, legato al remo, che veniva immerso a più riprese nell'acqua ghiacciata. Stranamente non sembrava che lui le portasse rancore. Era l'unico a non abbassare gli occhi quando la vedeva passare. Tuttavia Marion non riusciva a interpretare il suo sguardo. Doveva leggerci una sfida o una richiesta di complicità? Una promessa d'aiuto o d'indefettibile devozione? Cercava di dirle qualcosa, ma cosa? Che non rimpiangeva ciò che aveva fatto? Che si riteneva sempre al servizio della «strega franca»? Imbarazzata, non sapendo come comportarsi, Marion prese a evitarlo. «Sei proprio un'oca. Alla tua età, se ne avessi avuto la possibilità, non mi sarei fatta scrupoli ad approfittarne», s'infuriava Svénia. Björn aveva detto la verità. Per quanto facesse freddo, il vento restava il nemico principale. Erodeva i contorni avvolgendo le statue con folate burrascose, cariche di brina. Una notte, lo scultore dalle mani mutilate aveva svegliato Marion per farle annusare le raffiche che soffiavano sui pianali. «Senti?» aveva detto. «L'aria è calda. È aria di primavera. Da laggiù, dal litorale, soffia il vento che fa fondere la neve. Ci perseguita. Sa che cerchiamo di sfuggire all'ordine delle cose. Vuole sciogliere i nostri dei e privarci della loro protezione.» Agitava le dita mozzate, in preda all'eccitazione. Parlava così veloce
che Svénia, svegliata di soprassalto, faticava a tradurre. Sì, era il vento il vero nemico. Attraversava lo spazio, sorvolava le montagne per portare la primavera anche nel cuore dei ghiacciai. Marion non doveva far altro che respirare a pieni polmoni per sentire il profumo dei fiori in boccio. «Ci muoviamo a ritroso rispetto al resto del mondo... È il segnale che i nostri dei non meritano più di essere adorati. Bisogna lasciare che fondano e adorare il Crocifisso, come già hanno fatto gli altri vichinghi», balbettò Björn. Terrorizzata, Svénia si gettò su di lui per zittirlo. «Taci, vecchio pazzo! Vuoi forse farci ammazzare?» sibilò. Al contrario, Marion non se la sentiva di dar torto all'anziano scultore. Quella fuga verso le vette non sarebbe servita a niente. Era una corsa contro natura. È come se avessimo la pretesa di restare nel buio della notte quando sta facendo giorno, rifletté. Ogni mattina, non appena apriva gli occhi, sentiva la paura stringerle lo stomaco. Doveva prendere l'attrezzatura e raggiungere le statue. Rök e gli altri membri della tribù l'attendevano, sorvegliando ogni sua mossa. Marion si sforzava di non rivelare la sua angoscia e prendeva a scolpire i visi di ghiaccio, che ormai le facevano perfino orrore: Odino, Thor... Tutte quelle divinità così virili, dagli apocalittici attacchi d'ira, dai capricci spesso puerili... Le ritrovava rovinate dal vento caldo della notte, trasudanti. La brezza primaverile era giunta a lambirle, dando loro un aspetto vitreo e precario. Allora Marion doveva restituire loro la dignità. Toc-toc-toc... Tutta la sua vita dipendeva da quei piccoli tocchi di scalpello. E anche la sua bellezza... La ragazza cercava di non pensarci. Toc-toc-toc... Ogni volta che assestava un colpo, ripensava alle mani mutilate di Björn, al suo orecchio mozzato, al corpo ricoperto di piaghe. Potrebbe succedere anche a te. In qualsiasi momento, all'improvviso... le sussurrava una vocina. La sera, quando l'acquavite gli scioglieva la lingua, Björn lasciava cadere la maschera e, dalle sue parole, trapelava l'amarezza. «Non cantare vittoria troppo presto», borbottava. «Per ora, è facile, perché non fa ancora abbastanza freddo. Le cose cambieranno quando raggiungeremo il ghiacciaio. Tu non sei di queste terre, non sei abituata al clima rigido. Quando la condensa si gelerà, nel momento stesso in cui uscirà dalla bocca degli uomini e sui loro baffi si formerà una patina ghiacciata, i tuoi gesti si faranno
meno sicuri.» Marion sapeva che diceva la verità. Per lei, faceva già abbastanza freddo così. Non aveva mai vissuto inverni tanto rigidi. Talvolta aveva l'impressione che il vento glaciale volesse scorticarla viva. Il contatto col ghiaccio era doloroso al punto di obbligarla ogni volta a trattenere un gemito di dolore. «È come se m'infilassero degli spilli nelle ossa», confidò a Svénia. «Non ti lamentare», brontolò la serva. «Sei ancora giovane. Quando avrai la mia età, sarà anche peggio. Noi franchi non abbiamo la costituzione adatta per sopportare questo clima. I vichinghi, invece, sono capaci di vivere in condizioni disumane.» 10 Due giorni più tardi, la situazione peggiorò ancora. Dalla vallata, la primavera sembrava decisa a raggiungere i fuggiaschi. La neve perdette il suo bell'aspetto di polvere immacolata e prima si cristallizzò, poi si trasformò in fango. Rök forzò la marcia e diminuì le sòste. Bisognava trovare al più presto un riparo tra i ghiacciai. Le slitte correvano senza posa per ore filate, con lo stridore costante degli sci in sottofondo. Svénia non faceva che lamentarsi, ripetendo che sarebbe stata sufficiente una tempesta per ridurre i totem di ghiaccio in una serie di blocchi squadrati. «C'è la tua vita in gioco», mormorava. «E anche la mia... Tu sei la mia ultima possibilità. Sto diventando troppo vecchia: alla prossima carestia mi faranno saltare nel vuoto dall'alto di un dirupo.» Farneticava, proprio come Björn. I due vecchi si erano aggrappati a Marion con la stessa tenacia. Una mattina, prima di recarsi a correggere i volti delle divinità, la ragazza volle controllare la compattezza della neve e v'infilò la mano. Si rese conto che era incredibilmente molle. Per cercare di abituare le dita al freddo, prese a modellare un piccolo pupazzo di neve, che poi abbandonò, senza più curarsene. Qualche giorno più tardi, si stupì, scoprendo che i bambini della tribù avevano recuperato quel fantoccio e l'adoravano come fosse un nuovo dio. «È normale», borbottò Svénia. «Di cosa ti sorprendi? Non hai ancora capito il potere che ti è stato conferito? Ogni mattina tu tocchi la carne degli dei, conferisci a essa una forma: le tue dita, i tuoi palmi assimilano così un po' della loro potenza. Per alcuni, anche il pupazzo di neve che hai mo-
dellato è dotato di potere divino. È un dio minore e non possiamo abbandonarlo lungo la strada. È una specie di gnomo, un figlio illegittimo che Odino avrebbe concepito con te. Ecco perché devi sempre indossare i guanti, altrimenti ogni cosa che tocchi diventerà oggetto di culto. Noi continueremo ad adorare ciò che ti lasci alle spalle, fosse anche la buccia della frutta che hai mangiato.» Rök prese Svénia da parte per parlarle. Bisbigliava e sembrava imbarazzato. Tornata nella tenda, la serva confidò a Marion che il capotribù le aveva chiesto una cosa davvero insolita. «Ha notato che le statue 'sudano' per effetto del vento caldo», mormorò. «Vorrebbe che tu raccogliessi il 'sudore' in un'ampolla e che glielo portassi. Sostiene che sarebbe riprovevole se un cane assetato bevesse quell'acqua.» «Ma non è altro che ghiaccio sciolto!» non poté fare a meno di esclamare Marion. Di fronte allo sguardo preoccupato di Svénia, tuttavia, moderò i termini. «Ha paura che i cani lecchino il ghiaccio?» ripeté. «I cani o i bambini», proseguì la vecchia, elusiva. «Il freddo mette sete. Non ce ne rendiamo conto, ma niente secca la gola più di questo vento gelido. E se si mangia la neve è ancora peggio.» «Non crederai davvero a quello che stai dicendo? Spiegami qual è il vero motivo per cui Rök vuole quell'acqua.» Svénia distolse lo sguardo. «Penso che voglia servirsene per frizionarsi il corpo così da diventare invincibile», confessò. «L'acqua che cola è il sudore degli dei; spalmandosela addosso, si assicurerà la loro protezione, si vestirà della carne stessa delle divinità. Sì, credo che sia proprio questo che ha in mente. Ma non ha il coraggio di andare a raccogliere l'acqua da sé. Preferisce che sia tu a occupartene.» Marion trasse un sospiro. «D'accordo», capitolò. Era stanca di tutte quelle superstizioni. Perfino nel suo Paese lei passava per una scettica. I suoi genitori le rimproveravano spesso di non credere a niente. «Questo modo di fare si ritorcerà contro di te e, quando avrai bisogno della protezione di un santo patrono, non ne troverai neanche uno disposto ad ascoltare le tue suppliche», la mettevano in guardia. Si immaginò Rök nudo, al riparo nella sua tenda, mentre si frizionava il corpo con l'acqua colata dalle statue. Trovava patetico che un tale colosso si rivelasse così ingenuo.
La tribù aveva i suoi segreti. Quel popolo fuggiva da qualcosa di cui nessuno parlava mai, un nemico di cui non osavano pronunciare il nome. Era sufficiente far caso al loro perenne stato d'allerta per convincersene. Erano degli eretici, le cui credenze - pur nell'aberrazione - erano più forti di quelle dei vichinghi di un tempo. Una notte, Marion non riusciva a prendere sonno, a causa del freddo che le penetrava fin nelle ossa. D'un tratto sentì un rumore sordo, cadenzato, come di una pietra che battesse sul ghiaccio. Seguendo l'istinto, uscì di corsa. La fioca luce del falò da campo illuminava appena le tende circostanti. La sentinella, avvolta nella sua pelliccia, si era assopita. Spinta da un presentimento, la ragazza corse verso le statue. Qualcosa la colpì tra le scapole, impedendole di respirare. Un sasso, lanciato con una forza fuori del comune. D'un tratto, si rese conto di ciò che stava succedendo: qualcuno stava cercando di scalfire le statue servendosi di una fionda! Fino a quel momento, le pietre erano rimbalzate sui montanti delle slitte o sui piedistalli, senza pregiudicare le grandi effigi di ghiaccio, ma non sarebbe stato così ancora per molto... Marion lanciò un grido d'allarme, svegliando la sentinella, poi, allargando le braccia, s'interpose tra le statue e il lanciatore invisibile. Un secondo sasso la colpì alla spalla, un terzo al seno. Se non fosse stata ben avvolta nella pelliccia, la forza di quel colpo l'avrebbe fatta sanguinare. La sentinella non capiva cosa lei stesse tentando di comunicare a gesti. Terrorizzato da quella strega che sbatteva le braccia come se volesse prendere il volo, l'uomo impugnò la lancia, indeciso se scagliargliela contro. Finalmente Svénia si decise a uscire dalla tenda e Marion la mise al corrente della situazione. Nello stesso istante, un'altra pietra sfrecciò nella notte, in direzione delle statue. Chi lanciava quei colpi di fionda? Dove si nascondeva? Quando Rök prese in mano la situazione, era già troppo tardi: la sassaiola era cessata. Esplorarono i dintorni, ma non trovarono nulla. Il nemico si era premurato di cancellare le tracce prima di darsi alla fuga, così che non fosse possibile lanciarsi al suo inseguimento. Inquieto, Rök si mise a esaminare le statue di ghiaccio. Senza luce - avrebbero dovuto avvicinare una torcia per vederci bene! - l'ispezione fu piuttosto sommaria e Marion pensò che sarebbe stato possibile rendersi conto dei danni subiti dalle divinità solo al sorgere del sole. «Hanno cercato di distruggere gli dei», disse. Qualcuno si era nascosto dietro uno dei cumuli di neve che circondavano l'accampamento e aveva scagliato le pie-
tre. Ma chi? E perché? Chiese alla serva di tradurre le sue domande, ma Rök le voltò le spalle, senza rispondere. In compenso, ordinò ai suoi uomini di prelevare la sentinella che si era addormentata accanto al fuoco e di cavarle gli occhi col suo pugnale. Mentre il malcapitato urlava, Svénia spiegò a Marion: «Rök dice che è inutile che questo sfaticato abbia gli occhi, perché gli servono solo per dormire. Cavandoglieli, gli evita anche lo sforzo di abbassare le palpebre per chiuderli». Marion ebbe un moto di stizza. «Che ne sarà di lui?» Svénia fece spallucce. «Lo abbandoneranno nella neve. Ci penseranno i lupi.» Non era il caso di protestare. La ragazza rientrò nella tenda. Non le restava che attendere l'alba, pregando che le statue non fossero state scheggiate dai sassi. Fu una lunga notte. Per fortuna, al sorgere del sole, si scoprì che non c'erano stati danni. Tuttavia il mistero non era risolto: qualcuno aveva cercato di distruggere le statue per privare la tribù della protezione di Odino. Rimisero in pista i cani e le slitte ripartirono col loro stridio lacerante. Non appena si lasciarono alle spalle l'accampamento, Marion guardò dietro di sé. Le braccia tese, la sentinella accecata girava intorno al fuoco ormai ridotto a poche braci. «Non ha supplicato di venire con noi», notò la giovane. «È un vichingo», replicò Svénia. «Morirà in silenzio, anche quando i lupi gli azzanneranno le interiora.» 11 Il fantasma continuava a perseguitarli. Era là, nell'ombra, invisibile, ma sempre presente. Durante le soste, la gente della tribù non osava allontanarsi dall'accampamento. Rök fece innalzare dei paraventi in pelle intorno alle statue, per proteggerle. Lo spettro, però, decise di cambiare strategia. A notte fonda, gettava palle di carne avvelenata ai cani... che non tardavano a divorarle. All'alba, tutti i maschi a capo delle mute principali erano morti. Gli altri, impauriti, si erano agitati al punto di attorcigliarsi alle bardature e avevano cominciato ad azzannarsi tra loro. Vogliono farci perdere tempo. Rallentando la corsa, ci gettano in pasto
al sole, opinò Marion. Sempre più spesso si guardava alle spalle per verificare l'avanzamento della primavera nella vallata. I colori stavano cambiando, diventavano più caldi. Era come se, a poco a poco, un velo dorato si distendesse sulla prateria. La neve si scioglieva, colando nelle fenditure della terra. Di fronte a tutto ciò, le squadre di sentinelle erano impotenti. Avrebbero dovuto imbavagliare i cani per la notte. Una volta raggiunte le prime alture, Rök si tagliò la barba. Soltanto allora Marion si rese conto che era un bell'uomo. Fino a quel momento, infatti, non aveva prestato nessuna attenzione all'aspetto fisico dei vichinghi, che la sovrabbondanza di peli rendeva curiosamente simili l'uno all'altro. Col viso glabro, Rök le appariva diverso, più giovane, più civilizzato. Forse, pensò, si trattava solo d'abitudine, visto che i cavalieri del suo Paese avevano abbandonato da tempo l'usanza di portare la barba e i capelli lunghi. «Si purifica perché ci stiamo avvicinando al ghiacciaio. È un rito. Offre il suo volto al freddo, come sacrificio. Nel contempo, spera che gli dei lo riconoscano e lo sostengano», le spiegò Svénia. Ben presto Marion si accorse che tutte le donne della tribù lanciavano al capo languide occhiate. Mio Dio, ora sembra davvero l'unico uomo in mezzo a un branco di lupi, rifletté. Svénia intuì a cosa stava pensando e mormorò: «Una maledizione pesa su di lui. Gli hanno fatto il malocchio. Tutti i bambini che genera nascono deformi... ed è costretto a ucciderli». «Tutti?» «Sì. Le ragazze della tribù impazziscono per lui e sono pronte a correre il rischio di mettere al mondo un mostro pur di entrare nel suo letto. Ogni volta, però, è sempre la stessa storia. Rök le mette incinte fin dalla prima notte e loro danno vita a un mostro e sono costrette a seppellirlo vivo nella neve e in tutta fretta.» Marion rabbrividì. «È così che vi comportate in questi casi?» chiese. «Sì. I vichinghi non tollerano nessun tipo di deformazione. Fin dalla nascita bisogna essere perfetti o morire. Ecco perché ti ho messo in guardia. Non ti andrà meglio che alle altre ragazze, non credere. Se finirai a letto con Rök, scoprirai di essere incinta alla prossima luna e piangerai tutte le lacrime che hai in corpo quando ti strapperanno il bambino per darlo in pasto ai lupi», grugnì Svénia. «Io non voglio andare a letto con Rök. E ancor meno generare un figlio suo», replicò la ragazza.
Svénia assunse quell'aria furba che esasperava Marion. «Dicono tutte così. All'inizio, almeno... Tu non sei diversa dalle altre. Presto o tardi ci cascherai anche tu.» Una mattina, la giovane intagliatrice scorse un vecchio che sonnecchiava ai margini dell'accampamento, come se gli fosse proibito unirsi agli altri. Aveva una figura imponente, nobile, e la barba grigia intrecciata. Era così magro da apparire piuttosto anziano, ma forse erano state le difficoltà della vita a farlo invecchiare precocemente. Il suo sguardo vagava; sembrava che lui non vedesse niente di ciò che aveva intorno. È forse cieco? si chiese Marion. Non era la prima volta che le capitava d'incrociarlo. Girandosi verso Svénia, domandò: «Chi è quello?» «Chi? Non c'è nessuno», grugnì la serva. «Là! Quel vecchio con la barba intrecciata!» insistette Marion. «Ti ripeto che non c'è nessuno», ribadì la donna con un'impazienza quasi minacciosa. «Se vedi qualcuno, sarà un fantasma.» Marion fu sul punto di cedere alla rabbia, poi lasciò perdere. L'istinto le suggerì che stava toccando un argomento proibito. In seguito, le capitò spesso di vedere il vecchio, avvolto nel suo manto di pelle, mentre si reggeva a un bastone, con le mani deformate dai reumatismi. La gente lo sfiorava senza mai degnarlo di uno sguardo. Sembrava davvero che non esistesse. Marion cominciò a temere di trovarsi veramente in presenza di un fantasma e decise di fare come gli altri. Lo ignorò. 12 Quando raggiunsero la sponda del lago, il cielo era grigio, quasi nero. In un primo momento, Marion distinse soltanto un lungo, dolente riflesso, che sembrava generato dalla lama di una spada gigante distesa tra la neve; avvicinandosi, si accorse invece di avere di fronte una vasta pozza d'acqua ghiacciata. Un lago, al cui centro sorgeva un'isola dalla vegetazione rinsecchita. Non c'erano ponti che la collegassero alla terraferma. Dalla riva, si scorgevano sole le forme ammaccate di un gruppo di capanne, arroccate intorno a una torre di guardia, costruita con tondelli in legno incastonati tra loro. L'intera tribù era smontata dalle slitte. Gli uomini si davano da fare per
calmare i cani. Col volto teso, Rök si avvicinò alla sponda. Pareva indeciso. Marion suppose che stesse meditando se attraversare il lago o no. «Cosa succede? Perché non giriamo semplicemente intorno alla pozza d'acqua?» chiese a Svénia. «Dobbiamo raggiungere l'isola», sussurrò la serva. «Ma i cani sono stremati. Non possono reggere ancora a lungo i ritmi che abbiamo imposto loro, bisogna sostituirli. Inoltre siamo a corto di viveri. Stiamo divorando le ultime striscioline di carne secca, e tra poco non resterà più nulla. Sembra che tu non riesca a capire che la piana nevosa è un deserto. Si rischia di morire di fame.» «Perché Rök ha paura d'intraprendere la traversata? Non sono stupida, vedo bene che non sa come muoversi», chiese ancora Marion. «Ha ragione», spiegò Svénia. «Non possiamo mai sapere come saremo accolti. La tribù dell'isola ha i suoi nemici... Hanno deciso di vivere laggiù proprio per proteggersi. Se la sentinella dovesse scambiarci per qualcun altro e dare l'allarme, rischeremmo di finire risucchiati proprio mentre siamo in mezzo al lago.» «Ma l'acqua è ghiacciata», protestò la giovane scultrice. «Come sei ingenua!» sospirò la serva. «Il ghiaccio non è poi così spesso come credi. E ha certe fenditure che basta saper sfruttare. Con un buon martello e una decina di cunei di legno da infilare nei posti giusti si può ridurre in frantumi la superficie ghiacciata che ricopre l'acqua. Pam! Pam! Pam! Ed ecco che sotto i piedi ti si aprono crepe, solchi che corrono da un lato all'altro del lago... e a quel punto è troppo tardi per fare marcia indietro. Se dovesse succedere, capisci bene che l'acqua sarebbe piuttosto fredda e che non riusciremmo a nuotare fino a riva. Rök fa bene a essere prudente. Una volta sulla superficie del lago, la nostra vita sarà in pericolo.» Marion rabbrividì. Dall'isola giunse una folata di vento che sapeva di cibo. Si sorprese affamata. Tutti avevano fame. Da diversi giorni, le razioni erano sempre più scarse. Rök si portò le mani a coppa davanti alla bocca e gridò una frase incomprensibile. Le sue parole riecheggiarono, rimbalzando sul lago ghiacciato come una pietra gettata nell'acqua. Alle sue spalle, la tribù trattenne il fiato. «E se nessuno risponde?» chiese la ragazza. «Restano due soluzioni: affrontare comunque la traversata o continuare per la nostra strada e... morire di fame», rispose Svénia.
«Siamo a questo punto?» «Sì. Una volta lasciata la pianura, sarà inutile sperare di trovare del cibo tra le distese ghiacciate. Metà di noi morirà prima ancora di raggiungere la montagna. È così che funziona.» Rök aveva smesso di urlare. Era in attesa di una risposta. D'un tratto, vedendolo vacillare, Marion trovò che avesse qualcosa di commovente. Sotto quella corazza da bruto, si nascondeva un uomo con le sue debolezze. La ragazza si diede dell'idiota. Non era il caso d'innamorarsi di quel barbaro con cui non sarebbe stata in grado di scambiare una parola! Misurò con lo sguardo la distanza che separava l'isola dalla riva. In caso di attacco, sarebbero stati in grado di mettersi in salvo, prima che il ghiaccio si sgretolasse sotto i loro piedi? «Darà ordine di attaccare?» chiese. «Lo farà di certo se non risponderanno. Non abbiamo scelta. A quel punto, sarà soltanto una questione di rapidità. Dovremo correre più velocemente possibile», sospirò Svénia. «Noi non possiamo restare sulla riva e aspettare la fine della battaglia? È una faccenda tra uomini, dopotutto», disse Marion, stupefatta. «Non per i vichinghi. Anche le donne combattono. Inoltre tu sei una specie di totem vivente. Se restassi indietro, gli uomini penserebbero che non sostieni la loro causa. Non è consigliabile. Dovrai procedere con gli altri... e io ti seguirò, perché sono la tua serva», replicò Svénia. «Sarà una morte rapida», grugnì poi tra i denti. «Una volta nell'acqua, il freddo diventa insopportabile al punto di impedirti di respirare. Allora coli a picco, come una pietra. È come essere stritolati in una morsa di ferro.» Proprio quando Rök si stava preparando a impugnare la lancia, dalla torretta di guardia giunse un grido. Marion si voltò verso Svénia. «Ci autorizzano ad attraversare. Ma non cantare vittoria troppo presto... potrebbe essere una trappola», disse la donna. La ragazza vide che Rök si toglieva la pelliccia... Si liberava del peso superfluo, nel caso fossero stati sul punto di sprofondare. Pensò d'imitarlo, ma poi lasciò perdere: sarebbe stato inutile. Lei non possedeva la resistenza al freddo di quei guerrieri che, ancora in fasce, muovevano i primi passi nella neve che arrivava fino al ventre. Rök lasciò la riva e mosse i primi passi sul lago ghiacciato, che aveva l'aspetto di una lastra di marmo. I vichinghi, abituati al ghiaccio, si muovevano con incredibile senso dell'equilibrio. Alcuni avevano perfino indossato dei pattini con la lamina di ferro. Marion, al contrario, dovette ag-
grapparsi al braccio di Svénia per non cadere. La tribù avanzava in silenzio. Raschiando il ghiaccio, gli sci delle slitte emanavano un rumore terrificante. La ragazza si guardava intorno: qua e là emergevano tronchi d'albero, chiusi nella morsa dell'acqua solidificata. «Lo strato è meno solido al centro. Non guardare a terra, se non vuoi avere paura», le consigliò Svénia. Era la cosa peggiore che potesse dire. Da quel momento, Marion non fece altro che tenere gli occhi incollati al suolo traslucido su cui si muoveva. Lo sentiva cigolare sotto le scarpe. Oltre lo strato di ghiaccio, riusciva a distìnguere delle bolle, segno che l'acqua non era poi così lontana. Cercò di resistere all'ondata di panico che stava per assalirla. Si udì un primo scricchiolio e l'intera tribù s'irrigidì. Rök lanciò un grido di rimprovero. Senza dubbio, aveva detto ai suoi guerrieri di procedere senza fare troppe storie. Il peso degli uomini, tutti fermi nello stesso punto, poteva causare il cedimento della lastra su cui si trovavano. Marion lanciò un'occhiata alle crepe e vide che si estendevano intorno all'isola come una ragnatela. Allora socchiuse gli occhi, cercando d'immaginare, laggiù in fondo, gli uomini col martello in pugno, che si apprestavano a forzare le crepe per creare dei solchi nel ghiaccio. Sarebbe risuonato un forte: «Ah!» gridato all'unisono... e la lastra ghiacciata che ricopriva l'acqua del lago sarebbe esplosa in mille frammenti. Aveva le gambe rigide per la paura. Dovette fare uno sforzo per riuscire a procedere. Una trappola... Certo, poteva trattarsi di una trappola. A metà strada, avrebbero saputo la verità. Misurò la distanza con lo sguardo, ancora una volta. Le apparve infinita. Aveva sempre avuto paura dell'acqua. L'idea di morire annegata la terrorizzava. «Avanti!» gracchiò Svénia, dandole un colpo sulle scapole. «Sta scricchiolando. Non senti?» balbettò la ragazza. «Avanti!» si limitò a ripetere la serva. Marion aveva ragione. Dal suolo vitreo salivano alcuni cigolii secchi. Man mano che procedevano, le crepe si ramificavano con una rapidità inquietante. Si stava formando una vera ragnatela di spaccature. Se vogliono ucciderci, questo è il momento giusto, pensò la ragazza, inquieta. Ormai l'intera tribù era in preda al panico. Tutti si misero a correre, facendo tremare la superficie trasparente. Rök lanciò un urlo per richiamarli alla prudenza, ma in breve tempo il gruppo raggiunse la sponda del-
l'isolotto. Ad attenderli c'erano alcuni uomini dall'aspetto cupo, avvolti nelle pellicce, la lancia in mano. Marion si rese conto che Svénia non si era inventata niente: lungo la circonferenza dell'isola erano sistemati grossi ceppi di quercia, per metà infilati nelle fenditure. Sarebbe bastato un colpo di martello per condannare a morte eventuali invasori. È come un ponte levatoio per loro, il mezzo che hanno a disposizione per difendersi, pensò, sollevata all'idea di essere ancora viva. Un uomo dalla barba nera e ricciuta si portò di fronte a Rök. Non sembrava affatto contento di quella visita inaspettata. «È Yul. Non bisogna fidarsi di lui. Dicono che non sempre rispetti le regole dell'ospitalità», le sussurrò Svénia. Alle spalle del capo, i guerrieri formavano una barriera di carne e ferro. La loro diffidenza era tangibile. Forse si stanno chiedendo se non sarebbe stato meglio farci affogare, si disse Marion Rök discuteva. Si sforzava di mostrarsi gioviale e aveva posato a terra le armi. A qualche passo di distanza da lui, Yul appariva rigido come le statue cui Marion correggeva i tratti ogni mattina. Si accorse che la gente dell'isola guardava nella sua direzione e si affrettò a nascondere le mani intrappolate nei guanti di ferro tra le pieghe del mantello. «Yul si sta facendo pregare», borbottò Svénia. «Non è disposto a cederci una parte dei viveri. Sostiene di aver bisogno di provviste di scorta nel caso i suoi nemici assedino l'isola.» «Quindi tutte le tribù hanno dei nemici?» chiese Marion. «È inevitabile. Su ogni tribù pesa il vincolo di una vendetta, te l'ho già spiegato. Rök ha i suoi nemici, Yul i suoi. Talvolta la causa di tali dispute risale a tempi così remoti che nemmeno i contendenti sarebbero più in grado di dire perché continuano a trucidarsi, di generazione in generazione.» L'atmosfera si fece pesante. Infine Yul prese una decisione e invitò Rök e i suoi luogotenenti a seguirlo. Il villaggio era formato da casette basse, senza finestre, ricoperte di neve. I visi degli uomini intorno a loro erano tetri, ostili. «Temono l'arrivo della primavera», spiegò Svénia a Marion. «Quando lo strato di ghiaccio che ricopre il lago si sarà sciolto, sarà molto più facile attaccare l'isola. Durante l'inverno, si servono della trappola delle spaccature, con cui, grazie a un colpo di martello, possono far sparire il terreno sotto i
piedi dei loro avversari in un istante. Ma in estate non è la stessa cosa: anche l'acqua si riscalda e si può attraversare il lago a nuoto senza paura di morire assiderati.» Lanciata un'occhiata alle misere abitazioni e agli abiti logori degli abitanti dell'isola, Marion pensò che i nemici di quegli uomini non potevano certo sperare in un gran bottino. Svénia la spinse in una casa buia, in cui regnava un fetore ripugnante. Quando lo sguardo si abituò alla penombra, la ragazza capì da dove proveniva quell'olezzo: alla trave principale era appeso un cadavere in decomposizione, lasciato a penzolare come cibo per i corvi. «Chi è? Credevo che i vichinghi bruciassero i morti», bisbigliò. «È Askar-dalle-lunghe-mani», le rispose Svénia, tenendo gli occhi bassi. «Il padre di Yul. È stato assassinato da un traditore e non ci sarà il funerale finché non sarà stato vendicato. È la regola che vige sull'isola. Se si commettesse l'errore di seppellirlo ora, si risveglierebbe dal regno dei morti per perseguitare i vivi. Meglio che resti cosi, in mezzo ai suoi.» Si sedettero intorno al tavolo e le donne cominciarono a far circolare la birra in coppe di latta e corni. Marion posò le mani chiuse nelle manopole sulle cosce. Gli uomini non smettevano di fissarla, quasi volessero spogliarla. Yul la guardava di sottecchi, con timorosa bramosia. I guerrieri parlavano con voce roca, astiosa, battendo di tanto in tanto i pugni sul tavolo per rendere più esplicite le loro ragioni. Un po' alla volta, l'aria si riempì di un fetore di rabbia e sudore. Sopra la loro testa, il cadavere continuava a penzolare, facendo cigolare la corda che lo teneva attaccato alla trave. «Yul si sta facendo pregare. Rök si è già offerto di cedergli come pagamento le ragazze catturate durante la presa dell'abbazia dove lavoravi tu, ma l'altro dice che non è abbastanza. Sostiene che, con ogni probabilità, ben presto li attaccheranno e avranno bisogno di tutte le provviste a disposizione. Rök gli ha risposto che non dovrà far altro che mettere le ragazze in salamoia dopo essersene servito», sibilò Svénia. «È uno scherzo?» mormorò Marion. «Niente affatto!» grugnì la serva. «Mi hanno già raccontato storie di questo tipo. Sulle grandi distese ghiacciate, quando non trovano più niente da mangiare, alcuni popoli non esitano a divorarsi tra loro. Ecco quale fine potremmo fare se Yul dovesse mettersi in testa di completare la sua riserva di viveri a nostre spese. Non bisogna mai fidarsi dell'ospitalità degli sconosciuti. Se ci avessero dato il permesso di raggiungere la loro maledetta iso-
la solo per metterci in salamoia? Stanotte sarà bene dormire con un occhio aperto. I loro guerrieri sono più numerosi dei nostri.» Marion strinse i denti. Sembrava che le cose stessero prendendo una brutta piega. Forse siamo finiti nella bocca del lupo, ipotizzò. Tutti quegli uomini, con quel grugno da assassini, la terrorizzavano. Avrebbe voluto essere a centinaia di leghe da quel posto. L'olezzo del morto appeso alla trave le toglieva il fiato. Pensò alla tribù di Yul, che si ritrovava tutte le sere seduta intorno a quel tavolo per cenare... Pensò al rumore dei denti che masticavano il cibo, un rumore che si sovrapponeva a quello della corda che cigolava sotto il peso del defunto. Dall'inflessione della voce di Rök, capì che la discussione si stava facendo tesa. Passarono alcune ore. Le ragazze furono barattate con carne affumicata, dal momento che era impossibile trovare ortaggi sui ghiacciai. Marion avrebbe voluto intervenire, protestare, ma si tenne in disparte, vinta dalla paura e dalla repulsione che quegli individui suscitavano in lei. Yul non smetteva di lanciarle occhiate. D'un tratto, la giovane scultrice fu assalita dall'angoscia che potesse chiedere anche lei in cambio delle provviste. Di certo, Rök avrebbe rifiutato... e allora sarebbe stato un massacro. Comprese che il capotribù dell'isola stava parlando di lei: la indicava di sbieco, come se non osasse affrontarla apertamente, come se in qualche modo la temesse. Marion si piegò verso Svénia per avere qualche spiegazione. Non voleva essere venduta e nemmeno prestata a quei selvaggi. Già s'immaginava nel letto di Yul... Non l'avrebbero protetta, laggiù. Forse, sull'isola, non avrebbero dato nessuna importanza al «potere magico» delle sue mani... «Cosa stanno tramando?» chiese. Svénia fece una smorfia. Aveva il viso livido. «Niente di buono», borbottò. «Yul ha sentito dire che sei una maga. Sa che le tue dita possono dare vita a oggetti inanimati. Pensa che, a forza di toccare gli dei, un po' della loro potenza sia stata trasferita nelle tue mani. Dice che sei una specie di dea. Vuole...» «Come?» «Vuole che tu plasmi dei soldati di neve e che doni loro la vita, servendoti della magia. Sì... Devi realizzare un'armata di pupazzi di neve che li difenderà contro i loro nemici.» Marion si ritrasse. Era la prova che temeva fin dall'inizio. Se l'avessero messa con le spalle al muro, il suo inganno sarebbe diventato palese. «Ma
è impossibile!» esclamò. Svénia fu colta da un brivido di terrore. «Non dire mai più una cosa del genere», la zittì, con voce carica di odio. «Ci condannerai tutti a morte certa. Se non vuoi farlo, trova un'altra giustificazione, ma, per favore, non dire che non sei in grado di farlo. La nostra sopravvivenza dipende dal tuo talento come strega.» Rök continuava a parlare e Yul lo fissava intensamente. Quell'uomo ispirava a Marion una forte repulsione, non tanto per il suo aspetto fisico quanto per l'alone di ferocia che lo circondava. Sentiva che era pronto a tutto, senza rispetto per nulla, se non per la legge del più forte. «Rök sta cercando di guadagnare tempo», grugnì ancora Svénia. «Sta dicendo che gli dei non saranno contenti di vederti sprecare il tuo talento con dei pupazzi di neve. Esorta Yul alla prudenza, ma l'altro non ne vuole sapere. La situazione è molto tesa e potrebbe degenerare da un momento all'altro.» Marion chiuse gli occhi. Cosa ci faceva lì, in mezzo a quel branco di bifolchi superstiziosi? Pensavano davvero che fosse in grado di dare vita a dei pupazzi di neve? Yul si alzò di scatto, il viso impassibile. «L'incontro è terminato», le comunicò Svénia. «Rök ha voluto un po' di tempo per riflettere. Non va bene. Yul potrebbe ordinare ai suoi guerrieri di sgozzarci durante la notte. Ti vuole. È convinto che tu sia la soluzione ai suoi guai. Sarebbe perfino disposto a liberarsi dell'intera tribù per averti... Per avere te, e te soltanto.» Fece una smorfia e concluse: «Nell'attesa, ci offre la sua ospitalità». Il gruppo lasciò l'abitazione in un silenzio che non lasciava presagire niente di buono. Yul procedeva, teso, le sopracciglia inarcate, come se fosse assorto in chissà quali macchinosi pensieri. Quando sorrideva, aveva l'aspetto di un lupo che mostrasse le zanne. Condusse i nuovi arrivati verso una grossa capanna scalcinata, al centro del villaggio. Era una casa costruita con rami intrecciati, con le giunture colmate di fango. Si direbbe un'enorme gabbia... pensò Marion. Per gli uomini di Yul, sarebbe stato un gioco da ragazzi aprire delle fessure tra i rami e tempestare di frecce la tribù addormentata. Potranno ucciderci dall'esterno, senza dover entrare e battersi a corpo a corpo. Yul e i suoi guerrieri improvvisarono una festa che sapeva di falso e mise tutti a disagio.
Accesero alcune torce e fecero circolare una disgustosa birra amara. Infine giunse il momento del baratto. Le donne e le ragazzine prelevate all'abbazia di Saint Thélème insieme con Marion furono offerte agli abitanti dell'isola. Non urlarono né si dibatterono; erano state violentate innumerevoli volte dall'inizio del viaggio e ormai subivano le bramosie degli uomini in una sorta di dormiveglia che le faceva somigliare a fantasmi. Quella passività esasperava i guerrieri, che non provavano nessun gusto a manipolare inerti pupazzi di carne. Perciò capitava che quei giochi amorosi si trasformassero in vere carneficine. «Sono dei selvaggi... Sai che non lasciano mai l'isola durante la stagione calda? Non hanno una barca. Non ne hanno mai costruita una in vita loro», disse Svénia. «Davvero?» si stupì Marion. «Sì», confermò la serva. «Si arrischiano sulla terraferma solo quando il lago è gelato... e molto di rado. Altrimenti trascorrono le giornate qui, mangiando le provviste. Quando i viveri finiscono, provano a pescare lanciando delle lenze nel lago... Se manca anche il pesce, tirano a sorte per decidere chi, tra i membri della tribù, sarà cucinato e divorato. Di solito, sono gli schiavi a fare le veci della 'cena'. Sono dei selvaggi. Rök ha commesso un errore a portarci da loro.» Continuò a parlottare in modo incomprensibile, scuotendo ogni tanto la testa. Due ragazze passarono a distribuire un po' di carne in salamoia. Le razioni erano piuttosto misere. Svénia spiluccò nella sua scodella, girando e rigirando i pezzetti tra le dita. «Chissà cosa stiamo per mangiare... Se tutto va bene, hai nel piatto tranci degli ultimi viaggiatori che hanno chiesto ospitalità a Yul», grugnì. «Basta così!» si spazientì Marion, infastidita da tutte quelle storie di cannibalismo. «Non fare troppo la smorfiosa», replicò la serva, su di giri per la birra bevuta. «Sanno tutti che Yul compra un po' troppo sale, anche quando non caccia. A cosa potrà mai servirgli, eh? È inutile farsi illusioni. È questa la fine delle ragazze che Rök gli ha ceduto stasera. Quando gli uomini saranno stufi di divertirsi con loro, le metteranno in salamoia.» Sta farneticando... Marion decise di non prestarle più ascolto. Rök si avvicinò e prese posto accanto a loro. Cominciò a parlare tra i denti, come se temesse che qualcuno lo sentisse. Svénia dovette riprendere a tradurre. «Dice che domani mattina dovrai modellare i pupazzi di neve. Altrimenti Yul non ci lascerà ripartire. Se ne
dispiace, ma non si può fare diversamente. Non è riuscito a raggiungere un altro compromesso.» Marion sentì lo stomaco contorcersi. «Accetto», mormorò infine. «Ma dovremo partire subito dopo. Bisognerà spiegare a Yul che i guerrieri di neve si animeranno soltanto allorché i loro nemici attaccheranno l'isola. Finché non ci sarà pericolo in vista, resteranno fermi e manterranno il loro aspetto di pupazzi di neve, per non destare sospetti negli sconosciuti. L'immobilità servirà loro da travestimento.» Era una menzogna sfacciata, ma in quel momento lei non era in grado di architettare niente di più credibile. Confidava nella superstizione del popolo dell'isola per salvare la sua vita e quella dei suoi compagni. Riusciva a leggere negli occhi di Rök un'angoscia quasi commovente. Ancora una volta, quel colosso dimostrava di non essere così invulnerabile come voleva far credere... D'un tratto, sentì salire dal petto una vampata di calore e provò un desiderio tanto forte quanto inopportuno, che la irritò. Ripeté più lentamente quello che aveva appena detto. E se Rök avesse intuito che si trattava di una menzogna? Lei era ancora viva soltanto grazie alle sue doti di «strega», non doveva mai dimenticarsene. Tornata a essere una donna come le altre, avrebbe conosciuto la stessa fine delle povere ragazze prelevate all'abbazia, barattate con qualche libbra di carne secca. «Modellerò le statue e subito dopo ce ne andremo. È importante», ribadì. «D'accordo, ma potrebbe sembrare una fuga», squittì la vecchia. «Lo so, ma non riesco a pensare a niente di meglio. Bisognerà fingere che abbiamo fretta per via del disgelo...» si spazientì Marion. Tutte le loro speranze erano riposte nei suoi «poteri magici», nel fatto che Yul potesse crederci. Se si fosse accorto che l'avevano preso in giro, non avrebbe esitato a ordinare ai suoi uomini di frantumare la superficie ghiacciata del lago con un colpo di martello. «Perché non diciamo a Yul che i pupazzi di neve si squaglieranno con l'arrivo della bella stagione e che è del tutto inutile perdere tempo con un'armata tanto effimera?» propose la ragazza. Svénia scosse le spalle. «Rök ci aveva già pensato, ma l'altro non vuole sentire ragioni. Spera nel cattivo tempo. Si augura che i suoi guerrieri di neve possano durare più del previsto.» «Che la peste lo colga!» esclamò Marion. Poi cercò di contenersi, perché si era accorta che Rök la stava scrutando. Come tutti i capi delle tribù guerriere, era molto intuitivo, abituato a seguire l'istinto. E lei non poteva permettersi di avere l'aria di chi dubita delle proprie capacità.
Quando tutti furono ubriachi a sufficienza, i festeggiamenti terminarono. Rök e i suoi furono condotti - per non dire spinti - nella strana capanna a forma di gabbia. Calò la notte e cominciò a nevicare a larghe falde. Rök ordinò agli uomini di sistemarsi in cerchio e di coprirsi coi propri scudi. Marion comprese subito il senso di quello stratagemma: in quel modo, anche dormendo, sarebbero stati parzialmente protetti contro un eventuale lancio di frecce dall'esterno. In effetti, le fessure che si aprivano tra i rami intrecciati somigliavano un po' troppo a feritoie. Rök invitò le donne e i bambini a sistemarsi dietro i sacchi scaricati dalle slitte. Era consigliabile prendere tutte le precauzioni necessarie senza però darlo a vedere, fingere fiducia mentre ci si preparava al peggio. «Rök pensa che Yul ci attaccherà, non è così?» chiese Marion. «Sì», ammise Svénia. «Tu sei una preda troppo allettante... In questo momento, Yul si starà dicendo che potrebbe porre fine a tutti i suoi guai, se ti avesse sempre con sé. Tu potresti costruire per lui un'armata di pupazzi di neve, scolpire gli dei nel ghiaccio. Con te, la tribù dell'isola sarebbe definitivamente al riparo da qualsiasi sciagura.» «Ma tu sai bene...» cominciò la ragazza, ma s'interruppe. Stava per dire: «Tu sai bene che io non ho nessun potere...» ma Rök si stava avvicinando. Le fece cenno di sistemarsi al centro del cerchio formato dalla tribù, come una sorta di totem vivente. Mormorò qualcosa, con voce sorda. «Dice che tu sei l'unica che non corre nessun pericolo. Yul ucciderà tutti... tranne te, questo è certo», tradusse Svénia. Rök si distese a sua volta, avendo cura di sistemare lo scudo in modo da essere riparato. Tutti si erano avvolti per bene nelle loro pellicce, così da evitare, in caso di attacco, che le frecce degli uomini di Yul colpissero troppo a fondo. «Ora non possiamo far altro che aspettare», gemette Svénia. «Siamo in trappola. Se vorranno colpirci, non avranno certo difficoltà a prendere la mira.» Marion fu assalita da un tremendo senso di colpa. Tutte quelle persone rischiavano di morire per causa sua... per un potere magico che lei non aveva mai posseduto. Erano là, uomini, donne, bambini, anziani, ammassati come le future vittime di un olocausto. Avrebbero semplicemente aspettato che si addormentassero, che i fumi dell'alcol facessero effetto, dopodiché...
