CECILIA DART-THORNTON LA DAMA DELLE ISOLE (The Lady Of The Sorrows, 2002)
Alla mia amica e musa, Tanith Lee
PREMESSA
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CECILIA DART-THORNTON LA DAMA DELLE ISOLE (The Lady Of The Sorrows, 2002)
Alla mia amica e musa, Tanith Lee
PREMESSA
Nel primo episodio di questa storia, una creatura muta, sfigurata e priva di ogni ricordo del suo passato conduce una vita di miseria degradante nella Torre di Isse, una delle dimore dei Cavalieri della Tempesta. I cavalieri, anche noti come «Corrieri», sono messaggeri d'alto rango che «cavalcano nel cielo» in sella a quadrupedi chiamati eotauri e le loro molte torri sono sparse ovunque nell'Impero di Erith, sul mondo di Aia. Il sildron - il metallo più prezioso dell'Impero - ha la proprietà di respingere il suolo, consentendo così a ogni oggetto di levitare: è il materiale usato per forgiare gli zoccoli dei Cavalli Celesti, nonché la struttura delle Navi del Vento che solcano i cieli. Soltanto un altro metallo, l'andalum, può annullare l'effetto del sildron. Erith è occasionalmente percorsa da uno strano fenomeno chiamato «vento shang» o «tempesta magica»: un vento oscuro e carico di energia misteriosa, che porta con sé un tintinnare di campanelle e un improvviso spolverio di scintille colorate. Quando esso spazza la terra, gli esseri umani devono coprirsi la testa coi cappucci, nei quali è cucita una rete di un terzo metallo (il talium) che impedisce alle loro passioni di filtrare attraverso il cranio. Questa protezione è indispensabile durante una tempesta magica, perché il vento shang possiede la capacità di catturare e replicare i drammi umani e il suo arrivo origina immancabilmente la comparsa di fantomati-
che scene - immagini di momenti passati, carichi d'intense emozioni - che si ripetono interminabilmente finché, nel corso dei secoli, finiscono per svanire. Il mondo all'esterno della Torre non è popolato solo dai mortali ma anche da creature immortali o eldritch wight, soprannaturali incarnazioni del potere di gramarye; alcune di esse sono seelie, cioè benevole verso gli umani, mentre altre sono unseelie, ossia infide e pericolose. La creatura sfigurata fugge dalla Torre di Isse per ritrovare il suo nome, una cura per il suo viso deturpato e la memoria. Dopo aver fatto amicizia con Sianadh, un avventuriero di Erith che le ha dato il nome di Imrhien, apprende che i suoi capelli biondi indicano una discendenza dalla gente talith, una razza un tempo grande, ma ormai ridotta sull'orlo dell'estinzione. Insieme, i due vanno alla ricerca di un favoloso tesoro e lo trovano nelle caverne sotto una remota cascata, chiamata Scala d'Acqua. Dopo aver prelevato un po' di monete e di oggetti preziosi, i due ripartono per la città di Gilvaris Tarv, dove sono ospitati dalla sorella di Sianadh, la Carlin Ethlinn, la quale ha tre figli: Diarmid, Liam e Muirne. Un incompetente Mago di città, Korguth, tenta di guarire le deformità facciali di Imrhien, ma riesce soltanto a ridurla in condizioni ancora peggiori, con gran rabbia di Sianadh. Più tardi, al mercato, Imrhien compra la libertà di un cavallo d'acqua seelie. In quell'occasione i suoi capelli d'oro rimangono accidentalmente scoperti per un istante e lei si accorge di essere stata notata da un individuo sospetto. Quando Sianadh lascia la città per tornare a prelevare altre ricchezze alla Scala d'Acqua, Imrhien e Muirne vengono prese prigioniere da una banda di malviventi, capeggiati da un uomo di nome Scalzo. E soltanto dopo essere state liberate da Diarmid apprendono della tragica morte di Liam e Sianadh a opera di Scalzo e dei suoi complici. Giacché Imrhien ha promesso a Ethlinn di rivelare il nascondiglio del tesoro della Scala d'Acqua soltanto al Re-Imperatore, la fanciulla si unisce a Muirne e Diarmid nel loro viaggio verso la lontana Caermelor, la Città Reale. Lungo la strada, attraverso una terra selvaggia piena di bellezze e di pericoli, Imrhien e Diarmid vengono accidentalmente separati dai compagni di viaggio, ma, per loro fortuna, incontrano Thorn, un attraente esploratore della Confraternita Dainnan, di un coraggio e di un'abilità senza pari. Imrhien se ne innamora. Dopo molte avventure, seguite da un soggiorno a Rosendale con Silken Janet e suo padre, i tre viaggiatori ritrovano Muirne, sana e salva. Lei e
Diarmid hanno però deciso di unirsi alle forze armate del Re-Imperatore: i ribelli barbari e gli unseelie si stanno infatti radunando nella terra settentrionale di Namarre e tutto fa pensare che ben presto Erith sarà sconvolta dalla guerra. Prima di proseguire per Caermelor, Imrhien intende far visita a Maeve, una Carlin con un occhio solo, per chiederle una cura. Ciò significa separarsi da Thorn e questo la turba profondamente... E il suo turbamento raggiunge il culmine quando, salutandola, Thorn la bacia. Alla fine, nel villaggio di White Down Rory, le deformità che le sfigurano il viso vengono curate e, una volta guarita, la fanciulla ritrova anche la capacità di parlare. Due dei suoi scopi sono stati raggiunti: Imrhien adesso ha un nome e un volto. Però non ha ancora nessuna memoria del suo passato... Le Terre Conosciute di Erith
1 WHITE DOWN RORY MASCHERA E SPECCHIO
Giorni freddi, bruma ghiaccia, quando la nube il colle abbraccia. Coperti gli alberi da un nero velo, e immoti stagni dal profondo gelo. A mezzo inverno la creatura, tutrice antica della natura, a fianco va con la cerva ritrosa, del tramonto nell'ombra silenziosa. Vecchia e rugosa wight, donna erudita, mai dalla vita selvatica fuggita, con occhi di saggia luce stregata, la Coillach Gairm, ecco, è tornata. Canzone della Strega Invernale Era Nethilmis, il Mese delle Nuvole. I venti shang vennero e se ne andarono l'uno dopo l'altro, poi le bufere invernali cominciarono a infittirsi. Percorrevano il territorio con raffiche violente facendo crepitare in modo lugubre i rami quasi nudi, strappavano le ultime foglie e davano loro la caccia con capricciosa ferocia. La fanciulla che aveva trovato alloggio in casa della Carlin a White Down Rory si sentiva rinata. Ora tutto le sembrava così nuovo e strano che doveva continuamente ripetersi che la miracolosa guarigione del suo volto e della sua voce era reale. Non faceva che guardarsi allo specchio e toccare quei lineamenti vergini dalla pelle ancora tenera, dicendo più volte, fino a diventare rauca: «Posso parlare. Posso parlare!» Nel farlo, però, le sue mani continuavano a muoversi nel linguaggio dei gesti. Intorno a quel viso non familiare i capelli ricadevano folti e pesanti come fili d'oro e la luce delle lampade strappava riflessi rossi alle trecce satinate. Lei non poteva sapere se fosse bella oppure no; tutto era accaduto
troppo all'improvviso per capirlo... ma di sicuro non era più brutta e questo, per il momento, le bastava. Eppure non riusciva a gioirne, perché viveva ogni minuto nella paura che quel dono le fosse portato via o si rivelasse un'illusione dello specchio di Maeve... La stessa immagine, però, si ripeteva per lei nell'acqua immobile e nel lucido bronzo e così Imrhien riusciva, se non ad accettare quel volto nuovo, almeno a vederlo come una maschera presentabile che copriva la sua vera faccia, quella vecchia e brutta. «Ho capito che eri muta appena hai bussato alla mia porta», disse la Carlin, Maeve la Guercia. «Non sottovalutarmi, ragazza. Le tue mani lottavano per dare forma a dei segni, senza riuscirci. Ciò che stavi cercando era ovvio, così non ho perso tempo... è inutile menare il can per l'aia quando c'è un lavoro da fare. Ma è curioso che l'incantesimo posto sulla tua voce si sia sciolto insieme ai gonfiori che ti deformavano la faccia. Se non ho preso un abbaglio, sei stata resa muta da un sortilegio, ma lo scempio della pelle del viso è opera dell'edera paradossa, una pianta lorraly. Questo è molto strano, dovrò cercare di capirlo meglio. Nel frattempo non esporre la faccia al sole per qualche giorno. I nuovi tessuti sono ancora teneri e vulnerabili e devono indurirsi un po'.» «Tom Coppins mi aiuterà. Non è così, Tom?» Lo svelto ragazzino dai capelli color cannella, che spesso entrava e usciva dal casolare, annuì. «E ti terrà anche d'occhio, ragazza mia. Ora comincia a esercitare la tua voce - un poco alla volta, non troppo - e quando si sarà fatta meno incerta potrai dirmi tutto: passato, presente e futuro. No, lo specchio argentato non è stregato, però stanne lontana... dalla finestra entra troppa luce solare. Per giunta, sta per arrivare il vento shang e solo la Coillach sa cosa potrebbe fare quello alla tua pelle!» Non un giorno, non un'ora, non un minuto trascorrevano senza il pensiero di Thorn. La passione tormentava la giovane donna risanata. La notte, prima di scivolare nel sonno, mormorava più volte il suo nome sperando di sognarlo, ma era una speranza vana. Aveva l'impressione che le fosse entrato nel sangue, nel midollo stesso delle ossa: i suoi pensieri erano continuamente distratti dall'immagine del volto di lui e da congetture su dove potesse trovarsi e se stesse bene. La nostalgia la rodeva senza requie, come un topo annidato nel suo cuore, eppure col passare del tempo e con l'abitudine si placò, sino a diventare una torpida e costante sofferenza.
Il terzo giorno, a tarda sera, l'ululante vento di Nethilmis si fermò. Maeve sonnecchiava sulla sua sedia a dondolo accanto al caminetto, con una grossa lucertola scagliosa addormentata in grembo. Imrhien si stava specchiando al lume di candela, col riflesso di due fiamme gemelle in fondo agli occhi. Tom Coppins era strettamente rannicchiato su se stesso nel suo giaciglio, in un angolo. Tutto era immobile quando si avvicinò il rumore di un vento impetuoso; poi ci furono un battito di grandi ali e un triste, solitario richiamo. Subito Maeve alzò la testa, aprì gli occhi e mormorò qualcosa. Non molto più tardi, fuori dal casolare, si udì un rumore morbido, come un fruscio di piume. Maeve posò la lucertola sul tappeto e andò ad aprire la porta. Una ragazza scivolò dentro in silenzio e si appartò nell'ombra con la Carlin: il suo volto era pallido; aveva capelli neri come il giaietto e una veste dello stesso colore. Indossava un mantello di piume orlato di bianco nella parte anteriore e sulla sua fronte brillava una lunga gemma rossa, lucida come il sangue fresco. Maeve le parlò a voce così bassa che le sue parole non si udirono, poi cominciò a darsi da fare, disponendo sul tavolo bende e vasetti. I gesti della Carlin erano poco visibili nella penombra oltre il caminetto, ma alla nuova venuta sfuggì improvvisamente un gemito di dolore sibilante, non umano, che svegliò Tom Coppins. Maeve aveva rimesso a posto l'osso di un arto fratturato e ora lo stava steccando. Quando tutto fu finito, la ragazza-cigno giacque tremante nell'angolo più lontano dal fuoco, nascosta tra le pieghe del suo mantello di piume. «Giacigli dappertutto», borbottò Maeve, lasciando sul tavolo i vasetti sporchi. «L'anno prossimo dovrò cercarmi una casa più grande.» «Tu curi le creature eldritch, signora?» La voce di Imrhien era ancora fioca, come il sussurro del vento sulla brughiera. «Taci! Non chiamarle così, quando una come lei può sentirti. Io curo chi posso, dove e quando ci riesco. È un dovere di quelle che hanno la mia vocazione... ma ciò che faccio non è certo tutto qui.» Maeve si toccò la spilla appuntata su una spalla, raffigurante un cervo cornuto fuso nell'argento. «Le Carlin non si limitano a curare gli esseri umani. La Coillach Gairm protegge tutte le creature selvatiche e in particolare i cervi. Noi, che riceviamo da lei le nostre conoscenze, ne condividiamo le intenzioni. Il nostro primo scopo è il benessere delle creature selvatiche: proteggerle e curarle è la nostra vera missione... La cura degli umani è un compito secondario. Ora vai a letto.»
«C'è un'altra cosa che mi affligge. Tu, che hai grandi poteri, forse puoi aiutarmi... Io non ricordo nulla del mio passato, prima degli ultimi due anni.» «Sì, sì, sospettavo una cosa del genere. Pensi che questo non mi abbia dato da pensare? Ma l'incantesimo è stato gettato da qualcuno che è assai più forte di me e toglierlo va oltre le mie capacità. Per amor della Coillach, smettila di specchiarti e va' a letto... Stai stancando il mio specchio. Non avvicinarti a lei... la ragazza piumata, intendo. Ha paura della gente - come tutti i suoi simili - e ne ha le sue buone ragioni.» Il sauriano saltò di nuovo in grembo alla Carlin che gli grattò le creste dorsali, mentre l'animale girava su se stesso un paio di volte prima di trovare una posizione comoda. «Avrei preferito qualcosa di meno corazzato e più peloso», mormorò lei, guardandolo, «ma i volatili non si avvicinerebbero, se avessi un gatto. D'altra parte, Fig non mi ha lasciato scelta. È stato lui a scegliere me.» Era difficile starsene lì nella casa della Carlin, tra quattro mura, col pensiero che Thorn si trovava a Caermelor, alla Corte del Re-Imperatore. Così rimessa a nuovo, la fanciulla era impaziente di giungere alle porte della Città Reale dove, se non altro, avrebbe potuto unirsi ai ranghi delle ammiratrici di Thorn, armata di un nuovo rispetto per se stessa. Avrebbe trovato il modo di vivere accanto a lui e, nello stesso tempo, svolgere la missione che si era autoimposta a Gilvaris Tarv: rivelare al Re-Imperatore l'esistenza di un grande tesoro e - almeno così sperava - mettere in moto una catena di eventi che conducessero alla punizione di coloro che avevano ucciso Sianadh, Liam e gli altri coraggiosi membri della loro spedizione. Maeve, tuttavia, non si lasciava commuovere. «Non te ne andrai da qui finché la guarigione non sarà completa. Pensi forse che voglia veder rovinato un buon lavoro? Resta tranquilla... scalpiti come una giovane puledra che morde il freno. Cominci a innervosire persino Fig.» Il lucertolone, che sonnecchiava pigramente accanto al fuoco, sembrava comunque molto esperto nel nascondere l'agitazione. Nell'ombra, la ragazza-cigno si mosse e sospirò. I tre giorni diventarono cinque, poi sei. Il tempo peggiorò di nuovo, tartassando i muri del casolare. Ogni notte, quando tutta la casa dormiva, un agile bruney sbucava fuori da qualche parte e sbrigava tutti i lavori domestici nelle due stanze con stupefacente rapidità, efficienza e silenzio. Obbedendo alle istruzioni di Maeve, la fanciulla fingeva di dormire - se le
accadeva di essere sveglia - e lo spiava: era un piccolo essere dagli abiti sporchi, con le scarpe rotte e consunte. Quando aveva finito, beveva il latte lasciato per lui, mangiava una fetta di torta d'avena e spariva di nuovo, lasciando tutto in uno stato di perfezione soprannaturale. Tom Coppins, il ragazzino dai grandi occhi neri, era sia allievo che servitore della Carlin: svolgeva le mansioni per le quali era necessario uscire di casa, l'aiutava a preparare i medicinali e le dava una mano nel curare i malanni e i guai della gente che veniva a bussare alla sua porta, che comprendevano ogni più diverso inconveniente, dalla cancrena alla tosse canina, alla zangola per il burro dove il burro non voleva saperne di formarsi, alla mucca che non faceva il latte, alle verruche. Se qualcuno veniva a chiedere un filtro d'amore, se ne andava a mani vuote ma con le orecchie che risuonavano di consigli salaci. Di tanto in tanto, Maeve usciva per recarsi dove il suo Bastone era piantato nel suolo e rientrava con le foglie e i frutti staccati da esso, che erano potenti medicine. Altre volte spariva nei boschi e non faceva ritorno per ore. La Carlin incoraggiava Imrhien ad allenare sempre più la voce. Era esilarante poter conversare liberamente: era una gioia, come se l'uccello della parola fosse stato liberato da una gabbia di ferro. Poco alla volta lei raccontò la propria storia, omettendo - per un senso di decoro, se non di vergogna per esser caduta preda di quell'amore così facilmente - la sua passione per Thorn. Quando il racconto fu finito, l'anziana donna sedette a sferruzzare sulla sua sedia a dondolo. («Mi piace tenere le mani occupate... senza contare che vedere una vecchia intenta a un innocuo lavoro a maglia tranquillizza la gente. Bada, però, che i miei ferri sono tutt'altro che innocui!» le aveva detto.) «Una storia interessante, anche se ne hai lasciata fuori una parte», commentò Maeve. La sua paziente si sentì arrossire. L'intuito della Carlin era sconcertante. «E così adesso hai tre desideri, eh? Non è vero? È in questo modo che di solito vanno le cose... yan, tan, tethera. No, non c'è bisogno che tu dica altro. Tu vuoi una storia d'amore, una famiglia e qualcosa di più... te lo leggo negli occhi. Ma attenta a non dimenticare il vecchio detto: Bada bene a ciò che desideri, perché...» «Perché cosa?» «Perché potrebbe avverarsi.» La Carlin completò una fila di punti a maglia e cambiò mano ai ferri, poi continuò: «Ora ascoltami. Io non so chi tu sia né come potrai ritrovare i
tuoi ricordi, però sento che questa casa, sin da cinque giorni fa, è sotto osservazione». «Sotto osservazione? Cosa vuoi dire?» «Voglio dire spiata, da spie che non sanno di essere spiate a loro volta... e poiché hanno cominciato a far questo non molto dopo il tuo arrivo, ne deduco che sei tu quella cui stanno dietro. Nessuno può oltrepassare la porta di questa casa senza il mio permesso: lo sanno tutti, perciò gli osservatori devono essere in attesa che tu esca. Cosa ne pensi di questo, eh? Sono tuoi amici che vogliono proteggerti o sono dei nemici?» Fu come un'improvvisa doccia d'acqua gelida, perché tutto ciò che era accaduto a Imrhien dopo il suo arrivo alla casa della Carlin le aveva fatto dimenticare il timore di essere pedinata. Quelle spie avrebbero potuto essere scagnozzi del Mago, il vendicativo ciarlatano di nome «Jackal» Korguth... ma più probabilmente si trattava degli uomini di Scalzo, che in qualche modo l'avevano rintracciata. Era stata seguita sino alla porta della Carlin! Se si erano spinti a tanto, attraversando Eldaraigne per cercarla - o se avevano mandato un messaggio via Corriere ai loro complici a Caermelor o, magari, alla Locanda della Corona e del Leone - allora erano senza dubbio decisi a catturarla prima che lei potesse giungere alla presenza del Re-Imperatore per riferirgli nei particolari la posizione della Scala d'Acqua. Il pericolo era grave: uomini disperati potevano ricorrere a mezzi disperati per impedirle di raggiungere la Città Reale. Gli occhi della Carlin erano intensi, fissi sulla sua ospite. «Come giudichi questi osservatori? Pesa bene la tua risposta, perché una decisione sbagliata potrebbe condurre al disastro. Ciò che accadrà dipende da ciò che tu dirai adesso... La tua lingua è nuova per te: usala con saggezza.» «Io credo che siano uomini malvagi», rispose lentamente la fanciulla. «Uomini che vogliono farmi del male; briganti guidati da un certo Scalzo, di Gilvaris Tarv, che ha ucciso i miei amici. Cercheranno d'impedirmi di arrivare a Corte.» «Può darsi che sia così e io non sono in grado di saperne di più. Se questo è vero, allora è pericoloso per te partire da qui senza protezione... Prevedendo questa necessità, ho già chiesto alla mia paziente, Whithiue, di prestarti il suo mantello di piume così che tu possa volare via sotto forma di cigno e rimandarmi il mantello in seguito... Non vorrà saperne di cederlo, naturalmente, però vale la pena di fare un tentativo: lei e il suo clan mi devono molti favori. Tuttavia ho anche un piano di riserva. Se quelli che ci
stanno spiando sono tuoi nemici, ti possono riconoscere dai capelli e dal nome, quindi il mio consiglio è questo: quando partirai per la Città Reale, non farlo come Imrhien Capelli d'Oro. Cambia identità.» I ferri da calza ticchettavano. Un gomitolo di cotone rotolò via e il lucertolone lo scrutò con lo sguardo della bestia nata per cacciare ma trattenuta da un'invincibile pigrizia. «Cambiarmi il nome?» «Be', questo non è il tuo nome, no? È solo uno pseudonimo che ti è stato dato e uno pseudonimo vale quanto un altro. Penserò a qualcosa di più adatto, se me ne dai il tempo... ma non puoi andare a Corte con quei capelli senza che ti notino. Per la Coillach, ragazza, ti rendi conto di quanto sia raro vedere dei talith? A Corte risiede soltanto una rappresentante di questa razza: Maiwenna, una cugina della famiglia reale di Avlantia, ormai estinta da tempo. Ci sono così pochi esseri umani col tuo colore di capelli che tutti li notano sempre. Le nobili feorh possono tentare di schiarirsi le trecce con misture vegetali o pozioni fatte dalle Carlin o dai Maghi ma non riescono mai a copiare l'oro talith... Le loro chiome decolorate sono come masse di erba secca. No, se vuoi passare inosservata devi cambiare sia il colore dei capelli che il nome... e, per buona misura, travestiti da vedova e tieni la faccia coperta.» «Ti darò ascolto, perché non so niente delle usanze della Corte del ReImperatore», disse Imrhien nel suo tono sussurrante. «Ma chi può riconoscere la faccia che ho adesso?» «Chi ti ha conosciuta in passato, probabilmente.» «Sarebbe meraviglioso! Potrei incontrare la mia gente, scoprire tutto!» «O forse no. Chi ti lasciò morire sotto la pioggia in un cespuglio di edera paradossa? Non gente che aveva a cuore i tuoi interessi, questo è certo. È più sicuro restare sconosciuta, almeno finché avrai consegnato il tuo messaggio al Re-Imperatore... e se non riuscirai a parlare con Sua Maestà in persona, sarai ugualmente ben tutelata confidandoti con Tamlain Conmor il capitano dei Dainnan - o con Thomas 'il Sincero' Learmont, il Bardo Reale: sono consiglieri più degni di chiunque altro in rutta Erith. Se riuscirai a lasciare la mia casa senza farti notare e raggiungere la Corte, sarai con ogni probabilità ricompensata generosamente, come puoi capire. Le monete d'oro potranno comprarti la sicurezza, almeno in una certa misura. Quando avrai fatto tutto questo e la tua missione sarà conclusa, allora avrai il modo di decidere se toglierti il velo da vedova, mostrare la tua faccia e rischiare rutto ciò che significa essere Imrhien Capelli d'Oro.»
«C'è del buonsenso in ciò che dici», ammise la fanciulla. «Naturalmente. Se tu possedessi il lume della ragione ci avresti pensato da sola... ma credo che tu lo abbia perduto in quello specchio. A proposito, ti rendi conto di parlare con un accento straniero?» «Straniero? Suppongo sia talith.» «No. È diverso da ogni dialetto che io abbia mai sentito.» «Che io sia una faêran? Si dice che vivano per sempre...» La Carlin ridacchiò, com'era da lei. «No, non fai certo parte del Popolo. Non che io abbia mai visto uno di loro... ma in te non c'è niente del potere di gramarye. Se ci fosse, lo sapresti. Tu sei mortale come ogni uccello o bestia o persona lorraly: nessuno del Popolo Fatato si sarebbe cacciato nei guai come hai fatto tu. Eppure il tuo modo di parlare non appartiene a nessun regno Erith. Il tuo accento è sconosciuto.» «Il Cerchio delle Tempeste che gira intorno al bordo del mondo... c'è qualcosa al di là di esso?» «Lascia che ti dica qualcosa del mondo. Alcuni affermano che non sia un mezzo globo ma un globo completo, circondato dal Cerchio delle Tempeste che divide Erith dalla metà settentrionale. È per questo che il mondo ha due nomi: Erith per le Terre Conosciute e Aia per tutti e tre i reami, che comprendono le Terre Conosciute, le regioni ignote oltre il Cerchio delle Tempeste e il Reame Fatato. Di questi tre reami, soltanto Erith è aperto per noi. Molti hanno dimenticato il Reame Fatato e alcuni credono addirittura che non esista affatto; la gente presta fede solo a ciò che può vedere. È convinzione comune, inoltre, che oltre il Cerchio delle Tempeste non ci sia niente, perché esso segna il confine del mondo e se noi tentassimo di superarlo, precipiteremmo in un abisso.» «Può darsi che ci sia un passaggio di qualche genere attraverso il Cerchio delle Tempeste.» «Può darsi. Molti hanno tentato di trovarlo ma i venti shang e le bufere sono troppo forti per i navigatori. I confini del Cerchio delle Tempeste sono punteggiati dai relitti delle Navi d'Acqua.» «Può darsi che dall'altra parte, da una terra dove la gente parla in modo diverso, ci sia una strada che conduce a Erith...» «Troppi 'può darsi'. Pensiamo alla tua situazione.» «Sì! Signora Maeve, sono preoccupata per la tua sicurezza. Se io partissi sotto falsa identità, le spie penserebbero che Imrhien Capelli d'Oro abiti ancora qui e potrebbero continuare a spiare per un po'... sino a stancarsi e decidere di assalire la tua casa.»
«Una buona ipotesi.» Maeve si picchiettò distrattamente un orecchio con un ferro da calza. «Ah, ma se credessero di vedere Imrhien che se ne va e la seguissero, salvo poi scoprire che era uno specchietto per le allodole... e se, tornati di corsa qui, non trovassero più traccia di lei... allora penserebbero che sia fuggita durante la loro assenza. Altroché se lo penserebbero! Un piano eccellente... No, non fare domande, ben presto ti sarà tutto chiaro. Nel frattempo sarà meglio che io svegli Tom: deve fare delle commissioni per me, a Caermelor. Ci servirà del denaro per mettere in atto questo piano. Tu quanto ne hai?» «Signora, ti prego di accettare le mie scuse. Le tue parole mi ricordano che devo pagarti per avermi curata, nonché per il vitto e l'alloggio. Qual è la tua tariffa?» «La mia tariffa è quella che chi riceve i miei servizi è preparato a pagare», rispose la Carlin, scoccandole uno sguardo intenso con l'unico occhio. «Ciò che tu mi hai dato ha un valore incommensurabile, più di tutti i tesori del mondo.» «Te l'ho dato io oppure era già tuo di diritto? Aspetta a ringraziarmi finché avrai vissuto con la tua nuova faccia per un ciclo lunare o due. Allora saprai se ti piacerà.» «Non potrò che esserne felice!» «Ha! La misura della felicità è la differenza tra quello che ti aspetti e quello che accade. Non dipende da ciò che si possiede, bensì da quanto si è contenti di ciò che si ha.» Imrhien estrasse la sua borsa di pelle. Aveva lasciato le perle nella cesta della biancheria di Silken Janet e aveva dato i rubini a Diarmid e Muirne, però le restavano altre due gemme e alcune monete d'oro e d'argento, salvate quando si era separata dalla carovana. Sparse quello scintillante insieme di pietre e metallo davanti alla Carlin. Maeve la Guercia gettò indietro la testa e rise. «Mia cara, non sopravvivrai a lungo nel mondo che ti aspetta se fai cose di questo genere. Non sai proprio nulla del baratto? Che ingenua! Come pensi di poter vivere in città, senza denaro da spendere? Prenderò questo.» Si piegò in avanti e raccolse lo zaffiro. «Il fango di Monte Baelfire è costoso e, per giunta, l'azzurro è il colore della mia sorellanza, lo stesso dell'ombra invernale degli alti ghiacciai e delle fredde sorgenti sotto il cielo. Lascia lo smeraldo fuori dalla borsa... è di grande valore e ne ricaveremo un buon prezzo. Sarà necessario venderlo per pagare gli acquisti che Tom farà per te a Caermelor. Metti via le sovrane e i dobloni e quel po' d'argen-
to: ti serviranno, un giorno o l'altro. Sii prudente quando mostrerai le tue ricchezze... di me ti puoi fidare ma non tutti sono onesti come Maeve la Guercia!» I folti capelli bianchi della Carlin tremolarono come un nido di corvo incrostato di brina - e, in effetti, la sua ospite sospettava che fossero abitati da qualche suo animaletto domestico - quando lei si appoggiò allo schienale della sedia, ridacchiando. I ferri da calza ripresero il loro clic-clac. «Come tutti i talith, hai ciglia e sopracciglia scure... non avrò bisogno di tingerle. Di che colore vuoi i capelli? Neri? Castani?» «Rossi.» «Una scelta astuta. Nessuno penserebbe mai che una bionda possa scegliere il colore degli ertish, così crederanno che tu sia di sangue finvarnano. Non t'importerà di essere disprezzata come una barbara nei circoli della Corte?» «Ne ho avuto anche troppo, di disprezzo! Sono stata disprezzata abbastanza per venti vite. Non rossi, allora... Qual è la moda a Corte?» «Neri o biondo paglia, a parte gli Uomini dei Ghiacci che vivono in città. I loro capelli bianchi non tengono la tinta e loro, comunque, non desiderano nasconderli, poiché sono una razza orgogliosa.» «Sembra che dovrò scegliere il nero. Ma non starò molto a Corte... solo il tempo necessario a riferire ciò che devo, poi me ne andrò.» Solo il tempo necessario a trovare una certa persona. «Non esserne così sicura. Potresti non ottenere subito udienza dal ReImperatore. Lui ha molto da fare, specialmente in questo periodo, con la strana agitazione che c'è nel nord. Essendo una forestiera, sarai considerata poco importante e lasciata aspettare... forse per settimane, anche se per questa tua missione io ti trasformerò in una lady. Se raggiungerai Caermelor senza problemi e avrai il permesso di oltrepassare le porte del palazzo, potrai dover attendere a lungo... e quando, infine, ti sarà concessa un'udienza, il passo successivo sarà la verifica delle notizie che porti. Potrebbero chiederti di condurli al tesoro.» La Carlin interruppe il lavoro a maglia e lo sollevò per esaminarlo controluce. «Un punto curvo, uno dritto, uno a frangia», commentò. Con aria pensosa, si appoggiò il lavoro in grembo. «Dunque. Hai bisogno di un nome.» Mormorò il ritornello di una canzone. «Ce l'ho! Rohain. Ha un suono un po' severnessiano, però ti si addice. Dovrai dire che vieni da un posto lontano e poco conosciuto, così ci saranno scarse probabilità d'imbatterti in una persona che venga di laggiù e possa smascherarti. Le Isole Sorrows,
oltre Severnesse, fanno al caso nostro... sono malinconiche, evitate da chiunque possa fare a meno di andarci. Tarrenys è un cognome tipico di quella zona. Sì... ci siamo. Ha! Tu sarai Rohain Tarrenys... Di' addio a Imrhien Capelli d'Oro, Lady Rohain delle Isole Sorrows.» «Dovrò essere una dama? Non so nulla dei modi dell'alta società. Sarò smascherata in men che non si dica.» «Tu sottovaluti la tua abilità. Prestami attenzione. Se la moglie di un contadino arrivasse a palazzo raccontando di aver scoperto una grande ricchezza, rischierebbe la vita. A Corte c'è gente che non ha gli scrupoli dei Duchi di Erdldoune e di Roxburgh... gente che vorrebbe per sé il merito di una simile scoperta e che sarebbe capace di chiudere per sempre la bocca all'incauta messaggera. Probabilmente una donna del popolo non otterrebbe neppure il permesso di parlare ai Duchi... la indurrebbero a raccontare la sua storia e la manderebbero via con pochi pennies di ricompensa, salvo poi seguirla, tenderle un agguato e ucciderla. Una nobildonna, invece, verrebbe trattata assai più degnamente.» «Chi, a Corte, potrebbe essere così perfido?» «Non tarderai a capirlo», disse bruscamente Maeve. Cambiò argomento. «Hai un tilhal potente, per proteggerti lungo la strada?» «Ho una pietra con un foro naturale. Me l'ha data Ethlinn.» «È un buon talismano», sentenziò la Carlin, esaminando la pietra con uno sguardo obliquo. «Potresti averne bisogno. Molte creature maligne venute da oltre i confini vagabondano per le strade, in questi giorni. Senza dubbio lo avrai saputo... si dice che un capo bandito di Namarre sia diventato così forte da arruolare creature eldritch tra le sue schiere e nessuno ha potuto smentire che una tale alleanza, inaudita da orecchie mortali, si stia formando in quelle regioni nordiche. Con un esercito di barbari senza legge supportato da orde di unseelie, un Mago così potente da soggiogare quelle creature sarebbe un avversario temibile. Un esercito di questo genere avrebbe buone probabilità di rovesciare l'Impero e conquistare il potere in Erith e se questo dovesse accadere, tutte le terre sarebbero precipitate nel caos. Sarebbe la fine dei lunghi anni di pace che abbiamo conosciuto.» Un brivido scosse la sua ascoltatrice. «Questi sono tempi difficili», continuò la Carlin, scuotendo il capo. «Certe creature eldritch che non si erano fatte vedere per molte generazioni mortali sono ricomparse, di recente. Non molto tempo fa ho udito voci secondo le quali Yallery Brown sarebbe stato rivisto.» Restituì l'amuleto alla sua proprietaria.
«Di chi si tratta?» domandò la fanciulla, infilandosi di nuovo la pietra nella scollatura. «Yallery Brown? È uno dei peggiori unseelie che siano mai esistiti, così maligno che è pericoloso persino trattarlo da amico. Non hai mai sentito la storia dello sventurato Harry Millbeck, il fratello del bis-bisnonno del sindaco di Rigspindle?» «Ho sentito molte storie ma non questa. Ti prego, raccontamela!» «Faceva il contadino in un grosso podere, questo Harry», disse Maeve. «Una sera d'estate, molto tempo fa, stava rincasando dal lavoro per una stradicciola che attraversava i campi cosparsi di margherite e denti di leone, quando udì un gemito angoscioso, simile al pianto di un bambino smarrito. Si guardò intorno per scoprire chi era a lamentarsi così e, alla fine, si avvide che i gemiti venivano da sotto una larga pietra piatta, mezzo sepolta tra il fango e le erbacce secche. Quella roccia aveva un nome, nel distretto: a memoria d'uomo si era sempre chiamata la Pietra dello Straniero e la gente preferiva evitarla. «Harry ne fu spaventatissimo; i gemiti, tuttavia, erano davvero strazianti e lui, essendo un uomo di animo gentile, non riuscì a indurire il suo cuore e andarsene senza offrire il suo aiuto a quello che poteva essere un bambino disperato. Con gran lavoro e fatica riuscì a sollevare la Pietra dello Straniero e laggiù, sotto di essa, trovò una piccola creatura non più alta di un bimbetto la quale, tuttavia, non era un bambino... anzi, aveva l'aspetto di qualcosa di vecchio - molto più vecchio di quanto fosse naturale - perché era tutta raggrinzita e aveva barba e chiome così lunghe da esserne avvolta da capo a piedi. I suoi capelli e i baffi erano gialli come i fiori del dente di leone e morbidi quanto i ciuffi dei cardi ma la faccia, screpolata come corteccia, era color terra d'ombra e in mezzo a quelle rughe due occhi acuti guardavano all'insù, simili a chicchi d'uva nera. Dopo l'iniziale stupore per la sua liberazione, la creatura apparve deliziata. «'Harry, sei proprio un bravo ragazzo', squittì. «Conosce il mio nome! Di certo questa cosa è un bogle, pensò Harry e si toccò rispettosamente il cappello, sforzandosi di nascondere il terrore. «'Macché', disse subito il piccolo essere. 'Non sono un bogle ma tu farai meglio a non chiedermi cosa sono. Tuttavia mi hai reso un servizio più grande di quanto tu possa immaginare, perciò sono ben disposto verso di te.' «Harry rabbrividì e le ginocchia gli tremarono quando si accorse che quell'essere stregato poteva leggere i pensieri inespressi e dovette fare ap-
pello a tutto il proprio coraggio. «'Ora ti farò un regalo', disse l'altro. 'Cosa ti piacerebbe di più: una moglie robusta e ben fatta o una pignatta colma di monete d'oro?' «'Nessuna delle due cose m'interessa molto, vostro onore', rispose Harry, più educatamente che poté. 'Però ho sempre dei dolori alla schiena e alle spalle. Il lavoro in fabbrica è troppo pesante per me; ti sarei grato se tu mi aiutassi in questo. «'Ascoltami bene: non devi mai ringraziarmi', disse il piccolo individuo, con una smorfia sgradevole. 'Io farò il lavoro al tuo posto e lo svolgerò bene ma se mi rivolgerai una sola parola di ringraziamento non alzerò più un dito per te. Se vorrai vedermi, chiamami così: 'Yallery Brown, da sotto la pietra, vieni da me!' e io sarò lì.' Detto questo, raccolse un dente di leone, soffiò i semi piumosi negli occhi di Harry e scomparve. «Il mattino dopo Harry non riusciva a credere a ciò che gli era successo, tanto che sospettò di aver sognato. Si recò al podere come al solito ma, quando vi giunse, trovò che il suo lavoro era già stato fatto e finito e che lui non aveva bisogno di far nulla. La stessa cosa accadde nei giorni successivi: per quanti incarichi venissero assegnati a Harry, Yallery Brown li completava in un batter d'occhio. «Dapprima Harry se ne rallegrò, pensando che la sua vita sarebbe trascorsa nell'ozio come quella di un nobile; dopo un po', però, vide che le cose non andavano poi tanto bene per lui perché, sebbene il suo compito fosse svolto egregiamente, i lavori di tutti gli altri manovali venivano rovinati o distrutti... finché alcuni suoi colleghi videro per caso Yallery Brown che sfrecciava avanti e indietro nel podere durante la notte e accusarono Harry di aver evocato quell'eldritch wight. Con le loro lamentele e le proteste al padrone, essi resero infelice e miserabile la sua vita. «'Sistemerò io questa faccenda', si disse Harry. 'Farò il mio lavoro da solo e non sarò più in debito con Yallery Brown.' «Ma non importava quanto presto lui si recasse al podere, perché prima che ci arrivasse il suo lavoro era già stato fatto. Inoltre, nessun attrezzo o strumento voleva restare nelle sue mani: la vanga gli scivolava via dalle dita, l'aratro si spostava fuori dalla sua portata e la zappa lo sfuggiva. Gli altri uomini scoprirono che Harry cercava di fare il loro lavoro ma, per quanto provasse, non poteva svolgerlo perché tutto gli andava storto, così essi lo accusarono di sabotarli deliberatamente. «Alla fine le proteste degli altri uomini diventarono tanto frequenti che il padrone lo licenziò e lui se ne tornò a casa rosso di rabbia, fumando al
pensiero di come Yallery Brown lo aveva trattato. Nel distretto circolò la voce che Harry Millbeck era un piantagrane e nessun fattore volle più assumerlo: senza il modo di sbarcare il lunario, Harry sprofondò nella miseria più nera. «'Devo liberarmi di quell'essere diabolico, altrimenti mi ridurrò a chiedere l'elemosina per strada', grugnì. Così andò nei campi fuori dal paese e chiamò: 'Yallery Brown, da sotto la pietra, vieni da me!' «Aveva appena finito di dirlo che qualcosa gli punse una gamba da dietro: era quel piccolo essere coi cespugliosi capelli gialli, con la faccia simile a corteccia marrone e con gli occhi scuri come chicchi d'uva. Puntandogli addosso un dito accusatore, Harry gridò: 'Quello che mi hai fatto è un cattivo servizio e non mi porta nessun beneficio. Io ti ringrazio, però adesso vattene via e lascia che faccia il mio lavoro da solo!' «A quelle parole, Yallery Brown rise acutamente e strillò: 'Mi hai appena ringraziato, sciocco mortale! Mi hai ringraziato e io ti avevo avvertito di non farlo!' «Irritato, Harry sbottò: 'Io non voglio avere più nulla a che fare con te! Bella sorta d'aiuto che mi hai dato! Non voglio più niente da te, da oggi in poi!' «'E non avrai niente', disse Yallery Brown. 'Ma se non potrò aiutare, potrò ostacolare.' E cominciò a correre in un forsennato girotondo intorno a Harry, cantando: Lavora quanto vuoi, mai bene lo farai. Fatica finché puoi, mai soldo ne trarrai. Così Yallery Brown, che avevi liberato da sotto quella pietra, ti ha ora affatturato. «E nel cantare in quel modo roteava su se stesso, coi capelli e la barba che vorticavano al punto da sembrare la testa pelosa di un gigantesco cardo che stesse per disperdere i semi... Poi quella sfera di peluria esplose, disgregandosi nell'aria. Harry non vide mai più Yallery Brown. «Egli fu però consapevole della maligna presenza di quell'essere stregato per tutta la vita: lo sentiva opporsi a lui in ogni cosa alla quale metteva mano. In seguito a quei fatti, niente andò più bene per il povero Harry Millbeck. Per quanto lavorasse sodo, non riuscì a trarne nessun profitto e la malasorte era in tutto ciò che toccava. Fino al giorno della sua morte, Yallery Brown non smise mai di farlo tribolare e sempre continuò a echeg-
giargli nella testa la canzoncina di quella creatura: Così Yallery Brown, che avevi liberato da sotto quella pietra, ti ha ora affatturato...» «Che terribile ingiustizia!» esclamò la giovane donna. «Già», disse Maeve. «È così che agiscono le creature unseelie e quella è una delle più malefiche.» La Carlin diede istruzioni dettagliate a Tom Coppins, che partì per Caermelor a dorso di pony e fece ritorno tre giorni dopo, carico di pacchi. «Perché ci hai messo tanto?» domandò Maeve, spazientita. «Ho dovuto contrattare.» «Mmm... Spero che tu non ti sia fatto raggirare da quegli sciacalli di commercianti! Quanto hai avuto per lo smeraldo?» «Dodici ghinee, otto scellini e otto pence.» «E cos'hai acquistato con quella somma?» «Scarpe, vestiti e le cosette che avevi chiesto. Ho anche affittato una carrozza, che sarà in attesa al posto giusto e al momento stabilito.» «Bene. Tieni mezza corona e consegna il resto alla mia nobile ospite, Lady Rohain delle Sorrows.» Tom Coppins era abituato ad accettare senza fare commenti i fatti più curiosi: che una bionda creatura dalla faccia mostruosa entrasse nel casolare e ne uscisse trasformata, non era più strano di altre cose che aveva visto stando al servizio di Maeve. Amava la vecchia Carlin con devozione incrollabile; avrebbe cercato ciò di cui ella aveva bisogno e fatto qualunque cosa ella avesse chiesto, senza obiettare. Era un ragazzo astuto e generoso. Da quando lavorava per Maeve aveva imparato a vedere oltre il suo aspetto di semplice donna anziana, quello che lei presentava al mondo. Era stato testimone della grande dignità della Carlin e dei suoi non indifferenti poteri. Quella notte, Tom lavò i capelli di Imrhien-Rohain con un mordente a base di estratto di salice. Inzuppò e schiacciò in un mortaio delle radici di iris fino a ridurle in poltiglia, poi tinse i capelli e li bagnò di nuovo col mordente, come Janet aveva fatto per Diarmid nella valle delle rose. La fanciulla dai capelli neri scosse le lunghe trecce davanti al fuoco per asciugarle. Gli occhi della ragazza-cigno brillavano nell'ombra. Maeve portò una ciotola di cibo alla eldritch in forma umana e le parlò a bassa voce in una lingua straniera.
Il mattino dopo, all'uhta, la ragazza-cigno se ne andò. Prima che uscisse, Imrhien-Rohain la vide stagliarsi sulla soglia, immobile, con il viso attraente e le snelle braccia candide contro il nero sfondo del mantello e dei capelli. L'amabile creatura offrì una singola penna nera a Maeve, poi scivolò fuori dalla porta e scomparve. Un momento dopo, con un energico rumore di aria smossa, scure ali si alzarono oltre il tetto della casa e si udì un richiamo dolente, lamentoso, cui un altro rispose da lontano. Maeve era rimasta sulla soglia, col volto alzato al cielo. «Si riunirà al suo stormo, su un remoto lago di montagna», disse infine. «Non può sopportare di restare chiusa a lungo tra quattro mura. Il suo braccio non è ancora guarito completamente ma potrebbe tornare per altre cure, ogni tanto, finché lo sarà. Loro sanno sempre come rintracciarmi nei miei vagabondaggi. E presto dovrò andare altrove... sono rimasta qui anche troppo e Imbroltide si avvicina.» Considerò pensosamente la lunga penna nera, poi l'avvolse in una pezza di lino. «Ormai mancano solo sedici giorni alla fine dell'anno, il giorno più importante di tutti... quello del Piccolo Sole. C'è molto da fare.» Guardò con occhi ardenti la sua visitatrice. «Porta con te questa penna di cigno. Le creature-cigno a volte ne offrono una come pagamento: quando il portatore della penna ne ha bisogno, il cigno lo aiuta... ma solo una volta. Il nome con cui potrai chiamarla ha potere solo per la durata del bitterbynde ed è Whithiue. Questo è un dono di grande valore.» Un bitterbynde. Imrhien-Rohain ricordava di aver sentito quella parola quando ancora abitava nella dimora dei Cavalieri della Tempesta. Il fidanzamento di una figlia di quel casato, Persefonae, era stato deciso il giorno della nascita di lei: un voto - un legame - imposto a una persona, volente o nolente che fosse; un decreto la cui rottura comportava aspre sanzioni e che richiedeva condizioni ferree e quasi impossibili per la sua rimozione. Quello era un bitterbynde... Nel caso della ragazza-cigno, esso la costringeva ad accorrere in aiuto di chiunque avesse la penna e la chiamasse. «Ora è il tuo turno di andare», dichiarò con serietà Maeve, mettendo l'involto di lino tra le mani di Imrhien-Rohain. Fu così che il quindici di Nethilmis, prima dello spuntare del giorno, una figura ammantata e incappucciata che montava in sella al modo femminile si allontanò al trotto rapido dal casolare di Maeve. Grappoli di stelle bianche si aggrappavano ai rami degli alberi spogli e la Grande Stella del Sud
era una foglia verde e luminosa tra di loro. Pallide catene di nebbia legavano i piedi degli alberi; foglie e ramoscelli sembravano scolpiti nella pietra. La figura sul pony, goffa e incerta, continuava a gettare intorno sguardi inquieti. La sua lunga veste s'impigliava nella staffa ma lei non cessava d'incitare il piccolo animale, come spinta da una gran fretta. Non lontano dall'abitazione della Carlin, alcuni loschi individui spuntarono dagli alberi, alle spalle del quadrupede che si allontanava. La figura si voltò a guardare alle proprie spalle e lanciò un grido acuto, poi - con sorprendente agilità passò una gamba sopra la groppa del pony per cavalcare all'amazzone e lo spronò al galoppo. Mentre l'animale accelerava tra le ombre antelucane, i loschi figuri corsero fuori dal bosco portandosi dietro i loro cavalli dagli zoccoli fasciati e, senza por tempo in mezzo, si lanciarono in un vigoroso inseguimento. Il pony, benché più rapido di quanto lo fossero di solito gli animali della sua razza, non poteva eguagliare le lunghe falcate dei cavalli; tuttavia per un poco sembrò quasi che gli inseguitori non volessero raggiungerlo, preferendo seguire a distanza la preda per prendere tempo. All'improvviso, dietro una svolta, furono costretti a tirare le redini così bruscamente che i loro cavalli scartarono e s'impennarono, nitrendo per l'indignazione: il pony si era fermato proprio davanti a essi. La figura che gli stava in groppa gettò indietro il cappuccio, rivelando il volto di un ragazzo dagli occhi neri. Questi immerse una mano in tasca e ne cavò una manciata di polvere, che esplose in faccia ai suoi inseguitori con un fulgido lampo e una roteante nuvola di fumo. Quando costoro riuscirono finalmente a liberarsi di quella fitta nebbia, il ragazzo e il pony erano spariti. Gli inseguitori tornarono indietro, cavalcando con furia selvaggia... ma allorché giunsero di nuovo alla casa della Carlin trovarono porte e finestre spalancate, buie. Dal camino non usciva più fumo. Il posto era deserto e ogni traccia ormai fredda. Un quarto di luna danzava nel firmamento. La Grande Stella del Sud era uno smeraldo incastonato nell'onice e lacrime di stelle cadenti solcavano la faccia del cielo. Imrhien-Rohain correva lungo un sentiero tra i boschi diretto a nordovest, stringendo forte la borsa affinché le monete non tintinnassero. Aveva il vantaggio di essere partita di soppiatto e portava con sé un potente tilhal di Maeve contro le insidie delle creature notturne rintanate nei dintorni di White Down Rory. Aveva lasciato cadere dietro di sé un talismano
di smarrimento per confondere ogni mortale che fosse passato da lì e un temporaneo groviglio di rami chiudeva l'inizio del sentiero che si addentrava nel bosco, per celarne l'esistenza. Nonostante queste precauzioni, però, il terrore le faceva battere forte il cuore mentre lei fuggiva tra gli alberi neri. Il sentiero brillava, così chiaro e nitido da sembrare incantato; nessuna radice le insidiava i piedi, nessun ramo le si frapponeva dinanzi al viso. Senza mai sostare, la ragazza si affrettò ulteriormente, continuando a guardarsi intorno come se i misteriosi cavalieri che avevano sorvegliato il casolare potessero sbucare fuori dalle tenebre. Alla fine, col fiato mozzo, rallentò l'andatura del cavallo a un passo svelto. Le monete ricavate dallo smeraldo erano state ben spese: Rohain delle Isole Sorrows, un'elegante dama, sarebbe diventata vedova appena si fosse allacciata sul viso la mascherina di seta per celare la propria espressione luttuosa, come usavano fare le donne in gramaglie. Dalle vesti e dagli ornamenti che indossava, poteva passare per una vedova di nobile rango e considerevoli mezzi finanziari. Il suo domino di seta - blu come la notte era ricamato di filo scarlatto intorno agli ovali degli occhi e bordato di pizzo e piccole spille di perle le scintillavano tra i lunghi capelli neri. Larghi orli di merletto azzurro, rosso e blu le arricchivano il corpetto dell'abito e s'incurvavano intorno al bordo inferiore della gonna, gonfiata da numerose sottane di trine; alla vita aveva una cintura di pelle cremisi, filigranata in argento. Un lungo mantello da viaggio, con gli orli di pelliccia e alamari nella parte anteriore, copriva tutto quel tessuto pregiato. Il cappuccio del mantello, in velluto e pelliccia più chiara, era tenuto stretto da una piatta fibbia di giada. Trascorsero le ore mentre la ragazza proseguiva verso nord. Un leggero mormorio la raggiunse, come quello della brezza tra i cespugli autunnali: lei pensò che era strano, perché non c'era vento e tutt'intorno i rami dei cespugli si stagliavano immobili e neri nella luce lunare. Poi una figura alta e pallida apparve su un percorso parallelo al suo, un eldritch di qualche genere dalla forma quasi umana. L'essere mugolò piano e, poco dopo, scomparve ma il sussurro di foglie cadute si udiva ancora. All'improvviso la luna brillò più luminosa e il rumore cambiò, trasformandosi in un mormorio di risate e di parole allegre che continuò per qualche minuto e poi svanì. A livello del terreno, tra le radici degli alberi, c'erano delle minuscole luci in movimento. Il sentiero s'inerpicò su per un'ultima altura e sbucò finalmente sulla Strada per Caermelor, mentre il cielo cominciava a schia-
rirsi. Più avanti - accanto a una pietra miliare, sul lato sinistro della strada c'era la carrozza in attesa, con le sue lampade che risplendevano come fiori di ambra. Il respiro dei cavalli era una nebbia d'argento nell'aria gelida del mattino. Il cocchiere era stato lautamente pagato in anticipo, con l'accordo che il suo servizio avrebbe dovuto essere discreto... Ciò non significava che la sua nobile passeggera avesse avuto un incontro clandestino nei boschi con un bucolico amante, ma solo che desiderava riservatezza e niente domande. Se l'uomo l'avesse accontentata, il compenso che avrebbe ricevuto al termine del viaggio sarebbe stato superiore all'anticipo. Quando vide una snella figura ammantata materializzarsi dalle ombre, silenziosa come una falena, l'uomo s'inchinò. «Vostra signoria.» Il nome di lei gli era ignoto. La giovane donna annuì. Lui non riuscì a vederle il viso, celato dal cappuccio. Dopo averla aiutata a salire a bordo, il cocchiere sedette nel suo abitacolo e scosse le redini. Il rauco «Giddap!» che gridò ai cavalli incrinò il silenzio dell'alba. Con un brusco scossone, il veicolo si mosse e prese velocità lungo la Strada di Caermelor. Nella carrozza l'aspettavano alcune leggere scatole di legno: con un senso d'eccitazione, la passeggera le aprì. Una era piena di dolcetti e rinfreschi per il viaggio; in un'altra c'era il più ridicolo cappello che avesse mai visto, quella accanto conteneva un assurdo paio di scarpe e nella quarta trovò un manicotto di ermellino e un paio di guanti. Muovendosi con qualche difficoltà nella piccola cabina ingombra, la «vedova» indossò anche quegli articoli. Il cappello era composto da un cilindro di tessuto rigido al cui nastro erano fissate piume color carminio e fiori d'organza argentata. Era ornato da una coroncina appuntita, racchiusa in uno strato di garza azzurra. Aggiunto alle fragili scarpette, alle maniche voluminose, al rigido tessuto incrostato di ricami dell'abito e alla larga cintura che le rendeva difficile piegarsi in avanti - per non dire di quell'ampia tesa che le avrebbe impedito di avvicinarsi a un muro - costituiva un insieme ingombrante e poco pratico, non solo per un viaggio ma per la normale attività di ogni giorno. Capi di vestiario così elaborati l'avrebbero ostacolata durante le più semplici faccende... Possibile che la moda di Corte fosse quella? E se la sua benefattrice e il ragazzo avessero commesso qualche ingenuo sbaglio? Ma scacciò subito
quel pensiero: niente sfuggiva all'attenzione della Carlin... l'abbigliamento sarebbe stato perfetto. Urtò coi calcagni un oggetto pesante: uno scaldapiedi. Tom Coppins aveva pensato proprio a tutto! Racchiuso in una cassetta di legno riccamente intagliata, il braciere d'ottone dal coperchio costellato di fessure emanava il gradevole calore delle braci contenute nel suo ventre. La passeggera vi appoggiò sopra i piedi e si rilassò contro il morbido schienale rivestito in pelle. Tuttavia la neonata Rohain non riusciva a godersi le comodità di quell'insolito modo di viaggiare. Si augurò fervidamente che tutto ciò che aveva udito raccontare della Corte fosse esagerato: le maniere raffinate, le complicate regole dell'etichetta, le formalità della conversazione... Tra la paura che i suoi nemici raggiungessero la carrozza, la preoccupazione per ciò che l'aspettava e la continua battaglia col cappello che minacciava di caderle, fu assillata sin dall'inizio da pensieri foschi e allarmanti. La carrozza viaggiò per lunghe ore nella fredda aria invernale. Le giornate erano brevi. Allo zenit del suo arco celeste, il sole non si era alzato di molto sopra l'orizzonte e riluceva dietro un cupo sipario di nuvole. Una volta uscita dai boschi, la strada attraversava una piatta campagna coltivata, i cui campi erano bordati di siepi; qua e là, case coloniche irte di camini fumanti si annidavano in mezzo ad altri piccoli edifici. Dopo essere passata per un paio di villaggi periferici, la strada cominciò a salire verso i bastioni della città. Le case di Caermelor s'infittivano lungo i versanti di una collina interamente cinta da mura, che si alzava fino a quattrocento piedi sul mare al termine di una breve penisola. A meridione le correnti avevano divorato un'ampia fetta di territorio, formando una baia orlata di sabbie bianche. Il lato più lontano della baia era chiuso tra le braccia di una cresta montuosa che si spingeva sin nell'oceano, formando un'altra e assai più frastagliata penisola coperta di fitta boscaglia. A oriente si apriva una larga valle pianeggiante. Al centro scorreva il fiume, che raccoglieva le acque delle alture circostanti e sfociava sulla costa a nord della città: laggiù, le maree salmastre aggredivano le fredde acque dolci. Il fondale dell'estuario era sufficiente a consentire l'ingresso delle pesanti Navi d'Acqua dalla chiglia panciuta. Moli, banchine, calate, imbarcaderi e passerelle sporgevano lungo il fianco settentrionale della città-collina, sovrastando le acque torbide su robuste zampe incrostate
d'alghe. Il palazzo, situato nel punto più alto del promontorio, troneggiava sull'intero panorama: la grande distesa dell'oceano a ovest, la curva della baia con le sue lunghe linee di frangenti schiumosi, i contrafforti azzurrini dell'altura a picco sul mare. A nord-est la costa digradava sino a una catena di montagne velate di foschia. Il porto era una foresta di alberi oscillanti, dove ferveva ogni attività; a oriente, la periferia della città si allungava nell'entroterra pianeggiante e si diradava sempre più, sino alle fattorie ai piedi delle colline del Doundelding, stagliate sull'orizzonte. Ma il nudo oceano non era tutto ciò che si poteva scorgere a occidente, perché a un quarto di miglio dalla riva sorgeva una piccola isola, proprio di fronte alla città-collina; con la bassa marea, le acque si ritiravano dalla strada soprelevata che la univa alla terraferma e che in ogni altro momento del giorno restava del rutto sommersa. Sull'isola sorgeva il Castello Vecchio che vi riposava come un granchio: cupo, grigiastro e diroccato. Secoli addietro, gli abitanti della città si erano rifugiati in quella fortezza in tempo di guerra... Ora campeggiava laggiù - solida sentinella, silenzioso guardiano - dirimpetto al palazzo in cima alla collina. Nel tardo pomeriggio, finalmente, la carrozza si arrestò davanti alla porta delle mura cittadine. Alcuni colpetti furono bussati sulla parete anteriore della cabina e Irarhien-Rohain sollevò la finestrella scorrevole che dava sull'abitacolo del cocchiere. Apparvero gli occhi di lui, strabuzzati come quelli di un pesce. «Ora dove andiamo, milady?» «A palazzo.» La sua nuova voce aveva assunto una tonalità nitida e cristallina. «Molto bene, milady.» Lei calò la finestrella, come una ghigliottina che tagliasse fuori il mondo esterno. Le guardie di servizio alla porta scambiarono qualche parola col cocchiere e sbirciarono con curiosità la passeggera dai finestrini laterali mentre il veicolo passava oltre. Irnrhien-Rohain chiuse le tendine per evitare altre intrusioni. All'esterno s'intrecciavano voci vicine e lontane, rumori di ruote sul selciato, strida di gabbiani. Dei ragazzini strillavano. Con la sua voce tonante, un araldo cittadino stava gridando: «Udite! Udite!» Finalmente era arrivata a Caermelor.
2 CAERMELOR, PARTE PRIMA MODA E VANITÀ
Garrule fonti cantano tra le mura gloriose, dove tralci s'arrampican di sfolgoranti rose. Fan la ruota i pavoni su aiuole profumate, e trillan gli usignoli nelle gabbie dorate. Carrozze da destrieri trainate con ardore passano in mezzo al fasto e allo splendore, fra stagni limpidi dove nuotano i cigni specchiandosi nell'acqua come sogni. Dame sofisticate, coi loro ammiratori, su marmoree terrazze parlan dei loro amori. La notte le vedrà danzare spensierate quando al ballo di gala saranno corteggiate. Preziose gioie brillan sugli abiti eleganti, perle, zaffiri, corniole, castoni di diamanti. Le più rare pellicce, piume, pizzi e collane ornan Duchesse e dame, attrici e cortigiane. Abbondan l'arte, il lusso, ogni prodotto agreste; dolci musiche allietano dei nobili le feste. Le bellezze più rare e di maggior valore si trovano alla corte del gran Re-Imperatore. Canzone in voga alla Corte di Caermelor Il palazzo di Caermelor era stato costruito, in origine, per essere un castello inespugnabile e manteneva tuttora le sue difese esterne: torri di guardia merlate, torri munite contro le macchine da assedio, il poderoso maschio, le bertesche d'angolo, la torre di un mulino, le torri esterne rotonde, torrioni quadrati e numerose altre strutture rafforzavano, a diversi intervalli, i bastioni spessi dodici piedi.
Il viale d'ingresso - che si snodava attraverso un appezzamento di terreno tenuto a parco - superava il fossato tramite un largo ponte levatoio, al di là del quale c'erano il tozzo edificio del servizio di guardia e i barbacani. Il portone principale era stato solidamente costruito con travi di quercia e lastre di ferro: se necessario poteva essere sbarrato da una pesante inferriata, che in tempo di pace restava sollevata e veniva fatta scendere solo per oliare le catene e gli ingranaggi. Quando il grande portone era chiuso, i pedoni potevano entrare da una porta più piccola, ricavata in uno dei battenti. Venivano così a trovarsi in una lunga camera delimitata da spesse mura, con un cancello metallico a ogni estremità: la casamatta della guarnigione, un robusto edificio il cui scopo era quello di costituire uno spazio intermedio tra la porta interna e quella esterna. Fori d'osservazione nelle pareti consentivano alle guardie di esaminare dai passaggi laterali l'aspetto dei visitatori: solo quelli che superavano l'esame venivano lasciati proseguire oltre un secondo portone. Esso si apriva sul cortile esterno, che negli anni più recenti era stato arricchito di aiuole e suddiviso in piccoli giardini. Un terzo portone conduceva poi al cortile interno, con le sue scuderie, gli alloggi della truppa, lo spiazzo per le parate militari, i canili, le piccionaie, le rimesse delle carrozze e la falconeria; intorno a esso si levavano la Torre del Re incoronata di stendardi multicolori, la Torre dell'Arsenale, la Sala Grande, l'Osservatorio Solare e il poderoso maschio. Le finestre degli edifici interni, un tempo strette feritoie a uso degli arcieri, erano state allargate in graziose finestre a due luci e ampi finestroni dai vetri elaborati, oltre i cui preziosi tendaggi regnava un'opulenza assai maggiore che nei tempi antichi. La trasformazione da castello fortificato a palazzo residenziale aveva portato alla creazione di giardini e parchi, arricchiti di sculture e opere d'arte. In una delle ali più prestigiose di quella dimora, Tamlain Conmor - nobilissimo Duca di Roxburgh, Marchese di Carterhaugh, Conte di Miles Cross, Barone di Oakrngton-Hawbridge e Lord Maresciallo Supremo dei Dainnan, per nominare solo i suoi titoli più importanti - entrò a lunghi passi nell'elegante appartamento che occupava quando si trovava a Corte e chiamò il suo giovane valletto e scudiero. «Oh, John! Dov'è la mia signora moglie?» «La Duchessa Alys-Jannetta è nel pergolato con le sue dame di compagnia, Vostra Grazia», cinguettò lo scudiero. «Ah. Mi hai preparato qualche abito adatto per questa sera?» «Il completo scarlatto o l'abito da cerimonia in vellutina, Vostra Gra-
zia?» «Non m'importa, purché siano in condizioni abbastanza buone da non spaccarsi lungo qualche cucitura, lasciandomi a schiena nuda. Wilfred, Conquista è ben lucidata?» «Conquista è stata unta e tirata a lucido, mio signore», rispose un altro scudiero. «Dammela.» Il Comandante dei Dainnan accarezzò con amore la sua larga spada e la rimirò in controluce. «Bene.» Restituì l'arma allo scudiero. «Guarda che il nuovo fodero sia stato passato a cera. Chi sta bussando alla porta? Entrate.» Un lacchè dalla parrucca incipriata aprì la porta del salotto e si fece da parte. Subito corse dentro un valletto, che posò un ginocchio a terra dinanzi all'anziano guerriero e s'inchinò, offrendogli un vassoio d'argento sul quale c'era un biglietto ripiegato. Roxburgh lo lesse, grattandosi il mento barbuto. «E va bene», sospirò. «Fai entrare questa dama nella Sala delle Armature Antiche; potrà aspettarmi là. Mia moglie è nel pergolato, hai detto?» Appallottolò il foglio e lo gettò a John, che non fu abbastanza svelto da prenderlo al volo. Il valletto annuì e corse fuori. Mentre il sole andava calando, le nuvole si aprirono a occidente e concessero a un raggio di luce bronzea di attraversare i vetri piombati della Sala delle Armature Antiche. Le alte finestre davano su un cortile adorno di fontane e statue e sugli arazzi appesi alle pareti erano ricamate scene storiche e leggendarie, tutte d'ispirazione bellica: qui due brigate di cavalleria caricavano l'una contro l'altra - con le bandiere al vento, gli elmi piumati, le criniere e le code sventolanti - mescolandosi in una massa caotica di guerrieri che attaccavano o retrocedevano mentre i cavalli da guerra s'impennavano nitrendo; più in là, file disciplinate di arcieri Dainnan lanciavano una mortale pioggia di strali mentre la fila posteriore stava in piedi a gambe allargate tendendo gli archi e la fila anteriore, che aveva già scagliato le frecce, incoccava di nuovo. Su un altro arazzo, Navi del Vento armate si fronteggiavano tra le nuvole in tempesta, al di sopra di una città. Su un altro ancora, la fanteria delle Legioni Reali caricava attraverso un campo di battaglia devastato: i nemici giacevano al suolo e i colori di Eldaraigne garrivano al vento. Con l'abbassarsi dell'astro morente, la sua luce scivolò come un liquido ambrato sul tappeto ricamato a motivi vegetali, dove poggiavano le delica-
te scarpette della visitatrice che stava pazientemente seduta tra i cuscini di broccato di una poltrona. Un paggio nella livrea grigia e oro dei Roxburgh rimaneva in piedi alle sue spalle, immobile. Alcuni candelabri d'ottone filigranato pendevano dal soffitto con lunghe catenelle, mentre altri erano sostenuti alle pareti da infissi ricurvi. Un servo entrò e passò dall'uno all'altro, accendendo su ciascuno di essi una fiammella ambrata. Con lento disappunto, gli ultimi raggi di sole si ritrassero: fu allora che un lacchè - in livrea nera con code grigie e oro e aderenti ghette bianche - venne dentro e s'inchinò. «Vostra signoria, Sua Grazia ora può ricevervi», annunciò, tenendole aperta la porta. La vedova mascherata dai capelli scuri varcò la soglia e fu introdotta con deferenza in un'ampia camera: l'elegante studio dove il Duca di Roxburgh dava udienza. Ad alta voce, il valletto declamò: «Lady Rohain Tarrenys delle Isole Sorrows». La visitatrice fu invitata a farsi avanti. Un caminetto acceso spargeva tepore nella stanza, riflettendo gradevolmente la sua morbida luce sui mobili di lucido noce borchiati d'argento; nel suo vasto interno, un paio di alari bronzei a forma di aquile sostenevano un gigante della foresta che bruciava pian piano. Lo stesso motivo avicolo avevano il lungo guardafuoco, le pinze e gli attizzatoi. Spade incrociate, coltelli da caccia a lama larga col manico di cervo e altre armi incorniciate ravvivavano le pareti, in compagnia di una testa d'orso imbalsamata che metteva in mostra zanne formidabili e altri trofei di caccia. Alla luce del fuoco si aggiungeva quella di tre candelieri appesi al soffitto. Su un tavolo, un'urna bronzea accoglieva un grosso bouquet di fiori d'argento, le cui corolle erano in realtà sostegni a incastro per candele. Due wight marmorei dai piedi di capra sostenevano la mensola del camino, sulla quale era esposta una fila di statuette equestri d'agata e di malachite. Sul tappeto di pelliccia d'orso, presso il fuoco, stavano accovacciati due slanciati cani da caccia. Conmor, Duca di Roxburgh, era in piedi accanto alla finestra. Indossava ancora l'abito da campagna che aveva portato per tutto il giorno: camicia a maniche larghe, morbida tunica di pelle lunga fino alle ginocchia, aperta sui fianchi e leggermente stretta alla vita, un balteo a tracolla, aderenti calzoni di pelle e stivali alti. La luce del fuoco palpitava sui suoi lisci capelli color mogano, che gli sfioravano le spalle. Non appena aveva visto il Comandante dei Dainnan, un ansito soffocato
era sfuggito da sotto il velo della visitatrice. Thorn! Ma no, naturalmente no... Era solo che non si aspettava di trovarsi davanti quell'alta figura nella tenuta da campo Dainnan lì, nell'ala più lussuosa del palazzo, dove si aggiravano uomini dalle uniformi gallonate o in livree scintillanti di gioielli. Quell'uomo dalla lunga chioma non era Thorn - benché fosse altrettanto alto - e se lei non avesse avuto costantemente davanti agli occhi la sua immagine si sarebbe accorta subito delle differenze fisiche. Era alquanto più anziano, d'aspetto massiccio, con un po' di pancia, le nocche delle mani ispessite dall'artrosi e le tempie striate d'argento; si teneva orgogliosamente eretto e appariva serio, accigliato e assai contegnoso. Gli occhi azzurri di quel vecchio uomo d'arme, che si erano leggermente dilatati alla vista della visitatrice, si socchiusero. Da qualche parte, nelle remote profondità del palazzo, qualcosa di non ben fissato al suo posto sbatté, nel vento che si era levato. «Vai a dare un'occhiata a quell'imposta, ragazzo, se non ti dispiace.» Quella momentanea distrazione permise a Rohain di ritrovare la sua compostezza. S'inchinò e attese in silenzio il permesso di parlare. «Rohain delle Isole Sorrows», ripeté Roxburgh, «vi prego, sedete e toglietevi la maschera da vedova. Qui a palazzo ci sentiamo più a nostro agio quando possiamo vedere in faccia le persone con cui conversiamo.» La sua ospite chinò il capo. «I servitori di Vostra Grazia mi hanno già resa edotta in proposito, signore. Io, però, mi sento a disagio senza la maschera. Ho fatto voto di...» «Insisto», la interruppe lui. Aveva il tono di un uomo abituato a veder soddisfatte le proprie richieste e diventava subito impaziente con chi non collaborava. Sembrava che non ci fosse altra scelta: lei sganciò il domino e lo spostò di lato. I suoi occhi non lasciarono la faccia del nobile, sicché poterono leggere tutto ciò che vi passò: un'espressione di sorpresa, un improvviso irrigidimento, il moto con cui parve voler evitare il suo sguardo. Cosa poteva significare? Quello era il primo esame nel mondo esterno per il nuovo volto che lei portava. Era dunque così strano? «Rimettete pure il domino, se preferite», disse brusco il Comandante Dainnan, raddrizzando le spalle come per riprendere il controllo di sé dopo un attimo d'imbarazzo. «Wilfred, fai portare qualche rinfresco per Sua Si-
gnoria e per me.» Wilfred mormorò un assenso e si ritirò. «Questo perché suppongo che siate stanca, milady, dopo il vostro viaggio», spiegò Roxburgh. «Dunque... il messaggio che ho ricevuto dalla portineria dice che voi avete viaggiato fino a Caermelor per un motivo importante e che portate notizie che intendete confidare solo al Re-Imperatore.» Rohain-Imrhien si agganciò di nuovo la maschera sul viso. «È così, Vostra Grazia.» La giovane donna sedette sull'orlo di una sedia coperta di velluto. Roxburgh rimase in piedi, muovendo ogni tanto qualche passo avanti e indietro di fronte al caminetto. «Avete idea di quanta gente bussa alla porta del Re-Imperatore con messaggi uguali al vostro? Persone che hanno istanze o suppliche da presentare, accattoni, aspiranti cortigiani, arrampicatori sociali... la maggior parte dei quali non arriva neppure a ottenere un'udienza da me. Finora avete avuto fortuna, grazie al vostro evidente stato sociale. Io ho molti impegni cui dedicare il mio tempo e Sua Maestà Imperiale, il Re-Imperatore, non vi concederà udienza. È un periodo in cui tutti hanno molto da fare... non prendetela come una scortesia, milady; è solo che Sua Maestà non ha tempo da perdere in questi giorni. Le ore di veglia del nostro sovrano sono dedicate ad affari assai urgenti. Essendo un ministro di Sua Maestà, io sono autorizzato a parlare per lui e a ricevere messaggi a suo nome. Ora, cosa vi conduce qui di tanto importante?» Un paggio in livrea grigia e oro entrò con un vassoio di rinfreschi, lo depose su un tavolino dalle gambe intagliate a mo' di spade iridescenti e col piano in madreperla e s'inchinò al suo lord e alla lady. «Grazie...» Il suo ospite scoccò uno sguardo penetrante a Rohain, che capì di aver commesso un errore ringraziando il ragazzo: sembrava che lì, a palazzo, quelli nati per essere serviti dagli altri non ritenessero necessario mostrare gratitudine ai servi. Avrebbe dovuto evitare questi sbagli... Per sopravvivere tra i frequentatori della Corte era d'obbligo fare come ogni nuovo venuto in una terra straniera, ovvero copiare il comportamento degli abitanti. Se li avesse osservati con attenzione, se avesse preso nota dei loro modi e delle loro usanze, allora avrebbe potuto passare inosservata. «Le notizie che porto sono per le orecchie del Re-Imperatore», ripeté. Il Comandante dei Dainnan si accigliò. Andò a sedersi di fronte a lei, appoggiandosi allo schienale della poltrona.
«Be', mia dama delle Isole, sembra che non possiamo trovare un terreno comune... Vi prego, servitevi di rosolio e paste, prima di lasciarci. Temo che non potrà esserci intesa tra noi.» Ethlinn e Maeve avevano detto che di Roxburgh ci si poteva fidare ma anche che sarebbe stato meglio, per lei, parlare col Re-Imperatore in persona. Doveva cercare di vederlo. «Io devo parlare col Re-Imperatore!» «E io vi ho già detto che questo è impossibile.» L'uomo le porse un calice con l'orlo d'argento, scolpito a motivi vegetali. «Alla vostra salute.» «A quella di Vostra Grazia.» Lei si alzò il velo, si portò il calice alle labbra e bevve. Il liquore sapeva di pesca ma bruciava come il fuoco. «È un peccato che abbiate viaggiato tanto per poi lasciare la vostra missione incompiuta», osservò il Duca in tono discorsivo, accavallando le gambe e appoggiando lo stivale sul ginocchio. «Un peccato, già.» «Cosa dicono di noi nelle lontane Isole Sorrows?» «Tutto il bene possibile, mio signore, eppure ciò che ho udito narrare non rende giustizia alle meraviglie e alla ricchezza della Città Reale. Il nome di Conmor, Duca di Roxburgh, è conosciuto nei luoghi più remoti, ovviamente.» «E senza dubbio su di me circolano molte storie.» «Tutti racconti di atti di valore.» «E onorevoli?» «Oh, certo!» «Se è vero che laggiù si parla di Conmor di Roxburgh, allora sarete consapevole del fatto che una persona nella mia posizione non ha tempo per le faccende di poco conto, dovendo preoccuparsi della sicurezza dell'Impero. Non è un segreto che la guerra sta per minacciare i nostri confini: le nostre spie riferiscono di grandi migrazioni di barbari armati nel settentrione, a Namarre... e il mese scorso sul Ponte di Terra di Nenian. Ieri le Legioni Reali hanno cominciato a trasferire cinquecento plotoni nel nord, come parte delle precauzioni del Re-Imperatore contro una possibile azione militare di Namarre. Lassù c'è bisogno di me; domani partirò per il nord.» «Non m'intendo di questi problemi, mio signore... ma forse una dimostrazione di forza è ciò che occorre per indurre quei ribelli a più miti consigli.»
«Precisamente. In caso contrario, conosceranno la furia delle legioni del Re-Imperatore.» «Si dice che si siano alleati con certi esseri immortali... creature unseelie, maligni eldritch wight che si stanno raccogliendo a nord in risposta a una Chiamata di qualche genere. Avversari formidabili.» «In effetti, sì. I cosiddetti immortali, però, vivono per sempre soltanto se non decidono di morire... o se qualcuno non li uccide.» «Ho sentito dire che qualora venissero feriti così gravemente da non poter più vivere, potrebbero comunque trasformare i loro corpi e assumere un'altra forma.» «Alcuni possiedono questo potere, è vero. Ma devono assumere una forma più debole, innocua.» La conversazione languì. Il Comandante Dainnan bevve quanto restava del liquore; RohainImrhien lo sorseggiò a sua volta, poi posò il suo calice sul tavolino intarsiato e si alzò, subito imitata da Roxburgh. «Ve ne andate di già?» «Non voglio rubarvi altro tempo, mio signore... Vostra Grazia è un uomo molto occupato, lo so. Grazie per avermi ricevuto.» «Eppure, le notizie che volevate riferire...» «Vostra Grazia è disposto a condurmi dal Re-Imperatore?» «Avete dinanzi a voi il suo rappresentante giurato. Non è abbastanza?» «No, mio signore.» La giovane donna s'inchinò. Fuori dalle mura del palazzo, nel golfo della notte, il vento infuriava contro le finestre. «Buon viaggio», le augurò Roxburgh, con un lieve sorriso. Rohain-Imrhien si disse che l'uomo non l'avrebbe lasciata andar via senza cercare d'indovinare ciò che lei aveva da riferire. Sulla porta, dove due inservienti alti e robusti attendevano di scortarla oltre, si fermò e si volse a guardare da sopra una spalla: l'anziano guerriero era ancora là in piedi, a gambe larghe e con le braccia conserte. Le rivolse un breve saluto col capo e lei rientrò nella camera: il suo bluff non aveva funzionato. Quello di lui, invece, sì. «Ne parlerò con voi, mio signore», disse, non avendo altra scelta. Il vento sospirava nei lunghi corridoi. Cantava melodie selvagge, aprendo lentamente le porte e poi sbattendole con improvvisa violenza, il che
faceva abbaiare tutti i segugi nei canili reali. Un giovane servo dall'aria sonnolenta fece il giro della stanza delle udienze del Duca di Roxburgh, abbassò i candelieri appesi alle catenelle, tolse i mozziconi più consumati, smoccolò gli altri e accese un certo numero di candele nuove, bianche e sottili come damigelle dai capelli d'oro. Nel grande caminetto le fiamme si erano smorzate in un bagliore uniforme, a tratti aizzato da sbuffi di vento lungo la canna fumaria. I cani accovacciati sulla pelle d'orso dormivano, forse sognando cacce passate. Quando Rohain ebbe riferito la sua storia, tacque. Assai prima di quella sera - prima di diventare Rohain - aveva discusso con se stessa su ciò che avrebbe dovuto dire se mai fosse riuscita ad arrivare a Corte. Rivelare l'esistenza e l'ubicazione del tesoro nascosto era il suo scopo; inoltre voleva far sì che Scalzo e i suoi complici fossero puniti... ma rivelare la sua identità - quella che lei conosceva - non era sua intenzione. In realtà, lei era soltanto una fanciulla senza casa che aveva dimenticato il suo passato... un passato che, probabilmente, era meglio lasciare nel buio. Era una trovatella, una serva buona solo a lavare i pavimenti, una creatura senza importanza, una paria, un niente cui era caduta in grembo, come un frutto maturo, la possibilità di cominciare una nuova vita. La prima e più miserabile parte della sua esistenza poteva essere spazzata via e nascosta: con una nuova faccia e un nuovo nome, quella che era stata dapprima una creatura senza identità e poi Imrhien poteva diventare Rohain, una damigella d'alto rango. Cominciare quella vita nella menzogna non la faceva sentire a suo agio ma troppe ragioni la rendevano una scelta obbligata: una nobildonna avrebbe avuto più influenza di una serva e quel potere le sarebbe servito anche per aiutare i suoi amici... e forse le avrebbe dato qualche possibilità di ritrovare Thorn o, almeno, di rivederlo da lontano ancora una volta. Inoltre, ora che aveva assaggiato il sapore della dignità e del lusso sarebbe stato duro rinunciarvi. Così aveva raccontato a Roxburgh la sua storia non com'era in realtà, bensì come desiderava che gli altri la udissero. L'uomo era rimasto ad ascoltarla con attenzione e alla fine le aveva posto alcune domande pertinenti. Non era uno sciocco; lei sospettava che avesse intuito delle falle nella trama che gli aveva tessuto ma che avesse preferito sorvolare, forse per una questione di tatto. Secondo la sua storia, Rohain aveva lasciato le Isole Sorrows allo scopo di compiere un viaggio di piacere attraverso Eldaraigne, a bordo di una piccola Nave del Vento privata; una tempesta aveva fatto naufragare il
vascello sulle Lofty Mountains e lei e un membro dell'equipaggio erano stati gli unici superstiti del disastro. Vagando senza mezzi e tra continui pericoli nelle foreste abitate dagli eldritch wight, i due si erano imbattuti per caso in un ricchissimo tesoro d'inaudita magnificenza, in un luogo da loro battezzato la Scala d'Acqua. «Un ricchissimo tesoro? Avete detto che comprende molto sildron?» «In grande quantità, mio signore.» «Ne avete portato un po' con voi?» Quella poteva essere una domanda trabocchetto. «Sapendo che tutto il sildron scoperto ovunque è di proprietà del ReImperatore, non ne ho preso neanche un lingotto e il mio compagno neppure... Però chi rinviene oggetti preziosi ha diritto di averne una percentuale come ricompensa o così mi è stato detto. Abbiamo preso dei gioielli e delle monete per poterci mantenere se e quando fossimo riusciti a lasciare quelle regioni selvagge e tornare nelle terre civili, poiché avevamo perso tutti i nostri beni, come vi ho detto.» «Posso vedere questi oggetti di valore?» «Ho speso tutto», rispose lei e aggiunse frettolosamente: «Avevamo preso poche cose, non potevamo caricarci troppo». «Speso? Dove?» «A Gilvaris Tarv, quando vi giungemmo. Naturalmente, il mio primo pensiero fu di mandare un messaggio tramite i Cavalieri della Tempesta al Re-Imperatore, per informarlo della scoperta. Poi, però, ci ripensai: ero riluttante a lasciare che una notizia così importante passasse in altre mani... Non che io diffidi dei nostri eroici Corrieri; è che gli incidenti possono sempre capitare. Decisi allora di viaggiare fino a Caermelor per riferire la notizia di persona ma, mentre mi preparavo per il viaggio, su di noi si abbatté il disastro. Le mie spese un po' avventate - nonché quelle dell'aeronauta che mi aveva aiutata a sopravvivere nella foresta - erano state notate... Lui fu assassinato, con alcuni suoi amici, da una banda di perfidi tagliagole. Uno dei suoi compagni riuscì a fuggire e a recarmene notizia ma, poco dopo, morì anche lui; io riuscii a malapena a lasciare la città per salvarmi la vita. Dopo molte disavventure, ho attraversato Eldaraigne e infine sono giunta a Corte. Mentre noi sediamo qui a parlare, quegli assassini dal cuore nero - Scalzo e i suoi uomini - stanno forse razziando il tesoro del Re-Imperatore alla Scala d'Acqua (e non per la prima volta!) mentre le ossa di uomini coraggiosi marciscono tra l'erba.» «Il nome di quell'aeronauta?»
«Oh... lo chiamavano l'Orso», balbettò lei, temendo che nel rivelare al Duca il nome di Sianadh lo avrebbe in qualche modo tradito. «L'Orso, avete detto?» «Sì.» «E dove si troverebbe la base di questi briganti?» «A Gilvaris Tarv, presso il fiume. Sulla riva orientale. Non so dirvi di più.» Il Comandante Dainnan fece portare altro liquore. Si piegò in avanti, posando i gomiti sui ginocchi. «Se è come voi dite, milady, allora la questione è molto grave. Stiamo parlando di tradimento.» Lei non rispose. «Tradimento perpetrato da coloro che hanno tenuto nascoste le proprietà della corona e le hanno razziate. La punizione per questo reato è severa.» «Lo immaginavo.» «Voi capirete, milady, che in tal caso dovrete restare sotto la protezione reale finché la vostra storia potrà essere verificata... Questo non solo per tutelare il segreto ma anche per vostra stessa sicurezza.» «Naturalmente.» Se l'era quasi aspettato e, d'altra parte, dove avrebbe potuto andare? Aveva avuto il buonsenso di chiedere al cocchiere - ora senza dubbio comodamente seduto in qualche stanza delle cucine ad attenderla, con un bicchiere in mano - di condurla nella più vicina locanda di buona reputazione, per la notte; al di là di questo, non aveva pianificato nulla. «Potrete alloggiare qui a palazzo sino a quando sarà organizzata una spedizione alle Lofty Mountains. Dato che conoscete la strada, sarete voi a condurci là. La vostra ricompensa sarà sostanziosa... più di quei pochi gioielli e monete che avete così facilmente speso.» «Mio signore, sapere di aver servito il mio sovrano è ricompensa sufficiente», mentì lei. «Ciononostante, accetto con gratitudine la vostra offerta. Mi auguro che i traditori saranno rintracciati dal primo all'ultimo.» Lui rise, senza allegria. «Dunque è questa la ricompensa che ambite!» «Sì», rispose la giovane donna, in tutta sincerità. «Ma non era questo il mio scopo principale. Sono venuta sin qui per mantenere una promessa fatta a un amico; in questo ho avuto successo.» Lui scrollò le spalle. «Manderò quel birbante di Wilfred a chiamare i vostri servi, affinché vi portino i bagagli. I vostri cavalli e la carrozza saranno sistemati nella mia scuderia e il cocchiere potrà dormire negli alloggi degli
stallieri, dietro la rimessa reale delle carrozze. La vostra serva avrà una stanza nell'appartamento che sarà approntato per voi.» «Non ho una serva e sia il cocchiere che la carrozza sono in affitto.» «Cosa? Neppure una serva?» Il Dainnan aggrottò le sopracciglia, lasciò la poltrona e riprese a camminare avanti e indietro di fronte al caminetto. «Mia cara Lady Rohain, voi siete una dama molto singolare. Apparite qui senza essere annunciata; nessuno vi ha mai sentita nominare. Vi presentate mascherata e senza una serva, raccontando una storia straordinaria. Parlate con disarmante semplicità, diversamente da qualsiasi altra cortigiana o nobildonna. Chi siete, in realtà? Una spia?» Sull'ultima parola l'uomo girò su se stesso, piantandole addosso uno sguardo accusatore. Oltraggiata, Rohain balzò in piedi. Le sue sottane rigonfie urtarono il tavolino e uno dei calici rotolò sul tappeto, spargendo il suo contenuto rosso come il sangue. Nell'emozione del momento, le salirono alle labbra parole irose. «Ora state accusando me di tradimento! Invero, mio signore, sembra che siate stato al servizio del Re-Imperatore per troppo tempo... siete diventato sospettoso di tutti gli stranieri che mettono piede nel palazzo. Sono venuta in buona fede a compiere il mio dovere, solo per sentirmi tacciare di fellonia! È la mia maschera che vi disturba? Ebbene, ecco!» Si strappò il domino e lo gettò nel fuoco. Fu un sospiro del vento quello che udì o al suo ospite si era improvvisamente mozzato il fiato? I segugi alzarono la testa, sbuffando. «Se parlo con troppa semplicità per i vostri gusti di Corte, insegnatemi a fare di meglio!» esclamò. «In quanto al tesoro, vi dimostrerò che esiste. Cos'altro volete da me?» Le tremavano le ginocchia perciò, con un movimento brusco, si sedette. Il sangue le aveva abbandonato il viso. Come aveva osato sollevare un simile trambusto? Ora cosa le sarebbe accaduto? L'avrebbero impiccata per oltraggio a un nobile? Si voltò a guardare il fuoco: la sua fragile maschera era già stata consumata e lei si sentiva esposta, vulnerabile. Dalla parte della città provennero i rintocchi di una campana. Inquiete dita d'aria scivolavano sotto le porte per agitare le tende. «Vogliate scusarmi, milady. Sono rammaricato», disse infine Roxburgh, inchinandosi. Il suo volto si ammorbidì. «Vi prego di non giudicarmi scortese. È mia abitudine mettere alla prova gli altri nel corso del primo incontro... State certa che stasera ho imparato a non stuzzicare una dama delle Sorrows, se mai dovessi incontrarne un'altra. Vi prego, restate qui a riposa-
re ancora un po' accanto al fuoco.» Fece una breve pausa, come per assimilare qualche anomalia o bizzarria, poi convocò i suoi paggi. «Ragazzi! Provvedete ai bagagli di sua signoria e pagate il cocchiere. Voglio che abbia al più presto un appartamento decente... e trovatele una serva. Una ragazza giovane.» Due o tre paggi si affrettarono a eseguire gli ordini. Questo lord Dainnan parla con franchezza, a dir poco, pensò RohainImrhien. È un uomo di cui ci si può fidare. «Potete considerarvi ospite di Sua Maestà», la informò Roxburgh. Ospite... o prigioniera? Cosa succederà se scopriranno che non sono una dama? «Vi ringrazio. Sono molto stanca.» «Wilfred, suona qualcosa!» Il poliedrico scudiero raccolse una lira, controllò che fosse accordata e, con mano esperta, cominciò a suonare piacevolmente. Il vino era buono, il tepore del fuoco gradevole e la musica dolce: Rohain finì per appisolarsi. Le sembrò che non fossero trascorsi che pochi momenti quando un bussare alla porta la riscosse. Un valletto introdusse una ragazza della sua età - sui diciassette o diciott'anni e dai capelli color paglia coperti a metà da una cuffietta giallo-oro - che s'inchinò a Roxburgh e sbatté le palpebre, sbirciando Rohain con la coda dell'occhio. «Vostra Grazia, sono la signorina Viviana Wellesley, di Wytham. Al vostro servizio.» «Ragazza, tu sarai la cameriera di Lady Rohain Tarrenys», disse Roxburgh. «Come Vostra Grazia comanda.» «Lady Rohain», disse l'uomo, «vi prego d'intervenire alla cena nella Sala da Pranzo Reale, questa sera.» «Mio signore, sono onorata.» Roxburgh si rivolse di nuovo alla cameriera. «Ragazza, le stanze dell'appartamento sono in ordine?» «Sì, Vostra Grazia.» «Allora, per favore, conduci Sua Signoria nel suo alloggio, col dovuto riguardo!» Scortata da un lacchè che procedeva quattro passi dietro di lei sulla destra e dalla sua nuova cameriera personale - quattro passi indietro, sulla sinistra - Rohain-Imrhien fu guidata verbalmente attraverso un dedalo di
splendidi corridoi sino al suo alloggio. Il lacchè rimase fuori dalla porta, tenendola aperta mentre le due giovani entravano. La ragazza colse il modo in cui l'uomo la guardava e lui arrossì sotto la sua parrucca incipriata. Una donna piccola e dall'aspetto curato la stava aspettando nella prima camera, con un mazzo di chiavi tintinnanti appeso alla cintura. Le rivolse un inchino. La bocca di lei restò spalancata, poi la chiuse di colpo, come una rana a caccia di mosche. Dopo una pausa goffa, Rohain intuì che ai servitori non era permesso parlare per primi. «Parla», la esortò contegnosamente. La Governante della dimora reale si presentò e le indicò una stanzetta dov'era pronto un bagno caldo. Rohain la licenziò, senza ringraziarla; la donnina uscì con un gran scalpiccio di tacchi, un tintinnio di chiavi e un clangore di serrature e catenacci. Il lacchè chiuse la porta e il rumore dei loro passi s'allontanò. Sessanta candele illuminavano la scena, ritte sui loro supporti come alti boccioli di gigli-bandiera. Rohain si guardò intorno: l'opulenza degli appartamenti del palazzo faceva impallidire la Torre di Isse. Quelle stanze abbondavano di decorazioni in tonalità di smeraldo e d'oro, dal tappeto soffice come una distesa di prato punteggiata di margherite gialle alle pareti adorne di affreschi e stucchi, alle tende di velluto color verde mela e giallo limone, i cui bordi erano appesantiti da nappe che danzavano a grappoli come frutti maturi. Le spalliere del letto erano in legno scolpito a imitazione di un canniccio d'acqua intrecciato di fiori, le cui colonnine sorreggevano un baldacchino di broccato verde orlato di treccioline auree, che sovrastava copriletto e cuscini dello stesso colore. Le finestre erano ombreggiate da elaborati listelli sovrapposti e velate da tendine verdi e oro. Mattonelle color narciso incorniciavano un caminetto dove il fuoco ardeva con vigore, illuminando la grata brunita e gli attizzatoi. Il mantello orlato di pelliccia, che un maggiordomo aveva urbanamente sottratto a Rohain subito dopo il suo ingresso a palazzo, era stato deposto su una sedia dorata accanto ai suoi pochi, patetici bagagli: le scatole che erano nella carrozza e - un po' assurdamente - lo scaldapiedi. Un lieve colpetto di tosse della sua nuova cameriera personale attrasse l'attenzione di Rohain. «Ah... come hai detto che ti chiami?» «Viviana, milady. Vivianessa, a dire il vero; però tutti mi chiamano Viviana.» «Be', Viviana, ti dispiacerebbe... ah... riporre il mio mantello da viag-
gio?» Era l'unica cosa che le era venuta in mente, nell'agitazione del momento. Cosa mai avrebbe potuto farsene di quella ragazza? Dalle dame di Corte ci si aspettava che fossero incapaci di vestirsi e spogliarsi da sole? Che seccatura, dover avere qualcuno che le si aggirava continuamente intorno e ficcava il naso nei fatti suoi! La giovane cameriera ripiegò con cura il mantello e lo depose in una cassapanca intagliata con scene boschive. Rohain andò nella piccola stanza indicatale dalla governante: era occupata da una vasca in rame coi piedi a zampa di leone, ricoperta da una tela di percalle bianca che ricadeva ai lati come una cascata di neve. La vasca era piena d'acqua fumante, colorata con essenze vegetali e cosparsa di petali di primule fuori stagione, come riflessi di sole. Su un ripiano di marmo era allineato un armamentario completo di oggetti da toeletta: c'era un paio di coloratissimi globi di porcellana intarsiata, sostenuti da alti treppiedi e forati tutt'intorno per consentire all'umidità di evaporare via; uno conteneva saponette profumate, l'altro una spugna. I due oggetti erano accompagnati da una fila di gingilli in porcellana, per buona parte superflui: portasapone, piatti e vassoi per saponi in polvere, caraffe e bacinelle per l'acqua, vasetti, candelabri a più bracci e un vaso traboccante di bucaneve coltivati in serra. Incongruamente, al suolo giaceva un calzascarpe: era fatto di stagno, montato su un'asticella d'avorio intagliato e con l'impugnatura a forma di airone. La cameriera domandò: «Desia mea donna que io assaghi lo caulor de voscia conche de agua?» «Come, scusa?» La ragazza ripeté la sua strana richiesta, lanciando un'occhiata speranzosa alla nuova padrona e rigirandosi una falda della gonna tra le dita. «Non ti capisco. Per favore, parla in una lingua comprensibile!» L'altra assunse un'aria desolata. «Perdonatemi, milady. Ho pensato che Vostra Signoria gradisse far pratica della lingua di Corte, per la cena di stasera. Vi ho soltanto domandato se Vostra Signoria desidera che io verifichi se l'acqua della vasca è alla giusta temperatura.» «La lingua di Corte?» «Sì, milady... Il cortigianese. Le persone di basso rango la chiamano il farfugliese. Vostra Signoria non la conosce?» «No, è un idioma di cui non sono esperta.» Le era parso una specie di chiacchiericcio infantile, eppure la ragazza
sembrava esserne molto fiera. Possibile che quel bislacco insieme di quasiparole facesse parte del sofisticato tessuto sociale della Corte? «Ora farò il bagno.» Così dicendo, Rohain intendeva suggerire a Viviana di lasciarla sola... invece la ragazza si fece avanti. «Permettetemi di slacciarvi la cintura, Vostra Signoria.» «No! Posso fare da sola. Esci!» Con uno sguardo desolato, la cameriera corse fuori dalla stanza. Rohain si sentì rimordere la coscienza: in fondo, la ragazza stava solo cercando di fare il proprio lavoro... ma come la seccava e la confondeva tutto ciò! Rohain avrebbe quasi preferito essere di nuovo nella foresta con Sianadh e gli eldritch wight. L'esistenza era parsa assai più semplice in quei giorni: si trattava di vivere o morire... niente cose strane come usanze complicate o dialetti bizzarri. Dall'altra stanza le giunse un mormorio di singhiozzi soffocati. Che sciocca, quella ragazza! Era assurdo non saper fare di meglio che mettersi a piangere per una parola brusca della sua padrona! A lei, che aveva affrontato il Direath e il Beithir, questa sembrava una sciocchezza puerile. Rohain si tolse la cintura di pelle e filigrana e cominciò a lottare con le scomode fibbie delle sottogonne. Alla fine si voltò verso la porta. «Viviana, vuoi darmi una mano a spogliarmi?» La cameriera entrò subito, con gli occhi rossi. Insieme sconfissero le interminabili file di bottoni, le fibbie, i ganci e le piccole, scomode scarpette da viaggio. «La mia signora desidera che io le insaponi la schiena?» chiese Viviana, timidamente. «No. Mi lavo da sola.» La prudenza lo esige... Questa ragazza potrebbe vedere le cicatrici delle frustate. «Allora, posso tirar fuori l'abito che Vostra Signoria indosserà per la serata?» «Non ho altri abiti... solo quello che vedi.» La faccia della ragazza si contorse come se fosse di nuovo sul punto di piangere. Rohain riprese la padronanza di sé e si affrettò ad aggiungere: «Naturalmente, mi procurerò un guardaroba più completo. Presto dovrai fare alcuni acquisti per mio conto». È una fortuna che mi resti ancora molto del denaro ricavato dalla vendita dello smeraldo!
