JEAN-CHRISTOPHE GRANGÉ LA LINEA NERA (Le Ligne Noire, 2004) A Priscilla IL CONTATTO 1. I bambù. L'avevano guidato fino a lì, fra le muraglie fruscianti e per i sentieri della giungla. Come le volte precedenti, gli alberi gli avevano sussurrato la direzione da prendere, gli avevano mormorato come agire. Era sempre stato così. In Cambogia. In Thailandia. E ora qui, in Malesia. Le foglie gli sfioravano il viso, lo chiamavano, gli davano il segnale... Ma ecco che gli alberi gli si rivoltavano contro. Ecco che lo prendevano in trappola. Non sapeva come fosse successo, ma i bambù gli si erano stretti intorno, chiudendolo in una prigione senza via d'uscita. Fece scorrere le dita lungo la porta. Nessuno spiraglio. Grattò il pavimento per tentare di scostare le tavole. Invano. Alzò gli occhi verso il soffitto, ma vide soltanto le palme. Da quanto non respirava? Un minuto? Due minuti? Un calore da bagno turco riempiva l'ambiente. Aveva il viso madido di sudore. Si concentrò sulle pareti della cella: ogni interstizio era otturato da fili di giunco. Se riusciva a districarne uno, forse l'aria sarebbe passata. Tentò con due dita: impossibile. Dopo qualche secondo graffiò il muro, si spezzò le unghie. Colpì la parete con rabbia e si lasciò cadere sulle ginocchia. Sarebbe crepato. Lui, il maestro dell'apnea, sarebbe morto in quella capanna, per mancanza di ossigeno. Allora, di colpo, si ricordò della vera minaccia. Lanciò uno sguardo alle sue spalle: le scie scure avanzavano verso di lui; lente, dense come colate di catrame. Il sangue. L'avrebbe raggiunto, sommerso, soffocato... Si rannicchiò gemendo contro la parete. Più si agitava, più si sentiva crescere dentro il bisogno di respirare: una fame d'aria che gli torturava i polmoni, gli saliva alla gola come una bolla avvelenata. Si mise carponi e seguì la linea d'angolo del pavimento, sperando di tro-
varvi una fessura. Mentre avanzava piano a quattro zampe si voltò di nuovo. Il sangue si trovava ormai a pochi centimetri da lui. Urlò, la schiena contro la parete, piantando i talloni sul pavimento, tentando di indietreggiare. La parete cedette alle sue spalle. Nella cella irruppe un grande getto bianco misto di paglia e polvere. Delle mani lo strapparono da terra. Percepì grida, ordini in malese. Vide, giù in basso, le palme, la spiaggia grigia, il mare indaco. Respirò a pieni polmoni. C'era nell'aria un odore di pesce. Due nomi gli esplosero nel cervello: Papan, il mare della Cina... Le mani lo trascinarono via mentre alcuni uomini si sporgevano sulla soglia della capanna. Fu preso a pugni, ferito con arpioni. Incassava tutto con indifferenza. Non aveva che un pensiero: adesso che era stato liberato, voleva vederla. La fonte del sangue. L'abitatrice della penombra. Diresse lo sguardo verso la porta divelta. Nel fondo, una giovane nuda era legata a un patibolo di fortuna. Il suo corpo - cosce, braccia, torace, viso... - era tutto lacerato da ferite, decine di ferite. Era stata dissanguata. Era stata squarciata perché si riversasse in flussi lenti e continui sul pavimento. In quell'istante capì la verità: quell'oscenità era opera sua. Attraverso le grida, i pugni che gli tempestavano il viso, ammetteva la terrificante realtà. Era lui l'assassino. L'autore dello scempio. Distolse gli occhi. L'orda dei pescatori scendeva verso la spiaggia, trascinandolo con furore. Attraverso le lacrime, scorse la corda che oscillava all'estremità di un ramo. 2. [Esclusivo.] UN SERIAL KILLER AI TROPICI? 7 febbraio 2003. Le undici del mattino, ora locale. A Papan, piccolo villaggio nel sultanato di Johore, sulla costa sud-est della Malesia, è una giornata come le altre. Turisti, commercianti, marinai s'incrociano sulla strada che costeggia la grande spiaggia di sabbia grigia. D'un tratto risuo-
nano delle grida. Un gruppo di pescatori si agita sotto le palme. Alcuni di loro sono armati: bastoni, arpioni, coltelli... Imboccano il sentiero in fondo alla spiaggia e salgono lungo un pendio in mezzo alla foresta. Hanno gli occhi accesi di odio, i volti trasudano violenza, desiderio di uccidere. In breve tempo raggiungono una seconda collina, dove la giungla tradizionale cede il passo a una foresta di bambù. A quel punto s'impongono la calma, camminano in silenzio. Hanno individuato quello che cercavano: il tetto mimetizzato di una capanna. Si avvicinano. La porta è chiusa. Senza esitare, piantano gli arpioni su una parete e la divelgono. Quello che si presenta ai loro occhi è qualcosa di infernale. Un uomo, un mat salleh (un bianco), a torso nudo, è raggomitolato vicino alla soglia, in trance. In fondo alla capanna, legata a una sedia, una donna. Il suo corpo è ridotto a una piaga grondante sangue. L'arma del delitto è posata ai suoi piedi: un coltello da sub. I pescatori s'impadroniscono del colpevole e lo trascinano verso la spiaggia. Hanno già preparato la forca. Nuovo colpo di scena: proprio in quel momento interviene la polizia di Mersing, una città situata dieci chilometri a nord di Papan. Allertata da alcuni testimoni del fatto, arriva giusto in tempo per evitare il linciaggio. L'uomo viene salvato e incarcerato nella sede centrale di Mersing. Questa scena stupefacente si è svolta tre giorni fa, non lontano dalla frontiera con Singapore. A essere sinceri, non è poi così sorprendente come sembra a prima vista: i casi di esecuzione sommaria sono tuttora frequenti nel Sudest asiatico. Ma questa volta il protagonista è insolito. È francese. Si chiama Jacques Reverdi e non è uno sconosciuto. Ex sportivo di fama internazionale, fra il 1977 e il 1984 ha battuto diverse volte il record mondiale di apnea in assetto variabile assoluto «no limits» e in assetto costante. Abbandonata l'attività agonistica a metà degli anni Ottanta, l'uomo viveva da oltre quindici anni nel Sudest asiatico. Istruttore d'immersione subacquea, oggi quarantanovenne, si muoveva fra la Malesia, la Thailandia e la Cambogia. Secondo le prime testimonianze era un uomo sorridente, socievole, ma anche un solitario che amava vivere alla Robinson Crusoe nelle piccole baie isolate del litorale. Cos'è accaduto il 7 febbraio 2003? Come ci è finito il cadavere di una donna nella capanna in cui quest'uomo abitava da parecchi mesi? E perché i pescatori malesi hanno voluto subito rendersi giustizia da sé?
Jacques Reverdi era già stato arrestato nel 1997, in Cambogia, per l'assassinio di una giovane turista tedesca, Linda Kreutz. Per mancanza di prove era stato liberato. La vicenda aveva però fatto scalpore nel Sudest asiatico. Quando si era stabilito a Papan, tutti lo avevano riconosciuto. E lo tenevano d'occhio. L'hanno visto accogliere nella sua capanna una danese, Pernille Mosensen, e l'apprensione e la paura si sono acuite. Da un po' di giorni la giovane europea non si faceva più vedere al villaggio. Non serviva altro perché nascessero dei sospetti e s'infiammassero gli animi... Secondo i primi comunicati i medici del General Hospital di Johor Bahru hanno rilevato sul corpo di Pernille Mosensen ventisette ferite da «arma bianca perforante e tagliente». Colpi inferti agli arti, al viso, alla gola, e nella zona genitale. Un «accanimento patologico», hanno precisato gli esperti durante una conferenza stampa svoltasi il 9 febbraio. In Malesia i giornali parlano già di amok, quella sorta di follia omicida, con un qualcosa di magico, che s'impossessa degli uomini in queste regioni. Dopo una notte a Mersing, Reverdi è stato trasferito all'ospedale psichiatrico di Ipoh, il più celebre istituto specializzato della Malesia. Dal momento dell'arresto non ha detto una parola. Pare sia in stato di shock. Secondo i medici questa condizione d'incoscienza post-traumatica non dovrebbe durare a lungo. Confesserà il misfatto una volta tornato in sé? O tenterà invece di discolparsi? Noi della redazione del «Limier» ci siamo ripromessi di fare luce su questo caso. All'indomani del suo arresto, la nostra équipe si è recata a Kuala Lumpur, sulle tracce di Jacques Reverdi. Vogliamo ricostruirne i movimenti e verificare se non ci siano state altre scomparse nella sua scia... Nel momento in cui scriviamo queste righe, le fonti esclusive di cui disponiamo lasciano trapelare che le rivelazioni sono solo all'inizio. Nel nostro prossimo numero ne saprete molto di più sul volto nascosto di questo malefico «principe delle maree». Marc Dupeyrat, inviato speciale del «Limier», a Kuala Lumpur 3.
Marc Dupeyrat sorrise nel rileggere le ultime righe dell'articolo. L'«équipe» di cui parlava non comprendeva altri che lui e non si era spinta oltre il IX arrondissement. Quanto alle «fonti esclusive», si riducevano a qualche contatto con l'Agenzia di stampa francese di Kuala Lumpur e i quotidiani malesi. Era tutt'altro che sommerso dalle informazioni. Aprì la casella di posta elettronica, scrisse un breve messaggio per il redattore capo, Verghens, poi allegò il file con il testo dell'articolo. Infilò la spina del suo portatile nella prima presa telefonica che gli capitò a tiro e inviò la mail. Osservando la finestra che segnalava la trasmissione dei dati, fece una riflessione. Quei piccoli aggiustamenti della verità erano una semplice routine. «Le Limier» non si faceva mai prendere dagli scrupoli. Però Verghens avrebbe preteso di più: il suo giornale, specializzato nella cronaca nera, doveva essere sempre un passo più avanti degli altri. Marc era invece indietro di un aereo... Si stirò e contemplò la penombra bruno-dorata che lo circondava: poltrone di pelle e rami lucidati. Da anni Marc aveva eletto a quartier generale quel bar d'albergo di lusso, vicino a Place Saint-Georges. L'aveva scelto perché si trovava a poche centinaia di metri dal suo studio: adorava questa atmosfera da pub inglese, dove l'aroma del caffè si mischiava al fumo del sigaro, dove personaggi famosi venivano a farsi intervistare in tutta riservatezza. Non riusciva a scrivere quand'era solo. Già ai tempi dell'università, anzi del liceo, redigeva le sue tesine nei bar affollati, in mezzo al baccano e ai getti di vapore delle macchine del caffè. Questa presenza gli permetteva di superare la paura che lo prendeva di fronte alla scrittura. E di fronte a sé stesso. Marc temeva la solitudine. La casa vuota dove un estraneo può introdursi per uccidere. Si sentì di colpo invadere da un'ondata di freddo; gli mancava l'aria. A quarantaquattro anni era ancora a quel punto, con i suoi terrori infantili. «Prende qualcos'altro?» Il cameriere in giacca bianca lo fissava ironico, facendo scorrere lo sguardo sulle carte sparpagliate sui due tavolini: «È un bar, signore, non una biblioteca.» Marc si frugò in tasca e trovò solo qualche moneta. Il cameriere aggiunse sarcastico: «Forse un caffè? Magari con un bicchiere d'acqua?» «Con un bicchiere d'acqua. Assolutamente.» L'uomo si eclissò. Marc osservò gli euro che teneva nella mano. Mandavano un debole luccichio sotto le lampade: riassumevano la sua situazione finanziaria. Fece mentalmente il conto delle
sue riserve personali e trovò che erano inesistenti. Non aveva soldi in banca, né altrove. Come aveva potuto arrivare a quel punto? Lui che dieci anni prima era stato uno dei reporter più pagati di Parigi? Posò una moneta sul tavolo e con un colpetto delle dita la fece roteare. Il movimento avvitato della moneta gli suggerì l'immagine di una lanterna magica che proiettasse il film della sua vita. Come avrebbe potuto intitolarlo? Ci rifletté per qualche secondo e optò per Ritratto di un'ossessione. L'ossessione del delitto. Eppure tutto era iniziato in modo innocente. Con il pianoforte. Durante l'adolescenza Marc aveva una ferma convinzione. La sua esistenza sarebbe stata regolata come uno spartito. Corsi di musica al liceo. Conservatorio di Parigi. Concerti e registrazioni di dischi. Pianista, ma per scelta pragmatico. Marc rifiutava qualsiasi pathos, qualsiasi concessione al romanticismo. Quando suonava le Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach non usava mai il pedale per accentuare il carattere matematico dei contrappunti. Quando interpretava Chopin si sforzava di non esagerare mai il rubato della mano sinistra, evitando il rischio di far beccheggiare il pezzo come una vecchia barca che prende acqua. E quando eseguiva un brano di Rachmaninov amava staccare, sulle oscillazioni ternarie della mano sinistra, la melodia a due tempi, con un rigore teso, rettilineo. All'epoca le certezze gli scorrevano sotto le dita. Non prevedeva la minima nota falsa nel suo destino. E invece era sopravvenuta. Con una violenza fulminante, nella primavera del 1975. La scomparsa di d'Amico, il compagno con il quale aveva condiviso gli anni del liceo, fece precipitare la sua vita nel caos. Marc aveva rifiutato mentalmente il fatto. Era sprofondato nel coma e aveva ripreso conoscenza solo dopo sei giorni. Quando si era svegliato non ricordava nulla. Né la scoperta del corpo, né le ore che avevano preceduto l'accaduto. Presto si rese conto che l'incidente non l'aveva semplicemente sconvolto. Il dramma aveva avuto un effetto sotterraneo e perverso. La sua percezione della musica era cambiata. Davanti al pianoforte, provava ora un malessere, un disgusto che gli impediva non tanto di suonare, quanto di interpretare con piena sensibilità. Una crepa che si allargava sempre di più. Tutte le sue speranze vi si affossavano. Il conservatorio, i concorsi, i concerti... Non aveva detto niente ai genitori, né allo psichiatra che lo seguiva dopo la perdita di coscienza. Era riuscito bene o male a conseguire il diploma di musica. Ma la macchina si era rotta. Non poteva più sperare di distinguersi
in mezzo agli altri grandi musicisti, di apportare qualcosa alla grande storia dell'interpretazione. Aveva allora deciso di cambiare strada e si era iscritto alla facoltà di lettere della Sorbona. Stava per laurearsi quando gli morirono entrambi i genitori. L'uno dopo l'altro. Dello stesso tumore. Ancora sotto gli effetti del trauma precedente, Marc visse con distacco la tragedia. In realtà non era mai stato molto legato a quei due farmacisti di Nanterre che non capivano le sue ambizioni. I suoi genitori lo avevano sempre fatto pensare a due graffette pinzate sullo stesso incartamento. Niente a che spartire con i suoi sogni di musicista. Del resto Marc aveva una sorella che ricalcava lo stesso modello piccoloborghese, e lei si affrettò a subentrare nella gestione della farmacia. Laureatosi con una tesi su Apuleio o le metamorfosi del verbo, Marc affrontò il mercato del lavoro. Stese con molta cura il suo curriculum vitae. Si vedeva come un naufrago che consegna le sue bottiglie al mare, concentrando l'attenzione sulle etichette in mancanza del messaggio all'interno. Chi, nell'universo professionale contemporaneo, cercava uno specialista dei poeti neoplatonici? Prese in considerazione tutti i campi suscettibili di mettere a profitto la sua penna: giornalismo, pubblicità, editoria... In fondo, tutto ciò gli era indifferente: soffriva ancora della sua ferita. L'abbandono del pianoforte. Ed ecco il miracolo. Un giornale locale gli inviò una risposta positiva. Un semplice gazzettino, con sede a Nîmes, ma l'importante era altro: lo avrebbero pagato per scrivere! Si dedicò anima e corpo al suo nuovo mestiere. Fu preso da passione per il Sud della Francia e scoprì che tutti i cliché pittoreschi su quella regione erano veri. Il sole, le pianure dorate, i colori pastello della lavanda o del rosmarino. Ogni sensazione era per lui come uno di quei sacchettini di erbe aromatiche che si infilano tra le lenzuola nell'armadio. I profumi gli si insinuavano dentro: dolcezza sommessa, intima, riposta fra le pieghe del suo essere. Gli anni scorsero veloci. Marc fece carriera, cominciò a guadagnare bene. Vendette alla sorella le quote della farmacia di famiglia e si comprò una casa nei dintorni di Sommières. Si fece una cerchia di amici, una cerchia di abitudini, una cerchia di «fidanzate». A trent'anni si era ormai radicato nella regione, il Gard. Il dramma di d'Amico gli pareva lontano, la scrittura costituiva la sola linea direttrice della sua vita, e ora, naturalmente, accarezzava il progetto di un romanzo. Si alzava ogni mattina più presto per creare il «capolavoro». Ma, soprattutto, i suoi disturbi erano quasi scomparsi. Continuava a vedere uno psichiatra a Nîmes e gli incubi si rare-
facevano. Il rosso, quel rosso che a volte gli inondava le pareti del cranio, si schiariva fino a svanire nella polvere dorata del mattino, quando si svegliava. A sua insaputa, un nuovo veleno s'insinuava nella sua vita: la routine. I cerchi concentrici della sua esistenza si rinserravano fino a soffocarlo. Ogni giorno l'anchilosava un po' di più. Si alzava meno presto, giusto in tempo per filare alla riunione del mattino. La sera accendeva il televisore, con il pretesto di aver «sgobbato come un mulo» per tutta la giornata. A poco a poco le preoccupazioni, minuscole ma concrete, della sua vita professionale ebbero la meglio sui suoi sogni di scrittore. Mangiava di più, si appesantiva, e prendeva gusto all'inerzia. Aveva persino ripreso a suonare, ma con lo stesso spirito con cui ci si dà al bricolage. Allora, la incontrò. Subito, non la vide. Come in quei test psicologici dove si sottopongono al soggetto delle carte da gioco impossibili - asso di picche rosso, dieci di quadri nero - e lui non se ne accorge, prendendole per carte normali, Marc associò Sophie alla realtà abituale e non seppe cogliere la sua diversità. Lei era, in poche parole, la carta impossibile. L'aveva incontrata a Saignon, nel parco naturale del Lubéron, all'inaugurazione di un sito archeologico. Su una pietra calcarea erano state rinvenute impronte fossilizzate di animali preistorici. Quel giorno Sophie gli rivolse la parola: era l'addetta alla comunicazione della fondazione che finanziava il cantiere. Lui non la notò neppure. Una dama di fiori rossa. Una regina di cuori nera. Fu necessario che lei insistesse, che lo invitasse diverse volte, in altri cantieri sponsorizzati dalla fondazione, perché lui si rendesse conto che... Sophie corrispondeva, in tutto e per tutto, al suo ideale femminile. Dentro di sé la donna della sua vita se l'era inconsciamente immaginata così. Lei era il sogno latente che non osava definire, per paura che a contatto con il suo pensiero si dileguasse. Ancora oggi non sarebbe stato in grado di descrivere Sophie. Alta, bruna, al tempo stesso precisa e vaga. Si ricordava soltanto di un equilibrio inaudito. Una grazia perfetta. L'aveva sempre pensato, e adesso ne aveva la prova: bisognava infischiarsene del colore dei capelli, della qualità dell'incarnato, della grana della pelle. Quello che conta è l'armonia dell'insieme. La purezza delle linee, il rigore del disegno. Come il prodigio di una melodia che può essere eseguita su qualsiasi strumento senza perderne l'emozione. Altrettanto impossibile dire se amava la sua mente, la sua personalità,
perché tutto, proprio tutto in lei - osservazioni, decisioni, atteggiamenti era permeato di una grazia indicibile. Lui non l'ascoltava: era come rapito. Non l'amava: la faceva oggetto di culto. Non aveva che un'aspirazione: viverle accanto, accompagnare quella bellezza fino in fondo, così come si compie un pellegrinaggio. Voleva veder formarsi le sue rughe, godere della sua bellezza, senza cercare di comprenderla né di penetrarne il segreto. Sperava semplicemente di far parte della sua storia, come un prete che, a forza di preghiere, senza conoscere i disegni di Dio, fa un tutt'uno con la fede. Trovò nuova energia nel lavoro. Da due anni era corrispondente di una grande agenzia fotografica di Parigi. Quando un fatto di cronaca della sua regione poteva rivestire un interesse nazionale lo segnalava subito alla sede centrale e gli veniva mandato un fotografo. Gli capitava così di venire a contatto con reporter di primo piano. Uomini che erano continuamente in viaggio, che vivevano un'altra dimensione della realtà. Marc propose loro una collaborazione - il famoso tandem giornalista-fotografo - su scala internazionale. Gli dettero fiducia. Viaggiò, trattò decine di temi. Etnie remote, miliardari deliranti, guerre di gang: non tralasciava niente. Con una sola condizione: roba inedita, emozioni forti e adrenalina garantite su carta patinata. Le sue entrate aumentarono. Anche i rischi che correva. Vendette la casa di Sommières per tornare a Parigi. Sophie lo seguiva, giacché tutto ciò le era in fondo destinato. Paradossalmente, Marc effettuava quei viaggi per avvicinarsi a lei, per nutrire il loro quotidiano di un materiale incandescente e sublimare la loro relazione intima. Davanti alla sua bellezza, non poteva che diventare un eroe. Questione di equilibrio. Alla fine del 1992 Marc intraprese un importante reportage sulla mafia siciliana. Il suo itinerario toccava diverse città: Palermo, Messina, Agrigento. Persuase Sophie a raggiungerlo alla fine del percorso, a Catania, ai piedi dell'Etna. Fu laggiù, nella città del vulcano, che il dramma si ripeté. Sophie scomparve il 14 novembre 1992. Marc non avrebbe mai dimenticato quella data. La donna sacra, la Pizia, si dileguò nello stesso colore di d'Amico. Il rosso. Perlomeno era quanto lui supponeva, perché non ne aveva alcun ricordo. Quando aveva scoperto il corpo inanime di Sophie aveva perso conoscenza ed era sprofondato in un sonno senza sogni. Tutto si ripeté esattamente come la prima volta. La scoperta. Lo shock. Il coma. Si svegliò in un ospedale parigino. Con molte precauzioni, gli venne
spiegato cos'era successo. Erano trascorsi due mesi. L'avevano trasferito a Parigi. Sophie era sepolta accanto ai suoi familiari, nella regione di Avignone. Marc non riusciva più a parlare. Attorno a lui si materializzarono gli stessi fantasmi: sua sorella, gli specialisti dell'amnesia, lo psichiatra che lo aveva avuto in cura dopo la morte dell'amico. Lui li ascoltava, mangiava, dormiva. Ma provava un'unica sensazione: un sapore di cemento in bocca, come dopo una lunghissima seduta dal dentista. Questo sapore lo pervadeva, si diffondeva ovunque, e lo paralizzava. Marc era come pietrificato, incapace della minima idea, della minima reazione. Ci vollero due settimane prima che potesse alzarsi. Si osservò nello specchio della sua stanza e si trovò dimagrito. La pelle aveva il colore del gesso, e la bocca esalava sempre lo stesso odore di calce. Passato un mese, la sua testa aveva ripreso a funzionare. Capì di aver perso tutto. Non soltanto Sophie, ma anche l'ultimo ricordo di lei. Era quel buco nero a ossessionarlo mentre si aggirava in pigiama per i corridoi dell'ospedale. Quella lacuna temporale, quella pagina cancellata che gli sarebbe mancata sempre e che nessun innesto poteva rimpiazzare. Poi considerò l'entità della propria metamorfosi. Con la morte di d'Amico, aveva perduto il gusto del pianoforte. Questa volta, perdeva il gusto della vita, del futuro, di ogni attività. Entrò in una clinica specializzata, pagata con il gruzzolo ricavato dalla vendita della casa di Sommières. Trascorsero alcuni mesi. Ogni giorno Marc si guardava dimagrire allo specchio. Bianco come un lenzuolo, zigomi sporgenti. Si smaterializzava, perdendo peso anche di fronte al mondo che l'attendeva fuori. Trovò tuttavia una nuova strada: il cinismo. Riprendersi dalla morte di Sophie equivaleva a riprendersi dal peggio. Avrebbe dunque ricominciato il suo lavoro, ma senza scrupoli, né illusioni. Avrebbe lavorato per la grana. Anzi, per il massimo dei soldi. Conosceva sufficientemente i media per sapere che era una sola la strada veramente redditizia: gente famosa e indiscrezioni. Quel mattino si sorrise nello specchio, sotto i baffi che si era lasciato crescere per dare un qualche rilievo al suo viso da asceta. Poiché non c'era più speranza, tanto valeva far fruttare la disperazione. Avrebbe fatto il paparazzo. Non era possibile, per un giornalista, cadere più in basso. Fare il paparazzo voleva dire toccare il fondo. Niente valori, niente principi: tutto è permesso se frutta denaro. Al tempo stesso era un mestiere fatto di tensione, di adrenalina, che esigeva una quantità di indagini: bisognava fare
appostamenti, camuffarsi, fare l'impostore. Senza contare i rischi, molto concreti: essere riempiti di botte e vedersi distruggere l'attrezzatura era tutt'altro che infrequente. Questo mestiere gli offriva tutto quello di cui aveva bisogno. Marc non era fotografo, ma avrebbe condotto le inchieste da investigatore fuoriclasse. Nel giro di pochi anni diventò uno dei migliori nel suo campo. Ossia, uno dei peggiori. Ficcanaso, bugiardo, intrallazzatore. Precipitò in una specie di intermondo: una palude che setacciava alla ricerca dell'oro. Frequentò prostitute d'alto bordo, poliziotti coperti di debiti, informatori semimondani. Imparò a corrompere portinaie, autisti, medici. Diventò esperto nell'arte di frugare fra i rifiuti ma anche in quella d'infiltrarsi nelle serate più esclusive. Venne presto soprannominato «l'Arraffatore». La sua specialità: rubare immagini intime di famiglie che, per una ragione o per l'altra, erano sotto gli occhi dei riflettori. Due genitori erano sopraffatti dal successo mediatico del figlio? Lui era là, sorridente, affettuoso, e intanto intascava con discrezione i ritratti posati sul caminetto. Un padre e una madre erano prostrati dal dolore per il recente assassinio della loro bambina? Lui si mostrava partecipe ma approfittava della disperazione generale per frugare nella scatola da scarpe che conteneva l'archivio fotografico della famiglia. Quando invece la fotografia bisognava prenderla «dal vivo», Marc si faceva affiancare dal miglior fotografo del settore. Un appostamento... a Monaco? Chiamava un alpinista capace di accedere al Principato senza passare per la dogana, scalando la falesia. Un'istantanea del seno di Ophélie Winter? Scovava il fotografo più rapido, uno di quei virtuosi delle Olimpiadi in grado di fare lo scatto perfetto alla partenza dei cento metri. Una scena che si svolgeva di notte, a più di ottocento metri di distanza? Ne parlava a un fotografo animalista, specialista del mondo notturno e geniale inventore di obiettivi a infrarossi. Infine nel 1994 trovò un partner completo, efficace su tutti i fronti. Vincent Timpani, colosso dai capelli lunghi, esuberante, grossolano, ma capace di restare in appostamento per notti intere e ottenere un'immagine nitida in qualsiasi circostanza. Un gorilla che sapeva tenere testa a eventuali guardie del corpo e che non esitava a violare la legge: insieme, in diverse occasioni, si erano intrufolati illegalmente nell'abitazione di qualche personaggio in vista. Rischioso, ma redditizio. Con indosso un bomber, il giubbotto verde degli aviatori inglesi e un berretto nero arrotolato sulla fronte, organizzavano delle vere e proprie a-
zioni commando. Le loro giornate erano piuttosto movimentate, ma l'eccitazione non mancava mai all'appuntamento. Avevano il vento in poppa. A metà degli anni Novanta i rotocalchi francesi si facevano una concorrenza accanita in fatto di gossip. «Paris-Match», «Voici», «Gala», «Point de vue» conducevano una guerra aperta per gli scatti migliori. Marc e Vincent accumularono un'autentica fortuna. Ma Marc non faceva tutto questo per i soldi. Si era a malapena comperato, in contanti, uno studio nel IX arrondissement che non si era nemmeno preso la briga di ammobiliare. Quello che voleva era altro: dimenticare. L'unico risultato di tutta quell'agitazione era l'essere riuscito a tenere a bada gli incubi e a relegare in un angolo della mente l'immagine di Sophie. In profondità non aveva risolto un bel niente. Era comunque una conquista. Ostentava orgoglioso questa sua personalità di mascalzone. Marc era un sopravvissuto. E i sopravvissuti hanno tutti i diritti. 1997. Marc e Vincent scorrazzavano dall'isola di Moustique a Gstaad, da Punta Sperone in Corsica a Palm Beach in Florida. Impossibile fermarsi: la febbre del gossip era al culmine. Marc intuiva che la cosa non poteva durare. Il vento sarebbe cambiato, non per loro soltanto, per tutti. Le riviste erano sommerse dalle immagini indiscrete. E anche dagli atti giudiziari, regolarmente consegnati da un usciere l'indomani dell'uscita del giornale. Le celebrità moltiplicavano le lamentele, le proteste ai dibattiti aperti, negli altri media. E i lettori incominciavano a sentirsi a disagio davanti a tanto voyeurismo. La soglia di tolleranza era ormai vicina. Marc s'immaginava un declino progressivo, una lenta caduta. Non aveva previsto che quel declino si sarebbe compiuto in poche ore. Con la drasticità del taglio di una lama. E la lama fu la notte del 30 agosto 1997. Marc si era sempre disinteressato di Lady Diana: troppa concorrenza. Preferiva lavorare in solitaria, su fatti più singolari, più sorprendenti. Di conseguenza avrebbe dovuto apprendere come qualsiasi altro la notizia della morte della principessa, ossia l'indomani mattina, il 31, dalla radio o dalla televisione. E invece no. All'una del mattino l'aveva chiamato Vincent. Gli ci vollero parecchi minuti per mettere insieme i fatti. Diana e Dodi Al-Fayed inseguiti da un gruppo di paparazzi sulle rive della Senna; l'incidente nel tunnel dell'Alma. Vincent era uno dei fotografi alle calcagna del-
la Mercedes. Al telefono parlava in stile telegrafico snocciolando i dettagli: i corpi incastrati fra le lamiere, il clacson bloccato che rimbombava nel tunnel, i colleghi che avevano continuato a scattare fotografie e quelli che avevano tentato di aiutare i passeggeri. Marc comprese che questo inaudito incidente suonava la campana a morto della sua professione, e della cuccagna. Quella era la visione a lungo termine. A breve termine, capiva che il colosso aveva scattato delle foto. E che mentre gli altri paparazzi erano stati arrestati dalla polizia, lui era riuscito a svignarsela. Per qualche ora Vincent possedeva le uniche immagini sul mercato. Un patrimonio. Marc s'interrogò mentalmente: sono un essere umano o un avvoltoio? In risposta si udì chiedere con tono gelido: «Le fotografie... sono digitali?» Si diedero appuntamento alla redazione di una delle più prestigiose riviste parigine. Vincent doveva prima sviluppare d'urgenza le immagini: aveva lavorato con pellicole tradizionali. Marc arrivò alle due e trenta. Quando vide gli uomini in piedi intorno al tavolo luminoso, con ancora i giubbotti addosso, capì che la situazione era precipitata. Diana agonizzava all'ospedale della Pitié-Salpêtrière. Aveva subito due arresti cardiaci e i medici la stavano operando. Marc si accostò al tavolo dove luccicavano le diapositive. Si aspettava di vedersi davanti carni lacerate, scie di sangue sulla carrozzeria, una macelleria oscena. Scoprì invece il volto diafano, radioso della principessa. Le orbite erano leggermente tumefatte, una goccia di sangue le imperlava la tempia, ma la sua bellezza era intatta. Sotto i segni delle contusioni, Lady D pareva persino di una giovinezza, di una freschezza sconvolgenti. Era un vero e proprio angelo incarnato, con dei lividi, del sangue, e una presenza che stringeva il cuore. Ma c'era un'immagine terribile: probabilmente l'ultima di Diana cosciente. Catturata da un flash, lanciava uno sguardo impaurito dal finestrino posteriore della vettura, verso i fotografi che le stavano dando la caccia. In quello sguardo Marc lesse la verità. La principessa sarebbe morta non per un errore nella guida, e neppure per colpa dei paparazzi che quella sera la seguivano. Sarebbe morta a causa di tutti quegli anni in cui era stata oggetto di un'attenzione morbosa, in cui era stata braccata, spiata, non soltanto dai fotografi ma dal mondo intero. Sarebbe morta a causa della curiosità umana, di quella forza oscura che aveva concentrato su di lei tutti gli sguardi, tutti i desideri. Una caccia che era iniziata nella notte dei tempi.
Con il desiderio di vedere, di sapere, iscritto nei geni dell'uomo. «Vi avverto. Non la vendo, questa.» Marc riconobbe il fotografo che aveva parlato e vide che aveva le lacrime agli occhi. Capì che era l'autore dello scatto del finestrino posteriore; gli altri, quelli di Diana fra le lamiere accartocciate, erano di Vincent. Lo cercò con lo sguardo: il gigante aveva l'aria smarrita, oscillava da un piede all'altro, il casco ancora in mano. Marc passò in rassegna gli altri uomini, i giornalisti di turno, il capo del servizio fotografico, svegliato in piena notte. Tutti lividi, addirittura terrei, con la luce del tavolo che li illuminava dal basso. In quell'istante, senza che venisse pronunciata una sola parola, fu stipulato un accordo: nessuno avrebbe venduto o pubblicato quelle immagini. Alle quattro arrivò la notizia: Diana era morta. Allora la febbre salì. I cellulari non la smettevano di squillare. Le richieste piovevano dalle redazioni del mondo intero. Con la coda dell'occhio Marc osservava Vincent e qualche altro fotografo sopraggiunto con ulteriori immagini. Rispondevano esitanti al telefono, prendendo nota dell'entità del gruzzolo che continuava ad aumentare. Talvolta si guardavano nei vetri della sala di redazione e sicuramente anche loro si interrogavano: esseri umani o avvoltoi? Marc si eclissò alle sei del mattino, dopo aver fatto un patto con Vincent: non avrebbero venduto niente. Stava andando verso l'auto quando squillò il cellulare. Riconobbe la voce, uno dei suoi contatti al Quai des Orfèvres: «Diana. Siamo in attesa del certificato di morte. T'interessa?» Marc immaginò il corpo pallido, steso sul tavolo operatorio. Quel corpo che lui stesso aveva profanato qualche anno prima, passando a un giornale certe fotografie in cui si scorgevano, all'attaccatura delle cosce, dei segni di cellulite. Il giornale aveva pubblicato le immagini ingrandendo e cerchiando di rosso la zona «incriminata». Marc aveva intascato 80.000 franchi per quel reportage d'interesse generale. Ecco in che mondo viveva. Riattaccò senza rispondere. Un'ora dopo il poliziotto richiamò: «Abbiamo appena ricevuto il certificato, via fax. C'è anche il risultato degli esami del sangue. Forse era incinta. Continua a non interessarti?» Marc esitò ancora, per la forma, poi, spinto da un'oscura volontà di toccare il fondo, capitolò: «Ti aspetto al Soleil d'Or fra trenta minuti. Porterò la carta.» Il Soleil d'Or era il caffè più vicino al 36 di Quai des Orfèvres. Quanto
alla «carta», bisognava sempre portare all'informatore una risma standard da infilare nella fotocopiatrice: i fogli utilizzati dagli uffici di polizia erano contrassegnati e in caso di azione giudiziaria costituivano una prova materiale a carico. Un'ora dopo Marc teneva in mano la copia del documento. Due ore più tardi lo proponeva a una delle maggiori redazioni di Parigi. Uno scoop inestimabile. Ma la direzione esitava: niente garantiva l'autenticità di quel certificato e comunque pubblicarlo era davvero spingersi troppo in là, osare troppo. Intanto, fuori, si parlava di linciare i paparazzi e più in generale i media, gli «assassini di Diana». La rivista, ancora incerta se pubblicare o meno, pagò una «garanzia» e preparò un progetto d'impaginazione: fu Marc stesso a scrivere il testo di accompagnamento, lì, sul posto. Ma allora successe qualcosa di incredibile: le segretarie del servizio stenografico rifiutarono di battere a macchina l'articolo. Il troppo era troppo. Questa rivolta fece precipitare la situazione: la redazione rinunciò. E optò per una via di mezzo. L'articolo avrebbe accennato alla possibile gravidanza di Diana, ma pubblicare il certificato era fuori questione. Furioso, Marc afferrò il corpo del reato e andò dritto nelle toilette del giornale. Si chiuse in una delle cabine e appiccò il fuoco al documento. In quell'istante il disgusto gli esplose in gola. Nessun dubbio: era proprio un fetente. Contemplò le fiamme guizzanti fra le dita e decise che con quel mestiere aveva chiuso. Da cinque anni stringeva patti con il diavolo e adesso bruciava, simbolicamente, il suo contratto malefico. Decise di fare un viaggio. Seguendo un impulso ritornò in Sicilia, e dopo due soli giorni si ritrovò a Catania, senza nemmeno averci pensato. Una sorta di pellegrinaggio, salvo che non ricordava niente. Nelle strade di lava nera tentò per l'ennesima volta di far riaffiorare il ricordo delle poche ore che avevano preceduto la scomparsa di Sophie. Quali erano state le ultime parole che si erano scambiati? Nonostante l'amasse sempre come allora, benché non ci fosse un giorno che non pensava a lei, era incapace di ricostruire quelle ore. In Sicilia prese una nuova decisione. Come un uomo che, braccato da anni, si gira verso i suoi persecutori scegliendo di combatterli, Marc decise di voltarsi e di affrontare i propri dèmoni. I suoi cinque anni di attività frenetica, di intrallazzi, di foto indiscrete avevano avuto un unico scopo: confondere le carte, mascherare la questione che lo assillava. Era tempo di dedicarsi alla sua vera ossessione.
Il delitto. Il sangue e la morte. Offrì la sua collaborazione a un nuovo giornale di cronaca nera, «Le Limier». Anche se non aveva le carte in regola per quel tipo di impiego, la sua carriera parlava chiaro del suo talento d'investigatore. A quarant'anni ripartiva da zero. Per la quinta volta. Dopo essere stato pianista, giornalista regionale, grande reporter e paparazzo, adesso si lanciava nella cronaca nera. Gli venne affidata quella giudiziaria. Trascorse le giornate nelle corti d'assise, seguì i crimini più sordidi, osservò gli assassini sul banco degli imputati. Regolamenti di conti, rapine abiette, delitti passionali, infanticidi, incesti... Tutto quello che c'era di più truculento. Marc era deluso. Al cospetto degli accusati, si aspettava di scoprire una verità. Il marchio ancestrale del crimine. Ciò che scopriva era invece più spaventoso ancora: la banalità del male. Facce più o meno pentite, più o meno espressive. Che parevano sempre estranee ai fatti menzionati. Quegli esseri umani che avevano ucciso i propri figli, massacrato il coniuge, sventrato il vicino per una manciata di euro sembravano essere stati mossi da una forza ignota, aliena. Talvolta Marc intuiva esattamente il contrario. La pulsione di distruzione era sempre stata presente in fondo al loro essere. Apparteneva ai geni dell'uomo, al suo cervello primitivo, e attendeva solo un'occasione per manifestarsi. Passarono gli anni. Marc lavorò su centinaia di casi. Processi, ma anche inchieste criminali irrisolte. Conosceva tutti i poliziotti della sezione criminale, i magistrati, gli avvocati. E gli assassini. Era di casa alla Brigade Criminelle del Quai des Orfèvres come lo era al parlatorio di Fresnes. Andava a colazione con i migliori detective e intervistava i peggiori assassini. Cercava, osservava, dava la caccia. Ma ogni volta gli sfuggiva l'essenziale. Non arrivava a contemplare il volto del Male. Non disperava, però: dopo cinque anni al «Limier» aspettava sempre il caso decisivo, la confessione che gli avrebbe finalmente permesso di scoprire la luce nera. Viveva nei suoi paraggi, avrebbe pur finito per sorprenderla. «Un altro caffè, magari?» Il cameriere gli stava nuovamente davanti. Marc controllò l'orologio: le diciassette. Il bilancio della sua vita era durato più di un'ora. Si sfregò gli occhi come se uscisse da un cinema:
«No, grazie. Per oggi basta così.» L'altro lo gratificò di un sorriso soddisfatto; soprattutto perché lo vide raccogliere le carte sparpagliate. Prima di filare Marc fece un salto alle toilette per rinfrescarsi. Si sentiva stropicciato come il fazzoletto di una ragazza in piena crisi amorosa. Si osservò allo specchio. Come sempre, non sapeva decidere a cosa assomigliava di più: pianista, studente della Sorbona, reporter, paparazzo, giornalista del crimine? Con il suo fisico poco slanciato, non si prestava a incarnare nessuno di quei ruoli. Tarchiato, rosso di capelli, baffuto, aveva l'aria di un giocatore di rugby in miniatura, uno che avrebbe fatto parte di una squadra britannica o irlandese. Per ingentilirsi il fisico si era creato un look tutto suo: portava esclusivamente giacche attillate a motivi discreti, color marrone e crema, e camicie bianche con collo all'inglese, di cui lasciava sporgere i polsini. Non era sicuro dell'efficacia del risultato. Nei giorni buoni si trovava molto elegante, molto «british». In quelli meno buoni pensava invece che le sue giacche cioccolato, con riflessi caffè, lo facevano sembrare alla vetrina di una pasticceria. Si sciacquò il viso con l'acqua fresca. Ripercorrere la sua intera esistenza l'aveva estenuato. Chi era oggi veramente Marc Dupeyrat? Lui s'identificava totalmente nella sua ricerca. La passione per il crimine. L'idea lo riportò al tema della sua giornata: Jacques Reverdi. «Un serial killer ai tropici», sul serio? Chiuse il rubinetto e si scostò i capelli dalla fronte. Era ora di andare a vedere il volto dell'assassino. 4. Linee bianche ed essenziali. Spazio zen dalle simmetrie impeccabili. Ogni volta che entrava in quello studio, provava la stessa sensazione. Era un laboratorio di sviluppo professionale, ma faceva pensare a un luogo di meditazione. Un vestibolo dalle pareti bianche, decorate da stampe fotografiche incorniciate di nero. Poi un corridoio illuminato da piccole lampade appese che si apriva sulla stanza delle consegne. I fotografi portavano lì le loro pellicole e tornavano a ritirare le stampe. Anche lì, il bianco, la purezza... tutto sembrava organizzato per creare il vuoto nella mente, il raccoglimento. Persino i tavoli luminosi, parallelepipedi candidi e scintil-
lanti che proiettavano aloni di luce lattea sui visi dei reporter, parevano inginocchiatoi futuristi. Marc aveva appuntamento con Vincent Timpani alle diciassette e trenta. Erano già le diciotto, ma il gigante era sempre in ritardo. Si stava dirigendo verso la caffetteria quando incrociò una faccia nota: Milton Savario, fotografo di origini sudamericane, esponente della casta superiore dei reporter di news. Un asceta famelico, che sembrava sempre sopravvivere tra due guerre. Savario gli fece segno. Si strinsero la mano. Con un cenno del capo Marc indicò le diapositive sparpagliate sul tavolo luminoso: «Non lavori in digitale?» «Non per questo genere di soggetti.» «Di che si tratta?» «La fame in Argentina.» «Posso?» Marc prese il contafili - una piccola lente d'ingrandimento montata su un'armatura cromata - e si chinò sulle foto. Un bambino scheletrico, il viso senza carne, crivellato di fleboclisi, su un letto d'ospedale. Un neonato dal colorito verdognolo, un cranio enorme, in una bara, con piccole ali d'angelo. Un'infermiera con in braccio un ragazzino esanime, le gambe ridotte a lunghe ossa inerti, su una scala grigia. Marc si rialzò: «Non è stata troppo dura?» «Cosa?» «Questi bambini, la fame...» Savario sorrise. Sfoggiava una barba di tre giorni e una nera zazzera irsuta. Pareva si fosse fatto il trucco con il carbone. «Non si muore di fame in Argentina.» «E queste foto?» Il sudamericano infilò le diapositive in una busta, senza rispondere. Ripiegò il contafili, spense il tavolo luminoso. «Ti offro un caffè. Ti racconto il numero di magia.» S'installarono nella caffetteria. Distributori, tavolini, sedie: era tutto bianco. Il fotografo si issò sullo sgabello al banco. «Non c'è la fame in Argentina», ripeté soffiando sul caffè bollente nel bicchierino. «Ci siamo cascati tutti.» Estrasse dalla borsa una stampa del bambino sotto flebo dalle membra deformi: «Poliomielite. Niente a che vedere con la fame.»
«Poliomielite?» «La foto dev'essere circolata per errore. Nelle agenzie. Su Internet. Ci siamo tutti precipitati. La fame in Argentina: sembrava incredibile. Ma laggiù, a Tucumán, nessun segno della fame.» «Cos'hai fatto?» «Quello che hanno fatto gli altri: ho fotografato il piccolo poliomielitico. Hai un'idea di quanto costi il biglietto per l'Argentina?» Marc non aveva bisogno di altre spiegazioni. Una volta fuori con le spese, era inconcepibile che Savario tornasse a mani vuote. Qualche scatto del bambino tutto ossa, qualche altro dei dispensari, dei ghetti miserabili, e il gioco era fatto. C'era sempre un rotocalco pronto ad acquistare quelle immagini e a ricamare sulla malnutrizione. Nessuno mentiva veramente, l'onore era salvo... e non si erano gettati via i soldi. Il sudamericano alzò la tazzina di caffè: «All'informazione!» Marc bevve a sua volta. Lavorava da cinque anni sui fatti di cronaca, e finalmente era uscito dal vortice delle agenzie, ma constatava con cinica gioia che niente, assolutamente niente, era cambiato. Una voce grave si levò alle loro spalle: «Sempre a rifare il mondo?» Marc roteò sullo sgabello e si trovò di fronte a Vincent Timpani. Un metro e novanta, cento chili di muscoli e di carne calati in un completo di cotone chiaro che gli dava l'aria di un piantatore dei tropici. Misteriosamente, pareva che per lui splendesse sempre il sole: era cresciuto a Nizza e conservava una punta di accento meridionale. Salutò Marc e Savario con una risata, poi si diresse verso il distributore di bibite. Savario ne approfittò per tagliare la corda. Vincent tornò verso Marc, una lattina di Coca in mano. Seguì il fotografo con lo sguardo: «Faccio scappare l'eroe o sbaglio?» «Hai le foto?» Il gigante tirò fuori dalla giacca tre buste. Dopo il dramma di Lady Diana era passato alle fotografie di moda, ma qualche volta, in ricordo del passato, accettava di fare qualche scatto per illustrare le inchieste di Marc. Commentò, con un finto malumore: «Mi domando perché perdo tempo a ritrarre questi brutti ceffi. Quando penso alle ragazze sublimi che mi aspettano in studio...» Marc si gettò sulla prima busta. Ne estrasse un ritratto antropometrico di Jacques Reverdi. Lesse la didascalia scritta sotto la foto.
«È quella del suo arresto in Cambogia, non hai quella della Malesia?» «Nossignore. Ho chiamato i ragazzi dell'Agenzia di stampa francese, a Kuala Lumpur. Nessun ritratto ufficiale in Malesia. Reverdi non è rimasto abbastanza a lungo nelle mani della polizia. È stato subito internato in un ospedale psichiatrico e...» «Sono al corrente, grazie.» Marc osservava il volto di Reverdi. Le immagini che aveva visto fino a quel momento appartenevano al passato prestigioso dell'apneista. Fotografie raggianti dove il campione, con addosso una muta da immersione, brandiva la targa che indicava la profondità del suo record. Il ritratto che adesso Marc aveva in mano era diverso. Il viso affilato, duro, rugoso di Reverdi non sorrideva, proprio per niente. Gli angoli della bocca s'incurvavano in un'espressione scontrosa. Quanto allo sguardo, era nero, indecifrabile. Aprì la seconda busta e gli si presentò una ragazza. Quasi un'adolescente. Pernille Mosensen. Occhi chiari, un'espressione angelica incorniciata da capelli neri, molto lisci. E una pelle luminescente. Marc pensò alla polpa lattea di certi frutti esotici. «L'Agenzia di stampa mi ha inviato solo questa», commentò Vincent. «È la fotografia del passaporto. L'ho ritoccata al computer...» L'espressione della giovane danese tradiva la volontà di apparire seria. Tuttavia, malgrado quell'aria compassata, si capiva che in lei vibrava, sotto le ciglia, una giovinezza esuberante. Un sorriso che fremeva sull'orlo delle labbra. Marc la immaginava mentre si preparava al viaggio in Asia sudorientale. Il suo primo grande viaggio... «E il corpo?» domandò. «Nada. L'Alta Corte della Malesia non ha comunicato niente. Non hanno l'aria di voler fare pubblicità.» «E l'altra? La ragazza della Cambogia?» Vincent mandò giù una buona sorsata e spinse sul tavolo la terza busta: «Ho trovato solo questo. Nell'archivio del "Parisien". E ho dovuto fare dei veri miracoli. È una riproduzione dai giornali di Phnom Penh. Si vede la grana della tipografia.» Linda Kreutz era una rossa dai lineamenti delicati, disegnati a piccoli tocchi impalpabili. Una fisionomia leggera, seminascosta dai capelli ricci, che diventava evanescente nella riproduzione sgranata del giornale. La sua espressione si perdeva e assumeva un carattere irreale. Un fantasma. «E per questa, non c'è niente quanto al corpo?»
«Niente di pubblicabile. "Cambodge Soir" mi ha mandato delle foto. La ragazza è stata trovata in un fiume, era morta da tre giorni. Gonfia da esplodere. La lingua come un cetriolo. Impubblicabile: dammi retta. Persino nel tuo giornale di merda.» Marc si mise in tasca le tre buste. Vincent prese un tono complice: «Cosa combini stasera?» La faccia del fotografo ricalcava il modello del corpo: enorme, rossastra, sformata. Una faccia da orco, con una ciocca di capelli che ricadeva sull'occhio sinistro come la benda di un pirata. Teneva sempre la bocca semiaperta, come un grosso mastino ansimante. Gli sventolò davanti un'altra busta, con un grande sorriso stampato sulla faccia: «T'interessa?» Marc lanciò un'occhiata: foto di ragazze nude. Oltre alle fotografie ufficiali per le riviste Vincent realizzava anche immagini composite per le indossatrici debuttanti. Ne approfittava per spogliarle. «Niente male, eh?» Il suo alito puzzava di Coca e di alcol. Marc passò in rassegna il mazzetto di foto: corpi adolescenti, dalle misure perfette; pelli come il latte, senza il minimo difetto; visi dall'eleganza felina. «Le chiamo?» domandò Vincent, strizzando l'occhio. «Spiacente», rispose Marc restituendo le fotografie. «Non sono dell'umore.» Vincent riprese le foto con una smorfia sprezzante: «Non sei mai dell'umore. È questo il tuo problema.» 5. Le facce erano là. Familiari e insieme terrificanti. Contorte, schiacciate, deformate contro le maglie dei giunchi. Jacques Reverdi dominò la paura e le affrontò: vide le guance appiattite, le fronti aggrottate, i capelli aggrovigliati. Gli occhi cercavano di individuarlo nell'ombra. Le mani si aggrappavano alle pareti. Sentiva anche le loro voci soffocate, i sussurri, senza distinguere le parole. Notò poco dopo dei particolari impossibili. Una delle facce aveva le palpebre coperte di cicatrici. Un'altra era senza bocca, fra le guance solo pelle opaca. Un'altra ancora aveva il mento esageratamente sporgente, come se l'osso, girato all'insù, smisurato, fosse sul punto di lacerare la carne. Un'al-
tra era coperta di grosse gocce di sudore, ma questo sudore era fatto di carne liquida: diluiva i lineamenti, li fondeva in un'unica colata. Jacques capì che stava ancora dormendo. Quegli uomini appartenevano al suo incubo ricorrente, quello che non lo lasciava mai. Si sforzò di restare calmo. Sapeva che i mostri non lo vedevano attraverso le fibre vegetali: era al riparo, nell'oscurità. Non sarebbero mai riusciti ad aprire l'armadio di giunco, a tirarlo fuori dal suo nascondiglio. Tuttavia, d'un tratto, sentì la loro mostruosità insinuarsi fra i fili intrecciati, passargli sotto la pelle. Il suo viso si protese, i muscoli si distesero, le ossa scricchiolarono... Gli assomigliava sempre più; diventava «loro». Strinse le labbra per non urlare. La sua faccia si contraeva, si deformava, ma non doveva gridare, non doveva rivelare la sua presenza nell'armadio, non... Il corpo gli s'irrigidì. La gabbia toracica si bloccò. Il suo essere si chiuse al mondo esterno. Immaginò l'arborescenza del suo apparato respiratorio che si chiudeva sulla notte dei suoi organi. Era l'apnea che preferiva, quella più dolce, più naturale. L'apnea notturna che sorprendeva i neonati nel sonno e che talvolta li uccideva. Jacques non dormiva più, ma teneva gli occhi chiusi. Contò i secondi. Non aveva bisogno di orologi né di lancette. L'orologio era il suo flusso sanguigno. Rallentato. Sedato. Nel giro di pochi attimi le voci tacquero. Poi le facce sfumarono. Le pareti di giunchi arretrarono, come se, dall'altra parte, la pressione si allentasse. Era il più forte. Più forte degli occhi, dei mostri, dei... Sollevò le palpebre, lo spirito totalmente vuoto. Inspirò una buona boccata d'aria. Ricevette in cambio qualcosa di amaro e insieme gustoso. Un sorso di tè verde. Dov'era? La coscienza gli tornò a lente ondate. Era disteso. Il caldo lo avvolgeva da ogni lato, nelle tenebre. I suoi cinque sensi cominciarono il loro lavoro di sonda. Sentì il vento bruciante sul viso. Poi un odore greve, inebriante, quasi nauseante: l'aroma della foresta. La vegetazione lussureggiante. Rumori smorzati. Voci. Non avevano niente a che vedere con quelle del suo incubo. Si sforzavano di parlare inglese con un forte accento malese: «Hello... Hello», «Sigarette?» Girò il capo a destra e intravide, attraverso sbarre di legno dipinte di verde, delle facce scure, confuse. Era in prigione? Girò gli occhi verso sinistra. Un cielo notturno lo sovrastava, vibrante di stelle. No. Era all'esterno.
Si sforzò di restare calmo, di analizzare ogni singolo elemento. Era notte. Una notte blu e verde, con gli effluvi dei tropici. Si trovava nel corridoio di una galleria. A sinistra, un grande cortile di cemento. A destra, il muro di sbarre, dietro il quale si agitava un gruppo di detenuti. Dietro di loro era visibile una grande stanza con tanti letti di ferro. Era in effetti in prigione. Ma una prigione a cielo aperto. Per riflesso, tentò di alzarsi. Impossibile: polsi e caviglie erano immobilizzati da cinghie. L'attimo dopo intravide la barra cromata del letto: un letto di ospedale. Simultaneamente, constatò di avere addosso una tunica verde. Anche i prigionieri ne portavano una. Colse un altro dettaglio: avevano tutti il cranio rasato. I loro grandi occhi aperti nell'oscurità assomigliavano a ferite bianche. Sghignazzi, grugniti. Tese l'orecchio e distinse le parole, in malese, cinese, thailandese... Frasi incoerenti. Parole assurde. Gente scoppiata. Si trovava in un manicomio. Un nome gli si presentò alla mente: Ipoh, il più grande istituto psichiatrico della Malesia. Si sentì invadere dall'angoscia. Perché l'avevano trasferito qui? Non era pazzo. Malgrado le facce, malgrado gli incubi, lui non era pazzo. Cercò di ricostruire gli ultimi giorni e si ricordò soltanto delle foglie di bambù, delle pareti intrecciate. Cos'era successo? Aveva avuto un'altra crisi? Dietro di lui risuonarono dei rumori. Una sedia che veniva scostata, un fruscio di carte. In piena notte quei suoni erano ancora più assurdi del resto. Reverdi storse la testa per vedere cosa accadeva. Sotto la galleria, a qualche metro, torreggiava una scrivania di ferro coperta di scartoffie. Il guardiano, che sonnecchiava dietro il tavolo, si alzò nell'ombra e si sistemò la cintura da cui pendevano una pistola, un lacrimogeno e un manganello. Non era quel che si dice un infermiere. Dunque Jacques si trovava nel reparto riservato ai criminali. L'uomo accese una torcia e si diresse verso di lui. Reverdi ordinò in malese: «Tutup lampu tu (Spegnila).» Il sorvegliante ebbe un soprassalto: la voce l'aveva colto di sorpresa. E ancora di più le parole in malese. Dopo un'esitazione spense la lampada e aggirò, con precauzione, il letto. Nell'oscurità, Jacques vide che tendeva la mano verso un interruttore. «Non accendere», ordinò. L'uomo si immobilizzò. L'altra mano era stretta sull'arma. Intorno a loro il silenzio era totale: gli altri prigionieri si erano zittiti. Dopo qualche se-
condo, il guardiano tolse la mano dall'interruttore. Reverdi sibilò: «Non devo vedere la tua faccia. Nessuna faccia. Non adesso.» «Chiamo l'infermiere. Ti faranno un'iniezione.» Reverdi trasalì. Nel giro di un secondo il suo torso si coprì di sudore. Non doveva più dormire. Gli «Altri» lo aspettavano nel sonno, dietro le maglie di giunco. «No», disse a bassa voce. «Questo no.» Il malese sogghignò. Aveva ritrovato la sua sicurezza. Si diresse verso un telefono a muro. «Aspetta!» L'uomo si girò incollerito. La mano si chiuse sul manganello. Non era più dell'umore di lasciarsi scocciare da un mal salleh. «Guardami in gola», ordinò Reverdi. Controvoglia, il guardiano tornò sui suoi passi. Jacques aprì la bocca e domandò: «Cosa vedi?» Il malese si chinò con circospezione. Jacques tirò fuori la lingua e richiuse con violenza le mascelle. Il sangue sgorgò agli angoli della bocca. «Mio Dio...» farfugliò il guardiano precipitandosi sul telefono. Reverdi lo bloccò prima che avesse il tempo di staccare la cornetta: «Ascoltami! Se chiami l'infermiere, mi sarò completamente mozzato la lingua prima che lui arrivi.» Sorrise, delle bollicine calde gli si formavano sul mento. «Dirò che mi hai picchiato, che mi hai torturato...» L'uomo restava immobile. Jacques approfittò del margine di vantaggio: «Non chiamare nessuno. Farò finta di dormire, fino a domattina. Andrà tutto bene. Devi solo rispondere alle mie domande.» Il malese parve ancora esitare, poi rilasciò le spalle in segno di capitolazione. Prese un rotolo di carta igienica da un tavolo a rotelle. Con prudenza, si avvicinò a Jacques e gli pulì la bocca. Reverdi lo ringraziò con un cenno. «Siamo a Ipoh?» L'altro fece segno di sì. Portava i baffi, aveva la pelle butterata dall'acne. Dei veri e propri crepacci che, nell'azzurra luce notturna, evocavano i crateri della Luna. «Da quanto mi trovo qui?» «Cinque giorni.» Jacques fece un rapido calcolo mentale. «Siamo martedì, mercoledì?»
«Mercoledì. 12 febbraio. Le due del mattino.» Non ricordava niente del periodo che lo separava dall'ultimo venerdì. In che stato era arrivato lì? Il corpo gli si coprì nuovamente di sudore. «Ero... incosciente?» «Deliravi.» Il sudore diventò di ghiaccio. Gli pizzicava il petto, come se gli fossero schizzate addosso tante particelle di paura. «Cosa ho detto?» «Non ne ho idea. Parlavi in francese.» «Sparisci», gli ordinò. Il guardiano s'irrigidì a quel tono autoritario, poi tornò a sedersi dietro la scrivania, accompagnato dal rumore del mazzo di chiavi. Reverdi si distese, la schiena contro il materasso. Dopo un lungo momento non percepì più alcun rumore dal punto in cui si trovava il guardiano: addormentato. Anche i mormorii dall'altra parte delle sbarre verdi cessarono: tutti tornavano a coricarsi. Tentò ancora di ricordare. Zero assoluto riguardo al suo ricovero nell'istituto. Ma altri frammenti emergevano confusi. Parole. La «camera». I «segnali». Il «cammino»... Vide le pareti di bambù, le scie di sangue. Di nuovo la paura lo assalì. Un lampo: la donna straziata, che si svuotava lentamente... Perché era stato preso dal panico? Perché di colpo aveva avuto tanta paura della sua compagna? Quella perdita di controllo gli sarebbe costata la vita. Si ricordò che quell'incoerenza faceva in realtà parte del processo. Ogni volta, alla fine della cerimonia, deragliava. Ma, in genere, era solo. Solo nella Camera della Purezza... e quell'istante di abbandono non aveva conseguenze. Si concentrò di nuovo e ricostruì la scena. La donna lacerata dalle ferite. La mano, la sua, che reggeva la fiamma. Questo pensiero diventò così netto, così preciso, che credette di essere di nuovo nella Camera... Ebbe voglia di accarezzare quel corpo aperto, grondante, ma sapeva che era impossibile. La sorgente era tabù. Tuttavia, si accostò alla donna amata e ne contemplò le ferite. Ammirò quei fiumi scuri che scorrevano sulla pelle abbronzata. Provò una tenerezza, una riconoscenza senza limiti verso quei solchi che gli portavano la pace. Si chinò. Al punto di udire il fruscio delle piaghe. Al punto di sentire il calore del corpo... Chiuse gli occhi e sentì, nella bocca ferita, il gusto ra-
mato del proprio sangue. Lentamente, il sonno tornava. Ma, questa volta, era un riposo limpido, al riparo dagli incubi. Vide un'ultima volta la pozza scura che si allargava ai suoi piedi, intorno alla sua compagna. Vi sprofondò come fosse un guanciale soffice, salutare, dove si annidavano i suoi pensieri. Un sorriso gli sbocciò sulle labbra. Non aveva più paura: era guarito. 6. Nella sua ricerca, i serial killer occupavano un posto a parte. Agli occhi di Marc erano come diamanti puri. Pietre grezze. Loro non conoscevano impulsi parassiti, cieche passioni, panico dell'ultimo minuto. Nessuno stato d'animo che potesse spiegare, o giustificare, l'atto omicida. Nient'altro che la pulsione di uccidere. Fredda, staccata, superiore. Aveva letto tutti i libri sull'argomento. I racconti. Le biografie. Le autobiografie firmate dagli stessi assassini. I rapporti psichiatrici. Aveva lui stesso redatto dei dossier completi su alcuni dei più celebri serial killer. Li conosceva meglio di chiunque altro. Jeffrey Dahmer, che trapassava con il trapano il cranio delle sue prede per versarvi dentro l'acido. Richard Trenton Chase, che beveva il sangue delle sue vittime e metteva i loro organi in un mixer, per estrarne tutto il liquido vitale. Ed Kumper, due metri di altezza, centoquaranta chili, cannibale, necrofilo, che parlava alla testa della sua vittima posata sul caminetto, mentre ne sodomizzava il corpo decapitato. Ed Gein, che si confezionava delle maschere di carne con i volti scorticati delle persone che aveva ucciso. In Francia, a partire dal 2000, aveva fatto richiesta d'incontrare dei serial killer incarcerati. Era riuscito così a interrogare, a volte per parecchie ore, Francis Heaulme, Patrice Allègre, Guy George, Pierre Chenal... Aveva anche intervistato la loro cerchia di conoscenze, contattato i genitori... e le famiglie delle loro vittime. Ogni volta, aveva provato la stessa delusione. Come tutti quelli che aveva già osservato nei tribunali, erano uomini comuni. Alcuni erano dei giganti, altri erano affetti da tic, altri ancora erano proprio dei brutti ceffi, ma il loro aspetto non rivelava niente di fondamentale. Il loro segreto, il loro abisso, era - e restava - dentro di loro.
In quei momenti dubitava delle proprie capacità di investigatore. Perché non riusciva a capirli? A entrare nella loro testa? A immaginarli nell'atto del massacro? Nella collera che lo prendeva, arrivava a rimpiangere di non poterli sorprendere in flagrante delitto, le mani insanguinate, in ginocchio davanti alle loro vittime ormai fredde. Dallo studio accanito di quei casi orribili aveva ricavato solo qualche immagine, qualche leitmotiv, che tornavano a ossessionarlo nel sonno. Ne era contento, perché così condivideva almeno qualcosa con gli assassini. Il rumore di una lama, per esempio. Quella di Francis Heaulme, quando aveva sgozzato una donna sulla spiaggia del Moulin Blanc, vicino a Brest. Marc aveva visto le foto della ferita: netta, profonda, un taglio che andava dalla metà del collo fin dietro l'orecchio sinistro. La vittima era stata rinvenuta stesa sui ciottoli, in costume da bagno, e c'era una specie di legame crudele fra quella ferita nuda e i sassi grigi esposti al vento e al mare. Nel sonno gli appariva dapprima questo sinistro paesaggio, poi, di colpo, lo strappava a quell'incubo un sibilo. Il rumore dell'Opinel che incideva il collo. Sognava anche di un misterioso quadro che ritraeva una donna emaciata, con le mani amputate. La figura ieratica avanzava con aria trasognata, ma il suo ventre era aperto e le viscere fasciate. Ogni volta, dalle profondità del sonno, Marc s'interrogava: chi era quella donna? Dove l'aveva già vista? Poco per volta la risposta si delineava, fino a svegliarlo. Lo spettro del sex-appeal. Un dipinto di Salvador Dalí. Nel 1998 Marc aveva svolto un'inchiesta su una serie di omicidi commessi a Perpignan, per i quali si era sospettato che l'assassino si ispirasse a questa tela. Almeno in un caso, la giovane vittima era stata eviscerata e le erano state mozzate le mani. Il colpevole non era ancora stato arrestato e Marc era convinto che, finché fosse rimasto uccel di bosco, la sua ossessione sotto il segno di Dalí avrebbe avuto campo libero e l'avrebbe contaminato, lui, il giornalista solitario che andava a caccia del segreto e ne catturava solo delle briciole, delle particelle. Il bip della segreteria telefonica lo distolse dai suoi pensieri. Da quando si era svegliato non faceva che rimuginare guardando i ritratti di Reverdi. La voce di Verghens risuonò nel vasto spazio dello studio: «Sono io. Sono tre giorni che mi hai passato il tuo pietoso articolo sul caso malese. Spero che avrai qualche novità prima del nostro prossimo appuntamento. Chiamami stamattina. Assolutamente. (Una pausa.) Ti ricordo che tra qualche settimana ci sarà la guerra. A nessuno fregherà più niente delle nostre sto-
rie. Allora, accidenti, trovaci uno scoop!» Marc sorrise a quell'accenno all'imminente guerra in Iraq. Come se lui avesse bisogno di un conto alla rovescia per darsi da fare. Le undici del mattino. Aveva consultato l'e-mail. Nessun messaggio dell'Agenzia di stampa francese, né della Reuters o dell'Associated Press. Né da parte dei suoi contatti al «News Straits Times» o allo «Star», i principali giornali di Kuala Lumpur. Nessuna risposta dal DPP (Deputy Public Prosecutor), l'equivalente in Malesia del giudice istruttore, al quale aveva inviato una richiesta d'informazioni. Nessun segno neppure dall'ambasciata di Francia, che avrebbe dovuto rilasciare dei comunicati quotidiani. Reverdi doveva evidentemente essere ancora in crisi, sepolto nell'ospedale psichiatrico. E si continuava a non sapere il nome del suo avvocato. Un punto morto. Marc decise di andarsi a fare un espresso nella sua cucina americana che si apriva sullo studio. Aveva una vera passione per i caffè: una delle sue manie di zitellone. Sapeva come procurarsi degli arabica unici, dei robusta rari, dei grandi crus di ogni paese del mondo, e si era equipaggiato, ai tempi della sua ricchezza, di una macchina molto sofisticata, con bocchetta «vapore» per il cappuccino e anticalcare incorporato, che permetteva di distillare degli autentici nettari. Beveva almeno una ventina di quei robusti beveraggi al giorno, variando via via le marche e le origini. Optò per un piccolo colombiano, da lui soprannominato marc au diable tanto era tremendo. Da far resuscitare un morto. Proprio quello che gli ci voleva. Centellinò il suo nettare a piccole sorsate, in piedi dietro al banco di legno chiaro, lasciando scorrere lo sguardo sul suo antro. Un ampio locale di centoventi metri quadri, con un soffitto dall'altezza impressionante. Quando l'aveva comprato, gli era parso che quella verticalità avrebbe permesso al suo spirito di spiccare il volo. Otto anni dopo, la cosa restava ancora da dimostrare. Situato al pianterreno, lo studio si apriva su un piccolo cortile decorato da due palme nane, due grossi ananas che montavano la guardia, al di là delle grandi vetrate che prendevano tutta una parete. Gli altri muri erano ricoperti di scaffali carichi di libri, spartiti, cd: interi periodi della sua vita che s'innalzavano fino alle vetrate mansardate. Ma questi scaffali non costituivano che l'anticamera della sua vera biblioteca: una stanzetta adiacente, qualche scalino più in basso, tappezzata di libri specializzati. Tutto, o quasi, ciò che era stato scritto sui serial killer si trovava qui, pigiato, ammucchiato, catalogato. C'era anche una montagna di vecchi giornali, tutti dedicati ai fatti di cronaca. Questo teatro di sangue era talmente
completo che gli altri giornalisti del «Limier» vi venivano spesso a consultare dei libri o a rinfrescarsi la memoria su un assassino storico. Era questo bugigattolo che spiegava l'odore di muffa che aleggiava nel loft e che faceva dire a Vincent ogni volta che passava di lì: «Bisogna che tu la smetta di fumare funghi allucinogeni.» Nel grande ambiente gli arredi erano ridotti al minimo: un'asse poggiata su cavalletti a mo' di scrivania; un angolo-soggiorno, sul fondo, consistente in un divano sfondato e qualche cuscino sparso; pochi metri più a destra, in una nicchia, il letto. Un materasso senza la rete, posto direttamente sul pavimento, davanti a un tavolo basso sul quale si stipavano un grande televisore e un armamentario di materiale elettronico: lettore dvd, registratore, casse acustiche e altri apparecchi hi-fi. Marc adorava dormire per terra. Era la posizione del soldato acquattato sul terreno a osservare la base da attaccare. Questo punto di vista riassumeva la sua vita: sempre sul chi vive, pronto a un'imboscata. La notte, osservava la sua muraglia di libri che brillava alla luce riverberante dal cortile, mentre una serie di piccole lampade rosse, appese davanti agli scaffali, evocavano i segnali di una pista di atterraggio. Quando sarebbe decollato? Quando avrebbe trovato la verità che cercava? Si preparò un secondo caffè e s'installò alla scrivania. Mise in ordine il guazzabuglio di documenti, appunti, fotografie e videocassette riguardanti un unico soggetto che si erano accumulati sul piano di lavoro. C'era di che scrivere una splendida biografia di Jacques Reverdi. Ma avrebbe raccontato la storia di un grande sportivo, e non quella di un assassino. Quegli ultimi due giorni Marc ne aveva ripercorso il destino, passo a passo. All'inizio degli anni Ottanta Jacques era stato un autentico divo. Articoli, interviste, fotografie componevano l'immagine eroica di uno dei più grandi apneisti della fine del secolo. Tra Jacques Mayol e Umberto Pelizzari. Nelle sue interviste, tuttavia, Reverdi non abusava mai dei luoghi comuni su questa disciplina: la ricerca dell'assoluto, il ritorno alla madre nutrice, la complicità con i mammiferi marini... Insisteva invece sul carattere antinaturale dell'apnea e sui suoi pericoli: i rischi di sincope, la minaccia costante della pressione, la vertigine delle profondità. Marc conosceva questo sport. L'aveva praticato un po', in Corsica, ma dopo aver perso conoscenza sul fondo di una piccola insenatura, aveva subito smesso: quegli svenimenti gli avevano ricordato i due episodi d'incoscienza della sua vita. In realtà, il campione parlava dell'apnea come di una guerra fra l'uomo e il mare. Una guerra che bisognava vincere con il proprio corpo per oltre-
passare, negli abissi, una sorta di baluardo. Nelle sue interviste evocava sempre questa frontiera misteriosa, che solo l'apneista conosceva. Quella del record, certo, ma anche quella dello spirito. Uno stadio superiore, al quale si accedeva, paradossalmente, nelle profondità. Quando ne parlava, s'indovinava che nel cuore delle tenebre, a una pressione allucinante, con i polmoni ridotti a due sassolini e la luce che era ormai soltanto un ricordo, il sub conquistava ben altra cosa di una medaglia o una coppa... Marc aveva però scovato anche un articolo più recente, pubblicato sull'«Express» nell'agosto 1987, un periodo in cui in Francia migliaia di adolescenti, sulla scia del film di Besson Le grand bleu che allora impazzava, si erano improvvisamente appassionati all'immersione subacquea. I giornalisti avevano rintracciato Reverdi, semplice istruttore d'immersione in Thailandia. Pareva allora più sereno, molto più vicino all'immagine di saggezza e spiritualità dell'apnea. Marc era però riuscito a risalire molto più indietro nell'esistenza di Reverdi. Aveva fatto allora delle scoperte interessanti: certe esperienze traumatiche che forse potevano spiegare i fatti attuali. Jacques nasce nel 1954 a Epinay-sur-Seine, nel dipartimento di Vald'Oise. Orfano di padre, figlio unico, cresce accanto alla madre, assistente sociale. È un'infanzia senza storia, fino a quando Monique Reverdi si suicida, nel 1968. Tornando a casa, il quattordicenne Jacques trova il corpo della madre immerso nel sangue: la donna si è tagliata le vene. Dopo quel fatto l'adolescente cambia personalità. Il bambino timido, riservato, diventa un essere aggressivo, un teppista impulsivo che passa da un istituto all'altro, non smette di compiere furti, atti di vandalismo e altri piccoli crimini. A diciassette anni viene inviato a Marsiglia, in un centro rieducativo per adolescenti difficili. È la seconda grande svolta della sua vita. Là incontra infatti Jean-Pierre Genoves, psichiatra molto aperto, che lo inizia all'apnea. È la rivelazione. Jacques si appassiona a questo sport per il quale rivela di possedere delle attitudini uniche. Nel 1977, dopo il servizio militare e anni di allenamento, Jacques batte il suo primo record mondiale in assetto costante. È una disciplina particolarmente difficile: non si tratta di scendere aiutati da una zavorra per poi risalire con l'ausilio del paracadute, come avviene nella categoria «no limits», ma di immergersi e di risalire con la sola forza delle gambe. In quell'occasione Jacques raggiunge una profondità di sessanta metri. Tre anni dopo saranno sessantatré. In parallelo si dedica al «no limits» e, come già Jacques Mayol nel 1976, supera la soglia dei cento metri. A partire dal
1982 il campione, ventottenne, segna il passo. Abbandona la competizione e si stabilisce nel Sudest asiatico. Tutti si dimenticano di lui fino a quando il successo di Le grand bleu lo riporta, per breve tempo, sotto l'occhio dei riflettori. Marc aveva anche svolto una ricerca iconografica. Aveva evidentemente ripescato numerose foto del campione durante il suo periodo di gloria, ma aveva anche messo la mano su un ritratto di Monique Reverdi. E quella che gli stava davanti era una donna alta ed emaciata, che si perdeva in un vestito a fiori Laura Ashley, chiuso fino al collo. Una bellezza languida, inquietante. I lunghi capelli neri, pettinati con la scriminatura al centro, le allungavano ancora di più il viso affilato. Colpiva il suo sguardo, cupo, intenso, come anche le labbra sensuali, disegnate come petali. La fotografia lo aveva curiosamente fatto pensare a due star della musica rock, di sesso diverso: Cher e Marilyn Manson. Allo stesso tempo, nel suo portamento c'era una rigidità stoica, una ieraticità da martire. Monique Reverdi era un misto d'immagine religiosa e di copertina di disco. Marc aveva contattato telefonicamente qualche ex collega dell'assistente sociale: tutti erano d'accordo nel descriverla come una donna dedita agli altri, generosa. «Una santa.» Perché si era tagliata le vene? Dalle numerose inchieste svolte nel mondo del crimine, Marc aveva tratto la convinzione che il solo punto in comune tra i serial killer fosse un'infanzia perturbata. Violenze familiari, alcolismo, abbandono, incesto... Non era, all'evidenza, il caso di Jacques, coccolato dalla madre. Era bastata la violenza della scoperta del cadavere a far nascere la psicosi omicida? Bevve una grande tazza di caffè - freddo. Doveva trovare una nuova pista. Non per la stesura del suo nuovo articolo, ma per delineare meglio il profilo del predatore. Ordinò le carte, le fotografie e gli appunti in sequenza cronologica. Quando arrivò alla cartella intitolata CAMBOGIA si accorse che dentro non c'era quasi niente. Il ritratto di Linda Kreutz, qualche ritaglio pescato da quotidiani francesi... Aveva contattato l'ambasciata di Francia a Phnom Penh, ma il personale era cambiato. Impossibile accedere agli archivi del processo, tenutosi in pieno colpo di stato. Anche l'avvocato cambogiano di Reverdi restava irreperibile. Da quanto poteva capire, la giustizia cambogiana era piuttosto confusa... Marc ebbe un'idea. Aveva letto da qualche parte che la famiglia della vittima era benestante. All'epoca i Kreutz avevano senz'altro dovuto rivolgersi a un avvocato tedesco per presentare la denuncia e per costituirsi parte civile. Forse avevano addirittura ingaggiato un investigatore privato per
far luce sulla vicenda. Marc aveva come l'intuizione che i genitori della ragazza fossero persuasi della colpevolezza di Reverdi, e certo avevano dovuto sentirsi frustrati dalla sua liberazione. Il suo nuovo arresto, in flagrante delitto, poteva spingerli a tentare di riaprire il caso in Cambogia. Sì: da questo lato si poteva racimolare qualcosa. Doveva individuare l'avvocato incaricato del caso. 7. Marc aveva diverse tattiche per ottenere le sue informazioni. Internet non costituiva certo la sua strategia prioritaria: un campo troppo vasto, troppo confuso. In generale, non c'era niente di meglio di una telefonata e del contatto umano. Chiamò l'ambasciata tedesca, di cui conosceva l'addetto stampa. Senza nemmeno riagganciare, quest'ultimo contattò su un'altra linea un amico reporter della rivista «Stern», uno specialista di cronaca che aveva seguito personalmente il caso Kreuz. Il giornalista possedeva ancora le coordinate di Erich Schrecker, difensore della famiglia. Qualche minuto più tardi Marc parlava all'avvocato. Espose la sua richiesta nel suo più bell'inglese: voleva dimostrare gli eventuali legami fra l'accusa di Johor Bahru e i sospetti che avevano gravato sull'apneista in Cambogia. Schrecker lo interruppe seccamente: «Spiacente, non posso dire nulla.» «Mi dica almeno se rimette in moto la procedura. L'arresto di Reverdi in Malesia permette di ricorrere in appello in Cambogia?» «Il caso è stato giudicato. C'è stato un non luogo a procedere.» Dal tono della voce Marc intuiva che Schrecker e la famiglia Kreutz avevano già una strategia. «Ha contattato la parte civile, in Malesia?» «È troppo presto per dire qualcosa.» «Ma i due casi presentano delle somiglianze, no?» «Senta, stiamo perdendo il nostro tempo, entrambi. Non le dirò niente. Lei sa che un avvocato non parla con i giornalisti, a meno che non gli torni utile. Ora c'è bisogno di una sola cosa: la discrezione. Non correrò il minimo rischio.» Marc si schiarì la gola: «Può informarsi sul mio conto. Sono un giornalista serio.» «Non si tratta di questo.» «Le prometto di farle rileggere l'articolo. Io...»
L'avvocato scoppiò a ridere. La sua voce sembrava ringiovanire con il passare dei secondi: «Se sapesse la quantità di articoli che mi hanno promesso di farmi rileggere e dei quali non ho mai visto neanche l'ombra!» Marc non insistette: non ricordava di aver mantenuto la parola una sola volta in quelle circostanze. Preferì puntare sul pragmatismo: «Ho alle spalle vent'anni di cronaca giudiziaria. Non sono il genere di giornalista che scrive qualsiasi fesseria. Mi dia soltanto un'idea di come la situazione si sta evolvendo. Fa un collegamento con l'episodio di Papan o no?» Silenzio dell'avvocato. «Ci sarà una collaborazione fra i due sistemi giudiziari?» «Senta, io...» «Il pubblico ministero malese andrà in Cambogia?» Il silenzio di Schrecker assunse un valore diverso. L'avvocato concesse, come tediato: «L'ho contattato, a Johor Bahru. Non ho ottenuto nessuna risposta. E non sappiamo ancora se i cambogiani sono disposti a sottoporgli il fascicolo Kreutz.» «Perché non glielo trasmettete voi?» Scoppiò di nuovo a ridere, ma in un tono più amaro: «Perché non ce l'abbiamo. Nel 1997 non eravamo che dei consulenti stranieri. I khmer sono molto suscettibili in fatto di competenze. Non accettano lezioni dagli occidentali.» L'avvocato si scaldava; era evidente che la vicenda lo appassionava. «C'è una cosa che lei deve capire», proseguì. «I khmer rossi hanno fatto fuori l'ottanta per cento del settore giuridico della Cambogia. Gli avvocati, i giudici hanno attualmente un livello di formazione equivalente a quello di un maestro di scuola elementare. Poi c'è la corruzione, ci sono le influenze politiche. È un casino totale. A questo si aggiungono le relazioni piuttosto difficili fra la Cambogia e la Malesia. E quando abbiamo tentato con la Thailandia...» «Perché la Thailandia?» L'avvocato non rispose. Marc aveva già capito: «C'è una procedura contro Reverdi in Thailandia?» Schrecker restava muto. Marc insistette: «Reverdi ha avuto guai anche là?» «No, guai no. Non è accusato di niente.»
Marc rifletté a tutta velocità, sfogliando le cartelline sulla scrivania. Afferrò gli appunti. Doveva mostrare a Schrecker di conoscere a fondo la materia. Sciorinò: «Dal 1991 al 1996, poi nel 1998 e nel 2000, Reverdi ha soggiornato in Thailandia. Vi è tornato anche nel 2001 e nel 2002. Ci sono stati altri omicidi durante questi periodi?» Nessuna risposta da parte del tedesco. Marc ne percepiva il respiro oppresso. Non voleva parlare, ma qualcosa più forte di lui gli impediva di riagganciare. «Avete trovato dei corpi?» Gli uscì un grido dal cuore: «No, nessun corpo, no! Altrimenti la cosa sarebbe risolta.» «E allora?» «Persone scomparse.» «In Thailandia? Con otto milioni di turisti all'anno? Come si possono reperire delle "scomparse"?» «Ci sono delle convergenze.» «Di luoghi?» «Di luoghi e di date, sì.» Marc abbassò gli occhi sulla documentazione: c'era un luogo ricorrente fra quelli dove aveva soggiornato Reverdi: «Phuket?» «Phuket, sì. Due casi di scomparse accertate. A Koh Surin, per essere precisi, a nord di Phuket. Il feudo di Reverdi.» «La vicinanza geografica non dimostra niente.» «C'è dell'altro.» L'avvocato tornò ad accalorarsi; ci aveva probabilmente messo dei mesi a scovare quegli indizi. «Una delle donne ha seguito i suoi corsi di immersione. L'altra è stata ospite nel suo bungalow. Ci sono testimoni. Sembrava innamorata. Nessuno l'ha più rivista.» Marc fremette: si delineava il profilo del vero predatore. «Le vittime. Mi dia i loro nomi.» «Sta scherzando? Ci abbiamo messo degli anni a costruire quello che abbiamo in mano. Non certo perché un giornalista mandi tutto all'aria!» «Abbiamo, chi?» «Le famiglie. Abbiamo rintracciato le famiglie in giro per l'Europa. Ci siamo riuniti. La nostra azione converge verso la Malesia.» Fece una risatina nervosa. «È in trappola ormai.» Schrecker pareva sovreccitato, e Marc non era da meno. Quante volte
aveva colpito Reverdi? S'immaginava già intento a segnare con il pennarello, su una carta del Sudest asiatico, le zone in cui l'apneista aveva ucciso. In un lampo gli tornò alla mente la definizione ormai consacrata dell'«omicida multirecidivo»: «Come la maggior parte dei sadici sessuali, è un uomo molto mobile che si sposta di continuo, socievole, almeno in apparenza, visto che è capace di indossare una maschera di normalità e di non impaurire le sue vittime, e conosce alla perfezione il luogo del crimine...» Marc azzardò un'altra domanda: «Può almeno rivelarmi la nazionalità delle ragazze?» «La saluto. Le ho già detto troppo.» «Aspetti!» Aveva quasi urlato. Riprese in tono più basso: «Vorrei vedere i loro volti. Solo questo. Mi invii le loro foto.» «Perché lei le pubblichi sul suo giornale?» «Le prometto di non pubblicare niente. Voglio soltanto confrontarle con le altre vittime.» «Non c'è alcuna somiglianza. È la prima cosa che abbiamo verificato.» «Soltanto le foto. Senza i nomi, senza le origini.» «Non se ne parla. Abbiamo solo dei sospetti. E tentiamo di instaurare una collaborazione fra paesi che non hanno buoni rapporti. Con sistemi giudiziari diversi. Un vero rompicapo. Non correrei il minimo rischio per un giornalista che...» «Dimentichi il giornalismo. Dimentichi la pubblicazione. Mi preme soltanto capire questa storia. Ne faccio una questione personale, afferra?» Ennesimo silenzio. A sua volta, Marc si era spinto troppo in là; ma questa rivelazione parve aprire una breccia. L'incontro di due cacciatori. «Che garanzie può darmi che non pubblicherà?» «Mi invii i ritratti per posta elettronica, a bassa definizione. Non potrò riprodurli sul mio giornale. Potrò soltanto consultarli sul mio computer.» Una volta annotato l'indirizzo e-mail di Marc, l'avvocato concluse: «Le scriverò i periodi di soggiorno e le presumibili date delle scomparse delle ragazze. Perché possa orientarsi.» «Grazie.» «A buon rendere, okay? Alla minima scoperta da parte sua, mi deve tenere al corrente.» «Conti su di me.» Una bugia in più: Marc era un solitario. Non avrebbe mai condiviso le
proprie scoperte. Stava per riagganciare quando ebbe un ultimo impulso. Voleva estorcere a quest'uomo la sua convinzione più personale: «Crede che Reverdi sia un serial killer?» L'avvocato non rispose subito. Lasciava maturare la sua risposta. Voleva che le parole fossero sferzanti come una sentenza. «Una bestia feroce», disse infine. «Nei due casi noti ha colpito più di venti volte. Ha inciso il viso, il sesso, i seni delle vittime. Agisce in preda a una crisi, per una pulsione improvvisa che lo costringe a uccidere senza precauzioni, senza un piano preparato. Una bestia feroce. Vuole soltanto dissanguare quelle povere ragazze.» Schrecker s'ingannava. Marc sapeva per esperienza che Reverdi agiva secondo un piano prestabilito. In caso contrario sarebbe stato arrestato già al primo delitto. No, lui preparava con cura la trappola. Riusciva ad attirare le ragazze nel suo rifugio, poi a far sparire il corpo. Ma l'avvocato aveva ragione su un punto: agiva in stato di crisi. Un che di caotico, di delirante. Qualcosa, un dettaglio, gli ordinava di ammazzare. Qual era questo dettaglio? Si sentì invadere da una sensazione di freddo. Ecco il genere di indizio che gli sarebbe piaciuto scoprire. La scintilla del male nel cervello dell'assassino. Questa idea lo spinse a porre un'altra domanda: «Che probabilità ho di parlarci?» «Nessuna. Per il momento è praticamente inebetito, ma quando tornerà in sé non dirà una parola. Dopo la Cambogia non ha accettato la minima intervista.» «Dopo la Cambogia?» «Una giornalista è riuscita a incontrarlo quando era incarcerato al T-5, la prigione di Phnom Penh. Ma non ha ottenuto la minima rivelazione. Come al solito, Reverdi ha fatto la parte del "principe delle maree", in osmosi con gli elementi. Fesserie del genere. Ha rifiutato di fare qualsiasi commento sull'accusa.» «Sa chi è questa giornalista?» «Una certa Pisaï, mi pare... Lavora al "Phnom Penh Post".» Marc si congedò dall'avvocato, tagliando corto con promesse e ringraziamenti. Guardò l'orologio: le undici del mattino. Le cinque del pomeriggio a Phnom Penh. Andò su Internet per cercare il numero di telefono del giornale cambogiano. Scoprì che Schrecker gli aveva già inviato una mail: i ritratti delle vittime di Phuket. Marc aprì i due documenti con il programma Picture Viewer. L'avvocato
aveva ragione: le ragazze scomparse erano carine ma non si assomigliavano. E non avevano nessun punto in comune con Pernille Mosensen e Linda Kreutz. Una aveva un viso squadrato, in cui si leggeva un piglio deciso, accentuato dai capelli tirati indietro. L'altra si nascondeva dietro lunghe ciocche ondulate e lanciava uno sguardo obliquo. Le sole somiglianze fra queste nomadi erano l'età e la pelle abbronzata: ragazze che amavano l'avventura e il sole. Schrecker aveva aggiunto le date presunte della scomparsa delle due ragazze: marzo 1998 per la prima, gennaio 2000 per la seconda. Marc stampò i ritratti nello stesso formato di quelli di Pernille e di Linda, poi li mise l'uno accanto all'altro sul piano della scrivania, come carte da gioco. Uno strano solitario, che poteva riuscire a un'unica persona... Se queste quattro donne erano veramente le vittime di Reverdi, perché le aveva scelte? Possedevano qualcosa che Marc non vedeva, un segno, una particolarità, che innescava la sua follia omicida? Prese delle puntine e fissò le foto alla parete, poi si rimise a cercare su Internet le coordinate del «Phnom Penh Post». Alla redazione del quotidiano un giornalista anglofono gli comunicò il numero del cellulare di Pisaï van Tham. Altra telefonata: «Pronto?» Marc cominciò a spiegare in inglese, ma la donna lo interruppe in francese. Con un'evidente eccitazione. Aveva una voce strana, dolce e nasale insieme. Non sembrava stupita della sua chiamata; non era evidentemente il primo. «Vuole che le mandi per e-mail la mia intervista a Reverdi? Il testo in inglese?» Dopo averle dato il suo indirizzo e-mail, Marc partì in quarta: «Lei è l'unica reporter che sia riuscita a ottenere un'intervista da Jacques Reverdi. Da quel giorno lui non ha più parlato...» Dall'altro capo del filo ci fu una risatina compiaciuta. «Come ha fatto? Come spiega questo privilegio?» Un'altra risatina... una sorta di miagolio. Marc pensò a un gatto con il pedigree. Pelo dorato, occhi verdi; e languori calcolati. «È semplice. Ero femmina.» «Femmina?» «Jacques Reverdi seduttore. Un dongiovanni.» «Com'era lui, quando l'ha incontrato?»
«Affascinante.» Miagolò di nuovo. «Dongiovanni.» Una cosa gli passò per la mente. Per tradizione gli apneisti erano dei grandi seduttori. Jacques Mayol, Umberto Pelizzari: facevano strage di cuori. Ma per Reverdi l'amore non era che una maschera. Pisaï continuò: «Soprattutto sorriso. Molto, molto dolce. Come frutto, capisce? E voce. Molto calda. Sa, le donne adorano queste cose... E lui, ama donne.» Cominciava a dargli sui nervi con i suoi errori di francese e le sue smancerie. «Pensa che sia colpevole?» «Nessun dubbio. Lui uccide donne.» «A Phnom Penh è uscito pulito, no?» «Be', giustizia Cambogia. Ma colpevole, nessun dubbio. Ho sentito, dietro sorriso... Vuole la pelle delle donne...» «Ma se ha appena detto che le ama...» «Appunto. Assassinio: ultimo grado di seduzione. Ho studiato francese alla Sorbona. Don Giovanni di Molière. Ho capito verità profonda. La seduzione è distruzione. Don Giovanni è un assassino. Don Giovanni uccide Elvira. Le ruba il cuore, l'anima, la vita. Reverdi, uguale. Uccide le donne.» Rise ancora, con una sfumatura di ostentato terrore. Marc intuiva confusamente quello che lei voleva dire. L'assassinio, come parossismo del possesso. La gattina concluse: «Dongiovanni. Se vuole intervista, mandi sua amica.» «Si può contattarlo a Ipoh?» «Non è più a Ipoh.» «Cosa?» «Reverdi lasciato ospedale.» Marc dimenticò l'educazione: «Santiddio! Dov'è?» «Carcere nazionale di Kanara, vicino a Kuala Lumpur. Partito ieri pomeriggio, giovedì 13 febbraio. Psichiatri hanno detto: guarito. In ogni caso, lucido. Responsabile delle proprie azioni.» Marc non sapeva se era una buona o una cattiva notizia. Non aveva l'ombra di un contatto. Ed era sempre all'oscuro su chi fosse l'avvocato di Reverdi. «Chi ha deciso di trasferirlo?» «Lui stesso. Ha chiesto di tornare in prigione... normale.» «Ha chiesto?...»
«Se c'è una cosa che non vuole è che lo si creda pazzo!» 8. Sotto il coperchio di plastica, il cibo era suddiviso in scomparti. In quello più grande dei grumi bruni navigavano in una salsa unta: montone, probabilmente. Accanto, un pugno di riso colloso. Negli altri due c'erano una porzione di formaggio avvolto nella plastica e una piccola banana nera. Seduto per terra, a torso nudo, Jacques Reverdi fece mentalmente il calcolo delle calorie a disposizione. Sommando questo pasto alla colazione e alla cena, otteneva più o meno milleseicento calorie. Ossia, mille calorie quotidiane in meno rispetto alla sua dieta normale. Doveva trovare il modo di compensare quello squilibrio. Alzò gli occhi, portandosi la mano sulla fronte a mo' di visiera per proteggersi dal sole. Alle undici, il cortile era invaso da una luce accecante. I detenuti, in fila indiana, aspettavano il rancio. Tutti in magliette bianche, si tenevano al riparo nell'ombra del muro del refettorio. Le loro silhouette si allungavano sul terreno come lunghi tentacoli neri. Alcuni, raggomitolati e chini sui loro piatti, stavano già mangiando ai piedi degli edifici più lontani. Le principali strutture - mensa, parlatorio, uffici amministrativi - erano raggruppate al centro del piazzale. I detenuti circolavano liberamente ma, fatti pochi passi, s'imbattevano sempre in un muro o in una porta sbarrata. C'era solo un'apparenza di libertà... un miraggio. Reverdi guardò più in alto e osservò le torrette di guardia che si elevavano ai quattro angoli del cortile. I muri ciechi che correvano fra una torre e l'altra erano sormontati da rotoli di filo spinato, resi più invalicabili dalla presenza di lame di rasoio. Sorrise: quello scenario ostile gli piaceva. Qualsiasi cosa era meglio che rimanere a Ipoh. In fondo, per essere un uomo arrestato in flagrante delitto di assassinio, non era poi messo così male. Attaccando a mangiare con le dita, fece il conto dei colpi di fortuna che gli erano capitati. Prima di tutto, aveva per un pelo evitato il linciaggio a Papan. Poi, anche se in stato di trance, non aveva tradito in alcun modo il Segreto. Ora ne era sicuro. Il suo ultimo incontro con la psichiatra di Ipoh, la vigilia del trasferimento, glielo aveva confermato: nessuno sapeva un bel niente.
Poi era riuscito a raggiungere Kanara, dove si era mescolato alla massa. Duemila carcerati, fra i quali i peggiori criminali del paese: omicidi, stupri, traffico di stupefacenti. Più un blocco riservato alle donne e un altro edificio che accoglieva i minori. Una vera e propria città, fatta di edifici bianchi o beige che riflettevano il sole per tutto il giorno mitragliando le palpebre di mosche nere, tanto abbacinavano. Al suo arrivo, Reverdi aveva temuto il peggio. Al momento della perquisizione aveva notato che le pareti dell'ufficio d'ammissione erano tappezzate di ritagli di giornali sul suo arresto. I secondini si sarebbero divertiti a far piegare la «belva» occidentale. Poco contava che ora si chiamasse «243-554»: restava sempre una star. Un assassino celebre che, con la sua sola fama, metteva in ridicolo l'autorità carceraria. Ma si era sbagliato: qui preferivano la tranquillità. Non lo avevano neppure messo nel braccio delle celle di massima sicurezza. Per un miracolo inspiegabile, lo si lasciava libero dei suoi movimenti: ossia di cuocere, per dieci ore, in quel cortile. Cominciava a credere di avere lì un angelo custode. Soprattutto quando aveva visto la sua cella. Quasi un monolocale, di cinque metri per cinque. Pareti spoglie color crema, pavimento in cemento coperto da una stuoia. Proprio come piaceva a lui: purezza e nudità. C'era persino, a destra, un piccolo muro rivestito di piastrelle grigie che delimitava una stanza da bagno, con doccia e wc. Non c'erano graffiti immondi, né il buco aperto nel cemento, con sopra un coperchio di cartone per contenere i miasmi, né tracce nerastre sul pavimento a segnare il passaggio dei precedenti detenuti. Lo spazio era come nuovo. E, soprattutto, era solo. Non c'erano, a differenza di quanto gli era capitato al T-5, una totale promiscuità, compagni puzzolenti, gente che si faceva le seghe. Non doveva condividere il suo palazzo con nessuno. Questo isolamento non era una misura di sicurezza, ne era certo: era un autentico privilegio. Quando il secondino gli aveva portato un sapone e un asciugamano, Reverdi gli aveva chiesto a chi dovesse tutto ciò. L'altro aveva alzato le spalle, come dire che lo ignorava. «È il menu europeo.» Accanto a lui, una voce aveva pronunciato queste parole in francese. Reverdi girò il capo: un uomo di bassa statura, con una maglietta di gran lunga troppo grande per lui, si era materializzato al suo fianco. «Il formaggio», aggiunse. «È il piccolo "extra" per gli occidentali.»
Si accovacciò all'asiatica, sui talloni. Jacques aprì la bocca per servirgli uno «sparisci» senz'appello, ma si trattenne. Nel cortile, gli altri l'osservavano. Le facce di corteccia bruciata dei tamil, i volti zafferano dei malesi e quelli color rame dei cinesi. Da anni aveva a che fare con queste popolazioni. All'idea di parlargli, di affrontarne nuovamente la lingua, le manie, i pregiudizi, si sentiva sommergere dalla stanchezza. Un francese: almeno sarebbe stato un cambiamento. Gli sorrise senza rispondere. Era un uomo minuscolo. Reverdi pensò a una scimmietta grigia, di quelle che vivono in gruppo per meglio difendersi nella foresta. Il suo viso, del colore del cuoio, era orribile. Inciso, spaccato, rincagnato. Si sarebbe detto che fosse stato passato al rasoio o al pugno di ferro. Quella faccia scavata gli evocava Chet Baker. Cantante e trombettista cool, di una bellezza languida quand'era giovane, si era a poco a poco rattrappito, raggrinzito. Un viso incavato, dalle orbite profonde, schiacciato verso l'interno, che nel caso del detenuto era ulteriormente deformato da un labbro leporino che gli tagliava obliquamente la bocca e sembrava paralizzargli il lato sinistro. «Mi chiamo Eric», disse tendendogli la mano. Reverdi ricambiò la stretta: «Jacques.» «Non c'è bisogno che ti presenti. Sei già la star qui.» «Ci sono altri francesi?» «Con te, siamo soltanto in due. Ci stanno anche due inglesi, un tedesco, una manciata di italiani. È tutto per l'Europa. Siamo qui per traffico di droga. La maggior parte si sono beccati l'ergastolo. Quanto a me, sono stato condannato a morte. Per trenta grammi di ero. Ma la mia pena è stata commutata in vent'anni di carcere di sicurezza. Se facciamo i bravi, saremo tutti liberati fra dieci o quindici anni. Nessuno si lamenta. Qualsiasi pena è meglio della corda.» Eric s'interruppe, probabilmente rimpiangendo di avere evocato l'impiccagione davanti a Jacques. Si lasciò cadere a terra e si mise a curarsi le unghie dei piedi. «Siamo fortunati a essere francesi. L'ambasciata ci invia un dottore tutti i mesi per verificare il nostro stato di salute. Impossibile suonarcele. I sorveglianti si rifanno sugli indonesiani o su quelli che non hanno un'ambasciata in Malesia.» Ridacchiò, concentrato sulle dita dei piedi. «Quelli ne incassano di botte!» Reverdi osservava un gruppo di guardiani in uniforme verde scuro,
manganello a portata di mano. Avevano l'aria più sospetta degli stessi detenuti. «Parlami dei sorveglianti.» «Fino all'anno scorso, si tirava avanti. Era addirittura troppo tranquillo. Kanara passa per un carcere modello, il genere moderno. Ma dallo scorso dicembre è cambiato il capo della sicurezza. È sbarcato qui un tipo di nome Raman, accompagnato dai suoi scagnozzi. L'inferno.» Jacques appoggiò la testa contro il muro: «Ho conosciuto ogni genere d'inferno.» «Raman è uno schizzato. Corrotto fino al midollo, ma questo rientra nella normalità. L'originalità è che è un musulmano praticante, al limite dell'integralismo, e al tempo stesso un pederasta. Sono cose che non vanno molto d'accordo nel suo cervellino bacato. A volte ha degli attacchi d'ira terribili. Si sfoga su di noi. Ma il peggio non sono le botte. Il peggio sarebbero piuttosto i momenti di dolcezza, se afferri il concetto. Finora l'ho sempre scampata e preferisco non immaginare quel che succede nelle docce.» Reverdi sorrise, pensando: «Il che dimostra che la bruttezza...» Continuava a scrutare gli uomini in uniforme, che a loro volta l'osservavano. Gli parevano febbrili, di un nervosismo anormale. «Di che cosa si fanno?» «Coca, acidi, amfetamine. Quando sono in astinenza di yaa-baa ti conviene essere fuori portata dal manganello.» Da una quindicina d'anni il Sudest asiatico era passato alle amfetamine. Fra queste, lo yaa-baa era un vero flagello. Minuscola pillola a forma di cuore, aromatizzata alla fragola o al cioccolato, distruggeva i circuiti neuronali e provocava crisi di una violenza inaudita. In Thailandia le prime pagine dei giornali erano regolarmente dedicate agli assassinii provocati dallo Yaa-Baa. «Ma non siamo più nel medioevo», continuò Eric, sforzandosi di essere rassicurante. «Il direttore della baracca li tiene d'occhio. Ci sono state delle lamentele. Al primo sgarro lo stronzo dovrà presentarsi davanti al consiglio di disciplina, con il suo "commando impazzito". Nell'attesa, contiamo i giorni.» Jacques esaminava ora i detenuti che, preso il loro vassoio, si riunivano secondo l'origine etnica. Chini sulle dita appiccicose, se ne stavano accovacciati, come se mangiassero e cagassero nello stesso momento. «Sono raggruppate per blocchi le comunità?»
«A priori no. Ma sborsando un po' di grana i prigionieri riescono a radunarsi come gli va. È la tendenza naturale. Le autorità chiudono gli occhi. Alla minima stronzata, tutti si ritrovano nuovamente separati.» Scoppiò a ridere. «Un calcio nel formicaio...» «E i bianchi?» «Dispersi nella massa. Gli inglesi sono riusciti a trovarsi una cella insieme. Dai cinesi. Anche gli italiani, fra gli indiani.» Reverdi pensò al suo «monolocale» completo di doccia. Non aveva ancora capito in quale comunità si trovava. A meno che non si trattasse semplicemente del quartiere residenziale, dov'erano raggruppati i malesi e i ricchi han. «Ogni clan ha la sua specialità?» «Voglio ben dire. I cinesi e i malesi continuano a vivere secondo il loro ritmo: i primi vendono di tutto, i secondi non fanno un cazzo. Gli indiani si occupano dei problemi amministrativi: giocano agli avvocati, redigono qualsiasi scartoffia per pochi ringgit. Gli indonesiani sono gli schiavi. Solo con la tua porzione di formaggio potresti pagartene uno al giorno. Con i filippini, il quadro si fa più nero.» «Il servizio d'ordine?» «Sono degli assassini. I peggiori di tutti: non hanno niente da perdere.» Reverdi proseguì il suo esame del luogo, scrutando, al di là degli edifici centrali, alcuni grandi capannoni con i tetti di lamiera. Eric seguì il suo sguardo: «I laboratori. Ce n'è uno per ogni blocco. Conosci il principio: ci tengono occupate le mani per svuotarci la testa. E ci pagano con scatole di sardine. Ma questo non ti riguarda: i detenuti in carcere preventivo non hanno il diritto di lavorare.» Eric stese il braccio nodoso: «Dietro quelle baracche c'è un campo da calcio. Poi, più in là, lungo gli acquitrini, delle capanne su palafitte che qualcuno riesce a costruirsi comprando dai guardiani il materiale necessario. Delle residenze secondarie, diciamo...» «E quelli?» Jacques indicava, a destra, tre tozzi edifici, segnati da macchie di umidità. «Il primo è il guian. L'"astinenza". È lì che vengono sbattuti quelli che non hanno più di che pagarsi la roba. Se strillano troppo, Raman li trasferisce nel secondo blocco: le celle di isolamento.»
«E il terzo?» «Il terzo è... è il...» Eric esitava ma Jacques aveva capito. «Il padiglione dei condannati», disse infine Eric. «La forca è all'interno. Pare che...» Di nuovo lasciò la frase sospesa. Si concentrò sull'ispezione delle croste sotto i piedi. Reverdi deglutì. Il corridoio della morte. Si era giurato di non pensarci e sapeva che ci sarebbe riuscito. La sua nuova sfida: vivere fino all'ultimo istante ignorando la morte. Alzò il viso verso il sole e si sentì scorrere sulla pelle la luce bruciante. Sorrise. La sensazione. La vita. Riaprì gli occhi: «E le possibilità di evasione?» «Zero per cento. Non si evade da Kanara.» Pensò alla frase di benvenuto dei guardiani di Auschwitz: «C'è un'unica uscita da qui: il camino.» Per lui, sarebbe stata la corda. Eric ci tenne a precisare: «I muri sono alti sette metri. Due anni fa dei tizi sono riusciti a scalarli passando per il tetto del refettorio. Uno si è aperto la pancia sui fili spinati. Un altro, cadendo giù sull'altro lato, si è ritrovato con le ginocchia incastrate sotto le costole. L'ultimo è stato ripescato nelle paludi, soffocato dalla melma. Hanno dei cani speciali qui, fiutano gli odori perfino nell'acqua. Li fanno venire dagli Stati Uniti. Una specie di cani "mutanti", adattati al sistema carcerario. Ma non sono mai abbastanza rapidi: trovano solo cadaveri.» In quel momento lo sguardo di Reverdi cadde su una scena bizzarra. A un centinaio di metri, a sinistra, un uomo dal cranio rasato camminava lungo il muro di un edificio, ombra corta sul cemento, fino a raggiungere un altro detenuto: un ragazzo dai lunghi capelli neri, lucidi di olio di cocco, le forme del corpo (profilo dei testicoli compreso) disegnate con precisione dai pantaloncini e dalla maglietta. La creatura androgina prese l'altro per mano e i due scomparvero sotto un telone grigio. «I thai», commentò Eric. «Li avevo dimenticati. Cento ringgit per una scopata. Accumulano una vera fortuna, per farsi operare. Posso anche trovarti delle ragazze. Uno dei guardiani le fa passare il venerdì, durante la preghiera. Se vuoi...» «No. Niente donne.» Eric parve notare che il torace di Reverdi era completamente rasato. «Forse i thailandesi», sussurrò con un ghigno, «sono più di tuo gusto.»
