BRIGITTE AUBERT LA MORTE TAGLIA E CUCE (Le Couturier De La Mort, 2000) Il était un petit homme Pirouette Cacahuète Il ét...
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BRIGITTE AUBERT LA MORTE TAGLIA E CUCE (Le Couturier De La Mort, 2000) Il était un petit homme Pirouette Cacahuète Il était un petit homme Qui avait une drôle de maison Le facteur qui est entré Pirouette Cacahuète Le facteur qui est entré y a perdu le bout du nez... C'era una volta un omettino Dindo dindo dindolino C'era una volta un omettino Che viveva in un abbaino Il suo vicino entra per caso Dindo dindo dindolaso E ci rimette la punta del naso... 1 Il vento caldo sollevava vortici di pioggia unta. La gente correva, i leggeri abiti estivi incollati al corpo. Il cielo si era oscurato all'improvviso, pesanti nubi nere, tuoni lontani. I ragazzini, con i sandaletti di plastica fluorescenti, saltavano a piedi uniti nella venerabile fontana che abbelliva il centro della piazza. Il gelataio, sorpreso dal temporale, cominciò a metter via in fretta il suo armamentario. Piove, si è messo a piovere improvvisamente, piacevole, come una mano fresca sul viso. L'autobus non arriva. Le mie gambe parallele, ben piantate per terra, muovo la destra, muovo la sinistra, sono mie, obbediscono. Le dita, strette intorno ai manici della busta di plastica, dita mie, fedeli soldati, fate ondeggiare il sacchetto con noncuranza e voi, labbra mie, dalla docile duplicità, fischiettate Tiens, voilà du boudin, mentre i miei occhi, preziosi mirini da predatore, fissano quel povero idiota in uniforme in mezzo a un ingorgo, stoico sotto l'acquazzone.
Il poliziotto Marcel Blanc era stanco. Sfinito. Guardava le auto girargli intorno senza posa come in una giostra, i pedoni passare in nugoli stridenti, con grandi sospiri. Aveva una gran sete, troppo caldo, i piedi in fiamme e voglia di pisciare. Aveva detto a Madeleine che quella sera sarebbe rientrato verso le otto. Lei lo avrebbe aspettato brontolando, i ragazzini si sarebbero beccati un paio di sberle, la televisione a tutto volume... Bisognava resistere ancora tre mesi prima della sentenza di divorzio, sospirò tra sé, lisciandosi i baffi, rossi come i capelli ricci tagliati cortissimi. Zuppo di pioggia, il poliziotto Marcel Blanc, mentre osservava automaticamente gli andirivieni della gente intorno a lui - la commessa della libreria che rideva garrula con due giovani tedeschi che esibivano piercing e jeans bucati, il direttore del cinema accanto che chiacchierava con la direttrice del negozio di biancheria - sognava di fuggire alle Bahamas con la bella bruna del Roi du Charolais e di rotolarsi nudo insieme a lei sulla sabbia tiepida di spiagge deserte e non inquinate. L'autobus finalmente arrivò, si fermò in una pozzanghera e vomitò passeggeri carichi di pacchi, che si disperdevano sotto la pioggia. Ne scese anche una giovane donna dai folti riccioli castani, la fronte ornata da un piccolo tatuaggio blu. Teneva per mano un bambinetto di quattro o cinque anni, riccio e dall'aria furba. Gonna e gilet neri, stretti da una cintura di cuoio borchiata, mettevano in risalto la vita e il seno sodo. Per puro caso, gli occhi neri della giovane donna incrociarono di sfuggita quelli grigi di Marcel, prima di ritornare sul bambino. Suo malgrado, Marcel la seguì con lo sguardo. Nei tratti angolosi e fieri, nell'andatura elastica, c'era qualcosa che lo attirava. Il suo sguardo sfiorò senza fermarsi l'ometto che faceva dondolare una busta di plastica. Era troppo affascinato dalla ragazza. La vedeva passare tutti i giorni. Il tatuaggio blu sulla fronte evocava l'Africa del Nord. Il vento del deserto... "Sì, ma le ragazze del deserto non sono fatte per i Blanc" avrebbe detto Jean-Mi, il cameriere del Claridge. Un vociare lo ridestò dal suo sogno a occhi aperti. Una donna in tailleur Chanel stava insultando un giovanotto che per poco non l'aveva centrata, aprendo lo sportello del suo furgoncino. Marcel si sentì in dovere di intervenire. La donna scosse l'imponente chignon grigio, borbottò qualcosa su quei "cacasotto di sbirri" e si allontanò, graffiando subdolamente la carrozzeria del furgoncino con la punta del suo ombrello firmato. Marcel sospirò. Gli mancava un anno e poi, forse, avrebbe superato il
concorso interno per tenente. Intanto, in mancanza del diploma ("I diplomi, roba per fannulloni" farfugliava suo padre tra un litro e l'altro di vino rosso), manteneva la quiete pubblica dalle otto alle dodici ore al giorno, visto che in estate gli effettivi scarseggiavano. L'ometto tirò fuori qualcosa dalla busta di plastica e la portò alla bocca, furtivo. Marcel consultò l'orologio e si disse che aveva una fame da lupo. L'ometto guardava Marcel che non lo guardava. Sorrise tra sé e sé, lasciando intravedere brutti denti appuntiti, ingialliti dal tabacco e dalla scarsa pulizia. Non gli piaceva il contatto con l'acqua del rubinetto, l'idea dell'acqua addomesticata della doccia. Il gusto saponoso del dentifricio. La spiacevole vischiosità del sapone. Grassa untuosità che soffocava il buon odore della pelle. Si concentrò sul boccone che aveva tra i denti. Fa bene alle gengive masticare carne cruda. Masticate, mandibole. Estraetene il sapore. Fate sprizzare il succo. Macinate le fibre gustose sotto il naso di quel povero Marcel! La ricetrasmittente di Marcel si mise a gracidare all'improvviso: "Pronto intervento, ripeto, pronto intervento, vicolo di La Pompe, tra Saint-Louis e Joffre." «Vado!» Con passo atletico, il poliziotto Marcel si diresse verso la stradina e superò la ragazza col tatuaggio. Senza smettere di correre, le fece un salutino portando due dita al berretto. Ecco perché non vide il lampione e lo prese in pieno. L'urto lo scosse fino ai talloni. Tuttavia il dovere lo chiamava e continuò a correre, sbuffando sdegnoso, nonostante lo splendido bernoccolo che cominciava a formarsi sulla sua fronte. La stradina era buia. La pioggia era cessata, improvvisa come era venuta. Attraverso le finestre aperte sentiva le tivù a tutto volume, vedeva le famiglie prepararsi per la cena. Un ragazzino si prese un paio di ceffoni, un vecchio ritirava precipitosamente il bucato, un divano cigolava a ritmo vigoroso. Marcel abbracciò con lo sguardo la prospettiva della stradina invasa dai rifiuti e si fermò di colpo. In fondo al vicolo, un piccolo yorkshire uggiolava, ininterrotto. Lentamente si avvicinò al cane, la mano sulla fondina. L'animale alzò la testa verso di lui, scuotendo il fiocco rosso che gli decorava la cima del cranio, e si mise a gemere a tutto spiano. Marcel fece un altro passo. Il corpo era steso per terra, riverso a metà su una pattumiera rovesciata.
In piedi nell'ombra, contro il muro di fronte, c'era una signora sulla sessantina, la borsa stretta al petto, un fazzoletto davanti alla bocca, scossa da singhiozzi. Marcel le si avvicinò, riprendendo fiato, e notò subito che puzzava maledettamente di vomito. Respirò a fondo, indicando il corpo steso: «Che cosa succede? Questo signore si è sentito male?» L'odore del sangue, del sangue fresco, gli arrivò improvviso alle narici. La vecchia signora non sembrava ferita. Così... Immagini da regolamento di conti, spacciatori, overdose, gli sfilarono confusamente davanti agli occhi. Lo yorkshire gemeva sempre più forte. Marcel avanzò con prudenza fino al corpo disteso, immobile, solo le gambe fuoriuscivano dal cumulo di rifiuti, e intanto lui registrava l'urlo delle sirene che si avvicinavano. «Ha visto che cosa è successo?» chiese, ritardando il momento in cui avrebbe dovuto chinarsi per guardare di persona. «Hu! Hu!» singhiozzò l'anziana signora, il viso sempre nascosto nel fazzoletto. Sotto shock, diagnosticò Marcel, le signore anziane hanno i nervi fragili. Be', inutile tergiversare. Si inginocchiò vicino all'uomo abbandonato tra i sacchi dell'immondizia e stava per posargli la mano sulla spalla, quando sospese il gesto, con gli occhi fuori dalle orbite. Innanzi tutto perché non c'era niente di più morto dell'uomo in questione. Poi, perché non era proprio un uomo. In realtà non era neanche una donna. Perché se il corpo indossava un paio di pantaloni la cui cerniera aperta rivelava un'anatomia indubbiamente maschile, la testa, seminascosta sotto rimasugli di verdura, era quella di una bella bionda dagli occhi azzurri. La spiegazione di tale incongruità anatomica non era riconducibile al fatto che si trattasse di un travestito o di un ermafrodito, ma a un semplice lavoro di cucito. La testa della donna, sezionata con cura, era infatti attaccata al collo dell'uomo con grossi punti di filo nero. All'altezza della carotide si distingueva chiaramente una serie di puntini neri. E per di più, pensò Marcel vomitandosi abbondantemente sulle scarpe, per di più anche le braccia erano state cucite, vecchie braccia rugose, maculate, e mancava, sì, mancava una mano, un intero pezzo di mano, come... se fosse stata rosicchiata... Fu scosso da uno spasmo irreprimibile, mentre i suoi colleghi invadevano il vicolo. «Allora, Blanc, non hai digerito il pranzo della mensa?»
Il capitano Jeanneaux, detto Jean-Jean, della squadra anticrimine, guardò dall'alto in basso Marcel che vomitava. L'agente si rialzò di scatto. «Scus', isp... Capitano!» Faceva fatica ad abituarsi alla nuova nomenclatura e non sapeva mai se doveva dire "capitano" o "signor capitano". Il capitano diede un'occhiata al corpo e si voltò senza che un solo muscolo del viso abbronzato fremesse. «Che porcherie si vedono!» disse con la bocca storta. Impassibile, cinico e duro, era così che si mostrava Jean-Jean da quando aveva preso servizio. Per tutta l'adolescenza aveva imitato i duri del cinema e, come investigatore, si sentiva più vicino a Malko Linge che a Jules Maigret. «Costello, impedisci a quei rompicoglioni di avvicinarsi e fai sparire quel cane, per favore» disse al suo aiutante, al quale i radi capelli, tinti di nero e pettinati all'indietro, e i baffi sottili davano un'aria da pappone napoletano, professione peraltro esercitata dal padre. Dopo la morte per sifilide della moglie, Costello Senior aveva spedito il figlio in Francia a vivere dalla sorella, una vedova bigotta, e Antoine Costello aveva ricevuto un'ottima educazione in un istituto religioso. Ma faccenda ereditaria? - aveva un debole per gli abiti e gli atteggiamenti da protettore anni Cinquanta, e nessuno osava farglielo notare perché era un uomo di singolare cultura, la cui massima aspirazione era quella di tradurre Mallarmé in greco antico. Così, giungendo le lunghe mani da pianista - o da strangolatore - il tenente Costello lanciò un "Abbiate la cortesia di allontanarvi!" alla plebaglia che cominciava a radunarsi. «Seppur edificante, lo spettacolo non è tra i più divertenti» aggiunse. Sorpresa dal sofisticato eloquio di quel pappone che, oltretutto, era anche sbirro, la gente indietreggiò. Costello raccolse il cagnetto tremante e lo porse alla padrona, cui una vicina delle Antille stava facendo bere un bicchier d'acqua. «Questo canide ha bisogno di essere reidratato!» disse alla vicina, che aprì la bocca e la richiuse, chiedendosi se nel gergo da sbirro "canide" significasse cane. Ramirez, l'altro aiutante di Jean-Jean, chinava sul corpo i suoi pelosi cento chili, con le grosse cosce frementi sotto la tela leggera dei pantaloni beige e la carnosa bocca spalancata: «Capo, capo, visto, capo, il cane si è mangiato la mano, visto, capo?»
ansimò rialzandosi, congestionato per lo sforzo, e si passò la mano grassoccia sui capelli grigi tagliati malamente. Jean-Jean, che disprezzava assai il suo volgare e obeso subordinato, sospirò senza rispondere, scacciando con una schicchera un po' di polvere dalla sua Lacoste salmone. «Bugiardo! Il mio Zouzou non avrebbe mai fatto una cosa del genere a un signore che non conosce, mai!» La vecchia signora, oltraggiata, agitava il fazzoletto sporco di vomito sotto il naso di Ramirez, che stava per soffocare. Jean-Jean, mellifluo, dava piccole pacche sulla spalla di Marcel. «Be', forse è Marcel che aveva un languorino, eh Marcel?» si senti costretto a dire, irritando Costello che non sopportava il cinismo. «Su, si calmi signora mia,» aggiunse frizzante «venga qui, sono il capitano Jeanneaux, prenderò la sua deposizione.» Aveva ricominciato a piovere e l'acqua che colava sul corpo faceva pensare a una canzonetta triste. Antoine Costello si fece il segno della croce, sotto lo sguardo beffardo dei colleghi. «Anche per te, pregherò per te quando sarai morto...» disse a Ramirez, il quale si portò la mano sul cuore coperto dall'adipe, protestando: «Non parlare di disgrazie, Tony!» L'ambulanza si fermò con uno stridore di freni. Due giovani in camice bianco balzarono giù, spintonando Marcel che si scostò. Con l'occhio fisso su Jean-Jean, lui da una parte si diceva che quel maledetto idiota si dava arie da sbirro cinematografico e dall'altra che, una volta tanto, avrebbe avuto qualcosa da raccontare alla sua futura ex moglie... «Cazzo!» esclamò uno dei barellieri, prendendo il corpo. Era il meno che si potesse dire. Mentre scendeva dall'autobus, l'ometto scivolò e per poco non si ruppe l'osso del collo. Un tizio grande e grosso scoppiò a ridere. L'ometto lo guardò, calmo. L'altro distolse lo sguardo. Gli uomini sono come i cani, bisogna far vedere loro chi comanda. Arrivato a casa si buttò sul divano, un grosso arnese foderato all'antica, eredità di una zia che aveva appena conosciuto. Accese la tivù. Un grande televisore nuovo di zecca, angoli quadrati, schermo ultrapiatto, suono digitale e chi più ne ha più ne metta. Gli piaceva la tivù. Era abbonato a quella via cavo. Trentasei canali, zap-zap-zap, notte e giorno, niente notte, niente giorno, rumore, immagini, musica, caleidoscopio permanente sul mondo in
movimento, movimento, gli piaceva il movimento. Si collegò a Eurosport. Se ho fortuna la partita non è ancora finita. Appena in tempo: scambio di palle bianche sul terreno zuppo, piove proprio dovunque, un'altra estate di schifo... Guarda un po' quest'idiota come ha colpito di striscio, dài muoviti, cretino! Mentre insultava i giocatori, l'ometto si annusò la mano, inebriato dall'odore dolciastro che esalava. Sorrise, mettendo in mostra i denti gialli e appuntiti. Aveva visto un servizio sugli antichi cannibali delle isole Samoa che si limavano regolarmente i canini e aveva deciso di seguirne l'esempio. Ingegnosi e pratici, quei selvaggi. Vicini alla natura, come me. Che cos'è la natura, se non il delitto organizzato su grande scala? Be', basta filosofare, andiamo a vedere nel freezer, a prepararci un altro bel piattino... Si alzò, si stiracchiò con pigrizia, grattandosi la patta dei pantaloni. Accese una Gitane e aspirò lungamente il fumo. Si sentiva incredibilmente bene. Non avrebbe mai creduto di poterne trarre tanto piacere. Finora si era limitato ai cadaveri lasciati a sua disposizione. Aveva qualche bella composizione al suo attivo, tra le altre un canegattotopo a sei zampe e tre code. Be', ma adesso era tutta un'altra cosa! Spiare le prede, sorprenderle, ucciderle rapidamente, trasportarle nella tana, stenderle sul tavolo, nature morte in situ, vedere la sega tracciare il solco nella carne che si apre, e affondare, lasciando comparire i ghirigori dei vasi sanguigni, pigiare, tagliare, sentire l'osso scindersi, separare le membra dalla testa, una testa che si prende per i capelli, di cui si sente il peso sul braccio, è come una trasfusione di vodka liscia, un trip senza pari, un al di là del reale riservato all'élite dei cacciatori! Sollevò lo sportello del congelatore ultimo tipo, un sorriso felice distese le sue labbra sottili. Era la prima volta che passava all'azione con esseri umani. No, la seconda per l'esattezza. Ma la prima non contava, era capitato quasi per caso. Chiuse gli occhi, non voleva pensarci, non aveva mai voglia di pensarci. Preferiva rivedersi sulla piazza, all'imbrunire, l'odore delle foglie, il cinguettare dei passeri. Aveva atteso, con pazienza, a lungo, vibrante di eccitazione. Con le cavie l'eccitazione della caccia non c'era. Erano solo bestie morenti, cui faceva l'iniezione finale nel consueto silenzio del laboratorio. Non c'era il vento tra i rami, nessun passante innocente, colpi di clacson così vicini e così lontani da quella magica attesa. Riviveva ogni cattura, secondo per secondo, e i suoi muscoli fremevano quando le evocava. Il gridolino di terrore della cassiera, subito interrotto dal filo acuminato del rasoio, la sensazione del seno pesante di lei che gli
si schiacciava addosso, la rivelazione di quanto pesasse un corpo morto. Il vecchio, stravaccato sull'erba tagliata, completamente andato. Non aveva nemmeno aperto gli occhi, passando dalla notte terrestre alla notte eterna senza saperlo. Il ragazzo, lui, aveva provato a difendersi, ma non era facile con un sacchetto di plastica infilato in testa, e poi l'aveva subito colpito al cuore, in profondità. Buttò la cenere della sigaretta nell'acquaio. Effettivamente, la parte più difficile era stata infilarli con discrezione nel furgoncino. Per fortuna aveva la grossa cassetta per gli attrezzi a rotelle, per il compressore. Nessuno fa attenzione a un tizio in tuta da lavoro che trasporta qualcosa. Quell'idiota di Marcel Blanc, invece, credeva che nessuno avesse notato il suo giochetto con quella donna! La pelle troppo scura... sulle carnagioni olivastre le incisioni devono vedersi meno bene. È come disegnare su carta scura. O, forse, bisognava andare più giù per vedere il rosa interno. Era tutta una questione di contrasti. Insomma, de gustibus... A lui piacevano le biondone siliconate, con i nei. Sfortunatamente, lui alle bionde piaceva poco. Herblain, il medico legale - che gli sbirri chiamavano più familiarmente "Doc 51" - si sedette sulla scrivania di Jean-Jean, il quale era intento a spillare cartacce rosa piscio con altre verde ospedale. Jean-Jean sudava. L'aria era pesante e appiccicosa, un vero e proprio clima tropicale. Il temporale si era diretto verso le montagne, le mosche erano astiose e tutti di pessimo umore. Il capitano alzò gli occhi su Herblain, scrutandone il volto magro e rugoso per scorgervi qualche indicazione. Da quando era diventato interno all'ospedale, Herblain aveva preso l'abitudine di annegare le sue emozioni in litri e litri di pastis, da cui il soprannome, e levitava in stato permanente su una nube di buon umore. Si asciugò la fronte con un vecchio fazzoletto costellato da deiezioni di vario tipo, lo rimise in tasca dopo averlo ripiegato con cura e sospirò: «Mai vista una cosa del genere... Un vero puzzle!» Emise una risatina secca che si concluse con colpi di tosse, la tosse roca degli alcolizzati. Un puzzle di carne con pezzi tagliati su misura, si disse Jeanneaux rabbuiato. «Il corpo deve avere una trentina d'anni,» riprese Herblain quando cessò l'attacco di tosse «appartiene a un uomo robusto, molto peloso e in ottima
salute. La testa: una ragazza di venticinque, ventisei anni, direi. E le braccia... sì, le braccia, be', propenderei per un vecchio di almeno settantacinque anni, un barbone o qualcosa del genere, le braccia bucate come un colapasta.» «Bucate con cosa?» «Con una siringa, ispettore, probabilmente riempita di eroina o di vino rosso! Mi chiedo in che stato sia il resto...» mormorò con aria giuliva. «Il resto?» «I resti, piuttosto. Be' sì, caro Jeanneaux, di solito i corpi umani sono composti da due braccia, due gambe, un busto, una testa, quindi da qualche parte ci devono per forza essere i pezzi mancanti della nostra pluri-vittima. Be', è tutto, vado, è il compleanno della mia nipotina...» «Le dia un bacio da parte mia. Mi dica, ora che ci penso: per cucire la carne c'è voluto un ago speciale, o no?» «Un ago da chirurgo, oppure uno di quei grossi aghi per cucire i jeans o il cuoio. Sa, la pelle si buca facilmente, ah ah ah!» «Ah ah ah! Non si può sapere come sono morti?» «Impossibile! Tutto ciò che abbiamo è in buono stato. Se ci sono tracce, le troveremo sui pezzi mancanti. Insomma, Jean-Jean, lei troverà il resto, no?» «Forse agli oggetti smarriti, con un po' di fortuna! Allora ciao, dottore, ah ah ah!» Nascosto dietro al fumo del suo eterno cigarillo, Costello aveva seguito con un senso di nausea quel botta e risposta dall'umorismo forzato. Quel Jean-Jean era un vero menefreghista. 2 L'agente Marcel Blanc sognava a occhi aperti sulla piazza pubblica. Oggi faceva ancora più caldo, nemmeno un alito di vento. Piombo fuso, come si dice nei libri. Ripensava alla sera prima: invece di fargli la solita scenata, Madeleine lo aveva accolto come un eroe. Per la prima volta, dopo quindici anni di vita in comune, lui si occupava di un caso interessante! Aveva decretato, scuotendo l'opulenta chioma decolorata. Un delitto assolutamente ripugnante sul quale bisognava immediatamente riferire a tutte le sue amiche, aveva esclamato, arrotondando le labbra turgide che un tempo avevano sedotto Marcel, le mani grassocce giunte sul seno abbondante. Era seguita una crisi di telefonite acuta.
Madeleine si rifiutava ostinatamente di accettare che fossero in piena procedura di divorzio, ecco la verità. Marcel alzò le spalle: con lei aveva chiuso, per troppo tempo gli aveva impedito di respirare. Non voleva più farsi mangiare vivo. Vide un collega passare in lontananza e pensò che avevano veramente l'aria da sbirri all'americana, nella loro nuova divisa: camicia blu con le spalline e berretto con visiera. Madeleine diceva che, col berretto o col képi un idiota resta sempre un idiota. No, aveva detto "basta con Madeleine!" Scacciando l'immagine carnosa e vendicativa della moglie come una mosca fastidiosa, Marcel ricominciò a pensare alla macabra scoperta del giorno prima. Era chiaro che l'omicida non aveva agito sul posto. Aveva operato in un luogo dove gli era stato possibile riunire i corpi e procedere alla lugubre messinscena. Perché era venuto a deporre la sua... opera in un vicolo cieco, in pieno centro? Era rischioso trasportare in auto un affare del genere! Il misfatto era stato commesso nei dintorni? Forse abitava da quelle parti? Erano riusciti a identificare la ragazza. Il marito l'aveva riconosciuta quella mattina stessa dalla foto pubblicata sul giornale. Una foto in bianco e nero scattata all'obitorio, che riprendeva solo il viso cui avevano dovuto chiudere gli occhi. La cassiera di un supermercato la cui scomparsa era stata segnalata due giorni prima. Dopo aver lasciato il lavoro, aveva tagliato per la piazza prima di farsi tagliare a pezzi: non era mai arrivata a casa. Il marito aveva avvertito la polizia verso le undici di sera, in preda al panico. I colleghi della defunta avevano confermato che effettivamente passava sempre dalla piazza; diceva che con tutti quei ragazzini che spacciavano, non si correva nessun pericolo. Era probabile che anche il vecchio barbone drogato frequentasse la piazza. Forse l'assassino abitava nei paraggi? Ma Marcel Blanc non era stato incaricato dell'inchiesta. Aveva il compito di far attraversare i vecchi e di impedire ai cani di pisciare sui fiori del monumento ai caduti che sorgeva accanto alla fontana. Cavolo, ma perché tutta quella gente in vacanza urlava così?! Il sudore gli colava sotto la visiera, Marcel si asciugò discretamente gli occhi, i baffi rossi erano zuppi. L'autobus delle quattordici frenò bruscamente e per poco non investì un motorino, il cui giovane conducente urlò: "Frocio!" mentre l'autista si sgolava: "Fanculo!" Marcel sospirò. Le porte si aprirono con un sibilo, lasciando apparire la giovane tatuata. Aveva un bimbo per mano, una busta con la spesa nell'altra e discuteva con un vecchietto vestito di poliestere
grigio che le gridava cose incomprensibili. Automaticamente, Marcel fischiò a un tizio che era passato col rosso. La giovane si girò verso di lui. Che aria da stupido doveva avere, con quel fischietto! Il conducente in colpa esibiva un'aria innocente. Bravo, pensò Marcel infuriato, continua così, vedrai che bella multa ti faccio, stronzo! Nel garage faceva fresco. L'ometto giocherellava con la medaglia di San Cristoforo che portava sempre al collo, mentre un mozzicone gli si consumava tra le labbra sottili. Chino sul motore della macchina di Jeanneaux, rifletteva. Questa sera andrò sulla spiaggia a sbarazzarmi dei resti. Una bella sorpresa per i pescatori, domattina. Sarà una novità rispetto alle meduse e alle buste di plastica. E poi, dopodomani, titolone sul giornale da degustare bevendo un caffè, mentre Marcel suda sette camicie. Mi piace quando è stampato a tutta pagina. Sapere che si parla di me, della mia opera. Sapere che dopo la ripugnanza e le grida, la paura scivolerà tra loro, insidiosa. E non è mica finita... no, è appena cominciata, ragazzi... Però bisognerà trovare qualcosa di nuovo. La medaglietta oscillava sopra il carburatore, che lui asciugava mollemente con uno straccio. Sì, nuovo. Anzi nuovissimo. Alzò la testa, lanciando un'occhiata all'intorno. La ragazzina con lo zainetto giallo che compra le sigarette per il padre, perché no? Viene voglia di mangiarsela... Come si chiamai Ah, sì, Juliette. Juliette... Bel nome per un cadavere. In quel momento Jeanneaux entrò con passo rapido, l'aria frettolosa e astiosa, come sempre. Un vero fetente quel Jeanneaux... Si crede un duro tipo Arma letale, te lo do io il letale! Gettò la cicca sul cemento, la schiacciò con cura come se fosse uno scarafaggio. Su, occhi, alzatevi dal motore, fissatelo, con la bocca molle e l'aria da ebete. Questo qui è proprio un ebete! Jean-Jean si piazzò davanti a lui, le mani sui fianchi. «Allora è pronta?» La voce, imitazione perfetta, da meccanico fine Novecento. «No, non capisco che cos'ha, deve essere l'accensione, non si preoccupi, ci penso io...» «Sempre così! Be', ripasso alle cinque, sarà pronta?» «Nessun problema! Buon pomeriggio, ispettore!» disse l'ometto a JeanJean, che si allontanava in fretta.
«Buon pomeriggio, nano!» borbottò Jeanneaux tra i bianchissimi denti. Tutti incompetenti in quel garage, si disse. Del resto sono circondato da nullità, incompetenti, sempre lì a lamentarsi e a mettere in piazza i loro piccoli, meschini problemi. Si fermò davanti alla vetrina della profumeria per controllare che la sua camicia di seta firmata Versace fosse ben infilata nei pantaloni color crema dal taglio perfetto, una piccola follia fatta fare su misura a Londra. Si chinò per cancellare un'impronta dalle Weston di daino fulvo e si rimise in cammino, con un sorriso enigmatico sui tratti angolosi. Il martedì mattina alle sei, un giovane olandese che dormiva sulla spiaggia si alzò per andare a far pipì e inciampò in un materasso umido. Dopo un esame più attento, vide che il materasso era provvisto di membra e occhi. Il giovane olandese, nonostante fosse un tantino vago, causa inalazione di sostanze illecite, capì di avere a che fare con un cadavere con la data di inumazione scaduta e si mise a piagnucolare pietosamente, finché alcuni rivieraschi, preoccupati, chiamarono la polizia. Il suddetto cadavere si rivelò effettivamente una specie di morboso patchwork, composto da: gambe di un vecchio barbone drogato, busto di una cassiera di supermercato in uniforme e testa di un tipo barbuto di una trentina d'anni, il tutto cucito con solido filo nero, di quello che si usa per riparare le reti da pesca, in perfetta sintonia con un cadavere spiaggiato. Mentre si asciugava le mani col fazzoletto, Doc 51 dichiarò - con un alito profumato all'anice che la continua ingestione di mentine non riusciva a mascherare - che in alcune parti i cadaveri erano stati masticati, rosicchiati, morsi, insomma... Proprio così, morsi da denti umani! Al che la segretaria di Jean-Jean si mise a vomitare, ma nella propria tazza da caffè vuota, dimostrando così una padronanza di sé che, più tardi, venne premiata con ardore da Jean-Jean all'interno di uno dei bagni. Era giovedì e tutto era calmo. «Juliette! Vammi a comprare il latte, per favore!» «Oh, mamma! Aspetta, ci sono i videoclip!» «Juliette, finiscila con la televisione e vammi a prendere il latte!» «Ma è buio...» «Non fare la stupida, sbrigati!» Juliette spense la tivù e uscì di corsa. Il vento caldo le soffiava addosso
come un phon al massimo della potenza. Aveva voglia di una coca-cola bella fresca. Quanto rompeva sua madre... L'ometto faceva jogging, spiando l'eventuale passaggio della ragazzina. Per via del caldo, in giro c'era poca gente. La scorse all'improvviso, all'angolo del vialetto. Al pensiero della sua pelle morbida, il ventre gli si contrasse... La bambina canticchiava uno stupido ritornello televisivo. Gli sorrise, come faceva sempre quando lo incontrava. L'ometto le piaceva perché faceva le smorfie, somigliava a un folletto. Era stato lui a riparare la macchina di papà, l'altro giorno, quando non riusciva a mettersi in moto. La chiamò, ma senza alzare la voce: «Juliette, vieni a vedere! Là c'è un gattino...» «Non ho tempo, devo andare a prendere il latte!» «Qualcuno deve averlo buttato qui, morirà. Non vuoi prenderlo?» «Ho già un cane... Dov'è il gatto? È piccolo?» «Sì, piccolissimo, là dietro il cespuglio, guarda...» Juliette vide solo l'erba gialla e secca. Due mani possenti le strinsero la gola, un ginocchio appuntito contro i reni, e il suo giovane collo si spezzò come quello di un gattino. L'uomo aprì la grande sacca sportiva in tela impermeabile (regalo di un grande magazzino di vendite per corrispondenza) e ci infilò dentro la bambina. "Crac-crac", aveva fatto il collo spezzandosi. Si allontanò fischiettando. La canzone di M le Maudit, perché lo divertiva. Aveva letto un sacco di cose sugli assassini. Sulla loro struttura psicotica e bla, bla, bla. La verità mai, ovviamente. E cioè che apparteniamo a una razza superiore. Obbediamo ad altre leggi, superiori alle vostre. In ogni caso, gli strizzacervelli avrebbero voluto che tutti fossero uguali, inseriti nella società, ognuno al suo posto, come gli strofinacci, gli asciugamani o le mucche alla mangiatoia. E tutto quello che esce dagli schemi: tagliare! Le autorità dicevano che aveva subito un grave trauma e questo gli aveva impedito di strutturarsi in modo normale. Lo psicologo me l'ha detto e ripetuto per dieci anni, là nella discarica, la discarica umana dove mi hanno messo a marcire: "Hai subito un forte trauma. Un trauma che ha impedito di strutturarti in modo normale." E questo solo perché avevo strappato un orecchio a uno dei pezzi di carne senza cervello con cui mi costringevano a parlare. Il trauma è starsene chiuso qui con dei rifiuti umani che si pisciano addosso, è subire il vostro lavaggio del cervello, ho pensato senza rispondere, ordinando alla bocca di accondiscendere e agli occhi di farsi miti. Sono un alieno costretto a te-
nere un profilo basso, per non far cedere la falsa pelle che mi tira alle giunture. Io sono così perché è la mia natura. Ce l'abbiamo forse con i lupi, gli orsi, le bestie feroci? Un lupo ha forse voglia di mettersi in questione? Accettarsi, ecco la chiave per riuscire. Buddha ha detto "tutto è cambiamento", ogni volta che cambio il destino, accelero il compimento di un ciclo. Già, ma che me ne frega! Conta solo il fatto che tutto questo mi eccita. Ecco la verità. Il resto sono balle... Come quei tipi che si drogano coi soldi o con la scalata sociale. Devi andare sempre più su, più lontano, più in fretta, più qualcosa. Un cannone pronto a sparare, io sono la palla e la bocca da fuoco, la carica e l'artigliere. Il re dei predatori. E loro, le bestie messe a mia disposizione da Madre Natura. Animali stupidi e meschini, buoni soltanto come materiale per la mia opera. Madeleine portò in tavola i ravioli alla ricotta con un sospiro di sfinimento. Far la spesa con un caldo del genere, sai che piacere! E non poteva certo contare su Marcel per accompagnarla, con i suoi orari da toccata e fuga. Del resto non era mai stato servizievole, quel mascalzone. Tanto meglio se sgombrava il campo, tanto meglio se voleva divorziare, dopo che lei aveva passato i quindici anni migliori della sua vita a farsi il culo per lui! Per poco non scoppiò a piangere. Marcel rimestava il magma dei ravioli nel piatto, pensando alla ragazza dell'autobus. Tanto per cominciare doveva essere sposata, forse non parlava nemmeno francese... La voce acida di Madeleine gli bucò i timpani: «Fanno schifo? Dillo, che fanno schifo!» «Che cosa?» «I ravioli!» Che cosa andava cercando, adesso, con quei ravioli del cavolo? Era già un miracolo che mangiasse con lei! Senti la rabbia salirgli dentro come il vapore in un bollitore: «Sì, fanno schifo e poi bisogna essere deficienti per fare i ravioli in piena estate!» «Mamma, papà ha detto "schifo"!» «Zitto, cretino! Cazzo, non vedo l'ora che sia tutto finito!» disse Marcel, dando un pugno sul tavolo. «Tutto cosa?» chiese Madeleine con le mani sui fianchi, gli occhi che
mandavano scintille. «Questa messinscena, cavolo!» Marcel spinse via il piatto e uscì, sbattendo la porta. Madeleine prese il piatto pieno e lo scaraventò contro il muro, mentre i bambini si rifugiavano sotto il tavolo. Anche l'ometto era a tavola. Mangiava con appetito quello che aveva davanti, interrompendosi di tanto in tanto per bere lunghe sorsate di birra fresca. Gettò un'occhiata alla sua invitata, sorridendo. Juliette era distesa sul divano. La gonna rialzata rivelava le cosce magre, la testa rivolta alla televisione. Vedendola così, si poteva quasi pensare che dormisse. Solo da vicino ci si rendeva conto che non era... intatta. L'ometto ingoiò un grosso boccone, soffocò un rutto, si stiracchiò voluttuosamente. Aveva mangiato cani, gatti, topi - bianchi e grigi, quelli bianchi erano più insipidi - e anche ragni, ma la carne umana era un'altra cosa, un sapore particolare, legato al fatto di sapere che si stava mangiando qualcosa di simile a noi. Tutte le volte che il suo pensiero si avventurava su questo terreno, lo censurava senza rendersene conto. C'erano una quantità di saracinesche che si chiudevano di colpo nei recessi del suo cervello, dov'erano depositate cose rosse e lucenti, trasudanti e corrosive, schizzate di acido, brucianti e insostenibili. Agguantò il cadavere di Juliette con una mano, fiero della sua forza, lo sollevò, facendo risaltare il bicipite, lo gettò sul tavolo, prese la grande sega e si mise all'opera sulla tela cerata. La sega cominciò a stridere. Jean-Jean era stanco. Stanco di pensare, stanco di lavorare, stanco di vivere per dirla in breve. Non aveva nessuna voglia di passare sei mesi a cercare di scoprire da dove provenivano quei pezzi di cadavere e chi era lo squilibrato che li aveva tagliati e rimessi insieme. L'equipe del laboratorio lavorava giorno e notte, senza nessun risultato. La stampa andava a nozze con i "puzzle macabri" e il capo non la smetteva di stargli addosso. I villeggianti che davano da vivere alla città non sembravano apprezzare "l'incontro con l'omicida folle" incluso nel programma dei divertimenti. Il vecchio barbone si chiamava Hans Meyer. Era alsaziano. Lo avevano identificato grazie al suo numero da deportato. Un vecchio drogato che gi-
rava per la città, inoffensivo e rimbambito. Il bel ragazzo era un manovale italiano, sposato con quattro figli. Un tipo a posto. E la cassiera, ancora peggio! Una santa che lavorava dodici ore al giorno per mantenere tre marmocchi, una madre incontinente e un marito alcolizzato... Improbabile che il colpevole fosse un familiare. All'obitorio avevano rabberciato i cadaveri in vista dell'identificazione da parte dei parenti. Rivestiti, le cuciture non si vedevano. Ma non era stato uno scherzo. Jean-Jean si era dovuto sorbire pianti e lamenti, svenimenti e urla, insomma quel genere di cose che gli davano il voltastomaco. E adesso la ragazzina scomparsa. Vicino alla piazza, guarda caso. Già da tre giorni. Il giovane meccanico del garage se l'era presa con Jean-Jean perché c'erano sempre un sacco di suonati che bighellonavano in piazza, e ovviamente la polizia non faceva niente, a parte le multe per divieto di sosta! Jean-Jean lo avrebbe preso a schiaffi, ma si era trattenuto. Maledetta estate. Maledetta indagine. Maledetta città. E se le alte sfere pensavano che lui avrebbe annullato le vacanze...! Be', tanto valeva andarsi a bere qualcosa, aveva la gola secca. Un pastis bello fresco, ecco di che cosa aveva bisogno. Avrebbe preferito un bourbon, come in Hollywood Nights, ma non era dissetante. Controllò il proprio riflesso nello specchietto dietro alla porta dell'ufficio, strappò un pelo che spuntava dalla narice sinistra e uscì, di pessimo umore. «Vediamo... che cosa ci starebbe bene?» L'ometto rifletteva. Aveva poggiato la testa di Juliette sul tavolo e la guardava attentamente. Quando si fa un collage, si riflette sull'effetto che si vuole ottenere. Effetto sorpresa. Dare un significato. Significante, direbbe lo strizzacervelli. Ci sarebbe bisogno di un ciccione, di un tipo enorme, obeso, ecco, qualcosa che contrasti con questa testolina da bambina. E le braccine. Sì, sì, sarebbe divertente. Braccine, testolina e un corpo enorme, come gonfiato con l'elio! Una specie di bambolona umana. "Doggy Bag", il nuovo giochino per il vostro bambino! L'ometto sistemò la testa di Juliette nel freezer e uscì alla ricerca di un esemplare di suo gradimento. Follia allo stato puro, quest'oggi. La città era un unico ingorgo. Migliaia
di clacson isterici. La fila per imbarcarsi sulla nave-traghetto diretta alle isole della baia superava i cento metri. Con perfidia, la gente si rifilava colpi di borse termiche negli stinchi e di ombrelloni in pancia. Marcel sbadigliò. Aveva litigato con Madeleine fino alle due del mattino. Era sfinito. Autobus bloccati, ciclisti senza casco, sosta vietata, consegne interminabili, cani pisciomani, vecchi satiri, giovani ubriaconi, barboni, cleptomani: l'agente Marcel Blanc se ne fregava. Dormire e riposarsi, ecco quello che voleva. Andare in Alaska a rotolarsi sul ghiaccio... Dio mio, quant'era grasso quel tipo! L'obeso attraversava la piazza con difficoltà, dondolando come un'oca. La ciccia gli ballonzolava sotto la camicia hawaiana ben tesa, la pancia gli ricadeva sulle cosce come un grembiale. Marcel lo osservò suo malgrado, imbarazzato ma affascinato. Non era il solo. L'obeso si appoggiò a un muretto per riprendere fiato. Poi ricominciò a trotterellare, con le enormi braccia penzoloni lungo i fianchi come cosciotti di vitello su un bancone, la sporta della spesa piena di cibi in scatola gli sbatteva sul ginocchio enorme. Occhietti marroni, vivaci e scrutatori, seguivano il tragitto del Ciccione. Poi si soffermarono pensosamente su Marcel. Per un attimo una gioia malvagia, assolutamente malvagia, rischiarò lo sguardo marrone con una fiammella gialla, ma quando Marcel si girò, misteriosamente allarmato, restava solo uno sguardo sorridente, amichevole, del tutto a posto. Marcel si era voltato bruscamente. Sensazione di essere osservato. Sensazione sgradevole. Ma no, era tutto a posto. L'ometto salì sul motorino. Ho bisogno di quel Ciccione. Subito. Questa sera. Quella massa di carne traballante, quella montagna a due zampe, quel meraviglioso cumulo di materia prima. Ne ho bisogno. «Vado in officina, torno...» Il capo alzò la testa, preoccupato dei controlli della Finanza che gli stava addosso. La pista del Ciccione era facile da seguire come quella di una balena nella savana. L'uomo attraversò alcune strade, avanzò lento con la sua andatura vacillante fino alla porta di un vecchio caseggiato, entrò senza prestare la minima attenzione al motorino che si stava fermando alle sue spalle. Si chiamava Roger. Laurent Roger. Aveva trentatré anni. Sua madre era morta due anni prima, l'anno in cui Laurent aveva raggiunto i centotrenta chili. Adesso andava per i centoquarantadue. Non era sposato, non lo era mai stato e non aveva mai "conosciuto" una donna. Preferiva i ravioli in
scatola. Cominciò a salire gli scalini, già ansimante. Non sapeva che stava sputando l'anima su quei fottuti scalini per l'ultima volta. Ma se l'avesse saputo, forse non gli avrebbe fatto un gran piacere... In piedi davanti all'armadietto, Marcel finì di asciugarsi, recuperò gli abiti e cominciò a vestirsi, indurendo gli addominali d'acciaio davanti allo specchio. Nemmeno un grammo di grasso, si disse soddisfatto. La stessa corporatura di vent'anni fa. I capelli bagnati gocciolavano piacevolmente sulla nuca. Si sentiva allo stesso tempo leggero e denso. Forte. Virile. Andava a karate tutti i lunedì. Era lì che aveva fatto amicizia con Jean-Mi. Jean-Mi aveva portato Jacky e Ben, e Ben aveva convinto Paulo a iscriversi. Venivano anche un sacco di colleghi di Marcel, l'istruttore era un ex campione di Francia. Con la coda dell'occhio vide Jean-Jean farsi la doccia, chiacchierando con un tizio della Buon Costume, Rudy "la Faina". Marcel tese l'orecchio. «Quelli del laboratorio dicono che chi ha fatto il lavoro è un professionista. Un buon lavoro, pulito, preciso. La stessa sega è servita per tutti i corpi. Una sega a fibra di carbonio, come quella dei chirurghi. Niente polvere, niente fibre tessili, niente. Qualche frammento di plastica incollato alla pelle dei cadaveri.» «Forse li ha avvolti in una tela cerata...» «Forse. Pensano che abbia lavorato in una macelleria o in un ospedale, vista la precisione delle incisioni. E non porta la dentiera: ha strappato i pezzi che mancano direttamente con i denti.» «Un chirurgo cannibale, forse?» gli rispose Rudy. «Sì, oppure adopera una falsa mascella, come in Red Dragon.» Marcel si chiese che cosa fosse Red Dragon. Senz'altro un giallo. Non li leggeva mai, li trovava deprimenti. D'altronde leggeva pochissimo. Non aveva tempo, non aveva l'abitudine. A volte i fumetti dei bambini e i giornali. Gli riempivano la testa a sufficienza. Gli altri arrivavano scherzando. Confusione di voci maschili, di battute mille volte ripetute, di risate. Jean-Mi, Paulo e Ben presero in giro Marcel per i boxer gialli con gli ananas che i bambini gli avevano regalato per la festa del papà. Jean-Jean e il grande Rudy si allontanarono, con la loro andatura da cow-boy. 3
Il vecchio furgoncino blu era parcheggiato davanti all'ingresso del caseggiato. Dall'altra parte della strada, l'orologio luminoso sopra l'insegna del Crédit foncier segnava le 3 e 15 e una temperatura di 27 gradi. Il furgoncino era vuoto, il pianale ricoperto da un telone di plastica. Al secondo piano, la porta dell'appartamento si aprì silenziosamente. L'ometto avanzò senza rumore, incappucciato in un'ampia cerata nera, insolita in quella bella notte estiva. Lì sotto sudava come in un bagno turco. Si asciugò la fronte, il sudore gli colava negli occhi. Avrebbe dovuto mettersi una fascia come i tennisti, si rimproverò. L'appartamento era immerso nell'oscurità. L'ometto si fermò, ascoltò. Il russare potente lo guidò a passi felpati verso la stanza. Spinse la porta. Il russare continuava, tranquillo. Avanzò nella stanzetta, accese per un attimo la torcia puntandola verso il pavimento. Il Ciccione dormiva, disteso come un sacco della spazzatura troppo pieno. L'ometto si chinò su di lui, ombra nell'ombra. Il Ciccione aprì gli occhi all'improvviso: «Chi c'è?!» «Capitan Uncino» sussurrò l'ometto, squarciandogli la gola con un'unica rasoiata. Il sangue zampillò verso il soffitto come un geyser. Il Ciccione batté freneticamente le braccia, come uno che affoga, poi sempre più lentamente, a scatti. L'ometto, che la cerata nera proteggeva dal sangue, cominciò a legare intorno all'uomo morente le cinghie da traslocatore di cui si era prudentemente munito. Il corpo ebbe un ultimo sussulto. Per puro divertimento, prima di andarsene, l'ometto gli cavò un occhio, quello sinistro, con la lama affilata del rasoio, e poi lo mise in un bicchiere d'acqua sul comodino. Un occhio era più divertente di una dentiera, bisognava pur intrattenere i poliziotti... Il vecchio inquilino del terzo si mosse nel sonno. Si chiese vagamente chi diavolo potesse far rimbalzare un pallone giù per le scale. Poi si riaddormentò, mentre il furgoncino si metteva in moto. Marcel stava cercando di convincere una puttanella ostinata, ma graziosa, a non parcheggiare la Porsche sotto il cartello DEPOSITO, quando un vecchietto gli si avvinghiò al braccio e lo scosse: «Signor agente, signor agente!» «Lo vede che sono occupato, no? Un attimo! E lei, sposti immediatamente questo veicolo o le appioppo una multa!»
