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GIOVANNI FLORIS
LA FABBRICA degli IGNORANTI LADISFATTADELLASCUOLAITALIANA
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GIOVANNI FLORIS
LA FABBRICA degli IGNORANTI LADISFATTADELLASCUOLAITALIANA
Rizzoli Proprietà letteraria riservata © 2008 RCS Libri S.p.A, Milano
ISBN 978-88-17-02486-0 Prima edizione: settembre 2008 Realizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI)
LAFABBRICA degli IGNORANTI
A Beatrice, perché pensavo che l’Università non sarebbe stata un granché. A Valerio e Fabio, perché hanno ancora tutta la Scuola da godersi. A noi quattro, finalmente.
Le idee sono la cosa più reale che esista al mondo. Albert Einstein
«Sacchi... 3W» Il professore di Italiano a Bruno Sacchi, da I ragazzi della III C
Introduzione
La professoressa di Greco entrò in classe il primo giorno di scuola e ci disse: «Iniziamo subito la lezione, perché il tem-po è l’unica cosa che nessuno potrà mai restituirvi». Il professore di Filosofa un giorno terminò la lezione di-cendo: «Domani vi spiegherò Feuerbach. Feuerbach sostiene che non è stato Dio a creare l’uomo, ma l’uomo a creare Dio». La prof di Lettere, al ginnasio, mi chiamò a sorpresa alla cattedra e mi interrogò. Alla fine, mandandomi a posto, si complimentò: «Bravo, perché non eri tanto preparato, ma ti sei buttato, e il coraggio alle volte fa buona parte del la-voro». Alle medie io e un compagno di classe ci prendemmo a botte per una cosa da poco; ci divise la bidella. Ero morti-ficato, la professoressa di Matematica (in genere piuttosto fredda e distaccata) mi prese da parte e mi tranquillizzò: «Giovanni, non ti preoccupare. Tu ti preoccupi sempre troppo». Che valore hanno questi ricordi? Che importanza hanno avuto nella mia vita questi episodi, queste parole, questi in-segnamenti, questi concetti? Il valore, per me, è inestimabi-le. Non esiste calcolo, non esiste rapporto numerico, non esiste stipendio o compenso che potrebbe pareggiare quan-to mi è stato dato queste e tante altre volte. Non esiste un valore della scuola. O meglio, «è uguale ad infinito» direbbe una prof. Chi forma un uomo, o una donna, forma l’intera società. La scuola, inoltre, non è solo studio. I miei compagni di classe sono tuttora miei amici e mia moglie l’ho conosciuta all’università. La scuola è esperienza: amicizia, amore, dolo-re, gioia, successo e fallimento. La scuola funzionerà sem-pre, anche se non funziona, perché non è fatta solo da quel-lo che possiamo soppesare, ma anche da tutto quello per cui non esiste unità di misura. E fatta, cioè, dalle singole persone. La fabbrica degli ignoranti, però, è la scuola italiana. Non è la scuola che ognuno di noi ricorda di aver frequentato, quella in cui abbiamo studiato, quella grazie alla quale ab-biamo conosciuto il mondo e noi stessi. La fabbrica degli ignoranti è la scuola italiana presa nel suo complesso, valuta-ta per quello che costa e per quello che produce, analizzata per il modo in cui gestisce le risorse umane che da essa di-pendono e che in essa si formano.
La scuola italiana la conosceremo nelle pagine che segui-ranno, in questa introduzione invece dobbiamo intenderci su che cosa intendiamo per «ignoranti». La definizione di «ignorante» che vi propongo è questa: è ignorante chi non sa farsi capire dagli altri e non riesce a comprenderli. Prima di approvarla pensateci bene, perché non si attaglia solo a chi non studia, ma anche a molti che hanno studiato tanto. Persino a chi ha studiato tantissimo, o troppo. Una persona intelligente resterà quindi sempre e co-munque intelligente, anche se non andrà oltre la quinta elementare, e un ignorante resterà tale anche se si laurea. Il punto è: a che livello vogliamo che la persona intelligente esprima le sue potenzialità? Se desideriamo che tutte le persone in gamba del Paese possano concorrere a diventare classe dirigente, o possano anche solo e semplicemente vivere meglio, bisogna dare lo-ro le armi per poterlo fare, e queste armi si chiamano: cultu-ra e sapere.