«È per l'immersione.» «Cosa?» «La pelle rasata: è per l'immersione. La muta aderisce meglio.» Eric sembrò sollevato: «Se vuoi fumare o farti una pera, ho...» «Niente droga.» «Un cellulare?» «No.» Eric si zittì, perplesso. Reverdi gli accordò uno zuccherino: «Quando vorrò qualcosa è da te che verrò.» Eric gli regalò il suo più bel sorriso: la tastiera di un pianoforte, con tasti bianchi e neri. Si tirò in piedi, con l'aria soddisfatta del piazzista che ha appena firmato un contratto. In quel momento una nuova voce apostrofò Reverdi: «Jumpa!» Un guardiano gli stava davanti. Jacques si alzò stupito. Jumpa: non credeva che avrebbe udito così presto questa parola. Significava semplicemente «visita». 9. Non appena mise piede in parlatorio seppe di trovarsi davanti al suo angelo custode. Un cinese di una trentina d'anni, infagottato in un abito costoso. Piccolo, grasso, rispondeva agli attacchi dei Tropici con un sudore lucente che lo copriva come una sottile patina di vernice. Teneva nella destra una cartella di cuoio rosso. Con il braccio sinistro, ripiegato, reggeva una stecca di sigarette, tavolette di cioccolato, giornali. Non c'era dubbio: il suo angelo custode. Il secondino lo spinse avanti nella stanza. Per l'occasione, lo avevano bardato di catene d'acciaio ai polsi e alle caviglie. Aveva l'impressione di recitare una parte - quella dell'assassino sanguinario - nella quale non credeva. Le catene, il fucile a pompa del guardiano, la cadenza marziale dei passi: tutti quei dettagli convenzionali gli sembravano falsi; semplice folklore. Se Reverdi avesse voluto giocare la carta della realtà - per esempio strangolando il guardiano con i ferri - l'uomo sarebbe stato cadavere prima ancora di riuscire ad armare il fucile. Il parlatorio era una lunga stanza stretta, con una fila di ventilatori al sof-
fitto. C'erano alcuni tavoli, con delle sedie l'una di fronte all'altra. Il sole penetrava da alcuni lucernari. I suoi raggi sottili si spezzavano sugli angoli come laser luminescenti. Il cinese posò gli oggetti che gli ingombravano le mani e si fece avanti con vivacità: «Mi chiamo Wong-Fat», disse in inglese, esitando a tendere la mano per via delle catene. «Sono il suo avvocato. Mi chiami pure Jimmy. Ci tengo. È il mio nome inglese.» «Non ho chiesto avvocati.» L'altro allargò le braccia: «Nominato d'ufficio.» Reverdi fu preso da un senso di oppressione all'idea della commedia che si annunciava - interrogatori, confronti, ricostruzione dei fatti, poi la mascherata del processo, i magistrati malesi con in testa le parrucche bianche - quasi quasi rimpiangeva il linciaggio cui era scampato a Papan. Wong-Fat indicò il tavolo alla guardia, che fece sedere di forza Reverdi e legò a un anello fissato a terra le catene dei polsi e delle caviglie. Nel frattempo il cinese prendeva posto dall'altro lato del tavolo, spostando cartella, tavolette di cioccolato e stecca di sigarette. Reverdi osservava il suo interlocutore: un figlio di papà, si disse, rimpinzato di pancake americani e bamie goreng, le tagliatelle saltate all'indonesiana. Le mani pienotte erano molto curate. Sotto la giacca, una camicia Ralph Lauren lo fasciava come la pelle di una salsiccia. Esalava un profumo chic e virile, di cui doveva essersi versato sul torace un mezzo flacone. Con il suo colorito giallo, evocava una figurina di cera odorosa. Jacques finì per sorridere: il suo avvocato somigliava a una candela natalizia. Il guardiano arretrò fino alla porta, fucile in pugno. Wong-Fat aspettò che fosse a una buona distanza prima di far scivolare gli oggetti verso il prigioniero: «Regali.» Reverdi non disse niente. Non abbassò neppure gli occhi. Senza abbandonare il suo sorriso, il cinese aggiunse: «Spero che la cella le piaccia. Questi imbecilli volevano metterla nel reparto di massima sicurezza.» Reverdi non reagì. Wong-Fat batté allegramente le mani, come per segnare l'inizio della seduta. Posò con cautela la cartella davanti a sé, ne accarezzò il cuoio usato. Infine, con due colpi di pollice, aprì i fermagli dorati.
Da come aveva compiuto questo piccolo cerimoniale, Jacques dedusse quanto il cinese fosse affezionato alla sua cartella, un oggetto che sicuramente l'aveva accompagnato durante tutti i suoi studi. Scuole private a Kuala Lumpur. Università inglesi. Ritorno a KL, dove il babbo doveva avergli pagato una clientela ricca e internazionale. Perché mai si trovava allora a fare l'avvocato d'ufficio in questo caso? «Le parlerò con franchezza», attaccò il cinese sparando una raffica di spruzzi di saliva. «Il caso non si presenta bene. Proprio niente bene. Ho qui il verbale dei poliziotti di Mersing. Affermano di averla sorpresa vicino al luogo del delitto. Ho anche una copia del rapporto dell'autopsia, un documento redatto dai migliori patologi della Malesia. Hanno contato ventisette ferite di coltello sul cadavere...» Jacques continuava a tacere. Da quando si era seduto non si era spostato di un millimetro. «Descrivono le ferite nei minimi dettagli e parlano, esplicitamente, di "efferatezza", di "accanimento patologico"...» L'avvocato fece una pausa, spiando la reazione del suo interlocutore. Nessuna reazione. Pescando nella cartella, prese un altro fascio di fogli: «Ho ricevuto anche i risultati delle analisi di laboratorio. I dati sono schiaccianti. Le impronte sul coltello sono le sue. Il sangue prelevato sotto i suoi piedi e sulla sua pelle appartiene alla vittima...» Sventolò altri rapporti: «Ci sono anche, è ovvio, i pescatori di Papan. Ma credo che non avrò problemi ad affossare la loro testimonianza: anche loro sono sotto chiave, per tentato linciaggio.» Posò la mano grassoccia sulla pila di documenti. «Il fascicolo dell'accusa resta comunque pesante, Jacques. Posso chiamarla Jacques, vero?» Non ottenendo risposta, ripeté, senza più sorridere adesso: «Molto pesante... Da questo punto di vista, non c'è modo di scagionarla.» Nella voce, nell'atteggiamento dell'uomo, Reverdi leggeva una sorta di eccitazione. Il giovane non provava disgusto né orrore nei confronti del crimine a lui imputato. Pareva al contrario affascinato dal caso. Jacques ebbe un'intuizione: Wong-Fat si era offerto volontario per poter avvicinare il «mostro». «Ci rimane una sola strada: invocare l'infermità mentale. È l'unico modo per evitare la pena capitale. Le daranno il carcere a vita. Ma se mostra segni di remissione potrà tornare in libertà, dopo gli opportuni rapporti dei
medici, nel giro di una decina d'anni.» Reverdi continuava a restare in silenzio. Il cinese tossì, poi continuò: «In questo senso, la sua piccola crisi a Papan è stata molto positiva. Così come il suo soggiorno a Ipoh. Peccato che non sia rimasto all'istituto.» Strinse il pugno. «Se avessi fra le mani quell'idiota che l'ha fatta uscire, io...» «Sono io.» Jimmy ebbe un soprassalto al suono della sua voce. «Ho domandato di essere trasferito a Kanara.» «Non lo sapevo... È increscioso... Per invocare l'infermità...» «Non voglio essere dichiarato pazzo. Non sono pazzo.» Wong-Fat scoppiò a ridere, buttandosi letteralmente sul tavolo. D'un tratto sembrava un cattivo scolaro senza maniere: «Ma è l'unico modo per sfuggire all'impiccagione!» «Stammi a sentire», tagliò corto Reverdi (non si era ancora mosso di un anello di catena). «Non tornerò mai a Ipoh. Non ho bisogno di essere curato.» Il cinese aggrottò le sopracciglia: «Cosa vuole fare? Dichiararsi colpevole?» «No.» «Non avrà mica intenzione di proclamarsi innocente?» «Non dichiarerò un bel niente. Non dirò niente. Che la giustizia malese faccia il suo lavoro. La cosa non mi riguarda. D'altronde, non risponderò a nessuna domanda.» Jimmy tamburellò sulla sua vecchia cartella: non si aspettava una cosa simile. Il pomo d'adamo sussultava come la pallina di un bilboquet. Guardò Reverdi, in tralice, poi si arrischiò: «Per il momento, bisogna che lei prometta una cosa.» Prese un tono confidenziale. «Non deve lasciarsi avvicinare da nessuno, men che meno da quelli dell'ambasciata francese! Vorranno nominare un consulente. Un avvocato francese che s'immischierà nella faccenda. Ciò avrebbe conseguenze molto negative. I giudici malesi sono suscettibili.» Jacques taceva, ma questo nuovo silenzio poteva passare per un assenso. «E, naturalmente», riprese l'avvocato, «niente giornalisti. Nessuna dichiarazione, nessuna intervista. Bisogna agire evitando ogni clamore. Capisce?» «Te l'ho appena detto. Non parlerò. Né al giudice. Né ai giornalisti. Né a te.»
Wong-Fat s'irrigidì. Reverdi cambiò tono: «A meno che non mi dica qualcosa tu.» «Prego?» «Se vuoi delle confidenze, devi prima farmene tu.» «Non capisco cosa...» «Sssst», fece Reverdi portandosi l'indice alle labbra. Per la prima volta, le catene tintinnarono. Il cinese scoppiò a ridere. Un riso troppo forte, esagerato: segno evidente di disagio. «Sei nato in Malesia?» Jimmy confermò con un cenno del capo. «Che provincia?» «Perak. Cameron Highlands.» Reverdi conosceva un Wong-Fat nelle Cameron Highlands. E se per caso... «Che fa laggiù tuo padre?» «È proprietario di un'azienda di allevamento.» «Di farfalle?» «Sì. Come fa a saperlo?» Reverdi sorrise: «Conosco tuo padre. C'è stato un periodo in cui compravo dei prodotti da lui.» Il cinese parve totalmente disorientato. «Che... che prodotti?» «Le domande le faccio io. Sei cresciuto là, nella foresta?» «Fino ai quindici anni», rispose Jimmy controvoglia. «Poi sono andato a studiare in Inghilterra.» «E quando sei tornato in Malesia?» «A vent'anni. Per finire gli studi di legge a KL.» «E poi?» «Sono tornato a casa, nelle Cameron Highlands.» Questo ritorno al paesello aveva un che di sospetto. Le Cameron erano una regione di montagna, molto apprezzata dalla società più benestante di Kuala Lumpur, ma solo per trascorrervi il fine settimana. Jacques non immaginava l'avvocato che andava a seppellirsi fra i boschi. «È la mia regione natale», aggiunse Jimmy, come se indovinasse lo scetticismo del suo interlocutore. Un'idea balenò nella mente di Reverdi. Quel grosso adolescente ritardato
gli sembrava sempre più ambiguo. «Vai a spasso nella regione?» «Nella regione?» «Nei dintorni delle Cameron Highlands, fai qualche giro?» «Sì e no. Il fine settimana...» Jacques percepì un odore strano. Un qualcosa di acido che andava a sovrapporsi al profumo del cinese. L'odore della paura. Insistette: «Dove vai?» «Nel Nord.» «Alla frontiera con la Thailandia?» Jimmy si agitava nervoso sulla sedia. L'odore si faceva più definito. Molecole d'angoscia galleggiavano nell'aria. Reverdi non mollò la preda: «Perché proprio là?» «Per... per dare la caccia alle farfalle.» «Che farfalle?» Jimmy non reagì. Reverdi propose: «Dei piccoli pubi, graziosi e caldi?» «Cosa? Non... capisco a cosa alluda... È assurdo.» Il cinese chiuse la cartella, tremante. Jacques fissò le sue mani paffute ed ebbe una visione: il grasso Jimmy, più giovane, che si masturbava nei magazzini del babbo, circondato da farfalle, scarabei, scorpioni, che godeva senza far rumore, tra il formicolio degli insetti. Adesso che l'aveva visualizzato, sapeva di averlo in pugno: il cinese era prigioniero della sua mente. Sferrò il colpo: «Dagli anni Novanta e dopo il diffondersi dell'AIDS, i malesi fanno venire delle vergini alla frontiera thailandese. Da quanto ne so, si può defiorare una ragazzina per cinquecento dollari. Poca roba per uno che sguazza nei soldi come te...» «Lei è pazzo.» Wong-Fat si alzò ma Reverdi lo afferrò per il polso e lo costrinse a rimettersi seduto. Il gesto era stato così rapido che il guardiano non ebbe nemmeno il tempo di sussultare. Jacques sibilò: «Dimmi che non è vero! Che non vai ogni fine settimana a farti qualche ragazzina a Keroh, a Tanah Hitam o a Kampong Kalai. Chissà quante! Oh sì: come godi a fottere quei piccoli babà, senza preservativo!» L'avvocato restò zitto. Il suo sguardo errava, cercando un rifugio verso il pavimento. Lentamente, Reverdi gli afferrò la mano, e disse con dolcezza: «Non devi rimpiangere niente. Mai.»
Il cinese rialzò gli occhi. Grosse lacrime gli scorrevano sulle guance. «Conosci questa frase di Rinzai Roku? "Se incontri Buddha, uccidilo; se incontri i tuoi genitori, uccidili; se incontri il tuo antenato, uccidi il tuo antenato! Solo allora sarai libero!" Devi accettare tutto consapevolmente, non conoscere mai la vergogna, capisci?» Vide brillare un barlume di speranza nelle pupille di Jimmy. Era questo che era venuto a cercare: la complicità con il male. Jacques lasciò passare un minuto, in totale silenzio, per permettere all'altro di riprendere fiato, poi continuò: «Adesso tocca a me.» Il cinese si agitò sulla sedia. Era evidentemente sollevato di non essere più bersagliato dalle domande. «Alzati e mettiti alle mie spalle.» Con grande esitazione, Wong-Fat obbedì. Il guardiano s'irrigidì; osservava con attenzione la scena. Jimmy gli fece segno di non preoccuparsi. «Guardami la nuca.» Sentiva il fiato corto, oppresso, dell'uomo dietro di sé. Sentiva l'odore prepotente, vischioso, del suo sudore. Per contrasto, assaporava la propria secchezza. La sua pelle non trasudava. I capelli tagliati a spazzola non s'incollavano. Lui apparteneva al mondo minerale. «Cosa vedi?» «Vedo... una chiazza.» «Che genere di chiazza?» «Un segno. Una specie di cicatrice, dove non crescono i capelli.» «Che forma ha questa cicatrice?» Silenzio. Immaginava il cinese, chino sulla sua nuca, intento a scegliere con cura le parole. «Direi... un anello, una spirale.» «Torna a sederti.» Jimmy riprese il suo posto, l'aria più calma. Con la sua voce più grave, quella che usava quando teneva i corsi di apnea, Reverdi spiegò: «Non è una cicatrice. Non nel senso in cui l'intendi tu. Non c'è stata una ferita esterna. È un'alopecia areata.» «Un'alopecia areata?» «Dopo uno shock psicologico, i capelli non ricrescono più in un punto del cranio. La pelle conserva il segno del trauma.» «Che... che trauma?» Reverdi sorrise:
«Questa confidenza non è nel programma. Ti basti sapere che, quand'ero bambino, mi è successo qualcosa. Lo shock mi ha lasciato impresso sulla pelle questo disegno. Un anello che ricorda la coda di uno scorpione.» Il cinese lo guardava a bocca aperta. Il suo pomo d'adamo non si muoveva più: dimenticava di inghiottire la saliva. «Chiunque altro si sarebbe fatto ricrescere i capelli per mascherare questo segno. Non io. Una ferita indebolisce solo se si tiene nascosta.» Wong-Fat continuava a fissarlo. Sbatteva le palpebre troppo in fretta, come se fosse abbagliato da una lampada. «La mia ferita non è un segno di debolezza. Né un'infermità. È un segno di potenza, che tutti devono vedere e accettare. Non nascondere mai niente, Jimmy. Né i tuoi desideri, né i tuoi peccati. Il tuo vizio, il tuo gusto per le vergini, è la tua impronta sul mondo.» Reverdi tacque di nuovo: Jimmy era in estasi. Poi il prigioniero assunse un tono meno solenne: «Se vuoi essere mio amico, estirpa la vergogna dal tuo cuore. E non prendere più quel tono condiscendente con me. Non spiegarmi più le leggi del tuo paese. Ancora non camminavi quando io mi immergevo, al largo di Penang, con dei pescatori clandestini. E soprattutto, non parlarmi mai più di pazzia.» Jacques urlò: «Warden! (Guardiano!).» Poi, con voce dolce, come se offrisse all'altro un mango sbucciato, concluse: «Puoi riprenderti le sigarette. Non fumo.» 10. Nella sua biblioteca non aveva trovato quello che cercava. Ci provava adesso nell'archivio del «Limier». Era un luogo immenso, labirintico. Il gruppo editoriale proprietario della testata aveva acquistato numerose partite di vecchi giornali che risalivano fino ai primi del Novecento. Guardando i corridoi tappezzati di armadi metallici, si poteva pensare che vi fossero conservati contratti assicurativi o fascicoli della Previdenza sociale, e invece in quelle pareti si celavano gran parte dei crimini dell'umanità: assassinii, stupri, incesti. Tutti gli orrori immaginabili vi si trovavano accuratamente classificati per anni, numeri e categorie. Marc era venuto spesso a lavorare qui, soprattutto quando redigeva la
rubrica I dossier neri della storia: inserti speciali del «Limier» dedicati ai crimini del passato. Accanto all'archivio propriamente detto, c'era una stanza di lavoro dove trovavano posto varie scrivanie e un distributore di caffè. Una vera biblioteca. Ma l'elemento chiave di ogni ricerca era l'archivista «della casa», Jérôme, che sembrava essere stato comprato insieme alle partite di giornali. Marc ne ignorava il cognome. L'uomo si esprimeva come se avesse vissuto personalmente tutti i processi e le inchieste raccolti in quello spazio. Non c'era un nome, una data, che gli sfuggisse. Fisicamente, sfiorava la caricatura. Senza età, senza un segno distintivo, indossava in tutte le stagioni vari maglioni uno sopra l'altro. Un millefoglie di lana e nylon. Sentite le richieste di Marc, Jérôme l'aveva orientato senza la minima esitazione. Avanzando lungo i corridoi di ferro, quel lunedì mattina Marc rifletteva sul weekend appena trascorso. Non aveva smesso di pensare a Jacques Reverdi. Assassino compulsivo. Bestia feroce. Seduttore. Donnaiolo. Le parole pronunciate da Erich Schrecker e dalla piccola cambogiana gli martellavano nella mente. Probabilmente avevano ragione, ma lui era persuaso che nessuno, al momento, conoscesse la verità sull'uomo e sulle sue azioni. Il venerdì aveva buttato giù un nuovo articolo, centrato piuttosto sulla vicenda successa in Cambogia, nel 1997. Ma se ne infischiava di scrivere un pezzo interessante o di scovare uno scoop per Verghens. In lui si formava via via, inesorabile, una convinzione: Jacques Reverdi era un'incarnazione del Male, e perseguiva uno scopo segreto. Uno di quei diamanti puri che Marc cercava da così tanto tempo. Un assassino che possedeva, grazie alla sua pratica spirituale, un'autentica visione della propria nevrosi e poteva lasciar scorgere, come in trasparenza, il volto del Crimine. Per due giorni si era chiuso nello studio e aveva nuovamente passato al vaglio la documentazione di cui disponeva: ritagli stampa, fotografie, biografie, siti Internet... Poteva citare a memoria interi brani di quel materiale. Ma tutto - fatti, inchieste, commenti, elogi - risaliva all'epoca «positiva» di Reverdi. Quanto all'intervista di Pisaï, era piatta come il mare. La domenica sera, stremato da quarantott'ore di ricerche sterili, si era convinto di una sola urgenza: avvicinare l'assassino. Strappargli, con ogni mezzo, un'intervista. Era il solo modo per saperne di più. Gli era venuta un'idea, ancora vaga, che meritava una piccola indagine. Marc si fermò di fronte a un classificatore: aveva individuato quello che cercava. Fece scorrere l'anta e afferrò un vecchio numero del «Limier».
Sfogliò velocemente il giornale e trovò l'articolo che voleva rileggere. Era un dossier dedicato alle corrispondenze tra detenuti e persone esterne. Marc non era uno specialista dell'argomento, sapeva soltanto che i serial killer ricevevano valanghe di posta: insulti, esortazioni a pentirsi, compassione, ma anche poesie, dichiarazioni d'amore, espressioni di ammirazione... Percorrendo l'articolo, rispolverò cifre e fatti. Un assassino come Guy George aveva ricevuto fino a cento lettere al giorno nel periodo del processo. Ma c'era di più: gli assassini americani creavano dei siti Internet dove si presentavano - quello di Charles Manson era uno dei più interessanti -, vendevano foto con dedica, oppure quadri, schizzi, testi e poesie di loro produzione. Ma il reportage non concerneva soltanto i personaggi famosi. Tutti i detenuti avevano fame di contatti. La corrispondenza in carcere era un universo a sé. Una sfera di scambi, organizzata il più delle volte da associazioni caritatevoli specializzate. Erano migliaia le lettere che transitavano con questo sistema. Le organizzazioni consigliavano sempre ai volontari di usare degli pseudonimi e di far passare la posta per l'indirizzo della loro sede sociale. Sui giornali, poi, comparivano un'infinità di annunci. Per esempio, la rubrica Sentimenti all'ombra del settimanale «L'Itinerante» pubblicava richieste di prigionieri alla ricerca di una semplice corrispondente, di una compagna o dell'anima gemella L'anima gemella. Era questo tema che interessava Marc. Non si contavano più gli idilli nati grazie a questi scambi. Due cifre riassumevano la situazione: il novanta per cento dei corrispondenti reclusi erano uomini, il novanta per cento dei corrispondenti all'esterno erano donne. Le lettere facevano presto ad assumere un tenore amoroso e talvolta la situazione sfociava nel lieto fine: matrimonio all'uscita di prigione o tra le sbarre. C'era l'amore. C'era anche il sesso. Quelle che scrivevano dovevano aspettarsi di vedere apparire, esplicitamente o fra le righe, i fantasmi dei prigionieri stessi. Per questi ultimi la relazione epistolare diventava un surrogato dell'atto fisico. Marc proseguì la lettura, infervorato. Si ricordava che il giornalista riportava dei casi in cui si era usciti dai binari. I prigionieri sono facili prede; uomini duri, criminali, che diffidano di tutti, ma anche individui malati di noia e di solitudine.
Ritrovò gli aneddoti. In Francia, a forza di lettere sensuali, una donna aveva «eccitato» un detenuto fino a spingerlo a rivelare i propri fantasmi. L'amministrazione penitenziaria si era allarmata per questo gioco pornografico, aveva svolto delle ricerche e scoperto che la donna era sposata e che scriveva le lettere insieme al marito: i due viziosi si eccitavano leggendo le risposte... Negli Stati Uniti, questi imbrogli assumevano risvolti più lucrativi. In certe carceri della California e della Florida, parecchi prigionieri avevano intrattenuto con l'esterno uno scambio epistolare amoroso la cui temperatura saliva di lettera in lettera. Ben presto le donne con cui corrispondevano avevano proposto di fargli avere, a pagamento, delle loro foto piccanti. I tipi avevano pagato, per poi sbavare ed eiaculare davanti a immagini di donne che credevano di conoscere. In realtà quelle confidenti non esistevano: non si trattava altro che di una rete pornografica gestita da qualche furbastro che aveva trovato questo modo per rendere più piccanti - e più redditizie - le sue fotografie standard. Uomini duri, criminali. Ma anche individui malati di noia e solitudine. Marc ripiegò il giornale e si diresse verso la fotocopiatrice. Sentiva la vocetta di Pisaï: «Dongiovanni. Se vuole intervista, mandi sua amica». Arrivò alla macchina e cominciò a fotocopiare il dossier, pagina dopo pagina, senza nemmeno abbassare il coperchio. Via via che la luce del flash gli passava sul viso, architettava il suo piano. D'un tratto alcune sillabe gli si scandirono nella mente. Elisabeth. Questo era il nome che avrebbe scelto. 11. Per i casting Khadidja aveva una scappatoia: la filosofia. Durante le attese, nelle stanze che puzzavano di sigaretta e di miscele di profumi, con un sottofondo di risa soffocate e di bisbiglii, la ragazza ripassava mentalmente le lezioni. Quando la parcheggiavano con le altre in una stanza senza finestre né mobili, a parte qualche fila di sedie scalcagnate, lei passava in rassegna le tre conoscenze di Spinoza. Quando la sottoponevano al solito esame anatomico, lei si soffermava sulla dialettica servopadrone di Hegel. E quando le chiedevano di fare qualche passo nell'ufficio del direttore del casting, pensava alla volontà di potenza di Nietzsche.
In quei momenti la sua concentrazione le permetteva di dimenticare di essere solo della carne tiepida. Anche se quella carne aspirava a diventare la più cara di Parigi. Quel giorno rifletteva su un capitolo della sua tesi di dottorato che verteva sulla proibizione dell'incesto. Nel suo libro Le strutture elementari della parentela Claude Lévi-Strauss constatava che l'unico tratto comune fra le società umane e quelle animali, il solo punto di convergenza fra natura e cultura, era l'interdizione dell'incesto. Una legge sociale, che era anche universale. Khadidja s'interessava in modo particolare a questa analisi. Perché l'etnologo si sbagliava: pareva ignorare che certe società antiche, fra le più illustri, avevano incoraggiato le relazioni consanguinee. Le dinastie egizie, per esempio, praticavano l'unione fra fratello e sorella, fra figlio e madre. Un modo per preservare il sangue sacro dei re. Le venivano in mente altre idee al riguardo, ma non aveva niente per scrivere. Sospirò, chiuse il libro e posò lo sguardo sulle ragazze riunite nella stanza. C'era la solita fauna: le «Anoressiche Associate», le «Bimbos Bohèmes», le «Rondini dell'Est»... Come ogni volta, Khadidja si ritrovò a chiedersi: che cavolo ci faceva lei lì? La risposta era semplice: i soldi. Quando eri una ragazza di ventidue anni, di origine algerino-egiziana, quando eri venuta su nel quartiere «La Banane», a Gennevilliers, e misuravi un metro e settantanove per cinquantasette chili, non dovevi esitare: bisognava tentare la sorte. All'idea di guadagnare migliaia di euro grazie al suo giro di fianchi o al suo sguardo profondo, si sentiva invadere da un'ondata d'orgoglio. Non poteva perdersi quell'opportunità. Sfogliò macchinalmente il suo book, finanziato dall'agenzia Alice che la sosteneva nella sua crociata. Non granché come foto... A meno che non fosse colpa del soggetto. Di quella ragazza con la pelle olivastra e i riccioli bruni che si sforzava di avere un'aria naturale sulla carta lucida. Eppure a Khadidja piaceva il proprio aspetto. Portava la sua pelle come un grande tessuto screziato e serico, nel quale lei si drappeggiava sognando il deserto. Le piaceva quel viso tutto angoli, strano, che da bambina l'aveva fatta passare per uno sgorbio e la cui bellezza era emersa, durante l'adolescenza, come un'isola vulcanica su un mare incolore. Ma soprattutto amava il proprio sguardo, leggermente asimmetrico, pupille nere incorniciate d'oro, ombreggiate da sopracciglia troppo folte. Talvolta, il mattino, quando si osservava nello specchio, sentiva di avere una certezza: come aveva potuto Parigi fare a meno di lei fino a quel momento?
Oggi provava un malessere. L'angoscia del casting? No. Ne aveva già fatti almeno una trentina, e lei era corazzata. Il disagio di fronte alle altre ragazze? Nemmeno. Era abituata alla compagnia di quelle magnifiche stronze che ti valutavano al primo sguardo. C'era qualcos'altro. Un dettaglio subliminale, che l'agitava dentro, nel profondo. Passò in rassegna le candidate e individuò una bionda con i capelli lisci, di una bellezza irreale: una sorta di angelo anemico. Khadidja pensò a quei personaggi di fantascienza, cadaverici, che sono alla ricerca di un nuovo pianeta perché il loro si sta esaurendo per mancanza di energia. Sotto la curva eterea delle sopracciglia, notò una stella azzurra: la pupilla. Una traccia di cobalto, che evocava una scalfittura, una ferita di cielo. Sentì crescere la nausea. Era la bionda che la turbava. Khadidja individuò i segni premonitori sotto il trucco: le occhiaie violacee, il naso umido, le palpebre basse. «Drogata», si disse. Una tossica, a pochi centimetri da lei, che l'osservava senza vederla. Khadidja girò la testa e tentò di riconcentrarsi sul libro, ma era troppo tardi. I ricordi incominciavano ad affluire. «La Banane» di Gennevilliers. L'F3 attraversato dalle grida. Le chiamate angosciate a SOS Médecins. E i suoi genitori. La loro lunga storia avvelenata dall'eroina. La droga era stata la sua culla. Il letto delle sue origini. Non avrebbe saputo dire esattamente quando e come ne aveva preso coscienza. Era una verità, una malattia, che le si era rivelata a poco a poco. A cinque anni aveva dovuto abituarsi ai pasti irregolari, alle attese interminabili nel cortile della scuola. Aveva dovuto adattarsi al misterioso orologio che sembrava dettare i ritmi della loro vita familiare. Un orologio dalle lancette molli, che instaurava un tempo, una successione senza alcuna logica. I suoi genitori cenavano alle due del mattino. Sparivano per parecchi giorni e, quando rientravano, dormivano ventiquattr'ore di fila. Ma soprattutto, aveva dovuto domare la paura. La minaccia costante delle crisi, delle collere, delle botte. Una violenza imprevedibile, che colpiva senza spiegazione. Con sempre quella convinzione confusa che la fonte del male era altrove. Crescendo, Khadidja aveva finito per capire: la causa di
tutte quelle sofferenze era la «malattia» di papà e mamma. Quella malattia che li obbligava a farsi delle iniezioni, a uscire di notte d'urgenza... e in certi casi a restare in ospedale per parecchie settimane. Khadidja aveva nove anni. Il suo modo di vedere i genitori cambiò. Dimenticò i propri timori, mise da parte i rancori e le collere silenziose, per provare una sollecitudine universale. Le botte, gli insulti, non era giusto, soprattutto nei confronti del fratellino, quattro anni, e delle due sorelle, sei e sette anni, ma non era colpa di nessuno. I suoi genitori erano prigionieri; erano infetti e, in realtà, non erano dei veri «grandi». Khadidja aveva preso in mano la situazione. Come figlia maggiore, diventò per la famiglia la fonte di quella regolarità che lei stessa non aveva mai conosciuto. Era lei che andava a prendere i fratelli a scuola, che preparava la cena, che li aiutava a fare i compiti e leggeva loro una storia prima di dormire. Era lei a firmare i libretti scolastici, a gestire tutto ciò che in casa c'era da leggere o da scrivere. Fu ben presto lei, a dieci anni, ad andare a prendere le dosi per i genitori all'altro capo di Gennevilliers, con la stessa naturalezza con cui gli altri bambini scendono al negozio sotto casa a comprare una baguette. Diventò un'esperta. Soprattutto nella preparazione delle dosi. Sciogliere l'eroina in un po' d'acqua. Riscaldare la miscela per purificarla. Aggiungere una goccia di limone o d'aceto per meglio diluire la droga. Trasferire il tutto nella siringa filtrandolo attraverso un batuffolo di cotone per impedire che vi s'infiltrasse della polvere. Altri bambini imparano la ricetta della focaccia, lei, invece, quella dell'eroina. O del crack, a seconda dei periodi. Si vedeva come un'infermiera. Era ossessionata dal rendere tutto perfettamente asettico, sempre intenta a strofinare il bagno, la cucina, la toilette... tutti gli ambienti dove arrivava l'acqua. Disinfettava con l'alcol ogni centimetro quadrato; s'industriava per farsi dare parecchie siringhe di scorta, in farmacia. Sapeva anche dove fare l'iniezione ai genitori. Da tempo le vene delle loro braccia erano troppo dure per sopportare l'ago. Cicatrici, croste, ascessi: bisognava trovare altri punti. Nei piedi, sotto la lingua, intramuscolo. Il giardino segreto di Khadidja cominciava alle undici di sera, quando tutte le incombenze familiari erano finite. Solo allora si metteva a fare i compiti. Era il suo momento preferito. Ancora oggi si ricordava dei quaderni colorati, dello scorrere della Stypen sulle pagine a quadretti blu. La sola dolcezza della sua vita. L'oasi nell'incubo. Passarono gli anni. La situazione si aggravò. A dodici anni Khadidja a-
veva capito che la parola «droga» era l'esatto contrario della parola «speranza». Con l'eroina non si poteva che scendere, andare alla deriva, toccare il fondo, fino alla morte. I soggiorni in ospedale si fecero più frequenti, sempre più ravvicinati. Per fortuna, suo padre e sua madre non erano mai ricoverati in contemporanea. In caso contrario, i quattro figli sarebbero stati spediti in qualche istituto. Quando uno dei genitori tornava da un periodo di disintossicazione, si tirava un po' il fiato. Ma la malattia tornava a colpire... e la follia s'intensificava. A quattordici anni, Khadidja viveva una corsa contro l'orologio. Ancora quattro anni e sarebbe stata maggiorenne. Ogni mattina pregava perché mamma e papà non crepassero o non impazzissero prima di quella data. Si era già informata dei requisiti necessari per diventare la tutrice dei fratelli. Si teneva pronta. Non un solo giorno aveva dubitato che tutto sarebbe finito in una catastrofe. Ma immaginava qualcosa di progressivo, un processo lento. Invece si trovò ad affrontare un'apocalisse. Aveva sedici anni: era appena entrata in prima L. Era autunno, ma ancora oggi si rifiutava di ricordarsi la data precisa. Quella notte, durante il sonno, l'incubo diventò una realtà. All'improvviso ebbe coscienza di un odore molto forte; un odore di fuoco che l'aveva sempre ossessionata e che adesso era là, vicinissimo. Quando aprì gli occhi non vide niente. Una nuvola nera riempiva la stanza. Senza capire cosa stesse succedendo, mormorò: «I posacenere» e seppe, immediatamente, che i suoi genitori erano perduti. Saltò su dal letto e, muovendosi al buio, scosse i fratelli che dormivano accanto a lei. I loro corpi erano inanimati, come se dal sonno fossero passati direttamente alla morte. Khadidja urlò, li colpì, li tirò su e riuscì a strapparli all'asfissia. Aprì la finestra, gli ordinò di restare dov'erano, di respirare, senza muoversi. Uscì dalla stanza e scivolò nell'oscurità del corridoio. Appoggiandosi alle pareti roventi, avanzò a tentoni verso la «loro» camera. Vacillava, il suo corpo tremava nel calore che l'avvolgeva, ma aveva la mente lucida. Non era già più nel tempo presente: era nel futuro. Giurava a sé stessa, nel più profondo del cuore, di non abbandonare mai i «piccoli». La porta era davvero rossa, incandescente, come se la ricordava? No. Era una deformazione della memoria. D'altronde l'aveva aperta con una spallata, senza nemmeno bruciarsi. Dentro, però, le fiamme guizzavano rabbiose. Seduto sul letto, suo padre bruciava vivo, all'apparenza indiffe-
rente al fuoco che gli divorava il viso. Restava immobile, con il braccio ancora aperto dopo essersi iniettato la droga. Overdose. Una sigaretta accesa aveva fatto il resto. Khadidja cercò sua madre. La scorse, rannicchiata contro il marito, con i capelli in fiamme. Si disse: «Non hanno sentito niente, non hanno sofferto», e proprio in quel momento i loro corpi cedettero, sprofondarono nel letto perdendo ogni materialità. Forse era solo un'allucinazione, un'altra deformazione dovuta alle lacrime e alle fiamme... Come quell'ultima immagine lancinante: il braccio aperto di suo padre che si staccava dal busto e cadeva a terra come un ceppo nel fuoco del camino. Quando si svegliò era stesa in un letto d'ospedale e respirava attraverso una maschera. Un medico le parlava, in tono affettato. Il fratellino e le due sorelle erano salvi, ma bisognava andare a riconoscere i corpi dei genitori. Lei era la maggiore, no? Due giorni dopo la portarono davanti a un cassetto refrigerato. Si tenevano stretti: impossibile separarli; due masse nerastre, incollate l'una all'altra. Di fronte a quei corpi carbonizzati, Khadidja scoppiò in singhiozzi. Una crisi nervosa. La portarono via, la consolarono, la sommersero di parole confortanti. Ma era l'odio a sommergerla. La rabbia, l'amarezza accumulate da tanto tempo che infine esplodevano. Una collera irrefrenabile davanti a quelle forme irriconoscibili. Si ponevano di nuovo al di là di ogni giudizio, di ogni accusa. Li lasciavano soli al mondo, e ancora sfuggivano alle loro responsabilità. Quei bastardi! Si calmò nel corridoio dell'obitorio. Si ricordava ancora della voce del medico. Solo di quella, non della sua faccia. Una voce dolce, che la esortava alla calma. Sempre quel tono di merda. E la futilità delle parole. Credette di aver chiuso con i due mostri. Ma si sbagliava. Lo psicologo l'aveva avvertita: uno shock del genere - un «ematoma dell'affetto», l'aveva chiamato - non si supera facilmente. Aveva ragione. A sua insaputa, il fuoco si era impadronito di lei. Si era bruciata, innanzitutto. Non se n'era nemmeno resa conto. Per parecchio tempo la pelle dell'avambraccio sinistro fu rugosa come quella di una tartaruga. Ma Khadidja si era bruciata anche interiormente. Ogni notte, il fuoco tornava. Suo padre la guardava, con le pupille in fiamme. E il suo braccio cadeva, continuava a cadere, togliendole il sonno, pugnalandola al ventre. Nessuno lo vedeva, ma lei bruciava viva. Per anni Khadidja fu convinta di appartenere a una generazione post-atomica, come le vittime contaminate di Hiroshima, i cui stessi geni erano arrostiti, e che non potevano produrre che tumori e generare bambi-
ni-mostri. Furono anche altri i danni provocati dal fuoco. Lei aveva sedici anni: non poteva ottenere l'affidamento dei fratelli. Fece richiesta di maggiore età anticipata: respinta. I quattro fratelli furono sparpagliati in istituti diversi. Khadidja non si arrese. Ogni settimana correva a Trappes, dove era ospitato il fratello, poi a Melun, dove l'aspettavano le sorelle. Ma non servì a niente. Nel giro di due anni, quando lei fu infine diciottenne, erano diventati degli estranei. Senza confessarselo, ognuno di loro capiva che quegli incontri servivano solo ad alimentare dei brutti ricordi. Le botte. La droga. L'incendio. E i due torturatori che avevano rovinato la loro infanzia. Khadidja li abbandonò al loro destino. Per il loro bene. Anche se ciò aveva dato i peggiori risultati. Samir, il fratellino, l'ultima volta l'aveva visto nel parlatorio della prigione di Fresnes, dov'era stato rinchiuso per un furto in un ospedale. Durante la visita non le aveva parlato d'altro che di un concorso di rap al quale partecipava dentro al carcere. Khadidja non ascoltava: lo osservava e cercava su quel viso incanaglito le tracce del piccolo Samir che aveva tanto amato, coccolato, protetto, quello a cui mancava sempre qualche dente e che lei chiamava il suo «piccolo gruviera amoroso». Se n'era andata sapendo che non sarebbe tornata più. Il fuoco si richiudeva sui suoi passi. Sentì chiamare il suo nome. Khadidja strizzò gli occhi: la stanza era mezza vuota. Seguì l'assistente vacillando, ancora immersa nei ricordi. L'ufficio della selezione non era in condizioni più brillanti della sala d'attesa: un ammasso di scatoloni, mobili che avevano visto tempi migliori, puzza di tabacco stantio. Dietro un tavolo di ferro due tizi con in testa berretti da baseball discutevano a voce bassa, stravaccati sulle sedie, passando in rassegna i composite sparsi davanti a loro. Sembravano due adolescenti sfiniti dal troppo masturbarsi di fronte a una raccolta di vecchi «Playboy». Khadidja posò il suo book sul tavolo, senza una parola (era da un pezzo che non sprecava più la saliva). I due guardarono le sue foto. Khadidja poteva vedere solo le visiere dei berretti. Su una si leggevano la «N» e la «Y» intrecciate della sigla di New York. L'altra portava il logo della Budweiser. Nell'universo della moda, a un certo livello, la tendenza uomo-della-massa era un valore sicuro. L'equivalente dell'ironia, ma in un mondo privo di senso di umorismo. I due si misero a ridacchiare. Khadidja sobbalzò: «Cosa c'è?»
Uno alzò la testa: faccia abbronzata, barba di tre giorni. Prese uno dei composite infilati nel book e lesse il nome: «Le tue foto, Khadidja, non sono quel che si dice una meraviglia.» «"Ra-did-ja"», corresse lei accentando la prima sillaba. «Si pronuncia "Ra-did-ja".» «Sì sì, d'accordo», concesse lui grattandosi la nuca. «Cos'hanno che non va?» «Le inquadrature, il trucco, te. Tutto.» Khadidja sentì il fuoco tornare a invaderla, a crepitare sotto la pelle: «Cosa devo fare?» «Cambia fotografo.» «È la mia agenzia che...» «Be', cambia anche agenzia. Per le sopracciglia, conti di fare qualcosa?» «Le sopracciglia?» «Ti spiego. Esistono degli strumenti. C'è anche la ceretta. O la pinzetta per togliere i peli. In ogni caso non puoi tenerti quella foresta sopra gli occhi.» L'uomo non rideva più. C'era una vena di stanchezza nella sua voce. Da quella mattina, Khadidja doveva essere la cinquantesima ragazza che lui umiliava. Al suo fianco, l'altro continuava a sfogliare le fotografie, facendo schioccare le pagine. Lei ebbe come un lampo: rivide suo padre, raggomitolato sul divano del salotto, che passava i pomeriggi a girare le pagine delle riviste, nello stesso modo, con lo sguardo fisso, aspettando l'ora della dose... Questa visione le restituì la sua coerenza: la ribellione costante che costituiva la sua spina dorsale. Sorrise riprendendo il suo book. Più che mai, era decisa a piacere a quei due, a sedurli. Li avrebbe vinti sul loro stesso terreno. Presto, sarebbero stati loro a bruciare di desiderio. E la torcia sarebbe stata il suo corpo. 12. I giorni passavano ma l'impiego del tempo restava immutato. Le cinque, risveglio. Attraverso il lucernario, l'azzurro cupo della notte. Alzandosi sulla punta dei piedi Jacques poteva osservare gli altri edifici. Dalle finestre palpitavano delle luci. Si percepivano i primi rumori: tosse, pipì, abluzioni. Il ru-
more cresceva, ancora ovattato, ma punteggiato di tintinnii, di grugniti, di grida. L'enorme bestia si svegliava. Le sei, luce. Bagliore anemico delle lampadine da 60 watt. Ferita sorda sotto le palpebre. In contrappunto i secondini sfilavano nei corridoi, picchiavano a ogni porta, attraversavano il cortile. Era l'ora della nausea. A poco a poco Jacques prendeva coscienza di ogni sensazione, già intollerabile. I muri, troppo vicini. Il caldo, soffocante. La corsa degli scarafaggi, lungo la stuoia. E gli odori. Kanara, nonostante tutti i suoi sforzi per essere pulita, era un marciume. Ogni pietra, ogni lastra, ogni crepa era abitata dall'umidità. Persino al culmine della stagione secca, i materiali conservavano in memoria il monsone. Si aggiungevano altri odori: urina, merda, sudore... Il concerto delle esalazioni organiche che sembravano concentrarsi, addensarsi fra quei muri. Poi, gli effluvi dalle cucine. Pesanti, grassi, persistenti. Preparativi per la colazione. Ma prima bisognava ancora subire qualche prova. Le sette. L'appello. La malattia delle prigioni. Il rito dell'appello - il muster, in malese - si ripeteva cinque volte al giorno. Non era più una verifica, era uno scongiuro. Come se quella litania potesse impedire la minima assenza, il minimo tentativo di evasione. Rumore secco di chiavistelli. Raschiatura di porte. Rimbombo sordo di passi. Questi suoni finivano col diventare altrettanto familiari, altrettanto intimi dei battiti del cuore. Adunata nel grande cortile. Alla vista di tutti quegli uomini, Jacques sentiva crescere la nausea. Duemila detenuti, accucciati, come pezzi di carta accartocciata, relegati al rango di numeri. Le sette e trenta. Inno nazionale, sotto il sole. Poi, finalmente, la colazione. I prigionieri si sparpagliavano per riassembrarsi in fila d'attesa, lungo l'edificio della mensa. E di nuovo il formicaio si disperdeva nel cortile: tanti puntini concentrati sulla brodaglia del mattino. Jacques approfittava di quel momento per filare alle docce. Munito del suo gayong (una scatola di plastica con dentro sapone, dentifricio e il necessario per radersi), l'asciugamano e una maglietta pulita sulla spalla, penetrava nell'edificio situato a trecento metri dal refettorio. Disponeva di una doccia personale nella sua cella, ma gli piaceva quell'edificio a cielo
aperto, quell'istante di solitudine, fra le grandi cisterne d'acqua. Rispondeva al proprio appello personale. L'appello dell'acqua... Le otto. Inizio della corvée. Variavano, da una settimana all'altra. Si era alla fine di febbraio e bisognava grattare i cancelli e le sbarre della prigione, prima che gli operai specializzati venissero a stenderci sopra una vernice antiruggine. Con il viso protetto da uno straccio, i «volontari» grattavano, raspavano, limavano, coprendosi di polvere di ferro, confondendosi a poco a poco con le sbarre di metallo. Le nove, fine della corvée. Apertura dei laboratori. Eric lo aveva avvisato: trovandosi in carcere preventivo, Reverdi non aveva diritto all'attività nei laboratori. Restava quindi con i vecchi, gli sciancati, i malati. Il caldo la faceva allora da padrone. Con lo scorrere delle ore diventava una presenza incontrollabile, una sfera senza confini. Jacques s'installava sotto il porticato, salvaguardando la propria solitudine, evitando di ascoltare le idiozie che gli altri farfugliavano nel loro dialetto. Pettegolezzi, dicerie, storie di amok e di kriss, quei pugnali malesi a lama ricurva assetati di sangue, dicevano. Alle dieci cominciava lo sport. Esercizi di riscaldamento. Addominali. Flessioni sulle braccia. Poi manubri: qui, al posto dei pesi, si arrangiavano con dei blocchi di cemento. In generale i detenuti allenano il corpo per uscirne più forti, più pericolosi. Nel suo caso, che senso aveva? Era una questione di filosofia: voleva morire in piena forma. Inoltre provava piacere a mantenere il suo corpo all'erta. Sentire quella forza scorrere sotto la pelle, come una luce, un olio dorato che irradiava ogni singolo muscolo, ogni singola particella della carne... C'era un altro vantaggio in quella sua esibizione: mostrava il suo vigore fisico. Mentre faceva gli esercizi indovinava gli occhi posati su di lui, attraverso le finestre dei laboratori. Anche i guardiani soppesavano, con la coda dell'occhio, la sua forza in azione. Le undici e trenta. Nuovo appello. Mezzogiorno. Pranzo. Mangiava senza voglia, senza appetito, ma contava sempre, con grande
precisione, le calorie. In quelle circostanze, nutrirsi era un atto di sopravvivenza. Grazie alla complicità di Jimmy, aveva potuto migliorare il rancio che gli spettava: un frutto, zucchero e latte supplementari. Le quattordici. Ritorno ai laboratori. Per lui, l'ora della siesta. Il momento peggiore. Le mosche, enormi, frenetiche, gli si schiantavano contro il viso, cercando gli occhi. Sonnolento, relegato come gli altri al rango di larva inerte, Jacques si stendeva a terra e incominciava a confondere, sullo schermo bianco del cortile, mosche e uomini. Le quindici e trenta. Nuovo appello. Le matricole, le braccia che si alzano, i mormoni... Diventava come un'ipnosi. Ma allora Jacques si svegliava. Si rimproverava di essersi lasciato andare. Percepiva il suo corpo, che funzionava, palpitava in mezzo a tutti quegli zombi. Una macchina clandestina che funzionava senza far rumore, incurante del caldo, della sorveglianza, della presenza degli altri. Non era morto. E fino all'ultimo istante avrebbe sprizzato quella vitalità programmata, e incorruttibile. Le sedici. Cena. Dalle sedici e trenta in poi: libera attività. Libera in che senso? Il cortile si animava via via che il caldo torrido allentava la presa. I detenuti trafficavano. Si barattava; si trattava con i secondini per uno scambio di favori; ci si comprava delle cretinate in una specie di negozio installato sotto una tettoia. E soprattutto, ci si comprava la roba. La prigione rivelava la sua logica interna, fondata sulla corruzione più totale. Si poteva ottenere tutto, a condizione di avere della grana o qualcosa da scambiare. Reverdi si era accordato con Jimmy per disporre di denaro, ma non ne abusava. I suoi desideri non potevano essere esauditi da un transistor o da qualche tavoletta di cioccolato. Ancora meno da una dose. Le diciotto. Ritorno in cella. Quando la porta si richiudeva dietro di lui Jacques restava impietrito, incredulo. Aveva veramente vissuto una giornata? Il peggio doveva ancora venire. Una notte di dodici ore. Chiuso fra quattro mura, senza la minima occupazione. In quel momento odiava la sua cella. A quell'ora puzzava più
che mai di morte e di salnitro. Un mondo sotterraneo, invisibile, abitato da insetti e topi, incombeva su di lui. Quella sera, senza rendersi conto, lanciò un'occhiata verso il lucernario. Filtrava ancora la luce abbagliante del giorno. Pensò alla capanna fra i bambù. L'ultima Camera. Si ricordò di come avesse fallito la sua missione, cedendo al panico, cedendo alla... L'istante in cui la parola «follia» gli si delineò nella mente, stramazzò a terra, le gambe prive di forza. Si raggomitolò, vicino al muro, e soffocò i singhiozzi. Avrebbe dato qualsiasi cosa per ritrovare una ragione di vivere, di vibrare... anche per i pochi mesi che gli restavano. Lo sferragliare del chiavistello gli fece rialzare il capo. La porta della cella si aprì: «Jumpa!» 13. Jimmy Wong-Fat era nella sua solita tenuta. Abito chic sbracato, cartella rossa e bicchierino di caffè. Jacques non si capacitava che quel grosso pezzo di lardo fosse diventato la sua sola distrazione. «Cattive notizie», esordì. «Ho ricevuto un primo rapporto degli psichiatri di Kuala Lumpur che sono venuti a interrogarla per la controperizia. Contavo molto su questo rapporto. Le loro conclusioni sono negative. Secondo loro, lei è sano di mente. Pienamente responsabile delle sue azioni.» «Ti avevo avvertito.» Jimmy camminava intorno al tavolo, sudava un po' meno del solito. Jacques era incatenato al pavimento. «Lei sembra non capire», sibilò. «Se non trovo una scappatoia, una qualunque, siamo nella merda. La pena capitale.» Reverdi restò in silenzio. Non aveva voglia di ripetere quello che aveva già detto. Preferì cambiare argomento: «Hai i libri?» La domanda sconcertò l'avvocato. Esitò un istante, poi frugò in una grossa borsa posata accanto al tavolo. Reverdi aveva deciso di dare fiducia al cinese: gli aveva firmato una procura per uno dei suoi conti bancari. Wong-Fat posò sul tavolo una pila di volumi. Jacques scrutò rapidamente i dorsi: il Kanjur, gli Yoga-Sutra, il Rubaiyat del sufi Mawlana... «Non ci sono tutti.» L'avvocato tirò fuori una lista e la scorse:
«La Bibbia di Gerusalemme. I Discorsi di Meister Eckhart. Le Enneadi di Plotino. Dove vuole che trovi questa roba?» «Sono tradotti in inglese.» Jimmy s'infilò la lista nella tasca: «Lo so, diamine. Li ho già ordinati.» Pescò di nuovo nella sacca. «Almeno, ho trovato un paio di pantaloni della sua taglia.» Li posò sul tavolo, ben piegati, con aria soddisfatta. Poi si sedette e incrociò sopra le mani. «Torniamo alle cose serie. Sta seguendo la cura?» «La cura?» «Quella che le ha prescritto il dottor Norman. È tenuto a prendere quotidianamente degli ansiolitici. Voglio sapere se rispetta questa prescrizione. E se ha incontrato lo psichiatra di Ipoh ogni mercoledì, com'era previsto. È tutto in ordine da questo punto di vista?» Jacques pensò a Eric, che trafficava con le sue pillole: non ne aveva presa neanche una. Quanto allo psichiatra di Ipoh, l'aveva visto una sola volta e lo confondeva con gli esperti inviati da Jimmy: anche loro dei tamil che facevano le stesse domande nebulose. «È tutto a posto.» «Benissimo. Il fatto che lei segua una cura è molto importante per il suo profilo.» Reverdi scosse il capo. Wong-Fat agitò l'indice: «C'è comunque una buona notizia. I genitori di Pernille Mosensen hanno inviato a Johor Bahru un avvocato danese per assistere la parte civile. C'è anche un'associazione, credo siano dei tedeschi, che ci mette il naso. Tentano di riesumare il caso della Cambogia. Al pubblico ministero la cosa non andrà a genio, gliel'assicuro. L'accusa si sta rendendo antipatica. Tutto a nostro vantaggio.» Reverdi ascoltava a malapena questi argomenti triti e ritriti. Decise di punzecchiare un po' il suo buffone: «Quando ti masturbavi da tuo padre, usavi gli insetti?» «Sono venuto a fare il mio lavoro. Lei non mi trascinerà nel...» «E quando t'infili le piccole vergini, guardi il colore del loro sangue?» «Bene», emise l'avvocato a denti stretti. Chiuse la cartella. Uno scolaro contrariato. Reverdi domandò: «Non sei più interessato alle mie confidenze?» Il cinese sollevò le palpebre. Jacques gli regalò un sorriso: «E se ti dicessi che non sono stato io a uccidere Pernille Mosensen?»
«Cosa?» «Un bambino.» «Cosa dice?» Reverdi si cinse le spalle con le mani, come se all'improvviso provasse un gran freddo. Il tintinnio delle catene sul suo torace. «Il bambino-muraglia», sussurrò. «Il bambino che è in me... che trattiene il respiro...» Wong-Fat si chinò in avanti, come un prete contro la grata del confessionale: «Ripeta, per favore.» «Ti ricordi del mio segno sulla nuca?» Parlava con la testa infossata fra le braccia incrociate, tendendo la nuca verso Jimmy. «Ti ricordi dello shock di cui ti ho parlato?» La sua voce usciva soffocata. «È a quell'epoca che è nato il bambino-muraglia...» Si prese la testa fra le mani: «È grazie a lui che gli sono sfuggito.» «Sfuggito? A chi?» «Ai volti... dietro le maglie di giunco. I volti che s'insinuavano sotto la mia pelle. Senza il bambino, sarei diventato...» Reverdi rialzò la testa, con un grande sorriso: «Lascia perdere. Scherzavo.» Il cinese era livido. Il tumulto dei suoi pensieri si traduceva nei tic che gli alteravano i lineamenti. «È intollerabile. Lei si prende gioco di me. Non capisco il suo atteggiamento.» Afferrò la cartella e la sacca. «Preferisco tornare un'altra volta.» Si alzò. Jacques era deluso: non si era divertito neanche un po' con la sua piccola messinscena. Decisamente, questo cumulo di grasso non lo interessava. «Dimenticavo. La posta.» Jimmy fece scivolare sul tavolo una grossa busta kraft. «Richieste d'interviste. Proposte di avvocati. Lettere d'amore.» Sogghignò. «Un vero divo.» Con due dita, Reverdi dischiuse la busta. Tutte le missive erano aperte. «Le hai lette?» «Tutti le hanno lette. Lei si trova a Kanara, non allo Sheraton.» Wong-Fat si asciugò il viso sulla manica. «Il direttore del carcere ha chiesto un traduttore alla sua ambasciata per
sapere, parola per parola, il contenuto delle lettere. Dopodiché, ho dovuto pagare per riavere il tutto dai guardiani. È la regola.» Jacques estrasse qualche lettera dalla busta: «Prendi i soldi dal mio conto.» «Già fatto.» Gli indirizzi erano scritti a mano. Si soffermò su alcuni: grafie arrotondate, curate. Grafie di donne. Posò le catene sul pacchetto e disse, senza guardare l'avvocato: «Grazie. Alla prossima.» 14. Nella sua cella, Reverdi sparse la posta sul pavimento. Come minimo un centinaio di lettere. Fu invaso da un'ondata di orgoglio. Era imprigionato a Kanara da meno di tre settimane e già gli arrivavano messaggi dai quattro angoli dell'Europa, con la Francia in testa. Suddivise accuratamente le buste in tre categorie, poi s'immerse nella lettura. Prima di tutto, i media. Mise rapidamente da parte le richieste di interviste. Quattro lettere di editori completavano la serie: «Non scriverebbe le sue memorie?» Sfogliò ancora più in fretta il gruppo successivo: le autorità. L'ambasciata francese gli aveva scritto varie volte, interrogandosi sul suo silenzio. Allegava anche varie lettere di avvocati francesi: esperti di diritto internazionale che avevano già trattato casi più o meno analoghi - di europei detenuti nel Sudest asiatico per traffico di droga - e che gli proponevano la loro assistenza. C'era anche chi precisava che avrebbe rinunciato all'onorario. Le loro intenzioni erano chiare: difendere Reverdi equivaleva alla garanzia di essere, durante il processo, al centro di tutti gli sguardi. C'erano anche lettere di associazioni umanitarie che volevano assicurarsi che le sue condizioni di detenzione fossero corrette. Da morire dal ridere. Gettò queste carnevalate in un angolo. Passò alle lettere private. Molto più eccitanti, di qualunque tenore fossero: odio, premura, fascinazione, amore... La lettura gli prese più di un'ora. Un'altra delusione. Facevano a gara per stupidità. Gli insulti e le parole di benevolenza erano sullo stesso piano quanto a mediocrità. Ma era la forma a interessarlo. Ciò che si poteva leggere fra le righe, sotto i giri di frase. A ogni virgola, sentiva la paura, l'eccitazione, l'attrazione. Anche le grafie gli piacevano: il contatto della mano sulla carta, la traccia di un fremito, a ogni fine di parola. Era come se quelle donne - erano prati-
camente tutte lettere femminili - gli sussurrassero all'orecchio. O gli sfiorassero la pelle. Come le foglie di bambù. Chiuse gli occhi, lasciandosi accarezzare dal ricordo. Le fronde. Il mormorio. La via da seguire... Poi ricominciò da capo, scrutando minuziosamente ogni lettera alla debole luce della lampadina. Contava gli errori di ortografia, di sintassi. Era sorpreso dalla banalità di quei testi. E irritato dalla familiarità del tono. Pretendevano di odiarlo, di commiserarlo o, ancora peggio, di capirlo e amarlo... ma sempre adottando un tono molto intimo. Eccessivamente intimo. E qui, c'era una lettera che superava tutte le altre. Quasi notevole, per la sua ingenuità. La lesse varie volte, ricavandone un sentimento ambiguo; disprezzo misto a collera. Parigi, 19 febbraio 2003 Gentile Signore, mi chiamo Elisabeth Bremen. Ho ventiquattro anni e sto preparando una tesi per la laurea in psicologia, alla facoltà di Nanterre (Paris X), sul profiling, quel metodo che in Francia viene chiamato «aiuto psicologico all'indagine» e che consiste nell'identificare il profilo psicologico di un omicida in base all'analisi della scena del delitto e degli altri indizi a disposizione degli inquirenti. Nel corso delle mie ricerche, in particolare in occasione degli incontri con vari detenuti, mi sono resa conto che l'argomento della mia tesi era in realtà un pretesto per affrontare il tema che più mi sta a cuore: la pulsione criminale. In questi ultimi mesi ho di conseguenza deciso di cambiare tema, di focalizzare l'attenzione sugli stessi detenuti e di tentare di costruirne il profilo psicologico, al di fuori di ogni considerazione penale o morale. Contavo anche di delineare una sorta di «metaprofilo», raggruppando i punti comuni, attraverso la storia, la personalità, il modo di agire dei detenuti... Ero in questa fase delle mie ricerche quando, il 10 febbraio scorso, mi sono imbattuta nei primi articoli sul suo arresto e sulle sue straordinarie circostanze. In quel momento ho preso una decisione: concentrare interamente la mia tesi su... lei. Ovviamente questo nuovo orientamento non sarà possibile senza il suo accordo, vale a dire il suo aiuto. Non posso pensare di svolgere questo lavoro senza la certezza che lei accetterà di rispondere
alle mie domande... Jacques sospese la lettura. Non soltanto lei lo catalogava, con freddezza, fra i serial killer, ma lo faceva in una lettera che sarebbe stata letta da altri, quando ancora il processo non aveva avuto luogo. Certo, lo stesso atteggiamento lo avevano la maggior parte degli autori delle lettere sparse sul pavimento, ma in questa c'era un candore, un'idiozia, che le superava tutte. E la cosa continuava per parecchie pagine: Non disponendo di molti soldi, purtroppo non posso permettermi il viaggio, perlomeno non nell'immediato. Ma ho già pensato a un questionario che potrebbe consentirci di stabilire un primo contatto. Vorrei inviarglielo al più presto. Sempre meglio: gli chiedeva praticamente una confessione. Perché non una formale dichiarazione di colpevolezza? Proseguì la lettura, stregato da tanta idiozia: Vorrei spiegarle la mia idea: grazie alle mie conoscenze di psicologia, penso di poter cogliere quello che altri non hanno percepito, nemmeno intuito di sfuggita. D'altra parte, con le mie domande, e i commenti che le invierò successivamente, posso portarla a vedere più chiaro dentro di sé. Non sono ancora una psicologa professionista, ma posso aiutarla a sopportare meglio certe verità... Reverdi accartocciò il foglio che aveva in mano: sentiva montare la collera, in onde brucianti. Chiuso là dentro, era esposto agli sguardi e alla curiosità di tutti. Prigioniero di uno zoo, sottoposto alla contemplazione indiscreta e malsana di chiunque. Abbassò le palpebre e cercò dentro di sé un'oasi di calma, che gli lenisse il corpo e la mente. Riacquistata la padronanza di sé, spianò la pagina: voleva terminare quel viaggio fino al massimo della stupidità. Sorpresa: l'ultima parte era più interessante. Vi coglieva a un tratto una giustezza di tono che era in netto contrasto con il tenore pretenzioso dell'inizio. La studentessa arrischiava un paragone fra l'apnea e i delitti:
Forse mi spingo troppo in là, e troppo in fretta, ma intuisco, come dire?, una sorta di analogia fra i fondi marini e le oscure pulsioni che lei subisce. Nei due casi c'è l'oscurità, la pressione, il rischio, le condizioni avverse. Ma c'è anche, in un certo modo, una barriera di purezza, un baluardo sconosciuto... Come esprimermi? Avverto, in questi atti e queste immersioni, una stessa volontà di esplorare, di superare sé stessi. E soprattutto, la stessa vertigine, la stessa tentazione irresistibile. Vorrei possedere questa vertigine, provarla accanto a lei, in modo che i nostri punti di vista coincidano. Non voglio giudicare ma condividere. Se, per buona fortuna, lei accetta di guidarmi, di prendermi per mano e farmi scendere, con lei, sotto la superficie, allora sarò pronta a udire qualsiasi cosa. Ad andare fino in fondo, con lei. Queste parole incollate insieme non significavano granché, ma Jacques vi percepiva un accento di sincerità. Questa ragazza era pronta a lanciarsi, anima e corpo, in un viaggio verso le tenebre. Il suo istinto di predatore gli faceva però anche cogliere, fra le righe, una certa duplicità. Questa «ingenua» non era forse così pura come voleva sembrare. Odorò il foglio manoscritto: era profumato. Fragranza di donna. O meglio: di ragazza che gioca a fare la donna. Ci avrebbe scommesso che era Chanel. N. 5. Sì, Elisabeth non voleva semplicemente spaventarsi, voleva eccitarlo, sedurlo, era pronta a seguirlo fin nella sua tana... Buttò la lettera sul pavimento e contemplò quell'ammasso di idiozie, di indiscrezioni, di errori di ortografia. Una processione di scarafaggi zampettava già fra i fogli. In quell'istante, le luci delle celle si spensero. Le ventuno. Con il piede Jacques spinse in là il mucchio di lettere e si distese accanto al muro. La collera gli era passata, ma restava l'amarezza. Non gli importava della morte, ma per la prima volta si rendeva conto di essere solo, incompreso, e che la sua «opera» sarebbe morta con lui. Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto da un'idea subliminale. C'era in quella lettera qualcosa di stonato, che non riusciva a identificare. Si alzò e prese la torcia. La tenne fra i denti per avere le mani libere e si mise a frugare fra le carte. In pochi secondi ritrovò la lettera di Elisabeth Bremen. Qualcosa gli era sfuggito, ma cosa? La rilesse rapidamente; niente di nuovo. Trovò la busta, ci guardò dentro: vuota. La esaminò per dritto e per rovescio. Sul retro, incappò nell'in-
dirizzo del mittente. Elisabeth Bremen non aveva scritto il suo indirizzo personale, ma quello di un fermo posta, nel IX arrondissement di Parigi. Ecco il dettaglio che cercava. Malgrado le sue belle parole, malgrado la volontà di avvicinarsi a lui, la studentessa aveva preso questa precauzione. Aveva paura. Come le altre. Tendeva la mano verso la belva, ma con prudenza. Jacques spense la torcia e sorrise nell'oscurità. Si sarebbe divertito un po'. 15. Marc era particolarmente orgoglioso della sua lettera. L'aveva concepita, maturata e limata con estrema cura. Non c'era una parola, non un dettaglio che non fossero frutto di una lunga riflessione. Marc seguiva una strategia: non era il caso di fare i furbi con un simile assassino, di interrogarlo per vie traverse. Jacques Reverdi era un essere dotato di un'intelligenza acuta. Un predatore dall'istinto infallibile. Il solo mezzo per catturarne l'attenzione era l'attacco frontale, fingere l'innocenza e dargli l'impressione che fosse lui a dominare la situazione. Ecco perché Marc ci aveva dato dentro con la pretesa ingenuità. Per poi, nella seconda parte della lettera, lasciar trasparire un che di ambiguo. Elisabeth non era forse così idiota, così sprovveduta come voleva far credere... Una volta definito il testo, Marc si era dedicato alla ricerca della grafia giusta. Per ore, attingendo dal suo archivio personale - riceveva molte lettere di donne al «Limier» - aveva copiato e ricopiato la scrittura delle sue corrispondenti, riproducendo quelle sillabe diligenti, forgiandosi a poco a poco una grafia femminile. Aveva comprato della carta da lettere, piuttosto costosa, e optato per una stilografica. Poi aveva deciso di aggiungere un tocco personale alla lettera: l'aveva profumata, con molta discrezione. In un primo tempo aveva pensato a un profumo adatto a una ragazza - Anaïs Anaïs di Cacharel - poi si era ricreduto. Elisabeth, ventiquattrenne, non avrebbe usato una fragranza da adolescente. Avrebbe invece scelto un profumo da donna: forza, seduzione e maturità. Il N. 5 di Chanel. La lettera era pronta. Non restava che l'ultimo punto da sistemare, cruciale: l'indirizzo del mittente. Non poteva dare il proprio. Aveva pensato a
una casella postale, ma la cosa sarebbe parsa troppo impersonale. Si era deciso per il fermo posta. I veri problemi erano iniziati con la Posta. Avrebbe dovuto immaginarselo. Aveva sempre detestato quell'ente: il colore giallo dei suoi loghi, le interminabili file d'attesa, il suo sistema di timbri, talloncini, collage, più degno di un corso di attività pratiche infantili che di un'azienda del XXI secolo. La Posta era dunque rimasta fedele al suo motto: «Perché rendere qualcosa semplice se si può renderlo complicato?» Impossibile aprire un «contratto di spedizione temporanea fermo posta» fornendo un nome e cognome qualsiasi. Si poteva fruire di questo tipo di servizio solo se si riceveva della corrispondenza a proprio nome. Marc aveva fatto un secondo tentativo in un altro ufficio postale, raccontando questa volta una bugia: desiderava aprire un «contratto di spedizione» per un'amica, immobilizzata da un incidente, e domiciliare tale contratto in quell'ufficio postale. Le lettere sarebbe venuto a ritirarle lui. Scettico, il funzionario gli aveva spiegato la procedura: la sua amica doveva scrivere una delega in suo favore. Ma attenzione: alla presenza di un postino, che avrebbe fatto da testimone. Marc credeva di sognare. Solo allora sarebbe stato possibile fare un contratto, ma Marc sarebbe stato obbligato a presentare, ogni volta, le due carte d'identità: la sua e quella dell'amica. Marc era uscito stralunato dall'ufficio, i moduli da compilare stretti in mano. Aveva considerato il problema sotto tutte le angolazioni e individuato la sola vera difficoltà: doveva procurarsi il passaporto o la carta d'identità di una donna. Poi sarebbe stato obbligato a conservare quel nome e cognome per le sue lettere. Dove trovare un simile documento? Aveva alle spalle una solida esperienza in fatto di furti e scassi. Retaggio dei tempi dell'«Arraffatore». Ma non poteva svaligiare un appartamento a caso. Pensò di recarsi in una piscina e di forzare l'armadietto di una frequentatrice precedentemente individuata. Ma implicare una persona reale in un progetto simile era fuori questione. Dopotutto, si trattava di tendere una trappola a un assassino. Era in un vicolo cieco. L'indomani mattina, al risveglio, ebbe un'illuminazione. Bisognava rubare il passaporto di una turista, una donna di passaggio in Francia. Pensò alla Cité Universitaire, situata nei pressi della Porte de Gentilly: la maggiore concentrazione di studenti stranieri a Parigi. Visitò il campus: un agglomerato di edifici negli stili architettonici più diversi che ricordava le grandi
esposizioni universali del secolo passato. Incrociò un palazzo italiano, un maniero inglese, una chiesa luterana, gli sfilarono davanti gallerie con ornamenti latini, facciate di mattoni, scalinate punteggiate di figure africane. Dove andare? In un dormitorio? E qual era il momento buono per agire? In pieno giorno? L'idea: gli spogliatoi di una struttura sportiva. Trovò la palestra delle arti meccaniche, a sud del campus. Era situata nel seminterrato di un blocco «sovietico» di sette piani. S'infilò nel corridoio. Giù in basso, attraverso le finestre munite di sbarre, scorse uno spazio tappezzato di linoleum verde, con delle linee tracciate sul pavimento. Un colpo di fortuna: era in corso una partita di pallavolo. Una partita femminile! Trovò gli spogliatoi: non erano nemmeno chiusi a chiave. Di fronte a una fila di attaccapanni, una serie di armadietti di ferro erano sigillati da lucchetti. Si era portato il necessario. Infilò un cacciavite nella prima ansa di metallo e la fece saltare. Al terzo armadietto, aveva il suo passaporto: una tedesca. Eppure, eccitato da quelle intimità violate, da quegli odori di donne e dalla biancheria intima in cui s'imbatteva, proseguì nel saccheggio. Scoprì altri passaporti, tessere studentesche... Doveva essere arrivato al decimo scasso quando capitò su un tesoro. Una fortuna sfacciata: un passaporto svedese a nome di... Elisabeth! Chiuse il pugno sul documento color bordeaux. Frugò ancora nella borsa e trovò la tessera studentesca corrispondente, per i corsi della Cité Universitaire. Non perse nemmeno tempo a guardare la fotografia. Il nome era perfetto: Elisabeth Bremen. L'indomani tornò al secondo ufficio postale, in Rue Hippolyte-Lebas, quello in cui il funzionario gli aveva spiegato i passi da compiere. L'uomo, un piccolo asiatico con la coda di cavallo, storse il naso: «Non ha seguito la procedura. Bisogna che il postino...» Marc non gli lasciò finire la frase: fece scivolare sotto il vetro il passaporto e la tessera studentesca di Elisabeth. «Abita nella Cité Universitaire. Un vero labirinto.» «Che cos'ha esattamente?» chiese il funzionario con tono più conciliante. «L'anca. Si è rotta l'anca. Giocando a pallavolo.» L'uomo scosse il capo, poco convinto, e intanto sfogliava i documenti. Dietro a Marc, la fila d'attesa si allungava. L'asiatico alzò gli occhi: «C'è una cosa che non capisco nella sua storia. Lei vuole ricevere la posta di questa ragazza, d'accordo. Ma perché non a casa sua?»
Marc aveva previsto l'obiezione. Si avvicinò al vetro e piazzò, bene in vista, la mano sinistra davanti al suo interlocutore. Si era infilato una fede matrimoniale all'anulare. Una tattica che usava già ai tempi in cui lo soprannominavano «l'Arraffatore»... per ispirare fiducia. «A casa mia è complicato.» «Complicato?» Marc picchiò tre volte sul vetro con la fede. L'addetto abbassò gli occhi e sembrò afferrare il concetto. «Allora, siamo d'accordo?» Il funzionario finì di compilare le sezioni del modulo riservate all'amministrazione: «Sono diciannove euro.» Marc pagò, sentendo il sudore colargli sulla schiena. L'asiatico gli rese tutta una serie di ricevute e concluse: «Quando verrà a ritirare la posta della ragazza, porti sempre i suoi documenti d'identità. In mancanza del passaporto, niente lettere. È chiaro? E venga da me: sono io il responsabile del fermo posta.» Lo congedò strizzando l'occhio, in segno di complicità. Una volta sul marciapiede Marc avrebbe dovuto rallegrarsi del successo, e invece avvertiva un fondo di angoscia. Confusamente, paventava il seguito degli eventi. A partire dal 1 ° marzo si recò all'ufficio postale tutte le mattine. Era assurdo: da Parigi una lettera ci metteva almeno dieci giorni per arrivare in Malesia. L'amministrazione penitenziaria doveva poi passare in rassegna la posta prima di consegnarla ai prigionieri. Infine, nel caso in cui Reverdi decidesse di rispondergli, bisognava contare ancora almeno fra i dieci e i quindici giorni prima che gli arrivasse la lettera. Ossia più di tre settimane, a essere ottimisti. E lui aveva spedito la lettera il 20 febbraio. Tuttavia, ogni mattina, una forza magnetica lo trascinava verso Rue Hippolyte-Lebas. L'impiegato postale (si chiamava Alain ed era di origine vietnamita) aveva abbandonato l'atteggiamento rigido dell'inizio. Si permetteva persino di fare dello humour. «Buongiorno, signorina!» esclamava quando vedeva arrivare Marc. Oppure, da dietro il vetro, prendeva un tono da poliziotto e chiedeva: «Documenti, prego.» I suoi scherzi non lo facevano ridere. E i giorni passavano, senza risposta. Per quanto riguardava il lavoro, Marc si guadagnava il pane, senza darsi
troppo da fare. In quei giorni aveva lavorato su altri fatti di cronaca nera e su qualche personaggio pittoresco: lo strangolatore del Pas-de-Calais, lo stupratore alla CX... Ma già le cose al giornale andavano male. Le vendite erano in caduta libera. Le previsioni di Verghens si stavano avverando: la guerra in Iraq era imminente e i lettori non si preoccupavano più che di quel conto alla rovescia. Nei periodi di crisi il pubblico non ha più la stessa fame di storie violente e sinistre: gli basta la minaccia del presente. Il 9 marzo gli americani non avevano ancora bombardato l'Iraq. E Marc non aveva ancora ricevuto lettere. Quella sera andò a trovare Vincent. Erano le otto quando entrò nel suo studio. L'artista era in piena attività: fotografie per il book di un'apprendista indossatrice. Era quella la sua vera fonte di reddito. Vincent lavorava per le agenzie o direttamente per le modelle, nel qual caso si faceva pagare in nero. Un autentico affare dal punto di vista fiscale. Si era creato uno stile basato sul flou, con immagini di grande impatto, che faceva furore presso le agenzie e le riviste. Tra le modelle correva persino voce che quelle fotografie portassero fortuna... Quel trionfo sconcertava Marc. Ciò che era cominciato come uno scherzo si era trasformato in una miniera d'oro. In quella fine inverno 2003 il gigante, che Marc aveva conosciuto bardato da paracadutista inglese, casco in mano e dita perennemente macchiate di grasso, era diventato uno dei fotografi più richiesti di Parigi. Si era persino comprato uno studio, annesso a una scuola di architettura, in Rue Bonaparte, nel VI arrondissement. Marc s'intrufolò nella penombra. In piedi dietro al suo apparecchio, al di là delle luci che illuminavano il set, Vincent sproloquiava sul modo migliore di «attraversare le apparenze». Assistenti, parrucchiera, truccatrice, stilisti lo ascoltavano religiosamente mentre una ragazza androgina era braccata dai proiettori abbaglianti. Vincent fece un segno esplicito: «Per oggi basta». Un assistente si precipitò sul suo apparecchio e ne estrasse la pellicola come se si trattasse di una santa reliquia. Altri corsero verso i gruppi generatori. Ci fu ancora qualche crepitio di flash, seguito da lunghi sibili. Quando il colosso scorse Marc, spalancò le braccia: «Ma dov'eri sparito?» Senza rispondere, Marc seguì con gli occhi la giovane modella che s'in-
filava nello spogliatoio. «Lascia perdere», lo esortò Vincent. «Ancora una che si dimentica di mangiare...» Indicò una serie di polaroid sparse sul tavolo luminoso: «Ho molto di meglio in magazzino, vuoi vedere?» Marc non diede neppure un'occhiata. Vincent aprì la porta di un piccolo frigorifero che si trovava in fondo allo studio, vicino al laboratorio di sviluppo: «Continui a non essere dell'umore, eh?» Si avvicinò aprendo una lattina di birra. Marc capì che era già ubriaco. Il fotografo compensava l'assenza di adrenalina del suo nuovo mestiere bevendo grandi quantità di alcol. La sera era in condizioni terribili. Soffiando come un istrice, l'alito che ti atterrava, ti fissava con il solo occhio visibile, lucido e iniettato di sangue. Eppure, fu lui a dire: «Non hai per niente un bell'aspetto. Vieni, ti porto a cena.» Finirono in un piccolo ristorante della Rue Mabillon. Un posto di quelli che piacevano a Marc: affollato, pieno di fumo, assordante. Un concentrato di calore umano dove la «conversazione» si traduceva in baccano generale. Ma Vincent non si lasciava scoraggiare dal frastuono: monologava sulle prospettive del proprio futuro, continuando a buttar giù una birra dopo l'altra. «Ti rendi conto?» farfugliava. «Due delle mie ragazze sono passate direttamente al cachet quaranta! Grazie alle mie foto. Il flou, caro mio: è una manna! Ho deciso di fare anche l'agente. Scatto gratuitamente le prime foto e incasso una percentuale sui contratti che seguono. Posso lavorare altrettanto bene delle agenzie, che non fanno un cavolo, in ogni caso. Sono un mago, io. Uno scopritore di talenti!» Parlava con il tono del seduttore che vuole diventare magnaccia. Con il sorriso sulle labbra, Marc levò il bicchiere d'acqua frizzante e guardò Vincent in trasparenza: «Al flou!» Il colosso alzò a sua volta il boccale: «Ai cachet quaranta!» Scoppiarono a ridere. In quel momento Marc aveva una sola domanda in testa: Elisabeth aveva, sì o no, una possibilità di ricevere una risposta da Jacques Reverdi? 16.
«Viene dalla Malesia.» Il vietnamita aveva un sorriso radioso. Fece scivolare una busta sotto la parete di plexiglass. Marc l'afferrò e dovette mordersi le labbra per non urlare. Era una lettera tutta cincischiata che era stata aperta e poi richiusa; ma era quello che aspettava: la risposta di Jacques Reverdi. Quando intravide, sotto i timbri e gli scarabocchi dell'amministrazione, la scrittura inclinata, regolare, che formava il nome di «Elisabeth Bremen», sentì come un tuffo al cuore. Salutò in fretta Alain e corse allo studio. Sbarrò la porta, tirò le tende delle grandi vetrate e s'installò alla scrivania. Accese una piccola lampada alogena, s'infilò dei guanti di cotone, di quelli che in genere si usano per maneggiare le stampe fotografiche. Aprì la busta con un taglierino e poi, con precauzione, come se si trattasse di un insetto raro e fragile, estrasse la lettera. Un semplice foglio di carta a quadretti, piegato in quattro. Lo stese sul piano della scrivania e, con il cuore che gli batteva forte, si mise a leggere. Kanara, 28 febbraio 2003 Cara Elisabeth, Un soggiorno in carcere è sempre una prova: la promiscuità dei criminali, una noia mortale, umiliazioni e, ovviamente, la sofferenza di essere rinchiusi. Le distrazioni sono piuttosto rare. Ecco perché desidero ringraziarla della sua lettera così entusiasta, così loquace. Era da un pezzo che non ridevo tanto. La cito: «Grazie alle mie conoscenze di psicologia, penso di poter cogliere quello che altri non hanno percepito, nemmeno intuito di sfuggita». Oppure: «con le mie domande, e i commenti che le invierò successivamente, posso portarla a vedere più chiaro dentro di sé...» Elisabeth, lo sa a chi ha scritto? Immagina davvero che io abbia bisogno di qualcuno per vedere «chiaro dentro di me»? Ma innanzitutto, ha riflettuto sulle implicazioni della sua lettera? Lei si rivolge a me come a un assassino, i cui crimini sono stati accertati. Dimentica un particolare: non sono ancora stato giudicato. Non c'è stato il processo e la mia colpevolezza, che io sappia, resta da dimostrarsi.
Le ricordo che in prigione tutta la corrispondenza viene aperta, letta e fotocopiata. Lei ha una tale disinvoltura, manifesta una tale sicurezza quando descrive le mie «oscure pulsioni» e la mia «psicologia» che sembra disporre di elementi determinanti a conferma della mia colpevolezza. La sua letterina costituisce dunque un'incriminazione supplementare nei miei confronti. Ma non è questo l'importante. L'importante è la sua arroganza. Lei si rivolge a me come se desse per scontato che le risponderò. S'informi: sono anni che non accetto interviste. Non ho rilasciato la minima dichiarazione a nessuno. Dove le prende le sue certezze? Perché immagina che risponderò alle domande di una studentessa che pretende di analizzarmi? D'altronde, che cosa sa esattamente di me? Quali sono le sue fonti? Giornali? Documentari? Libri scritti da altri? Come si può pensare di capire una personalità per vie simili? Quanto ai suoi paragoni fra l'apnea e le mie «pulsioni», sappia che sono io, e io solo, a scegliere il mio assoluto, e che tutto ciò è inaccessibile agli altri esseri umani. Elisabeth, la prego: giochi a fare la psicologa con i giovani delinquenti di Fresnes o di Fleury-Mérogis. Se si rivolge a delle associazioni specializzate la metteranno in contatto con detenuti alla sua portata, degni dei suoi piccoli «esercizi pratici.» Non voglio ricevere mai più una lettera del genere. Glielo ripeto: un soggiorno in carcere è una prova. Già abbastanza dura di per sé da non dover subire, in più, gli insulti di una parigina pretenziosa. Elisabeth, le dico addio. Spero di non risentirla tanto presto. Jacques Reverdi Per un lungo momento Marc rimase immobile. Osservava la pagina a quadretti. Era come se un pugno l'avesse colpito in pieno viso. Era completamente rintronato. Eppure, la sua mente era in fibrillazione. I pensieri cozzavano l'uno contro l'altro, prendevano traiettorie diverse; un fuoco d'artificio di idee contraddittorie. Cosa significava quella lettera? Aveva davvero fatto fiasco? Era quella la prima e ultima risposta che avrebbe ricevuto da Jacques Reverdi? O invece, dietro le parole, dietro gli insulti, restava ancora una speranza? La rilesse. Parecchie volte. Alla fine, ne fu sicuro: quella lettera era una
vittoria. Dei segni discreti, tracciati in filigrana, gli mandavano messaggi d'incoraggiamento. Si era sbagliato nella forma, d'accordo, ma l'assassino non gli chiudeva la porta. D'altronde, che cosa sa esattamente di me? Quali sono le sue fonti? Giornali? Documentari? Libri scritti da altri? Come si può pensare di capire una personalità per vie simili? Marc era tentato di tradurre: «Se vuole conoscere la verità, risalga alla fonte. Mi ponga le domande giuste.» Probabilmente peccava di ottimismo, ma non poteva ammettere che Reverdi si fosse preso la briga di scrivere a Elisabeth solo per insultarla. Fra le righe, l'apneista disseminava altre esche: ... sappia che sono io, e io solo, a scegliere il mio assoluto, e che tutto ciò è inaccessibile agli altri esseri umani. Non diceva: «Sono innocente.» Diceva: «Lei non capisce.» Non era un modo per attizzare la sua curiosità? Marc si sentiva accapponare la pelle. Era sempre stato convinto che Jacques Reverdi non fosse un semplice serial killer, un «assassino compulsivo», come lo descriveva Erich Schrecker. Dietro agli omicidi, c'era una coerenza. Una ricerca. Sorriso. Sì, alla fine dei conti ce l'aveva fatta. Il suo attacco frontale aveva irritato il criminale, ma l'aveva spinto a reagire. E questa lettera era un invito a scavare, a interrogare, a togliere i veli. Marc, sempre munito dei guanti di cotone, prese dei fogli e la stilografica che riservava a Elisabeth. Bisognava rispondere subito. A caldo. Bisognava che Elisabeth gli spiegasse che poteva cambiare metodo, che poteva, semplicemente, ascoltare, comprendere, lasciarsi guidare... Ma prima, mea culpa. 17. Parigi, lunedì 10 marzo 2003 Caro Jacques, Ho appena ricevuto la sua lettera. Sono mortificata. Mi perdona la
mia goffaggine? Come ho potuto essere così stupida? Mai vorrei recarle danno. Ancora meno offenderla... Non avevo pensato al fatto che le lettere venivano aperte. Devo confessare che sono completamente all'oscuro delle regole e delle procedure in vigore nelle prigioni malesi. Sono dispiaciuta di aver potuto, con il mio modo di esprimermi, accreditare fatti che non sono né provati né dimostrati. Anche sotto questo aspetto confesso la mia ignoranza: non so con esattezza a che punto sia l'inchiesta. Le mie conoscenze si limitano a quello che ho potuto leggere sulla stampa francese. Le chiedo perdono. In nessun caso vorrei aggravare la sua situazione agli occhi della giustizia. Ma mi lasci spiegare le ragioni profonde della mia richiesta. Io la conoscevo già molto prima dei fatti della Malesia, e di quelli della Cambogia. La conosco dall'epoca delle sue imprese sportive. L'apnea mi appassiona: quando avevo otto anni, guardavo e riguardavo in continuazione Le grand bleu. Ero affascinata. Stavo delle ore a immaginare quale può essere la sensazione delle profondità. Cosa si può provare a scendere, senza respirare, ben oltre i limiti umani. Già allora il suo nome brillava al primo posto nel mio piccolo pantheon intimo. Oggi l'accusano di aver compiuto degli assassinii. Lei non desidera parlarne: rispetto il suo silenzio. Ma la sua personalità rimane straordinaria. Paradossalmente, le azioni di cui la sospettano oggi sono così distanti dalle sue prodezze sportive, dalla sua immagine di saggezza e di pace, che questa situazione non fa che rafforzare il mio interesse per lei. Questo legame ipotetico fra il blu profondo e il nero estremo, questo percorso impossibile fra il bene e il male, mi dà le vertigini. Qualunque sia la verità, il disegno tracciato dal suo destino ha qualcosa di grandioso. Ecco quello che spero... dovrei scrivere: quello che non oso sperare. Che lei mi offra qualche ricordo personale, che mi racconti qualcuno dei fatti che le stanno a cuore. A sua scelta. Emozioni sottomarine. Ricordi d'infanzia. Aneddoti su Kanara... Quello che vuole lei, per quanto poco queste parole segnino l'inizio di uno scambio. Niente la obbliga a scrivermi. E non ho più argomenti per convincerla. Ma di una cosa sono sicura: potrei essere per lei un'ascolta-
trice amica, complice, attenta. Metto da parte la studentessa di psicologia. Le parlo semplicemente da giovane donna che l'ammira. Non dimentichi mai che sono pronta ad ascoltare tutto. Sarà lei a fissare i limiti, i confini della nostra relazione. Di abissi ce ne sono di ogni genere. E tutti m'interessano. Aspettando - fremendo - di leggerla... Elisabeth Quando Marc finì, era in un bagno di sudore. Aveva le mani letteralmente fuse dentro ai guanti. Aveva steso questo testo a varie riprese, le dita strette sulla stilografica, ogni volta con la stessa febbre. Era con la grafia che aveva dei problemi. Ma adesso la lettera manoscritta era pronta: Elisabeth al cento per cento. Rileggendola, si accorse che il tono era enfatico, sentimentale. Forse doveva riflettere prima di spedirla? Decise invece di lasciarla com'era. Era una reazione a caldo. E Reverdi avrebbe percepito quella spontaneità. Calava la notte. Erano le diciassette passate. La giornata era trascorsa senza che Marc se ne rendesse conto. Non aveva sentito squillare il telefono, né pensato al mondo esterno. Adesso che l'oscurità riempiva lo studio, gli sembrava di essere anche lui sommerso da un'acqua nera. Un disagio di cui cominciava solo allora a misurare la portata: durante quelle poche ore lui era stato, realmente, Elisabeth. Un caffè, subito. Scelse una qualità italiana, ricca, e mise in funzione la sua piccola officina cromata. Il profumo amaro dell'espresso gli fu di conforto. Assaporava già, in anticipo, quel bruciore concentrato che gli sarebbe colato nel profondo delle viscere, strappandolo a quello stato di trance. Ingollò un primo caffè, ne preparò subito un altro. Con la tazza in mano, tornò a sedersi, più calmo, e contemplò quelle righe scritte dalla mano di una donna che non esisteva. Il sudore era passato attraverso i guanti. Il foglio era tutto ondulato. Tanto meglio: Reverdi avrebbe notato anche quel particolare. Avrebbe immaginato la febbre di Elisabeth. A meno che non immaginasse delle lacrime. Non male neanche quello... Doveva profumarla o no quella lettera? No. La fase della seduzione era ormai superata, adesso era il momento dell'urgenza. Sigillò la lettera, s'infilò la giacca, afferrò le chiavi e prese la busta: doveva spicciarsi prima che la posta chiudesse. Aveva deciso di spedire per
espresso. Pazienza se l'invio aveva l'aria precipitosa. Tanto peggio se la busta, con la scritta «urgente», avesse attratto l'attenzione dei sorveglianti di Kanara. Non poteva aspettare un mese per la risposta, se una risposta ci fosse stata. Non si diresse verso Rue Hippolyte-Lebas: non voleva imbattersi in Alain. Optò per la posta di Rue Saint-Lazare, nel IX arrondissement. Entrando nell'ufficio trattenne il respiro. Nell'inviare quella lettera aveva l'impressione, come la prima volta, di lasciarsi sprofondare nell'ignoto. Ma questa volta superava un nuovo stadio di compressione, si dirigeva verso il buio delle acque ghiacciate. 18. «Gosok kuat sikit! (Sfrega più forte!)» Sotto il sole, Jacques Reverdi era in ginocchio. Armato di una spazzola di ferro e di un secchio di candeggina, tentava di cancellare l'incancellabile: l'impronta di sudore umano e di grasso stampata su uno dei muri del cortile. Tracce incrostate nel cemento, profondamente, come fossili. Nonostante i suoi sforzi, le macchie non si sbiadivano. Ci sarebbe voluta una smerigliatrice, in modo da incidere a fondo la pietra, grattarne via un intero strato. Incombente sopra di lui, Raman lo osservava. A gambe aperte, mani strette sulla cintura. Mormorava insulti a fior di labbra, promettendo l'intervento del manganello per dar corpo alle parole. Reverdi era indifferente. Al dolore fisico come agli insulti. Era come un pezzo di vetro. Le parole, i colpi lo attraversavano come la luce un vetro. In momenti come quelli si trasformava in un prisma, scomponeva lo spettro delle proprie reazioni, eliminando quelle che avrebbero potuto indebolirlo: vergogna, dolore, timore... «Celaka punya mat salle! (Bastardo di un bianco!)» Un calcio lo colpì al fianco. La pelle gli bruciava talmente che percepì appena quel dolore supplementare. Reverdi lanciò un'occhiata sopra la sua testa. Raman stava di nuovo camminando avanti e indietro. Strinse i denti, riprese la spazzola e disegnò mentalmente il ritratto dell'uomo che cercava di evitare da quando era arrivato a Kanara. Abdallah Madhuban Raman, cinquantadue anni, padre di cinque figli, musulmano di stretta osservanza, pura quintessenza di autorità e di sadismo. Nel penitenziario cambogiano, Reverdi ne aveva conosciuti di fun-
zionari della crudeltà. Sorveglianti che avevano fatto della brutalità uno dei doveri del loro lavoro. Raman non aveva niente a che spartire con quella versione addolcita del guardiano. La sofferenza eccitava il malese, lo faceva sentire vivo. Era uno psicopatico allo stato puro, più pericoloso di tutti gli assassini di Kanara messi insieme. Di origine malese, aveva anche sangue tamil nelle vene. Il viso era nero, bucato da grosse narici che ricordavano quelle di un toro. Le pupille erano ancora più nere e la sua faccia schiacciata, incisa da rughe profonde, evocava quella di un aborigeno australiano. Questo farabutto sfiorava il metro e ottantacinque, una statura eccezionale in Malesia, e portava immancabilmente, nonostante il caldo torrido, una giacca scura guarnita di galloni, stretta in vita e svasata sui fianchi. Alla cintura ostentava un campionario di minacce: pistola, manganello elettrico, lacrimogeno, chiavi... Si raccontava che a un detenuto avesse cavato un occhio con la chiave che apriva l'ultima porta: quella che dava sull'esterno. Praticante fanatico, membro della setta proibita «al arqam», Raman era anche un omosessuale sempre allupato. Eric lo aveva avvertito, ma il suo appetito superava le peggiori previsioni. Quell'immondizia non pensava che al culo. Era circondato da un clan fatto su misura: secondini con le sue stesse inclinazioni sessuali, fanatici dei muscoli e degli sport da combattimento. Pederasti con il piacere di torturare e picchiare, che Raman «pagava» con carne fresca. Tutti i detenuti erano terrorizzati dalle grida che provenivano dalle docce verso sera. Ma Eric si sbagliava: le vittime non venivano violentate. Le imbottivano soltanto di botte, finché non perdevano i sensi. Allora i guardiani si fottevano fra di loro, inebriati dall'odore del sangue. In quei momenti, il torturatore capo usciva per primo dall'edificio maledetto, vacillante, accecato dal sole e dal rimorso. Ognuno l'osservava, da lontano, in preda al terrore, temendo altre rappresaglie. «Stop!» urlò Raman alle sue spalle. «Per oggi basta.» Jacques aveva sempre saputo che, come star occidentale, avrebbe goduto di un regime di favore. La corvée di quella mattina segnava l'inizio dei «festeggiamenti». «Domani farai un altro muro», aggiunse il guardiano avvicinandosi. «E poi il resto.» Fece scorrere il suo sguardo di carbone sul cortile. «Non voglio più vedere una macchia di sudore su questa merda di muri!» Reverdi si rialzò e fissò Raman dritto negli occhi. Gli sibilò in malese:
«Hai perso un punto, amico.» Rapido, Raman sfilò il manganello e colpì il torso nudo di Reverdi, che ebbe appena il tempo di raccogliere le braccia per proteggersi le costole. «Sono io qui a contare i punti!» Reverdi non abbassò gli occhi. Raman tornò ad alzare il manganello, poi, all'improvviso, sorrise, esibendo i denti troppo bianchi, come se gli fosse appena balenata nella mente un'altra crudeltà. «Il giorno in cui t'impiccheranno, pezzo di merda, non potrai più guardare nessuno con quegli occhi. Ti piazzeranno un cappuccio sul muso e sarà l'ultima cosa che sentirai.» Jacques scosse lentamente la testa: «Lo sai che gli impiccati hanno delle erezioni fuori misura? Potrai finalmente succhiarmelo, tesoruccio.» Il manganello si abbatté di nuovo. Reverdi si mise di lato, in extremis, e prese il colpo nel cavo della spalla. La clavicola sinistra scricchiolò. Il dolore lo attraversò obliquamente per rimbalzare contro la scapola. Arretrò, vacillò, ma non cadde. Le lacrime agli occhi, lanciò la spazzola nel secchio, con noncuranza: «Ti giuro che quando me ne andrò di qui la tua autorità non sarà più la stessa.» Raman schiacciò il pollice sulla presa di elettricità del manganello, ma non completò il gesto. Gli altri detenuti si stavano avvicinando. Tutti gli occhi erano puntati su di loro. L'atmosfera vibrava di una speranza confusa. Tutti aspettavano un duello tra i due giganti: il Bianco e il Nero. Ma il guardiano non era abbastanza folle da correre un simile rischio. Lasciò in pace il manganello e girò sui tacchi, senza una parola. Aveva un'andatura così meccanica che sembrava zoppicare. Il calore bianco sfilacciava la sua silhouette via via che si allontanava. Le undici del mattino. Jacques sollevava i suoi pesi, provando lo stesso dolore a ogni movimento. La clavicola: rotta o no? Come risposta, tornava ad alzare i blocchi di cemento. Voleva cancellare quella sofferenza infliggendosene un'altra, torturandosi i muscoli. Una voce gli parlò. Reverdi si bloccò, steso sulla panca, le braccia piegate. Si domandò chi potesse osare disturbarlo in un momento simile. Posò lentamente i manubri sulle forcelle e si alzò, gocciolante di sudore. Il tengku.
Avrebbe dovuto immaginare che si trattava di lui. Solo quel ragazzo era abbastanza incosciente da interromperlo quand'era impegnato nei suoi esercizi fisici. In malese, tengku designa una posizione regale, un legame di parentela, per quanto lontano, con uno dei nove sultani del paese. Hajjah Elahe Noumah apparteneva alla famiglia del sultano di Perak. Era rinchiuso a Kanara per traffico di stupefacenti. Era stato arrestato perché trovato in possesso di quattrocento grammi di eroina. In generale, il membro di una famiglia reale non finiva mai in prigione: una semplice telefonata sistemava tutto. Ma, in quel caso, il padre aveva voluto dare una lezione al figlio lasciandolo marcire per qualche mese a Kanara. Un modo brutale per fargli passare la voglia di farsi. «Ti disturbo?» domandò in inglese. Reverdi afferrò la maglietta senza rispondere. Provò una fitta mentre se l'infilava. Era sicuro che la clavicola era andata. Merda. Hajjah si sedette davanti a lui, sul cemento caldo. Era un ragazzo aggraziato, collo lungo e pelle ramata. Vantava titoli di studio di diverse università inglesi ma il suo cervello era fuso a causa della droga. Gli occhi, prominenti come le pupille di uno struzzo, avevano uno sguardo fisso. Sembravano scrutare un versante invisibile del mondo. «Cosa vuoi?» «Vorrei...» Il tengku rimase un attimo esitante. «Spara.» Reverdi non poteva ammettere che una parte di sé fosse spezzata, deteriorata. Si vedeva già con un braccio al collo. Hajjah si decise infine: «Quanto vorresti per proteggermi?» «Proteggerti? Contro chi?» «I cinesi. I filippini.» «Perché ce l'avrebbero con te i cinesi? Sei il loro migliore cliente.» Pensando di disassuefare il figlio, suo padre aveva fatto male i suoi calcoli. In fatto di droga, Kanara era un paradiso per il giovane aristocratico, tanto più che sua madre gli inviava di nascosto delle piccole fortune. «Ho... Ho un presentimento. Non durerà.» «Perché?» «Se mio padre scopre quello che mi passa mia madre, io...» Hajjah lasciò la frase a metà. Dava sempre l'impressione di inghiottire le ultime parole invece di pronunciarle. Reverdi si sentiva invadere da un senso di nausea: quel tossico gli ricordava Ipoh e i suoi zombi imbottiti di
farmaci. «Se non hai più soldi, come mi potrai pagare?» «Potrei... Be'... Potrei diventare la tua...» Hajjah abbassò gli occhi. Reverdi capì il suo disagio. Si allontanò dalla panca: «Non sei il mio genere, cocco. Se ti proteggo, non sarà per il sesso né per i soldi.» «Per cosa allora?» «Perché l'avrò deciso. È tutto. Sparisci.» Il figlio di papà gli lanciò uno sguardo sprezzante, senza accennare a muoversi. Nonostante il suo peso piuma, nonostante la sua fragilità, continuava a comportarsi da aristocratico. Reverdi alzò la voce: «Sparisci, ti ho detto!» Il tossico sloggiò, trotterellando come un sorcio sulle zampette incerte. Si udì la sirena dell'appello. Le undici e trenta. In quell'istante Reverdi capì la vera ragione del suo malumore. Non dipendeva da quello stronzo che l'aveva picchiato, e nemmeno dalla sua clavicola incrinata. Non era neppure dovuto alla minaccia che lo stringeva più da vicino, nella prigione. No, era la ragazza, Elisabeth. Ecco cos'era a preoccuparlo. Non voleva ammetterlo, ma era in attesa della sua lettera. Jimmy doveva venire oggi e lui era già angosciato all'idea che non avesse niente per lui. Questa dipendenza lo faceva star male. Come poteva essere succube di una cosa simile? Jimmy pareva particolarmente in forma. Metteva tutta la sua passione in quella storia e sembrava sempre aspettarsi, in cambio, qualche manifestazione di complicità da parte del suo «cliente». Le catene di Jacques non erano ancora fissate al pavimento che già l'avvocato prorompeva: «La settimana è stata molto positiva. I pescatori hanno rinunciato alla loro accusa. Gli ho proposto un accordo, in effetti: se non testimoniano, lei non sporge denuncia contro di loro. Il loro tentato omicidio viene dimenticato. È una soluzione vantaggiosa per tutti.» Reverdi lo lasciò parlare, crogiolarsi nella sua soddisfazione. «Non è tutto. Ho scoperto che c'era stato un grave errore di procedura al momento del suo arresto. Nella foga i poliziotti non hanno consegnato per iscritto le condizioni dell'interpellanza. Inoltre, lei non ha fatto alcuna dichiarazione alla sede centrale. È un fatto determinante per la legge malesiana. Nel verbale, lei è semplicemente inesistente. Verifico la giurispru-
denza e...» «Hai delle lettere?» Raggiunse il suo rifugio. All'ora di pranzo le docce erano deserte. Passò accanto ai lavandini e si chiuse in una delle cabine, come uno scolaro che si nasconde per fumare. La sua corrispondenza era quasi raddoppiata di volume, ma lui aveva preso una sola lettera. Aveva riconosciuto la scrittura al primo colpo d'occhio. Le forme rotonde delle vocali, i riccioli alti delle «1» e delle «b». Elisabeth aveva spedito la lettera per espresso. L'impazienza era dunque altrettanto evidente all'altro capo della catena. La prima lettura non durò che qualche secondo, ma sulle labbra gli restò impresso un sorriso. Aveva visto giusto. Si sarebbe divertito con quella ragazza. In sostanza, Elisabeth gli chiedeva perdono e lo assicurava di essere pronta ad ascoltare qualunque cosa: «Di abissi ce ne sono di ogni genere. E tutti m'interessano.» Per poco non scoppiò a ridere. C'era una cosa che questa pollastra non aveva capito. Non era lui quello che si sarebbe confessato. Ma lei. 19. Khadidja sapeva che si trattava di un sogno. Ma, nello spazio del sogno, viveva la scena come un ricordo. Stava davanti a una porta chiusa. Una parete di miserabile compensato, che avrebbe potuto essere sfondata con una spallata. E tuttavia lei la considerava come un passaggio sacro, una soglia proibita, che diffondeva un calore misterioso. Dietro la porta, Khadidja udiva i crepitii del fuoco. Secchi, netti, come quelli prodotti dai rami di acacia in un caminetto. Avanzò ancora. In quell'istante la porta venne divelta, come aspirata dall'interno. Un calore di fornace le divorò il viso. Una bomba rossa, che le sferzò gli occhi, ma non la bruciò. Davanti a sé, la camera ardente. Circondata dalle fiamme. Dal pavimento si levavano bufere di fumo. Lembi di tappezzeria si staccavano. In questo naufragio, tutti gli oggetti sembravano vorticare, aspirati da fauci fameliche: lampade, coperte, vestiti... Khadidja fece un passo e strizzò gli occhi, per meglio distinguere le forme nel letto.
L'uomo seduto era suo padre. Sembrava in attesa di un medico. O di un becchino. Era avvolto dalle fiamme e la sua pelle diffondeva cupi miasmi. Pareva riflettere, concentrato, mentre il suo viso annerito crepitava. A quella vista Khadidja provava apprensione, disagio, sensazioni che non avevano alcun rapporto con il terrore che avrebbe dovuto invaderla. Una specie di timor panico, come al momento di salire su un palco per ritirare un premio. Una voce le sussurrò: «Non aver paura. Vuole dirti qualcosa». Lei si voltò e vide che chi le parlava era anche lui in fiamme. Aveva il cranio rasato, indossava una toga. Lo riconosceva: era il bonzo di una foto famosa, si era immolato in Vietnam, consumandosi sul marciapiede, nella posizione del loto. Adesso era in piedi, ma sempre calvo, sempre avvolto dalle fiamme. Nelle cavità orbitali non c'erano più pupille, e i suoi denti, bianchissimi, resistevano al fuoco. L'essere posò la mano sulla spalla di Khadidja. Quel contatto la rassicurò. Senza più paura, si diresse verso il letto e capì di camminare su un mare rosso che ondeggiava sotto i suoi passi. Si sedette di fronte a suo padre, come al capezzale di un convalescente. Ma, in quel momento, lui la fissò con crudeltà. Due crateri vulcanici avevano preso il posto degli occhi: «Ho della sabbia nel cervello.» Khadidja si ritrasse. L'uomo si mise a urlare, con le fiamme che gli sgorgavano dalle labbra: «Ho della sabbia nel cervello. È colpa tua!» Distese il braccio, nero e duro come un ramo carbonizzato. Khadidja scorse la siringa piantata nell'incavo del gomito. Questa immagine era la più assurda di tutte: da anni suo padre non si iniettava la droga nel braccio. Lui ripeteva: «È colpa tua.» La voce crepitava ma, come per il bonzo, lo smalto dei denti restava intatto. «Non hai pulito il cotone!» Khadidja si alzò, inorridita. La voce strideva: «C'era sabbia. Sabbia nel cotone. È colpa tua!» Khadidja voleva giustificarsi ma un batuffolo di cotone infiammato le si incollò sulla bocca. La voce continuava a sibilare fra i crepitii del fuoco: «È colpa tua!» Tentò ancora di rispondere, ma il tampone la bruciava e la soffocava. Le sue parole non oltrepassavano la soglia della coscienza: «Non è vero... Ho fatto come al solito... Ho pulito tutto...» Khadidja si svegliò di soprassalto. Il cuscino era inzuppato di sudore e di lacrime.
Non pienamente cosciente, sentiva ancora l'odore di bruciato in gola. Tese il braccio fuori dal letto e sentì la freschezza delle piastrelle sotto le dita. Questo contatto la riportò alla realtà. Si mise in piedi, facendo attenzione a non sbattere contro il soffitto mansardato. La stanza era minuscola: cinque metri quadrati appena. Niente era a sua misura qui. Si stropicciò gli occhi per ritrovare la lucidità. Il fumo si dissolse. Le immagini della fornace scomparvero. Quanti anni ancora avrebbe dovuto subire quell'incubo? Quanto tempo doveva vivere con quel rimorso assurdo? Lanciò un'occhiata alla sveglia: le tre del mattino. Non sarebbe riuscita a riaddormentarsi. Si distese nuovamente sul letto, sentendosi invadere dalla nausea. Via via che tornava alla realtà, una certezza si delineava: doveva diventare indossatrice. Tagliare i ponti con le sue origini di merda. Lasciare quella stanza miserabile. Raggiungere il vero benessere. Grazie ai soldi, grazie all'ascesa sociale, sarebbe riuscita a sfuggire al suo passato, agli incubi che la ossessionavano. Sorrise nell'oscurità. Era proprio un'idea da poveri: credere che il denaro potesse cancellare tutto. Pensò agli ultimi casting che aveva fatto. Un fiasco dopo l'altro. Eppure l'agenzia la spronava a perseverare: il suo fisico possedeva un «potenziale». Ma perché non la sceglievano mai? Sentì in risposta la voce del tizio con il berretto di New York: «Le tue foto non sono un granché». Bisognava fare altre foto, più moderne, più trendy. Ne aveva parlato al padrone dell'agenzia, ma lui si rifiutava di pagare anche solo uno scatto in più. E allora? La nausea non le dava tregua, le appesantiva il corpo, i pensieri. Si sollevò su un gomito e prese una decisione. Quelle foto se le sarebbe pagate lei. Avrebbe ripreso a lavorare alla tavola calda di Casino, a Cachan. Se ne infischiava della puzza di fritto. Se ne infischiava del cuoco dispotico. Se ne infischiava della gentaglia che la scrutava da dietro la vetrina del self-service come se fosse un piatto fra i tanti. Uscì dal letto, curva sotto il soffitto basso. Vomitare, intanto. Poi aspettare il giorno, per tornare a lavorare. 20.
Marc non s'interessava per nulla alla guerra in Iraq. Dal 20 marzo i lanci di missili americani su Baghdad si erano infittiti, e la cosa non gli faceva né caldo né freddo. La puntura di una zanzara sul dorso di un rinoceronte. La sua sola preoccupazione era sapere se il conflitto influenzasse in qualche modo il funzionamento della posta internazionale. Teneva duro da due settimane, perdendosi in congetture, immaginando il percorso della lettera di Reverdi, continuando a chiedersi se non peccasse di eccessivo ottimismo. Forse l'assassino non aveva nessuna voglia di scrivere a Elisabeth... Nell'attesa, Marc studiava e analizzava ogni dettaglio della sua documentazione. E teneva d'occhio l'episodio di Papan. Ma il caso sembrava chiuso. Più nessuno, in Malesia, si curava di Reverdi da quando era iniziato il conflitto. Ogni mattina Marc consultava su Internet i giornali di Kuala Lumpur, verificava i dispacci delle agenzie, chiamava l'ambasciata di Francia. Ogni volta lo trattavano come se fosse fuori di testa. Non aveva sentito parlare della guerra? L'unico fatto positivo era che aveva finalmente saputo il nome dell'avvocato di Jacques Reverdi: Jimmy Wong-Fat. Ma quando aveva scritto per avere delle informazioni non aveva ricevuto alcuna risposta. Nel frattempo «Le Limier» funzionava al rallentatore. Le vendite erano crollate e i giornalisti stavano in letargo. In questa situazione di torpore le giornate di Marc erano scandite dalla passeggiata mattutina verso Rue Hippolyte-Lebas. Alain lo accoglieva con il sorriso sulle labbra, la battuta sempre pronta. Tuttavia, sembrava aver indovinato che c'era qualcosa sotto, che in quella storia c'era in gioco una posta personale. Ogni mattina Marc lasciava l'ufficio postale con l'aria bastonata e il vietnamita cominciava a guardarlo con compassione. Anche le sue frecciate si facevano più dolci, più incoraggianti. Fino a sabato 29 marzo. Quel giorno Alain gli fece scivolare sotto il vetro una nuova lettera. Kanara, 19 marzo 2003 Cara Elisabeth, Non ho fama di essere un cuore tenero. Eppure la sua lettera mi ha toccato. Sul serio. Vi ho trovato uno slancio di sincerità, una spontaneità che mi ha commosso. Ho constatato che ha messo da parte il gergo mediocre degli psicologi e rinunciato a far calare le sue parole dall'alto.