«Mio marito la farà saltare!» Vorrei farti saltare io, pensò con volgarità Marcel squadrando il reggiseno quinta misura della svergognata. «Signor agente, è il mio vicino, non risponde!» insistette il vecchio. «E che ci posso fare io? Signora! Signora! Aspetti, non può lasciar qui la macchina, torni indietro!» «Non posso, ho appuntamento dal dentista! Mi faccia una bella multa, se le fa piacere.» La puttanella fuggì, trotterellando sulle scarpette in un tintinnio dorato. Marcel si asciugò la fronte. Il vecchietto continuava a scuoterlo, testardo: «Mi chiamo Ange Caretti,» precisò «gli porto su il pane tutti i giorni, al mio vicino, e non ha risposto e siccome è malato di cuore...» «Sì, vengo, vengo.» Che banda di pazzi isterici! Seguendo il vecchietto che procedeva spedito, Marcel si sentì all'improvviso divorato dalla voglia matta di un gelato italiano. Guardò con odio un ragazzo, rosso di capelli quanto lui, che ne leccava uno, al pistacchio. Sporchi turisti. Il vecchio correva quasi, adesso. Trascinò Marcel in un caseggiato cadente, tre strade più in là. Passando, l'agente notò le cassette delle lettere fatiscenti, il pavimento rotto. C'era proprio bisogno di un bel restauro. Salirono a tutta velocità le scale dai gradini sbrecciati. Marcel ne approfittò per salire in punta di piedi, faceva bene ai polpacci. Uffa, Caretti si era fermato al secondo piano, davanti a una porta socchiusa sul buio. Marcel si asciugò la nuca. «Be', è aperto! Non poteva guardare dentro, no?» «Non si sa mai, forse ci sono i ladri... vada lei...» Marcel alzò le spalle ed entrò, la mano sul calcio della pistola. «Polizia! C'è nessuno?» Nessun rumore. Tre porte scrostate si aprivano su un corridoio buio e marrone che sapeva di chiuso e di rancido. Una brutta sensazione gli fece formicolare le mani, ed ebbe la certezza che l'inquilino fosse morto. Era come se l'appartamento fosse diventato freddo. Detestava la vista dei morti, gli facevano venire gli incubi. Con ripugnanza, scostò la prima porta e tirò un sospiro di sollievo: un bagno sudicio e vuoto. Spinse quella accanto: una cucina in formica gialla anni Cinquanta, con un centinaio di scatole da pizza accuratamente addossate alle pareti. Si sentiva il brusio del frigo. Grossi scarafaggi neri si sparpagliarono sull'acquaio, presi dal panico. Marcel detestava gli scarafaggi
quanto i cadaveri. Spense, immaginandosi il brulichio degli insetti, e ritirò rapidamente le dita dall'interruttore. Terza e ultima porta. Esitò un secondo, sentendo lo sguardo pungente del vecchio sulla nuca. Su, andiamo. La porta si aprì su una stanza sprofondata nell'oscurità. Marcel restò un attimo sulla soglia, mentre gli occhi si abituavano alla penombra. Il letto a due piazze era sfatto. Vuoto. Le pareti scrostate e macchiate da enormi chiazze scure. Marcel si avvicinò alla finestra, aprì gli scuri, si girò, strizzando gli occhi per il brutale irrompere della luce, ed esclamò: "Cazzo!" Il sangue era schizzato dappertutto, fino al soffitto dove si era seccato in minuscole stalattiti. Né Marcel né Ange proferirono parola. Il vecchio si mise a gemere, torcendosi le mani. Senza riflettere, Marcel tirò fuori il revolver e si avvicinò al letto, respirando dalla bocca tra i denti serrati. Si chinò, con la pelle d'oca. Lenzuola stropicciate, irrigidite dal sangue. L'impronta di un corpo monumentale. Una lampada a forma di fungo col vetro coperto di sangue. Un bicchiere sul comodino con qualcosa dentro. Prima cosa, non toccare niente. «Non tocchi niente!» gridò al vecchio, voltando solo la testa. «Non si preoccupi, guardo la tv, bisogna aspettare quelli delle impronte, vero?» «Sì.» «Deve essere morto, il povero Laurent, l'hanno sgozzato come un maiale...» Marcel si chinò per guardare nel bicchiere e, per la seconda volta nella sua carriera, si vomitò sulle scarpe. «Be', se fosse successo al fronte! È per colpa di quelli come lei che abbiamo perduto la guerra!» strepitò Ange Caretti, saltando da un piede all'altro per l'indignazione. «Mi vada a prendere uno straccio, Cristo!» gorgogliò Marcel, raddrizzandosi. L'altro si eclissò, borbottando. Marcel accese la ricetrasmittente. Nel bicchiere c'era un occhio azzurro con filamenti gialli. Quando mise piede sulla scena del presunto delitto, il tenente Jeanneaux non era precisamente di buon umore. Costello, che lo seguiva a ruota, ispezionò la stanza canticchiando Mon beau sapin, il che indicava in lui una certa irritazione.
Marcel se ne stava zitto. Pensava che stavolta le sue scarpe erano andate. Un paio di scarpe di servizio che gli erano costate un sacco di soldi, si era guadagnato la giornata. Il Ciccione era steso sulla tovaglia di plastica come un elefante marino arenato. L'ometto tirò a sé l'ago con aria trasognata. Sarebbe stato il suo capolavoro. Un moscone ronzava, sornione. Lo schiacciò con un rapido gesto e si leccò la mano, goloso. Adorava il sapore zuccheroso delle mosche. Un sacco di popoli primitivi mangiano gli insetti, ci sono un sacco di vitamine negli insetti, tutta la nostra igiene alimentare andrebbe rivista. In Dracula, il tizio che mangia gli insetti viene presentato come un povero pazzo. Che oscurantismo! Gli scrittori devono sempre criticare quello che non capiscono. Come se il mondo aspettasse la loro opinione per vivere. Gli insetti sono molto più vecchi di noi, sono sopravvissuti a tutto. Quando se ne manda giù uno, si assimilano i milioni e milioni di anni della potenza della terra. Mangiare un verme succoso è come respirare l'odore dell'erba umida. Lo scarafaggio ha un sapore più amaro, ma c'è più da mangiare. La mosca ha qualcosa in più, come un cioccolatino col caffè. Gocce di sudore gli cadevano dalla fronte sulla pancia esangue del morto, si disperdevano tra i peli umidi e ricciuti che correvano dall'inguine al petto. Il corpo esalava l'odore dolciastro e ripugnante dei cadaveri. Lo percepiva, ma non lo disturbava. Anzi. Lo conosceva bene. Un odore familiare. Fuori si era messo a piovere. La stanza si rabbuiò di colpo. Un temporale estivo. Violento. Diluvio d'acqua e crepitar di fulmini. Al primo tuono l'ometto girò la testa e, improvvisa come l'arrivo della pioggia, un'espressione di panico assoluto gli si dipinse sul volto. Mollò l'ago, si mise a tremare e a gemere e si buttò sotto il tavolo, la testa tra le braccia, il corpo scosso da convulsioni. Il temporale raddoppiò di intensità. L'ometto sembrava a pezzi, raggomitolato sotto il tavolo, gli occhi chiusi, le mani sulle orecchie, la bocca deformata dal panico articolava senza posa e in silenzio la parola: "Mamma!" Poi, dopo qualche secondo, il temporale scemò. Anche lui si calmò. Respirò più lentamente. Aprì gli occhi. Le pupille immense sembravano due buchi neri e vuoti. Un rivolo di sangue gocciolava dalla sua opera incompiuta sulle mattonelle rosse, irritante come un rubinetto chiuso male. Si rialzò, senza sapere che si era accovacciato.
Anche sotto il pergolato faceva caldo. Un caldo spugnoso, appiccicoso. Marcel sudava. Guardava, senza vederle, le famiglie che passavano nella strada sottostante, materassini sotto braccio, cappellino di tela in testa. Spesso, la domenica, Marcel, Madeleine e i bambini si ritrovavano da Caró e Jacky con altri amici. Da Jacky si stava bene perché c'era il giardino. Jacky, Paulo, Jean-Mi e Ben si conoscevano perché lavoravano tutti in piazza. Jacky aveva una minuscola rivendita di cartoline, Paulo e Ben lavoravano al garage e Jean-Mi serviva in un bar tabacchi. Da quando Marcel aveva fatto amicizia con loro, in palestra, si invitavano l'uno l'altro: barbecue, cinema, feste, pesca... divertimenti tranquilli e familiari. Intanto Paulo si serviva un'altra birra. Madeleine e Caró, la moglie di Jacky, sgridavano i bambini perché finissero le costolette d'agnello. "Ma è pecora!" urlava Kevin, il primogenito di Caró. "Non ho più fame!" strillava Frank. "Basta con queste scene!" "Con quello che costano, non vorrete mica sprecarle, no?!..." Ovviamente era Madeleine a urlare più degli altri. Marcel si chiese che cosa avrebbe fatto, trasferito a Parigi, con una donna dotata di un accento da pescivendola come sua moglie. Una bella figura, no? Elsa, l'amica di Jean-Mi, chiamava il cane, un bastardo bianco e nero che se ne fregava altamente, tutto preso a scavare la buca più profonda del mondo. Caró portò il caffè. Ben si mise a dribblare con virtuosismo davanti ai ragazzini che sghignazzavano. Jean-Mi ritornò dal bagno, tirandosi su i pantaloni della tuta azzurra sui fianchi grassi. Si prese una birra. «E i tuoi omicidi a che punto sono?» «Peggio che andar di notte» disse Marcel con un malriuscito tentativo di umorismo. «Non abbiamo ritrovato né la bambina, Juliette, né il ciccione. Nessun indizio. Nessun movente. Buio pesto.» Ben diede un calcio al pallone. «Ci sarà pure una ragione per cui quel pazzo si comporta così...» «Forse è solo un puzzle...» mormorò Elsa. Il suggerimento di Herblain, riportato dalla stampa, l'aveva colpita, sollecitando la sua vena romanzesca. Paulo si pulì gli occhiali a specchio. «E la luna? Avete controllato se c'entra la luna?» «Scusate, ma gli omicidi con la luna piena sono come vincere al lotto di venerdì 17: rarissimo, se vuoi il mio parere» disse Marcel, con un sospiro. «Perché non mettete la piazza sotto stretta sorveglianza? È successo tutto lì o sbaglio?» insistette Paulo succhiando la cannuccia.
Caró tornò con lo zucchero. «E cominciamo ad avere paura per i bambini, sul serio.» Marcel girò a lungo il suo caffè, prima di rispondere: «A dire il vero, siamo oberati di lavoro. Già siamo in estate con il solito casino e le squadre speciali di rinforzo non sono arrivate... Jeanneaux deve andare in vacanza in Corsica alla fine della settimana, ti puoi immaginare di che umore è! La metà degli effettivi è mobilitata sulle spiagge e per il traffico: per di più le bande della città sono tornate, per cui devo dire che sorvegliare la piazza...» Ognuno bevve un sorso di caffè. Caró posò la tazza. «Be', comunque una cosa del genere non si è mai vista! E con tutta la gente che c'è!» «In garage, adesso, abbiamo solo macchine straniere.» «Non mi stupisce, è pieno zeppo di tedeschi.» «E ti dimentichi i duemila marinai americani che sbarcano domani!» «Hai sentito, Elsa, dovrai farti bella, lavoro in vista!» «Idiota!» Tra le risate, Marcel pensò che la polizia si sarebbe resa ridicola una volta di più. Durante la notte di sabato, tre marinai ubriachi che scorazzavano per il porto urlando I will survive si misero a giocare a calcio con quello che sembrò loro un grosso pallone. Data la sbronza, ci volle un po' di tempo prima che si accorgessero che i palloni, anche se sgonfi, non puzzano di carne putrida. Ovviamente la banchina dove i marinai avevano trovato la "cosa" si trovava nella zona assegnata a Marcel. Mentre lui andava a prendere servizio, alle sei del mattino, fu catturato da tre marinai dagli occhi folli che urlavano parole incomprensibili. Marcel li segui. Lo guidarono fino a un ammasso di carne che trasudava un liquido ambrato. Questa volta Marcel non si vomitò sulle scarpe. D'altronde non era il caso, i marinai avevano già vomitato dappertutto. Con la sua scrittura tremolante, Doc 51 dichiarò nel proprio rapporto che la "vittima" era composta da: a) corpo di obeso con varici, b) testa di bambina, ben pettinata, occhi aperti e truccati, ombretto e mascara, c) due zampe di cane al posto delle braccia.
Quest'ultima informazione, che poteva essere nota solo all'omicida, non fu resa pubblica per evitare telefonate delatrici e false confessioni. Fu piuttosto difficile, inoltre, spiegare alla madre di Juliette perché era inutile portare un abito per vestire il corpo. Jean-Jean era così arrabbiato che nel dipartimento si sarebbe sentita volare una mosca. E peraltro se ne sentiva ronzare un intero battaglione, intente a ripetere l'attacco di Pearl Harbour, incollandosi alle braccia e alle labbra, terribilmente irritanti e inseguite da Mélanie, la segretaria di JeanJean che, armata del suo "Marie Claire" arrotolato, cercava di schiacciarle nel modo più silenzioso possibile per non irritare il capo. «La smetta di correre dietro a queste cazzo di mosche!» urlò all'improvviso Jean-Jean. La ragazza si immobilizzò, affranta, e raggiunse la sua sedia a piccoli passi. Non era il momento di chiedere un aumento. 4 Faceva sempre più caldo. La città sprofondava nella bruma che saliva dal mare. La città gocciolava come una vecchia troppo grassa. Marcel sentiva il sudore scorrergli sotto le braccia, sui fianchi, lungo le cosce e fino ai sandali. Una sauna gratuita! Per fortuna non era in uniforme. I turisti erano arrivati in massa per il fine settimana del 15 agosto, il week-end più affollato dell'anno, insieme a quello dell'Ascensione. Marcel, appoggiato all'inferriata blu, guardava alcuni giovani nordici che trangugiavano vino rosso sulla spiaggia, incollando la bocca alla bottiglia, coperti di scottature. La sera si sarebbero riempiti di vesciche che sarebbero esplose, mentre si rigiravano febbricitanti tra le lenzuola ruvide. Cercava con lo sguardo Madeleine e i bambini. Centinaia di famiglie arrostivano al sole, con un sottofondo di urla infantili, latrati, radio, tap-tap lancinante dei racchettoni e fragore dei fuoribordo al largo. All'improvviso la vide. Lei, Nadja. Teneva per mano il bambino ricciuto, entrava in acqua ridendo, le gocce le rilucevano sulla pelle scura e i fianchi tondi. Una gran botta sulla schiena lo fece sussultare. «Ma che sei cieco? È un'ora che ti faccio segno!» Madeleine lo guardava, furente, rossa, coperta da uno spesso strato di olio solare. Marcel sospirò e scese sulla spiaggia per godersi la sua mezza
giornata di permesso con i bambini. Un paio di occhi scuri che proteggevano la loro fissità sotto gli occhiali a specchio seguirono la direzione dello sguardo di Marcel e si soffermarono su Nadja e il bambino. Toh, ha proprio perso la testa il caro Marcel. Sarebbe bello fare un mosaico di colori, nero, bianco, giallo, la grande riconciliazione delle razze nella pace eterna! Una buona idea, proprio una buona idea! Nadja sollevò il bambino che la schizzava, gridando di gioia. Marcel passò accanto a loro, rigido e maldestro con i suoi bermuda fucsia, ma lei non lo vide. Si tuffò inutilmente con maestria, fece inutilmente cinquanta metri a stile libero, bevve inutilmente, e tornò a sedersi sull'asciugamano pieno di sabbia per affrontare Madeleine che lo tormentava perché si cospargesse di crema protettiva e i bambini che lo tiravano per i piedi, urlando "Vieni a giocare al pallone!" Le vele fluorescenti dei surf scintillavano sul mare piatto. Un battello diede un colpo di clacson. Un frisbee gli atterrò sul naso. Proprio una bella estate. Un'estate bollente. Alfred, il tizio del laboratorio, era nudo sotto il camice bianco, camice che gli attirava invariabilmente le battute dei suoi visitatori. Aprendo la porta con un calcio, Ramirez non venne meno alla tradizione: «Oh Alfred! Come sei beeeella col tuo vestiiiito da sposa, sei libera stasera?» Alfred lo guardò stanco, senza rispondere. Se esisteva un peggio del peggio, quello era Ramirez. «Allora, bellezza mia, che c'è di nuovo?» continuò quest'ultimo con una pesante strizzata d'occhio. Alfred si grattò la testa. «Ti sorprenderà, Einstein: niente di niente! Ma dimmi, adesso si può andare al lavoro con una cravatta con le ragazze nude? Il dipartimento sta toccando il fondo!» «Ma per niente, non ci sei proprio, questa è roba da fico, ragazzo mio, FI-C-O, bisogna uscire la domenica, io sono fico, non sono una zitella acida come te!» «E poi sei veramente spiritoso. A proposito, il cane era un chihuahua. Non ce ne sono mica tanti. Forse si potrebbe trovare il proprietario.» «E allora?»
«Non si sa mai, lo squilibrato forse è un suo amico.» «Ah sì? Credi?» «Adoperi troppo le meningi, Ramirez, devi essere sfinito! Vattene, su!» Ramirez sputò il fiammifero che stava mordicchiando e fece scrocchiare le dita grassocce. «Il cane, eh? Be', vado a vedere.» Si girò pesantemente, l'aria oppressa dalle pesanti responsabilità, aprì la porta e poi non riuscì più a tenersi: «Ehi, cara, non lo porti il reggiseno?» La sua risata echeggiò per le scale, mentre Alfred, nauseato, si massaggiava le tempie. Nel suo ufficio soffocante, Jean-Jean rigirava tra le dita una scheggia di ascia guatemalteca che Mélanie gli aveva portato dalla sua ultima spedizione in un villaggio vacanze e che serviva da fermacarte. In piedi, davanti a lui, Costello e Ramirez. Due cariatidi agli sgoccioli della carriera, che gli avevano rifilato due anni prima in segno di benvenuto. Costello era a disagio e si agitava. La camicia sbottonata lasciava vedere i peli grigi ricciuti e una catenina d'oro con il suo nome: Tony. Aveva fretta di tornare alle parole crociate. Ramirez si grattava la testa, tranquillo. Jean-Jean sbuffò, furioso. Si pulì il naso. Contemplò le scarpe bianche di Costello, un modello fuori commercio dagli anni Cinquanta. L'occhio spento di Raymond Ramirez, quasi sonnecchiante. Il capitano agitò infine una mano vendicatrice. «Bene!» Ramirez sussultò. Costello sospirò. «Costello, tu farai il giro dei veterinari. Fatti dare l'elenco dei clienti che possiedono un cane di quel genere.» «Molti studi sono chiusi, in questo periodo.» «Vai dagli altri. Lo so che solo gli idioti come noi lavorano, in questo periodo, ma siamo qui per questo. Tu, Ramirez, vai al canile municipale!» «A fare cosa al canile municipale, capo?» «A verificare se gli animali di cui ci segnaleranno la scomparsa non siano lì, ok?» «Scomparsi laggiù. Capito, capo! A dopo.» Si allontanarono tutti e due con passo strascicato. A due anni dalla pensione, non si sarebbero certo fatti venire un infarto, no?
Jean-Jean, da parte sua, si diceva che se moglie e figli fossero partiti per la Corsica senza di lui, si sarebbe rifatto con Mélanie. L'ometto osservava la testa del cane. Aveva un tatuaggio sotto l'orecchio. Mica scemo! La infilò in un sacco di plastica di cui legò i manici e lo gettò nell'immondizia. Tanto, senza di me questo cane lo avrebbero affettato vivo. In un certo senso gli ho fatto un favore. Una morte pulita. Altrimenti, vivisezione. Grazie a quel porco di Martin, i laboratori hanno sempre carne fresca per i loro esperimenti. Buona idea quella di tenermi le chiavi quando quegli stronzi mi hanno licenziato. Una buona idea, una tra le tante. Non c'è stato bisogno di far fuori un vegliardo per fregargli il cane. Detto fatto, oplà! In ogni modo, davanti alla morte non siamo tutti uguali. Se no saremmo programmati per vivere un certo periodo e poi basta, ci spegneremmo come pile usate. E quindi tanto vale morire per qualcosa. Perché mai sarebbe peggio morire per mano di un assassino, piuttosto che per un cancro al fegato? Meglio morire per un cancro al fegato? Più nobile? Come la ragazzina, magari sarebbe morta in motorino tra cinque anni. E poi che cosa vuoi che gliene freghi a questo sporco mondo di una ragazzina in più o in meno? Ne crepano ogni giorno a migliaia, mi cagheranno il cazzo perché ritiro qualche unità da questa società di merda? Uno stronzo della Nato che bombarda i rifugiati, cento morti in un colpo solo! Dice: "Scusate" e la pratica viene archiviata, mentre io rischio l'ergastolo! Condannato da un allevamento di polli in batteria! Mentre continuava a parlare da solo, aveva disteso il corpo nudo di Juliette sul tavolo. Le mancava un piede, il sinistro. L'osso sezionato spuntava dalla carne congelata. Si pulì la bocca col rovescio della mano, un tic che aveva sin dall'infanzia. Si chinò sul corpo rigido e ghiacciato. Gradevole sensazione di freddo mortale. Aveva già tentato di penetrare alcuni dei corpi che conservava al freddo, ma erano troppo duri, gelati, irrigiditi. Con la cassiera aveva sentito l'osso della coscia che si spezzava, quando aveva provato a sistemarsi. Si buttò su Juliette, si agitò per un attimo, come un cane, il viso contratto di fronte al collo reciso della bambina. Poi si distese, rabbrividendo. Che fai? Che stai facendo? disse una voce nella testa, la voce che ci avevano messo e che talvolta riusciva a superare lo sbarramento. Un'imitazione scadente della sua stessa voce che gli faceva venir voglia di vomitare. Strizzò gli occhi: la fiammella della lucidità si era già spenta.
Si rialzò, prese una birra fischiettando. Sulla pancia nuda della bambina, il ghiaccio si stava sciogliendo. Ne raccolse un po', lo gettò nel bicchiere e lo bevve. Marcel non riusciva a capacitarsi della propria fortuna, Nadja gli aveva sorriso! Si era messo a correre per acchiappare un ragazzino che gli stava rubando un motorino sotto il naso ed era scivolato su una cacca di cane. Era caduto, il cappello era rotolato per terra. Nadja si era fermata di colpo, gli aveva raccolto il cappello e glielo aveva teso sorridendo. I ragazzini del Mc Donald si sbellicavano dal ridere, ma lei, lei sorrideva e basta. «Mille grazie» aveva detto Marcel, risistemandosi i capelli. «È stato un piacere» gli aveva risposto Nadja con una punta d'accento tra lo straniero e il burlone. Poi si era allontanata senza voltarsi. Paulo, che aveva parcheggiato nel posto riservato ai taxi, gli aveva dato una pacca sulla spalla. «Non essere tanto zelante, ti romperai una gamba!» Jean-Mi, che stava servendo all'esterno del caffè, gli aveva fatto grandi segni con il suo tovagliolo bianco, tenendolo davanti al viso come un velo e mimando una rapida danza del ventre. «A che pensi, insomma? Quanto sei insopportabile, Marcel!» Madeleine sparecchiava, brontolando. Marcel non la sentiva. Andarsene, tagliare la corda, fare il giro del mondo in solitario con Nadja. «Porta giù l'immondizia! Almeno ti renderai utile!» Tony Costello procedeva con cautela sul marciapiede torrido. Impossibile circolare in auto, tutta la città era un enorme ingorgo. Andava di veterinario in veterinario con un taccuino blu in mano, la penna placcata oro nel taschino della camicia bianca, indifferente al riflesso che gli rimandavano le vetrine. Come tradurre la musicalità di Brouillards, montez! Versez vos cendres monotones avec de longs haillons de brume dans les cieux nella lingua di Omero? Ramirez sudava, sventolandosi con il taccuino decorato da tante Formula 1. L'unico vantaggio di questa indagine era che poteva sbirciare le straniere, le ragazze in pantaloncini o minigonna; quest'anno, per di più, grazie a quel tessuto aderente che andava di moda, non portavano gli slip. Si grattò i peli del petto, sospirando, immaginando di invitare una Ingrid o una Glenda a mangiare la pizza. Certo che in quel sogno a occhi aperti
non era né padre né marito. Vedovo, forse. Con una garçonnière. Dove Glenda e Ingrid si sarebbero spogliate, sorridenti davanti a un grande specchio. Alcuni ragazzini con i pattini lo urtarono, spezzando l'incantesimo. Il viso da bambola con i bigodini della signora Ramirez sostituì quello delle piacevoli signorine. Giaceva nel suo letto di ospedale con la vestaglia a fiori rosa e gli lanciava uno sguardo di rimprovero: "Tu no, Raymond!" Si scosse. In quel momento gli venivano in mente solo stupidaggini. Al canile gli diedero l'elenco degli animali registrati da due mesi. Tra i tanti, solo due chihuahua. «Dato che corrono poco, sono bestie difficili da perdere» fece notare l'impiegato, un tale Martin, Luc Martin. «E adesso dove sono le bestiole?» chiese Ramirez, cercando di non restituire lo sguardo a un vecchio spaniel lacrimante, col naso dietro le sbarre. «Kaputt!» fu la risposta. «Mandati nel paradiso dei cani, perché la scadenza era stata largamente superata.» «Che razza di mestiere il vostro» disse Ramirez, immaginandosi una splendente camera a gas in miniatura dove lo spaniel sarebbe senz'altro approdato. «Siamo costretti, non ci divertiamo mica!» rispose Martin, che sembrava un tipo a modo. Né grande né piccolo, né grasso né magro, capelli dritti, mento quadrato, jeans e maglietta Nice Jazz Festival 97. «Le piace il jazz?» chiese Ramirez per semplice educazione. «Eh? Ah, la maglietta, me l'ha data una mia amica» rispose Martin con un sorriso vanesio. «No, io preferisco il nu skool puro,» continuò «Carl Craig, Terranova, roba del genere.» Con un cenno di intesa del capo e non sapendo bene se il nu skool fosse una di quelle nuove scuole erotiche che i media cercano sempre di far passare come pratiche religiose, Ramirez annotò in silenzio il numero di tatuaggio dei due cagnetti e se ne andò. Si stava meglio fuori! Chissà se a sua moglie sarebbe piaciuto avere un cane? No, certo che no, non le piaceva chi perdeva il pelo. Sgridava anche lui, Ramirez, quando si pettinava e qualche capello cadeva per terra. L'ometto aveva deciso di seguire quella ragazza, l'araba che piaceva tanto a quel salame di Marcel. Povero Marcel, era tempo che imparasse che la
vita non è tutta rose e fiori. Intanto, l'ometto faceva un bel nodo sul suo pacchetto regalo. Jean-Jean leggeva i rapporti di Ramirez e di Costello e, mentre Mélanie batteva a macchina la corrispondenza arretrata, Ramirez si puliva il naso con discrezione e si chiedeva se per caso Jean-Jean non si sbattesse la segretaria. «Toh, ecco il nostro bel Ramirez!» fece Jean-Jean alzando gli occhi. Mélanie si concesse un rapido sorriso senza alzare lo sguardo dalla tastiera. «Fa caldo, eh?» osservò Ramirez che con i suoi cento chili sudava abbondantemente. Jean-Jean sembrava in collera. Gli occhi chiari somigliavano alle fessure delle buche per le lettere. L'indagine non andava avanti e per di più lui stava perdendo l'abbronzatura: non aveva più tempo per praticare il jet-ski. Che guaio. E oggi era il suo compleanno e nessuno, dico nessuno! se n'era ricordato. Picchiò un colpo sulla scrivania. «Chiamami quel coglione di Blanc!» Ramirez ridiscese, maledicendo la madre che gli aveva fatto intraprendere quella carriera in memoria del padre, che era stato guardia forestale nella provincia di Oran. Senza spegnere il motore, l'ometto fermò il furgoncino accanto alla macchina posteggiata al terzo piano del parcheggio sotterraneo, un posto fresco e buio, scese e azionò il comando a distanza delle portiere. Si era fatto fare un doppio delle chiavi. Niente di più facile, quando si ha l'originale a disposizione. Aprì il bagagliaio, mettendo in luce l'ampio vano che una griglia per cani separava dal sedile. Non c'era niente. Solo una tanica d'olio e una valigetta per il pronto soccorso. Peccato, avrebbe sporcato un po'. Tornò al suo veicolo, aprì gli sportelli posteriori, tirò fuori un carrello che sistemò vicino alle ruote, poi, sbuffando, sollevò un pesante oggetto avvolto nella plastica, che poggiò con precauzione sul carrello. Trasporto di pezzi un po' speciali. L'ometto agguantò le maniglie del carrello e lo spinse fino al cofano della macchina. Era la prima volta che si dava tanto da fare! Ma era come i maghi: i trucchi dovevano essere sempre più sorprendenti per mantenere il favore del pubblico e la stima di sé. Voltò il carrello con abilità e fece scivolare il pacco nel bagagliaio.