La cameriera sollevò un poco la veste ed eseguì un piccolo inchino d'assenso. Oltre i muri esterni gemeva il vento. Lavata e vestita, Rohain sedeva davanti a un tavolo da toeletta fornito di tre specchi orientabili, nei quali stentava a riconoscersi mentre Viviana le spazzolava i capelli neri come il carbone. La cameriera era umile e malinconica e Rohain, fin troppo memore dei propri anni di servitù, provò un moto di comprensione per lei: i formicai potevano sembrare montagne a una formica destinata a vivere giorno e notte tra altre formiche. Con dolcezza, disse: «Io vengo da un posto lontano, dove gli usi e costumi della Corte sono sconosciuti. Questo sembra preoccuparti. Perché?» «È proprio così, milady!» esplose Viviana. «Mi preoccupa più di tutti gli unseelie di Aia... perché questo vi darà dei problemi, mia signora!» «Perché le mie difficoltà dovrebbero assillare te?» «Come vostra cameriera, la vostra reputazione si riflette su di me. Io ne subirò le conseguenze.» «Tu parli con onestà, anche se non diplomaticamente. Che genere di problemi potrebbero crearmi, le mie maniere semplici?» «Milady... C'è un genere di reputazione che non si può comprare o vendere come una merce, perché cresce da sola in questo ambiente», rispose Viviana, in tutta franchezza. «Qui a Corte c'è un'elite di persone che hanno un loro stile di vita e che formano un Gruppo, un Circolo. La famiglia reale, i Duchi e le Duchesse non prendono parte a questi giochi da cortigiani, ma molti nobili di rango inferiore a quello di Duca sono Dentro il Gruppo oppure Fuori di esso, con l'eccezione dei più anziani e dei più giovani. Chi gode fama di essere Dentro il Gruppo deve lottare per mantenerla, perché se finisce Fuori - il che comporta rimanere isolato o essere evitato - è poco probabile che riacquisti la reputazione di prima.» «È così terribile trovarsi Fuori da questo Gruppo?» «Oh, lo è! Oserei dire che la vita non merita quasi di essere vissuta! Finché non lo vedrete coi vostri stessi occhi, milady, non saprete di cosa sto parlando... ma allora potrebbe essere già troppo tardi. Se la mia dama non sarà accettata nel Gruppo, vorrà lasciare la Corte e allora io sarò rimandata a servire la Marchesa di Netherby, che è una vedova pignola e implacabile! Preferirei morire, in tutta onestà. È indescrivibile il modo in cui la Marchesa ci tratta... Passa le giornate cercando errori in quello che facciamo e, per giunta, ci prende a ceffoni. E ha mani dure come il legno!» Rohain assimilò quell'informazione, guardando nello specchio senza ve-
dere nulla. «Dimmi di più su questi cortigiani.» «Milady, come figlia di un Conte sarete fatta sedere a tavola tra i migliori del Gruppo, stasera... Tra i nobili più versati nell'etichetta di Corte.» «Cosa ti fa pensare che io sia figlia di un Conte?» «Oh, semplicemente il fatto che non portate nessun anello nuziale all'anulare sinistro, benché io abbia sentito dire che siete vedova... e per essere chiamata col titolo di 'lady' dovete essere figlia almeno di un Conte, di un Marchese o di un Duca. Tuttavia, visto che il nome Tarrenys non è conosciuto a Corte, ho pensato che dovesse trattarsi di un Conte, col vostro permesso, Vostra Signoria.» Ciò era incoraggiante: Viviana possedeva dunque una certa acutezza di mente, nonostante il suo fragile controllo emozionale... e sembrava che nel corso della sua permanenza a Corte - per quanto breve - Rohain avrebbe avuto bisogno di un'alleata. Studiò la cameriera nello specchio e vide un volto ovale e morbido, un nasino all'insù, un'ombra di colore sulle guance e occhi azzurri con sopracciglia scure che non s'intonavano ai capelli chiari. Una ragazza graziosa. Viviana vestiva un'uniforme di velluto celeste con una cintura di vigogna rigida; oltre a questa, intorno alla vita portava un popolare accessorio chiamato «castellana», dal quale pendeva - appeso a molte catenelle sottili - un vasto assortimento di articoli utili quali le forbici, la scatola degli aghi e dei rocchetti, quella dei bottoni e dei ganci, un acciarino, il borsellino, chiavi, pettini e quant'altro lei riteneva utile per il suo lavoro. «E ho capito che vossignoria viene da un posto lontano quando ha ringraziato il Duca per il suo invito a cena», continuò la ragazza, posando la spazzola. Rohain rizzò le orecchie, allarmata. «Ho detto qualcosa di sconveniente?» «Sì, in verità, milady. L'invito a cena di un Duca è come un ordine, cui si deve rispondere: 'Ringrazio Vostra Grazia per il gentile invito e avrò l'onore di obbedire al comando di Vostra Grazia'. Non so cosa possa aver pensato... ma è probabile che la vostra mancanza di formalità non lo abbia irritato, perché quelli dell'Attriod Reale sono superiori a queste cose.» «Però, tu dici che sarò criticata e disprezzata se mi mostrerò ignorante di questi manierismi complicati?» «E non poco, milady! Il Gruppo può pesare, misurare e fare a pezzi un ignorante, per così dire; quelli che ha dichiarato Fuori non prosperano cer-
to, nell'alta società. E non si tratta solo delle formalità da rispettare e della lingua di Corte: c'è anche il galateo da seguire a tavola e tutto il resto. Intere biblioteche sono riservate a questi argomenti... Venendo da una famiglia altolocata, Vostra Signoria conoscerà le buone maniere a tavola, voglio supporre.» «Non necessariamente.» Senza che Rohain lo volesse, in lei si riaccesero immagini del passato: il tavolo della cucina di Ethlinn, con tutti i commensali che pescavano il cibo da un vassoio comune e si pulivano le dita unte sulla tovaglia; Sianadh che staccava un pezzo di selvaggina arrostita dallo spiedo e ne strappava bocconi coi denti, mezze pagnotte usate come piatti, per assorbire il sugo ed essere poi divorate... Rohain si mordicchiò il labbro: essere catapultata dalle stalle alle stelle per poi precipitare di nuovo alle stalle era più di quanto avrebbe potuto sopportare. E cosa sarebbe successo se Thorn avesse partecipato alla cena e fosse stato testimone della sua umiliazione? «I Dainnan non cenano mai nella Sala da Pranzo Reale?» «A volte, milady, quando non mangiano nella loro mensa.» «Tu conosci qualche Dainnan?» «No, milady.» «Viviana, perché i nobili cortigiani badano tanto a queste cose? Questa lingua di Corte, queste regole complicate cui hai accennato... perché sono necessarie?» «Ecco, suppongo che sia per dimostrare quanto sono abili - quanto meritano il loro rango - e che sono a parte di segreti dei quali la gente comune non sa niente. Tuttavia quelli di rango più elevato non si preoccupano della lingua di Corte e delle mode di palazzo... Loro non hanno bisogno di dimostrare nulla a nessuno.» «Viviana, tu sei saggia. Credo di averti giudicata affrettatamente. Insegnami tutto, così stasera non sarò messa Fuori.» «Milady, non c'è tempo!» Da qualche parte, nel labirinto di corridoi, salì una vibrazione metallica: il suono di un gong. «Questo è il gong della cena! Tra poco un domestico verrà a scortare Vostra Signoria in sala... e allora saremo entrambe rovinate!» «Calmati! Ascolta, tu devi aiutarmi... Quando siederò a tavola, tu resterai dietro di me per tutto il tempo; io imiterò gli altri e tu mi correggerai se dovessi sbagliare.» «Ma i capelli non sono pettinati nel modo giusto!»
«Posso portare il cappello per nasconderli?» «No, no... quel modello non è adatto per le serate di gala!» «Sistemami i capelli, allora.» «Occorrerà tempo...» «Sciocchezze! Fai quello che puoi. Abbiamo ancora qualche momento, no?» «Spero di sì, milady.» Con determinazione, Viviana scambiò la spazzola con un lucido pettine di legno cosparso di pietruzze multicolori, dal manico decorato da cerchietti di porcellana e cristallo. Rifece le pesanti trecce e annodò alcune di esse sopra la testa della sua padrona, tenendole ferme con una mano e frugando con l'altra tra le legioni di scatolette, vasetti e giare allineate sul tavolo da toeletta. Rohain sollevò i coperchi di parecchi piccoli contenitori, mettendo allo scoperto polveri bianche, creme nere, pastiglie, guanti, bottoni, gancetti, nastrini, pettini ornamentali d'avorio, di corno, d'ottone e d'argento - verniciati o incisi a motivi floreali - e anforette colme d'essenze profumate e sostanze aromatiche. «Cosa stai cercando?» Rohain fece una smorfia di dolore mentre Viviana le torceva frettolosamente una ciocca di capelli. «Le forcine per i capelli.» Una scatola d'avorio intarsiato si rovesciò, spargendo forcine incrostate di pietre preziose. Viviana le afferrò e cominciò a infilarle nella nuvola di riccioli di Rohain. «Ahi!» «Perdonatemi...» «A cosa servono queste sostanze colorate?» «Sono belletti per il viso. Kohl per gli occhi, creme e polveri per tingere la pelle, rossetto fatto con gli stami dello zafferano...» Colta da un panico improvviso, Rohain si portò le mani alle guance: nello specchio la sua nuova faccia le era parsa accettabile... ma come poteva essere certa che non fosse soltanto una penosa illusione? Il cuore cominciò a batterle forte. «Devo usarli?» «Quasi tutte le cortigiane lo fanno. Voi, però, non ne avete bisogno, milady.» «Perché no, se le altre li usano? La mia faccia... è accettabile? Dimmi la verità!» «La mia signora ha già l'aspetto che altre desiderano ottenere. Non avete
bisogno di belletti!» «Cosa vuoi dire?» Viviana interruppe la sua furiosa attività di acconciatrice e si piantò le mani sui fianchi. «La mia signora sta scherzando?» «No, non scherzo: voglio che tu mi dica se i miei lineamenti sono accettabili. Dimmelo subito... e, se non lo sono, io non mi avventurerò in quella sala stasera, ordini o non ordini.» Lo stomaco di Rohain sembrava pieno di farfalle. Un vigoroso bussare alla porta le fece sussultare entrambe. Una voce chiamò, in tono imperioso. «Sì, milady, sì, lo sono!» ansimò in fretta Viviana. «Presto! Giungere in ritardo a una cena è un'infrazione imperdonabile... Milady sarebbe Fuori prima ancora di aver impugnato una forchetta.» «Allora, andiamo.» Le pareti arricchite di stucchi della grande Sala da Pranzo Reale, qua e là celate da arazzi, si alzavano tra le cornici scolpite sino al soffitto a cupola, coperto di affreschi. Sei caminetti, tre per lato, emanavano abbastanza calore da inondarne l'immenso locale. Su un'alta balconata, un trombettiere stava ritto come una stalagmite colata dalle decorazioni e dai candelieri del soffitto: era uno dei musicisti reali, in livrea scarlatta e con la collana cerimoniale di rose e melograni d'argento. Lungo le pareti, edifici di scaffalature in legno lucidato - illuminate da candelieri su supporti a specchio - sorreggevano l'artistica argenteria: vassoi tentatori colmi di frutti e paste, formaggiere coperte a forma di casolari o latterie, piatti da pesce in argento con maniglie d'avorio e ardenti bracieri d'ottone tenuti pronti per riscaldare i cibi. Maggiordomi e sottomaggiordomi in livrea aspettavano sull'attenti di fronte a ogni scaffale. Larghi tavoli erano allineati in un'unica fila per tutta la lunghezza della sala, apparecchiati con candide tovaglie di damasco ricamate a losanghe. La tavola alta, posta ad angolo retto rispetto alle altre, campeggiava su una piattaforma a un'estremità della fila e sulla sua nivea superficie non apparecchiata era deposto soltanto il quartetto delle stagioni, personificate in grandi sculture d'argento dorato che danzavano in circolo: la Primavera dai capelli inghirlandati di fiori e con farfalle posate sulle mani; l'Estate incoronata d'alloro, che allungava la pigra mano per farvi appollaiare un'allodola; l'Autunno con la fronte cinta di grappoli d'uva e un covone di grano
sulle spalle e infine l'Inverno, incoronato di biancospini. La luce delle candele metteva in morbido risalto la loro gloria congelata. Le lunghe tavole, cariche di servizi da cena, facevano sembrare austera la tavola alta per contrasto. Miriadi di candele di cera infisse su dozzine di candelabri a molte braccia si riflettevano in calici di cristallo, cestini da pane in filigrana d'argento, coppe d'oro sollevate su piedistalli e colme di dolciumi e condimenti, gruppi di speziere d'argento nelle fogge più varie, anforette cristalline per gli aceti d'erbe e gli oli, zuppiere di porcellana dipinte con stelle marine azzurre, supporti ovali contenenti lampade accese per riscaldare i piatti e piccoli supporti a specchio, sui quali erano messi vasi di fiori confezionati assai realisticamente in seta. Una quieta musica scendeva da una balconata dove un terzetto di menestrelli si permetteva di stonare, ignorato dall'impassibile musicista reale. Una corrente di nobili cortigiani affluì dalle porte all'estremità inferiore della sala: a un primo sguardo si sarebbe potuto dubitare che fossero esseri umani, tanto fantasioso era il loro abbigliamento. Non una di quelle dame sembrava indossare meno di tre indumenti l'uno sull'altro: un corto soprabito, una tunica a mezze maniche con l'orlo al ginocchio e, sotto di essa, una lunga veste a maniche intere. I tre accessori erano di colore diverso e con le tre serie di maniche di forme assai contrastanti. C'era chi le aveva così larghe da doverne legare le spesse pieghe intorno ai polsi e chi ne portava di strette come calzamaglie ma con sbuffi e rotoli ai gomiti e alle spalle; chi le aveva a forma di campana e chi traforate, con l'aggiunta di nastri e cordicelle che uscivano dalle fessure. Alcune di quelle maniche erano così ridicolmente lunghe che i polsini venivano trascinati al suolo come strascichi. I ricami coprivano ogni lembo di tessuto; dalle cinture e dalle castellane, allacciate alla vita delle dame con fibbie d'argento dorato, pendevano chiavi, borsette e piccoli pugnali riposti in foderi di pelle, il tutto intonato alle spille, alle collane e ai bracciali di quei pavoni umani. Le loro acconciature erano complicate esagerazioni: cornute, piramidali, con frontespizi a balconate sovrapposte o a forma di scatole intarsiate col coperchio chiuso. Poiché i cappucci imbottiti di talium non erano necessari all'interno dei muri di dominite, i lord si ornavano la testa con rigidi cappelli a tesa larga, generosi copricapi flosci di velluto e broccato o aderenti cuffie di seta spessa; cordoni dorati di straordinaria lunghezza si arrotolavano intorno alle teste e alle spalle dei loro proprietari come viticci strangolatori. C'erano cappelli con paraorecchi mobili e danzanti, cappelli con
diademi, cappelli con corone bulbose, cappelli con lunghi e voluttuosi piumaggi, cappelli con pendule tese colorate. Colletti di pizzo a ruota e ampie gorgiere ricadevano in una profusione di pieghe ornamentali sulle spalle dei lord, mentre le code ampie e ricamatissime delle loro giacche facevano strascico al suolo, dietro le loro scarpette ingemmate. Con quelle altere facce dipinte che galleggiavano sopra un mare di sgargianti damaschi, velluti, keyrse, sete pressate, sete selvagge, pizzi, trinoline, broccati, percalle, taffettà, tisshew e baudekyn, la magnifica folla sciamò intorno ai tavoli e alle sedie di quercia intagliata. Tutti restarono in piedi ai posti assegnati, ciascuno coi paggi, le ancelle o altri attendenti di guardia alle proprie spalle. Alcuni cortigiani tenevano in braccio animaletti da compagnia: linci nane ottenute per mezzo d'incroci selezionati, ocelot e altri piccoli felini o canidi, addestrati a sedere con docilità accanto al piatto e condividere educatamente il cibo. «Milady abbia la compiacenza di attendere fuori della porta finché l'intera assemblea sarà seduta», si era raccomandato l'inserviente che aveva scortato Rohain. «Il Siniscalco della Sala da Pranzo Reale annuncerà il nome di milady al suo ingresso, affinché milady sia presentata a tutti.» Una tromba squillò. «Aspettate», sussurrò Viviana, stretta accanto a Rohain. In un tono poco rassicurante, aggiunse: «Ah, vorrei che ci fosse stato il tempo di adornare le dita di milady... sono così insopportabilmente spoglie». Fra un suono di tromba e l'altro, la voce del Siniscalco annunciò l'arrivo di vari aristocratici di rango superiore, ai quali spettava la precedenza. Quando costoro ebbero preso posto, tutti gli altri commensali sedettero a loro volta, con un rumore di sedie smosse e un brusio di conversazioni. «Lady Rohain Tarrenys delle Isole Sorrows!» Rohain entrò nella sala da pranzo. Come una lente che concentrasse i raggi di luce, l'arrivo della dama sconosciuta suscitò un'intensa e immediata attenzione. Consapevole degli sguardi furtivi, di quelli aperti e dei commenti mormorati su di lei, Rohain senti il sangue affluirle al viso e il salone le parve, all'improvviso, surriscaldato e soffocante. «Da questa parte, milady.» Un ossequioso vice Siniscalco guidò la nuova arrivata a un posto libero e aiutò lei e le sue rigonfie sottane a sistemarsi sulla sedia. Rohain alzò coraggiosamente lo sguardo e rivolse un cortese cenno del capo a quelli seduti accanto e di fronte a lei: nessuno di loro incontrò i suoi occhi per più di un istante ma lei sentì che la studiavano at-
tentamente appena guardava altrove. Si volse a scrutare il resto dei commensali: Thorn non era tra loro. Il vice Siniscalco la presentò ai giovanotti alla sua destra e sinistra ma lei udì a stento i loro nomi, sopraffatta com'era dall'opulenza dei tavoli. Un'altra serie di note della tromba diede un segnale: quando l'eco si spense, i vice camerieri si accostarono ai commensali con brocche a forma di pesce e procedettero a versare acqua profumata sulle loro mani. L'acqua cadeva in tazze di porcellana dal coperchio traforato come un colino e restava così nascosta alla vista, essendo inquinata. Furono offerte salviette per asciugarsi le dita e poi il tutto venne portato via. Dopo il lavaggio delle mani, una formidabile processione di camerieri portò in sala massicci vassoi coperti, che furono deposti nei pochi spazi disponibili. La tavola alta - con tanto di baldacchino che copriva il prezioso seggio centrale - era così soprelevata che sarebbe stato difficile vedere in faccia chiunque vi fosse seduto, tuttavia essa rimase vuota e non apparecchiata. I piccoli utensili argentei appesi alla castellana di Viviana tintinnarono quando lei si chinò per sussurrare all'orecchio della sua padrona: «Ora daranno inizio agli Esami e agli Assaggi. Vostra Signoria deve soltanto aspettare». «Perché la tavola alta è vuota?» mormorò Rohain. «La famiglia reale, l'Attriod e altri di rango elevato spesso cenano in privato, nella camera da cena reale o in uno dei salotti. Il Lord Ciambellano, il Maestro della Cavalleria e il Lord Siniscalco si sono uniti a loro, questa sera; così pure il Segretario Personale del Re-Imperatore, lo Scudiero della Corona e il Custode del Tesoro Privato. Molti lord che si trovavano a Corte sono tornati nelle loro terre a causa della minaccia al nord e tutto il resto.» Mentre parlava della minaccia al nord, la voce della ragazza si era fatta cupa; il suo flusso d'informazioni cessò bruscamente. Rohain avvertì un sottofondo d'apprensione dietro quelle parole e il suo disagio raddoppiò: Namarre, la strana terra selvaggia del nord, sembrava così lontana... eppure il suo nome incombeva sulla Città Reale come l'alito della pestilenza. «E i Dainnan?» Lo sguardo di Rohain frugò tra i cavalieri ammantati di satin bianco, seduti agli ultimi tavoli in fondo alla sala. «I loro tavoli sono quasi vuoti. Soltanto un thriesniun cena con noi questa sera.» Uno dei cortigiani seduti accanto a loro lanciò a Viviana uno sguardo severo. La cameriera si trasse indietro e riassunse la posizione rispettosa di
poco prima. All'estremità più lontana della sala sedevano anche i Conti e le Contesse, i Visconti e le Viscontesse, nonché un Marchese. Tra quei tavoli si muovevano gli assaggiatori, il cui lavoro richiedeva che mostrassero con una certa solerzia sintomi drammatici se il cibo era avvelenato; mordicchiavano le varie pietanze con grazia pensosa, esibendo una studiata indifferenza. Gli esaminatori toccavano invece il cibo con lingue di serpente, cristalli, agate, serpentine e crani di rospo: tutti attrezzi che avrebbero cambiato colore o sanguinato a contatto con un veleno. «Con tutte queste barche in tavola, si potrebbe pensare che il cuoco abbia preparato qualcosa di marino come secondo piatto, ad esempio filetti di piovra», osservò il cortigiano dagli occhi languidi seduto alla sinistra di Rohain. Le sue maniche più corte, staccabili, erano fissate alle spalline coi nastri che lì chiamavano «punti»; le maniche di lunghezza media, sotto di esse, erano piene di buchi dai quali s'intravedeva il terzo paio, quelle della camicia di seta. Notando la saliera a forma di vascello, le vele spiegate ricamate sui tovaglioli e i coltelli dentellati come quelli dei marinai, Rohain sorrise. «Si potrebbe pensare, sì.» «Milady intende trattenersi a lungo qui a Corte con noi?» indagò in tono casuale l'uomo dalla lunga mascella che sedeva alla sua destra. Indossava una corta tunica con maniche a cornamusa e una rete gettata su una spalla, dalla quale pendevano alcune campanelle. «Per il momento non ne sono ancora certa...» I maggiordomi mescevano serenamente il vino - rosato, bianco, ambrato - in calici di cristallo che ne valorizzavano il colore e la tonalità. Il rito degli Esami e degli Assaggi sembrava richiedere un certo tempo. Concedersi alle chiacchiere spicciole era come camminare su una corda sospesa: Rohain sentiva che da un momento all'altro avrebbe detto la cosa sbagliata e sarebbe precipitata nell'abisso dell'altrui disdegno. Viviana intercettò il suo sguardo disperato e annuì, per farle coraggio. «Ah, la vendemmia dell'Eridorre 1081», commentò Occhi Languidi, ammirando il vino. «Una buona annata. Sembra che gli assaggiatori abbiano finito, alla buon'ora... Uno potrebbe morire di sete.» A questo punto, un altro squillo di tromba vibrò nell'aria. A capotavola il Marchese più anziano si tirò in piedi con qualche difficoltà, dovuta alla sua pesante mole e alla gotta. Tre lunghi e sottili cordoni ornamentali appesantiti da perle gli pendevano dalla giubba e gli s'ingar-
bugliavano tra i piedi, dando continue preoccupazioni al suo paggio; senza curarsene, il paffuto aristocratico sollevò il boccale e muggì: «Che i calici siano colmi per il brindisi reale!» I cortigiani si alzarono e si guardarono intorno, sollevando boccali e corni per bevande. «Alla salute del Re-Imperatore... possa Sua Maestà vivere per sempre!» Con una sola voce i commensali fecero eco all'augurio del Marchese, poi il cristallo tintinnò contro il cristallo. Quando Viviana le diede di gomito, Rohain notò che le altre dame tenevano i calici per il gambo invece che per la coppa e modificò subito l'impugnatura... ma non prima che qualcuno ridacchiasse, divertito. Poi tutti bevvero un sorso, si guardarono di nuovo intorno e tornarono ad accomodarsi. «Che la cena sia servita!» esclamò il Siniscalco della sala reale. «La zuppa! Tartaruga verde, aragosta nana e crema di crescione d'acqua!» L'anziano Marchese a capotavola si appoggiò allo schienale e il suo scudiero gli drappeggiò un lussuoso tovagliolo sulla spalla sinistra. A questo segnale, i camerieri si misero all'opera: i coperchi d'argento furono tolti dalle zuppiere colme di liquido fumante e la prima portata fu distribuita. «Che vi sia di gran giovamento», si auguravano i cortigiani a vicenda, portandosi alle labbra cucchiaiate di zuppa senza produrre rumori sconvenienti, con l'eccezione di quelli a capotavola, il cui rango non li obbligava all'osservanza delle buone maniere. Imitando scrupolosamente gli altri commensali, Rohain giunse al termine della zuppa. Quando i piatti della prima portata furono tolti, i camerieri asportarono lo strato superiore delle sopratovaglie mettendo allo scoperto quello sottostante, pulito. La pietanza di mare fu annunciata e accolta con un applauso generale: consisteva in un magnifico storione che fu portato intorno alla sala per farlo ammirare, con l'accompagnamento di un flauto e di un violino suonati da musicisti vestiti come cuochi. Due inservienti di cucina sorreggevano il vassoio lungo nove piedi sul quale il grande pesce arrostito giaceva tra foglie d'alloro e fiori gialli; accanto a loro procedevano quattro lacchè muniti di torce accese. La piccola processione era guidata dal Capo-Portiere, che marciava con un'accetta tra le mani. Dopo aver fatto il giro della tavolata, lo storione fu riportato in cucina per essere suddiviso in porzioni. Durante quell'intervallo i commensali furono intrattenuti da tre saltimbanchi e da una coppia di nani vestiti in maniera buffa, in groppa a cani lupo. Quando la pietanza di mare fu servita in tavola, tutti impugnarono le forchette d'argento da pesce con la mano destra. Con l'orlo esterno tagliavano
piccoli pezzi che infilzavano coi rebbi, poi portavano il boccone alla bocca e vi chiudevano delicatamente le labbra intorno; la forchetta veniva deposta durante la masticatura di ogni boccone e raccolta solo per preparare quello successivo. Rohain era abituata a mangiare con le mani e col coltello. Aveva già visto le forchette una volta - nella sala da pranzo della Torre - ma era più abituata alla vista della loro versione più grande, usata per ammucchiare la paglia nei fienili. Impugnò la forchetta come facevano gli altri, col dito indice puntato verso la base dei rebbi: era così intenta a mangiare con grazia che non notò, finché fu messa sull'avviso da un agonizzante colpetto di tosse di Viviana, che tutti gli altri tenevano la forchetta coi rebbi ricurvi voltati in basso. La nuova arrivata aveva infilzato e raccolto il cibo usando la forchetta come un cucchiaio! Le sembrava inutilmente perverso negare alla forchetta la sua utile possibilità di raccogliere, tuttavia era ciò che l'etichetta esigeva: nella fretta di girarla, se la lasciò sfuggire dalle dita. Lo strumento batté sul piatto con un rumore secco... Un'altra gaffe. Per giunta, si stava accorgendo che mangiare quella carne le riusciva impossibile, così si limitò a piluccare il contorno di verdura. Dall'altra parte della tavola, di fronte a Rohain e un po' più a destra, sedeva una dama molto bella, attorniata da parecchi ammiratori. Il rotolo di trecce ingemmate sulla sua testa - alto diciotto pollici - girava intorno a un supporto centrale a forma di cuore, la cui parte anteriore le scendeva sulla fronte mentre dai lati, ricurvi all'insù, pendevano reticelle d'oro che le coprivano le orecchie. Il suo soprabito dai bordi di pelliccia lasciava semiscoperta una veste che, per contrasto, era aderente e liscia come una calzamaglia. Grandi quantità di pelliccia erano state profuse nei risvolti delle maniche, così ampie da ricadere sul pavimento. Dopo aver ignorato la nuova arrivata fino a metà della pietanza di mare, la donna scoccò un abbagliante sorriso nella sua direzione, dicendo: «Mia cara, che aspetto gradevole avete, malgrado le fatiche del vostro lungo viaggio! Non pensate anche voi che abbia un bell'aspetto, Lady Calprisia? Non vi pare davvero graziosa? Lord Percival Richmond è di quest'opinione, direi. Non è così, Percival? Non le avete tolto gli occhi di dosso per tutta la sera... Ma non allarmatevi, mia cara; Percival non vi morderà... almeno, non in pubblico!» A queste parole fece seguire una risata cristallina, cui altri fecero eco. «Quella è Lady Dianella. Guardatevi da lei», sussurrò Viviana. «Suvvia, parlate... non siate timida», continuò Lady Dianella. «Cosa ne dite del tema marittimo di stasera?» Il sorriso della donna era luminoso
come i gioielli che le ornavano il collo, la cintura e le dita. «Io... ah, è splendido», rispose debolmente Rohain, abbagliata. La risata di lei fu melodiosa. «Splendido, vero? Splendido, dice! L'avete udita? Santo cielo, allora ha qualcosa da dire, dopotutto. Che brillante conversatrice... L'avreste mai detto, Lord Jasper? Suppongo che sappiate sulle Navi d'Acqua assai più di noi poveri abitanti del continente, dato che venite dalle Isole Sorrows. A quanto si narra, quelle terre sfortunate sono dette 'le Isole Tristi' per il numero di relitti che costellano le loro rive dirupate... o sbaglio? Non è forse vero che i naufraghi scampati a quei disastri marini sono spesso ben accolti nei letti delle dame delle Sorrows?» Come se quella bella donna avesse detto qualcosa d'infinitamente spassoso, la sua zona della tavola esplose in alte risate: era l'esatto contrario della riservatezza che caratterizzava gli abitanti della Torre. Con le lacrime agli occhi per il divertimento, Lady Dianella aggiunse: «Vi piace navigare, Lady Rohain?» Cosa che provocò altri accessi di risa. Rohain arrossì. «Non so nulla di navigazione», ammise. «Naturalmente no, povera cara! Il vostro tempo dev'essere dedicato a occupazioni più meritevoli... Voi cantate?» «No.» «Forse Lady Rohain suona uno strumento musicale», intervenne una dama con le chiome attorcigliate intorno a larghe corna vuote, adorne di false conchiglie e fili di perle. «No, non so suonare.» «Allora danzate? A guardarvi, c'è da supporre che danziate divinamente. Ci piacerebbe vedervi», disse quella che era stata chiamata Calprisia, in tono vivace. Il suo volto sottile era incorniciato da ripidi scalini di capelli, chiusi tra strisce di merletto nero da cui pendeva un velo stellato. «Mi dispiace deludervi ma...» «Oh, andiamo! Non siate così modesta! Non nascondeteci i vostri talenti... Noi vogliamo soltanto incoraggiarvi, in buona fede», dichiarò Conchiglie False. «Io posso soltanto applaudire i talenti degli altri.» «Ohibò! Cosa mai fanno, allora, le dame delle Isole nel loro tempo libero?» esclamò Lady Dianella. «A questo punto, si stenta a immaginarlo!» «E portano tutte i capelli acconciati come i vostri?» domandò Calprisia. «È uno stile davvero intrigante, così semplice e tuttavia così... ah...» Rohain sentiva la sua reputazione scivolarle via come sabbia tra le dita. Come avrebbe potuto rispondere? Doveva reagire all'offesa con austera
civiltà, mostrare sdegno o cercare di batterle al loro stesso gioco? «Naturalmente voi ci trovate originali e bizzarri, qui a Corte», aggiunse Dianella. «Senza dubbio penserete che siamo dei reprobi incorreggibili! Cosa porta una dama contegnosa come Rohain Tarrenys qui tra noi?» «I miei affari col Duca di Roxburgh.» Questo parve tacitare la sua tormentatrice, ma la pausa fu solo momentanea. Rivolgendosi al cortigiano alla sua destra, Lady Dianella disse: «A tal selvaga scegliaria sarvir un taraz de blurose». «Anveiro! Aura donna credia sa mez no-conta, ela», rispose lui, con una risatina. «Dovreste sapere che non capisco la lingua di Corte», disse Rohain, arrossendo. «Perché, dunque, la parlate di fronte a me?» Capì subito di aver commesso un altro sbaglio. Il sorriso cadde dal volto di Dianella come una maschera e le sue sopracciglia s'inarcarono in un'esagerata manifestazione di sorpresa. «Cielo, perché non stiamo parlando con voi, ecco perché! Là! Questa dama origlia le nostre conversazioni? Quant'è grossolana! La selvaga prendes a profitar benignitas de altruia, Lord Percival.» «Via, Dianella...» protestò Lord Occhi Languidi, imbarazzato. «La insapida te piaz... com pisceo sansa sal. Es asiempra de toia gustes lo manguistar estranio, a tu!» replicò quella, salacemente. Le altre cose che aggiunse furono sommerse dalle risate. Lord Percival si chiuse in un'espressione offesa per il resto del pasto e Rohain curvò le spalle sotto il peso della propria infelicità. «Gli arrosti!» ruggì il Siniscalco della sala da pranzo. Apparve la terza portata e il Macellaio Reale - un uomo grasso, con due pesanti coltelli in mano e altri utensili appesi alla cintura - fece il suo ingresso, seguito dagli assaggiatori, dagli esaminatori, dal capocuoco, dall'addetto alle salse e dai quattro portatori di torcia. Per erudire e divertire i commensali, l'uomo sezionò un intero manzo arrostito dinanzi ai loro occhi, lavorando con la destrezza e l'agilità di un giocoliere: dapprima divise la bestia nelle sue diverse parti, spaccando l'osso solo quando non poteva separare altrimenti le articolazioni; poi sollevò i pezzi nell'aria con un forchettone e li affettò con un affilatissimo coltello. Le sottili fette d'arrosto cadevano sui vassoi, sovrapponendosi con bell'effetto. Il cuoco spolverò poi il sale sui piatti che i camerieri organizzavano e cominciavano a distribuire. Ai commensali venne offerta la possibilità di servirsi da soli di alcuni contorni vegetali,
nonché paté e salse dolci o salate. Alcuni aggiunsero all'arrosto un pizzico di qualche droga personale, che si portavano appesa alla cintura in scatolette quadrate dalla superficie ruvida e col coperchio traforato. Oltre il brusio delle conversazioni spicciole, punteggiate dal tintinnio delle posate e da qualche artificiosa risatina, un lontano ululato eldritch fece all'improvviso rabbrividire la spensierata assemblea. Poi tuonò una nota più profonda, così bassa che fu sentita nelle ossa, più che nelle orecchie. La vibrazione salì attraverso il pavimento e fece increspare il vino nei bicchieri. I piccoli cani seduti sulle tavole abbaiarono e i felini rizzarono il pelo. Mentre le esclamazioni di stupore ronzavano come vespe irritate nella sala, le alte finestre s'illuminarono di un fulgore bianco. Grida d'allarme echeggiarono nell'aria, seguite da risate. «È soltanto una normalissima tempesta», si rassicurarono a vicenda i cortigiani. «Io ho sentito il grido di uno strillone.» Ma che tempesta! Era come se una bestia fatta di pura rabbia si fosse scatenata nel cielo, minacciando di ridurre la città in macerie e di rovesciare il palazzo dalle sue fondamenta. Il vento urlava con una moltitudine di voci diverse, come i pianti di donne a lutto per i mariti defunti e il profondo mugolio di uomini attanagliati dal dolore, come l'ululato dei lupi sotto la luna e le raffiche furiose su per la cappa di mille camini polverosi o il muggito di creature mostruose emerse dalle profondità dell'oceano. I gagliardetti e gli stendardi sulle torri del palazzo dovettero essere frettolosamente ammainati per timore che fossero ridotti in stracci; molte tegole schizzarono via dai tetti, andando a schiantarsi nei cortili sottostanti. Gli alberi dei giardini si piegavano scricchiolando, e rami frustavano l'aria e si spezzavano e improvvisi vortici di foglie si levavano ovunque. Nella Sala da Pranzo Reale, i servi coprirono le finestre con pesanti tendaggi ma nessun tessuto sembrava abbastanza spesso da tener fuori l'incandescenza di quei lampi. Dal cielo cadevano i fulmini, uno dopo l'altro. Il terzetto di musicisti suonò più forte, nel tentativo di farsi udire sopra la pioggia, il vento e i tuoni. Un mangiatore di fuoco e un pagliaccio sui trampoli cercarono di distrarre i commensali dalla tempesta, senza molto successo. Un giocoliere eseguì numeri stupefacenti con palle, clave e torce accese ma fu quasi completamente ignorato, salvo quando un oggetto pesante gli cadde su un piede e lui si mise a saltellare qua e là, gemendo di dolore: i cortigiani pensarono che facesse parte del numero e applaudirono.
La quarta portata - due grassi cigni - giunse in sala su un largo vassoio sostenuto da due serve giovani e attraenti, vestite di penne. I volatili erano stati spellati con cura per lasciarne intatta la pelle piumata e, successivamente, farciti e arrostiti, prima di essere rivestiti nuovamente della loro epidermide cui erano stati aggiunti collari ingioiellati e pinne d'argento alle zampe. Ripensando alla ragazza-cigno nel casolare di Maeve la Guercia, Rohain ebbe un fremito d'orrore, poi cercò di dissimulare la propria reazione premendosi sulle labbra un fazzoletto offertole dalla sua cameriera. Gli eldritch wight non possono essere uccisi, rammentò a se stessa, con sollievo. Le false ragazze-cigno presentarono il vassoio al Marchese più anziano e i volatili furono suddivisi in piccole porzioni dal Macellaio Reale. Mentre la carne di cigno veniva distribuita in tavola, Dianella e i suoi amici conversarono quasi esclusivamente nella lingua di Corte, gettando spesso rapidi sguardi alla giovane straniera. A volte ridacchiavano, celandosi la bocca con una mano. Rohain giocherellò col cibo che aveva nel piatto e finse di mangiare, ma il nervosismo le chiudeva lo stomaco: non riusciva a pensare a niente da dire e desiderava solo andarsene da quella sala e ritirarsi nella solitudine del suo appartamento. Oltre le mura di dominite, il tuono rotolava la sua palla di ferro lungo il tunnel metallico del cielo. Il vento afferrava con tutte e due le mani i tetti del palazzo e faceva del suo meglio per strapparli via. Nell'attesa del dolce, l'ultimo strato delle sopratovaglie fu rimosso, lasciando allo scoperto la tovaglia intatta. Le dame che facevano parte del Gruppo, annoiate l'una dell'altra, rivolgevano osservazioni casuali alla timida violetta al centro del loro bouquet conviviale... parole dolci, affilate e mordaci come un liquore allungato col veleno, come spade avvolte nella seta. Con indifferenza, esse pungolarono la sua dignità coi loro strali affilati, fino a ridurla a uno straccio. Gelatine luccicanti, densi sciroppi, morbide creme e paste in bianco, cagliate alla cannella, paste glassate e frutta candita seguirono l'ultima portata. Rohain immaginò le piramidi untuose che stavano necessariamente prendendo forma negli affollati lavelli del retrocucina. «Quando avremo il permesso di andarcene?» mormorò alla sua cameriera. Si sentiva nauseata... e non per le immagini che si era raffigurata. «Non finché il Lord Marchese di Early si sia alzato da tavola.» «Spero che ne trovi la forza, con tutto quel che ha mangiato!» «Non volete dirci di cosa state parlando con la vostra serva?» le doman-
dò Conchiglie False, Lady Elmaretta. «Sì, vi preghiamo, ditecelo!» le fecero eco altri, con gli occhi scintillanti d'impazienza come se agognassero un'altra deliziosa opportunità di assaporare l'umiliazione di qualcuno e guadagnarsi l'approvazione di qualcun altro. «Non è nulla d'importante.» «Oh, che maleducazione!» esclamarono alcuni, in tono stupefatto. «Vergogna!» Elmaretta agitò un indice ammonitore. «Dovete dircelo. Non si sussurra a tavola!» «E poi, mia cara, tutto ciò che voi dite è importante per i vostri amici!» aggiunse dolcemente Dianella. «Ebbene», rispose Rohain con baldanza, «stavo soltanto ripetendo a Viviana ciò che la volpe disse ai segugi affamati.» «Oh? E cosa mai disse? Sentiamo!» «'Quando mi avrete divorato, che il più debole tra voi si guardi alle spalle!'» Le dame si scambiarono occhiate. «Questo dovrebbe essere uno scherzo?» s'informò Calprisia. «Santo cielo, non è affatto divertente!» «No, non è divertente», concordarono i suoi amici. «È una cosa molto strana da dire!» «Siete certa di non aver bevuto troppo, mia cara?» domandò Dianella. «O piuttosto non abbastanza! Guardate, ne ha assaggiato appena una goccia... Maggiordomo! Riempi il calice di Lady Rohain!» Parecchie persone risero senza ritegno. Rohain mantenne il controllo di se stessa: perderlo sarebbe stata l'umiliazione definitiva. Avendo segnato un altro punto a suo favore, Dianella sembrò perdere interesse e si voltò. Dopo aver rilassato l'addome rigonfio con l'espulsione di una certa quantità di gas, il vecchio e corpulento Marchese di Early fu aiutato a mettersi in piedi e uscì, senza tante cerimonie. La cena, finalmente, era terminata. Fuori stava infuriando la tempesta. Le stanze affrescate con cannicci d'oro le sembravano un paradiso. «I lord non hanno lingue di vipera come le lady», mugolò Rohain, con aria stanca. «Nessuno di loro ha detto una parola offensiva nei miei confronti.» «I lord hanno i loro motivi per essere cortesi, milady.»
Rohain salì gli scalini del letto e si lasciò affondare nel materasso di piume. Debolmente, Viviana osservò: «Vostra Signoria ha mangiato poco. Un appetito scarso è considerato elegante». «Sei gentile», le disse Rohain. «Mi hai assistita come meglio hai potuto, anche se tutte le probabilità erano contro di me. Io, però, so bene come stanno le cose... Ho fallito: non sarò mai accettata. Sono Fuori, ancor prima di aver messo piede Dentro.» Le sembrava una disgrazia terribile, come se tutto il peso del mondo si fosse abbattuto sulle sue spalle. Quando ebbe aiutato la sua padrona ad andare a letto, Viviana andò a cenare con gli avanzi di cucina insieme con le altre cameriere di basso rango. Un paio d'occhi disumani, braci rosse nell'umida oscurità di una fogna. Un puzzo rivoltante di materia in decomposizione e di feci. Un brulicare, uno scalpiccio e degli squittii nelle tenebre e piccole ombre che erano vive e correvano, saltavano e si riunivano. Nere forme che si accalcavano una sull'altra e dilagavano sul pavimento, in una terribile marea curiosa e affamata. Erano dappertutto, in numero sempre maggiore - sotto il letto, su per le pieghe delle tende e sui cordoni - e cadevano con morbidi e pesanti plop dagli arazzi damascati e dagli scaffali come maligne gocce di pioggia, sciamando, radunandosi negli angoli, correndo sotto i freddi bracci anneriti del parafuoco e intorno agli attizzatoi e alle molle, arrampicandosi su per le artistiche gambe del tavolino laccato e facendo rotolare via le arance tenute ferme sul piatto d'argento da quattro putti alati. Erano ratti. Squittivano. Le loro sporche zanne giallastre grattavano e scavavano. Mentre si facevano più vicini, lei vide che avevano le facce sprezzanti delle cortigiane. Tra poco avrebbero cominciato a correre in lunghi sciami neri: su per gli scalini del letto e attraverso il copriletto di broccato, lungo le sue braccia, sul suo viso; l'avrebbero ricoperta coi loro corpiciattoli puzzolenti, per poi cominciare a morderla coi denti acuti come aghi... a dilaniare, a scavare dentro le orbite degli occhi, a entrarle nel cranio... finché la sua carne sarebbe stata divorata e il suo sangue avrebbe inzuppato i cuscini di seta gocciolando giù sul tappeto in larghe chiazze e di lei non sarebbe rimasto altro che uno scheletro spolpato. Rohain si svegliò con un grido.
Una pallida luce perlacea filtrava dalle finestre. Le colonne del letto a baldacchino si ergevano intorno a lei, rassicuranti e protettive. I suoi occhi frugarono la stanza: i frutti sul piatto non erano arance, bensì pere di marmo, melograni d'onice, paste di marzapane dipinte a olio, mele di porcellana, grappoli d'uva d'ametista. Dei roditori non c'erano segni. Lei si portò le mani alla fronte; il respiro le entrava e usciva in ansiti spezzati e aveva il volto imperlato di sudore. Viviana entrò di corsa, preoccupatissima. «Milady, cosa c'è?» «Non è nulla. Soltanto un brutto sogno.» Fuori della finestra si udivano voci e rumori. Viviana andò a sciogliere i lacci delle tende e le aprì. Il sole fiottò nella camera: la tempesta era finita. All'esterno, su una piccola altura verdeggiante presso la cancellata dei giardini, alcuni pavoni albini facevano la ruota, inconsapevoli dell'interesse che suscitavano nel Macellaio Reale. Le bambinaie sorvegliavano pargoletti ben infagottati nei loro ricchi abiti, liberi di uscire dalla nursery del palazzo e occupatissimi a giocare coi cavalli a dondolo, con frustini o con veri cavalli nani non più grossi di cagnolini. Alcuni cittadini di Caermelor sbirciavano attraverso le sbarre della cancellata e oltre le guardie reali di servizio, sperando di scorgere qualche membro della nobiltà. I bambini chiusi in quei recinti restituivano loro lo sguardo, altrettanto affascinati. Il figlioletto di un Conte passò davanti alla finestra alla guida di una carrozza per bambini trainata da pecore, spronandole selvaggiamente con la frusta. «Di cos'hai paura?» domandò all'improvviso Rohain. «Non capisco cosa intende la mia signora», replicò la cameriera, perplessa. «Io ho paura dei ratti.», spiegò Rohain. «Una paura molto intensa e irragionevole... dopotutto sono soltanto degli animaletti relativamente innocui, facili prede delle volpi e delle linci. Perché io debba odiarli tanto è incomprensibile.» «Mio cugino Rupert ha paura del rumore della stoffa che si strappa», disse Viviana. «Che strano!» «Io penso che non sia affatto strano, milady. Quand'era piccolo, Rupert aveva un difetto a un'anca. Gliela fasciavano sempre molto stretta, affinché potesse crescere dritto. Le fasce erano assai dolorose per lui, tanto che spesso piangeva quando gliele mettevano. Per farle, usavano strappare lunghe strisce di lino e questo era il segnale della sua sofferenza... così
quella paura gli è rimasta, anche se ormai è diventato adulto. Mia madre diceva che ognuno di noi ha almeno una paura irragionevole: è un difetto umano. Io ho paura dei ragni.» «I ragni? Ma sono piccole, amabili creature... così industriose e delicate...» Viviana rabbrividì. «Anche sentir parlare di loro mi fa tremare, signora.» «Perché dobbiamo avere queste paure?» «Non lo so, milady. Si dice che abbiano origine nella prima infanzia.» «Allora la mia infanzia dev'essere stata tormentata dai ratti», mormorò Rohain. Viviana gettò ancora uno sguardo alla finestra. «Non è stata terribile la tempesta di questa notte, milady?» domandò. «Ora si è calmata ma fuori c'è ancora vento, anche se è mezzogiorno passato.» «Mezzogiorno passato? Ho dormito troppo! Sarà meglio che mi alzi senza indugio.» «È un bene che Vostra Signoria si sia svegliata», disse Viviana, con l'aria di chi avesse tenuto per sé un'eccitante novità col proposito di sorprendere il suo interlocutore. «Un lacchè del Duca di Roxburgh è venuto poco fa con un messaggio ma non ho voluto svegliarvi. Il Duca si è già imbarcato su una Nave del Vento diretta verso nord, però ha lasciato detto che la mia signora dovrà tenersi pronta a partire da Caermelor al tramonto.» «Mi stanno già buttando fuori?» «Macché... La mia signora sarà presa a bordo di una nave da esplorazione Dainnan - un rapido vascello dell'aria - per un viaggio alle Lofty Mountains sotto la protezione di Thomas il Poeta, Duca di Ercildoune. Io ho avuto ordine di occuparmi di Vostra Signoria durante la trasvolata.» La sua voce si alzò, eccitata. «Milady, non ho mai viaggiato su una Nave del Vento! Questa è la cosa più straordinaria che mi sia mai accaduta!» «Sono felice per te.» «Vostra Signoria, è una gioia anche potervi seguire lontano da questo palazzo. Sarò ben lontana dalle grinfie della Marchesa di Netherby... almeno per qualche tempo!» La cameriera eseguì un piccolo ma esuberante inchino. «Forse per un tempo assai maggiore», sorrise Rohain. «Non ti cederò facilmente! Suvvia, prepariamoci.» «Milady, avrete bisogno di parecchi cambi d'abito, come si addice al vostro rango», l'informò Viviana. «Mi sono presa la libertà di commissionarli ai sarti di Corte, che già mentre noi parliamo stanno modificando diversi
indumenti già pronti secondo la mia stima delle misure di Vostra Signoria. Tuttavia sarà necessario che voi li convochiate per una seduta di controllo, appena ne avrete il tempo.» «Ben fatto, signorina Wellesley!» esclamò Rohain, ammirata. «Ti hanno già comunicato il prezzo?» «Naturalmente, milady! E non è neppure troppo elevato. Ho contrattato un poco.» «Ti darò subito il denaro per pagare quei sarti.» Nonostante la frenesia dei preparativi di quel giorno, le immagini dei ratti continuarono a disturbarla per ore. Rohain sapeva che non si era trattato di un semplice incubo, bensì di un frammento dei suoi ricordi. La fregata Dainnan Pellegrina navigava rapida nel cielo sulla spinta di un forte vento da ovest, alla velocità di venti nodi. I suoi alberi cigolavano e lo scafo si alzava e abbassava, sollevato dalle correnti ascensionali sui versanti delle colline esposti al vento e spinto in basso dai turbolenti vortici contrari sul lato opposto. Dal suolo saliva una dolce fragranza di foglie umide e il cinguettio d'una moltitudine di uccelli appollaiati sugli alberi. Dietro la poppa del vascello, oltre il mare, strisce di nubi oscuravano la sanguigna forgia del sole in quel tramonto d'inverno: il ventre ricurvo delle vele ne rifletté i bagliori rossi ancora per un poco, poi tutto ingrigì nel crepuscolo che annebbiava l'occidente. Stavano già facendo capolino le prime stelle. Aggrappata alla murata di poppa con una mano e stringendo nell'altra i cordoni del cappuccio, Rohain delle Isole Sorrows stava in piedi sul ponte. Guardava indietro, oltre il sartiame inferiore e verso le luci di Caermelor in allontanamento: il palazzo fortificato di dominite, scuro e massiccio sulla dorsale della collina, coi profili merlati dai quali si levavano torri e torrette e i sottili intrecci di sostegni degli alberi d'ormeggio, simili a una foresta di pali; la solitaria, altissima mole della Torre di Caermelor, ossia la fortezza dove aveva sede il Primo Casato dei Cavalieri della Tempesta... Nei cortili e nei giardini del palazzo invasi dalle ombre, le fontane cantavano senza che nessuno le udisse. Nei loro eleganti alloggi, lontani dal freddo, i lord e le lady dovevano essere già seduti a bere vino davanti ai caminetti, allietati dalle arpe e dai liuti dei bardi. Il cuore della giovane donna fu stretto da un'inattesa nostalgia... ma non certo di loro. A un tratto, la nave incontrò una corrente d'aria più agitata e il vento viaggiando a una velocità maggiore rispetto al vascello che portava con sé
- fece svolazzare le trecce nere di Rohain. Le lunghe corde appese ai pennoni e al sartiame ondeggiarono. Più in alto, tra le griselle e le coffe - in mezzo alle vele color del cielo che sbattevano e si gonfiavano - gli aeronauti Dainnan si chiamavano a vicenda. Le grandi superfici di tela avevano bisogno di essere accudite di continuo: gli uomini che le manovravano dal ponte stavano al riparo in un casotto di canapa impermeabile. L'aeronauta di guardia sul cassero aveva accanto a sé una campana per segnalare l'avvistamento d'altre navi a sinistra o a destra, di prua o di poppa, in alto o in basso. L'equipaggio di coperta si occupava del cordame, controllava gli attrezzi e le griselle e ogni tanto qualcuno, svolgendo le sue mansioni, passava accanto alle due passeggere presso la murata di poppa, le sole donne a bordo. La nave aveva imbarcato un thriesniun della Confraternita: un plotone di ventisette Dainnan col loro capo liberamente eletto, il capitano Heath. Thorn non era tra loro e Rohain non osava domandare di lui, un po' per non destare tra i suoi colleghi chiacchiere che il giovane non avrebbe gradito e un po' per non apparire sfrontata... Ma cos'avrebbe fatto se, prima o poi, si fosse trovata dinanzi a lui? Si sarebbe fatta riconoscere come la creatura dal volto deforme che aveva viaggiato in sua compagnia? Gli avrebbe confessato il proprio amore? Proteggendo lei e Diarmid durante la loro marcia attraverso mezza Eldaraigne, il giovane aveva semplicemente adempiuto al proprio dovere: essendo un Dainnan, era tenuto a salvaguardare la vita dei cittadini. Poi erano giunti a destinazione e lui, portato a termine il suo compito, era andato altrove. Le loro vite, intrecciate per così breve tempo, si erano separate... eppure, ogni volta che un alto guerriero in tunica verde oliva le appariva accanto, il cuore di lei beccheggiava come una nave nella bufera. Con un gesto abituale, la dama delle Sorrows si chiuse meglio il lussuoso cappuccio intorno al viso. La nave cominciò a inclinarsi da una parte e dall'altra. Al fianco della sua padrona, Viviana vacillò. Sembrava pallida. «Venite nella sala di navigazione, milady. Se il vento si facesse più irregolare - com'è probabile, su questo territorio collinoso - ci sarebbe il rischio di essere sbalzate fuori bordo!» La giovane cameriera indietreggiò come un granchio verso il centro del ponte, sbatté contro la parete della cabina e tornò indietro con passi involontariamente lunghi e veloci. Rohain la guardò, sorpresa: per lei non era molto difficile compensare le oscillazioni della nave. La sala di navigazione era illuminata da lampade a olio appese a ganci, simili a fiori di sole che danzavano senza requie a ritmo con le ombre.
Thomas Learmont, detto il Poeta - nobilissimo Duca di Ercildoune, Marchese di Ceolnnachta, Conte di Huntley Bank, Barone di Achduart e Bardo Reale di Erith, per menzionare solo i suoi titoli più rilevanti - si grattò la rossa barbetta caprigna. Stava meditando su una mappa accanto ad Aelfred, il navigatore di bordo: la luce delle lampade conferiva un tono caldo ai suoi capelli rossicci lunghi fino alle spalle, che contrastavano col velluto blu uovo-di-pettirosso della blusa. Sulla sua gola scintillava un collare a torciglione d'oro con occhi di zaffiro: il sigillo-serpente dei bardi. Al loro primo incontro, Rohain aveva quasi creduto d'avere dinanzi Sianadh redivivo, non essendosi aspettata di trovare gente coi capelli rossi a Corte dopo ciò che aveva sentito dire; quest'uomo dalla barbetta ben pettinata e dai sottili mustacchi, però, non era Sianadh, anche se somigliava nei capelli e nell'aspetto al suo perduto amico: aveva lineamenti facciali pronunciati e occhi profondamente infossati nell'ombra di sopracciglia cespugliose. Il suo abito era ricamato con un motivo a chiavi di violino alate e dalla spalla sinistra gli pendeva una mezza mantellina, fermata da una spilla a forma di chitarra. Thomas «il Sincero», come lo chiamavano molti, non aveva messo in discussione la storia raccontata da Rohain a Roxburgh, tuttavia non era uno sciocco: dietro quei suoi occhi allegri albergava una mente acuta... ma, per qualche ragione, aveva deciso di prendere la ragazza in parola, almeno per il momento. Ora gli occhi chiari del bardo si volsero alla visitatrice. S'inchinò, baciandole il dorso della mano. «Milady...» Lei gli restituì l'inchino. «Vostra Grazia.» «Fra trentaquattro ore dovremmo librarci sui Lofty, se questo buon vento da ovest continua a favorirci. Navigheremo giorno e notte.» Si volse al suo apprendista: un giovane dal mento appena velato di barba, con addosso la livrea azzurra e oro dei bardi. «Toby, il liuto di legno di rosa è stato accordato?» «Sì, Vostra Grazia», rispose Toby, porgendogli lo strumento. Il Bardo Reale accarezzò con evidente piacere la lucida cassa in legno di rosa e pizzicò alcune corde, facendo vibrare note nitide come campanelle. «Bene.» Restituì lo strumento all'apprendista. «Bada che mantenga l'accordatura. Non ho bisogno di rammentarti che le corde nuove tendono ad allungarsi, specialmente nell'aria umida e a quest'altitudine... Gerald, porta la cena e il vino. Arrotolate le vostre mappe, Mastro Aelfred... La dama e io ceneremo qui e subito, coi capitani. Prima, però, faremo due passi sul
ponte, se a milady non dispiace.» «La mia cameriera teme che ci sia il rischio di essere sbalzati fuori bordo.» «È poco probabile che questo accada durante il prossimo turno di guardia, milady», rispose Aelfred, con un inchino. «La nave sorvolerà un territorio livellato e uniforme. Non si prevedono turbolenze.» «In tal caso, è un piacere accettare il gentile invito di Vostra Grazia», disse Rohain, godendo della sua nuova padronanza del linguaggio di Corte. Litigando per il posto migliore, gli uccelli appollaiati sugli alberi sotto lo scafo facevano chiasso come durante il coro dell'alba. La cupola del firmamento, punteggiata di stelle, era soffusa di quel vago splendore azzurrino che si poteva vedere soltanto di rado, nel breve intervallo tra il tramonto e il crepuscolo. Il sartiame era un reticolo di linee nere stagliate su quello sfondo e la luna crescente, rigonfia, galleggiava sopra l'orizzonte come un pesce affogato. «Che strana ora della notte è questa... o dovrei dire del giorno?» mormorò educatamente Rohain, mentre s'incamminavano sul ponte appena inclinato. «È come se il buio, nella sua fretta di uscire al lavoro, si fosse scontrato con la luce che rincasava, restandole abbracciato addosso. Il sole non se n'è ancora andato del tutto e già la luna osa impadronirsi del cielo... e gli uccelli hanno creduto che nel suo fulgore occhieggiasse il mattino. È un'ora di confine... chissà, forse è l'ora delle avventure e delle imprese audaci.» Il suo accompagnatore, sorridendo, le offrì il braccio e lei allungò una mano oltre il vasto perimetro delle sue sottovesti per appoggiarla sul polsino di pizzo. Il Duca di Ercildoune, Bardo Reale e poeta del Re-Imperatore, era un uomo tanto cortese quanto istruito e lei ne era stata attratta fin dal loro primo incontro. «A proposito di confini», disse il bardo, «mi è venuta in mente una vecchia storia. Vi spiace se ve la racconto? Ci sono pochi piaceri più grandi, credo, che indulgere nella narrazione di una storia in una sera come questa... e a questa altezza dal suolo!» «Sarà un privilegio, mio signore, udire un racconto narrato dal bardo del Re-Imperatore.» Lui la ringraziò di quella risposta con un dignitoso cenno del capo. «C'era una volta un uomo», cominciò, «di nome Carthy McKeightley... un fanfarone, il quale si vantava che avrebbe potuto battere qualsiasi eldritch wight in una gara d'intelligenza. Quella baldanzosa dichiarazione
giunse infine alle orecchie dello stesso Huon...» Un brivido di terrore colpì Rohain, che fece del suo meglio per non darlo a vedere. «E così», continuò Ercildoune, che stava guardando verso la murata di sinistra e non aveva notato il disagio di lei, «essendo di natura sportiva, il Cornuto sfidò McKeightley a giocare una partita a carte con lui. Per tener fede alla sua affermazione, quest'ultimo non poté rifiutare... e, allo scopo di rendere la sfida più interessante, la posta in palio sarebbe stata la vita del perdente. «'Stanne certo!' disse Huon il Cacciatore, abbassando minacciosamente le grandi corna. 'Se mi dimostrerò più intelligente di te, la tua vita sarà finita, che tu sia dentro o fuori dalla tua casa di frassino e di ferro. Se fuggirai, t'inseguirò coi miei segugi - i Connanuin - e giuro che ti prenderò.' Anche in questo, McKeightley si disse allegramente d'accordo.» Il narratore fece una pausa. Rohain, che nel frattempo aveva ritrovato la padronanza di sé, sorrise e annuì. «Per quanto McKeightley fosse un ottimo giocatore di carte», disse Ercildoune, «Huon era ancora più abile. La partita durò tre giorni e tre notti ma, alla fine, il wight unseelie fu il vincitore: 'Ora ti divorerò', disse. McKeightley, però, balzò via e fuggì in casa; poi chiuse porte e finestre di frassino con catenacci di ferro. Non si trattava di una casa comune: coi suoi muri spessi quattro piedi era più robusta di quelle in pietra; inoltre era impregnata con ogni genere d'incantesimo protettivo. «Il Cornuto venne alla porta come una tempesta sul punto di esplodere, mandando lampi dagli occhi. 'McKeightley, i tuoi catenacci di ferro non mi fermeranno. Tu mi sei debitore della vita - sia dentro la tua casa che fuori di essa - e io ti divorerò!' gridò. «Detto questo, sferrò alla porta un colpo possente. Ogni serratura e ogni protezione metallica dei battenti andò in pezzi e la porta si spalancò... ma quando Huon entrò nella casa, McKeightley non era da nessuna parte. «'Non puoi nasconderti', rise il lord unseelie. 'I miei servi ti scoveranno all'odore.' «'Oh, io non mi nascondo affatto', rispose la voce dell'uomo, uscendo da qualche parte presso il camino. 'Dopo una partita così lunga, sono affamato. Mi sono soltanto seduto a tavola per mangiare.' «'Non prima che io abbia mangiato te!' disse il Cornuto. «'Non ho paura d'invitarti a unirti a me', rispose l'uomo. 'Ma non c'è abbastanza spazio per un tipo corpulento come te, qui dentro il muro dove
adesso abito... né dentro la mia casa, né fuori.' «Huon mandò un urlo di rabbia e scomparve, con un fragore tonante.» «Che astuzia singolare!» Rohain sorrise. «E McKeightley trascorse il resto della propria vita dentro i muri di casa?» «No, perché aveva sconfitto il Cornuto in una gara d'intelligenza e così il vincitore era lui. Da quel momento in poi godette di una sorta d'immunità da quella creatura e la sua vanteria divenne leggendaria. McKeightley fece infuriare molta gente di ogni razza ma, sorprendentemente, visse fino a tarda età. «L'ira di Huon fu tuttavia formidabile: si vendicò di quel trucco a spese di altri mortali. Racconto sempre questo aneddoto quando Roxburgh critica la mia convinzione che il cervello sia meglio dei muscoli... Non ritenete anche voi, milady, che questo racconto dimostri come il cervello prevalga dove i muscoli falliscono?» «Oh, sì. Dentro i muri... un'astuzia sopraffina!» «Già, proprio così», annuì il bardo. «I muri, i confini e le linee di demarcazione sono posti strani... né di un posto, né dell'altro.» Rohain alzò lo sguardo al cielo, ora incolore: da ovest stavano arrivando grandi cumuli, ribollenti per qualche disturbo nell'alta atmosfera. I suoi occhi si aspettavano quasi di vedere forme scure sciamare tra essi, urlando la loro sete di sangue. «Vi prego, parlatemi dell'Attriod Unseelie», mormorò. «Nel luogo dal quale provengo non ne parlano mai, poiché credono che il solo nominarlo porti sfortuna.» «Potrebbero avere ragione», rispose Thomas di Ercildoune, «almeno in alcune circostanze, perché agli esseri eldritch non piace che si parli di loro e hanno modo di ascoltarci... però mi auguro che quassù siamo abbastanza al sicuro! Nei tempi passati, l'Attriod Unseelie era l'anatema dell'Attriod Reale, del quale io sono oggi un membro, come certo sapete. Un Attriod, naturalmente, consiste di sette membri, uno dei quali lo presiede; altri due sono secondi nella linea di comando.» L'uomo estrasse una daga ingioiellata dal fodero che portava alla cintura e, con la punta, graffiò un disegno su un'asse del ponte di poppa. «Questa è la forma dell'Attriod, col capo al vertice, due lungo i lati e quattro alla base. In questo modo si ha una struttura decisionale forte, col capo che funge da fulcro per le energie degli altri. La si può anche vedere come una punta di freccia, se preferite: ogni membro contribuisce coi suoi particolari talenti alla totalità, cosicché la struttura, quand'è completa, non
manca di niente. Roxburgh e io siamo ora alla destra e alla sinistra del ReImperatore, così come - nella nostra macabra controparte - Huon il Cacciatore e l'Each Uisge, il più maligno dei cavalli d'acqua, molto tempo fa fiancheggiavano il loro capo.» «Gli altri chi erano?» «C'erano quattro terribili Principi degli unseelie: Gull, il Capitano Falciatore; il Cearb chiamato l'Uccisore... un mostro che può scuotere il suolo fino alle sue radici; Cuachuag dei Fuathan e Athatch, l'oscuro e mostruoso cambiai orma. Questo è... o piuttosto era... l'Attriod Unseelie, che alcuni chiamavano i Principi dell'Incubo.» «E il loro capo?» «Il Waelghast fu abbattuto. Ora sono senza capo e ognuno sta per conto suo. Molti secoli fa, il Waelghast fu nemico del Supremo Re dei faêran... ma, alla fine, fu un mortale a sferrare il colpo decisivo, mettendo fine al potere del Lord degli unseelie.» Per un poco, ci fu un pensoso silenzio. «Tuttavia questi cacciatori non sono i soli flagelli dei cieli, signore», disse infine Rohain. «Gli uomini in carne e ossa possono essere terribili. I pirati frequentano questa regione?» «Non ne sono mai stati segnalati ma, se dovessimo incontrarne, sarebbero loro ad avere la peggio, perché questa fregata è armata pesantemente e ha a bordo una truppa di uomini esperti nell'arte della guerra.» «C'è un posto...» Rohain esitò. «Sì?» la incoraggiò il bardo. «C'è un posto tra le montagne, una gola stretta e profonda. Il sole si alza da oltre un picco la cui forma ricorda tre uomini anziani in piedi e più a ovest c'è una pila di grandi pietre piatte sopra un burrone. Quando il sole illumina la più alta di quelle pietre, essa gira tre volte su se stessa. Le navi dei pirati si rifugiano in quel posto.» Ercildoune non mostrò nessuna reazione a quella notizia stupefacente, neppure un fremito del volto. «Una profonda gola, avete detto, tra la Torre dei Tre Anziani e una di quelle formazioni di pietra unlorraly che chiamano 'tritaformaggio'», le rispose, «delle quali si dice ve ne siano parecchie nei Lofty? Quest'informazione può rivelarsi molto utile. Come ne siate venuta in possesso sono affari vostri, mia cara. Siate certa che saranno prese le misure opportune... Ma lasciamo a più tardi i discorsi seri e rientriamo in cabina, perché la sera si sta facendo fredda.»
Mentre chinava la testa per passare sotto il basso architrave della porta, Rohain vide il bardo girarsi a guardare indietro, verso l'orizzonte settentrionale. Era un gesto che aveva visto fare anche ad altri dopo il suo arrivo a Corte: la consapevolezza che forze strane e ostili si stavano radunando in Namarre non li abbandonava mai a lungo. La sentivano sempre, anche se non amavano parlarne. Oltre al capitano Heath del thriesniun, a bordo della fregata Pellegrina c'era il comandante della nave, Sir Tide, un aeronauta che possedeva il senso dell'orientamento tipico dei Dainnan. I due ufficiali cenarono insieme al Duca di Ercildoune e alla dama che fungeva loro da guida e lo fecero alla maniera ertish, ignorando del tutto le forchette. La conversazione degli ufficiali era dominata dal bardo che, con la sua cultura, non si trovava mai a corto di argomenti. Nel conoscerlo meglio, Rohain cominciò a notare delle affinità tra lui e il Duca di Roxburgh. «Come parlano di noi, laggiù nelle Isole Sorrows?» le domandò l'uomo. «Con parole di elogio, mio signore. Il nome di Thomas, Duca di Ercildoune, è ben conosciuto e assai stimato.» «Senza dubbio si narrano molti aneddoti sul mio conto.» «Tutti pongono in risalto la vostra onorabilità.» «E la mia abilità di musicista?» «Siatene certo!» «Poiché dalle vostre parti si parla del Duca di Ercildoune, forse siete edotta dell'obbligo che grava su di lui», soggiunse Sir Heath. «È vero, allora?» domandò lei, ripensando a una delle storie di Brinkworth concernenti il Bardo Reale. «Temevo che domandarlo apertamente sarebbe parso scortese.» «Sì, è vero», rispose il bardo. «Io non mento mai. Questa pratica virtuosa - se di virtù si può parlare - è un bitterbynde cui sono legato per giuramento e che non infrangerò mai.» «Una dote di questo genere è una lama a doppio taglio, poiché se da una parte Vostra Grazia riscuote la fiducia di tutti, dall'altra potrebbe trovarsi in una posizione poco invidiabile se fosse obbligato a fare un commento sull'aspetto di una nobildonna non troppo favorita dalla natura», osservò Rohain. I capitani Dainnan sogghignarono. Quanto fluenti salivano le parole alle labbra di Rohain! A rigor di logica, pensò lei, la sua lingua avrebbe dovuto essere arrugginita dall'inattività...
eppure costruire frasi complesse le riusciva incredibilmente facile, considerando il lungo periodo in cui era stata muta. Con la nascita della sua nuova persona, aveva avuto la possibilità di diventare chiunque avesse voluto. Ma che genere di donna era, questa Rohain delle Sorrows? Appena riacquistato il potere della parola, lo usava per mentire e per lusingare, per chiacchierare amenamente e per irritarsi. Poteva essere questo il personaggio che la sua memoria aveva cancellato? «Accidenti, siete davvero arguta!» Il bardo sorrise con calore alla sua interlocutrice. «In effetti, quand'è il momento delle lusinghe e dei complimenti io cerco di parlare il meno possibile... quanto all'esercizio della mia professione, soltanto nelle canzoni e nelle poesie ho licenza di lasciar correre libera la penna, benché lodare troppo qualcuno sia di cattivo gusto. Con gli anni ho imparato a evitare i dilemmi imbarazzanti: non sono mai stato un lusingatore o un bugiardo ma, essendo legato a questo bitterbynde, sono dell'opinione che una piccola bugia a fin di bene, come un po' di vino bianco, possa far bene alla salute. Sfortunatamente, l'abitudine mi rende ormai impossibile mentire.» Allungò una mano per raccogliere il suo liuto in legno di rosa e, come per un ripensamento, aggiunse: «Tuttavia c'è un limite alla verità, come per ogni cosa umana. Voglio dire che un uomo sincero dice quella che crede essere la verità; se voi mi raccontaste una menzogna e io vi credessi, potrei ripeterla ad altri come una cosa vera». Sfiorò le corde dello strumento. «A volte mi esprimo meglio in musica. Ho una canzone che forse vi piacerà... che ne dite?» «Oh, sì, vi prego!» esclamò Rohain. Il bardo suonò alcuni accordi introduttivi, poi cominciò a cantare: Il cortigiano si aggrappa alla sua usanza, si attiene al suo bel codice d'onore. Egli è corretto, in ogni circostanza, in linea con la moda e con l'amore. Le cortigiane son frugali alle cene, un ventre tondeggiante è cosa vile. Le forme femminee non devono esser piene, snelle come cipressi è il loro stile. Il cortigiano cura il favellare, così diverso dal gergo del villano.
Non lo capisce la gente volgare, che dalla moda di Corte sta lontano. Le cortigiane si abbigliano con arte, per stupir le rivali e i conoscenti. Con noncuranza arricchiscono le sarte, pur d'essere aggiornate e sorprendenti. Le loro chiome sfidati ogni descrizione, fin l'ultimo ricciolo è curato e adorno. A lunghe ore di pena ognun si sottopone, pur d'essere in voga quando poi va intorno. Ciascun sceglie ogni amico attentamente, che poi frequenta con passione e loda, per esser visto dagli altri del suo ambiente in compagnia di esperti della moda! Fra una quartina e l'altra il bardo aveva inserito un divertente ritornello di oh-lallà, oh-lallallà al quale, dopo il primo, tutti si unirono in coro, ufficiali e camerieri allo stesso modo. La canzone si concluse tra l'ilarità generale. Più tardi, la conversazione dei capitani Dainnan passò ad argomenti più gravi, come la forza e il numero dei ribelli nell'inquieto nord. Rohain poté soltanto ascoltare con crescente costernazione, ignorante com'era nelle cose della guerra. «In che modo le loro strategie sono utili ai barbari di Namarre?» domandò Sir Heath. Ercildoune rispose: «I rapporti confermano che sono organizzati in modo molto elastico, sotto parecchi capitani. Evitano le battaglie campali; usano invece la loro capacità di spostarsi velocemente a cavallo da una località all'altra attaccando pattuglie isolate, intercettando convogli e tormentando le colonne in marcia. Continueranno a seguire questa tattica obliqua finché si sentiranno sicuri di poter vincere anche in campo aperto». «Io ho sentito dire anche», aggiunse Sir Tide, «che la loro cavalleria leggera sfrutta la tattica delle finte fughe per attirare le nostre truppe in imboscate o verso posizioni prestabilite, dove i namarrani vengono raggiunti dai rinforzi e controcaricano gli inseguitori.»
Il bardo annuì e proseguì descrivendo altre manovre eseguite dai ribelli nel loro costante attacco al nord di Eldaraigne, per mare e per terra. Degli esseri unseelie attirati in Namarre da una Chiamata non udibile ai mortali, poco fu detto: da quell'omissione, Rohain intuì la profondità del disagio degli uomini. Il modo di comportarsi degli eldritch wight era alieno, spesso incomprensibile... Chi poteva sapere quali orrori sarebbero nati da quell'alleanza senza precedenti? La sera proseguì lungo quegli argomenti di conversazione, finché per i passeggeri giunse l'ora di ritirarsi nelle rispettive cabine. La professione di bardo era una tra le più importanti e stimate nella società civile. Storico, custode di documenti e registrazioni, scrittore di canzoni, intrattenitore: un bardo era sempre assai ammirato e un buon bardo rappresentava un tesoro per ogni persona di nascita nobiliare. «Secondo solo ai pagliacci, dunque», aveva commentato con ironia Thomas di Ercildoune. Poiché era probabilmente l'uomo più erudito dei cinque regni, il giorno dopo Rohain ne approfittò per chiedergli informazioni sui talith: quanti di loro si sapeva che abitassero a Erith, in quali località e se gli risultava che una fanciulla talith fosse stata rapita dagli eldritch wight all'incirca un paio d'anni addietro. Lui le raccontò molte curiosità spicciole sul popolo dai capelli biondi ma, pur parlandone a lungo, nulla di ciò che disse le fornì indizi sulle sue origini. Il bardo era comunque una compagnia piacevole e i capitani Dainnan, benché riservati e guardinghi, erano altrettanto pronti al sorriso e alla battuta spiritosa: tra canzoni, storie e discussioni sulle debolezze umane e sulle bizzarrie dei cortigiani, il viaggio passò in fretta. Una tempesta magica gettò i suoi veli crepuscolari nel cielo e illuminò la folta foresta con fantomatiche luci multicolori. Durante la seconda notte, la Pellegrina sorvolò un panorama di lunghe creste bianche e vallate grigioazzurre, distese di neve lisce come lenzuola e montagne incrostate di ghiaccio, abissi bluastri e silenziose colline abitate soltanto da branchi di pecore selvatiche dal pelo lungo. Il sole, quando sorse, cosparse d'abbaglianti riflessi d'oro l'intero territorio. Prima dell'alba del diciotto di Nethilmis, la Nave del Vento raggiunse la catena delle Lofty Mountains incappucciate di neve e subito scese a una quota pericolosamente bassa, dalla quale Rohain poteva distinguere i più minuti particolari del terreno scuro. Il cielo, di un viola puro allo zenit, schiariva fino a un pallido grigio sull'orizzonte meridionale e a est-nordest
l'orlo rosso del sole brillava nudo, senza raggi. I picchi nevosi cominciavano ad accendersi al giorno sullo sfondo plumbeo del cielo. Quando infine sorvolarono l'ombrosa foresta di pini dove lei e Sianadh erano stati circuiti dal maligno cavallo d'acqua, Rohain fu in grado di orizzontarsi a memoria. La frastagliata mole del Bellsteeple levava la sua testa scintillante a nord; sotto di essa, il profilo della scarpata era a malapena visibile a distanza. A ovest, l'ampia e selvaggia pianura coperta dall'erba di cuinocco si allungava a perdita d'occhio: era visibile lo scintillio d'acqua alla strozzatura del fiume, nel punto dove la Via del Cuinocco sfociava nel Rysingspill, serpeggiando verso sud. A bordo della Nave del Vento, l'attenzione di tutti era concentrata su Rohain. «Questo è il fiume che noi battezzammo 'Via del Cuinocco' e che nasce dal monte Bellsteeple. Laggiù - dove il territorio comincia a salire - c'è la Scala d'Acqua.» La ragazza alzò un braccio a indicare il punto esatto. Ora il vascello volava su per il fiume, direttamente sopra di esso, col sildron dello scafo che respingeva il fondale e le rive senza avere nessuna presa sull'acqua. In quegli spazi così ristretti, il comandante Tide ordinò di ammainare tutte le vele e la Pellegrina proseguì con la sola spinta fornita dai silenziosi e ben lubrificati motori a sildron. I loro progressi erano lenti ma inesorabili. Più in basso, gli jaracanda allungavano al cielo braccia contorte, avendo ormai perduto l'azzurra gloria dei loro petali. Il firmamento rotolava sopra di loro come una sfoglia di stagno battuto. Ogni più piccolo ricordo di Sianadh minacciava di sopraffare Rohain. Vide gli alberi fluviali di gommarossa sulla riva occidentale, dove le pareti della gola si abbassavano; in quella stagione, il fiume - privato della sua linfa dalla morsa dei ghiacci alle altitudini maggiori - scorreva molto più magro e basso. Più avanti, l'albero-ponte era ancora disteso sopra il canale: lei e Sianadh v'erano fuggiti dopo la terribile lotta col Direath e lei aveva portato l'acqua in uno stivale al compagno ferito. Il suo umore si fece malinconico. Taciturna e depressa, la fuggiasca della Torre di Isse giunse per la seconda volta alla Scala d'Acqua. «Prima che la luce del giorno aumenti dobbiamo far scendere la nave a cinquanta piedi e portarla tra gli alberi. Se qualcuno ha piazzato delle sentinelle su questa Scala d'Acqua, esse non devono vederci», disse Sir Tide. Il vento cadde. Leggera come un seme alato di frassino, la Pellegrina si abbassò in mezzo agli alti abeti. Le ancore di prua e di poppa furono calate
in silenzio nell'aria gelida; gli argani abbassarono al suolo le piattaforme d'atterraggio e Sir Heath e il suo thriesniun sbarcarono. Come ombre, i Dainnan svanirono nel sottobosco. Il sole si alzò un poco ma non uno dei suoi raggi si fece strada tra le mille sfumature d'ombra verde delle fredde gallerie di foglie, dove lo scafo a colori mimetici della Pellegrina fluttuava immobile. Un cavaliere Dainnan si materializzò senza far rumore sotto di esso, con la sua uniforme verde oliva a stento visibile tra la vegetazione. Dopo essersi arrampicato su una scaletta di corda con la facilità con cui altri avrebbero salito una scala di mattoni, si presentò dinanzi al bardo e gli fece rapporto, rivolgendosi a lui col soprannome che usavano solo i suoi conoscenti più intimi. «Vecchio Frassino, abbiamo trovato il posto. I malfattori che erano lì sono stati presi prigionieri, salvo alcuni che sono riusciti a fuggire nella caverna chiudendo una grande porta alle loro spalle. Nell'attesa di stanarli, abbiamo disposto vedette nella foresta: la via è libera.» Gli altri passeggeri scesero al suolo e s'incamminarono lungo la riva del fiume. Le lingue loquaci dell'acqua mormoravano dolcemente. I cespugli e l'erba presso la Via del Cuinocco erano schiacciati e calpestati e i rampicanti giacevano decomposti ai piedi della collina. Rohain cercò lì intorno qualche traccia di Sianadh: un indumento, magari; la fibbia della cintura o un orecchino. Non trovò niente. I mangiatori di carogne e gli insetti trascinavano via qualunque cosa fosse lasciata a decomporsi sul terreno, per cui le sue ossa dovevano essere sparse chissà dove. Lei aveva sentito dire che i capelli duravano di più e che in certe tombe aperte dopo secoli dalla loro chiusura, dove anche le ossa erano ridotte in polvere, le chiome restavano riconoscibili. Possibile che qualche filamento rossiccio, soffiato via dal vento a ingarbugliarsi tra i cespugli qua e là, fosse tutto ciò che restava - a parte i ricordi - di un amico buono e sincero? Dal capitano Heath, la giovane donna venne a sapere ciò che era accaduto al suolo mentre lei e il bardo aspettavano sulla nave: gli uomini di Scalzo lasciati a guardia della porta della Scala d'Acqua erano una dozzina, ma le loro vedette non avevano notato l'avvicinarsi dei Dainnan, che nei boschi sapevano muoversi silenziosi come ombre. Alcuni malviventi erano usciti sulla riva della polla circondata dalle rocce tra cui precipitava la cascata - la «pentola del porridge» di Sianadh - e là stavano oziando senza la minima preoccupazione; i guerrieri Dainnan erano giunti di sorpresa pro-
tetti dal rombo della cascata e li avevano sopraffatti senza troppe difficoltà. Dietro la cortina d'acqua, tuttavia, le cose erano andate diversamente. Parecchi uomini di Scalzo erano riusciti a rifugiarsi nella caverna mentre i loro complici soccombevano all'attacco, chiudendo la grande porta dietro di loro. I massicci battenti decorati erano inattaccabili. I Dainnan, dopo aver scoperto la gigantesca scacchiera di marmo nero e onice bianco nella parte superiore della collina, non avevano intrapreso nessuna azione. Dodici cavalieri erano però di sentinella all'interno della prima grotta, quella in fondo alla quale campeggiava la grande porta dorata alta sessanta piedi su cui scintillavano le aquile scolpite. L'acqua che pioveva in perpetuo alle loro spalle dava all'occhio l'illusione che più oltre non ci fosse niente. Il capitano Heath dimostrò la portata della propria fiducia nelle capacità dei Dainnan concedendo subito alla dama d'accompagnare il bardo oltre la cascata, nella grotta. Nel suo verde interno, Thomas di Ercildoune si trovò dinanzi la porta della Scala d'Acqua e i suoi occhi, che dal basso studiavano con intensa concentrazione la sua superficie decorata, si mossero sul motivo di foglie intrecciate delle rune. A un tratto, l'espressione solenne del nobiluomo s'illuminò di un sorriso ed egli fece un cenno col capo a Sir Heath, che segnalò ai suoi uomini di scostarsi. Il bardo inspirò, gonfiando il petto, poi gridò una sola parola, che echeggiò sopra il fragore della cascata: i due battenti si spalancarono con docile scioltezza, com'erano stati progettati per fare. Immediatamente i Dainnan si precipitarono all'interno: la colluttazione fu breve; i mercenari di Scalzo non avevano nessuna possibilità di opporsi ai guerrieri scelti del Re. I Dainnan sottomisero le guardie armate senza neppure estrarre le loro armi, in un'impressionante dimostrazione di velocità, sicurezza e forza. In breve tempo, tutti i banditi furono disarmati e legati. Il tesoro fu finalmente rivelato. Così vasto era l'insieme degli oggetti preziosi che - sebbene i malviventi avessero già cominciato a razziarli - a Rohain parve che non ci fosse nessun cambiamento nella sua quantità. Gli scrigni di gioielli luccicavano ovunque e così pure i candelabri d'oro, le armi e le armature, le coppe e i calici, i vassoi, i cofani e i cestoni colmi di monete, i meravigliosi abiti di seta. Su tutto scintillava la fredda fiamma di cristallo della nave-cigno: nulla aveva mai sfiorato la bellezza e il nitido splendore di quegli artefatti. Quanta ricchezza... e quanto sangue era già stato sparso per essa!
Senza staccare gli occhi da quella nave soprannaturale, il comandante Tide mormorò: «Ora so di aver visto la più bella navigatrice di tutta Aia». Salì a visitarne i ponti e giurò a se stesso che un giorno l'avrebbe portata nel cielo. «Tutto questo è di fattura faêran», dichiarò Ercildoune, stupefatto. «Non c'è dubbio che si trovi qui da molte vite di Re... da quando i Fatati andarono sotto le colline. Le rune sul portale hanno protetto il loro segreto per lungo tempo.» «Come avete fatto ad aprire i battenti?» volle sapere Heath. «Le antiche cronache menzionano serrature apribili col suono di certe parole-chiave... e la parola non era poi così difficile da scoprire per chi, come me, ha studiato la lingua faêran. Quello inciso sui battenti è un semplice indovinello. Liberamente tradotto, dice: Nel mio abito silente viaggio al suolo, ma se qualcun vuol darmi la minaccia sulle case e sui campi m'alzo in volo, e alto mi spingon le mie forti braccia. Melodioso suona il cielo del mio canto, e d'ogni specchio d'acqua sono il vanto. «La risposta? Un cigno... eunalainn, in faêran. Questa parola era la chiave.» Avendo guidato gli uomini del Re-Imperatore al tesoro nascosto e portato a termine la sua missione, Rohain poté ritirarsi in disparte. Nel freddo pungente del mattino, i prigionieri in catene furono portati nella stiva della Nave del Vento. Sir Heath e i suoi Dainnan presero il controllo delle operazioni con energia ed efficienza, addentrandosi a fondo nelle caverne e tra le rupi della Scala d'Acqua senza lasciare inesplorato nessun anfratto. Poi ebbe inizio la scelta dei primi oggetti da prelevare, che furono caricati a bordo per mezzo di montacarichi e piattaforme fluttuanti a sildron, sotto la direzione del Bardo. «Come potete vedere», fece notare Ercildoune a Rohain, «qui non ci sono veri strumenti bellici: tutte queste armi e armature sono per uso cerimoniale. I faêran non avevano bisogno di protezioni fisiche in battaglia; le gradivano dal punto di vista estetico ma le loro capacità combattive non richiedevano l'uso di corazze. Inoltre, benché fosse possibile sconfiggere i
faêran, nulla poteva mai distruggerli.» Tra il bottino c'era anche una serie di scranni simili a troni, adorni di sculture floreali: margherite di topazio e ametista, rose di quarzo rosa, giacinti di lapislazzuli e foglie intagliate nella malachite, nell'olivina e nella giada. Con una fitta di dolore, Rohain guardò gli scranni di papaveri e gigli che venivano portati a bordo e rivisse momenti che facevano parte dei suoi ricordi. Seduto sul seggio scolpito, Sianadh aveva preso un boccale d'argento cesellato e, dopo aver bevuto un sorso con aria soddisfatta, l'aveva guardata. Lei ripeteva col linguaggio gestuale ogni singola parola che gli udiva pronunciare: «Noi siamo ricchi come tutti i falsi, sporchi e grassi maiali di quei mercanti di Luidorn messi insieme». Poi lui le aveva fatto notare una svista: «Hai dimenticato di precisare che i maiali sono grassi». Una volta corretto l'errore, era andato a controllare il succo di frutta contenuto nell'elmo, ottimisticamente convinto che sarebbe ben presto fermentato, diventando una bevanda più alcolica. Lei invece aveva raccolto una manciata di monete d'oro e le aveva fatte tintinnare e luccicare al sole. «Questa fronte non dovrà mai incresparsi di tristezza», citò Ercildoune mentre conduceva Rohain in disparte, lasciando Viviana sola ad ammirare ogni nuovo oggetto prezioso deposto sul montacarichi. Si fermarono sotto i rami incrostati di licheni di un salice, che piangeva verdi lacrime sulla riva del fiume. «Soffro per gli amici che non ci sono più», disse Rohain, per spiegare la sua espressione malinconica. «Chi non lo fa? Tuttavia questo dolore è una forma d'egoismo. Datemi retta, dama delle Sorrows: non piangeteli oltre. Ciò che abbiamo scoperto qui è quanto voi avevate detto e ancor più... è un'immensa ricchezza. Può essere stata smozzicata ai bordi - appena intaccata da quei meschini ladroni - ma voi ne avete salvata la quasi totalità per il suo legittimo proprietario. Avete reso un gran servizio al Re-Imperatore e per questo sarete adeguatamente ricompensata: Sua Maestà sarà compiaciuto di rendervi onore e io stesso vi proporrò per un titolo nobiliare, com'è vostro diritto. Vi saranno date delle terre e un vitalizio, ve lo garantisco.» «Ho fatto solo il mio dovere.» «Non sottovalutate la vostra opera. Prima di sera, quest'agile e robusta fregata sarà carica fino al massimo della capienza e pronta a involarsi nel
cielo come un papero che abbia mangiato troppo. Poi torneremo in tutta fretta a Caermelor, lasciando qui una buona quantità di Dainnan a proteggere gli interessi del Re. Arriveremo in trionfo, in tempo per i festeggiamenti dell'anno nuovo! E se questo non basta a far rifiorire il vostro sorriso, allora non siete la dolce fanciulla che vi ho creduta finora!» La sua allegria era contagiosa e lei sorrise. «Ah!» rise il bardo, lanciando il berretto in aria. «Così va bene! Sento già l'ispirazione per una nuova canzone!» 3 CAERMELOR, PARTE SECONDA RACCONTI E PUNIZIONI
Mentre la bella stagione s'allontana e a farsi lunghe cominciano le notti, escono i wight unseelie dalla tana per tramare atti malvagi e corrotti. Il color d'ogni terra e la sua luce si fan sempre più deboli e insicuri. Il buio avanza e si proclama duce e regnan sulle lande esseri oscuri. Ogni mortai deve guardarsi allora da chi vaga nel cupo aere lunare e da foschi tranelli, se a quell'ora il wight unseelie minaccioso appare. Canto popolare La fregata esploratrice Dainnan rientrò a Caermelor col suo carico il ventuno di Nethilmis, dopo aver atteso per ventiquattr'ore tra le montagne un vento favorevole ed esser stata portata fuori rotta dai suoi continui capricci. Alla Città Reale i viaggiatori trovarono ad attenderli notizie appena giunte dal nord, poiché Roxburgh era già tornato a Corte. Negli ultimi
tempi la tensione sul confine namarrano si era in qualche modo allentata: sembrava che l'attività ostile di Namarre fosse in pausa, almeno per il momento. I raid improvvisi degli insorti erano cessati e ormai da qualche giorno non si vedevano spie; si era stabilita una sorta di tregua, della quale i ribelli secessionisti stavano senza dubbio approfittando per rafforzare la loro organizzazione. In quanto alle Legioni Reali, le truppe venivano tenute occupate con manovre d'addestramento, dato che la maggior parte dell'equipaggiamento pesante si trovava già sul posto. Questo ristagno delle attività umane, tuttavia, non si applicava alle creature unseelie, che continuavano a essere attirate poco alla volta verso il nord. Nessuno poteva ipotizzare quale fosse l'entità o il mortale dotato del potere di convocarli ma la cosa stava minando gravemente la pace e la stabilità dell'Impero. Umori foschi velati di paura inquinavano Caermelor, anche se i cittadini si sforzavano di condurre la loro vita quotidiana come al solito. La vigilia dell'anno nuovo si stava avvicinando e, poiché quella era la Festa di Mezzo Inverno - Imbrol, la più importante ricorrenza annuale di Erith - il popolo non lesinava il suo impegno nelle piccole usanze, nelle decorazioni tradizionali delle case e delle strade e nei preparativi per i divertimenti e i banchetti: era una buona scusa per mettere da parte le preoccupazioni e immergersi in un'atmosfera di letizia. In tutta Erith - nelle capanne e nei cascinali, nelle caserme e negli appartamenti di città, negli eremi, nei castelli, nei palazzi, nelle masserie, nelle torri, nei rifugi, nelle fattorie, nei postriboli e nelle taverne - tutti inchiodavano ghirlande di fiori alle finestre e alle grondaie e festoni di edera lungo i muri e legavano corone di carta colorata e di rami di pino, d'abete e d'alloro a tutte le sporgenze disponibili. Inoltre tagliavano la frutta secca, la mescolavano alla farina, al miele e al grasso di pecora, arrotolavano l'impasto in pezze di calicò e lo facevano bollire per ore; poi appendevano quelle lunghe salsicce nelle botteghe di generi alimentari e nelle cucine. Queste e numerose altre attività festive tenevano occupata la gente di Erith all'approssimarsi del Solstizio d'Inverno e della nascita dell'anno nuovo, il 1091. Era quella la stagione in cui le giovani i cui cuori erano attratti da qualcosa oltre i confini del mondo mortale accarezzavano la pericolosa e affascinante possibilità di uscire nella boscaglia durante le lunghe, enigmatiche notti di Dorchamis, sperando che la Coillach Gairm - la solitaria donna vecchia come l'inverno, miracolosa e terribile - decidesse di apparire, improvvisa e silenziosa, per offrire loro un Bastone di potere in cambio di
qualsiasi oggetto umano desiderasse per sé. Ma quelle non erano cose per Lady Rohain delle Sorrows, che non aveva nessun desiderio di comandare i poteri eldritch come una Carlin e chiedeva soltanto di mantenere quel poco di reputazione che era riuscita a ottenere: avendo vissuto senza possedere nulla, ora valutava troppo ciò che aveva per rischiare di perderlo. Lei non era portata per scelte di quel genere e, d'altra parte, le ragazze destinate a diventare Carlin generalmente manifestavano quella vocazione sin dall'infanzia. Pur sapendo bene quale destino non le si addiceva, però, Rohain era incerta sul genere di futuro che doveva cercare. In città, lo splendore dei festeggiamenti era all'ordine del giorno; in mezzo all'attività e alla confusione dei preparativi per Imbrol, la giovane donna fu informata che la proposta di Ercildoune di accoglierla tra i Pari del regno era stata approvata dal Re-Imperatore. La creazione di un nuovo Pari richiedeva una procedura lunga e tediosa: prima dovevano essere preparate le lettere dei permessi, poi l'Ufficio di Araldica avrebbe registrato e proclamato l'esistenza di un nuovo titolo nobiliare e infine ci sarebbe stata una brevissima cerimonia ufficiale, durante la quale lei avrebbe ricevuto l'investitura e un abbraccio personale da parte di Sua Maestà. Gli scrivani del Lord Cancelliere Supremo stavano inoltre accludendo al titolo il contratto di proprietà di una modesta ma decente tenuta della Corona situata ad Arcune - con una rendita di duecentosettanta ghinee all'anno - che le sarebbe stata concessa all'atto dell'investitura. Nel frattempo lei, quale ritrovatrice del tesoro, aveva ricevuto ottanta ghinee d'oro (quasi tutte ancora chiuse in un forziere alla Tesoreria Reale per motivi di sicurezza, ma alcune già finite nelle tasche dei mercanti cittadini) e uno scrigno di monili provenienti dalla Scala d'Acqua: anelli, bracciali, collane, spille, orecchini e cinture ingemmate, il cui valore poteva essere soltanto ipotizzato. La smemorata sguattera muta della dimora dei Cavalieri della Tempesta era diventata ricca oltre ogni aspettativa e benvoluta a Corte oltre ogni speranza. I giorni che mancavano a Imbrol si arricchirono di un sapore indescrivibile: ciò che le stava accadendo era troppo per essere assimilato tutto in una volta. In seguito, Rohain non sarebbe mai riuscita a spiegare quali fossero i suoi sentimenti in quel periodo: era consapevole di compiere ogni azione in modo automatico, di essere spinta avanti dalla marea degli eventi che lei stessa aveva messo in moto, delle visite ai laboratori del sarto, del fabbricante di cappelli e del calzolaio, di Viviana che chiacchierava - ecci-
tandosi per ogni sciocchezza dopo aver avuto la conferma che non sarebbe più. stata rimandata al servizio della Marchesa vedova di Netherby sul Fens - e che, per ripagare la nuova padrona di questa gioia, scatenava la sua immaginazione acconciandole i capelli nelle più elaborate e fantastiche forme in voga a Corte. Era di buon carattere e benintenzionata, la giovane cameriera della dama: una ragazza che aveva sempre vissuto in ambienti appartati e protetti, la cui paura maggiore erano i rimproveri della sua signora e i cui pensieri svolazzavano su argomenti di poco peso ma che tuttavia, ogni tanto, avevano spunti profondi e acuti; una ragazza le cui mani e la cui lingua erano troppo vivaci per stare immobili a lungo. Mettendo alla prova il nuovo potere che le veniva dalla ricchezza e dai suoi appoggi a Corte (come un fanciullo che, diventato uomo, sperimentasse la forza dei suoi muscoli), la futura Baronessa Rohain Tarrenys indagò con discrezione per avere notizie dei suoi amici. Alcuni valletti andarono a informarsi e fecero ritorno con la notizia che Muirne e Diarmid erano stati accettati nel servizio militare e si stavano addestrando a Isenhammer. Nelle campagne intorno alla città non c'era più traccia della vagabonda Maeve la Guercia, ma quella non era una sorpresa, data la stagione: l'inverno era il regno della Coillach Gairm. Un'indagine eseguita a Gilvaris Tarv, il cui esito le era stato portato da un Cavaliere della Tempesta, confermava che la Carlin Ethlinn Kavanagh-Bruadair si era anch'ella recata all'estero, forse in risposta a una chiamata subliminale della Strega Invernale o forse solo per abitudine; il suo indirizzo corrente era sconosciuto. Roisin Tuillimh abitava ancora a Tarv, stava bene e non aveva problemi. A Roisin, Muirne e Diarmid, Rohain mandò anonimamente dei regali: desiderava condividere la propria fortuna senza rivelare a Corte la sua identità passata, che avrebbe potuto renderla oggetto di curiosità distorta o di scandalo. Su Thorn non osò domandare in giro nulla, neppure con la massima discrezione, perché sapeva che i cavalieri Dainnan avevano modo di sapere tutto ciò che si sussurrava su uno di loro. Viveva in una condizione paradossale, divisa tra la paura d'incontrarlo e la speranza che ciò accadesse. Quando il suo viso era un mascherone disgustoso e l'ipotesi che i suoi sentimenti fossero ricambiati era fuori questione, adorarlo in segreto era la sua unica possibilità; allora lei aveva potuto dire a se stessa: «Lui non può guardarmi con piacere, perché non lo merito. Se fossi una donna normale, forse gli piacerei». Ora che aveva una faccia più che normale, però, si sentiva vulnerabile: se Thorn, guardandola, l'avesse trovata poco interessante,
sarebbe stato un rifiuto del meglio che lei poteva offrire - non del peggio e dunque non avrebbe avuto più speranza. Non c'era dubbio che Thorn fosse stato gentile con lei... ma quella gentilezza faceva parte della sua natura, tanto che l'aveva estesa anche a Diarmid. Su quale fosse stato il significato del suo bacio d'addio, lei non poteva esserne certa: glielo aveva dato per pietà, oppure - contro ogni logica perché lei gli era piaciuta? L'aveva baciata d'impulso o dopo aver calcolato che poteva farlo perché non c'erano testimoni? In quest'ultimo caso, forse se n'era pentito e non gli sarebbe piaciuto sentirsi rammentare quel gesto stupido da una straniera che si era infiltrata a Corte con l'inganno. No... i suoi rapporti col bruno guerriero Dainnan erano stati come un gioiello raro e prezioso, ma così fragile che se la spietata luce del giorno l'avesse sfiorato si sarebbe sgretolato. Doveva restare chiuso nell'ombra della sua memoria per essere mantenuto intatto e salvo, benché così la sua bellezza non avrebbe potuto darle gioia. Se non l'avesse incontrato mai più, forse avrebbe ritrovato la serenità di spirito; dunque non poteva rischiare di rivederlo... tuttavia guardava ovunque in cerca della sua presenza, come un viandante perduto che sperasse di scorgere una traccia d'acqua in una terra deserta. La sola vista di una figura mascolina alta, dalle spalle larghe e con lunghi capelli neri, non mancava mai di farle battere più forte il cuore. Ogni gioia, ogni luce, ogni piacere esisteva solo accanto a lui - dovunque fosse - e il fatto di non poter sentire la sua voce, né poterlo vedere accanto a sé, era come vivere una vita segreta da minorata. Quella malinconia stagnava in lei nascostamente: soltanto un cuore di pietra avrebbe potuto restare freddo in mezzo alle manifestazioni festose che giorno dopo giorno salivano verso il loro culmine. Inoltre, Rohain si trovava ora circondata da amici e conoscenti che la distraevano molto: primi tra tutti c'erano Viviana, l'irreprensibile Thomas di Ercildoune, la Duchessa Alys-Jannetta (la moglie di Roxburgh, con la quale aveva fatto amicizia) e, per una sorprendente svolta del destino - o forse, a ben vedere, non troppo sorprendente - l'ex avversaria Dianella, con tutto il suo seguito di fantasiosi compagni. Adesso che era diventata una Pari del regno per diritto, che aveva un conto aperto nella Tesoreria Reale e che godeva del favore del Re-Imperatore e dei maggiori aristocratici di Corte, Rohain era stata accettata nel Gruppo. Che lo si dovesse a questo o ad altro, un discreto numero di eleganti figli di Pari - sia Dentro che Fuori dal Gruppo - sembravano trovarla una com-
pagna di loro gusto: non facevano che pregarla di portare i loro foulard appuntati a una manica quando avevano in programma uno scontro alla spada coi loro rivali, all'alba, in posti reconditi. Come galletti da combattimento, quei giovani nobili non si stancavano mai di sfidarsi a duello, benché fosse proibito dalla legge, per qualsiasi motivo insulso che avesse ferito il loro delicato orgoglio... sfide che soltanto di rado finivano nel sangue; di solito veniva scoperta qualche scusa dell'ultimo minuto, qualche pretesto che consentiva alle due parti di ritirarsi con intatte dignità e pelle. Era difficile che Rohain trovasse più di un breve momento da dedicare a ciascuno di quegli eroi: Dianella, Calprisia, Elmaretta, Percival, Jasper e gli altri membri dell'esclusiva conventicola continuavano a bombardarla d'inviti. Voleva unirsi alla comitiva che si stava recando nella Riserva Reale a raccogliere edera e fiori per le ghirlande? Sarebbe stata una passeggiata divertente, con appena quel pizzico di pericolo da insaporirla un po', benché da quelle parti si diceva abitassero soltanto spiriti seelie e gli escursionisti sarebbero stati scortati da guardie a cavallo e cani, oltre che da alcuni carrettieri per i lavori più pesanti. Che ne pensava di unirsi a una partita di caccia in una tenuta fuori città? Le sarebbe piaciuto fare una gita a cavallo, sulla riva del mare? Aveva voglia di accompagnare in sartoria Lady Dianella, a vedere l'abito che il sarto le stava confezionando per la vigilia dell'anno nuovo? Se la sentiva di partecipare a una divertente partita di pesca coi cortigiani, in barca nella baia? Le andava l'idea di fare un po' di pattinaggio su ghiaccio al lago di montagna congelato, dove la Nave del Vento del Lord Mago Sargoth portava ogni mese molti cortigiani? E così via. Per non apparire asociale, Rohain accettava di unirsi all'allegra compagnia e i nobili l'attiravano con gioia nei loro spensierati trastulli, insegnandole a parlare la lingua di Corte affinché diventasse in tutto e per tutto come loro. Quei passatempi, in effetti, si rivelavano spesso una divertente novità, anche se le loro chiacchiere l'annoiavano; Rohain era lieta dei frequenti inviti di Ercildoune, che le fornivano una buona scusa per rifiutare quelli altrui. Approfittando di una tregua nelle inclemenze del tempo, un giorno fece una passeggiata con lui nel giardino d'inverno con gli attendenti che li seguivano a discreta distanza, tra gli alberi. Il palazzo di Caermelor vantava un giardino per ogni stagione dell'anno, ciascuno separato dagli altri tramite un muro e dotato di piante che gli davano un'atmosfera unica e particolare.