Il suo nuovo tono mi è piaciuto, perché dava un'idea di sincerità. Elisabeth, se vuole stabilire con me una relazione improntata alla franchezza, deve persuadermi che tale sincerità è reale. Solo allora, forse, potrei a mia volta aprirmi. E scriverle come a un'amica. Se vuole ottenere qualcosa da me, bisogna prima che mi sveli alcuni elementi su di lei. Delle confidenze. Sono un sub, un apneista. Non posso pensare a una relazione - anche epistolare, anche qui, in questa prigione - se non in termini di profondità. È nella profondità del suo essere che leggerò la verità del nostro scambio. È tuffandomi sotto la sua carne che saprò se posso ascoltarla, avvicinarmi a lei. Accetterebbe di confidarsi? Aspetto la sua risposta. Il nostro futuro è fra le sue mani. Lei sola determinerà la natura della nostra apnea. A presto, Jacques Reverdi Come la prima volta, Marc rimase pietrificato. Ma il suo stupore era adesso di un'altra natura: era incredulo davanti alla portata della sua vittoria. Mai si sarebbe sognato una svolta così radicale in un tempo così breve. Era un tranello? Ma di che genere? E per ottenere cosa? No. Cambiare tono aveva funzionato, ecco tutto. Il predatore aveva avvertito la sincerità della seconda lettera. A ciò si aggiungevano la noia, la solitudine, la crudeltà della prigione. In quel contesto, persino un Reverdi doveva essere più sensibile alle sollecitazioni esterne. Sempre indossando i guanti, Marc prese il pennarello e il bloc-notes che usava per la prima stesura delle lettere. La sua risposta stava tutta in una parola: «D'accordo». Avrebbe concesso tutte le confidenze richieste dall'assassino. Marc tremava di eccitazione nel redigere la lettera. Se continuava così, se non commetteva errori, avrebbe ottenuto delle vere confessioni: ne era sicuro. Sulla soglia della morte, l'assassino gli avrebbe detto tutto. E allora, forse, lui avrebbe capito la pulsione criminale, contemplato la scintilla nera. Nel giro di mezz'ora aveva terminato il testo. Gli ci volle altrettanto per trascriverlo nello stile di Elisabeth. Diventava sempre più esperto nella stesura del messaggio e nella versione manoscritta... Come le due prime volte fece una copia usando il fax. Archivio personale. Poi guardò l'orologio: le
undici e trenta. Corse di nuovo fino alla posta di Rue Saint-Lazare. Era sabato e l'ufficio chiudeva a mezzogiorno. Durante il tragitto si sovvenne di una frase inquietante della lettera di Reverdi, e la sua gioia si offuscò: «È tuffandomi sotto la sua carne che saprò se posso ascoltarla, avvicinarmi a lei...» Quando un uomo qualunque scrive una cosa del genere, è strano. Ma quando si tratta di un assassino capace di affondare il coltello per ventisette volte nel corpo di una donna, ci sono buone ragioni per prendere la sua frase alla lettera... Marc ragionò. Il mostro era sottochiave. Entro pochi mesi sarebbe stato giustiziato. Da adesso a quel momento Marc non doveva sbagliare una mossa e strappargli il suo segreto. Nel varcare la soglia dell'ufficio postale si sentiva di nuovo leggero. Quando consegnò la lettera e chiese «per espresso» fu addirittura preso da una sorta di ebbrezza. Superava un nuovo limite. Nuova pressione, nuovi rischi... L'impiegata domandò: «Ha detto qualcosa?» Marc fece segno di no, ma le labbra l'avevano tradito. Pensando alla sua «immersione», aveva mormorato: «Attenzione alla sincope.» 21. Mercoledì 2 aprile 2003, refettorio della prigione di Kanara. Da due settimane avevano diritto a qualche immagine televisiva, notturna, astratta, della nuova guerra del Golfo. Petali di luce. Mazzi di zolfo. Scie di fuoco su un fondo di notte verdastra. Con commenti pro Iraq che si limitavano alla solidarietà naturale fra musulmani. In prigione, quegli eventi prendevano una risonanza lontana e vaga. Il disinteresse era generale. Ma quella sera era diverso. Le immagini che scorrevano davanti agli occhi li toccavano più da vicino. Ed erano angoscianti. Un uomo, il volto schermato da una mascherina, armato di guanti da chirurgo e coperto da un sacco della spazzatura, puliva con zelo il vestibolo di un edificio. Il commento precisava che si trattava di un complesso residenziale di Kowloon, nella parte continentale di Hong Kong, dove più di duecentocinquanta famiglie erano state messe in quarantena.
Nel refettorio ogni detenuto fissava lo schermo in silenzio, come se contemplasse le prime avvisaglie della fine del mondo. In piedi in fondo alla sala, anche Reverdi osservava la scena, chiedendosi per l'ennesima volta come avrebbe potuto sfruttare la SARS. Il suo istinto guerriero gli suggeriva che poteva cavare qualcosa da questa situazione. Ma cosa? Si parlava della malattia da un paio di mesi. I cinesi avevano incominciato a raccontare che Hong Kong e la provincia di Guangdong, nella Cina meridionale, erano colpiti da un'epidemia d'influenza mortale. Si era poi venuti a sapere che questa influenza era una forma di polmonite insolita, «atipica» dicevano i giornali. Nel mese di marzo la notizia diventò ufficiale: una polmonite, di natura sconosciuta, molto virulenta, si propagava a Hong Kong e a Canton, provocando centinaia di morti. Il contagio si diffondeva anche nel Sudest asiatico. Si riferiva di casi mortali nei paesi limitrofi, a Hanoi, in Vietnam, a Singapore. Il panico non ci aveva messo molto a diffondersi fra i carcerati. Per prima cosa furono messi in quarantena i cinesi. Nessuno voleva più avere contatti con loro, come se fossero già vittime del virus. Poi alcuni detenuti mostrarono segni della malattia. Febbre, traspirazione, tosse... Sintomi psicologici, ma c'era già la corsa alle mascherine, pagate a peso d'oro. E anche alle medicine cinesi tradizionali, amuleti, aceto... E le informazioni continuavano ad affluire, sempre più allarmanti: si era dichiarato lo stato di allerta a livello mondiale. Si parlava di effetti fulminanti della malattia. Uccideva in pochi giorni; le possibilità di cura erano mille. E per contraria bastava una minima particella di saliva o di sudore contaminati. Reverdi rifiutava di preoccuparsi. Aveva visto ben altro durante i suoi viaggi. Si era imbattuto nella lebbra, nella peste e in numerose altre malattie contagiose. D'altronde, lui era già condannato. Ma doveva ammettere che le notizie non erano molto incoraggianti. Era addirittura sorpreso che le autorità penitenziarie lasciassero trapelare simili informazioni. Ognuno rimuginava su questa certezza: se la SARS penetrava nella prigione, non avrebbe risparmiato nessuno, questione di qualche settimana. Kanara si sarebbe trasformata in un mostruoso calderone di morte. Il programma tivù riferiva ora sulla guerra in Iraq, ma nessuno prestava più attenzione. Nel refettorio si levava già un gran baccano. C'era chi chiedeva perché i prigionieri addetti alla pulizia del carcere non portassero protezione di sorta. Qualcun altro parlava di una petizione per far trasferire i cinesi in un altro edificio. I cinesi stessi, relegati in un angolo, comincia-
vano a insorgere. C'era aria di rissa. Reverdi preferì eclissarsi. Fuori, regnava la frenesia delle cinque del pomeriggio. Nel cortile i carcerati erano in piena attività: di lì a poco sarebbero stati di nuovo rinchiusi, per tutta la notte. Si barattava, si comprava, si trafficava. Tutti sbraitavano, si agitavano, si innervosivano. C'era però anche chi parlava a bassa voce, un cellulare chiuso nel palmo della mano. Delle formiche che si strappavano briciole di spazio e di speranza... Reverdi costeggiò il muro del refettorio e raggiunse il cortile delle cucine, infestato da effluvi talmente rivoltanti che nessuno si arrischiava a frequentarlo. A quell'ora era un quadrato rosa somigliante a un letto di braci. Al centro scorreva un rigagnolo: acqua sporca sulla quale galleggiavano rifiuti. Jacques cominciò a camminare su e giù, con l'impressione di sguazzare nella melma. Mise da parte la SARS per passare al suo pensiero preferito: Elisabeth. Era in attesa della sua lettera. E questa sua impazienza lo irritava sempre di più. Il giochetto che aveva imbastito con la studentessa gli occupava troppo la mente. Per essere efficace, un cacciatore deve sempre restare lucido e freddo. E invece lui era sulle spine e contava i giorni. Giovedì 10 aprile, parlatorio della prigione. «Ho buone notizie.» Reverdi sospirò: «Hai sempre buone notizie.» Wong-Fat non si lasciò scoraggiare: «Abbiamo segnato un nuovo punto a nostro favore. Adesso...» «Lo sai cos'è che m'interessa.» Jimmy si morse le labbra. Jacques lesse nei suoi occhi una delusione che lo divertì. Il cinese era geloso. «Intende le lettere? Le ho portate. Io...» Jacques fece un gesto esplicito. L'avvocato versò le lettere sul tavolo. Erano in calo. L'effetto della guerra. E della SARS. O anche dell'usura: in Europa già lo stavano dimenticando. Le passò rapidamente in rassegna. La mano si fermò di scatto su una busta. Aveva riconosciuto la scrittura di Elisabeth. Vedere che era stata aperta lo fece stare male. Capì l'avvertimento: non poteva più sopportare la violazione della sua intimità... della «loro» intimità.
Prese la lettera di Elisabeth e lasciò perdere le altre: «Il nostro appuntamento è rimandato a domattina.» «Jacques, mancano poche settimane al suo processo e...» Reverdi scosse con violenza le catene perché la guardia venisse a liberarlo: «Domani», ripeté. «Ti dovrò chiedere di fare qualcosa per me.» «Di che genere?» «Domani.» Il crepuscolo, di nuovo. Impossibile rifugiarsi nel luogo che gli era abituale. A quell'ora le docce erano occupate. Nelle «sere di pace» gli omosessuali vi si nascondevano per dedicarsi ai loro giochi erotici. Nelle «sere di Raman» nessuno osava avventurarvisi. Non poteva neppure andare nella zona delle cucine: non intendeva leggere la sua lettera in compagnia degli odori pestiferi del rancio. Decise di tornare in cella, anche se correva il rischio di dovercisi chiudere dentro rinunciando alla cena. Girò intorno agli edifici centrali, costeggiò il blocco C e trattenne il respiro per affrontare il blocco D, dove si trovava quello che lui chiamava il «muro del pianto». Una sorta di parapetto affacciato su un terreno incolto dove i travestiti thailandesi, giù in basso, si prostituivano. La maggior parte dei galeotti non avevano di che pagarsi una vera scopata, e allora se ne stavano là, dietro il muretto, lo sguardo fisso, le ginocchia molli, tirandosi una sega come se fossero in preda a una crisi epilettica, osservando i travestiti che si esibivano. Reverdi li avrebbe volentieri arrostiti sul posto con un lanciafiamme, se non altro per restituire un briciolo di dignità all'essere umano. Raggiunse il blocco B, dove si trovava la sua cella. Salì la scala e infilò un ballatoio. Sotto i suoi piedi era tesa una grande rete per impedire i tentativi di suicidio. C'erano sempre degli uccelli che finivano intrappolati fra le maglie. Percorse in fretta la galleria. Nell'aria una cacofonia di musiche: rap violenti misti a romanze sdolcinate. Gruppetti di carcerati stavano sulle soglie delle celle aperte, giocando a dadi, trafficando anche lì, tenendo interminabili conciliaboli. Il loro sudore finiva per creare una nebbiolina puzzolente, una sorta di umidità lercia e appiccicaticcia sotto i piedi nudi. Jacques raggiunse la sua cella e, senza esitare, si sbatté la porta alle spalle, ben sapendo che non avrebbe più potuto riaprirla. Si sedette a gambe
incrociate e fece scivolare le dita nella busta già strappata. Mentalmente, ordinò al foglio ripiegato di non deluderlo. Parigi, 29 marzo 2003 Caro Jacques, La sua lettera mi ha tuffata in una profonda esaltazione. Ero così felice che lei avesse capito le mie intenzioni, percepito la mia sincerità! Oggi mi chiede dei pegni di franchezza. Senza sapere cosa intenda dire, già le rispondo: «Tutto quello che vorrà». Non deve fare altro che interrogarmi, per lei non avrò alcun segreto. Ma l'avverto: sono soltanto una studentessa senza grandi storie alle spalle. Una parigina che vive per studiare e tentare di capire gli altri. La mia personalità non ha niente di appassionante. Tuttavia, se questa messa a nudo può essere un ponte teso fra di noi, be', sì, allora le dirò tutto... Sperando che poi, a sua volta, lei mi fornirà qualche chiave della sua personalità. Posso contarci? Posso sperare che un giorno lei mi offra qualche rivelazione? Jacques, caro Jacques, aspetto le sue domande... Sono impaziente di leggerla e di vedere la sua scrittura parlarmi, indirettamente, di me. Di noi. Aspetto la sua lettera. E, a essere sincera, non aspetto altro che questo. Elisabeth Reverdi contemplò il cielo dal lucernario: rosso fuoco. Il calore della lettera lo pervadeva. Una colata di vita che gli si diffondeva nelle vene, gli s'instillava nel corpo attraverso ogni fibra. Una ventata di felicità. Ancora una volta, fu orgoglioso del proprio fiuto. Era sempre il predatore che sa scegliere la propria preda. Avrebbe ottenuto ciò che voleva da quella ragazza. E le sue confessioni, al di là della trasgressione, dell'indiscrezione che avrebbero implicato, promettevano persino di essere interessanti... Avrebbe potuto entrare nella sua intimità. E scoprire il colore del suo sangue. 22.
«Qualcosa non va? Cos'ha?» Jacques Reverdi non riuscì a rispondere. Era piegato in due sulla sedia, contro il tavolo; il dolore gli attraversava il ventre come una sonda rovente. Pensava a quei tizzoni di ferro rosso che i cacciatori del nord affondano nell'ano delle volpi per non rovinarne le pelli. Jimmy gli parlò protendendosi sul tavolo: «Vuole... vuole che chiami un medico?» Reverdi si rannicchiò sulle catene. Era riuscito a resistere fino al parlatorio, ma adesso... «No», ansimò. «Una dissenteria. Non... non mi dà tregua. Ho dovuto persino fermarmi al gabinetto venendo qui. Io...» Non finì la frase. Le parole si persero in un gemito. Jimmy si alzò e girò intorno al tavolo. Reverdi lanciò uno sguardo sopra la spalla e scorse la guardia, esitante se avvicinarsi o no. Capì di avere il tempo. Tagliò corto con il tono lamentoso e mormorò: «Nel corridoio. I cessi.» Jimmy sobbalzò: «Co... cosa?» «Il terzo cesso a sinistra partendo dalla porta», ordinò Reverdi a bassa voce. «Dietro lo sciacquone. Una lettera.» «Cosa... Cosa sta dicendo?» Reverdi lo afferrò per il risvolto della giacca. Con la schiena nascondeva la scena al piantone: «Ascolta, figlio di puttana. Ho ingurgitato apposta dei cili padi ieri sera per essere oggi in questo stato. Per avere l'opportunità di fermarmi in quei cessi al momento della visita.» «Lo sa bene che non posso...» «Chiudi il becco. Uscendo di qua, fa' come me. Va' a pisciare. Prendi la lettera. Nasconditela addosso. Terzo cesso partendo dalla porta.» «Cosa... cosa ne devo fare?» «La spedisci dal tuo ufficio di Kuala Lumpur. Nel modo che adesso ti spiego. L'indirizzo è sulla busta.» Reverdi lasciò la presa. Un violento spasimo gli rimescolò le budella e le fece friggere, con un crepitio atroce, tipo rognoni saltati in padella. Non era sicuro di non cagarsi addosso, lì, in pieno parlatorio. «Non... Non è regolare», rischiò ancora Jimmy. «Cosa è regolare?» domandò l'altro stringendo le natiche. «Le ragazzine che ti fotti.»
«Se pensa di ricattarmi, io...» «Farai quello che ti chiedo e basta.» L'avvocato si passò l'indice nel collo della camicia: «Mettiamo che mi scoprano. Ciò comprometterebbe il mio lavoro in questo...» «Fa' quello che ti dico. Spedisci la lettera.» Fece un sorriso che era una smorfia. «Ma attenzione. Non azzardarti a leggerla. Questa lettera è come una cicatrice. Se tenti di aprirla, lo sentirò nella carne. In tal caso, ti prometto che la pagherai cara.» 23. «Non si tratta di droga, almeno?» Marc non rispose. Guardava attraverso il vetro il plico in mano ad Alain. Era stupefatto. Era venuto alla posta come ogni mattina, ma non si aspettava niente prima del 20 aprile. E invece quel giorno, il 15 aprile, c'era una lettera. Una busta plastificata con il marchio DHL. «Cosa c'è dentro?» domandò l'impiegato. «Non ne ho idea.» «Viene anche questa dalla Malesia.» Alain si chinò, si guardò intorno, poi mormorò accostato al vetro: «Puzza di bruciato la sua storia...» Marc restò zitto. Aveva solo voglia di scavalcare il banco per impadronirsi della busta. «Da quando ha aperto questo indirizzo di fermo posta ha ricevuto solo tre lettere. Sempre dalla Malesia. Cosa significa?» «Non si preoccupi. Posso avere la lettera?» L'impiegato fece finta di non volersene separare: «E la sua amica, come sta?» «La mia amica?» Alain sorrise contemplando la faccia di Marc, preso in flagrante delitto di dimenticanza. Lesse sulla busta il nome della destinataria: «Elisabeth Bremen. La sua ragazza, ufficialmente costretta a letto. Che riceve solo lettere dalla Malesia.» «Ha passato un bel po' di tempo laggiù», improvvisò Marc, capendo ormai che la situazione prendeva una brutta piega. «È studentessa di economia.»
«E la sua anca?» «La sua anca?» «L'incidente. La palla a volo.» Marc faceva una fatica tremenda a concentrarsi sulle domande di Alain. Era in un vortice di pensieri: Reverdi aveva trovato il sistema per inviargli la risposta in modo rapido, schivando i controlli della prigione. Cosa c'era in quel plico? «Si sta rimettendo», disse con uno sforzo. «Sarà bloccata a letto ancora per parecchie settimane. Me la dà o no questa cazzo di lettera?» Alain si irrigidì. Con lentezza, come a malincuore, pose la busta plastificata nel tamburo accanto allo sportello. «È per i suoi studi», sorrise Marc. «Non se la prenda.» Afferrò la busta. Mise subito gli occhi sull'indirizzo del mittente, in alto a sinistra. JIMMY WONG-FAT 7TH FLOOR WISMA HAMZAH-KWING HING N. 1 LEBOH AMPANG 50 100 KUALA LUMPUR, MALESIA L'avvocato di Jacques Reverdi; si ricordava il nome. Da allora in poi la loro corrispondenza avrebbe fatto capo a lui, senza dubbio per godere di una maggiore discrezione. Marc uscì dall'ufficio postale in uno stato di beata ebetudine. Doveva farsi violenza per non strappare, là sul marciapiede, la striscia adesiva del plico. Fece la strada di corsa fino allo studio, stringendo il suo tesoro sul cuore. Kanara, 10 aprile 2003 Cara Elisabeth, tu accetti le regole del nostro scambio e me ne rallegro. Sarai dunque tu a parlare per prima, poi sarà il mio turno di prendere la parola. L'hai capito: ho bisogno di pegni. E questi pegni sono scarlatti. Esiste una traduzione della Bibbia chiamata la «Bibbia di Gerusalemme», nella quale c'è un brano che mi ha sempre colpito. Si tratta di Genesi, 9, 1-6. Probabilmente questi numeri non ti dicono niente: si parla della fine della storia di Noè e della sua arca.
Si ha in genere un'immagine positiva di questo personaggio che ritorna, accompagnato dalle coppie di animali, per popolare la terra. La verità è più crudele: Noè ritorna con il cibo per gli uomini. Dopo il diluvio, la collera di Dio si è placata. La razza umana può vivere, ma può farlo soltanto sacrificando gli animali. È il favore accordato da Dio: adesso gli uomini possono uccidere le bestie e cibarsene. Ma Dio precisa una cosa, essenziale: gli uomini non avranno il diritto di bere il sangue, che è «sua» proprietà. È una costante, in tutte le religioni: il sangue è sempre versato sull'altare, nessuno deve toccarlo. Perché il sangue - e a questo proposito la Bibbia di Gerusalemme è esplicita - è l'anima della carne. E l'anima appartiene a Dio. Perché ti racconto questo? Perché questa idea corrisponde a una profonda verità. Mostrami il tuo sangue e ti dirò chi sei... Basteranno poche domande. Rispondimi con precisione e, in cambio, io ti aprirò le porte della mia mente. Nella tua prima lettera mi scrivi di avere ventiquattro anni. Suppongo che non abbia ancora vissuto molte storie d'amore. Ma suppongo anche che tu non sia più una ragazzina. Hai già fatto l'amore. Che età avevi la prima volta? Ti ricordi di quel momento? Non voglio i particolari sentimentali. C'è solo una cosa che m'interessa: hai guardato, dopo l'atto, le tue tracce lasciate fra le lenzuola? Hai posato uno sguardo discreto, istintivo, su quelle poche particelle di te che abbandonavi per sempre? Ti ricordi il colore di quel sangue? Descrivimi quelle isolette brune, Elisabeth, minuziosamente, e con parole tue. Raccontami quello che hai provato quando hai preso coscienza di questa perdita. Quel sangue perduto era un po' della tua anima che sacrificavi. Risaliamo ancora più indietro nel tempo. Prima della perdita della verginità c'è un altro passaggio fondamentale. La matrice femminile si è risvegliata in te. Sangue, di nuovo. Un non ritorno, di nuovo... Com'è stata quest'altra «prima volta»? Non ti domando le circostanze. Voglio soltanto che tu mi descriva quella prima stagione, tiepida e sconosciuta. Immergiti nei ricordi e trova le parole giuste per farmi vedere,
qui, sulla pagina, il colore di quel liquido intimo... Parlami anche di oggi: com'è il sangue del mestruo? Come vivi questo flusso regolare? Ultima domanda (vedi, non ti chiedo granché...). Hai il ricordo di una ferita, un incidente o altro, che ti abbia fatto sanguinare? Di che colore era il sangue? Cos'hai provato nel vederlo? A parte il dolore, non avevi altre sensazioni più oscure? Una vaga voluttà, nata da quello stillare del sangue, da quell'espansione di fronte al mondo esterno? Mi fermo: non voglio influenzare le tue risposte. Scrivimi presto, Elisabeth. Che le tue confidenze suggellino il nostro patto, come quei bambini che s'incidono i polsi per mescolare il loro sangue. Ultimo punto, essenziale: accludi alla prossima lettera un tuo ritratto fotografico. Voglio, assolutamente, contemplare il tuo volto. E visualizzarlo quando penserò a te. Infine, precisione tecnica: non è più il caso di usare l'indirizzo della prigione per la corrispondenza. Dovrai inviare le lettere all'indirizzo del mio avvocato, per DHL. Se il nostro legame deve farsi più stretto, preferisco che ciò avvenga più rapidamente. Nell'attesa di leggerti... e di vederti Jacques Marc era raggelato... e insieme si sentiva bruciare. Il predatore usciva allo scoperto. Rivelava la sua indole viziosa e violenta. La sua ossessione del sangue. Questo poteva essere già uno scoop. Ma questa virata era anche angosciante: Reverdi si avvicinava a Elisabeth come a una preda. Voleva annusarla. Odorarne il sangue. Perché? Per meglio immaginarla lacerata dalle coltellate? Marc tese davanti a sé le mani, sempre coperte dai guanti: erano scosse da un tremito. Per l'eccitazione e la paura. Piuttosto che rimuginare per delle ore sulla faglia tettonica che aveva squarciato preferì alzarsi. Aveva una sola cosa da fare. Mettersi alla ricerca delle risposte richieste. 24. «Viene per sua moglie?»
«Non sono sposato.» «Una sua amica?» «No... io, in realtà...» «In realtà cosa?» La ginecologa sorrideva, ma la voce lasciava trasparire l'impazienza. Il viso rugoso era bruno e tondo come una focaccia di grano saraceno. Ne emanava la stessa dolcezza, lo stesso sapore familiare. I capelli corti, bianchissimi, contrastavano con la pelle scura e ne rafforzavano il carattere vissuto, confortante. Lo studio era in sintonia con quell'impressione di benevolenza: vi si respirava un'intimità di mobili antichi, di lucide suppellettili, levigate dal trascorrere degli anni e dal contatto con le mani. Le donne incinte dovevano apprezzare quel rifugio, nel cuore del VI arrondissement. «Ricevo pochissimi uomini qui», riprese la donna di fronte al silenzio di Marc. Lui si aspettava questa osservazione. Si era preparato una storia: «Sono scrittore. Il personaggio principale del mio prossimo romanzo è una donna. E io di donne non ne so niente. Voglio dire: di ciò che costituisce l'intimità di una donna.» «Cosa intende per "intimità"?» «Be'... Voglio proprio dare l'impressione di essere al suo posto, capisce? In particolare, vorrei ripercorrere dei ricordi... contrassegnati dal sangue. Il sangue delle mestruazioni. Della verginità. Delle ferite.» «Perché il sangue?» Lo fissava con i suoi occhi scuri. Avevano il colore delle perle nere. A disagio, Marc si aggiustò la giacca: «Chiamiamola "licenza" d'autore. Penso che sia un simbolo forte.» La donna non aveva l'aria convinta. Il colloquio minacciava di essere più difficoltoso del previsto. Marc aveva ottenuto questo appuntamento in extremis, dopo una giornata di vane ricerche. Aveva dapprima spulciato nei libri di ginecologia, nelle biblioteche specializzate: non ci aveva capito niente. E poi in quelle opere mancava l'essenziale: l'elemento personale, la voce della testimonianza. L'indomani si era deciso a consultare una specialista. Quella ginecologa era la sola ad avergli proposto un appuntamento nel corso della giornata, alle diciannove. «Cosa vuole sapere con esattezza?» Marc tirò fuori un bloc-notes e una matita: «Le dispiace se prendo appunti?»
Lei ebbe un gesto indifferente. «Per cominciare, m'interesserebbe sapere se il sangue dell'uomo e quello della donna hanno la stessa composizione.» «Certamente no.» «Cosa c'è di diverso?» «Gli ormoni. Il sangue femminile è ricco di estrogeni e di progesterone.» Marc scrisse i termini foneticamente. Non osava farglieli ripetere. «Hanno un effetto questi ormoni sul colore del sangue?» «No. Sull'umore, piuttosto. I bruschi cambiamenti di dosaggio, nel corso del ciclo mestruale, provocano sbalzi di umore, periodi di depressione. A volte, per evitare gli attacchi di malinconia sono costretta a prescrivere cerotti di progesterone.» «Può parlarmi del sangue delle mestruazioni?» «Da che punto di vista?» «L'aspetto. Il colore. Per cominciare, si tratta di sangue molto abbondante?» La specialista si prese il tempo di riflettere. «Varia da una donna all'altra. In alcuni casi può essere molto abbondante, in altri ridursi a poche gocce. Il flusso cambia anche negli anni. Spesso le ragazze sanguinano come fontane. La loro meccanica non è ancora messa a punto.» «E il colore? È sempre lo stesso?» «In generale, sì. Un sangue scuro. Venoso, poco ossigenato.» «Mi perdoni. Non capisco il rapporto fra questi termini.» «Occorre proprio partire dall'inizio... Il corpo umano è irrigato da due circuiti. Il primo, quello delle arterie, inizia dal cuore e diffonde negli organi un sangue ricco di ossigeno. Il secondo, il reticolo venoso, costituisce il viaggio di ritorno, quando l'emoglobina non contiene più tanto ossigeno. Per questa ragione è molto più scuro.» «Qual è il rapporto?» «È l'ossigeno a rendere chiaro il sangue.» «Perché le mestruazioni appartengono al secondo circuito?» «È un vero e proprio corso di anatomia questo... La parete dell'utero è rivestita di una mucosa che si gonfia di sangue alla fine del ciclo. Delle riserve per il futuro embrione. La madre nutre il feto nello stesso modo in cui nutre i propri muscoli e le proprie fibre: con l'emoglobina del suo corpo. Dopo l'ovulazione, se l'embrione non si è insediato, l'utero reagisce automaticamente ed espelle le riserve inutili. Si hanno allora le mestruazioni.
Anche se non è servito al feto, il sangue ha perso tutto il suo ossigeno. È di conseguenza piuttosto scuro. E reso meno limpido dalle particelle della mucosa.» Continuando a scrivere, Marc cercava di immaginare quel liquido mai visto prima: «Se contiene delle particelle, non è molto fluido, no?» «No, è piuttosto spesso, un po' fangoso.» Chino sul foglio, Marc annotava ogni aggettivo, ogni particolarità. La donna non accendeva la luce e nello studio si faceva sempre più buio. «Passiamo al sangue, come dire, della verginità...» La ginecologa consultò rapidamente l'orologio. Quel colloquio doveva sembrarle ridicolo. «Può spiegarmi il fenomeno?» Rise appena, imbarazzato. «Anche qui bisognerebbe riprendere da zero.» «È ancora più semplice. L'organo sessuale femminile possiede, in fondo alla vagina, una membrana: l'imene. Quando avviene il primo rapporto sessuale, il pene lacera questa membrana.» «Che allora sanguina?» «Sì. Ma attenzione: in generale, l'imene è già più o meno perforato. Basta che la ragazza si sia lavata un po' troppo in profondità, o che si sia toccata.» Marc fece tesoro di quest'ultimo dettaglio. Forse poteva essere sfruttato per descrivere qualcosa di intimo nella giovinezza di Elisabeth... Chiese: «Di che colore è questo sangue?» La donna non rispose. Non si vedevano più che i capelli bianchi, in violento contrasto chiaroscurale con il viso color terracotta. Pareva di nuovo riflettere. Con le sue domande maldestre Marc la costringeva a ripescare nozioni di base. «Anche in questo caso», disse alla fine, «si tratta di un sangue molto bruno. Contiene particelle della parete imenale. E anche, naturalmente, secrezioni vaginali. In linea di principio, tutto ciò avviene in un contesto di piacere.» «In linea di principio?» Marc era avido di ogni digressione, di ogni parere personale. «Questo piacere fa raramente parte dell'esperienza», continuò la ginecologa. «C'è la lacerazione, la novità del rapporto sessuale. Lo si voglia o no, tutto ciò è molto brutale. Quel sangue è il sangue di una ferita. Di una ferita interiore. Segna la fine di un'era...»
La voce si faceva sognante. A poco a poco Marc captava un'atmosfera particolare nello studio. I muri, i mobili si oscuravano come le pareti di una grotta. Le parole della specialista assumevano una dimensione ancestrale e magica. Aveva l'impressione di ascoltare un oracolo. La donna parve rendersene conto e spezzò l'incantesimo schiarendosi la voce: «Può bastarle? Ho altri appuntamenti.» Mentiva. Non voleva lasciarsi prendere dall'incantesimo. «Mi perdoni», disse Marc in tutta fretta, «ma le ho parlato di un terzo sangue: quello delle ferite, come dire, accidentali... Può dirmi qualcosa al riguardo?» Lei accese la lampada, sospirando. Un paralume di tela pergamenata, venata di rosso. Nella luce dorata il suo viso parve ancora più segnato dall'età. Una faccia rugosa, disseccata, come riesumata dalla sabbia. «Non ho niente da dire», replicò. «Quel sangue è... normale.» «Nessuna differenza nell'aspetto fra quello dell'uomo e quello della donna?» «No, nessuna. La composizione non cambia. Glielo ripeto: se la ferita ha toccato le arterie, il sangue sarà rosso vivo. Se si tratta delle vene, sarà più scuro. È tutto.» «Ha delle fotografie?» «Fotografie?» «Sì. Dei diversi tipi di sangue di cui abbiamo parlato.» «Non vedo la ragione per cui dovrei averne. L'unica cosa che ho sono delle fotografie mediche, su scala microscopica.» «Vi si distinguono i colori?» «No. Spiacente.» Allungò le mani sulla scrivania. «Ora...» Le frasi di Reverdi gli si riaffacciarono alla mente: «...trova le parole giuste per farmi vedere, qui, sulla pagina, il colore di quel liquido intimo...» «Aspetti», insisté. «Se accettasse il gioco delle metafore, di attribuire un qualche valore simbolico a ciascuno di questi tipi di sangue, che direbbe?» «Senta...» «Solo qualche parola.» La donna esitò, poi si riadagiò nella poltrona di legno. Chiuse gli occhi. Le rughe intorno agli occhi si raggrinzirono in un breve sorriso. «Direi che il sangue della verginità è denso. Carico. È la vita, ma al tempo stesso anche la morte. La fine dell'innocenza, della libertà. La sessualità esiste nel bambino, ma non è ancora una prigione. I desideri sono semplici
apparizioni, attraversano fugacemente il corpo. Con la pubertà, e la deflorazione, questi fuochi fatui s'incarnano, si colorano di rosso, diventano delle potenze organiche che perdureranno per tutta l'adolescenza...» Riaprì gli occhi. «Glielo ripeto: questo è il sangue di una ferita. Una piaga che non si cicatrizza mai. È la vocazione stessa del desiderio. Un richiamo perpetuo. Insaziabile.» «Se dovesse descriverne il colore, sulla tavolozza di un pittore, che direbbe?» «Un rosso bruno. Fra il fango e il lampone. Qualcosa che ha a che vedere con le alluvioni, ma anche con la freschezza della polpa di un frutto. "Lacca di garanza" sarebbe il nome esatto per questo colore.» Marc scriveva frenetico: l'oracolo aveva trovato la sua voce. «Non so se ne sa di pittura. C'è un celebre dipinto di Bonnard che viene sempre citato per designare la lacca di garanza: la Donna con il gatto. Lo sfondo ha questa tonalità. Una superficie compassata, coagulata, ma anche traboccante di nuova energia, ricca, zuccherina.» Marc non avrebbe potuto sperare di meglio: la ginecologa diventava poetessa. Incalzò: «E il sangue delle mestruazioni? Ha un nome per il colore?» «Ocra rossa. Anche qui c'è l'idea del fango. Un fango bruno, un residuo. Le mestruazioni sono un appuntamento mancato. In questo flusso c'è sempre una delusione, uno spreco. È un cibo che non è stato messo a frutto.» Fece una pausa, poi ripeté in un tono più sicuro. «Sì, ocra rossa. Un lutto bruno. Una terra nutrice, gettata in fondo a una tomba.» «Saprebbe citare un quadro?» «No. Un paesaggio, piuttosto. Quei villaggi uggiosi del Belgio o dei Paesi Bassi, tutti di mattoni, affondati nella terra, inchiodati dalla pioggia.» Marc scriveva sempre più in fretta: Elisabeth aveva materiale per riempire pagine su pagine. «Ancora una parola sulle ferite e me ne vado. Nel mio libro», inventò, «l'eroina ha un incidente d'auto. Vorrei contrapporre questo sangue "normale" a quello, più femminile, di cui abbiamo appena parlato.» Lei fece una smorfia che le trasformò il viso in una maschera funebre. A Marc vennero in mente le figure arse dalla lava di Pompei. «Quando lavoravo all'ospedale ho visto passare non poche vittime di incidenti. Ricordo la mia sorpresa davanti a tutto quel sangue. Ero sbalordita dalla sua vivezza, dalla sua brillantezza, dalla sua... foga. Era come vita
rubata, sorpresa in flagrante delitto di agitazione. Un rosso carminio.» «Un quadro?» «Un quadro molto vivido, sì, dove il colore squilla come una fanfara. La Grande parata su fondo rosso di Fernand Léger. Lo conosce?» «No.» «Cerchi di vederlo e allora capirà. Il fondo della tela è di un rosso vibrante. In primo piano, i personaggi del circo sono tutti bianchi.» Sorrise nel rievocare il quadro. «Globuli rossi, globuli bianchi: sì, la verità del sangue sta in questa fanfara.» Pronunciando queste parole allungò di nuovo le mani sulla scrivania, con un gesto deciso: «Be', non abbiamo lavorato poi così male, no?» Niente male, in effetti. In un solo appuntamento aveva ottenuto tutte le risposte che gli servivano. Adesso c'era un ultimo problema da risolvere: la foto di Elisabeth. Dalla vigilia questo pensiero lo accompagnava costantemente. Era da escludere l'invio del vero ritratto di Elisabeth Bremen, quello del passaporto, che Marc aveva conservato. In primo luogo non voleva coinvolgere ulteriormente quella svedese che sperava fosse rientrata nel suo paese. Ma soprattutto, il suo viso, quadrato come una mattonella, non corrispondeva ai gusti di Reverdi. Bisognava cercare altrove, e Marc aveva già un'idea. Tanto più che la soluzione si trovava a due passi da lì. 25. «Il flou è il solo modo per catturare la bellezza.» Il colosso estrasse la pellicola e le praticò una tacca con i denti. Infornò un nuovo film nella macchina fotografica: «La bellezza se ne frega dell'immagine precisa, leccata. Non ti parlo dell'apparenza, Khadidja, ma dello spirito. Lo "spirito", capisci? Voltati. No. Di tre quarti. Così.» Un flash l'accecò, seguito da un lungo sibilo. Khadidja esitava a informare il gigante del piccolo particolare che stava per conseguire un dottorato in filosofia e che le sue considerazioni a buon mercato a proposito di flou, spirito e bellezza avrebbero fatto bella figura in un dizionario delle stupidaggini del pensiero estetico. Ma tutti si trovavano d'accordo: Vincent Timpani era un fotografo geniale. Nel piccolo mondo delle modelle non si
parlava che di lui e dei suoi composite flou, che incantavano tutte le riviste e gli stilisti. Il fotografo proseguì, come facendo eco ai suoi pensieri: «È per questo che le mie fotografie hanno successo. Persino quei cretini patentati dei booker e quelle imbranate delle redattrici vedono la differenza. Solo una foto sfocata può catturare l'essenza del soggetto. Fissare l'immateriale. Voltati ancora. Molto bene. Quando alzo la mano fa' un passo avanti e poi rimettiti in posa...» In altre circostanze tutto questo le sarebbe parso ridicolo. Ma si muoveva in un universo grottesco: doveva adattarsi. E aveva voluto lei farsi fare quelle foto. Aveva lavorato come un mulo, risparmiato... persino rinunciato a fare gli esami della patente per pagarsi di tasca sua quelle nuove fotografie. Gli ultimi gradini verso la gloria. «Adesso, guarda verso di me. Quando te lo dico, ti sposti sulla destra... Vai... OK.» Un altro flash crepitò. «Nella filosofia buddhista...» Khadidja non ascoltava più. A essere sinceri, quel pachiderma nel suo completo stazzonato le piaceva. Nell'ambiente della moda lo si doveva considerare una specie di orso scappato dal circo che era riuscito a togliersi la museruola. Era pesante, volgare, assolutamente al di fuori di ogni regola. Ma era anche schietto, allegro, e pareva aver vissuto un'altra vita prima di quella. E poi, da qualche mese a quella parte, era stato il primo a non chiederle, con aria convinta, a proposito della guerra in Iraq: «Tu che sei musulmana, cosa ne pensi?» «Adesso ti siedi a gambe incrociate. Così... Perfetto. Attenzione: nuca diritta. Al mio segnale ti chini in avanti e... merda.» Il flash non era scattato. Vincent gridò, verso gli ombrelli di luce: «Cosa succede con i flash?» Profondo silenzio. Meccanicamente, Khadidja si circondò le spalle con le braccia come se fosse nuda. In realtà indossava un abito aderente, con un motivo di scacchi color pastello che le ricordavano le collane di caramelle di cui andava ghiotta da bambina. Adesso il fotografo urlava, schiacciando furiosamente i tasti del telecomando che aveva strappato dalla macchina fotografica: «Cos'hanno ancora, questi stronzi di flash! Arnaud? ARNAUD!» Una silhouette si mise in moto, piombando sui gruppi generatori posti ai piedi dei proiettori. Vincent sbottò: «OK, Khadidja. Facciamo una pausa. Non lavoro, io, in simili condizioni.» «Neanch'io.»
Era una battuta, ma nessuno l'udì. Khadidja scivolò nell'ombra come in una piscina ristoratrice. L'oscurità ritrovata le diede sollievo agli occhi. Le piaceva molto quello studio: un grande quadrato dalle pareti di cemento dipinte in verde acqua, popolato solo da ombrelli di luce e, giù in fondo, lunghi teli colorati. Si accostò al tavolo luminoso, spento, dov'erano stese le sue prime polaroid. Per darsi un contegno, fece finta di esaminarle. Una musica sommessa, fra l'etnico e l'elettronico, gracchiava da qualche parte. «Beve qualcosa?» Khadidja si girò verso la voce e scorse un uomo tarchiato davanti al frigorifero aperto. La sua figura si stagliava in controluce sulla luce gelida: spalle larghe, braccia corte. Un lottatore in miniatura, giacca inglese e polsini bianchi. «Una Coca», accettò. «Light?» «No.» L'uomo pescò nel frigo poi le venne vicino, una lattina di Coca in una mano, una bottiglia di birra nell'altra. «Non è il peggior nemico delle modelle, lo zucchero?» «Non faccio ancora la modella. Ne approfitto.» Rise, senza convinzione, prendendo la lattina. Detestava quel tono scherzoso, quella leggerezza convenzionale in uso a Parigi, priva di qualsiasi senso. Lo sconosciuto sorrise, probabilmente per farle piacere, poi si chinò sulle fotografie: prime prove, senza trucco. Mentre lui contemplava le fotografie, Khadidja l'osservò dalla testa ai piedi. Aveva visto raramente un personaggio così originale. Era rosso di capelli e - orrore degli orrori - portava i baffi. I capelli fini terminavano sulla fronte con un leggero ciuffo, e il suo look, giacca a quadri e collo all'inglese, accentuava ancor più la sua aria «british», del genere Sherlock Holmes. Beveva la birra a piccoli sorsi, senza smettere di scostare il ciuffo con un gesto secco. C'era in lui qualcosa di forzato, di brutale. Al tempo stesso la ragazza percepiva, con le sue antenne da Madre Teresa, una vulnerabilità, una ferita. Intuiva anche la presenza di una dipendenza. Quel tipo era drogato, non di eroina né di cocaina. Di qualcos'altro... «Non le dico niente sul suo fisico», finì per aggiungere lui rialzando il capo. «Devono averle già detto tutto.» «Tutto, è la parola esatta.»
Khadidja si spremette il cervello alla ricerca di qualche battuta che la facesse sembrare divertente, spiritosa, parigina, ma non le venne in mente niente. Fu salvata dalla voce di Vincent: «Avete fatto conoscenza?» Usciva dal locale di sviluppo. Si avvicinò con il suo passo pesante, facendo ballonzolare le tasche, poi prese la birra dalle mani dell'altro: «Khadidja Kacem», disse designandola con il collo della bottiglia. «"Futura stella effimera" del nostro piccolo mondo vanitoso. Lei non lo sa ancora, ma tutto questo», indicò lo studio, «è gratis per lei. Sì, principessa: se sei d'accordo diventiamo soci. Tu non paghi niente per le fotografie e ci accordiamo sui futuri contratti.» Khadidja era stupefatta. Non sapeva se si trattava di una truffa o, al contrario, di una fortuna inaspettata. Ignorava anche se la cosa era possibile, dato che aveva già un contratto con un'agenzia. Si limitò a dire: «Be', grazie, io...» «Marc Dupeyrat», tagliò corto Vincent circondando amichevolmente con un braccio le spalle del rosso. «Il mio migliore amico. E il giornalista più tenace che conosca. Lui e io ne abbiamo fatte di tutti i colori, parecchio tempo fa.» Marc si piegò in due, a mo' di saluto. «Per che giornale lavora?» domandò la ragazza. Fu Vincent a rispondere: «"Le Limier".» Strizzò l'occhio all'amico. «Un giornale di cronaca nera.» «Non... non lo conosco», confessò Khadidja. Il giornalista si sistemò per l'ennesima volta il ciuffo: «Non perde niente.» Khadidja detestava gli uomini che si autosvalutavano senza motivo. In genere era indice di un eccesso di vanità. Come se, in un'altra vita, avessero potuto valere molto di più. O come se si ponessero così in alto da poter in ogni caso disprezzare la propria esistenza. «Un cacciatore di delitti», riprese Vincent. «Un appassionato di cadaveri ben insanguinati. Il signor Dupeyrat potrebbe dirigere una delle maggiori riviste di Parigi, e invece no, preferisce trascorrere l'esistenza nelle corti d'assise e sulle scene del crimine...» Khadidja non ascoltava più. Si accorgeva che ogni particolare diventava più nitido, vibrava, cantava letteralmente nelle sue fibre più profonde. La purezza delle pareti verdi e spoglie dello studio; il profumo della lacca sui
capelli; il peso dei gioielli d'argento sulla pelle... Cigni sensazione si cristallizzava, si acuiva, immortalava l'istante. Li conosceva quei sintomi, quella segreta effervescenza di tutto il suo essere. L'eccitazione amorosa. Di nuovo Vincent venne in suo soccorso: «E non è tutto, ma bisognerà che riprendiamo il discorso in un altro momento: il flou non può aspettare!» Batté le mani: «Si riprende il lavoro! Arnaud, tutto a posto con i flash?» Si precipitò verso il set, seguito dallo sguardo di Khadidja. Malgrado la stazza, non appena entrava in azione sprigionava un dinamismo febbrile, una scia luminescente. Marc mormorò: «Vada. La pazienza non è il suo forte.» Khadidja sorrise e cercò ancora qualcosa da dire. Vuoto assoluto. Merda. Si diresse verso il set. Il truccatore la bloccò all'altezza dei proiettori, pennelli in mano. La ragazza lanciò suo malgrado uno sguardo verso la penombra. Avrebbe giurato che il giornalista la stava osservando, con un'aria preoccupata però, quasi contrariata. «Un drogato», si disse. «Un uomo che vive dentro un'ossessione che nessuno può condividere.» E sentì un calore salirle dentro... Il truccatore aveva finito. Khadidja fece il suo ingresso nell'arena. Aveva la deliziosa impressione di essere una principessa, al centro di tutti gli sguardi. Vincent ordinò: «Riprendi la stessa posizione, seduta a gambe incrociate. Molto puro. Devi far emergere il tuo lato zen.» Khadidja sorrise a questa ennesima stupidaggine ed eseguì. Si sentiva come in sospeso, trascesa dal nuovo sentimento che la invadeva. Un'acqua volatile, più leggera dell'aria. Ma nonostante quella serenità, nonostante i proiettori, in quel momento tutto si fece cupo. Aveva pensato al suo segreto. La maledizione che le vietava l'amore. La bruciatura indiana. Le ragazzine chiamano così un tipo di «gioco» che fanno tra loro, una tortura che s'infliggono l'una all'altra. Consiste nello stringere con le due mani il polso della vittima, per poi ruotarle in senso contrario, provocando uno strofinio doloroso. La bruciatura indiana. Il nome era azzeccato. Quand'era bambina, Khadidja aveva questa im-
magine degli indiani che strofinano un bastoncino di legno a contatto con un mucchietto di foglie secche, facendo sprigionare un filo di fumo e poi, a poco a poco, delle scintille... Era esattamente quello che provava quando faceva l'amore. Il dolore che avvertiva al momento della penetrazione. Lo strofinio delle carni rimaste asciutte, pronte a infiammarsi. Aveva consultato vari ginecologi. La diagnosi era sempre la stessa: soffriva di una mancanza di secrezioni vaginali. Non c'erano spiegazioni di tipo patologico. «È tutto nella testa», le ripetevano. Ma va? I medici le parlavano di frigidità, di blocco, di terapia... Le prescrivevano anche farmaci, pomate, per i «casi urgenti», allungandole però l'indirizzo di uno specialista: uno psichiatra sessuologo. Khadidja li assecondava, senza precisare di aver già fatto cinque anni di analisi che le avevano permesso di «superare» qualcuno dei suoi traumi, in particolare il fatto di essere cresciuta sotto il segno dell'eroina. Ma quegli anni d'introspezione non avevano potuto fare niente contro il fuoco. Khadidja bruciava ancora. Inaridita per sempre. Un vero deserto, popolato di ossa di animali morti, imbiancati dal sole. Eppure, s'innamorava spesso. Bastava uno sguardo, un sorriso, sui banchi della facoltà. O anche al self-service, a Cachan. In quei momenti si sentiva tutta indolenzita, quasi avesse l'influenza. Per lei l'amore era quell'irradiazione febbrile, ma anche corroborante, che le saliva fin sotto i seni e si diffondeva su tutto il torso. Un corallo rosso: così visualizzava il desiderio che le si espandeva dentro. In cambio, certo, riportava un successo unanime. Una vera regina di Saba, che soggiogava gli uomini. Ma di lì a poco gli uomini sembravano capire che qualcosa stonava. Sentivano, con il loro infallibile istinto a evitare qualsiasi complicazione, che Khadidja non era come le altre. Troppo cupa, troppo contorta... «Ehi, Khadidja! Cosa combini? Ti chiedo per l'ultima volta di alzarti: credi di poterlo fare?» Lei obbedì. Fra un lampo di flash e l'altro tentava di scorgere pel di carota. Era sempre là? La guardava? Si sentiva attratta da quell'enigmatico giornalista, anche se tutti i suoi sensori l'avvisavano del pericolo: un maniaco, indifferente agli altri, concentrato sulle proprie ossessioni. «Voltati, adesso. Stop! Così, di tre quarti... Molto bene.» Lei aveva un bel concentrarsi sulla zona scura creata dagli ombrelli: non vedeva nessuno.
«Khadidja? Accidenti. Puoi far sparire quel sorriso beato, eh?» Lo aveva finalmente individuato, vicino al tavolo luminoso. E, nel preciso istante in cui metteva gli occhi su di lui, si era prodotto un miracolo. Una scena d'amore di quelle che succedevano soltanto nelle commedie musicali egiziane di cui lei andava matta. Credendosi al riparo dagli sguardi, il giornalista aveva preso una delle sue polaroid e se l'era fatta scivolare in tasca. 26. Quando Jacques Reverdi venne a sapere che nel carcere avrebbe avuto luogo una visita medica «di massa» per individuare eventuali casi di SARS, seppe che era giunto il tanto atteso colpo di fortuna. Ma non vedeva come sfruttare concretamente quell'occasione. Aveva riflettuto per quattro giorni senza trovare una risposta. E adesso, il 23 aprile, alle undici del mattino, aspettava il suo turno nell'interminabile fila d'attesa, senza avere ancora la minima idea in testa. In realtà in quel momento se ne infischiava. Perché da due giorni era praticamente in stato di shock. Lo shock del viso. Non aveva mai capito perché, quando si trattava di giudicare una donna, il criterio fisico fosse così disprezzato. Come se una donna dovesse essere prima di tutto un genio, una santa, una madre, un condensato di qualità morali. Come se apprezzarla, adorarla per il suo viso, il suo corpo, il suo aspetto, fosse un'offesa. Le donne stesse volevano sempre essere amate per la loro «bellezza interiore». Scempiaggini. Il dono di Dio, il solo, era la bellezza fisica. Il viso, soprattutto, dove si concentrava il miracolo dell'armonia, dell'equilibrio. E intimava il silenzio. Non una parola, non un respiro. Bisognava ammirare, ecco tutto. Il resto non era che scorie, impurità, inquinamento. «Scambio», «condivisione», «conoscenza dell'altro» eccetera eccetera non erano che menzogne. Per una semplice ragione: non appena parlava, la donna mentiva. Non sapeva esprimersi altrimenti. Era la sua natura ancestrale. La zavorra informe, avvolgente, subdola da cui non riusciva a districarsi. Aveva sempre scelto le sue compagne per la loro bellezza. Incrociare un volto per strada: era così semplice e al tempo stesso così difficile. Dopo,
subentravano la strategia, il calcolo, la manipolazione. Quando poi parlava alla sua «eletta», anche lui incominciava a mentire. Penetrava nel cerchio abietto della relazione umana. Proprio quando credevano di scoprirlo, di definirlo, le donne non facevano che allontanarsi da lui, sprofondando nella trappola che lui aveva preparato. Pensò a una canzone di Georges Brassens: Je veux dédier ce poème A toutes les femmes qu'on aime Pendant quelques instants secrets... Les Passantes. Questi versi l'avevano sempre ossessionato. Gli sembravano riassumere l'essenza stessa della sua ricerca. Quel dramma intimo ed eterno di quando ti lasci passare davanti un bel viso, su un treno, tra la folla, per strada, mentre invece sei spinto verso di lui da uno slancio irresistibile. Conta solo questo immediato bagliore. La scintilla primordiale. Ecco perché, mentre si apprestava a estirpare delle confessioni a Elisabeth, e a trarne qualche magro piacere, era stato soggiogato dalla fotografia. Non era preparato a qualcosa di simile, tutt'altro. Più che un volto, i tratti di Elisabeth erano una rivelazione. Sotto i riccioli bruni, l'espressione era fine, pungente, rafforzata dagli zigomi alti e dalle folte sopracciglia. Al tempo stesso, la parte inferiore del viso emanava dolcezza e tenerezza. La bocca soprattutto, labbra ben disegnate e chiare, esprimeva una sensualità sbarazzina, quasi divertita. Ma erano gli occhi a magnetizzare l'attenzione. Iridi nere come il quarzo, circondate da un anello scintillante (forse un profilo dorato, ma la fotografia, una polaroid, era in bianco e nero), e leggermente asimmetriche. Quel singolare scarto nell'asse delle pupille era irresistibile. Passava direttamente attraverso i filtri usuali della percezione, i pregiudizi, le abitudini, e mandava in pezzi ogni punto di riferimento, ogni protezione. Di fronte a quello sguardo ti ritrovavi nudo e ti sentivi fondere, capitolare, già toccato nel tuo essere più profondo. «Toccato», era la parola esatta. Come una ferita, dentro, che si apriva sempre di più. Un desiderio, già doloroso. Un richiamo, un'inquietudine... Se Jacques avesse incrociato quella «passante» sulle spiagge di Koh Surin o fra le rovine di Angkor, l'avrebbe scelta immediatamente. Mai l'avrebbe lasciata diventare una di
quelle «speranze di un giorno deluse». E lei avrebbe costituito la sua più bella preda. Da sola, avrebbe spazzato via tutte quelle che aveva selezionato. Quel viso cambiava tutto. Ormai, Jacques aveva deciso di giocare il gioco della confessione. E di spingersi anche oltre. Nella fila d'attesa improvvisamente successe qualcosa. C'era agitazione, risuonavano delle grida. Reverdi emerse dai suoi pensieri. Forse era il colpo di fortuna che aspettava. Fendette la folla e vide un uomo a terra, scosso da tremiti, il corpo inarcato sull'asfalto. Dalla bocca usciva una schiuma macchiata di sangue. Gli occhi erano stravolti all'indietro. «Epilessia», pensò Jacques. Se non si interveniva subito, il tizio rischiava di mangiarsi la lingua. «Fate largo!» urlò Jacques in malese. Si tolse la maglietta e l'arrotolò sotto la nuca dell'uomo, che sobbalzava sul bitume. Prese il cucchiaio che si portava sempre appresso e lo affondò nella bocca del malato. Dovette fare parecchi tentativi, ma poi riuscì a piazzare lo strumento contro il palato. Adesso l'aria poteva di nuovo passare nell'esofago. Girò il corpo su un fianco per evitare che l'uomo venisse soffocato dal suo stesso vomito. Era fuori pericolo. La crisi sarebbe passata. Riconobbe l'epilettico: un indonesiano, un assassino di donne soprannominato «Vetriolo» perché usava l'acido per sfigurare le sue vittime. «Cosa succede?» Jacques si voltò verso la voce. In mezzo alla folla apparve un viso parzialmente coperto da una mascherina verde pallido. Si fece da parte. Il medico auscultò l'indonesiano, i cui spasimi cominciavano già a diradarsi. Compì gli stessi gesti di Reverdi, verificò la nuca, la gola. Abbassò la mascherina da chirurgo. Era il vecchio medico della prigione, un indiano di nome Gupta. Si guardò intorno e chiese: «Chi l'ha soccorso?» Reverdi fece un passo avanti e disse in malese: «Io. Bisogna iniettargli del Valium.» Il dottore aggrottò le sopracciglia. Era un vecchio dalla pelle nera come il carbone, con i capelli appiattiti sulla fronte. Passò all'inglese: «Sei medico?» «No, ho esperienza di pronto soccorso.» Gupta gettò un'occhiata all'indonesiano in preda a brevi conati di vomi-
to. Il cucchiaio gli brillava ancora in fondo alla gola, come un corpo del reato: «Da dove vieni? Europa?» «Francia.» «Perché ti trovi qui?» «Lei è l'unico a non saperlo. Assassinio.» Il medico scosse il capo, come se in quel momento si ricordasse di un «detenuto speciale». Arrivarono due infermieri: portarono via Vetriolo su una barella. Rialzatosi, il medico si rimise la mascherina e disse a Jacques: «Tu, vieni con me.» Reverdi conosceva bene l'infermeria: ci andava ogni giorno a prendere le sue medicine, prima del pasto di mezzogiorno. Era un semplice cubo di elementi prefabbricati, le cui pareti erano rivestite di listelli di legno nero. All'interno c'erano tre locali: una grande stanza contenente dei letti di ferro; un ambulatorio, in fondo; e a sinistra uno sgabuzzino dov'era conservato l'«archivio», ossia chili di fascicoli ingialliti dalle stagioni secche e dai successivi monsoni. In genere, quella baracca era il luogo più calmo della prigione. Solo pochi malati gemevano nel loro letto, aspettando di essere trasferiti all'Ospedale Centrale. Quel giorno c'era invece la ressa: ci si spingeva l'un l'altro fra i muri traballanti, ci si faceva largo a colpi di gomito, era tutta un'agitazione, al punto che l'intera costruzione minacciava di inclinarsi da un lato o dall'altro. Medici camuffati da cosmonauti avevano organizzato miniambulatori attorno a ogni letto, dove si accalcavano detenuti esitanti, spaventati, sotto il controllo di guardie armate, che non parevano più tranquille di loro. Tutti sembravano temere un nemico invisibile, che minacciava di attaccare da un momento all'altro: la SARS. «Seguimi», mormorò Gupta da dietro la mascherina. Fendettero la folla. Il medico aveva una camminata strana, con le spalle che ruotavano a destra e a sinistra, a mezza strada fra il bullo e il gobbo. Reverdi lo seguiva, sovrastando la folla. Un dottore imprecava di fronte alle vene invisibili di un drogato. Un altro urlava perché era appena stato schizzato da un getto di emoglobina. La visita medica pareva riassumersi in un mastodontico prelievo di sangue. Colava a fiotti. Nei flaconi, nei tubi, nelle vene. Decine di recipienti venivano riempiti, etichettati, portati via in appositi scomparti forati. Reverdi fu preso dalla nausea. Non poteva sopportare la vista di quel sangue:
l'esatto contrario della sua ricerca. Un sangue di uomini. Un sangue impuro. Gupta aprì una porta scorrevole. Fu con sollievo che Reverdi mise piede nell'ambulatorio tranquillo. Una solida scrivania di rovere, incartamenti alla rinfusa, un antropometro di legno, una bilancia, un pannello con lettere di tutte le dimensioni per l'esame della vista. Un vero dispensario di provincia. Il medico tolse una pila di cartelle dalla sedia che stava davanti alla scrivania: «Siediti.» Prese posto a sua volta e abbassò la mascherina. Il suo viso bruno era dibattuto fra lo sfinimento e il cattivo umore. Jacques pensò a un inchiostratore ormai logoro che portava l'impronta di numerosi timbri diversi. «Perché ti trovi qui con esattezza?» «Per niente.» Gupta sospirò: «Che fortuna ho di vivere in questo universo di innocenti!» «Non ho detto di essere innocente.» Il vecchio lo osservò con attenzione. Riprese: «Qual è l'imputazione?» «L'assassinio di una donna. Un'europea. A Papan. Jacques Reverdi: non ha mai sentito pronunciare questo nome?» «Non ho memoria», sospirò. «Qui è un punto a favore. D'altronde, ciò che fai fuori da queste mura non mi riguarda.» Incrociò le dita e rimase per qualche secondo in silenzio. Un silenzio nervoso, elettrico. I suoi piedi scalpitavano sotto il tavolo. Dall'altra parte della porta il baccano pareva aumentare. «Conosco bene quell'epilettico... Vetriolo. È in cura, ma rivende le medicine che gli diamo. Sai di avergli salvato la vita?» «Tanto meglio.» «O tanto peggio. Ha ucciso più di venti donne. Ma, di nuovo, non è cosa che ci interessi. Sei in carcere preventivo?» «Sì.» «Quindi non sei occupato nei laboratori?» «No.» «In caso di epidemia di SARS, accetteresti di aiutarci?» «Nessun problema.» «Non hai paura del contagio?»
«Sono già morto. Cento per cento di probabilità di essere condannato.» «Benissimo. Cioè, voglio dire...» Il rumore, oltre la porta, aumentava ancora. Un medico urlava perché una serie di flaconi pieni si erano schiantati sul pavimento. Jacques pensò al sangue: tutto quel sangue succhiato dalle vene, che brillava della sua cupa luce... Per associazione di idee, pensò alla lettera di Elisabeth. Le sue confessioni erano state un'altra bella sorpresa. Si esprimeva con intelligenza, con originalità. Quel modo di evocare il proprio sangue: i nomi dei colori, i paragoni con i quadri... Leggere la sua lettera gli aveva provocato una sottile eccitazione. Quelle immagini sollecitavano tutti i sensi e, doveva confessarlo, si era più volte masturbato rileggendo quelle parole incantatrici. «Ehi, parlo con te!» Jacques si aggiustò sulla sedia. Gupta si era alzato e rimesso la mascherina. «Cominci domani», disse con voce soffocata. «Io mi occupo delle scartoffie. In ogni caso, SARS o no, c'è bisogno di una mano qui.» Reverdi si alzò a sua volta. In quel momento scorse ciò che cercava, inconsciamente, fin dal suo ingresso in quella stanza: una presa del telefono. Non poté fare a meno di sorridere. Il colpo di fortuna che aspettava era finalmente arrivato. «Sarò lieto di rendermi utile», mormorò. 27. Una settimana dopo, non aveva ancora inviato una risposta a Elisabeth. Non prima di avere ottenuto certe conferme. Per il suo progetto servivano molti preparativi. Aspettava di aver sistemato tutto prima di darle istruzioni. Le quattordici. Si diresse verso l'infermeria. La vigilia, i risultati dei prelievi erano stati tutti negativi. Non un singolo caso di infezione collegato alla SARS. Aveva di conseguenza temuto che lo rimuovessero dall'incarico nell'infermeria, ma Gupta aveva saputo convincere le autorità di aver bisogno della matricola 243-554. Ormai Reverdi godeva di una libertà di movimento senza precedenti. Si sarebbe detto che, nel subbuglio creato dalla falsa epidemia, si fossero dimenticati di lui. Persino Raman gli lasciava briglia sciolta.
Il suo lavoro al dispensario era ripugnante, ma non si lamentava. Nel giro di una settimana aveva capito come funzionavano le cose lì. Le energie erano dirette soprattutto contro l'infezione. Piaghe purulente, ulcerazioni stillanti, cancrene galoppanti. E poi gli eczemi, le irritazioni, le allergie che divampavano sotto l'effetto del caldo torrido. I detenuti si grattavano fino all'osso, si gonfiavano a vista d'occhio. C'erano anche gli storpi abituali, cadute e altre fratture. Senza contare le costanti di tutti i giorni: dissenterie, beriberi, paludismo, tubercolosi... Quanto alle urgenze, aveva già partecipato a cinque interventi. Un suicidio con la lametta da barba, un pestaggio, una misteriosa caduta sulle scale, un'altra caduta, ancora più misteriosa, in un pentolone di zuppa fumante; infine, uno psicopatico che aveva tentato di soffocarsi mangiando la propria merda. La routine. Ma l'infermeria era teatro di ben altre cose. Malgrado gli sforzi di Gupta per una medicina corretta, questa struttura era il centro di un traffico instancabile, controllato da Raman. L'ingresso era a pagamento e le cure avevano un loro prezzo. A ciò si aggiungeva un commercio incessante di tranquillanti e altri prodotti chimici. Lo stesso Reverdi sfruttava il sistema: non avrebbe potuto sperare in un posto migliore per rivendere le sue medicine e rinnovare la clientela. Il cinquanta per cento dei detenuti curati nell'infermeria erano tossici in crisi di astinenza. Jacques era a soli pochi metri dal blocco quando si sentì chiamare. Si voltò con diffidenza. Aveva riconosciuto la voce: Raman. «Vieni qua.» Jacques ubbidì, ma restò fuori dalla portata del manganello. «Noi due dobbiamo parlare», sibilò il sorvegliante in malese, guardandosi attorno con circospezione. «Di cosa, capo?» «Del tuo nuovo lavoro.» Non batté ciglio mentre osservava il volto nero di Raman: un frammento di meteorite precipitato da una galassia diabolica. Sapeva di cosa voleva parlare quel farabutto: la divisione dei guadagni sulle vendite illecite dell'infermeria, in particolare quelle delle proprie pillole. Ma fece lo gnorri: «Bisognerebbe piuttosto parlarne con il dottor Gupta, no?» Raman non reagì, poi d'un tratto, sorrise. La sua faccia era sempre pronta a tendere un tranello. Ogni nuova espressione ti prendeva di sorpresa. «Vuoi giocare a fare l'idiota? D'accordo. Ma vorrei farti una domanda. Sai perché, al momento dell'impiccagione, è presente un chirurgo?»
I suoi muscoli s'irrigidirono: «No, capo.» «Perché bisogna sempre ricucirlo. L'impiccato.» Si portò le mani alla gola. «La corda lacera le carni, afferri? Non sarà contro la tua religione, almeno?» Reverdi restò in silenzio. Un lungo momento. Poi, imitando Raman, se ne uscì in un sorriso: «Meglio essere ricucito da morto che da vivo.» Gli strizzò l'occhio. Raman lo guardò, indeciso. Finì per dire: «C'è il tuo avvocato. In parlatorio.» Jimmy lo aspettava nella sua posa abituale. Con davanti, sul tavolo, un caffè fumante. Jacques fissò il bicchierino bianco. Una volta che le catene di Reverdi furono fissate al pavimento, l'avvocato cominciò a sciorinare le sue frasi di circostanza. Ma fu subito interrotto: «È buono il tuo caffè?» Wong-Fat esitò, lanciò uno sguardo al piantone: «Eccellente.» «Migliore del solito?» Fece segno di sì. La sua faccia di cera era madida di sudore. Jacques tese il braccio: «Posso assaggiarlo?» L'altro acconsentì. Reverdi diede a sua volta un'occhiata alla guardia, che sonnecchiava stordita dalla calura. Afferrò il bicchierino e lo nascose al suo sguardo. Tuffò le dita nel caffè bollente e ne estrasse un oggetto elettronico avvolto nella plastica. Oggetto minuscolo, cromato, piatto come una calcolatrice tascabile. Sorriso. Adesso poteva scrivere a Elisabeth. 28. Kanara, 1° maggio 2003 Scusami del ritardo, ma dovevo occuparmi di certi preparativi in vista delle nostre nuove relazioni. Fra l'altro, adesso lavoro nell'infermeria della prigione, e ciò richiede un bel po' di tempo e di energia.
Ho letto con attenzione la tua ultima lettera. Ho molto apprezzato le tue risposte. Anzi: mi ha incantato il tuo modo di esprimerti, di descrivere i particolari che ti riguardavano più da vicino e che mi stanno a cuore. Ma, soprattutto, ho scoperto il tuo viso. Devo confessarti che sono rimasto abbagliato. Non avrei mai potuto sospettare, nel leggere la tua prima lettera, che dietro la tua grossolana richiesta si nascondesse un viso simile. Elisabeth, credo ai volti come si crede alle carte geografiche. Vi si possono leggere in superficie la composizione dei terreni, l'atmosfera delle regioni, le giungle interne... I volti riflettono la realtà interiore degli esseri. Ho colto nei tuoi lineamenti un'intelligenza e una volontà di capire che dovrebbero permetterci di andare molto lontano insieme. Tocca adesso a me risponderti. Ma devo avvisarti: non ho bisogno delle tue domande. So quello che t'interessa. So quello che speri... Eppure, devo deluderti: simili verità non si raccontano. Sono esperienze troppo forti, troppo piene, che saturano l'essere. Non ho voglia di riempire pagine su questo tema. Impoverirlo con le parole, sporcarlo con spiegazioni. Se vuoi capire la mia storia, Elisabeth, c'è solo una strada da seguire: la mia. Nel senso letterale del termine. Esiste, da qualche parte del Sudest asiatico, fra il tropico del Cancro e la linea dell'Equatore, un'altra linea. Una linea nera. Disseminata di corpi e di terrore. Oggi puoi seguirla, se accetti di essere guidata, a distanza, dai miei consigli. T'interessa? Certo che sì. Vedo già i tuoi occhi neri mandare scintille, le tue labbra color miele fremere nel leggere la mia proposta... Se accetti di compiere questo viaggio, capirai ciò che è realmente successo sul mio percorso. Il tuo cammino non sarà facile. Gli indizi non saranno numerosi. E non aspettarti che io sia troppo esplicito. Dovrai indovinare da sola gli eventi, sperimentare, sulla tua carne, gli ingranaggi della storia, le cause e gli effetti della linea nera. A ogni tappa, mi invierai le tue conclusioni. Descriverai con precisione ciò che hai trovato, ciò che hai capito, ciò che hai provato.
Se sarai sulla buona strada, ti offrirò degli spunti per proseguire. In caso di errore, non ci sarà una seconda opportunità. Ritornerò al mio silenzio. È inoltre importante che tu capisca una cosa. Se mi rispondi «sì» oggi, non potrai fare marcia indietro. Sarai legata a me, per sempre. Da un segreto indicibile. Infine, ultimo punto, fondamentale. Quando evocherò le azioni che ti interessano non dirò mai «io». Forse sono l'autore di quelle azioni. Ma forse si tratta di un altro, che conosco bene, che sta vicino a me, o è in libertà. Sono il solo a conoscere la risposta e, per il momento, non sono pronto a rivelartela. Accontentati di seguire i «Suoi» consigli. Sei pronta per questa esperienza, Elisabeth? Ti senti abbastanza forte per addossarti questo ruolo? Per risalire fino alla sorgente delle tenebre? Scrivimi presto, usando gli stessi canali. In seguito cambieremo il modo di comunicare. Dammi un indirizzo e-mail. Sono riuscito a escogitare un sistema che mi permetterà di scriverti, in incognito, attraverso la posta elettronica. Presto non potrò più percepire l'impronta della tua mano sulla carta. Né pensare al tuo bel viso chino sul tavolo quando mi scrivi. Ma allora t'immaginerò in cammino nel Sudest asiatico. Un giorno mi hai confidato: «Di abissi ce ne sono di ogni genere. E tutti m'interessano.» È arrivato il momento di dimostrarmelo. Ti bacio, Lisa mia. Jacques Marc non rialzò subito la testa dalla lettera: piangeva. Di gioia. Di emozione. E anche per la fifa. Aveva aspettato così a lungo quella lettera. Era il 6 maggio. Faceva l'assedio alla posta dalla metà di aprile. Era arrivato sull'orlo della pazzia a forza di pazientare: non lavorava più, non si radeva più, dormiva pochissimo. Ma il risultato valeva tutte quelle sofferenze. Un serial killer si sarebbe confessato con lui. Ancora meglio: lo avrebbe guidato, gli avrebbe fatto ripercorrere le sue orme. Sempre con indosso i guanti, prese un foglio e, senz'ombra di esitazione, scrisse una risposta entusiasta, lasciando uno spazio bianco per l'indirizzo
e-mail. Rilesse il testo e non trovò alcuna modifica da fare. Era un testo d'amore, travolgente, cieco, di una giovane pronta a tutto per seguire il suo mentore. Di colpo si rese conto di aver scritto la lettera usando, automaticamente, la grafia di Elisabeth. Tutto un simbolo... Alzò gli occhi e contemplò la parete di fronte. Vi aveva affisso tutti i ritratti dell'apneista in suo possesso. Un modo per avvicinarsi al suo complice-avversario. Adesso, una foresta di Reverdi lo guardava. Trionfante, in muta da sub. Sorridente, nel sole dei Tropici. Scontroso, in primo piano, il mento nascosto da una tavoletta antropometrica... «Esiste, da qualche parte nel Sudest asiatico, fra il tropico del Cancro e la linea dell'Equatore, un'altra linea. Una linea nera. Disseminata di corpi e di terrore.» Marc sorrise, gli occhi brucianti di lacrime: «Quante ne hai ammazzate, mascalzone?» 29. Prima priorità: l'indirizzo e-mail. Marc si fiondò in un Internet Café nei pressi dell'Avenue Trudaine. Era fuori questione usare il proprio computer per aprire una casella postale elettronica a nome di Elisabeth. La tecnologia non era il suo forte, ma era sicuro che l'apertura di un indirizzo elettronico lasciava delle tracce. Seduto davanti a un computer anonimo, scelse un server di origine francese, «Voilà», e compilò il formulario necessario per creare una casella postale gratuita... perché anche un qualsiasi pagamento poteva far risalire a lui. Ogni dato da lui inserito nel modulo era falso e riguardava esclusivamente Elisabeth Bremen, una parigina ventiquattrenne che non esisteva. Marc inventò un indirizzo personale, nel IX arrondissement, per una maggiore coerenza, una data di nascita, una password, e infine scelse l'indirizzo e-mail: «
[email protected]». Quella era la sua chiave per le tenebre. Filò con la lettera al deposito della DHL, nella Gare de Bercy (non poteva far ritirare il plico al proprio indirizzo personale). A mezzogiorno questo primo problema era risolto. Lasciò l'ufficio d'ottimo umore. Sembrava tutto un gioco. E tuttavia l'angoscia affiorava alla superficie della sua co-
scienza. Certi passi della lettera erano particolarmente inquietanti, come quello in cui Reverdi evocava un «altro» da sé, un altro che era il vero assassino, ancora in libertà... Marc si strinse nelle spalle. L'assassino bluffava: ne era certo. Una misura di precauzione, nient'altro, nell'eventualità che la loro corrispondenza venisse rintracciata e usata contro di lui. Nel taxi che lo riconduceva a casa, Marc stilò la lista delle cose da comperare e di quelle da organizzare in vista del viaggio. Decise che si sarebbe occupato di tutto nei successivi due giorni. Era il 6 maggio. L'8 era un giorno di festa che inaugurava uno di quei ponti interminabili che Marc tanto detestava. Non ci pensava nemmeno a rimandare la partenza alla settimana dopo. Ma, prima di tutto, fare piazza pulita. In poche ore, riprese il controllo della propria vita. Si lavò, si fece la barba, si tirò a lucido. Poi corse in tintoria, dove aveva abbandonato parecchie giacche, oltre a una serie di pantaloni e di camicie. «È una tintoria, non un deposito», brontolò la proprietaria. Marc pagò senza dire una parola. Di nuovo a casa, tolse dalla parete le foto di Reverdi e le sistemò accuratamente in una cartellina. Fece quindi una scelta dei suoi articoli, appunti e comunicati. Mise insieme le lettere di Reverdi e le copie delle sue. Si trovò tra le mani il ritratto di Khadidja, di cui aveva fatto una copia. Doveva ammettere che quella ragazza era sublime. Dietro la regolarità dei lineamenti possedeva un che di indomito che la rendeva più bella, più intensa della maggior parte delle altre modelle. Forse era a causa delle pupille, lievemente sfasate. O degli zigomi troppo alti che, a seconda della luce, proiettavano ombre verticali, quasi minacciose, sul resto del viso. O quel languore che le annebbiava gli occhi come un velo... Da quando l'aveva vista la prima volta pensava a quei concerti di pianoforte, di Bartok e di Prokofiev, dove le melodie, accompagnate da accordi dissonanti, paiono sgorgare da una scoria di violenza e ne risultano più belle, più pure. Posò la foto sulla scrivania e le sorrise. Virtualmente, condivideva questa ragazza con un assassino. Ma né l'uno né l'altro l'avrebbero avvicinata. Chiuse la cartella e l'archiviò nello stanzino, quello che sapeva di funghi. Riporre tutta quella documentazione, sulla quale aveva tanto sognato, assumeva un valore simbolico: tornava nel mondo reale. Il suo contatto con
Reverdi non era più una chimera. Ma la concretezza, adesso, voleva dire anche denaro. Per tutta la sera Marc fece i conti delle spese che doveva sostenere. Un biglietto di andata e ritorno per il Sudest asiatico non aveva un prezzo esorbitante, a patto di giocare sulle date di partenza e di arrivo. Ma Marc non sapeva esattamente dove andava, né per quanto tempo vi sarebbe restato. Supponeva che avrebbe girato i paesi dov'era vissuto Reverdi: Malesia, Cambogia, Thailandia... Doveva quindi acquistare un biglietto aperto, senza data di ritorno fissa: il tipo di biglietto più caro. E, sul posto, prendere altri voli per raggiungere i paesi limitrofi. Aveva una certa esperienza di viaggi. Stimò che il tutto - voli internazionali, nazionali, noleggio di auto - gli sarebbe costato più o meno quattromila euro. A questo si aggiungevano gli alberghi, i ristoranti e gli imprevisti. Decise che la somma globale sarebbe stata cinquemila euro. A questa spesa si aggiungeva l'acquisto di un computer e dei relativi programmi. Era inimmaginabile pensare di servirsi del suo Mac e del suo modem per comunicare con Reverdi. Facendo qualche calcolo, trovò che gli sarebbero bastati duemila euro. Se a questa somma si aggiungeva un margine di comfort si otteneva un totale di circa ottomila euro. Dove poteva trovare una somma simile? Per scrupolo, controllò il suo conto in banca. Il saldo non arrivava ai mille euro. Giusto abbastanza per arrivare a fine mese, sopravvivendo, come al solito, spartanamente. Verificò gli altri conti. Vuoti. Investimenti zero. Risparmi zero. Da quasi sei anni Marc viveva così, senza rete, alla giornata. Ripensò con una punta d'incredulità alla sua epoca d'oro, quando un mese a centomila franchi era un mese «magro». Cosa aveva fatto di tutti quei soldi? Pensò al suo studio: era tutto ciò che possedeva. Era disposto a venderlo per compiere quel viaggio? No. Non è che ci fosse talmente affezionato, ma metterlo in vendita avrebbe richiesto del tempo. E soprattutto, non si vedeva a traslocare. Era il suo antro. La sua tana, tappezzata dei suoi appunti e dei suoi libri. Una dépendance del suo cervello. Si coricò, gli occhi fissi sulla biblioteca che brillava per il riverbero della luce del cortile. Si ripromise di chiedere un prestito alla banca, l'indomani, di primo mattino. E il mattino, dopo parecchi caffè, partì in quarta... ma senza prendersi il disturbo di uscire dalla stanza. Era talmente sicuro della risposta della sua agenzia che fece la sua richiesta al telefono.
«Non capisco», disse il funzionario dopo un lungo silenzio. «Si tratta di un viaggio professionale?» «Esatto.» «Perché non chiede il denaro al suo giornale?» «È uno scoop. Voglio detenerne i diritti. Mi creda: sono in ballo interessi enormi.» Sentiva lo scetticismo dell'altro. Cambiò tattica e ricordò i tempi d'oro in cui depositava sul conto assegni con cinque zeri. Non era stato sempre un cliente difficile... «Appunto», tagliò corto il funzionario. «Noi aiutiamo soprattutto i clienti che seguono la curva inversa. Clienti difficili che diventano più "facili". Capisce, vero?» «Le assicuro che si tratta di un eccellente investimento. Con questa inchiesta tornerò agli anni d'oro.» «Be', li faccia tornare. Poi vedremo.» Marc si dominò per evitare di passare agli insulti e riattaccò. Non era il momento di cambiare banca, né di aggiungere complicazioni amministrative all'impiego del suo tempo. L'altra possibilità era «Le Limier». Anche in quel caso conosceva già la risposta. Verghens non avrebbe sganciato un solo euro senza sapere a cosa serviva... e senza impossessarsi del progetto. «Perché ti servono questi soldi?» domandò prima ancora che Marc finisse la frase. «Un colpo importante.» «L'ho capito, ma di cosa si tratta?» «Non posso dirtelo. Non per il momento.» «È uno scoop forse?» «Proprio così.» «Niente informazione, niente grana.» «È proprio come pensavo. Ti chiamo al mio ritorno.» Contrattarono i termini della sua aspettativa. Verghens non era d'accordo, ma doveva a Marc parecchi giorni di vacanza. Alla fine dovette capitolare e gli accordò tre settimane di ferie. Non restava che una soluzione: Vincent. All'idea di spillare soldi al suo ex socio, al quale lui aveva insegnato tutto, sentì un che di acido bruciargli in gola. Come aveva potuto arrivare a quel punto? Andare a elemosinare dal suo stesso discepolo... Si confortò dicendosi che conduceva una crociata. Era un guerriero. Un missionario. E i missionari sono sempre poveri. La
miseria costituisce addirittura il loro segno di superiorità. A mezzogiorno, quando spinse la porta dello studio fotografico in Rue Bonaparte, aveva deciso di porsi mentalmente al disopra di qualsiasi imbarazzo, di qualsiasi vergogna. Eppure, malgrado le sue risoluzioni, quando arrivò il momento di parlare l'umiliazione gli serrò la gola. Vincent gli facilitò le cose: «Quanto?» chiese. Mosso da un oscuro risentimento, Marc moltiplicò per due la somma che aveva previsto di chiedere: «Diecimila euro.» Vincent attraversò il suo grande bunker. Aprì la porta nera del laboratorio di sviluppo. Giù in fondo - Marc lo sapeva - c'era una cassaforte. Per il materiale, ma anche per il contante con cui pagavano le giovani modelle. «Cinquemila euro», disse posando un mazzetto di banconote sul tavolo luminoso. «È tutto quello che ho qui. Ti faccio un assegno per il resto.» Marc acconsentì, lo sguardo fisso sul denaro. Avrebbe dovuto pronunciare una frase di ringraziamento, ma i muscoli della gola erano troppo tesi. Riuscì a malapena ad articolare, prendendo l'assegno: «Ti rimborserò...» «Non c'è fretta.» «Grazie», finalmente gli uscì di bocca. «Sono io a ringraziarti. Se tu non avessi deciso di dare un taglio alle nostre cretinate di paparazzi, sarei ancora sull'albero a tenere d'occhio le starlette. E avrei fallito il colpo.» «Tanto meglio.» Marc tentò di sorridere, ma il suo viso rimase contratto. Vincent lo accompagnò all'uscita. Un pesante tendaggio copriva la porta: un'armatura di acciaio dipinto che incorniciava una spessa lastra di vetro. «Alla fin fine», continuò Vincent sollevando la tenda, «la storia di Diana, tutto quel casino, è stata la mia salvezza. Peccato che non si possa dire altrettanto per te.» Marc ricevette quelle parole come una frustata. Per reazione, il suo animo s'infiammò. Si vide raccogliere le confessioni di Reverdi, scoprire un segreto inenarrabile nel cuore delle giungle dell'Asia. Si vide scrivere un documento unico che ripercorreva la sua esperienza, vincere prestigiosi premi di giornalismo, si vide... «Arriverà anche il mio momento», disse a denti stretti. «Non preoccuparti.»
«Cosa bolle in pentola?» «Segreto professionale.» «Un giorno diventerai schizzato con le tue storie di assassini.» Con le mascelle ancora più strette Marc mormorò: «È una ricerca. Ho delle ragioni profonde per compierla.» «Le conosco le tue ragioni. Dovrebbero piuttosto farti scappare come un razzo.» «Non sei nella mia testa.» Vincent gli strinse il braccio, con affetto: «Nessuno vorrebbe essere nella tua testa.» Ore quindici, FNAC, Boulevard Saint-Germain. Marc aveva in antipatia quel genere di commissioni. L'attesa, il caldo, il gergo tecnologico; le risposte sempre più complicate delle domande; la scelta illimitata di prodotti, quando un qualsiasi computer avrebbe fatto al caso suo... «È proprio quello che fa per lei», assicurò il commesso. Marc valutò il nuovo Mac che gli veniva proposto: pulito, leggero, sconosciuto. S'immaginò a consultare i file di aiuto, mettendoci due ore per scovare una funzione che con il suo vecchio computer attivava in un batter d'occhio. Ebbe un'idea. Per non perdere tempo doveva comperare esattamente lo stesso modello del suo: «Vorrei una macchina della generazione precedente.» «Scherza? Risale ad almeno due anni fa!» Marc non demorse. Il commesso ebbe una smorfia di disgusto: «Non fabbricano più queste anticaglie. Deve orientarsi verso il mercato dell'usato.» A queste parole, la sua idea si rafforzò. Acquistare un computer di seconda mano, registrato sotto il nome del primo proprietario. Con un po' di fortuna avrebbe contenuto ancora i programmi di software, anch'essi registrati sotto il nome dell'ex proprietario... Un nuovo modo di confondere le piste. Lasciò la FNAC in uno stato d'animo raggiante, con l'indirizzo di un negozio dell'usato situato a poca distanza, su Boulevard Saint-Germain. Assaporava ogni minimo meccanismo della sua strategia. Era un gioco. Ma anche una minaccia.
Marc trovò esattamente quello che cercava. Un Powerbook, dotato di un modem vecchia maniera e con installato un sistema, «antiquato», Mac OS 9.2. Una buona vecchia macchina, sperimentata e familiare. Il tizio del negozio gli propose di fare una fattura a suo nome: rifiutò. Gli offrirono una garanzia di un anno: rifiutò, perché avrebbe dovuto fornire i suoi dati. Accendendo il computer nel negozio, si accorse che la fortuna era dalla sua parte: il disco fisso conteneva già dei programmi di scrittura e di posta elettronica, intestati all'ex proprietario. Perfetto. Il commesso gli ricordò che era illegale usare quei programmi. Gli propose di acquistare le nuove versioni. «Ci penserò», disse Marc, ma aveva già deciso. Pagò in contanti e se ne andò con la scatola sotto il braccio. Nell'auto che tornava indietro lungo la Rive Droite Marc fece il conto dei suoi schermi di protezione. Computer e programmi a nome di un altro. Una casella di posta elettronica aperta da Elisabeth Bremen. Linee telefoniche appartenenti a degli Internet Café. E di lì a poco a degli hotel asiatici. Non un solo elemento permetteva di risalire a Marc Dupeyrat. Letteralmente: lui non esisteva. Ma di cosa aveva paura? Che Reverdi scoprisse l'imbroglio? Come avrebbe potuto svolgere la minima inchiesta chiuso in prigione? Era già un miracolo che da Kanara riuscisse a inviare delle e-mail. Il suo avvocato? No: era sicuro che quel «Wong-Fat» non era al corrente di niente. Un semplice strumento, un satellite nella galassia Reverdi. La verità, la conosceva: attribuiva poteri paranormali all'omicida apneista. Il dono della divinazione. Il dono dell'ubiquità. Sì: lo temeva, come se l'assassino avesse potuto uscire di prigione, o insinuarsi tra i circuiti elettronici... Alle diciotto, Marc riuscì a infilarsi in un'agenzia turistica in Rue Blanche che stava per chiudere. Prese informazioni sulle tariffe dei voli che l'interessavano e i vincoli amministrativi da prevedere. Dei tre paesi in programma, solo la Cambogia richiedeva un visto, e lo si poteva ottenere sul posto, all'aeroporto. S'informò anche sulla SARS: niente da temere sotto quel punto di vista. La malattia sembrava sotto controllo. In ogni caso nel Sudest asiatico. Marc ringraziò la ragazza al banco e promise di tornare quando avesse conosciuto con esattezza la data della partenza.
Quella sera Marc preparò, virtualmente, il bagaglio per il viaggio. Fece un elenco di ciò di cui aveva bisogno e si disse, per esempio, che una piccola macchina fotografica digitale non sarebbe stata inutile. Nei luoghi che Reverdi gli avrebbe via via indicato, avrebbe potuto scattare delle fotografie ed effettuare dei veri e propri sopralluoghi. Chissà? Forse l'assassino l'avrebbe guidato sulle scene dei delitti... A quell'idea, trasalì. Si rendeva veramente conto di ciò che stava facendo? Come avrebbe utilizzato quelle informazioni, ottenute in modo così tortuoso? Non era nemmeno sicuro di poterle sfruttare. Lavorava per sé stesso. Forse nessuno avrebbe mai saputo niente del suo scoop, ma l'essenziale era altrove: sarebbe penetrato nel cervello dell'assassino. Avrebbe guardato, dritto negli occhi, il Male. E forse, finalmente, avrebbe capito. La fatica gli piombò addosso, alle ventitré, come un pezzo d'intonaco. Si coricò senza cena, raggiungendo il letto quasi a tastoni. Qualche ora dopo era ancora sveglio. Nell'oscurità, osservava la macchia bianca formata dalla carta del Sudest asiatico aperta accanto al letto. Il suo buonumore, la sua eccitazione erano svaporati. Gli restava soltanto un grumo d'angoscia nel petto, sempre più duro, sempre più doloroso. «Esiste..., fra il tropico del Cancro e la linea dell'Equatore, un'altra linea...» Era un gioco. Ma soprattutto una minaccia. 30. «L'hanno tirato fuori da sottoterra tale e quale: era intatto.» «Il corpo non era decomposto?» «Intatto, le dico. Si chiama "incorruzione del cadavere".» Khadidja era piuttosto disorientata. Quando Vincent l'aveva invitata a quella cena da lui, aveva immaginato una riunione di redattrici di moda, di stilisti omosessuali, dalle chiacchiere rumorose e futili. Invece c'erano solo reporter e fotografi. «Incredibile», insisteva quello che stava parlando. «Avresti detto che l'avevano sepolto il giorno prima.» Scoppiò a ridere. «Gli italiani gridano già al miracolo!» Da quanto aveva capito Khadidja, quel giornalista aveva appena realizzato un reportage sui miracoli in Italia. Per puro caso, aveva assistito all'esumazione del papa beatificato Giovanni XXIII, in vista della sua canoniz-
zazione. E il corpo del futuro santo, morto negli anni Sessanta, era perfettamente conservato. Il reporter non sapeva parlare d'altro: era un tipo allampanato, fasciato da un maglione da marinaio. Malgrado il viso solcato dalle rughe, i capelli ben pettinati e il collo bianco della camicia gli davano l'aria di un bravo scolaro. Un vecchio italiano, con pesanti borse sotto gli occhi e voce impastata, puntò le bacchette (era una serata sushi) verso l'esaltato: «Sei rimasto troppo tempo in Italia, tu.» L'avventuriero spazzò via l'obiezione con un gesto, assumendo l'espressione di un visionario incompreso. «La causa sono i conservanti.» Tutti gli sguardi si volsero verso la donna che aveva parlato: una bionda magra impiccata dai capelli scialbi, il cui viso allungato faceva pensare a un biscotto da champagne. «Quali conservanti?» ritorse il giornalista. «Il papa non era stato imbalsamato.» «Parlo dei conservanti nel cibo. Se ne assorbono talmente tanti che finiscono per conservare anche noi... Il corpo non si decompone. È scientificamente provato.» Ci fu un silenzio, poi d'un tratto, tutti scoppiarono a ridere. La bionda insisté, furiosa: «Non sto scherzando! Esistono degli studi sull'argomento e...» La sua voce fu coperta dall'arrivo di Vincent, che portava una caravella di legno chiaro, costellata di sushi. Il ponte era tappezzato di involtini ripieni di avocado, l'impavesata si componeva di tranci di salmone, come vele c'erano foglie di alghe. «E se la smetteste di dire delle idiozie? Khadidja penserà che siete ancora più fusi della gente della moda!» Qualche sguardo si posò sulla ragazza. Gli ospiti erano seduti su dei cuscini, attorno a un lungo tavolo basso, nel bel mezzo dello studio fotografico. Vincent li aveva prevenuti: «Non ci sono abbastanza sedie: serata giapponese!» Come sempre, a Khadidja sarebbe piaciuto trovare una battuta di risposta fine e divertente, ma non le venne nessuna idea. Abbozzò un vago sorriso e aspettò, con il viso coperto di rossore, che si passasse a un altro argomento. Continuava a interrogarsi: perché l'aveva invitata Vincent? Le faceva il
filo? No, la situazione era su un altro piano. Lo specialista del flou l'aveva presa sotto le sue ali, lei faceva parte del suo grande progetto di «conquista del mercato». Sosteneva che l'avrebbe trasformata in una top model. In ogni caso, Khadidja doveva ammettere che le sue fotografie erano magnifiche. Strane e nebbiose. «Cosa ne pensa?» Khadidja sobbalzò: «Scusi?» «Del terrorismo ceceno: cosa ne pensa?» Si era di nuovo persa un passaggio. Il suo vicino di tavola la fissava: uno pelato, che portava come una corona i pochi capelli che gli restavano. Pareva un imperatore romano. «Be'...» Khadidja balbettò una risposta, aggrappandosi alle sue bacchette. Si era premunita in vista delle domande sul conflitto iracheno ma non aveva avuto il tempo di affrontare l'espansione del terrorismo islamico. Si sentiva sempre più a disagio. Gli odori di alghe, il puzzo di pesce crudo la prendevano alla gola. Detestava il sushi. Tuttavia, in quel casino, aveva una ragione per essere contenta. Lui era là, all'altro capo del tavolo. Marc Dupeyrat. L'innamorato solitario che aveva rubato la sua fotografia, proprio lì, un mese prima. Aveva l'aria più scontrosa che mai, nascosto dietro al suo ciuffo e ai suoi baffi terribili. Non le aveva lanciato neanche un'occhiata. Timidezza? Confusione? Da quando si era intascato la foto, lei aveva imbastito tutto un film nel suo stile preferito. Possedeva una collezione di vecchie videocassette di commedie musicali egiziane lasciatele in eredità dalla nonna, che negli anni Sessanta vi aveva interpretato dei ruoli minori. Storie romantiche, dove ci si metteva a cantare di punto in bianco, dove l'amore trionfava sempre, la miseria era vinta, gli uomini erano belli, buoni e imbrillantinati... Per un film di quel genere, la polaroid rubata era un eccellente esordio. Khadidja immaginava Marc che ammirava il suo ritratto, cantando nel suo appartamento. O lo vedeva esitante davanti al telefono: non osava chiamarla. Oppure mentre era seduto a tavola con Vincent e spostava discretamente la conversazione su di lei. Quando era arrivata nello studio per la cena, aveva la confusa speranza che lui fosse tra gli invitati. Ma adesso si trovava davanti a un muro. La serata si avviava alla fine. Bisognava agire. Khadidja bevve due saké,
uno dietro l'altro, poi si concentrò sul suo ricordo: il momento in cui lui rubava il suo ritratto. Si aggrappò a questa scena come a un paracadute e sgattaiolò verso di lui proprio mentre tutti gli altri commensali cercavano di districarsi dal tavolo basso: «Marc, volevo dirle...» Lui si raddrizzò, con uno strano scatto della nuca: «Cosa?» «Ho comperato "Le Limier". Per vedere di cosa si trattava.» «Ha tempo da perdere.» Sempre quel tono sarcastico. Le parve d'un tratto molto rigido, molto stronzo. Ma era troppo tardi per fare marcia indietro: «Al contrario. L'ho trovato... interessante. Da un punto di vista sociologico.» Lui scosse il capo, senza convinzione. Era palese che questa conversazione non gli andava a genio. La scena era ridicola: lei a quattro zampe e lui seduto per terra. «Mi sarebbe piaciuto parlargliene. Sa, a parte le foto, sto preparando una tesi di filosofia. Lavoro sull'incesto. Lei ha probabilmente svolto delle inchieste su...» «Spiacente. In questo momento non lavoro per "Le Limier". Se vuole, la posso indirizzare a un mio collega.» Khadidja si sentì invadere dalla collera. Si sedette a gambe incrociate e lo guardò con franchezza: «Lavora per un altro giornale?» «È un interrogatorio o cosa?» «Mi scusi.» Marc finì per sorridere: «No. Tocca a me scusarmi. Non so comportarmi.» Mandò indietro il ciuffo. «Devo partire per un viaggio.» «Un'inchiesta?» «Una specie d'inchiesta. Un progetto personale.» «Un libro?» «Troppo presto per dirlo.» Più parlava, meno diceva. Khadidja provava adesso una gioia perversa a rovistare nel suo segreto: «Parte per molto tempo?» «Non so.» «Per dove?»
«Lei è proprio curiosa. Mi spiace, ma è davvero... personale.» Lei ebbe voglia di schiaffeggiarlo, e invece mormorò: «Forse, prima della partenza, avremo modo di rivederci.» Lui si alzò di scatto, con un'elasticità strana, felina. «Mi farebbe piacere. Ma non ce n'è il tempo.» Girò intorno al tavolo e si perse nel fumo e nel baccano... senza uno sguardo, senza un saluto. Khadidja si rialzò a sua volta. Era pietrificata. Come se reggesse un peso di tonnellate, anchilosata fino alla punta delle dita. Perché si comportava così? Si era sognata che lui avesse rubato la foto? L'aveva presa per un'altra ragione? Un feticista? Un maniaco? Oppure lui aveva intuito i suoi problemi: la bruciatura indiana? A quel pensiero la sua solitudine l'avvolse come un cerchio di fiamme. Dentro a quel crepitio una voce gridava: «Ho della sabbia nel cervello! È colpa tua!» 31. Che rompiscatole! Marc scendeva a passi rapidi Rue des Saints-Pères. Santiddio: cosa voleva da lui quella ragazza? Non gli aveva letteralmente dato tregua. E quelle domande sul suo viaggio! Pareva che fosse al corrente del progetto... Marc aveva deciso di rientrare a casa a piedi, per calmarsi. Ma quando arrivò alla Place du Louvre tremava ancora per la stessa rabbia. Attraversò il piazzale, senza alzare gli occhi dall'asfalto. Non degnò di uno sguardo la piramide scintillante. Non batté ciglio di fronte alle gallerie che disegnavano lunghe serie di archi azzurrognoli. La presenza di Khadidja l'aveva subito messo a disagio. Aveva trascorso una serata tremenda, sentendosi osservato, scrutato da lei. Alla fin fine, lei non aveva potuto evitare di andargli a parlare. Ed ecco saltar fuori che era un'intellettuale! Niente a che vedere con l'apprendista modella standard, incolore e piatta. Non capiva l'atteggiamento di quella ragazza. In un altro spazio-tempo avrebbe potuto credere che lei gli correva dietro. Place du Palais-Royal: si calmò un po' scorgendo l'edificio della Comédie-Française che brillava nell'oscurità. Le due del mattino. Un vento tiepido soffiava sulla notte parigina, come per spazzar via gli ultimi gas di scarico e ottenere l'immagine più pura, più perfetta. Fontane illuminate; cerchi di pietra; lunghe gallerie di colonne grigie. Una scenografia in pieno
stile seicentesco, presa di peso da una commedia di Molière. Sotto i fanali, ci si aspettava quasi di veder comparire il Commendatore all'inseguimento di Don Giovanni. Marc si sedette sul bordo di una fontana e sentì la freschezza dell'acqua salire fino a lui, avvolgerlo come in una favola. Chiuse gli occhi, poi li riaprì, parecchie volte di seguito. Ogni volta le luci dei portici si facevano più nitide nella sua coscienza, gli penetravano dentro. Come aghi d'agopuntura, che andavano a toccare i suoi meridiani di cittadino. Con la calma, ritornò anche la lucidità. Tuffò le dita nell'acqua gelida e si passò la mano sul viso, prima di ammettere la verità. Quella collera, la provava contro sé stesso. Perché mentirsi? Era affascinato da Khadidja. Come qualsiasi uomo di fronte a una tale bellezza. Ma mentre un altro ci avrebbe provato, lui aveva invece rubato la sua fotografia per spedirla a un serial killer. Ecco che razza d'uomo era... Non amava l'amore: amava la morte. L'immagine di Sophie spazzò subito via queste riflessioni. Lui era maledetto, lo sapeva. Infelice colui o colei che gli si fosse avvicinato troppo. Ne aveva già avuto la prova. Due volte. Ecco perché doveva tenersi a distanza dall'amore. E anche dall'amicizia. Marc Dupeyrat, quarantaquattro anni, senza moglie né figli. Uno che andava a caccia di crimini, incapace di dividere la propria esistenza con qualcun altro. Riprese a camminare. La collera aveva ceduto il passo alla disperazione. L'Avenue de l'Opéra non l'aiutava. Lunga, larga, vuota, più vuota ancora con i suoi negozi per turisti dalle vetrine spente che sembravano appartenere a un altro pianeta. Quando fu nei paraggi del Palais Garnier, girò intorno, da lontano, alle sue luci chiassose e imboccò Rue de la Chaussée-d'Antin, totalmente buia, dove alcune prostitute erravano, solitarie, come se si fossero sbagliate d'esistenza. Arrivò infine ai piedi della collina del IX arrondissement, che s'innalzava al disopra della chiesa della Trinità. Nella sua testa, un'enorme idea nera si faceva strada... Un quarto d'ora dopo penetrava nel suo studio. Esitò ad accendere. Scorgeva le carte del Sudest asiatico appiccicate alle pareti con le puntine, la borsa che aveva iniziato a preparare. E soprattutto il computer, il cui coperchio aperto brillava nella penombra. Fu il momento della verità. Non era in collera con Khadidja.
Né con sé stesso e con la sua audace strategia. Era semplicemente irritato, annichililo dallo smacco. Jacques Reverdi non gli aveva inviato una mail. Aspettava da oltre una settimana, e aveva ormai perduto ogni speranza. Aveva consultato ogni giorno la sua casella negli Internet Café del quartiere: nessun messaggio. Reverdi aveva abbandonato Elisabeth. Aveva rinunciato al loro progetto comune. Si udì dire a Khadidja, un'ora prima: «Devo partire per un viaggio». Era falso. Nessuno l'aveva chiamato. Aveva immaginato mille volte la sua partenza, ma non aveva ricevuto alcuna conferma scritta. Non il minimo segno. Un bambino dimenticato, con la sua valigia, sul binario di una stazione. Sempre in piedi, sulla soglia dello studio, sentì un flusso elettrico corrergli attraverso i nervi. Una voglia insopprimibile di consultare la posta di Elisabeth. Forse, quella sera... Era assurdo: aveva già verificato mentre si recava da Vincent, alle venti, in un Internet Café su Boulevard Saint-Germain. E da allora non poteva essere successo niente: a Kanara erano le ultime ore della notte. Tuttavia il suo stato febbrile non si sedava, era come un prurito che gli pervadeva le membra. Ma dove andare a quell'ora? Erano le tre del mattino. Il suo sguardo cadde di nuovo sul computer. Si era giurato di non usare mai né il suo Mac né la sua linea telefonica. Non si doveva stabilire alcun legame diretto, neanche una sola volta, fra Marc Dupeyrat e Jacques Reverdi. Ma quella notte la tentazione era troppo forte. Si risolse per una via di mezzo: utilizzare la propria linea telefonica ma con il nuovo computer portatile. Quello di Elisabeth. La macchina ci mise un istante a presentare il suo logo di benvenuto. Marc lanciò il programma di posta elettronica e diede la password di Elisabeth. Di colpo, tornò in sé. Correva un rischio inutile. E tutto ciò solo perché era nervoso. Quando posò la mano sul mouse per bloccare la connessione, una pietra lo colpì al petto, mozzandogli il respiro. Aveva ricevuto una mail. Un mittente sconosciuto con l'indirizzo «
[email protected]». Codice lampante: «sng» per «sangue». «Sangue» per «Reverdi».