Raddrizzarlo. Piano piano, senza rovinarlo. Sistemare il fiocco. Con la punta dei guanti di gomma, si asciugò il sudore che gli colava negli occhi. Doveva avere le dita tutte raggrinzite ed era una cosa che detestava. Bene, ecco, non era male. Anzi bene. Impareggiabile. Rumore di passi. Si fermò. Si distese sul sedile. La mano stretta sul manico del rasoio. Se è lui, bene. Si china su di me, lo infilzo. Ma se mi punta la pistola alla testa? I passi si avvicinarono, stava per mordere il sedile, lo superarono. Si chiuse una portiera. Brontolio di motore. Messa in moto. Il conducente doveva aver pensato che la macchina avesse avuto un guasto. E forse aveva annotato inconsciamente il nome dell'impresa di pronto intervento. Nessun problema, aveva usato il furgoncino di uno sfasciacarrozze e Mike era in ferie. Sistemò un'ultima volta i nastri, chiuse il cofano, risalì sul suo furgoncino e si allontanò senza fretta, gli occhiali neri ben piantati sul naso e il cappello da baseball calcato sul cranio stretto. Marcel Blanc era in piedi nell'ufficio soffocante di Jean-Jean. L'aria condizionata era guasta. A disagio, si dondolava ora su una gamba ora sull'altra. Jean-Jean si soffiò il naso con ostentazione. «E mi sono anche beccato un raffreddore, come se non bastasse! Schifo di tempo!» Una nuvola insolente passò davanti alla finestra. Il vento soffiava a raffica. Jean-Jean gettò uno sguardo alla strada. «Quando piove diventano tutti nervosi come vespe. Cazzo di sciame.» Si girò verso Marcel, l'occhio cupo. «Mi dica, Blanc, tutti i corpi sono stati rinvenuti nella sua zona, se non vado errato. In poche parole vuol dire che quel tipo, quello squilibrato, si aggira sotto il suo naso con i cadaveri! Vuol dire senz'altro che spia le sue vittime, mentre si destreggia con il manganello.» Marcel arrossì per il tono volgare dell'ispettore. Mélanie ridacchiò. Quel Jean-Jean ne aveva sempre una di riserva! «Mi scusi, ispettore.» «Capitano!» «Eh?» «I gradi sono cambiati, mio caro Blanc, il mondo cambia!» sussurrò Jean-Jean. «Ah, sì,» balbettò Marcel, sconcertato, prima di riprendere «il fatto che lasci i corpi nella mia zona, non significa che li vada a cercare lì, e infatti
la maggior parte delle vittime sembra sia stata abbordata dalle parti di piazza Mistral...» «Me ne frego!» ruggì Jean-Jean. «Cristo, non vorrà mica farmi credere che si possono portare in giro cadaveri grossi come balene sotto il suo naso, senza che lei veda mai nulla!» «Non sono mica sempre in servizio...» «E per fortuna, altrimenti troveremmo intere discariche di salme! Da adesso in poi lasci perdere la robetta e si metta a cercare quel tizio, ok? È l'unica cosa che le chiedo. Tenere gli occhi aperti!» «Tutti e due!» Jean-Jean guardò Marcel con sospetto. Quell'idiota lo stava prendendo per i fondelli? S'infilò una gomma senza zucchero tra i denti. Masticò con vigore. Riprese: «Forse avrebbe la mente più libera, se non trascorresse il suo tempo a osservare certe creature esotiche...» Marcel si irrigidì. Chi glielo aveva raccontato? Chi ne era al corrente? Chi lo spiava? «Mi chiedo,» proseguì Jean-Jean, annusando con descrizione la sua polo color cachi per verificare se per caso non puzzasse di sudore «mi chiedo perché il nostro assassino li depositi laggiù.» «Forse perché è vicino al commissariato, forse per romperci le scatole!» propose Marcel pieno di buona volontà. La polo puzzava, notò Jean-Jean. Doveva cambiarsi prima dell'appuntamento con Hélène, la nuova telefonista. Merda, già le sei! «Sì... Va be', devo andare. Conto su di lei, Blanc!» Marcel scese le scale rimuginando sulla sua umiliazione. Se avesse avuto tra le mani quel maiale che aveva parlato di Nadja. E poi che cosa significava: "tenere gli occhi aperti"? Che cosa credeva, quel Jean-Jean, che lo squilibrato andasse in giro con un cartello: ATTENZIONE, TRASPORTO CADAVERI!? L'ometto risaliva la strada fischiettando, come al solito. Incrociò Marcel che rimuginava. Povero Marcel, sembra che abbia qualche problema. Problemucci da formichina. Povera formichina. Finirai presto sotto la mia suola. Su, voce, diciamo le parole di rito: «Ciao! Vieni a bere qualcosa?» «Ma sei matto?» protestò Marcel. «Jean-Jean mi sta col fiato sul collo... e a te come va?»
"Io", così così. Il "super-io" mi sta un po' addosso. «Abbiamo un sacco di lavoro. Vieni da Jean-Mi domani? Elsa fa la paella...» «Sì, certo» rispose Marcel, distratto. «Allora a domani, ciao!» disse l'ometto con un gran sorriso. Marcel si allontanò rapidamente, preoccupato. Nell'ascensore per il sottosuolo del parcheggio, Jean-Jean pensava all'elenco che gli era stato consegnato da Costello. Non erano poi tanti i cani scomparsi. Calma piatta sul fronte rapimento-chihuahua. Arrivò alla macchina, esaminò un graffio sospetto sul lato destro. C'era già oppure no? Con tutte quelle donnette che non sapevano guidare! Aprì la portiera, si sistemò. Guardò nel retrovisore. Il cuore gli si fermò nel petto. Poi riprese a battere con dolore. La testa, con un unico occhio, lo fissava dallo specchietto. Jean-Jean schizzò fuori dalla macchina, arma in pugno, aprì la portiera posteriore con un balzo. Il corpo era seduto. Un corpo di bambina con sandali di plastica rossa, anzi un unico sandalo di plastica rossa. La testa era enorme, dondolante, bavosa. Nella mano rigida della ragazzina c'era un mazzo di fiori mezzo appassito. Rose dall'odore di zolfo. Il tutto legato con un nastro dorato, come un pacchetto regalo. C'era un bigliettino appeso al mazzo di fiori. Jean-Jean esitò, si chinò, facendo attenzione a non sfiorare il corpo. Lesse: "Buon compleanno, tenente" e indietreggiò come se fosse stato morso. Senza toccare niente, Jean-Jean fece il giro della macchina, gettò un colpo d'occhio alle portiere. La serratura non era stata forzata. Si grattò il naso. Respirò a fondo. Si grattò le parti basse. Respirò di nuovo profondamente e risalì i tre piani a piedi fino al gabbiotto del custode, l'arma in pugno, il cuore in bocca. Marcel, fedele alla consegna, osservava. Osservava a destra, osservava a sinistra, sopra, sotto, aveva gli occhi di fuori a forza di osservare la folla rumorosa. Sfilata di gambe pelose, di seni oscillanti, di braccia arrossate, di nasi spellati, di sandali sporchi, di cosce cremisi. Paulo gli passò davanti, carico come un mulo sotto un assortimento di pezzi meccanici. «Hai l'aria seria, oggi, Marcel, sembri lo zuavo del Pont de l'Alma!» «Sto morendo di caldo, ne ho le scatole piene!» rispose Marcel facendo scrocchiare le articolazioni.
Paulo sparì. Davanti al negozio di Jacky c'era la coda. Le cartoline con ragazze discinte si vendevano come il pane. Giapponesi allegri davanti alle grossolane spiritosaggini francesi. Ben uscì a sua volta dal garage, una lattina di birra in mano. «Non te ne offro, sei in servizio.» «E tu? Non lavori?» «Sono in pausa. Hai visto quella ragazza con i capelli rapati? Ha appena sgraffignato qualcosa dalla borsa della nonnetta in blu!» «Smettila con le stronzate.» «Ti giuro! Dài, fischia!» «Non mi va di scherzare.» «Oh! Ma a che gioco stai giocando? A funerale e becchino? Su, ciao!» Il corpo ricomposto era disteso sul tavolo di marmo bianco. Chino su di esso, Doc 51 prelevava campioni diversi che infilava in sacchetti di plastica per Alfred e gli altri del laboratorio. Al 99% si trattava dei "pezzi" che mancavano al "cadavere" scoperto dai marinai sulla spiaggia, si diceva canticchiando in falsetto e maneggiando il bisturi con una mano dal tremolio cronico. Routine, sempre routine. Quale che fosse l'intensità omicida di cui gli assassini davano prova, il suo lavoro non cambiava mai. Occhio estirpato con lama di rasoio. Piede destro divorato da mascella umana. Presenza di sperma sul basso ventre. Niente penetrazione. Il telefono suonò. Doc 51 rispose. «Si?» gridò con la cornetta incastrata sotto l'orecchio, intento a incidere lo sterno di Juliette. «Non dimenticare di comprare l'arrosto, quando torni» guaì sua moglie. «Sì, cara, non c'è problema» rispose, mentre estraeva il cuore della ragazzina e lo faceva ricadere in una bacinella smaltata. 5 Di nuovo domenica. Marcel era di servizio. I gabbiani volavano in tondo, gridando. Temporale in vista. Un ragazzino, seduto all'esterno di un bar, mandava giù un gelato enorme, gocciolante di panna. Marcel odiava la panna. Si augurò con tutte le forze che al bambino venisse mal di pancia. Ce l'aveva con tutti, per la loro disinvoltura, la loro sete di divertimento, la loro spensieratezza da villeggianti, gliene voleva perché erano liberi e sotto la sua responsabilità.
Qualcuno gli si avvicinò. Si girò: era lei! Nadja lo superò, sbirciandolo con la coda dell'occhio, lui la seguì con lo sguardo, lei entrò dal tabaccaio... Fracasso di clacson, rumore di vetri infranti. Marcel sussultò, richiamato al dovere: un belga grande e grosso era andato addosso a un italiano volubile. Imprecazioni, insulti. Nadja uscì dal tabaccaio senza che lui la vedesse, l'ometto alle calcagna. Pura coincidenza: era venuto a comprare le sigarette. Felice coincidenza. Un segno della divina provvidenza. Nadja si sbrigava perché Momo doveva essersi svegliato dal pisolino pomeridiano. Era uscita solo per comprare i cigarillos al vecchio. E c'era lui. Quel fusto di poliziotto. Non lo si vedeva spesso, la domenica. E poi era sposato, lo aveva visto al mare con moglie e due figli, un maschietto biondo e magro e una bambina sorridente. Si era tuffato vicino a lei senza vederla. Era bravo a tuffarsi. Ma il suo costume era orrendo! Si incamminò lungo i binari per tornare a casa. Il rumore del motorino che scoppiettava nella strada deserta la distolse dalle sue riflessioni. Si girò automaticamente. Toh, l'ometto del garage, uno degli amici del poliziotto. Il motorino all'improvviso accelerò e la superò. Ebbe la vaga impressione di essere stata seguita. Pussa via! Non le piaceva quello sguardo. Occhi ipocriti. Le ricordò lo zio che sembrava tanto devoto e poi aveva violentato la figlia. Il fusto sì che aveva l'aria... sincera. Le piaceva quel suo sorriso un po' timido. Entrò nel palazzo, sognante. La notte di domenica fu tranquillissima. Marcel sognò che Madeleine cercava di soffocarlo col guanciale. Madeleine sognò che sorprendeva Marcel nudo e avvinghiato a una ragazza bruna. Nadja sognò che il poliziotto l'abbracciava sulla piazza. Jean-Jean sognò che la piazza era piena di cadaveri e che l'assassino si masturbava ridendo. L'ometto si masturbò, sognando di tagliare a pezzi Jean-Jean, vivo. Nadja aveva fretta, era in ritardo, tirò più forte Momo che sbuffava. Faceva le pulizie da una anziana signora semiparalitica e doveva prima lasciare Momo al centro estivo. Momo sognava a occhi aperti, si fermava a raccogliere un pezzo di carta, un rametto... Si trascinava, guardava le macchine, il tizio col motorino all'angolo della strada, gli occhi fissi sulla madre... «Mamma, quel signore ti viene dietro...»
«Quale signore? Cammina non farmi innervosire!!» «Quel signore, laggiù!» Nadja si voltò: nessuno. «Momo, sono in ritardo!» «Ieri stava giù, davanti a casa, ti viene dietro, ti vuole sposare?» «Non dire sciocchezze!» «Non mi piace, è brutto, non voglio che lo sposi!» Erano arrivati davanti al centro. Nadja abbracciò Momo. «Sbrigati! Su, a più tardi tesoro, fai il bravo!» «Non mi stringere così, mi soffochi!» Momo si liberò dalle braccia di Nadja e s'infilò correndo sotto la tettoia. Nadja si massaggiò la fronte, come per cancellare una preoccupazione. Quel ragazzino la sfiniva. L'estate la sfiniva. Jean-Jean guardò Ramirez che sudava. Ramirez posò il rapporto impeccabile davanti a Jean-Jean, si schiarì la voce: «Senta, capo, ho pensato una cosa...» «Ti ascolto» disse Jean-Jean con l'untuosità di un vescovo. «Il cane non potrebbe averlo preso il tizio del canile municipale? Voglio dire, è nella posizione ideale, sono a portata di mano, non c'è bisogno di rubare, capisce?» «Capisco... Ma se un cane si ritrova al canile municipale è perché si è perduto. E Costello ha interrogato tutti i proprietari di chihuahua della città: non sono stati segnalati né smarrimenti né sparizioni.» «Magari il proprietario è schiattato. Oppure viene da un'altra città. Ci sono cani che fanno chilometri.» Jean-Jean rifletté un attimo. Il pachiderma poteva avere ragione. Rispose: «Be', chiederò ai colleghi di verificare nel dipartimento. Tu scovami quel Martin. Voglio sapere che cosa fa fuori dell'orario di lavoro. Chi frequenta. Dopotutto, effettivamente, non si sa mai.» «Bene capo.» Ramirez si diresse alla porta con passo strascicato, i suoi sandali da frate ciabattavano sul pavimento. Jean-Jean lo richiamò, improvvisamente ringalluzzito: «Ehi, Ramirez! È la prima volta in due anni che hai buona idea! Potresti offrire da bere!» «L'idea non è mia, capo, è stata mia figlia Emilie a pensarci. Ma posso
comunque pagare da bere... una birra?» «Una birra, sì, grazie!» E grazie a Emilie, disse tra sé e sé Jean-Jean mentre Ramirez scompariva nelle viscere del commissariato. Si mise a leggere il rapporto: "...Sperma di maschio caucasico. Non identificato nelle banche del seme. NULLA dal punto di vista genetico o biologico..." Insomma un tipo normale. Del tutto normale. Jean-Jean infilò il rapporto in un cassetto. L'immagine della testa mutilata gli si presentava ancora davanti agli occhi. Momo aspettava davanti al centro. Sua madre era in ritardo. Il pomeriggio dava una mano in drogheria e la trattenevano sempre. Tutti gli altri bambini erano andati via. Momo non aveva nulla da fare e giocava a pallone con lo zaino. Di solito aspettava in cortile. Ma proprio oggi Karine, la maestra, non aveva potuto trattenersi. Lo aveva preso da parte: «Senti, Momo, sono quasi le sette e un quarto e io devo andare. Ho appuntamento dal dentista, per farmi togliere un dente, capisci? Resta qui in cortile e aspetta la mamma. Se ti serve qualcosa suona al signor Porieux, va bene?» Il signor Porieux era il portiere, un vecchiaccio in canottiera che berciava sempre. Momo non gli avrebbe mai chiesto niente. Karine aveva avvertito Porieux: «Signor Porieux bisogna che scappi, darebbe di tanto in tanto uno sguardo al bambino, la madre non è ancora arrivata, grazie!» «Per prendere gli assegni della Previdenza sono sempre puntuali, però! Parla francese almeno?» Karine aveva fatto un sorriso forzato ed era entrata nella sua automobile, serie speciale Mari del Sud. (Adesivi con palme decoravano la scocca). Il portiere aveva richiuso la sudicia porta a vetri e si era rimesso a guardare la sua telenovela preferita: Amore e Pausa Caffè, una superproduzione brasiliana interamente girata in tempo reale in quindici metri quadri. Momo aveva giocato un po' con la fontana, poi, siccome si era inzuppato, ne aveva avuto abbastanza. Aveva tirato fuori le biglie. Cavolo, eccone una dall'altra parte, nel terreno abbandonato! Aveva scavalcato l'inferriata ed era ricaduto sulla terra rivoltata, destinata a diventare prato. Be' era già più divertente che stare dentro. Ma quanto tempo! Che cosa combinava sua madre? All'improvviso lo vide. Quel signore. Era nel suo furgoncino. Blu, brut-
to, vecchio. Sorrise a Momo dal finestrino abbassato. Gli fece segno di avvicinarsi. Momo alzò le spalle. Vietato parlare agli sconosciuti, perché spesso vogliono farti qualcosa, qualcosa che fa male. Il signore scese dalla macchina. Andò dritto verso di lui, senza mai smettere di sorridere. Aveva grandi denti gialli. Splendenti. E appuntiti. Momo pensò alla favola francese raccontata dalla maestra, la storia della ragazzina che andava dalla nonna, che incontrava un lupo travestito da nonna e non si accorgeva di niente, anche se lui aveva una strana voce e strani occhi e denti enormi, che cretina, quella Cappuccetto! Il signore si chinò su di lui con occhi brillanti come biglie e con quel gran sorriso dai denti appuntiti. Senza riflettere, Momo gli lanciò lo zaino sul naso e fuggì a gambe levate. Lo sentì corrergli dietro e il suo istinto lo avvertì che non era un gioco. No davvero! Il centro era nuovissimo, ancora da finire. Tutto il terreno intorno alla costruzione principale era ancora un cantiere. Deserto a quell'ora. Momo correva sui calcinacci. Senza voltarsi. Nella sua guardiola, il vecchio Porieux si era addormentato, col bicchiere di grappa in equilibrio sul bracciolo della poltrona. Le 19 e 15. Marcel guardò l'orologio con discrezione. Gli mancava ancora un'ora prima di tornare a casa. Speriamo che Madeleine ottenga la casa popolare e ci vada a vivere con i bambini. Paulo lo salutò da lontano, tirò giù la saracinesca del garage e si allontanò, seguito da Ben. Jean-Mi serviva boccali di birra spumeggiante, chiacchierando con la nuova cameriera. La calma prima dell'isteria notturna. Seduto tranquillamente a un tavolino tondo, il gigante scheletrico, che di solito ingoiava la sua dose di lamette di rasoio e sputava fuoco, beveva calmo un Vittelmenthe. Concerto di clacson, da qualche parte laggiù. Marcel sognava a occhi aperti. All'improvviso lo tirarono per la manica. Si girò, esasperato. Nadja lo guardava, tesa, senza fiato. Si mordeva il labbro, sul punto di piangere. Sconcertato, Marcel si chinò su di lei. Com'era piccola! «Posso aiutarla?» «Mio figlio è scomparso, non lo trovo più!» «Dove doveva essere?» «A scuola, al centro estivo. Sono arrivata tardi e lui non c'era. Non è a
casa, non è da nessuna parte, bisogna cercarlo.» «Non si preoccupi, ce ne occuperemo noi. Ora l'accompagno al centro. Rifaremo il tragitto insieme, va bene?» Marcel accese la ricetrasmittente per avvertire che si stava occupando dello smarrimento di un bambino. Le camminava accanto, sorvegliandola con la coda dell'occhio. Lei non faceva che torcersi le mani lunghe e sottili, camminava svelta quanto lui. La salita era abbastanza ripida. Lei continuava senza dir niente, indifferente allo sforzo fisico. Le persone li guardavano con curiosità, uno sbirro e una donna fuori di sé... Deliziose speculazioni. Lei si fermò e per poco Marcel non le andò addosso. «È qui che mi aspetta di solito, dietro al cancello. Il portinaio dice che dormiva, non ha visto niente. Momo non sta mai fermo, deve aver scavalcato il cancello.» Davanti al cancello, un grande quadrato di terra dissodata. Dietro al centro estivo, un immenso cantiere. Il futuro campo sportivo. Marcel si disse che forse il ragazzino si era fatto male giocando laggiù. Avanzò lentamente. O forse... Ma no, era meglio non pensarci. «Ho paura di quel pazzo che fa a pezzi le persone e le ricuce insieme.» Ecco, ci aveva pensato da sola. «Non si preoccupi, lo ritroveremo. Quanti anni ha?» «Momo? Cinque. Cinque anni tra un mese.» Marcel osservava il cantiere. Non notò nemmeno il furgoncino parcheggiato un po' più su. L'ometto era rannicchiato sul sedile. Lo seguiva con gli occhi. Il ragazzino gli era scappato per pochi minuti. Se non si fosse infilato in quel grosso condotto di lamiera... Impossibile stargli dietro, il diametro era troppo stretto. E così aveva tappato le due estremità con due grossi sacchi di cemento. Ah sì! Lo stronzetto non vuole uscire? E che rimanga lì, allora! E adesso ci volevano questi due che vanno e vengono. Sprofondò un altro po' sul sedile, nel caso che Marcel individuasse il furgoncino. Marcel gridava: «Momo! Momo!» Era così buio che sembrava di stare in un buco. Momo grondava di sudore. L'arsura gli bruciava la gola. Sopra di lui la lamiera era incandescente, non poteva nemmeno toccarla. Il condotto era rimasto tutto il giorno in pieno sole. E anche adesso dovevano esserci 45 gradi o giù di lì, all'interno. Ansimava, disteso sulla pancia. Quel maiale aveva chiuso le uscite con i sacchi. Momo aveva spinto, ma erano troppo pesanti.
Rivide l'uomo, il viso dell'uomo chino su di lui, contratto in una smorfia. Il respiro sibilante. Pianse un po', brevi singhiozzi. Aveva l'impressione di star lì a cuocere da ore. Sentiva il cuore battergli fortissimo. Pensava: mamma, mamma. Nient'altro. Solo mamma, mamma. Lancinante. La voce. Una voce d'uomo che lo chiamava. Vicinissima. Per poco non rispose. Si riprese. E se fosse stato quello là? Cominciò a tremare senza riuscire a trattenersi, malgrado il caldo. Strinse i denti sulle proprie lacrime. La voce si allontanò. Momo ascoltava con tutto se stesso. E all'improvviso, come un colpo al cuore, la voce di sua madre. Lontana. Soffocata. Ma lì. Vicina. Momo si rialzò con un balzo, urtando con violenza contro la lamiera senza neanche accorgersene, e gridò: «Mamma, sono qui. Mamma!» Marcel si fermò di colpo. Un rumore laggiù, a destra. Un topo? No, un rumore regolare. Il vento? E se il ragazzino fosse lì, ferito? Il crepuscolo s'infittì. Il sole era scomparso. Marcel si guardò intorno. Non vide nulla. Nadja camminava, più in là, cercando tra i calcinacci. Il rumore si affievolì. Poi ricominciò. Marcel avanzò in direzione del suono che si faceva sempre più vicino: 1, 2, 3. 1, 2, 3... Qualcuno batteva con regolarità. Marcel mise le mani intorno alla bocca: «Momo, aspetta, stiamo arrivando! Momo dove sei?» Silenzio. Poi una vocina soffocata. «Qui nel tubo!» Marcel corse verso il condotto, Nadja corse verso Marcel, che sollevò al primo colpo il pesante sacco di cemento e lo gettò dietro di sé. Si chinò e si ritrovò naso a naso con un visetto madido di sudore, di lacrime e moccio, mezzo asfissiato. Tirò fuori il bambino. Nadja se ne impadronì, lo abbracciò appassionatamente. Marcel rifletteva. Non era stato certo il bambino a sollevare quei sacchi di cemento e tanto meno a sistemarli alle due estremità. Qualcuno ce li aveva messi apposta. Per farlo morire soffocato? Oppure si trattava di uno stupido gioco? Nadja fini di pulire Momo, lo sollevava, lo sgridava nella sua lingua. Poi: «Dì grazie al signore!» «Non è mica colpa mia. La colpa è di quello che mi voleva mangiare. Era un lupo, l'ho visto, un grosso lupo! Sai mamma, come nella storia...» «Bugiardo, ti strapperò la testa! Bugiardo, farai morire tua madre!» «Ma è vero! Ha detto "vieni, vieni che ti mangio!"»
Marcel intervenne: «Chi ti voleva mangiare? Com'era fatto?» «Una testa grossa, con grandi denti bianchi e grandi occhi rossi.» «Momo, pensaci. Ti credo, ma non dire sciocchezze...» Momo insisteva: «E peli dappertutto!» Marcel sospirò. Era come Frank alla stessa età, quando aveva gli orchi nel letto e dinosauri voraci si nascondevano in bagno. «Per ora non ne caveremo nulla» disse. «La riaccompagno a casa?» «No, no. Non c'è bisogno. Grazie signor agente.» «Se per caso dicesse qualcosa di più preciso, mi avverta, aspetti...» Marcel strappò un foglio dal blocchetto delle contravvenzioni, ci scrisse il suo nome e il numero di telefono. Non era regolare, ma Marcel se ne fregava altamente. «Marcel Blanc sono io» spiegò scioccamente. Lei prese il foglietto e lo infilò in borsa, parlando in fretta: «Mi chiamo Nadja, Nadja Allaoui. Grazie. Saluta, Momo!» «Arrivederci, signor poliziotto.» «Arrivederci, Momo. Cerca di ricordarti la faccia del lupo, e se te ne ricordi, vienimelo a dire, così lo potrò trovare e dargli la caccia, va bene?» Momo fece sì con la testa, poco convinto. Marcel li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano. I suoi occhi passarono sul furgoncino, senza vederlo. Ce n'erano parecchi, di sudici furgoncini blu. Appena Marcel girò i tacchi, l'ometto mise in moto. Rifletteva a tutto spiano. Se il bambino l'aveva riconosciuto, era fregato. E se il bambino non l'aveva riconosciuto, lo avrebbe fatto un giorno o l'altro, se solo fosse passato dal garage. Dunque bisognava che il bambino sparisse. Il più rapidamente possibile. 6 Jean-Jean inghiottì l'ultimo boccone del suo panino gamberetti-ananasmozzarella e si pulì con cura le dita in un fazzoletto di carta che chiamavano tovagliolo. Ramirez entrò come un ippopotamo triste. Sprigionava un odore d'aglio e di harissa che ricordò a Jean-Jean di essersi iscritto, per pura bontà d'animo, al méchoui annuale dei vigili del fuoco. Ramirez tossicchiò. Jean-Jean lo guardava con pazienza. «Ecco capo...»
«Ecco cosa?» «Allora ecco, il tizio, quel Martin del canile...» «Vai con calma, non essere precipitoso...» «Be', allora ecco, abita a boulevard des Espaliers, un bel palazzo, ben tenuto, ma proprio accanto alla piazza, be', ecco allora...» «Ecco cosa?!» ringhiò Jean-Jean, poi, riprendendosi, aggiunse con un sorriso un po' teso: «Allora, dicevi?» «Mi sono detto che se lo avessi interrogato io, Ramirez, non sarebbe stato loquace, per forza, no, visto che faccio il piedipiatti, allora ecco, sa, capo, ho una cugina, lì, quella che lavora a rue Masséna...» «La puttana?» «Sì, Josiane, be', l'ho spedita al canile, con la scusa che si era perduta un cane, un barboncino. Allora c'è andata, ben messa, capisce, proprio distinta, una chiacchiera tira l'altra e lui l'ha invitata a cena, allora ecco, insomma...» «Emozionante. Si sposano?» sussurrò Jean-Jean con un ringhio contenuto «No, ma lui alla fine era cotto a puntino, lei ci sa fare, si capisce, e lui le ha raccontato dei cani, alle volte li prende di nascosto e li porta in un laboratorio dove fanno esperimenti sugli animali vivi. Glieli vende sottobanco, capisce... ci guadagna bene, pare. E mia cugina chiede se non può avere una nota spese.» «Mi prendi per il culo? Non si è fatta pagare, forse?» «Sì, ma dice che era in servizio e che si è data da fare solo per noi, perché lei dopo tutto se ne frega, no?» Jean-Jean scrutò Ramirez con attenzione. Ramirez sudava, placido. JeanJean ringraziò rapidamente Dio di non averlo fatto nascere Ramirez. Peraltro era l'unico merito da mettere in conto a Dio, in quel momento: sua moglie era partita per la Corsica il giorno prima, sbraitando come un'ossessa, con i ragazzini e il kayak. E quella testa di rapa di Mélanie gli aveva appena comunicato che il suo "fidanzato" - sempre che qualcosa del genere esistesse - un brufoloso che faceva la scuola ufficiali della gendarmerie, era in permesso, e aveva un carattere parecchio suscettibile... Tamburellò sulla scrivania, fece scrocchiare le dita, inspirò a fondo. «E va bene. Dov'è Costello?» «Sorveglianza spiagge, capo.» «Già, sorveglianza perizoma delle villeggianti!» squittì Jean-Jean con ridicola malafede. «Ne ho le scatole piene di essere l'unico che lavora, in
questa baracca.» Ramirez sparì come un ippopotamo avvilito. Se solo Costello avesse occhieggiato più spesso i culi delle villeggianti, invece della pagina culturale di "Le Monde", perlomeno avrebbero avuto un argomento di conversazione. Jean-Jean rileggeva il rapporto che Ramirez gli aveva lasciato, in tre copie, senza un solo errore di battitura. Era incredibile. quel tipo parlava come una scimmia e poi era in grado di redigere scritti degni del premio Goncourt. Mentre Jean-Jean si perdeva in queste riflessioni, facendosi vento con il rapporto, qualcosa, una scintilla, una brace, quel soffio trattenuto che ha permesso all'uomo di inventare il fuoco, la ruota e lo shaker per cocktail, scoccò come l'elastico della fionda di David, sotto la sua fronte un po' sguarnita. «Cristo!» Jean-Jean si alzò e uscì. Se un altro turista gli avesse chiesto di nuovo dov'era il mare, Marcel era pronto al suicidio. Il mare era proprio dietro di lui, un po' nascosto dal nuovo Palazzo dei Congressi, certo, ma comunque riconoscibile dai cavalloni bianchi e dall'acquatica trama azzurro carico. Difficile confonderlo con il parcheggio. Un bambino piangeva perché gli era caduta la cialda per terra, sotto la lingua avida e sporca di un pastore tedesco. La madre gli elargì uno schiaffo da manuale. Nadja non aveva chiamato. Marcel aveva segnalato l'incidente di Momo a Jean-Jean, il quale si era complimentato per il suo spirito d'iniziativa. Marcel aveva raccontato tutta la storia a Madeleine, che lo aveva rimproverato: "Tu, appena una tizia agita le chiappe, ti fai in quattro! Io e i bambini, invece, saremmo anche potuti crepare in quel tubo... Sei servizievole solo con gli altri! Per fortuna che tra un po' ce ne andiamo, mi hai fatto soffrire più che abbastanza!" Ieri, da Jean-Mi, aveva raccontato la storia agli amici. Tutti avevano contribuito con i propri ricordi. «A me, quando facevo una stronzata, mia madre me le suonava con le pantofole!» «A me una volta, c'è mancato poco che mi mettessero sotto e lei mi ha quasi ammazzato, poveraccia...»
«Ci possono fare le cose peggiori, ma le amiamo lo stesso! Quando la mia è morta, l'anno scorso, è stato un colpo durissimo...» «E a te?» «È morta quando avevo nove anni» rispose l'ometto, con gli occhi nel vuoto. Breve silenzio imbarazzato. «Chi va alla partita, domani?» Marcel pensò che doveva essere brutto perdere la madre così presto. Lui aveva ancora la sua e la chiamava tutte le settimane. Che fortuna! Jean-Jean era in piedi davanti al garage. Discuteva con Costello che esibiva un orologio nuovo, d'oro, extrapiatto. «Senti Tony, voglio nomi, indirizzi e tutto il resto, dei tizi che lavorano nel laboratorio, quello a cui Martin rivende i cani. Vai da Martin, gli fai sputare il nome del laboratorio e mi porti tutto, all'istante. Sai che ti dico? Forse abbiamo trovato il bandolo della matassa!» «Certo, ma nulla prova che il cane venisse dal canile.» «E nulla prova il contrario. Ascolta, un laboratorio vuol dire bisturi, lame che tagliano, e magari un tipo un po' suonato che, può darsi, provi piacere nel fare a pezzi gli animali...» «In questo caso perché il nostro homo psychopaticus non continua a concedersi queste piccole distrazioni, invece di esercitare il proprio talento sugli esseri umani?» «Sei un genio, Tony, lo sai o no che sei un genio? Non continua perché si è fatto licenziare! Lo voglio. Voglio i nomi di tutti quelli che si sono fatti licenziare dal laboratorio!» Jean-Jean assestò una grande pacca sulla schiena di Tony che si allontanò borbottando. Si girò tutto contento. L'ometto gli stava accanto e si asciugava le mani in un vecchio straccio, con un bel sorriso. «Ecco, è pronta, può andare...» «Meglio tardi che mai, grazie. Ciao!» Jean-Jean salì in macchina e mise in moto. L'ometto ringoiò immediatamente il sorriso, aveva le mani umide, le tempie che gli pulsavano. Sporchi sbirri! Idiota di un Martin! Sembrava che per Martin il tempo di vivere fosse finito. L'ometto sali sul motorino e partì in tromba. Questa volta nessuno gli avrebbe impedito di andare fino in fondo. Costello guardò l'ora sul suo nuovo orologio. Le 20. Si asciugò il sudore
con il fazzolettino di seta blu scuro. Premette l'indice ingiallito dalla nicotina sul campanello. Suonò di nuovo, a lungo. Il citofono restò muto. Eppure quando aveva telefonato, solo venti minuti prima, il signor Martin c'era. Se quel farabutto era scappato... La porta dell'edificio si aprì all'improvviso, lasciando il passo a un signore elegante, con un dobermann che sorrideva con tutti i denti. Costello entrò, agitando prontamente il tesserino sotto il naso del tizio, prima che il dobermann gli facesse fuori un braccio. L'uomo dimenticò di mandar giù la saliva, che gli colò sul mento. La polizia! Rogne in vista! Costello salì di corsa fino al quarto piano e arrivò alla porta di Martin senza fiato. Suonò di nuovo. Pur sentendo il campanello, si disse che forse era guasto. Bussò, colpi pesanti e ritmati. Uno scatto e la porta girò sui cardini. Ma non era stato Martin ad aprire. Martin era seduto in una poltrona di cuoio nero, vicino allo stereo. Il corpo, per lo meno. La testa, invece, era poggiata sul televisore, accanto a una foto con dedica di Madonna. Il sangue scorreva come una fontanella di granatina. Nello stesso istante in cui il suo sguardo incredulo registrava la scena, Costello si sentì madido di sudore. La porta girava sui cardini alle sue spalle! Si voltò come un pazzo, sguainando l'arma di fronte alla porta, che si richiuse sbattendo. L'omicida! Era stato lui ad aprirgli! Costello era già balzato sul pianerottolo. Rumore di passi precipitosi per le scale. Si chinò sul corrimano lucido. Una sagoma indistinta scendeva i gradini a tutta birra. «Fermo! Fermo o sparo!» Costello faceva gli scalini quattro a quattro, incurante della pressione alta. Sparò, apparentemente senza colpire il fuggiasco che rasentava con prudenza il muro. Ancora una rampa di scale. Il piccolo ingresso buio. Costello andava a tentoni per trovare il pulsante del portone, preziosi secondi andati perduti, lo trovò, pigiò e si ritrovò naso a naso con il simpatico dobermann, le fauci in mostra. Il signore rispettabile diede uno strattone al guinzaglio. «Smettila Fifì, il signore è un poliziotto, è bravo!» «Un individuo, un individuo che è uscito di corsa, lo ha visto?» «No, ma laggiù c'è un gruppo di punk, sono una vergogna questi punk, eh, Fifì?» «Si tolga di torno!»
«Sia educato, per favore!» Sentendo il padrone alzare la voce, il dobermann prese delicatamente tra i denti il braccio sinistro di Costello. «Mi tolga di torno questo cane o gli ficco un proiettile in testa!» Inorridito, il signore ben vestito si affrettò a tirare da parte il cane, liberando il passaggio. Costello si precipitò sul marciapiede, pistola in pugno, senza far caso alle invettive. «È pazzo! Vieni Fifì, è un pazzo, tutta la polizia è una banda di vecchie pazze! Pazzo! Huh!» Richiuse il portone con dignità, immaginando già la lettera che avrebbe inviato al Municipio. Costello rimase piantato sul marciapiede, ansimante, una mano sul cuore, l'altra che brandiva l'arma. Corse verso destra, poi verso sinistra, sotto lo sguardo beffardo di una decina di skinhead riuniti intorno a una panchina. Niente, ovvio. L'omicida si era dileguato nella città. L'intera scena non era durata più di cinque minuti. Abbastanza per mandare a gambe all'aria trent'anni di buona e leale carriera. Non restava che chiamare Jean-Jean... Con la coda dell'occhio, Marcel vide il motorino rallentare. L'ometto saltò giù. Cenno amichevole, da lontano. Aveva davvero una tuta schifosa, tutte quelle macchie... Potrebbe anche lavarsela, di tanto in tanto. Si vedeva che era scapolo, beato lui! L'appartamento di Martin fu passato ai raggi x. Rialzandosi a fatica, il dottor Herblain borbottava: «Non si può dire che mi facciate stare con le mani in mano, in questo periodo... Be', direi che si tratta di una decapitazione con un coltello da caccia. Prima deve averlo sgozzato, poi ha pigiato sulla lama, così, per separare la testa dal corpo, capisce?» «Benissimo, grazie.» «Con un buon coltello, non ci vuole tanta forza. È sempre una questione di materiale, sa...» «La serratura non è forzata» pensò Jean-Jean a voce alta. «Quindi è stato Martin ad aprire. Senza diffidare minimamente...» «Avrebbe dovuto farlo! Mio povero Jean-Jean, tutto questo non è piacevole, ma bisogna che me ne vada.» «Mi lasci indovinare, la sua prozia di ottantotto anni si risposa?» «No, perché dice così? È il battesimo del mio figlioccio e basta.»
«Ah, mi scusi. E pensare che secondo qualcuno la famiglia è in crisi...» «Sono sicuro che lei è di quelli che hanno votato per il PACS» gli rispose Doc 51 con aria severa. «Ne riparleremo tra vent'anni.» Tra vent'anni sarò nonno anch'io, pensò Jean-Jean, mentre Doc 51 usciva rigido e compassato. Bisognerà sorbirsi i generi al pranzo domenicale e fare "pissi pissi" ai nipotini mentre le figlie discuteranno delle qualità di ognuno di loro. Sorrise. Il rigonfiamento della fiaschetta di pastis nella tasca posteriore sinistra dei pantaloni del Doc si notava appena. Costello si avvicinò, sospirando: «L'assassino si è volatilizzato.» «Notizia stupefacente. Be', i ragazzi del laboratorio hanno finito, andiamo. Bisogna mettere i sigilli. Non è mica chiaro, Costello, non è chiaro. Come ha fatto l'assassino a sapere che saresti venuto? E se lo ignorava, perché ha ucciso Martin? A proposito, che cosa ne sappiamo della gente che Martin frequentava?» «Niente di che. In apparenza era un solitario. L'unica compagnia che apprezzava era quella femminile.» «Non ci è di grande aiuto. Bene, vedremo domani. Ne ho le tasche piene. Vado a letto» «Andare a letto non basta, bisogna anche riposarsi» arrischiò Ramirez, tanto per prenderlo un po' in giro, ma Jean-Jean rimase impassibile. Il telefono suonava. Madeleine guardò l'orologio. Le 23. La suocera aveva avuto un attacco? Proprio quando si era appena messa a letto, ovvio. Una voce di donna. Giovane. Con uno strano accento. «Posso parlare col signor Marcel, per favore?» «Marcel, c'è una puttana per te!» gridò Madeleine, in preda a una gelosia bruciante. Marcel, sgomento, uscì dal bagno, nudo e tutto bagnato. Prese la cornetta con precauzione: «Pronto?» «Era nudo sotto la doccia!» berciò Madeleine nel telefono. Marcel la allontanò con un manrovescio. «Pronto? Mi scusi, ma con questa televisione...» Madeleine gli pizzicò con violenza la coscia. «Signor Marcel?» disse Nadja, senza fiato. «Momo ha detto che ha già visto quell'uomo, prima. Ha detto che l'ha visto sotto casa nostra. Allora
vuol dire che quel pazzo sa dove abitiamo, no? Che cosa faccio? Perché mi vuole rubare Momo? Non volevo telefonare, ma...» «Senta, non si faccia prendere dal panico, vengo subito, sarà più pratico...» «Per fartela, sporcaccione, sbraitò» Madeleine come impazzita, e gli sferrò un calcio nello stinco destro. «Ahi, stronza! No, dicevo: arrivo. A tra poco.» «Faccia attenzione, ha l'AIDS!!!» Marcel riattaccò, prese Madeleine per il braccio. «Sei impazzita?» «È con lei che mi tradisci, vero? È per lei che vuoi divorziare, eh? Non è nemmeno francese! Mi fai schifo... Disonori la tua famiglia! Porco!» Marcel si vestiva, sforzandosi di non sentire. Prese la pistola. Il giubbotto. «E perché non ti metti l'uniforme, se vai per lavoro? Eh, dimmi perché?» Madeleine si aggrappava a lui, adesso, sul punto di piangere. Si sforzò di parlare con calma, di non cedere alla voglia di sbatterla contro il muro. «Perché è fuori delle mie ore di servizio. Non è a causa sua che ci separiamo. La conosco appena» aggiunse con tono fermo. «Ci separiamo perché tra noi è finita. E lo sai benissimo. Ascolta, Madeleine, per una volta non mi assillare, ho mal di testa.» «E io ho male al cuore, per colpa tua!» Madeleine scoppiò a piangere. Marcel le batté distrattamente sulla spalla e se ne andò. Non riusciva nemmeno più a provare compassione per lei. L'aveva amata, era la madre dei suoi figli, ma lo asfissiava oltre ogni limite e lui non sapeva nemmeno il perché. Madeleine tirava su col naso, appoggiata al muro. Le metteva le corna con un immigrata! E dire che una settimana prima aveva pulito il vomito dalle scarpe di quel maiale, la vita era ingiusta! L'ometto non era contento. Seduto davanti alla tv, guardava distrattamente il campionato del mondo dei pesi medi. I pugili ce la mettevano tutta. Secondo round. Il sinistro, cazzo, il sinistro! Abbassati, merda, no ma che idiota! Oh cazzo! In pieno muso! Il gong. Breve pausa per gli uomini grondanti di sudore, bocca aperta, slip al vento, l'acqua scorreva sul torace muscoloso che si solleva troppo rapidamente. Respirare. Riprendersi. Non è poi così difficile fare uno sforzo su se stessi. Io, ne faccio di continuo. L'ometto beveva la birra a sorsetti, pensoso.