Svénia la tirò per la manica per farla sdraiare. La vecchia serva si distese a sua volta, incollandosi alla sua padrona. Che furbastra! pensò Marion. Sa bene che così non oseranno prenderla di mira, per paura di colpirmi. Sull'isola regnava il silenzio. Si udiva solo il vento, le cui folate, cariche di neve e schegge di ghiaccio, sfioravano la superficie del lago. Tutt'intorno a Marion, i respiri si fecero ansimanti. Nessuno parlava e perfino i bambini non osavano piangere. Rök era sdraiato accanto a Marion, la mano ben salda sull'impugnatura del suo pugnale da combattimento. La giovane non riuscì a controllare oltre il turbamento che l'aveva assalita. Quel corpo muscoloso, ricoperto di cicatrici, che fremeva a pochi centimetri dal suo, non la lasciava indifferente. Aveva l'impressione di giacere al fianco di una bestia selvaggia che si preparava ad attaccare. Una sensazione che la spaventava e la eccitava al tempo stesso. I muscoli di Rök erano duri come la pietra e la sua mano così grossa da poter stringere entrambi i pugni di una donna. All'improvviso, Marion pensò che le sarebbe piaciuto vederlo nudo... e distendersi su di lui. Era tanto tempo che non faceva l'amore. Nell'oscurità, le sue gote si tinsero di rosso. Perché quegli strani pensieri, proprio in quel momento? È per via della morte. Della morte che incombe... intuì. Sapeva bene che le orge più selvagge di solito avevano luogo all'interno delle fortezze assediate, in un clima di fame e disperazione totale. Aveva caldo, troppo caldo... Anche l'ultima torcia era stata spenta e l'isola era immersa nelle tenebre. Non aveva importanza; i guerrieri di Yul conoscevano il posto abbastanza bene da potersi muovere anche senza luce. Marion tese l'orecchio, sforzandosi di sentire il rumore di qualche ramoscello spezzato. Gli arcieri, procedendo a passo felpato, si stavano già avvicinando? Forse avrebbero gettato una torcia dentro la capanna all'ultimo momento, appena prima di tirare. Le sembrava quasi di vederli, imboscati, nascosti al di là delle fessure, tra i rami intrecciati. Si accorse che stava tremando. Provava orrore per se stessa. Tutte le persone che la circondavano sarebbero morte per colpa sua! A causa di un capo superstizioso, che si era messo in testa d'impadronirsi della strega. Non appena prese ad agitarsi, la mano di Rök si posò sulla sua anca, costringendola a stare ferma. Il contatto di quella mano maschile le fece ardere la pelle. Desiderava disperatamente che quelle dita scendessero lungo il suo ventre nudo... tra le gambe. Trattenne un gemito. L'angoscia la stava facendo impazzire.
Sentiva di essere sul punto di piangere. La mano di Rök era ancora là, immobile, come una grossa e calda bestia, piena di calli, a forza di manipolare la spada e il remo. Se non avesse avuto le mani bloccate dalle manopole di ferro, con ogni probabilità Marion si sarebbe strappata i vestiti di dosso, per lasciare che il capo dei vichinghi potesse esplorare il suo corpo. La infastidiva il fatto che non si decidesse a spingersi oltre. Non aveva voglia di essere rispettata come una dea, non quella sera... quella sera che sapeva di morte, quella sera in cui la Trista Mietitrice stava tramando contro di loro nell'ombra. Tuttavia, dopo aver mormorato un paio di parole incomprensibili, Rök si scostò da lei. Fu una lunga notte. Sfinita per la tensione, Marion finì per addormentarsi. Sognò di essere sdraiata nuda accanto a un orso, il cui contatto le metteva troppo caldo. Le faceva piacere sentire quel peso contro il suo ventre, ma la pelliccia dell'animale le tappava la bocca, impedendole di respirare. Si svegliò, sentendosi soffocare, e si rese conto che aveva il viso premuto contro la pelliccia di Rök. Era l'alba, ormai. La ragazza si sollevò su un fianco, col cuore che batteva all'impazzata. Stava per scoprire di aver dormito in mezzo a una pila di cadaveri? Avevano assassinato uomini, donne e bambini durante il sonno? «Non temere. Non sono venuti, non hanno osato. Per paura di colpirti. È difficile prendere bene la mira in mezzo a tutta questa gente», le sussurrò Svénia. Sentendo le due donne bisbigliare, Rök si svegliò a sua volta e scosse il suo vicino di destra, che fece lo stesso con quello successivo, fino a ridestare l'intera tribù. Un po' alla volta, tutti si ripresero dal torpore del sonno. Yul e i suoi guerrieri li stavano già aspettando. Mio Dio, è vero! Devo modellare quegli stupidi soldati di neve, si disse Marion. Si sforzò di assumere un'aria impassibile, una maschera di marmo, come immaginava facesse una strega vera, e uscì dalla capanna, scortata da Rök e Svénia. Marciò verso Yul e lo squadrò da capo a piedi. Ebbe cura di tenere le mani chiuse nelle manopole all'altezza del seno, perché si era accorta che avevano un certo effetto sui guerrieri. Come prevedeva, Yul fece un impercettibile movimento all'indietro. Anche lui temeva di finire carbonizzato se le dita della strega l'avessero toccato. «Liberami le mani», ordinò Marion a Svénia. «Traduci ciò che sto per
dire, parola per parola. Devono capire che i soldati di neve si metteranno in moto solo se un pericolo si profilerà all'orizzonte. Unicamente in quell'occasione.» La serva increspò la bocca. Ha capito, si disse Marion. Non si fa illusioni. Ormai ha indovinato da tempo che non sono dotata di nessun potere magico. Sa che sto tentando una manovra disperata per abbindolare questi allocchi. Come richiesto, la donna prese a tradurre. Mentre parlava, cominciò a slegare le catene che tenevano imprigionate le mani della scultrice. È scaltra! pensò la ragazza. Ormai Yul e i suoi uomini fissavano solo le sue dita, indifferenti a tutto il resto. Era chiaro che stavano facendo uno sforzo per non arretrare, timorosi com'erano che la strega potesse sfiorarli. «Per di qua. Ti condurranno ai cumuli di neve», annunciò Svénia. «Però vogliono che tu modelli le statue a mani nude, senza servirti degli utensili. Dicono che così i tuoi poteri saranno trasmessi più facilmente ai guerrieri.» Marion strinse i denti. «È pericoloso», proseguì la serva. «Corri il rischio di congelarti. Se la pelle morirà a contatto con la neve e le tue mani s'imputridiranno, bisognerà amputarle prima che la cancrena raggiunga il cuore... e a quel punto non avrai più nessun valore per la tribù. So quello che dico, è già capitato. Cerca di stare attenta.» «Che carichino le slitte. Che la tribù si tenga pronta ad attraversare il lago non appena avrò finito», replicò Marion. Cercava di fare la spavalda per dissimulare la paura. Sulla riva, nello stesso punto in cui la sera prima erano sbarcati sull'isola, gli uomini di Yul avevano preparato dei cumuli di neve. Marion ne contò sei in tutto, piantati a terra come pire funerarie, che s'innalzavano sullo specchio d'acqua ghiacciata. Erano troppi. Se si fosse impegnata in un lavoro di fino, le dita le si sarebbero congelate prima del terzo pupazzo di neve. Rök faticava a contenere l'agitazione. Yul era impaziente, ansioso. Poco più in alto, tra le capanne, le sue truppe armate erano già pronte a intervenire. Marion scorse un numero considerevole di arcieri. I muscoli tesi, si allontanò dal gruppo, per incamminarsi con fare regale verso la riva. Non aveva scelta. O modellava quei maledetti pupazzi... o li avrebbero massacrati. Si mise d'impegno per lavorare il più rapidamente possibile, ma il gelo era implacabile. Quando sentiva le dita divenire insensibili, le strofinava tra loro, nel tentativo di ristabilire la circolazione. Tremava al
pensiero che la carne stesse già morendo. Conosceva il processo: prima l'insensibilità, la perdita totale di tatto... poi, sempre più veloce, la putrefazione. Cercava in tutti i modi di portare a termine quel compito ingrato, sforzandosi di avere l'aria di chi sa il fatto suo. Per fortuna, era così brava nel suo lavoro da riuscire a trarli in inganno. Giunta alla sesta statua, ormai non sentiva più nulla. A partire dai polsi, le mani erano completamente insensibili. Le sfregò l'una contro l'altra, restando in attesa di un formicolio di dolore, che le avrebbe dimostrato che erano ancora vive. Si osservò i palmi e notò che erano del colore della carne morta. Aveva le tempie coperte di sudore per la paura. Rök si stava già congedando da Yul, ancora titubante. La tribù cominciò la marcia sul lago ghiacciato. Dovevano attraversare il più velocemente possibile, prima che Yul scoprisse l'inganno. Si aspettava di avere a disposizione soldati magici, in grado di muoversi, e invece disponeva solo di pupazzi di neve, identici a quelli che erano in grado di fare anche i bambini della sua tribù. Quanto tempo ci avrebbe messo a rendersi conto che la magia della strega non era altro che superstizione? Avremo almeno il tempo di raggiungere l'altra sponda? si chiese Marion. Non dovevano avere l'aria di fuggiaschi e infatti Rök evitava di frustare troppo i cani. Poteva succedere di tutto... E se Yul avesse sospettato qualcosa? Se si fosse ingelosito, vedendo che un'altra tribù portava via con sé la strega? Come tutti i barbari, era soggetto a cambiamenti d'umore repentini e poco incline al pentimento. Marion aveva preso posto sulla slitta guidata da Svénia. I cigolii delle lamine sul lago gelato riempivano l'aria di un gemito senza fine. La ragazza contava i battiti del proprio cuore. Guardandosi alle spalle, scorse Yul, ancora in piedi sulla riva, in dubbio sulla decisione da prendere. Se si fosse reso conto di essere stato ingannato, non avrebbe dovuto far altro che ordinare ai suoi uomini di tirare un colpo di martello ai paletti infilati nel ghiaccio, creando una ragnatela di crepe che in un istante avrebbe raggiunto i nemici in fuga. Le prime slitte raggiunsero la terraferma. Per il sollievo, Marion fu sommersa da una serie di brividi convulsi. Non aveva più sensibilità nelle mani. Avrebbe dovuto attendere la sosta successiva per curarsi, per mas-
saggiarle con un balsamo... E a quel punto, forse, sarebbe stato troppo tardi. 13 La tribù procedeva sulla pianura imbiancata. Ormai non c'era più traccia di vegetazione. Non si scorgevano né licheni né alberi morti. Lassù aveva inizio la terra dell'inverno perenne, il Paese in cui la primavera non arrivava mai. Il sentiero s'inerpicava e, da un po' di tempo, i cani avevano rallentato l'andatura. Ormai stavano per raggiungere i ghiacciai. Si fermarono a mezzogiorno, quando ormai la muta era stremata. Il cielo era di un grigio strano, percorso da strisce luminose, come se folletti burloni stessero giocherellando nel ventre delle nubi. Svénia montò la tenda con l'aiuto di Björn, il vecchio intagliatore di ghiaccio. I due non facevano nessun tentativo per dissimulare la preoccupazione. La loro sopravvivenza dipendeva da quella di Marion. Una volta accesa una piccola brace all'interno della tenda, Svénia fece sedere la sua padrona e le slacciò le manopole. Björn borbottò qualche parola incomprensibile. «Cosa sta dicendo?» si allarmò la ragazza. «È un vecchio matto, non bisogna dargli ascolto...» rispose Svénia, elusiva. «Dice che saranno costretti a tagliarti le mani, che sei stata una pazza ad accettare di lavorare la neve senza attrezzi...» «Ha ragione, ma non avevo scelta», spiegò Marion. «Prendi questa pomata e massaggiati i palmi. Dovrebbe ristabilire la circolazione ed evitare che la carne vada in putrefazione. Se brucia, è buon segno», replicò la serva. La giovane si affrettò a obbedire, ma gli oggetti le sfuggivano dalle mani. Svénia non faceva nulla per aiutarla, come se dopotutto anche lei avesse timore a sfiorare le dita della strega. O forse questa messinscena è destinata solo a Björn? pensò Marion. Si sentì sollevata quando le sembrò di avvertire un brivido caldo accendersi nei palmi delle mani. In quel preciso momento, qualcuno entrò nella tenda: era Knut, il giovane guerriero punito per colpa di Marion durante la traversata in mare. S'inginocchiò, gli occhi fissi in quelli della ragazza, e prese a parlare con tono deciso, rivolto a Svénia. «Cosa vuole?» si spazientì Marion. «Cose molto lusinghiere per te», sogghignò la vecchia. «Dice che, se le tue mani imputridiranno, s'incaricherà personalmente di amputartele. L'ha
già fatto. Ti prega di fidarti di lui... Quando sarai monca, si occuperà lui di te. Non dovrai temere di essere abbandonata ai lupi. Ti prenderà in moglie, anche senza mani. Dice che per lui non ha nessuna importanza... anzi preferisce così, altrimenti non avrebbe avuto nessuna speranza di diventare tuo marito. Ti vuole. Dice anche che è stato contento di vederti infilare le mani nella neve ghiacciata stamattina, perché sapeva che le avresti perse. È ben consapevole del potere del freddo. È convinto che le tue dita imputridiranno entro qualche giorno. Ti supplica dunque di non esitare a rivolgerti a lui per l'amputazione. È importante non aspettare troppo a lungo, altrimenti la cancrena raggiunge il cuore e allora tutto è perduto. Ti taglierà i polsi con una lama ben affilata e cauterizzerà la ferita con olio bollente. Assicura che è la tecnica migliore. Una volta formate le cicatrici, ti regalerà dei bracciali d'argento per nascondere i moncherini. Un vero vichingo non prova disgusto per la mutilazione. Lui ringrazia gli dei per avergli offerto questa possibilità.» Svénia le strizzò l'occhio. «Mi sembra una dichiarazione d'amore in piena regola», cinguettò. Marion teneva i pugni stretti per cercare di non perdere il controllo. Avvertiva lo sguardo penetrante di Knut e sentiva che era carico di una bramosia innocente; non possedeva quel bagliore libidinoso che notava di solito quando gli uomini le mettevano gli occhi addosso. È pazzo di me, pazzo al punto di inventarsi qualsiasi cosa pur di avermi, rifletté. Quella strana esaltazione le metteva paura. Tuttavia non poté impedirsi di pensare che lo desiderava. Se lui avesse tentato di possederla, l'avrebbe lasciato fare, là, sotto gli occhi di Svénia e di Björn, dimenticandosi subito della loro presenza. Chiuse gli occhi. Il desiderio le mozzava il fiato. Credette di svenire... poi la sensazione di malessere si dissipò. Diede la colpa alla tensione nervosa, che la spingeva a reagire in maniera esagerata. «Non è un'offerta di poco conto», insistette Svénia. «Non prenderla alla leggera. Se ti andranno in cancrena le mani, Rök ti abbandonerà senza esitare... e noi con te. Knut è un buon partito ed è pazzo di te. Che bisogno hai delle mani? Non le ho forse sostituite io egregiamente fin dall'inizio del viaggio? Non sentirai nemmeno male, conosco una droga in grado di alleviare il dolore. Quando riprenderai conoscenza, non soffrirai più e potrai cominciare una nuova vita...» «Mi stai prendendo in giro?» gridò Marion. «No», esclamò la serva. «Ti parlo con sincerità, per il tuo bene. Sarebbe più prudente non aspettare troppo a lungo e mozzarti le mani prima che arrivi la cancrena. Perché non stasera stessa o domani? In questo modo, ti
sbarazzerai anche dell'incombenza delle statue, dato che nessuno potrà più pretendere niente da te. E non mi dire che non ti piacerebbe infilarti nel letto di Knut, perché non ti credo!» Marion si sentì arrossire. Si rese conto che, al pari della serva, anche il giovane vichingo aveva letto il desiderio che le ardeva negli occhi. «No. Lasciami in pace. Non voglio più sentir parlare di queste cose orribili», balbettò. «Rimpiangerai questa decisione quando la tua carne comincerà a imputridire. Allora, però, sarà troppo tardi. Faresti meglio a lasciare che Knut si occupi di te stasera stessa. Ha assicurato che si farà carico anche di noi, ha i mezzi per farlo», gracchiò la serva. «Sta' zitta, vecchia arpia! È questa la sola cosa che t'interessa! Credi che non abbia capito il tuo gioco? Saresti pronta a farmi a pezzi se ciò potesse garantirti la tranquillità per il resto dei tuoi giorni!» strillò Marion. Alzandosi, Knut mise fine alla discussione. Aggiunse ancora qualche parola e si chinò per uscire. «Ti prega di riflettere sulla sua proposta. È per il tuo bene. Se sei d'accordo, ci penserà lui ad avvertire Rök», tradusse Svénia. Marion non si sentiva più al sicuro. Questa vecchia pazza sarebbe capace di farmi bere una droga per addormentarmi, poi andrebbe a cercare Knut e mi farebbe tagliare le mani nel sonno! pensò, allarmata. Quella paura la ossessionò per l'intera giornata, spingendola a rifiutare il cibo che la serva le porgeva. Temeva inoltre quell'amore un po' esaltato che il giovane guerriero provava per lei. Cercò d'immaginarsi come una mutilata volontaria, completamente dipendente da quell'uomo, con una legione di schiavi al suo servizio... No, l'idea non l'attraeva affatto! Preferiva di gran lunga continuare a provvedere a se stessa intagliando la pietra. Si sentì. sollevata rendendosi conto che la pomata stava facendo effetto. I formicolii avevano finito per trasformarsi in un bruciore quasi insopportabile. Significa che il sangue ha ripreso a circolare senza difficoltà, si ripeté, per rassicurarsi. Diede la notizia a Svénia che fece una smorfia. «Dici così per scampare all'amputazione. Sbagli. È un'opportunità che non dovresti lasciarti scappare», sentenziò. La ragazza insisteva e le due finirono per litigare di nuovo. Intervenne Björn, chiedendo a Marion di mostrarle le mani. Le esaminò senza toccar-
le. «Dice che i geloni si presentano come punti bianchi. Macchie incolori... come la lebbra. Ma non ne vede sui tuoi palmi», tradusse controvoglia la serva. Sembrava delusa. Senza dubbio, avrebbe preferito che la sua padrona diventasse la concubina di Knut. «Non cantare vittoria troppo presto», grugnì, rimettendole le manopole. «Talvolta i sintomi compaiono anche dopo due o tre giorni. Le unghie cominciano a infiammarsi...» «Basta così», tagliò corto Marion. «Ne ho abbastanza di vederti giocare alla ruffiana. Da quando ti conosco, non hai fatto altro che spingermi nel letto di tutti gli uomini della tribù.» «È per il tuo bene», ripeté Svénia. «Una donna ha bisogno di un protettore potente. Farai bene a scegliertene uno, finché la natura ti aiuta. Dopo, non potrai più avere pretese e il primo poveraccio che lo desidera potrà fare di te la sua sgualdrina.» Una forte tempesta obbligò la tribù a fermarsi. I cani scavarono buche nella neve per rifugiarvisi e ben presto le tende si coprirono di una coltre bianca. Marion faticò a prendere sonno. Moriva di fame, dato che non aveva toccato cibo per tutto il giorno, per paura di assumere qualche droga. Knut si presentò alla tenda per avere sue notizie. Quando Svénia gli comunicò che apparentemente Marion si stava riprendendo, il viso del guerriero dagli occhi pallidi lasciò trasparire un tale sconforto che la ragazza si commosse. 14 La tempesta imperversò per tre giorni e tre notti. Era come se i geni protettori dei ghiacciai rifiutassero ai nuovi arrivati l'accesso alle vette. Perlomeno quelle furono le voci che presero a circolare da una tenda all'altra. Ogni mattina, per uscire dalla tenda, era necessario scavare una galleria. Un giorno, mentre era intenta a medicarsi le ferite, Marion scorse di nuovo lo strano vecchio dalla barba intrecciata, che sembrava completamente estraneo alla vita della tribù. Per proteggersi dalle raffiche di vento, se ne stava avvolto nel suo mantello da guerriero in pelle di vacca, col cappuccio ben calato sulla testa. Si trattava dello stesso abbigliamento usato dalle sentinelle per affrontare i rigori invernali, ma era sorprendente che un uomo di quell'età riuscisse a sopportare temperature così rigide senza nessun'altra protezione.
Marion cercò invano di cogliere il suo sguardo. Sembrava che il vecchio non vedesse nulla di ciò che lo circondava. Si chiese se fosse un guerriero che aveva perso il senno. I vichinghi non avevano pietà per i malati e i feriti, ma rispettavano la pazzia, in quanto erano convinti che gli squilibrati potessero veicolare le parole degli dei. La ragazza avrebbe voluto avvicinarsi al vecchio, chiedergli se avesse bisogno di qualcosa - in effetti, ormai, il suo vocabolario le avrebbe consentito di esprimere un concetto così semplice -, ma il suo modo di fare altero e distante la dissuase da quel proposito. Tornata nella tenda, tempestò Svénia di domande. Curiosamente la serva, di solito così chiacchierona, fece orecchie da mercante. Quando Marion alzò la voce, l'altra si limitò a brontolare: «Te l'ho già detto, non farmi ripetere sempre le stesse cose! Non c'è nessuno, non bisogna guardarlo. È un fantasma. Dimenticati di lui, abituati a fingere che non esista e vedrai che andrà tutto bene». Ripensandoci, in effetti Marion si rese conto che tutti i membri della tribù si comportavano esattamente in quel modo nei confronti del vecchio, fingendo che non esistesse. Perfino i bambini distoglievano lo sguardo se per caso si trovavano a qualche passo dallo sconosciuto. Forse si tratta di un reietto, di una sorta di condannato intoccabile, pensò. E così decise di non insistere oltre. Il vento non smetteva di soffiare e i membri della tribù erano costretti a trascorrere le giornate chiusi nelle minuscole tende. Marion ne approfittò per migliorare la sua conoscenza della lingua norrena. «Che noia!» si lamentava Svénia. «Non credi che faresti meglio a passare il tempo tra le pellicce, a fare l'amore con un bel giovane come Knut, eh? Conosco almeno un paio di ragazze che non avrebbero esitato un istante a farsi tranciare le mani pur di averlo come marito. Hai buttato al vento una buona opportunità per uscire dalla situazione in cui ti sei cacciata. Quel ragazzo ti avrebbe venerato come una dea.» Snocciolava la stessa litania più volte al giorno, con gran fastidio di Marion. «Lo dico per il tuo bene», borbottò una sera Svénia, con aria suadente. «Tu non hai idea di cosa ti aspetta lassù, tra i ghiacciai... Sinora la fortuna è stata dalla tua parte, ma dubito che durerà ancora a lungo. Non potrai fingere per sempre. La soluzione che ti offre Knut è molto meno barbara della fine che rischi di fare tra qualche settimana, se dovessi fallire. Non esagero: Rök non avreb-
be pietà. Fare gli occhi dolci non ti servirà a niente: se arrechi danno agli dei, sarai punita... sfigurata. Con Knut, invece, resteresti bella. Ti faremmo sostituire le mani con due belle imitazioni in avorio intagliato.» «Basta così! Non voglio più sentir parlare di questa storia, chiaro?» sbottò Marion. «Una volta che Rök ti avrà tagliato il naso e cavato un occhio, non sono così certa che Knut ti vorrà ancora. Devi accettare l'offerta adesso», replicò la vecchia. E così finirono per litigare. Più tardi, durante la notte, tre frecce perforarono il telone della tenda e s'infilarono a pochi pollici dalla testa di Marion. Quel lancio mirato era la prova che volevano colpire lei, e lei soltanto. La ragazza si sollevò di colpo, strappata al sonno da quei sibili. Ci mise qualche istante a rendersi conto del significato di quelle asticelle di legno, conficcate davanti al suo naso, che ancora vibravano per l'impatto. Svénia lanciò un grido d'allarme. Björn afferrò uno scudo di legno e lo distese sopra Marion, per proteggerla. Una precauzione che si rivelò fondamentale, perché, un istante più tardi, un'altra freccia si conficcò al centro di quella corazza. Le grida della serva avevano svegliato tutta la tribù. I guerrieri si slanciarono fuori delle tende, impugnando la spada. Rök non si preoccupò nemmeno di vestirsi e uscì a torso nudo, incurante dei fiocchi di neve che gli rimanevano incastrati tra i folti peli del petto. Il nemico invisibile aveva colpito di nuovo, ma, invece di attaccare le statue di ghiaccio, aveva deciso di prendersela direttamente con colei che aveva il compito di prendersene cura. «Sa quale posto tu occupi all'interno della tenda. Ha preso bene la mira per colpirti sul tuo pagliericcio. Ti ha mancato per un pelo. Un filo più a sinistra, e le tre frecce ti si sarebbero conficcate dritte in gola», constatò Svénia. Marion rabbrividì. Guidati da Rök, i vichinghi esplorano i dintorni dell'accampamento. Ma le raffiche gelide rendevano impossibile la ricerca. Gli uomini faticavano persino a tenere le torce accese. «Perché se la prende con me? Cosa gli ho fatto?» ansimò la ragazza. «Te l'ho già spiegato. Eliminandoti, spera d'indebolire la tribù. Se non ci sarai più tu a scolpire i loro visi, gli dei si offenderanno e ci volteranno le spalle. Tornerà la sfortuna», borbottò la serva, gettando una pelle di lupo sulla schiena della sua padrona. Poi la spinse per le spalle e la ricondusse
nella tenda. Björn si precipitò verso di loro, brandendo il suo scudo di legno, uno strumento da guerriero che lo rendeva ridicolo. Rök riapparve. Marion capì che malediceva il vento per aver cancellato le tracce sulla neve. L'assassino fantasma era scomparso. Gli uomini parlavano già di un demone munito di un arco magico, che svaniva nell'aria una volta portata a termine la sua missione. Qualcuno mormorò il nome di Loki, il dio malvagio. Rök fece appostare altre tre sentinelle intorno all'accampamento, ma era una precauzione inutile. A un certo punto, mentre tornava verso la sua tenda, si fermò di colpo. Il vecchio senza nome, su cui Marion aveva fatto tante domande, giaceva nella neve. Aveva il mantello sporco di sangue, una macchia rossa troppo vivace per non spiccare in mezzo al candore invernale. Aveva una freccia conficcata nel petto. Il primo tiro è stato per lui. Era troppo vicino alla tenda e l'assassino ha temuto che potesse dare l'allarme, dedusse Marion. Rök ebbe un breve istante d'esitazione, poi si allontanò dal cadavere, come se quella faccenda non avesse la minima importanza. In quel momento, il vecchio emise un gemito. «Aspettate! È solo ferito! Ha bisogno di cure», gridò Marion. Né Rök né gli altri guerrieri le prestarono attenzione. Fu Svénia a intervenire. «Lascia stare!» sibilò, scuotendo la giovane per una spalla. «Questa faccenda non ti riguarda. Fa' finta che non ci sia nessuno. Vieni, dobbiamo rientrare, o prenderai freddo. Björn ha trovato degli scudi, dormirai sotto di essi.» «Lasciami! Non tornerò nella tenda senza quest'uomo. Aiutami a portarlo dentro», protestò Marion. «Non c'è nessuno. Ti giuro che ti stai immaginando tutto», insistette Svénia. «Basta con questa storia! Quest'uomo sta per morire dissanguato!» esplose la ragazza. Dal momento che né Svénia né Björn si decidevano a intervenire, Marion fece scivolare le sue manopole di ferro sotto le ascelle del ferito e si sforzò di trascinarlo verso la tenda. La serva si lasciò sfuggire un grugnito esasperato. Björn sembrava pietrificato dalla paura. La ragazza continuò a tirare con fatica il vecchio verso la tenda. Non pesava poi molto. È tutto ossa. Un mucchietto di vecchie ossa avvolte nella pelle grinzosa, pensò. Una volta nella tenda, lo ripulì dalla neve che lo copriva. Svénia e Björn si decisero a raggiungerla. La serva si affrettò a chiudere
la tenda. Il vecchio respirava a fatica. La freccia aveva trapassato il suo corpetto per infilarsi all'altezza della giuntura della spalla. I vari strati di stracci in pelle di coniglio di cui era ricoperto avevano evitato che penetrasse più a fondo. Non restava altro da fare che estrarre la punta, conficcata non lontano dal polmone. Per via delle manopole, Marion non era in grado di maneggiare l'asta della freccia senza rischiare di spezzarla. Si voltò verso Svénia, per pregarla di aiutarla, ma la serva aveva nascosto il viso tra le mani e ripeteva, con voce allucinata: «Non c'è nessuno... nessuno... nessuno...» Marion poteva contare solo su se stessa. Fece un paio di tentativi maldestri per bloccare la freccia tra i guanti di ferro, ma riuscì solo a smuoverla, conficcandola più a fondo nella piaga. Il vecchio digrignava i denti per il dolore. Si sforza di non urlare. È proprio un vichingo, su questo non c'è dubbio, pensò la ragazza. «Se non vuoi aiutarmi, toglimi almeno le manopole!» gridò, rivolta a Svénia. La serva si raggomitolò sul pavimento, gridando con maggior vigore: «Nessuno... nessuno...» Restava solo una soluzione. Marion si chinò, prese tra i denti l'impugnatura della freccia e sollevò la testa con un colpo secco. Nel momento in cui la punta d'acciaio venne estratta dalla carne, il vecchio sussultò e le mani raggrinzite graffiarono il telone della tenda. Con fatica, la ragazza riuscì ad afferrare uno straccio e a sistemarlo sulla ferita, come una garza. Il vecchio aveva aperto gli occhi. Non sembrava riconoscente... Al contrario, aveva uno sguardo furibondo. A Marion sembrò di scorgere un bagliore di odio nei suoi occhi. Come se ce l'avesse con lei per avergli salvato la vita. L'ho forse umiliato? Ho forse intralciato i suoi piani? si chiese la ragazza. Dio mio, non capirò mai questa gente! Facendo ricorso al suo vocabolario limitato, gli chiese se si sentisse bene. Lui si limitò a chiudere gli occhi, senza smettere di digrignare i denti. «Ti avevo avvisato. Ora ti odierà», sussurrò Svénia alle sue spalle. «Ma era stato ferito per colpa mia», replicò Marion. «Non sai quello che dici. Ha aspettato per anni che accadesse... Voleva morire da guerriero e c'era quasi riuscito... e tu hai rovinato tutto», borbottò la serva. La giovane si voltò verso la donna, che si limitò a guardarla con fare rassegnato. «È un uomo afflitto dalla vergogna di essere soprav-
vissuto troppo a lungo», si decise finalmente a spiegare. «Già troppe volte ha perso l'occasione di morire in modo glorioso... Ha combattuto battaglie titaniche in cui tutti i suoi compagni sono morti, l'uno dopo l'altro. Lui, invece, è sempre sopravvissuto. Non si capisce perché... Essere l'unico sopravvissuto è un bene quando si vince, ma è una cosa vergognosa se si è sconfitti. La sua fortuna sfacciata ha finito per causargli una cattiva reputazione. È difficile far capire queste cose a una come te, ma potremmo dire che la sua fortuna è diventata per lui una specie di maledizione, mi segui?» «Credo di sì. Avrebbe preferito morire coi suoi amici, giusto?» azzardò Marion. «È così. Quand'è diventato troppo vecchio, di colpo è stato escluso dalle battaglie in cui non sarebbe più servito a nulla e così ha perso la sua occasione di morire combattendo, come un vero vichingo.» «È questa la ragione per cui è stato emarginato dalla tribù?» Svénia abbozzò un gesto, come a dire che c'era dell'altro. «Non solo. È più complicato.» «Come si chiama?» chiese Marion. «Ragnaar. È il vecchio capotribù, il padre di Rök», rispose la serva. Marion rabbrividì. «Hai capito bene, non sto inventando nulla. Ha passato il comando al figlio quando sua moglie, la madre di Rök, è stata uccisa da guerrieri nemici. Per lui è stato il colpo più duro in assoluto. Non poteva sopportare l'idea di non aver saputo difendere la sua sposa e di esserle sopravvissuto... Così ha preferito rinunciare agli onori e ai privilegi della sua condizione e condurre la vita di un fantasma. Ci ha ordinato di non rivolgergli mai più la parola... di fare come se fosse invisibile. E di lasciarlo morire. Era la sua volontà, la sua scelta.» Marion ripensò subito a Rök e a come, qualche istante prima, allorché aveva scorto il vecchio ferito nella neve, l'avesse ignorato completamente. Eppure è suo padre... pensò, attonita. Sussurrò poi quel nome dalle sonorità gutturali: «Ragnaar...», nella speranza di rabbonirlo. Il vecchio la ignorò. Girato su un fianco, nonostante la ferita, fissava la tenda del rifugio come se fosse l'unica cosa al mondo. «Tu hai agito contro il suo volere. Da ora in poi ti odierà», insistette Svénia. «L'hai privato di una morte rispettosa. Se volessi davvero aiutarlo, dovresti rimettere la freccia nella ferita... spingendola fino a raggiungere il cuore.» Inspirò profondamente, prima di aggiungere, con voce appena percettibile: «Al tuo posto, non esiterei a farlo. Se sopravvive ancora una vol-
ta, la sua collera sarà implacabile. Ce l'avremo sempre addosso e dovremo diffidare di lui come della peste. Lascialo morire. Se vuoi, posso preparare una pozione per dissanguarlo... non è difficile. Ho quello che fa al caso nostro, polvere di sanguisuga. Le donne se ne servono per stimolare il flusso mensile. In dosi massicce, rende il sangue così fluido che è sufficiente un taglietto perché inizi a fuoriuscire. Lasciami fare. Tu non dovrai preoccuparti di nulla. All'alba, sarà più bianco di un pupazzo di neve». «No!» gridò Marion, pur sapendo di commettere uno sbaglio. Nel mondo in cui si trovava sarebbe stato consigliabile mostrarsi più insensibile, eppure... proprio non ci riusciva. Dal suo angolo, Björn bofonchiò qualcosa tra i denti. Marion colse alcune parole: pericolo... vendetta... rabbia... precauzioni... «Dice che ho ragione io», riassunse Svénia. «Lo so, ma non posso lasciartelo fare», replicò la ragazza. «È per via della tua stupida religione?» gracchiò la donna. «Una religione di vinti! Adorate un cadavere inchiodato a una croce... perché non un cane impalato su un bastone o...» «Taci!» la zittì Marion. «Ora lo medicherai. Dagli anche qualcosa da mangiare, perché non si regge in piedi.» «Come vuoi», sospirò Svénia, facendo spallucce. «Non venire a lamentarti, però, se ti taglierà la gola nel sonno.» Marion tenne d'occhio la serva mentre era all'opera. Era chiaro che aveva deciso di non facilitarle le cose. Non collaborava affatto e si muoveva lentamente, con aria imbronciata. «Perfino Rök si comporta come se non esistesse», riprese Svénia dopo qualche istante. «È la volontà di Ragnaar e non va messa in discussione. Chi sei tu per infrangere gli ordini che lui stesso ci ha dato prima di ritirarsi dal mondo dei vivi?» «Nessuno lo nutre?» «Certo che no. Mangia quello che trova in giro. Il pattume.» Gli avanzi che suo figlio lascia a terra di proposito... la corresse mentalmente Marion. In realtà, però, non ne era così convinta. Quel popolo si stava rivelando sempre più strano. La ragazza finì per assopirsi. All'alba, quando aprì gli occhi, Ragnaar era sparito. Rimanevano solo le macchie di sangue sul pagliericcio di licheni secchi. Aveva portato via con sé anche la freccia che per poco non l'aveva ucciso. «È con quella che ti pugnalerà. E te lo sarai meritato», fu la macabra
profezia di Svénia. Quando la colonna si rimise in marcia, Marion tentò invano di scorgere la sagoma del vecchio capo dalla barba intrecciata. «Non cercarlo», grugnì la serva. «È inutile. Sarà lui a venire da te.» 15 Si apprestavano ad affrontare l'ultimo tratto di cammino. La neve si era ormai tramutata in ghiaccio. In alcuni punti, ai cani sanguinavano perfino le zampe. Al mattino, capitava spesso di trovare le slitte ancorate al suolo, inamovibili. Procedevano lentamente e a fatica, per via del vento che soffiava dalle vette, scagliando contro di loro raffiche di schegge di ghiaccio. Knut offrì a Marion una maschera di pelliccia che le proteggesse il viso dal vento gelido. Si mostrò premuroso, ma la ragazza sentiva il suo sguardo ardente penetrarle fin dentro il petto. Nessun uomo l'aveva mai guardata in quel modo, con un tale desiderio. Era sconcertante e tuttavia lei dubitava di essere all'altezza di una simile passione. Certe sere veniva a farle visita. Arrivava carico di carne affumicata o di birra. Si sistemava accanto alla brace e cominciava i suoi lunghi monologhi. Raccontava la storia della tribù, del suo splendore, della sua decadenza... del complotto degli Invisibili, le cui scorribande avevano causato tante morti. «Ragnaar è stato un grande capo», prese a tradurre Svénia, una sera. «Adorava la sua sposa, Wanaa, la veggente, la maga. Una donna incredibilmente bella. Possedeva immensi poteri. Durante le sue visioni poteva leggere il futuro, prevedere tutto ciò che sarebbe successo. Aveva un dono... Per accedere ai segreti dell'aldilà, si faceva mordere da una delle vipere sacre che conservava in una grossa anfora. Il veleno le scorreva nelle vene, le faceva venire la febbre. E così, tra spasimi, sudore e incubi, arrivava la rivelazione.» «Ma il veleno non era mortale?» chiese Marion, incredula. «No. Era abituata sin dall'infanzia... ma c'era comunque un rischio. Il rischio di spingersi troppo in là. Più la febbre era alta, più la profezia era precisa. E lei non aveva paura. Quando la tribù era in pericolo, accettava di farsi mordere due, tre volte, per aumentare gli effetti del veleno. Allora tutto ciò che diceva si realizzava, nei minimi dettagli. Era così che la tribù
prevedeva le mosse dei nemici. Si evitavano le catastrofi abbandonando l'accampamento prima che una valanga si staccasse dal fianco della montagna... Wanaa era bella come una Valchiria, alta, la pelle color latte, i capelli che fluttuavano nella tempesta come una criniera bionda.» Le parole uscivano dalle labbra del giovane guerriero con la regolarità della sabbia che scorre in una clessidra. Marion se ne vergognava, eppure non riusciva a staccare lo sguardo dalla bocca del ragazzo. I movimenti delle sue labbra avevano su di lei un effetto ammaliante. A intervalli regolari, si sforzava di sbattere le palpebre per rompere l'incantesimo, ma invano. «Dice che in ogni caso Wanaa sarebbe morta molto presto, perché il veleno delle vipere la stava consumando dall'interno», continuò la serva. «Lei, però, non se ne curava. Aveva sacrificato tutta se stessa alla tribù. Poco le importava avere meno giorni da vivere. Non si risparmiava. Estraeva le vipere dal vaso e se le premeva contro i seni, in modo che i loro denti aguzzi facessero filtrare il veleno nelle sue vene. Ragnaar la venerava come una dea; con lei al suo fianco non aveva paura di nulla. Sapeva sempre esattamente qual era la decisione giusta da prendere.» Marion si lasciava cullare da quella favola e dal tono cantilenante di Knut. Teneva gli occhi per metà socchiusi, così da poterlo osservare. Faceva troppo caldo in quella tenda di pelle. Il giustacuore appena slacciato del giovane lasciava intravedere il petto liscio e muscoloso. Marion pensò che le sarebbe piaciuto posarci le labbra. Le vennero in mente immagini bizzarre. Lei stessa era Wanaa, ritta in un fiordo ghiacciato, in balia del vento. Una donna rigida e bella come le sirene sulla prua delle navi, i seni scalfiti dai morsi delle serpi e le ferite che la rendevano ancora più bella... Era una donna dall'aspetto di una statua vivente, con gli occhi tanto chiari da sembrare gocce di cristallo, senza pupilla né iride. Occhi che vedevano oltre... Una donna avvelenata, per metà già morta, cui la febbre apriva le misteriose porte di ciò che era scritto sui libri dell'avvenire. Una semidea, che accettava di morire a piccole dosi per la salvezza del suo popolo... «Tutte le altre tribù c'invidiavano la presenza di Wanaa. E allora decisero di ucciderla», spiegò Knut. Era stato sufficiente provocare una valanga. Il fianco di un fiordo divelto a colpi di scure, le cui rocce a strapiombo si erano abbattute sull'accampamento. Tonnellate di ghiaccio si erano rovesciate sulle tende, annientando tutto, mentre le schegge affilate schizzavano da ogni parte, tranciando le teste, trapassando i corpi... Una carneficina, un cataclisma.