Con la mano che gli tremava, aprì il messaggio. Sentì come se la testa gli prendesse fuoco quando lesse: «Adesso. Kuala Lumpur.» IL VIAGGIO 32. Marc attraversò il settore duty-free dell'air terminal 2D di RoissyCharles-de-Gaulle. Sigarette, alcolici, dolciumi: le merci erano accatastate in vere e proprie muraglie come in previsione di un assedio. Incrociò altri negozi, navigò fra gli effluvi dei profumi, ignorò gli abiti chic, il materiale tecnologico, i gadget inutili. Era un tempio del consumismo, dalle luci troppo violente, dove le vetrine sovraccariche ti ordinavano di comprare fino al delirio, come se fosse per l'ultima volta. Prese posto nella sala d'imbarco e attese picchiettando sulla borsa del computer. Ci aveva messo due giorni a risolversi a partire. Dopo il messaggio di Reverdi e l'esaltazione che ne era seguita, era brutalmente tornato alla realtà e aveva soppesato i pro e i contro del viaggio. Aveva rimuginato tutta la domenica. In certi momenti tremava di terrore e pensava di abbandonare il progetto. Un secondo dopo provava un calore benefico: la soddisfazione di essere riuscito a darla a bere a un temibile assassino. In fondo, cosa rischiava? Quello che lo inquietava era la scelta della prima destinazione. Perché la Malesia? Forse Reverdi aveva in mente di chiedere a Elisabeth di andarlo a trovare nella prigione di Kanara? Impossibile: non era nelle regole del gioco. Si trattava piuttosto di seguire il filo della verità, ma a ritroso, cominciando dalla fine. Là dove per lui tutto si era concluso. A poco a poco sarebbe risalito sino alla sorgente della «linea». Il martedì si era finalmente deciso: si era iscritto nella lista d'attesa per il volo dell'indomani della Malaysian Airlines. Poi, alle dieci del mattino, si era arrischiato a mandare la sua prima mail a Reverdi, da un Internet Café del quartiere. Nel messaggio annunciava la sua partenza, senza però comunicare né la data esatta di arrivo né i dettagli del volo. Un eccesso di prudenza? Durante quell'ultima giornata aveva aspettato - inutilmente - una risposta. Con ogni probabilità avrebbe ricevuto istruzioni a Kuala Lumpur. Era
ormai convinto che Reverdi l'avrebbe spedito a Papan, nel sud-ovest del paese, il luogo dov'era stato arrestato. La voce dell'assistente di volo risuonò nella sala: ci si preparava per l'imbarco. Ritrovò con piacere il logo della Malaysian Airlines: gli ricordava i suoi anni di reportage. Poi le hostess, cinesi, il cui incarnato estremamente pallido contrastava con l'abito turchese. I colori, i sorrisi: un sapore d'Asia si annunciava già, un sapore fine e dolciastro. Marc si rannicchiò sul sedile, vicino all'oblò, e subito si sentì invadere da una stanchezza mortale. La compressione dei timpani, al momento del decollo, fece il resto. L'aereo non aveva ancora raggiunto l'altezza di crociera che lui già dormiva. Quando si svegliò, tutto era immobile. Nella penombra non si percepiva altro che il sibilo del sistema di pressurizzazione e il rumore lontano dei reattori. Marc si guardò intorno. Avvolti nelle coperte e con le mascherine sugli occhi, i passeggeri sembravano dei bozzoli mostruosi. Si passò la mano sulla faccia: emergeva lui stesso da un incubo terribile. Scusandosi a bassa voce per il disturbo, scavalcò i vicini e andò a rinfrescarsi nelle toilette. Si osservò nello specchio e mormorò: «d'Amico», «Prokofiev», «La Fontaine»... Quanto tempo era che non faceva quel sogno? Non si trattava di un sogno, lo sapeva. Era un ricordo. Tornò a sedersi e si preparò ad affrontare la propria memoria. 1976. Liceo Jean-de-la-Fontaine. Marc si era da poco iscritto a un corso pilota i cui allievi dividevano il tempo fra l'insegnamento classico e lo studio della musica. In quel liceo tradizionale erano come obiettori di coscienza che avessero detto «no» alla fisica e alla geografia in favore dell'armonia e del contrappunto. C'era un'altra differenza a distinguerli: erano per la maggior parte di sesso maschile. La-Fontaine invece era un liceo di ragazze. Ma, soprattutto, erano poveri. Era la loro grande singolarità in quell'istituto per ragazze di buona famiglia situato nei quartieri chic del XVI arrondissement. Marc, sedicenne, capì subito che gli anni che lo separavano dal diploma di maturità sarebbero stati una sorta di messa in quarantena, che avrebbe dovuto rinunciare a ogni velleità di fare il filo alle ragazze: le giovani ereditiere li guardavano dall'alto in basso, lui e i suoi compagni, come barboni che avessero forzato le porte del palazzo. Lui se ne infischiava: era più interessato alle differenze presenti all'in-
terno della sua classe. Come sulla tastiera di un pianoforte, c'erano fra gli allievi i tasti bianchi e i tasti neri. Le note piene, maggiori e senza mistero, e le note alterate, minori, tormentate. C'erano i musicisti che appartenevano alla luce, alla semplicità, e quelli che appartenevano al dolore, gli uccelli feriti. I primi avevano scelto la musica mossi dallo stesso impulso con cui avrebbero scelto la funzione pubblica. Erano in prevalenza figli di orchestrali e avevano loro stessi optato per strumenti di musica d'ensemble: fagotto, viola, trombone... Gli altri, i poeti, suonavano il piano, il violino, il violoncello. S'immaginavano concertisti, compositori, rivoluzionari... e suicidi. I tasti bianchi non erano meno dotati di quelli neri. Anzi. La musica sgorgava sotto le loro dita senza sforzo. Per loro il senso dell'armonia, il virtuosismo erano cose naturali, come respirare o camminare. I tasti neri suonavano con passione, ma spesso erano carenti nella tecnica. In un certo senso, e stava qui la maggiore stranezza, i tasti bianchi «erano» la musica. Questa non creava loro alcun problema. Né tanto meno era fonte d'angoscia. I tasti neri erano l'ombra della musica. Marc, beninteso, rientrava nella parte «scura» della classe. Aveva stretto amicizia con gli elementi più neri. Grégoire Debannier, omosessuale esuberante, specialista della musica rinascimentale, che raccontava compiaciuto le sue tresche sessuali nelle toilette del Palazzo e, tutto d'un tratto, senza alcuna ragione, intonava una canzone di Clément Janequin. Eric Chausson, colosso dalle orbite infossate, il somaro della classe, giocatore di rugby, ma anche buddhista e stregone. Un bestione chiuso in un ostinato silenzio le cui grosse dita erano costantemente intente a sfogliare dei libercoli dedicati a temi spirituali, dita che sapevano però anche sgranare, con una leggerezza senza uguali, gli arpeggi degli Impromptus di Schubert. Philippe Manganeau, che a giudicare dall'apparente banalità della sua persona si sarebbe potuto scambiare per un tasto bianco, e che era invece uno dei più ribelli della classe. Occhiali di tartaruga, camicie scozzesi e genitori assicuratori, Philippe viveva le proprie origini borghesi come una malattia genetica. Accarezzava il violino come farebbe un terrorista con la sua bomba prima dell'attentato. E quando parlava di mollare tutto, ciascuno sapeva che sarebbe stato il primo a farlo, perché aveva assolutamente «tutto» da perdere e se ne rallegrava in anticipo. Ma il più nero di tutti, il vero principe delle tenebre, era d'Amico. Marc
ne ricordava solo il cognome e il fatto che era di origini italiane. Vedeva ancora la sua grossa testa di capelli neri. D'Amico aveva iniziato come violoncellista, ma poi si era specializzato negli strumenti a corde esotici: chitarra peruviana, balalaica, viola mongola... Per come la vedeva lui, la musica possedeva una vocazione cabalistica che rivelava il senso segreto dell'universo. Marc si ricordava delle sue domande mattutine, durante l'ora di matematica: «Come esprimere il Male?» mormorava. «Con il cromatismo. I semitoni esprimono il lento progredire verso Thanatos...» O della sua passione per la quinta alterata, soprannominata «la quinta del diavolo». Quando d'Amico componeva era sempre questione di albate «malefiche», di oratori dedicati agli «spettri» o di cantate «diffamatorie», dove si alternavano brusche rotture e dissonanze. D'Amico partecipava con entusiasmo alle lezioni di tutte le materie. Interveniva costantemente, si offriva sempre volontario per le relazioni orali. Marc se lo rivedeva davanti mentre, in piedi sulla pedana, faceva ascoltare alla classe sbalordita il finale del Secondo concerto per piano di Prokofiev, mimando, con le guance gonfie e i palmi aperti, il corno da nebbia che copriva gli staccati del pianoforte. Oppure, nell'ora di lettere, declamare una dissertazione su Howard Phillips Lovecraft, ripetendo, con l'indice alzato e uno sguardo cupo verso la professoressa, come se lei fosse personalmente responsabile di quanto lui stava sparando: «Lovecraft era uno spazzino. Spaz-zi-no! Nessuno l'ha mai capito!» D'Amico era riuscito a farsi detestare da tutti, con l'eccezione di Marc. I suoi modi febbrili, il comportamento imprevedibile, le riflessioni assurde suscitavano incomprensione e odio. Il disagio che provocava era costantemente aggravato da certe sue manie. La risata troppo sonora che pareva sempre fermarsi a metà, restando come in sospeso. Quando cercava di essere spiritoso e, non facendo ridere nessuno, s'irritava come un bambino isterico. Aveva un sacco di abitudini bizzarre. Portava stivaletti di cuoio a buon mercato di cui non chiudeva mai le cerniere. Quando si soffiava il naso contemplava a lungo il muco prima di ripiegare con cura il fazzoletto. E, cosa ancora più inquietante, d'Amico non si separava mai da un certo rasoio, un oggetto ancestrale, con il manico di corno, che aveva sottratto al padre, barbiere a Bagnolet. Spesso lo si poteva vedere, in un angolo del cortile, intento a tagliare lentamente le pagine del suo libro feticcio, Il monaco di Matthew Gregory Lewis. Le giovani ereditiere lo avevano soprannominato Jack lo Squartatore. Alla fine il rasoio fu il solo elemento che svolse una sua funzione. Quasi
trent'anni dopo i fatti Marc s'interrogava ancora: avrebbe potuto prevedere quello che poi successe? Avrebbe dovuto intuire il significato di quell'arma che il violoncellista si portava sempre dietro? La vera domanda era: quanto tempo ci mette un corpo umano per svuotarsi di tutto il sangue? Quanto a Marc, gli ci era voluta un'intera lezione - quarantacinque minuti - perché s'inquietasse dell'assenza del suo migliore amico. Si era incamminato verso l'infermeria e si era fermato, per riflesso, nei gabinetti, in fondo al corridoio del terzo piano. Era passato davanti ai lavandini e aveva spinto varie porte, prima di scorgere gli stivaletti aperti, nell'ultima cabina. D'Amico era immerso in un lago di sangue, la testa contro la tazza. Invece di assistere alla lezione di geografia, aveva preferito tagliarsi le vene. Con una bravata tipica del suo stile, ossia incomprensibile, si era infilato in bocca il manico dello scopino per il water. Quel gesto aveva però una spiegazione: Marc lo venne a sapere più tardi da Debannier, lo specialista del rinascimento. Debannier aveva iniziato l'italiano ai piaceri omosessuali e al ragazzo l'esperienza era piaciuta. Troppo, probabilmente. All'idea di annunciare quella metamorfosi ai genitori un barbiere macho e una madre bigotta - aveva preferito scendere definitivamente dal treno. La spiegazione faceva acqua. Marc lo sapeva: d'Amico non avrebbe avuto alcun timore di confessare la sua omosessualità ai genitori. Al contrario: non perdeva mai l'occasione di scandalizzarli. D'altronde, lui era sicuro: lo scopino in bocca era destinato a loro, «personalmente». Allora perché quel suicidio? La sola spiegazione che aveva potuto trovare - e qui era palese la firma di d'Amico - era che non c'era alcuna spiegazione. Una volta di più si trattava di un atto incoerente. Che assegnava al personaggio il suo nonsenso finale. L'autopsia aveva concluso che d'Amico, seduto sulla tazza, era svenuto per la perdita di sangue. Era scivolato e si era spezzato il collo sbattendo contro il bordo di ceramica. L'emorragia si era arrestata. Non c'era dunque stato tutto quel sangue che Marc vedeva nel suo incubo ricorrente. In realtà non ne aveva alcun ricordo. Scoperto il corpo dell'amico, aveva perso i sensi. Era tornato in sé una settimana dopo, con la testa vuota. Non ricordava né la scena né le ultime ore che l'avevano preceduta. Era questa amnesia retroattiva a tormentarlo. Era sicuro di aver parlato a d'Amico prima della lezione. Cosa si erano detti? Marc avrebbe potuto prevedere - impedire - quel suicidio? Peggio ancora: aveva magari detto una frase disgraziata che aveva precipitato l'atto del giovane?
Il segnale luminoso si accese nella cabina. Erano in fase di atterraggio. Allacciò la cintura e sentì che una nuova determinazione prendeva forma. L'importanza della sua missione tornava in primo piano. Si stava avvicinando all'assassino. Si stava avvicinando alla verità della morte. Confusamente, sperava che questo viaggio lo avrebbe liberato dalle sue stesse ossessioni. 33. KLIA. Kuala Lumpur International Airport. Una sorta di immenso centro commerciale, su parecchi piani, dove la temperatura non doveva superare i quindici gradi. Quando si atterra nel Sudest asiatico ci si aspetta di trovare un caldo soffocante, e invece si è spesso accolti da un freddo polare, un contrasto brutale con la fornace che t'inghiotte all'esterno. Marc recuperò il bagaglio e, orientandosi a naso, trovò una navetta che lo depositò in un altro terminal dal quale, dopo una lunga camminata, poté infine accedere all'afa tropicale. Lo shock fu di breve durata. Una temperatura siberiana lo aspettava nel taxi. Sistematosi comodo sul sedile, ritrovò la Malesia che conosceva. C'era venuto in due occasioni. La prima volta per realizzare una serie di reportage sulle famiglie di sultani che regnano a turno sul paese. La seconda nel 1997, per seguire le riprese del film Entrapment, con Sean Connery e Catherine Zeta-Jones, la cui azione clou si svolge in cima alle Petronas Towers, i grattacieli più alti di Kuala Lumpur... e del resto del mondo. La città, di una tonalità dominante verde, luccicava all'orizzonte, circondata da colline e foreste. Le sue torri di vetro si ergevano come i pezzi di una gigantesca scacchiera. Fiamme di scisto, lame di ghiaccio, frecce trasparenti: a quella distanza scintillavano al sole e sembravano tanti flaconi di profumo o di lozione dopobarba. All'interno, si snodavano ampi viali alberati, sempre ventilati. Molto diversa dalle megalopoli asiatiche torride, formicolanti, oppresse dalla miseria e dall'inquinamento, Kuala Lumpur era un quartiere residenziale su scala gigante, che trasudava opulenza. Sfoggiava quella patina artificiale tipica delle città americane, dove tutto è nuovo, tutto comunica un senso di pulizia e di nitore, ma dove tutto ha un che di falso, di fittizio. Solo le moschee dalle cupole colorate e i vecchi edifici coloniali britannici assegna-
vano allo scenario una nota di realtà, ricordando che prima del boom economico e della febbre moderna questo luogo aveva avuto una vita propria. Marc diede al tassista i nomi dei viali del centro: Jalan Bukit Bintang, Jalan Raja Chulan, Jalan Pudu, Jalan Hang Tuah... Era la zona dei grandi centri commerciali, degli hotel a cinque stelle, ma nelle vie laterali c'erano anche le piccole guest houses a prezzi ragionevoli. In un vicolo, fra due saloni di massaggio, Marc individuò l'hotel che faceva al caso suo. Posato il bagaglio, collegò subito il computer portatile alla presa del telefono e consultò la posta elettronica. C'era un messaggio di Reverdi. Oggetto: KUALA - Ricevuto il 22 maggio, ore 8.23 Da:
[email protected] A:
[email protected] Cara Elisabeth, Ormai devi essere arrivata a Kuala Lumpur. Una città troppo nuova, ma nella quale si possono facilmente trovare dei punti di riferimento, prendere delle abitudini, come in un bell'appartamento moderno. Voglio innanzitutto darti il benvenuto e augurarti buona fortuna. Spero, dal profondo del cuore, che riuscirai a raggiungere il «nostro» obiettivo. Ma voglio anche ricordarti, per un'ultima volta, le regole dello scambio. Non avrai diritto ad alcuna domanda. Dovrai cavartela esclusivamente con le informazioni che ti passerò. Non avrai diritto nemmeno all'errore: alla minima conclusione sbagliata da parte tua, non avrai mai più mie notizie. Ma sono fiducioso: mi hai già dimostrato la tua intelligenza... e la tua determinazione. Dunque, leggi con attenzione quanto segue. Il tuo primo indizio riguarda il «Cammino della Vita». A Kuala Lumpur si possono trovare le fotografie di Pernille Mosensen (parlo, beninteso, delle immagini «dopo» la sua trasformazione). Scova quelle foto, Elisabeth, e contemplale. Scoprirai il Cammino della Vita. La strada che Egli traccia nella nudità del corpo. Ma attenzione: dovranno essere fotografie del corpo lavato e pulito. È fondamentale. La verità si mostrerà solo sulla purezza della pelle.
Buona fortuna Marc ebbe l'impressione che l'aria condizionata della stanza si fosse abbassata di parecchi gradi. Era entrato nel gioco. Di quanto tempo disponeva? Anche se Reverdi non fissava limiti, Marc sapeva di dover procedere rapidamente. Dimostrare l'efficienza di Elisabeth. E pungolare l'interesse del suo corrispondente. Rifletté sul primo compito: accedere al fascicolo medico-legale di Pernille Mosensen e alle fotografie del corpo. Reverdi sottintendeva che il fascicolo si trovasse a Kuala Lumpur. Però il delitto aveva avuto luogo a Papan e l'istruttoria si svolgeva a Johor Bahru, la capitale della provincia di Johore. Prese il telefono e chiamò il suo contatto all'Agenzia di stampa francese di KL: una giornalista di nome Sana. Dopo averle accennato il motivo della sua presenza in Malesia - un reportage esclusivo sul caso di Papan - affrontò senz'altro il tema dell'autopsia. Sana confermò i suoi timori: tutto era avvenuto a Johor Bahru. «Nessuna possibilità di trovare dei documenti a KL?» Sana fece una risatina che gli ricordò Pisaï, la giornalista del «Phnom Penh Post». Data l'importanza del caso era stata nominata una commissione di esperti. Uno di loro era Mustafà Ibn Alang, medico legale a Kuala Lumpur, una celebrità che teneva una cronaca giudiziaria sul «News Straits Times». Un personaggio pittoresco che, a sentire Sana, aveva «la lingua sciolta». Era il suo uomo, pensò Marc. Annotato il numero di telefono, promise alla giornalista un invito a colazione e riattaccò. Compose immediatamente il numero del medico e, come si era immaginato, gli rispose una segreteria telefonica. Sfoderò la sua voce più grave e chiese un'intervista, lasciando il telefono dell'albergo. Riagganciò. Il dado era tratto. Era ufficialmente in missione a Kuala Lumpur per un reportage. Il suo nome sarebbe figurato in quest'avventura, anche se solo ai margini. Era una complicazione per le sue trame? Assolutamente no. Era lì la perfidia della sua impostura: Elisabeth Bremen raccoglieva i primi indizi e Marc Dupeyrat conduceva l'inchiesta... Dopo una doccia tiepida la sua eccitazione svaporò e subentrò la nausea: la differenza di fuso orario si faceva sentire. Si lasciò cadere sul letto e accese il televisore. Non c'era nient'altro da guardare: la sua minuscola stanza era senza finestre. Si mise a fare zapping. Un caleidoscopio delle diverse realtà della Male-
sia gli sfilò davanti agli occhi. Un canale trasmetteva un consiglio dei sultani: uomini dalla pelle color oro brunito troneggiavano intorno a un tavolo, in uno sfavillio di medaglie, tuniche e turbanti multicolori. Un altro canale lasciava la parola a un grande cuoco cinese che ricordava, con un ghigno sulle labbra, come tutto ciò che veniva consumato, venduto o comperato in Malesia fosse di origine cinese. Cambiando ancora canale si vedevano le immagini di un ricevimento fastoso dove magnifiche eurasiatiche, modellate in abiti firmati Dior o Gucci, si mischiavano a donne che indossavano il tudung, il velo malese. Lo squillo del telefono lo fece riaffiorare da un abisso nero. Si era addormentato. Sullo schermo, dei feroci pirati si lanciavano all'arrembaggio di un vascello inglese. «Pronto.» «Marcduperò?» «What?» «Mister Duperò?» Marc finì col riconoscere il proprio nome. La sveglia sul comodino segnava le diciassette e dieci. Aveva dormito più di tre ore. Rispose in inglese: «Sono io.» «Dottor Alang. Mi ha lasciato un messaggio.» L'accento era strascicato, quasi americano. Marc saltò su dal letto e spense il condizionatore che faceva un baccano infernale. Poi fornì tutte le necessarie credenziali al suo interlocutore e concluse ribadendo l'intenzione di intervistarlo. «Non è il primo, man.» «Lo so, ma...» «L'istruttoria è in corso. Non posso dire niente.» «Certo, ma...» L'altro scoppiò in una risata fragorosa: «Possiamo sempre vederci. L'aspetto al club del polo di Sengora.» «Dove?» Fece rapidamente lo spelling del nome del club. «A fra poco, man.» Marc non ebbe il tempo di rispondere: l'altro aveva già riattaccato. 34.
Nel crepuscolo, Kuala Lumpur era rosa e azzurra. Le torri incandescenti bruciavano a fuoco lento, come mosaici di braci. Marc aveva dato al tassista il nome del club del polo. Il suo sguardo si posava, all'orizzonte, sulle Petronas Towers, verso le quali si stavano dirigendo. A quella distanza gli edifici gemelli facevano pensare a due spighe di grano giganti sormontate da antenne colossali. Fiancheggiarono un ippodromo. L'atmosfera di sogno s'intensificava. Tutto sembrava punteggiato di particelle dorate, di nebbia rosa. Ma la cosa più strana era l'assenza di contrasto fra gli edifici azzurrognoli e le colline verdeggianti: a quell'ora i due schieramenti si scambiavano i colori, come accade per i flussi liquidi. I palazzi prendevano una tonalità vegetale e le foreste erano screziate di riflessi di vetro, di pozzanghere d'argento. Il taxi si fermò lungo un filare d'alberi. Marc si ritrovò in una specie di boscaglia. Steccati di legno delimitavano un vasto spazio aperto. Il nome del club figurava su un cartello in stile Far West. Più lontano, alcune costruzioni di legno si stagliavano nella polvere grigia, lasciando intravedere, qua e là, lo specchio verde del campo di corse. Penetrò nel recinto. I piedi affondavano nella sabbia. L'aria era impregnata dell'odore di stereo e sudore di cavallo. Malgrado l'aspetto diroccato delle scuderie e la puzza, era chiaro a Marc che quelli erano luoghi da ricchi. Scorse un maneggio coperto dove bambini firmati Ralph Lauren imparavano a cavalcare, alcuni box dove dei purosangue aspettavano pazienti, gli zoccoli fasciati di calzini. Autentici camerini d'artista. Ma dov'era lo spettacolo? «Sei il frenchie?» Marc si voltò. Un uomo snello dalle spalle strette, in camice bianco, usciva da una scuderia. Capelli lunghi e neri, baffi spioventi da bandito messicano. L'uomo si fece avanti, sfilandosi i guanti di gomma sporchi di sangue: «Alang.» Gli strinse la mano. «Salve, man.» Mustafà Ibn Alang assomigliava alla sua voce. Un malese puro, versante moderno. Carnagione dorata, faccia furba, occhi neri, acuti, sotto folte sopracciglia. Il taglio di capelli valeva veramente la pena: sparati e arruffati sul davanti, scendevano sulla nuca in una lunga onda. Alang somigliava a un rocker degli anni Settanta, tendenza glitter. Si ficcò i guanti nelle tasche del camice, anch'esso imbrattato di sangue. «Mi prendi in pieno lavoro straordinario», informò con il suo accento strascicato. «Oggi spezziamo le mandibole dei cavalli giovani, per il polo.
Un diversivo rispetto ai miei soliti cadaveri!» Scoppiò a ridere. I suoi denti bianchi tagliarono in due il viso dalla pelle scura, come una noce di cocco che si frantuma. Di colpo la sua espressione sorniona, clandestina, diventò franca, altera, sfolgorante. Marc si ricordò delle parole della giornalista. «Un personaggio pittoresco.» Sì, davanti a lui aveva proprio una star di KL. Il terreno prese a tremare. «Inizia la partita. Una birra al bar del club, ti va?» Il bar era una lunga terrazza sopraelevata, sotto un tetto di palme. Un bancone di legno nero, genere tropicale, troneggiava al centro. Nell'aria un forte odore di birra scaldata dal sole. In lontananza, sul campo da polo, i cavalieri schizzavano in una direzione, poi tornavano tranquillamente sui loro passi come se dopo una collera passeggera avessero ritrovato la calma. Marc si avvicinò alla tribuna. A quella distanza i cavalli sembravano piccole caramelle succhiate a metà e i giocatori particole bianche sobbalzanti. Sopra le loro teste, il cielo era sublime: lunghe nuvole violette, rosse, argentee, distese sull'orizzonte verdeggiante come tante languide principesse ai bordi di una vasca di ninfee. Alang tornò con due bicchieri. Presentò a Marc degli aristocratici settuagenari, dei figli di papà in giubbotti di pelle che si atteggiavano a «cattivi ragazzi», delle belle cinesi, molto sexy nelle loro tenute da polo in pelle fulva. Atletiche, fradice di sudore, rappresentavano l'esatto contrario delle rare malesi in tudung, immobili e grasse, che sgranocchiavano pasticcini con l'aria imbronciata, ignorando palesemente la partita. Marc guardò l'orologio: era già trascorsa un'ora. Aveva una certa esperienza in fatto di interviste. Indovinava al primo colpo d'occhio il profilo dell'interlocutore: il chiacchierone impenitente che ti seppelliva sotto una mole di dettagli inutili, il taciturno al quale dovevi strappare di bocca ogni singola parola, oppure il campione della digressione, che ci metteva delle ore per arrivare al punto. Alang era incluso in quest'ultima categoria. Il colloquio rischiava di durare parte della notte. Come a conferma delle sue inquietudini, il medico domandò: «Hai cenato?» Distrutto dalla differenza di fuso orario, Marc avrebbe apprezzato un piccolo ristorante europeo, discreto e appartato. Alang lo portò invece all'Hard-Rock Café, in pieno centro. Un luogo vociferante, male illuminato, dove gli effluvi di salsa barbecue ti si abbattevano addosso con l'impeto di
un ciclone. Presero posto in un séparé, circondati da trofei rock: la chitarra di Eric Clapton, gli occhiali di Elton John, lo spencer di Madonna... Marc si guardava intorno incredulo. I camerieri, grembiule rosso e matita dietro l'orecchio, correvano fra i tavoli, reggendo in equilibrio montagne di tacos e di cheeseburger. La clientela era eterogenea: chiassosi adolescenti vestiti alla moda americana, madri di famiglia con il velo che tenevano a bada schiere di scolaretti già sull'obeso, occidentali sbronzi che lanciavano sguardi maliziosi verso il banco. Era là infatti il fulcro dello spettacolo: una schiera di ragazze di gran lunga troppo sfacciate per essere oneste. Cinesi, thailandesi, birmane, indiane... Pelli di bronzo, di rame, di porcellana, occhi che variavano all'infinito il disegno asiatico e corpi squisitamente flessuosi che ancheggiavano al ritmo di vecchie canzoni di successo. «Loro non sono nel menu.» Marc si girò verso Alang. La musica faceva tremare le posate: «Cosa?» «Ti ho detto: loro non sono nel menu, ma posso andare a parlargli al dessert.» Marc si sentì arrossire. Chinò la testa sulla lista. «Quanti anni hai?» urlò il medico. «Quarantaquattro.» «Io quarantasei. Ti piace il rock?» «Cosa?» Metà delle parole si perdevano per strada. Alang gli si avvicinò, gli occhi accesi di malizia: «Lo sai che motivo è questo?» «Sweet Home Alabama. Lynyrd Skynyrd.» «Bravo. E sai cos'è successo al gruppo?» «Metà di loro sono rimasti uccisi in un incidente aereo, nel 1977.» «Vedo che ho davanti a me un conoscitore. Il rock è la mia passione. Sto preparando un'enciclopedia, in inglese, per il Sudest asiatico.» Marc sentì profilarsi un pericolo. Alang piantò i gomiti sul tavolo. Portava un anello monogranimato e un braccialetto d'oro: «Che ne diresti di un piccolo quiz?» Marc realizzò in quel momento che la pettinatura del medico era la replica esatta del taglio di David Bowie all'epoca di Diamond Dogs. «Che cosa si vince?» chiese. «Se superi il test, mi domandi quello che vuoi.»
«Sull'affare Reverdi?» «Tutto quello che so. Nessuna censura.» Marc possedeva una cultura musicale prodigiosa. Se in tempi lontani aveva dovuto rinunciare al pianoforte, non aveva però mai dimenticato la sua prima passione. Certo, la sua specialità era la musica classica, ma conosceva a fondo anche l'universo del rock. Vuotò il bicchiere di birra in un colpo solo e dichiarò: «Aspetto le domande.» Fu un fuoco di fila. L'origine degli occhi discromici di David Bowie? La pupilla sinistra era rimasta paralizzata durante una zuffa con un compagno d'infanzia. Il nome del cantante soul che, dopo essere caduto dal palcoscenico, aveva scelto di servire la Chiesa, interpretando l'incidente come un «segno di Dio»? Al Green. Il nome del musicista che si era introdotto in un gruppo celebre spedendo via il batterista in pieno concerto per prendere le bacchette al posto suo? Keith Moon, leggendario batterista dei Who... Due ore più tardi uscirono nell'afa notturna. Marc vacillava. Non aveva toccato cibo. Le innumerevoli birre, le domande di Alang, la vicinanza delle prostitute... era completamente rintronato. Sul marciapiede un indonesiano dallo sguardo spento passò loro dei biglietti da visita. Marc s'immaginò fosse la pubblicità di un servizio di pizza a domicilio, ma il biglietto, che recava l'intestazione SIGNOR RAYMOND, offriva invece «Tutte le ragazze che fanno per te!» Bastava ordinare per telefono. «Vieni», disse Alang gettando il biglietto a terra. «Conosco di molto meglio.» Ripresero l'auto del medico. Attraversarono quartieri in costruzione, costeggiarono terreni incolti e si tuffarono in una stradina per fermarsi sotto un neon rosso che diceva EL NINO. Anche da sbronzo, Marc si rendeva conto dell'assurdità della situazione. Il secondo round del quiz si sarebbe svolto in un bar messicano. In piena capitale malese. Marc manteneva le promesse: era imbattibile. Chi era il cantante che si era candidato a sindaco di San Francisco con lo slogan «Apocalypse now»? Jello Biafra, il leader dei Dead Kennedys. Quale compositore multava i musicisti se facevano delle stecche? James Brown. Chi era l'artista che da bambino aveva rischiato di morire soffocato per mano di un malfattore che si era introdotto in casa? Marilyn Manson. Alle due del mattino, dopo parecchia tequila, Marc tentò di tornare all'argomento che lo interessava. In risposta Alang posò uno sguardo da in-
tenditore sulle piccole filippine vestite da messicane che si addormentavano vicino alle bottiglie. Gli altoparlanti diffondevano una versione mariachi di Hey Joe!, cantata da Willy deVille. «Per caso», domandò, «conosci il mestiere della moglie? Della moglie di Willy, voglio dire.» «È una maga. Maga voodoo, in Louisiana.» Il medico alzò il minuscolo bicchiere: «Man, sul serio, mi piaci.» «Parliamo di Jacques Reverdi...» «Un po' di pazienza. Abbiamo tutta la notte...» Si ritrovarono in un locale jazz, saturo di fumo. In fondo alla sala brillavano i riflessi rossicci di un contrabbasso e i luccichii della patina laccata di un pianoforte. Si vedeva anche passare qualche vestito rosso: le puttane cinesi. Marc cominciava a domandarsi chi fosse Alang. Perché gli dedicava l'intera notte? Gli venne naturale sospettare un qualche progetto omosessuale... «Ti ricordi di Peter Hammill?» gli sussurrò il medico all'orecchio. Marc era allo stremo ma stette al gioco: Hammill era il leader di un gruppo-culto degli anni Settanta, i Van Der Graaf Generator. Un autoreinterprete eccezionale, dal timbro lacerante, soprannominato il «Jimi Hendrix della voce». «Conosci i suoi singoli? Quelli che ha registrato dopo essersi separato dal gruppo?» Marc non rispondeva più. L'altro perseverò: «Tutti quegli album non parlano che di una cosa, man: il suo divorzio.» Gli strinse la spalla: «Te lo dico io: da un divorzio non ci si riprende mai...» Adesso Marc capiva a chi, o a cosa, doveva la sua notte da incubo. Alang era un uomo abbandonato, una piaga aperta che non voleva saperne di cicatrizzarsi. Fu alle quattro del mattino, in un locale techno, nel seminterrato di un grande albergo, che finalmente gli chiese: «Cosa vuoi sapere con precisione?» Marc aveva preparato una serie di domande che dovevano gradualmente, e con discrezione, condurlo all'argomento delle foto del corpo ripulito di Pernille Mosensen. Ma dopo tutte quelle ore e con il tasso alcolico che aveva nelle vene, disse semplicemente: «Voglio vedere il corpo della vittima.»
«È da un po' che è sepolta in Danimarca.» «Intendo le fotografie. Le fotografie del cadavere. Lavato.» Nell'oscurità lacerata da lampi stroboscopici, Alang si chinò verso di lui: «Chi ti ha passato la dritta?» In un secondo Marc smaltì la sbornia. Una sensazione di gelo lo percorse dalla testa ai piedi. Aveva a portata di mano una scoperta fondamentale. «Nessuno», mentì. «Mi serve solo per... completare il fascicolo.» Alang si alzò, dandogli una pacca sulla schiena: «Allora vedrai che il viaggio è valso la pena!» 35. Era un disegno. Una ragnatela molto precisa di ferite. Marc capì alla prima occhiata quello che Reverdi voleva mostrare a Elisabeth. Le incisioni erano numerose, ma perfettamente distribuite. Un vero schema anatomico, costituito da incisioni orizzontali che partivano dalle tempie, scavavano la gola, passavano sopra le clavicole e correvano lungo le braccia: bicipiti, pieghe del gomito, polsi... Sul torso il motivo riprendeva sotto le ascelle, circondava i polmoni e si restringeva alle anche. Le piaghe continuavano poi nella zona genitale e sulle gambe. I segni facevano pensare ai tratti disegnati sui cartamodelli impiegati nei lavori di sartoria per indicare le linee lungo le quali si deve tagliare, cucire... Fino ad allora si era parlato delle ventisette coltellate e dell'efferatezza del crimine. Come tutti, Marc aveva supposto una violenza anarchica, un disordine barbaro. Il cadavere mostrava invece le tracce di una crudeltà metodica. Malgrado l'ora e la nausea, Marc aveva ritrovato tutta la sua lucidità. Quelle fotografie cambiavano totalmente le carte in tavola. Reverdi non era un omicida compulsivo, non agiva in preda a un raptus. Doveva averci messo un bel po' per disegnare quel motivo abominevole... e il supplizio era durato ore. «La via del sangue, man.» Marc alzò gli occhi. Si trovavano nell'ufficio di Alang, al General Hospital di Kuala Lumpur. Pochi metri quadrati ingombri di carte... e già gelidi, anche se era da poco che il condizionatore era in funzione. In lontananza si udiva la cantilena dei muezzin. Venerdì mattina: tutta la città vi-
brava di preghiere. Il medico, che si era accomodato nella sua poltrona, sgranocchiava una barretta al cioccolato. Ripeté: «La via del sangue. Reverdi ha seguito il reticolo venoso.» Marc pensò: «Il Cammino della Vita.» «Spiegami», disse. Alang si alzò e girò intorno alla scrivania. Tese la barretta al cioccolato verso la fotografia, spargendo grani di sesamo sulla carta lucida: «Alla base del collo: vene giugulari. Sotto le ascelle: vene ascellari. Fra le gambe: vene iliache. Nelle cosce: vene femorali... Potrei fornirti tutti i nomi. Ha inciso ogni vena importante. In compenso, ha accuratamente evitato le arterie.» «Perché?» Il medico tornò a sedersi. Il suo atteggiamento era freddo come la temperatura della stanza: «Perché l'ha dissanguata. Da viva. E perché voleva far durare il suo piacere. Se avesse reciso le arterie, il sangue sarebbe fuoriuscito in pochi abbondanti fiotti e... fine dello spettacolo. Le vene sono soggette a una minore pressione. Il sangue vi scorre più lentamente. È lo stesso motivo per cui ha aggirato il cuore e i polmoni. Voleva che il congegno funzionasse sino in fondo.» «Ma come ha fatto, concretamente?» Con la barretta Alang mimò l'azione: «Ha piazzato orizzontalmente il suo coltello da immersione, poi ha reciso le vene a una a una, tagliando la strada al flusso sanguigno. Esattamente come i nostri piantatori, che incidono la corteccia dell'hevea per raccogliere il lattice. Te lo ripeto: questo figlio di puttana se l'è presa con calma. Voleva vedere la ragazza riversarsi fuori, stillare lentamente, svuotarsi. Nella capanna, gli infermieri hanno dovuto munirsi di stivali per poterla avvicinare.» Marc passò a un'altra fotografia. Il primo piano di una ferita nerastra, lievemente incrostata: «Occorrono conoscenze di medicina per effettuare un simile... disegno?» «Be', sì. Reverdi ha fatto un lavoro da vero anatomista. Non so da dove gli venga tanta scienza...» «Era istruttore di immersione. Si è occupato di pronto soccorso.» «Allora si spiega. Le vene sono la prima cosa che s'impara nelle urgenze. A causa delle iniezioni, delle fleboclisi.»
Marc esaminò più da vicino la fotografia dell'incisione. Quella che aveva scambiato per una crosta doveva essere qualcos'altro: «Queste tracce nere, attorno alla ferita, si direbbe una bruciatura...» «Esatto. Reverdi ha bruciato o semplicemente scaldato le piaghe.» «Perché?» «Sempre per la stessa ragione. Per evitare che il sangue si coagulasse. Lo stesso principio dello scaldavivande, che mantiene la fluidità dei grassi. Lo eccita vedere colare il sangue.» Questa riflessione gli fece venire in mente un altro dettaglio: «Hanno trovato tracce di sperma nella capanna?» «Neanche l'ombra. L'amico non si è eccitato.» Era una delle originalità di Reverdi. Fondamentalmente, i serial killer sostituiscono la morte all'amore. Per loro l'assassinio rimpiazza l'atto sessuale. Il più delle volte godono sulla scena del delitto, prima, durante o dopo l'uccisione. Ma l'apneista sembrava controllarsi. A meno che non cercasse qualcos'altro ancora. «Il vero mistero», aggiunse Alang, «è il numero delle incisioni. Più della metà erano inutili.» «Che vuoi dire?» «Immagina la scena.» Alang aprì le mani, come se scostasse le cortine di un sipario: «L'assassino comincia con l'incidere le tempie, poi passa alla gola. Il tempo che arrivi alle anche, la vittima è già dissanguata. Tutto il sangue è fuoriuscito dalle prime piaghe. E allora, perché continuare a incidere?» Marc seguì sulla prima fotografia l'arborescenza delle ferite, perfettamente simmetriche, fino alla punta delle dita. «Per la bellezza del gesto», suggerì. «Ha voluto incidere ogni membro, ogni parte in modo uguale.» «Forse. Ma le altre piaghe continuavano a colare. Dev'essere stato un vero macello. Non so neanche come abbia fatto a ritrovarcisi.» Marc ebbe un'illuminazione: «Potrebbe aver messo dei lacci emostatici?» «Ci abbiamo pensato, ma avrebbero lasciato delle tracce. Ematomi. No, qui c'è un mistero.» Marc tentò di raccogliere le idee. Più ne veniva a sapere e più Jacques Reverdi si delineava come un omicida complesso, uno che faceva bene tutti i suoi calcoli. Un uomo che perseguiva un obiettivo segreto. «Avete steso un rapporto ufficiale?»
«Naturalmente. È tutto in mano all'Alta Corte di Johor Bahru.» «Non avevo mai sentito parlare di questo aspetto.» Alang sorrise: «Meno male che non si racconta tutto ai giornalisti. Specialmente a quelli stranieri. C'è qualcos'altro che ignori.» Il medico, sprofondato in poltrona, aprì con nonchalance un fascicolo e prese un fascio di fogli pinzati insieme. «Le analisi tossicologiche della vittima. Il sangue di Pernille Mosensen era zuccherato.» «Cosa?» Alang si tirò su. Sfogliò rapidamente le carte e indicò alcune righe evidenziate in verde: «Il tasso normale di glucosio nel sangue è di un grammo. Qui ne abbiamo un grammo e trenta.» «Pernille Mosensen era malata?» «Abbiamo subito pensato al diabete. Ma ci siamo informati: era sana come un pesce. No, questo zucchero è collegato all'assassinio.» Marc sentì i muscoli tendersi sotto la pelle: «In che modo, collegato?» «Si pensa che le abbia fatto ingurgitare qualcosa di zuccherato prima di assassinarla. Le analisi hanno anche rivelato tracce di vitamine, di microelementi. Un vero banchetto.» Una visione infernale gli balenò davanti: Pernille che si rifiutava di inghiottire dolci, frutta, cioccolato. La bocca contorta, i denti stretti, e la saliva troppo zuccherina che le sgocciolava dalle labbra. «Questo renderebbe il sangue più... fluido?» «No. Siamo giunti a un'altra conclusione.» Alang lasciò passare qualche secondo. Dosava bene la suspense. Afferrò un bisturi dal piano della scrivania - doveva normalmente usarlo come tagliacarte - e lo puntò verso Marc: «Reverdi ha cambiato il sapore di quel sangue. Voleva che fosse più dolce, più squisito...» «Vuoi dire...?» «Già, pensiamo che ne abbia bevuto. È un vampiro, man. Un fuori di testa che ama il sangue zuccherato. A Papan è stato interrotto, ma sono certo che ci sono state altre vittime, e in quel caso si è fatto la sua pinta. Quando è stato sorpreso dai pescatori era in stato di trance. Pareva addirittura che non si rendesse conto di ciò che succedeva. Reverdi ha delle autentiche
crisi di... trasformazione. Diventa una creatura bestiale. Un vampiro. Un mostro da film.» Marc fece finta di acconsentire, ma non ci credeva. Troppo grossolano, troppo volgare. E qual era il legame con il Cammino della Vita? Cambiò argomento: «Avete contattato le autorità della Cambogia per confrontare questi dati con quelli riguardanti Linda Kreutz?» Alang posò i piedi sulla scrivania: «Certo. Ho persino parlato con il dottore che ha eseguito l'autopsia a Siem Reap. Lui è meno categorico sul tracciato delle ferite. Il corpo era terribilmente deteriorato per la lunga permanenza in acqua. Ma il khmer è d'accordo con noi sulle incisioni. Forse il nostro pubblico ministero si recherà a Phnom Penh.» Marc pensava all'avvocato tedesco e alle altre due presunte vittime in Thailandia. Con ogni probabilità, se si fossero potuti ritrovare i corpi si sarebbe visto che le carni erano incise con lo stesso motivo. La firma di Reverdi. Il tracciato della sua follia. Si alzò. Bruciori acidi gli torturavano lo stomaco: non aveva mangiato niente da venti ore a quella parte. «Posso tenere le fotografie?» «No.» «Grazie.» Alang rise: «Non credi di esagerare un po'? Già ho parlato anche troppo.» Marc non rispose. Il medico sospirò, poi aprì un cassetto: «Il fatto è che mi stai simpatico.» Posò sul tavolo una videocassetta. «Un regalo per te. La prima intervista di Jacques Reverdi, al suo arrivo all'ospedale psichiatrico di Ipoh. La caposervizio è una mia amica. Un vero scoop. Non l'ha vista neanche il pubblico ministero.» Marc sentì il sudore cristallizzarglisi sul viso. Afferrò la cassetta e chiese con voce tremante: «Reverdi... Parla dell'assassinio?» «Era in stato di shock.» «Ne parla o no?» Marc aveva alzato la voce. Alang abbozzò un gesto sbrigativo: «Sì e no. È strano.» «Che cosa è strano?»
«Te ne farai un'idea da solo.» Marc si protese sopra la scrivania: «Voglio il tuo parere. Che cosa è strano?» «Parla dell'assassinio come se ne fosse stato il testimone invece che l'autore. Come se avesse assistito al fatto senza parteciparvi. È ancora più terrificante di tutto il resto. Reverdi ha l'aria di un innocente. Un innocente venuto dal fondo dei tempi.» «Dal fondo dei tempi?» Per la prima volta Alang rinunciò al suo tono sarcastico: «Dal fondo della sua infanzia.» 36. «Come si chiama?» Nessuna risposta. «Come si chiama?» Nessuna risposta. «Come si chiama?» «Jacques...» Un'esitazione, poi: «Reverdi.» Marc aveva dato il tormento al cinese dell'albergo perché gli trovasse un videoregistratore, e adesso contemplava le immagini più recenti dell'assassino di Pernille Mosensen. Sullo schermo, in basso, si leggeva: «11 febbraio 2003». Testa rasata, dimagrito, vestito di una casacca di tela verde, le braccia legate da cinghie ai braccioli di una sedia d'acciaio accostata all'estremità di un tavolo, l'apneista aveva una voce pastosa, come appesantita dai farmaci. Invisibile sullo schermo, uno psichiatra lo interrogava in inglese. «Sa di che crimine è accusato?» Nessuna risposta. Sembrava che Reverdi non ascoltasse: faccia scavata, colorito grigio; nonostante l'abbronzatura, la sua pelle si confondeva con i capelli cortissimi, colore della pietra. Stava seduto con la schiena curva, i muscoli contratti. Inebetito e al contempo teso come un arco. «Di che crimine, Jacques?» Marc si chinava sullo schermo per distinguere meglio gli occhi di Reverdi, ma la videocamera lo riprendeva dall'alto e la qualità dell'immagine, mediocre, non era certo d'aiuto. Tutto ciò che vide - o credette di vedere furono delle pupille dilatate, concentrate su un punto immaginario. «È accusato dell'assassinio di Pernille Mosensen.»
L'apneista tese il collo, come se il colletto della camicia gli facesse prurito. Ci volle un po' di tempo prima che rispondesse, in inglese: «Non sono stato io.» «È stato sorpreso sul luogo del delitto, accanto alla vittima.» Silenzio. «La donna portava i segni di ventisette coltellate.» La voce dello psichiatra, né grave né acuta, dava a Marc un ulteriore senso di disagio. Reverdi parve deglutire. O reprimere un singhiozzo. Marc si era aspettato di trovarsi davanti un mostro. Una creatura spaventosa. E invece vedeva solo un pazzo. Grande. Bello. E tragico. La voce riprese, sempre fra due timbri: «Era il suo coltello, Jacques.» Silenzio. «Lei era coperto del sangue di quella donna.» Silenzio, poi: «Non sono stato io.» Marc strizzò più volte gli occhi per dissipare il fascino che quelle immagini esercitavano su di lui. Osservò l'ambiente in cui si svolgeva la scena. Una stanza assolata e spoglia che sarebbe potuta essere indifferentemente una cella carceraria o un ufficio amministrativo, in qualsiasi paese dei Tropici. Solo il pannello di vetro per il controllo delle radiografie appeso alla parete di destra rivelava che ci si trovava in un ospedale. Il medico insisteva: «Le sue impronte erano sul coltello.» Reverdi si agitava sulla sedia. I polsi legati si sollevavano, a scatti. Le vene sporgevano sul dorso delle mani. Mormorò: «Non io. Qualcun altro.» «Chi?» Nessuna risposta. «Chi altri avrebbe potuto compiere il delitto?» Reverdi manteneva lo sguardo fisso, vitreo, ma il corpo si animava sempre più. Come se il prurito si facesse più intenso. In un angolo dell'immagine due infermieri fecero una breve comparsa. Due colossi, pronti a intervenire. La tensione aumentava. Con voce impaniata, l'apneista ripeteva: «...altro... Qualcun altro.» «Qualcun altro... dentro di lei?» «No. Nella camera.»
«La camera? Vuole dire... la capanna?» Il medico parlò più forte. Marc finì col capire perché quel timbro di voce lo metteva a disagio: era la voce di una donna. «La capanna era chiusa dall'interno, Jacques. Non c'era nessuno con lei.» «La purezza. È la purezza.» «Quale purezza? Di cosa parla?» Gli avambracci si sollevarono con forza. I legacci scricchiolarono. Le vene delle mani sembravano sul punto di lacerare la pelle. «Jacques?» La psichiatra alzò ulteriormente il tono, la sua voce si fece fremente: «Chi, Jacques? Chi era con lei?» Nessuna risposta. Scricchiolio delle cinghie. «Quando l'hanno scoperto, era solo.» Nessun commento. «Perché l'ha fatto, Jacques?» «Nasconditi.» L'ordine era stato mormorato, in francese. Un bisbiglio a malapena percepibile. «Cosa?» chiese la psichiatra in inglese. «Cosa ha detto?» Reverdi stirò il collo. Le vene della gola sporsero come radici strappate dalla terra. Le labbra si aprirono. Ne uscì una voce di bambino, sconvolta: «Nasconditi. Presto, nasconditi!» «Jacques, di cosa parla? Chi deve nascondersi?» La donna aveva capito la frase in francese. L'apneista s'inarcò nuovamente. Alzò il mento e puntò uno sguardo annebbiato sulla psichiatra. «Presto, nasconditi, arriva papà!» Il medico si chinò. Ora era visibile. La donna prendeva appunti su un taccuino. Era velata. Con l'altra mano fece un segno esplicito a uno degli infermieri: tenersi pronti per un'iniezione. Poi riprese a parlare, questa volta in francese, con un forte accento: «Jacques, cosa sta dicendo? Si spieghi!» In risposta, Reverdi abbassò le palpebre. Un sipario sul suo teatro interiore. «Jacques?» Nessuna risposta. Il suo viso si distese, si scavò, impallidì. Le orbite diventarono dei buchi neri. Le labbra dei fili sottili. La psichiatra lasciò cadere il taccuino e si precipitò su di lui. Gli posò due dita sulla gola e si mise a urlare in malese. La stanza fu subito in asset-
to di combattimento. Un infermiere impugnò una maschera respiratoria, un altro una siringa. Marc non ci capiva più niente. La donna in tudung prese fra le mani la testa di Reverdi e gli gridò in francese: «Respiri, Jacques. RESPIRI!» Un infermiere passò davanti all'obiettivo, urtò la videocamera: tutto si confuse. Schermo nero. Marc fermò il videoregistratore, poi premette il pulsante di riavvolgimento. Era bagnato di sudore. Per non perdere una parola della cassetta era rimasto per tutto il tempo senza aria condizionata. Al tempo stesso era raggelato da quanto aveva appena visto. Una finestra aperta sulla follia dell'omicida. Gli ultimi secondi, soprattutto, lo sconvolgevano. L'apnea. Reverdi si rifugiava nell'apnea. Era una chiusura, una corazza che lo proteggeva dal mondo esterno. Non solo. Trattenendo il respiro, oltre che dal mondo esterno Reverdi si teneva al riparo da sé stesso. Dalle sue voci interiori. Sopraffatto da un ricordo, o da un'allucinazione, aveva smesso di respirare. «Presto, nasconditi, arriva papà!» Cosa significavano quelle parole? Marc si sedette sul letto e continuò a riflettere. Il padre era il grande assente del destino di Reverdi. Nato da padre ignoto: le biografie non menzionavano mai la minima figura paterna. Tuttavia l'omicida aveva pronunciato quella frase incomprensibile... con una voce di bambino: «Presto, nasconditi, arriva papà!» Come se, d'un tratto, rivivesse una precisa emozione... Marc controllò l'orologio: le otto del mattino. Ossia l'una del mattino a Parigi. Cercò nella rubrica elettronica i dati personali dell'archivista del «Limier». Jérôme. Non stava dormendo. «Hai un'idea dell'ora?» borbottò. «Sono in viaggio.» «Dove?» «Malesia.» Jérôme ridacchiò. «Reverdi?» «Se ne parli a Verghens, io...» «Io non parlo a nessuno.» Era la verità. Relegato nel suo archivio, Jérôme si esprimeva solo quan-
do lo costringevano. Marc assunse il suo tono più dolce: «Mi domandavo... Potresti verificare qualcosa per me?» «Di' pure.» «Vorrei che tu cercassi nel fascicolo di Reverdi. È nato da padre ignoto, giusto?» «Sì. Abbiamo soltanto l'identità della madre. Monique Reverdi.» Neanche un attimo di esitazione. La memoria di Jérôme era meglio di qualsiasi computer. Marc proseguì: «Potresti contattare la Direzione dipartimentale degli affari sociali, per identificare il padre?» «Non apriranno mai il fascicolo per noi.» «Neanche con gli agganci che hai tu?» «Posso provare. Ma le probabilità sono scarse.» «C'è modo di sapere se Reverdi ha fatto la stessa cosa per conoscere il nome del padre?» Jérôme rise di nuovo: «Questo rientra di più nelle mie competenze.» «Mandami una mail quando avrai l'informazione.» Marc lo ringraziò e chiuse la comunicazione. La nausea tornò allora alla carica. Il suo corpo non aveva più alcun punto di riferimento temporale, l'organismo si muoveva come un gambero, tra la notte che aveva saltato e la notte che si svolgeva in Francia. La fame contribuiva ad accentuare il suo malessere. Avrebbe dovuto mangiare, o crollare, ma la vocina di bambino tornò, terrificante, a risuonargli nelle orecchie. Rivide il volto mineralizzato, le vene tirate della gola. Aveva bisogno di un caffè. L'albergo non disponeva di un servizio al piano. Marc scese al pianterreno, dov'era installato un distributore di acqua bollente. Niente bustine di Nescafé. Dovette ripiegare sul tè: un misero Lipton insapore, che lasciò a lungo in infusione. Facendo dondolare il filtro come un pendolo, tentò di mettere ordine nei suoi pensieri. Il viaggio prometteva di dare buoni risultati. Si trovava in Malesia da meno di ventiquattr'ore e già aveva fatto un mucchio di scoperte. La tecnica del dissanguamento. Il nuovo profilo di Reverdi, l'«assassino organizzato». La quasi certezza che Linda Kreutz aveva subito lo stesso supplizio. Il particolare dello zucchero, che orientava i sospetti verso un eventuale vampirismo... E adesso quella voce infantile che lasciava trapelare un trauma paterno. Ancora una volta Marc rivide il volto scavato, impietrito, di Reverdi che
non respirava più. Il segreto dell'assassino era dall'altra parte di quella maschera. Allora gli venne in mente Elisabeth. Quasi si scordava di scrivere a Reverdi. Gettò il filtro nel cestino e risalì in camera. Fece andare il climatizzatore a tutto regime e si mise al lavoro, ingurgitando al tempo stesso le due fette di torta prelevate vicino al distributore d'acqua. In pochi minuti trovò le parole, le costruzioni di frase, la «musica» della studentessa. Dopo la notte appena trascorsa, dopo quelle ore di indagine nei panni di Marc Dupeyrat, la cosa aveva del sensazionale. Quel che c'era di più strano era che assumeva un tono brioso: nonostante il tema, nonostante la violenza, la studentessa era fiera delle proprie scoperte. Elisabeth raccontò il «suo» incontro con il medico legale. Il corpo ripulito di Pernille. Il reticolo venoso: il Cammino della Vita. Nel corso del messaggio Marc praticò una censura. Non scrisse una parola sugli altri indizi. Lo zucchero. L'apnea. Il padre. Il sistema funzionava sempre a due velocità. Elisabeth apriva la strada, Marc approfondiva. Inviò la mail. Provava un sentimento di potenza. Per il momento, la situazione era sotto controllo. Ma non riusciva a non sentirsi inquieto pensando al suo strano percorso: incarnarsi in una donna per identificarsi con un uomo. Essere Elisabeth per diventare Reverdi. C'era davvero di che diventare schizofrenici. E su questa idea si addormentò, tutto vestito, sul letto. 37. Quando si svegliò non sapeva più dove si trovava. La luce era accesa, ma la stanza priva di finestre non gli offriva nessun punto di riferimento. Il fracasso del condizionatore gli dava l'impressione di essere caduto dentro al reattore di un aereo. Controllò l'orologio: le sedici. Si mise a sedere sul letto e si strinse la fronte con le mani. L'emicrania gli picchiava in testa. Si sentiva in bocca una lingua enorme. Mormorò: «Un caffè.» Ma all'idea di scendere al pianterreno e di trafficare con il distributore si sentì di nuovo invadere dalla nausea. Alzò gli occhi e vide il computer sul tavolino. Per ogni evenienza, collegò il modem.
Oggetto: KUALA 2 - Ricevuto il 23 maggio, ore 11.02 Da:
[email protected] A:
[email protected] Mia Lisa, mi sei di conforto e mi rincuori. Ti ho scelta fra tutti quelli che hanno tentato di avvicinarmi, di scrivermi, di interrogarmi. Oggi me ne rallegro. Ero sicuro che saresti stata degna della tua missione. Hai trovato il Cammino della Vita. Sai ciò che Lui cerca e ciò che ama contemplare. Hai quindi capito che noi, Lui e io, ci ponevamo al di là di una frontiera sacra. La frontiera del sangue. Noi ci aggiriamo in un territorio poco frequentato. Un territorio pericoloso, dove ci comportiamo come Dio. Ti ho già parlato del brano della Bibbia di Gerusalemme in cui il Signore ricorda che il sangue è l'anima. Nello stesso capitolo, al versetto 6, sta scritto: «Chi sparge il sangue dell'uomo, dall'uomo il suo sangue sarà sparso». Solo Dio ha il diritto di farlo scorrere. Chi trasgredisce questa legge diventa il rivale del Signore. Colui di cui tu segui le tracce ha compiuto questo passo. Ha sfidato Dio... e accetta consapevolmente la responsabilità di questo oltraggio. Se vuoi capirlo, devi continuare a cercare. Il rituale comporta altre regole. Tappe molto precise. Devi apprendere, con esattezza, come Lui procede. Come prepara la messa a nudo dell'anima... Devi trovare i «Segnali dell'Eternità». «Che Volano e Brulicano». Sali in alto, Lisa mia. Cerca verso il cielo. E ricordati di questa verità: c'è solo un modo per contemplare l'eternità; trattenerla, per qualche istante. Il mio cuore è con te Jacques Un caffè. Un cazzo di caffè, subito. Scese le scale sostenendosi alle pareti. I Segnali dell'Eternità. Che Volano e Brulicano. Reverdi si faceva sempre più misterioso. E Marc presagiva
che quel vocabolario ermetico fosse destinato a peggiorare. Via via che l'assassino apriva le porte del suo universo, i termini sarebbero diventati sempre più esoterici... e incomprensibili. Avevano provveduto a fare rifornimento di Nescafé. Si confezionò una brodaglia brunastra. L'assaggiò e si chiese se in fondo non preferiva il tè del mattino. Mentre mescolava il caffè con il bastoncino di plastica, le parole di Reverdi gli circolavano nella mente. «Cerca verso il cielo.» «Sali in alto.» Si disse che dietro il loro valore metaforico quelle parole possedevano forse un significato concreto. Risalì le scale di volata. Prese la carta della Malesia e andò alla ricerca delle zone montagnose. In quel paese che affiorava a malapena dal mare, i rilievi si contavano sulle dita di una mano. Mise gli occhi sulle Cameron Highlands, una regione montuosa che si estendeva a circa duecento chilometri da Kuala Lumpur e che superava i 1500 metri di altitudine. Il nome gli diceva qualcosa. Gli avevano già parlato di questa stazione climatica residenziale, provvista di alberghi lussuosi e di campi da golf. Marc sfogliò la guida e trovò una conferma ai suoi ricordi. Era questa la direzione suggerita da Reverdi? Un istruttore sub non aveva niente a che fare con la montagna. Gli venne un'idea: c'era forse stato un delitto, o una scomparsa, in quei luoghi? Chiamò l'archivio del «New Straits Times». La voce all'apparecchio una donna - era amabile. Marc chiamava per informarsi sugli orari e sulle modalità di consultazione, ma d'un tratto decise di tentare la fortuna lì sui due piedi. Si presentò ed espose la sua richiesta, senza indicare il legame con Reverdi. Era stato segnalato, negli ultimi anni, un omicidio nelle Cameron Highlands? O una scomparsa? A memoria, l'archivista non poteva dire. Gli chiese di restare in linea. Udì il ticchettio dei tasti di un computer, poi la donna riprese la comunicazione: non c'era niente. Nessuna traccia di un omicidio, né del minimo fatto di cronaca nera nelle Cameron Highlands da almeno otto anni. Per approfondire la ricerca, bisognava andare a consultare... Marc riappese dopo qualche formula convenzionale di cortesia. Inspiegabilmente, la sua convinzione si fece più ferma. Reverdi aveva cacciato su quelle cime. Aveva lasciato le tracce di quei misteriosi «segnali». Su in alto. Decise di partire l'indomani mattina. Intanto i brontolii nella pancia gli ricordavano che era a digiuno da due giorni. Non era più distrazione, ma un vero e proprio sciopero della fame. Prese la chiave e uscì sbattendo la porta della camera.
La luce del giorno fu come mettere la testa fra due cimbali rimbombanti. E il caldo produsse su di lui un effetto immediato: Marc si sentì fondere la pelle, al punto che quasi subito ebbe le dita appiccicaticce di sudore. Aveva l'impressione di trovarsi in una sauna, tutto vestito. Nella strada dell'albergo, i tavolini dei ristoranti occupavano i marciapiede inondando addirittura la carreggiata. Le auto, procedendo a passo d'uomo, dovevano girare intorno ai tavoli ed evitare che le forchette scalfissero le carrozzerie. Marc ordinò un fried rice, il grande classico della cucina cinese. Adorava quei piatti a base di riso che nascondono un sacco di sorprese. Gamberetti, verdura, mandorle, cipolle, pezzettini di frittata... Tutto era cotto, fuso, rosolato nella stessa onda dorata. Cameron Highlands. Si ripeteva queste sillabe a ogni boccone. Era sicuro che là ci fosse un indizio ad aspettarlo. 38. Jalan Ruching. La Strada dei Gatti. Secondo la carta era la direzione da seguire per uscire dalla città. Il mattino presto Marc aveva noleggiato una vettura: una Proton, il veicolo standard della Malesia, con guida a sinistra. Superò i grandi palazzi del centro e fece rotta verso nord. I sobborghi della città erano interminabili, un alternarsi di parchi e di quartieri residenziali. Marc fissava in lontananza le colline che fluttuavano nella luce nascente. Trovò l'autostrada, l'Express 1, e si tuffò in un nuovo universo, fatto di distese d'alberi scuri, con i tronchi perfettamente allineati nella terra rossa: le hevea. Proseguì in direzione nord per centocinquanta chilometri, incrociando di tanto in tanto picchi rocciosi, templi indiani con decorazioni da festa paesana, moschee con cupole di ceramica verde. Un paesaggio ideale per riflettere. Quel mattino aveva ricevuto un messaggio di Jérôme. L'archivista non aveva trovato niente: nessuna informazione sull'identità del genitore di Reverdi, nessuna traccia di una richiesta personale di Jacques riguardo alle proprie origini. Niente di fatto. Prese l'uscita 132, in direzione della città di Tapah, poi imboccò una nazionale a doppio senso, dove tutti si comportavano come se si trattasse di
una strada a senso unico. Lontano, le colline si facevano più ampie, più maestose, fino a diventare delle montagne. Marc scorse il cartello CAMERON HIGHLANDS. Stava per prendere quella direzione quando un altro nome gli fece inchiodare i freni. IPOH: 20 KM. La città dove si trovava l'ospedale psichiatrico di Reverdi. Il luogo in cui era stata girata la videocassetta. Marc si aspettava un istituto all'inglese: portale di pietra, prati impeccabili, edifici bianchi. Si trovò invece di fronte a un gigantesco penitenziario, una città nella città, cinto di filo spinato, circondato da una via ferrata e dotato di una propria stazione. Erano le tredici. Malgrado fosse sabato, l'attività ferveva. Il personale medico e paramedico rientrava dal pranzo. Marc dovette attendere che la massa dei ciclisti, motociclisti, automobilisti e pedoni varcasse l'alto portale di cemento: un rientro in fabbrica alla cinese. Seguì il flusso e in breve trovò il centro amministrativo, che costituiva un quartiere a sé. Mentre aspettava un responsabile, contemplò il campus dalle finestre, un vasto spazio scandito da edifici grigi e campi coltivati. Intuiva che qui si praticava un genere di psichiatria libera, dove i pazienti vivevano in comunità, svolgendo attività agricole o artigiane. Finalmente il direttore lo ricevette. Un indiano dal viso indolente e dai grandi occhi di lacca. Marc espose la questione: la Francia, l'inchiesta, Reverdi. Dopo un lungo silenzio, il direttore convocò telefonicamente la dottoressa Rabaiah Mohd Norman, il medico che aveva curato Jacques Reverdi. Passarono alcuni minuti e la porta si aprì per lasciare entrare la donna che Marc aveva visto sulla cassetta. Portava una lunga veste beige e, sul capo, un tudung dello stesso colore. L'insieme la faceva sembrare una statua d'argilla di cui fosse stata modellata solo la testa. La psichiatra si rivelò molto spiritosa. Faceva una battuta dietro l'altra, sottolineando le parole con grandi sorrisi che mettevano in mostra una dentatura smagliante e cavallina. «Le propongo una visita guidata», disse la donna. «Parleremo strada facendo.» Percorsero il luogo nell'auto di Marc. Incrociarono fattorie, terreni coltivati, campi da gioco. La dottoressa Norman forniva delle cifre: l'istituto ospitava duemila pazienti, sessantacinque per padiglione, cinquanta per unità agricola...
«Arriviamo nel settore di sicurezza.» Penetrarono in un recinto sotto alta sorveglianza: torrette di controllo, filo spinato e sbarre a tutte le finestre. Un vero e proprio campo di concentramento. Salvo che le sbarre erano dipinte di verde e realizzate in una grande varietà di motivi che facevano pensare alle decorazioni cesellate di una moschea. Vicino al parcheggio Marc scorse i primi pazienti, che vagavano sul prato: neri, cotti dal sole, pelati. Portavano tutti una casacca verde - quella di Reverdi nella cassetta - e sotto il sole accecante sembravano ancora più neri. Lineamenti piatti, sguardi incolori, come annientati dalla luce. L'edificio si apriva all'interno su un grande cortile, attorno al quale correva un portico ad arcate che dava accesso a corridoi, uffici, stanze. Tutto era in cemento dipinto, scrostato, logorato dal sole, dalla pioggia, dal caldo torrido. Seguirono uno dei corridoi, dove appariva più volte il cartello FORENSIC WARD. Marc non ricordava più il senso esatto di quelle parole, ma sapeva che avevano a che fare con la medicina legale. Entrarono in un ufficio: un semplice tavolo di legno addossato alla parete, preceduto da una lunga fila di fascicoli ingialliti, ammucchiati per terra. Un paziente era interrogato da un medico, sotto la sorveglianza di una guardia. Seduti ai due lati opposti del tavolo, i loro ruoli erano inequivocabili: camice bianco da un lato, manette dall'altro. La dottoressa Norman, sempre con grandi sorrisi, scambiò qualche parola in malese con il medico, poi si volse verso Marc: «Un nuovo arrivato. Un algerino. Sembra che parli francese.» Si chinò e, indicando Marc, disse al detenuto in inglese: «Questo signore viene da Parigi. Può parlare in francese con lui, se vuole.» «No way», rispose l'algerino con aria imbronciata. Aveva una faccia ossuta, gli occhi sprofondati nelle orbite. Marc notò che portava anche delle catene ai piedi. La psichiatra girò sui tacchi: «Come vuole, era solo per farla sentire a suo agio.» Marc le stava alle calcagna quando udì la parola «capo...» in francese. Si voltò. L'algerino gli sorrideva, mostrando una collezione di denti storti. C'era un bagliore nei suoi occhi infossati. Fece un cenno verso la psichiatra: «Quella lì, quando le avrò tranciato la fica, ce la mangeremo insieme.» Gli strizzò l'occhio. «La preferisci cruda o cotta?»
Marc si allontanò senza rispondere. «Cruda o cotta»? Raggiunse la psichiatra che stava già dirigendosi a sinistra. Passarono accanto a un refettorio, poi imboccarono un altro corridoio sul quale si affacciavano delle celle chiuse a chiave. Tutto era deserto. La porta in fondo al corridoio fu loro aperta da un guardiano. Entrarono in una grande sala immersa nella penombra: le tende erano tirate. Marc sbatté varie volte le palpebre prima di riuscire a distinguere quello che gli stava intorno. Un immenso dormitorio, ventilatori che pendevano dal soffitto e frusciavano lenti, almeno una cinquantina di letti, allineati contro le pareti. La pace, la calma erano totali. Da qualche parte c'era un televisore acceso, a basso volume. Alcuni uomini dormivano, altri deambulavano nel corridoio centrale, trascinando i piedi. Non indossavano casacche verdi ma abiti normali. «Stanno per essere rilasciati?» azzardò Marc. «Proprio il contrario: quelli non usciranno mai. Sono affetti da amok.» «Da cosa?» «Amok. È così che viene chiamata in Malesia la follia omicida. Il giovane che vede laggiù, in maglietta bianca, ha cavato gli occhi alla sua bambina perché non guardasse più la televisione. Quello là, invece, ha ucciso sua moglie, l'ha squartata e ha lanciato i pezzi dalla finestra del quarto piano. Quell'altro, là in fondo, ha...» «Credo di aver capito.» Il sorriso della psichiatra si allargò, tutti i denti bene in mostra: «Bravo. Io, sono vent'anni che ci lavoro e non ho ancora capito.» Avanzarono nel dormitorio. Lei stringeva mani, lanciava sorrisi, inclinava il velo, molto a suo agio. Una vera ambasciatrice dell'UNESCO. All'estremità della sala una tenda copriva l'ingresso a un'altra stanza. Un laboratorio d'informatica, dove una serie di monitor rimpiazzavano i letti allineati. In un angolo c'era un divano: vi si sedettero fianco a fianco. I pazienti li guardavano, senza osare avvicinarsi, disegnando attorno a loro un grande cerchio. «Lavoro sul fenomeno dell'amok da quando ho preso il dottorato», proseguì la psichiatra. «In Occidente è da molto che avete rimpiazzato le nozioni di possessione o di stregoneria con termini come "isteria" o "schizofrenia". In Malesia le cose non sono così semplici. Tutti concordano nel dire che l'amok corrisponde a una crisi di follia, nel senso più medico del termine. Ma pensano anche che ci siano di mezzo i dèmoni.» Fece un ampio gesto:
«Noi associamo sempre psichiatria e credenza. Non è d'altronde detto che sia una visione meno efficace di una strettamente clinica. Nella misura in cui un paziente crede ai diavoli che lo possiedono, si può dire che essi esistono, no? La ragione non è altro che una certa regolazione della lucidità. Tutto è vero, dato che tutto è percezione...» Marc non seguiva più molto bene, ma si lasciava cullare da quella voce dolce, da quel costante sorriso. Finiva quasi per dimenticare Reverdi. Gli sguardi insistenti dei malati lo ricondussero alla realtà: «È qui che era... detenuto?» «Jacques? Gli ultimi giorni, sì.» Pronunciava il suo nome all'inglese: «Jack». «Secondo lei, è stato colpito dall'... amok?» «Ha agito sotto l'effetto di una crisi, senza dubbio. Tuttavia penso che non abbia mai perso il controllo. La sua ragione non era fuori gioco.» «Era cosciente dei suoi atti?» «Direi piuttosto che ha agito sotto l'effetto di una delle sue coscienze.» «È schizofrenico?» Lei alzò i palmi come per dire: «Non così in fretta.» «Abbiamo tutti diverse personalità. Più o meno accentuate.» «Ma si può dire che il Reverdi che ha ucciso Pernille Mosensen sia lo stesso uomo che è diventato campione del mondo d'apnea?» Lei si mise più comoda, posando uno sguardo distaccato sui pazienti, sempre immobili: «La coscienza umana non è un nucleo unico. È piuttosto come una ruota. Un campo di possibilità. Una lotteria che gira e, di tanto in tanto, si ferma su un numero. L'assassinio è uno dei numeri di Jack.» Marc decise di giocare a carte scoperte con la dottoressa Norman. Le parlò della cassetta. Il sorriso della psichiatra svanì: «Chi gliel'ha data?» Lui non rispose. Lei incalzò: «È stato Alang, vero? Mi chiedo perché il nostro migliore esperto di patologia criminale sia quell'individuo stravagante...» Gli lanciò un'occhiata di traverso. «Quali sono le sue conclusioni?» «Le mie conclusioni?» «Sì. Cos'ha pensato di quella scena?» Il momento ideale per verificare le proprie ipotesi: «Credo che Reverdi si protegga con l'apnea.» «Giusto. Ma da cosa si protegge?»
«Dagli altri. E anche da sé stesso. Dalla sua follia.» Il sorriso della psichiatra riapparve: «Ha ragione. Jack si serve dell'apnea come di una corazza. Contro le personalità che lo assillano. Contro la propria schizofrenia.» «Adesso è lei a usare la parola.» «Poco fa volevo relativizzare le sue convinzioni. Ma è chiaro che Jack è torturato da personalità distinte. Queste vogliono prendere il posto del Jacques Reverdi che lui si sforza di essere. Il Reverdi ufficiale. Ne conosce la storia, vero?» «A memoria.» «È la storia di un uomo caparbio. Uno che ha sempre ottenuto quello che voleva. Jack ha seguito una linea assolutamente diritta. E questo suo procedere in linea retta è inversamente proporzionale alla minaccia di dispersione che lo perseguita.» Marc era persuaso della giustezza di questa diagnosi. Una convinzione che si faceva via via più salda. «Adesso», continuò la psichiatra, «parliamo dell'apnea. Ho studiato questa disciplina. Ho voluto capire perché Jack sia convinto che questo stato possa servirgli da protezione. Be', certo, c'è l'autonomia fisica. In quel momento non ha più bisogno del mondo esterno. Ma c'è dell'altro, qualcosa di più profondo. Lo sa cosa succede nell'organismo quando non si respira più?» Marc sentiva gli sguardi dilatati degli amoks posati su di loro. «Be', il sangue non è più ossigenato, è...» «Il corpo è in pericolo. Al contrario dei luoghi comuni sulla pienezza e la serenità, l'apnea provoca una tensione, uno stato di allerta. L'organismo si concentra su sé stesso. Negli arti superiori e inferiori interviene un riflesso di vasocostrizione. Il sangue, con la sua riserva di ossigeno, rifluisce verso gli organi vitali: il cuore, i polmoni, il cervello. Una concentrazione più forte è inimmaginabile. L'uomo diventa letteralmente un blocco impenetrabile. Tutto incentrato sulle proprie forze vitali. È esattamente ciò che cerca Reverdi. Fa blocco contro i propri dèmoni interiori... Ma credo che questo fenomeno possa essere esteso anche agli omicidi.» Marc trasalì: «Agli omicidi?» «Si ricordi quello che ha fatto alla giovane danese. Le ha prosciugato tutto il sangue. Penso che in simili momenti la scena del delitto diventi una sorta di espansione di sé. Jack dispiega il suo essere in quello spazio e vi
provoca un afflusso di sangue, per meglio proteggersi. Esattamente come quando, dentro al suo corpo, l'emoglobina rifluisce verso il cuore e i polmoni.» «Come può essere sicura di quanto afferma?» «Ho un'altra domanda per lei», si limitò a rispondergli la psichiatra. «Si ricorda delle sue ultime parole, sulla cassetta?» Marc non esitò. Pronunciò in francese: «"Presto, nasconditi, arriva papà".» Lei scosse lentamente la testa velata: «Forse è un ricordo. Un trauma. O forse un'allucinazione. Non ho ottenuto una risposta a questo proposito. Ma una certezza c'è. Il suo comportamento difensivo è scatenato dall'arrivo simbolico del padre. Ecco l'estrema minaccia: la personalità paterna. Teme che questa personalità s'insinui in lui. Ha paura di diventare suo padre.» La psichiatra incastrava gli elementi essenziali l'uno nell'altro, come le tessere di un puzzle, ma non nel modo in cui l'avrebbe fatto Marc, che obiettò: «In base alle mie informazioni, Jacques Reverdi non ha conosciuto il padre. Come potrebbe temerne l'arrivo? O l'influenza?» «È proprio ciò che intendo dire: la cosa che conta è la sua assenza. Perché così la figura paterna può avere mille volti, incarnare tutte le personalità. Questa presenza polimorfa è la fonte della schizofrenia di Jack. Ha paura di essere suo padre. Ossia chiunque, qualsiasi cosa. Nel momento delle sue crisi, il suo essere diventa un punto interrogativo, una voragine aperta.» D'un tratto Marc capì dove lei voleva arrivare: «Pensa che queste figure potenziali potrebbero essere negative?» «Sono sempre negative.» «Potrebbero essere criminali?» La psichiatra si ritrasse contro il bracciolo del divano, per scostarsi da Marc e osservarlo meglio: «Reverdi è convinto che suo padre fosse un criminale. Uccide quando non riesce più a difendersi da questa certezza. Quando l'apnea non basta più a proteggerlo. Allora suo padre entra dentro di lui. Si diffonde nel suo io come un veleno nel sangue.» «Non capisco. Ha appena detto che l'assassinio era, all'opposto, un rito di protezione.» «È l'una e l'altra cosa, mio caro», ribatté la donna, pronunciando le ulti-
me parole in francese. «Jack ha bisogno del sangue della sua vittima per rinsaldare la propria fortezza, come un bambino che innalzasse dei muri di sabbia davanti al mare. Ma è troppo tardi. L'onda è già là... e distrugge tutto. Il suo atto criminale è la prova che "papà" è arrivato... Ognuno dei suoi assassinii è un misto di panico e rassegnazione. Di rivolta e accettazione.» Marc si prese il tempo di riflettere. Quelle conclusioni quadravano con le sue stesse ipotesi, fino ad allora non ben definite. Ma in quel momento lo colpiva un'ulteriore verità, che emergeva distintamente dalla cronologia di Reverdi. Fino all'età di quattordici anni, c'era stata sua madre a proteggerlo da questa minaccia. Quando lei si era suicidata, il ragazzo, solo e indifeso, era stato assalito dalla figura minacciosa del padre... Marc riassunse questa ipotesi a voce alta. La psichiatra confermò: «Ci sarebbe molto da dire anche sulla scomparsa della madre... È il secondo trauma alla base della personalità di Reverdi. Questo tradimento perché Jack considera questo suicidio un tradimento - è la scintilla che ha acceso la sua pulsione criminale.» Marc fu preso da un brivido: «Vuole dire che uccide da quando era adolescente?» «No. Il passaggio all'atto richiede sempre un periodo di maturazione. Lei è uno specialista, conosce queste cifre: in genere i serial killer cominciano a compiere le loro sinistre imprese intorno ai venticinque anni d'età. Penso che il profilo di Jack segua questa regola. L'assenza del padre e il tradimento della madre sono "maturati" in lui, come un cancro, fino a trasformarlo in predatore. Uccide sia per assomigliare al padre sia per vendicarsi della madre. Odia le donne. Sono tutte traditrici. Vuole vederle "sanguinare".» Questo termine ricordò a Marc un altro fatto: Monique Reverdi si era tagliata le vene. «Jack» ricostruiva il tradimento primario. «Perché l'ha liberato? Voglio dire: perché ha rispedito in un normale carcere un simile... malato?» chiese alla psichiatra. «Perché me l'ha chiesto. Quando è emerso dalla crisi allucinatoria, la sua sola preoccupazione è stata quella di tornare fra i criminali comuni. Non voleva saperne di restare con i matti. Non avevo alcuna ragione di rifiutarglielo. Dopotutto, gli restano solo poche settimane da vivere.» «L'ha liberato così, senza una cura, senza assistenza?» «No. Segue una terapia a Kanara, e uno dei nostri psichiatri va a vederlo una volta alla settimana.» La dottoressa guardò l'orologio e si alzò. Il colloquio era terminato. S'in-
camminarono verso la porta, sempre seguiti dagli sguardi accesi degli amoks. Sulla soglia, la psichiatra gli chiese: «Posso farle una domanda... personale?» Marc fece segno di sì con la testa, tentando di sorridere, ma l'angoscia gli paralizzava la faccia. «Ha avuto dei contatti con Reverdi?» «No», mentì Marc. «Rifiuta tassativamente di essere intervistato.» Lei gli prese le mani: «Se mai riuscisse ad avvicinarlo, a parlargli, mantenga le sue promesse.» Aggiunse un sorriso, come per mitigare l'avvertimento. «Non lo tradisca mai. È la sola cosa che non potrebbe perdonarle.» 39. Detestava il calcio. Una palla la si lancia a un cane, non a un uomo. Seduto sui gradini rabberciati dello stadio, guardava gli altri detenuti impegnati in una partita. Urlavano, colpivano lo stupido pallone, gli correvano dietro. Alle dieci del mattino, quando il sole pesava già tonnellate. Dei veri idioti. Per reazione Jacques pensò alla propria disciplina. Niente a che spartire con quello sport volgare. L'apnea offriva la chiave dell'universo, che non era - come credevano molti - in fondo al mare, ma altrove. Non aveva l'abitudine di rispolverare i suoi ricordi di sub. Prima di tutto per non farsi prendere dalla malinconia, ma anche per non insozzare le profondità al contatto con la superficie. Quel giorno, però, era di un umore radioso e, a occhi chiusi, si lasciò prendere dall'onda dei ricordi. Quasi senza rendersene conto, fece un breve cenno con la testa, dando il segnale di liberare la zavorra. Un attimo dopo, era in acqua. Un ribollio di bollicine tutt'intorno. Poi la grande massa azzurra, immobile, attraversata da banchi di pesci: nuvole di squame e di luce. Un'occhiata verso il basso: l'orizzonte senza fine si apriva sotto i suoi piedi. Ma il peso della zavorra lo trascinava già verso altre sensazioni. Meno dieci metri. La pressione diventava onnipresente. Un chilo supplementare per centimetro quadrato ogni dieci metri. Durante una prova di «no limits» il sub zavorrato scende alla velocità di due metri al secondo. Il fondo lo aspira letteralmente. L'oceano si richiude su di lui. Meno venti metri. Jacques soffiava ininterrottamente nello stringinaso,
per compensare la pressione che continuava ad aumentare. Una stretta implacabile che attraversava la pelle e agiva su ogni muscolo, su ogni organo. A meno venticinque metri i polmoni si riducevano a due pugni chiusi, nei quali l'aria era totalmente compressa. Meno trenta metri. La luce si allontanava. L'azzurro aumentava d'intensità. Di solidità. Eppure nessuna paura. Nessun malessere. Al contrario: la massa d'acqua distribuiva le ultime particelle di ossigeno nell'intero circuito sanguigno. L'organismo era nutrito, appagato, equilibrato. Le arterie e le vene formavano una sola e unica cerbottana nella quale il mare soffiava senza interruzione, attraverso l'epidermide. Il corpo funzionava a circuito chiuso. In totale autonomia. Meno cinquanta metri. L'indaco. Per giungere a quella frontiera ci erano voluti solo pochi secondi, e ormai il tempo non contava più. Si crede sempre che il tempo dell'apneista sia sotto alta tensione, a fior di panico. È falso: l'apnea ti pone fuori del tempo. Meno sessanta metri. Il suo cuore faceva adesso venti battiti al minuto, contro i normali settanta. Limitare l'agitazione del corpo... Ridurre il consumo di ossigeno... Vivere soltanto di sé... In totale autarchia, nell'ombra e nel freddo... Ascoltava l'oceano, in una relazione di totale intimità. Un altro luogo comune: il silenzio del mare. A quella profondità, la massa sconfinata degli abissi comprimeva, cristallizzava ogni suono, al punto di trasformarlo in un oggetto materiale, traslucido, dai contorni di vetro. Meno ottanta metri. Il ventre del mare. Alla fine dell'immersione c'era il record. In fondo all'oscurità c'era la targhetta da prendere. Quella del limite. Quella del proibito. Poi sarebbe stato il momento di staccare i pesi e di aprire il paracadute per risalire. Ma oltre a battere il record, restava da compiere un altro atto. Meno cento metri. Le tenebre, finalmente. Le vaste regioni del nulla. In quel momento il suo stato era al culmine della perfezione. Non era né perduto, né minacciato di dissoluzione. Proprio l'opposto: si era trovato. In quella solitudine unica, era tempo di aprire la porta. Di passare dall'altro lato del mare. Non c'era pericolo che si sbagliasse, cercando nell'oscurità che lo circondava. Non era là, la porta. Gli occhi dovevano invece volgersi verso l'interiorità. Nel fondo del suo essere. Era questo il segreto del profondista: la porta finale, quella che si apriva sulla luce, si trovava nel più profondo della sua coscienza...
Di colpo, aprì la bocca per respirare l'aria calda sotto il sole. Era prossimo alla sincope tanto il ricordo era stato violento. Strizzò gli occhi, e scoprì con stupore ciò che gli stava intorno. Il prato spelacchiato e giallastro che chiamavano «stadio». Il filo spinato, le torrette di guardia, le panche di legno grigio che servivano da tribune. E quegli abbrutiti che non smettevano di correre dietro al pallone. Sorrise. Oggi li contemplava con tenerezza. Li amava. Tutti. Senza eccezione. Il ricordo l'aveva riconciliato con il presente. E, soprattutto, era accompagnato da un'altra presenza. Elisabeth. Da quando aveva ricevuto il suo messaggio era in un altro mondo. Discerneva una logica segreta nel suo destino. A qualche settimana dalla morte, al termine del cammino, aveva infine incontrato l'amore. Questa donna era diversa. Possedeva una parte di innocenza, certo, ma anche delle vere tenebre, che le permettevano di capirlo, di capire lui. E di procedere sulle sue tracce, senza timori né pregiudizi. D'istinto Jacques sentiva che poteva amarla così com'era. Diversamente dalle altre, non era necessario purificarla. Lei accettava la propria nerezza. Lei presentiva, di già, il Colore della Menzogna. Ecco perché era degna di lui. Ecco perché lei avrebbe capito la sua opera. In poche ore era riuscita a vedere le immagini dell'ultimo santuario: il corpo di Pernille Mosensen. Aveva indovinato ciò che era successo. Sospettava già le premesse del rituale. Cosa lui cercasse attraverso il suo paziente lavoro. Non aveva più alcun dubbio che sarebbe riuscita ad arrivare fino all'ultima verità. Ancora pochi giorni e avrebbe individuato i Segnali dell'Eternità. Poi le tappe seguenti. Fino a Lui. Si rallegrava dell'efficacia del loro sistema di comunicazione. Non aveva avuto alcuna difficoltà a usare la microagenda elettronica. Aveva anche pensato di connetterla a un cellulare, ma i guardiani davano una caccia spietata ai portatili. Era dunque tornato alla sua idea originaria: mettere a nudo i fili della linea telefonica interna dell'infermeria e intercettare in questa rete i cavi esterni ai quali connettere il suo apparecchio. In questa maniera, faceva chiamate non rintracciabili. Delle connessioni che, ufficialmente, non esistevano. Poi aveva aperto un indirizzo e-mail, gratuito, su uno dei server più diffusi. Nessuno, tranne Elisabeth, conosceva quell'indirizzo. Poteva inviare e
ricevere messaggi in assoluta riservatezza, fra i milioni di connessioni della rete. Un atto di romanticismo clandestino, tecnologico... e invisibile. I prigionieri continuavano a sbraitare, sforzandosi di spedire il pallone nelle porte di fortuna. Urlavano in malese, in cinese, in inglese. Un minestrone di lingue simile a quello che avevano nel cervello. A confronto, i propri pensieri e desideri gli parvero di una purezza sublime. Lasciò divagare la mente. E richiamò un altro ricordo: quello di un film in bianco e nero che aveva visto da adolescente alla cineteca di Marsiglia. Pickpocket di Robert Bresson. La storia di un uomo che aveva scelto di porsi al disopra delle leggi. In genere le azioni di un delinquente sono descritte come fatti sotterranei, nascosti, inferiori. Qui invece il percorso del ladro diventava una ricerca elevata, trascendente, un cammino di grazia. Nel contemplare quelle immagini Jacques aveva subito compreso che anche per lui sarebbe stato così. E ora quell'analogia continuava. Nel film di Bresson il borsaiolo incontrava una donna. Non riconosceva subito in lei la figura dell'amore. Si ostinava sulla sua strada solitaria. Ma nell'ultima scena, quando era ormai in carcere, mormorava alla sua compagna, attraverso la grata del parlatorio: «Oh, Jeanne, che strada contorta ho dovuto prendere per arrivare fino a te...» Si frugò in tasca, ne estrasse la fotografia di Elisabeth e ripeté: «Che strada contorta ho dovuto prendere per arrivare fino a te.» Si accorse di aver parlato ad alta voce. Rimpianse subito quella debolezza. Nessuno dei suoi pensieri doveva oltrepassare la frontiera delle sue labbra. Il suo mondo occulto era come una grotta rupestre, le cui pitture si corrodono a contatto con l'aria. La panca scricchiolò. Eric si era appena seduto accanto a lui. Reverdi fece scivolare in tasca la fotografia. «Ho bisogno di parlarti.» Jacques pensò al traffico di medicinali in infermeria, di cui aveva deciso di occuparsi di persona. «Non preoccuparti per i medicinali. Continuerò a sganciarti una commissione.» «Gentile. Ma sono venuto a parlarti d'altro.» «Di cosa?» «Di Raman.» Jacques sospirò: il farabutto numero uno era il leitmotiv di tutte le conversazioni. Il dèmone che popolava tutti gli spiriti. «Cosa c'è ancora?»
Labbro leporino assunse un'aria da cospiratore e si fece più vicino. Le ossa del viso erano incavate, come se fossero state schiacciate a colpi di martello. «Corre voce che abbia l'AlDS.» «Un mese fa tutti i cinesi avevano la SARS.» «Non parlo a vanvera, Reverdi. Gli hanno fatto un prelievo di sangue, come a tutti noi. I risultati sono stati positivi. Li sta contagiando.» «Chi?» «I ragazzini dell'edificio E. I minori.» Reverdi sospirò di nuovo. A Kanara tutti sembravano pensare che non ci fosse che lui, il «grande Jacques», per mettersi contro Raman. Di riflesso, pensò a Elisabeth. Non doveva fare nessuna mossa. Doveva restare un prigioniero modello e vivere, spiritualmente, accanto all'amata. «Non sono cavoli miei.» «Sono dei ragazzini. Li costringe a succhiarglielo. Li incula senza preservativo. Quello stronzo li ammazzerà tutti.» «Non posso farci niente.» Eric si chinò su di lui. Il suo fiato mandava un fetore di decomposizione. Jacques immaginò che avesse una carogna al posto della lingua. Lo gnomo disse, a metà fra il serio e l'ironico: «Sei tu il capo qui, Reverdi. Non puoi lasciare che si faccia questo sul tuo territorio.» Era grossolano il modo in cui Eric lo adulava, ma la parola «capo» non lo lasciò insensibile. Si rimproverò di provare ancora quel genere di vanità. Soprattutto in quel mondo di degenerati. Però Eric aveva ragione: era scritto che il guardiano doveva morire. Dall'istante in cui l'aveva obbligato, lui, a grattar via le macchie di sudore dai muri. Nel preciso istante in cui l'aveva costretto a inginocchiarsi. Nessun essere umano che l'avesse umiliato poteva restare in vita. E allora, perché non accelerare le cose e salvare qualche ragazzetto? Gli venne un'idea. Avrebbe coinvolto Elisabeth nella sua decisione: «Quando avrà identificato i Segnali», si disse, «le offrirò la pelle di Raman.» «Aspettiamo qualche giorno», temporeggiò. «Non si può agire così sui due piedi.» 40. In Malesia, le Cameron Highlands erano famose.
Impossibile sfogliare una guida senza incappare in un lungo brano dedicato a questa regione. Per tutti i malesi queste terre s'identificavano con il paradiso, perché lì avveniva un miracolo: faceva fresco. A oltre 1500 metri di altitudine si sfuggiva ai monsoni umidi e alle stagioni torride. Al disopra delle nebbie, c'era il freddo. Gli inglesi, per primi, avevano colonizzato quelle montagne, costruendo ricche residenze, strappando spazio alla foresta per creare campi da cricket e piantagioni di tè... e vietando l'accesso ai malesi. Poi, una volta sloggiati i colonizzatori, i ricchi autoctoni ne avevano preso il posto, edificando a loro volta hotel di lusso, ricavando campi da golf, continuando senza sosta a sventrare le gigantesche foreste primarie. A sbarrare l'accesso a quei verdi paradisi c'era infatti la giungla. Marc proseguiva adesso sotto alte cupole di fogliame. Un tornante dopo l'altro, fiancheggiati a destra dalle rupi coperte di liane e a sinistra da precipizi di smeraldo. La strada continuava a salire a zigzag e si scorgeva, al disotto, la striscia d'asfalto già percorsa. Marc assaporava questo primo incontro con la foresta densa. Aveva spento l'aria condizionata nella sua Proton e guidava con i finestrini aperti, per sentire la freschezza che si accentuava a ogni curva. Di tanto in tanto chiudeva addirittura gli occhi, sentendosi letteralmente galleggiare, cercando di dare un nome ai profumi che gli andavano incontro. In realtà improvvisava, ripetendo come una preghiera i nomi che aveva letto nella guida: palme da cocco, tualang, orchidee, rafflesie... In altri momenti, frammenti del suo colloquio con la dottoressa Norman venivano a scuoterlo dalla sua beatitudine. «Non lo tradisca mai. È la sola cosa che non potrebbe perdonarle.» Sentiva allora un brivido di paura, molto più freddo dell'aria di quelle altitudini. Si ripeteva le domande: c'era pericolo, sì o no? Poteva Reverdi scoprire l'imbroglio? Nella peggiore delle ipotesi - che fosse svelata l'impostura - cosa rischiava? L'assassino era chiuso in carcere... e praticamente condannato. La strada continuava a salire. Apparvero i primi segni dell'impero britannico. Per cominciare, le piantagioni di tè. Dei terrazzamenti, a gradoni ordinati, da cui si alzavano nell'aria dei sentori umidi, quasi di muffa. Da lontano, quelle colture facevano pensare ad antiche città incastonate nel verde profondo. Talvolta i campi erano bruni, compatti, austeri. Altre volte brillavano come piccole chiazze di schiuma, leggere, luminescenti. Poi si presentarono gli alberghi. Edifici signorili bianchi con travature a vista nere, finestre dai vetri colorati e cortili di ghiaia grigia, nel più puro
stile «british». Subito dopo, la giungla si richiudeva, intatta. Pareva di aver sognato. Poi, di nuovo, appariva un campo da golf. O un hotel di lusso, con la sua piscina turchese... Marc doveva aver superato i 1500 metri di altezza quando s'imbatté nei primi villaggi di capanne. Se ne trovava cenno nelle guide: gli orang-asli, letteralmente il «popolo delle origini». Uomini dei boschi, vestiti solo di un pagne, ossia un telo attorno ai fianchi, che sopravvivevano grazie alla cerbottana, fra i cantieri immobiliari e i viaggiatori in jeep. Rallentò e capì che quegli uomini non costituivano altro che un'attrazione turistica in più. Portavano magliette Reebok e le cerbottane erano state rimpiazzate da antenne radio. Accovacciati sull'uscio delle loro case, vendevano prodotti della foresta: miele, fiori, scarabei o scorpioni fissati su pezzetti di cartone. In quel momento un gruppo emerse dal folto della giungla. Avevano con sé altri strumenti. Marc li raggiunse e osservò il lungo bastone di legno che portavano sulla spalla. Reti per farfalle. Certamente un'altra specialità della regione... Frenò bruscamente. «Cerca verso il cielo.» «Dei Segnali che Volano e Brulicano.» Delle farfalle! Arrivato nella prima città, Ringlet, un'occhiata ai negozi gli confermò la sua intuizione: le farfalle erano la specialità della regione. Entrò in una bottega e si fece spiegare l'arcano: le Cameron Highlands avevano sviluppato delle specie endemiche, legate all'altitudine, la cui bellezza era unica al mondo. Riprese la strada. A Tanah Rata - 2000 metri di altitudine - trovò un ristorante cinese e prese posto in fondo alla sala. Erano le tre del pomeriggio e il luogo era deserto. Ordinò un caffè. Le farfalle. Non riusciva a togliersi quell'idea dalla mente. «Cerca verso il cielo.» «Dei Segnali che Volano e Brulicano.» Poteva essere. Bevendo a piccoli sorsi una schiuma bruna dal sentore di candeggina, immaginò pratiche omicide e perverse, a base di farfalle. Si figurò Reverdi che posava quegli insetti sulle donne insanguinate, incollando le ali colorate sulle piaghe per osservare quella carezza palpitante sulle incisioni. Gli tornò in mente un particolare. Il tasso di glucosio fuori norma. Reverdi aveva costretto Pernille Mosensen a ingurgitare alimenti zuccherati.
Per attirare le farfalle? Ordinò un secondo caffè. C'era un fatto però che faceva scartare quell'ipotesi. Pensava al romanzo di Thomas Harris, Il silenzio degli innocenti, in cui l'assassino metteva delle crisalidi nella gola delle sue vittime. Ora, Marc ne era certo, Reverdi non subiva alcuna influenza. Mai si sarebbe ispirato ai crimini di un altro. E soprattutto non a quelli narrati in un romanzo. Una finzione che, ai suoi occhi, equivaleva a una chimera. E allora? Seduto nel locale fiocamente illuminato, distingueva al di là dei tavolini all'aperto la via principale della cittadina. Anche qui, come sempre, un miscuglio di stili: drogherie asiatiche, edifici coloniali e anche, cosa più curiosa, chalet, hotel di montagna: Tanah Rata assomigliava a un villaggio alpino. Si concentrò sui passanti. Scolari che facevano sobbalzare le cartelle sulla schiena. Adulti flemmatici, di origini diverse: malesi, cinesi, indiani. Anche qualche turista, che aggiungeva la propria nota esotica. Osservò in particolare due giovani donne, bionde e rosee, con ai piedi grossi scarponi e sulle spalle enormi zaini. La sua convinzione si rinsaldò. Reverdi era venuto qui. Aveva cacciato su quelle cime. Si alzò e pagò. Le farfalle: non gli restava che verificare. Visitò i laboratori dove i lepidotteri venivano messi sottovetro. Fece qualche domanda nell'indifferenza generale. Gli operai cinesi si degnavano a malapena di alzare gli occhi dal loro lavoro. Partì all'assalto delle serre di allevamento, nei dintorni della città, dove si coltivano piante segrete, le sole di cui si nutrono i bruchi delle specie più belle. Anche qui un buco nell'acqua. Ognuno riconosceva il ritratto di Jacques Reverdi... ma solo perché lo avevano visto sulle prime pagine dei giornali. Salì nella parte alta della città, suonò alle porte dei ricchi grossisti han, quelli che esportavano nel mondo intero farfalle, insetti e rettili. Stesso risultato: nessuno aveva mai incontrato Reverdi. Alle diciotto Marc si mise alla ricerca di un albergo. Per quanto estenuato, si rifiutava di confessarsi vinto. Ma il crepuscolo gli confondeva le idee. S'insinuava il dubbio. Reverdi aveva parlato di altezza e lui si era precipitato in montagna. Poi si era inventato un film a proposito di quelle farfalle. Tutto ciò non aveva alcun fondamento...
Gli alberghi della città erano al completo. Marc si avventurò nei dintorni. Trovò un palazzetto tutto intonacato di bianco, con merlature rivestite d'edera, alti comignoli e ombrelloni a righe bianche e nere sul terrazzo. Il Lake House. Con un accento britannico esagerato, l'indiano della reception domandò: «Andiamo a prendere la sua attrezzatura?» «La mia attrezzatura?» «Lei non va a caccia di farfalle?» «Nient'affatto.» Nel viso scuro si disegnò un sorriso servile: «Mi scusi. Abbiamo già un ospite francese. Un cacciatore molto conosciuto. Allora, pensavo...» Marc fece il conto. Cacciatore. Francese. Foresta. Confusamente, quel profilo lo avvicinava a Reverdi. Decise di tentare la sorte. L'ultimo tentativo della giornata. «Questo cacciatore, è rientrato dalla sua spedizione?» Il portiere lo guardò ironico: «Al contrario: è appena uscito.» «Alle sei del pomeriggio?» «Signore, si tratta di farfalle notturne.» 41. L'ora verde. Furono le parole che gli sorsero spontanee quando scese dall'auto. Aveva seguito le indicazioni dell'indiano: percorrere la strada fino al cartello che indicava la «missione luterana», poi, di fronte, prendere il sentiero che si addentrava nella vegetazione. Aveva proseguito in macchina per trecento metri, fino a quando la strada diventava impraticabile. Finiva sul fianco di una collina, e davanti si apriva una giungla lussureggiante, a gradoni, che si richiudeva anche sopra di lui. L'ora verde. Il momento in cui l'ombra si distende sotto gli alberi. In cui tutto sembra predisporsi perché la foresta si assopisca, ma nel quale, invece, essa si risveglia. Marc era sopraffatto. Attorno a lui, i rumori diventavano assordanti. Castagnette a raffica, fischi acuti, un raspare sordo: schiere di uccelli, invisibili, si agitavano sui rami. Di tanto in tanto si alzavano altri suoni, solo passeggeri: ronzio di un volo di corvi, tintinnio di un uccello fra i rami,
che subito si allontanava. Ma soprattutto, in sottofondo, risuonava il lungo clicchettio delle erbe alte, canne, palme o felci, che cingevano il sentiero e lo invitavano, come onde, a tuffarsi nei loro flutti. Si mise in marcia. Il portiere aveva detto: «Aspetti la notte e individui la luce.» Il cacciatore notturno usava dei fari. Discese il fianco della collina. Il vento cominciava a farsi gelido. Marc tirò su il collo della giacca e avanzò nel fitto della vegetazione. Le erbe, gli alberi si agitavano, si curvavano, ondeggiavano, come presi da una languida eccitazione al contatto con l'ombra. Gli odori si diffondevano nell'aria, si facevano più intensi. Tutti i sensi della foresta erano all'erta. Marc non riusciva a identificare la causa di questo risveglio. Cosa aspettava la giungla? Perché si animava a quel modo? Allora, sopravvenne la pioggia. Dapprima qualche goccia. Poi un picchiettio regolare, che coprì le grida degli uccelli. La foresta, assetata, disseccata dalle ore torride della giornata, svuotata delle sue essenze dalla calura, si risvegliava per bere. Marc continuava a scendere. Un vecchio campo da tennis apparve tra il fogliame. Sempre lo stesso paradosso: quando pensava di aver recuperato il contatto con la linfa primitiva del mondo, s'imbatteva nelle tracce onnipresenti della civiltà. In una versione scalcinata, però: foglie morte, liane, edere che avevano preso il posto della rete e dei marcamenti. Stava girando intorno al campo, quando cominciò a piovere sul serio. Marc aveva rinunciato a tenersi al riparo. Avanzava invece sull'orlo dei precipizi, per ammirare le distese di giungla che luccicavano sotto i suoi piedi. Le fronde degli alberi erano adesso delle masse scure, che oscillavano nella pioggia per tramutarsi in una schiuma verdeggiante. Tutta la vegetazione vorticava, brillava, crepitava, rivelando un verde che non era più un colore ma un grido. Scese ancora e si trovò davanti a un fiume. Istintivamente si voltò: l'oscurità aveva cancellato il suo cammino. Nessuna traccia del sentiero, del campo da tennis, dell'auto... C'era solo uno scenario indistinto, come se la notte gli volgesse le spalle. «Individui la luce.» Non c'era intorno a lui il minimo segno di un faro acceso nella notte. Scelse di attraversare il corso d'acqua, seguendo un guado di ciottoli che scorgeva vagamente nell'ombra, qualche metro alla sua sinistra. Quando ebbe raggiunto l'altra riva, inzuppato fino alla cintura, le tenebre avevano completato l'opera. Continuò ad avanzare, a tentoni, maledicendosi per non aver preso una torcia, quando risuonò una voce:
«What's going on? Who is there?» Stupefatto, Marc pronunciò qualche parola in francese. Gli rispose solo il silenzio. Poi, d'un tratto, quando niente lo lasciava prevedere, un fascio di luce bianca trafisse gli alberi, con la violenza di un bisturi. Marc si schermò gli occhi. Stringendo le palpebre, scorse a una decina di metri un perfetto rettangolo di luce, senza la minima sbavatura. Nello stesso tempo, percepì il ronzio del generatore. Sul telo - perché era un telo bianco, teso su un'intelaiatura metallica - si stagliò una sagoma vestita di un poncho impermeabile. L'uomo si avvicinò e disse in francese: «Si metta questo.» Gli tendeva degli occhiali da sole. Sotto il cappuccio, anche lui portava degli occhiali con lenti argentate: «La luce degli ultravioletti è molto forte. Meglio proteggersi.» Marc inforcò gli occhiali e contemplò la trappola che già si ricopriva d'insetti. «Non si sa perché la luce le attiri. Si suppone che prendano le stelle come punto di riferimento e che si tuffino sulla minima fonte luminosa. Le fa come impazzire. Hanno parecchie migliaia di occhi, lo sa? Cosa ci fa qui? S'interessa alle farfalle?» Marc lo osservò. Mascherato dal cappuccio e dagli occhiali argentati, il suo volto era poco visibile. Ma i suoi tratti sembravano brillanti, volitivi, come lavati dalla pioggia. Marc decise di parlare con franchezza: «Sono un giornalista. Specializzato nella cronaca nera. Svolgo un'inchiesta su Jacques Reverdi.» Il cacciatore emise un fischio di ammirazione: «Deve essere dannatamente deciso per essere risalito fino a me.» Marc si rianimò sotto gli abiti inzuppati. Quell'uomo conosceva Reverdi. Chiese con tono pacato: «In che rapporti eravate?» L'entomologo si avvicinò al telo. Il rettangolo era già annerito d'insetti, che stridevano aggrappandosi al tessuto con le loro zampette aderenti. «Ci siamo incrociati varie volte», disse, afferrando con precauzione una farfalla grigia. Le vespe, le api, le zanzare formavano intorno a lui una nuvola ronzante. «Dove?» «Qui. Nella foresta.»
«Di notte?» «Sì, di notte. Andava anche lui a caccia. Come me.» Marc rabbrividì. S'immaginò Reverdi: deciso, silenzioso, in agguato. Non sapeva perché ma lo «vedeva» in muta da sub. Una pelle nera, opaca e brillante insieme. Una pantera. «Dava la caccia alle farfalle?» «Non credo, no. Non l'ho mai visto con l'attrezzatura.» Un forte odore di ammoniaca si propagò nell'aria zuppa di pioggia. Il cacciatore aveva fra le mani un barattolo di plastica. Vi mise dentro un lepidottero. Marc credette a un'allucinazione: la farfalla gridava. Sorridendo, l'uomo chiuse il contenitore con un tappo di sughero: «È una sfinge. Una delle più importanti specie notturne. Quella è un'Acherontia atropos. Una sfinge testa di morto. La chiamano così a causa del motivo sulle ali. Questa farfalla grida e non esita ad attaccare gli alveari per prendersi il miele. Si ricorda del Silenzio degli innocenti? È la farfalla che l'omicida mette nella gola delle sue vittime.» Il silenzio degli innocenti, di nuovo. No, decisamente, questa pista non lo convinceva. La follia omicida di Reverdi era unica. Marc agitava le mani per spazzare via gli insetti. «L'ammoniaca...» mormorò il cacciatore. «Le intontisce prima dell'esecuzione.» Tirò fuori una siringa. Istintivamente Marc girò la testa dall'altra parte. Sul telo, vortici di insetti tenevano testa alle raffiche dell'acquazzone. «Secondo lei», insistette, «che cosa cercava nella foresta?» L'altro chiuse il barattolo sulla sua vittima e fece scivolare il tutto sotto il poncho: «Non so. Un insetto particolare, penso. Qualcosa di raro.» «Non gliene ha mai parlato?» «No.» «Non ha nessuna idea?» «Ho creduto per un momento che lavorasse su certe specie diurne, come quella che si nutre di bambù.» «Perché?» «Perché l'ho sorpreso più volte fra questi alberi. Ma in realtà cercava altro. Non ho mai capito cosa.» «Com'era? Voglio dire: in generale?» Il cacciatore non ebbe alcuna esitazione: «Simpatico. Bevevamo un bicchiere insieme all'alba, in albergo. Diceva
che non aveva bisogno di luce per "vedere" la foresta. Che non respirava più quando si avvicinava alla preda. Era speciale... Ma piuttosto cool.» Fece una pausa e parve riflettere. «È vero quello che raccontano i giornali?» Marc non rispose. Le macchine volanti raddoppiavano gli assalti. Lottava contro un'irresistibile voglia di fuggire a gambe levate. L'altro aggiunse, come se i suoi pensieri fossero tornati in tutta naturalezza alla sua disciplina: «Secondo me, bluffava: non era lui il cacciatore.» «E chi altri?» «Gli orang-asli. Dei veri esperti. Si limitava a mostrargli le bestiole che lo interessavano e quelli partivano alla loro caccia.» «È possibile interrogarli?» «No. Non parlano inglese. E la maggior parte sono sbronzi da mattino a sera. Quanto a rintracciare quelli assoldati da Reverdi...» «C'è un'altra soluzione?» Il cacciatore reperì un'altra sfinge sulla tela brulicante. «Vada a trovare Wong-Fat. È uno dei mercanti han.» Marc continuava ad agitare le braccia. Un nugolo nero gli volteggiava intorno alla testa: «Li ho contattati tutti oggi.» Soffiava, sputava per evitare di inghiottire qualche insetto. «Nessuno di loro conosceva Reverdi.» «Quello lo conosce. Conosce tutti. È un cador. Vive nei quartieri alti di Tanah Rata. Una grande villa su palafitte: non può mancarla.» Marc sentiva che il cacciatore, concentrato sulle sue prede, era impaziente. Ma aveva un'ultima domanda da porre: «Sono attratte dallo zucchero le farfalle?» «No, piuttosto dal sale.» «Dal sale?» «Conosco in questa zona delle sorgenti saline dove si possono vedere delle concentrazioni splendide. Le interessa?» La scena che aveva immaginato - le farfalle che succhiavano il sangue zuccherino delle donne - si dileguò. «No, grazie.» Si tolse gli occhiali da sole e glieli rese. Solo allora si rese conto che la luce elettrica si era abbassata. Quando lo sguardo gli cadde sul proiettore, dietro al telo, vide che la lampada era interamente coperta d'insetti. Uno schermo nero, mobile, aderiva al vetro incandescente. Anche il viso del cacciatore brulicava di rughe movimentate e brune.
Balbettò qualche parola di ringraziamento e corse su per la salita. 42. La casa di Wong-Fat aveva l'aria di una villa californiana. Una costruzione su palafitte, in legno scuro, piantata sulla sommità della collina che dominava la città. Mentre suonava alla porta Marc scorse, giù in basso, i cavi telefonici che attraversavano il cielo, il nastro della strada che si faceva via via più sottile scendendo verso la pianura. Pensò a San Francisco e alle sue strade ripide. Il portone si aprì. Lo fecero aspettare in un piccolo giardino grigio. Una semplice gettata di cemento, a fianco di una piscina turchese non più grande di un pozzo. Un albero solitario era cresciuto vicino alla rete di recinzione. Le sue radici aprivano crepe nella pietra e si insinuavano sotto un dondolo rosa. Il cacciatore di farfalle aveva ragione: Marc non aveva interpellato questo mercante. Lungo i muri erano allineate delle latte di metallo. Latte per conserve, barattoli di vernice che ronzavano, vibravano e avevano un'antipatica tendenza a muoversi da soli. Marc non aveva alcuna difficoltà a immaginare cosa si agitasse dentro quei vasi. La notte precedente, dopo la sua spedizione nei boschi, i suoi sogni erano stati popolati di vespe e calabroni. C'erano anche bottiglie piene di miele, vasi contenenti cera d'api. «Cosa vuole?» Il tono era ostile. Wong-Fat doveva avere una sessantina d'anni, ma portava la sua età alla cinese: niente rughe, niente capelli bianchi. Un viso butterato come la buccia di un'arancia. Niente che desse la minima informazione sulla sua persona. Marc si scusò - era domenica - e sempre nel suo più bell'inglese espose le ragioni della sua visita. L'inchiesta. «Le Limier». Jacques Reverdi. «Non dirò niente.» Se non altro si era espresso con chiarezza. Passò qualche secondo, in un silenzio scandito da scricchiolii, da ronzii provenienti dai barattoli. Marc era a corto di idee... e di energia. Disse senza convinzione: «Senta... Ho fatto dodicimila chilometri e...» «Non una parola su quell'uomo. Addio, signore.» I ronzii intorno a loro si amplificarono, come se gli insetti avvertissero la collera del padrone. Marc fece un gesto di resa e girò sui tacchi. Poi, con un improvviso ripensamento, tornò sui suoi passi:
«La prego. È molto importante per me.» «Non ho niente da dirle. Se dovessi parlare, è alla polizia del mio paese che mi rivolgerei.» Marc percepì una sfumatura sotterranea nell'intonazione. Durante le sue interviste ascoltava i timbri, le inflessioni delle voci. Un discorso subliminale era sempre percepibile. Il mercante d'insetti, ne deduceva, voleva dire esattamente il contrario. Parlare alla polizia era l'ultima cosa cui pensava. Marc si arrischiò a bluffare: «Andiamoci insieme, allora. Parlerà al posto di polizia di Tanah Rata.» L'altro gli lanciò uno sguardo furioso. «Addio.» Si diresse verso l'ingresso e afferrò la maniglia del cancello. Marc lo raggiunse, ma per sbarrargli la strada: «Benissimo. Ci vado da solo e ritorno con i poliziotti.» Le dita s'irrigidirono sulle sbarre. «Cosa vuole esattamente?» La voce era meno aggressiva. «Tutto ciò che sa su Reverdi. Cosa comprava da lei e perché. Le giuro che rimarrà fra noi.» «Fra noi? E ho davanti un giornalista?» Il sole era già alto. Marc si rifugiò sotto l'ombra dell'albero. «Ne parlerò soltanto nel mio articolo. Senza citare le fonti.» «Che garanzia può darmi?» «La garanzia del buon senso. I miei lettori sono francesi. S'interessano a Jacques Reverdi, non a Wong-Fat. Il suo nome non direbbe niente a nessuno.» Il mercante non si staccava dal cancello, ma il suo corpo si rilassò. Marc intuiva che non si sarebbe più mosso. Tutto si sarebbe svolto lì, in pochi minuti. Attaccò subito: «Cosa ha venduto a Reverdi?» «Non posso dirlo.» «Ha paura di essere accusato di complicità?» Wong-Fat lo guardò stupito. «Non si tratta di questo. Nient'affatto.» «Cosa teme allora?» L'uomo teneva gli occhi fissi a terra. L'ombra del fogliame sopra di loro danzava sui suoi tratti butterati. «È a causa di mio figlio.»