Non ci sono molti laboratori nella regione. Finiranno col trovare quello giusto. E quindi col trovare me. Con i loro sporchi musi da ficcanaso ostinati, sempre a cacciare il grugno puzzolente nei panni sporchi degli altri. E quando mi avranno trovato, mi rinchiuderanno e mi faranno quelle cose in testa, proprio sotto il cuoio capelluto, come già hanno fatto la volta scorsa, quando ho dovuto tagliarmi la testa col rasoio per trovare quell'affare e, cazzo, quanto sangue, sì, dai, ammazzalo! Dacci dentro! Il sinistro, cazzo! Bisogna che trovi qualcosa. Un rifugio. Una... moneta di scambio. L'ometto si rilassò all'improvviso e sorrise. Aveva avuto un'idea. Marcel bussò piano alla porta di Nadja. A quell'ora era meglio fare meno rumore possibile. Soprattutto per via dei vicini... La porta si aprì. Nadja si scostò per farlo entrare. «Entri.» Un vecchio dai tratti marcati, seduto a gambe incrociate davanti a un tavolino, lo squadrò. Si rivolse a Nadja con aria corrucciata. Lei sorrise a Marcel, nervosa. «Domanda chi è lei...» Si girò verso il vecchio. «È il poliziotto. Viene per Momo...» Ripeté la frase in arabo. Il vecchio fece un cenno col capo, senza abbandonare l'espressione accigliata. Si riempì il bicchiere di tè, ne offri anche a Marcel. Marcel si accovacciò. Non si poteva dire che fosse una posizione comoda. Sentiva che le articolazioni stavano per cedere. Nadja restò in piedi, inquieta, tesa. «Perché qualcuno dovrebbe avercela con Momo? Non abbiamo soldi, non abbiamo nulla. È un pazzo, vero? Perché non lo arrestate?» «Arrestare chi? Non sappiamo nemmeno se c'è veramente qualcuno.» Marcel rifiutò accuratamente di prendere in considerazione l'ipotesi che l'aggressore di Momo e colui che era ormai soprannominato "Il Sarto della Morte" fossero la stessa persona. Momo comparve all'improvviso, tutto scarmigliato. Piangeva, Nadja lo prese in braccio. «Come stai, tesoro?» Si girò verso Marcel. «Piange, ha gli incubi... Su, è finita...» «Non voglio farmi mangiare... e...» «Nessuno ti mangerà, sei un ragazzone. Su, saluta il poliziotto.»
«No. Perché sta qui? Non voglio che abiti qui.» Marcel si schiarì la voce. Nadja alzò le spalle. «Non abiterà qui. È soltanto venuto a trovarti.» «Eh sì! Ciao Momo!» disse Marcel. «Allora dimmi, l'avevi già visto prima quel tipo che è venuto a cercarti a scuola?» «No!» Marcel sospirò, rialzandosi. Crac! Addio ginocchia! Ebbe la vaga impressione che il vecchio ridacchiasse. Nadja accarezzava la guancia di Momo che sbadigliava, gli occhi socchiusi. Marcel si passò la mano tra i capelli. Una cicala si sgolava sul balcone. L'aria sapeva di menta e cannella. «Be', penso che me ne andrò.» «L'ho fatta venire per niente, mi dispiace, ma prima aveva detto... Credo di essermi fatta prendere dal panico...» «Non fa niente. Su, ciao, Momo, dormi bene. Arrivederla signore.» Momo tirò Marcel per i pantaloni. «Anche tu hai una moto?» «Perché? Chi ha una moto?» «Il lupo, stava sotto casa con la moto.» Marcel si sentì subito più sveglio. «E com'era fatta la moto?» «Brutta. Vecchia.» «E il casco di che colore ce l'aveva?» «Non aveva casco, aveva un cappellino come quello di NTM, il rapper.» «E gli occhi azzurri o marroni?» «Non lo so. Marroni?» «E aveva una tuta per la moto?» «Sei matto! Per una moto piccola come quella! Aveva un affare blu, come papà...» Marcel guardò Nadja. «Vuol dire una tuta da lavoro.» Marcel esultava. Forse era proprio un operaio del cantiere! «E quanto era alto? Più di me?» «No, come il nonno...» Marcel guardò il nonno, che doveva essere un metro e sessanta. Marcel sentiva già la solida stretta di Jean-Jean massacrargli le dita con riconoscenza. «Che cosa ti ricordi ancora?»
«Non lo so.» «Portava dei gioielli?» «Non è mica una ragazzina.» «Lo so, ma un braccialetto, un orologio, una catenina...» «Una catenina, con un medaglietta e sopra un amico di Gesù.» «Un amico di Gesù?» Nadja intervenne: «Vuol dire un personaggio religioso.» «Una medaglietta con un santo, forse?» Momo fece spallucce. «Tu ce l'hai una moto?» «No, non ce l'ho,» riprese Marcel «ma ho una macchina, un giorno se vuoi ti porto a fare un giro.» «Con la mamma?» «Sì, certo.» Nadja tossicchiò. Il vecchio li guardava, sospettoso. Una mosca ronzava. La schiacciò, al primo colpo, tra i palmi delle mani. Marcel sussultò, riportò l'attenzione sul bambino. Senza preavviso, Momo chiuse gli occhi e si lasciò cadere sul divano, inerte. «Si è addormentato» spiegò Nadja. Marcel aprì la porta. «Me ne vado. La terrò al corrente. Ma non si preoccupi, lo localizzeremo rapidamente, adesso...» Nadja sorrise, un sorrisetto incerto. Sul pianerottolo si chinò verso di lui, per accendere la luce del corridoio esterno. Sentì la sua spalla sfiorarlo... «Per quanto riguarda il giro in macchina, se le va...» «Lei deve avere molto lavoro...» Mormoravano sul pianerottolo, occhi negli occhi. «Mi posso liberare. Potremmo andare a fare un pic-nic...» «Non so.» «Be', è proprio un vizio di famiglia.» Nadja sorrise, un sorriso vero. Marcel le strinse brevemente la spalla, con gesto amichevole-e-confortante. Carne piena e soda e morbida. «Be', ne riparleremo. Su, vada a dormire.» Corse giù per le scale in punta di piedi. Arrivato giù, alzò la testa. La porta si era richiusa. Uscì. Un rumore leggero sopra di lui. Marcel si girò. Nadja stendeva il bucato sul balcone. Lo squadrò. Gli sorrise. Marcel si
sentiva sciocco. Fece "ciao" con la mano, sprofondò nella sua auto, rosso di confusione, e mise in moto. 7 Aria di tempesta. Il tempo prometteva tempesta. Il clima nel commissariato anche. Una signora in un tailleur di seta strappato piangeva senza freni: l'avevano presa a calci, le avevano rubato i gioielli. Un agente sfinito le andò a prendere un bicchiere d'acqua. Un tipo grande e grosso, panciuto, cercava di strangolare tre ragazzini che lo prendevano in giro, fuori portata. "Qualcuno" gli aveva rubato il portafogli al cinema. «Non è mica vero, è solo perché siamo abbronzati, razzista.» «Non fate i cretini, vi teniamo d'occhio da un bel po'. Si sieda, lei, ce ne occupiamo noi.» Uno spacciatore, nervoso, manette ai polsi, seduto su una vecchia panca di legno, lanciava sguardi furtivi a destra e a sinistra, come un automa rotto. Poliziotti frettolosi passavano con le pratiche. Altri con i manganelli. Jean-Jean aprì una porta grigio sporco. Ramirez sollevò la testa, sorpreso. Di fronte a lui, stravaccato su una sedia di plastica, c'era un vecchietto panciuto, in pantaloncini corti, la maglietta gialla tutta sporca di sangue come i bianchi capelli, rigidi come una foresta di sigarette. Jean-Jean indicò il vecchietto col mento: «Ti manca molto?» «Finisco con lui e vengo.» «Che cosa ha fatto?» «Ha appena ucciso la moglie a bottigliate. Prima le ha rotto la bottiglia in testa e poi, pan, in pancia.» «Perché lo ha fatto?» L'uomo alzò le spalle, senza rispondere. Ramirez rispose al suo posto: «Lei voleva sempre che lui portasse a spasso il cane e buttasse l'immondizia, glielo faceva fare tutte le sere, proprio quando stava per cominciare il film in tv. Ci pensi, questo tizio non ha visto un film dal principio per quindici anni!» «Doveva comprarsi un videoregistratore.» «Be', sa, per me, quegli aggeggi moderni...» Jean-Jean sospirò. Si girò verso Ramirez. «Be', quando hai finito vieni, Blanc ha delle novità...»
Ramirez annuì distrattamente e si rigirò deliziato verso l'uomo. «Le proibiva anche di fumare?» «Non c'è bisogno di chiederlo. È stata la prima cosa che mi ha proibito. Dovevo fumare sul balcone, alla mia età, si rende conto?» Jean-Jean richiuse la porta. Dietro al suo computer, Mélanie temperava una matita, torva, con gesto lento e scivoloso. «Però è brava con quell'arnese, eh?» disse Jean-Jean sedendosi, scherzoso. Mélanie arrossì, incrociò le gambe. Jean-Jean le gettò un'occhiata. «Sempre più abbronzata! È il suo amichetto che la porta in barca, ah ah ah?!» «Ah ah ah! No, è andato via ieri sera, ritorna tra un mese.» Jean-Jean le sorrise beato. «Be', bisognerà darci dentro... Cioè, con tutto il lavoro che abbiamo...» «Possiamo farlo anche adesso...» rispose Mélanie, sbarazzina, succhiando la matita. Jean-Jean si sentì inondare di sudore. In quel preciso istante bussarono alla porta. Era il trio infernale: Ramirez, Blanc e Costello. Mélanie posò subito la matita e si mise a scrivere a tutto vapore, indaffarata. Jean-Jean squadrò i suoi poliziotti, distruggendo con aria minacciosa alcuni fermagli colorati. Diede le istruzioni con la sua voce più professionale. Marcel si sciacquò il viso nel bagno del bistrot. Si guardò nello specchio sul lavandino e si trovò brutto. Naso aquilino, rughe, occhi troppo grigi, bocca grande, capelli rossi ricci e baffi magnifici: sembrava un minatore gallese. Eppure sua madre era di Marsiglia e il padre di Tolone. Nessuna traccia d'esotismo in famiglia. Ripensò a Jean-Jean che lo aveva mandato al diavolo, lui e il suo aggressore di bambini: "Comincio ad averne le tasche piene delle sue storie, Blanc, non si mescolano piacere e dovere, capito?!" aveva urlato, mentre Mélanie batteva almeno 400 parole al minuto, gli occhi inchiodati alla tastiera. Poi Jean-Jean aveva aggiunto, cupo: «Blanc! Quello che le dirò deve restare tra noi, d'accordo?» «Certo...» «In questo momento lei non si sta concentrando sul lavoro! Stia zitto! La sua vita privata non mi riguarda, ma voglio darle un consiglio: stia atten-
to.» «Faccio il mio dovere, capitano. Il resto riguarda me.» «E me: posso dirle che avrà una brutta sorpresa. La sua moukère, la sua brava madre di famiglia, la sua vedova a quattro stelle, è una puttana.» «Prego?» «Mi ha sentito benissimo. A questo punto, tocca a lei» gli aveva detto Jeanneaux, tendendogli due fogli dattilografati. Marcel aveva salutato ed era uscito. Sentiva le orecchie bruciargli per l'ira. Credeva che tutto gli fosse permesso, quel Jeanneaux. Nella scala buia aveva dato uno sguardo ai fogli. Due resoconti di interrogatori. Il primo di un certo Karim Abdache, salumiere. Le parole gli erano saltate disordinatamente agli occhi. Retrobottega, Nadja Allaoui. Si costrinse a riprendere fiato, come in palestra, e riuscì a finire il secondo foglio. Di tanto in tanto Abdache aveva venduto le grazie di Nadja nel suo retrobottega. Era capitato qualche mese dopo la morte del marito, il quale l'aveva lasciata senza un soldo e clandestina, prima che lei si mettesse in regola. Affare archiviato, nessuna ricaduta, secondo l'appunto di Rudy la Faina spillato sul retro del secondo foglio. Niente di tragico, si era detto Marcel, espirando e inspirando più volte. Qualche deviazione dalla retta via, miseramente remunerata. Non era una vocazione, ma il contributo di una donna priva di mezzi per mantenere la famiglia. Sapeva che la Nadja che aveva davanti era la vera Nadja, si rassicurò, facendosi una brutta smorfia. Il sole batteva sulla pittura verde scrostata e disturbò un ragno che si mise a galoppare verso i bagni. Si asciugò il viso con la manica della camicia celeste. Be', bisognava tornare al lavoro. Risalì, attraversò il bar, incrociò Jean-Mi che passava, grondante, con una quantità di boccali schiumanti. Marcel era sceso a pisciare due secondi, era in servizio fino alle diciotto. Fuori, il caldo era asfissiante come sempre. Marcel si piazzò giudiziosamente sotto una palma. Ripensava all'ultima scenata di Madeleine. Sulla sinistra, una sagoma attirò il suo sguardo. Nadja camminava sul marciapiede di fronte, senza guardarlo, Momo, invece, aveva la testa voltata verso Marcel: lasciò la mano della madre e attraversò la strada di corsa per raggiungerlo. «Momo! Che fai?» gridò Nadja. «Ciao, signor poliziotto!» «Buongiorno... Vieni da scuola?» chiese stupidamente Marcel, turbato.
«Ma che scuola! Siamo in vacanza, non lo sai?» Nadja, che aveva attraversato, andò a recuperarlo. «Mi scusi, la disturba...» All'improvviso il ragazzino si aggrappò alle gambe di Marcel, la testa nascosta nei suoi pantaloni. Marcel gli sollevò il viso. «Che cosa succede?» «Laggiù, è lui, laggiù!» Marcel guardava da tutte le parti. «Dove? Dove?» «Laggiù, sulla moto.» Era scattato il verde. Si sentì scoppiettare un motorino all'angolo della strada, fuori visuale. Marcel si mise a correre a perdifiato: fatica inutile. La gente lo guardava, sorpresa. Ritornò verso Nadja. La gente si dava di gomito. Jean-Mi, davanti al bar, scuoteva la testa con aria di rimprovero: Marcel era proprio andato fuori di testa... Ramirez era senza fiato. Aveva appena salito le tre rampe che portavano all'antro di Alfred. «Arrampicarmi per tre piani con questo caldo, mi uccide.» Alfred io guardò, beffardo: «Se ti riduci così ogni volta che sali qualcosa...» Ramirez si lisciò i capelli grigi troppo lunghi sul collo, risistemandoli con il palmo della mano. «Non fare tanto il paraculo, bellezza. Allora, che c'è di nuovo?» «È tutto scritto lì dentro.» Alfred gli tese il dossier plastificato. «Ma sai leggere?» «Non ti preoccupare, non è per me, è per Jeanneaux.» «Ah, bene, mi rassicuri.» L'ometto occupava il suo posto preferito: disteso sul divano. Guardava il telegiornale. Terremoto in Kurdistan. Migliaia di vittime sepolte. I soccorritori scavavano senza posa tra le macerie, rivelando corpi schiacciati, dilaniati. Da qualche parte, sepolta sotto i calcinacci, c'era una donna: la si sentiva battere e chiamare. I soccorritori scavavano e le gridavano di resistere. Paralizzato, l'ometto gettò la testa all'indietro, mascelle contratte, in preda a una viva agitazione, gli occhi che ruotavano freneticamente nelle orbi-
te, e cominciò a gemere, a denti stretti; poi, con uno spasmo di tutto il corpo, lanciò la lattina di birra contro la tivù. La birra spruzzò sulla giornalista bionda dalla permanente nuova nuova, colando lungo lo schermo con lacrime di schiuma. L'ometto nascose la testa tra i cuscini e cominciò a dondolare avanti e indietro, gemendo. In quel momento suonarono alla porta. Saltò in piedi con un balzo, si asciugò gli occhi, si sistemò i capelli con la mano, ispezionando la stanza con lo sguardo. Era tutto in ordine, tranne il liquido sul viso affabile della giornalista. Passò rapidamente uno straccio sullo schermo. Ancora peggio, si sarebbe detto un parabrezza sporco in un giorno di pioggia. Il campanello suonò di nuovo. Dio mio, che ore sono? Chi può essere? Gli sbirri? Respirare a fondo. Mantenere il controllo. Non dimenticare il proprio ruolo. Aprì la porta, pronto a tutto. Marcel gli stava di fronte, uno stupido sorriso sul volto. L'ometto non poté trattenere il sollievo: «Ah sei tu!» «Sì, sono di pattuglia qui all'angolo. Aspettavi qualcuno? Ti disturbo?» «No, no, anzi, avevo paura che fosse un rompiscatole. Entra, ho appena aperto una lattina, è schizzata dappertutto, stavo per pulire...» «Senti, volevo chiederti... Ti scoccerebbe se...» Battuta maschile di rigore: «Che cosa vuoi? L'indirizzo di una buona casa di appuntamenti? Il tuo oroscopo della settimana prossima? Dài, non vergognarti...» «Ah ah ah! No, volevo sapere se potevi prestarmi il furgoncino per domenica...» «Hai la macchina guasta?» «Be', no, ma Madeleine va a trovare la sorella a Fayence e dato che mi vorrei fare un giretto, schiarirmi le idee, insomma...» «Sì, capisco. Fare un giretto da solo, tranquillo, godersi la natura...» Fece rotolare la "r" di godersi, leccandosi le labbra. «Be', ecco, pensavo di portare un'amica» rispose Marcel con aria innocente. «Una vecchia amica dell'asilo, immagino. Certo che ne hai di coraggio! Non potresti aspettare il divorzio prima di cornificare la povera Madeleine?» Marcel arrossì, tormentando il cappello. «Non sapevo che ti piacesse tanto il couscous...» Marcel non rispose, ma l'ometto notò la leggera contrazione del pugno.
«Sì, be', dicevo tanto per dire, sì, te lo presto. Però fai attenzione.» Si grattò il torace, la patta, sbadigliò, l'aria assonnata. Marcel lo ringraziò brevemente, si rimise il cappello e uscì. Per fortuna poteva contare sugli amici, si disse. Anche se certe battute non erano di suo gradimento. Appena ebbe richiuso la porta, l'ometto tese il medio in quella direzione, con un gesto osceno, gli occhi pieni di odio. Cominciava a diventare ingombrante, Marcel. Chi si credeva di essere? Di avere diritto alla felicità? Di avere il diritto di trasgredire alle regole e di farla sempre franca? Toh, una testolina da arabo su un corpo da piedipiatti, mica male. L'ometto andò verso il frigo, lo spalancò, prese un cartoccio di carta d'alluminio, lo aprì e restò lì, in piedi, masticando con furore. Rosicchiò accuratamente gli ossicini, poi li buttò nel cestino. Ruttò soddisfatto. Niente assomiglia a un osso di pollo quanto un osso auricolare. Era come se Marcel avesse i piedi a mollo nelle scarpe. Aveva l'impressione che fossero raddoppiati di volume. Mosse le dita. Se solo avesse potuto togliersi le scarpe e immergere i piedi nella fontana. E tutti quei maiali a spasso con i sandali... Insomma, domenica tutto sarebbe andato meglio: avrebbe portato Nadja e Momo a fare un giro. Se lei avesse accettato. Non glielo aveva ancora chiesto. Questa settimana calma piatta, nessun omicidio. Forse il suonato era andato anche lui in vacanza. Oppure stava tramando un colpo basso. Marcel non era ottimista. Guardò l'orologio. Una giornata in meno. Questa sera allenamento con gli amici. Sarebbe tornato tardi. Madeleine avrebbe già cenato. Meglio. L'avvocato aveva detto che era questione di poche settimane. Ma non doveva abbandonare il domicilio coniugale. All'udienza avrebbe fatto un'impressione migliore. Jean-Mi, Paulo, Jacky e Ben erano già installati nella Méhari. Jean-Mi suonò il clacson, interrompendo i suoi pensieri. Marcel mostrò l'orologio. Articolò in silenzio: "Dieci minuti." Gli altri protestavano. Durante le brevi pause del traffico gli arrivavano brani di conversazione. «Ti rendi conto, quella donna ha resistito otto giorni, otto giorni senza mangiare, senza bere, sotterrata al buio!» «Io sarei diventato pazzo, credo...» Una R25 fece marcia indietro a tutta birra, sfondando il paraurti della Panda parcheggiata dietro di essa. Rumore di fari rotti. Marcel avanzò, e-
sasperato. Ecco, così la giornata finiva in bellezza! Ramirez trascinava i piedi. Di laboratori ne aveva già visti quattro. Interessanti, però, tutte quelle ricerche. A Ramirez la scienza piaceva. Se ci si pensa un momento, siamo veramente poca cosa... Forse cavie per il buon Dio? Questo pensiero atroce lo fece rabbrividire malgrado il caldo. Insomma, alla fine aveva fatto il suo lavoro. Jean-Jean sarebbe stato contento. E lui, Ramirez, tranquillo. I risultati delle analisi non avevano fornito indizi. Bisognava cercare altrove. "Pensare diversamente." Jean-Jean scorse l'elenco dei nomi che Ramirez gli tendeva. La lista degli impiegati licenziati dai laboratori di ricerca in vivo negli ultimi cinque anni. Be', bisognava verificare i nomi, indirizzi, ecc., la solita routine. Ma Jean-Jean sentiva che erano vicini. L'ometto era nervoso. Aveva fame. Una fame divorante. Girava in tondo nel soggiorno cosparso di lattine vuote. Aveva bisogno di muoversi. Prese le chiavi posate sul tavolo. Uscì. La notte era calda. Appiccicosa. Raggiunse il quartiere del porto. Boccali di birra rotti davanti a un locale. Musica house che proveniva a ondate tonanti da una decappottabile. Visi lucidi di sudore e trucco. Tedeschi ilari. Motociclisti nervosi sull'orlo di una rissa. Zingarelli con le braccia piene di rose che ripetevano la solita filastrocca con voce monocorde. Un tipo che sbraitava musica folk con voce in falsetto, coperto da un sassofonista che suonava davanti al bar accanto. Rombi di motorini. Richiami. Colpi di fischietto. Un bambino piangeva. L'ometto registrava tutto, camminando tranquillo. All'improvviso rallentò. Interessante... Un vecchietto gobbo, quasi nano, barcollava in mezzo alla strada, cantando a squarciagola un'aria da opera. Lo sguardo dell'ometto passò dal gobbo a una bionda scultorea in minigonna rossa, seduta davanti a un cocktail. Quasimodo ed Esmeralda fusi in una sola creatura, il sogno di qualunque scultore! Il gobbo si era fermato per accendere una sigaretta con uno di quegli accendini con sopra una ragazza nuda che dice I love you. Conoscerai l'amore e la fusione totale, eccome! si disse l'ometto, toccandosi automaticamente la medaglietta di San Cristoforo. Il vecchio mise in tasca a fatica l'accendino con mano tremante e si allontanò, un passo a destra, un passo a sinistra, come un pattinatore gobbo
che andasse alla deriva sull'asfalto prima di inoltrarsi nel bar della Marine, una bettola fumosa in fondo al porto. L'ometto, soddisfatto, diede un altro tiro alla sigaretta, poi la buttò e si diresse verso la biondona. Sorseggiava l'ennesimo caffè, tamburellando sul tavolino di plastica gialla con le sue lunghe dita smaltate. La bionda alzò gli occhi sul mostriciattolo, sbuffando tra le labbra imbronciate con aria esasperata. Aveva gli zigomi duri, la bocca rosso vivo, occhiaie bluastre, denti quadrati ben piantati in una larga mascella. L'ometto tirò fuori il portafoglio e con fare distratto contò una mazzetta di banconote senza guardare la ragazza. Immediatamente, lei spense la sigaretta e si alzò. Lui cominciò a camminare lungo la banchina. Lei lo seguiva senza smettere di brontolare a bassa voce. La minigonna beccheggiava come un veliero scosso dai marosi. È il mio giorno poetico, pensò l'ometto sghignazzando. Dietro al porto, in fondo alla diga, c'era un parcheggio. Un grande parcheggio. Quasi vuoto. Di giorno la gente lo utilizzava per andare al mare. La notte era un luogo di ritrovo per gay un po' brilli, coppie alla ricerca di altre coppie o amanti dell'insolito... Nessuno si avvicinava più di tanto per vedere quello che si faceva all'ombra delle palme. In fondo al parcheggio e alla diga c'era il faro. Brevi squarci di luce proiettati sull'acqua calma. La bionda sentiva i propri tacchi risuonare sul cemento. La stava portando a pesca? Insomma, dopo quello lì sarebbe tornata a casa, per stasera aveva finito. Domani Lola le avrebbe portato il bambino, sarebbero andati al cinema. Gli avrebbe comprato i pattini. Un sacco di soldi! I tre pompini di ieri sera. Lui si voltò per aspettarla. Persa nei suoi pensieri, gli andò a sbattere contro. Peggio per lei. Infatti dovette solo sollevare un po' il braccio per affondarle il coltello nella pancia, dieci centimetri buoni. Con l'altro braccio la strinse a sé. Da lontano si sarebbero detti due innamorati che si abbracciavano. La bionda lo squadrò, stupita. Aprì la bocca per gridare, ma a uscirle dalle labbra fu un denso getto di sangue che schizzò la bocca di lui, golosamente aperta. L'ometto le girò il coltello nel ventre e risalì allo sterno, strappando tutto quello che trovava sul suo percorso. Gli occhi chiari della bionda lo fissarono con rancore e disperazione, le palpebre battevano frenetiche, il sangue le colava a fiotti e bolle dalla bocca aperta. Lui affondò lo sguardo in quello di lei e la guardò morire, inchiodata a lui.
Era la prima volta che uccideva una preda cosciente, guardandola negli occhi. Una nuova esperienza che gli apparve subito come una rivelazione. Vedeva le emozioni primarie - terrore, dolore, odio, incredulità... - succedersi nelle pupille dardeggianti di lei. Poi, all'improvviso, l'iride divenne fissa. Ebbe voglia di gridarle: "Ehi, c'è qualcuno?" ma sapeva che non c'era più nessuno. Era fantastico! La bionda si afflosciò e scivolò lentamente a terra, trattenuta dalle braccia muscolose dell'ometto. Tenendola per la vita, la trascinò fino agli scogli della diga, blocchi di pietra piazzati alla rinfusa contro il mare. La distese là, al riparo dagli sguardi. Due ragazzi passarono senza vederlo, risalirono verso il parcheggio ridendo, tenendosi per mano. Il più giovane, alto e riccio, si fermò per pisciare proprio al di sopra dell'ometto e della bionda, nascosti sotto gli scogli. Il rivolo di urina gocciolò lungo la pietra e si perse tra i capelli della bionda. I due si allontanarono. L'ometto sistemò la ragazza in un anfratto profondo, poi andò a lavarsi in mare. Il mare era bello, tiepido, carezzevole. Vi tuffò con voluttà il corpo nudo. Un gabbiano gli passò sulla testa, scintillante sotto le stelle. Gli piacevano i gabbiani. Gli fece ciao con la mano. Con sua madre, la domenica andavano spesso a guardare i gabbiani e a lanciar loro pane secco. Sciacquò il coltello che brillava nell'acqua nera. Sua mamma si chiamava Jacinthe. Dolce come un fiore. Bionda come il grano. Rideva sempre. Ricordava la sua risata cristallina, una risata di gola che risuonava nel salotto insieme al riso tonante di Pierrot, il loro vicino. Un gran pezzo d'uomo quel Pierrot, almeno due metri di altezza e un metro di larghezza. Non gli era piaciuta l'idea che Pierrot diventasse il suo nuovo papà. Non gli piacevano i papà. Voleva bene solo alla sua mamma. Dietro di lui, scoppi di voci lo sottrassero ai ricordi. Uscì dall'acqua, si asciugò in modo sommario con gli slip arrotolati, si rivesti prima di scivolare cautamente fino al parcheggio. Falso allarme, erano soltanto dei ragazzini in motorino. L'ometto consultò l'orologio. Era tempo di recarsi al secondo appuntamento. Raggiunse il furgoncino che aveva astutamente posteggiato nel parcheggio, ne tirò fuori due immense pattumiere nere e tornò ad affaccendarsi sugli scogli. E hop, prendi, incarta e porta a casa! Il gobbo, appoggiato al bancone, beveva tristemente. Il barman lo interpellò:
«Ehi! Henri, tira fuori i soldi, sto per chiudere! È ora!» «... 'apetta 'ncora un po'...» «Sì, bravo. Resto qui tutta la notte. Paghi o non paghi?» «Domani... Vengo... Domani...» «Come no! Ti avverto, vieni a pagare domani o ti faccio un muso così!» Il barman allontanò le mani e poi le riavvicinò, come se volesse schiacciare qualcosa di estremamente nocivo. Henri alzò le spalle, si lanciò tra i tavoli, mandando a gambe all'aria una sedia, raggiunse a fatica la porta a vetri colpendola pesantemente con la testa. «Non ti vergogni? Non ti reggi nemmeno in piedi! Se mi rompi la porta, ti spacco le ossa!» «Vai a farti...» borbottò Henri tra i denti cariati. Prese accuratamente la mira, la testa bassa, un occhio chiuso, calcolò la traiettoria e si buttò. Superò la porta come un razzo, irrompendo nel porto deserto. Una macchina lo evitò, suonando furiosamente il clacson. Qualcuno lo stava chiamando: «Ehi, ehi, vieni un po' a vedere, di qua!» Henri ruotò su se stesso, si aggrappò in extremis a una stanga di metallo. Sentiva le voci, adesso?! «Vieni, ti ho detto, ho da bere!» Ma che bella voce! Se la sentisse più spesso! Il barman tirò giù la saracinesca, batté sulla spalla di Henri che barcollava, "Su, ciao, a domani!" e sparì. Henri restò solo sul porto, col suo destino che brandiva amabilmente un fiasco di vino rosso, laggiù, vicino a un furgoncino blu. Attraversò lo spiazzo come se stesse ballando un tango e bene o male arrivò al furgoncino. Arrivederci, Henri! Ah no, scusa: addio... L'ometto depose i suoi pacchi sul tavolo. Era sfinito. Prima aveva trsportato la bionda, poi il gobbo. Con il caos che c'era in giardino (mattoni, copertoni, pezzi di macchine, legna), qualche sacco in più o in meno non avrebbe dato nell'occhio. Sballò i suoi colli con cura. Stese la bionda sul tavolo. Mica male, la tipa... Le tolse la canottiera bianca sporca di sangue, scoprendo la carne frastagliata. Un bel seno, ma piccolo. Poi attaccò la minigonna di pelle rossa, con un sorriso goloso ben presto cancellato. La bionda era decisamente piena di imprevisti: non solo non portava le mutandine, ma per di più era un maschio! Furioso, l'ometto la schiaffeggiò con violenza.
Con il gobbo, per lo meno, niente sorprese. L'ometto tolse il cacciavite che gli aveva piantato nell'orecchio sinistro, pulì i pezzi di cervello con uno straccio, tirò fuori il suo necessaire per il cucito. Su, al lavoro! Ancora una notte in bianco. Una bella notte, di quelle che piacevano a lui. Madeleine si girò pesantemente, tentò di incollare i piedi freddi (d'estate come d'inverno) contro i polpacci di Marcel che si scostò bruscamente, nauseato. «Quanto sei cattivo!» sospirò Madeleine, pizzicandogli il braccio. Marcel non rispose, faceva finta di dormire. Nadja non dormiva. Era andata al cinema con due amiche, era tardi e camminava svelta. Nadja camminava svelta. Camminava sempre svelta. Una vecchia abitudine di quando era sposata, quando aveva sempre paura di farsi avvicinare da sconosciuti troppo intraprendenti. Il matrimonio. Tempo lontano, tempo passato. A volte, non ricordava nemmeno più i lineamenti di Moussa, suo marito. Avevano fatto parte dei duecentomila rifugiati tuareg che erano fuggiti dal Mali tra il 1993 e il 1994. In direzione dell'Algeria, poi quasi subito, della Francia, attraverso una trafila conosciuta dai ribelli. Erano quasi tre anni che Moussa era caduto dall'impalcatura, in cantiere. Dopo era stato il caos, senza soldi, la quotidiana paura che la mettessero su un aereo con Momo, diretti verso l'integralismo. Non sarebbe più tornata al silenzio del deserto, mai più. Preferiva il frastuono della città, la vita facile e moderna. Meglio morire, piuttosto che tornare al magro gregge e a percorrere le dune. Non era morta, se non appena appena, affittando un pezzo del suo corpo. Non del suo spirito. Il giorno in cui aveva ottenuto i documenti grazie all'aiuto di un'associazione di militanti, aveva sputato in faccia a Karim. Suo suocero non era quel che si dice un progressista, ma era un uomo buono. Moussa... Era stato affettuoso, ma non era la passione. Non capiva perché Nadja trascorresse le ore imparando a leggere con la vecchia maestra di quinta. Non capiva perché Nadja si immaginasse all'ultimo piano di un grattacielo, vestita con un tailleur da Donna in carriera, una ventiquattr'ore in mano. In realtà, si disse Nadja, non si erano mai capiti. 8 Erano soltanto le sette del mattino e il caldo era già opprimente.
