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STEPHEN KING LE VOCI DELLE COSE (The Thing They Left Behind) & JOHN FARRIS LA DONNA DEL FARO (The Ransome Women) tratti dall'Antologia DEVIAZIONI (Transgressions, 2005) a cura di ED McBAIN INTRODUZIONE Negli anni Cinquanta, quando scrivevo ancora romanzi brevi - o racconti lunghi - per i pulp magazine, tutto ciò che sapevo di quella forma letteraria era che veniva definita novelette, e che veniva pagata mezzo cent a parola. Questo significava che se avessi scritto diecimila parole, vale a dire la lunghezza media di una novelette dell'epoca, prima o poi avrei ricevuto un assegno di cinquanta dollari. Non male per un giovane autore in lotta per la sopravvivenza. Oggi una novelette, che equivale a un romanzo breve, può andare dalle diecimila alle quarantamila parole. Più lunga di un racconto (cinquemila parole), ma molto più corta di un romanzo (almeno sessantamila parole), unisce l'immediatezza del primo alla profondità del secondo e non è facile da scrivere. Anzi, data la difficoltà di questa particolare forma e la scarsa richiesta di mercato, è sorprendente che ci sia ancora qualcuno che ci si cimenti. Ma ecco l'idea brillante. Metti insieme le migliori firme del mystery, del suspense e del thriller, e chiedi a tutte un romanzo breve nuovo di zecca per una antologia superba da pubblicarsi per la primissima volta in assoluto. È un'idea splendida o no? In un mondo perfetto, sì: è un'idea meravigliosa, ed ecco qua il suo romanzo breve, signore, grazie mille per avermi chiesto di partecipare all'iniziativa. Ma molti degli autori di bestseller che ho contattato non avevano mai scritto un romanzo breve in tutta la loro vita (alcuni, neppure un racconto).
Ho visto mani alzarsi verso il cielo a simulare orrore. «Cosa? Un romanzo breve? Non saprei neppure da dove cominciare.» Altri pensavano che sarebbe stata una splendida sfida («Quanto hai detto che deve essere lungo?»), ma gli autori di bestseller sono persone molto occupate, con contratti e scadenze da rispettare, e per quanto l'invito inizialmente potesse essere sembrato eccitante, la dura realtà alzava la sua brutta testa e così... «Accidenti, grazie per avere pensato a me, ma sono già in ritardo di tre mesi sulla scadenza», oppure... «Il mio editore mi ucciderebbe, se solo mi sognassi di lavorare per un'altra casa editrice», o... «Richiamami tra un anno», o... «Hai chiesto a X? O a Y? O a Z?» Alla fine è stata solo una questione di fortuna e tempismo. In alcuni casi, un autore che volevo disperatamente aveva appena terminato un romanzo, doveva ancora cominciare quello nuovo e quindi aveva giusto un po' di tempo a disposizione. In altri aveva un'idea, insufficiente per un romanzo, ma eccessiva per un racconto, e perciò, sì, che splendida opportunità! O magari voleva presentare un nuovo personaggio al quale pensava già da qualche tempo. A tutti, comunque, il difficile compito di scrivere una fiction che andasse dalle diecimila alle quarantamila parole è sembrata una sfida eccitante, e la reazione è stata entusiasta. A parte la lunghezza e una generica aderenza al giallo, al mystery o al suspense, non ho imposto alcuna restrizione ai colleghi che hanno accettato di partecipare al progetto. I risultati sono tanto stupefacenti quanto brillanti. Le storie che state per leggere sono diverse quanto lo sono gli uomini e le donne che le hanno ideate, ma tutte dimostrano la medesima devota passione per il mestiere e un medesimo straordinario livello di scrittura. Aspetto ancora più importante, in questi lavori c'è la sensazione sottotraccia che l'autore stia tentando qualcosa di nuovo e di inaspettato. E che abbia voglia di condividere le sue stesse sorprese con noi. I romanzi brevi vengono presentati secondo l'ordine alfabetico inverso dei cognomi degli scrittori. Non ho preferenze. Mi piacciono tutti. Divertitevi! Ed McBain Weston, Connecticut Agosto 2004
STEPHEN KING LE VOCI DELLE COSE STEPHEN KING Non appena salta fuori il nome di Stephen King si ripetono certe costanti. Ci si chiede quante copie abbia venduto. Che cosa abbia fatto nella e per la letteratura. Un particolare che non viene mai sottolineato - e forse neanche capito - è che King ha avviato da solo l'evoluzione del romanzo popolare moderno. Più di qualsiasi altro autore di bestseller fin dai tempi di John D. MacDonald, ha saputo infondere realismo nella narrativa di genere descrivendo la vita degli abitanti di immaginarie città del New England, nate dal nulla grazie a un meticoloso talento per il dettaglio. E così, romanzi come It, L'ombra dello scorpione, Insomnia e Mucchio d'ossa, contaminati da un gusto smaccato per l'orrore soprannaturale, hanno conquistato anno dopo anno i vertici delle classifiche. King ha spesso fatto notare come Le notti di Salem sia «un'unione di Dracula e I peccati di Peyton Place». Come volevasi dimostrare. La ricca caratterizzazione, la precisa e acuta critica sociale, l'attenzione alla trama e assieme alla psicologia dei personaggi hanno dimostrato ai suoi colleghi che si potevano scegliere archetipi logori quali vampiri o fantasmi e lustrarli a nuovo. Prima del suo successo, i tentativi di scrivere libri seri da parte degli autori di bestseller venivano immancabilmente cassati dal responsabile editoriale di turno. Roba così rallenta solo la trama, si ripeteva. Be', è proprio la «roba così» che ha reso King tanto famoso, e che ha liberato la narrativa popolare dai ceppi del genere. Stephen King è il maestro dei maestri, e di recente lo ha dimostrato ancora una volta terminando il suo capolavoro fantasy, La torre nera. Le cose di cui voglio parlarvi - le cose che loro si lasciarono dietro spuntarono nel mio appartamento l'agosto del 2002. Ne sono sicuro, perché ne scoprii la maggior parte poco dopo aver aiutato Paula Robeson con il suo condizionatore. La memoria ha sempre bisogno di un aggancio, ed ecco il mio. Lei era un'illustratrice di libri per ragazzi, graziosa (d'accordo, decisamente carina), sposata con uno che lavorava nell'import-export. Un uomo non deve faticare molto per ricordarsi di quando ha soccorso una leggiadra donzella in difficoltà (anche una che continua ad assicurare di essere «sposatissima»). Simili occasioni sono sempre troppo poche, e in
genere il prode cavaliere è solo d'impaccio. Paula era nell'androne, distrutta, proprio mentre scendevo per la passeggiata pomeridiana. La salutai, Ehi, buona giornata, come con gli altri inquilini del palazzo, e lei mi chiese con un tono esasperato e quasi gemebondo perché l'amministratore del condominio doveva essere in vacanza proprio in quel momento. Le feci notare che gli amministratori vanno in ferie così come le mandriane hanno i pollici enormi; quell'agosto, poi, sembrava un momento perfetto per tagliare la corda. In agosto a New York (e anche à Paris, mon ami), gli psichiatri, gli artisti alla moda e gli amministratori di condominio si contano sulle dita di una mano. Non sorrise. Probabilmente non colse neanche la citazione da Tom Robbins (l'essere criptici è la vera maledizione di noi lettori accaniti). Rispose che poteva anche essere vera la faccenda di agosto, di piantare tutto per Cape Cod o Fire Island, ma il suo fottuto appartamento stava prendendo fuoco e il suo fottuto condizionatore non si sprecava neppure a emettere un ruttino. Le chiesi se voleva che ci dessi uno sguardo, e ricordo ancora come mi squadrò, con i suoi occhi freddi e indagatori. Occhi così probabilmente ne vedono di cose, pensai. E ricordo che sorrisi alla sua domanda: sei un tipo a posto? Mi fece tornare in mente un film, non Lolita (Lolita venne dopo, circa alle due del mattino), ma quello dove Lawrence Olivier si improvvisa dentista con Dustin Hoffman mentre continua a chiedergli Tutto a posto? Certo, risposi. È almeno da un anno che non molesto una donna. Prima mi capitava due o tre volte la settimana, ma la terapia di gruppo mi sta aiutando. Una stupidaggine, ma mi sentivo stupido. Mi sentivo in vacanza. Mi squadrò una seconda volta e poi fu il suo turno di sorridere. Si presentò. Paula Robeson. Mi porse la mano sinistra, con l'anello d'oro in evidenza; non la destra, come di solito. Non si trattò di un caso, che dite? Solo in seguito mi informò che il marito lavorava nell'import-export. Quando toccò a me chiederle assistenza. In ascensore le dissi di non aspettarsi troppo. Però, se mai avesse avuto bisogno di qualcuno che le spiegasse le cause scatenanti delle rivolte della leva di New York o qualche divertente aneddoto sull'antivaiolosa, o che addirittura sviscerasse le implicazioni sociologiche del telecomando (la più grande invenzione dell'ultimo mezzo secolo, secondo la mia modestissima opinione), be', allora avrei potuto esserle davvero d'aiuto. Si occupa di ricerche, signor Staley?, chiese dentro quel trabiccolo lento
e sferragliante che ci portava in alto. Ammisi di sì, senza aggiungere che era un lavoro nuovo per me. Non la pregai nemmeno di chiamarmi Scott: sarebbe solo servito a spaventarla di nuovo. E certamente non le confessai che stavo cercando di scordare ogni singola nozione sui beni rurali e relative assicurazioni. In realtà, stavo tentando di dimenticare parecchio altro, comprese un paio di dozzine di facce. Eppure, vedete, continuo a ricordare quasi tutto. Succede, quando ci applichiamo (o anche se non lo facciamo, che è peggio). Mi torna persino in mente un romanziere sudamericano, insomma, uno di quelli del realismo magico. Il nome non è importante quanto la citazione: Da neonati, conseguiamo la nostra prima vittoria quando riusciamo ad acchiappare un pezzettino di mondo, di solito rappresentato dalle dita di nostra madre. Anni dopo capiamo che sono il mondo, e le cose di questo mondo, ad aver sempre cercato di acchiapparci. Borges? Forse. Potrebbe anche essere Remarquez, per quel che ne so. Sul serio, questo non lo ricordo. Rammento solo che riparai il condizionatore e che il suo viso si illuminò quando l'aria fredda cominciò a uscire dalla grata. Ricordo anche che il nostro punto di vista cambia radicalmente quando scopriamo di essere tenuti da ciò che crediamo di tenere. Tenuti come prigionieri, magari - Thoreau era di questo avviso - ma anche tenuti assieme. È un compromesso, e piuttosto onesto, Thoreau o non Thoreau. O così pensavo allora. Adesso non ne sono tanto certo. E ricordo che tutto capitò nel tardo agosto del 2002, a meno di un anno di distanza da quando il cielo ci crollò addosso e niente fu più lo stesso. Una settimana dopo che Sir Scott Staley aveva indossato la sua cotta da buon samaritano e sconfitto il feroce condizionatore, iniziai la mia passeggiata pomeridiana diligendomi verso lo Staples sull'Ottantatreesima per comperare una risma di fogli e una scatola di cd vergini. Avevo promesso a un amico quaranta pagine sull'invenzione della Polaroid (una vicenda più affascinante di quanto possiate pensare). Quando ritornai nel mio appartamento, notai un paio di occhiali con la montatura rossa e le lenti di una forma strana sul tavolino dell'ingresso dove di solito appoggio ricevute, conti da pagare, avvisi della biblioteca e roba del genere. Non appena li riconobbi, le forze mi abbandonarono. Non caddi a terra, ma i pacchi mi scivolarono di mano e mi appoggiai allo stipite per riprendere fiato, continuando a fissarli. In mancanza della porta, probabilmente sarei venuto meno come la giovinetta di un romanzo vittoriano, quelli in cui il vampiro bramoso di sangue si materializza allo scoccare della mezzanotte.
Diventai preda di due sensazioni correlate ma ben distinte. La prima, la vergogna terribile che ti assale quando capisci che verrai sorpreso a commettere un atto altrimenti ingiustificabile. In questo preciso caso, mi riferisco a quello che capitò - o quasi capitò - quando avevo sedici anni. Mia madre e mia sorella erano andate a far spese a Portland e io ero convinto di avere la casa a mia completa disposizione fino al tardo pomeriggio. Me ne stavo tranquillamente sdraiato a letto con un paio di mutandine di mia sorella avvolte intorno all'uccello. Le lenzuola erano coperte di fotografie che avevo ritagliato dalle riviste scovate sul retro del garage, vecchi numeri di Penthouse e di Gallery con ogni probabilità appartenuti al precedente inquilino. Di colpo sentii il rumore degli pneumatici sulla ghiaia del vialetto. Riconobbi subito il rombo del motore: erano già di ritorno. Peg si era beccata l'influenza e aveva cominciato a vomitare fuori del finestrino. Erano arrivate fino a Poland Springs e avevano fatto marcia indietro. Fissai le foto sparse ovunque, i vestiti disseminati sul pavimento e il batuffolo rosa di tessuto sintetico che stringevo nel pugno. Ricordo come le forze mi abbandonarono, sostituite da una strana, terribile calma piatta. Mia madre stava urlando a squarciagola - «Scott, Scott, scendi a darmi una mano, Peg sta male» - e io pensai: «A che serve? Sono in trappola. Tanto vale che lo accetti, d'ora in poi penseranno a me in questi termini, per il resto della vita... Scott, il grande segaiolo». In momenti simili, però, subentra l'istinto di sopravvivenza. Potrò anche capitolare, decisi, ma non senza difendere la mia dignità fino allo stremo. Buttai foto e mutandine sotto il letto. Balzai dentro i vestiti, muovendomi come un burattino ma veloce e preciso, continuando a pensare a Corsa contro il tempo, quel vecchio stupido gioco a premi che tanto mi piaceva. Ricordo che scesi e che mamma mi sfiorò le guance paonazze e mi guardò preoccupata. «Forse anche tu ti stai ammalando», mi disse. «Può darsi», risposi, contento come una pasqua. Mezz'ora dopo scoprii che mi ero dimenticato di abbottonarmi la patta. Fortunatamente nessuna delle due se ne accorse, altrimenti mi avrebbero chiesto se avessi intenzione di mettere su un baracchino di hot dog (a casa mia un'osservazione simile sarebbe passata per ironia). Quel giorno mamma era troppo preoccupata e Peg troppo malata per dare prove di fine umorismo. Così me la cavai senza nessuna conseguenza. Gran colpo di fortuna.
A seguire la prima sensazione, quel pomeriggio d'agosto, un pensiero molto più semplice: stavo diventando pazzo. Perché gli occhiali con la montatura rosa non potevano essere lì. Assolutamente no. Figuriamoci. Manco per idea. Poi alzai lo sguardo e notai qualcos'altro che prima non c'era, non quando ero uscito per andare da Staples (chiudendo la porta a chiave, come sempre faccio). Appoggiata nell'angolo tra il cucinotto e il soggiorno, una mazza da baseball. Della Hillerich e Bradsby, a giudicare dall'etichetta. E pur non potendo controllare, ero certo che dalla parte opposta ci sarebbe stato scritto LIQUIDATORE DI DANNI, le parole marchiate a fuoco con la punta di una saldatrice e poi colorate in blu scuro. Una terza ondata mi investì, un disagio surreale. Non penso che i fantasmi esistano, ma di sicuro in quel momento avevo l'aria di chi ne aveva appena visto uno. E mi sentivo allo stesso modo. Già. Perché quegli occhiali non sarebbero dovuti essere lì. Via, spariti, e da un bel pezzo, come cantano le Dixie Chicks. Lo stesso valeva per il Liquidatore di Danni di Cleve Farrell («Io aaaaaamo il baseball», Cleve ripeteva ogni tanto, mulinando la mazza mentre si sistemava dietro la scrivania, «però ooooodio le assicurazioni»). Feci la prima e unica cosa che mi venne in mente, cioè afferrai gli occhiali da sole di Sonja D'Amico e raggiunsi l'ascensore tenendoli saldi in mano ma ben lontano da me, come si potrebbe fare con qualche schifezza trovata sul pavimento dopo una settimana di vacanza, che so, un topo morto avvelenato o un avanzo di cibo andato a male. Mi accorsi di rammentare una conversazione su Sonja che avevo avuto con un certo Warren Anderson. Sembrava quasi che pensasse di tornare su per chiedere un bicchiere di Coca, mi era venuto in mente non appena lui aveva raccontato lo spettacolo al quale aveva assistito. Mentre bevevamo al Blarney Stone Pub sulla Terza, ecco dove e quando, più di un mese dopo che il cielo era crollato. Dopo che avevamo brindato alla nostra sopravvivenza. Ricordi così ti rimangono appiccicati in testa, che tu lo voglia o no. Come una frase con un certo ritmo o il coretto di una canzoncina che non vogliono saperne di sparire. Ti svegli alle tre del mattino, pronto per una pisciata, e mentre sei immobile davanti alla tazza del cesso con il pisello in mano e il cervello ancora addormentato per il novanta per cento, ecco che ricompare: Sembrava quasi che pensasse di tornare su per chiedere un bicchiere di Coca. A un certo punto della conversazione, Warren mi domandò se mi ricordassi di quegli stupidi occhiali che indossava sempre, e
io risposi di sì. Certo che sì. Quattro piani più in basso, Pedro il portiere prendeva il fresco all'ombra della pensilina e chiacchierava con Rafe, il tipo della FedEx. Pedro era un vero bastardo con i fattorini che si piazzavano davanti al condominio - aveva imposto una regola ferrea di sette minuti di sosta, non uno di più, orologio da tasca alla mano per garantire la precisione, e vantava come amici tutti i poliziotti del circondario - ma andava d'accordo con Rafe e di tanto in tanto i due se ne stavano tranquilli per una mezz'oretta, vicini vicini, a spettegolare in puro stile newyorkese. Politica? Baseball? Il vangelo secondo Henry David Thoreau? Non ne avevo idea e quel giorno non avrebbe potuto imporrarmene di meno. Li avevo visti quando ero salito con il mio pacco di cancelleria ed erano ancora lì non appena uno Scott Staley decisamente meno spensierato scese dall'ascensore. Uno Scott Staley che aveva appena scoperto una crepa piccola ma non trascurabile nelle fondamenta della realtà. Mi avvicinai e mostrai a Pedro la mano con gli occhiali. «Secondo te che cosa sono?» gli domandai, senza grazie né prego, tuffandomi nella conversazione a gamba tesa. Lui mi lanciò un'occhiata pensosa che stava a significare: «La sua scortesia mi sorprende, signor Staley, davvero», poi abbassò lo sguardo sul mio palmo. Per un attimo rimase in silenzio e un orribile pensiero si fece strada dentro di me: Pedro non diceva nulla perché non c'era niente da vedere. A parte la mia mano tesa, un po' come se ci trovassimo nel Paese dell'Incontrano e mi aspettassi che fosse lui a darmi la mancia. E il palmo era vuoto. Certo, per forza, gli occhiali da carnevale di Sonja D'Amico non potevano esistere. Erano spariti, e da un bel pezzo. «Signor Staley, per me sono un paio d'occhiali», azzardò Pedro alla fine. «Che altro, se no? O è una domanda a trabocchetto?» Rafe, che pareva più interessato dell'amico, me li prese di mano. Il solo vederlo mentre li controllava e li studiava fu per me una fonte di sollievo, come se qualcuno mi avesse grattato quel punto tra le scapole che non manca mai di prudere. Si scostò dalla pensilina e li alzò alla luce del sole, facendo risplendere come stelle le lenti a forma di cuore. «La ragazzina di quel porno con Jeremy Irons ne aveva un paio simili», sentenziò. Sogghignai anche se attanagliato dal disagio. A New York, persino gli uomini delle consegne si atteggiano a critici cinematografici. È uno degli aspetti della città che non posso fare a meno di amare.
«È vero, Lolita», dissi, riprendendomi gli occhiali. «Però le lenti a forma di cuore erano nella versione diretta da Kubrick, quando Jeremy Irons non era neanche un pupetto.» L'ultima frase non aveva molto senso, persino per me, ma non me ne fregava Una Beatissima Sega. Di nuovo mi sentivo stupido e leggero, ma non bene, non come prima. Non ora, non adesso. «Chi interpretava il pedofilo in quello che dice lei?» chiese Rafe. Scossi il capo. «Cristo, non lo ricordo.» «Mi perdoni, signor Staley», intervenne Pedro, «ma lei mi sembra un po' pallido. Non è che si sta ammalando? Magari le sta venendo l'influenza.» No, quella se l'era presa mia sorella, pensai di rispondere. Sarebbero bastati altri venti secondi per venire sorpreso a masturbarmi con le sue mutandine mentre fissavo una fotografia della playmate di aprile. Però ero scampato al pericolo, in quell'occasione e persino alla data fatidica dell'11 settembre. Vi ho fregati, ho vinto di nuovo la corsa contro il tempo. Non saprei dirvi di Warren Anderson, che al Blarney Stone mi aveva confessato che quella mattina si era fermato a chiacchierare degli Yankees con un amico del terzo piano, ma per me scampare al pericolo era diventata una specialità. «Sto bene», risposi a Pedro. Non era vero, ma rendermi conto che non ero l'unico a vedere gli occhiali di Sonja mi rincuorò almeno un po'. E se non erano frutto della mia immaginazione, forse non lo era neppure la mazza di Cleve Farrell. «Sono loro?» chiese Rafe con un tono di voce pieno di rispetto e pronto a trattenere il fiato. «Hanno usato proprio questi per il primo Lolita?» «No», dissi, piegando le stanghette, mentre il nome dell'attrice del film di Kubrick tornò come in un lampo. Sue Lyon. L'identità del pedofilo ancora mi sfuggiva. «Giusto un'imitazione.» «Sono speciali?» continuò lui. «Per questo è sceso di corsa?» «Non ne ho idea. Qualcuno li ha lasciati nel mio appartamento.» Tornai di sopra prima che partisse con altre domande e mi guardai attorno, sperando di non notare nulla di nuovo. E invece. Oltre agli occhiali e alla mazza da baseball con LIQUIDATORE DI DANNI marchiato a fuoco si erano materializzati il cuscino scoreggione di Howie, una conchiglia corniola gigante, una moneta da un penny d'acciaio della seconda guerra mondiale dentro un blocco di resina e un fungo di ceramica (rosso a puntini bianchi) con un'Alice, sempre di ceramica, seduta sopra. Il cuscino scoreggione era di Jimmy Eagleton e ogni Natale diventava l'anima della festa. L'Alice con il fungo faceva bella mostra di sé sulla scrivania di Mau-
reen Hannon - un regalo della nipote, mi aveva confidato una volta. Maureen aveva stupendi capelli candidi lunghi fino ai fianchi. Particolare curioso in un ambiente lavorativo, ma lei era un'impiegata della compagnia da almeno quarant'anni e si sentiva in diritto di pettinarsi come più le piaceva. Mi ricordavo bene del penny e della conchiglia, ma non in quali uffici (prefabbricati o in muratura) si fossero trovati. Forse mi sarebbe venuto in mente, forse no. C'erano un sacco di celle e cellette alla compagnia di assicurazioni Light and Bell. La conchiglia, il fungo e il blocco di resina erano appoggiati sul mio tavolo in un mucchietto ordinato. Il cuscino scoreggione faceva bella mostra di sé - un buon abbinamento, pensai subito - sulla vaschetta dello sciacquone, accanto a un numero di un bollettino sulla valutazione e l'assicurazione dei beni rurali. Era il mio campo, come penso di avervi detto. Ne conoscevo ogni trucco. In questo caso, il trucco dov'era? Quando la vita prende una brutta piega e senti il bisogno di sfogarti, in genere ti viene di farlo con un parente. Non che avessi una simile scelta. Mio padre aveva tagliato la corda quando io avevo due anni e mia sorella quattro. Mamma, che era una donna tutta d'un pezzo, non si era data per vinta e ci aveva tirati su mentre coordinava da casa un servizio di ricerche via corrispondenza. Un lavoro che credo avesse inventato dal nulla e che rendeva abbastanza bene (anche se il primo anno fu disastroso, mi confessò poi). Purtroppo, aveva il vizio di fumare come un turco ed era morta di cancro ai polmoni a quarantacinque anni, senza sapere che nel giro di poco più di un lustro l'avvento di Internet avrebbe potuto trasformarla in una miliardaria telematica. Mia sorella Peg viveva a Cleveland, dove era diventata un'adepta delle vendite di cosmetici porta a porta, degli Indians e dei cristiani fondamentalisti, pur non necessariamente in questo ordine. Se l'avessi chiamata per raccontarle che cose avevo trovato nel mio appartamento, mi avrebbe risposto di inginocchiarmi e di pregare Gesù perché entrasse nel mio cuore. A torto o a ragione, non ritenevo che il figlio di Dio avrebbe potuto risolvere il mio problema. Disponevo di un buon numero di zii, zie e cugini, ma quasi tutti vivevano a ovest del Mississippi e in ogni caso non li vedevo da anni. I Killian (la famiglia di mamma) non erano mai stati dei compagnoni. Un biglietto d'auguri il giorno del compleanno e uno a Natale venivano considerati la
sola incombenza necessaria. Al massimo, un altro a San Valentino o a Pasqua. Quando per Natale telefonai a mia sorella, o forse mi cercò lei, borbottammo le solite idiozie del genere «prima o poi dobbiamo vederci», e riattaccammo con un reciproco senso di sollievo. Opzione numero due: se uno è nei guai invita a bere un conoscente, gli spiega la situazione e gli chiede un consiglio in merito. Però io sono sempre stato timido, fin da ragazzo, e con il lavoro di ricerca che faccio sto spesso da solo (preferisco così) e non ho colleghi che con il tempo possono diventare amici. Ne avevo nella mia occupazione precedente, Sonja e Cleve Farrell, per esempio, ma adesso loro sono morti. Pensai che, in mancanza di un vero amico con cui chiacchierare, è sempre possibile affittarne uno. Quasi sicuramente mi sarei potuto permettere uno psichiatra, e un paio di incontri sdraiato sul lettino (quattro, forse) sarebbero bastati a spiegare ciò che era successo e a raccontare come mi sentivo. Quanto mi sarebbero costate quattro sedute? Seicento dollari? Ottocento? Neanche tanto per un po' di sollievo. Con un vantaggio in più: un perfetto estraneo avrebbe potuto fornirmi una spiegazione semplice e razionale che io non riuscivo a scovare. A quanto ne sapevo, la porta chiusa a chiave del mio appartamento non permetteva un gran numero di alternative, ma non era proprio il mio giudizio a costituire il nocciolo del problema? Pianificai ogni particolare. Nel corso della prima seduta, avrei spiegato l'accaduto. In occasione della seconda, mi sarei ricordato di portare gli oggetti in questione: gli occhiali da sole, il blocco di resina, la corniola gigante, il fungo di ceramica, il popolarissimo cuscino scoreggione. Un po' di osserva, sperimenta e impara, come a scuola. In tal modo, mi sarebbero rimaste ancora due sedute con l'amico in affitto per capire come mai la mia esistenza era finita sottosopra e per rimetterla nel giusto verso. Un pomeriggio passato a telefonare e a sfogliare le pagine gialle bastò a dimostrare che la mia idea era ottima in teoria, ma pessima in pratica. Il massimo che riuscii a ottenere fu la vaga promessa di un appuntamento a gennaio con il dottor Jauss da parte della sua segretaria, non senza una ramanzina su quanto sarebbe stato difficile inserirmi in lista. In quanto agli altri, lasciamo perdere. Pollice verso con una dozzina di professionisti di Newark, di quattro a White Plains, persino di un ipnoterapista del Queens. Mohamed Atta e il suo commando suicida avevano sicuramente scatenato tutto il loro oooooodio per la città di New York (e per una compagnia di
assicurazioni in particolare), ma dopo le telefonate avevo capito per chi erano stati una manna, che gli psichiatri lo volessero o meno. Se nell'estate del 2002 il tuo sogno segreto era un lettino, non ti rimaneva che prendere un numero e metterti in coda. Non dormivo molto bene assieme agli oggetti apparsi nel mio appartamento. Sentivo i loro sussurri. Restavo sveglio nel letto, talvolta fino alle due del mattino, a pensare a Maureen Hannon, convinta di avere raggiunto un grado di anzianità (e un basso rischio di licenziamento) per portare i capelli lunghi quando le andava. Oppure mi tornavano in mente i colleghi durante il buffet di Natale, intenti a passarsi il cuscino scoreggione di Jimmy Eagleton. Era l'anima della festa, come probabilmente ho già detto, mentre ci si avvicinava all'anno nuovo a forza di brindisi. Bruce Mason, per esempio, mi chiese se non sembrava una sacca da clistere per elfici («elfici», disse, non elfi). Grazie a una semplice associazione d'idee, mi ricordai che la corniola gigante era sua. Bruce Mason, come no, il Signore delle Mosche. E dopo un'altra associazione meno canonica, mi passarono per il cervello il nome e la faccia di James Mason nella parte di Humbert Humbert, quando Jeremy Irons non era neanche un pupetto. La mente è una scimmia dispettosa: qualche volta mangiare banana, qualche volta no, bwana. Per questo avevo portato di sotto gli occhiali, anche se al momento non ne ero ancora conscio. Per avere una conferma. Citando una poesia di George Seferis, sto ascoltando le voci dei cari estinti o è soltanto un grammofono? Può essere una buona domanda, soprattutto da porre agli altri. E poi... e poi, statemi a sentire. Una volta, nei tardi Ottanta, vicino alla fine di un amaro idillio con l'alcool durato due anni, mi svegliai nello studio dopo essermi addormentato alla scrivania nel mezzo della notte. Arrancai fino alla stanza da letto dove, mentre allungavo la mano sull'interruttore, vidi muoversi qualcuno. Venni assalito dall'impressione (quasi dalla certezza) che in casa si fosse intrufolato un tossico con una calibro 32 comperata per due soldi al banco dei pegni, stretta nelle dita tremanti, e il cuore mi balzò in gola. Accesi la luce con una mano mentre con l'altra cercavo di afferrare un corpo contundente dal ripiano della cassettiera, qualsiasi cosa, persino la cornice d'argento con la foto di mia madre, quando mi accorsi che il vero problema ero io. Stavo fissando il mio riflesso sullo specchio dalla parte opposta della stanza, le pupille dilatate per lo spavento, la camicia mezza fuori dai pantaloni,
i capelli arruffati. Mi diedi dell'imbecille, ma provai un enorme sollievo. E adesso pretendevo che andasse così. Volevo incolpare lo specchio, il grammofono, persino uno sconosciuto disposto a giocarmi un tiro di pessimo gusto (e che magari sapeva perché quel giorno di settembre non ero andato in ufficio). Niente da fare. Il cuscino scoreggione era ancora lì nel mio appartamento, più vero del vero. Potevo passare il pollice sulle fibbie delle scarpe di Alice, far scorrere l'indice sulla scriminatura dei capelli di ceramica gialla. Leggere la data incisa sulla monetina dentro il blocco di resina. Bruce Mason, ovvero l'uomo della Corniola Gigante, ovvero il Signore delle Mosche, un giorno di luglio portò la sua conchiglia rosa a un picnic di colleghi a Jones Beach e ci soffiò dentro, chiamandoli a raccolta perché facessero onore al banchetto di hamburger e hot dog. Poi cercò di insegnarlo a Freddy Lound, che riuscì unicamente a prodursi in una cacofonia stonata simile... vabbe', simile alle pernacchie del cuscino scoreggione di Jimmy Eagleton. Giro girotondo. Alla fine, qualsiasi associazione d'idee si attorciglia come il filo di una collana. Alla fine di settembre fui colpito da un fulmine, da un'idea così semplice che ti chiedi perché non sia arrivata prima. Come mai tenevo in casa quella paccottiglia disgustosa? Perché non me ne liberavo? Nessuno me l'aveva affidata o prestata; i legittimi proprietari non ne avrebbero mai preteso la restituzione. L'ultima volta che avevo visto la faccia di Cleve Farrell era stampata su un manifesto, destinato a scomparire assieme ad altri nel novembre del 2001. Anche se nessuno era disposto ad ammetterlo, si pensava che simili omaggi alla memoria potessero allontanare quei turisti che avevano ricominciato ad affollare il Paese dei balocchi. È stato orribile, riconoscevano gli abitanti di New York, ma l'America ha resistito e comunque Matthew Broderick non rimarrà in eterno ad attirare file di spettatori con The Producers. Quella sera ero passato a ritirare la cena da un ristorante cinese che mi piaceva a circa due isolati da casa. Volevo gustarmela come d'abitudine davanti alla televisione, mentre Chuck Scarborough mi svelava il significato del mondo. Stavo accendendo l'apparecchio quando arrivò la rivelazione. No, non si trattava di un prestito, e non erano neanche prove. Va bene, d'accordo, era stato commesso un crimine, ma i colpevoli erano morti e i mandanti in fuga. Certo, ci sarebbero stati dei processi, ma Scott Staley non sarebbe stato chiamato a testimoniare, né il cuscino scoreggione di
Jimmy Eagleton catalogato come Reperto A. Abbandonai il mio pollo alla Generale Tso sul ripiano della cucina senza neanche scartare la confezione d'alluminio, afferrai una borsa per la roba sporca dallo scaffale sopra la lavatrice che raramente usavo, ci infilai dentro tutta la paccottiglia (quasi non potevo credere a come fosse leggera o a quanto avessi aspettato prima di risolverla così facilmente) e mi catapultai in ascensore con il sacco infilato tra i piedi. Raggiunsi l'incrocio tra la Settantacinquesima e Central Park, buttai uno sguardo attorno per assicurarmi che nessuno mi spiasse (Dio solo sa perché mi sentissi così colpevole) e gettai tutto in un cestino dell'immondizia. Mentre mi allontanavo, mi girai per un'ultima occhiata. Il manico della mazza da baseball occhieggiava invitante fuori del contenitore. Qualcuno se la sarebbe portata via, senza dubbio, addirittura prima che Chuck Scarborough cedesse il posto a John Seigenthaler o a chiunque altro quella sera sostituisse Tom Brokaw. Sulla strada del ritorno, mi fermai al Fun Choy per una nuova porzione di pollo. «Quello prima no buono?» chiese Rose Ming alla cassa, chiaramente preoccupata. «Spiega perché.» «No, andava benissimo», risposi. «È che stasera mi andava di farmene un altro.» Lei scoppiò a ridere come se fosse la battuta più divertente del mondo, e io la imitai. Di gusto. Mi uscì il tipo di sghignazzo che va oltre il buon umore. Era da tanto che non mi capitava, non in modo così naturale e gioioso. Almeno da quando la compagnia d'assicurazione Light and Bell si era sgretolata lungo tutta la Ovest. Presi l'ascensore fino al piano e salii i dodici gradini che mi separavano dal 4B. Capii come può sentirsi un ammalato grave quando un bel giorno si sveglia, si controlla alla luce ristoratrice del mattino e scopre che la febbre è finalmente sparita. Mi infilai il sacchetto del cinese sotto il braccio sinistro (una manovra difficile ma non impossibile) e feci scattare la serratura. Accesi la luce. Sul tavolino dell'ingresso dove di solito appoggio ricevute, conti da pagare e avvisi della biblioteca, c'erano gli occhiali da sole di Sonja D'Amico, quelli con la montatura rossa e le buffe lenti da Lolita a forma di cuore. Sonja D'Amico che, secondo Warren Anderson (l'unico altro sopravvissuto della Light and Bell, per quanto ne sapessi), era saltata dal centundicesimo piano del grattacielo in fiamme. Mi giurò di aver visto una sua foto mentre si buttava, con le mani a reggere pudicamente la gonna perché non salisse fino alle cosce, i capelli che si stagliavano contro il fumo e il blu del cielo di una giornata fatidica, le punte delle scarpe verso
il basso. Una descrizione che mi fece pensare a Falling, la poesia di James Dickey sulla hostess che cerca di centrare uno specchio d'acqua, come se potesse tornare a galla con un sorriso, scuotendo le gocce dai capelli bagnati e chiedendo un bicchiere di Coca-Cola. «Ho vomitato», mi confessò Warren quella sera al Blarney Stone. «Non voglio guardare un'altra fotografia così in tutta la mia vita, Scott, ma non la dimenticherò mai. La sua espressione, e la sicurezza... sì, la sicurezza che in qualche modo si sarebbe salvata.» Da adulto non ho mai urlato, ma ci andai vicino spostando lo sguardo dagli occhiali di Sonja al LIQUIDATORE DI DANNI di Cleve Farrell appoggiato con naturalezza nel solito angolo tra soggiorno ed entrata. In qualche modo mi ricordai che la porta d'ingresso era spalancata e che entrambi i vicini del quarto piano avrebbero udito un mio eventuale grido, e allora sì che avrei dovuto fornire delle ottime spiegazioni, come si suol dire. Mi bloccai portando una mano alla bocca. Il sacchetto con il pollo piombò sul parquet dell'ingresso ed esplose. Riuscii a dare appena un'occhiata al pasticcio che avevo combinato. I pezzi scuri di carne cotta sarebbero potuti essere di tutto. Mi afflosciai sull'unica sedia dell'entrata, il viso tra le mani. Non urlai e non piansi e dopo un po' cominciai a pulire il pavimento. La mente cercava di vagare verso la paccottiglia che mi aveva preceduto lungo il ritorno dall'incrocio tra il parco e la Settantacinquesima, ma mi dimostrai ferreo. Ogni volta che ci provava, afferravo saldo il guinzaglio e la trascinavo lontano. Quella notte, a letto, restai in silenzio ad ascoltare. Prima iniziarono a parlare gli oggetti (con un tono basso), poi si unirono i loro proprietari (con la voce appena più alta). Chiacchieravano del picnic a Jones Beach: l'odore di cocco della crema solare, Mambo Number Five di Lou Bega in rotazione continua dal portatile di Misha Bryzinski. Discutevano dei frisbee che roteavano in cielo e venivano rincorsi dai cani. Eaccontavano dei bambini che razzolavano nella fanghiglia sabbiosa con i pantaloncini e i costumi da bagno fradici di acqua di mare, le madri in due pezzi stile hawaiano con il naso coperto di crema bianchiccia a sorvegliarli. Quanti di loro avrebbero poi perso una mamma guardiana o un padre lanciatore di frisbee? Dio, era un calcolo che non avevo intenzione di fare. Le voci del mio appartamento, invece, pretendevano una soluzione. Non volevano
fermarsi. Ricordai Bruce Mason che soffiava dentro la conchiglia e gridava di essere il Signore delle Mosche. Maureen Hannon mentre mi diceva (non a Jones Beach, non in quell'occasione) che Alice nel paese delle meraviglie poteva essere considerato il primo romanzo psichedelico. Jimmy Eagleton intento a confessarmi, durante un pomeriggio qualunque, che suo figlio soffriva di un disturbo dell'apprendimento oltre a essere balbuziente, due al prezzo di uno, e che avrebbe avuto bisogno di un insegnante di sostegno in matematica e di un altro in francese per finire il liceo entro un tempo ragionevole. «Insomma, prima di godere dello sconto per anziani sui testi scolastici», concludeva Jimmy, le sue guance pallide con un'ombra di barba sotto la luce che precedeva il tramonto, come se quella mattina la lama del rasoio avesse perso il filo. Stavo per addormentarmi, ma l'ultimo ricordo mi fece alzare di soprassalto. Mi resi conto che la chiacchierata con Eagleton risaliva a poco prima dell'11 settembre. Qualche giorno al massimo. Addirittura al venerdì precedente, forse l'ultima occasione in cui vidi Jimmy ancora vivo. E il ragazzino con la balbuzie e il leggero ritardo mentale: si chiamava Jeremy, come Jeremy Irons? No, no, di certo, un altro scherzo del cervello (qualche volta mangiare banana, qualche volta no, bwana), ma sembrava un nome simile, accidenti. Jason, forse, o Justin. Nelle prime ore del mattino tutto si ingigantisce. Se scopro che era davvero Jeremy, pensai, è la volta buona che impazzisco. Signore e signori, ecco la famosa goccia che fece traboccare il vaso. Intorno alle tre mi tornò in mente il proprietario del blocco di resina: Roland Abelson, della valutazione rischi. Diceva che il penny di metallo era il suo fondo pensione. Era sua la frase: «Lucy, dammi un'ottima spiegazione». Una sera dell'autunno del 2001, vidi la sua vedova al notiziario delle sei. Ci avevo chiacchierato assieme a un picnic della compagnia (quasi sicuramente a Jones Beach) e l'avevo trovata abbastanza graziosa, ma il lutto aveva portato alla luce una bellezza austera. Nel corso del telegiornale, continuava a sostenere che il marito era «scomparso», non «morto». Se era davvero vivo - se mai fosse saltato fuori - avrebbe dovuto fornire un'ottima spiegazione, poco ma sicuro. E lo stesso valeva per lei. Una donna che da passabile diventa bella dopo una strage ha certamente qualche segreto da nascondere. L'immobilità a letto con la testa colma di pensieri - il rombo della risacca sulla spiaggia, i frisbee a solcare il cielo - mi riempì di una tristezza in-
finita che si sfogò in pianto. Odio ammetterlo, ma imparai una nuova lezione. Quella notte compresi che le cose - anche le più piccole, come una monetina imprigionata nella resina - diventano sempre più pesanti con il passare del tempo. Però, visto che si tratta di uno scherzo del cervello, non esiste una formula matematica per quantificarlo, come le regole che trovi nei prontuari delle compagnie d'assicurazioni, dove il premio della tua polizza sulla vita aumenta di x se hai il vizio del fumo e la copertura sul raccolto sale di y se la tua fattoria è stata costruita in una regione soggetta a trombe d'aria. Mi capite? È un peso che nasce dalla mente. La mattina successiva radunai di nuovo tutti gli oggetti, scovandone un settimo sotto il divano. Il collega di fianco a me, Misha Bryzinski, aveva sulla scrivania due piccole marionette di Punch e Judy. Strizzando gli occhi, riuscivo a vedere Punch vicino a un piede del sofà. Judy era chissà dove, ma lui mi bastava e avanzava. Le sue pupille nere, intente a fissarmi tra i riccioli di sporco, mi fecero precipitare in un profondo disagio. Lo tirai fuori, odiando la scia di polvere che si lasciava dietro. Se qualcosa segna una traccia, significa che pesa e che esiste realmente. Nessun dubbio in proposito. Lo ficcai assieme al resto della paccottiglia nel ripostiglio dopo il cucinotto. Nulla si mosse o si spostò, anche se sulle prime non ne fui così sicuro. Una volta mia madre mi disse che se un uomo si pulisce il culo e nota delle macchie di sangue sulla carta igienica, come reazione cercherà di cagare al buio tutto il mese successivo, sperando per il meglio. Usava questo esempio per illustrare la sua teoria sui fondamenti della filosofia maschile, ovvero «ignoralo e forse se ne andrà». Iniziai così a non dare troppo peso agli oggetti trovati per casa, a sperare per il meglio, e in effetti l'angoscia sembrò alleviarsi. Raramente sentivo le voci che arrivavano dal ripostiglio (tranne che durante la notte), anche se di solito svolgevo la mia occupazione lontano dall'alloggio. Da metà novembre in poi, ero quasi sempre alla biblioteca civica. La presenza mia e del Powerbook diventò una consuetudine per i leoni di pietra, ne sono certo. Poi, appena prima del giorno del Ringraziamento, davanti all'ingresso del mio palazzo mi imbattei in Paula Robeson, la leggiadra pulzella che
avevo soccorso premendo il pulsante della memoria interna del condizionatore. Senza nessun secondo fine - se ci avessi pensato sopra, non avrei proferito verbo - le chiesi se potevo offrirle il pranzo e magari scambiare un paio di chiacchiere. «Perché ho un problema», le dissi esattamente. «E forse stavolta potrebbe esserelei a schiacciare il mio tasto della memoria.» Eravamo nell'entrata. Pedro il portiere era seduto in un angolo a leggere il New York Post, ma cercava di non perdersi neanche mezza parola: per lui gli inquilini dello stabile erano gli attori dello sceneggiato più divertente del mondo. Paula Robeson mi lanciò un sorriso compiaciuto e assieme nervoso. «Le devo un favore», rispose. «Ma... sa che sono sposata, vero?» «Sì», dissi, senza ricordarle che la prima volta mi aveva dato la mano sinistra in modo che notassi l'anello. Abbozzò un cenno del capo. «Già, deve averci visti insieme almeno un paio di volte, ma mio marito era in Europa quando mi sono trovata nei guai con il condizionatore, e ci è tornato anche adesso. Si chiama Edward. Ormai è più all'estero che a casa, un particolare che non mi va a genio, ma nonostante tutto sono innamoratissima e sposatissima.» Poi, quasi soprappensiero, aggiunse: «Edward lavora nell'import-export». Io nel ramo assicurazioni, ma un bel giorno la sede della compagnia è saltata in aria, pensai di replicare. Arrivai vicinissimo a farlo, in effetti. Alla fine optai per una risposta più sensata. «Non voglio chiederle di uscire con me, signora Robeson.» E non intendevo neanche darle del tu. Fu un'ombra di disappunto quella che le balenò negli occhi? Dio, probabilmente sì. In ogni caso, la convinsi. Rimanevo un tipo a posto. Lei si piazzò le mani sui fianchi ostentando esasperazione; fingendo o meno, non saprei dirlo. «E allora?» «Ho bisogno di parlare con qualcuno. Ho provato a contattare parecchi strizzacervelli ma sono tutti... occupati.» «Tutti?» «Così pare.» «Se ha problemi con la sua sfera sessuale o prova un irrefrenabile desiderio di scorrazzare per la città a massacrare uomini con il turbante, non voglio neanche ascoltarla.» «No, no. Non è nulla che possa farla arrossire.» Che era diverso dall'af-
fermare Prometto di non turbarla o Lei non mi prenderà per pazzo. «Un invito a pranzo e la preghiera di un piccolo consiglio da parte sua. Non chiedo di più. Che ne dice?» Rimasi sorpreso (meglio, atterrito) dal mio potere di persuasione. Se avessi pianificato la conversazione in anticipo, probabilmente avrei rovinato tutto. Invece la incuriosii, mettendo in evidenza la sincerità del mio tono di voce. Forse lei arrivò alla conclusione che, se proprio avessi voluto sedurla, l'avrei fatto quel giorno d'agosto mentre eravamo soli nel suo appartamento, con l'inarrestabile Edward in Francia o in Germania. E poi, chissà quale disperazione lesse nei miei occhi. A ogni modo, accettò di pranzare con me il giorno seguente, venerdì, al Donald's Grill appena giù dalla via. Uno dei locali meno romantici dell'intera Manhattan: luci al neon, cibo senza pretese, camerieri che sono contenti se ti sbrighi a mangiare. Paula Robeson accettò la proposta con l'aria di chi deve saldare un debito ormai quasi dimenticato. Non era così gratificante, ma poteva bastare. Mezzogiorno andrà benissimo, mi confermò. Se ci troviamo all'entrata, passeggeremo assieme fino al ristorante. Le dissi che per me era perfetto. Quella notte andò bene. Mi addormentai quasi subito, senza sognare Sonja D'Amico che si lanciava dal grattacielo in fiamme con le mani sui fianchi, come una hostess in picchiata su uno specchio d'acqua. La mattina successiva, mentre ci incamminavamo lungo l'Ottantaseiesima, chiesi a Paula dove si trovava quando aveva sentito le prime notizie. «A San Francisco», rispose. «Addormentata come un sasso in una suite dell'Hotel Wradling, con Edward che sicuramente russava di fianco. Il 12 io sarei dovuta arrivare a New York, e mio marito a Los Angeles per una serie di appuntamenti. La direzione dell'albergo azionò addirittura l'allarme antincendio.» «Deve essersi presa una bella paura.» «Sì, anche se non pensai subito alle fiamme, ma a un terremoto. Poi dagli altoparlanti uscì una voce gracchiante per informarci che ad andare a fuoco non era l'albergo, ma i grattacieli di Manhattan.» «Cristo santo.» «Venirlo a sapere così, nel letto di una stanza che non è la tua... una voce che rimbomba dall'alto come fosse quella di Dio...» Scosse la testa. Le sue labbra erano così serrate da nascondere ogni traccia di rossetto. «Mi spaventai a morte. Capisco il bisogno impellente di diffondere la notizia, ma
non ho ancora perdonato la direzione del Wradling. Non credo ci metterò mai più piede.» «Suo marito arrivò in tempo agli appuntamenti?» «Vennero annullati. Assieme a molti altri, almeno penso. Restammo a letto con la televisione accesa, cercando di capirci qualcosa. Sa che cosa intendo?» «Certo.» «Ci domandammo se poteva essere stato coinvolto qualcuno che conoscevamo. Anche qui, non diversamente da molti altri.» «E la risposta?» «Un broker della Shearson Lehman e il vicedirettore della libreria Borders nel centro commerciale. Uno dei due ne uscì illeso. L'altro... be', l'altro no. E lei che mi dice?» Non ero stato obbligato a usare nessun sotterfugio per introdurre l'argomento. Non eravamo neanche arrivati al ristorante ed eccolo, servito su un piatto. «Io sarei potuto essere lì», risposi. «Anzi, avrei dovuto. Lavoravo in una compagnia d'assicurazioni al centundicesimo piano.» Paula Robeson si bloccò di scatto sul marciapiede, sgranò gli occhi e mi fissò a fondo. Le persone che dovettero scansarci per continuare la marcia probabilmente ci scambiarono per due innamoratini. «Scott, no!» «Oh, sì, Scott», replicai. E finalmente raccontai a qualcuno di quando mi svegliai l'11 settembre, sicuro che mi sarei comportato come qualsiasi altro giorno lavorativo, dal caffè nero mentre mi radevo alla cioccolata davanti al notiziario di mezzanotte sul Canale 13. Un martedì normale, né più né meno. Penso che ogni americano lo consideri un proprio diritto. Be', indovina un po'. Lassù c'è un aereo! E punta dritto contro un grattacielo! Ah ah ah, coglione, te l'abbiamo fatta, e mezzo mondo sta ridendo alle tue spalle! Le raccontai che mi affacciai alla finestra e fissai il cielo delle sette di mattina, senza una nuvola e di un blu così intenso che sembrava quasi di poterlo penetrare con lo sguardo, arrivando fino alle stelle. Poi le dissi della voce. Credo che ognuno di noi ne ospiti parecchie dentro la testa e alla fine ci si abitui. Da ragazzino, una di loro si fece sentire e mi bisbigliò che sarebbe stata una figata masturbarsi con le mutandine di mia sorella. Ne ha almeno un migliaio di paia e non si accorgerà della differenza, mi sussurrò. (Mi guardai bene dal rivelare a Paula Robeson la mia bravata adolescenziale.) Si trattava di una voce assolutamente irresponsabile, più comunemente conosciuta come Mister Hey, Get Down.