Asini 1 Di Napoleone e altre storie
Ognuno ha la sua Waterloo «Perché ho la faccia incazzata?» esordisce il giovane manager guardando torvo il suo pubblico, camminando su e giù per il palco della convention aziendale. «Ho la faccia incazzata perché respiro... sfìdùscia (sfiducia, sic)... respiro aria di aspettativa, respiro quelle facce da senso critico come quan-do uno vede le partite di pallone... non ce la fa... tutti sono professori... perché? Perché la gente legge i giornali, guarda il titolo... si rimbalza, si crea dei grandi film che sono tutte cazzate! Oggi non parlo di Alessandro...» continua restrin-gendo sempre di più il diametro del suo percorso sul palco, praticamente girando ormai su se stesso «oggi parlo di Na-poleone. Napoleone a Waterloo, una pianura in Belgio, fece il suo capolavoro: tutti lo davano per fatto, per cotto, per la supremazia degli avversari, c’aveva cinque grandissime na-zioni contro, delle forze in campo. Però strateggìa (strategia, sic), chiarezza delle idee, determinazione, forza... Napoleo-ne fece il suo capolavoro a Waterloo. Allora, le facce scetti-che, le facce de... non servono a un cazzo.» Ora, raggiunto quello che si rivelerà essere il cuore del suo discorso, fa una pausa, poi riprende, avviandosi verso il climax finale. «Questa è una delle aziende più belle che esiste al mondo. E allora, forte di questa convinzione, noi dobbiamo dimo-strare che questo è un fatto. Piangersi addosso non serve asso-lutamente a gnente (niente, sic). E come nel momento duro dagli spalti la gente ti dice: "Ehhh la squadra non gira, non corrono", bene: correte di più, stringete i denti, prova di ca-rattere. E allora dagli spalti vi applaudiranno perché voi an-drete e segnerete. Come fece Napoletone (Napoleone, sic) a Waterloo.» Il video di questo giovane e sfortunato manager che, con la calata romana, la voce un po’ arrochita, il piglio decisio-nista, la cravatta col nodone e l’orologio di (straordinario) valore al polso, racconta Al suoi dipendenti (basiti) che Na-poleone a Waterloo ha vinto, è immediatamente diventato il tormentone del web. Il giovane direttore generale della grande azienda (a quanto pare molto bravo nel suo lavoro) paga pegno per tutti, e si trova a saldare con la cultura il conto che il Paese aveva lasciato aperto da tempo. Era il 18 giugno del 1815, e nei campi vicini a Waterloo (effettivamente in Belgio) si confrontarono le truppe napo-leoniche con gli eserciti della settima coalizione, formata da Regno Unito, Austria, Russia, Prussia, Paesi Bassi, Svezia, Regno di
Sardegna e alcuni Stati tedeschi. La battaglia, una delle più cruente del XIX secolo, durò complessivamente otto ore e costò la vita a oltre 48 mila soldati: fu l’ultima combattuta da Napoleone e ne segnò definitivamente la sconfitta. Napoleone insomma a Waterloo non ha vinto, ha perso. Anzi, per dirla in termini da convention, l’Imperato-re in Belgio ha preso una suonata da paura. Teribbile. Sono però convinto che il manager in realtà sapesse come andò a finire a Waterloo. Lo sanno tutti in verità, essendo «Waterloo» la sconfitta per antonomasia, ormai un luogo comune, un modo di dire, un sinonimo di «batosta». È proba-bile che il giovane direttore generale, nell’inconscio, sapesse cosa passò l’Imperatore in Belgio, ma che non ci facesse caso, non gli importasse, lo ritenesse un particolare ininfluente e trascurabile Al fini del suo discorso. Un dettaglio inutile che può passare (ed effettivamente è passato) di mente. Alessandro Magno (diventato più confi-denzialmente «Alessandro» nel discorso), Napoleone, la guerra, il calcio, il bar, gli allenatori... avrà creduto nel profondo di sé: «Che differenza fa?». Il concetto è la riscossa dopo la sconfitta, avrà pensato, poi un nome vale l’altro. Come una stona vale l’altra. Mica siamo a scuola in fondo, mica siamo professori! Onorevole? Il manager che è inciampato su Napoletone è solo l’ultimo a finire nel tritacarne dell’esame random di cultura generale: negli ultimi tempi la gente normale si è fatta cattivella e, forse stimolata dal confronto tra la propria busta paga e quella delle persone «eccellenti», si è domandata: ma davve-ro questi qui sono meglio di me? Quando fai televisione, e per di più ti occupi di attualità, prima o poi qualcuno te lo domanda: «Ma perché non ti butti in politica?». Non è tanto la domanda che deve far ri-flettere (con quel «ti butti» che lascia perfettamente inten-dere dove andresti ad atterrare), quanto le ragioni per cui l’i-potesi di un passaggio in politica viene considerata allettan-te: «Lo sai quanto prende un parlamentare? 