«Wanaa si trovava all'interno della caverna delle rivelazioni», disse Knut. «Una grotta scavata nel ghiaccio, dove si ritirava per potersi abbandonare agli spasmi della febbre divinatrice. La valanga ostruì il passaggio in un batter d'occhio. È rimasta murata là dentro, quasi sicuramente schiacciata, come molti altri. Faceva così freddo che i blocchi di ghiaccio caduti dall'alto si solidificarono di nuovo nel giro di pochi istanti. Quando hanno tentato di recuperarne le spoglie, si sono trovati di fronte un muro più compatto del marmo, su cui i picconi rimbalzavano. Era come se gli dei avessero deciso di requisire Wanaa.» A quel tempo, Knut era ancora un bambino, ma gli era rimasta impressa l'immagine della donna morta, di cui, attraverso il ghiaccio trasparente, era possibile figurarsi la sagoma dilaniata, schiacciata nel cuore del ghiacciaio. Avevano lavorato senza posa, ma non c'era stato nulla da fare. Inoltre c'erano così tanti morti e feriti che ognuno aveva una moglie o un figlio imprigionati sotto i blocchi. E così, ben presto, Ragnaar si era ritrovato da solo a scavare. «Si è consumato le unghie», mormorò Knut. «Ma era morta e non c'era più niente da fare. Era inutile sperare di poter rimuovere una montagna. Sarebbero serviti traini, decine di buoi, di animali da tiro. Cavalli, come nella prateria. Ma non c'era niente di tutto ciò sui ghiacciai. Allora l'abbiamo lasciata dov'era... nella sua bara trasparente, morta nel bel mezzo di un sogno profetico. È ancora là che giace. Intatta, preservata dal freddo. È rimasta giovane, come il giorno in cui se n'è andata, mentre Ragnaar ha continuato a invecchiare.» «E poi, cos'è successo?» lo incalzò Marion. Knut chinò il capo e Svénia proseguì al suo posto. «Poi?» ripeté, con un'ombra d'amarezza. «Tutto ha cominciato ad andare storto. Per settimane Ragnaar ha urlato il suo dolore: i lupi, credendolo uno di loro, ululavano con lui. La gente aveva paura, temeva che quegli echi potessero provocare un'altra valanga. Infine lui ha perso la voce, da allora è diventato quasi muto, riesce a malapena a bisbigliare. La sfortuna si è abbattuta sulla tribù. Te ne ho già parlato: alle battaglie perse se ne aggiungevano altre... e Ragnaar era sempre l'unico a uscirne incolume. Gli dei ci avevano voltato le spalle.» Abbassando la voce, aggiunse: «Sono argomenti proibiti. Di solito, non ne parliamo mai tra noi. Se Knut ha deciso di metterti al corrente di queste cose, è per dimostrarti l'interesse che prova per te... e farti capire che per lui non sei più un'estranea». Con la scusa di riempire il calice alla padrona, si chinò verso di lei e le sussurrò all'orecchio: «Vuole fare l'amo-
re con te, approfittane. Da qui a breve, avremo bisogno di un protettore. Knut è molto amato, conta numerosi compagni fedeli. Se per caso dovessi trovarti in contrasto con Rök, lui è il solo che potrebbe prendere le tue difese». «Vuoi che mi comporti come una sgualdrina, giusto?» protestò Marion. «Osi dire che non ne hai voglia?» replicò la vecchia. Si allontanò e trascinò con sé Björn dalla parte opposta della tenda, per lasciare soli i due giovani. Marion aveva bevuto troppo; il caldo e la birra le facevano girare la testa. Desiderava lasciarsi andare, non per interesse, ma per il piacere di sentire il peso di un uomo sopra di sé. Era troppo tempo che conduceva una vita da monaca. E il presentimento di poter morire da un giorno all'altro si faceva sempre più intenso. Troppe minacce incombevano su di lei. Si sentivano solo la brace scoppiettare e i fiocchi di neve cadere sulla tenda. Sul fondo del rifugio, rischiarato soltanto dalla fiamma del piccolo falò, si stagliava l'ombra dei due vecchi, una sagoma lontana e contorta. Knut le si avvicinò e protese le mani verso di lei. La ragazza scostò le braccia. Le manopole di ferro le pesavano come palle di piombo fuso. Le dita del guerriero sciolsero i lacci di cuoio del corpetto, poi quelli della camicetta. Marion chiuse gli occhi. Sentiva il suo sesso palpitare per il desiderio. Lo voleva subito, desiderava che la possedesse senza preliminari. Voleva sentire in bocca il sapore della sua carne. Gli morse la spalla e si lasciò cadere all'indietro, mentre lui si toglieva la camicia per poi scoprirle le cosce. Marion era così tesa, così avida di piacere, da doversi trattenere per non urlare... Impaziente, apri di nuovo gli occhi. Knut era sopra di lei, nudo a sua volta, il torso scalfito da pallide cicatrici. Pietrificato, lo sguardo fisso, tremava... Ha paura. Dio mio! Ha paura di me. Crede che sia davvero una dea, una maga... comprese Marion. Il viso del giovane era rigato da gocce di sudore, gli occhi erano sempre più smarriti. Teneva le mani sollevate a mezz'aria, senza osare posarle sulla pelle di lei. Di cosa aveva paura? Di finire incenerito se avesse penetrato quella ragazza, che gli si offriva senza inibizioni? Istintivamente Marion lo prese per le spalle per condurlo verso di sé. Non appena le manopole di ferro lo sfiorarono, il giovane vichingo balzò indietro, come se l'avessero scottato con un ferro rovente. «Knut...» mormorò la ragazza. Lui la guardava con un'espressione allucinata, quasi astiosa. Per colpa
sua, aveva scoperto di non essere così coraggioso come aveva supposto fino ad allora. Aveva paura della maga, temeva il suo ventre rossastro e tenebroso, tremava al pensiero che potesse risucchiargli la linfa vitale, che lo svuotasse come fanno i ragni con gli insetti intrappolati nella loro tela. Si scansò, rivestendosi in tutta fretta. Biascicava parole indistinte. No... Ora diventerà anche lui un mio nemico... come se non ne avessi già abbastanza, si disse Marion. Cercò di parlargli con voce dolce, per rassicurarlo, ma, ogni volta che accennava un movimento, le sue manette emettevano un cigolio che si sovrapponeva alle parole. Voleva che restasse, che la prendesse tra le braccia. Non pretendeva nemmeno che facesse l'amore con lei. Aveva soltanto bisogno di sentire il corpo di lui contro il suo. Sì... avrebbero potuto passare la notte così, rannicchiati l'uno contro l'altra, sarebbe stato bello ugualmente. Meglio, forse. Tenerezza e dolcezza invece di aggrovigliamenti e sudore. Lo voleva anche lui? Non sapeva più ciò che stava dicendo. Si vergognava di doverlo supplicare. Pensava a Svénia, che capiva tutto e che sghignazzava, seduta nel suo angolo. Knut si avvolse nel mantello e sparì nella notte. Dalla tenda aperta entrarono dei fiocchi di neve, che si posarono come baci ghiacciati sulla pelle umida di Marion. Lei si morse il labbro per non scoppiare a piangere. Svénia uscì dalla penombra per risistemare la chiusura della tenda. Poi si avvicinò alla sua padrona con aria mesta. «È un male. D'ora in avanti, Khut ti odierà. Sei stata testimone della sua paura... della sua debolezza. C'è il rischio che ti detesti almeno quanto finora ti adorava. Hai visto? Avevo ragione io. Avresti dovuto accettare che ti mozzasse le mani. Sono le tue maledette mani magiche a terrorizzarlo. Senza di esse, non avrebbe difficoltà a farti provare piacere.» S'inginocchiò e raccolse gli abiti della ragazza. Poi riprese a blaterare: «Non è ancora troppo tardi. Vuoi che Knut te le amputi? Posso andare da lui e informarlo che hai accettato di fartele amputare...» I suoi occhi brillavano, così speranzosi che Marion ne fu terrorizzata. 16 Marion non aveva mai visto un ghiacciaio, nemmeno durante il rocam-
bolesco viaggio verso il santuario di san Gaudémon. Ebbe l'impressione di avere davanti agli occhi un fiume di vetro, una colata trasparente e pietrificata che riempiva la valle, nel cuore della montagna. «È un fiume ghiacciato», le spiegò Svénia. «Potrebbe sembrare immobile, ma non lo è. Scorre lentamente... In realtà, è molto più veloce di quanto si potrebbe pensare. Osservando i detriti che esso contiene, ci si accorge che, nel corso degli anni, essi si spostano verso la vallata. Più in basso, a livello della pianura, il clima è più caldo e allora il ghiaccio si fonde e dà vita ai fiumi, ai torrenti.» «È là che stiamo andando?» chiese Marion. «Sì», confermò la serva. «Ed è là che finirai in trappola. E allora ti pentirai di non avermi ascoltato.» La ragazza scrollò le spalle. In realtà, si sentiva a disagio dopo la notte d'amore fallita. Knut non le aveva più fatto visita e, quando la sua slitta incrociava la loro, faceva in modo di non guardare in quella direzione. Il fiume ghiacciato si perdeva all'orizzonte, tra le montagne. La foschia delle vette impediva di vederne la fonte. La potenza di quella colata era tale da strappare interi blocchi di pietra lungo gli argini. Marion faticava a convincersi che quella massa immobile e lattiginosa fossa dotata di movimento. Un movimento lento e continuo, che nulla poteva fermare. «Si muove, si muove di continuo. È come essere in barca. Di notte, lo sentirai cigolare. La montagna è meno resistente di questa lama di ghiaccio che ha infilata nel fianco», osservò Svénia. Ormai era necessario puntellare le slitte ogni volta che ci si fermava, in quanto il pendio era molto scosceso e c'era il rischio di scivolare all'indietro, ripercorrendo nel giro di un secondo le poche centinaia di metri conquistate con tanta fatica. Marion sentiva crescere l'angoscia. I membri della tribù scrutavano di continuo in ogni direzione, come nel tentativo di trovare qualcosa. «Hanno paura di non riuscire più a riconoscere l'ingresso della città. È un anno che abbiamo abbandonato il ghiacciaio per trasferirci sulla riva, per riuscire con più facilità a inviare spedizioni oltremare. In un anno, le cose cambiano, i punti di riferimento scompaiono, cancellati dalla natura», disse la serva. «Non capisco. Vorresti dire che non vivete sulla montagna?» chiese Marion stupefatta. «No. La tribù abita in una città scavata nella crosta di ghiaccio. Una città
sotterranea. È Rök che ha voluto così. Quand'è diventato il nostro capo, ha ordinato che si cominciassero i lavori. Per tre anni, abbiamo scavato nelle viscere del ghiacciaio, per installarci sotto la sua superficie. Non lo diresti mai, ma sotto i nostri piedi si dirama una galleria, come quelle scavate dalle talpe.» «Che strana idea. Penso che sarebbe stato più semplice e sicuro sistemarsi nelle caverne», replicò Marion. Svénia scosse le spalle. «È la volontà di Rök», sospirò. «Sostiene che in questo modo siamo più protetti dagli attacchi nemici... e che gli dei del gelo riescono a vegliare meglio sulla tribù.» Esitò un istante prima di aggiungere: «Io penso che la ragione principale sia che si vuole avvicinare alla madre... al corpo della madre che è là, da qualche parte, prigioniero del ghiacciaio». «Mio Dio! È come se avesse deciso di vivere nella sua tomba», mormorò Marion con un brivido. Al tempo stesso, provò una tale pena che gli occhi le si bagnarono di lacrime. «La cerca. Sono anni che la sta cercando», bisbigliò Svénia. «Non avete idea di dove possa essere seppellita?» «No. Te ne renderai conto da sola: nel corso degli anni, il ghiaccio si opacizza. Perde il suo aspetto cristallino per trasformarsi in un blocco biancastro. Per lungo tempo è stato possibile intravedere l'ombra del corpo di Wanaa... poi la sua sagoma è sfumata. Oggi nessuno sarebbe più in grado di trovare la sua tomba. L'erosione ha appianato le tracce lasciate dalla valanga. Ecco perché Rök ci fa scavare la galleria. La scusa ufficiale è che vuole ingrandire la città. La verità, però, è che spera d'imbattersi nella camera mortuaria, continuando a scavare cunicoli e corridoi sotterranei. A furia di asportare ghiaccio in tutte le direzioni, spera di trovare ciò che cerca.» Marion scosse il capo. Quella storia la riempiva di tristezza... ma le suscitava altresì una paura strana. Cosa pensare di un uomo perseguitato da una tale ossessione? Bisognava compiangerlo o stargli alla larga? Le ricerche si rivelarono vane e la tensione nella tribù crebbe. «Perché è così difficile?» chiese la ragazza, spazientita. «Non sai proprio un bel niente», rispose la serva. «A quest'altezza il freddo è tale da otturare le aperture a una velocità stupefacente. Le crepe si 'cicatrizzano' alla prima nevicata. Quando riusciremo a installarci nelle gallerie, dovremo prendere l'abitudine di liberare i condotti ogni mattina, al-
trimenti moriremo soffocati.» Rök istituì pattuglie che avevano l'incarico di esplorare il ghiacciaio, di sondarlo a colpi di piccone. Ma quell'operazione richiese tempo, in quanto il suolo scivoloso provocava diverse cadute. Ogni volta che s'individuava un piccolo crepaccio, si accendeva la speranza. Ma nel ghiacciaio era disseminato un numero infinito di voragini e aperture che non conducevano da nessuna parte. Marion faticava a tenersi in equilibrio su quella superficie inclinata; aveva i crampi ai polpacci. «È uno dei vantaggi della galleria. L'abbiamo scavata in modo da evitare la pendenza e il suolo è pianeggiante», le fece notare Svénia. Rök dava segni d'impazienza. Marion si rese conto che la sua agitazione nascondeva un'angoscia crescente. Infine, esasperato, diede ordine di abbandonare le ricerche. «Fa convocare Boulba, la maga. Quella vecchia matta mi ha sempre fatto paura», disse Svénia. «Una maga?» chiese Marion, stupita. «Un'imbrogliona», bisbigliò la serva. «Quando una donna resta incinta, Boulba va a farle visita e le mostra un pupazzetto in cera che ha appena modellato. Spiega alla ragazza che si tratta di una riproduzione esatta del bambino che porta in grembo. Insiste per far capire alla poveretta che quel pupazzo è molto delicato... che sarebbe sufficiente spezzargli un arto, per esempio, perché il bambino nasca monco o senza una gamba. Dice che lei potrebbe vegliare sulla statuetta per evitare che si verifichi un incidente del genere, che sarebbe sufficiente sistemarlo in una scatoletta, ma...» «Ma, fino a prova contraria, i suoi servigi meritano una ricompensa, giusto?» intervenne Marion. «Sì», confermò Svénia. «Ben presto le future madri si rendono conto della minaccia: se non offriranno regolarmente a Boulba cibo e vestiti, la megera farà a pezzi la statuetta del nascituro e loro metteranno al mondo un bambino deforme, che il padre non tarderà a dare in pasto ai lupi. È così che quella vecchia si guadagna da vivere. Con le sue sentenze minacciose, prive di fondamento. Fingendo di rendere un servigio. Crea il panico tra le ragazze incinte. Eccola che esce dalla sua tenda, quella grossa scrofa.» In effetti, una donna dal ventre voluminoso, ricoperta di stracci bisunti, emergeva in quel momento da uno dei rifugi in pelle. Aveva in capelli di un nero corvino e gli occhi così piccoli da sembrare due fessure. Un'orientale... una mongola... constatò Marion stupita. Le era capitato di
vedere persone di quella razza durante una festa di paese, a Provins. Venivano da contrade tanto lontane che nessuno le aveva mai sentite nominare. In realtà, non c'era motivo di stupirsi, perché i vichinghi commerciavano con popoli di tutte le terre conosciute; probabilmente avevano portato con sé quella donna da uno dei loro viaggi ai confini del mondo. Ma la pancia della maga aveva qualcosa di stupefacente. Se Boulba non fosse stata così in avanti con gli anni, Marion avrebbe giurato che fosse incinta. Boulba si dondolava sul ghiaccio, con un'espressione di beatitudine dipinta sul viso paffuto. Rök le parlò a voce bassa, gesticolando nervosamente. «Di cosa ha paura?» chiese Marion. «In questo punto non siamo protetti. Se i nostri nemici dovessero decidere di appostarsi su quelle cime e tempestarci di frecce, potrebbero sterminarci nel giro di pochi minuti», rispose Svénia. Marion si avvicinò ai due che parlavano. Una curiosità malsana la spingeva a esaminare la maga più da vicino. Boulba non la degnò di uno sguardo. In quel momento, era lei il personaggio di spicco della tribù e gongolava soddisfatta. La maga tornò verso la sua tenda insieme con Rök e Marion li seguì con Svénia. Il rifugio di Boulba odorava di sporcizia e di carne in putrefazione. Cerano lucertole appese a seccare su delle corde. Vasi d'unguento erano sparsi alla rinfusa. Nella penombra, erano rannicchiati tre bambini dai tratti mongoli. Erano molto sporchi, coi capelli aggrovigliati, e se ne stavano seduti, perfettamente immobili, tenendo gli occhi bassi. Marion non fu in grado di dar loro un'età né di capirne il sesso. Erano i rampolli della fattucchiera? Con un cenno, Boulba indicò ai suoi visitatori di sedersi. Il fetore prendeva alla gola. «Cosa vuole fare?» sussurrò Marion all'orecchio di Svénia. «Cercherà di ricostruire l'antico rito divinatorio, ma non credo che funzionerà. Non tutti possiedono i poteri di Wanaa», rispose la serva. Boulba, che era rimasta in piedi, cominciò a svestirsi. Ogni movimento accentuava il suo cattivo odore. Marion sgranò gli occhi, stupita. D'un tratto, si rese conto che il rigonfiamento della maga non era naturale, ma dovuto al fatto che lei portava una grossa giara di terracotta appesa all'altezza dell'ombelico. Il recipiente era legato ai fianchi con strisce di stoffa. Ecco
perché aveva l'aspetto di una donna incinta! «A cosa serve? Cos'è quella buffonata?» chiese. «È la giara che contiene le vipere sacre. Boulba le tiene al caldo, a contatto col suo corpo, per impedir loro di assopirsi. Le serpi non amano il freddo e, quando arriva l'inverno, si addormentano. E talvolta può essere un impiccio.» Marion fece una smorfia. Non si vedeva affatto con alcune vipere al caldo sotto i suoi vestiti. «Le vipere sacre... Vuoi dire che...» «Sì», tagliò corto Svénia. «Farà mordere una delle sue tre figlie per avere una visione, come faceva Wanaa. Spera così di provocarle un delirio divinatorio che ci permetta di trovare l'ingresso della città sotterranea.» Marion s'irrigidì e Svénia le afferrò il pugno per intimarle di stare zitta. «Lascia stare! Non ti riguarda. Tu hai la tua magia, lei la sua. Lei non s'intromette con le sculture di ghiaccio, giusto?» Marion capì che avrebbe fatto meglio a stare tranquilla. D'altronde, Rök le sembrava troppo inquieto per sopportare la pur minima protesta. Boulba aveva terminato di aprire il telo giallognolo che le fissava la giara al ventre e la posò a terra. Marion sussultò, sentendo le serpi che si agitavano all'interno del recipiente di terracotta, tenuto chiuso da un coperchio di paglia intrecciata e legato con una corda. Boulba la slegò e aprì lentamente la giara. Sulla mano destra, si era infilata un guanto di pelle spessa: con un movimento rapido, la infilò fino all'avambraccio nel vaso ed estrasse una delle vipere. La bestia, infastidita, prese ad agitarsi in ogni direzione. Nel frattempo, una delle bambine si era tolta la camiciola e aspettava, a torso nudo. Sembrava del tutto indifferente. Marion immaginò che la madre le avesse somministrato qualche droga in previsione della cerimonia. Boulba distese la mano. Stretta tra le sue dita, la vipera spalancò le fauci mostruose, mostrando i denti. Marion contrasse le dita, bloccate dentro i guanti di ferro. Per calmarsi, si disse che Boulba aveva preso alcune precauzioni, aveva svuotato le ghiandole velenose del rettile prima di procedere col rituale, ma non ne era affatto sicura. La serpe morse la ragazzina al seno destro. Marion notò la presenza di altre cicatrici intorno alla mammella appena formata. Dunque non era la prima volta per quella giovinetta... I denti aguzzi le lasciarono due fori trasudanti nella pelle. Durante l'operazione, la bambina si era limitata a torcere appena la bocca. Boulba fece
cenno ai visitatori di uscire. Doveva prepararsi all'arrivo delle visioni. La febbre sarebbe salita nel corso della giornata. Rök la salutò e lasciò la tenda e così fecero Marion e Svénia. All'esterno, uomini e cani si erano accovacciati ai piedi delle slitte, per tenersi al riparo dalle raffiche di vento. La maggior parte di loro lanciava sguardi intimoriti in direzione del capo. Hanno paura di lui. Ma perché? si chiese la ragazza. Rivolse la stessa domanda alla serva, che le rispose a voce bassa: «Rök è un berserkr, un guerriero folle... Ogni tribù ne ha uno. Quando suona l'ora della battaglia, lo spirito di Odino discende su di lui e se ne impossessa. Il combattente diventa così una marionetta in preda a un potere distruttore, in grado di torcere le spade a mani nude e di far saltare le teste con un solo pugno. Un berserkr è una macchina da guerra, che uccide in uno stato di sonnambulismo. Quando ha distrutto tutti i nemici, bisogna affrettarsi a gettargli addosso dell'acqua gelata, prima che rivolga la sua furia contro i compagni. Tutte le tribù sono orgogliose di possedere un berserkr, ma al tempo stesso lo temono. Se il malcontento di Rök si trasformasse in collera, nessuno sa cosa potrebbe accadere. Potrebbe tranquillamente gettarsi su di noi e ucciderci tutti». Rök camminava avanti e indietro, col volto contratto. Ogni tanto alzava lo sguardo verso la montagna e ne scrutava le sommità rocciose. A furia di vederlo comportarsi in quel modo, Marion si persuase che qualcuno li stesse osservando. C'era qualcuno là in alto, imboscato... Un nemico invisibile, una squadra di fantasmi vestiti di bianco, per camuffarsi con la neve. Cosa aspettavano ad attaccare? Durante il viaggio, la ragazza aveva notato i grandi archi vichinghi. Di dimensioni enormi rispetto a quelli utilizzati dai soldati franchi, erano fatti in modo che le frecce trapassassero tanto l'armatura quanto la cotta di maglia. Per maneggiarli, servivano braccia da giganti, ma i giganti non mancavano certo tra quei barbari del mare del Nord! D'un tratto, Rök estrasse l'ascia e lanciò un ordine. Cinque uomini si staccarono dagli altri e si apprestarono a seguirlo. Il gruppo lasciò il letto ghiacciato e si lanciò all'assalto verso la montagna. «Seguiamoli! Voglio vedere cosa c'è lassù, non ce la faccio più ad aspettare», decise Marion. Svénia fece spallucce. «Un po' di movimento ci riscalderà.» Le due donne si precipitarono dietro i guerrieri. Il sentiero non era affat-
to facile da seguire e rimasero senza fiato prima di arrivare in cima. Rök non prestava loro nessuna attenzione. Sembrava perso in un'altra dimensione: teneva gli occhi socchiusi, le mani erano percorse da spasmi e stringeva l'impugnatura della spada con tale forza che pareva stesse per frantumarla. Gli altri uomini lo osservavano con la coda dell'occhio, senza dissimulare la tensione. «Il berserkr si sta svegliando. L'inquietudine di Rök l'ha stimolato. Se non troverà nemici da uccidere, si rivolterà contro di noi», ansimò Svénia. Rök fece qualche passo, scrutando il terreno. Il vento non aveva cancellato tutto. Tra le increspature formate dalle folate, s'intravedevano orme di svariate dimensioni, grandi e piccole... Diversi uomini avevano trovato riparo là dietro, oltre quei cumuli di neve. Ci seguono. Aspettano il momento giusto per passare all'azione, pensò Marion. Osservò meglio le impronte: dai solchi lasciati dagli scarponi, calcolò che almeno cinque guerrieri avessero sostato in quel punto. Se fossero abili come gli angli, capaci di tirare una freccia mortale ogni dieci secondi, non avrebbero difficoltà a sterminare l'intera tribù in qualsiasi momento... Grugnendo tra sé, Rök esplorò il crepaccio, senza però riuscire a scorgere i nemici. A ogni modo, con tutta questa neve, per i nostri inseguitori sarà facile nascondersi, si disse la ragazza. Il freddo era insopportabile. Dovettero decidersi a tornare verso il basso per non morire assiderati. I guerrieri facevano attenzione a non toccare le lame delle spade, per non trovarsi la pelle incollata all'acciaio. Una volta giunti all'accampamento, Svénia si affrettò a riscaldare la zuppa. Finalmente Marion capiva perché la serva la costringeva sempre a mettersi i guanti di pelliccia, prima d'infilare le mani nelle manopole di ferro. L'attesa ricominciò. Verso mezzogiorno, Boulba uscì dalla sua tenda, spingendo davanti a sé la figlia morsa dalla vipera sacra. La ragazzina aveva gli occhi stralunati e tremava, in preda alla febbre. Il vento congelava le gocce di sudore che le colavano sul viso. Quando la madre l'afferrò per la spalla, la figlia prese a vacillare. Si muoveva sul ghiaccio con passo malfermo, senza una meta precisa. La tensione aleggiava su tutta la tribù. Incapace di nascondere
l'ansia, Rök osservava la bambina. Questa finì per crollare a terra. Gli uomini si precipitarono verso di lei, picconi alla mano, pronti a scavare il tunnel d'accesso alla città. Tuttavia i loro sforzi si rivelarono vani: in quel punto non c'era nessun varco. La lastra di ghiaccio era solida come il marmo. Lo svenimento della bambina non aveva nessun significato magico. Rök andò su tutte le furie. Si chinò sulla ragazzina tremante e prese a scuoterla per svegliarla, poi ordinò a Boulba di riportarla nella tenda e farla mordere una seconda volta. Sosteneva che la ragazzina aveva fallito perché il veleno che le scorreva nelle vene non era sufficiente. Boulba fece un inchino, mormorando una serie di scuse. Affermò che avrebbe rimediato, ma che la colpa non era di sua figlia, bensì delle vipere sacre, che negli ultimi tempi erano state sollecitate troppo. Le ghiandole di veleno si erano svuotate. Rök sollevò il pugno, come per colpirla sulla testa. Boulba si affrettò a tornare nella tenda, trascinando con sé la figlioletta dolorante. Marion sapeva che intervenire non sarebbe servito a niente. Rök era così nervoso che non avrebbe dato ascolto a nessuno. Dalla tenda della fattucchiera giungevano pianti e grida di protesta. Poi un urlo di dolore cancellò quei tentativi di ribellione. La giovane si morse il labbro. Non riusciva più a sopportare la crudeltà di quella gente. La bambina riapparve, il viso rigato dalle lacrime, i vestiti in disordine. Aveva le guance arrossate e gli occhi vitrei per via della febbre. Le mani le tremavano in preda agli spasmi. La madre l'ammonì, poi le diede un colpo tra le scapole, per incitarla ad avanzare. Svénia soffocò un ghigno. «Nessuno può sostituire Wanaa. Nessuno sarà mai alla sua altezza. Lei avrebbe trovato l'ingresso dei sotterranei al primo morso, lei. Questa ragazzina non sa fare niente. Sua madre la farà crepare senza che sia stata in grado di fornirci nessun indizio utile.» La bambina riprese ad avanzare sul ghiacciaio. Per tre volte fu sul punto di perdere conoscenza e Marion dovette farsi forza per non correre verso di lei e sostenerla. Ogni volta, intuendo le sue intenzioni, Svénia la trattenne per un braccio, sussurrando: «Non ti muovere. Rök è in un tale stato che sarebbe capace di ucciderti prima che tu possa fare dieci passi». Infine, dopo aver zigzagato per un po', la ragazzina crollò. I guerrieri si lanciarono verso di lei, la spostarono da parte per mettersi a scavare nel punto esatto in cui era caduta. Le piccozze si abbatterono sul ghiaccio al-
l'unisono. Dal fracasso che facevano, si sarebbe potuto pensare che i vichinghi stessero frantumando del vetro. Infine, tra le raffiche nevose, si levò un grido di trionfo. L'entrata del sotterraneo era proprio là sotto! All'improvviso, Rök tornò ad avere un aspetto umano. Barcollando come un bambino che muove i primi passi, si diresse verso l'apertura scavata dai guerrieri. Guardandolo, si sarebbe pensato che stesse per scoppiare in lacrime. Era buffo e commovente per un uomo di quelle dimensioni, dai lineamenti così rudi. Marion si affrettò ad abbassare gli occhi, prima che il capo vichingo si accorgesse che lo stava fissando. La buca aperta nel suolo lasciava intravedere un condotto scavato nel ghiaccio. Era una galleria dal soffitto punteggiato di stalattiti: una visione che non aveva niente d'incoraggiante, e tuttavia i membri della tribù sembravano entusiasti al pensiero di riprendere possesso della propria tana. Marion, al contrario, era angosciata all'idea di dover vivere là sotto, nel cuore del ghiacciaio, nel mezzo di quel fiume gelato che crepitava in continuazione e non smetteva di muoversi, erodendo il fianco della montagna. Aveva l'impressione che le pareti della galleria si sarebbero strette su di lei fino a stritolarla. Una volta placate le manifestazioni di gioia, si accorsero che la ragazzina morsa dalle vipere non dava più segni di vita. Boulba la teneva tra le braccia. La sua espressione era tesa, ma era impossibile capire cosa provasse. Rök le assicurò che le avrebbero organizzato un funerale sontuoso e che la bambina avrebbe trovato posto tra «coloro-che-sono-sempre-connoi». Marion giudicò quell'elogio funebre alquanto sommario, ma nessuno chiese il suo parere. Liberato l'ingresso, accesero delle lampade a olio. Non era infatti possibile servirsi delle torce, che avrebbero consumato tutta l'aria della galleria. Reggendo una di quelle lanterne sopra la testa, Rök scese lungo i gradini intagliati a colpi di piccone. Con lo stomaco chiuso per la tensione, Marion lo seguì e Svénia si avviò dietro di lei. La luce fioca illuminava a tratti le stalattiti della volta. Il condotto di ghiaccio che si distendeva davanti a loro aveva una forma strana: in certi punti si erano formate delle strozzature che impedivano quasi il passaggio. «Il ghiacciaio non è mai immobile. Cicatrizza. Quando si resta via per
più di un anno, i tunnel si chiudono e allora bisogna scavarli di nuovo, e riguadagnare il terreno perduto», commento Svénia. Marion pensò agli abitanti del suo Paese. Anche loro dicevano sempre che la foresta recuperava ciò che le era stato sottratto, se non la si teneva costantemente sott'occhio. La stessa cosa accadeva lassù, nel cuore solitario di quel ghiacciaio perenne: la natura si ribellava alla presenza dell'uomo, ovunque egli le impediva di seguire il suo corso. Rök accelerò il passo. Alcune gocce caddero sulla testa di Marion. La luce del giorno filtrava attraverso il soffitto trasparente. La ragazza calcolò che la volta ghiacciata fosse spessa all'incirca una dozzina di cubiti. L'aria sapeva di acqua stagnante, la caverna era umida. La luce, per quanto debole, aveva favorito la formazione di licheni sulle pareti dei corridoi. Almeno qua sotto sarai al riparo dalla furia del vento, si disse Marion, per tentare di rassicurarsi. Nonostante tutto, però, avrebbe di gran lunga preferito rifugiarsi in una caverna, nel fianco della montagna. Quel sotterraneo la opprimeva. Si sentiva murata viva. D'un tratto, la galleria si allargò, poi si ramificò. Era come se stessero esplorando una miniera... ma senza minerali da estrarre! A mano a mano che avanzavano, Marion scorgeva antri, sale. Alcune pareti erano decorate con sculture, e iscrizioni runiche. Talvolta le stalattiti erano così lunghe che bisognava tagliarle a colpi d'ascia per farsi strada. Da quand'era sceso nel rifugio sotterraneo, Rök appariva più calmo. Mentre camminava, parlava tra sé. «Cosa sta dicendo?» chiese la ragazza. «Niente», rispose la serva, evasiva. «Non preoccuparti. Saluta gli spiriti dei morti che vivono in questi luoghi.» 17 Nelle ore successive, Marion ebbe modo di fare nuove scoperte. Björn ci tenne a mostrarle le parti della città sotterranea che aveva scolpito all'epoca del suo splendore. Il tempo e le stalattiti sempre più numerose avevano parzialmente rovinato il lavoro, tuttavia erano ancora presenti opere stupefacenti, che permisero alla ragazza di rendersi conto delle sue capacità. Che Björn fosse stato un grande scultore era indubbio. D'un tratto, però, Marion indietreggiò, scorgendo figure umane congelate nelle pareti di
ghiaccio... I cadaveri ricoprivano per intero la lunghezza del corridoio. Sembrava che fissassero coi loro occhi spenti chi lo attraversava. «È... un cimitero?» balbettò la giovane, voltandosi verso Svénia. «Sì. Rök non abbandona mai nessuno sul campo di battaglia. Tutti coloro che muoiono con onore, brandendo la spada, vengono portati qui. È la tradizione della tribù», rispose la serva. «Credevo che i vichinghi facessero cremare i loro morti.», mormorò Marion. «È così per le altre tribù, in effetti. O almeno per la maggior parte. Noi facciamo diversamente», ammise Svénia. «Voi li murate...» «Sì. Scaviamo una nicchia verticale. Sistemiamo il corpo all'interno e la richiudiamo con ghiaccio compresso, che si solidifica subito. Qui c'è tutta la tribù, o quasi. Gli anni passano, ma loro restano sempre uguali a com'erano nel momento della morte. Ci guardano, ci sorvegliano. Ci giudicano.» «Dunque, quand'è morta avvelenata quella ragazzina, Rök si riferiva a loro?» «Sì. Lei prenderà posto tra i nostri padri. È un grande onore. Di solito qui riposano solo i guerrieri, i capi. Le maghe, quando compiono prodigi eccezionali, ma è più raro. Le donne normali non sono ammesse: infatti, come vedi, ci sono solo uomini.» Marion trattenne un brivido di panico. Era sul punto di tornare sui suoi passi e risalire in superficie. Quell'armata di morti che la scrutava attraverso la parete di ghiaccio le faceva venire voglia di urlare. «Rök sostiene che i defunti c'impediscono di comportarci male», le spiegò Svénia. «Ci spiano e ci controllano costantemente. Nella città sotterranea è impossibile sfuggire al loro sguardo, perché sono ovunque. Sono i guardiani della morale. Se lasciassimo la retta via, loro uscirebbero dalla parete per punirci... Sì, è così che dice Rök.» «È stato lui a far costruire questo cimitero?» chiese Marion, la cui voce suonava ormai priva di qualsiasi sicurezza. La serva scosse le spalle. «No, esisteva prima ancora che Ragnaar diventasse il capo. A quel tempo, era situato in alto, sul ghiacciaio, quasi in cima alla montagna. Ora è a metà... Gli anni sono passati, tanti anni. Si avvicina sempre di più al punto in cui il ghiaccio comincia a fondersi per diventare fiume. All'inizio era solo una necropoli, ma poi Rök ha avuto l'idea d'ingrandirlo e di venirci ad abitare...» Marion pensò che bisognava essere pazzi per concepire un'idea del gene-
re. Mio Dio! Sarò costretta a vivere qui, in questo cimitero trasparente, pieno di cadaveri che mi terranno gli occhi addosso qualsiasi cosa faccia... «Sono i giudici della tribù. Se qualcuno si comporta male in loro presenza, ne pagherà le conseguenze, in un modo o nell'altro», farfugliò Svénia. «D'accordo, ho capito. Ora, piuttosto, mostrami il posto dove ci sistemeremo», sospirò Marion. Più tardi, la giovane assistette all'arrivo di nuovi cadaveri. Rök li aveva fatti trasportare sulle slitte. Erano i guerrieri morti durante l'attacco all'abbazia. Erano stati conservati nel sale, poi, una volta giunti a terra, nel ghiaccio. Dal giorno successivo, avrebbero preso posto nella parete, per fare la guardia accanto ai loro predecessori. 18 Marion scoprì quasi subito che, all'interno della città sotterranea, era formalmente vietato montare tende. «Lo sguardo degli antenati deve potersi posare su di noi in qualsiasi momento. Se qualcuno cerca di sfuggire alla loro sorveglianza, essi escono subito dal ghiaccio per punirlo. L'hai già dimenticato?» sbottò la serva, sempre pronta a snocciolare le regole della tribù. Per qualche tempo, poi, insistette con Marion perché ripetesse quella regola, quasi fosse una bambina alla quale si cercavano d'inculcare dogmi fondamentali. Credeva davvero a quella storia? Marion non era in grado di stabilirlo. Eppure, lei per prima si sentiva spiacevolmente condizionata da quella potenziale minaccia, al punto di rabbrividire ogni volta che la parete translucida emetteva uno scricchiolio o che una goccia si staccava dal soffitto per piombarle sulla fronte. Le famiglie non erano costrette a vivere a stretto contatto perché la caverna di ghiaccio era sufficientemente estesa. Inoltre, per creare più spazio, non si doveva far altro che impugnare un piccone e scavare. In quel modo, era possibile realizzare nuove stanze, senza invadere il territorio dei vicini. «In ogni caso, conviene fare attenzione», spiegò Svénia, intenta a sistemare i pagliericci nell'area a loro riservata. «Il ghiacciaio nasconde pozze d'acqua anche piuttosto estese e, se ci s'imbatte in una di esse, si rischia di
morire affogati. Il ghiaccio non è compatto. Non ingannarti, non è marmo.» I loro respiri riscaldavano la volta della grotta, facendola luccicare di una patina biancastra. Marion detestava quell'atmosfera umida, l'incessante gocciolio. Aveva l'impressione di vivere sotto la pioggia. Ma la cosa peggiore era la mancanza d'aria. «È una tua fissazione, questa... Ci sono diversi condotti d'aerazione che arrivano fino in superficie e nessuno è mai morto soffocato. Ci farai l'abitudine», commentava Svénia, scrollando la testa. Con una cerimonia solenne, i totem di ghiaccio restaurati da Marion erano stati sistemati nella sala principale, all'incrocio tra le gallerie. Vista la temperatura che regnava nel cuore della caverna, non c'era pericolo che si sciogliessero. Nel peggiore dei casi, avrebbero «traspirato» per effetto della condensa, ma non si sarebbero certo sciolti. Se non altro, quella era una preoccupazione in meno. Per festeggiare il ritorno della tribù nella città sotterranea, Rök ordinò che fossero distribuite birra e acquavite. Ben presto, le gallerie riecheggiarono di canti e di risa. Marion se ne restò in disparte, colpita da quelle manifestazioni di gioia che si consumavano sotto gli occhi degli avi murati. La maggior parte dei brindisi erano dedicati a loro e qualcuno arrivava perfino ad alzarsi, a bussare contro la parete di ghiaccio e a chiamare i defunti per nome: Harald il Lupo, Oksvar dalla Testa Spaccata... Björn e Svénia erano rimasti ai margini dei festeggiamenti, insieme con Marion. L'anziano scultore dalle dita mozze, tuttavia, non aveva rifiutato qualche corno d'idromele offerto dalle ragazze. Ormai in preda ai fumi dell'alcol, si era messo a parlare, apparentemente tra sé, ma in realtà rivolgendosi a Marion. Grazie a quel poco di norreno che aveva appreso, la ragazza riuscì a distinguere parole quali: cattiva... infima... folle... pericolosa... aggettivi che sembravano sempre legati al nome di Wanaa. Incuriosita, Marion ordinò a Svénia di tradurle il discorso del vecchio, ma la serva si fece pregare. «È ubriaco», brontolò. «Non sa quello che dice. Non bisogna parlare di queste cose. Farebbe meglio a distendersi sul suo pagliericcio e dormire. Se qualcuno lo sentisse, Björn potrebbe passare dei guai.» «Traduci. Voglio sapere», insisté Marion. «Dice che Wanaa non era la donna che si vuole far credere», mormorò
infine la vecchia, intimorita. «Lui la conosceva bene. Avevano la stessa età. Giocavano insieme da bambini. Dice che era molto bella, ma pazza. Il veleno dei serpenti aveva finito per guastarle il cervello. Non vedeva davvero il futuro, inventava... e confondeva i suoi incubi con la realtà. Faceva uccidere persone innocenti, provocava catastrofi inutili, guerre senza motivo.» Svénia s'interruppe, il viso contratto per la paura. Marion le fece cenno di proseguire. «Tutti subivano la sua influenza. Era di una bellezza sconvolgente... sovrumana. Tutti gli uomini ne erano affascinati. Ragnaar era un giocattolo nelle sue mani, e lei lo spingeva a fare ciò che voleva. All'inizio i suoi sogni erano davvero premonitori, ma poi il veleno le aveva dato alla testa. Viveva in uno stato di perenne allucinazione. Il veleno delle vipere la consumava. Aveva cominciato a predire cose assurde... che questa o quella tribù si preparava ad attaccarci, che questo o quel guerriero stava complottando contro Ragnaar... Nessuno osava contraddirla. Si pensava che gli dei si servissero di lei per comunicare e ci si comportava di conseguenza. Ragnaar l'adorava, aveva perso del tutto il suo spirito critico. Se lei gli suggeriva di sterminare una tribù vicina, lui obbediva. È così che siamo arrivati a farci odiare da tutti. È per questo che oggi abbiamo tanti nemici che si accaniscono contro di noi.» Mentre Svénia traduceva, Björn guardava Marion con aria triste. Una tristezza infinita, mista ad amarezza. «È vero?» chiese la ragazza alla serva. Svénia si dondolava con fare imbarazzato. «Non è falso», borbottò infine. «Ma lui vede le cose in modo parziale... Non dice che era innamorato di Wanaa e che lei gli ha preferito Ragnaar. È pieno di risentimento. In ogni caso, è vero che, alla fine, Wanaa viveva in uno stato di continuo delirio. Il veleno le era penetrato nel sangue. Una volta, sono entrata nella sua tenda: dormiva nuda tra le pellicce e i serpenti le correvano sul corpo, in libertà. Li ho visti, attorcigliati sui seni, che le s'infilavano tra le cosce. Ho avuto così paura che mi mordessero che sono scappata via. È vero... Ero così giovane a quel tempo, ero appena stata catturata. Era una donna troppo bella per essere davvero umana. Si aveva l'impressione che gli dei si servissero dei suoi occhi per guardare il mondo.» Rabbrividì. Björn riprese il suo monologo. «Dice che c'è lei all'origine della decadenza della tribù», tradusse Svénia. «Aveva stregato tutti i guerrieri. Non era Ragnaar il vero capo... in realtà, era lei che comandava. Trasformava i suoi capricci in profezie. Se qualcuno non le andava a genio, si vendicava, accusandolo di tramare con-
tro Ragnaar, e nessuno osava sostenere il contrario. Il terrore si era impadronito della tribù. Bisogna dire le cose come stanno: per molti la sua morte sotto quella valanga è stata un sollievo. Per le donne, soprattutto. Finalmente i loro uomini avrebbero smesso di pensare a Wanaa mentre le baciavano.» «E Rök? Si rendeva conto della pazzia della madre?» chiese Marion. «No, era troppo giovane. Quanti anni aveva, a quel tempo? Cinque? Non ricordo bene... Certo, avrà conservato ricordi eccezionali della madre, ma distorti. Come tutti i maschi, doveva trovarla meravigliosa e terribile al tempo stesso. Almeno così credo.» «E lui pensa che, vivendo sotto il ghiacciaio, possa sentirsi più vicino a lei?» «Certo. È come una magia per lui. Vedrai. È un uomo introverso e difficile. Ha ereditato la follia della madre. Ecco perché è un berserkr... Il veleno dei serpenti l'ha contaminato. Wanaa ha continuato a farsi mordere anche quand'era incinta. Ecco la spiegazione.» Lo schiamazzo della festa cessò e le due donne si zittirono, per paura che le loro parole, amplificate dalla volta della galleria, potessero raggiungere le orecchie sbagliate. In apparenza, Svénia era l'unica che capisse la sua lingua, però Marion preferiva non rischiare. Si distesero sui pagliericci di licheni secchi. Di tanto in tanto, si sentivano le gocce picchiare sulle coperte di pelle. Avevano spento le lampade, restava solo il brillio di un lumicino all'incrocio delle gallerie - là dov'erano stati posti gli dei del freddo - che diffondeva il suo chiarore lungo le pareti trasparenti. Marion faticò a prendere sonno. Udendo gli scricchiolii del ghiaccio, immaginò che i morti uscissero dal muro per punirla delle frasi malevole scambiate con Svénia. 19 Il giorno seguente, Knut venne a farle visita e portò a Marion una lampada a olio come regalo di benvenuto. Il rivestimento in rame lavorato a mano mostrava un drago dalle ali spiegate. Alla vista del giovane, il cuore di Marion prese a battere forte e lei s'irritò con se stessa per quella reazione. Knut la invitò a percorrere la galleria dei morti in sua compagnia. Di tanto in tanto, si fermava e indicava uno dei cadaveri intrappolati nel
ghiaccio, pronunciava il suo nome e le spiegava il grado di parentela che lo legava al defunto. All'angolo del corridoio, s'inginocchiò di fronte alle spoglie di un giovane uomo dai capelli color cenere, rinchiuso nella parete, l'ascia alla mano, come se fosse in attesa di un segnale per lanciarsi all'attacco. «È Ulmar, suo padre», spiegò Svénia. Una volta terminata la passeggiata, Knut si allontanò precipitosamente, bisbigliando qualcosa, con fare inquieto. «Cos'ha detto?» chiese preoccupata Marion. «Che devi fare attenzione. Che ci sono persone invidiose di te, pronte a farti del male», rispose Svénia. «Chi?» «Non l'ha precisato, ma credo si riferisse a Boulba. Non le piaci, l'hai messa in secondo piano. È per tornare ad avere potere che ha sacrificato la figlia maggiore. Non esiterebbe un secondo a farti del male se gliene fornissi l'occasione. Sii prudente.» Poco dopo, Marion scorse Ragnaar, il capo decaduto, troppo vecchio, troppo fortunato, l'eterno sopravvissuto... Se ne stava accovacciato in una nicchia ridicolmente stretta. Era troppo debole per ingrandire quel buco irto di stalattiti e faceva pena vederlo così, piegato in due. Marion ordinò a Svénia di liberarle le mani per poter sistemare il rifugio del vecchio. «No!» sobbalzò la serva, in preda al panico. «Non devi farlo, te l'ho già detto centinaia di volte: è un fantasma... Se ti occupi di lui, poi dovrai vedertela con Rök.» Tuttavia Marion insistette e la donna si rassegnò a obbedire. Con le mani libere dalle manopole di ferro, la ragazza si avvicinò a Ragnaar e prese a eliminare le stalattiti a colpi di scalpello. Poi appiattì il pavimento e il soffitto della nicchia, così da renderla più confortevole. Nel frattempo, il vecchio se ne stava voltato dalla parte opposta. Per tutto il tempo impiegato da Marion a sistemare la nicchia, non disse una sola parola. Quando lei raccolse gli attrezzi, lui rimase inerte, muto, al punto che la ragazza si chiese se fosse riconoscente, indifferente... o infastidito dal fatto che qualcuno lo facesse sentire così indifeso. Si allontanò senza cercare di stabilire un contatto, per paura d'infastidirlo oltre.