«Mister Hey, Get Down?» chiese la Robeson con un tono dubbioso. «In omaggio a James Brown, il re del soul.» «Se lo dice lei.» Mister Hey, Get Down diventò sempre più quieto con il passare degli anni, soprattutto da quando smisi di bere, ma quella mattina si destò dal letargo giusto per pronunciare una dozzina di parole che mi cambiarono la vita. Che me la salvarono. Le prime cinque (mentre sedevo sul bordo del letto): Ehi, datti per malato, amico! Le restanti sette (mentre arrancavo verso la doccia, grattandomi la chiappa sinistra): Ehi, prenditi una vacanza a Central Park! Non si trattava di un presagio o di una premonizione. Era Mister Hey, Get Down a parlare, non l'Altissimo. Una particolare versione della mia voce normale (come le altre che gironzolano per la testa) mi stava suggerendo di far sega al lavoro. Ehi, per una volta divertiti, buon Dio! L'avevo sentita l'ultima volta durante una gara di karaoke in un locale sulla Amsterdam. Ehi, scemo, canta assieme a Neil Diamond! Buttati sul palco e datti da fare! Get down! «Penso di aver capito», mi disse Paula Robeson con un mezzo sorriso. «Davvero?» «Be', una volta in un bar di Key West mi sono tolta la maglietta e ho vinto dieci dollari dimenandomi sulle note di Honky-Tonk Women.» Si fermò per un attimo. «Non lo sa quasi nessuno, e se lei farà la spia, mi vedrò costretta ad accecarla con uno dei fermacravatta di Edward.» «Ehi, questa è la mia ragazza!» risposi, e il suo sorriso si trasformò in un sogghigno compiaciuto che la fece sembrare più giovane. Forse non sarebbe andata a finire male. Entrammo al Donald's Grill. Un tacchino di cartone appeso alla porta, pellegrini di cartone sulle piastrelle verdi sopra il bancone con le vivande. «Ho dato retta a Mister Hey, Get Down e ora eccomi qui», continuai. «Ma non sono solo. Sono arrivate delle... cose di cui non riesco a sbarazzarmi. Una partita persa. Per questo ho voluto parlarle.» «Mi sembra di essere stata chiara: non sono uno strizzacervelli», ribatté lei, evidentemente a disagio. Il sogghigno era sparito. «Mi sono laureata in tedesco e specializzata in storia europea.» Tu e tuo marito avete un sacco di punti in comune, pensai con una punta di ironia, ma mi limitai a dire che non avevo bisogno di uno psichiatra, solo di qualcuno con cui chiacchierare. «D'accordo. Giusto per capirci.»
Un cameriere si annotò l'ordinazione delle bevande, decaffeinato per lei, normale per me. Non appena si allontanò, la Robeson mi chiese che cosa fossero quelle cose di cui parlavo. «Questa, per esempio.» Tirai fuori di tasca il blocco di resina con dentro la monetina di metallo e lo appoggiai sul tavolo. Poi le raccontai degli altri oggetti e dei loro proprietari. Cleve «Io aaaaamo il baseball» Farrell. Maureen Hannon, che portava i capelli lunghi fino alla cintola perché lontana dal rischio licenziamento. Jimmy Eagleton, che aveva un fiuto impareggiabile per le richieste danni fasulle, un figlio con un disturbo dell'apprendimento e un cuscino scoreggione custodito nella scrivania fino a ogni canonica festa di Natale. Sonja D'Amico, la migliore contabile della Light and Bell, che aveva ricevuto gli occhiali da Lolita dal suo ex marito come perfido regalo per il primo anniversario di divorzio. Bruce «il Signore delle Mosche» Mason, che soffiava dentro la conchiglia gigante mentre le lunghe onde di Jones Beach si arricciavano e venivano a morirgli sopra i piedi nudi. E infine Misha Bryzinski, che doveva avermi accompagnato ad almeno una dozzina di partite dei Mets. Le raccontai che avevo ficcato tutto quanto, tranne la marionetta di Misha, in un cestino della spazzatura all'incrocio tra la Settantacinquesima e Central Park, ma che ero stato battuto in volata sulla strada del ritorno, probabilmente perché mi ero fermato al cinese per una seconda porzione di pollo alla Generale Tso. Mentre parlavo, il cubo di resina era piazzato esattamente tra noi due. Nonostante la sua inquietante, austera presenza, riuscimmo quasi a finire di mangiare. Dopo essermi svuotato, mi sentii meglio di quanto mai mi sarei immaginato. Dalla sua parte del tavolo, però, solo un profondissimo silenzio. «E allora», conclusi, giusto per spezzare la quiete. «Che cosa ne pensa?» Le ci volle un attimo, una pausa di cui non la biasimai. «Penso che non siamo più due estranei», disse alla fine, «e un nuovo amico non è mai un male. Penso che sono contenta di aver fatto la conoscenza di Mister Hey, Get Down e di averle rivelato il mio segreto.» «Lo stesso per me.» Ed era vero. «Ora, però, posso farle due domande?» «Sicuro.» «Quanto le pesa il cosiddetto 'senso di colpa del superstite'?» «Poco fa ha ribadito di non essere uno strizzacervelli.» «Infatti, ma qualche rivista la leggo e ogni tanto guardo anche Oprah. Mio marito in questo caso ne è a conoscenza, anche se non mi va di rigirare il coltello nella piaga. Allora, Scott... quanto?»
Soppesai la domanda. Era sensata, e naturalmente me l'ero già posta più volte nel corso di lunghe notti insonni. «Parecchio», risposi. «Ma mi sento anche molto sollevato, inutile negarlo. Se Mister Hey, Get Down fosse una persona in carne e ossa, potrebbe mangiare e bere alle mie spalle per il resto della vita. Essere sempre invitato alla mia tavola, insomma.» Mi fermai. «L'ho messa a disagio?» Allungò la mano sul tavolo e mi sfiorò le dita. «Nemmeno un po'.» La sua risposta mi fece sentire meravigliosamente bene. Le strinsi appena la destra e abbandonai la presa. «Forza, un'altra domanda.» «Quanto è importante per lei che io creda alla sua storia?» Un notevole interrogativo, anche se il blocco di resina era lì bello in evidenza accanto alla zuccheriera. Non che un simile cimelio fosse una rarità. Se la Robeson si fosse laureata in psicologia piuttosto che in lingua tedesca, sarebbe diventata un'ottima professionista. «Meno importante di un'ora fa», le confessai. «La chiacchierata mi è stata d'aiuto.» Lei sorrise e annuì. «Bene. In tutta onestà, penso che qualcuno le stia giocando un tiro, e neppure troppo bello.» «Un brutto scherzo», dissi. Cercai di non darlo a vedere, ma raramente mi ero sentito così deluso. Forse il velo dell'incredulità annebbia le persone in determinate circostanze, a mo' di protezione. O forse (anzi, quasi sicuramente) non ero stato abbastanza bravo a farle capire che la situazione stava precipitando. Ingigantendosi, come una valanga. «Un brutto scherzo», assentì Paula, e dopo: «Se solo lei ci credesse.» Due punti in più per il suo intuito. Abbozzai un cenno del capo. «Quando sono uscito ho chiuso la porta a chiave, e così l'ho trovata al mio ritorno dalla cartoleria. Ho sentito i chiavistelli scattare. Fanno un frastuono del diavolo. Difficile sbagliarsi.» «D'accordo, ma... il senso di colpa del superstite procura sintomi strani. E non di poco conto, almeno secondo le riviste che ho letto.» «Questo...» Questo non c'entra un fico secco con il senso di colpa del superstite, stavo per dire, ma avrei commesso un errore. Avevo la discreta possibilità di farmi un nuovo amico, il che sarebbe stato comunque un bene, indipendentemente dal risultato finale. Così mi fermai in tempo. «Non credo che questo possa definirsi un sintomo.» Indicai il cubo di resina. «Esiste. È qui o no? Come gli occhiali da sole di Sonja. Lo vede anche lei. Certo, lo vendono in parecchi posti, ma...» Mi strinsi nelle spalle, cercando di sottolineare quello che entrambi avevamo in mente: tutto è possibile.
«No, non penso che sia stato lei ad acquistarlo. Però non deve neppure costringermi a credere che si sia aperto un varco tra la nostra dimensione e un mondo ai confini della realtà, dal quale sono sbucate le cose di cui mi parla.» Ecco il vero problema. Per Paula l'idea che la comparsa degli oggetti fosse di origine soprannaturale era automaticamente da scartare, nonostante le tangibili prove a mio favore. Mi vedevo obbligato a decidere se avevo più bisogno di un amico o di ribadire la mia teoria. Optai per la prima soluzione. «Per me va bene», conclusi. Agganciai il cameriere con un'occhiata e gli feci cenno di preparare il conto. «Non la costringo a crederci.» «Sul serio?» domandò, marcandomi stretto con lo sguardo. «Sul serio», replicai, sicuro che fosse la verità. «A patto di poterci ancora incontrare per un caffè di tanto in tanto. O scambiare quattro chiacchiere mentre rincasiamo.» «Certamente», replicò lei con un tono distratto, come se non stesse seguendo il filo della conversazione. Aveva gli occhi fissi sul cubo con dentro la monetina di metallo. Poi li alzò su di me. Poco ci mancò che una lampadina le comparisse sopra la testa, come in un fumetto. Allungò il braccio e afferrò il blocco di resina. Non riuscirò mai a spiegare pienamente l'angoscia che mi colse in quell'attimo, ma in che modo avrei dovuto comportarmi? Eravamo due seri abitanti di New York in un ristorante pulito e ben illuminato. Lei aveva perfettamente chiarito la sua posizione, che escludeva qualsiasi riferimento al soprannaturale. Roba ai confini della realtà. Inutile ripetersi. C'era una strana luce nel suo sguardo. Un bagliore che suggeriva l'entrata in scena di Mister Hey, Get Down. Una voce alla quale non era semplice resistere, come mi aveva insegnato la mia esperienza personale. «Me lo dia», disse con un sorriso penetrante. Per la prima volta mi resi conto che non era solo carina, ma eccitante. «Perché?» domandai, anche se già sapevo la risposta. «Definiamolo il mio onorario. Per aver ascoltato la sua storia.» «Non so se questa sia una buona...» «Sicuro che lo è.» Stava seguendo l'ispirazione del momento, e quando succede difficilmente si accetta un rifiuto. «È un'ottima idea, in effetti. Almeno farò in modo che questo souvenir non ritorni da lei tutto scodinzolante. Nell'appartamento abbiamo una cassetta blindata.» Mimò con notevole stile il gesto di chiudere una cassaforte, girare la combinazione, get-
tarsi alle spalle la chiave. «D'accordo», decisi. «Lo consideri un regalo.» Provai un colpevole senso di sollievo, o qualcosa del genere. Avrei potuto chiamarla la voce di Mister Hey, Te Ne Accorgerai. Essermi sbarazzato di un bel peso sullo stomaco evidentemente non era abbastanza. Non ero stato creduto; almeno una parte di me avrebbe voluto esserlo e adesso si vendicava con Paula. Era la stessa parte che sapeva quanto fosse sbagliato lasciarle prendere il blocco di resina, ma che era soddisfatta di osservarla mentre lo infilava in borsa. «Ecco qui», fece lei con decisione. «Ciao ciao, saluta mammina, ciao ciao. Tra una settimana, o forse un paio, a seconda della cocciutaggine del suo subconscio, potrà dar via il resto della roba.» E quella frase costituì il vero regalo della giornata, anche se non potevo prevederlo. «Forse», risposi, sorridendo. Un bel sorriso per il nostro nuovo amico. Un bel sorriso per la nostra mammina. E sotto sotto un pensiero insistente: te ne accorgerai. Hey. E così fu. Tre giorni più tardi, mentre Chuck Scarborough stava illustrando le ultime magagne del traffico cittadino durante il notiziario delle sei di sera, il campanello suonò. Visto che non aspettavo nessuno, pensai si trattasse di un corriere, magari proprio di Rafe con una consegna della Federal Express. Aprii la porta e mi trovai davanti Paula Robeson. Non era la stessa donna con cui avevo pranzato. Poteva essere l'incarnazione della voce Hey, La Chemio È Una Brutta Bestia. Niente trucco eccetto un filo di rossetto, la carnagione giallo malato, occhiaie livide. Prima di scendere dal quinto piano si doveva essere data un colpo di spazzola, con scarsi risultati. I capelli erano di stoppa, con due ciuffi da fumetto ai lati della testa che in qualsiasi altro momento sarebbero sembrati buffi. Stringeva il cubo di resina davanti al petto e riuscii a notare che le unghie, un tempo lunghe e ben curate, erano sparite. Se le era mangiate fino alla pelle. Mio Dio, pensai all'istante, se ne è accorta, altro che. Me lo porse. «Se lo riprenda.» Obbedii, in silenzio. «Si chiamava Roland Abelson, giusto?» «Sì.» «Aveva i capelli rossi.»
Annuii. «Non era sposato ma pagava gli alimenti per un figlio avuto da una tipa di Rahway.» Non ne ero a conoscenza - credo che nessuno alla Light and Bell lo sapesse - ma mossi di nuovo il capo, e non solo per incitarla a continuare. Non si stava inventando nulla. «Ricorda il nome della donna, Paula?» Non potevo conoscere il motivo della domanda, non ancora, ma mi sentii obbligato a farla. «Tonya Gregson.» Sembrava in trance. Nel fondo degli occhi, però, brillava una luce talmente spaventosa che trovavo difficile fissarla. Tonya Gregson, Rahway, dissi tra me e me. E poi, come fossi impegnato in un inventario: Un blocco di resina con una monetina all'interno. «Ha cercato di rannicchiarsi sotto la scrivania. Lo sapeva? No, dalla sua espressione immagino di no. Aveva i capelli in fiamme e stava piangendo. Perché in quel preciso istante fu sicuro che non avrebbe mai comperato un catamarano o falciato di nuovo il suo prato.» Allungò la mano e mi sfiorò la guancia, un gesto di profondo affetto, ma aveva le dita gelide. «Quando sentì avvicinarsi la fine, avrebbe regalato ogni centesimo, ogni obbligazione in suo possesso, pur di ritornare a prendersi cura del giardino. Mi crede?» «Sì.» «Ascoltò le urla rimbombare di ufficio in ufficio, annusò il puzzo del carburante per aerei, e capì che era arrivato il momento di morire. Se ne rende conto? Si rende conto della spaventosa enormità di tutto questo?» Un altro cenno del capo. Non riuscivo a parlare. Sarei rimasto zitto anche se mi avessero minacciato con una pistola di vuotare il sacco. «Chi ci governa discetta di monumenti alla memoria e di coraggio e di guerre contro il terrorismo, ma una chioma di capelli in fiamme non ha niente a che spartire con la politica.» Scoprì i denti in un ghigno agghiacciante, che sparì l'attimo successivo. «Stava cercando di trovare rifugio sotto la scrivania. Lì vicino c'era un... un...» «Tappetino...» «Un tappetino, sì, un tappetino di gomma, ci teneva sopra le mani e ne sentiva tutte le grinze, una per una, assieme al tanfo dei suoi capelli che continuavano a bruciare. Mi segue?» Mossi appena la testa. Iniziai a piangere. Si stava parlando di Roland Abelson, del mio collega, e di nessun altro. Lavorava alla valutazione rischi e non lo conoscevo bene. Giusto un saluto di tanto in tanto; come po-
tevo immaginare che avesse un figlio a Rahway? E se quel giorno non mi fossi dato malato, probabilmente anche i miei capelli sarebbero diventati una corona di fiamme. Non l'avevo mai considerata in questi termini. «Non voglio vederla mai più», continuò Paula. Quel ghigno spaventoso brillò una volta ancora, ma adesso anche lei era in lacrime. «Non me ne frega niente dei suoi problemi. Non me ne frega niente della merda che si tiene in casa. Basta, mi arrendo. D'ora in poi, mi lasci in pace.» Fece per voltarsi, ma si bloccò. «Hanno spiegato di averlo fatto in nome di Dio, ma non c'è nessun Dio. Se esistesse davvero, signor Staley, li avrebbe stecchiti direttamente al cancello di partenza mentre stringevano le loro carte d'imbarco, invece non è andata così. Hanno annunciato la chiamata e quei bastardi non si sono fermati.» Con lo sguardo la seguii dirigersi all'ascensore. Schiena rigida, i capelli spettinati ai lati della testa come la ragazzina di una striscia del supplemento domenicale. Non aveva più intenzione di vedermi e non riuscivo a biasimarla. Chiusi la porta e guardai il volto di Abramo Lincoln inciso sulla monetina nel blocco di resina. Lo fissai a lungo. Mi chiesi che puzza avrebbe emanato la sua barba se il generale Grant l'avesse usata per spegnere uno dei suoi enormi sigari. Uno sgradevole odore di bruciaticcio. In televisione, qualcuno stava annunciando una svendita di materassi da Sleepy's. Dopo fu il turno di Len Barman, che prese a cianciare dei Jets. Quella notte mi svegliai alle due e rimasi ad ascoltare le voci che mi giravano per la testa. Non avevo avuto incubi, non mi erano apparse visioni dei proprietari dei vari oggetti, non avevo sognato nessuno con i capelli arsi dal fuoco o mentre si gettava dalla finestra per sfuggire al carburante in fiamme degli aerei. Perché avrei dovuto? Li conoscevo, e sapevo che avevano lasciato le loro cose per me. Avevo sbagliato a permettere che la Robeson prendesse il blocco di resina, ma solo perché non si trattava della persona giusta. A proposito di Paula, una delle voci era la sua. Potrà dar via il resto della roba, diceva. E continuava: a seconda della cocciutaggine del suo subconscio. Mi misi comodo e dopo un po' ripresi sonno. Mi ritrovai a Central Park, a dare da mangiare alle anatre, quando all'improvviso un aereo oltrepassò il muro del suono con un boato e il cielo si riempì di fumo. Nel sogno, puzzava di capelli bruciati.
Pensai a Tonya Gregson, la donna di Rahway - lei e il figlio che forse avrebbe avuto gli stessi occhi di Roland Abelson - e decisi di metterla momentaneamente da parte, cominciando dal basso. Con la vedova di Bruce Mason, per esempio. Raggiunsi in treno Dobbs Ferry e presi un taxi alla stazione, che mi portò fino a una villetta in una strada residenziale di Cape Cod. Passai parte del dovuto all'autista, pregandolo di aspettare - questione di pochi minuti e premetti il campanello. Avevo una scatola sottobraccio, tipo quelle per i dolci. Non dovetti suonare una seconda volta, avevo chiamato in anticipo e Janice Mason mi stava aspettando. Mi ero preparato un bel discorso, che riuscii a ripetere con una certa tranquillità, consapevole che la presenza del taxi nel vialetto, con il tassametro in funzione, avrebbe reso difficile a chiunque soffermarsi troppo sui particolari. Le raccontai che il 7 settembre - il venerdì precedente alla sciagura - avevo cercato di strappare una nota alla conchiglia gigante che Bruce conservava sulla scrivania, come gli avevo visto fare a Jones Beach (Janice, la Signora delle Mosche, annuì; dopo tutto, al picnic era venuta pure lei). Be', continuai, per farla breve, lo avevo persuaso a prestarmi la conchiglia per il fine settimana, in modo da potermi esercitare. Poi, la mattina di lunedì mi ero svegliato con una terribile sinusite, accompagnata da un forte mal di testa (una bugia che avevo già spiattellato a parecchi altri). Stavo bevendo una tazza di tè, quando di colpo avevo sentito un gran frastuono e avevo visto alzarsi il fumo. Soltanto recentemente avevo ripensato alla corniola. Intento a pulire un ripostiglio, accidenti, me l'ero ritrovata lì. E avevo pensato che... be', non è questo gran ricordo, però forse lei avrebbe gradito... insomma... I suoi occhi si riempirono di lacrime, proprio come i miei quando Paula era tornata a restituirmi il «fondo pensione» di Roland Abelson, ma senza quell'espressione terrorizzata che certamente avevo avuto in volto mentre la Robeson mi fissava con due ciuffi rigidi ai lati del capo. Janice mi rispose che lo avrebbe accettato volentieri. «Non riesco a perdonarmi come ci siamo salutati», disse, reggendo la scatola tra le braccia. «Lui usciva sempre molto presto per prendere il treno. Mi baciò sulla guancia, io sollevai una palpebra e gli chiesi di tornare dal lavoro con del latte scremato. Certo, rispose. Ed è l'ultima parola che gli ho sentito pronunciare. Quando mi chiese di sposarlo ero al settimo cielo - sciocco ma vero - e darei il mondo per avergli saputo dire qualcosa di
diverso da 'torna con il latte'. Ma eravamo insieme da tanto tempo, e quella mattina pareva uguale al resto delle altre, e... non si può mai dire, non è vero?» «Già.» «Ogni volta che salutiamo qualcuno, potremmo non vederlo mai più, e non lo sappiamo. La ringrazio, signor Staley, per essere venuto fin qui a portarmi la conchiglia. È stato molto gentile.» Sorrise appena. «Si ricorda di quando si alzava in piedi sulla sabbia e ci soffiava dentro?» «Sì.» Mi accorsi di come teneva la scatola. Sicuramente, più tardi, si sarebbe seduta, avrebbe tirato fuori la corniola, appoggiandosela in grembo, e sarebbe scoppiata a piangere. Se non altro, ero sicuro che non avrei più visto quell'oggetto nel mio appartamento. Adesso era a casa. Tornai alla stazione e presi il treno per New York. Di primo pomeriggio le vetture erano quasi vuote e mi accomodai di fianco a un finestrino rigato di pioggia e di fuliggine, con lo sguardo perso lungo il fiume e la linea dell'orizzonte. Nei giorni di brutto tempo ti sorprendi a inventarla, quella linea, un pezzettino per volta. Il giorno successivo sarei partito per Rahway assieme al penny nel blocco di resina. Magari il bambino l'avrebbe afferrato con le sue dita grassottelle, fissandolo stupito. In ogni caso, sarebbe scomparso dalla mia vita. Forse il cuscino scoreggione di Jimmy Eagleton si sarebbe rivelato il più difficile da restituire. Non potevo raccontare alla vedova che l'avevo portato a casa per esercitarmi, vero? Però la necessità è madre dell'invenzione, e prima o poi avrei scovato una spiegazione sufficientemente plausibile. Mi venne in mente che con il passare del tempo forse sarebbero saltati fuori nuovi oggetti. E vi mentirei dicendovi che trovavo una simile eventualità oltremodo spiacevole. Quando si restituisce qualcosa che è stato creduto perso per sempre, qualcosa che ha un peso, si viene ricompensati. Anche se si tratta solo di paccottiglia, come un paio di buffi occhiali da sole o una monetina di metallo racchiusa nella resina... be', lo ammetto. Si viene ricompensati. JOHN FARRIS LA DONNA DEL FARO JOHN FARRIS
John Farris piazzò il suo primo romanzo nel 1955, l'estate dopo essersi diplomato. Nel 1959, a ventitré anni, era già arrivato al primo milione di copie vendute con Harrison High che ha dato vita a cinque sequel. I suoi lavori appartengono a molti generi: suspense, horror, mystery, ma nessuna di queste definizioni caratterizza l'ampiezza vertiginosa del complesso della sua opera. E non tocca neppure gli aspetti soprannaturali o mitici che denotano i punti di vista presenti in gran parte dei suoi lavori. Se si cercasse di legarlo a un singolo genere, si metterebbero in ombra i complessi personaggi ai quali dà la vita dalla testa ai piedi, e il suo sforzo di creare ogni libro come un'entità totalmente differente, un mondo del tutto diverso, rispetto al precedente. Tra i suoi romanzi si ricordano The Fury (Fury), When Michael Calls (Quando Michael chiama), The Captors, Sharp Practice, The Long Light of Dawn, e King Windom, Shatter (Buon sangue non mente), All Heads Turn When the Hunt Goes By (Raptus), Catacombs, The Uninvited. Molti di questi romanzi sono stati ripubblicati dalla Tor Books nel corso dell'ultimo decennio. Dopo l'uscita del romanzo Sacrifice, quando la Tor è diventata la Forge Books, Farris ha prodotto una trilogia di romanzi di suspence/action altamente cinematografici, Dragonfly, Soon She Will Be Gone, e Solar Eclipse. Il suo lavoro più recente ci riporta sul terreno di Fury con tre sequel diretti: The Fury and the Terror, The Fury and the Power, e l'imminente Avenging Fury, che porta a conclusione l'intero ciclo vent'anni dopo. 1 La prima volta che Eco Halloran si era accorta della «donna in nero» era stato durante una visita all'Highbridge Museum of Art di Cambridge, Massachusetts. Quel giorno Eco e il suo capo stavano trattando con il curatore dell'Highbridge, un uomo di nome Charles Carwood. L'Highbridge stava «disacquisendo», come si dice nel ramo, un certo numero di dipinti, soprattutto di artisti del ventesimo secolo il cui stock era rimasto stabile nel sempre instabile mondo dell'arte. L'Highbridge aveva un po' di grane con il fisco e Carwood puntava a realizzare una trentina di milioni con un gruppo di Rappresentativisti. Il capo di Eco era Stefan Konine, direttore della Gilbard's, la casa d'aste newyorchese. Stefan era un omone, rubicondo come un salmone lessato, che nascondeva l'età e aveva l'hobby dei flipper. Indossava abiti di J. Dege & Sons con l'aplomb del sangue blu. I Rappresentativisti non gli interessa-
vano granché e preferiva che fosse Eco, che alla NYU aveva fatto una tesi sulla Scuola di Boquillas, a seguire la faccenda mentre i quadri venivano sottoposti uno per uno, con reverenza, alla loro attenzione, lì nella sala riunioni al sesto piano. Fuori il cielo era azzurro e limpido. Da una bella fila di finestre il panorama a sud arrivava fino a Charles River. Eco lavorava per Konine da poco più di un anno. Tra i due si era stabilito un rapporto quasi famigliare. Mentre Eco trafficava con il suo laptop tirando fuori informazioni su questioni di provenienza, Stefan sorseggiava Chablis e scrutava ognuno dei dipinti con la stessa espressione dispeptica, come se stesse cercando di digerire una palla da bowling ingerita per pranzo. Con la testa, più che altro, stava sulla tris in corso a Belmont, ma era attento alle sfumature degli sguardi che Eco lanciava dalla sua parte. Erano una squadra. Conoscevano i segnali l'uno dell'altra. «E abbiamo», disse Carwood, «questo squisito David Herrera del fondo Oppenheimer, forse il pezzo più importante del ciclo di David sul Big Bend.» Eco sorrise mentre i due inservienti del museo entravano spingendo il carrello con l'enorme tela. Lei beveva 7-Up, non Chablis. Lo stile del quadro ricordava la Georgia O'Keeffe nella sua incarnazione di Santa Fe. Eco abbassò lo sguardo sullo schermo del portatile, poi lo rialzò. Fu un lungo sguardo, come se stesse cercando di spingerlo fino in fondo alla regione texana del Big Bend. Dopo un paio di minuti Stefan sollevò un sopracciglio. Carwood fremeva sulla sedia. Aveva gli occhi fissi su Eco. L'aveva guardata un bel po', dal momento in cui gli era stata presentata. Ci sono bellezze che bloccano il traffico, e ce ne sono di quelle che crescono come un'ossessione nel cuore di chi se ne lascia toccare; Eco Halloran era del secondo genere. Aveva una folta criniera di capelli neri. Gli occhi erano grandi tondi e scuri come lucide castagne d'India, con una spolverata di pagliuzze d'oro. Con la vitalità di un folletto, ricca di buone maniere e di autostima, vedeva il mondo con una disponibilità così intensa da lasciare perplesso chi non la conoscesse. Quando si schiarì la gola Carwood ebbe un sussulto nervoso. Stefan guardò pigramente la sua protetta, con l'inizio di un sorrisetto saputo. Qualcosa stava per arrivare. Carwood disse: «Forse vorrebbe guardare meglio, signorina Halloran? La luce che viene dalle finestre...» «La luce va bene.» Eco si risistemò sulla poltroncina. Chiuse gli occhi e
si toccò con due dita il centro della fronte. «Ho visto abbastanza. Mi dispiace molto, signor Carwood. Ma questa tela non è opera di David Herrera.» «Oh, Dio santo!» esclamò Carwood, con un gemito sofferto come se stesse cercando di decidere se fosse più adatta una crisi isterica o un colpo apoplettico. «La inviterei a essere molto cauta prima di esprimere giudizi potenzialmente perseguibili...» «Lo sono», ribatté Eco, e riaprì gli occhi. «Sempre molto cauta. È un falso. E non è il primo falso Herrera che mi capita di vedere. Mi dia un paio d'ore e le dirò quale dei suoi allievi l'ha dipinto, e quando.» Carwood tentò di appellarsi a Stefan, che alzò un indice ammonitore. «Ma le costerà mille dollari per il tempo e la perizia della signorina Halloran. Mille dollari l'ora. Le consiglierei di pagarli. È molto in gamba. Quanto al lotto che ci ha mostrato oggi...» Stefan si alzò con un'aria di buonumore, «grazie per aver preso in considerazione Gilbard's. Temo purtroppo che il nostro programma autunnale sia insolitamente affollato. Perché non prova con Sotheby's?» Per un uomo della sua corporatura, Stefan fece una buona imitazione dell'orso ballerino del circo mentre entravano nell'ascensore per raggiungere l'atrio dell'Highbridge. «Dai, Stefan», disse Eco serena. «Ho goduto a vedere il buon vecchio Carwood andare in merda.» «Non sapevo che fosse uno dei tuoi tanti nemici.» «Nemico? Non tengo Charles in così alta considerazione. È semplicemente un pallone gonfiato. Se gli rapinassero il cervello il ladro ci perderebbe. Allora, dimmi, chi ha perpetrato la frode?» «Non lo so con sicurezza. O Fimmel o Arzate. In ogni caso, un falso Herrera non mi sfugge.» «Certo che aiuta avere una memoria fotografica.» Eco sorrise. «Forse dovresti prendere il mio posto.» «Dai, Stefan.» Eco premette il pulsante del primo piano. «Un giorno o l'altro lo avrai, il mio posto. Ma dovrai strapparmelo dalle dita irrigidite dalla morte.» Eco sorrise di nuovo. L'ascensore si fermò al piano. «Cosa fai? Non andiamo via?» «Tra un po'.» Eco uscì dalla cabina e fece cenno a Stefan di seguirla.
«Da questa parte.» «Che cosa? Dove hai intenzione di trascinarmi? Devo assolutamente fumare e vedere come si è piazzata My Little Margie nella quarta.» Eco guardò l'orologio, appena ricevuto in dono dal fidanzato per il ventiduesimo compleanno. Sapeva che gli era costato molto di più di quanto tutti e due avrebbero dovuto spendere per un regalo. «C'è tempo. Voglio vedere il Ransome che hanno avuto in prestito per la mostra sui ritrattisti del Novecento.» «Oh, sant'Iddio!» Ma seguì Eco fuori dell'ascensore. «Ransome mi fa schifo! Quei suoi manierismi così spudorati! Ho visto opere d'arte di migliore qualità sulle chiappe di un marinaio.» «Sul serio, Stefan?» «Non molto di recente, purtroppo.» La galleria in cui stavano allestendo la mostra era temporaneamente chiusa al pubblico, ma il tesserino che portavano appuntato al petto permetteva l'accesso a ogni parte dell'Highbridge. Eco ignorò l'occhiata infastidita di una coppia di funzionari poco convinti della legittimità della loro presenza e andò dritta al ritratto di Ransome che era già montato al suo posto, e illuminato. Il soggetto era un nudo seduto, una bionda con i capelli alla Lady Godiva, lo stile di Ransome era impressionistico, la tela inondata di luce. La giovane donna era in posa disinvolta, come una ragazza di Degas che fa una pausa dietro le quinte, il viso un po' girato. Stefan assunse il solito atteggiamento di disprezzo quasi suicida. Ma gli era difficile distogliere lo sguardo. I grandi artisti sono ipnotizzatori armati di pennello. «Devo dire che dobbiamo dargli atto di avere un occhio eccellente per la bellezza.» «È stupendo», bisbigliò Eco. «Come dice Delacroix, 'non si dipinge mai abbastanza violentemente'. Dobbiamo dare atto a Ransome anche di saper fare violenza alle sue tele. E mi serve un Armagnac, se il bar di sotto è aperto. Eco?» «Vengo», disse lei, con le mani giunte come un chierichetto, lo sguardo fisso sul dipinto e un lieve sorriso adorante sulle labbra. Visto che non si muoveva, Stefan si strinse nelle spalle. «Non voglio interferire con la tua infatuazione. Facciamo che mi raggiungi alla limousine tra venti minuti?» «Va bene», mormorò Eco.
Assorta nello studio della tecnica di John Leland Ransome, Eco sulle prime non fece caso alla sensazione sulla nuca che l'avvertiva che qualcuno la stava fissando intensamente. Quando si voltò vide una donna a una decina di passi di distanza che non guardava affatto il Ransome appeso alla parete ma lei. La donna era vestita tutta di nero, cosa che, in piena estate, a Eco diede un senso al tempo stesso di ossessione e di oppressione. Comunque la sua era una figura elegante, raffinata. Non portava gioielli. Forse aveva un po' troppo trucco, tuttavia era notevole. Matura, anche se Eco non riusciva ad attribuirle un'età precisa. I suoi lineamenti erano immobili, come quelli di una maschera. La fissità dello sguardo e la luce che lampeggiava nei suoi occhi diedero a Eco un attimo di imbarazzo. Sapeva che era in arrivo un tentativo di aggancio. Da quando aveva raggiunto la pubertà, di quegli incontri ne aveva avuti in media tre alla settimana. Lo sguardo era sempre lì, e la donna non apriva bocca. Ebbe l'effetto di risvegliare l'irlandese che era in Eco. «Mi scusi», disse Eco. «Ci conosciamo?» La sua espressione diceva: Qualunque cosa tu stia pensando, bella, toglitelo dalla testa. Nemmeno un cenno di sorpresa, non un battito di ciglia. Dopo qualche secondo la donna trasferì con calma lo sguardo da Eco al quadro di Ransome. Lo studiò brevemente, poi si voltò e si allontanò come se Eco non esistesse più, accompagnata dal ticchettio dei tacchi sul pavimento. Eco sentì un brivido lungo la schiena. Lanciò un'occhiata a un custode del museo, un uomo corpulento, che stava seguendo anche lui con lo sguardo la donna in nero. «Chi è quella?» La guardia allargò le braccia. «Non ne ho idea. È qui da mezzogiorno. Credo che sia della galleria di New York.» Guardò il ritratto di Ransome. «La sua galleria. Sa quante storie fanno questi pittori per come vengono sistemati in una mostra.» «Già. E non parla?» «Non a me», rispose la guardia. La limousine che Stefan aveva noleggiato per quel giorno era in sosta nella zona di parcheggio dei taxi davanti all'Highbridge. Appoggiato all'auto, Stefan seguiva gli aggiornamenti della corsa che gli arrivavano sul cellulare. Sul cofano era appoggiata una copia di Racing Form.
Quando Eco si avvicinò mise via il cellulare con una faccia scura. My Little Margie doveva avergli fatto fuori tutti i quattrini. «Dunque, alla fine l'incantesimo si è spezzato. Pensavo che avremmo potuto farti sistemare una brandina per la notte.» «Grazie, Stefan, per essere così paziente con me.» I due rimasero sul marciapiede a godersi il fresco. Quando erano partiti quella mattina, New York era un forno. «È tutta scena, sai», disse Stefan, guardando la facciata oro e vetro dell'edificio di Cesar Pelli. «I Ransome del mondo dell'arte sono dei geni della manipolazione. La scarsità delle sue opere non fa che renderle più desiderabili per i divoratori di cultura.» «No, Stefan, io penso che sia la qualità a essere rara. Courbet, Bonnard... Ransome ha in comune con loro un senso, come dire, di divina melanconia.» «Divina melanconia. Ben detto. Devo fare in modo di infilarlo da qualche parte nella mia rubrica Notizie dal mondo dell'arte. Dove andiamo a cena stasera? Ti sei ricordata, vero, di prenotare? Eco?» Eco stava guardando al di là di lui, la donna in nero, che era uscita dal museo e si stava dirigendo verso un taxi. Stefan si voltò. «Chi è, o che cosa è?» «Non lo so. L'ho vista nella galleria. L'ho sorpresa che mi fissava.» Incredibile, pensò Eco, quanto assomigliasse alla regina nera degli scacchi che aveva a casa. «A giudicare dalla mancanza di interesse che mostra adesso, si direbbe che si è beccata un bel due di picche.» Eco scosse la testa. «No. Veramente non ha aperto bocca. A cena? Stefan, scusami. Sei prenotato al Legai con i Bronwyn alle otto e mezzo. Io devo tornare a New York. Credevo di avertelo detto... festa di fidanzamento stasera, la sorella di Peter.» «Quale? Mi pare che ce ne sia una moltitudine.» «Siobhan. L'ultima che si sposa.» «Quella enorme, imbranata, con una frangetta orrenda?» «E smettila! È una bravissima ragazza.» «Ora che Peter si è guadagnato il suo distintivo dorato, penso bene se penso che la prossima festa di fidanzamento sarà la vostra?» «Sì. Appena ci saremo riavuti tutti da questa.» Stefan assunse un'espressione affranta. «Eco, hai idea dell'effetto che avrà una gravidanza sul tuo fisico adorabile?»