13.500 euro al mese 1 per premere un tasto al momento di votare! E se poi finisci all’Europarlamento, là la pacchia è completa. Per la stessa cifra lavori due giorni a settimana, e hai i biglietti ae-rei gratis!». 2 Diamo poco valore alla politica, e riteniamo valere poco chi (col nostro voto) mandiamo a fare politica; in realtà, però, se loro non sono un granché, vuol dire che non siamo un granché nemmeno noi. Soffermiamoci su di loro, i bersagli sicuramente più faci-li: i politici. La pentola fu scoperchiata da Sabrina Nobile, inviata del programma Le Iene, che ebbe l’idea di porre do-mande di cultura generale Al parlamentari che entravano e uscivano da Montecitorio. Nel mirino del programma fini-rono i cosiddetti peones, gli onorevoli meno conosciuti, quelli che nell’immaginario collettivo servono solo a preme-re i tasti al momento del voto. 3 La figuraccia fu immensa, il crollo di immagine del Pa-lazzo fu verticale. Quando l’inviata domandò chi fosse Nelson Mandela, (il leader sudafricano della lotta anti-apartheid), qualcuno ammise di non averne la più pallida idea, qualcuno cercò di scantonare la domanda sostenendo che ci fossero «diverse opinioni sulla
sua figura», un altro ne parlò come «il presi-dente sudamericano, brasiliano... anzi, scusi, intendevo su-dafricano, perdoni il capsus (lapsus, «V)». La prigione statunitense di Guantanamo, a Cuba, carcere per sospetti terroristi, da più parti accusata di violare le nor-me internazionali sulla detenzione e perciò conosciuta in tutto il mondo, per alcuni si trovava «in Iraq», per altri in «Affanighstan (Afghanistan, sic)». Un onorevole intervistato definiva l’«effetto serra» come un fenomeno di «raffredda-mento del pianeta». Una nota parlamentare non sapeva cosa fosse la Consob, l’autorità per il controllo sulla Borsa e la fi-nanza. Un altro onorevole spostava in Libano la regione afri-cana del Darfur mentre per un suo collega, esperto del tema, il Darfur era un modo di dire, sinonimo di «fare in fretta», «sbrigarsi» magari a tavola, quando è ora di mangiare. La scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colom-bo (nel 1492, come insegnano alle elementari) venne datata da un onorevole nel 1892, da un altro nel 1640; la Rivolu-zione francese (1789) invece fu anticipata al 1500. Papa Ratzinger (Benedetto XVI) diventava per una deputata Giovanni Paolo VI, nonostante la collega cercasse di correg-gerla: «Bonifacio, si chiama Bonifacio!». Naturalmente il colpo alla già provata «casta» dei politici fu terribile. Gli editoriali delle più importanti testate gior-nalistiche condannarono l’ignoranza del Palazzo, derisero i rappresentanti del popolo, ma nessuno si domandò: cosa sarebbe successo se tutti i parlamentari avessero dato le ri-sposte esatte? Chi ci saremmo trovati davanti? Il livello della politica Il 24 gennaio 2008 il voto di sfiducia al governo Prodi fu preceduto dalle liti tra senatori («Frocio, checca squallida, mafioso!») che si sputavano in faccia, e fu seguito dai brin-disi di senatori che con una mano stappavano bottiglie e con l’altra si infilavano la mortadella in bocca. Scattò subito l’allarme per il basso livello a cui erano state trascinate le no-stre istituzioni (il presidente del Senato sbottò: «Insomma, non siamo in un’osteria!»). L’allarme in realtà sarebbe dovu-to essere duplice: la scena a cui si era abbandonata la più al-ta delle due Camere avrebbe dovuto farci riflettere sul basso livello cui era arrivato il Paese che aveva eletto simili rappre-sentanti. Qual è il livello della nostra classe politica? Per saperlo bisogna innanzitutto intendersi su cosa significa «livello». Un gruppo di economisti 4 ha studiato a fondo la nostra classe politica ed è arrivato a definire una serie di «indicato-ri di qualità»: primo fra tutti il livello d’istruzione, quindi il grado di assenteismo e infine la «abilità intrinseca di genera-re reddito nel mercato del lavoro», una sorta di risposta alla domanda: «Ma se non facessi politica, cosa faresti?». Per quanto riguarda il livello di istruzione, gli studiosi ci riferi-scono che Camera e Senato, col tempo, hanno ospitato onorevoli sempre meno titolati. I deputati della cosiddetta Prima Repubblica entravano in Parlamento con un’età me-dia di 44,7 anni, nella Seconda di 48,1. Nella I legislatura (1948-1953) il 91,4 per cento dei parlamentari era laurea-to, nella XV (2006-2008) solo il 64,6 per cento. Nello stes-so periodo, negli Stati Uniti, la percentuale dei parlamenta-ri laureati cresceva dall’88 per cento al 94 per cento.