L'ispettore Jean-Jean riscaldava il caffè del giorno prima, rosicchiando una coscia di pollo. Nel suo giorno libero, l'unico giorno in cui poteva dormire, c'era stato ovviamente un imbecille che lo aveva svegliato alle sei e mezza perché aveva sbagliato numero. Troppo caldo. Troppo rumore per strada. Il caffè fuoriuscì con un fischio. Jean-Jean pulì il fornello, brontolando. Non si ricordava se ci aveva messo lo zucchero. Mise lo zucchero. Assaggiò. Troppo dolce. Vuotò la tazza nell'acquaio. Il telefono squillò di nuovo. Cristo, se era lo stesso coglione gliene avrebbe dette quattro! Jean-Jean rispose, infuriato: «Pronto!» «Buongiorno, capitano...» sussurrò una voce soffocata. «Chi parla?» «Mi dica, preferisce il petto o la coscia?» Quell'idiota stava parlando del suo pezzo di pollo? «Sta scherzando?» «Vada a vedere a place Jean-Jaurès. C'è una sorpresa per lei.» All'improvviso, Jean-Jean si fece attento. «Che genere di sorpresa?» «Una sorpresa... Sorprendente...» La voce era felpata, insinuante, carezzevole, decisamente ostile. JeanJean pensò alla lingua di un serpente. Gli ritornarono in mente le incongrue immagini del Libro della giungla. Jean-Jean le scacciò e si concentrò solo sul respiro ansimante dall'altra parte del filo. «È stato lei a mettere quel regalo nella mia macchina?» Risatina da serpente a sonagli. «Le ha fatto piacere?» «Mi farà altri regali?» «Un sacco, capitano, un sacco! Ora la devo lasciare: non ho ancora pranzato. Ho tante buone cose in frigo. La inviterò un giorno di questi... Arrivederci!» «Ehi, aspetti!» L'altro aveva riattaccato. Infilandosi un paio di jeans puliti, Jean-Jean rifletteva. Nessuno aveva il suo numero privato. Ordine tassativo di non darlo a nessuno. Se qualcuno voleva parlargli, il commissariato lo avrebbe prima chiamato per sapere se potevano dare il numero. Allora? Come aveva fatto? Place Jean-Jaurès: il posto abituale di Marcel. Ma stamattina Marcel era
di riposo. Quando Jean-Jean arrivò il furgone era già lì, parcheggiato in un angolo. Jean-Jean aveva detto di aspettare, prima di fare qualunque cosa. Avevano aspettato. Dato che era presto, non c'era quasi nessuno. La città aveva quell'odore di fresco, di pulito, di nuovo che dà l'impressione che tutto sia ancora possibile, che l'imprevisto possa arrivare. Ai tavolini esterni del caffè, una banda di giovani silenziosi, gli occhi incavati dopo una notte bianca e fumosa, ingoiava con voracità caffè e cornetti. Una famiglia faceva colazione, le valige posate accanto ai piedi del padre, la cui testa era adorna di un berretto da capitano. Distribuzione di schiaffi. Pianti. Due prostitute con il trucco sfatto e le acconciature scomposte leggevano il giornale l'una accanto all'altra, con aria affranta. Uno spazzino spazzava. Una vecchia signora in bicicletta, con una baguette sotto il braccio. Il furgone di un droghiere fermo in mezzo alla strada. Il sole sopportabile del mattino. La calma... Abbracciò di nuovo la piazza con lo sguardo. Su una panchina, vicino alla fontana, un vecchio seduto. Un sacco a pelo grigiastro lo copriva fino al mento. La testa reclinata sulla spalla, dormiva. Jean-Jean l'osservò un attimo. Nemmeno un movimento. Una morsa allo stomaco. Un'intuizione. Sgradevole. Forse era solo un barbone che dormiva, ma... Avanzò col suo passo ondeggiante. Si chinò sull'uomo immobile. Non c'era bisogno di battergli sulla spalla. La rigidità bluastra delle labbra, il bianco degli occhi rovesciati, gli fornirono informazioni a sufficienza. Fece un cenno discreto ai tre agenti che si avvicinarono, lo circondarono, tanto per nascondere lo spettacolo ai passanti che strabuzzavano gli occhi per vedere meglio: verifica d'identità? Arresto di un terrorista? Brutalità poliziesca? Non si aveva più il diritto di sedersi tre secondi su una panchina? "Certo, con tutti quei teppisti che circolano, sempre ubriachi!" fu il commento dello pseudo-capitano alla sua famiglia stravaccata. Jean-Jean scostò il sacco a pelo usato. Uno degli agenti, giovanissimo, ebbe un singulto. Preso alla sprovvista, vomitò nel képi. I suoi colleghi lo guardarono con severità. Si scusò a gesti: era il suo primo cadavere. La testa del vecchio Henri sovrastava il busto del travestito biondo. Era strano, quella testa da vecchio rapace su quelle forme coperte da pizzi rossi. Le braccia di Henri, magrissime, poggiavano sulla minigonna di cuoio rosso. Tra le mani, ricoperte di macchie brune, c'era una testa. Una testa
che si presentava da dietro, biondi capelli folti tra le dita irrigidite di Henri, affondate, avvinghiate sotto la nuca. Il viso della testa bionda era nascosto a metà sotto la minigonna. Jean-Jean la rialzò. Il giovane agente gemette e svenne, con grande stupore della popolazione. Bisogna dire che l'ometto aveva fatto un lavoro d'artista. Un sesso, nudo, era stato infilato tra le labbra rigide della bionda, triste accoppiamento di carni morte. Scosso, Jean-Jean restò un attimo in silenzio, prima di alzare le spalle e far chiamare un'ambulanza. Attese, fissando cupo il/i cadavere/i. E poi, perché quel pazzo se la prendeva con lui, Jean-Jean? La sirena dell'ambulanza risuonò, assordante. Veramente inutile mettere la sirena per un cadavere! Quei ragazzi non avevano proprio niente nella zucca. E i morti nemmeno. Poco per volta, la città si stava svegliando. La piazza si riempi di gente. Ognuno dedito alle proprie attività, nell'affaccendarsi mattutino. Jean-Mi prese servizio, mezzo addormentato, di cattivo umore. Jacky affrontava un pullman di cinquanta italiani scatenati che tentavano disperatamente di entrare tutti insieme nel suo minuscolo negozietto. Paulo e Ben, in piedi davanti al garage, discussero per un po', gli occhi fissi sui poliziotti, prima che l'ometto tirasse su la saracinesca. Cominciava una nuova giornata, mentre la bionda e il vecchio si avviavano verso il loro palazzo: l'obitorio. Jean-Jean guardò l'ambulanza allontanarsi con il suo macabro fardello. Si sarebbe bevuto volentieri un caffè, seduto tranquillamente a un tavolino all'aperto. Esitò, poi il senso del dovere ebbe il sopravvento: direzione commissariato. Mettendo in moto, scorse Marcel Blanc, un materassino sotto il braccio, due ragazzini alle calcagna: una bambina di tre o quattro anni e un maschietto di una decina d'anni. Jean-Jean clacsonò e lo chiamò dal finestrino aperto. Marcel si avvicinò, sorpreso. «Buongiorno, capo. Che succede?» «Oggi è il suo giorno di riposo?» «Questa mattina. Porto i bambini al mare.» «Papà, è lui l'inpsettore Jean-Jean?» «Zitta, Sylvie...» «C'è stato un altro omicidio» disse Jean-Jean a fior di labbra. «Laggiù, sulla panchina.» «Hanno ucciso qualcuno sulla panchina?» «Abbiamo ritrovato il corpo sulla panchina. Dovrei dire i corpi... Un vecchio e una bionda, cuciti insieme.»
«Che cosa vuol dire "cuciti insieme", papà?» «Niente, tesoro, niente.» «Sei proprio stupida!» squittì il fratello. «Quando prenderà servizio, questo pomeriggio, passi da me» riprese Jean-Jean, gli occhi fissi sul materassino decorato con delfini che saltavano. «Va bene. Col suo permesso, vado perché...» Jean-Jean fece un cenno col capo, comprensivo. Conosceva l'incubo dei padri incaricati di occuparsi dei figli. Arrivato sulla spiaggia, Marcel individuò Caró, la moglie di Jacky. Si sistemò accanto a lei, stringendosi bene si potevano affiancare i tre asciugamani, bastava spingere un po' le scarpe dei vicini. Caró prese gentilmente in giro Marcel, che aveva il viso molto più abbronzato del corpo. «Certo che sei proprio bello!» «Non ho mica il tempo di andare al mare, in questo momento. Con questo caso...» «E allora? Ancora niente?» «Niente. Che rimanga tra noi, stamattina c'è stato un altro omicidio.» Il loro vicino abbassò la radio, interessato. «Ancora! Ma è una follia!» esclamò Caró disgustata. «Proprio così...» Marcel infilò le dita dei piedi nella sabbia bollente. Caró lo guardò con gravità. «Insomma, Marcel, quel tipo ce l'ha con te?» «Me lo chiedo anch'io» rispose Marcel, cupo. Alcuni adolescenti che giocavano a pallone li annaffiarono di sabbia e attraversarono la spiaggia, lasciandosi dietro una scia di improperi e oggetti calpestati. Marcel, suo malgrado, li immaginò tra le abili dita del Sarto della Morte. Poi cacciò rapidamente quei pensieri indegni della sua divisa. A proposito, chissà se Madeleine gliel'aveva stirata. Jean-Jean si prese la testa fra le mani e la scosse, come se potesse farne uscire la soluzione. Non ottenne altro risultato se non un emicrania e uno strano rumore di raganella. Abbandonando l'approccio magico, rilesse l'elenco dei laboratori stilato da Ramirez. Come faceva a sapere qual era quello buono? Nessuno avrebbe mai ammesso di fare traffico illecito di animali. E se... Jean-Jean si mise al telefono. «Costello? Voglio sapere se Martin ha lavorato in uno di quei laborato-
ri... Sì. Il più presto possibile.» Riattaccò e riprese il dossier per ricapitolare ancora una volta l'intero caso. I dettagli di routine dell'indagine. Nessun testimone in vista. Nessun movente. Nessun elemento suscettibile di identificare l'omicida, di cui si sapeva solo che era bianco, forte, abile, capace di eiaculare e che di certo possedeva un grande congelatore, come il 30% degli uomini della città. E che ce l'aveva in particolare con Jean-Jean. Del quale possedeva il numero privato, nonostante fosse su una lista riservata. Come? E come aveva fatto l'assassino a sapere che Costello sarebbe andato a interrogare Martin? Sospirò, cercò un approccio diverso, a partire dalle vittime. Ma anche lì, un caos. Herblain aveva certificato che la testa della bionda intenta a fare l'ultima fellatio al gobbo era di un uomo. Era stato l'assassino a truccarla da donna? Oppure si trattava di uno dei numerosi travestiti che battevano nei pressi del porto? Aveva fatto passare la foto della testa a Rudy "la Faina" per un'eventuale identificazione. Una cassiera bionda, un uomo con la barba, un vecchio drogato, un obeso, una ragazzina, un cane, un travestito biondo, un vecchio gobbo. C'era un senso, come in quei test in cui bisogna indovinare il seguente in una serie di numeri? Erano vittime simboliche? Rappresentavano qualcosa per l'assassino o per la società? Se si considerava che il travestito aveva l'apparenza di una donna, si poteva dire che c'erano due bionde, due vecchi e alcuni esemplari senza legame. Uomo, donna, c'era sempre una mescolanza di uomo-donna. L'assassino apparteneva all'ambiente delle drag queen, oppure si trattava di un represso? Già le sei! Questa sera c'era l'allenamento. Jean-Jean si alzò. Picchiare su qualcosa gli avrebbe fatto bene. Dopo due ore passate a sudare, Jean-Jean si sentiva meglio. Con la coda dell'occhio osservava Blanc che scherzava con gli amici, con tutta quella banda di place Jean-Jaurès. C'erano anche i due tipi del garage, quello piccolo e quello grande. JeanJean non li poteva soffrire, li riteneva personalmente responsabili di tutti i guasti della sua adorata Laguna. Dovevano parlare degli omicidi perché Blanc aveva abbassato la voce, lanciandogli sguardi furtivi. Quell'idiota avrebbe fatto meglio a stare in campana, non era certo il momento per
stuzzicare i superiori. Uscendo dall'allenamento, l'ometto aveva una fame da lupo. Declinò l'invito di andare a cena con Jean-Mi ed Elsa e si precipitò a casa sua, dove si servì un gran piatto di carne fresca. Curava la sua dieta come uno sportivo di alto livello. Ingerire la carne delle prede lo rinvigoriva. La carne era gustosa, ma doveva affilare i coltelli. Le bestie che corrono poco hanno tendenza a indurirsi. Sazio, si addormentò sul divano, guardando la finale di palla a volo. Peccato: per una volta che la Francia vinceva, non la vide. 9 Marcel suonò il clacson per due volte. La finestra si aprì, apparve Nadja che agitò la mano. «Scendiamo subito!» Quando Marcel aveva telefonato, il giorno prima, non pensava che lei avrebbe accettato ed era stato il primo a sorprendersi del suo "sì" deciso. Si era chiesto con dolore se lo considerasse un potenziale cliente, poi aveva deciso di no. Era del tutto spontanea con lui. Nessuno particolare sforzo di amabilità, si disse sorridendo sotto i baffi. Cinque minuti dopo, eccola arrivare, tirando Momo per la mano, con un'enorme cesta e una coperta. Marcel si chinò, aprì la portiera. La voce acida di Madeleine gli risuonò nella mente: "Potresti anche essere galante, per una volta, non vedi come sono carica?!" Si alzò, fece il giro del veicolo, aprì il cofano per sistemare la cesta e la coperta. «Che cosa c'è qui dentro? Diamine, sta facendo il trasloco dell'argenteria!» la prese in giro. «È sporca la tua macchina, signor poliziotto, è tutta piena di bozzi» intervenne Momo. «Me l'ha prestata un amico,» rispose gentilmente Marcel, deciso a passare una bella giornata. «Sei a posto, Momo?» «Sì, sì...» Dietro, Momo aveva scovato una scatola di bulloni sistemati per dimensioni e diametro e si divertiva a mescolarli. Nadja lanciò un breve sguardo verso la finestra del suo appartamento. Marcel non disse niente, mise in moto e si allontanò rapidamente, prima che lei cambiasse parere.
Si sentiva a disagio. Nei panni di un infame sulla strada lastricata di spine dell'adulterio. Un infame felice, però, che aveva voglia di mettersi a cantare. Ripensò al film che Madeleine lo aveva costretto a vedere al Cinéma de Minuit: Il ritratto di Dorian Gray, e a una frase del film: "Sono il cielo e l'inferno." Be', lui, Marcel Blanc, in quel momento era il Cielo e l'Inferno, il fulmine e il sole, le nubi e la pioggia e molto di più, sempre che lo lasciassero in pace. La strada serpeggiava tra le colline disboscate come una cicatrice sulla guancia rugosa di un Afrikaner, e Marcel si sentiva un esploratore. Oggi non avrebbe pensato né agli omicidi, né a Jean-Jean, né a Madeleine, avrebbe pensato a sé e a Nadja. Avevano trovato un bel posticino per il pranzo, senza troppi preservativi o lattine di birra abbandonate e si erano sistemati tranquillamente. Marcel aveva aperto la cesta, disposto le vettovaglie: «Non doveva preparare tanta roba, deve aver lavorato tutta la notte!» «Pensavo che avrebbe avuto fame. Mi piace cucinare.» Una perla, era una perla, una santa, un'oasi! Marcel mandò giù allegramente due piatti di couscous, vuotò una bottiglia di vino marocchino, inghiottì coscienziosamente i dolci un po' gessosi, senza quasi parlare. Stavano bene, calmi. Erano mesi che Marcel non si sentiva cosi tranquillo. In pace. Protetto. Nadja parlava poco. Noia? Riservatezza? Non sembrava che si annoiasse. Sorrideva. A Marcel sembrava di essere stato trasportato in uno di quei quadri che gli piacevano tanto: balere in riva all'acqua, gare di canottaggio, balli popolari... Momo giocava a pallone, calciando contro un albero. Marcel poggiò la mano sull'erba. Il canto delle cicale, assordanti, dava l'impressione di star seduti su un animale dalla pelliccia gialla e ruvida, dal respiro placido. Marcel si sentiva vivo. Sorrise a Nadja e posò la mano sul suo polso, con naturalezza. Lei non ritirò il braccio. Non abbassò lo sguardo. «Lei è sposato, vero?» «Sì, ho due bambini, un maschio, Frank, e una femmina, Sylvie.» «Non vuole più bene a sua moglie?» «No» rispose tranquillamente Marcel. «Stiamo divorziando. Lei non riesce ad accettarlo, ma è meglio così.» Nadja si chinò su di lui. «Non deve lasciare sua moglie.» Marcel si chinò su di lei e la baciò. Momo intento a distruggere un formicaio, non li guardava.
L'ometto batté il piede per terra, gli occhi fissi nel binocolo da caccia. «Be', Marcel non si annoia, bello stronzo! Sì, sarà contenta Madeleine quando lo verrà a sapere...» Addossato alla carrozzeria nera di una 4x4 che aveva preso in prestito al garage, vuotò una lattina di birra tiepida e la schiacciò nel pugno chiuso. Avrebbe avuto poco da ridere, Marcel, quando avrebbe ritrovato la sua bagascia tagliata a fette e anche col bambino avrebbe fatto un buon lavoro, potevano starne certi. Nel suo odio in perenne espansione, l'ometto si augurò per un momento di tagliare le carni di tutti i suoi amici, di tutta quella gente che si interessava a lui, che gli sorrideva, gli dava pacche amichevoli sulla spalla. Gliel'avrebbe fatta ingoiare, la loro gentilezza. A colpi di martello. So che la mia apparenza inganna. Che la mia taglia minuta li spinge alla condiscendenza. Ma ignorano quanto sono forte. Potenza dei muscoli, potenza dello spirito, allenamento continuo, rapidità, azione. I vostri sorrisi sono come schiaffi. Se ci fosse la mamma, non permetterebbe a nessuno di prendersi gioco di me. Mai. Ripensando alla madre rabbrividì fuggevolmente. Scosse la testa e riprese il binocolo. Stavano mettendo a posto i resti del pic-nic. Momo ronzava loro intorno, ridendo. Nadja si ravviava i lunghi riccioli scuri. Marcel si soffiò il naso. Bisognava essere una mammola come quel povero Marcel per prendersi un raffreddore in pieno agosto. Il rumore stridente delle cicale gli spaccava i timpani. Per un attimo sognò una sferzata di napalm che abbracciasse gli olivi. Risalì sulla 4 x 4 e si tenne pronto a mettere in moto. «Dai, Momo, andiamo...» «Sì, eccomi... Perché hai la stessa brutta macchina?» «La stessa brutta macchina di chi?» «Del lupo...» «Che cosa dici, Momo?» «Dico: perché hai la stessa brutta macchina, perché vuoi sposare mia madre?» «Momo, basta!» Nadja fece per dargli uno schiaffo che lui evitò abilmente. Marcel fece un gesto che invitava alla calma. «Ho la sua stessa macchina?» «Sì. E perché hai i baffi come Asterisc?» «Asterisc?» «Vuol dire Asterix. Momo, bada che te le suono...»
«Me ne frego, lo dirò al nonno che hai baciato il poliziotto...» «Momo!» Nadja gli mollò un altro ceffone, ma lo mancò. Marcel mise in moto. Ecco un'indicazione tangibile. Qualunque cosa ne pensasse Jean-Jean, lui sentiva che i due casi erano collegati. Bisognava convincerlo. L'ometto si mise in strada, seguendoli a trecento metri circa, il viso protetto dal parabrezza scuro e dagli occhiali a specchio. La rabbia lo rodeva come un acido. Aveva in bocca il gusto metallico del sangue. Arrivato in città, imboccò l'uscita che lo portava a casa. Dopo aver lasciato Nadja e Momo, Marcel guidò fischiettando fino a casa dell'ometto per restituirgli il furgoncino. Poi si sarebbe diretto al commissariato, per vedere se c'era Jean-Jean. Madeleine e i bambini non sarebbero rientrati prima delle nove o delle dieci: aveva tempo. Doveva metterlo al corrente del veicolo sospetto. L'ometto aprì quasi subito. Anche lui sudava. «Entra Marcel, vuoi una birra?» «Magari, sto morendo di sete.» «Allora, com'è andata la gita?» «Tranquilla... e tu che cosa hai fatto?» «Un pisolino!» L'ometto gli lanciò una lattina di birra ben ghiacciata che Marcel acchiappò al volo. Bevvero senza dire niente. Si stava bene nella stanza, con le persiane chiuse. La tivù faceva da sottofondo. Marcel finì la birra, si asciugò la bocca. «Be', vado...» «Ne vuoi un'altra?» «Non ho tempo: voglio passare al commissariato...» «Lavori?» «No, è per quella storia di omicidi, devo vedere Jeanneaux.» «Ci sono novità?» «Non posso dire niente, scusami, cerca di capire...» «Sì sì, è normale. Be' allora a domani.» «A domani! E grazie!» «Di niente, tra uomini bisogna aiutarsi, no?» La porta si richiuse sul largo sorriso dell'ometto. "Tra uomini bisogna aiutarsi." La battuta ronzava nella testa di Marcel. Avrebbe voluto restituirgli il favore, ma da quando lo conosceva, non lo aveva mai visto insieme a una ragazza. Come se avesse qualche problema.
Certo che con quegli occhiali neri e quel muso a lama di coltello, non era molto affascinante. Che strana idea, d'altronde, quella di portare occhiali scuri in pieno giorno, in una stanza buia... Marcel arrivò al commissariato e salutò il piantone. «C'è Jeanneaux?» «Oh! Marcellino! Fai gli straordinari! Sì, c'è.» Subito dopo aver richiuso la porta, il largo sorriso dell'ometto si cancellò. Un nervo gli batteva sulla guancia e il sudore gli imperlava la fronte. Andò in bagno, interamente tappezzata da foto di donne nude, per sciacquarsi il viso. Il suo riflesso nello specchio al di sopra del lavandino era livido. Si accorse di aver dimenticato di togliersi gli occhiali da sole. Si piaceva così, con il viso attraversato da un bagliore metallico, come un riflesso sulla lama di un coltello. «Capitano?» «Entri, Blanc.» «Mi dispiace disturbarla, capo, bisogna che le parli...» «È quello che sta facendo, no?» Jean-Jean, che sembrava decisamente di cattivo umore, si accese una sigaretta e si sedette sul bordo della scrivania. «È per via degli omicidi, del bambino nel condotto...» «Il figlio della sua... amichetta?» buttò lì Jeanneaux con una smorfia di disprezzo. «Amichetta o no, hanno veramente cercato di uccidere il bambino,» rispose Marcel irremovibile «ne sono sicuro e sono sicuro che sia stato il nostro pazzo.» «Ammiro le sue certezze, Blanc. E per la prossima estrazione del lotto, che numeri mi consiglia?» «Il bambino ha identificato la marca della macchina del suo aggressore. Una Express blu.» Jean-Jean si alzò e si stiracchiò, male ai dorsali, troppa tensione. «Senta, Blanc, lei non è incaricato degli omicidi ma del traffico, d'accordo? Mi occuperò della sua Express, ma se lei mi sta facendo perdere tempo con delle stronzate, la faccio trasferire in un paesino qualunque dove piove almeno trecento giorni l'anno!» Marcel ringraziò, salutò e uscì. La prima cosa che avrebbe fatto da tenente, sarebbe stata di mettere le mani addosso a Jean-Jean. Rincuorato da
questo pensiero, tornò a casa tutto pimpante. Madeleine lo aspettava, la cena era pronta e i bambini in lacrime. 10 Jean-Jean non aveva chiuso occhio per quasi tutta la notte, ossessionato da visioni di corpi a pezzi, sfigurati, che gli sorgevano d'improvviso alle spalle. Era sfinito dall'ostinazione dell'omicida di imperversare nella sua giurisdizione, ancora più che dall'immoralità dei delitti. Sull'esempio dei cacciatori di taglie del Far West che tanto ammirava, Jean-Jean era un cacciatore di criminali, uno sbirro ostinato e tenace, ma le motivazioni degli uomini che inseguiva non erano il suo principale interesse. Appena arrivato, aveva convocato Ramirez e Costello e aveva assegnato loro compiti precisi, più per tenersi occupato che per vera convinzione, perché per il momento era convinto di procedere alla cieca. La prospettiva di non poter partire per le vacanze lo galvanizzò di colpo: «Ramirez, vai alla motorizzazione, chiedi al tizio del computer di trovare tutti i proprietari di Express blu con più di tre anni. Costello, ti sei informato su Martin?» «Il signor Martin non ha mai lavorato in un laboratorio. Prima di venire assunto al canile, era impiegato al mattatoio.» «Doveva avere la vocazione. Allora scovami tutti quelli che si sono fatti licenziare da uno dei laboratori dell'elenco e che abitano ancora da queste parti. Fatti aiutare anche da quelli delle Imposte dirette. Poi mi portate tutto qui. Mélanie, vada a prendermi un caffè, per favore.» Anche Marcel aveva dormito male. Si era girato e rigirato. Ogni volta che Madeleine respirava era come se fischiasse: "Sssssstronzo, sssssstronzo." Aveva sognato che alcuni giudici vestiti di nero gli strappavano le spalline della camicia di ordinanza. Si era svegliato tutto sudato, pallido e gonfio. Mentre si vestiva, Marcel pensava a quel che gli aveva raccontato Ramirez, storie di laboratori, vivisezione, cannibalismo. Madeleine, dal canto suo, aveva passato una notte atroce. Aveva rimuginato sempre la stessa immagine: Marcel e l'altra donna. Quel verme non si immaginava certo che lei lo avesse visto. E tutto per un concorso di circostanze imprevedibili. Contrariata dal cognato, un presuntuoso che voleva sempre attaccar bri-
ga e che pretendeva che nella vera ratatouille si debbano mettere le zucchine sbucciate, Madeleine era partita prima del previsto dalla casa della sorella. Arrivata al casello dell'autostrada aveva riconosciuto la vecchia Express blu e vi si era infilata dietro, pronta a suonare allegramente il clacson. Ma qualcosa l'aveva trattenuta, la taglia dell'autista forse: era troppo grosso. E poi, all'improvviso, lui aveva girato la testa e Madeleine aveva riconosciuto Marcel! Il cuore le era balzato nel petto. Marcel in autostrada, e non era solo! Una donna gli stava passando gli spiccioli, lui le sorrideva. Per fortuna i bambini erano intenti a prendersi a schiaffi e a urlare e non avevano visto niente. Così era vero, lui la tradiva! Oh, ma lo avrebbe incastrato, quello schifoso, lo avrebbe colto sul fatto e gli avrebbe infilato il naso nella sua stessa merda! Soltanto all'alba riuscì ad assopirsi. Finite le faccende domestiche, piangendo come una vite tagliata, dopo che i bambini erano andati al club di vela, Madeleine si ritrovò sola. Il pomeriggio era appena cominciato ed era già interminabile. Madeleine si fece il tè, aveva letto che in estate le bevande calde sono più dissetanti. Dopo aver bevuto il té cominciò a sudare abbondantemente e trangugiò una caraffa di acqua gelida. Il tempo riprese il suo corso, mortale. A un tratto, verso le quattro, colta da un'improvvisa crisi di furore, mentre sistemava per la terza volta la credenza delle stoviglie, Madeleine decise di andare da Marcel e di farsi dare una spiegazione. Per strada non avrebbe potuto rifiutarsi di rispondere, avrebbe avuto troppo paura dello scandalo. Si vestì con cura: bolero rosa con passanastri, gonna zingaresca dello stesso stile e sandali dorati dal tacco alto. Si cotonò i capelli tinti in biondo veneziano e si truccò un po' più del solito. Che vigliacco! Al solo pensiero, le si rivoltava il sangue. Madeleine uscì nella canicola, si sentiva donna e forte, impressione del tutto giustificata, data la sua generosa corporatura. La piazza era vuota: Marcel non era al suo posto! Impallidì, fece il giro delle stradine adiacenti e stava tornando alla fontana quando vide l'ometto uscire dal garage. «Ehi, Madeleine, come va?» «Cerco Marcel, non l'hai visto?» chiese, con un tono freddo che le dava un'aria quasi piccata. «È andato via, un quarto d'ora fa...» «Dove?»
«Non lo so. Di pattuglia, sicuramente. Che cosa c'è? Qualcosa non va?» «E la tua Express come sta? Ciao.» E senza aggiungere nulla, Madeleine girò i tacchi. Aveva capito tutto, non c'era bisogno di farle un disegno: quello stronzetto gli prestava la macchina e di certo anche l'appartamento! Ah, era furba, Madeleine! Avrebbero visto che cosa gli avrebbe combinato! In dieci minuti arrivò davanti alla casa dell'ometto, scapigliata, sudata e senza fiato. Che salita. Che idea, andare ad abitare in cima a una collina in un quartiere che sembrava abbandonato! A lei piacevano i palazzi moderni, nuovi di zecca, di vetro e acciaio, dotati di tutti i comfort. Fece una pausa per osservare l'avversario. Le persiane erano chiuse. Nulla filtrava dalle pareti decrepite. Un sacchetto dell'immondizia vomitava gesso sulle ortensie secche. Il cappello di un nano da giardino spuntava da un cumulo di calcinacci. Che schifezza quel giardino! Si vedeva proprio che viveva solo e sguazzava nel sudiciume, come tutti gli uomini quando non c'è una donna a occuparsi di loro... Posò la mano sulla maniglia del vecchio portone, spinse piano. Chiuso. Adulteri, ma prudenti. Madeleine fece lentamente il giro della casetta, tirò un sospirò di soddisfazione: le persiane della finestra della cucina non erano chiuse. Spinse il vetro, ma senza esito. Stava arrivando un camion dell'immondizia, con un rumore assordante. Madeleine fece un bel respiro e mentre il camion passava alla sua altezza, traballante, fece roteare la borsetta e la scagliò sul vetro con tutte le sue forze. Il vetro si frantumò con rumore secco. Madeleine trattenne il respiro. Il camion aveva frenato al semaforo, nascondendola alle baracche di fronte. Passò la mano attraverso il buco che aveva praticato e girò la maniglia. La finestra si aprì, Madeleine scavalcò il davanzale senza fatica. Il semaforo era diventato verde. Il camion stava rimettendosi in moto. Lei era in piedi in cucina, col cuore a mille, ma nulla si muoveva. Nemmeno un rumore. Madeleine avanzò piano fino al soggiorno con la lima per le unghie in mano, pronta a cavare gli occhi ai fornicatori. Appena Madeleine girò i tacchi, Jacky apostrofò l'ometto: «Non era con Madeleine che stavi parlando?» «Sì, cercava Marcel.» «Non le avrai mica detto che era al parcheggio per quel casino?» «Non ne sapevo niente.»
«Il giorno che farai attenzione a quello che ti succede intorno...» sorrise Jacky. Vaffanculo, verme! pensò l'ometto, mentre gli faceva un amabile cenno con la mano. Ritornò al garage, pulendosi pensoso sulla salopette le mani piene di morchia. Così Madeleine sapeva del furgoncino. Era sulle tracce di Marcel. E, dato che lui non era lì, avrebbe anche potuto pensare che approfittasse delle sue ore di servizio per farsi qualcuna. Sorrise, immaginando una Madeleine furibonda e scapigliata, che andava su e giù per la città rovente alla ricerca del suo futuro ex marito in calore. Il suo sorriso si gelò improvvisamente. Secondo Madeleine, dove sarebbe andato Marcel per consumare? Non in albergo, né a casa della ragazza, né a casa sua. E il posto non doveva essere troppo lontano, per non assentarsi a lungo. Restava solo l'appartamento di un amico compiacente... L'ometto saltò sul motorino. «Vado dallo sfasciacarrozze, torno subito, ho bisogno di una bobina.» «Sì, sì, ma muoviti...» «A tra pochissimo!» Madeleine aveva perlustrato tutta la baracca. Una camera buia che odorava di chiuso, un soggiorno dai mobili malconci, un bagno con piastrelle bianche e nere, un water che non veniva scrostato da cinquant'anni. La casa era sporca, ma vuota. Si era sbagliata. Forse si era immaginata tutto, Marcel non la tradiva? O forse era meglio dire "non ancora"? Ritornò in cucina, contemplò il vetro rotto. Be', dopo tutto non era altro che un vetro. Il suo sguardo cadde sull'immenso congelatore. Grande quasi come quegli affari dove si conservano le mummie. Era un pezzo che ne voleva uno così, ma Marcel recalcitrava... Ma lui, uno scapolo, che cosa ci faceva con un coso del genere? Si avvicinò per vedere meglio la marca, sollevò macchinalmente il coperchio. Madeleine non sentì il motorino fermarsi davanti al portone. Fissava il mucchio di membra gettate in disordine, gli occhi sgranati e stravolti, e la sua mente si rifiutava energicamente di capire il vero significato di quello che stava vedendo. La voce schioccò alle sue spalle come uno schiaffo. «Allora, Madó, mi sei venuta a trovare?» Lei sussultò e si girò di botto, la bocca aperta, sbalordita.
L'ometto la guardava, i pallidi occhi nascosti dietro gli occhiali scuri, le labbra rialzate sui denti aguzzi, le mani dietro la schiena. «Destra o sinistra?» chiese soave. «Eh?» balbettò Madeleine, colta da una terribile voglia di fare pipì. «Destra!» affermò l'ometto, portando lentamente in avanti la mano che stringeva un taglierino lucente. In un sussulto di panico quasi animalesco, Madeleine tentò di fuggire dalla finestra. Scagliato al volo, il taglierino acuminato la ferì alla caviglia. Madeleine cercò di urlare, ma dalla sua gola bloccata non uscì niente. Ricadde pesantemente nel congelatore aperto. L'ometto si chinò su di lei, sorridendo. Il sangue sprizzava dalla caviglia ferita, macchiandogli il viso, e lui si leccò le labbra. Madeleine si vide perduta, un odio incontrollabile, il desiderio travolgente di vivere riuscirono a sollevarla, si rialzò come una molla e piantò la lima nella gola dell'ometto con tutte le sue forze, ma mancò l'arteria. Lui lanciò un grugnito da bestia ferita e, furibondo, calò il taglierino, fendendole la gola come si taglia una torta gelato. Estrasse la lama dalla ferita e colpì ancora e ancora il corpo sussultante, la lima infilata nella pelle del collo. Quando alla fine si fermò, senza fiato, quella che era stata una donna polposa non era altro che poltiglia di carne e ossa fracassate. Si strappò con un colpo deciso la limetta piantata nel collo, liberando un fiotto di sangue, e corse in bagno. Quando Marcel tornò a casa, stremato, trovò i ragazzini in soggiorno, spaparanzati davanti a un video porno che erano riusciti a trovare in cima all'armadio. Distribuzione di schiaffi, urla, pianti. «Dov'è vostra madre? Cristo, è matta a lasciarvi vedere queste porcherie?» «E tu, perché le guardi, le donne nude?» «Zitto Frank. Ce l'ha prestato un amico. Non l'abbiamo mai visto. Madeleine!» chiamò a squarciagola. «Non c'è!» grugnì Frank. «Dov'è?» «Non lo sappiamo! Non c'è nemmeno la coca-cola!» piagnucolò Sylvie. «Possiamo guardare i cartoni animati?» chiese Frank. «Sì! Ma state zitti, papà è stanco.» Cominciarono all'istante una battaglia di cuscini, poco meno rumorosa di un duo di martelli pneumatici. Mentre mandava giù un'aspirina, Marcel si
chiese quale fosse l'utilità di perpetuare la razza. Poi lanciò un urlo e si mise a guardare i cartoni animati, Sylvie sulle ginocchia e Frank raggomitolato sui piedi. Alle nove, Madeleine non era ancora tornata. Marcel cominciava a preoccuparsi. La madre di Madeleine era morta da quindici anni. Il padre scontava l'Alzheimer in una casa di riposo. Chiamò la cognata e lei gli rispose che Madeleine era sempre stata un po' tocca, il che non gli fu di nessuna utilità. Dove poteva essere? Da un'amica della palestra? Una di quelle mostruose amiche che pretendevano di dettar legge sull'esistenza di Marcel a suon di "consigli"... Benché gli costasse, Marcel le chiamò tutte. Niente. O forse gli mentivano. Guardò negli armadi. C'era tutto. Non aveva nemmeno preso il suo beauty-case. Per caso aveva un amante?! Tanto presa dalla lussuria da non aver visto che ora si era fatta? No, impossibile, Madeleine era, malauguratamente, una donna seria, una madre modello, una dittatrice irreprensibile. Marcel cominciò a preoccuparsi sul serio. Chiamò gli amici: no, nessuno aveva visto Madeleine, a parte l'ometto. Quel pomeriggio l'aveva cercato, gli spiegò. Cercato? Ma perché? C'era un legame con la sua scomparsa? Marcel si fece descrivere i vestiti che portava, poi, dopo aver messo a letto i bambini, dicendo loro che Madeleine era andata a trovare un'amica malata in ospedale, chiamò il commissariato. Era quasi mezzanotte. Nessuna donna che rispondesse alla descrizione di Madeleine aveva avuto incidenti o era stata fermata. Marcel si sedette sulla poltrona e si accese una sigaretta. Che cosa poteva essere successo? Nemmeno per un attimo lo sfiorò l'idea che Madeleine potesse essere vittima dell'assassino. Temeva piuttosto che avesse scoperto la scappatella con Nadja. Se ne sarebbe sicuramente servita per ottenere un aumento degli alimenti. La mattina seguente dovette arrendersi all'evidenza: Madeleine era scomparsa. Lunedi mattina, otto e mezza. Mentre finiva il suo terzo bicchierino di pessimo caffè, Jean-Jean sospirò a lungo. Quell'idiota di Blanc era anche riuscito a perdersi la moglie! Tutto il commissariato gli sghignazzava alle spalle. Jean-Jean aveva affidato il caso al vecchio Georges: pura routine. Verificare che non si fosse imboscata a casa di un "amico", controllare stazioni, aeroporti, ecc. A parte ciò, restava solo da aspettare Costello, che era
andato a cercare i due tizi, veterinari o analisti, licenziati da un laboratorio da meno di cinque anni, e che possedevano una Renault blu. Se l'ometto l'avesse saputo, ne avrebbe riso a crepapelle. Era impossibile sapere che l'avevano licenziato: lavorava in nero. Fino a quando non fossero capitati dal tipo giusto a cui fare la domanda giusta, non rischiava niente. Ogni volta che pensava a quegli schifosi che lo avevano sbattuto fuori, gli veniva il cattivo umore. Mandarlo via come un appestato, solo perché si era lasciato andare alla sua passione per il taglia e cuci. Bestiole comunque condannate a crepare! Ah, al mattatoio, sì, che era stato un bel periodo. Era lì che aveva incontrato Martin. Al mattatoio lo pagavano per quello. Ma i mattatoi erano stati chiusi. Allora di chi era la colpa, eh, se si era ridotto così? Sbadigliò, aveva dormito male, le voci nella testa non volevano tacere e parlavano tutte insieme, quelle degli psichiatri, insidiose come scarafaggi in un acquaio sporco, quella di Pierrot, tanto stridula da infrangere il vetro quando l'ascia si era abbattuta, quella di mamma, fredda come il vento d'inverno. Si era svegliato quando la mamma aveva cominciato a sputare rospi. Aprì di colpo il coperchio del congelatore e contemplò i resti di Madeleine. Che cosa ci avrebbe fatto, con quella lì? Ne prese una fetta che si mise a rosicchiare pensosamente. Dato che Marcel ama due donne, non sarebbe carino riunirle in una? Pacco speciale "L'harem di Marcel Blanc." L'ometto sputò un pezzo d'osso nell'immondizia, insensibile al fetido odore che sprigionava. Il problema è che non posso tenere Madeleine in casa. Se gli sbirri facessero il giro di tutte le sue conoscenze... non posso espormi a una perquisizione, anche se irregolare, le conseguenze sarebbero troppo spiacevoli. Lo stesso vale per gli altri pezzi. Bisognerà farli sparire tutti. Come? Guardò l'orologio. Quasi le nove. Non si era accorto che il tempo passava. Riunì tutti i pezzi dei corpi che teneva in fresco e li infilò in un grande sacco per l'immondizia. Il vecchio Georges era ancora un bell'uomo. Con i suoi capelli argentei e le buone maniere era sempre ben accolto dalla gente ed era per questo che tutti gli passavano con piacere gli incarichi ingrati come l'annuncio di decessi, le ricerche di cari scomparsi o gli interventi per schiamazzi notturni. Georges guardò l'elenco dei nomi che gli aveva fornito Marcel e decise
di cominciare dai Da Costa, Jean-Michel ed Elsa, domiciliati a quattro strade da lì. Diede un colpetto sulla spalla del suo compagno, un giovanotto con le occhiaie che rispondeva al nome di Max. «Andiamo, Max.» Max sospirò. Aveva dormito due ore. Le sere in cui non era di servizio faceva il DJ in un locale heavy metal. Aveva ancora le orecchie che gli ronzavano e l'impressione che il vecchio gli parlasse dall'altra parte della stanza. Si diresse meccanicamente verso l'auto, ma Georges lo fermò: «Sei pazzo? Con questo caldo è meglio andare a piedi, cammineremo all'ombra.» Si allontanarono, senza forzare l'andatura. Dopo aver spedito i ragazzini al centro nautico, Marcel aveva buttato giù litri di caffè bollente e amaro, prima di mettere la testa sotto l'acqua fredda. Un mal di testa lancinante lo torturava. La cosa che più gli premeva era mettersi in contatto con Nadja, ma non voleva chiamarla al lavoro, in drogheria. Voleva anche che Madeleine ricomparisse, certo, magari sorridente e consenziente al divorzio. Al commissario lo avevano accolto come un appestato. Come se di colpo avesse cambiato campo, raggiungendo le vittime della cronaca, i "clienti" che sfilavano durante la giornata, come un medico tanto stupido da prendersi gli orecchioni, un infermiere così imbecille da rompersi una gamba mentre portava una barella. Di solito il suo turno cominciava a mezzogiorno, e non sapeva che cosa fare. All'improvviso pensò all'ometto. Se Madeleine era venuta a sapere qualcosa, poteva essere stato solo lui. Si rivolse all'agente di servizio alla reception, una bruna muscolosa come un lottatore professionista. «Se mi cercano, torno tra una mezz'oretta.» «D'accordo, povero Marcel! Coraggio!» Senza attardarsi su quelle parole poco confortanti, Marcel si mise a correre per la strada, sovreccitato dall'interminabile attesa e dalla tensione nervosa. Alle nove in punto, suonò a casa dell'ometto. Costui si immobilizzò. Gli sbirri, di già? Chiuse precipitosamente il coperchio del congelatore sul grande sacco dell'immondizia riempito fino all'orlo. Troppo tardi. Che fare? Il campanello suonò una seconda volta, imperioso. Si infilò un coltello tagliente nella manica, abbottonò con cura i polsini della tuta blu. Terzo
colpo di campanello, ancora più lungo e pigiato. L'ometto respirò a fondo e andò ad aprire. La porta si socchiuse sul viso furibondo di Marcel. «Cristo, è qui, vero?» Ecco fatto! «Che cosa dici? Marcel, sei impazzito?» «Spostati!» Marcel scostò l'ometto con uno spintone, entrò nella stanza dai vetri sporchi. Non mi piace che mi si spinga così. Non mi piace, eh no, non mi piace. «Madeleine!» Non c'è pericolo che ti risponda, amico mio. Sgranare gli occhi: «Ma Marcel, ti ho detto che non c'era!» «Perché ci hai messo tanto tempo ad aprire?» Perché stavo finendo di ingoiare un pezzo della tetta di tua moglie. «Ero al cesso. È proibito?» «Come ha fatto a saperlo, eh? Come ha fatto a saperlo?» Cominci a rompere. «Che cosa? Di che cosa stai parlando, Marcel?» Marcel esitò. Si precipitò in cucina. Il cuore dell'ometto per poco non si fermò. Già, ma Marcel era già di ritorno, girando su se stesso come un pugile aggressivo. «Glielo hai detto tu dell'Express?» Non ce n'è stato bisogno! «Sei pazzo? Per chi mi prendi?» «Sono sicuro che è venuta a saperlo. Altrimenti Madeleine non se ne sarebbe andata. Ma dove può essere, Cristo?!» Ci sei quasi seduto sopra. «Hai telefonato alla sorella?» «Sì, ha litigato col cognato. È andata via l'altro ieri verso le cinque e poi non hanno più avuto sue notizie!» Certo che avrebbe fatto meglio a restare da loro. Be', rassicurare l'animale: «Ascolta, secondo me ti preoccupi per niente. È sconvolta dal divorzio. Forse ha avuto bisogno di fare un bilancio, di prendere un po' di distanza.» Appoggiato al tavolo in formica, Marcel abbracciava meccanicamente la stanza con lo sguardo: il frigo, il congelatore, la finestra... Sospirò, si raddrizzò: «Scusami, ho perso la pazienza. Lo sai, anche se ci separiamo, a Made-
leine voglio bene. Hai visto che hai un vetro rotto?» Sì e anche tu mi hai rotto. «Sì, lo so, ho scosso un po' troppo forte per aprire...» «Va be', me ne vado. Semmai dovessi sapere qualcosa...» Fila via, Marcel, non senti le onde negative? «Conta su di me. Si sistemerà tutto, vedrai...» L'ometto riaccompagnò Marcel fino alla porta, dandogli qualche pacca sulla schiena. Sei grande e grosso, sei stronzo, sei muscoloso e soffrirai, amico mio. Non soffrirai mai abbastanza. Nessuno soffre mai abbastanza. Nessuno ha mai abbastanza fame. «Dài non te la prendere. Tornerà!» Marcel sorrise debolmente e varcò il cancello, la schiena curva. L'ometto richiuse la porta e scoppiò a ridere. Si tirò su la manica. La punta del coltello gli aveva inciso la pelle, nell'incavo del braccio. Il sangue colava. Lo leccò, riflettendo. Cazzo, le nove e un quarto, al garage gli avrebbero fatto una scenata. Per fortuna, poteva dire che Marcel non se ne voleva più andare. E poi aveva tutta la sera per riflettere. Gli sbirri forse sarebbero passati al garage, ma nient'altro. Si trattava di una scomparsa, quasi una fuga, una stupidaggine. Se avesse fatto cuocere tutto quella notte, se avesse separato la carne dalle ossa e gettato le ossa nell'immondizia, era quasi certo che non avrebbe avuto nessun problema. Fuori moda, Landra? Non poteva fregargliene di meno, non voleva mica la celebrità. Non voleva niente, era soltanto guidato dall'odio come da un lume incandescente, e la luce convergeva poco per volta verso un unico bersaglio. 11 Costello si sentiva un po' inquieto, mentre ispezionava le buche delle lettere dell'entrata C del blocco F della cité du Moulin (il suddetto mulino era stato abbattuto per fare posto alla cité). Sul posto avevano costruito un parco giochi per bambini, un quadrato di sabbia quattro per quattro, pieno di cicche e di piscio di cane. Costello si sentiva un po' inquieto perché se il tipo che cercava, Fernand Magnano, era veramente l'omicida, c'era il rischio che se la prendesse con lui, Costello, e gli si avventasse contro col coltello a serramanico... Magnano, 3° piano. Costello sospirò e cominciò a salire, non era il caso
di prendere l'ascensore e trovarsi incastrato in mezzo a una banda di teppistelli. La tromba delle scale era ricoperta da scritte spray che vantavano i meriti di una certa Babette. Il degrado morale dei suoi contemporanei non cessava di stupirlo. Presto le donne sarebbero state messe in vendita all'asta. Senza fiato, si fermò sul pianerottolo del terzo piano. Individuò la porta, verde-grigio e con l'etichetta mezzo scollata: Magnano. Costello suonò. La porta si aprì quasi subito e lui sussultò, sorpreso. Un omone in tuta da ginnastica rosa acceso lo guardava, due metri di circonferenza toracica, un asciugamano giallo intorno al collo, una bandana rosa che tratteneva i fitti capelli neri. «Si?» abbaiò la montagna di carne. «Fernand Magnano?» «Sì?» L'uomo strinse i pugni enormi, quasi inavvertitamente. «Polizia!» fece Costello mostrando il distintivo senza perdere tempo. «Le vorrei fare qualche domanda.» «Sì.» «Posso entrare?» «Sì.» Il colosso si fece pesantemente da parte. Le sue cosce sfregavano una contro l'altra, quando camminava. Costello entrò nel piccolo appartamento strapieno di attrezzi ginnici. Un'ondata di sudore gli invase il collo. L'altro masticava una gomma, placido. «Vediamo,» si affrettò a dire Costello «lei ha lavorato presso i Laboratori Vitez dal 5 settembre del 1997 al 12 marzo del 1998, giusto?» «Sì.» «È proprietario di una utilitaria Renault blu scuro...» «...?» «Una Express?» «Sì.» «È stato licenziato dal lavoro perché accusato di rubare sostanze anabolizzanti, esatto?» «...?» «Droghe...» «Sì?!» «Che cosa ha fatto la sera del 12 agosto, otto giorni fa?» Il tipo fece un pallone con la gomma, senza rispondere.