Eco guardò l'orologio e chiese scusa con un sorriso. «Faccio appena in tempo per l'Acela delle quattro.» «Bene, allora. Sali.» Eco era stata occupata a rispondere alle e-mail durante la loro breve corsa lungo il Memorial Drive e oltre il fiume verso la North Station di Boston. Non si era accorta che il taxi che aveva preso la donna in nero era stato per tutto il tempo dietro di loro. Ciao mamma Giornata piena. Ho corso per prendere il treno delle quattro. Penso di andare direttamente nel Queens dalla stazione, per cui non sarò a casa prima di mezzanotte. Ho segnato dei punti con il capo, oggi; ti racconterò domani mattina a colazione. Chiamato zio Rory alla Casa, ma l'infermiera del piano mi ha detto che probabilmente non avrebbe capito chi ero... L'Acela percorreva silenzioso un tunnel in uscita dalla città. Sulla sua poltrona, di spalle al senso di marcia, Eco alzò gli occhi dal portatile a cui quel giorno aveva dedicato troppo tempo. Aveva la vista annebbiata, il collo irrigidito e mal di testa. Guardò nel vetro del finestrino il suo riflesso, che sparì appena il treno emerse alla viva luce del sole. Strizzò gli occhi e chiuse il laptop dopo aver inviato il messaggio alla madre. Frugò nella borsa di pelle morbida cercandola confezione di Advil e ne inghiottì tre aiutandosi con un sorso di acqua minerale. Poi si massaggiò le tempie e chiuse gli occhi. Quando li riapri vide la donna in nero, che la guardava con gravità, prima di aprire la porta di comunicazione e sparire in direzione della carrozza bar. Quello sguardo non significava niente. Anche il fatto che si trovassero sullo stesso treno non significava niente. Eppure per buona parte del viaggio verso New York, mentre cercava di addormentarsi, Eco non riuscì a togliersi la donna dalla mente. 2 Dopo che all'ospedale di Flatbush gli ebbero dato otto punti di sutura alla ferita vicino all'occhio sinistro, Peter O'Neill si fece accompagnare dal
partner, Ray Scalla, fino alla sede della 7-5, dove recuperò la sua auto e guidò fino a casa a Bayside, nel Queens. A quel punto aveva terminato una giornata di dodici ore, ma aveva davanti due giorni in cui non era di turno. La festa per il fidanzamento di sua sorella Siobhan era in pieno svolgimento quando raggiunse l'abitazione di tre piani, di mattoni e assicelle, in Compton Place, e trovò da parcheggiare solo a distanza di un isolato e mezzo. Di lì si diresse a piedi verso la villetta, scambiando saluti con i ragazzini del vicinato che scorrazzavano in bicicletta e skateboard. Si sentiva l'occhio gonfio. Aveva bisogno della borsa del ghiaccio, ma la prima cosa sarebbe stata una birra gelata. Anzi due. In casa O'Neill tutte le finestre erano illuminate, fino al sottotetto. I riflettori mettevano in risalto una mezza dozzina di giovani che trascinavano stancamente una partita di basket sul vialetto di accesso. In un modo o nell'altro Peter era imparentato con ognuno di loro, e anche con tutti quelli che affollavano la veranda. Suo fratello Tommy, matricola alla Hofstra con una borsa di studio per il football, pescò in una vasca di ghiaccio tritato e passò al volo a Peter, che si stava avviando verso il portico, una lattina di Rolling Rock. Sui gradini i ragazzini giocavano con i Gameboy. Sul prato, scalza, sua sorella Kathleen, che aveva da poco compiuto i trent'anni, cercava di fare addormentare un bimbo cullandolo dolcemente sulla spalla. Diede un bacio a Pete e aggrottò la fronte vedendo l'occhio bendato. «Allora, quando arriva il numero quattro?» «Il numero cinque, vuoi dire», lo corresse Kathleen. «Il nove ottobre, Petey.» «Si vede che sono rimasto indietro con i conti quando lavoravo sotto copertura.» Pete strappò la linguetta alla Rock ghiacciata e ne scolò metà guardando un po' di passaggi sul vialetto. Si mise a ridere. «Ehi, Kath. Di' al tuo vecchio che o rinuncia alla pasta o rinuncia al basket.» Tommy gli venne incontro e lo abbracciò. Giocava da linebacker e superava di quattro dita il metro e ottanta del fratello, ma non aveva spalle più ampie. Le spalle larghe erano un tratto di famiglia, purtroppo per le donne. Uno dei cestisti venne stoppato mentre tentava un layup e tutti e due si misero a ridere. «Ehi, Vito!» chiamò Pete. «Se non sei abbastanza duro, è inutile che lo tiri fuori!» Finì la birra e schiacciò la lattina. «Eco è tornata da Boston?» «È dentro. Complimenti per l'occhio nero.» «Un arresto», spiegò Pete mestamente.
«Peccato che da voi non si usi dare medaglie al valore ai feriti in azione.» «Già, ma ti fanno un funerale con i fiocchi», disse Pete, senza pensare a che cosa significasse un commento del genere per le donne di una famiglia di poliziotti. Kathleen glielo ricordò con uno schiaffo secco dietro la testa. Poi si fece il segno della croce. «Gesù e Maria! Non permetterti mai più di dire una cosa del genere.» Come il resto della casa, la cucina era piena di ospiti che si servivano di birra e di cose da mangiare. Pete diede un bacio alla mamma e guardò Eco, che con i guanti stava sfornando una piastra piena di antipasti. Il caldo le aveva fatto spuntare goccioline di sudore sulle tempie e sotto gli occhi. Lanciò un'occhiata a Pete, o al cerotto sopra l'occhio, e per esaminarlo bene lo fece sedere su uno sgabello vicino alla porta che dava sulla veranda posteriore. Jessie, la sorella di mezzo, gli diede un panino traboccante di imbottitura. «Una ragazzina piccola piccola», spiegò Pete. «Uno di quei tipi tutto nervi, hai presente? Fatta di anfetamina e di chi sa che altro.» «Ti ha mancato l'occhio di tanto così», disse Eco, a labbra strette. «Vivi e impara.» Peter diede un morso al panino. «Hai fatto il richiamo dell'antitetanica?» «Certo. A te com'è andata la giornata?» «Sono stata grande», rispose Eco, sempre cercando scuse per coccolarlo: scostandogli i capelli dalla fronte con il palmo della mano, togliendogli con un tovagliolino una goccia di salsa dal mento. «Merito un aumento.» «Era ora. Tua madre come va?» «Non ha avuto un gran che di giornata, mi ha detto Julia. Vuoi un'altra birra?» «Come fai a sapere che ne ho già bevuta una?» «Ha-ha», disse Eco; uscì sulla veranda a recuperare una birra dal fondo di un frigo. Rientrò seguita con passo incerto da Siobhan, la sorella di Peter, la festeggiata. Sembrava avesse appena ritrovato l'equilibrio dopo essere stata investita da una violenta raffica di vento. Gli occhi non mettevano a fuoco. Abbracciò Peter con un sorriso ebete. «Sono così felice!» «Noi siamo felici per te, Siobhan.» Con i suoi trentacinque anni era la maggiore dei sette figli O'Neill, e la meno dotata. Per dirlo gentilmente. Il fidanzato apparve sulla soglia alle spalle di Siobhan. Era più basso di
lei di tutta la testa, aveva i denti larghi e i capelli tagliati male. Rappresentante di software. Guadagnava un sacco di soldi. Aveva una Cadillac, aveva versato l'anticipo per un appartamento in un condominio di Vally Stream, e per il viaggio di nozze stava progettando una crociera di lusso. Il diamante al dito di Siobhan era bello grosso. Peter rivolse un saluto al fidanzato della sorella toccandosi la fronte con la lattina di birra. Siobhan si raddrizzò in qualche modo e abbracciò anche Eco, lasciandosi sfuggire un rutto poderoso. «Oops. Scusa.» «Di niente, tesoro», disse Eco, e la affidò al fidanzato, che ridacchiò e la guidò oltre la cucina verso un bagno. Peter scosse la testa. «Quando si dice degli estremi che si toccano.» «Già.» «Siobhan ha tanto da imparare. Crede ancora che 'fellatio' sia un'opera lirica italiana.» «Vuoi dire che non lo è?» fece Eco, sgranando gli occhi. Poi gli diede un buffetto sulla guancia. «Lasciala in pace. Io voglio molto bene a Siobhan. Voglio molto bene a tutta la tua famiglia.» Peter cinse con un braccio Casey, il fratello quattordicenne, appena entrato, e lo strinse con affetto. «Anche ai ritardati?» «E piantala», disse Casey, spingendolo via. «Casey non è ritardato, è innamorato», disse Eco. «Dammi un bacio, Case.» «Niente da fare!» Ma Eco lo aveva fatto sorridere. «Non sprecarli con questo stronzetto», la ammonì Pete. Casey tornò a guardarlo. «Ehi, ti hanno fatto un occhio nero.» «Lo so.» Peter lanciò un'occhiata a Eco e mise da parte il sandwich. «Qui è una sauna. Perché non andiamo un po' di sopra?» Casey fece un sorriso d'intesa. «No-no. Zia Pegeen ha messo i gemelli a dormire sul tuo letto.» Aspettò di vedere l'espressione delusa negli occhi di Peter prima di aggiungere: «Ma potrei lasciarvi usare camera mia se avete intenzione di pomiciare. Venti dollari all'ora come vi sembra?» «Mi sembra che mi hai preso per una battona», ribatté Eco guardandolo fisso e facendogli abbassare gli occhi, imbarazzato. «Non intendevo...» «Adesso hai un buon motivo per non saltare la confessione anche questa settimana», disse Peter. Lanciò uno sguardo a Eco, notando quanto appa-
risse affaticata, ora che lo slancio del buonumore l'aveva abbandonata. Mentre riaccompagnava Eco in auto in centro, Pete disse: «Continuo a fare conti su conti, sai, mi sembra di essere un cane che si morde la coda». «Lo stesso vale per me.» «Gesù, ho ventisei anni, dovrei avere una casa mia, non vivere ancora in famiglia.» «Una casa nostra. Sempre a cercare di risparmiare su tutto, oggi come oggi. Le tasse. Tutti e due che stiamo ancora restituendo il prestito per il college. Quarantamila ciascuno. Mia madre che non sta bene. La tua che non è stata bene...» «Abbiamo entrambi un buon lavoro. I soldi arriveranno. Ma ci serve ancora un anno.» Peter uscì dal Queensboro Bridge e prese la Prima per Uptown. Si stavano avvicinando alla Settantattesima quando Eco disse: «Un anno. Sarà pesante?» Sarà orribile, diceva il tono della sua voce. Fermi al semaforo della Settantottesima, si guardarono come se stessero per essere gettati in due celle separate. «Te lo devo dire, Eco. Io sto per dare i numeri. Lo sai.» «Lo so.» «Anche per te non è stato facile. Un paio di volte sei stata lì lì, eh?» Sorrise mestamente. Eco incrociò le braccia come se avesse percepito un avvertimento. «Già.» «Lo capisci che cosa sto dicendo. Ci sposeremo. Su questo non c'è nessun dubbio. C'è qualche dubbio?» «No.» «E allora, qual è veramente il punto? Un atto di contrizione...» «Pete, non mi rende felice essere probabilmente l'unica ventiduenne vergine sulla faccia della terra. Ma confessarsi non è la stessa cosa che pagare una contravvenzione. Lo sai come mi hanno educata. È la legge di Dio. Questo deve significare qualcosa, altrimenti niente significa più niente.» Il semaforo passò al verde. Peter percorse due isolati e parcheggiò accanto a un idrante a qualche porta dal palazzo di Eco. «I tuoi erano tutti e due gente di chiesa», disse lui. «Poi hanno rinunciato ai voti e hanno fatto te. Ti hanno fatta per me. Non posso credere che per il Signore questo è stato un peccato.» Depressa e infelice, Eco sprofondò ancora di più nel sedile, con le brac-
cia sempre incrociate sul petto e sul crocifisso. «Io ti amo moltissimo. E giuro su Dio che mi prenderò sempre cura di te.» Dopo un lungo silenzio, Eco rispose: «Lo so. Che cosa vuoi che faccia, Pete?» «Devi essere tu a decidere.» Lei sospirò. «Niente motel. Mi sa di squallido, non posso farci niente. So che non funzionerebbe.» «C'è un mio collega nella squadra, uno che all'accademia era nel mio corso, Frank Ringer. Forse te lo ricordi, lo hai visto a luglio, al picnic dei Cavalieri di Colombo.» «Ah, sì. Quello con un tic all'occhio? Completamente fuori di testa.» «Quello lì. Frank Ringer. Allora, suo zio ha una casa, sull'isola. Fuori mano, dopo Riverhead, su Peconic Bay mi sembra.» «Ah.» «Lo zio di Frank è spesso in viaggio. Frank dice che potrebbe farci stare lì, magari questo weekend...» «Insomma tu e Frank chiacchierate della nostra vita sessuale?» «Nemmeno per sogno. Gli ho semplicemente accennato al fatto che ci piacerebbe andare a rilassarci da qualche parte, questo è tutto.» «Ah.» «E in cambio del favore io qualche volta lo sostituirei nel turno. Eco?» «Adesso sarà bene che salga... vado a vedere come sta mamma. Potrebbe essere una lunga notte: lo sai che le leggo qualcosa quando lei non può...» «Allora cosa dico a Frank?» Eco esitò, dopo aver aperto la portiera. «Questo weekend dovrebbe andare bene», disse. «Lo zio ha una barca?» Le tre del mattino e John Leland Ransome, il pittore, si aggirava a piedi nudi nella sua suite al Pierre Hotel sulla Quinta Avenue. Le portefinestre che davano sulla terrazza erano aperte; i rumori delle strade della città si erano ridotti all'occasionale passaggio di un taxi o un autobus, sette piani più giù. C'erano lampi a occidente, un cumulo di nuvole giallastre sopra il New Jersey o l'Hudson. Pioggia in arrivo su Manhattan, che smuoveva l'aria. Quel vento leggero sul viso gli piaceva. Ransome aveva una donna in mente. Niente di strano; la sua vita e la sua carriera erano consacrate a catturare l'essenza di un numero ridottissimo di creature stupefacenti nella loro unicità. Ma questo era qualcosa che non
aveva mai visto né udito, fino alle otto circa della sera prima. E le poche foto che aveva visionato, scattate con un cellulare, non potevano aver rivelato tanto, di Eco Halloran, da inciderla così profondamente sulla sua immaginazione. Comunque, si disse, era troppo presto. Meglio dimenticarsene, dimenticare il potenziale che aveva intravisto. La sua nuova mostra, la prima dopo quattro anni, era in corso di allestimento nella sua galleria. Cinque opere soltanto, la sua abituale produzione dopo anche diciotto faticosi mesi di lavoro. Non sarebbe stato in grado di prendere in mano un pennello per almeno altrettanto tempo. Seppure... E la metà della popolazione mondiale era fatta di donne. Più o meno. Di loro, una piccola ma affidabile percentuale fisicamente seducente. Ma questa era lei stessa una pittrice, e la circostanza lo affascinava più dell'unico scatto buono di lei che aveva visto, quello preso sul treno, la foto in cui Eco era allungata sulla poltrona con gli occhi chiusi, ignara che qualcuno la stava fotografando. Ransome si chiese se era dotata come artista. E questo avrebbe potuto scoprirlo senza difficoltà. Rimase in terrazza finché cominciarono a cadere le prime grosse gocce di pioggia. Entrò, chiuse la portafinestra, percorse un corridoio dal pavimento di marmo fino alla stanza dove Taja, in pigiama di seta nera, stava guardando il DVD di Cantando sotto la pioggia. Un'altra malata di insonnia. Lei lo vide riflesso sullo schermo al plasma e si voltò. C'era un'ombra di contrizione nel suo sorriso. «Mi servono altre foto», disse lui. «Controllo completo della storia personale, ovviamente. E ordina un'auto per domani. Gradirei osservarla di persona.» Taja annuì, aspirò una boccata dalla sigaretta e riportò l'attenzione sul film. Donald O'Connor che cade su un divano. Non sorrise. Taja non sorrideva mai di nulla. 3 Piovve tutto il giovedì: alle sei e mezzo le nuvole sopra Manhattan cominciavano ad aprirsi sugli ultimi squarci di un azzurro slavato; le pareti geometriche dei canyon di vetro restituivano il bronzo del tramonto. Eco riuscì a fare a piedi i quattro isolati dalla lezione di Studio dal Vero alla stazione dell'IRT della Quattordicesima senza ombrello. Oltre alla cartella
dei disegni portava un borsone e il computer, essendo andata direttamente dal suo ufficio alla lezione. La banchina dell'espresso per Uptown era affollatissima, l'atmosfera nella sotterranea pesante e maleodorante. Evidentemente era un po' che non passavano treni. Dagli altoparlanti arrivavano spiegazioni e annunci incomprensibili. Qualcuno suonava un violino con zelo eroico. Eco si fece strada lungo il marciapiede per trovare un po' di respiro nella zona dove si sarebbe fermata la prima carrozza quando fosse arrivato il convoglio. Una mezza dozzina di ragazzi ispanici si stavano azzuffando, per gioco ma con violenza; un paio dei più grandi la notarono. Uno di loro, che lei individuò alla prima occhiata, aveva l'aria di un piantagrane. Tatuaggi e piercing. Pieno di sé. Figlia della giungla urbana, Eco era bene addestrata a badare ai fatti suoi, a innalzarsi intorno mura di difesa quando, volente o nolente, si trovava in una compagnia potenzialmente poco piacevole. Sistemò la cartella rigonfia tra le ginocchia mentre tirava fuori una bottiglia d'acqua semipiena dalla borsa. Ricevette uno spintone alle spalle da una grassona carica di borse della spesa e perse quasi l'equilibrio. La lampo della cartella era rotta da un pezzo. Alcuni disegni scivolarono fuori. Eco fece una smorfia, con la testa indirizzò un cenno alle brusche scuse della donna e cercò di recuperare gli studi dal vivo prima che qualcuno li calpestasse. Uno dei ragazzini ispanici più giovani, con una bandana e una maglietta dei Knicks, si avvicinò per darle una mano. Raccolse uno schizzo al carboncino infradiciato dall'acqua di una pozzanghera. Il problema di Eco aveva richiamato l'attenzione di tutti i ragazzi. Quello di cui aveva pensato male strappò il disegno dalla mano del tifoso dei Knicks e lo studiò. Un nudo maschile. Lo mostrò in giro, ghignando. Poi si tirò indietro quando Eco tese una mano, chiedendo tacitamente la restituzione del suo disegno. Sentì che l'espresso era in arrivo. Il ragazzo la guardò. Aveva la camicia sbottonata fino all'ombelico. «Chi è questo qua? Il tuo ragazzo?» «Lasciami in pace, okay? Ho avuto una giornata faticosa, sono stanca, e non voglio perdere il treno.» Il ragazzo indicò il disegno e disse: «Be', ho visto un attrezzo più grosso su un criceto». Tutti gli altri risero, raccogliendoglisi intorno a dargli manforte. «No», rispose Eco. «Il mio ragazzo fa il poliziotto, e se vuoi te lo faccio
conoscere.» Questo provocò fischi, sbuffi e risate. Eco guardò il treno che stava rallentando, poi di nuovo il ragazzo che studiava il disegno. Posando da critico d'arte. «Ehi, ma sei brava, lo sai?» «Sì, lo so.» «Se vuoi farmi a me, possiamo fissare un appuntamento.» Si girò ghignando verso i suoi, e uno di loro disse: «Ritrarmi a me». «Sì, amico. E io che ho detto?» Si finse confuso. «Non ho detto così?» Guardò Eco e alzò magnanimo le spalle. «Così prima mi ritrai, e poi mi ti puoi fare.» «Senti, piccolo stronzo», ribatté Eco. «Voglio il mio disegno, subito, altrimenti ti ritrovi nella merda fino all'anello che hai al naso.» L'espresso si fermò stridendo dietro di lei. Sull'altro binario stava arrivando anche un locale. Il ragazzo fece la scena di essere atterrito dalla minaccia. Come tremando dalla paura, le sue mani sussultarono e il disegno finì in due pezzi. «Oh, scusa tanto. Mi sa che adesso ti serve un altro che ti si mette nudo.» Finì di strappare il foglio. Eco perse le staffe, mise a terra il computer e gli allungò un sinistro alla mascella. Lo mancò di poco. Il cholo si allontanò a passo di danza con mezzo disegno per mano, e andò a sbattere contro una donna che avanzava sulla linea gialla della banchina del locale come una ballerina classica. Il fanale del treno dietro di lei mandò un veloce riflesso sulla lama sottile di un coltello che lei teneva nella mano destra. Con la sinistra afferrò il ragazzo per i testicoli e lo sollevò sulla punta dei piedi finché furono occhi negli occhi. La donna in nero lo fissava, e la punta del coltello era tra due delle sue costole scoperte. Eco sentì la gola che si seccava. Non aveva alcun dubbio che la donna lo avrebbe accoltellato se non si fosse comportato a dovere. Il ragazzo aveva la bocca spalancata, ma anche se avesse urlato nessuno lo avrebbe sentito, con il treno che passava rombando a pochi passi. La donna rivolse un lungo sguardo a Eco, quindi fece un brusco cenno con la testa verso l'espresso. Il ragazzo con la maglietta da basket raccolse il computer di Eco e glielo mise in mano in fretta, come sospettando che anche lei avesse un'arma. Le porte del locale si aprirono e il marciapiede fu invaso da un fiume di gente che si riversava verso il treno in attesa. Eco si lasciò trasportare, e una vol-
ta a bordo si voltò a guardare. Un'altra immagine della donna in nero, che teneva ancora saldamente il cholo ridotto all'impotenza, richiamando qualche sguardo ma nessuna intromissione. Le vene di Eco pulsavano. La donna era come una superstizione ambulante, un temperamento nero e in agguato come la paranoia. Chi era? E perché, si chiese Eco mentre le porte si chiudevano, continua ad apparire nella mia vita? Fece in piedi il viaggio fino alla Ottantaseiesima stipata in mezzo ai pendolari, il viso inespressivo, esteriormente calma ma dentro tutta uno scompiglio, come un uccello traumatizzato che cerca di fuggire attraverso il vetro di una finestra chiusa. Eco non disse nulla a Peter della donna in nero fino al venerdì sera, mentre avanzavano a passo d'uomo nel traffico opprimente sulla 495 verso est, diretti a Mattituck e al weekend di intimità che avevano stabilito di trascorrere nella casa estiva dello zio di Frank Ringer. «Non hai idea di chi sia?» chiese Peter. «Sei sicura di non averla conosciuta da qualche parte?» «Quella è il tipo che, vista una volta, non te la dimentichi più. Ti dico che è da brivido.» «Ha tirato fuori un coltello nella metropolitana? Un coltello a serramanico?» «Può darsi. Non me ne intendo di coltelli. Era lo sguardo in quegli occhi, Pete. Il cholo dev'essersela fatta addosso.» Eco fece un breve sorriso, poi la sua espressione si incupì. «Insomma, il primo paio di volte, va bene. Coincidenza. La terza volta nella stessa settimana, no. Non me la bevo. Sicuramente mi sta seguendo.» Si scosse, ma la tensione dalle spalle non se ne andò. «Stanotte non ho dormito per niente bene, Pete.» «Se dovessi rivederla, chiamami subito.» «Chissà se...» «No. Tienitene alla larga. Non cercare di parlarle.» «Stai pensando che potrebbe essere una sorta di psicotica?» «Questa è New York. Dieci persone girano per la strada, e una o due di quelle dieci hanno qualcosa di molto malmesso nella testa.» «Fantastico. Adesso sì che ho paura.» Peter la cinse con un braccio. «Lascia che me ne occupi io. Qualunque cosa sia.» «Il motore si sta surriscaldando», osservò Eco.
«Già. Questo cazzo di traffico. Nel weekend sarà cosi fino alle dieci. Forse ci conviene fermarci, prendere qualcosa da mangiare.» Il cottage che avevano avuto in prestito per il weekend non faceva una grande impressione alla luce dei fari dell'auto di Peter; sembrava che lo zio di Frank Ringer se lo fosse costruito nei fine settimana usando materiali recuperati in vari cantieri edilizi o siti di demolizione. Finestre spaiate, assi mancanti, un camino di pietra su una facciata laterale che era chiaramente fuori uso: quel posto aveva tutto il fascino visivo di una brutta crosta. «Probabilmente dentro è un incanto», disse Eco, decisa a superare con l'ottimismo l'inizio poco promettente del loro weekend a due. Dentro, le piccole stanze puzzavano dell'umidità che trapelava dal tetto sconnesso. A Manhattan c'erano marciapiedi che nei giorni di raccolta dei rifiuti erano meglio arredati della casa. «Dev'essere il genere di posto per soli uomini», disse Pete, senza nascondere l'incredulità. «Apro un paio di finestre.» «Pensi che riusciremo a dare una pulita?» chiese Eco. Peter si guardò un'altra volta in giro. «Si fa prima a darle fuoco e ricominciare da capo.» «Una baia così bella.» C'era tanta delusione sul suo viso che Pete si mise a ridere. La abbracciò, la portò fuori e chiuse la porta alle loro spalle. «Vivi e impara.» «Casa tua o casa mia?» disse Eco. «Bayside è più vicino.» Nemmeno casa O'Neill a Bayside andava bene, invasa com'era dai parenti. Qualche minuto dopo le dieci Eco apriva la porta dell'appartamento in Yorktown dove viveva con la madre e zia Julia, del lato paterno della famiglia. Guardò Peter, sospirò, gli diede un bacio. Rosemay e Julia stavano giocando a Scarabeo sul tavolo da pranzo quando Eco entrò con Peter. Aveva lasciato il bagaglio del fine settimana in corridoio, accanto alla sua camera da letto. «Che bella sorpresa, Eco», disse Rosemay. «Pensavo che ti fermassi nel Queens.» Eco si schiarì la gola e si strinse nelle spalle, lasciando che fosse Peter a sbrigarsela. Peter disse: «Mio zio Dennis, di Philadelphia. Be', è piombato in città
con i suoi sei figli. La nostra casa sembra un campeggio. Stanno tinteggiando le pareti con la gelatina di uva». Si chinò su Rosemay, abbracciandola. «Come va, Rosemay?» Rosemay indossava un pigiama da casa e portava un paio di occhiali con le lenti verdi. C'erano tre cuscini di sostegno sulla sedia che occupava, e uno sotto i piedi in pantofole. «Un po' stanca, devo dire.» Julia era una donnetta tarchiata con gli occhiali dalle lenti spesse. «Quasi tutto il giorno a scrivere», disse accennando a Rosemay. «Di' qualcosa a tua madre sul cibo, Eco.» «Mangia, mamma. Me lo avevi promesso.» «Ho mangiato un uovo alla coque e il tè. È stato... quando? Verso le cinque, vero Julia?» «Uova alla coque. Non mangerebbe altro che uova.» «È che vanno giù facilmente», disse Rosemay massaggiandosi la gola. Le parole non venivano fuori facilmente, almeno a quell'ora tarda. Ma per Rosemay anche il sonno era sfuggente. «Tutto quel colesterolo», la rimproverò Peter. Rosemay sorrise. «Non c'è da preoccuparsi. Una malattia mortale ce l'ho già.» «Non ti permettere», la ammonì Pete severamente. «Andiamo, Petey. Dimmi tu che cos'è. Se non altro la mia mente sarà l'ultima parte di me ad andarsene. Prendete un paio di sedie, giochiamo tutti.» Il campanello suonò. Eco andò ad aprire. Peter stava sistemando le sedie intorno alla tavola quando sentì Eco lanciare un'esclamazione. «Peter!» «Chi è, Eco?» chiese Rosemay, mentre Peter raggiungeva l'ingresso. La porta d'entrata era semiaperta. Eco era arretrata scostandosi dall'uscio e dalla donna in nero ritta sulla soglia. Peter prese Eco per un braccio e la spostò contro il muro dietro la porta, dicendo alla donna in nero: «Mi scusi, posso parlarle? Sono della polizia». La donna in nero lo guardò per un paio di secondi, poi infilò la mano nella borsa mentre Peter si faceva avanti. «Non lo faccia!» La donna scosse la testa. Tirò fuori qualcosa dalla borsa ma Peter le afferrò il polso inguantato prima che la mano fosse del tutto in vista. Lei alzò
gli occhi su di lui ma non fece resistenza. Aveva, tra pollice e indice, un biglietto bianco. Sempre tenendola per il polso, Peter le prese il cartoncino con la mano sinistra. Lo guardò. Avvertiva dietro di sé la presenza di Eco, che guardava la donna al di sopra della sua spalla. La donna guardò Eco, poi di nuovo Peter. «Che cosa succede?» mormorò Eco, mentre Rosemay chiamava un'altra volta. Peter lasciò libera la donna in nero, si voltò e porse il biglietto a Eco. «Eco! Peter!» «Tutto a posto, mamma», rispose lei, studiando la scrittura sul cartoncino nella penombra dell'ingresso. «Mi scusi se sono stato un po' brusco», disse Pete alla donna in nero. «E che ho sentito dire che va in giro con un coltello, ecco tutto.» Questa volta fu Eco a scostare da una parte Peter, aprendo di più la porta. «Peter, non può...» «Parlare. Lo so.» Non toglieva gli occhi dalla donna in nero. «Ha un altro biglietto per dirmi lei chi è?» Lei annuì, guardò la borsa. Peter disse: «Sì, va bene». Questa volta la donna estrasse un biglietto da visita, e lo diede a Eco. «Si chiama Taja?» La donna annuì gravemente. «Taja come?» Lei fece una lieve alzata di spalle, impaziente, come a significare: che importanza ha? «E immagino che lei sappia chi sono io. Perché ha voluto vedermi? Vuole accomodarsi?» «Eco...» obiettò Peter. Ma la donna scosse la testa e indicò di nuovo la borsa. Aprì la mano con il palmo in su e la allungò verso Eco, lentamente, perché Peter non lo interpretasse come un gesto ostile. «Ha qualcosa per me?» si stupì Eco. Un altro cenno di assenso da Taja. Guardò Peter, poi tornò alla borsa e ne tolse una busta color panna, grande come una partecipazione di nozze. «Eco mi ha detto che la sta seguendo. Che storia è?» indagò Peter. Taja guardò la busta che aveva in mano come se lì ci fosse la risposta a tutte le loro domande. Peter continuava a studiare la donna. Aveva un truc-
co pesante come un'attrice di teatro; quello strato, più forse il Botox, era sufficiente a nascondere ogni traccia di età. Portava un cappello dalla cupola piatta e una gonna lunga con grossi bottoni rivestiti di stoffa lungo un lato. Il tocco scarlatto di un foulard era l'unica concessione di Taja al colore. Quello, e la tinta rosata delle guance. Gli occhi erano a mandorla, animaleschi, intelligenti. Una cosa che si notava era che non batteva quasi mai le palpebre, e questo accresceva un certo effetto robotico. Eco prese la busta. Sopra c'era il suo nome, scritto a mano. Sorrise incerta a Taja, che semplicemente distolse lo sguardo - un che di sprezzante nella sua inespressività, pensò Peter. «Un momento solo. Vorrei chiederle...» La donna in nero, che si era avviata verso le scale, si fermò. Eco disse. «Pete, è tutto a posto. Taja?» Taja si voltò. «Volevo ringraziarla. Sa, per la metropolitana, l'altro giorno.» Taja, dopo qualche istante, fece una cosa sorprendentemente fuori carattere, considerando il comportamento tenuto fino ad allora, il rigido formalismo. Rispose a Eco con un energico gesto della mano, a pugno chiuso e pollice alzato, prima di sparire giù per le scale. Peter aveva la sensazione che si fosse divertita a intimidire il cholo. Forse si sarebbe divertita ancora di più se avesse fatto un uso più completo del coltello. Eco gli posò una mano sul braccio, avvertendo il suo desiderio di seguire Taja. «Vediamo che cos'è», disse alzando l'altra mano con la busta. «A me sembra latina, cosa ne pensi?» chiese Peter a Eco mentre tornavano in soggiorno. Rosemay e Julia si misero a parlare contemporaneamente; volevano sapere chi c'era alla porta. «Un fattorino», rispose Peter, e guardò dalla finestra che dava sulla strada. Eco, assorta, disse: «Sei tu il detective». Cercò un tagliacarte sullo scrittoio di Rosemay. «Gesù santissimo», esclamò Julia. «Mi pareva che vi stavate azzuffando. Stavo per andarmi a prendere le pillole per il cuore.» Peter vide la donna in nero salire su una limousine in attesa. «Viaggia in prima classe, chiunque sia.» Lesse la targa mentre la vettura si allontanava e se la scrisse all'interno del polso sinistro con una biro. Rosemay e Julia guardavano Eco mentre lei apriva la busta. «Cos'è, cara, un invito?» «Sembrerebbe.»
«Allora, chi è che si sposa questa volta?» domandò Julia. «Sarai stata a una mezza dozzina di matrimoni, quest'anno.» «No, è...» Eco sentì serrarsi la gola. Si lasciò cadere lentamente su una poltroncina. «Notizie buone o cattive?» chiese Peter, sistemando la tapparella sulla finestra. «Dio... mio!» «Eco!» disse Rosemay, un po' allarmata dalla sua espressione. «È una cosa... assolutamente... fantastica!» Peter attraversò la stanza e le prese di mano l'invito. «Ma perché io?» disse Eco. «Fa parte del tuo lavoro, no? Andare a queste mostre? Cosa c'è di così speciale in questa?» «Perché è John Leland Ransome. Ed è l'evento dell'anno. Sei invitato anche tu.» «Lo vedo... 'Con un ospite'. Molto personale. Sono colpito. Giochiamo.» Tolse di tasca il cellulare. «Dopo che avrò fatto un controllo della targa.» Eco non gli stava prestando attenzione. Aveva ripreso l'invito e lo fissava come se l'inchiostro potesse sparire. Prevedibile fu la reazione che ebbe Stefan Konine quando Eco gli mostrò l'invito. Fece una smorfia. «Non per disprezzare la tua fortuna ma, effettivamente, perché tu? Se non fossi al corrente del livello dei tuoi standard morali...» «Non dirlo, Stefan», lo interruppe pacata Eco. Stefan cominciò a esaminare un contratto che silenziosamente uno dei suoi assistenti gli aveva deposto sulla scrivania. Prese la penna. «Ti confesso che ho brigato letteralmente per settimane per imbucarmi nella lista degli invitati. E non sono l'ultima scarpa vecchia di questa città.» «Avevo capito che Ransome non ti piaceva. Qualcosa a proposito di opere d'arte e di chiappe di marinai...» Stefan cancellò con un tratto di penna un intero paragrafo del contratto e alzò gli occhi su di lei. «Non venero l'uomo ma adoro l'evento. Non hai da lavorare?» «Non sono molto forte in preraffaelliti, ma ho fatto un po' di chiamate. Oggi il mercato è decisamente fiacco.» «Di' le cose come stanno: è un gelo artico. Riferisci al perito che fa la valutazione del patrimonio Chandler che potrebbe ricavare di più su uno di
quei siti di aste di porcherie su Internet.» Stefan effettuò un nuovo brutale intervento chirurgico su un'altra pagina del contratto. «Farai bene a metterti qualcosa di singolarmente seducente per il vernissage di Ransome. Tutti noi alla Gilbard non possiamo che beneficiare della tua gloria riflessa.» «Posso mettere l'abito in conto spese?» «Ovviamente no.» Eco storse la bocca. «Ma forse», aggiunse Stefan, giocherellando con la penna d'oro, «potremmo fare qualcosa per quell'aumento su cui stai facendo il piagnisteo da settimane.» 4 Gli appartamenti privati di Cyrus Mellichamp occupavano il quarto piano della sua galleria sulla Cinquattottesima Est. Erano un esempio di che cosa può realizzare la ricchezza accoppiata a un gusto infallibile. E lo era anche personalmente Cy. Non solo appariva coccolato dai migliori sarti, dietologi, fisioterapisti e truccatori, ma dava anche l'idea che quella fosse una condizione che si meritava davvero. La fortuna di John Ransome era infinitamente superiore a quella che Cy Mellichamp era riuscito ad accumulare imponendosi come cardine del mondo artistico newyorchese; comunque la sera della cerimonia dedicata a lui e ai suoi nuovi dipinti - una funzione a cui non aveva in programma di partecipare - era vestito in modo molto sportivo. Pullover da tennis, calzoni di cotone, mocassini. Senza calze. Mentre di sotto gli ospiti della Galleria Mellichamp bevevano Moët et Chandon, Ransome sorseggiava una birra e seguiva la festa sulla serie di monitor presenti nello studio di Cy. Non c'era il sonoro ma, grazie al costoso sistema di sorveglianza, gli sarebbe stato possibile, volendo, sintonizzarsi praticamente su ognuna delle conversazioni che si svolgevano nei primi due piani della galleria, gremiti di esponenti del bel mondo e dei media, tutte consacrate superstar. Di qualsiasi professione con una luccicante patina di prestigio, era lì presente un'icona, una leggenda vivente, un astro indiscusso. Cy Mellichamp aveva convinto uno dei suoi più intimi amici - una lista che comprendeva svariate centinaia di nomi - a preparare la cena per Ransome e i suoi ospiti di quella sera, entrambi ancora ignari di essere stati invitati. «John», disse Cy. «Monsieur Rapaou vorrebbe sapere se c'è un piatto
particolare che vorresti aggiungere al suo menu per la sera.» «Perché non buttiamo via il menù e prendiamo dei cheeseburger?» propose Ransome. «Oh, Dio mio», disse Cy quando ebbe ritrovato la voce. «Buttare...? John, Monsieur Rapaou è uno degli chef più rinomati di quattro continenti.» «Per cui dovrebbe essere capace di preparare un cheeseburger come Dio comanda.» «Johnnnnn...» «Ceniamo con due ragazzini, in pratica. E voglio che si sentano a loro agio, non che stiano a preoccuparsi di quale forchetta usare.» Nella sala in cui era stata allestita la mostra di Ransome venivano ammessi una dozzina di invitati alla volta. Per non ferire l'orgoglio di nessuno, l'ordine in cui avevano accesso ai nuovi Ransome era stato lasciato all'imparzialità di un sorteggio. A parte Eco, Peter e Stefan Konine, arbitrariamente assegnati al secondo gruppo. Ransome, nonostante il disinteresse per la festa data in suo onore, era impaziente di raggiungere il suo principale obiettivo della serata. In tutte le nuove opere compariva la stessa modella: una giovane donna nera con i capelli che le arrivavano fin quasi alla vita. Era, inutile dirlo, stupenda, dotata dell'ammaliante qualità che differenzia il semplice bell'aspetto dalla bellezza classica. Due tele, senza cornice, erano appese alla parete. Le altre tre, su cavalletto, erano non più grandi di un metro per un metro. Tratto caratteristico di tutta l'opera di Ransome erano i paesaggi selvaggiamente primordiali, sinistri o minacciosi in cui prendevano vita, distaccate da tutto, le sue modelle. Due minuti dopo essere entrati nella sala Peter cominciò a dare segni di impazienza, lanciando occhiate a Eco, che sembrava persa in contemplazione. «Non ci arrivo.» «Peter», mormorò Eco in tono fermo. «Cos'è, la messa solenne, che non posso parlare?» «Solo... a bassa voce, per favore.» «Cinque quadri?» riprese Peter abbassando il tono. «Tutta questa messinscena per cinque quadri soltanto? Le star del cinema? Quello che fa James Bond è qui, hai visto?»
«Dipinge solo cinque quadri alla volta. Ogni tre anni.» «Lento, eh?» «Meticoloso.» Peter sentiva il suo respiro, un sospiro di rapimento. «Come usa la luce...» «Te lo stai guardando da...» «Va' via.» Peter si strinse nelle spalle e raggiunse Stefan, che era meno assorbito. «Ransome si fa pagare a metro quadrato?» «A centimetro quadrato, piuttosto. Ci vogliono cifre a sei zeri solo per piazzarsi in finale. E mi dicono che in gara ci sono già più di quattrocento aspiranti compratori.» «Per cinque quadri? Eco, continua a dipingere. Lascia perdere il lavoro di giorno.» Lei gli lanciò un'occhiataccia per averle rotto la concentrazione. Peter fece una smorfia e disse a Stefan: «Mi sembra di averla già vista da qualche parte questa modella. Sports Illustrated. Il numero dell'anno scorso sui costumi da bagno». «Difficile», replicò Stefan. «Nessuno sa chi sono le modelle di Ransome. Nessuna di loro compare mai alle mostre né è pubblicizzata. E nemmeno il genio in persona. Potrebbe essere in mezzo a noi, stasera, e non lo riconoscerei. Non ho mai visto una sua foto.» «È così timido?» « Oppure eccezionalmente furbo.» Peter si stava concentrando su uno studio di nudo della ragazza nera sconosciuta. Niente era lasciato all'immaginazione. Crudo richiamo sensuale. Si guardò intorno, nella piccola sala, come se i suoi poteri indagatori potessero rivelargli l'artista. Chi vide, invece, fu Taja, sotto l'arco di una porta, che lo guardava. «Eco?» Lei si girò verso Peter con aria impaziente, poi vide a sua volta Taja. Quando la donna in nero ebbe avuto la sua attenzione, le fece cenno di avvicinarsi. Eco e Peter si scambiarono un'occhiata. «Magari ha un altro espresso da consegnare», sussurrò Peter. «Direi che è il caso di accertarcene.» In mezzo all'atrio della galleria un piccolo ascensore in un pozzo dalle pareti trasparenti portava all'attico, alla suite di Cy Mellichamp. Molte persone che si consideravano importanti guardarono Peter ed Eco salire al
quarto piano con Taja. Stefan raccolse alcune perplesse o esplicitamente invidiose speculazioni. «Ho speso diciassette milioni con Cy e non sono mai stato invitato nell'attico. Chi sono quelli?» «Ransome ha figli?» «Chi lo sa?» Il conduttore di un talk-show con un sogghigno osceno e una riserva infinita di pettegolezzi commentò: «Quella in nero, cara mia, è l'amante di John Ransome. Le fa delle sevizie terrificanti, mi hanno detto». «O viceversa», ribatté Stefan, avvertendo alla bocca dello stomaco un accenno di ansia che non aveva niente a che fare con la quantità di antipasti ingurgitati. C'era qualcosa nell'aria, ovviamente coinvolgeva Eco, e ancora più ovviamente non erano affari suoi. Ma l'impressione che aveva, guardando Eco che usciva dall'ascensore e svaniva nel sancta sanctorum di Cy, era quella di una dolce cerbiatta che veniva separata dal branco. Taja condusse Eco e Peter alla presenza di Cy Mellichamp e chiuse la porta del lussuoso salotto, una vera e propria galleria dedicata quasi esclusivamente all'impressionismo francese. Una stanza molto spaziosa con un alto soffitto spiovente. Le portefinestre si aprivano su una piccola terrazza dove c'era una tavola illuminata con le candele e apparecchiata per tre, e due maggiordomi perfettamente abbigliati. «Signorina Halloran, signor O'Neill! Sono Cyrus Mellichamp. È magnifico che siate potuti essere qui stasera. Spero vi stiate divertendo.» Porse la mano a Eco e le diede un bacio discreto su una guancia, una via di mezzo tra l'uomo d'affari e il vecchio zio, notò Peter. Lui gli strinse la mano e rimasero per un attimo a fissarsi negli occhi, Cy con un sorriso piacevole ma senza curiosità. «Siamo onorati, signor Mellichamp», disse Eco. «Posso chiamarla Eco?» «Certo.» «Cosa ne pensi dei nuovi Ransome, Eco?» «Sono magnifici. Ho sempre amato la sua opera.» «Gli farà molto piacere.» «Perché?» chiese Peter. Si voltarono tutti e due a guardarlo. Deliberatamente, Peter aveva assunto la sua faccia da poliziotto. Eco non gradì. «Questa è una serata importante per il signor Ransome. Non è vero? Mi
sembra strano che non ci sia.» «Invece c'è, Peter», rispose Cy. Pete allargò le mani e fece un sorriso interrogativo, mentre l'espressione di Eco si induriva. «È solo che a John non è mai piaciuto essere al centro dell'attenzione. Vuole che la concentrazione sia tutta sul suo lavoro. Ma sarà lui stesso a dirvelo. Ci teneva molto a conoscervi tutti e due.» «Perché?» ripeté Peter. «Peter», lo richiamò Eco scura in viso. «È una domanda legittima», disse Peter, guardando Cy Mellichamp. Cy batté le palpebre e il suo sorriso si allargò ancora di più. «Certo che lo è. Volete seguirmi? Di là, nello studio. C'è qualcosa che ci piacerebbe farvi vedere.» «Lei e il signor Ransome», precisò Peter. «Be', sì.» Offrì il braccio a Eco. Lei lanciò a Peter un'occhiata fulminea e letale dandogli le spalle. Peter rimase fermo qualche istante, prese fiato e li seguì. Lo studio era quasi buio. Peter fu immediatamente attratto dalla schiera di monitor di sorveglianza, tre dei quali davano diverse inquadrature della saletta dove gli ultimi dipinti di Ransome erano esposti. Dove lui ed Eco erano fino a pochi minuti prima. L'idea che fossero stati osservati da quella stanza, forse proprio da Ransome, fece riflettere il poliziotto che era in lui. Non c'era motivo per cui Cy Mellichamp non dovesse avere la migliore attrezzatura di sorveglianza esistente per proteggere proprietà del valore di milioni di dollari. Ma finora di tutta quella storia - Taja che seguiva la sua ragazza in giro per la città, gli inviti speciali alla mostra di Ransome niente aveva un senso, e Peter era più che pronto a tagliare corto e venire al punto. A un lato della scrivania di Mellichamp c'era un cavalletto coperto da un panno e illuminato da un faretto. Il gallerista vi condusse Eco, sorridendo, e la invitò a togliere la copertura. «È un'opera in corso, si capisce. John sarebbe il primo ad ammettere che non rende giustizia al soggetto.» Eco esitò, poi con delicatezza scoprì la tela, che rivelò uno studio incompiuto di... Eco Halloran. Gesù, pensò Peter, diventando teso senza alcun motivo spiegabile. Anche se quello che c'era di lei sulla tela appariva magnifico.