Nella Prima Repubblica era maggiore anche la statura professionale dei parlamentari. Prima del 1993 deputati e senatori, nei loro mestieri da «civili», erano tutti (dalla De all’Msi, dal Psi al Pei) operatori superiori alla media nelle ri-spettive professioni. Oggi i deputati stanno mediamente al di sotto. «Quante volte» scriveva Gian Antonio Stella sul «Corrie-re della Sera» riportando i dati di questo studio, «ci siamo sentiti dire: "Faccio politica per passione, perché economi-camente guadagnavo di più prima"? Falso. Dati alla mano, quelli che nella Prima Repubblica ci perdevano a fare il de-putato, anziché il medico, il notaio o l’avvocato, erano il 24 per cento dei democristiani, il 21 per cento dei socialisti, il 19 per cento dei repubblicani... Oggi sono solo il 15 per cento degli azzurri, l’I 1 per cento degli ulivisti, l’8 per cento dei neo-democristiani, il 6 per cento dei nazional-alleati. Gli altri, a partire dai rifondaroli per finire Al leghisti, ci guadagnano e basta.» 5 Il 29 aprile 2008 si è aperta quella che «Il Sole 24 Ore» ha definito la legislatura «dei cinquantenni, degli avvocati e dei rieletti». 6 Sono ultracinquantenni 4 deputati su 10 (4,5 i senatori); un deputato su 100 ha un’età compresa tra i 25 e i 30 anni. Le donne sono 2 su 10 alla Camera e al Senato, 4 su 10 le matricole, 6 su 10 i rieletti. Il 14 per cento dei de-putati è avvocato, così come la stessa percentuale dei sena-tori, mentre gli altri professionisti (ingegneri, architetti...) sono il 13 per cento alla Camera e il 16 per cento al Senato. Undici onorevoli su 100 sono imprenditori (12 per cento al Senato); il 13 per cento dei deputati e il 7 per cento dei se-natori sono «professionisti della politica». Per quel che ci ri-guarda è bene sapere che la quota di insegnanti e docenti è appena del 4 per cento alla Camera e del 12 per cento al Se-nato. Tra il 4 e il 5 per cento la rappresentanza di operai e impiegati. La politica che ci meritiamo In fondo strano sarebbe stato se tutti i parlamentari, persino l’ultimo peone, avessero mostrato in televisione un livello di istruzione superiore a quello del Paese che li ha eletti. Ci sa-remmo trovati davanti a una casta (quella sì) di marziani: politici teletrasportati a Roma da un mondo parallelo, da una dimensione misteriosa in cui tutti leggono i giornali e si interessano di economia e di diplomazia. Ci saremmo tro-vati davanti a dei rappresentanti del popolo che del popolo non rispecchiano il carattere, a delle élite di intellettuali no-minati da un Paese che da intellettuali non è abitato. I poli-tici intervistati da Le Iene hanno dato le uniche risposte che potevano dare. Affrontiamo la realtà: il Parlamento è come il Paese. Pre-senta delle eccellenze e delle vergogne, ed è difficile separare le une dalle altre ricorrendo Al titoli di studio. Se ci lamen-tiamo del Parlamento, vuol dire che ci lamentiamo del Pae-se. Se non ci piace il primo, dovrebbe non piacerci neanche il secondo. In fondo, sapete chi erano i politici che sbarellavano su Nelson Mandela? A rimanere vittima del capsus era stato un onorevole che di professione è primario ospedaliero; a trac-cheggiare con le «diverse opinioni» su Mandela, cercando una via di fuga, era stata una giurista d’impresa, direttrice legale di alcune multinazionali; mentre era stato un com-mercialista a preoccuparsi del raffreddamento legato
all’ef-fetto serra. Il Darfur era un fast food per un onorevole che ha insegnato diciassette anni in un istituto tecnico del Notd. Una gravidanza dura «dieci settimane» per un ex pri-mario ospedaliero specializzato in pediatria e neonatologia; mentre era stato un sociologo a definire Pyongyang (capita-le della Corea del Nord) «il dittatore coreano che sta facen-do esperimenti sulla bomba atomica». Come dire: sono onorevoli, d’accordo, ma perché non dovremmo conside-rarli anche esponenti della società civile? In realtà due deputati su tre (della legislatura sotto accu-sa) erano in possesso di laurea. I dottori erano 426, quelli che avevano mollato poco prima di laurearsi ammontavano a 204. I deputati in possesso soltanto di licenzia media ap-pena 11. 2 La società civile
L’inglish Quando fui nominato corrispondente per la Rai da New York, non parlavo bene l’inglese. Lo parlavo e lo capivo, ma non ero come quei trendissimi professionisti bilingue. Lo avevo studiato alle medie e al liceo, avevo viaggiato molto come inviato del Giornale Radio, ma avendo frequentato il liceo classico trovavo più naturale recitare con i giusti ac-centi l’Ecloga I delle Bucoliche di Virgilio (Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi...) che affrontare senza patema d’a-nimo la lettura del «Washington Post». Quando il direttore Ruffini mi comunicò che mi sarei dovuto trasferire un mese a New York per sostituire il colle-ga che andava in ferie (i fatti dell’11 settembre mi tennero poi in America per un intero anno), andammo a festeggiare in pizzeria con degli amici. Mia moglie mi prendeva in giro, immaginando George Bush che irrompeva in diretta duran-te un mio collegamento col Tg e iniziava a parlare velocissi-mo, contando sulla mia capacità di tradurlo. Nei nostri in-cubi io iniziavo a zoppicare nella traduzione, prendevo a in-ventare, Bush mi guardava basito e io facevo finta che scom-parisse l’audio, continuando a muovere la bocca tipo pesce. Infine scoppiavo in lacrime. In realtà (come sempre succe-de) , dopo pochi mesi a New York, acquistai sicurezza, sco-prii che la lingua non la conoscevo poi così male e colmai velocemente il gap che mi separava dai colleghi stranieri. Qualche tempo dopo il mio trasferimento nella sede di corrispondenza, rividi le mie paure materializzarsi nell’espe-rienza di due giornalisti appena arrivati a New