«È quasi certo che dovrete restare a Corte per qualche tempo, dopo Imbrol», disse il bardo. «Ci vorrà ancora molto prima che il vostro nuovo titolo di Baronessa di Arcune riceva l'investitura. Non si può far niente per accelerare la proclamazione del titolo e sistemare adeguatamente la vostra tenuta, finché non sarà finita la stagione delle feste.» «A quanto ne so, signore, di norma si viene presentati al Re-Imperatore prima di essere alloggiati a Corte. Io non ho ancora avuto l'onore di un'udienza con Sua Maestà.» «Voi dite bene, mia cara... ma questi sono tempi difficili. Con la situazione che c'è nel nord - con tutti questi viaggi avanti e indietro, riunioni, discussioni e così via - le normali procedure vengono lasciate da parte. Il Re-Imperatore è sempre più occupato, ora che Imbrol si avvicina; chissà che da un momento all'altro non scoppi un conflitto in Namarre, costringendolo a dedicare tutta la sua attenzione alla crisi sui confini. D'altra parte, non è detto che queste faccende militari ritardino la vostra investitura e le relative donazioni: il titolo può essere riconosciuto ufficialmente con la semplice consegna della patente di nobiltà, che vi garantirà tutti i privilegi e gli onori in modo legale e completo. Anche se non nego che sarebbe un vero peccato non ricevere l'investitura dalle mani stesse di Sua Maestà, con tutto il cerimoniale dovuto.» Nel giardino d'inverno non c'erano fontane: i sentieri erano chiusi tra aiuole di ceramica e piedistalli di marmo per urne e vasi di piante scolpiti a festoni; qua e là erano sparse larghe vasche di pietra dentro le quali veniva tenuto perennemente acceso il fuoco e su di esse le fiamme danzavano come petali di magnolie giganti. I sempreverdi, pieni di energia quasi che volessero sorreggere il cielo, ergevano tronchi resinosi e folte chiome oppure piegavano i rami verso il basso, come intristiti; le barbarine e le euforbie erano gremite di tondi frutti scarlatti. Anche l'alloro stava dando i suoi piccoli frutti stagionali color rosso scuro e gli agrifogli sfoggiavano le loro vivide bacche arancioni. «Suppongo che resterò a Corte», rispose Rohain, dopo averci pensato un poco. Come una farfalla tra i pistilli mielati di un fiore carnivoro, si sentiva intrappolata da una sorta d'inerzia nell'inevitabile dolcezza del lussuoso ambiente di Corte. L'indecisione giocava una parte di rilievo nel suo proposito d'indugiare a palazzo. «Perché, avevate forse altri progetti? Tornare alle Isole Sorrows per informare amici e parenti della vostra fortuna?» «No.»
«Confesso che sono lieto di sentirvelo dire», ammise lui, del tutto inaspettatamente. «Sono sempre stato uno scapolo convinto e ho fatto voto di restare tale, perché amo troppo il gentil sesso per limitarmi alla compagnia di un'unica sua esponente. Nonostante ciò, mi scopro incline a farvi la corte.» La sua accompagnatrice si girò verso di lui, stupefatta. «Non guardatemi così, milady! Non sono forse uno dei tanti, nella lista dei vostri ammiratori?» «Certo che no!» rispose lei, con enfasi. «Allora, cosa ne dite? O il vostro cuore è già impegnato, come io sospetto?» «Ebbene, poiché siete voi a domandarmi questo... sì, il mio cuore è già impegnato.» «Ahimè!» Il petto del bardo si alzò in un pacato sospiro. A disagio, i due camminarono ancora un poco sul sentiero che girava intorno al lago - dove i pettirossi dagli occhi acuti saltellavano come grasse susine - e oltrepassarono un gazebo di pietra, le cui colonne si specchiavano con nitida simmetria nell'acqua immobile. Rohain stentava a credere a ciò che aveva appena udito: possibile che lei avesse appena ricevuto un omaggio di quel genere da uno degli uomini più titolati di ogni terra? «Quand'è così», disse il bardo, «non parlerò più di corteggiamento. Tuttavia, se per caso doveste tornare padrona del vostro cuore, vorrete pensare a me?» «Prima che a ogni altro, mio signore!» «E nel frattempo, potremo restare amici?» «Oh, sì! Io... mio signore, voi mi fate troppo onore. Non lo merito.» «Ahimè», sospirò ancora il bardo, «non mi era mai accaduto di trovarmi schiavo di un bel viso!» Rohain si fermò sul sentiero, confusa. «Un bel viso?» ripeté. «Più bello di quanti ne abbia mai visti», disse lui. «E quando vi animate e vi sbocciano petali di rosa sulle guance e gli occhi vi si riempiono di fiamma, be'... avete fascino, oltre che bellezza. A dirla tutta, siete squisita in ogni dettaglio.» Scosse il capo, con una risata. «Come ogni donna, la mia dama delle Isole ama i complimenti e quelli di un uomo come Thomas il Sincero non sono lusinghe ma semplice verità.» La ragazza si piegò sulla superficie del lago: scintillava come argento li-
quido. «Attenta!» l'avvertì lui. «Potreste cadere e questa non è la stagione più adatta al nuoto.» Lei non lo sentì neppure. Il suo volto incorniciato dal cappuccio la stava guardando dall'acqua, sullo sfondo dei rami dei sempreverdi e del cielo plumbeo. «Io non riesco a vedermi così come dite», mormorò, accigliata. «Cosa? Falsa modestia?» Lei si raddrizzò e si volse, muta. «Macché...» Il bardo scosse il capo, sorpreso di leggere onestà nella sua espressione. «Non è falsa modestia. Dunque voi non vedete nessun pregio particolare nel vostro aspetto? Strano! Ma interessante... Lasciate comunque che vi assicuri, mia cara, che siete la sola ad avere quest'opinione. Ah, Rohain, non dovete pensare neppure per un istante che io mi stia permettendo di lusingarvi, come se ciò che ho detto fosse un gioco da cortigiani! Lasciate che io vi renda giustizia... perché la vostra è una bellezza più radiosa della fiamma, più perfetta di un fiocco di neve, più incantevole di una musica, più stupefacente della verità e più straziante della separazione di due amanti che non sanno se si rivedranno ancora.» «Vi ringrazio», balbettò lei, sopraffatta. Era una rivelazione. Un giorno, sapendo che Ercildoune non ne avrebbe avuto bisogno, Rohain gli chiese in prestito il suo tiro a quattro e il cocchiere del bardo la condusse a Isenhammer. Dalla dorsale della collina che sovrastava la città erano chiaramente visibili le esercitazioni, le parate e tutto ciò che accadeva nel grande campo delle reclute delle Legioni Reali: la giovane donna scese e s'incamminò tra uomini e donne in divisa, cavalieri, fanti e arcieri, scortata dalla sua cameriera e da due lacchè. La tensione e la voglia di battersi delle reclute erano quasi palpabili; davano l'impressione di tanti archi che gli ufficiali tendessero sapientemente fin quasi al punto di scoccare la freccia. Eseguivano gli esercizi con estrema buona volontà e concentrazione ma a volte, senza volerlo, giravano la testa e i loro sguardi si volgevano verso un certo orizzonte, nell'atto che Rohain ormai conosceva bene. Il nord... quali foschi eventi si andavano preparando in quella terra lontana? Finalmente riuscì a scorgere Muirne e Diarmid, che indossavano entrambi l'uniforme dei cadetti delle legioni e apparivano soddisfatti e in
buona salute. Nessuno dei due la riconobbe e lei non provò la minima tentazione di avvicinarli: non le importava di sentirsi ringraziare per i costosi regali che aveva inviato loro e non se la sentiva di affrontare l'incredulità e, forse, il sospetto - che avrebbe letto nei loro sguardi se avesse rivelato chi era. Non intendeva evitare i due amici, tutt'altro... Solo, sentiva che avrebbe fatto meglio a non interferire con la strada che avevano scelto. Era però intenzionata a invitarli a vivere nella sua tenuta, una volta che le procedure burocratiche fossero finite. Per il momento le bastava accertarsi che stessero bene e non mancassero di niente. Fece ritorno a Caermelor senza aver parlato con loro. Imbrol era sempre più vicino e Viviana Wellesley sembrava più che mai soddisfatta di ciò che la vita le stava offrendo. «Essere ricevuta da Lady Maiwenna è come una piuma sul cappello della mia signora», dichiarò con entusiasmo. «Lei non frequenta molte persone, a Corte, perché è molto riservata. Quando vi ho vista di fronte a lei, ho pensato che sembravate quasi sorelle, sotto un certo aspetto.» Lo spirito di Rohain era stato scosso da un'ansiosa aspettativa quando Ercildoune l'aveva presentata alla gentildonna talith di cui si diceva che fosse l'ultima discendente superstite della famiglia reale di Avlantia, ma le sue speranze erano state deluse: negli occhi verdi di quella damigella dorata non aveva visto nessuna luce di riconoscimento. I suoi capelli cominciavano a mostrare una leggera traccia d'oro a livello del cuoio capelluto, ma, per il momento, soltanto lei se n'era accorta, poiché le elaborate pettinature di moda a Corte le consentivano di nascondere la radice dei capelli. La sua cameriera, occupata a chiacchierare e darsi da fare con spazzole ingioiellate durante le tediose sedute di acconciatura, non aveva ancora fatto caso a quel contrasto di colori; d'altra parte - dal modo in cui lavorava all'uncinetto, tenendo il tessuto a un braccio di distanza dagli occhi e stringendo le palpebre - Rohain sospettava che fosse presbite o ci vedesse male. «Però nessuna può reggere il confronto con la mia signora, naturalmente», continuò Viviana. «Parola mia, se posso prendermi la libertà di dirlo, il viso e la figura della mia dama sono l'invidia di tutte le cortigiane! Dei fianchi così eleganti... non più larghi della mia cintura, lo giuro... e un vitino sottile come il mio collo!» Rohain ignorò quei complimenti: la sua cameriera chiacchierava più del
necessario, tuttavia continuava a rivelarsi una cornucopia d'informazioni sulle faccende di Corte. «Quando ho detto a Dianella che il verde le starebbe bene, perché lei ha esclamato: 'Santo cielo, quanto siete rivoluzionaria!'?» «Milady, il verde non va mai indossato! Non come colore principale, almeno... soltanto un po', negli orli e nei nastri. Non della tonalità verdefoglia, comunque.» «Perché no? È proibito?» Viviana fu colta di sorpresa. «Nelle Isole Sorrows s'indossa il verde, milady?» «No, no... ma dirami!» «Non è proibito, non proprio, però portare il verde è sconveniente.» «I Dainnan lo portano... una sfumatura di verde, almeno.» «Col vostro permesso, milady, non è esattamente verde il colore che portano i cavalieri di Roxburgh, bensì felce. È una tinta che si ottiene mescolando il marrone con una piccola dose di grigio, un pizzico di zafferano...» «E una buona quantità di verde-erba.» «... e forse un po' di verde, sì. Ma il felce non è verde-foglia o verdeerba, milady: è il colore polveroso delle felci d'acqua.» «Capisco. Ma il verde negli arredamenti?» «Quello è permesso.» «E gli smeraldi?» «I gioielli verdi devono essere portati con discrezione. Il porpora reale è proibito, naturalmente», aggiunse con cautela la cameriera, preoccupata di non offendere la sua signora insinuandone l'ignoranza in materia. «Naturalmente», annuì quest'ultima. «Il porpora reale è riservato ai reali... ma perché il verde è altrettanto precluso?» «Oh, be', era il colore preferito da Loro e le vecchie usanze sono dure a morire, milady. Ai mortali portava sfortuna indossarlo: il verde era solo per i faêran.» I faêran erano un argomento che affascinava Rohain la quale, per saperne di più, sì rivolse alla Duchessa Alys-Jannetta di Roxburgh, la moglie del Comandante dei Dainnan. La nobildonna - una persona positiva, dagli istinti pratici - amava cavalcare, andare a caccia e tirare con l'arco e quando alloggiava lì a palazzo aveva un roseto, nei giardini, che curava con le sue mani, senza timore di sporcarsele. Rohain trovava rilassante la sua spavalda franchezza.
«Io vi darò un parere», disse la Duchessa, «e altri ve ne daranno un altro. Per conto mio, non ho una buona opinione di Loro... come razza, intendo. È una fortuna che il Reame Fatato sia stato separato dal nostro, tanto tempo fa. Le vecchie storie sono chiare: c'era una legge per i mortali e un'altra per i faêran. Erano gente sgradevole, orgogliosa e arrogante e non esitavano a derubare i mortali ogniqualvolta veniva loro il capriccio di farlo. Se volete sentire qualcuna di quelle storie, c'è un uomo solo che le conosce tutte ed è il nostro Thomas, il Bardo Reale. Venite, stavo giusto per andare a fargli visita!» Fu Ercildoune che, quel giorno, illustrò l'argomento dei faêran per Rohain come nessuno aveva mai fatto prima. L'uomo aveva una scorta inesauribile di racconti e aneddoti su di loro e ciò che disse aumentò l'interesse di lei per la storia di quel popolo e del suo affascinante e pericoloso mondo ormai scomparso: il Reame Fatato, la strana e misteriosa patria dei faêran. L'appartamento del bardo a palazzo era decorato con motivi musicali. Sulla tappezzeria della Stanza dei Tamburi si distendevano scene storiche e leggendarie: su una parete, sette fanciulle strimpellavano l'arpa tra i castagni fioriti mentre su un'altra, un giovane suonava il flauto per far addormentare un malvagio Barone, allo scopo di liberare la moglie che gli era stata rapita. Sulla terza parete, una vergine titillava la cetra sotto una verdeggiante quercia per attirare un timido unicorno e sulla quarta, una fila di trombettieri suonava una fanfara trionfale per accompagnare una sfilata di baccanti inghirlandate di fiori. Il soggiorno era arricchito da eleganti cassepanche e armadi di legno scuro intagliati con elaborati motivi floreali o con leoni rampanti. Una fiamma di un bel colore rosso vivo crepitava allegramente in un caminetto i cui pannelli laterali, in marmo grigio, erano scolpiti a bassorilievo con le figure di affascinanti seelie d'acqua, gli asrai, che suonavano la lira con le mani snelle. Lacchè imperscrutabili, nella livrea azzurra e oro degli Ercildoune, stavano eretti ai lati della porta d'ingresso. Il Duca di Ercildoune diede il benvenuto alle sue ospiti e le fece accomodare in poltrona, davanti al fuoco. Il suo apprendista, Toby, strimpellava il liuto; una piccola lince faceva le fusa, accovacciata su una stuoia che recava i chiari segni delle sue unghie. Cinque falene, che svolazzavano presso il soffitto a cassettoni e l'architrave intarsiata, scesero presso le candele per danzare con la morte. Viviana sistemò meglio la gonna della sua padrona, mentre la Duchessa di Roxburgh giocherellava col ventaglio in-
fiocchettato, lasciando vagare lo sguardo oltre le finestre incorniciate da tendaggi di velluto, dalle quali si potevano vedere il giardino d'inverno, la città e il mare. Una fredda nebbia stava salendo dal fiume e le prime stelle della sera già punteggiavano il cielo scuro, sgombro di nubi. Nell'aria immobile, trasparente, si avvertiva la minaccia del gelo. Rohain si rivolse al bardo: «Vostra Grazia, in questi giorni da me trascorsi a Corte ho udito qualcosa a proposito del Reame Fatato ed è bastato a stuzzicare il mio interesse, perché non so nulla di quel luogo e dei suoi abitanti. Non vorreste darmene qualche notizia?» A quelle parole, l'espressione di Ercildoune cambiò sottilmente: dal gioviale ospite che era parve diventare un estraneo distaccato e remoto, con lo sguardo perduto nel fuoco. «Le stelle», disse all'improvviso, col volto teso in un'espressione di desiderio e di rimpianto. Rohain attese. Dopo una pausa, l'uomo continuò: «Le stelle: cosi belle, così misteriose, così affascinanti e tuttavia... così irraggiungibili, pure e gloriose che possono appartenere soltanto ai Fatati. Andate fuori città in una notte chiara e guardate il cielo. Guardatelo a lungo... Solo così avrete un'idea di Faêrie». La sua voce si fece diversa, stranamente rauca. «Oppure fermatevi a osservare, in un tramonto primaverile, come i candidi petali dei gigli impallidiscono e si chiudono al farsi del crepuscolo... perché lo spegnersi delle stagioni è evanescente come la bellezza del Reame Fatato, che scivola via dalle dita dei mortali come sabbia impalpabile. Il potere del Reame Fatato non può essere compreso.» Per un po' osservò in silenzio il rosso mondo del fuoco, quindi aggiunse: «Il Reame è un posto senza frontiere». «Ne parlate con nostalgia e amore, Vostra Grazia», osservò Rohain, meravigliata. «Chiunque ne avrebbe nostalgia e lo amerebbe, se avesse udito un decimo delle cose che io ho udito.» «Ma è un luogo reale? Esiste?» «Vergogna! Mai insinuare che non esista... io non lo tollero!» «Perdonatemi! Non era mia intenzione denigrare ciò che desta in voi tali emozioni.» «No», si affrettò a scusarsi il bardo. «Voi dovete perdonare me, Rohain. Ho parlato troppo duramente.» «Be', quand'è così», replicò lei, con la noncurante ironia che aveva imparato a Corte, «se proprio volete farvi perdonare, allora dovrete raccontarmi una storia sui faêran che mi consenta di conoscerli un po' meglio.»
«Ne sarò lieto, perché è un argomento caro al mio cuore.» L'uomo spostò la sedia presso il caminetto. «I faêran», cominciò, pronunciando la parola come se stesse evocando un antico incantesimo, «avevano molti nomi: i Patrizi, gli Stranieri, i Segreti, i Signori di Gramarye e altri ancora. Anche il loro regno aveva molti nomi... Alcuni lo chiamavano la Terra delle Foglie Lunghe ma, in precedenza, era conosciuto come Tirnan Alainn. «La maggior parte degli appartenenti al Popolo Fatato era ben disposta verso i mortali ma c'erano anche coloro che nutrivano sentimenti più ostili, perché - oso dire - il comportamento dei mortali non è sempre cortese. Tra tutti i difetti che i faêran condannavano negli uomini, quelli da loro più odiati erano lo spionaggio e il furto ai loro danni. «Molto tempo fa, prima che le vie di comunicazione tra Aia e il Reame Fatato fossero chiuse per sempre, c'erano posti qui in Erith che i faêran prediligevano e Willowvale, a nord di Eldaraigne, era uno di quelli. Di sera i Fatati vi giungevano a cavallo - grazie al loro diritto di sfruttare una porta che sfociava sotto un verde colle, chiamato il Culver - e scendevano a Willowvale, dove facevano il bagno nel fiume e cantavano in armonia con l'acqua che scorreva sul letto di roccia, scintillando sotto i raggi della luna. «In un odoroso pomeriggio di primavera, al tramonto, una bambina che stava raccogliendo primule sulla riva del fiume udì un'eco di musica e risa provenire dal Culver, così s'incamminò lungo il colle per investigare. La magica strada sotterranea era aperta e lei osò guardarci dentro: vide una scena che rallegrò il suo spirito... i faêran in tutta la loro bellezza, abbigliati con splendide vesti. Alcuni stavano banchettando, altri piroettavano con leggerezza in una danza aggraziata... La bambina corse a casa per informare suo padre ma quel bravo contadino non poté condividere la sua eccitazione, poiché sapeva che i faêran sarebbero venuti a cercarla. Essi, infatti, tutelavano con gelosia la loro intimità; un mortale sorpreso a spiarli sarebbe stato duramente punito o portato via per sempre con loro e il padre non dubitava che avrebbero deciso di prendersi quella bambina, così graziosa e mite. «Siccome amava la figlia e non voleva spaventarla, il contadino non le disse ciò che le sarebbe accaduto per aver spiato i faêran. Andò, invece, dritto da una Carlin che conosceva le leggi dei Patrizi. «'Loro verranno a prendere tua figlia stanotte, a mezzanotte', gli disse lei, 'ma non avranno il potere di portarla via, se la tua fattoria sarà immersa
nel silenzio più assoluto. Quando verranno, devi assicurarti che non ci sia il più piccolo rumore, salvo quello prodotto dagli stessi faêran. Il suono più lieve - un sospiro, il colpetto di un polpastrello sulla tavola - e l'incantesimo si romperà.' «Il contadino tornò a casa e, quella notte, attese finché la figlia si fu addormentata; poi legò le zampe e il becco a tutte le oche e alle galline del pollaio, tolse i campanacci dal collo delle mucche da latte e le chiuse nel loro recinto, impastoiò i cavalli nella stalla e diede ai cani una cena così abbondante che essi andarono subito a dormire sulla paglia, con lo stomaco pieno. Fissò tutte le imposte e gli oggetti che avrebbero potuto scricchiolare alla più leggera brezza, infine rientrò in casa, distese su un fianco la sedia a dondolo affinché non oscillasse e spense il fuoco, assicurandosi che non ci fossero scintille crepitanti tra le braci. Fatto questo, sedette nel casolare silenzioso, freddo e buio e aspettò i faêran. «A mezzanotte, essi vennero. Il catenaccio del cancello esterno fece clic e i cardini cigolarono nell'aprirsi, poi il contadino udì lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli che si avvicinavano lungo il sentiero. Quando i cavalieri si accorsero che la fattoria era così silenziosa, esitarono. L'uomo sedeva immobile, trattenendo il fiato affinché Loro non udissero neppure il suo respiro: il silenzio si approfondì e i minuti trascorsero lenti. Il sangue che pulsava nelle sue tempie gli sembrava rumoroso come il martello del fabbro... poi, finalmente, ci fu il rumore degli zoccoli dei cavalli che si voltavano: i faêran se ne stavano andando! Lui si concesse un silenziosissimo sospiro di sollievo... Ma, per sua sfortuna, si era dimenticato di una cosa: nell'udire i cavalli faêran passare sotto la finestra, il piccolo spaniel addormentato ai piedi del letto della figlia balzò in piedi e abbaiò. L'incantesimo fu rotto. Subito il contadino corse su per le scale, col cuore in gola, solo per scoprire che le sue peggiori paure si erano realizzate: il letto era vuoto. Sua figlia non c'era più. «Distrutto da quella perdita, decise di tentare tutto ciò che era in suo potere per riavere la figlioletta. Così selvaggia era la sua angoscia che non aspettò neppure l'alba per uscire di casa e, senza mangiare né bere, tornò a consultare la Carlin. «'Anche in questa grave circostanza c'è un consiglio che posso darti', disse lei. 'Ma la sfida sarà dura e piena di difficoltà. Dovrai prendere un ramo di frassino per proteggerti sotto le sue foglie e andare sul Culver, ogni notte, ad attendere... là, proprio sulla cima del colle. Quando verranno a domandarti cosa stai facendo, dovrai chiedere Loro di restituirti tua fi-
glia; ti avverto, però, che essi potrebbero chiederti in cambio qualcosa d'impossibile.' «Il contadino fece come gli era stato consigliato e in effetti, la terza notte, alcuni faêran gli apparvero e gli chiesero perché fosse così sfrontato da sedersi sulla vetta del Culver. «'Sono venuto a chiedervi di restituirmi mia figlia, che voi avete rapito', rispose lui. «'E va bene, potrai riaverla!' dissero Loro. 'Ma in cambio, prima del Giorno del Biancofiore, ci porterai tre doni: una ciliegia senza nocciolo, un uccello vivo che non abbia ossa e una parte del corpo della più vecchia creatura della tua fattoria, presa senza che essa abbia a versare una goccia di sangue. Se tornerai qui con queste tre cose, ti restituiremo tua figlia.' «La speranza gonfiava il cuore del contadino quando se ne andò... ma poi chiese a se stesso: 'Come può esistere una ciliegia senza nocciolo, a meno che non sia io a tirarlo fuori? Ma sono certo che questo non è ciò che Loro intendono. Quanto all'uccello, potrei ammazzare una gallina e disossarla ma dove troverò mai un uccello vivo che non abbia ossa? E l'ultima parte di questo enigma... potrei mungere il latte dalla mia mucca più vecchia, Burrina? Però, il latte non fa veramente parte del corpo di un animale! E se invece le tagliassi la punta delle corna? Ma, un momento... Dobbin, il cavallo da tiro, è più vecchio di Burrina, no?' A lungo si lambiccò il cervello in cerca delle risposte ma non seppe trovarle e la Carlin non fu in grado di aiutarlo in questo. Incapace di trovare riposo, prese a viaggiare su e giù per tutta la regione, continuando a porsi quelle domande senza sosta e fermandosi a sottoporle a tutti quelli che incontrava, invano. E il Giorno del Biancofiore si avvicinava sempre più.» Il bardo si piegò ad accarezzare il morbido pelo della lince. Approfittando della pausa, la Duchessa di Roxburgh esclamò: «Ogni volta che sento questa storia mi meraviglio della dabbenaggine di quel contadino. Come si può ignorare le risposte a indovinelli così semplici?» Il bardo sorrise. «Non tutti sono acuti come Alys di Roxburgh.» «Uff!» sbuffò lei, colpendolo leggermente sul ginocchio col ventaglio. «Coraggio, raccontate il seguito!» «Al Giorno del Biancofiore mancavano appena tre settimane», riprese Ercildoune, «quando un mattino, camminando, il contadino incontrò un vecchio mendicante. «'Per carità, buon signore, datemi una crosta di pane. Sono affamato!' lo pregò il cencioso individuo.
«'Ti servirà ben più di una crosta', rispose il contadino, impietosito. Aprì la bisaccia e gli offrì generosamente una pagnotta, un pezzo di formaggio e una mela. 'So cosa significa soffrire... perciò, laddove posso, cerco di alleviare le sofferenze altrui', gli disse, rattristato. «'Tu mi hai soccorso', disse il mendicante, intascando il cibo, 'e in cambio io ti aiuterò. La risposta alla prima domanda è: una ciliegia ancora in boccio non ha il nocciolo.' «Stupefatto, il contadino restò a guardarlo, senza parole. Con un sorriso, il vecchio se ne andò... e, benché sembrasse allontanarsi lentamente, in pochi istanti arrivò in fondo alla strada e scomparve dietro l'angolo. Il contadino gli corse dietro per ringraziarlo ma quando giunse all'angolo vide che la strada era vuota sino a grande distanza e anche nei campi non c'era nessun viandante. «Perplesso, l'uomo proseguì. Stava oltrepassando un filare di castagni quando vide un passero che cercava di sfuggire a un falco, piombato in picchiata su di lui: lasciando da parte le sue preoccupazioni, raccolse un sasso e lo scagliò all'uccello da preda, mettendolo in fuga. Il passero, però, non fuggì, anzi venne a posarsi sul ramo di un cespuglio accanto al suo salvatore e lo guardò con occhi vivaci e intelligenti. «Essendosi accorto di quello sguardo, il contadino non fu troppo sorpreso quando l'uccello aprì il becco e gli parlò con voce argentina. «'Sei stato pietoso, perciò ti premierò con la risposta alla seconda domanda. In un uovo covato da una gallina per quindici giorni troverai un pulcino che non ha ancora un osso formato nel suo corpo.' L'uomo guardò a bocca aperta l'uccellino marrone... ma questi cinguettò tre note musicali e volò via. «Il contadino stava ritrovando il coraggio. 'Due risposte!' si disse, trionfante. 'Ho due risposte!' Poi rifletté: 'Ma a cosa mi serviranno, se non potrò trovare la risposta all'ultima domanda?' E ricominciò a disperarsi. «Mentre camminava per la sua strada, rimuginando accigliato sul terzo indovinello, gli giunse alle orecchie un gemito penoso: ai limiti di un campo, un coniglio era rimasto imprigionato in un laccio di fil di ferro. I lamenti della bestiola lo mossero a compassione, così si chinò accanto all'animale e, con gentilezza, lo liberò, aspettandosi che corresse subito via. «Invece, come già il passero, il coniglio si fermò a guardarlo: lui non se ne stupì, anche se un senso di meraviglia lo pervadeva. «'Signore', squittì il coniglio, 'tu mi hai fatto un favore, perciò ecco l'ultima risposta che ti serve: se tagli una ciocca di capelli, essa si separerà dal
corpo senza che questo perda una sola goccia di sangue. Quanto alla più vecchia creatura della tua fattoria... be', chiedine il nome allo specchio!' «Il contadino aprì la bocca, ma non fece in tempo a ringraziarlo che il coniglio se n'era già andato. Allora, giubilante, gettò il cappello in aria e tornò a casa di corsa. Si affrettò a recarsi nel pollaio e mise un uovo sotto una gallina in cova; quando furono trascorsi quindici giorni, prese le forbici e si tagliò una ciocca di capelli. Infine andò nell'orto e raccolse un ramo pieno di boccioli di ciliege rosa e bianchi. Ogni tanto faceva qualche saltello, ballando per la gioia. «Non vedeva l'ora che calasse la notte. Al tramonto s'infilò nel berretto un ramoscello di frassino, tornò a Willowvale e salì in cima al Culver. Quando fu lassù, sedette e si preparò all'attesa. Le stelle spuntarono e seguirono il loro percorso celeste: era una notte calda e senza vento ma lui restò sveglio e vigile. Dopo un po' di tempo, sentì musica e risa che sembravano provenire da sotto la collina e, di li a poco, apparvero i faêran. Nel vederlo lì s'irritarono ma non poterono toccarlo - per via del ramo di frassino - né rapirlo, perché lui non aveva trasgredito al loro codice. Quando il contadino mostrò loro i boccioli, l'uovo e la ciocca di capelli, dovettero restituirgli la figlia: dapprima la bambina guardò suo padre sbalordita, come se si fosse appena svegliata da un sogno; poi mandò un grido di gioia e gli gettò le braccia al collo. I due ritornarono a casa insieme e lei non andò mai più a spiare i faêran.» Con uno schiocco disarmonico, una corda della lira di Toby si spezzò. A quel rumore secco, gli altri tre sussultarono. «I faêran avevano le loro leggi», continuò Ercildoune dopo aver scoccato un'occhiataccia al suo apprendista, «come questo racconto dimostra. Se qualcuno infrangeva quelle leggi, emettevano una dura sentenza... Tuttavia non erano spietati: avevano dato al contadino la possibilità di riavere la figlia e, successivamente, lo avevano messo alla prova per vedere se fosse meritevole. Poiché egli si era dimostrato gentile, loro stessi gli avevano fornito le risposte agli indovinelli. La gentilezza era una virtù che apprezzavano molto, nei mortali.» «Apprezzavano anche il coraggio», aggiunse Alys. «Certo... e così pure la pulizia fisica, il vero amore e la capacità di mantenere le promesse», rincarò il bardo. Con gesti esperti, Toby tolse la corda rotta dalla lira e ne srotolò una nuova. Rohain disse: «Io so che amavano molto le feste, le danze e gli indovi-
nelli... Sembra che fossero una razza felice ma anche pericolosa». Ercildoune, puntellato su un gomito, chiamò un paggio: «Porta del vin brulé!» ordinò. «A milady piace il vin brulé?» domandò, rivolto a Rohain. «Non so cosa sia.» «Una bevanda a base di vino rosso, miele e spezie.» «Sono certa che mi piacerà.» Il bardo schioccò le dita e il ragazzo si affrettò a uscire. Toby suonò una liquida scala di note per accordare di nuovo lo strumento, tendendo la corda. «I faêran vivevano sotto le colline?» volle sapere Rohain. «Il loro regno era sotterraneo, nelle caverne?» Ercildoune rise. «Non era sotterraneo e non stava sotto l'acqua, né sotto o sopra qualsiasi cosa. Faêrie era ovunque... era Altrove. Le porte che univano Aia e il Reame Fatato (alcuni lo chiamavano il Reame Pericoloso) si trovavano in luoghi oggi infestati dagli eldritch wight, che li preferiscono ad altri. Sotto il Culver c'era un ingresso e anche sotto certe altre colline... Queste alture verdi erano conosciute con molti nomi - come raths, knowes, brughs, lisses e sitheans o shians - ma esistono Vie anche sotto alcuni laghi, in boschi cedui, in posti alti e bassi. Così voi capite, Rohain, che la bambina in cerca di primule non guardò in una caverna sotterranea... guardò, attraverso una porta, nel Reame Fatato stesso.» «Comunque, il rapimento mi sembra una pena assai severa per uno sguardo innocente», commentò Rohain. «Così pare a noi», concordò Ercildoune. «Tuttavia non dimenticate che il Reame Fatato può essere un luogo di delizie e che i faêran possono aver considerato il rapimento come un modo per impedire che la bambina dicesse ad altri ciò che aveva visto e prevenire così un afflusso di disturbatori umani. In genere, Loro consideravano la curiosità umana un crimine oltraggioso ed erano svelti a vendicarsi, come riferirò... Ma prima, consentitemi di darvi un altro esempio di Via d'accesso e di trasgressioni dei mortali.» Da narratore provetto, esperto d'ogni cultura e sempre appassionato alla sua opera, il bardo si lanciò in un'altra storia. «Dovete sapere che una volta, al lago Coumluch tra le montagne di Finvarna, c'era una Via d'accesso dei faêran. Il Coumluch è un lago solitario, con una nebbiolina di vapore bianco che stagna sempre sulle sue acque e una collana di rupi a strapiombo tutt'intorno. Per la maggior parte dell'anno, nulla interrompeva l'uniformità delle sue acque - né roccia, né scoglio -
ma durante il Giorno del Biancofiore al centro del lago emergeva un'isola e, nello stesso tempo, una Porta appariva sulla superficie di una rupe. La Porta restava aperta: se degli estranei avessero osato entrare, avrebbero trovato una rampa di scale che scendeva sino a un lungo tunnel orizzontale; questa Via sotto il lago era uno degli ingressi al Reame Fatato. Una seconda rampa di scale, diretta verso l'alto, portava dal tunnel all'isola in mezzo al lago. Bello e maestoso era il panorama in quel vasto lembo di terra, con grandi prati verdi costellati di fiori profumati di ogni colore, alberi screziati di luce aurea e delicate ragnatele d'ombra. I faêran davano il benvenuto agli ospiti storditi da tanta bellezza ornandoli con ghirlande di fiori, poi li allietavano con appetitose cibarie e bevande rinfrescanti che non erano del Reame Fatato ma provenivano - forse illecitamente - da Erith, poiché i Fatati non desideravano catturare i loro ospiti ma solo intrattenerli prima di lasciarli liberi, né permettevano che questi fossero preda della nostalgia per Faêrie. Gli eldritch wight suonavano i loro flauti (era raro che i musici faêran suonassero per il divertimento dei mortali) e gli ospiti erano invitati a unirsi alle danze: tra allegria e gozzoviglie il giorno trascorreva e quando scendeva la sera i mortali dovevano accomiatarsi e andarsene. «I faêran imponevano solo una condizione ai loro visitatori: che nessuno portasse via niente dall'isola. Neppure un filo di erba o un sasso potevano essere asportati... persino le ghirlande di fiori dovevano essere deposte prima che gli ospiti scendessero la scala che conduceva alla Via sotto il lago. «Per secoli, queste condizioni furono rispettate... Alla fine, però, un uomo fu sopraffatto dalla curiosità e, tanto per vedere cosa sarebbe successo, staccò una rosa dalla propria ghirlanda prima di deporla e se la nascose nella tasca della giubba. «L'uomo scese la scala sotto il lago insieme con gli altri mortali in procinto d'andarsene. A metà della Via si frugò in tasca, ma la rosa non c'era più: subito lo attanagliò una paura terribile, poiché capì che i faêran avevano modo d'accorgersi di trasgressioni come quella; si affrettò verso la Porta sulla faccia della rupe e l'attraversò col resto dell'allegra comitiva che era con lui. Mentre l'ultimo ospite usciva dalla Via, una voce gridò: 'Guai a voi, che avete ripagato la nostra ospitalità col furto!' Poi la Porta si chiuse con un tonfo e, come al solito, neppure una fessura restò a indicare dove si era aperta. «Da quel giorno in poi l'isola non riapparve mai più nel Giorno del
Biancofiore, né fu più vista traccia della Porta sulla rupe. I faêran dell'isola non perdonarono mai i mortali per quel furto, tanto che cessarono la loro festa annuale e sigillarono il passaggio. Una delle Vie d'accesso al Reame Fatato fu dunque abolita definitivamente... e quella non fu che la prima. In seguito, al tempo della Chiusura, ogni Via fu sbarrata per sempre.» «Perché?» volle sapere Rohain. «I mortali facevano di peggio che rubare fiori dal Reame Fatato. Alcuni faêran furono molto irritati dalle azioni della nostra gente, così decisero di non avere più a che fare con noi.» «E voi dite che queste Vie sono state chiuse per sempre? Non potrebbero essere riaperte?» «No.» «Forse è meglio così», osservò Rohain. Alys annuì. «Non sia mai detto!» esclamò il bardo, accalorandosi. «Aia ha perduto il suo collegamento con un mondo di meraviglie che i mortali possono soltanto sognare. Il Reame Fatato era e rimane una terra pericolosa, questo è vero; in essa giacciono insidie per gli incauti e torri di prigionia per i malandrini... ma era immensa e inesplorata, straordinaria e piena d'ogni genere d'uccello e di bestia, di mari sterminati e stelle innumerevoli, di gramarye e di bellezze incantevoli e minacciose... ricca e strana, gioiosa e triste, pungente come la lama di un Dainnan. Un uomo che abbia viaggiato in quel Reame può considerarsi fortunato.» Una musica solitaria echeggiava all'esterno, nella sera: qualcuno stava suonando un flauto di canna. Quelle morbide note in si bemolle stonavano con la musica della lira di Toby, in una tonalità diversa. Dopo un poco si affievolirono e tacquero. Il bardo si voltò verso la porta. «Allora, questo vin brulé?» Due paggi sopraggiunsero immediatamente, uno recando un vassoio e dei boccali, l'altro una brocca fumante e un tovagliolo. La fragrante bevanda fu servita e i tre bevvero, non prima d'aver brindato al Re-Imperatore; poi Ercildoune si accinse a raccontare un'altra storia. «Se volete saperne di più sui faêran dovete sentire la storia di Eilian», disse. Rohain inclinò la testa. «In un tempo lontano accadde che un'anziana coppia giungesse a Caermelor dal villaggio di White Down Rory, allo scopo di cercare una serva al mercato d'inverno. I due vecchini videro una graziosa fanciulla dai capelli biondi che si teneva un po' in disparte dalle altre e andarono a parlare con
lei.» «Una ragazza talith?» mormorò Rohain. «Sì, una ragazza talith, ridotta in miseria dalle circostanze della vita. Lei si presentò col nome di Eilian, accettò di essere assunta e li seguì a casa loro. Nei villaggi di campagna, le donne usavano dedicarsi alla filatura nelle lunghe sere invernali, dopo cena. La nuova serva della coppia aveva l'abitudine di uscire nel prato per filare alla luce della luna e alcuni passanti dissero di aver visto dei faêran che cantavano e danzavano intorno a lei. Poi venne la primavera e - quando le giornate si allungarono, i cespugli di more sbocciarono e il cuculo tornò nei boschi - Eilian fuggì via insieme coi faêran e nessuno la vide più. Ancor oggi, il prato dove fu vista per l'ultima volta è chiamato il Prato di Eilian, anche se la gente ha dimenticato da molto tempo il motivo di questo nome. «La vecchia che aveva assunto Eilian era una levatrice, con una reputazione così buona che i suoi servigi erano richiesti ovunque in quella regione... eppure non si era mai arricchita, perché le donne che curava erano povere come lei. Circa un anno dopo la fuga di Eilian, in una fredda e nebbiosa notte di luna piena, l'anziana coppia sentì bussare alla porta. La vecchia andò ad aprire e si trovò davanti un alto gentiluomo avvolto in un mantello, che teneva per le briglie un cavallo grigio. «'Sono venuto per portarti da mia moglie', le disse. «Insospettita dalla straordinaria avvenenza del gentiluomo e non del tutto convinta dal suo tono altezzoso, la levatrice fu tentata di rifiutare ma una strana compulsione la avvinse: contro la sua stessa volontà, radunò il necessario e, dopo essere salita in groppa dietro lo sconosciuto, galoppò con lui finché giunsero a Roscourt Moor. Se mai siete state a Roscourt Moor, avrete visto il rath che là chiamano Bryn Ithibion, il grande colle verde che si alza al centro della brughiera. Il Bryn Ithibion somiglia a una fortezza in rovina, incoronato com'è da pietre verticali e con un grosso cumulo di rocce sul versante settentrionale. Quando la levatrice e il gentiluomo l'ebbero raggiunto, smontarono e lui la condusse all'imboccatura di una larga caverna su un lato del rath. Sul fondo di essa, dietro un tendaggio di pelli d'asino, c'era un giaciglio di giunchi e felci sul quale giaceva la moglie. Il focherello che fumava in un piccolo braciere emanava a stento un po' di calore, in quel luogo freddo e desolato. «Quando la vecchia levatrice ebbe aiutato la donna a partorire, sedette su un rustico sgabello accanto al fuoco e vestì il bambino. La donna le chiese di restare per qualche giorno e lei accettò; il suo cuore si era mosso a com-
passione per la donna, capite, perché il parto era stato faticoso e lei aveva sofferto e quel rifugio era assai scomodo. Ogni giorno il gentiluomo alto portava del cibo e altri oggetti di prima necessità e la madre e il bambino si facevano sempre più forti e robusti. «Un giorno, l'uomo andò dalla vecchia con una scatoletta curiosamente intarsiata contenente un unguento verde e le chiese di metterne un po' sulle palpebre del bambino, tuttavia le proibì di usarlo su se stessa. La levatrice fece come le era stato chiesto... ma aveva appena messo via la scatoletta che l'occhio sinistro cominciò a pruderle e lei se lo sfregò con lo stesso dito che aveva adoperato per massaggiare le palpebre del bambino. «All'istante, vide qualcosa di meraviglioso: la caverna era scomparsa e al suo posto c'era una splendida camera a pannelli, decorata in verde e oro e adatta a ospitare un Re. Invece che seduta su uno sgabello di legno dinanzi a un braciere ammaccato, si ritrovò su un seggio intagliato dall'alto schienale, di fronte a un caminetto da cui irradiava un glorioso calore. Il lucido pavimento era coperto da spessi tappeti, arazzi preziosi pendevano alle pareti e sulla mensola del camino c'era uno specchio dalla cornice d'oro. Soffocando i propri ansiti di stupore, lei corse dov'era distesa la donna, non più su una stuoia vegetale ma su un letto di piume con lenzuola di seta bianca, cuscini lussuosi e ricche coperte di broccato... e colei che giaceva lì addormentata altri non era che la bionda Eilian! Anche il pargoletto, che fino a poco prima le era parso un neonato qualunque, era il più bel bambino che la levatrice avesse mai visto. «Ancor più straordinario era il fatto che la vecchia potesse vedere tutte quelle meraviglie soltanto con l'occhio sinistro. Quando lo chiudeva e guardava col destro, vedeva tutto com'era apparso prima: nude pareti di roccia, l'umile giaciglio di cannicci, la scarsa e rozza mobilia e il pavimento in terra battuta. «Per prudenza, non volle parlare della facoltà visiva appena acquisita ma, finché rimase nella caverna, tenne aperto l'occhio sinistro durante le ore di veglia, benché quella sovrapposizione d'immagini diverse la confondesse e la costringesse a sbattere le palpebre di continuo... e, in questo modo, apprese molte cose sui faêran. «Infine, giunse per la levatrice il momento di tornare a casa. L'alto gentiluomo la condusse a cavallo sino alla porta e, dopo averla fatta scendere, le mise in mano una borsa piena di monete; poi, prima che lei potesse ringraziarlo, spronò il cavallo e se ne andò al galoppo. La vecchia si affrettò a entrare e rovesciò la borsa sul tavolo di cucina: una collinetta di monete
d'oro brillò davanti ai suoi occhi e lei le contò con grande eccitazione, scoprendo di possedere abbastanza oro da poter vivere comodamente col marito per tutto il resto della loro vita. «Con quell'oro e la capacità di vedere attraverso gli incantesimi faêran, la vecchia si considerò fortunata. Poiché era abbastanza saggia da sapere che avere la Vista e l'oro avrebbe scatenato invidia e timore tra i vicini di casa, lei non ne parlò a nessuno... e d'altra parte era noto che i faêran s'irritavano quando una loro gentilezza veniva divulgata ai quattro venti. Tenne nascosta la propria facoltà e la favolosa ricchezza persino al marito, per evitare che tradisse inavvertitamente il segreto. «A volte, in primavera, vedeva i gentiluomini e le dame faêran nei frutteti, intenti a passeggiare tra i meli in fiore oppure, nelle notti d'estate, a danzare in cerchio sull'erba, sotto il firmamento. Una sera vide anche una rade di nobili faêran.» «Una rade?» lo interruppe Rohain. «È il termine che indicava una cavalcata dei faêran, quando si recavano a una festa o prendevano i cavalli per il puro piacere di farlo. La vecchia li vide cavalcare attraverso i campi al tramonto, in una luce vaga che li avvolgeva di una bellezza siderale. I loro lunghi capelli sembravano intrecciarsi con le costellazioni e i quadrupedi che montavano erano snelli e delicati, con le lunghe code e le criniere ornate di campanelle che tintinnavano al vento. C'era un'alta siepe di rovi che avrebbe potuto impedir loro di uscire dal campo ma essi la saltarono - leggeri come uccelli - e scomparvero al galoppo dentro una collina verde, poco più avanti. Il mattino dopo la vecchia andò a cercare le loro tracce ma non trovò segni di zoccoli, né un filo d'erba spezzato. «Un giorno le accadde di uscire prima del solito per andare al mercato e, mentre si aggirava tra le bancarelle e le botteghe, voltò un angolo e si trovò faccia a faccia con l'alto gentiluomo che aveva bussato alla sua porta in quella notte nebbiosa. Cercando di celare la propria sorpresa, lei assunse un'aria baldanzosa: 'Buongiorno, signore. Come stanno Eilian e il vostro bel bambino?' «Lo straniero rispose educatamente, assicurandole che stavano entrambi bene. Poi le domandò, in tono discorsivo: 'Ma tu, con quale occhio mi vedi?' «'Con questo', rispose la vecchia, indicando il sinistro. «Nel sentir ciò lui rise, estrasse un coltello, le cavò l'occhio e subito se ne andò. Lei non vide mai più nessun faêran.»
«Che orrore!» esclamò Rohain, raddrizzandosi di scatto. «Un'altra severa e brutale punizione del tutto smisurata alla colpa! Dopotutto la donna non voleva far del male a nessuno... si era solo sfregata istintivamente un occhio, senza premeditazione né malizia! Perché accecarla così dolorosamente?» «La vendetta dei faêran irritati era terribile», commentò Ercildoune bevendo un sorso dal suo boccale. La Duchessa di Roxburgh scosse il capo. «Questo racconto non fa che confermare la mia opinione.» Ercildoune rise. «Alys vede la razza dei faêran attraverso un cristallo nero», disse. «Ma a ognuno il suo pensiero. Il mio parere è l'opposto.» «Ercildoune vedrebbe della benevolenza perfino nell'Each Uisge», replicò seccamente la Duchessa. «La ragazza, Eilian, doveva avere una buona opinione dei faêran», osservò Rohain. «Questo è probabile», annuì la Duchessa. «Alla fine, però, fu esiliata dal Reame Fatato per una trasgressione di poco conto e morì in miseria.» «Un triste destino», mormorò Rohain. «Non dovete giudicare senza conoscere l'intera storia», l'ammonì il bardo. «Quell'esilio non fu imposto a Eilian dal marito o da qualche altro faêran... esso fu l'inevitabile effetto del Reame Fatato su tutti i mortali che vi entravano. Nessun mortale poteva infatti abitarvi per più di un breve periodo, né poteva tornare ad Aia senza languire, poiché desiderava disperatamente ciò che aveva perso e soffriva di un'insopportabile nostalgia per il Reame Fatato. Più a lungo uno abitava là e più duro era tornare nelle terre degli uomini. Quest'afflizione era chiamata il langothe... Wilfred, porta altro vin brulé! La storia che ora vi narrerò vi farà capire meglio la cosa.» La lince si alzò, sbadigliò, si affilò gli artigli sulla stuoia - già ridotta a uno straccio da quel vezzo felino - e si accovacciò di nuovo, mentre il suo padrone ricominciava a raccontare. «Perdret Olvath era una giovane graziosa che viveva nel Luindorn. Essendo nata in una famiglia povera, dovette andare a servizio appena n'ebbe l'età. Sì diceva che fosse una ragazza fantasiosa cui piaceva sognare o, come direbbero alcuni, assai romantica; consapevole com'era della propria bellezza, era però anche piuttosto vanitosa. Le belle donne hanno diritto alla vanità - secondo il modesto parere del gentiluomo che vi parla - ma altri non sono d'accordo su questo. Perdret teneva molto a vestirsi nel miglior modo possibile, con stoffe fluttuanti e dai colori vivaci; s'intrecciava
fiori selvatici tra i capelli e attirava l'attenzione dei giovanotti, con grande invidia delle altre ragazze. Era anche alquanto sensibile all'adulazione e, avendo ricevuto una scarsissima istruzione, non era abbastanza sofisticata da nascondere questa sua debolezza: se qualcuno le faceva un complimento, gli occhi le brillavano di piacere. «Un'estate, accadde che Perdret si trovasse disoccupata per un certo periodo e sua madre cominciò a essere ansiosa di vederla di nuovo al lavoro. In quella zona non c'era però niente di adatto a lei, così la donna incitò la figlia ad andare in città. La ragazza non avrebbe voluto lasciare il suo villaggio ma non ebbe altra scelta: partì da casa a piedi e camminò a lungo e di buon passo. Tutto sembrava andare bene sino a quando, nella vallata, giunse a un incrocio e scoprì di non sapere quale strada dovesse prendere. Guardò da una parte, guardò dall'altra e si sentì sempre più confusa. Le conveniva prendere una strada a caso, tornare al paese o, ancora, restare lì dove si trovava? Incapace di decidere, sedette su una grossa pietra e si chinò, con un sospiro sognante, a raccogliere le felci che crescevano lì intorno a profusione. Non era trascorso molto tempo che sentì una voce alle sue spalle; si voltò e vide un attraente giovanotto vestito di seta verde e adornato di bracciali, anelli e spille d'oro. «'Buongiorno, gentile damigella', la salutò lo sconosciuto. 'Cosa fate di bello da queste parti?' «'Vado in città a cercare lavoro', rispose lei. «'Che tipo di lavoro cercate, mia cara?' domandò l'altro, con un sorriso affascinante. «'Qualsiasi lavoro andrà bene', disse Perdret, abbagliata. 'So fare molte cose e quello che ancora non so, lo imparo in fretta.' «'Pensate che potreste accudire un vedovo con un bambino piccolo?' la interrogò il giovanotto. «'I bambini mi piacciono molto e mi so prendere cura di loro', disse Perdret. «'Allora vi assumo io', le propose lui, 'per un anno e un giorno. Ma prima, Perdret Olvath...' E qui la ragazza restò a bocca aperta, scoprendo che quel giovane conosceva il suo nome... ma lui rise: 'Oh, capisco, pensavate che non sapessi chi siete. Credete davvero che un giovane vedovo potesse passare dal vostro villaggio senza notare una ragazza così piacente? Per giunta, un giorno vi ho vista mentre vi pettinavate, specchiandovi in uno dei miei laghetti. Quella volta rubaste una delle mie viole per infilarla nei vostri bei capelli.'
«Sedotta dai suoi modi garbati, la ragazza era quasi sul punto di accettare quell'offerta ma sua madre le aveva insegnato a essere cauta. 'Dove abitate?' gli domandò. «'Non lontano da qui', rispose il giovane. 'Volete accettare il lavoro e seguirmi?' «'Prima devo chiedervi quanto mi pagherete.' «Lui le disse che avrebbe potuto stabilire lei stessa la paga e visioni di lusso e ricchezza balenarono davanti agli occhi di Perdret. «'A condizione che mi seguiate subito, senza tornare a casa', aggiunse lui. 'Penserò io ad avvertire vostra madre ' «'Ma i miei vestiti..' «'Quelli che avete con voi sono più che sufficienti, per ora. Presto ve ne fornirò di più belli.' «'Allora va bene. Siamo d'accordo!' rispose Perdret. «'Non ancora', disse l'altro. 'Io ho le mie regole e voi dovrete prestare un giuramento.' «Il viso di Perdret assunse un'espressione allarmata. «'Non dovete aver paura', la tranquillizzò il giovane, con gentilezza. 'Vi chiedo soltanto di baciare quella foglia di felce che avete in mano e dire: 'Per un anno e un giorno, prometto di restare.' «'È tutto qui?' si stupì Perdret. E giurò. «Senza un'altra parola, lui si volse e si avviò sulla strada che portava a est. Perdret lo seguì, pur trovando strano che il suo nuovo padrone mantenesse un silenzio così completo. Camminarono a lungo, finché la ragazza fu stanca e i piedi cominciarono a farle male: le sembrava di camminare da un'eternità e l'altro non diceva una parola... La povera ragazza si sentiva così esausta e depressa che, a un certo punto, scoppiò a piangere. Nell'udire i suoi singhiozzi, il giovane si voltò. 'Siete stanca, Perdret? Sedetevi', disse, prendendola per mano e conducendola a un monticello erboso. Sopraffatta da quella dimostrazione di gentilezza, lei pianse ancora di più. Lui la lasciò sfogare per qualche minuto, poi le si chinò accanto. 'Lasciate che vi asciughi gli occhi.' «Il giovane raccolse una manciata di foglie da un cespuglio e, con gesto rapido, gliele passò sugli occhi; all'istante le sue lacrime svanirono e con esse anche la stanchezza che le irrigidiva le gambe. Perdret si accorse che stava Camminando di nuovo e non riuscì a ricordare quando avesse lasciato il monticello erboso. «Poi il loro percorso cominciò a scendere. Muraglie verdi si alzarono su
entrambi i lati e la strada s'inoltrò nel sottosuolo. La ragazza era decisamente preoccupata... ma aveva stretto un patto e aveva più paura di tornare indietro che di andare avanti. Dopo un po', il suo nuovo padrone si fermò. «'Siamo quasi arrivati, Perdret', le disse. 'Ma vedo una lacrima brillare nei vostri occhi e nessuna lacrima di mortale può entrare qui.' «Come prima, le asciugò gli occhi con alcune foglie. Proseguirono e il tunnel si aprì. «Davanti a loro si estendeva una terra di cui Perdret non aveva mai visto l'eguale: fiorì di ogni genere coprivano le colline e le valli e l'intero territorio era un vasto tappeto punteggiato di gemme, che luccicavano in un'atmosfera illuminata da una luce dolce come il chiaro di luna. C'erano corsi d'acqua di una purezza trasparente che scorrevano su fondali di granito, scendendo dalle colline con mille piccole cascate tintinnanti; c'erano fontane su cui danzavano arcobaleni di gocce microscopiche e alti alberi in filari e boschetti, gremiti di fiori e frutti maturi. Eleganti dame e gentiluomini vestiti di verde e oro passeggiavano, facevano sport o riposavano sui prati fioriti, cantando canzoni e raccontandosi storie. Era un mondo troppo bello e affascinante perché le parole potessero descriverlo. «Il padrone di Perdret la introdusse in una maestosa dimora, all'interno della quale tutti i mobili erano di madreperla o d'avorio con incisioni in oro e in argento, arricchite di smeraldi. Dopo aver oltrepassato diverse stanze, ne raggiunsero una drappeggiata di nivee tende di pizzo, fini come ragnatele. Al centro c'era una piccola culla, ricavata da una bellissima conchiglia marina dai colori così fulgidi che Perdret poteva a stento sostenerne la vista. Addormentato tra le coltri c'era il più bel pargoletto che lei avesse mai visto. «'Il vostro incarico sarà di occuparvi di lui', disse l'uomo. 'Non avrete altro da fare che lavarlo quando si sveglia, farlo mangiare, vestirlo e portarlo a passeggiare nei giardini, per poi riportarlo a letto quand'è stanco. In questa terra io sono un lord e ho le mie ragioni per volere che mio figlio conosca qualcosa della natura umana.' «Perdret cominciò a fare il suo lavoro e lo svolse con attenzione e diligenza. Imparò ad amare il bambinetto - che sembrava ricambiarla con altrettanto affetto - e il tempo passò con stupefacente rapidità. Per quanto fosse strano, lei non pensò mai a sua madre... non pensò neppure una volta a casa sua. Abitava nel lusso, era felice e non si accorgeva del trascorrere del tempo. «Ma il periodo concordato infine ebbe termine e, un mattino, Perdret si
svegliò nel suo vecchio letto, nella casa della madre. Tutto le appariva poco familiare e lei, a sua volta, sembrava distratta e assente a quelli che le facevano visita: non mostrava nessun interesse nel mangiare e nel bere e di notte, invece di dormire, usciva in cortile e guardava le stelle. A volte vagava a piedi nudi sino all'alba e al mattino la ritrovavano distesa sul letto, talmente esausta da essere incapace d'alzarsi. Divenne sempre più pallida e magra ed era assai raro vederla sorridere. Numerosi saggi furono consultati affinché curassero l'afflizione di Perdret e lei raccontò loro sempre la stessa storia: del lord faêran che l'aveva assunta, del suo bambino e della terra meravigliosa in cui aveva vissuto. Poiché era notoriamente una ragazza fantasiosa, alcuni pensarono che fosse semplicemente uscita di senno... ma alla fine una vecchia Carlin giunse nella casupola dove Perdret giaceva a letto e si fece raccontare la sua avventura. «'Ora piega il braccio destro, Perdret', ordinò poi la Carlin. «Perdret sedette e piegò il braccio, tenendo la mano sul fianco. «'Ripeti queste parole: 'Che il mio braccio non possa raddrizzarsi mai più, se ho detto una bugia'.' «'Che il mio braccio non possa raddrizzarsi mai più, se ho detto una bugia', ripeté Perdret. «'Cerca di raddrizzare il braccio', disse la Carlin. «Perdret raddrizzò il braccio. «'La ragazza ha detto la verità', dichiarò la Carlin. 'È stata portata via dai faêran, nella loro terra.' «'Tornerà mai normale?' volle sapere la madre. «'Io non posso farci niente', disse la Carlin, scuotendo la testa. 'Forse guarirà... col tempo.'» Il bardo terminò qui il suo racconto e la Duchessa aggiunse: «In ogni modo, si dice che Perdret non se la sia cavata bene, nel mondo degli uomini. Si maritò e non le mancò mai nulla... ma fu sempre depressa e infelice e morì giovane». «Invero», precisò il bardo, «alcuni dicono che si fosse innamorata del faêran vedovo. Altri dicono che fosse invece innamorata del Reame Fatato e basta... Ma, qualunque fosse la ragione, era ammalata di langothe.» «Si trattava dello stesso lord faêran che aveva sposato Eilian?» domandò Rohain. «Credo di no. La vicenda di Eilian è successiva a quella del mio ultimo racconto; non le ho narrate in ordine cronologico. Nel corso dei secoli, tuttavia, furono molte le ragazze mortali portate nel regno.»
«I faêran prendevano con sé anche gli uomini, oltre alle donne attraenti?» «Senza dubbio», rispose subito la Duchessa. «Be'», dichiarò Rohain, «a me sembra che il Popolo Fatato fosse una razza pericolosa, egoista e arrogante, per molti versi crudele e troppo orgogliosa della propria immortalità.» «Eppure la loro era un'immortalità limitata», fece notare seccamente il bardo. «Cosa volete dire?» «L'età e le malattie non li uccidevano, però potevano essere distrutti con la violenza.» «Anche così, potevano soltanto essere indeboliti, non distrutti», lo corresse la Duchessa. «Tuttavia quale violenza dei mortali avrebbe potuto sconfiggere i gramarye comandati dai lord del Popolo Fatato?» argomentò Rohain. Dopo una pausa, aggiunse: «È possibile che individui del loro sangue siano rimasti in Erith... magari bambini di razza mista? faêran e mortali, come il figlio di Eilian?» «Storicamente», disse il bardo, «sono nati pochi meticci faêran... forse qualche decina, non di più. Nessuno di loro rimase nel nostro mondo quando le Vie vennero chiuse; tutti scelsero di andare dall'altra parte.» «E la loro progenie? I figli dei meticci faêran?» «Non ce ne furono. I meticci faêran erano tutti sterili.» «È possibile che un faêran sia stato rapito dai mortali?» domandò Rohain. «Ma certo!» rispose la Duchessa. «C'erano modi per farlo, se li si conosceva. Molti uomini mortali furono presi da un amore disperato dopo aver conosciuto una damigella faêran, perché vedere una faêran significava essere attratti da lei. In verità, alcune femmine faêran che si erano incapricciate di mortali - non dico innamorate, perché sono convinta che non sapessero amare nel senso che intendiamo noi - permisero loro di prenderle in moglie.» Fece una pausa e aggiunse: «È possibile che delle mogli faêran siano state portate via dai mariti». «Non contro la loro volontà, voglio sperare!» esclamò Rohain. «Soltanto una volta», disse Ercildoune, «accadde un rapimento di questo genere e solo perché, come nella storia della ragazza-cigno, degli sciocchi eldritch wight chiacchieroni rivelarono il modo di riuscirci. Lo dissero a un uomo della nostra razza il quale, malato d'amore, riuscì a catturare una
sposa faêran.» Un'ombra di preoccupazione oscurò il suo volto. «Questa particolare storia è un altro esempio di furti umani ai danni dei faêran... forse l'esempio più significativo di tutti. Il rapimento di una dama della loro razza a opera di un mortale di bassa estrazione sociale destò le ire di alcuni tra i più grandi lord del Reame Fatato e la conseguenza fu che un certo Principe faêran cominciò a circondarsi di creature unseelie che vivevano per tormentare e danneggiare i mortali.» «Ma come può un mortale rapire una damigella faêran?» domandò Rohain. «Non le si può catturare come si farebbe con una femmina eldritch wight», spiegò il bardo. «Si può ottenere potere sulle merrow impadronendosi di un loro pettine, sulle ragazze-cigno rubando loro il mantello di penne o sulle silkie sottraendo loro la pelle, per esempio. C'erano però parole e gesti che potevano costringere le faêran a restare nel nostro mondo, almeno per un certo tempo.» «Ma non a lungo», intervenne la Duchessa, annuendo con aria saggia. «E dopo che la faêran lo aveva lasciato, il mortale deperiva e finiva anzitempo nella fossa. L'amore tra gli umani e i faêran era sempre segnato dal destino: tutte le loro unioni finivano in tragedia.» Gruppetti di contadini e di pastori - imbacuccati nei loro mantelli contro il vento gelido - arrivavano a Caermelor per suonare le canzoni tradizionali agli angoli delle strade e davanti alle case, venendone ricompensati con qualche moneta, fette di torta o fiaschi di birra calda speziata. I carri rotolavano sull'acciottolato, carichi di lunghi tronchi tagliati nella foresta e destinati a nutrire stufe e caminetti nel periodo di Imbrol. I negozi e le bancarelle del mercato facevano buoni affari: le lanterne erano accese tutta la notte nelle botteghe artigianali e nelle piccole manifatture dove si lavorava per smaltire le ordinazioni della nobiltà, poiché lo scambio di doni era una delle usanze più divertenti e più attese di Imbrol. Nelle strade erano accese lampade colorate e il fuoco ardeva nei bracieri dei venditori di caldarroste. Sotto la Grande Stella del Sud, Caermelor ferveva d'attività fino a tardi e, in quelle fredde notti, nessuno dormiva, benché il vento rabbioso abbattesse le lampade e spazzasse via i tizzoni ardenti dai bracieri mentre i fulmini danzavano come scheletri verdi per tutto il cielo a occidente. C'era un tempo inclemente, insolito per Imbrol. C'era chi ne dava la colpa al radunarsi degli sciami di unseelie in Namarre: «Questa è opera loro»,
borbottavano, accigliati. «Questo è solo il prologo del prossimo assalto. Dei dannati wight alleati coi barbari! Come si può sconfiggere un nemico del genere?» Dietro l'atmosfera spensierata delle feste, nella città serpeggiavano orribili presagi. La vigilia dell'anno nuovo. Quando le campane avrebbero suonato l'ultimo rintocco della mezzanotte, il Malgoverno avrebbe regnato fino al Giorno del Piccolo Sole. La tradizione annuale del Malgoverno consisteva in un'inversione dei ruoli che vedeva i lord prendere il posto dei servi e le lady mettersi nei panni delle loro cameriere, cosicché per qualche ora il mondo si sarebbe capovolto e la Bizzarria sarebbe rimasta al governo per tutta la notte, sino al canto del gallo. Ma nelle ore precedenti c'era la Festa. Più spazioso e assai più elegante della Sala da Pranzo Reale, il salone dei banchetti reali vantava otto caminetti, in ciascuno dei quali ardeva un tronco massiccio: il tradizionale Ceppo di Imbrol. Dinanzi a ciascuno di essi, otto lacchè si ergevano in tutto lo splendore delle loro livree per annunciare le portate. La tavola alta sulla sua piattaforma era così lontana dall'estremità opposta della sala che quelli seduti intorno a essa potevano a stento distinguere le facce di chi si trovava ai tavoli di fondo o anche in quelli centrali; nonostante la luce d'innumerevoli lampade e candelabri, l'inconveniente era aggravato dalla nebbia di vapore e d'incenso sospesa nell'aria. Sotto la piattaforma più alta ce n'era una bassa, priva di tavoli e sedie: qui, tra una portata e l'altra, sarebbero saliti i musici per suonare. Tutti i piatti erano d'oro massiccio o del più duro e brillante argento dorato. La luce bianca scintillava su miriadi di superfici: non si vedeva nulla che fosse di semplice rame, bronzo, ottone o anche d'argento. C'erano soprammobili aurei a forma di alberi gremiti di fiori e frutti e le torte erano state plasmate in forma di castelli bianchi, città di pastafrolla, tiri a sei di zucchero candito, pavoni glassati con la ruota aperta, vasi colmi di gigli, bouquet di rose, le tradizionali ruote girevoli di Imbrol, nonché paperi e oche. I tavoli laterali scricchiolavano sotto il peso di piramidi di frutti maturi e appetitosi, venuti dalla serra reale dov'erano stati costretti a crescere fuori stagione al solo scopo di ben figurare sul desco imbandito, circondati da ghirlande di sempreverdi e di bacche. Per l'occasione, c'erano saliere a forma di slitte da neve ornate di campanelle d'oro e con lo stemma del ReImperatore; i tovaglioli di lino erano stati ingegnosamente piegati in forma
di cristalli di neve e i portatovaglioli, ovviamente d'oro, erano stati lasciati vuoti davanti a ogni posto, tra coroncine di agrifoglio e di fiori invernali. Ora più acculturata sul pericolo di sbagliare coltello, cucchiaio e forchetta, Rohain ripassò mentalmente l'uso di ciascuna delle posate che trovò accanto al piatto a lei riservato: la forchetta da ostriche annidata sopra il cucchiaio da zuppa, la coppia coltello-e-forchetta riservata al pesce, alla carne e al pollame; il cucchiaino e la forchetta da dolce, il coltello da frutta, la forchettina a due rebbi per i bonbon... Poco più in là c'era la posateria che poteva essere condivisa con altri commensali: le forchette a molla per l'insalata, i cucchiai per i condimenti, le mollette a conchiglia per le zollette di zucchero, i cucchiai quadrati da burro, gli schiaccianoci e varie altre cose, da non confondersi coi mestoli per il consommè, le palette da gelatina, i trinciapollo e altri attrezzi il cui uso era riservato ai camerieri. Quasi tutti i cortigiani erano già ubriachi quando entrarono nel salone dei banchetti... e, tra costoro, anche Rohain. L'avevano costretta a bere per tutto il giorno - insistendo affinché imitasse l'allegra compagnia nel vuotar boccali - e lei non aveva osato rifiutare per timore di perdere il suo nuovo rango sociale. Priva com'era di ogni abitudine all'alcol, la giovane ne aveva accusato gli effetti ancor prima degli altri: il salone ondeggiava davanti ai suoi occhi come il ponte di una nave. Tutti attendevano in piedi, ciascuno accanto al proprio posto. La tavola alta si riempì per ultima: i lord dell'Attriod Reale e i più alti consiglieri della dimora del Re-Imperatore entrarono con le rispettive mogli, precedendo di parecchi minuti il giovane Principe Edward. Quando il ReImperatore fece la sua comparsa, un rispettoso silenzio cadde tra i commensali; nessuno, tuttavia, guardò direttamente il sovrano, così come imponeva l'etichetta. Sua Maestà prese posto sul seggio sovrastato dal decoratissimo baldacchino e solo allora i presenti poterono sedersi. Nel frattempo, Rohain aveva notato che uno dei lunghi tavoli era occupato per intero da guerrieri Dainnan in alta uniforme: calzoni stretti alla coscia e blusa lunga ornata dal blasone araldico reale. Si sporse in avanti per vederli meglio: alcuni le davano le spalle ma, di quelli che poteva vedere in faccia, nessuno era Thorn. Il suo sguardo restò comunque come calamitato da quel tavolo, al punto che le riusciva difficile guardare altrove. Paggi e inservienti passarono con l'acqua profumata per sciacquare le mani dei convitati. Rohain alzò gli occhi: il volto del ragazzo che le stava porgendo la brocca aveva qualcosa di familiare.
«Tu!» ansimò all'improvviso Rohain, con voce non molto nitida. «Scusate, milady?» «Tu! Dove ti ho già visto?» «Io... non saprei, milady», balbettò il ragazzo, imbarazzato. «Eppure ti ho già visto. Oh, sì, ora mi sovviene...» I ricordi caddero al loro posto l'uno dopo l'altro finché il quadro fu completo. Quello era il mozzo della nave mercantile Città di Gilvaris Taro... Lui non poteva riconoscerla ma il cuore di Rohain si riempì di gioia: dunque anche lui era riuscito a salvarsi! E i suoi compagni d'equipaggio? «Una volta lavoravi per una linea mercantile, la Cresny-Beulais... Non è così?» «Sì, milady. Ma...» «La tua nave fu assalita dai pirati. Cosa accadde al resto dell'equipaggio?» Sorpreso, il ragazzo mormorò: «Alcuni finirono assassinati, milady. Il comandante venne liberato in seguito al pagamento di un riscatto. Altri furono venduti come schiavi, credo». Nei suoi occhi c'era la voglia disperata di chiederle come facesse a sapere tante cose di lui, ma era troppo educato per interrogare una lady di nobili natali. «E tu sei riuscito a fuggire?» «Sì, milady.» Rohain sì tolse dal polso un braccialetto incrostato di rubini, che aveva indossato perché si adattava al suo abito: quella sera vestiva in cremisi e oro, con un accenno di giada. Viviana le aveva intrecciato finti boccioli di rosa tra i capelli, sovrastati da una piuma vermiglia fissata a una fascia di corniole. Roselline rosse erano applicate anche al merletto della larga gonna di seta e foghe di rosa in pizzo le ornavano la scollatura del corpetto; intorno alla vita portava una larga cintura scarlatta, con la fibbia d'oro. Le maniche le ricadevano in pieghe morbide sino al pavimento. «Prendi questo», gli disse. «Desidero regalartelo. Vendilo, se vuoi... e se mai ti servisse aiuto, chiedi di me. Se avrai bisogno di un lavoro, rivolgiti alla tenuta di Arth... Argh... cioè, Arcune. Sono la Baronessa di quella tenuta, sai.» Inesplicabilmente, la sua lingua sembrava essersi impastata: era come riluttante a formare le parole. «Per le Potenze, milady! Vi ringrazio di cuore!» «Non è niente. Te lo meriti.» Un ragazzo sveglio come doveva esserlo un mozzo di bordo, a quel pun-
to, avrebbe sbrigato il suo lavoro e se ne sarebbe andato in tutta fretta, prima che la sua benefattrice tornasse sobria e si pentisse di tanta strampalata generosità. Lui, invece, finì di sciacquarle le mani lentamente e con aria pensosa, poi s'inchinò e passò oltre. I camerieri portarono vassoi di leggero pane bianco, a cominciare da un'estremità del salone. Ciascun commensale fu servito con le apposite molle e un inchino mentre un Siniscalco leggeva ad alta voce il suo nome e i suoi titoli, cosa che costringeva l'interessato ad alzarsi durante la presentazione. Nel frattempo, gli assaggiatori e gli esaminatori avevano già cominciato a darsi da fare e altri camerieri, mascherati da api, mescevano il vino in boccali a forma di fiore, aggiungendovi una pallina di neve per raffreddarlo. «La notte che ci aspetta sarà indimenticabile, lo sento!» esclamò una lady vestita di satin turchese filigranato e con una blusetta color lavanda dall'alto colletto rigido di vigogna. «Io adoro giocare al Malgoverno... voi no? Stanotte io sarò una serva sciatta e sboccata e il mio valletto sarà un Principe!» «Bada che il gioco non ti prenda troppo la mano, mia cara!» le consigliò un'altra, con un cappellino ricamato d'oro e una gonna di seta color albicocca. «Non si sa mai cosa potrebbe chiedere un Principe a una cameriera sciatta!» «Sciocchezze! Jenkis non si prenderebbe mai certe libertà con me!» «A meno che tu non lo supplichi», disse dolcemente Dianella. I suoi amici ridacchiarono e Colletto Alto cercò di non mostrarsi troppo imbarazzata. Dianella si volse a Rohain: «Zounds, mae quer, caie tus dicto ai caelo pouvra garzono? Meie parse cae s'has prezo d'amur por tae!» Mia cara, cos'hai detto a quel povero ragazzo? Ho l'impressione che si sia innamorato di te! «Cal iovene paios?» Quel giovane paggio? rispose Rohain, con perplessa indifferenza. «Caie mes potrea intareosar de elo?» Cosa potrebbe importarmi di lui? Aveva ormai imparato a replicare con sfacciataggine alle audaci insinuazioni di Dianella, per cui l'attraente esperta di maldicenze - la cui bella testa era racchiusa in un turbante a punta, sormontato da un fascio di bacchette d'oro - si rivolse ai nobili seduti accanto a lei e cominciò a conversare fittamente nella lingua di Corte. Le sue trecce scure cadevano liberamente sulle candide spalle e sulla pesante collana di diamanti che ornava la scollatura del suo corpetto damascato.
I musici suonarono le trombe. All'altra estremità del salone, presso la tavola alta, un cortigiano si alzò da dietro le decorazioni floreali poste sulla tovaglia e propose un brindisi. Rohain riuscì a vedere soltanto che era un uomo alto e distinto ma quando parlò, la sua voce risonante le rivelò che si trattava di Thomas di Ercildoune. Il Brindisi Reale e la Coppa dell'Amore scivolarono giù per la gola dei commensali; subito dopo, la ragazza cominciò a vedersi di fronte più gente di quanta ce n'era stata prima. Sapeva di aver esagerato con l'alcol ma rifiutare i brindisi sarebbe stato imperdonabile; quello stato di ebbrezza ostacolò sia i suoi tentativi di scoprire se Thorn era tra i Dainnan, sia la sua capacità di conversare con scioltezza. La zuppa fu presentata col solito cerimoniale e consumata. Seguì il primo intrattenimento tipico di Imbrol: alcuni ballerini travestiti da cicale, i cui costumi contenevano del sildron. Le loro maschere convesse erano fornite di due bulbi di vetro a rappresentare gli occhi maggiori e tre gemme per quelli minori e portavano elmetti e corazze bronzee; fissate alle spalle avevano ali di seta cosparse di zecchini che scintillavano di riflessi azzurro-zaffiro, dorati e verde smeraldo. Ai fianchi portavano elitre posticce e speroni alle caviglie. Al ritmo crepitante delle nacchere e di altri strumenti a percussione, gli esotici ballerini eseguirono una danza aerea di prodigiosa abilità ginnica, afferrandosi l'un l'altro mentre fluttuavano sopra le teste dei commensali o usando le aste degli stendardi per cambiare direzione e spingersi via dalle pareti, roteando e svolazzando. Alla fine del loro numero tutti li applaudirono con entusiasmo, indi fu servita la portata successiva: carpe dorate sospese entro una gelatina azzurra e interi delfini arrostiti deposti su letti di ostriche, complete di perle. I maggiordomi costruirono piramidi di boccali in equilibrio e versarono il vino in quelli al vertice: il torrente di liquido ruscellò giù di strato in strato, in una spettacolare cascata d'oro pallido. Per intrattenere la Corte si tenne poi una serie di duelli alla spada che, dato il sostanzioso premio in denaro promesso ai vincitori, non furono certo presi alla leggera. Tre coppie di duellanti - tutti professionisti conosciuti - si affrontarono con affondi, parate e finte, saltando su e giù dalla piattaforma inferiore della tavola alta nel corso dell'esibizione. In quell'atmosfera fumosa, Rohain scorgeva a malapena le figure degli spettatori, appoggiati sui gomiti al di là delle mobili e palpitanti fiammelle dei candelabri e dei barbagli riflessi dalle posate, che giocavano strani scherzi alla vista. Tra i commensali seduti nelle vicinanze più immediate della tavola alta, le sole facce che riusciva a identificare erano quelle dell'attraente Lady Ro-
samonde, figlia maggiore del Duca di Roxburgh; della Marchesa vedova di Netherby sul Fens (che, essendo quasi calva, si ornava di una parrucca inconcepibilmente costosa, fatta con autentici capelli talith) e di Lady Maiwenna, la giovane nobildonna talith il cui bel viso era incorniciato da capelli di un oro naturale. Accanto a costoro c'era un gruppo di persone di Rimany: Uomini e Donne dei Ghiacci di razza arysk dai mantelli confezionati con penne di pavone albino e di ibis, i quali sedevano come una fila di gigli o di piumosi uccelli bianchi. Avevano la pelle d'avorio e i loro capelli, simili a pura seta bianca, circondavano volti seri dai pallidi occhi azzurri. Come i trow, anch'essi prediligevano i gioielli d'argento e si vestivano solo di seta bianca e stoffa argentata, grigia o del colore del mare. Di solito conducevano vite molto ritirate: Rohain era stata presentata soltanto a una di loro, Lady Solveig di Ixtacutl, nei cui occhi inespressivi la luce della candela aveva rivelato pinnacoli di ghiaccio grigio appena schiariti dalla luce del tramonto. I duelli si conclusero al primo sangue e subito si passò alla portata successiva che, all'apparenza, consisteva in un bue intero, arrostito e rigonfio. Circondato da verdure glassate, prezzemolo e crescione, l'animale fu portato nel salone sopra un carro aureo trainato da due renne ombrose ed esibito alla tavola alta. Mentre il veicolo si fermava dinanzi alla piattaforma, Roxburgh si alzò; la sua voce adirata ruggì attraverso il salone, facendo piombare sull'assemblea un inorridito silenzio. «Cos'è questa roba? Un bue per cena a Imbrol? E guardatelo! È così che viene mostrato a Sua Maestà? Non è stato neppure sbudellato e pulito! Dovremmo forse mangiarne i visceri? Che il Maestro Cuoco sia portato qui... Lo faremo impiccare per la sua incompetenza!» Il Maestro Cuoco fu trascinato fuori dalla cucina da due guardie, che lo gettarono in ginocchio davanti alla tavola alta. L'uomo roteava gli occhi, alzava le braccia al cielo con fare supplichevole e gemeva penosamente. «Vostra Maestà! Oh, possente signore! Oh, magnifico e generoso sovrano, abbiate pietà! Io ho fatto del mio meglio... ma non c'era tempo e...» «Silenzio!» tuonò Roxburgh. «Dovrei farti sbudellare!» «Oh, no, eccellenza!» esclamò il cuoco. «Lasciate che vi mostri le budella di questa bestia, prima delle mie!» Detto ciò, diede di piglio a un lungo coltello che portava alla cintura e, con un solo gesto, aprì l'intero addome del bovino. Dai commensali si levò un applauso quando, all'interno dell'animale arrostito, fu rivelata una mucca cotta a puntino, farcita con un daino al forno. Dentro il daino c'era una
pecora fumante, a sua volta imbottita con un maiale nel quale c'era un tacchino che conteneva due piccioni ripieni di polpettone. Il Maestro Cuoco eseguì un'agile capriola per il divertimento dei presenti, che stavano ora applaudendo con entusiasmo. Roxburgh gettò indietro la testa e fece risuonare la sua risata nel salone: naturalmente era stato tutto uno scherzo, preparato sin dall'inizio. Il Comandante dei Dainnan elargì una borsa di monete al cuoco e una tribù di camerieri riportò in cucina i sette-in-uno per affidarli a una brigata di tagliatori. La portata successiva consisteva in pavoni arrostiti, portati in sala con del legno canforato che bruciava nei loro becchi in ' modo che sembrassero sputar fiamme e ancora rivestiti del loro splendido piumaggio. Tolti di mezzo i piatti con gli avanzi di carne, file di servitori in livrea portarono dentro con aria trionfante delle grandi torte dalle quali, appena fu loro sollevata la crosta di pastafrolla, si liberarono dozzine di uccelli vivi che presero a svolazzare qua e là per il salone. Terminato anche il dolce, non avrebbe potuto esserci pasto più completo: molte nobili pance erano gonfie allo spasimo. Paggi, valletti, maggiordomi e cameriere si affannavano a destra e a manca per soddisfare i capricci dei loro padroni e padrone. Dopo che l'ultimo strato di tovaglia fu rimosso per la portata finale, il personale di servizio scomparve e l'orchestra sulla balconata cominciò a suonare una musica dolce. Le facce dei musici erano lucide di sudore: come un campo di crisantemi in fiamme, le candele bruciavano febbrili nei loro supporti, fissati al leggio di ogni strumentista. I cortigiani mormoravano, in attesa. Il Bardo Reale si alzò dal suo posto alla tavola alta, rivolse un cenno a una mezza dozzina di giovanotti che aspettavano in disparte, scese dalla piattaforma e raggiunse l'arpa dorata posta lì accanto, la cui forma era quella di una grande carpa cosparsa di scaglie multicolori. Tutti tacquero rispettosamente. «Canterò per voi Il Biancospino», annunciò, sedendosi presso lo strumento. Sullo sfondo armonico del coro dei giovani, il bardo eseguì la tradizionale canzone di Imbrol; tutti gli spettatori unirono le loro voci all'ultimo verso e quell'onda sonora parve far tremare i muri e scuotere persino il soffitto. Thomas di Ercildoune segnalò al coro il permesso di ritirarsi e toccò di
nuovo le corde della sua arpa-carpa. Con una voce ricca e morbida che giunse con chiarezza a tutti i commensali radunati nel salone, cominciò a cantare una serenata: Seppure mai vorrei, mio caro amore, abbandonarti per più di poche ore, giorno verrà che ci dovrem lasciare e allora vorrò tenere sul mio cuore una parte di te, signora, a darmi gioia, perché, da te lontan, io non mi muoia. Qualcosa che mi ricordi la tua faccia, ma tal che darmela a te non dispiaccia. Pegno del ritorno tuo, non un gioiello ma, più cara di una gemma o d'un anello, una parte di te che ognora uguale resti, così mai più sarem lontani e tristi. Ti prego, se non posso restare accanto a te, tagliati una ciocca di capelli per me! Gli occhi di Rohain s'inumidirono, ma lei si trattenne. Chissà se Thorn aveva conservato il ricciolo che le aveva rubato? Il bardo s'inchinò verso la tavola alta e fu elogiato per la sua prestazione. «Il mio apprendista, Toby, ha preparato una canzone... Spero che non vi dispiaccia ascoltarla. Fatti avanti, Toby», disse Ercildoune. «Se Vostra Maestà volesse essere così gentile da consentirmelo, canterò per voi Il Candelburro», disse Toby, con un profondo inchino. I cortigiani lo incoraggiarono con un applauso: era una di quelle vecchie canzoni che si cantavano per tradizione sotto le feste, sebbene le parole non avessero nessun rapporto diretto con Imbrol. «Per coloro che non conoscessero il dialetto dell'est, 'candelburro' è il nome con cui nell'antichità veniva chiamato l'oro», spiegò Toby, con voce chiara. «La ballata narra la storia vera della Figlia Oscura, che accadde, si dice, tanto tempo fa. Molti menestrelli hanno cantato quest'antica canzone nel corso dei secoli, eppure essa non ha mai perso il suo fascino.» Il giovanotto imbracciò la lira e attaccò il preludio di quella lunga, strana ballata; quando essa giunse al termine - mentre le ultime, liquide note dello strumento si spegnevano nell'aria - il cantore s'inchinò e, per alcuni istanti ancora, il suo pubblico rimase in silenzio, preso dall'incanto della melodia.