«Giovedì scorso... che cosa ha fatto giovedì scorso?» insistette Costello. Magnano si sedette su un attrezzo rosso e verde e cominciò a manipolare dei pesi. Costello cominciava a innervosirsi. «Giovedì scorso, di sera, si ricorda che cosa ha fatto?» «Sì.» «E avrebbe la gentilezza di dirmelo?» «Sì.» «E allora?» Magnano indicò un poster attaccato al muro: JOKER BUNKER, la palestra dei campioni. «Ha passato la serata in palestra?» «Sì.» «Ci sono testimoni che possono confermarlo?» L'ercole fece pensosamente passare la gomma dalla guancia destra a quella sinistra. Costello tossicchiò: «Voglio dire, ci sono persone che l'hanno vista, che possono dire che lei stava là?» «Sì.» «E a che ora è andato in palestra?» Magnano sollevò sette dita, grosse come salsicce. Costello annotò: le 19. «Ed è rimasto fino a che ora?» Dieci dita. «Va bene. La lascio, se avessi bisogno di lei, ripasserò.» «Sì.» Il colosso non si spostò di un millimetro, Costello aggiunse: «Arrivederci.» Come se la parola avesse messo in moto un meccanismo, l'altro si alzò subito e con andatura rigida andò ad aprire la porta, che sbatté violentemente contro la parete. Costello uscì, rasente il muro. Magnano lo guardò andar via, un quintale di carne avvolto in cotone rosa con un vago riflesso da bue negli occhi. Forse cercava di ottenere il Guiness dei primati, per avere una sola e unica parola come capitale di conversazione... Il giovedì 12 agosto era il giorno in cui Juliette Delattre era scomparsa, tra le venti e le venti e trenta. Be' se l'alien in tuta rosa stava al JOKER BUNKER, non poteva essere l'assassino. In ogni caso, sarebbe stato facile
verificare. Il secondo proprietario di una Express blu scuro era stato identificato come Michel Renard, aiuto di laboratorio. Era stato licenziato dal lavoro quattro anni prima. Si era iscritto all'Ufficio disoccupazione e aveva ricevuto il sussidio per due anni ma, dopo aver dato fuoco al suo squallido mini appartamento fumando a letto, si era ritrovato per strada. Gli restava solo la suddetta Renault, nella quale viveva. Renard era alcolizzato all'ultimo stadio e Costello, debitamente informato dall'assistente sociale, lo trovò in un giardino pubblico, sistemato come un principe, i piedi all'aria sul finestrino del furgone, mentre si faceva un litro di rosso. «Renault Michel, se non vado errato?» «Non ho fatto niente, 'spettore!» protestò Renard, spostando appena il collo della bottiglia dalle labbra screpolate. «Rispondi! Sei tu Renard?» «A quanto si dice.» «Chi?» «La gente. Ma la gente dice di tutto...» «Sei stato impiegato in un laboratorio di ricerca medica?» «Può darsi...» «Renard, ti consiglio di non fare il furbo, sono della vecchia scuola, quella che non esita ad adoperare ingiustamente la forza fisica nei confronti dei sospetti!» «Sì, signòr, ho la-vo-ra-to per la ricerca!» «E perché sei stato licenziato?» «Gelosi, ero troppo brillante.» «Tzé tzé... Sei stato mandato via perché hai picchiato il capo turno un giorno in cui eri in stato di ubriachezza, ecco perché ti hanno sollevato dalle tue funzioni. Avresti la bontà di dirmi dove ti trovavi giovedì scorso, tra le otto e le nove di sera?» «Che cosa vuole che ne sappia, non so nemmeno che giorno è oggi...» «Peccato per te, perché ti ritroverai di certo con un'accusa di omicidio sulle spalle! Su, alzati, cammina!» «È, è, schi-schifoso e come faccio a uccidere qualcuno, non riesco nemmeno a pisciare dritto!» «Me lo racconterai in centrale, su andiamo!» Costello prese Renard dal colletto e lo sollevò. Non pesava quasi nulla, tutt'ossa e pelle grinzosa, Renard vacillò sui piedi, poi si mise in cammino,
senza smettere di borbottare. Costello non lo stava a sentire. Quel povero diavolo poteva essere un omicida quanto Bossuet un autore escatologico. Ma la routine... Strada facendo, Renard si girò verso di lui. «Perché mi ha chiesto se avevo lavorato in un la-la-boratorio?» chiese con voce impastata. «Perché cerco un tizio che abbia lavorato in un laboratorio e che possieda un furgoncino blu, come te.» «Io, ne co-conosco uno?» «Ah, sì?» «Be', sicuro, non sono mica pazzo, so quello che dico!» «Sono tutto orecchi!» «Ho sete...» «Vuoi che ti rinfreschi i lobi temporali con un bel ceffone?» «Inutile, non ho più neuroni... Ho la cirrosi in testa, me l'ha detto il dottore.» Costello sospirò, scrocchiandosi le lunghe dita. La carità non consisteva forse nel superare la ripugnanza e provare un autentico amore nei confronti dei disgraziati? Tirò fuori una banconota da cento franchi dalla tasca. «Con questi potresti soddisfare la tua sete per almeno due giorni.» Renard fece per prenderli, ma, più svelto, Costello li mise nel taschino della camicia. Renard si morse le labbra. «Be', c'era un tizio che lavorava con me e che aveva la stessa macchina. Ma era proprio uno stronzo.» «Uno stronzo? Che cosa intendi con questo vocabolo ingiurioso?» «Una vera canaglia. Gli piaceva giocare con i pezzi.» Costello sentì i capelli rizzarglisi in testa. «Pezzi di cosa?» «Di aaaanimali. Era incaricato di faaaarli fuori, quando non servivano più a niente. Gli piaceva proprio, a quello là. Li tagliava a pezzi e ci giocava. Nessun rispetto, insomma, cazzo! Non lo sopportavo. Perché io, attenzione, agli aaaaanimali li amo e a Brigitte Bardot anche!» Costello non stava più nella pelle dalla gioia. «Come si chiamava?» «Non so... un nome di macchina?» «Prego?» «Sì, un nome di macchina!» Erano arrivati davanti al commissariato. Fece entrare Renard, mentre
proseguiva la conversazione: «Che significa "un nome di macchina"?» «Non so...» L'agente di servizio dietro al bancone di plastica beige apostrofò Costello: «Caccia grossa, eh!» «Mettimelo al fresco prima che svenga. Lo recupero tra un'ora.» L'agente trascinò Renard che protestava con violenza. Jean-Jean stava provando un nuovo pennarello fluorescente su una cartellina e alzò a malapena gli occhi quando Costello entrò, senza fiato. «Costello a rapporto» annunciò lui. Jean-Jean alzò gli lOcchi al cielo. «Ho visto due sospetti» continuò Costello, seguendo il volo di una mosca con lo sguardo. «Il primo è un ritardato che sa solo una parola: sì. Il secondo è un barbone alcolizzato cronico. E il terzo è un mascalzone provvisto di una Express blu scuro che ha lavorato al laboratorio Duteuil, dove era incaricato di far fuori le cavie e si divertiva a giocare con i loro corpi.» Jean-Jean rizzò le orecchie, come un setter in ferma. «Da dove viene fuori questo qua?» «Un collega di Michel Renard, il barbone. Apparentemente sconosciuto nello schedario del personale.» «Continua...» «Renard non si ricorda più il nome dell'ex collega. È una vera spugna da vino rosso...» «Mettilo alle strette!» «Sembra facile... L'unica cosa che ricorda è che il tizio in questione aveva un nome da veicolo automobilistico.» «Xantia? Laguna? Volvo?» «Lo ignoro.» «Cazzo, dobbiamo avere quel tipo, troppe coincidenze! Lascia il tuo Renard cuocere nel suo brodo, lo interrogherai tra un po'. Manda Ramirez al laboratorio, qualcuno dovrà pur ricordarsi dell'impiegato fantasma.» «Dubito che vogliano confessare di avere degli impiegati irregolari. Per di più, hanno chiuso l'altro ieri per ferie. Riaprono a fine agosto.» Io lo ammazzo! pensò Jean-Jean, ringhiando: «OK, è tutto.» Costello si schiarì la voce: «Piuttosto, della moglie di Blanc nessuna notizia?»
«Niente. Georges fa il giro dei loro conoscenti. Secondo me se n'è andata.» Costello uscì. Jean-Jean si rimise a scrivere. Sentiva la vittoria vicina, tanto vicina da fargli paura; la paura di azzardare il minimo movimento perché si sarebbe dissolta. Marcel era sfinito. Dopo aver lasciato l'ometto aveva camminato a casaccio per la città, poi si era ricordato che doveva prendere servizio a mezzogiorno ed era tornato a casa, aveva mangiato qualcosa e si era cambiato. Madeleine non era tornata. La casa era vuota, sinistra, i giocattoli dei bambini ovunque. La caffettiera era ancora sulla macchina del gas e le tazze della colazione sul tavolo. Bastava comprare qualche scarafaggio, un paio di ragnatele, e poi sarebbe stato un perfetto scenario da tragedia. Guardò il telefono muto. Un secondo dopo, si sorprese a comporre il numero di Nadja. Gli rispose una voce di vecchio, nasale. Chiese se c'era Nadja, ma l'altro borbottò qualcosa che Marcel non capì. «Non qui! Lavoro!» gridò alla fine il vecchio. «Grazie, arrivederci.» Il vecchio aveva già riattaccato. Marcel guardò la cornetta, la mise giù. Andò a sciacquarsi il viso. Dalla sera prima non aveva smesso di rimuginare e si sentiva sempre più confuso. C'era qualcosa che gli sfuggiva. Un forte senso di angoscia gli si insinuava dentro, sempre più forte. Madeleine non era andata via. Si era opposta con tutte le sue forze al divorzio, non riusciva a capire che tra loro era finita, non era tipo da squagliarsela da un giorno all'altro con qualcuno. Le doveva essere successo qualcosa. Il vecchio Georges sorrise amabilmente a Caró, che gli offrì una limonata ghiacciata: «Con questo caldo, non posso rifiutare... Si dedica al cucito?» Indicò la grande macchina da cucire, le stoffe, il manichino di vimini. «Sì, un po', per arrotondare. E poi a Jacky, mio marito, piace che vada vestita bene. Costa di meno se lo faccio da me.» «La conosce bene Madeleine?» Max soffocò un rutto discreto. Si stava addormentando. Avevano interrogato Elsa Da Costa, la moglie di Jean-Mi, il barman, e una schiera di grosse signore in collant in una palestra, poi erano andati a pranzo in una birreria che Georges conosceva. Pasta all'aglio con cozze, annaffiata da un rosé bello fresco, buono, ma pesante! Tanto più che Max di solito prende-
va un'insalata nigoise e un'acqua Vichy. Sperava proprio che la ritrovassero, quella donna, così avrebbe potuto tornarsene a casa e mettersi comodo. Caró inghiottì un sorso di limonata, prima di rispondere. «Sì, insomma, la vedevo con gli altri. È soprattutto Marcel a essere amico di mio marito.» «Siete un gruppo di amici, mi dica...» «Sì.» «E non pensa che... insomma, è una cosa delicata... Madeleine avrebbe potuto, con uno di voi...» Max sollevò una palpebra gonfia. I vecchi avevano sempre idee disgustose. «Sta scherzando?» protestò Caró. «Jean-Michel Da Costa, che lavora al Claridge, non è proprio un apollo, semmai il dio del vino, Bacco, e Jacky... Non credo pensiate che Jacques, mio marito...» «No, no, certo» protestò soave Georges. «Quanto a Paulo e a Ben, no, non credo che siano i tipi di Madeleine. A Madeleine piacciono gli uomini ben messi, come Marcel, e loro sono piuttosto magrolini, capisce quello che voglio dire.» «Capisco» disse Georges, che vedeva profilarsi il momento di ritornarsene a casa. «Bene, ce ne andiamo... Max!» Max sussultò, si raddrizzò. Georges si alzò, Max lo imitò, dissimulando uno sbadiglio. «Contadini e Lebec sono entrambi celibi, credo?» «Sì. Lavorano al garage Palace.» «È lì che facciamo riparare le nostre macchine.» «Lo so.» «Contadini, aggiunse Georges sognante, mi dice qualcosa... Ho già sentito questo nome...» Caró sorrise educatamente al vecchio poliziotto. Doveva ancora occuparsi di due vestiti. Max si dondolava sui suoi piedoni, stoico. «Allora andiamo, ci scusi per il disturbo» concluse Georges, salutando. Uscirono nella canicola, colpiti da una sferzata di calore. Caró restò sull'uscio fino a quando non girarono l'angolo. Ma che cosa era successo a Madeleine? Si era suicidata? Quel povero Marcel doveva essere preoccupatissimo. Marcel era preoccupatissimo. Aveva preso servizio senza nemmeno rendersene conto. Impossibile mettersi in contatto con Nadja. Madeleine non
poteva essersi volatilizzata. Se avesse avuto un amante, non avrebbe smesso da mesi di prendere la pillola. Le era successo qualcosa. Ma cosa? Grondante di sudore, immobile in mezzo al rumore dei clacson, Marcel guardava i veicoli surriscaldati srotolarsi in lunghi nastri di metallo stridente. Qualunque cosa fosse successa a Madeleine, era grave, abbastanza grave perché lei non desse segno di vita ai bambini. Nessun segno di vita. Marcel sentì un brusco dolore al plesso solare. E se Madeleine giacesse morta da qualche parte? Schiantata da un infarto? Nel garage era tutto calmo. Paulo e Ben lavoravano in silenzio. La radio suonava in sordina. L'ometto fumava, trafficando con un carburatore incrostato. Un'ora per preriscaldare il forno. Quattro o cinque per cuocere la carne. Peccato, a lui la carne piaceva cruda. Sarebbe finito tutto ai cani. Pensò al viso inorridito di Madeleine, ai suoi occhi pieni di collera e di rimprovero e sorrise tra sé. Immaginò i grandi occhi neri di Nadja, sgranati dal terrore, e sorrise in modo più aperto, tanto che il padrone che passava si stupì: «Ti diverti?» «No, mi raccontavo una barzelletta belga. La conosce quella del tipo...» «Non mi rompere le scatole con le tue storielline idiote» borbottò il capo. Un giorno ti tosterò i coglioni col saldatore. E gli occhi e quella sporca bocca piena di morchia. Il suo sguardo velato dalla collera intercettò due sagome che entravano. Il vecchio Georges, ormai liquefatto, seguito da un Max sull'orlo della narcolessia, procedevano verso di loro con passo lento. «Signori... Polizia.» «Si vede!» disse Ben ridendo. «Solo un paio di domande... (Georges riprese fiato, si asciugò la fronte...) A proposito di Madeleine Blanc. È scomparsa» concluse. «Sì, lo sappiamo.» Paulo si era avvicinato e tutti e due squadravano Georges. «Semplice routine: sapete dove si trova?» «Nessuna idea» rispose Ben, e si asciugò le mani sulla tuta. «Madeleine la conosciamo meno di Marcel, andiamo con lui a karate» spiegò Paulo.
«Che voi sappiate, era fedele?» chiese Georges abbassando la voce. «Sì! Madeleine era la massaia perfetta. Non aveva occhi per nessun altro.» Correggere il tiro: «Ehi, dimentichi quell'istruttore di nuoto che le ha fatto la corte sulla spiaggia.» «Ci scherzava e basta.» «Sì, ma da quando non funzionava con Marcel...» «Ah, avevano litigato?» volle sapere Georges. Assestare il colpo. «A dire il vero, vogliono divorziare.» Con la sua bella scrittura, Georges riempiva placido il taccuino. Così, Blanc e la moglie non andavano più d'accordo. E la fedele Madeleine si faceva rimorchiare sulla spiaggia. «Sapete il nome di questo istruttore di nuoto?» «No» risposero in coro i due meccanici. Georges fece qualche altra domanda, annotò le risposte, guardò Max che ormai era strabico per la stanchezza, richiuse il taccuino e se lo rimise in tasca. «Be', signori, vi lasciamo lavorare. Contadini... Questo nome non mi è nuovo, ma dove l'ho sentito? Forse abbiamo amici in comune?» «Non so.» «Insomma, non ha importanza. Arrivederci, signori.» Georges e Max, uscirono, trascinandosi. L'ometto respirò a fondo. Lui, sapeva benissimo perché lo conosceva, il vecchio Georges. Anche a trentacinque anni di distanza. Rovistandosi tra i denti con uno stuzzicadenti, Georges rifletteva. Aveva fatto rapporto, preso congedo da Max che gli urtava i nervi e stava bevendo il suo pastis, mentre giocava a carte con Marron, un altro veterano, comodamente seduti nella stanza comune. Contadini, gli ricordava un incendio. Sì, un incendio. Una notte di temporale. Macerie... Ma quando? E dove? E perché? L'immagine di un cadavere a brandelli lo illuminò all'improvviso come un flash e balzò, rovesciando il bicchiere. Marron urlò: «Jo! Ma sei matto?!» «Lo so! L'incendio della Palombière!» «Jo, ti senti bene?» «È laggiù che ho sentito quel nome, era quello della donna!»
«Quale donna? Calmati un po'. Spiegami!» «L'abbiamo ritrovata incastrata tra le macerie, con un bambino, quindici giorni dopo l'incendio. Si credeva che fossero bruciati. Invece, era un uomo.» «Come un uomo?» «Un uomo che era bruciato. Non sapevamo che ci fosse una cantina.» Marron buttò giù il bicchiere in un colpo solo. «Spiegati, non capisco niente.» «La Palombière era una proprietà nell'Esterel, capisci, isolata da tutto. La madre di Contadini viveva col figlio, un ragazzino di una decina d'anni. C'era stato un temporale e il fulmine era caduto sulla casa. È bruciato tutto. Hanno trovato ossa carbonizzate, abbiamo pensato che fossero le loro. Ma in effetti si erano rifugiati in cantina, sotto le macerie.» «Ed erano morti?» chiese Marron, soffocando uno sbadiglio. «La donna, sì. Cranio sfracellato. Il bambino era vivo.» «Cazzo!» «Proprio così. Quindici giorni dopo l'incendio il bulldozer stava tirando giù tutto, ha sventrato la cantina e li hanno trovati. Ero giovane, allora. Mi ricordo ancora gli occhi del bambino, occhi come non ne hai mai visti, peggio che alla tivù.» «Non era morto di fame?» «Marron, che possa morire se mento: si era mangiato la madre.» Marron lo fissò, incredulo. «Ma che cosa dici? Hai bevuto troppo?» «L'aveva mangiata per sopravvivere, capisci? Quindici giorni nel buio completo con il cadavere della madre e lui che moriva di fame e di freddo. Era inverno, mi ricordo... Ma allora...» «Allora che cosa?» chiese Marron, chiaramente sconvolto. Georges era sempre stato un tipo che si faceva troppe domande. «Il tizio che ho interrogato questo pomeriggio, forse è lui, il ragazzino, l'età corrisponde!» «Forse è soltanto lo stesso nome. E l'uomo carbonizzato, chi era?» «Se ben ricordo un vicino, un buon amico della madre, a quanto raccontò il ragazzino, capisci quello che voglio dire. Non ha avuto il tempo di uscire dalla stanza, il fulmine è entrato dalla finestra e zot!» concluse Georges con un gran gesto tragico. «Il fulmine è una brutta cosa» approvò Marron. «Va be', la finiamo o no la partita?»
«No, me ne torno a casa. Dovrei aver conservato i taccuini di allora. Ciao, Marron.» Il vecchio e coscienzioso Georges uscì nel dolce crepuscolo. 12 Nel dolce crepuscolo, l'ometto ingranò la prima e cominciò a seguirlo. Il vecchio Georges aveva un appuntamento, quella sera. L'ultimo. Georges superò il ponte e girò per una strada tranquilla. Era notte. Lontano dal rumoroso centro della città, il quartiere sembrava abbandonato. C'era odore di gelsomino, come una carezza di addio. Georges sentì la macchina frenargli accanto. Si girò, sempre pronto a dare un'informazione a un turista. La portiera si aprì. Si chinò. Le grandi forbici si piantarono con forza nel pomo di Adamo. Georges vacillò in avanti, le lame appuntite affondarono ancor più profondamente nella carne. Il sangue zampillò dalla bocca, sulla plastica che l'ometto aveva steso sul sedile. Richiuse la portiera con un colpo secco, infilando le gambe di George sotto il cruscotto. Gettò il giubbotto sull'agonizzante e accese la radio, per coprirne i rantoli, ne uscì un fiotto di techno. Il vecchio Georges sussultò ed emise una serie di gorgoglii. L'ometto gli diede un paio di pugni sulla testa, finché la punta delle forbici non rispuntò dalla nuca dell'agente. Non si mosse più. Ora sì che il momento era delicato. Era alla mercé del minimo controllo, del minimo incidente. Guidava piano, attento al traffico, ai passanti, alle ombre. Quell'imbecille di Madeleine aveva attirato l'attenzione su di lui. Non c'era più posto per il divertimento, bisognava sopravvivere. E se lo avessero preso per colpa di quell'idiota di Marcel e di sua moglie, per prima cosa avrebbe fatto fuori quella piattola. Adorava le rappresaglie. Arrivato davanti a casa, si apprestava a scaricare Georges quando il sangue gli si ghiacciò nelle vene. Una sagoma appostata davanti al cancello si staccò e gli si avvicinò. Marcel! Marcel non doveva avvicinarsi. Scese precipitosamente dalla macchina e gli andò incontro. Cazzo. Le forbici erano rimaste nella gola del vecchio! Giocarsela col basso profilo. Inquieto e stupito, mani divaricate, in alto. «Che ci fa fai qui, Marcel?» «Ti aspettavo. Ho portato i bambini dalla sorella di Madeleine. Senti, sono sicuro che le è successo qualcosa.» Vuoi vedere che quest'idiota ha capito! Spalancare gli occhi in segno di
sincerità. «Ma no, ti vengono certe idee...» «Sei l'ultima persona con cui ha parlato, ti ha detto qualcosa?» Che cosa vuoi che mi abbia detto? «Ma ti ho già detto di no! Dai, entra, ci beviamo qualcosa?» «No. Ho appuntamento con Nadja. Ero passato solo così.» «E se Madeleine torna? Sarà contenta di sapere che stai con Nadja?» Ecco, beccatelo nelle gengive. «Se tu non le avessi detto niente, non lo avrebbe mai saputo e sarebbe ancora qui» sibilò Marcel con aria poco amena. Protestare convinto. «Marcel!» «Mi prendi per un idiota? Ho riflettuto, sono sicuro che sei stato tu ad averle detto tutto. D'altronde lo sapevi solo tu. Sei un verme!» Non mi provocare. Non è serata. «Sei fuori.» Cambiare argomento: «E dove ti incontri con la tua Nadja?» «Viene da me. Voglio essere a casa, se Madeleine telefonasse.» «E il bimbo? Resta ai piedi del letto?» Marcel alzò un pugno minaccioso, l'ometto incassò la testa fra le spalle, servile. Toccami, Marcel, toccami e sei morto. «Scusa, l'ho detto tanto per dire...» Marcel si dominò, alzò le spalle e si allontanò a grandi passi. Mentre arrivava sulla piazza, una vecchia signora vestita con un poncho di plastica, che spingeva un carrello piena di sacchetti, gli afferrò il braccio. «Ehi!» «Che c'è? Ah è lei! Ho fretta.» Marcel la conosceva di vista. Un'ex battona nera che viveva per strada. Lavorava nei cinema. Servizio espresso. Col suo berretto di lana dai colori vivaci, estate e inverno, carrello e poncho, era un personaggio familiare in città. La settimana prima l'aveva salvata dalle grinfie di una banda di teppistelli che l'avevano spintonata. Era la prima volta che la guardava sul serio e non la trovava mica male. Begli occhi grigi dietro grandi occhiali tondi. Non si sarebbe mai detto che si prostituiva. La porta dell'ometto gli sbatté alle spalle. «Litigate per la signora?» sussurrò lei.
«Sì, ma...» «Le ha mentito, è venuta, l'ho vista...» «Prego?» «È venuta ieri pomeriggio. Lui non c'era. Dormivo su una panchina della piazza. E poi ho aperto gli occhi per via del camion. Faceva un baccano infernale. E l'ho vista. Davanti alla finestra.» «E allora?» Suo malgrado, anche Marcel abbassò la voce, sussurrarono nella notte calda come un alito pesante. «Allora è passato il camion e l'ho vista infilarsi in casa, aveva rotto il vetro.» Il vetro rotto in cucina! «E poi è uscita?» «Non l'ho vista uscire.» «Com'era fatta?» «Un po' in carne, bionda, con una maglia rosa.» «Madeleine! Che maiale!» Preso dall'emozione, l'aveva agguantata per un braccio e la scuoteva. Lei si svincolò piano. Marcel si girò verso la casa dell'ometto, la cui finestra brillava nella notte come l'occhio furbo di un gatto orbo. «Buona fortuna!» aggiunse la vecchia, appena lui corse via. Non le piaceva l'ometto, il suo sguardo da biscia, il suo sguardo da pazzo. «Grazie» rispose automaticamente Marcel. Era già al cancello, lo spingeva, suonava alla porta d'ingresso, cercando di dominare la collera. L'ometto aprì piano, gli occhiali scintillanti sul viso madido di sudore. «Che c'è ancora?» Ancor prima che finisse la frase, Marcel l'aveva buttato a terra con uno spintone e lo sovrastava, pronto a colpirlo. Lui protestò: «Sei pazzo, Marcel, sei pazzo!» «Sporco bugiardo, è venuta ieri pomeriggio, l'ha vista qualcuno! Ti spacco il muso.» «E come faccio a sapere se è venuta? Non c'ero ieri pomeriggio, stavo al garage! Ero al garage, capito?» Marcel, che l'aveva afferrato per la gola, lo lasciò. L'ometto si massaggiò il collo. La ferita che gli aveva fatto Madeleine si era riaperta e sanguinava. C'era Georges in macchina... Bisognava inventa-
re una storia plausibile, e subito. Marcel ansimava, i pugni stretti. Pericolo. All'improvviso Marcel si diresse in cucina. L'ometto ebbe un singulto di terrore, si rialzò e raggiunse Marcel, fermo davanti al vetro rotto, che lo accusava: «E perché è entrata dalla finestra, perché? Che cosa voleva?» Si precipitò nuovamente sull'ometto, le grandi mani protese in avanti. Ma è un incubo? «Marcel, ascolta, ti spiego!» Se solo avessi pensato a prendere il coltello a serramanico prima di aprire. C'è quel coltello per la carne sull'acquaio, ma quello stronzo di Marcel ci sta proprio davanti. D'altra parte, far fuori uno sbirro in casa... «Ti spiego, calmati.» Inventarsi qualcosa, qualcosa di succulento, un buon osso da rosicchiare. «Ecco, Madeleine, aveva un amante.» «Bugiardo!» Ma vaffanculo, vaffanculo! Troppo bello! Squittire: «Ti giuro! Te lo giuro, Marcel, non mi picchiare!» «Come fai a saperlo? Spiegati!» «Ho trovato una foto, di lei e lui, in una macchina in garage. Nascosta in un parasole.» «Ma che dici?» Bene, ci casca, cazzo, sono un grande! «Ti dico che ho trovato una foto di lei e di lui mentre...» Marcel si sentiva invadere da una strana calma. «Continua.» «Ho preso la foto. Volevo tenerla come prova, nel caso che...» «Aspetta, aspetta un attimo. Madeleine andava a letto con un cliente del garage?» «È quello che cerco di dirti da un'ora!» «Chi?» Piccolo giro di vite supplementare. «Non te lo posso dire.» Marcel lo acchiappò per il colletto della camicia e lo sollevò da terra. Adesso una collera furibonda gli divorava le viscere. Dopo tutte quelle scene di gelosia che gli aveva fatto, Madeleine se la intendeva con un altro! «Chi è? Te lo chiedo per l'ultima volta.»
Eh? Chi è? Vediamo... Sì! «Uno sbirro, cazzo! È uno sbirro!» Marcel lo fece ricadere sui piedi. «Cosa?» «Uno sbirro, ti dico! Ecco, sei contento?!» Davanti all'espressione assolutamente sbalordita di Marcel, ci mancò poco che l'ometto non scoppiasse a ridere. Mamma mia, con che classe ne stava uscendo! Un vero attore! «Il nome!» Fare il santarellino... «Senti, Marcel, non so se...» «Il nome!» Eeeeh... ma sì! L'ometto assunse un'aria compassionevole. «Jeanneaux.» «Non è possibile. Lui no!» Sollecito. «Marcel, tutto a posto?» Marcel rialzò la testa, lo sguardo stravolto. «Se mi racconti balle...» «Perché dovrei?» Perché ammazzerei delle persone? Perché tradiresti tua moglie? Perché ci sono tante guerre? Marcel restò un attimo in silenzio. Poi indicando la finestra: «E il vetro?» Cazzo, la logica non ti manca, Marcellino del mio cuore. «Secondo me è venuta qui per recuperare la foto. Perché non è più dove l'avevo messa. Ma cerca di capirmi, non potevo parlartene.» «E perché è scappata?» «Non lo so, non mi ha detto niente.» «E come ha fatto a sapere che sapevi?» si ostinò Marcel, profondamente scosso. «Lo ignoro. Forse lui le ha detto che la foto era sparita e lei ha pensato che ero stato io a prenderla? In ogni caso, il pomeriggio scorso è passata al garage e mi ha chiesto di restituirgliela, urlava, era fuori di sé. Ho fatto lo gnorri. Se ne è andata, furibonda. Ma non sapevo che sarebbe venuta qui. Vedendo che la foto era sparita, ho capito...» Sto morendo di sete. Mi disidrata, questo stronzo.