York. Li tro-vai in una stanza, piazzati davanti alla Tv che ascoltavano terrorizzati la Cnn e aspettavano il collegamento con l’Ita-lia. Nel giro di qualche minuto si sarebbero dovuti collegare con una radio privata per raccontare cosa stava succedendo in America. Il problema è che stava accadendo qualcosa di veramente strano. Ricorderete il caso di Richard Reid, il terrorista fermato mentre cercava di far saltare in aereo l’esplosivo che aveva nascosto nel tacco della scarpa. Anche se l’emittente ameri-cana aveva raccontato chiaramente come erano andati i fatti, i due giornalisti non si fidavano della loro capacità di com-prendere l’americano. I minuti passavano, il collegamento telefonico si faceva sempre più imminente e loro discuteva-no: «Ma sei sicuro? L’esplosivo nelle scarpe?» diceva uno. «Sì, ha detto così... nel tacco della scarpa...» rispondeva l’altro «o almeno mi sembra...» «Come mi sembra? Tra un po’ ci dan-no la linea...» «Aspetta, aspetta, fammi sentire... Vedi? Lo ha detto di nuovo: nelle scarpe!» «Ma come è possibile? Una bomba nelle scarpe? Trova qualcuno che ci traduca, presto!» «Aspetta, metti i sottotitoli per non udenti, così leggiamo...» «E come si mettono? Cavolo!» sbottava guardandosi intor-no. «Ma a New York non si trova qualcuno che sa l’ingle-se???!!» Intervenne un nostro collega bilingue e confermò la loro tesi, portando me e una giornalista italo-americana co-me garanti (conosciuti da entrambi, assicuravamo che la tra-duzione non fosse un tranello goliardico per farli fallire miseramente in diretta e ridere poi alle loro spalle). L’esplosivo era effettivamente nel tacco della scarpa: in uno dei momen-ti più tragici della storia contemporanea la realtà si era tra-sformata in paradosso, la cronaca (per quanto in lingua stra-niera) aveva superato la nostra immaginazione. La diretta poteva cominciare, alla faccia dell’inglese. La difficoltà dei due colleghi, la mia paura iniziale sono i dilemmi e le angosce che tormentano tutti gli italiani: l’in-glese non lo parliamo (bene). Siamo in grado di impararlo velocemente come tutti gli altri, ma non lo studiamo bene, e soprattutto viviamo in un Paese talmente chiuso in se stes-so che ci mancano le occasioni per entrare in contatto con la lingua che parla il resto del mondo. Chi vive e lavora in Ita-lia può tranquillamente convincersi che l’inglese non serva. È possibile svolgere lavori di grande responsabilità, avere in-carichi molto importanti, senza che ci venga richiesto di parlare le lingue. Un affermato professionista della nuova generazione, brillante e preparato, uno dei più autorevoli esperti del no-stro Paese nel suo campo, mi ha confessato un episodio di-vertente ed estremamente significativo. A un convegno cui era stato invitato esposero le loro relazioni diversi esperti italiani, poi si aggiunsero alcuni professori stranieri che les-sero le loro tesi in inglese. La seconda parte del convegno prevedeva una tavola rotonda in cui alcuni relatori (sei, per essere precisi: quattro italiani, un olandese e un danese) si sarebbero confrontati sui problemi aperti della loro discipli-na. Il moderatore, prima di dare il via al dibattito, precisò che la tavola rotonda si sarebbe svolta in inglese, come for-ma di cortesia verso gli ospiti stranieri. Il mio interlocutore racconta di aver cominciato a sudare freddo. Questo, gli or-ganizzatori del convegno, non glielo avevano detto! Lui era certo in grado di preparare e leggere una relazione in ingle-se, ma non si sentiva nelle condizioni di confrontarsi «a braccio» con i colleghi. Il dibattito intanto proseguiva, alcu-ni relatori citavano il suo intervento cercandolo con lo sguardo, come a dire «poi il professore