«Peter! Guarda!» «Sto guardando», disse Peter, poi si voltò, avvertendo che qualcuno era entrato nella stanza dietro di loro. «No, non le rende giustizia», disse John Ransome. «È solo un inizio, ecco.» Porse la mano a Peter. «Congratulazioni per la sua promozione a detective.» «Grazie», ribatté Peter, saggiando la stretta di Ransome senza cambiare espressione. Ransome fece un accenno di sorriso. «Ho saputo che suo nonno paterno è al terzo posto tra gli agenti più decorati nella storia della polizia di New York.» «Esatto.» Cy Mellichamp aveva un fascino e un'eleganza di prima categoria, e il gelo di uno squalo che scivola dietro il vetro di un acquario. John Ransome squadrava Peter come se ogni dettaglio del suo viso fosse importante da ricordare in qualche momento nel futuro. Gli tenne la mano più a lungo di quanto si faccia in genere tra uomini, ma non troppo. Era di due dita più alto di Peter, con una folta capigliatura argentata, una mascella squadrata che l'età stava ammorbidendo, rughe profonde agli angoli di una bocca sensuale. Parlava con voce nasale ma l'effetto era un suono pieno, morbidamente piacevole, come se la voce scivolasse attraverso narici rivestite di velluto. I suoi occhi neri non si staccavano dallo sguardo un po' polemico di Peter. Erano gli occhi di un uomo che aveva combattuto delle battaglie, e che ne aveva vinte solo alcune. Avrebbero voluto dire più di quanto il suo cuore poteva permettersi di rivelare. E questa, indovinò Peter nei pochi momenti di contatto tra la sua mano e quella dell'uomo, era la maggior fonte di tanto fascino. Avendo fatto sentire Peter un po' più a suo agio, Ransome riportò l'attenzione su Eco. «Avevo solo qualche fotografia», disse accennando a quel ritratto impressionistico. «Mancava troppo. Finora. E adesso che finalmente la conosco, vedo quanto effettivamente mi mancava.» Al lume di candela e alla luce delle stelle, mangiarono cheeseburger e patatine sulla terrazza. Ed erano cheeseburger fatti come Dio comanda. Anche la birra era ottima. Peter si concentrò sulla birra perché non gli piaceva mangiare quando c'era qualcosa che lo rodeva. Forse l'espressione adorante di Eco. Quanto a John Leland Ransome, c'era qualcosa negli yuppy di una certa età (al di là dell'aureola di artista famoso e appartato)
che portano i mocassini senza le calze, qualcosa che urtava l'irlandese che era in lui. Per il resto forse non era così difficile trovarlo simpatico. Fino a quando non fu chiaro che Ransome o chi per lui aveva fatto un lavoro approfondito per ficcare il naso nella vita e nelle relazioni famigliari di Eco. «Sul certificato di nascita e di battesimo il tuo nome è Mary Catherine. Da dove viene 'Eco'?» «Be', a diciotto mesi parlavo ininterrottamente. Ripetevo tutto quello che sentivo. Mio padre mi diceva: 'Mi sbaglio o c'è una piccola eco qua dentro?'» «Tuo padre era un gesuita, vero?» «Sì. Era la sua... vocazione finché non conobbe mia madre.» «Che insegnava storia medioevale a Forham, giusto?» «Sì.» «E ora ha lasciato l'insegnamento a causa della malattia. Sta ancora lavorando alla biografia di Bernardo di Chiaravalle? Mi piacerebbe leggerla. Anch'io sono uno studioso di storia.» Peter lasciò che gli riempissero per la quarta volta il bicchiere di birra. Eco gli lanciò un'occhiata irritata che voleva dire allora, ci sei o non ci sei? Ransome intervenne: «Vedo che la birra è di tuo gradimento. Viene da una fabbrica piccola ma eccezionale di Dortmund che al di fuori della Germania non è molto conosciuta». «Quindi», disse Peter con una punta di ostilità, «lei se la fa mandare a barili per via aerea, qualcosa del genere?» «Il droghiere all'angolo», sorrise Ransome. «Tre dollari al pezzo.» Peter cambiò posizione sulla sedia. Il colletto della camicia dello smoking gli stava irritando il collo. «Signor Ransome, posso farle una domanda?» «Solo se mi chiami John.» «Okay, John, quello che mi piacerebbe sapere è: perché tutto questo lavoro di indagine? Voglio dire, sembra che tu sappia un cas... una quantità di cose su Eco. Quasi un'invasione della sua privacy.» Lo sguardo di Eco gli diceva che sarebbe stata felice di affibbiargli un calcio, se solo non avesse avuto una gonna così lunga. Rivolse a Ransome un teso sorriso di scuse, ma Peter ebbe la sensazione che anche lei era incuriosita, nonostante l'adorazione che mostrava per l'eroe. Ransome prese l'accusa sul serio, con un'ombra di contrizione negli oc-
chi abbassati. «Comprendo come debba apparirti questa cosa. È la natura del tuo lavoro, è chiaro, a far interpretare il mio interesse per Eco come un comportamento sospetto o forse addirittura predatorio. Ma se Eco e io dobbiamo passare insieme un anno...» «Che cosa?» esclamò Peter, ed Eco fu lì lì per fare lo stesso, ma fece in tempo a portarsi il tovagliolo alle labbra schiarendosi la gola. Ransome ribadì la sua affermazione annuendo, con la sicurezza di chi è nato e cresciuto nel club dei vincenti. Uno, pensò Peter risentito, che non avrebbe battuto ciglio nemmeno se si fosse trovato con le mutande in fiamme. «... trovo utile nel mio lavoro di artista», continuò Ransome, «che vi siano altre aree di compatibilità con i miei soggetti. Mi piace la buona conversazione. Non ho mai avuto una modella che non fosse di buone letture e capace di articolare un discorso.» Sorrise cortesemente a Eco. «Anche se ho paura di essermi lasciato andare a monopolizzare la nostra conversazione, questa sera.» Spostò gli occhi su Peter. «Ed Eco è anche promettente come pittrice. Questo lo trovo altrettanto attraente.» «Chiedo scusa», fece Eco incredula. «Ma devo essermi persa qualcosa.» «Davvero?» disse Ransome. Ma mantenne lo sguardo fisso su Peter, che aveva l'aria di chi è stato battuto a un gioco senza regole. Finito il party, la galleria ormai vuota e le squadre di pulizia al lavoro, John Ransome accompagnò Eco in una visita guidata personale alla sua produzione più recente mentre Cy Mellichamp intratteneva Stefan Konine e un Peter sempre più inquieto, che aveva passato quasi tutta l'ultima ora a desiderare di trovarsi altrove. Con Eco. «Chi è?» chiese Eco indicando l'ultima modella di Ransome. «O si tratta di un'informazione riservata?» «Mi fido della tua discrezione. Si chiama Silkie. I miei soggetti precedenti sono rimasti anonimi su loro richiesta. Per tenere alla larga i curiosi. Immagino che durante l'anno della relazione con me ognuna di loro abbia assorbito un po' della mia passione per... lasciare che il mio lavoro parli da sé.» «L'anno della relazione con te? Non vi frequentate più?» «No.» «Su tua richiesta?»
«Non voglio che tu ti faccia l'idea che sono state storie finite male. Saresti molto lontana dalla verità.» L'aria inespressiva, Eco si manteneva a una controllata ma sottile distanza emotiva da lui. «Silkie. Di seta. Il nome la descrive alla perfezione. Di dov'è?» «Sudafrica. L'ha scoperta Taja, sul treno Durban-Città del Capo.» «E Taja ha scoperto anche me? Ne fa di giri.» «Ha trovato lei tutti i miei soggetti recenti, e per recenti intendo gli ultimi vent'anni.» Fece un sorriso un po' dolente, al pensiero di quanto in fretta passano gli anni, e di quanto lentamente lavorava lui. «Dipendo molto dall'occhio e dall'intuito di Taja. Dipendo dalla sua fedeltà. Era anche lei un'artista, ma non dipinge più. Nonostante i miei sforzi per... per ispirarla.» «Perché non parla?» «Non ha la lingua. Le è stata mozzata dagli agenti di uno di quei governi ferocemente repressivi della guerra fredda. Non ha voluto rivelare dove si trovassero alcuni suoi famigliari, dei dissidenti. A quel tempo aveva appena tredici anni.» «Dio, è spaventoso!» «Temo che questo sia il minimo di quello che è stato fatto a Taja. Ma per me è sempre stata come, non trovo una parola migliore, un talismano.» «Dove vi siete conosciuti?» «Faceva l'artista di strada a Budapest, viveva in fondo a un vicolo con ladri e puttane. La prima volta che l'ho vista ero in uno dei miei fin troppo frequenti anni sabbatici nei tempi in cui non dipingevo bene. Anzi, non dipingevo quasi. È ancora difficile, per me, quasi sempre.» «È per questo che vuoi che posi per... per un anno?» «Io lavoro per un anno con il mio soggetto. Ci vuole un altro anno per comprendere appieno quello che abbiamo iniziato insieme. Poi... comincia per me un'agonia di diversi mesi, prima di consegnare finalmente i miei quadri a Cy. E alla fine arriva la notte inevitabile.» Con un gesto ampio e stanco della mano abbracciò la «Sala Ransome», poi si rischiarò. «Li lascio andare. Ma questa è la prima volta che mi capita di avere la fortuna di conoscere il mio prossimo soggetto e collaboratore prima che i miei ultimi dipinti abbiano preso il largo.» «Sono senza parole, davvero. Anche solo per essere stata presa in considerazione. Mi dispiace di dover dire che è fuori discussione. Non posso farlo.»
Eco guardò al di là di lui, verso la porta dove Peter stava con gli altri due uomini, cercando di non mostrarsi ansioso e irritato. «È un bravo giovanotto», disse Ransome con un sorriso. «Non è solo per Peter... non è solo stare lontano da lui per tanto tempo. Sarebbe dura. C'è anche mia madre.» «Lo capisco. Non mi aspettavo di convincerti al nostro primo incontro. Si sta facendo tardi, e so che devi essere stanca.» «Ti vedrò di nuovo?» chiese Eco. «Dipende da te. Ma io ho bisogno di te, Mary Catherine. Spero di avere un'altra occasione per convincerli di questo.» Né Eco né Peter erano il tipo di persone reticenti a mettere le carte in tavola quando c'era nell'aria un contrasto o un disaccordo da sanare. Figli della città, erano cresciuti polemici e combattivi, se l'occasione lo richiedeva. Prima ancora che si fosse sfilate le scarpe nuove che le avevano fatto male per quasi tutta la serata, Eco partì all'attacco. Stavano transitando per Park Avenue. Troppo veloce, a suo parere. Gli disse di rallentare. «Oppure metti il lampeggiatore. Hai mancato di un soffio quel taxi.» «Potrebbero sospendermi per questo», disse Peter. «Perché sei così arrabbiato?» «Ho detto che sono arrabbiato?» «È stata una serata meravigliosa, e ora me la stai rovinando. Rallenta.» «Quando uno ti viene addosso come quel Ransome...» «Per favore! Mi viene addosso? Sei così... così... non voglio dirlo.» «Avanti. Noi diciamo come stanno le cose, ti ricordi?» «Im-ma-tu-ro.» «Grazie. Sono immaturo perché siccome uno mi rimpinza io dovrei...» «Peter, non ho mai detto che l'avrei fatto! Ho il mio lavoro a cui pensare. Mia madre.» «E allora perché ha detto che sperava di sentirti presto? E tu a sorridere, ma certo. Guarda, non vedo l'ora.» «Non si manda al diavolo uno che ha fatto di tutto per...» «Perché no?» «Peter, ascolta. Ho ricevuto un complimento incredibile da un pittore che per me è... insomma, non dovrei essere lusingata? Andiamo.» Peter decise di non bruciare il semaforo e si mise tranquillo al volante. «Fa' pure. Hai organizzato qualcosa con lui?»
«Per l'ultima volta, no.» Era rossa in viso e si era smangiata quasi tutto il rossetto dal labbro inferiore. Assunse un tono più conciliante. «Lo sai che non succederà, ragiona un po'. Il ballo è finito. Lascia che Cenerentola si goda i suoi ultimi momenti, okay? Stanno suonando, c'è il semaforo verde, Petey.» Sei isolati più avanti Peter ammise: «D'accordo. Avrò reagito...» «Esageratamente. E dov'è la novità? Tesoro, io ti amo.» «Quanto?» «Infinitamente.» «Anch'io ti amo. Oh, Dio. Infinitamente.» Quando Eco arrivò a casa Rosemay e Julia dormivano. Ripose nel piccolo armadio l'abito che aveva indossato alla mostra di John Leland Ransome, infilò la camicia da notte e andò in bagno a fare pipì e a lavarsi i denti. Passò una quantità di tempo insolita per lei a studiare il suo viso allo specchio. Non per vanità: più che altro era come se stesse eseguendo un autoritratto emozionale. Fece un sorriso ironico, si strinse nelle spalle e tornò in camera sua. Da uno dei due scaffali degli amati libri d'arte prese un sottile volume di grande formato intitolato Le donne di Ransome. Si rannicchiò contro il capezzale del letto e accese la lampada sul comodino, passando un'assorta mezz'ora a studiare le trenta tavole a colori e le pagine con particolari ingranditi che illustravano vari aspetti della tecnica dell'artista. Verso le tre cedette al sonno, risvegliandosi di soprassalto mentre il libro che aveva in grembo piombava sul pavimento. Lo lasciò lì, lanciò un'occhiata a un paesaggio sul cavalletto a cui lavorava da settimane, chiedendosi cosa ne avrebbe pensato John Ransome. Dopo di che spense la luce e rimase a giacere supina al buio, con il rosario non recitato stretto nel pugno. Pensando e se, e se... Ma un mutamento così spettacolare nella sua vita era solo nella sua immaginazione, o in un universo parallelo. E Cenerentola era una fiaba. 5 Peter O'Neill faceva il turno di giorno con il suo partner Ray Scalla. Stava indagando su una denuncia di abuso su minori, quando fu tolto improvvisamente dall'incarico con l'ordine di presentarsi all'ufficio del commissario al One Police Plaza.
Era una giornata ventosa, insolitamente fredda per metà settembre. Il tenente di Pete non fu in grado di spiegargli il motivo di quella che in via ufficiale veniva definita una «richiesta». «In centro, eh?» disse Scalla. «A pranzo con il tuo vecchio?» «Gesù, non me lo chiedere», brontolò Peter, imbarazzato e a disagio. Gli uffici del Commissariato di Polizia per la città di New York erano al quattordicesimo piano. Peter entrò nella reception e trovò che anche suo padre era lì in attesa. Corin O'Neill era in alta uniforme, con le due stelle da comandante di circoscrizione. Pete sarebbe stato appena un po' meno sorpreso se si fosse trovato davanti Elvis Presley. «Cosa succede, papà?» Il sorriso di Corin O'Neill mostrava appena un'ombra di disagio. «Non ne ho idea. Problemi sul lavoro, Petey?» «Saresti stato il primo a saperlo.» «Sì, certo.» La segretaria del commissario uscì dal suo ufficio. «Buon giorno, Peter. Mi fa piacere che sia potuto venire.» Come se avesse avuto da scegliere. Pete fece uno sforzo per apparire calmo e poco impressionato. Corin disse: «Bene, Lucilie. Andiamo a vedere da che parte tira il vento oggi». «L'ho appena avvertito, comandante. Potete entrare direttamente.» Ma fu il commissario stesso ad aprire la porta del suo ufficio, accogliendoli con calore. Si chiamava Frank Mullane. «Bene, Corin! È un piacere come sempre. Come sta Kate? Lo sai che c'eravamo tanto allarmati.» «Adesso è a posto quasi al cento per cento, e le farà piacere sapere che ti sei informato.» Mullane spostò lo sguardo oltre lui, su Peter, poi diede al giovane detective un mezzo abbraccio: stretta di mano con la destra, stretta al braccio con la sinistra. «Quand'è stata l'ultima volta che ti ho visto, Peter? È tanto, vero?» Sì, signore. Mullane tenne la mano sul braccio di Peter. «Entrate, accomodatevi. Allora, ti piace il movimento al 7-5?» «È quello che volevo, signore.» Appena furono nell'ufficio, e Lucilie ebbe chiuso la porta dietro di loro, Peter vide John Ransome, questa volta in giacca e cravatta. Era passato più di un mese dalla mostra dell'artista alla Galleria Mellichamp. Eco non ave-
va più detto una parola al riguardo; Peter si era dimenticato di lui. Ora ebbe la sensazione di avere un mattone a bloccargli la bocca dello stomaco. «Peter», disse Mullane, «tu conosci già John Ransome.» Il padre di Peter gli lanciò una rapida occhiata. «John, questo è Corin O'Neill, il padre di Peter, uno degli uomini migliori che abbia mai avuto.» I due si strinsero la mano. Peter si limitò a fissare Ransome. «John è un artista, probabilmente lo sai già», continuò Mullane rivolto a Corin. «Mio fratello possiede una delle sue opere. E John è un grande sostenitore delle organizzazioni di beneficenza della polizia da molto prima che io avessi questa carica. Ora, ha una piccola richiesta, e noi siamo felici di venirgli incontro.» Si rivolse a Peter e gli strizzò l'occhio. «Incarico speciale per te. John ti spiegherà.» «Mi spiegherà, ne sono certo», disse Peter. Un elicottero a noleggio portò Peter e John Ransome fino all'aeroporto di White Plains, dove trovarono una limousine ad attenderli. Si mossero in direzione nord attraverso il Westchester County sulla route 22 fino a Bedford. Regione di ville. Sull'elicottero non avevano parlato molto, e nel percorso attraverso quella che era una delle zone immobiliari più costose del pianeta Ransome aveva delle telefonate da fare. Continuava a scusarsi. Peter annuiva e guardava dal finestrino. Con la sensazione precisa che si stesse sprecando il suo tempo. Era sicuro che prima o poi Ransome avrebbe tirato fuori l'argomento Eco. Non si era dimenticato di lei, e nonostante i suoi modi tranquilli era un tipo determinato. Quando Ransome ebbe finito una buona volta con il telefono Peter decise di partire all'offensiva. «Vivi da queste parti?» «Sono cresciuto qui», disse Ransome. «Bedford Village.» «Allora è lì che stiamo andando, a casa tua?» «No. La casa in cui sono cresciuto non c'è più. Mi sono liberato di tutto, tranne pochi acri, quando i miei genitori sono morti.» «Doveva valere un bel po'.» «Non avevo bisogno di soldi.» «Eri già ricco, vero?» «Sì.» «Allora, questo incarico speciale di cui parlava il commissario? Hai bisogno di qualcuno che ti sistemi, che so, una situazione? C'è qualcuno che ti dà dei problemi?»
«Al momento il mio solo problema sei tu, Peter.» «Okay, questo forse l'avevo immaginato. Quindi si tratta di Eco?» Ransome fece un sorriso disarmante. «Tu pensi che sono uno pieno di quattrini che si è messo in testa di portarti via la ragazza, Peter?» «Non sono preoccupato. Eco non sarà il tuo... come l'hai chiamata? ... il tuo soggetto. Questo lo sai già.» «Io penso che ci sia un dilemma personale, più di quanto tu sia disposto ad ammettere. Tocca sia te sia Eco.» Peter si strinse nelle spalle, ma sentiva che si stava riscaldando. «Non ho nessun dilemma personale, signor Ransome. Quelli sono per chi ha troppo tempo e troppi quattrini a disposizione, sai? Così cercano di divertirsi intrufolandosi della vita di altri, che starebbero meglio a essere lasciati in pace.» «Credimi, non ho alcuna intenzione di provocare a nessuno di voi due il minimo...» Si sporse in avanti e indicò dal finestrino. «Questo potrebbe interessarti. Uno dei miei precedenti soggetti vive qui.» Stavano passando davanti a una tenuta circondata da qualcosa come un quarto di miglio di bassi muretti di pietra. Peter intravide una costruzione in un folto d'alberi, e un nome su un pilastrino all'ingresso. Van Lier. «So che è soddisfatta. Ma non siamo più in contatto da quando Anne ha posato per me. Molti anni fa.» «Ha l'aria di passarsela bene», disse Peter. «Questa casa gliel'ho regalata io.» Peter lo guardò con una piega di scetticismo sulle labbra. «Tutti i miei soggetti passati sono stati ben remunerati, a condizione che rimanessero anonimi.» «Perché?» «Diciamo un capriccio», rispose Ransome, con un sorriso che prendeva in giro lo scetticismo di Peter. «Noi ricchi abbiamo di questi capricci.» Riportò l'attenzione sulla strada davanti a sé. «Un tempo lungo questa strada c'era un banchetto di frutta e verdura che in questa stagione aveva pere e mele veramente magnifiche. Chissà se... sì, eccolo.» Peter aveva sete e il sidro al banco della frutta era alla temperatura giusta. Fece un giretto nei dintorni mentre Ransome sceglieva le mele. Tra i clienti pomeridiani c'era una giovane donna gravemente handicappata su una carrozzina che aveva l'aria di essere costata quasi quanto un'auto spor-
tiva. Quando Ransome tornò alla limousine, chiese a Peter: «Ti piace qui?» «L'aria pulita mi sta facendo venire mal di testa. Dev'essere quello.» Finì il sidro. «Quanti sono stati? I tuoi 'soggetti', intendo.» «Eco sarà l'ottava. Se riuscirò a convincere...» «Niente se. Perdi il tuo tempo.» Peter guardò la povera ragazza in carrozzina che veniva caricata su un furgone. «La sclerosi laterale amiotrofica è una malattia devastante, Peter. Quanto ci vorrà prima che la madre di Eco non possa più badare a se stessa?» «Probabilmente due o tre anni.» «E dopo?» «Non si sa. Potrebbe vivere fino a ottant'anni. Se vogliamo dire che quello è vivere.» «Un peso terribile da dover portare, per Eco. Siamo franchi.» Peter lo guardò fisso, accartocciando il bicchiere di plastica. «Economicamente nessuno di voi due sarà in grado di sostenere le necessità della malattia di Rosemay. Né di avere una vita per voi. Io però posso alleviare questo peso.» Peter centrò da sei metri il bidone dei rifiuti con il bicchiere, voltando le spalle a Ransome. «Te le sei scopate tutte?» «Lo sai che non ho intenzione di rispondere a una domanda del genere, Peter. Posso dire questo: non potrà mai esserci tra i miei soggetti e me alcun conflitto, alcuna... tensione nascosta che possa influire negativamente sul mio lavoro. Il lavoro è l'unica cosa che conta davvero.» Peter si guardò intorno con tutta la calma che riuscì a mantenere, ma il sole lo costrinse a strizzare gli occhi. «E questo è quello che conta per noi: Eco e io ci sposeremo. Sappiamo che ci sono dei problemi. Li affronteremo. Non abbiamo bisogno del tuo aiuto. C'è altro?» «Sono lieto che noi due abbiamo avuto del tempo per conoscerci. Ti spiace se facciamo un'altra sosta prima di tornare in città?» «Fai con comodo. Per me è lavoro, come dice papà. Fin qui è stato un guadagno facile.» Alla fine di un tortuoso e ripido viale di ghiaia fiancheggiato da muretti a secco che erano lì sicuramente da un secolo e più, la limousine giunse davanti a un grazioso cottage di pietra in stile Cotswold con il tetto a spio-
venti che si affacciava su un lago e una riserva protetta di uccelli acquatici. Parcheggiarono sull'acciottolato di una rotonda e scesero. Davanti a un garage separato dalla casa erano fermi il furgone di un'agenzia di catering e una Land Rover azzurra. «Quello, sull'altra sponda del lago, è il Connecticut. Tra un mese la scena diventerà... be', spettacolare come può esserlo l'autunno nel New England. In inverno, ovviamente, il lago è perfetto per pattinarci. Tu pattini, Peter?» «Hockey su strada», rispose lui, guardandosi intorno e respirando a fondo. Il sole stava tramontando a ovest di un piccolo frutteto dietro il cottage; la cima della collina era sfiorata da una piacevole brezza. «Allora è qui che sei cresciuto?» «No. Qui abitava il custode. Questo cottage e quattro o cinque ettari di bosco e frutteto sono ciò che è rimasto dei duecento ettari di proprietà della mia famiglia. Ora è tutto terreno pubblico. Nessuno può costruire un'altra casa nel raggio di milleduecento metri.» «È tutto per te? Be', decisamente è qui che lavorerei se fossi in te. Tanta pace e silenzio.» «Quando ero molto più giovane di te, stavo appena cominciando a dipingere, i boschi con tutte le loro forme e colori erano un appetito, parafrasando Wordsworth - un pittore di genere diverso, essendo la poesia il pigmento esotico della lingua.» Si guardò lentamente intorno, con gli occhi carichi di ricordi. «Quasi sei anni dall'ultima volta che sono stato quassù. Ora passo quasi tutto il mio tempo nel Maine. Ma di recente ho fatto ristrutturare il cottage, e ho aggiunto una piscina dal lato del lago. Ti piace, Peter?» «Sono molto colpito.» «Vuoi dare un'occhiata all'interno?» «Sembra che ci sia gente. E comunque, qual è il punto?» «Il punto è che il cottage è vostro, Peter. Un dono di nozze per te ed Eco.» Peter aveva vinto una tris due anni prima ad Acqueduct, e aveva incassato duemilaseicento dollari. Il colpo di fortuna lo aveva elettrizzato. Ora era stordito. Quando le pulsazioni del cuore furono tornate più o meno sotto controllo riuscì a dire: «Aspetta un momento. Tu... non puoi fare questo». «L'ho già fatto, Peter. Eco è in giardino, credo. Perché non la raggiungi? Io arrivo tra qualche minuto.»
«Oddiomio, Peter, riesci a crederci?» Era sul vialetto che separava il giardino dalla piscina, con la brezza che le faceva svolazzare i capelli davanti agli occhi. C'erano tante rose nel giardino, notò lui. Sentiva, nonostante la gioia che vedeva sul volto di Eco, una spina nel cuore. E respirare gli costava uno sforzo massacrante. «Gesù, Eco... che cosa hai fatto?» «Peter...» Lui attraversò il giardino per raggiungerla. Eco si sedette su una panca di tek, le mani giunte in grembo, la contentezza ridotta a un sorriso stentato. Sapeva che cosa stava per arrivare. Gli parve quasi di vedere affiorare la sua vena di testardaggine, come la pinna di uno squalo in acque rosse di sangue. Peter fece uno sforzo per mantenere tranquillo il tono della sua voce. «Dono di nozze? Un dono di nozze è un servizio da tè o un tostapane. Una cosa del genere come la classifichiamo? Nessuno, sano di mente, darebbe via...» «Io non ho fatto niente», lo interruppe Eco. «E non è nostra. Non ancora.» «Io di solito sono sano di mente», disse allegramente John Ransome. Peter si fermò, a metà strada tra Eco e Ransome, in piedi sulla porta che dava nel giardino, con il sole al tramonto che rendeva il suo viso simile a uno studio a sanguigna. Aveva in mano una grossa busta. «L'atto di cessione del cottage e del terreno avrà validità tra un anno, quando Mary Catherine avrà completato il suo impegno con me.» Sorrise. «Non mi aspetto un invito al matrimonio. Ma auguro a entrambi una vita di felicità. Ve lo lascio da leggere.» Per qualche momento nessuno aprì bocca. Si sentì il rumore di un elicottero. Ransome alzò lo sguardo. «Vengono a prendermi», disse. «Fate come se foste a casa vostra per tutto il tempo che desiderate, e godetevi la cena che vi ho fatto preparare. Il mio autista vi riporterà in città appena sarete pronti.» La sera diventò insolitamente fredda per essere metà settembre, e verso le nove la temperatura era scesa intorno ai dieci gradi. Uno degli uomini del catering accese il fuoco nel camino della stanza sul giardino mentre a Eco e Peter veniva servito il brandy. Sorseggiando il liquore lessero il contratto che John Ransome aveva lasciato a Eco perché lo firmasse. Peter le passava i fogli via via che finiva di leggere. Uno degli addetti al catering si affacciò alla porta. «Tra qualche minuto,
appena avremo finito di pulire la cucina, ce ne andremo.» «Grazie», disse Eco. Peter non alzò gli occhi né spiccicò parola finché non ebbe finito di leggere l'ultima pagina del contratto. Il vento faceva tintinnare il vetro colorato di una delle finestre della stanza. Si versò altro brandy, mezzo bicchiere, come fosse sciroppo di ciliegia. Lo bevve tutto d'un fiato, si alzò e si mise a camminare su e giù mentre Eco continuava la lettura alla luce del focolare, sistemandosi sul naso gli occhiali con l'indice ogni volta che scivolavano. Quando ebbe rimesso in ordine le dodici pagine, Peter si lasciò cadere di nuovo nella poltrona di fronte a lei. Si guardarono. Il fuoco scoppiettava. «Io non posso venire quassù a trovarti? Tu non puoi tornare a casa se non in caso di emergenza? Non vuole farti il ritratto, vuole averti di sua proprietà!» Sentirono il furgone che si allontanava. L'autista della limousine si era goduto la cena in un piccolo appartamento sopra il garage. «Io capisco le sue ragioni», sospirò Eco. «Non vuole che abbia distrazioni.» «È questo che sono io? Una distrazione?» «Peter, tu non hai una mente creativa, per cui francamente non mi aspetto che ci arrivi.» Lei si oscurò; si era accorta di avere assunto un tono di sufficienza. «È solo per un anno. Posso farlo. Poi ci sistemiamo.» Si guardò attorno, con una luce di possesso negli occhi. «Dio santo, questo posto, non avevo mai sognato... voglio che mamma lo veda. Poi, se lei approva...» «E la mia approvazione?» disse Peter con uno sguardo torvo, bevendo di nuovo. Eco si alzò e si stirò. Rabbrividì. Nonostante il fuoco nella stanza faceva un po' freddo. Lui ammirò il movimento dei suoi seni con un confuso desiderio. «Voglio anche quella.» «E vuoi questa casa.» «Pensi di tenere il muso per il resto della serata?» «Chi è che tiene il muso?» Lei gli tolse il bicchiere di mano, gli si sedette in grembo e appoggiò la testa all'ampia spalla, chiudendo gli occhi. «Con i prezzi delle case alle stelle, il più che potremmo sperare è una casetta a Yonkers, lo sai, o a Port Chester. Qui è Bedford.»
Peter le mise una mano dietro la testa. «Ti ha portato a desiderare, anziché pensare. È proprio in gamba. Ed è così che ottiene quello che vuole lui.» Eco gli posò una mano sul cuore. «Come sei arrabbiato.» Tremava. «Ho freddo, Peter. Riscaldami.» «Quello che abbiamo sempre progettato non basta più?» «Oh, tesoro. Io ti amo e voglio sposarti, e questo niente mai lo cambierà.» «Forse dovremmo cominciare a mettere su casa.» «Ma se fosse questa la casa, Peter? La nostra casa.» Si alzò, tirandolo con una mano lo obbligò a seguirla. «Vieni. Non hai visto ancora niente.» «Che cosa mi sono perso?» chiese lui riluttante. «La camera da letto. E c'è anche il camino.» Eco vinceva con la dolcezza la sua resistenza, placava la sua paura di non essere all'altezza del costo emotivo che rimaneva ancora da pagare. Peter era malfermo sulle gambe. Il brandy stava facendo effetto. «Pensaci», disse Eco, guidandolo. «Pensa come potrebbe essere. Immagina che un anno sia già passato... in fretta in fretta...» Lo baciò e aprì la porta della camera da letto. Dentro c'era un fuoco a gas nel caminetto d'angolo «... e noi siamo qui.» Gli prese amorevolmente il viso tra le mani. «Che cosa vuoi fare, adesso?» mormorò, guardandolo con solennità. Peter inghiottì le parole che non era capace di pronunciare, guardando il letto a baldacchino che dominava la stanza. «Io lo so che cosa vorrei che tu facessi.» «Eco...» Lo tirò nella camera e chiuse la porta con un piede. «È perfetto», disse mentre lui esitava. «Un posto perfetto per passare la nostra prima notte insieme. Voglio farti capire quanto ti amo.» Lo lasciò e andò in un angolo della stanza accanto al camino dove si svestì in fretta, trasformista nata, infilandosi poi sotto le coperte, ombra leggiadra ai suoi occhi annebbiati. «Peter?» Lui si toccò la fibbia della cintura; lasciò ricadere le mani. Si sentiva sull'orlo delle lacrime; ardore e desiderio erano compromessi dal troppo alcool. Il battito del suo cuore era alimentato da una collera incoerente. «Peter? Cosa c'è?» Lui fece un passo verso di lei, incespicò, cadde contro una poltroncina. Pesava, ma la sollevò con facilità e la scaraventò contro il muro. Quell'e-
splosione inattesa di rabbia fece rintanare Eco sotto le coperte, l'orgoglio insultato una ferita aperta che lei era troppo inesperta per affrontare. Si strinse tra le braccia in preda a choc e dolore. Peter aprì la porta della camera da letto. «Ti aspetto in quella cazzo di limousine. Tu... tu stai pure qui se ti va! Stai pure tutta la notte. Fai quello che diavolo pensi di dover fare per essere contenta, e non stare a pensare che cosa significherà per noi!» 6 Primo giorno d'autunno, e giornata ideale per andare in giro in una decappottabile: cielo azzurro senza una nuvola, temperatura sulla East Coast tra i quindici e i venti gradi. L'auto che John Ransome parcheggiò di fronte alla casa di Eco era una Mercedes biposto. Non troppo spazio per i bagagli, ma lei era stata contenuta nel fare le valigie: gli indumenti di cui avrebbe avuto bisogno per svernare su una piccola isola davanti alla costa del Maine. E la cassetta dei colori. Lui non scese subito dall'auto; una chiamata al cellulare. Eco si attardò ancora qualche momento alla finestra della camera da letto sperando di vedere la macchina di Peter. Avevano parlato brevemente verso l'una di notte e a lei era parso che la prendesse bene, quasi disinvolto davanti all'imminente assenza forzata di Eco dalla sua vita. Vacanze comprese. Stava sforzandosi un po' troppo di non mostrare un'assenza di fiducia nei suoi confronti. Nessuno dei due aveva fatto cenno a John Ransome. Come se non esistesse, come se lei stesse per andarsene a studiare pittura a Parigi per un anno. Eco prese le borse dal letto e le portò nell'ingresso. Lasciò socchiusa la porta e andò in soggiorno dove Julia stava leggendo a Rosemay un articolo del National Enquirer. Julia era un'appassionata consumatrice di pettegolezzi sulle celebrità. Commentando la storia di un'attrice che era stata fotografata mentre tentava di sgusciare inosservata da una clinica californiana dopo un restauro, Julia disse: «Certo che a quell'età dovrebbe lasciar perdere la chirurgia plastica e puntare più su un buon imbalsamatore». Rosemay sorrise, con gli occhi sulla figlia. Le labbra le tremavano visibilmente; la sua pelle era del colore della porcellana, bianca come le ossa sottostanti. Eco sentì una forte stretta di paura: com'era diventata fragile sua madre in soli tre mesi!
«Mamma, ti lascio il mio cellulare. Sull'isola, dice John, non funziona. Ma c'è Internet, nessun problema per le e-mail.» «Questa è una gran cosa.» «Peter verrà a salutarti?» chiese Julia. Eco guardò l'orologio. «Non ne era sicuro. Questa notte stavano lavorando a un triplice omicidio.» «Abbiamo tempo per un tè?» domandò Rosemay, girandosi con circospezione dal computer e guardando sua figlia attraverso le lenti verdi. «John è già qui, mamma.» Poi Eco, con sua stessa sorpresa e dolore, perse il controllo, lasciando libero un fiume di lacrime, inginocchiandosi accanto alla madre, appoggiandole la testa in grembo come faceva da bambina. Rosemay la accarezzò con mano malferma, sorridendo. Dietro di loro, nel corridoio, apparve John Ransome. Rosemay ne vide il riflesso nel vetro della finestra. Voltò la testa lentamente per salutarlo. Julia, che non se n'era accorta, voltava le pagine del suo settimanale scandalistico. L'espressione negli occhi di Rosemay era più di sfida che di benvenuto. Le sue mani si unirono in un gesto protettivo su Eco. Quindi chinò il capo come in preghiera. Peter parcheggiò in seconda fila in strada e stava salendo di corsa le scale del palazzo di Eco quando si imbatté in Julia che scendeva con la sua borsa per la spesa «Salviamo gli Alberi». «Sono partiti da una mezz'ora, Peter. Io sto andando a comprare qualcosa.» Peter scosse la testa con rabbia. «Sono smontato solo mezz'orafa! Non poteva aspettarmi? C'era tanta fretta?» «Vorresti stare un po' con Rosemay mentre io sono fuori? Lo sai che sarà dura per lei.» Peter trovò Rosemay in cucina, con una tazza di tè freddo tra le mani. Lui rimise il bollitore sul fuoco, prese una tazza per sé e si sedette stancamente al suo fianco. Le sollevò una mano e la tenne tra le sue. «Un anno. Un anno prima che torni a casa. Peter, gliel'ho lasciato fare solo perché avevo paura...» «Non ti preoccupare. Mi farò vivo io, due o tre volte alla settimana, per vedere come stai.» «... non paura per me», disse Rosemay completando il suo pensiero.
«Paura di quello che la mia malattia potrebbe fare a te e a Eco.» I due rimasero a guardarsi senza parlare finché il bollitore sul fornello cominciò a fischiare. «Ascolta, questa cosa ce la facciamo a superarla», disse Peter, con aria cupa. «È venuto qui e se l'è portata via. Come ai vecchi tempi dei signori, capisci. Un privilegio dei potenti.» Eco non vide molto dell'isola di Kincairn la sera in cui arrivarono. Le sette miglia di mare in traghetto l'avevano lasciata così scombussolata e dolorante per i conati di vomito che non riuscì a riprendersi del tutto neppure una volta sbarcati sul molo dei pescatori. C'erano poche luci accese nel gruppetto di case che costituivano il paese annidato in fondo a una piccola baia. Un vento teso le ferì le orecchie nel breve tragitto in Land Rover attraverso l'isola fino alla casa che si affacciava su duemila miglia di oceano aperto. Un sonnifero la mise fuori gioco per otto ore. Alle prime luci fu svegliata dal grido dei gabbiani e dal rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli, trenta metri sotto le finestre della sua camera da letto. Qualche goccia di collirio cancellò l'arrossamento dagli occhi. A quel punto si sentì in grado di reggere un paio di tazze di caffè nero. Fuori della stanza trovò una rampa di scale che scendeva al pianterreno sul retro della casa. Sotto, rumori di cucina. John Ransome era mattiniero; lo sentì che parlava con qualcuno. Anche la cucina era stata rinnovata di recente. Ma l'architetto aveva lasciato indisturbati particolari pittoreschi e per lo più gradevoli: un forno a legna in un angolo, travi di quercia lavorate a mano sul soffitto. «Buon giorno», la salutò John Ransome. «Mi pare che ti sia tornato il colore.» «Credo di doverti delle scuse», mormorò Eco. «Perché sei stata male sul traghetto? Capita a tutti finché non ci si abitua. Parte della colpa ce l'hanno i fumi di quel vecchio macinino a diesel. Cosa ne pensi di una colazione? Ciera ha appena infornato un vassoio dei suoi scones alla cannella.» «Caffècaffècaffè», scongiurò Eco. Ciera era una signora sui sessant'anni, dalla pelle olivastra e gli occhi neri dallo sguardo tragico. Portò la caffettiera al tavolo. «Buon giorno», le disse Eco. «Io sono Eco.»
La donna inclinò la testa come se non avesse sentito bene. «È solo un... un soprannome. Il mio nome di battesimo è Mary Catherine.» «Mi piace Mary Catherine», disse Ransome. Sorrideva. «Facciamo che, finché sei qui, ti chiamiamo con il tuo nome vero?» «Va bene», acconsentì Eco, lanciandogli un'occhiata. Niente di che; i soprannomi erano comunque una cosa infantile. Ma avvertì un lieve fastidio. Come se, mettendo al bando «Eco», avesse iniziato a inventare la persona che intendeva dipingere, e con cui intendeva vivere in un rapporto fermamente controllato da lui. Sciocchezze, pensò Eco. Io lo so chi sono. Il sentiero sassoso che conduceva al faro di Kincairn, dove Ransome aveva il suo atelier, li portò per trecento metri in mezzo a una landa arida cosparsa qua e là di erbe stentate, attraverso massi indorati dai licheni, terreno sottile e crepato dalle gelate. Di tanto in tanto il sentiero piegava accostandosi alla linea dell'alta marea. Troppo vicino per la serenità mentale di Eco, che cercava però di non mostrarsi nervosa. Kincairn Island, lunga quasi quattordici chilometri e larga cinque con un'alta dorsale boscosa, era solo un sassolino di granito di fronte a un potente oceano, azzurro quella mattina d'ottobre sotto un cielo leggermente velato. «È una luce fantastica», disse a Ransome. «Per questo sono qui, piuttosto che a Cascais o a Corfù, per esempio. Le limpide mattine invernali sono quanto di meglio. La città è sulla costa sottovento dell'isola, di fronte a Penboscot. C'è una chiesa cattolica, tra l'altro, che probabilmente la diocesi prima o poi chiuderà, o una unitaria per chi preferisce una religione più 'leggera'.» «Chi sono gli altri che vivono qui?» chiese lei, battendo le palpebre a causa degli spruzzi di acqua salata. La marea era in arrivo, con il vento da sudest. «Circa centocinquanta residenti permanenti, età media cinquantacinque anni. Risorsa economica, l'aragosta. Punto. Alla fine del secolo Kincairn era una vivace comunità estiva, ma molti dei vecchi cottage asimmetrici, tipici del luogo, sono scomparsi; il resto appartiene ai locali.» «E l'isola è di tua proprietà?» «L'atto di possesso originale fu registrato nel 1794. Stai bene, Mary Catherine?» La sporgenza su cui stavano camminando distava ben poco dai marosi e
dalle rocce. «Mi sento un po' nervosa... così vicino.» «Non sai nuotare?» «Solo in piscina. L'oceano... Una volta sono quasi annegata, su una spiaggia del New Jersey. Avevo cinque anni. Le onde non raggiungevano neppure il mezzo metro. Stavo con le spalle al mare, giocavo con il secchiello e la paletta. Improvvisamente, dal nulla, si materializzò un'ondata enorme che prese tutti alla sprovvista.» «Ce ne sono anche qui, di quelle onde violente. I miei genitori erano in barca davanti al faro, poco oltre quella boa laggiù, quando ne arrivò una grossa e li capovolse. Non ci fu niente da fare.» «Dio mio. Quando è successo?» «Ventotto anni fa.» Il sentiero piegò verso l'alto e il faro apparve di fronte a loro. «Io sono un bravo nuotatore. A quanto pare resisto più di altri all'acqua molto fredda. Quando avevo diciannove anni - ed ero sotto la pesante influenza di lord Byron - ho attraversato a nuovo l'Ellesponto. Mi sono spesso chiesto...» Fece una pausa e guardò verso il largo. «Se fossi stato con mia madre e mio padre, quel giorno, avrei potuto salvarli?» «Debbono mancarti molto.» «No. Non mi mancano.» Dopo qualche momento John si voltò a guardarla, come se l'occhiata che lei gli aveva scoccato l'avesse messo a disagio. «È una cosa così terribile quella che ho detto?» «Immagino che... Non lo capisco. Non volevi bene ai tuoi?» «No. È insolito?» «Non credo. Erano violenti?» «Fisicamente? No. Semplicemente mi lasciavano solo, quasi sempre. Come se non esistessi. Non so se c'è un nome per questo genere di sofferenza.» Il suo sorriso, un po' triste, suggerì che era meglio abbandonare quell'argomento. Proseguirono fino al faro, di un bianco smagliante sul punto più alto del promontorio. Ransome lo aveva ristrutturato, a quanto diceva con grande scandalo dei puristi, installando un riflettore moderno in stile aeroporto su quello che ora era il suo studio. «Ho visto quanto ti è costato», disse Ransome, «lasciare tua madre... la tua vita. Mi piacerebbe pensare che non è stato solo per denaro.» «Quella è l'ultima cosa. Io sono una pittrice. Sono venuta per imparare da te.»