Marion cominciava ad abituarsi alla presenza dei cadaveri incastonati nelle pareti. Alcuni sembravano avere all'incirca sedici anni; altri, invece, erano stati colti dalla morte appena adolescenti. Per quanto la loro pelle avesse assunto un colore livido, i corpi erano ancora intatti, preservati nel tempo. Tutti erano stati sepolti con un'arma in mano e curiosamente l'acciaio della spada o dell'ascia che brandivano non si era conservato così bene come la carne morta, di solito soggetta a rapida putrefazione. «Knut è nei guai», le annunciò una mattina Svénia. «Rök è convinto che tu l'abbia accolto nel tuo letto. Credo sia geloso. Ho l'impressione che volesse riservare per sé il privilegio di soddisfare i tuoi appetiti. Dopotutto anche Ragnaar, suo padre, condivideva il letto con una strega.» Marion si sentì assalire dall'inquietudine. Non voleva che facessero del male a Knut. Si rendeva conto che Rök era in preda a misteriosi tormenti e per questo aveva paura di lui. Pensò a come sistemare la faccenda, ma non giunse a nessuna soluzione valida. «Knut è in pericolo?» chiese allora, cercando di non far trasparire la sua angoscia. Svénia fece una smorfia. «È possibile. Per tenerlo lontano da te, Rök ha deciso d'inviarlo all'esterno insieme con altri guerrieri. Hanno il compito di scovare i nostri nemici, che si nascondono sulla montagna. Ma c'è il rischio che abbia ordinato agli uomini di assassinare Knut durante il sonno... o di gettarlo in un burrone. I vichinghi sono vendicativi. Può succedere qualsiasi cosa quando si ha a che fare con loro.» Infine Rök la convocò. Era nervoso e si esprimeva rimarcando le sue parole con gesti inutili. Sembrava incapace di mantenere lo sguardo fisso. Dal modo in cui Svénia si faceva sempre più piccola nel suo angolo, Marion capì che la faccenda era seria. Le pareti degli «appartamenti» di Rök erano decorate con simboli runici e, nella stanza circolare, gli eroi morti della tribù, rinchiusi nelle mura trasparenti, ricoprivano l'intera circonferenza. Sembrava quasi che si fossero riuniti là per un consulto... e con ogni probabilità era proprio quello l'intento di Rök... Sicuramente parla con loro, scruta i volti dei guerrieri cercando d'interpretare le risposte alle sue domande, pensò Marion. «Vuole che sia tu a occuparti della ricerca del corpo di sua madre», tradusse Svénia in tono riluttante. «Come?» balbettò la giovane. «Dice che devi scavare il ghiaccio e trovare la caverna dove Wanaa ave-
va l'abitudine di ritirarsi per meditare e leggere il futuro. È da qualche parte, in questa direzione.» Fece un gesto vago col braccio e Marion si accorse che le tremava la mano. «Dovrai estrarre il corpo e portarlo qui, perché possa prendere posto nel muro, insieme coi cadaveri degli altri eroi della tribù. Rök non può più sopportare la sua assenza. Vuole vederla dietro questa parete. Vuole poterle chiedere consiglio tutti i giorni. Sa che lei lo ispirerà, che gli suggerirà le decisioni giuste da prendere...» Svénia s'interruppe per riprendere fiato. Aveva la gola secca. «Perché proprio io? Perché non chiede ai suoi guerrieri di recuperare il corpo?» chiese Marion inquieta. «Non essere sciocca!» si adirò Svénia. «Wanaa è una semidea, nessun uomo normale può toccarla. Solo tu puoi farlo... Tu, perché sei una strega, perché le tue mani sono in grado di modellare il volto degli dei. Se qualcun altro si azzardasse a trascinarla fuori della sua tomba di ghiaccio, verrebbe folgorato all'istante e ridotto in cenere.» Mio Dio, come ho fatto a essere tanto stupida? comprese finalmente Marion. Ecco perché mi ha fatto rapire... È questa la vera ragione! Le statue di ghiaccio erano solo un pretesto. Voleva condurmi qui perché dissotterrassi il cadavere di sua madre. Ecco tutto! Ha mentito fin dall'inizio, si è preso gioco di tutta la tribù. Il pensiero di essere stata ingannata la mandò su tutte le furie... E al tempo stesso continuava ad avere paura, paura di quell'uomo ossessionato da un tale pensiero. Sentì la mano di Svénia afferrarle il braccio e stringere sino a farle male. «Non sei nelle condizioni di rifiutare. Lo capisci, vero? Questa è l'unica cosa che conta per lui. Se dici di no, non servirai più a nulla... non avrà nessun motivo per tenerti in vita», le ricordò la serva. «Lo so», replicò la ragazza. Gli occhi di Rök cercavano i suoi con insistenza. Marion si sentì ardere sotto quello sguardo che la trapassava da parte a parte. «D'accordo. Penso di non avere scelta», sospirò. «No», confermò Svénia. «Rök si aspetta che tu trovi l'antro in cui è sepolta sua madre. È convinto che il tuo istinto di strega ti mostrerà il cammino... Quando dovrai cominciare a scavare, potrai farti aiutare dai guerrieri. In ogni caso, loro si fermeranno non appena l'ombra di Wanaa apparirà attraverso il ghiaccio e, nell'ultimo tratto, dovrai proseguire da sola.» Marion rifletté. Il ghiacciaio era immenso. Come poteva individuare la direzione da prendere? Se si fosse affidata al caso, le ci sarebbero voluti
mesi prima d'imbattersi in ciò che cercava. Rök non mi lascerà rastrellare il ghiacciaio a mio piacimento. Avrò diritto al massimo a un paio di tentativi. Inoltre il ghiaccio è vitreo, opaco... Può essere che passi a tre cubiti dal corpo senza neanche accorgermene, ragionò la ragazza. Ebbe paura che Rök potesse interpretare i suoi pensieri dall'espressione del volto e si girò di scatto. Le dimensioni del ghiacciaio la terrorizzavano. Le possibilità che aveva d'imbattersi nel cadavere al primo colpo erano ridicole. Si ripromise di farsi aiutare da Björn... e magari perfino di riuscire a ottenere la collaborazione di Ragnaar. Mettendo insieme quei ricordi, sarebbe stata certamente in grado di risalire al punto in cui era avvenuta la valanga. «D'accordo. Digli che me ne occuperò. Prima di cominciare, però, ho bisogno di un po' di tempo... per raccogliere i miei poteri magici.» Svénia si affrettò a tradurre e Rök apparve subito sollevato. «Dice che potrai scegliere sei guerrieri tra i più robusti per scavare. Saranno ai tuoi ordini, non dovrai temere di farli affaticare troppo», annunciò la serva. Non è certo questo il mio timore... pensò Marion. La felicità di Rök era patetica. Con un'espressione bonaria dipinta sul viso, volle mostrare a Marion il punto in cui sarebbe stata murata la madre. Nella parete era già pronta una nicchia a forma di trono. Wanaa vi avrebbe preso posto, poi sarebbe stata ricoperta di ghiaccio e il freddo si sarebbe occupato di solidificare quel loculo. Col tempo, la parete si sarebbe trasformata in un sarcofago di cristallo e Rök avrebbe potuto prostrarsi davanti al cadavere della madre ogni volta che ne avesse avuto voglia. «Dice che con lei la tribù ritroverà la strada della gloria», commentò Svénia. «Ora è sola, troppo lontana perché si possa beneficiare del suo potere. È come addormentata. Una volta tornata in mezzo ai suoi, la sua magia la risveglierà.» Non c'era niente da discutere. Marion e Svénia si ritirarono per prepararsi al compito che le attendeva. La scultrice cercava in tutti i modi di non lasciarsi prendere dal panico. Aveva poco tempo a disposizione, così ordinò subito di salire in superficie, accompagnata da Björn e dalla serva. Tre guerrieri armati li scortarono, nel caso ci fossero nemici appostati sulle montagne, pronti a colpirli. Marion non poté evitare di scrutare le vette, sperando di scorgere la sagoma di Knut. Si sentiva vulnerabile e la presenza del giovane vichingo al suo fianco l'avrebbe rassicurata. Rök non le avrebbe perdonato un fallimento. Non aveva pazienza e, visto lo stato d'e-
saltazione in cui si trovava, dubitava che le avrebbe concesso troppi tentativi. Poteva contare solo su Knut perché la proteggesse dalla follia del capotribù... Ma il giovane dalle trecce bionde era ancora vivo? Avvolgendosi nella sua pelliccia, avanzò nella tormenta che imperversava, riempiendole la bocca di fiocchi di neve. Con l'aiuto di Svénia, cercò di stimolare la memoria di Björn, di far sì che ricordasse il luogo esatto in cui era avvenuta la valanga, tenendo conto della deriva dei ghiacci. «È successo trent'anni fa o quasi... Non so dove...» piagnucolava l'anziano scultore. Marion si spostava da un cumulo all'altro, esaminando le montagnole di ghiaccio sulla superficie del fiume gelato. Ma le numerose valanghe cadute nel corso di quegli anni rendevano impossibile stabilire quale di quei cumuli fosse quello giusto. Questo? O quest'altro, forse? S'inginocchiò per raschiare il suolo, sperando di scorgere l'ombra del cadavere in trasparenza. «È inutile», intervenne la serva. «Il ghiaccio è opaco. Devi per forza scegliere uno di questi cumuli. Ognuno di essi indica che in quel punto si è abbattuta una valanga, ma sono piuttosto distanti dalla città; sarà necessario scavare un bel po' per raggiungerli.» «Potremmo lavorare quassù. In tal modo, scenderemmo in verticale, dritti sulla tomba. Sarebbe più veloce», suggerì Marion. «No, Rök non te lo permetterebbe mai. Saremmo troppo esposti. Anzitutto al vento e poi alle frecce dei guerrieri appostati sui crepacci», replicò Svénia. «Sarebbe un gioco da ragazzi per loro eliminare i tuoi scavatori l'uno dopo l'altro... Inoltre Rök desidera che l'impresa resti segreta. Ha troppa paura che i nemici decidano d'impossessarsi delle spoglie di sua madre. No, dovrai passare da sotto, scavare una galleria come se stessi cercando il carbone nelle viscere della terra.» «Ma è assurdo! Ci metterò dieci volte più tempo», si lamentò Marion. «Lo so, ma procederai comunque in questo modo», insistette la donna. Reprimendo un moto d'irritazione, la giovane si mise d'impegno per tracciare una mappa del luogo e segnare dei punti di riferimento, pur sapendo che, una volta nella città sotterranea, quelle informazioni le sarebbero servite ben poco. Se fino a quel momento era riuscita in qualche modo a fingere, dubitava di poter continuare ancora a lungo. Non aveva nessun potere magico che l'aiutasse a determinare la direzione in cui scavare. Se avesse fallito, tutti si sarebbero resi conto che aveva mentito, sfruttando la propria reputazione di strega. Il freddo le penetrava fin nelle
ossa. Aveva l'impressione che le articolazioni si stessero tramutando in metallo, tanto erano rigide. «Rientriamo. Ho le informazioni che mi servono, per il momento», esclamò infine. «A chi vuoi darla a bere? Non hai proprio un bel niente, tu!» mormorò Svénia, prendendola sottobraccio. «Tu sei una maga come lo sono io, lo so bene! Faccio il tuo gioco fin dall'inizio, per gli altri... e per me stessa, ma non potrai fingere ancora per molto. La fortuna sta per voltarti le spalle.» «Se fallisco, morirai anche tu», ribatté la ragazza. «Non dimenticarlo. Se vuoi sopravvivere, è nel tuo interesse servirmi senza storcere il naso. Siamo legate l'una all'altra.» La vecchia chinò il capo, rassegnata. Curve sotto le raffiche di vento, raggiunsero l'ingresso del sotterraneo, seguite dai guerrieri che continuavano a sorvegliare le alture. Marion si mise all'opera e, servendosi delle manopole di ferro, incise nel suolo una mappa approssimativa del ghiacciaio, indicando con alcune croci i punti in cui si trovavano i cumuli nevosi. Per non trascurare nulla, volle fare un tentativo anche con Ragnaar. Accompagnata da Svénia, si recò a far visita al vecchio, appallottolato nella sua nicchia. Lui, però, non rispose a nessuna delle sue domande, ignorando la presenza delle due donne chine su di lui. Immobile tra i suoi orpelli, sembrava stesse aspettando che il muro si richiudesse su di lui, allontanandolo per sempre dal mondo dei vivi. Marion decise di non insistere. «È tempo perso. Non aiuterà nessuno, né te né suo figlio», brontolò Svénia. «Credevo che potesse fargli piacere vedere le spoglie della moglie sistemate nel mausoleo sacro della tribù», sospirò la scultrice. «Ma evidentemente non se la sente di affrontare una prova del genere: rivedere il volto dell'amata, intatto, dopo così tanti anni... Corre il rischio di risvegliare un dolore sopito. Al suo posto, anch'io mi farei degli scrupoli.» Non appena svoltarono nel corridoio principale, scorsero Boulba in compagnia delle sue due figlie. La fattucchiera dal ventre prominente stava contemplando il corpo della figlia maggiore, già sistemato nella parete di ghiaccio, tra gli eroi della tribù. Il suo sacrificio le era valso quell'onore e Boulba appariva molto orgogliosa. Premeva le mani sulle spalle delle due figliolette, spingendole a inginocchiarsi davanti alla salma della sorella defunta. Marion e Svénia fecero contemporaneamente un passo indietro, cercan-
do di nascondersi in una nicchia non ancora occupata. «Cosa sta dicendo?» chiese la ragazza. «Invita le bambine a prendere esempio dalla sorella maggiore», spiegò la vecchia. «Sta spiegando loro che è un onore immenso per una donna essere ammessa nel cimitero dei guerrieri. Dice che dovranno sforzarsi di obbedirle senza riserve se vorranno ricevere la stessa ricompensa.» Non esiterà un istante a sacrificare anche loro, pensò Marion, disgustata. Avvertendo una presenza, Boulba si voltò. Non appena scorse Marion, gli occhi le si riempirono d'odio. Le due ragazzine la guardarono con la stessa espressione astiosa, il viso contratto in una smorfia alla vista della «strega franca». Marion si sentì mancare il respiro e fu sul punto di scappare via. Mai, in vita sua, aveva letto tanta gelosia e desiderio di morte negli occhi di qualcuno. Trascinando le figlie dietro di sé, Boulba girò sui tacchi e scomparve in una galleria laterale. «Era una dichiarazione di guerra», mormorò Svénia. «Ti odia a morte perché sei stata prescelta per ritrovare le spoglie di Wanaa. Sostiene che quell'onore le spettava di diritto.» «Ed è pronta a sacrificare le due figlie che le restano pur di vendicarsi», constatò Marion con disprezzo. «Sì», ammise la serva. «Per un vichingo, la durata della vita non ha nessuna importanza, ciò che conta è avere una morte dignitosa. Quelle ragazzine se ne infischiano di morire: al contrario, invidiano la sorella e farebbero qualsiasi cosa per essere al suo posto.» 20 Bisognava prendere una decisione. Marion si affidò al caso e decise di scavare una galleria in direzione del cumulo di destra, quello che si trovava più vicino alla montagna. Smussato ed eroso dalle raffiche di vento, le sembrava quello più vecchio. Ordinò dunque ai guerrieri di afferrare gli utensili e mettersi al lavoro. Gli uomini le obbedirono, tuttavia Marion si rese conto della segreta repulsione che provavano. Li sentiva mormorare, senza capire ciò che dicevano, ma quei sussurri non sembravano promettere nulla di buono. Avevano paura. Quel lavoro da becchini non era degno di veri guerrieri vichinghi. Inoltre, in fondo al tunnel, ci sarebbe stato il cadavere di quella
strega così potente, una donna di cui i più giovani avevano solo sentito parlare, perché era morta prima che loro nascessero. Coloro che invece avevano avuto modo di conoscere Wanaa non sembravano contenti al pensiero di dissotterrarne le spoglie. Si ricordavano della veggente, che faceva loro paura quand'erano ancora bambini. E così scavavano nel ghiaccio senza entusiasmo, mostrando un certo vigore solo quando Rök arrivava in visita. Marion capiva il loro punto di vista. Quell'esumazione inquietava anche lei. Da quando avevano cominciato a scavare la galleria, Rök si comportava in modo strano. Non dormiva più e passava le notti vagando per i corridoi della città sotterranea. Nei suoi occhi ardeva un bagliore morboso. Per due volte, Marion si svegliò nel mezzo della notte e lo trovò in piedi, davanti al suo pagliericcio. Di certo era là da tempo, a spiarla mentre dormiva. Quegli episodi l'avevano turbata. Il capotribù faceva troppo affidamento su di lei e la ragazza temeva che ben presto sarebbe rimasto deluso... e che quella dedizione nei suoi confronti si sarebbe trasformata in coEera. Per di più, c'erano le figlie di Boulba, la fattucchiera invidiosa, che Marion ritrovava ovunque. Erano sempre là, alle sue spalle, che la spiavano. Avvertiva il loro sguardo stuzzicarle la nuca, come il pungiglione di una vespa. Quando si girava, faceva appena in tempo a scorgere i due volti furbetti scomparire dietro l'angolo di un corridoio. «Ti detestano», le confermò Svénia. «Boulba le ha istruite per bene. Ha spiegato loro che, per colpa tua, la loro madre ben presto sarà allontanata dalla tribù... e che loro moriranno di freddo tra le montagne. Non è consigliabile prendere alla leggera questi odi infantili.» «Di cosa hai paura?» volle sapere Marion. «Del veleno. Boulba è molto esperta nell'arte delle pozioni velenose. Da ora in avanti ci converrà controllare ciò che mangiamo. Ci serviremo di Björn come cavia... Bisogna pure che quella vecchia canaglia si guadagni il pane che gli diamo, no?» Marion, in effetti, temeva più le figlie di Boulba che la potenziale ira di Rök. Nei sogghigni di quelle ragazzine c'era qualcosa d'inquietante. Non sopportava le loro occhiate sfrontate, ogni volta che le incrociava per caso lungo le gallerie. Più di ogni altra cosa, poi, detestava sentirle scoppiare a ridere alle sue spalle. Da quando Knut era stato esiliato sulla montagna, si sentiva sola al mondo.
La galleria procedeva. Il ghiaccio non era sempre compatto: capitava che i guerrieri s'imbattessero in qualche ristagno d'acqua, che, libera di scorrere, si riversava su di loro, inzuppandoli dalla testa ai piedi. Rischiando di soffocare per il freddo, dovevano correre a riscaldarsi, mentre i vestiti s'incollavano loro addosso, imprigionandoli in una corazza più dura del legno. Infine, dopo intere giornate di lavoro, attraverso la parete apparve un'ombra... Restavano da scavare ancora una ventina di cubiti prima di raggiungerla, ma in quel punto il ghiaccio era più trasparente che altrove, ed era già possibile intravedere i contorni di un corpo vestito, le braccia sollevate oltre la testa, come nel tentativo di difendersi... o di lanciare una maledizione. Il parlottio tra gli uomini s'infittì e tutti presero a lavorare ancora più lentamente. La stessa Marion, ogni volta che avanzava oltre la soglia della galleria, rabbrividiva alla vista di quell'ombra intrappolata nell'acqua gelata. A mezzogiorno, quando il ghiaccio brillava sotto i raggi del sole, la sagoma sembrava ingrandirsi e diventava ancora più minacciosa. La ragazza cercò d'immaginare come si fosse sentita Wanaa al momento della valanga. Cos'aveva provato? Paura... o rabbia? Rabbia, senza dubbio. Rabbia per scoprirsi impotente, intrappolata in una caverna, sepolta sotto un cumulo di ghiaccio e neve. La morte l'aveva colta all'improvviso, avvolgendola completamente senza lasciarle via di scampo. Di notte, Wanaa, la veggente, le appariva in sogno. Björn era terrorizzato all'idea che la liberassero dalla sua prigione. Sembrava temere che tornasse in vita. «Lei sarà ancora giovane e noi ormai siamo troppo vecchi per difenderci», ripeteva. «Oh! Mi ricordo bene quanto era terribile, malvagia. Bella e malvagia. No, non deve uscire dal ghiaccio, bisogna lasciarla dov'è.» «Bene, perché non vai a dirlo a Rök? Vedrai cosa ti risponderà!» replicava Svénia. Quella superstizione dilagante finì per diffondersi in tutta la tribù. La sera, intorno alle braci, era un mormorio continuo. I discorsi strampalati dei più anziani avevano risvegliato antiche paure; si parlava soltanto dei capricci sanguinosi di Wanaa, della sua mania di compiere sacrifici umani. Nella galleria, gli uomini, i denti stretti in un grugno e il volto cupo, continuavano a lavorare. A ogni colpo di piccone, si avvicinavano un po' di più alla maga sepolta dalla valanga. Temevano che, da un momento all'altro, la parete potesse crollare, liberando quel corpo così a lungo protetto dal logorio del tempo. E così Wanaa sarebbe risorta, intatta, la rabbia di-
pinta sul volto, le labbra contratte mentre pronunciava - dopo tutti quegli anni - le stesse formule magiche di allora... Non era saggio, dunque, farsi trovare sulla sua strada. Rök diventava sempre più impaziente. Se la prendeva con gli uomini al lavoro, che procedevano in silenzio, la schiena ricurva. Marion percepiva la loro rabbia repressa. Detestavano quel compito da profanatori. Non avevano paura di battersi uno contro cento, ma temevano le forze occulte, i maneggi delle streghe, contro i quali anche i più coraggiosi erano impotenti. Non facevano che ripeterlo: non avrebbero toccato la veggente, Marion avrebbe dovuto scavare da sola l'ultimo tratto prima di giungere al cadavere. Avevano paura di prendere fuoco, se solo avessero posato le mani su Wanaa. Durante la fase conclusiva del lavoro nessuno osava più fiatare. Si udiva solo il ticchettio dei picconi. Marion osservava angosciata la sagoma della morta farsi sempre più grande. Lo spessore della parete non permetteva di distinguerne i contorni, ma era chiaro che, al momento della valanga, Wanaa era avvolta in una pelliccia. I guerrieri abbandonarono gli utensili e si ritirarono. Non avrebbero proseguito oltre. Il compito di disseppellire il cadavere spettava alla «strega franca». La galleria si svuotò e Marion restò sola in compagnia di Svénia. Le due donne non riuscivano a distogliere lo sguardo da quella sagoma con le braccia sollevate. «Si direbbe che stia per attaccarci», mormorò la serva. «Ma no. Stava cercando di proteggersi dai blocchi che le sono piombati addosso. Avresti assunto la stessa posizione anche tu, al suo posto», replicò Marion. Non era il caso di tergiversare oltre. Marion si voltò verso la serva, mostrandole le mani chiuse nelle manopole di ferro. «Liberami. Non posso reggere un piccone con le mani bloccate in questa morsa», le ordinò. La vecchia obbedì. La chiave fece scattare la serratura del lucchetto. Marion aprì e richiuse le dita più volte. Cominciava a temere che l'immobilità forzata delle mani favorisse l'insorgere dei reumatismi. Con le dita storte, non sarebbe più stata in grado di scolpire. Avanzò lungo la galleria, lasciando Svénia ferma sulla soglia. Se solo avesse potuto, la serva se la sarebbe data a gambe. Björn era rimasto acco-
vacciato sul suo pagliericcio, pieno d'acquavite fino alla punta dei capelli. Marion strinse l'impugnatura del piccone tra i palmi intorpiditi. Passo dopo passo, ripercorse la galleria in direzione della sagoma. Il sole stava cominciando a calare e l'ombra della defunta si faceva confusa. Non è l'orario migliore per esumarla... pensò la ragazza. Avrebbe preferito lavorare in pieno sole, immersa nella luce del giorno, che l'avrebbe protetta dai fantasmi delle tenebre. Trattenendo il fiato, sollevò il suo attrezzo e attaccò la parete. Ebbe la sensazione di forare il vetro. Di tanto in tanto, dal ghiaccio saltavano via delle schegge che la colpivano al viso; allora lei si portava una mano alla guancia, per verificare che non stesse colando del sangue. Via via che si avvicinava al corpo, provava il bisogno di stabilire un contatto mentale con Wanaa. Un monologo che presto si trasformò in una preghiera. Non mi fare del male. Non mi hanno lasciato scelta. Forse tu non desideravi essere riesumata, forse ti trovi bene qui dove sei. Io non sono d'accordo con questa profanazione. Rök mi ha obbligato. Spero che te ne ricorderai... pensava la ragazza. La luce si andava affievolendo troppo rapidamente. Di lì a poco, sarebbe stata costretta a lavorare nella penombra. Solo la lampada a olio che Svénia reggeva all'ingresso illuminava ancora il condotto. Ne aveva abbastanza, voleva che quella storia finisse. Prese a picchiare con più forza, demolì la parete... D'un tratto, qualcosa scivolò fuori dal ghiaccio e le piombò addosso. Una massa enorme, ricoperta di pelo. Un mostro dalle zanne gigantesche. Marion non fece neppure in tempo a gridare. Quella cosa si abbatté su di lei gettandola al suolo, schiacciandola. La ragazza avrebbe voluto chiamare aiuto, ma il demone irsuto le pesava sul petto, impedendole di respirare. Inchiodata a terra, non riusciva nemmeno a scostarsi. «Svénia... Svénia... Aiutami, soffoco!» gemette infine. In preda al panico, la serva stava già per correre via, ma la voce della padrona la fece tornare sui suoi passi. Coi denti che le battevano per la paura, faticava a reggere la lampada a olio. Una volta giunta all'altezza di Marion, si lasciò sfuggire un grido di sollievo. «Non... è un demone», sussurrò. «È un orso... un orso caduto in un crepaccio. Per Odino! Ho pensato che fosse Loki, il dio malvagio. Ho creduto che ti avesse afferrato per la gola per trascinarti all'inferno.» Posata la lampada al suolo, si diede da fare
per spostare la carogna che schiacciava Marion. Per fortuna, non si trattava di un orso adulto, così, dopo qualche tempo, la giovane riuscì a liberarsi dal peso di quel cadavere che per poco non l'aveva uccìsa. «Attenta alle mani... non toccarmi... e non toccare più la bestia. Ci stanno guardando», sibilò Svénia. La ragazza capì immediatamente cosa voleva dire la donna. Se avessero visto la «strega franca» posare le mani sulla sua serva senza incenerirla, non avrebbero più creduto nei suoi poteri. «D'accordo. Rimettimi le manopole, subito», replicò Marion. Nel frattempo, la galleria si era riempita di gente. I guerrieri avanzavano verso di loro, brandendo la spada. Rök li scansò con uno spintone. Tutti rimasero delusi vedendo il cadavere dell'orso morto, cui il pelo bagnato dava un'aria alquanto raccapricciante. Si potrebbe scambiarlo per un uomo. Per un uomo molto peloso, appena uscito dal bagno, pensò Marion. La paura provata qualche istante prima, quando giaceva tra le grinfie del suo aggressore, la faceva sragionare. Si aspettava che i vichinghi si facessero beffe di lei, ma quelli continuavano a fissarla, cupi. Non trovavano buffo il ritrovamento inaspettato delle spoglie dell'orso. Uno di loro mormorò qualcosa e gli altri sollevarono la testa. «Dice che è un segnale funesto. Loki si è preso gioco di te. Ti ha attirato in questa direzione per ucciderci e in effetti stava per riuscirci», tradusse Svénia. Rök ordinò di seppellire di nuovo la bestia nel ghiaccio e richiudere la galleria. Conteneva a stento la rabbia e più di una volta i suoi occhi si posarono su Marion. La ragazza si rese conto di trovarsi in una posizione molto rischiosa. Quando gli uomini si ritirarono, Svénia disse: «Si mette male... Rök aveva riposto grandi speranze in te, ora sarà facile per Boulba sostenere che sei una buona a nulla». Marion strinse i denti. Era consapevole di aver dato un'immagine poco decorosa di sé, così, schiacciata sotto la carogna di un orso. Dubitava che l'avrebbero presa sul serio quando avesse deciso di scavare una nuova galleria. Svénia l'aiutò a rialzarsi. «Vieni. Sei fradicia, devi cambiarti i vestiti. E poi puzzi di bestia morta.» Risalirono lungo i corridoi sotto gli sguardi di rimprovero della tribù. Incrociarono le due figlie di Boulba, che scoppiarono a ridere, sollevando le braccia sopra la testa, come per imitare un orso in piedi sulle zampe poste-
riori. Una volta rientrate nel loro rifugio, trovarono Björn, ubriaco fradicio, che, servendosi dei suoi vecchi utensili, stava incidendo nel muro dei simboli runici. «Servono per proteggerci», spiegò Svénia. «Dice che la fortuna ti ha voltato le spalle e che la malasorte sta per abbattersi su di te.» 21 Marion dovette decidere l'apertura di un nuovo tunnel. Gli occhi degli uomini, però, rispecchiavano una certa diffidenza. Non avevano più fiducia in lei: l'episodio dell'orso morto aveva offuscato la sua credibilità. Le cose stavano volgendo al peggio. Se commetto un altro errore sono perduta. Non mi è concesso sbagliare di nuovo, pensò la ragazza. Dopo un ennesimo, vano tentativo di farsi aiutare da Björn, Marion non poté far altro che affidarsi di nuovo al caso e ordinò di scavare un nuovo cunicolo in direzione del secondo cumulo di ghiaccio che appariva in superficie. I lavori presero una cattiva piega fin dall'inizio. Il soffitto della galleria cedette e uno dei guerrieri restò ucciso dalla cascata di detriti che si abbatté su di lui. Le donne si adirarono: alcune lanciavano alla «strega franca» degli sguardi pieni d'odio. «Dicono che con Boulba tutto ciò non sarebbe successo», le spiegò Svénia. «Cerca di fare attenzione. La pazienza di Rök è al limite. Un nuovo fallimento e te la farà pagare cara.» «Lo so», mormorò lei. Quella stessa notte, Marion fece un brutto sogno. I vichinghi l'avevano trascinata davanti a un fuoco e incatenata per le manopole a due anelli in metallo conficcati nel terreno. I guerrieri avevano poi riversato palate di brace ardente sui suoi guanti di ferro, che ben presto erano diventati incandescenti. Così le mani di Marion avevano cominciato a cuocere, con un odore di carne arrostita. «Ecco cosa succede alle false maghe! Quando le tue mani saranno cotte a puntino, te le faremo mangiare», aveva sibilato Rök. Si svegliò di soprassalto, madida di sudore. Era un sogno profetico? Marion non osò parlarne a Svénia per paura di spaventarla, tuttavia faticò a ri-
prendere sonno; per tutta la mattinata poi, mentre sovrintendeva ai lavori del cantiere, fu pervasa da una sensazione di malessere. La notte successiva, venne svegliata da un prurito insopportabile. Aveva le mani in fiamme e avrebbe dato qualsiasi cosa per un po' di sollievo. Quella volta non esitò a svegliare Svénia. Il fastidio era intollerabile. «È come se milioni d'insetti mi corressero sulla pelle. Sto impazzendo... Toglimi i guanti, devo grattarmi», spiegò. «Non è normale. Di sicuro qualcuno ti ha fatto il malocchio. Questa faccenda puzza di sortilegio», le fece notare la serva. Mentre parlava, aveva già aperto le manopole, ma, quando Marion cercò di sbarazzarsene, si accorse che le mani erano così gonfie da non riuscire più a sfilarle. «Ho già visto una cosa del genere. Qualcuno ha versato nei guanti della polvere urticante e il veleno ti ha infettato le mani», dichiarò Svénia. «Ma quand'è successo? Non li tolgo mai...» gemette Marion. «Non è vero», la corresse la vecchia. «Mi obblighi a levarteli quando ti lavi... o quando vai a fare i bisogni. È contrario alle regole, ma alla fine cedo ai tuoi capricci, per preservare il tuo sacrosanto pudore.» «Però affido a te le manopole...» obiettò la ragazza. «Sì, ma può capitare che le appoggi da qualche parte per occuparmi d'altro: del bucato, della cucina... Non le controllo tutto il tempo», ammise la serva. «Vorresti dire che qualcuno potrebbe essersi avvicinato a tua insaputa per versarci dentro del veleno?» «Sì. Le figlie di Boulba, per esempio. Da un po' di tempo mi stanno sempre alle calcagna e ora comincio a capire perché... Aspettavano il momento propizio. La madre deve aver dato loro questa porcheria da usare contro di te.» Marion strinse i denti. Quel prurito la faceva impazzire. Se avesse potuto, si sarebbe scorticata le mani, grattandole contro il ferro. Tutta colpa della negligenza di Svénia: come aveva potuto essere così sciocca da non sospettare di quelle due orribili ragazzine? Oh! Era davvero un'idiota! «Faccio colare della neve sciolta nelle manopole, ti darà un po' di sollievo», propose la serva. In realtà, lei per prima sembrava non crederci. E in effetti il tentativo si rivelò inutile, perché le mani di Marion ormai erano così gonfie che impedivano a qualsiasi cosa di penetrare nelle manopole. «Molto male... Temo che il sangue stia cessando di circolare e che presto
avrai le mani nere. Se dovesse succedere, la cancrena è assicurata. Per gli dei! Si gonfiano a vista d'occhio», mormorò la vecchia. Diceva la verità. Marion si sforzava di non piangere, ma aveva l'impressione che, al posto delle mani, si fossero formate due vesciche enormi, prossime a esplodere. Era un sensazione insopportabile. Svénia andò a raccogliere del ghiaccio per ricoprire le manopole, nella speranza che il gelo potesse ridurre l'infiammazione. La cosa peggiore è che non posso nemmeno contare sull'aiuto di Boulba. Se chiedessi il suo intervento, cercherebbe senza dubbio di avvelenarmi, pensò Marion. «Preparo un decotto. Proviamo a vedere se l'irritazione si calma immergendovi le manopole», propose la serva. Così dicendo, prese a rovistare nei vari bauli che si portava sempre appresso. Marion avrebbe voluto sperare nel suo aiuto, ma sapeva che le conoscenze di Svénia in quel campo erano molto ridotte rispetto a quelle di Boulba. Era sul punto di prendere il muro a testate. Era come se fosse stata per ore con le mani immerse tra le ortiche. Scoppiò a piangere. «Calmati. Ora faccio bollire delle erbe. Quando la tisana sarà ben calda, potrai immergerci le mani», le disse Svénia, accarezzandole la testa. «Se non funziona, dovremo amputare prima che la carne vada in putrefazione», aggiunse. «Non ricominciare con questa storia!» sibilò Marion. «Lo dico per il tuo bene», replicò Svénia. «Prendi un coltello e fai un taglio in modo che il sangue possa colare. Così il gonfiore si riassorbirà», ordinò la scultrice. La donna esitò, poi, con uno stiletto, incise il rigonfiamento con un gesto secco. Marion non sentì dolore. Quel taglio non era niente in confronto al prurito. Una volta pronto il decotto, la ragazza v'immerse le mani. Nel giro di qualche istante, sentì la pelle intorpidirsi. Il desiderio di grattarsi sino all'osso, che l'aveva ossessionata fino a un minuto prima, finalmente diminuì. «Funziona, eh?» esclamò Svénia, trionfante. «Non ti muovere. Se gli dei sono con noi, l'infiammazione passerà e allora non ci sarà più bisogno di tranciarti le mani.» Attese l'alba così, con le mani a mollo nella tinozza colma d'acqua nera, in cui galleggiavano forme vegetali indefinibili. Pian piano, il torpore si
andava estendendo ai gomiti e alle spalle. «Quando arriverà al petto, dovrai ritirare le mani, altrimenti il cuore cesserà di battere», l'aveva avvisata Svénia. Marion era talmente sfinita che per un istante pensò di non obbedire: avrebbe potuto restare così... Forse sarebbe stato tutto più semplice se il suo corpo fosse rimasto paralizzato. Cosa le riservava ormai il futuro? Non sarebbe stato più rilassante abbandonarsi a quella morte dolce? Svénia, però, intervenne per tempo. La ragazza la sentì brontolare: «Piccola dispettosa che non sei altro! Volevi svignartela, eh? Non se ne parla neanche. Se muori tu, muoio anch'io. Quindi, forza, rimettiti in piedi, che ti piaccia o no». Così Marion si addormentò e, al risveglio, le mani si erano sgonfiate. Svénia le aveva tolto le manopole per cospargere l'interno di cenere e aceto. «D'ora in avanti dovremo tenere gli occhi bene aperti», brontolò. «Ce la siamo vista brutta. C'è mancato poco che Boulba riuscisse nel suo intento.» Marion si esaminò i palmi, le dita... la pelle era ancora di un rosso intenso, come se fosse stata immersa nel vetriolo romano, e qua e là, sotto forma di disgustosi grappoli, si scorgevano alcune vesciche. «Fregale con un po' di ghiaccio», le ordinò la vecchia. «Boulba tornerà all'attacco. Non si accontenterà di un solo tentativo», sospirò Marion. «Staremo all'erta. Se vedrò quelle bambine aggirarsi da queste parti, le caccerò subito via», le assicurò Svénia. La ragazza annuì, s'infilò di nuovo le manopole di ferro e si alzò per incamminarsi verso il luogo dello scavo. Era consapevole di essersi salvata per un pelo. Senza l'aiuto di Svénia, le mani avrebbero cominciato a putrefarsi prima dell'alba. Come previsto, Boulba sferrò ben presto un secondo attacco. Una notte, infilandosi nel pagliericcio, Marion avvertì la presenza di diversi corpi estranei sotto i piedi nudi. Quando scostò la pelliccia per esaminare il giaciglio, scorse tre vipere di una razza particolarmente velenosa. I rettili se ne stavano attorcigliati su se stessi, come se fossero addormentati. «È per il freddo», le spiegò Svénia. «Sei stata fortunata. Il freddo ti ha salvato la vita! Le serpi s'intorpidiscono quando non stanno al caldo. Proprio oggi, mi sono scordata di metterti nel letto la borraccia con la brace ardente... Se l'avessi fatto, come ogni sera, le vipere si sarebbero risveglia-
te e t'avrebbero morso.» Così dicendo, prese a colpire i rettili sonnolenti con un tizzone, fino a ucciderli. «È stata Boulba. Vuole eliminarti prima che tu possa trovare il corpo di Wanaa.» «In ogni caso, si sta mettendo d'impegno. Forse significa che sto scavando nella direzione giusta. Lei lo sa e tenta di fermarmi prima che raggiunga la camera mortuaria», le fece notare Marion. «Sì, forse è così», ammise la serva. 22 Due giorni più tardi, nel ghiaccio comparve un'ombra. Una lunga sagoma distesa. Dalle dimensioni, poteva trattarsi di una donna. Un fervore misto ad angoscia s'impossessò dei guerrieri. Rök avanzò fino all'ingresso del tunnel, poi si fermò, incapace di procedere oltre. Marion si rese conto che tremava come una foglia: restò così per un minuto, poi se ne andò, senza dire una parola. «Questa è la volta buona», disse Svénia. «Boulba lo sa. I suoi poteri magici l'hanno aiutata a rintracciare la caverna funeraria... Dovrai prendere alcune precauzioni prima di entrare. Björn dice che Wanaa aveva l'abitudine di chiudersi là dentro coi suoi serpenti. Decine di vipere. Si sdraiava nuda su un letto di pelliccia e lasciava che i rettili le strisciassero su tutto il corpo.» «È passato tanto tempo, ormai», le fece notare Marion. «A ogni modo, non conviene rischiare. Ho sentito dire che i serpenti possono restare addormentati per anni. Il freddo li mantiene in vita e li preserva dal passare del tempo. Se entrerai nel sepolcro con una torcia, c'è il rischio che il calore li risvegli... Allora ti si getteranno tutti contro, per morderti.» Marion scosse le spalle. Non credeva che le vipere potessero sopravvivere, ma decise di agire con prudenza. Si diceva che i crociati, aprendo le tombe degli antichi faraoni, fossero stati assaliti da cobra murati vivi per più di duemila anni. Come avere la certezza che quei rettili fossero innocui? Gli uomini ormai procedevano con circospezione. Dal ghiaccio spuntavano vari oggetti, a riprova che erano giunti sul luogo della catastrofe: brocche, utensili, ma anche stoffe... perfino un cane, schiacciato dalla valanga. Marion capì che non avrebbe potuto rimandare oltre l'incontro con
Wanaa. Quando furono a meno di un cubito dalla sagoma distesa, i vichinghi gettarono a terra i picconi e si precipitarono fuori della galleria. Si sforzarono di non dare a quella ritirata la parvenza di una fuga, tuttavia era evidente che stavano facendo di tutto per evitare di correre. Lungo i corridoi della città sotterranea, riecheggiavano i sussurri: È giunto il momento, il cadavere di Wanaa è stato trovato... La «strega franca» sta per entrare nel loculo e recuperare il corpo della grande veggente, quella che gli anziani ricordano ancora con terrore... Era la volontà di Rök e di sicuro nessuno si sarebbe opposto, però tutti temevano le conseguenze di quella scoperta. Di che umore sarebbe stata Wanaa? Si diceva che i morti fossero pieni di rabbia, avidi di vendetta, invidiosi dei viventi. Sarebbe stato così anche per la moglie del vecchio capotribù? Ragnaar se ne stava nascosto sul fondo della sua nicchia. Non lo si vedeva più vagare per i corridoi, alla ricerca di cibo. Il ritorno di Wanaa sembrava terrorizzarlo più di tutti gli altri. È normale. Ha paura di soffrire. Contemplare il viso inalterato di colei che ha perduto rìsveglierà il dolore. Di sicuro non vorrà vederla, pensò Marion. «Ora tocca a te», dichiarò Svénia. «Spero che gli dei ti proteggano. Non dimenticare ciò che ti ho detto a proposito dei serpenti. La caverna delle divinazioni sarà colma di vipere.» «Se in tutto questo tempo non sono morte di fame, saranno di certo intorpidite per il freddo», replicò Marion. «Non si può mai sapere», sospirò la serva. «Erano vipere magiche. Iniettavano il loro veleno nelle vene di Wanaa, ma, al tempo stesso, il sangue di Wanaa entrava in loro. Il sangue della maga... Devi essere pronta a tutto. Per niente al mondo vorrei essere al tuo posto...» Per evitare che il ferro diventasse incandescente a contatto col corpo di Wanaa, liberò Marion dalle manopole. Solo le mani di una strega potevano toccare la carne di una veggente morta durante una cerimonia di divinazione. «Quando la morte l'ha colta stava sperimentando una delle sue visioni. Vagava tra il regno degli uomini e quello degli dei. L'energia divina era in lei, il fuoco sacro le scorreva nelle vene», farfugliò Svénia, gli occhi offuscati. «Non era più un essere umano, ormai. Ecco perché è pericolosa. È come se in quel momento il suo corpo fosse un involucro al cui interno ba-
lenavano fulrnini e saette, in attesa di essere liberati. Dentro di lei è in corso una tempesta, una bufera che aspetta di esplodere da troppo tempo. Ecco perché nessuno vuole correre il rischio di toccarla.» Sa che non sono dotata di poteri magici ed è convinta che non ne uscirò viva, pensò Marion. Svénia estrasse da un cassone degli stivali a mezza gamba di pelle spessa e glieli porse. «Metti questi. Ti proteggeranno», le disse. La giovane obbedì. Aveva fretta di terminare il suo compito. Trasse la vecchia serva verso di sé e la ringraziò per quanto aveva fatto per lei. La donna scoppiò in lacrime. Marion si voltò e s'incamminò lungo la galleria. I membri della tribù si erano rifugiati nelle proprie stanze, come in vista di una catastrofe imminente. I corridoi erano deserti; solo gli eroi murati nel ghiaccio erano rimasti a fare la guardia. La ragazza s'inoltrò nei meandri del cunicolo. Respirava a fatica. Le gocce d'acqua che colavano dal soffitto la facevano sussultare. Raccolse un piccone abbandonato a terra e si avvicinò alla parete. Si trovava a un cubito dall'ombra distesa al centro della caverna delle divinazioni. Un cubito che avrebbe dovuto scavare senza l'aiuto di nessuno. Non appena prese a picchiare, grosse schegge di ghiaccio si staccarono dalla parete. Il rimbombo di quei colpi riecheggiò lungo le gallerie, facendo tremare di paura i membri della tribù. Marion aveva pensato che Rök ci tenesse a essere presente, ma - come nel caso di Ragnaar - era evidente che il ritorno della grande veggente suscitava in lui sentimenti contrastanti. Marion lo immaginò rintanato in un angolo dei suoi «appartamenti», mentre contava i colpi di piccone, torcendosi le mani. Il ghiaccio era duro. La ragazza sudava, avvolta nella sua pelliccia. D'un tratto, fu assalita da una strana eccitazione. Nonostante la paura, era curiosa di sapere... Finalmente il piccone forò la parete. La valanga non aveva colmato la caverna. Qua e là erano presenti alcuni passaggi che permettevano d'inoltrarsi all'interno. Col passare del tempo, le lastre di ghiaccio avevano finito per compattarsi formando una sorta di campana di vetro, all'interno della quale era prigioniero il corpo di Wanaa. Col fiato corto, Marion s'inoltrò nella grotta. Il freddo glaciale aveva preservato ogni cosa. Pelli conciate, rigide come assi, ricoprivano il pavimento. La brina rivestiva ogni cosa di una pellicola scintillante. Vasi e