«Suo figlio?» Marc non ci capiva niente. «Mio figlio...» Indicò la casa, la piscina, i barattoli che continuavano a fremere. «Non un singolo scorpione, non una farfalla che non abbia venduto per lui. Per offrirgli il meglio. Le scuole private. La facoltà di giurisprudenza in Gran Bretagna...» S'interruppe. Anche le bestiole, nelle loro prigioni, sembrarono calmarsi. All'unisono con il loro padrone. «Mio figlio. Un buono a nulla. Un uomo cattivo.» «Cattivo?» Il suo viso sembrava contratto su questa idea. La leggerezza delle ombre contrastava con la fermezza dei suoi lineamenti. Marc gettò un'occhiata ai rami: erano disseminati di lunghi insetti verdi, simili a ramoscelli. Inspiegabilmente il nome di quelle creature gli salì alle labbra: insetti stecchi. Dove l'aveva imparato? Wong-Fat ripeté: «Pulsioni cattive.» Marc non vedeva il legame con Jacques Reverdi. Ma bisognava lasciare spazio alla confessione. «Siamo in un paese dove certe cose sono più facili che altrove... Per qualche ringgit si possono soddisfare molti desideri. In Thailandia è ancora peggio. Una manciata di baht e tutto è possibile.» Fece una nuova pausa. Le sue parole erano rivolte a sé stesso. Marc era affascinato dalle scie degli insetti stecchi che sfilavano sul suo volto. «Tornato dall'Inghilterra, mio figlio prese a recarsi sempre più spesso al nord, alla frontiera thailandese. Una volta l'ho seguito. Ho visto ogni bordello in cui entrava. Ho interrogato i tauke, i cinesi che gestiscono questo genere di locali. Sui gusti, sulle preferenze di mio figlio. Ciò che sono venuto a sapere mi ha riempito di orrore.» Di nuovo il silenzio con, in sottofondo, un pianissimo di timpani, lievi rullii di tamburello. «All'inizio cercava semplicemente delle vergini...» Accennò un breve sorriso, una sorta di tic. «È odioso, ma nelle nostre regioni è un classico. Soprattutto con l'AIDS. E poi, presso gli han, le vergini sono viste come una fonte di giovinezza. Ma non era questo a interessare mio figlio. Niente affatto... Ne beveva il sangue.» Piantò gli occhi in quelli di Marc come per sfidarne il giudizio. «Le defiorava e ne beveva il sangue.» Marc pensò al sospetto di Alang: Reverdi vampiro. Ricordò anche le in-
formazioni che aveva chiesto a Elisabeth: il sangue delle mestruazioni, della verginità. No. Non ci credeva. Wong-Fat continuava, ormai lanciato: «Ho scoperto cose ancora più immonde. Chiedeva alle altre ragazze di conservargli i preservativi usati. Esigeva che gli pisciassero addosso. Che gli legassero il pene per impedirgli di godere. Faceva subire alle ragazzine cose che non oserei ripeterle. Ho scoperto che rubava scorpioni, serpenti, per le sue sedute. Bambine di dieci anni. Portava il terrore in tutti i bordelli della frontiera. Ed ero io a pagare tutto questo!» Di nuovo, silenzio. Il sole diventava insopportabile. Il mercante non pareva rendersene conto. «Quando sono rientrato a Tanah Rata l'ho affrontato. Non trovavo le parole. Gli ho sputato in faccia. Mi ha sorriso e mi ha detto: "Continua, mi piace." Ho preso a picchiarlo. A riempirlo di botte con tutte le mie forze.» Wong-Fat, a fatica, inghiottì un singhiozzo. Marc s'immaginava che non fosse frequente vedere un cinese piangere. «Non riuscivo più a fermarmi. Ho colpito, colpito... Sfogavo un odio incredibile. Come se l'avessi sempre odiato.» Un fugace sorriso gli affiorò alle labbra mentre contemplava il paesaggio devastato della sua vita: «Quando infine sono riuscito a fermarmi, lui era coperto di sangue. Ho udito un suono tenue, acuto... Piangeva. Il mio piccolo piangeva. Mi sono precipitato. L'odio mi aveva completamente abbandonato. L'ho preso fra le braccia e, in quel momento, ho creduto di morire: rideva. Rideva!» Wong-Fat s'interruppe, poi diede un calcio a un barattolo di cicoria che si trovava a tiro: il coperchio si aprì e lasciò fuoriuscire dei grossi tricorni, che presero il volo con un ronzio da elicottero. «Quel disgraziato era raggomitolato sul suo piacere. Gli ho visto le mani: i due pugni erano stretti contro il cavallo dei pantaloni. Si toccava mentre io lo pestavo.» Fissò Marc con i suoi occhi neri dai contorni giallastri: «Sono un uomo semplice, signore. Ho sempre vissuto con gli insetti. Tutto ciò che ho guadagnato lo devo a loro. Come potrei capire simili deviazioni? L'ho cacciato. È un mostro.» Ci fu un lungo silenzio. Marc continuava a non vedere il motivo di quella confessione. Si accorse che un insetto stecco gli era caduto sulla mano. Non si mosse, per timore di interrompere le confidenze: «E Reverdi? Qual è il legame con suo figlio? Si conoscono?» «Oggi mio figlio fa l'avvocato, a Kuala Lumpur.»
«E allora?» «Mio figlio è l'avvocato di Jacques Reverdi. È stato per così dire nominato d'ufficio, ma io so che ha pagato per avere l'incarico. È affascinato da quell'assassino.» La rivelazione fu uno shock. Ma lui, come aveva potuto non pensarci? Lui che aveva spedito i suoi plichi a «Jimmy Wong-Fat»? Il vampiro era il difensore di Jacques Reverdi. Di colpo si sentì male: Jimmy era il solo essere umano, a parte lui e Reverdi, a sapere dell'esistenza di Elisabeth. Questa volta scosse il braccio, per liberarsi degli insetti. «È andato da Reverdi come un discepolo va dal suo maestro», concluse il cinese. «Per perfezionarsi nel campo del male. Non voglio che si sappia che anch'io conoscevo quell'assassino. La cosa potrebbe aggravare i sospetti su mio figlio.» Marc capì che il mercante aveva terminato la sua confessione. Senza rivelargli l'essenziale. «Può dirmi almeno cosa comperava da lei?» Il cinese scosse il capo e aprì il cancello: «No. Voglio dimenticare tutto questo. Adesso che so che Reverdi è un assassino, immagino cosa fa alle ragazze.» «Cosa?» L'uomo sputò per terra: «Lasci perdere. Supera ogni comprensione.» La verità era là, vicinissima, ma Marc sapeva già che non l'avrebbe ottenuta. «La prego... Cosa comperava da lei? Mi risponda. Altrimenti vado dalla polizia, io...» «Vada dove vuole. Me ne frego. In fondo, non aspetto che una cosa: che impicchino Reverdi. Prima possibile. Prima che faccia di mio figlio un assassino.» 43. La strada prendeva fuoco nel crepuscolo. Marc andava a tutta velocità, senza più preoccuparsi di tenere la destra o la sinistra. Sommerso dal suo sentimento di sconfitta. Era proprio verso le Cameron Highlands che Reverdi l'aveva indirizzato. Là, c'era un segreto da scoprire. Ma lui se l'era lasciato sfuggire. Non aveva trovato i «Segnali dell'Eternità.»
Un viaggio inutile. Con conseguenze fatali. «Non avrai diritto nemmeno all'errore», aveva scritto Reverdi. Marc sentiva qualcosa di amaro bruciargli in gola. Batté sul volante e si concentrò sulla strada. Le foreste si facevano più dense, la linea dell'orizzonte fiammeggiava. L'intero paesaggio diventava un liquore rosa, greve, languido. Dentro a questo quadro le automobili, frecce di metallo surriscaldato, filavano, vibravano, in immagini accelerate, sincopate. Era domenica sera: un ritorno dal weekend da brividi. All'uscita dell'autostrada, nei paraggi di Ipoh, sulla nazionale di cui aveva già registrato la pericolosità all'andata, il caos era al culmine. Proprio nell'ora in cui il paesaggio perdeva i suoi contorni netti, le automobili sfrecciavano in barba alla prudenza. Sorpassavano a destra, a sinistra, al centro, sconfinando nelle banchine, premendo sul clacson per ritagliarsi un passaggio che non c'era, che non poteva esserci. Aggrappato al volante, Marc sterzava a sua volta, evitando per un pelo qualche collisione. La polvere ocra ben presto si oscurò fino a diventare nera. La circolazione rallentò. Tutti dovettero procedere a passo d'uomo. Pozze d'olio sulla carreggiata: un incidente. Avvolta in un fumo nerastro, una visione infernale si mostrava a intermittenza ai suoi occhi. Un'automobile era sbandata a destra ed era piombata su un camion che viaggiava rapido nel senso opposto. La vettura era in fiamme, incastrata sotto la calandra dell'autoarticolato. Era facile immaginare come doveva essere conciata la persona al volante: maciullata. Non si vedeva niente, ma il sangue, le fiamme, l'odore erano eloquenti. Giunto vicino al luogo dell'incidente, come tutti gli altri Marc aguzzò lo sguardo in quella direzione, temendo ciò che avrebbe potuto vedere... Non erano ancora arrivati i soccorsi ma molti automobilisti camminavano lungo la carreggiata, incollati ai cellulari. Marc continuava ad avanzare. Con un certo sollievo, credette di avere superato la zona a rischio, quando scorse una forma scura che giaceva sull'erba. Un braccio. Un braccio staccato dal corpo, proiettato a oltre venti metri dall'impatto. L'avevano visto in tanti, ma nessuno osava avvicinarsi. In questo particolare orrendo Marc vide un presagio. Doveva abbandonare l'inchiesta... nel caso poco probabile che l'inchiesta stessa non abbandonasse lui. Si profilava un pericolo. Bisognava che desse un taglio a quella macchinazione.
Che rientrasse a Parigi il più presto possibile. In quell'istante capì la ragione della sua paura. L'idea, ancora confusa, che Jacques Reverdi non era solo. Che il suo avvocato, il pervertito, poteva costituire uno strumento di vendetta all'esterno della prigione. Cosa sarebbe successo se l'assassino scopriva l'imbroglio? Se lanciava il suo «cane» alle calcagna dell'impostore? Accelerò senza voltarsi. Ritrovò la sua stanza d'albergo alle ventidue. Senz'aria, senza finestre. Mise il condizionatore al massimo e avvolto da quel frastuono vuotò le tasche. Aveva ancora in gola l'odore di carne bruciata. Si sentiva sporco, insozzato, impregnato di morte e di polvere. Depose sul tavolino le chiavi, i biglietti da visita della dottoressa Norman e dei mercanti d'insetti che aveva incontrato, poi un biglietto che non gli diceva niente, scritto in ideogrammi cinesi. Lo girò: il verso era in lettere latine. Il biglietto del SIGNOR RAYMOND, quello che gli avevano dato sul marciapiede dell'Hard-Rock Café. Marc lesse la riga sotto il numero di telefono: «Tutte le ragazze che fanno per te!» Perché no? Per cancellare il sapore della morte aveva bisogno di un trattamento d'urto. Gli piacque subito. Piccola, atletica, lo faceva pensare a una giovanissima ginnasta. Le cosce bombate, i seni eretti sotto il tessuto leggero di un abito di mussolina nera. La sua presenza emanava un'energia sensuale, una carica di desiderio che toglieva il fiato, disseccava la gola. A disagio, la ragazza si sedette sull'unica poltrona della stanza, trincerandosi dietro le ciocche di capelli che le cadevano sul viso. Il suo viso era in sintonia con il corpo: lineamenti rozzi, zigomi sporgenti, occhi come crune d'aghi. «La bellezza di un pugnale», pensò Marc. Ma stava fantasticando: era semplicemente un visetto di contadina travestita da pin-up. «Where do you come from?» «Miam-Miam.» «l'm, sorry. I didn't get the name. Where do you come from?» «Miam-Miam.» Gli ci volle un po' per capire che veniva dal Myanmar, il nuovo nome della Birmania. Pagò in anticipo e i malintesi aumentarono. Aveva voglia
di toglierle lui stesso il vestito o, meglio ancora, di sollevarglielo dolcemente fin sopra alle cosce. La ragazza si spogliò con pochi gesti, come in uno spogliatoio femminile prima di una gara di nuoto. Gli indicò la doccia. Marc sorrise, immaginando già le sue carezze attraverso il vapore, con la sua lunga capigliatura che gli solleticava il torace. Lei si raccolse i capelli in una cuffia, poi si preoccupò di lavargli l'uccello, nello stesso modo in cui avrebbe grattato la ruggine su una vecchia inferriata. Quando raggiunsero il letto, la ginnasta gli si mise a cavalcioni sul ventre, posandogli le mani sul petto. Infine, i massaggi... Marc chiuse gli occhi, aspettando che i suoi piccoli tocchi gli pervadessero il corpo di vibrazioni di piacere, poi che con la lingua gli oliasse i muscoli fino a raggiungere il pene. Invece, ebbe diritto solo a qualche pugno nelle costole, e, riaprendo gli occhi, la scorse mentre rovistava nella borsa. Ne estrasse un preservativo di cui lacerò la custodia con un morso, come si fa con l'involucro di una siringa. Ogni suo gesto era rapido, preciso, professionale. Marc aveva sperato in un Kama-Sutra torrido. Subiva invece una visita medica. Qualche minuto dopo, tuttavia, arrivò il piacere. Breve come una pallina di riso ingoiata in un sol colpo. La ragazza fece finta di dormire, per evitare di parlare in inglese, che del resto non conosceva. Senza far rumore, Marc si alzò e si sedette accanto al tavolino. Si mise vicino la lampada e girò il paralume verso la parete. Poi aprì il computer. Non poteva più aspettare. Doveva scrivere a Reverdi. Confessare di aver fallito e trovare il modo di ottenere la clemenza dell'assassino. Le sue velleità di rientrare a Parigi erano già svaporate. Anche il suo timore di Jimmy. Non c'era motivo che lo scoprissero. O di aver paura di un figlio di papà degenere. Cominciò la lettera, senza esitazioni. Non doveva fare altro che ascoltare il suo cuore: la sua delusione, la sua amarezza, la sua smania di fare il meglio finita in un'impasse. Travolto dalle sue emozioni - ossia quelle di Elisabeth - supplicò Reverdi di accordargli/le una nuova possibilità. Nel giro di mezz'ora si sentì meglio. Come riconfortato, nel ruolo di quella giovane donna che non voleva essere abbandonata. Anche se ogni parola gli faceva male, ogni sillaba gli richiamava il suo fallimento, Marc assaporava quella relazione intima, quel legame spirituale, in cui poteva parlare, in termini aperti, di ciò che costituiva la sua unica preoccupazione: il segreto di un assassino.
Sentì sbattere la porta. Vide la camera, le pareti cieche, il letto sfatto. Miam-Miam aveva preso il volo. Era così assorto nella stesura della lettera che non l'aveva nemmeno sentita alzarsi, vestirsi, prendere la borsa... Ci mise ancora qualche secondo per rendersi conto della sinistra verità: in quel momento, preferiva scrivere a Jacques Reverdi piuttosto che rifare l'amore con quella prostituta. Preferiva essere Elisabeth Bremen piuttosto che Marc Dupeyrat. 44. L'Axe era uno dei ristoranti più trendy di Parigi. Khadidja ne aveva già sentito parlare, e temeva il peggio. Invece, al primo colpo d'occhio, l'ambiente le piacque. Un grande spazio bianco, essenziale, dove da un lato si allineava una fila di séparé aperti, dall'altro correva un banco stretto che sottolineava l'impianto prospettico del locale. Quelle linee nette le fecero tornare in mente uno dei suoi vecchi sogni. Sperava di poter visitare un giorno una cappella a Ibaraki, in Giappone, di cui aveva visto delle fotografie. Nella parete di fondo l'architetto, Tadao Ando, aveva praticato due aperture, una verticale e una orizzontale, da cui penetrava il sole che disegnava una croce. Khadidja adorava l'idea: una croce di luce pura. Quando avesse avuto i soldi necessari, se l'era giurato, sarebbe andata in Giappone, a raccogliersi in quella cappella. Era il suo sogno segreto. E proprio mentre pensava alla cappella, Vincent ruttò: «Scusa. Piccolo SOS del mio organismo.» Si alzò sulla punta dei piedi: «Non so perché ci tengono qui ad aspettare...» Erano nel vestibolo, debolmente rischiarato. In quell'anticamera regnava la classica impazienza dei ristoranti alla moda, dove ciascuno aspetta innervosito che gli assegnino un tavolo, con il timore di averne uno mal piazzato o, peggio ancora, di essere mandato via. Al contrario Khadidja era totalmente indifferente. Avrebbe potuto cenare ovunque con Vincent. Era soltanto curiosa di sapere cosa intendeva «festeggiare» quella sera. Vennero sistemati a uno dei tavoli migliori. Un séparé in vimini con un gradevole odore di resina. «Ti avverto», disse Vincent togliendosi la giacca, «qui si mangia in modo frugale. Sul genere "Anoressia Anonimi".»
Khadidja provava sempre più simpatia per lui. Grosso, largo e privo di qualsiasi imbarazzo, sembrava provasse un vero piacere a rompere le scatole a tutti. La sua camicia aveva sempre qualche macchia. Grandi aureole gli decoravano le ascelle. Ed emanava un odore che non aveva niente a che spartire con le raffinate fragranze pubblicizzate dalle riviste. Nell'ambiente della moda, Vincent era come un sasso in uno stagno. Ma un sasso di pietra pomice, che si rifiutava di andare a fondo. Khadidja lesse minuziosamente il menu, apprezzando le associazioni di parole, di generi, e persino di lingue. I nomi delle spezie s'incrociavano con quelli delle insalate alla contadina. Le carni più classiche erano spolverizzate di zucchero e accompagnate da sapori dolci. Pesci del Baltico si abbinavano a ortaggi tropicali. Lei stessa apparteneva a quella cultura meticcia. Non aveva mai messo piede nel Maghreb, ma ravvivava il suo normale abbigliamento - giacca e jeans - con accessori etnici, stile Sahara. Pesanti gioielli d'argento, tuniche marezzate, un profumo che stordiva con la sua miscela di gelsomino e muschio... Si era persino tinta le dita con l'henné. «Hai scelto?» chiese Vincent. «Non ci capisco granché.» «Vuoi che ti spieghi?» «No. Me ne frego.» Vincent ridacchiò: «Più snob degli snob, eh?» «Mantengo le distanze, è tutto. Vengo da Gennevilliers. Un quartiere che chiamavano "La Banane". Hai capito il genere. Tento la sorte in questo mestiere per guadagnarmi da vivere. Non per cambiare personalità.» Vincent alzò il bicchiere per un brindisi, aveva già ordinato un cocktail ghiacciato, decorato da fini cristalli di sale: «A La Banane!» In quel momento Khadidja notò un particolare che le era fino ad allora sfuggito. Un segno sull'anulare della mano sinistra di Vincent. «Sei stato sposato?» Macchinalmente, Vincent si guardò le dita. Un'ombra gli passò sul viso. Scosse lentamente il capo. «Un brutto ricordo?» «Diciamo che in quel gioco mi sono scottato.» Khadidja non disse niente. Indovinava che le confidenze di Vincent non si sarebbero fermate lì. E in effetti lui aggiunse:
«Per me, il matrimonio è stato una specie di incendio chimico.» Per dare una piega un po' meno seria al discorso, Khadidja giocò sull'ironia: «Originale come metafora.» «Non è una metafora, è un'esperienza... reale.» Vincent non abbandonava il suo tono grave. «Con il passare degli anni, fra un uomo e una donna, tutto brucia, tutto si consuma. Voglio dire: ciò che hanno di meglio. Un giorno, si risvegliano tra le ceneri.» «Ma perché "incendio chimico"?» «Perché tra loro restano i materiali più duri, i pezzi non infiammabili. L'odio. L'amarezza. Il rancore. E la paura. Quando facevo il reporter mi sono occupato di un buon numero di catastrofi. Incidenti d'auto. Esplosioni di fabbriche. Restano sempre delle carcasse nerastre, dei congegni indistruttibili, che rifiutano di carbonizzarsi. Questo genere di scenari mi ricorda il mio matrimonio.» Arrivò il cameriere. Ordinarono. Quando si fu eclissato, Vincent fissò il fondo del bicchiere. Lo faceva girare seguendone i riflessi circolari. «Ho capito almeno una cosa», mormorò. «Le donne portano dentro di loro l'amore.» «Come gli uomini, no?» «No. Le donne hanno il fuoco sacro. "Credono" nell'amore, come gli integralisti credono in Dio. Chiunque sia la ragazza che incontri, qualunque sia il suo atteggiamento, la sua apparente spensieratezza, la sua indipendenza, lei conserva sempre dentro di sé, talvolta molto in profondità, questo fuoco sacro.» Khadidja fremette a quelle ripetute evocazioni del fuoco. Si sarebbe detto che Vincent facesse apposta a servirsi di quell'immagine. Ma si sentiva anche unita a lui da un senso di complicità. Il gigante proseguì: «Come quelle donne dell'antichità che vegliavano sul fuoco di un braciere, un fuoco che non doveva mai spegnersi.» «Le vestali.» «Giusto.» Le strizzò l'occhio. «Ce ne vorrebbero di più di modelle del tuo genere.» Arrivò il sommelier, con passo marziale. Vincent gli prese la bottiglia di mano e gli fece segno di sparire. «Ogni donna è un tempio», dichiarò, riempiendo i bicchieri, «con quella fiamma all'interno. Che non si spegne mai.» Khadidja era stupita dalla piega che aveva preso la conversazione. Evo-
care quei personaggi antichi con il «re del flou»: Parigi teneva in serbo incredibili sorprese. Non poté impedirsi di chiedere: «Come ne sei uscito all'epoca?» Vincent vuotò d'un sorso il bicchiere: «Grazie all'alcol.» Ridacchiò fra sé e sé. «No, sto dicendo delle stronzate. Grazie a un amico, con il quale ho lavorato in tandem per parecchi anni. Facevamo i paparazzi. Un'accoppiata infernale.» Khadidja indovinava il seguito. Il cuore prese a batterle più forte. «Il tuo amico con i capelli rossi?» «Proprio lui. Marc Dupeyrat. Quello che ha fatto colpo su di te». «Lo trovo un po'... bizzarro.» «È il meno che si possa dire. Anche lui ha vissuto un'esperienza singolare.» «Un'altra storia di "fuoco sacro"?» «Molto peggiore della mia.» Il tono di Vincent si fece ancora più grave. L'atmosfera si era decisamente tinta di un colore funereo. Khadidja incrociò le braccia sul tavolo e piantò gli occhi in quelli del suo interlocutore: «Hai detto troppo o non abbastanza, paparino mio...» Lui tentò di ridere e negò con la testa, scuotendo la lunga zazzera di capelli: «Dimentica tutto questo: siamo qui per festeggiare.» «Festeggeremo dopo.» «Sarei stupito se ne avessimo ancora voglia.» «Correrò il rischio.» Vincent tirò su forte con il naso, guardò se per caso non stesse arrivando il cameriere con i piatti... ma, naturalmente, non era in vista nessuno. Allora dovette per forza parlare: «È successo prima che lo conoscessi. Nel 1992. Lavorava su un tema piuttosto scottante, legato alla mafia siciliana. Doveva trattenersi per varie settimane in Sicilia. Ha chiesto alla fidanzata di raggiungerlo.» Khadidja si sentì un groppo in gola: «Come si chiamava?» «Sophie. Per lui, quel viaggio in Sicilia era una specie di viaggio di fidanzamento. Contava di sposarla poco dopo.» Lei abbassò la testa per nascondere il suo turbamento, ogni parola la feriva: «Cos'è successo?»
«La ragazza è stata assassinata.» Khadidja rialzò gli occhi. Vincent sorrideva tristemente, riempiendosi di nuovo il bicchiere. Mandò giù un buon sorso e fece schioccare la lingua: «Avevano preso alloggio a Catania. Un giorno, nel tardo pomeriggio, al ritorno da una visita al carcere minorile di Bicocca, Marc ha trovato il suo corpo privo di vita nella pensione in cui abitavano.» Adesso Khadidja capiva la ragione della strana personalità di Marc. Un trauma. La cosa avrebbe potuto creare un legame con lei, e invece no: quell'esperienza isolava Marc, lo isolava totalmente. Era chiuso in modo ermetico sul suo dolore. «C'entrava la mafia?» «Non si è mai saputo, ma non era nel loro stile. Era piuttosto l'opera di uno squilibrato, del genere "serial killer".» «Che cosa ha fatto alla ragazza?» «Credo che ci stiamo avventurando su un terreno molto scabroso. Non esattamente il tipo di argomento adatto a una cena a lume di candela.» «Raccontami.» «Sei sicura di volere i particolari?» «Non sono facilmente impressionabile, credimi.» Vincent si appoggiò allo schienale e scrutò la bottiglia di vino, i cui riflessi neri evocavano una lampada magica. Riprese con voce profonda: «Marc non ha mai voluto riferirmi i particolari. Ma io ero come te: volevo saperne di più. Allora ho telefonato a dei colleghi paparazzi italiani, che disponevano di contatti con i carabinieri in Sicilia. In una settimana ho avuto tutte le informazioni. Ho persino recuperato il fascicolo completo delle indagini. Sai, in Italia, i paparazzi sono...» «Cos'hai scoperto?» «Il peggio. La povera ragazza è finita nelle mani di uno psicopatico.» Si fermò, esitando ancora. Afferrò la bottiglia e si riempì nuovamente il bicchiere. Dopo una sorsata, proseguì: «Prima l'ha fracassata di botte. Poi l'ha imbavagliata e legata al letto con le corde delle tende. È andato in cucina e ha preso dei guanti di gomma. Ha frugato nell'armadio e ne ha tirato fuori le scarpe da ginnastica di Marc, anch'esse di gomma. Poi ha scovato una prolunga elettrica e ne ha messo a nudo la presa femmina. Ha infilato l'altra estremità nella presa della corrente e poi ha torturato la vittima. L'ha penetrata con il cavo da 220 volt. L'ha sodomizzata, sempre con la prolunga. Le ha tolto il bavaglio e l'ha costretta a succhiare i fili sotto tensione. Secondo il rapporto dell'autopsia la
ragazza aveva le gengive completamente bruciate. Come gli organi genitali.» Vincent bevve un altro sorso. Ormai era lanciato con le confidenze: «Non è tutto. L'assassino non si è fermato qui. Ormai Sophie doveva essere morta, almeno lo spero. Dopo gli elettrochoc l'assassino ha preso in cucina un coltello da pescatore, di quelli con la lama curva che si usano per tagliare le reti aggrovigliate. Le ha aperto il ventre, dal pube fino alla laringe. Le ha estratto le viscere e le ha sparse per la stanza.» Arrivarono i piatti. Tempismo zero. Vincent proseguì con la voce rauca: «Quando Marc è rientrato si è trovato davanti a quello spettacolo. Le viscere rapprese sul parquet. La bocca nera, gonfia, in una smorfia abominevole. Le scarpe da ginnastica, le sue, nella pozza di sangue coagulato.» Khadidja restava muta. Fluttuava in uno spazio di non-essere. Non precipitava: volava, leggera, al disopra degli abissi del nulla. Infine, dopo quello che le parve un secolo, udì la propria voce domandare: «Come ha reagito?» «Non ha reagito. È entrato in coma. Per tre settimane. Quando si è svegliato non ricordava più niente. Parlava di Sophie al presente. Ci sono voluti ancora dei mesi prima che accettasse la verità. È stato curato in una clinica specializzata, a Parigi. Ma non ha mai ritrovato la memoria. Della vicenda sa solo quello che gli hanno raccontato.» «Gli hanno riferito i dettagli?» «Ha pensato lui a trovarli. È tornato in Sicilia. Ha assillato i poliziotti italiani. Ha condotto una propria inchiesta. Senza risultati. A Catania, nella terra dell'omertà, non aveva alcuna possibilità. Allora si è fatto un'ossessione della pulsione criminale. Dapprima ha tentato di liberarsene tuffandosi anima e corpo, come me, nel settore giornalistico del gossip; poi, qualche anno più tardi, si è lanciato nella cronaca nera. Era la sua unica via d'uscita.» «Ma perché?» «Per capire come un uomo avesse potuto fare ciò alla sua donna.» Khadidja non riusciva più a formulare il minimo pensiero. Era orribile: era gelosa di una morta. Vincent si sforzò di ridere. Il vino gli appesantiva la voce: «Non fare quella faccia. A modo suo, Marc ha trovato il proprio equilibrio.» Rise di nuovo. «Precario, certo, ma ne esce da solo, senza strizzacervelli né pillole. È già una conquista. Anche se, a mio parere, la terapia è rischiosa.»
Khadidja s'interrogava su qualcos'altro: «Dove si trova adesso? Mi ha parlato di un viaggio...» «Secondo me, sta combinando qualcosa nei paraggi di Jacques Reverdi.» «Reverdi?» «Non leggi i giornali? Il tizio che ha fatto a pezzi una turista, in Malesia. Un ex campione di apnea. È in attesa di processo. Sono quasi sicuro che Marc si è messo in testa di raccoglierne le confessioni. È il suo sogno: penetrare, anche solo per un istante, nel cervello di un assassino.» Khadidja non aveva più domande. Era impietrita. Tanto per fare qualcosa prese il tovagliolo, e vide che sotto c'era nascosta una busta, certamente messa lì da Vincent. «Cos'è?» «Una sorpresa. Il tuo primo contratto. Peccato aver distrutto l'atmosfera.» Lei vi diede una breve occhiata, poi sorrise: «Se è uno scherzo, non è divertente.» Vincent alzò di nuovo il bicchiere: «Era questo che avevamo in programma di festeggiare stasera, dolcezza. Per te, la vita diventerà uno scherzetto.» 45. «Vieni. È urgente.» Eric lo afferrò alla spalla. Il gesto di per sé implicava una situazione grave: mai avrebbe osato posare la mano su Reverdi se non si fosse trattato di circostanze eccezionali. Jacques mise giù i pesi e seguì il francese. Erano le tredici. La prigione era sotto una cappa di calore. Attraversarono il cortile saltellando: il cemento bruciava sotto i piedi nudi. Attorno a loro le ombre erano così dense, così accorciate, che sembravano piantate nel terreno. Ripresero fiato al riparo del refettorio, accovacciati lungo il muro. «Dove mi stai portando?» Eric non rispose. Le mani sulle ginocchia, indicò con un cenno del capo l'edificio C. Ancora cinquanta metri da percorrere sotto il sole. Il piccolo demonio riprese la corsa. Controvoglia, Reverdi lo seguì. Avanzavano tenendo alti i talloni, tentando di sfiorare appena il terreno. Qualche secondo dopo erano di nuovo all'ombra. Eric guardava ancora più
lontano: il campo da calcio, poi, al di là, il margine delle paludi. Lo scherzo era durato a sufficienza: «Dove andiamo?» ruggì Reverdi. «Merda!» Eric si lanciò di nuovo in avanti, senza rispondere. Jacques gli andò dietro, inghiottendo la collera. Oltrepassarono un portone cinto di filo spinato e raggiunsero lo stadio. Per duecento metri non c'era traccia di riparo, salvo le porte del campo da calcio, che in quella solitudine parevano delle forche. Non riuscivano più a correre. Il caldo li triturava, trasformava i loro arti in polvere fine. Camminavano però con passo rapido, alzando i talloni, con la stessa andatura meccanica dei maratoneti. Un nano e un gigante, con addosso la stessa maglietta bianca, lo stesso pantalone di tela informe. «Una vera coppia di comici», si disse Jacques a denti stretti. In fondo, quella corsa assurda lo distraeva. Da due giorni rimuginava sul fallimento di Elisabeth. La rabbia non lo lasciava. In un impeto d'ira, per poco non aveva strappato la sua fotografia. Come aveva potuto non farcela? Come aveva potuto andare nelle Cameron Highlands e non trovarvi l'indizio? Si era sbagliato: quella ragazza non valeva più delle altre. Raggiunsero l'altro lato del campo, poi si precipitarono giù per un pendio di cemento, incandescente. Eric avvisò: «Ci siamo.» «Dove?» Eric tese il dito. Reverdi distinse delle grandi canalizzazioni, all'estremità del terreno. Dei teli erano tesi lungo l'asfalto. Al di là c'era il groviglio dei fili spinati. Poi, ancora oltre, le paludi... «Il quartiere dei malati di AIDS.» Reverdi sentì una colata gelida percorrergli la schiena. Gliene avevano già parlato. Una volta, alcuni guardiani muniti di guanti e mascherine avevano portato in infermeria un cadavere proveniente da quella zona. A Kanara l'AlDS era ancora considerato un male come la lebbra. Le guardie non osavano nemmeno colpire i sieropositivi. Il direttore aveva raggruppato i «malati» in uno stesso braccio. Ma di giorno essi si ritrovavano qui. Ai margini. Esclusi tra gli esclusi. Si avvicinarono. Reverdi provava un misto di curiosità e apprensione. I malati in fase terminale non passavano per l'infermeria. Venivano direttamente trasferiti all'Ospedale Centrale. In che stato erano quelli radunati lì? Immaginava corpi rachitici, privati delle difese immunitarie, affetti da ogni genere di malattia...
S'ingannava. Gli abitanti di quei luoghi assomigliavano a dei normali prigionieri: bruciati dal sole, irsuti, vestiti di stracci. E in piena forma. Alcuni giocavano a carte, altri si assiepavano vicino ai bracieri, ai piedi dei tubi. Regnava un'animazione frenetica. In un angolo, da un grande fuoco si levavano nugoli di fumo nero, e tutt'intorno si agitavano una decina di detenuti, la testa avvolta da magliette a mo' di turbanti. L'odore era insopportabile. «Fabbricano il meth.» Reverdi conosceva quella droga. Robaccia, facile da confezionare, a base di dissolventi, prodotti per dimagrire, liquidi per sturare i cessi... Un vero nettare. La fabbricazione comportava un unico problema: il rischio di esplosione. Nessuno, fuori di lì, voleva manipolare una miscela così instabile. Ma lì la droga aveva trovato i suoi artigiani. Uomini già condannati che non temevano di finire a brandelli sul cemento. Eric si diresse verso l'ingresso delle canalizzazioni. Reverdi gli andò dietro. Lo shock dell'ombra, dopo il sole rovente, gli fece l'effetto di una martellata. Dovette fermarsi: non vedeva più niente. A poco a poco, gli occhi si abituarono all'oscurità. Era un'autentica strada, cilindrica, affollata come un corridoio di metropolitana nelle ore di punta. C'erano dei gruppetti seduti, contro la superficie curva. Qua e là delle tende cenciose. Eric proseguiva, scostando i lembi di tessuto. Un tremolare di fiamme, un forte odore di petrolio. Alcuni uomini erano accovacciati come animali. Altri se ne stavano distesi, battendo i denti sotto gli stracci. Reverdi non sapeva se quei tizi avevano l'AlDS, ma in ogni caso erano tutti in crisi di astinenza. Ritrovò i fantasmi che andavano in infermeria a elemosinare un farmaco qualsiasi, per alleviare le proprie sofferenze. Poi tornavano lì, in quei tubi abbandonati. A smerciare le loro pillole. A farsi delle pere con roba sporca. A contaminarsi a vicenda con le siringhe riciclate. Non si faceva più domande sul perché Eric l'avesse condotto lì. Qualcuno si nascondeva in quell'anticamera della morte. Scavalcarono corpi inerti. Jacques riconosceva segni familiari: vene gonfie e dure; braccia livide di ematomi; visi tutti ossa. Notava anche mani, piedi senza dita. Un classico nelle prigioni: gli eroinomani, presi nel loro trip, perdevano ogni sensibilità. Mentre «viaggiavano», i ratti venivano a divorargli le estremità. E quando si svegliavano erano rosicati come dei prosciutti con l'osso. Reverdi si rese conto che erano arrivati in una specie di «sala del consiglio». Alcuni uomini, immobili, lo sguardo fisso, erano seduti a gambe in-
crociate attorno a un fuoco. Solo le loro mascelle erano in attività. Masticavano, instancabilmente. Mentre il resto del corpo era morto, quelle bocche parevano possedute da un dèmone. «Il dross», mormorò Eric. «Il residuo della pipa di oppio. È talmente duro che non lo si può più fumare, e allora lo mangiano. Lo masticano fino a quando riescono a inghiottirlo e a trarne qualche effetto...» Reverdi sentì di nuovo montare la collera. «Ne ho piene le scatole della tua visita guidata. Adesso mi spieghi che cazzo facciamo qui!» Labbro leporino gli regalò un sorriso madido di sudore. Una testa di pesce bagnato di grasso: «Non scaldarti. Siamo arrivati.» «Ma dove, porca puttana?» Eric indicò il fondo del tubo, alla sua sinistra. Un'ombra tremava, raggomitolata, le ginocchia raccolte contro il petto. Reverdi si chinò. Era Hajjah, il figlio di papà che scialacquava i soldi di mamma mentre babbo credeva di infliggergli una «vita spartana». Era irriconoscibile. La pelle tirata sulle ossa. Lo sguardo vacuo. Tirava su di continuo con il naso. Eric bisbigliò: «Ha voluto fare il furbo: trattare direttamente con i cinesi. Per rappresaglia Raman ha convocato il padre e gli ha raccontato tutto. La grana che gli veniva passata di nascosto. La droga. Tutto. Il padre ha letteralmente tagliato i ponti. Sono cinque giorni che Hajjah non prende niente. Ed è coperto di debiti.» Reverdi si ricordò che il ragazzo, mosso da un presentimento, era andato a chiedergli aiuto. «Puoi dirmi che cazzo c'entro io?» «Se non paga, gli han gli lanceranno addosso i filippini...» Jacques girò sui tacchi senza rispondere. Eric lo afferrò per la maglietta. Questa volta, Reverdi lo inchiodò contro la parete curva. «Non insistere», sibilò, «altrimenti...» «Solo tu puoi fare qualcosa», implorò il nano. «Negozia con i cinesi. Che gli accordino una proroga... Suo padre finirà per sborsare...» Strinse le dita in un pugno per fargli definitivamente inghiottire il suo labbro leporino, ma in quel preciso istante ebbe un flash che lo bloccò. Sulla faccia di Eric si sovrapponeva il viso bellissimo di Elisabeth. Le sue pupille nere, leggermente asimmetriche. Il suo sorriso pallido, appena accennato sulla pelle bruna. Perché mentire a sé stesso? L'amava. Ne era
pazzo: non poteva abbandonarla. Abbassò la mano e lasciò andare Eric, che scivolò lungo la parete curva. Jacques aveva preso una decisione. Non era a Hajjah che avrebbe dato una nuova possibilità, ma alla sua adorata. Le avrebbe fornito un nuovo indizio. Se lei riusciva, allora lui avrebbe salvato il ragazzo... «Ti darò una risposta fra due giorni», disse gettando uno sguardo al ragazzo immobile. 46. Il verde era il colore di Kuala Lumpur. Il grigio era quello di Phnom Penh. I grandi viali erano fiancheggiati da edifici piatti, a un solo piano, color del cemento. Erano grigi anche gli alberi, le cui ampie chiome si toccavano al disopra dell'asfalto. Neanche le migliaia di biciclette, motorini, risciò che invadevano la carreggiata offrivano un po' di colore. E tutte quelle silhouette, mascherate da un sarong, fluttuavano sulle loro selle come bandiere di cenere. Atterrando a Phnom Penh, alle diciassette, Marc aveva dovuto regolare l'orologio: un'ora in meno rispetto a Kuala Lumpur. In realtà, era tornato indietro di uno o due secoli. Finiti i grattacieli di vetro, i centri commerciali, la frenesia del consumo. Il sogno asiatico adottava qui una scala molto più modesta: le fragili spalle khmer. Lo sviluppo economico muoveva i primi passi. Era il ritorno nell'Asia intima, ancestrale, formicolante. Seduto nel taxi, Marc esultava. Ancora quel mattino pensava che tutto fosse finito. Reverdi non dava più notizie. Il contratto era sciolto. Tutto il lunedì aveva esitato su come procedere. Tornare alle Cameron Highlands? Continuare l'inchiesta in modo autonomo? Rientrare a Parigi e confessarsi vinto? Non riusciva ad accettare la sconfitta. Martedì pomeriggio aveva capitolato. Con la morte nel cuore, aveva chiamato la Malaysian Airlines per informarsi sugli orari dei voli di ritorno, poi aveva effettuato la prenotazione. L'indomani, consultando la casella di posta per verificare la prenotazione, aveva trovato un messaggio di Reverdi. Una mail supersibillina, ma che significava che il contatto era ristabilito. L'assassino aveva semplicemente scritto: «Cambogia.» Marc aveva fatto i bagagli ed era corso all'aeroporto, alla ricerca di un
volo per Phnom Penh. Era riuscito a salire sull'aereo alle sedici, un record di rapidità. Meno di un'ora più tardi atterrava nella capitale khmer. Durante il volo aveva soppesato quella semplice parola come una pepita d'oro. Reverdi gli offriva un'altra possibilità. Una nuova strada per identificare i Segnali dell'Eternità. «Cambogia.» Lo metteva sulle tracce di un altro dei suoi omicidi. Linda Kreutz. Febbraio 1997. Angkor. Le dita strette sulla borsa, Marc penetrava adesso nella città tetra. C'era già venuto una volta, nel 1994, per realizzare un reportage sulla famiglia reale. Si ricordava del carattere spento della città. Il grande grigio che ricopriva tutto. Non solo i muri, anche le anime. Vent'anni dopo, la Cambogia era sempre in stato di shock per il genocidio dei khmer rossi. Era un paese circondato da fantasmi, dove si parlava a voce bassa, dove ognuno sopravviveva con le sue ferite, e i suoi morti. Eppure, dal finestrino del taxi Marc coglieva una segreta effervescenza. Gli edifici erano perfettamente anonimi, ma i negozi traboccavano di colori, di dettagli inusitati, di scritte. Stoffe, paillette, materiale hi-fi esposti sui marciapiedi... Sebbene ovattata, in sordina, la vita pulsava. Straripava e, paradossalmente, sembrava più reale che a Kuala Lumpur. Diversamente dalla capitale malese, dove tutto era tirato a lucido, ordinato, climatizzato, le cose e gli uomini trovavano qui quella consistenza, quel rilievo, quella sensualità che appartenevano loro. Con il calare della sera le vaste vie del centro viravano gradatamente al crema, al beige, al rosa, svelando i marciapiedi di laterite, i lembi di terra calpestati da piedi nudi. Gli edifici sembravano rilasciare una nuvola di polvere rossa, mettevano a nudo la loro carne di mattoni. L'aria si copriva di pigmenti, si frammentava in miliardi di particelle. E, in fondo alle strade, il sole sembrava attirare a sé quelle nubi porpora, abbandonando all'oscurità delle silhouette vuote, delle ombre morte... In quel crogiolo rosseggiante, persino i motorini, segni neri radicati a terra, sembravano prendere il volo, muoversi verso il cielo, salendo all'assalto delle nuvole. Ed ecco apparire il Palazzo Reale. Tetti scintillanti, ornamenti cesellati, pinnacoli luccicanti, il tutto circondato da alti muri ciechi, color giallo zafferano. Quegli edifici parevano una flotta d'oro, con gli alberi svettanti, le vele gonfie, che rientrava lentamente
in porto, all'interno della recinzione. Marc era arrivato. Non che contasse di dormire a palazzo, ma il suo albergo era proprio lì di fronte. Il Renaksé, l'albergo degli occidentali, tanto decrepito quanto il suo vicino era tirato a lucido. Marc vi aveva soggiornato durante il suo primo viaggio. Quell'edificio possedeva un autentico fascino. Situato in fondo a un parco, schermato da grandi alberi secchi, si apriva in due gallerie rivestite di ceramiche color crema e cioccolato, che davano accesso alle camere. Grandi poltrone di vimini erano disseminate sulla terrazza centrale, invitando a lasciarsi andare alla magia dei tropici. Mentre riempiva il modulo al banco, Marc scorse, installati nelle poltrone, alcuni esemplari di occidentali in perfetta sintonia con quello scenario. Non erano dei normali turisti, piuttosto dei giramondo, dei giornalisti stremati, oppure dipendenti di qualche ONG (le organizzazioni non governative erano numerose in quel paese in ricostruzione) che sembravano sempre indaffaratissimi e inutili. Marc imboccò il porticato, con il timore di incontrare qualche vecchia conoscenza o di dovere intavolare una conversazione. La sua stanza era lugubre. Grande, vuota, buia, era dotata unicamente di un letto di legno nero, sovrastato da un ventilatore fuori uso. Le finestre, che davano visibilmente sulle cucine, erano chiuse ermeticamente. La temperatura superava di sicuro i trentacinque gradi. Alzò le spalle: non contava di trattenersi a Phnom Penh. La sua inchiesta l'avrebbe forzatamente condotto sulle tracce di Linda Kreutz, a Siem Reap, vicino ai templi di Angkor. La sua inchiesta... Ma da dove cominciare? Non aspettava altri messaggi. Sapeva che Elisabeth era stata messa alla prova: doveva andare avanti da sola. Ciononostante accese il computer e si collegò con la linea telefonica. Aveva ricevuto un nuovo segno. Reverdi aveva scritto semplicemente: «Cerca l'affresco.» 47. Marc si svegliò alle nove. Imprecò: aveva perso il volo per Siem Reap. Gli sarebbe toccato passare una giornata a Phnom Penh e aspettare il volo della sera. Come ingannare il tempo? Durante la notte aveva riflettuto sul-
l'ordine di Reverdi: «Cerca l'affresco». La caccia riprendeva a pieno ritmo. E lui non aveva dubbi sul luogo in cui doveva cercare: i templi di Angkor, tappezzati di migliaia di bassorilievi e ornamenti. Una bella sfida. Dopo una frugale colazione, decise di far fruttare quelle poche ore nella capitale e di tornare ai suoi buoni vecchi metodi. Quelli di cui si servirebbe un giornalista francese per procedere nella sua inchiesta. Dopo qualche telefonata, prese un «motorino-taxi» e si recò al principale giornale francofono della città: «Cambodge Soir». La sua sede era situata in una strada di terra battuta, in pieno centro. Una costruzione grigia, segnata da macchie d'umidità, che sfoggiava una scritta bianca e blu, nello stile delle vecchie targhe delle vie parigine. Dopo aver chiesto di vedere il caporedattore e consegnato il proprio biglietto da visita, Marc si mise a camminare avanti e indietro nel vestibolo: una stanza buia, di nudo cemento, dove erano parcheggiati dei motorini che puzzavano di benzina. In fondo al locale, sotto una scala, si apriva una stanza ancora più buia, la cui unica finestra era otturata da pacchi di giornali. Marc avanzò, incuriosito. Un archivio. Ne aveva visti un bel po' durante la sua carriera, ma quello batteva tutti i record di disordine e abbandono. Ogni parete era tappezzata di scaffali da dove traboccavano pile di scartoffie polverose. Giornali talmente vecchi e deteriorati da far pensare a delle liane morte piuttosto che a una memoria stampata. Al centro della stanza c'era un guazzabuglio di computer fuori uso, sedie rotte capovolte e libri sporchi di grasso. Impiegabilmente, quel luogo sinistro gli ricordò un altro archivio, per quanto molto più pulito, che aveva consultato in Sicilia. Dopo la morte di Sophie era tornato nell'isola per reperire delle fotografie del corpo. Rivedeva ancora quelle foto: la bocca carbonizzata, il ventre squarciato, le viscere sul pavimento. Ma le vedeva con la nitidezza della carta lucida. Impossibile ricordarsi del minimo dettaglio... reale. «È qui per Reverdi?» Marc si voltò. Una silhouette si stagliava controluce nell'inquadratura della porta. La domanda lo stupiva: la messa in relazione con la vicenda di Papan gli sembrava troppo rapida. «Non sono il primo?» azzardò. «Neanche l'ultimo, temo», disse l'uomo avvicinandosi. «Il suo arresto ha risvegliato la curiosità.» Tese la mano, al disopra dei computer fracassati:
«Rouvères. Caporedattore.» La mano aveva più o meno la consistenza delle scartoffie che li circondavano. Marc non credeva che una simile caricatura potesse ancora esistere. Rouvères era un esemplare perfetto di relitto coloniale, come se ne trovano nei romanzi d'avventure del secolo scorso. Avrebbe potuto essere un piantatore finito in rovina, un trafficante di oggetti d'arte, o un ex ufficiale d'Indocina... Non era poi tanto vecchio, ma gli anni di alcol avevano contato il doppio, se non il triplo. Un vecchio di cinquant'anni, dalla pelle grigia, con in testa pochi capelli che formavano una vaga nebbiolina. Marc notò che aveva la patta aperta e che la camicia era abbottonata di traverso. Un bel modello di francese d'esportazione. Dopo essersi presentato, Marc attaccò a parlare, prendendo l'argomento il più alla larga possibile: «Cosa può dirmi su questa storia?» «Molte cose», rispose Rouvères con un sorriso d'orgoglio. «Sono sicuramente il migliore specialista del caso a Phnom Penh. Purtroppo, però, non posso passare le giornate a informare i visitatori.» «Quindi?» Rouvères accentuò la sua espressione soddisfatta: «Risponderò a tre domande. Scelga lei. Come nelle favole.» Dondolò la testa, scandendo le sillabe. «Sarò il "genio buono" della lampada.» Il genio buono aveva delle tali borse sotto gli occhi che a Marc venne l'improvvisa voglia di infilarci una siringa, giusto per vedere che genere di elisir contenessero. Non era difficile da indovinare: whisky o cognac... Si concentrò per trovare la domanda giusta, quella più efficace. Impulsivamente, gli venne da chiedere: «Vorrei vedere una fotografia.» «Una fotografia?» «Un ritratto di Linda Kreutz. Da viva.» La sua richiesta era assurda: aveva già visto il volto della vittima e non avrebbe scoperto niente di nuovo. Ma aveva voglia di conoscerla meglio. «Nessun problema.» Rouvères scavalcò i vecchi computer e le sedie sventrate, come un pescatore munito di stivaloni in un pantano. Riuscì a raggiungere la parete opposta, contro la quale era posto un armadio di metallo. L'aprì e Marc poté vedere all'interno degli scaffali carichi di buste kraft. Rouvères cercò nel mucchio e ne estrasse una fotografia. Marc contem-
plò il ritratto. Si ricordava della prima fotografia, recuperata da Vincent, semicancellata e sgranata dopo il passaggio in tipografia. Questa volta aveva in mano una vera stampa, nitida e a colori, di formato 21 x 29,7. Linda Kreutz posava in compagnia di un giovane monaco drappeggiato di un vivace arancione. Lo stesso sorriso legava l'uno all'altra, come un nastro di seta intorno a due fiori. Lei portava ampi calzoni-sarouel, sandali di cuoio, una tunica bianca. Un look commovente da giovane fricchettona. Ma era il suo viso a suscitare un vero slancio di tenerezza. Una pelle chiara, lattea, picchiettata di lentiggini. I capelli rossi e vaporosi le cadevano sul viso e le davano l'aria di un animaletto un po' birichino un po' timoroso. Aveva un'espressione raggiante, felice. Marc tentò d'immaginare i sogni di quella ragazza che a ventidue anni si era sbattuta alle spalle la porta della casa di famiglia, ad Amburgo. Era senza dubbio partita per l'Asia in cerca di avventura, di misticismo, ma anche del grande amore... Rouvères commentò con la sua voce impastata: «La foto è stata ritrovata tra le sue cose, nell'albergo in cui soggiornava, a Siem Reap.» D'un tratto Marc si rese conto che l'espressione radiosa della ragazza era diretta verso l'obiettivo. Verso chi aveva scattato la foto. Rabbrividendo, si disse che forse l'immagine era stata presa dallo stesso Reverdi, fra le rovine di Angkor. «Aspetto la sua seconda domanda», avvisò Rouvères. Questa volta Marc doveva scegliere una domanda utile. Fu tentato di orientarsi verso il proprio enigma: i Segnali dell'Eternità, ma si ravvisò. Quelle parole costituivano il suo personale asso nella manica, anche se non riusciva a decifrarle. Era assurdo discuterne con uno sconosciuto. Si ricordò l'ultimo ordine di Reverdi: «Cerca l'affresco.» Forse il termine «affresco» non designava una vera e propria decorazione, dipinta o scolpita, ma piuttosto il disegno delle ferite. L'assassino gli suggeriva di osservare le piaghe sul corpo di Linda Kreutz, per poter arrivare a capire il significato dei «Segnali»... Ancor prima di approfondire questa ipotesi, ordinò: «Mi parli delle ferite.» «Precisi meglio la domanda.» «Le ferite di Linda Kreutz. Erano simmetriche? Si poteva individuare una sorta di... disegno sul corpo?» Rouvères parve riflettere, sempre immerso per metà fra i computer e le sedie sbrindellate.
«Il corpo era rimasto nel fiume per parecchi giorni», disse infine. «Era in pessimo stato.» «Non è possibile che l'acqua abbia cancellato le ferite.» «L'acqua no. Ma le anguille sì.» «Le anguille?» «Il corpo di Linda era infarcito di anguille d'acqua dolce. Le erano penetrate nel ventre attraverso la bocca, la vagina, ma anche attraverso le ferite. Il corpo, visto che ci tiene ai particolari, era... sventrato dall'interno. Ultima domanda?» Ancora un'impasse. Non rimaneva che un'unica possibilità di strappare una rivelazione all'alcolizzato. Rouvères parve intuire l'imbarazzo di Marc. Frugò fra i fasci di giornali e tirò fuori parecchi numeri del «Cambodge Soir»: «Tenga», disse porgendogli i giornali. «È la serie di articoli che ho dedicato all'argomento. La scoperta del corpo. Le circostanze dell'arresto di Reverdi. I fatti convergenti dell'inchiesta. C'è tutto. Prima di bruciarsi l'ultima opportunità, legga tutto questo. Perché non torna domani?» Marc non aveva tempo. Afferrò i giornali e li guardò intensamente, come se una semplice occhiata potesse permettergli di assimilarne il contenuto. Gli venne un'idea: «Mi dia una risposta», ordinò. «Cosa vuole dire?» «Una risposta a sua scelta. Quella che potrebbe essermi davvero utile.» La faccia di Rouvères si aprì in un grande sorriso. Le borse sotto gli occhi si corrugarono: «Così imbroglia, amico mio.» «Faccia come se le avessi posto la domanda.» Il redattore si piegò leggermente all'indietro, come per meglio soppesare la proposta. Dopo un lungo silenzio, mormorò: «Il vero mistero, in questa faccenda, è perché Reverdi sia stato messo in libertà. Tutti i dati raccolti ne dimostravano la colpevolezza. E allora, perché un non luogo a procedere?» Marc fu preso alla sprovvista dall'orientamento giuridico assunto dal discorso. Si ricordava le spiegazioni dell'avvocato tedesco. L'incompetenza dei giudici. Il processo sabotato. La situazione politica. Buttò lì: «A causa del contesto cambogiano, no?» «Sì, ma non soltanto. Reverdi è stato prosciolto grazie a una testimonianza.»
«Vuole dire un alibi?» «No, una cauzione morale. Una personalità importante è intervenuta a perorare la sua causa.» Marc non ne aveva mai sentito parlare: «Chi?» «Una principessa. Un membro della famiglia reale.» «La principessa Vanasi?» Il nome gli era esploso sulle labbra. Di tutte le figure principesche che aveva incontrato, lei era quella che lo aveva più profondamente colpito. Una leggenda vivente. Rouvères ebbe un sorriso ammirativo. Marc spiegò: «Ho realizzato un reportage sulla famiglia reale, qualche anno fa.» L'altro scosse il capo, agitando i suoi ciuffi di capelli filacciosi: «La principessa ha conosciuto Reverdi sul sito archeologico di Angkor, in occasione di una campagna di restauro. È venuta a testimoniare. Ha descritto un uomo altruista, colto, generoso. Questo ritratto ha cambiato totalmente la situazione in tribunale. Il fatto equivaleva a un'amnistia della famiglia reale. La vada a trovare: il suo punto di vista è piuttosto... inatteso. 48. Le quattordici. Quando si aprirono le porte del Palazzo Reale Marc acquistò un biglietto d'ingresso per la visita. Travestirsi da anonimo turista, quella era senz'altro la copertura migliore. Per rendere ancora più inoffensivo il suo aspetto, si era persino comprato una borsa, una specie di tascapane. Non aveva scelta. Aveva omesso di segnalare un dettaglio a Rouvères: i suoi rapporti con la famiglia reale erano definitivamente compromessi. Come al solito, quando aveva pubblicato il reportage non aveva mantenuto la sua promessa di essere discreto. Era probabile che il suo nome figurasse in una lista nera del protocollo. Aveva quindi escogitato un piano audace per incontrare la principessa, che viveva in una zona privata del palazzo. Marc seguì la comitiva lungo uno stretto viale all'aperto fino all'imponente ingresso della cinta reale: un'immensa spianata, tappezzata di aiuole, costellata di templi e padiglioni dorati, i cui tetti, per effetto del sole, sembravano cosparsi da un polline di luce. Oltrepassò gli altri turisti, che sostavano davanti a ogni singola pagoda, e raggiunse una galleria.
Al riparo dal sole, si avvicinò alle torri del padiglione Chanchaya dove sperava di imbattersi nella principessa. Quella zona era chiusa da un muro di cinta. Continuando a percorrere la galleria, cercò un passaggio o un'apertura. Scorse una porta di legno a doppi battenti, semiaperta, sbarrata da una catena: due soldati montavano la guardia. Marc si riparò all'ombra di una colonna e si armò di pazienza. Era sicuro che a un certo momento la sorveglianza si sarebbe allentata. Si sedette contro il pilastro e fece finta di leggere la guida. Lasciò vagabondare i suoi pensieri. Non aveva più voglia di rimuginare sull'inchiesta. Non sapeva nemmeno per quale motivo voleva vedere la principessa Vanasi. Per puro piacere, forse. Chiuse gli occhi e rievocò il personaggio. Non avrebbe mai dimenticato la prima volta che l'aveva incontrata. Vanasi era stata educata dalla prozia, la regina Sisowath Kossomal, che dirigeva la compagnia di «danza celeste». La bambina, cresciuta in prossimità del padiglione Chanchaya dove si esercitavano le ballerine, si era appassionata a quella disciplina dando prova di straordinario talento, e a sedici anni era diventata a sua volta prima ballerina. Era molto più di un'artista: era una figura divina che svolgeva il ruolo di intermediatore tra la famiglia reale e gli dèi. A quel tempo veniva soprannominata Apsara, come la divinità principale della cosmogonia khmer. Poi, nel 1970, c'era stato il colpo di stato che l'aveva costretta all'esilio. Prima in Cina, poi nella Corea del Nord, mentre i khmer rossi prendevano il potere e massacravano la metà della popolazione del suo paese. Molti anni dopo era ritornata alla frontiera thailandese, nei campi profughi, per insegnare la danza al suo popolo. Negli anni Novanta, la famiglia aveva potuto rientrare a Phnom Penh. Era lì che la principessa aveva conosciuto Reverdi. Il nome dell'assassino interruppe il flusso dei ricordi. Marc lanciò meccanicamente uno sguardo al portone. Era passata un'ora. Le due guardie se n'erano andate. Afferrando la borsa, s'introdusse di corsa all'interno dei giardini proibiti. Il nuovo cortile era cosparso di aiuole fiorite. Il leggero fruscio degli annaffiatoi sostituiva il mormorio dei turisti. Il padiglione Chanchaya distava ora soltanto una cinquantina di metri. Si diresse verso la gigantesca tettoia di pietra, dominata da guglie dorate. Mentre saliva i gradini, provò la stessa viva impressione della prima volta.
L'ambiente, aperto al vento e al sole, era assolutamente vuoto: una semplice superficie marmorea, striata dall'ombra obliqua delle colonne sottili, coperta da un soffitto dipinto che rappresentava gli dèi e i dèmoni della danza khmer. Si percepiva, oltre il terrazzo, il rumore del traffico che scorreva al di sotto, nel viale Charles-de-Gaulle. Marc avanzò. Sul fondo, un grande Buddha si ergeva su un altare, offuscato dal fumo dei bastoncini d'incenso. Nella luce pigmentata aleggiava un odore di rame unito agli acri sentori del legno di sandalo. Si avvicinò ancora: ai piedi della statua, le acconciature metalliche delle ballerine poggiavano su treppiedi. Tutto sembrava immerso nella misericordia brunodorata del Buddha. Percepì un fruscio alla sua destra. Lei era lì, i gomiti poggiati sulla balaustra, lo sguardo rivolto verso il traffico. Fragile, minuscola, avvolta in un lungo drappo blu. Marc si ricordò che il blu era un colore regale. La principessa era l'unica persona all'interno del palazzo cui era concesso indossare quel colore. Ma ciò che colpiva maggiormente era la struttura del tessuto: una seta dura, laminata d'oro, che diffondeva una luminosità rara, quasi reticente. Marc tossì. Lei gettò uno sguardo sopra la spalla e non sembrò minimamente sorpresa di vederlo. «Vostra Altezza», disse Marc in francese, accennando un ridicolo inchino. «Mi sono permesso di... Insomma, non so se si ricorda di me... Sono un giornalista. Mi chiamo...» «Mi ricordo di lei.» La principessa si girò verso di lui e si addossò al parapetto, le mani incrociate dietro la schiena. «Lei ci aveva promesso un lungo articolo sul "Figaro Magazine". E invece siamo finiti su "Voici", con l'elenco delle spese quotidiane della nostra famiglia. Il titolo dell'articolo era: Vita da nababbi in Cambogia.» Parlava un francese perfetto, senza la minima traccia di accento. Marc s'inchinò ancora: «Non deve serbarmi rancore. Io...» «Do l'impressione di serbarle rancore? Per quale motivo è tornato? Un altro articolo sulla mia vita privata?» Marc non rispose. Vanasi era proprio come se la ricordava. Tratti impassibili che non lasciavano trapelare nulla. Occhi nerissimi, leggermente a mandorla. La sua espressione era seria, distante. Ma gli occhi neri erano
anche attraversati da un lampo, come un fulmine fra le nuvole. Aveva un qualcosa di esaltato che le faceva inarcare leggermente le sopracciglia. «Sto indagando su Jacques Reverdi», disse Marc, indovinando che doveva andare diritto allo scopo. «Lei ha testimoniato in suo favore durante il processo.» La donna annuì con un cenno. Sembrava sempre meno sorpresa. Lui proseguì: «Torno dalla Malesia, dove Reverdi è incarcerato per l'omicidio di una giovane donna. Non c'è alcun dubbio sulla sua colpevolezza. E credo che non ci fossero incertezze nemmeno qui, in Cambogia.» Lei rimase in silenzio, guardando distrattamente i giardini alle spalle di Marc. Tentò di provocarla: «Se non fosse stato liberato nel 1997, quella ragazza sarebbe ancora viva.» Lei finì con l'accennare qualche passo, lungo il balcone. La veste le scendeva fino ai piedi. Sembrava scivolare sul marmo. «Lei rammenta la mia storia, vero?» Era una domanda che non richiedeva nessuna risposta. «Ho avuto tutto e poi ho perso tutto...» Accennò un sorriso, mentre la mano sfiorava la balaustra. «In un certo senso, così vanno le cose. Sono stata principessa, prima ballerina, creatura divina. Ho conosciuto i fasti reali, la vita sotto i riflettori. Poi ho subito l'esilio. La tristezza di Pechino. L'allucinante regime della Corea del Nord, dove mio zio girava i suoi film.» Marc si ricordava di quell'incredibile particolare. Oltre al potere politico, il principe Sianuk aveva un'unica passione: il cinema. Girava dei film, dei melodrammi romantici, arruolava a forza ministri, generali, e anche gli ambasciatori occidentali per accontentare «gli stranieri». Vanasi proseguì: «Ho scoperto la follia omicida. Il genocidio dei khmer rossi. Io non c'ero per vederlo con i miei occhi, ma ero a conoscenza di quello che stava succedendo qui. L'esodo. La carestia. I lavori forzati. I neonati uccisi con le baionette, gli uomini e le donne massacrati a bastonate e abbandonati nelle paludi. Nel 1979 sono ritornata nei campi, alla frontiera thailandese. Volevo restare vicino al mio popolo. Hanno detto che ero tornata per insegnare la danza, per dare nuovi stimoli alla gente, salvare la nostra cultura. È falso: ero tornata soltanto per morire con i miei. Eravamo quasi un milione, sperduti nella giungla, senza cure né cibo. A chi importava in quel momento della danza khmer?
È solo più tardi, negli anni Novanta, che ho fatto ritorno in Cambogia e mi sono dedicata alla salvaguardia della nostra cultura, in particolare ad Angkor. Jacques Reverdi lavorava con gli sminatori.» Tacque per un istante, poi proseguì con aria sognante: «Mi parlava dell'apnea per intere serate. Delle sue immersioni in profondità, della memoria dei coralli, dell'intelligenza dei mammiferi marini. S'interessava moltissimo anche all'architettura dei templi. Era un essere... raro.» Marc ripensava alle ferite inferte metodicamente a Pernille Mosensen. Alle anguille che si erano insinuate nelle piaghe di Linda Kreutz. Come poteva quella donna essere accecata a tal punto? Lei aggiunse in tono asciutto: «È stato sufficiente che io venissi a raccontare tutto questo durante il processo per far cadere le accuse. Non c'è altro da dire.» «Credo che sìa stata soprattutto la sua presenza a far oscillare l'ago della bilancia. Il fatto che lei sia intervenuta di persona per parlare in sua difesa.» «No. Le accuse a suo carico non reggevano. Non c'erano prove concrete. Non si può condannare un uomo finché sussiste il minimo dubbio.» «E adesso, che cosa ne pensa?» Lei volse lo sguardo verso la strada. Il frastuono della città s'innalzava nella luce. «Non posso immaginare che sia stato lui.» «Vostra Altezza, si tratta di flagrante delitto. È stato sorpreso a Papan accanto al cadavere.» «Allora non era da solo.» Marc sobbalzò: «Cosa?» «C'è un altro uomo.» Rimasto senza fiato, Marc si appoggiò a una colonna. Lei gli si avvicinò, alzando la voce: «Qualcuno gli impone di agire. O agisce al posto suo. Un'anima dannata che lo domina. Nessuno può togliermi quest'idea dalla testa. Jacques Reverdi non può essere l'unico colpevole.» Marc era agghiacciato. Nella sua testa il biancore del sole si trasformava in una fioca luce azzurra, rivelando abissi che fino ad allora erano rimasti immersi nell'oscurità. Si ricordò che Reverdi aveva sempre preferito parlare dell'assassino in terza persona. E se questo «Lui» esistesse realmente?
Ripensò ancora al grande assente della storia: il padre di Jacques. E se fosse stato ancora vivo? Se fosse stato un assassino, come supponeva la dottoressa Norman, ma nella realtà, e non nell'immaginario dell'apneista? Marc rigettò quelle ipotesi. Doveva attenersi alle sue piste, e ai messaggi dello stesso Reverdi. Vanasi si stava dirigendo verso i giardini. Marc le corse dietro per raggiungerla. «Vostra Altezza, un'ultima domanda.» «Che cosa?» «Lei sa per quale motivo Reverdi s'interessa alle farfalle?» Lei si fermò bruscamente. «Le farfalle? Chi glielo ha detto?» «Ebbene, io... Mi sembrava che nella foresta, lui...» «Le farfalle? Assolutamente no. Jacques si appassionava alle api.» «Le... api?» «Le api e il miele. Un miele rarissimo, soprattutto. Non mi ricordo più come si chiama.» Marc fu colpito da varie immagini. Gli aborigeni, accovacciati ai margini della strada, che offrivano il loro miele nelle bottiglie di Coca-Cola. Il terrazzo di Wong-Fat, dove c'erano dei flaconi che contenevano il liquido bruno-dorato. Aveva avuto la verità davanti agli occhi e non se ne era neanche accorto. «I Segnali che Volano e Brulicano.» «Cerca verso il cielo.» Le api. Il miele. Chiese, con la gola secca: «Dove comprava quel miele? Intendo dire: qui, in Cambogia?» «Non ne sono sicura... Ad Angkor, credo. Lì c'è un famoso apicoltore. Lo chiamano "il maestro d'oro".» I punti si collegavano l'un l'altro come in una figura geometrica perfetta. Il miele. Angkor. Linda Kreutz. Marc salutò precipitosamente la principessa e corse via, stringendo a sé la borsa. Per un breve istante fu tentato di scavalcare la balaustra per atterrare direttamente sul viale. 49.
Volo interno, destinazione Siem Reap. Era in uno stato febbrile. Quaranta minuti passati nei cieli, senza mai alzare gli occhi dal blocnotes, a redigere le sue conclusioni. O piuttosto le sue congetture. L'assassino aveva una passione per il miele. Di fatto, il sangue di Pernille Mosensen conteneva una dose anomala di zucchero. C'era da scommettere che Reverdi faceva ingerire alle sue vittime un'enorme quantità di miele. Perché? Non avrebbe saputo dirlo, ma aveva la sensazione che quella sostanza svolgesse un ruolo purificatore all'interno del rito. Le parole di Vanasi sulla «rarità» di Reverdi gli riecheggiavano ancora nella mente. I suoi propositi panteisti. Il miele apparteneva a quell'universo. Annotò: «Non beve il sangue delle sue vittime. Dà loro del miele per purificarle, per riavvicinarle alla natura. Il sangue zuccherato avvolge la vittima come il liquido amniotico protegge il feto.» L'apneista si delineava sempre più come un «assassino ecologista». Ecologista. E mistico. Marc coglieva, nella natura stessa del miele, un'affinità, una parentela con una certa poesia religiosa, antichissima, che conosceva per averla studiata all'università. Una poesia che poteva assumere un doppio senso erotico. Il Cantico dei Cantici ne era l'esempio per eccellenza. Marc scribacchiò, in un angolo della pagina, una citazione dell'opera: Le tue labbra, oh mia sposa, sono come un raggio che stilla miele. Conosceva a memoria quel testo biblico che ricorreva continuamente a metafore liquide: il sangue, il vino, il latte, il miele... E anche a profumi derivati dalla natura: mirra, giglio, incenso... Reverdi celebrava la sua unione con la vittima nel medesimo modo, per mezzo di elementi essenziali, primordiali. Era un atto d'amore. Una cerimonia allo stesso tempo cosmica ed erotica. Marc scrisse con mano tremante: «Informarsi sui processi psicologici legati al miele.» Qual era la quantità da ingurgitare per far assumere al sangue lo stesso tasso di glucosio di quello di Pernille Mosensen?, Quanto tempo ci voleva per digerirlo? Reverdi teneva prigioniere le sue vittime per
giorni? O solo per qualche ora? Doveva soprattutto ancora scoprire per quale motivo Reverdi associava i due termini di «segnali» ed «eternità». Qual era il legame tra le api e l'infinito? Una cosa era certa: dietro a quelle parole si celava un atto di crudeltà. Il miele era all'origine di una specifica tortura. Wong-Fat, il mercante di insetti, aveva detto: «Adesso che so che Reverdi è un assassino, immagino cosa fa alle ragazze.» Eppure il cinese ignorava il particolare del sangue zuccherato che la stampa aveva tenuto nascosto. Aveva però capito la funzione del miele nel sacrificio. Perché? Il contatto del carrello d'atterraggio con l'asfalto gli s'infiltrò nelle ossa come un raggio mortale. Siem Reap era la prosecuzione logica di Phnom Penh. Almeno in base a quanto poteva vederne in piena notte: grandi alberi dalle fronde senza vita; polvere grigia che, alla luce dei fari, assumeva tonalità argentate; edifici piatti, compatti, austeri. Si fermò nel primo albergo che trovò. Il Golden Angkor Hotel. Quindici dollari a notte. Colazione compresa. Aria condizionata. E pulizia assicurata. Entrando nella stanza, Marc apprezzò le pareti chiare, l'impeccabile linoleum, l'odore di candeggina. Pensò a una galleria d'arte contemporanea. Fra le sculture esposte: l'enorme ventilatore sul soffitto. Uno spazio puro. Uno spazio di riflessione. Proprio quello di cui aveva bisogno. Riprese il filo dei pensieri sdraiato sul letto. Le domande si rincorrevano senza sosta nella sua testa. Ma innanzitutto, doveva scrivere una mail a Reverdi? No. Meglio aspettare Angkor e l'incontro con l'apicoltore. Soltanto allora Elisabeth avrebbe potuto dimostrare di aver saputo sfruttare la sua seconda occasione. Spense la luce. Altre idee vennero a tormentarlo. Come quella teoria del secondo uomo. Vanasi era riuscita a instillargli il dubbio. Marc non poteva escludere l'idea di un complice. Ancora una volta s'interrogò sull'enigma del padre. Era possibile che esistesse, da qualche parte, un padre criminale che avesse influenzato, oppure formato, o persino aiutato Reverdi nelle sue nefandezze? La danzatrice
reale aveva detto: «Non è l'unico colpevole.» E il dottor Alang gli aveva confidato, a proposito della videocassetta: «Parla dell'assassinio come se ne fosse stato il testimone, e non l'autore.» Marc sentiva ancora la vocina di Reverdi ridiventato bambino: «Presto, nasconditi, arriva papà...» Scosse energicamente la testa. No. Impossibile. Doveva rinunciare a quella teoria assurda. Aveva già sudato freddo quando aveva immaginato che l'avvocato svitato, quel tale «Jimmy», fosse diventato il braccio armato di Jacques. Non era certo adesso che si sarebbe inventato un padre diabolico, che poteva essere sulle sue tracce... Accantonò tutti i suoi deliri in un angolo del cervello e chiuse gli occhi con un pensiero rassicurante: Jacques Reverdi era solo. E loro invece erano in due, lui ed Elisabeth. 50. Il mattino seguente Marc noleggiò uno scooter: le rovine di Angkor distavano cinque chilometri. Attraversò Siem Reap, vasta città di provincia che non vantava nessuna attrattiva particolare, poi giunse a una sbarra di pedaggio che segnava l'ingresso al sito archeologico. Prima di entrare Marc si concesse una colazione asiatica: una grande scodella di tagliatelle tiepide, cosparse di pezzetti di manzo e lamelle di carote fredde. Dopo essersi ritemprato pagò il pedaggio ai custodi assonnati, e ne approfittò per chiedere informazioni sull'apicoltore. Le guardie scossero il capo, alzando il pollice: «Honey very good...» Marc si rimise in marcia. La strada rettilinea s'inoltrava in mezzo alla grigia boscaglia. Non un bivio né una curva: soltanto una pista asfaltata, ritagliata nella foresta, per portarti «lì». Incrociò alcuni contadini in bicicletta, sommersi da balle di palme; capanne dove si vendeva la benzina dentro bottiglie di whisky; elefanti che si preparavano a una faticosa giornata di passeggiate turistiche. Ammirava soprattutto i grandi alberi argentati, di cui aveva letto ancora una volta i nomi nella guida: ficus banian, ceiba, banani... A un tratto si trovò di fronte a una curva. O piuttosto a un angolo retto, che finiva contro un fiume immobile, tappezzato di ninfee. Marc si fermò e scrutò le acque stagnanti. Non c'era nessun cartello. E nemmeno un passante. Percepì, per puro intuito, che qualcosa si profilava sulla sinistra, dietro alla linea degli alberi, dopo la prima ansa del fiume.
Cambiò marcia e si avviò in quella direzione. La strada si faceva sempre più arida e polverosa. Foglie minuscole si spargevano sul terreno. La vibrazione del motore si mischiava al loro attrito sull'asfalto. Marc continuava a tenere d'occhio la sponda sinistra, intuendo che lì stava per spuntare una qualche presenza. Allora, improvvisamente, vide le leggendarie torri di Angkor Vat ergersi al disopra delle ninfee e della distesa verdeggiante del fogliame. Cinque pannocchie di mais, dai contorni cesellati, disposte a ventaglio, che erano considerate, nella memoria collettiva, il simbolo assoluto dei templi costruiti nella giungla. Marc dapprima non ci credette. Come gli accadeva sempre davanti a un quadro troppo famoso, non trovava i propri punti di riferimento. Non riconosceva l'immagine che aveva in mente. Tutto ciò sembrava inverosimile. Stonato. Poi, quasi subito, fu investito dal sentimento contrario: ebbe la consapevolezza di una familiarità naturale. Come se avesse vissuto da sempre accanto a quelle costruzioni. Non si fermò. Secondo la mappa doveva ancora percorrere molta strada prima di raggiungere il Bayon, l'altro tempio maggiore, in prossimità del quale l'apicoltore aveva le sue arnie. Seguì la pista lungo il fiume e dopo una decina di minuti, all'estremità di un ponte di pietra gli apparve un portale monumentale attorniato da guerrieri e dragoni. Quell'ogiva massiccia, costituita da blocchi verderame, era dominata da un immenso volto placido le cui labbra sorridenti emanavano, come un vapore acqueo, saggezza e dolcezza. Dall'altro lato non c'era una città: continuava la foresta. Marc proseguì. La vastità del luogo era da capogiro. La giungla, alta, ventilata, sembrava non finire mai. I capelli al vento, respirando l'aria scaldata dal sole, Marc si godeva il paesaggio. Ammirava gli alti fusti cinerei, l'immenso fogliame che si apriva dinanzi a lui come mani che volessero accoglierlo. Poco oltre, in fondo alla strada, gli parve che gli alberi s'immobilizzassero. Marc attribuì questo fenomeno a un effetto della luce. E invece no: man mano che si avvicinava, le cime rifiutavano di allontanarsi, le foglie non si muovevano più. Disegnavano adesso linee, sagome curve, ornamenti. Pietra. Si trovava in vista del primo tempio, scolpito nel cuore della foresta. In fondo alla vegetazione si annidavano torri e terrazze. Marc modificò ancora la sua prima impressione. Erano delle facce. Delle facce nel bel mezzo della giungla... In ogni pezzo di laterite, in ogni blocco di grès si celava una fronte, uno sguardo, un sorriso. Il tempio gli veniva incontro come una
processione di divinità, calma e lenta. Era giunto a destinazione. Aveva trovato il Bayon, soprannominato la «foresta di volti». Marc fece il giro del tempio. Sul terzo lato scorse, in cima alle scale, un muro scolpito. Spense il motorino e vi si avvicinò, scavalcando centinaia di blocchi crollati, sparsi nel terreno. Quella facciata era di una straordinaria complessità: una serie di terrazze sovrapposte, ornate ciascuna da decine di volti, con espressioni, sguardi e corone sempre diversi. Nelle nicchie comparivano danzatrici, campeggiavano guerrieri. Tutto era intagliato, lavorato, cesellato. Reggendo sempre la sacca da turista, Marc pensava agli artisti che avevano eseguito quelle meraviglie. Aveva l'impressione di penetrare all'interno del loro cervello. Come se ogni particolare, ogni angolo rivelasse un aspetto della loro coscienza, della loro esigenza, delle loro ossessioni. Questo pensiero gli fece rammentare Reverdi e il suo impero notturno. «Cerca l'affresco.» Ecco il luogo che aveva voluto indicargli: quei bassorilievi in movimento, da dove i soldati «guardavano» il territorio dell'apicoltore. Sì, ne era certo, il miele non era più tanto lontano. 51. Marc scoprì la fattoria, una cinquantina di metri più in là, nell'asse del bassorilievo, dietro un gruppo di alti alberi di ceiba. Due edifici lerci, disposti a L, i cui tetti erano coperti di foglie secche. Un cartello annunciava con fierezza: LABORATORIO DELLA FORESTA. Sulla sinistra si trovavano decine di casse di legno rialzate da terra: le arnie. Tutt'attorno ronzavano nuvole di api. Simili a gatti selvatici, alcuni ragazzini ballavano, volteggiavano, si agitavano tra le file, rivaleggiando in rapidità con gli insetti. In mezzo al gruppo Marc scorse una figura che non era più alta delle altre, ma sembrava molto più vecchia. Il «maestro d'oro». A vedere il suo aspetto, il soprannome pareva esagerato. Era una specie di scheletro rinsecchito, con la testa avvolta da un logoro sarong, ormai rosso per effetto della laterite. Un cappello di paglia gli teneva fermo davanti al viso un brandello di rete da ping-pong verde. L'uomo camminò verso Marc, scostando il velo e mostrando un viso cotto dal sole e solcato dalle rughe. I ragazzini lo seguirono. Uno di loro portava degli scarponi senza lacci, un altro era infagottato in una giacca di fal-
so tweed, chiusa con una cordicella, un altro ancora indossava un impermeabile sul torso nudo. Tutti avevano quella stessa rete verde davanti agli occhi. Giunti vicino a Marc, sollevarono all'unisono la visiera, rivelando lo stesso sguardo malizioso. Marc si presentò, parlando in inglese. L'apicoltore dovette percepire il suo accento e gli rispose in francese. Un francese della vecchia scuola. «Molto lieto, signore... Mi chiamo Som.» C'era un che di beffardo nel suo viso a forma di pigna. I marmocchi attorno a lui continuavano a strillare e a strattonarlo. Scoppiò a ridere: metà dei suoi denti erano d'oro. «Ed ecco figli e nipoti. Passata una certa età, vivere senza bambini è come rinsecchirsi. C'è molta tristezza a vivere soltanto per sé stessi. Non è d'accordo?» Marc annuì senza molta convinzione. Gli ultimi ragazzini con cui era venuto a contatto riposavano in cassetti di acciaio inossidabile, in fondo a un obitorio. Omicidi. Pedofilia. Incesto. La solita solfa. Per evitare che gli venissero rivolte domande personali, parlò subito della morte di Linda Kreutz, continuando a gesticolare per allontanare gli insetti. La scena lo fece pensare alle Cameron Highlands: le cose si ripetevano. «Quella ragazza...» disse l'apicoltore con una smorfia. «Davvero, è una cosa molto triste. Ma quanto baccano attorno a lei! Sa quanti assassini sono ancora in libertà in Cambogia?» Marc prese un'aria di circostanza. Si aspettava l'inevitabile lamentela sul genocidio khmer, ma si sbagliava: Som non era un rompiscatole. L'apicoltore si tolse i guanti e chiese: «Lei viene a interrogare me su Jacques Reverdi?» Il suo francese presentava qualche lacuna, ma non la sua mente. Marc annuì con la testa, notando che sulle mani del vecchio, macchiate di laterite, si dispiegava l'intera gamma dei rossi e dei bruni: dall'ocra all'arancione, passando per diverse tonalità di carminio. Le api e i bambini erano scomparsi. Adesso si erano scatenati gli uccelli, che si davano alla pazza gioia. «Non posso dirle nulla di sensazionale», proseguì battendosi i guanti sul braccio. «Mi piaceva molto Jacques. Veniva a trovarmi quando lavorava nel cantiere di Ba-Phuon.» Marc non era disposto ad ascoltare altri elogi: «Avrà forse saputo che è stato colto in flagrante delitto di omicidio, in
Malesia.» Il vecchio scosse vigorosamente il cappello di paglia. Da ogni suo movimento si sprigionava un odore dolciastro, un po' stomachevole: «Sì, certo. Ma stento a crederlo. Soprattutto il metodo mi sconcerta. Così selvaggio. Jacques è un uomo molto posato, molto...» si puntò le dita rosse sul petto, «...interiore.» Marc non aveva voglia di evocare, per l'ennesima volta, le molteplici personalità dell'assassino. Disse con tono deciso: «Senta...» «No. Senta lei. Jacques, grande uomo, per la meditazione. L'apnea aveva portato a lui tranquillità della mente. Sa come si pratica meditazione?» «No.» Il vecchio fece ruotare l'indice, verso l'alto: «Questa sera, nella sua camera, osservi ventilatore. Le pale girano talmente in fretta che non si riesce a distinguerle. Il cervello umano, uguale. I nostri pensieri vanno troppo veloci. Impossibile districarli.» Rallentò il gesto: «Ma fermi il ventilatore. Guardi ogni singola pala che si precisa, che ritrova la propria forma... Faccia lo stesso con la mente. Isoli ogni idea. La osservi sotto tutte le angolazioni. Ecco il ruolo della meditazione. Trasformare il pensiero in oggetto fisso...» Marc sospirò: «Che cosa c'entra con Reverdi?» «Lui era il campione. Il maestro. Poteva isolare un'idea, considerarla sotto tutti gli aspetti. L'apnea gli ha dato potere.» Marc fu distratto da uno strano rumore che persisteva sotto il grido degli uccelli. Un fruscio languido che - adesso se ne rendeva conto - aveva sentito fin da quando era arrivato. Girò la testa e scorse, alle sue spalle, a destra delle arnie, una muraglia di minuscole foglie compatte, verdissime, molto leggere, che si muovevano e ondeggiavano. Dei bambù. Quel «laboratorio della foresta» includeva una bambusaia. Allontanandosi da quel mormorio, si avvicinò a un banco su cui poggiavano bottiglie e boccali contenenti una sostanza vischiosa e dorata. Doveva ritornare allo scopo della visita: «È questo il miele che Reverdi comprava da lei?» L'apicoltore gli si accostò trotterellando. «No. Questo, miele da mangiare. Jacques comprava miele per curare.»
«Per curare?» Con la mano rossa, prese un flaconcino: «Miele molto raro, che rimargina le piaghe.» Schiacciò l'indice contro il pollice. «Coagula il sangue. Come dite in francese? E-mo-sta-tico.» Marc gli prese la fiala dalle mani. Era appiccicosa. Le api continuavano a ronzargli attorno. «Questo miele permette d'incollare i lembi delle ferite?» «È il migliore per cicatrizzare. Reverdi lo comprava per le ferite da corallo. Di solito lentissime da cicatrizzare. Con questo, nessun problema... Si mette su piaga. Il miele asciuga, capillari e pelle si richiudono. In pochi secondi. Niente di meglio!» Marc aveva l'impressione di precipitare dentro sé stesso. Scrutava i riflessi del vetro come il fondo del crogiolo di un alchimista. Le parole di Wong-Fat gli sferzavano la memoria: «Adesso che so che Reverdi è un assassino, immagino cosa fa alle ragazze.» E aveva aggiunto: «Supera ogni comprensione.» Marc fu sul punto di scoppiare a ridere. E di farsi prendere dallo sgomento. Sì: andava al di là di ogni comprensione. Adesso gli era chiara l'atrocità del rito. Filando a tutto gas sul motorino, Marc faceva il punto sulle sue scoperte. Come punto di partenza, la riflessione del dottor Alang: per quale motivo l'assassino aveva inferto ventisette ferite per dissanguare un corpo che, dopo il decimo taglio, era già completamente svuotato? Risposta: perché il sangue non era ancora colato. Ogni incisione che Reverdi praticava veniva immediatamente richiusa per mezzo del miele emostatico. Una ferita dopo l'altra veniva così tappata con il liquido che si seccava seduta stante. Quando aveva completato l'opera, Reverdi liberava il sangue in un colpo solo. Come? Con una fiamma. Avvicinando una candela o un accendino, liquefaceva il miele che aveva mantenuto incollati i lembi delle ferite. Allora le piaghe si aprivano e il sangue scorreva tutto insieme. Marc aveva la prova di questa tattica: i segni delle bruciature che lui stesso aveva notato sulle fotografie. Alang supponeva che l'uso del fuoco servisse a impedire al sangue di coagulare. Si sbagliava: il calore serviva a
fluidificare il miele. A questo proposito, un altro mistero veniva svelato: la presenza dello zucchero nel sangue. Fin dall'inizio Alang aveva pensato che quel sangue si fosse arricchito di zuccheri all'interno del corpo, tramite l'assunzione di alimenti. Era invece successo l'inverso: lo zucchero e il sangue si erano mescolati all'esterno, nel momento in cui, sciogliendosi, il miele si era diluito con l'emoglobina che scorreva dalle piaghe! Marc stringeva il manubrio. La strada gli si offuscava davanti agli occhi. Possedeva ormai tutte le risposte alle domande di Reverdi. Capiva ogni termine, ogni virgola del suo linguaggio esoterico. Segnali che «Volano e Brulicano»? Ferite coperte di miele, «abitate», simbolicamente, dalle api. Segnali «dell'Eternità»? Tagli che si aprivano sulla morte, dopo una breve battuta d'arresto. Reverdi non aveva forse scritto, per fornirgli un indizio: «C'è solo un modo per contemplare l'eternità; trattenerla, per qualche istante»? Sì, grazie al miele, Reverdi tratteneva la morte. Tratteneva il liquido vitale per meglio liberarlo, in un colpo solo. E trasformare la vittima in una fontana di sangue. 52. Nella stanza, la luce di mezzogiorno si proiettava sulle pareti bianche con insostenibile violenza. Chiuse bruscamente le doppie tende. La penombra lo calmò. Dai teli bruni traspariva adesso soltanto una luminescenza aranciata, del colore del tè. Prese il computer dalla borsa ma, quando stava per aprirlo, fu colpito da un'allucinazione. Come su uno schermo cinematografico, vide sulla parete di fronte al letto la scena dell'omicidio di Linda Kreutz. Crollò sul letto senza distogliere gli occhi da quella terrificante proiezione. Il rito di Jacques Reverdi. Era una capanna. Una baracca con il tetto di palme e le pareti intrecciate. In fondo, nell'ombra, la ragazza era legata a una sedia, nuda. Si agitava ma non riusciva a muoversi di un centimetro né a spostare la sedia che era fissata a terra. Tentava anche di gridare, ma un bavaglio la costringeva al silenzio. Soltanto i capelli vaporosi si muovevano, senza alcun rumore, come una bandiera
agitata disperatamente. Marc non avrebbe saputo dire perché, ma «vedeva» delle candele poggiate a terra davanti a lei, a semicerchio. Il campo di visione si spostò lateralmente e apparve Reverdi, anche lui nudo, seduto a gambe incrociate, dall'altro lato delle fiamme palpitanti. Sembrava in un atteggiamento di devozione, di preghiera. D'un tratto si alzò. Gli si materializzò nella mano destra un coltello da sub che alla luce dei ceri sembrava uno stelo d'oro. Ne appoggiò la punta sotto la clavicola destra di Linda. Il gonfiore della carne stretta dalle corde sembrava invitare la lama. Lui la introdusse in profondità, senza sforzo. Marc trattenne un gemito. Reverdi mantenne l'arma dentro la carne e con l'altra mano prese un pennello lucente di miele con cui spalmò il contorno della ferita. Soltanto allora estrasse, molto lentamente, il coltello, continuando a perfezionare l'otturazione con il pennello. Quando sentì che il miele si stava seccando e saldava le labbra della piaga, tolse definitivamente il coltello. Indifferente alle urla soffocate della donna e alle sue vane contorsioni, passò alla ferita successiva. Un nuovo Segnale dell'Eternità, lungo il Cammino della Vita. Poi passò a un'altra ancora... Sul muro, Marc vedeva tutto. La luce bruno-dorata del capanno. L'ombra vacillante dell'assassino, riflessa sulle pareti intrecciate. I due corpi nudi, grondanti di sudore, uno di fronte all'altro in una mescolanza sottile di sensualità e religiosità. Marc non sapeva più se dormiva o se era sveglio. Non aveva più coscienza del tempo. A un tratto, constatò che il corpo era pronto: coperto d'incisioni, rilucente di miele, ma senza la minima goccia di emoglobina, pronto a crepare, in tutte le accezioni del termine. Lentamente Reverdi poggiò l'arma e il pennello, poi prese una candela. Con destrezza e precisione, accarezzò ciascuna piaga con la fiamma, facendo sciogliere le tracce di miele. Ogni volta, si formavano sulla superficie dell'intaglio delle bolle d'oro, poi, dopo un secondo appena, le carni si socchiudevano e gocciolava il sangue. Tutto si svolgeva così rapidamente che l'omicida sembrava tenere in mano un fulmine, una lama zigzagante di luce. Allora, come una diga che cede sotto l'irruenza della piena, il corpo di Linda si aprì. Con un urlo di terrore soffocato, la giovane tedesca sgranò gli occhi quando vide spargersi il proprio sangue. La sua pelle abbronzata diventava il territorio di un'allucinante inondazione. Rigoli, ruscelli, fiu-
mi... Scorreva la linfa, l'intero corpo si anneriva, spandendosi sulle assi del pavimento e trasformando la capanna in un terrificante vaso di Pandora. Marc si precipitò in bagno. Vomitò la paura, il disgusto, la forza della visione. Vomitò il suo legame con l'assassino. Vomitò l'assassino, che ormai lo possedeva. Gli spasmi lo sollevavano da terra. Si strozzava, soffocava, rendeva l'anima... Cadde in ginocchio, un lato del viso a contatto con la tazza del water. La frescura della ceramica gli procurò un sollievo indicibile. Ma aveva il viso ancora in fiamme. I vasi sanguigni delle tempie, scoppiati, parevano formicolare a fior di pelle. Senza cambiare posizione, tese il braccio verso il lavabo e trovò a tentoni il rubinetto. Fece scorrere l'acqua lasciandovi sotto la mano. Passarono così lunghi minuti finché a poco a poco il freddo non invase il suo organismo. Alla fine, riuscì ad alzarsi. Si asperse il viso, poi ritornò in camera dove il calore gli sembrò parossistico. Mise in moto l'aria condizionata, il ventilatore meccanico, e soltanto in quell'istante si accorse, attraverso le tende, che era calata la notte. Il suo delirio era durato l'intero pomeriggio. Decise di farsi una doccia. Per rimettersi completamente in sesto. Trenta minuti dopo era steso sul letto, lavato, pettinato e con la mente lucida. O quasi. Erano le venti. Se avesse avuto un minimo di buonsenso sarebbe uscito per mettere qualcosa nello stomaco, per esempio una porzione abbondante di riso. Ma soltanto l'idea di mangiare gli fece ritornare il mal di stomaco. No: aveva di meglio da fare. Ora doveva scrivere. Al mostro. Al boia. Accese il computer, collegò il modem e s'installò sul letto. Bisognava mettere giù le conclusioni di Elisabeth, nei minimi particolari. Ce l'aveva fatta, aveva capito la verità. In cambio il suo «amato» doveva fornirle ora nuovi indizi. Marc non doveva più dare tregua all'assassino. Per cui decise di andare sino in fondo. Oggetto: ANGKOR - Spedito giovedì 29 maggio, ore 20. Da:
[email protected] A:
[email protected] Amore mio, Sono stata sul punto di perderti e mi è sembrato di impazzire. Sei tornato da me ed è ora come una luce che mi colma di nuovo e mi pervade di felicità. Ma la tua assenza ha avuto un risvolto positivo. Mi ha provocato una lacerazione che ha spazzato via le ultime scorie dalla mia mente e mi ha permesso di guardarmi in fondo all'anima. Quando ho creduto che tu mi avessi abbandonata, mi sentivo nuda, sperduta, come strappata a me stessa. Ho capito allora che il senso della mia vita era quello di seguirti... sino in fondo. So ormai che questa ricerca è il viaggio insperato che darà un senso alla mia vita. Una ricerca che mi arricchisce, mi esalta, mi purifica e tesse fra di noi un legame che non ha eguali. Amore mio: mi hai offerto una seconda possibilità e io l'ho colta a piene mani. Ho seguito il tuo ordine. Ho seguito le tue parole. Ho trovato l'affresco ad Angkor. Ho parlato con il «maestro d'oro», l'apicoltore che alleva le api e coltiva il miele che tu utilizzi. Finalmente ho trovato la via. Ho decifrato il significato dei «Segnali dell'Eternità»... Marc scrisse per oltre un'ora con quello stesso tono appassionato. Fece il resoconto delle sue ricerche nei minimi dettagli, riferendo persino la puntata al «Cambodge Soir» e l'incontro con la principessa Vanasi. Non intendeva nascondere nessuna delle sue vittorie. Sapeva che Reverdi avrebbe immaginato la bella Elisabeth, nelle sembianze di Khadidja, mentre percorreva le strade di Phnom Penh, il cortile del Palazzo Reale, le rovine di Angkor Thom... Poi raccontò ciò che immaginava: le incisioni lungo le vene, la cicatrizzazione istantanea grazie al miele, l'apertura delle ferite con la fiamma. Quando ebbe terminato il lungo messaggio, lo spedì senza rileggerlo. Non voleva fare il minimo ritocco, per conservarne la spontaneità. Si stupiva come non mai della sua abilità nel mettersi nei panni di Elisabeth. Quel tono infiammato, quell'ammirazione amorosa gli venivano in modo del tutto naturale. E preferiva non indagare troppo all'interno di sé stesso per scoprire da dove tirava fuori quelle parole equivoche... Ma c'era di peggio: la crisi allucinatoria che aveva subito nel pomeriggio. Per alcune ore, lui era stato Reverdi.
Il suo profilo si faceva sempre più confuso. Cinquanta per cento Elisabeth. Cinquanta per cento Reverdi. Dov'era il vero Marc? Le tre del mattino. Non aveva ancora preso sonno. Nell'oscurità, le mani incrociate dietro la nuca, osservava il ventilatore che girava senza sosta. Gli ritornavano in mente le parole dell'apicoltore: «Le pale girano talmente in fretta che non si riesce a distinguerle. Il cervello umano, uguale. I nostri pensieri vanno troppo veloci. Impossibile districarli.» Per distrarsi tentò mentalmente di isolare una parte dell'elica. Se vi fosse riuscito, forse sarebbe saltata fuori una nuova idea. Il vecchio aveva detto: «Trasformare il pensiero in oggetto fisso.» A un tratto si tirò su dal letto: era appena stato colpito da una folgorazione. Doveva rendere il mondo partecipe degli esiti delle sue indagini. Non poteva conservare per sé le cose straordinarie che aveva scoperto. Un libro. Doveva scrivere un libro. Un documento che raccontasse la sua avventura. Una testimonianza senza precedenti della sua discesa all'inferno. Doveva divulgare la sua esperienza, rivelare agli altri il segreto che stava mettendo a nudo. Isolava, al pari di un ricercatore scientifico, un virus malefico. Era una data nella storia della conoscenza umana! In quell'istante gli si raggelò il sangue. In realtà, non avrebbe potuto pubblicare nulla. Persino dopo l'esecuzione di Reverdi. Per un motivo semplicissimo: sarebbe stato immediatamente accusato di «occultamento di prove» e «intralcio alla giustizia». Sarebbe saltato fuori non solo che aveva condotto una propria indagine, nella più assoluta riservatezza, riuscendo a ottenere informazioni fondamentali, ma anche che aveva seguito il processo senza muovere un dito, senza offrire il minimo aiuto. I suoi metodi abietti - l'impostura, le menzogne - sarebbero stati condannati. E anche la sua indifferenza nei confronti delle famiglie delle vittime. Neanche per un momento aveva preso in considerazione di fornire ai genitori informazioni sulla scomparsa delle figlie... Uno stronzo di giornalista, un cinico verme che meritava di essere punito: ecco le onorificenze che gli sarebbero spettate. Senza contare che era già stato condannato due volte, nel 1996 e nel 1997, per «molestie», «violazione della privacy» e «furto con scasso». Era scampato alla gattabuia per un pelo. Questa volta non avrebbe evitato la
galera vera e propria. Cercò di rilassarsi, di prendere atto di questa delusione. Si concentrò ancora sul ventilatore e di nuovo tentò di fermare mentalmente il movimento, visualizzando una delle pale. Man mano che focalizzava l'attenzione, sentì un'altra idea affiorargli nella mente. Un pensiero ancora confuso ma che poteva farlo uscire dal tunnel... Allora, d'un tratto, seppe. Un romanzo. Doveva scrivere un'opera di narrativa, in cui avrebbe raccontato la verità senza farlo capire a nessuno. Gli sarebbe bastato discostarsi dai fatti ufficiali resi pubblici dai mezzi d'informazione e tutti avrebbero creduto che la storia fosse di pura fantasia. Sì. Avrebbe scritto un romanzo che sarebbe sembrato una storia straordinariamente «vera», perché tutto, o quasi, sarebbe stato vero. Un'onda si srotolava dentro di lui. Qualcosa che era rimasto represso, sepolto nel suo cuore per moltissimi anni. I suoi sogni perduti di essere un romanziere. Le speranze soffocate di diventare uno scrittore. Da quanto tempo aveva rinunciato a scrivere un'opera letteraria? Da quanto tempo quel progetto era stato accantonato nel mare delle sue disillusioni? Ma oggi aveva preso una decisione. Dalla sua storia sarebbe nato un thriller implacabile. Un thriller scritto dall'interno. Dettato direttamente da un assassino. 53. Jacques Reverdi osservava il corpo di Hajjah Elahe Tengku Noumah, membro della famiglia reale del sultanato di Perak. Il ragazzo era stato appena rinvenuto morto nella sua cella. Alle tre del mattino, durante una ronda d'ispezione. Per trasportare il cadavere erano stati chiamati due «volontari», e uno dei due era Reverdi. Avevano sistemato il corpo nell'ambulatorio dell'infermeria, in attesa di trasferirlo nell'obitorio dell'Ospedale Centrale. Il dottor Gupta, ancora assonnato, aveva chiesto a Jacques di vegliare su di lui, ed era ritornato a letto. Da un primo esame si era orientati a pensare a un suicidio. Il giovane aristocratico si era impiccato in cella con il cavo del televisore. Impiccato: Reverdi era d'accordo. Ma certamente non di sua spontanea volontà. Il ra-
gazzo era stato trovato inginocchiato a terra, con le vertebre cervicali rotte; il cavo era legato alle tubature del lavabo. Chi poteva impiccarsi in ginocchio, con la sola forza di volontà? Un uomo come Jacques, forse, ma non un marmocchio come Hajjah. Un rampollo di buona famiglia, che non aveva mai dovuto fare il minimo sforzo in vita sua. Non appena era rimasto solo con il cadavere, Reverdi aveva palpeggiato gli arti inferiori. Le articolazioni delle gambe erano molli: fratturate. Era facile immaginare la scena. I filippini, mandati dai cinesi, con il beneplacito di Raman, avevano fatto irruzione nella cella di Hajjah. Dopo averlo imbavagliato lo avevano strangolato con il filo del televisore che era stato fissato alle tubature. Gli avevano poi tirato le gambe, in orizzontale, con tutta la loro forza, sino a fracassargli le vertebre. Reverdi aveva inoltre notato tracce di pelle sotto le unghie della vittima. Il ragazzo aveva tentato di difendersi mentre lo stavano squartando. Quale possibilità aveva di scampare a degli assassini che avrebbero liquidato chiunque per un pacchetto di sigarette? Una volta Hajjah gli aveva chiesto di proteggerlo. Lui aveva risposto: «Si vedrà.» Un'altra volta Eric aveva implorato il suo aiuto. Lui aveva risposto: «Si vedrà.» E adesso si vedeva. Non aveva alzato neanche il dito mignolo per difendere il ragazzo. Non che provasse rimorso. La galera non è basata su un sistema di mutuo soccorso o di solidarietà. È un mondo in cui gli interessi personali convivono, senza confondersi. Talvolta si possono alleare per un obiettivo comune, ma la regola è quella di non uscire mai dalla propria cerchia di esistenza. È la logica dei topi, quella in cui l'intelligenza serve soltanto per l'immediata sopravvivenza. Eppure, adesso, tutto era cambiato. Approfittando di quella veglia funebre in mezzo a boccali di formalina e disinfettanti, Jacques aveva consultato, nell'infermeria deserta, la sua casella di posta elettronica, utilizzando la microagenda. Lo aspettava una meravigliosa sorpresa: Elisabeth aveva scoperto la via. Aveva capito il significato dei Segnali dell'Eternità. E usava adesso un linguaggio di puro amore. Jacques aveva scritto un messaggio a sua volta, esprimendosi anche lui senza inibizioni e dando nuove istruzioni. Provava ogni volta una vaga apprensione. Aveva ragione di darle fiducia fino a tal punto? Quelle parole,
quei fatti, fino a oggi, non erano mai stati rivelati a nessuno... Ma non aveva scelta. Era l'unica via per unirsi a Elisabeth. Un'ora dopo fu riportato in cella, in tempo per il primo appello. Andò in bagno e prese lo spazzolino da denti. All'estremità del manico aveva inserito una lama di rasoio nascondendola tra le setole. Uno strumento omicida totalmente invisibile. Passò lentamente l'indice sulla lama. Era tempo di vendicare Hajjah. E di offrire il suo tributo di sangue a Elisabeth. 54. Domenica 1° giugno. Thailandia. Le tredici. L'isola di Phuket nascondeva bene il suo gioco. Il modesto aeroporto, i chioschi di souvenir, le capanne dipinte delle agenzie turistiche: tutto emanava un sentore tropicale e isolano. Una perfetta meta esotica. In realtà Phuket era una delle zone più calde della Thailandia. Uno dei maggiori centri di turismo sessuale. Marc sapeva che stava penetrando in un nuovo girone dell'inferno. Dopo la Malesia e le ferite tratteggiate, la Cambogia e le piaghe saldate con il miele, che cosa gli avrebbe riservato la Thailandia? Sabato mattina, poche ore dopo aver spedito il messaggio, aveva ricevuto la risposta. Oggetto: TAKUA PA - Ricevuto il 31 maggio, ore 8.30 Da:
[email protected] A:
[email protected] Amore mio, Aspettavo con impazienza che ritrovassi la tua strada. La «nostra» strada. Questa linea che ci unisce, tesa sotto il mondo delle apparenze e l'universo mediocre degli uomini. Lise, amore mio, sei riuscita a riannodare questo legame. Hai persino scelto di togliere ogni inibizione al nostro linguaggio e te ne sono grato. Anche per me quel silenzio è stato una vera e propria lacerazione...
Le tue scoperte ci autorizzano adesso a riavvicinarci ancora. Ben presto nella nostra unione non ci saranno più limiti. Ma prima devi superare la terza tappa. Devi recarti in Thailandia. Più precisamente in un'isola del Sudest... Marc aveva perso la navetta del mattino a Siem Reap e aveva quindi dovuto pazientare fino a sera prima di poter far ritorno a Phnom Penh. Lì aveva ripreso una stanza al Renaksé e atteso l'indomani mattina per prendere un altro volo, in direzione di Bangkok. Subito dopo l'atterraggio, senza uscire dall'aeroporto, era salito su un altro aereo verso Phuket. Un altro territorio di caccia dell'assassino: l'apneista aveva lavorato lì per molti anni. Le sue indicazioni si facevano sempre più precise: A Phuket noleggia un'auto e risali la costa verso nord. Attraversa il ponte e raggiungi il continente, in direzione della frontiera birmana. Quando arriverai a Takua Pa, riceverai nuove istruzioni. Importantissimo: devi subito noleggiare un telefono cellulare sul quale connetterai il computer in modo da ricevere i miei messaggi ovunque tu sia. In conclusione, Reverdi offriva un nuovo indizio da scoprire: Il metodo non è tutto, amore mio. Un rito necessita di uno spazio particolare. Un luogo sacro dove ogni gesto rivesta un significato superiore, dove ogni movimento sia un simbolo. Ti stai dirigendo adesso verso uno di quei luoghi. La Camera della Purezza. Mantieni la rotta. Stai per penetrare nell'ambito stesso del Segreto... Il Cammino della Vita. I Segnali dell'Eternità. E ora la Camera della Purezza. Reverdi lo stava guidando, senza mezzi termini, sulla scena di un crimine. Marc era in subbuglio: sentiva, fisicamente, che si stava avvicinando all'assassino, che penetrava nel suo regno. A cinquanta metri dall'aeroporto, all'ombra delle palme, Marc scorse le agenzie di autonoleggio. Erano semplici chioschi di legno bianco. Scelse una Suzuki Caribbean, un tipo di jeep decappottabile, coperta di tela az-
zurra e dotata di aria condizionata. Noleggiò anche un cellulare e fece un abbonamento, sullo stesso contratto. Il padrone dell'agenzia lo scortò fino all'auto, mettendolo in guardia contro il monsone che stava incominciando a soffiare nel nord del paese. Marc fu tentato di rispondergli che non temeva la tempesta. Si stava infatti dirigendo proprio verso l'occhio del ciclone. Lungo la strada Marc non faceva che pensare al romanzo. In quegli ultimi due giorni aveva già riordinato gli appunti con l'idea di costruirlo su una trama poliziesca. Niente di più facile: già il viaggio in sé era un romanzo poliziesco. Da quando aveva preso quella decisione, non aveva più avuto il minimo dubbio. Questo progetto lo confortava nella sua indagine, su tutti i fronti. Nei suoi appunti, aveva già iniziato a scrivere «io» quando assumeva il punto di vista dell'assassino. Marc incominciava anche a sognare miraggi meno disinteressati. E se avesse scritto un best-seller? D'un tratto s'immaginava il successo, la gloria, i soldi... Raggiunse Takua Pa alle cinque del pomeriggio. Una cittadina di provincia, piatta e polverosa, con alcune cisterne d'acqua come unici punti di riferimento. Quell'antico emporio portoghese, situato all'interno del paese, non aveva nulla a che vedere con le località turistiche che aveva incrociato per tutto il viaggio. Lì non c'era un solo straniero, e dovette girare a lungo per scovare un albergo. Infine, sul retro dell'unico distributore di benzina esistente, localizzò un edificio biancastro, scalcinato, che sembrava un ospedale riciclato. L'unico albergo decente di Takua Pa. All'interno, l'impressione d'ospedale era ancora più netta: lunghi corridoi grigi, porte strette, finestre con le grate. Un vero e proprio ospizio. Marc pagò in anticipo e salì al quarto piano. Stava calando la notte. Accese la lampadina priva di paralume che costituiva l'unica fonte di luce nella stanza. Una semplice cella, senza mobili né suppellettili. Un luogo di passaggio dove non si poteva rubare nulla; nemmeno un souvenir. Collegò il computer: non era arrivata nessuna mail. Decise di uscire a cena. Scoprì alcuni tavolini all'aperto vicino alla pompa di benzina e mandò giù il solito fried rice. Quando risalì in camera erano solo le sette. Nessun messaggio. Si sdraiò e studiò dettagliatamente la cartina della costa thailandese. La frontiera birmana distava ancora duecento chilometri. Dove lo avrebbe condotto Reverdi?