Lui annuì, gratificato, e le toccò una spalla. «Bene. Vogliamo dare un'occhiata al posto dove lavoreremo, Mary Catherine?» Peter non ci mise molto a sbronzarsi al ricevimento che seguì il matrimonio di sua sorella Siobhan con il venditore di software di Valley Stream. Bere troppo gli dava una sensazione di scoramento, seguita dalla tendenza a prendere in malo modo qualunque cosa si sentisse dire. «Che notizie hai da Eco?» gli chiese Fitz, un cugino. Peter lo squadrò e invece di raccogliere l'invito alla conversazione buttò giù un altro sorso del suo Irish. Fitz guardò Rob Flaherty, altro cugino di Peter, che disse: «Sei biglietti per i Rangers, stasera, Petey. Buoni posti». Fitz continuò: «Sarebbero due per Rob e la sua ragazza, due per me e Colleen, e stavo pensando... te la ricordi Mary Mahan, vero?» «Non ho voglia di andare a vedere i Rangers», rispose Peter sgarbatamente, «e non ho bisogno che tu mi organizzi appuntamenti, Fitz.» Aveva la cravatta allentata e la fronte e gli zigomi color fuoco. Non si accorse della goccia di sudore che gli scivolò dal mento nel whisky. Sollevò di nuovo il bicchiere. Rob Flaherty fece un ghigno. «Mi sembri un cammello innamorato, Petey. Quello di cui hai bisogno è una gobba amica a cui appoggiarti.» Peter rispose con una smorfia ostile. «Quello di cui ho bisogno è un altro drink.» «Mary ha una cotta per te, sai da quanto?» «È la figlioccia di mia madre, stronzo.» Fitz non raccolse l'insulto. «Be', non vale come peccato mortale.» «Piantala, Fitz.» «Va bene. D'accordo. Comunque è una figa eccezionale quella che stai buttando via. Posso testimoniarlo.» «Dai», fece Rob irritato, «lasciamolo qui seduto e andiamo. Eco deve avergli fatto un nodo all'uccello prima di andarsene via con il suo amico artista.» Peter era balzato dalla sedia caricando un pugno prima che Fitz potesse mettersi tra i due. Rob raggiunse Peter con un cazzotto in bocca così forte da scaraventarlo all'indietro, facendolo piombare su un altro dei tavoli che circondavano la pista da ballo, senza quasi disturbare una coppia che si guardava con gli occhi fuori dalle orbite, muta, inebetita dall'alcool. La mamma di Pete vide che la rissa si gonfiava e lasciò il suo cavaliere sulla
pista. Afferrò il figlio gentilmente per un braccio, sorrise agli altri ragazzi, dicendo loro con un cenno della sua elegante acconciatura di togliersi dai piedi. Versò dei cubetti di ghiaccio da un bicchiere in un tovagliolo. «Un ballo con la tua vecchia mamma, figliolo.» Un po' imbarazzato, Peter si lasciò condurre sulla pista, tenendosi il tovagliolo con il ghiaccio premuto sul labbro inferiore. «Sono già due volte questo mese che ti vedo bere troppo.» «È un matrimonio, ma'.» Lui infilò il tovagliolo in una tasca della giacca dello smoking. «Penso che sia ora che ti dia una regolata», soggiunse Kate mentre ballavano al ritmo lento della musica. «Non hai notizie di Eco?» «Come no? Tutti i giorni.» «Be', allora? Sta bene?» «Dice di sì.» Peter fece un paio di respiri faticosi. «Ma sono e-mail. Non è la stessa cosa che sentire la sua voce. Con il tono si dice sempre qualcosa che non si può esprimere a parole, basta avere orecchio per sentirlo.» «Cioè... potrebbero esserci cose che vorrebbe farti sapere ma di cui non può parlare?» «Non lo so. Da quando ci siamo conosciuti non eravamo mai stati lontani per più di un paio di giorni. Forse ha scoperto... che in fin dei conti non è stato questo grande affare.» Stringeva forte la mano della madre. «Sta' buono. Se hai fiducia in lei, andrà tutto bene. Chiunque può farlo, Petey, per la donna che ama.» «Io l'amerò sempre», disse Peter con la voce tesa. Guardò fisso negli occhi di Kate, con un'espressione emozionata. «Ma non mi fido di un uomo di cui nessuno sa praticamente niente. Si è circondato di un muro incredibile.» «Un uomo che ci tiene alla sua privacy. Con tutti quei soldi non c'è da meravigliarsi.» Kate esitò. «Stai facendo delle ricerche? Non ufficialmente, dico.» «Già.» «E non salta fuori niente?» «E non salta fuori niente. Per gli uffici pubblici quell'uomo è praticamente invisibile.» «E allora lascia perdere.» «Se potessi vedere Eco, solo per un po'. Mi sembra di impazzire, continuamente.» «Il Signore ti vuole bene, Peter. Visto che domenica sei libero, perché
non andiamo a trovare Rosemay e la portiamo fuori? È un pezzo che non la vedo.» «Non posso, ma'. Devo... ho bisogno di andare a Westchester, a parlare con una persona.» «Per lavoro?» Peter scosse la testa. «Si chiama Van Lier. Tempo fa ha posato per John Ransome.» 7 La residenza Van Lier era una copia - una copia esatta, stando a un sito Web dedicato alla descrizione delle case più spettacolari della contea di Westchester - di una dimora di campagna inglese del diciassettesimo secolo. Tutto quello che Peter intravide dell'interno, attraverso la porta d'ingresso semiaperta, fu un pavimento di ardesia e un'alta zoccolatura di legno scuro. «Vorrei vedere la signora Van Lier», disse al domestico che era venuto ad aprire la porta. L'uomo era un anziano nero con il viso color caramello cosparso di macchie dell'età, come una pelle di leopardo. «Non c'è nessuna signora Van Lier in questa residenza.» Peter gli porse il biglietto da visita. «Anne Van Lier. Sono del dipartimento di polizia di New York.» Il domestico lo squadrò con pazienza, sperando forse che quell'esame durasse abbastanza perché Peter semplicemente sparisse dalla loro soglia e lui potesse tornarsene al suo sonnellino. «Di che si tratta, detective? La signorina Anne difficilmente riceve qualcuno.» «Vorrei farle qualche domanda.» Dopo aver tergiversato un po' il domestico, riluttante, tolse una piccola ricetrasmittente dalla tasca del grembiule che indossava sopra l'abito della domenica e cercò di contattarla su un paio di canali diversi. Aggrottò la fronte. «Mi sa che ha lasciato la sua da qualche parte e se l'è dimenticata», disse. «Be', probabilmente a quest'ora la signorina Anne dovrebbe essere nella serra. Ma non credo che parlerà con lei, polizia o non polizia.» «Dov'è la serra?» «Giri sul retro e proceda verso il laghetto, difficile che le sfugga. Quan-
do la vede, dica alla signorina Anne che ho fatto del mio meglio per avvertirla, per cui poi non se la prenda con me.» Peter si avvicinò alla serra attraverso un mulinello di foglie di faggio color rame sollevato dal vento. Il tetto spiovente della lunga struttura rifletteva le nuvole che correvano accavallandosi. Dentro, attraverso la nebbia proveniente dalle condutture soprastanti, si poteva scorgere una donna che lui immaginò fosse Anne Van Lier. I guanti che indossava le arrivavano a metà avambraccio, e portava un cappello floscio che, insieme con la foschia che aleggiava al di sopra delle piante esotiche sui lunghi tavoli, le nascondeva buona parte del viso. Stava rinvasando delle pianticelle davanti a un banco da lavoro tra i riflessi diffusi della luce del sole. «Signorina Van Lier?» Lei si irrigidì al suono di quella voce sconosciuta ma non si voltò. Appariva minuta nella sua tuta color avana. «Sì? Chi è?» Il tono diceva che non le interessava saperlo. «Questa è proprietà privata.» «Mi chiamo Peter O'Neill. Dipartimento di polizia di New York.» Peter avanzò di qualche passo verso di lei sul vialetto di ghiaia. Con un gesto rapido della testa lei lo guardò e disse: «Si fermi lì dov'è. Polizia?» «Le mostro il documento.» «Di che si tratta?» Lui allungò la mano con il tesserino e il distintivo. «John Leland Ransome.» La donna lasciò cadere un piccolo rastrello che aveva in mano e si appoggiò al bancone come se improvvisamente le fosse mancato il fiato. Dava le spalle a Peter. Una secca danza di foglie sulla tettoia di vetro proiettò un caleidoscopio di ombre. Lui si asciugò la fronte per l'umidità e continuò ad avanzare. «Lei ha posato per Ransome.» «E allora? Chi glielo ha detto?» «Lui.» Era stata in una rigida immobilità; ora Anne Van Lier appariva piacevolmente agitata. «Lei conosce John? Lo ha visto?» «Sì.» «Quando?» «Un paio di mesi fa.» Peter aveva ridotto la distanza tra loro. Anne lanciò un altro rapido sguardo dalla sua parte, con il profilo coperto da una
mano guantata come fosse una bambina ritrosa; ma non appariva più preoccupata dalla sua presenza. «Come sta John?» Di colpo la sua voce si era caricata di emozione. «Ha... le ha parlato di me?» «Sì», rispose Peter in tono rassicurante, e azzardò: «È ancora innamorata di Ransome?» Lei rabbrividì, proteggendosi con il guanto come se lui le avesse lanciato un sasso. «Che cosa ha detto di me John? La prego.» Sentendo di aver toccato un nervo scoperto, Peter disse dolcemente: «Mi ha detto che l'anno che ha passato con lei è stato uno dei più felici della sua vita». Ma ci rimase male quando vide, qualche istante dopo, che lei scoppiava sommessamente a piangere. Si fece più vicino a Anne, le mise una mano sul braccio. «No», pregò lei. «Se ne vada.» «Quando l'ha visto l'ultima volta, Anne?» «Diciotto anni fa», rispose lei abbattuta. «Ha detto anche che, a quanto aveva saputo, lei era molto felice.» Anne Van Lier ebbe un sussulto. Poi cominciò a ridere a singhiozzi, come allo scherzo più crudele che avesse mai sentito. Si voltò verso Peter, allontanandogli la mano; ma si tolse il cappello da giardinaggio e lo fissò. Lo choc che Peter provò fu come la scarica elettrica di un pugno violento al plesso solare. Perché il viso di Anne Van Lier, un tempo bellissimo, era un orrore. Era stata brutalmente, profondamente sfregiata. Tentativi di correggere il danno ne erano stati fatti, ma i chirurghi plastici potevano arrivare solo fino a un certo punto. Riparare dei nervi troncati era al di là delle possibilità del miglior specialista. La bocca cascava da un lato. Aveva perso la vista dell'occhio sinistro, colmo adesso dell'ombra della sofferenza. «Chi le ha fatto questo? Ransome?» Ferita dalla brusca domanda, Anne arretrò. «Cosa? John? Come si permette di pensare una cosa del genere?» Le dita guantate seguirono le linee profonde che le sfiguravano il volto. «Non ho mai visto il mio aggressore. È successo per la strada, nell'East Village. Poteva essere un rapinatore. Io non ho opposto resistenza, e allora perché, perche?» «La polizia...»
«Non l'ha mai trovato.» Guardò Peter, e attraverso lui, il passato. «O forse è questo che è venuto a dirmi?» «No. Non so nulla del caso. Mi spiace.» «Ah! Bene.» La sua sorte gravava come un peso morto sulla sua mente. «Sono passati tanti anni.» Anne rimise il cappello, sistemò la falda, rivolse a Peter uno sguardo vago. Era di nuovo nel passato. «Può dire a John... non sarà sempre così. Un'altra operazione soltanto, me l'hanno promesso. Poi sarò... finalmente sarò pronta per lui.» Anticipò la domanda che Peter non le avrebbe fatto. «A posare di nuovo!» Un sorriso vagamente civettuolo comparve e subito sparì. «Quanto al resto mi sono tenuta in forma, sa. Faccio i miei esercizi. Lo dica a John... lo benedico per la sua pazienza, ma non ci vorrà ancora molto.» Nonostante l'umidità e le nuvole di condensa nella serra, Peter sentiva la gola secca. Sforzandosi di sorridere gli parve di avere sul viso uno strato di stucco indurito. Sapeva di aver solo intravisto vagamente gli abissi della sua psicosi. La soluzione migliore al momento era lasciarla con una qualche assicurazione che la sua fantasia si sarebbe realizzata. «Glielo dirò, signorina Van Lier. È proprio la notizia che sta aspettando.» La sera del sabato seguente Peter giocava a biliardo con suo padre ai Cavalieri di Colombo, lasciandolo vincere. Così come lo lasciava vincere quando Corin era ancora abbastanza in gamba per un po' di basket: ma che cosa ho stasera, sono fuori fase, diceva sempre Peter, fingendosi seccato. Dopo, Corin propose una birra e padre e figlio si rilassarono a un tavolo del loro pub preferito. «Ho sentito che ti stai interessando ai fascicoli dei casi non risolti alla Nona», disse Corin togliendosi un po' di schiuma dai baffi. Guardò uno dei grandi schermi televisivi del locale. I Knicks giocavano in casa dell'Heat, e quella sera sembrava che non riuscissero a centrare nemmeno l'oceano cadendo da una barca «Tu senti tutto, papà», disse Peter in tono ammirato. «Nella mia circoscrizione. Cosa c'è?» «Niente, una cosa che mi interessava, e avevo un po' di tempo.» Peter raccontò dell'accoltellamento della Van Lier. «Quante coltellate?» «Dieci, tutte al viso. L'aggressore ha continuato a infierire su di lei, an-
che dopo che era finita a terra. Ti pare uno che non volesse altro che una borsetta?» «No. Restano due possibilità. Uno psicopatico che odia le donne. Un ex al quale lei aveva dato il benservito, e il cui orgoglio non ha retto. Ma hai detto che la vittima non l'ha riconosciuto.» «No.» «Allora qualcuno pagato per fare il lavoro. Spiegami meglio... Qual è il tuo interesse per la vittima?» «Diciotto, diciannove anni fa ha posato per John Ransome.» Corin si massaggiò una tempia e riuscì a tenere sotto controllo la sua disapprovazione. «Maria benedetta, Petey.» «Papà, su nel Maine c'è la mia ragazza con lui!» «E tu stai permettendo alla tua immaginazione... la vedo la tua mente che lavora. È inverosimile, ragazzo mio. Inverosimile.» «Può darsi», mormorò Peter bevendo un sorso. «Quante giovani donne pensi che abbiano posato per lui in tutta la sua carriera?» «Sette, che si sappia. Senza contare Eco.» Corin allargò le mani. «Ma nessuno sa chi siano né dove si trovino adesso. Quasi nessuno... è una specie di lista segreta. Quello che voglio dire, papà, è che troppe cose di lui non tornano.» «Questo non è ragionare da poliziotto, a parlare sono le tue emozioni.» «Quasi due mesi che non la vedo, due mesi.» «Era nei patti. Tra lui e lei, e ci sono buone ragioni per cui Eco l'ha fatto.» «Questo non te l'avevo detto. Quella donna, la sua amica, la puttana, quello che è: si porta dietro un coltello ed Eco l'ha vista che quasi lo sventolava contro un ragazzo in metropolitana.» «Maria benedetta! Quando la finirai con questa storia?» Corin si appoggiò alla spalliera e batté un colpo secco sul tavolo con le nocche della mano destra. «Te lo dico io quando la finirai. Adesso, qui. Lo sai perché? Troppi soldi, Petey. Si tratta sempre di quello.» «Già, lo so. Ho visto il commissario come leccava il culo a Ransome.» «Sta' attento.» Il padre fissò duramente il figlio finché l'irritazione lasciò il posto all'indulgenza. «Eco ha qualche problema, lassù, di cui ti ha parlato?» «No», ammise Peter. «Ransome sta solo facendole una quantità di schiz-
zi, e lei ha tempo per dipingere. Credo che vada tutto nel migliore dei modi.» «Fidati del suo buonsenso, allora. E fai la tua parte.» «Già, lo so. Aspettare.» La sua espressione era di grande nostalgia e pentimento. «Due mesi. E sai una cosa, papà? È come se uno di noi due fosse morto. Solo che non so chi dei due, non lo so ancora.» Come faceva quasi tutti i giorni da quando era arrivata a Kincairn, Eco fece colazione in un gelido isolamento in un angolo della grande cucina, quindi raggiunse a piedi il faro. Spesso riusciva a vedere solo fino a pochi passi lungo il sentiero a causa della nebbia. Ma a volte non c'era nebbia; l'aria era limpida e senza vento e il sole nascente inondava con lo splendore del mattino il volto di rame del mare. Aveva imparato ben presto che John Ransome soffriva d'insonnia e passava gran parte delle ore notturne a leggere nel suo studio al primo piano o a fare lunghe passeggiate nel buio, portandosi solo una torcia lungo i sentieri con cui aveva familiarità fin da quando era bambino. Il sonno sarebbe venuto con più facilità, le aveva detto una volta come giustificandosi, quando avesse iniziato a dipingere seriamente. Ma il ritratto incompiuto che aveva cominciato a New York su una grande tavola rettangolare di compensato non era stato toccato da quasi sei settimane mentre lui si dedicava a fare schizzi di Eco in formato cartolina, a centinaia, o a osservare silenziosamente il lavoro di lei che prendeva forma. A tarda notte le lasciava post-it di elogio o di critica sul cavalletto. Quando erano insieme era cordiale, ma preferiva lasciare che fosse lei a condurre la conversazione. Sembrava avere una curiosità senza limiti per la vita di Eco. Per il padre, che era stato gesuita fino all'età di cinquantun anni, quando aveva conosciuto Rosemay, suora missionaria di Maryknoll. Di Peter non chiedeva mai. C'erano giorni in cui Eco non lo vedeva per nulla. Percepiva la sua assenza dall'isola ma non aveva idea di dove fosse andato, o perché. Non che fossero affari suoi. Ma non era il rapporto di lavoro che si era aspettata. Il fatto che Ransome non fosse capace di riprendere a dipingere la metteva a disagio. E non era nel suo carattere accettare di essere ignorata, o di sentirsi trascurata, troppo a lungo. «Si tratta di me?» gli aveva chiesto a cena la sera prima. La domanda, lo stato d'animo in cui l'aveva espressa, avevano sorpreso John.
«No. Ovviamente no, Mary Catherine.» Sembrava affranto, faceva gesti a caso in sostituzione delle parole che non riusciva a trovare per rassicurarla. «Un fatto di nervi, ecco tutto. Succede sempre. Ho paura di cominciare e... e poi trovarmi ad attingere a un pozzo inaridito.» Aveva fatto una pausa per versarsi altro vino. Beveva, prima e dopo cena, più di quanto fosse sua abitudine; aveva mancato un poco la mira e aveva fatto una smorfia. «Paura che tutto quello che faccio sia banale e brutto.» Eco aveva avvertito la sua vulnerabilità, la stessa di tutti gli artisti. Ma non sapeva come gestire la sua confessione. «Tu sei un grande pittore.» Ransome aveva scosso la testa, ritraendosi dal peso di quella idea. «Se mai lo credessi, sarei finito.» Eco si era alzata, aveva preso un pizzico di sale da una ciotolina d'argento spargendolo sulla macchia di vino che rovinava la bella tovaglia di lino. Lo aveva guardato esitante. «Come posso aiutarti?» Lui stava fissando la macchia coperta di sale. «Funziona?» «Di solito sì, se si fa subito.» «Magari fossero così facili da rimuovere le macchie umane», aveva detto John con improvvisa veemenza. «Dio è sempre in ascolto», aveva sussurrato lei, pensando che probabilmente era una frase troppo facile, paternalistica e insoddisfacente. Lei sentiva Dio, ma sentiva anche che non aveva molto senso cercare di spiegarlo a un altro. Dopo qualche momento di silenzio, l'improvvisa ondata di passione di Ransome era rifluita. «Per me credere non è facile come per te, Mary Catherine», aveva detto con un sorriso stanco e teso. «Ma se davvero il tuo Dio ci guarda, penso che probabilmente la sua vendetta consista nel non far nulla.» Ransome aveva scostato la sedia e si era alzato. Guardando Eco, aveva allungato una mano per sollevarle leggermente la testa prendendole il mento tra pollice e indice. Come studiandola per la prima volta aveva detto: «La luce nei tuoi occhi è la luce che viene dal tuo cuore». «Questa è una cosa molto dolce», aveva risposto lei con modestia, sapendo che cosa sarebbe arrivato subito dopo. Da settimane stava pensando a questo, e a come avrebbe dovuto reagire. Lui l'aveva baciata sulla fronte, non sulle labbra. Una sorta di benedizione. Anche questa era stata una cosa molto dolce. Ma il contenuto erotico, così forte da farle schiudere le labbra e accelerare il battito del cuore, l'a-
veva colta alla sprovvista. «Devo andar via dall'isola per qualche giorno», aveva detto lui. L'atelier di Ransome aveva preso il posto del locale un tempo occupato dal fanale e dallo specchio riflettente del faro di Kincairn. Era posato sulla cima della torre come un disco volante di dieci metri di diametro, fatto quasi interamente di vetro. All'interno c'era un ascensore, un'altra aggiunta, ma Eco usava sempre la scala a chiocciola per salire e scendere. Ciera era un'ottima cuoca e l'arrampicata quotidiana aiutava Eco a smaltire i succulenti pranzetti. Aveva deciso, siccome la giornata non era né tanto ventosa da soffiarla via dalla Vespa né troppo fredda, di caricare colori e cavalletto e attraversare l'isola per dipingere un po' all'aperto, sull'insenatura e al porto. Mentre si avvicinava all'abitato di Kincairn, Eco scorse John Ransome in fondo al molo del villaggio, intento a sciogliere gli ormeggi di un cabinato attraccato accanto al cantiere delle barche e al pontile del postale. Fermò lo scooter scoppiettante di fronte al cottage dove un prete solitario, anziano e praticamente in esilio in quella umilissima parrocchia, viveva con un'altrettanto anziana governante. Eco non aveva alcuna ragione per non avvicinarsi a Ransome, finché non vide anche Taja al timone dell'imbarcazione. Nemmeno questo era un buon motivo. Non aveva più visto la donna in nero né aveva pensato troppo a lei dalla sera dell'inaugurazione della mostra da Cy Mellichamp. Ransome non l'aveva mai nominata. Evidentemente veniva di rado sull'isola. Amica, socia d'affari, confidente? Amante, di sicuro. Ma forse, visto che si manteneva a una certa distanza da loro, la cosa doveva appartenere al passato. Anche se non erano più amanti, pensò Eco, poteva costituire ancora un sostegno emotivo, un raro gradito visitatore in una esistenza isolata; una sorte più silenziosa, pensò Eco con un certo pathos, ricordando una frase del suo preferito tra i romanzi di Charlotte Brontë, Jane Eyre. Guardando Ransome che raggiungeva con un balzo la pFua del cabinato, Eco si sentì frustrata per lui. Era chiaro che non avrebbe cominciato a dipingere in tempi brevi. Avvertiva anche un vago senso di tradimento che non seppe spiegarsi. Ma che si allungò dentro di lei come l'impronta del fantasma di quel bacio, che l'aveva resa irrequieta durante una notte di sogni confusi, fuori del mondo, sogni di Ransome, sogni in cui si trovava nuda nel suo studio come una lumaca su un ramo spinoso. Eco guardò Taja che portava a marcia indietro la barca fuori del porto e
la puntava verso la terraferma. Decise di prendersi un minuto ed entrare nella chiesa deserta. Era il caso di suonare il campanello per una confessione? Non riusciva a decidersi, e il suo cuore non le era d'aiuto. Cy Mellichamp era al telefono alla scrivania di un associato della galleria, nell'ufficio del primo piano, quando entrò Peter accompagnato da una segretaria. Mellichamp gli rivolse uno sguardo privo del minimo cenno di benvenuto. Altri due associati, termine usato da Mellichamp per far sentire più motivati i suoi venditori, lavoravano ai telefoni e ai computer. In un'altra grande stanza dietro l'ufficio stavano togliendo delle tele dalle casse. Mellichamp sorrideva penosamente a qualcosa che gli stavano dicendo e tamburellava irrequieto sulla scrivania aspettando di intercettare uno spazio in cui inserirsi per interloquire. «Sul serio, Alien, penso che le tue passioni siano malriposte. Il successo di Roukema non ha niente a che vedere con la bravura o il prestigio. E a sei milioni... no, non voglio parlarne. No. Quell'uomo dovrebbe dedicarsi a dipingere affreschi tombali. Volevi la mia opinione, e io te l'ho data. Ti prego di ripensarci e di rientrare in te.» Cy riagganciò e guardò di nuovo Peter, con il sorriso fisso di chi intende far capire che potrebbe impiegare molto meglio il suo tempo. «Ma perché», chiese a Peter, «un giovane per altri versi brillante deve trattare la fortuna ereditata come un bifolco tratta un'auto da rottamare?» Alzò le spalle. «Signor O'Neill! Sono felice di rivederla. Cosa posso fare per lei?» «Ha sentito il signor Ransome di recente?» «Due sere fa siamo stati a cena insieme al Four Seasons.» «Ah, era in città?» Cy aspettò una domanda più sensata. «Le sue ultime opere stanno andando bene?» «Molto bene, molto molto bene. Eco come sta?» «Non lo so. Non sono autorizzato a vederla, potrei essere una distrazione. Pensavo che Ransome dovesse starsene a sfacchinare sulla sua arte su nel Maine.» Cy guardò l'orologio, guardò ancora Peter senza comprendere. «Speravo che potesse darmi alcune informazioni, signor Mellichamp.» «Riguardo a?» «Le altre donne che Ransome ha ritratto. So dove vive una di loro, Anne Van Lier.» La frase buttata lì era calcolata per provocare una reazione; a Peter non sfuggì l'impercettibile restringimento degli occhi celesti di Cy
Mellichamp. «Sa come posso mettermi in contatto con le altre?» Dopo qualche momento Cy rispose: «Perché vorrebbe farlo?» con il tacito sottinteso, nello sguardo, che Peter si stava imbarcando in una faccenda che non lo riguardava. «Lei sa chi sono queste donne, e dove si trovano?» Un associato annunciò: «La principessa Steph sulla tre». Cy si voltò dalla sua parte. «Chiedile se è a St. Bart. Dille che la richiamo io.» Mentre Cy era rivolto altrove Peter lanciò un'occhiata a un computer sulla scrivania vuota vicina. La persona che ci aveva lavorato aveva sbadatamente lasciato la sua password sullo schermo. Cy tornò a Peter. «Non potrei aiutarla neppure se lo sapessi», disse seccamente. «Dove si trovano non sono affari miei.» «Come mai Ransome è così riservato su queste donne?» «Questa, ovviamente, è una scelta che spetta a lui. Ora, se non le dispiace... è una di quelle giornate!» Riprese per un attimo i suoi modi accattivanti. «Deve scusarmi.» «Grazie per avermi dedicato del tempo, signor Mellichamp.» «Se dovesse esserci una prossima volta, a meno che non sia una visita ufficiale, le sarei grato se quel suo distintivo d'oro lo lasciasse in tasca.» 8 Peter rincasò dal turno di servizio a mezzanotte e venti. Si preparò un panino con acciughe, una fetta di saporito formaggio olandese e un po' di salsa che trovò nel frigorifero. Portò il sandwich e una bottiglia di Sam Adams su per le scale posteriori cigolanti fino al secondo piano che divideva con il fratello Casey. Il resto della casa era silenzioso, a parte il sibilo lontano del padre che russava. Ma senza scuola per due giorni, Case era ancora sveglio con il suo iMac. La grafica era la passione di Casey: la sua ambizione era disegnare le auto del futuro. Peter si mise una tuta. Il secondo piano, pieno di spifferi, era preso d'assalto da un vento chiazzato dalla prima neve della stagione. Sullo schermo del suo portatile c'era un'e-mail che diceva soltanto mimanchimimanchimimanchi. Fece un sorriso triste, prese un paio di biglietti da venti dal portafoglio e si avviò verso il bagno che aveva in comune con Casey, fermandosi per lanciare con un calcio un asciugamani appallottolato a terra verso il cesto della biancheria sporca.
«Ciao, Case.» Casey, leggermente seccato per l'intrusione, non si voltò. «Sembra la Batmobile», disse Peter guardando la snella macchina da corsa che il fratello stava rifinendo con l'aiuto di un programma di grafica. «È la Batmobile.» Peter posò venti dollari sulla scrivania, là dove Casey poteva vederli con la coda dell'occhio. «Per che cosa?» «Per un aiuto.» «A fare che?» «Senti, ho una password, ma probabilmente ci sarà anche un codice di accesso...» «Craccare un sistema?» «Non rubo niente. Ho bisogno solo di vedere certi nomi, certi indirizzi.» «È illegale.» Peter depose la seconda banconota sulla prima. «Per come la vedo io è una specie di zona grigia. Sta succedendo qualcosa - qualcosa che forse riguarda Eco - che devo capire. Subito.» Casey ripiegò i biglietti da venti con la sinistra e li infilò sotto il mouse pad. «Se mi trovo nelle rogne», lo avvisò, «la prima cosa che faccio è tirarti in ballo.» Dopo quasi una settimana di assenza, Eco era arrabbiata con Ransome, stanca di trovarsi praticamente sola su un'isola su cui quasi ogni giorno, a quanto pareva, ogni tempesta o burrasca di passaggio nell'Atlantico provava gusto a farsi sentire. Era di nuovo preda di acute crisi di nostalgia di casa. Vero è che il suo conto in banca ingrassava notevolmente, ma le sembrava di essere pagata per dare supporto emotivo, non per la piacevole collaborazione che si era immaginata. Solo le e-mail delle amiche, di Rosemay e di Stefan e perfino di Kate O'Neill, più le comunicazioni quotidiane esasperantemente asettiche di Peter (era incapace di tradurre i sentimenti in parole), le offrivano equilibrio e fuga dalla depressione nel corso delle lunghe serate. Le ricordavano che il centro del suo mondo era ben lontano da Kincairn Island. Non aveva quasi nessuno con cui parlare tranne il prete del villaggio, che sembrava avesse difficoltà a ricordarsi il suo nome ogni volta che si incontravano, e la domestica di Ransome. Ma l'idea che aveva Ciera di vi-
vace conversazione era due frasi all'ora. Il più delle volte, forse per il clima deprimente che affliggeva quello scoglio, o forse solo per l'oppressione del tempo che passava, il viso di Ciera faceva pensare che la Morte vi avesse piazzato sopra un timbro di «fine corsa». Eco aveva libri e musica, i DVD di film usciti da poco le arrivavano regolarmente. Non aveva difficoltà a passare il tempo quando non lavorava. Ma trovava detestabile il modo in cui stava dipingendo, e le mancavano le furtive illuminazioni che riceveva dal suo datore di lavoro e mentore. Un giorno dopo l'altro lavorava a quelli che finiva per giudicare fiacchi paesaggi privi d'ispirazione, e tirava via il colore dalla tela con la spatola appena la luce cominciava a sbiadire. Non sapeva se fosse colpa della noia o se stava iniziando a nutrire dubbi sul proprio talento. Novembre fu più avaro di quelle ore di purezza cristallina dell'aria che aveva scoperto la prima volta che era arrivata. Lo studio di Ransome era dotato dello spettro completo della luce artificiale, ma lei preferiva sempre dipingere all'aperto, quando la giornata era abbastanza calma e non c'era il vento che poteva perfidamente afferrarle il cavalletto e scaraventarglielo in mare. Il cottage di John Ransome, costruito per resistere ai secoli, era una casa in cui lei non si sarebbe mai sentita a suo agio, nonostante la biblioteca e la collezione di quadri, che ne comprendeva anche di suoi, lavori giovanili che non sarebbero mai apparsi altrove. Li studiava, questi, con l'occhio avido dell'archeologo entrato in una piramide appena dissepolta. La casa era di pietra e solida, ma di notte, sotto l'imperversare della tempesta, prendeva un aspetto inquietante, tenebroso. Le lampade antivento andavano accese due o tre volte alla settimana, più o meno negli stessi periodi in cui il suo portatile perdeva il collegamento con il satellite e il vuoto dello schermo rifletteva il suo umore incupito. Leggere alla luce della lampada le faceva male agli occhi. Anche con i tappi nelle orecchie non riusciva ad addormentarsi quando il vento emetteva la sua unica, acuta nota o sbatacchiava le imposte, mugolando sotto le falde del tetto come uno spettro in un pozzo. Non c'era altro da fare, allora, dopo il rosario, che starsene a letto. E sperare che John Ransome tornasse presto. Quell'assenza prolungata, un enigma, un mistero irritante; un'altra stregoneria operata sul suo cuore. Quando riusciva ad addormentarsi, era di Ransome che sognava, ossessivamente. Svegliandosi di soprassalto, ancora semiaddormentata, ricordava ogni dettaglio di un autoritratto e i volti delle sue donne. Nessun altro dei
suoi soggetti aveva sentito quello che sentiva lei ora? Eco si interrogava sulla profondità di ogni relazione che lui aveva avuto con le sue ignote bellezze. Un uomo, sette giovani donne... Ransome era andato a letto con qualcuna di loro? Certamente. Ma forse non con tutte. Il suo segreto. Il loro segreto. E che cosa altre donne in futuro - sveglie nella stessa stanza in una notte terribile come quella, portate alla deriva dalla loro solitudine, dalle loro sensazioni - avrebbero immaginato del legame tra Eco e John Leland Ransome? Spinse via il piumone e si sedette sul bordo del letto, nervosa, con il cuore pesante. A parte le scarpe, dormiva completamente vestita, con una fiammella in una delle lanterne appannate a tenerle compagnia e un martello sul pavimento a darle sicurezza, nel dubbio che a qualcuno, nella comunità isolana, potessero venire delle strane idee. La sera Eco era sola, perché Ciera andava a casa per stare con il marito, artritico grave. Si passò la mano sulle braccia con la pelle d'oca, sentendosi in colpa davanti a Dio per quello che le si scatenava nella mente. Per il desiderio sessuale che le bruciava come ortica nel sangue. Pose la mano sulla Bibbia accanto al letto ma non l'aprì. Signore, sono solo un essere umano. Sentiva, in tutta onestà, che non era né il richiamo della carne né la potenza del talento ma il mistero del tormento ad attirarla inesorabilmente verso Ransome. Un'imposta che prima aveva cercato di chiudere aveva ceduto nuovamente alla sollecitazione incessante del vento, lasciando entrare il bagliore quasi continuo dei lampi nel cuore del temporale. Raccolse il martello e prese una piccola vite e del fil di ferro trovati in una cassetta per gli attrezzi. Eco fu costretta ad aprire uno dei piccoli battenti della finestra, ricevendo una folata di vento e acqua sul viso. Mentre si sporgeva per afferrare la persiana spalancata, vide alla luce di un fulmine sotto le nuvole ribollenti una figura ritta a una certa distanza dalla casa, sui massi che formavano la scogliera artificiale. La camicia bianca fradicia d'acqua svolazzava intorno al suo torace. Era rivolto verso il mare e le onde urlanti che si sollevavano potenti, riducendosi a schiuma a pochi passi da dove lui, precariamente, stava. Onde che si abbattevano con una forza che sembrava sufficiente a inghiottire isole più grandi di Kincairn. John Ransome era tornato. Eco dischiuse le labbra per chiamarlo, piccola voce nel tumulto, la pelle che le si accapponava per il freddo della paura, ma l'imposta si richiuse sbattendo sulla fugace visione dell'artista.
Quando la spinse di nuovo e si sporse, le ciglia inzuppate di acqua salata, i capelli che le sferzavano il viso, Ransome era svanito. Eco tirò a sé la finestra richiudendola e arretrò, un formicolio nelle mani, alla nuca. Respirò a fondo due o tre volte, si asciugò gli occhi con le mani, poi si voltò, agguantò una torcia e arrivò in cima alle scale che scendevano dal ballatoio della sua stanza, gridando il suo nome nel buio, puntando il fascio di luce lungo la rampa, attraverso l'ingresso, verso la porta d'entrata chiusa. Sul pavimento non c'era traccia dell'acqua che, pensò, avrebbe trovato se lui fosse entrato. «RISPONDIMI, JOHN! SEI TU? SEI QUI?» Silenzio. Solo il vento. Scese di corsa le scale, afferrò una giacca a vento dall'attaccapanni sul muro dell'ingresso e uscì. La potente torcia proiettava il suo raggio a ben più di cento metri. Volse intorno la luce, rabbrividendo per il gelo, sballottata dalla tempesta. Sentì il rombo del tuono al di sopra dell'urlo della tormenta. Era spaventata fino al midollo. Perché sapeva che doveva lasciare il relativo riparo concessole dalla casa alle sue spalle e affrontare il mare dove l'aveva visto. A testa bassa e proteggendosi il viso con le braccia, si spinse fino alla scogliera, l'assalto dei marosi terrificante nel fascio di luce della torcia. Serrava i denti così forte che temette di romperseli. Ricordava lo choc di trovarsi sommersa dall'acqua in quella che era stata una calma giornata sulla costa del Jersey, trascinata all'indietro, rischiando di annegare. Ma continuò ad avanzare, si inerpicò sul muraglione e lì si accucciò, guardando in basso le onde mostruose. Si gelava. Nonostante il cappuccio e la giacca impermeabile era già fradicia d'acqua e tremava tanto violentemente che ebbe paura di perdere la presa sulla torcia mentre procedeva strisciando sui massi. Abbassava lo sguardo nei varchi tra i massi dove lui poteva essere caduto, per annegare lentamente sommerso dal lungo succedersi di ognuno di quei flutti massicci. Le parve di vedere qualcosa - qualcosa di vivo come un animale impigliato in un telo di plastica. Poi capì che era una faccia quella che stava fissando nel raggio obliquo della torcia, e che quella non era plastica ma la camicia bianca di Ransome. Giaceva sulla schiena a braccia aperte a pochi passi sotto di lei, stordito ma non privo di sensi. Batté le palpebre abbagliato dalla luce che gli colpiva il volto. Eco scese dal masso su cui si trovava, recuperò l'equilibrio, gli mise le mani sotto le braccia e tirò.
Una delle sue gambe era incastrata malamente tra le rocce. Lei non capiva se era rotta, mentre cercava di liberargli il piede. Doveva fare in fretta: sentiva che le sue forze scemavano. Lottava con lui e con la tempesta, e nel frattempo avvertiva qualcosa dietro di lei, ancora in alto mare ma in arrivo. Qualcosa di immane, senza uguali nel suo impeto oscuro, che li avrebbe travolti entrambi come una casa che crolla. «MUOVITI!» Eco riuscì finalmente a liberarlo e lo spinse verso la cima della scogliera. Aveva perso la torcia ma non aveva importanza: c'erano lampi tutto intorno, e sentiva la furia del mare che si sarebbe abbattuta sopra di loro. Non poté indursi a guardare indietro. Quale che fosse lo stato della gamba, con il suo aiuto Ransome riuscì zoppicando a muoversi. I due avanzarono barcollando verso la casa, sferzati dal vento, finché un'ondata mostruosa si abbatté sulla scogliera e li scagliò in avanti per una ventina di passi prima di perdere forza. Quando Eco vide di nuovo la faccia di Ransome sotto il cielo lampeggiante, le labbra di lui erano bluastre ma gli occhi erano aperti. Cercava di parlare però i denti, battendo, gli spezzavano le parole. «COSA?» Riuscì, tra brividi e singhiozzi, a dire quello che aveva nella mente. «N-non n-n-e v-v-valeva la pena, s-s-sai.» Doccia bollente, vestiti asciutti. Zuppa e caffè dopo essersi ritrovati in cucina. Quando ebbe fatto sedere Ransome su uno sgabello Eco gli esaminò gli occhi cercando segni di commozione cerebrale, poi passò al taglio sulla fronte, lungo tre dita e così profondo che probabilmente gli sarebbe rimasta la cicatrice. Unì i margini della ferita chiudendola con dei cerotti. Lui sorseggiava caffè tenendo la tazza con mano ferma e la guardava con un'espressione abbastanza presente perché Eco si tranquillizzasse, convincendosi che non aveva riportato grossi danni. «Come hai imparato?» le chiese Ransome, toccandosi la medicazione. «Ero una ragazzina scatenata. I miei genitori non sempre erano a portata di mano, e così dovevo rappezzarmi da sola.» Le toccò con un dito una piccola cicatrice sotto il mento. «Hockey su strada», spiegò lei. «E questa...» Si sollevò il grezzo maglione da marinaio scoprendo una cicatrice più grande, sulla parte bassa della cassa toracica. «Baseball, sempre in strada. Sono caduta su un idrante.»
«Per fortuna... non è successo niente al tuo viso meraviglioso.» «Ringraziando Iddio.» Eco ripose la cassetta del pronto soccorso e versò una zuppa di frutti di mare in due capaci scodelle, sedendosi su uno sgabello accanto a lui. «Dovresti vedere le ginocchia», aggiunse, come ripensandoci. Era affamata, ma prima di immergere il cucchiaio nella zuppa disse: «Hai bisogno di mangiare». «Forse tra un po'.» Lui aprì una bottiglia di brandy e se ne versò nel caffè. Eco chinò il capo e pregò in silenzio, quindi si fece il segno della croce. Cominciò a mangiare. «E ringraziamo Iddio per aver salvato le nostre vite, là fuori.» «Io su quegli scogli non ho visto nessun altro. Solo te.» Eco allungò la mano verso i crostini. «Ti do fastidio?» «In che senso, Mary Catherine?» «Quando parlo di Dio.» «La trovo una cosa... adorabile.» «Ma tu non credi. O sì?» Ransome si massaggiò una spalla indolenzita. «Io credo in due dei. Il dio che crea e il dio che distrugge.» Si chinò in avanti, incrociò le braccia sul bancone su cui stavano cenando e appoggiò la testa sulle braccia. Gli occhi aperti, guardandola con un lieve sorriso. «Negli ultimi due giorni sono stato in compagnia del dio che distrugge. Hai un buon appetito, Mary Catherine.» «Non ho mangiato molto. Non mi piace mangiare da sola di sera.» «Ti chiedo scusa per... per essere rimasto via così a lungo.» Eco lo fissò assorta. «Adesso starai bene?» Lui si raddrizzò, scese dallo sgabello, si mise dietro di lei e le pose leggermente una mano sul collo. «Credo che la domanda sia: dopo la tua esperienza di questa notte, tu starai bene... con me?» «John, avevi intenzione di ucciderti?» «Non credo. Ma non ricordo che cosa stessi pensando. Non so bene nemmeno come mi sia ritrovato nudo seduto sul fondo della doccia nel mio bagno, rosso come un'aragosta bollita.» Eco depose il cucchiaio. «Ti ho tagliato i vestiti con le forbici, ti ho spinto a forza sotto la doccia e ti ho strigliato per rimettere il sangue in circola-
zione.» «Dovevi essere mezza congelata come me. Ma hai aiutato prima me. Sei una tosta, non c'è che dire.» «Tu eri stato fuori più a lungo di me. Quanto più a lungo non lo so. Ma ero consapevole che l'ipotermia poteva ammazzarti nel giro di qualche minuto. Avevi già tutti i sintomi.» Eco riprese a mangiare, cambiando mano al cucchiaio perché sentiva che alla destra stava arrivando un crampo; era da un'ora che aveva quella sensazione. Gli aveva tagliato i vestiti perché bisognava che fosse nudo. Nessun falso pudore; era spaventata e in collera e aveva la necessità di prendere le distanze dalla follia di morte di lui e dalla dura realtà della pulsione che lo aveva spinto all'aperto in camicia, scalzo, a gelare o annegare tra gli scogli. Nudo, semisvenuto e semicosciente, il significato di Ransome veniva ridotto nella sua mente e nella sua immaginazione; seduto sul pavimento della doccia e sobbalzando per l'acqua bollente che gli pioveva addosso, per lei era come un soggetto anonimo in una classe di disegno dal vero, da vedere razionalmente senza alcun inaffidabile investimento emotivo. Così aveva tempo per pensare alla situazione. E per decidere. Se si trattava solo di impotenza creativa, c'era ancora una possibilità che Eco potesse essergli di qualche utilità. Altrimenti poteva anche imbarcarsi sul traghetto che partiva all'alba del giorno dopo. «Mary Catherine?» «Sì?» «Io non ho mai amato una donna. Nessuna. Mai. Ma è possibile che sia innamorato di te.» Le parve troppo studiata per prenderla sul serio. Un complimento che lui sentiva di doverle rivolgere. Non che le dispiacesse la leggera pressione del suo palmo sulla nuca. Era tranquillizzante, le calmava il mal di testa. Eco si voltò a guardare Ransome. «Tu sei bipolare, vero?» Lui non si mostrò sorpreso della sua diagnosi. «Questa è l'espressione clinica. Probabilmente tutti gli artisti soffrono della sindrome. Librati tra le nuvole o sprofondati negli abissi, con troppa melanconia e autocommiserazione per poter fare un profondo respiro.» Eco si lasciò incatenare dal suo sguardo. Le dita di Ransome si mossero lungo la mascella fino al mento. Questo lei lo sentiva, eccome. Forse sarebbe diventato un problema. Lui aveva quella capacità di non battere le palpebre a lungo, che in un certo contesto poteva diventare un fatto ipnoti-
co. Sollevò il mento. «Mio padre era un maniaco-depressivo», disse. «Ho imparato ad averci a che fare.» «So che non si è ucciso.» «No. Ci ha pensato il fumo.» «Tu avevi dodici anni?» «Appena dodici anni. È morto il giorno stesso in cui ho avuto... in cui mi sono... quando...» Sentì che aveva fatto un errore. Troppo personale, Eco. Sta' zitta. «Quando sei diventata donna. Una delle donne più meravigliose che io abbia avuto il privilegio di conoscere. Sento che in qualche modo potrei rendere onore a tuo padre preservando quella bellezza per... chi lo sa? Generazioni a venire.» «Grazie», disse Eco, ancora sotto l'effetto del suo tocco, finalmente in pace. Poi ,colse il senso di quello che le stava dicendo. Guardò di nuovo Ransome, piena di stupore e di gioia. Lui annuì. «Sento che sta cominciando ad accadere», disse lui. «Ho bisogno di dormire qualche ora. Poi voglio tornare a quel ritratto che ho iniziato a New York. Ho diverse idee.» Sorrise un po' timidamente. «Era ora, non ti pare?» 9 Dopo qualche giorno di indecisione, seguito da una sgradita intrusione che legava nella sua mente due episodi apparentemente non collegati, Cy Mellichamp fece una telefonata, poi si presentò all'attico che John Ransome manteneva al Pierre Hotel. Nevicava a Manhattan. Il giorno del Ringraziamento era passato. Gli affari, in galleria, si muovevano di buon passo. La donna in nero gli aprì la porta, facendolo entrare nel grande foyer in penombra. E qui lo lasciò, con ancora indosso il cappotto di alpaca, i guanti e il colbacco. Cy inghiottì l'antipatia e la diffidenza che provava per Taja e finse di non sentirsi offeso dalla puttana zingara di John Ransome. E chi sa cos'altro era per Ransome, in quella che agli occhi di Mellichamp appariva come una vera e propria folie à deux. «Ieri sera qualcuno è entrato nei nostri computer», disse. «Chiunque sia stato, ora ha la lista completa delle donne di Ransome. Indirizzi compresi, ovviamente.»