brocche sembravano cosparsi di polvere di diamanti. La ragazza si guardò bene dallo sfiorare quegli oggetti. La temperatura era così bassa che rischiava di restarci incollata. Esaminò le torciere, le lampade, le asce e le altre armi d'acciaio scuro. I raggi del sole, che penetravano oltre la superficie ghiacciata, donavano a quel luogo un'aura magica. In un angolo c'era una grossa giara che, ridotta in frantumi, aveva liberato decine di vipere, attorcigliate per terra. Pietrificate dal freddo, sembravano sculture ben scolpite nel marmo o nella malachite. Marion ne raccolse una: una vipera fossilizzata a forma d'anello. Avrebbe potuto passarsela intorno al polso e farne un bracciale. Sono morte. Anche se le dovessi riscaldare con la lampada a olio, non tornerebbero in vita, si disse. Tuttavia non aveva nessuna voglia di sperimentare la sua teoria e buttò di nuovo la vipera indurita in mezzo alle altre. Il blocco di ghiaccio si era compattato in modo disomogeneo e ciò le impediva di girarci intorno e di avvicinarsi direttamente a Wanaa. Per il momento, non vedeva altro che un corpo nascosto sotto una pelliccia e una folta capigliatura bionda che scendeva lungo il cuscino di pelle. Dormiva. La valanga l'ha sorpresa nel sonno, mentre era in preda agli effetti della droga, pensò. Si sforzò di contenere un vago senso di delusione. Dalle parole di Svénia, si aspettava una scena apocalittica: Wanaa nuda, distesa su un letto di serpenti che fendevano l'aria. Wanaa, la Valchiria furiosa, gli occhi bianchi, rovesciati all'indietro, intenta a sussurrare oracoli sotto forma di enigmi indecifrabili... Aveva pensato a lungo a quel corpo, candido, dai seni martoriati dai morsi delle vipere, a quella semidea nelle cui vene scorreva sangue intriso di veleno. Si aspettava uno spettacolo grandioso, e invece si trovava davanti una donna addormentata, avvolta nella pelle d'orso per il freddo, che non aveva nemmeno visto sopraggiungere la propria morte. Ma tutto ciò aveva poca importanza: doveva mettersi al lavoro, liberare la veggente e farla finita con quella sinistra profanazione. Marion s'inginocchiò. Faceva così freddo che l'aria, penetrandole nei polmoni, le faceva male. S'infilò i guanti di lana e afferrò il piccone. Doveva demolire il «sepolcro» di ghiaccio in cui riposava Wanaa, facendo attenzione, però, a non picchiare troppo forte. Altrimenti rischio di distruggere il cadavere e dubito che Rök ne sarebbe contento, pensò. Cercò di scuotersi. La temperatura era insopportabile e se lei fosse rima-
sta ferma troppo a lungo avrebbe corso il rischio di assopirsi. Svénia l'aveva messa in guardia più volte contro i subdoli tranelli del ghiacciaio. Il sonno d'inverno è il sonno della morte, diceva spesso. La punta del suo attrezzo faticava a scalfire la lastra di ghiaccio. Mentre lavorava, Marion continuava a esaminare il luogo. Wanaa aveva creato un rifugio che ricordava la tana di Boulba. C'erano numerose giare sigillate con la ceralacca e ridotte in frantumi dalla valanga. Il loro contenuto, cosparso di brina ghiacciata, sarebbe rimasto un mistero. Finalmente Marion poté abbassarsi e cominciare a rimuovere i frammenti di ghiaccio dalle spoglie di Wanaa. Il «sarcofago» si presentava piuttosto frastagliato, così dovette toglierli a uno a uno, quasi fossero pezzi di un'enorme conchiglia. Quando le sue dita sfiorarono i capelli biondi della maga, Marion fu scossa da un fremito. Non le piaceva ciò che stava per fare. Le labbra serrate, si affrettò ad asportare i detriti più grossi. Sotto la cappa di ghiaccio, la pelliccia aveva la consistenza della pergamena. D'un tratto, Marion si fermò, incuriosita dalla posizione del corpo sotto la copertura. Le sembrava che Wanaa giacesse in modo poco naturale. Di certo è stata schiacciata dai blocchi di ghiaccio. Vedrai, troverai un bel pasticcio sotto quella pelle d'orso... si disse. Rök sarebbe stato contento di vedere la madre in quelle condizioni, appiattita come una lucertola schiacciata da una pietra? Pronta al peggio, Marion afferrò la copertura con due mani e la sollevò, lottando per staccare il cadavere, che sembrava ormai tutt'uno con la pelliccia. Per un attimo, credette di non farcela: il pelo irsuto le scorticava le mani come una cotta di maglia. Finalmente, all'ennesimo strattone, la copertura si staccò di colpo, spezzandosi in due. Marion si lasciò sfuggire un grido di stupore. Sotto la pelliccia, Wanaa non era sola... Un uomo le teneva compagnia. Un uomo nudo, come lei. Stavano facendo l'amore. La valanga li ha sorpresi mentre si abbandonavano al piacere. Ecco perché non hanno sentito le grida d'allarme delle sentinelle... Sbalordita per quella rivelazione, scrutava i due corpi pietrificati dal gelo. Le mani dell'uomo sulla donna... le mani della donna sull'uomo... le cosce di lei accavallate a quelle di lui. La bocca del vichingo che divorava i seni di Wanaa... Impossibile sbagliarsi. Veniva quaggiù per incontrarsi col suo amante. Le visioni profetiche erano un pretesto. E, con la scusa delle vipere, faceva in modo che tutti
stessero alla larga. Davanti agli altri, dichiarava che si sarebbe ritirata nella caverna per consultare gli dei e che per nessun motivo avrebbero dovuto disturbarla, poi attendeva l'arrivo del guerriero cui si offriva all'insaputa di Ragnaar, suo marito, il capotribù, rifletté Marion. Una relazione segreta... Una relazione assai pericolosa, che avrebbe potuto costare la vita a entrambi. Loro lo sapevano, ecco perché prendevano tante precauzioni per incontrarsi. Marion sollevò lo sguardo, cercando di capire come si erano svolti i fatti. Nascosto tra le montagne, il guerriero aveva aspettato il momento giusto per intrufolarsi nella caverna delle divinazioni, quel rifugio scavato nel ghiacciaio. Probabilmente aveva avuto l'accortezza di avvolgersi in un mantello bianco, per poi sgattaiolare fino al nascondiglio. Quel trucco aveva funzionato alla perfezione, fino al giorno della valanga. Quel pomeriggio, i due amanti in preda alla passione non avevano sentito il rumore sordo della cascata di neve in procinto di abbattersi su di loro. Un intero lembo di montagna, misto di neve e di ghiaccio, era penetrato nella caverna. Quei blocchi d'acqua gelata, più duri della pietra, si erano frantumati sopra la loro testa, folgorandoli mentre si scambiavano carezze appassionate. Marion riusciva a scorgere la testa per metà schiacciata dell'uomo e la tempia destra di Wanaa, curiosamente appiattita. È come se fossero stati lapidati con una fionda. Di certo non hanno avuto nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa stava succedendo... Respirando a fatica, la scultrice tentò di liberare i corpi. Per il freddo, erano diventati rigidi come statue e la ragazza ebbe l'impressione di trovarsi alle prese con una scultura che le avevano commissionato. Poi l'inquietudine prese il posto dell'eccitazione. Mio Dio! Sono l'unica a sapere! si rese conto all'improvviso. Né Ragnaar né Rök ne sono al corrente. Ragnaar ha pianto la morte della moglie per mesi e Rök vive ancora nel ricordo idealizzato di una madre che ha conosciuto appena... Fu assalita dalla paura. Stava per rivelare un segreto che avrebbe attirato su di lei l'ira dell'intera tribù. Nessuno avrebbe voluto ammettere che Wanaa, la grande Wanaa, si comportava come una sgualdrina... che tradiva Ragnaar con l'ultimo arrivato, che era... I vichinghi punivano i portatori di cattive notizie, talvolta addirittura li condannavano a morte. Perciò era fuori questione che lei lasciasse la caverna e andasse a raccontare la verità. Nessuno avrebbe dovuto saperlo,
mai! Bisognava attenersi alla leggenda, non rivelare nessun particolare che potesse suscitare sospetti. Rök non me lo perdonerebbe mai. Non mi lascerebbe mai infangare l'immagine di sua madre, si ripeteva, mentre sentiva crescere il panico. Bisognava agire velocemente. Liberare il corpo di Wanaa prima che i vichinghi prendessero coraggio e avanzassero fino alla caverna. Marion toccò i due cadaveri congelati. Come staccarli? Avevano la consistenza della pietra. Devo fare a pezzi l'uomo, decise. Frantumarlo... così potrò staccare da lui Wanaa senza rovinarla. Il fatto che sia nuda non stupirà nessuno, perché tutti sapevano che si offriva alle vipere sacre in questo modo. Sì, era l'unica soluzione: ridurre l'amante a brandelli, come si faceva con un'effigie di marmo, e nasconderne i resti nelle numerose giare situate nella grotta. Marion tornò nella galleria, alla ricerca di qualche attrezzo che potesse esserle utile. Aveva un po' di tempo a disposizione. Raccolse un martello e uno scalpello e attaccò il corpo dell'uomo appena sotto la spalla. Chi era? Un guerriero della tribù... o un nemico, un membro di un altro gruppo? Per il momento, Marion era in grado di distinguere solo la capigliatura e la barba intrecciata, bianche per via della brina. Procedeva a colpi secchi, come se stesse demolendo una statua. A forza d'intagliare la pietra, aveva sviluppato una buona muscolatura... Certi uomini l'avevano scoperto a proprie spese... Il braccio destro si staccò. È solo pietra... Sono le membra di una statua... nient'altro, si ripeteva la ragazza per vincere l'orrore della situazione. Senza riprendere fiato, attaccò la base del collo. Sarebbe stato più difficile. Ma no... forse no, dopotutto; i materiali, esposti per lungo tempo al freddo, talvolta si rompevano come vetro. Lei stessa aveva visto lamine di ferro andare in frantumi in certe giornate particolarmente rigide. Sotto la morsa dello scalpello, il collo cominciò a creparsi. Marion dovette prendere una scure per proseguire il lavoro. Sentendo il rumore dei colpi, i vichinghi avrebbero pensato che fosse ancora intenta a scavare. Infine la testa rotolò per terra. La ragazza non perse tempo a esaminarla, perché, se voleva liberare il corpo di Wanaa, doveva ancora amputare la gamba destra del morto all'altezza dell'anca. La sua coscia, infatti, pesava su quella dell'amante come se la volesse cavalcare. Si trattava di un guerriero robusto, dai muscoli ben sviluppati. I fianchi e la schiena erano se-
gnati da lunghe cicatrici. Marion maledisse Wanaa che la costringeva a svolgere quel lavoro ingrato. Ormai grondava di sudore e tremava al pensiero che, da un momento all'altro, Rök potesse infilare la testa nella caverna, alle sue spalle. Non ci avrebbe messo molto per capire la verità. Allora mi ucciderà. Mi strangolerà così, su due piedi, per proteggere la memoria della madre. Non mi lascerà uscire viva da questo loculo, pensò. Prese a lavorare con maggior ardore. Aveva perso la cognizione del tempo. Le sembrava di essere là dentro da ore. La gamba si staccò. E così le fu possibile liberare la veggente, girarla su un fianco. Era una gran bella donna, dal fisico imponente. Aveva le spalle e i fianchi larghi, come quelli di un uomo. I seni erano eretti per il desiderio e teneva il volto riverso all'indietro, la bocca aperta. Marion pensò che quell'espressione rapita non avrebbe stupito nessuno, visto che tutti la credevano in preda all'estasi divina. Decise di ricoprire il corpo di vipere sacre, per rendere ancora più credibile la leggenda. Nessuno avrebbe avuto sospetti, però bisognava far sparire il cadavere smembrato dello sconosciuto. La ragazza si chinò sul corpo del guerriero. Era morto durante l'erezione, un istante prima di penetrare nel ventre di Wanaa. Quel sesso eretto sembrava sfidare la giovane, sembrava gridare: «Non c'è niente che tu possa fare, io resterò sempre in vita!» Marion riprese il martello. Doveva ancora separare i due arti di sinistra dal tronco; solo allora sarebbe riuscita a nascondere il corpo nelle giare. La paura le torceva le budella, impedendole però di lasciarsi sopraffare dal disgusto per ciò che stava facendo. Non pensava più a niente. S'impegnava soltanto per finire quel compito il più velocemente possibile. C'era la sua sopravvivenza in gioco. Di tanto in tanto, battendo i denti e col fiato corto, si fermava per guardarsi alle spalle, aspettandosi di veder apparire Rök sulla soglia. Una volta amputati il braccio e la gamba sinistri dello sconosciuto, passò in rassegna le giare. In fondo alla caverna c'erano quattro grandi anfore; scorse inoltre due cassoni di legno. Contenevano stoffe e vestiti, che si frantumarono non appena Marion li prese tra le dita. La giovane infilò nei cassoni le membra e il busto dell'uomo. Quando raccolse la testa, non poté trattenere un grido di stupore. È la testa di Rök...
La ragazza restò senza fiato per lo stupore. È Rök, si disse, cercando di lottare contro la confusione che aveva in mente. È Rök... e al tempo stesso non è lui. No... niente affatto. È qualcuno che gli somiglia. Che gli somiglia molto. Allora, soltanto allora, capì. Che stupida! Rök non era figlio di Ragnaar... Il suo vero padre era quello sconosciuto di cui lei teneva fra le mani la testa mozzata. Dio mio! Wanaa tradiva Ragnaar da sempre. E il figlio che ha concepito è del suo amante, non del marito, mormorò. Dovette fare uno sforzo per vincere lo stato di abulia in cui era caduta. Osservandolo con più attenzione, si rese conto che l'uomo era più giovane di Rök, ma il taglio delle sopracciglia, la fronte, il naso e l'attaccatura della barba erano identici. Wanaa tradiva Ragnaar, si ripeté, senza riuscire a staccare lo sguardo dal volto del guerriero morto. Lei, la grande maga, la veggente delle vipere sacre, lo tradiva con... Con chi? Di certo non poteva trattarsi di un membro della tribù: la somiglianza con Rök sarebbe saltata subito all'occhio, rivelando la relazione adulterina... No, quell'uomo veniva sicuramente da un'altra tribù. Un nemico. Quindi la faccenda si fa ancora più vergognosa, intuì Marion. Si riscosse. Aveva i minuti contati, doveva concludere i preparativi per la messinscena il più presto possibile. Infilò la testa in una delle grandi giare, poi vi appiattì sopra della neve e delle scaglie di ghiaccio, colmando il recipiente fino all'orlo, così da sviare un eventuale visitatore curioso di esaminarne il contenuto. Sparsi a terra, trovò i vestiti, le armi e gli stivali dell'uomo. Doveva nascondere anche quelli. La loro presenza nel santuario della veggente era inammissibile. Le sembrava di essere una criminale intenta a occultare un assassinio. Nonostante la temperatura glaciale, aveva le gote in fiamme. Stava dimenticando qualcosa? Mio Dio! Fa' che nessuno abbia la malaugurata idea di andare a frugare tra quella roba! si disse. Tornò verso il letto. La posizione di Wanaa era del tutto innaturale. Difficile non rendersi conto che stava abbracciando un uomo invisibile. Il corpo nudo lasciava trapelare il trasporto amoroso, l'incurvatura delle scapole era quella dell'atto sessuale. Non c'erano modifiche che Marion potes-
se fare, in quel caso. Penseranno che gli dei la stessero possedendo. Sì, con un po' di fortuna, è questa la versione cui crederanno, si disse. Restava la pelliccia... Il corpo dell'amante aveva impresso la propria sagoma sul letto. Il pelo d'orso si era appiattito sotto di esso. Ancora una volta, Marion si servì del ghiaccio, comprimendolo là dove c'erano segni troppo evidenti. Completò l'opera ricoprendo il giaciglio di vipere pietrificate. Sperava che la presenza dei rettili avrebbe dissuaso i visitatori dall'avvicinarsi troppo. Fece appena in tempo a rialzarsi che un rumore di passi risuonò nella galleria. Marion capì subito che si trattava di Rök. Vinto dall'impazienza, stava venendo a controllare... La giovane corse davanti alla giara e ai due cassoni che contenevano i resti del guerriero sconosciuto. Rök apparve sulla soglia, seguito da Svénia. Aveva lo sguardo fisso, le gambe tremanti. Nell'istante in cui scorse la salma di Wanaa, cadde in ginocchio, nascondendosi il viso tra le mani, e prese a farfugliare parole indecifrabili. Svénia lanciò un'occhiata alla sua padrona. Ha capito che qualcosa non va. Questa vegliarda non manca certo d'intuito, pensò la ragazza. Più Marion osservava il cadavere della veggente, meno fiducia aveva nel suo sotterfugio. Bisognava essere idioti per non rendersi conto che quella donna era morta nell'esatto momento in cui stava per concedersi a un uomo. Il suo corpo era un'ode alla sensualità. Per fortuna c'erano le vipere ad attirare l'attenzione e incutere timore. Forse perfino Rök si era lasciato incantare da quei rettili. «Ti ringrazia per aver ritrovato sua madre», prese a tradurre Svénia. «Dice che sarai ricompensata. Quando morirai, avrai diritto ai funerali di un capo vichingo, là, in cima alla montagna. Verrà costruito un drakar mortuario solo per te. Quanto a questa caverna, vuole che diventi un santuario di cui tu sarai la custode. Dovrai tenerlo in ordine, restaurarlo... un po' alla volta, liberare dal ghiaccio tutti gli oggetti di culto qui presenti. Nessuno sarà autorizzato a varcare la soglia di questo luogo, a parte te... e lui, naturalmente.» Marion abbozzò un inchino, cercando di mostrarsi onorata. «Gli altri membri della tribù», proseguì la serva, «avranno comunque il
diritto di affacciarsi alla porta per contemplare la veggente. Tutti devono sapere che il suo ritorno segna l'inizio di una nuova era. A partire da oggi, le cose miglioreranno, la fortuna tornerà, sconfiggeremo i nostri nemici. Il tempo del dolore è terminato.» Rök continuava a parlare, enumerando gli infiniti vantaggi che la tribù avrebbe tratto dal ritorno di Wanaa, però Marion non lo ascoltava più. Pensava soltanto al modo di sbarazzarsi del corpo fatto a pezzi: era impensabile lasciarlo dove si trovava. Presto o tardi, una volta scemata l'euforia iniziale, Rök si sarebbe interessato degli oggetti presenti nella caverna... Inevitabilmente la curiosità l'avrebbe spinto ad aprire i cassoni, a esaminare il contenuto delle giare. Come reagirebbe, ritrovandosi tra le mani la testa del suo vero padre? Capirebbe tutto. Si renderebbe conto dello stratagemma che ho architettato per occultare la verità. Non potrebbe far altro che uccidermi, per farmi tacere, per assicurarsi che il segreto non trapeli. Devo liberarmi di quel corpo, pezzo per pezzo. Potrei sotterrare i resti sulla montagna... rifletteva la ragazza. Tuttavia non sarebbe stato facile. Svénia l'avrebbe aiutata? Rök si rialzò. Fece segno alle due donne di uscire. Voleva restare solo davanti alla salma della madre. Ammesso che non intenda sollevare il coperchio del cassone, pensò Marion. Una volta raggiunto il corridoio, Svénia le infilò di nuovo le manopole. «Mi dispiace, ma, finché resterai a mani nude, la gente non oserà avvicinarsi», mormorò. Con lo sguardo acuto da vecchia gazza, la donna scrutò il volto di Marion. «Sei sicura che vada tutto bene? Hai un'aria strana. Sembra che tu abbia appena visto un demone. È per via di Wanaa?» «Sì. È inquietante, non trovi?» mentì la ragazza. 23 Rök fece sfilare in processione tutti i membri della tribù davanti al feretro di ghiaccio. Uomini, donne e bambini avanzavano lentamente, l'uno dietro l'altro, nel cunicolo mal intagliato. Una volta raggiunta la soglia della camera mortuaria, gettavano all'interno uno sguardo intimorito, per ritrarsi subito dopo, sollevati di poter cedere il posto a coloro che li seguivano. In effetti, lo spettacolo di Wanaa nuda, che si contorceva su un letto di
vipere, non aveva nulla di rassicurante. Il capotribù annunciò che avrebbe rinunciato al proposito originario di murare la madre nel cimitero riservato agli eroi. Preferiva lasciare il corpo dov'era e trasformare la caverna in una sala di meditazione. In quel modo, Wanaa sarebbe stata ancora più vicina ai suoi. La sera, aprirono i festeggiamenti con una distribuzione di birra e acquavite. Rök andava avanti e indietro lungo le gallerie scambiando brindisi con tutti. Il popolo della città sotterranea fingeva di condividere la sua gioia. In realtà, nella tribù regnava l'inquietudine. I più giovani, coloro che non avevano conosciuto Wanaa, erano rimasti terrorizzati alla vista del sepolcro e alcuni temevano perfino che sarebbe stato sufficiente scaldare il corpo per farlo tornare in vita. Boulba era furente: il suo regno stava per finire, la «strega franca» aveva vinto. Almeno finché l'alcol non cominciò a fare effetto, le risate che risuonarono nella caverna erano poche e forzate. Rök non si fermava un istante, trasfigurato, animato da un'assurda fiducia nel futuro. All'improvviso, mentre risaliva lungo la galleria principale, Marion incrociò lo sguardo di Ragnaar. Il vecchio capo decaduto aveva lasciato il suo rifugio. Se ne stava là, in mezzo alla folla, gli occhi fissi su di lei. La sua espressione intensa e penetrante lasciò la ragazza profondamente turbata. Per un istante, pensò che l'uomo ce l'avesse con lei per aver risvegliato un terribile dolore, per aver riesumato il corpo di sua moglie... Subito dopo, però, fu colta da un dubbio. C'era dell'altro negli occhi del vecchio. Una minaccia unita a una richiesta di complicità. Era come se le stesse mormorando all'orecchio: «Tu e io sappiamo bene come dobbiamo comportarci, non è così?» Marion sentì crescere in sé l'angoscia. Fra tutte le facce rubiconde, accese dalla birra, e le bocche contorte in risate sguaiate, lei vedeva soltanto quel lungo volto livido, corroso dalla barba color cenere, con gli occhi simili a quelli di un lupo. Cosa stava cercando di dirle? Su richiesta di Rök, Svénia fece bere Marion che, a causa delle manopole, non era in grado di reggere da sé i corni colmi di birra. Ben presto, in preda ai fumi dell'alcol, la ragazza cominciò a sentirsi girare la testa. Avrebbe voluto essere sola; quei macabri festeggiamenti l'opprimevano.
D'un tratto, ebbe un'illuminazione. Lui sa, si disse col cuore che batteva all'impazzata. Ragnaar sa che Wanaa non era sola. Era al corrente degli incontri galanti della moglie. Aveva scoperto che lei lo tradiva con un guerriero di una tribù nemica e che aveva concepito un figlio con lui... Sì, ecco cosa esprimeva lo sguardo del vecchio. In quel momento, Marion ebbe l'impressione di sentire la voce di Ragnaar mormorare: «Ho ucciso io quella sgualdrina e il suo lurido amante, l'hai capito finalmente? Sono io che ho provocato la valanga sopra la caverna delle divinazioni, anche se sarebbe stato più corretto chiamarla caverna delle fornicazioni! Avevo scoperto che m'ingannava, che mi aveva preso in giro, attribuendomi una paternità di cui non ero affatto responsabile. Dovevo agire in fretta, prima che la cosa diventasse di dominio pùbblico. Nessuno ancora ne era al corrente, ma ben presto la notizia avrebbe cominciato a circolare. Dovevo prendere una decisione. Si trattava di legittima difesa... E oltretutto avevo paura di lei. Sapevo bene che le sarebbe stato facile sbarazzarsi di me, se solo avesse voluto. Conosceva i segreti dei veleni, avrebbe potuto uccidermi un po' alla volta, senza destare sospetti. Dovevo punirla... dovevo punirli, tutti e due». Sì, di certo Ragnaar le avrebbe detto qualcosa del genere. Le avrebbe confessato quell'antico crimine, commesso all'insaputa di tutti. Un crimine rimasto segreto e impunito per così tanti anni... Ed ecco che, d'un tratto, le ricerche di Marion avevano riportato alla luce la verità. La leggenda del grande amore falciato dal destino rischiava di crollare da un giorno all'altro. Sa che ho camuffato la scena del delitto, pensò la ragazza. Ha capito che ho fatto sparire il corpo dell'amante. Adesso la questione è tra lui e me. Siamo legati da questo segreto. Siamo complici. Marion era sul punto di perdere conoscenza. Aveva paura di Ragnaar. Quell'uomo non aveva esitato a sacrificare metà della tribù per salvaguardare il proprio onore di marito tradito. La valanga aveva sterminato decine di uomini, donne e bambini, ma tutto ciò aveva poca importanza ai suoi occhi. Lui aveva salvato la dignità ed era quello che gli stava a cuore. Ma per il vecchio si andava delineando un'altra minaccia: avrebbe corso il rischio di lasciare in vita la «strega franca»? Poteva permettersi di condividere il proprio disonore con un'estranea? Marion ne dubitava. Gioca a fare il derelitto ed è riuscito a ingannare tutti, me compresa. In realtà, è sufficiente guardarlo negli occhi per rendersi conto che da anni si finge debole. Qualcosa lo tiene in vita... un odio segreto, certo, ma qua-
le? Di cosa voleva vendicarsi? Dell'amante ucciso dalla valanga nell'istante stesso in cui stava per penetrare nel ventre di Wanaa? ... del bambino nato da quel legame adulterino, certo! comprese d'un tratto Marion. Di Rök. Rök che ha preso ingiustamente il suo posto di capotribù. Rök il bastardo. Da quand'era stato destituito da ogni incarico all'interno della tribù, Ragnaar doveva soffrire come un dannato nei fuochi dell'inferno. Era costretto a sopportare la vista di quell'usurpatore, di quel figlio illegittimo che pretendeva di avere il suo stesso sangue e imponeva la propria legge. Quella visione doveva essere sufficiente a duplicare il suo odio e a mantenerlo in vita, nonostante il freddo e le privazioni. Marion era certa che il vecchio stava tramando qualcosa. Organizzava la sua vendetta, attendeva con pazienza l'occasione giusta. Non avrebbe lasciato che un'estranea rovinasse tutto. Se per sfortuna qualcuno avesse scoperto l'esistenza dell'amante, la notizia non avrebbe tardato a diffondersi e ben presto i membri della tribù sarebbero giunti alle stesse conclusioni tratte da Marion. Finché il corpo resterà nascosto nella cripta sarò in perìcolo. Devo sbarazzarmene prima che Rök lo trovi, ragionò la ragazza. Non si faceva illusioni. Sarebbe stato complicato, pericoloso. Non si poteva trasportare un cadavere smembrato lungo i corridoi di una città senza rischiare di essere smascherati. In qualsiasi momento, un bambino avrebbe potuto urtarla, farle scivolare il «sacco» a terra... E inoltre si sarebbero stupiti vedendo la «strega franca» occuparsi di tali incombenze, nonostante indossasse le manopole. Boulba, perennemente in agguato, non avrebbe tardato a sospettare qualcosa. No, decise. Non potrò occuparmene da sola. Avrò bisogno d'aiuto, di un complice. Svénia accetterà di correre il rischio? Per un secondo, pensò a Ragnaar. No, era assurdo, quel vecchio non avrebbe avuto la forza di trasportare il busto di un uomo. Inoltre, ancora una volta, i membri della tribù avrebbero trovato strano vederlo al servizio della strega, lui che, fino a quel momento, aveva evitato ogni contatto con gli altri. Restava soltanto Svénia... Ma non era forse chiederle troppo? Potrebbe spaventarsi. Il rischio è enorme. Non è da escludere che preferisca correre da Rök a denunciarmi. Dopotutto non sono più così indispensabile, ora che ho ritrovato il corpo della veggente, rifletté la ragazza.
Sì, avrebbe dovuto rammentarlo. Con l'esumazione di Wanaa, il suo potere si era affievolito. «Si direbbe che tu stia per svenire. È colpa della birra?» chiese Svénia. «Sì. Ho bisogno di stendermi», mentì Marion. «Da quando sei uscita da quella cripta, sei pallida come Wanaa. Ti vuoi decidere a dirmi cosa ti angoscia?» grugnì la serva. Le due donne si allontanarono dalla confusione per tornare alla camera di ghiaccio, in cui erano già stati preparati i pagliericci. Björn era in giro, allettato dalla prospettiva dell'acquavite. Marion si sedette su un giaciglio. Svénia non le levava gli occhi di dosso. «Dimmi cosa ti tormenta», insistette. «Non sono certa che ciò che stai per sentire ti farà piacere», sospirò la ragazza. Esitò ancora per un istante, ma infine si decise a raccontarle ciò che aveva scoperto. Sussurrava, interrompendosi di tanto in tanto per controllare che nessuno le stesse spiando. Via via che parlava, Svénia si faceva sempre più pallida. «Non è possibile!» farfugliava di tanto in tanto, gli occhi sbarrati per lo stupore. «Sì, invece. Ecco il segreto su cui Ragnaar veglia da anni. E ora lui sa che io so», concluse Marion. «È terribile», replicò la vecchia, ansimando. «Rök è un berserkr: se dovesse scoprire la verità sulle proprie origini, è probabile che entrerebbe in una crisi di follia omicida... Ci massacrerebbe tutti; nessuno riuscirebbe a fermarlo. Potrebbe succedere in piena notte e, a quel punto, passerebbe da un letto all'altro, tagliando la gola alle persone addormentate. Quaggiù, nella città sotterranea, non possiamo chiuderci a chiave da nessuna parte. Sembra che tu non riesca a capire», l'ammonì Svénia, lanciandole un'occhiata irritata, mentre tremava e si torceva le mani. «Nessun guerriero può mettersi sulla strada di un berserkr. Dobbiamo assolutamente impedire che Rök scopra i resti del suo vero padre, a qualunque costo. O sarebbe la fine per tutti.» «Lo so bene», replicò Marion, infastidita. «Allora dovrai aiutarmi a trasportare i pezzi del cadavere all'esterno, in un cesto. Li nasconderemo tra i cumuli di neve e gli orsi e i lupi li divoreranno.» «Non essere sciocca!» sibilò Svénia. «Il corpo è duro come la pietra, i lupi si spaccherebbero i denti. No, è proprio questo il problema: non riusciranno a mangiarlo. Inoltre c'è il rischio che i cani trovino i resti e li portino
all'interno della città.» Marion si morse il labbro. In effetti, non aveva pensato ai cani da slitta che venivano tenuti all'esterno. All'interno della città di ghiaccio diventavano insofferenti, e finivano per insudiciare i corridoi, abbaiare per nottate intere e mordersi tra loro, così li facevano dormire all'aperto per la maggior parte del tempo. «Se ci vedessero lanciare a terra qualcosa, si precipiterebbero subito su di esso, sarebbe inevitabile», brontolò la vecchia. «E così estrarrebbero un braccio, una gamba... che riporterebbero al padrone, è il loro istinto. Pensa a cosa succederebbe se uno di loro dovesse ritornare con la testa del padre di Rök tra i denti...» «Allora dovremo fare in modo di gettare i resti in un burrone. Nessuno andrà a cercarli laggiù», propose Marion. «Non è detto. Dobbiamo fare i conti con la curiosità dei ragazzini. Poi ci sono le figlie di Boulba, che ti stanno sempre alle calcagna. Se dovessero sorprenderti mentre ti stai sbarazzando di qualcosa, sta' pur certa che andrebbero a frugare per scoprire di cosa si tratta.» «Prenderemo le precauzioni necessarie», tagliò corto Marion. «Più facile a dirsi che a farsi. Un corpo è ingombrante. Si chiederanno cosa trasporti così, avvolto negli stracci. Le sentinelle metteranno in giro strane voci», proseguì la vecchia, testarda. «Non abbiamo scelta, l'hai detto tu stessa», insistette Marion. «Non credi che sarebbe meno rischioso lasciare le cose come stanno?» suggerì Svénia. Marion sussultò. «No!» esclamò. «È fuori discussione. Prova a pensarci. Per il momento, sono tutti terrorizzati da Wanaa, non osano avvicinarsi, ma non durerà molto. Si abitueranno alla sua presenza e ben presto lei non susciterà più tanto timore. I bambini cominceranno a gironzolare intorno al sepolcro e ci sarà sicuramente un ragazzino più disinvolto degli altri, che non avrà paura di ficcare il naso tra le cose della veggente. E così scoppierà un putiferio. E poi c'è Rök... Mettiti nei suoi panni. Ha ritrovato una madre di cui si ricordava appena. D'ora in avanti, andrà spesso a renderle visita. S'inginocchierà in raccoglimento davanti alla salma, per chiederle consiglio. La pregherà, la supplicherà d'ispirarlo. E, presto o tardi, sarà vinto dalla curiosità. Gli verrà la tentazione di andare a sollevare i coperchi, di curiosare nelle anfore. Tu non lo faresti, se fossi in lui?» «Sì», ammise Svénia. «Vedi?» riprese Marion. «Ecco perché non possiamo lasciare il cadavere
là dove l'ho nascosto. È troppo esposto. Rök mi ha chiesto di sistemare la caverna, di ripulirla dalle croste di ghiaccio che si sono formate. Ne approfitterò per cercare di ridurre il corpo in pezzi ancora più piccoli, così che non dovremo trasportare parti troppo voluminose. Tu dovrai aiutarmi. Fingerò che in sogno la veggente mi ha detto che non vuole uomini all'interno della sua grotta. In questo modo, terremo alla larga i vichinghi.» «Sì, è una buona idea», convenne Svénia, benché il suo volto terreo indicasse chiaramente che non credeva affatto alla riuscita di un piano del genere. Ora potrebbe tradirmi. Correrà da Rök a raccontargli tutto? pensò Marion. Senza dubbio l'avrebbe fatto, se il capotribù non fosse stato un berserkr. Ma non poteva prevedere la reazione di un guerriero impazzito. No, non avrebbe rischiato, il segreto era troppo grande. Calò il silenzio. Accovacciate nella stanza di ghiaccio, illuminata da una piccola lampada a olio, le due donne ascoltavano gli echi della festa che rimbombavano nei corridoi a volta. Sapevano di essere in trappola, complici forzate di un crimine che non avevano commesso. Per sopravvivere, avrebbero dovuto proteggere un assassino che, in quel preciso istante, stava sicuramente progettando di ucciderle... Una situazione che rasentava la pura follia. Mentre Svénia dormiva, Marion restò sveglia, al buio, ascoltando le risate ebbre che si andavano spegnendo. Infine, quando si udì soltanto il gocciolio dell'acqua che colava dalle volte, tese l'orecchio, aspettandosi di sentire il passo di Rök. Tremava al pensiero che potesse risalire lungo il corridoio principale, in direzione della camera mortuaria. Non osava pensare a cosa sarebbe potuto succedere se avesse scoperto la verità. In Normandia, i contadini le avevano parlato dei berserkr, dei mostri inferociti che sbarcavano dai drakar e massacravano tutti, alla cieca. Non si fermavano davanti a niente. Ne avevano visti alcuni che, con tre frecce infilzate nel petto e il cranio per metà sfondato, proseguivano nella loro carneficina, uccidendo vittime innocenti, come un mietitore falciava il grano con la sua lama tagliente. Sebbene si sentisse esausta, Marion non osava abbandonarsi al sonno. Era perseguitata da ciò che aveva detto Svénia: «... da un letto all'altro, tagliando la gola alle persone addormentate...» Basterebbe un attimo. Sarebbe sufficiente che Rök si chinasse su una
delle giare e decidesse, d'un tratto, d'infilarvi il braccio... Vinta dal sonno, finì per assopirsi, ma, durante la notte, sognò che un'ombra scivolava tra le tenebre per chinarsi sopra di lei e pugnalarla. Un'ombra che aveva in parte i tratti di Rök, in parte quelli di Ragnaar. 24 Il giorno successivo, al risveglio, Marion si stupì di essere ancora viva. Scosse Svénia. Il momento era propizio. Bisognava approfittare dei postumi della sbronza della serata precedente per trasportare fuori i primi pezzi del cadavere. Ancora in preda ai fumi dell'alcol, infatti, gli uomini se ne stavano sdraiati in modo scomposto, semiaddormentati, e le donne non erano certo in condizioni migliori. Scavalcando i vichinghi distesi a terra, la scultrice e la sua serva s'incamminarono verso il sepolcro. Marion sentiva il cuore rimbombarle nelle orecchie. Si tratteneva a stento dal correre. Temeva di trovare Rök assorto in meditazione, ma la camera mortuaria era vuota, dominata soltanto dal corpo di Wanaa, avvolta nella sua sindone di vipere pietrificate. Sulla soglia, Svénia esitò. Marion le fece segno d'entrare. Ansimavano entrambe. Il gelo della caverna trasformava i loro respiri in sbuffi fumosi. «Là, nella giara», bisbigliò la ragazza. Si era convinta che la cosa migliore fosse sbarazzarsi anzitutto della testa. Era la parte più compromettente e anche la più facile da nascondere. Svénia, in preda a un timore superstizioso, non si decideva a prendere in mano quel macabro oggetto. Marion la scosse per un braccio e insieme fecero rotolare la testa in uno straccio per poi posarla sul fondo di un cesto che si erano procurate. Senza perdere tempo, girarono sui tacchi e risalirono lungo il corridoio principale. Le sentinelle, intontite, brontolarono vedendole passare, ma non fecero nulla per fermarle. Marion e Svénia raggiunsero l'esterno, le mani tese intorno al cesto. Tremavano al pensiero di scivolare sul ghiaccio e lasciarsi sfuggire la testa. I cani presero ad agitarsi; avevano fiutato qualcosa d'insolito. Uno dei capimuta ringhiava, sbattendo le mascelle. «Presto, dobbiamo trovare una buca, un crepaccio», disse Marion. Svénia si guardò alle spalle. «Sembrerebbe che le figlie di Boulba non ci abbiano seguito questa volta. È già qualcosa», ansimò. Cercando di mantenersi in equilibrio, le due donne presero a esplorare i dintorni, alla ricerca di una fenditura profonda a sufficienza per gettarvi
dentro il contenuto del cesto. Non ebbero fortuna: intorno a loro, il ghiaccio non presentava aperture. Dovettero spingersi più lontano. «Si chiederanno cosa stiamo facendo quassù. Senza contare che qualcuno potrebbe spiarci dalla cima della montagna», brontolò la vecchia. Marion trasalì. Non aveva tenuto conto di quell'eventualità. Alzò lo sguardo per scrutare il margine del crepaccio roccioso che si estendeva oltre il ghiacciaio, ma era immerso nella nebbia e non riuscì a distinguere nessun movimento sospetto. Dietro di loro, i cani non smettevano di abbaiare. Il comportamento delle due donne li insospettiva. In fondo, erano poco più di lupi addomesticati, sempre all'erta, pronti a mostrare le fauci. «Là, un crepaccio», mormorò finalmente Svénia. Si avvicinarono. Le pareti scoscese della voragine impedivano di determinarne la profondità. «Forza, non possiamo perdere altro tempo. Tra poco le sentinelle usciranno, insospettite dagli ululati dei cani.» Versarono nella fenditura il contenuto del cesto e si soffermarono a guardare la testa che rimbalzava sulle sporgenze del crepaccio, come una roccia gettata dall'alto di una muraglia. Quando finalmente sparì, entrambe trassero un sospiro di sollievo. Un bambino potrebbe infilarsi qua dentro senza difficoltà, dedusse Marion. In particolare, aveva in mente le figlie di Boulba, quelle piccole pesti che le stavano sempre alle calcagna. «Rientriamo. Tra non molto si riprenderanno dalla sbronza. Domani non sarà così facile», disse Svénia, bàttendo i denti. Aveva ragione. Non sarebbe stato altrettanto facile far passare le membra e il busto del morto sotto il naso delle sentinelle. Strette l'una all'altra, si diressero verso l'ingresso della città sotterranea. Le sentinelle le lasciarono passare senza fare domande. Nei due giorni successivi, la tensione divenne palpabile. Marion e Svénia erano sempre all'erta. Rök si aggirava di continuo intorno alla camera mortuaria, rendendo impossibili le mosse di Marion. Il corpo era sempre là, deposto in due cassoni. Marion aveva cercato di frammentare ulteriormente le membra per renderle più semplici da camuffare, ma la presenza di Rök l'aveva convinta a lasciar perdere i suoi pericolosi propositi. Non c'è scampo. Il tempo passa. Tra poco, non avrò più scuse per trattenermi qua dentro. Una volta abbattuto l'ultimo crostone di ghiaccio, si
potrà circolare liberamente nella caverna... pensava la ragazza, vinta dallo sconforto. E non aveva difficoltà a immaginare ciò che sarebbe successo subito dopo. Quella sera, suo malgrado, Marion fu costretta ad abbandonare la cripta. Poteva forse comportarsi altrimenti? Lavorare di notte era impossibile, avrebbe destato troppi sospetti. Non dormì affatto, convinta che Rök, durante le sue ronde notturne, scoprisse il segreto della caverna. Non appena distinse l'eco dei suoi passi provenire dai corridoi, si alzò di scatto dal giaciglio. Per fortuna, Rök era ancora in una fase meditativa. S'inginocchiò ai piedi della salma e rimase a contemplarla, indifferente a ciò che lo circondava. Inoltre il freddo all'interno della camera mortuaria era tale da rendere impossibile rimanere immobili troppo a lungo senza congelare; perciò, con gran sollievo di Marion, dopo un quarto d'ora, Rök fece ritorno ai suoi «appartamenti». La seconda sera, mentre era intenta a spiare il capotribù, Marion avvertì un brusio alle sue spalle. Si voltò in fretta e riuscì a scorgere una delle figlie di Boulba che scappava via. Ne parlò subito con Svénia. «Ah, quelle pesti! Ci staranno sempre tra i piedi», grugnì la serva. «Hanno fiutato qualcosa. Dovremmo escogitare un modo per tenerle lontane dalla camera mortuaria, ma non sarà facile. Mettendoci di guardia davanti all'ingresso, susciteremmo troppi sospetti.» Da quel momento, cercarono di darsi il cambio per controllare almeno il corridoio principale, compito che, in realtà, si rivelò più difficile del previsto, in quanto le numerose svolte presenti nella galleria impedivano di sorvegliarla da un'estremità all'altra. Il mattino del terzo giorno, furono risvegliate da grida atroci. Marion credette che fosse giunta la sua ora. «Si tratta di una delle figlie di Boulba. L'hanno trovata morta in una galleria, qualcuno l'ha pugnalata», la informò Svénia, che era uscita per capire cosa stava succedendo. «Chi è stato?» balbettò Marion. «Non lo so. A ogni modo, l'hanno massacrata per bene. Un colpo di spada, dall'alto al basso, che le ha trapassato il cuore. Boulba è in preda a una
crisi. Chiede vendetta. Penso che sospetti di te.» «Ma non sono stata io!» sobbalzò Marion. «Lo so. E visto che anch'io non c'entro, mi chiedo chi possa essere stato», mormorò Svénia. Marion si alzò. Nonostante la paura d'incontrare Boulba, decise di raggiungere la galleria. La folla si era radunata intorno al corpo della ragazzina. Inginocchiata al centro, la strega proferiva invocazioni incomprensibili, accompagnandole con gesti ipnotici, che disegnavano nell'aria arabeschi minacciosi. Non appena scorse Marion, i suoi occhi si riempirono d'odio. Crede che sia io l'assassina. In effetti, sarei la colpevole ideale, pensò la ragazza. La sorella della piccola morta se ne stava rigida, di fianco alla madre. Anche lei fulminò subito la «strega franca» con uno sguardo accusatorio. Nei suoi occhi non c'era traccia di lacrime. Era come se la cattiveria della sorella fosse passata in lei, rendendola due volte più temibile. Chi aveva pugnalato la bambina? E perché? Marion ormai conosceva abbastanza bene le usanze vichinghe per sapere con certezza che non ci sarebbero state indagini. La vendetta privata era un diritto riconosciuto da tutti, nessuno avrebbe osato contestarlo. Con ogni probabilità, in quel momento la maggior parte dei presenti era convinta che Marion fosse la responsabile di quell'omicidio, ma le sue ragioni riguardavano soltanto lei e per nessun motivo qualcuno avrebbe osato intromettersi in quella spirale di violenza avviatasi con la morte della bimba. Boulba avrebbe tentato di vendicarsi... Se la strega fosse sopravvissuta all'aggressione, avrebbe risposto a sua volta, e così di seguito. Solo Rök sarebbe potuto intervenire per costringere le due donne a porre fine alla contesa... Ma lui aveva ancora bisogno dell'intagliatrice? Non era certo. Dal momento che Wanaa era stata ritrovata, la strega non serviva più a molto. C'erano buone probabilità che Rök non intervenisse per aiutare Marion... L'avrebbe lasciata in balia di Boulba e sarebbe stato versato altro sangue. «Andiamocene da qui. Ha tutta l'aria di una provocazione», grugnì Svénia. «Anche gli altri pensano che sia io l'assassina?» chiese Marion. «Certo. La bambina t'infastidiva. E tutti sanno delle vipere che ti hanno messo nel letto. Non ti criticano, se è di questo che hai paura. Sono affari tuoi, non s'immischiano. Lasceranno che tu e Boulba vi massacriate l'un l'altra in tutta libertà.»