Marcel si passò la mano sul viso. L'ometto riprese: «A che ora hai appuntamento con Nadja?» «Cazzo, me l'ero dimenticato, che ore sono?» «Bisogna che vada. Jeanneaux, quello sbruffone, non ci posso credere!» Io nemmeno. Non è tipo da farsi la tua grassa mogliettina. Be', accarezzare il cane nel senso del pelo. «Mi dispiace, Marcel...» «Non fa niente, tieni le tue lacrime per te...» Marcel girò i tacchi senza degnare di uno sguardo l'ometto. Borbottò ancora "Jeanneaux, Cristo!" poi sbatté la porta. L'ometto si lasciò cadere sul divano come una bambola di pezza, singhiozzando dal ridere. Georges! Me lo stavo per dimenticare. Si rialzò. Andò a prendere la sua grande sacca da marinaio sull'armadio. Esaminò con cura il giardino, la strada. Marcel era sparito. E dire che quell'imbecille è rimasto per tutto il tempo a meno di un metro dalla moglie! L'ometto si diresse rapidamente al furgoncino, aprì lo sportello posteriore, si intrufolò dentro. Cinque minuti dopo ne usciva, trascinandosi dietro la sacca da marinaio. Hop hop hop fino alla porta. Gettò il pesante sacco sulle piastrelle della cucina, chiuse la porta a doppia mandata e si versò una grande birra ghiacciata. La schiuma gli colava sul mento, beveva con avidità, con delizia. Ma come ha fatto Marcel a sapere che Madeleine era venuta qui? C'era qualcosa che non quadrava. La rabbia lo frugava come una lama tagliente. Prese la sega e si chinò su Georges. Se le cose stavano così, gliel'avrebbe fatta vedere. Si mise al lavoro con furia, il suo sguardo fisso da serpente non batteva ciglio sotto gli schizzi di sangue. Sarebbe stato il suo capolavoro. Marcel era corso fino a casa. Nadja lo aspettava, immobile, davanti all'insegna del robivecchi, immersa nella contemplazione di un banco completo da bricolage. Le posò la mano sulla spalla. Lei si girò e senza una parola gli si rannicchiò contro. Entrarono nel palazzo. Marcel si sentiva addosso la sua carne dolce e soda. La luce si accese e loro si scostarono. Il contabile del terzo li incrociò, salutò educatamente, chiese notizie di Madeleine, senza omettere qualche sguardo sospetto verso Nadja che lo squadrava sprezzante. Appena entrati, Marcel prese Nadja tra le braccia e si lasciò cadere su
una poltrona. Le loro labbra si toccarono, si addolcirono. Si baciarono fino a perdere il fiato. Poi Marcel annunciò la notizia: «Sai, mia moglie, mi tradiva col mio capo...» Nadja scoppiò a ridere. «Scusa, ma hai veramente la faccia del cornuto!» E la cosa peggiore era che aveva ragione. Jeanneaux guardò l'orologio. Be', in cammino. Spense la luce, scese le scale. Di sotto, Ramirez e Marron scherzavano tranquilli. «Ehi, capo!» disse Ramirez. «Sì?» Jean-Jean tormentava le chiavi, nervoso. Che cosa volevano ancora, quei cretini? «Capo, lei la conosce la storia della donna mangiata dal figlio?» «È un indovinello?» «No, è Georges. È andato via come un matto per via della storia di una tizia mangiata dal figlio.» «Aveva bevuto?» «No, capo, giocavamo a carte» spiegò Marron. «Ha parlato di una villa, la Palombière... Una trentina d'anni fa.» «Mai sentita. A domani.» «A domani capo.» Jean-Jean uscì nella notte. Passò davanti a una finestra da cui si sprigionava un odore di melone. Respirò profondamente. L'odore del melone, per lui, era il ricordo di tutte le sere estive, quando tornava sfinito dal mare, dopo aver nuotato e corso, coperto di salsedine, gli occhi che gli bruciavano e l'aria così dolce, così dolce... Non aveva voglia di tornare a casa, di cenare da solo sotto la sua lampadina da 60 watt. Decise di andare al cinema. L'estate era questa: melone, sudore e supereroi. Una specie di eccitazione che faceva vibrare la città all'inseguimento di una gioia che, però, si negava. 13 Nadja si alzò, riabbottonandosi il leggero vestito estivo di nylon verde che la fasciava mettendo in risalto le spalle scure. Marcel si ravviò meccanicamente i capelli. Aveva una strana impressione, come se avesse smaltito una sbornia. Le idee riprendevano un po' per volta il loro posto. Guardò
Nadja ed ebbe l'impressione che un velo si stesse strappando, permettendogli di accedere ai vari colori del mondo. Madeleine aveva deriso il suo desiderio di dipingere. Accanto a lei aveva sempre avuto l'impressione di essere un bravo ragazzo, un po' goffo, un po' ingenuo. Oggi Marcel non si sentiva né bravo, né goffo, né ingenuo. Si sentiva arricchito da uno spessore fino ad allora ignoto. Nadja bevve dell'acqua, guardandolo al di sopra del bicchiere. «Allora, grande uomo bianco, che cosa farai?» «Bisogna che parli a Jeanneaux. Se sa dove si trova Madeleine, non ho intenzione di continuare a rendermi ridicolo agli occhi dei compagni.» «E quando avrai ritrovato la tua Madeleine? Vi rimetterete insieme? Me la svigno? Fine delle Mille e Una Notte?» «Non ti libererai di me tanto facilmente. Oltre a essere idiota e cornuto, sono anche estremamente testardo.» Gli sorrise, sfiorandogli i baffi. «Bisogna che torni a casa. Mio suocero si preoccuperà, gii ho detto che andavo al cinema con un'amica.» «OK, andiamo.» Le 23. L'ometto aveva finito il suo lavoro. Grondante di sudore, la maglietta coperta di macchie color porpora, come un pittore in piena crisi creatrice. Mise la sega nell'acquaio, fece scorrere l'acqua, sciacquò con cura lo strumento. Con una grossa spugna ripulì gli schizzi sulle pareti, poi si tolse la maglietta sporca, l'annaffiò di alcol e le diede fuoco. Mentre la maglietta si consumava nella bacinella di porcellana bianca, raccolse i rifiuti accuratamente deposti nello scolapiatti e li gettò in un grande sacchetto che portò sul furgoncino, non senza aver lanciato uno sguardo tutt'intorno. Era tutto calmo. Si alzava una brezza leggera. Ritornò e si fermò davanti al suo capolavoro allungato sul tavolo. Una meraviglia! Estetica, significato, creatività e una punta di straniamento. Soddisfatto, schioccò la lingua e si concesse una lattina di birra supplementare. Poi richiuse intorno alla sua opera i lembi del telo opaco, li legò con le cinghie e trasportò il tutto fino al furgoncino con l'aiuto del carrello. Inutile spezzarsi le reni. Raggomitolata sulla sua panchina, all'ombra delle palme, la vecchia puttana si fece piccola piccola. Quel tipo era veramente strano. Da tempo aveva affinato un sesto senso per individuarli, gli squilibrati, e là ce n'era uno mica male. In quel momento lui si voltò e scrutò il buio nella sua dire-
zione. Madida di sudore, dimenticò per un attimo il freddo che la attanagliava da anni. L'ometto innestò la frizione e sparì. Fece una prima sosta in una discarica abusiva sulla collina. Laggiù, mentre correva lungo il fossato, aprì la portiera del sedile accanto e lanciò il sacco pieno di "rifiuti". Il sacchetto rotolò piano sull'erba ingiallita, prima di fermarsi accanto a una vecchia poltrona sventrata. Sbobba per i topi. Seconda sosta: appartamento di Jeanneaux. Grazie al libretto di circolazione che quello stronzo lasciava sotto il parasole, non era difficile saperne l'indirizzo. Quartiere residenziale, bel palazzo, moderno, costoso, con grandi terrazzi, piante verdi, campanelli dorati, un ingresso di marmo che faceva venir voglia di sputare per terra. L'ometto si piantò il berretto in testa, si sistemò gli occhiali da sole, aprì lo sportello posteriore e scaricò il suo fardello. La strada era deserta. Da quel momento in poi, era solo questione di fortuna. Spinse il carrello contro la porta a vetri, cercò il nome, Jeanneaux. Ecco. Suonò. Due colpetti brevi. Una voce al citofono: «Sì?» L'ometto fu preso da un'ispirazione: «Capo, sono Ramirez, capo, la devo vedere, è urgente.» «Non possiamo aspettare domani?» «È per lo squilibrato, capo, ci sono novità.» «Va bene, sali!» Un lungo sospiro esasperato si mescolò alla vibrazione dell'apriporta. Non era difficile imitare la voce di quel lardoso di Ramirez. Bastava azzeccare l'accento. L'ometto attraversò rapidamente l'ingresso con il suo carico. Che culo, l'ascensore era al piano. Le porte metalliche si aprirono senza rumore. Posò la sua opera sul pavimento della cabina, sciolse le cinghie, tolse il telo con un colpo secco e adagiò con cura il suo capolavoro contro la parete di fondo. Venti secondi. La luce si spense nell'ascensore. Una voce attutita risuonò dall'alto: «Che cosa combini?» «L'ascensore non funziona, capo!» rispose l'ometto, mentre usciva senza rumore dalla cabina. «Be', sali a piedi, è il terzo.» L'ometto si diresse verso l'uscita. Sentì Jeanneaux grugnire: "Non funziona, non funziona, strano..." e pigiare il pulsante di chiamata.
Docile, l'ascensore si mise in moto e si alzò con grazia verso Jean-Jean. Mentre l'ometto si dirigeva a ritroso verso l'uscita, sentì la portiera di una macchina sbattere davanti all'ingresso. Immediatamente si tuffò nel buio del locale adibito allo scarico dell'immondizia. Si produssero numerosi e simultanei eventi. Risuonò la vibrazione del citofono, seguita dallo scatto dell'apriporta. Marcel entrò a passi rapidi, si diresse verso l'ascensore e, vedendo che era occupato, cominciò a salire gli scalini a quattro a quattro. Le porte automatiche dell'ascensore si aprirono sul pianerottolo di JeanJean. Sporgendosi dalla tromba delle scale, in attesa di Ramirez, Jean-Jean, in vestaglia color salmone, non vide subito che cosa conteneva l'ascensore. L'ometto era già fuori e parti in quarta (per quanto glielo consentisse il furgoncino scassato), quando riecheggiò un'esclamazione soffocata. Jean-Jean contemplava l'interno della cabina con occhi increduli. Poiché nessuno saliva né scendeva, l'ascensore, macchina disciplinata, richiuse le porte. Subito Jean-Jean premette il bottone di chiamata. Le porte si riaprirono. Immaginò per un attimo che un inquilino potesse chiamare l'ascensore e scoprire quella mostruosità! Bisognava toglierlo da lì. Si chinò e afferrò le due gambe, mentre Marcel sbucava sul pianerottolo, senza fiato e furibondo. «Le devo parlare!» disse con aria risentita. Si irrigidì, perplesso. Jean-Jean lo guardava, l'aria assente. E tirava un corpo per i piedi! Qualcuno aveva avuto un malore? Marcel si avvicinò, vagamente inquieto. «Mi potrebbe almeno aiutare, no?» gli sibilò Jean-Jean tra i denti. Interdetto, Marcel annuì e prese una gamba. Poi alzò la testa e il suo sguardo incrociò quello vitreo di Madeleine. Madeleine, la cui testa, cucita accanto a quella di Georges, sovrastava un corpo androgino. La nausea invase Marcel, lo shock lo percosse come un colpo d'ariete in pieno ventre e lui si piegò in due, intronato. Jean-Jean lo scrutava, interdetto. Marcel girò su se stesso, accasciandosi contro il muro. La fronte batté duramente contro il cemento. Con una mano cercava di tenersi su, con l'altra si massaggiava la pancia, incapace di emettere un suono. Jean-Jean finì di tirare il cadavere a due teste sul pianerottolo e cominciò a spingerlo nel suo appartamento, prima che i vicini, due bravi pensionati
educatamente altezzosi, mettessero il naso fuori. Marcel lo seguì, instupidito. «Chiuda la porta!» sussurrò Jean-Jean rialzandosi. Marcel eseguì come un automa. Gli tremavano le mani. «Le verso un cognac, Blanc? Come va?» chiese Jean-Jean, anche lui non poco scosso. Senza aspettare risposta, riempì due bicchieri fino all'orlo e ne tese uno a Marcel che lo mandò giù in un colpo solo. Jean-Jean gettò un'occhiata alla cosa. A prima vista l'omicida non si era arrovellato più di tanto, aveva semplicemente vestito il cadavere di Georges da uomo sulla parte destra e da donna sulla sinistra. Per il busto: giacca e camicia tagliati a metà, legati al bolero rosa dall'altra parte. In basso: mezzo pantalone contro mezza gonna zingaresca. E accanto alla nobile testa del povero vecchio Georges aveva cucito la testa di una tizia qualunque. Una rappresentazione carnale dello yin e dello yang, in un certo senso. Un paio di forbici erano affondate nella gola di Georges. Blanc indicò la tizia qualunque con dito tremante. «L'ha uccisa...» Il povero Blanc dava proprio i numeri. «Sì, ho visto. Be' chiamo il furgone.» «Lei non prova niente?» «Ho voglia di vomitare, ma mi trattengo. Ne vuole un altro?» gli disse secco Jeanneaux, indicando il cognac. «Cazzo, ma lei è incredibile. È MORTA e lei non prova niente.» Jean-Jean indietreggiò piano verso il telefono. «È sotto shock, Blanc, si sieda...» «Non ho voglia di sedermi,» gridò Marcel «è qui, sotto i miei occhi e lei vuole che io mi sieda, ma è pazzo?» «Senta...» cominciò Jeanneaux prima di interrompersi, le sopracciglia aggrottate. «Ma dov'è Ramirez?» «Ramirez?» chiese macchinalmente Marcel. «Ha suonato, gli ho aperto... Cazzo! Ha imitato la voce di Ramirez! Quel maiale sa il mio indirizzo e conosce Ramirez! Lei è arrivato qualche secondo dopo... non ha visto nessuno, Blanc?» «Visto chi?» chiese Marcel, completamente andato. «Eppure avrebbe dovuto incrociarlo!» mormorò Jean-Jean, guardando Marcel con circospezione. Compose rapidamente il numero del commissariato. Marcel non si muo-
veva. Madeleine guardava verso di lui, rimprovero muto e terribile. Non si sentiva più triste, ma sfinito. E perplesso. Come? Perché? Chi? Georges e Madeleine, era più di una semplice coincidenza. Jean-Jean riattaccò dopo aver parlato col tenente di servizio. «Leroy arriva col furgone, il medico e i tecnici. Ma guarda che roba,» aggiunse, indicando il corpo a due teste steso sul marmo maculato del suo ingresso «è veramente schifoso!» «Ma non si vergogna?» gli disse Marcel, scuotendo la testa. «Vergognarmi? Vergognarmi di che cosa? Credo che lei sia sotto shock, Blanc...» «E lei, Jeanneaux, non è nemmeno un po' sotto shock? E lei, anche per lei dev'essere stato uno shock...» «Certo... Ma non capisco...» Perché Blanc si era fissato su quella donna? «Non l'amava, era solo un'avventura, così!» disse Marcel, prendendosi la testa tra le mani. «Ma di chi sta parlando?» «Ma di Madeleine, Cristo! Di mia moglie! Merda!» Jean-Jean aggrottò le sopracciglia. «Sua moglie?» Marcel si alzò con un balzo e si scagliò su Jean-Jean, afferrandolo per il bavero della vestaglia. «E non mi prenda per il culo! Me ne fotto se c'è andato a letto, ma non è un buon motivo per mancare di rispetto al suo cadavere!» «Il suo cadavere? Cazzo! Non mi vorrà mica dire che questa donna... È sua moglie?» «Brutto porco!» lo fulminò Marcel, pronto a picchiarlo. «Blanc, non sto scherzando, non ho mai visto sua moglie, come facevo a riconoscerla?» «Mai vista? Se la scopava con un cuscino in testa?!» «Ma io non ho mai... Ma è pazzo!» urlò Jeanneaux, soffocato. Il campanello della porta suonò ovattato, insistente. Marcel mollò Jeanneaux, si strofinò gli occhi come per tornare in un mondo normale. Li riaprì. Non era cambiato nulla. Il cadavere a due teste giaceva per terra, i capelli biondi di Madeleine stesi a corolla. Jean-Jean aveva aperto. Si sentiva uno scalpiccio per le scale. Madeleine... Che pena! E mentre pensava a Madeleine, aveva ancora il calore di Nadja sulla pelle. La vita era orribile, tessuto putrido che non
cessa mai di rigenerarsi, nutrendosi di morte per generare la vita. Il tenente Leroy fece irruzione. Era sudato e si tamponò il viso con un grande fazzoletto a quadri degno del commissario Maigret. Dietro di lui, due infermieri con una barella e i tecnici della Scientifica. Tutti si erano fermati sulla soglia. Un infermiere non riuscì a trattenere un'esclamazione: «Cazzo, ma hai visto che roba?!» Entrò il dottore, spettinato, il viso assonnato. «Per una volta che ero andato a dormire presto! Ah, dei siamesi, ci sono cambiamenti! Ha una bella immaginazione quel ragazzo, dico "ragazzo" perché suppongo sia sempre lo stesso?» «Ehm, dottore, senta...» Jean-Jean prese da parte il medico. «La donna, la testa della donna, insomma, è la moglie del tizio che sta in piedi in quell'angolo, evitiamo battute, eh?» «Capisco» sussurrò il medico. «Le mie condoglianze, signore» aggiunse rivolto all'inebetito Marcel. Il dottore si inginocchiò vicino al cadavere, le sue vecchie ginocchia scricchiolarono. Marcel si servì un altro cognac. Jean-Jean si era vestito. Infilò i lembi della camicia rosa nei jeans, si mise le scarpe da ginnastica. «Senta, Blanc, non serve a niente stare qui. Venga con me, andiamo in ufficio. Voglio rileggere il dossier. Dottore, chiuda lei la porta. Per fortuna mia moglie è in vacanza!» Marcel lo seguì senza dire niente. C'era poco traffico. Faceva ancora caldo, un caldo sopportabile, quasi gradevole. Marcel si guardava intorno senza riconoscere nulla. Gli sembrava tutto nuovo. I palazzi, le insegne, la gente soprattutto, strani, stranieri, felici esseri viventi di un pacifico mondo. E quel grottesco teatrino intorno al cadavere di Madeleine... Incursione del vaudeville nel dramma. Perché JeanJean negava? Pensava che Marcel ne avrebbe sofferto? Forse... Il pensiero punse Marcel come uno scorpione. Dopo tutto che cosa sapeva di JeanJean? Pensare che fosse lui il colpevole era folle, ma non impossibile. Bisognava stare in guardia. Si accostò discretamente alla portiera, un occhio su Jean-Jean che guidava veloce, senza parlare, una sigaretta all'angolo delle labbra. Il commissariato funzionava al rallentatore. Una prostituta arrabbiata, qualche piccolo spacciatore, formulari da riempire, ispettori stanchi, bic-
chieri di caffè e fumo di sigaretta. La routine notturna. Jean-Jean salì le scala senza salutare nessuno, Marcel lo seguiva. «Be' non è costretto a restare, Blanc. Lo so che è stato un duro colpo. Ma sento che incastreremo quel porco. Lo sento.» «Rimango.» Dicendolo, Marcel ebbe l'impressione fuggevole di stare recitando in un buon vecchio western e in certo senso questo gli diede conforto. Nell'atmosfera familiare degli uffici, l'idea che Jeanneaux potesse essere implicato nell'omicidio di Madeleine gli sembrava sempre più grottesca. La questione era un'altra, qualcuno li manipolava, si prendeva gioco di loro. Jean-Jean gli passò una parte del dossier e si misero a ricapitolare il caso. L'ometto aveva parcheggiato davanti alla casa. Rifletteva, immobile, gli occhi nel vuoto. Una sagoma si mosse vicino ai cespugli e lui fece un breve segnale con i fari, illuminando l'ex prostituta col berretto di lana. Lei sussultò e scappò come una lepre impazzita. L'ometto sorrise tra sé. Poi riprese il suo sogno a occhi aperti. Il suo istinto da predatore lo avvertiva che i bei giorni erano finiti. Gli stavano alle calcagna, la caccia era aperta. Sentiva che non doveva muoversi e tenersi pronto alla fuga. Tirò fuori il portafogli dalla tasca del giubbotto e si accertò di avere i documenti, il libretto degli assegni, la carta di credito e la foto di sua madre. Il suo bel viso intatto gli sorrideva. Accarezzò l'immagine con un dito macchiato di sangue e di morchia, tremante. Era carina, sua mamma. Troppo carina per un porco come Pierrot, troppo carina per fare con lui la bestia a due schiene e a due teste, la brutta bestia che non amava più il suo piccino, la brutta bestia ansimante, con le due teste sudate, le bocche semiaperte con le loro grida da bestie, il contatto rassicurante del manico dell'ascia, sapeva tagliare i ciocchi di legno in fretta e bene, era piccolo ma forte, mai dimenticare, la voce cattiva della Bestia-Mamma "Esci da qui, lasciaci!" "Ti metterò in collegio, mi hai stufato!" il sorriso malvagio della Bestia-Pierrot, sazia, con la saliva sul mento. Oh, no, non ci si poteva prendere gioco di lui in quel modo. Il manico dell'ascia. Le grida, lunghe, acute, ritmate dal fracasso assordante del tuono, la Bestia-Pierrot a pezzi sul letto, la Bestia-Mamma che fugge, fugge nel corridoio, nuda, nuda, come Dio l'ha fatta, il temporale, il fulmine, il fulmine divino che colpisce la casa, esplosione di fuoco, prima del grande buio, il buio pieno di cose.
La notte sembrò invadere l'intero abitacolo della macchina, gli pesava sul petto, gli si incollava alle labbra come una carne umidiccia e molle. Un odore di putrefazione gli solleticava il naso, la bocca, gli occhi disperatamente aperti, ma che non vedevano più niente. Qualcosa gli formicolava sotto le dita. Un fremito, un palpito invisibile gli solleticava il palmo della mano. Sentiva strani sospiri, gli spuntavano improvvisi gonfiori sotto le mani. Il mondo era soltanto tattile e puzzolente. Il freddo lo faceva tremare, si incollava alla massa rigida e semovente, che non sprigionava alcun calore. Soltanto quel solletico e rumore di suzione. L'ometto avrebbe voluto urlare. Le mani graffiavano il parabrezza, le gambe battevano spasmodicamente sotto il cruscotto. Una mano aprì bruscamente la portiera, una massa si chinò verso di lui. «Signore? Si sente male, signore?» La testa dell'ometto si girò verso la voce, i suoi occhiali scuri brillarono fugacemente sotto il lampione, il suo ghigno metteva in mostra tutti i denti. Il passante volle retrocedere, la mano dell'ometto descrisse un semicerchio e il coltello affondò nel ventre, perforandogli il peritoneo. L'ultima cosa che l'uomo vide fu quel sorriso terrificante e i denti bianchi che gli si avvicinavano al collo. L'ometto si rialzò, rimpinzato di sangue. Aveva bevuto la forza della preda. Era di nuovo pronto all'attacco. Tutti i sensi all'erta, registrò il movimento furtivo sulla sinistra. Qualcuno, qualcuno l'aveva visto e cercava di fuggire. Accese il motore, chiuse la portiera, abbandonando il corpo del passante sul marciapiede. La vecchia, la vecchia prostituta, corre verso la cabina telefonica. Le andò dietro. Lei si girò, lanciò sicuramente un grido perché la vide spalancare la vecchia bocca e, rinunciando a raggiungere la cabina, si mise a correre lungo i palazzi silenziosi. Lui accelerò, sbarrandole l'accesso alla piazza. Ti acchiappo. Puoi correre quanto vuoi, ma non mi scappi. Vivace come una tigre, rapido come un lupo, furbo come l'orso, sono il re dei predatori. La vecchia correva con passo malfermo. Aveva abbandonato il carrello con tutti i suoi beni e non la smetteva di urlare. Alcune persiane si chiusero con uno scatto secco. Lui arrivò alla sua altezza, sporse la testa dalla portiera e le sorrise, passandosi la lingua sulle labbra con fare goloso. Lei gli lanciò la busta di plastica piena di mele marce che aveva in mano. Lui la ricevette in pieno viso e per un attimo, accecato, perse il controllo della macchina. La botta era stata forte e sentì il sangue scorrergli dal naso.
Vecchia porca! Come lo avrebbe rimpianto. Prima che potesse raddrizzarlo, il furgoncino salì sul marciapiede e andò a sbattere contro un cartello di sosta vietata. Inserì furiosamente la marcia indietro. La vecchia svoltò l'angolo, senza smettere di correre e urlare. Ripartì in prima e accelerò. Si sentì un rumore di casseruole. Accelerò ancora e svoltò sul viale: nessuno in vista. La vecchia carogna si era dileguata. Aveva sicuramente intenzione di chiamare gli sbirri. Il rumore di casseruole era insopportabile. Esasperato, l'ometto frenò, scese correndo: il paraurti penzolava, completamente rotto. Lo strappò con un colpo, tagliandosi la mano sinistra, lo gettò in macchina e risalì. Andava piano, attento alle ombre, alle traverse, ai portoni. La vecchia troia poteva essersi nascosta ovunque. Che iella... Un raggio di luce sulla destra. Voci. Si avvicinò. Una grande sagoma che butta qualcosa per strada... Dal finestrino aperto, gli giunsero frammenti di voci: «E se ti ritrovo a dormire per le scale! Non vogliamo barboni qui, capito?!» L'ometto si leccò i baffi. Laggiù la vecchia si rialzava, si sistemava il berretto, cercava inutilmente di spiegare qualcosa al bruto che la spingeva fuori. Lei sentì il furgoncino. La testa si girò verso di lui. Il bruto risaliva gli scalini che portavano all'ingresso, alzando le spalle. Lei gli si gettò addosso, lo prese per la vita. Lui disse una parolaccia, cercò di scaraventarla per terra, ma lei gli si aggrappava con tutta la forza delle dita magre e nodose. Esitò a colpirla. Una finestra si aprì. «La fate finita con questo casino?» «È una pazza che non vuole mollarmi! Su nonna, adesso basta!» «Aspettate, chiamo la polizia!» «Su nonnetta, si calmi...» Lei gli assestò una ginocchiata nelle parti basse e lui si piegò in due. La donna ne approfittò per precipitarsi nel palazzo. Alcune finestre si illuminarono. Il bruto le corse dietro, piegato in due. L'ometto aspettava, col motore al minimo, come un gatto che spia il piatto del padrone. Ricomparve il bruto, con la vecchia in braccio. La buttò sul marciapiede, lei tentò di rialzarsi, lui la spinse barcollante in mezzo alla strada, urlando imprecazioni di vario genere. Era il momento buono. L'ometto accelerò a fondo e lanciò il furgone diritto su di lei. La vecchia volò in aria come una bambola buttata via da un bambino capriccioso e ricadde pesantemente sul marciapiede. Il bruto gesticolava, si strappava i capelli.
L'ometto svoltò rapidamente a destra. In lontananza sentì una sirena. Arrivato davanti a casa, spense il motore. Avrebbero cercato un furgoncino blu. Ce n'erano un sacco di furgoncini blu. Ma sarebbero fatalmente risaliti a lui, un po' alla volta, come vermi ostinati, intenti a scavare accanitamente gallerie nelle carni putride della "verità". Marcel Blanc, Jeanneaux, i dottori, tutti muniti di lampade per guardare in profondità la sua anima, per estirparne il sapore, per divorarla. Ripensò alla sua consegna, alla faccia che avevano dovuto fare Jeanneaux e Marcel. Se solo avesse potuto fotografarli, filmarli, ripassare al videoregistratore i loro volti stupefatti, inorriditi, disperati... L'omicidio aveva un inconveniente: l'incognito. Un po' più in là, sul marciapiede buio, si disegnava la macchia chiara di un corpo, camicia e pantaloncini bianchi, disteso sotto la notte come un po' di brina lunare caduta al suolo. Non lo vedeva. Un elemento decorativo. Un cadavere. Le idee dell'ometto non erano poi così chiare. La rabbia sommergeva tutto. Ognuna delle sue dita si trasformava in un rasoio tagliente e si contraeva sulle ginocchia. Si fece violenza per uscire dal furgoncino e tornare a casa. Poi, all'improvviso, fu colpito da un'idea e fece dietrofront. 14 Marcel depose il pesante dossier sulla scrivania di Jean-Jean e bevve un sorso di caffè tiepido. Madeleine era morta, lui beveva il caffè e lo trovava senza zucchero. La vita era cinica. Puntò l'indice su Jeanneaux. «L'assassino la conosce.» «Lo penso anch'io» annuì l'altro, immerso nelle sue carte. «È al corrente dei nostri spostamenti, dei nostri progetti» riprese Marcel. «Si diverte con noi, ci provoca. Perché? Ne sa abbastanza su di lei da conoscere la sua macchina, il suo numero di telefono, il suo indirizzo...» «Esatto. Conclusione?» «Cerco di capire. Se riprendiamo la pista laboratori/furgoncini, ci ritroviamo con due tizi che non possono essere l'assassino.» «Il bambino della sua amichetta forse l'ha presa per il naso...» «Forse. Ho uno di quei mal di testa...» «Vuole una pasticca? Ci devono essere delle aspirine nel cassetto di Mélanie.»
«Che cosa dirò ai bambini?» mormorò Marcel, mentre ingoiava distrattamente un'aspirina con il fondo del caffè. Jean-Jean fece finta di non aver sentito. Non aveva nessuna voglia di consolare un vedovo desolato. Era sempre stato a disagio davanti alle manifestazioni di sgomento. Squillò il telefono, liberandolo momentaneamente dal dolore del povero Blanc. «Pronto?... Quando è successo?... Aspetta,» (staccò un foglio dal blocco) «ripeti... OK!» Riattaccò. «Una donna anziana è stata investita da una Express Renault blu. Quello che ha chiamato dice che il furgoncino si è diretto di proposito sulla vecchia. Andiamo» concluse. Chiuse la fondina, infilò una leggera giacca a vento. Marcel lo seguì. Se fosse stata un'altra sera, sarebbe stato felice di seguire un'indagine. In questo caso, gli sembrava del tutto normale. Pensò a Nadja, che non sapeva che Madeleine... Arrivarono rapidamente sul posto. Un'anziana donna giaceva sul selciato, con il cranio sfracellato. Un tipo grande e grosso dall'aria inebetita non smetteva di scusarsi con tutti: «Se avessi saputo non l'avrei sbattuta fuori, se avessi saputo...» Jean-Jean gli diede una pacca sulla spalla. «Capitano Jeanneaux. Mi può spiegare cos'è successo?» Marcel si avvicinò al corpo. Secondo (o doveva dire terzo?) cadavere della giornata... Ma gli sbirri che rilevavano le tracce dei pneumatici lo mandarono via. Scorse vagamente un lenzuolo bianco gettato su una sagoma dagli angoli strani, ritornò verso Jean-Jean. «Incomprensibile» gli disse quest'ultimo. «La vecchia ha cercato di dormire nella gabbia dell'ascensore. Il portiere l'ha sbattuta fuori, hanno litigato e all'improvviso un furgoncino le è piombato addosso. E via, il gioco è fatto! Tutto i testimoni sono d'accordo su questa versione.» «Se era il nostro uomo, è diventato pazzo» borbottò Marcel con apprensione. «Non pensa che lo fosse già un po', no?» ringhiò Jean-Jean, accendendosi la penultima sigaretta. Gli uomini dell'ambulanza caricavano il corpo in un sacco di plastica grigia. Il lampeggiatore lanciava bagliori da discoteca sulla scena, conferendole un'aria irreale.
Marcel e Jean-Jean camminavano piano. Jean-Jean fumava. Marcel si immobilizzò. «Se ha ucciso Georges è perché Georges aveva scoperto qualcosa.» «Georges? Ma se non era nemmeno capace di trovare il buco della serratura.» «Senta, abbiamo un tizio che quasi sicuramente ha lavorato in o per un laboratorio dove si praticava la vivisezione. Era entrato in contatto con Martin e lo ha ucciso perché Martin poteva portarci a lui. E ha ucciso Georges per la stessa ragione. Perché Georges aveva scoperto che aveva ucciso Madeleine!» «E perché avrebbe dovuto uccidere Madeleine?» «Forse perché era il suo amante?» suggerì Marcel, facendosi anche lui la stessa domanda. «Blanc, sta parlando di sua moglie!» protestò Jeanneaux poco convinto. Marcel fece una smorfia: «La smetta con questa commedia, d'accordo?» «Blanc, comincia a darmi sui nervi» si alterò Jeanneaux che ne aveva piene le scatole di queste geremiadi. «Le dovrei dare un pugno sul muso» disse Marcel come se stesse constatando un dato di fatto. «Lei è proprio fuori di testa.» In quel momento si avvicinò un agente. Aveva un oggetto che faceva girare tra le dita. Jean-Jean si girò e abbaiò: «Che c'è?» «L'ambulanza ha finito, capitano. Possiamo andare?» «Sì.» L'agente tese il berretto di lana a righe a Jean-Jean. «Era per terra.» Marcel diede una spinta a Jean-Jean e si mise a correre verso la macchina. «Cristo, capo, venga!» «Che ti prende?» «Presto, santo cielo, penso che ci siamo!» Jean-Jean esitò per un attimo, poi corse dietro a Marcel che si era messo al volante. «Le chiavi!» Jean-Jean gli lanciò le chiavi. Marcel mise in moto. Jean-Jean ebbe appena il tempo di sedersi, Marcel partì in tromba.
Pensieri scuciti, mentre correva come un pazzo fino alla piazza. Il berretto a righe della vecchia che gli aveva detto di aver visto Madeleine mentre cercava di entrare da Paulo! Paulo, quello stronzo! Paulo col suo sorriso da faina, gli occhi da roditore. Delitto di fisionomia, agente Blanc. Paulo, figlio di puttana, se è vero, ti farò passare la voglia di... Di che cosa, infatti? Di uccidere le persone per cucirle insieme? Marcel frenò di colpo. Erano arrivati. Jean-Jean non aveva detto nulla. Indifferente ai sussulti, fumava, impassibile, il braccio fuori dal finestrino. Scosse via la cenere e si girò verso Marcel, con aria imperiale. «Allora Blanc? Sto aspettando le sue spiegazioni.» «Abita qui dietro.» «Sia più preciso.» «È un po' complicato.» Marcel parcheggiò a dieci metri dal cancello, fari spenti. Il furgoncino non era in vista. «Ha una pistola per me?» chiese a Jean-Jean. «Nel cruscotto. Ma io...» «OK, andiamo.» Prima che Jean-Jean potesse protestare, aprì senza rumore la portiera e scese. Al capitano non restava che imitarlo. Marcel spinse il cancello arrugginito: chiuso a chiave. Lo scalarono rapidamente, poi, piegati in due, corsero senza rumore fino alla porta d'ingresso. Jean-Jean si vedeva già mentre gli ritiravano il distintivo. Marcel si chinò verso di lui, sussurrò: «Faccio il giro da dietro. Contiamo fino a dieci ed entriamo.» «Blanc, se mi fa fare una stronzata...» «Si fidi, cazzo!» Senza aspettare la risposta di Jean-Jean, Marcel corse fino alla finestra della cucina. Il cuore gli batteva a tutto spiano. In casa era tutto buio. Contò fino a dieci poi fece scivolare la mano nel buco del vetro e girò la maniglia. La finestra si aprì. La voce di Jean-Jean si alzò: «Polizia! Aprite subito!» Nessuna risposta. Marcel procedette nel buio sul pavimento appiccicoso della cucina. Appiccicoso? Il sudore lo accecava e non osava asciugarsi la fronte. Il rumore della porta che si apre di colpo. Per poco Marcel non sussultò. Il fascio della torcia tascabile che ritagliava le volute di polvere. Marcel raggiunse lo stipite della porta. Un respiro oppresso in soggiorno. Un solo respiro. Chiamò a mezza voce:
«Capo?» «Sì.» Jean-Jean fece luce. Il soggiorno era vuoto. Marcel e lui procedettero lentamente verso il bagno. La porta era spalancata e non c'era nessuno. Restava la camera. Marcel coprì Jean-Jean, mentre questi apriva il battente con un calcio. Niente. La baracca era vuota. Jean-Jean rimise a posto l'arma. «Be', se ci spiegassimo un po'. Qui dove siamo?» «È scappato. Bisogna trovarlo. È stato lui a uccidere Madeleine.» «Come fa a saperlo?» Marcel fece un lungo sospiro. «È un mio amico. Questo pomeriggio, sono venuto qui, gli ho chiesto se aveva visto Madeleine. Mi ha detto di no. Abbiamo litigato. Mentre me ne andavo una vecchia barbona mi ha fermato. Mi ha detto che Madeleine era venuta qui, ieri, che era entrata dalla finestra della cucina. Sono tornato indietro. Mi ha detto che aveva mentito per coprire Madeleine. Che lei era venuta qui a sua insaputa per recuperare delle foto.» «Che tipo di foto?» «Secondo lei? Foto di lei con il suo amante.» «Sa chi è l'amante?» «Sì.» «Chi è?» «Lei.» Jean-Jean si bloccò di colpo. «Quel tipo le ha detto che io e sua moglie...» «Sì.» «E lei gli ha creduto?» «Sì.» «Perché ha cambiato parere?» «La vecchia. È lei che è stata messa sotto.» «Cazzo!» «Questo pomeriggio era qui vicino ed è morta» riprese Marcel. «Madeleine è venuta qui ed è morta. Georges è andato al garage ed è morto.» «Al garage? Vuol dire che siamo a casa di uno dei meccanici del garage Palace?» «Esatto.» «Ecco perché il nostro assassino sapeva tante cose su di me!» «E ha una Express blu.»
«Come si chiama?» «Paulo, Paulo Contadini.» «Il nome della macchina! La Polo!» gridò Jean-Jean dandosi una manata in fronte. «Che cosa?» «Il barbone che Costello ha portato ieri diceva di aver lavorato con un sadico che aveva un nome di macchina: Polo, Paulo! Diramo un comunicato.» Jean-Jean uscì rapidamente, accese la radio e diffuse la segnalazione di Paulo, con ordine di mettere posti di blocco a tutte le uscite della città. «Non sappiamo quanto anticipo abbia su di noi. Lei che ne pensa, Blanc?» «La vecchia è morta verso l'una... Quasi due ore.» «Lo conosce. Dove può essere andato?» «Non lo so.» Un'angoscia sorda pesava sul petto di Marcel. L'immagine di Nadja si fece strada. Poi quella di Momo. Momo chiuso nella conduttura. Dall'uomo del furgoncino. Da Paulo. Compose rapidamente un numero. «Che cosa fa?» «Devo chiamare qualcuno?» Il numero di Nadja suonava all'infinito. Marcel riattaccò, le mani tremanti. Mise Jean-Jean al corrente, in fretta. Questi annuì e mise in moto. Marcel chiuse gli occhi, lasciando che il vento tiepido gli frustasse il viso, i denti ostinatamente serrati. Jean-Jean frenò davanti al palazzo di Nadja. Marcel era già fuori, arma in pugno. Fece le scale a quattro a quattro. Suonò. Nessuna risposta. Fu allora che notò la porta socchiusa. Fu scosso da un brivido. Rivide la porta socchiusa dell'appartamento dell'obeso. La stanza tappezzata di sangue. Jean-Jean lo raggiunse, senza fiato. Marcel gli indicò la porta con un gesto del mento. Jean-Jean gli strinse la spalla e sbatté la porta con violenza contro il muro, gambe aperte, in posizione di tiro. La stanza era vuota. Sul tavolino, i bicchieri del tè erano rovesciati. Non c'era rumore. Neppure un respiro. Nessuno russava. Marcel procedette verso la seconda stanza. La morte, c'era la morte. Una stanza da donna. Il letto sfatto, ma vuoto. Marcel strinse le dita sul calcio dell'arma. Proseguirono nel corridoio. Da qualche parte nel palazzo, qualcuno stava ascoltando musica rap. In cortile un motorino partì scoppiettando.
Una porta bianca su cui c'era una foto di Momo mentre dormiva. JeanJean spinse la porta, che resistette. Spinse di nuovo. Lentamente, come una foglia caduta da un albero, una mano apparve nello spiraglio. Una mano di vecchio, scura, dalle unghie tagliate, dalle dita callose. Marcel si slanciò per primo. Il corpo del vecchio arabo bloccava la porta. Dalla gola tagliata usciva un fiotto di sangue. Visione quasi familiare. Il lettino del piccolo era vuoto. La stanza era sottosopra. Le palle di metallo di un gioco di bocce erano scivolate ovunque. Marcel si voltò. Gli si fermò il cuore. Ai piedi del letto, Nadja, supina. La voltò prima che Jean-Jean potesse intervenire. Occhi chiusi, labbra semiaperte, una grossa ecchimosi sulla tempia, sangue sulle dita. Le posò la mano sul cuore. «È viva.» Le sue dita cercavano l'origine del sangue. Una ferita dietro la testa. Jean-Jean era al telefono. Marcel lo sentiva parlare, frasi brevi, sentite cento volte. Nadja aprì gli occhi. Il suo sguardo offuscato sembrava vagare sulle cose senza riconoscerle, poi si fece via via più limpido. Marcel! «Marcel!» «Sta arrivando l'ambulanza.» «Ha preso Momo!» «Ce ne occupiamo noi. Non ti preoccupare.» Nadja cercò di tirarsi su. «Resta distesa.» «Non ho niente» protestò lei. «Ha... Ha ucciso Ahmad! Lo ha ucciso e ha preso Momo!» Marcel raccolse una delle palle, macchiate di sangue. Gli occhi spalancati del vecchio lo fissavano. Gli chiuse dolcemente le palpebre... Piano. Nadja si era seduta e, appoggiata al letto, tentava di alzarsi. Marcel la prese in braccio. Jean-Jean li squadrò senza dire niente. Poi, indicando il vecchio, chiese: «Che cosa è successo?» «Mi sono svegliata per un rumore, poi un urlo. Sono corsa verso la stanza di Momo. C'era quell'uomo, teneva Momo per il collo e Ahmad tentava di impedirglielo, poi quello ha alzato il braccio e Ahmad è caduto a terra, il sangue sprizzava ovunque, mi sono precipitata su di lui, l'ho colpito, ha mollato il rasoio, mi sono chinata su mio suocero, ho sentito un gran colpo alla testa e poi più niente. Povero Ahmad, gridava: "Lascia il mio bambino, lascialo!" Lo ucciderà, vero? Ucciderà Momo...»