Taja piegò leggermente il capo, aspettando, la luce fioca di un'applique vicina replicata nelle sue iridi scure. «L'altra, ehm, visita, potrebbe non essere in relazione, però non posso esserne certo. Qualche giorno fa è venuto in galleria Peter O'Neill. C'era un'animosità nei suoi modi che non mi è piaciuta. Comunque, sosteneva di sapere dove vive Anne Van Lier. Non mi ha detto se sia stato da lei. Voleva sapere chi sono le altre donne. Insisteva perché gli dessi le informazioni. Io ho risposto che non potevo aiutarlo. Poi, questa notte, come ho detto, qualcuno molto intraprendente ha raccolto quelle informazioni dai nostri computer.» Cy fece un gesto un po' imbarazzato, negando la sua responsabilità personale. La sicurezza assoluta era qualcosa che non esisteva in un mondo dominato dalle macchine. «Pensavo che sarebbe bene che John lo sapesse.» Gli occhi di Taja rimasero impassibili in quel suo viso inquietantemente immobile ancora per qualche momento. Poi d'un tratto se ne andò, muovendosi senza rumore, lasciandosi dietro la scia acuta del suo profumo, un profumo non da seduzione ma da aggressione. Scomparve in fondo a un corridoio alle cui pareti erano appesi una decina di ritratti e disegni di antichi maestri di enorme valore. Mellichamp si leccò le labbra e attese, il cappello in mano, sentendosi oscuramente umiliato. Non avvertiva altro rumore se non il lieve sibilo del suo respiro. «Io... io devo proprio andare», disse a un busto di Adriano e al proprio riflesso in uno specchio incorniciato nel quale un tempo, in un palazzo bavarese, si erano rimirati personaggi reali. Ma aspettò un altro minuto prima di aprire una delle porte di bronzo e di uscire nell'anticamera dell'ascensore. Zingara puttana, pensò di nuovo, ricavando una minima soddisfazione da questo giudizio. Per fortuna non gli capitava spesso di avere a che fare con lei. Solo posare gli occhi sulla donna in nero, dal temperamento bilioso e dall'aria di violenza trattenuta, lo faceva sentire meno sicuro in quel mondo di distinzione sociale che, grazie al denaro guadagnato con John Ransome, si era garantito: un luogo magico, inebriante, esclusivamente newyorchese dove i soldi erano sempre nell'aria, come una polvere magica destinata a chi già era privilegiato. Denaro e prestigio, però, erano entrambi sostanze altamente infiammabili. In quelle circostanze uno scandalo morboso, un evento disastroso potevano ridurre in cenere una reputazione.
L'ascensore arrivò. Certo lui non era legalmente responsabile, si disse Cy mentre scendeva. Una frase era che diventata il suo mantra. Sulla strada imbiancata dalla neve si diresse verso la limousine che lo aspettava accanto al marciapiede, respirando a pieni polmoni la frizzante aria invernale. Si sentiva esonerato anche psicologicamente dalla tragedia che, ora lo accettava, avrebbe colpito innocenti e colpevoli, senza differenza. Peter O'Neill arrivò a Las Vegas con un volo del mattino e firmò il modulo del noleggio dell'auto nell'immensa zona bagagli dell'aeroporto McCarran. «Sa come posso trovare un posto che si chiama King Rooster?» La ragazza dietro il bancone esitò, sorrise ironicamente, alzò lo sguardo e mormorò: «Non avrei detto che lei fosse il tipo». «Cosa intende dire?» «Prima volta a Vegas?» «Sì.» La ragazza si strinse nelle spalle. «Non lo sapeva che il King Rooster è, ehm, un bordello?» «Scherza?» «A Las Vegas non sono legali, né nel resto di Clark County.» La ragazza lo guardò riflettendo. «Non se ne abbia a male... probabilmente potrebbe trovare di meglio. Ma non sono fatti miei, giusto?» Aveva due fossette sbarazzine sulla guancia sinistra. Adesso, pensò Peter, gli avrebbe detto a che ora finiva il turno. Le sorrise e mostrò il distintivo. «Non sono in vacanza.» «Ohhh. NYPD Blue, eh? Ci sono rimasta malissimo quando Jimmy Smits è morto.» Girò sul banco lo stradario che l'autonoleggio dava ai clienti e scrisse le indicazioni sulla prima cartina. «Quando lascia l'aeroporto, prenda l'Interstate a sud fino all'uscita 33, che è la Route 160 ovest. Blue Diamond Road. Prosegua per una quindicina di chilometri per Blue Diamond verso il ranch Spring Mountain. Prima di arrivarci vedrà una grande cassetta per le lettere sulla sinistra, con in cima un enorme, ehm, uccello rosso, un gallo. Questo è tutto, niente insegna né altro. È qui per un grosso caso?» «È presto per dirlo», rispose Peter.
Il bordello, quando ci arrivò, non era niente di speciale. Lo stile era quello dei film western: due piani, squadrati, di legno di cedro con una lunga e profonda balconata su tre lati. Nel cortile dominato da un alto pioppo era sparso il genere di cianfrusaglie che si possono vedere a un mercatino di roba usata. Vecchie ruote di carri un abbeveratoio per uccelli di vetro lavorato, un carretto polveroso sotto lo spiovente della bottega di un fabbro. C'era un pozzo dei desideri con il tetto lungo il vialetto di selci che portava alla casa. Un reticolato metallico che stonava con l'ambientazione rustica circondava la proprietà. Il cancello era chiuso e Peter dovette suonare al citofono per farsi aprire. All'interno l'ambiente era fresco e ombroso, in stile rococò New Orleans, con quadri di nudi distesi in eleganti ambienti fin de siècle. Niente di esplicito a minacciare un maschio timido; i sessi delle modelle casti come libri di preghiere chiusi. Una cameriera ispanica guidò Peter in un salottino. Le tende alle finestre erano tirate. La cameriera si ritirò chiudendo la porta scorrevole. Peter attese, sfogliando le pagine di un libro di lusso rilegato in pelle con incisioni di contenuto pornografico riguardanti un'epoca di crinoline e bombette. La cameriera tornò con un vassoio d'argento sul quale c'era un servizio da caffè di delicata porcellana. Disse: «Ha chiesto di Eileen. Ma questa mattina è indisposta. C'è un'altra ragazza che le piacerà, arriva tra...» Peter mostrò il distintivo. «Mi mandi Eileen. Subito.» Passarono dieci minuti. Peter scostò le tende e guardò il paesaggio sassoso e accidentato della pianura fino alle montagne brulle. Un paio di asini selvatici si tenevano compagnia. Bevve il caffè. La porta si aprì di nuovo. Si voltò. Era alta, un po' più alta di lui, con i tacchi. Indossava un pigiama di seta verde chiaro e aveva un velo verde che le nascondeva il volto lasciandole scoperti solo gli occhi: erano scuri, belli, febbrili sotto lo strato di mascara. «Sono Eileen.» «Peter O'Neill.» «Qualche problema?» «Cos'è quella maschera, Eileen?» «È per questo che hai chiesto me, no? Fa parte dello spettacolo che volevi.» «No. Non sapevo niente di... Ti dispiace toglierti il velo?» «Ma quello è per il piano di sopra», protestò lei, schiva. Cominciò a passarsi le mani sui seni, modellando il tessuto quasi trasparente del pigiama
intorno ai capezzoli scuri. Si strinse i seni tra le mani, porgendoli come in offerta. «Senti, non sono venuto qui per scoparti. Toglitelo. Devo vedere... quello che ti ha fatto quel bastardo, Eileen.» Le mani le ricaddero lungo i fianchi ed emise un profondo respiro; la destra ebbe un tremito. Nient'altro di lei si mosse. «Tu lo sai? Dopo tutti questi anni scoprirò finalmente chi è stato?» «Ho qualche idea in proposito.» Lei emise un verso profondo, gutturale, di pena e sofferenza, ma non fece nulla per rimuovere la maschera. Si ritrasse quando Peter, impaziente, allungò una mano verso il suo viso velato. «Stai tranquilla. Puoi fidarti di me, Eileen.» A un palmo dal suo corpo, sentendone il calore, percependo il lieve ed eccitante profumo muschiato, portò la mano dietro la testa bionda e toccò il piccolo fiocco del nastro che le teneva su il velo, delicatamente, come se stesse per prendere una farfalla. «In tutta la vita mi sono fidata di un solo uomo», disse Eileen sconfortata. Poi, decisa, si strinse a lui, appoggiandogli mansueta la testa sulla spalla perché potesse più facilmente scioglierle il velo. Si aspettava cicatrici simili a quelle che Anne Van Lier avrebbe portato tutta la vita. Ma quelle di Eileen erano ancora peggio. Gran parte del suo viso era ustionato, ridotto quasi all'osso. I solchi delle cicatrici erano lisci e del colore del mogano, con lucide sfumature violacee. Sul lato sinistro, quello più danneggiato, lui poté intravedere il bianco di un molare. Lei sussultò al suo esame sgomento, chinando la testa, spingendo il bacino contro di lui. «Bene», gli disse. «Adesso sei soddisfatto? O abbiamo solo cominciato?» «Te l'ho detto non sono venuto per...» «Stai mentendo. Sei pronto a esplodere nelle mutande.» Ma si placò, facendo un passo indietro, con un ghigno che era quasi feroce su quel volto devastato. «Cos'è? La mamma ti ha detto di stare alla larga da donne come me? Sono pulita. Più pulita di chiunque ti può capitare di raccattare in un bar di venerdì sera. Eh? In Nevada siamo regolamentate, nel caso non lo sapessi. Quelli della Sanità sono qui ogni settimana.» «Voglio soltanto parlare. Come ti sei ridotta così la faccia, Eileen?» Il respiro le sibilò a fatica tra i denti. «Che cazzo vuoi? È scritto tutto nei verbali.»
«Voglio sentirlo da te.» Il viso aveva scarsa mobilità, ma i suoi begli occhi erano capaci di esprimere il disprezzo. «Ah! Gli sbirri e le loro perversioni. Il posto giusto per voi è una discarica. Ridammi la maschera.» Si ritrasse di nuovo quando lui fece per rimetterle il velo, poi sospirò, toccando un polso di Peter, uno scambio di intimità. «La mia faccia, la mia fortuna», mormorò. «Non hai idea di quanti uomini hanno bisogno di uno spettacolo di mostri per farselo rizzare. Dio li maledica tutti. Esclusi i presenti, penso. Cerchi di fare il duro ma hai un viso gentile.» Con la maschera ormai a posto trovò il coraggio di guardarlo negli occhi. «Il tuo caffè si dev'essere raffreddato ormai», aggiunse, trasformandosi d'un tratto in compita padrona di casa. «Un'altra tazza?» Peter annuì. Lei si sedette su un divano ricoperto di un tessuto a righe marrone e dorate e versò due caffè. «Allora vuoi sentirlo un'altra volta. E perché no?» Leccò un paio di volte una zolletta di zucchero prima di metterla nella sua tazza. «Ero sola nel laboratorio, lavoravo a un esperimento di chimica. Per preparare la laurea.» Peter sorseggiò il caffè dalla tazza che lei gli aveva dato, rimanendo in piedi accanto al sofà. Continuando a incoraggiare quell'intimità di cui lei mostrava di avere grande bisogno. Non era solo una tecnica da poliziotto per indurre qualcuno a vuotare il sacco. Provava una profonda pena per Eileen, i cui occhi vagavano alla ricerca dei ricordi. «Ero... ero stanca, sai. Non dormivo da trentasei ore. Più o meno. Non sentii che entrava qualcuno. Non seppi che era lì finché non ne avvertii il fiato sul collo.» Alzò lo sguardo. «È questo che ti eccita», disse, come se avesse perduto la cognizione di chi fosse lui. Solo un altro cliente da intrattenere. Prese la mano libera di Peter, se la portò al viso, guidò l'anulare sotto il velo e tra le sue labbra, toccandolo con la punta della lingua. Per Peter quella era una novità, ma di un effetto erotico inquietante. «Feci per voltarmi sullo sgabello», continuò Eileen con la voce che era quasi un sussurro mentre alzava gli occhi su Peter, le labbra che accarezzavano il dito prigioniero, «e mi arrivò un bicchiere di acido solforico in faccia.» «Non hai visto...» «Tutto ciò che ho visto era una mano coperta da un guanto, un braccio. Poi, un bruciore d'inferno.» Gli morse il dito, alla base dell'unghia, rise allegramente quando lui ritirò la mano con uno strappo.
«Posso dirti chi era», fece Peter adirato. «Perché non sei la prima donna che abbia posato per John Ransome e sia finita con una faccia in quello stato.» Non si aspettava la furia con cui lei lo attaccò, soffiando come un gatto inferocito, le mani ad artiglio per cavargli gli occhi. Le afferrò i polsi e la forzò ad abbassare le mani. «John Ransome? Sei pazzo! John mi amava e io lo amavo!» «Stai calma, Eileen! È venuto a trovarti dopo quello che è successo?» «No! E allora? Tu pensi che mi sarei fatta vedere così da lui? Pensi che mi farei vedere da qualcuno, se non mi pagassero? Oh, se li faccio pagare!» «Eileen, mi spiace.» Peter aveva dosato le forze; in quell'impeto d'ira lei era diventata violenta e rischiava di spezzarsi un polso lottando con lui. Quando vide che le aveva fatto perdere l'equilibrio, Peter la spinse lontano da sé. «Mi spiace, non mi sbaglio.» Si spostò di lato per evitare che la sua faccia finisse sotto le unghie di lei. Ma la furia le aveva tolto il fiato e ora aveva difficoltà a respirare. «V-vai a farti fottere! Voi sbirri, che cosa state... cercando di fare a John? Una delle altre ha detto qualcosa contro di lui? Dimmelo, che le strappo il cuore!» «Eri così innamorata di lui?» «Con te non parlo più. Per me certe cose sono ancora sacre!» Eileen arretrò di qualche passo e si sedette pesantemente, il corpo irrigidito come se avesse una camicia di forza, emettendo versi straziati di dolore. «Che cosa ne è stato di quella laurea?» le chiese Peter con calma, anche se sentiva accapponarsi la pelle delle braccia. «Quella era un'altra persona. Vattene, prima che ti faccia buttare fuori. Lo sceriffo e io siamo vecchi amici. Ci smaltiamo a vicenda le unghie dei piedi. La recinzione? Il deserto? Questa è la mia casa, checché tu ne pensi. Il Rooster è mio. Me l'ha comprato John.» Pronunciando quel nome fu scossa da un fremito, pareva che un vecchio insostenibile tormento stesse per esplodere. Si piegò in avanti e, agitando un braccio a scatti come fosse un burattino, cominciò a sfracellare le tazze sul vassoio con il pugno. Le schegge volavano in giro. Quando si fermò la mano sanguinava copiosamente. La mise in grembo e la lasciò sanguinare. «Amico, mentre te ne vai», riprese, «di' a Lourdes di venire. Credo che sia l'ora delle mie medicine.»
Mentre aspettava all'aeroporto di Las Vegas il volo per Houston, in ritardo di un'ora a causa di una tempesta sul Golfo del Messico, Peter scrisse una lunga e-mail a Eco, concludendola con: Finora non mi è possibile provare niente. Ce ne sono almeno altre due che devo vedere, per cui sono diretto in Texas Ma voglio che tu vada via immediatamente dall'isola. Niente saluti, niente bagagli. Vai da mio zio Charlie a Brookline. 3074 East Mather. Aspettami lì, mi servono solo un paio di giorni. Nel momento in cui si imbarcava sul volo per Houston, non aveva ricevuto ancora nessuna risposta da Eco. Erano le sei e mezzo del pomeriggio sulla costa orientale. John Ransome era ancora al lavoro nel suo atelier vicino alle nuvole; Eco stava facendo una doccia quando la donna in nero entrò senza bussare nella sua camera e si guardò intorno. Sullo scrittoio una pila di libri d'arte. La camicetta, la gonna e le perle che aveva preparato per la cena con Ransome. Il rosario d'argento, la Bibbia, il computer portatile. C'era un messaggio sullo schermo, di Rosemay, apparentemente letto solo a metà. Taja lo fece scorrere passando a un'altra e-mail, di una ragazza che, sapeva, era stata compagna di stanza di Eco al college. La saltò e arrivò all'ultimo messaggio di Peter O'Neill. Questo lo lesse con attenzione. Evidentemente Eco non lo aveva visto, altrimenti non avrebbe canticchiato così allegramente sotto la doccia. Lavandosi i capelli. Taja cancellò il messaggio. Ma ovviamente, se Peter non avesse avuto risposta da Eco, prima o poi gliene avrebbe mandato un altro, più urgente. Il tempo si manteneva discreto, il segnale dal satellite era stabile. Calcolò che aveva quattro o cinque minuti, almeno, per sabotare il laptop in modo che Eco non si accorgesse che era stato manomesso. Il problema vero era Peter O'Neill, proprio come lei aveva sospettato e comunicato a John Ransome all'inizio, quando Ransome aveva cominciato a pensare a Eco come suo prossimo soggetto. Per quanto fosse bravo come detective, in Texas non avrebbe appreso niente di utile. Di questo Taja poteva essere certa. E aveva un'idea abbastanza precisa su dove si sarebbe fatto vivo nelle
prossime quarantott'ore. 10 «Alla fine sarebbero arrivati a ricostruirle la faccia», disse a Peter Elisa, la zia della scomparsa Nan McLaren. «L'equipe di chirurgia plastica è quanto di meglio ci sia a Houston. È famosa a livello mondiale.» Era seduto con l'anziana signora, che conservava ancora quella vivezza che l'alimentazione controllata e gli esercizi fisici garantiscono ai settantenni, nell'orangerie di una tenuta molto estesa nella Sherwood Forest. Fuori, il lento sgocciolio della pioggia cadeva dalle foglie di due grandi magnolie decorate con le lucine intermittenti della festa. La donna aveva finito un brandy e soda e ne voleva un altro; fece segno al ragazzo nero che si occupava del bar. Peter declinò l'offerta di una seconda acqua tonica. «Certo, Nan non sarebbe mai più tornata quella di prima. Quello che c'era di indefinibile e di unico nella sua bellezza giovanile... sparito per sempre. Il naso distrutto; le ossa della faccia non solo rotte ma fracassate. Una ferocia così inaspettata, così mortale per l'anima, ha annientato il suo ottimismo, la sua estasi innocente, la gioia di vivere. Se ha presente i ritratti che le ha fatto John Ransome, conosce la Nan di cui sto parlando.» «Li ho visti su Internet.» «Vorrei tanto che la famiglia ne possedesse uno. So che tutta la sua opera è cresciuta enormemente di prezzo negli ultimi anni.» Elisa sospirò e spostò il peso del bichon frisé che aveva in grembo. Si perse con lo sguardo nel fuoco di un camino a gas nell'angolo della veranda. «Chi avrebbe pensato che un solo pugno di un uomo potesse produrre danni così spaventosi?» «A New York li chiamano sly rapper», disse Peter, «perché si avvicinano di soppiatto e colpiscono all'improvviso; qualcuno usa un mattone, o ha un tirapugni di ottone. Si accostano alla vittima da dietro, di solito su un marciapiede affollato, le battono sulla spalla. E quando si volta, totalmente indifesa, a vedere chi c'è...» «Sempre donne?» «Nella mia esperienza sì. Giovani e belle, com'era Nan.» «Terribile.» «So che l'indagine del dipartimento di polizia di Houston è finita in niente.» «È successo in maniera così fulminea; c'erano solo un paio di testimoni,
e l'aggressore è scomparso mentre Nan era lì sanguinante sul marciapiede.» Prese il bicchiere che il ragazzo le aveva portato. «Quando è caduta si è fratturata il cranio. Per più di una settimana non ha ripreso conoscenza.» Elisa guardò Peter mentre il cagnolino si metteva allegramente a lappare dal bicchiere colmo che lei teneva appoggiato su un ginocchio. «Ma non mi ha spiegato il motivo per cui la polizia di New York è interessata al caso di Nan.» «In questo momento non mi è possibile farlo, mi spiace. Lei può dirmi quando Nan ha cominciato ad assumere eroina?» «Tra, penso, il terzo e il quarto intervento. Quello di cui aveva davvero bisogno era una psicoterapia, ma smise di andare dallo psichiatra quando cominciò a frequentare un giovane non troppo raccomandabile. Fu lui, ne sono sicura, a... qual è l'espressione? A passarle la scimmia.» «Calvin Cotrona. Qualche arresto, roba da poco. Sì, era un tossicomane.» Elisa allontanò il brandy e soda dal cagnolino bianco dalla testa riccioluta; lui protestò con un latrato acuto. «Non posso dargliene di più», spiegò a Peter. «Diventa incontrollabile e mi fa la pipì sull'Aubusson. Un po' come il mio terzo marito... neanche lui reggeva l'alcool. Sta' buono, Richelieu, o la mammina si inquieta.» Studiò di nuovo Peter. «Sembra che lei sia ben informato sulla tragedia di Nan e su come è morta. Che cosa si aspettava di sapere da me, detective?» Peter si strofinò gli occhi affaticati. «Volevo sapere se Nan ha più visto o sentito John Ransome dopo aver finito di posare per lui.» «Che io sappia no. Quando tornò a Houston rimase depressa e asociale per mesi. Ebbi il sospetto, allora, che fosse infatuata di quell'uomo. Ma non gliel'ho mai chiesto. È importante?» Elisa sollevò il bicchiere ma non bevve; le tremava la mano. Appariva sgomenta. «Ma non può voler dire... non è possibile che stia pensando...» «Signora McLaren, ho parlato con altre due modelle di Ransome nelle ultime settimane. Tutte e due sono state sfigurate. Un coltello in un caso, acido solforico nell'altro. Nel giro di uno o due giorni, con un po' di fortuna, vedrò un'altra delle donne di Ransome, Valerie Angelus. E spero con tutta l'anima che non sia accaduto nulla al suo viso. Perché come coincidenza sarebbe eccessiva. E già adesso sono terrorizzato.» Nella sua stanza al Motel Six presso il maggiore aeroporto di Houston, che prendeva il nome da uno dei presidenti USA che si erano affermati e
avevano prosperato là dove la puzza di corruzione faceva parte del paesaggio, Peter chiamò lo zio a Brookline, Massachusetts. Erano passate trentasei ore da quando aveva mandato il messaggio a Eco da Las Vegas, ma lì non s'era ancora vista. Provò con Rosemay a New York; nemmeno lei aveva notizie di Eco. Le mandò un'altra e-mail, che non la raggiunse. Esasperato, cercò di mandarle un messaggio sul cercapersone, ma era spento. Frustrato, si sdraiò sul letto con un asciugamano umido sugli occhi. Viaggiare gli dava sempre un senso di nausea e mal di testa. Masticò un antiacido e cercò di convincersi che non c'era niente di cui preoccuparsi. Le altre donne di Ransome che conosceva o che aveva già interrogato erano state colpite mesi dopo il loro legame con l'artista, e quando, presumibilmente, la relazione sentimentale era finita. Gli psicopatici violenti hanno profili costanti. Pete non riusciva a vedere nel garbato signor Ransome un aggressore e accoltellatore part-time, per quanto forte potesse essere l'influsso della luna piena sulle psicologie potenzialmente instabili. Ma c'era un altro genere - e non così raro da quanto aveva potuto capire leggendo la casistica della psicopatologia - di individui che, isolati dalla ricchezza e dalla posizione sociale e perversi al di là di ogni comprensione umana, pagavano generosamente perché altri gratificassero le loro patologiche pulsioni segrete. Non aveva ancora trovato un'etichetta da appiccicare a John Ransome. Ma l'idea che avesse già passato diverse settimane a manipolare con cura e senza fretta Eco, prima di sedurla e infine distruggerla, fece detonare come una bomba la cena del fast-food che gli era rimasta nello stomaco. Corse in bagno a vomitare, e poi rimase seduto sul pavimento sfinendosi in una crisi di rabbia impotente. Sentendo Eco sulla sua pelle, il piacere di un corpo agile, le curve e i boccioli dei piccoli seni, gli occhi tentatori semiaddormentati. Pensando a come aveva mostrato il desiderio di fare l'amore con lui nel cottage di Bedford e di come lui l'aveva seccamente respinta. Un tipico esempio di falso orgoglio che forse aveva spinto la sua vita in una direzione che lui non avrebbe mai voluto. Voleva Eco, adesso, disperatamente. Ma mentre si portava selvaggiamente all'orgasmo, quello che sentiva era l'accoglienza di seta di una puttana, quello che vedeva era il rancore negli occhi neri di Eileen. John Ransome si presentò a casa alle dieci e un quarto, con addosso ancora gli abiti da lavoro che conservavano l'odore pungente dello studio.
Colori a olio. Per Eco Il più inebriante degli odori. Le sue narici lo percepirono prima ancora di vedere lui riflesso nel vetro di una delle librerie nella biblioteca del primo piano dove aveva passato il tempo con un quaderno da schizzi e i pastelli, copiando un paesaggio giovanile di Ransome. Il mare le dava grosse difficoltà: cambiava con la rapidità del sogno. «Mi spiace tanto, Mary Catherine.» John aveva l'aria di un uomo stanco ma soddisfatto dopo una giornata appagante. «Non preoccuparti, John. Per la cena però...» «Ciera è abituata ai miei ritardi. Ho bisogno di venti minuti. Tu pensa al vino. Chateau Petrus.» «John?» «Sì?» «Stavo guardando di nuovo il tuo autoritratto...» «Ah, quello. Un esercizio di monomania. Ma non ne potevo più di guardarmi prima ancora di averlo finito. Non so come abbia fatto Courbet a dipingere otto autoritratti. Inutile dire che avevo un aspetto più piacevole di adesso. Dovrei tirar giù quello scarabocchio e chiuderlo nel sottoscala.» «Non provarci! Sul serio, è magnifico.» «Be', allora se ti piace tanto, Mary Catherine, è tuo.» «Che cosa? No», protestò lei, ridendo. «Volevo solo chiederti della ragazza, quella riflessa nello specchio dietro la tua sedia. Così misteriosa. Chi è?» Ransome entrò nella biblioteca e si fermò davanti a lei, massaggiandosi uno zigomo dove la pelle, sensibile al diluente, era arrossata. «Mia cugina Brigid. È stata lei la prima ragazza Ransome.» «Davvero?» «Anni prima che cominciassi a dedicarmi ai ritratti, feci uno studio di Brigid, un nudo. Quando fummo tutti e due soddisfatti del lavoro, lo bruciammo insieme. Anzi, sul fuoco ci abbrustolimmo i marshmallow.» Eco sorrise, incredula. «Se il quadro era buono...» «Oh, io credo che lo fosse. Ma Brigid era minorenne quando posò.» «E tu quanti anni avevi?» «Diciannove.» Si strinse nelle spalle e allargò le braccia. «Era molto matura per la sua età. Ma sarebbe stato uno scandalo. Troppo duro per lei, anche se a me non importava di quello che ne potevano pensare gli altri.» «L'hai mai più ritratta?» «No. Mori non molto tempo dopo il nostro piccolo falò. Contrasse la set-
ticemia nel collegio che frequentava, a Davos.» Si avvicinò di un passo al ritratto, come per esaminare più attentamente la figura nello specchio. «Era morta da quasi due anni quando iniziai questo quadro. Mi mancava molto. La inserii come un... immagino che tu lo chiameresti angelo custode. Sentivo davvero il suo spirito intorno a me, a quel tempo, il suo meraviglioso spirito libero. Ero straziato. Penso che anche gli angeli possono perdere la speranza per quelli che cercano di proteggere.» «Straziato? Perché?» «Ti ho detto che morì di setticemia. A causa del tentativo folle di una compagna di Brigid di farla abortire, incinta di quattro mesi. E, sì, il bambino era mio. La cosa ti disgusta?» Eco batté un paio di volte le palpebre. «Niente di ciò che è umano mi disgusta.» «Facemmo l'amore dopo aver mangiato i marshmallow, cadevano pezzetti di tela bruciata mentre ci svestivamo a vicenda. Era una calda notte d'estate.» I suoi occhi erano chiusi, non in pace. «Notte calda, cielo stellato. Ricordo com'erano appiccicose le nostre labbra. E come mi pareva splendidamente composta Brigid, mentre si inginocchiava. Quella prima notte dell'unico breve idillio delle nostre vite.» «Sapevi del bambino?» «Brigid me lo scrisse. Parlava della gravidanza in maniera quasi distaccata. Diceva che se ne sarebbe occupata lei, che io non dovevo preoccuparmene.» Per un istante i suoi occhi sembrarono perdere il colore per l'odio che provava verso se stesso. «Le donne, si direbbe, mi hanno sempre concesso il beneficio del dubbio.» «Non convinci né me né te che meriti di soffrire. Eri immaturo, ecco tutto. Scusami, ma la merda fa parte della realtà. C'è ancora speranza per noi tutti, da una parte e dall'altra del paradiso.» Mentre cercava una bottiglia di Chateau Petrus dell'82 che Ransome aveva suggerito per la cena, Eco sentì Ciera che parlava con qualcuno. Aprì un'altra porta tra la cantina e la cucina e vide Taja seduta al bancone con una tazza di caffè tra le mani. Eco sorrise ma Taja non fece altro che guardarla fisso prima di distogliere deliberatamente lo sguardo. «Oh, va e viene», spiegò Ransome quando Ciera ebbe finito di servire la loro zuppa e fu tornata in cucina. «Perché non cena con noi?» disse Eco. «È tardi. Immagino che abbia già mangiato.»
«Resta qui stanotte?» «Preferisce dormire in barca, se non è prevista burrasca.» Eco assaggiò la zuppa. «Mi ha scelto lei per te, vero? Eppure penso di non piacerle .» «Non è quello che credi.» «Non lo so che cosa credo. A volte mi viene di pensare così.» «Le dirò di stare lontana dalla casa finché tu sei...» «No, ti prego! Così mi sentirei in colpa.» Eco si appoggiò allo schienale, seguendo con un dito il motivo ricamato sulla tovaglia. «La conosci da più tempo di tutte le donne Ransome. Hai mai fatto un ritratto a Taja? O hai abbrustolito marshmallow anche su quelle fiamme?» «Sarebbe come cercare di dipingere una maschera dentro una maschera», rispose Ransome incupendosi. «Non sono capace di dipingere un simile abisso di solitudine. A volte... per me è come uno spettro scuro, ermeticamente chiuso in un mondo notturno che non riesco a immaginare. Taja ha sempre saputo che non posso dipingerla.» Aveva chinato la testa, come per nascondere il susseguirsi delle emozioni nei suoi occhi. «Lei capisce.» 11 La clinica Knowles-Rembar, una struttura di alto livello per la cura di pazienti benestanti sofferenti di una varietà di dipendenze o traumi emotivi, era ubicata in un sobborgo di Boston non lontano dal campus del «Wellesley College. La Knowles-Rembar aveva un suo parco fatto di prati dolcemente ondulati, stradine di mattoni, grandi querce e agrifogli e cedri e antichi rododendri che nella tarda primavera avrebbero dato una ricchissima fioritura. A metà dicembre erano incrostati di ghiaccio e neve. All'una e venti del pomeriggio il sole si avvertiva appena, un lieve fremito di luce attraverso gli strati di nuvole grigie che promettevano altra neve. Lo psichiatra interno con cui Peter era venuto a parlare era un uomo di bassa statura che sembrava Barney dei Flintstone con un paio di spessi occhiali. Si chiamava Mark Gosden. Tempo permettendo, gli piaceva consumare il suo pranzo all'aperto. Peter si accodò. Bevve il caffè del distributore e accettò uno dei biscotti di farina d'avena che la madre di Gosden gli aveva preparato. Peter non domandò allo psichiatra se vivesse ancora con lei. «Questa è una struttura volontaria», spiegò Gosden. «La permanenza più
recente di Valerie è durata cinque mesi. Anche se a mio parere lo ha fatto contro il suo interesse, ha deciso di andare via tre settimane fa.» «Chi pagava i suoi conti?» «So solo che venivano spediti a un indirizzo di New York, e l'assegno arrivava immediatamente.» «Quante volte Valerie è stata qui?» «L'ultima era la quarta.» Peter si accorse di una giovane donna che si stava avvicinando furtivamente alle loro spalle. Lanciò uno sguardo a Peter, si mise un dito sulle labbra, poi indicò Gosden e fece un sorriso malizioso. I guanti agganciati alle maniche della giacca a vento dondolavano. Aveva un visetto splendido e le orecchie a sventola. Nonostante il sorriso lui notò nei suoi occhi il nero della sofferenza mentale. «E lei non pensa che abbia molte probabilità di sopravvivere, fuori di qui», disse Peter allo psichiatra, che fece una piccola smorfia. «Di questo non posso parlare con lei, detective.» «Sa dove posso trovarla?» Gosden scosse via delle briciole dalle gambe e bevve un sorso del consommé che aveva nel thermos. «Be', anche questo. Sono informazioni strettamente confidenziali che non posso darle, ovviamente, senza un ordine del tribunale.» Quando mise giù il thermos la ragazza, che non doveva avere ancora vent'anni, pensò Peter, coprì con le mani gelate gli occhi di Gosden. Lui si irrigidì, poi sforzò un sorriso. «Chi sarà mai? Ecco! Britney Spears.» La ragazza tolse le mani. «Ta-ta!» Fece una piroetta, roteando i guanti, e guardando incuriosita Peter. «Ma guarda un po'», disse Gosden. «Era Sydney Nova!» Diede un'occhiata all'orologio e aggiunse con un'aria dispiaciuta: «Sydney, sto facendo tardi. Mi dispiace ma purtroppo oggi non ho tempo per una canzone». Chiuse la borsa del pranzo e si alzò dalla panchina, lanciando uno sguardo a Peter. «Se vuole scusarmi, ho un seminario con i nostri allievi di psichiatria. Mi rincresce di non poterle essere di maggiore aiuto.» «La ringrazio del tempo che mi ha dedicato, dottore.» Sydney Nova si appoggiò allo schienale della panchina mentre Gosden si allontanava, scuotendo la capigliatura come una vivace puledra. «Tu non devi scappare, vero?» disse a Peter. «Ho sentito di che cosa, cioè di chi, stavate parlando tu e Goz.»
«Tu conosci Valerie Angelus?» Sidney alzò due dita unite, indicando quanto era stretto il loro rapporto. «Quando c'è, voglio dire. Hai una sigaretta?» «Non fumo.» «Un nome ce l'hai?» «Peter.» «E sei uno sbirro, eh? Sei niente male per essere uno sbirro, Pete.» «Grazie.» Sydney usava fischiettare sommessamente per coprire i momenti di silenzio. Continuò a squadrare Peter. «Già, Val e io parliamo un sacco quando lei è qui. Si fida di me. Ci raccontiamo i nostri piccoli segreti sporchi. Lo sapevi che era una modella famosa prima che desse i numeri per la prima volta?» «Sì, lo sapevo.» «Senti, bello. Tu gli vuoi bene a tuo padre?» «Sì, certo. Gli voglio molto bene.» Sydney fischiò ancora un po' malinconicamente. Piegò la testa da una parte e dall'altra, come ascoltando lo scalpiccio dei sorci che galoppavano in giro per il solaio della sua mente. «A sedici anni in copertina sulle riviste. A diciotto completamente suonata. La celebrità, direi, non è tutta rose e fiori come vogliono farci credere.» Sydney piegò ancora la testa, con una smorfia. «Però non c'è niente di meglio per fare quattrini.» Un fischio. «Io il mio quarto d'ora non l'ho ancora avuto. Ma lo avrò. Continuo a lasciarmi mettere fuori strada.» Si guardò intorno, a labbra strette. «Dimmi qualche altra cosa di Valerie.» «Qualche altra cosa? Be', ha avuto come una resurrezione grazie a un tipo, un artista; è stata un anno intero con lui su un'isola. A proposito di matti.» «Vuoi dire John Ransome?» «Ci hai preso, bello.» «Che cosa faceva a Valerie?» «Certi segreti non te li dico! Piuttosto mi mangio il veleno per i topi. Ah, mi dimenticavo. Ti piace Tutti insieme appassionatamente? Conosco tutte le canzoni.» Come se le fosse stata chiesta un'esibizione, Sydney montò sulla panchina, allargò le mani e attaccò Climb Ev'ry Mountain. Peter sorrise ammirato. Sydney aveva davvero una bella voce. Lei si crogiolava nella sua atten-
zione, sbagliò un verso, e smise di cantare. Lo guardò. «Scommetto che lo so dov'è Val. Quasi sempre.» «Davvero?» «Mi aiuti a scendere, Pete?» Le cinse con le mani la vita sottile. Lei finse di perdere l'equilibrio e gli cadde tra le braccia. Nonostante il giaccone rigonfio e gli scarponcini, sembrava non aver quasi peso. Le sue labbra socchiuse erano a due dita da quelle di Peter. «Val è fissata con i cimiteri», disse Sydney. «È capace di passarci tutto un giorno... sai, come una Disneyland per i morti.» Peter la depose sul sentiero di mattoni. «Cimiteri. Per esempio?» «Oh, come quello grande a Watertown, Mount Auburn, mi sembra che si chiama. Okay, adesso tocca a te.» «Per che cosa, Sydney?» «Quello che ti ha detto Gosden sul volontario è una cazzata totale. Io starò qua dentro per sempre. Ma potrei andarmene con te. Nel bagagliaio dell'auto? Portami fuori da questo posto e sarò molto molto carina con te.» «Mi spiace, Sydney.» Lei lo guardò ancora un po', mordicchiandosi il labbro con i suoi denti da volpe. Lo sguardo a terra. Si mise a fischiettare lamentosamente. «Grazie, Sydney. Sei stata di grande aiuto.» Lei non alzò lo sguardo mentre lui si allontanava lungo il sentiero. «Io a mio padre gli ho cavato gli occhi», Peter sentì che diceva. «Così al buio non poteva più trovarmi.» Peter passò mezz'ora nel cimitero di Mount Auburn, guidando lentamente l'auto a noleggio tra mausolei molto antichi che ricordavano piccoli villaggi tristi, prima di arrivare a una station wagon parcheggiata lungo il viale, con il portellone posteriore abbassato. Una donna con un velo nero stava prendendo un mazzo di fiori dal retro della vettura. Non riuscì a distinguere molto di lei nella scarsa luce invernale, ma il velo era un indizio poco felice. Parcheggiò a una decina di passi e scese. Lei guardò in direzione di Peter. Lui non si avvicinò. «Valerie? Valerie Angelus?» «Cosa c'è? Ho ancora delle visite da fare, e oggi sono in ritardo.» C'erano altri mazzi di fiori nella station wagon. Ma anche da dove si trovava lui si vedeva che non erano molto freschi; alcuni erano decisamente appassiti.