I commensali avevano appena cominciato ad applaudire, quando si udì una sonora esplosione e una nuvola purpurea di fumo stregato scaturì dalla porta delle cucine, annunciando l'arrivo del budino. In groppa a dodici cavalli grigi, nel salone irruppero altrettanti cavalieri mascherati che rappresentavano i dodici mesi dell'anno. Con l'aiuto di un bracciale di sildron, ciascuno di essi teneva sollevato un globo fiammeggiante di lardo compattato misto a bucce, zucchero, brandy e frutta, che doveva rappresentare il sole ardente e il cui scopo era d'invitare il vero sole a ritornare dal suo rifugio invernale nel nord. Tutti coloro che videro le sfere trionfali si augurarono di avere la fortuna di trovare nella propria porzione uno dei portafortuna d'argento nascosti nel loro interno. I dodici straordinari personaggi girarono intorno al salone, andarono a inchinarsi dinanzi alla tavola alta persino i cavalli erano stati addestrati a piegare le zampe anteriori! - e poi depositarono i loro bollenti fardelli su un ripiano dove sarebbero stati suddivisi in piccole fette e uscirono, accompagnati da un'altra rumorosa esplosione di fumo. «Certo che lo zio non fa mai le cose a metà!» commentò Dianella, coprendosi le orecchie. Lo zio a cui si riferiva - il Lord Mago Supremo, Sargoth l'Incappucciato - diede inizio al suo solito spettacolo di Imbrol subito dopo il dolce. La fama di quell'uomo aveva raggiunto tutti gli angoli di Erith... persino la Torre di Isse, dove si parlava di lui con intimorita eccitazione. Rohain ebbe così occasione di constatare che la sua fama era ben meritata: il Mago dimostrò la propria abilità in ciascuna delle Nove Arti con stile ed eleganza, come ci si poteva aspettare da un vero maestro. Al suo confronto, Zimmuth della Torre di Isse sarebbe parso un apprendista. I servi si erano affrettati a spegnere tutte le candele: il grande salone immerso nel buio diventò un palcoscenico rutilante di lampi stregati, fiamme, scintille e fumo. L'orchestra fornì un drammatico sottofondo sonoro all'esibizione. Sulla piattaforma sotto la tavola alta, Sargoth trasformò belle ragazze in lupi, i lupi in tyrax e i tyrax in vermi da guardia; segò in due alcuni uomini e le metà fornite di gambe se ne andarono in giro da sole finché ritrovarono la loro parte mancante. Spaccò un uomo in piccoli pezzi sanguinanti e lo rimise insieme, fece scomparire fanciulle ed esse ricomparvero dove nessuno se le aspettava. Oggetti inanimati presero vita e, nelle sue mani guantate, l'acqua diventò fuoco e il fuoco si mutò in acqua. Levitò senza supporti di sildron ed entrò in un grosso braciere pieno di carboni ardenti, che gli bruciarono le vesti ma non la pelle. Compì una
serie di atti che lasciarono il pubblico a bocca aperta... Insomma, fu davvero sbalorditivo. Una campana suonò le undici e, all'ultimo rintocco, il Mago scomparve lasciando dietro di sé una pioggia di monete d'oro e d'argento e turbini di scintille scarlatte che scesero lentamente nel salone fumoso. Un grande applauso lo salutò... e fu ora di prepararsi al Malgoverno. I servi corsero a riaccendere le candele: alla loro luce, nell'atmosfera offuscata si poté vedere che la tavola alta era già mezza vuota. In ordine d'importanza, i cortigiani cominciarono a lasciare il salone dei banchetti e tornarono nei rispettivi alloggi a cambiarsi d'abito per il Ballo di Mezzanotte. Con un fruscio di seta, Lady Dianella - abbigliata in una costosissima imitazione di un abito da contadina - entrò nella camera di Rohain, seguita dalla sua cameriera. «Non sei ancora pronta, mia cara?» esclamò, con un dolce sorriso. «La notte non attende! Lascia che ti aiuti io... Le serve non sanno come si fa a spettinare una testa nel modo giusto. Inoltre, mi è stato fatto notare che la tua cameriera ha la vista corta!» Viviana si fece indietro mordendosi il labbro e Rohain consentì a Dianella di arruffarle i riccioli. «Vedi? Si fa così», disse quella, ficcandole le mani nei capelli e ravviandoli con le dita. «Un po' in disordine ma non troppo, come una serva che abbia dimenticato di mettersi in ordine... il che sarebbe normale nel suo caso, suppongo. Ma che bel vestito... mette proprio in risalto la tua figura! E vedo che quella pigrona della tua ragazza, qui, indossa la tua gonna che mi piace di più... oh, potrei quasi essere gelosa! Però il sangue nobile si vede... neppure il vestito più costoso può migliorare una faccia volgare. E questo cos'è?» Si piegò a studiare meglio i capelli di Rohain. «Cos'hai fatto alle radici? Oh... ma io allibisco! Griffin, vai fuori di qui... e anche tu!» Spinse verso la porta le due cameriere, che si affrettarono a uscire. Seduta davanti agli specchi e confusa dal troppo vino, Rohain curvò le spalle. «Cosa c'è che non va nei miei capelli, Dianella?» «Solo il fatto che comincia a vedersi la ricrescita biondo oro. Davvero affascinante, mia cara! Coraggio, avanti... Cos'è che stai nascondendo a tutti quanti?» «Nulla di straordinario. Sono talith... che male c'è?» «Naturalmente! Che male c'è? Nessuna persona alla moda porta i capelli
biondi al giorno d'oggi, a parte quella vecchia balorda della Marchesa vedova di Netherby e quel pesce lesso di Maiwenna. La verità è che non fanno stile; sarà meglio che tu provveda a tingerli quanto prima... Ti manderò Griffin, domattina: lei è una specialista taraiz. Non c'è un momento da perdere: le radici di un altro colore sono molto fuori moda!» Sollevò una ciocca di capelli di Rohain tra il pollice e l'indice. «Ma dai! Che emulsione hai usato, tesoro? I tuoi capelli brillano. Di solito la tintura nera li riduce in qualcosa di storfenlent!» «Non so come si chiami. Me li ha tinti una Carlin, a White Down Rory.» «Devo sapere il suo nome... Questa è una maga delle tinture per capelli!» Lucida solo a metà, Rohain rispose: «La chiamano Maeve la Guercia. Dimmi, le lady di Corte possono danzare coi Dainnan, questa notte?» Dianella rise della sua risata argentina. «Le lady di Corte possono fare molte cose in questa notte dell'anno e tutti i ragazzoni di Roxburgh sono così belli e galanti... o devo dedurne che i tuoi occhi sono rimasti appiccicati a uno in particolare, raith-na?» Un gong suonò il richiamo della sala da ballo. Dianella corse alla finestra e guardò fuori: nel buio, più in basso, erano accese delle torce. Rohain si alzò dal tavolo da toeletta, vacillando. «Conosci, per caso, un Dainnan di nome Thorn?» «Thorn?» Dianella tacque per un momento, senza voltarsi. «Credo di no... anzi, sono certa di non aver mai udito questo nome. Hai domandato a qualcun altro?» «No.» «Be', sarà meglio che tu non lo faccia, mia cara. Non sta bene, capisci, che una lady del tuo rango chieda in giro di uno dei soldati del ReImperatore, per quanto attraente possa essere; sono sicura che ti capiterà comunque di rivederlo di tanto in tanto.» Sollevò una scatoletta-specchio che le pendeva dalla castellana - in avorio cesellato con figure di cavalieri in torneo, nobili seduti in un'alta galleria e araldi trombettieri - e, dopo un rapido sguardo alla propria immagine, la richiuse di scatto. «Lui è molto innamorato di te?» «Lo conosco appena.» «Ma naturalmente! Vorrai serbare le tue grazie per un Visconte, come minimo! Sono sicura che il tuo Dainnan ti ama cavallerescamente da lontano, con la più ardente e pura passione... Cai drearribliss! Ti sei ricordata il carnet da ballo e il ventaglio? Adesso prendimi per mano e andiamo al
ballo... Dobbiamo essere là prima di mezzanotte: è allora che comincia il divertimento!» L'aria era fredda e immobile sulla città e sulla campagna. Nei giardini e nei cortili del palazzo fiammeggiavano i falò di richiamo per il Sole Invernale: accanto a ognuno di essi, una banda di musici imbacuccati in abiti pesanti suonava per un circolo di persone che ballavano intorno al fuoco. Alcune ragazze fuggirono, strillando: «Ci sono dei bogle tra i cespugli!» Qualcuno, si disse, li aveva visti... ma poi saltò fuori che era stato uno scherzo. A mezzanotte, le campane della città sparsero nel cielo un carillon di note. Nella Sala da Ballo Reale l'oboe, il clarinetto, la viola, il piffero, la tromba, il corno, il timpano, il triangolo, il gittern e il doppio basso ci davano dentro. La sala da ballo era un locale alto e vasto, con le pareti a pannelli dipinti ricche di stucchi e larghi specchi, con molti gruppi di sedie e tavolini dove sedevano lady munite di ventagli e gentiluomini con scatolette di tabacco da fiuto, quasi tutti occupati in vari stadi del corteggiamento amoroso. La pista da ballo era affollata. A un osservatore esterno sarebbe parso che servi e padroni, con semplice naturalezza, si mescolassero senza badare alle formalità: camerieri e Contesse, impiegati e Baronesse, donne delle pulizie e Dainnan, vallette e Visconti, lavandaie e lord, bambinaie e Marchesi, scudieri e Duchesse, lacchè e cortigiane, paggi e lady di nobile nascita. Con dei vetri azzurri che le scintillavano intorno alla gola come zaffiri, una serva sciatta vorticava tra le braccia di un vice maggiordomo con fibbie d'oro alle scarpe, la cui giubba era stata girata a rovescio; una donna dall'aspetto regale, abbigliata in lamé dorato, ballava con un anziano e baffuto portinaio. Una cuoca dal sudicio grembiule di lino percorreva la pista con un Duca in velluto viola, mentre una Baronessa si stringeva al petto di un pasticcere, il custode della cantina reale conduceva in elaborati passi di danza la Contessa di Sheffield e il Maestro delle Cerimonie faceva il cascamorto con la figlia di un giardiniere ricoperta di seta damascata, che portava alla cintura una castellana d'oro. Tutto appariva stupefacente all'ennesimo grado e questo era appunto l'intento di quella pantomima... perché il periodo tra la mezzanotte e l'alba del Giorno del Piccolo Sole era pericoloso e avrebbe potuto succedere qualsiasi cosa. Nella notte più lunga dell'anno, creature eldritch amanti del buio si aggiravano ovunque - soprattutto gli unseelie, che uscivano dalle loro tane per
far del male ai mortali - ma, se fossero state ingannate dai travestimenti, non avrebbero potuto identificare quelli che si erano proposti d'insidiare e, di conseguenza, ci sarebbe stata la possibilità che i loro maligni poteri fossero più deboli durante l'anno a venire. Portando all'estremo il concetto di generale capovolgimento delle consuetudini, gli acrobati andavano in giro camminando sulle mani e calzando guanti al posto delle scarpe; alcuni burloni travestiti da uccelli o farfalle, con stelline appiccicate alla faccia, strisciavano qua e là e altri, avvolti in fasce per somigliare a vermi del sottosuolo, si arrampicavano presso i soffitti. La più umile tra le serve - una ragazzotta grassoccia, le cui sgradevoli incombenze quotidiane comprendevano la pulizia dei vasi da notte - presiedeva il ballo: sorridente e soddisfatta, questa Regina del Malgoverno sedeva su uno degli autentici troni del Re-Imperatore, con una corona di cartone colorato ficcata di traverso sulla chioma ricciuta e addosso un abito cosparso di fondi di bicchiere; Ercildoune, che se la stava spassando come non mai, le faceva grandi cerimonie, inchinandosi di fronte a lei e offrendole un vassoio dopo l'altro di dolciumi e vini. Nel suo abito da pagliaccio, risultava piuttosto buffo nonché vagamente dissoluto... tuttavia la sua prestazione fu ben presto eclissata da quella di Goblet il Lacchè. Con la sua parrucca incipriata messa di traverso e le lunghissime scarpe che lo facevano inciampare al minimo intoppo, il buffone di Corte cadde addosso a una quantità di persone... giudiziosamente selezionate: precipitò in grembo alla Regina del Malgoverno e, gemendo mortificato, la supplicò di perdonarlo; allorché quella rifiutò, lui cercò d'impiccarsi con un nodo scorsoio tenuto dalle sue stesse mani protese in alto. Fallito quel tentativo di suicidio, implorò ancora il perdono della Regina; lei lo baciò e lui ne fu così emozionato che fece una capriola, inciampò e le cadde di nuovo in grembo. Seccati, i vice-buffoni lo afferrarono per le braccia e per le gambe e lo gettarono alla folla, che se lo passò di mano in mano sopra le teste di tutti, sino all'altro capo della sala. Nessuno evitò di unirsi a queste attività e meno che mai i membri del Gruppo: anche in circostanze più ordinarie, Goblet era benvoluto da loro, benché - per sua scelta - non fosse Dentro. La sua lingua impertinente sapeva tagliare i panni addosso a chiunque prendesse di mira; come buffone aveva il permesso di satireggiare chiunque ma, del resto, pochi rifiutavano di lasciarsi prendere in giro da lui: quasi tutti, anzi, ci tenevano. Era assai popolare nonostante il suo umorismo acido o forse proprio per questo... Goblet poteva dire quasi qualsiasi cosa e passarla liscia. Per giunta, la tradizione voleva che toccare un buffone alla
vigilia dell'anno nuovo portasse fortuna. Quando ritornò in sala, più tardi, Goblet indossava un elaborato abito da sera con due budini spiaccicati sul petto e altri due sulla schiena. Così abbigliato si mosse tra la gente: era un esperto nell'arte di apparire davanti a qualcuno, far schioccare i tacchi uno contro l'altro con un agile saltello e sparire in un batter d'occhio, prima che l'altro si fosse ripreso. Un codazzo di ragazzini gli teneva dietro. Nella sala adiacente - la Sala da Disegno Bianca - era stato allestito un buffet: anche lì l'oro scintillava dappertutto, incrostato stille pareti e sulle cornici dei dipinti che le abbellivano, sulle sedie imbottite e sul soffitto affrescato... persino i parafuoco del camino erano ih oro massiccio. Lungo i muri, teche intarsiate con pietre dure contenevano oggetti d'arte. Le alte porte si aprivano su un giardino illuminato da torce; ai lati troneggiavano graziose statue di marmo e alti vasi d'avorio strapieni di gigli bianchi. In alto fluttuavano candelieri di cristallo così complessi da mozzare il fiato e il pavimento era coperto da preziosi tappeti porpora e dorati, che si stendevano sin fuori dalla Sala da Disegno Bianca e per tutta la lunghezza della galleria est, rossa e oro. Il Custode della Dispensa d'Argento, che compensava la scarsa altezza con una larghezza eccessiva, si stava servendo senza remore e si era già riempito il piatto di mousse d'aragosta e paté d'oca. Lì accanto, un maggiordomo ubriaco dalla lunga faccia equina offriva a un pubblico ammirato di paggi e portieri un'esibizione straordinaria, tenendo in equilibrio sulla testa e sulle mani due alte pile di piatti vuoti: nessuno si stupì quando quelle torri di ceramica finirono per crollare sul pavimento... con un fracasso così devastante che lo sfortunato Custode della Dispensa d'Argento sobbalzò, rovesciando sul tappeto rosso e oro tutto il cibo di cui si era impossessato. Vedendosi così privato del suo nutrimento, l'uomo si voltò, irritato. «Dannazione a te, Fawcett», gridò. «Questo chiasso è intollerabile!» «Nitrisci pure finché vuoi. Il tuo chiasso non mi fa né caldo, né freddo», fu la risposta che ebbe. Il Custode della Dispensa d'Argento si aggiustò la cintura e si arrotolò bellicosamente le maniche fin sopra i robusti avambracci. Le sue guance si erano imporporate come due prugne mature. «Non sono io a nitrire ma tu, faccia da cavallo... Anzi, a guardarti meglio, la tua faccia somiglia più ai quarti posteriori del nobile animale!» Borbottando e chiacchierando, i servi fecero capannello intorno ai due: il
Custode della Dispensa d'Argento aveva toccato un tasto dolente rivolgendosi così al maggiordomo. «Se io sono un cavallo, vuol dire che ti trascinerò fuori di qui appena avrò trovato due ruote da infilarti nelle orecchie... Con quella pancia che ti ritrovi, sembri un carro pieno di sterco!» «Be', allora vuol dire che ti seppellirò nello sterco!» «Un carro come lui, non c'è neanche bisogno d'ingrassarlo per farlo rotolare bene!» intervenne un amico del maggiordomo. «Quando suda, cola più sugna lui di mille candele!» «Ebbene, non saresti mai un buon cavallo», replicò il Custode della Dispensa d'Argento, ignorando ostentatamente l'interruzione. «Se il ReImperatore avesse un cavallo come te, manderebbe sulla forca chi non glielo rubasse.» Il pubblico, che aveva ridacchiato a ogni battuta, applaudì quella spiritosaggine; ciononostante, il maggiordomo non era tipo da lasciarsi sopraffare in una schermaglia verbale: dopo aver considerato brevemente se gli convenisse fare un gioco di parole con «forca» e «forchetta» per alludere alla disgustosa ingordigia del suo avversario, optò per un approccio più minaccioso. Entrambi i litiganti erano consapevoli della punizione che sarebbe toccata loro quando il maestro di palazzo del Re-Imperatore avrebbe saputo dei danni al tappeto e dei piatti andati in pezzi nella Sala da Disegno Bianca, così decisero che essere puniti per il danno e la lite, piuttosto che per il danno e basta, non avrebbe fatto molta differenza. «Dopo che mi sarò occupato di te, non avrai bisogno di finire appeso a una forca per perdere un po' di peso. Ti farò dimagrire io a forza di calci!» «Io sarò di certo più magro, perché tu mi hai fatto rovesciare la cena!» sbottò il Custode della Dispensa d'Argento, irritato. «Ma non rimarrà a lungo sul tappeto di Sua Maestà, perché te la farò leccare come se la tua lingua fosse una scopa. Mi hai sentito bene?» Mentre il maggiordomo cercava una risposta, il Custode della Dispensa d'Argento gli si gettò addosso, l'afferrò per le ginocchia e lo rovesciò a terra. Cominciarono a volare pugni; Rohain e molti altri si ritirarono nella relativa sicurezza della sala da ballo. Tra la gente che stava conversando, la ragazza notò un uomo alto dalla faccia sfregiata, con zigomi sporgenti e penetranti occhi azzurri: si trattava di un inserviente che, per l'occasione, indossava una vistosa giubba di velluto color zaffiro con gli orli in pelliccia d'orso rimaniano. L'individuo s'inchinò dinanzi a una cameriera riccio-
luta - in effetti, la sesta bisnipote della Marchesa di Early - la quale prese la mano che lui le porgeva e si lasciò condurre sulla pista, dove i due cominciarono a ballare guardandosi intensamente negli occhi, come dimentichi di tutto il resto. «L'amore non conosce confini di rango», mormorò Rohain. Aprendo i listelli piatti e sottili di un ventaglio di legno intarsiato, la cui finissima membrana in pelle di gallina era dipinta con scene della Leggenda dei Guerrieri Dormienti, Viviana si accostò alla padrona. «Io sto sognando... Ho davvero addosso la veste di lamé argentato e la cintura di topazi della mia signora?» «Vai a divertirti!» la incitò Rohain, sorridendo. «Questa notte sei tu la Baronessa. Non devi occuparti di me.» «Ma Georgiana Griffin si occupa ugualmente di Lady Dianella!» «Insisto!» «Mille grazie, milady. Non vedo l'ora di unirmi alle danze... Questa sarà di certo la notte più bella della mia vita!» Con un rapido inchino, Viviana si affrettò a raggiungere le signore in attesa di un compagno di ballo. Rohain percorse con lo sguardo la folla, rinfrescandosi col ventaglio in lucida lacca dall'impugnatura dorata. Dalla cintura le pendeva una piccola e sottile scatola contenente il carnet da ballo in avorio: era fatta di madreperla filigranata d'oro e vi era inserita una matita. Parecchi gentiluomini avevano scritto il loro nome sulle sfoglie d'avorio: assillata da una quantità di richieste per ognuno dei balli in programma - con ogni aspirante che le si rivolgeva sventolandole un fazzoletto bianco davanti al naso e inchinandosi - la giovane donna ne aveva accettate poche e rifiutate molte. Era una ballerina alquanto inesperta, poiché dalle affrettate lezioni di ballo di Viviana aveva appreso soltanto i passi essenziali... cosa che non era affatto importata ai galanti giovanotti tra le cui braccia aveva roteato quella sera. Tra loro, però, non c'era nessuno che potesse rivaleggiare con Thorn: non aveva più voglia di danzare con nessuno, fuorché con lui. Stanca di rifiutare inviti, si era coperta il viso con un domino piumato prestatole dalla Duchessa di Roxburgh e sedeva presso una porta, vestita come una cameriera dai neri capelli scompigliati e con un paio di larghe ali di falena attaccate alla schiena. Fra la gente che affollava il salone da ballo c'erano molti cavalieri Dainnan travestiti sia da aristocratici che da servitori ma, da quella posizione, lei non riusciva a vederli bene. D'un tratto le venne in mente che dall'altezza della balconata dei musici avrebbe potuto dominare l'intera scena, per-
ciò - evitando un attraente giovane Conte che sembrava averla riconosciuta nonostante la maschera e faceva rotta verso di lei - Rohain scivolò fuori da una porta di servizio e trovò una stretta scala. Mentre saliva, un rumore improvviso le diede un brivido. Alzò lo sguardo e le si mozzò il fiato: qualcosa le sbarrava la strada... una cosa alta e bianca come una colonna di pallido marmo. Il lucore di una torcia in una nicchia le mostrò una lunga ombra scura che dalla base di quel pilastro si allungava contro il muro e lei si tolse la maschera per vederci meglio. «Oh! Mio signore Sargoth!» Il Mago non rispose, limitandosi a guardarla dall'alto della sua statura e degli scalini su cui si trovava. La torcia scavava ombre nel pallore del suo volto e nei luminosi capelli bianchi; la lunga faccia e la barba erano anch'esse prive di colore, come l'abito che indossava: doveva essere l'unico membro della Corte a non essersi travestito per il Malgoverno. Rohain si disse che non doveva lasciarsi intimidire da quell'uomo... ma le ci volle tutta la sua volontà per dominare l'impulso di voltarsi e scappare giù per le scale. Eppure, dopotutto era un servo del Re-Imperatore... probabilmente, nella gerarchia di Corte, lei gli era superiore di rango. «Signore, lasciatemi passare.» «Milady... Rohain, non è vero? È così che vi chiamate?» «Sì.» «Lady Rohain.» L'uomo diede un'enfasi deliberata al suo nome. «Lungi da me impedirvi di ascendere.» Ma non si mosse e i suoi occhi ebbero uno strano scintillio. Cosa voleva dire? Cosa poteva sapere? La mente di lei cercò un punto d'appoggio e lo trovò nel passato. Sianadh diceva sempre: Non mostrare mai la tua paura, non fuggire. Farlo conferisce alle creature malvagie un potere su di te. «Be', allora fatevi da parte», disse, con una sicurezza che non provava. «Ma certo.» L'uomo si mosse ma, anziché spostarsi di lato, fece un passo verso di lei e Rohain indietreggiò. In quel momento, una voce tuonò nella tromba delle scale, dal basso: «Ehi, milady... siete qui?» Passi rapidi salirono. Lei si volse, vide arrivare Ercildoune e gli sorrise, sollevata... ma, quando si voltò di nuovo, Sargoth era scomparso. «Oh! Dov'è andato?» «Chi? Sono stato così goffo da interrompere un incontro d'amore sulle scale? Ah, Rohain, ora dovete permettermi di conoscere il nome del mio
rivale! Ma... che incantevole travestimento il vostro! Una falena... Ho appena fatto fuggire la fiamma cui volevate immolarvi?» «Non si trattava di un rivale, Vostra Grazia... voglio dire, non di un corteggiatore. Era soltanto Sargoth, il Mago.» «Accidenti! State tremando come una corda d'arpa, mia cara. Quel vecchio ciarlatano vi ha spaventata? Avrò le sue corna!» «Non le ha.» «Be', meglio per lui. Mai fidarsi di un Mago, è quel che dico sempre. Tutti quei trucchi e quel fumo... bah! Nelle sue Nove Arti c'è meno gramarye che nelle mie tasche. Ordunque, non stavate forse dirigendo i vostri passi alla balconata dei musici? Sarò onorato di accompagnarvi là: è un posto in cui mi trovo a mio agio, sempre che non suonino quelle sciocche canzoni moderne.» I due continuarono a salire insieme. Anche se rimase a lungo appoggiata alla balaustra a guardare nel salone, Rohain non vide colui che i suoi occhi agognavano e, quando la rossa bolla del sole invernale fece capolino sul profilo dei colli in quell'alba tardiva, la sua luce sigillò l'assenza di lui in un mondo di gelida brina. Trascorsero due giorni. Dall'atmosfera eccitata delle feste, il palazzo precipitò in quella cupa dei preparativi per la guerra: gli attacchi nemici avevano ripreso a divampare sul Ponte di Terra di Nenian. Stavolta il Re-Imperatore in persona dovette recarsi nel nord con molti soldati e Dainnan, lasciando a Thomas di Ercildoune le responsabilità della Corte. Tutto era pronto da tempo per quell'eventualità e due giorni furono sufficienti per organizzare la partenza. Il palazzo piombò nel silenzio. Nei corridoi risuonavano gli echi della solitudine e l'atmosfera era gravida di foschi presagi. Dianella venne a far visita a Rohain in privato e ordinò alle rispettive cameriere di ritirarsi in un'altra stanza. «Ho delle notizie.» «Quali notizie?» «Quelle che hai atteso a lungo.» «Ebbene, di che si tratta? Ti prego, parla!» «Mia cara, hai l'aria un tantino annoiata, in questi giorni. Es malengonida de les Isole Sorrows?» «No, non ho nostalgia della mia patria.» «Ora, però, devo insistere che tu sia gentile con me, tesoro», la rimpro-
verò Dianella, con un sorriso. «Ho fatto alcune ricerche per tuo conto... Vedi quanto m'impegno per compiacerti?» Le mise il broncio. «Sai bene che mi sei più cara di una sorella.» «Se ti sono sembrata brusca ti chiedo perdono, Dianella.» «Io perdono facilmente.» La cortigiana abbassò la voce e continuò, in tono confidenziale: «Ho sentito qualcosa del tuo Dainnan, Sir Thorn». Rohain sussultò. «Cosa? Cos'hai sentito?» domandò, incapace di trattenere l'ansia. «Solo che è andato alla gythe.» «Andato dove?» «Alla gythe. È andato in guerra, dolcezza, con l'ultimo distaccamento Dainnan partito da qui insieme col Re-Imperatore. E ora cosa farai... ti travestirai da soldato e lo seguirai in battaglia? Oh, ti sto solo stuzzicando!» «Allora era qui! Ne sei sicura? Come hai fatto a saperlo? Lo hai visto?» «Pazienza, pazienza! Sai bene, Rohain, che ho certe amicizie qui a Corte. Mio zio è un uomo influente e ha modo d'indagare con discrezione... Puoi star certa che nessuno conosce i tuoi segreti e che io ti terrò informata di qualsiasi altra cosa dovessi venire a sapere. Non ringraziarmi, per favore... Tutto questo lo faccio per amicizia.» «Ma io ti sono grata, Dianella. Sei proprio una vera amica! Chiederò al Duca di Ercildoune di comporre una canzone eroica su di te.» «Cielo, che idee bizzarre ti vengono! Ora però devo lasciarti, cara... Il dovere mi chiama!» «Non andartene!» «Devo.» Uscendo dalla porta, Dianella si voltò a mezzo. «Ci vediamo domani, mia...» Le ultime parole furono appena udibili, mormorate con una risatina. Doveva aver detto: «immaginativa amica»... Non poteva aver detto: «immaginaria amica». La patente di nobiltà era quasi pronta ma, col Re-Imperatore assente per un periodo indefinito, non si poteva stabilire nessuna data per l'investitura ufficiale di Rohain. Ercildoune era continuamente occupato con gli affari di Corte - «tenere il forte», come diceva lui, al posto di Sua Maestà - e, tra le riunioni e i dispacci ricevuti e da spedire, non aveva un momento libero. Voci sulla guerra passavano come insetti impazziti su e giù per le strade
di Caermelor: l'Impero era condannato; sarebbe stato fatto a pezzi da un attacco devastante di Namarre. Un barbaro stregone-signore della guerra si sarebbe poi impadronito del governo e le terre di Erith avrebbero conosciuto decenni di sofferenza e disordini. I wight unseelie avrebbero invaso le città e tutti gli esseri umani sarebbero stati uccisi. La gente curvava le spalle, gettando sguardi preoccupati a nord come se si aspettasse di veder calare da un momento all'altro un'orda di creature unseelie che avrebbe schiacciato e distrutto tutto Come una nebbia, quell'atmosfera di rovina incombente strisciava nella città. Molti membri del Gruppo si dispersero nelle loro tenute estive e quelli che rimasero divennero annoiati e scontenti e presero a litigare spesso. A Rohain parve che la soluzione migliore fosse ritirarsi nella sua nuova tenuta, Arcune. Tristemente - in armonia col clima - s'imbarcò con Viviana su una Nave del Vento di proprietà della Duchessa di Roxburgh, la goletta Kirtle Verde. L'anziana gentildonna decise di andare con lei, ora che suo marito si trovava in zona di guerra, per allontanarsi dall'atmosfera pesante della Corte e godersi una vacanza in campagna. A bordo c'erano anche Rosamonde (la primogenita della Duchessa), gli altri sei figli e un vasto seguito di servi e cameriere. Viviana trascorse la maggior parte del viaggio sottocoperta, distesa in cuccetta. Il suo viso, solitamente roseo, aveva assunto la tinta verdastra di una prugna acerba. «Temo proprio che le Navi del Vento non facciano per me, milady», si lamentò. «Non imparerò mai a camminare su un ponte che va su e giù nell'aria; quel movimento mi fa girare la testa. Sulle Navi d'Acqua, invece, non ho problemi.» «Questo è un bene. Molta gente sta male, sulle Navi d'Acqua, per la paura di affogare.» «Io non ho paura dei viaggi per mare. Sono nata con la camicia.» «Ne ho sentito parlare. La camicia è una membrana, no? Una membrana che talora è avvolta intorno alla testa dei neonati e che dovrebbe proteggerli dall'annegamento.» «Proprio per questo», disse Viviana, passandosi una mano sulla fronte sudata, «porto sempre con me un pezzo della mia camicia dentro questo medaglione.» «È un bel pendente. Ho notato che non te lo togli mai.» «Oh, signora, vi prego, scusatemi. La nave beccheggia in un modo... devo distendermi...»
Arcune, nell'entroterra collinoso, si rivelò superiore alle aspettative della sua nuova padrona. Mentre lo schooner attraccava al molo d'ormeggio presso l'edificio principale, Rohain si appoggiò alla murata e osservò il panorama che si stendeva sotto di lei: nella sua veste invernale, aveva un aspetto bucolico... campi a maggese e pascoli verdi, un frutteto, distese di boschi dove sembrava abbondare la selvaggina, un gruppetto di fattorie, un fiume e - più imponente di tutto il resto - Casa Arcune. Il grazioso edificio, in parte castello e in parte villa padronale, aveva due o (in certi punti) tre piani. Solido come un monolito ma con un'architettura attraente che gli dava un aspetto leggero, rifletteva la sua ala orientale in un bel laghetto circondato da un giardino, composto di nitide aiuole affiancate da piccole siepi e con sentieri di ghiaia e sabbia dai diversi colori, racchiuso da un filare d'alberi e da un muretto. Fuori del muro si estendeva un ampio parco, con spazi erbosi vellutati, boschetti ombrosi gremiti di cespugli e polle d'acqua simili a pezzi di vetro caduti dalle finestre del cielo. «Una bella tenuta», commentò Alys-Jannetta di Roxburgh, in tono d'approvazione. «T'insegnerò volentieri ad amministrarla.» S'impegnò in quel compito con energia, assumendo altri servi e ordinando che la casa - rimasta vuota per parecchi anni - fosse ripulita, arieggiata, revisionata dalle finestre alle fognature e ammobiliata là dove serviva. Si consultò a lungo col maggiordomo, con la governante e col guardiacaccia ed esaminò i conti. Per una settimana lei e Rohain non poterono prendersi un'ora di pausa ma, quando tutto fu riorganizzato con sua soddisfazione, andarono a cavalcare nella tenuta di caccia. In quei boschi aperti, le betulle prive di fogliame sembravano rovi congelati. I castagni e gli olmi allargavano i rami spogli sul terreno scuro arricchito da uno strato di foglie marce, dove gli zoccoli dei cavalli affondavano senza rumore. Uno stormo di corvi in formazione a freccia passò nel cielo grigio e vitreo. La nebbia scivolava sottile a livello del suolo - come vaporose immagini shang delle radici degli alberi, quasi che anche i boschi potessero soffrire o amare - e ogni respiro delle cavallerizze restava nell'aria come una nuvoletta argentea. Era una giornata scura: stava per arrivare un altro temporale. Da sopravvento echeggiò l'ululato di un urlatore, dandone conferma. «Hai un maggiordomo degno di fiducia e una governante onesta», disse Alys. «Ma non posso dire lo stesso del guardiacaccia... dovrai tenerlo d'occhio. Direi che questa tenuta, come tutte le buone proprietà terriere, andrà
avanti liscia che tu abiti qui o meno, anche se qualche visita a sorpresa durante l'anno da parte della padrona tenderà a migliorarne l'efficienza. Io stessa ne farò una a Roxburgh, tra breve tempo. Come odio queste selle laterali! Tu no?» Rohain, che non ricordava di essere mai stata in sella a un cavallo prima d'allora, si disse d'accordo. «Neanche a me piacciono», rispose. «La prossima volta che mi farete visita, ci metteremo i calzoni e cavalcheremo come gli uomini. Correremo col vento e salteremo siepi, fossi e tutto quel che ci troveremo davanti... ma guardate lassù, come si avvicinano quelle nuvole nere! Il cielo è in tempesta. Dobbiamo affrettarci a rientrare, prima che si metta a piovere.» «Questo sarà un inverno di bufere!» commentò la Duchessa, facendo invertire la marcia al cavallo. «Scombussolerà i programmi delle Navi del Vento e dei Cavalieri della Tempesta.» Il più vecchio abitante di Casa Arcune era un domestico bruney che tutti chiamavano Dondolo. Quando non c'era nessun paiolo appeso al gancio per le pentole nel caminetto, era lì che lui andava a sedersi e si dondolava avanti e indietro, ridacchiando. Amava gli svaghi e in particolare la compagnia dei bambini, di cui negli ultimi anni non aveva potuto godere. Aveva l'aspetto di un vecchio rugoso, con corte gambette storte e una lunga coda che lo aiutava a star seduto sul gancio; a volte indossava un mantello grigio e un malconcio berretto da notte tirato giù su un lato della faccia sempre contratta da una smorfia, a causa del suo continuo mal di denti ma, di solito, vestiva una blusa rossa e delle braghe azzurre. Non gli piacevano le bevande più forti della birra fatta in casa e aveva furiosi accessi di tosse quando in cucina s'imbottigliavano liquori forti. Per ogni altro verso era un wight seelie di buon carattere, nonostante il mal di denti e sebbene fosse maniaco della pulizia della casa e lo irritasse la trascuratezza delle donne di cucina. Come la maggior parte dei domestici bruney, non aveva timore del ferro freddo: dondolare appeso al gancio lo rilassava e sovente i figli della Duchessa stavano lì a spingerlo. Tra il seelie, i ragazzi e le serve, la cavernosa vecchia cucina era il cuore delle serate invernali di Arcune: quando, fuori dalle massicce mura della casa, le raffiche di vento colpivano come mazzate improvvise, la pioggia cadeva fitta e il fulmine puniva il cielo con falciate azzurrine, accanto al caminetto della cucina tutto era tranquillo. Era lì che spesso Rohain, Alys e i ragazzi trascorrevano le serate, in compagnia dell'anziana governante.
Ogni giorno un Corriere dello Squadrone della Nobiltà arrivava in volo da Caermelor con una busta: aggiornamenti sulla situazione bellica nel nord e brevi note vergate da Ercildoune. «Ho bisogno di essere informata», diceva Alys, che teneva molto a ricevere notizie quotidiane di suo marito. Rohain aspettava quei dispacci con uguale impazienza. Guardando dalle finestre volte a sud-est, il messaggero appariva dapprima come uno strano uccello dal mantello svolazzante che, pian piano, scendeva fino ad appollaiarsi sulla cima del molo d'ormeggio, la cui struttura ad archi appuntiti si stagliava contro il cielo. Subito dopo, l'ascensore alimentato a sildron cominciava a scendere, portando giù il Corriere e il suo eotauro i cui zoccoli a mezzaluna e il cinto da volo venivano neutralizzati dall'andalum. Lo stalliere di Arcune si affrettava poi a prendere l'animale per le brighe e a condurlo nella scuderia mentre il Cavaliere della Tempesta si toglieva i guanti da volo e l'elmetto alato ed entrava in casa, col maggiordomo o con un servo che gli apriva le porte inchinandosi ripetutamente. Thomas il Sincero di Ercildoune scriveva con regolarità, riferendo i piccoli e divertenti fatti di Corte come le gravi notizie provenienti dal nord in guerra, incluse le tattiche di battaglia che Alys leggeva e rileggeva. Il bardo scriveva: Gli arcieri a cavallo di Namarre sono molto veloci e sanno come sfruttare tale vantaggio: la loro tattica preferita è l'accerchiamento e, anche quando noi siamo in numero superiore, sono così rapidi da girarci intorno o sfuggirci dai fianchi. Consapevoli di questo, i nostri comandanti cercano (quando possibile) campi di battaglia a fronte stretto, protetti da ostacoli naturali come fiumi e alture rocciose. Come precauzione in più, tengono pronta una forza di riserva, in caso di attacchi alle spalle da parte della cavalleria nemica. Alcuni giorni fa è stata combattuta la prima battaglia campale nel nordovest di Eldaraigne, non lontano dal Ponte di Terra di Nenian. I battaglioni Luindorn stavano marciando verso ovest in due colonne parallele separate da quattro miglia; quando la prima colonna è entrata in campo aperto ha visto avvicinarsi un gran numero di ribelli. Allo scopo di avere una base sicura dalla quale dare battaglia, il comandante ha ordinato ai suoi uomini di erigere un accampamento fortificato, tuttavia le continue azioni di disturbo dei barbari ne hanno ostacolato gli sforzi al punto di
costringerlo a mandar fuori la cavalleria per respingerli, dando così modo alla fanteria di preparare il campo. I Drusillieri, però, non sono riusciti a ingaggiare battaglia coi ribelli che li evitavano abilmente e hanno dovuto ritirarsi per non restare tagliati fuori; per giunta la nostra fanteria - rimasta priva dell'appoggio dei Drusillieri - non ha potuto respingere con efficacia i fulminei attacchi nemici, cosicché i Drusillieri hanno dovuto pian piano retrocedere finché l'intera prima colonna si è trovata strettamente ammassata, in una confusione di soldati disorganizzati. I barbari ribelli sono così riusciti a circondare le truppe imperiali, grazie ai loro veloci arcieri che scagliavano frecce senza mai interrompere il galoppo. La situazione si stava volgendo al peggio, tanto che la disfatta sembrava inevitabile... quando finalmente, con un gran suono di corni e tambureggiare di spade sugli scudi, la seconda colonna è apparsa all'orizzonte dietro le forze dei ribelli. Non molto tempo dopo, la carica della cavalleria Luindorn ha travolto i namarrani, disperdendoli ai quattro venti. «Gli esploratori namarrani devono essere degli incompetenti.», commentò la Duchessa, ripiegando la lettera e porgendola a un valletto. «In quest'occasione la prima colonna ha avuto fortuna. Sembra che questi ribelli non saranno sconfitti tanto presto.» «Non riesco a capire quale sia il loro scopo», disse Rohain. «Si stanno ribellando contro l'Impero», spiegò la Duchessa. «La popolazione namarrana è composta da generazioni di ladri e tagliagole, che sono stati esiliati nel nord come punizione per i loro crimini. Essi odiano il sistema giuridico che li ha messi al bando e vogliono vendicarsi su tutto l'Impero... La loro è una società instabile, dove regna la violenza. Solitamente litigano e si fanno guerra a vicenda, finché i più crudeli e spietati macellai prendono il sopravvento e s'impadroniscono del comando; queste vittorie, però, hanno vita breve: appena nelle difese del dittatore appare una falla, esso viene attaccato e il conflitto ricomincia daccapo. «Tormentati da questi disordini, i namarrani non possono prosperare e ora devono essersi convinti che la soluzione alla loro povertà stia nell'impadronirsi delle ricchezze dell'Impero. «In passato non hanno mai smesso di battersi per un tempo sufficiente a organizzare un attacco concertato contro di noi... ma ora sembra che, per qualche ignota ragione, siano riusciti a unire le loro forze.» «Tuttavia, nei dispacci, non si parla ancora del ruolo che le forze unsee-
lie hanno in questo conflitto», osservò Rohain, preoccupata. «Sembra che i comandanti barbari le tengano in disparte, nell'attesa del momento propizio per colpire con tutte le loro forze. Ma perché? E quale potere può avere un umano - foss'anche un grande Mago - sopra esseri immortali così ostili alla nostra razza?» La Duchessa scosse il capo. «Sono domande importanti e tutti noi ce le poniamo spesso. Finora, però, non è stata trovata nessuna risposta.» Circa tre settimane dopo l'inizio del loro soggiorno ad Arcune, dalla solita lettera quotidiana di Thomas il Poeta ricevettero una notizia che fu letta ad alta voce da Rosamonde, la figlia della Duchessa. Alla Nobile Duchessa di Roxburgh, Marchesa di Carterhaugh, Contessa di Miles Cross e Baronessa di Oakington-Hawbridge, nonché a Lady Rohain delle Sorrows, signora di Arcune, io, il vostro umile servo Thomas, Duca di Ercildoune, porgo i miei ossequi. Mie nobili signore, vi saluto, col più vivo desiderio che questa missiva vi trovi entrambe in buona salute. Vi rendo noto che, a seguito della scoperta delle ricchezze nascoste in un luogo segreto delle Lofty Mountains e della cattura dei traditori colpevoli di averle saccheggiate, ulteriori indagini hanno rivelato che membri di una banda rivale sono ancora a piede libero. Uno di costoro - un ertish chiamato Sianadh Kavanagh della contea Lochair, altrimenti noto come «l'Orso» - è stato arrestato ieri a Caermelor. Il fellone è ora rinchiuso nelle prigioni del palazzo in attesa della sentenza di Sua Maestà, ovvero della condanna a morte per il reato di tradimento... «Cosa?» esclamò Rohain. «No! Non può essere!» La giovane donna corse a strappare la pergamena dalle mani di Rosamonde, ma non riuscì a decifrarne le rane e sollevò le braccia, disperata. «Alys, io devo partire immediatamente. Viviana, preparami i bagagli e fai sellare un cavallo... Anzi farò prima volando. È ancora qui il Corriere che ha portato il messaggio? Si sta rifocillando nel salotto anteriore? Bene, cavalcherò dietro di lui.» La Duchessa non fece domande. «Puoi usare la Kirtle Verde. Dobben, corri ad avvertire il comandante di prepararsi a salpare in tutta fretta.» «Vi ringrazio. Purtroppo occorrerebbe troppo tempo per mettere la nave in grado di viaggiare... Cavalcherò dietro il Corriere!» gridò Rohain, agitata.
«Le loro regole lo proibiscono: soltanto i Cavalieri della Tempesta o individui designati dal Re-Imperatore possono cavalcare nel cielo. Non c'è bisogno che tu ti morda le mani... la Nave del Vento sarà pronta quando lo sarai tu.» Le prigioni del palazzo non erano peggiori delle segrete nella Torre di Isse... Per molti versi, anzi, erano migliori, meno umide e sporche; il corridoio d'ingresso pavimentato in pietra sembrava abbastanza pulito e l'illuminazione e la ventilazione erano accettabili. Tuttavia era una prigione, cupa e opprimente. Lì, nel sottosuolo, tutto era pietra e ferro, fuoco e ombra e il lento trascorrere del tempo era segnato dai lamenti dei prigionieri che andavano e venivano. In un tintinnio di chiavi, il Capo Carceriere fece loro strada, giù per una scala e lungo un altro corridoio. «Presto, presto!» lo incitò Rohain. «Ratti!» ansimò Viviana, gettando uno sguardo allarmato alle loro spalle. «Li ho sentiti!» Rohain si bloccò, disgustata. «Ratti? Per le Potenze, li odio più di tutti gli unseelie di Erith!» Guardò disperatamente la schiena del carceriere che si allontanava. «Le guardie li cacceranno via», balbettò. Le due giovani donne corsero per raggiungere la loro guida. «Facciamo presto!» «Chiedo perdono, milady, ho un ginocchio malato. Sto camminando più svelto che posso.» Per quanto fosse impaziente e nervosa, Rohain non poté ottenere da lui una maggiore velocità. Il tintinnio del suo mazzo di chiavi li precedeva e, alle loro spalle, echeggiava tra i freddi muri di pietra lo scalpiccio dei due secondini che li stavano scortando. «Obban tesh!» sbottò una voce poco più oltre, nel corridoio. «Possibile che qui dentro un uomo non possa mettersi a dormire senza che tu faccia questo baccano, dannato dock scoreggiato fuori dal daruhste di un tacchino? Vieni qui e ti metterò il ginocchio destro alla pari del sinistro, razza di sgorrama samrin!» «Sianadh!» Rohain corse avanti, spingendo da parte il carceriere; afferrò con entrambe le mani le sbarre della cella e si sforzò di scrutare nella penombra interna: c'era un uomo scalzo, vestito con una tunica malconcia stretta alla vita da una vecchia cintura, calzoni di fustagno pieni di buchi e una lurida giubba di lana da pastore senza maniche. In testa aveva un cappuccio sgualcito dai cui strappi uscivano pezzi della rete di talium e, su di esso,
uno strano berretto intorno al quale era arrotolato più volte un lunghissimo cordone di broccato. Da sotto quel copricapo sbucavano ciuffi di capelli rossi che avrebbero avuto bisogno delle forbici... e lo stesso si poteva dire della peluria color carota che gli copriva la parte inferiore della faccia. I piedi, coperti anch'essi di folti peli rossicci, erano tatuati con immagini di scorpioni, seminascoste dalla polvere. Era proprio lui. Rohain rise tra le lacrime. Sianadh la scrutò con una luce di stupore negli occhi azzurri, aggrottando le sopracciglia: per una volta in vita sua, sembrava confuso. «Dovrei farvi fiutare i sali, milady», si preoccupò Viviana. «No.» Debolmente, Rohain si aggrappò a una spalla della cameriera. «Un fazzoletto, per favore. Non voglio altro.» Si asciugò il volto; le lacrime scomparvero, il sorriso rimase. «Cosa mi hai portato, carceriere della malasorte? Una baobansith? Una sirena incaricata di strangolarmi? L'onesta forca è passata di moda?» «Andate.» Rohain si voltò verso il carceriere e le guardie. «Sono al sicuro, qui. Aspettatemi in guardina; voglio parlare con questo prigioniero.» Seppur perplessi, i secondini s'inchinarono e obbedirono. «Anche tu, Viviana. Aspetta dietro l'angolo... Devo dirgli cose che riguardano soltanto lui e me.» Mentre Viviana si allontanava, Sianadh fece un passo avanti e strinse le palpebre, come per guardare qualcosa di troppo luminoso per essere osservato direttamente senza dolore. «Cosa vuoi da me?» «Ah, Sianadh, questa è la seconda volta che pronuncio il tuo nome e lo sento ancora strano sulle mie labbra. Ti ho pensato tanto... e ho sofferto, credendo che fossi morto. Come hai fatto ad arrivare qui? Ero convinta che ti avessero ucciso... Mi hanno detto che Scalzo ti aveva assassinato ai piedi della Scala d'Acqua. Invece sei vivo! Sì, è così! Se fossi un'incarnazione di qualche genere e non un uomo vero, a quest'ora lo avrebbero scoperto.» «E tu chi sei?» La sua voce era rauca per la meraviglia e il sospetto. «Io sono... Imrhien.» Sianadh restò a bocca aperta, poi le diede le spalle. «È un imbroglio», grugnì, dirigendosi verso il muro opposto della sua spoglia cella. «Non c'è nessun imbroglio. Domandami quello che vuoi... Cosa ne è stato della cintura in pelle di drago che avevi vinto alla Locanda delle Corone
e delle Ancore del Luindorn? Te la sei sganciata per poter cadere dal cielo dopo che saltammo giù dal brigantino dei pirati e ora vola da qualche parte sopra Erith. Come siamo sfuggiti al Direath? Ti sei battuto con lui fino al canto del gallo. Come dicesti che ti chiamavi, nel mulino di Fincastle? Me Medesimo. Di che colore era il vestito che mi comprasti a Gilvaris Tarv?» «Basta così! Basta così! Mi fai girare la testa... Se quella che ho davanti è davvero Imrhien, allora, per le ossa fumanti dei Capitani, la sua faccia è cambiata molto e la sua lingua si sta rifacendo del tempo perso.» Si avvicinò di nuovo e la guardò, attraverso le sbarre. «Era magrolina, un po' come te. Sembrava che, piegandosi, si sarebbe spaccata in due, tanto era sottile... ma lei aveva i capelli biondi.» «Me li sono tinti, mo scothy gaidair.» «Perché?» «È una lunga storia...» L'ertish incrociò le braccia sul petto e scosse il capo. «Non può essere. Io non posso credere a quello che mi stai raccontando tu, una bella lady, così elegante e tutto... Non si prende in giro un condannato a morte, ragazza!» Rohain si aggrappò ancora alle sharre e le scrollò con tutta la sua forza. «Ascoltami razza di stupido, testa di maiale di un ertish! Domandami quello che vuoi!» Lui la guardò, dubbioso. «Come si chiama mia nipote?» «Muirne.» «Ah, questo potresti averlo scoperto in mille modi. Ci sono! Cos'ho fatto nella Città Antica, quando venne la tempesta magica?» «Sei rimasto a testa scoperta. Eri lì, tra quei draghi di pietra, con le braccia alzate e hai gridato: 'Io sono Me Medesimo, e sono qui. Guardate, ho fatto dono a questa città del mio marchio!'» Con gli occhi accesi e rossa in volto per l'eccitazione, la giovane donna lo guardò e lui le restituì uno sguardo che brillava di una luce strana, come se la vedesse per la prima volta. I suoi muscoli facciali erano contratti da spasmi di tensione. A voce bassa domandò: «La tua faccia?» «Guarita, dalla Carlin guercia.» «La tua voce?» «Anche quella.» Rohain trattenne il fiato. Dalle profondità del torace di Sianadh emerse un ruggito e l'uomo si gettò contro le sbarre. Affrettandosi a tornare nel corridoio, Viviana vide la
sua padrona abbracciare il prigioniero attraverso l'inferriata mentre questi continuava a muggire senza parole. A quel chiasso, gli altri carcerati presero a sbraitare. «Chehrna, chehrna, chehrna!» gridò Sianadh. La lasciò e si esibì in alcuni passi di danza intorno alla cella. Le guardie fecero la loro comparsa. «Silenzio! Tu, laggiù!» «Lasciatelo fare», ordinò Rohain. Per nulla intimidito dalla presenza dei secondini, l'ertish continuò a ballare, saltellare e canticchiare, facendo cadere il cordone del berretto che gli si arrotolò intorno alle gambe. «Fate uscire quest'uomo. Aprite questa porta.» «Milady, non possiamo farlo senza un ordine di rilascio firmato da Sua Maestà imperiale. Quest'uomo è un traditore, perciò sarà impiccato.» Sianadh tacque e tornò alle sbarre. «Ci siamo appena ritrovati e dobbiamo dirci di nuovo addio, chehrna», disse. «Non necessariamente», rispose lei. «Mio caro amico, tu sei innocente quanto me. Cercherò di farti graziare... Ora devo andare ma presto ritornerò.» «Aspetta! Muirne e Diarmid... sono vivi?» «Sì. Stanno facendo l'addestramento a Isenhammer.» «Per le braccia di Ceileinh! Porta loro un mio messaggio. Puoi farlo?» «Per far sapere loro che sei vivo ma sotto sentenza di morte? Vuoi farli soffrire per te una seconda volta?» «Ah, certo che no. Avrò tutto il tempo di cercarli io stesso, appena sarò fuori da questa doch di gabbia; per ora è inutile farli preoccupare. Fammi uscire alla svelta, chehrna... La mia gola vuole scolare tutta la cantina di una taverna. Non voglio morire di sete e risparmiare al Re-Imperatore il costo di un'impiccagione!» «Ti tirerò fuori di qui, lo giuro. Nel frattempo, ricorda: ci sono due giorni di cui non ti devi preoccupare.» Si separarono ridacchiando. Nell'andarsene, Rohain disse al Capo Carceriere: «Trattalo bene. Se lo fai, sarai premiato; in caso contrario, ne risponderai al Duca di Ercildoune e alla Duchessa di Roxburgh!» «Dovete graziarlo! Non merita di essere impiccato!» Rohain era di fronte al Bardo Reale, in un cortile del palazzo di Caermelor. «Perché graziarlo? Perché non dovrebbe essere impiccato?» volle sapere Ercildoune.
«È un brav'uomo, un amico... ha salvato il mio onore e la mia vita.» «È un traditore.» «Non più di quanto lo sia io!» «Non dite questo, Rohain. Ve lo proibisco!» «È vero. Alla Scala d'Acqua...» «Avete preso dei gioielli per usarli al vostro ritorno... ma lo avete subito confessato e vi è stato riconosciuto come atto lecito. Non dite altro!» «Di quelle crimine è accusato?» «I ladri che abbiamo catturato su vostra indicazione - quelli che avete definito 'gli uomini di Scalzo', anche se non abbiamo trovato nessuno con quel nome - lo hanno accusato. Sembra che costui sia tornato alla Scala d'Acqua per prelevare altri preziosi... e, del resto, il misfatto è stato confermato dalle stesse vanterie dell'interessato, udite in una taverna dove si era ubriacato. Non è la prima volta che un uomo s'impicca con le sue stesse mani, dopo un bicchiere di troppo.» «Le sue erano soltanto vanterie. Quei ladri hanno mentito!» «Voi siete decisa a restare sua alleata, eppure io ho visto quell'uomo e non riesco a immaginare che un tipo così sia il vostro innamorato.» «Non lo è, infatti. Lui, per me, è come un fratello o uno zio... un parente.» «Poiché siete voi a chiedermelo, vi garantisco la sospensione dell'esecuzione; soltanto Sua Maestà può concedere la grazia per un crimine come il suo.» «In questo caso, devo avere un'udienza con Sua Maestà.» «Impossibile. Lui è sul campo di battaglia, lo sapete.» «Non potrei raggiungerlo nel nord?» «Fiorellino mio, uccellino mio... Voi, sul campo di battaglia? Aspettate il ritorno di Sua Maestà. Sino ad allora, il vostro amico - nonché mio concittadino ertish - potrà vivere.» Per concessione del Duca di Ercildoune, Sianadh ebbe il permesso di salire una volta al giorno in un salotto, sebbene incatenato e sotto sorveglianza. Lì Rohain conversava con lui per ore, offrendogli da mangiare e da bere a sazietà. Gli diede notizie della sua famiglia e poi, dopo avergli fatto giurare di mantenere il segreto, gli raccontò tutto ciò che ricordava del proprio passato... tutte le cose che quand'era muta non aveva potuto dirgli e che, sino a quel giorno, non aveva mai rivelato a nessuno, neppure a Maeve: gli disse
di quel maligno rampicante, l'edera paradossa; degli insensibili abitanti della Torre di Isse e della sua vita di sguattera. Condividere quei ricordi con qualcuno le diede l'impressione che il cuore le si fosse alleggerito di un peso. Sianadh, da parte sua, trovava stuzzicante il pensiero di mangiare e bere a spese del Re-Imperatore nel suo stesso palazzo, anche se in quelle condizioni. «Questa è vita», dichiarò allegramente, sdraiandosi su un tappeto di pelle di lupo davanti al fuoco. «Se potrò togliermi queste dock manette, sarò il più felice degli uomini. La fortuna ti ha sorriso, chehrna... ma non ti ha ancora restituito il tuo passato.» «No.» «Tuttavia devi continuare a tentare. È importante conoscere la propria storia... I Re vanno e vengono ma la gente rimane. Per sopravvivere, una persona deve sapere cosa le è successo prima e cosa le succederà dopo. Le cose non sono soltanto come le vedi in un certo momento: sono la somma del loro passato e delle loro speranze per il futuro. Lo straniero sorridente può offrirti da bere... ma se fosse appena uscito dal lazzaretto?» «Come dovrei fare per scoprire la mia storia?» «Quando dimentichi da dove sei venuta, devi seguire le tue orme a ritroso e vedere dove ti portano.» «Stai dicendo che devo tornare alla Torre di Isse?» «Proprio così. Secondo me, è la tua sola speranza... Non posso chiamarti Rohain, dama delle Isole Sorrows o qualcos'altro. Vedi di trovare il tuo vero nome, eh?» «Non posso lasciarti qui.» Lui scrollò le spalle. «Sono stato peggio. La vita, giù nelle prigioni, sarà anche noiosa ma si tira avanti... Vuol dire che mi farò un'indigestione di riposo o cercherò di confezionarmi un paio di stivali nuovi, tanto per passare il tempo. Da come la vedo io, il Re-Imperatore non si prenderà il disturbo di tornare qui a perdonarmi per aver cercato di rubare un po' del suo tesoro... non prima d'aver vinto la guerra, almeno. Prendi una Nave del Vento e vai a Isse: sei ricca, puoi permettertelo. Non starai via molto e potrai trovare una traccia del tuo passato.» «No. Non posso lasciarti», ripeté lei. Ma la domanda temporaneamente sopita era stata risvegliata. «Vi chiedo scusa, milady... ma sono sorpresa che non vi abbiano messa
Fuori!» disse Viviana, preoccupata. «Si vocifera che abbiate rapporti di parentela con quel fellone peloso. Milady, quello è un ertish e un fuorilegge! Dianella e gli altri devono essere così incuriositi che non vi hanno ancora dichiarata Fuori.» «Dianella dice che, secondo lei, questa è una novità divertente e che vorrebbe anche lei un prigioniero da portarsi dietro, attaccato a una catena.» «Chiedo perdono, milady: io non mi fiderei di quella, dico davvero. Con tutte le sue arie, è soltanto una superba cortigiana cui piace uccidere uccelli e altre creature indifese per divertimento. Milady, finché voi non siete arrivata qui, Lady Dianella era considerata la più bella delle cortigiane e ora è caduta dal suo trono dorato. La cosa non le piace e questo è un fatto, eppure non ha permesso che gli altri vi dichiarassero Fuori e si è fatta strada nel vostro affetto per i suoi scopi... Ha il cuore freddo, siatene certa. Suo zio è stato poco bene dopo essere tornato da un'escursione - era nero di lividi per l'attacco di uno spriggan! - ma lei non si è mai data la pena di assisterlo.» «Dici bene... tuttavia non ho tempo per preoccuparmi delle malignità di Dianella!» Gli incontri con Sianadh erano un miscuglio di piacere e di tristezza, perché l'ertish non riusciva a incontrare gli occhi di Rohain molto spesso e, anche in quelle occasioni, si affrettava a distogliere lo sguardo: il cameratismo spontaneo dei vecchi tempi non c'era più e al suo posto era subentrata una consapevolezza fatta di disagio, come se lei fosse una statuetta di porcellana su uno scaffale e lui evitasse di toccarla per timore di romperla con le sue mani rozze. Un paio di volte, lei l'aveva sorpreso a sbirciarla con la coda dell'occhio con espressione intimorita, quasi che si vedesse davanti una visione cui non riusciva a credere del tutto... ma lei non desiderava reverenza, solo le chiacchiere e le burle di una buona amicizia. Quella distanza, i sottili duelli tra cortigiani e la discutibile amicizia di Dianella erano il prezzo che lei doveva pagare per essersi liberata dalla maschera della bruttezza? Maeve le aveva detto: Aspetta a ringraziarmi finché avrai vissuto con la tua nuova faccia per un ciclo lunare o due. Allora saprai se ti piacerà. Nonostante quel disagio, però, lei aveva sempre atteso con impazienza ogni incontro con l'amico e, un po' per volta, si era fatta raccontare le sue più recenti disavventure. «Fu il Gailledu a salvarmi», aveva detto Sianadh, «quando giacevo sotto la Scala d'Acqua con una ferita che mi arrivava all'osso e stavo quasi esa-
lando l'ultimo respiro. Una vita per una vita, così lui mi contraccambiò... mi prese in braccio, come se non pesassi più di un bambino. Aveva una gran forza, nonostante il suo aspetto. Fu a causa di quel fiore... sai, quello azzurro, che Ethlinn conservava in un uovo di resina e mi regalò. Significava qualcosa per lui. «Mi portò nella sua tana nella foresta e mi curò. Quando fui in grado di camminare, tornai a Tarv e mi nascosi in casa di Ethlinn e di Roisin, le quali mi dissero che tu eri partita per Caermelor. Le strade erano pericolose... In quel periodo, tutte le strade dirette a est erano state dichiarate impercorribili a causa degli eldritch wight. Io pensavo a come informare senza perdere tempo il Re-Imperatore, a Caermelor, dell'esistenza del tesoro, in modo che lui impedisse per tempo le razzie di quel vigliacco uraguhne di Scalzo, tu e io venissimo proclamati eroi e Liam - quel tombolai di un ragazzo - fosse vendicato. Non avevo molte speranze che tu fossi giunta a destinazione, con tutti i rapporti che c'erano in giro sulle cose che andavano male e le carovane che finivano distrutte... così, misi insieme i soldi che potevo elemosinare o farmi prestare e andai dai Cavalieri della Tempesta. «Pagai uno dei loro scrivani per redigermi un messaggio per il ReImperatore. Siccome non volevo che troppa gente venisse a conoscenza della faccenda, non gli dissi esattamente come stavano le cose ma gli diedi degli accenni: soltanto chi ne avesse saputo di più avrebbe potuto metterli insieme. Comunque, quello scrivano mi guardò in modo strano e mi venne da pensare che lo avevo già visto da un'altra parte - siano dannati i suoi occhi! - ma non ricordavo dove... Fatto sta che, sin dall'inizio, diffidai di quel tipo. E con buone ragioni, come risultò più tardi... perché quando tornai alla Torre di Tarv con Eochaid, a chiedere se il messaggio per cui avevo pagato era stato mandato, alcuni balordi ci tesero un agguato appena fuori dalla Torre e c'inseguirono lungo le strade. Durante la fuga persi di vista Eochaid ma sapevo che mi stavano ancora dando la caccia. «Ora, io ho sempre un piano di riserva, proprio in previsione di circostanze del genere... È bene tenersi sempre pronte un paio di vie di fuga per le emergenze: non te ne scordare, Imrhien. Ho un amico, ai moli di Tarv, che possiede un'imbarcazione: cercai di raggiungerlo con tutta la velocità che le mie gambe mi consentivano - ne andava della vita! - ma, quando arrivai, la sua barca non c'era... il mio amico doveva essere uscito a pescare. A quel punto, ricordai dove avevo già visto quella faccia di lumaca dello scrivano... quel bastardo era uno dei complici di Scalzo! Tarv dev'essere piena di quella gente... o lo era sino a poco tempo fa. Comunque, con quei
figli di cani che mi stavano alle costole, saltai sulla prima barca che vidi e salpai: così facendo me ne liberai, perché stava arrivando una tempesta così nera che solo un silkie o un ertish mezzo matto avrebbero preso il mare quel giorno. Grazie alla mia non indifferente abilità di marinaio, navigai sottocosta verso sud e poi a ovest fino a Caermelor... e lungo quella rotta me ne successero tante che potrei scriverci sopra un racconto unlorraly. Quando arrivai qui, per poco non mi prese un colpo perché tutti quanti parlavano di un grande tesoro trovato alla Scala d'Acqua grazie a una lady della Corte che era venuta a sapere della sua esistenza... Ci restai dannatamente male, perché avevo sperato di essere io a rivelare quella notizia e a prendermi la ricompensa; a quel punto non mi restava altra scelta che arruolarmi nell'esercito. «Ora, a un uomo sul punto d'arruolarsi vien voglia di divertirsi un po' nelle sue ultime ore di libertà... così me ne vado alla birreria più vicina al porto ed ecco che mi capita d'incontrarci un paio di tipi coi quali andavo in giro ai vecchi tempi, dei bravi compagni. Ci facciamo un paio di giri di birra e Praz (si fa chiamare così) è elegante come un damerino: gli è sempre piaciuto vestirsi bene, anche a costo di spenderci dei bei soldi. A Dogga, invece, non importa molto di quello che ha addosso... per lui conta solo mollare qualche buona sberla sui denti di qualcun altro, ogni tanto. «Così io, Priz e Dogga prendiamo un tavolo e ci facciamo portare la cena e Priz mi racconta la storia di una grande zuffa che c'era stata in quello stesso locale un anno prima, quando il pavimento aveva ceduto e otto tipi grandi e grossi si erano ritrovati di sotto - in una cantina chiusa quindici anni prima e piena di roba filtrata dalle fognature, alta fino alla cintura - e Priz aveva addosso un paio di calzoni nuovi, presi quel giorno dal sarto. Poi io racconto la storia di quando il vecchio Cauliflower morì mentre giocava a carte, con una mano ancora sul tavolo: i suoi compagni ci guardarono sotto e videro che aveva un tris d'assi, così gli ficcarono il denaro in tasca prima di portarlo via, perché aveva vinto. «Mentre finisco di raccontare quella storia, ecco che ti entra Lusco Barrowclout... un bullo fanfarone scolabicchieri sempre pronto a fare a botte, uno che è stato sbattuto fuori a calci da tutte le taverne di Severnesse. Io non mi vedevo davanti agli occhi quel villano figlio di puttana da più di un anno ma a tutte le fortune c'è una fine... Barrowclout è già mezzo ubriaco e subito comincia a ubriacare anche l'altra metà di quella sua zucca dura. A un certo momento, ecco che abbranca la cameriera che serve ai tavoli - una tipa vivace, anche niente male! - che subito comincia a strillare e a pren-
derlo a pugni, però lui non la molla; allora mi alzo e informo questo gentiluomo che, se mi piacesse tanto baccano mentre mangio, mi farei preparare la cena da mia nonna. Lui mi guarda da dietro quel suo naso storto da fehor (devi sapere che, quella sera, io indossavo un gonnellino finvarnano), grugnisce e mi fa: 'Ma che belle gambe che abbiamo!' E io ribatto: 'Ne vuoi una su per il fondo della schiena?' Lui mi guarda storto e sta per replicare, quando Priz gli dice: 'Lascia stare la serva, mi dà fastidio sentirla gridare mentre sto cercando di mangiare'. E poi anche Dogga mette giù la forchetta e gli dice: 'Ne ho piene le tasche di te'. «Allora Barrowclout, da quell'uraguhne che è, si alza in piedi e gli fa: 'Guarda che, qui dentro, tu non mi dici cosa devo fare'... e poi aggiunge: 'Sta' zitto e mangia la tua minestra, prima che me la mangi io'. Al che Dogga gli risponde educatamente: 'Ho idea che non potrai mangiare proprio niente, perché tra poco non avrai più neanche un dente cariato in bocca'... e, in meno tempo di quanto ce ne vorrebbe per tirare una bestemmia attraverso il salone di mescita, ecco che cominciano a volare i pugni. Io ho la soddisfazione di sbattere a terra Barrowclout con un buon colpo e mi rimetto a sedere; lui si tira su ed esce dalla porta e io, cortesemente, dico: 'Passami il salÈ e riprendo a mangiare coi miei due compagni. Prima di aver finito di cenare, però, vediamo il nostro shera sethge di un gentiluomo rientrare con un amico suo... e poi un altro e poi altri ancora, finché oltre a Barrowclout ne vengono dentro nove. Nessuno di loro aveva un sorriso cordiale sulla faccia, te l'assicuro... tutti tipi solidi e ringhiosi, chi sfregiato, chi senza denti, chi calvo... Insomma, anche brutti come cani randagi, voglio dire. Il padrone della birreria e le serve impallidiscono e così pure gli altri avventori. «Per non essere colto di sorpresa, mi alzo e sbatto giù uno degli amici di Barrowclout senza dargli neanche la buonasera. Come previsto, comincia una zuffa dannata: sedie che si spaccano sulla schiena di questo e di quello, tavoli rovesciati, piatti e boccali in frantumi e gente che ruzzola per tutto il salone. Uno avrebbe potuto ordinarsi la cena, mangiare e pagare il conto nel tempo che è andata avanti quella baraonda. «Nel frattempo, altri due avventori che assistevano alla rissa vedono che, sebbene si sia tre contro dieci, noi siamo quelli che le menano più sode, così decidono di unirsi alla parte vincente: diventiamo cinque contro dieci e, di lì a poco, Barrowclout e i suoi colleghi vengono raccolti e trascinati in strada dal padrone della birreria e dai suoi fratelli. Noi cinque torniamo ai nostri tavoli e riprendiamo a consumare la cena, che era rimasta intatta più
per i nostri considerevoli sforzi che per un capriccio della fortuna. «Mentre mangiamo, mi prendo il tempo di guardare in che stato sono i miei amici: Priz, che è sempre così ordinato, ha perso uno stivale che nessuno riesce più a ritrovare; ha una manica della giubba scucita sino alla spalla, la camicia priva del colletto e alcuni strappi sui calzoni. Dogga e io siamo in condizioni simili. Senza badare a questi inconvenienti, finiamo di cenare... quand'ecco che due tipi mettono dentro la testa dalla porta per dare un'occhiata al locale e salta fuori che sono lo sceriffo e una guardia. «'È qui che c'è stata una zuffa?' ci domandano. «Noi li guardiamo con aria sorpresa. La birreria è ridotta come se ci fosse passata una burrasca. «'Una zuffa? Io non ho visto zuffe', risponde ciascuno di noi. Il padrone dice la stessa cosa... e anche le serve. «Lo sceriffo e la guardia stanno lì a fissarci mentre finiamo di ripulire i piatti col pane e facciamo i complimenti al cuoco, poi ci avvertono che disturbare la quiete pubblica è proibito e noi assicuriamo loro che il solo pensiero d'infrangere la legge ci fa rabbrividire, così quelli si tolgono di torno e ci lasciano in pace. «Be', la notizia si sparge e la birreria comincia a riempirsi, finché ci troviamo in mezzo a una compagnia di gioviali bevitori: a tutti piacciono i vincitori. La notte va avanti e il padrone apre un altro barilotto di birra - di quella un po' meno buona che tira fuori quando tutti sono già ubriachi - e io mi metto a parlare della Finvarna e degli amici che ho lasciato là e poi anche di un'amica perduta... perché credevo che tu fossi stata divorata sulla strada per Caermelor... e questo mi porta a raccontare quanto sono stato vicino a diventare ricco. Può darsi che abbia detto delle cose che avevo giurato di non rivelare mai; in ogni modo, la verità mi viene fuori un po' gonfiata e, a un certo punto, ecco che rientrano lo sceriffo, la guardia e almeno altri cinquanta dei loro, che mi mettono le mani addosso e cercano di trascinarmi fuori. Ne stendo qualcuno a suon di pugni ma quella dannata birra mi ha tolto le forze e, alla fine, le guardie hanno la meglio... Ecco com'è stato che sono finito qui.» Neppure sette giorni dopo il ritorno di Rohain a Corte, Dianella le chiese un nuovo colloquio privato. E si presentò vestita in modo molto elegante: una Musetta di velluto rosso orlata di pelliccia, una gonna di ricco baudekin e un mantello in velluto verde lavorato con ricami d'oro e bordato di ermellino. Portava i capelli chiusi in una reticella ornata da prodotti d'ore-
ficeria e intorno ai fianchi una cintura di fibbie quadrate cosparse di pietre preziose da cui pendevano l'astuccio di una spazzola per capelli, uno specchio con l'impugnatura e un paio di pinzette. Insomma Dianella appariva quanto mai attraente anche se, a giudicare dal suo cipiglio, era anche assai agitata. Andò avanti e indietro per un poco, storcendo le labbra e continuando ad aggrottare le sopracciglia finché Rohain esclamò: «Ti prego, dimmi cosa stai pensando!» «Ahimè! Non è semplice, mia cara. Ciò che ho da dire mi tormenta profondamente.» «Thorn... Non sarà caduto in battaglia?» «Non che io sappia. Ma non è del tuo Dainnan che devo parlarti, bensì di te stessa... Sei stata scoperta.» «Cosa vuoi dire?» Un seme d'apprensione germogliò nella mente di Rohain. «Ah, da dove vieni, mia cara... chiunque tu sia? Perché non sei Rohain delle Sorrows, questo è ormai evidente.» Una sensazione di freddo salì ai polpastrelli di Rohain, che ebbe l'impressione che il sangue le si congelasse nelle vene. Dianella sorrise soltanto con la bocca, non con gli occhi. «Vedo che le mie parole hanno effetto su di te e questo mi fa piacere... Sei stata smascherata come un'ingannatrice. Sono state fatte ricerche a Seve messe, nelle Isole Sorrows: la famiglia Tarrenys è una delle più antiche, certo, solo che ormai si è estinta. Ne restano soltanto pochi membri, tutti ben conosciuti... e tu non sei una di questi. Lo neghi?» Dopo un poco, Rohain ammise: «Non lo nego». «Bene!» Il viso di Dianella s'illuminò, trionfante. Rohain fremeva dalla voglia di schiaffeggiarla: se non fosse stato per il fatto che la cortigiana sapeva di Thorn, l'avrebbe buttata fuori dalle sue stanze. Tra la paura e la rabbia emerse un profondo senso di vergogna, radicato nelle sue stesse ossa. A denti stretti, disse: «E ora?» «E ora? Mia cara, c'è soltanto una strada aperta per te. Naturalmente, non avrai la sfacciataggine di reclamare il titolo di Pari e la proprietà di Arcune... Ciò che devi fare è andartene. Immediatamente.» Fu la volta di Rohain di mettersi a camminare avanti e indietro. «Andartene, ho detto», continuò Dianella. «Questo non è posto per te; stai usurpando un rango che non ti spetta. Per ora il tuo inganno è noto
soltanto a me e a mio zio e, siccome sono una tua vera amica, giuro che nessuno di noi due ti smaschererà, purché tu parta subito. Se, a dispetto dei nostri migliori sforzi di tenerla segreta, la voce si spargesse, non ci sarebbe modo di sapere quali passi sarebbero intrapresi per punirti del tuo temerario inganno. Per la tua stessa sicurezza, vattene oggi stesso. Entro un'ora.» «Davvero non mi tradirai?» «Ahimè! Questo tuo dubbio mi ferisce profondamente!» «Cosa vuoi in cambio?» «Sei sempre più ingiusta! Stai forse insinuando che io voglia essere pagata? Tra amiche non si compra o vende... però, spesso capita di scambiarsi dei regali.» «Prendi il mio intero guardaroba. Prendi tutto ciò che ho in deposito presso la tesoreria.» «Come no! Cosa direbbe la gente, se mi facessi vedere con addosso i tuoi vestiti?» «Dianella, io ho bisogno - in questo momento più che mai - di mantenere la mia posizione, almeno sino al ritorno del Re-Imperatore. Lascerò la Corte alle prime luci di domani e tornerò solo un'ultima volta per avere un'udienza con Sua Maestà; in seguito, non mi vedrai mai più.» «Una saggia decisione da parte tua, mia cara.» Tralasciando le formalità di chi si accomiata, Dianella lasciò la stanza con un fruscio di baudekin e un tintinnare d'ornamenti. Com'era suo vezzo si voltò parzialmente, per scoccare un'ultima frecciata: «Ricorda di mandare la tua cameriera a portarmi i tuoi abiti e le chiavi dei tuoi scrigni». Rohain chiamò Viviana. «Devo lasciare la Corte per un viaggio», disse alla cameriera, controllando con cura il tono della voce. «Manda una lettera alla Torre di Isse... Lady Rohain di Arcune saluta il Settimo Casato dei Cavalieri della Tempesta e chiede loro di tenersi pronti a riceverla. Sta partendo dal palazzo di Caermelor per un breve soggiorno tra loro.» Si sentiva il cuore a pezzi, come una spugna inzuppata di sangue. Ora che Dianella l'aveva esiliata dalla Corte, lei aveva perduto anche Thorn... Per sempre. Sul palazzo di Caermelor era scesa la notte. Seduta al tavolo da toeletta, Rohain fissava con occhi smarriti lo specchio incorniciato d'avorio e madreperla: si stava chiedendo se le sue strane visioni l'avrebbero tormentata anche quella notte e se si sarebbe svegliata in preda alla paura. Una volta,
nel casolare di Maeve, aveva sognato tre facce amabili e gentili: quelle di una donna, di un uomo e di un bambino; in seguito c'era stato l'Incubo dei Ratti e in entrambi quei frammenti d'immagini c'era il marchio della verità... lei non poteva dubitare che fossero ricordi travestiti da sogni. Era soltanto da quando Maeve l'aveva curata che il suo riposo veniva disturbato da quelle immagini, tanto da farle sospettare che qualcos'altro fosse accaduto in quel periodo, oltre al risanamento del suo viso e delle corde vocali. Forse la guarigione era stata il catalizzatore di un graduale ritorno della memoria. Un giorno, a Gilvaris Tarv, Ethlinn le aveva spiegato: Talvolta, in casi del genere, è sufficiente che il paziente s'imbatta in qualcosa di familiare affinché i ricordi tornino ad affiorare nella sua mente. Rohain sussurrò alla propria immagine: «Faccia mia, che un tempo mi eri familiare... Quando ti vidi per la prima volta nello specchio della Carlin guercia, si aprì uno spiraglio nelle porte chiuse». Quella notte, dal pertugio aperto in quelle porte scivolò fuori un terzo sogno: quello del Cavallo Bianco. Era sotto di lei, lanciato al galoppo... l'apoteosi della velocità e della vita libera. Tutto era esilarante, tutto era rapido... Il vento le ruggiva nelle orecchie, il terreno correva sotto di lei... Gli zoccoli lo stavano davvero toccando? Lei rise forte ma una forma piombò dal cielo sbattendo le ali, scura contro il sole. Si fece vicina... troppo vicina... e la risata lasciò il posto alle grida. Anche il cavallo stava gridando e allora cominciò l'incubo... perché l'orizzonte si alzò - come privo di peso - e il fondo dello stomaco le salì in gola, poi il fianco della collina le precipitò addosso, trasformandosi in una lancia di ferro incandescente che le affondò nell'osso di una gamba mentre lei urlava... Sogni, ricordi... Forse era stata meglio senza di essi. 4 LA TORRE CACCIA E DESIDERI DEL CUORE
Da Belfry a Fairlais, dodici Casati potenti, da Worthing a Outreme dove nascono i venti, comandan dell'aere la via più alta sugli alati eotauri la gloria lor s'esalta.
Dal Canto dei Cavalieri della Tempesta Uhta: l'ora che precede l'alba. Un piccione viaggiatore recò la notizia mentre il clipper del Vento Carpa dell'Arpista veniva allestito per il decollo: una Nave del Vento Dainnan aveva catturato un nero brigantino pirata appostato in agguato sulle Lofty Mountains e recuperato molto bottino; la lotta era stata sanguinosa e disperata. Pochi dei malviventi erano stati presi vivi e quelli precipitati al suolo erano stati abbandonati al loro destino, per essere divorati dalle strane fauci della foresta. I verricelli crepitarono, le eliche girarono e la polena di legno raffigurante un pesce sembrò balzare in alto. Mentre l'equipaggio ritirava alacremente le piastre di andalum dello scafo, il clipper privato del Bardo Reale cominciò a sollevarsi, inclinando al vento la sua elegante linea. Per quanti erano a bordo non c'era nessuna sensazione di movimento in avanti o in alto bensì, piuttosto, l'impressione che il molo d'ormeggio si stesse allontanando dalla nave e che l'equipaggio di terra rimpicciolisse sotto di loro. Il palazzo di Caermelor si fece sempre più minuscolo quando, distendendo le sue ali di tela, la Carpa dell'Arpista salì come una gru dal lungo becco attraverso le nuvole, sino a raggiungere la quota di crociera. Dopo la prima ascesa non ci fu nessun senso dell'altezza: il tappeto di nuvole, più in basso, appariva così vicino e solido da tentare i passeggeri a camminarci sopra. L'ombra della Nave del Vento scivolava su di esso, mentre un effetto di rifrazione della luce dipingeva un alone colorato intorno alla chiglia. Leggera come un grappolo di bolle nel cielo, la Carpa dell'Arpista fece rotta verso nord, lungo la linea costiera. Su una Nave del Vento, quel viaggio era di circa novecento miglia; con una Nave d'Acqua, attraverso il Golfo di Mara, la distanza sarebbe stata considerevolmente più breve. Ercildoune, tuttavia, aveva insistito affinché Rohain s'imbarcasse sul suo vascello privato invece di pagare per una cabina su una Nave d'Acqua mercantile, affermando che così sarebbe stata molto più al sicuro dagli attacchi degli eldritch. Parlando col bardo - che, assillato dalle faccende politiche, si appartava per molte ore al giorno in riunioni coi membri del Consiglio Reale - la ragazza aveva inventato un pretesto per la sua visita alla Torre di Isse: «La Corte è diventata così noiosa, ultimamente... e io ho sempre desiderato vedere coi miei occhi uno dei famosi avamposti dei Cavalieri del-
la Tempesta». Il comandante non aveva pregiudizi contro la navigazione notturna, così giunsero a destinazione in soli quattro giorni. Nel tardo pomeriggio del quarto, un pinnacolo dirupato cominciò a crescere all'orizzonte, ingrandendosi fino a diventare la Torre di Isse... fantasticamente alta e coronata di guglie, che con la sua forma scura tagliava il cielo in due. Si udì il suono di una tromba d'ottone: il segnale della vedetta. Due o tre Cavalli Celesti giravano in circolo nell'azzurro, a oriente, piccoli come mosche per la distanza. Quando il vento di mare calò, i verricelli cominciarono la loro musica stridula e la Nave del Vento fu attirata giù sulle scale d'ormeggio del lato occidentale, centoventi piedi sopra il livello del suolo. L'equipaggio gettò cavi agli inservienti di terra e, lentamente, la nave fu assicurata al molo contro il fianco della Torre. Un tempo, una serva dalla faccia grottesca n'era fuggita... senza nome, muta, miserabile, disprezzata. Adesso lei, Imrhien-Rohain, era tornata alla sola casa che potesse ricordare. Mentre scendeva dalla passerella a braccetto col comandante, un giovane nell'uniforme dei Cavalieri della Tempesta venne ad accoglierla: aveva un'espressione dura e lo sguardo rapace di un avvoltoio. Portava i capelli impomatati aderenti al cranio e legati in una coda rigida dietro la nuca e il suo cappuccio era baldanzosamente gettato indietro: era Lord Ustorix, Figlio del Casato ed erede del Condottiero, che un tempo era stato uno dei suoi tormentatori. Ustorix la salutò con un profondo inchino e una calma formalità che contrastava coi suoi sentimenti, perché dai suoi gesti misurati trapelava un'intensa eccitazione e il volto rivelava un desiderio disperato. Dietro di lui si affollavano numerosi aristocratici della Torre in nero e argento guidati dalla sorella di Ustorix, Heligea, che contemplava a occhi spalancati la visitatrice venuta dalla capitale. Agli abitanti della Torre, Rohain appariva come l'archetipo stesso della cortigiana sofisticata e all'ultima moda: la ragazza si era infatti prudentemente messa da parte una mezza dozzina di vestiti prima di cedere il proprio guardaroba a Dianella. Indossava un abito a gonna bordato in pelliccia, strettissimo in vita e ricamato fittamente con motivi stilizzati di carciofi e foglie di vite su uno sfondo di vellutina azzurro scuro; le maniche a campana, i cui polsini strisciavano al suolo, erano ripiegate indietro a rivelare le sottomaniche in tisshew dorato e velluto rosso, strette ai polsi. Tre piume le spuntavano dal turbante di pelliccia contenente la reticella di ta-
lium e il mantello di ciclatoune era fermato su una spalla da una fibbia in filigrana d'oro. Dalla sua cintura ingioiellata pendevano uno stiletto dalla lama affilatissima inguainata in un fodero decorato, un tilhal d'oro a forma di galletto i cui occhi erano rubini rosa e un astuccio frangiato, contenente la piuma di un certo cigno. I valletti della Torre, in livrea argento e magenta, erano allineati su due file lungo tutto il corridoio di sbarco. Altri servi sciamavano dappertutto, con aria deferente. L'onorevole visitatrice di Caermelor e il suo seguito furono accompagnati nella gabbia di ferro martellato di un elevatore. Ustorix stava così vicino all'ospite che quest'ultima era sopraffatta dalla nausea, a causa sia del lezzo del suo sudore che dei ricordi del passato. Lottando contro quel malessere, gli sorrise e notò come lui tremava e arrossiva: lo giudicò un effetto interessante, un'arma che poteva brandire contro di lui. «Naturalmente mio padre, Lord Voltasus, è nel nord a combattere al fianco del Re-Imperatore», le disse Ustorix, agitando una mano guantata. «Durante la sua assenza, il padrone sono io poiché la lady, mia madre, è in visita a mia sorella, al Quinto Casato in Finvarna. Ma non temete: tutto è stato approntato a dovere per accogliere Vostra Signoria, anche se abbiamo saputo della vostra visita soltanto due giorni fa. Il messaggero che ci ha recato la notizia ha trascurato di precisare che la visitatrice era il più bel fiore della Corte... Si pentirà di questa omissione!» proclamò boriosamente, con un inchino da cui la ragazza si affrettò a distogliere lo sguardo, indi proseguì: «Senza dubbio, Vostra Signoria desiderava da tempo ammirare di persona la potenza del Settimo Casato e la magnificenza della Torre di Isse, tanto acclamate dai bardi.» «Senza dubbio.» Che individuo arrogante e provinciale! pensò lei. Crede forse che il mondo non abbia di meglio da fare che profondersi in lodi per i Cavalieri della Tempesta? «Vostra Signoria stia certa che non resterà delusa.» «Di questo sono certa.» Le grandi aspettative sono il preludio delle grandi delusioni. L'inserviente addetto all'elevatore fermò la gabbia al Livello Trentasette e Ustorix offrì la mano all'ospite, per aiutarla a uscire; le dita di lei erano però occupate ad alzare il bordo della gonna di vellutina: lasciò l'elevatore tenendolo sollevato con cura. «Forse milady desidera riposare... sarete condotta al vostro alloggio...
onorato se a cena vorrete sedere alla mia destra...» Le parole rotolavano fuori dalla bocca di Ustorix come anelli di cipolla fritti, untuosi, pungenti e vuoti. Sembrava che il Figlio del Settimo Casato combattesse una battaglia interiore nella quale la sua innata arroganza si contrapponeva al desiderio di mostrare quella che lui giudicava una nobile modestia. Si accomiatò da lei con un secondo inchino e sua sorella Heligea fece lo stesso. Con un brusco cenno del capo - proprio non riusciva a mostrarsi cortese con quei due! - Rohain, accompagnata da Viviana e da un gruppo di servitori d'alto grado, li lasciò ed entrò nell'alloggio che le era stato riservato. Sembrava che più Rohain fosse sgarbata con Ustorix e più lui l'adorasse: la deferenza lo avrebbe indotto a disprezzarla, mentre i modi scortesi suscitavano il suo rispetto. Come tutti i bulli, poteva esistere solo come tallone che calpestava o come stuoino su cui qualcun altro si puliva i piedi. A cena, Rohain rifulgeva come un pavone tra i corvi... e i corvi pendevano dalle sue labbra e copiavano ogni suo gesto. Tutti presumevano che ogni suo atteggiamento fosse l'epitome dell'ultima moda, perché abitava a Corte e dunque conversava delle cose più attuali. Ciò che li seduceva maggiormente era il fatto di non aver suscitato nessuna risatina indecorosa da parte di quella cortigiana alla moda, nessuna mostra di sentimenti offensivi per la loro semplicità: lei era un modello di assoluto distacco, ammantata di un'ammirevole indifferenza; inoltre era ricca, titolata e, per soprammercato, anche bella. La grande sala dei banchetti al Livello Trentuno sembrava piccola e austera a paragone dello sfarzo della Corte. Rohain esaminò le pietanze e chiese il nome del cuoco che aveva cucinato ciascuna di esse. Le portate erano numerose e studiate per impressionare, ma lei ne rifiutò con un gesto la maggior parte, dopo averle appena guardate. A un certo punto, accennò alla sua cameriera di avvicinarsi e le sussurrò: «Ti raccomando di non assaggiare nulla che sia stato preparato dal cuoco di nome Rennet Thighbone: non controlla mai che nelle verdure non ci siano lumache, non si pulisce le unghie prima d'impastare i ripieni e sputa nelle salse... e queste non sono nemmeno le peggiori tra le sue abitudini!» «Grazie, milady. Sarò ben lieta di seguire il vostro consiglio!» «I padroni di questo posto ignorano ciò che ti ho detto», aggiunse Rohain. In vena di adularla, Ustorix era tutto melassa e lusinghe. Cominciò col rivolgersi a Rohain coi pronomi tu e te che, modificandosi nel corso dei secoli, avevano assunto sottili connotazioni di complicità quando li si usa-
va improvvisamente al posto del voi tra aristocratici di pari rango... o d'intimità erotica, quando gli interlocutori erano di sesso diverso. «Posso tentarti con una fetta di pasticcio di piccione, mia cara? Le torte salate sembrano interessanti... stuzzicanti, direi, a giudicare dall'aspetto. O forse preferiresti assaggiare questo piatto di cavolo con contorno di, suppongo, uva passa... o magari la lepre arrosto ricoperta di marmellata, con questa salsa eccellente?» Rohain ordinò sottovoce a Viviana: «Di' al paggio di Lord Ustorix d'informare il suo padrone che non è confacente che si rivolga a me con tanta familiarità». Quando il messaggio giunse a destinazione, l'erede del Casato rovesciò il vino per lo stupore e la mortificazione, il che peggiorò il suo disagio. Sia lui che il paggio arrossirono sino alle orecchie e Ustorix sferrò un calcio al ragazzo, facendolo cadere al suolo; poi latrò una petulante critica a un cameriere di passaggio. La salsa schiumava nella sua urna di stagno. Rohain non la toccò e sorseggiò invece il vino verde-felce, il cui sapore era stato probabilmente migliorato dalla presenza di rospi del muschio nella cantina. «Mio lord», osservò la ragazza, volgendo le armi gemelle dei suoi occhi su Ustorix, «è ben noto che i Cavalieri della Tempesta possiedono nervi d'acciaio.» «Naturalmente, milady. Essendo Corrieri, è un nostro dono di nascita: il coraggio scorre nel sangue dei Dodici Casati... benché un'infusione di sangue nuovo possa rappresentare un beneficio, qualora sia particolarmente puro.» «Come stavo per dire, la reputazione ineguagliabile dei Cavalieri della Tempesta nello sfidare la morte con le loro gesta ha raggiunto l'apice, io credo, con quest'ultima voce dalla Torre di Isse, che è arrivata a Corte.» «Il racconto della mia ardimentosa cavalcata fino a Ilian durante le bufere di Imbrol?» Ustorix gonfiò il petto come un tacchino. «Vero! Chiunque altro avesse osato tentare una simile impresa sarebbe perito ma io...» «No, mi riferivo al racconto dei due Cavalieri della Tempesta che restarono in equilibrio su barre di sildron a quattrocento piedi dal suolo, senza l'ausilio di finimenti volanti o corde di sicurezza.» Lui non aprì bocca. «Accidenti, che impresa!» esclamò Rohain, accalorandosi. «Tutti ci siamo chiesti: Che genere di uomini sono questi? Non c'è nulla di più affascinante di un uomo così eroico e coraggioso... uno che sappia compiere atti
così pericolosi restando freddo come il ghiaccio. Non siete d'accordo, Lady Heligea?» «Certamente», rispose la dama, che sino a quel momento era rimasta chiusa in un ombroso e annoiato silenzio. «Un uomo simile merita rispetto», infierì Rohain. «Adorazione, anzi. Vi prego, non lasciatemi in sospeso... chi sono i protagonisti di questo gesto così eclatante?» «Un paio di servi», buttò lì Heligea con indifferenza, prima che suo fratello potesse intervenire. «Grod Sheepshorn e Tren Spatchwort.» Le nocche di Ustorix sbiancarono come una catena di picchi nevosi. Con occhi che avrebbero potuto trapanare il metallo, scoccò uno sguardo di puro odio a Heligea. «Servi!» Rohain sorrise. «Be', se i servi sono così notevoli, i padroni devono esserlo doppiamente. Suppongo che un gesto del genere sia cosa comune tra i Cavalieri della Tempesta... Senza dubbio, voi lo praticate ogni giorno. Amerei molto assistere a un simile atto di valore!» Sto forse diventando come Dianella? Oh... ma l'avvoltoio menta questo e altro! «Potrei assistere mentre voi eseguite questo esercizio, mio lord?» domandò dolcemente Rohain. «Sarebbe una cosa da raccontare, a Corte.» Ustorix era ormai cinereo in volto: si schiarì la gola, tentando un sorriso sottile. L'oggetto della sua adorazione lo fissava, in attesa. «Potete contarci!» «Delizioso!» Lei alzò il calice in un brindisi. «Non vedo l'ora. A proposito... dove potrei trovare quei servi impavidi, quei Tron Cocksfoot e Garth Sheepsgate?» «Uno di loro si è arruolato. L'altro... be', mi hanno detto che si è unito all'equipaggio di una Nave del Vento», le rispose Heligea, che sembrava molto informata di tutti gli avvenimenti dei livelli Superiori e Inferiori. «Non c'era anche un terzo servo?» proseguì Rohain, complimentandosi con la nuova se stessa per la sua capacità di dissimulare. «Una creatura deforme dai capelli biondi?» «È sorprendente quanti particolari di ciò che accade alla Torre di Isse raggiungano la Corte», mormorò Heligea, compiaciuta. «Ci sarebbe da chiedersi come, dato che i Corrieri non sono inclini alle chiacchiere... Sì, una volta c'era una creatura come quella che Vostra Signoria descrive ma non so da dove venisse, né dove andò. Nessuno lo sa.» «Purtroppo non ci sarà tempo per esercizi dimostrativi col sildron», in-
tervenne aspramente Ustorix. «Per domani ho in programma un giro d'ispezione delle tenute della Torre, se la mia signora gradisce.» «Sì, una visita potrebbe essere divertente... ma non deludetemi, mio lord, vi prego! Sono certa che ci sarà il tempo per altre attività. Da parte mia, non sarò costretta a porre fine alla visita finché il Re-Imperatore non mi comanderà di rientrare a Caermelor.» E così si accordarono: prima del termine del suo soggiorno, Lady Rohain avrebbe avuto l'intrattenimento che desiderava. La compagnia dei padroni della Torre di Isse la stancava presto perciò, subito dopo cena, Rohain si disse affaticata per il viaggio e si ritirò nelle proprie stanze; poi chiese a Viviana di mescolarsi, con discrezione, ai servi della Torre. «Cerca una vecchia donna delle pulizie di nome Grethet: lavora al Livello Cinque, presso le fornaci. Non voglio dare adito a pettegolezzi, perciò inventa una storia... racconta che ho sentito dire che è una brava guaritrice e che voglio chiederle consiglio o qualcosa del genere. Inoltre, voglio che tu scopra tutto ciò che puoi su un altro servo che una volta lavorava qui... un ragazzo biondo, dal viso deforme.» I primi effetti del vento shang solleticarono il cuoio capelluto di Rohain mentre, ferma sulla soglia, seguiva con lo sguardo Viviana che si allontanava verso il pozzo dell'elevatore, avvolta in un mantello grigio. La giovane cameriera suonò il campanello e attese finché, dalle profondità, giunse il clangore della gabbia che saliva lungo i binari; il cancello di ferro intarsiato si aprì e Dolvatch Trenchwhistle ne uscì a passi pesanti, seguita da un quartetto di cameriere che portavano vassoi pieni di cibo. Nello scorgere Rohain, la Governante in Capo si fermò bruscamente. «Oh, ehm... Stavo giusto venendo a vedere se c'è qualcosa che Vostra Signoria desidera», balbettò, con un inchino. «No. Voglio solo esser lasciata tranquilla.» «Sì, milady. Molto bene, milady.» La donna tornò verso l'elevatore. «Trenchwhistle!» «Sì, milady?» «Aiuta quella piccola cameriera a portare il vassoio; è troppo pesante per lei. Mi meraviglio di te! A Corte veniamo a sapere tutto e mi è stato detto che la Governante in Capo tratta i suoi subordinati come curerebbe le sue rose più pregiate. Non mi deludere.» «Sì, milady. Perdonatemi, milady.»
Arrossendo, la Governante in Capo sbandò contro un vassoio, schiacciandolo contro il muro: metà del contenuto si rovesciò e la donna mormorò un'imprecazione. Mentre la porta si chiudeva, si rivolse a Viviana in tono aggressivo: «E tu cosa vai a cercare di sotto, mia cara?» Rohain si sentiva prudere la pelle: l'aria odorava di fulmini. I suoi capelli tinti - liberati dal peso del turbante - si sollevarono, come magnetizzati. Era sola nelle sue stanze della Torre. L'appartamento si trovava a metà di un ampio corridoio, a un'estremità del quale c'era una porta alta e stretta a due battenti. S'incamminò verso di essa e l'aprì: dava su una terrazza cinta da una balaustra di dominite, dai cui angoli si protendevano grondoni a forma di animali alati con la lingua sporgente. Il vento freddo della notte portava un odore di mare che bussò alla porta della sua memoria. Più in basso, la Carpa dell'Arpista oscillava ormeggiata al molo, in attesa della brezza del mattino per fare ritorno a Caermelor (poiché non poteva restare a lungo lontana dai suoi doveri). La Grande Stella del Sud ingemmava l'orizzonte, sul quale faceva capolino come un raggio di smeraldo; essendo la metà del mese, la luna era piena. Una nota d'argento risuonò da qualche parte sopra di lei - tra le guglie e i bastioni - e una silhouette impossibile passò davanti alla faccia della luna... un Cavaliere della Tempesta di ritorno da una cavalcata. Dietro di lui stava sopraggiungendo una tempesta magica: Rohain la vide, in distanza, coprire la foresta come uno sciame di lucciole, qua e là più brillanti dove pulsava una scena fantasma. Il porto di Isse ne fu trasformato in uno sfarzoso tappeto di scaglie di pesce, verdi e oro. Laggiù era ancorata una vera Nave d'Acqua; un galeone spettrale stava invece affondando al largo del promontorio, come la Nave d'Acqua catturata dal Cerchio delle Tempeste nella canzone che ogni tanto Sianadh canticchiava: Se dritto verso nord rotta farai, laggiù sull'orizzonte la vedrai... La nave e il suo equipaggio ardimentoso che là hanno trovato l'ultimo riposo. D'oro alonata dal bompresso al trinchetto, dal cassero di poppa al parrocchetto... Dai flutti è stata e sarà ancora ingoiata, in una ripetizione orribile e stregata.
«Da dove vengo?» mormorò Rohain. «Da oltre il Cerchio delle Tempeste? Non può darsi che sia salpata da terre sconosciute al di là di quella spaventosa cintura di venti e sia sopravvissuta?» Il terribile splendore della tempesta magica rotolava avanti e Rohain si affrettò a tornare al suo alloggio ma, prima che potesse raggiungerne l'alta porta, accadde un inquietante imprevisto, una nota stonata nella trionfale sinfonia del suo ritorno alla Torre di Isse. Come sbucato dalle ombre lunari, qualcuno zoppicava rapidamente lungo il corridoio, quasi senza rumore. «Fermati!» ordinò lei. La figura sì voltò per un breve istante, poi indietreggiò. «Pod... Tu sei Pod, non è vero?» A quelle parole rispose un rauco gemito di stupore. «Tu! Sei tornata! Ti avevo detto di lasciarmi in pace!» ansimò Pod. «Vattene via. Vattene da qui... Tu porti la malasorte in questo luogo!» «Mi riconosci?» Lei era incredula. «Ma come...» «Sì che ti riconosco. Tu vivevi qui e ora sei tornata... per portare la rovina su tutti noi!» «No, io non...» Rohain sapeva di essere alla sua mercé: Pod l'aveva ravvisata all'istante - laddove neppure lei stessa avrebbe saputo riconoscere il proprio volto così mutato - e questo gli dava un certo potere su di lei. «Grethet... dille di venire da me. Ti prego.» «Non posso farlo.» «Perché no? Ti pagherò.» «Non voglio il tuo sporco oro! Comunque, la vecchia è morta. Grethet è ormai fredda nella tomba.» Detto questo, Pod zoppicò sino a un passaggio quasi invisibile nel muro e vi scomparve dentro; Rohain corse avanti e lo chiamò ma lui non si fece più vedere. Perché si era nascosto? Le nubi mangiarono la luna e una raffica di vento chiuse la porta con un tonfo. «Sono una combriccola ben malinconica e bizzarra, milady, i servi di questo maniero!» commentò Viviana. «Tutti salvo tre, devo dire: un vecchio bonaccione che chiamano 'il narratore', un giovanotto alquanto robusto di nome Pennyrigg - lui sa come si fa a ridere, almeno, a differenza degli altri! - e una ragazzina che mi sembra anche simpatica... una certa Caitri Lendoon.»