Decisero di rifugiarsi nella camera mortuaria. Là, perlomeno, sarebbero sfuggite agli sguardi dei membri della tribù. Marion afferrò un utensile e si mise all'opera, fingendo di tagliare il ghiaccio. Svénia, nel frattempo, ne approfittò per avvolgere il braccio destro del guerriero morto in uno straccio. Ottenne un oggetto oblungo, che si appese sotto il mantello, quasi fosse un nastro di pelle. Quella protuberanza le conferiva un portamento poco naturale, ma non c'era altra soluzione per svuotare i cassoni senza dare nell'occhio. D'un tratto, la donna lanciò un grido soffocato. «Là, guarda!» esclamò, indicando una piccola macchia sul pavimento. Marion si avvicinò. Era sangue. Due gocce che il freddo intenso aveva trasformato in perle di vetro scarlatto. «La bambina è stata uccisa qui... davanti ai cassoni...» mormorò Marion. «Proprio nel momento in cui ne scopriva il contenuto», concluse Svénia. «Sì. Qualcuno l'ha sorpresa alle spalle. Qualcuno che voleva impedirle di spifferare tutto alla madre», aggiunse Marion. Le due donne si guardarono. Chi, a parte loro, aveva interesse a non far trapelare la verità? Rök? Certo, si potrebbe supporre che non ci tenga a rendere pubblica l'infedeltà della madre... pensò Marion. La teoria era plausibile, ma poco convincente. «Se Rök avesse trovato i resti del cadavere, avrebbe subito ricondotto la cosa alla postura impudica di Wanaa... e la rabbia dell'umiliazione l'avrebbe fatto impazzire. Non si sarebbe limitato a uccidere la bambina, ci avrebbe fatto fuori... tutti», dichiarò Svénia. «Allora è stato Ragnaar», disse Marion. «Sa cosa stiamo cercando di fare. Ha deciso di vegliare su di noi. Per il momento, è il nostro angelo custode. Deve essersi nascosto in una nicchia in prossimità della caverna per fare la guardia. Essendo 'invisibile', nessuno fa caso a lui. Quando ha visto la ragazzina entrare nella grotta, ha subito capito cos'aveva intenzione di fare.» «E così è intervenuto», concluse la serva, annuendo. «Sì, hai ragione. Per ora, è dalla nostra parte. Ha trascinato il corpo nel corridoio centrale... Sapeva che ti avrebbero accusato dell'omicidio, ma anche che nessuno, a parte Boulba, si sarebbe immischiato nella faccenda. Credo perfino che, per alcuni, la morte della bambina sia stata una liberazione. È un bel pezzo che le figlie di Boulba infastidiscono gli abitanti della città, spiandoli di
continuo.» Decisero di sbarazzarsi del braccio nascosto sotto la pelliccia di Svénia. Per evitare che le sentinelle s'insospettissero, Marion avrebbe finto di rivolgere delle invocazioni al cielo, recitando il Pater noster. I suoi gesti avrebbero attirato l'attenzione dei guerrieri, consentendo a Svénia di gettare l'arto in un crepaccio. «Non dimenticare che sei una strega», le disse la vecchia. «Loro si aspettano di tutto da parte di una strega. Canta, danza, agita dei feticci... Fa' in modo d'intrattenerli con un bello spettacolo, così io avrò il tempo di sbrigare le mie faccende.» Fecero come previsto e il sotterfugio funzionò a meraviglia. Marion era così agitata che non si sentì nemmeno ridicola. «Tutto a posto», annunciò infine la serva, ponendo fine alla messinscena della sua padrona. Prima di tornare nei sotterranei, Marion guardò il cielo, cercando di scorgere un raggio di sole tra la nebbia. Come avrebbe voluto essere lontana da quel luogo, fuggire da quella terra barbara! Non riusciva più a sopportare la tensione continua in cui era costretta a vivere. Solo la presenza di Knut avrebbe potuto confortarla almeno un poco, ma il giovane guerriero si era dileguato tra le montagne. Di certo, i nemici, nascosti nella neve, gli avevano teso un agguato, uccidendolo. Non sarebbe tornato mai più. Per la prima volta da quand'era stata rapita, la ragazza ebbe la netta sensazione che non avrebbe rivisto il suo Paese. Le sembrava che le palpitazioni del sole, oltre le nubi, avessero qualcosa d'inquietante, come un cuore che battesse all'interno di una piaga. Ebbe un presagio funesto, sentì che la sua morte era vicina. Ormai ne era certa. La trappola in cui era finita si stava richiudendo su di lei. I suoi nemici l'avevano circondata. Tirandola per un polso, Svénia la riportò alla realtà. «Abbiamo ancora del lavoro da fare», disse, con un tono carico di sottintesi. 25 Perché Ragnaar le proteggeva? Marion era assillata da quell'interrogativo. Quali ragioni aveva? La paura che si sappia in giro che è stato tradito dalla grande veggente... si diceva la ragazza. Riconosceva in quell'atteggiamento la vanità ma-
schile in tutta la sua presunzione. Per non perdere la faccia, l'uomo non aveva esitato ad accoltellare una bambina. Non vuole diventare lo zimbello della tribù. Non è più niente, ormai, ma non vuole ridursi a essere ancora meno, si ripeteva. Quella forma di orgoglio da parte di un derelitto privo di un'identità sociale aveva qualcosa di ammirevole. La morale vichinga era radicata in lui, l'idea di subire un'onta del genere lo ossessionava. Privato di tutto ciò che aveva fatto la sua gloria, si aggrappava all'ultimo brandello di dignità. Voleva morire senza che nessuno venisse a conoscenza del suo disonore, portare il segreto con sé nella tomba. Una sera, non riuscendo più a trattenersi, Marion decise che era giunto il momento di parlargli. Voleva sancire col vecchio una sorta di patto, assicurargli che lei non avrebbe parlato. Faticò a convincere Svénia, dato che la serva aveva paura di Ragnaar. «Ha tutto l'interesse a ucciderci. Potrebbe tagliarci la gola senza temere di essere accusato. È questo che vuoi?» balbettò. «Ma no», disse Marion. «Finché ci sarà ancora un brandello del morto nella cripta non se la prenderà con noi. Ha bisogno di noi per portare a termine il lavoro sporco. Non è forte a sufficienza per trasportare fuori il resto del corpo. Inoltre, spostandosi avanti e indietro, finirebbe per attirare l'attenzione. La gente non è abituata a vederlo muoversi. Sono anni che vive rinchiuso in un tugurio, nutrendosi di rifiuti.» Svénia fece una smorfia. «D'accordo», si arrese infine. «Ma non dire che non ti avevo avvisato. È un furbo. Hai visto che fine ha fatto la bambina?» Riempirono un piccolo paniere di cibo e presero a esplorare le gallerie, alla ricerca del vecchio. Il rifugio dove si trovava di solito era vuoto. Come previsto da Marion, lo trovarono rintanato in una nicchia, non lontano dalla camera mortuaria. Fa la guardia. Se la seconda figlia di Boulba o Boulba stessa s'introducessero nel sepolcro, le ucciderebbe senza esitare, pensò Marion. Tuttavia il vecchio finse di non vedere le due donne e continuò a fissare oltre le loro spalle, come se fossero statue di vetro. «Digli che sappiamo tutto. Cerca di fargli capire che siamo qui per arrivare a un accordo», ordinò Marion a Svénia. «Dobbiamo aiutarci a vicenda, allearci contro Rök e Boulba. Credo sia in grado di capire una cosa del genere.»
Svénia cominciò la sua arringa. Il vecchio l'ignorava. Teneva gli occhi fissi, sembrava più morto che vivo. Quella scena si protrasse per diverso tempo. Quando ormai la serva stava per rinunciare, Ragnaar aprì la bocca e iniziò a parlare con voce roca, inumana. «Dice che ha cercato diverse volte di ucciderti durante il viaggio. Prima ha tentato di distruggere le statue di ghiaccio, perché si sbarazzassero di te. Poi ha lanciato delle frecce contro la nostra tenda, sperando d'inchiodarti al giaciglio durante il sonno», tradusse Svénia. «È stato lui?» farfugliò Marion. «Pensavo si trattasse di nemici della tribù... Ma anche lui è stato colpito durante uno di quegli attacchi, ricordo bene. Aveva una freccia conficcata nella spalla.» «Dice che si è procurato quella ferita da solo, per eludere i sospetti. Per un vichingo non è niente, giusto una lesione superficiale. Era a te che mirava. Non voleva che arrivassi fin quassù. Sapeva che Rök ti avrebbe chiesto di scovare la tomba di Wanaa... E qualcosa gli diceva che ci saresti riuscita. Voleva impedirtelo. Non aveva scelta, doveva ucciderti.» «Quindi sapeva ciò che avrei trovato là dentro?» «Sì, è stato lui a provocare la valanga. Voleva porre fine ai sotterfugi di Wanaa. Ucciderla prima che lo rendesse ridicolo agli occhi dell'intera tribù.» Marion annuì. Anche in quel caso, le sue supposizioni si rivelavano corrette. Tutto si riduceva a una questione d'onore. «Chi era l'uomo? Chi era l'amante?» «Un guerriero di una tribù nomade. Wanaa si era invaghita di lui al punto di convincerlo a disertare. Viveva tra le montagne, in condizioni tremende, e scendeva al ghiacciaio per incontrarla, quando sapeva che si sarebbe rinchiusa nella caverna delle divinazioni», tradusse la serva, dopo un lungo monologo del vecchio. Poi s'interruppe per ascoltare ancora Ragnaar, che aveva ricominciato a parlare, con una curiosa voce gutturale, senza riprendere fiato. «Dice che Wanaa era impazzita a causa del veleno dei serpenti. Il suo sangue era contaminato. Aveva idee strane, pericolose, che avrebbero condotto la tribù alla disfatta. Vedeva nemici ovunque, fomentava gli odi. Incitava i guerrieri a massacrare le tribù vicine soltanto perché sospettava che nutrissero cattive intenzioni nei nostri confronti. Bisognava fermarla. Impedirle di nuocere ancora.» Sarà questa la vera ragione? Voleva davvero salvare la tribù o era solo invidioso dell'ascendente che Wanaa aveva sulla gente? Si sentiva forse relegato a un ruolo subalterno? si chiese Marion. Non aveva risposte a
tutti gli interrogativi sollevati dal comportamento del vecchio capo. Forse lui stesso non sapeva esattamente cosa l'aveva spinto a uccidere la moglie. L'amore tradito? La gelosia? La paura di rendersi ridicolo? Tutte queste cose insieme? «Dice di essere soddisfatto di se stesso per essere riuscito a provocare una valanga senza l'aiuto di nessuno», riprese Svénia. «Dopo l'incidente, poi, è stato capace di convincere tutti che fosse opera di una tribù nemica... Doveva pur trovare una spiegazione. Dei bambini che giocavano tra le montagne, infatti, avevano scorto una sagoma, intenta in manovre sospette. Non erano riusciti a riconoscerlo, per via della distanza e della maschera di cuoio che indossava, ma erano subito corsi a riferire la cosa agli adulti. Era necessario trovare un colpevole... inventare una rivalità. E così è nata la leggenda del nemico fantasma, che perseguita la tribù da anni, senza mai svelarsi.» Marion sollevò una mano, sconcertata. «Aspetta! Voglio essere sicura di aver capito bene... Sta forse dicendo che la tribù non ha nessun nemico?» la interruppe. Svénia gli tradusse la domanda e Ragnaar annuì. «Dice che Rök è pazzo», continuò la donna. «È un bastardo dal sangue infetto. Ha assorbito il veleno delle vipere che gli ha corrotto il cervello. È cresciuto con la convinzione che sua madre sia stata uccisa da un avversario senza nome e senza volto. Un po' alla volta è diventata un'ossessione. Fin da bambino, passava notti intere montando di guardia, nella neve, con la speranza di sorprendere i nemici che si avvicinavano. Li aspettava col suo arco, con le frecce, con un coltello. Aveva appena sei anni. Poi, quand'è diventato capo, ha fatto in modo di dare un seguito alla sua follia.» «Follia?» ripeté la ragazza. Svénia era impallidita. La sua voce era ridotta a un bisbiglio. Rivolse frettolosamente la domanda a Ragnaar, poi si zittì, come se avesse paura di sapere di più. «Allora?» la incalzò Marion, rosa dalla curiosità. «Dice...» ansimò la serva, «... che Rök ha inventato tutto. Che nessuno ha mai perseguitato la tribù. Che gli altri vichinghi non s'interessano a noi: non siamo più abbastanza ricchi o potenti da suscitare l'invidia altrui. Dalla morte di Wanaa, in effetti, non siamo che una nullità... Si sono dimenticati di noi. Gli altri si sono convertiti al cristianesimo e ci considerano dei barbari ancora aggrappati a credenze primitive. Nessuno ha più fede in Odino, nel Walhalla o nelle Valchirie... Noi siamo solo una manciata di sopravvis-
suti che si ostinano a comportarsi come se il tempo si fosse fermato all'epoca gloriosa dei vichinghi e delle loro grandi imprese.» «Rök si sarebbe inventato tutto?» esclamò Marion, scandendo le sillabe. Svénia abbassò gli occhi. «Sì», ammise. «Ragnaar sostiene che lui ha scelto di vivere in un sogno, di rifiutare la realtà. Afferma persino che sia Rök in persona a simulare gli attacchi. La notte, esce dalla tenda senza farsi vedere, poi si nasconde e uccide un cane o una sentinella. Talvolta lancia frecce contro l'accampamento... come qualche giorno fa. Agisce in modo rapido, fulmineo. Infine approfitta della confusione per tornare indietro senza farsi notare. Oppure finge di rientrare da una perlustrazione e di aver visto i nemici fuggire per questo o quel passaggio.» «Ma anch'io ho visto le impronte, l'altra volta, quando ho seguito Rök! Nella neve, in cima alla montagna. C'erano le orme di un gruppo di uomini», obiettò Marion. «Ragnaar sostiene che sia Rök stesso a crearle. Si serve di stampi in legno che poi nasconde in un crepaccio. L'ha visto coi suoi occhi. Rök è l'unico nemico della tribù. Ha imbastito tutta questa storia per darsi importanza e mantenere il gruppo unito. Ha pensato che la paura di questo nemico invisibile potesse servire a creare coesione tra i guerrieri.» Il principio non è sbagliato. È molto probabile che, senza quest'odio comune, un po' alla volta la tribù si sarebbe dispersa. Perché i guerrieri restino uniti, è necessario che si sentano braccati, costantemente in pericolo, rifletté Marion. «Non so se sia il caso di credergli. Chi ci dice che non sia impazzito?» sussurrò d'un tratto Svénia. «Non credo. Ciò che ha detto spiegherebbe molte cose strane. Tu, che sei con loro da molto tempo, hai mai visto, almeno una volta, uno di questi guerrieri fantasma che si suppone minaccino la tribù?» le chiese la ragazza. «No», ammise la serva. «Ma è normale. Nelle vendette non si agisce mai alla luce del sole. Si organizzano tranelli, agguati. Si fa in modo di non essere mai sorpresi. È la regola. In questo modo non si lasciano prove e gli avversari non possono rivolgersi al Ting...» «A cosa?» «Al Ting. È una specie di consiglio che raduna diverse tribù, davanti al quale si discutono le difficoltà comuni, i danni subiti o causati. Infine il Ting emette la sua sentenza... ma non c'è modo di obbligare la gente ad attenervisi. Non esistono sorveglianti presso i vichinghi. Se nessuno ha assi-
stito ai crimini commessi, è più semplice contestare la sentenza dei saggi, piuttosto che metterla in pratica.» Con un gesto, Marion indicò che la logica sottesa a quel modo di governare le sfuggiva del tutto. «Chiedi a Ragnaar perché non ha ucciso Rök. È un bastardo, lo odia, perché non si è ancora deciso ad assassinarlo?» La serva tradusse la domanda. Dal fondo della sua nicchia, il vecchio sorrise debolmente, scoprendo le gengive sdentate. Sembrava stesse riflettendo sulla faccenda, ma infine parlò, con voce colma di tristezza. «Dice che ci ha provato, dieci, venti volte», sibilò Svénia. «Sarebbe stato facile convincere gli altri che l'assassinio fosse stato commesso dai 'nemici' della tribù. Ma, a quanto pare, Rök è protetto dagli dei. Lo avvertono quando il pericolo incombe e fanno in modo che gli sfugga. Rök ha l'istinto di un lupo, presagisce i complotti. È molto sospettoso. Dorme sempre con un occhio aperto e si sveglia al primo rumore. Più volte, nel mezzo della notte, Ragnaar ha cercato di raggiungere la sua tenda, coltello alla mano. Ma ogni volta è stato costretto a rinunciare, perché il bastardo si è svegliato di soprassalto. Ragnaar dice di essere troppo vecchio per poter affrontare una lotta a corpo a corpo con un uomo giovane. Ha atteso invano che giungesse l'ora di Rök, sperando in un miracolo che non è mai avvenuto.» «Ho capito», tagliò corto Marion. «Mi rendo conto delle sue difficoltà, ma adesso è venuto il momento di concludere il nostro patto. Deve aiutarci. Dobbiamo riuscire a trasportare il corpo all'esterno prima che Boulba ci scopra. È nell'interesse di tutti noi.» «È d'accordo», annunciò Svénia. «Ecco perché ha ucciso la seconda figlia di Boulba. Aveva aperto i cassoni e stava per lanciare un grido d'allarme. Era stupida, spinta dal desiderio di fare del male. Troppo idiota per rendersi conto che Rök si sarebbe infuriato e le avrebbe subito mozzato la testa... Dice che, quando Rök si trasforma in berserkr, niente può fermarlo, nessun guerriero è in grado di abbatterlo. È completamente dominato dalla follia della carneficina. E questo per via del veleno delle vipere sacre... anche sua madre era come lui. La follia... è il prezzo che ha dovuto pagare per essere una veggente.» Continuava a parlare. Quell'uomo, che non aveva aperto bocca per anni, d'un tratto era diventato incontenibile. Marion insistette per riuscire a stabilire un accordo. «Accetta il patto», dichiarò infine Svénia. «Ora non ha più bisogno di
ucciderti, il danno è fatto. Wanaa, quella sgualdrina, è stata estratta dal ghiaccio. Dice che bisogna tenere d'occhio la terza figlia di Boulba, anche se lui non avrà difficoltà a eliminarla. Tuttavia non è certo di poter affrontare la strega. Boulba è potente e lui è troppo vecchio. Afferma che il vero pericolo verrà da lei. Si vendicherà, questo è sicuro. Dovremo restare in guardia.» «Non voglio che uccida la ragazzina. Sarà sufficiente impedirle di entrare», precisò Marion. «Dice che sei troppo sensibile. Che non bisogna avere certi scrupoli con quelle streghe. Se non le uccidi tu, saranno loro a uccidere te», tradusse la serva. Marion non aveva voglia di discutere. Era venuto il momento di porre fine a quella conversazione prima che i loro bisbigli finissero per incuriosire qualcuno che non riusciva a prendere sonno. Le due donne si allontanarono, lasciando Ragnaar accovacciato nella sua nicchia di ghiaccio, una bizzarra mummia dagli occhi scintillanti. Per tre giorni interi, non fecero altro che escogitare i trucchi più svariati per far sparire i resti del guerriero senza nome. Svénia pensò di allestire una specie di altare sul ghiacciaio, in prossimità del crepaccio. A tal proposito, trasportò all'esterno tappeti, torcere e strane divinità che Marion aveva intagliato in tutta fretta nel legno tenero. Quella paccottiglia religiosa - i tappeti in particolare - serviva per dissimulare il cadavere fatto a pezzi dell'amante di Wanaa. Mentre Marion si esibiva, recitando in tono enfatico il Credo e improvvisando danze «magiche», Svénia si sbarazzava degli ultimi brandelli, facendoli cadere in fondo alla voragine. Quando nella caverna non restò più nulla di compromettente, le due donne trassero un sospiro di sollievo. Meglio non cantare vittoria troppo presto. Boulba non e una stupida. Si starà chiedendo il senso di questa mascherata. E ben presto potrebbe dare un'occhiata nei dintorni... pensò Marion. Dovevano fare affidamento sulla profondità del crepaccio. C'era di positivo che i resti del cadavere giacevano ormai almeno cento cubiti sotto terra. Intrufolarsi in quell'insenatura presentava rischi evidenti, in quanto le pareti erano estremamente lisce. Boulba avrebbe avuto il coraggio di spedire là sotto l'ultima delle sue figlie? Non appena la camera mortuaria fu sistemata, Rök vi s'installò per le sue
meditazioni, che si facevano via via più lunghe. Talvolta lo si sentiva bisbigliare. Svénia spiegò a Marion che si rivolgeva alla madre, portando avanti con lei una strana conversazione, come se la morta potesse rispondergli. Marion si chiese se l'esumazione della veggente non avesse aggravato la pazzia del capotribù. «Cosa le dice?» chiese alla serva. «Niente di confortante», brontolò Svénia. «La ringrazia per averlo messo in guardia contro la presenza dei nemici. Sembra stia elaborando con lei un piano d'attacco. Si comporta come se si stesse preparando a partire per una guerra. La situazione è piuttosto preoccupante, perché Wanaa ovviamente gli risponde ciò che lui vuole sentirsi dire. Alimenta i suoi cattivi propositi. Temo sia giunta l'ora di una spedizione armata contro le tribù della montagna. Rök ha deciso di farla finita con loro una volta per tutte. Non sopporta più le loro persecuzioni. Ha già parlato ai guerrieri. Ha detto loro che non hanno nulla da temere, ora che la veggente veglia su di loro. Quando comincerà la battaglia, loro diventeranno invincibili.» «E tu cosa ne pensi?» chiese Marion. «Credo che non siamo abbastanza numerosi. A meno di agire di sorpresa, o di attaccare i nemici durante il sonno, per noi sarà la fine.» Quelle informazioni non fecero che confermare i sospetti di Marion. Da qualche giorno, l'atmosfera nella città sotterranea era cambiata. Gli uomini erano sempre più nervosi e passavano il tempo ad affilare le spade e a sistemare le cotte di maglia. Quei giovani, il cui unico desiderio era di distinguersi in battaglia, soffrivano per l'inattività prolungata. Sono degli esaltati, proprio come Rök. Il capotribù parla la loro stessa lingua. Sta offrendo loro un'occasione per impegnarsi in battaglia e loro non se la lasceranno scappare, pensò Marion. Quegli uomini non amavano la pace e si annoiavano in fretta. La pace non li avrebbe condotti alla gloria, non li avrebbe resi celebri guerrieri. Inoltre la pace non piaceva agli dei. Odino, Thor e gli altri apprezzavano solo l'audacia, il valore... Ecco perché era così importante partire per la guerra al più presto, prima di diventare troppo vecchi, prima che l'età li indebolisse al punto di non riuscire più a reggere una spada! Avevano un'idea fissa: morire giovani per non subire la vergogna di essere considerati troppo prudenti. Sono degli imbecilli, pensò Marion. Così sicuri di sé, così... uomini! 26
Una sera, dopo cena, Marion avvertì un senso di vertigine. Le cose e i volti divennero sfocati e lei si sentì tremare le gambe. Dovette reggersi a una parete per non cadere. La voce di Svénia le giungeva da lontano, come se la serva le stesse parlando dall'altro capo di una galleria. «Cosa c'è che non va? Cos'hai? Sei così pallida!» le diceva. La ragazza cominciò a sentire uno strano torpore che si diffondeva prima nelle membra e nel ventre e poi si irradiava fin dentro il petto. Era al tempo stesso rovente e gelido; le paralizzava le mani, la lingua, il cervello... Dio mio! Ci siamo! Sono stata avvelenata! pensò subito. Cadde a terra, rigida, incapace di abbozzare un gesto per attutire la caduta. Era come una statua vivente. Immobilizzata, rigida dentro un corpo insensibile quanto il legno. Solo la sua coscienza palpitava ancora, un piccolo nucleo che si ostinava a vivere in mezzo a una massa inerte. È giunta la mia ora? Chi mi ha ucciso? Chi mi ha messo del veleno nel cibo? si chiese. Boulba, certo... o sua figlia. L'una o l'altra avevano approfittato di una distrazione della serva per versarle qualcosa nella scodella. Svénia era troppo sbadata, sempre intenta a fare mille cose contemporaneamente, quindi doveva essere stato fin troppo semplice per loro: un gesto, un piccolo gioco di prestigio... e la polvere si amalgama al brodo. La strega mangiava sempre per prima, Svénia l'imboccava, per via delle manopole di ferro. Non era difficile identificare la sua scodella. Un gesto così... quasi distratto. E la vecchia che non si accorge di nulla, sempre intenta a brontolare tra pentole e tegami. Un gesto, e la morte arriva... si posa sul piatto. Marion non riusciva nemmeno a sbattere le ciglia. Il suo corpo non le apparteneva più. Si era trasformato in qualcosa di... estraneo, in un oggetto che non aveva nulla a che fare con lei. L'avevano fatta stendere sul pagliericcio. Svénia si agitava, gridando. Björn si chinò sulla ragazza, per esaminarla. Sul suo viso si dipinse una smorfia che non prometteva niente di buono. Marion aveva perso il senso del tempo. Le immagini si accavallavano, senza che lei fosse in grado di stabilire se fosse passato un minuto, oppure se fossero trascorse diverse ore, tra l'una e l'altra. Se ne stava distesa nel suo giaciglio, come un albero abbattuto che riposava su un letto di foglie morte. Intorno a lei si accalcavano i volti. Un gruppo, una folla. I membri
della tribù, curiosi e tesi. La ragazza poteva indovinare i pensieri delle donne dalle loro espressioni: «C'era da aspettarselo, dopo l'assassinio della ragazzina... La vendetta continua. Questa volta toccava a Boulba colpire. È normale. A ognuno il proprio turno, è la legge della vendetta». Marion si sforzava di lottare, ma invano. Quella sua lotta non aveva nessun effetto sul mondo reale. Sono già un fantasma. Uno sbuffo di fumo pensante, si disse. Arrivò Rök, si chinò su di lei e pronunciò qualche parola. Marion conosceva la lingua norrena a sufficienza per capire che stava chiedendo di chiamare Boulba per un consulto. Era il colmo! L'avrebbero fatta «curare» proprio da colei che l'aveva avvelenata! Boulba ci mise un'eternità a presentarsi. Quando apparve, aveva l'aria sprezzante, gli occhi ridotti a due fessure. Si abbassò per sentire il cuore di Marion e la ragazza si accorse che increspava le labbra, per dissimulare un sorriso. Infine si limitò a sentenziare: «È morta...» scandendo bene le sillabe, così che Marion comprendesse il senso di quella condanna. Svénia scoppiò in lacrime, Björn si lasciò cadere in un angolo. È morta... La folla stava già scemando. Quel piccolo dramma aveva perso interesse agli occhi della gente. Rök improvvisò un breve discorso, in cui pronunciò parole come «funerali importanti» e «drakar». Se ne infischia. A ogni modo, non aveva più bisogno di me, ero diventata un impiccio. Organizzerà una bella cerimonia e mi pianterà da qualche parte, nella neve. Dopodiché si affretterà a dimenticarmi, pensò Marion. Durante tutto quel tempo, Boulba non aveva smesso di fissarla. Marion si rese conto di ciò che l'aspettava. Non sarebbe morta per effetto del veleno, perché quella droga l'aveva semplicemente paralizzata, rendendo il suo corpo rigido come quello di un cadavere. Gli effetti sarebbero durati abbastanza a lungo perché la seppellissero viva! Ecco qual era la vendetta di Boulba... Costringere la sua nemica ad assistere alla propria cerimonia funebre. Marion non poteva muoversi né gridare. Si sarebbe vista calare nella tomba senza poter fare nulla per impedirlo. Una fine atroce e ingiusta, dal momento che non era lei la responsabile della morte della bimba. «È morta», ripeté Boulba. «Bisogna liberarsi di lei subito, perché i franchi imputridiscono in fretta.» Marion sentì quelle parole trafiggerle il petto come frecce, anche se in realtà non era in grado di determinare se la strega le avesse pronunciate davvero o se fossero soltanto frutto della sua immaginazione.
Boulba si ritirò. Le donne avrebbero dato il via alla vestizione funebre. Forse si accorgeranno che sono ancora viva! Il mio cuore deve battere ancora, per forza... Lo sentiranno posandomi le mani addosso, si augurò Marion. Quel pensiero la tranquillizzò. Per quanto avesse la pelle ghiacciata e le membra rigide come se fosse davvero morta, il cuore non aveva smesso di palpitare. Le prefiche se ne sarebbero certamente accorte, avrebbero dato l'allarme, loro... Trascorsero diverse ore, o almeno così parve a Marion. Ma, in realtà, quanto tempo era passato? Si sforzava di muoversi, senza riuscirci. Cercava di concentrarsi sulle dita delle mani, dei piedi, per spostarle... ma erano davvero le sue dita, quelle? Il suo alluce? Il suo pollice? Non ne era affatto sicura. Esitava, un'anima errante a un incrocio di più strade, ognuna delle quali portava verso luoghi sconosciuti. Aveva abbandonato il suo corpo, lo vedeva dall'esterno, come un'enorme armatura, fusa con una lega di metallo inamovibile. Un'armatura concepita per uno di quei giganti che apparivano così spesso nelle favole dei vichinghi. L'istinto le suggeriva che si stava sbagliando a proposito della sepoltura... I vichinghi non procedevano in quel modo. Non per i capi, a loro riservavano una cerimonia in grande stile... Cosa le aveva raccontato Svénia? Cercò disperatamente di ricordarsene. Non si limitavano a scavare una fossa, ma... Ma cosa? Non lo ricordava, ma di certo era qualcosa di terribile... E dov'era andata Svénia? Perché non era lei a occuparsi della «salma» della sua padrona? Le donne arrivarono per la vestizione. Bisbigliavano tra loro, guardandosi in continuazione alle spalle. Avevano paura di Boulba. Spogliarono Marion, evitando di sfiorare le manopole, e le cosparsero la pelle di unguenti profumati. Sono viva, non vedete? Non potete far finta di niente! Il mio cuore batte! Dovete sentirlo... Perché non lo sentite? avrebbe voluto gridare la ragazza. Le donne si scambiavano sguardi e non chiacchieravano più. Per un istante, Marion le sentì esitare e s'illuse di essere salva, ma subito dopo le donne si riscossero e ripresero il lavoro come se niente fosse.
Hanno capito che sono viva. Devono averlo percepito entrando in contatto col corpo, ma non vogliono immischiarsi! Si tratta della vendetta di Boulba, certo! Loro non metteranno il naso nei suoi affari. Hanno paura della strega. Non faranno niente che fossa contrariarla. Sono in trappola! pensò Marion. Il panico l'assalì. Se almeno potessi piangere... Vedrebbero le lacrime e non potrebbero più ignorarmi! Ma sarebbe stato davvero così? Una volta cosparsa di unguenti, la vestirono con un abito nuovo e le intrecciarono i capelli. Le dita delle donne s'infilavano tra la sua chioma quasi senza che lei se ne accorgesse. Faticava a concentrarsi. Più di una volta, ebbe l'impressione di essersi assopita per qualche secondo, quando in realtà erano passate diverse ore. Infine la lasciarono sola in una stanza di ghiaccio, con un piccolo lume acceso alla testa del letto. La ragazza si rese conto, terrorizzata, di essere distesa su uno strato di pellicce, vestita di un semplice abito di cotone, oltre alle manopole. Se l'attesa si fosse prolungata troppo, sarebbe morta assiderata. Cosa le aveva raccontato Svénia a proposito dei funerali vichinghi? Al tempo quei discorsi mi annoiavano, fingevo soltanto di starla ad ascoltare. Se avessi saputo... ricordò Marion. Costruivano una nave fittizia. Il simulacro di un drakar realizzato con tavole leggere. Ricreavano una sorta di scenario funebre, un vascello sul quale il defunto si sarebbe imbarcato per raggiungere l'Åsgard, la dimora degli dei. E poi... E poi cosa? Mi sembra che succedesse qualcosa di brutto... pensò la ragazza. Non riusciva a concentrarsi. Aveva l'impressione di affannarsi per afferrare una sfera d'avorio levigato con le mani unte di grasso. E poi... Ragnaar venne a farle visita. Era ancora notte, forse? Si soffermò a lungo a guardarla. Con la punta delle dita, le toccò la carotide. Doveva aver capito che era ancora viva, perché le gettò addosso una pelliccia, per proteggerla dal freddo, tuttavia non fece nulla per dare l'allarme. Chi avrebbe
prestato ascolto all'«invisibile»? 27 Quando la sollevarono per trasportarla fuori della stanza, Marion riprese conoscenza. Sentiva che il corpo era meno insensibile rispetto alla sera precedente, eppure non aveva ancora recuperato il controllo. In un primo momento, credette persino di poter gridare, ma dalle sue labbra non uscì nessun suono. Avvertì indistintamente le mani delle donne su di sé, mentre la sistemavano su una lettiga. L'effetto della pozione stava diminuendo. Ma non abbastanza in fretta. La trasportarono lungo i corridoi. La ragazza vedeva la volta di ghiaccio scorrere sopra di sé. La processione era accompagnata da strani canti. La luce del giorno l'infastidì. Il veleno le rendeva quei raggi insopportabili. Avrebbe voluto coprirsi gli occhi con le mani, ma era impossibile. Si era formato un corteo che serpeggiava sul ghiacciaio e che si stava dirigendo verso la montagna. Distesa sulla lettiga che le donne portavano in spalla, Marion non poteva voltarsi per vedere cosa succedeva alle sue spalle. Nel suo cervello, ogni rumore si ampliava, assumendo la forma di un lamento senza fine. Era come se l'intera tribù fosse composta da lupi che ululavano alla luna. Lasciarono la superficie del ghiacciaio per inerpicarsi lungo il fianco della montagna. Marion si sentiva molto debole. Non rammentava quando aveva mangiato per l'ultima volta. Quanti giorni erano passati da quando l'avevano dichiarata ufficialmente morta? Dov'è Svénia? Perché non viene ad aiutarmi? si chiedeva la ragazza. Rök procedeva in testa. Indossava la sua armatura più bella. Non aveva badato a spese per la cerimonia. La morte della «strega franca» lo liberava di un peso inutile. Non avrebbe saputo che farsene di quella ragazza ribelle, di cui gli uomini avevano paura. E poi Boulba era una di loro, conosceva le loro usanze; la tribù aveva fiducia in lei. Immaginava che ci fosse una disputa in corso tra le due donne, ma Boulba si era dimostrata più abile e quella era la prova che era lei la migliore, quindi lui non aveva niente da dire. Marion sperava che le donne facessero un passo falso, rovesciando la lettiga. Una caduta nella neve, forse, sarebbe servita a risvegliarla da quello stato di torpore. Se fosse riuscita a lanciare un grido, uno solo...
Non è nemmeno certo. Queste sgualdrine sarebbero capaci di cantare più forte, per coprire i miei lamenti, pensò. La sua morte, in realtà, metteva d'accordo tutti. Nessuno aveva interesse a vederla tornare nel mondo dei vivi. Sulla vetta, scorse la sagoma del drakar funerario. Era il simulacro di una vera imbarcazione, un falso realizzato con legno di seconda scelta, eppure, ottenebrata dalla droga, Marion credette di essere tornata indietro nel tempo, di trovarsi di fronte all'arca di Noè costruita da Noctus, l'angelo dalle ali mozzate. Cosa le aveva detto Svénia, dunque? Solo i capitribù avevano diritto a quel tipo d'imbarcazione; per gli altri, la maggior parte delle volte, ci si accontentava di scavare nel ghiaccio una buca che avesse la forma di una barca, o di realizzarne una con fascine intrecciate. La costruzione di un drakar richiedeva troppo tempo perché si potesse pensare a realizzarne uno nuovo per ogni decesso. Gli danno fuoco... ricordò Marion all'improvviso. Sì, una volta sistemato il cadavere sul ponte, si servono dell'imbarcazione se come fosse una pira. Dio mio! L'avrebbero bruciata viva! E lei avrebbe assistito alla sua morte. Probabilmente non avrebbe nemmeno sofferto. Il suo corpo era più insensibile di un tronco di quercia. Avrebbe visto la pelle annerirsi, ricoprirsi di bolle e le membra carbonizzarsi, senza provare il minimo dolore! Si sentì assalire dal terrore, ma, nonostante quel fremito, la sua carne non si rianimò. Le donne s'incamminarono lungo una passerella che conduceva al ponte. La cerimonia era stata curata in ogni dettaglio: la nave funebre sembrava a tutti gli effetti una vera imbarcazione. Con una differenza: lo scafo dev'essere pieno di fascine imbevute di pece. Non appena appiccheranno il fuoco, questa carcassa s'incendierà, si disse la ragazza. Le donne sistemarono la lettiga sul ponte. Per la prima volta da quand'era sotto l'effetto del veleno, Marion avvertì l'impatto con le assi a terra. Una sensazione molto vaga, lontana... tuttavia era la prova che il torpore stava svanendo. Ecco perché Boulba sta facendo di tutto per accelerare la cerimonia. Sarebbe una bella scocciatura per lei se all'improvviso mi sollevassi dalla lettiga! pensò, scorgendo la donna che si sbracciava in mezzo alla folla.