«Mi chiamo Peter O'Neill. Posso parlare con te, Valerie?» «Se potessimo farne a meno... sono occupata.» «Potrei aiutarti mentre parliamo.» La donna si era avviata lungo la salita, in un turbine di grossi fiocchi di neve, verso una cappella di marmo color ruggine con un colonnato greco. Si fermò, cambiò posizione al vaso di ottone con i fiori rinsecchiti che teneva tra le braccia e si guardò intorno. «Oh! Questo sarebbe molto gentile. Qual è la tua attività?» «Sono un detective di New York City.» Superò la station wagon. Lei lo stava aspettando. «Tu sei nel ramo fiori, Valerie?» «No.» Lei riprese a camminare verso il mausoleo sulla cima della collinetta. Peter la raggiunse mentre stava disponendo i fiori all'ingresso della cripta. «È la tua famiglia?» «No», rispose Valerie, inginocchiandosi per appoggiare il vaso esattamente di fronte alle porte chiuse, poi si diede da fare per sistemare la disposizione floreale. Fece un passo indietro per un ultimo controllo, quindi guardò la targa con l'iscrizione sopra l'ingresso. Lettere e cifre erano consumate, quasi illeggibili. «Non so chi siano», disse. «È una cappella molto antica, come vedi. Immagino che non ci siano discendenti a ricordare, o a occuparsene.» Emise un sospiro, facendo fluttuare il velo da lutto. Velo che riusciva abbastanza bene a nascondere i tratti distorti del suo viso. Se fosse stato più scuro o più fitto probabilmente lei non sarebbe riuscita a vedere dove stava andando. «Ma noi tutti vogliamo essere ricordati, non è vero?» «È per questo che lo fai?» «Sì.» Si voltò e gli passò accanto scendendo dalla collinetta, facendo scricchiolare la crosta di neve sotto gli stivali. «Tu sei un detective? Avevo pensato che fossi un altro investigatore dell' assicurazione.» L'aria gelida sollecitò il velo. «Bene, vieni. Adesso facciamo quella.» Indicò un'altra cripta sul lato del viale opposto a quello dove aveva parcheggiato la station wagon. Peter la aiutò a tirare sul bordo del veicolo un cesto di vimini pieno di fiori di serra. Il freddo intenso la obbligava a tenere i guanti, ma allungando il braccio aveva scoperto di qualche centimetro il polso. Le numerose cicatrici erano il ricordo di più di un tentativo di suicidio. Peter la aiutò a portare il cesto al mausoleo, così grande da poter contenere un intero albero genealogico di proporzioni bibliche. Uno scoiattolo
squittì studiandoli da un pendio roccioso. «Non hanno voluto pagare, sai», sospirò Valerie. «Dicevano che a causa della mia... storia avevo manomesso l'auto. Questa è una sciocchezza. Non so niente di macchine... Di come funzionano i freni.» «Hai avuto un guasto ai freni?» «Mettiamoli lì», disse Valerie, spazzando via delle foglie secche che si erano raccolte in una nicchia. Quando fu convinta che il suo omaggio floreale era disposto a dovere, si guardò intorno a disagio. «Adesso dobbiamo andare a quello un po' brutto con la fontanella. Ma dobbiamo affrettarci. Mi mandano via, sai, sono rigidi su questo. Non posso tornare fino alle sette e mezzo di domani mattina. Per cui... devo passare la notte da sola. Questa è sempre la parte più dura, non è vero? Far passare la notte.» Non parlò molto mentre insieme finivano di scaricare i fiori e di addobbare le tombe trascurate. Quando parve soddisfatta del lavoro di quel pomeriggio e in pace con se stessa, Peter le chiese, come se fino ad allora avessero conversato di Ransome: «John è venuto a trovarti dopo l'incidente?» Valerie si fermò passando una mano guantata su un capitello spezzato. «Millesettecentosessantadue. Non è poi tanto tempo fa.» «Valerie...» «Non so perché mi fai queste domande», disse contrariata. «Ho freddo. Voglio andare alla mia auto.» Fece per allontanarsi, poi esitò. «John, sta... sta bene, sì?» «L'ultima volta che l'ho visto sì. A proposito, ti manda i suoi migliori saluti.» «Ohhh. Be', questa è una buona notizia. Che stia bene, dico. E dipinge ancora?» Peter annuì. «È un genio, sai?» «Non sono in grado di giudicare.» Valerie cambiò tono quando ripresero a camminare. «Lasciamo perdere. Lasciamo perdere John. Non riesco a far smettere Silkie di parlarne. Con me era sempre così generoso. Non so perché Silkie abbia paura di lui. John non le farebbe mai del male.» «Chi è Silkie?» «Una mia amica. Insomma, viene a trovarmi. Dice che è mia amica.» «Che cosa dice di John?» Valerie chiuse il portello posteriore della vettura. Incrociò le braccia, rabbrividendo nonostante il cappotto con l'interno di pelliccia. «Che John voleva... distruggerci tutte quante. Così che solo i suoi dipinti
avessero vita. Ridicolo. La sola cosa di cui sono sempre stata sicura è l'amore di John per me. E io lo amavo. Adesso sono in grado di dirlo. Lo amavo. Avrei avuto un bambino suo.» Peter ebbe bisogno di qualche momento, pieno di disagio, per assorbire la notizia. «Lui lo sapeva?» «No. Io me ne sono accorta dopo aver lasciato l'isola. Ho provato e riprovato a mettermi in contatto con John, ma... loro non me lo permettevano. E così io...» Valerie si voltò verso Peter. Nella luce del crepuscolo vide che lo stava fissando attraverso il velo che le copriva il volto. Tracciò una linea orizzontale con un dito sul cappotto, all'altezza dell'addome. «... Ho fatto questo. E poi...» sollevò un braccio, scoprendo un polso sfregiato «... ho fatto questo. Ero così... furente.» Lasciò ricadere il braccio. «Non so perché te lo sto raccontando. Ma il dottor Gosden dice 'Valerie, non tenere nascoste le cose brutte'. E tu sei amico di John. Non vorrei mai che pensasse male di me, come diceva mia madre. Lasciamo perdere mia madre. Non parlo mai di lei. Vorresti far sapere a John che ora sto bene? La rabbia è passata. Mi riprenderò completamente, Goz può pensarla come gli pare.» Alzò il viso verso il cielo oscurato, e qualche fiocco di neve si depositò sul velo. Deglutì nervosamente. «Sai l'ora, Peter?» «Le cinque meno dieci.» Batté i piedi a terra. Le dita gli si stavano congelando. «D'inverno il cancello chiude alle cinque. Meglio andare.» «Valerie, Silkie quando ha posato per Ransome?» «Oh, più di un anno fa. Non sono mai stata gelosa di lei.» «Ha avuto qualche incidente, che tu sappia?» «No», rispose Valerie, un po' perplessa. «Ma te l'ho detto... l'ossessione continua di John John John la tiene in un tale stato... Quello che penso io è che non riesce a dimenticarsi di lui, e allora si inventa delle storie, si sogna che vorrebbe farle del male. Mentre le cose stanno esattamente all'opposto. Goz direbbe che soffre di dislocazione di origine nevrotica. Comunque, usa diversi nomi e non ha una casa sua. Rimorchia un uomo e sta con lui un paio di notti, una settimana al massimo, poi passa al successivo.» «Quindi non sai dove potrei trovarla.» «Be', mi ha lasciato un numero di telefono. Se mai avessi bisogno di lei, mi ha detto.» Valerie girò la chiave dell'accensione e il motore rombò. Tornò a guardare Peter. «Posso cercare di trovarti il numero, più tardi.» Il suo tono fin lì cupo si ravvivò. «Perché non vieni da me, diciamo alle no-
ve?» «Dove?» «Quarantacinque West Churchill. Sono al sei-A. Lo so, starai pensando che sono troppo vecchia per te, Peter. A volte mi sento... antica. Come se vivessi contemporaneamente una quantità di vite. Lasciamo perdere. La verità è che ho solo ventisette anni! Probabilmente non lo avresti immaginato. Non ho intenzione di saltarti addosso, niente del genere, ma potrei preparare una cena per noi due. Ti piacerebbe?» «Moltissimo. Grazie, Valerie.» «Chiamami Val, ti va?» disse, e partì. Fresca come una rosa dopo il lungo bagno caldo, Eco era seduta ai piedi del letto con i capelli legati e guardava con aria accigliata il computer che non riusciva a far partire. Alzò gli occhi quando bussarono; si stava schiarendo la gola per rispondere quando la porta si aprì e si affacciò John Ransome. «Oh, Mary Catherine, scusami...» «No, figurati. Stavo per vestirmi. John, c'è qualcosa che non va nel portatile: non funziona.» Lui scosse la testa. «Vorrei poterti aiutare. Di computer capisco poco e niente; non ci ho mai guardato dentro, in uno di quegli aggeggi. Ce n'è uno nel mio ufficio, se vuoi poi usare quello.» «Grazie.» Stava per richiudere la porta quando lei lo chiamò. «John?» «Sì?» «Stai andando bene, vero? Con il quadro. Lo sai, oggi sembravi contento... be', per buona parte del tempo.» «Ah, sì?» Lui sorrise, quasi riluttante a confermarlo. «Quello che so è che le ore passano in fretta quando si sta in buona compagnia. E il lavoro... sì, sono contento. Stasera non mi sento stanco. E tu? Mi sembra che posare non ti affatichi e non ti annoi.» «Perché ho sempre qualcosa di interessante da pensare o da dirti. Cerco di non parlare troppo. Nemmeno io sono stanca, però muoio di fame.» «Allora ci vediamo giù.» Ma non andò via né staccò lo sguardo da lei. Anche lui aveva fatto il bagno. Indossava un paio di calzoni di velluto a coste e un maglione pesante a collo alto. Aveva un bicchiere di vino nella sinistra. «Mary Catherine, stavo pensando... ma non è il momento, ti disturbo.»
«Di che si tratta, John? Puoi entrare, davvero.» Lui sorrise e aprì completamente la porta. Rimase sulla soglia, bevve un sorso di vino, la guardò con affetto. «Pensavo di provare qualcosa di nuovo, per me. Dipingerti in piedi di scorcio, nient'altro sulla tela, nessuno sfondo.» Lei annuì assorta. «Vecchio cane, trucchi nuovi», disse lui stringendosi nelle spalle, continuando a sorridere. «Vuoi che posi nuda, quindi.» «Sì. A meno che tu non abbia riserve. Lo capirei. È solo un'idea.» «Ma una buona idea, credo», replicò lei subito. «Lo sai che sono favorevole a tutto ciò che agevola il tuo lavoro, che ti ispira. È per questo che sono qui.» «Non è necessario che decida d'impulso», la avvertì. «C'è tanto tempo...» Eco annuì di nuovo. «Per me va bene, John. Credimi.» Dopo qualche istante si alzò pian piano dal letto, le labbra leggermente strette, con un'aria assorta che metteva una certa distanza tra lei e Ransome. Lentamente e con piacere lasciò ricadere i capelli, le braccia alte, lucide alla luce della lampada. Scosse la folta criniera, quindi tenne gli occhi a terra ancora per qualche secondo prima di voltarsi dall'altra parte sciogliendo l'asciugamano che la copriva. Il viso di Ransome rimase impassibile a fissare Eco, assorbendo con il suo occhio creativo movimento, luce, ombra, colore, contorno. In una parte della sua mente, distante dal sottile erotismo di lei, c'era solo il grande, freddo peso dell'oceano, le sue onde risonanti. Piegato l'asciugamano e appoggiatolo sul letto, Eco rimase immobile, quasi con il respiro sospeso, un braccio proteso come una ninfa che allunga la mano verso il proprio riflesso sulla superficie di uno stagno. Quando finalmente si voltò tutta verso di lui era a suo agio nella propria bellezza, forte della sua fiducia in se stessa, della sua sicurezza, del suo valore. Fiera di quello che stavano creando insieme. «Ora vuoi scusarmi, John?» disse. 12 Quando Valerie ebbe finito di vestirsi per l'appuntamento con Peter O'Neill - aveva scelto un aderente abito da cocktail rosa che aveva quasi di-
menticato di avere nell'armadio e dal cassetto dei veli uno intonato all'abito - tornò in cucina a controllare come procedeva la cena. Il menù prevedeva spiedini di maiale allo zenzero con cubetti di mela e di zucca. Aveva messo il maiale e gli altri ingredienti a marinare da due ore. Gli spiedini erano pronti da grigliare appena Peter fosse arrivato. In frigorifero c'era un'insalata già condita. Per dessert... che cosa aveva previsto per dessert? Ah, sì. Crema al limone. Ma appena entrò nella piccola cucina dell'appartamento Valerie vide che la ciotola di vetro sul bancone era vuota e pulita. Niente pezzetti di maiale che si marinavano in aglio, succo d'arancia, spezie e olio d'oliva. Gli spiedi metallici erano accanto alla scodella. Il libro delle ricette era aperto. Fissò lo sguardo perso sul contenitore di vetro intatto. Sotto il velo, le labbra sfregiate erano piegate in una smorfia perplessa. Sentì qualcosa che cominciava a muoversi nella sua mente e prendeva rapidamente velocità, come il vagoncino di un otto volante che sta per affrontare un volteggio di trecentosessanta gradi. Sentì se stessa bambina lanciare un grido in un giorno lontano di divertimento e apprensione. Ma io... «Nemmeno in frigo c'è niente», sentì dire alla madre. «Solo un cartone di latte andato a male.» L'otto volante precipitò in un pozzo di tenebra. Valerie si voltò. La madre era appoggiata alla porta della cucina. Quel familiare sorrisetto altezzoso. Ida aveva spento l'ardore di tanti uomini (compreso il padre di Valerie), spezzandoli sulla ruota di tortura del suo disprezzo. Ora il suo corpo un tempo florido era cascante; la sua potente bellezza era svanita, rilucendo come le scaglie di un pesce morto. «Irrecuperabile. Sei proprio irrecuperabile, Valerie.» Valerie inghiottì l'offesa, sapendo che era inutile cercare di difendersi. Chiuse gli occhi. Il rombo dell'otto volante aveva raggiunto il suo cuore. Quando guardò di nuovo, la madre era ancora lì, la bocca maligna e il sarcasmo sferzante. Rivolto alla piccola Val perché possedeva la bellezza che Ida aveva perduto per sempre. Valerie sapeva diventare sorda quando ne aveva bisogno. Ora, era il caso di dare un'occhiata nel frigorifero? Ma sapeva che la madre aveva ragione. Nonostante ogni buona intenzione, Val accettò l'idea che doveva essersene andata chissà dove con la testa mentre avrebbe dovuto preparare la cena. D'accordo, imbarazzante. Lasciamo perdere. Tornò nella sala da pranzo dove la tavola era apparecchiata, il vino la-
sciato a respirare nella brocca, le candele accese. Quello, almeno, l'aveva fatto per bene. Aveva sete. Pensò che non c'era niente di male se beveva un bicchiere di vino prima che arrivasse John. No, un momento, possibile che davvero venisse a farle visita dopo tutto quel tempo? Guardò angosciata il suo riflesso velato nel buio della finestra dietro la tavola. Poi prese la caraffa a due mani e riuscì a versarsi un bicchiere quasi fino all'orlo senza rovesciarne una goccia. Mentre beveva l'otto volante smise di sobbalzare violentemente, oscillando dal cervello al cuore e dal cuore al cervello. La madre disse: «Non potrai più partecipare a un altro spettacolo in costume se continui a bagnarti in scena. Siamo tutti stufi di te, Val, stufi e disgustati». Valerie abbassò mortificata lo sguardo sul tappeto ai suoi piedi, dove gocciolava l'orina. L'otto volante ripartì con uno strattone, inclinandola da un lato. E questa volta non era assicurata al sedile. Sentì il panico. La madre disse: «Per una volta abbi il fegato di accettare quello che ti capita». Valerie ribatté: «Tu sei una stronza malvagia e io ti ho sempre odiata». La madre disse: «Non dire cazzate. Tu odi te stessa». Inutile discutere con Ida quando andava in bestia ed era in piena forma per sputare veleno. Quando diventava la morte, la morte che ti uccide con mille minuscoli tagli. Valerie sentì il lento, pesante, sferragliare dell'otto volante che saliva verso il punto più alto che non le sembrava più irraggiungibile. La gola le si era quasi chiusa, gonfia per le lacrime non versate. Rimise il bicchiere sulla tavola e lo riempì di nuovo. Si mosse con passo un po' incerto, con la spinta che le dava l'otto volante dentro di lei, attraverso l'appartamento bizzarramente decorato con vecchi fiori appassiti che si procurava con qualche spicciolo ai mercati generali. Arrivò all'ingresso e uscì, lasciando la porta aperta. Quando l'ascensore arrivò non fu affatto sorpresa di vedere John Ransome nella cabina. «Dove stai andando?» le chiese. «All'ultimo, questa volta?» «Certo.» Lui premette il pulsante del ventesimo piano. Valerie sorseggiò il vino e lo fissò. Era uguale a sempre. Il sorriso che andava giù come una crema e ti faceva fare istantaneamente le fusa. Ma questo era allora. «Tu mi ami, vero?» chiese lei timidamente, quasi non udendo la propria
voce per il frastuono dell'otto volante, per tutte le anime urlanti a bordo. «Non farmici pensare, adesso», ribatté lui, con un accenno di fastidio che gli inacidiva il sorriso. Valerie si scostò il velo dal viso alla cima della testa, dove rimase impigliato nei capelli. «Sei sempre stato un insensibile egoista figlio di puttana.» «Ben detto, Valerie», disse la madre. Venendo da Ida, era come una benedizione. John Ransome accolse le sue umane debolezze e con un fantomatico cenno del capo la assolse. «Credo che questo sia il tuo piano.» Valerie uscì dall'ascensore, scalciò via le scarpe (poco pratiche per camminare sui muri) e procedette fino alla porta di ferro che dava sul tetto del palazzo. Qui si perse d'animo. «Nessuno viene con me?» disse. Quando si voltò vide che l'ascensore era vuoto, le porte si richiudevano lentamente. Oh, be', pensò Valerie. Lasciamo perdere. Peter giunse al quarantacinque di West Churchill trenta secondi dopo i pompieri - un'autopompa e un'ambulanza - che lo avevano sorpassato lungo la strada. Due mezzi della polizia stavano arrivando sul posto da direzioni diverse. Due coppie con i cani al guinzaglio stavano guardando verso il tetto dell'edificio. Il portiere, pareva, aveva appena finito di vomitare nei cespugli. La notte era senza vento. La neve cadeva dritta, fitta come un sipario. I cani erano agitati per la presenza della morte. Il corpo giaceva sul marciapiede a una decina di passi dalla pensilina all'ingresso del palazzo. Un vestito rosa spiccava accanto al ramo ghiacciato, spezzato, di una tuja. Peter capì chi era, chi doveva essere, prima di scendere dall'auto. Guardò istintivamente l'orologio. Otto minuti alle nove. Sentiva lo stomaco rivoltarsi per lo choc e la rabbia mentre attraversava la strada e scavalcava un basso cumulo di neve, il distintivo in mano. Uno dei poliziotti stava prendendo dal bagagliaio della sua unità un telo impermeabile e il sacco di plastica per la salma. L'altro parlava con il portiere, ancora profondamente scosso. «Mi ha mancato di tanto così.» Guardò il davanti del cappotto, forse temendo di trovare tracce di materiale schizzato fin lì. «Prima è piombata su
quell'albero, poi è rimbalzata.» Si guardò intorno, con la faccia bianca come un fantasma. «Oh, Gesù.» «Sa chi è?» «Be', il velo. Lo portava sempre... sa, aveva avuto un incidente, aveva sbattuto la faccia contro il parabrezza. Valerie Angelus. Faceva la modella. Alto livello, eh.» Peter si inginocchiò accanto a Valerie, al suo corpo fracassato. Ventuno piani compresa la terrazza, quasi una settantina di metri come minimo. Il suo sangue nero sul marciapiede da poco spazzato, che assorbiva i fiocchi di neve. Il poliziotto puntò la torcia sulla testa di Valerie per qualche secondo; fortunatamente non abbastanza da illuminarle il volto. Peter gli disse di spegnere. Si fece il segno della croce e si alzò. «Vuole che controlli il tetto?» gli chiese l'agente in uniforme. «Prima che arrivi la CSI?» Peter fece cenno di sì con la testa. Era a un paio di Stati dalla sua giurisdizione, ma aveva innestato il pilota automatico, cercando di uscire dal vicolo cieco di quella lunghissima tragedia. Gli infermieri si erano avvicinati. Peter non voleva spiegare la sua presenza o il suo interesse per Valerie ai detective che sarebbero arrivati insieme con la CSI. Era ora di andare. Quando si voltò, vide un viso familiare attraverso la neve che cadeva. Era a una trentina di metri. Era scesa dal lato del conducente di una Cadillac Escalade ferma a un incrocio. La conosceva ma non gli veniva in mente chi fosse. Era alta, nera, elegantemente vestita. Anche da lontano l'espressione di orrore sul viso della sconosciuta era evidente. Peter si chiese da quanto tempo fosse lì. La guardò, ma nella mente non ci fu lo scatto. Si avviò a passo svelto verso la donna. Il suo interesse la allarmò. Risalì sulla Escalade. Osservandola da un'angolatura diversa, Peter si ricordò. Era la modella di John Ransome prima di Eco. E da quanto poteva vedere, nonostante la neve che offuscava la visione, il suo volto era perfettamente a posto. Dunque doveva essere Silkie, l'amica di Valerie. Che, aveva detto Valerie, aveva paura - molta paura - di John Ransome. Spiccò la corsa verso la Escalade, impugnando il distintivo. Ma Silkie, dopo averlo fissato per qualche istante attraverso il parabrezza, si girò e partì in retromarcia. Ansiosa di sparire da lì. Come se lo choc della morte di Valerie fosse stato scalzato dalla paura di essere fermata dai poliziotti e
interrogata. Di tutte le donne Ransome, quella poteva essere l'unica in grado di aiutarlo a inchiodare il pittore. Peter si mise a correre. Lei non poteva procedere a marcia indietro all'infinito, anche se lo stava distanziando. All'incrocio successivo lei aggirò un'auto che aveva inchiodato slittando verso il marciapiede. Ovviamente la Escalade aveva attivato la trazione integrale: nessun problema di controllo. La donna raddrizzò il fuoristrada e ripartì a razzo. Tuttavia quando passò i fari dell'auto finita quasi sul marciapiede illuminarono la targa. Abbastanza a lungo perché Peter potesse leggerla quasi tutta. Si fermò e rimase a guardare il veicolo che spariva in una traversa. Prese la penna e si appuntò la targa. Mancava un numero, forse, ma non sarebbe stato un problema. Aveva Silkie. A meno che, naturalmente, il fuoristrada non fosse rubato. Il vento era forte. Eco dormì disturbata dai sogni. Era nuda nel cottage di Bedford. Andava di stanza in stanza provando un bisogno disperato di parlare con Peter. Lui non c'era. Provava tutti i telefoni ma nessuno funzionava. Niente e-mail; il suo portatile era ancora morto. John Ransome la chiamava. In collera perché se n'era andata prima di aver finito di posare. Ma lei non voleva stare con lui. Lo studio era pieno di brutti uccelli. Non le piacevano gli uccelli, da quando una volta, mentre era seduta su una panchina dello zoo di Central Park, un piccione l'aveva beccata. Quelli erano tutti neri, come la donna in nero. Le lanciavano i loro versi striduli appollaiati nella gabbia in cui John l'aveva messa. Lui la dipingeva dall'esterno della gabbia, usando un lungo pennello di peli di zibellino, che passava sopra il suo corpo come onde del mare. Quelle onde non le facevano paura, ma si sentiva in colpa perché le piacevano tanto, tremando in attesa di quel grande cavallone che rotolava sensuale attraverso il suo corpo. Cercava di ritrarsi, di sottrarsi ai colpi insidiosi del suo pennello. «No! Che cosa stai cercando di fare? Non andrai da nessuna parte!» Eco si drizzò a sedere nel letto, ansimando all'apice di quel sogno erotico. Quindi si accasciò su un fianco, infiacchita dalla vertigine. Impotente. Aveva bocca e gola secche. Rimase distesa immobile per un minuto finché il battito del cuore si fu placato e le tornò la forza nelle mani. Il lume accanto al letto era acceso. Si era addormentata leggendo Villette di Charlotte Brontë. Fuori il vento fischiava e quell'imposta sbatteva di nuovo. Quando si ri-
girò sotto le coperte sentì che nel sogno stava per raggiungere l'orgasmo. Sospirò e sbadigliò, sempre con i nervi tesi, si voltò a prendere la bottiglia d'acqua dal comodino e scoprì che John Ransome era ritto sulla soglia della camera. Era malfermo sulle gambe, la testa gli ciondolava un po', gli occhi vitrei. Ubriaco fradicio, pensò lei, con un sussulto di paura. «John...» Le sue labbra si mossero ma non ne uscì un suono. «Non puoi stare qui», gli disse lei. «Ti prego, va' via.» Ransome si appoggiò allo stipite della porta, poi avanzò verso il letto come se portasse i ceppi ai piedi. «No, John», disse lei. Pronta a respingerlo. Lui fece un gesto come per spazzare via le sue obiezioni. «Non ho potuto fermarla», mormorò. «Mi ha colpito. Andata. Questo è...» A un metro da Eco perse quel poco di controllo che ancora aveva sul suo corpo, si abbatté in avanti sul letto, si sostenne qualche istante sul materasso, con gli occhi che gli si rovesciavano verso l'alto; poi, pian piano, scivolò sul pavimento. Eco saltò giù dal letto, inginocchiandoglisi accanto. Vide il bozzo grosso come il suo pugno sul lato sinistro della testa. C'era un po' di sangue tra i capelli, sul colletto della camicia. Non abbondante. La vista del sangue non le dava fastidio ma sapeva che se il danno era serio lei non era in grado di far nulla. Dall'esterno la ferita non sembrava brutta però il fragile cervello poteva averne risentito. Questo era quello che la spaventava di più. Sull'isola non c'era un medico. C'erano quattro infermieri professionisti, tre uomini e una donna, ma Eco non sapeva chi fossero né dove abitassero. Riuscì a issarlo sul letto. Una scena già vista, questa volta senza la minaccia dell'ipotermia. Non era svenuto. Lo girò sullo stomaco e gli voltò la testa di lato in modo che non rischiasse di soffocarsi con il vomito se lo prendeva la nausea. Ciera, si ricordò, teneva a portata di mano del carbonato di ammonio. Scese di corsa in cucina, trovò i sali, mise del ghiaccio in un tovagliolo e risalì sempre correndo in camera sua. Sentì che Ransome russava sommessamente. Doveva essere un buon segno. Coprì con cura la zona tumefatta con il ghiaccio. Una ferita alla testa. Lasciarlo dormire o tenerlo sveglio? Si asciugò le lacrime che non volevano fermarsi. Scendere in strada e bussare a tutte le porte finché non avesse trovato un infermiere? Aveva paura di uscire nel
vento gelido e nel buio, paura di Taja. Taja, pensò, mentre l'imposta sbatteva e lei si sentiva gelare fino alla radice dei capelli. Non aveva potuto fermarla, aveva detto John. Andata. Ma perché gli aveva fatto questo, qual era stata la causa del diverbio? Eco raccolse il martello da sotto il letto. Andò alla porta. Non c'era chiave. Vi appoggiò una sedia, ne puntellò lo schienale sotto la maniglia, poi salì di nuovo sul letto accanto a John Ransome. Contò le pulsazioni, scrisse il numero, annotò l'ora. Ogni quindici minuti. Continuare a farlo, tutta la notte. Vegliando su di lui. Finché si fosse svegliato, o... Si rifiutò di pensare all'alternativa. All'alba lui si mosse e aprì gli occhi. La guardò senza capire. «Brigid?» «Sono Eco... Mary Catherine, John.» «Ah!» Gli occhi si rischiararono un poco. «Che mi è successo?» «Credo che Taja ti abbia colpito con qualcosa. No, non toccarti quel bozzo.» Gli afferrò il polso. «Come? Non lo ha mai fatto.» Un'espressione prossima al terrore attraversò il suo viso. «Dov'è?» «Non lo so, John.» «Bagno.» «Devi vomitare?» «No. Non credo. Orinare.» Lei lo aiutò a raggiungere il bagno e aspettò fuori nel caso che perdesse di nuovo i sensi e cadesse. Sentì che apriva il rubinetto e si bagnava il viso. Quando uscì era più solido sulle gambe. La guardò. «Ti ho chiamato Brigid?» «Sì.» «Sarebbe stata come te se fosse vissuta.» «Sdraiati di nuovo, John.» «Ho bisogno...» «Di che cosa hai bisogno?» Lui scosse la testa, e si pentì di quel movimento improvviso. Lei lo guidò verso il letto e lo aiutò a stendersi, supino, con gli occhi chiusi. «Stai con me?» «Sì, John.» Gli toccò le labbra aride con le sue. Non proprio un bacio. E si sdraiò accanto a lui, guardando il primo sole che irrompeva dalla finestra con l'imposta chiusa. Si sentiva ansiosa, un po' demoralizzata, ma im-
mensamente grata perché le pareva che lui stesse bene. Quanto a Taja, quando lui fosse stato pronto dovevano parlarne seriamente. Perché ora capiva quale profondo terrore John Ransome provasse per la donna in nero. E quella paura era diventata anche sua. 13 Il fuoristrada alla cui guida era stata vista Silkie apparteneva a un architetto trentaduenne di nome Milgren che viveva a Cambridge, a pochi isolati dal MIT. Peter chiamò lo studio di Milgren e seppe che si trovava alle Bahamas per il matrimonio di un amico e che sarebbe stato via per qualche giorno. C'era una signora Milgren? No. Durante la notte si erano accumulati venti centimetri di neve fresca; sul tratto di strada di fronte all'edificio dove abitava Milgren era all'opera uno spazzaneve. Peter fece colazione, poi tornò lì. Era una vecchia costruzione ristrutturata di recente con un viale di accesso chiuso da un cancello da un lato, con un parcheggio per i condomini. Lasciò l'auto a noleggio nella strada dietro il furgone di una ditta di imbiancatura. La giornata era limpidissima, scintillante per il ghiaccio sui rami spogli degli alberi. La nevicata si era spostata verso ovest. Il cancello si stava aprendo per lasciar passare una giardinetta Volvo. Entrò da quella parte e girò intorno al parcheggio, trovò la Cadillac Escalade nella piazzola assegnata. Appartamento 4-C. Quattro appartamenti al quarto piano, due a ciascuna estremità di un ampio corridoio pieno di luce. In alto c'era un lucernario, l'ascensore da un lato, la scala dall'altro. L'imbianchino o gli imbianchini stavano lavorando a terra, mentre sull'impalcatura che era stata eretta per raggiungere il lucernario quattro metri più su non c'era nessuno. Su un ripiano c'era una latta di pittura rovesciata. Una pozza di una specie di gelato al pistacchio sciolto si stava allargando sul pavimento di marmo. La latta sgocciolava ancora. Peter spostò lo sguardo dalla pozza di pittura alla porta del 4-C, semiaperta. Dall'interno, un televisore blaterava una replica di Hollywood Squares. Si avvicinò e sbirciò all'interno. Una serie di medaglioni di vecchie celebrità riempiva il grande schermo televisivo in fondo a un lungo soggiorno. Peter spinse la porta. Un uomo con un copricapo da imbianchino occupava
una poltrona a cinque o sei metri dall'apparecchio. Di lui Peter poteva vedere solo il berretto e una mano stretta a un bracciolo della poltrona, come se stesse per essere catapultato nello spazio. Peter bussò piano e gli parlò, ma quello non si voltò. Ci fu una pausa nell'ilarità alla TV con la comparsa della pubblicità. Peter sentiva il respiro dell'uomo. Un respiro corto, affaticato. Peter entrò e attraversò il breve ingresso, arrivando nel soggiorno. Le imposte erano chiuse. Solo un paio di fioche lampadine erano accese nelle applique molto distanziate. Tutto nell'appartamento era scuro, in contrasto con la vivida luce esterna. «Sto cercando Silkie», disse Peter all'uomo. «Abita qui, vero?» Nessuna risposta. Peter si fermò a qualche passo alla sinistra dell'uomo nella poltrona di pelle. Aveva i piedi alzati. La tuta piena di macchie di colore faceva pensare a un capolavoro impressionista. Alla luce dello schermo il suo viso cascante appariva sudato. Il torace si alzava e si abbassava cercando di far entrare più aria nei polmoni. «Sta bene?» L'uomo voltò gli occhi verso Peter. Le dita della mano sinistra avevano lasciato dei graffi sul cuoio rosso del bracciolo. L'altra mano era quasi sepolta nella massa sanguinante al di sopra della cintura. Peter sentì l'odore del sangue. «Lei... mi ha fatto fare... parli con la signora... lo faccia... apra la porta. Mi aiuti. Non posso muovermi. Mi stanno... uscendo le budella. Mia figlia viene a casa... per le vacanze. Ora non ci potrò essere.» Peter aveva estratto la pistola prima che l'uomo avesse detto dieci parole. «Dove sono?» L'imbianchino aveva finito il suo tempo. Si accasciò un poco mentre la vita lo abbandonava. Gli occhi rimasero aperti. Ci fu uno scoppio di risate dalla TV. «Gesù Maria», mormorò Peter, quindi alzò la voce, gridando: «Silkie, tutto bene? Polizia». Con l'altra mano tirò fuori il cellulare, formò il numero senza guardare. «Vuole la polizia, i vigili del fuoco, o un'emergenza medica?» «Polizia. Ambulanza. Qui c'è un uomo che sta morendo.» Cominciò a girare per l'appartamento mentre era ancora al telefono. «Prego, resti in linea, detective», disse il centralinista. «Stanno arrivando.» «Potrebbero servirmi tutt'e due le mani», disse Peter, e rimise il telefonino in tasca.
Aprì con una pedata la porta di quello che scoprì essere lo studio o la stanza di lavoro dell'architetto. Qui la luce era sufficiente per fargli capire alla prima occhiata che la stanza era vuota. «Silkie!» La camera da letto/soggiorno era in fondo al corridoio. Doppie porte, una spalancata. Mentre si avvicinava lungo una parete, la Glock impugnata a due mani, distinse le forme dei mobili grazie alla luce proveniente dalla stanza da bagno aperta dietro il letto a baldacchino, drappeggiato di tessuto leggero. Nel soggiorno c'erano mobili rovesciati. Una vasca per i pesci era andata in pezzi. Peter girò intorno al letto vittoriano e scorse parzialmente un corpo seminudo sul pavimento. Una ragazza nera. C'erano schegge di uno specchio rotto e un nastro di sangue. «Silkie, rispondimi, che cosa è successo?» Era quasi arrivato al bagno quando Silkie si mosse, si guardò intorno con gli occhi sbarrati, poi cercò di tirarsi su con tutt'e due le mani, piena di terrore. Il sangue colava dà un lungo taglio che partiva sotto l'occhio destro e arrivava quasi alla mandibola. «Se n'è andata?» ansimò. Peter lesse lo choc negli occhi spalancati ma si voltò con una frazione di secondo di ritardo quando Taja saltò fuori dal letto, dove se ne stava rintanata in mezzo a una pila di cuscini a cui lui non aveva prestato sufficiente attenzione, e tirò un fendente con il coltello. Peter voltò il polso appena in tempo perché la lama non raggiungesse le vene. Perse la pistola. La colpì in faccia con il dorso dell'altra mano. Lei finì a terra ma si riprese all'istante, con la rapidità di un gatto, e tornò ad avventarsi su di lui con lo stiletto pronto a colpire, tenuto stretto al fianco. Il suo viso appariva ligneo come una maschera cerimoniale. Conosceva il suo mestiere. Peter bloccò il suo tentativo di colpirlo dal basso verso l'inguine, puntando all'arteria femorale. Sapeva dov'era più vulnerabile e non tentò di raggiungerlo al petto, dove la lama poteva trovare l'ostacolo della lampo del giubbotto di pelle, o alla gola, che era parzialmente protetta da una sciarpa. E non aveva fretta: si trovava fra la preda e la sua unica via di fuga. Acrobatica nei movimenti, lo sospingeva con finte nella direzione da lei voluta: all'indietro, contro il letto e verso la massa delle cortine che pendevano dal baldacchino. Peter sentì Silkie gridare, ma era troppo preso per prestarle attenzione.
Le tende del letto lo avvolsero come una ragnatela e lui si dibatté per liberarsi e per evitare lei. Ai ripetuti, metodici fendenti di Taja, il tessuto cominciò a tingersi del rosso del suo sangue. La pistola fece fuoco. Un boato assordante. Taja sobbalzò per un attimo, poi si ripiegò su se stessa, distogliendo gli occhi da Peter, trovando Silkie. Era sulla porta del bagno e stringeva tra le mani la Glock calibro 9 di Peter. «Troia.» Sparò di nuovo, da una distanza di meno di tre metri. Taja fece un balzo da un lato; esitò un secondo, lanciò uno sguardo a Peter, che si era liberato dalle tende. Quindi scattò verso la porta della stanza e sparì. Peter infilò una mano sotto il giubbotto, nel punto in cui il fianco gli bruciava per una lunga carezza della lama di Taja. Quando guardò vide una gran quantità di sangue sulla mano. Cristo santo. Fissò Silkie, che non si era mossa dalla soglia del bagno né aveva abbassato l'arma. Peter avanzò in quella direzione. Lei gli rivolse uno sguardo pieno di diffidenza. Era nuda fin sotto l'ombelico. Il sangue le colava dal mento. Aveva dei tratti di una bellezza che perfino Eco avrebbe potuto invidiarle. Peter tossì, aspettò con il fiato sospeso e la mano alla bocca, ma sangue non ne uscì. Vide che il taglio sul viso di Silkie sarebbe potuto essere molto più grave. In parte era solo un graffio sullo zigomo. Un po' più profondo nella carne morbida vicino alla bocca. Dovette forzare le dita delle mani di Silkie per toglierle la pistola. Le sue erano talmente insanguinate che la Glock gli scivolò quasi via. Non pensava più di mettersi alla caccia di Taja. Ormai era in preda allo choc. Udì le sirene prima che un sibilo crescente nelle orecchie, come quello di una teiera, gli escludesse ogni altro suono. Il suo viso era madido di sudore, ma sentiva la pelle farsi gelata a chiazze. Dovette appoggiarsi allo stipite della porta, la faccia a un palmo dai seni della ragazza. Dio mio, niente male! «Come ti chiami?» chiese a Silkie. Lei aveva il singhiozzo. «Ma-MacKENzie.» «Io sono Peter. Peter O'Neill. Siamo vecchi amici, Silkie. A New York uscivamo insieme. Ero venuto qui per una visita. Ce la fai a ricordartelo?» «S-sì. P-P-PETEr O'Neill. New York.» «E non sai chi ti ha aggredita. Mai vista prima. Capito?» La fissò negli occhi, chiedendosi se aveva la minima probabilità di convincerla. Lei lo guardò con un lieve scatto della testa. «Perché?» «Perché Valerie Angelus è morta e tu ci sei arrivata vicino e su questo...
su questo lui non deve passarla liscia, ricco sfondato o no. Voglio Ransome. Voglio fargli il culo personalmente finché non sarò pronto a consegnarlo.» «Ma Taja...» «Taja sta solo facendo il lavoro sporco. Questo è quello che ora credo. Aiutami, Silkie.» Lei si toccò il mento con un dito, tolse una goccia di sangue. La ferita aveva quasi smesso di sanguinare. «Va bene», disse, mettendosi a piangere. «Come sono?» «Il taglio non è profondo. Sarai sempre bellissima. Ascolta. Li senti? Quelli dell'ambulanza. Stanno salendo. Ora ho bisogno di...» Cominciò a scivolare verso il pavimento, ai suoi piedi. Rabbrividiva. Sentiva la lingua un po' legata. «Siediti qui prima che svenga. Silkie, mettiti qualcosa addosso. Ascoltami. Tieniti sul vago quando parlerai con i poliziotti. Ripeti sempre: 'Ci siamo conosciuti a una festa. È solo un amico'. Niente particolari. Sono i dettagli che ti confondono se stai mentendo.» «Sei... un amico», disse lei, inginocchiandosi, mettendogli per un momento un braccio intorno al collo. Poi si alzò e prese un accappatoio appeso dietro la porta del bagno. «Lo prenderemo, Silkie. Non ti farà più del male. Te lo prometto.» Ora gli riusciva difficile respirare. Si costrinse a sorriderle. «Lo prenderemo, quel bastardo.» Quando Eco si svegliò la metà del giorno se n'era andata. E anche John Ransome se n'era andato, dal suo letto. Andò a cercarlo nella sua stanza. Era passato di lì, si era cambiato. Trovò Ciera nello studio di Ransome che rimetteva a posto un disordine che sembrava causato da una colluttazione. C'era una lampada rotta. Il paralume di metallo era ammaccato; era con quello che Taja l'aveva colpito? Ciera guardò Eco e scosse la testa preoccupata. «Lei sa dov'è John?» «No», rispose la domestica, loquace come sempre. La giornata era iniziata con un tempo bello ma molto freddo; ora le nuvole gonfie stavano coprendo il cielo e il mare si era scatenato mentre Eco aveva difficoltà a mantenere l'equilibrio sul lungo sentiero fino allo studio nel faro. Le imposte erano chiuse. Alzando lo sguardo mentre si avvicinava, Eco non era in grado di dire se Ransome fosse lassù.
Non prese la scala a chiocciola ma entrò nel piccolo ascensore che saliva lungo un pozzo di vetro opaco fino allo studio, a più di venti metri dal livello del suolo. Dentro c'erano alcune luci accese. John Ransome era chino sul tavolo da lavoro: stava annodando un cordino intorno a una tela incartata. Eco guardò il suo ritratto ancora incompiuto sopra il grande cavalletto. Come appariva serena. Che contrasto con il trambusto che adesso avvertiva dentro di sé. Lui aveva sentito l'ascensore. Sapeva che lei era lì. «John.» Quando si voltò a guardarla, ebbe un sobbalzo per la fitta di dolore provocata dal movimento della testa, per quanto lento. Il bernoccolo, a quanto lei poteva vedere, era di un colore viola brillante. Riconobbe la rabbia allo stato puro accanto al dolore, ma non era in collera con lei. «Stai bene? Perché non mi hai svegliata?» «Avevi bisogno di dormire, Mary Catherine.» «Che cosa stai facendo?» Il bollitore sulla piastra rovente aveva cominciato a fischiare. Lei lo tolse dal fornello, guardando John, e preparò il tè per tutti e due. «Legando un po' di fili sciolti», replicò lui. Tagliò lo spago con un paio di forbici. Poi la mano ebbe uno scatto come se la collera compressa avesse trovato una valvola di sfogo; un alto portapennelli di metallo volò via. Eco non capì se lo aveva fatto di proposito. I suoi movimenti erano maldestri, sembravano quelli di un ubriaco, anche se nello studio niente indicava che avesse bevuto. «John, perché non... Ho fatto il tè.» «No, devo portare questo giù al molo, accertarmi che parta con il prossimo traghetto.» «Va bene. Ma c'è tempo, e posso farlo io.» Lui si avvicinò allo sgabello, sedendosi con difficoltà. Lei gli mise vicino la tazza di tè, poi si chinò a raccogliere i pennelli sparsi. «Non farlo!» esclamò Ransome. «Non raccogliere quello che io butto via!» Lei si rialzò con due o tre pennelli in mano e lo guardò, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Ho paura», aggiunse, teso, «di aver raggiunto il punto di produttività zero. Non dipingerò più.» «Ma non abbiamo finito!»
«E voglio che tu lasci l'isola. Devi essere anche tu su quel traghetto, Mary Catherine.» «Perché? Che cosa ho... Non puoi dire sul serio, John!» Lui la fissò ansimando con un'intensità che la spaventò. Uno sguardo febbrile. «Con la massima serietà. Parti. Per la tua sicurezza.» «La mia...? Che cosa ha fatto Taja? Perché questa notte avete lottato? Perché hai paura di lei?» «Che cosa ha fatto? Be', ha passato gli ultimi anni a dare la caccia a sette splendide donne dopo che io le avevo ritratte.» «La caccia...?» «Poi le ha sfregiate, ustionate, mutilate... uccise, per quanto ne so! E dopo la caccia è sempre tornata da me, godendo in silenzio. Adesso è di nuovo in caccia, sulle tracce di Silkie MacKenzie.» «Mio Dio. Perché?» «Non capisci? Per fargliela pagare, pagare per tutto quello che sono state per me.» Eco ebbe la curiosa sensazione che non era davvero del tutto sveglia; voleva solo lasciarsi andare sul pavimento, raggomitolarsi e rimettersi a dormire. Non riusciva a guardarlo in faccia nemmeno per un momento. Si avvicinò esitante a una finestra, aprì le imposte interne e appoggiò la guancia al vetro di sicurezza isolante, capace di resistere agli uragani. Guardò i colpi brutali del mare contro gli scogli sotto di sé, sentendo la forza delle ondate nel fremito del vetro, che ripetevano le onde del battito del suo cuore. «Da quanto tempo lo sai?» «Più di due anni fa cominciai a sospettare quello che stava facendo durante le sue assenze prolungate. Mi rivolsi a un'agenzia privata perché indagasse. Quello che mi riportarono era orrendo, ma basato solo su congetture.» «Davvero avevi bisogno di prove?» esclamò Eco. «Certo che sì! E ieri sera finalmente ne ho ricevuta una, un'e-mail dall'Australia. Dove una delle mie ex modelle...» «Un'altra vittima?» «Sì», mormorò Ransome, a capo chino. «Si chiama Aurora Leigh. Era stata in isolamento. Ma era emotivamente in buone condizioni per identificare Taja come la persona che l'aveva aggredita, in base agli schizzi che le avevo fornito io.» «Emotivamente in buone condizioni», ripeté Eco a mezza voce. «Perché
questa notte Taja ti ha colpito?» «Le ho chiesto spiegazioni su quello che sapevo.» «Voleva ucciderti?» «No. Non credo. Solo farmi sapere che il suo lavoro non era ancora finito.» «Oh, Gesù e Maria! La polizia... hai chiamato...» «Ho chiamato i miei avvocati stamattina. Ci penseranno loro. Taja sarà fermata.» «E se Taja è ancora qui? Avrai bisogno...» «La sua barca non c'è più. Non è sull'isola.» «Ci sono decine di isole dove potrebbe nascondersi.» «Saprò badare a me stesso.» «Oh, come no?» disse Eco, portandosi una mano alla fronte e mettendosi ad andare su e giù. «Non aver paura. Tornatene a New York. Se c'è anche la più remota possibilità che Taja resti libera tanto a lungo da rientrare a Kincairn... be', allora, come sempre, di Taja sono responsabile io.» Eco si fermò, lo guardò, trattenne il fiato, allarmata da qualcosa di sinistro che aleggiava dietro quelle parole. «Perché dici questo? Non sei stato tu a fare di Taja quello che è. Dev'essere successo molto prima che tu la incontrassi, dove...?» «A Budapest.» «Che faceva, rapinava i turisti?» «La prima volta che vidi Taja», disse lui, parlando con uno sforzo, «disegnava con il gesso sul marciapiede nei pressi della cattedrale. Per i pochi spiccioli che i passanti le gettavano.» Sollevò lentamente la testa. «Non so quanti anni avesse allora; non so che età abbia oggi. Come ti ho detto una volta, le avevano fatto delle cose terribili. Era scalza, i capelli scarmigliati, gli abiti laceri.» Sorrise. Le sue labbra erano quasi del tutto esangui. «Sì, avrei dovuto tirare dritto. Ma ero sbalordito dal suo talento. Disegnava meravigliosi volti sofferenti di figure religiose... bruciavano di febbre, di sete di martirio. Tutti quei volti lavati via dalla prima pioggia, o cancellati da suole indifferenti. Ma ogni giorno lei li disegnava daccapo. Aveva ginocchia e gomiti ricoperti di croste. Per ore, a malapena si fermava per alzare gli occhi dal suo lavoro. Ma sapeva che io ero lì. E dopo un po' era la mia faccia quella che cercava, la mia approvazione. Poi, un pomeriggio di pioggia, io... la seguii. Sapevo che era pericolosa. Ma non ho mai voluto una relazione tranquilla. A quanto pare quello che cerco è l'immolazione.»