«La figlia della Custode delle Chiavi.» «Quant'è ben informata la mia signora, per conoscere anche il nome dei servi!» «Il ragazzo dai capelli biondi... Cos'hai saputo di lui?» «Da dove proveniva e dove sia andato è un mistero.» «Cos'hai scoperto di Grethet?» «Solo che è morta. Non mi hanno detto altro.» Rohain scivolò nel silenzio e, alla fine, sospirò. Non doveva rivelare il proprio dolore anche se dentro di sé stava piangendo, angosciata per la sorte della vecchia che l'aveva rudemente accudita e che rappresentava l'ultimo possibile legame con la sua vita di un tempo. «A quest'ora tarda, milady, non dovreste essere a letto?» disse gentilmente Viviana. «Suppongo di sì. Sei stata fuori a lungo, Via... Cos'altro hai saputo?» «Be', il narratore ha raccontato un paio di storie interessanti e io non ho potuto fare a meno di ascoltare. Ha un suo modo di fare... cattura gli ascoltatori come pesci in una rete, per così dire.» «Sì. Forse anche la vecchia Grethet aveva una storia... ma ora non sarà mai più raccontata.» Dopo aver saputo della morte di Grethet, Rohain cominciò a vedere il futuro in una luce fosca. Cosa ne sarebbe stato di lei, ora? Non poteva tornare a Caermelor, né ad Arcune. In assenza di altri piani, risolse di restare alla Torre di Isse finché non le si fosse presentata un'ispirazione o un'opportunità di qualche genere. Stavano visitando a piedi i terreni del Settimo Casato: Rohain, Ustorix, Viviana, il comandante e il nostromo della Carpa dell'Arpista, parecchi curiosi e servitori e la sconsolata Heligea, vestita di nero con bottoni d'argento. L'imponente ombra della Torre si srotolava sulla Grande Strada del Re fino al porto. Nel cielo coperto di nubi stridevano i gabbiani. Al fianco di Rohain, Ustorix concionava grandiosamente: «Queste sono le tenute esterne, mia dama delle Sorrows», proclamò, abbracciando il territorio con un largo gesto. «Le botteghe dei fabbri e le scuderie si trovano da quella parte: tutto ciò che potete vedere è sotto la mia autorità. Isse è la chiave di volta dell'intera rete di comunicazioni... e senza la rete di comunicazioni il regno si fermerebbe e l'Impero crollerebbe. «I Cavalieri Alfieri, che operano a una quota di trecento piedi, sono i Fi-
gli più giovani del Casato. Essi viaggiano per una quantità di incarichi diversi o fungono da Corrieri per la gente del popolo che abbia urgenti messaggi personali da consegnare e abbastanza denaro per pagare il servizio. Lo squadrone più grande, il Reggimentale, vola alla quota di quattrocento piedi: loro sono le nostre ali da trasporto mercantili e fungono da Corrieri per conto di ricchi mercanti, che li ricambiano col rimborso e con la deferenza appropriati poiché le loro fortune dipendono dalla nostra buona volontà.» Si volse vivacemente verso Rohain. «La conoscenza è potere», proclamò, come se avesse inventato quella frase sul momento. «Il mercante che scopre per tempo l'occasione di fare buoni affari può mandare le sue navi a precedere quelle dei concorrenti e chi è avvantaggiato da aggiornamenti tempestivi sul genere di merci in arrivo può comprare o vendere prima che i prezzi cambino!» Rohain annuì distrattamente a quelle parole. «Lo Squadrone Nobiliare, naturalmente, cavalca solo per i Pari del regno. La quota loro assegnata - cinquecento piedi - è seconda solo a quella dei cavalieri più veloci e di rango più elevato... i Reali, anche conosciuti come gli Emissari del Re, ai quali sono affidati gli affari di stato.» Rohain mascherò ostentatamente uno sbadiglio. «Alla mia signora piacerebbe vedere i giardini ornamentali?» suggerì Heligea con indifferenza, sostituendosi al fratello come centro d'attenzione. Nel frattempo, però, gli occhi della visitatrice si erano spostati altrove. «A cosa servono quei lunghi edifici col tetto di ardesia?» «Sono i laboratori del nostro Mago, Zimmuth», rispose Heligea. «Come la mia signora ricorderà, vi è stato presentato a pranzo. Sono solo magazzini, ingombri di roba noiosa. I giardini, invece...» «Visitiamo i laboratori!» L'interno del magazzino principale di Zimmuth era davvero ingombro: ogni superficie era ricoperta di pinze, alambicchi, tubi di rame avvolti a spirale, sfoglie di metallo accartocciato, meccanismi pieni di leve e ingranaggi, pendoli, catene, alberi a camme, pignoni, differenziali, pulegge e poi un assortimento di utensili e giare di pietra contenenti basi e acidi. Le pagine consunte di un paio di effemeridi svolazzavano debolmente, tenute ferme da un manuale stampato rilegato in cuoio; bussole magnetiche, teodoliti, meridiane da tasca e telescopi erano stati ficcati a caso in scatole di legno fornite di compartimenti rivestiti in seta. Marchingegni simili a stomaci di metallo ticchettavano o ronzavano ovunque e un planetario dalla
configurazione impossibile pendeva dalle travi del tetto, così basso da urtare la testa di chi vi passava sotto. In un angolo, un orologio batté quindici rintocchi e cadde, con un sonoro sproing. Uomini con la testa coperta da papaline aderenti o cappucci a rete di talium - tutti col volto sfigurato - martellavano, limavano e segavano. Zimmuth andava dall'uno all'altro con aria talora entusiasta, talaltra incollerita o eccitata, ronzando come un'ape operosa e declamando: «Il progetto di sollevamento a sildron è qui... un nuovo e più efficiente sistema per gli elevatori. Qui, invece, stiamo costruendo un fluttuatore più evoluto: ne avevamo uno di un altro tipo ma quello è scoppiato. Voi capite che il sildron e l'andalum non si legano a nessun altro metallo... questo genere di rotori tende ad andare a pezzi, alla fine, come i propulsori delle Navi del Vento. C'è un'instabilità intrinseca... Tuttavia io prevedo che un giorno ogni Torre ne avrà uno. Laggiù stiamo sviluppando una fascia migliore per gli eotauri, che renderà più agevole il decollo». «Mago...?» Zimmuth interruppe il suo monologo. «Uh... sì, lady...?» Aveva già dimenticato il nome della visitatrice. Rohain diede un ozioso colpetto a un pezzo di ferro su un bancone, che cadde sui mattoni a incastro del pavimento. «Provate a fabbricare una zangola per il burro a sildron», suggerì. «Cosa?» Il Mago restò a bocca aperta, come un perfetto idiota. «E mettete mano alla costruzione di un filatoio... anzi, meglio ancora, un telaio.» Lui si grattò la barba scompigliata, da cui caddero briciole e insetti. «Ma quale sarebbe lo scopo? Voglio dire, quelli sono lavori che fanno le serve.» «Precisamente. Facilitarli lascerebbe più tempo libero a quelle povere donne.» «Più tempo per fare cosa?» «Altri lavori.» «Be', in effetti, suppongo di sì. Loro, però, non sarebbero capaci di fare lavori nuovi.» «Come costruire veicoli già condannati perché fatti di materiali incompatibili? Senza dubbio potrebbero riuscirci, se avessero l'inclinazione e il tempo per provarci.» Il Mago aveva già distolto l'attenzione da lei e dalle sue parole. Si succhiò i denti, poi alzò un dito: «Una zangola per il burro! Sì, possiamo costruirla!» E, come un cavallo coi paraocchi, trottò via a radunare i suoi
dipendenti. «Milady ha delle idee interessanti», commentò Heligea, giocherellando divertita coi cordoni a perline del suo cappuccio, mentre il gruppo di aristocratici usciva dal laboratorio per incamminarsi verso i giardini. «Ho sentito che anche un altro, qui a Isse, s'intende delle Arti», disse Rohain. «Chi è?» «È una voce infondata. Qui non c'è nessun altro che s'intenda di magia, a parte Zimmuth», intervenne Ustorix. «Ci sarebbe Mortier», lo corresse Heligea. «Era il Maestro delle Spade.» «Non lo è più?» «No. Vedete, milady, quell'uomo usciva dai confini dei nostri possedimenti per trattare con le creature unseelie. Pensava che gli avrebbero conferito potere sulle tempeste magiche.» «Heligea!» la riprese Ustorix. «Un giorno si trovava fuori, nella foresta, con alcuni servi che raccoglievano erbe», proseguì sua sorella, senza badargli. «E a un certo punto...» «Ecco, siamo giunti ai giardini», la interruppe pomposamente il fratello. Un servo corse ad aprire il cancello e si scostò per lasciarli entrare, con un inchino. «... venne una tempesta magica», insistette Heligea. «Fai silenzio, sciocca!» «Mio Lord Ustorix, vi prego di consentire a Heligea di continuare»/ intervenne Rohain. Nel collo del Cavaliere della Tempesta i tendini si tesero come corde. «Be'», proseguì Heligea, strappando un ramoscello da un pioppo e usandolo per sferzare pigramente l'albero, «il nostro buon Maestro Mortier ebbe paura di essere sorpreso all'aperto dalla tempesta magica, così fuggì via e si perse.» Il gruppetto si avviò lungo un sentiero di ghiaia, tra sgradevoli cespugli di rose privi di fogliame. Heligea seguitava a frustare col ramoscello il roseto spoglio, evitando le occhiate furiose del fratello: «Mandammo gente a cercarlo, naturalmente... e, alla fine, lo trovammo. Ma agli occhi dei soccorritori si presentò una scena triste». «Cos'era successo?» «Videro per primi i suoi stivali, che oscillavano a una certa altezza dal suolo. Dentro c'erano i piedi e rutto il resto: era impiccato alle fronde di un agrifoglio sterile, che lo aveva afferrato crudelmente coi suoi rami. Dovettero tagliarne alcuni per tirarlo giù... e si alzò un gran fracasso, perché l'a-
grifoglio agitava i rami e sibilava con furia.» «No!» esclamò Rohain, incredula e inorridita. «Era ancora vivo quando lo liberammo», continuò la giovane Heligea, con indifferenza. «Sopravvisse, però da allora non può più parlare: la sua gola era stata rovinata. In verità, era stata danneggiata anche la sua mente... Non avrebbe più potuto insegnare scherma ma, quando si fu un poco ripreso, lo udirono martellare, di notte, su qualche invenzione cui lavorava in camera sua. Una notte, mentre era lì con un servo che lo aiutava, la lampada si rovesciò e, nel buio, il martello gli venne strappato di mano. Quando il servo riaccese la luce, vide che le mani di lui erano state entrambe inchiodate al bancone: liberarlo fu molto doloroso e non gli permise, comunque, di recuperare l'uso delle mani. Ora devono nutrirlo con una cannuccia... Sta seduto e non fa niente; gli sono caduti tutti i capelli e sbava. Non è diverso da una grossa lumaca.» Il comandante della nave e il nostromo risero. «Una grossa lumaca, nientemeno!» ripeterono, rozzamente. «Un po' di compassione, in nome del cielo!» ansimò Viviana, accigliandosi. La sua padrona rabbrividì. Si pentiva amaramente della maledizione che, un giorno, aveva borbottato al Maestro delle Spade. Una nota di tromba echeggiò nel cielo, sopra di loro. L'affettata Heligea alzò gli occhi e scorse un Cavaliere della Tempesta in arrivo. «Se quel Corriere porta notizie dalla Città Reale, devo esserne informata subito!» disse Rohain. Ma non c'era nessuna notizia da Caermelor. Rohain si sentiva a disagio; una malinconia inquieta la opprimeva, simile a un'appiccicosa ragnatela. Sembrava che tutti i piani, tutte le speranze, fossero in stallo. Sianadh sedeva da solo in una cella con l'ombra del nodo scorsoio che gli pendeva sul collo mentre lei, la sedicente Rohain, era tutt'altro che sola in quella Torre, con la spina di una passione disperata confitta nel cuore e la responsabilità della vita di un amico che le gravava sulle spalle... e intanto il quadro che aveva follemente voluto dipingersi addosso - la vita della Baronessa di Arcune - veniva lavato via dalle gelide piogge di Fuarmis, il Mese del Freddo. Thorn era andato a combattere nella lontana Namarre; forse stava rischiando la vita in quello stesso istante... anzi, forse era già morto. Quella possibilità era così insopportabile che la scacciò dalla mente. Quali orridi e maligni nemici si paravano di fronte al suo Dainann? E cosa sarebbe acca-
duto se le Legioni Reali fossero state sconfitte? I Cavalieri della Tempesta sarebbero tornati con fretta disperata, gridando ai quattro venti: Fuggite! Disperdetevi, se vi preme la vita... L'Impero è stato invaso, tutto è perduto! La giovane donna immaginò la rete di comunicazioni dei Corrieri, estesa tra i centri abitati dell'Impero, come una possente ragnatela la cui tensione aumentava fino a far vibrare i fili allo spasimo. Dianella stava accucciata in un angoletto come un ragno, in attesa; accanto alla lady, un'ombra appartenente a un'altra creatura strisciante, ancora più odiosa di lei: il Mago Sargoth. Al centro della ragnatela sorgeva la Torre. In un tono troppo acuto per essere percepito da orecchie umane, le parole senza via d'uscita stridettero nella testa di Rohain. Cos'avrebbe portato quell'attesa? «Spero che il Re-Imperatore torni presto a Caermelor», confidò Rohain alla sua cameriera in un momento d'intimità. «Tu credi che risparmierà la vita di Sianadh, Viviana? Che genere di uomo è il Re-Imperatore? Un uomo pietoso?» Viviana esitò, circospetta. «Saggio, mi verrebbe da dire, milady... pietoso quando ce n'è motivo ma spietato coi criminali e coi malvagi. È un peccato che sia rimasto vedovo.» «Ah, sì... La Regina-Imperatrice Katharine trovò la morte in circostanze terribili, questo lo so. Cosa le accadde, esattamente? Nessuno me lo ha mai detto... In effetti, sembra che sia proibito anche solo parlarne, salvo che di sfuggita.» La ragazza rispose a bassa voce: «Non se ne parla più, a Corte, però lo sappiamo tutti... Conosciamo i fatti, almeno, anche se qualcuno li racconta in un modo e qualcuno in un altro. Io posso raccontarli per come li ho sentiti ma non so se i particolari siano esatti». «Ti prego, parlamene.» «Accadde in riva al mare. Le loro due Maestà Imperiali erano uscite a cavallo, sul tardi, lungo la spiaggia, quando scese la nebbia e restarono separate dal loro seguito. Per un po' continuarono a cavalcare chiamando a gran voce le guardie e i cortigiani ma non riuscirono a trovare nessuno... Poi, all'improvviso, il cavallo della Regina si spaventò e sfuggì al suo controllo. Il Re spronò il proprio destriero all'inseguimento, guidato solo dalle grida di lei nella nebbia; quando la raggiunse, però, trovò il cavallo di lei orribilmente mutilato che esalava l'ultimo respiro, mentre qualcosa stava trascinando la Regina in mare. Lui saltò giù di sella e si gettò tra le onde e
fu allora che una creatura unseelie lo afferrò: altri non era che il Nuckelavee, il centauro scorticato... Senza dubbio la mia signora avrà sentito parlare di quel terribile mostro. Sua Maestà lo colpì con la spada... Sarebbe stato trascinato anch'egli sott'acqua sennonché, con le sue ultime forze, si portò il corno da caccia alle labbra e suonò una lunga nota: stordito da quel suono, il mostruoso aggressore perse la presa e indietreggiò. Quando i suoi uomini lo trovarono, Re James era mezzo morto ma cercava ancora di gettarsi tra le onde; dovettero trascinarlo a forza lontano dall'acqua, altrimenti si sarebbe affogato insieme con la sua sposa. Lei non fu vista mai più... e non aveva neppure venticinque anni! «Questo accadde circa dieci anni fa, quando il Principe era appena un bambinetto. Il Principe Edward sembra più vecchio della sua età, secondo me, però crescendo è diventato un ragazzo attraente.» Viviana intrecciò le dita e assunse uno sguardo sognante. «Sua Maestà non si risposò mai più: tutte le Principesse reali delle terre di Erith erano troppo giovani o già maritate e, del resto, si dice che amasse Katharine al punto di non poter più amare nessun'altra.» «Una storia tragica.» «Davvero. Quel dolore cambiò Sua Maestà, in alcune cose: a volte è più triste e a volte più allegro di prima... o, almeno, così dicono, sebbene io non sappia come fosse a quel tempo: dieci anni fa ero una bambina. Dicono anche che il lutto lo abbia reso più sobrio, perché da allora ha perso il suo fervore e governa meglio e più saggiamente. Le terre di Erith, prima di questa insurrezione namarrana, non erano mai state così prospere e pacifiche... Del resto, la Casa di D'Armancourt è sempre stata la dinastia più forte. Gli storici sostengono che ci sia una qualità speciale - qualcosa fuori dell'ordinario - in tutti coloro che discendono da questa stirpe... Dicono che il sangue reale è possente e che li rende diversi.» Per due volte il sole invernale fece capolino tra le nubi ma, in entrambi i giorni, piovve a catinelle. Il mattino seguente, l'aria era asciutta e pulita. All'interno della Torre, Rohain - ogni giorno alle prese con odori e aspetti sgradevolmente familiari - divenne inquieta e irritabile: era ansiosa di liberarsi di quell'ambiente ma non aveva idea di dove avrebbe potuto andare. Una sera, dopo cena, fu colta da un umore bizzarro. Si piegò verso la malinconica Heligea e domandò con calma: «Voi cavalcate?» «È il mio svago preferito.»
«Cavalcate anche nel cielo?» «Volare nell'azzurro è la cosa che desidero di più», sospirò la Figlia del Casato. «Perché non lo fate, allora? Siete della Stirpe!» «È proibito. Lo sarà sempre.» «Perché?» «È una cosa che non si fa, molto semplicemente.» «Non è una buona ragione. Cavalcate con me nel cielo, domattina!» Heligea la fissò, incredula. «Diamine! Non osereste!» «Oserò eccome... e anche voi. Aspetteremo che vostro fratello sia occupato altrove. Quanto agli scudieri, gli inservienti e gli stallieri... loro non si opporrebbero di certo alla figlia di Lord Voltasus!» «Santo cielo, è impossibile!» Heligea sembrava illuminata dall'interno, come se una lampada si fosse accesa dietro il suo viso di porcellana. Il mattino dopo, spiegando le possenti ali, due eotauri presero il volo dalla Porta Orientale dei Trecento Piedi (la quota operativa degli Alfieri), sorvolarono le tenute e galopparono sopra la foresta. Le figure che li montavano portavano una maschera sotto i caschi da volo e stavano in sella a cavalcioni, dimostrando un'abilità degna di Corrieri con molti armi d'esperienza; invece di seguire una Strada Celeste, però, fecero un giro turistico delle terre circostanti e fecero ritorno alla Torre prima del mezzodì. La rabbia di Ustorix fu incontenibile. Dapprima la sfogò sulla sorella, minacciandola di morte per aver infranto una delle più antiche e onorate usanze dei Dodici Casati: scandalizzò l'intera Torre alzando la voce come un carrettiere imbestialito, in una volgare esibizione di mancanza d'autocontrollo. Quando ebbe finito di arringare la sorella, Ustorix raggiunse a passi furibondi l'appartamento di Rohain. Era rosso in faccia, aveva le narici dilatate e i capelli, sfuggiti al nodo dietro la nuca, gli si agitavano scomposti intorno alla testa. «Cosa significa questa vostra rude irruzione nelle mie stanze, Lord Ustorix?» domandò Rohain alzandosi dalla poltrona davanti al caminetto, dove stava riposando. «Lo sapete benissimo!» Il giovane si fece avanti, senza curarsi delle convenzioni sociali nella sua ira. «Cavalcare nel cielo non è cosa da donne. Le donne non hanno la forza di farlo; soltanto gli uomini di sangue nobile possiedono l'abilità e l'acume necessari per dominare gli eotauri e lottare
con le volubili correnti dell'atmosfera. Cosa si penserà della Torre di Isse, quando tutti sapranno della vostra follia? Ve lo dico io: diranno che siamo deboli e che le nostre donne sono capricciose e testarde. Voi avete distrutto la reputazione del Settimo Casato... Avete portato la rovina su tutti noi!» «Non credo affatto. Controllatevi, signore! Queste scenate emotive non sono dignitose. Noi donne abbiamo cavalcato nel cielo con la stessa abilità dei gentiluomini e non è successo nulla di male. È una lezione...» «Che io sia impiccato se non siete voi quella che ha bisogno di una lezione... e se non sarò io ad impartirvela!» «Toglietemi le mani di dosso!» Il giovane Cavaliere della Tempesta abbassò lo sguardo. Impugnato saldamente dalla sua ospite, lo stiletto appuntito - ancora incatenato alla cintura di lei - pungeva la muscolatura del suo addome. Le lasciò andare il braccio. «Come osate!» esclamò Rohain con forza, lasciando che le parole grondassero ogni stilla dell'odio e del disprezzo che aveva accumulato nei suoi confronti. Del tutto inaspettatamente, Ustorix posò un ginocchio al suolo. «Perdonatemi. Perdonatemi!» ansimò più volte. «Non ero in me. Non volevo...» «Andatevene!» «Rohain, sono...» Parve quasi contorcersi nella propria angoscia mentre cercava le parole per scusarsi. «Alzatevi! Uscite!» Alla vista della sua umiliazione, Rohain provava soltanto ripugnanza. Lui se ne andò. La giovane donna desiderò non aver mai pensato di cavalcare un eotauro - per quanto esaltante fosse stata quell'esperienza - e si massaggiò distrattamente il livido che le dita dell'altro le avevano lasciato sul braccio. A cena, Ustorix fu scrupolosamente formale. Le disse: «Questa sera eseguirò per voi l'esercizio di equilibrio sulle barre di sildron». «Non è necessario», disse Rohain. «Tuttavia sarà fatto», dichiarò seccamente lui. Le punte superiori dell'inferriata del Cancello Sud Cinquecento si stagliavano come lance contro il cielo scuro. Molto al di sotto di quella soglia spalancata sul vuoto, i puntini luminosi delle finestre delle case costellavano la campagna. Il vapore che scaturiva da un soffione vulcanico (situato un centinaio di piedi più in basso) velava il panorama della foresta, nero e
pieno di riflessi come le chiome di Rohain. A ovest, l'oceano era una distesa argentea sotto la cupola di un cielo scuro come il soffitto di una cantina. Con Ustorix e Rohain c'erano soltanto Heligea e un giovane Corriere, sulle cui mostrine luccicavano tre stelle. «Lord Ustorix», disse Rohain, che cominciava a pentirsi della richiesta che aveva avanzato, «vi prego di non tentare questo esercizio.» Quel somaro pomposo avrebbe perso la vita, solo perché lei aveva sentito un tardivo impulso a vendicarsi... A tavola, durante la cena, ripensando alle sofferenze passate le era parsa una buona idea; adesso, però - davanti a quello strapiombo - avrebbe voluto ritirare le sue parole. Non voleva assistere a una morte cruenta: la vendetta avrebbe dovuto essere dolce, non darle quell'amaro in bocca. La sua ansia non fece che rafforzare la decisione di Ustorix. «Fatevi da parte!» ordinò, eroicamente. Il vento che spirava sull'immensa superficie verticale della Torre si placò e il Cavaliere della Tempesta piazzò con cura nel vuoto due barre di sildron, che fluttuarono circa una iarda oltre la soglia... poi prese la rincorsa e saltò. Agile e forte grazie ai suoi esercizi di equitazione, il giovane arrivò con entrambi i piedi sulle barre e trovò l'appoggio con precisione: a braccia aperte, piegò le gambe come un acrobata sino a trovare un equilibrio stabile. «Ben fatto, signore!» esclamò il Corriere con le tre stelle. «Fatto!» esclamò Ustorix, voltandosi a mezzo verso l'aiutante, il quale gli gettò una corda per recuperarlo. Lui fluttuò indietro come un pattinatore un po' instabile ma, d'un tratto, il vento riacquistò forza e una violenta raffica trasversale aggredì la parete della Torre, spingendolo di lato. Ustorix cadde nel vuoto. Heligea urlò. Rohain chiuse gli occhi per non vedere. «Mio lord!» Il Corriere dalle tre stelle corse sul bordo e guardò in basso. «Siete salvo?» urlò, agitatissimo, con la corda che gli penzolava inerte dalle mani. Le due barre di sildron erano volate via nella notte e non si vedevano da nessuna parte. Ustorix riapparve fluttuando a mezz'aria, sano e salvo. «La corda!» La sua voce era stridula. L'aiutante gli gettò la corda e lo tirò dentro. Mentre i suoi piedi tornavano a contatto con la pavimentazione del portale, Ustorix si tolse la giubba e cominciò a slacciarsi le fibbie delle fasce di sildron che aveva indossato per garantirsi da ogni rischio.
La risata di Heligea si spense davanti allo sguardo velenoso del fratello. «Lo farò di nuovo», ringhiò lui. «No, Ustor. Ora sei salvo... Non importa che tu abbia barato», gemette Heligea. Il giovane gettò lontano i finimenti di sildron. «Dammi altre due barre, Callidus.» «Ustorix, non devi!» si disperò Heligea. Callidus la trascinò galantemente in disparte. Per la seconda volta nel corso di quella notte, l'erede del Casato gettò due lingotti del prezioso metallo nel vuoto, oltre la soglia. Trasse un lungo respiro e s'incamminò verso l'orlo: l'immensità di Eldaraigne sbadigliava sotto di lui... Un abisso così vasto e lontano che parve risucchiargli il midollo dalle ossa. Ustorix piegò le gambe e si afflosciò, svenuto. Quando un paio di servi vennero a portar via il giovane lord, Rohain non li seguì, preferendo rimanere per un poco sola nel corridoio. Il vento si era di nuovo alzato e dalla scuderia del Livello Trentadue le giungevano i rumori dei cavalli: si muovevano nei loro stalli, strisciando gli zoccoli al suolo. Lei superò le alcove e i vestiboli che si aprivano su entrambi i lati e continuò a scendere lungo corridoi cosparsi di paglia, che circumnavigavano le pareti esterne della fortezza. Gli eotauri sporsero la testa sopra le loro mezze porte per soffiarle fiato caldo sulle mani e si lasciarono grattare dietro le orecchie e accarezzare il muso. Con la coda dell'occhio, Rohain vide una piccola figura che strisciava via, furtiva. «Pod!» Lui mandò un ansito. «Pod, non scappare! Me ne andrò presto... a patto, però, che tu mi dica una cosa.» «Cosa?» «Dove mi trovò Grethet? Come sono arrivata qui?» Il ragazzo mugolò qualcosa. «Non ti capisco. Ti prego, Pod... sono tornata qui per scoprirlo. Solo per questo!» «Ti portarono i carrettieri. Una carovana.» «I carrettieri dissero qualcosa di me?» «Dissero che ti avevano trovata.»
«Dove?» «Alle vecchie miniere... vicino al posto maledetto.» «Quale posto maledetto?» «Il capo-carrettiere aveva un bel mantello. Molto bello, di stoffa fine.» «Quale posto maledetto?» insìstette lei. «Ora devo andare.» «Pod! Tu sei la mia unica speranza. Se ti è rimasto un po' di cuore, abbi pietà!» «Tu non hai avuto pietà. Mi hai fatto andare sulla nave!» Rohain lo afferrò per un polso. «È la forza l'unica ragione che capisci?» Lui si contorse; lei dovette lasciarlo e lo vide correre via. «Dirò a tutti che ti nascondi nelle caverne delle capre», lo minacciò. «No!» gemette il ragazzo, già fuori vista. La sua voce uscì dal buio: «Non rivelare dove mi nascondo. Le Torri della Caccia... è alle Torri della Caccia che ti trovarono!» Le Torri della Caccia! Quel luogo era stato menzionato assai di rado dai servi, al tempo in cui la creatura muta e deforme viveva tra loro. Come il Reame Fatato o l'Attriod Unseelie, era considerato un argomento malaugurante: il solo parlarne avrebbe destato le ire di qualche non specificata entità... tuttavia, come bambini con la scabbia, i più miseri abitanti della Torre non riuscivano a stare senza grattarsi il prurito e, qualche volta, vi accennavano a bassa voce. Era il nome di un lago infestato di origine vulcanica, a nord-ovest della Torre di Isse. Le Torri della Caccia avevano un altro nome, ignoto ai servi. Distavano due giorni di cavallo in direzione di Punta delle Maree e si diceva che quello fosse il posto più pesantemente infestato dalle creature unseelie, nonché il covo di tutti i peggiori eldritch wight che odiavano a morte gli esseri umani. C'era una collina che sorgeva da un territorio desolato ma la sua dorsale non era arrotondata, anzi sprofondava in quello che sembrava un gigantesco calderone; quell'enorme crogiolo di roccia lavica era occupato da un lago nero, il cui livello raggiungeva quasi l'orlo. Molte isolette a forma di cono sporgevano dalle acque proibite, alcune grandi, la maggior parte piccole. Sull'isola centrale - la maggiore - c'era uno strano edificio che si trovava lì da più tempo di quanto chiunque potesse ricordare: era una Torre dall'aspetto cupo circondata da altre otto torri disposte in circolo, ciascuna unita alle due contigue (nonché all'edificio centrale) da ponti di pietra formati da più arcate. La zona aveva preso il nome da quella fortezza, poiché si diceva che là dentro abitasse un Cacciatore eldritch... anzi il
più terribile di tutti i cacciatori, così crudele e spietato che nessun mortale osava aggirarsi nel raggio di molte miglia dal nero calderone e che persino gli uccelli e le bestie lorraly evitavano quella regione. Gli abitanti dei territori limitrofi amavano raccontare lo spavento che provavano quando di notte, rannicchiati nei loro casolari, sentivano orridi rumori passare sopra di loro: i latrati di cani infernali, le urla selvagge e disumane del Cacciatore e il fruscio provocato dalle cavalcature eldritch che galoppavano nel cielo buio. Nelle notti di luna piena, la Caccia Selvaggia si scatenava fuori dalla fortezza: in effetti, talvolta gli uomini di guardia sui bastioni della Torre di Isse vi avevano assistito attraverso i loro telescopi. Sino ad allora i cacciatori unseelie avevano ignorato la dimora pesantemente fortificata dei Cavalieri della Tempesta, eppure chiunque avesse visto la Caccia Selvaggia si era sentito tremare nella certezza che, quella stessa notte, il carro di una carovana o un veicolo (a motore meccanico o a bruciatore di carbone) sarebbe scomparso per non essere visto mai più... oppure che qualcuno che avesse indugiato all'aperto sino a tarda ora sarebbe stato ritrovato lontano da quel luogo, ridotto a brandelli sparsi in una pozza di sangue. Viviana venne a sapere dalla servitù che, ultimamente, nella zona delle Torri della Caccia era stata notata una calma insolita: la Caccia Selvaggia non si era tenuta per molti mesi, tanto da far presumere che gli abitanti del lago nero fossero migrati a nord in risposta alla misteriosa Chiamata; quella, però, era soltanto una supposizione, perché nessuno aveva osato avventurarsi là per accertarsene. La luna era appena entrata nella fase calante. Se dalle Torri della Caccia era venuta, rifletté Rohain, allora doveva tornare alle Torri della Caccia... Non aveva nessun'altra pista per risalire al proprio passato. Dalle finestre superiori dello strano edificio al centro del lago-cratere, ogni avvicinamento per via aerea sarebbe stato senza dubbio notato: la sua unica possibilità di arrivarci non vista consisteva nell'utilizzare i percorsi abbandonati - e quindi, forse, meno sorvegliati - di quel territorio desertico. «Viviana.» La cameriera alzò lo sguardo verso la padrona. Stava ricamando un fazzoletto a lume di candela, concentrata al massimo sul conteggio dei punti e tenendo il lavoro a un braccio di distanza dai grandi occhi limpidi nei quali si rifletteva la fiammella: il suo viso ovale appariva ancora più giovane in
quella luce morbida. Fermò l'ago tra un punto e quello successivo. «Sì, milady?» Rohain sedette accanto alla ragazza. «C'è una cosa che vorrei dirti, in via strettamente confidenziale. Viviana, sei stata una buona cameriera e una cara amica.» La mano che reggeva l'ago argenteo cadde bruscamente in grembo alla ragazza. «Si sono verificati alcuni eventi», disse Rohain, «che mi rendono impossibile tenerti con me.» «Oh, no, milady! Vi prego, non dite questo!» Viviana infilò l'ago nella stoffa e mise via il lavoro. «Non voglio lasciare il vostro servizio!» «Possiedo ancora abbastanza oggetti di valore per pagarti ciò che ti devo e darti un piccolo extra come regalo, a titolo di ringraziamento. Presto, però, non potrò più permettermi una cameriera.» «Ma voi siete una lady! La vostra tenuta, i vostri gioielli...» «Non mi appartengono più. Io non sono una nobildonna... non per nascita, almeno. Sono una come te.» «Non posso crederci!» «Eppure, è vero. Per giunta, sto per intraprendere un viaggio pericoloso in un luogo pericoloso... Tu non puoi seguirmi su questa strada, Viviana; farò venire una Nave del Vento che ti riporti a Caermelor.» «Milady, niente mi farebbe sentire più misera di ciò che avete detto», rispose la ragazza, con voce tremula. «Rimandarmi indietro? Mai! Non andrò.» «Non c'è scelta. Tu conosci solo la vita di corte e altrove non ti troveresti bene.» «Sarò rimandata dalla Marchesa! Ugh... Preferirei fare la sguattera in cucina! No... resterò con voi!» «Ma io non avrò di che pagarti, da oggi in poi! Come farai a vivere?» Viviana allargò le braccia. «Come farete voi, suppongo... Qualunque genere di vita sia.» «Quanto a questo, è probabile che io finisca a fare la serva come un tempo, se mai ne uscirò viva.» Viviana ci pensò. «State per gettarvi in un'avventura di qualche genere?» «Sì... anzi no. Potrebbe essere una missione noiosa o piena di pericoli terribili e mortali.» «Be', allora non sarà poi così diversa dalla vita di Corte, milady!» Rohain rise. «Non è più necessario che tu mi chiami così.»
«Non posso farne a meno, milady. Lasciate che vi accompagni!» «Dopo ciò che ti ho detto, vuoi ancora venire con me?» «Sì.» «Perché?» «Preferisco essere qui che là, se capite cosa intendo.» «Lo vuoi davvero?» Fu Rohain, ora, a sospirare pensosamente. «Io ti considero un'amica... È per questo che non desidero mettere a repentaglio la tua vita», disse infine. «Visto che non mi pagherete più, la decisione non spetta a voi», replicò Viviana, riprendendo il lavoro di ricamo. «Ora sarà meglio che mi raccontiate l'intera storia, milady.» Così Rohain si lanciò nel racconto della sua vita di sguattera alla Torre di Isse, della fuga e del tesoro che le aveva consentito di pagarsi la cura per le sue deformità, nonché abiti lussuosi e una nuova identità. Le disse quanto desiderava cercare il suo passato ma, poiché era succube di un sentimento che la faceva soffrire, non fu capace di parlarle di Thorn... non ancora. Viviana ascoltò con calma le sue parole e infine dichiarò: «Milady, voi avete vissuto più avventure del gatto dalla coda storta della Marchesa vedova. Io, però, conosco i vostri modi e non ho dubbi che siate di nascita nobiliare: la storia che mi avete raccontato non ha cambiato di una virgola l'opinione che avevo di voi. Per me, voi restate Lady Rohain». Lei scosse il capo con un sorriso rassegnato, commossa e grata per la testardaggine dell'amica. Quel giorno non soffiava un alito di vento; al Porto di Isse il mare, liscio come seta, si muoveva appena. Sulle valli d'alghe del fondale verde, sciami di meduse pulsavano come lune di gelatina bianco-azzurra, abbandonando i fini tentacoli alle correnti. La Nave d'Acqua che Rohain aveva visto dalla terrazza aspettava all'ancora: la sua partenza era stata rimandata, perché quella non era la calma di un mare tranquillo ma la mortale immobilità di un predatore prima dell'attacco. Rohain costruì una storia a uso dei suoi ospiti, fatta di piccole bugie e mezze verità. Disse loro che i racconti uditi a Corte sulle Torri della Caccia avevano eccitato la sua curiosità, che tra gli annoiati cortigiani di Caermelor andava di moda viaggiare in cerca di novità e avventure eccitanti e che - siccome la luna aveva appena passato la fase piena - quello era il momento più propizio per esplorare (o, almeno, guardare dal bordo della caldera) il famigerato covo della Caccia e procurarsi un delizioso brivido
d'orrore. Era una storia piena di buchi come un pizzo ma era la migliore che lei potesse improvvisare sul momento e, d'altra parte, gli aristocratici della Torre erano ancora così storditi dalla visita di quell'attraente e sofisticata creatura che, se pure qualcuno la trovò assurda, non osò dirlo. Quanto è facile affezionarsi alla menzogna! pensò lei, vergognandosi di se stessa. Non sono affatto migliore di Dianella. Nel lasciarsi aiutare a montare in sella da un garzone di stalla, Rohain dovette scacciare un fremito di paura. Quando fu in arcioni si voltò a guardare gli altri cavalieri: Ustorix, che indossava una leggera armatura, Viviana, il Mago Zimmuth con uno dei suoi aiutanti sfregiati, lo stalliere Dain Pennyrigg col collega Keat Featherstone, Lord Callidus... Tutti costoro avevano insistito per accompagnarla. Foschi presagi le suggerivano di rifiutare quella scorta con qualche scusa: in caso contrario, se il disastro li avesse colpiti il loro sangue sarebbe ricaduto su di lei. «Signori, è la vostra ultima occasione di tornare a casa», si sentì costretta a dire. «Se io decido di sfidare il pericolo al solo scopo di soddisfare la mia curiosità, la responsabilità è solo mia. Avete il diritto di ritirarvi.» L'aiutante del Mago fece per smontare ma un gesto di Ustorix lo fermò. Nessuno parlò. Come quella della nave nel porto, anche la partenza del gruppo era stata ritardata: i viaggiatori si erano mossi presto ma dopo qualche miglio il cavallo del Mago aveva perso un ferro e Zimmuth aveva insistito per tornare indietro a farlo sostituire, così la maggior parte della mattina se n'era andata prima che fossero pronti a rimettersi in cammino. Ustorix alzò la visiera del casco e disse: «Dovremo mantenere una buona andatura, se vogliamo raggiungere il Colle di Rowan per il tramonto». Heligea si aggrappò alla sella del fratello. «Per favore, Ustor, portami con te!» «No.» Il giovane la spinse via con lo stivale. «Andiamo», ordinò, rivolgendosi agli altri. I dodici cavalli - quattro dei quali trasportavano i bagagli - si mossero e Heligea restò a guardarli mentre si allontanavano, coi pugni piantati rabbiosamente sui fianchi. «Ti odio, Ustorix!» gridò, sferrando un calcio negli stinchi dello stalliere più vicino. Il gruppo oltrepassò il cancello principale delle tenute, pesantemente fortificato; svoltò a destra e scomparve alla vista. L'immensa Torre si specchiava nel mare; dietro di essa, nel cimitero dei servi, neppure una bava di vento accarezzava il mazzolino di fiori selvatici che Rohain aveva deposto
davanti alla lapide di legno sotto cui riposava la vecchia Grethet. I cavalli procedevano in fretta sulla strada di terra battuta. Gli alberi, seccati e anneriti dalle bufere invernali, allungavano i rami su di loro, formando un tunnel oscuro. I viaggiatori avevano preso tutte le precauzioni possibili contro gli eldritch wight: campanelli sulle briglie, sale, pane, legno di frassino, foglie del rampicante athair luss, ramoscelli d'iperico secco legati con nastri rossi a fronde di sassofrasso, tilhal e altri talismani come pietre forate e ambra. Ogni indumento era stato indossato al contrario salvo i cappucci a rete di talium, ben stretti intorno alle teste; Lord Ustorix e Callidus, che fiancheggiavano Rohain in sella a robusti cavalli da guerra, indossavano anche armatura e cotta di maglia: così bardati sembravano invulnerabili e, probabilmente, lo erano. Il Mago aveva portato con sé un ingombrante marchingegno simile a un mulino a vento che, a sentir lui, era il più moderno deterrente contro gli eldritch wight... ma dopo un paio di miglia lo aveva buttato via, perché era troppo pesante sia per lui che per il suo assistente. Il loro piano era di accamparsi per la notte su una collina incoronata di sassifrassi, dove i due servi avrebbero montato le tende e Zimmuth avrebbe tessuto una fitta parete d'incantesimi per tenerli al sicuro durante le lunghe ore di tenebra, il periodo più pericoloso. Subito dopo mezzodì, il cielo cominciò a scurirsi con insolita rapidità. Il sole fu coperto da una grigia e pesante coltre di nuvole: la sua posizione poteva essere soltanto ipotizzata ma, a giudicare dall'approfondirsi del crepuscolo, doveva essere ancora lontano dall'orizzonte quando la strada prese a salire con una serie di ripidi tornanti a destra e a sinistra. «Siamo sul pendio di Colle Lungo», annunciò Callidus, sollevando la visiera rivestita di talium. «Dalla dorsale, se la giornata fosse più chiara, potremmo vedere il Colle di Rowan, che si trova ad appena un'ora di viaggio a cavallo. Vi garantisco che arriveremo prima di notte.» Aveva appena finito di parlare che da sud-est giunse una serie di possenti battiti di cuore. Era un ritmo sincopato, profondo eppure secco; il tonfo di lisci martelli di legno su una dura pelle di capra tesa su una cassa di risonanza. La Torre di Isse stava trasmettendo un avvertimento. «I tamburi!» esclamò Ustorix e la sua voce risuonò amplificata dall'elmo. «I tamburi d'allarme!» I cavalieri spronarono i loro animali, ancor più innervositi degli esseri
umani da quelle vibrazioni che li raggiungevano da tante miglia di distanza. Gli alberi si diradarono, lasciando il posto a una vegetazione stentata: emergendo sulla cima spoglia della collina, i viaggiatori poterono spaziare con lo sguardo in ogni direzione. Se il cielo fosse stato limpido, avrebbero potuto vedere l'intero territorio entro un raggio di molte miglia. Come per mutuo accordo, tutti tirarono le redini: non una parola era stata detta ma ognuno percepiva nei compagni lo stesso timore. Cos'avevano visto le vedette di guardia sulla Torre lontana? Un oscuro presentimento li fece voltare verso nord, come se il pericolo non potesse che emanare da quella direzione. Qualcosa di unseelie si stava avvicinando... molto rapidamente. Il pomeriggio si scurì ulteriormente: basse nuvole di tempesta coprirono del tutto il cielo - da un orizzonte all'altro - e una spessa nebbia grigia rotolò lungo il declivio, come vomitata dalle profondità della terra. Persino il mare, così vicino a occidente, ne era nascosto. I cavalieri avevano l'impressione di trovarsi su un'isola in mezzo a un oceano di nebbia, con un cielo pesante che si abbassava sulle loro teste minacciando di schiacciarli. Rivolti a settentrione, aguzzarono lo sguardo nel tentativo di distinguere qualcosa nella foschia sempre più fitta; da quella parte proveniva la certezza di un orrore senza nome, così incombente da mozzare loro il fiato in gola. Si sentivano gambe e braccia così pesanti da riuscire a stento a muovere un muscolo. In quei miasmi spettrali era difficile persino pensare di alzare una mano per guidare i cavalli verso un riparo, poiché una letargia innaturale inchiodava i viaggiatori sulla cima del colle. La loro paura aumentò quando udirono avvicinarsi altri rumori lungo il tetto del cielo: latrati e grida, un tuono profondo, dei folli richiami e i maniacali nitriti di cavalli carnivori, striduli come metallo lacerato. Una nube più densa scaturì dalle altre e puntò dritta verso gli osservatori; dal suo ventre emersero le sagome frenetiche di cani dagli occhi di fuoco e oscuri cavalieri in groppa a destrieri che sputavano fiamme. Davanti a tutti infuriava il loro capo... Una cosa che aveva forma umana e tuttavia non era affatto un uomo. Era un grumo di tenebra con due fosse vuote al posto degli occhi e sulla testa due grandi corna ramificate in modo stupefacente, non indossate a mo' di elmo ma cresciute dal cranio stesso: sarebbero state magnifiche sul capo di un cervo ma apparivano oscene su quella parodia umana. Nel veder arrivare quel turbine di orride creature, Ustorix lanciò un grido e si gettò di lato, giù dalla sella del suo cavallo. In preda al panico, il
destriero di Callidus s'impennò e fece cadere al suolo il suo cavaliere e quello di Zimmuth prese il galoppo giù per la collina, seguito dai quattro cavalli da carico. L'assistente del Mago si affrettò a tenergli dietro mentre la Caccia Selvaggia passava proprio sopra le teste dei restanti quattro viaggiatori per poi allontanarsi in direzione della Torre di Isse, distante venti miglia e invisibile nella nebbia. I due inservienti delle scuderie imprecarono tra i denti e fecero del loro meglio per calmare i cavalli: quello di Rohain stava tremando ed era madido di sudore per lo spavento, sicché la ragazza dovette piegarsi sul suo collo per parlargli all'orecchio. Keat Featherstone si rivolse ai tre compagni in tono concitato: «La Torre di Isse è in grave pericolo. Milady, dovete scusarci... Siamo obbligati a lasciarvi per dare man forte ai difensori della Torre. I nostri lord resteranno qui e penseranno a proteggervi». «Vi do il permesso di andare, Featherstone e Pennyrigg. Che il vento sia con voi!» «E anche con voi, lady. Dovremo cavalcare a spron battuto... Ci segua chi può!» Senza aggiungere altro, i due stallieri si allontanarono al galoppo giù per il versante dell'altura mentre, con un clangore metallico, i lord in armatura rincorrevano i rispettivi destrieri, fischiando e chiamandoli a gran voce; ben presto scomparvero tra le rocce sul lato settentrionale, lasciando sole le due ragazze. «Ebbene, Viviana», disse Rohain, che era rimasta stordita da quelle apparizioni infernali e stentava ancora a riprendersi. «Ebbene, Viviana, sembra che i nostri protettori siano occupati altrove.» Vedersi così abbandonata l'allarmava, tuttavia cercò di riordinare i pensieri. «Nel frattempo, forse dovremmo aiutare i nostri anfitrioni... Direi di seguire quelli che sono andati a unirsi ai difensori della Torre.» Viviana parve ripiegarsi su se stessa. «Quelle cose...» disse, con un fil di voce. «Quelle cose che vanno a caccia nel cielo...» «Siamo prese tra l'incudine e il martello, come si usa dire», la interruppe Rohain. «La Torre sarà sicuramente sotto assedio, però è ben difesa e fortificata. Preferiresti che ci accampassimo su questa collina, in attesa che la Caccia Selvaggia ripassi sulle nostre teste quando tornerà indietro? O vorresti che continuassimo verso quella caldera infestata... noi, due donne sole e inermi?» «Santo cielo», sbottò Viviana. «Che brutta situazione! Quell'Ustorix è
un fanfarone codardo, non c'è dubbio. Prima si getta giù dal cavallo per il terrore e poi scappa via, lasciandoci qui indifese. Ecco il coraggio e la cavalleria di cui si vanta!» «Vuoi tornare con me alla dimora dei Cavalieri della Tempesta?» «Per quanto detesti doverlo ammettere, milady, non abbiamo altra scelta.» Si voltarono a gettare un ultimo sguardo verso l'orizzonte dietro il quale si ergevano le Torri della Caccia, invisibili e inavvicinate; poi fecero voltare i cavalli in direzione della fortezza del Settimo Casato e li spronarono al galoppo. Alla base della collina, la strada tornava a tuffarsi sotto il suo soffitto di alberi e, tra la vegetazione e l'umido muro di nebbia, Rohain e Viviana non ebbero più modo di scorgere la Torre verso cui cavalcavano. Il sonoro pulsare dei tamburi d'allarme continuò per qualche minuto ancora, poi d'un tratto cessò, lasciando nelle loro orecchie soltanto il rapido scalpiccio di zoccoli ferrati sul terreno molle e argilloso, coperto di foglie marce. Ai limiti della boscaglia, la malsana foschia si diradò fino a svanire; nell'alta atmosfera, un vento energico stava spazzando la nuvolaglia verso ovest. Quando le due viaggiatrici diressero le loro stanche cavalcature lungo l'ultimo tratto di strada, soltanto gli ultimi raggi del sole stagnavano ancora sull'orizzonte. Le tenute della Torre di Isse erano vicine e una pallida luna, traslucida come una medusa, stava sorgendo nell'insondabile buio del cielo. I sassifrassi si erano fatti più fitti ai margini della strada e sulla sinistra si alzava già il muro di pietra delle tenute, sormontato da punte metalliche e schegge di selce. Attraverso il nero intreccio dei rami, la Torre giganteggiava nella luce soffusa: era larga alla base di roccia compatta e più sottile verso l'alto, nelle partì in muratura. Era così alta che la sua sommità, irta di torrette merlate, restava nascosta tra le ultime nubi in lento spostamento verso il mare. Intorno ai livelli superiori c'era molta attività: dozzine di eotauri, scuri contro lo sfondo delle nubi, discendevano lungo percorsi a spirale, planando verso il suolo; i mantelli dei loro cavalieri svolazzavano come bolle spezzate. Dai terreni oltre il muro di cinta delle tenute si alzavano grida e richiami e si udiva il rumore di zoccoli sulla ghiaia mentre ad altezze maggiori echeggiavano strida, profondi ruggiti, grida disumane e clangori di metallo e pietra. Una figura urlante precipitò da una balconata, agitando le braccia e le gambe.
Poco prima dell'ultima curva - dietro la quale c'era il cancello - le due ragazze oltrepassarono un ponte di pietra che attraversava un torrente e proseguirono sotto le fronde di un lungo filare di salici. «Fermatevi, vi prego!» Tirarono le redini e Rohain guardò interrogativamente la compagna. «Milady, la Torre è sopraffatta dagli eldritch wight. Non c'è niente che possiamo fare salvo tornare indietro... Dobbiamo fuggire per salvarci la vita!» Altre due vittime precipitarono, urlando, da una grande altezza. «Il nostro dovere c'impedisce di fuggire! Dobbiamo restare e aiutarli a combattere.» «Ma non possiamo fare niente! Non siamo guerriere... Restare qui significherebbe morte certa!» Rohain esitò. «Non hai torto», ammise, riluttante. «Però...» Mentre la giovane donna fermava il cavallo, qualcosa che sembrava un amo da pesca le passò sul petto. L'artiglio s'impigliò nella sottile catena d'oro del tilhal, tirandogliela contro la gola e comprimendole la trachea sino a mozzarle il fiato; per sua fortuna, la catenella si spezzò e il galletto dagli occhi di rubini rosa volò tra l'erba, a lato della via. Un braccio magro la colpì in faccia come una frusta di cuoio, accecandola. Uno stormo di hobyah era volato giù dai rami dei cipressi che sovrastavano la strada in un turbine di grotteschi arti scagliosi, sottili e duri come il legno. Piombarono sulla testa delle due ragazze e artigliarono i loro cappucci a rete di talium, gettandoli all'indietro; altri, aggrappati ai rami coi piedi, allungarono le zampe anteriori ad afferrarle per i capelli mentre i cavalli, terrorizzati, s'impennavano. Entrambe le viaggiatrici furono rovesciate al suolo e gli hobyah si precipitarono contro le loro vittime. Alti non più di due piedi, avevano brillanti occhi obliqui stretti come fessure, larghi nasi rivolti all'insù, orecchie appuntite ai lati di un piccolo cranio conico e bocche perennemente contorte in un sogghigno crudele. Evitando il contatto con gli indumenti indossati al contrario e le campanelle delle redini, si appesero alle selle e ai finimenti dei cavalli e alcuni di loro balzarono addirittura in groppa ai quadrupedi, cavalcando via. Gli altri, invece, affondarono le mani artigliate nei capelli delle ragazze e le trascinarono senza troppo sforzo fuori dalla strada. Le contorsioni e le grida delle poverine furono inutili, poiché non potevano sfuggire a quell'orda famelica. Pochi momenti dopo, però, le grida vittoriose degli hobyah si mutarono in strida di dolore: lampi rossi e dorati fiammeggiarono tra di essi e, al-
l'improvviso, numerosi cavalieri armati di spada li aggredirono. Scoppiò una mischia e le lame di ferro freddo e la forza con cui venivano vibrate schiantarono la resistenza degli eldritch wight, sparpagliandoli e facendoli fuggire. Rohain e Viviana si rimisero in piedi, vacillando e sostenendosi a vicenda: avevano il cuoio capelluto graffiato e sanguinante ed erano impolverate, scarmigliate e con gli indumenti a brandelli. «Andiamo a rifugiarci nelle tenute!» ansimò Rohain. Mentre s'incamminavano verso il cancello, però, gli sconosciuti cavalieri sbucati dalle siepi laterali bloccarono loro la strada. Sgomente, le due ragazze si voltarono per fuggire e si accorsero d'avere alle proprie spalle un altro gruppo di stranieri. «È un trucco degli unseelie!» gemette Viviana. «Questi uomini indossano la divisa reale... Non può essere!» In effetti, i cavalieri portavano giubbe scarlatte adorne di cordoni dorati e gli ultimi raggi del sole, che tagliavano come lame i resti sfilacciati delle nuvole, strappavano riflessi abbaglianti alle loro visiere metalliche e agli elmi piumati. Sembravano proprio una visione... esseri magici, giunti dal Reame Fatato. Cinque di loro avanzarono al trotto e le ragazze si scambiarono sguardi spaventati. «Siamo armate!» gridò Rohain, disperata. «Se vi avvicinate, lo fate a vostro rischio!» Con calma, i cavalieri tirarono le redini a poca distanza da loro. «V'ingannate sul nostro conto», disse il loro capo - un tenente - in tono grave. «Noi siamo le Legioni Reali.» Gli eldritch wight erano incapaci di mentire. «Per i semplici mortali è pericoloso rimanere all'aperto», le informò l'uomo. «I livelli più bassi della Torre sono protetti dagli assalti nemici... Venite, vi porteremo in salvo.» Il tenente fece un cenno a due dei suoi uomini, i quali smontarono e aiutarono Rohain e Viviana a salire in sella dietro gli altri due. Un fumo nero scaturiva da una delle porte meridionali della Torre, proprio sotto il tetto di nuvole: visibili a stento tra le sue volute, gli esseri della Caccia Selvaggia si allontanavano dai bastioni merlati. Sembravano essere di meno. I cani e i cavalli unseelie girarono intorno alla Torre e puntarono a nord - verso la luna che si stava alzando - inseguiti da una compagnia di cavalieri in groppa agli eotauri. Questi ultimi, benché non meno numerosi delle creature maligne, non poterono tener dietro ai più veloci eldritch wight in fuga e
pian piano furono distanziati. «La giornata è nostra! Huon si ritira!» esclamò il tenente. I suoi uomini applaudirono e parecchi mandarono grida di trionfo e agitarono i pugni in aria. In formazione perfetta, il plotone serrò i ranghi intorno ai soldati che avevano preso in sella le due ragazze e si diresse ordinatamente al cancello. Uomini armati in giubba rossa pattugliavano le tenute che erano state invase dalle ombre. Le guardie alla porta della Torre salutarono il tenente e gli diedero il permesso di entrare con le due ragazze, che lui affidò alle cure di alcuni inservienti di Isse prima di tornare al proprio lavoro di vigilanza nei terreni oltre il confine delle proprietà del Casato. All'interno della Torre regnava una gran confusione e Rohain e Viviana furono condotte nella cucina dei livelli inferiori, dove trovarono una folla mista di domestici e aristocratici da cui si levava un tremendo chiasso di discorsi concitati, richiami, grida e pianti. «Oh, che malvagità! Oh, che sventura!» «Il cielo deve averci abbandonato, per aver portato quei diavoli sulla nostra dimora.» «Dammi il tuo fazzoletto... Sto perdendo sangue!» «Il cielo è con noi, ti dico, per aver fatto arrivare i nostri soccorritori proprio nel momento del bisogno!» «Non riesco a credere che lui sia davvero tra noi!» «È stato più orribile di quanto dicevano le antiche storie!» «Sia maledetto il giorno che ha visto questo maleficio abbattersi su Isse! Ma benedetti siano i nostri...» C'era gente che, per la prima volta in vita sua, gridava agitando le braccia in modo forsennato e altri che, in preda alla sofferenza, giacevano sui tavoli mentre le loro ferite venivano medicate. Molti cebi cappuccini, lasciati a se stessi, saltellavano qua e là. Rohain girò lo sguardo su quella scena, sgomenta e addolorata. Sin dal loro ingresso, numerose persone le avevano circondate, facendo domande e offrendo aiuto; Dolvatch Trenchwhistle aprì loro la strada a forza di gomiti. «Lasciate passare le belle signore di Caermelor! Non vedete che sono ferite, razza di cafoni? Toglietevi di mezzo!» Fece sedere le graziose ospiti presso il caminetto e offrì loro bicchierini di brandy. Heligea arrivò a sua volta scostando la gente a spallate e si fermò davanti a loro. «Mio fratello e Callidus erano con voi?»
«No», rispose Rohain, sorseggiando il brandy per rimettersi in forze. «Non so come se la siano cavata.» «Brutte notizie, dunque?» «Io non mi preoccuperei per la loro sorte, chiusi com'erano in tutto quel ferro.» «Voglia il cielo che siano salvi! Voi, però, siete ferita, amica mia... avete del sangue tra i capelli. Serva, porta dell'olio!» Una ragazzina si affrettò ad allontanarsi. «Cos'è successo?» domandò Rohain. «La Torre è stata attaccata al tramonto», rispose Heligea. «Esseri feroci e terribili, molto potenti. Sono atterrati ai livelli superiori per poi calare lungo le scale come una valanga, come topi lungo una grondaia. Non abbiamo avuto il tempo di fuggire... Io credo che stessero dando la caccia a qualcuno o a qualcosa e che, quando si sono accorti che ciò che cercavano non si trovava qui, si siano rivoltati contro di noi come cinghiali inferociti. Hanno aggredito la nostra gente e cominciato a tormentarla... poi, però, è arrivato lui.» «Lui, chi?» «Be', il Re-Imperatore, naturalmente!» «Sua Maestà Imperiale è qui? Stento a crederci!» esclamò Viviana. Gli occhi di Heligea lampeggiarono d'orgoglio, di trionfo o di voglia di battersi. «È venuto in nostro soccorso da sud portando con sé il Duca di Roxburgh e altri membri dell'Attriod Reale, più alcuni reggimenti delle Legioni e non so quanti thriesniun di Dainnan, tutti montati su Cavalli Celesti. Avevano saputo che il Flagello stava per abbattersi su di noi e sono venuti a salvarci. Ah!» Si portò le mani al petto, con aria sognante. «Il Re-Imperatore in persona, qui a Isse! Non avrei mai pensato di vedere questo giorno... E poi, Dainnan e uomini armati che sciamano in tutta la Torre! Sarò onesta: dapprima mi sembrava impossibile che persino combattenti così eroici sarebbero riusciti a respingere la Caccia Selvaggia... ma alla fine, abbiamo vinto!» «Abbiamo vinto? Dunque gli unseelie sono stati scacciati e la Torre è salva?» si stupì Rohain. Heligea agitò le mani, con fare sbrigativo. «Certo che sì... quasi salva, almeno. Un certo numero di quegli eldritch wight che cavalcavano col Cacciatore si trovano ancora nei livelli superiori e dovranno essere spazzati via... Noi, però, resteremo chiusi quaggiù finché tutti gli unseelie saranno stati eliminati e la Torre esplorata a fondo. Per adesso non ho ancora
visto Sua Maestà ma, dato che per il momento sono la Signora del Casato, mi aspetto che i suoi gentiluomini vengano a convocarmi presto... Confesso di essere un po' nervosa ma, se devo dire la verità, non vedo l'ora di presentarmi a lui!» Si piegò in avanti, abbassando la voce in tono confidenziale. «Voi l'avete visto a Corte ma io non posso dire altrettanto... È davvero bello come dicono? Le immagini impresse sulle monete del reame gli rendono giustizia?» Rohain era riluttante ad ammettere che, sebbene fosse stata nella stessa sala del Re-Imperatore, non l'aveva guardato e dunque non poteva sapere se i profili stampigliati sulle monete e i ritratti appesi in tutto il palazzo fossero rappresentazioni fedeli. Per giunta, a lei era capitato di maneggiare soltanto monete di vecchio conio, sulle quali erano raffigurati gli antenati D'Armancourt dell'attuale sovrano... e dei quadri incorniciati ricordava soprattutto l'abbondanza di velluti e broccati: non aveva mai fatto molto caso all'aspetto dell'illustre modello, che peraltro supponeva essere alquanto invecchiato dal tempo in cui erano stati eseguiti quei ritratti. «Viviana... Tu che sei più fisionomista di me, descrivi a Lady Heligea l'aspetto del nostro signore!» «Be', milady, nessun artista è mai stato capace di dipingerlo con precisione», disse Viviana. «I ritratti lo rappresentano solo in modo superficiale. Spero con tutta l'anima di rivederlo coi miei occhi, anche se solo a distanza... perché, sulla mia parola, è un gentiluomo che farebbe sospirare ogni fanciulla o donna, uno al quale ogni lady getterebbe ai piedi il proprio cuore. Tutte le dame di corte ne sono innamorate, non c'è dubbio... proprio tutte! Anzi, scommetterei che ogni donna di Erith che l'abbia visto anche una sola volta condivide la stessa passione.» Le brillavano gli occhi. «È così attraente, così regale... Solo a pensare a lui mi sento percorrere da uno strano brivido, come se passasse un vento shang.» D'un tratto arrossì, imbarazzata. «Santo cielo... Spero che non mi giudicherete impertinente per aver parlato così di Sua Maestà Imperiale!» «Tu sei impertinente», la interruppe Heligea. «E dovresti essere bastonata per esserti presa tanta familiarità, serva insolente! Ah, ecco che arriva la ragazza con l'olio.» La servetta di poco prima era di ritorno, recando una giara di pietra. Era giovane, ancora una fanciulletta; sottile e pallida ma d'aspetto vigoroso, con grandi occhi dalle lunghe ciglia e una boccuccia a forma di cuore. Rohain aveva subito riconosciuto quel volto triangolare, incorniciato da una nuvola di riccioli bruni: era Cartai Lendoon, la figlia della Custode delle
Chiavi... una delle pochissime persone che erano state gentili con la creatura sfigurata dai capelli biondi. Prima che Rohain potesse rivolgere una parola di saluto all'amica di un tempo, l'odore dell'olio l'aggredì, chiudendosi su di lei come una prigione oscura. Si sentì la gola in fiamme e vacillò, stordita. «Cosa c'è in quella giara?» ansimò, coprendosi il naso con l'orlo della veste. «Qualunque cosa sia, ti prego di tenerla lontana da me... Mi chiedo com'è che questo puzzo non vi uccida!» «È soltanto olio di siedo. Ha un odore pungente, sì... ma tollerabile», rispose Heligea, perplessa. «Non potrei mai spargermelo sulla pelle!» «Eppure farebbe rimarginare le vostre ferite, milady», disse la fanciulla, indietreggiando. «Può darsi, tuttavia non riesco a sopportarne il puzzo. Preferisco tenermi il dolore delle mie ferite e bere un altro sorso di brandy... però puoi medicare Viviana, se lei è d'accordo; vuol dire che le resterò lontana per un po'. Heligea, ho bisogno di parlare col Re-Imperatore il prima possibile.» «Mi è stato detto che soltanto i gentiluomini di Sua Maestà Imperiale possono avvicinarlo, per ora.» «Ma appena la Torre sarà di nuovo sicura...» «Naturalmente. Venite, milady... Lasciate che queste serve vi facciano un bagno in acqua di lavanda, se proprio non volete l'olio. E bevete un altro sorso di brandy!» Quella notte, nessuno avrebbe dormito. I gemiti dei feriti riempivano i corridoi inferiori e i fortunati che se l'erano cavata senza riportare danni non parlavano d'altro che del disastroso attacco e della presenza del. ReImperatore, entrambi senza precedenti. Ogni tanto, rumori di combattimenti in corso echeggiavano lungo i pozzi delle scale e degli elevatori, a testimoniare che maligni unseelie acquattati da qualche parte venivano scovati e cacciati fuori dalla Torre; questi episodi diventarono sempre meno frequenti e, finalmente, cessarono del tutto. Rohain sedeva nel vano di una finestra in una quieta stanzetta degli alloggi delle serve ed era sola. Ai residenti della Torre era stato proibito di aprire le imposte finché ci fosse stato ancora pericolo ma dalle fessure trapelava il vento freddo della notte e lei lo respirava con sollievo. Entrò Viviana. «Milady...» «Non venirmi vicina, Via. Non posso sopportare l'odore dell'olio che hai
nei capelli.» «È forte, ve lo concedo. Ma è davvero così insostenibile? Alcuni lo trovano persino gradevole.» «Ho dei brutti ricordi legati a quella sostanza», disse Rohain, accigliandosi a quel pensiero. Nel vedere il suo turbamento, Viviana annui e tacque, poi si ritirò con un inchino. Rohain ripensò al passato. Qui alla Torre usano l'olio estratto dai baccelli di siedo per curare molte cose... dai tagli al mal di pancia, dalle escoriazioni alle verruche. Grethet lo spalmava sui tagli che avevo sulla schiena ma io lo detestavo già da prima. Lottavo per impedirle di usarlo ma ero troppo debole... però, appena ne avevo la possibilità cercavo di toglierlo rotolandomi sulla dura tela da sacco e così finivo per far riaprire le ferite. Ma il puzzo... mi restava appiccicato per mesi! Innervosita, si alzò e andò alla finestra accanto; dalla sottile fessura tra le imposte si scorgeva una striscia di firmamento, gremito di stelle come un filo di perle. Il brandy l'aveva riscaldata e aveva alleviato il dolore al cuoio capelluto ma a farla soffrire maggiormente era il bisogno di perorare la causa di Sianadh davanti al Re-Imperatore... e poi, bruciava dal desiderio di vedere quali Dainnan lo avessero accompagnato alla Torre. Molte porte chiuse, però, la separavano da tutto ciò. Verso mezzanotte, la campana che tutti aspettavano annunciò la fine della lunga attesa: la Torre era stata completamente liberata dagli eldritch wight. Ricominciò il caos: mentre i Cavalieri della Tempesta e le loro famiglie tornavano ai piani superiori, a tutti i servi fisicamente sani fu ordinato di preparare cibo e posti letto per il Re-Imperatore, i suoi aiutanti e gli uomini della truppa. Heligea sparì a precipizio nella rumorosa gabbia di un elevatore. Rohain evitò Viviana per stare alla larga dal puzzo di siedo, uscì e prese un altro elevatore per il Livello Trentasette. Lord e lady si muovevano dappertutto, gridando ordini cui servi ansimanti e indaffarati si affrettavano a obbedire. «Dov'è il Re-Imperatore?» domandò Rohain. «Sua Maestà si trova all'ultimo piano, milady. È in riunione oppure sta mangiando... Desiderate qualcosa? Sarà preparato un pasto fuori orario in sala da pranzo», le fu risposto. «Grazie... no.»
Un Dainnan di passaggio parve colpito dal volto di lei e si fermò. Colta di sorpresa dalla vista della sua uniforme, Rohain ebbe un sussulto e l'uomo controllò la propria espressione e s'inchinò. «Posso esservi d'aiuto, lady? Sono Sir Flint.» I capelli bronzei, lasciati sciolti, gli ricadevano dietro le spalle sino alla cintura. «Gli appartamenti del Re-Imperatore all'ultimo piano... Voi sapete come ci si arriva?» «Sua Maestà è di sopra, a colloquio con l'Attriod Reale. Nel frattempo, i Cavalieri della Tempesta si stanno riunendo in sala da pranzo per rifocillarsi. Posso condurvi là? Consentitemi di chiamare le vostre cameriere.» All'improvviso, vedendosi come doveva vederla il suo interlocutore, Rohain capì di non potersi inginocchiare ai piedi del Re-Imperatore vestita con un abito stracciato e rivoltato al contrario e coi capelli scarmigliati: per chiedere la grazia per un carcerato avrebbe dovuto presentarsi in ordine e pettinata, così come esigeva l'etichetta. Le sfuggì un sospiro. «Siete stato molto gentile, Sir Flint. Sarà meglio che io mi ritiri.» «Il vostro nome, milady?» Lei si stava già allontanando per non perdere altro tempo e l'uomo s'inchinò ancora, seguendola con lo sguardo. Appena fu fuori vista, Rohain corse via e tornò subito nel suo alloggio. Ciò che vide la fece restare a bocca aperta: le sue stanze erano state messe selvaggiamente a soqquadro. I mobili giacevano al suolo, rovesciati e spaccati; le cassepanche erano state aperte e ribaltate - o addirittura sollevate e scaraventate attraverso la stanza - da qualcuno di molto più forte di un uomo, fracassandosi contro i muri e spargendo ovunque il loro contenuto. Gli abiti erano stati fatti a brandelli, gli specchi erano ridotti in schegge sul pavimento e le loro cornici, calpestate e sfondate. Del letto non restava che un mucchio di stracci e imbottiture strappate dai materassi, con l'aggiunta di foghe morte sparse ovunque e un paio di grossi lombrichi rosei che si contorcevano al suolo. I gioielli di Rohain erano irriconoscibili: completamente deformati, come se un fuoco li avesse fusi. Ogni oggetto di sua proprietà era stato distrutto o sporcato e un odore di decomposizione e di marciume stagnava dappertutto. In silenzio, si lasciò alle spalle quella scena desolante. Non c'era più traccia della porta - salvo i cardini contorti, ancora appesi agli infissi - altrimenti l'avrebbe chiusa dietro di sé.
L'ora era ormai molto tarda e la giovane donna, stordita, si allontanò senza una meta. I cortigiani dovevano essere tutti a cena, perché il corridoio illuminato dalle torce era vuoto: sul pavimento scivolavano solo foglie secche, spinte dal vento gelido che entrava dalla porta spalancata della terrazza i cui grondoni mostruosi sorvegliavano con occhi di pietra il Porto di Isse. Era da quella terrazza che, la notte della tempesta magica, lei aveva visto il galeone fantasma naufragare più volte. Qualcuno si era dimenticato di chiuderne la porta: all'esterno, le stelle erano così fitte che il loro bagliore latteo l'attrasse. Le parve di risentire le parole del Bardo Reale: Andate fuori città in una notte chiara e guardate il cielo... Solo così avrete un'idea di Faêrie. Incurante del vento e del freddo, la ragazza uscì. La grigia distesa del mare era un panorama immenso. La luna e la Grande Stella del Sud erano già scomparse nel loro ineluttabile periplo celeste e restava solo il fantastico splendore degli altri reami astrali a trascinare il suo cuore e la sua mente su, nella notte cosmica. Sulla terrazza c'era già qualcun altro: un Dainnan, appoggiato coi gomiti sulla balaustra. Ciocche di capelli neri, lunghi fino alla cintura, gli riposavano sulle spalle e sulla schiena o svolazzavano verso l'alto nella corrente ascensionale che a quell'ora risaliva dai terreni caldi alla base della Torre. L'uomo si raddrizzò e si volse, abbassando lo sguardo su di lei. All'istante, tutti i pensieri di Rohain furono spazzati via da un'emozione intensa e parole e gesti divennero impossibili dinanzi a quegli occhi penetranti. Ogni suo desiderio, ogni sua speranza, all'improvviso esplose davanti a lei, più reale che mai: quel volto tanto a lungo sognato esisteva ancora nella sua mente in una forma così intangibile che, per un poco, non le riuscì di crederlo solido e vero. Come da una grande distanza, la sua voce forte e ben modulata disse: «E così alla fine sei venuta a Corte, Capelli d'Oro». Occorreva una risposta, ma il cervello intorpidito di Rohain non riuscì a prepararne nessuna, dunque lei si limitò a mormorare meccanicamente: «Sì». I suoi occhi rimasero spalancati e inchiodati su di lui, come per berne l'immagine stessa. Con uno sforzo, si ribellò a quella paralisi. «Sei davvero tu...?» balbettò. «Sono io.» Doveva dirgli qualcos'altro... Qualcosa che lo trattenesse, perché più a lungo restava li e più diventava concreto. «Sono felice di rivederti.» Quella frase sembrava molto scialba rispetto alla forza dei sentimenti che rappre-
sentava, come se lei avesse oceani di parole da offrirgli e invece, per mancanza di esperienza, riuscisse a dargli solo un cucchiaio d'acqua. «Anch'io sono felice di vedere te.» Come Pod, anche lui l'aveva riconosciuta all'istante malgrado la radicale trasformazione... tuttavia non fece nessun commento sul suo nuovo viso, sui capelli o sulla voce. «Come sono luminose le stelle, questa notte!» esclamò lui, voltandosi di nuovo a guardare il cielo. In sua presenza, Rohain era del tutto cieca alla gloria del firmamento: sentiva soltanto, alla propria sinistra, il calore della sua vicinanza come un braciere che la confortasse su quel lato del corpo, tanto che il lato opposto le sembrava gelido. Mentre se ne stavano lì ad ammirare la notte, la corrente ascensionale raccolse anche i capelli della giovane donna e li sollevò con maliziose dita invisibili, mescolandoli a quelli di lui. Trascorse un'ora... o forse avrebbe potuto essere mezz'ora o un minuto soltanto. Non durò un'eternità, anche se Rohain l'avrebbe desiderato. Benché restassero in silenzio, a lei parve che milioni di parole emanassero da entrambi, fluttuando intorno a loro come rune di fuoco per poi svanire pian piano. Essere lì con Thorn in un momento come quello era indescrivibile... Era come cadere tra le stelle, saltare nel cielo da una nuvola all'altra, danzare tra le montagne nevose in un vortice di gioielli o lasciarsi spazzar via dagli arcobaleni di un vento shang. «Ti ho cercata a lungo», disse infine Thorn, sottovoce. «Verrai a Corte con me?» «Verrò.» Terrore e delizia brillarono negli occhi di lei, dolci e selvaggi. «Voglio che tu appartenga a me e a nessun altro.» Così, semplicemente, senza preamboli. Lei era troppo stordita per fare domande. «È già così. Sarò tua, per tutta la vita.» Sta dicendo sul serio? Non sono impazzita? «Lo giuri?» «Sulla Stella, sulla mia vita e su tutto ciò che puoi nominare, io lo giuro.» Lui le porse la mano destra e Rohain sentì una scossa che la percorse dal braccio fino ai piedi. «Ora siamo fidanzati», disse Thorn, come se non avesse notato l'effetto del suo tocco... e, in realtà, Rohain avrebbe giurato che lui non avesse percepito nulla di simile.
Uno scalpiccio di stivali si avvicinò lungo il corridoio e un gruppo di legionari reali uscì sulla terrazza. Nel vedere i due accanto alla balaustra, i soldati posarono un ginocchio a terra e chinarono il capo. «Che c'è?» domandò Thorn. «Vostra Maestà Imperiale, abbiamo scoperto che la persona che cercavamo, Lady Rohain, si trova qui nella Torre», disse quello coi gradi da colonnello. «Il vostro rapporto giunge un po' tardi», rise Thorn. «Come vedete, l'ho trovata da solo.» Ho sentito bene? I postumi delle emozioni e delle fatiche del giorno prima, che Rohain aveva tenuto sotto controllo sino a quel momento, d'un tratto ribollirono mescolandosi all'eccitazione, allo sconcerto e alla confusione: se avesse permesso a quello sconvolgimento di sopraffarla, sarebbe svenuta come una cortigiana col busto troppo stretto e questo l'avrebbe separata da lui... Nel rinvenire, si sarebbe trovata da sola nel suo letto, a conferma che tutto era stato soltanto un sogno crudele. Si coprì la faccia con le mani e le lacrime sgorgarono tra le sue dita tremanti. Due braccia robuste la raccolsero e la portarono a sedere da qualche parte. La voce di Thorn, profonda e musicale, disse qualcosa; lei non riuscì a capire bene le parole ma, poco dopo, qualcuno le mise in mano un boccale e l'aiutò a bere e l'effetto di una bevanda soporifera si fece strada nel suo corpo. Le pareti presero a girare in circolo, lei si sentì cadere e tutto si chiuse sopra la sua testa. Lui se n'era andato, dopotutto. La musica sgorgava lenta nel silenzio, così dolce da spezzare il cuore: erano note che descrivevano l'esistenza oltre la portata dei mortali e oltre la conoscenza; porte che si aprivano su qualcosa di nostalgico e irraggiungibile finché lei, non sapendo chi era, si svegliava con un grido, incapace di percorrere quella strada. Il ricordo del sogno tormentava ancora la sua mente nel dormiveglia, quando si accorse che una chiara voce di fanciulla stava cantando: Nove strofe per te io canterò stasera. Ascolta come geme il vento alla brughiera! Quale di queste Nove la vita vorrà darti?
Nove di Gramarye son le misteriose Arti. Otto le dolci note di chi a suonar s'appresta. Sette le vite dei Cavalieri della Tempesta. Sei gli atleti che la lancia gettano lontano. Cinque gli anelli che voglio sulla mano. Quattro le stagioni del mondo in cui sei nato. Tre sono le scelte che sempre t'offre il fato. Due son gli amanti che l'amore ha unito. Uno è soltanto uno e mai sarà tradito. Era una voce ben nota: una voce da uccellino che cantava piano, in sordina, una vecchia canzone. Apparteneva a Caitri, la figlia della Custode delle Chiavi, una sognatrice cui piaceva comporre ritornelli che poi canticchiava. La ragazzina poteva sembrare inconsapevole del mondo che esisteva oltre il suo ristretto orizzonte ma in realtà era l'opposto... Sedeva lì accanto e, nel cantare, intrecciava con dita agili una cordicella nel gioco della culla. Vestiva gli anonimi panni color seppia dei servi e odorava di fiori d'arancio. «Ho sognato ancora?» Con una smorfia, Rohain si sollevò su un gomito e si accorse di esser stata deposta su un lussuoso divano in un'ampia camera ammobiliata con eleganza. Nel grande caminetto, il fuoco scoppiettava tra effimere cascate di scintille; le finestre erano oscurate da lunghi tendaggi di velluto ricamato coi fulmini e coi blasoni dei Cavalieri della Tempesta e dalla curvatura di una parete s'intuiva che la stanza dava sull'esterno della Torre. Caitri sorrise, continuando a mormorare la sua canzone. «Qual è il sogno e quale la realtà?» filosofeggiò, in un modo un po' troppo retorico e pedante per una ragazza così giovane; il suo volto fanciullesco non dimostrava più di tredici inverni. «Dove mi trovo?» «Vostra Signoria è al Livello Quattordici... il più ambito della Torre, nonostante le stanze un po' piccole delle torrette. Questo alloggio sarà d'ora in poi conosciuto come 'Appartamento RealÈ e, in futuro, tutti gli ospiti vorranno dormire qui! Io sono stata chiamata ad assistere la Vostra Signoria e sono ben lieta di allontanarmi per un poco dall'ombra della sventura caduta sul Settimo Casato.» «Tua madre sta bene?» chiese improvvisamente Rohain. «Oh, sì, milady», rispose la fanciulla, accigliandosi per lo stupore. «Mia
madre ha potuto evitare il disastro...» Mise da parte la corda con cui stava giocando. «Mi fa piacere. Ora, però, devo sbrigarmi a rendermi presentabile.» «Potete rifocillarvi qui, milady, se vi fa piacere: abbiamo cibo e bevande. La mia signora Heligea vi ha offerto parte del suo guardaroba, dato che quello di Vostra Signoria è stato distrutto dal Cornuto e dai suoi wight unseelie. Le sarte si sono affrettate ad allungare tutti gli orli mentre voi dormivate... Credo che i colori del Settimo Casato vi staranno bene. Vostra Signoria sarà ricevuta da Sua Maestà questa mattina stessa.» «La notte è già passata ed è venuto il mattino? Dov'è il Re-Imperatore?» «Non lo so, milady. Non ho ancora visto Sua Maestà, però da quando mi hanno chiamata qui mi trovo in uno stato di continua eccitazione al pensiero che forse potrò vederlo.» «E Viviana?» «In verità era lei quella che avrebbe dovuto accudire Vostra Signoria. Mi ha chiesto di prendere il suo posto, solo finché non si sarà liberata del puzzo insistente del siedo.» «Mi fa piacere che abbiano mandato te, Caitri.» «Mi conoscete?» «Sì. So che hai molti meriti.» «Vi ringrazio, milady.» «So anche che sei gentile con gli sfortunati e i reietti.» «Suppongo che vi riferiate a Pod. È vero, lo tratto con gentilezza.» «Ah, Pod... che strano ragazzo!» «Vostra Signoria lo ha conosciuto? Alcuni dicono che abbia la Vista, sapete.» «Davvero? Questo spiegherebbe molte cose.» «C'è anche chi dice che possieda addirittura il dono della Profezia. Però è un caso triste, perché una parte della sua testa non funziona... Ha dei doni meravigliosi ma non riesce a usarli in modo utile e talvolta le sue profezie sono incomprensibili persino a lui stesso. Ora cenate, vi prego, altrimenti verrò rimproverata per non essermi presa cura di voi. Posso assicurarvi che il nostro cuoco non ha partecipato alla preparazione del cibo... perché, sia detto tra noi, Rennet Thigbone è un vero sciattone!» «Cos'è la Vista, di preciso?» domandò Rohain, prendendo una tazza di latte al miele. Le chiacchiere della fanciulla la distraevano dall'unico pensiero che continuava a rimbalzarle nella testa e minacciava di precipitarla nella follia: una distrazione era proprio quel che ci voleva.
«Be', suppongo che sia il dono di vedere la vera realtà. È un talento raro... solo pochissimi nascono così, benché la Vista ignori tutte le distinzioni di classe sociale. Noi, non avendolo, dobbiamo cercare il quadrifoglio perché, in qualche modo, le sue foglie conferiscono un dono simile, anche se limitato sia nella potenza che nel tempo.» Dopo una breve pausa, Caitri continuò: «Io, però, non credo che Pod abbia la Vista. Sospetto che possieda solo uno straordinario senso dell'odorato, come gli animali e qualche eldritch wight». Rohain sorseggiò il latte, ma non riuscì a berne molto: un nodo le stringeva ancora lo stomaco e il cuore le batteva forte. Ciò che aveva visto sulla terrazza... era vero? Poteva credere ai suoi occhi e alle sue orecchie o le disavventure della sera prima l'avevano sconvolta al punto di procurarle strane allucinazioni? E cosa ne era stato dei suoi compagni di viaggio? «Dimmi», chiese a Caitri, «Featherstone, Pennyrigg, Ustorix e gli altri che erano partiti con me ieri mattina... sono ritornati?» «Il servo di Mastro Zimmuth non ha fatto ritorno e Lord Callidus è stato gravemente ferito; gli altri sono rientrati sani e salvi, il che è più di quanto si possa dire di molta gente di ogni rango che è rimasta uccisa o ferita dentro le mura della Torre. La disgrazia si è abbattuta su di noi e, se non fosse giunto in nostro soccorso il Re-Imperatore, saremmo periti tutti... Non dimenticheremo mai questo disastro.» Potenze del cielo, fate che il mio incontro con Thorn non sia stato un sogno! Se lo domandassi a Caitri e la sua risposta mi dimostrasse che è stata un'invenzione della mia mente, perderei ogni speranza... dunque è meglio che non le chieda nulla. Rohain fece il bagno e la giovane serva l'aiutò a indossare abiti del genere in uso tra i Cavalieri della Tempesta. L'abito a gonna di taffettà nero dalle maniche strette, che sarebbe stato smaccatamente fuori moda a Corte, aveva colletto, polsini e orlo dello stesso colore ed era ricamato con mezzelune d'argento; Caitri vi fissò alla scollatura un cammeo con un'iscrizione. Il mantello di zibellino aveva una fodera rossa molto lavorata ed era chiuso sotto la gola da una catenella, agganciata a due piccoli scudi d'argento. La cintura, bordata in filo d'argento e punteggiata di diamanti, era angolata a V sul davanti. Le scarpe di pelle rosa erano ricamate con minuscoli cavalli. I lunghi capelli neri di Rohain erano ancora umidi e Caitri li districò con un pettine d'avorio e tartaruga pieno di denti rotti, poi vi appuntò minuscole spille a forma di stella e le ricoprì con un velo di garza incrostato di cri-
stalli bianchi e neri. «Mi hanno dato questa da mettervi», disse, allacciandole al collo una catenina d'oro. Era un nuovo tilhal: tre foglie d'iperico scolpite nella giada e incastonate in oro. «Vostra Signoria è straordinariamente graziosa, come tutti dicono dal suo arrivo», continuò con molta serietà, ingenuamente inconsapevole della propria audacia. «Sua Maestà sarà compiaciuto quando vi vedrà.» «Grazie. Penso di essere pronta ma ho molta paura... Forse questa notte ho sognato, eppure non so se mi spaventi di più la possibilità che sia stato un sogno oppure realtà!» Sir Flint del Terzo Thriesniun e altri graduati scortarono Rohain lungo la scala che conduceva all'Appartamento Solare Superiore, dove il ReImperatore aveva appena finito di consultarsi con alcuni personaggi importanti. Il Livello Quaranta era presidiato da molti uomini armati ma l'atmosfera era calma e serena: torce fissate al muro spandevano una luce calda sugli arazzi e molti soldati - le cui uniformi rosse e oro risaltavano sul nero e argento del Settimo Casato - sorvegliavano porte e finestre. Lo stendardo reale, su cui splendevano i colori vivaci del leone incoronato, era appeso in ogni corridoio. Il cuore della visitatrice accelerò i battiti quando le sentinelle sollevarono cerimoniosamente le alabarde incrociate per consentirle di passare e un'onda d'emozione la stordì, costringendola a fermarsi. Caitri si strinse al suo fianco. «Milady si sente bene?» si preoccupò Sir Flint. Rohain annuì. Attraversarono un'anticamera, quindi un'altra porta. Raggi di sole gialli come il miele entravano dalle persiane socchiuse. Rohain alzò lo sguardo e lui, il Re-Imperatore, era là. Attraverso le maniche tagliate del giustacuore di velluto - ricamato a leoni d'oro su uno sfondo di porpora reale - si vedevano le maniche della camicia, chiusa da tre bottoni. Una larga cintura d'oro gli stringeva la tunica lunga fino alle caviglie, la cui scollatura a V giungeva sino alla vita; i calzoni neri erano infilati negli stivali alti al ginocchio e col bordo ripiegato. Portava un mantello di velluto purpureo, ricamato con corone e altri stemmi araldici neri e oro e foderato in seta nera. Sui capelli scuri sfoggiava un semplice berretto tondo, sormontato da tre morbide piume. Tutta quell'eleganza non lo appesantiva affatto, anzi lo faceva apparire in splendida forma fisica e fresco come una sera d'estate: la sua vitalità
riempiva la stanza, quasi che tutta la luce irradiasse da lui. All'ingresso di Rohain, la guardò senza parlare. Viviana l'aveva edotta su come presentarsi al sovrano: come la giovane serva e i guerrieri che l'affiancavano, la ragazza posò un ginocchio al suolo e s'inchinò, il che le consentì di notare con intensa chiarezza i dettagli del tappeto un po' consunto su cui erano ricamati eotauri e Cavalieri della Tempesta. Lo conosceva già: era uno dei tappeti che, un tempo, lei aveva avuto l'incarico di pulire e spolverare regolarmente. Con un certo distacco, si domandò a quale altra sguattera fosse stato affidato quel lavoro dopo la sua fuga e se lo svolgesse bene quanto lei. Un peso sembrava premerle sulle palpebre: ora avrebbe dovuto guardarlo ma le sembrava un'impresa impossibile. Aspettò che lui dicesse qualcosa. Due mani gentili la fecero alzare in piedi. Il loro tocco era leggero. «Ti garantisco che starai più comoda seduta accanto a me.» La voce di lui era morbida e controllata ma forte come il ruggito di un leone. Intorno alla sua persona si avvertiva un profumo di cannella e incenso. Lui la condusse a una delle due sedie a capotavola e sedette al suo fianco. Un timido paggio depose un piccolo candeliere d'argento davanti a lei e ne accese la candela con mano tremante. La vicinanza di Thorn era come una terribile fornace accesa a fianco di Rohain. La ragazza aveva vagamente notato che nella sala c'erano molte persone... grandi lord, tra cui Roxburgh, tutti in piedi di fronte a Thorn. Caitri si stringeva le mani per celare il nervosismo che provava alla presenza del Re-Imperatore e si era messa in fila presso il muro, insieme coi paggi e i lacchè imparruccati che facevano tappezzeria nelle loro livree scarlatte e dorate. Appollaiato su un posatoio, l'astore Errantry sonnecchiava, muovendo ogni tanto la coda da una parte e dall'altra; gocce bianche del suo sterco chiazzavano l'orlo della tenda dietro il posatoio e i lunghi calzari dei servi schierati sull'attenti nelle sue immediate vicinanze e il pavimento sottostante era costellato di resti indigeribili di ossa e piume. Errantry aprì un fiero occhio e subito lo richiuse. «Non aver timore», sussurrò Thorn a Rohain e lei trovò il coraggio di restituirgli il sorriso. «Signori», disse lui ad alta voce, «questa è Lady Rohain, che noi abbiamo cercato a destra e a manca.» Ancora in piedi, i lord chinarono leggermente il capo: Richard di Esgair Garthen, Lord Supremo Ammiraglio del Mare; Octarus Ogier, Lord Supremo Comandante dei Cavalieri della Tempesta; Duran Rivenhall, Lord
Supremo Cancelliere; Istoren Giltornyr, Lord Supremo Ammiraglio del Cielo; John Dromdunach, Lord Supremo Comandante delle Guardie Reali. Thorn li presentò uno alla volta alla giovane donna, quindi diede loro licenza di uscire insieme col suo Segretario Privato, i paggi, i camerieri, le guardie e tutti gli altri lord e servitori eccetto Caitri, alla quale ordinò con un cenno di aspettare nell'anticamera. Rohain era rimasta a sedere, immobile come una statua a parte un lieve tremito che ogni tanto la percorreva. «Penso che tu abbia delle domande da pormi», disse Thorn. «Vuoi usare il linguaggio dei gesti? Hai di nuovo perso la favella? Ti confesso che sentire la tua voce era una novità molto piacevole.» Lei rise, divertita. No, non ho perduto la voce, rispose a gesti, sentendosi più a suo agio. Allora parla! dissero le mani di lui. «Thorn», mormorò lei, assaporando il suo nome. «Thorn. Il tuo nome Dainnan... cioè, il nome Dainnan di Vostra Maestà.» «Capelli d'Oro, non è necessario che ti rivolga a me così... e neppure che ti getti in ginocchio ogni volta che t'avvicini. Non ti sei forse promessa a me, questa notte?» «L'ho fatto, mio signore, senza pensarci due volte.» «Ora devi imparare a essere la mia fidanzata, invece che una popolana qualsiasi che ha osato farsi passare per una lady. È necessario che ti abitui a comportarti come la futura Regina.» Lei ritrovò il coraggio. «Sai tutto? Ma com'è possibile? Sapevi che abitavo a Corte? Perché non ti ho mai visto? Come può essere che un Dainnan sia Re?» «Ecco che arrivano le domande, affastellate l'una sull'altra», commentò lui, divertito. «Be', dovrò cominciare a raccontarti tutto dal principio.» «Prima che tu lo faccia», disse in fretta lei, scaldandosi alla sua vicinanza come al sole dell'estate, «devo chiederti di essere così generoso da graziare un uomo che langue nelle tue prigioni, condannato a morte. Il suo nome...» «È graziato da questo istante, qualunque sia il suo nome. Ora presta attenzione, perché ti racconterò tutto. Mi stai ascoltando?» «No. Riesco solo a guardarti...» Arditamente, come nutrendosi di ciò che vedeva, il suo sguardo sfiorò i lineamenti del volto di lui - seri e ridenti allo stesso tempo e così pieni di forza - e scivolò lungo la mandibola ben rasata al collo liscio, interrotto
dalla sporgenza del pomo d'Adamo, sino al punto in cui le clavicole si univano allo sterno. Ogni suo gesto era aggraziato e sicuro come quello di un leone nel fiore degli anni; nel suo atteggiamento rilassato c'era la certezza che, all'occorrenza, avrebbe saputo reagire con la velocità e la potenza di un combattente addestrato, capace di sconfiggere chiunque. Rohain cercò di memorizzare i dettagli della sua bellezza: quello era un momento prezioso per lei e, come tutti i momenti preziosi, sarebbe svanito presto. La bellezza è rara e, per sua natura, effimera; se non fosse tale non sarebbe neppure rara. Eppure vorrei che non fosse così... oh, quanto lo vorrei! Vorrei che durasse per sempre. «Anch'io sto guardando te, come spero di poter fare spesso - e in modo più completo - ogni volta che vorrò. Però, se guardi così tutti gli uomini che incontri, li farai uscire di senno.» «È ciò che meriteresti, signore, per averlo fatto a me.» «Allora sarà meglio che tu faccia conversazione con me dal lato opposto della stanza», disse lui, con occhi fiammeggianti. «Altrimenti mi provocherai a oltrepassare i limiti... qui, in questo stesso istante.» «Se c'è questa possibilità, resterò qui», replicò lei, col fiato corto. Lui la guardò con una strana dolcezza, quasi triste. «Sei così giovane... metà donna e metà bambina», sospirò. «Se oltrepassassi i limiti, fanciulla virtuosa, ti farei un torto. Non è ancora il momento.» Lei si costrinse a distogliere lo sguardo, improvvisamente consapevole che lui aveva ragione: c'erano regole che non potevano essere abrogate in quel luogo, in quel momento, in quel secolo, in tutta Erith. «Devi voltarmi le spalle, allora», comandò Rohain al Re-Imperatore di Erith, poiché lo conosceva abbastanza bene da prenderlo un po' in giro. Si sentiva esilarata dalla giocosa schermaglia verbale e dal fragile potere che deteneva su di lui, benché fosse ancora incapace di crederci del tutto. «Voltami la schiena, se vuoi raccontarmi la tua storia. E non sbirciare! Sin dalla prima volta che ti ho visto ho desiderato ravviarti i capelli con le dita.» Ridendo, lui fece come gli era stato chiesto e, appoggiato allo schienale della sedia, allungò le gambe mentre lei gli passava le dita tra i capelli scuri: nel sentirli così morbidi, Rohain fu sorpresa dal contatto di quella parte di lui... un contatto che aveva agognato per un'eternità. Lui cominciò a raccontare. «In quel periodo mi aggiravo nei boschi di Tiriendor, abbigliato come un
Dainnan. È un travestimento che adotto spesso, quando ne ho voglia o quando ce n'è bisogno... perché, Capelli d'Oro, un sovrano avveduto deve controllare lo stato del suo reame. Quale modo migliore che esplorarlo sotto mentite spoglie? I ministri e consiglieri che ne sono al corrente si allarmano per questa mia abitudine; stento ancora a convincerli che sono più al sicuro in una foresta che a Corte, dove vipere assai più velenose aspettano solo che io volti le spalle. «Dopo aver incontrato te e il capitano Diarmid Bruadair, ti studiai a lungo. Mi sentivo attratto da te», disse Thorn. «In te bruciava una passione, sin dal primo istante... una passione così intensa che non ne avevo mai incontrato l'uguale. Avevi la capacità di provare gioia o tristezza in modo così completo da oscurare i torpidi sentimenti degli altri... Le creste e le profondità delle altrui emozioni sono come quelle delle onde del mare ma in te le vette sono isole montuose che s'immergono tra le nubi e gli abissi sono fosse oceaniche. Tu cercavi di trattenere il tuo fuoco ma una tale duplicità era superiore ai tuoi mezzi e, quando giunse per noi il tempo di separarci, io ero già perduto. Allora tu non volesti accompagnarmi ma io decisi ugualmente che, prima o poi, ti avrei legata a me.» «Ti sentisti ferito quando io non volli venire con te?» domandò Rohain, sorpresa. Il suo cuore saltellava come un cerbiatto. «Ferito? Abbastanza, sì. All'incirca come se una spada mi avesse trapassato il cuore. Ehi... mi stai baciando i capelli!» «Così sembra.» Le sue ciocche erano come seta nera sotto le labbra. «Quando raggiungesti la casa della Carlin, ordinai ad alcune guardie di appostarsi là intorno, per proteggerti e riportarti da me appena fossi guarita. Dovevano rimanere nascoste.» «Le spie... erano uomini tuoi?» «Sì. Avrei dovuto usare dei Dainnan... ma non immaginavo che avresti cercato di sfuggire alla mia rete.» Lei esitò. «Un tempo io ero una serva in questo luogo.» Ora si allontanerà da me? Lui si limitò ad annuire come se non gl'importasse e Rohain, immensamente rinfrancata, proseguì: «Scappai dalla Torre e trovai il tesoro della Scala d'Acqua. Per impadronirsene indisturbati, dei malviventi mi diedero la caccia, con l'intenzione di chiudermi la bocca per sempre. A Gilvaris Tarv cercai di porre rimedio allo scempio causato dall'edera paradossa recandomi da un Mago, un certo Korguth; la sua cura fallì e, poiché i miei amici diffusero la voce ch'era un imbroglione, pensai che mi avrebbe inseguito per vendicarsi. Ero convinta che quelli appostati intorno al caso-
lare di Maeve fossero uomini malvagi, in attesa dell'occasione buona per uccidermi». «Perché non mi parlasti dei tuoi inseguitori e delle tue preoccupazioni, prima che andassimo ognuno per la rispettiva strada?» volle sapere lui, con una voce ridente in cui s'intrecciava un accenno di esasperazione. «Perché non mi parlasti dei desideri del tuo cuore?» replicò lei. «Ti chiesi di venire a Corte con me. Non era abbastanza?» «Non m'ero resa conto che tu me l'avessi chiesto perché provavi qualcosa per me. Non avrei mai osato sperare che tu ricambiassi i sentimenti di una nullità dal volto deforme e, per giunta, avevo un dovere da compiere.» «Tu e la tua missione segreta a Caermelor... se mi avessi confidato questa storia del tesoro, ti saresti risparmiata un sacco di difficoltà», la prese in giro lui, dolcemente. «Potevo parlarne soltanto al Re-Imperatore!» «Questo prova che possiedi una qualità rara: sai proteggere bene un segreto. Sarai capace di badare ai tuoi interessi altrettanto bene, ora che hai ritrovato la voce?» Lui rise ma un'improvvisa preoccupazione fece accigliare Rohain. C'era un altro segreto... se lui avesse saputo dei misteri e delle ombre dietro la sua amnesia al tempo in cui era stata trovata muta e sfigurata, si sarebbe allontanato da lei? D'altra parte, Thorn non le aveva chiesto nulla del suo passato: il presente sembrava bastargli e forse aveva ragione... Era poi così importante, il passato? «Dimmi una cosa», gli chiese. «Perché le tue guardie non vennero semplicemente a bussare alla porta di Maeve, annunciando che il ReImperatore chiedeva la mia presenza?» «Pensavo che avresti rifiutato di venire a Corte, come avevi già fatto.» «Ben difficilmente mi sarei opposta a un ordine di Sua Maestà!» «Ora ne so il motivo ma come avrei potuto immaginarlo allora? Poi, tu svanisti nel nulla. Soltanto un'altra volta in vita mia ero stato così tormentato e angosciato... Il timore di averti persa per sempre fece nascere in me una gran rabbia; quelli che mi circondavano ne soffrirono le conseguenze e la causa di tutto fosti tu!» «Non dire altro!» Rohain giocherellava coi suoi capelli. «Non temere, ora non puoi più ferirmi», la derise un poco lui. «Non è stata colpa mia!» «Osi contraddire il tuo Re?» scherzò lui, fingendo di rimproverarla. «Avevi cambiato tutto di te - l'aspetto fisico, il comportamento, il modo di
comunicare, persino il nome - e poi venisti a Corte, ovvero nel luogo che, dopo quanto avevi detto, era l'ultimo in cui ti avrei cercata. Nel frattempo ogni mattina, pomeriggio e sera gli araldi cittadini gridavano il loro messaggio agli angoli delle strade e alle porte delle mura, ordinando a nome del Re-Imperatore che chiunque avesse visto una ragazza bionda chiamata Imrhien la portasse immediatamente a palazzo, pena la prigione per chi avesse disobbedito.» «Li sentivo gridare ma non distinguevo le parole.» «Dal palazzo non si può udire ciò che viene gridato nelle strade, salvo quando soffia il vento dalla parte giusta. Gli araldi vengono scelti per la potenza della loro voce, ma alcuni ragliano come somari.» «E tu hai mandato le guardie a cercare una ragazza bionda di squisita bruttezza?» «No. Tu mi dicesti che avresti posto rimedio a quell'infelice condizione, così vennero a cercarti a White Down Rory, presso la Carlin.» «Quando viaggiammo insieme, come potevi provare un sentimento che non fosse semplice pietà per una col mio aspetto?» Lui girò la bella testa e la guardò con serietà. «Capelli d'Oro, te l'ho già detto.» «Tu vedevi la mia bruttezza?» «La vedevo. E vedevo te.» «Come hai fatto a riconoscermi, questa notte?» «Te lo ripeto: io vedevo te. Le tue doti interiori.» Si diceva che i D'Armancourt fossero diversi dai comuni mortali a causa di qualcosa che era nel loro sangue: probabilmente questo qualcosa era la Vista, ovvero la capacità di percepire quel che c'era dietro la maschera superficiale. Thorn si voltò di nuovo e Rohain riprese a pettinarlo. Un delizioso silenzio li legava, pieno di parole non dette. Che tutte le Potenze del cielo facciano durare per sempre questo momento! «Ora non chiedo altro alla vita», disse lei alla fine. «A suo tempo cambierai idea, com'è prerogativa delle donne.» «Non la cambierò!» Lei sorrise di quella bonaria presa in giro. «Non vuoi sentire il resto della storia?» «Certo che lo voglio.» «Tu hai fatto di tutto per complicarla sempre più.» L'astore si agitò sul posatoio, allargò le ali e planò in una pigra spirale, sino ad atterrare sullo schienale della sedia di Rohain: lei alzò una mano ed Errantry, educatamente, gliela sfiorò col becco. Thorn alzò un braccio e
l'astore andò ad appollaiarsi sul bracciale che gli cingeva il polso. Il giovane accarezzò con un gesto distratto le piume del volatile. «Non siamo riusciti a trovarti», proseguì. «Neppure quel galletto del tuo amico testarossa, a Isenhammer, sapeva dove fossi. Quand'è venuto Imbroltide senza che ci fosse nessun segno di te, siamo tornati a indagare dalla Carlin a White Down Rory.» «A Imbrol io ho cenato nella tua stessa sala!» «Ahimè, non lo sapevo! Il mio sguardo ti cercava fuori dalle mura del palazzo quella notte, dolce ladra della mia pace.» «E il mio sguardo non cercava niente. Cos'hai trovato da Maeve?» «La sua casa era abbandonata.» «Abbandonata! Dov'è andata?» «Stranamente, non siamo riusciti a rintracciarla. I Dainnan e i nostri indagatori più esperti hanno fallito, pur avendo inviato messaggi in ogni regione. Poi ho dovuto partire per il campo di battaglia... Avevamo già indugiato troppo a causa tua e la necessità era pressante, però la ricerca è continuata anche durante la mia assenza. «Una sera, nel lontano nord di Eldaraigne, stavo facendo una passeggiata a cavallo con Roxburgh sotto il firmamento sereno, non distante dai bivacchi delle nostre truppe. Nel parlare, abbiamo cominciato a guardare le stelle e a far commenti sulla loro bellezza e il mio Comandante in Campo dei Dainnan ha accennato al fatto che la notizia del tesoro della Scala d'Acqua era stata recata a palazzo da una certa bellezza mascherata... una giovane donna ignara del protocollo di Corte, la quale aveva raccontato una strana storia sulle sue peripezie nelle terre selvagge in compagnia di un ertish attualmente detenuto... un certo Sianadh, detto l'Orso. Quel nome era già giunto alle mie orecchie... o meglio, ai miei occhi.» Rohain ricordava una conversazione accanto al fuoco da campo. Diarmid aveva detto a Thorn: In fondo, non è difficile avere la meglio a parole su qualcuno che ha il cervello di una pulce. Inoltre, io sono un esperto in quel genere di duelli... da ragazzo li facevo spesso, con mio zio. Per sottolineare quella frase, lei aveva aggiunto, nel linguaggio gestuale: Una volta, ho sentito Sianadh duellare a parole con alcuni uomini malvagi. Ha vinto lui. All'ultimo piano della Torre di Isse, Thorn volse ancora il fuoco di sbarramento del suo sguardo su di lei. «Allora compresi che quella 'Rohain Tarrenys delle Isole Sorrows' eri tu, travestita e guarita, come avevi sempre desiderato. Per giunta, Rohain era
un nome che avevo già sentito più volte a Corte: Ercildoune lo aveva portato alla mia attenzione quando si era parlato del tesoro della Scala d'Acqua e della ricompensa da offrirti, tuttavia ti aveva descritta come 'una damigella dai capelli neri'. Il fatto che ti fossi cambiata anche il nome mi ha fatto capire che ti sentivi in pericolo.» Svee-svit, stridette l'astore, piegandosi ad afferrare col becco ricurvo una ciocca dei capelli di Thorn. «Un'ora dopo abbiamo lasciato il campo e le nostre truppe migliori si sono imbarcate su alcune Navi del Cielo per Caermelor, dove siamo giunti più in fretta di un Corriere. Purtroppo, era già troppo tardi... La dama delle Sorrows era appena partita per la Torre di Isse. Dopo una pausa per procurarci un certo numero di eotauri, siamo ripartiti per il nord, sorvolando il Golfo di Mara. Questo accadeva due giorni fa. Navigando senza sosta siamo arrivati qui ieri sera, giusto in tempo per partecipare in grande stile alla festa in onore del Cornuto.» «Davvero una felice coincidenza! Se foste giunti con un giorno di ritardo avreste trovato un'ecatombe.» «Durante la battaglia ho corso come un matto da un corridoio all'altro, scivolando sul sangue di quelle bavose creature mentre il ferro freddo della mia spada, Arcturus, mozzava senza sosta teste e artigli di unseelie. Ancora una volta, però, tu eri scivolata via come sabbia tra le mie dita, lasciandomi confuso e frustrato: mai avevo conosciuto una donna così elusiva. Non sono riuscito a tirar fuori una parola sensata dalla bocca degli aristocratici di Isse, agitati com'erano... ma poi uno di loro si è raccapezzato abbastanza da ricordare che eri partita per le Torri della Caccia, aggiungendo che dovevi essere stata ammazzata da qualche parte lungo la strada perché alcuni membri del tuo gruppo erano tornati da soli. Roxburgh, che era in sella a un eotauro, si è subito diretto da quella parte; io stavo per seguirlo, quando mi hanno detto che eri stata vista nelle cucine. Ho mandato a cercarti e tutto ciò che ho saputo è stato che eri andata a riposare da qualche parte, però le guardie alla porta hanno confermato che eri rientrata sana e salva. La Torre era un caos ma ormai era abbastanza sicura, così mi sono detto che finalmente ti avevo ritrovata.» Per un poco, Thorn tacque, poi domandò: «Chi ha scoperto che sei una talith, a Corte?» «Soltanto Lady Dianella.» «Cos'altro ha saputo di te?» «Le ho detto che stavo cercando un Dainnan di nome Thorn. Il tuo nome
Dainnan è conosciuto, tra i cortigiani?» «Sì, così come molti sanno che il soprannome di Roxburgh è 'Vecchia Quercia' e quello di Ercildoune è 'Vecchio Frassino'. Lady Dianella trama da un pezzo per diventare Regina e non tollera rivali; le ha provate tutte per sedurmi e ancora non molla... inoltre è spalleggiata dai complotti di suo zio, che vuole vederla sul trono per poi manovrarla come una marionetta. Suppongo che abbia udito il bando dagli araldi cittadini e, quando ha saputo che tu cercavi me e io cercavo te, non ha avuto bisogno di domandare altro. Stai pur certa che lei e suo zio meditavano di ucciderti prima che io avessi potuto trovarti.» «Dianella mi ha chiesto di lasciare Caermelor.» «Immagino che l'abbia fatto perché la tua morte avvenisse in un luogo più conveniente, dove i sospetti sarebbero ricaduti su altri.» Thorn si era rabbuiato. «Chi complotta contro di me ne paga il prezzo!» Una nuvola passò davanti al sole e la sua ombra invase la sala come un'onda d'impalpabile fluido scuro. Thorn allungò una mano per afferrare un foglio di pergamena e una penna d'oca, cui fece la punta con un temperino dal manico di porcellana. Intinse il calamo nell'inchiostro, scrisse una lettera, asciugò il foglio col talco e l'arrotolò, poi fece colare un po' di cera da una candela e la sigillò col castone di un anello che Rohain non gli aveva visto al dito quando si trovavano insieme nei boschi. Preparata così la missiva, chiamò Caitri e le disse di consegnarla a uno dei messaggeri in attesa fuori dalla porta. Quando la fanciulla fu uscita, riassunse una posizione rilassata, appoggiandosi a un gomito. «Dianella, però, non poteva sapere che la Torre sarebbe stata presa di mira dalla Caccia!» rifletté Rohain. «Si può presumere di no», ammise Thorn, pensosamente. «Lei e suo zio devono aver preparato qualche altro metodo per liberarsi di te, se Huon non fosse intervenuto.» Rohain pensò: Certo che è una strana coincidenza che la Caccia abbia deciso di assalire questa fortezza proprio mentre io mi trovavo qui in visita... Poi una mano di ghiaccio le attanagliò le viscere mentre in lei nasceva un sospetto così terribile che quasi non osava esprimerlo a voce. Possibile che Sargoth abbia abbastanza potere da chiamare la Caccia Selvaggia? Peggio ancora: se non è stato lui a chiamarla, allora chi lo ha fatto? E cosa stava cercando qui il Cornuto, a parte l'ebbrezza della distruzione? «Hai parlato tu a Lady Dianella della Carlin?»