Sentì riaccendersi la speranza e si concentrò sulle mani, sui piedi. Avrebbe voluto sentire un formicolio, quel fastidio tipico che segna la fine dell'immobilità. Eppure non successe nulla. Con la coda dell'occhio, si sforzò di seguire ciò che stava succedendo intorno all'imbarcazione. Non capiva una sola parola di ciò che andava declamando Boulba. Si era alzato un vento tagliente e sembrava che tutti non vedessero l'ora di concludere la cerimonia. Due donne portarono avanti Svénia, in abito da cerimonia. La vecchia tremava e aveva lo sguardo assente. Fu allora che Marion ricordò la tradizione di sacrificare un familiare del defunto. La sacerdotessa svolgeva la funzione del boia e tagliava la testa alla sposa o alla concubina del morto. Nel caso l'uomo non avesse parenti prossimi, ci si accontentava di una serva o di una schiava. Si diceva che le vittime si offrissero volontarie. In realtà, venivano drogate, perché si mantenessero in uno stato che rasentava il sonnambulismo. Era chiaramente il caso di Svénia, che faticava a tenere gli occhi aperti, e si sarebbe senza dubbio accasciata a terra se le due donne non l'avessero sorretta. A un gesto di Boulba, ripresero i canti. Marion capì che avevano lo scopo di coprire eventuali gemiti della vittima sacrificata. Da qualche tempo, la strega mostrava segni d'impazienza, e continuava a lanciare occhiate in direzione del drakar. Sapeva bene che gli effetti del veleno stavano svanendo e che era necessario dare fuoco all'imbarcazione al più presto. Se la donna si fosse risvegliata, tutti avrebbero pensato che fosse tornata dal regno delle ombre e il suo potere si sarebbe consolidato. Dopo un'impresa del genere, il suo ascendente sulla tribù sarebbe stato enorme. Avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa. La testa di Boulba, per esempio... Fecero salire Svénia su una pedana. La tradizione voleva che dichiarasse di voler passare attraverso le porte dell'Åsgard, la dimora degli dei, e di vedere scintillare Bifrost, l'arcobaleno magico che lo raggiungeva. Ma la serva era sul punto di addormentarsi, così dovettero scuoterla a più riprese per farle pronunciare quelle parole. Marion avrebbe voluto urlare. Aveva finito per affezionarsi a quella vecchia arpia - serva e all'occorrenza protettrice -, sempre in cerca del modo migliore per accrescere il prestigio della sua pupilla. Nonostante le sue piccole macchinazioni per trasformarla in una sorta di sgualdrina, Marion provava una certa tenerezza per quella donna che aveva dimenticato le proprie origini. È l'immagine esatta di ciò che potrei diventare io nel giro di qualche anno... aveva pensato più volte, osservando Svénia darsi da fare
con pentole e calderoni. Le donne presero a spingere la serva in direzione del vascello funerario, ma Boulba ordinò di fermarsi e diede loro il cambio. Nella mano destra teneva un coltello. Passò un braccio intorno alla vita di Svénia e la sostenne lungo la passerella. Marion lottava contro la sua immobilità. Avrebbe voluto alzarsi, saltare alla gola della strega, strapparle il coltello e spingerla oltre il fianco della nave... No, era una vera ingiustizia! Boulba non poteva vincere in quel modo! Doveva succedere qualcosa, doveva... Non appena ebbe raggiunto il ponte, Svénia cadde in ginocchio, incapace di reggersi sulle gambe. Boulba si voltò verso Marion e pronunciò qualche parola, sghignazzando. È il suo trionfo! È riuscita a eliminarmi, comprese Marion. La strega colpì Svénia con un gesto rapido. La lama descrisse una breve scia prima d'infilarsi nella gola della vecchia. Marion lanciò un grido silenzioso... ma rimase inerte. Svénia cadde in avanti, la veste ricoperta di sangue fino alla vita. Non aveva emesso nemmeno un gemito. L'impatto della sua testa contro il ponte rimbombò lungo le assi, provocando a Marion un vago tremore sotto le reni. C'era ancora una speranza che riacquistasse la mobilità una volta incendiata l'imbarcazione? Le sarebbe bastato sedersi, inginocchiarsi e avrebbero interrotto la cerimonia... Non doveva aspettare ancora, però, altrimenti il fumo l'avrebbe nascosta agli occhi degli spettatori. Boulba le voltò le spalle e si affrettò a scendere dalla passerella. Aveva visto che la «strega franca» cominciava a muoversi. Bisognava agire rapidamente. Afferrò una torcia infilata in cima a un palo e corse intorno all'imbarcazione, per dare fuoco alle fascine sistemate sotto lo scafo. Erano ramoscelli secchi che lei stessa aveva selezionato. Il vascello avrebbe preso fuoco all'istante, con un gran frastuono, e tutto sarebbe finito. Molti erano dispiaciuti per la perdita di tutto quel legno, di assi tanto preziose, lassù, in quella regione montagnosa, priva di alberi. In segreto, maledicevano Rök per aver riservato alla strega quel funerale solenne. La tribù non poteva permettersi di dilapidare in quel modo le proprie scorte. Sembrava che il capo non si rendesse conto di quanto si stessero impoverendo, un anno dopo l'altro. Le spedizioni sulle coste straniere non erano più redditizie. Diventava sempre più difficile sorprendere il nemico, troppo potente o, al contrario, troppo povero... Le campagne degli ultimi tre anni
erano state fallimentari. E... Mentre i vichinghi erano assorti nelle loro riflessioni rancorose, lo scafo del drakar aveva cominciato a fumare. Le fiamme s'innalzarono, crepitando, divorando con bramosia quel simulacro. Il dragone a prua si era ormai trasformato in una torcia. Si aveva l'impressione che, a furia di sputare fuoco, quella bestia leggendaria avesse finito per incendiarsi, vittima del proprio nefasto potere. Marion non percepiva gli effetti del calore. Sto cuocendo senza neanche rendermene conto! si disse, cercando di distinguere le estremità del proprio corpo. Era terribile! Forse, in quel momento, aveva già i piedi in fiamme... Vedrò il mio corpo ridursi in cenere, pensò, sforzandosi invano di voltare il capo. Poteva contare soltanto sulla vista e sull'udito; gli altri sensi l'avevano abbandonata. Non le giungeva più nemmeno l'odore acre del fumo. La terrorizzava soprattutto la prospettiva di restare cosciente mentre il suo corpo si carbonizzava. Nonostante la sofferenza, non avrebbe avuto il privilegio di perdere i sensi, era condannata a vedersi bruciare sino alla fine... sinché il fuoco non le fosse penetrato in gola, nei polmoni, per arrostirla dall'interno. A che punto erano le fiamme? Si trovavano distanti o vicine? Cominciò a sperare che il fumo le impedisse di respirare. Sì, con un po' di fortuna sarebbe asfissiata... Non vedeva più niente. Da destra a sinistra, da prua a poppa, la nave era avvolta in una cortina di fuliggine. Ben presto le fiamme avrebbero attaccato il ponte... Marion avvertiva un vago formicolio alle braccia, alle gambe, ma non era in grado di stabilire se fosse causato dall'incendio o se davvero i suoi sensi si stessero risvegliando. Sto andando a fuoco! In realtà, questa sensazione è la mia carne che brucia, il mio sangue in ebollizione... Oh, mio Dio! Sto andando arrosto come un quarto di manzo... pensò con orrore. Avrebbe voluto perdere i sensi, ma la sua mente non si lasciava andare all'oblio. Era circondata da grandi bagliori in movimento, bagliori rossi, gialli... Le assi della nave cigolavano, in balia della loro potenza. Sembrava quasi che gli alberi di un'intera foresta stessero per rompersi e abbattersi al suolo. È la fine. Non ho più speranze, ormai... si disse Marion. Nell'istante esatto in cui formulava quel pensiero, il ponte cedette sotto il
suo peso e lei cadde in un incavo buio. Terrorizzata, pensò di essere finita nel cuore stesso del braciere, ma, con sua grande sorpresa, si rese conto che, al centro dello scafo, non erano state ammucchiate le fascine. I fianchi del finto vascello erano in fiamme, però la nicchia in cui lei si trovava non era altro che un ammasso di fango. Il fuoco, fondendo la neve, aveva creato sul fondo una specie di piccola palude, in cui Marion era sprofondata. Sono sfuggita all'incendio e adesso rischio di annegare! pensò. Avrebbe avuto voglia di ridere, di un riso disperato. Finalmente giunse l'oblio e lei vi si abbandonò con piacere. 28 Quando riprese i sensi, tutt'intorno era buio. Anche se fosse riuscita a fregarsi gli occhi, Marion non avrebbe potuto vedere niente. I detriti dello scafo avevano ceduto, formando un tettuccio al di sopra della poltiglia fangosa in cui lei giaceva. Le assi, ridotte a tizzoni carbonizzati, emanavano ancora calore e avevano impedito all'acqua di congelarsi. Avrebbe voluto muoversi, sollevarsi da quel pantano di neve fusa, ma il suo corpo si rifiutava di obbedire. Era ancora paralizzata. Una volta che i resti del vascello si saranno raffreddati, questa poltiglia si solidificherà e mi ritroverò intrappolata in una morsa, proprio come Wanaa. Non sono morta bruciata, ma morirò assiderata, gemette tra sé la giovane. Dov'erano gli altri? Senza dubbio, erano rientrati nella città sotterranea. Come me la caverò se mai dovessi riuscire a muovermi prima che il ghiaccio faccia presa? Non ho vestiti, né un rifugio. Non riuscirò a sopravvivere a lungo in queste condizioni, rifletté. Tornare dalla tribù? No, era fuori discussione. Boulba si sarebbe subito data da fare per cercare un nuovo modo di eliminarla. Dovrei approfittarne per tornare a valle. Laggiù è primavera, non sarà difficile vivacchiare, rubando un po' di frutta, si disse. Ma non si faceva illusioni. Era una donna, sola, straniera, in un Paese di cui conosceva a stento la lingua. Nel giro di poco tempo, sarebbe stata catturata e ridotta in schiavitù e avrebbe vissuto in condizioni assai meno agiate rispetto a quelle che le aveva riservato Rök. Il capotribù la credeva una maga, una creatura fuori del comune; gli altri l'avrebbero trattata come una sguattera, buona giusto a sollevare le sottane in un angolo del pagliaio.
Ancora una volta, fu assalita dal presentimento che non sarebbe tornata mai più nel suo Paese. Forse sarebbe stato meglio farla finita, morire in quel sepolcro di ghiaccio, come la grande veggente. Marion era immersa nelle sue riflessioni quando fu abbagliata da un raggio di sole. Qualcuno stava spostando le assi carbonizzate, creando un passaggio tra i detriti. Apparve un volto. Ragnaar. Il vecchio s'infilò nella fenditura. Si muoveva lentamente, fermandosi per riprendere fiato. Si chinò sopra Marion, la prese sotto le ascelle e la estrasse dalla poltiglia di neve sciolta. Approfittando del relativo tepore che regnava in quel rifugio, le strappò i vestiti e le pulì la pelle con uno straccio appallottolato. La manipolava come se stesse strigliando una giumenta sporca di fango. Infine avvolse la ragazza nella sua pelliccia di lupo e si sforzò di tirarla fuori. Ci volle del tempo, giacché il vecchio non aveva energia sufficiente per sollevarla. Dovette accontentarsi di trascinarla come se fosse un sacco. Sebbene fosse ancora paralizzata, Marion cominciava ad avvertire sensazioni tattili. I piedi nudi percepivano il contatto con la neve, le narici si riempivano di un odore di fuliggine. Ragnaar la condusse in una caverna dal soffitto basso, in cui aveva acceso un fuoco. Marion vide che il vecchio le aveva portato i suoi vestiti, gli stivali, il mantello... Tutto ciò che era riuscito a recuperare tra gli effetti della povera Svénia. Avrebbe voluto ringraziarlo, ma riuscì a emettere soltanto un rantolo. Il vecchio le fece cenno di stare tranquilla e la ricoprì con altre pellicce. Marion finì per addormentarsi. Quando si risvegliò, era in grado di muovere braccia e gambe e, nell'insieme, il corpo era tornato sotto il suo controllo. Con l'aiuto di Ragnaar, ingoiò della zuppa fumante, poi il vecchio le infilò tra i denti dei pezzetti d'aringa affumicata. In breve, la ragazza si sentì meglio. Era percorsa da fitte, come se la stessero pungendo con aghi invisibili. Era decisamente un buon segno. Gesticolando e tracciando disegni nella neve, il vecchio le spiegò che, la notte precedente la cerimonia, aveva sabotato il drakar funerario, manomettendo le assi del ponte e spostando le fascine stipate nello scafo. Inoltre aveva scavato una buca proprio sotto il punto in cui avrebbero collocato
Marion. Per finire, aveva ammassato nello scafo dei blocchi di ghiaccio e neve. L'incendio aveva fatto sciogliere quel carico clandestino e la buca si era riempita, trasformandosi in una piccola palude. Intento a mimare i vari passaggi della sua trovata, Ragnaar rideva, felice di dimostrare che sarebbe stato ancora un ottimo stratega in battaglia. In effetti, Marion riconobbe che si era dimostrato abile. Gli doveva la vita; senza il suo intervento, sarebbe morta nell'incendio. Il vecchio insisteva sul fatto che quelle manovre gli erano costate molta fatica, per via dell'età avanzata. E sosteneva che, avendo salvato Marion, da quel giorno lei gli apparteneva, anima e corpo. «Come se fossi tuo padre», aveva concluso, scuotendo la testa, soddisfatto. Ed era risaputo che, presso i lochlannach, tutti i padri avevano il diritto di vita e di morte sui propri figli. Il giorno successivo, la ragazza era in grado di alzarsi. A gesti, Ragnaar le fece capire di stare attenta a non farsi vedere dalle sentinelle disposte sul ghiacciaio, qualche cubito sotto di loro, all'ingresso della città sotterranea. Marion, tuttavia, pensava ad altro: avrebbe voluto recuperare la salma di Svénia. Servendosi dello scarso vocabolario appreso dalla serva, comunicò quell'intenzione a Ragnaar, che scosse le spalle, come a dire che si trattava di una delicatezza inutile. Poi, vedendo che Marion faticava ancora a muoversi, l'aiutò a tornare verso le assi ed estrasse ciò che restava del corpo della serva: una statua annerita, rattrappita, delle dimensioni di un bambino. Marion non riuscì a trattenere le lacrime, esasperando definitivarnente il vecchio. Ha ragione. Mi lascio commuovere. Svénia non mi voleva bene, era solo interessata a tenermi in vita. C'è una bella differenza, si disse la ragazza. Ragnaar afferrò un grosso sasso e si apprestò a frantumare il cadavere carbonizzato. In un primo momento, Marion credette che volesse ridurlo in cenere per sistemarlo in un'urna funeraria, ma le intenzioni del vecchio si rivelarono meno nobili. Una volta frantumato il corpo, immerse la mano tra la polvere e cominciò a frugare, sbriciolando i pezzi più grossi, come avrebbe fatto con un ceppo arso. Infine trovò ciò che cercava: la chiave delle manopole. La pulì con una manciata di neve. Convinta che l'avrebbe liberata, la ragazza tese le mani verso di lui, ma Ragnaar si limitò a legare la chiave a una funicella che gli pendeva dalla
cinta. Poi, con un'espressione scaltra, si lanciò in una complessa spiegazione, aiutandosi con un'elaborata pantomima. Non si serviva di frasi vere e proprie, ma di parole semplici, pronunciandole distintamente, nella speranza che la giovane capisse le sue intenzioni. E Marion comprese. Che stupida! Non mi ha salvato per pura bontà di spirito. Non è affatto un angelo custode. Aveva un piano, fin dall'inizio. Vuole servirsi di me per compiere la sua vendetta. In effetti, Ragnaar contava sulle mani «magiche» della «strega franca» per distruggere Rök. Voleva che lei si avvicinasse al bastardo e posasse i suoi palmi nudi sul corpo di quell'usurpatore... Così Rök avrebbe preso fuoco... E Ragnaar sarebbe stato presente, per vederlo bruciare. Era da tanto che aspettava quel momento! Una volta eliminato Rök, il vecchio avrebbe preso il suo posto. Avrebbe fatto tagliare la testa a Boulba e regnato sulla tribù, affidandosi ai poteri magici di Marion. Era un piano folle, tuttavia la giovane non se la sentiva di biasimarlo. Guardò il vecchio che continuava a sghignazzare. Gongolava per quel progetto malvagio: il suo volto scimmiesco aveva assunto un'espressione sgradevole, mentre lui immaginava la caduta di Rök, il tanto odiato bastardo. Non posso confessargli che non possiedo nessun potere. Sarebbe capace di uccidermi, pensò la ragazza. Doveva guadagnare tempo. La sua sopravvivenza dipendeva dalle magiche capacità distruttrici che Ragnaar le attribuiva. Doveva continuare a fargli credere che era così. Servendosi del suo limitato vocabolario, Marion si congratulò con lui per il piano brillante, ma gli fece notare che si sentiva ancora debole e che avrebbe dovuto rimettersi in forze, prima di passare all'azione. Per quanto deluso, Ragnaar accettò quella spiegazione e disse che si sarebbe preso cura di lei per aiutarla a ristabilirsi al più presto. La ragazza trasse un sospiro di sollievo. Era riuscita a ottenere una proroga. Si distese, fingendosi più debole di quanto non fosse. Ragnaar riprese il proprio monologo, senza preoccuparsi che lei lo stesse a sentire o no. Agitava le mani scarne, intervallando alle parole brevi sogghigni secchi e minacciosi. Si è mantenuto in vita pensando alla vendetta. Per tutti questi anni, non ha fatto altro che aspettare in silenzio il momento in cui sarebbe riuscito a sconfiggere l'usurpatore, si disse Marion.
Ragnaar credeva di aver trovato il mezzo per raggiungere il suo obiettivo. Aveva lo sguardo perso in sogni malvagi, ripetuti in continuazione fino a raggiungere una specie di trance, in cui rivedeva soddisfatto la fine di Rök, divorato dalle fiamme. Era semplice: sarebbe stato sufficiente liberare le mani della donna e scendere nella città sotterranea. La ragazza avrebbe fatto strada, tenendo i palmi nudi tesi davanti a sé, e tutti si sarebbero fatti da parte, terrorizzati al solo pensiero che quelle dita potessero sfiorarli... Mentre lui, Ragnaar, l'invisibile, il miserabile che si nutriva di pattume, l'avrebbe seguita, e sarebbe tornato per riprendere il posto che gli spettava e ristabilire la giustizia. Gli anni di vita che ancora gli restavano l'avrebbero ripagato di tutte le umiliazioni subite. Anzitutto avrebbe fatto distruggere il corpo di Wanaa... Sì, l'avrebbe scongelato con un bel fuoco per poi farlo a pezzi. Quindi avrebbe gettato i brandelli ai cani perché li sbranassero. Così non ci sarebbe stata più traccia della grande veggente. Soltanto allora, la sua vendetta sarebbe stata completa. Attendeva quel momento da così tanto tempo che gli tremavano le gambe. Sulle sue gote infossate scorrevano lacrime di gioia, che si gelavano prima ancora di raggiungere i peli della barba. 29 A metà giornata, si udirono alcuni scricchiolii nella neve. Qualcuno si stava avvicinando. Marion si accovacciò subito sul fondo della nicchia rocciosa. Era convinta che si trattasse di Boulba: la strega di certo veniva a recuperare i resti del suo cadavere, per ridurlo in polvere e servirsene come materia prima per la preparazione di qualche pozione infernale. I rumori si fecero più distinti ed erano accompagnati da voci maschili. Marion si sollevò. Aveva riconosciuto la voce di Knut! Allora non è morto! pensò con sollievo. Forse aveva visto il fumo della pira e, allarmato, aveva deciso di rientrare. La ragazza uscì dalla caverna e dovette trattenersi per non buttargli le braccia al collo. Dio mio! Com'era contenta di rivederlo! Non appena scorse Marion sulla soglia della grotta, sul volto di Knut si disegnò un'espressione di gioia che riempì di felicità il cuore della giovane. Il ragazzo era sporco, arruffato e aveva la barba lunga, eppure Marion lo trovò più affascinante che mai. Con lui c'erano altri due guerrieri, uno dei quali era ferito alla testa. Björn chiudeva il piccolo gruppo e Marion si
chiese cosa ci facesse tra loro il vecchio scultore. Knut stava già per precipitarsi verso di lei, ma, data la presenza dei compagni, frenò il suo slancio e si limitò a rivolgerle un gesto di saluto. Tutti presero a parlare contemporaneamente. Björn si agitava, impaziente, puntando il dito prima verso la montagna, poi verso il ghiacciaio. Ma parlava troppo veloce perché la ragazza potesse capire; così Knut gli fece segno di tacere e s'inginocchiò presso il fuoco. Aveva l'aria stanca, era dimagrito. La barba bionda gli conferiva un aspetto più selvaggio del solito. Tenendo gli occhi fissi su Marion, si mise d'impegno per parlare lentamente. Come aveva fatto Ragnaar, accompagnava le parole con alcuni disegni nel terreno. La ragazza si pentì di aver fatto affidamento su Svénia, invece d'impegnarsi a imparare la lingua norrena. Il suo vocabolario era ancora insufficiente: riusciva a esprimersi soltanto elencando le parole, senza nessuna regola grammaticale. Un po' alla volta, comunque, riuscì a ricostruire il racconto di Knut. Lui e i suoi compagni avevano montato la guardia sulla montagna, nella speranza di sorprendere i nemici della tribù, quei nemici misteriosi di cui Rök parlava tanto spesso. A più riprese, un guerriero invisibile, vilmente nascosto tra le montagne, li aveva presi di mira. Tre uomini, colpiti dalle frecce, erano morti durante il sonno. A lungo, Knut e i suoi compagni avevano dato la caccia a quei fantomatici avversari, le cui tracce si dileguavano nel nulla in un modo a dir poco incredibile. Si erano quasi convinti di avere a che fare con demoni... finché, un giorno, Knut non aveva scoperto per caso alcuni piedi in legno di varie dimensioni, nascosti in un crepaccio. Così aveva capito che il nemico invisibile si serviva di quegli strumenti per imprimere orme false nella neve e far credere loro che, tra le vette, fosse in agguato in intero squadrone di uomini. Una notte, fingendosi addormentato, Knut era riuscito a scoprire la vera identità del loro aggressore. La luce della luna gli aveva infatti permesso di scorgere le fattezze di Rök. Il capotribù usciva dalla città sotterranea, con la scusa di effettuare una ronda di perlustrazione, e poi si dileguava tra le rocce, attaccando le sue stesse guardie. Quella scoperta li aveva alquanto turbati e si erano chiesti come avrebbero dovuto comportarsi. Non erano abbastanza numerosi per attaccare la tribù e prendere il potere. Il viso di Knut era segnato da un profondo sconforto e Marion si rese conto che, per il giovane, doveva essere stata una rivelazione davvero sconvolgente. Nel giro di una notte, tutte le sue certezze erano crollate.
I suoi compagni l'avevano pregato di fuggire con loro, di scendere a valle e cercare un'altra tribù, ma lui si era rifiutato di seguirli per via della donna franca... Marion sentì una vampata di calore alle gote. Abbassò gli occhi, cercando di sfuggire allo sguardo del ragazzo. Dopo quella scoperta sconcertante, i guerrieri faticavano ancora a riprendersi e non smettevano di chiedersi quali motivi avesse Rök per comportarsi così. Desiderava forse la scultrice oppure temeva che Knut mirasse a prendere il suo posto? Non avevano mai sentito parlare di un capo che si comportava in quel modo. La pazzia del berserkr stava cominciando a bruciargli il cervello? Ragnaar si guardò bene dal dare loro una risposta. Fu a quel punto che intervenne Björn. Parlava molto in fretta, tuttavia Marion credette di capire che, subito dopo il suo «funerale», Rök aveva deciso di partire per la guerra, per una spedizione contro la tribù installata sul versante meridionale della montagna, a tre giorni di marcia sul ghiacciaio. Era stata Wanaa a suggerirglielo, durante un sogno. Ormai si metteva in contatto col figlio tutte le notti, non appena lui prendeva sonno, e gli consigliava come agire per assicurare un futuro prospero alla tribù. Stanno andando a massacrare degli innocenti. Persone che non si sono mai interessate a loro e che, con ogni probabilità, ignorano perfino l'esistenza della città sotterranea, pensò Marion. Björn parlava, parlava... La ragazza non era certa di cogliere il senso del suo discorso. Avrebbe voluto chiedergli di scandire meglio le parole, ma il vecchio era in un tale stato di confusione mentale che qualsiasi intromissione sarebbe stata inutile. Cercando di fare ordine tra le parole che uscivano a fiotti dalla bocca di Björn, Marion giunse alla conclusione che Rök aveva portato la salma di Wanaa fuori della caverna di meditazione. Senza toccarla, servendosi di alcune corde, l'aveva fatta scivolare su una lettiga. Poi si era infilato dei guanti di pelle e si era messo in testa di vestirla, come se fosse viva. «Ci accompagnerà ovunque. Da ora in avanti, vivrà tra noi e ci dirà come ci conviene agire. Dirigerà la tribù e io non farò altro che obbedirle e assicurarmi che i suoi ordini vengano rispettati», aveva dichiarato. Nessuno aveva osato opporsi a quella decisione aberrante. Avevano condotto Wanaa fuori della città, come una regina, e tutti i guerrieri, armi alla mano, erano partiti per la battaglia, guidati da quella donna morta, più dura della pietra.
«È lei che comanda, ora. Siamo maledetti. Una morta che comanda i vivi non potrà far altro che condurci all'inferno», ripeteva Björn. Marion rabbrividì. S'immaginava la tribù, in marcia tra le vette innevate, al seguito di una donna che veniva dall'oltretomba, distesa su una portantina funeraria. Knut cominciò ad agitarsi. Il suo volto esprimeva tutta la sua inquietudine. Gli interrogativi erano tanti: da quanto tempo erano partiti i guerrieri? Quella spedizione avrebbe potuto facilmente trasformarsi in un suicidio di massa. La tribù che viveva sull'altro lato del crepaccio era molto più numerosa, meglio armata. A meno di attaccare di notte e sgozzare uomini, donne e bambini durante il sonno, Rök non ne sarebbe uscito vivo. Ma è proprio ciò che ha intenzione di fare! Agirà di nascosto, non alla luce del sole. La sua sarà una guerra subdola, da assassino. Quando avrà finito con le tribù circostanti, si spingerà a valle, continuando a massacrare e trucidare al chiaro di luna, si disse Marion. Knut afferrò Björn per il bavero della pelliccia e prese a scuoterlo. Era rimasto qualcuno nella città sotterranea? Sì, confermò il vecchio scultore, ma solo vecchi e bambini. Tutti gli uomini e le donne in grado di brandire un'arma erano partiti al seguito di Rök... e di Wanaa. Knut lanciò un'esclamazione roca. Non potevano permettere una cosa del genere. Una tribù non doveva subire la pazzia del proprio capo. Una cosa era il coraggio, un'altra la demenza. Il giovane si alzò, in preda a sentimenti contrastanti. Marion capì cosa aveva in mente. Anche lei, al suo posto, avrebbe pensato la stessa cosa. Vorrebbe prendere una scorciatoia e andare ad avvisare del pericolo la tribù della montagna. Così facendo, però, tradirà il proprio popolo e condannerà a morte Rök e i suoi, rifletté. Il ragazzo era tormentato dal dubbio. Apriva e chiudeva la mano sull'impugnatura della spada. Non sapeva quale decisione prendere. Restare fedele alla tribù significava rendersi complice di un massacro inutile; agire secondo il buonsenso avrebbe fatto di lui un traditore. Marion sentì che stava per cedere. I vichinghi erano abituati a carneficine di quel tipo... Inoltre Rök era il capo, quindi spettava a lui decidere, nessuno poteva contestare i suoi ordini. Ragnaar prese la parola. Aveva capito che Knut stava per cedere. Con voce secca, gutturale, criticò aspramente il comportamento di Rök, di suo «figlio». A quelle parole, i guerrieri s'irrigidirono: a parlare era il loro vecchio ca-
po, un uomo ammirevole, che, per il bene della tribù, non esitava a disconoscere il suo stesso sangue. Vecchia canaglia! Pensi che non capisca a che gioco stai giocando? Ti si presenta un'altra occasione per sbarazzarti di Rök e non vuoi lasciartela sfuggire, rifletté Marion. In un attimo, il vecchio era riuscito a convincere i guerrieri a mettersi in marcia. Avrebbero potuto tagliare attraverso le montagne e, servendosi di quella scorciatoia, avrebbero raggiunto l'altro lato della vetta prima di Rök e del suo esercito, gravato dal carico della portantina. Era tuttavia necessario partire subito, senza neppure rifornirsi di provviste. Esaltati dalle parole di Ragnaar, i giovani guerrieri radunarono le proprie cose. Marion provò un certo fastidio. Avrebbe voluto spiegare a Knut che le intenzioni del vecchio non erano così innocenti come lui voleva far credere. Si lanciarono nella spedizione senza perdere altro tempo. Knut prese posto in testa alla colonna, mentre Björn e Marion si sostenevano a vicenda. L'arrampicata si annunciava faticosa. Si sarebbero inerpicati in cima alla cresta rocciosa, mentre Rök e i suoi percorrevano un lungo e tortuoso sentiero che costeggiava il precipizio. La ragazza sentiva l'aria ghiacciata infiammarle i polmoni, ma riusciva a resistere grazie al movimento, che, secondo lei, contribuiva anche a eliminare le ultime stille del veleno che le era circolato nel sangue. Quando raggiunse la cima, faticava a reggersi in piedi; Björn, poi, le sembrava sul punto di esalare l'ultimo respiro. Knut concesse loro una pausa e fece riscaldare un po' di zuppa, servendosi di un piccolo braciere. Quel brodo bollente diede loro abbastanza energia per riprendere il cammino. Marion si lasciava guidare come una cieca. Se non ci fosse stato Knut, sarebbe caduta perlomeno in dieci crepacci. Il riverbero del sole sulla neve cominciava a darle fastidio agli occhi. Ormai aveva superato la soglia dello sfinimento e non avvertiva più il suo corpo. Non soffriva più. In effetti, molti l'avevano già messa in guardia contro quel tipo di ebbrezza. Poteva rivelarsi mortale: si continuava a camminare, finché il cuore non cessava di battere... Stava per chiedere a Knut di rallentare la marcia, ma cambiò idea. Non voleva mostrarsi più debole di loro. Inoltre erano tutti allo stremo delle forze. Avanzavano come fantasmi nella luce calante. Gli abitanti della tribù ci scambieranno per fantasmi e ci tempesteranno
di frecce! pensò Marion, trattenendo una risata nervosa. Finalmente apparvero le prime capanne. La ragazza, che ormai non vedeva quasi più, in un primo momento le scambiò per grosse bestie selvagge. Siamo arrivati troppo tardi? si disse, colta da un'improvvisa ansia. Cosa sarebbe successo se Rök avesse già portato a termine la sua missione? Vittima di una allucinazione dovuta alla fatica, Marion immaginò il capo vichingo seduto su un trono accanto alla madre morta, irrigidita dal freddo, ma vestita come se fosse viva. Se vuole conservarla in buono stato, è condannato a vivere per sempre nella solitudine delle nevi perenni. Non potrà tornare a valle, dove il clima è più mite, pensò. Björn la scosse. Si rese conto che stava parlando da sola. Avrebbe voluto lasciarsi cadere nella neve, abbandonarsi al sonno. Le mancava Svénia. Ne aveva abbastanza di tutti quegli uomini... della loro follia, della violenza. Per la prima volta in vita sua, provò invidia per le monache, prigioniere tra le mura di un convento, al riparo dai tumulti del mondo. Knut aveva posato le armi e stava tentando di stabilire un contatto con le sentinelle. Era un momento cruciale: le frecce avrebbero potuto piombar loro addosso da un istante all'altro. Chi se la sentirebbe di accoglierci? Dobbiamo avere l'aria di spettri di ritorno dagli inferi, si disse Marion. Guardò Björn e si rese conto che aveva un aspetto terribile: i capelli erano gelati, esili stalattiti gli pendevano dalla barba; sembrava uno scheletro sepolto in un tumulo di ghiaccio. Uno scheletro che aveva voluto a tutti i costi far ritorno nel mondo dei vivi, per mendicare un po' di zuppa calda. Il fatto di non capire ciò che si diceva intorno a lei peggiorava lo stato d'animo della ragazza. Conto fino a dieci e mi lascio cadere nella neve. Poi sia quel che sia, decise. Infine qualcuno rispose. In mezzo alla fitta nevicata, che annunciava una tempesta, alcune guardie sospettose si fecero avanti. Tenevano l'arco in pugno, con le frecce già incoccate. Knut e Ragnaar si presentarono e chiesero d'incontrare subito il capovillaggio. Era questione di vita o di morte. Le sentinelle esitarono. In realtà, più che l'aspetto degli uomini, era la strana donna dalle mani di ferro a inquietarli. Era nata così? Era un essere
umano? Avevano paura di permettere a un demone d'introdursi nell'accampamento. Ragnaar dovette insistere, parlare loro del pericolo che si avvicinava, portato dalla tempesta. Le sentinelle cedettero. Condussero i nuovi arrivati fino all'ingresso di una grossa capanna con la struttura fatta di ramoscelli intrecciati. All'interno regnava un caldo soffocante. Marion avrebbe voluto fare una buona impressione, ma, allo stremo delle forze, si accasciò in un angolo. Mentre Knut, Ragnaar e gli altri guerrieri discutevano col capovillaggio, lei rimase con Björn, accanto al fuoco. Una donna offrì loro una zuppa in cui galleggiavano pezzi di pesce affumicato. Non potendo mangiare da sola, Marion dovette affidarsi alle cure del vecchio scultore, che le portò la scodella alle labbra e la fece bere, come una bambina. Le donne, intanto, parlottavano tra loro, indicando le mani di ferro della straniera. Era una prigioniera, un'indemoniata o una donna guerriera, come talvolta se ne vedevano? Marion stava per cedere al sonno quando Knut riapparve. In breve, le spiegò che il capovillaggio gli aveva creduto, che avrebbe raddoppiato la guardia e messo in allarme tutti gli abitanti, così che si facessero trovare pronti in caso di un attacco. La prospettiva di dover fronteggiare un berserkr gli aveva fatto gelare il sangue nelle vene. Nella capanna si era sollevato un gran mormorio. La parola berserkr correva di bocca in bocca. Per quanto fossero numerosi, gli uomini non erano affatto sicuri di riuscire a tenergli testa! Sapevano bene che un guerriero pazzo da solo valeva come venti guerrieri normali. Nell'aria riecheggiavano gli ordini. Gli abitanti della tribù correvano in tutte le direzioni, accompagnati dal tintinnio metallico di armi e corazze. Almeno ci abbiamo provato. Moriremo con la coscienza pulita, si consolò Marion. Però non riusciva a pensare ad altro che a scaldarsi di fronte a quel bel fuoco. Sentiva il viso scongelarsi a poco a poco e mille aghi invisibili che le pizzicavano le gote. Con la coda dell'occhio scorse Ragnaar. Era completamente cambiato. Non aveva più nulla del vagabondo cencioso che si nutriva d'immondizia. Avvolto nei suoi stracci, il vecchio aveva ritrovato l'antica abitudine al comando. Si avvicinò a Marion, s'inginocchiò accanto a lei e le mostrò la chiave delle manopole. La ragazza capì cosa intendeva dire: doveva restargli vicino durante le ore seguenti e, quando Rök fosse apparso nel mezzo della tempesta, lei avrebbe dovuto imporre le mani sul suo corpo, trasformandolo in una torcia umana. Sì, contava su di lei. Era la sua arma segreta contro il berserkr.
Povero lui, se sapesse... si disse Marion. Ragnaar le rivolse un sorriso complice. Non aveva paura. Sembrava impaziente di assistere alla cremazione di Rök. Sarebbe stata la sua rivincita su Wanaa. Ringraziava gli dei che gli concedevano di vedere esaudite le sue preghiere. Così sarebbe potuto giacere in pace, perché nessuna musica suonava più dolce all'orecchio di un vichingo dei rantoli agonizzanti dei propri nemici. Ah! Infine gli dei gli avevano dato ascolto, gli offrivano la possibilità di vendicarsi. Dopo tutto quel tempo, dopo tutte le umiliazioni subite, dopo aver sguazzato nel pattume come il peggiore dei cani... Dopo le tenebre, il sole, finalmente! La felicità era tale che Ragnaar doveva trattenersi dal ridere per non sembrare un pazzo. La scultrice l'avrebbe aiutato. Quella cara ragazza che tante volte lui stesso aveva tentato di uccidere... Ah! Gli dei avevano fatto bene a boicottare ogni suo tentativo. Altrimenti se ne sarebbe pentito amaramente! Avrebbe atteso Rök senza titubanze, quel gran bastardo peloso, metà uomo e metà orso, che aveva generato solo marmocchi deformi. Non aveva paura del berserkr che sbavava il veleno trasferitogli nelle vene dalla madre. No, perché c'era la donna franca accanto a lui. Al momento opportuno, le avrebbe tolto le manopole protettive, come si faceva quando si levava il cappuccio di pelle al falco per lanciarlo contro la preda. Era sufficiente che la giovane marciasse incontro a Rök. Quella carogna avrebbe preso fuoco! L'avrebbero sentito crepitare come un ceppo imbevuto di pece! Ah! Che piacere avrebbe provato Ragnaar, sentendolo gemere nella notte. Che gioia sarebbe stato vederlo torcersi, accartocciarsi... Poi, una volta che il corpo massiccio di Rök si fosse raggrinzito sotto l'effetto delle fiamme, Ragnaar avrebbe pisciato sul cadavere abbrustolito e l'avrebbe preso a calci. Allora, soltanto allora, su di lui sarebbe discesa la pace e avrebbe potuto morire felice. Il fuoco! Il buon fuoco della gioia! Ah, che fretta aveva! Come sarebbe stata lunga la notte! Marion si allontanò dal vecchio, i cui occhi brillavano, malvagi, rendendolo simile a un lupo. Le sembrava quasi di sentire il suo cuore battere contro le costole, talmente era eccitato. Fra tutti i presenti, era l'unico a gioire per la piega che avevano preso gli eventi. La ragazza non aveva il coraggio di contraddirlo. Per la delusione, avrebbe anche potuto ucciderla. Non era difficile immaginarlo mentre l'afferrava per i capelli e le sprofondava il viso tra le fiamme.
No, doveva tenere la bocca chiusa. Knut fece loro segno di raggiungerlo. Il villaggio si stava preparando all'attacco nemico. Ovunque si costruivano barricate e si accatastava la neve, per improvvisare trincee dietro le quali avrebbero preso posto gli arcieri. La tempesta infuriava, infrangendosi sulla montagna, come se avesse deciso di ridurne in frantumi la vetta. Non era una buona notte per morire. Il vento avrebbe trascinato via troppo in fretta l'anima dei feriti. Sollevarono gli occhi, aspettandosi di veder cavalcare le Valchirie in un turbinio di frammenti di ghiaccio. Chi avrebbero scelto quella sera? Chi avrebbe raggiunto i guerrieri morti che facevano la guardia alla dimora di Odino? Marion e Ragnaar si rannicchiarono contro una parete di neve, al riparo dalle raffiche. Il freddo era insopportabile. Il sudore si ghiacciava sui volti degli uomini. La ragazza si tirò il cappuccio di pelliccia fin sul naso. Bisognava soltanto aspettare. Intorno a lei, i vichinghi socchiudevano le palpebre, scrutando nelle tenebre. 30 Attesero tutta la notte nella tormenta. Faceva così freddo che dovettero stabilire dei turni per permettere agli uomini di riscaldarsi nella grande capanna comune. Il capovillaggio, chino tra le raffiche di vento, passava da un guerriero all'altro, per assicurarsi che nessuno si addormentasse. Se si rimaneva immobili a lungo in quell'ambiente così ostile, ci si lasciava scivolare dolcemente nel sonno, si chiudevano gli occhi, per non riaprirli mai più. A intervalli regolari, Ragnaar posava la mano sulla spalla di Marion e la scuoteva. La ragazza si era addormentata tre volte; se non fosse stato per il vecchio, sarebbe morta. L'alba schiarì il cielo. Rök ancora non si era visto. Il capovillaggio, stanco e furibondo, prese a inveire contro Knut. Marion pensò che avrebbero fatto meglio ad andarsene, prima che la discussione degenerasse. Cercò di dirlo in qualche modo a Ragnaar, ma il vecchio non le prestò attenzione. Aveva l'aria delusa e inquieta. Aveva sperato di farla finita col bastardo quella notte stessa, e invece... si vedeva costretto a rimettere tutto in discussione. Non smetteva di scrutare la linea dell'orizzonte, concentrato, sperando di veder infine emergere l'orda irsuta dei vichinghi guidati dal berserkr. Ma non accadde nulla.