Marc si mise al computer e s'immerse negli appunti, rivedendo e aggiustando la sinossi. L'unica differenza con la propria avventura era che nel romanzo l'assassino non era ancora stato messo dietro le sbarre. L'investigatore, più accorto dello stesso Marc, otteneva risultati solo a forza di indagini, senza usufruire di aiuti o consigli da parte dell'assassino, del quale si seguivano le «imprese» in parallelo. Alle ventidue chiuse il computer dopo aver controllato ancora una volta la posta elettronica, poi spense la luce. L'ultima cosa che vide fu una colonna di formiche che si stava arrampicando lungo il muro. La sensazione seguente fu quella di una mano che lo afferrava per la spalla. Marc pensò confusamente al tizio della reception al pianterreno, ma non gli aveva chiesto di venirlo a svegliare. Voltò la testa e vide una candela nella mano dell'uomo. La cera che stava gocciolando sulle dita strette a pugno era miele. Si girò di soprassalto: Reverdi era chino su di lui. Viso scarno, cranio rasato, torso nudo. Gli sorrideva mormorando: «Presto, nasconditi, arriva papà!» Marc cadde giù dal letto. Un incubo. Soltanto un incubo. Guardò l'orologio. Le quattro e quarantacinque. Accese il computer. Il messaggio era arrivato. Oggetto: KUALA - Ricevuto il 2 giugno, ore 4.10 Da:
[email protected] A:
[email protected] Amore mio, Adesso sei a Takua Pa. Approfitto del fatto che sono di guardia in infermeria (sono salito di grado, qui) per scriverti le nuove direttive. Non appena leggerai queste righe rimettiti in cammino. Sempre verso nord. Fino a Khuraburi. Lì, guida fino all'uscita dalla città: vedrai alla tua destra un'agenzia turistica, la Jinda Tours. È l'unica che organizza escursioni verso un'isola al largo: Koh Surin. Prendi un biglietto di andata e ritorno giornaliero. Non pernottare sull'isola. Non partecipare a visite sottomarine guidate. Un dettaglio: non dare un nome falso. Non cercare di passare inosservata.
Ricordati sempre di questa regola: meno ti nascondi e meno ti si nota. Quando sarai sull'isola, lascia il gruppo e vai per conto tuo. La Camera della Purezza non sarà più molto lontana. Starà a te scoprirla. Penetra all'interno e osserva ogni particolare. Allora capirai meglio ciò che è successo, realmente, in quel luogo affrancato dal mondo. Il mio cuore è con te. Jacques Marc richiuse il computer e la borsa, poi scese al pianterreno. Era ancora notte. La hall dell'albergo era deserta. Il guardiano sonnecchiava nell'ombra. Uscì senza far rumore e raggiunse l'auto. Se ne stava andando come un ladro. Un ladro di segreti. 55. Due ore dopo Khuraburi apparve nell'aurora. La città aveva già un piede nella mangrovia. Le case basse sembravano scivolare nell'acqua, sotto i paletuvieri. In fondo alla strada principale Marc trovò l'agenzia. Erano soltanto le sette del mattino, ma tutto sembrava già cotto dal sole. Marc prenotò un posto sul traghetto delle otto. Di lì a poco venne fatto salire su un autobus, assieme ad altri occidentali che arrivavano alla spicciolata, ancora semiaddormentati e con l'aria stravolta. C'erano svedesi, tedeschi, americani e thailandesi. Per sua fortuna non c'era in vista nessun francese: Marc temeva di dover conversare sulla sua esperienza di viaggio. Al tempo stesso aveva la sinistra sensazione che il suo segreto fosse evidente, come una macchia cutanea sul viso. Dopo alcuni chilometri raggiunsero l'imbarcadero dove li aspettava un grande Speedboat bianco. Si imbarcarono sotto un cielo che non prometteva niente di buono e Marc ripensò all'avvertimento dell'uomo dell'agenzia di noleggio. Tuttavia il sole cominciò a riapparire a sprazzi man mano che il motoscafo scivolava fra i meandri delle paludi. Arrivarono al mare aperto sotto un cielo abbagliante e terso. Il monsone sarebbe stato per un'altra volta. Installato a poppa, Marc rifletteva sul post-scriptum del messaggio di Reverdi, una specie di consiglio supplementare:
Lise, amore mio, quando cercherai la Camera della Purezza, quando camminerai nella foresta, non dimenticarti mai di osservare, di percepire ogni dettaglio intorno a te. Man mano che ti avvicinerai alla Camera, ci sarà un altro segno ad attenderti. Una cosa senza la quale nulla sarebbe possibile... Ricordati dei «Segnali che Volano e Brulicano». Dovrai cogliere, nella giungla, un altro movimento. Un alito, un fremito che annuncerà l'imminenza della Camera... Il rito è vivo, amore mio. Non è mai lettera morta. Cerca il movimento, tra la vegetazione, e scoprirai la Camera... A Marc non piaceva l'allusione ai Segnali che avevano rischiato di mandargli a monte l'inchiesta. Non era pronto a inciampare ancora una volta in un enigma vegetale o animale. Che cosa intendeva Reverdi? Uno sciame di insetti? Un volo di uccelli? Un fiume? Aveva come l'intuizione che per l'assassino il suo rito fosse inscindibile dalla foresta, che lo considerasse un elemento della natura fra gli altri. Un atto vivente, organico, che si inseriva nel bioritmo della giungla. Non era improbabile persino che ne facesse una condizione sine qua non per l'equilibrio della fauna e della flora. Marc si ricordava di un serial killer negli Stati Uniti, Herbert Mullin, che pensava di impedire i terremoti tramite gli omicidi e decifrava nelle viscere delle sue prede il grado di inquinamento dell'aria. Dopo due ore di traversata giunsero a Koh Surin. Un'isola di smeraldo adagiata su un mare intensamente blu. Tutto sembrava allo stato vergine, non ancora toccato dalla mano dell'uomo. Tuttavia, non appena mise piede a terra, Marc scoprì la catastrofe. Centinaia di turisti erano accampati sulla spiaggia, in un'infinità di tende allineate l'una accanto all'altra, al riparo degli alberi. Formicolavano come tanti scarafaggi, deturpando la bellezza che pretendevano di ammirare. Marc aveva chiesto informazioni: Koh Surin era un parco nazionale. Divieto assoluto di costruire. Gli imprenditori thailandesi avevano aggirato la legge installando un gigantesco campeggio. Alcune baracche di legno offrivano i servizi essenziali. Su una era dipinto a mano: DIVING, SCUBBA, SNURCKLING. Reverdi aveva probabilmente lavorato lì in qualità di istruttore sub.
Prese da un banco una cartina dell'isola e abbandonò i compagni alle loro attività: stavano già provando maschere e pinne per fare un diving tour. Koh Surin era un fazzoletto di terra a forma di arachide, non più lungo di due chilometri. Marc poteva tranquillamente farne il giro prima della fine del pomeriggio e raggiungere il gruppo in tempo per la partenza. Risalì la spiaggia verso est, imbattendosi in enormi radici di petuvieri, poi s'inoltrò sotto le palme. Trovò subito un sentiero che costeggiava il pendio e consentiva di seguire il litorale dall'alto, sotto la vegetazione. Erano le undici. La foresta frusciava, chiazzata di ombre e di luce. Le foglie e le liane bisbigliavano segreti d'acqua e di linfa. Ogni tanto Marc scorgeva il mare sotto di lui. In ogni caletta il colore dell'acqua cambiava. Pozze di turchese o di giada. Anfratti più profondi al mentolo o piccole distese di lavanda, come in un disegno a tempera. A volte Marc intravedeva un gruppetto di thailandesi che facevano il bagno in modo originale: vestiti da capo a piedi, equipaggiati di giubbotti di salvataggio, indossavano valorosamente maschera e boccaglio, mentre l'acqua gli arrivava soltanto alle ginocchia. L'intera isola brulicava di un turismo avvilente, eppure Marc aveva la sensazione di un'assoluta solitudine. Seppe in quel momento che era in sintonia con Jacques Reverdi. Il suo modo di vivere contraddittorio. Solitario e segreto, in luoghi troppo frequentati e sempre minacciati dalla civiltà. Marc percepì un cambiamento attorno a sé. Una sorta di alleggerimento, di affinamento dei suoni. E anche un'attenzione, una benevolenza indirizzate a lui. La giungla si chinava, lo circondava, lo accarezzava... Ci mise qualche secondo a capire: i bambù. Si trovava in mezzo a un'enorme macchia di graminacee che oscillavano languidamente al vento. Per puro intuito, Marc s'inoltrò nella vegetazione: un sentiero scendeva verso sinistra, sino al margine della falesia a strapiombo sul mare. Non aveva fatto più di venti passi quando scorse, nascosto sotto il fogliame, un tetto nero. Con assoluta certezza seppe che aveva trovato la «Camera della Purezza». La capanna dove aveva vissuto Jacques Reverdi e dove probabilmente aveva sacrificato una delle sue vittime. 56. Una capanna di assi e palme in una minuscola radura. Al minimo alito di vento, le foglie di bambù lambivano i muri, ricoprivano il tetto. Marc tese l'orecchio: nessun movimento all'interno. Procedendo con estrema cautela,
percorse il perimetro della costruzione: la porta e le finestre erano sigillate. Marc si decise a forzare la serratura. La prima sensazione fu l'odore di muffa. Non notò però alcuna traccia di umidità. Il capanno era stato in qualche modo preservato dalla stagione delle piogge. Fece qualche passo ed esaminò l'ambiente. Pareti nude, pavimento di assi, un tavolo e una sedia nell'angolo più lontano dalla porta, sulla destra. Una stuoia di rafia incartapecorita a sinistra. Nessuna traccia di sangue. Nessun segno di violenza. Nella penombra, appoggiato al muro, Marc distinse un equipaggiamento da sub: cintura con pesi, bombola d'aria compressa, riduttore di pressione, muta in neoprene, lampada frontale... Era proprio la tana di Jacques Reverdi, istruttore sub. Ma perché «Camera della Purezza»? Riprese a camminare avanti e indietro. In quella capanna c'era qualcosa che non quadrava. Un particolare che non coincideva con la sua realtà fisica. Richiuse la porta. L'oscurità lo avvolse. Era impossibile. In questo tipo di costruzioni la luce del sole filtra sempre attraverso una moltitudine di fessure. Riaprì la porta e osservò con attenzione le pareti: gli interstizi tra le assi erano stati accuratamente ostruiti con fibre vegetali, di giunco o rafia. Alzò lo sguardo e osservò il punto di congiunzione tra le pareti e il tetto, dove abitualmente c'è un'apertura, un'aerazione naturale. Ma anche quello spazio era stato sigillato con foglie di palma pressate, tenute insieme con fili di giunco. Marc abbassò lo sguardo. Incredibile: anche gli interstizi tra le assi del pavimento erano stati riempiti con del silicone. Osservò la porta e ottenne la conferma: anch'essa era stata sigillata con fibre vegetali, cosicché, una volta chiusa, non avrebbe lasciato filtrare la minima particella d'aria. La Camera della Purezza. Reverdi aveva accuratamente predisposto la sua cella affinché nessuna scoria, nessuna polvere potesse penetrarvi. Gli tornarono alla mente le parole dell'ultimo messaggio: «Un rito necessita di uno spazio particolare. Un luogo sacro dove ogni gesto rivesta un significato superiore, dove ogni movimento sia un simbolo.» Marc pensò alle crisi di apnea di Reverdi, quando si chiudeva al mondo cessando di respirare. Qui riproduceva lo stesso fenomeno, ma su un'altra scala. La capanna ermetica diventava lo spazio del suo io, della sua follia.
Il prolungamento della sua persona. La dottoressa Norman aveva detto: «...la scena del delitto diventa una sorta di espansione di sé. Jack dispiega il suo essere in quello spazio e vi provoca un afflusso di sangue, per meglio proteggersi...» Ancora una volta la psichiatra aveva visto giusto. Marc prese a tremare, a dispetto del calore. Si proiettò mentalmente nel corpo di Reverdi quando non respirava più. Immaginò il sangue che convergeva verso gli organi vitali, rossi, palpitanti, come braci in un focolare... In questo ambiente il processo era lo stesso: il sangue si concentrava al suo centro, nella Camera della Purezza. Marc si sentì soffocare. Senza nemmeno rendersene conto, aveva trattenuto il respiro. Si diresse verso la porta. Quando giunse sulla soglia, si voltò. La scena del crimine apparve distintamente davanti ai suoi occhi. Jacques Reverdi era seduto nella posizione del loto, gli occhi chiusi, circondato da ceri, bastoncini d'incenso e flaconi di miele. Il silenzio, la nitidezza sembravano pervadere lo spazio. Nemmeno una particella di polvere o d'aria poteva penetrarvi. Si poteva udire soltanto il fruscio dei bambù all'esterno, come una preghiera salmodiata da un'assemblea di fedeli. Jacques aprì gli occhi e contemplò la donna che si dibatteva per liberarsi dai lacci. Immersa nell'ombra, sembrava una crisalide di dolore che si torceva per liberare una farfalla di sangue. Jacques si alzò... Marc si addossò allo stipite della porta. Voleva fuggire ma non ci riusciva. Sentiva la fornace della capanna. Respirava le fumigazioni. Odori venuti da molto lontano, da terre aride e umide giungle. Gli tornarono alla mente dei versi del Cantico dei Cantici: Che cos'è che sale dal deserto come una colonna di fumo, esalando profumo di mirra e d'incenso e d'ogni polvere aromatica? Reverdi affondò una prima volta il coltello, nella gola. Marc urlò: sentì la lama farsi strada tra le vertebre. Uscì dalla capanna e si mise a correre, schiacciando i bambù sotto i piedi. Gli sembrava di udire i gemiti della vittima imbavagliata.
57. Alle diciassette Marc era all'imbarcadero di Koh Surin, pronto a ripartire. Un turista come tanti altri. Non tremava più. Sul suo volto nessuna emozione. Era lui stesso stupito del proprio autocontrollo. Nulla sembrava tradire l'esperienza che aveva appena vissuto. Si sedette a poppa, come all'andata, e fissò la terra che si allontanava. L'imbarcazione, il motore al minimo, costeggiò l'estremità orientale dell'isola. Marc seguiva con lo sguardo il tratto di costa che aveva percorso a piedi. Udiva persino il fruscio dei bambù scossi dal vento. Sentiva di nuovo le foglie sul suo volto, le onde verdeggianti tra le quali aveva «nuotato». Un'altra verità gli balenò d'un tratto alla mente. Quando aveva scelto quella direzione, aveva creduto di lasciarsi guidare dall'istinto. Ma in realtà, aveva inconsciamente ricordato le ultime parole di Reverdi: «Cerca il movimento, tra la vegetazione, e scoprirai la Camera...» I bambù. Era a loro che alludeva. All'improvviso ricordò altri particolari. La capanna di Papan, dove era stata uccisa Pernille Mosensen, era circondata da una foresta di bambù. Il cacciatore di farfalle, sulle Cameron Highlands, aveva sorpreso più d'una volta Reverdi tra i bambù. E Marc riudì anche il fruscio che aveva accompagnato il suo incontro con l'apicoltore, ad Angkor. Reverdi uccideva all'ombra dei bambù. Marc era convinto che queste graminacee avessero un ruolo anche nel rituale. Avevano forse una valenza purificatoria? Era necessario attraversarle per purificarsi dal mondo inferiore? O, al contrario, avevano conseguenze negative? Costituivano un fattore scatenante che faceva riemergere un antico trauma, inducendolo a uccidere? Marc sentì di nuovo le foglie sfiorargli la pelle, una strana carezza che gli evocava quella di due languide mani... Il motoscafo navigava ora in mare aperto. Marc chiuse gli occhi, sprofondando nei suoi pensieri. Si identificò con Jacques. Quando attorno a lui la foresta si animava, quando le ombre gli tremolavano dinanzi agli occhi, quando le foglie gli lambivano le tempie, la follia prendeva il sopravvento. Il suo desiderio omicida sbocciava come una pianta velenosa. Marc sollevò le palpebre e guardò gli altri passeggeri. Non riconobbe
nessuno. Voleva essere al più presto nella sua auto, al riparo, per precipitarsi a Phuket. Là avrebbe immesso tutto nel computer, inserendolo nella trama del suo romanzo. Al suo thriller mancava però ancora un titolo. 58. «French Kiss», «Pinocchio», «Soï Cow-Boy»... Le insegne al neon dei locali danzavano nelle pozzanghere di acqua piovana. Ogni facciata esibiva un particolare che la distingueva dalle altre. Una risplendeva sotto un ferro di cavallo. Un'altra era sovrastata da un radioso anello di Saturno. Un'altra ancora raffigurava l'entrata di un sottomarino. Ma davanti a tutte c'erano delle donne. O piuttosto delle ragazze, con costumi più o meno in tema con il locale dove lavoravano. Abiti con le frange, uniformi con vertiginosi spacchi o, più semplicemente, strisce e brandelli di tessuto che infiammavano i corpi. Ballavano tutte al ritmo di un'assordante musica techno. A volte si mettevano in fila, a braccetto, e dando le spalle alla strada mettevano in fuori il culo, a gambe larghe. Altre volte andavano a rimorchiare i clienti infilandogli una mano nella patta. Altre ancora avanzavano strizzandosi con le mani i seni nudi sui quali riluceva un cuore fosforescente. Marc camminava, i bagagli in mano, consapevole della sua andatura incongrua. Aveva guidato tutto il pomeriggio. Nonostante la pioggia, nonostante la notte che era calata alle sei, aveva sempre tenuto la sua media. Alle dieci di sera, mentre procedeva a caso attraverso l'isola, lungo una strada scarsamente illuminata si era imbattuto in un'autentica esplosione solare. Patang: il quartiere più caldo di Phuket. Non aveva resistito. Aveva lasciato la Suzuki in un parcheggio custodito e si era immerso nella frenesia. In cerca di un albergo. E di nuove sensazioni. In qualche modo sentiva che Reverdi si era aggirato in quei luoghi. Odori di cibo lo assalirono. Aglio, cipolla, peperoncino, coriandolo... I desideri e gli appetiti si mescolarono nel suo organismo. Le stesse ragazze, sottili e dorate, gli evocavano dolcetti glassati. Nonostante il peso della borsa, nonostante la stanchezza, sentì montare l'erezione: le ragazze thai possedevano una forza magnetica. Non a causa dei loro suggestivi costumi o degli atteggiamenti seduttivi, ma al contrario perché qualunque cosa facessero, conservavano sempre un tocco di innocenza, di purezza. Faccine da gatta, selvatiche contadinelle i cui alti zigomi soppiantavano il maquil-
lage e le mise provocanti. Era proprio questo «sapore di risiera» a essere eccitante. Marc osservava anche gli occidentali. I giovani, a gruppi, lattine di birra in mano, dissimulavano l'imbarazzo con risate beffarde; i vecchi, solitari, nuotavano come squali in acque tranquille; i grandi viaggiatori, stremati, osservavano quella baraonda con occhi distaccati. Ma in fondo a tutti quegli occhi c'era sempre lo stesso desiderio nudo. Lo stesso appetito, crudo e vile, preso con la mano nel sacco... Marc si interessava soprattutto a un'altra categoria: le straniere. Mogli al braccio del marito, stupefatte, a disagio; giovani con lo zaino, alla ricerca di un rifugio a buon mercato, che con espressioni corrucciate manifestavano la loro collera contro quel «mercato delle schiave». Sembravano smarrite. Confuse. Sotto il fuoco incrociato del desiderio dei maschi, che non era mai stato così chiaro e il cui oggetto non erano loro, e l'odio delle ragazze thailandesi, che le detestavano per essere venute lì a lustrarsi la vista come gli uomini. Marc pensò a Linda Kreutz, a Pernille Mosensen. Alle due presunte vittime di Reverdi in Thailandia. La sua convinzione si rafforzò: il predatore aveva cacciato qui. Quel quartiere era anch'esso una foresta, molto più folle, più inestricabile di quelle delle Cameron Highlands o di Angkor. Marc immaginò l'assassino che rassicurava le sue giovani compagne, le portava al riparo da quell'inferno, spiegando loro, con tono rassegnato, che «l'Asia funziona così». E cominciava già a sedurle e ipnotizzarle con la sua voce grave e pacata. Marc accelerò il passo, in cerca di un hotel. A rapporto. In camera, Marc evitò di sdraiarsi sul letto, per non addormentarsi all'istante, e si sforzò di scrivere a Reverdi. La parola spettava a Elisabeth, che raccontò il viaggio a Koh Surin, descrisse le sue scoperte. E lo fece tutto d'un fiato, senza la minima esitazione. Marc ebbe giusto la forza di collegare il modem alla presa del telefono e di inviare il messaggio. Appena sdraiato, sprofondò nel sonno. Quando il suo coltello, ancora una volta, picchiò contro un osso, spalancò gli occhi. Scoprì che la camera era attraversata da fasci di luce rosa e azzurra. La musica faceva vibrare le pareti e l'impiantito. Abbassò lo sguardo: la sua mano afferrava ancora un'arma immaginaria. Le due del mattino. Aveva dormito soltanto tre ore. E, naturalmente, aveva sognato l'omicidio. Piaghe incrostate e zuccherate. Carni violate da lame d'acciaio.
Il delitto non gli dava tregua. Non era forse quello che aveva sperato? Barcollò fino al bagno e si infilò nella doccia. Nei tubi bollenti l'acqua si manteneva tiepida. Si guardò nello specchio sopra il lavandino. Abbronzato, dimagrito, irsuto: un viaggiatore rimasto troppo a lungo al sole, che aveva perso tutti i punti di riferimento. Chi era lui, oggi? Fece ricorso alla sua formula rituale: cinquanta per cento Elisabeth; cinquanta per cento Reverdi; cento per cento impostore. Il suo sogno, come l'allucinazione nella capanna, era di un nuovo genere. Attraversato da sensazioni fisiche reali. Non immaginava più i crimini, li viveva. Che cos'era successo? Non trovava alcuna spiegazione, ma decise di approfittare della vicinanza del sogno, che gli formicolava ancora addosso, per scrivere una parte del romanzo, annotando le sensazioni precise, patologiche, dell'assassino. Scrittura automatica. Le sue mani si agitavano sulla tastiera del computer senza l'intervento della riflessione o della coscienza. Un altro al posto suo descriveva il suo desiderio omicida, il suo piacere nel veder colare il sangue, il suo godimento nell'impartire sofferenze. In un angolo della sua mente, Marc lasciava correre. Conservava le sue distanze da quell'essere immaginario che si esprimeva ora attraverso di lui. Non era forse questa la fatica del romanziere? Prestare il suo cervello, il suo tempo, al proprio personaggio? Tutt'a un tratto fece una scoperta che lo agghiacciò: la descrizione della scena dell'omicidio gli aveva provocato un'erezione. In preda al panico, guardò fuori della finestra. Il sole stava sorgendo. Si infilò la camicia, afferrò la chiave e si precipitò fuori, abbottonandosi mentre scendeva le scale. In un modo o nell'altro doveva incidere l'ascesso, dare pace al suo corpo. 59. Nelle strade non c'era più l'ombra di una ragazza, niente che lo attraesse. Si aggirava solo qualche prostituta ormai sulla via del ritorno. Donne da marciapiede senza età, stremate, il trucco pesante. Sollevavano le gonne esibendo le loro grasse cosce al passaggio degli ultimi nottambuli, apostrofandoli con voce roca sotto la livida luce dei neon che rendeva lo spettacolo ancora più abietto. Marc si diresse verso i bar che aveva scorto la notte prima. Chiusi. O vuoti. Camminò ancora. Gli spazzini spruzzavano getti d'acqua sulla car-
reggiata. Alcune coppie vagavano alla ricerca del loro albergo. I primi mendicanti sbucavano dai loro ricoveri notturni. Le donne cominciavano a uscire per la spesa, i neonati a tracolla, indifferenti alle facciate di stucco e alle insegne spente. La luce del giorno rivelava tutta la laidezza e l'impostura dello scenario, la pittura scrostata e le tracce di umidità sui muri. Sopraffatto dal desiderio, Marc vedeva in questa rovina soltanto un ostacolo, un intralcio alla propria soddisfazione. Immagini febbrili si sovrapponevano nella sua mente al desolante spettacolo delle mostruose creature che incrociava, prostitute scheletriche o al contrario enormi, che sembravano sul punto di esplodere sotto i raggi del sole nascente. Il cuneo d'ombra tra due seni turgidi, il triangolo di un giovane pube, la curva dolce delle natiche... Marc accelerò il passo. Dov'erano? Dov'erano le ragazze? Doveva forse penetrare negli oscuri cortili, nei retrobottega, salire nelle camere... Udì un sordo scroscio di risa alla sua destra. Appoggiati al banco di un bar, alcuni poliziotti thai, nelle loro rutilanti divise, discorrevano con la pistola in pugno. Più lontano, in una rientranza della strada, altri poliziotti prendevano a mazzate un uomo. Smontate le scenografie, erano ora visibili i sordidi meccanismi. Quelli che consentivano alla vetrina di funzionare, e alle schiere di occidentali di venire qui ogni sera a inebriarsi e a fare il pieno di sesso. Marc quasi correva. Era malato. Doveva trovare la medicina... Vide ancora delle silhouette malsane, tette strizzate e guance malrasate, sul lato opposto di un incrocio. Travestiti. Si diresse istintivamente verso di loro. In quel preciso istante fu bloccato da uno spettacolo inatteso. Il mare. Dietro l'angolo della strada c'era la sua immensità calma e scintillante. Questa visione lo paralizzò: la sua grandezza infinita, libera e indifferente era quanto di più estraneo potesse esserci al suo vizio. Allora un'altra presenza cancellò definitivamente le sue torbide velleità. Nella strada, illuminata dal sole e ancora cosparsa di cartacce e bottiglie vuote, uscivano in dolce processione le ragazze dei bordelli. Con i capelli umidi, senza trucco, vestite di un semplice sarong, non avevano più nulla a che vedere con le scatenate seduttrici della notte prima. Portavano tutte una ciotola di riso, che deposero sul marciapiede. Quando le vide arrivare, Marc non comprese il motivo di quel gesto. Silhouette vestite d'arancio, crani luccicanti, leggeri nel vento mattutino come delicati lampioni di carta. I monaci. Alcuni avevano un ombrello, altri avanzavano a coppie, a braccetto. Sembravano irreali su quel campo di
battaglia ancora fumante. I monaci presero le offerte, chinando ripetutamente il capo, mentre le ragazze erano inginocchiate, con le mani giunte sulla fronte. L'ora della preghiera e del perdono... Marc rimase a guardarli, frastornato. Quella scena l'aveva fatto tornare in sé. Ma il serpente si torceva ancora in fondo al suo ventre. In camera il bruciore riapparve, divorandogli l'inguine. Senza esitare, si precipitò in bagno e si masturbò seduto sulla tazza del cesso. Immagini caotiche gli esplosero nella mente. Vesti strappate, seni svelati, pubi messi a nudo, offerti, invitanti... Pezzi di carne appesi nella sua testa come foto appena sviluppate fissate a ganci da macellaio. Violentava giovani ragazze. Le penetrava, assaporando le loro lacrime e la loro umiliazione. Era profondamente abietto, ma molto lontano, dietro le quinte del suo teatro, aveva notato con sollievo che non c'erano scene di omicidio, né immagini di ferite. Almeno, non si eccitava più con il sangue. Giunse infine la liberazione, con lunghi, febbrili scossoni. Nel suo piacere c'era qualcosa di malato. Come l'esplosione di un ascesso. Marc si sentì appagato. Più che appagato: diverso. La folle frenesia che l'aveva dominato fino a pochi secondi prima era ora scomparsa. Come tutti gli uomini, conosceva da tempo quella sensazione. Quella brusca e brutale linea di confine tra il fuoco del desiderio e il brusco ritorno alla ragione. Ma quella mattina la frattura possedeva una violenza inedita. Era letteralmente diventato un altro. Guardava inebetito le sue dita impiastricciate di sperma e non capiva che cos'era successo. Marc giunse alla conclusione che quello doveva essere lo stato d'animo di Reverdi quando uccideva: finché non aveva soddisfatto la sua sete di distruzione, tutto il resto per lui non contava. L'intero universo doveva assoggettarsi al suo fantasma. Per precipitare poi, dopo la sua danza di morte, in uno stato di stupore, d'incredulità. A Papan i pescatori l'avevano trovato in preda a una profonda confusione. Sembrava avere scoperto insieme a loro il cadavere di Pernille Mosensen. Marc ricordava anche l'uomo grigio, legato alla poltrona nella sala di Ipoh, che continuava a ripetere: «Non sono stato io...» In quell'istante Jacques non era ancora uscito dallo shock. Doveva essere in panico al pensiero del crimine che aveva commesso. E rifiutare l'idea di esserne lui l'autore... In fondo, la spiegazione era forse più semplice di quanto Jacques avesse
immaginato. Jacques era solo, in senso sia proprio sia figurato. Non aveva un complice. Non soffriva di schizofrenia. Subiva soltanto le proprie morbose pulsioni, che quando si manifestavano esigevano di essere prontamente soddisfatte. Per contro, quando sceglieva la sua vittima, quando acquistava il miele, quando preparava la Camera della Purezza, sigillando ogni minimo interstizio, la sua mente era lucida. Allestiva con cura ogni dettaglio della cerimonia, consapevole che sarebbe presto arrivata la crisi, che l'irresistibile richiamo si sarebbe fatto sentire. Un po' come le tribù primitive preparavano l'altare dei sacrifici, in attesa che un «dio-tigre» o un «King Kong» venissero a reclamare il loro tributo di carne fresca. Ecco che cos'era Reverdi: un semplice fedele. Devoto ai propri dèmoni. Marc si alzò dalla tazza e si tuffò di nuovo sotto la doccia. Con gli occhi chiusi, restò a lungo sotto il getto tiepido, lavando il corpo e lo spirito dagli ultimi miasmi della sua trance. Non aveva dimenticato che la prima erezione gli era stata provocata da una scena di omicidio. Certo, lui non era andato a caccia di una vittima, ma soltanto di una partner sessuale. Aveva però provato la stessa follia, la stessa perdita di controllo... Quanto si era avvicinato alla «linea nera»? Quanti passi doveva ancora compiere per oltrepassarla? Uscito dalla doccia, Marc prese una decisione. Doveva lasciare al più presto l'Asia per non perdere definitivamente la ragione. Doveva farla finita con Reverdi. Scoprire il suo ultimo segreto e abbandonare l'inchiesta prima che fosse troppo tardi. Rientrare a Parigi. Finire il suo libro. Dimenticare l'incubo e godersi il successo. Marc afferrò impulsivamente il cellulare e digitò il numero di Vincent. Voleva ascoltare una voce amica. Una voce reale, «normale». Nessuna risposta. Erano le due del mattino a Parigi. Il gigante dormiva o non era ancora rientrato. Allora, mosso da un altro impulso inesplicabile, cercò nella custodia del computer la fotografia di Khadidja, che si era portato dietro per meglio condizionarsi in caso di mancanza d'ispirazione. Con le lacrime agli occhi, ammirò quel volto magnifico, quello strano sguardo che gli aveva sempre evocato una dissonanza musicale, poi si addormentò di botto, stringendo la foto al petto. 60.
Le dieci del mattino, sotto la canicola. Allungato sopra uno dei muri di separazione delle docce, le braccia piegate sul torace, Jacques Reverdi aspettava. Raman non avrebbe resistito. Nonostante l'ora, nonostante i rischi... Attualmente, il fighetto che godeva dei suoi favori era un indonesiano di nome Kodé, di sedici o diciassette anni, condannato all'ergastolo per avere sgozzato la madre con un frammento di tubo di scarico. Ogni giorno, verso le sei del pomeriggio, il capo della sicurezza lo raggiungeva qui, mentre gli altri detenuti tornavano nelle loro celle. Reverdi sorrise. Oggi le cose si sarebbero svolte in maniera diversa. Un'accecante luce bianca si riversava nelle cabine a cielo aperto, riverberando sulle ceramiche. Ogni parete, ogni angolo vibrava come i pannelli riflettenti usati dai fotografi. Jacques evitò di abbassare lo sguardo, per paura di essere abbagliato e perdere l'equilibrio. Restò immobile, con il ventre e la faccia schiacciati contro lo spigolo, respirando l'odore del mastice tra le piastrelle. In costume da bagno, non sentiva più le bruciature del sole. A questo stadio era lui stesso una fornace. Una materia incandescente il cui minimo movimento distillava effluvi di fuoco. Quando i dolori diventavano intollerabili, Jacques richiamava alla mente il suo piano, calandosi con tutto l'organismo nella sua ineccepibile logica. Le sue membra anchilosate vi si adattavano, inserendovisi come cartucce nel caricatore di una pistola. Raman non avrebbe resistito. Reverdi era andato a trovare Kodé. Gli aveva ordinato di attizzare lo sbirro dopo colazione e di attirarlo nelle docce: in quella cabina. La guardia sulle prime avrebbe diffidato, ma Reverdi poteva contare sul fascino del piccolo pederasta che in poche settimane aveva eclissato tutti i travestiti del braccio D. Jacques conosceva le manie di Raman. Quando si spogliava non si toglieva mai le scarpe con la suola di para e non si separava dal suo manganello elettrico. Prima di inculare i ragazzetti, gli appioppava una sequenza di violente scariche per fargli contrarre al massimo le chiappe e provare così, quando li penetrava, una sensazione di sverginamento. Gli squarciava l'ano, assaporando il sangue che colava sulle loro cosce e che lubrificava la penetrazione, e accarezzava la loro pelle ancora fremente d'elettricità.
Reverdi strinse entrambi i pugni attorno al manico del rasoio. Aveva portato dei guanti di crine, perché Raman faceva l'amore all'indiana, spalmandosi il corpo di olio di sesamo. Sotto la lingua sentiva l'ago per punti di sutura e il filo chirurgico che aveva preso in infermeria. Lanciò un'occhiata in basso, nel cubicolo della doccia, dove c'era il secchio con le frattaglie. Dalle cucine, come un'eco del suo piano, gli giunsero i rumori dei cinesi, da una settimana indaffarati a preparare il banchetto per il compleanno del gran capo delle gang han, cui tutta la comunità cinese era invitata. Reverdi sorrise all'idea della festa. Avrebbe portato il suo piccolo contributo al menu. All'improvviso udì un rumore. La luce bianca prese a vivere, ad agitarsi lungo le docce. Jacques tese i muscoli. Si portò rapidamente una mano alla chiazza sulla nuca, come fosse un feticcio, e poi infilò i guanti. Sentì ridacchiare il ragazzino. Poi, subito dopo, un grido di dolore. Raman l'aveva calmato con una scossa elettrica. La porta della cabina si aprì con violenza. Kodé, completamente nudo, fu scaraventato con la testa in avanti contro le piastrelle. Reverdi poteva vedere i suoi capelli scintillanti di olio di cocco, i muscoli che si gonfiavano sotto la pelle come piccole perle. Raman entrò nella cabina e chiuse la porta. Anche lui era nudo, con le scarpe di para e il manganello. Jacques era a soli cinquanta centimetri dalla sua testa. L'indonesiano si era raggomitolato sulle piastrelle, con le chiappe sollevate. Raman gli appioppò una serie di scariche sui reni, i glutei e le cosce. Ogni scarica gli faceva sbattere la testa contro il muro e inarcare ancora di più il culo, teso, vibrante, eccitante. Il ragazzino urlava. Reverdi lo lasciò fare. Dopo tutto, quella «vittima» aveva squarciato la gola della madre da un orecchio all'altro. Un colpo. Convulsione elettrica. Jacques contemplava affascinato la schiena scura di Raman. Le sue vertebre danzavano sotto la pelle lucente, come falangi in un guanto di seta nera. Il suo corpo era un fascio di muscoli. Uno strumento di violenza pura che esalava un dolce odore di sesamo. Un altro colpo. Lo sgozzatore supplicava. I glutei tesi, tremanti. Persino Reverdi era scosso da quello spettacolo di umiliazione sessuale.
Quando sentì montare l'erezione, capì che doveva agire. Allungò un braccio alla sua sinistra e riuscì a toccare il muro di fronte. Facendo leva sulla parete si sporse sopra la cabina, avvolgendola nella sua ombra. Raman, con il manganello in pugno, si voltò per vedere che cosa succedeva. Reverdi si buttò. Spinse la guardia contro la parete, gli puntò la lama del rasoio alla base del pube e con l'altra mano gli tappò la bocca. Raman si inarcò, gli occhi fuori delle orbite. «Get out!» ordinò Jacques al ragazzino. Lui non si mosse, paralizzato dagli spasmi. «I said: GET OUT.'» Il ragazzino se la filò. La porta rimbalzò contro la parete. Reverdi la chiuse con il tallone, senza mollare la presa. Nemmeno lui si era tolto le scarpe: il manganello elettrico sprizzava scintille sul pavimento bagnato. Aveva fatto bene a portarsi i guanti: il pervertito era luccicante d'olio. Raman non si muoveva più, respirava dalle narici. Reverdi era abbagliato dalla bellezza del loro faccia a faccia: un corpo di bronzo e un corpo di rame. Due atleti impegnati in una lotta, o in un atto d'amore. Per il momento, l'ambiguità non era risolta. Jacques spinse leggermente la lama del rasoio, quanto bastava per far stillare una goccia di sangue. Contro il suo pugno serrato sentiva i muscoli addominali della guardia, più duri dell'acciaio. Per un istante temette che la lama non riuscisse a penetrare quel carapace, ma un fiotto di liquido tiepido lo rassicurò - il sangue aveva cominciato a colare. Le narici di Raman palpitarono. I suoi occhi iniettati di sangue sembravano dire: «Non oserai.» Ma le sopracciglia moltiplicavano le rughe della sua fronte, gridando il contrario. Il dubbio. L'incertezza. Il panico. Aveva appena visto le frattaglie nel secchio. Jacques sorrise, a pochi centimetri dal suo volto. Sentiva l'ago e il filo sotto la lingua. Domandò in malese: «Ricordi quello che ti ho detto una volta?» Raman tremava, sbattendo le palpebre. «Meglio essere ricucito da morto che da vivo», aggiunse Reverdi. Poi conficcò la lama nel pube del malese e la fece risalire fino ai polmoni. 61.
Marc si risvegliò alle due del pomeriggio. La camera era inondata di luce. Le lenzuola fradice di sudore. Non serbava alcun ricordo dei suoi sogni e se ne felicitava. Stringeva ancora in mano la foto sgualcita di Khadidja. La depose come un oggetto sacro e scorse, sulla sedia di fronte al letto, il computer. Il suo salvagente, il suo unico riferimento. Tese un braccio e lo afferrò. Oggetto: RANONG - Ricevuto il 3 giugno, ore 8.10 Da:
[email protected] A:
[email protected] Amore mio, Sei penetrata nella Camera della Purezza e, senza saperlo, hai penetrato il «Suo» cuore. Il cuore palpitante dell'Artigiano Supremo. Ancora una volta, hai capito l'indizio. Ancora una volta, sei entrata in sintonia con la Sua Opera. Lisa, amo le tue parole, le tue deduzioni, le tue conclusioni. Il tuo modo di afferrare e descrivere l'Indicibile. D'insinuarti come acqua chiara nella Sua Scia. Ora resta un solo segreto da scoprire. Gli altri indizi, le altre tappe erano soltanto scalini per accedervi. Il Colore della Verità. Questo è il disegno dell'Opera: percepire, per qualche frazione di secondo, il Colore della Verità, che è anche il Colore della Menzogna. Se seguirai alla lettera le mie istruzioni, anche tu potrai, se non contemplarlo, almeno immaginarlo. D'ora in poi la procedura dei nostri scambi deve cambiare. Per motivi che ti spiegherò in seguito, qui a Kanara ci sarà qualche problema e rischio di non poterti scrivere né leggere per parecchi giorni. Accludo pertanto a questo messaggio alcuni documenti da consultare in ordine cronologico. Attenzione: non potrai leggere un messaggio prima di aver eseguito le indicazioni del precedente. Questa condizione è essenziale. D'altro canto, solo rispettando questa regola potrai comprendere il significato dei messaggi. La ricerca volge al termine, amore mio. Quando possederai l'Ul-
tima Conoscenza, io sarò in un certo senso liberato. Sarò nudo dinanzi a te. E tu sarai vestita di luce. Allora potremo unirci. Ti amo Jacques Marc preferì non attardarsi su quelle dichiarazioni d'amore. Che cosa voleva dire quando prometteva di unirsi a Elisabeth? Non volle nemmeno riflettere sui nuovi termini del gioco degli indizi: «il Colore della Verità», «il Colore della Menzogna». La solita rifrittura esoterica. Doveva semplicemente attenersi agli ordini. Aprì il primo allegato in Word. Dovunque tu sia a Phuket, ritorna al centro dell'isola e prendi la 402. Dirigiti verso l'aeroporto. Sulla strada troverai il Bangkok Phuket Hospital. Al pronto soccorso c'è un ambulatorio per prostitute e tossicomani che offre cure gratuite e strumenti di prevenzione come profilattici e siringhe ipodermiche. Entra e prendi una siringa sotto vuoto. Soltanto allora potrai aprire il secondo allegato. Marc sentì il sangue ghiacciarglisi nelle vene. L'evocazione di una siringa implicava un'iniezione, o un prelievo. Su cosa? Su chi? Le risposte non erano molte: Jacques Reverdi lo stava ora orientando verso una delle sue vittime. Il prelievo sarebbe stato eseguito su un cadavere. In fondo, questo epilogo non lo sorprendeva. L'aveva già intuito. La sua iniziazione doveva compiersi in uno dei santuari dell'assassino. Reverdi aveva ucciso più volte. Dov'erano quei cadaveri? Come li nascondeva? La risposta era nell'ultimo dei «documenti allegati» memorizzati nel computer. Fu tentato di aprirli subito - ce n'erano sette - ma poi cambiò idea. Doveva seguire le regole. La strategia del maestro. Arrivò all'ospedale alle quattro. Lo stomaco vuoto, la mente in subbuglio. L'acquisizione della siringa non presentò alcuna difficoltà. Nessuna domanda, nessun formulario. Il personale era abituato ai pazienti bizzarri. E con la sua faccia Marc passava facilmente per uno di loro. Un medico voleva addirittura auscultarlo. Marc si rifiutò e gli chiese invece: «Some-
thing for headache.» Aveva un'emicrania che gli spaccava la testa. Marc mandò giù l'aspirina e si tenne la scatola per sicurezza. Nel parcheggio dell'ospedale lesse il secondo documento. Prendi di nuovo la strada continentale in direzione Takua Pa. Questa volta continua dritto, verso Ranong, vicino alla frontiera birmana. È un viaggio di circa quattrocento chilometri, ci metterai all'incirca dieci ore. Non esitare a fermarti per dormire, dovrai arrivare nelle vicinanze di Ranong di giorno. Per individuare il segno, lungo la strada. Cerca il cerchio, dolcezza mia. L'occhio nella terra. Quando lo vedrai, apri il documento successivo. Sii paziente: stai avvicinandoti sempre più a me... Marc guidò verso nord. Allucinato, tremante, con la siringa nella plastica che rotolava sul sedile accanto. Quando calò la notte non aveva ancora raggiunto Takua Pa. Si fermò in un «resort», un complesso di bungalow appollaiati su una collina di fronte al mare. Si addormentò alle venti, senza nemmeno accendere il computer. La mattina dopo alle cinque era di nuovo al volante. In piena notte, la strada costeggiava la giungla nera. A poco a poco la vegetazione diventò grigia, per poi trascolorare nell'azzurro via via che l'orizzonte si illuminava. Le liane, gli alberi, le foglie assunsero l'aspetto di una foresta di spilli. Lenti vapori salivano dal fogliame: la foresta si svegliava. Alla fine l'azzurro si liberò dall'oscurità per diventare freschezza, fertilità, rigoglio. Il verde. Una pirotecnica esplosione di foglie e cime... Marc non staccava gli occhi dall'asfalto, fissando allo stesso tempo l'orologio sul cruscotto. Alle dieci superò Takua Pa. A mezzogiorno Khuraburi. I cartelli per Ranong si moltiplicarono. Se non staccava il piede dall'acceleratore poteva arrivare alla frontiera birmana prima delle quattro del pomeriggio. A cinquanta chilometri da Ranong il traffico si diradò. I turisti erano scomparsi e la regione ritrovava la sua primitiva maestà. La foresta, incandescente, sembrava sul punto di prendere fuoco. I succhi, le linfe, le resine evaporavano in profumi, essenze, gas infiammabili... Ma Marc tremava, nonostante il riscaldamento dell'auto fosse al massimo. Quando si tergeva
il sudore dalle palpebre gli sembrava di toccare un pezzo di ghiaccio. «Cerca il cerchio», si ripeteva. «L'occhio nella terra.» Il suo sguardo spaziò sulle vallate che si rincorrevano in lontananza. Che cosa doveva trovare? Un cartello? Una costruzione? Una strada? A venti chilometri da Ranong notò una canalizzazione che emergeva da un colle. Rallentò. Il cilindro di cemento sembrava un organo uscito da un ventre aperto. Marc notò che si era sbagliato sulla distanza. Era molto più lontano di quanto avesse creduto: in fondo a un precipizio. Aveva tutta l'aria di essere un cantiere abbandonato. La prima sfera, enorme, sovrastava alcuni tronconi metallici affondati nel fango. All'improvviso, all'ombra delle pareti apparvero degli uomini, più piccoli di formiche. Avevano tutti lampade frontali, ancora accese. Minatori. Marc capì che era arrivato. L'occhio nella terra: una miniera. Parcheggiò sul ciglio della strada e aprì il terzo documento. Dopo il cerchio, prendi la prima strada a sinistra. Dopo circa cinque chilometri arriverai a un imbarcadero. Non cercare cartelli, non è un porto. Soltanto un pontile da cui salpano i pescatori d'ambra che si arrischiano a oltrepassare la frontiera birmana. Una volta arrivato, cerca un marinaio e chiedigli di portarti a Koh Rawa-Ta. Nonostante il tuo accento, ti capirà: è una delle isole di fronte al litorale. Sii generosa, attraccare a Koh Rawa-Ta non è facile a causa dei banchi di corallo lungo la riva. Quando sarai in vista dell'isola, apri, sulla barca, il documento successivo, dove troverai le ultime istruzioni. Tremo scrivendoti queste righe, amore mio, perché ti immagino mentre le leggi. Ciò significa che sei ormai soltanto a pochi chilometri dalla Verità. Lise mia, ti tendo la mano. Al di là degli uomini, delle apparenze e delle menzogne. Al di là della mediocrità e della ragione, ti ho trovata. Tocca adesso a te trovarmi. Marc chiuse lentamente il coperchio del portatile. Notò che, nello slancio della passione, Reverdi non usava più la terza persona. Le maschere erano cadute. Il tempo delle distanze e delle precauzioni era finito. Avviò il motore e si diresse verso l'isola.
62. Quando arrivò all'imbarcadero stava per scoppiare un temporale. Marc sorrise. Tutto tornava perfettamente. Il monsone che aveva scansato alla vigilia, a Koh Surin, sarebbe sopraggiunto oggi, al momento della tappa cruciale. Non fece nemmeno in tempo a parcheggiare l'auto che cominciò a piovere. Le prime avvisaglie dell'annunciato diluvio. Quelle che gli asiatici chiamano pockets rain, «tasche di pioggia» o «piogge da tasca», Marc non aveva mai capito. Il pontile era in condizioni miserevoli. Sembrava un cimitero marino, lungo un braccio di mare. Barche in secca, barconi arrugginiti, semisprofondati nella melma, incrostati di sale e alghe. Sull'altro lato, alcune baracche cieche sovrastavano le mangrovie, appollaiate su piloni alti come ciminiere di fabbriche. Tutto era deserto. Dopo un po' incappò in un pescatore che riparava le reti seduto sulla sua barca. Marc pronunciò più volte il nome di «Koh Rawa-Ta». L'uomo gli chiese tremila baht. Per rispettare le forme, Marc contrattò sul prezzo. Poi gli mostrò l'orologio: 17.30. Il pescatore gli indicò sul quadrante che avrebbero raggiunto l'isola alle sei. A quell'ora sarebbe già stato buio. Avrebbe avuto soltanto una mezz'ora per trovare l'ultimo indizio. Ma non poteva più attendere. Non avrebbe pazientato ancora una notte. Corse a cercare nell'auto un poncho per ripararsi dalla pioggia, una torcia elettrica, il computer... e la siringa. L'uomo l'aiutò a salire a bordo e intascò duemila baht. Marc si installò a prua. Era un'imbarcazione tipica della regione, molto stretta, con un piccolo motore fissato su una lunga asta al termine della quale girava l'elica. Il pescatore manovrò il timone. Seguendo il dedalo degli acquitrini, raggiunsero l'estuario. L'acqua era nera, come contaminata dalla tempesta, e densa come gasolio. All'uscita dalle paludi si alzarono le onde. I flutti assunsero una tonalità bruno-giallastra, ferruginosa. Marc aveva la sensazione di attraversare ere immemorabili. L'età del bronzo, l'età del ferro... L'orizzonte pareva un filo di piombo, nero e teso. Tutto il monsone sembrava concentrarsi in una fascia dura e compatta. Le nuvole, color sangue coagulato, erano striate dai fulmini. Spesse cortine di pioggia oscuravano ulteriormente lo scenario, creando qua e là fondali di tenebre. Marc protesse l'attrezzatura sotto il poncho. Attorno alla barca il mare aveva assunto ora un colore indaco. Lanciò uno sguardo al pescatore. In
piedi a poppa, come un gondoliere, indicò con il mento un punto alla sua destra. Dalla bruma cominciavano a emergere le isole solitarie. Coperte di giungla, sembravano smeraldi fluttuanti sull'acqua. L'uomo tese un dito. Koh Rawa-Ta era quella in mezzo. Come per sottolineare il suo gesto, un lampo solcò il cielo illuminando la vegetazione dell'isola. Navigarono per una ventina di minuti. Marc riusciva ora a distinguere dei particolari: le pareti grigie delle falesie, gli alberi coperti di liane, la linea di schiuma bianca che segnava il confine tra la terra e il mare. Il pescatore spense il motore a duecento metri dalla costa. Impossibile avvicinarsi di più: fondali troppo bassi. Reverdi gliel'aveva detto. Ma doveva esserci un passaggio, un modo per accostarsi di più... Era ora di aprire il quarto messaggio. Proteggendo il computer con il poncho, Marc cliccò sull'icona. Amore mio, sei dunque vicina all'isola. Ora dovrò orientarti all'interno del gioiello. Ricorda: a Koh Surin hai scoperto il respiro che avvolge ogni Camera della Purezza. Cerca qui lo stesso soffio e troverai il luogo... I bambù. Doveva cercare una foresta di bambù sull'isola di Koh RawaTa. Ma questo non lo aiutava ad accostarsi. Continuò a leggere. Quando avrai scoperto la Camera, dovrai immergerti nella sua ombra. Là ti attende qualcosa. Una chiesa. Devi trovare questa chiesa e attraversarla. Risalire la navata, il coro, l'abside... Fino a trovare i transetti dove si respirano profumi d'incenso. Preleva allora con la siringa la purezza che si libra a quelle altezze. È qui che ha sede il Segreto. Il Colore della Verità. Che è anche quello della Menzogna. Adesso, amore mio, io chiudo gli occhi. E ti immagino dinanzi al Segreto. Quando sarai abbagliata da questa luce oscura, noi potremo unirci. Il Segreto sigillerà le nostre anime e i nostri corpi in una sola e unica Grazia. Ti amo.
Sotto il poncho, Marc soffocò una bestemmia. Non capiva nulla di quel messaggio. Neanche l'ombra di un'indicazione su come accostarsi all'isola. Solo ermetiche farneticazioni sulla «chiesa» e i «transetti». L'imbarcazione si era avvicinata di un centinaio di metri alla costa. Marc strinse le palpebre ma non scorse nessuna macchia più chiara fra il fogliame: niente bambù all'orizzonte. Fece segno al pescatore che voleva fare il giro dell'isola. Lui rispose con una smorfia, indicandogli con il palmo della mano che il fondale era troppo basso. Marc tirò fuori altri mille baht. Il pescatore li intascò. Imprecando, fece ripartire il motore. L'imbarcazione retrocedette e descrisse un anello per circumnavigare l'isola dalla destra. Il thai seguiva un itinerario preciso, tra le barriere coralline che emergevano qua e là. Marc non intravide foglie di bambù. Soltanto fitte e buie foreste, nelle quali si aprivano a volte delle caverne. Il paesaggio gli evocava L'isola dei morti di Arnold Böcklin. C'era la stessa presenza oscura, lo stesso segreto raccoglimento, con sullo sfondo l'impenetrabile giungla. La luce continuava a declinare. Marc stimò che gli restavano poco più di quindici minuti. Stavano costeggiando una falesia che sorgeva a picco dal mare. Apparve una spiaggia, le palme così inclinate da sembrare orizzontali. Ancora nessuna traccia di bambù. Calava la notte. La pioggia era sempre più intensa. Il pescatore fece un gesto esplicito: dovevano rientrare. Marc gli rispose con un altro gesto: continuiamo. L'altro fece di no con la testa e iniziò a virare senza attendere la risposta. Tutt'a un tratto, un inconfondibile fruscio colpì le orecchie di Marc. Un fruscio leggero, rigoglioso, languido. Il vento glielo portò per poi subito soffiarlo via, come un miraggio sonoro. Ma lui non aveva dubbi: i bambù erano là, da qualche parte lungo la scogliera. Quando la barca virò, infilandosi tra due grosse onde, Marc scorse il nastro verde chiaro dei bambù proprio sopra la spiaggia, sulla destra. Tra i lunghi fusti delle palme, le loro foglie sembravano formare una nuvola immateriale. Marc urlò, tendendo l'indice. Il thailandese fece di no con la testa e continuò la sua manovra. Senza un attimo di esitazione, Marc strinse nella tasca la siringa, si tolse il poncho e si tuffò in mare. L'acqua fredda gli alterò la respirazione. Ebbe l'impressione di essere penetrato nell'occhio stesso del ciclone. Venne subito afferrato dalla corrente, aspirato in un corridoio che si snodava tra i
banchi corallini. Batté le braccia, graffiandosi il ventre e scorticandosi i gomiti sulle concrezioni. Ma un miracolo lo salvò: la corrente lo portava verso riva... Si sforzò di non muoversi: si fece leggero, sentendo le creste dei coralli che gli sfioravano il torace. Alla fine approdò e uscì dall'acqua. Sotto la luna, la spiaggia era bianca come gesso. Allontanandosi dalla risacca, udì meglio il fruscio delle foglie. Il rumore diventava assordante. Parevano sogghigni di streghe. Marc si voltò verso il mare. Il pescatore era sempre là. Sembrava furioso. Ma era sicuro che l'avrebbe aspettato. Si diresse verso la foresta di bambù che sovrastava la spiaggia. Dopo pochi passi distinse più chiaramente la forma che aveva creduto di scorgere dalla barca. Una palafitta, addossata alla falesia. Un semplice bungalow chiuso, abbellito da una terrazza. Quattro metri circa di larghezza. Cinque di profondità. L'antro di un Robinson Crusoe. O soltanto una rimessa per attrezzature sub. Fu improvvisamente colto da un'inesplicabile angoscia. E se lo stessero aspettando? Se Reverdi gli avesse dato appuntamento con qualcun altro? Cominciò a formulare le ipotesi più strampalate: il padre, l'avvocato... Abbandonò quei pensieri e decise di fare prima il giro della capanna. Accese la torcia e si infilò tra il bungalow e la falesia. Ispezionò la superficie dei muri. Gli bastò un'occhiata per avere la conferma di quello che già sapeva: la capanna era stata «trattata». Ogni interstizio era stato sigillato con fibre di giunco e silicone. Uscendo sull'altro lato del bungalow, si rese conto che la notte era ora più luminosa. Alzò gli occhi. Le nuvole erano in fuga. La luna piena brillava come un sole freddo. La sabbia, imbevuta di pioggia, rifletteva i suoi raggi come una distesa di madreperla. Marc spense la torcia e si sentì meglio, in presa diretta con la luce notturna. Salì sulla terrazza. Anche qui constatò che le superfici erano state sigillate. Per un breve istante si disse che il cadavere era all'interno, ma era impossibile. Reverdi non aveva messo piede in Thailandia da almeno sei mesi, non avrebbe mai lasciato putrefare un corpo, nemmeno in uno spazio protetto. Marc si piazzò davanti alla porta e la prese a calci. I suoi movimenti erano intralciati dai vestiti zuppi d'acqua. La porta cedette. La spalancò per far entrare la luce della luna. All'interno non c'era quasi nulla. Una bombola d'aria compressa. Un riduttore di pressione incrostato di sale. Una cintura
con i pesi. Una lampada frontale. Nessun segno di lotta né di violenza. Nessuna traccia di sangue né di cera di candela. Nessun oggetto sospetto. L'inoffensivo riparo di un uomo selvaggio. Che cosa avrebbe dovuto trovare qui? «Quando avrai scoperto la Camera, dovrai immergerti nella sua ombra. Là, ti attende qualcosa. Una chiesa.» Marc cercò di seguire il ragionamento dell'omicida. Sacrificando le sue vittime, credeva di purificarle. Diventavano loro stesse dei luoghi sacri. Delle «chiese». Marc batté il tallone sul pavimento. Nessun doppio fondo sotto le assi. Pensò ai pali che sostenevano il bungalow. La soluzione era più semplice: Reverdi aveva sotterrato il cadavere nella sabbia, sotto la capanna. Uscì e scese sotto. A quattro zampe, osservò la superficie, le foglie morte, i pali, i cespugli: niente da segnalare. Senza esitare, né rendersi conto di quello che faceva, si mise a scavare, a mani nude. Fece presto a trovare il movimento giusto per quell'operazione: affondare le braccia nella sabbia e incrociarle riportandole dietro la schiena, come un escavatore. Di tanto in tanto cambiava posizione, sedendosi nel buco e spingendo via con i talloni le montagnole di sabbia. Si ritrovò in una vera e propria fossa, quasi senza fiato. Scavò ancora, con la testa in avanti, sentendo i granchi che gli zampettavano sulla fronte e sulle braccia. Quando arrivò a un metro di profondità, si raddrizzò e si disse che stava delirando. Lì non c'era nessun corpo. All'improvviso si pietrificò. Ai suoi piedi, il buco si era mosso. Le tenebre brillavano, disegnando movimenti lucenti. Il silenzio fu rotto da un sibilo, poi un altro, soffocati dalla sabbia. Serpenti. Marc fece un balzo indietro e tentò di risalire in superficie. Invano. I rettili si attorcigliavano ai suoi piedi. Biancastri. Sinuosi. Abominevoli. Si immobilizzò. I serpenti scomparvero senza morderlo: un miracolo. I guardiani del tempio, pensò. La tana era stata sicuramente piazzata da Reverdi. Un'ultima misura di protezione contro eventuali visitatori. Ma come aveva potuto correre il rischio di uccidere Elisabeth? Nella sua logica malata doveva averla offerta in sacrificio al destino. Se lei era l'Eletta, i serpenti l'avrebbero risparmiata. In caso contrario, non avrebbe avuto nulla da rimproverarsi... «Lurido bastardo», mormorò Marc. La trappola gli diede nuova energia. Dimostrava che là sotto doveva esserci qualcosa. Dopo aver sondato la buca, per assicurarsi che la via fosse libera, riprese a scavare, a denti stretti, ribollente di rabbia. Inarcato, ansi-
mante, sprofondava nel buco. Aveva sabbia in bocca, negli occhi, nelle orecchie. Ancora niente. Sfinito, Marc si rialzò in piedi, vacillò e si lasciò ricadere. Fu come una scossa elettrica. Il suo peso, ricadendo, non aveva prodotto il rumore sordo che si sarebbe aspettato. Era stato piuttosto come un fremito. Marc si ripiegò e riprese a scavare freneticamente. Dopo poche manciate di sabbia incontrò un oggetto avvolto nella plastica. Non temeva il contatto del cadavere. Al contrario, quella forma pallida, argentata, che si rivelava a poco a poco, lo ipnotizzava. Continuò a dissotterrare il torso fino alle anche. Sotto la plastica, il cadavere era perfettamente conservato. La pelle, molto bianca, sembrava immacolata, con l'eccezione delle ferite nere che sotto le pieghe trasparenti segnavano il Cammino della Vita. L'insieme suggeriva una pulizia asettica. Da quanto tempo era morta? Avrebbe dovuto essere stata divorata dai vermi e dai granchi. Reverdi utilizzava certamente qualche tecnica di imbalsamazione. Marc ricordò un reportage che aveva fatto su un «artista anatomista» tedesco inventore di una tecnica di conservazione dei corpi: «la plastinazione». Dissotterrò completamente le gambe del cadavere. Poi lo afferrò per le spalle. Le sue mani scivolavano sulla plastica, che sembrava cosparsa di un olio protettivo. Alla fine riuscì a tenere saldamente il corpo e a tirarlo fuori. A questo punto provò la repulsione che aveva creduto di evitare. Era una donna, certo. Il suo viso era livido, ossuto. Gli occhi, in fondo alle orbite, sembravano due biglie di vetro. Le labbra troppo sottili si erano ritratte sulle pallide gengive, dalle quali spuntavano piccoli denti crudeli che disegnavano una smorfia contratta. «Un cadavere albino», pensò Marc. Anche i capelli, sotto la plastica, sembravano decolorati. Marc trascinò il cadavere lontano dalle foglie che circondavano i piloni. Era molto piccola. Sembrava una bambina. La sua pelle luminescente aveva il colore della luna. Marc si sedette sulla sabbia e guardò la plastica che avvolgeva il corpo. All'improvviso ebbe un'idea folle. La vittima non era imbalsamata: era liofilizzata. Reverdi l'aveva prosciugata. Aveva estratto tutta l'acqua dal suo corpo, sottraendola così all'orrore della decomposizione. Poi l'aveva messa sotto vuoto, come gli alimenti destinati a una lunga conservazione. Marc non
immaginava un metodo preciso, ma era certo che l'assassino aveva utilizzato le sue attrezzature subacquee. Nella fattispecie il compressore, per immettere non aria, ma il vuoto sotto la plastica. Era giunto il momento di procedere al prelievo. Marc tirò fuori dalla tasca la siringa. Si inginocchiò davanti alla donna, come in preghiera, e si concentrò ancora sulle parole dell'assassino: Devi risalire la navata, il coro, l'abside... Fino a trovare i transetti dove si respirano profumi d'incenso. Marc immaginò la pianta di una chiesa e la sovrappose al corpo. La navata era il tronco. Ma l'abside? Credette di ricordare che era la parte superiore della chiesa, il semicerchio in cui è collocato l'altare. Quindi la testa. Quanto al coro, doveva essere la parte intermedia tra la navata e l'abside: il torace, dove si trovano gli organi vitali. Tutto ciò era veramente contorto. Ma dov'erano i transetti? Erano situati su entrambi i lati della navata. La rivelazione lo abbagliò come un lampo: i polmoni. Il seguito del messaggio confermava questa opinione: ... dove si respirano profumi d'incenso... Era lì che doveva fare il prelievo. Per scoprire le tracce dell'atmosfera che la vittima aveva respirato al momento della morte. Le tracce fisiche di una materia volatile, le particelle di un pigmento inalato durante l'agonia. Si chinò sul cadavere e scrutò il petto. Non aveva alcuna conoscenza medica. Dov'erano, esattamente, i polmoni? Il suo ago sarebbe stato abbastanza lungo per raggiungere gli alveoli? Pensò alle coste. Doveva affondare l'ago tra le coste superiori, sopra i seni. Cominciò a palpare il torso attraverso la plastica. E nel corso di quella operazione comprese un altro aspetto del rituale. Reverdi non isolava la Camera per proteggerla dalle aggressioni esterne. Al contrario, voleva impedire che il profumo che vi aveva diffuso si riversasse all'esterno. Voleva «avvolgere» i corpi con un incenso, un'essenza, trascenderli grazie a queste fragranze. Marc si decise a infilare l'ago tra la prima e la seconda costa, partendo dall'alto della gabbia toracica. Ma esitò ancora: doveva togliere la plastica che avvolgeva il cadavere o infilare la siringa nell'involucro? Doveva strappare la confezione della siringa o semplicemente bucarla affondando
l'ago? Decise di operare attraverso le membrane, senza toccare nulla. Per soddisfare le migliori condizioni asettiche. Chiuse gli occhi e infilò l'ago. La carne non offrì alcuna resistenza. Come polvere friabile. Fece risalire lo stantuffo. Sollevò le palpebre e osservò la siringa. Non vedeva nulla, niente di colorato nel cilindro. Quando il pistone ebbe terminato la sua corsa, si chinò in avanti, per estrarre l'ago con la massima precauzione. Nel farlo, si appoggiò alla spalla sinistra del cadavere. Il braccio si spezzò di netto. Marc urlò. La plastica si strappò. Vide l'arto smembrato, la polvere di pelle e osso che si spandeva tra le pieghe trasparenti della plastica. Quel corpo era così secco che si frantumava come vetro. Marc comprese che ora, non più sotto vuoto, il cadavere si sarebbe decomposto in pochi giorni. Soffocando un gemito, rimise in tasca la siringa. Spinse il cadavere fino alla sua fossa e, distogliendo lo sguardo, lo ricoprì rapidamente con la sabbia. Poi chiese mentalmente perdono a quella sconosciuta alla quale i granchi avrebbero presto divorato la faccia. 63. «Abbiamo un problema.» Jimmy Wong-Fat era sull'uscio della cella. Jacques si domandò per quale miracolo fosse riuscito ad arrivare fin lì. Dopo la scoperta del corpo di Raman tutti i bracci del carcere erano stati isolati. Nessun detenuto era autorizzato a uscire. Le visite erano state annullate fino a nuovo ordine. «Abbiamo un problema.» Reverdi si raddrizzò sulla sua stuoia, invitando l'avvocato a sedersi accanto a lui. Il cinese restò in piedi. «L'autopsia di Raman è finita. Alcuni dettagli "tecnici" indirizzeranno di certo i sospetti su di lei.» «Quali dettagli?» «Il filo usato per cucire le labbra, gli occhi e l'addome è un filo chirurgico che si può trovare soltanto in infermeria.» «Non sono l'unico a lavorare lì. Né l'unico ad avere avuto dei problemi con quel bastardo. Anche qui, ci vogliono delle prove per accusarmi.» L'avvocato ignorò la riflessione: «C'è anche il mistero delle frattaglie.» «Le frattaglie?» «Le viscere trovate nel ventre di Raman non erano le sue.»
«No?» «Erano quelle di un maiale.» Jacques inarcò le soppracciglia. Jimmy lo scrutava con i suoi occhi sottili. «Un maiale? Si rende conto di cosa significhi per un musulmano? L'assassino gli ha asportato gli organi e ha messo nel suo addome le trippe di un maialino da latte. Poi ha ricucito tutto con il filo!» Pensò all'espressione dell'anatomopatologo quando aveva fatto l'autopsia. Il musulmano non aveva probabilmente mai contemplato degli insaccati così da vicino. In tono distaccato domandò: «E da dove veniva quel... materiale?» Wong-Fat si piantò davanti a lui, a gambe larghe. Aveva con sé l'inseparabile cartella rossa, come un animaletto domestico: «Dalle cucine. Tutto lascia credere che si tratti delle interiora del maialino da latte che la comunità cinese aveva introdotto nel carcere per festeggiare non so cosa. Accidenti, quella bestiola aveva già provocato sufficiente scandalo!» Reverdi aveva creduto che la scoperta del suo castigo l'avrebbe divertito di più. In realtà, non provava nulla: pensava soltanto a Elisabeth. Voleva al più presto riprendere i contatti con lei. Domandò tuttavia, per la forma: «E le "interiora" di Raman sono state trovate?» «No. E nessuno ha denunciato la scomparsa di quelle del maiale. Lo sa il perché, vero?» «Sì, lo immagino.» «L'assassino ha rimesso le viscere di Raman nel corpo dell'animale. E sono le sue trippe che i cinesi si sono sbafati l'altra sera. Frattaglie umane!» Jacques appoggiò la testa al muro. Non provava nulla, ma apprezzava il tempismo perfetto dell'operazione. I cinesi, mandanti dell'assassinio di Hajjah, si erano mangiati il loro stesso direttore dei lavori. «La sorpresa dello chef, insomma.» Jimmy puntò l'indice. La collera gli gonfiava le vene sotto la pelle: «Fa male a ridere. Tutti sanno che è stato lei, Jacques. Lei solo poteva compiere un crimine simile!» Reverdi restò in silenzio. L'avvocato continuò: «Con il dossier che ho raccolto! Adesso è tutto inutile. Ma cosa le ha preso?» Si chinò verso di lui, tutto luccicante di sudore e incredulità. «Non le importa dunque nulla di morire?»
Con un balzo, Reverdi si alzò in piedi e afferrò, all'altra estremità della cella, una delle candele che bruciavano tra i bastoncini d'incenso su una cassetta della frutta rovesciata. L'insieme evocava un altare di preghiera. «Credi alla reincarnazione?» domandò a Jimmy. «No.» Jacques prese un'altra candela, spenta, e si avvicinò all'avvocato. «C'è una metafora classica per esprimere la trasmigrazione dell'anima.» Accese la seconda candela con la prima. «I corpi si consumano, ma la fiamma passa semplicemente dall'uno all'altro. È eterna.» «Che cosa vuol dire?» Reverdi sorrise e gli mise in mano una delle candele: «Significa che non morirò. Mi reincarnerò.» Wong-Fat osservò la fiammella tra le dita: non sapeva cosa farne. Rimise la candela al suo posto, sull'altarino. In quell'istante vide la fotografia attaccata al muro, sopra gli incensi. «Chi è la donna nella foto?» «Mia moglie.» Il cinese voltò la testa. «Chi?» «Non siamo ancora sposati. Ma voglio celebrare la nostra unione prima di essere giustiziato.» Jimmy osservò il ritratto. «È la ragazza delle lettere? Quella di Parigi?» domandò con voce strana. «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.» Jimmy si rialzò. La sua espressione era cambiata: i tratti si erano increspati, le labbra tremavano. Sembrava sconvolto. «Ma... davvero? dice seriamente? Vuole sposarsi con...» Non poté terminare la frase. Jacques lo fissò: Wong-Fat era sull'orlo delle lacrime. Da morire dal ridere. Aveva quindi creduto a una relazione profonda. Complicità, amicizia, affinità... In tono riconfortante, come per consolarlo, Reverdi sussurrò: «Il matrimonio non è così prossimo, lei non è ancora pronta.» «Non ancora pronta?» L'avvocato riassunse il suo tono professionale. «Ma di cosa sta parlando, diamine?» Reverdi si inginocchiò davanti alla fotografia. Sfiorò con le dita il volto di Elisabeth: «La sua iniziazione non si è conclusa.»
«Avete ancora dei contatti? Non ho più ricevuto alcuna lettera, io...» Reverdi chiuse gli occhi. «La sento arrivare. Si sta avvicinando a me...» Si rialzò in piedi e fissò Wong-Fat: «Ormai è solo questione di giorni.» 64. Il quinto messaggio era di tre parole: «Corri a Bangkok.» Marc non si era fatto pregare. Aveva riattraversato la frontiera birmana e guidato tutta la notte, fermandosi solo per fare benzina. Era rimasto al volante per nove ore di fila e alle cinque del mattino aveva raggiunto l'aeroporto di Phuket. Là, aveva dormito due ore, raggomitolato nella sua Suzuki, stringendo sempre sotto il poncho la siringa - il suo bottino, il suo talismano. Si era svegliato, mezzo infreddolito e mezzo febbricitante, giusto in tempo per prendere il primo volo per Bangkok. Dopo la spedizione sull'isola dei morti era ossessionato dal contenuto della siringa. Essa non racchiudeva, a occhio nudo, che gas volatile, leggermente tinto di linfa e particelle rossastre. Il «Colore della Verità»? Che cosa aveva prelevato dai polmoni della vittima? In che modo quel campione gli avrebbe rivelato la chiave del rito? L'arrivo nella capitale lo riportò a una relativa calma. Era felice di ritrovare la vita, il rumore assordante delle auto, la familiare indifferenza dei grattacieli. Dall'autostrada la megalopoli gli parve persino di un azzurro tranquillizzante. Era senza dubbio l'influsso del cielo puro, che si rifletteva nelle torri di vetro. Entrato in città, dovette rivedere il suo giudizio. Bangkok esplodeva sotto la sua stessa pressione. Soffocata dalle costruzioni, dal traffico, dal suo respiro asfissiante. Immensi ponti di cemento penetravano a forza nelle strade, facendosi largo tra gli immobili, imponendo un mondo nuovo, cieco e trionfante. L'asfalto era dappertutto, rivestiva interi quartieri, fino ai più remoti vicoli. Qui tutti sembravano aver fretta di sotterrare il passato, come se fosse un cadavere scomodo. Sballottato nell'abitacolo del taxi, Marc leggeva le istruzioni del sesto documento: Dirigiti verso l'ospedale di Siriraj. Venendo dall'aeroporto, costeggia la sponda del fiume in taxi finché non trovi una stazione
di battelli. Là, compra un biglietto per la stazione di Pran Nok, chiamata anche Wang Lang. Quando arriverai a questa stazione apri il documento successivo. Marc pagò il tassista e saltò sul battello. Stralunato, guardava con indifferenza i contrasti della città. Le baracche di legno bruno sulle isole verdeggianti sovrastate dalle torri moderne. Le stupa e le pagode tra le cittadelle di cemento e acciaio. Le barche a forma di foglia che incrociavano i rombanti fuoribordo... Tutto quell'universo gli pareva febbrile, malato. Persino gli altri passeggeri, attorno a lui, gli sembravano cupi, terrei, inquinati. Pran Nok si apriva su un mercato. La folla era così fitta che fece fatica a scendere dal battello. Marc trovò una panchina tranquilla, dentro la cancellata della stazione, e aprì il settimo documento. Pensò al Settimo Sigillo dell'Apocalisse. Ciò che lesse lo fece rabbrividire, ma ormai non aveva scelta. Si gettò fra la folla. I marciapiedi vomitavano i loro commerci fin sulla carreggiata. Ogni baracchino aveva il suo braciere, un fornello a gas o una piastra, e tutto ciò rendeva l'aria ancora più soffocante. In quel caos Marc incrociò crèpes profumate, vapori bollenti, paste traslucide dai colori fluorescenti, spiedini sfrigolanti, pesci con la pelle dorata e le carni bianche... Raggiunse l'ospedale Siriraj e lo superò. Non era la sua destinazione finale. Reverdi gli aveva indicato un laboratorio di analisi mediche situato nella stessa strada, alcuni numeri più avanti. Là doveva trovare un chimico di nome Kantamala, un ecologista militante, che con le sue analisi faceva tremare le grandi compagnie industriali. Dove l'aveva conosciuto Reverdi? Non aveva alcuna importanza, e Marc aveva altre gatte da pelare. Doveva ora interpretare bene la sua parte con l'esperto. Conosceva i nomi, i termini e persino le risposte giuste per far analizzare il suo campione. Marc spinse la porta a vetri del laboratorio e vide, all'interno, un lungo bancone candido come un blocco di banchisa. Marc chiese di Kantamala. Dopo qualche istante vide arrivare un grande thai con una giacca immacolata. Incarnato scuro, lunghi capelli annodati in una coda di cavallo, espressione ostile. L'uomo si rasserenò quando Marc pronunciò il nome di un ecologista inglese, suggeritogli da Reverdi. Uscirono sul marciapiede. Kantamala accese una sigaretta. Una Kron Tip, marca locale. Poi domandò in inglese, in tono cospiratorio:
«Che cosa abbiamo oggi?» «Un morto. Avvelenamento.» Kantamala corrugò le sopracciglia: «Un... morto? Dove?» «Non lo posso dire.» Il thai aspirò avidamente la sigaretta. Nella strada satura di gas di scarico era come un doppio suicidio. «Cerca di essere più preciso. Un morto scotta. Non sono abituato a...» «Non ne so nulla nemmeno io. Credo si tratti di una miniera, dalle parti di Ranong...» Improvvisava, ma il nome parve piacere a Kantamala. «La cosa non mi stupisce! Laggiù utilizzano il mercurio e...» «In ogni caso, è urgente. Stanno aspettando i risultati per aprire una procedura.» L'altro confermò con un cenno del capo. Aspirando in continuazione la sigaretta, non smetteva di lanciare occhiate sospettose sopra le sue spalle. «Ma questo morto...» insisté. «Com'è successo?» «Non ne so nulla. Ha respirato un gas. Non si sa con precisione quale.» «Che cos'hai come campione?» Marc porse la siringa al chimico. «Gli hanno prelevato questo dai polmoni.» «Merda.» Marc assunse un'aria risoluta: «Se non te la senti di farlo, io...» Kantamala gettò via il mozzicone. «Ritorna tra due ore.» Marc prese posto al tavolo di un ristorante sul marciapiede, da dove poteva sorvegliare i vetri affumicati del laboratorio. Quel posto di osservazione lo rassicurò, come se Kantamala avesse potuto fuggire con la sua «prova di reato». Ordinò un tè. La sua mente era vuota. Annientata da troppe riflessioni, scoperte, angosce. Gli tornarono alla mente i versi del Cantico dei Cantici: Che cos'è che sale dal deserto come una colonna di fumo, esalando profumo di mirra e d'incenso e d'ogni polvere aromatica?
Non gli mancava ormai che questo. Identificare il profumo o l'incenso che Jacques Reverdi aveva utilizzato. Allora, ne era certo, si sarebbe verificato un miracolo. Questa ultima informazione avrebbe chiuso il cerchio, dando coerenza all'insieme. Marc continuava a ripetersi queste parole, come una preghiera. Ma senza convinzione. L'inquinamento, il calore, la stanchezza l'avevano trasformato in un sonnambulo. Si riscosse dalla sua litania e guardò l'orologio. Senza che se ne rendesse conto, erano trascorse due ore. Nella strada nulla era cambiato. Il mercato esalava sempre i suoi insopportabili odori, le auto continuavano a emettere i loro gas velenosi. Barcollando, Marc si diresse verso il laboratorio. «Mi stai prendendo in giro?» Con la sigaretta che gli pendeva dalle labbra, il chimico sembrava furioso. «Che cos'hai scoperto?» «Niente.» «Come?» «Nessuna traccia di inquinamento né di sostanze estranee.» «Non è possibile... Il campione è stato prelevato dai polmoni...» «Questo non lo metto in dubbio. Ma il tuo uomo non è morto per avvelenamento. È morto asfissiato.» Marc alzò gli occhi: Kantamala fluttuava davanti a lui. «La tua siringa conteneva mioglobina, una molecola muscolare che fissa i gas. L'ho analizzata. Saturata all'ottanta per cento di anidride carbonica.» Marc non trovò nulla da rispondere. Kantamala continuò, pompando la sua sigaretta. «Non è stato vittima di un'intossicazione. Il tuo uomo non ha respirato nulla. Ed è morto per questo. Asfissiato. Ma non con un cuscino sulla testa. Non c'è alcuna traccia di trauma. Nessun segno di ispessimento pleurico: quel liquido giallastro che appare attorno al polmone dopo una morte violenta. No, è morto lentamente, per mancanza di ossigeno, respirando la propria anidride carbonica.» La terra beccheggiò sotto i suoi piedi. Il chimico continuò, alzando il tono: «Non so a che gioco state giocando, ma io non voglio più entrarci. Questa storia non ha niente a che vedere con l'ecologia. È un omicidio, capisci?»
Marc indietreggiò verso la strada, tra le auto, i banchi del mercato, i passanti. Era come annientato dall'allucinante verità. L'arma del crimine non era il coltello. Ma la capanna. La Camera della Purezza, che soffocava la vittima. Era quello il marchio di Reverdi. Il maestro dell'apnea uccideva le sue vittime privandole dell'ossigeno. 65. Marc si tuffò nella folla e risalì la via Pran Nok fino alla stazione dei battelli. Ritrovò la sua panchina accanto alle inferriate e mise insieme gli ultimi elementi. Conosceva finalmente nei minimi particolari il modus operandi di Reverdi. L'assassino sequestrava la vittima in una capanna ermeticamente sigillata. Attendeva pazientemente che consumasse la riserva di ossigeno della Camera. Quanto durava quel supplizio? Ore o forse giorni... Marc immaginò la donna imbavagliata, legata, che respirava sempre più difficoltosamente, con l'anidride carbonica che le riempiva i polmoni. Jacques Reverdi la osservava. Contemplava la morte all'opera. Seduto a gambe incrociate all'altra estremità della stanza, assaporava lo spettacolo di quella donna che urlava in silenzio... A che punto praticava le incisioni? Senza dubbio durante quell'attesa. Ma, contrariamente a quanto Marc aveva immaginato, non riapriva così presto le ferite. Lasciava asfissiare la vittima prima di dissanguarla. Ma qui la sua ricostruzione si inceppava. La soglia critica del soffocamento in quelle condizioni poteva protrarsi per ore: come faceva a resistere Reverdi? Quell'attesa superava di gran lunga le sue capacità di apneista. In un flash, come un'ultima rotella che prendeva posto nell'ingranaggio, rivide la bombola d'aria compressa trovata nella prima capanna, e anche nella seconda. Aveva trascurato questo particolare, ma le bombole avevano chiaramente un ruolo. Mentre la sua vittima agonizzava, l'assassino respirava aria compressa, le labbra strette sul riduttore di pressione. A questo stadio, la donna diventava una sorta di barometro per misurare la composizione dell'aria. Attraverso le sue convulsioni Reverdi valutava il vuoto dell'ambiente. Le sue grida mute, i suoi rantoli erano come un indice della purezza che s'insediava. Quando la vittima era a pochi secondi dalla morte, la Camera era pronta.
Reverdi poteva passare all'azione. Si strappava la maschera e si metteva in apnea. Era questa l'incredibile verità: Reverdi non temeva quello spazio mortale perché poteva resistere parecchi minuti senza respirare. La purezza della capanna era la «sua» purezza. Ancora una volta, Marc ripensò alle parole della dottoressa Norman a proposito della scena del crimine come estensione della personalità di Reverdi. Più che mai la psichiatra aveva ragione. La Camera della Purezza era diventata una proiezione del suo corpo. Il suo essere, la sua potenza si erano estesi fino alle pareti della cella. La vittima moriva, letteralmente, nel «regno» di Reverdi. All'interno della sua fortezza: l'apnea. Marc ritornò alla scena del delitto. L'ossigeno cominciava a mancare, le candele tremavano, la donna perdeva sempre più le forze. Allora, prima dell'ultimo respiro, Reverdi afferrava una candela e passava la fiamma sulle piaghe per riaprirle, facendo sciogliere il miele secco. Poi toglieva il bavaglio alla vittima, per consentirle di aspirare le ultime particelle d'aria. C'era un'estrema perfidia in questo metodo, perché la bocca ansimante e la fiamma si disputavano le ultime gocce di ossigeno. La candela uccideva la donna in due modi diversi: sciogliendo il miele sulle ferite e rubandole l'ossigeno... Marc fece un fermo-immagine. Perché Reverdi uccideva due volte la sua vittima? Asfissiandola e dissanguandola? Non tutto gli era ancora chiaro. Si concentrò di nuovo, guardando con gli occhi dell'assassino. Vedeva il sangue sgorgare dalle braccia, dalle cosce, dal torso (e comprese allora anche l'utilità delle lampade frontali che aveva trovato nelle capanne: in una stanza priva d'aria le candele finivano per spegnersi, e per contemplare la sua opera fino alla fine Reverdi doveva servirsi dell'elettricità). Marc vide l'emoglobina sgorgare dalle ferite multiple come torrenti di montagna. Il corpo suppliziato diventava un ghiacciaio di sangue, fuso con il fuoco. Marc ebbe un altro flash. Il rosso. Il rituale mirava esclusivamente a questo. Contemplare il colore scarlatto in uno spazio assolutamente puro. L'assenza di ossigeno doveva avere un effetto sul colore del sangue. Doveva prodursi una reazione chimica tra l'emoglobina e l'anidride carbonica. Marc aveva bisogno di un esperto. Gli venne in mente un solo nome: Alang, il medico legale. Si frugò nelle tasche e pescò il telefono cellulare che aveva noleggiato a Phuket.
Alang rispose subito. Quando riconobbe la sua voce, scoppiò a ridere. Quella spontaneità e allegria lo commossero. «Ti chiamo per un consiglio. Ho una domanda da farti», disse Marc mirando dritto al sodo. «Anch'io: un trovatore scozzese, in mantello rosso, riciclatosi nell'allevamento dei salmoni?» Marc sospirò. Si strappò dall'istante presente e rispolverò i suoi ricordi musicali. L'assurdità della situazione superava ogni limite: «Ian Anderson dei Jethro Tull.» «Ti adoro. Cos'è che volevi sapere?» Marc chiuse gli occhi. Il caldo lo frastornava. Un velo di sudore gli impiastrava le palpebre. «Immagina, dico immagina, che si faccia colare del sangue in un ambiente totalmente privo di ossigeno...» «Sii più preciso. Parli di sangue conservato in laboratorio o del sangue di una ferita?» «Di un corpo. Di una ferita.» «È qualcosa che ha a che fare con Reverdi?» «Chi altri? Le ferite sanguinano in un'atmosfera totalmente priva di ossigeno.» «Non capisco. La vittima è già morta?» Marc voleva urlare, ma si costrinse a restare calmo. «Tutto avviene in un solo istante; la vittima perde sangue e soffoca contemporaneamente. E la scena si svolge in una stanza sottovuoto. Capisci, adesso?» «Continua.» «L'assenza di ossigeno avrebbe una conseguenza sul colore del sangue?» «Direi di sì.» «E di che colore sarebbe in questo caso?» «Di nessun colore.» «Come?» «Il sangue sarebbe nero. Perfettamente nero. È l'ossigeno a conferire il colore rosso all'emoglobina. Senza di esso il sangue diventa molto scuro. È per questo che le vene, alla superficie della pelle, sono blu: poco ossigenato, lì il sangue è brunastro. Ed è sempre per questo che il corpo di un morto asfissiato è grigio. Il fenomeno è noto: si chiama cianosi, dal greco kyanos, che significa blu scuro. Secondo me, nel tuo caso il sangue sarebbe particolarmente scuro.»
«Perché?» chiese Marc, incredulo. «Perché l'emoglobina non avrebbe alcun contatto con le molecole di ossigeno, né all'interno del corpo né al suo esterno. Sarebbe totalmente disossigenata. Un sangue così scuro da essere nero. In Malesia questo «sangue nero» è oggetto di molte leggende. È il colore stesso della morte e...» Marc non udiva più le parole di Alang. Queste cose le sapeva già. La ginecologa che aveva incontrato ai tempi della sua inchiesta parigina gli aveva parlato di un sangue scuro. Un sangue venoso, poco ossigenato. Il nero. Il sangue nero. L'ossessione di Jacques Reverdi. Trasformare ogni donna in una fontana di sangue nero. «Il Colore della Verità che è anche il Colore della Menzogna.» Marc spense il telefonino. Vacillava, immerso nel biancore del sole. Macchie scure danzavano sotto le sue palpebre. Stava per svenire. La verità lo penetrava come un succo lento e troppo ricco, saturo di evidenze, di logica, di follia... Doveva abituarsi a quella demenza. Giacché era proprio quella pulsione criminale che aveva voluto contemplare, dritto negli occhi. Quante donne aveva ucciso Reverdi per poter contemplare il nero assoluto? 66. Fuggire. Fuggire con il segreto. Marc riprese un taxi e attraversò Bangkok, in direzione dell'aeroporto. Non vedeva, non sentiva e non udiva nulla. Assordato dai battiti del suo cuore, le dita serrate sulla sua borsa. Doveva lasciare quel paese. Lasciare l'incubo. Portare il suo segreto il più lontano possibile. Ritrovò con sollievo la neutralità dell'aeroporto. Si diresse verso i banchi delle classi economiche, poi cambiò idea. Tenuto conto del suo stato, e del tesoro di cui era detentore, decise di offrirsi un ritorno di gran lusso. Si orientò verso lo sportello della Cathay Pacific, una delle più prestigiose compagnie aeree asiatiche, e acquistò un biglietto di prima classe. Un duro colpo alle sue finanze: cinquemila euro per un semplice ritorno. Ma tanto peggio, o tanto meglio: soltanto un prelievo sull'anticipo che avrebbe
strappato agli editori. Come per un riflesso condizionato, le sue dita stringevano sempre la borsa. Il suo computer. Il suo libro. Il suo futuro. Il biglietto gli consentì l'accesso alla sala vip dell'aeroporto. Un vasto ambiente dai riflessi dorati, tutto linee e simmetrie rigorose. Marc vide nell'austera architettura della sala un simbolo. Era giunto il tempo dell'ordine, della struttura. Decise allora, aspettando il suo volo, di scrivere la trama definitiva del romanzo. Ora che conosceva il punto d'arrivo sarebbe stato facile tracciare la linea decisiva. Si diresse verso il bar e si preparò un piattino di stuzzichini. Si versò una coppa di champagne e poi avanzò verso il business-center, una grande gabbia di vetro che ospitava computer, telefoni e fax a disposizione dei passeggeri. Marc s'installò e collegò il suo computer a una presa. Prima di cominciare il lavoro vero e proprio, doveva far pulizia. Si collegò al server e aprì la home page. Eseguì poche, rapide operazioni e chiuse l'abbonamento. Il programma gli chiese se era sicuro della sua decisione e gli segnalò che c'era un ultimo messaggio: senza dubbio il rendez-vous finale di Reverdi, al parlatorio della prigione di Kanara. Marc confermò la rescissione dell'abbonamento e cancellò per sempre l'ultimo messaggio e il suo indirizzo e-mail. D'ora in poi ogni contatto con Elisabeth sarebbe stato impossibile. Elisabeth Bremen era morta. Morta e sotterrata. Tra poche settimane sarebbe stato il turno di Jacques Reverdi. Condannato e giustiziato. Non sarebbe rimasto più nulla di quella passione epistolare, di quel grande amore fittizio. Nulla tranne un romanzo che, se Marc vi si fosse un po' applicato, poteva diventare un successo. Ma Elisabeth meritava funerali più degni. Marc chiuse il computer, lo infilò nella sua custodia, se lo mise sotto il braccio e si avviò verso le toilette, dopo aver preso una scatola di fiammiferi dal banco del bar. Chiuso a chiave in una cabina, Marc frugò nella tasca della custodia, dove teneva, come portafortuna, il ritratto di Khadidja. Dopo aver controllato che sopra di lui non ci fossero sensori antiincendio, mise la fotografia sopra la tazza del water e le diede fuoco. Contemplò il fuoco che mordeva la carta lucida, arrossando il volto della bella magrebina. Le indirizzò un ultimo sorriso, mormorando: «Addio, Elisabeth...»
Quando gli ultimi lembi nerastri atterrarono nel water, Marc tirò l'acqua e ricordò una scena identica, vissuta anni prima. Quando aveva distrutto, nelle toilette di una famosa rivista, il certificato di morte di Lady Diana. All'epoca, quel piccolo incendio aveva segnato il suo addio alla principessa, e al suo mestiere di paparazzo. Oggi, la sua vita era di nuovo a una svolta. Lasciava Elisabeth e diventava scrittore. Ritornato al business-center, si dedicò alla trama del suo romanzo. La sua calma lo sorprendeva. In realtà, era una tranquillità soltanto apparente. La nausea continuava ad assillarlo e l'angoscia minacciava di esplodere, a ogni istante, in un lungo grido. Era il complice di un assassino. Era l'unico al mondo a possedere il suo segreto. Per un attimo fu tentato di tornare sui suoi passi: contattare il giudice, testimoniare e fornire le lettere come prova contro Reverdi. Ma abbandonò subito l'idea. Vuotò la coppa di champagne e si mise a scrivere. A cosa sarebbe servito rivelare quei crimini in un processo il cui verdetto era già stato scritto, quando invece poteva farne la trama di un avvincente thriller? Si concentrò sulla sinossi del romanzo. La stesura del testo gli prese meno di un'ora, al termine della quale lesse con soddisfazione le venti cartelle buttate giù di getto. No, «soddisfazione» era una parola inadeguata. Assaporò ogni parola con un'esaltazione prossima alla trance. Le sue mani tremavano, il cuore sembrava scoppiargli nel petto. La trama era «esplosiva». Il suo libro, ne era certo, sarebbe stato una piccola rivoluzione. Sulla superficie riflettente del computer Marc contemplava un diamante puro. La follia di Jacques Reverdi resa trasparente. L'aveva trovata, isolata, raffinata, e ora la contemplava sotto tutte le angolazioni. Adesso aveva di che allettare un editore. Ne conosceva soltanto uno, specialista di cronaca nera, per cui aveva scritto diversi testi. Cercò nella sua rubrica elettronica - quella vera, di Marc Dupeyrat - l'indirizzo e-mail del suo contatto. Gli inviò la sinossi in allegato, accompagnata da qualche riga di introduzione, in cui spiegava che l'idea della trama gli era venuta durante un viaggio nel Sudest asiatico. Concluse il messaggio con la domanda: «Pensa che possa interessarle?» Conosceva la risposta. Si apprestava a inviare la mail quando si accorse che non aveva ancora un titolo. Senza esitare, scrisse all'inizio del testo, in lettere maiuscole: SANGUE NERO.
IL RITORNO 67. Quando aprì gli occhi, l'aereo stava sorvolando Parigi. Le nuvole sfilacciate lo fecero pensare a vecchi stracci polverosi. La sporcizia, l'odore della città che aveva lasciato gli erano rimasti negli occhi e nelle narici, e persino all'interno dell'aereo, nel comfort della «business class», gli sembrava di ritrovarli. Guardò fuori del finestrino: le luci dell'Île-de-France, minuscole, vacillavano nel tremore dell'alba. In quella mattina di giovedì 5 giugno Marc era incapace di formulare il minimo pensiero. Aveva dormito solo per poche ore, girandosi e rigirandosi sulla poltrona. Era stato in tensione durante l'intero viaggio. Membra rigide, mani che scottavano. Subito dopo il decollo l'esaltazione provata prima nel salone dei vip si era tramutata in un'angoscia che non era riuscito a scrollarsi di dosso nonostante gli spiedini satay, le incantevoli hostess e la varietà di film a sua disposizione: ogni cosa era stata percepita attraverso l'inquietudine che lo attanagliava. Il volo si era trasformato in una malattia di quattordici ore. «Allacci la cintura, prego.» Marc obbedì. Man mano che si risvegliava, le idee ritrovavano un ordine. Notò il vassoio della prima colazione poggiato sulla tavoletta accanto. Mentre divorava uova strapazzate e croissant, ripensò alla sua avventura, alle sue scoperte, al suo libro. Ci era riuscito. Si era insinuato nella mente di un killer, nella sua follia, come un archeologo che penetra nella stanza funeraria di una regina. E adesso era lontano. A dodicimila chilometri dall'assassino. Al sicuro nella sua città. Padrone del suo bottino. Poteva continuare il viaggio, con l'immaginazione. Il libro che intendeva scrivere gli avrebbe permesso di approfondire il suo studio, di sfruttare il minimo dettaglio, la minima coerenza dell'universo dell'assassino. Quando l'aereo atterrò il suo presentimento si mutò in certezza. L'angoscia si era dileguata: lo aspettava la luce; la verità gli avrebbe fatto raggiungere la celebrità, la ricchezza e, finalmente, la pace. Alle sei del mattino l'aeroporto di Roissy assomiglia ai quadri metafisici di Giorgio de Chirico. Immensa rotonda deserta, in cui l'esistenza sembra perdere ogni punto di riferimento, ogni legittimità. Un grande vuoto a forma di conchiglia, dove la vacuità dell'essere riecheggia senza fine.
La sua borsa fu una delle prime a comparire sul nastro trasportatore, privilegio dei viaggiatori di «prima» e di «business». L'afferrò e si precipitò fuori, nella luce incerta del giorno. A bordo del taxi, gli ritornò la visione degli stracci. La luce tetra pareva incollarsi ai vetri. Lungo l'autostrada si stendevano pianure, terreni incolti dimenticati, campi di battaglia privi di cadaveri. Aveva spesso avuto questa sensazione di fine del mondo, all'alba, dopo un lungo viaggio. Il presentimento che fosse successo qualcosa durante la sua assenza. Una guerra atomica, un terremoto... Rimanevano in piedi soltanto i cartelloni pubblicitari, ultime convulsioni di un mondo allo sbando. Marc li guardava senza vederli. Si trattava di enormi pannelli, trattenuti da cavi, che si dispiegavano nel vento mattutino come le vele di un vascello. Improvvisamente urlò all'autista: «Si fermi!» L'uomo sobbalzò: «Cosa?» «Si fermi!» «Si sente male? Ha... ha bisogno di rimettere?» «STOP!» L'uomo rallentò controvoglia, incanalandosi nella corsia d'emergenza. «Faccia retromarcia.» «È impazzito?» Marc imprecò aprendo la portiera: «Porca puttana...» Saltò giù sull'asfalto, reggendo l'inseparabile computer. Doveva percorrere più di trecento metri per ritornare al cartellone che aveva appena notato. Lo sorpassò e corse ancora, per osservarlo con maggior distacco. Infine, ansimante, si voltò. Khadidja era lì, su quattro metri di altezza, a scrutare l'orizzonte con i suoi occhi neri. Marc non riusciva a riprendere fiato, aveva il cuore in gola. Cercava di escogitare una spiegazione nei meandri del suo cervello. Eppure la soluzione era delle più semplici: Vincent aveva fatto un ottimo lavoro. Durante la sua assenza era riuscito a far stipulare all'apprendista modella un favoloso contratto. In poche settimane Khadidja era diventata una star. Un viso che sarebbe stato ammirato in tutte le strade di Parigi.
E lei lo meritava. Questa constatazione assurda gli balenò in mente. Era sublime. Girata di tre quarti, lanciava sul mondo il suo sguardo profondo e ardente. In fondo a quelle pupille nerissime c'era però anche dolcezza, un fremito liquido che ricordava i riflessi della lacca. Una tenerezza inaccessibile, protetta dagli alti zigomi. Questa impressione di fortezza, di protezione, era accentuata dai riccioli neri che - idea dello stilista o del fotografo - erano fissati con il gel e incollati sulle tempie, come tatuaggi d'inchiostro di china. La foto era color seppia, tendente all'oro. Una tonalità d'Arabia, vicina all'henné, che riprendeva quella del viso emaciato di Khadidja e della sua mise: una giacca bianca stretta in vita, colletto alla Mao, arabeschi ricamati che richiamavano i motivi cachemire. Pareva una musa del periodo hippy e al tempo stesso una begum fuggita dal palazzo del suo nababbo cui aveva rubato la giacca. Nella parte inferiore del manifesto, in lettere ornate, era scritto il nome del profumo, Elégie, con accanto un flacone la cui forma evocava la lampada di Aladino. Marc cadde in ginocchio. Khadidja era sublime... e lui un verme. In preda a uno spasmo, vomitò la colazione: uova strapazzate, croissant, succo d'arancia. Non valutava ancora fino in fondo le ripercussioni di quella catastrofe, ma intuiva di essersi imbarcato su una macchina infernale che possedeva un ritmo proprio e propri ingranaggi. Vacillando, inciampando, pulendosi la bocca sulla manica, Marc ritornò verso il taxi. Mentre crollava sul sedile il conducente esclamò tendendogli un fazzoletto di carta: «Certo che lei è proprio un bel tipo...» «Si muova.» «Nessun problema. Siamo qui per questo.» Marc non sentiva più nulla, il suo cervello era come imbottito di ovatta. Gli bruciava l'esofago e il cuore gli scavava vuoti d'aria nel petto. «Ha un cellulare?» L'autista ridacchiò: «Di bene in meglio. Ma che cosa crede? Non ha mica noleggiato una limousine, vecchio mio, e...» Marc gettò una manciata di euro sul sedile accanto all'autista: «Mi passi il telefono!» L'autista sbirciò le banconote: «D'accordo. Inutile innervosirsi.»
Frugò sotto la giacca e gli porse il cellulare con la sinistra. Marc compose il numero di Vincent, quello del telefono fisso, accanto al letto. Dopo otto squilli, il colosso rispose: «Sì?» «Sono io. Marc.» «Marc? Da dove chiami? A Parigi è ancora l'alba, lì, io...» «Sono a Parigi.» Fruscio di lenzuola, voce impastata: l'orso emergeva dal sonno. «Cosa succede?» «Sono appena atterrato. Ti chiamo per i manifesti.» «I manifesti?» «La campagna di Khadidja.» La voce si schiarì: «Hai visto il miracolo? Non è pazzesco?» Si gonfiava d'orgoglio. «Per essere il primo tentativo, è un colpo da maestro, no? Ti avevo avvertito... La piccola è una nuova Laetitia Casta. Dovresti vedere la cifra segnata sul contratto!» «Ciò che voglio sapere è se la campagna è nazionale o internazionale.» Silenzio. «Perché?» chiese infine Vincent. «Rispondimi.» Il gigante sospirò stancamente: «Il viaggio non ti ha rimesso in sesto. Nazionale. Iniziano con un grosso lancio in Francia. Dopo decideranno. È un consorzio di profumieri. Fanno le cose in grande e...» S'interruppe. «Non capisco: cosa te ne frega? Sei appena sbarcato a Parigi e...» «Nei giornali: cos'hanno previsto?» Vincent sospirò di nuovo: «Le classiche uscite. Riviste femminili, settimanali... Davvero, le tue domande mi...» «L'inserzione uscirà anche nelle edizioni internazionali?» «No. Su questo punto il contratto non transige. Esclusivamente in territorio francese e francofono.» «Sicuro?» «Sono stato io a redigere i contratti.» Scoppiò a ridere. «Agente, amico mio: cosa ne dici? Sono un uomo nuovo. In piena mutazione. E tu, il tuo viaggio?» Marc riattaccò senza rispondere. Erano arrivati alla Porte de Bagnolet.
Al disopra del viale della circonvallazione, altri tre pannelli esibivano la silhouette di Khadidja. Con il suo colletto alla Mao, sembrava uno splendido angelo della morte. 68. «Non la capisco.» L'editore di Marc era un'editrice. Renata Santi. Suonava come uno pseudonimo, e infatti lo era. Renata si era inventata quel nome all'inizio della carriera, quando aveva fondato le edizioni Santi. Poi si era sposata e aveva creato una nuova società, utilizzando il nome del marito: Casal. Dopo il divorzio aveva venduto le quote delle due società per fondarne una terza, Lorenzo, dal nome del figlio. Avrebbe infine potuto riprendere il suo cognome da nubile, ma più nessuno avrebbe saputo chi fosse: ecco perché aveva deciso di conservare il suo nome di battaglia. Era tutto molto complicato, e Marc non era sicuro di avere capito bene. Aveva lavorato spesso con Renata su testimonianze da riscrivere in tutta fretta per poter uscire con tempismo sul mercato. «Non la capisco», ripeté Renata. «La sua sinossi era appassionante. Perché vuole rinunciare?» Marc non rispose. Si trovavano nell'ufficio dell'editrice, al primo piano di un edificio del VI arrondissement dalle caratteristiche finestre ad arco. «Se teme che il lavoro sia troppo pesante», continuò, «posso chiedere a qualcuno di aiutarla. Abbiamo degli specialisti. Ma io so che lei scrive rapidamente, e bene.» Marc sorrise al complimento. Aveva aspettato il martedì seguente, il 10 giugno, all'indomani di un lunedì festivo, per comunicare la sua decisione a Renata. Nel frattempo le peggiori previsioni si erano avverate: il viso di Khadidja campeggiava su tutti i muri di Parigi. Non poteva fare nulla contro questa campagna. Non gli restava che rintanarsi nell'ombra e sperare che Reverdi non s'imbattesse in quella fotografia, tramite una rivista francese, per esempio. «Per la nostra casa editrice è l'occasione che aspetto da tanto tempo. Sfondare con la narrativa. Potremmo persino essere pronti per settembre e giocare d'anticipo sulla stagione letteraria.» Marc osservava la donna. Un vero fenomeno. Vicina alla sessantina, a-
veva ancora i capelli nerissimi, probabilmente tinti, lunghi e arricciati, che le incorniciavano il viso incipriato di bianco. Larga di spalle, sembrava una cantante hard rock, tanto più che vestiva sempre di nero. Guardando attentamente il suo abbigliamento, si scopriva la strana civetteria di quegli indumenti indossati a strati: gilet morbido, casacca da marinaio, tee-shirt Petit Bateau, pantaloni alla corsara che le arrivavano sopra i polpacci da ciclista a loro volta inguainati in un collant satinato. «Se si tratta di soldi...» «I soldi non c'entrano nulla.» Lei s'impettì sulla sedia in modo da dominarlo. Le labbra carnose, di un bruno scuro, le davano un'aria imbronciata. «E allora cosa c'è?» «Il progetto non m'interessa più, questo è tutto.» «Peccato. Davvero peccato.» Sfogliò meccanicamente la sinossi che Marc le aveva spedito dall'aeroporto di Bangkok. Come mai quel giorno aveva avuto tanta fretta? «È un successo garantito. Senza contare la sua personalità...» «Cosa, la mia personalità?» «Lo sa bene...» «No. Non lo so.» «Lei ha un passato... sensazionale. Ex paparazzo. Sempre a caccia di scandali. E ora specializzato in cronaca nera. Tutto ciò avrebbe reso il suo libro ancora più credibile.» «Non si tratta di un documento.» Sorrise: il labbro superiore era leggermente sporgente. «Naturalmente. Ma non è difficile intuire dove ha pescato la sua ispirazione.» Marc si sentì raggelare: «Cosa intende dire?» «Quell'assassino apneista, quello che è stato arrestato in Malesia: lei si è ispirato a Jacques Reverdi, vero?» Al solo sentirlo nominare gli si attorcigliarono le budella. Come aveva potuto credere che nessuno avrebbe fatto il collegamento? «Se è di lui che ha paura», continuò Renata, «presto Reverdi sarà soltanto un ricordo.» Il donnone gli porse un giornale: «L'edizione odierna di "Le Monde". Reverdi non ha più la minima possibilità di sfuggire alla pena capitale. Il suo avvocato si è suicidato.»