«Sì», rispose lei, costernata. «Santo cielo! Ho messo in pericolo la vita di quella povera vecchia? Dianella e suo zio, sapendo che Maeve era al corrente della vera identità di Rohain Tarrenys, potrebbero aver cercato di chiuderle la bocca per sempre! Vero è che dei semplici mortali - fossero pure inviati dal Lord Mago Supremo - non potrebbero mai rintracciare Maeve la Guercia se lei non lo volesse.» «Questo è vero, Capelli d'Oro. Purtroppo, quelli che sono andati a cercarla non erano semplici mortali.» «Allora dobbiamo salvarla!» «Faremo il possibile, stanne certa.» «Non riesco ancora a credere che Sargoth abbia poteri di gramarye e sia capace di costringere dei wight unseelie a obbedirgli! Le sue magie non sono che giochi di prestigio.» Thorn alzò una mano ad afferrare un raggio di sole e gliene consegnò un frammento da sopra una spalla. «Questo è un gioco di prestigio?» Lei rise. «Un trucco, sì... Scommetto che l'avevi nascosto nella manica! Non sono mica una campagnola di Rosedale, per farmi incantare da un comune prestigiatore!» La piccola cosa lucente era un cerchietto di foglie d'oro cosparse di gemme, che scintillavano come se in esse fosse imprigionata la luce delle stelle. Thorn le prese una mano, gliela baciò e le fece scivolare il gioiello sull'anulare; ogni nervo dell'avambraccio le trasmise una sensazione di calore. «Tu mi distrai anche dalle questioni serie», disse, senza lasciarle la mano. «La mia immaginazione lavora. Non saprai mai quanto sia difficile restare così, all'apparenza indifferente a te.» «E dove starebbero vagando i tuoi pensieri?» Lui si piegò all'indietro e le disse qualcosa all'orecchio. Lei mormorò una risposta. L'astore stridette, allargò le ali e balzò in volo qua e là per la stanza, perdendo alcune penne. «Fuori, birbante!» gli ordinò il padrone e l'uccello sparì all'esterno attraverso una finestra aperta. Thorn si alzò, tirò in piedi anche Rohain e la portò con sé al davanzale: stringendosi a lui la giovane donna, acutamente consapevole della lieve pressione del braccio che le cingeva le spalle, lasciò vagare lo sguardo oltre la finestra ad arco, sulla distesa dei boschi al di là dei quali scintillava l'azzurra curva del mare. Thorn posò l'altra mano al montante della finestra. Aveva dita lunghe e
forti e intorno all'anulare aveva qualcosa di molto sottile... tre capelli d'oro intrecciati. Ha tenuto la ciocca che mi rubò! Ah, come sarebbe bello svegliarsi la notte e vederlo disteso accanto a me, coi capelli sparsi sul guanciale e le ciglia scure abbassate sulle guance, morbide come quelle di un bambino addormentato! Più avanti, sull'abisso, l'astore girava in cerchio. «Non parliamo più del passato», mormorò Thorn. «Poche foglie ingiallite restano aggrappate ai rami, come le ultime note del coro che gli uccelli cantavano in estate», disse, forse citando qualche poeta a lei sconosciuto. «Ma gli scuri giorni invernali offrono qualche tregua e oggi le nuvole si sono aperte per lasciar splendere il sole sulla nostra felicità.» «Il sole è piacevole ma anche il vento e la pioggia hanno la loro bellezza», osservò Rohain, ripensando alle piogge sulla foresta di Tiriendor. «Ogni stagione ci porta dei doni e l'inverno ha i suoi.» «In fede mia, sono d'accordo! Mi sentirò meglio fuori da queste mura... e ce le lasceremo alle spalle presto, perché torneremo a Caermelor oggi stesso.» «Per mare o volando?» «Volando, in groppa ai Cavalli Celesti. Hai paura?» Lo sguardo che le scoccò parve trasformarle in acqua le ossa, tanto che le gambe stentarono a reggerla. «Al contrario, non vedo l'ora! Aspetta, però... prima di lasciare questa gente è mio dovere rendermi utile. Chissà quanti innocenti sono stati feriti o uccisi! E il mio appartamento è stato distrutto, anche se gli aggressori hanno lasciato intatto il resto di quel livello.» «Non ci sono molti danni altrove, salvo quelli agli esseri umani; il tuo alloggio è stato devastato assai peggio degli altri. Tra i miei uomini ci sono dyncynnili, farmacisti e chirurghi: mentre noi parliamo loro stanno già curando i feriti di Isse, senza distinzione di rango. Io stesso, stamattina, ho visitato i feriti e mi sembra che nessuno sia così grave da non poter guarire bene. I miei medici resteranno qui a finire il lavoro ma io devo rientrare a Caermelor senza ulteriori ritardi... poi annunceremo il nostro fidanzamento e tu conoscerai il Principe Edward.» Rohain fu attraversata da un fremito che vibrava come un rullo di tamburi. «Sarò felice d'incontrarlo», riuscì a dire. «Daremo un ballo in tuo onore, se ti fa piacere. Sei d'accordo?» «Solo se potremo danzare la gavotta, come quel giorno.»
«Ballare con te è una gioia, caileagh elindor, qualunque sia il ritmo», sorrise lui. «Già una volta mi hai chiamata così. Cosa significa?» «'Amato uccello marino.' L'elindor - l'uccello bianco della libertà - è un vagabondo dell'oceano: nei suoi viaggi intorno al mondo, non tocca terra per sette anni e sorvola immensi tratti di mare aperto senza punti di riferimento. È il più bello e sfuggente dei navigatori alati e arriva molto lontano prima di riposarsi.» In fondo alla mente di lei sbocciò il germe di un ricordo... ma soltanto il germe. La giovane donna si guardò il polso sinistro: perle lattiginose come la luna piena e schegge d'ambra nera lo cingevano, incastonate in un bracciale di metallo bianco. Era un prestito di Heligea... e non era ciò che si era vagamente aspettata di vedere. «Sono stata chiamata 'farfalla' e 'uccellino' ma preferisco Rohain», disse lei. «'Rohain' significa 'bella'. Ognuno di noi ha più di un nome; io, poi, ne possiedo una sfilza lunga da qui a Namarre.» «E uno di essi è James.» Lui le prese una mano tra le sue e quel contatto le diede una scossa che la fece rabbrividire sino alla spalla. «Oh! Mi hai tolto il fiato... Nella tua pelle c'è qualcosa di strano.» «Pensi di poterlo sopportare?» «È come uno sconvolgimento... ma più dolce di ogni cosa che mi sia mai capitata.» «Come puoi essere certa che sia io e non tu a generare quest'effetto?» La nota argentina di una tromba echeggiò all'esterno della Torre poco distante da quella finestra e un puntino scuro nel cielo, a sud-est, s'ingrandì sino a rivelarsi un Cavaliere della Tempesta. «Un Corriere da Caermelor», disse Thorn. «Non possiamo indugiare oltre. Le ore passano... Sarai in grado di partire per mezzogiorno, Mia Distrazione? Ormai manca poco.» «Non c'è problema.» Rohain chiamò Caitri e, dall'anticamera dove quest'ultima attendeva, provenne un rumore di piccoli oggetti che rotolavano al suolo: quella fanciulla piena di risorse stava giocando a domino e, sentendosi chiamare, doveva aver rovesciato le tessere che andava allineando. «Al vostro servizio, milady.» In ginocchio sulla soglia, Caitri non aveva ancora l'ardire di alzare gli occhi sul sovrano.
«Di' a Viviana che si tenga pronta per mezzodì.» «Subito, milady.» «Manda anche un messaggero da Roxburgh», aggiunse Thorn. «Voglio consultarmi con l'Attriod.» «Vostra Maestà», sussurrò lei. Si alzò e uscì Camminando a ritroso, senza sollevare lo sguardo. «Quella fanciulla mi è simpatica», disse Rohain. «Posso chiederle se le piacerebbe venire con noi?» «Non è necessario che tu mi domandi niente. Puoi avere tutto... prendilo.» Sempre tenendola per mano, Thorn la condusse al tavolo. «Non c'è altro che vorresti portare via da questo enorme camino dove un tempo abitavi, a parte quella pollastrella ancora implume?» I capelli di lui avevano un sottile profumo di cedro o forse di timo selvatico. Immersa nell'alone di forza che lo circondava, Rohain distolse lo sguardo e ripensò al tavolo da toeletta dell'appartamento dove aveva trascorso la notte, uno dei molti del Livello Quaranta sfuggiti alle devastazioni degli unseelie. L'astuccio contenente la piuma di cigno datale da Maeve era rimasto là, insieme con la catenina con la fiala di Sangue di Drago: un regalo di Thorn, che lei si era tolta dal collo per fare il bagno. Nell'eccitazione di quel mattino l'aveva del tutto dimenticata. «Sì, alcune cosette. Andrò a prenderle io stessa... ci vorrà un momento.» Lui si portò la sua mano alle labbra, poi ne studiò la morbidezza con aria speculativa. «I tuoi baci mi bruciano la pelle», mormorò lei, arrossendo. «È il fuoco che mi arde nel petto. Tu mi fai diventare un drago!» «Non vorrei lasciare la tua tana neppure per un istante.» «Resta, allora. Prometto che non ti mangerò.» «Devo andare... ma, se tu mi prometti il contrario, tornerò di corsa.» Lui le lasciò la mano. Qualcuno bussò, esitante, alla porta esterna; Thorn gli diede il permesso di entrare e Rohain uscì in fretta. Nel corridoio, alcuni lord di passaggio si scostarono con un inchino rispettoso per lasciarla passare e lei rispose ai loro saluti chinando il capo. Nello spogliatoio dell'alloggio, una figura magra e miseramente vestita balzò in piedi. Il tavolo da toeletta era vuoto, a parte una tazza e una brocca. «Pod! Che stai facendo qui? Dove sono l'astuccio e la fiala?» «Non lo so», rispose l'altro, con aria colpevole.
«Li hai tu. Dammeli, per favore.» Lui indietreggiò, con le mani dietro la schiena. «Ti prego, Pod!» Gli occhi del ragazzo corsero da una parte all'altra come scoiattoli presi in trappola. «Una come te», disse, in tono saccente, «una come te e uno come lui... non sarete mai felici insieme.» «Non dire questo!» sbottò Rohain, offesa. «Ritira ciò che hai detto e augurami tutto il bene possibile, piuttosto. Sei crudele!» «Ho detto solo la verità.» «Un Re che sposa una popolana... perché no? Lui può sposare chi gli pare! Perché mi odi tanto?» «Io odio tutti.» «Non vorresti avere degli amici?» «No.» Lei cercò di afferrarlo per le spalle, sperando di coglierlo di sorpresa e riprendersi le sue cose; lui, però, la evitò con una contorsione, corse alla porta e fuggì. «Prendi le tue profezie di sventura e mettitele in saccoccia, razza di sciocco!» gli gridò dietro lei. «Sono sbagliate, in ogni caso. E non rivolgermi mai più la parola!» Andò a sedersi davanti allo specchio e spazzò via alcune vitree lacrime che le tremavano negli occhi: la previsione di Pod l'aveva profondamente sconvolta. Il ragazzo le aveva rubato la piuma di cigno e il Sangue di Drago ma questo non le sembrava più così importante. Un odore d'olio di baccelli di siedo precedette Viviana nella stanza. «Milady, sono pronta ad andarmene. Non ne posso più di questo posto miserabile!» «Stammi lontana, per favore!» Rohain si portò al naso un fazzoletto di pizzo. «Non c'è modo di liberarsi di questo odore», si addolorò la cameriera. La padrona le fece cenno di uscire. «Domanda a Caitri, a Pennyrigg, a Featherstone e a Brand Brinkworth il Narratore se vorrebbero accompagnarci alla Corte del Re-Imperatore e abitare là. Quelli di loro che desiderassero farlo, si riuniscano al Livello dello Squadrone Reale a mezzodì.» Viviana lasciò la stanza e Rohain fece ritorno all'ultimo piano, dove trovò un altro gruppo di persone in attesa fuori dalla porta; mormorando saluti, tutti si scostarono per lasciarla entrare. In anticamera la ragazza passò tra due file d'inservienti in livrea nera e argento e, quando fu nella sala, si
accorse che c'erano molti lord coi loro assistenti, tutti riuniti in semicerchio davanti al Re-Imperatore. Al suo ingresso tutti tacquero e lei s'incamminò con sicurezza sino alla finestra davanti alla quale stava Thorn, stagliato contro il cielo e con Errantry appollaiato su una spalla. Ebbene, che tutti vedessero come stavano le cose! Sorridendo in quel modo particolare che la faceva sentire debole, lui le baciò la mano e annunciò: «Signori, credo che la nostra riunione possa considerarsi conclusa. Ai cavalli, ora!» aggiunse, rivolto ai presenti. La coppia guidò la piccola processione fuori dalla sala. Il mantello di Thorn gli sventolava dietro come una bandiera, sfiorando la testa di quanti si toglievano il cappello e s'inchinavano al suo passaggio. In una nicchia del muro un'ombra si mosse. Tutti si fermarono bruscamente quando Thorn fece qualche passo di lato, allungò le mani nella rientranza e ne trasse fuori una figura ossuta e gemente, che puzzava come una capra. Pod ansimò e protestò, contorcendosi nella stretta del suo catturatore come un pesce mezzo morto estratto dall'acqua dalla lenza di un pescatore. «Furfante!» ringhiò Thorn, accigliato. «Credevi di poterci spiare di nascosto? Ebbene, ti sbagliavi! Chi ti ha mandato?» Pod penzolava nelle sue mani, scuotendo il capo. «Parla!» Il ragazzo puntò un dito accusatore. «Lei mi ha detto di non rivolgerle più la parola.» «Hai forse osato disturbare Lady Rohain? Per questo potrei farti spellare come un serpente e darti in pasto al mio falco!» ruggì Thorn. «No, no!» squittì penosamente Pod. Era così miserabile e patetico che a Rohain parve che la compassione fosse l'unica reazione possibile. «Non mi ha...» cominciò, poi s'interruppe. Lui mi ha disturbata. Io non voglio accusarlo di niente ma neppure posso mentire, soprattutto a Thorn... Ho già detto troppe bugie da quando ho ritrovato la voce. «Io l'ho già perdonato. In fondo è un bravo ragazzo e non fa male a nessuno», disse infine. «Non si direbbe, a vederlo! Mettiti degli indumenti puliti, signorino... e cerca di rigare dritto, d'ora in avanti!» borbottò Thorn lasciando andare il ragazzo, che si afflosciò contro il muro come una marionetta dai fili recisi. La piccola processione riprese il cammino. Una falange di lacchè in livrea nera e argento, con le mani guantate di bianco unite dietro la schiena, era disposta lungo due file perfette nel cor-
ridoio; più avanti, gli eotauri appena prelevati dalla scuderia scalpitavano, in un tintinnio di finimenti da volo e di ferri di sildron sulla pietra. Il loro odore caldo riempiva l'aria. Lord Ustorix, con Lady Heligea al fianco, era pronto ad accomiatarsi formalmente dal Re-Imperatore e dal suo seguito. Il Figlio del Casato espresse i suoi saluti con voce rauca, attanagliato dall'emozione. «Vostra Maestà ha onorato la nostra umile dimora con la sua visita e, grazie all'eroico soccorso di Vostra Maestà, oggi i vostri fedeli sudditi sono salvi. Auguro a Vostra Maestà e a Lady Rohain di cavalcare col vento a favore.» Il pomposo tentativo di trovare le parole adatte parve alquanto forzato ma Ustorix si rifece gonfiando orgogliosamente il petto. Thorn annuì e montò in sella alla sua cavalcatura, spingendo gli stivali nelle staffe sotto le robuste ali. «Lord Ustorix, vi siete ripreso bene dopo la vostra brutta avventura?» s'informò Rohain. «Non un lamento sfuggirà dalle mie labbra, nobile signora», rispose lui con teatrale stoicismo. «Finché non sarete guarito, vi raccomando di affidare a Lady Heligea i vostri doveri di Corriere. Vostra sorella è un'esperta cavallerizza del cielo... Anzi vi suggerirei di lasciarle svolgere missioni da Corriere ogni volta che vorrà.» Un mormorio di sorpresa corse tra gli aristocratici della Torre di Isse e il sorriso trionfante di Heligea eclissò il cipiglio del fratello, che questi cercò di mascherare con un profondo inchino. Il sole brillava, al culmine del suo arco celeste. Lo Squadrone Imperiale - un gruppo di sessanta poderosi eotauri - balzò in volo dallo sbocco del corridoio, uno dei più elevati. Dopo aver fatto rotta verso sud-est, i cavalieri fecero assumere agli animali una formazione a freccia e si allontanarono, leggeri come galeoni spinti dal vento sulle profondità di un oceano azzurro. 5 CAERMELOR, PARTE TERZA IL FUOCO E LA FLOTTA
Se tu sei lanterna, io fiamma sarò. Se tu sei lago, io pioggia t'empirò. Se tu deserto sei, io sarò mare. Se tu sei fiore, io insetto d'alveare. Se tu sei frutto, io sarò la buccia. Se tu montagna sei, io sarò roccia. Se tu sei l'arpa, io ti suonerò. Se tu sei fodero, la tua spada io sarò. Canzone d'amore di Seve messe Viviana e Caitri viaggiarono condividendo la sella con due cavalieri; non avevano nessuna esperienza di volo e destreggiarsi con gli eotauri era un'arte troppo delicata per delle principianti, poiché far scivolare avanti e indietro le piastre di andalum sotto quelle sollevataci di sildron per guadagnare o perdere quota richiedeva anni di pratica. Durante la cavalcata celeste che aveva tanto contrariato suo fratello, Heligea - la quale, evidentemente, si era esercitata in segreto per molto tempo - aveva manovrato con l'abilità di una professionista; Rohain, invece, si era trovata in difficoltà, com'era da aspettarsi da una goffa dilettante. Tuttavia non era questa la ragione per cui la giovane donna ora cavalcava di traverso dietro Thorn con le braccia strette intorno alla sua cintura, cercando di distinguere qualcosa del panorama oltre i capelli di lui che le frustavano la faccia. Stringersi alla sua schiena forte le dava una sensazione estatica, quasi paralizzante. In seguito non avrebbe ricordato molto di quel viaggio, salvo le immagini della spiaggia spazzata dal vento di burrasca dove fecero sosta e una bella conchiglia gettata a riva dal mare. Tre miglia a nord di Caermelor, i cavalieri udirono le trombe: le vedette sulle torri del palazzo li avevano avvistati. A un miglio dalla città, lo stormo di grosse ali battenti cominciò a perdere quota per la lunga planata finale. Gli eotauri oltrepassarono le mura del palazzo sfiorandone i merli coi loro garretti piumati e fluttuarono come gigantesche farfalle sui cortili, agitando l'aria con la tumultuosa violenza di un uragano. Sotto le loro ali vorticavano caoticamente paglia, polvere e i berretti degli stallieri ma, nonostante ciò, l'intero stormo atterrò con impeccabile precisione. Gli inservienti corsero a togliere le mezzelune di sildron dagli zoccoli dei Cavalli Celesti e li condussero via per dissellarli, tergere il sudore dai
loro fianchi lucidi e rifocillarli come fossero lord e lady. I valletti si affrettarono a occuparsi dei cavalieri, liberandoli dei guanti da volo ingioiellati e offrendo loro boccali di vino e di brandy, mentre le eleganti guardie della Divisione di Palazzo si schierarono lungo due file, formando un corridoio umano che portava all'ingresso dell'edificio. Sul selciato furono sparsi petali di fiori e su di essi s'incamminò il sovrano, affiancato dalla lady dai capelli neri. Mentre la coppia entrava nel palazzo, un giovanetto snello uscì, fermandosi davanti a loro. Dimostrava poco più dell'età di Caitri: un adolescente sui quattordici, quindici anni, dal mento tenero. I suoi capelli neri erano pettinati all'indietro a coda di cavallo e aveva un viso pallido e serio, attraente. Quando s'inchinò a Thorn tra loro ci fu un breve sorriso d'intesa, poi si volse a osservare Rohain con uno sguardo perplesso. Non ci fu bisogno di presentazioni. Rohain s'inchinò profondamente, con grazia; il ragazzo pronunciò il nome di lei e la giovane donna lo salutò col suo titolo regale. Per qualche istante si osservarono: Rohain intuì qualcosa dei pensieri che si celavano dietro quel volto contegnoso e sorrise. «È una gioia potervi conoscere, Altezza Reale.» «Anche per me», rispose lui, guardingo. Poi sorrise e aggiunse: «Siate la benvenuta». Detto questo, l'Erede si fece da parte affinché il Re-Imperatore e Rohain potessero entrare per primi. Le stanze dell'appartamento di Rohain splendevano di gelo e di fuoco: candidi stucchi - stampati in forme vegetali, grappoli e foglie - s'intrecciavano sui soffitti; ghirlande di fiori erano intessute nei tappeti bianchissimi sui quali c'erano poltrone e ottomane color carminio; c'era pure un caminetto di pallido marmo, ornato di soprammobili in vetro color rubino. Tra le rientranze delle finestre campeggiavano alti specchi, perfettamente lucidati. In una delle tre camere da letto (quella dai tappeti vermigli) c'era un letto, il cui baldacchino era sostenuto da massicci pilastri di mogano. Le tendine erano in damasco cremisi ricamato a trifogli e sul tavolino ai piedi del letto era stesa una tovaglia color sangue. Lungo le pareti, affrescate con cespi di rose su sfondo crema, c'erano cassepanche intarsiate, tavolini coperti di pizzo su cui stavano piccoli scrigni per gioielli e sedie di liscio mogano scuro. Una sedia più elaborata, fornita di cuscino coordinato, era
disposta accanto al letto, con davanti uno sgabello imbottito. Lo spogliatoio principale abbondava di specchi. I compartimenti interni delle scatole sul tavolo da toeletta erano gremiti di mille piccole cose e nei cassetti facevano bella mostra di sé gioielli di ogni genere. Nello studio, un impressionante calamaio dagli elaborati coperchi metallici dominava un lucido scrittoio di eucalipto. Le alte e sottili finestre ad arco, seminascoste da tendaggi in velluto rosso-vino, si aprivano sul Giardino d'Inverno, dove campanelle di cristallo appese agli alberi tintinnavano nel vento casuali melodie. Tra gli alti coni dei cipressi, le fronde fiammeggianti delle corniole traboccavano dai vasi di pietra, rispecchiando il loro fulgore nelle opache acque degli stagni. Quello, come Rohain fu informata da Viviana, era l'Appartamento Luindorn: un alloggio vasto e deliziosamente ammobiliato, di solito riservato ai visitatori stranieri d'alto rango. Dopo colazione, due eleganti valletti esperti nell'arte di non farsi notare spinsero fuori il portavivande e si dileguarono in silenzio. Caitri, che aveva suonato per chiamarli, sedeva davanti a una finestra del salotto a occhi spalancati, come se si aspettasse di trasformarsi in un passero e involarsi nel cielo: sembrava del tutto dimentica di Rohain e Viviana, che sedevano una di fronte all'altra e conversavano sottovoce. «Milady», stava dicendo Viviana, «il fatto che siate entrata nelle grazie del Re-Imperatore è un vantaggio per entrambe. Finché godrete del suo favore non potrete mai essere Fuori! In quanto al vostro segreto, potete esser certa che non lo rivelerò a nessuno... dopotutto, ora siete una lady a pieno titolo! C'è una sola cosa che mi preoccupa: quella cameriera che vi è stata assegnata e quel valletto. Cosa succederà? Ho sentito dire che avrete una nobildonna come ancella! Sarò dispensata dal vostro servizio?» «Naturalmente no. Continuerai a essere la mia cameriera privata, se lo desideri... come mi auguro. E non ci saranno dame di compagnia... non ancora.» «Dame di compagnia?» Quando le implicazioni di quelle parole le furono del tutto chiare, Viviana spalancò gli occhi: soltanto la Regina poteva avere dame di compagnia. «Alla fine ce ne saranno sei, capeggiate dalla Duchessa di Roxburgh, ogni volta che sarà a Corte», sussurrò Rohain. All'improvviso, sia la padrona che la cameriera scoppiarono a ridere. Si presero per le mani e cominciarono a danzare per tutta la stanza - come bambine intorno all'albero della cuccagna nel Giorno del Biancofiore -
finché si lasciarono cadere senza fiato su uno dei divani di velluto rosso. «Allora è vero!» ansimò Viviana. «Sua Maestà vi ha chiesto...» «Sì. Siamo promessi ma questo è ancora un segreto... finché sarà fatto l'annuncio ufficiale del fidanzamento.» «In verità, la voce si è già sparsa! Non mi piace ficcare il naso nei fatti altrui ma tutti già se lo immaginano... Non riesco a crederci! La mia signora sarà Regina-Imperatrice!» Caitri girò la testa, emergendo dalla nebbia delle sue meditazioni: era rimasta scandalizzata dall'immensità del mondo che il destino le aveva negato di conoscere, relegandola tra le pareti della Torre di Isse. «La mia lady sarà Regina?» mormorò, sbigottita. Viviana andò alla finestra, prese per le mani la fanciulla e cominciò a farla roteare in un'altra polka. «Sì! Questa è davvero la stagione dell'amore! E come se non bastasse, Caitri, quando Dain Pennyrigg mi ha fatto scendere dal suo eotauro, poc'anzi, ha detto che io sono la sua canarina e mi ha baciata. Kiel varletto! È soltanto uno stalliere ma è stato deliziosamente taraiz. Il suo bacio mi ha dato la scossa come un fulmine!» Rohain annuì. «La passione d'amore è un'energia misteriosa e forte, come quella che accende il cielo durante i temporali.» «E viaggiare in groppa a un Cavallo Celeste è molto più divertente che sulle Navi del Vento», dichiarò Viviana. «Oh, dimenticavo... Mastro Pennyrigg ha trovato questa nella sua borsa da sella.» Si frugò in tasca e tirò fuori una fiala di Sangue di Drago. Rohain batté le mani. «Giorno felice! Mi è stata restituita! C'era anche un'altra cosa? Un astuccio, forse?» «Be', sì, milady; questo. Ma puzza di capra e pensavo di buttarlo... Se lo volete conservare, dovrò ripulirlo.» La sua padrona prese il maleodorante oggetto e lo aprì. «Dannazione, è vuoto! Non c'era nient'altro?» «No, milady... nient'altro, a parte le cose impacchettate da Mastro Pennyrigg. Sul fondo della borsa c'erano un ensofell di capelli sporchi legato con una cordicella e una piuma d'uccello... Devo gettarli via?» «No. Dammi la piuma: è un potente talismano.» Rohain ripose la piuma dentro un astuccio di stoffa coi bottoni di giada. Sembrava che Pod fosse almeno capace di gratitudine per essere stato salvato dall'ira di Thorn... Tuttavia la restituzione della fiala non implicava che avesse ritirato la sua fosca predizione. Il che, dopotutto, era logico: il
ragazzo non faceva fatture, bensì semplici profezie. «Andiamo, ora, amiche mie», disse Rohain, allacciando distrattamente un nastro ribelle sul vestito di Caitri, azzurro come i non-ti-scordar-di-me. «È già troppo tempo che sono lontana da lui. Siamo arrivati un'ora fa dalla Torre dei Cavalieri della Tempesta... è più che abbastanza per toglierci di dosso la polvere del viaggio e cambiarci.» «Guarda come siamo eleganti!» si compiacque Viviana, sempre attenta alle apparenze. «La mia lady dai capelli neri in rosso, io che sono bionda in color narciso e la castana Caitri in azzurro. Che bel mazzolino di fiori!» «Eppure una di noi non profuma come un fiore», osservò la sua padrona, portandosi al naso un fazzoletto profumato per bloccare le ultime tracce di siedo che emanavano dai capelli di Viviana. «Affrettiamoci!» Un bussare alla porta annunciò l'arrivo del Maestro della Casa Reale, un gentiluomo di mezz'età dai capelli grigi. «Con gli omaggi di Sua Maestà, milady», annunciò, spezzandosi in due in un inchino, «Sua Maestà v'informa che una questione di grande importanza lo ha chiamato altrove.» «Così presto? Siamo appena arrivati!» mormorò Rohain. «Questi sono tempi incerti in cui anche i progetti più gradevoli possono dover essere rimandati», disse il gentiluomo. «Vi ringrazio, signore, per il vostro messaggio.» Durante l'inaspettata assenza di Thorn il palazzo parve perdere ogni attrattiva agli occhi di Rohain, che ne approfittò per visitare Sianadh in prigione. «Stai per essere liberato», gli disse. Lui non volle crederle. «È gentile da parte tua cercare di tirarmi su di morale», borbottò, in tono scostante. «Ma questi skeerdas senza cuore non libererebbero nemmeno la loro madre, se mai dovessero vederla con le catene ai piedi.» «Il Re-Imperatore stesso lo ha promesso, in mia presenza.» «Devi aver sognato», sospirò cupamente lui. «Ah! Darei il braccio destro per un bicchiere di quello buono.» Thorn fece ritorno due giorni dopo e mandò a dire a Rohain di raggiungerlo nella Sala del Trono; lei si precipitò lungo le scale e i corridoi che attraversavano quell'ala del palazzo, ansiosa di rivederlo. Le colonne della Sala del Trono sorreggevano un soffitto alto quaranta piedi. Il vasto spazio tra di esse era illuminato da candelabri appesi a catene lunghe trenta piedi o solidamente fissati su sostegni bronzei. I troni ge-
melli, sormontati da alti baldacchini di broccato color porpora ricamato in oro, sorgevano su una piattaforma cui si ascendeva con tredici larghi scalini. Intorno alle pareti, la storia del mondo si svolgeva in una serie di scene ricamate su arazzi alti venti piedi, costati anni di lavoro paziente. Sopra di essi, ogni palmo d'intonaco era affrescato con arabeschi contenenti fiori stilizzati, piante, animali e corone di foglie, che non si fermavano all'altezza del soffitto ma continuavano sino a coprirlo del tutto, come un'efflorescenza che avesse proliferato sin lassù. Al confronto il lucidissimo pavimento sembrava austero, fatto com'era in tarsie di legni di ogni colore che andavano a comporre lo stemma araldico della Casa D'Armancourt. La sala era così vasta che chi entrava si sentiva rimpicciolito alle dimensioni di un topo in un granaio. Rohain vi arrivò col suo piccolo seguito, tallonata da una frotta di cortigiani che stavano oziando nei corridoi quando l'avevano vista passare. Come in ogni locale dell'ala del palazzo aperta al pubblico, vi stazionavano gruppi di nobili e militari; uno dei primi - elegante e affettato e a lei ben conosciuto - le rivolse un inchino. «Milady Rohain, Sua Maestà sta ancora passeggiando in giardino con l'Attriod ma ci raggiungerà in sala tra breve.» «Per favore, Lord Jasper, mostratemi da dove si accede al giardino.» L'uomo s'inchinò ancora ma, prima che potesse accontentarla, un lacchè la cui parrucca lo faceva somigliare a un coniglio bianco gli si avvicinò, porgendogli un vassoio sul quale c'era una busta. Il nobiluomo la aprì, lesse il foglio con l'intestazione del palazzo e corrugò le sopracciglia con aria perplessa. «Un... ehm... gentiluomo chiede udienza a Vostra Signoria. Sembra che sia stato invitato qui da Sua Maestà... Dal suo nome impronunciabile, direi che si tratta di un ertish.» «Fatelo entrare», annuì Rohain. Un torrente d'imprecazioni in ertish risuonò fuori dalla Sala del Trono, a conferma dello scarso rispetto di Sianadh per le formalità. La porta si aprì rumorosamente e l'uomo irruppe nel vasto locale come un macigno rotolato giù da un canalone; nel vedere Rohain sbatté le palpebre e si fermò, come stordito. I due inservienti che avevano cercato di trattenerlo per le braccia robuste stavano sudando copiosamente. «Ah, sei qui, chehrna», si placò l'Orso, ora diventato un agnello. «Questi skeerdas non volevano lasciarmi entrare!» «Mo gaidair», lo salutò con calore la ragazza porgendogli una mano, che
lui prese delicatamente, ma con l'aria di non sapere cosa farsene. Lei sospirò, sorridendo. «Mo gaidair, la tua inosservanza dell'etichetta è una ventata d'aria fresca.» «Ah, chehrna, quando sono venuti ad aprire la porta della cella ero sicuro di essere li lì per tirare le cuoia e invece mi hanno detto che sono un uomo libero. Com'è possibile? Come hai fatto a convincerli?» «Lord Jasper, c'è una stanza dove io possa conversare col mio amico? Qualcosa di meno cavernoso e frequentato?» Le sopracciglia di Lord Jasper si alzarono sino all'attaccatura dei capelli. «Ma certo, milady», rispose, cercando di mascherare la propria disapprovazione asciugandosi la fronte con un fazzolettino ricamato. «Mi sembra che la Sala delle Udienze sia sgombra, al momento... Permettetemi di condurvi là.» Chiamò un servo che provvedesse ad accendere le candele e, con un cortese inchino e uno svolazzante gesto della mano, le indicò la direzione. In un angolo della Sala delle Udienze, Viviana e Caitri giocavano a Carta-Forbici-Sasso. Nei candelabri d'oro brillavano centosessanta candele, come mazzi di fiori di luce. Rohain stava raccontando a Sianadh ciò che era accaduto alla Torre di Isse e nell'ascoltarla l'uomo sorrideva, sempre più meravigliato e soddisfatto. «Così non ho trovato ciò che cercavo, però ho trovato qualcosa che mi rende ancora più felice», concluse. «I tesori della corona renderebbero felice chiunque!» commentò lui. «Mi fraintendi. Io non sono ambiziosa, mo gaidair... Non è questo che cercavo e non ho mai desiderato nulla che appartenesse ad altri, né la ricchezza o il lusso. Forse ho desiderato il rispetto e la serenità - chi non li vuole? - ma avevo sperato in una tranquillità che non nasca dal vivere del lavoro degli altri e nel rispetto che viene dall'amicizia vera, non dallo stato sociale. Non ho bisogno di gioielli e oggetti costosi e tutti questi sdilinquimenti previsti dall'etichetta non fanno per me... Suppongo che mi abituerò per amor suo e non dubito che, col tempo, dimenticherò quanto avrebbero potuto essere diverse le cose e questa vita finirà per piacermi... perché, cerca di capirmi, non sono un'ingrata. Sono entrata nel mondo al di fuori della Torre cercando tre cose: una faccia, una voce e un passato. Ho trovato le prime due e un quarto desiderio è stato esaudito ma, in cambio, ho perduto il terzo... Ora il mio passato non importa più; tutto ciò che voglio è il presente.»
La giovane donna tacque, pensando che ora, almeno, aveva una certa tranquillità, se non la pace... poiché non cercava più niente. Eppure, mentre guardava il lusso dispiegato nella Sala delle Udienze - le centosessanta candele e le centinaia d'altre che attendevano di essere accese - un vento aspro scaturì dal passato che stava cercando di dimenticare d'aver dimenticato. In quel vento c'erano le parole di Pod, due lombrichi abbandonati sul pavimento, l'odore umido della foresta e le foglie secche sparse per la camera da letto devastata, come pagine di un manoscritto strappato. Quel ricordo la fece rabbrividire: il passato era oscuro... troppo oscuro. «Il mio primo editto sarà la proibizione di picchiare i servi, in tutta Erith», dichiarò, accigliata. «Molto generoso da parte tua, chehrna», rispose Sianadh. «Con questo modo di pensare, però, farai scoppiare una ribellione.» «Userò il mio potere per difendere i deboli. Tutto ciò di cui ho bisogno», insistette lei, «tutto ciò di cui io ho bisogno è un po' d'aria da respirare e l'uomo che amo.» «E che lui vada bene per te. Oltre a qualcosa da bere e da mangiare», aggiunse prosaicamente Sianadh, alzandosi. Incapace di trattenere la propria soddisfazione, l'uomo cominciò a ballare con la stessa vivacità che, non molto tempo prima, aveva animato Rohain e Viviana. Con gran disgusto delle sentinelle impettite sulla porta e dei lacchè dalla faccia pietrificata che erano stati addestrati a irrigidirsi come statue, l'ertish dai capelli rossi eseguì una giga della sua terra. «Libero!» gridò. «Libero, graziato e amico della Quasi-Regina! Vorrei baciarti, chehrna, vorrei proprio baciarti!» Un'improvvisa corrente d'aria fredda invase la sala, scuotendo gli arazzi e facendo spegnere oltre settanta candele. Alcuni cavalieri Dainnan in cotta di maglia entrarono e presero posizione ai lati della porta e Sianadh si bloccò a metà di un passo di danza. Le cameriere di Rohain si affrettarono ad alzarsi mentre i lacchè s'immobilizzavano ancor di più. Sulla soglia era comparso Thorn, seguito da un gruppetto di nobili: abbigliato nella tenuta da campagna Dainnan, appariva dritto e vigoroso come una spada. I suoi capelli e il mantello dusken ondeggiavano come bandiere d'ombra nel vento invernale che era entrato con lui, trascinando sui tappeti alcune foglie secche provenienti dal giardino. Rohain si sentì balzare il cuore in petto e il sangue le corse più rapido nelle vene. La sua bellezza è pericolosa. Potrei morire folgorata per aver osato contemplarla! Un taciturno Roxburgh si fermò alle spalle del sovrano, insieme con altri
tre membri dell'Attriod. Come la coda di una cometa, un seguito di cortigiani teneva sempre dietro al Re-Imperatore. Il personale si allargò ai lati della sala mentre lui avanzava, calpestando le foglie con gli stivali. Sianadh restò dov'era e un cortigiano gli sibilò: «In ginocchio, bifolco!» «Io non m'inginocchio davanti a nessuno fuorché il Re-Imperatore», disse Sianadh. «Ce l'hai davanti, testone!» mormorò Rohain. «Cosa?» Sianadh vacillò, colto alla sprovvista, poi s'inginocchiò rigidamente, chinando la rossa testa spettinata. «Alzati, Kavanagh», disse Thorn, calmo come un lago sotterraneo e altrettanto freddo. «Tu mi hai perdonato.» Sianadh si alzò e si portò accanto a Rohain, con l'aria cauta di chi stia ancora soppesando la situazione. «E io ti ringrazio, Maestà. Ho un braccio forte che ha saputo difendere Imrhien, qui presente... e che impugnerebbe volentieri una spada per l'Impero. Un braccio che non si è per niente indebolito, anche se ho dovuto languire nella tua prigione senza neanche un goccio di birra per tirarmi su!» I cortigiani mormorarono commenti sul suo atteggiamento discutibile e l'incredibile sfacciataggine con cui si permetteva di rivolgersi al sovrano dandogli del tu ma questi parve non badare a quelle infrazioni. «Dici sul serio?» gli domandò, inarcando un sopracciglio. Un vezzo accattivante, pensò Rohain. «Sicuro», annuì Sianadh. Alzò il braccio destro e con l'altra mano si arrotolò la manica sporca e maleodorante. «Questo braccio ha sbattuto giù omaccioni grossi e prepotenti cui nessuno aveva mai dato il fatto loro», si vantò, gonfiando con orgoglio il robusto bicipite. Alcune guardie, scandalizzate da quell'affronto, si fecero avanti per afferrarlo di peso e buttarlo fuori, ma Thorn le fermò con un gesto. «Lasciateci soli, signori», ordinò al proprio seguito. «Voi restate, prego, Lord Roxburgh... e anche il mio paggio.» Con una certa riluttanza, gli altri cortigiani s'inchinarono e sfilarono fuori dalla Sala delle Udienze. «Dicevi che il tuo braccio ha difeso Lady Rohain?» domandò Thorn, in tono discorsivo. «Puoi scommetterci, Re! E nessuno al mondo mi ha mai battuto a braccio di ferro», replicò l'ertish, con lo sguardo baldanzosamente fisso in quello di Thorn. Essendo un poco più basso, dovette alzare un po' la testa: una necessità irritante per uno come lui.
«Sianadh, non fare lo scothy. Nessuno potrebbe salvarti, stavolta!» lo ammonì Rohain. «Mi stai lanciando una sfida?» s'informò Thorn. «Una sfida, per tutti i...» Sianadh cercò di moderare i termini. «Sicuro, si potrebbe anche dire così, Re. Ora l'ho detto... tu prendila come vuoi!» La sua faccia era una maschera di provocazione. Gli ultimi due lord, che stavano uscendo, portarono la mano all'elsa della spada. «Per quest'insolenza la lingua dovrebbe essergli strappata», mugolò uno. «È un pendaglio da forca», borbottò l'altro. Roxburgh incrociò le braccia, con aria interessata. I massicci battenti si chiusero. Gli angoli della bocca di Thorn ebbero un fremito. Si tirò su la manica destra e andò a sedersi a un tavolino stretto: il suo avambraccio, Uscio e gonfio di muscoli ondulati, era molto diverso da quello di Sianadh, altrettanto grosso ma coperto di peluria rossa, tatuaggi, lentiggini e cicatrici. Con l'aria di sentirsi finalmente nel suo elemento, l'ertish sedette di fronte a lui ed entrambi piantarono i gomiti sul tavolo; poi le loro mani si unirono e cercarono la posizione, i tendini si tesero, i muscoli si gonfiarono... e in pochi istanti, con una progressione lenta e apparentemente facile, tutto finì: nonostante la torsione delle spalle per impedire al proprio braccio di abbassarsi, Sianadh si ritrovò col dorso della mano schiacciato contro la superficie di mogano. «Due su tre!» domandò con foga, come se fosse seduto al tavolo di una taverna con un carrettiere ubriaco. Aveva la fronte imperlata di sudore. Thorn annuì e i due ripeterono la contesa, con lo stesso risultato. Sianadh restò seduto con una smorfia stordita sulla faccia mentre Thorn si riabbassava la manica. «Be', Maestà, mi hai proprio battuto. Pulito e senza trucchi», ammise l'ertish, con palese ammirazione. «Non posso neanche dire che mi hai colto impreparato, perché ero pronto. Mi hai fatto l'onore di unire il tuo sudore al mio e per questo il mio braccio sarà fiero di combattere all'ombra del tuo.» «Con la spada in pugno, il mio braccio getta un'ombra lunga.» L'ertish gettò indietro la testa e rise, mettendo in mostra alcuni denti spezzati. «Devo essere diventato orbo», disse, tra una risata e l'altra. «Non so più riconoscere uno capace di battermi. Ho fatto la figura dello sgorrama!» «Forse... ma non importa, visto che hai già dimostrato più volte di essere
un uomo di valore», rispose Thorn. «Quale ricompensa mi chiedi?» «Ricompensa? Re, tu hai già allungato il numero dei miei giorni, pochi o molti che siano. Non potrei chiedere di più. Comunque...» L'ertish cominciò a capire che quella, dopotutto, era un'opportunità. Si grattò la barba. «Hai bisogno di altri armati?» «Non in questo periodo.» «Allora c'è una cosa che ho sempre sognato di fare: navigare su una Nave del Vento e vivere di commercio. Viaggi, avventure e qualche soldo nella borsa... Questo è il mio stile!» «Ho un clipper ormeggiato nel Finvarna, vecchio ma ancora in buono stato. Te lo regalo. Cos'altro vuoi? Chiedi, finché mi sento generoso.» «Ti ringrazio di cuore, Maestà. In effetti, una cosetta c'è: non posso mettere legalmente piede nel Finvarna perché il Comandante Supremo, Mabhoneen di Finvarna, mi ha bandito. Io, però, ho un gran desiderio di tornare in patria.» «Mi dicesti che il Comandante aveva tolto il bando», intervenne Rohain. «Mi sono dimenticato di aggiungere che poi lo ha rimesso», rispose Sianadh. «Perché?» «È una storia lunga e triste, chehrna. Di questi tempi ho una nostalgia di casa che mi fa star male. È difficile spiegarlo... è come una ferita aperta. Eh sì, soffro di quella che nel Finvarna chiamiamo longarieth... Devo rimettere piede sulla terra dove sono nato.» «Farò togliere il bando, così non sarai più un esule», disse Thorn. Sianadh ascoltò quelle parole e, quando guardò Rohain, lei gli lesse in viso una gioia che non aveva mai visto prima. «Finvarna», mormorò Sianadh, come se fosse il nome di una donna amata. «Finvarna! Potrò tornarci... e con una Nave del Vento! Diventerò un mercante, ecco cosa farò. Un uomo rispettabile. Rivedrò i miei bambini, la mia vecchia... ah! E poi le corse di carri e la buona cucina ertish... Maestà, non so trovare le parole per dirti quanto ti sono grato.» Balzò in piedi. «Una Nave del Vento! Sarà la mia bestia da soma, il mio asinello. La chiamerò l'Asino dell'Orso o magari Orso-Asino.» «Purtroppo il suo nome è già iscritto nel Registro delle Navi», lo informò Thorn. «Dato che ha le vele rosse, è stata chiamata Rua.» «Rua... 'la Rossa'!» rise Sianadh. «Non tornerai subito nel Finvarna, vero?» lo pregò Rohain. «Resterai per il Ballo e il Torneo, mo gaidair? Ci saranno i fuochi d'artificio!»
«Non mi perderei i festeggiamenti neppure per mille angeli d'oro sonante!» «Ci divertiremo e ricorderemo i bei tempi passati.» «Già, i bei tempi.» Sianadh tacque all'improvviso, imbarazzato. «Ma non sarà più come allora. Quei tempi non ritorneranno più, con te che sei così cambiata e tutto.» Lo sguardo di lui incontrò il suo, apertamente ma con riserva: le stava dicendo che vedeva un'amica ormai contenuta in un corpo diverso... un corpo al quale lui avrebbe reagito in un altro modo se l'avesse conosciuta così fin dall'inizio. Sianadh cercava le parole per dirglielo, avendo sempre vissuto in un mondo le cui regole impedivano la semplice amicizia tra un uomo e una donna come lei; quella realtà lo sconfiggeva e lo faceva sentire, in qualche modo, un traditore. La bellezza è una lama a doppio taglio, rifletté Rohain. «Inna shai tithen elion», disse la ragazza con un sorriso triste, ripensando alla loro prima separazione - molto tempo addietro, le sembrava - a Gilvaris Tarv. «Kavanagh», disse Thorn, alzandosi in piedi, «fino al giorno della tua partenza avrai libero accesso alle mie cantine e il mio permesso di assaggiare il loro contenuto nella quantità che ti piacerà. Questo per indennizzarti della penuria di liquidi che hai sofferto mentre vivevi a spese della mia tesoreria.» «Andrò subito a controllare le cantine!» dichiarò con vivacità l'ertish, abbattendo cameratescamente una manata sulla spalla del paggio del Re. «Devo rimettermi in pari con le bevute e mi serve un buon compagno, perché bere da solo fa male. Tu mi sembri proprio la persona adatta, ragazzo!» Il giovane cortigiano si affrettò a indietreggiare e Sianadh scrollò le spalle. «Come ti pare, amico. Scommetto che tra le donne di cucina ne troverò qualcuna cui piace bere in buona compagnia!» Dopo essersi inchinato con più entusiasmo che stile, Sianadh uscì a ritroso dalla Sala delle Udienze, per dimostrare che anche lui conosceva l'etichetta. Non appena ebbe raggiunto la porta, tuttavia, tornò indietro e, con un gesto improvviso e inaspettato, s'inginocchiò davanti a Thorn per la seconda volta, senza parole. Thorn posò una mano sulla testa dell'ertisi!. «Sain thee», disse, con voce grave. Stavolta Sianadh sparì fuori dalla porta con un allegro saltello, lasciando andare un misurato gridolino di entusiasmo.
«Barbaro!» fu il mormorio che lo seguì, bisbigliato dai cortigiani raggruppati all'esterno. «Ora che abbiamo fatto il nostro dovere», disse Thorn, volgendo i raggi gemelli dei suoi occhi in quelli di lei fino a disseccare la sorgente dei suoi pensieri, «avrei voglia, o mia promessa, di passeggiare con te tra gli alberi.» Il giovane la prese per mano. Più tardi, mentre camminavano fianco a fianco nel giardino, Thorn disse: «Un uomo lascia le prigioni, un altro ci finisce. Il Lord Mago Supremo è ospite di una cella; in quanto a sua nipote, per ora è agli arresti domiciliari, confinata in un piccolo alloggio con la sola assistenza della sua povera cameriera, Georgiana Griffin». «Santo cielo! Stavano davvero cospirando per uccidermi, come sospettavi?» domandò Rohain. «Sicuro, quanto è vero che le affogatrici riempiono d'acqua i polmoni dei loro amanti! Il primo si è tradito, la seconda ha confessato», rispose Thorn. «Cos'è successo?» «Ricordi la lettera che ho spedito dalla Torre di Isse?» «Sì.» «In essa chiedevo a Tom Ercildoune di mettere sotto sorveglianza i due complici. Quando la notizia del nostro successo a Isse ha raggiunto la Corte, il furfante e alcuni suoi uomini hanno subito preso la fuga: così lo sciocco si è tradito. Perché avrebbe dovuto fuggire dopo aver saputo che la Caccia Selvaggia aveva fallito e la supposta rivale di Dianella era salva, se non perché temeva che la parte avuta in quell'attacco fosse stata scoperta?» «Come lo avete catturato?» «I Dainnan del Nono Thriesniun lo hanno seguito fino al Pozzo, nel Cuore della Foresta. Hai già sentito parlare di quel luogo? No? È un antico pozzo di pietra, ormai asciutto e tappezzato di muschio. I Dainnan hanno scoperto che era protetto da ogni influsso maligno, poiché la Carlin Maeve era stata costretta a rifugiarsi laggiù e lo aveva sigillato coi poteri del suo Bastone. In seguito, però, non aveva più potuto uscirne: lei e il suo giovane apprendista erano praticamente assediati dagli eldritch wight. Il traditore, invece, è stato visto incamminarsi indisturbato tra questi unseelie alati, forniti di zanne e artigli. Si è spinto al punto d'implorare il loro aiuto contro i miei uomini!» «Ha qualche potere su di loro?» ansimò Rohain.
«No. Non è altro che un volgare prestigiatore e un uomo dalla mente distorta che rimestava nel torbido, pronto a vendersi a un padrone malvagio pur di trarre un guadagno. Aveva fatto un accordo di qualche genere con gli unseelie per assicurarsi l'immunità dai loro atti ostili, tutto qui. Quando ho raggiunto il Nono Thriesniun abbiamo messo in fuga le creature unseelie, catturato il traditore e liberato i due innocenti chiusi nel Pozzo. I Dainnan hanno continuato a inseguire gli unseelie per accertarsi che non tornassero in quella zona mentre Maeve la Guercia e Tom Coppins proseguivano il loro viaggio lungo un sentiero che attraversa la foresta, sani e salvi.» «Oh, che sollievo!» «Il traditore e i suoi uomini sono stati portati qui a palazzo. L'accusa che pende su di loro è di traffici con le forze del male. Quanto alla nipote... messa a confronto con la verità, dapprima ha negato ma poi, accorgendosi che questo atteggiamento non l'avrebbe salvata, ha confessato tutto. La loro cospirazione omicida è venuta a galla.» «Cospirazione omicida? Dunque è vero che Sargoth ha aizzato la Caccia contro di me? Mi sembra tuttora incredibile che l'infame Huon s'inchini alla volontà di un Mago, eppure l'attacco alla Torre di Isse durante la mia breve visita sarebbe una coincidenza ben strana. Ma no», continuò, rispondendo alla sua stessa domanda. «Non può essere così! Sargoth avrebbe potuto raggiungere il suo scopo semplicemente facendomi tendere un'imboscata da qualche eldritch wight minore.» «È vero, eudail, nessun Mago ha il potere di comandare Huon. Può darsi che sia riuscito a far presa su un semplice spriggan o un duergar ma è certo che nessun mortale può comandare la Caccia Selvaggia... Senza volerlo, il traditore si è immischiato in una faccenda più grande di lui. Il suo complotto ha ottenuto più di quel che sperava: quando lo abbiamo interrogato, ha ammesso di aver mandato un unseelie minore a ucciderti, descrivendoti come una ragazza talith con le trecce d'oro tinte di nero; io sospetto però che le sue parole siano passate da un eldritch all'altro, sino a raggiungere un'autorità superiore.» Fermandosi a studiare Rohain, il giovane aggiunse con serietà: «Uccellino mio, qualcosa di potente e di unseelie è venuto a cercarti con intenzioni maligne... il Cornuto in persona. Perché Huon vuole darti la caccia?» Le parole di Thorn riecheggiavano i sospetti di lei. «Non lo so!» disse, in tutta sincerità. In qualche modo sono incorsa nell'ira del Cornuto. Può darsi che, nel corso dei miei viaggi, io l'abbia inavvertitamente spiato o abbia preso qualcosa che apparteneva a lui o ai suoi seguaci... Ai lord
degli unseelie basta un motivo di poco conto per perseguitare un essere umano. In fondo al cuore, Rohain sentiva che la ragione doveva trovarsi nel passato che aveva dimenticato ma, d'istinto, negava quest'ipotesi, sperando ciecamente che allontanandola da sé avrebbe allontanato ogni nube oscura. Nella nuova vita che stava vivendo, lì e adesso, non c'era posto per la tristezza e il dolore; quello era un luogo sicuro e felice... allora perché rivangare le miserie del passato? «Che ne sarà dei prigionieri?» domandò. «Avremo tutto il tempo di pensarci ma ora devo dedicarmi ad altre cose. Lasciamo che chi mi ha attraversato la strada cuocia nel suo brodo... o ci marcisca!» «Mi piacerebbe far visita a Dianella.» «Come desideri, ionmhuinn. Lei non può più farti del male, ormai.» Rohain s'incamminò verso l'alloggio della cortigiana agli arresti domiciliari. Cosa si aspettava? Una donna amareggiata dal volto rigato di lacrime, seduta nella malinconica luce di una candela, che nel sentirla entrare non avrebbe trovato il coraggio di volgere lo sguardo su di lei? «Sei venuta a goderti il tuo trionfo, vero?» avrebbe detto la prigioniera. «Sei qui per riversarmi addosso il tuo disprezzo, ora che sono inerme? Le tue manovre hanno prevalso sulle mie, non è così? Oh, certo, hai avuto fortuna!» Da parte sua, lei avrebbe risposto: «Probabilmente tu non mi crederai ma non sono venuta a deriderti, né a insultarti o a farmi insultare. Non ho mai pensato che tutto questo sarebbe accaduto, lo giuro... Dianella, io so che tu l'amavi e che forse lo ami ancora. Se è stata la passione a spingerti a compiere atti terribili, posso comprenderti, almeno in parte... Nessuna donna che l'abbia guardato può fare a meno d'innamorarsi di lui!» Al che l'altra avrebbe esclamato: «Dunque tu mi capisci!» e sarebbe scoppiata in lacrime, supplicandola di perdonarla. Le aspettative di Rohain sull'atmosfera di quell'incontro erano destinate a scontrarsi con una realtà alquanto diversa. Il primo indizio fu l'espressione che si accese sul volto di Dianella quando Rohain entrò con la sua cameriera e che avrebbe potuto essere uno sguardo di sorpresa... in ogni caso, fu tutto ciò che la cortigiana le concesse. «Rohain! Mia cara!» L'avvenente bruna veleggiò verso la visitatrice in
un fruscio di seta e l'abbracciò, baciando l'aria intorno alle sue guance. «Non puoi immaginare quanto sia felice di vederti... La noia stava diventando proprio insopportabile! Griffin è di pessimo umore, ho scarse notizie della Corte e devo dire che, da qualche giorno a questa parte, non ricevo molte visite... una monotonia che sfida ogni descrizione, credimi!» «Mi dispiace per te...» balbettò Rohain. Per quanto accuratamente si fosse preparata in precedenza, Dianella riusciva sempre a spiazzarla. «Hai un aspetto adorabile... sì, sei davvero deliziosa, come sempre del resto!» cinguettò Dianella. «Ma vieni, siediti qui con me... Hai un po' di tempo da regalarmi, dolcezza? Griffin, noi prendiamo qualcosa da bere. Porta del vino!» Perplessa e circospetta, Rohain sedette a un tavolino di noce intarsiato in rame e madreperla. L'alloggio in cui la dama era stata reclusa era tutt'altro che scomodo: nelle stanze ben ammobiliate c'erano persino dei caminetti, nei quali crepitava il fuoco. Si trattava di una prigione usata molto di rado, in quanto riservata ad aristocratici sospettati di crimini come tradimento o spionaggio e in attesa di processo. Dianella chiacchierava come se si trovasse a un ricevimento nei giardini, quasi che niente fosse accaduto e tra loro esistesse una sincera amicizia. «Con questo giro di perle coltivate e il colletto alto di pizzo sei semplicemente splendida! E i capelli... ancora tinti di nero? Questo è sofine et gloriarla! Hai fatto bene a non rinunciare alla tinta, tesoro, altrimenti l'intera popolazione penserebbe che i tuoi capelli biondi siano tinti - che sciocchini, eh? - oppure ti troveresti a dover dare udienza a tutti i talith di Erith, ansiosi di chiamarti 'cugina'.» Inclinò la testa e aggiunse, pensosamente: «Anche se, a dire la verità, il biondo si adeguerebbe meglio alla tua carnagione». La cortigiana rise leggermente, con la sua bocca di rosa chiusa come un bocciolo e le guance più colorite del solito. Rohain mormorò una risposta mentre Georgiana Griffin mesceva il vino e la sua padrona continuava a chiacchierare senza sosta. «Cosa ne pensi della mia sopravveste ricamata a libellule e canne, con le farfalle lungo il bordo? Ti sembra troppo primaverile? E la gonna in seta multicolore, con questo motivo di ragnatele e lumache a uncinetto? Può darsi che sia troppo autunnale al confronto ma i colori si accoppiano bene, non ti pare? Oh, che seccatura... Ecco che ci risiamo!» Dianella s'interruppe e andò alla finestra. «L'hai sentito anche tu, tesoro? Guarda... è laggiù!» Indicò all'esterno con un dito dall'unghia appuntita e Rohain, raggiuntala,
guardò fuori: non vide nulla, a parte un cortile cinto da un muro oltre il quale il terreno scendeva ripido sino a un lontano arco di costa. Sulla sinistra si curvava la dorsale di una lunga rupe che ricordava la schiena di un drago. «Suppongo che fosse uno spriggan o un'altra di quelle spettrali cose unseelie», disse Dianella da dietro le spalle di Rohain. Era già tornata a sedersi al tavolino di noce, sorridendo con le rosse labbra che rivelavano piccoli denti ben curati. Afferrò un calice d'argento intarsiato pieno di liquido scuro e aggiunse: «Negli ultimi tempi, se ne vedono in giro sempre più spesso». Mentre Rohain prendeva l'altro calice, l'anello di foglie d'oro regalatole da Thorn tintinnò contro il metallo e il suono echeggiò con una straordinaria risonanza all'interno della sua testa, con un'eco dolorosa... velenosa, quasi. «Alla tua salute!» esclamò Dianella, sollevando il calice. «Nessun rancore tra noi, mia cara. Brindiamo!» Rohain si portò il boccale alle labbra. «Non bevete!» ansimò Georgiana Griffin. «In realtà, non avevo nessuna intenzione di farlo.» Rohain versò una sottile lingua scura di liquore sul tappeto e dalla stoffa si alzò subito un refolo di vapore. La giovane donna lasciò cadere il calice e il suo valletto e le due guardie, rimasti discretamente a lato della porta - lei non era mai del tutto sola, lì a palazzo - si mossero subito verso Dianella. Le cameriere di Rohain erano corse al suo fianco, parlando entrambe allo stesso tempo; i loro occhi, spalancati per l'incredulità, erano fissi su Dianella. La cortigiana sostenne quegli sguardi accusatori con espressione triste. «Ahimè, ho fallito», sospirò. «Ma non giudicarmi duramente: la droga non doveva farti del male, tesoro... ti avrebbe dato solo una morte apparente e in seguito, quando saresti stata immobile e pallida nella cripta funebre, i miei servi ti avrebbero portata via. Ti saresti svegliata a bordo di una Nave d'Acqua, bandita per sempre da queste terre.» «Non volevi uccidermi?» «No. Te lo giuro.» Rohain fissò negli occhi la sua avversaria: in quelle travagliate profondità palpitava una vaga luce di verità. Dianella scosse il capo e distolse lo sguardo, come irritata dal fatto d'essere stata scoperta. «La Casa D'Armancourt è una linea di sangue puro. Sangue reale... è questa la base del suo potere. Tutte le spose sono sempre state scelte da
grandi e antiche famiglie aristocratiche, come la mia... Il tuo debole sangue di serva lo inquinerà. Peggio... tu ne causerai la caduta!» «Bada a quello che dici!» esclamò Rohain. A quelle parole, la cortigiana avvampò di rabbia e la sua voce diventò dura e ostile. «Ti credi così nobile, selvaghia pezzentas? Senza dubbio supponevi di venire in queste stanze per portarmi conforto e mostrarmi quanto sei magnanima... però la settimana prossima, quando mi trascineranno per le strade, ti godrai lo spettacolo dalla finestra e riderai, come tutti gli altri!» «Cosa vuoi dire?» «Ah, fingi di non saperlo? Eppure sarà lo spettacolo dell'anno! Il Lord Cancelliere Supremo ha chiesto alle mie care amiche Elmaretta e Calprisia di proporre una pena adatta ai miei cosiddetti crimini e quelle dolci creature hanno suggerito un'umiliazione che supera il peggiore dei miei incubi... Sarò rapata a zero, mi vestiranno di stracci e mi porteranno in giro per le strade su un carro trainato da un mulo; in seguito, immagino che mi condurranno al patibolo... e questa sarà la parte meno penosa.» «Intercederò per te!» «Ma quanto sei gentile! Proprio tu, che io ho ingannato in modo così spaventoso mandandoti via da Caermelor affinché mio zio potesse ordinare agli spriggan di giocare un po' con te! Porta la tua pietà altrove, malckdrasp!» Lanciandole sguardi di puro odio, la nipote del mago sputò le parole come veleno. «Non sprecherò i miei sortilegi con te: credo che questo sia già stato fatto da qualcun altro... e molto bene, anche!» Rohain se ne andò, pensando a quant'era stata sciocca a sperare che finisse diversamente. Più tardi disse a Thorn: «Vorrei che la pena di Dianella fosse cambiata. Se mi trovassi nei suoi panni, essere allontanata da te sarebbe peggio di qualsiasi tortura o umiliazione». «Tu non sei come lei. Però, se proprio vuoi essere pietosa, la farò semplicemente esiliare.» «Le Isole Sorrows sono abbastanza lontane. E di suo zio, che farai?» «Non devi sprecare la tua compassione per i malvagi.» «Bentornata a Corte, Rohain», disse Thomas il Poeta. Il tono era grave ma nei suoi occhi guizzava un sorriso. «Senza di voi, sentivamo che ci mancava qualcosa. Al momento Dianella è indisposta ma il resto del Gruppo, ben nutrito di scandali, se la spassa più che mai... Se non fossi
incapace di esagerare, oserei dire che a ogni istante aggiungono una parola nuova al cortigianese.» «Salve, Sir Thomas», rispose Rohain, imbarazzata. «Oh, non c'è bisogno di essere a disagio a causa mia, carissima! Naturalmente avevo capito sin dal primo istante che non venivate dalle Isole Sorrows e lo stesso dicasi di Roxburgh. A noi importava poco... una gentile damigella come voi non poteva certo minacciare la sicurezza dell'Impero! La vostra bellezza ci ha disposti favorevolmente e, per giunta, i vostri modi offrivano un piacevole diversivo rispetto alla monotona etichetta di Corte e alle meschine ossessioni del cosiddetto Gruppo. Più vi conoscevamo, più ci piacevate... e sapere che un tempo avete servito un Casato di Cavalieri della Tempesta non vi sminuisce ai nostri occhi. Non c'è da vergognarsi del lavoro onesto! Non temete, il vostro segreto è al sicuro. Nessun altro lo conosce.» «Perdonatemi, signore, per quell'inganno!» «Consideratevi perdonata. Tuttavia la vostra strada - che è poi la stessa di Sua Maestà - sarebbe stata più liscia se ci aveste dato qualche magra briciola di confidenza in più.» «È vero, signore... Mi angoscia pensare a quanti guai sarebbero stati evitati se avessi parlato!» A Isse è stato versato molto sangue a causa della mia presenza! «Sciocchezze!» la contraddisse il bardo, intuendone i pensieri. «Non è stata colpa vostra, bensì di Huon il Cacciatore! Venite, ora!» aggiunse, con giovialità. «Non angustiatevi. Non vi conforta pensare che il vostro Dainnan delle terre selvagge vi abbia cercata e ritrovata e che vi siete riunita a lui?» Scosse il capo, con un sospiro di rimpianto. «Se lo avessi saputo! Ah, se solo avessi saputo a chi apparteneva il vostro cuore...» mormorò. «Se io avessi fatto il nome di Thorn, voi non avreste esitato ad aiutarmi!» «Infatti, mia cara. In ogni modo, tutto questo fa parte del passato: ora è tempo di essere felici! Venite, lasciate che vi conduca nella Sala da Disegno Azzurra. Lady Rosamonde e Maiwenna vi aspettano con impazienza e così pure Alys e i figli di Roxburgh.» Il sole invernale brillava col freddo pallore di un doblone. Come dipinti ad acquerello sul cielo nebbioso, i sempreverdi alzavano braccia di aghi pungenti a offrire gruppi di pigne simili a tozze candele. Era il ventiquattro di Fuarmis; mancavano sei giorni alla Festa della
Primula con le sue candele, le spose, il pizzo bianco, i ferri di cavallo e le processioni di pecore inghirlandate coi primi timidi fiorellini primaverili. Quell'anno il periodo delle feste tradizionali sarebbe stato esteso, per culminare con le celebrazioni del fidanzamento reale che avrebbero avuto inizio il quindici di Sovrachmis, il Mese delle Primule. Nell'intervallo tra le due date ci sarebbe stato un crescendo di attività: nei cortili del palazzo sarebbero sfilati carri colmi di ornamenti floreali, addobbi, leccornie e prodotti di ogni genere e ogni mercante, sarto o artigiano di Caermelor avrebbe colto al volo quell'occasione di presentare e vendere i propri prodotti, che ne fosse stato richiesto o meno. A dispetto della guerra tuttora in corso a Namarre - le cui truppe minacciavano continuamente di oltrepassare il Ponte di Terra di Nenian per invadere il nord di Eldaraigne - la popolazione si dedicava ai preparativi per i festeggiamenti con zelo e intraprendenza. Vista dall'interno, la Corte sembrava un posto del tutto diverso: per Rohain fu come se un sipario le fosse caduto dagli occhi. Veniva presentata ad aristocratici che non aveva mai incontrato, si trovava a visitare quartieri del palazzo di cui non sospettava neppure l'esistenza e tutti la trattavano con un rispetto così ossequioso che stentava a farci l'abitudine. Il suo nuovo rango era quasi snervante. Ovunque andasse i cortigiani le si rivolgevano con deferenza e una folla di curiosi stazionava presso le porte esterne dal mattino fino a tarda sera, speravano di poter dare uno sguardo alla promessa sposa del ReImperatore James XVI della Casa di D'Armancourt e Trethe, Supremo Sovrano della Grande Eldaraigne, Finvarna, Seve messe, Luindorn, Rimany, Namarre e degli altri Reami e Territori. Coloro che facevano girare il complesso meccanismo della Corte avevano sparso la voce che la futura sposa discendeva da un casato nobile ma decaduto a causa di circostanze infauste e ormai semidimenticato; gli eventuali mormorii di disapprovazione e i pettegolezzi venivano soppressi sul nascere, con fermezza. Il ReImperatore poteva permettersi ogni capriccio e tutti dovevano accettarlo: essendo più in alto di ogni altro, i suoi atti erano al di sopra delle regole e delle convenzioni. Il popolo, da parte sua, era felice che finalmente il sovrano prendesse di nuovo moglie. Le chiome di Rohain erano tuttora nere per la tintura fornitale da Dianella, che si era dimostrata difficile da togliere; lei la considerava una fortuna perché essere pubblicamente riconosciuta come una talith avrebbe dato
adito a nuove supposizioni in merito alle sue origini e rischiato di distruggere le accurate costruzioni dei membri anziani della Casa Reale, i quali desideravano con ardore che la promessa sposa di Sua Maestà fosse accettata da tutti come una nobildonna. «Continui a chiamarmi Capelli d'Oro ma ora i miei capelli sono neri come i tuoi», disse un giorno a Thorn. Lui scosse le spalle: «Tingili pure come preferisci ma, sotto sotto, rimarrai sempre Capelli d'Oro». La notizia del fidanzamento reale viaggiò fino alle più lontane propaggini dell'Impero di Erith. A Caermelor c'era un gran ribollire di attività e rumori ma entro le mura del palazzo regnava un meraviglioso senso di pace e d'indisturbata serenità: la città vorticava e Rohain n'era al centro, tranquilla nell'occhio del ciclone. Constatare la portata della sua nuova autorità e importanza come personaggio di Corte le toglieva il fiato. L'uso disinvolto che Thorn faceva del potere la intimoriva, spingendola a chiedersi come avrebbe fatto a mostrare la stessa indifferente regalità. Tutto questo, nel nome della Grande Stella... Tutto questo per me? Ogni tanto, la previsione di quello strano ragazzo alla Torre di Isse tornava a tormentarla. Per lei, in quell'ambiente protetto, non c'erano fretta o problemi... soltanto i giorni che scivolavano via come pioggia lungo una grondaia. Giorni trascorsi tra le chiacchiere spicciole col Principe Edward, con Sianadh (quando quest'ultimo non si stava divertendo con le cuoche e le cameriere nei locali di cucina), con Thomas il Poeta o con entrambi: i due ertish avevano trovato una sorprendente intesa, basata sul comune amore per le buone storie e i boccali schiumanti. E poi, naturalmente, c'era l'esperta e cinica Lady Alys-Jannetta con la sua vivace progenie... Rohain occupava ormai una posizione tale da poter fare a meno dell'estenuante compagnia del Gruppo. Nel frattempo, gli affari di Stato continuavano a portare altrove Thorn e lei ingannava l'attesa del suo ritorno aggirandosi in carrozza per i prati reali - in amene campagne sparse di nebbia, dove stava sbocciando la primavera - accompagnata dalle sue cameriere, dalla nobildonna talith Maiwenna e dalla giovane Rosamonde di Roxburgh. Maiwenna era diventata sua amica e Rohain si fidava di lei al punto che meditava di rivelarle, prima o poi, la propria discendenza talith. In un'occasione le domandò se avesse mai saputo qualcosa di una damigella della sua razza rapita o scomparsa: Maiwenna cadde dalle nuvole e non fu in grado di fornirle nessun indizio che potesse condurla alla scoperta del suo
passato. Tuttavia trascorrevano molte ore insieme, parlando della storia di Avlantia. Rohain dedicava però la maggior parte del proprio tempo a colui che amava. La sua passione era intensa come una ferita al cuore. «Andiamo fuori... Queste mura mi soffocano!» diceva di solito Thorn. Ridendo e stuzzicandosi a vicenda, passeggiavano nei giardini e andavano a cavallo - oppure a caccia col falco - nella Riserva Reale dell'antica Foresta di Glincuith. Thorn le aveva donato uno sparviero e impartito qualche lezione di tiro con l'arco e, ogni volta, le appuntava tra i capelli una rosa nera il cui profumo era caldo come la Notte di Mezza Estate. Le aveva regalato anche un palafreno (bianco come la crosta della brina gelata) e un diadema di gemme simili a cristalli di zucchero. Il suo stallone, uno splendido e vivace quadrupede che lui amava quanto il fedele Errantry, si chiamava Altair; quello di lei, Firinn. Quelle ore d'intimità consentirono a Rohain di scorgere rari barlumi di timida dolcezza nell'uomo amato, esitazioni che contrastavano con la sicurezza da lui esibita in ogni altra occasione; era qualcosa di simile alla diffidenza delle creature selvatiche, come i cervi e gli uccelli. Talvolta, invece, rivelava la noncuranza di un adolescente - capriccioso, insistente e allegro come un giullare - e allora si perdeva in piccoli giochi e divertenti sciocchezze, cui ella partecipava con un abbandono che la sorprendeva. In quelle occasioni si scambiavano gentili e divertenti facezie che potevano rivelare risvolti insospettati... del resto, di rado lui era prevedibile. Thorn sapeva essere dolce come i morbidi venti che accarezzavano le valli settentrionali o duro come una pietra ma, per quanto cupo fosse il suo umore del momento, esso non influiva mai sul suo comportamento nei confronti di Imrhien-Rohain: con lei era sempre caldo, anche quando agli altri si mostrava gelido come le nevi eterne. Lei sapeva bene che in quel periodo inquieto c'era bisogno di lui alla guida dell'Attriod Reale ma Thorn delegava spesso le proprie responsabilità ai comandanti e ai ministri per poter trascorrere più tempo possibile in compagnia della sua promessa sposa. Per fortuna, le attività dei ribelli e degli eldritch wight nel nord di Eldaraigne e in Namarre si erano inaspettatamente diradate e le scaramucce e i blitz nemici erano quasi cessati: sembrava che gli avversari stessero radunando le forze, come per prepararsi a lanciare un'offensiva su larga scala. C'erano, tuttavia, certi affari di Stato dai quali nemmeno il ReImperatore poteva esimersi. Un giorno, mentre Thorn era assente, Rohain
passeggiava nella pinacoteca del palazzo a braccetto col giovane Principe. Si fermarono davanti a una finestra e guardarono fuori, nel Giardino d'Inverno dove gli alberi di mele selvatiche dormivano, coperti di licheni. «Mi piacerebbe vederli in fiore... ora sembrano così spogli!» disse lei. «I meli selvatici hanno fiori deliziosi. Credo che siano i miei preferiti!» «Li vedrai questa primavera... e anche tutte le altre», rispose Edward. Agganciato alla cintura del ragazzo c'era il corno da caccia di suo padre, bordato d'argento. Mentre voltava le spalle alla finestra, esso tintinnò contro un piedistallo di marmo e il Principe notò lo sguardo di Rohain. «Per tradizione, il Coirnéad è portato solo dal monarca regnante... ma lui ha voluto che lo tenessi io, dicendo che avrebbe potuto essermi utile.» «Il Coirnéad?» «Un corno di fattura faêran. Da secoli viene tramandato agli eredi della famiglia reale.» «È un bell'ornamento.» Una ruga apparve tra le sopracciglia del Principe. Continuarono a camminare ed Edward, titubante, fece per dire qualcosa ma esitò. «Sei molto bella», mormorò d'un tratto. «Ti prego, non pensare che voglia lusingarti se ti dico che la tua bellezza offusca quella di tutte le altre. Mio padre ha scelto saggiamente la sua nuova consorte e la sua volontà è legge per me; ho fede nel suo cuore e nel suo giudizio. Sarò felice di accettarti come...» «No! Io non potrò mai prendere il posto di tua madre... però, ti prego, permettimi di essere tua amica!» «D'accordo», acconsentì lui, di getto. «Anch'io ti sarò amico, nonché tuo devoto ammiratore. Niente mi rende più felice che darti il benvenuto nella nostra famiglia, cara Rohain!» Si portò alle labbra una mano di lei e la baciò con un sorriso giovanile, aperto e ingenuo. «Questo completa la mia felicità», rispose lei, restituendogli il sorriso. Lo spiazzo da falconeria del castello era vasto, poiché vi si addestravano non soltanto falchi ma anche astori e altri rapaci, tra cui una maestosa aquila maschio di nome Audax. Il Mastro Falconiere aveva otto cicatrici bianche sul cranio calvo, dove gli artigli di un'aquila l'avevano ferito mentre stava rubando le uova dal suo nido; al mattino lo si poteva vedere - insieme coi suoi falconieri e garzoni - mentre faceva roteare le esche per richiamare sul pugno gli uccelli semi-addestrati. Le esche erano rappresentate da un paio d'ali di piccione o di gazza, seccate in posizione aperta e legate con dello spago a un pezzo di carne fresca.
Spesso il suono nitido della campanella di un girifalco di ritorno echeggiava alle prime luci dell'alba. Il rapace strideva un saluto mentre planava e rallentava remigando con le ali, con gli artigli tesi in avanti a cercare il guanto imbottito del falconiere e la selvaggia gioia del volo che gli brillava ancora negli occhi cerchiati d'oro. Il Mastro Falconiere insegnò a Rohain a riconoscere i rumori tipici del proprio mestiere - il tintinnio delle campanelle, le strida dei predatori alati, i fischi, il violento fruscio di ali che prendevano il volo, le chiacchiere degli apprendisti e dei falconieri - e le mostrò con orgoglio i capanni pavimentati in ghiaia pulitissima che ospitavano i falchi pescatori, gli astori, gli sparvieri, gli smeriglioni, gli ossifraghi, i falchi pellegrini e i grandi e nobili girifalchi, incappucciati sui rispettivi posatoi. I garzoni asportavano alacremente lo sterco e ripulivano i muri dalle piume di muta; un assistente affilava il becco di un astore con un coltello dal manico d'osso e una pietra abrasiva mentre un altro riparava la penna timoniera di un falcone grigio, attaccandone con cura un'altra alla base di quella spezzata. Un apprendista stava pesando un falco pellegrino su una stadera. «Bisogna tagliarglielo», disse. «Ha messo su troppo peso.» «Tagliarglielo?» ripeté Rohain, perplessa. «Tagliargli il cibo, milady», spiegò l'altro, con un rispettoso inchino. «Gli allegri smeriglioni cacciano le allodole», disse il Mastro Falconiere accompagnando Rohain tra gli uccelli. «Ma i vivaci astori sono i predatori del cuoco, diciamo noi, perché attaccano la penna e il pelo. Sono cacciatori nati, gli astori, veloci come frecce... ma con loro non bisogna mai essere duri o sgarbati: vanno addestrati con pazienza.» L'aquila maschio stava da sola su un magnifico posatoio, guardandosi intorno con gli occhi fieri dall'iride d'argento. Aveva un piumaggio nero, la testa chiara e le estremità delle penne remiganti grigie e le sue forti zampe erano interamente coperte di piume. «Teniamo i falchi e gli sparvieri ben lontani da Audax il Grande, altrimenti se li mangerebbe», spiegò il Mastro Falconiere. «Obbedisce al richiamo di due soli uomini: io che l'ho addestrato e Sua Maestà Imperiale. Soltanto i sovrani possono cacciare con l'aquila e non tutti ne sono all'altezza... Audax ha un'apertura alare di sette piedi, pesa più di sette libbre e il suo sperone posteriore è spesso quanto il mignolo di un uomo. Può avere la meglio su piccoli cani e cerbiatti.» Un falconiere sopraggiunse con un cesto di pulcini di un giorno e un altro contenente rane e lucertole. L'aquila si mosse e allargò le ali. «Coo-ee-
el», squittì. «Pseet-iou, pseet-iou.» «Buono, buono!» disse il Mastro Falconiere. L'inverno stava finendo. Le distese di brina su cui la luna tesseva ragnatele d'argento erano ormai un ricordo e così pure le lame di gelo che vestivano ogni casa di riflessi cangianti come il vento shang e creavano sui vetri piume di ghiaccio dal disegno squisito. Il sole somigliava ogni giorno di più a una rosa gialla all'alba e a una rossa al tramonto e un fremito nel sangue annunciava l'arrivo della primavera. Ogni ramo spoglio portava ora la promessa di germogli e gemme; la brezza sussurrava come un respiro profumato e i raggi del sole assumevano riflessi aurei. Nella Foresta di Glincuith gli unici rumori erano le brillanti note degli uccelli canori, la dolce musica delle fronde degli alberi - cui sembravano intrecciarsi risa misteriose - e il pigolio delle creature eldritch, simile al lamento di strani volatili. Thorn intrecciava i primi fiori in ghirlande che poi metteva al collo della sua amata e i piccoli petali multicolori, poggiandosi sulle spalle di lei, si mescolavano all'oro dei capelli che, dopo molti lavaggi, era finalmente riemerso da sotto il nero artificiale, tanto che la gente pensava che se li fosse tinti di biondo. A volte Thorn e Rohain cavalcavano nell'aperta campagna col loro seguito, del quale facevano parte il Maestro Falconiere e i suoi uomini. Il giovane sovrano mandava allora Audax all'inseguimento di anatre, oche selvatiche e pernici. L'aquila era un'esperta cacciatrice, capace di molte strategie: roteava nelle correnti ascensionali - così in alto da sfuggire all'occhio umano - e da lassù riusciva a scorgere tutto ciò che si muoveva in un'ampia zona; poi, una volta scelta la preda, sbucava da dietro un'altura (al riparo della quale aveva perso quota senza farsi notare) e volava rasente al suolo per calare sul bersaglio all'improvviso. Altre volte cominciava l'attacco con una lenta planata lunga quattro miglia e in piena vista oppure - e questa era la manovra più spettacolare di tutte - si fermava in volo sulla verticale dell'obiettivo e si lasciava cadere come una pietra, non riaprendo le ali che a poche iarde dal suolo e piombando con gli artigli protesi addosso alla preda, sulla quale veniva scaricato tutto l'impatto del suo peso. Non mancava mai di colpire il bersaglio. Rohain fece una scoperta. Era della stessa natura dei sogni-rivelazioni delle Tre Facce, dei Ratti e del Cavallo Bianco. Dopo il suo ritorno da Isse e il mancato viaggio alle
Torri della Caccia, una verità aveva cominciato ad apparire per gradi dentro di lei: era il ricordo di Erith. O meglio, erano le ossa di Erith che riemergevano nude dalle acque dell'oblio, prive di ogni altro contorno: niente a proposito della sua storia o dei suoi abitanti... c'erano solo la formazione delle terre e una mappa dei loro contorni, etichettata coi nomi delle città e dei villaggi. In qualche modo, la consapevolezza che il mondo aveva tre dimensioni era molto radicata in Rohain. La quarta, ovvero il tempo, mancava ancora... Tuttavia esso scorreva inesorabilmente verso il giorno del fidanzamento ufficiale. Nelle radure del Glincuith la nera rete di rami senza foglie dava forma, di giorno, a un soffitto a pannelli di zaffiro; di notte, invece, era piuttosto un tetto di vetro affumicato cosparso di ghiaia di stelle. Rohain vi trascorse ore piacevoli, imparando i passi di numerose danze con un compagno la cui leggerezza su quel terreno era tale da farle pensare che i loro piedi si muovessero nel vuoto; Thorn era un ballerino dai riflessi pronti, svelto nel raccoglierla dopo ogni piroetta, nel farla roteare come una bambina mentre la gonna le si gonfiava intorno come una camelia in fiore, nel sostenerla e nel guidarla. La teneva così stretta che il suo cuore batteva dentro il petto di lei. Un profumo di pino gli esalava dai capelli come mirra e, sotto la mano sinistra di Rohain, la sua spalla era come acciaio ricoperto da strati di costosi tessuti. La pallida luce del sole morente scintillava nei suoi occhi neri, fissi su di lei come carboni accesi. In quei momenti la passione minacciava di sopraffarla: era una malinconia fatta di terribile dolcezza... qualcosa d'inappagato, che saliva in lei e la consumava. Un sentimento simile irradiava da Thorn: una forte corrispondenza, un torrente di dannazione, una ferocia incatenata... una tempesta frenata a stento, avida e impaziente. Il fidanzamento ufficiale fu annunciato e celebrato dopo la Festa delle Primule anche se, proprio in quei giorni, altre legioni dell'Impero si stavano trasferendo a nord per sostituire quelle di stanza là ormai da mesi o per rimpinguare le difese dell'Impero. Il ballo reale fu un'esibizione di sfarzo e di gioielli e vi parteciparono nobili e dignitari di tutta Erith, per un totale di più di mille invitati. La futura sposa splendeva come un pezzo di sole e colui che le stava accanto sembrava, per contrasto, la gloriosa incarnazione della notte. Il pranzo fu sontuoso. Rohain sedette alla tavola alta sotto il baldacchino
- alla destra di Thorn - e condivise con lui calice e piatto. Alle loro spalle, arazzi sgargianti ornavano le pareti; davanti a loro torreggiava una torta a forma di cigno coperta da tremila penne di pasta di zucchero e, più in basso, la Sala dei Banchetti scintillava di luci e riflessi. Mentre conversava con Rohain, Thorn si voltò a osservare Roxburgh, che era seduto a tavola di fronte a lui: elegantissimo nella sua uniforme scarlatta e oro, il Comandante dei Dainnan aveva appena finito la sua abbondante razione d'arrosto e stava contemplando con evidente appetito gli altri vassoi. «Il Comandante è notoriamente una buona forchetta e stasera non intende smentirsi!» commentò Rohain. Approfittando di un momento in cui Roxburgh si era voltato a parlare con sua moglie, Thorn prelevò un paio di pernici arrosto da un vassoio e gliele servì. Roxburgh allungò una mano per afferrare una fetta di torta e, in quel momento, lo sguardo gli cadde sul piatto che aveva davanti (e che era stato vuoto sino a un istante prima): egli sbarrò gli occhi per lo stupore, costringendo il paggio del Re a nascondersi dietro un gonfalone per non rischiare di scoppiargli a ridere in faccia. Per l'occasione la nave-cigno era finalmente salpata dalla Scala d'Acqua (sul fianco della collinetta era stato aperto un varco per consentirne l'uscita) ed era ora ormeggiata nel grande cortile interno, a sufficiente altezza perché tutti i cittadini potessero ammirarla da ogni angolo di Caermelor: un gigantesco uccello bianco che ondeggiava al vento, trattenuto da catene d'acciaio. Durante il torneo pomeridiano i cavalieri in lizza diedero bella mostra di sé, affrontandosi in una serie di eliminatorie durante le quali non poche lance andarono in pezzi contro scudi e armature. Le cariche condotte su pesanti cavalli da guerra e i tonfi degli scontri scossero l'aria, finché la giostra si concluse con uno spettacolo di fuochi artificiali. Per tradizione i fuochi erano di competenza dei Maghi e infatti uno di essi, Feuleth, dirigeva i preparativi. Rohain, che si stava cambiando d'abito per la serata ed era come ubriaca per aver preso parte a tanti avvenimenti mondani, si rese conto che in città si era sparsa un'atmosfera carica di tensione. «Viviana, cosa sono queste voci che sento in giro?» domandò. «Un Mago di Gilvaris Tarv - Korguth Jackball o qualcosa del genere - è stato degradato e radiato dalla Lista e un pirata di nome Scalzwag è stato catturato.»