ci spiegherà...», lui faceva cenno con il capo che sì, quando sarebbe stato il suo momento avrebbe offerto tutte le delucidazioni e avrebbe risposto a tutte le osservazioni che il panel stava muovendo. Entro breve il moderatore avrebbe fatto il suo nome e gli avrebbe dato la parola. Come uscirne? «Maledetto il giorno che ho accettato quell’invito!» pensava. «Perché gli organiz-zatori di questi convegni vogliono sempre atteggiarsi ad in-ternazionali? Gli spagnoli, i greci, i portoghesi... con loro stai tranquillo, perché l’inglese lo conoscono quanto noi, e invece a rovinare tutto sono sempre questi insopportabili nordeuropei.» Alla fine capì che si sarebbe salvato solo con la fuga. Prima che arrivasse il suo turno fece finta di ricevere una telefonata, mandò un bigliettino al moderatore scusan-dosi, spiegò che la sua presenza era richiesta immediata-mente a casa, lasciò intendere che il problema fosse gravissi-mo e scappò via. «All’inglese», per l’appunto, cioè senza sa-lutare nessuno. Il moderatore successivamente spiegò le sue ragioni, tutti compresero, e lui salvò l’onore. Sia chiaro, il problema non è solo italiano. I frequentato-ri di consessi internazionali lo chiamano globish, alternativa appunto all’english, ed è quella lingua internazionale che nasce come inglese ma che, in bocca a tante persone di Pae-si diversi, si trasforma in una sorta di linguaggio nuovo, una lingua franca, semplice, povera di vocaboli, aperta Al neolo-gismi e con una struttura grammaticale fluida. In pratica, è l’inglese di chi lo sa parlare poco. È ormai talmente comune non conoscere l’inglese (non solo per gli esponenti dei Paesi citati dal nostro professionista in fuga) che la parlata che noi definiremmo «maccheronica» ha conquistato il mondo, e può capitare di trovarsi in discussioni in globish tra giappo-nesi, spagnoli, italiani, coreani e inglesi in cui gli unici a non capire sono questi ultimi, tagliati fuori dalla dilagante versione ignorant della loro stessa lingua. Resterà per sempre un cult la traduzione che i curatori del blog a lui intitolato fecero di una dichiarazione di Antonio Di Pietro, allora ministro delle Infrastrutture: «II Partito demo-cratico» recitava il comunicato in italiano «ha perso un’ottima occasione per potersi qualificare come tale». La versione inglish recitava to be able to qualify itself as democratic (qualificarsi = to qualify itself: traduzione letterale e maccheronica dall’italiano, in inglese frase senza senso, come quelle che seguiranno. La traduzione giusta sarebbe to prove itself worthy ofthe name) e continuava traducendo: «per potersi definire davvero demo-cratico deve essere aperto e pluralista, altrimenti semplice-mente non è, non esiste» con it doesn’t exist, nel più fedele ri-spetto delle commedie vanziniane («Alboreto is nothing» re-citava l’indimenticato cummenda Guido Nicheli nel primo Vacanze di Natale, sottolineando la sua abilità di pilota che lo aveva portato da Milano, via della Spiga, all’Hotel Cristallo di Cortina in 2 ore, 54 minuti e 27 secondi). Modi di dire tipica-mente italiani venivano fatti traslocare brutalmente in un’altra lingua, con un effetto da commedia all’italiana. La traduzione dipietrista era infatti un crescendo, perché «la mia esclusione dalla candidatura per la segreteria nazio-nale è semplicemente un furbo espediente per non avere tra i piedi un concorrente vero e reale» diventava a convenient smokescreen so as not to bave under their feet a true real competitor, fino ad arrivare al galattico a competitor who wouldhave broken the eggs in the basket che intendeva tradurre la
frase «un candidato che avrebbe rotto le uova nel paniere». Un passaggio da standing ovation (dove con ovation si intendono le uova, naturalmente), che rimandava al Jerry Cala che, in Vacanze in America, cerca di chiarire i propri gusti sessuali Al partecipanti alla festa gay a cui era stato er-roneamente invitato. 1 Colto in flagrante ignoranza da un indispettito Ivan Scalfarotto («Meno male che abbiamo un politico attento al futuro, uno che sta su YouTube e su Second Life, uno inter-nazionale, uno che vive in Europa...»), il furbo Di Pietro mostrò una volta ancora come una situazione sfavorevole possa essere giocata a proprio vantaggio. Concesse un’inter-vista per commentare la gaffe anglo-italiana, appollaiato su un trattore, al termine di un’intera giornata passata, disse, «a falciar via le cannucce infestanti, le piccole canne che fi-niscono nei fossi e fregano la terra al contadino». 2 Il ministro rivendicò la sua popolarissima ignoranza, spiegando che quel poco di inglese che sapeva era lo stretto necessario «per parlare, viaggiare ed ammiccare alle ragaz-ze». «Come si ammicchi in inglese non è facile da intuire...» commentava il giornalista che lo aveva intervistato. Ma la competenza linguistica alla Totò e Peppino dell’in-dimenticato nojo volevan savuàr! diventava manifesto politi-co quando l’ex pm sbottava: «Ma questi scalfarotti non han-no altro a cui pensare? E gente supponente, arrogante, con-vinta di sapere tutto, che parla in questo italiano fluido, per-fetto, con un intersecarsi di belle frasi. Che dici: "Bravo!", ma poi ti fermi e pensi: "E mo’ che ha detto?"». Di Pietro tutti i torti non li aveva, ma non c’è da ralle-grarsene. Alea iacta alè Il nostro vero problema non sono i peones politici ignoranti, che tanto alla fine fanno quello che dicono i leader (in gene-re più preparati). Il cruccio dell’Italia è che, in questo cam-po, i politici (come anche gli aspiranti magistrati) sono la perfetta espressione del Paese. Se Le Iene si fossero piazzate davanti a un ristorante o davanti a un ministero o all’uscita di un ufficio postale, avrebbero probabilmente ricevuto da-gli intervistati le stesse esilaranti risposte. Di sicuro le avreb-bero ottenute all’uscita di una scuola superiore. «L’analfabetismo c’è ma non si vede» spiega Tullio De Mauro. «Un magistrato [donna] di Firenze ci ha raccontato dei molti casi in cui i testimoni non sono in grado di legge-re la formula di rito sul dir la verità e di quanti, leggendola, arrivati alla "mia deposizione" restano smarriti (pensano a Gesù Cristo deposto dalla croce o, i più colti, a qualche so-vrano) e lei deve aiutarli e anzi, ci ha detto, ha deciso di la-sciare da parte la sacra formula e di suggerire qualcosa come Dirò la verità e so che potrò essere punito se dico il falso.»