Marc fu sul punto di cadere dalla sedia. Il titolo occupava la colonna sinistra del quotidiano, in prima pagina. Lesse solo le poche righe d'introduzione all'articolo. Jimmy Wong-Fat si era impiccato nella rimessa del padre, nelle Cameron Highlands, durante il weekend. Non sapeva come interpretare la notizia. Gli affioravano alla mente soltanto frammenti di ricordi. Le farfalle. Le serre. Il viso coperto d'insetti di Wong-Fat padre che urlava: «Voglio che muoia!» Fu avvolto da un inebriante profumo di muschio: era Renata che si chinava su di lui. «Con un po'di fortuna», disse con la sua voce profonda, «potremmo uscire al momento dell'esecuzione...» Marc si ritrasse, superando l'attimo di gelo che lo aveva colto. Indovinava, d'istinto, il motivo che aveva spinto l'avvocato a mettere fine ai suoi giorni. Reverdi si era accanito contro di lui e aveva probabilmente rinunciato alla sua assistenza. Il perverso figlio di papà, che sperava in una «iniziazione», aveva avuto diritto soltanto alla sua collera. E questa collera aveva una motivazione: la mancanza di notizie di Elisabeth. Il suo tradimento. Ne era sicuro: Reverdi era responsabile di quel suicidio. Era in grado di uccidere a distanza. Attraverso i muri del carcere. E lui, avrebbe mai potuto essere raggiunto dal suo potere? Respinse il giornale verso la donna. «Mi dispiace molto, Renata. Non scriverò il libro.» 69. Una settimana dopo aveva cambiato parere. Renata gli aveva telefonato una decina di volte e aveva portato il compenso a cinquantamila euro. Una somma favolosa: per i suoi altri libri Marc non ne aveva mai incassato più di diecimila. Quella cifra dava la misura delle speranze che l'editrice riponeva in lui. Ma i soldi non avevano nulla a che vedere con la sua decisione. In quei sette giorni si era nuovamente immerso nelle notizie che concernevano Reverdi, tornato d'attualità in seguito al suicidio di Wong-Fat. Aveva letto tutti gli articoli nonché contattato i corrispondenti e i giornalisti che conosceva a Kuala Lumpur, senza però mai accennare al proprio viaggio in Malesia. Aveva persino messo insieme un fascicolo speciale dedicato a Jimmy e ottenuto i dettagli del suo atto estremo. Domenica 8 giugno l'avvocato era
ritornato dal padre, sulle alture delle Cameron Highlands. Si era impiccato nel deposito di stoccaggio della merce: Marc immaginava quel bugigattolo invaso da farfalle, scarabei, scorpioni. Un luogo da incubo per una morte sordida. Non aveva lasciato nessun biglietto, ed era sparito il fascicolo che aveva predisposto per la difesa di Jacques Reverdi. Marc era anche venuto a sapere che il capo della sicurezza di Kanara, un certo Raman, era stato assassinato alcuni giorni prima. Secondo i giornalisti malesi molti sospetti pesavano su Reverdi, ma non vi era nessuna prova a suo carico. Un altro gesto di collera? No: fino a quel momento Jacques non aveva avuto alcun motivo di sospettare del tradimento di Elisabeth. Tuttavia Marc si ricordava che, il 3 giugno, Reverdi aveva avvertito Elisabeth che ci sarebbe stato «qualche problema» in carcere. Quindi sapeva che sarebbe stato commesso l'omicidio di Raman. Perché ne era l'autore? Ma la notizia fondamentale era un'altra. Jacques Reverdi non andava verso la morte: le correva incontro. Aveva rifiutato di assumere un nuovo avvocato e, secondo i giornalisti del «New Straits Times» e dello «Star», era sprofondato in un mutismo totale che nessuno riusciva a spiegarsi. Ormai frequentava soltanto le autorità religiose del carcere: gli imam o i predicatori musulmani. Al tempo stesso l'inchiesta preliminare stava giungendo a termine. Con il verdetto di piena colpevolezza. Marc non aveva dunque più nulla da temere dal mostro. E non c'era neanche il rischio che questi venisse a scoprire, in un modo o nell'altro, il sotterfugio della fotografia. Immerso nel proprio silenzio e con gli integralisti islamici come unica compagnia, Reverdi era ormai isolato dal mondo esterno. Fu allora che Marc decise di portare a termine il suo progetto. E vi lavorò accanitamente per tutta l'estate. Dapprima nel suo studio. Poi in una casa nel sud della Francia che gli aveva prestato Renata. I suoi appunti, precisi, scottanti, gli permisero di procedere con grande celerità. Più di venti pagine al giorno. Marc scriveva in un continuo stato di trance. Di tanto in tanto faceva una pausa e rileggeva: era lui stesso spaventato. Capitolo dopo capitolo si identificava con l'assassino. Si soffermava sui particolari violenti e sadici degli omicidi. Il tono usato si avvicinava alla veridicità di un diario intimo. In quei momenti si ricordava di Patang, della sua crisi, della spasmodica ricerca di prostitute per le strade... Eppure, nonostante questo suo identificarsi, Marc provava una certa delusione. Non aveva colto l'essenza stessa della pulsione omicida. Il godi-
mento. Era riuscito in un certo qual modo a oltrepassare la Linea nera, ma, nonostante ciò, rimaneva estraneo a quel desiderio di distruzione, a quella sete di sofferenza. Si era semplicemente avvicinato all'orrore senza capirlo e senza provarlo. Non era ancora riuscito ad assaporare il piacere del male, l'eccitazione del sangue. Non avrebbe dovuto rallegrarsene? Provava invece una certa amarezza. Non aveva completato la sua missione. Non si era spinto così in là come avrebbe dovuto, in nome di Sophie. A fine luglio aveva già pronta una prima versione. Per due mesi la realtà lo aveva lasciato del tutto indifferente. Non avevano attirato minimamente la sua attenzione né l'ondata di caldo che aveva devastato l'Europa, né la scomparsa di Marie Trintignant, picchiata a morte dal suo amante. Il mondo di Marc era ormai un altro. Stava scrivendo Sangue nero, la storia di un assassino apneista. Aveva mantenuto, a grandi linee, i punti della sinossi. L'avventura di un giornalista solitario che segue la pista di un serial killer attraverso l'Asia. Si era discostato dalla storia ufficiale di Jacques Reverdi, ma aveva conservato due elementi chiave che collegavano direttamente l'assassino del romanzo all'assassino reale: tutto si svolgeva nel Sudest asiatico e l'omicida era un istruttore di immersioni, ex apneista. Aveva rispettato le tappe della propria inchiesta. Il Cammino della Vita. I Segnali dell'Eternità. La Camera della Purezza. Il Sangue Nero. Per quanto riguardava l'ambientazione e le sensazioni, Marc non aveva dovuto fare altro che ricopiare il «diario di bordo», gli appunti presi sul posto. Aveva cambiato soltanto i nomi delle persone e dei luoghi. Aveva aggiunto un tocco personale per aumentare ulteriormente la suspense: un contrappunto drammatico di sua invenzione. In parallelo all'investigazione del protagonista, l'assassino teneva prigioniera una giovane turista che si apprestava a sacrificare. Il libro faceva alternare i due punti di vista, le due storie, che poi si congiungevano al momento dello scontro finale. L'unica vera debolezza del romanzo era l'evento che Marc aveva dovuto inventare di sana pianta: il trauma dell'assassino. Ignorava per quale motivo Jacques Reverdi fosse diventato quel predatore spietato, assetato di sangue nero. Proprio come non capiva il significato della breve frase: «Presto, nasconditi, arriva papà!» O per quale motivo le foglie di bambù
scatenassero la sua pulsione omicida. Ancora una volta si era basato su frammenti di realtà. Immaginando il momento in cui l'omicida, adolescente, aveva scoperto il corpo dissanguato della madre, com'era effettivamente il caso di Jacques. Ma aveva aggiunto, nel libro, che lei non era del tutto morta. Il futuro assassino era davanti a una moribonda che gli svelava l'identità del padre, un essere abominevole, mentre gli accarezzava il viso con le mani insanguinate. Mani nerastre e leggere, il cui contatto aveva provocato il duplice trauma, quello del sangue nero e quello del fruscio delle foglie. Quando aveva riletto la prima stesura, Marc si era sentito soddisfatto. Forse non si trattava di alta letteratura, ma nei passaggi più tormentati, specialmente nelle scene di violenza, aveva superato sé stesso. Finiva per scrivere come Reverdi? O come Elisabeth, resa visionaria dal suo maestro? Lavorò ancora. Attraversò l'intero periodo della canicola senza accorgersene. Sentì vagamente parlare di migliaia di morti, vittime del caldo. Vide, nei giornali, le immagini dei cadaveri conservati nelle celle frigorifere di Rungis. Era del tutto indifferente. La sua mente era dominata completamente dal romanzo. Scriveva, sudava, dimagriva, immedesimandosi totalmente nella vicenda che narrava. All'inizio di settembre l'opera era terminata. Un mattone di quattrocento pagine che decise di consegnare personalmente a Renata Santi. Si sentiva leggero, in senso figurato e in senso proprio: aveva perso sette chili. Nonostante l'abbronzatura, non era affatto in forma. Il caldo atroce si era leggermente attenuato, ma rimaneva presente in città, dentro all'inquinamento, come il respiro lento di un animale. Quando il taxi lasciò le stradine strette del quartiere della Place SaintGeorges e raggiunse il Boulevard Haussmann, il viso di Khadidja lo salutò di nuovo dai muri della città. Era la più lunga campagna della storia della pubblicità. 70. «È stupendo.» Renata Santi aveva letto l'intero manoscritto in soli due giorni. Con gesto teatrale, rialzò la testa scuotendo i lunghi riccioli: sembrava una caricatura di Luigi XIV. «Questo assassino e la sua ricerca del sangue nero, davvero... Da dove le tira fuori queste idee?»
Marc si strinse modestamente nelle spalle. «La sua immaginazione... è agghiacciante. Non per farle troppi complimenti, ma è uno dei migliori thriller che abbia mai letto. Abbiamo fra le mani un best-seller, caro mio, dia retta a me. Quando penso a quei miseri racconti su cui abbiamo lavorato assieme... Ma ora recupereremo il tempo perso!» Marc era di umore tetro. Nonostante i complimenti, provava un'oscura tristezza per aver terminato il libro. Renata continuò: «Dobbiamo muoverci in fretta. Darci dentro il più possibile. Non c'è granché da correggere. Potremmo pubblicarlo in ottobre. Che ne pensa?» Marc non rispose: la strizza gli contraeva lo stomaco. «Quest'autunno la stagione letteraria è di un piatto che di più non si può. Dobbiamo creare l'evento!» Fece un grande gesto con il braccio, come se indicasse un orizzonte abbagliante davanti a sé. «Prima di tutto, la campagna pubblicitaria. Manifesti. Teasing alla radio. Sa cos'è, vero?» Marc annuì. Renata parlava con voce gutturale, come se le mancasse il respiro: «Ho già qualche idea in mente... Sul colore del sangue. Le prometto qualcosa di davvero terrificante!» Lui rimaneva silenzioso. Lei aggiunse, in tono confidenziale: «Con un po' di fortuna potremmo persino azzeccare il momento.» «Cosa intende?» «Be', sa... Il processo Reverdi.» Marc si irrigidì: «Credevo fossimo già d'accordo. Non si deve creare il benché minimo legame con quel caso, per nessuna ragione, chiaro?» Renata alzò entrambi i palmi delle mani: «Nessun problema. Ma ci penseranno i giornalisti. Sarà la prima domanda che le faranno.» «In tal caso non rilascerò interviste.» «Non capisco i suoi timori né i suoi scrupoli. Innanzitutto, la belva è rinchiusa in gabbia. E poi, quel che conta maggiormente è che il romanzo è di pura fantasia. All'inizio, è vero, uno potrebbe anche pensare a Reverdi. Ma il seguito viene sviluppato in modo talmente... particolare! Tutti riconosceranno la grandezza della sua immaginazione.» Marc aveva la gola secca. Avrebbe avuto il coraggio di mentire sino in fondo? Di difendere il libro di un altro? «E ora», riprese Renata, «mettiamoci al lavoro.» Batté con la mano sul
manoscritto. «Ho messo dei post-it nei passaggi che deve rielaborare. Poco o niente. Nel frattempo ci occupiamo della copertina. Fra quindici giorni saremo in stampa!» Marc era paralizzato sulla sedia. L'evocazione di Reverdi gli aveva scavato un grande vuoto nello stomaco. Gli tornò in mente un ricordo lontano, quando lui e Vincent erano all'apice del successo: ricchi, fieri, traboccanti di vita... e fuori di zucca. Una notte avevano deciso di aggregarsi a un gruppo che praticava il salto con l'elastico sul Pont de Chatou. Quella sera non aveva voluto tirarsi indietro. Bardato di cinghie, si era arrampicato sul parapetto. Ancora prima di saltare si era sentito morire. Le acque nere che scorrevano più di quaranta metri al di sotto gli rinviavano l'immagine della propria morte. E al contempo lo attiravano, lo colmavano già. Provava ora la medesima sensazione. Tranne che oggi non aveva né cinghie né bardatura né elastici ai piedi. 71. «Buongiorno, Elisabeth!» Marc si voltò, stupefatto. Udire quel nome fu come ricevere una manganellata in piena nuca. Stava attraversando Place Saint-Georges e una mano gli aveva toccato la spalla. La vista offuscata dalle scintille che gli guizzavano sotto le palpebre, dovette concentrarsi prima di riconoscere l'uomo che gli stava di fronte. Alain. L'impiegato delle poste. «Come se la passa Elisabeth?» chiese scoppiando a ridere. Marc aveva scordato quel personaggio che un tempo teneva il suo destino fra le mani. Gli sembrava che fosse passato un secolo da allora. In piedi sul marciapiede Alain sembrava ancora più piccolo di quando stava seduto dietro al banco. Carnagione scura e coda di cavallo: un pellerossa in miniatura. Marc si tirò indietro il ciuffo con gesto meccanico e cercò una risposta: non gli veniva in mente nulla. Non sapeva nemmeno se l'impiegato parlasse di una Elisabeth in carne e ossa, o se da tempo avesse capito che lei non esisteva. Finì per farfugliare: «Eh... va tutto bene, adesso.» Alain lo gratificò di una strizzata d'occhio:
«Bisogna che venga a prendere la posta.» «Elisabeth ha ricevuto delle lettere?» Il vietnamita scoppiò ancora a ridere: «Ventotto!» Trenta minuti dopo Marc usciva dall'ufficio postale, le braccia cariche di buste. Alain aveva accettato di consegnargliele nonostante fosse da tempo scaduto il contratto di rinvio al mittente. Si fermò per guardare cos'era scritto sulle buste. Avevano tutte la stessa intestazione, un simbolo arabo. Con ogni evidenza, in seguito alla morte di Jimmy, per poter spedire la posta senza dare nell'occhio Reverdi si era servito di un'associazione musulmana. Era per questo che aveva preso a frequentare gli islamisti. Marc guardò le date dei timbri postali. Per circa tre mesi l'assassino innamorato aveva scritto una lettera ogni tre giorni. Erano classificate in ordine cronologico. Non resistette alla tentazione di aprirne qualcuna, lì, sul marciapiede. Cominciò con la prima, datata 12 giugno: Amore mio, Sono dieci giorni che non ricevo una mail da parte tua. All'inizio ero preoccupato. Ho avuto paura che ti fosse accaduto un incidente sull'ultima isola. Ma no: l'avrei senz'altro saputo. Si tratta probabilmente di un inconveniente tecnico. Per un qualche motivo i tuoi messaggi non raggiungono la mia casella postale. Non so se tu ricevi i miei. Per maggior sicurezza ti riscrivo al tuo indirizzo parigino... Marc ficcò il foglio dentro la busta. Aprì la lettera seguente. 15 giugno. Il suo sguardo cadde per caso su queste frasi: ...Capisco sempre meno il tuo silenzio. Cos'è successo a Phuket? Come mai non ricevo tue notizie?... Terza lettera. 19 giugno. Cambiamento di tono radicale: ...Ciò che avevo scambiato per un problema tecnico risulta essere una chiusura volontaria della tua posta elettronica...
Marc saltò parecchi paragrafi e lesse: ...Si tratta forse di un gioco? Se lo è, non posso ammettere che tu sia incosciente a tal punto. Tu sai ormai con chi hai a che fare. Sai che sono io a fissare le regole... Alla fine del testo l'assassino si ammorbidiva: ...Sono addolorato di non poterti più leggere, ma mi riempie di felicità scriverti a raano, come ai vecchi tempi... Marc accartocciò la lettera. Pescò una busta a caso, dei primi di luglio. La scrittura era meno regolare: Elisabeth, Il tuo silenzio assume ora un significato che cerco di mantenere a distanza. Quattro sillabe che mi rifiuto di pronunciare. Perché, come sai, potrebbero comportare conseguenze definitive. Sei la mia eletta. Tu sei colei che ho scelto. Ti concedo un'altra proroga... Marc saltò ancora una volta alla conclusione: ...Puoi ancora scrivermi al mio indirizzo di posta elettronica. Fallo in fretta prima che sia troppo tardi. Né tu né io desideriamo che ciò avvenga. Rinunciò a leggere altre missive, più recenti. Tremava dalla testa ai piedi. Si guardò intorno: passanti, auto, negozi... Tutto era appannato, come in fondo a un acquario. Non apparteneva più a quel mondo ordinario. Era ormai bollato con un marchio rosso che lo escludeva, e lo condannava. Si appoggiò contro un muro e cercò di ragionare. Cosa stava succedendo che non avesse previsto? Non aveva mille volte immaginato quella collera? Che cosa temeva esattamente? Ancora una volta attribuiva a Jacques Reverdi dei poteri sovrannaturali. Dietro alle sbarre non poteva fare nulla. E di Marc Dupeyrat non conosceva nemmeno l'esistenza. Tra poche settimane il nemico sarebbe stato giudicato e messo a morte.
Caso archiviato. Questa argomentazione non lo confortò in alcun modo. Si stringeva la posta sul petto. Doveva sbarazzarsene. Bruciare quelle lettere. Scongiurare la maledizione. 72. Quando il taxi raggiunse la fine del tunnel della Défense Marc non riconobbe nulla. Si era totalmente sbagliato: mai infatti sarebbe riuscito a rintracciare quel terreno incolto dove veniva a giocare da bambino. Nanterre aveva mutato completamente aspetto: tutti quegli edifici scintillanti avevano cancellato persino il ricordo dei campi abbandonati che era venuto a cercare. «Dove andiamo esattamente?» «Continui sempre dritto», rispose all'autista. «Fino a Place de La Boule.» Aveva citato un nome a caso. Cercava di rammentarsi quei quartieri. La grande zona delle torri, a nord, che comprendeva le «Fontenelles», i «Champs-aux-Merles», le torri «Aillaud» soprannominate le «torrinuvole»... La vecchia Nanterre, a ovest, con le sue casette di mattoni strette le une contro le altre. Poi, più avanti ancora, oltrepassate la prefettura e l'università, una vera e propria terra di nessuno, un ghetto disseminato di terreni incolti, casermoni fatiscenti, discariche di automobili e fabbriche in disuso. Lui stava cercando proprio quella zona, il cui quartiere più famoso si chiamava per l'appunto La Folie. «E adesso?» Erano arrivati in Place de La Boule. La rotonda, un tempo sovrastata da un piccolo cavalcavia, era ora piatta e ordinata come un giardino pubblico. Tutt'intorno Marc vedeva soltanto edifici dai vetri azzurrati, giardinetti, villette ristrutturate. «Vada fino alla stazione di Nanterre-Ville. Poi si vedrà.» «Poi, ci sono le baracche.» Marc non sperava tanto. Osservava ora le strade in cui era cresciuto, dove i suoi genitori gestivano una farmacia. Da quanti anni non aveva rimesso piede nel cimitero del Mont-Valérien, dove erano sepolti? Da quanto tempo non vedeva sua sorella? Si era sempre sentito estraneo alla sua famiglia, alle sue origini. Eppure oggi che voleva scomparire dalla faccia della Terra, trovare un rifugio segreto nell'universo, era verso Nanterre che
si era spontaneamente diretto. «Prenda il Boulevard de la Seine.» «Ne è sicuro?» «Segua la direzione delle "Cités Komarov".» Quel nome gli era riaffiorato alle labbra. Gli ultimi caseggiati prima del fiume. L'auto passò sotto il ponte della RER e sboccò in un paesaggio che ormai non sperava più di trovare: edifici grigi, fabbriche, rotaie... Marc riprese fiducia. «Devo procurarmi della benzina.» L'autista gli lanciò uno sguardo sospettoso. «Ho avuto un guasto», spiegò Marc. «La mia auto è ferma poco più avanti. Mi trovi una pompa di benzina.» Il taxi si fermò a un distributore. Marc comprò un bidone e lo riempì. In quel preciso istante scoppiò un temporale. Una lenta marea nera invadeva l'orizzonte. Le nuvole cozzavano le une contro le altre sprizzando macabre scintille del colore del sangue. Marc ripensò all'isola dei morti, quando il monsone lo aveva accompagnato nella sua ultima spedizione. «Un altro segno», si disse. Prese un accendino dal bancone della cassa e pagò il conto. Poi corse fino al taxi mentre incominciava a piovere. «Continui sempre dritto e prenda la prima a destra.» I suoi ricordi si facevano più precisi. Da bambino veniva qui assieme ad altri ragazzini, come lui figli di borghesi, per provare la sensazione della paura, per molestare i cani e i poveri. Il Boulevard de la Seine terminava in una strada deserta delimitata da un lato da enormi vasche e dall'altro da villette disabitate con le finestre murate. Tutto era rimasto intatto. Una corte dei miracoli senza miracolo... Scorse i cubi nerastri delle «Cités Komarov». «Mi faccia scendere qui», ordinò. L'autista era sempre più scettico: «Guardi che non ho intenzione di aspettarla.» Marc lo pagò, ribadendo che la sua auto era parcheggiata poco più in là. Quando uscì dal taxi gli scrosci avevano raddoppiato d'intensità. Una pioggia grassa, scura, oleosa si mischiava a una polvere rossastra sollevata dall'impatto delle gocce. Non badò agli edifici con le porte scardinate e imboccò il vicolo. Camminò per quasi dieci minuti, reggendo sempre in una mano le buste e nell'altra il bidone di benzina. Rasentò un muro cieco ricoperto di graffiti e di
messaggi d'amore. In fondo lo aspettava il limo grigio della Senna. Trovò una barriera, rossa e bianca, sulla quale qualcuno aveva scritto col pennarello, a fitte lettere: SIGNORE IDDIO, TI CHIEDO PERDONO PER I MIEI PECCATI... Assolutamente di circostanza. Si infilò sotto l'ostacolo dirigendosi verso l'argine del fiume. Un'alzaia, uno stretto lembo di terra, deserto. Di fronte, i fitti boschetti dell'isola Saint-Martin. L'esistenza di un luogo così isolato, in piena città, aveva dell'incredibile: un miscuglio di aperta campagna e di industria in abbandono. Non era in nessun luogo ed era giunto a destinazione. Scese lungo il fiume e camminò ancora. Sull'altra sponda degli abusivi si erano installati in un barcone arrugginito e i loro cani guaivano sotto la pioggia. Era l'unico segno di vita nel raggio di un chilometro. Si allontanò e scoprì una «centrale d'incendio», un edificio senza finestre eretto su piloni sprofondati nell'acqua. Si immerse sotto le strutture rifugiandosi alla base di uno dei pali. Lì, su una passerella di ferro, prese le prime lettere - quelle che aveva già letto - e le cosparse di benzina. Accese una busta che aveva attorcigliato a mo' di torcia e la lasciò cadere sul mucchietto di carte. Le fiamme produssero un crepitio sordo, innalzandosi al disopra dell'acqua grigia che scorreva sotto la passerella. Marc le osservava. Bruciare i suoi rimorsi, quello era il suo destino. Il certificato di morte di Lady Diana. Il ritratto di Khadidja. Ma non era sicuro che questa volta sarebbero state sufficienti le fiamme. Esitò prima di incenerire le ultime lettere. Ne aprì una datata fine luglio. La scrittura si era fatta tremolante, tormentata. ...Le quattro sillabe che mi rifiutavo di pronunciare, semplicemente per proteggerti, esplodono ora nella mia mente: tradimento. Marc ripensò a ciò che gli aveva detto la psichiatra di Ipoh: «Non lo tradisca mai. È la sola cosa che non potrebbe perdonarle.» Lesse, saltando alcuni paragrafi, il fumo gli pizzicava gli occhi: ...Sei fuggita, mi hai abbandonato. In un certo senso non posso biasimarti: quale futuro potresti avere con me? Non te ne voglio nemmeno per avere approfittato della situazione, quale pericolo si corre a fuggire da un uomo chiuso dietro le sbarre?
Ma c'è una cosa che sembri aver dimenticato: tu possiedi qualcosa che mi appartiene. Devi restituirmi il mio Segreto... Marc appallottolò il foglio e lo gettò nel fuoco. Con un gesto furente, buttò via anche l'intero pacchetto, o quasi. Inzuppato fino al midollo, guardava i frammenti neri della carta che volavano via nel fiume. Avrebbe voluto essere inghiottito anche lui in quel fuoco umido, in quello scorrere lento che trascinava quei resti verso nessun luogo. Due sole lettere gli restavano in mano. Ne aprì una. Scrittura elettrica, discontinua. In alcuni punti la carta era bucherellata: ...Mi costringi a prendere delle decisioni che non avrei mai voluto prendere in considerazione. Ma hai portato via qualcosa che mi è caro... E non c'è che un modo per riprendermelo... Marc non riusciva più a respirare. L'oppressione era così forte da schiacciargli le costole. Cosa voleva dire Reverdi esattamente? Saltò alcune righe, poi: ...Mia Elisabeth... Ricordati di questa citazione: «Questo foglio è la tua pelle, questo inchiostro è il mio sangue.» C'è un patto fra di noi. In un modo o nell'altro sarai costretta a onorare il tuo giuramento... Marc buttò la minaccia nel fuoco. La scrittura si contorse tra le fiamme. Ma la sua convinzione si rafforzò: no, questa volta il fuoco non sarebbe bastato. Nulla sarebbe stato cancellato. Nulla sarebbe stato dimenticato. Era rimasta un'unica lettera. La lasciò cadere nel fuoco senza neanche aprirla. L'ultima citazione gli girava ancora per la testa: «...Questo foglio è la tua pelle, questo inchiostro è il mio sangue...» Non sapeva quando né come, ma era certo che tutto ciò gli sarebbe piombato addosso. In un modo o nell'altro, sarebbe stato versato del sangue. 73. Renata Santi aveva fatto le cose in grande. Invece di organizzare un cocktail letterario nei propri uffici o in un ano-
nimo ristorante vecchio stampo, aveva affittato per l'intera serata un nuovo locale notturno, Les Remises, situato sul Lungo Senna all'interno degli ultimi capannoni in disuso del ponte di Tolbiac. Quel martedì 14 ottobre si festeggiava il lancio di Sangue nero, primo romanzo di Marc Dupeyrat, best-seller annunciato. Il luogo era insolito, ma perfettamente coerente con la strategia di Renata: sottolineare la propria originalità rispetto alle convenzioni del mondo editoriale. Senza dissimulare la soddisfazione, si atteggiava a iconoclasta e pubblicava il thriller nel bel mezzo della rentrée letteraria, annunciando a chiare lettere l'intenzione di farne l'evento della stagione. Fino a quel momento non aveva commesso il minimo sbaglio. Era riuscita, come promesso, a far uscire il libro in un mese. Marc ne era impressionato. Aveva già lavorato su documenti che scottavano, dati alle stampe in poche settimane, ma pensava che per un romanzo ci sarebbe voluto molto più tempo. Non con Renata. Man mano che lui apportava le ultime modifiche il manoscritto passava ai correttori. In contemporanea venivano decise la copertina e l'impaginazione: Renata si muoveva su tutti i fronti. Consultava Marc per qualsiasi decisione, ma solo per la forma. Lui aveva ben capito chi fosse il padrone. A fine settembre tutto era pronto, mancava solo di andare in stampa, ma ai giornalisti erano già stati mandati degli estratti e la campagna marketing era avviata. Quella sera, il risultato di tutti quegli sforzi era tangibile: ancor prima di essere messo in vendita il romanzo era considerato un successo. Ne parlavano i mezzi d'informazione e faceva molto chic mormorare che quel «thriller» era uno dei migliori libri della stagione. Renata esultava: mentre gli scrittori sgomitavano per piazzarsi sulle liste dei premi letterari, lei riceveva una marea di ordinazioni e inviava quantità industriali alla grande distribuzione. «Un fenomeno!», «Un'apocalisse!» non smetteva di ripetere dai suoi uffici. Marc era al settimo cielo. Stordito, si lasciava cullare da quel dolce rullio. I complimenti, le lodi esagerate, le proposte, senza parlare dell'assegno: aveva intascato la seconda tranche dell'acconto. Adesso che l'opera era terminata, il suo primo riflesso era stato quello di rimborsare Vincent per le spese di viaggio. Un modo per mettere la parola fine al caso Reverdi. Dopo il sinistro esorcismo che aveva compiuto a Nanterre, l'angoscia si era dileguata. La data del processo di Jacques era fissata al 5 novembre. L'assassino era stato interrogato dal pubblico ministero ma aveva rifiutato
di rispondere, atteggiamento che veniva considerato come «un'aggravante». Mancava solo di organizzare una ricostruzione, poi il sospettato sarebbe stato trasferito nel carcere di Johor Bahru dove avrebbe subito il processo. Secondo la stampa malese i giudici ci avrebbero messo solo pochi giorni a mandarlo alla forca. Marc si sentiva più tranquillo anche per un altro motivo: i manifesti di Khadidja erano finalmente scomparsi dai muri di Parigi. Ed era terminata la campagna stampa. Per maggior prudenza aveva controllato anche un altro particolare: Elisabeth Bremen, quella vera, di cui possedeva ancora il passaporto, aveva lasciato la Cité Universitaire in giugno, e non vi aveva più fatto ritorno. Un altro chiavistello che si chiudeva. Infine Marc si era dato da fare per rivendere il computer, sempre a nome del vecchio proprietario. Il materiale era passato di mano senza che mai il suo nome figurasse da nessuna parte. Il passato era sepolto. Non gli restava che assaporare il successo che lo aspettava e, perché no, pensare già a un nuovo romanzo... Si diresse verso il bar con passo flemmatico. Scopriva con piacere questo locale un po' fuori dalle righe. Una specie di deposito, con i muri grezzi e le strutture in acciaio, dove la musica risuonava come dentro a una lavatrice di zinco. Nell'aria c'era odore di alghe e di muffa, probabilmente a causa della vicinanza della Senna che lambiva i piloni dell'edificio, sotto i loro piedi. Del resto, non appena ci si allontanava dal calore dei proiettori, si tremava di freddo per l'umidità. Sorrise fra sé: lo divertiva l'idea di scuotere un po' la comunità letteraria, non molto avvezza a questo genere di atmosfera. E poi la musica era così forte che era impossibile scambiare mezza parola. Un modo ideale per far tacere tutti e bloccare sul nascere critiche e maldicenze. Marc raggiunse il bar in uno stato di relax. Khadidja si tuffò in mezzo alla folla. Conosceva Les Remises. Le piaceva moltissimo quella sorta di grande suk dove le sue amiche indossatrici venivano in cerca di «mercanzia». C'erano quelle che speravano di incontrare «l'uomo della loro vita», quelle che andavano alla ricerca di uno «da spennare» o semplicemente di un tipo «super-accessoriato». Quei locali gelidi ospitavano un'infinità di possibili relazioni, in un frastuono degno di un terremoto. Anche lei, quella sera, andava in cerca di qualcosa. Era sicura di rivederlo. All'inizio dell'estate, non appena aveva saputo che Marc era tornato, gli
aveva spedito una mail di benvenuto. Nessuna risposta. Si era poi azzardata a lasciargli un messaggio sulla segreteria telefonica. Silenzio totale. Alla fine di luglio, in occasione di un servizio fotografico, aveva interrogato discretamente Vincent: Marc si era isolato in qualche posto del sud della Francia per terminare un libro. Quale libro? Vincent non lo sapeva. Ma la cosa essenziale era un'altra: Marc aveva una scusa. Un caso di forza maggiore. Non bisognava disturbare «l'artista». Adesso era invece ufficiale: Marc Dupeyrat aveva scritto un'opera di narrativa, Sangue nero, destinata a diventare un best seller. Khadidja non vedeva l'ora di congratularsi con lui. Aveva deciso di dare un colpo di spugna. Di dimenticare il suo atteggiamento sgradevole, il suo silenzio, la sua villania. Tranne che per un unico episodio: il furto della polaroid la primavera precedente... Aveva ripensato a quella scena tante di quelle volte che, nella sua mente, quei pochi secondi erano più logori dei suoi VHS di commedie egiziane. Cercava di farsi largo nella ressa. Era impaziente di ritrovare il piccolo uomo che si era trasformato in uno scrittore. Non era cambiata anche lei? Ogni settimana appariva nelle pagine patinate delle riviste, sfilava sulle passerelle. Aveva ricevuto numerose proposte di contratti in esclusiva con grandi marche di profumi e prodotti cosmetici. Aveva cambiato casa: un quattro locali scelto di proposito nello stesso edificio in cui per ben tre anni era stata prigioniera di un monolocale. Aveva preso anche la patente e deciso di rimandare all'anno successivo la discussione della tesi. I soldi erano lì e bisognava approfittarne subito. Freud e Lévy-Strauss potevano anche aspettare. Sì: lei e Marc avevano fatto passi da gigante. Era giunto il momento di ritrovarsi: all'apice del successo. Ma lui dov'era? Un poco in disparte, Marc scandiva il ritmo della musica con la testa e osservava l'ambiente. Al disopra della folla si ergeva un soppalco, dove alcuni ballerini si stagliavano come ombre cinesi. Un vero e proprio teatro balinese. Un particolare dava un tocco finale alla magia: degli enormi ventilatori agitavano le sagome come fossero figurine di carta. A destra, la scena era dominata da un dj che sembrava lustrare le piastre con i gomiti, puntando quella sera sugli anni Ottanta e bombardando la sala con grandi successi dell'epoca, a base di vecchi sintonizzatori gorgoglianti e voci acutissime. Lo champagne cominciava a fare effetto. Marc osservava i volti. Non ri-
conosceva nessuno. E il motivo era ovvio: si era occupata di tutto Renata. Aveva invitato i grandi nomi dell'editoria, le celebrità del jet set. Lui invece non conosceva per niente l'ambiente letterario e da tempo non s'interessava più alla cronaca rosa. Però a un tratto riconobbe una faccia. Poi due. Poi tre. C'era qualcosa che non quadrava: quei tizi erano dei colleghi. Cronisti giudiziari, giornalisti di cronaca nera, fotoreporter. Che diavolo ci facevano lì? Scorse persino Verghens, che lui non aveva invitato... Si fece strada nella mischia e trovò Renata che stava conversando animatamente accanto al buffet. La prese per un braccio e la condusse in un posto appartato. «Che cos'è questo puttanaio?» urlò. «Mi aveva parlato di un cocktail letterario. Qui ci sono tutti gli sciacalli di Parigi. Gli specialisti di cronaca nera. Eravamo d'accordo che non ci sarebbe stato nessun legame con Reverdi!» Renata prese un'aria offesa, liberandosi dalla stretta: «Non c'entro niente, le assicuro! Alcuni nomi sono stati evidentemente aggiunti per caso, io...» «Mi prende per un imbecille? Il mio libro è solo un romanzo. Sant'Iddio! È pura finzione! Non ha nulla a che vedere con la realtà!» Renata cambiò espressione, la bocca le si arricciò in un sorriso canzonatorio: «Lei è un guastafeste. Li guardi!» disse afferrandolo a sua volta per il braccio. «Sono verdi dalla gelosia. Lei è riuscito in ciò che nessuno di loro è stato in grado di fare. Ha trasformato la sua esperienza di vita in creazione artistica. Ha avuto sufficiente immaginazione da scrivere un romanzo. Uno vero!» Marc fu percorso da un brivido. Si liberò dalle mani della donna e fuggì tra la folla. Spalle, gomiti, tessuti lo sfioravano. Si ricordò della giungla in Thailandia. Le foglie di bambù. Il miele dorato che si scioglieva al calore della fiamma prima che il coltello... Si alzò sulla punta dei piedi per localizzare il bar. Un bicchiere, presto. Khadidja continuava a farsi largo tra la gente. Conosceva molte persone, almeno di vista: gente famosa, facce che comparivano su rotocalchi come «Gala» e «Voici». Affrontava la cadenza regolare dei sorrisi di circostanza, piccole scintille elettrostatiche che resti-
tuiva immediatamente con la stessa volatile modalità. C'erano anche degli intellettuali. Filosofi, sociologi, scrittori che non avrebbe mai pensato di poter incontrare e che invece le sorridevano alzando il bicchiere. Piccola lezione di vita: era senz'altro più facile abbordare quegli uomini brillanti nelle vesti di una famosa modella che in quelle di una laureata in filosofia. Questo particolare confortante le indicava che stava agendo nel modo giusto. Doveva usare il suo fisico come un'arma: «La torcia sarebbe stata il suo corpo.» Un'ombra gigantesca le sbarrò la strada. Un'eclissi improvvisa. «Dove ti eri cacciata?» urlò Vincent. «Sono dieci minuti che ti cerco.» «Stavo ammirando. Fantastico, vero?» «Geniale.» Le porse una coppa. «Champagne?» Lei non beveva mai. Non per via dell'isiam, non era praticante, ma per i suoi genitori che al contrario aveva fin troppo praticato. Fece «no» con la testa, poi pensò a Marc. All'idea di rivederlo afferrò la coppa e la trangugiò d'un colpo solo. «Balliamo?» Terzo whisky. Il bicchiere in mano, appoggiato a una colonna, Marc rispondeva ancora ai sorrisi e alle congratulazioni con un cenno della testa, ma ormai aveva cambiato umore. Per fortuna, la musica impediva qualunque tentativo di conversazione. Era sbalordito per la velocità con la quale si era sentito nuovamente attanagliato dall'angoscia. Una semplice allusione alla realtà il processo, Reverdi - ed ecco che tremava come un epilettico. La tranquillità con cui aveva vissuto quelle ultime settimane era soltanto una patina sottile. Jacques Reverdi non lo aveva mai abbandonato, e non lo avrebbe abbandonato mai. Un uomo si chinò verso di lui: «È una sedia di plastica.» «Cosa?» «Dicevo: c'è un'atmosfera fantastica!» Marc annuì, il respiro alterato. Mandò giù una sorsata di whisky. La musica si trasformava in una sarabanda assordante, gli penetrava dentro, lo sommergeva man mano che il bruciore dell'alcol gli si trasmetteva nelle vene. Un altro invitato lo afferrò per la spalla: «Non vorrei essere al tuo posto.»
«Eh?» «Ho saputo che ormai sei a posto!» Marc indietreggiò. Vedeva i volti lividi: carnevale di maschere contratte nella luce, lembi di pelle floscia incollati sulle ossa. I proiettori stroboscopici irrigidivano le espressioni, esageravano i tratti, smembravano le figure. Guardò il bicchiere: scintille dorate gli scivolavano tra le dita. Considerò l'oggetto come un talismano, fonte delle sue allucinazioni, poi bevve un altro sorso. Non sentiva più nulla e incominciava a sprofondare nel terrore puro. Fu in quel momento che la vide. La sua figura ondeggiava sotto l'aria dei ventilatori. Il suo corpo volteggiava mentre i riccioli bruni e i braccialetti ai polsi dondolavano in controtempo. Quel movimento pareva isolare, cristallizzare l'oscillazione delle anche, lo scintillio delle stoffe. Marc pensò a un setaccio che, della sabbia, tratteneva soltanto qualche granello d'oro. Gli vennero in mente quei pittori dell'Ottocento che aggiungevano una vertebra alle schiene delle donne che dipingevano per renderle più flessuose, più aggraziate. Quante vertebre erano state aggiunte a Khadidja? Era ipnotizzato. La guardava ancora, mentre muoveva le anche, poggiandosi lievemente sul tallone sinistro poi su quello destro, creando un anello di Venere attorno alla cintura, mentre alle estremità delle braccia sottili andavano e venivano gli anelli d'argento come i piatti di un'antichissima bilancia... Un'altra immagine gli esplose sotto le palpebre. Khadidja si agitava ora su un sedile laccato di miele, facendo affondare le corde nelle carni. Le ferite suturate si gonfiavano mentre lei si tendeva per respirare. D'un tratto la pelle bruna si apriva in tutto il corpo, grondando inchiostro nero e disegnando scarificazioni fatali... Marc abbassò lo sguardo e vide nel bicchiere vuoto il proprio riflesso deforme. Aveva acceso il desiderio di un omicida con l'immagine di quella bellissima donna bruna. L'aveva offerta a un pazzo assassino. E in più, per intere settimane, lui era stato «lei», pensando, agendo, scrivendo come se fosse lei. Strinse così forte il bicchiere da frantumarlo. Guardò inebetito il sangue che gli scorreva sul palmo. Era stato «lei». E, adesso, capiva di amarla. Dall'alto della pedana, nonostante le luci che la accecavano, Khadidja
individuò il piccolo uomo dai capelli rossi che si teneva in disparte. Triste come un folletto abbandonato. Saltò giù con un balzo e fu sul punto di capitombolare, il che le fece capire quanto fosse ubriaca: l'abbinamento tacchi a spillo e champagne poteva risultare disastroso. Eppure, prima di avvicinarsi alla preda, si fece ancora strada fino al bar e strappò un'altra coppa dalle mani di un cameriere. Reggendola in alto sopra la mischia, riuscì a ritornare sui suoi passi, senza versarne neanche una goccia. Arrivata a pochi metri da Marc, s'infilò dietro una colonna poi spuntò fuori dal nascondiglio, prendendolo alle spalle: «Ciao!» disse con una risata. Marc si voltò, senza aprire bocca. Sembrava ostile. «Sempre gentile!» Rise e si aggrappò alla spalla di Marc per evitare di cadere. «È da tanto che voglio dirti una cosa», gli urlò nell'orecchio. «Sei proprio antipatico!» Ridacchiò, poi svuotò la coppa d'un fiato. Nei fumi dell'alcol tutto le sembrava estremamente divertente. Lui la guardò incollerito. «Hai bevuto o cosa?» «Ci provo, in ogni caso! Sono riuscita a raggiungere il bar ben due volte in un'ora.» Rise ancora, ma Marc era tetro. Prese dal tavolo una bottiglia di whisky e riempì il bicchiere di Khadidja con una specie di rabbia contenuta. La vista di quella bevanda forte nella coppa leggera gli sembrò oscena. Lei ebbe un improvviso sprazzo di lucidità: tutto ciò era lugubre, mortifero. Fu presa dalla tristezza. Aveva sognato ben altro per il loro incontro. Le salirono le lacrime agli occhi mentre il pavimento le ondeggiava sotto i tacchi. Aveva l'impressione che il vecchio deposito si fosse liberato dagli ormeggi e navigasse sulla Senna. Bevve un altro sorso e si raddrizzò, trovando una colonna dietro a lei: «Sai che anch'io e Vincent abbiamo qualcosa da festeggiare?» «Che cosa?» «Un'altra campagna per Elégie, di grandi proporzioni.» Marc le afferrò il polso con tale forza che i braccialetti le affondarono nella carne: «Non all'estero, spero.» Khadidja si divincolò e abbassò lo sguardo: lui aveva il braccio macchiato di sangue.
«Cos'è questo?» Marc le prese nuovamente il polso; questa volta lei sentì il contatto appiccicoso del sangue: era ferito. «Non all'estero?» le urlò nel timpano. «Questo tipo è pazzo», pensò. In un attimo lo detestò. «Un'enorme campagna in Asia, caro mio», gli sbatté in faccia. «Giappone, Cina, Thailandia, Malesia. Una cosa da sballo. Per non parlare dei quattrini!» Cambiò tono, con i singhiozzi in gola. «Marc! Marc? Dove stai andando?» 74. Al primo squillo Marc aprì gli occhi: era nel suo letto. Un vero miracolo. Non aveva la più pallida idea di come fosse tornato a casa. Accennò un gesto e si accorse che la mano era fasciata. Secondo miracolo. Non aveva il minimo ricordo di essere andato in ospedale né tanto meno di avere incontrato un medico, in quella notte da incubo. Altro squillo. Tentò di muoversi e prese coscienza della sua metamorfosi. La sua testa - non soltanto la parete ossea del cranio ma anche la membrana e il cervello - era diventata di pietra. Schiacciata contro il guanciale, affondandovi per il suo incredibile peso. Mai avrebbe avuto la forza di sollevarla. Ancora uno squillo. Vicino, stridulo, insopportabile. Nella sua mente prese forma l'immagine di Khadidja. Ballava, facendo ondeggiare il corpo in modo misterioso. La sua voce, accostata al suo orecchio, gli mormorava: «Sei proprio antipatico!» Quarto squillo. Ora poteva sbattere le palpebre. Tornava alla vita. Gli bastarono pochi secondi per ricordare la notizia catastrofica che gli aveva dato Khadidja. Il profumo Elégie sarebbe stato oggetto di una nuova campagna in Asia. L'incubo non finiva più. Il volto di Elisabeth avrebbe raggiunto Jacques Reverdi fin dietro le sbarre. Impossibile che lui non lo vedesse. Intuiva già tutta la sua collera. La sentiva montare, come quando nel deserto si ha il presentimento dell'arrivo di una tempesta di sabbia. Un fumo lento, scuro, velenoso, sulla linea dell'orizzonte. Una rabbia che si sarebbe presto abbattuta su di lui e lo avrebbe schiacciato come un insetto. Riuscì a muoversi leggermente. Dopo un tempo che gli parve intermina-
bile poté mettersi su un fianco e si piegò in due come un soldato ferito all'addome. Questo semplice movimento gli sembrò produrre un gorgoglio di whisky in fondo alle budella. Non soltanto aveva i postumi della sbornia ma anche il fegato in subbuglio. Il telefono non smetteva di suonare. Si issò su un gomito e tese l'altro braccio. Il sole invadeva lo studio con raggi obliqui. Che ora era? Afferrò il ricevitore. «Pronto?» «Sono Verghens.» La voce attraversò molti strati di nebbia prima di raggiungere l'area del cervello sollecitata. Si ricordò che l'uomo era presente alla serata. «Che cosa c'è?» chiese Marc. «Spero di non averti svegliato.» Il tono era pieno d'ironia. «Deliziosa, la tua festicciola. Ma ora bisogna che tu torni in pista. Ho del lavoro per te.» Marc recuperò un barlume di lucidità. Disse con una voce da carta vetrata: «Non scrivo più articoli.» «So che ti sei montato la testa, vecchio mio, ma è un caso di forza maggiore. Un necrologio.» «Chi è morto?» Verghens sospirò e tacque per alcuni secondi. Marc ritrovava il suo solito modo di fare, come quando c'erano le riunioni di redazione e lui tratteneva le informazioni per sé, dosava gli effetti. Finalmente sparò: «Reverdi è morto ieri. Alle sedici, ora malese. Si è saputo questa notte.» Marc scivolò a terra, sulla superficie dura del pavimento. Non era possibile che Reverdi fosse già stato giustiziato, non c'era ancora stato il processo. «Come?» «Incidente stradale. Il furgone che lo portava a sud è sbandato su un ponte. Ha sfondato il parapetto ed è precipitato nel fiume.» Una cortina di ghiaccio si abbatté su di lui. Adesso era perfettamente lucido. La presenza dell'acqua significava una sola cosa: che Jacques Reverdi era vivo. Chiese: «Hanno ritrovato il corpo?» «Non ancora. Soltanto quelli delle guardie. Stanno dragando il fiume. Ma c'è una corrente fortissima, a quanto pare, e... Cosa c'è? Non ti senti bene?» Marc capì con un attimo di ritardo che stava ridendo. Il riso gli saliva in
gola, si amplificava, esplodeva. Gli sembrava tutto così comico... La sua storia, l'imbroglio, le menzogne... e ora il successo, che era lì, a portata di mano, e gli sarebbe stato rubato dalla maledizione. Perché non c'era il minimo dubbio. Con la complicità del fiume, Jacques Reverdi era evaso. Ed era in cammino verso di lui. 75. Il suo primo riflesso fu quello di rintanarsi nello studio. Di aspettare l'assassino. Il 15 ottobre, per l'intera giornata, non fece altro che consultare gli articoli apparsi sul «New Straits Times» e sullo «Star» nonché i comunicati stampa di varie agenzie. Reuters. Associated Press. AFP. Ecco come ricostruì i fatti: il 14 mattina Jacques Reverdi doveva essere trasferito da Kanara a Johor Bahru per effettuare, il giorno dopo, una ricostruzione a Papan, sul litorale del mar Cinese. Il furgone era partito alle sei del mattino e aveva imboccato la North South Expressway in direzione sud. Dopo duecento chilometri, nei pressi di Tangkak, verso le nove, il veicolo era bruscamente sbandato (ancora non ci si spiegava la causa) sul grande ponte che attraversa il fiume Muar. Aveva oltrepassato il parapetto ed era precipitato per una ventina di metri. Senza alcun dubbio l'urto aveva ucciso sul colpo l'autista e l'altro passeggero seduto davanti. Secondo le prime testimonianze il furgone non ci aveva messo che pochi istanti ad affondare mentre già la corrente lo trascinava via, allontanandolo dal punto dell'impatto. Una delle guardie che si trovava sul sedile posteriore, e che era ammanettata a Reverdi, era stata ripescata, annegata, alle due del pomeriggio, più di cinque chilometri a valle. Dov'era il francese? Perché non si trovava all'altro capo della catena? Nessuno ancora parlava di evasione. Si continuavano le ricerche per ritrovare il suo cadavere e quello della seconda guardia. Secondo gli esperti le speranze di recuperarli erano assai scarse, dato che la corrente era molto forte e che numerosi meandri del fiume si aprivano sulle mangrovie, infestate dai coccodrilli. Questa era la versione ufficiale. Tuttavia Marc immaginava ciò che era realmente accaduto. In un modo o nell'altro Reverdi aveva provocato l'incidente sul ponte. Non appena il veicolo aveva toccato il fiume il rapporto di forze si era invertito. Il prigioniero ammanettato era diventato il padrone
della situazione. Gli sbirri, intralciati dalle uniformi, appesantiti dalle armi e le catene, erano stati presi dal panico. Si erano agitati mentre l'acqua penetrava nell'abitacolo. In pochi minuti erano annegati. Invece l'apneista aveva mantenuto la calma. Aveva trattenuto il respiro, rallentando il ritmo cardiaco e lasciandosi sommergere. Poi aveva frugato nelle tasche dei cadaveri attorno a lui e si era liberato dalle manette. Aveva aperto la portiera del veicolo, o infranto un finestrino, e nuotato fino a riva. Poteva anche darsi che fosse arrivato a terra senza neanche mettere la testa fuori dall'acqua. Quanto tempo poteva essere durata questa evasione subacquea? Tre minuti? Quattro? A ogni modo un tempo ragionevole per un apneista del suo calibro. Marc non aveva il minimo dubbio: Jacques Reverdi era vivo. E lui era un uomo morto. Non rispondeva più al telefono. Né sul cellulare né sulla rete fissa. All'inizio del pomeriggio rispose a una sola chiamata: quella di Vincent. Era stato lui, assieme a Khadidja, a recuperarlo sui gradini delle Remises e a portarlo al pronto soccorso dell'ospedale Cochin. Poi lo aveva accompagnato a casa, in stato di incoscienza, e messo a letto come se fosse un neonato. Al telefono, Marc lo ringraziò ma non accennò al caso Reverdi. Con ogni evidenza il gigante non era al corrente della notizia. Alle diciassette, preso da una improvvisa ispirazione, rispose anche a Renata Santi, che lo aveva già chiamato cinque volte. Fece un ultimo tentativo di evitare la catastrofe. «Bisogna sospendere la pubblicazione», ordinò senza preamboli. «Scusi?» «Dobbiamo bloccare tutto.» L'editrice scoppiò in una grande risata: «È pazzo? Perché?» «Ho i miei motivi.» «È per la morte di Reverdi? Veramente, Marc, capisco sempre meno...» «Sospenda la pubblicazione!» «Impossibile. I libri sono già in libreria, da questa mattina.» «Allora si devono poter bloccare le prossime consegne, no?» «Ventimila volumi sono stati collocati sugli scaffali. La smetta di fare il bambino, Marc. Finirò con l'arrabbiarmi. Del resto questa storia dell'incidente in Malesia è un bel colpo. Piovono le richieste di interviste e...» Marc mise giù il telefono. Crollò sul pavimento. E restò seduto a terra,
annientato, per molte ore, ad ascoltare i messaggi che si moltiplicavano sulla segreteria. Le esigenze isteriche di Renata, le ripetute richieste di Verghens, gli assalti di colleghi giornalisti e anche - questo era il colmo molte chiamate di Khadidja, che gli telefonava per sapere se stesse meglio. Infine nello studio penetrò la notte. Non si era ancora mosso. Non aveva neanche la forza di prepararsi un caffè. Era stato preso nella propria trappola. Si sentiva in qualche modo sollevato. Lo sapeva fin dall'inizio: sarebbe andata a finire male. Non restava altro che aspettare la morte. In nessun momento gli venne in mente di fare le valigie e scappare. Nemmeno di avvertire la polizia. Eppure sarebbe stata la soluzione più razionale. Avrebbe avuto sicuramente qualche difficoltà iniziale nel convincere gli sbirri, ma possedeva un solido dossier, soprattutto le lettere di Reverdi. Documenti che costituivano però anche un atto di accusa contro di lui: occultamento di prove, complicità in omicidio... Si rivedeva ancora mentre riesumava il cadavere nell'isola dei morti. Sì, era complice. Quando aveva avuto la possibilità di far progredire l'inchiesta non aveva aperto bocca. Quando aveva avuto la possibilità di informare i parenti delle ragazze scomparse e aiutare gli avvocati coinvolti nel caso, come Schrecker, non aveva mosso un dito. Aveva preferito scrivere il suo libro senza tener conto del processo e del dolore delle famiglie. Da perfetto egoista. Il «premio Pulitzer» dei fetenti, ecco che cosa meritava. E, secondariamente, qualche anno di galera... Marc era stato condannato già due volte dalla giustizia francese, per violazione di domicilio e furto con scasso. Non avrebbe beneficiato di alcun condono. La prigione o la morte: c'era di che esitare? Certo che no. Eppure, quando ipotizzò quella soluzione, nel cuore della notte, la respinse. Era terrorizzato dall'idea di venire incarcerato. E non poteva decidersi a consegnarsi alla polizia senza avere delle certezze. Dopotutto, forse si stava montando la testa. Reverdi era morto e la via era libera. Giovedì 16 ottobre. Rimuginò ancora per un altro giorno. Si muoveva soltanto per consultare i giornali su Internet: nessuna novità. Le squadre di polizia parlavano già di abbandonare le ricerche. La notte seguente, alle due del mattino - le nove del mattino in Malesia ebbe un soprassalto. Poteva reagire. Ottenere almeno delle informazioni di prima mano, contattando persone che conosceva. Naturalmente gli venne
in mente Alang. Il medico legale non aveva il solito tono. Marc indovinò subito che sapeva «qualcosa»: «Cosa succede?» «L'autopsia dell'autista del furgone. Mi ha chiamato il medico legale di Johor Bahru... per chiedermi consiglio.» «A quale proposito?» «C'è... un'anomalia. L'autista non è morto per annegamento. Né in seguito alla caduta.» «Cosa gli è successo?» «Gli hanno ritrovato l'ago di una siringa piantato nella nuca. Facendo le analisi, i medici gli hanno anche scoperto delle bolle d'aria nel midollo spinale. Gli è stata iniettata dell'aria tra le vertebre cervicali. La morte dev'essere stata istantanea.» Marc si ricordò che Reverdi aveva ottenuto un posto in infermeria. «Poteva raggiungere facilmente la nuca dell'autista?» chiese. Alang esitò. Disse con voce inespressiva: «Reverdi non ha viaggiato in un furgone tradizionale, ma in un'auto di sicurezza che aveva una semplice griglia di separazione fra l'autista e i sedili posteriori. Ha avuto la possibilità di infilare l'ago attraverso la rete e provocare l'incidente. L'informazione è ancora confidenziale ma...» Marc lo ringraziò e promise di richiamarlo. Ormai era fuori di dubbio che si trattasse di un'evasione. Questa certezza gli fece l'effetto di un elettrochoc. Il venerdì all'alba decise di mettersi in moto. Non di fuggire. Non di avvertire la polizia. Ma di affrontare Jacques Reverdi. E in primo luogo di tentare di indovinarne le mosse. Quanto tempo ci avrebbe messo a ritornare in Europa? Un evaso qualunque aveva poche possibilità di passare inosservato in Malesia. Ma Reverdi conosceva a fondo il paese e ne parlava la lingua. Aveva familiarità anche con i paesi vicini: la Thailandia, il Vietnam, la Birmania... e sapeva certamente come raggiungerli con assoluta discrezione. D'altra parte era un uomo che si era sempre tenuto pronto per questo genere di eventualità. Doveva possedere da sempre un «piano B». Marc prese la cartina dell'Asia e tentò di immaginare il percorso, valu-
tando il tempo che avrebbe richiesto. Seguì con il dito il fiume Muar. Via mare, Reverdi poteva raggiungere l'Indonesia. Poteva scendere verso sud e arrivare a Singapore... tuttavia Marc non ci credeva: troppo vicino a Johor Bahru. Poteva anche ritornare a Kuala Lumpur e dileguarsi nella città... Senza saperne il motivo, Marc optava piuttosto per una fuga verso i paesi limitrofi, dove c'era la possibilità di nascondersi nella giungla. Da lì avrebbe potuto risalire verso le zone turistiche. Un albero si nasconde fra gli alberi. Un bianco fra i bianchi. Hotel internazionali, club, tour-operator... Reverdi si sarebbe impadronito di un nuovo kit d'identità passaporto, patente, denaro contante... - per poi svanire in mezzo a un gruppo di occidentali. Ci avrebbe messo due o tre giorni, non di più, per compiere questo percorso. Dopo poteva prendere un aereo a Bangkok o ad Hanoi e raggiungere un paese europeo. Belgio. Paesi Bassi. Regno Unito. Germania. Infine arrivare a Parigi con il treno o in auto. Al contrario di un banale fuggiasco che aspetterebbe che le cose si calmino prima di muoversi, Reverdi avrebbe agito il prima possibile. Ancor prima che le autorità malesi avessero concluso che si trattava proprio di un'evasione. Tre giorni in territorio asiatico, altri tre giorni per effettuare uno scalo in un paese europeo e dirigersi verso la Francia, con una nuova identità. Ossia sei giorni in tutto. Jacques Reverdi era evaso il 14. Oggi era il 17. Rimanevano ancora tre giorni a Marc per prepararsi. A fare cosa, per l'esattezza? Rifletté ancora. Quale sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto Reverdi una volta arrivato a Parigi? La risposta era semplice: si sarebbe recato all'indirizzo di Elisabeth. Fermo posta, Rue Hippolyte-Lebas, IX arrondissement. Marc afferrò la giacca e uscì di corsa. Bisognava avvertire Alain. E proteggerlo. 76. «Come mai non è qui?» Marc era fradicio di sudore: aveva corso fino all'ufficio postale. Stava
fissando intensamente la donna seduta al posto di Alain. «È in vacanza?» L'impiegata delle poste continuava a riaggiustarsi gli occhiali arricciando il naso. La sua espressione era contraddittoria, stupefatta e al tempo stesso diffidente. «Non è qui e basta.» «È ammalato?» Lei lo fissò attraverso il vetro e le lenti. «Perché tutte queste domande?» Marc doveva trovare subito una risposta. Non era affatto il caso di evocare Elisabeth Bremen, né qualcos'altro collegato con le poste. All'improvviso ebbe un'idea: «È per la cerimonia di domenica. Sono il proprietario del locale dove celebreranno la messa.» Per anni Marc aveva vissuto in un palazzo di Rue de Montreuil adiacente a una chiesa cattolica vietnamita. Un semplice magazzino dove una comunità si dava convegno ogni domenica. Lo sguardo della donna si illuminò: «A Vanves?» Marc aveva visto giusto, ma ora non doveva commettere passi falsi. «No, parlo della parrocchia di Rue de Montreuil, dove sabato era prevista una cerimonia. Ma non è più possibile. Devo dirlo ad Alain e mi chiedevo se lei mi sa dire dove trovarlo.» L'impiegata prese un formulario per lettere raccomandate e glielo porse: «Gli scriva il suo messaggio qui sopra. Ci penserò io a trasmetterglielo.» «Devo parlargli di persona!» «È impossibile.» «Perché?» Il naso della donna si arricciò: «È il suo giorno di dialisi.» Marc accusò il colpo, ricordava vagamente che Alain aveva più volte scherzato sui suoi problemi di salute e i suoi «svuotamenti». All'epoca Marc non aveva capito. A dire il vero, non aveva nemmeno ascoltato. «L'operazione si svolge all'ospedale?» «No. A casa sua. Un'emodialisi a domicilio. Ha tutta l'attrezzatura.» «Mi dia il suo indirizzo.» «Non lo conosco.» «Soltanto il suo cognome. Non so nemmeno come si chiama!»
L'impiegata esitava. Marc batté il pugno sul banco: «Buon Dio! Domani cento vietnamiti si sposteranno per niente», urlò. Il suo accento sincero parve convincere la donna. «Si chiama Alain van Hêm.» Marc afferrò la penna legata al banco e cominciò a prendere nota. «Me lo dica lettera per lettera.» «"V-a-n" e poi "H-e-m", con l'accento circonflesso sulla "e". Abita nel XIII arrondissement. Il quartiere cinese.» Marc corse verso la porta. Sulla soglia, si fermò, assalito da un dubbio improvviso: «È mai venuto qualcuno a prendere la posta a nome di Elisabeth Bremen?» «Non ho mai sentito questo nome», rispose la donna arricciando di nuovo il naso e facendo risalire gli occhiali. «Ma cosa c'entra con la sua storia della chiesa?» Marc balzò fuori, barcollando nell'aria inquinata di Parigi. Stordito dalle menzogne. La paura. Le auto che sfrecciavano a tutta velocità. Affondò le mani nelle tasche e si mise in cammino, alla ricerca di un bar tabacchi. Entrò nel primo che vide e chiese un caffè senza fermarsi al banco. Scese nell'interrato ed entrò in una cabina telefonica, dove trovò l'elenco degli abbonati. Scorse le pagine sforzandosi di respirare lentamente. Dialisi o non dialisi, non gli piaceva l'assenza di Alain van Hêm. Non oggi. Ecco: Alain van Hêm, 70 Rue du Javelot, Tour Sapporo. Marc compose il numero. Nessuna risposta. Decise di avviarsi verso il quartiere cinese. Alle tredici arrivò davanti al palazzo. La paura non gli aveva dato tregua. Tutto il suo corpo era rivestito di una pellicola di sudore freddo. Avanzando a passo spedito, vedeva avvicinarsi la torre, che sembrava ingrossarsi, assorbendo tutto l'orizzonte. Marc stava penetrando nella sua ombra come Giona nel ventre della balena. Spinse la prima porta di vetro e soffocò una bestemmia. Non conosceva il codice per aprire la seconda. Dovette attendere, sudare e girare in tondo finché non arrivò un vecchio han. Nella hall fu preso dallo scoramento quando vide la parete di caselle per le lettere. Si sforzò di mantenere la calma e lesse metodicamente tutti i nomi, da sinistra a destra, una fila dopo l'altra. Al centro della quarta trovò
il suo uomo: dodicesimo piano, porta 12238. Chiamò il primo dei quattro ascensori, ma si accorse che fermava soltanto ai piani dispari. Schiacciò un altro bottone, ma quell'ascensore saliva direttamente al ventesimo piano. Era la torre infernale. Alla fine trovò quello giusto e vi si precipitò dentro. Dodicesimo piano. Marc percorse corridoi su cui si aprivano tante porte rosse, tutte uguali. Il numero era scritto in alto a destra, su una targa di rame: 12236... 12237... 12238. Marc si appoggiò con una mano allo stipite per riprendere fiato e poi suonò. Nessuna risposta. Appoggiò l'orecchio contro la porta. Nessun rumore. Suonò ancora. Lo stava forse disturbando in pieno «svuotamento»? Un rigurgito acido gli bruciò la gola. Bussò più forte, con il pugno, poi fissò la serratura. Un semplice modello a cilindro. Vi appoggiò sopra la mano e spinse. Si aprì una piccola fessura attraverso la quale Marc infilò un biglietto da visita che fece scivolare sotto il catenaccio. Allo stesso tempo esercitò una pressione con la spalla, sollevando la porta sui cardini. La serratura cedette. Uno strano odore si insinuò subito nelle sue narici. Un misto di cibo e metallo. Sangue. Pensò all'emodialisi. Sapeva in cosa consisteva l'operazione: filtrare il sangue facendolo circolare attraverso una serie di membrane. Se Alain quel giorno si era sottoposto all'operazione, la presenza di quell'odore non doveva sorprenderlo. Tuttavia, la cosa non sembrò rassicurarlo. Avanzò nel vestibolo. I battiti del suo cuore, in crescendo, evocavano il Bolero di Ravel. Entrò in un piccolo soggiorno, stile casa delle bambole. Carta da parati a righe, divano a fiori, un tavolino basso, ninnoli in una vetrinetta; scaffali di libri, tutti con la stessa rilegatura, acquistati di certo per corrispondenza. Seguì un corridoio. A sinistra, la cucina. A destra, la camera. Vuote. In fondo, una porta semiaperta su una parete di piastrelle bianche: il bagno. L'odore aveva ora l'intensità di una pittura fresca. Tutti i suoi sensi erano all'erta. Con due dita spinse la porta e dovette addossarsi allo stipite. Era proprio il giorno della dialisi. Ma Alain era stato aiutato da qualcuno nella sua operazione. Era nudo. Legato a una poltrona medica con filo da bucato e cavo televi-
sivo. Al suo fianco, un apparecchio costituito da un lungo tubo, contatori al quarzo e due pompe: la macchina per filtrare il sangue. Il tubo collegato all'ago infilato nel braccio del vietnamita era stato tagliato e deviato, come un sistema di annaffiattura, verso alcuni recipienti posati ai suoi piedi. Barattoli di spezie e di salsa agrodolce. Bottiglie di acqua minerale tagliate. Tutti erano stati svuotati del loro contenuto e riempiti fino all'orlo di sangue. Marc indietreggiò contro uno spigolo. Doveva cambiare subito i suoi piani. Jacques Reverdi era già a Parigi. Marc visualizzò la scena. Mentre il predatore interrogava la sua vittima, teneva il pollice premuto contro l'estremità del tubo tagliato, per ostruirlo. Se Alain non rispondeva, liberava il flusso e riempiva un recipiente. Un'altra domanda, un altro recipiente. E così via. Ma Reverdi aveva fatto di peggio. Dopo aver ottenuto le risposte alle sue domande, aveva infilato il tubo nella gola di Alain, costringendolo a bere il proprio sangue, che lo aveva soffocato. Il sangue, ancora fresco, gli usciva dalla bocca, dal naso e dalle orecchie. La testa era gonfia, le guance piene, le tempie tumide. Avvicinandosi, Marc constatò che l'apparecchio era ancora acceso: gli ultimi centilitri, spinti dalla pressione, continuavano a penetrare nel cervello di Alain, il cui volto sembrava sul punto di esplodere. Marc era sorpreso di riuscire a conservare la propria lucidità. Che cosa aveva potuto dire l'impiegato delle poste? Non molto, tranne che un uomo veniva a prendere la posta di Elisabeth. Per il resto, Alain non conosceva nemmeno il suo nome. Gli aveva chiesto soltanto una volta il passaporto, quando aveva aperto il «contratto di rispedizione», otto mesi prima. Non c'era alcuna possibilità che ricordasse qualcosa. Marc avrebbe quindi beneficiato di un rinvio. Indietreggiò con precauzione, cercando di ricordarsi se aveva appoggiato le mani da qualche parte. No. Un vecchio riflesso del ficcanaso che non lascia mai tracce. Sulla porta del bagno si disse che avrebbe dovuto fermare l'apparecchio per risparmiargli l'ultimo oltraggio. Ritornò sui suoi passi, ma davanti all'interruttore si immobilizzò. Non aveva la minima idea di come funzionasse, e la paura di sbagliare - per esempio di aumentare la pressione provocando l'esplosione del cranio - lo indusse a desistere. Ritornato all'ingresso, aprì la porta tenendo la mano avvolta nella manica e gettò una rapida occhiata sul pianerottolo: nessuno. Prima di fuggire,
cercò nella sua memoria una preghiera per chiedere perdono ad Alain. Ma non trovò nulla. 77. Per prudenza, prese le scale e scese un piano a piedi. All'undicesimo chiamò l'ascensore. Nella cabina, crollò. Si accoccolò per terra, la schiena contro la parete di metallo, e si mise a singhiozzare. Era perduto e, lo sapeva, virtualmente morto. Non cercava nemmeno di immaginare le sofferenze che lo aspettavano. La porta si aprì al quinto piano. Marc ebbe appena il tempo di rialzarsi. Due adolescenti cinesi entrarono nell'ascensore ridacchiando. Marc si addossò al fondo della cabina, trattenendo il respiro e i singhiozzi. I due uscirono al pianterreno, senza degnarlo nemmeno di un'occhiata. Lasciò che la porta si richiudesse. La cabina scese ancora. Si accorse che la torre era così gigantesca da avere un secondo piano terra... Quando la porta si aprì di nuovo, scoprì una galleria commerciale che si affacciava su un giardino a cielo aperto. Marc avanzò di qualche passo, sgranando gli occhi. Era come essere a Hong Kong o a Pechino. Tutte le facce erano cinesi. Tutte le voci erano cinesi. I neon disegnavano calligrafie, irradiando luci rosse, blu o gialle. Odori di cibo, aglio e soja aleggiavano nell'aria. Marc titubava. Un uomo lo urtò. Si ritrovò spintonato contro la vetrina di un negozio di cd e dvd i cui altoparlanti diffondevano una melodia romantica. Era paralizzato, le gambe come piombo. A grande fatica si rimise in cammino, inseguito dalla vocina stridula della canzone. I suoi occhi gli permettevano di scansare gli ostacoli, ma non identificavano i volti e gli oggetti incontrati. Avanzava come un sonnambulo, insensibile al mondo esterno. All'improvviso si accorse che non stava più avanzando. Davanti a lui, nella vetrina di una libreria, quattro copie dello stesso libro troneggiavano fieramente nel loro espositore. In copertina, su fondo nero, il titolo a lettere rosse: SANGUE NERO. In un altro spazio-tempo, Marc sarebbe stato felice, o commosso da quello spettacolo. Ma in quell'istante non era né felice né commosso. Era semplicemente terrorizzato. Jacques Reverdi era passato per quella galleria commerciale uscendo dall'appartamento di Alain? Aveva visto il libro? Quanto ci aveva messo a
capire tutto? Marc era sicuro che l'impiegato delle poste non gli avesse dato il suo nome. Ma ora, grazie al romanzo, Reverdi aveva il patronimico completo. Marc si mise a correre sotto le volte della galleria. Dopo pochi passi, un nuovo shock. Come un uppercut nel fegato. Nella vetrina di una profumeria aveva incrociato lo sguardo di Khadidja. Si avvicinò al negozio, barcollando. Era un pannello di cartone su un supporto. Marc non metteva mai piede nelle profumerie, ignorava quindi che la campagna pubblicitaria per Elégie proseguiva ora nei punti vendita. Reverdi aveva già incontrato Elisabeth in una di quelle vetrine? Marc cercò di rimettersi in cammino, allontanando il pensiero della copertina del suo libro e del manifesto di Khadidja. Si sentiva come un cacciatore prigioniero della sua stessa trappola, con una gamba incastrata tra le mandibole di ferro. Si voltò bruscamente: gli sembrava di aver scorto, nel riflesso della vetrina, la silhouette di un uomo con il cranio rasato. Un uomo che avrebbe potuto essere Reverdi. No, non c'era nessuno. Nessun occidentale in ogni caso. In quell'istante ebbe un lampo di lucidità. E le sue labbra pronunciarono il nome di Khadidja. 78. Avanzando verso Rue Jacob, Marc continuava a chiamare Vincent. Nessuna risposta. Nemmeno la segreteria. Questo non significava tuttavia che il fotografo non fosse in casa. Al contrario, quando lavorava staccava sempre sia il cellulare sia il telefono fisso. Marc esortò l'autista a pigiare sull'acceleratore, ottenendo però in risposta soltanto sospiri e osservazioni sulla «sempre più merdosa» circolazione parigina. Marc sprofondò allora nei suoi pensieri, che si riassumevano in uno solo: salvare Khadidja. Doveva nasconderla, proteggerla e, in un modo o nell'altro, spiegarle tutto. E tra tutti i guai che lo attendevano, la prospettiva di quella spiegazione era quella che più l'angosciava. Come raccontarle tutta la storia? Il taxi non avanzava più. Un ingorgo su Boulevard Saint-Michel. Tentò ancora una volta il numero di Vincent. Invano. Il gigante era di certo in compagnia di Khadidja. Voleva mettere in guardia anche lui. Seguì mentalmente il percorso dell'assassino: avrebbe contattato la ditta produttrice
del profumo o l'agenzia pubblicitaria e gli sarebbe bastata qualche telefonata per avere il recapito di Vincent o persino di Khadidja. Il taxi era sempre fermo. Pagò l'autista spiegandogli che avrebbe continuato a piedi. L'altro borbottò: «Evviva la solidarietà.» Marc risalì correndo il viale, poi scese per Rue Médicis, a destra, lungo i giardini del Luxembourg. Quando giunse all'angolo di Rue de Tournon, gli balenò alla mente l'immagine di Renata Santi. Anche lei era in pericolo. Digitò il suo numero, continuando a camminare. «Marc? Dov'è? È da tre giorni che...» «Ho visto il libro.» «È contento?» La sua voce polmonare le conferiva sempre un tono affannoso. Marc doveva stare al gioco, almeno per un po': «Splendido.» «Ma non ha risposto alle richieste di...» «Renata, ho una cosa da chiederle.» «Dica. Dopo i dati che ho appena ricevuto dalle librerie i suoi desideri per me sono ordini.» «Qualcuno l'ha contattata a proposito del libro? Un tipo strano?» «Strano come?» Marc comprese di essere fuori strada. Jacques Reverdi non avrebbe mai avuto un'aria strana o sospetta. Al contrario. Tuttavia, insisté: «Non saprei. Un giornalista che il vostro ufficio stampa non aveva mai sentito prima. Qualcuno che voleva contattarmi, per un motivo o per l'altro. Niente da segnalare?» «No.» «Nessuna presenza estranea nei vostri uffici?» «Sta cominciando a mettermi paura...» Marc scese lungo Rue Bonaparte. «Se vuole davvero farmi un piacere, lasci il suo ufficio e si trovi un posto tranquillo, che non sia il suo appartamento. E soprattutto, non dorma a casa sua questa sera.» «Che cos'è questa storia? Sta diventando francamente inquietante, Marc.» «Domani le spiegherò tutto. Lo prometto. Ma questa sera segua le mie istruzioni, d'accordo?» «E va bene... È un po' originale come richiesta, ma d'accordo... Ne ho conosciuti di tipi strani, ma nessuno come lei!»
Marc chiuse la comunicazione, era arrivato in Rue Jacob. Girò a sinistra, raggiunse il portone. Il cuore gli martellava nel petto. Le gambe tremavano. Lo studio aveva il suo aspetto abituale: grandi vetrate oscurate da tendaggi. Tese la mano verso il campanello. All'improvviso si arrestò. La porta di vetro era aperta. Marc sentì cedergli le ginocchia. Si appoggiò alla vetrata. Una fitta gli attraversò il corpo. Jacques Reverdi l'aveva preceduto. E forse era ancora sul luogo del delitto... Si ricordò che a un centinaio di metri da lì c'era il commissariato di Rue de l'Abbaye. Ma pensò a Vincent e si voltò verso il vano della porta. Dopotutto, era l'unico responsabile di quell'incubo. Spinse piano la porta. Lo studio era immerso in un silenzio da santuario. Tutte le tende erano chiuse. Soltanto qualche lucernario diffondeva un filo di luce. Gli bastarono pochi passi per avere la conferma: Reverdi era passato... ed era già ripartito. Sul pavimento erano sparse centinaia di fotografie. L'assassino aveva svuotato gli archivi di Vincent per trovare le foto e le coordinate di Khadidja Kacem, alias «Elisabeth Bremen». Ma c'era di peggio. Al di là dei proiettori spenti, Vincent era seduto sulla sua poltrona con le rotelle, che Reverdi aveva spinto al centro del set. Il gigante era di spalle, la testa abbassata, voltato verso i grandi teli colorati che scendevano fino al pavimento. La sua postura non lasciava alcun dubbio. Attorno al cadavere erano sparse fotografie disposte ad arco di cerchio. Marc avanzò, più morto che vivo. La sua testa era come una camera oscura che rivelava soltanto immagini di distruzione. Vincent era nudo, come Alain, ma in una versione XXL, mostruosa. Pieghe di carne, compresse dal nastro adesivo che lo immobilizzava alla poltrona. Il suo corpo da cetaceo recava tracce di ferite multiple. Non come quelle che Reverdi praticava sulle sue vittime femminili: incisioni nette e sottili, senza sbavature. Questa volta erano tagli rabbiosi, barbari, profondi. A giudicare dai fiotti bruni che ne erano sgorgati, lunghi anche due metri, per l'occasione Reverdi aveva scelto di incidere le arterie invece delle vene; flusso potente e forte pressione. Anche in questo caso, tuttavia, Reverdi aveva otturato le ferite con nastro adesivo. Aveva praticato di nuovo il suo ricatto di sangue, attendendo le risposte alle sue domande prima di dissanguare la vittima. E a ogni rifiu-
to, a ogni silenzio aveva strappato un pezzo di nastro adesivo, aprendo una valvola di morte. Avvicinandosi, Marc notò un particolare curioso. I lunghi capelli coprivano interamente il volto della vittima, ma alcune ciocche apparivano arricciate e dure come i dreadlock di un giamaicano. Marc infilò dolcemente una mano sotto il mento di Vincent e gli sollevò il viso. L'assassino aveva strappato gli occhi del fotografo e infilato nelle orbite delle pellicole srotolate. Poi, all'improvviso, comprese che la testa del cadavere era stata inclinata secondo un asse preciso. Il suo volto martoriato «guardava» qualcosa alle spalle di Marc. Marc si voltò e vide delle tracce di sangue attorno ai grandi drappi colorati. Senza esitare, li strappò uno a uno e scoprì il resto del messaggio. Sull'ultimo telo, color viola intenso, l'assassino aveva scritto con il sangue della vittima: VEDERE NON È SAPERE! Marc indietreggiò, cozzando contro il cadavere. La stanza prese a vorticargli davanti agli occhi e comprese che stava perdendo conoscenza. All'ultimo momento riuscì ad aggrapparsi alla spalla dell'amico morto. Il semplice contatto con il cadavere gli fece cacciare un urlo, un urlo viscerale, che aveva trattenuto fin dalla visita ad Alain. Urlò ancora e ancora, piegato in due sulla sua rabbia e la sua paura. Urlò fino a strapparsi le corde vocali. Poi cadde in ginocchio, singhiozzando tra le foto sparse sul pavimento e impiastricciate di sangue. Fu allora che comprese il significato del messaggio. Tutte quelle foto raffiguravano un unico soggetto: Khadidja. Vincent aveva dato all'assassino l'indirizzo della ragazza? Che cos'altro aveva potuto dirgli? Niente. Non sapeva nulla. Al pensiero delle inutili torture subite dall'amico, Marc sentì salire un'altra ondata di singhiozzi, ma riuscì a trattenersi. Forse poteva ancora salvare Khadidja. Si rialzò, si avvicinò alla scrivania e sollevò il ricevitore del telefono fisso di Vincent. Il numero del portatile di Khadidja era in memoria. Nessuna risposta. Marc pensò a Marine, la sua truccatrice personale. Anche il suo numero era memorizzato. Rispose al terzo squillo. «Marc! Come va?» Lanciò un'occhiata alle orbite vuote di Vincent, alla scritta tracciata con il sangue e alle foto di Khadidja.
«Bene.» «Che cosa posso fare per te?» Volse le spalle alla scena del delitto e proseguì, con voce più ferma. «Cerco Khadidja.» «Oh, oh», fece la truccatrice. «Sai dov'è?» «Qui con me. Sta facendo un servizio fotografico.» Il sollievo gli allargò il cuore. «E dove siete?» «Allo studio Daguerre.» «Qual è l'indirizzo?» «56 Rue Daguerre, ma...» «Arrivo subito.» «La seduta non è finita, io...» «Arrivo.» Prima di riattaccare Marc chiese alla truccatrice: «Qualcuno l'ha chiamata sul cellulare, questo pomeriggio?» «Non ne ho idea. Perché?» «Ascoltami bene. Finché non arrivo io, non deve rispondere al cellulare. E nemmeno ascoltare i messaggi. Non deve farsi avvicinare da nessuno, tranne il fotografo e gli addetti alle luci. Capito?» Marine ridacchiò: «Sei diventato molto esclusivo. Lei lo apprezzerà!» 79. Il set era completamente circondato da paraventi luccicanti. Alti fogli di alluminio che irradiavano in tutta la stanza bagliori accecanti, emettendo fruscii da navicella spaziale. Quella scenografia scintillante pareva porre enormi problemi tecnici. Cinque assistenti correvano in tutte le direzioni e nessun proiettore era orientato sul set stesso, ma secondo complesse angolature per ottenere una luce diffusa. Nello studio regnava un silenzio da sala chirurgica. Sembrava una riunione di esperti. Marc avanzò di qualche passo, il più discretamente possibile, fino ai margini del chiarore abbagliante del set. Khadidja era là, sola, nella luce bianca. Vestita con un completino a maglie argentate, pareva una creatura extra-
terrestre appena scesa dal pianeta Perfezione. Un pianeta dove gli abitanti avevano corpi dalle misure perfette e dove ogni gesto sembrava un fiume di grazia traslucida. «Ok. Riprendiamo la posizione di prima. Va bene la luce?» La voce del fotografo che dava ordini nella penombra ricordò a Marc il suo amico. Era andato molte volte nel suo studio... Rivide Vincent che alternava le istruzioni ai suoi assistenti con assurde riflessioni pseudofilosofiche, per poi scoppiare a ridere stappando una lattina di birra. Marc trattenne il respiro per non piangere e si concentrò su Khadidja. Con le mani sui fianchi e le gambe divaricate, come una Bond-girl degli anni Settanta, teneva testa all'alone bianco che la incorniciava, erodendo i contorni della sua silhouette. «Adesso avanza di un passo. Mettiti di tre quarti. Ecco, così. Sorridi. Con una punta di arroganza...» L'espressione richiesta sbocciò sulle labbra chiare di Khadidja. Il suo sorriso incideva direttamente su una parte profonda del sé, una membrana ancestrale, dimenticata. Come quelle sonde che si perdono nelle tenebre della Terra, scoprendo sacche di liquidi fossili ancora palpitanti. «Perfetto. Adesso rimettiti di fronte. Leggermente inarcata.» Khadidja eseguì. La curva della schiena si arcuò. Il movimento avrebbe potuto essere volgare, provocante, ma la sua nonchalance naturale sembrava propagarsi direttamente dal sorriso alle più infime ramificazioni del suo corpo. Marc trepidava: avrebbe voluto attraversare il set, prenderla per mano e fuggire con lei. Doveva nascondere quel tesoro, prima che fosse troppo tardi. Gli scatti secchi dell'otturatore erano seguiti dal sibilo del flash e dal ronzio dell'avanzamento della pellicola. Scatto. Sibilo. Ronzio. Una cadenza ternaria. Ma anche un rintocco a morto. L'immagine di Vincent tornò a lacerargli la memoria. Marc volse le spalle al set, questa volta sarebbe esploso. Piangere o vomitare. O entrambe le cose. «Bene così. Ci fermiamo!» Marc si appoggiò al muro, sempre piegato in due, quando sentì un profumo molto denso, una miscela di pigmenti aridi e oli dolci. Si raddrizzò. Khadidja era davanti a lui. Irreale e al tempo stesso troppo presente nella sua mise di maglie scintillanti. «Tra tutti i visitatori possibili, sei uno degli ultimi che mi sarei aspettata di vedere.» Non aveva l'aria sorpresa, Marine l'aveva preavvertita.
«Un messaggio urgente?» continuò. «Pensavo di invitarti per il weekend.» «Addirittura.» Marc cercò di sorridere, ma lo sforzo gli costò uno spasmo di sofferenza. «Volevo... volevo soltanto farti vedere un posto che amo molto. Vicino a Parigi.» «Quando?» «Adesso.» «Di bene in meglio. Il grande autore rapisce le fanciulle.» L'ironia si tingeva di sarcasmo. Marc giocò un'altra carta: l'orgoglio ferito. «Ascoltami», disse risoluto, «agisco d'impulso. È già abbastanza difficile per me. Se non vuoi, restiamo qui. Nessun problema.» Lei scosse la testa, senza staccargli gli occhi di dosso. I riccioli neri lucenti le incorniciavano il viso. «Aspettami. Vado a prendere le mie cose.» 80. Marc si ricordava perfettamente del luogo. Un relais-château nei dintorni di Orléans, con annesso maniero e dépendance, in un parco di parecchie decine di ettari. Quando ancora faceva il paparazzo, aveva spesso sostato nei pressi di quell'albergo. Un rifugio segreto, d'élite, dove i VIP venivano a consumare le loro relazioni segrete al riparo da sguardi indiscreti. All'epoca, gli bastava foraggiare qualche ragazzo del personale per essere regolarmente informato dell'arrivo di coppie «interessanti». Per fortuna Khadidja possedeva un'auto, l'aveva invitata in campagna senza avere un mezzo di trasporto. La ragazza guidava con evidente piacere la sua Twingo, che portava una bella «P» sul retro. Aveva appena avuto la patente, spiegò, quello era il suo primo viaggio. Durante il percorso, Marc cercò di fare conversazione, ma la paura, la confusione, la sofferenza si mescolavano in lui a tal punto che riusciva a malapena a concludere le frasi. Aveva regolato lo specchietto retrovisore destro per poter controllare lui stesso la strada alle loro spalle. Nel caso fossero inseguiti. Khadidja era così concentrata nella guida che non s'era accorta di quella manovra. Usciti dall'autostrada, presero una provinciale. Marc non ebbe alcuna
difficoltà a orientarsi, nonostante stesse calando la notte. Infine, dopo una curva, riconobbe il muro di cinta, verde di muschio, nascosto dagli alberi, e poi le due torri del castello, che si stagliavano tra le fronde. La Twingo superò il portone e scivolò sulla ghiaia della corte. Quando Khadidja scoprì la facciata sepolta sotto l'edera, emise un fischio di ammirazione. Malgrado il suo stato, Marc percepiva il fascino di quella donna: ogni parola che pronunciava, ogni gesto che faceva erano pervasi di una spontaneità, una freschezza sconcertanti, che non avevano nulla a che vedere con i suoi atteggiamenti da dea del Maghreb. Più la si conosceva, più si dissolveva il suo status di icona intoccabile. Era prima di tutto una giovane donna piena di brio e colta, e indossava la sua bellezza come un mantello leggero che si era dimenticata di togliersi. Dopo aver parcheggiato, manovra nella quale Khadidja non si rivelò particolarmente abile, uscirono dall'auto e guardarono il castello illuminato dalla luna. L'edificio principale era una fattoria grigia a forma di «U», le cui antiche stalle, a sinistra, accoglievano ora una sala conferenze e un ristorante. Le finestre delle camere, al primo piano, si aprivano a intervalli regolari lungo tutto l'edificio. Di fronte al castello, nel parco, le dépendance con suite ammobiliate, come isole di discrezione. Marc era leggermente più disteso: circondato dalle mura di cinta e dalle querce secolari, si sentiva, per la prima volta quel giorno, al sicuro. La hall confermava l'impressione di rustico benessere, senza fioriture. Muri di pietra a vista, spessi tappeti su parquet tirati a lucido, armature di ferro alle pareti. Marc temeva soltanto che qualcuno lo riconoscesse e gli passasse un'informazione indiscreta che avrebbe un tempo interessato l'«Arraffatore». Ma il personale era cambiato e li trattarono come una coppia qualunque che si concedeva un weekend a lume di candela. Marc scelse due camere comunicanti, senza farsi sentire da Khadidja per non avere l'aria del seduttore che tesse la sua tela. In un angolo della sua mente, dove la paura non aveva ancora devastato tutto, soffriva per quella situazione, che lo faceva sembrare uno sciupafemmine da fine settimana tutto intento a tendere una trappola alla sua segretaria. La visita delle camere aggravò ancora la sua posizione. Letto a baldacchino, trapunta di velluto, frigobar pieno zeppo di bottiglie di champagne: le armi del seduttore. Vergognandosi a morte, non osava guardare Khadidja. Quando il cameriere uscì e lei si installò nella sua camera, Marc frugò la sua da cima a fondo. Era assurdo: Reverdi non poteva nascondersi in un
armadio. Lanciò uno sguardo dalla finestra, verso il parcheggio. Niente da segnalare. Nessuna nuova auto, nessun visitatore. Marc guardò l'orologio: le venti e trenta. Tra poco sarebbero andati a cena. Allora avrebbe parlato a Khadidja. Come avrebbe reagito lei? Avrebbe voluto andare dalla polizia? Senza dubbio. Non c'era altra soluzione, lui stesso ne era convinto. Ma prima doveva spiegarle tutto. Quella sera. Khadidja scorreva il menu in silenzio. In realtà, stava osservando Marc con la coda dell'occhio. In altre circostanze sarebbe scoppiata a ridere. La decorazione della tavola era di per sé un pezzo d'antologia: i coperti erano moltiplicati per cinque, le candele sembravano regolate da un potenziometro, cortine di tendaggi isolavano ogni tavolo, formando intime alcove. Sì, in altre circostanze si sarebbe piegata in due dal ridere. Ma non quella sera, perché quella cena penosa e quella patetica imboscata le erano state servite da Marc in persona. E tutto il suo atteggiamento, da quando avevano lasciato Parigi, le sembrava falso. L'invito, il cambio d'umore nei suoi confronti, il tono gioviale. Malgrado i suoi sforzi, sembrava totalmente estraneo a quell'ambiente. Che cosa cercava? Perché l'aveva portata lì? Una settimana prima, questa scappatella l'avrebbe colmata di gioia - o di sgomento - ma ora non più. C'era stata quella serata pietosa, quel party caotico dove il suo campione tascabile, con la mano insanguinata e i suoi modi violenti, aveva toccato il fondo. Lei ormai lo considerava con pietà. C'era in lui una durezza, un mistero che niente e nessuno avrebbe mai potuto scalfire. Un uomo dalla scorza inviolabile. Solitario, disperato, incomprensibile. E quella sinistra serata l'aveva rafforzata in questo convincimento. Decise di andare dritta al punto: «Hai qualcosa da dirmi, no?» Gli aveva già fatto quella domanda in auto, senza però ottenere risposta. Lui tergiversò di nuovo: «No», sorrise. «O piuttosto sì, ma non ora. Che cosa hai scelto?» Glielo chiese con una voce di velluto, a doppio fondo. Per chi la prendeva? Khadidja riabbassò lo sguardo sul menu.
«Non ci capisco niente di questi piatti.» Marc le propose, in tono divertito: «Non ti andrebbe di assaggiare la "farandola di pettini in sugo di selvaggina periata all'essenza d'agrumi"?» Lei sorrise. «O la "suprême di pollastrella guarnita con le sue zampe al blu"?» Lei sorrise ancora. «Proverò piuttosto le "lentins de chêne en cocotte lutée".» «Ti capisco, ma dovresti assaggiare anche le "indiviette all'agretto".» «Per non parlare del "boudin de colvert en feuilletage"!» Scoppiarono entrambi a ridere. In un attimo si era stabilita tra loro una complicità. Una sospensione condivisa. Come una sorsata d'alcol in fondo alla trachea. Ma Khadidja si rese subito conto che non sarebbe durata. Il volto di Marc si contrasse in una smorfia. La sua faccia si fece di un pallore cadaverico. «Scusa», disse alzandosi e allontanandosi dal tavolo. Ne era certo. Nel riquadro della finestra l'aveva visto: cranio rasato, faccia lunga e grigia, taglia gigantesca. Nessun dubbio. Reverdi. Marc attraversò la sala del ristorante. Non sapeva che cosa voleva fare, non era nemmeno armato. Ma voleva una certezza. Sulla scalinata si fermò, come sull'orlo di un precipizio. Osservò il quadrato di luce del cortile, l'acciottolato grigio, respirò l'odore vivo d'umidità, ascoltò il brusio delle foglie. Niente. Cercò di scrutare più lontano, attraverso le tenebre. Nessuno. Una notte di campagna, né più né meno minacciosa di altre. Una mano si posò sulla sua spalla. Marc si voltò urlando, scivolò sui gradini e si sbilanciò all'indietro. Evitò per poco la caduta e restò in posizione difensiva, alla luce della lanterna. Un uomo avanzò verso di lui con un largo sorriso stampato sulle labbra: «Sono desolato. Le ho fatto paura. Sono il direttore dell'albergo.» Marc tentò di dire qualcosa. Non ci riuscì. «Non deve temere nulla, il nostro parcheggio è sorvegliato giorno e notte.» Marc comprendeva a malapena quello che l'uomo gli stava dicendo. Le sue membra tremavano sotto i vestiti. Il sudore gli pungeva la faccia come una maschera di spilli. Tentò ancora di parlare, invano. Il direttore gli si avvicinò, parlando una lingua incomprensibile. Marc mormorò infine un
«molto bene, molto bene» per poi rientrare a testa bassa nel ristorante, urtando un cameriere di passaggio. Tornò a sedersi a tavola. Tremava talmente che non sentiva più le mani e i piedi. Le estremità gli sembravano staccate dal resto del corpo e al tempo stesso dolenti. Gli vennero in mente le membra tagliate che prudono ancora ai soldati amputati. «Che cosa sta succedendo?» gli chiese Khadidja. «Si direbbe che hai visto un fantasma.» «Una telefonata urgente. Va tutto bene.» Per darsi un contegno prese di nuovo il menu, per riposarlo subito dopo. Le sue mani vibravano come ali di insetto. Se le infilò sotto le cosce e si concentrò sui nomi che gli danzavano davanti agli occhi. Per Dio, doveva parlarle. «Non ti disturba se lascio la porta aperta?» La domanda era ridicola, come tutto il resto. Non ricordava di aver mai dovuto subire una cena così assurda. Le conversazioni, appena sbocciate, si spegnevano da sole e i silenzi cadevano pesanti come steli funerarie. Non riusciva a capire che cosa stava succedendo. Un tempo aveva tanto sognato quel tête-à-tête... Khadidja entrò in bagno e si guardò allo specchio. Sul suo volto c'erano ancora le tracce del trucco della seduta fotografica. Avrebbero fatto l'amore quella notte? si chiese. Sarebbe stata soltanto un'altra assurdità. Avrebbe ceduto? No. Nessun dubbio. Ma in una notte la temperatura poteva variare... L'angoscia l'assalì: aprì la sua borsa. Non aveva lubrificanti intimi né contraccettivi. Se fosse successo qualcosa, come avrebbe fatto? Khadidja aprì l'acqua della vasca e ritornò in camera. Tanto valeva prendere con umorismo quel décor. Il letto colossale, con una trapunta di velluto, la tappezzeria che raffigurava una scena d'amore cortese. Avevano perfino deposto due rose rosse sui cuscini, incrociando gli steli. L'acqua del bagno continuava a scorrere. Dalla camera vicina non proveniva più alcun rumore. Appese il soprabito nell'armadio e si decise a disfare il letto. Prima di scostare la trapunta tolse le rose. Marc udì l'urlo mentre stava scrutando il cortile. Attraversò la sua camera in un balzo e trovò Khadidja pietrificata, lo sguardo fisso sulla trapunta.
Marc guardò nella stessa direzione e si sentì svenire. Due occhi. Due occhi erano posati sulla trapunta. Marc sapeva da dove venivano. Il volto sfigurato di Vincent. VEDERE NON È SAPERE. Marc notò anche due rivoli di sangue che collegavano i petali agli occhi. Era nelle rose che erano stati nascosti. Jacques Reverdi augurava loro il benvenuto. A modo suo. Marc si gettò sulla porta e la chiuse a doppia mandata, poi corse in camera sua e fece lo stesso. Tornato accanto a Khadidja, la prese tra le braccia. Tremava talmente da sembrare incorporea, senza peso. Marc guardò di nuovo il letto e scorse tracce di sangue sull'orlo delle lenzuola. Non potevano essere state lasciate dai petali. Ricordò i teli dello studio e l'avvertimento di Reverdi. Anche in questo caso il messaggio era incompleto. Senza esitare, tolse la trapunta e il lenzuolo superiore, scoprendo, in lettere di sangue, un nuovo, minaccioso avvertimento: PRESTO, NASCONDITI, ARRIVA PAPÀ! 81. «Ma cosa sta succedendo?» Senza risponderle, Marc le afferrò la mano e la fece rialzare. Khadidja ebbe soltanto il tempo di prendere la sua borsa in bagno mentre lui riapriva la porta. Scesero di corsa le scale e attraversarono la hall davanti allo sguardo stupito dell'addetto alla reception. Sulla porta, Marc si bloccò di scatto. Scrutò il cortile illuminato. Le auto parcheggiate, gli alberi fruscianti. Più in là, le tenebre sembravano aver guadagnato profondità. Marc guardò l'auto di Khadidja. Per un attimo fu tentato di saltarvi dentro e tornare a Parigi. Ma Reverdi poteva averla manomessa. O forse li stava aspettando dentro la Twingo. Fissò la quercia secolare. Le sue certezze vacillarono: era là, dietro la corteccia argentata. Poi volse lo sguardo sulle scuderie, immerse nell'ombra. Era dappertutto. Con la sua sola minaccia, saturava il loro spazio vitale. Restare in albergo? Chiamare la polizia? Risalire e barricarsi in camera fino alle prime luci del giorno? Marc ebbe un'illuminazione: gli occhi sulla trapunta, l'avvertimento sul lenzuolo: «Presto, nasconditi, arriva papà!» Fuggire. Doveva fuggire. Soprattutto, non restare in quel castello.
Strinse le dita di Khadidja e si mise a correre. Una tempesta accendeva il cielo in lontananza. Ogni secondo le tenebre sembravano più fitte, più basse. Costeggiarono il parcheggio. Marc scrutò tutte le auto, ogni singola particella di oscurità. Giunti all'estremità dell'edificio, presero un sentiero che si inoltrava nella notte. «Togliti le scarpe», ordinò lui. Corsero tra gli alberi, le ombre, i brusii. La campagna di notte. Quel mondo esterno che guardiamo rabbrividendo dalla finestra di una casa ben riscaldata. Questa quintessenza del nero, che ci si compiace di non dover affrontare. Loro non la contemplavano più dalla finestra, c'erano dentro fino al collo. La attraversavano, la calpestavano e la violavano come un tabù sacro che nessun altro avrebbe osato trasgredire. I loro passi facevano scricchiolare i rami secchi. Graffiati dai rovi, avanzavano senza meta né direzione. Sopra le loro teste, le cime degli alberi fremevano, sferzando la volta scura del cielo. «Merda.» Davanti a loro si apriva una foresta di salici, agitata da lunghi fremiti. Marc ripensò ai bambù. Immaginò le foglie sulla pelle dell'assassino. Il suo viso fremente d'odio sfiorato dai rami. Marc lo vide fermarsi, pregustando la dolcezza del contatto, sentendo maturare a poco a poco la follia criminale destata da quelle carezze vegetali... «Non di là», sussurrò. Strinse ancora la mano di Khadidja e piegò sulla sinistra, attraverso i campi. Lei lo seguiva, senza un lamento. E lui era in qualche modo fiero di lei, del suo silenzio, del suo coraggio. Ora correvano allo scoperto, sguazzando e incespicando nei solchi dei campi. Si rituffarono poi di nuovo nel sottobosco, e Marc maledisse quella campagna ostile, sferzata dal vento, vivificata dalla pioggia. Ma non osava fermarsi né fare marcia indietro. Era, in senso letterale, una fuga in avanti. Quando vide il fienile, capì che era là che doveva andare. Un rifugio o una trappola. Se Reverdi li aveva persi avrebbero potuto attendere l'alba tra quelle mura, se invece era sui loro passi, quello sarebbe stato il teatro dell'epilogo. Tirò ancora Khadidja per la mano. La sentiva ansimare, ma non le era sfuggito il minimo gemito. Con una spallata sfondò la porta. Nonostante il fetore che lo assalì alla gola, nonostante il freddo glaciale, provò un senso di conforto. Sdraiarsi sotto quel tetto, attendere la fine della notte, non chiedeva di più. L'oscurità era quasi totale. Scivolarono sul fieno ammuffito, schiacciando sotto i
piedi la terra battuta cosparsa di sterco secco. Marc chiuse la porta, e la notte. Si chiese se aveva ancora in fondo a una tasca l'accendino che aveva utilizzato a Nanterre. Ma in quell'istante i riccioli di Khadidja brillarono alla luce di un accendino. Un attimo dopo lo scintillio si trasformò in un autentico fuoco. Marc stava per urlare, ma Khadidja lo zittì. «Non venirmi a dire che così ci faremo localizzare.» Marc restò a bocca aperta. Khadidja aveva ragione. Che ne sapeva lui delle leggi della caccia? Delle regole della guerra? Fuori pioveva a dirotto. Le nuvole erano così basse che avrebbero assorbito il fumo una volta fuoriuscito dalla finestra che lei stava sgombrando. Khadidja si tornò a sedere vicino al fuoco. Marc si avvicinò a sua volta, osservandola alimentare le fiamme con gli escrementi più secchi. Malgrado il crescente calore, lei tremava ancora. Lui si tolse la giacca e gliela mise sulle spalle, era il meno che potesse fare. Poi si rialzò. I pensieri gli vorticavano in testa. Prepararsi all'assedio. Organizzare la resistenza. Ma come? Non avevano nulla. Né armi né protezioni né viveri... «Siediti. Mi dai sui nervi se continui ad andare avanti e indietro.» Marc si immobilizzò. Il tono autoritario lo sorprese, ma più ancora la calma della sua voce. Incredibilmente, lei non aveva paura. Gli escrementi crepitavano, distillando brevi e nervose fiamme, con curiose esplosioni verdastre. «Ti ascolto», disse lei. «Voglio tutta la storia.» Lui raccontò. L'usurpazione di identità. Le prime lettere. Il furto della foto. Il patto con Reverdi. Il suo periplo sulla «linea nera», tra il tropico del Cancro e l'Equatore. Poi il segreto del sangue nero. Si prese la pena di descrivere ogni dettaglio, ancora e sempre affascinato dal rituale dell'assassino. Le incisioni. Il miele. La camera ermetica. E l'atto finale. Khadidja, le braccia intrecciate attorno alle gambe e il mento appoggiato sulle ginocchia, restava in silenzio. Fissava le fiamme fugaci. Qualche cosa in lei resisteva al panico. Sembrava capace di affrontare la situazione con grande lucidità. Marc pensò alle «donne a cassetti» dei quadri di Dalí, che nascondevano i loro segreti nelle pieghe del corpo. Dove nascondeva Khadidja la fonte della sua forza? Marc passò al presente. L'evasione di Reverdi. L'omicidio di Alain van Hêm, unico collegamento con Elisabeth e il suo indirizzo postale. Poi la
rabbia dell'assassino quando aveva scoperto il volto di Khadidja nelle profumerie e il romanzo Sangue nero nelle librerie. Marc cercò di spiegare che aveva voluto evitare altre catastrofi, salvare Vincent, proteggere lei... Esitò qualche secondo e poi le raccontò della morte del fotografo. Khadidja trasalì, senza distogliere gli occhi dal fuoco. Non gli fece domande, ma lui capì che per lei era come se le mancasse la terra sotto i piedi. Marc continuò. Non voleva nasconderle nulla. Le descrisse il martirio di Vincent. Gli occhi strappati: gli occhi sulla trapunta. Le fotografie di Khadidja sul pavimento e la scritta VEDERE NON È SAPERE. Adesso Reverdi era lì, da qualche parte vicino al fienile. Animato solo dal desiderio di vendicarsi. Khadidja restò muta. Marc consultò l'orologio. Era l'una di mattina. E ancora nessun attacco, nessun segno allarmante. L'avevano forse seminato? I suoi muscoli si distesero. Il calore l'avvolgeva. Ci si abituava all'odore di merda bruciata. Ci si abituava ad aspettare la morte. «Non mi hai detto la cosa più importante», disse all'improvviso Khadidja. «Perché tutto questo? Perché questa caccia?» Marc farfugliò qualcosa, tentò di giustificare le sue ricerche. Lei lo interruppe: «Perché non mi parli di Sophie?» Lui sussultò come se avesse ricevuto un tizzone negli occhi: «Chi ti ha parlato di lei?» «Vincent.» Marc assentì lentamente. Lei conosceva quindi la parte essenziale della storia. Sussurrò qualcosa, le sue parole si mescolavano al crepitio delle fiamme. «Ho già visto la morte in faccia due volte. Due volte di troppo per una vita normale. La prima volta avevo sedici anni. Il mio più caro amico, un musicista, si è tagliato le vene nei bagni del liceo. Si chiamava d'Amico. Era il miglior violoncellista che abbia mai conosciuto. Fui io a scoprire il cadavere. La seconda volta era Sophie. È stata...» La voce gli si spense in gola. Khadidja lo risparmiò: «Vincent m'ha raccontato tutto. Ma perché hai reagito così? Perché inseguire il male e non cercare invece di dimenticarlo?» «Questi due eventi hanno destato in me una sinistra attrazione per la morte. E soprattutto la volontà di sapere, di comprendere. La morte di d'Amico non ha nulla a che vedere con la pulsione criminale, ma è stata come un preambolo. L'anticamera dell'orrore. Il corpo di Sophie è stato
l'apoteosi. Un interrogativo aperto, come una ferita. Com'era possibile? Come si poteva fare una cosa simile? Le loro tragiche morti mi hanno come investito di una missione, ero stato scelto, eletto, per comprendere la natura profonda della violenza. Ma credo che in fondo ci fosse anche del rimorso.» «Rimorso?» Marc non rispose subito. Quella domanda toccava le pieghe più intime del suo essere, che non erano mai state evocate a voce alta. «Quando ho scoperto il corpo del mio amico e quello di Sophie sono svenuto. Mi sono sottratto al mondo. Non una momentanea perdita della coscienza, ma un vero e proprio coma. Sei giorni la prima volta. Tre settimane la seconda. Avviene abbastanza spesso, in caso di gravi traumi. Ma il coma mi ha provocato anche un'amnesia retrogada.» «Vale a dire?» «Lo shock ha cancellato il momento della scoperta e le ore che l'hanno preceduto. Come se la mia coscienza fosse stata annullata nei due sensi, nella scala temporale, capisci?» «Quello che non capisco è il rimorso.» Marc gridò quasi: «Non so che cosa ho fatto nelle ore precedenti la loro morte!» disse battendosi il pugno nel palmo della mano. «Forse avrei potuto evitare quegli eventi... O forse li ho addirittura provocati. Una parola troppo dura a d'Amico, oppure sarei potuto restare con Sophie, non so. Non ricordo nemmeno le ultime parole che ci siamo detti.» Khadidja restò in silenzio, lasciò crepitare i secondi. «In ogni caso», tagliò corto Marc, sapendo di riassumere in poche parole il proprio destino, «questa inchiesta la dovevo fare, per entrambi. La loro morte è una pagina nera nella mia testa. Dovevo scoprire una verità sulla morte, il sangue, il male, per riempire quel buco nero. Non conosco l'assassino di Sophie. Nessuno ha mai trovato le sue tracce. Ma almeno ho avvicinato la forza malefica che l'ha uccisa. È la stessa forza che abita tutti gli assassini, e ho potuto contemplarla dall'interno. Grazie a Reverdi.» Khadidja si raddrizzò. Le sue ultime parole sembravano averle destato un ricordo: «Che cosa vuol dire quella scritta sulle lenzuola: "Presto, nasconditi, arriva papà"?» «Non lo so. È il lato oscuro di Reverdi che non sono riuscito a penetrare.»
«Perché l'ha espressa come una minaccia?» «Non ne ho alcuna idea. O forse sì: penso che prima di ucciderci voglia offrirci un'ultima rivelazione. Non dimenticare che la sua mente è malata.» Lei non rispose. Fissava intensamente Marc, con le mani appoggiate all'indietro e la testa infossata nelle spalle. Le sue pupille dorate non cessavano di danzare sotto le palpebre, come se stesse fotografando ogni minimo particolare del viso di Marc. Poi Khadidja sollevò lo sguardo verso il lucernario: stava sorgendo il sole. «Andiamo a consegnarci alla polizia. Sperando che non ci sbattano in prigione ma ci proteggano. E soprattutto che non ti mandino in manicomio.» 82. Khadidja guidava con le mani contratte sul volante. Marc le aveva proposto di guidare al suo posto, ma lei aveva rifiutato: era la sua auto e solo lei l'avrebbe guidata, punto e basta. D'altronde, lui non era affatto in una forma migliore. Alle sei avevano lasciato il loro rifugio per addentrarsi nell'alba monocroma. Avevano camminato attraverso i campi, sconvolti, infangati, fradici di rugiada. Due parigini erranti che si sostenevano l'un l'altro in una campagna ignota. Ancora più penosi se si considerava che l'albergo era a poche centinaia di metri dal loro nascondiglio: nella notte di tormenta avevano semplicemente girato in tondo. Al castello, il personale si era astenuto da qualsiasi commento. Marc e Khadidja sembravano una coppia per la quale la notte era stata molto dura. Una coppia che dopo aver litigato fino all'alba rientrava a Parigi a curarsi le ferite. Marc era ritornato nelle camere, lei non aveva avuto il coraggio di seguirlo. Aveva rimesso in ordine ed era ridisceso, pallido, freddo, impenetrabile. Aveva regolato il conto, rifiutato la colazione inclusa nel prezzo e poi avevano ripreso l'auto. Via via che il paesaggio ritrovava i suoi colori, i pensieri di Khadidja riacquistavano corpo e vigore. Doveva innanzi tutto ricostruire la sua corazza interiore, una barriera indistruttibile che le aggressioni esterne, per quanto violente, non potevano scalfire. Un nocciolo duro, sul quale la vita si spezzava i denti. Era così che ne era sempre uscita. La guerra continuava, tutto lì.
Marc non aveva quella forza, lei lo sentiva. Lottava ma non ci credeva più. Resisteva per lei, per dovere, per necessità, ma senza convinzione. Era condannato. Nella sua stessa testa. Un'altra cosa era certa: lei non l'amava più. Troppe vibrazioni funeste, troppi fantasmi circondavano quell'uomo. Tuttavia, nutriva per lui una sorta di pietà e non voleva lasciarlo. Non si sfugge alla legge dei cicli: anziché volergliene, era ancora pronta a curarlo, come aveva curato per anni il bastardo al quale doveva infilare l'ago tra le dita dei piedi e che doveva imboccare. Porte d'Orléans. Avenue du Général-Leclerc. Alésia. Una delle più importanti centrali di polizia di Parigi è il commissariato del XIV arrondissement, in Avenue du Maine. Khadidja aveva pensato subito a quel commissariato, che tra l'altro si trovava sulla loro strada del ritorno. Lo conosceva perché ci era finita diverse volte, da adolescente, durante le retate antialcoliche del sabato sera. Parcheggiò proprio di fronte, sull'altro lato della strada, davanti al ristorante La Marée. Marc sembrava esitare a uscire dall'auto. Lei si voltò verso di lui: «O questo o Reverdi. Che cosa preferisci?» Marc guardò l'orologio: aspettavano da quasi un'ora. La sala era stipata di gente. Poliziotti, querelanti, malavitosi. Tutti i fermati della vigilia: un venerdì sera come gli altri nel quartiere di Montparnasse. Dalle celle uscivano regolarmente i sospetti ammanettati, che attraversavano la sala a testa bassa o urlando, fino a scomparire negli uffici adiacenti. E c'era anche la «gente onesta» che reclamava giustizia al banco dell'accettazione come avrebbero chiesto una birra alla spina al bar. E gli sbirri, in uniforme o in borghese, che cercavano di calmare l'effervescenza mattutina. Un sergente aveva promesso di riceverli al più presto. Marc non si era innervosito, non aveva recitato la sua parte di «testimone fondamentale» in un «caso eccezionale». Era troppo abbattuto per farlo. Non era né irritato né impaziente, semplicemente sconvolto. La realtà che percepiva era a un tempo attutita e intensificata, e gli destava risonanze strane, ignote, come in fondo all'acqua. I rumori, gli odori del commissariato gli giungevano attraverso spesse muraglie liquide.