Marcel pensò che Ahmad, con la gola tagliata, si era comunque trascinato verso la porta per trattenere l'uomo che gli portava via il nipotino. Ma la porta si era richiusa sulla sua disperazione, per sempre. «Perché non ha ucciso anche me?» urlò ancora Nadja. «Per farti soffrire,» gli rispose Marcel «per farti crepare di dolore.» Jean-Jean si grattò la testa. «Georges stava per scoprire qualcosa su questo Paulo. Ne ha parlato a Marron. Bisogna andare all'archivio.» «Bisogna soprattutto trovarlo.» «Forse ci sarà qualche dettaglio che ci metterà sulla pista. Se ha rapito il bambino, è perché se ne vuole servire. Merce di scambio.» «Sa che è fottuto. Non ha più nulla da perdere» obiettò Marcel. «Nessuno vuol mai darsi per vinto. Raggiungetemi là.» A quell'ora in archivio non c'era nessuno. Jean-Jean forzò la porta con la massima tranquillità. C... Compaux, Consigli, Constand, Contadini... Il dossier era contenuto in una smilza cartellina celeste. L'aprì. Lesse le poche pagine ingiallite. Lo richiuse. Ora capiva. Povero vecchio Georges, vittima di una memoria troppo buona. Rumore di passi sulle scale. Marcel apparve, seguito da Nadja, la testa bendata alla bell'e meglio. «Allora?» Jean-Jean gli tese il dossier senza rispondere. Marcel e Nadja lo lessero. Non era stato facile ottenere la deposizione del bambino, era sotto shock, grugniva, voleva mordere chi si avvicinava. Era stato affidato a un istituto di cura e lo psichiatra aveva diagnosticato uno stato di delirio. «L'amante della madre è morto fulminato?» si stupì Nadja. «Può darsi,» disse Jean-Jean «ma non è stato certo il fulmine a portare un'ascia nella stanza! Mio Dio, chi è quel cretino che si è occupato di questo dossier?» Marcel rilesse il verbale del processo: effettivamente, vicino alle ossa dell'uomo erano stati ritrovati i resti mezzi fusi di un'ascia. Restituì il dossier a Jean-Jean. «Lei crede che...» «Non so. Un uomo, una donna, un bambino. L'uomo muore, la donna muore, il bambino sopravvive, divorando sua madre... E c'era un'ascia sul letto. Una notte di temporale.»
«Si direbbe un film dell'orrore» disse Nadja. «Il bello di un film dell'orrore è che a un certo punto finisce.» «Della casa bruciata resta qualcosa?» chiese all'improvviso Marcel. «La Palombière? Non so. Andiamo a vedere. Ho annotato l'indirizzo. Per ora il nostro uomo non è stato segnalato da nessuna parte.» «È passato prima che mettessero i blocchi stradali.» «Credo che lei farebbe meglio a restare qui» proseguì Jean-Jean, rivolgendosi a Nadja. «Mi lasci venire. Se Momo deve morire, voglio esserci. Mi lasci una chance per salvarlo, questa volta.» Jean-Jean alzò le spalle. Sollevò il telefono. «Chiamatemi Costello e Ramirez. Che mi raggiungano a Tanneron. 65 chemin des Grenouilles. Villa La Palombière. No, nessun furgone. Non devono dare nell'occhio. Fari spenti, fermarsi cento metri prima.» Riattaccò, si girò verso Marcel e Nadja. «Bene, andiamo?» 15 La notte era soffice e profumata come un petalo di rosa, calda e dolce come una carezza di gatto. Ma per Momo la notte era un'ustione. L'ometto lo stringeva a sé, lo teneva per il collo, l'avambraccio ripiegato sotto il mento, soffocandolo quasi. I piedi di Momo toccavano a malapena il suolo. Il suo piccolo cuore batteva sotto la giacca del pigiama. Aveva una gran voglia di far pipì e temeva di non poterla trattenere ancora per molto. L'uomo l'aveva portato in campagna. Una campagna tutta nera, senza luna, senza uccelli, mica come quella della tivù. Il canto incessante dei grilli gli faceva paura, come se un esercito di orchi nascosti tra gli alberi affilassero i loro lunghi coltelli. Quel pazzo lo aveva trascinato fuori dal furgoncino, gli sterpi gli avevano graffiato i polpacci e adesso erano nascosti dietro a un muro mezzo crollato, in una casa in rovina. Si sentì la voce rauca di un rospo, vicinissima, e Momo fremette, immaginando la sua lingua bavosa che gli leccava i piedi. L'ometto borbottava tra i denti parole incomprensibili, con voce stridula. Non si era tolto gli occhiali da sole, nonostante la notte buia. Nella sua
mano destra brillava il rasoio che aveva tagliato la gola del nonno. Pensando al nonno, ci mancò poco che Momo scoppiasse a piangere. Era morto come in un telefilm, gridando e poi con gli occhi rovesciati. Gli scappava la pipì! «Mi scappa la pipì» disse. L'uomo lo strinse più forte. «Zitto!» «Ma non ce la faccio più, la devo fare...» «Scappa anche a me» disse bruscamente l'ometto con una strana vocina. Lasciò Momo, che si massaggiò il collo. L'ometto si accovacciò e cominciò a camminare in modo buffo, come una papera. «Anche a Paulo scappa la pipì. Ma ha paura del buio.» «Anch'io ho paura del buio» disse Momo in tono gentile. Forse il signore era pazzo come i pazzi nei video del suo amico Eric. Momo sapeva che bisognava parlarci con gentilezza, come se non ci si acorgesse che erano pazzi. «Tu non sei mai stato nel buio, nel vero buio» disse rabbiosamente l'uomo, il rasoio che gli brillava tra le dita. «No, non ci sono mai stato. Deve fare molta paura... Non bisogna andare nel buio.» «Stai zitto, stronzetto! Il buio è pieno di denti, di denti che ti masticano, che ti ingoiano, che ti succhiano le ossa...» Momo si sentì svenire. Doveva fare subito pipì. Troppo tardi. Gli stava già colando lungo le gambe scure. L'ometto si era sbottonato i jeans e la faceva contro il muro. In lontananza, ecco il rumore di un'auto. L'ometto si riabbottonò rapidamente, afferrò Momo per il collo e lo strinse a sé. «Ma ti sei pisciato addosso, piccolo maiale!» «Scusi, signore, scusi!» «La prossima volta te lo taglio, capito?» «Non lo faccio più, mai più... Mai più!» «Zitto, Cristo!» L'uomo gli diede un gran pugno in testa. Le lacrime sgorgarono dagli occhi di Momo, suo malgrado. Rivide gli occhi tristi del nonno e il sangue rosso che colava dappertutto. Quando sarebbe diventato grande, avrebbe preso un fucile e ucciso l'ometto. Lo avrebbe ucciso con tutte le sue forze. L'auto si avvicinava. L'ometto si mise a digrignare i denti, faceva uno strano rumore nella notte, un rumore per niente divertente. Jean-Jean spense il motore e i fari. Una raffica di vento agitò gli olivi
accanto a loro, lasciando correre riflessi argentei sulla strada. Il canto dei grilli ricordò a Marcel il picnic di domenica. Com'era lontano! Nadja, dietro, non diceva nulla. Marcel si girò verso Jean-Jean. «Che facciamo?» «Vediamo se la sua auto è qui. Bisogna agire con molta cautela. Ha il bambino.» «Grazie, lo sapevamo!» tagliò corto Nadja. Jean-Jean la guardò, sorpreso. Non era mica suo figlio che era stato tanto idiota da farsi rapire da un pazzo? «Perché non chiamate i rinforzi?» propose lei. «Le teste di cuoio o roba del genere...» «Se lo innervosiamo, suo figlio è morto, OK? Perciò ci lasci fare a modo nostro.» Marcel era scivolato fuori dalla macchina, senza rumore, arma in pugno... Jean-Jean scese a sua volta. «Non si muova» sussurrò a Nadja. Lei annuì in silenzio, il volto tirato. Avanzarono lungo il sentiero, attenti a non far scricchiolare i rami e ai movimenti furtivi della notte. Dietro di loro si fermò un veicolo. «Ramirez e Costello» mormorò Jean-Jean. Si fermò accanto a un cipresso. Marcel ascoltava nell'ombra. Passi rapidi. La massa ansimante di Ramirez si stagliò vicino a loro, seguita dalla magra sagoma di Costello. «Che cosa succede?» domandò Ramirez. «Shhhhhhh! Ecco la situazione.» Jeanneaux spiegò rapidamente i fatti. «Avremmo dovuto avvertire la gendarmeria» fece osservare Costello. «Ramirez, sorveglia le auto» ordinò Jean-Jean senza rispondere. «Costello, coprici, venti passi indietro. Quando saremo arrivati all'edificio, prendi il megafono e nasconditi. Blanc, andiamo.» Ramirez guardò Marcel con occhio rancoroso. Da quando in qua i pivelli galoppavano armi in pugno accanto ai graduati? E lui che doveva fare? Badare al traffico, su quella strada deserta? Più in basso, le luci della città scintillavano in un alone di nubi. Un tuono echeggiò dietro le montagne. Il vento divenne più forte. Le foglie si rincorrevano per terra.
Marcel e Jean-Jean rasentavano il muro della proprietà, metro dopo metro. Il tuono risuonò ancora, più vicino, e un lampo gigantesco squarciò il cielo al di sopra del mare. L'aria sapeva di pioggia. Il temporale era vicino. A qualche metro si levavano le rovine del caseggiato. Sotto un grande platano, un furgoncino blu. Marcel lo vide solo quando ci sbatté contro. Era vuoto. Costello non si sentiva tranquillo. Non gli piaceva la campagna. Troppo calma. Nemmeno le mucche, né le fattorie. Troppo calme anche quelle. Aveva bisogno del rumore della città, dell'espresso ristretto, del fumo dei tubi di scappamento. Per lui la campagna era come un nascondiglio in un cimitero. Si aspettava quasi di veder sorgere un vampiro da tutto quel buio, seguito da una schiera di creature smunte e avide. "Hanno i canini", sette lettere. Oltre tutto, aveva tanta sete che a stento riusciva a ingoiare la saliva. Camminò sui ramoscelli che scricchiolarono in modo sinistro. Evocò con delizia l'asfalto fuso sotto il sole di mezzogiorno. L'ometto sudava abbondantemente. Il suo odore acre e forte infastidiva Momo. Aveva un gran caldo, una gran sete, troppo paura. L'ometto non digrignava più i denti, ma respirava forte e in fretta e Momo sentiva il suo cuore battere sotto la pelle, contro il suo orecchio. Pensò con tutte le sue forze: il poliziotto verrà e lo ucciderà, il poliziotto verrà e io ucciderà... Immaginò l'ometto spiaccicato sotto la scarpa gigante di Marcel, liquefatto come un mostro dei cartoni animati, trasformato in gelatina verde vomito, e questo pensiero lo confortò un pochino. L'ometto si spostò di cinquanta centimetri, trascinandosi dietro Momo. Da un pertugio del muro in rovina poteva sorvegliare gli accessi della proprietà. Il vento mugghiava violento, brevi raffiche che scompigliavano gli alberi e piegavano l'erba secca. È una fortuna che si sia alzato il vento, pensò Marcel, procedendo piegato in due, passo dopo passo. Con il rumore che fa, Paulo non può sentirci. Jean-Jean era sparito dietro un muro. Marcel superò una vecchia cassetta delle lettere mezza bruciata dove si leggeva ancora La Palom... Le case più vicine erano ad almeno cinquecento metri di distanza. Un fulmine improvviso illuminò ancora la baia, molto lontano. Marcel si sentiva madido di sudore, come all'uscita di un bagno turco. Era sicuro che Paulo si trovasse da qualche parte dietro quelle rovine. Con Momo. Di sicuro aveva rapito Momo per servirsene come merce di scambio per la sua libertà. Ma per
quanto tempo ancora avrebbe ragionato in modo logico? Il mostro che era in lui poteva prendere il sopravvento in qualunque momento e fare a pezzi Momo. Jean-Jean si immobilizzò sotto la scarica bianca del fulmine. Temeva che la sua sagoma si stagliasse controluce. Il calore era sempre più opprimente. Il vento del sud, pensò Jean-Jean, il vento del sud carico di sabbia. Una pesante goccia si spiaccicò mollemente sul suo braccio nudo. Desiderò con violenza getti di pioggia furiosa, un diluvio irresistibile che gli permettesse di balzare nel cuore delle rovine, nel frastuono e nell'opacità. Una goccia pesante cadde sul viso dell'ometto, rotolò sulla guancia tesa, fino all'angolo della bocca rialzata in un ghigno perenne. Sbatté le ciglia, turbato. Sta per piovere, pensò Momo con un oscuro sollievo, ci sarà un grosso temporale. Sentire il temporale al calduccio nel letto di mamma. Mamma. Le lacrime gli salirono agli occhi, singhiozzò. L'ometto si chinò su di lui, gli incollò la bocca all'orecchio: «Li senti, li senti, i vermi viscidi, i vermi che strisciano, arrivano, vedrai, saliranno lungo le tue gambe per incollarsi alle labbra, per entrare nella tua bocca in grumi brulicanti, shh, zitto, se no ti divoreranno. Non senti che puzza? Non vedi com'è buio? Il sangue cola sulle nostre teste, lo senti colare?» Momo socchiuse gli occhi, soffocato dalla mano potente. Scalciò disperatamente per liberarsi, ma invano. Il temporale scoppiò all'improvviso, annegando tutto sotto la pioggia. La pioggia! Marcel si slanciò sotto il frangersi dell'acqua che le raffiche di vento gli gettavano sul viso. Svoltò l'angolo del muro di cinta. Si fermò di colpo. Le rovine della casa si levavano più o meno all'altezza della cintola, formavano una specie di labirinto. Ogni pezzo di muro poteva ospitare la morte. Protetto da un muretto a secco, Marcel, accovacciato, cercava di squarciare il diluvio con lo sguardo. Un rumore sulla destra. Si girò subito, pronto a sparare. La sagoma curva di Jean-Jean si stagliò sullo sfondo del fulmine. Scivolò fino a lui con un dito sulle labbra. Arrivato accanto a Marcel, sussurrò: «Bisogna chiudere la trappola a tenaglia. Io a destra, lei a sinistra. Costello farà le intimidazioni di rito. Pronto?» «Pronto.» «Andiamo!»
Con un balzo elastico, Jean-Jean si gettò tra l'erba alta, strisciando sotto gli alberi. Marcel lo imitò. Poco oltre il suolo era già una melma fangosa. Aveva l'impressione di recitare in un film di guerra. Sognò per un attimo l'intervento dell'aviazione, mentre i fuochi incrociati della contraerea illuminavano il cielo. Ma c'era solo pioggia tiepida e crepitante. La voce di Costello risuonò all'improvviso, portata dal vento, deformata dal megafono, ridicolmente umana nella tormenta: «Contadini, lascia il bambino ed esci da lì con le mani sulla testa. Sei accerchiato. Non fare l'imbecille.» L'ometto sussultò bruscamente, come se l'avessero morso. La rabbia gli irrigidiva i lineamenti, gli dava la netta sensazione che il marmo gli si infiltrasse sotto la pelle. All'angolo delle sue labbra troppo rosse, un rivolo di bava. Alzò il rasoio. Momo chiuse gli occhi. La pioggia che colava sul viso dell'ometto gli impediva di vedere e non poteva asciugarsi la fronte senza mollare Momo o abbassare la guardia. Non doveva lasciarsi avvicinare tanto da farsi ammazzare. Aveva un vantaggio: conosceva i luoghi come le sue tasche. Qui, proprio dove sono, c'era il grande soggiorno. Dietro di me il caminetto e il televisore sulla destra, accanto al divano di skai verde. Prima di arrivare al soggiorno, bisognava seguire il corridoio, con le stanze su ogni lato. A destra del soggiorno lo studio di papa, chiuso da quando era morto in Algeria. A sinistra, il bagno. La mia casa. La mia mamma. La camera della mia mamma. Riempita dalla Bestia. Dalla risata della Bestia, dall'odore della Bestia, la mamma seduta su Pierrot, fusa con lui, come cuciti insieme. La voce che gridava nella notte, ora taceva. L'ometto girò vivacemente la testa da una parte e dall'altra. Quel silenzio improvviso non gli piaceva affatto. Invece di scemare, la pioggia raddoppiava d'intensità. Uno di quei furiosi temporali estivi, repentini come un attacco di follia e altrettanto devastanti. Il panico gli saliva dentro, proporzionato all'intensità dei fulmini. Le saette... Sentì all'improvviso il calore vivo del fuoco, come se il muro stesse bruciando. Il fulmine si era abbattuto subito dopo che lui aveva regolato i conti con la Bestia-Pierrot. La corsa a perdifiato nella casa in fiamme. Le tende erano torce vive alle finestre. La porta inaccessibile, il corridoio trasformato in lingua di fuoco dalle belle tappezzerie di lino. La cucina rustica di legno che bruciava come un ceppo. La cantina! Sollevare la botola, pesantissima, tirarla su con le sue misere forze fino a farsi scoppiare i mu-
scoli. Mamma! La mamma che urlava ancora per quello che era successo nella stanza. La mamma dalla bocca di vipera, stordita dai calcinacci che le erano franati addosso e che le si consumavano sul viso con un odore di carne bruciata. L'aveva tirata per i piedi, trascinata fino alla botola. Spinta giù per le scale. Fumo. Non posso respirare. Colpi di tosse. Pelle gonfia delle mani, delle gambe, cloc cloc cloc, il viso. Il silenzio buio della cantina. La lastra di cemento si era richiusa, sbattendo al di sopra della sua testa quando le pareti della cucina erano crollate. Scala gelata. Tanto freddo dopo la fornace. La notte. Totale. Scendere gli scalini a quattro zampe, giù c'era qualcosa. Pelle bollente. Mamma. Mamma, svegliati! Non ci seccherà più. Resterò sempre con te. Sarò il tuo ometto, come prima. Hai capito?! Hai capito?! Il viso di mamma, appiccicoso, con pezzi che si staccavano. Mamma. Non si muove più. Per niente. Tremava come una foglia e Momo si chiese se l'ometto avesse freddo. Eppure la pioggia era tiepida. Macchia bianca sull'erba. Momo strinse gli occhi. La macchia si muoveva. Scivolava nell'erba, poi sparì dietro a un mucchio di pietre. Un fantasma? La voce uscì dal megafono. Aveva cambiato direzione e l'ometto si voltò di colpo. «Contadini, esci di lì. Non ti faremo del male. Hai la mia parola di ufficiale di polizia. Lascia il bambino ed esci, mani sulla testa.» Mentre Costello parlava, Marcel e Jean-Jean avanzavano rapidi. All'improvviso, Marcel ebbe un'idea. Approfittare del rumore del vento e della pioggia per salire su un olivo. Da lassù avrebbe avuto una visione d'insieme della situazione. Non sapeva se Paulo fosse armato. Pronunciare, seppur mentalmente, il nome di Paulo gli faceva male. Non riusciva a crederci, a credere sul serio che si trattasse proprio di quel Paulo con cui scherzava tutti i giorni. Cominciò a salire con difficoltà lungo il tronco umido, offrendosi come bersaglio senza difesa, le spalle contratte, aspettandosi uno sparo o un grido di Momo. Ma non accadde nulla e fece una ricognizione dalla vetta, nascosto dal fitto fogliame argenteo. L'ometto rifletteva a tutta velocità. Non mi attaccano perché sanno che ho il bambino. Non mi attaccheranno fino a quando avrò il bambino. Ma cercheranno di intrappolarmi piano piano e bum, un proiettile nel cranio. È questo che vogliono tutti, sin dall'inizio, aprirmi il cranio per infilarci le loro sporche dita. Ma
non mi farò fregare. Si mise spalle al muro. Momo davanti, come scudo. «Se fate un passo gli taglio il collo!» urlò l'ometto con tutta la forza dei suoi polmoni. La voce perforò fievolmente il temporale. Jean-Jean smise di strisciare. Costello portò la mano sull'arma. Marcel scrutava l'oscurità in direzione della voce. Una macchia livida, laggiù, vicino al muro? Momo si dibatteva come un diavolo. Le dita dell'uomo gli scivolarono sulle labbra. In un soprassalto, piantò i suoi dentini nella carne, deciso a strapparne un pezzo. Paulo cercò di liberare la mano, ma Momo non mollava. Il suo primo movimento fu di calare il rasoio sul ragazzino, ma si trattenne a fatica. Ne aveva ancora bisogno. Un fulmine, vicinissimo, illuminò la scena. Marcel li aveva visti. Si mise in posizione di tiro. Impossibile mirare attraverso tutta quella pioggia. E il ragazzino era troppo vicino. Ma vivo. Innegabilmente vivo. Costello aspettava, appoggiato a un albero, l'arma in una mano e il megafono nell'altra. Era zuppo e congelato. Aveva paura dei fulmini, dei tuoni, di tutto quel cosmico gesticolare. E se il fulmine fosse caduto sull'albero? Fece un passo sotto l'acquazzone. E se lo psicopatico fosse sopraggiunto da dietro? Fece due passi sotto l'albero. Beato Ramirez che se ne stava al calduccio nell'auto! Ramirez non stava al calduccio. A testa nuda sotto il temporale, scrutava ansioso la notte. Un fulmine dietro l'altro. Marcel sgranò gli occhi. Più nessuno! Si lasciò cadere giù dall'albero. Corse a zigzag fino al muro. Spuntò Jean-Jean, arma puntata alla testa: "Fermo! Polizia!" poi, riconoscendo Marcel, abbassò il braccio. «È scappato!» gli gridò Marcel. Si misero a correre, saltarono il muro di cinta, per poco Costello non sparò. «Cristo, avvertite! C'è mancato poco che vi sparassi!» «È scappato!» Marcel correva sul sentiero, a lunghe falcate precipitose. Sentiva il fiato corto di Jean-Jean e in lontananza, dietro, i passi di Costello. Il furgoncino era sempre lì. Appena il buio era succeduto al fulmine, l'ometto si era lanciato, con Momo sospeso a una mano. Non sentiva il dolore, se ne fregava del dolore.
Ma, per rabbia, sbatté il bambino contro il muro con tutte le sue forze. Momo si lamentò appena, poi tacque, ormai privo di sensi sotto il suo braccio. Correva piegato in due, come una scimmia deforme, appesantito dal fardello. Giunse sul sentiero, nascosto dalle alte siepi di more selvatiche. Un rapido colpo d'occhio a destra, poi a sinistra. Due veicoli parcheggiati a venti metri da lui, uno rosso e uno bianco. Le macchine dei poliziotti. OK. Scivolò nel fossato, Momo contro il suo fianco, inerme. Superò le auto. Salì sul sentiero. Ritornò lentamente verso le auto. Ramirez faceva su e giù sulla strada, nervoso, zuppo fino all'osso. Nadja, la testa al finestrino, guardava le rovine, indifferente alla pioggia. L'ometto si mise in spalla Momo e cominciò a correre senza rumore. Ramirez gli dava le spalle. Si accovacciò dietro a una macchina. Ramirez non si voltò: scorgeva vagamente qualcosa che si agitava in lontananza, forme indistinte. Gli giunse una voce incomprensibile. Ramirez si girò verso Nadja, una sagoma spuntò da dietro l'auto, qualcosa di duro e doloroso gli affondò nel ventre, risalendo verso il cuore. Urlò. Nadja volle tirar su il finestrino, ma una mano possente l'aveva già afferrata per i capelli e le sbatteva la testa contro il montante della portiera. Il sangue sgorgò dalla ferita appena richiusa. L'ometto le agitò il corpo esanime di Momo sotto il naso. «Mettiti al volante o lo ammazzo. Presto!» Nadja, mezza stordita, scivolò penosamente fino al posto del conducente. Le dita ebbero difficoltà a girare la chiave d'accensione. Accanto a lei, sul sedile del passeggero, sedeva l'ometto, con il rasoio contro la gola di Momo sempre immobile, gli occhi chiusi e la fronte insanguinata. Due sagome livide si avvicinavano, gridando. «Metti in moto, ti dico, o gli taglio la gola...» Il petto di Momo si sollevò in un rantolo. Nadja si asciugò il sangue che le colava negli occhi e mise in moto. Il rasoio incise la pelle del bambino. «No!» gridò Nadja, fuori di sé. «Stai attenta. Dài, accelera...» «Non so guidare.» «Accelera, cazzo!» «Non so guidare, ci ammazzeremo.» L'ometto premette un po' di più la lama del rasoio. Nadja premette l'accelleratore. L'auto partì con uno strepito. Lei cercava di ricordare le rare volte volte in cui, al villaggio, Moussa aveva cercato di insegnarle, tanto
per divertirsi. La pioggia le nascondeva la strada. Lei non sapeva come azionare i tergicristalli e non osava lasciare il volante per premere qualche pulsante. L'ometto abbaiò: «La leva alla tua sinistra, muovila per cambiare le marce. Così. Il primo pulsante a destra per i tergicristalli. No, non quello, l'altro lì accanto. Bene. Adesso premi.» La luce di un lampo squarciò la notte. Poi l'urlo di una sirena dietro di loro. «Più in fretta! Passa alla terza, merda, sei veramente un'imbecille!» Nadja mollò la frizione, male, mise la terza, l'auto sussultò e poi ripartì, sobbalzando. La sirena dietro di loro si avvicinava, «Gira a destra dopo il ponte.» La lancetta del contachilometri segnava 70. Nadja pensò che fosse una pazzia, su una strada bagnata e tutta curve, senza la minima visibilità e con al volante una che non sapeva guidare. Ma in ogni caso non era era più folle di tutto il resto. Marcel, incredulo, aveva visto dei movimenti confusi vicino all'auto, che poi si era messa in moto a singhiozzo. Aveva forzato l'andatura. Il corpo di Ramirez giaceva a terra, inzuppato di sangue e di pioggia, l'addome aperto fino allo sterno, gli occhi fissi sul cielo senza stelle. Costello cadde in ginocchio. «Ramirez!» Gli diede alcuni buffetti sulle guance. «Raymond! Raymond, mi senti? Capitano, bisogna chiamare un'ambulanza, presto...» Jean-Jean stava già aprendo la portiera dell'altra auto. «Non vedi che è morto? Sali!» Sbatté la portiera. «Ma...» balbettò Costello, una mano sul petto immobile di Ramirez. «Sali!» abbaiò Jean-Jean dal finestrino abbassato, mettendo in moto. Costello salì, gli occhi vuoti. Marcel correva sulla strada, sparò sull'auto bianca in fuga. La detonazione fu inghiottita dal vento. Alla sua altezza, Jean-Jean rallentò. Marcel si tuffò sul sedile, livido d'ansia. Il corpo di Ramirez restò offerto alla pioggia. Nadja passò il ponte a tutta birra e girò il volante a destra. Stiamo per morire, pensò rapidamente. L'auto slittò sulla carreggiata, Nadja frenò d'istinto, fecero un testacoda, urtarono un muro, si ritrovarono nel senso giusto. L'ometto si teneva saldo e il rasoio non aveva deviato di un millimetro.
Nadja ripartì in fretta, la testa in fiamme, il dolore che le palpitava nel cranio al ritmo confuso della sua paura. Jean-Jean si infilò sotto il ponte della ferrovia, rallentò. Destra o sinistra? Quella schifosa pioggia non semplificava le cose. Le sue mani infangate stringevano il volante, indecise. Girò a destra come se puntasse alla roulette. A volte gli dei della notte sono più clementi dei croupier. Due fari lontani, davanti. Marcel si raddrizzò sul suo sedile. «Eccoli! Vanno come pazzi...» «Al suo posto farei lo stesso. Costello,» ordinò «contatta Ruggeri, è la sua zona. Che faccia mettere dei blocchi stradali e poi chiami da noi.» Costello assolse tetramente il compito. La voce dei suoi interlocutori gracidava nell'abitacolo che puzzava di cane bagnato. Quando riuscirono a mettersi in contatto con lui, Ruggeri, il comandante della gendarmeria, confermò che avrebbe preso in mano la situazione. Marcel scorse i punti fosforescenti dell'orologio sul cruscotto, le 4 e 10. Tra meno di un'ora avrebbe fatto giorno. Pensò ai suoi bambini. Madeleine... Come era già tutto lontano. Era saltato in un altro tempo, in una nuova vita. L'auto correva sotto la pioggia. Nadja strizzava gli occhi per vedere meglio la strada. Nel retrovisore scorgeva a intermittenza i fari dei loro inseguitori. L'ometto conosceva bene la zona per averla percorsa in lungo e in largo. Le faceva imboccare traverse, provinciali deserte ricoperte di foglie scivolose. Se non ci fosse stato Momo avrebbe lanciato la macchina contro un albero. In ogni caso, andando in quel modo, si sarebbero di certo ammazzati. La polizia istituiva i blocchi stradali sotto la pioggia a dirotto, gli impermeabili di plastica sbattevano sotto la burrasca. Jean-Jean segnalò la sua posizione. Non erano lontani. L'ometto scorse i lampeggianti nella strada sottostante. «Alla prossima, gira a sinistra.» Nadja obbedì, indifferente allo stridìo degli pneumatici, rassegnata. Se non fosse accaduto qui, sarebbe stato alla prossima curva, al prossimo incrocio... Guidava praticamente alla cieca. Il mal di testa non le dava tregua, come denti appuntiti piantati nel cranio.
L'ometto cercava di ricordare il tracciato delle strade. Si girò: quegli stronzi là dietro non mollavano, anzi si avvicinavano a tutta velocità. «Accelera.» «Se accelero ci ammazziamo.» «Se non acceleri lo ammazzo.» Nadja accelerò. Sia fatta la volontà di Dio. Ma il modo in cui Lui si occupava dei vivi non lasciava ben sperare... Momo aprì gli occhi. Aveva male alla fronte, dietro agli occhi. Pioveva: c'era odore di pioggia e odore di... Mamma! Si protese verso di lei in un sussulto, ma la mano di ferro lo inchiodò al sedile. Erano in macchina, il pazzo con la mamma, la mamma guidava la macchina, erano perduti nella foresta... Stava sognando? «Mamma!» balbettò Momo, gli occhi intorbidati dalle lacrime. Nadja girò rapidamente la testa. Momo! Era vivo, parlava! «Momo, tesoro!» L'ometto urlò: «Attenta!» Nadja riportò lo sguardo sulla strada. Il tir spuntò sulla destra, moltiplicando i segnali con i fari. Pigiò sul freno. Nella sua memoria sorsero le immagini del film L'Amante. Poi il viso di Marcel. Pensò a Marcel con violenza, con ferocia, mentre il piede pigiava il freno con tutto il peso e lei girava il volante sulla sinistra. L'ometto alzò il braccio per proteggersi il viso, in un riflesso incontrollabile. Momo si lasciò scivolare in terra, sotto il cruscotto, accovacciato su se stesso. L'autista del tir chiuse gli occhi. La macchina salì sul terrapieno centrale a circa 80 chilometri orari, sradicando i cartelli segnaletici. La testa dell'ometto andò a sbattere con violenza contro il montante della portiera, mollò il rasoio per il colpo. Momo vi poggiò sopra il piede con la pantofola di Topolino. La macchina scivolò nel fossato, rimbalzò sul guardrail, si alzò sul muso, pronta a catapultarsi lungo il versante frastagliato della collina. Poi ricadde pesantemente su se stessa. Breve silenzio. Rumore di una portiera che sbatte, quella del tir. L'autista che avanza con passo incerto, tremante. Il rumore di un motore lanciato a tutta velocità risvegliò l'ometto dal suo stordimento. Aveva un taglio sull'arcata sopraccigliare ed era accecato dal
sangue che gli colava negli occhi. Nadja, sotto shock, continuava a stringere il volante. Sentì la macchina avvicinarsi, girò piano la testa. Purché fosse Marcel! L'ometto apri la portiera, prendendo Momo per la vita. Cominciò a correre sotto la pioggia. Momo si mise a urlare. Nadja saltò fuori dalla macchina, storcendosi le caviglie per via dei tacchi alti. L'autista del tir avanzava verso l'ometto, tendendo la mano. «Aspetti! L'aiuto!» L'ometto lo urtò con la spalla, senza fermarsi. L'altro lo guardò mentre lo superava, con gli occhi sgranati. «Lo fermi! Le ruberà il camion!» urlò Nadja, sorpresa dalla forza della sua voce. Un camion immobile, fumante sotto la pioggia, un'auto col parabrezza in frantumi, pezzi di vetro, odore di gomma bruciata, Nadja esitante, Contadini che correva, il bambino in braccio e il camionista con le mani in mano: Jean-Jean frenò disperatamente. Marcel e Costello schizzarono fuori dalla macchina, armi in pugno, pronti a far fuoco: «Alt!» gridò Costello. «Non sparate,» urlò Nadja «ha preso Momo!» L'ometto si aggrappò con una mano alla maniglia di ferro, tirando Momo sul predellino. Non mi prenderanno mai, mail Meglio crepare col bambino! Meglio gettarsi col camion in un burrone. Esplodere come una stella. Illuminare il cielo come un fottuto fulmine. Bruciare, bruciare, finalmente all'inferno, dove tutto è brace e cenere e fremiti oscuri. Attirò a sé Momo. Marcel fece un passo avanti. Jean-Jean lo trattenne. Nadja si morse la mano. Il camionista, inebetito, rabbrividiva sotto la pioggia fitta. I primi raggi dell'alba attraversarono le fronde degli alberi. Quando l'uomo lo aveva sollevato, Momo aveva preso il rasoio, lo aveva nascosto sotto la coscia. Non rifletté, non pensò, non si fece nessuna domanda: tese la mano e la lama affondò nel bassoventre dell'uomo come un coltello nel burro. L'ometto urlò, la testa rovesciata all'indietro, come il lupo furioso che era. Momo ricadde a terra e si mise a correre verso sua madre. Prima che Jean-Jean avesse potuto proferir parola, Costello apri il fuoco.
Scaricò l'intero caricatore dell'arma sul corpo vacillante dell'ometto, che i colpi facevano rimbalzare contro la portiera della cabina. Il sangue schizzava dal corpo come l'acqua da un sacchetto di plastica bucato. Nadja si stupì di non provare nessuna emozione, nessun orrore davanti a quell'uomo che moriva. Costello sparò ancora, ma l'arma era scarica. Sospirò a lungo prima di rinfoderarla, dispiaciuto. Jean-Jean correva verso il corpo inerme che era rotolato giù dal predellino. Nadja stringeva Momo, accarezzandogli senza posa i capelli, sussurrandogli cose dolci. Marcel si avvicinò a loro. I baffi rossi gocciolavano di pioggia, dandogli un'aria buffa da gatto bagnato. Nadja gli sorrise, il viso sporco di croste e sangue. Il camionista evitò accuratamente Costello, in piedi, le braccia penzoloni nell'odore di polvere, e si diresse verso Jean-Jean. Come se l'alba annunciasse l'inizio di un nuovo atto, la pioggia si fermò di colpo. Una sirena della polizia in lontananza. Marcel camminò verso l'ometto e si chinò su di lui. Le labbra rialzate sui denti aguzzi, gli occhi spalancati, sembrava ancora pronto a mordere. Marcel. Chino su di me. Ultima visione del mondo. Quella faccia da idiota che mi guarda. E al di sopra, la stella del mattino. Marcel alzò le spalle e tornò verso Nadja. Sollevò Momo da terra e se lo mise in spalla. Al bambino ciondolava la testa, smarrito tra il sonno e l'emozione. Nadja posò la mano sul petto di Marcel. «Ti devo dire una cosa...» «La so.» Lei lo guardò, sorpresa. «Non lo sa nessuno.» «Io sì. Dimentichi che vivrai con un poliziotto.» «Lo sai e non te ne importa?» «Me ne frego. Non voglio più sentirne parlare e basta.» «Avevo bisogno di soldi.» «Me ne frego anche delle tue scuse. Ti amo.» Il furgoncino della gendarmeria, seguito dalla polizia stradale, si fermò accanto a loro. Un graduato ne uscì e si diresse verso Jean-Jean. Costello fumava lentamente, tiro dopo tiro, con attenzione. Si chiese se i piccoli predatori dei campi avessero già attaccato il corpo di Ramirez.
Arrivò l'ambulanza. Un infermiere diede una pasticca al camionista del tir, sotto shock. Un altro toccò la testa di Nadja, esaminò rapidamente Momo tra le braccia della madre, si fece promettere che l'indomani sarebbero passati in ospedale. In uno slancio di amicizia virile, Jean-Jean strinse la mano di Marcel. Povero Blanc, la sua prima moglie si era appena fatta uccidere e lui si sarebbe risposato con una puttana di colore. Certo che alcuni se li andavano proprio a cercare, i guai. Ma era un bravo poliziotto. Lo avrebbe raccomandato per una promozione. Marcel strinse la mano di Jean-Jean. Jean-Jean era uno stronzo, ma un buon poliziotto. Non è mai tutto bianco o tutto nero. Era come per Nadja. Non era perfetta, ma era lei che voleva. Nadja rabbrividiva per il freddo, la stanchezza, la tensione nervosa. Marcel e Jeanneaux si stringevano la mano con quell'aria importante da uomini fieri di sé. I baffi di Marcel penzolavano come pelo di cane bagnato. Aveva voglia di accarezzarli, si trattenne. Jean-Jean era un macho, Marcel un brav'uomo e un uomo coraggioso, il grigiore della notte cedeva il posto ai colori luminosi dell'alba e suo figlio era vivo. Momo si era addormentato. Alle sei e cinque, quel martedì 24 agosto, il mio corpo è partito per l'obitorio. EPILOGO Due ore dopo, il verdetto era pronunciato: io, il re dei predatori, il Sarto della Morte, dovevo ritornare sulla terra sotto forma di una stupida poliziotta ed essere integrata nella squadra di Jeanneaux! Da allora, la mia morte è un inferno. FINE