‘‘ Uno studente del liceo classico, alla professoressa che gli domandò a quale gioco in voga nell’antica Roma si riferisse Giulio Cesare quando, passando il Rubicone, sentenziò alea iacta est (il dado è tratto) rispose «le freccette». Il dottor Raf-faele Sollecito, laureato in Economia e Commercio e indaga-to per la morte di Meredith Kercher, scriveva nel memoriale dal carcere a pochi giorni dalla discussione della tesi: «Il ba-gno è sporco, ho chiesto che lo venghino a pulire». 5 Questi sono solo i primi
dei tanti esempi che Antonella Piperno e Karen Rubini utilizzano su «Panorama» per la loro ap-profondita inchiesta sulle conoscenze degli studenti italiani. Ma ce ne sono tanti altri: il verbo «allargare» diventa «allar-gare» nei temi di un istituto tecnico commerciale romano, e Paola Mastrocola, professoressa e scrittrice, racconta di aver ripristinato il dettato per i suoi alunni del liceo scientifico; «roba da seconda elementare», chiosano Piperno e Rubini. Giulio Ferroni racconta su «Panorama» di quello studen-te che «sentendo che Beatrice nel Purgatorio si presenta a Dante vestita di bianco, rosso e verde sostenne che essa "rap-presenta allegoricamente l’Italia del Risorgimento", fenome-no che [a suo dire] avrebbe avuto luogo nel ‘500», 6 o di quel-la studentessa che, alla richiesta di qualche dato sulla bibliografia manzoniana, disse che essa «non esisteva affatto», alle-gando, di fronte alla perplessità del professore, la pagina del manuale dove stava scritto che la bibliografia su Manzoni era, appunto, «sterminata», ovvero distrutta da un genoci-dio. Un altro alunno — continua Ferroni — sostenne con sicu-rezza che nel Passero solitario di Leopardi viene trattato il problema del sesso, inteso come problema «dell’uccello». Ma la fabbrica dell’ignoranza non produce solo politici o studenti scarsamente preparati. Il viaggio nelle professioni «alte» degli italiani sarà particolarmente tormentato, quindi è meglio allacciare le cinture di sicurezza. Il cane inascoltato «In tutta questa vicenda, il diretto e principale interlocutore, il cane, non è stato potuto ascoltare (sic).» Così nel 1999 un magistrato onorario chiudeva la motivazione della sentenza con cui poneva fine alla lite tra il proprietario di un dober-mann e il veterinario che gli aveva tagliato (malamente, so-steneva l’accusa) le orecchie. Silverio Marchetti ha raccolto nel suo In nome del popolo italiano 1 un brillante repertorio degli sfondoni dei giudici di pace. La giustizia civile, dimen-ticata da tutti, lontana dall’interesse dei media, concentrati sulle sfortune della giustizia penale, ha visto trasformare il giudice di pace in una sorta di magistratura minore, sebbene in questo ruolo operino laureati in Giurisprudenza, avvoca-ti, professori. Alle prese con procedure molto più complesse e farragi-nose di quelle previste dalle leggi penali, gli operatori del set-tore mettono a segno perle di rara bellezza: nei verbali dei giudici di pace raccolti da Marchetti «la possibilità dimostra-ta» diventava la «possibilità paventata», mentre in una sen-tenza riguardante un incidente stradale il giudice rilevava come «i carabinieri intervennero solo dopo il fatto» (ci manca-va che intervenissero prima!). Nei corridoi di un tribunale campano il magistrato appese un avviso in cui si avvertiva che «letto il provvedimento di rinvio della causa alla data 21.06.03 rilevato che tale rinvio veniva erroneamente dispo-sto... ecc ecc.. ritenuto dover "anticipare" l’udienza ad una data più recente...» dando sostanzialmente un appuntamen-to retroattivo. Roba da macchina del tempo. Il magistrato è la figura che più di chiunque incarna l’i-dea del Sapere: è saggio, sa discernere il Bene dal Male, sa punire o assolvere, se è il caso comprendere, comunque sa giudicare con equilibrio. Il giudice, insomma, deve Sapere. Concorso 2007 per entrare in magistratura: 380 posti da assegnare. Su 43 mila domande presentate, alla prova scritta si presentano solo 4000 candidati. Ammessi a