Knut e i suoi compagni lasciarono il villaggio tra le grida dei suoi abitanti. Alcuni bambini lanciarono loro contro delle pietre. Stiamo facendo una cosa molto pericolosa. Con ogni probabilità, Rök ha deciso di lasciar passare la tempesta. Attaccherà questa notte, ecco tutto, pensò Marion. Allontanandosi dal villaggio, rischiavano di finire tra le fauci del berserkr. Forse, Rök e i suoi uomini sono imboscati proprio dietro quelle dune... si disse la ragazza. Ragnaar la pensava allo stesso modo. Era sufficiente osservarlo mentre esaminava i dintorni per rendersene conto. La neve fresca rendeva difficile la marcia. Consapevole della minaccia incombente, Knut li condusse al riparo in un antro roccioso. Sapeva con certezza da dove avrebbe attaccato Rök, perché il terreno, pieno di buche e avvallamenti, non permetteva strategie alternative. Rimasero ad aspettare, tremando per il freddo e la stanchezza. Ancora una volta, però, non accadde nulla. Ragnaar era più che mai impaziente. Sembrava che la fatica non avesse nessun effetto su di lui. Prese a parlare in modo esagitato, facendo notare agli altri che era impensabile restare là, rintanati, troppo a lungo. Knut annuì. Lui per primo non ce la faceva più ad aspettare. Il desiderio di chiudere quella faccenda lo spingeva a gettarsi in un'impresa avventata, rischiando di perderci la vita. Non prestare ascolto a Ragnaar, avrebbe voluto gridargli Marion. Se ne infischia di noi. Ci manderebbe a morire pur di compiere la sua vendetta. Andiamocene da qui finché siamo ancora in tempo, scendiamo a valle, dove ormai è primavera inoltrata, e cerchiamo di lasciarci questi orrori alle spalle. Ma le mancavano le parole per esprimere un pensiero di quel tipo, e Ragnaar incalzava, facendo appello al loro coraggio, al loro onore di guerrieri... La ragazza tentò di opporsi, ma il vecchio la zittì con un cenno. La guerra non era una faccenda da donne. Knut finì per lasciarsi convincere: brandì la spada e i suoi compagni lo imitarono. Il vecchio capo aveva un forte ascendente su di loro. Cosa del tutto normale, dal momento che si stava parlando di uccidere il suo stesso figlio, Rök... Knut si augurò di non doversi mai trovare a dover prendere una decisione del genere. Lasciarono il nascondiglio per lanciarsi allo scoperto. Marion non osava
immaginare cosa potesse succedere una volta che si fossero trovati a faccia a faccia con Rök. Knut avrebbe avuto il tempo di attaccare per primo? Ne dubitava. Prima ancora che potesse sollevare la spada, il berserkr l'avrebbe decapitato con un colpo secco. Non sopravvivremo. Nessuno di noi sopravvivrà, si disse. Aveva l'impressione di essere nelle mani di un boia che la stesse conducendo al patibolo. Ragnaar la teneva stretta per un gomito, forzandola ad avanzare nella neve, che le arrivava a metà coscia. Ogni passo costava loro una fatica immensa. Saltavano, arrancavano e si arrampicavano verso la cima. Marion era convinta che Rök si nascondesse là dietro, accovacciato al riparo di quelle trincee naturali, in attesa del momento opportuno per passare all'attacco. Ci stiamo gettando tra le fauci del lupo, si ripeteva. Le mancava il fiato, sentiva che il cuore stava per cedere. Knut salì fino in cima all'altura... e rimase di stucco. Nemmeno là dietro c'era qualcuno. Cominciarono a esplorare i dintorni. Scandagliarono ogni antro e grotta, passarono in rassegna tutti i pendii, attraversarono ponti di neve alla ricerca della tribù perduta. Esasperati, gli uomini erano sul punto d'impazzire. Volevano sapere! Finalmente a metà della giornata, quando ormai le forze stavano per abbandonarli definitivamente, scorsero Rök e gli altri. Fermi in cerchio sulla piana innevata, sembrava che stessero aspettando qualcosa. Knut lanciò un grido, che riecheggiò senza risposta. Dovevano avvicinarsi. Soltanto quando furono a trenta passi dal gruppo compresero cos'era successo. Erano tutti morti. Congelati. Il freddo li aveva pietrificati durante una sosta, mentre cercavano di riscaldarsi intorno a un minuscolo falò. È chiaro che le fiamme devono essersi spente sotto le raffiche ài vento. La sentinella incaricata di sorvegliare il fuoco si è assopita e così l'intera tribù è morta nel sonno, pensò Marion. Facendosi strada nella neve, la ragazza si diresse verso Rök. Quando la morte l'aveva colto, si trovava seduto accanto a Wanaa e teneva gli occhi chiusi. Tutti gli altri - compresa Boulba e sua figlia - avevano fatto la stessa fine. Rattrappiti, rannicchiati, avevano l'aspetto di statue ricoperte di brina. La loro carne bluastra non aveva più niente di umano. È colpa di Rök. Li ha forzati a spingersi oltre ogni limite. Di certo Boulba ha distribuito qualche pozione, uno di quegli intrugli che attenuano la
stanchezza e danno l'impressione di poter marciare in eterno. Però il loro fisico non ha resistito. All'ultima sosta, si sono arresi, abbandonandosi al sonno. All'ultimo sonno. Marion passò in rassegna i cadaveri, cercando d'identificare i volti. Erano presenti tutti i guerrieri, con le mani ben salde sull'impugnatura della spada, ricoperti da una pellicola di ghiaccio, tanto che sembrava indossassero una maschera di vetro. Hanno raggiunto Wanaa. Finalmente Rök ha ottenuto ciò che voleva: si è ricongiunto con la madre, pensò. Knut e i suoi compagni non sapevano come comportarsi di fronte a quella scena inattesa. Ragnaar, invece, non fece nulla per celare la sua delusione. Girava come un cane impazzito intorno a Wanaa e Rök, si avvicinava, si allontanava, per poi tornare di nuovo indietro coi pugni chiusi. La morte gli ha strappato la sua vendetta. Non voleva che le cose andassero in questo modo, si sente tradito, constatò la ragazza. Knut e gli altri lo guardavano, senza capire il perché di quel comportamento. Si aspettavano che il vecchio capo tenesse per sé il proprio dolore, con dignità, che non facesse trapelare la sofferenza... Quell'esplosione di rabbia li lasciava sconcertati. Perché Ragnaar era tanto... insoddisfatto? Sembrava quasi che volesse di più, che non ritenesse chiusa la faccenda. Era strano e inquietante al tempo stesso. Stava forse perdendo il senno? Ragnaar ebbe un'esplosione di rabbia. Marion capì che cosa voleva. Stava ordinando di fare a pezzi le «statue». Voleva vedere le salme di Rök e di Wanaa ridotte in frantumi. Subito, in quel preciso istante. Da stupefatti, i guerrieri si fecero inquieti. Era inconcepibile distruggere l'integrità corporea dei morti, era una cosa da non fare... Peggio: ai loro occhi, quella era un'azione del tutto ingiustificata. Era contraria a ogni regola. Ragnaar si gettò su Marion, l'afferrò per il mantello e prese a scuoterla, gridandole in faccia cose incomprensibili. Knut dovette separarli. Il vecchio ha paura. È più forte di lui... Si sentirà al sicuro solo quando Wanaa sarà completamente distrutta. È convinto che sia ancora viva, che un giorno o l'altro possa destarsi dal suo stato d'immobilità e vendicarsi, pensò Marion. Sì, solo la superstizione poteva giustificare quello slancio distruttivo, quell'accanimento nel voler profanare i cadaveri dei suoi nemici. Era una maga. Ragnaar è convinto che la valanga non l'abbia uccisa
davvero e che, dentro quel corpo pietrificato, arda ancora una scintilla che il calore potrebbe rianimare. Non voleva lasciarla là, intatta. Era troppo pericoloso. Per pura malvagità, qualcuno avrebbe potuto avvicinare il cadavere a un fuoco e farlo scongelare. La veggente delle vipere sacre sarebbe tornata dal regno dei morti e, per prima cosa, avrebbe dato la caccia al suo assassino. Ecco ciò che temeva Ragnaar. «Dobbiamo partire. Niente più cibo, legna per accendere il fuoco. Tornare verso valle, più in fretta possibile... o morire qui. Presto i lupi fiuteranno la nostra presenza», disse Knut, rivolgendosi alla ragazza. Parlava lentamente, per farsi capire dalla straniera. Marion assentì. Aveva ragione, non sarebbero sopravvissuti a un'altra notte tra le montagne. Bisognava scendere lungo il pendio per portarsi a un'altezza più adatta, dove sarebbero stati al riparo dal vento. Ragnaar s'impuntò, battendo i piedi come un bambino capriccioso. Si decise a seguire i compagni solo quando li vide prendere il sentiero che conduceva a valle, per paura di ritrovarsi solo. Marion si avviò, seguendo Knut. Con un po' di fortuna, prima del calare della notte, sarebbe finalmente uscita da quell'incubo. Raggiunsero il primo strapiombo nel tardo pomeriggio e trovarono una caverna in cui avrebbero potuto dormire, a condizione di stringersi l'uno contro l'altro. Il grasso per alimentare il braciere portatile era ormai insufficiente. Il mattino seguente, il gruppo si sarebbe diviso. Knut, Marion, Ragnaar e Björn avrebbero proseguito verso valle, nella speranza di trovare un luogo adatto per installare un nuovo accampamento; gli altri sarebbero tornati alla città sotterranea, per comunicare alle donne e ai bambini che ormai era inutile restare chiusi là sotto. Dopo la morte di Rök e la conseguente «scomparsa» dei nemici invisibili, la vita poteva riprendere il suo corso. La tribù non doveva più sfuggire all'estate, cercando rifugio tra le montagne delle nevi perenni. Stabilirono che si sarebbero rincontrati a un bivio lungo la strada, presso un certo menhir di cui Marion non comprese il nome. Dopodiché si spartirono le ultime provviste e mangiarono in silenzio. La ragazza percepiva il turbamento degli uomini. Stavano vivendo una fase di grandi sconvolgimenti. La situazione rischiava di precipitare: gli ultimi so-
pravvissuti della tribù potevano decidere di separarsi e di lasciarsi il passato alle spalle. I loro sguardi esprimevano indecisione, paura del futuro e nostalgia per le certezze ormai svanite. Una volta terminato il pasto, si distesero per la notte, rannicchiandosi il più possibile ognuno contro il proprio vicino, per beneficiare del calore collettivo. I giovani erano sfiniti, al punto che non faticarono ad addormentarsi, senza pensare ai lupi né agli orsi. Solo Ragnaar restò sveglio, aspettando terrorizzato l'inevitabile istante in cui Wanaa sarebbe apparsa sulla soglia della caverna per consumare la sua vendetta. 31 Fecero come stabilito. I guerrieri s'incamminarono in direzione del ghiacciaio, mentre Knut, Marion, Björn e Ragnaar scesero verso valle. Via via che si allontanavano dalle vette, la neve diminuiva e diventava più semplice procedere. Poi cominciarono ad avere caldo e dovettero liberarsi delle pellicce. A tratti, là dove la neve si scioglieva, apparivano ciuffi d'erba. L'aria era intrisa di un odore di terra bagnata. La primavera era là, tenace rivale dell'inverno. Le pendici della montagna erano già verdi. Nei prati, appena più sotto, non si scorgevano che sporadiche macchie bianche. Marion provò un tremito di gioia non appena scorse i primi alberi: erano abeti neri, i cui rami creavano una rete così fitta che lo spazio sottostante restava immerso nelle tenebre. La ragazza non riusciva a credere di essere scampata ai pericoli delle vette. Continuava ad alleggerirsi, meravigliandosi di quanto fosse mite il clima lì a valle. Avrebbero impiegato ancora due ore per raggiungere la costa. Improvvisarono un accampamento e Knut partì a caccia, con l'arco a tracolla. È finita. Il brutto sogno termina qui. Cosa succederà ora? Che ne sarà di me? si chiese la ragazza. Istintivamente guardò verso l'orizzonte, come se, tra la nebbia, riuscisse a scorgere la costa della Normandia. Ebbe un tonfo al cuore. Era lontana da casa, esiliata in un Paese dove aveva già rischiato di morire decine di volte. Knut sarebbe stato in grado di proteggerla da quel mondo barbaro, le cui usanze non tenevano conto nemmeno dell'umana pietà? 32
Costruirono una grande capanna con fascine intrecciate. La foresta non era sicura: bisognava stare in guardia contro gli orsi famelici, sempre pronti a fare razzie. Si levarono le pellicce, gli stivali. Mal equipaggiata, Marion soffriva molto il caldo. Knut cacciava. La selvaggina non mancava e c'era da mangiare in abbondanza. Per tre volte, il giovane era salito al bivio in cui avrebbero dovuto incontrarsi coi sopravvissuti della tribù. Ogni volta, però, era rientrato solo. Nessuno si era presentato all'appuntamento. Non hanno voluto abbandonare la città sotterranea. Hanno paura di affrontare l'ignoto. Sono troppo legati alle loro tradizioni per cominciare una nuova vita, si diceva Marion. In un primo momento, Knut pensò di tornare indietro, di risalire verso il ghiacciaio. Temeva ci fosse stata una frana, una valanga. Servendosi del suo limitato vocabolario, Marion suggerì l'ipotesi che qualcuno dei compagni di Knut avesse preso il potere. Con Rök morto e Ragnaar esiliato, non sarebbe stato così difficile... Knut chinò la testa. Superata la delusione iniziale, dichiarò che avrebbero fondato una nuova tribù nella pianura. Il processo sarebbe stato lento, ma, con un po' di pazienza, ci sarebbero riusciti. Sino alla fine dei suoi giorni, Ragnaar sarebbe stato il capo di quel nuovo gruppo. Dopodiché Knut avrebbe preso il suo posto. Nel giro di qualche anno, sarebbero stati in numero sufficiente per essere riconosciuti dalle altre tribù. E poi... restava la questione della fede. Dovevano continuare ad adorare gli antichi dei o fare come la maggior parte dei vichinghi, ormai convertiti al Cristianesimo? Knut si confidava con Marion. I due giovani avevano preso l'abitudine di passeggiare nella foresta e s'insegnavano a vicenda la loro lingua d'origine. La ragazza era inebriata da quell'atmosfera di dolce complicità. Diverse volte, chiese a Knut di liberarla dalle manopole di ferro... Quella richiesta, però, gettava il ragazzo nel panico. Era impossibile, rispondeva lui. Per il momento, era Ragnaar ad avere la chiave... ed era lui il capo. Quell'uomo non avrebbe rinunciato alle sue convinzioni. Forza, ammetti che anche tu hai paura! pensava Marion. La ragazza avvertiva chiaramente il desiderio di Knut... ma neanche lei nascondeva più il proprio slancio. Era sola da troppo tempo per non lasciarsi turbare dal torso nudo del giovane guerriero, dalle sue braccia forti e dal suo bel viso, con gli zigomi sporgenti. Avrebbe dato qualsiasi cosa per far scorrere le dita sul corpo del ragazzo, per sfiorargli il petto, la parte
interna delle cosce. Conosceva in anticipo l'intensa eccitazione che avrebbe provato accarezzando quella corporatura perfetta, abbandonandosi con lui su un letto di pelliccia. Quei pensieri le toglievano il fiato, le infiammavano le guance, il ventre. Stavano insieme la maggior parte del tempo, sfiorandosi, lanciandosi occhiate. Il desiderio non faceva che crescere; solo la presenza beffarda di Björn e quella malevola di Ragnaar impedivano loro di passare ai fatti. Marion sapeva che il vecchio capo la considerava come sua proprietà privata, come una serva. Mi tiene come arma segreta. Ha ancora paura che, un giorno o l'altro, arrivi Wanaa... si diceva la ragazza. Era ormai certa che il vecchio stava perdendo la testa. Capitava che passasse ore seduto su un ceppo, in mezzo ai prati, scrutando la montagna e bofonchiando cose incomprensibili. La sera, quando si ritrovavano intorno al fuoco, non apriva mai bocca, né degnava di uno sguardo chi gli stava accanto. Se sentiva un ramo spezzarsi nella foresta - cosa che accadeva di frequente - si alzava di scatto e sondava l'oscurità. In qualche modo, la sua presenza guastava a Marion il piacere di vivere con Knut. Björn, invece, si dava molto da fare. Le sue capacità manuali erano assai limitate rispetto al passato, eppure intagliava diversi oggetti utili, servendosi di un legno particolarmente tenero. Era un'occupazione che lui amava molto e non smetteva mai di creare ciotole, scodelle e cucchiai per poi indurirli sul fuoco. Le giornate trascorrevano tranquille e Marion cominciò a pensare che avrebbe potuto trovare un angolo per sé anche laggiù, in quella terra straniera. Un angolo che avrebbe condiviso con Knut... La notte, le capitava di sognare Rök, Wanaa... L'immagine della veggente, circondata dalle sue vipere, la perseguitava; si svegliava in un bagno di sudore, con la camicia appiccicata alla pelle. Le ci sarebbe voluto del tempo per liberarsi di quegli incubi, lo sapeva bene. Allora, nel buio della capanna, tra il russare di Björn e i sibili insonni di Ragnaar, ascoltava il respiro di Knut. Accoglieva le giornate con fiducia e serenità. Scoprì di apprezzare quell'atmosfera che prefigurava un nuovo inizio. Se non ci fosse stato Ragnaar, sarebbe stata felice.
Marion se la cavava sempre meglio con la lingua norrena e riusciva persino a fare qualche conversazione con Knut. Un giorno, mentre accompagnava il giovane a caccia, gli fece notare per l'ennesima volta che l'obbligo delle manopole era diventato ormai insopportabile. Senza Svénia ad aiutarla, non era più in grado di lavarsi o di svolgere certe incombenze femminili di cui prima si occupava la serva. Knut arrossì e abbassò gli occhi. Soddisfatta del tentativo, Marion cominciò a sperare che ben presto l'avrebbe accontentata. E così insistette. Le serrature delle manopole erano rudimentali, gli spiegò. Sarebbe bastato un buon coltello per forzarle. Se avesse voluto, avrebbe indossato sempre dei guanti di pelle, per non correre il rischio di sfiorare lui o i suoi compagni a mani nude. Knut scosse la testa e si limitò a ripetere: «Ragnaar possiede la chiave. Spetta a lui liberarti». Qualche giorno più tardi, infastidita dal fatto che il ragazzo fosse così rispettoso nei confronti del vecchio, gli spiegò che Ragnaar stava perdendo il senno. Era giunto il momento che Knut prendesse in mano le redini della «tribù». Turbato, il giovane troncò subito la discussione. Non era abituato ad avere a che fare con donne tanto sagaci. Di solito, le sue compagne di letto si mostravano allegre e mansuete, le uniche qualità che un vichingo si aspettasse dalla propria concubina. Riuscirò ad ammansirlo, prima o poi. Con un po' di fortuna, gli leverò dalla testa queste idee da selvaggio, si ripeteva Marion. Le sarebbe piaciuto condurre una vita onesta, in quell'angolo di terra vicino all'oceano. Perché Knut non sfruttava le sue capacità per costruire buone barche, inaffondabili, e venderle agli abitanti dei villaggi vicini? Non sarebbe stato più decoroso che andare a saccheggiare le coste limitrofe? Knut si dichiarò d'accordo. L'età d'oro dei vichinghi era terminata. Era necessario cambiare stile di vita, non comportarsi più come predatori e imparare a intrattenere relazioni commerciali. Marion aveva fiducia nel fatto che, prima o poi, sarebbe riuscita a farlo cambiare in quel senso. Il guerriero che diventa artigiano, abbandona la spada per la pialla... ne sarebbe stato capace? Più guardava il giovane e più sentiva che si stava innamorando di lui. Quella prospettiva la spaventava. Aveva senso perdere la testa per un barbaro? Pensare di costruire la propria vita con lui?
Non lo sapeva... Lo desidero, voglio sentirlo dentro di me. Una volta che mi terrà stretta nel letto, forse questa febbre si placherà. Sarò libera. Di nuovo libera, cercava di consolarsi la ragazza. La ragione le suggeriva di augurarsi una guarigione del genere, perché non poteva aspettarsi nulla di buono da uno come Knut. È bello, d'accordo. Ma ha un passato da assassino. Ha ucciso e massacrato centinaia di uomini, donne e bambini... Non devo dimenticarlo mai. È stato educato per questo, come si fa con un cane da caccia. Certe abitudini non si perdono in un mese e nemmeno in un anno... Temeva di diventare un oggetto nelle mani di un barbaro, di una persona che in realtà la disgustava. Al tempo stesso, però, moriva dal desiderio di averlo. Talvolta detestava quella debolezza e le pulsioni contraddittorie che la dominavano. Mi passerà. Quando avremo fatto l'amore, la passione svanirà e finalmente me ne sarò liberata. Sì, sarà così, si ripeteva. Knut decise di costruire una casa in legno. La ragione ufficiale era la necessità di difendersi dalle intrusioni degli orsi, attirati dal cibo; in realtà, Marion sapeva che voleva creare un ambiente più intimo per loro due, un'abitazione in cui ognuno avrebbe avuto la propria stanza. La ragazza fu felice di quella decisione. Anche lei non tollerava più di vivere sotto il controllo costante di Ragnaar. Infine Knut riuscì a farle togliere le manopole. Fu un'opera di persuasione sofferta, perché il vecchio capo si aggrappava alla chiave quasi fosse una corona reale. Marion dovette promettere che non si sarebbe mai mostrata a mani nude e che avrebbe sempre indossato dei guanti di pelle, chiusi sui polsi. Fece tutti i giuramenti richiesti... A ogni modo, non si sentiva legata a quei barbari da nessun vincolo di lealtà. Da quel momento in poi, poté collaborare alle faccende quotidiane e perfino partecipare alla costruzione della casa. Provava una strana gioia mentre si dava da fare per erigere quel rifugio in cui, probabilmente, si sarebbe donata a Knut. Avrebbero avuto un bambino? Si tormentava a quel pensiero, chiedendosi cosa desiderasse davvero. Intendeva realmente concepire un figlio con un assassino? Se fosse successo, avrebbe dovuto adoperarsi affinché il padre non lo educasse secondo le sue deplorevoli usanze. Lei gli avrebbe insegnato la pietà, la compassione, l'importanza di aiutare i deboli, di prestare soccorso
ai malati... Knut avrebbe mai capito l'importanza di quei valori fondamentali? Non ne era certa. Un abisso li separava. Per quanto il giovane si fosse sforzato di cambiare, sarebbe rimasto prigioniero di antichi culti, di un sapere basato su valori quali la forza e la capacità di uccidere. Marion tremava al pensiero che potesse trasmettere al figlio idee tanto aberranti. Sono impazzita, si diceva. Non abbiamo ancora fatto l'amore e già imbastisco storie in cui invecchiamo insieme... Knut le spiegò che, una volta terminata la nuova abitazione, si sarebbe spinto fino al villaggio vicino per rendere nota la sua decisione di fondare una nuova tribù, nella speranza di attirare coppie di giovani. «Quando la popolazione di un villaggio diventa troppo numerosa e non c'è cibo a sufficienza per tutti, si cacciano via gli abitanti in eccesso», spiegò. «Ecco perché un tempo i giovani andavano per mare, nella speranza di fare fortuna. La nave diventava a tutti gli effetti la loro patria e la loro casa. Forse riuscirò a convincere qualcuno a vivere qui. C'è legna finché vogliamo e siamo vicini al mare: potremmo costruire imbarcazioni solide...» Quelle parole riempirono Marion di gioia, tuttavia lei si chiese se Knut avrebbe avuto il coraggio necessario per seppellire le armi e rinunciare alla sua vita precedente. E se si fosse annoiato? Gli uomini di quel tipo amavano la guerra, era un fatto risaputo da tutte le donne con un minimo di sale in zucca. Per quanto si opponessero, era una cosa innata, faceva parte della loro stessa natura; pretendere di cambiarli avrebbe significato ferirli a morte, come maiali sanguinanti. Perciò smettila di pensarci. Non fare progetti. Prendi la vita come viene. In questo mondo non è concesso guardare troppo al futuro, si diceva la ragazza. Sentiva il bisogno di lasciarsi andare. Una strana esaltazione s'impossessò di lei. Le sembrava di assistere all'alba di un giorno nuovo, con tutto ancora da costruire. Un pomeriggio, nella foresta, posò una mano sulla spalla di Knut e lo obbligò a guardarla negli occhi. «Non sono una strega, non lo sono mai stata, sai?» confessò. «Non ho poteri magici. Rök si era inventato tutto. Le mie mani sono uguali a quelle di qualsiasi altra donna.» Poi continuò a parlargli, cercando di formare frasi corrette e di pronunciare bene le parole. Knut aveva un'aria sfuggente, come se quella dichiarazione lo preoccu-
passe. Perché si comporta così? Preferisce credermi una strega? Gli sembra più intrigante? si chiese la ragazza. D'un tratto, ebbe paura di averlo deluso. «Non capisco. Ti spieghi male», mormorò il giovane. Marion rinunciò, al tempo stesso stizzita e turbata da quell'atteggiamento. Probabilmente l'idea di conquistare una strega gli era sembrata eccitante... E adesso che quella «divinità» ruzzolava giù dal piedistallo per tornare a essere una donna come le altre, una donna che chiunque poteva possedere in un fienile, si sentiva deluso. Oppure le superstizioni sono così radicate in lui da impedirgli di guardare in faccia la realtà, pensò Marion. Tornarono alla casa senza più far cenno alla questione. Marion riprese a dedicarsi al lavoro e le tornò il buonumore. Amava la stanchezza che la coglieva la sera ed era felice di piombare in un sonno senza sogni. Gli incubi avevano infatti cessato di perseguitarla. Stava trascorrendo un periodo piuttosto spensierato e ormai si era imposta d'ignorare le occhiate inquisitrici di Ragnaar. Ogni tanto, il vecchio le si avvicinava per controllare che i lacci dei guanti fossero ben stretti, con nodi da marinaio, che Marion non sarebbe stata capace di sciogliere da sola. Marion non protestava. I guanti le davano troppo caldo, ma senza dubbio erano molto meglio delle manopole di ferro. Inoltre sperava di riuscire a sbarazzarsi anche di quelli, una volta che Knut si fosse convinto che lei non era una strega. Il tempo passava. Il clima era piacevole e la foresta si colmava di profumi. Ben presto gli alberi sarebbero stati carichi di frutti. Marion si lasciò andare al torpore che seguiva ogni guerra. Il suo corpo aveva fame di tutto. Si sforzava di non pensare al futuro, ripetendosi che era meglio restare ancorati al presente. Knut intensificò le visite alle tribù del vicinato. Parlava ai giovani del nuovo «villaggio» sorto ai margini della foresta. Ma, per il momento, nessuno aveva mostrato interesse. A Marion parve di capire che la gente aveva paura di Ragnaar... e di lei. Si mormorava che fosse stata la «strega franca» a condurre Rök alla disfatta, e con lui l'intera tribù. Si diceva che lei portasse il malocchio.
Sentendo quelle cose, la ragazza si stringeva nelle spalle. Non le dispiaceva vivere in quello stato di quasi solitudine. Col tempo, aveva finito per abituarsi ai due vecchi. Temeva l'arrivo di nuove, avvenenti ragazze, che avrebbero tentato di sedurre Knut. Da quando aveva saputo che il guerriero aveva cinque anni meno di lei, era preoccupata. Per quel motivo, gli nascondeva la sua vera età. Aveva paura che la giudicasse troppo vecchia. Una volta terminata la struttura della casa, Knut tagliò alcune assi che sarebbero servite a separare gli interni. Il sole estivo le avrebbe fatte seccare. Il ragazzo lavorava d'ascia senza risparmiarsi, sotto lo sguardo ironico di Ragnaar. Il vecchio capo non prendeva nessuna decisione e non s'immischiava nei progetti di Knut. La sua unica attività consisteva nel sorvegliare costantemente la montagna, come se temesse di veder sopraggiungere Wanaa da un momento all'altro. Era capace di restare immobile giornate intere, seduto sul suo ceppo, con una fiaschetta di pelle di capra ai piedi. «Lasciamo perdere. Tra non molto morirà. La prima barca costruita da Knut servirà per il suo funerale», mormorava Björn, guardandolo. Conducevano un'esistenza al tempo stesso monotona e felice, con una certezza fondamentale, quella di essere vivi. Per il momento, era tutto ciò di cui Marion aveva bisogno... oltre a un po' d'amore. E finalmente successe ciò che doveva succedere. Una notte, lei entrò nella camera di Knut, nuda a parte i guanti di cuoio, e s'infilò nel suo letto. Al contatto della pelle del ragazzo contro la sua, provò una tale ebbrezza che si sentì girare la testa. Ansimò di gioia nel momento in cui la penetrò. Ma i guanti la infastidivano, le impedivano di accarezzare il petto del giovane, di avvertirne le asperità e la delicatezza. Avrebbe voluto palparlo, massaggiarlo, graffiarlo, sentire il suo pene palpitare nell'incavo delle mani... Dovette mordergli una spalla per trattenere un gemito. Non voleva che Ragnaar scoprisse ciò che stava succedendo. Restò stupefatta sentendo Knut tremare fra le sue braccia come la prima volta che aveva tentato di possederla, lassù, tra le nevi del ghiacciaio. Credeva ancora che fosse una strega? Era proprio quello che lo eccitava? Una volta che lui ebbe raggiunto il piacere, Marion tornò nella sua stanza, con le gambe che le tremavano. Gemere abbracciata a Knut le era pia-
ciuto a tal punto da averne paura, per certi versi. Non voleva essere in balia di una passione che non riusciva a dominare. È stato troppo... Ma ci farò l'abitudine, si disse per rassicurarsi. Voleva convincersi che non sarebbe diventata un «oggetto» nelle mani del giovane vichingo. Per niente al mondo avrebbe voluto diventare una di quelle donne che vivono solo per il loro uomo, pronte a subire le carezze così come le bastonate e a chiederne ancora. Pensò a sua sorella, Yolande, che era quasi impazzita a causa della sua passione per l'eretico Malestrazza. Si sarebbe guardata bene dal fare una fine simile. Chiuse gli occhi e si addormentò, con una mano posata sul suo sesso irritato, chiedendosi se non fosse già incinta. 33 Presero l'abitudine di fare l'amore nella foresta, durante le loro ricognizioni. L'odore della linfa e del legno faceva crescere in loro un improvviso desiderio di unirsi in quelle radure illuminate dal sole. Marion incoraggiava il ragazzo a salire su di lei a cavalcioni e lo teneva stretto per le anche. I guanti di pelle, tuttavia, le impedivano il contatto diretto con il torace del suo compagno e continuavano a darle fastìdio. Per quanto potesse leccare il sudore dal petto di Knut, le sue dita continuavano a ignorare la carne di quell'uomo, una carne giovane eppure già coperta di cicatrici. Intagliatrice di pietra, modellatrice di creta, Marion aveva bisogno di conoscere il mondo attraverso il tatto. Le sue dita, i suoi palmi le insegnavano tutto sull'universo che la circondava, su ciò che desiderava imparare. Non poter conoscere Knut attraverso il contatto la faceva soffrire, la mandava su tutte le furie. Spesso, in passato, le era capitato di cedere al desiderio di accarezzare una scultura in marmo, di apprezzarne la levigatezza, di esplorarne le curve... In quanto artista, era come se vedesse nel giovane vichingo una statua che aveva preso vita. In lui tutto era perfetto, ma la ragazza avrebbe voluto sentire l'elasticità della pelle, percepire le fibre muscolose appena sotto l'epidermide, avvertire la tensione dei tendini all'attaccatura delle ossa. Era affascinata dal corpo umano, esso suscitava in lei un'eccitazione incontrollabile. Riusciva a capire gli scultori eretici che, col rischio di essere dannati, smembravano i cadaveri per scoprire i segreti del corpo umano. Anche lei avrebbe voluto imparare a memoria la struttura del suo amante, averla sulla punta delle dita, per poterla modellare nella creta, a occhi chiusi. Voleva farne un'opera d'arte, trasformarla in una statua. Era così
tanto tempo che non scolpiva... La sua avidità e il suo piacere troppo manifesto mettevano Knut a disagio. Vede in me una specie di demonio, una succube che si nutre del seme dei giovani maschi, pensò divertita. Era proprio quell'aspetto ad attirare tanto Knut, Marion lo sapeva bene. Quando saprà chi sono realmente, cesserà subito di desiderarmi, si diceva. Ma detestava mentirgli, recitare la commedia della strega dai poteri malefici. Doveva porre fine a quella situazione. Un giorno, mentre giacevano nudi l'uno di fronte all'altra nel folto del bosco, Marion tese le mani verso di lui, i palmi rivolti verso l'alto, in modo da fargli notare i nodi da marinaio che tenevano chiusi i guanti. «Tagliali!» ordinò. Era un gesto imprudente, ma non ce la faceva più ad aspettare. Per il desiderio sentiva pulsare il sangue alle tempie, al sesso. «Tagliali!» ripeté. Qualcosa balenò nello sguardo del ragazzo. S'immagina chissà quale provocazione... Crede che lo stia sfidando! pensò lei. Knut esitava. Aveva la peluria bionda delle braccia ritta per la paura. Infine afferrò il coltello e tranciò i lacci. Da buon vichingo, non avrebbe potuto sottrarsi. Le sfide si accettano sempre, altrimenti sei un vigliacco... Ho commesso un errore. È stato stupido, non avrei dovuto... si rammaricò Marion. Ma, in quel momento, non era in grado nemmeno di ragionare. Strappò via i guanti e liberò le mani umidicce. Allora, per la prima volta, poté posare i palmi sul petto di Knut. Avvertì uno spasimo e capì che il giovane si preparava a morire. Aveva accettato la sfida, aveva obbedito alla «strega franca» senza tentare di opporsi. Marion ne fu intenerita fin quasi alle lacrime. Quella volta fu lei a guidarlo mentre facevano l'amore. Non si stancava mai di toccarlo, di manipolarlo, come se stesse plasmando una statua d'argilla. Era un uomo in carne e ossa, eppure per lei era come un'opera, un'effigie che stava prendendo forma. Per tutto il tempo, Knut tremò come un animale offerto in sacrificio, aspettando rassegnato il momento in cui la strega avrebbe deciso di trasformarlo in una torcia umana... Knut ci mise un po' di tempo a capire. Rimase come folgorato per la sorpresa, gli occhi fissi sulle mani nude di Marion.
Ora mi odierà. Sono tornata a essere una donna normale, come ne ha violentate a decine durante le incursioni sulle coste normanne, concluse lei tra sé. Avrebbe voluto dirgli dell'errore in cui era caduto Rök, del fatto che lei era stata costretta a mentire per salvarsi la vita. Il ragazzo, però, distolse lo sguardo e si rivestì senza dire una parola. Marion restò in silenzio, trattenendo le lacrime. Infine, dopo quell'esitazione iniziale, Knut s'inginocchiò davanti a lei e le passò i guanti. Poi, con un po' di fatica, riannodò i lacci tagliati. «Dobbiamo essere prudenti», mormorò. «Ragnaar non deve scoprirlo. A nessun costo. Sarà il nostro segreto. Hai capito? Il nostro segreto.» Il giorno seguente, sul gruppo, regnava un'atmosfera pesante. Il malessere non proveniva da Knut, bensì dal vecchio capo. Marion si chiese se, durante la notte, Ragnaar non ne avesse approfittato per controllare le condizioni dei guanti. In tal caso, si sarà accorto che i nodi sono stati tagliati. Ha l'occhio di un lupo di mare... Capirà subito che mi sono tolta i guanti, nonostante la promessa. Era poi tanto grave? Marion era così felice per non essere stata respinta da Knut che non si era nemmeno soffermata a pensarci. Voleva essere certa di non aver perso l'affetto del suo amante e non aveva fatto caso all'insolito comportamento di Ragnaar, sempre più agitato e di cattivo umore. Il vecchio camminava avanti e indietro, scrutava il terreno, batteva le felci con un bastone. Quella sera, annunciò: «Ci sono le vipere... molte vipere, e non è normale. Fate attenzione, se non volete che vi mordano». Scosse il capo con l'aria di chi la sa lunga, prima di aggiungere: «Non ce n'erano prima... è strano. È un cattivo presagio, dovremo fare un sacrificio». Da quel giorno, passava il tempo a dare la caccia ai serpenti, da mattina a sera. Partiva, equipaggiato con un sacco e un bastone di ferro che lui stesso aveva costruito, e scuoteva ogni cespuglio, rivoltava ogni pietra. Al tramonto, svuotava il sacco sulla soglia della casa, mostrando, con evidente piacere, i rettili che aveva ucciso. Ne trovava in quantità davvero notevoli, per non dire inquietanti: quindici, venti... anche trenta. Siamo stati sfortunati. Ci siamo stabiliti in una zona piena di vipere... Ecco perché nessuno vuole unirsi a noi. La gente del posto dev'essere al corrente della faccenda, pensava Marion.
La vista di quelle serpi morte la faceva rabbrividire. «Strisciano, brulicano... Zuiiittt... zuiiittt... tra l'erba. Strisciano, brulicano... Non ne ho mai viste così tante. E procedono tutte nella stessa direzione», spiegò Ragnaar con un ghigno malefico. «Sembra che provengano dalla montagna e si dirigano verso la casa. Zuiiittt... zuiiittt... dobbiamo stare attenti. Ben presto passeranno sotto le porte e s'infileranno nei letti.» E mimava con la mano il movimento sinuoso dei rettili. Marion lo trovava così fastidioso che dovette resistere alla tentazione di spaccargli una brocca in testa. Ma soprattutto aveva paura. Sapeva dove voleva arrivare Ragnaar. Ci sta dicendo che Wanaa ha mandato le sue spie in avanscoperta. Ha inviato le vipere sulle nostre tracce ed esse ci hanno trovato. Ora verrà lei in persona a occuparsi di noi... Avrebbe voluto non farsi suggestionare da quelle assurdità, eppure non ci riusciva. La grande veggente continuava a incutere timore... in lei, come in Knut e Björn. Le sarebbe stato difficile descrivere il panico che leggeva negli occhi dei due uomini. Sembrava che nessuno si fosse reso conto che Ragnaar stava perdendo il senno. Marion imprecò tra i denti. Da quel momento in poi, tutti avrebbero trascorso le giornate scrutando la montagna! Nei giorni successivi, Marion uccise mezza dozzina di vipere negli immediati dintorni della casa. Sospettò perfino che Ragnaar le catturasse nella foresta per poi liberarle là, sotto il loro naso. Il vecchio passava ore intere in uno stato quasi di sonnambulismo. Sembrava una sentinella impazzita. Armato del bastone di ferro, trascorreva il tempo scandagliando la zona. Marion era così spaventata da quell'atteggiamento che prese a odiare il vecchio e ad augurarsi persino che morisse. Uno di quei dannati serpenti lo morderà, prima o poi! si ripeteva. La sera, prima di stendersi, ognuno di loro ispezionava attentamente il proprio giaciglio. Per ben due volte Marion trovò alcune vipere appallottolate sotto il sottile strato di erba secca. Quando le capitava di dover spostare un oggetto, poi, stava all'erta, aspettandosi diveder spuntare una vipera con le fauci spalancate. Ragnaar le stava sempre tra i piedi e non faceva che ripetere: «Sta arrivando. Manca poco, ormai. Devi tenerti pronta». Indicava i guanti della ragazza, per poi aggiungere: «Al mio segnale, dovrai correre da me e io ti libererò. Non dovrai far altro che andarle incontro e toccarla con le tue dita di fuoco. Solo tu puoi fermarla. Strega contro strega, è così che andranno
le cose. Lei è morta e tu sei viva, quindi il tuo potere dovrebbe essere superiore al suo. In ogni caso, tu sei la nostra ultima speranza contro la sua ira». Delirava, roso dalla demenza senile. Dimenticava i nomi di chi aveva intorno, li confondeva. Marion temeva che una notte, in preda alla follia, potesse pugnalare Knut, scambiandolo per Rök. Dormiva sempre meno: stava all'erta, tentando di distinguere i sibili delle vipere o i passi di Ragnaar. Ce l'aveva con quel vecchio per aver in qualche modo rovinato il suo paradiso. Le spedizioni nel bosco erano diventate l'unico modo per sfuggire al clima d'angoscia che regnava nella casa. Marion accompagnava Knut nel profondo della foresta, lontano dai due vecchi. Afferravano i manici di una carriola costruita dal giovane vichingo e s'incamminavano lungo i sentieri tortuosi, alla ricerca di legna da ardere. Si fermavano in una radura o in uno spiazzo nella vegetazione e facevano l'amore. Ormai, quando Marion si sfilava i guanti, Knut non aveva più paura. Sembrava avesse capito e accettato il fatto che la giovane non fosse affatto una strega. Un pomeriggio, mentre la ragazza, ancora a cavalcioni sul corpo del giovane, stava prolungando l'intimità accarezzandogli il petto, udirono un brusio tra i cespugli. Marion ebbe subito la certezza che si trattava di Ragnaar. Il vecchio doveva aver sospettato qualcosa, gli aveva seguiti e... Si alzò, guardandosi intorno. «Non è niente. È solo un animale», mormorò Knut. Sicuramente aveva ragione lui, tuttavia la ragazza continuava a essere inquieta. Il vecchio... Il vecchio l'aveva vista senza guanti, mentre accarezzava a mani nude il corpo di Knut. Ora sa. Di certo avrà capito, si disse. L'avrebbe forse lasciata in pace? Si rivestì e confidò a Knut i suoi timori: Ragnaar era pazzo, il suo cervello era corroso dalla vecchiaia e dai rimorsi. Non potevano fidarsi di lui. Knut scosse le spalle. «Presto morirà. Cerca di portare pazienza. È stato un grande capo e io lo rispetto.» Una volta rientrati a casa, Marion cercò invano di scorgere negli occhi di Ragnaar un bagliore che potesse confermare in qualche modo i suoi sospetti. Il giorno successivo, durante un giro di ricognizione nella foresta, Ragnaar notò alcune impronte nel terreno e si convinse che erano orientate
verso l'abitazione. Erano orme di piedi nudi. Di piedi di donna, dichiarò. «Potrebbe trattarsi di chiunque. Di una ragazza del villaggio vicino, particolarmente curiosa, venuta fin qui per spiarci...» tentò di opporsi Marion. Il vecchio, però, non le prestava attenzione. Le impronte, impresse nella terra morbida, mostravano una cicatrice sotto la pianta del piede destro. E Wanaa aveva una cicatrice simile, nello stesso punto. Siamo alle solite! sospirò Marion tra sé. Non si prese nemmeno la briga di andare a verificare. Con ogni probabilità, Ragnaar aveva costruito quelle impronte da solo, utilizzando la stessa tecnica messa in pratica da Rök. O forse si trattava di una messinscena architettata da Björn, per vendicarsi delle punizioni che in passato il vecchio capo gli aveva inflitto... Sì, non c'era dubbio, era un trucco di Björn. Anche lui aveva diritto alla sua vendetta. Non pensava ad altro! Doveva far pagare a Ragnaar le umiliazioni subite da giovane! Approfittando di un'assenza del vecchio capo, Marion prese lo scultore da parte. «Non vedi che è pazzo?» gli disse. «Vuoi che gli prenda un colpo? Nelle sue condizioni, poi, potrebbe rivoltarsi contro di noi. Smettila di tormentarlo!» Björn assunse un'aria innocente e le assicurò che lui non aveva niente a che fare coi deliri di Ragnaar. Marion non gli credette. Decisa a smascherare l'inganno, batté a tappeto la foresta, alla ricerca dei piedi in legno intagliati dallo scultore. Non poteva negare la presenza delle impronte, ma era convinta che fossero state realizzate grazie a un buon lavoro d'intaglio. La cicatrice, poi, era davvero fin troppo visibile... Trovava stupido da parte di Björn comportarsi così. Eppure non trovò niente. Un giorno, durante le sue esplorazioni, la ragazza si spinse fino alla scogliera rocciosa e ancora una volta si sorprese a scrutare la linea dell'orizzonte, nella speranza di riuscire a scorgere la costa del proprio Paese. Fu assalita dallo sconforto. Era intrappolata in quel luogo. In quella terra, in cui non si sarebbe mai sentita a casa. Ebbe un cattivo presentimento. Le onde si abbattevano contro le rocce a picco sul mare. Knut le aveva spiegato che quello era un punto molto pericoloso. L'acqua formava continui mulinelli che affondavano i drakar, riducendoli in frantumi. Dopo essersi scagliate contro il fiordo, le onde defluivano verso il largo, trascinando con sé le pietre strappate alla parete di roccia. Un giorno, l'intero blocco roccioso sarebbe precipitato in mare, corroso dai colpi incessanti dei fiotti burrascosi.
Marion rabbrividì. Il vento soffiava così forte che le sembrava quasi di essere nuda, in balia di quelle raffiche. D'un tratto, avvertì una presenza alle sue spalle e si girò di scatto. Dietro di lei c'era Ragnaar, teso in volto. Da quale cespuglio, da quale insenatura era sbucato? «Ti ho visto, nella foresta», esordì l'uomo. «Ho visto le tue mani su Knut... Tu non sei una strega. Sei solo una femmina come tutte le altre. Non ci sarai di nessun aiuto. Ci hai mentito, fin dall'inizio. Avevo fiducia in te, tutto il mio piano era basato sui tuoi poteri...» All'improvviso, distese le braccia, i palmi ben aperti, e colpì Marion all'altezza del petto. La ragazza vacillò all'indietro e avvertì l'estremità del fiordo sgretolarsi sotto i suoi piedi. Sentendo che stava per cadere, lanciò un grido, ma il vento era così violento da riuscire a coprirlo col suo sibilo. «Knut!» gridò, ma era già troppo tardi. Ormai stava brancolando nel vuoto, mentre la parete di roccia grigia le scorreva davanti agli occhi. D'istinto s'irrigidì, in anticipazione dell'impatto con l'acqua. L'urto fu violento. Mai prima d'allora avrebbe pensato che il mare potesse essere tanto solido. Era come se avesse penetrato un muro liquido. Credette di essersi frantumata le gambe. Benché fosse una cattiva nuotatrice e si sentisse paralizzata dal terrore, fece di tutto per mantenersi a galla. Le onde la sollevavano in aria, per poi risucchiarla di nuovo. Ormai era certa che sarebbe morta schiacciata contro una roccia oppure che le onde, che si abbattevano sulle sue spalle come slavine, le avrebbero spezzato l'osso del collo. Il reflusso la spinse verso il largo. Non ce la faceva più a lottare contro quella forza immensa. Con le braccia allargate, si dibatteva tra la schiuma, sputando l'acqua che le riempiva la bocca. Poi sfiorò una tavola galleggiante, un grosso pezzo di legno sbiancato e levigato dall'acqua. Vi si aggrappò e lasciò che la corrente la trascinasse verso il largo. Con gli occhi che bruciavano per il sale, cercò di distinguere la sagoma di Ragnaar in cima alla scogliera. Il vecchio era là, immobile, sull'orlo del baratro, e seguiva con sguardo attento la sua agonia. 34 Ben presto capì che non sarebbe mai riuscita a raggiungere la costa a nuoto. La corrente che la spingeva verso il largo era troppo forte e lei si sentiva così sfinita che poteva soltanto rimanere aggrappata al pezzo di legno, grazie al quale non era affogata.
Andava alla deriva, allontanandosi da Knut ogni minuto di più. Ormai non vedeva più il fiordo, per metà coperto dalla foschia. Galleggiò in quel modo per un'ora circa, in balia delle correnti marine, finché non apparve una lunga imbarcazione, di quelle che i vichinghi chiamavano knorr. I marinai la trassero in salvo. Erano parte di un'unica famiglia e stavano facendo rotta verso la Russia, per barattare miele e pellicce. La ragazza li supplicò di ricondurla a terra, ma loro si opposero fermamente, dicendo che non avevano tempo da perdere. Non accettarono neanche di cederle un lancia di salvataggio. Come l'avrebbe pagata? Il capo del gruppo, un vecchio brontolone, le propose di guadagnarsi un passaggio lavorando in cucina. Le spiegò inoltre che, per migliorare la sua posizione, era libera di concedersi ai marinai. Ma non era obbligata a farlo. Marion si chiese se, una volta giunti a destinazione, quell'uomo avesse intenzione di venderla al mercato degli schiavi. Arrivò perfino a umiliarsi, offrendosi a lui in cambio di un passaggio a terra. Ma il vecchio si ostinava a rifiutare. La marea era alta, i venti favorevoli e i presagi buoni. Salvare una vita all'inizio di un viaggio significava fortuna e protezione. «Ti abbiamo salvato e ora ci appartieni. Hai un debito con noi e l'intera traversata a disposizione per saldarlo», ripeteva. Una donna gettò a Marion degli abiti asciutti e le ordinò di cambiarsi. La ragazza obbedì. Più tardi, il capo le portò una brocca con dell'idromele e ne approfittò per mostrarle un bizzarro tubo di pelle, di cui andava molto orgoglioso. «È un cannocchiale», spiegò. «L'ho comprato a Venezia. Nessun altro vichingo ne possiede uno simile. Consente di vedere vicine le cose lontane. Basta posare l'occhio qui...» Su sua insistenza, Marion puntò l'oggetto in direzione della terra, nella speranza di riuscire a scorgere per l'ultima volta il viso di Knut. Ebbe qualche difficoltà a mettere a fuoco - anche perché le tremavano le mani - e, senza accorgersene, puntò la lente verso la montagna. D'un tratto sussultò, trattenendo a stento un grido di terrore. Per poco non lasciò cadere il cannocchiale... Per un istante, in mezzo alla nebbia che si distendeva sulle alture, le era sembrato di scorgere Wanaa. Era al limite della pianura e si dirigeva verso la casa, con una collana di vipere al collo. Ma senza dubbio si era trattato di un miraggio.
Si conclude così la seconda peregrinazione di Marion delle Pietre. Auguriamoci che Dio la protegga nelle sue nuove avventure e che la pace e la misericordia siano con lei. FINE