Il suo sorriso mostrò un canino un po' accavallato di cui Eco era quasi innamorata, una lieve imperfezione. «Quanto fosse effettivamente pericolosa a quel tempo era una questione priva di importanza. Vedi, tutti possiamo essere pericolosi, Mary Catherine, dipende da ciò che ci viene fatto.» «Oh, fino a questo punto il sesso andava bene?» fece Eco con asprezza, infiammandosi in viso. «A volte il sesso non è il punto essenziale, dipende dalla natura delle proprie ossessioni.» Eco scoppiò in singhiozzi furiosi. Tornò a voltarsi verso l'orizzonte, il mare che si oscurava. Dopo un paio di minuti lui disse: «Mary Catherine...» «Lo sai che non me ne vado! Non ti permetterò di abbandonare la pittura per quello che ha fatto Taja! Non mi manderai via, John, tu hai bisogno di me!» «Non è in tuo potere farmi riprendere a dipingere.» «Ah, no?» Si asciugò il naso con la manica del maglione da pescatore; erano anni che non lo faceva. Poi se lo sfilò, scosse la testa smuovendo l'abbondante massa dei suoi capelli. Ransome sorrise con cautela quando lei lo scrutò di nuovo, piantandogli addosso uno sguardo grave e intenso. Uno sguardo antico, eterno come il mare sotto di loro. «Dobbiamo completare quello che abbiamo iniziato», disse Eco in tono ragionevole. Si fece più vicina a lui, perché vedesse meglio la forza nei suoi occhi, la fiamma della sua stessa ossessione. Mosse una mano in direzione del suo ritratto sul cavalletto. «Guarda, John. E poi guarda di nuovo! Io non sono solo una faccia su un marciapiede. Io conto!» Lo tenne fermo e lo baciò, sapendo che il dolore alla testa non rendeva la cosa particolarmente piacevole; ma in quel momento non era il piacere il motivo per cui lo faceva. «Va bene?» mormorò dopo, e fece un passo indietro, unendo le mani. L'allievo. Il maestro. Chi fosse l'uno e chi l'altro doveva ancora essere chiarito, forse il tumulto e la disperazione di un legame che ora investiva della forza di un giuramento di sangue l'aria che respiravano. «Oh, Mary Catherine...» disse lui disperato. «Ti ho chiesto, va bene? Andiamo avanti da qui? Dove? Quando? Che cosa facciamo adesso, John?» Lui sospirò, annuì lievemente. Anche quello gli provocò una fitta. Si sfiorò con la mano il bozzo sulla testa.
«Sei una bambina dura, meravigliosa. Il tuo cuore... è così diverso dal mio. È questo che ti rende preziosa per me, Mary Catherine.» Le toccò la spalla, due volte, lasciò cadere la mano. «E ora sei stata avvertita.» Lei gradì il contatto, ignorò l'avvertimento. «Posso prendere il resto dei pennelli che sono caduti?» Dopo un lungo silenzio, Ransome disse: «Ho sempre trovato salvezza nel mio lavoro. Come probabilmente tu sai. Mi chiedo... sarà per questo che il tuo dio ti ha mandato da me?» «Lo scopriremo», rispose Eco. Peter sentì uno dei detective che chiedeva: «Quanto vicino gli è arrivata al fegato?» Una donna, probabilmente il medico dell'emergenza che lo aveva ricucito, rispose: «Troppo vicino per poterlo misurare». L'altro detective della squadra, con il tono nasale del meridionale, disse: «La fortuna degli irlandesi. Va bene se parliamo con lui adesso?» «È sveglio. Sarà intontito per il Demerol.» Si avvicinarono al letto di Peter. Il detective più anziano, probabilmente vicino alla pensione, aveva la pancia e l'arcaico naso aquilino del busto di marmo di un antico romano. Quello giovane, ma non tanto - sui quaranta, pensò Peter -, aveva i capelli rossi allegramente spettinati e un'attraente aria da duro che probabilmente le donne ammiravano con un senso di colpevole piacere. Una caratteristica del suo viso era l'aria scettica, come la cicatrice di un'antica acne. Fece un sorriso a Peter. «Come ti senti? Ti è andata di culo, eh?» «Bene, mi pare.» «Frank Tillery, dipartimento di polizia di Cambridge. Questo è il mio Padre Superiore, Sal Tranca.» «Salve.» «Salve.» Peter non si lasciò incantare da quell'esibizione di cameratismo. A loro non era piaciuto ciò che avevano visto nell'appartamento dell'architetto e non gli era piaciuto quello che avevano sentito fino a quel momento da Silkie. Nemmeno lui gli piaceva. «Non l'avete ancora trovata?» chiese Peter, prendendo l'iniziativa. Sal rispose: «Non è saltata fuori. Abbiamo trovato il coltello in una latta di pittura. Sette pollici, sottile, quello che nel vecchio mondo chiamano stiletto».
Tillery si appoggiò a una parete con le braccia conserte e un ghigno storto e disse: «Pete, ti dispiace spiegarci com'è che stavi dando la caccia a una maniaca omicida nella nostra città senza farci nemmeno una visita di cortesia?» «Non sono in servizio. Stavo... cercando Silkie MacKenzie. Sono capitato per caso nel bel mezzo della scena.» «Che cosa volevi dalla MacKenzie? Cioè, se non sono troppo indiscreto.» «L'ho conosciuta... a New York.» La fasciatura al torace gli rendeva difficile respirare. «Come vi ho già detto, avevo del tempo libero e così ho pensato di andarla a trovare.» «A quanto pare lei stava già con uno, il padrone di casa», intervenne Sal. «Il biglietto dell'aereo che avevi in tasca dice che sei arrivato da Houston ieri mattina.» «Ho amici un po' dappertutto», rispose Peter. «In vacanza, vado un po' in giro.» «E guarda un po' che cosa capita», brontolò Tillery. «Uno cerca un po' di riposo, di relax con una strafiga di amichetta, e si ritrova all'ospedale con quarantotto punti.» «Ci sapeva fare con quel... come l'hai chiamato... stiletto?» «Già», disse Sal. «Allora, Pete, vuoi rilasciare adesso la deposizione o torniamo più tardi, dopo che hai fatto un sonnellino? Cortesie tra colleghi. Un collega che sembra avere delle connessioni maledettamente buone, là da dove viene.» Si guardò intorno come cercando dove sputare. «Vengo io da voi. Silkie come sta?» «Il chirurgo plastico l'ha già vista. Ci saranno un po' di cicatrici che sarà facile ripulire.» «Ha detto se conosceva quella che l'ha aggredita?» Tillery e Tranca si scambiarono un'occhiata. «Più o meno quanto la conoscevi tu», disse Sal. «Be', goditi quella carne scura», disse Tillery. Stava per uscire quando gli venne in mente una cosa da chiedergli. Si voltò verso Peter con il suo sorrisetto cinico. «Da quanto tempo hai il distintivo, Pete?» «Nove mesi.» «Ehi, congratulazioni. Sal, qui, sono ventun anni che fa questo lavoro. Io undici.» «Sì?» disse Peter chiudendo gli occhi.
«Quello che intende dire Frank», spiegò torvo Sal, «è che quando ce l'abbiamo sotto il naso, la puzza delle stronzate la riconosciamo.» 14 Eco si stava rivestendo dietro il paravento nello stadio di John Ransome quando sentì che la porta si chiudeva, che lui la chiudeva dentro. «John!» La porta era di spesso vetro temprato. Lui la guardò con aria stanca mentre lei usciva tenendo il maglione sul seno nudo e tirando la maniglia, non riuscendo a credere ai propri occhi. «Mi spiace», disse Ransome. La voce era attutita dallo spessore della porta. «Quando sarà fatto, se sarà fatto stanotte, tornerò da te.» «No! Fammi uscire subito!» Lui scosse leggermente la testa, poi scese lungo la scala di ferro mentre Eco tempestava di colpi la porta, ancora incapace di credere che sarebbe rimasta chiusa lì dentro finché Ransome non avesse deciso diversamente. Lanciò un'occhiata al nudo che lui aveva iniziato, solo uno schizzo appena abbozzato ma che era inconfondibilmente lei. Allora si mise a urlare con quanto fiato aveva in gola le più oscene imprecazioni che avesse imparato dalla strada nel corso degli anni. Ma il vento teso proveniente dal mare rigonfio che faceva oscillare la sua prigione di vetro appollaiata lassù urlava più forte di quanto lei potesse mai sperare. Peter si svegliò di soprassalto quando Silkie MacKenzie gli mise una mano sulla spalla. Sentì una fitta di dolore, poi un senso di nausea, prima di riuscire a metterla a fuoco. «Ciao, Peter. Sono Silkie.» Lui inghiottì la sofferenza, azzardò un sorriso. Il lato destro del volto di Silkie era accuratamente bendato. «Come va?» «Mi rimetterò.» «Che ora è, Silkie?» Lei guardò il suo Piaget d'oro. «Le tre e venti.» «Oh, Gesù.» Si leccò le labbra secche. C'era l'ago di una flebo nel dorso della mano sinistra, per i liquidi e gli antibiotici. Ma la sua bocca era inaridita. Con la mano destra pesantemente fasciata - quante volte l'aveva colpito? - fece cenno a Silkie di avvicinare il viso al suo. «Devo parlarti», sus-
surrò. «Non qui. Potrebbero aver lasciato una cimice. Non ho potuto tenerli d'occhio tutti e due per tutto il tempo.» «Ma non è illegale?» «In tribunale non sarebbe ammissibile. Ma non si fidano né di me né di te, per cui potrebbero cercare di procurarsi... qualcosa da usare durante un interrogatorio. Accompagnami in bagno.» Silkie lo aiutò ad alzarsi dal letto e a tenersi in piedi, spingendo con una mano il sostegno a rotelle della flebo. Entrarono insieme nella stanza da bagno. Tutto il liquido entrato nel suo organismo attraverso l'ago dava a Peter un bisogno urgente di orinare. Silkie continuò a sostenerlo per un gomito tenendo lo sguardo sulla parete. «Oggi non era la prima volta che Taja cercava di aggredirti», disse Peter. «No. Cinque mesi fa ero a Los Angeles. Dovevo girare una pubblicità, il primo lavoro che il mio agente era riuscito a procurarmi da quando avevo finito di posare per John. Ma John non voleva che lavorassi, capisci. Il mio viso su tutti gli schermi. Questo avrebbe rovinato il... il fascino, l'attrattiva, il mistero che lui con tanta fatica cerca di creare e di mantenere.» «E allora conserva i dipinti e distrugge il modello. Ho visto Anne Van Lier e Eileen Wendkos.» Silkie si voltò a guardarlo; era così vicina che Peter poteva avvertire il tremito che la percorreva tutta. «Intravidi Taja in un ristorante di fronte al Sunset Plaza. Finse di non accorgersi di me. Ma io... per tutta la vita ho avuto premonizioni. Ci fu improvvisamente la nube più nera, più furiosa che avessi mai visto pesare su Sunset Boulevard. E così mi misi in salvo. Più tardi mi rivolsi a un'agenzia di investigatori privati. Dovevo sapere che cosa ne era stato delle mie... di quelle che mi avevano preceduta. Lo scoprii, come l'hai scoperto tu. E quando parlai con Valerie, capii quello che il mio sesto senso mi aveva sempre detto di John. Credo sia pazzo.» «Dobbiamo andarcene di qui. Subito. Ho una macchina a noleggio, se la polizia non l'ha sequestrata. Ma non so se sono in grado di arrivare molto lontano.» Urtò contro di lei voltandosi in quello spazio ridotto; al dolore seguì un senso di sfinimento, e questo lo preoccupò. «Silkie, aiutami a togliere l'ago dalla mano, poi portami i vestiti.» «Dove andiamo?» «L'aeroporto più vicino a Kincairn Island è a Bangor, nel Maine.» «Ho paura che ci sia brutto tempo, lassù.» «E allora prima ce ne andiamo meglio è. Prendi il portafoglio e l'orolo-
gio dall'armadietto. Usa la mia carta di credito per prenotare due posti sul prossimo volo da Boston a Bangor.» «Non so proprio se ho voglia di farlo. Voglio dire, tornare laggiù. Ho paura, Peter.» «Ti prego, Silkie! Devi aiutarmi. La mia donna è sull'isola con quello squilibrato fottuto di Ransome!» La proprietaria e capo pilota del Lola's Flying Service all'aeroporto di Bangor stava rivedendo i conti quando, alle otto meno dieci, Peter e Silkie entrarono nel suo ufficio. Davanti all'hangar volavano fiocchi di neve, così duri e taglienti che sembrava potessero graffiare il vetro. Lola era un donnone strabico e sfasciato, sembrava di sale come la moglie di Lot. Peter le spiegò di che cosa aveva bisogno. «Trasportare voi due in elicottero a Kincairn con questo tempo di merda? No, se spero di raggiungere la mia aspettativa di vita.» Peter mostrò il distintivo. Lola accolse questa esibizione di autorità con un sorriso storto. «Io sono una cristiana rinata, amori miei; e di certo non voglio perdermi il Rapimento in Paradiso. Altrimenti a che serve essere un cristiano rinato?» «La prego», intervenne Silkie, «mi ascolti. Dobbiamo assolutamente arrivare lì. Stanotte sull'isola succederà qualcosa di terribile. Ho una premonizione.» Lola mostrò di trovare comica la cosa. «Cazzate.» «Le sue premonizioni sono sempre precisissime», disse Peter. Lola li squadrò di nuovo. Le fasciature e i lividi. «Io una volta mi sono fatta leggere i fondi delle foglie di tè. Dicevano che non dovevo impicciarmi con chi si presentava con l'aria di essere la parte perdente in una gara di liti domestiche.» Prese i resti di un panino integrale al prosciutto dal cartone di un takeaway e lo fece fuori in due bocconi. Pazientemente Silkie aprì la borsa e ne tolse un grosso fascio di banconote, la metà delle quali, mostrò a Lola, erano biglietti da cento. «In ogni caso», disse Lola, «ha qualche premonizione su quanto vi costerà questo viaggetto?» «Dica lei il prezzo», rispose Silkie con calma, e cominciò a impilare banconote nel cartone sopra una foglia appassita di lattuga. Le esigenze immediate di Eco furono soddisfatte da un gabinetto chimi-
co; da un piccolo frigorifero che conteneva latte, una fetta di Jarlsburg, acqua minerale e vino bianco; e da una stufa elettrica che allontanò la punta più acuta del freddo dopo il tramonto. C'era anche una grande coperta di montone in cui poté infagottarsi mentre si dondolava sull'unica sedia nello studio di John Ransome. Fisicamente stava bene. Aveva bevuto il resto di una bottiglia aperta di Cabernet Sauvignon, una quantità che normalmente sarebbe stata sufficiente a farla addormentare come un sasso. Ma il vento, che stando all'anemometro toccava i quaranta nodi, e la situazione in cui si trovava la tenevano sveglia e sobria, con il cuore pesante e un senso di tragedia incombente. Se sarà fatto stanotte, aveva detto Ransome in tono cupo. Che cosa sapeva di Taja, e che cosa aveva in animo di fare? Ogni tanto, tra una posta e l'altra del rosario che portava sempre con sé, Eco saltava su percorrendo irrequieta il perimetro dello studio, poi si fermava a sbirciare attraverso le imposte in direzione della casa di pietra che sorgeva a trecento metri da lì. Tra le sferzate di neve riusciva a scorgere confusamente solo le luci accese. Non aveva visto più nulla di Ransome da quando la sua testa era sparita giù per la scala a chiocciola del faro. Non aveva visto nessuno, tranne Ciera, che aveva lasciato la casa presto, forse su ordine di Ransome. Alla luce incerta del crepuscolo, nel percorso per attraversare l'isola, il cammino di Ciera l'aveva portata a una cinquantina di metri dal faro di Kincairn. Eco aveva battuto i pugni contro il vetro della finestra, aveva urlato, ma la domestica non aveva mai alzato lo sguardo. Aveva spento le luci nello studio. Dopo aver finito la bottiglia le era venuto un po' di mal di testa, dovuto più allo stress che al vino. La luce le faceva male agli occhi e le rendeva più difficile vedere fuori. Per orientarsi al buio le bastava la stufetta elettrica e la luce rossa intermittente dell'allarme fissato al soffitto dello studio. Quando si stancò di girare in cerchio e di tentare di vedere attraverso la tempesta, si lasciò andare sulla sedia a dondolo ripiegando le gambe sotto di sé. Non era più tempo di piangersi addosso, di rimuginare, di pregare. Era il momento di darsi una scossa. Hai un piccolo problema, Mary C.? Risolvilo. Fu allora che il pulsante dell'allarme le diede l'idea di come cominciare. Nel tragitto da Bangor a bordo dell'Eurocopter a tre posti che era diventato surplus bellico quando Manuel Noriega era caduto in disgrazia presso la CIA, Peter ebbe tutto il modo per riflettere sui motivi per cui non aveva
mai preso in considerazione il volo come hobby. Era una notte strana, con zone di sereno sulla costa ma sempre con un vento forza otto. Da un'altezza di circa trecento metri il mare era visibile fino all'orizzonte; sotto di loro c'era un caos di creste bianche che si muovevano in ogni direzione. In alto, la luna dava al cielo il colore dell'argento brunito. Lola, alle prese con la difficoltà di pilotare l'elicottero attraverso le raffiche che lo sballottavano e lo facevano vibrare, appariva imperturbabile, sicura della propria capacità; l'unico segno di tensione era l'energia con cui masticava la sua gomma. «A questo punto si sarebbe dovuto calmare un po'», brontolò. «È per questo che abbiamo aspettato.» Silkie aveva vomitato due minuti dopo il decollo, a mezzanotte e mezzo, ed era rimasta a lamentarsi in preda alla nausea per tutto il tempo. Il padre e gli zii di Peter avevano sempre posseduto delle barche, e lui stesso era un capace marinaio, abituato al brutto tempo, ma quella era una situazione particolare anche per lui. Le ferite che il coltello di Taja gli aveva inferto pulsavano a ogni sobbalzo; sperò che i punti tenessero. Lola e Peter avevano le cuffie. Silkie se l'era tolta per potersi meglio stringere la testa tra le mani. «Dove siamo adesso?» chiese Peter a Lola. «Sulla Blue Hill Bay. Vede quel faro laggiù alla nostra sinistra?» «S-sì», rispose lui, con i denti che gli battevano. «Quello è il promontorio di Bass Harbor. Ah-ha. Quello è un mezzo della guardia costiera, laggiù, diretto a sudovest. Ci dev'essere qualcuno nei guai. Se finisci in acqua stanotte, duri non più di dieci minuti. Okay, sudovest è dove siamo diretti; due quattro zero e pronti all'azione. Sarà dura, ragazzi.» Peter controllò il meccanismo della vecchia Colt Pocket Nine che si era fatto prestare da zio Charlie a Brookline prima di raggiungere il Maine. Poi guardò le isole che comparivano in basso. Una quantità di isole, alcune solo un puntino sullo schermo del visore agli infrarossi. «Come facciamo a trovare...» «Kincairn la riconosco dal faro. Il problema è che non credo che nessuno abbia mai cercato di farci posare un elicottero. Non c'è una sola zona pianeggiante su tutta l'isola. Il vento arriva dappertutto su un mucchio di sassi come Kincairn, condizioni ideali per un funerale da FDM.» «FDM?» chiese Silkie. Si era rimessa la cuffia. «Fortuna di merda», spiegò Lola, scoppiando a ridere.
Da una finestra della sua casa John Ransome guardava con il binocolo le luci che lampeggiavano nello studio. Una sequenza familiare. Il segnale di soccorso in codice Morse. L'ingegnosità di Mary Catherine lo fece sorridere. Naturalmente da lei non si sarebbe aspettato niente di meno. Lei era l'ultima delle donne Ransome, la migliore. Quando guardò verso la base del faro di Kincairn, poi giù per la strada che conduceva al paese, vide una delle due Land Rover che teneva sull'isola avvicinarsi dalla direzione del porto. Quando il veicolo si fermò accanto al faro, non fu sorpreso di vederne uscire Taja. Il volto di Mary Catherine apparve dietro il vetro striato di salsedine, poi sparì immediatamente, come se avesse visto Taja. Quando la donna in nero si mosse verso il faro, camminava con passo lento e rigido, la testa china contro le raffiche di vento. Si teneva il fianco destro come se fosse stata sballottata e ferita mentre portava la barca in mezzo al mare in tumulto. Guardandola, Ransome non avvertì né pena né rimorso. La sentiva sulla sua anima come un'erba infestante, un parassita, come aveva cercato di spiegare a Mary Catherine. Era arrivato il momento di estirparla. Depose il binocolo stilla scrivania e aprì il cassetto in cui teneva una S&W .38, il modello usato dalla polizia. Non usava il revolver da anni ma quando lo esaminò vide che la canna era pulita. Poi, un paio di telefonate e ogni cosa sarebbe stata messa a posto per lui. Come sempre accadeva. Nessuna sgradevole pubblicità. Si sentiva profondamente vicino a Mary Catherine. Era un peccato che dovesse avere una parte in quell'operazione di pulizia. Ma dopo si sarebbe preso cura di lei, come aveva fatto con tutte le donne Ransome. Non aveva mai usato il proprio genio come scusa per agire male. Quando il suo dio l'avesse abbandonata - come avrebbe fatto quella notte - a provvedere ci sarebbe stato John Ransome. Stava infilandosi il soprabito quando, al di sopra del vento, sentì un elicottero che sorvolava la casa. «Peter, è Taja!» gridò Silkie. Lui vide la donna in nero, che guardava l'elicottero distante un centinaio di metri. Aveva aperto la porta alla base del faro. Le luci dello studio stavano lampeggiando nuovamente. Poi Eco corse alle finestre, facendo gesti frenetici verso l'elicottero.
«Chi è?» chiese Silkie. «È Eco», disse Peter sollevato. Poi, quando Taja entrò nel faro la sua momentanea euforia svanì. «Ci porti giù!» ordinò a Lola. «Qui no! Forse nella baia, sul porto!» «Quanto è lontano?» «Cinque chilometri a sud, credo.» «No! Può farmi saltare giù qui? Vicino al faro?» «Che cosa stai facendo?» chiese Silkie. «Non posso tenermi sospesa e ferma per più di tre o quattro secondi», lo avvertì Lola. «E a non meno di tre metri dal suolo!» «Basterà!» gridò Peter. «Silkie! Tu torna indietro con Lola. C'è un mandato di arresto per Taja. Chiama la polizia di Stato, di' che si trova a Kincairn!» Aprì il portello, guardò le rocce illuminate dal riflettore dell'elicottero. Il senso di pericolo lo gelò più del vento. Se avesse toccato terra malamente, un salto da tre metri sul ghiaccio duro come un sasso sarebbe stato come uno da quindici metri. Dall'atelier di John Ransome, Eco osservò Taja uscire dal piccolo ascensore esterno. Le due donne si guardarono per qualche momento, poi Eco si voltò verso le finestre, vedendo l'elicottero che si allontanava. Quando tornò a girarsi, Taja aveva spalancato la porta a vetri ed era entrata. Ora che la porta era aperta, l'unico pensiero di Eco fu come filarsela di lì. Ma non poté aggirare Taja, che era veloce e forte. Un'immagine del ragazzo nella metropolitana si affacciò nella mente di Eco quando si sentì afferrare per un braccio e spingere all'indietro. Fino al cavalletto sul quale era ancora posato lo studio di lei nuda che Ransome aveva appena iniziato. Il ritratto parve distrarre Taja per un attimo. Eco ne approfittò per divincolarsi, imprecando, e colpì con un violento manrovescio della sinistra la donna in nero. La mano libera di Taja si staccò dal suo fianco. Il guanto era impregnato di sangue. Tastò dietro di sé il ripiano del tavolo da lavoro. Le sue dita si chiusero sull'impugnatura del coltello che Ransome affilava tutti i giorni prima di spuntare i pennelli. Eco gridò. Peter era a metà della scala a chiocciola di ferro, zoppicando su una caviglia malridotta per il salto, quando sentì l'urlo. Sapeva che cosa voleva
dire. Ma era troppo lento e troppo lontano da Eco per poterle essere d'aiuto. Taja vibrò un fendente a Eco, facendole un taglio sul palmo della mano che lei aveva alzato a proteggersi il volto. Poi, anziché far seguire il definitivo colpo mortale, Taja si prese il tempo di conficcare la lama nella tela sul cavalletto, lacerandola con un gesto furioso. Il corpo di Taja si trovava momentaneamente di sbieco rispetto a Eco, in una posizione vulnerabile. Eco si puntellò al tavolo da lavoro e mise a segno una ginocchiata nella cassa toracica, proprio nel punto in cui nell'appartamento di Cambridge l'aveva colpita il proiettile di Silkie. Taja si abbatté con un grido strozzato, e si lasciò sfuggire il coltello. Stava cercandolo a tentoni quando Peter irruppe nello studio e si slanciò verso di lei. «No, maledizione, no!» Le afferrò la mano che impugnava il coltello mentre lei cercava di attaccarlo dal pavimento. La mano libera di Peter raggiunse la faccia di Taja, in una mossa da lotta da strada. Non riuscì ad arrivarle agli occhi, cercò di far presa mentre lei si dibatteva scuotendo là testa. Sembrò che una parte della sua carne gli restasse in mano. Ma era solo lattice. Il volto sotto quella seconda pelle era cosparso di cicatrici circolari, come una dozzina di bruciature di sigarette. Erano entrambi doloranti ma Peter non riuscì a bloccarla. Sapeva che la coltellata era in arrivo. A quel punto Eco riuscì a serrare con il braccio la gola di Taja e la trascinò all'indietro; Peter si fece avanti con un breve gancio alla mascella di Taja che cadde giù all'istante come un sacco. Le strappò il coltello di mano e la rimise in piedi. Non era svenuta ma gli occhi le si incrociavano e aveva perduto ogni capacità di lottare. «Lasciala andare, Peter», disse dietro di loro John Ransome. «È finita.» Peter lanciò uno sguardo alle sue spalle. «Non ancora!» Guardò Taja negli occhi. «Dimmi una sola cosa! È stato Ransome? Ti ha mandato lui da quelle donne? Dimmelo!» «Peter, non può parlare!» disse Eco. Taja aveva ancora lo sguardo spento. Da un angolo della bocca le colava un rivolo di sangue. «Trova il modo di parlarmi! Voglio saperlo!»
«Peter», disse John Ransome, «ti prego, lasciala.» Il suo tono era debole. «Tocca a me sbrigarmela con Taja. È mia...» «È stato Ransome!» urlò Peter sulla faccia di Taja, che batté le palpebre, lo fissò. Annuì. I suoi occhi si chiusero. Un secondo dopo Ransome le sparò. Sangue e frammenti di osso dal foro in mezzo alla fronte schizzarono sul viso di Peter. Lei si accasciò tra le sue braccia mentre Eco cacciava un urlo. Sempre tenendo ritta Taja, Peter si voltò verso Ransome, muto per l'ira. Ransome abbassò la .38, facendo un profondo respiro. «È mia responsabilità. Mi spiace. Adesso vuoi metterla giù?» Peter lasciò cadere Taja e prese la sua pistola, la alzò a due mani fino a un palmo dal viso di Ransome. «Butta via la pistola! O quanto è vero Iddio ti ammazzo qui su due piedi!» «Peter, no...!» Ransome fece un altro respiro, muovendo lentamente la mano con la pistola verso il tavolo da lavoro, il dito lontano dal grilletto. «Va bene.» Appariva innaturalmente calmo. «Adesso la lascio. Non farti trascinare dalle emozioni. Niente incidenti, Peter.» La .38 era sul tavolo. Spostò piano la mano, guardò il corpo di Taja a terra tra loro. Peter lo allontanò dal tavolo con un movimento dell'arma. «Sei in arresto per omicidio! Hai il diritto di rimanere in silenzio. Hai il diritto di essere rappresentato da un avvocato. Qualunque cosa tu dica potrà essere usata contro di te in tribunale. Hai capito quello che ti ho detto?» Ransome annuì. «Peter, è stata autodifesa.» «Stai zitto, maledizione! Non la farai franca!» «Qui sei fuori della tua giurisdizione. Un'altra cosa. Quest'isola è mia» «In ginocchio, mani dietro la testa.» «Credo che dovremmo parlare quando sarai in uno stato d'animo più...» Peter tolse il dito dal grilletto della Colt e colpì con la canna la testa di Ransome. Ransome barcollò e cadde su un ginocchio. Lentamente alzò le mani. Peter guardò Eco, che aveva tirato la manica del maglione sulla mano che Taja aveva squarciato. L'aveva stretta a pugno per bloccare l'emorragia. Tremava dalla paura. «Oh, Peter! Oh, Dio! Che cosa vuoi fare?» «È tua l'isola?» disse Peter a Ransome. «Chi se ne frega? È qui che chiudiamo la storia.»
15 La barca che Taja aveva usato per andare e venire dall'isola era un cabinato di otto metri e mezzo. Peter aveva sistemato John Ransome nella cabina di pilotaggio con le mani legate davanti a sé con una cima di sicurezza. Eco cercava di tenerlo sotto il tiro della Colt 9mm mentre Peter lottava con raffiche di vento che toccavano i cinquanta nodi e che, al di là del riparo della baia, tagliavano perpendicolarmente le onde. Oltre alle cime di sicurezza indossavano tutti i giubbotti salvagente. Erano sballottati con violenza da ogni parte. Peter si rese conto che non riusciva a cavare più di diciotto nodi dal Volvo diesel, e che era quasi impossibile tenere il vento di prora, a meno che non volessero ritrovarsi in Portogallo. Il vento portava la temperatura sotto lo zero e li tempestava senza sosta. Stavano imbarcando una quantità di acqua, anch'essa gelida. In condizioni di tempo ragionevolmente favorevoli la terraferma distava una trentina di minuti. Peter non era affatto sicuro di avere mezz'ora prima che l'ipotermia lo riducesse all'impotenza. John Ransome lo sapeva. Guardando Peter che cercava di governare la barca con la mano sana, vedendo Eco che tremava, con il giubbotto sporco di vomito, disse: «Non ce la faremo. Respira dal naso, Mary Catherine, o ti congelerai i polmoni. Lo sai che non voglio che tu muoia in questo modo! Cerca di far rinsavire Peter! Con il tempo bello navigare in mezzo a tutti questi isolotti è come cercare di infilare un ago. Con la tempesta puoi perdere la barca sugli scogli.» «Peter ha n-navigato tutta la vita!» Ransome scosse la testa. «Non in queste condizioni.» Una raffica violenta li fece inclinare sulla sinistra; la prua scomparve sotto un'ondata avvolgente. Una cascata d'acqua venne giù dal tetto della cabina quando la barca a fatica si raddrizzò. «Peter!» «Andiamo bene!» gridò lui, sostenendosi alla ruota del timone. Ransome sorrise intenerito dal terrore di Eco. «No, non andiamo bene.» Si rivolse a Peter. «C'è una via d'uscita dal nostro dilemma, Peter! Se solo mi dai l'occasione di sistemare le cose per noi tutti! Ma devi tornare indietro, subito!» «Te l'ho detto, non ho nessun dilemma! Eco, continua a tenerlo sotto tiro!»
«Non credo», replicò Ransome calmo, con gli occhi fissi sulla ragazza tremante, «che Peter sia arrivato a conoscerti come ti conosco io, Mary Catherine! Non potresti mai spararmi. Qualunque cosa tu pensi io abbia fatto.» Eco, con gli occhi rossi per l'acqua salata e la mano malferma, sollevò la canna della Colt cercando di non farsi sbalzare dalla panca di fronte a Ransome. «Chi sei, quale sei, stanotte?» disse con asprezza. «Il dio che crea o il dio che distrugge?» Stavano imbarcando acqua più velocemente di quanto la pompa potesse rigettarla fuori bordo. La barca si dibatteva, senza direzione. «Ti ricordi quell'onda gigante, Mary Catherine? Quella volta mi hai salvato. Sono degno di essere salvato ancora, adesso?» «Non ascoltarlo!» Peter si strofinò gli occhi, cercando di vedere qualcosa attraverso la spuma che copriva il finestrino della cabina. Quello che vide per qualche momento e a una certa distanza furono le luci di direzione di un grosso yacht o forse un cutter. Il freddo gli consentiva un uso limitato della mano sinistra. Il polso aveva ripreso a sanguinare durante la colluttazione con Taja nel faro. Con le dita intirizzite riuscì ad aprire uno sportello davanti a sé. «Eco, quest'uomo ha rovinato la vita di chiunque abbia mai toccato!» «Non è vero. È stata Taja, anche se ha voluto farti credere il contrario. La sua vendetta contro di me. E io sono stato l'unico che abbia mai provato qualcosa per lei! Mary Catherine, la notte scorsa ho cercato di impedirle di andare da Silkie MacKenzie! Tu lo sai che cosa è successo. Ma la storia di Taja e me non è facile da spiegare. Tu però capisci, non è vero?» «Avresti dovuto vedere quello che ho visto io nelle ultime quarantott'ore, Eco! I volti delle donne di Ransome. Sfigurate, ustionate, distrutte! Due, che io sappia, sono morte! Nan McLaren è morta di overdose, Ransome, lo sapevi?» «Sì. Povera Nan... ma io...» «L'altra sera Valerie Angelus è saltata dal tetto del suo palazzo! L'hai portata tu a questo, figlio di puttana!» Ransome sollevò la testa. «E avresti potuto fermarla. Uno, due anni fa, non sarebbe stato troppo tardi per Valerie. Non l'hai voluto. Non parlare di provare qualcosa per qualcuno, mi fai vomitare!» Ransome si slanciò dalla sua panca verso Eco e senza difficoltà le tolse
l'automatica dalle mani semicongelate. Si voltò verso Peter ma perse l'equilibrio. Peter abbandonò il timone, spedì con un calcio l'arma verso poppa, poi puntò contro la testa di Ransome una pistola di segnalazione, caricata con un razzo da ventimila candele. «Credo che lì a sinistra ci sia la guardia costiera», disse Peter. «Se ti trasformo in un falò sono sicuro che vedranno.» «Il razzo mi distruggerebbe solo la faccia», replicò con calma Ransome. «Immagino che per te sarebbe una forma di giustizia.» In ginocchio, alzò le mani legate in un gesto di supplica. «Avremmo potuto sistemare la questione tra noi. Ora è troppo tardi.» Guardò Eco. «È troppo tardi, Mary Catherine?» Lei sedeva in un palmo d'acqua sul ponte, sfinita, cercando solo di reggersi mentre la barca oscillava violentemente. Lo guardò, poi distolse gli occhi. «Oh, Dio, John.» Ransome riuscì a tirarsi in piedi. «Prendi il timone, Peter, altrimenti ci ribaltiamo! E voi due potreste avere ancora una vita da vivere insieme.» «Sta' zitto, Ransome!» Lui sorrise. «Siete tutti e due molto giovani. Spero che un giorno imparerete che la parte più grande della saggezza è... il perdono.» Si sganciò la cima di sicurezza dal giubbotto mentre la prua della barca si sollevava, lasciando che il movimento lo trasportasse all'indietro verso il parapetto dello specchio di poppa. Qui, si gettò fuori bordo, svanendo nell'acqua nera come la pece. Eco mandò un grido, un gemito di disperazione, poi scoppiò in singhiozzi. Peter sentiva solo una fredda indifferenza per la sorte che l'artista aveva scelto. Puntò verso l'alto la pistola lanciarazzi e sparò, quindi tornò al timone mentre il razzo allargava la sua luce sull'acqua, mettendo in frastagliato rilievo le isole circostanti. Qualche momento dopo i due naufraghi sentirono la sirena nel basso ululato del vento; un riflettore sondò il buio e li trovò. Peter chiuse gli occhi davanti al bagliore e si accasciò sulla ruota del timone con Eco stretta a lui, alle sue spalle. Sotto coperta, nel cutter della guardia costiera che ritornava alla base su Mount Desert Island con il cabinato al traino, il cambiamento di tono nel motore e un tremito che scosse l'imbarcazione fecero svegliare Eco di soprassalto. «Tranquilla», disse Peter. Era seduto accanto a lei sulla cuccetta dell'in-
fermeria e le teneva la mano. «Dove siamo?» «Stiamo arrivando, credo. Stai bene?» Lei si leccò le labbra screpolate. «Credo di sì. Pete, siamo nei guai?» «No. Voglio dire, ci sarà un'inchiesta coi fiocchi. Aspettiamo a vedere che cosa succede. Caffè?» «No. Voglio solo dormire.» «Eco, devo sapere...» «Non possiamo parlarne adesso», protestò lei stancamente. «Forse invece dovremmo. Togliere di mezzo la faccenda, sai? Di' semplicemente come stanno le cose. In tutti e due i casi, ti prometto che saprò come prenderla.» Lei batté le palpebre, lo fissò con uno sguardo spettrale, alzò l'altra mano sfiorandogli il viso. «Ho posato per lui... be', hai visto la tela che è finita sotto la lama di Taja.» «Sì.» Fece un respiro profondo. Peter era immobile come un pezzo di marmo. «Peter, non ci sono andata a letto.» Dopo qualche istante lui si riscosse. «Okay.» «Ma... no... voglio dirti tutto. Peter, a un certo punto, tra non molto, sarei stata pronta a farlo. Un altro paio di giorni, una settimana... sarebbe successo.» «Oh, Gesù.» «Avevo bisogno di stare con lui. Ma non lo amavo. È una cosa che... una cosa di me che credo non capirò mai. Scusami.» Peter scosse la testa, sconfortato. Lei aspettava, tesa, una sfuriata. Invece lui la prese tra le braccia. «Non devi scusarti. So che cos'era Ransome. E so che cosa ho visto negli occhi di quelle altre donne. Nei tuoi non lo vedo.» La baciò. «Lui non c'è più. E questa è l'unica cosa che conta per me.» Un secondo bacio, e il viso scuro di Eco perse l'espressione ansiosa, cominciò a rischiararsi. «Ti amo. Infinitamente.» «Infinitamente», ripeté lui con solennità. «Eco?» «Sì?» «Qualche giorno fa, prima di partire, ho visto un appartamento. Un loft arredato a Williamsburg. Probabilmente ancora libero. Millecinquecento al
mese. Potremmo traslocare entro Natale.» «Ehi! Millecinque? Potremmo farcela.» Fece un sorrisetto ironico. «Vivere per un po' nel peccato, è questo che intendi?» «Semplicemente vivere», disse lui. Una domenica di metà aprile, quattro settimane prima del matrimonio, Peter ed Eco, mentre godevano della reciproca compagnia e di quel piccolo incanto della vita che è oziare beatamente, sentirono mettersi in moto l'ascensore del loro palazzo. «Qualcuno che viene a trovarci?» chiese Peter. Stava guardando una partita dei Knicks alla TV. «Mamma e Julia non dovrebbero essere qui prima delle quattro», disse Eco. Stava facendo esercizi di tai chi su una stuoia, a piedi nudi, con addosso solo i calzoncini da ginnastica. Il tempo a Brooklyn era insolitamente caldo per la stagione. «Allora non sarà nessuno», disse Peter. «Ma forse faresti bene a metterti lo stesso una maglietta.» Attraversò il loft e vide la cabina che saliva verso di loro. Nella penombra del pozzo dell'ascensore non riuscì a scorgere nessuno all'interno. Quando si fermò aprì il cancelletto e guardò dentro. Appoggiato a una parete della cabina c'era un pacco. Un metro per uno e mezzo. Carta marrone, nastro adesivo, spago. «Ehi, Eco?» Lei infilò un top e lo raggiunse. Spalancò la bocca dallo stupore. «È un quadro. Oddiomio!» «Cosa?» «Prendilo! Aprilo!» Peter portò il dipinto incartato, che sembrava incorniciato, al tavolo della cucina. Eco lo seguì con le forbici e tagliò lo spago. «Non può essere! Non è possibile...! No, piano, lascia fare a me!» Rimosse la pesante carta da imballaggio e appoggiò il quadro di piatto sul tavolo. «Oh, no», gemette Peter. «Non ci posso credere. È tornato.» Il dipinto era l'autoritratto di John Ransome. L'ultima volta che Eco l'aveva visto si trovava nella biblioteca dell'artista, a Kincairn. Eco lo capovolse. Sul retro Ransome aveva scritto: «Donato a Mary Catherine Halloran in ricordo della nostra amicizia». Era firmato e datato due giorni prima della sua scomparsa.
Si voltò di scatto, spingendo Peter da parte, e corse alle finestre che davano su una piazzetta con il pavimento di acciottolato e su una veduta parziale del ponte di Brooklyn, con Manhattan dall'altra parte. «Peter!» Lui la raggiunse, guardò al di sopra della sua spalla nella piazzetta. C'erano dei bambini che giocavano, un paio di signore con il passeggino. E un uomo con un soprabito nero che stava salendo su un taxi all'angolo dove la bancarella di frutta e verdura faceva buoni affari. L'uomo aveva i capelli grigi lunghi fino alle spalle e portava un paio di occhiali scuri. Questo fu tutto ciò che riuscirono a vedere di lui. Peter guardò Eco mentre il taxi si allontanava. Le toccò la spalla finché lei ritornò al presente, a lui. «È annegato, Eco.» Lei si voltò con un gesto ampio in direzione del ritratto. «Ma...» «È vero che il suo corpo non è mai stato ritrovato, ma l'acqua... noi stessi, in barca, siamo quasi congelati. Aveva le mani legate. Te lo assicuro, non è assolutamente possibile che sia sopravvissuto.» «John mi ha detto che una volta ha attraversato a nuoto l'Ellesponto. Lo stretto dei Dardanelli. È un braccio di mare di almeno un paio di miglia. E l'ipotermia... ognuno ha una diversa tolleranza al freddo. Ci sono marinai che sono sopravvissuti per ore in mari che probabilmente ucciderebbero me o te in un quarto d'ora.» Indicò di nuovo il quadro, eccitata. «Peter... chi altro?» «Forse era qualcuno che lavora per Cy Mellichamp. Quel viscido figlio di puttana. Un suo piccolo scherzo. Ascolta. Quel dannato quadro non lo voglio in casa nostra. Non voglio ricordi, Eco. Neanche parlarne.» Aspettò. «Tu?» «Be'...» Si guardò intorno. Si strinse nelle spalle. «Immagino che non sarebbe, ehm, appropriato. Ma, ovviamente, voleva essere un dono di nozze.» Gli rivolse un sorriso strano. «Io non ho fatto altro che dirgli quanto ammiravo il suo autoritratto. John me ne ha parlato. C'è tutta una storia dietro, che renderebbe questo quadro particolarmente prezioso agli occhi di un collezionista. E unico nella produzione di Ransome.» «Sì? Prezioso quanto?» «Difficile dirlo. So che recentemente un Ransome è stato battuto da Christie's per poco meno di cinque milioni di dollari.» Peter non aprì bocca. «Il fatto che il corpo non sia stato recuperato complica la questione del
suo patrimonio. Però», aggiunse Eco giudiziosamente, «come ha detto Stefan, la cosa di sicuro non ha influito negativamente sul valore della sua opera'.» «Hai voglia di una birra?» «Ho enormemente voglia di una birra.» Eco rimase accanto alla finestra guardando fuori mentre Peter andava al frigorifero. Mentre stappava le lattine, disse: «Quindi... diciamo che mettiamo il ritratto in un cassetto e ce lo teniamo per un paio d'anni, dopo di che potrebbe valere una carrettata di quattrini». «Esattamente», rispose Eco. «Allora, sempre tra un paio d'anni», continuò Peter, tornando da lei e mettendole una lattina di Heineken in mano, «quando il patrimonio di Ransome sarà stato accertato, il cottage a Bedford, che ha l'aria di un investimento niente male, andrà sul mercato?» «Potrebbe.» Eco bevve una lunga sorsata di birra e cominciò a ridere piano tra sé. «Tutto questo, è chiaro, potrebbe dipendere dal fatto che lui ricompaia.» Peter guardò dalla finestra. «O meno.» L'ultima donna Ransome rimase in silenzio. Riflettendo, perduta in una sua fantasia privata. Peter riprese: «Vuoi che ordini la cena al ristorante cinese per Rosemay e Julia, stasera? Sulla MasterCard dovrebbe esserci ancora qualche dollaro». «Sì», disse Eco, appoggiandogli la testa sulla spalla. «Cinese. Mi pare una buona idea.» FINE