«Vuoi dire Scalzo?» «Proprio lui, milady.» Possibile che tutti i miei nemici siano stati eliminati tanto facilmente? La cameriera, però, non aveva ancora finito. «Stanno succedendo cose strane negli ultimi tempi... Maligne creature si aggirano per Caermelor; le si vede di notte, per le strade. Nel nord, poi, le cose vanno di male in peggio: pare che i condottieri-stregoni barbari e i signori della guerra si stiano di nuovo muovendo. Ci sarà una grande guerra, questo è certo! La pace è finita.» «Come al solito, non hai condiviso con me le ultime notizie! Com'è che tu sei al corrente di queste cose e io no?» La cameriera arrossì un poco. «Negli ultimi tempi siete stata occupata in faccende più importanti dei pettegolezzi, milady», rispose, un po' a disagio. «Non vi vediamo più molto spesso... Uscite senza di noi e, di giorno, siete ben di rado a palazzo.» «Questo è vero. Quali altre notizie girano in città?» «Solo un sacco di chiacchiere sui fuochi artificiali di questa sera!» Dopo il tramonto, lampioncini colorati sparsero la loro luce rosa per tutte le vie della città. Sui bastioni e sulle terrazze buie del palazzo una folla privilegiata aspettava che i fuochi avessero inizio mentre il resto della popolazione si era dovuto accontentare di ammassarsi intorno alle mura, nelle strade e sui tetti delle case. Feuleth «Dita di Fuoco», un Mago piuttosto giovane, si dava da fare nel cortile interno, infilando i detonatori nei tubi già riempiti di bianco salnitro cristallino, gialle spore di zolfo e altri generatori pirotecnici. Per aumentare l'effetto sugli spettatori, gridava ordini e incantesimi agitando un bastone impregnato di gramarye. Su una terrazza i membri dell'Attriod circondavano come una palizzata vivente Thorn e Rohain, intenti a osservare la città illuminata dalle stelle. In piedi accanto allo sposo, la giovane donna gli posò il capo su una spalla e lui la cinse con un braccio mentre le loro mani si univano. Alla luce delle torce, i loro profili erano un doppio cammeo ritagliato nel cielo scuro. Con un ululato di combustibili che si accendevano, lo spettacolo cominciò: centoundici fontane colorate esplosero a mezz'aria, iridescenti, sfolgoranti e crepitanti; dietro di esse, veloci proiettili schizzarono verso la cupola della notte per poi autodistruggersi in modo spettacolare, bruciando in una pioggia colorata di lapilli, frecce scintillanti, fulgida grandine, bolle,
confetti, petali e gioielli. Le girandole cominciarono a vorticare sopra le mura del castello, sprizzando scintille e intensi fruscii che si udivano a stento tra gli scoppi, i sibili, i fischi e i ruggiti. Il cielo si riempì di crepitanti comete. Il pubblico applaudì freneticamente. «Accidenti!» ansimò Ercildoune, sulla terrazza. «Stavolta il buon vecchio Feu ha davvero superato se stesso!» Quella notte, Rohain ebbe un'altra visione che, in seguito, chiamò «il Sogno della Festa». C'era una sala piena di tavoli apparecchiati e, intorno a essi, centinaia di ospiti, per la maggior parte di una bellezza straordinaria ma alcuni oscenamente brutti: persone eccezionali e grottesche parodie, tutti corrispondenti a un estremo o all'altro. Mentre Rohain camminava lungo la sala, gli ospiti si voltavano uno dopo l'altro per vederla passare e la semplice pressione di quegli sguardi la minacciava perché in essi v'erano potere, desiderio, forza e spregiudicatezza. Rohain si sentiva sopraffatta dalla paura. Non la stavano deridendo o disprezzando: tacevano e basta, fissandola con tanta insistenza da darle sui nervi. Celavano forse un pericolo dietro il loro silenzioso distacco, come dietro uno scudo che li teneva separati da lei ma che essi avrebbero potuto abbattere in qualsiasi momento, semplicemente mettendosi a ridere? All'estremità della sala qualcuno la stava aspettando: una persona che le voltava le spalle, per cui il suo volto non era visibile. Pur temendone la vista, Rohain teneva gli occhi su quella persona, affascinata: da un momento all'altro l'avrebbe vista in faccia e allora l'avrebbe riconosciuta. La persona si voltò... e si voltò ancora e poi ancora, iniziando più volte il movimento senza mai completarlo. Nel preciso istante in cui la pallida curva di un viso appariva alla vista, l'immagine palpitava e tornava nella posizione di partenza come uno scenario shang, mostrandole soltanto una nuca che cominciava a girarsi. Rohain sapeva che, prima o poi, quella persona si sarebbe rivelata... però, quando essa si fu finalmente voltata del tutto, lei vide solo un grande uccello che batteva le ali, nero come l'oblio. Si svegliò con un folle brusio di voci nelle orecchie e un mal di testa lancinante come una ferita. In città si moltiplicavano le segnalazioni di creature deformi che si aggi-
ravano nella notte: mai prima di allora, a memoria d'uomo, esse avevano osato penetrare oltre le mura di Caermelor. Dopo il tramonto, la gente si accertava di aver chiuso bene la porta e proteggeva la propria casa con oggetti capaci di allontanare gli eldritch wight; i Maghi e le shyster, dal canto loro, facevano ottimi affari vendendo talismani. Dai territori periferici giungevano notizie allarmanti: la Caccia Selvaggia era in piena attività. Il giorno successivo al ballo di gala, Thorn venne nell'appartamento di Rohain. «Se la città non è più sicura», le disse, in tono grave, «è solo questione di tempo prima che il palazzo venga aggredito dalle forze maligne degli unseelie. La feroce attività della Caccia Selvaggia mi preoccupa: un nemico pericoloso sta facendo di tutto per arrivare a te, Capelli d'Oro... e prima o poi potrebbe piombarti addosso, perché quelle creature sono immortali e capaci d'inseguire la loro preda per sempre. Io devo lasciare Caermelor, poiché il nord è di nuovo in fermento; stavolta, però, c'è una differenza: siamo certi che, dopo tante manovre diversive e voci infondate, i signori della guerra di Namarre stiano per attaccare. Finora non abbiamo combattuto che scaramucce e scorrerie ma ora ci attendono vere battaglie... Truppe fresche stanno già prendendo posizione: un gruppo di duecentosettanta soldati della Prima Divisione di Cavalleria è partito dalla base militare di Diari per Corvatti, a bordo di una Nave del Vento mercantile; tra due o tre giorni avremo completato il trasferimento. Altre due navi partiranno domattina, con un effettivo di settecento soldati... Non posso portarti con me sul campo di battaglia ma neppure lasciarti qui, perciò tu ed Edward sarete scortati in un luogo dove dovreste essere al sicuro durante la mia assenza.» «Ci separiamo, dunque...» Rohain si sentì mutare il sangue in piombo. Thorn le si avvicinò e, quando la loro alchimia trasformò il piombo in oro fuso, l'effetto non le giunse inatteso. Il respiro di lui era freddo e inodore come l'etere prima di una tempesta. «Credi che mi faccia piacere lasciarti? Io ti vorrei con me sempre, mia Dolcezza, giorno e notte... ma non ti metterò a rischio per questo. Un campo di battaglia non è posto per te!» «Non m'importa del pericolo. Prendimi con te!» Lui le posò un dito sulle labbra e scosse il capo. «No... Finché non potrò esserti di nuovo accanto, Capelli d'Oro, risiederai altrove.» 6 L'ISOLA
VERDI CHIOME, MARE OSCURO
Sorgeva un dì lontano, su una costa ventosa, una torre di pietra, solitaria e ormai corrosa. Nel buio, inquieto mar gettava un raggio che di notte recava il lume d'un messaggio a una terra fiorita di rose rigogliose, i cui baci lenivan le pene più angosciose. Dal Bacio della Rosa Trecento miglia nautiche separavano Caermelor dalle pericolose acque dove la ribollente furia dello Stretto di Dormjaggar penetrava nel Golfo di Mara, a sud di Punta delle Maree e a nord di Capo dei Venti. Era una zona evitata da tutte le Navi d'Acqua; una regione in cui, per quanto tranquillo fosse il vento e calmo il mare, si addensavano nebbie e nuvole che avvolgevano tutto in una foschia impenetrabile. Il nostromo fischiò e i pennoni cigolarono mentre l'equipaggio strambava per sfruttare meglio il debole vento. La Re James XVI penetrò dritta nell'oscuro banco di nebbia: fu come se un improvviso crepuscolo fosse caduto sulla prua e avanzasse verso poppa, mentre altrove il giorno brillava limpido e terso. La brezza che spirava da ovest bastava appena a gonfiare la grossa vela di gabbia e far sventolare lo stendardo reale e i lunghi nastri delle bandierine sugli alberi di mezzana e di maestra ma le vele di minor superficie stentavano a prendere il vento. Pezzi di carbone rosseggiavano nel braciere appeso a un treppiede sul castello di prua. L'equipaggio e i passeggeri, coi cappucci rivestiti di rete di talium gettati indietro, restarono a guardare mentre l'estremità della freccia veniva abbassata sulle braci. Appena gli stracci incatramati ebbero preso fuoco, in un solo rapido movimento Thorn alzò l'arco, tese la corda sin quasi al punto di sfiorare con le dita l'estremità incendiata e, con un tuang e un violento fruscio, spedì lo strale dritto nel cuore della foschia. Coi piedi solidamente allargati ad angolo retto rispetto al bersaglio nella classica posa dell'arciere, il giovane Re seguì con lo sguardo la freccia che volava alta e lontana. La vide sparire.
Poco dopo la nebbia cominciò a rarefarsi e a una distanza imprecisabile dalla prua prese forma un profilo vago, visto come attraverso un pezzo di vetro congelato. Oltre i bassi fondali - oltre la bianca spuma delle onde che si suicidavano contro i denti della scogliera - si alzava una montagna, ancora indistinta, con la vetta incoronata di nubi chiare... Un'isola, che sembrava galleggiare sul mare. «Liberate l'uccello», disse Thorn, consegnando l'arco al suo scudiero. Quello che sembrava una palla di neve o un foglio accartocciato fu gettato in aria e, scuotendosi, prese la forma di un piccione che dopo un paio di giri volò verso l'isola. L'uccello si dileguò nella stessa direzione in cui era scomparso il fiore rosso. Le onde investivano ora la murata di tribordo: il sartiame oscillava, gli alberi scricchiolavano appena e, qualche secondo più tardi, a quei rumori si unirono le strida dei gabbiani. Infiine apparve una scintilla, come un bottone di rame acceso sullo scuro sfondo della terra. «Eccola là!» esclamarono parecchie voci. «La Luce!» A quelle parole l'equipaggio riprese l'attività e i pennoni sugli alberi di trinchetto, di maestra e di mezzana furono orientati per ricevere il vento di poppa. Il timoniere girò la ruota, le vele si gonfiarono e la nave acquistò velocità, tagliando le onde in direzione dell'isola. La montagna torreggiava sempre più alta. Guidata dalla Luce, la Re James XVI s'infilò in uno stretto canale tra le scogliere, proseguì nel fiordo tra due promontori chiamato la Spaccatura sfidando la corrente insidiosa che vi scorreva - finché, scivolando fuori da quell'abbraccio e con la Luce della Torre ora sul lato di tribordo, entrò con l'agilità di un gabbiano in un bell'ancoraggio, riparato e tranquillo. Sopra il porticciolo, terrazze di basalto si susseguivano sino alla vetta incappucciata di nubi che dominava la scena con la sua formidabile presenza. L'ombra della montagna rendeva le acque nere come inchiostro e faceva apparire minuscolo il vascello dalle candide vele ora ammainate ai pennoni. Sulla spiaggia si allineavano barche da pesca simili a pesci rossi tirati in secca; altre scialuppe e piccoli pescherecci si muovevano verso la Re James XVI. Ceste piene di piccioni candidi come la neve e una borsa di lettere vennero trasferite sulle barche, ma non furono scaricate merci; quella non era una nave mercantile e la sua non era una visita d'affari. I pescatori dell'isola si erano avvicinati per vedere meglio la famosa nave del ReImperatore, nonché per dare un'occhiata a lui in persona (era trascorso molto tempo dalla sua ultima visita a quel fazzoletto di terra) ma intende-
vano soprattutto esprimere un doveroso benvenuto al Principe Edward e a Lady Rohain, poiché la notizia del loro arrivo li aveva preceduti. I capelli di Thorn accarezzarono le guance di Rohain quando lui si chinò verso di lei. Mentre le lunghe scialuppe del clipper venivano calate in mare, i due fidanzati si separarono, dopo essersi parlati sottovoce sul castello di prua a discreta distanza dagli altri. Quando si strinsero le mani per l'ultima volta, Rohain soffrì come se la sua carne si fosse fusa con quella di lui e ora ne venisse strappata. «Abbi cura di lei, Thomas. Te l'affido», comandò Thorn al suo bardo. Lei, però, stava pensando che era Thorn ad aver bisogno di essere protetto, dato che andava a combattere una guerra. Il vento girò - fatto che tutti salutarono come un ottimo auspicio - e l'elevatore a sildron fece scendere Rohain lungo il fianco della nave. Avvolta in un mantello di broccato rosa incrostato di cornaline, la giovane donna sedette a prua, rivolta verso i rematori; il capovoga latrò un ordine dalla sua postazione presso il timone e le scialuppe, circondate da uccelli marini e svolazzanti bucce di semi provenienti dall'interno dell'isola, si avviarono verso riva come insetti che sciamassero sullo scintillio di riflessi del sole. Le famiglie dei pescatori dell'isola accolsero il Principe Ereditario, la Promessa Sposa del Re, il Duca di Ercildoune, la Duchessa di Roxburgh e i suoi figli con canzoni folcloristiche, collane di giunchiglie e lampioncini colorati. Offrirono loro boccali e altri ninnoli abilmente ricavati da madreperla, coralli, zanne di tricheco, crani di foca e denti di capodoglio, nonché singolari mazzolini di fiori finti fatti di conchiglie colorate, brocche ricavate da grosse conchiglie e scatole per guanti ottenute da gusci di bivalvi. Gli isolani più ricchi donarono braccialetti e collane di perle, cinture ornate di granati, corindoni e cristalli di zeolite e cofanetti coperti di zigrino. Una rappresentanza dei contadini del luogo volle regalare scatole per tabacco da fiuto in agata e ambra, tazze ricavate da conchiglie di nautilus fornite di piedini e beccuccio in peltro, pestelli di porfido e un vaso di vetro nel quale nuotavano tre scagliosi draghi di mare: piccole, delicate creature che Rohain, più tardi, liberò di nascosto nel loro habitat naturale. Il sindaco del villaggio tenne un discorso. Dalla nave reale ferma al centro dell'insenatura provenne l'eco di un tipico coro marinaresco. A prua, gli uomini fecero girare l'argano spingendo con forza le barre orizzontali e l'ancora emerse dal mare come un pesce preso all'amo, grondando acqua e con un clangore di catene e un tonfo. Le vele sciolte ricaddero dai pennoni e nel giro di pochi momenti furono gra-
vide di vento; una scia fosforescente nacque a poppa e la prua sollevò baffi di spuma. Finché la vista glielo consentì, Rohain assorbì nella memoria l'immagine di Thorn in dusken - attraente in modo irresistibile, appoggiato coi gomiti alla murata di poppa - e lui non fece che fissarla, immobile, finché la distanza assottigliò il legame di quel mutuo sguardo e infine lo recise. Tutta la luce e i sorrisi del mondo furono trascinati via oltre la Spaccatura e si allontanarono, a vele spiegate. Quella, dunque, era l'isola segreta di Tamhania - talvolta chiamata Tavaal - che da quattrocento anni costituiva il rifugio privato dei Re della Casa D'Armancourt. Alcuni incantesimi marini la proteggevano da tutte le creature unseelie; inoltre era celata alla vista dei naviganti da una nebbia che si diceva fosse generata da un'erba che cresceva ovunque sui suoi pendii, la duilleag neoil o foglia-nuvola, i cui effetti erano incrementati da numerose sorgenti calde. L'isola diventava visibile per breve tempo quando veniva colpita da una freccia incendiaria scagliata verso la sua riva, ma nessun vascello avrebbe mai potuto trovare il canale entro la cintura di scogli senza la guida della Luce... e questa poteva essere accesa nella grigia Torre solo per ordine del Re-Imperatore o in seguito alla ricezione di una runa segreta portata da un piccione viaggiatore. Rohain si era accomiatata da Sianadh a Caermelor, dove questi si era imbarcato su una nave mercantile diretta nel Finvarna. Era stata una separazione allegra ma anche triste. «Non piangere, chehrna», aveva detto lui, con gli occhi azzurri velati di lacrime. «Questo non è un addio, in ogni caso! C'incontreremo ancora quando la guerra sarà finita e la Regina-Imperatrice farà il giro delle sue terre! Comincia con la migliore... la terra degli alci giganti, delle lunghe coste dirupate e delle taverne dove si ascoltano buona musica e storie interessanti. Non dimenticarlo!» L'aveva salutata e si era avviato lungo la passerella con passi vivaci e baldanzosi, agitando il berretto. Quella era l'ultima immagine di lui rimasta nella mente della giovane donna. La processione di carrozze e cavalieri salì lungo la strada segnata da ruote di carro che partiva dal villaggio dei pescatori, superò ponti naturali di basalto, aggirò burroni che squarciavano i fianchi della montagna, passò tra alberi piegati in forme bizzarre dai venti salmastri e giunse a Tana, la
tenuta reale. Alto sul versante montano, il castello di Tana sovrastava i tetti d'ardesia del villaggio e la baia dove i pesci volanti saltavano sulle chiare acque verdi. Ad accoglierli fu il Siniscalco di Tana, Roland Avenel. L'intera isola apparteneva alla corona. Di quei pochi Fehor cui era stato riconosciuto il diritto di abitare lì, alcuni appartenevano ad antiche famiglie discendenti da generazioni d'isolani (pescatori, agricoltori e ortolani che per secoli avevano pagato le decime sotto forma di servizi, viveri o gemme trovate nelle sabbie e nelle grotte della montagna) e altri erano nati sull'isola e sarebbero stati sepolti lì, laddove altri ancora avevano lasciato le sue nebbiose sponde quand'erano ancora giovani e non avevano più fatto ritorno. A volte si trasferiva su Tamhania gente che non vi aveva mai messo piede: coppie di sposi che avevano chiesto il permesso ai funzionari della corona ed erano stati giudicati idonei, forse perché avevano particolari capacità professionali da offrire alla comunità e desideravano un luogo tranquillo e appartato dove vivere in pace. Il maniero di Tana - la residenza reale - era assai più etereo delle poderose costruzioni del palazzo di Caermelor: era un castello che sembrava uscito da una leggenda, con torrette a punta e pareti traforate da bifore che sorgevano da una base granitica alta quanto una casa... i resti dell'antica fortezza sui quali l'edificio era stato costruito. Le mura erano adorne di straordinari lavori in muratura: colonne imprigionate tra le spire di animali di pietra, capitelli scolpiti a complessi motivi vegetali, nicchie ad arco il cui soffitto era formato da conchiglie giganti e statue di sirene, tritoni, marsuini, delfini e balene. Oltre il massiccio portone anteriore campeggiava l'armatura reale e sopra tutte le finestre del pianterreno, in pietrificato splendore, c'erano gli stemmi di antiche e nobili famiglie. Le rondini sfrecciavano tra i merli. Costruita su una delle poche aree livellate dell'isola, la dimora era circondata da terreni tenuti a parco. I prati erano collegati da sentieri pavimentati di foghe secche e i boschetti, fitti d'antichi alberi piegati dal vento, si specchiavano in piccoli stagni. Da un lato lo sguardo spaziava sull'oceano offuscato di nebbia, dall'altro svettava la montagna. All'interno, gli appartamenti abbondavano. Nei sotterranei, vasti locali dal soffitto a cupola erano utilizzati come cisterne, scavate nella roccia viva tra le fondamenta; una larga scala portava da questi al salone centrale ammobiliato con poltrone imbottite di velluto, divani ricoperti in seta e lunghi tendaggi e le cui pareti, riccamente tappezzate, ospitavano quadri a
olio dalle pesanti cornici. La biblioteca si trovava sullo stesso piano e così pure la sala da pranzo, dominata dalla marmorea balconata dei menestrelli. Al piano superiore vi erano salette e studi, le camere da letto - ciascuna decorata in stile marino - e la Sala delle Guardie: una galleria lunga cento piedi e così larga che dieci uomini avrebbero potuto percorrerla affiancati, con le pareti ornate di arabeschi azzurri, rossi e marroni. Tutti i soffitti a travi del castello erano dipinti con scene mitologiche, rifinite con la massima precisione. In quel sontuoso ritiro, i giorni volarono. Rohain cominciò ad abituarsi al nuovo ambiente: non era una vacanza... era più simile a una continua attesa. Così lei attese, col Principe Edward energico quanto Thorn ma per il resto assai diverso dal padre - e col rosso e lentigginoso Thomas di Ercildoune, la Duchessa Alys, Viviana, Caitri e Georgiana Griffin, la quale aveva abbandonato l'invidiosa padrona per unirsi alla crescente schiera di cameriere di Rohain. Con loro c'era anche Dain Pennyrigg, il giovanotto della Torre di Isse, che sembrava considerarsi lo stalliere di Rohain benché il grigio Firinn non fosse stato portato a Tamhania, essendo una cavalcatura inadatta agli erti pendii dell'isola. Sotto le nuvole perenni di quel tranquillo angolo di mare il clima era mite. Tartarughe scure come la malachite nuotavano sotto acque di giada trasparente e le coccinelle svolazzavano e si arrampicavano dappertutto, come rossi bottoni viventi punteggiati di nero. I pescatori gettavano le reti soprattutto nella placida fascia di mare tra la costa e la scogliera corallina, perché fuori da quei bassi fondali non sarebbe stato facile rientrare senza l'aiuto della Luce: in assenza di quel punto di riferimento, una barca era destinata a naufragare tra gli scogli. Questo era solo uno degli incantesimi marini a protezione dell'isola e faceva sì che, ogniqualvolta una flottiglia di navi da pesca si avventurava oltre quella barriera, il capitano dovesse prendere nota della parola d'ordine del giorno e portarsi dietro uno dei piccioni della Torre della Luce. Quand'era il momento di rientrare, la runa veniva disegnata con precisione su un pezzo di papiro da legarsi a una zampa del paziente volatile e poi - affinché quest'ultimo potesse distinguere la rotta verso casa - si scagliava una freccia incendiaria per rendere l'isola visibile. Chiunque avesse dimenticato la parola d'ordine o perduto il piccione o la freccia, rischiava di non rivedere più la sua casa; solitamente in casi del genere veniva inviata una barca di soccorso. Simili disavventure potevano finire tragicamente ma gli isolani
ci avevano fatto l'abitudine e, per giunta, un'arcana proprietà della Luce garantiva che le acque del canale fossero sempre calme: appena questo veniva illuminato la salvezza era sicura, anche se in mare aperto infuriava la tempesta più terribile. Il trascorrere del tempo fu tutt'altro che lento e tedioso per la futura sposa: Thomas il bardo le dava lezioni di liuto, le faceva suonare lo strumento, le insegnava a scrivere - a cominciare dalla runa di Thorn, la Þ - e di sera le impartiva qualche nozione di astronomia. Lei non sapeva se fosse stata capace di leggere e scrivere prima di perdere la memoria, eppure riconoscere le rune e manovrare la penna le riuscì subito facile. Quando giungevano messaggi personali di Thorn dal campo di battaglia, lei non permetteva a nessun altro di leggerli e, faticosamente, rispondeva di proprio pugno. Dai pescatori imparò a manovrare le piccole barche che loro chiamavano geolas. «Che razza di dialetto è quello che parlate tra voi?» volle sapere Rohain. «Una versione della Vecchia Lingua. Sua Maestà la parla bene», le fu risposto. Oltre all'istruzione basilare e alla musica, era tempo che lei apprendesse l'arte della difesa personale. Rohain fece chiamare il Siniscalco di Tana, Roland Avenel - un valoroso legionario che aveva visto circa cinquanta inverni - e gli disse in tutta franchezza: «So per esperienza che una buona istruzione e la capacità di saperla usare sono le armi migliori: nel deserto, persino il guerriero più forte morirebbe se non fosse capace di accendere il fuoco, trovare sostentamento e orizzontarsi con le stelle. Però una buona lama e una mano svelta possono salvare una vita... Voi m'insegnereste a usarle?» Fu così che il Siniscalco la addestrò a maneggiare una spada leggera e lo skian. Quando non era impegnata a tirare di scherma, strimpellare il liuto, andare in barca o scagliare frecce contro un bersaglio di paglia colorata, Rohain cavalcava insieme con Edward e gli altri compagni; trottavano lungo le spiagge scure coperte di sassi neri e rocce contorte come scorie di fonderia, facendo oscillare gli splendidi cappucci gettati all'indietro mentre gli zoccoli dei cavalli scalciavano la sabbia nera, scintillante di grani di dominite. Felci marine e alghe riempivano polle così limpide da far dubitare che contenessero acqua, se non fosse stato per i riflessi e le bollicine interne. Il sole spargeva un pulviscolo dorato sulle onde - un limpido merletto di ve-
tro vivo - e sulle dune si radicavano granate dalle foglie argentee, duri cespi di code di gatto e odorosi alberi del tè dai fiori di cera. Dopo il tramonto, i frangenti che si rompevano in alti ventagli di spuma assumevano una strana fosforescenza interna. Il vento marino mormorava alle orecchie di Rohain come la voce di Thorn. «Finché resterai qui, io non sarò mai lontano da te», le aveva detto. Possibile che quell'intensa e incessante nostalgia avesse il potere di creare un ponte tra loro? Rohain immaginava che lui la toccasse ogni volta che una carezza della brezza tagliava a pezzi la nebbia, le scuoteva la gonna e giocava coi suoi capelli. Fingeva che le morbide, calde gocce di pioggia che le scrosciavano sul viso rivolto all'insù fossero i baci di lui e la notte, nel dormiveglia, immaginava che il mormorio delle onde che si frangevano sotto il castello fosse il respiro dell'amato disteso accanto a lei, tanto che spesso cedeva alla tentazione di allungare una mano... Ma, nel punto in cui avrebbe dovuto esserci un volto, trovava soltanto l'impalpabile chiarore della luna e un'ombra al posto dei capelli. Tuttavia la sensazione della vicinanza di Thorn era innegabile: lei cercava di pensare che non fosse illusoria e, quando se ne convinceva, trovava una sorta di consolazione. In quanto al Cornuto e ai suoi Cacciatori, essi erano lontani oltre le barriere incantate dell'isola, dove non potevano rappresentare una minaccia; ogni giorno il loro ricordo si faceva più vago e sfumato, finché Rohain smise completamente di pensarci. Poiché era un'isola segreta, Tamhania-Tavaal era un'isola di segreti, alcuni dei quali la giovane donna cominciò a intravedere e sospettare man mano che i giorni diventavano settimane; passeggiando o cavalcando lungo la costa, lei e le sue cameriere avevano spesso occasione di scorgere i figli dei pescatori che giocavano tra gli scogli tappezzati d'alghe - a caccia di granchi o in cerca d'erbe marine da seccare per farne collane - sguazzando e ridendo nell'acqua. Tra loro c'era una ragazzina che indossava una collana di perle perfette, nel cui cuore traslucido stagnava una luce verdolina: erano tanto luminose da essere degne di una Principessa. Rohain trovò curioso che la figlia di uno di quei poveri pescatori portasse al collo un tesoro così prezioso con stessa la noncuranza di una fila di conchiglie su una cordicella... e quella non fu che la prima delle molte stranezze che scoprì. Un mattino, essendosi alzata presto dopo una notte insonne, uscì a caval-
lo prima dell'alba con le sue accompagnatrici; stavano scendendo lungo la riva quando notarono una donna seduta su uno scoglio, sopra la linea dell'alta marea. Lei non si era accorta di loro perché guardava verso il mare aperto ma, appena il primo lucore dell'alba schiarì le acque, una grossa foca nuotò verso lo scoglio e quando l'ebbe raggiunto mise fuori la testa e chiamò la donna, rivolgendosi a lei con voce umana. Lei le rispose. La foca salì sullo scoglio con poche, abili contorsioni, sgocciolando acqua. A un tratto la sua pelle si spaccò e cadde al suolo come un rivestimento molle e da essa emerse un uomo completamente nudo, che sedette accanto alla donna e cominciò a conversare con lei. Rohain e le sue cameriere voltarono i cavalli e si affrettarono ad allontanarsi, lasciando la coppia sulla riva lambita dalle grigie onde dell'alba. Quando Rohain parlò di quell'incontro a Roland Avenel, lui annuì. «Ah, sì... Anche a me è capitato di vedere un paio di volte Ursilla mentre se ne stava seduta ad aspettare su uno scoglio, la mattina presto. Vi prego, chiedete alle vostre ancelle di non parlare a nessuno di ciò che avete visto!» «Lo farò, se dite che è meglio così. Ma chi è questa Ursilla?» «È la moglie di un agricoltore dell'isola... una donna orgogliosa e attraente che sa occuparsi della casa, della fattoria e del marito. All'apparenza ha tutto quello che si potrebbe desiderare ma, sotto sotto, temo che non sia affatto contenta della propria vita.» «Lo avevo immaginato anch'io», annuì Rohain. Avenel fece una pausa e si grattò pensosamente la barba, come cercando le parole più adatte. Poi continuò: «Tutti e tre i figli di Ursilla hanno le estremità palmate. Le membrane di pelle tra le loro dita sono così sottili e delicate che la luce le attraversa e l'epidermide sul dorso delle mani è callosa. I loro capelli sono di seta fine, chiari come l'acqua alle prime luci dell'alba». «E il suo amore è uno dei segreti dell'isola», concluse sottovoce Rohain e quel discorso la fece ripensare alla ragazzina con la collana di perle. «Vi prego, Mastro Avenel, ditemi perché i figli dei pescatori portano gioielli così meravigliosi quando giocano. Credevo che fossero gente povera!» «Scommetto che avete visto la piccola Sally», osservò Avenel, ridendo. «Soltanto uno dei pescatori è ricco... eppure nessuno invidia la bambina, né cercherebbe mai di portarle via quel gioiello. No di certo!» «Perché?» «Be', per via del modo in cui ne è venuta in possesso. Si dice che, l'esta-
te scorsa, Sally stesse giocando con una bambola tra le rocce della riva e che, mentre era distratta, la figlia di una sirena gliela rubò. La piccola Sally corse a casa, piangendo... e il giorno dopo, quando tornò a cercare la bambola, la figlia della sirena uscì dal mare sulle rocce coralline, dove le onde si rompono con più forza.» «La figlia di una sirena!» lo interruppe Rohain, affascinata. «Voi avete mai visto il popolo del mare, signore? Che aspetto hanno?» Avenel sorrise e sospirò. Il Siniscalco di Tana era un bravo narratore e a Rohain piaceva ascoltarlo: ora, nel rispondere alla domanda di lei, l'uomo le dipinse con le parole quelle creature, simili a uomini e donne, ma con capelli verdi come le alghe marine e la metà inferiore del corpo a coda di pesce, coperta di un brillante mosaico di scaglie ramate; avevano la pelle chiara quanto la schiuma della risacca e occhi allungati color verdecetriolo. Avenel le raccontò che la sirena bambina era venuta a riva tenendo tra le manine candide quella collana di perle verdoline e l'aveva offerta a Sally come risarcimento per il furto. Con parole comprensibili ma dall'accento strano, aveva detto alla piccola umana che sua madre le aveva ordinato di sdebitarsi in quel modo... poi aveva guardato Sally coi suoi occhi di rubino e si era di nuovo tuffata tra le onde, in uno scintillio di scaglie iridescenti. «Quello è stato l'avvistamento più recente di una sirena», aggiunse il Siniscalco, «ma si trattava di una molto giovane, non di una precorritrice e portatrice di tempesta... non di una tempesta disastrosa, almeno.» «Si vedono di frequente, qui?» «No, milady, tutt'altro: è un evento molto raro. Dacché vivo a Tavaal non ne ho mai vista una e, in verità, non lo desidero affatto... Ogni tanto si vedono altri eldritch wight del mare ma questi avvistamenti sono insoliti. Nessuno di loro si lascia spiare volentieri dalla nostra razza.» «C'è qualche altro pescatore che possiede gioielli regalati dalla gente del mare?» «Il sindaco del nostro villaggio! Circa trent'anni fa, suo padre era fuori a pesca quando uno dei suoi uomini prese nella rete una sirena. Lei promise che, se l'avessero lasciata andare, avrebbe donato loro molta fortuna, perciò i pescatori la calarono in mare affinché potesse tornare a casa e mentre quella si allontanava a nuoto la udirono cantare: Ci son tante cose sul fondo del mare, e i pesci le mangiano senza pensare.
Se mangiano melma che a te sembra impura, il pesce pescato pulisci con cura! «I sei pescatori pensarono che li stesse prendendo in giro; soltanto il ragazzo che sarebbe poi diventato il padre del nostro sindaco prese sul serio il consiglio della sirena. Nei giorni successivi pulì i pesci con particolare attenzione e, nelle interiora di uno di essi, trovò una splendida perla che da allora appartiene alla sua famiglia.» «Oh, che fortuna!» esclamò Rohain, che adorava le storie di quel genere. «Vi ringrazio per aver condiviso le vostre conoscenze con me, Mastro Avenel... Anzi, già che ci siamo, vorrei pregarvi di risolvere almeno un altro dei diversi misteri che mi lasciano perplessa. La settimana scorsa, io e gli altri uscimmo a cavallo per andare alla Baia dei Benvarrey. Laggiù vedemmo un vecchio albero di mele che cresceva tutto piegato all'infuori, sul bordo di un'altura a picco sul mare. Dai suoi rami pendevano frutti maturi ma nessuno riusciva ad arrivare a coglierli e, quando il vento scuoteva l'albero, parecchie mele cadevano in mare. Questo ci è parso uno spreco... Come mai i pescatori poveri non raccolgono i frutti di quel melo?» «C'è una storia che riguarda quell'albero», rispose Avenel. «Anni fa i Sayle erano una grossa famiglia di pescatori, qui a Tavaal. Possedevano un orto ben tenuto che incrementava le loro sostanze e prosperavano... Al vecchio Sayle piacevano molto le mele e, quand'era la loro stagione, ne portava sempre una cesta in barca con sé. Quando lui diventò troppo vecchio per andare a pesca, però, le fortune della famiglia cominciarono a declinare... Uno dopo l'altro i suoi figli lasciarono l'isola, finché soltanto il più giovane rimase a curarsi dei genitori e della fattoria. Il suo nome era Evan. «Un giorno, dopo aver finito di piazzare le cleibh-giomach - le nasse per le aragoste - Evan si avviò a piedi su per la collina, in cerca di uova d'uccello. Fu allora che si sentì chiamare dal basso e, tornato alla riva, vide una benvarrey seduta su uno scoglio, all'asciutto: si dice che fosse molto bella, con una pelle di madreperla, occhi come anemoni di mare e una vita snella da cui partivano le prosperose curve di fianchi coperti di scaglie sino alla coda. Evan, preso tra il fascino e la paura, esitò ma poi la salutò cortesemente. Lei gli domandò notizie del padre e il giovane le parlò di tutti i guai della sua famiglia; quando tornò a casa, quella sera, parlò ai genitori di quell'incontro e suo padre ne fu molto compiaciuto. «'La prossima volta che vai a pescare, porta con te una cesta di mele', gli
disse. «La candida figlia del mare fu felice di poter gustare ancora le dolci 'uova di terra' e la buona fortuna tornò ad arridere ai Sayle... Ma Evan se n'era innamorato: trascorreva troppo tempo a parlare con la benvarrey quando lei si avvicinava alla sua barca o indugiava a lungo in mare nella speranza che lei si facesse vedere, così la gente cominciò a dire che era diventato pigro. Quando il giovane udì quelle voci ne fu tanto angustiato che decise di lasciare l'isola ma, prima di partire, piantò l'albero di mele sullo strapiombo e disse alla figlia del mare che, quando l'albero fosse maturato, le dolci 'uova di terra' sarebbero cadute dai rami solo per lei. Benché se ne fosse andato, la fortuna restò con la sua famiglia... ma l'amabile seelie si stancò di aspettare che le mele cadessero e, un bel giorno, se ne andò alla ricerca di Evan Sayle. Alla fine le mele maturarono ma né Evan, né la benvarrey tornarono mai a prenderle... e poiché l'albero era stato piantato appositamente per una eldritch wight del mare, nessun mortale volle mai toccarne i frutti,» Quando ebbe ascoltato quella storia, Rohain commentò: «Sembra che io abbia ancora molto da imparare. Avete detto che la ragazza del mare era una benvarrey - una wight seelie - eppure aveva la coda come una sirena... Come fece Evan Sayle a capire che era una benvarrey? E quante razze di gente del mare esistono?» Avenel rispose: «Ci vuole un isolano che abbia passato l'intera vita in riva al mare per riconoscere i vari eldritch wight con la coda di pesce, per metà pesci e per metà umanoidi. Le razze sono in tutto cinque... Ci sono le sirene coi loro compagni tritoni e poi i benvarrey, i morgan marini, i merrow e le maighdeanna na tuonne o fanciulle del mare. I benvarrey sono sempre amichevoli nei confronti degli uomini ma gli altri possono essere seelie, unseelie o entrambe le cose... Voi, però, non avete nulla da temere: intorno all'Isola del Re, il male non può allignare e le creature marine unseelie sono respinte dalle sue coste. Le sirene di Tavaal ci aiutano addirittura!» «In che modo?» «Quando gli uomini pescano al largo dell'isola, le sirene li avvertono dell'arrivo di una tempesta gridando: 'Shiaull er thalloo!' ovvero 'naviga verso terra!' Quando sentono questo grido, i pescatori sanno di dover fare subito vela per un riparo se non vogliono perdere la barca o la vita; per questo sperano sempre di non vedere mai una sirena... perché quando una di loro si mostra, emergendo tra le barche, è segno che si avvicina una bur-
rasca davvero terribile, come la Grande Tempesta del 1079 in cui molti perirono. Come voi saprete, milady, gli eldritch marini di ogni specie detestano essere visti dai mortali - a parte i silkie, che ci fanno meno caso - e poca gente ha posato lo sguardo su di essi. I racconti degli avvistamenti fanno parte della storia dell'isola.» Mentre l'uomo finiva di parlare Rohain notò nell'atteggiamento di lui un che di evasivo, come se avesse appena ricordato un fatto che contraddiceva la sua ultima dichiarazione. Mi domando se, per caso, ci siano dei seelie dell'oceano che vivono tra noi... «Be', io non ho mai visto una sirena ma un silkie sì, credo. Mi piacerebbe vedere qualcuno degli altri eldritch che abitano nel mare», sospirò la giovane donna. Cambiando tono, il Siniscalco disse: «Ora ho io una domanda da porvi, milady. Vi piacerebbe venire alla spiaggia, verso sera? Ci sarà una festicciola e un po' di musica. Le foche si avvicineranno... le foche vere, gli animali che vivono sulle scogliere intorno all'isola. Potrete vedere loro, se non il popolo del mare». «Si avvicineranno davvero?» «Sono attirate da ogni genere di musica, anche fischiata.» «Sarò molto felice di assistere a questo spettacolo!» Quella sera, al crepuscolo, gli isolani radunarono mucchi di legna secca e accesero dei falò lungo la riva, quindi imbracciarono le zampogne e cominciarono a suonare. Sulle scogliere, dove i cavalloni inarcavano le loro groppe di schiuma, le foche dal pelo luccicante si riunirono per ascoltare. Anche il corpulento e brizzolato Roland Avenel afferrò una cornamusa e marciò a piedi nudi sulla spiaggia, eseguendo motivi tradizionali tra le onde che si allungavano come grandi petali d'acqua sulla sabbia gremita di conchiglie. Quel fatto elettrizzò le foche; di lì a poco ne venne a riva un intero gruppo, che uscì dall'acqua e si radunò sul bagnasciuga. Rohain le osservava, affascinata: diciotto o venti vivaci mammiferi marini dal pelame scuro che ascoltavano - guardandosi intorno incuriosite - mentre Avenel suonava per loro. Annie (una giovane domestica di Tana, che si trovava tra gli isolani lì riuniti) toccò Rohain su una spalla. «La maggior parte delle creature che stanno là sono lorraly, milady. Altre no», le disse. «Non lorraly?» Rohain aguzzò lo sguardo verso le foche. «Ci sono dei silkie tra loro?»
«Statene certa!» I silkie erano un popolo del mare, i più gentili tra gli eldritch wight acquatici. Nella loro forma di foche nuotavano e basta ma in forma umana potevano anche camminare sulla terra, salvo poi tornare nel mare. Benché gli umani continuassero a perpetrare torti di ogni genere nei loro confronti, i silkie si erano sempre mostrati benevoli verso i mortali e non facevano male a nessuno. Qualche giorno dopo, Roland Avenel - che conosceva le abitudini dei silkie - condusse Rohain, il Principe Edward, Thomas di Ercildoune e Caitri lungo la striscia di litorale che lì chiamavano Ronmara. Era un pomeriggio lungo e soleggiato: gli ultimi raggi del sole avevano un tono rosato, soffiava appena un alito di vento e la marea era al minimo. Non molto lontano dalla costa sorgevano numerose isolette di origine vulcanica, la cui forma era quella di tanti piccoli esagoni piatti e schiacciati uno contro l'altro come le celle di un alveare; il loro versante che dava sul mare aperto affondava nell'azzurro cupo degli alti fondali mentre il lato opposto era bagnato da un'acqua bassa e cristallina, con molte polle chiuse tra gli scogli. Era lì che giocava il popolo del mare. I silkie avrebbero potuto essere scambiati per un normale gruppo di esseri umani snelli e flessuosi: uomini e donne, giovani, fanciulle, bambini. Avevano una pelle d'avorio ed erano nudi; alcuni prendevano il sole distesi sulle rocce mentre altri giocavano a rincorrersi qua e là. Ciascuno di loro aveva accanto un lungo fagotto rigonfio, lucido e grigio: la rispettiva pelle di foca. Quando si accorsero degli estranei che li spiavano corsero freneticamente a raccogliere le loro pelli, le indossarono in gran fretta e si tuffarono subito in mare, nuotando via. Solo dopo essersi allontanati a distanza di sicurezza si fermarono - ora in forma di foche - e si voltarono a osservare i disturbatori. «Sono davvero belli», esclamò il giovane Principe. «Oh, è vero!» gli fece baldanzosamente eco Caitri. «C'è poco da stupirsi se talvolta i mortali s'innamorano di loro», aggiunse il bardo. «Davvero?» domandò la fanciulla, voltandosi sorpresa. «Però quegli amori devono essere destinati a finir male sin dall'inizio», osservò Rohain. «Loro vivono in mare, noi sulla terra... Quando gli amanti appartengono a due mondi così diversi, come possono essere felici insieme?»
«Non lo sono mai», dichiarò Edward, seccamente. Avenel annuì, con espressione grave. Rohain stava per domandare: Come fate a saperlo? Ma poi pensò a Rona Wade e tacque. Lunghe onde piatte gremite di scagliette di sole giocavano ai suoi piedi mentre lei, riparandosi gli occhi con una mano, guardava gli uomini-foca che nuotavano via. Tre volte a settimana la moglie di un pescatore giungeva al maniero con la maggiore delle sue figlie a portare pesci per la tavola: suo marito era un vero esperto nel pescare i migliori. Il nome della donna era Rona Wade e in lei c'era qualcosa di strano... qualcosa di misterioso e profondo come il mare stesso. Rohain si divertiva a cercare di vincere la reticenza di quella brava donna attaccando discorso con lei tutte le volte che la incontrava ma non era mai riuscita a condurla su argomenti che non fossero i pettegolezzi dell'isola... né aveva potuto fare a meno di notare che i figli di Hugh e Rona Wade avevano le dita palmate come la progenie di Ursilla, anche se la gente aveva la delicatezza di non menzionare quella somiglianza. In quanto agli altri ragazzini dell'isola, se pure pensavano qualcosa di quell'aberrazione, li invidiavano: le dita palmate facevano di loro degli eccellenti nuotatori. L'amore di Hugh per la sua bella moglie era evidente a tutti ma lei lo ricambiava solo con una fredda cordialità. Come Ursilla, anche lei era stata vista recarsi da sola sulla riva deserta, dove poi gettava in mare una conchiglia o qualcos'altro; in risposta a quel segnale appariva una grossa foca e lei le parlava in una lingua sconosciuta. Ma Rona non era affatto come Ursilla. Al termine delle loro conversazioni, la creatura scivolava di nuovo in mare senza cambiare forma. Rohain era del parere che Rona non amasse Hugh ma che lo rispettasse abbastanza da non volerlo tradire. Sembrava che ci fosse molto amore non corrisposto su Tamhania e che la presenza dei visitatori avesse incrementato il numero dei casi: già pochi giorni dopo il loro arrivo, infatti, Georgiana Griffin (l'ex cameriera di Lady Dianella) aveva attirato l'attenzione di uno dei migliori partiti dell'isola. Sevran Shaw possedeva alcune piccole navi e una fattoria. Nato sull'isola, aveva solcato tutti i mari di Erith a bordo della sua corvetta prima di tornare a stabilirvisi; era un uomo acuto e intelligente, sempre allegro e di modi garbati eppure, pur essendo ormai sulla trentina, non si era ancora
sposato: non poche ragazze del posto avevano sperato di conquistarlo ma lui non si era mai innamorato prima che il suo sguardo cadesse su Georgiana Griffin. Per sua sfortuna, la giovane donna - nata e cresciuta nella rarefatta atmosfera della Corte di Caermelor - era assai più sofisticata e raffinata delle comuni popolane e aveva rifiutato categoricamente sia di lasciarsi corteggiare da lui che di accettarlo come amico. Erano trascorse diverse settimane e, benché lei lo evitasse e s'incontrassero di rado, il sentimento di Sevran si era fatto ancora più forte: sembrava proprio l'ennesimo amore destinato a finir male. Quello era il modo in cui si alimentavano i segreti e le passioni dell'isola. C'erano però, su Tamhania-Tavaal, anche misteri di genere non romantico, la cui soluzione appariva meno problematica. Nell'unico villaggio dell'isola vi erano i resti di mura granitiche e file di grossi pilastri di legno conficcati nel terreno senza una ragione apparente: alcuni si ergevano verticalmente o inclinati, come alberi privi di rami, mentre altri sostenevano decrepiti moli o inutili passerelle che si estendevano verso il mare ma terminavano a mezz'aria assai prima d'arrivarci. Pur trovandosi molto più in alto del livello dell'alta marea, quei sostegni erano incrostati dei resti di mitili e altri molluschi bivalvi. Quando Rohain domandò cosa fossero quelle strutture in rovina, Avenel le spiegò che il villaggio si era innalzato di sedici piedi negli ultimi dieci anni e che il porticciolo aveva dovuto essere ricostruito più in basso: una leggenda locale diceva che talvolta, nel corso degli ultimi secoli, l'isola aveva galleggiato sulla spinta delle correnti marine sino a incappare in fondali abbastanza bassi da arenarsi in una nuova posizione. Il giorno di mercato rappresentava per Rohain una piacevole distrazione: durante la luna piena, molte bancarelle venivano allestite nella Piazza del Villaggio Vecchio e da tutta l'isola arrivava gente per vendere prodotti di ogni genere. Attraversando a cavallo l'abitato con le sue diciannove cameriere e lo scudiero, Rohain notò una donna vestita col largo abito color geranio a scollatura alta comunemente adottato nella classe media; invece del cappuccio, però, sulla testa portava uno scialle e passava da una bancarella all'altra cercando di barattare giare di miele, mazzi di giacinti e crescione d'acqua, cedrata e aceto di mele in bottiglie di ceramica. Il viso dell'isolana attirò la sua attenzione: in quella donna c'era qualcosa che le stimolava un vago ricordo. In lei si accese la speranza: che finalmente avesse trovato una testimone del suo passato? Smontò, affidò le
redini allo scudiero e si avvicinò alla donna, che le rivolse un inchino. «Mi conoscete?» domandò Rohain. Gli occhi della donna erano due coppe colme di riflessi. Il tempo, gli anni e i dolori le avevano segnato il volto ma non ne avevano intaccato la bellezza. «Qui a Tamhania tutti conoscono Lady Rohain Tarrenys, la futura Regina-Imperatrice.» «Ma non mi conoscete personalmente?» «No, milady.» «Eppure il vostro viso mi è familiare... Come vi chiamate?» «Elasaid. Elasaid dei Meli.» «Siete sicura di non avermi mai visto prima?» «Sì.» «Cosa volete in cambio di una borsa di mele?» «Stoffa. Buona stoffa per un mantello nuovo.» «Broccato? Rylet? Panno di lana?» «Lana pettinata, se alla mia signora non dispiace.» «Date le mele al mio scudiero. La pezza di lana vi sarà consegnata domani.» Il baratto fu concluso: era un modo come un altro per stabilire un legame con quella donna. A Tana, Rohain trasse di nuovo in disparte Roland Avenel. «Oggi, al mercato, ho parlato con una donna... Si chiama Elasaid dei Meli.» Avenel si accigliò. «Con tutto il rispetto, milady, giudicate opportuno che la futura Regina-Imperatrice si mescoli ai popolani tra le bancarelle di un mercato?» Rohain sollevò le sopracciglia, sorpresa. «Mio caro signore, io parlo con chi voglio! Non c'è niente d'indecoroso nel conversare con una persona onesta in qualsiasi luogo, pubblico o privato. Voi dimenticate, signore, che non sono come i cortigiani di Caermelor, così attaccati alle gerarchie da non saper riconoscere un altro essere umano.» Avenel s'inchinò, mormorando qualche parola di scusa. «Vorrei sapere dove abita, questa Elasaid. Desidero farle visita», continuò Rohain. «Ai piedi del pendio orientale della montagna, sopra la Baia di Topaz», rispose il Siniscalco. «Ci si arriva per una mulattiera, buona solo per gli asini o i pedoni da tanto che è stretta, schiacciata tra rupi e burroni. Chi passa di là deve stare attento a Vinegar Tom... Non è un wight unseelie: quelli odiano gli umani e pertanto non possono vivere qui. È una specie di
guardiano del sentiero, nient'altro... C'è un ritornello che bisogna recitargli, se si vuole passare indisturbati; se uno non dice niente, Vinegar Tom lo porta via e l'abbandona da qualche parte al lato opposto dell'isola, così lontano da ogni strada che gli occorrono giorni per tornare a casa. La prima volta che dovetti andare da quelle parti m'insegnarono le parole: Vinegar Tom, bello e affascinante, tu che sbarri la strada del viandante, mi professo tuo grande ammiratore ma lasciami passare, per favore. «Io imparai a memoria i versi e mi avviai, sicuro di me stesso, lungo quel sentiero. A un certo punto, Vinegar Tom mi si parò davanti e vidi che si trattava di un canide dalle lunghe zampe, con una testa di bue e occhi enormi. Ne fui così spaventato che balbettai: Vinegar Tom, bellissimo e prestante, che ostruisci la strada del viandante, sarò il tuo più grande ammiratore se mi lasci passare, per favore. «Avevo sbagliato alcune parole ma la rima era giusta, così Vinegar Tom si limitò a gettarmi tra i cespugli!» Rohain prese una pezza di lana pettinata e, con la compagnia consueta, andò a far visita alla padrona del frutteto. Staccatasi dalla strada principale, la mulattiera risaliva lungo le pendici boscose della montagna: a destra di essa c'erano ripide scarpate che scendevano sino alla riva del mare e a sinistra, crepacci insuperabili. Le felci crescevano nelle spaccature di una roccia rugosa simile alla pelle di un'enorme bestia e la nebbia stagnava in fondo a gole chiuse tra strane formazioni di pietra, simili a cascate congelate. Salendo ancora, il gruppetto passò tra sporgenze e pinnacoli aghiformi e dovette aggirare una fenditura dalla quale scaturiva un gas bianco che si aggiungeva alla foschia dell'aria. I torrenti precipitavano con fragore tra i sassi in profondi canaloni e dalle pozzanghere, azzurre come pezzi di cielo imprigionati tra le radici degli alberi, si levava un vapore umido. La comparsa di Vinegar Tom fece sussultare Rohain e le sue ancelle ma oltrepassarlo non fu un problema: appena la ragazza ebbe recitato il ritor-
nello, la strana creatura si voltò con la docilità di un bambino e scomparve tra i cespugli. Il sentiero sboccava in un terreno pianeggiante che ospitava un orto, delle arnie e un ruscello d'acqua fresca che scorreva tra rive erbose fitte di margherite. Più oltre c'era una casupola col tetto d'ardesia, stretta nell'abbraccio di alcuni alberi contorti ai cui piedi spuntavano giacinti purpurei. Si udiva un cinguettio di uccelli e le api ronzavano tra le corolle dei fiori selvatici appena sbocciati. Una ragazzina malvestita dai capelli d'oro verde corse via dopo aver sbirciato le nuove arrivate da dietro i tronchi screpolati, pieni di germogli. Elasaid accolse le visitatrici e le fece entrare in casa. «Mi avete portato più stoffa di quanta ne valessero le mie mele», osservò, svolgendo la pezza di lana verde acqua. «Allora, pagami la differenza sotto forma di notizie!» «Cosa vuol sapere Vostra Signoria?» «Che luoghi hai visitato, se non ti spiace parlarmene.» «Be', ho percorso strade belle e brutte e posso raccontarvi quello che volete.» «Innanzitutto dimmi di quella tua figlioletta coi capelli biondi dai riflessi verdi!» «Volentieri», rispose Elasaid dei Meli, «perché le voglio molto bene. Una sera di sette anni fa - mentre l'ultima luce del tramonto esitava nel cielo e le civette migratrici non erano ancora tornate - dalle ombre che andavano calando sulla Baia di Topaz mi giunse l'eco di una bella canzone. Pensai che a cantarla fossero i morgan marini e, poiché ero curiosa di vederli, scesi verso la baia più silenziosamente che potei... ma non prestai abbastanza attenzione: scalzai un sasso con un piede e tutto ciò che vidi furono dei movimenti e dei riflessi nell'acqua quando i morgan si tuffarono dalle rocce. «Nella loro fretta di scappare, essi avevano lasciato indietro una delle loro figliolette, che era rimasta a ridere e saltellare sotto la cascata ai piedi delle alture. Quando vidi la piccola non potei fare a meno d'innamorarmene: soffrivo ancora per la perdita di mia figlia e così, giusto o sbagliato che fosse, presi con me quella creatura nata dalla schiuma, dalle alghe e dalle perle. «La tenni qui e l'allevai come se fosse figlia mia. La battezzai Liban. Per molti versi è una bambina normale ma non sono mai riuscita ad asciugarle del tutto i capelli e ha sempre addosso l'odore del mare. Le piace sguazzare
e giocare nel mio stagno d'acqua dolce e tra le onde, giù sulla spiaggia; è una bambina amabile ma tra gli isolani c'è chi è convinto che persino rivolgere la parola a una della sua razza porti sfortuna, dato che fuori da Tamhania gli unseelie causano naufragi. «Ho cercato di far dimenticare alla gente le sue origini... Ho fatto di tutto perché pensassero che fosse figlia mia, però alcuni non dimenticano e le vogliono male. La peggiore di tutti è Minna Scales: non mi ha mai perdonata per quella volta che il colt-pixie ha cacciato via suo figlio mentre cercava di rubare le mie Gilgandrias, le mele che si dice provengano dalla terra di Faêrie. Il wight gli ha fatto venire 'ai piedi patimento, doglie, crampi e tormento' e tutto il villaggio ha riso di lui... ma non è colpa mia se il colt-pixie gli ha gettato il malocchio: è il guardiano degli alberi di mele ed è un eldritch wight; io non ho nessuna autorità su di lui. «Minna Scales, però, non smette di darci fastidio. 'Sei uno strano pesce!' dice a Liban. 'Guarda come sgocciolano acqua i tuoi capelli... Se fossi una brava ragazza lorraly, andresti ad asciugarteli!' Ma Liban ride di lei e ce ne stiamo per conto nostro su questo lato dell'isola. La bambina è felice e io ho imparato a godermi ogni momento della sua gioia. Se penso all'altra figlia che avevo...» Le mani di Elasaid ebbero un tremito. «Non ho sempre vissuto una vita semplice come oggi», disse. «Sono venuta a Tavaal parecchi anni fa ma, molto tempo prima dei fatti che mi portarono qui, avevo trascorso l'infanzia in una dimora imponente, con molta servitù. Poi mi sposai... forse con poco raziocinio ma per amore. Ebbi tredici figli: dodici maschi e una femmina.» Nei suoi occhi stanchi passò un'ombra e lei si portò una mano al volto ancora attraente. «Le forze del male mi tolsero i primi dodici figli, trasformandoli in nere cornacchie. Qualche anno dopo aver avuto l'ultima l'abbandonai per impedire che subisse la stessa sorte, andando a vivere altrove. Non smetterò mai di pentirmene, tanto più che fu una sofferenza inutile. Quando tornai a casa, mio marito e mia figlia se n'erano andati chissà dove, senza lasciar traccia. Ero sola. Li cercai in lungo e in largo per tutte le terre conosciute, invano. Alla fine, stanca del mondo e delle sue sofferenze, decisi di trasferirmi qui per vivere il resto dei miei giorni in solitudine... finché trovai Liban. Qui vivo con lei, col mio ruscello e con gli alberi di mele; ogni mattina apro la porta a un nuovo giorno e ogni sera la chiudo dietro di me.» Era facile fare amicizia con quegli amichevoli isolani: Elasaid dagli oc-
chi grigi era una dei molti coi quali Rohain amava conversare e un'altra era Rona Wade, la moglie di Hugh, i cui figli avevano le dita palmate. Rona non si lasciava persuadere a rivelare i propri pensieri e desideri ma sapeva sempre ciò che accadeva in tutta l'isola ed era felice di parlarne con altri. In un sonnolento pomeriggio, Rona Wade e la sua figlia maggiore si fermarono a chiacchierare con Rohain alla porta di cucina del maniero di Tana mentre l'asino dall'aria triste, con le ceste del pesce ormai vuote, rimaneva in cortile ad aspettare che la padrona terminasse di raccontare i fatti dell'isola. «Perché i ragazzini vanno sempre a nuotare sotto gli scogli orientali, lontano dalla spiaggia?» volle sapere Rohain. «È laggiù che Urchen Conch gettò in mare la sua cassa piena di monete d'oro», rispose Rona. «I ragazzini le cercano. Ah... mi sembra di capire che non avete mai sentito questa storia, milady!» «No, infatti... e brucio dalla voglia di sapere perché qualcuno possa buttare a mare un tesoro! Chi è questo Conch?» «Urchen Conch era un uomo semplice, che visse e morì molto tempo fa. Ottant'anni or sono salvò una benvarrey gettata a riva dalle onde, riportandola in mare. Gli fu offerto di esprimere tre desideri ma lui non seppe cosa chiedere, così lei lo ricompensò rivelandogli dove avrebbe potuto trovare un tesoro. Seguendo le sue indicazioni, Conch scoprì l'esistenza di una grande caverna in riva al mare nella quale era celata una cassa piena di vecchie monete d'oro... ma non sapeva come disporre di quel denaro fuori corso e, alla fine, decise di disfarsene. Si dice che gettò a mare l'oro da una roccia sulla riva orientale dell'isola.» «Che strana storia!» commentò Rohain. La ragazza stava per fare altre domande quando i due figli più giovani di Rona arrivarono di corsa lungo la stradicciola, rossi in faccia e senza fiato. «Mamma!» gridarono. «Guarda cosa abbiamo trovato sotto un mucchio di grano! Non è bellissima?» Entusiasti per la scoperta, sollevarono un oggetto che riluceva di riflessi argentei: era una fascia lunga e ampia, ondeggiante nel vento che sferzava il pendio. Brillava come una distesa d'erba sotto la luna. Una pelle di foca. Gli occhi di Rona brillavano d'eccitazione, mentre lei esaminava la pelle e la palpeggiava, mandando gridolini estatici. I figli rimasero a bocca aperta nel vedere quella reazione emotiva così insolita nella madre ma, quasi subito, la sua gioia si placò e lei si volse a guardarli.
«Vi voglio bene, ragazzi miei!» disse, abbracciandoli frettolosamente. «Ve ne vorrò sempre!» Quelle parole rimasero nella loro memoria per molto tempo dopo esser state pronunciate, come fluttuando nel vuoto... perché, subito dopo, Rona corse via lungo la strada che scendeva fino al mare. I due figli più piccoli cominciarono a piangere mentre la maggiore saltava in groppa all'asino, annunciando: «Vado a cercare Pa'!» La fanciulla spronò al galoppo il recalcitrante quadrupede e i fratelli, in lacrime, le tennero dietro... ma non avrebbero mai più rivisto la madre. Rohain pianse per quella famiglia e portò loro cibo e regali. Il mattino dopo, nella sala da pranzo di Tana, i residenti della dimora si riunirono per la colazione. Le credenze, dai pannelli in legno di melo scolpiti con graziosi bassorilievi di aragoste e anguille, erano adorne di statuette di sirene e draghi acquatici ricavate da denti di narvalo e sulle pareti campeggiavano larghi mosaici di madreperla e squame di tartaruga. Vassoi coperti per riscaldare il cibo erano deposti sui bracieri a carbone; un argenteo bollitore per uova riposava sopra la sua lampada a spirito e la clessidra montata su di esso informava che i quattro minuti di cottura erano quasi trascorsi. Il bardo cosparse una pasta dolce con il pimento contenuto in una speziera a forma di faro. Il Principe stava bevendo da un boccale ricavato da una conchiglia di nautilo montata in oro. Qualcuno aveva lasciato sul tavolo una tabacchiera, accanto a una nave in miniatura scolpita in osso: la scatola era fatta - cosa non sorprendente - con incastri di conchiglie convesse e spiraliformi, fissate entro una montatura d'argento. Le suppellettili di Tana tendevano ad avere tema marino. «Avete sentito le ultime notizie, milady?» Mastro Avenel sorseggiava birra da un liscio boccale di legno, rinforzato da una base in argento lavorata a squame di pesce. Rohain annuì. «Rona Wade se n'è andata.» «Già, è tornata dal suo primo marito», disse il Siniscalco. «E Hugh, che stava rientrando dalla sua giornata di pesca, l'ha vista sbucare dalle onde appena il tempo necessario a dirgli addio. È un uomo distrutto.» «Be', abbiamo scoperto che si era macchiato di furto», osservò Rohain nel mescolare il contenuto di una coppa stretta tra le chele di due granchi di corallo. «Non giudicatelo troppo duramente, milady... È stato l'amore a spingerlo
a nascondere quella pelle di foca», la rimproverò gentilmente Avenel. «Io non sono di questa opinione, signore. L'amore non dovrebbe rubare né costringere.» Nella pausa che seguì, una cameriera carica di spazzole e stracci per spolverare attraversò zoppicando la sala per recarsi al piano di sopra, a far pulizia nelle camere da letto. Nei primi giorni Rohain aveva diffidato di quella giovane donna perché la sua zoppia le ricordava Pod e il suo comportamento sgradevole ma, dopo averla conosciuta meglio, si era accorta che Molly Chove era una ragazza allegra e simpatica, che la prendeva sul ridere quando gli altri servi la punzecchiavano chiamandola «Piè Veloce». «Mastro Avenel», disse ora Rohain al Siniscalco, «non si può far niente per la zoppia di quella serva?» «Molly se l'è buscata per colpa sua», rispose l'uomo, pulendosi la bocca con un tovagliolo di lino. «A Tana abitano un paio di eldritch wight minori... che arrechino qualche beneficio alla Casa è discutibile ma, col passare dei secoli, ci siamo abituati a loro.» «Aiutano nei lavori domestici?» «Forse», rispose il Siniscalco. «Ma penso di no. Mi è stato detto che sono pixie o bruney ma io non li ho mai visti... Comunque sia, le nostre cameriere Molly e Annie Chove mi hanno assicurato di essere sempre state gentili con questi seelie - offrendo loro ospitalità e cibo - e che, in cambio, costoro lasciavano una moneta d'argento nelle ciotole d'acqua potabile che le cameriere preparavano per loro in un angolo della cucina, ogni notte, accanto al camino.» «Credevo che ci fosse abbastanza acqua per i wight nei ruscelli e nei pozzi.» «I wight domestici odiano uscire dalle abitazioni che si sono scelti, però amano avere acqua pulita da bere e per lavarsi. Una volta, diversi anni fa, le cameriere dimenticarono di riempire le ciotole... così i pixie - di qualunque tipo fossero - bussarono alle loro stanze e protestarono a gran voce per quella trascuratezza. Annie si svegliò, diede di gomito a Molly e le disse che conveniva scendere subito in cucina per rimettere le cose a posto; Molly, però, voleva continuare a dormire e rispose: 'Lasciami in pace! Non mi alzerei neanche se a supplicarmi fossero tutti i wight di Tavaal'. Annie scese in cortile e riempì le ciotole al pozzo: il mattino successivo vi avrebbe trovato dentro sette monete d'argento da tre pence. Nel tornare a letto, sentì i wight che discutevano di come punire la pigrizia di Molly... Alla fine decisero d'azzopparle una gamba e la ragazza li udì dire che, trascorsi
sette anni, il difetto avrebbe potuto essere curato grazie a una certa erba che cresce sullo Sperone Ventoso.» «Non dissero il nome di quest'erba miracolosa?» «Lo dissero, però era così lungo e complicato che Annie non riuscì ad afferrarlo. Quando Molly si alzò, il mattino dopo, era zoppa e da quel giorno lo è stata sempre.» Il Principe Edward disse: «Il Mago dell'isola, Mastro Lutey, è un medico di ottima reputazione». «Purtroppo, però, non è stato in grado di curare Molly, signore», rispose il Siniscalco. «Allora la sua reputazione è immeritata!» «Vi prego, signore, non denigrate l'abilità di Robin Lutey! È molto competente, io stesso posso testimoniarlo... Sapete in che modo si guadagnò i poteri in virtù dei quali è chiamato Mago del Mare?» «Vi prego, illuminatemi.» «Da giovane, Lutey faceva il pescatore a Punta Lucertola e coltivava il suo fazzoletto di terra. Dopo ogni burrasca, andava sulla spiaggia a raccogliere gli oggetti gettati a riva dalle onde... Una sera, con la marea molto bassa, era appunto intento alle sue ricerche lì sulla riva, tra le alghe e gli scogli, in compagnia del suo cane: non trovò niente di utile ma, mentre se ne tornava a casa a mani vuote, sentì un gemito dietro alcuni macigni e, quando andò a vedere cosa fosse, scoprì una sirena rimasta all'asciutto.» «Per essere una razza così timida, è sorprendente quanto spesso se ne incontri qualcuna!» commentò Rohain. «Soltanto su Tamhania, milady. Questo è un posto speciale», disse Avenel. «Mi era stato detto che si fanno vedere solo prima delle tempeste.» «In quel caso si fanno vedere deliberatamente, per avvertirci dell'arrivo del maltempo. Quella, però, si era arenata per disgrazia e non aveva la forza di tornare in mare, per cui non le restava altra scelta che farsi vedere, benché non ci fossero burrasche in avvicinamento.» «La strana bellezza di lei lo sedusse, non è così?» Rohain stava imparando come andavano le cose coi wight del mare. «Sì, milady. Lutey le parlò - il popolo del mare capisce tutte le lingue - e la sirena gli spiegò che, mentre si pettinava i lunghi capelli verdi specchiandosi in una polla tra le rocce, la marea si era ritirata senza che lei se ne accorgesse. Pregò il giovane umano di trasportarla sino all'acqua e, dopo avergli regalato un pettine d'oro incrostato di perle, gli chiese di espri-
mere tre desideri e gli disse che, se mai si fosse trovato nei guai, non avrebbe dovuto fare altro che passare tre volte il pettine nell'acqua di mare chiamandola per nome e lei, Morvena, sarebbe venuta.» «Mi lasciate perplessa», disse Rohain. «Come mai la sirena non riusciva a camminare? Le altre donne del mare - e anche i loro uomini, i tritoni quando sono a terra hanno le gambe e camminano come voi e me.» «Questa è una delle differenze tra le sirene e i morgan marini, milady.» «Ogni giorno ne imparo una nuova», sospirò lei. «Quali furono i tre desideri di Lutey?» «Il potere di rompere gli incantesimi di gramarye maligno, quello di scoprire i furti e quello di guarire le malattie. La sirena glieli concesse ma soltanto nel grado in cui li possedeva lei stessa.» «Che uomo fortunato!» «Proprio così. Peraltro, la sua storia non finisce qui», disse il Siniscalco, permettendosi un lieve sorriso. «Mentre camminava sulla sabbia portandola in braccio, Morvena gli parlò delle meraviglie della sua casa sotto il mare e lo implorò di seguirla laggiù, per condividerle e goderne insieme. Robin Lutey ne fu affascinato e, senza dubbio, si sarebbe lasciato convincere se non fosse stato per un guaito di terrore del suo cane, che lo aveva seguito fin lì. Questo lo indusse a voltarsi e, alla vista del fedele animale e del suo spavento, la mente gli si schiarì ed egli si accorse di essere già immerso nell'acqua sino al petto, con le braccia della sirena strette intorno al collo. La coda di Morvena era immersa tra le onde e, se lui non avesse opposto resistenza, lei lo avrebbe trascinato con sé tra le foreste d'alghe, giù nelle profondità del suo reame. Solo che qui siamo a Tamhania, l'Isola dei Re, dove la malvagità non alligna; la sirena dovette lasciare la presa ma, mentre nuotava via, cantò per Lutey e questo lui non lo dimenticò mai. Si dice che il canto della sirena risuoni senza fine nel suo cuore e che, un giorno, lei verrà a cercarlo ancora... e stavolta lui la seguirà.» «Non lo attende un futuro sgradevole, allora», commentò il bardo, che aveva mangiato in silenzio. «Al contrario, signore!» esclamò Avenel. «Mastro Lutey possiede dalla nascita una capacità di precognizione che gli consente di vedere sprazzi del suo destino futuro e questa è una dote terribile. Da quel che ho capito benché lui non ne abbia mai parlato molto - se lui seguirà la sirena in fondo al mare non vivrà a lungo, perché un tritone geloso di nome Marool l'ucciderà.» Rohain ponderò quella storia. Aveva gli occhi umidi. «Dev'essere un
Mago potente», disse infine. «Non può fregiarsi ufficialmente del titolo di Mago perché non ha studiato al Collegio delle Nove Arti, tuttavia l'isola beneficia dei suoi poteri, che sono molto superiori a quelli di un comune Mago.» «Il che non è poco», ammise il bardo. «Cosa ne è stato del pettine della sirena?» Il Siniscalco rispose: «La gente dice che Lutey si reca spesso in riva al mare e che, quando sfiora le onde col pettine, Morvena viene da lui e gl'insegna molte cose. Ora è diventato anziano ma tiene sempre quell'oggetto con sé». «E nonostante tutto, non può curare la zoppia di Molly?» insistette Rohain. «Occorre un potere molto grande per curare chi è stato colpito dai wight.» Rohain si portò una mano alla gola. Quanto è vero, pensò. Improvvisamente impaurita, cercò la propria immagine nello specchio della credenza di fronte a lei e il volto riflesso la rassicurò. Il passato è passato e non deve più preoccuparmi. I giorni e le notti si susseguivano sulle tranquille spiagge di Tamhania ma il loro trascorrere portava pochi cambiamenti nella vita di Tana. Sul litorale, più in basso, le onde continuavano a gettare oggetti di ogni genere e a riportarseli via con l'alta marea; a volte erano così limpide e trasparenti che potevano essere viste solo grazie alla loro ombra sui bassi fondali sabbiosi e alle manciate di cristalli di sabbia, pieni di minuscoli riflessi, che esse rubavano alla spiaggia. Una sera, Rohain e Viviana entrarono nelle cucine del maniero e ci trovarono Annie e Molly Chove che ballavano col cuoco mentre lo sguattero addetto allo spiedo suonava il flauto. «Incredibile!» esclamò Rohain, così sbalordita da doversi sostenere al bordo di un tavolo per non perdere l'equilibrio. «Molly, com'è possibile che tu balli in questo modo? Da quel che vedo, salti e corri meglio di me... eppure, solo ieri zoppicavi come un henkie! Non credo ai miei occhi!» «Oggi sono andata in cerca di muschio», rispose Molly, rossa in viso e ansimante. Rohain sbatté le palpebre, perplessa. «Muschio, dici? E questo ti ha curato?» «No, padrona! Mentre ero sotto lo Sperone Ventoso e stavo riempiendo il cestino di ottimo muschio, un ragazzino dall'aspetto strano è saltato fuori
da un cespuglio e ha insistito per massaggiarmi la caviglia con certe foglie che aveva in mano. Di lì a poco, il dolore che mi faceva zoppicare è svanito e ho scoperto di poter camminare dritta... Ora riesco persino a ballare!» «I suoi sette anni sono finiti, padrona, capite?» spiegò Annie, mentre Molly e il cuoco riprendevano a ballare intorno alla cucina con frenetica allegria. «I wight mantengono sempre le loro promesse.» Giunse un nuovo mese e il villaggio celebrò la Festa di Beldane, i cui simboli erano i fiori, i cestini di uova e le zangole per il burro. Durante le danze del Giorno del Biancofiore, Molly Chove ballò più di tutti gli altri. Un mattino, dopo colazione, Rohain uscì dal castello in mezzo a una piccola folla di cameriere. Il mare era verde come succo di mela, soffici bioccoli bianchi scorrevano lungo il tetto del cielo e una singolare sfumatura grigiastra tingeva l'orizzonte nord-occidentale. Sull'isola c'era qualcosa d'intangibile che cominciava a metterla a disagio: non riusciva a capire cosa fosse e non sapeva se etichettarla come sgradevole... ma qualcosa c'era. «I rospi gemmati se ne stanno andando, milady», disse la giovane Caitri. «E le capre sui fianchi della montagna cercano le caverne. Mastro Avenel dice che questo annuncia l'arrivo di una brutta tempesta.» «Le tempeste mi spaventano», mormorò Viviana, giocherellando nervosamente con un ditale d'argento appeso alla ben fornita castellana che portava allacciata alla cintura. «Ieri notte ho fatto un sogno. Uno strano... su quell'uomo», disse Georgiana Griffin. «Che uomo?» domandò Rohain, fingendo di non saperlo. «Mastro Shaw.» «Mi pareva che avessi detto che non t'importava niente di lui.» «È vero, però... In questo sogno mi sembrava di essere andata a raccogliere le primule e le rose marine che spuntano tra i cespugli sul pendio a ovest di Grottafonda, quando ho udito un canto provenire dagli scogli, più in basso. Guardando giù, ho visto Sevran Shaw che dormiva sulla spiaggia e accanto a lui c'era una bella signora che lo osservava... Poi, d'un tratto, me lo sono trovato accanto e nel muovere i cespugli ne ha fatto cadere una pioggia di gocce tintinnanti, che poi diventavano d'oro puro... e vedevo la bella signora che galleggiava sull'acqua del mare, lontano da riva. Allora mi sono svegliata... ma poco fa, mentre passavamo accanto a quel pendio
fiorito, giuro di aver sentito lo stesso canto che avevo udito laggiù tra gli scogli, proprio come nel sogno!» «Anch'io l'ho udito!» disse una voce maschile. Sevran Shaw in persona stava salendo lungo il sentiero. «E ho visto la cantante e ho conversato con lei, la bella signora eldritch dei vostri sogni.» Un mormorio di stupore corse tra le giovani donne. «I miei ossequi, Lady Rohain. Signorina Georgiana, signore!» Shaw rivolse loro un galante inchino, togliendosi il cappello piumato. «Buongiorno, Mastro Shaw», rispose Rohain. «Dunque, voi dite di aver incontrato una sirena?» «Sì, milady. Tali avvistamenti sono rari e tra l'uno e l'altro trascorre molto tempo... L'ultima volta che si vide una sirena alla spiaggia sotto Grottafonda fu giusto prima della terribile tempesta nella quale mio padre perse la vita.» «Oh!» esclamò Georgiana. «Abbiate la gentilezza di non ripeterci le parole della sirena, signore, perché ho udito che porta sfortuna parlare tra noi mortali delle cose del loro mondo.» Shaw la guardò. «Non è il caso di preoccuparsene, perché io sono il padrone di quella ragazza del mare.» Detto questo, riferì loro di come il giorno addietro si era alzato prima dell'alba - quella notte non aveva chiuso occhio, per ragioni che disse di non poter divulgare - e si era incamminato verso la spiaggia, per veder sorgere il sole sopra gli scogli di Punta Seacliffe. Si era recato a Grottafonda - una località nota per i fatti strani che vi accadevano - e lì aveva udito un canto provenire da dietro un assembramento di rocce poco distanti. Andando a sbirciare tra i macigni aveva visto la cantante: una fanciulla sulle cui spalle candide ricadevano lunghi capelli verdi dai riflessi aurei, rivolta verso la grotta. Subito aveva capito che, pur avendo viaggiato per anni in tutti i mari senza mai vedere una sirena, adesso ne aveva una proprio dinanzi agli occhi. Shaw era scivolato tra le rocce verso quell'affascinante creatura, tenendosi basso e in silenzio; giunto a un passo da lei, però, aveva fatto rumore e la sirena si era voltata. La sua canzone si era spezzata in un grido di terrore e lei aveva cercato di gettarsi in mare ma lui l'aveva afferrata e - benché quella si fosse ribellata con energia stupefacente, trascinandolo con sé fin tra le onde - lui l'era rimasto avvinghiato addosso e alla fine aveva avuto la meglio, usando la forza bruta. Mentre la sirena si contorceva debolmente, sfinita ma ancora indomita, Shaw l'aveva distesa su uno scoglio coperto d'alghe e, nel guardarla, si era accorto di non aver mai visto nulla
di così selvaggio e amabile in vita sua. «Umano, cosa vuoi da me?» gli aveva chiesto lei con una voce dolce e tuttavia così strana che il sangue gli si era gelato nel sentirla. «Tre desideri», aveva risposto lui, memore della formula tradizionale. «Quali desideri avete espresso?» ansimò Georgiana. «Il primo: né io né i miei amici moriremo in mare com'è accaduto a mio padre. Il secondo: in ogni impresa mi arrida la fortuna. Quanto al terzo desiderio... è affar mio e preferisco non rivelarlo.» Nessuna delle presenti nutriva dubbi su quale fosse. «Cos'ha risposto la sirena?» domandò Georgiana. «'Sarai accontentato', è stata la sua risposta. Allora io l'ho lasciata e lei si è tirata su, ha messo la coda nell'acqua e si è tuffata.» Georgiana non disse molto dopo aver ascoltato quel resoconto. Mentre si avviavano di nuovo su per l'altura, tornando verso il castello, Shaw le offrì il braccio e lei vi si appoggiò. Ma una sirena era stata vista per la prima volta in dodici anni e ogni abitante dell'isola sapeva cosa questo significasse: presto gli elementi si sarebbero scatenati. Era in arrivo una terribile tempesta. Quel pomeriggio Rohain si recò al villaggio ma, quando raggiunse il mercato e guardò il cielo, vide che la foschia verdastra era avanzata dall'orizzonte settentrionale sino a coprire l'intera isola, simile a una cappa melmosa gonfia di foschi presagi. Il vento investiva le bancarelle con raffiche brusche e feroci come la scopa di una casalinga irritata, per cui la gente si affrettava ad acquistare quel che era venuta a cercare e se ne andava subito dopo, impaziente di tornare a casa per sbarrare porte e finestre. La voce si era sparsa: Mastro Shaw aveva visto una sirena. Quando tra gli ultimi frequentatori del mercato vide Elasaid dei Meli con sua figlia, Rohain si avvicinò. Liban aveva raccolto alcuni garofani di mare dai muri sbrecciati sui quali crescevano e ne stava facendo una ghirlanda. «Non avete fretta di tornare a casa?» domandò la ragazza. «Tutti dicono che sta arrivando una tempesta!» Elasaid esaminò il cielo. «Sta arrivando. Ma è ancora presto... Liban dice che non sarà qui prima del tramonto.» Mentre parlavano, il vento portò loro l'eco delle parole di una strana canzone. Sembrava che provenisse dal mare, acuta e insistente.
«Che cos'è?» esclamò Rohain. Elasaid tacque ma le stesse parole risuonarono ancora, assai più vicine: stavolta era stata Liban a cantarle. «Questa è la mia canzone», disse la ragazzina dagli occhi verdi e i garofani di mare tra i capelli. «Qualcuno mi sta chiamando. La tempesta arriverà stanotte.» «Taci, Liban!» la zittì Elasaid, preoccupata... Ma una donna dalla faccia dura, che aveva acquistato qualcosa dalla bancarella accanto, si voltò e poi se ne andò in fretta. «Ahimè, quella è Minna Scales e ha sentito ciò che ha detto Liban!» si disperò Elasaid. «Lo dirà a tutti quelli che hanno paura delle morgan marine... Chissà cosa succederà adesso!» Da quando Rohain era sbarcata a Tamhania, le tempeste magiche avevano spesso portato sull'isola le loro sinfonie d'emozioni - le immagini spettrali, accompagnate dall'argentino tintinnare di sciami d'invisibili campanelle - ed erano passate oltre ma quella era la prima tempesta «naturale» cui lei aveva occasione di assistere e, a giudicare dalle avvisaglie, sarebbe stata una delle peggiori. Avrebbe sfogato tutta la furia dei suoi venti, nubi ribollenti di fulmini infernali e torrenti di pioggia; la potenza inarrestabile dell'uragano avrebbe scagliato dinanzi a sé schiere di onde formidabili che avrebbero flagellato le coste con boati continui, mentre nel cielo sarebbe esplosa una sarabanda di tuoni. La burrasca si avvicinava a gran velocità sul mare e Rohain sentì... ne fu certa, anzi... che qualcosa di malvagio stava arrivando con essa. Mentre sull'isola calava il buio, nel maniero di Tana dozzine di piccoli oggetti presero a vibrare: boccette di profumo dalle forme stravaganti e varie scatolette (d'argento o d'avorio, contenenti talco per asciugare l'inchiostro o sali da fiuto) erano state riunite su un piccolo tavolo intarsiato e, tremando, emanavano polveri e aromi in conflitto tra loro. A peggiorare quella confusione sensoriale, un bruciatore in porcellana cominciò a sprigionare essenze repellenti contro gli insetti attraverso il coperchio traforato. Una serva - Molly, forse - aveva lasciato quell'accozzaglia di soprammobili preziosi sul tavolo per poi passare ad altre incombenze, distratta dall'arrivo della tempesta; ora essi stavano lì, abbandonati e crepitanti: metallo che batteva su smalto, legno su ceramica, avorio su osso. Nel tardo pomeriggio, le prime raffiche del vento di tempesta urlarono lugubremente nelle canne fumarie e aggredirono le tegole sui tetti inclinati del castello. Thomas di Ercildoune, Roland Avenel e Toby, l'apprendista del bardo, suonarono per distrarre Rohain, il giovane Principe e la Duches-
sa Alys di Roxburgh ma i loro sforzi di tenere alto il volume furono superati dalla tempesta, che suonò la sua musica ancora più forte finché la natura prevalse. I suonatori, sconfitti, misero via le trombe, i tamburi e le cornamuse e sedettero nel salone ad ascoltare il crescente fracasso esterno. Durante un improvviso rotolare di tuoni, il castello tremò sulle fondamenta e un'armatura ornamentale perse un guanto, il cui tonfo sul pavimento fece sussultare tutti. Era come una sfida degli elementi: Guardate, vi gettiamo il guanto. Raccoglietelo, se osate! Essi seppero allora che la tempesta aveva raggiunto l'isola. «Se me ne andassi a letto non riuscirei a dormire, con questa cacofonia nelle orecchie!» disse il bardo, in tono faceto. «Resterò qui finché la bufera non sarà passata. Fai portare del vino, Toby! Dobbiamo tenerci su col morale!» «Per conto mio, credo proprio che darò la buonanotte a tutti e me ne andrò di sopra», dichiarò la Duchessa, mascherando uno sbadiglio con una mano. «Perdere ore di sonno non fa mai bene.» Quando, qualche minuto dopo, Rohain guardò dalla sua parte, la Duchessa stava dormendo saporitamente, appoggiata allo schienale di broccato del divano. Avenel ruminava cupamente i propri pensieri. Rohain e il Principe Edward rimasero a far compagnia a Ercildoune. Il Principe giocherellava con un boccale vuoto, mentre la ragazza guardava la pioggia scorrere come un animale maligno all'esterno dei vetri piombati. Il bardo compensò la sobrietà dei compagni bevendo per tre e voltandosi ogni tanto a imprecare contro lo scudiero per la sua scarsa solerzia nel riempirgli il boccale: era l'unico membro loquace del gruppo e regalò loro un assortimento di aneddoti non troppo credibili sulle sue avventure di gioventù. Il salone principale, dove si riunivano la sera, era il locale più bello dell'edificio e molti candelabri ne illuminavano i pregi: il soffitto era un cielo affrescato in cui s'inseguivano le rondini; i baldacchini che sostenevano i tendaggi erano in velluto azzurro pieghettato con gli orli in filo d'argento e le alte trifore avevano ciascuna tre imposte, su ognuna delle quali era dipinta una scena bucolica. Attraverso i vetri incrostati di salsedine, Rohain e Edward guardarono il villaggio ormai immerso nel buio. Le rare finestre illuminate erano zirconi rettangolari sparsi sulla riva. Più oltre, il porto appariva vago e irreale, a tratti illuminato dai lampi. L'oscurità avvolgeva persino la Torre della Luce, che si ergeva solitaria di fronte al mare.
La tempesta continuava a peggiorare. Ogni tanto un fulmine più violento degli altri metteva in rilievo il profilo nero della Torre e, per la durata di un pensiero, illuminava l'intero panorama di una luce così abbacinante da lasciare negli occhi degli osservatori immagini spettrali, verdi e rosse sullo sfondo della tenebra che subito dopo sommergeva tutto. A notte inoltrata, quando la bufera aveva raggiunto l'apogeo della sua violenza, un lampo inchiodò l'immagine di qualcosa di nuovo oltre lo stretto passaggio tra i due promontori. Rohain prese un cannocchiale dal tubo di bronzo riccamente istoriato e mise le lenti a fuoco sulla pallida cosa che sembrava danzare laggiù. Dopo un attimo, il cilindro cadde dalle sue dita paralizzate ma Edward fu svelto ad afferrare a mezz'aria lo strumento. «Cos'hai visto?» le domandò. «Oh, cielo, non lo sopporto! Bisogna fare qualcosa... Dobbiamo accendere la Luce!» Il Principe si portò il cannocchiale all'occhio. «Una nave! È nei guai, a quanto pare... è troppo vicina alla scogliera. Ma che nave è? Non riesco a vedere la bandiera!» mormorò, stupito. Il bardo aveva subito deposto il calice e stava sopraggiungendo con un altro cannocchiale. «Perché non hanno acceso la Luce?» farfugliò, con voce un po' impastata dal vino. «A quest'ora il comandante avrà sicuramente mandato il piccione col messaggio...» Cupo in volto, abbassò lo strumento. «Già... ma quale piccione riuscirebbe mai a volare in questo uragano? Il vento lo avrà spazzato via... e, senza la Luce, ben presto quella nave finirà in pezzi.» Riscuotendosi dalle proprie meditazioni, Roland Avenel si alzò e si avvicinò a sua volta alla finestra. «Questa è follia», disse accigliato, guardando nel tubo metallico. «In questo periodo non aspettiamo nessuna nave. Quella da dove viene? E che nave è?» «Che importa! Ci sono delle vite in pericolo!» sbottò il bardo. «Il Guardiano della Torre lo sa e deve aver visto benissimo quella nave... Non può farne a meno, perché la Torre è laggiù sulla riva. È proprio di fronte alla nave... eppure, inesplicabilmente, non interviene!» «Possibile che sia così spietato?» domandò Rohain, che andava avanti e indietro tormentandosi le mani. «Obbedisce agli ordini che ha ricevuto», le ricordò Avenel. «Bisogna mandargli subito un messaggio, signore», decise il bardo e, un po' malfermo sulle gambe, si voltò verso il Principe. «Ordinategli di accendere il fuoco!»
Il Principe si strinse nelle spalle. «Quando un vascello non appartenente all'isola vuole entrare nel canale, l'ordine di accendere la Luce deve portare il sigillo reale. L'anello che reca quel sigillo è lontano da qui.» «Naturalmente. È al dito di tuo padre», disse Rohain. «Ma tu non ne hai uno uguale, Edward?» «No. Ce n'è soltanto uno.» «Allora il Guardiano della Torre dovrà ricevere un contrordine da una bocca reale! Per la miseria, ho già l'impressione di sentire le urla disperate dei marinai che stanno affogando. Non possiamo stare qui senza far niente, sapendo che quei poveretti stanno per essere inghiottiti dalle oscure profondità del mare! Dobbiamo affrettarci!» «No, sarebbe una follia!» gridò Avenel. La Duchessa Alys si svegliò, spaventata. «Cosa succede?» ansimò, affrettandosi a raggiungere gli altri alla finestra. «Ercildoune vorrebbe farci accendere la Luce, benché la procedura corretta sia stata trascurata», le spiegò il Siniscalco, irritato. A bassa voce, il Principe disse: «Thomas, mio buon signore, io dico che la Luce non deve brillare in questa notte infernale. Non senza gli ordini prestabiliti». Il bardo lo guardò, sbalordito. «Ho sentito bene?» mormorò, con evidente confusione. «Vostra Altezza intende lasciar perire quella povera gente?» «Potrebbe essere un tranello.» «Edward, come puoi dirlo?» Rohain tremava, rossa in viso per l'indignazione. «Potrebbe non essere un tranello. Vuoi che quelle morti pesino sulla tua coscienza... o sulla nostra?» Il Principe aveva un'espressione sofferente. «Milady, quando la Luce brilla si apre un varco nello scudo di gramarye che copre Tamhania come una cupola. Mentre lo scudo è aperto possono penetrare i peggiori unseelie.» «Possiamo aprirlo solo per un breve istante!» insistette il bardo. «Appena il vascello sarà scivolato dentro, spegneremo la Luce. Dove avete lasciato il cuore, ragazzo? Vi supplico, cavalcate con me fino alla Torre della Luce e date il vostro comando. Il Guardiano non disobbedirà all'erede dell'Impero!» «Anch'io cavalcherò con voi!» aggiunse Rohain. «Possano le Potenze salvarmi dalle api inferocite e dalle femmine testarde!» mugolò il bardo. Vacillò leggermente e dovette aggrapparsi a un tavolino intarsiato.
Il viso del giovane Principe era una maschera di stupore e d'angoscia. «Signora Tarrenys, il tempo è troppo brutto per te», disse, prendendo le mani di Rohain tra le sue. «Non vedi? Thomas ha bevuto molto stasera; il vino distorce i suoi pensieri. Se fosse sobrio non discuterebbe con me, perché conosce bene le regole dell'isola. Ti prego, non pensare neppure per un istante di uscire nella bufera!» A soli quattordici anni, Edward era già alto quanto lei. Negli occhi di Rohain, alla stessa altezza dei suoi, brillò uno sguardo di sfida. «Tu non verrai con me alla Torre?» Il volto di lui, pallido nella cornice dei capelli neri, si ammorbidì ed egli alzò le mani in segno di resa, sospirando come se quella decisione minacciasse di spaccarlo in due. «E sia... cavalcherò con te.» «È una pazzia!» ringhiò Avenel. Alys si rivolse al giovane: «Vi prego, ripensateci!» lo supplicò. «Ho preso la mia decisione», rispose lui e la Duchessa non poté che cedere al Principe della Corona. C'era una strada lastricata in pietra che usciva dal lato settentrionale del villaggio, scendeva sulla costa, serpeggiava intorno alla baia del porto e poi risaliva sulla dorsale del promontorio, per terminare alla Punta della Torre. Fu lungo quella strada che sette cavalieri sfidarono le raffiche della tempesta e la furiosa intensità della pioggia: se non fosse stato per i fulmini che esplodevano di continuo tra cielo e terra, ci sarebbe stato più buio che in fondo a un sacco di carbone. Solo nell'ultimo tratto poterono lanciare i cavalli al galoppo; aggredito dalle sferzate dell'oceano, il terreno fremeva sotto gli zoccoli degli animali e il vapore salmastro che il vento scaraventava su dalla base del promontorio era fitto come una nebbia; solo il muraglione che si ergeva sul lato della strada che dava verso il mare impediva loro di essere trascinati giù. I fulmini consentivano loro di vedere a tratti la sventurata nave, ora più vicina e già a ridosso degli scogli: il suo scafo si stava schiantando come un enorme guscio d'uovo. Tra i boati dei tuoni, delle onde e del vento, alle orecchie dei cavalieri giungevano grida di terrore sottili come un pigolio di criceti mentre la nave, impalata sulle rocce spietate, scivolava di lato, oscillando. «Siamo arrivati troppo tardi!» ruggì Ercildoune nel vento che gli strappava le parole di bocca. Il vascello in agonia s'inclinò pesantemente a tribordo e - con un ultimo, macabro scossone che fece ondeggiare le vele
stracciate - affondò pian piano nel mare agitato. Un cavallone si schiantò contro le rocce, nascondendone l'immagine dietro un ventaglio di schiuma. La Torre della Luce sorgeva proprio in fondo alla strada. Sopra l'arcata d'ingresso del cortile esterno erano scolpite delle rune, consumate dalle intemperie: TORRE DELLA LUCE TU CHE VIAGGI SUL MARE VERSO LA LUCE DEVI NAVIGARE I cavalieri consegnarono le redini a due scudieri, aprirono la porta e si affrettarono a entrare nella Torre in uno sgocciolio di mantelli bagnati e un tramestio di stivali inzuppati di pioggia. La scala a chiocciola spiraleggiava lungo i muri bianchi e sulla cima, in una stanza rotonda, sedeva un uomo. Il Guardiano della Torre. L'età aveva scavato rughe profonde sulla sua faccia cerea e, sopra le vesti di pesante panno grigio, una barba sottile come una ragnatela gli pendeva sino alla cintura. Anche i capelli che scendevano da sotto il piatto berretto a tesa larga erano candidi e lisci. Incastonati nel volto pallido, gli occhi erano due globi di vetro trasparente, quasi incolore: il Guardiano della Torre era un albino della razza chiamata Arysk, gli Uomini dei Ghiacci. Sollevò le palpebre, simili ad argentei coperchi di scatole di tabacco da fiuto. «Benvenuto, Altezza Reale. Benvenuti, signori e signore», disse il relitto umano, placido nonostante il chiasso prodotto dai nuovi venuti. La sua parlata aveva una pesante inflessione rimaniana, sicché quelle frasi suonarono come: Betvenugh, Attesila Riol. Betvenugh, seghiori e seghiore. «La nave!» esclamò il Principe, portandosi davanti all'occhio chiuso della grande lanterna che dominava il piedistallo al centro della camera e guardando fuori attraverso gli spessi vetri del finestrone semicircolare, rafforzati contro gli assalti del mare da una grata di ferro. «Es urmai redocta enu relicto», disse il Guardiano. «Enaltra ne stash arevando.» «Avete condannato una nave e ora dite che ne sta arrivando un'altra sulla stessa rotta, Mastro Grullsbodrn?» latrò irosamente il bardo. L'uomo aveva detto la verità: la seconda nave era più piccola della pri-
ma, con alcune lanterne che penzolavano dal sartiame; la loro luce illuminava sporadicamente delle figure dai capelli svolazzanti, vestite con lunghe gonne. Avevano la bocca aperta... Stavano gridando. Il bardo imprecò, invelenito. «Ci sono donne a bordo!» «Eppure...» mormorò Edward. La sua voce si spense. «Nexiun messaghio, nexiun komando!» sentenziò l'altro, con voce lugubre. «State attenti! Tutto questo è molto sospetto... Che bandiera batte? Io non ne vedo nessuna!» gridò Alys. «Guardate come il vento ha ridotto le vele! Come potrebbe una bandiera restare intatta?» replicò Ercildoune. «Se ce n'era una, sarà stata ridotta in pezzi!» Lui e la Duchessa si misero a discutere aspramente - dandosi torto a vicenda in quella stanza appollaiata in cima al suo albero di pietra - finché il bardo gridò: «Mentre noi stiamo qui a litigare, la seconda nave viene gettata sulle rocce. Mastro Grullsbodnr, accendete subito la Luce!» L'anziano Uomo dei Ghiacci scosse il capo. «Las Lushe not se axende shansha messaghio.» «Rohain, mi appello a voi!» Il bardo batté un pugno sul piedistallo della lanterna. «Sono del vostro stesso parere, Thomas.» Rohain si voltò verso Edward. «Altezza Reale?» «Non lo so!» gridò il Principe nel fracasso dell'uragano, lottando disperatamente contro l'indecisione. «Grullsbodnr ha ragione ma se quei marinai fossero umani e perissero, l'ombra di questa tragedia peserebbe per sempre su di noi. Potrebbero essere stati spinti fuori rotta...» La Duchessa Alys l'afferrò per il mantello. «Signore, siamo noi a non dover deviare dalla nostra rotta! La regola è chiara e, per generazioni, essa ha garantito la sicurezza dell'isola reale, vi ho seguito sin qui per impedire una follia, se è in mio potere... La Luce non deve essere accesa questa notte!» «Sono d'accordo», dichiarò Avertei. Mentre parlavano, un altro fulmine illuminò una scena spettrale sulla scogliera sottostante: la seconda nave, che era stata già spinta contro le rocce, s'inclinò e si rovesciò di lato. Tra i flutti che spazzavano la coperta, forme umane si aggrappavano a casse e barili e ai pennoni crollati sul ponte; i più sfortunati furono trascinati in mare, dove rimasero brevemente visibili tra le creste delle onde per poi scivolare giù lungo i loro dorsi scuri. Quelli che riapparivano a galla erano sempre meno.
«È troppo! Non lo sopporto!» esclamò Rohain. «Due navi distrutte... Avremmo potuto salvare almeno l'ultima. Dobbiamo mandare delle scialuppe senza altri indugi, per aiutare quelli che stanno lottando nell'acqua!» «Nessuna barca reggerebbe in quell'inferno», disse Avenel. Sulla seconda nave tutte le lanterne si erano ormai spente e soltanto la curva da nautilo della fiancata si alzava e abbassava con le pulsazioni della tempesta, affondando sempre più nel mare. Era ridotta a legname spezzato e stracci di vele: non più una nave, null'altro che una cosa sfasciata. Edward toccò un braccio di Rohain. Aveva lo sguardo offuscato. «Perdonami.» Lei annuì, incapace di parlare. Investita dal fortunale, la finestra tremava: i vetri tintinnavano nell'intelaiatura metallica come prigionieri che scuotessero le sbarre della cella. «Mi sento male», disse il bardo. «Il mio corpo si ribella al pensiero che stiamo lasciando che tutto questo accada nell'ipotesi che si tratti di una trappola degli unseelie. Anche se questa visione fosse ingannevole, che importerebbe? Non abbiamo forse il Mago Lutey che sa rompere gli incantesimi malvagi? Non abbiamo uomini robusti e cani, coi quali dare la caccia a ogni nemico che dovesse infiltrarsi?» «Il tuo cuore soverchia il tuo intelletto, Ercildoune», lo avvertì Alys. «Se questo accadesse più spesso, la razza umana starebbe meglio!» rispose lui, con passione. «Tante brave persone... Affogate, tutte affogate! Nei prossimi giorni i loro corpi rigonfi saranno gettati sulle spiagge di Tamhania come un muto rimprovero, terribile nel suo silenzio.» La finestra vibrò ancora. Tra le piombature e i listelli di ferro, i vetri diamantati piangevano lacrime salate. La stanza in cima alla Torre era fredda e scomoda, tanto che l'umidità filtrava attraverso gli indumenti di Rohain gelandole le ossa. L'ululato del vento si placò, consentendo di parlare anche a bassa voce... ma non c'era niente da dire. Era mezzanotte passata. «Dovremmo rientrare», suggerì Avenel, con voce piatta. Rohain gettò un ultimo sguardo oltre i vetri offuscati dalla salsedine, verso il mare nero e selvaggio. Alterata in volto, diede le spalle alla finestra, staccò una candela accesa da un candelabro incrostato di cera solidificata e avanzò verso la lanterna, chiusa nella sua gabbia di vetro sopra il piedistallo. «Guardiano della Torre, apri lo sportello della Luce!» ordinò, con voce chiara. «L'accenderò io stessa, se non lo fai tu.»
Edward, che era andato davanti alla finestra, d'un tratto si voltò. «Obbedisci, Mastro Grullsbodnr!» «Il futuro Re ha parlato», aggiunse il bardo, fissando accigliato l'Uomo dei Ghiacci. Il Guardiano della Torre aprì lo sportello e Rohain v'infilò il braccio. La candela raggiunse lo stoppino e gli appiccò il fuoco. Il grosso stoppino era circondato da specchi lucidissimi e lenti speciali: la luce che emanò era fulgida come una solida sbarra di quarzo congelato. Sotto il pavimento un macchinario a orologeria ticchettò, il motore a molle e sildron partì con un ronzio e la luce cominciò a ruotare. Il suo raggio fu proiettato a grande distanza, sopra le onde bianche di schiuma che circondavano l'isola e oltre, nell'oceano senza confini, finché ebbe la forza di penetrare la foschia che quella notte univa cielo e acqua. Rohain aveva visto un terzo natante nel punto del naufragio: una scialuppa di salvataggio. La sua vela sembrava piccola come un fazzoletto da taschino. La corrente la spinse nel canale. Alla Luce della Torre e ormai in acque sicure, acquistò velocità e penetrò dritta tra i due promontori: a bordo c'erano tre superstiti della tragedia. Una giovane madre si era messa al timone e due bambinetti si stringevano al piccolo albero. Il bardo e il Siniscalco corsero giù dalle scale e chiamarono gli scudieri, che si erano riparati nella stalla. La loro intenzione era di mettere subito in mare la geola del Guardiano della Torre per andare incontro alla fragile imbarcazione che stava entrando nel porto. Dall'alto della Torre, la scialuppa di salvataggio era meglio visibile presso il promontorio settentrionale, dove il raggio della Luce la investiva in pieno. Quelli che erano rimasti nella camera del Guardiano potevano scorgere con una certa chiarezza persino le facce dei tre superstiti: la coraggiosa, tragica madre e i graziosi bambini che allargavano le braccia per non perdere l'equilibrio... Ma perché facevano così? Perché avevano lasciato l'albero? E le loro braccia avevano uno strano aspetto... sembravano allargarsi. I bambini stavano crescendo. Anche la madre era cresciuta e mutata. Non reggeva più il timone con le mani, perché non ne aveva... aveva soltanto due orride ali artigliate, nere come la notte. Anche le due creature a prua allargarono le grosse ali e tre paia di braci incandescenti brillarono nelle tenebre: rossi occhi demoniaci, posti ai lati di teste da corvi. Uno dopo l'altro i tre esseri alati si alzarono in volo, spalancando il becco.