quella orale: 342. Di questi diventano giudici in 322, gli altri 58 posti ri-mangono vacanti. Gli aspiranti magistrati (tutti meno i 322 superstiti) si sono dimostrati troppo ignoranti per ottenere il posto, e la commissione d’esame ha preferito lasciare va-canti 58 posti piuttosto che affidare l’impiego a candidati impresentabili. Qualche esempio: il fondamento del diritto nulla poena sine lege (nessuna pena venga inflitta se non esiste una legge) diventava per un aspirante magistrato il più piccante (e dif-ficilmente traducibile) nullum pene sine lege; mentre una giovane giurista che faceva riferimento alla veperata quaestio lasciava interdetti gli esaminatori, finché uno di loro intuì che la candidata era abituata a scrivere messaggi sms con il telefonino, e quindi ad abbreviare il gruppo di lettere per di-gitando semplicemente una x. La veperata quaestio era in realtà una vexata quaestio (questione molto discussa), dal momento che la dottoressa (avendo a che fare con una com-missione d’esame) aveva pensato bene che fosse il caso di abbandonare lo slang telefonico. Bontà sua. Le indiscrezioni trapelate da chi ha corretto i compiti parlano poi di punteggiature assenti, punti, punti e virgola e due punti sparsi sui fogli come se a scrivere fossero stati i fratelli Caponi («che siamo noi»).* L’addove stava per laddove, frasi venivano interrotte a metà rigo o inserite di forza entro il margine, di modo da non essere costretti a calcolare le sillabe per andare a capo. La terza persona singolare dell’indicativo del verbo essere mancava spesso di accento, quella di avere mancava dell’h, e a un e qual seguiva sempre e comunque l’apostrofo. Riscuo-tere si imponeva a maggioranza nella versione con la q al po-sto della c. Il resto è (forse) leggenda: di la Corte dell’Aja che diventa-va la Corte dell’Ajax, o dei temi di amministrativo, che inizia-vano con citazioni classiche «finché la barca va» e «per fare un albero ci vuole un fiore», non ci sono testimonianze dirette. Le origini di questa «strafalcionaggine» di massa, così come quelle delle onorevoli figuracce, hanno ragioni profonde e non possono comportare semplicemente il pubblico ludibrio. Non siamo davanti al mero decadimento della nostra classe dirigente, ma all’espressione più ampia di uno scadimento ge-nerale dei nostri standard educativi. E solo uno dei tanti se-gnali da cui possiamo scoprire di essere diventati un Paese di ignoranti. E l’ignoranza ha un prezzo molto alto per un Paese che si ostina a immaginarsi moderno, competitivo, vincente. Avvocà... Pietro Pedicini, avvocato, è stato presidente per quattro anni di commissioni per l’esame all’albo degli avvocati a Napoli, un esame cui partecipano, va ricordato, solo candidati già laureati in Giurisprudenza. Pedicini ha valutato gli esami scritti degli studenti di Bologna e Roma. «Il livello di istru-zione generale» ci spiega 9 «è molto scarso. Al miei tempi ve-nivano esaminate 120 persone a sessione, oggi 7 mila. Giu-risprudenza spesso appare come la via più semplice per arri-vare ad una laurea e ad un mestiere, ci si iscrivono tutti, e molti riescono a laurearsi pur non avendo studiato bene; co-sì succede che almeno la metà dei candidati che si presenta-no al nostro esame è da bocciare. La cosa più stupefacente sono gli errori di ortografia dei
compiti scritti: ho letto ela-borati di dottori in Giurisprudenza in cui "un altro" era scritto con l’apostrofo o in cui le doppie venivano sbagliate. Non parliamo poi dello specifico professionale: in un com-pito in cui si parlava di usucapione, era citato il principio la-tino animus rem sibi habendi (l’intenzione di tenere il bene per sé), trasformato dallo studente in animus demme sibb abrendi, probabile trascrizione ad orecchio della soffiata di un amico. Mentre correggevo i compiti» continua Pedicini, «mi accorgevo subito se a scrivere il compito era stata una donna o un uomo: in genere le donne sono più precise e preparate, mentre i ragazzi sono un disastro. In una sessione ne abbiamo bocciati il 50 per cento, ma sia chiaro: della metà che ha superato l’esame si salvava in realtà appena il 10 per cento. Agli orali una studentessa, figlia di un avvocato e nipote di un magistrato, ci spiegò che, per quanto riguarda l’eredità, "il figlio naturale non riceve niente perché non è fi-glio a loro", dove per "loro" si intendevano i genitori.» I futuri avvocati non fecero una gran figura neanche quando a esaminarli fu Giovanna De Minico, professoressa di Diritto pubblico all’Università Federico II di Napoli. Nel 2006 De Minico ha fatto parte della commissione d’esame della Corte d’appello di Napoli per l’accesso all’albo degli avvocati. La sua commissione ha esaminato gli scritti degli studenti di Bologna, mentre nel capoluogo emiliano sono stati corretti gli scritti degli studenti di Napoli: «Si fa così per evitare imbrogli» spiega. «Alla correzione degli scritti» ci racconta De Minico, «sono rimasta colpita dalla poca conoscenza che i candidati hanno della lingua italiana. Gli aspiranti avvocati avevano problemi a fare anche una corretta divisione in sillabe delle parole, e quindi sbagliavano ad andare a capo. Molti li ab-biamo bocciati per questo motivo: chi ignora la divisione in sillabe non può neanche scrivere una lettera all’ammini-stratore di condominio. Conoscere l’italiano, o almeno le sue basi, è la prima cosa per poter svolgere alcuni mestieri, e per chi voglia intraprendere la professione di avvocato questo principio dovrebbe valere ancora di più. Tanto più che parliamo di laureati! I futuri avvocati confondevano ha verbo con