Tuttavia, lentamente, dopo l'urgenza della notte emergevano delle verità. Valutò per esempio fino a che punto la sua vita era distrutta. Il supplizio di Alain; il martirio di Vincent: due debiti che non avrebbe potuto ripagare. La notte precedente aveva giocato all'eroico guerriero, al samurai pronto al combattimento. Ma allora era certo di morire. Quella mattina però era ancora vivo. E avrebbe dovuto pagare. Né con il sangue né con la sofferenza, ma attraverso la piccola porta dell'ufficio del giudice e poi nella cella di una prigione. L'unica domanda possibile era: perché non si è rivolto prima alla polizia? Avrebbe potuto evitare la morte di Alain e Vincent? Ma c'era anche un altro mistero, molto più minaccioso: perché Reverdi non li aveva uccisi la notte prima? Non gli sembrava possibile che lo avessero seminato. Il predatore era sulle loro tracce. Li aveva sorvegliati tutta la notte. Perché? Che cosa aspettava per sacrificarli? Khadidja si alzò. «Dove vai?» «A fare pipì. Posso?» «No.» «Stai scherzando?» Indicò gli uomini in uniforme, i poliziotti con in mano gli atti giudiziari. «Penso che qui si possa stare tranquilli, no?» Marc la lasciò allontanare lungo il corridoio. Osservò le manette, le pistole nelle loro fondine e si tranquillizzò. Si appoggiò al muro e si addormentò. La fatica accumulata si liberò come un'onda tiepida nel suo corpo. Non doveva assopirsi... Sobbalzò. Si era addormentato di botto. Guardò l'orologio: le dieci passate. Guardò a destra e a sinistra, la stanza era sempre più affollata, ma Khadidja non c'era. Aveva cominciato la deposizione senza di lui? Impossibile. Balzò in piedi e interpellò un agente. Nessuno aveva visto Khadidja. Chiese dov'erano le toilette e imboccò un corridoio meno frequentato. Neon bianchi, griglie metalliche sulle finestre. Marc continuò ad avanzare. Nel commissariato c'erano toilette separate, gli uomini da una parte le donne dall'altra. Non c'era nessuno. Sulla porta chiamò: «Khadidja?» Gli rispose un rumore di sciacquone. A sinistra le cabine. A destra i la-
vandini, sovrastati da specchi. «Khadidja?» Una delle porte si aprì. Uscì una donna in uniforme che gli lanciò un'occhiata ostile. L'agente si diresse verso i lavandini. Marc distolse meccanicamente lo sguardo e fissò l'ingresso delle toilette maschili. Udì l'acqua di un rubinetto, lo scatto di un distributore di salviette. Marc ritornò nel corridoio, quando la donna in uniforme passò alle sue spalle, le chiese: «Mi scusi... Ha mica visto una ragazza bruna, molto alta e molto carina? È andata alle toilette e...» La donna sbatté le palpebre quando udì le parole «molto alta» e «molto carina». Era alta un metro e cinquanta e aveva un culo al quadrato. Senza rispondere, si aggiustò la divisa e ripartì a passo spedito. Marc si ritrovò solo. Arrischiò un passo all'interno. Silenzio totale. Dov'era lei? Forse si era addormentata in una cabina? Come era successo a lui sulla panca... «Khadidja?» Spinse la porta della prima cabina: nessuno. «Khadidja?» Spalancò la porta successiva: nessuno. Avanzò ancora di un passo. Un fremito alle sue spalle. Jacques Reverdi era là. Cranio rasato. Impermeabile grigio. Più sbirro di uno sbirro. «Io...» Un colpo sordo alla nuca. Tenebre. 83. Alveoli. Alveoli giganti. Cavità ovali, di parecchi metri di altezza, che si aprivano in una parete d'acciaio o di alluminio. Un materiale argentato, che scintillava alla luce. Marc si strappò all'incoscienza. Osservò ancora la parete davanti a lui e colse nuovi particolari. Le ellissi sembravano moltiplicarsi all'infinito. Ce n'erano anche di più piccole, al livello del pavimento e del soffitto, che riproducevano la stessa regolarità ipnotica. L'illusione ottica conferiva loro un movimento apparente, come nei quadri di Vasarely.
Marc guardò ancora la parete e ottenne nuove informazioni. Non era soltanto circolare, ma si arrotondava anche alla base e alla sommità. «Sono in una sfera», concluse. Poi si ricredette, lo spazio non era completamente sferico, ma curvo e piano al tempo stesso. Una specie di pallone da rugby di metallo cromato, tappezzato di crateri e bulloni. Non aveva mai visto un luogo simile. Uno strano odore dolciastro fluttuava nell'aria. «Un serbatoio di reazione», disse una voce alle sue spalle. Marc cercò di voltarsi. Impossibile. Era incollato a una sedia. Non soltanto il corpo, anche la testa. La schiena, il sedere, gli avambracci, la nuca aderivano a una superficie fredda, metallica. Si accorse che era nudo, avvinto a una poltrona d'acciaio che sembrava spuntare direttamente dal pavimento. «Un serbatoio di reazione a tenuta perfettamente stagna», proseguì la voce. Marc iniziò a ricordare: la scomparsa di Khadidja, le toilette del commissariato, Reverdi in impermeabile, la siringa... Dov'era Khadidja? Svenne di nuovo, poi si risvegliò. L'odore dolciastro tornò a sollecitargli le narici. «Qui si mescolano gas molto pericolosi grazie alle altissime pressioni che si possono ottenere.» La voce si avvicinava. Era la stessa della cassetta di Ipoh. Grave, confortante. Marc cercò ancora di voltare la testa, ma sentì un forte bruciore e uno strappo. I suoi capelli erano come saldati al metallo. Altre sensazioni emergevano: indolenzimenti, crampi. Reverdi aveva dovuto colpirlo in più punti. «Ma oggi», continuò la voce, «ci limiteremo a diffondervi dell'anidride carbonica per accelerare la cerimonia.» Marc sentì un sibilo. Reverdi aveva azionato il sistema per la diffusione dell'anidride carbonica, che avrebbe rapidamente sostituito l'ossigeno. Gocce di sudore gli imperlarono la pelle. La stanza si stava trasformando in una Camera della Purezza. Tra qualche minuto l'atmosfera sarebbe diventata mortale. Avrebbe subito il sacrificio del sangue nero. A grande fatica, riuscì ad abbassare lo sguardo: il suo corpo recava le tracce di molteplici incisioni. Non era stato percosso, ma trafitto, tagliato, inciso. Le ferite erano state chiuse, ma soltanto per aprirle meglio in seguito... Fu a questo punto che identificò l'odore dolciastro: miele. Le ferite erano state chiuse con il miele. Allungando lo sguardo, vide il
barattolo vuoto posato sul pavimento. A fianco, una pinzetta e una lampada a olio accesa. E, inclinata contro la parete sferica, una bombola d'aria compressa munita di riduttore di pressione. «Khadidja...» mormorò. «Dov'è Khadidja?» Jacques Reverdi apparve nel suo campo visivo. Indossava una muta di neoprene nero. A ogni respiro il suo torso irradiava riflessi opachi, come gasolio. Marc era sbalordito. L'assassino aveva una realtà tangibile. Le tempie grigie, le rughe attorno agli occhi, le vene che gonfiavano la pelle abbronzata. Sì: Jacques Reverdi esisteva. Era un essere reale. Non un predatore fantasmagorico. Un particolare assurdo gli dava un'aria quasi comica: al polso portava un grosso contatore. Un autentico apneista pronto a tuffarsi. In quale abisso? «Dov'è Khadidja?» ripeté Marc. Reverdi abbozzò un gesto. Un riflesso argenteo brillò nella sua mano. Un coltello da sub. «Qui. Con noi.» Marc seguì la direzione del coltello. Tendendo il collo riuscì a scorgerla. Alla sua destra, a tre metri di distanza, Khadidja, nuda anche lei, era immobilizzata su una sedia d'acciaio. Teneva la testa bassa, il volto affondato tra i riccioli bruni. Incosciente. Sapeva che non era morta: vedeva le ferite suturate sulla sua pelle scura. Reverdi le avrebbe fatte sanguinare più tardi, al momento del grande vuoto. «Si risveglierà, non preoccuparti», disse Reverdi a voce bassa. «Ma ho fatto in modo che non ci possa importunare con i suoi cicalecci. Sai come sono le donne...» Con orrore, tra i capelli neri di Khadidja Marc notò una mutilazione particolare. L'assassino aveva sigillato le labbra della ragazza con delle graffe conficcate nella carne. La sua bellezza era sfigurata per sempre. Ma non ci sarebbe più stato un «sempre»: la fine era ormai vicina. «Lei non c'entra affatto», gemette Marc. «Ti ho mandato la sua foto...» «Zitto.» Reverdi si spostò lateralmente e si piazzò a eguale distanza dalle due vittime, formando l'apice di un triangolo perfetto. «Non importa chi ha fatto cosa», riprese in tono pacato. «In fondo, sono felice che voi siate una coppia. Noi tre riproduciamo così il triangolo originario. Il padre, la madre, il figlio. Quello della menzogna fondatrice. Possiamo reinterpretare il tradimento primario. E vivere l'ultima catarsi.»
«Te ne supplico... Lei non sapeva niente!» Reverdi puntò il coltello sulle sue labbra. «Zitto! Ascolta... Senti questo rumore? Non ci resta molto tempo. In meno di mezz'ora l'ossigeno sarà sceso sotto il livello critico.» Khadidja sollevò la testa. Le sue palpebre batterono lentamente, rivelando solo il bianco degli occhi. Due fessure chiare che contrastavano acutamente con la sua pelle bruna. La ragazza emise un urlo muto. Il suo respiro gonfiò le labbra, affondando ancora di più le graffe nella carne. «Ecco che la nostra principessa si sveglia. Molto bene. L'orario è rispettato.» Reverdi afferrò un telecomando dalla cintura da sub. «Non avere paura», continuò, come se leggesse i pensieri di Marc. «Conosco queste macchine. Funzionano come i cassoni ad alta pressione dei sub. Per il momento siamo al venti per cento. Comincerete presto a sudare...» Sollevò lo sguardo. I suoi occhi brillavano di un'emozione particolare, a metà tra la soddisfazione e l'esaltazione. Ai suoi piedi, la fiamma blu della lampada a olio aveva iniziato a tremolare. «Innanzi tutto, alcune precisazioni pratiche. Come ci troviamo qui? Per quale tocco di magia siamo finiti in questa sala circolare?» Reverdi fece qualche passo. Di profilo, era sottile come una fune. Marc pensò a quei cavi neri che corrono sotto gli oceani, sepolti nella sabbia, portatori di tecnologia e di energia. Notò che Reverdi era a piedi nudi. L'apneista pronto a tuffarsi... «Sorvolerò sui nostri primi incroci a Parigi. Seguire le vostre tracce era facile. Bastava guardare le vetrine... Poi c'è stato quel ridicolo inseguimento attraverso i campi. Vi ho osservati mentre vi nascondevate in quel fienile. Eravate due prede francamente... pietose.» Marc tentò di parlare, ma riuscì soltanto a tossire. La mancanza di ossigeno era ora molto più sensibile. Il suo torso era coperto di sudore. Una lacerante emicrania si stava insinuando in tutte le pieghe del suo cervello. Si raschiò la gola e riuscì a dire: «Perché non ci hai uccisi allora?» «Non eravate pronti per il sacrificio. La paura doveva sgrassarvi un po'. Privarvi delle vostre certezze, dei vostri punti di riferimento. Ieri mattina, mentre vi guardavo sguazzare nei campi, mi sono detto che cominciavate a essere maturi...» Lanciò uno sguardo al suo contatore. Un analizzatore digitale dell'atmo-
sfera. «Poi le cose sono diventate più difficili. Sapevo che alla fine sareste andati alla polizia. Ma in quale commissariato? Quello dell'Avenue du Maine, naturalmente. Uno dei più grandi. Uno dei più conosciuti. E soprattutto, l'unico sulla vostra via del ritorno. Vi ho visti entrare nell'edificio. Ho lasciato passare qualche minuto e poi sono entrato anch'io. Mi sono mescolato al caos del commissariato assumendo un'aria concentrata. Sembravo un tenente di polizia, o un medico chiamato d'urgenza per un malessere in cella. Ricorda quello che ti ho scritto una volta, "Elisabeth": "Meno ti nascondi e meno ti si nota". Vi ho localizzati, sulla vostra panca, e mi sono tenuto a distanza, aspettando l'occasione buona. Non avevo ancora un piano preciso, ma le possibilità erano molte. Quando Khadidja si è alzata per andare alla toilette, ho capito che era arrivato il momento. Un'iniezione, e poi bastava interpretare la parte del medico premuroso. Attraverso l'uscita posteriore l'ho portata, mezza addormentata, fino al parcheggio dove avevo lasciato la mia auto, munita del simbolo dell'ordine dei medici. È stato facilissimo. Poi, ho aspettato te nelle toilette. Poiché tardavi ad apparire, sono tornato nella sala principale. Quando ti ho visto dormire, ho dovuto trattenere le risa. Mi sono rimesso in appostamento nelle toilette. Dopo averti fatto un'iniezione, sono tornato alla mia auto, il meno discretamente possibile, sostenendoti per le spalle. Ecco tutto.» Marc faceva ormai sempre più fatica a trattenere i tremiti. Ogni scossa, ogni convulsione gli strappava un dolore tirandogli la pelle incollata al metallo. Doveva respirare più forte, più ravvicinato, per ottenere la sua dose di ossigeno. Sentiva anche il dolore profondo e al tempo stesso irreale delle ferite interne. Immaginava il sangue ribollire sotto la pelle, liberato dalle vene tranciate, pronto a riversarsi fuori non appena la fiamma avrebbe riaperto le ferite. Reverdi continuò: «Ma la vera domanda è: come possiamo trovarci qui? E innanzi tutto: dove siamo? Tutto quello che posso dirvi è che si tratta di un sito industriale ad alto rischio. Da qualche parte nella banlieue parigina, vicino a un fiume. Molto importante, il fiume. Tu lo sai, Marc, e forse l'hai anche detto a Khadidja: dove c'è l'acqua, io sono invincibile. Penetrare qui è stato più difficile che al commissariato, credimi. Ma non impossibile. Mi sono bastati alcuni documenti falsi e un vocabolario appropriato per convincere i guardiani che era in corso una simulazione di all'erta. Una volta entrato, li ho tranquillizzati con le iniezioni. Tra qualche
ora si sveglieranno, con la lingua impastata e la testa pesante. Esattamente come voi in questo istante. Ma per voi tutto ciò non ha più importanza.» Reverdi azionò una seconda volta il telecomando. Il sibilo si intensificò. «Quindici per cento. Le nausee non dovrebbero tardare...» La fame d'aria scavava il petto di Marc, mentre il suo ventre diventava più pesante. L'assassino si sedette a gambe incrociate e dispose davanti a sé il barattolo di miele, le pinzette, la lampada a olio. Poi sospirò stancamente, come se ora dovesse passare agli argomenti penosi: «Ho letto il tuo libro, Marc. O forse dovrei dire il mio libro.» Prese una cartella, in fondo a un alveolo, e ne trasse una copia di Sangue nero. Sfogliò distrattamente il romanzo, facendo scorrere la lama sulle pagine: «Alla fine non te la sei cavata male. Anche se bisogna dire che possedevi informazioni di prima mano. Ma restano alcune verità che vorrei chiarire. È troppo tardi per apportare delle correzioni al testo, faremo pertanto queste modifiche direttamente nella vostra testa. Prima di subire il sacrificio, dovete essere assolutamente puri. Mondati da ogni menzogna.» Marc lanciò uno sguardo a Khadidja: i suoi occhi bianchi e neri erano iniettati di sangue. I riccioli attraversati da strie rossastre. Dibattendosi, aveva tirato i capelli fino a strappare lembi di cuoio capelluto. Reverdi si appoggiò con le mani all'indietro, senza distogliere gli occhi dalle sue vittime. «Tutto ha avuto inizio con mia madre», disse con un tono da cantastorie. «Ma non come hai immaginato tu», aggiunse ridacchiando tra sé. «Quando ero una leggenda nel mondo dell'apnea, un giornalista ha scritto che il mare era in me. Voleva dire che ero abitato, invaso, sommerso dal mare. Aveva ragione, ma dimenticava una consonante.» Sollevò la testa fingendo di osservare le ellissi che li sovrastavano. «Sì, è mia madre che da sempre mi invade.» 84. «Tu, Marc, conosci la mia storia. O almeno credi di conoscerla: l'orfano di padre, cresciuto con la mamma in una successione di case popolari. A partire da qui, hai molto romanzato. Quella figura del padre assente che ossessiona il bambino, il futuro assassino, quella specie di minaccioso fantasma che separa il figlio dalla madre. Posso citarti, vero?»
Aprì il romanzo a una pagina contrassegnata e lesse a voce alta: «Claude non poteva sentire suonare il campanello senza immaginarsi che fosse tornato suo padre. Non poteva addormentarsi senza che un'ombra piena e nera si chinasse sul suo letto. Non poteva sentire gli altri scolari parlare dei genitori senza essere scosso da un fremito. Si apriva allora in lui una mancanza, una ferita pungente di cui riteneva segretamente responsabile la madre. Non l'aveva forse lasciato partire?» Reverdi posò il libro: «Niente male, Marc, niente male... Ma la mia situazione era più semplice. E molto più banale. La nostra vita era senza storia. Persino piuttosto equilibrata. Almeno da questo punto di vista. Non parlavamo mai di mio padre. Eravamo in due, tutto qui. E, contrariamente al personaggio del tuo libro, mia madre non era una fanatica religiosa, una militante della carità, dura con sé stessa e con gli altri...» Si raddrizzò, sempre seduto a gambe incrociate: «No, per riassumere, direi che mia madre aveva un solo problema: le piaceva troppo il sesso.» Raddrizzò il coltello, il manico appoggiato sul ventre, fissando Khadidja che abbassò gli occhi: «Le ci voleva questo tra le gambe, capisci? Un cazzo bello duro che la riempisse.» Chiuse gli occhi, soppesando questa idea: «Sì, mia madre, la cara e santa assistente sociale, era una ninfomane. E il suo mestiere, la cosiddetta vocazione, non era altro che un modo per rimorchiare stalloni tra disoccupati e sfaccendati...» Marc non era più certo delle proprie percezioni, ma gli sembrava che un altro rumore si mescolasse al sibilo dell'anidride carbonica. Un rumore più acuto... Era Reverdi che digrignava i denti. Quando evocava la madre, l'odio gli imprigionava le mascelle. «Il richiamo del pene», proseguì, «ecco che cosa l'animava ogni giorno quando si apprestava alla sua missione...» Si voltò ancora verso Khadidja, che gli rivolse uno sguardo attonito. Le graffe le avevano impiastricciato le labbra di rosso. «Piace anche a te?» le chiese Reverdi. Poi, rivolto a Marc: «Si apre in due quando la impali? Pensate a me quando vi montate? Pensate al piccolo
Jacques, che non ha mai capito la sua "mamma"?» Tutt'a un tratto abbassò la voce: «Non ci si doveva fidare della sua bellezza malinconica e dei suoi colletti rotondi. Il suo buco era una fogna a scarico diretto, che si apriva a tutti, fino alle viscere...» Reverdi si alzò e si mise a camminare, incurante dell'assenza di ossigeno. «Ma perché no, dopo tutto?» disse alzando le spalle. «Queste cose non riguardano i bambini. D'altronde, quando quegli uomini venivano a trovarla la maggior parte delle volte io dormivo già. Ma era una perversa e aveva bisogno, in un modo o nell'altro, di rendermi complice dei suoi piaceri. Quando le ho chiesto chi veniva a trovarla di notte lei mi ha sussurrato in tono di confidenza: "Tuo papà". Poi è scoppiata a ridere. Dovevo avere sei o sette anni. Quella brutale apparizione di mio padre, quando nessuno me ne aveva mai parlato, mi turbò profondamente. Da allora ho avuto in mente soltanto una cosa: vederlo. Ogni sera restavo in agguato, nella mia stanza, cercando di cogliere dei particolari, di udire la sua voce, di sentire il suo odore. Ma non osavo aprire la porta. Tutto quello che percepivo erano rumori attutiti e gemiti. Ne ho così tratto le mie conclusioni. La notte mio padre veniva a fare del male alla mamma. Immaginavo una sorta di dèmone dalle membra dure, adunche, che la ferivano e la scorticavano. E ho cominciato a detestarlo con tutte le mie forze. Ma al tempo stesso, il fascino che lui esercitava su di me non scemava. Non pensavo che a lui. Mi torturavo la mente immaginandomelo. La notte schiacciavo la faccia contro la fessura della porta per scorgerlo. La mattina raccoglievo indizi nel soggiorno, nella camera di mia madre, tra gli odori viziati del sesso. Cercavo sotto il letto, tra le pieghe delle lenzuola, sotto il tappeto. Trovavo oggetti che gli appartenevano. Un accendino. Delle sigarette. Un giornale... Conservavo tutte queste cose in un baule. Il mio baule dei tesori. Un giorno, raccogliendo il coraggio a quattro mani, ho chiesto a mia madre perché papà le faceva male. Era cattivo? All'inizio lei non ha capito, poi è scoppiata a ridere, con la sua voce grave. Rivedo ancora il suo viso stretto, attraversato da quella bocca troppo carnosa. Mi ha detto che sì, era molto cattivo. È per quello che non dovevo mai vederlo... A partire da quel momento mi ha tenuto sveglio, aspettandolo, e quando lui suonava, mi sussurrava, in un tono di finto panico: "Presto, nasconditi, arriva papà!" Io
filavo nella mia camera, terrorizzato, e mi piazzavo contro la porta, per cogliere il minimo rumore, il minimo segno, e immaginare le peggiori torture. Con la paura che lui mi sorprendesse... Ma non ne potevo più, dovevo vederlo. Ho fatto un buco nella mia porta. Attraverso una fessura irta di schegge l'ho finalmente visto. Grande, vigoroso, molto bruno e molto peloso. Mi è piaciuto subito. Sembrava un orso. Ma quella notte, per la prima volta, ho visto quello che non dovevo vedere. Membra allacciate, ondeggiamenti di carni, colori violacei. La mamma con qualcosa nella bocca. Glutei brunastri. Un sesso femminile che pareva una ferita irritata. E sempre quelle grida animali, quei rantoli, quei soffocamenti... Quello cui stavo assistendo era uno stupro, lo stupro della specie umana, di tutto quello che credevo di sapere sui "grandi". Soffrivo. Non volevo più subire quel tormento. Eppure, ogni sera ero appostato dietro la mia porta. Volevo rivedere mio padre. E allora che ho cominciato a perdere tutti i miei punti di riferimento. Perché ogni volta lui era diverso! Una volta era piccolo, mingherlino e bianchiccio. Un'altra volta grasso e calvo. Mentre la sera dopo era un nero gigantesco dai gesti lenti e lucidi. Mi sembrava di impazzire. Mi dicevo: "Se mio padre ha molte facce, allora anch'io sono più d'uno." Divenni instabile, come liquido. La mattina, quando mi lavavo i denti, avevo l'impressione che il mio viso si sgretolasse sotto lo spazzolino. Perdevo ogni identità. Mi dislocavo...» Reverdi continuava a camminare avanti e indietro nella sala d'acciaio. Parlava a testa bassa. Come piegato sotto il peso dei ricordi. La sua lunga silhouette nera, attraversata da lampi bluastri, dava una forma animale al suo dolore. «Un giorno», continuò, «mia madre mi sorprese dietro la porta. Sento ancora il suo risolino soffocato. Questo flagrante delitto le suggerì una nuova idea. Se la cosa mi interessava, tanto meglio, sarei rimasto con loro. Nella camera. Nascosto nell'armadio. Una specie di baule verticale di giunco, di quelli che si usavano all'epoca, collocato di fronte al letto. Da allora, fu sempre lo stesso rituale. Ogni sera suonava il campanello e, prima di spingermi dentro l'armadio, tra i vestiti, lei mi sussurava: "Presto, nasconditi, arriva papà!" Quante volte ho sentito quella frase? Mi è rimasta impressa dentro, in fondo al cervello rettile, dove hanno sede gli istinti primitivi. La fame. L'odio. Il desiderio...» La voce di Reverdi si spense e lui rimase immobile, assente, assorto nei ricordi. Marc sentiva aumentare l'irritazione alla gola. Il mal di testa lo stringeva
come una morsa. Pensò alla psichiatra malese. La donna velata aveva visto giusto. La schizofrenia di Reverdi; la sua perdita d'identità; i molteplici volti di suo padre. Ma quelli che lei credeva fantasmi erano realtà. L'apneista riprese un tono da conversazione leggera. «Perché mia madre faceva questo? Perché era demente, si potrebbe rispondere. Ma sarebbe una spiegazione troppo semplicistica. C'era dell'altro. Qualcosa che noi tutti condividiamo. Con l'età adulta mi sono sentito attratto anch'io da quegli estremi, quei contrari che abbattono le barriere e liberano il piacere. Quelle deviazioni che, non si sa per quale sortilegio, accrescono il godimento. Oggi so che la mia presenza nell'armadio apportava una dissonanza nella sua intimità, una crepa che intensificava la soddisfazione. La mia vicinanza aggravava la sua nudità, la sua esposizione, la sua vulnerabilità: tutto ciò su cui si fondava la sua delizia di donna crocifissa dall'uomo.» La sua voce si strozzò. Reverdi si prese la testa tra le mani, come in preda a una terribile nevralgia. Per parecchi secondi i suoi denti digrignarono ancora. Poi si raddrizzò, con il volto disteso. «Per me questi momenti passati nell'armadio sono stati... come dire?... molto formativi. Mille volte ho voluto uscire per salvare mia madre - perché pensavo ancora che soffrisse - ma la paura mi paralizzava. Avevo paura di lui. E soprattutto di lei. Conoscevo le sue crisi - il suo sadismo latente, che su di me si esercitava in modo discreto: il cibo troppo salato, i bagni ghiacciati, le sveglie di soprassalto... Mia madre ha sempre preteso di amarmi, ma erano soltanto menzogne. Lei era l'incarnazione della menzogna. Come tutte le donne.» Reverdi si piazzò davanti a Marc e lo fissò dritto negli occhi: «So che ti piacciono i particolari. Potrei parlarti per ore di quell'armadio di giunchi intrecciati che è diventato la mia seconda pelle. Il mio vaso di Pandora. Potrei spiegarti come rabbrividivo nell'oscurità, assalito dai crampi, come tentavo, mio malgrado, di guardare attraverso i giunchi. Come, quando scorgevo il nuovo volto di mio padre, i suoi tratti si insinuavano sotto la mia pelle, fino a tendermi le ossa. Talvolta, l'uomo si metteva a sedere sul letto e diceva: "Non hai sentito un rumore?" Poi si alzava e si avvicinava all'armadio. Io mi rintanavo in fondo al mio nascondiglio, trattenendo il respiro. Si avvicinava talmente che sentivo il suo alito pesante, impastato di alcol o marijuana. Alle sue spalle, udivo mia madre ridacchiare: "Lascia perdere, sarà stato un topo". Poi ripeteva più forte, a mio
beneficio: "Un lurido topino vizioso!" E scoppiava a ridere mentre il bruto tornava da lei.» Reverdi imitava tutte le voci: l'uomo, la donna, il respiro affannoso del bambino. Lo spettacolo di questo atleta dalla purezza olimpica che incarnava di volta in volta ogni personaggio mi riempiva d'orrore. Ancora una volta la dottoressa Norman aveva ragione: Jacques Reverdi non aveva un'unica personalità. Molti esseri distinti coabitavano in lui, senza mai formare un insieme coerente. Marc inarcò la schiena. L'emicrania era diventata insostenibile. Macchie nere danzavano nello spazio circolare. Non era sicuro di sopravvivere fino alla fine della storia. L'apneista proseguì, come se avesse letto i pensieri di Marc: «Ma soprattutto, soffrivo per la mancanza di ossigeno. Nel mio nascondiglio mi mancava l'aria. Respiravo a fatica. Mi prendeva il panico. Non smettevo di morire. Allora, non so come, ho trovato un modo per difendermi...» Di colpo i suoi tratti si distesero in un largo sorriso, fiero e radioso. «L'arma che mi avrebbe reso invincibile: l'apnea. Tutte le mie biografie narrano che ho scoperto questa disciplina a Marsiglia, dopo la morte di mia madre. Io stesso ho propagato questa leggenda. Ma è falsa. Ho scoperto l'apnea nella banlieue parigina. Dentro un armadio. Non so come, un giorno, anziché cercare disperatamente l'ossigeno attraverso le fessure dei giunchi, ho trattenuto il respiro. E così si è prodotto un miracolo. All'improvviso mi sono sentito investito di una forza straordinaria. I sospiri di mia madre svanirono, la minaccia di mio padre, i suoi molteplici volti, tutto scomparve. L'apnea erigeva tra me e il mondo esterno un muro, una parete perfettamente stagna. Tutto si frantumava contro il mio carapace. Ero diventato impenetrabile. Ho cominciato ad allenarmi tutte le notti, nel mio nascondiglio. Non udivo più le loro grida, i gemiti e gli insulti. Mi concentravo per migliorare i miei tempi, cronometrandomi con l'orologio dimenticato da uno dei miei "padri". Ogni sera miglioravo. Ogni sera diventavo più forte. Non avevo più paura dell'armadio: ero io stesso un baule, ermetico, inviolabile che proteggeva la mia identità dagli altri. Grazie a questa disciplina, sono riuscito a crescere. Ho scacciato i miei incubi, ma anche le mie pulsioni, sempre più morbose. La pubertà non ha segnato il risveglio dell'amore ma quello della morte. Naturalmente, all'inizio i desideri omicidi si concentravano su mia madre. Sentivo delle voci
che mi incitavano a ucciderla. Ma quando la crisi era al culmine, quando stavo per passare all'atto, l'apnea mi salvava sempre. Nel frattempo, la situazione in casa era mutata. Mia madre si disinteressava di me. Ero diventato troppo grande per prendere parte ai suoi giochini viziosi. Mi era cresciuta la barba. La mia voce stava cambiando. A dodici anni misuravo già un metro e settantacinque. Non ero più un ragazzino buffo, il rapporto di forza si stava invertendo. Erano finiti i tempi in cui poteva asservirmi e torturarmi. D'altronde, anche lei era cambiata. La sua bellezza era sfiorita. Si truccava troppo vistosamente. Beveva. E quando suonava alle porte dei disoccupati, con la faccia tutta impiastricciata, il suo fascino non funzionava più. Rientrava sconfitta, disperata, ubriaca marcia. A tredici anni ho cominciato a occuparmi di lei. A curarla, nutrirla, metterla a letto. L'ho mantenuta in vita come un allevatore ingrassa un'oca. Aspettando che fosse pronta per il sacrificio. Ma lei ha avuto fortuna. Lontano dall'armadio, dalle torture e dagli incontri sessuali, la mia collera a poco a poco è svanita. Ho persino finito per provare pietà per quel relitto umano che si trascinava per casa. Soprattutto dopo avere isolato la malattia di cui da sempre soffriva, il cancro incurabile che la rodeva: il sesso. Mia madre, insaziabile, era sempre e ancora a caccia di maschi. Avevo quattordici anni. Frequentavo più o meno regolarmente il liceo. Quanto bastava agli insegnanti per cogliere le mie attitudini intellettuali. Conoscevano la mia situazione familiare. Hanno parlato di separarmi da mia madre. Hanno parlato di un pensionato per me e di una casa di cura per lei. Forse era quella la soluzione. Abbandonando la casa materna avrei potuto vincere i miei incubi, le mie pulsioni, e diventare una persona normale. Forse. Ma come al solito lei rovinò tutto. Diventò tutt'a un tratto stranamente dolce e carina con me. D'istinto, mi sentivo in pericolo. E non mi sbagliavo: nella sua follia, contava ora su di me per soddisfarla. Fisicamente. Quando ha arrischiato la prima avance, mettendomi la mano sul sesso, ha firmato la sua condanna a morte. Il mio odio è esploso di nuovo. In un attimo ho capito che cosa avrei fatto. E afferrandole la mano per allontanarla come una vecchia zampa di pollo, programmavo già la sua esecuzione.» Jacques Reverdi sorrise. Marc lo guardava affascinato: nonostante la certezza di morire, nonostante il respiro fosse per lui ormai solo una sofferenza, provava compassione per il suo avversario. Dietro il gigante in muta nera, il predatore demente, ora vedeva un ragazzino traumatizzato, terrorizzato in fondo a un
armadio di giunco. «Mi sono messo al lavoro. Ho ripreso in mano il progetto che avevo immaginato per lei due anni prima. La cosa mi ha richiesto parecchie settimane: materiali, preparativi, test. Una sera, dopo una bella sbronza, mia madre si è risvegliata sul suo letto. Legata alle spalliere, si è accorta di non potersi muovere. Ha sollevato la testa e mi ha visto, seduto per terra. Io la guardavo, in pace con me stesso. Lei ha cominciato a ridere, poi a urlare, poi le due cose insieme, vomitando sul vestito stazzonato. All'inizio l'emicrania non l'ha allarmata, era abituata ai dopo sbronza. Ma quando ha cominciato a tossire e il suo respiro si è fatto ansimante, ha capito che c'era qualcosa che non andava. Suo figlio non stava facendole un innocuo scherzetto. Per due settimane avevo accuratamente sigillato ogni minimo interstizio della sua camera. Griglie di ventilazione, porta e finestra. Avevo tappato tutte le fessure con fibre di giunco. In ricordo dell'armadio. Volevo che mia madre provasse le stesse sensazioni che mi aveva imposto da piccolo. Il soffocamento. Il terrore. L'oscurità. Mentre lei singhiozzava sul letto, io non mi mossi: lasciavo che la notte riempisse la camera. La sua bocca, il suo cervello. Il supplizio non era che all'inizio. Secondo i miei calcoli, l'asfissia avrebbe richiesto quarantotto ore. Ma il suo petto incavato ha ceduto prima: l'indomani sera, verso le undici, ha cominciato a soffocare. Io restavo immobile, ombra nell'ombra. Lei forse non l'aveva notato, ma ora per respirare utilizzavo una bombola d'aria compressa. Sono trascorse molte ore. L'ho vista sussultare, chiamare, spalancare la bocca e avvelenarsi con l'anidride carbonica che saturava la stanza. Più si agitava, più accelerava il processo. Ho cercato di metterla in guardia, ma lei non mi ascoltava. Piangeva, vomitava, mi supplicava con il suo sguardo da cagna in calore. Ha avuto ancora qualche spasimo e poi si è afflosciata, come una bambola rotta. Ero in uno stato di giubilo indescrivibile. Un pulviscolo dorato mi danzava davanti agli occhi. Il mio cuore batteva con una lentezza da risacca notturna. Ho tolto la bombola e mi sono messo in apnea. Volevo vederla esalare il suo ultimo respiro. Succhiare quelle ultime particelle di ossigeno che mi aveva rubato durante l'infanzia. Il suoi occhi si sono volti verso di me, e mi sono chiesto perché avevo atteso tanto per eseguire la sentenza. Il mio piano comportava un secondo atto. Dovevo far apparire la sua esecuzione come un suicidio. Avevo previsto di aprirle le vene, dove i le-
gacci l'avevano ferita, prima che morisse. Sempre in apnea, ho sciolto le corde e ho preso il coltello più tagliente, quello che usavo per l'aglio e le cipolle. Poi, con grande applicazione, le ho cesellato i polsi, tagliandole le vene. A questo punto è avvenuto il prodigio. In quella stanza ormai priva di ossigeno, dai polsi di mia madre colava sangue nero. Assolutamente nero. Lo spavento mi ha fatto indietreggiare, ma poi sono caduto in estasi. Ho ammirato il corpo che secerneva quel nettare. Non avevo mai contemplato uno spettacolo così bello. Un quadro così puro, così vero. Era una semplice cianosi, combinata all'anossia, ma ai miei occhi era il male che evacuava dal corpo di mia madre. Il male era quel catrame scuro. La verità di quella donna - il vizio e la menzogna - era quel sangue nero. Mi sono alzato in piedi, con le lacrime agli occhi, e mi sono accorto che ero venuto nei pantaloni. Il mio primo orgasmo. Nella purezza dell'apnea. Per me, ormai, non ci sarebbe più stata un'altra via. In quell'istante, sulla mia nuca è apparso un marchio. Una striscia di capelli è caduta e non è mai più ricresciuta. Il marchio del mio nuovo destino.» La mente di Marc funzionava al rallentatore. Il suo cervello non era più sufficientemente ossigenato. Reverdi gli si avvicinò, la sua voce era sempre perfettamente nitida: «Non ti sei spinto abbastanza in là nel tuo libro. Non hai voluto - o potuto - raggiungermi fino a un certo punto. Là dove le motivazioni sono cristalline. Eppure, mi sembrava di averne parlato a lungo con Elisabeth...» Marc lanciò un'occhiata a Khadidja. Aspirava come un pesce fuor d'acqua, con un sibilo atroce. La propria impotenza lo infuriava. Anche lui era prossimo alla sincope. Quasi afono, mormorò: «Quan... quante ne hai uccise?» «Ogni anno», sorrise Reverdi, «nel Sudest asiatico scompaiono migliaia di persone. Ho prelevato il mio tributo su quella cifra. Per me, il Sangue Nero non è un fenomeno fisico, né un incidente. E ancor meno un libro raffazzonato. È una ricerca perpetua, Marc. È in quelle acque profonde che mi tuffo. La mia vera apnea, la mia barra dei cento metri, è sempre stata quella...» La stanza circolare doveva ormai contenere soltanto qualche particella di aria respirabile. La fiamma bluastra della lampada a olio resisteva sempre. L'assassino lanciò un'occhiata al suo contatore:
«Dieci per cento. Il tempo stringe.» Si voltò verso Khadidja. «Sei una musulmana praticante, bella?» Lei non reagì. Svenuta. Forse già morta. Reverdi continuò, come se Khadidja potesse udirlo: «No? Non conosci questo brano del Corano? È scritto che il Profeta, prima della sua Missione, cadde al suolo profondamente addormentato. E due uomini bianchi scesero a destra e a sinistra del suo corpo. E l'uomo bianco a sinistra gli squarciò il petto con un coltello d'oro e ne estrasse il cuore, da cui spremette il sangue nero. E l'uomo bianco a destra gli aprì il ventre con un coltello d'oro e ne estrasse le viscere, che purificò. Poi rimisero al loro posto le interiora e da allora il Profeta fu puro per annunciare la fede...» Reverdi afferrò il riduttore collegato alla bombola d'aria compressa. Per la prima volta, la sua voce tradì la collera: «Ringraziami, Marc. Per te e per lei. Dopo tutte le vostre menzogne, le vostre profanazioni, vi purificherò, vi laverò come gli uomini bianchi del Corano...» Marc non aveva più la forza di sollevare la testa. Il suo cervello produceva ormai una sola idea: guadagnare tempo. Qualche secondo. E tentare un'azione, non importa quale, per salvare Khadidja. L'assassino stava infilandosi in bocca il respiratore quando Marc disse: «Aspetta!» 85. La sua voce era ormai un rantolo. «Perché i bambù? Perché le foglie ti davano il segnale per uccidere?» Reverdi si immobilizzò e sorrise. «È per via degli abiti.» «Quali abiti?» Si sfiorò il viso con le dita, con un movimento verticale. «Gli abiti di Laura Ashley di mia madre... Nell'armadio, quando morivo dalla paura, quando soffocavo, pendevano dagli attaccapanni e mi accarezzavano il viso. Quegli sfregamenti sono rimasti per sempre associati alla mia sofferenza. Ogni volta che le foglie di bambù mi accarezzano il viso,
ritorno nell'armadio. Sento i suoi vestiti sulla mia pelle. Sento mia madre e i suoi sospiri di piacere. E ho di nuovo sete di sangue nero.» Reverdi morse il respiratore. Poi, con calma, si sedette sui talloni, all'asiatica, fissando Marc. Era la fine. Khadidja era sicuramente già morta. E a lui restavano ormai solo pochi secondi. Sentiva la respirazione artificiale di Reverdi, mentre lui soffocava, e sapeva che l'anidride carbonica stava per ucciderlo. Reverdi spiava i suoi respiri. Non aveva più bisogno di analizzare l'aria, gli bastava guardare il volto di Marc. Quando i suoi tratti si fossero fissati per sempre, l'apneista si sarebbe tolto la maschera e avrebbe trattenuto il respiro, avvicinando la fiamma alle ferite per far sgorgare il sangue nero. Il sangue. Sull'orlo dell'abisso, Marc ebbe un'idea. Non c'era più nulla da fare, tranne rovinargli il rituale. Sabotare il proprio sacrificio. Con uno sforzo disperato, gonfiò i polmoni e tese i muscoli, per poi subito espirare e rilasciarli, provocando una dislocazione di tutto il torso. Ma non ottenne alcun risultato, eccetto un buco nero, in fondo alla coscienza, provocato dall'afflusso di anidride carbonica. Ricominciò subito daccapo, gonfiando il petto e contraendo tutti i muscoli. Soffocava, moriva - ma prima, e prima che la camera fosse totalmente pura - avrebbe sanguinato, battendo in rapidità la cianosi. I suoi sforzi alla fine produssero un risultato: l'estrema tensione della pelle aprì le ferite sigillate con il miele. Distese ancora una volta i pettorali, allargando i margini delle ferite e facendo sgocciolare l'emoglobina. Reverdi si strappò il respiratore, controllando il suo analizzatore dell'aria. La sua voce era deformata dalla mancanza di ossigeno. «No! Non ancora!» Marc continuava la sua ginnastica: tensione, riposo, tensione, riposo... Le ferite si aprivano, il sangue tiepido colava sulla pelle. Riuscì ad abbassare le palpebre. Il suo sangue era scuro, ma ancora rosso. La cerimonia era profanata. «Non ancora!» Reverdi si scagliò contro di lui, con il coltello in mano. Marc sorrise. Che cosa poteva fare? Ucciderlo? La poltrona oscillò. I due uomini crollarono sul pavimento. Il volto dell'assassino era lordo di sangue. Cadendo aveva compresso le ferite di Marc. L'emoglobina schizzava a getti incro-
ciati, espulsa dal peso di Reverdi, che si agitava su di lui ripetendo: «Non ancora... non ancora...» Tentò di tappare le ferite con le mani. Ma il liquido sfuggiva, ostinatamente, attraverso le dita strette. Marc chiuse gli occhi. Onde calde gli fluivano sulle clavicole, le coste e le cosce. Il suo corpo si abbandonava languidamente, in un odore misto di miele e di metallo. Un letto tiepido si spandeva sotto di lui, offrendogli una sepoltura vischiosa. Aveva l'impressione di affondare, nella terra e in sé stesso. Al contempo, provava un senso di leggerezza, di liberazione quasi spensierata. Riaprì gli occhi. Reverdi, sempre inarcato sul suo torso, urlava. Ma Marc non udiva più la sua voce. Non sentiva più il suo peso. Gli sembrava che l'assassino gli dicesse addio mentre i giganteschi alveoli della camera danzavano guardandolo partire. In un'ultima convulsione, percepì un rumore sordo. Voltò la testa. E fu abbagliato da silhouette bianche. Alcuni uomini erano penetrati nella sfera. Indossavano tute, guanti e maschere respiratorie di un biancore accecante. Sembravano cacciatori alpini con fucili mitragliatori. Marc sapeva che era troppo tardi. Aveva ormai varcato il confine. Vide Jacques Reverdi che si aggrappava a lui mentre gli uomini mascherati lo prendevano per le braccia. Sentì le sue dita affondare nella sua carne viscida. Vide le sue labbra aprirsi per articolare preghiere mute. Pensò alle grida strazianti di un padre a cui si strappa il figlio. Fu l'ultima immagine che conservò. 86. Una camera bianca. Come la sua testa. Una luce bianca. Che filtra attraverso le sue palpebre. Flash. Comete. Scie di fosforo che le attraversano la coscienza. Esplosioni accecanti che lacerano le tenebre. Lei grida. E ogni grido ne genera un altro. Più forte del precedente. Un grido nel grido. Quello della sua pelle che si tende. Quello delle sue labbra che bruciano. Quello della sua gola
che esplode. Il sogno ricomincia. Pinze d'acciaio le scoperchiano il cranio. Mani guantate penetrano all'interno, mettendo a nudo il cervello. Le sue palpebre sbattono. Inesplicabilmente, questo movimento provoca una veduta aerea dell'operazione. Vede le mani estrarre il suo cervello. Le sembra bruno, violaceo, lucido di sudore. I medici posano l'organo in una bacinella di metallo. Immagina un uovo dal tuorlo nero, palpitante. Allora capisce. Un pericolo è in agguato. Khadidja vuole urlare, prevenire i chirurghi: il suo cervello è una piovra che si avventerà contro di loro. La donna vuole gridare, ma si rende conto che è impossibile: le graffe le serrano ancora le labbra. «Khadidja?» Un volto chino su di lei. Un omino grigio che fluttua davanti ai suoi occhi. È calvo, e lei l'ha già visto da qualche parte. Si è ispirata a lui per il suo sogno. Ora vede la sua fronte da vicino: grigiastra e butterata, come pietra pomice. «Marc?» mormora Khadidja. Il dolore le divora le labbra. L'uomo sorride. Lei ha pronunciato «Ork» o «Orgh». Un suono roco. «È per via dei punti di sutura. Non parli.» Chiude gli occhi. I ricordi l'assalgono. La poltrona di ferro. L'edera d'acciaio che le serra le labbra. Reverdi e gli alveoli giganti. Khadidja riapre le palpebre e fa un nuovo tentativo: «Mork?» «È in sala rianimazione. I medici hanno fatto miracoli.» Lei chiude gli occhi. «Mork...» Ha voglia di oscurità, di pace. Ma la sua bocca brucia ancora. Filo spinato attorno a ogni sillaba. All'improvviso capisce che è sfigurata. Sviene. Passano i giorni e le notti. Gli incubi, i deliri si succedono. I ladri di cervello. «È una piovra!» Reverdi in muta subacquea, un coltello tra le dita. La febbre la divora, la consuma. Madida di sudore, svapora sotto le lenzuola. E il dolore. Il dolore che le attraversa tutto il corpo, come una creatura viva, che si desta in momenti sempre diversi, a seconda delle ore del giorno e della
notte. Una creatura irascibile, indomabile, prigioniera della sua carne, che vuole uscire attraverso le ferite appena suturate. Per esploderle in gola. Un morso atroce, una mascella invisibile che le strappa le labbra. Nuova «crisi» di coscienza. Controllata meglio. La sua stanza d'ospedale è bianca, quasi vuota. Bianco sporco le pareti, bianco argenteo le strutture del letto, bianco opaco la finestra con le veneziane. L'uomo di pietra pomice è davanti a lei. Il suo sorriso è più vicino, meno ironico. La sua presenza le provoca la stessa sensazione di un odore di farmaci. Conforto misto a inquietudine. «Le toglieremo i punti tra qualche giorno.» Khadidja non può rispondere, nemmeno reagire. È sfigurata, e lo sa. Il medico le prende dolcemente la mano: «Non si preoccupi, lei è stupenda. Alla fine non resterà probabilmente neanche una cicatrice.» Fa l'atto di guardarsi alle spalle. «Il medico che l'ha operata è il migliore. Uno dei più brillanti chirurghi plastici della Salpêtrière. Ha fatto un piccolo capolavoro.» Lei l'osserva ancora. Ogni battito di ciglia è una domanda muta. L'uomo prosegue: «Io mi sono occupato della rianimazione. Di curare le sue ferite. Erano numerose, ma superficiali. Le sue vene cicatrizzano molto rapidamente. C'erano anche le bruciature della colla, ma niente di profondo.» Le stringe leggermente la mano. «Ormai è in via di guarigione. Mi creda.» «Marc?» chiede ancora Khadidja. Adesso va meglio, il bruciore si è attenuato. «È sempre in coma. Ma si risveglierà. Abbiamo la sua cartella clinica, non è la prima volta che gli succede. Ma non corre alcun rischio, come le due volte precedenti.» «Le sue... ferite?» «Ha avuto una grave emorragia interna, ma è stato curato. Abbiamo suturato tutte le vene. Un lavoro da certosino. Sta già cicatrizzando.» Khadidja chiude gli occhi. I dolori non sono cessati, ma c'è qualcosa di gioioso nella sua sofferenza. All'improvviso le affiorano alla mente immagini riconfortanti: una casa, dei bambini, Marc... Le immagini si dissolvono: impossibile. Non avrebbero mai vissuto insieme, e soprattutto, non a-
vrebbero mai scordato la sala degli alveoli. «Re...verdi?» Il medico fa una smorfia. «Morto.» «Come?» Alza le spalle prendendo il grafico appeso in fondo al letto. «Non sono a conoscenza dei particolari.» Consulta la curva della temperatura. «La polizia verrà a farle visita. Le spiegheranno tutto loro.» Khadidja chiude ancora una volta gli occhi. I suoi pensieri si accavallano. Reverdi morto, Marc vivo: dovrebbe essere felice, tranquillizzata. Ma l'inquietudine continua a divorarla. Una torba scura che minaccia di risalire in superficie. «Non pensi troppo. Cerchi di riposarsi.» Il medico si avvia verso la porta e, giunto sulla soglia, si volta: «I capelli corti le stanno molto bene, sa?» Khadidja inarca le sopracciglia, senza capire. «I suoi capelli erano completamente incollati alla poltrona di metallo. Gli infermieri hanno dovuto tagliarglieli sul posto, mentre le somministravano l'ossigeno. Una volta qui abbiamo perfezionato il taglio», scoppia a ridere. «È la cosa di cui siamo più fieri!» Una mattina - Khadidja non ha orologi ma indovina l'ora dalle sfumature di ombra e luce sulle pareti - un uomo viene a trovarla. Capelli biondi e lisci. Un sorriso dorato, come lucidato con la cera d'api. Si presenta. È un poliziotto. Khadidja non ne afferra il nome, ha ancora dei momenti di assenza. L'uomo si avvicina. Il suo viso è lungo, dolce, abbronzato. Emana un profumo dolce. Ancora una volta lei pensa alle api, al miele. La sua gola si chiude: rivede il barattolo del miele e le pinzette... «C'erano due sistemi di sicurezza», spiega il poliziotto, scandendo le sillabe come se lei fosse sorda. «È un luogo ad alto rischio, con regole molto severe.» L'uomo si siede cautamente ai piedi del letto: la schiena incurvata, le mani giunte, il sorriso radioso. «Reverdi ha neutralizzato il primo sistema - i guardiani, gli allarmi, la rete di blocco degli accessi - ma ignorava il sistema latente: il controllo dell'atmosfera. Quando l'aria non corrisponde più agli standard prestabiliti, l'allarme si innesca automaticamente. È grazie a questo che l'abbiamo sal-
vata. È intervenuta una squadra speciale.» Khadidja cerca di ricordare il salvataggio. Vede soltanto degli uomini bianchi, mascherati, e Marc coperto di sangue. «I miei colleghi pensano che Reverdi ignorasse questo secondo sistema d'allarme. Io invece sono certo del contrario. Ma pensava di avere il tempo per "fare quello che doveva fare".» Sorride appena. «Non so che cosa vi abbia raccontato, ma si è distratto. Non ha visto passare il tempo. È questo che vi ha salvati.» Khadidja annuisce vagamente. Sul tavolino ha scorto un mazzo di gardenie. Incredibile, le ha comprato dei fiori. Un mazzo un po' sciupato che sembra un pugno chiuso. Guarda di nuovo il poliziotto, che abbozza un sorriso. Quel tipo ha fascino, ma sembra un fidanzato eternamente piantato in asso. Khadidja immagina che la sua vita sia come un fiume grigio, sul quale scorrono le occasioni mancate. Ha aperto lentamente le labbra, i punti di sutura le sono stati tolti. «L'avete... l'avete ucciso?» Il poliziotto si alza. Il suo profumo si fa più pervasivo. La biondezza si diffonde. Una colazione al miele. Lui cammina in silenzio, le mani affondate nelle tasche. Khadidja raduna le forze per pronunciare una frase intera: «L'avete... ucciso... o... no?» «Sì. Certo.» Pausa. «Ma non abbiamo trovato il corpo.» Khadidja chiude gli occhi e il panico la invade. Il poliziotto continua, come se leggesse la paura nei suoi occhi: «Aspetti. All'inizio ci è sfuggito. I nostri uomini erano impediti dalle tute e dalle maschere respiratorie. E lui invece, in apnea e a piedi nudi, è riuscito a filarsela. Nei corridoi nessuno ha osato sparargli: troppo pericoloso.» Khadidja immagina i dedali circolari, i corridoi metallici, le apparecchiature. E Reverdi, in muta nera, che scompare tra i riflessi cromati... «Ma una volta uscito dall'edificio, i tiratori l'hanno beccato. Si è preso almeno cinque pallottole nel ventre. Erano tiratori scelti, superaddestrati. Di loro ci si può fidare.» «E dov'è finito il corpo?» «Nonostante le ferite, è riuscito a oltrepassare le recinzioni, verso ovest, e a dileguarsi. Come forse lei sa, lo stabilimento si trova a Nogent-surMarne, e siamo propensi a credere che si sia tuffato nel fiume.» Il poliziotto si interrompe, si avvicina al tavolino e accarezza distratta-
mente i fiori: «Una scena abbastanza impressionante, a ripensarci: quel tipo in tenuta da sub attirato dall'acqua, come un animale che ritorna al suo elemento.» Il poliziotto strappa qualche petalo dalle gardenie. «È caduto in acqua. La sua morte è certa. È da dieci giorni che draghiamo il fiume.» Khadidja chiude gli occhi. Lui ripete ancora, come se indovinasse i suoi pensieri: «È morto, Khadidja. Non c'è alcun dubbio.» L'uomo dice ancora qualcosa, ma lei sente la voce di Reverdi nella sfera metallica: «Dove c'è l'acqua, io sono invincibile.» 87. All'inizio del mese di novembre Marc si risvegliò. Khadidja, che era già in piedi da parecchi giorni, andò a trovarlo. Lui stava nella camera accanto, ma era la prima volta che la lasciavano entrare. Quando lo vide, ebbe paura. Non per le apparecchiature che lo circondavano, né per i monitor che controllavano le funzioni del suo organismo, ma per il suo viso. Sotto i capelli tagliati a spazzola - avevano dovuto rapare anche lui, che come lei sembrava fuggito da un campo di concentramento - quella sua fronte aggrottata, cocciuta, era ancora assillata dalle tenebre. Khadidja si sforzò di sorridere, nonostante gli strappi alle labbra. Era molto dimagrito. Le ossa del viso sporgevano, accentuando le ombre della sua pelle bianca. La testa di un morto. Ma sotto i capelli rossicci, quel pallore era al tempo stesso vivo, quasi fosforescente. Pensò alle piccole lanterne confezionate nella scorza d'arancia, la cui polpa bianca brucia senza sosta. Khadidja si avvicinò. Tutte le incisioni erano coperte da bende. Sulle tempie, la gola, le clavicole, gli avambracci. E lei sapeva che ce n'erano anche altre, sotto le lenzuola. Le stesse che aveva lei. Il medico non aveva mentito: erano cicatrizzate in pochi giorni. Ironia della situazione: secondo il dottore, era stata la presenza del miele, incrostato sotto le piaghe, a favorire quella rapida guarigione. La prima frase che Marc pronunciò fu: «Non l'hanno preso. Non hanno il corpo.» Khadidja sorrise ancora, tristemente. Appena riaperti gli occhi, lui si era
fatto riprendere da quell'ossessione. Reverdi era vivo. Reverdi era sulle loro tracce. Reverdi li avrebbe distrutti... Khadidja comprese che la psicosi di Marc era un caso disperato: anche davanti al cadavere dell'assassino avrebbe continuato a temere il peggio, conferendo all'omicida poteri soprannaturali. Marc era uscito dal coma, non dall'incubo. Non ne sarebbe mai uscito. Era incurabile. Khadidja lasciò l'ospedale. Lasciò Marc, il medico grigio e il poliziotto dorato. Tutto quello che poteva ricordarle il trauma subito. Ritrovò il suo appartamento in Avenue de Ségur. La sua scrivania. La sua tesi. I suoi filosofi. Ma nulla le era più familiare. Dopo quello che aveva vissuto, le teorie filosofiche le sembravano astratte. Per non dire assurde. Per contro, fu sorpresa di essere di nuovo contattata dal mondo della moda. Non l'avevano dimenticata. Molti agenti si erano presentati per prendere il posto di Vincent. Fotografi, stilisti e agenzie le avevano telefonato. Non sapevano forse che era sfigurata? Nel mondo del «più-cheperfetto» chi poteva mai volere una ragazza dalle labbra deturpate? Khadidja si sbagliava. La sua truccatrice, Marine, fu la prima a spiegarle che nelle foto le cicatrici non si sarebbero viste. I miracoli del trucco e delle luci. Ma soprattutto il suo fisico era «di tendenza», e anche se avesse avuto una gamba di legno, i fotografi se la sarebbero cavata. Inoltre, altro fatto inatteso, con i capelli corti il suo viso aveva guadagnato forza e seduzione. La sua bellezza affilata era ora tagliente come una selce. Infine, il caso Reverdi aveva avuto una vasta eco mediatica, conferendole un briciolo di realtà, un odore di zolfo che pochissime ragazze nel suo mestiere possedevano. Khadidja non era mai stata invisibile, ma adesso era una presenza abbacinante. Per sfida, accettò i contratti. Riprese la via della luce. Molto presto, nonostante le sue risoluzioni, tornò a vedere Marc. Soltanto per solidarietà, pensava. Andava a trovarlo ogni giorno nella sua camera inondata dal sole. Ma
dopo le frasi di rito, tra loro calava un profondo silenzio. Marc si crogiolava nel proprio mutismo. Khadidja non cercava di indurlo a parlare. Sapeva che quel black-out celava pensieri inestricabili, e non ci teneva a conoscerli. Nei corridoi incontrava talvolta i medici, che la rassicuravano: Marc stava guarendo. Tra poco sarebbe potuto uscire. Ma capiva anche quello che non le dicevano: era tenuto sotto osservazione. La sua salute mentale destava preoccupazione. Marc non parlava, mangiava a malapena e dormiva moltissimo. Sembrava rifugiarsi nel sonno. Se era assalito dagli stessi incubi di Khadidja, la cosa non doveva essere molto riposante. Ma supponeva che si tuffasse volontariamente in quelle visioni. Come se fosse attratto dai suoi ricordi più cupi. Come se - e l'idea stessa la raggelò - cercasse di comunicare con Reverdi attraverso i sogni. Marc manifestava un'angoscia costante. Tramite il suo avvocato aveva richiesto la presenza di una guardia davanti alla sua porta. Il giudice istruttore non si era fatto pregare, rivelando così quello che tutti temevano: Reverdi era sopravvissuto all'irruzione a Nogent-sur-Marne. Il 12 dicembre Khadidja riuscì a incontrare lo psichiatra ufficialmente incaricato di seguire Marc Dupeyrat. Piccolo, asciutto, molto bruno, aveva una barba quadrata e accentuava certe sillabe, alla tedesca. Pulendosi la pipa, lo psichiatra dichiarò: «Non esistono malattie mentali, ma soltanto conflitti gestiti male.» Khadidja accavallò le gambe, stupita. A questo punto l'uomo cominciò a osservarla con insistenza. Aveva di certo notato le sue cicatrici. Sei piccoli buchi sopra il labbro superiore e sei sotto l'inferiore, che costellavano la sua bocca come un tatuaggio all'henné. Lei replicò: «Per quanto concerne i conflitti, penso che Marc abbia pagato il suo conto.» «Esattamente... proprio così», rispose lo psichiatra alzandosi con uno scatto dalla poltrona e mettendosi a camminare attorno alla scrivania. Poi, accendendosi la pipa, proseguì: «Marc non può assumere tutta quella violenza. La sua psiche, anziché integrarla, la rifiuta.» Esalò una boccata di fumo. «In passato sprofondava nel coma. Un campo nero. Un nastro cancellato. È per questo che dorme tanto: la sua mente si rifugia, ancora una volta, nell'incoscienza. Il suo super-Io...»
Khadidja tagliò corto con quel gergo da specialisti: «Di che cosa soffre esattamente?» Lui sorrise, come se la domanda arrivasse giusto a proposito: «Di nulla. Nessuna psicosi. Nessun problema neurologico. Si potrebbe dire che Marc soffre di realtà.» «Di realtà?» «Una regolazione sbagliata della sua psiche rispetto agli eventi. Eventi di una violenza eccezionale, certo.» «Certo.» «Ecco come stanno le cose», disse allargando le mani. «Attualmente il processo si sta invertendo. Le cose si sono spinte troppo oltre. L'aggressione di Reverdi ha distrutto le sue barriere mentali, il suo sistema di protezione. Non riesce più a tenere a distanza quella violenza.» «Concretamente, che cosa vuol dire?» Lo psichiatra si puntò la pipa alla tempia: «La violenza è entrata nel suo cervello. Lo ha invaso. Marc non riesce più a pensare ad altro. Ci sono animali che vedono agli infrarossi ma non alla luce normale. Marc non capta più la vita quotidiana. Le sensazioni semplici. La sua mente non le distingue più. È totalmente impregnato e assorbito da Reverdi e dalla sua crudeltà.» L'accento dello psichiatra le sembrava vagamente italiano. Anni prima Khadidja aveva redatto un breve saggio sull'antipsichiatria italiana. Gli anni Sessanta, Franco Basaglia. L'epoca in cui si aprivano le porte dei manicomi. Quello psichiatra doveva appartenere alla stessa scuola. «Ancora una volta», sentenziò, «non ci sono malattie mentali, ci sono soltanto conflitti...» «Se cercherete di internarlo, io...» «Non ha capito nulla. Marc ha bisogno della vita di tutti i giorni. È l'unico rimedio possibile. Esce domani.» Quando Marc rientrò a casa, Khadidja lo aspettava. La notte precedente aveva spazzato, spolverato e riordinato lo studio. Aveva così scoperto uno stanzino dove Marc teneva i suoi libri specialistici e i suoi «dossier». Non aveva saputo resistere. Si era immersa in quegli archivi. Aveva avuto l'impressione di penetrare nel cervello di Marc. Decenni di omicidi, stupri, sangue innocente versato. Testimonianze, biografie, studi psicologici: tutto era meticolosamente classificato, indicizzato. Una tassonomia della crudeltà.
Ma soprattutto, aveva trovato il dossier di Reverdi. Aveva letto le lettere, i ritagli di giornale, guardato le foto. Aveva colto la complessità della trappola tesa dall'assassino. Questo andava ben oltre lo zelo giornalistico. Marc si era incarnato nella sua macchinazione. Khadidja si era attardata sulle copie delle lettere manoscritte di Elisabeth e si era detta che quell'uomo era decisamente contorto. Perverso. Malato. Tuttavia, ancora una volta, gli accordava delle circostanze attenuanti. Aveva cercato fino all'alba un dossier «Sophie», ma non aveva trovato nulla. Nemmeno una foto, una riga sull'omicidio della «donna della sua vita». Quando Marc varcò la porta del loft, tutto era pronto. Impeccabile. Lui sorrise, la ringraziò e si preparò un caffè con una macchina cromata che lei non aveva osato toccare. Poi si piazzò davanti alla vetrata che dava sul cortile, in silenzio, con la tazza in mano. Lei capì che non avrebbe detto altro. Le regole erano stabilite. Trovarono il loro ritmo. Una coabitazione muta, fondata su una reciproca compassione. Una convalescenza condivisa consacrandola allo studio. Marc trascorreva le giornate davanti al computer. Non scriveva, viaggiava in Internet. Leggeva i giornali, i dispacci delle agenzie di stampa. Restava assorto per ore alla ricerca di un dettaglio, di una notizia che riguardasse Reverdi. Le rare volte in cui concatenava più di due frasi di seguito era al telefono con il suo avvocato. Il legale gli aveva evitato un'incriminazione per «occultamento e dissimulazione di prove» in seguito a numerose denunce provenienti dal ministero della Giustizia di Kuala Lumpur. La Malesia chiedeva persino l'estradizione. L'avvocato sperava ora di ottenere la sua assoluzione in Francia, sostenendo presso il giudice istruttore che se Marc Dupeyrat aveva commesso degli errori, li aveva già pagati. Origliando le conversazioni con l'avvocato, Khadidja aveva capito che le cose stavano mettendosi piuttosto bene, nonostante la sua responsabilità indiretta negli omicidi di Alain van Hêm e Vincent Timpani. Quanto a lei, si era sistemata un tavolo all'altra estremità del loft, dove aveva collegato il suo computer. Aveva aperto una nuova linea telefonica, riservata a Internet, grazie alla quale raccoglieva estratti di libri, citazioni filosofiche, e corrispondeva con specialisti nel suo campo. La maggior parte del tempo la trascorreva scrivendo la tesi: pagine e pagine che non era sicura di conservare nella stesura finale, ma che le permettevano sempli-
cemente di passare il tempo. Marc consultava. Khadidja scriveva. Il ticchettio delle due tastiere risuonava nel loft. Gli schiocchi di due scheletri, in piena danza macabra. E le ricerche nella Marne continuavano. Senza risultati. Nel frattempo, sopra le loro teste, si verificavano fenomeni atmosferici, grandi movimenti di masse che li riguardavano direttamente, ma che li lasciavano indifferenti. Sangue nero era sempre in testa alle classifiche librarie, sull'onda dei «recenti avvenimenti». Secondo Renata Santi, l'editrice di Marc, le vendite avrebbero superato le trecentomila copie. Marc restava impassibile, rifiutava le interviste, le copie autografate, i contatti con chicchessia. Da parte sua, Khadidja era una delle top model più contese della stagione. Molti stilisti l'avevano scelta per le loro sfilate, e da tutto il mondo le arrivavano proposte per servizi fotografici. Aveva incaricato il suo agente di accettare soltanto quelli a Parigi. Era fuori questione lasciare la Francia e abbandonare Marc. Lui: autore di un best seller, ricco, adulato. Lei: top model, principessa etnica delle tendenze a venire. Due star, smarrite e isolate in un loft del IX arrondissement. All'ombra del loro trauma, smascheravano la menzogna che fa girare il mondo. Il successo, la riuscita, il confort non hanno alcun sapore. Marc consultava. Khadidja scriveva. E le ricerche nella Marne continuavano. Senza risultati. 88. Alle nove di sera Khadidja girò la chiave del loft. Era sabato. Lei usciva da una giornata di sedute fotografiche per una rivista giapponese. Spossata e stupita dal proprio successo. Quel giorno il fotografo aveva volutamente aumentato le luci sui segni delle suture, sussurrandole, chino sull'obiettivo: «Stupende, le tue cicatrici. Sembrano quasi scarificazioni.»
A quelle parole, lei era scoppiata a piangere. Le avevano immediatamente ricordato Vincent, nessuno come lui sparava idiozie simili con l'aria ispirata. E soprattutto, nessuno come lui sapeva renderle sopportabili. Khadidja non finiva mai di scoprire quanto fosse grande la sua assenza. Ogni ora, ogni giorno accrescevano la sua pena. Quando aprì la porta aveva il morale sotto i tacchi. Per quanto avrebbe ancora sopportato quella grottesca sistemazione? Per trovarsi un alibi, si ripeté che si trattava di una terapia personale. Accettando di farsi fotografare, esibendo le proprie cicatrici, curava le ferite interiori. Reverdi era morto - e lei era viva. Lui era in fondo al fiume - lei era sulla vetta della celebrità. Quella era però la vetrina ufficiale. Al piano inferiore, negli arcani della sua coscienza, era soprattutto un modo per affrontare il proprio terrore, l'oscura certezza che Jacques Reverdi non era morto, ma si aggirava da qualche parte. Ferito. Furioso. Determinato. Se era ancora in questo mondo, allora poteva vedere le nuove fotografie di Khadidja. Viva. E in piedi. Posò il suo mazzo di chiavi nella coppetta di bronzo e si ripeté la decisione che aveva preso quel giorno: lasciare Marc. Insieme non ne sarebbero mai usciti. Di fronte all'assenza del corpo, al vuoto, si aggrappavano l'uno all'altro per puro riflesso, trascinandosi a vicenda nella loro duplice caduta. Quella sera aveva deciso di annunciarglielo. Sentiva già il suo silenzio, il suo mutismo indecifrabile. «Marc?» Nessuna risposta. Avanzò di un passo, decisa, e ripeté: «Marc?» Era là, vicino alla scrivania, raggomitolato sul pavimento. Khadidja si precipitò su di lui. Il suo corpo era duro come legno. Pensò al rigor mortis, ma la pelle era tiepida. Gli posò due dita sul collo e sentì battere il cuore lento e tenue. Non era morto: era in coma. Si precipitò verso il telefono e digitò quasi automaticamente il numero che aveva chiamato così spesso quando suo padre o sua madre erano in overdose. Mentre parlava all'addetto del pronto intervento, immaginava già il seguito: l'arrivo dei soccorsi, l'agitazione degli uomini, i loro passi pesanti nello studio. Quell'intrusione caotica che sconvolgeva l'esistenza, violava
il quotidiano, metteva a soqquadro la casa... Quella miscela di panico e speranza che era stata il suo leitmotiv all'epoca della Banane di Gennevilliers. Khadidja chiuse la comunicazione. Si rese conto che indossava ancora i vestiti del set: stivali di daino e giubbotto di pelliccia - materie organiche, crudeli, che implicavano la morte e il sangue, molto in voga quell'inverno. Materiali di circostanza, che la rendevano oscuramente più forte, più selvaggia. Ritornò verso Marc, sempre immobile, e osservò la testa rossa, incassata tra le spalle, sotto la quale aveva infilato un cuscino. Definitivamente «morto per la causa». Più che mai, la sua risoluzione era presa. L'avrebbe accompagnato in ospedale, messo in ordine la casa, e se la sarebbe squagliata al più presto. «Siamo in piena isteria.» Il medico del pronto soccorso non si era tolto il parka. Era un pezzo d'uomo, con un'enorme testa irsuta, che sembrava aver dormito vestito. Khadidja aveva appena offerto un caffè a lui e al capitano Michel, il poliziotto dorato dell'ospedale, venuto a dare aiuto. Due altri uomini portavano Marc su una barella, avvolto in una coperta scintillante. «Isteria?» ripeté lei. Il medico bevve d'un fiato il caffè bollente: «Suo marito presenta tutti i segni clinici della catatonia. Ma nessun sintomo interno. È tutto nella sua testa. In un certo senso, è una buona notizia. Ne uscirà senza problemi. Domani o dopodomani sarà di nuovo in piedi. Lo ricoveriamo al Sainte-Anne. Il suo caso interesserà i nostri amici psichiatri.» «No. Non potete portarlo in quell'ospedale.» «E perché no?» «Ascolti», cercò di spiegare Khadidja. «Marc ha già avuto problemi... psichiatrici.» «Sul serio?» ridacchiò il medico rendendole la tazza vuota. «Mi ascolti!» Aveva quasi urlato. Scese di un tono: «Se si risveglia al Sainte-Anne, le sue condizioni rischiano di aggravarsi. È appena stato curato alla Salpêtrière. Posso darle i nomi dei medici che l'hanno seguito. Tra loro c'è uno psichiatra.» L'uomo sospirò e prese il cellulare:
«Vedrò se hanno un posto.» Le ventitré. Khadidja adesso era sola. Non aveva fame. Non aveva sonno. Nella sua mente solo pensieri vuoti, senza risonanza. Decise di fare le valigie. Ma prima un po' di pulizie. Spalancò le finestre per far cambiare l'aria, rimise a posto i mobili, riordinò la scrivania di Marc, impilando i suoi appunti, le pagine stampate, spolverando la tastiera del computer. Questo semplice gesto fu sufficiente ad accendere lo schermo, in pausa. La stanza si mise a vorticare attorno a lei. Marc aveva ricevuto una mail. Era stato questo messaggio a provocare la sua nuova crisi. Sullo schermo Khadidja lesse: «Non è tutto finito.» 89. «Siamo nella merda.» Khadidja guardò l'orologio luminescente. Le due del mattino. Aveva appena spento la luce. Dopo la sua scoperta, aveva richiamato il capitano Michel, che era subito tornato. Gli aveva mostrato il messaggio e lui e i suoi uomini si erano portati via il computer di Marc. Tutto questo aveva richiesto a malapena una mezz'ora. Ed ecco che lui già la richiamava. «Siamo nella merda», ripeté. Lei fece il gesto di ravvivarsi i riccioli, ma poi si ricordò che non li aveva più. Si concentrò sul parquet scuro. «Che cosa è successo?» «Abbiamo identificato il computer e la linea utilizzati per inviare il messaggio.» Khadidja provò un dolore in fondo alla schiena. «Da dove veniva la mail? Dov'è Reverdi?» Silenzio. «Parli! Da dove ha chiamato?» «Da voi. Dal loft.» Un velo di brina ghiacciata sul viso. L'uomo continuò: «Ha utilizzato la linea telefonica che avete aperto recentemente. Quella del suo modem. I nostri specialisti sono categorici. L'autore del messaggio
ha usato il suo computer. E la sua casella postale. Per accedervi ci vuole una password?» «No.» «Non era in casa alle tre e dieci del pomeriggio?» Khadidja gli spiegò che era sul set, ma la sua voce le parve lontana. Sentiva il suo corpo diventare più pesante, il ventre scavarsi. «Non c'è alcun dubbio: è Reverdi», continuò il poliziotto. «È perfettamente nel suo stile. Pura provocazione. Vuole mostrarle che può penetrare nella sua vita senza problemi. Ho mandato degli uomini a sorvegliare la casa. Saranno da lei da un momento all'altro. Verranno anche dei tecnici. Dobbiamo metterle sotto controllo il telefono, adesso.» A tentoni, senza riagganciare, trovò l'interruttore della lampada sul comodino. Nell'esplosione di luce fu sorpresa di scoprire lo studio perfettamente in ordine. La realtà era ancora lì, solida, familiare. «Vuole che venga anch'io?» Il poliziotto glielo chiese in un tono a un tempo serio e tenero, che le ricordò il suo mazzo di fiori sgualciti. Per pura crudeltà gli fece ripetere la domanda: «Come?» «Vuole che venga? Voglio dire... di persona?» «No.» Aveva giurato di non avere più paura. Una promessa molto antica. Genesi personale. Si alzò, infilò un paio di jeans e lasciò lo spartano accampamento che le serviva da letto: un semplice materasso posato per terra, vicino al banco della cucina. Khadidja si agitò, prese a mettere ordine. Appena si fermava, una moltitudine di funesti brusii popolava il silenzio della casa. Jacques Reverdi era venuto lì. All'improvviso si fermò. E se fosse stato ancora lì? Il cuore sembrava esploderle nel petto. Iniziò una minuziosa ispezione, facendo più rumore possibile, come quando era bambina, sola in casa, e faceva sbattere le porte, alzava il volume del televisore per spaventare le ombre... Nessuno, naturalmente. Il silenzio le parve tornare alla carica. Scricchiolare. Gemere. Palpitare. Restò immobile davanti alle finestre, velate da teli bianchi. E se fosse stato in cortile? Se l'avesse osservata da una fessura delle tende? Khadidja afferrò il suo mazzo di chiavi, prese una torcia nell'armadio del
contatore elettrico e, senza esitare, uscì a piedi nudi, in jeans e maglietta. Il fascio di luce della torcia tremolava davanti a lei. I battiti del cuore le risuonavano in fondo al petto. Pensava a Marc. Non poteva più lasciarlo. Non ora. Aveva voluto abbandonarlo alla sua follia, ma se Reverdi era vivo, Marc non era più folle: era semplicemente lucido. Khadidja avanzò nel cortile. Nessuna finestra era illuminata nel palazzo di fronte. Orientò la torcia a sinistra, verso il portone. Nessuno. Udiva soltanto il rumore lontano delle auto, che a Parigi non cessa mai. E quell'odore di città, acidulo, inquinato, ma a quell'ora più dolce, più leggero. Khadidja abbassò la torcia. Aveva vinto la paura. Era tutto nella sua testa. Tutto... Quando sentì i passi urlò. La torcia le sfuggì di mano e rotolò sul suolo in discesa, per fermarsi contro le suole di un grosso paio di anfibi. «Signorina Kacem? È il capitano Michel che ci manda.» Le cinque del mattino. La notte più lunga della sua vita. I tecnici avevano finito di lavorare sui telefoni fissi, i cellulari, i computer e i modem. Lei aveva offerto loro un altro caffè - cominciava a essere pratica della macchina cromata - poi li aveva mandati via. Due poliziotti erano rimasti di guardia alla sua porta. Stremata, Khadidja aveva spento le luci e si era infilata sotto il piumino, sprofondando immediatamente nel sonno. Una nuova telefonata la strappò dal nulla. In un secondo riacquistò lucidità. «Pronto?» La fessura tra le tende era illuminata. Era sorto il sole. Lanciò un'occhiata all'orologio: le nove e mezzo di mattina. «Pronto?» ripeté con la voce carica di apprensione. «Signora Kacem? Mi chiamo Solin. Sergente Solin. Ci siamo visti al Quai des Orfèvres, ricorda?» «I suoi uomini sono già venuti.» «Lo so, sono desolato. La chiamo... Ho una notizia... Io... E va bene, tanto vale che lo sappia subito: il capitano Michel è morto.» «Mmmorto?» Non riusciva più a parlare. Le graffe sigillavano di nuovo le sue labbra. Non poteva aprirle: «Che... che cccosa è successo?»
«Dovevo passare a prenderlo alle otto. L'ho trovato a casa. Era... è stato assassinato.» «A casa sua?» «È lì che mi trovo. L'assassino l'ha colto di sorpresa mentre rientrava a casa.» Suture. Morsi. Bruciature. Si sforzò di aprire le labbra: «Ucciso da Reverdi?» Un attimo di silenzio, poi il poliziotto mormorò: «È troppo presto per...» «Qual è l'indirizzo?» Lui fece finta di non sentire e continuò la sua tirata: «...anche se, è vero, molti indizi indurrebbero a credere...» «Mi dia quel cazzo d'indirizzo!» 90. La biondezza dell'uomo era esplosa. Si era polverizzata sulle pareti, la moquette, il soffitto. Fu quello il primo pensiero di Khadidja quando entrò nell'appartamento. Il capitano Michel viveva in un palazzo moderno, in Rue de la Convention. Un tre locali con spazi quadrati, bianchi e scarsamente ammobiliati. Ma una delle stanze era stata trasformata. La sala era stata vaporizzata d'oro. L'assassino aveva spostato i mobili e piazzato la sua vittima al centro dello spazio, a torso nudo, incollato a una sedia con lo schienale di vimini. Attorno al cadavere, piccoli pani di cera naturale, le cui dimensioni andavano dai venti ai sessanta centimetri, sostenevano delle candele, alcune delle quali ancora accese. Ogni fiamma si rifletteva sui lati degli altri pani, disegnando solchi rossi. Khadidja ebbe l'impressione di penetrare in un alveare gigante. Mancava soltanto il ronzio delle api. L'odore zuccherato della cera impregnava ogni cosa, come una resina profumata. Le fiammelle stesse sembravano miele liquido, liberato della gravità, che si elevava verso il soffitto chiaro. Il poliziotto teneva la testa bassa. I suoi capelli lisci riflettevano la luce dorata, conferendogli un'aura iconica. Il sangue, che gli copriva tutto il petto, assumeva alla luce delle candele un curioso colore mordoré. «È allucinante», sospirò il sergente Solin, mentre alcuni tecnici della scientifica in tuta bianca prelevavano reperti. «L'assassino gli ha praticato
una tracheotomia. Secondo il medico, prima gli ha tappato la bocca con il nastro adesivo e poi gli ha aperto la gola. Ha quindi chiuso la ferita con una cera speciale. E gli ha fatto colare la stessa cera all'interno delle narici. Michel non poteva più respirare. Nello sforzo per trovare l'aria, ha gonfiato i polmoni, la trachea e ha riaperto la ferita. È lui stesso che, cercando di respirare, ha espulso il sangue dall'incisione. L'assassino ha presumibilmente assistito al suo dissanguamento.» Khadidja abbassò gli occhi: la pozza di sangue si allargava su un raggio di un metro attorno alla sedia. Era stupita della propria calma. Forse era per la messa in scena, l'irrealtà dell'insieme. Khadidja fluttuava in quel teatro rosso e oro senza crederci. Non poteva convincersi della sua nuova realtà: era sola. Completamente sola di fronte all'assassino. L'unico poliziotto che le ispirava fiducia era morto. E Marc non era né morto né vivo. «C'è un messaggio, da qualche parte?» «No.» «Le finestre e le porte sono state sigillate?» «No. Non ha avuto tempo per preparare la stanza fino a quel punto. È già incredibile che sia riuscito a far sedere Michel là sopra. Dietro le sue arie da angioletto, Michel non era un tipo facile, lui...» L'uomo represse un singhiozzo. Aveva un volto, una voce e dei modi disperatamente ordinari. Era senza dubbio un asso nel suo mestiere, ma Khadidja non sarebbe mai riuscita a riconoscerlo per strada. «Ma la cosa più incredibile», riprese lui dopo essersi soffiato il naso, «è che i vicini non hanno sentito nulla. Forse l'ha drogato. Le analisi ce lo diranno. In ogni caso, non può essere stato che Reverdi. Non c'è più dubbio: il bastardo è vivo.» Khadidja non si muoveva. Un freddo polare le gelava le estremità e risaliva verso il centro del corpo. Si mise a camminare, per vincere l'intorpidimento. Osservò gli uomini che scattavano foto e, con grande precauzione, soffiavano sulle candele e infilavano i pani di cera in sacchetti di plastica. «Questi pani sono un indizio», commentò il poliziotto. «Non devono essercene molti in commercio. Interrogheremo gli apicoltori e...» «Vi chiedo soltanto una cosa», intervenne lei. «Che cosa?» «Lo dirò io a Marc Dupeyrat.» 91.
«Che cosa fai?» «I bagagli. Me ne vado.» In piedi nella camera d'ospedale, Marc ripiegava le sue cose. Si era svegliato dal «coma leggero» due ore prima. «Sono al corrente.» «Come?» Con un cenno del capo indicò la porta: «Non parlano d'altro, là fuori.» «Io...» Marc le saltò addosso e le strinse le spalle: «Vi avevo avvisati, no? Ve l'avevo sempre detto. Reverdi è vivo. Faremo tutti la stessa fine.» «Non puoi uscire dall'ospedale», disse lei con un filo di voce, liberandosi dalla stretta. «Qui non sto bene.» «E dove andrai?» «Parto per l'estero.» «Per l'estero? Ma... ma i medici non ti lasceranno.» «I medici hanno bisogno del letto, e ho visto lo psichiatra questa mattina. Nessun problema. Secondo lui sono malato di realtà. Devo immergermi nella vita di tutti i giorni. Non perdiamo tempo, allora!» Khadidja giocò un'altra carta: «La polizia non ti lascerà espatriare. Sei un testimone chiave. E rischi un'incriminazione.» Marc chiuse la borsa e indossò la giacca. «Non sei aggiornata, Khadidja. La situazione è cambiata, l'avvocato mi ha risparmiato quelle grane. Avrei potuto essere implicato in Malesia. Ma qui, in Francia, sono una vittima. Una vittima! Quanto alla testimonianza, la polizia ha già la mia deposizione. Non vedo cos'altro potrei aggiungere. A parte la mia fifa attuale.» Marc fece per dirigersi verso la porta. Lei gli bloccò il passaggio. «Dove vai? Ho il diritto di saperlo!» «In Sicilia. Conosco un posto dove quel bastardo non verrà mai a cercarmi», rispose Marc con un sorriso d'orgoglio. Gli sguardi sono libri aperti. Quello di Marc era sempre stato chiuso, ma Khadidja aveva imparato a leggerne gli indizi, e capì le sue reali intenzioni.
Marc non fuggiva da Reverdi. Voleva al contrario attirarlo su un terreno che conosceva. Tendergli una trappola. Stupefatta, Khadidja si sentì dire: «Parto con te.» 92. Tutti gli autunni dovrebbero assomigliare all'autunno siciliano. Khadidja lo capì fin dall'atterraggio, l'indomani, alle cinque del pomeriggio. L'areo si tuffò nelle nuvole, poi si raddrizzò e planò in un arco di luce liquida, di una dolcezza infinita. Attraverso l'oblò, il paesaggio evaporava in pigmenti color rame, lasciando intravedere, tra i bagliori, la superficie laccata del mare indaco. Più lontano si scorgeva la riva: pianure verde limone schiarite dal sole estivo. Poi, avvicinandosi alla pista, distinse gli edifici grigi e le rocce. Il carapace dell'isola. Una pietra nera, dura e levigata, che emergeva tra le erbe bruciate. Catania. Non aveva nemmeno mai sentito il nome. Tuttavia, sulla pista di atterraggio, respirando la brezza marina, l'odore di sale e alghe, si sentì subito a casa. Si disse che l'autunno, in uno dei suoi paesi d'origine, doveva assomigliare a quella carezza tiepida. Non aveva mai messo piede né in Algeria né in Egitto, ma era di certo quell'autunno che, da quando era bambina, le scorreva nelle vene. Persino il taxi le piacque: piccolo, grigio, ammaccato, di marca ignota. Le ricordava le auto dei suoi primi amichetti, a Gennevilliers, le loro sgangherate Fiat e Lada... Sprofondò nel sedile e percepì lo scricchiolio delle molle con un fremito di felicità. A dispetto di tutto, della fuga, della minaccia, della violenza, lei era felice. Le venne in mente un'espressione che non si sarebbe arrischiata a pronunciare: «luna di miele»... Lungo la strada il paesaggio si rivelò più cupo. Nero, monotono, lugubre. Sembrava che una tempesta di cenere avesse ricoperto tutto, soffocando le colline sotto una crosta spenta. «Che cos'è successo qui?» «Niente di speciale», rispose Marc, guardando fuori del finestrino. «L'Etna è molto vicino. Le rocce sono vulcaniche.»
Allora lei lo vide. Il vulcano. In fondo all'orizzonte. Un monte nero, che sembrava attrarre le nuvole. Una vetta cupa, che le evocò i luoghi degli oracoli e dei misteri. Senza sapere perché, Khadidja captava ora una presenza antica - una storia molto remota, che palpitava ancora, distillando simboli e messaggi. Si disse nuovamente che Marc voleva attirare Reverdi in quella terra ancestrale. Voleva forse affrontarlo in cima al vulcano, tra i getti di lava? Non c'era alcun vantaggio nell'attirarlo lassù. Khadidja pensò al mare. Più assurdo ancora: era l'elemento prediletto da Reverdi. La città? Immaginò i vicoli stretti e oscuri. Marc conosceva così bene quei dedali da poter tendere una trappola all'assassino? Meccanicamente, strinse nella borsa il suo telefono cellulare. Prima di partire aveva chiamato, di nascosto, Solin. Lui aveva tentato di dissuaderla, ma dal tono della sua voce aveva capito che Marc diceva il vero: grazie al suo avvocato, la loro libertà di spostamento non era soggetta ad alcuna restrizione. Khadidja aveva promesso al poliziotto di faxargli, appena arrivata, le coordinate dell'albergo, così lui avrebbe potuto allertare le forze di polizia del luogo affinché si tenessero pronte per ogni evenienza. Anche se sembrava che i poliziotti di Catania avessero altre gatte da pelare. Quando entrarono in città, Khadidja stava ancora armeggiando con il suo cellulare. Il giorno dopo Khadidja si innamorò. Si innamorò della sua camera, in una piccola e decrepita pensione deserta in fondo a un vicolo cieco. Si innamorò dei logori motivi delle tende e del copriletto, dei porta-asciugamani e dei rubinetti d'ottone. Si innamorò dei tetti grigi, delle croci delle chiese, delle antenne satellitari in equilibrio su balconi in ferro battuto che assomigliavano ad artigli d'aquila. Khadidja si avventurò in città. Attraversò viali, vicoli e piazze, neri e tiepidi. Amava quei marciapiedi bruni e gibbosi, come forgiati dal martello di un fabbro, quei muri di pietre scure, quelle corti e quei giardini cinti da rocce laviche. Curiosamente, la roccia vulcanica accentuava ogni contrasto, sottolineava ogni dettaglio. Era come un disegno con i gessetti colorati su una grande lavagna di ardesia. Khadidja adorava anche la vita siciliana, l'agitazione della città, a un tempo chiassosa e ovattata, veemente e intima. Le piazze affumicate, macerate nell'odore dei chioschi che vendevano panini, spiedini e frutti di ma-
re. Le statue antiche, che vacillavano sui loro piedistalli attorno ai quali i bambini si inseguivano ridendo. Le pietre grigie scintillanti sotto gli acquazzoni che di tanto in tanto visitavano la città, senza mai attardarvisi. Sì, Khadidja era decisamente innamorata di Catania. E trascorreva le sue giornate a passeggio per la città, dimentica delle sue paure, della minaccia latente di Reverdi e delle reiterate assenze di Marc. Ogni mattina lo abbandonava, lasciandolo alle sue misteriose occupazioni. Marc aveva noleggiato un'auto e tutti i giorni si allontanava dalla città. Quando lei lo interrogava su quelle assenze, lui parlava di sorveglianza, sopralluoghi, protezione. Ma in fondo, Khadidja non se ne curava. Voleva approfittare appieno di quel piacevole rinvio. Persino la violenza sotterranea di Catania la attirava. La città, che vantava il più alto tasso di criminalità d'Italia, era insanguinata ogni giorno da nuovi delitti. Come la testa mozza trovata ai piedi della statua di Garibaldi. O il bar di Trappetto Nord che era stato il teatro di un massacro. Città d'ombra e di sole, Catania era anche la città della mafia. Trascorsero così una settimana. La mattina presto Marc e Khadidja si recavano in un Internet Café - avevano volontariamente rinunciato a portare il computer - dove consultavano i quotidiani francesi nella speranza di leggere la notizia dell'arresto di Reverdi. O almeno qualche novità sul caso. Ma i giornali restavano sul vago. Evidentemente, l'inchiesta non progrediva. Con il passare dei giorni, lei cominciò a seguire il caso con crescente distacco. Non ascoltava più i messaggi nella sua segreteria telefonica, ignorava i contratti che il suo agente negoziava. Ed era anche sempre più distaccata da sé stessa. Come se una malattia l'allontanasse dalla realtà; una convalescenza in cui tutto le sembrava vago, senza importanza. La vera vita era a Catania. Qui un brivido di eccitazione cristallizzava ogni istante, ogni sensazione, come lo zucchero sulle brioche con cui iniziava la giornata. La mattina Khadidja la trascorreva in una gelateria, circondata dall'odore troppo forte di caffè, leggendo i giornali italiani, di cui capiva una parola su due. La appassionavano gli articoli di cronaca nera, come il caso di quell'infermiera che passava per una santa e che aveva appena ucciso il marito con l'acido. Mentre leggeva, non cercava più risposte a domande impossibili: che cosa ci faceva esattamente qui, con Marc? A vivere con lui senza la minima tenerezza, la minima attenzione? Voleva aiutarlo, o soltanto tentare il diavolo? E lui, a che gioco giocava?
Poi, una sera, accadde. Non l'irruzione di Reverdi. Non ancora. Ma l'apparizione di Marc nel vano della porta che collegava le loro due camere. Da quattro giorni la porta non era chiusa. Da quattro notti Khadidja attendeva, sperando e temendo che si aprisse. Presentiva che sarebbe accaduto in quella città antica, patria d'oracoli, che non si accontentava di predire gli avvenimenti, ma li provocava. Una città situata ai margini del destino, dove le coscienze vacillano e gli uomini mettono in gioco la loro vita. Senza una parola, Marc entrò in camera sua. Si abbracciarono con una strana familiarità, come se la loro pelle si fosse parlata in quelle settimane durante le quali le lingue avevano taciuto. Khadidja, come al solito, era asciutta, ma i loro corpi letteralmente si fusero. Sentiva le ossa e i muscoli di Marc sotto la sua pelle. E pensava alle bolle di lava che crepitavano nei crateri in cima all'Etna. Il sudore li copriva interamente, insinuandosi in ogni piega e interstizio dei loro corpi. Le cosce di Khadidja si lubrificarono e il suo sesso si aprì come un cratere. Si umettò le dita con la saliva e se le infilò nella vagina. La bruciatura indiana diventò bruciore di lava. Marc faceva l'amore come aveva vissuto quelle ultime settimane, a denti stretti, chiuso nel suo silenzio. Khadidja non provò alcun piacere, ma lo accompagnò, come aveva fatto dalla notte di Reverdi. Senza amore, con soltanto una docile benevolenza che le veniva da lontano. In pieno atto d'amore si comportava ancora come un'infermiera. A poco a poco Marc si sollevò, piegandosi ad arco su di lei. I suoi muscoli si tesero, le anche accelerarono il movimento. Khadidja era assente. Estranea. In preda al delirio, confondeva tutto: suo padre che bruciava, il suo cervello-piovra, l'Etna che eruttava lava... Non dimenticava tuttavia di inviare i segnali convenuti, i sospiri di circostanza, le carezze obbligate, sentendo sotto le dita le innumerevoli cicatrici di Marc. La sola concessione che non poteva fargli era la bocca, ancora troppo dolente. Non l'aveva mai baciato e ora ne provava come un oscuro sollievo. All'improvviso lui si bloccò, come ricacciato indietro da una bolla di piacere che lo teneva in sospeso. Grugnì, gemette, poi, con un rantolo bestiale, crollò al suo fianco. Era un Marc tutto diverso da quello che lei conosceva, quello del giorno e della vita quotidiana. Non era certa che avesse raggiunto il piacere, l'unica certezza era la totale distensione dei loro corpi, la meravigliosa decontrazione che li appagava ora entrambi. Khadidja ebbe una rivelazione: avrebbe tranquillamente potuto morire lì,
in quella città sputata dal fuoco. Le sembrò la logica fine di un cerchio dal quale non era mai uscita. Sì: poteva morire al fianco di Marc, quell'estraneo che era responsabile della sua infelicità. Lui non si muoveva più. Khadidja percepiva il suo respiro. Breve e profondo, in cui vibrava un oscuro risentimento. Si volse verso il muro e disse: «Hai un appuntamento.» Nessuna risposta. Sfiorò la carta da parati con le unghie e ripeté: «So che hai un appuntamento con lui, qui.» Silenzio, tenebre. Alla fine si levò un mormorio: «Non ti ho costretta a venire.» Ma lei non lo udì: dormiva già. 93. Khadidja si svegliò al suono delle campane. Un rintocco grave e brusco che la destò come non era mai stata svegliata. Si sedette sul letto: Marc se n'era già andato. Tanto meglio. Pensò ai loro abbracci e all'impressione di malessere che le avevano lasciato. Non era affatto certa di amarlo, soprattutto dopo quella notte. Erano ancora allo stadio in cui si avvinghiavano l'uno all'altra sull'orlo dell'abisso. Le campane riempivano il cielo, vibravano nella luce. Khadidja si ricordò tutt'a un tratto che era domenica. Uscì dal letto, si infilò una vestaglia e guardò attraverso la doppia porta del balcone. Non aveva mai contemplato uno spettacolo così bello. Sotto i cavi elettrici, le strade si erano trasformate in colate di luce. La lava nera sembrava liquida, dorata, scintillante. E nel pulviscolo lucente, un esercito di figure avanzava in fila indiana. Uomini, ma soprattutto donne, la maggior parte delle quali erano vecchiette vestite di nero, che trottavano come formiche in direzione della chiesa più vicina. Khadidja decise di assistere alla messa. Non praticava nessuna religione - né quella delle sue origini né altre - ma quel giorno voleva assaporare la dolcezza della navata, respirare l'incenso, sfiorare i veli neri delle vecchie Indossò un maglione, una gonna e le scarpe, prese il cappotto e le chiavi
e si diresse verso la porta. Era già sulla soglia quando sentì suonare il telefono in camera. Khadidja si immobilizzò: chi poteva chiamare a quel numero? Sollevò la cornetta e mormorò, in tono esitante: «Pronto...» «Khadidja? Sono contento di trovarla.» Riconobbe subito la voce di Solin, il poliziotto dal volto anonimo. Ma la sua voce la disorientò a tal punto che non colse quello che le diceva. «Che cosa ha detto?» Si voltò verso la finestra: l'incanto si era spezzato. Le campane, le vedove, il sole - tutto sembrava perso, inaccessibile. «Abbiamo trovato il corpo.» «Cosa?» «Be', quasi. Abbiamo appena ricevuto i risultati delle analisi fatte da Michel, prima della sua morte. Nel luogo dove vi aveva portati c'era anche un inceneritore. Il giorno successivo all'irruzione, Michel aveva fatto analizzare le ceneri. Gli esami hanno richiesto molto tempo. Ci sono state delle complicazioni tecniche, ma adesso abbiamo una certezza. Quella notte è stato incenerito un corpo vivo. E i test del DNA hanno confermato che si tratta di Reverdi in persona. E pensare che continuavamo a cercarlo nel fiume! Reverdi non è mai uscito dalla fabbrica. Si è rifugiato nel forno ed è rimasto chiuso dentro. È bruciato vivo!» Khadidja voleva parlare, ma le graffe si chiusero di nuovo sulle sue labbra. Le ferite urlavano più forte della sua voce. Alla fine riuscì a balbettare: «Mmmma... mmma... che cosa vuol dire?» «C'è un altro assassino. Un imitatore... Khadidja? È ancora in linea?» Lei non rispose. Il suo peso decuplicò, si sentiva sprofondare nel pavimento. «Lei e Marc dovete assolutamente rientrare. Non costringetemi a chiedere al giudice un mandato internazionale. Ci sono degli accordi con l'Italia e... Khadidja? Che cosa succede?» Un lungo silenzio, poi lei disse distintamente: «La richiamo.» E riattaccò. Quello fu l'unico movimento che riuscì a compiere. Tutto il suo essere si era trasformato in un blocco di lava solidificata. Gli interstizi della doppia porta-finestra davanti a lei erano stati sigillati. Con fili di giunco.
Sì, Jacques Reverdi aveva un imitatore. E Khadidja divideva il suo letto con lui. La porta divisoria si aprì alle sue spalle. «L'hanno trovato?» La voce di Marc era dolce, piena di sollecitudine. Lei si disse: «Non voglio morire.» Udì la porta richiudersi. L'attrito contro il pavimento le fece capire che anch'essa era stata sigillata. Fibre di giunco, dappertutto. L'asfissia sarebbe subentrata nel giro di qualche ora. «Non è grave», continuò la voce. «Il corpo non è niente. Conta soltanto lo spirito.» «Sono Khadidja e non voglio morire», si disse di nuovo lei. Poi si voltò. Marc, con ancora il cappotto addosso, le sorrise. Nella mano sinistra aveva un sacchetto di brioche. Nell'altra, un coltello da pescatore con la lama curva. «Jacques Reverdi è morto. Ma la sua opera continua.» Khadidja indietreggiò. Le campane continuavano a suonare. Il sole, il vento, la vita - a migliaia di chilometri, dall'altro lato del vetro. Marc posò le brioche sul comodino e avanzò di un passo. La osservava da sotto il ciuffo; lei notò che i suoi capelli erano ricresciuti molto in fretta. «Nel serbatoio di reazione avevo creduto che l'ultima tappa della mia iniziazione fosse morire per mano di Reverdi. Mi sbagliavo: l'ultimo stadio, l'ultima conoscenza era diventare Reverdi. Continuare la sua opera. Jacques credeva nella sua reincarnazione, e aveva ragione.» Marc avanzò ancora un po'. Lei si appoggiò contro la porta-finestra. Le mani sulla schiena, sentiva con i palmi le fibre di giunco che fuoriuscivano dal telaio. «Non è possibile», mormorò. «Non si diventa un assassino. Non puoi essere influenzato a tal punto...» Marc sorrise di nuovo. «Ma io sono un assassino. Da sempre.» Khadidja si rifiutava di ascoltarlo. Non una parola di più. «Il rituale di Reverdi mi ha svelato a me stesso. E il mio ultimo coma mi ha restituito la memoria. Quando mi sono risvegliato è riaffiorato tutto. La verità che si celava dietro le mie altre perdite di coscienza. Sono stato io a uccidere d'Amico, il mio compagno di liceo. E ho anche ucciso Sophie, mia moglie.» Lei si disse: «È falso. È impazzito». Ma poi ripensò alla finestra sigillata alle sue spalle. E vide la griglia della ventilazione ostruita. Le fessure del
parquet tappate. Quanto tempo ci aveva messo? Ecco come trascorreva le sue giornate. Quando lei usciva, lui preparava la Camera della Purezza. Con la mano sinistra, Marc aprì il primo cassetto del comò e ne estrasse un cofanetto rivestito di cuoio che posò per terra. «Durante tutti questi anni, ho creduto di cercare un assassino. In realtà cercavo soltanto uno specchio. Il riflesso che mi avrebbe ridato la mia coerenza, la mia verità.» «Non è possibile», bisbigliò lei, senza convinzione. Inginocchiato per terra, Marc prese un vasetto contenente un liquido ambrato: miele. Un lungo pennello. Una lampada a olio, a forma di ampolla. Sorrise ancora, rialzandosi: «Ho trovato tutto questo da un antiquario, nel centro di Catania. Ci sei andata anche tu? Hanno cose molto belle...» Tolse il tappo del vasetto e aspirò il profumo. Fissando Khadidja, proseguì più speditamente: «D'Amico era omosessuale. Ha frainteso la nostra amicizia. Mi ha voluto trascinare nei bagni del liceo. Ci siamo azzuffati. Lui è scivolato per terra e io gli ho afferrato i capelli e gli ho sbattuto la testa contro la tazza del water. Poi mi è venuta un'idea. D'Amico era un tipo bizzarro, portava sempre su di sé un rasoio. L'ho trovato e gli ho tagliuzzato le vene. Ma il sangue non usciva. Gli ho fatto un massaggio cardiaco per farlo sanguinare... Sapevo che il medico legale avrebbe notato il trauma al cranio, ma avrebbe invertito gli eventi, e nella sua ricostruzione la caduta sarebbe stata successiva al suicidio. È stato allora che mi sono accorto che avevo eiaculato. La violenza, la morte, la sua umiliazione: non lo so... Una cosa era certa: amavo il sangue. Amavo l'omicidio. Ho rifiutato questa realtà. In un impeto di rabbia gli ho ficcato in bocca lo scopettino del cesso. Sono uscito dalla cabina e quando mi sono visto allo specchio sopra i lavandini sono sprofondato nel coma. Il seguito è la versione ufficiale.» Aspirò ancora il miele. Khadidja negò con la testa: «Tu non hai ucciso Sophie.» «L'ho uccisa proprio qui, in questa camera», ridacchiò lui. «Vent'anni fa...» L'abisso si spalancava davanti a lei. Khadidja si concentrò sui logori motivi delle tende, del copriletto, per ritrovare dei punti di riferimento familiari. Ma le parvero ora ostili e minacciosi. «Sophie voleva lasciarmi. Ho tentato questo viaggio di riconciliazione in
Sicilia. Ma la sua decisione era presa. Una sera mi ha persino rivelato che aveva un altro. Mi sono scagliato su di lei. L'ho presa a pugni, ma lei continuava a provocarmi, con gli occhi pesti e la bocca piena di sangue...» Marc rise ancora e assunse un tono ironico: «Le ci voleva una piccola lezione. Mi sono infilato le scarpe da ginnastica, sono uscito in corridoio e nel ripostiglio delle donne delle pulizie ho trovato dei guanti di gomma e del detersivo in polvere. Sono tornato da Sophie e ho denudato dei fili elettrici. L'ho imbavagliata, ho attaccato i fili alla corrente e l'ho sondata nelle parti intime, ovunque fosse passato l'altro. È durato a lungo. Molto a lungo. La resistenza fisica è davvero... sorprendente. Alla fine, l'ho aperta e ho sparso tutto per terra. Tanto per vedere quello che aveva nel ventre. «Poi mi sono lavato e ho messo della polvere nei guanti, per cancellare le impronte. Ho lasciato tutto com'era e sono uscito a gironzolare per le strade di Catania. Ero fuori di me. Quando sono rientrato, avevo dimenticato tutto. Ma un'indicibile apprensione si è impadronita di me. Quando l'ho scoperta, bruciata, violentata, sviscerata, ho di nuovo perso coscienza, per parecchie settimane. Poi mi sono risvegliato in Francia; non ricordavo più nulla.» Posò il flacone sul comò. Khadidja tossì: l'aria era già viziata. Le campane le martellavano ora la fronte, con crudeli risonanze. E l'odore del miele impregnava la stanza. Tutto ricominciava daccapo. Marc accese la lampada a olio. La fiamma era bluastra, incerta: anche a lei mancava l'ossigeno. «Ma questi omicidi non erano che brutte copie», riprese Marc. «Jacques Reverdi mi ha mostrato la via. Ora devo soltanto continuare la sua opera. È una seconda nascita, Khadidja.» Si chinò, allungò un braccio sotto il cassettone e ne estrasse una piccola bombola d'aria compressa, collegata a un respiratore. «Sapevi che ne facevano anche di così piccole?» le chiese rialzandosi. «L'ho trovata al porto. Questa città è decisamente piena di risorse.» Marc aprì la bombola, si provò il boccaglio e poi lo ripose. I suoi gesti erano sicuri, rapidi, precisi. Khadidja si sentiva sempre peggio. Doveva trovare una soluzione. In piena città, in quella camera, poteva uscirne. Domandò con voce stridula: «Perché hai ucciso Michel?» «Era un bravo poliziotto. Troppo bravo, per i miei gusti. Non si fidava di
me. Voleva farmi sottoporre a una contro-perizia psichiatrica. Aveva persino contattato la polizia italiana per ottenere tutti i verbali relativi alla morte di Sophie. Non potevo lasciarlo fare, capisci? Avevo un'opera da continuare. Ho inviato l'e-mail. Ho simulato l'incoscienza. Sono fuggito dall'ospedale per sorprenderlo a casa sua, dopo aver recuperato i pani di cera che avevo già comprato. Niente di troppo difficile.» Le funzioni cerebrali di Khadidja parvero disattivarsi l'una dopo l'altra. Riflettere. Doveva riflettere. E guadagnare tempo. «Ma questa notte... Dopo quello che abbiamo fatto... Come puoi?» «Ma io ti amo, Khadidja», replicò Marc con un gesto d'impazienza. «Ti ho sempre amata, fin dalla prima seduta da Vincent. È per questo che sarai la prima della serie. Anche Reverdi le amava. Lo so. L'ho capito nel corso del mio viaggio. Le amava di un amore viscerale, eterno, purificatore.» Marc avanzò verso di lei, brandendo il coltello. Il suo volto, madido di sudore, era pallido, cadaverico, come se tutto il sangue fosse defluito nel pugno serrato. «Non avere paura... Aspettiamo che la camera sia pronta, poi ti prometto che sarò delicato.» Khadidja fece un balzo, avvicinandosi al letto. Marc sorrise. «Eh no, bella mia, non devi muoverti. Altrimenti sarà molto, molto doloroso.» Khadidja si spostò ancora di un metro. La stanza non era grande - quattro metri per cinque, forse - ma c'era abbastanza spazio per giocare al gatto e al topo. China e concentrata, Khadidja riacquistò la sua lucidità. Non si sarebbe lasciata prendere. Nel migliore dei casi avrebbe tagliato la corda. Nel peggiore, avrebbe provocato una carneficina. Gli avrebbe mandato all'aria tutto il rituale, come lui stesso aveva fatto con il suo mentore. «Calmati, Khadidja, calmati...» Marc spalancò le braccia nel tentativo di sbarrarle la strada. Con le spalle al muro, lei si spostava lateralmente verso la porta. «Sbagli, Khadidja. Se continui così, la tua morte non avrà alcuna dignità. Adesso ti farò sanguinare, ti...» Lei afferrò la maniglia: bloccata. L'aveva immaginato. Marc le balzò alle spalle. Lo schivò e la lama colpì la porta. Quando Marc si voltò, Khadidja era vicino alla porta-finestra. Prese il tavolino accanto al letto e lo scagliò contro la finestra, rompendo il vetro. «NO! QUESTO NO!» Khadidja si voltò verso la porta-finestra e respirò a pieni polmoni l'aria
fresca. Afferrò quindi un angolo del copriletto per proteggersi, prese una grossa scheggia di vetro e subito si voltò. In quell'istante Marc le si scagliò contro, con il coltello in pugno. La scheggia affondò nelle sue viscere e un caldo getto di sangue bagnò le cosce di Khadidja. Lui la fissò - i suoi occhi avevano riflessi dorati ed erano bordati di giada - e restò lì, paralizzato, a pochi centimetri da lei. Un rivolo di sangue gli colava già dalle labbra, sotto i baffi. Khadidja pensò a quella bocca che aveva baciato, a quelle spalle e quel torso che aveva accarezzato e la sua determinazione raddoppiò. Scivolò fra lui e la finestra fracassata. Marc cercò di afferrarla, con braccia incerte, ma colpì solo l'aria oltre il vetro frantumato. Khadidja era all'altra estremità della camera. Osservandolo, di spalle, chino sul proprio sangue, lo rivide nudo sopra di lei. Quella immagine la elettrizzò. Urlando, si lanciò contro di lui. Sentì la schiena di Marc che si tendeva, si arcuava, e il telaio della finestra che andava in frantumi. L'urto proiettò in avanti Marc, che si trascinò dietro Khadidja. Lui rimbalzò contro il davanzale e poi si raddrizzò. Colta da un'improvvisa ispirazione, lei si gettò ai suoi piedi, gli strinse le ginocchia e, con uno sforzo sovrumano, lo sollevò. Marc precipitò, la testa in avanti, senza riuscire ad afferrare la ringhiera. Khadidja si lasciò cadere all'indietro. Era sotto shock, il respiro bloccato in gola. Trascorsero alcuni interminabili secondi durante i quali riprese coscienza del sole, del freddo e del silenzio - le campane non suonavano più. Schegge di vetro le si erano conficcate nelle mani, nelle gambe e nelle natiche. Le sembrava che le sue ferite si concentrassero in fondo al palato. E sentiva in bocca il sapore metallico del sangue. Infine si rimise in piedi e si sporse oltre il balcone. Il corpo di Marc era raggomitolato sul marciapiede, con il pugno ancora serrato. Le vecchie in nero si erano avvicinate al cadavere. Gli stretti muri accentuavano la profondità del vuoto. Un quadro nero su sfondo nero, con un'unica macchia di colore: il sangue rosso che scorreva sulle pietre, tra le grosse scarpe delle vedove. Khadidja si sporse ancora di più. Le donne facevano cerchio attorno al cadavere, come spettri. Alcune sollevarono i pallidi volti verso di lei. Il balcone oscillò. No: era lei che barcollava. Per un breve istante fu tentata di farla finita - di saltare giù per raggiungere la morte che l'aveva sfiorata così da vicino, che aveva distrutto tutto il suo universo. Ma non lo fece. Strinse la ringhiera e mormorò:
«Khadidja.» Era viva. Un cristallo di quarzo. Una rosa di sabbia. Una individualità pura. Era l'unica cosa di cui era certa. «Khadidja.» Viva. FINE