«Baav!» stridette il primo. «Macha!» «Neman!» gracchiò il secondo. Senza sforzo, sostenuti com'erano dalle enormi ali che sbattevano lente, i tre abominevoli incubi s'involarono sul porto immerso nel buio e, appena fuori dal raggio della Luce, cominciarono a salire di quota verso il punto più elevato di Tamhania: la sommità della montagna. «Morrigu!» grugnì il terzo demone alato, con una voce che parve scaturire dalle profondità di un antro mefitico. La luna sbucò terrorizzata dalle nuvole per guardare la terra. La sua luce schiarì i dintorni della piccola baia e, d'un tratto, qualcosa si mosse sulla Punta Sud, dalla parte opposta dello specchio d'acqua rispetto alla Torre della Luce: era una fanciulletta... Era Liban, la figlia adottiva di Elasaid. Stava correndo verso la riva del mare come se quella fosse stata una bella giornata di sole e la paura che i corvi avevano portato con sé non sembrava affar suo: lei non era mortale. Le sue trecce chiare svolazzavano al vento mentre scendeva di corsa lungo il sentiero che portava alla spiaggia, ridendo; poi apparvero i suoi inseguitori: un manipolo d'individui che le stavano alle calcagna ma sembravano incapaci di raggiungerla. L'ultimo del gruppetto zoppicava vistosamente e ogni tanto si fermava per tendere le orecchie alla voce che cantava una strana canzone nella tempesta. I cavalloni s'infrangevano sugli scogli, la pioggia cadeva fitta, la misteriosa voce cantava da qualche parte dietro le rocce e gli uomini si fermarono preoccupati, accorgendosi che inseguire la ragazzina sulla scogliera poteva essere pericoloso. Gli osservatori nella Torre della Luce udirono la voce di Liban gridare qualcosa in una lingua sconosciuta mentre saltava da uno scoglio all'altro verso un punto dove l'acqua era più profonda. Un ventaglio di spruzzi schizzò in alto nascondendo la sua figuretta e, quando la schiuma ricadde, la ragazzina era sparita. Come se la comparsa della luna fosse stata un segnale, la tempesta cominciò a placarsi e le nuvole si diradarono, rotolando verso sud-est. Il vento cadde. Di lì a poco, nell'aria oscura scese una torpida calma: serpenti di nebbia si alzarono dal porto e dalle spiagge coperte di alghe e, benché mancasse ancora molto al canto del gallo, nelle strade del villaggio apparvero alcune persone. Le loro lanterne si mossero intorno alle abitazioni, poiché c'erano molte cose da controllare: la furia del vento aveva causato
gravi danni. Ben presto circolò la voce che, quella notte, John Scales e sua moglie Minna - approfittando della tempesta per agire indisturbati - avevano incitato i concittadini più superstiziosi a organizzare un linciaggio e il gruppo di facinorosi era andato a cercare la ragazzina allevata da Elasaid dei Meli. Udita quella notizia, il sindaco decise di prendere provvedimenti: mise insieme una squadra di persone rispettose della legge e si diresse a cavallo verso Punta Sud, per fermare Scales e i suoi prima che accadesse qualcosa d'irreparabile. Alcuni isolani, noti per una certa ingenua tendenza a prendere per oro colato ogni fantasticheria, dichiararono di aver visto tre forme oscure che volavano verso l'entroterra: dissero che si trattava di grandi uccelli che viaggiavano in formazione a freccia e che avevano preso quota in direzione della cima della montagna. Con tutte le riparazioni urgenti che c'erano da fare, nessuno badò molto all'avvistamento dei corvi. I sette cavalieri si affrettarono a tornare al villaggio lungo la strada che girava intorno alla baia e, giunti nella piazza del mercato, tirarono le redini. Sopra di loro, tentacoli sfilacciati di nuvole scorrevano sulla faccia della luna e una luce gelida scintillava sulle pozzanghere. «Devo trovare Elasaid... Deve essere rimasta qui, stanotte!» disse cupamente Rohain. Il cavallo della giovane donna era nervoso, come se ne avesse avvertito l'inquietudine. Il freddo che le avvolgeva le membra come una catena di ferro era causato più dall'orrore che dalle vesti inzuppate; era una paura strisciante, che le risucchiava la vitalità e le spandeva una tinta grigiastra sulle unghie e sulle labbra. Non riusciva a pensare ad altro che agli orridi corvi, alla bambina portata via dalle onde e alla perdita di Elasaid. «È una sciocchezza restare qui», protestò la Duchessa Alys, placando il suo cavallo con mano esperta. «Vi esorto a tornare con me al castello per asciugarvi davanti al fuoco.» «Mi spiace ma non intendo farlo.» Un uomo raggiunse di corsa il gruppo di cavalieri. «Miei lord, mie signore», disse, inchinandosi. «La moglie del sindaco v'invita a riposarvi nella sua casa, se volete, per scaldarvi al fuoco e mangiare un piatto di minestra.» All'improvviso accanto al cavallo di Rohain apparve Elasaid, cupa in
volto. «Milady, avete visto Liban?» domandò con voce piatta, priva di speranza. «Elasaid...» La giovane donna smontò. «La bambina è tornata al mare. Vieni con noi a casa del sindaco; là potremo parlare.» Nella dimora del primo cittadino del villaggio, le serve portarono vino per gli ospiti. Nel caminetto ardeva un allegro fuoco di legna secca ma Rohain era incapace di goderselo... Era diventata come una Arisk: una creatura inerte e inespressiva, incapace di provare qualsiasi sensazione. Quando chiudeva gli occhi, tre spettri alati volavano attraverso le sue palpebre. Edward raccontò a Elasaid ciò che avevano potuto vedere dalla cima della Torre. «Abbiamo sentito Liban cantare mentre correva lungo la scogliera, poi una grande ondata l'ha coperta di schiuma e l'ha trascinata via e noi non l'abbiamo più vista», concluse. Dopo un poco, Elasaid mormorò: «Ho perduto un'altra figlia». Stava curva come se l'avessero bastonata. «Però vi ringrazio per avermi raccontato quel che è successo», continuò, facendosi forza. «Non è per lei che soffro, ma per me stessa e l'autocommiserazione non è certo un merito. È tornata dalla sua gente, come ho sempre saputo che avrebbe fatto... Non è mai stata di mia proprietà. Liban è stata richiamata nel luogo che più le si addice, proprio come Rona che si è ricongiunta al suo popolo poco tempo fa. Quelle due non erano nate per la terra... Eppure, non ho mai tenuto Liban contro la sua volontà: è sempre stata libera di andarsene. Quand'è venuto il momento, i suoi l'hanno chiamata... ed è stata la canzone, non la minaccia di quella gente stupida e superstiziosa; è stata la canzone a chiamarla tra le onde.» «Quelli che le hanno dato la caccia ne pagheranno il prezzo!» promise Thomas di Ercildoune, sfregandosi una coscia dolorante. «E gli uccelli neri, quei corvi rapaci fuori misura? La bambina aveva forse qualcosa a che fare con loro?» domandò il Principe. «No, signore, di questo sono certa. Simili creature non hanno rapporti amichevoli coi morgan marini... né con gli altri popoli del mare», rispose Elasaid. «Conosci il loro potere?» «Io li ho visti... Erano come strani uccelli che volavano verso la monta-
gna. Non so da dove possano essere venuti quegli esseri così demoniaci, né quale sia il loro scopo... Non so cosa stiano cercando ma temo che nessun bene verrà dalla loro presenza.» Il fuoco scoppiettava allegramente e, da qualche parte, un gallo cantò: Uhta era trascorsa. Il bordo del sole creò una linea fulgida sul diafano orizzonte. Rohain la guardò con aria triste. «Elasaid Trenowyn... è questo il tuo nome completo, vero? Ora capisco perché il tuo volto mi era familiare! Una ragazza dal volto assai simile al tuo è partita per la Glass Mountain, nella lontana Rimany. La sua missione è di aprire col dito mignolo la porta di un oscuro castello per liberare dodici cornacchie incantate che, un tempo, erano i suoi fratelli... Nessuno sa se tornerà ma nella Valle di Rosedale, in Eldaraigne, c'è un uomo che ti aspetta e soffre, come ha atteso e sofferto per molti anni. Non lo far aspettare ancora!» Elasaid Trenowyn tremò e una lacrima luccicò nei suoi occhi. Raccolse lo scialle e lanciò a Rohain uno sguardo incredulo, come se la vedesse in quel momento per la prima volta. «Capisco.» Senza dire altro, la donna uscì di casa e corse verso il porto. Nessun relitto di navi affondate - non un barile, non un'asse di legno, non un pezzo d'alberatura né un corpo annegato - fu gettato sulle spiagge di Tavaal e questo provò al di là di ogni dubbio che i vascelli della notte prima erano eldritch. Quale mortale poteva capire il funzionamento di tali simulacri? Forse si erano autoriparati mentre affondavano e ora stavano navigando laggiù, tra le alghe e i coralli, con le lanterne fosforescenti che oscillavano nelle oscure correnti delle profondità abissali. Quel giorno le onde scivolavano lente e torbide, come se fossero diventate di piombo e ne avessero addirittura assunto il triste colore. Sulla spiaggia, lo scheletro di una balena giaceva dove si era insabbiato dieci anni addietro, con le costole sbiancate dal vento che s'inarcavano al cielo: quello scheletro dal cranio grosso come una barca e con una gabbia toracica che avrebbe potuto ospitare un cavallo faceva ormai parte del paesaggio, al pari di uno scoglio. Era visibile anche dalla casa del Mago dell'isola. L'abitazione di Lutey stava appollaiata come il nido di un gabbiano sull'orlo di una rupe che sovrastava il villaggio e il porto e i gabbiani entravano e uscivano dalle sue finestre come visitatori abituali. Gli uccelli marini stridevano con querule
voci di bambino, assai meno amabili di quel che sembravano; quando il gruppo di cavalieri arrivò lassù ne diedero l'annuncio con un coro di schiamazzi. Stagliata contro il cielo fosco, la fila di nobili visitatori coi rispettivi servi attese in sella finché, finalmente, la testa di Lutey apparve sul sentiero che saliva dal mare dietro l'altro lato della rupe: camminava sull'orlo dello strapiombo e il vento che spirava dal basso gli sollevava sopra la testa i capelli e la lunga barba. Da una tasca dell'abito sbucava il manico di un meraviglioso pettine d'oro incrostato di perle. I cavalieri smontarono e il Mago aprì la porta, invitandoli a seguirlo in casa con un inchino. Entrando, essi notarono che l'intero edificio tremava proprio come un nido d'uccello in balia del vento e che da qualche parte lì vicino proveniva un suono profondo, simile a un rullo di tamburo. All'interno stagnava un odore d'alghe andate a male, tuttavia - nonostante quel traffico di volatili ciarlieri - le stanze erano sorprendentemente ordinate e pulite. Erbe marine messe a seccare (di color rosa, ruggine, crema e rame) pendevano da varie rastrelliere e davanti alla finestra gocciolava una delicata clessidra ad acqua. Accanto a essa era deposto un cannocchiale estensibile fittamente istoriato, sul quale campeggiava il nome del fabbricante: STODGEBECK DI PORTHERY Diversi scaffali ospitavano rari e singolari reperti marini. Le uniche due sedie erano state ricavate da rami di corallo gettati a riva dalle burrasche, il letto era una gigantesca conchiglia bivalve e il tavolo proveniva dalla cabina del comandante di un vascello naufragato: tra i sedimenti che lo incrostavano si vedevano i segni lasciati dalla punta di un coltello. Su di esso c'erano un candelabro che era in realtà un riccio di mare essiccato, piatti e cucchiai ottenuti dai gusci di pettini di varie dimensioni e piccoli scrigni d'ambra grigia (un materiale verdastro e malleabile quando è fresco ma che, seccando, diventa vitreo e impermeabile). Nella dimora di Lutey c'era una quantità di oggetti d'origine marina che, come il vento di mare costretto dalla collina a cambiare direzione, avevano subito i più diversi mutamenti una volta giunti sulla terraferma. Anche il Mago aveva qualcosa che lo faceva sembrare una sorta di gasteropode o una creatura nata tra le alghe: la sua pelle era traslucida come quella di una medusa e gli occhi avevano lo sguardo antico di un coelacanthus. Intorno al collo portava una collana di denti di pescecane, simili a piccole scimitarre ricurve. «Una potente squadra d'attacco unseelie ha oltrepassato le nostre dife-
se», disse Lutey, scostando un astrolabio d'ottone per fare più posto sul tavolo. «Li ho visti questa notte... Ma i miei poteri non sono sufficienti contro simili avversari. Non so dove siano andati adesso quei tre uccelli scuri, né cosa succederà. So solo che voi, Principe, non dovete farvene una colpa.» Versò una pozione verdolina in una tazza di porcellana a forma di polipo e la consegnò a Rohain, che la bevve: il liquore scacciò il freddo che sentiva nelle vene sin dal momento in cui le creature unseelie venute dal mare avevano ripreso la loro vera forma e lei si era finalmente resa conto del proprio errore. «Ho pettinato le onde ma, per la prima volta, non ho ottenuto risposta.» L'espressione del Mago del Mare era fosca. «Cosa ne è stato della scialuppa di salvataggio, quella su cui stavano gli invasori?» «Ha girato su se stessa per tre volte ed è affondata di colpo, come una pietra», rispose il Principe. In quell'istante ci fu un boato sotto il pavimento e gli oggetti sugli scaffali tremarono. «Non allarmatevi, non è il caso», si affrettò a dire Lutey, notando le reazioni degli ospiti. «È solo la voce del mare. Peccato che io non possieda i suoi poteri!» «Sembrava vicina», osservò il Principe. «È vicina, signore», annuì il Mago, sollevando una botola del pavimento. Sotto i loro piedi si apriva una grande caverna che sprofondava nel buio: in lontananza - forse cento piedi più in basso, nella penombra - un'ondata impetuosa terminò le ultime iarde del suo viaggio oceanico contro la parete interna della grotta. «Questa collina è cava e comunica col mare», spiegò Lutey, mentre l'onda si schiantava sulla roccia e un altro boato scuoteva la sua dimora. «È la stessa caverna nella quale, tanti anni fa, Urchen Conch trovò quella cassa di antiche monete d'oro... almeno, così dice la leggenda. Io, però, ne dubito: qui sotto c'è una scala e talvolta scendo laggiù ma non ho mai trovato neppure una pagliuzza d'oro.» Il Mago richiuse la botola. Un gabbiano andò a posarglisi sulla spalla e si guardò intorno coi fieri occhi gialli. «Oggi riproverò a pettinare il mare. Lasciatemi un paggio, così appena avrò qualche notizia lo manderò a riferirvela», propose Lutey. «Cos'altro possiamo fare?» volle sapere Avenel. «Nulla, fuorché aspettare e osservare gli sviluppi. Aspettare e osservare, con cautela e saggezza.»
Dopo la notte della tempesta, gli ospiti del maniero di Tana e alcuni abitanti del villaggio avevano preso l'abitudine di volgere di frequente lo sguardo verso il tetto dell'isola, nascosto tra nubi bianche: il picco remoto verso il quale erano scomparse le creature alate unseelie. Lassù, però, non si vedeva nessun segno d'attività: il picco sembrava fluttuare e sognare nel cielo come sempre, sereno e intatto. Nessuno stormo di corvi rapaci ne scese come una pioggia nera, con gli artigli protesi e i becchi uncinati avidi di abbattersi sulle case del villaggio per strapparne le tegole e divorare gli abitanti indifesi; mentre i giorni passavano senza cambiamenti, la gente smise gradualmente di alzare lo sguardo ogni pochi minuti... ma la corona della montagna incombeva sempre sul villaggio, persa nella chioma dei suoi vapori. Il Siniscalco guidò addirittura un gruppo di cavalieri in groppa a eotauri verso la sua vetta, ma i fumi vulcanici erano impenetrabili come un muro e i Cavalli Celesti dagli zoccoli ferrati in sildron non vollero (o non poterono) addentrarsi in quella nebbia: con la visibilità ridotta a zero si poteva perdere l'orientamento e cavallo e cavaliere, incapaci di distinguere l'alto dal basso, avrebbero potuto precipitare. Una notte Rohain sognò di trovarsi nella casa del Mago del Mare, con le onde che tuonavano nella caverna facendone tremare le fondamenta. Sì svegliò. Una specie di fremito sembrò attraversare la struttura del letto a baldacchino: le lampade appese al soffitto con lunghe catenelle stavano oscillando. Una nave giunse dalla terraferma e, quando ripartì, a bordo c'era Elasaid. Tra le merci che aveva scaricato c'erano molte lettere, compresa una indirizzata a Rohain e frettolosamente vergata nella bella calligrafia di Thorn, più simile a un intreccio di rampicanti che a una successione di caratteri: lei attese di essere sola per leggerla. Conteneva notizie della guerra e una riga piena di passione, ancor più vera per la sua laconicità: Io penso a te. Le notizie dalla zona di guerra erano fosche: le forze unseelie assalivano le Legioni Reali e i Dainnan di notte e bande di namarrani le impegnavano di giorno; la fortezza centrale dei ribelli, nascosta da qualche parte nei deserti di Namarre, si stava rivelando introvabile. Eppure era di là che partivano gli ordini, tanto che si pensava che, se quella fortezza fosse stata scoperta e i capi-stregoni eliminati, la rivolta si sarebbe disorganizzata e spen-
ta. «C'è una lettera di mia madre!» annunciò Caitri, agitando un foglio. «Sembra che ora la Torre di Isse ospiti un bruney - o forse un bauchan che dà pizzicotti alle serve pigre ma anche ai padroni che le picchiano. Lavora molto ma la Trenchwhistle, che adesso ha le natiche piene di lividi, sta cercando di liberarsi di lui regalandogli indumenti usati e altre cosette... Quello, però, ignora i doni e non vuole andarsene. Mia madre dice che la Torre è il posto migliore per lui.» Sfogliando le lettere ricevute dalla Corte, Viviana si lasciò sfuggire un gridolino scandalizzato. «Kiel varletto! Un inserviente del palazzo è fuggito con la sesta bisnipote della Marchesa di Early!» La ragazza avrebbe continuato a parlare per giorni di quella fuga d'amore. Una sera, sul tardi, mentre aspettava il sonno, Rohain ebbe di nuovo l'impressione che una scossa salisse dal pavimento; era come se un carro carico di macigni stesse passando davanti a Tana... ma quando guardò dalla finestra, la strada che costeggiava il muro di cinta era vuota. I meli del frutteto abbandonato di Elasaid fiorirono e i frutti maturarono. La cappa di nebbia che avvolgeva l'isola cominciò ad assumere un vago odore di putrefazione, originato forse dai vapori vulcanici o dalle alghe gettate a riva che stavano marcendo... o magari dallo stesso duilleag neoil. Col passare del tempo, però, ci si abituava a quell'odore al punto di non farci più caso. Il tempo era insolitamente caldo per quella stagione e l'acqua del mare così temperata che vi si poteva già fare il bagno. I ragazzini del villaggio ne approfittavano per andare a nuotare alla spiaggia, soprattutto i figli di Ursilla e di Rona Wade: l'avvertimento di Lutey, aspettare e osservare, aveva perso la sua urgenza. La gente di Tamhania aspettava e osservava, tuttavia non accadde niente, perciò la vigilanza si allentò un poco... Ma se gli umani erano distratti le bestie dell'isola non lo erano, anzi stavano diventando inquiete e nervose. Tutto sembrava pacifico, tutto pareva andar bene... però, sotto quella calma superficiale, una molla vibrava e si tendeva sia in mare che in terra. In un giorno grigio e nuvoloso, Rohain si trovava nella biblioteca di Tana a conversare con Roland Avenel quando dal suolo salì una vibrazione che faceva pensare a migliaia di cavalli da guerra coperti da armature alla
carica verso il castello, con tanto di arieti e torri d'assedio che rotolassero su enormi ruote di ferro. Gli infissi ornamentali scricchiolarono, sulle pareti apparvero delle crepe, un bruciatore di profumi in bronzo dorato rotolò giù dal suo piedistallo e un libro cadde dallo scaffale; dalla rimessa delle carrozze giunse il cigolio dei veicoli che ondeggiavano sulle molle. «Forse l'isola ha ricominciato a galleggiare!» esclamò il Siniscalco stupito, scuotendo la testa grigia. «O forse si sta preparando a farlo. Si sarà stancata di questo luogo e avrà ritirato le sue antiche ancore dal fondo del mare per andare a cercarsi un'altra dimora!» Tamhania aveva ricominciato a muoversi: questa, almeno, fu la spiegazione che si sparse per il villaggio - dove le porte e finestre delle case si bloccavano nelle loro intelaiature contorte - durante il piovoso mese di Uiskamis. Sull'alta rupe che dominava la Spaccatura la grigia e granitica Torre della Luce sembrava protendersi verso gli spruzzi salati delle onde, con l'occhio della sua finestra aperto su quell'immensa distesa come se potesse vedere oltre l'orizzonte. Ai suoi piedi le rocce si aggrappavano agli incerti confini tra mare e terra, quasi fossero radici con cui la Torre traeva sostentamento da entrambi... Forse, però, le radici dell'isola non scendevano abbastanza a fondo da tenerla ferma sul letto del mare. Una breve tempesta magica venne e passò senza creare molto scompiglio. I coniugi Scales e i loro complici vennero processati nel tribunale del villaggio e furono multati con severità per il loro comportamento crudele e illegale, dopodiché rinchiusi per un paio di giorni in un recinto eretto al centro della piazza del mercato; le mele che stavano marcendo per l'umidità eccessiva furono utilizzate per il tiro al bersaglio da tutti i ragazzi del villaggio, tanto per non mandarle sprecate... e anche così l'opinione generale fu che la sentenza era stata troppo mite. Nel frattempo, Georgiana Griffin cominciò a vedersi con Sevran Shaw. Rohain, invece, proseguì con le sue lezioni di musica e scrittura, nonché nell'addestramento con le armi. Nei rari momenti in cui era sola continuava a sondare il fragile guscio che circondava i suoi ricordi perduti: c'era sempre l'inquietudine che aveva provato sin da quando aveva messo piede su quell'isola, ancor prima dell'arrivo dei maligni corvi unseelie... Possibile che Tamhania si stesse davvero sradicando per galleggiare via? E se era così, dove sarebbe andata? La gente sembrava voler pensare ad altro. Lungo le coste, onde anomale si alzavano improvvisamente a invadere le spiagge con lunghi swiiish, come se un signore del mare in armatura metallica camminasse sui bassi fon-
dali; a parte il mormorio del vento, quello era l'unico rumore: le rondini di mare, le folaghe, i gabbiani, le egrette, i chiurli e i pellicani sembravano scomparsi. Circa una settimana dopo il Giorno del Biancofiore, Rohain e i suoi compagni si riunirono per il pranzo nel salone di Tana, ma non uno dei commensali aprì bocca o sollevò un coltello. I cani avevano il pelo irto lungo la spina dorsale e le zanne scoperte, ma non era a un intruso che stavano ringhiando, bensì verso le porte i cui battenti si muovevano da soli - come spinti da mani invisibili - e poi cominciarono addirittura ad aprirsi e chiudersi senza apparente motivo. Dalle scuderie venne il tramestio degli zoccoli dei cavalli che scalciavano contro le porte degli stalli. Sul tavolo da pranzo il vino schizzò fuori dai boccali e le saliere tremarono, saltellarono e si rovesciarono; sopra la testa dei presenti, alte nella Torre, le campane vibrarono non viste, come se i loro freddi fianchi metallici avessero la febbre. I batacchi si scossero ma non andarono a colpire i petali di quei tulipani di bronzo e non emisero nessun suono... non ancora. Annie, la cameriera, entrò di corsa gridando qualcosa d'incoerente a proposito di Vinegar Tom. Il Siniscalco balzò in piedi, estrasse la spada e corse fuori, temendo che la giovane donna fosse stata inseguita: non vide anima viva, né eldritch né lorraly. Quando ebbero calmato la cameriera, lei spiegò che le cose non stavano come loro avevano creduto: Vinegar Tom non minacciava né inseguiva nessuno... perché se n'era andato. L'eldritch wight che sorvegliava il sentiero da secoli aveva abbandonato il suo posto e, per giunta, anche il colt-pixie non era stato visto da qualche tempo e così pure i wight domestici di Tana, i silkie e ogni altra creatura seelie. «È possibile che i wight abbiano lasciato Tamhania?» domandò Alys di Roxburgh. Nessuno seppe cosa risponderle. Fuori, sul mare, rotolò il tuono. I cavalli nitrirono e alcuni boccali si rovesciarono, spargendo il vino rosso sulla tovaglia di lino del tavolo da pranzo di Tana. «Queste scosse...» mormorò la Duchessa, senza riuscire a finire la frase. «Non sarebbe il caso di andarcene?» domandò Rohain. «Io sento che il pericolo cammina sull'isola.» «Anch'io sono preoccupato», annuì il bardo. «Tuttavia Sua Maestà Imperiale ci ha ordinato di restare qui. Un buon soldato non disobbedisce agli ordini e neppure noi dovremmo farlo»,
mormorò Alys. «È il mare!» intervenne il Siniscalco, con aria convinta. «In questi giorni ci sono delle onde strane. Se davvero galleggia, l'isola si muove lenta sopra queste onde... e, a giudicare dal cielo, sta arrivando un'altra tempesta.» Quelle parole caddero dalle sue labbra come bucce vuote e lui lo sapeva. Sedettero ancora a tavola, in silenzio e senza che nessuno raccogliesse una posata. La saliera rotolò pigramente attraverso la tovaglia lasciandosi dietro una scia d'argento, lungo una traiettoria ad arco che terminò, con un lieve tonfo, contro un piatto. Nessuna sirena avvertì gli isolani di ciò che stava per accadere. Il ferreo barile del tuono rotolò ancora nel cielo, ma non c'erano nuvole di temporale. Il mare era percorso da onde anomale: persino le acque calde e riparate della baia s'increspavano in una danza di creste appuntite, eppure non era in corso una tempesta... non una delle solite, almeno. Il bizzarro fenomeno andò avanti per giorni, poi il terreno cominciò a scuotersi con violenza e molti abitanti del villaggio corsero fuori dalle rispettive case, spaventati. Era impossibile camminare in linea retta e, nelle abitazioni, i vetri delle finestre e i piatti di cucina andavano in pezzi; nel maniero di Tana i quadri si staccarono dalle pareti e nelle scuderie le campanelle dei finimenti tintinnarono appese ai ganci. Quei piccoli, allarmanti rumori durarono un poco e poi, quando i sussulti del terreno si spensero, cessarono del tutto. Il martino successivo l'alba non sorse: come un avido animale nero, la notte s'impadronì di ore che non le appartenevano. «Guardate la nuvola!» gridò Viviana, indicando verso il centro dell'isola. Il bianco cappello che abitualmente stagnava sulla montagna aveva assunto un grigiore rabbioso ed era cresciuto sino a diventare una colonna. La sua sommità si era allargata come la chioma di un albero gigantesco e maligno, bloccando la luce del sole: sotto di essa i poderosi versanti della montagna erano verdi e rigogliosi come sempre ma in quell'aria tenebrosa si muovevano granelli di polvere e di sabbia e vi fluttuavano particelle piumose, simili a neve nera. Un vento malsano irritava gli occhi rendendo difficile la respirazione. L'odore di putredine diventò mille volte più intenso e un puzzo di cavoli marci dilagò ovunque: per tenere fuori la polvere e l'odore, gli isolani sbarrarono porte e finestre e si avvolsero pezze di tessuto intorno al naso e alla bocca. «Fate approntare tutte le barche disponibili e dite alla gente di prepararsi
a lasciare l'isola», disse il bardo. Avenel, però, scosse il capo. «Questa è l'isola reale! Niente può farci del male, qui... Inoltre, molti rifiuterebbero la sola idea di abbandonare le loro case.» La singolare tempesta s'intensificò. Ogni tanto crepitavano fulmini che si lasciavano dietro una fosforescenza verdastra ma soltanto all'interno della colossale colonna grigia che si alzava dalla montagna, sostenendo quel cielo congestionato. Nelle zone abitate dell'isola, sorgenti e pozzi si disseccarono e ne nacquero di nuovi; i torrenti alterarono il loro corso mentre le profondità del suolo continuavano a scuotersi e vibrare. Al villaggio, il sindaco indisse una riunione. Thorn aveva detto a Rohain: Non lasciare l'isola. Aspettami. Lei doveva fare come le era stato chiesto, eppure Tamhania non era più il luogo sicuro dei giorni in cui erano state pronunciate quelle parole. La sua stessa mano aveva acceso la lampada nella Torre della Luce, aprendo quel lembo di territorio protetto a esseri sbucati dall'inferno... proprio come, per qualche motivo, la sua semplice presenza aveva attirato la stessa, nera minaccia sulla Torre di Isse. Un giorno, Thorn le aveva chiesto: Perché Huon vuole darti la caccia? Quella domanda la confondeva, la tormentava... e ciò che stava accadendo la riportava in primo piano. Bisognava ammettere la realtà dei fatti: per quanto Rohain avesse cercato di negarlo, qualcosa ce l'aveva con lei. Ora che aveva deciso di affrontare la verità, se la vedeva dinanzi scritta con parole di fuoco e le sembrava incredibile aver potuto ignorare cose tanto ovvie. I complici di Scalzo non erano mai venuti a cercarla e il Mago Korguth non aveva mai assoldato malviventi per farle del male; per tutto quel tempo lei aveva avuto un solo nemico - un altro nemico, col potere di comandare le forze unseelie - ma assai più terribile di un piccolo criminale da strada o di un Mago ciarlatano. A Gilvaris Tarv, il giorno in cui aveva salvato il cavallo d'acqua seelie dalla schiavitù, si era accorta che qualcuno la osservava. La sua memoria aveva conservato ogni dettaglio di quel volto: un volto strano... Ma forse la parola che meglio lo descriveva era eldritch: una faccia inumana e maligna. In quel momento, là nella piazza del mercato, una creatura unseelie l'aveva vista senza cappuccio e aveva scorto i suoi insoliti capelli color del sole. Forse l'aveva riconosciuta da quel particolare... forse sapeva addirit-
tura chi era stata in un passato ormai dimenticato. Forse in quel passato qualcuno le aveva dato la caccia, salvo poi perdere la pista durante i drammatici eventi che l'avevano lasciata muta, senza ricordi e sfigurata... Probabilmente quella creatura se n'era andata dalla piazza del mercato e aveva fatto rapporto al vero nemico, il Cornuto. In effetti, era stato a partire da quel giorno che misteriosi individui avevano cominciato a spiare la casa di Ethlinn ma - per una combinazione che si stava rivelando non del tutto sfortunata - proprio allora Rohain era stata rapita, insieme con Muirne: per qualche tempo era rimasta imprigionata con l'amica nella casa-gilf e grazie a ciò Huon aveva perduto nuovamente le sue tracce. Rohain rifletté su quel che era accaduto nei giorni successivi. Il Cornuto era venuto a sapere che lei era partita con la carovana lungo la Strada di Caermelor? Era stato lui a mandare i Cani di Dando ad attaccare i carri, provocando la perdita di tante vite umane? Lei gli era sfuggita ma solo per finire a Corte, dove la sua discendenza talith era stata scoperta da Dianella e da Sargoth. Il Mago doveva aver parlato di lei a qualche seguace unseelie del Cornuto senza immaginare i retroscena della situazione in cui si era immischiato, all'unico scopo di togliere di mezzo la rivale che sbarrava a Dianella la via del trono. Senza dubbio, Sargoth era da tempo alleato con le potenze del male e poteva aver saputo che Huon cercava una damigella talith: questo avrebbe potuto spiegare come mai avesse preferito aspettare che lei fosse lontana da Caermelor prima di scatenarle addosso un'entità che spaventava anche lui. Quando la notizia diffusa da Sargoth aveva raggiunto il Cornuto, la Torre di Isse era stata attaccata e Rohain era fuggita per l'ennesima volta... ma, adesso che il suo viso non era più sfigurato, Huon poteva riconoscerla. Una delle sue spie l'aveva vista partire via mare per il nord e, in qualche modo, l'aveva rintracciata a Tamhania, dopodiché aveva fatto la sua mossa e lei, nella sua follia, aveva aperto la strada a quelle diaboliche creature. Doveva ormai riconoscere che c'era un motivo per cui il Cornuto le stava dando la caccia: un motivo che lui, se non altro, non aveva dimenticato. Non parliamo più del passato. Era stato Thorn a rivolgerle quelle parole, appoggiato a un davanzale della Torre di Isse accanto a lei, mentre chiacchieravano dell'inverno guardando un falco sospeso nella coppa del cielo. Quei giorni effervescenti erano stati colmi di gioia e lei, per paura di rovinarli, non gli aveva parlato del passato e non gli aveva detto che anche se non riusciva a ricordarlo era probabile che in quel passato fosse nascosto qualcosa d'importante, qualche spiacevole verità.
Se Thorn fosse caduto sul campo di battaglia non avrebbe mai saputo niente... Rohain si affrettò a scacciare quel pensiero, perché la sola ipotesi della morte di lui bastava ad aprirle una ferita nello spirito. Ma se lui avesse vinto la guerra, come avrebbe potuto lei tornare al suo fianco portandosi dietro quella maledizione, quel mistero che gettava l'ombra della morte su tutti coloro che le stavano accanto? Thorn era un guerriero di forza e abilità straordinarie e lo aveva dimostrato persino contro la Caccia Selvaggia... ma per quanto tempo un mortale poteva sostenere la lotta contro nemici così terribili? Lui e i suoi soldati li avrebbero respinti ancora qualche altra volta, forse; tuttavia alla fine gli immortali, col loro gramarye unseelie, avrebbero vinto. Rohain non voleva attirare sul capo di Thorn quella condanna. Thorn... ti rivedrò ancora? Prima che ciò accada, comunque, devo scoprire cosa si nasconde nel mio passato. Bisogna che ricordi per quale motivo Huon mi vuole morta affinché tu e io, amore mio, sappiamo come affrontare questo pericolo... Nel cranio di Rohain echeggiavano campane di ferro. Il sole non si vedeva da tre giorni e, sotto quella cappa di tenebra, l'aria era soffocante come una coperta che puzzasse di zolfo. L'isola era di nuovo immobile - o forse si stava riposando per l'ultima volta - e quelli che l'abitavano continuavano a essere ciechi alla sua natura e sordi ai suoi pericoli... o forse non volevano vedere né sentire, perché le probabilità negative erano troppo alte e troppo terribili da comprendere. È una caratteristica degli esseri umani che abitano in zone pericolose quella di essere sorpresi e increduli quando, inevitabilmente, il disastro colpisce. Infatti, la terra tremò ancora. Nel salone a pianterreno di Tana, tappezzato con pannelli in quercia, Rohain stava giocando a carte con Edward, Alys e Thomas di Ercildoune; nessuno di loro aveva voglia di uscire, tra il puzzo e l'aria così piena di polvere. Toby strimpellava un piccolo liuto d'avorio: le sue unghie facevano tintinnare acutamente le corde e ogni tanto risate e gridolini provenivano dal piano di sopra, dove i figli della Duchessa giocavano a nascondino. Un cameriere entrò - sostenendo un vassoio con le mani guantate di bianco - e dopo di lui ne venne dentro un altro, anch'egli in livrea e con un vassoio identico. Dopo aver deposto i rispettivi fardelli su due tavolini traballanti, i due procedettero a mescere una tisana bollente in delicate tazzine di porcellana; vi aggiunsero latte da una brocca dipinta, a forma di
mucca (al maggiordomo di Tana doveva essere sfuggita l'incongruenza rispetto al tema marino della casa) e distribuirono piattini di crostata di amarene e zollette di zucchero dorato con decorazioni in ghiaccia a forma di garofani di mare. Nei candelieri a più braccia e nei portacandele a specchio, dozzine di piccole luci giallo-bianche illuminavano la penombra, traendo riflessi dal lucido legno delle sedie, dei tavoli, dei poggiapiedi imbottiti in seta, dai braccioli delle ottomane coperte di broccato, dagli scaffali in ciliegio intarsiato e dai piccoli soprammobili. Le rose, nei loro vasi di porfido, mandavano un fresco profumo. «Annie ha visto questi fiori stamattina e ne è rimasta inorridita», disse Alys, indicandoli. «Dice che quando le rose pimpinelle sbocciano fuori stagione è segno che ci sarà un naufragio. Queste piccole isole sono piene di superstizioni di ogni genere!» «A proposito di vegetazione locale», intervenne il bardo, pescando una carta dal mazzo, «l'altro giorno stavo parlando con alcuni pescatori di corallo. Sembra che costoro pensino che la nebbia intorno all'isola non sia generata dall'erba chiamata foglia-nuvola, la duilleag-neoil... Mi hanno fatto notare che le acque intorno a Tamhania sono sempre calde: secondo loro, il vapore sarebbe originato dal tremendo calore delle profondità del suolo.» Toby si lasciò sfuggire il plettro in corno di bue, poi si chinò a raccoglierlo. I piccoli meccanismi a orologeria sulla mensola del camino ticchettavano come lenti insetti. Toby ricominciò a suonare. «Qualcuno di voi ha sentito qualcosa, questa notte?» domandò la Duchessa di Roxburgh, mettendo in tavola il dieci di bastoni. «Io no. Ho il sonno pesante», rispose Edward. «Neppure io», aggiunse il bardo, considerando pensosamente le carte che aveva in mano. «La servitù, però, sembrava nervosa.» Rohain girò la regina di spade sul panno turchese che copriva la tavola. «A me è parso di aver sognato un rumore di singhiozzi incontrollabili», disse. Le carte scivolarono dalla mano della Duchessa e un servo corse a raccoglierle. «Cosa ne dite d'interrompere la partita e prendere una tazza dell'ottima tisana di Severnesse?» propose Edward, chiudendo il ventaglio di carte che aveva in mano e deponendo il mazzetto sul tavolo. «Un'idea che approvo senz'altro! Del resto, come si può giocare a carte
in una giornata così?» rispose diplomaticamente il bardo, arricciandosi con le dita le punte dei mustacchi castani. «Io avevo un'ottima mano», sospirò Rohain, esaminando il retro delle carte che aveva deposto sul quale erano disegnati due cigni che intrecciavano il collo. La figura le fece tornare in mente la storia della ragazzacigno rapita da un mortale: stava per parlarne agli altri quando una terribile vibrazione salì dal suolo e scosse i muri mentre l'intero edificio mandava un ruggito d'agonia. Quasi nello stesso momento, fuori dal portone d'ingresso si udirono delle grida. «Chi è? Cosa succede?» Il Principe si alzò di scatto. Ci fu un gran fracasso sulla scala esterna. I servi si affrettarono al portone ma, appena l'ebbero aperto, i battenti si spalancarono spingendoli indietro e un uomo a cavallo entrò impetuosamente nella sala, chinando il capo per non battere la testa contro l'architrave. Il cavallo rallentò con un nitrito e, nel voltarsi, scivolò con gli zoccoli sul tappeto; nel tentativo di riprendere l'equilibrio, colpì con una zampa anteriore un tavolino d'avorio spedendolo dall'altra parte del salone in uno sconquasso di porcellane e vassoi di paste che andavano in pezzi. L'animale aveva la bava alla bocca e ansimava dilatando le narici. Nel vortice di vento e polvere scura che era entrato con lui, le tende di velluto color magenta si agitarono e le carte da gioco di tutti e sei i semi - bastoni, spade, denari, coppe, ancore e corone - volarono via dal tavolo come gabbiani spaventati. «Mastro Avenel!» esclamò Edward, avendo riconosciuto il cavaliere. Tutti i presenti lo fissavano sbigottiti. «Fuggite, presto!» gridò il Siniscalco di Tana, stentando a controllare il cavallo. «Arrivo adesso dalla casa di Lutey. L'isola sta per essere distrutta!» Quando giunse l'ora della catastrofe, tutto accadde con rapidità. Nel maniero di Tana i mobili si schiantarono, i 'muri si riempirono di crepe e i mattoni caddero, sgretolandosi. La Torre della Campana si scosse dalle fondamenta in su e poco dopo - nel polverone che ne aveva invaso l'interno, dove le corde oscillavano - la grande campana del castello di Tana cominciò a suonare da sola. Caldo e irto di creste rabbiose, il mare si agitava senza un ritmo. Su e giù per i versanti delle alture i recinti si torcevano come serpenti mentre sotto di essi si aprivano crepacci dai quali scaturiva fango bollente. Era
quasi impossibile per chiunque rimanere in piedi: la gente barcollava e cadeva, aggrappandosi a oggetti che fino a poco prima erano fissi ma ora si rivelavano traditori. I rami dei meli crollavano sull'erba e gli animali fuggivano avanti e indietro, peggiorando la confusione. Come se la neve nera che cadeva dal cielo non bastasse, cominciò a venir giù anche una grandine di sassi porosi e così caldi che non li si poteva toccare. L'intera flotta di pescherecci si preparò a salpare. La falsa notte era ormai così scura da impedire di distinguere la forma della montagna. Dove avrebbe dovuto esserci la vetta, bruciava un bagliore rossastro e, intorno a quell'alba anomala, strani rivoli di luce sanguigna continuavano a scendere nella foschia come fantomatici fuochi artificiali che incoronassero la chioma di un albero solcato da vene ardenti, le cui foglie di cenere piovevano su tutto il territorio. Gli isolani faticavano ad aprire le porte delle abitazioni a causa dei detriti che vi si erano ammucchiati contro; fuggendo dal villaggio verso il porticciolo, si portavano dietro tutto ciò che potevano: capre, cani, cavalli, mucche e pecore. Le lampade con cui erano costretti a illuminarsi la strada, gialle e fioche, si scorgevano a stento in quella foschia infernale. Molte strade erano bloccate da mucchi di cenere e pomice e grosse pietre fumanti rotolavano giù dal fianco della montagna, roventi al punto che chi ne veniva anche solo sfiorato urlava di dolore. Il buio era così profondo - così innaturale - che non lo si poteva paragonare alla notte: era come una camera priva di porte e finestre. Si poteva vedere soltanto un ramificarsi di palpitanti bagliori sanguigni in cima alla montagna quando, nelle nuvole di cenere che turbinavano in quel cielo di pece, si formavano cariche di energia che causavano brevi, crepitanti saette. Gli sfollati si accalcarono a bordo delle barche, lasciandosi alle spalle una terra che - come tutti sapevano in fondo al cuore - non avrebbero rivisto mai più. Ai margini della baia, onde grandi come case urtavano una contro l'altra: fu in quel caos che le imbarcazioni fecero coraggiosamente rotta fuori dal porto invaso dalla cenere per poi infilarsi nella Spaccatura e allontanarsi a forza di remi mentre il fumo vorticava sulle acque e il cielo ribolliva di fuoco. Annerita da quel venefico effluvio, la campana del maniero suonò un estremo, solitario addio dalla Torre oscillante e, mentre la flottiglia oltrepassava la cima del promontorio, un bagliore fioco come la fiammella di una candela permise ai fuggiaschi di localizzare la Torre della Luce. «Il Guardiano è ancora nella Torre!» esclamò Rohain, nell'imbarcazione
di testa. «Ha rifiutato di venire», disse Avenel, che le stava accanto. La giovane donna si voltò verso l'imboccatura del porto e vide la terra tremare e le rocce sopra la riva scoscesa rotolare nell'acqua. Più in alto la Luce brillò nitida e chiara per l'ultima volta, bianca come una spada faêran che squarciasse la nebbia... poi la montagna si scosse con violenza, la sua chioma scarlatta bruciò furiosamente e si staccò dalla riva un'enorme onda che sollevò le barche, le fece beccheggiare e le spinse via. Proiettili di roccia arroventata caddero sibilando in mare, vicini e lontani; alcune sfondarono il sartiame e colpirono i ponti, annerendo il legno e dando fuoco a tutto ciò che toccavano prima che gli equipaggi riuscissero a buttarle a mare, con i badili o a suon di calci. Mentre l'ultima imbarcazione percorreva la Spaccatura, l'isola ebbe un altro fremito e la Torre della Luce s'inclinò pian piano, poi andò in pezzi e le sue rovine precipitarono in mare. La sua grossa lanterna continuò testardamente a brillare finché si estinse tra le onde. In una pioggia di cenere sempre più nera e fitta, i piccoli vascelli continuarono a cercare l'uscita verso il mare aperto. Nessuno era in grado di prevedere se sarebbero riusciti a fuggire col loro carico di vite umane. Dietro di essi, il vulcano marino che - all'insaputa di tutti - sorgeva al centro di Tamhania era diventato selvaggiamente instabile: aveva dormito per molto tempo ma ora qualcosa aveva distrutto il suo delicato equilibrio interno, destando un calore più ardente di qualsiasi fornace, così grande da essere inconcepibile... un calore che aveva atteso per millenni nella frattura tettonica alla base dell'isola e che adesso sollevava la testa priva di mente, raddrizzava le spalle gonfie di magma infuocato e premeva contro la crosta superficiale per spezzare il coperchio che lo aveva tenuto compresso. Il fondale del mare sussultava. Nelle viscere della montagna, la roccia fusa saliva lungo ogni fessura, spinta dalla terribile pressione. Alla temperatura di migliaia di gradi, essa formò un pericoloso miscuglio coi gas contenuti nell'acqua marina e fumi venefici schizzarono fuori dai crepacci come serpi inferocite: vapori di zolfo che uscivano dalle fumarole, esalazioni di gas pesanti che scendevano lungo la montagna, riversandosi in ogni burrone... senza contare i vapori acidi che corrodevano tutto ciò che toccavano, le nebbie eteree che si alzarono verso il cielo in immensi veli e i gas esplosivi, le cui deflagrazioni scuotevano l'interno del vulcano con rimbombi di tuono.
Come un camino che avesse preso fuoco, il passaggio centrale cominciò a ruggire. A ogni nuova esplosione, blocchi di roccia grandi come palazzi giungevano in superficie e schizzavano fuori dalla sommità del cono. L'aria era piena di proiettili fumanti e lunghi getti di lava s'inarcavano nell'aria, uno dopo l'altro; sopra il cratere ribolliva una nube fitta di circonvoluzioni come una corteccia cerebrale, a ventimila piedi dal livello del mare. Un improvviso acquazzone misto a cenere si abbatté sui pescherecci; in quella fanghiglia c'era una sostanza che luccicava nel buio e ben presto gli alberi e i ponti ne furono coperti e presero a rosseggiare, come spolverati di minuscole braci. Dietro la flottiglia, il ruggito della montagna morente si faceva sempre più intenso mentre le barche navigavano nella notte... o era giorno? I proiettili che cadevano dal cielo sibilavano come unseelie inferociti e colpivano l'acqua con tonfi violenti. C'era nell'aria una vibrazione subsonica, come se giganteschi fabbri stessero lavorando senza requie nelle loro forge sotterranee coi martelli che tambureggiavano instancabili su poderose incudini mentre, con muggiti da incubo, ventole infernali soffiavano fumo rovente fuori dai camini. Sullo sfondo nero della notte, torrenti di lava liquida dai riflessi d'oro inondavano i resti carbonizzati dei boschi di Tamhania; nel porto galleggiavano pesci letteralmente bolliti dal calore e le acque fumavano. Nubi di gas surriscaldato scesero dai versanti della montagna in fiumi fluidi e distruttivi che vaporizzavano ogni resto di sostanza organica ma neppure quello sfogo bastò a far diminuire la pressione. Tamhania era scossa dagli spasimi dell'agonia. Nuove fessure fumanti si aprirono nei suoi fianchi e ne uscì una lava pastosa che, avanzando in languidi torrenti, incenerì e ricoprì le case del villaggio. L'isola muggì come se stesse per vomitare al cielo le proprie budella. Trascorsero le ore e la notte - quella vera - scese sulla flotta, benché ogni luce del firmamento fosse nascosta dalle tonnellate di ceneri che si stavano riversando dai cieli di Erith. Il fango luminescente brillava su ogni superficie esposta delle barche. Tamhania era la fonte di luce principale: una fontana di fuoco, il cui rumore girava intorno all'orlo del mondo come una ruota di ferro intorno a una tazza. Molte rocce galleggianti (pezzi di pomice porosa e piena di gas, simili a dure spugne nere) ostacolavano la navigazione e una polvere di cenere mista ad acqua salata ricopriva le facce, gli abiti, le barbe e i capelli degli sfollati. Era una mistura che faceva bruciare gli occhi e rendeva scivoloso il ponte delle barche.
L'oceano reagiva al brontolio furioso dell'isola, i cui effetti si espandevano come gli anelli generati dalla caduta di una pietra in uno stagno tranquillo: la flotta in fuga venne spesso raggiunta da numerose ondate successive, che sollevavano le barche sulle loro creste e le facevano poi precipitare nei profondi abissi tra l'una e l'altra. Quando finalmente venne il mattino, il sole sorse dal mare come un pezzo di vetro rosso appuntato sul vestito fangoso del cielo. Fu allora che quanti stavano guardando verso poppa, appoggiati alle ringhiere, videro un lampo abbagliante... e subito dopo il boato di un'enorme esplosione appiattì la superficie del mare. L'onda sonora colpì le barche con forza imprevista e passò oltre i piccoli scafi, che oscillarono e beccheggiarono ma rimasero uniti. I passeggeri, però, non ne furono affatto sollevati perché sapevano cosa stava per accadere: le vibrazioni viaggiavano più velocemente nell'aria che nell'acqua. Senza badare al decoro, i passeggeri si sbarazzarono delle scarpe e degli indumenti più ingombranti, prevedendo di finire presto a mollo. Molti di loro non sapevano nuotare. Viviana si appuntò il medaglione sulla camicetta e strinse bene la castellana alla cintura: «Quando saremo a riva mi serviranno tutte le mie cose», dichiarò coraggiosamente. Il sole salì lungo il suo arco celeste finché, a metà mattina, una seconda esplosione violentissima scosse l'intera regione: le pareti del vulcano centrale si erano disintegrate, causando uno spettacolare nuvolone a forma di fungo circondato da anelli di vapore che salivano nell'alta atmosfera. Il vento caldo colpì gli sfollati come la mano di un gigante. «Tenetevi pronti!» fu l'avvertimento che passò da una barca all'altra. «La prima onda sta per arrivare!» Gli equipaggi si affrettarono ad ammainare le vele, lasciandone soltanto una piccola per la manovra. Mentre gli altri passeggeri lavoravano i timonieri s'impegnarono al massimo per girare le prue verso l'isola, lontana e invisibile tra i banchi di fumo che vagavano sul mare come fantasmi. I marinai fecero spostare la gente in modo che il peso su ogni barca fosse distribuito al meglio. Poi videro, prima ancora di udirla, una linea nera che saliva all'orizzonte... Un muro. Un lungo, lunghissimo muro senza inizio e senza fine, che sembrava risucchiare ogni goccia d'acqua davanti a sé e crescere in una bella curva, elegante come una conchiglia: era inesorabile, stupefacente... e veloce.
«Reggetevi!» gridò qualcuno - benché non ce ne fosse bisogno - e la sua voce si perse nel boato di quella minaccia. I timonieri lottavano per mantenere il controllo ma un forte vento si opponeva ai loro sforzi, con la potenza di tonnellate d'aria spostate da tonnellate d'acqua. Il muro correva sul mare verso la flotta; si alzava e acquistava forza, incombendo su di loro. Il legname delle barche cigolava e gemeva sotto l'assalto degli elementi. Impiastrata di fango da capo a piedi, Rohain stava aggrappata all'albero al quale si era fatta legare, poiché non riusciva a stare in piedi a causa del vento. Ora esso le urlava nelle orecchie, annientando qualsiasi altro suono... Lei alzò la testa e vide tonnellate d'acque sospese sopra di lei: l'ondata tonante veniva avanti e si alzava sotto la pioggia, sempre di più. Rohain sentì il ponte allontanarsi verso il basso quando l'impeto della cresta la scaraventò in aria. Trattenne il respiro, poi si sentì cadere e capì che la barca stava cadendo con lei. Il sangue le defluì nei piedi e un'esplosione d'acqua aggredì il ponte. In qualche modo la piccola, robusta imbarcazione si era inerpicata su per la muraglia liquida fino alla cresta schiumosa e ora ricadeva giù, acquistando una velocità tale che, quando fu nel cavo dell'onda, la sua prora affondò. Dietro la madre di tutte le onde venivano le sue figlie, schierate in fila e di altezza decrescente, con l'ultima che raggiungeva i novanta piedi: pochi istanti ancora e la barca ricominciò a salire lungo il ventre di un'altra onda e poi a discendere vorticosamente lungo la sua schiena, fino a sprofondare con tutto lo scafo fuorché la poppa nella mortale tenebra dei gorghi che la seguivano. Laggiù, mezza affondata, essa esitò - come per contemplare la resa - ma infine tirò fuori la prua e si raddrizzò. Mentre riemergeva, tonnellate d'acqua spazzarono il ponte che s'impennava come un cavallo selvaggio. Nel ruggito del vento e del mare non era possibile udire nessun grido umano e la visibilità era ridotta quasi a zero. Il vento aveva raggiunto i centotrentacinque nodi: una velocità tale che i passeggeri dovettero chiudere gli occhi per non farseli strappare dalle orbite... tanto più che, chiusi o aperti, c'era poca differenza in ciò che avrebbero potuto vedere: tra le onde regnava una notte fumosa e sulle loro creste ribolliva una schiuma così alta da nascondere tutto, compresi i blocchi di pomice che continuavano a cadere come colpi di maglio. Le raffiche di pioggia erano quasi orizzontali e si distinguevano dagli schizzi salmastri solo perché erano più calde. Quando la prima serie di ondate fu passata oltre, Rohain poté vedere che
la flotta si era separata e dispersa. La barca con a bordo la Duchessa di Roxburgh e i suoi figli non si scorgeva da nessuna parte; in quanto alle altre, le riuscì impossibile capire se ne fosse sopravvissuta qualcuna. Sull'orizzonte si levava una colonna di gas e vapore alta trenta miglia... e una seconda, immensa ondata stava arrivando alla carica. L'intervallo rispetto a quella che l'aveva preceduta fu fin troppo breve e, per giunta, questa non era una muraglia ma una montagna, sul cui versante c'erano altre onde, alte come case, che vivevano di vita propria. Legata saldamente all'albero, la giovane donna urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Di nuovo la barca salì fino alla cresta - all'altezza vertiginosa di oltre centodieci piedi - e poi scivolò lungo la sua dorsale... tuttavia stavolta non si raddrizzò, anzi l'inerzia accumulata la spinse dritta di prua nel corpo dell'onda successiva. Ne emerse dalla parte opposta coi passeggeri e l'equipaggio che rantolavano semisoffocati e, subito dopo, si piantò nella seguente, entrandovi sino alla barra del timone. Tutte quelle torsioni violente avevano indebolito la struttura dello scafo: il fasciame cominciò a fessurarsi e a imbarcare acqua e coloro che ancora ne avevano la forza dovettero darsi da fare con le pompe a mano. Cos'aveva detto Thomas quando erano saliti a bordo? Lutey si è imbarcato con noi, Rohain. Con lui accanto non possiamo affogare! Ma davvero i figli del mare nuotavano sotto quel malridotto guscio di noce, sostenendolo e proteggendolo per mantenere la promessa che avevano fatto? E cosa era stato del resto della flotta? In quel momento non si vedeva traccia di una sola barca... neppure un'asse spezzata. Più avanti, Rohain riuscì a scorgere tra le colline d'acqua che si allontanavano verso l'orizzonte una striscia scura che avrebbe potuto essere la terraferma. Spinti dai resti delle vele che penzolavano dall'albero come le vesti stracciate di un mendicante, gli esuli continuarono a navigare, cercando di tenere la prua puntata verso quel simbolo di speranza ma fin troppo alla mercé del vento e delle correnti. Ormai le onde che ancora li inseguivano non superavano i sessanta piedi. Legata al ponte sconquassato, Rohain aspettò con ansia insieme con Edward, Ercildoune, Lutey, il sindaco del villaggio, Viviana e Caitri, augurandosi che tutto fosse finito. Oh... ma non è così! diceva il suo cuore. I corvi erano in tre... Del resto, è il numero degli eldritch: yan, tan, tethera. «La terza volta paga per tutte», dice il proverbio. Robin Lutey tolse di tasca il pettine della sirena: anche in quella penom-
bra, l'oro e le perle incastonate nell'avorio luccicavano come la luce del sole attraverso le onde. Reggendosi con una mano al bordo dell'imbarcazione, l'uomo infilò il pettine nei capelli di Caitri. «Tu sei giovane», gridò... eppure la sua voce risultò appena udibile nel fragore del vento e del mare. «Troppo giovane per morire!» «Stai dicendo che ci sarà un'altra onda?» gridò il Principe Edward, che stava in piedi accanto a Rohain, tra le guardie del corpo. Lutey annuì, alzando il dito indice. «Ancora una.» «Allora dobbiamo legarci di nuovo alla barca!» disse Rohain. «No!» replicò Lutey. «Restiamo liberi, nel caso che lo scafo si spacchi.» «Se dovesse mettersi al peggio, milady», muggì il bardo in un orecchio di Rohain, «e badate che non dico che accadrà ma solo che potrebbe accadere... ebbene, voi vi salverete: avete una protezione, bisogna che lo sappiate. Lo stesso dicasi per il Principe e ora anche per la vostra piccola cameriera... Rohain, potremmo non rivederci più e ci sono molte cose che non posso dire... Il mio cuore ne è pieno e l'onore m'impedisce di svuotarlo.» «Oh, no!» gridò lei. «Come potrei salvarmi io e non voi? E Viviana e le altre mie cameriere?» «Forse Viviana sopravvivrà.» La voce di lui suonava rauca, come se avesse mangiato ghiaia. «Mi ha detto di essere nata con la camicia e che, per questo motivo, sua madre la battezzò col nome di una strega del mare. Lei porta su di sé un pezzo di quel talismano naturale, perciò non morirà per affogamento.» «Thomas...» Gli occhi di Rohain erano oceani di lacrime. Lontano da lì, su Tamhania, l'acqua del mare precipitò nell'abisso in cui si era trasformato il cuore del vulcano e investì il magma fuso. Fu allora che la superficie del mondo si scosse con forza sconvolgente. Un simile cataclisma poteva avere una sola origine: l'intera isola era stata scaraventata in aria. Un tempo - molti millenni addietro - il vulcano era nato sollevandosi dal fondo del mare e ora lo stesso processo geologico lo stava distruggendo. Dopo la sua scomparsa, il mare ormai privo di punti di riferimento avrebbe nascosto la sua latitudine e longitudine, ricoprendo quella zona come se lì non fosse mai esistito niente. L'onda d'urto prodotta dall'esplosione che aveva disintegrato il vulcano si allargò in tutte le direzioni alla velocità di oltre settecento miglia all'ora e fu seguita da un'onda anomala che viaggiava a trecentocinquanta miglia
all'ora. Non la si poteva nemmeno chiamare un'onda: se la prima era stata una muraglia e la seconda una montagna, la terza fu un intero oceano che, nel suo punto più elevato, raggiungeva i centocinquanta piedi d'altezza e che, avvicinandosi, parve inghiottire il cielo. Era una piega nel corpo del mare, il quale si rovesciava su se stesso e acquistava altezza avanzando sul fondale sempre più basso verso la linea costiera. Quando cominciò a sollevare l'imbarcazione di Rohain, la violenza di quell'ascesa schiacciò i passeggeri contro il ponte mentre il vento urlava e davanti a loro si scavava una voragine dentro alla quale si poteva vedere il fondo del mare. L'acqua era risucchiata verso l'alto e proiettata in avanti e, di fronte a loro e Centosettanta piedi sotto la chiglia, cominciò a scorrere la costa della terraferma che l'onda superava d'impeto, diretta verso l'interno. «Stammi vicina!» gridò Edward, afferrando Rohain per la vita. Lei lo abbracciò con forza. «Addio, a ciascuno e a tutti!» gridò il bardo, stringendo i denti. Il tempo rallentò o parve rallentare e Rohain intuì in un lampo che un'onda come quella c'era già stata: non era la prima volta che un vulcano esplodeva, in Erith. ... a est, a due miglia dal mare, c'è una cosa davvero strana: i resti di un'antica Nave d'Acqua, incastrata in una strettoia tra due colline. Possibile che il loro peschereccio fosse destinato a una fine simile? Venire trascinato lungo una vallata fluviale per poi essere depositato molto più in alto del livello del mare, ridotto a un guscio semidistrutto pieno di cadaveri stritolati? A un tratto - con un rumore curiosamente analogo al crepitio di corde di violino - i chiodi di rame cominciarono a schizzare dalle assi contorte dello scafo e il fasciame si spalancò in più punti. Caitri si aggrappò a Lutey. La bocca aperta di Viviana era un tunnel di paura e Rohain cercò di avvicinarsi a lei ma venne sbalzata addosso al Principe Edward e scaraventata fuori insieme con lui, nel guazzabuglio dei flutti. La corda che aveva alla cintura fu strappata. Thomas scivolò giù lungo il ponte, in verticale. Capovolta e spezzata in due, l'imbarcazione affondò. La cenere pioveva fitta. Cadeva e continuava a cadere. Particelle finissime saturavano l'aria. Il sole, non più giallo, aveva assunto un colore verde-azzurro... poi il tramonto invase un terzo del cielo e fu un tramonto quale gli esseri umani
che lo stavano osservando non avevano mai visto: era fatto di brace sanguigna, brillante e spaventosa; ardenti rose di rubino, eterei tendaggi giallastri, castelli di topazi in fiamme, ondate di vetro fuso... L'orizzonte era una lastra di rame. Molto tempo dopo la scomparsa del sole, nell'aria rilucevano ancora maligni arcobaleni di polvere e un alone giallastro, malato, circondava la pallida falce della luna. Quel cielo funereo era la lapide che recava scritto l'epitaffio di Tamhania: la sostanza stessa dell'isola sarebbe andata a disperdersi su tutta Erith, portando notti e notti di strana bellezza... e ovunque fossero ricaduti i suoi frammenti, il suolo li avrebbe assorbiti per utilizzarli nella creazione di nuova vita. E forse, in quella nuova vita, ci sarebbe stata un'eco di quella ormai scomparsa. 7 LA CALDERA TIMO E MAREA
Il fuoco nel nucleo riposava, dormiente stanco d'eruttare lava incandescente. Ma un giorno il magma si svegliò furente tutto bruciando sul corso suo ardente. E dove s'alzava un cono fumante, nel fosco cratere, or v'è acqua stagnante. Da Quiescenza, un canto del Tapthartharath Per tutto il tempo - mentre era stata risucchiata e spinta, sollevata e abbassata, assordata da onde calde e improvvise e resa cieca e insensibile; mentre schizzi di liquido sporco le penetravano in gola e nello stomaco, il sale le incrostava le labbra e la paura di respirare acqua le causava attacchi di panico, accessi di soffocamento e una rossa agonia che le bloccava i polmoni e le accelerava il cuore sino allo spasimo - le mani di Rohain non avevano mai abbandonato l'oggetto che la teneva in vita: la Speranza... una
Speranza di legno, a galla sulla turbinosa marea che la trascinava avanti. Era buio quando - dopo un'ultima, vorticosa spinta - il pezzo di legno strisciò contro qualcosa. La giovane donna sentì qualcosa di solido sotto i piedi e cercò di farvi presa ma fu trascinata indietro, spostata, fatta roteare e scagliata di nuovo avanti. Al secondo tentativo, riuscì a mettersi in piedi e uscì faticosamente dall'acqua. Il legno le tirava una mano verso il basso... perché le era tanto affezionato? Perché non voleva lasciarla? Si asciugò gli occhi con la mano libera e abbassò lo sguardo: l'anello di foglioline d'oro che aveva al dito si era impigliato nella testa di un chiodo di rame che sporgeva da quella che era stata la polena scolpita del peschereccio. Il dono di Thorn l'aveva salvata. Rohain si chinò a liberare l'aureo cerchietto dal chiodo, poi raggiunse a guado la terraferma e si lasciò cadere su un mucchio di fango, oltre la portata delle acque. Il suo corpo ebbe uno spasimo doloroso quando lei vomitò il liquido che le era entrato nei polmoni. Vestita solo di una pallida sottoveste, restò a giacere come un sacco d'alghe bagnate, scomposta e inerte. Da qualche parte, in fondo al mare, il vestito che si era strappata di dosso fluttuava come un fantasma privo di testa e mani tra fantasmi assai più macabri. Asciugandosi nella notte tiepida, la giovane donna - tuttora coperta da una sottile crosta di sale e di cenere - alzò la testa dolorante: si era accorta del mormorio di un ruscelletto che gocciolava tra le rocce, proprio accanto a lei. Era fresco e pulito come un nastro di seta, perciò bevve alcuni lunghi, deliziosi sorsi. Nel chinarsi sull'acqua, due cose le oscillarono davanti agli occhi: la foglia di giada del suo tilhal e la fiala di nathrach deirge, entrambe appese a corte e robuste catenelle. Alla cintura aveva ancora l'astuccio di stoffa, un po' malconcio ma solidamente attaccato. Fu grata al cielo di non aver perso quei preziosi accessori. Si tirò a sedere accanto al ruscello e si guardò intorno, meravigliata. Quella non era una costa rocciosa, né sabbiosa; davanti a lei c'era il pendio di una collina coperta di alberi, le cui radici erano vestite di cespugli ed erbe. Che la furia dell'oceano l'avesse trascinata sin nell'entroterra? Nel cielo senza stelle, la luna era larga, argentea e avvolta da un alone verdastro. L'acqua dell'onda che si era degnata di deporla lì si stava ritirando come una marea calante, ma sembrava abbandonare malvolentieri la presa su quel territorio e vi affondava gli artigli, portandosi dietro grandi quantità di melma. Attraverso la nebbia di cenere che riempiva l'aria, Rohain vide la polena a forma di sirena della barca, arenata tra un paio di tronchi.
L'onda mostruosa se ne andava senza troppa fretta, lasciandosi dietro una devastazione quasi totale: alberi fatti a pezzi, macigni divelti dalle alture, mucchi di alghe, una fanghiglia grigia che copriva tutto e, più vicino a lei, un cespuglio sradicato dal quale spuntava un piede umano con una catenella d'oro intorno alla caviglia e le unghie dipinte di rosa confetto. Barcollando e scivolando nel vento che continuava a soffiarle cenere in faccia e con le scarpe che affondavano sino a sparire in un fango erboso costellato di conchiglie e fiori bianchi, Rohain andò a sollevare quel piede. «Viviana!» ansimò, sgomenta. Subito, però, si accorse con immenso sollievo che la ragazza era ancora viva e sembrava cosciente: era più di quanto lei avesse osato sperare. Viviana gemette e Rohain l'aiutò a districarsi dal groviglio di rami e ramoscelli che l'aveva catturata come un pesce nella rete. Graffiata, sanguinante e lei pure vestita con una sottoveste ridotta a un cencio, la giovane cameriera non riusciva a parlare; gli unici suoni che produsse furono i tintinnii metallici dei numerosi oggetti appesi alla sua castellana, che era rimasta allacciata alla sua cintura nonostante tutto quello sconquasso. La padrona sorresse la serva fino al ruscelletto e l'aiutò a chinarsi sull'acqua. «Bevi!» Lei bevve e, insieme, le due ragazze avanzarono vacillando. Quando l'acqua salata fu ben lontana cominciò a essere chiaro che l'onda le aveva depositate a metà di un colle dal pendio molto dolce in una valle che si apriva sulla costa, quest'ultima ancora invisibile a causa dei flutti in ritirata. La nebbia marroncina spirava in folate che ogni tanto si diradavano: Rohain vi sbirciò dentro, sperando di scorgere di nuovo le forme umane che le sembrava di aver visto o immaginato poco prima. Dirigendosi da quella parte, infine, le rivide: erano ben solide e si facevano sempre più grandi a ogni passo. Due corpi che si spostavano lentamente, scuri contro lo sfondo nero. Thorn mi ha giurato che l'anello-foglia consente a chi lo porta di vedere la verità, senza essere ingannato da trucchi. Il grido che sfuggì a Rohain le fece dolere la gola, corrodendone la carne come la lava corrode le pareti del camino vulcanico. Le due figure si fermarono nella foschia di cenere, si voltarono di scatto e una di esse - Caitri - scoppiò in singhiozzi e si gettò tra le braccia di Rohain. «Povera bambina», mormorò lei più volte, cullandola in un abbraccio
quasi materno. «Chi c'è con te?» Viviana cadde in ginocchio, tossendo. La figura che accompagnava Caitri acquistò i lineamenti di Lutey. Coperto di fango e malridotto, il Mago del Mare andò a chinarsi accanto a Viviana. «Coraggio», mormorò. «Coraggio.» «Avete visto qualcun altro?» volle sapere Rohain. Caitri scosse il capo. «No.» «C'è una casa qui vicino, a metà del pendio. Andiamoci», propose Lutey. «Ci soccorreranno?» gemette pietosamente Viviana. «Il posto è abbandonato ma una di quelli che un tempo abitavano qui aveva la Vista», disse Lutey. «Quando se ne andò, lasciò dei rifornimenti per soccorrere i bisognosi, poiché aveva previsto che una notte drammatica come questa sarebbe arrivata. Io so dove siamo approdati... Quest'intera regione è disabitata dagli esseri umani, nel raggio di molte miglia.» «Come fate a sapere queste cose, Mastro Lutey?» domandò Rohain. Prima ancora che i suoi occhi vedessero la risposta, però, l'aveva già immaginata. Le acque turbinose si erano ritratte a breve distanza dal pendio del colle e laggiù sulla risacca - a metà tra il regno dei pesci a sangue freddo che vivevano senza respirare e quello degli esseri che senza respirare non potevano vivere - sedeva lei. Era lucida d'umidità, con l'acqua del mare che ancora le gocciolava dai fianchi; non un grano di cenere sporcava il luminoso splendore degli occhi di pavone disegnati a spirale sulla parte inferiore del suo corpo, la brillante seta della pinna bifida, il candore marmoreo delle braccia snelle e l'oro verde delle chiome che aderivano all'intera lunghezza della sua flessuosa figura, morbide come fronde di cipresso. «È stata lei a tirarmi fuori e portarmi all'asciutto», mormorò Caitri con calma, quasi meravigliata. «Ora devi darmi il pettine, piccola.» Lutey allungò una mano verso l'oggetto scintillante. «Per me è giunto il tempo di restituirlo.» Per la prima volta Rohain si accorse di quanto apparisse vecchio il Mago del Mare, curvo e appesantito dagli anni... molto più di quando l'aveva incontrato per la prima volta, pochi giorni addietro. «Voi avete cercato d'impedire tutto questo, non è così?» domandò, rendendosi conto dell'accaduto. «Avete tentato di opporvi con la magia a quegli uccelli unseelie e questo vi ha risucchiato tutta la forza dal corpo.» «Sì, milady.» La faccia di lui si contorse in un sogghigno. «D'altra parte,
prima o poi mi sarei comunque ridotto come mi vedete. In un certo senso...» Gettò uno sguardo al prezioso pettine della sirena. «... in un certo senso, è un bene che sia successo prima. Lei ha aspettato a lungo... e anch'io.» «No, vi prego!» Dalla gola di Caitri affiorò un singhiozzo. «Non dovete andare, signore! Laggiù negli abissi vi attende il pericolo. Quel Marool...» Il vecchio sorrise e la baciò. Sotto le rughe dell'età, il volto che si girò a guardare l'affascinante creatura del mare era giovane, coraggioso e gentile. La fanciulla tacque. Dopo aver preso il pettine, Lutey scese lungo il pendio tenendosi eretto, con andatura lenta ma dignitosa e sicura: sembrava che il tempo gli scivolasse via dalle membra a ogni passo e, quando giunse accanto alla sua amata, tra loro passò uno sguardo intenso. La sirena mosse la coda sinuosa e scomparve nell'acqua senza quasi incresparla; l'uomo alzò una mano in un ultimo saluto e s'incamminò dietro di lei. Caitri piangeva. Il mare lambì le caviglie di Lutey, le ginocchia, poi i fianchi... Un'onda scivolò avanti sulla riva fangosa: l'acqua si chiuse sopra la sua testa e nessun occhio umano lo vide mai più. La casa sulla collina, intonacata a calce e col tetto in lastre d'ardesia, dominava un piccolo porticciolo ora sommerso. Chiuso tra filari di frassini e pruni, il vasto orto abbandonato - un tempo ben tenuto - era ormai invaso dalle erbacce ma soprattutto dall'invadente timo selvatico dall'odore pungente, che aveva sopraffatto ogni altra vegetazione a parte un po' di pastinaca e di carote. La porta si aprì subito, poiché la serratura non era stata chiusa. Essendo stata costruita a prova d'acqua e capace di tenere fuori il forte vento di mare, l'abitazione aveva resistito anche alla pioggia di cenere, sicché solo un fine strato di polvere accolse le visitatrici. All'interno trovarono rifornimenti a profusione. In un angolo c'era una cassa piena di abiti da contadini, semplici e di misure non troppo adeguate alle loro ma puliti e utilizzabili. In un armadio trovarono tela cerata, guanti, cappucci in rete di talium e robusti stivali. Un cassetto conteneva due o tre coltelli, alcuni cucchiai, candele, un rotolo di corda, sale e un acciarino. C'erano anche un'accetta, una cazzuola, un secchio per tirare su l'acqua dal pozzo e persino un sacco di farina che, bollita nel paiolo di ferro appeso nel camino, fornì porridge ben commestibile. In un angolo c'erano alcuni materassi imbottiti di paglia secca: su di essi le tre
compagne si distesero per riposare alla luce del fuoco e della candela, dopo aver sbarrato bene la porta per tener fuori quella notte spettrale. Nel buio del cortile, il silenzio sembrava premere sui muri della casupola con tanta forza da curvarli verso l'interno. Non si udiva nessun rumore: non il latrato di una volpe né il verso di un gufo o il mormorio del vento. Le foglie pendevano rigide sotto una pellicola di cenere. Le tre compagne erano rimaste profondamente turbate dall'accaduto: vedere un'intera isola andare alla distruzione, sopravvivere a una tempesta peggiore di ogni più fantasiosa descrizione, esserne travolte e quasi annegate, finire separate da tutti i loro amici e conoscenti per poi ritrovarsi in quel disperato isolamento... queste esperienze erano troppo intense per poterle dimenticare nel giro di poche ore. Quando la follia del mondo travalica ogni limite consueto, le vittime di tale follia devono chiudere la porta della propria mente oppure esserne invase, trasformate e spezzate dall'assurdità, dall'orrore e dalla sofferenza. Per tacito accordo, le tre esuli evitarono di parlare della tragedia della quale erano state loro malgrado protagoniste, con tutte le sue preoccupanti implicazioni. Erano rimaste in vita; dovevano resistere. «Suppongo che gli abitanti di questa casa debbano essere stati molto ricchi e generosi per aver lasciato tante cose», osservò Caitri, distesa supina sul pagliericcio. «Mi chiedo perché abbiano vissuto in una casupola così misera.» «Può darsi che siano partiti in fretta. Mi chiedo per quale motivo se ne siano andati», disse Viviana, gettando uno sguardo nervoso a una finestra come se temesse che qualche creatura maligna sbirciasse dentro o cercasse furtivamente di entrare. «Dovrò cercare di far pervenire a Sua Maestà la notizia che siamo sopravvissute... anche se non so immaginare in che modo», rifletté Rohain, togliendosi dalla fronte i capelli incrostati di sale. «Per giunta, sono stanca morta.» Le giovani donne ascoltarono l'inquietante silenzio che avvolgeva come un bozzolo i muri della casa. La candela palpitava. «In questo luogo si aggira qualcosa di pericoloso», dichiarò Viviana. «C'è troppa immobilità, troppa quiete... È quasi contro natura. La nebbia che c'è fuori fa sembrare tutto ancor più irreale.» Annusò l'aria. «Il puzzo di zolfo e di bruciato ci è rimasto appiccicato addosso. Puah! Soltanto il profumo di tutto quel timo là fuori lo supera.»
«Sì, c'è qualcosa di ultraterreno in questo posto», concordò Rohain. «La notte sarà lunga, temo... Caitri, facciamo in modo di far passare più in fretta queste ore», continuò, con un sorriso forzato. «Raccontaci una storia, ti prego.» La ragazzina si alzò a sedere, appoggiò le spalle al muro e si tirò addosso il mantello. I suoi occhi si fecero sognanti mentre narrava di un uomo che aveva danzato coi faêran per una notte - così credeva - salvo poi scoprire, all'alba, di essere rimasto assente dal mondo degli uomini per sessant'anni. Quand'era uscito di nuovo sull'erba verde della terra dei mortali, i suoi passi si erano fatti sempre più deboli e leggeri finché si era afflosciato al suolo, magro come un sacco d'ossa, morto. Caitri tacque. Fuori dalla casupola, sul colle in riva al mare, non si muoveva nulla di vivo. La fanciulla sospirò. «Vedete», proseguì, «quando lui uscì dal Reame Fatato dei faêran, il tempo della sua vita mortale era ormai scaduto. Il nostro tempo trascorre diversamente dal loro, anche se in certi momenti il tempo mortale e il tempo faêran sembrano coincidere.» «È una storia allucinante», commentò Viviana. «Ma soltanto un sogno, alla fine... come tutte le storie sul Reame Fatato e Pericoloso.» Sbadigliò. Mentre dimenticava il racconto e cominciava a sonnecchiare, Rohain pensò a tutte le domande che avrebbe dovuto porre al Mago del Mare. Dove si trovava la costa sulla quale erano stati gettati? Quale destino avevano incontrato le altre barche? Perché in quella regione non c'erano altri esseri umani? Dov'era il Principe Edward? Era sopravvissuto qualcun altro... Alys-Jannetta? Thomas? Ah, Thomas... dovrò ancora soffrire perché un ertish dal cuore gentile mi e stato strappato? Se tutti loro sono morti, è stato anche perché io ho insistito per accendere la Luce. Su di me pesa la colpa... Caitri stava piangendo in silenzio. Tutte loro avevano perduto delle persone a cui tenevano molto... Rohain si concesse di pensare a Thorn e una dolce, pungente tristezza s'impadronì di lei. Oh, mio fuoco oscuro! Mio cavaliere generoso e nobile che, col tuo carattere spensierato, superavi le insondabili profondità della mia malinconia come una foglia che galleggi leggera su uno stagno in mezzo alla boscaglia... quanto sento la mancanza delle tue tenere carezze, dei tuoi modi affettuosi... come potrò farti avere mie notizie? Tornerò mai al tuo fianco? Sopra tutte quelle domande senza risposta ne gravava un'altra, come una
cappa fosca. Quel luogo - quella casa sul colle - aveva qualcosa di familiare. Sono già stata qui? Durante la notte, Rohain si svegliò e udì solo il silenzio... o così le parve. La sua immaginazione le diceva che a destarla era stato il rumore di una bestia che annusava intorno alla casa, come se là fuori ci fosse un cane in cerca di qualcosa. Per un poco rimase sveglia ma il fatto che chiudesse gli occhi o meno non faceva nessuna differenza: la tenebra era impenetrabile. All'improvviso, l'oscurità lasciò il posto all'alba. Il cielo impallidì nel grigiore antelucano e, subito dopo, un annacquato inchiostro azzurro lo tinse. «Questa notte ho sognato che un uccello batteva le ali contro la porta della casa», la informò Caitri, che era già sveglia. D'istinto Rohain si voltò a guardare il soffitto, come per vedere il cielo al di là di esso. La paura le strinse una morsa intorno alla gola. «Dobbiamo andarcene al più presto. Siamo già rimaste qui troppo!» sussurrò. Sotto le colline, il mare si era ritirato sino al suo livello consueto. L'aria sapeva ancora di polvere e bruciato ma sembrava essersi un po' schiarita mentre il sole era un disco verde-azzurro, come un opale appeso in un cielo giallastro. A sud del piccolo porticciolo, non lontano dalla costa, si levava un'isola a forma di cono; più a ovest ce n'era una seconda e, dietro quella, altre ancora in una fila che si curvava verso nord-ovest. «La Catena delle Fumaiole», disse Viviana, in piedi sulla sommità della collina con Rohain e Caitri. «La mia balia me ne parlò quand'ero una bambinetta, a Wytham. Non le avevo mai viste ma credo che ci troviamo sulla desolata costa occidentale di Eldaraigne, poco a est di... non lontano da...» «Da cosa?» domandò Rohain. «Quel posto. Quello dove non siamo mai arrivate... insomma, le Torri della Caccia.» Cercarono lungo la riva ma non riuscirono a trovare nessun altro superstite. Più avanti videro alcuni pesci lasciati dall'onda di marea tra i rami di un albero, a soffocare nell'aria: furono subito puliti e fritti per colazione, perché il sacco di farina era piccolo e non sarebbe durato molto. «La farina è tutto il cibo che abbiamo e la finiremo nel giro di pochi
giorni», disse Rohain. «Non disponiamo di molto tempo. Per ora dobbiamo riposare per recuperare le forze ma quando ce ne andremo da qui, domattina, voi due prenderete il sacco di farina e viaggerete lungo la costa, verso sud-est. La vostra meta sarà la dimora dei Cavalieri della Tempesta la Torre di Isse -, ma tenetevi alla larga dalla Strada dell'Anello e dai suoi pericoli... e una volta giunte alla Torre, dite ai Corrieri di portare a Sua Maestà la notizia che io sono al sicuro.» «Ugh! Quella Torre è traiz olc», mugolò Viviana. «Mia madre vive a Isse.» Caitri sfiorò il cammeo che pendeva dalla sua collana. «Eppure, vorrei non essere mai stata a servizio in quel posto... È davvero terribile, la Torre. Cos'ha a che fare con voi, milady? Perché ci siete andata in visita?» Rohain raccontò alla fanciulla che, un tempo, aveva servito come lei il Settimo Casato dei Cavalieri della Tempesta. Quando ebbe finito la sua storia, vide che la sua ascoltatrice si era fatta pensierosa. «Dunque voi eravate lui!» mormorò Caitri. I fatti strani ormai non la stupivano più. «Sì.» «C'erano dei segni nella vostra carne, quando vi portarono là.» «Lo so. La mia faccia era stata sfigurata dall'edera paradossa e la mia gola... da qualcos'altro.» «Anche il vostro braccio sinistro. Sembrava che un bracciale o una fascia metallica si fosse conficcato nella vostra carne... Non potei fare a meno di notarlo e mi sentii dispiaciuta per voi ma, dopo un po', la ferita scomparve.» «Io non ricordo di aver avuto segni sul polso sinistro.» Le tre ragazze tacquero. Dopo un poco, Rohain disse: «Possiedo una fiala di Sangue di Drago. Eccola qui!» Tolse di tasca l'astuccio con la penna di cigno - nel quale aveva riposto anche il dono di Thorn - e lo aprì. «Nathrach deirge, lo chiamano... però non è affatto sangue di drago bensì un elisir a base d'erbe, che dà calore e nutrimento: lo prenderete con voi, poiché le nostre strade devono separarsi qui. Viviana, tu hai detto che le Torri della Caccia sono vicine e io andrò a cercarle... No, ti prego, non protestare! Accompagnarmi sarebbe più pericoloso di qualsiasi altra cosa, per te. La preda che Huon vuole sono io; ora che finalmente l'ho capito, so che non rinuncerà mai finché non mi avrà trovata, anche se non so il perché. «Un giorno, apparendomi come un avvoltoio in forma umana, mi ha
pomposamente detto che 'la conoscenza è potere'... quindi, se riuscissi a scoprire perché Huon mi vuole morta, forse avrei qualche probabilità in più di sfuggirgli. Che mi piaccia o no, quel posto maledetto rappresenta la mia unica possibilità di scoprire il motivo per cui il Cornuto mi dà la caccia. Devo seguire le mie tracce a ritroso... Ho già tentato di farlo e ho fallito; stavolta dovrò avere successo oppure lui vincerà. Finché non sarò morta o non avrò sconfitto questa maledizione, nessuno di quelli che amo sarà al sicuro e chiunque mi accompagni - dovunque io vada - sarà una preda per lui, al pari di me.» «Ma Vostra Signoria, voi dovete recarvi di persona alla Torre dei Cavalieri della Tempesta per scrivere di vostra mano il messaggio da mandare a Caermelor!» insistette Viviana, con energia. «Altrimenti come potranno credere alle nostre parole?» «Voglio che nessuno sappia dove mi trovo... neppure Sua Maestà. Dite loro che sono viva e fate sì che Sua Maestà ne sia informata ma non rivelate il mio proposito e la mia destinazione. Non voglio che vengano a cercarmi: troverebbero solo la morte.» Distolse lo sguardo da loro e mormorò: «Del resto, è come se fossi già morta anch'io». «A Caermelor non si accontenteranno di questo», le fece notare Caitri. «Ci costringeranno a dire la verità, con le buone o con le cattive... e poi verranno a cercarvi, per il vostro bene.» Rohain dovette ammettere la verità di quell'asserzione. «In questo caso racconterete che non mi avete più vista dopo la distruzione di Tamhania, così non avranno motivo di chiedervi altro...» s'interruppe. «Ah, ma questo significherebbe lasciare Sua Maestà all'oscuro! Tuttavia se non c'è nessun altro modo per tenerli lontani...» «Noi non ce ne andremo da qui senza di voi!» sbottò Viviana. «Non vi lasceremo in questa terra desolata.» «Sono in grado di sopravvivere con le mie forze. Mi è stato insegnato come trovare cibo nel deserto e questo anello che porto, con le foglie incise, contiene un incantesimo... benché io ignori se sia abbastanza potente da proteggermi dalla Caccia Selvaggia. Vi ripeto che devo andare, da sola e senza perdere tempo. Sono sicura che la rovina è stata portata su Tamhania al solo scopo di uccidermi o di scacciarmi da quel rifugio sicuro... La mia ipotesi è questa: se forze così grandi da saper usare il potere del fuoco e del mare sono state scatenate contro di me, è logico pensare che chi le ha mandate voglia sapere se questa missione ha avuto successo o meno. Sono immortali e non rinunceranno finché non ne saranno certi; forse già adesso
sanno che sono viva e che mi trovo su questa costa abbandonata. È addirittura possibile che, mentre noi sediamo qui a parlare, loro stiano arrivando... Non oso rimanere ferma troppo a lungo: è imperativo che mi sposti in fretta.» «Vostra Signoria sarà Regina-Imperatrice!» esclamò Viviana, stupefatta. «Cosa potete mai temere? I Dainnan vi proteggeranno e Sua Maestà Imperiale in persona sarà il vostro scudo. Non posso immaginare sicurezza maggiore di questa!» «Non c'è sicurezza contro ciò che minaccia me. Credi che le braccia di un mortale e gli incantesimi di un Mago potrebbero opporsi al più maligno e temuto dei principi eldritch? I Dainnan sarebbero forse in grado di far scoppiare un'isola?» «Io non la penso così, signora. Tamhania era un vulcano quiescente che avrebbe potuto risvegliarsi in qualsiasi momento. Ha distrutto se stesso con la forza che ribolliva nelle sue viscere... State pur certa che quei tre corvi, per quanto grossi e cattivi fossero, non avevano il potere di comandare gli elementi!» «Forse no, però è certo che gli uccelli di Huon hanno messo in movimento quelle forze.» «Gli uccelli di Huon?» ripeté Caitri. «La mia signora s'inganna. Huon non comanda uccelli... non nei racconti che ho udito, in ogni modo. Lui caccia coi suoi terribili cavalieri, i cavalli e i cani; a volte prende degli spriggan in groppa ai suoi destrieri dagli occhi di fuoco ma di sicuro nessun uccello. I corvi non volano agli ordini del Cornuto.» «Sei davvero istruita!» esclamò Rohain, tra lo stupore e il dubbio. «Mia madre mi ha insegnato molte cose e lei sa tutto quel che c'è da sapere degli eldritch. Inoltre, in tutte le storie raccontate da Mastro Brinkworth non si parlava mai di corvi che volassero con la Caccia Selvaggia.» «Aspetta!» esclamò Rohain. «Non dire altro, perché le tue parole mi stordiscono. Credevo di conoscere il mio nemico ma, ancora una volta, precipito nel caos e nella confusione... Se non è stato Huon a mandare quegli uccelli, allora chi?» «Non lo so, però so che loro possono scovarvi a fiuto», disse Cartai. «Gli spriggan, se non altro. Hanno un olfatto molto sviluppato e trovano la pista come i cani, solo assai meglio. Credo che conoscano il vostro odore: hanno messo a soqquadro la vostra camera, alla Torre... e ormai devono conoscere anche il vostro aspetto.» «Sì, lo conoscono», confermò Rohain. «Temo di essermi tradita al mer-
cato di Gilvaris Tarv. Questi sono due problemi che non so proprio come risolvere.» «Quel timo che ha riempito l'orto ha un profumo così forte da coprire ogni altro odore», osservò Caitri. «Se lo usaste per mascherare il vostro, potreste viaggiare in incognito.» «Caitri, non incoraggiarla ad andare in cerca del pericolo!» intervenne Viviana. «Comunque sia, niente può dissuadermi. Andrò alle Torri della Caccia», dichiarò Rohain. «Ma la Caccia Selvaggia parte da quel posto!» «Solo quando c'è la luna piena, dicono. Se non sbaglio siamo all'inizio del mese di Duileagmis e la vecchia luna è in fase calante; la luna nuova non è ancora nata.» Viviana sospirò profondamente. «Be', se proprio dovete, milady... vi aiuterò a camuffarvi e se c'è qualcosa d'altro che io possa fare per la vostra sicurezza, lo farò.» «Si trova verso ovest a non più di sei o sette leghe da qui, se non sbaglio», disse Viviana, cercando di rammentare la mappa che la sua balia aveva inchiodato al muro della stanza. «Quel posto orribile, voglio dire. Una giornata di marcia, a passo svelto.» Nella solitaria casupola di fronte al mare la cameriera aveva appena finito di tingere di castano i capelli d'oro della sua padrona - usando una rozza miscela di corteccia bollita - e ora stava cucendo una mezza maschera di stoffa per coprire gli occhi e la fronte di Rohain. Viviana non era tipo da lasciarsi cogliere impreparata: la versatile castellana affibbiata alla sua cintura era sopravvissuta intatta al naufragio e, appese alle sue catenelle, danzavano molte scatolette contenenti materiali a prova di ruggine: forbici d'ottone, il necessario per la manicure, spille e spilloni, una fiala di sali profumati e un'altra con dentro una spugna imbevuta d'aceto, una collezione di aghi, uno specchietto, un filtro per gli estratti vegetali, un orologio fermo la cui cassa era di bronzo con intarsi d'avorio, una scatola per il cucito (in cui c'erano rocchetti di filo, un ditale di porcellana e uno d'argento, automatici di metallo e bottoni dipinti a mano e coperti di vetro), un ritratto in miniatura di sua madre con la cornice di smalto, parecchi tilhal in legno di frassino, un temperino, una scatola vuota di tabacco da fiuto e una matita. Solo il piccolo taccuino era stato rovinato dall'acqua salata. «C'è da stupirsi che tutto questo armamentario non ti abbia trascinata
sott'acqua come una macina da mulino!» commentò Caitri. «Avevo con me un pezzo della mia camicia», la informò modestamente Viviana, riponendo l'ago nella scatoletta. «Milady, con questa maschera sugli occhi e la parte inferiore della faccia sporca di cenere avrete l'aspetto di un sudicio mendicante girovago, col vostro permesso. Nessuno capirà se siete maschio o femmina, se vi avvolgeremo in abbastanza stracci... e col succo di timo a impregnarvi le vesti, qualunque creatura che vi veda o senta il vostro odore non potrà identificarvi.» Inclinò la testa e studiò Rohain. «Devo ammetterlo, signora: è una vergogna sporcare una bellezza così rara... perché, sulla mia parola, un viso come il vostro non si è mai visto, a Corte o da qualsiasi altra parte! Non c'è da meravigliarsi che Sua Maestà se ne sia innamorato.» «Signorina Wellesley! Come osate rivolgervi così sfacciatamente a Sua Signoria?» la redarguì Caitri, ora più versata nell'etichetta. «Parlate sempre con franchezza davanti a me, per favore», disse distrattamente Rohain. «Ormai dovreste sapere entrambe che preferisco così e non lo considero una mancanza di rispetto.» Si prese una ciocca di capelli per esaminare il nuovo colore. «Be', se è la franchezza che cercate, milady», disse Viviana, «permettetemi di dire come la penso, ora che le altre cameriere non vi stanno intorno... sain loro, mi auguro che siano in salvo sulla terraferma! Io credo che voi siate una Principessa sperduta, che ha dormito per cento anni prima di essere svegliata.» Rohain rise. «Grazie per le tue parole gentili. Vorrei che fossero vere ma temo proprio che la mia nascita sia tutt'altro che principesca.» «Cosa vi aspettate di trovare di preciso alle Torri della Caccia, milady?» domandò Caitri. «Non ne ho idea.» «E se non troverete niente?» «Continuerò a cercare. Non ho scelta: ci sono costretta.» Caitri sembrò sul punto di ribattere ma preferì tenere la bocca chiusa. Quella notte si udì ancora il rumore di qualcosa che frugava e annusava intorno alla casupola e un ticchettare sulle finestre, debole ma insistente. D'un tratto si sentì un mormorio ronzante, senza parole: le tre dormienti si svegliarono di colpo e restarono sedute immobili, a occhi sbarrati. Trattennero il respiro finché ne ebbero la forza e poi lo lasciarono uscire in lenti sospiri silenziosi, temendo che anche il più piccolo rumore le avrebbe tradite.
Verso l'alba, i rumori cessarono. Al mattino, Rohain si accomiatò dalle compagne. Il suo senso di perdita e di solitudine fu centuplicato da quella separazione, tanto più che il fardello della colpa collegata alla distruzione dell'isola continuava a opprimerla. Dentro di sé soffriva per Edward e Thomas, per Alys e Mastro Avenel e per gli altri amici che aveva perduto nello scatenarsi del fuoco e delle acque. Da sola s'incamminò su per la collina e, una volta giunta sulla dorsale, si fermò a guardare la cupa distesa del mare: era striato di fasce color del piombo, sotto un cielo violaceo. I coni simmetrici - presumibilmente quiescenti - delle isole Fumaiole si ergevano su quelle acque come sentinelle immobili, lambite da onde bianche di spuma. Due starne dalla testa nera volavano sulla costa. Dietro di lei, più in basso, la casupola sembrava piccola come un soprammobile; dopo pochi passi la perse di vista. Sulla cima della collina spuntavano molti alberi del tè, che riempivano l'aria con un aroma d'eucalipto. In lontananza si levavano i piloni di un molo da ormeggio fuori uso un nero intreccio di pali sullo sfondo fumoso del cielo. Non è la prima volta che passo di qui, pensò Rohain. L'acre odore del timo permeava il suo travestimento: l'abito, il sacco, gli opachi capelli castani tirati sul volto per nasconderne i lineamenti, la mascherina intorno agli occhi e la mandibola chiazzata di fuliggine. Con quella tunica color mostarda, la sopravveste marroncina, la misera cintura di cuoio e il mantello di tela cerata munito di cappuccio non somigliava certo a un'elegante cortigiana. La sua figura snella spariva sotto quel mucchio di abiti vecchi. Sono forse destinata ad apparire sempre ciò che non sono? Sotto quel sole stranamente scuro la cui faccia era stata trasformata dalla morte di Tamhania, Rohain aveva l'impressione di non trovarsi più nel mondo che conosceva: Duileagmis (il Mese delle Foglie primaverile) stava vestendo le piante di boccioli di un colore che appariva diverso in quell'aria sporca e fiori verdastri costellavano distese d'erbacce biliose in cui ogni profumo era alterato dalla polvere atmosferica. Rohain camminò più velocemente e, col coltello trovato nel casolare sul colle, recise piccoli fasci di coclearia e qualche foglia carnosa di finocchio selvatico: ricordava che Thorn le aveva insegnato che erano erbe selvatiche commestibili, perciò ne masticò un poco e infilò il resto nella cintura. Più avanti si voltò di nuovo a guardare il mare, offuscato dalla fuliggine. Visto da lì dava l'illusione di alzarsi come il bordo di un catino, sin oltre la
collina dove si trovava lei. Stava per proseguire quando notò un movimento tra i cespugli: la creatura era scesa da una duna e procedeva in direzione della casupola. Aveva un aspetto eldritch, nessun dubbio su questo... e, nello stesso istante, alcuni punti scuri attrassero il suo sguardo nel cielo verso meridione e si rivelarono per qualcosa di assai diverso dalle aquile che le erano parsi di primo acchito. Cavalieri della Tempesta! L'impulso di nascondersi la fece fremere. Corse al riparo tra gli alberi del tè mentre il gruppo di cavalieri si avvicinava e passava oltre, seguendo la linea costiera a bassa quota; per tre volte girarono in cerchio sulla zona della casupola, abbassandosi fin quasi a sfiorarne il tetto. C'era poco da dubitare che i Corrieri stessero perlustrando la costa in cerca di superstiti del disastro di Tamhania e Rohain si augurò con fervore che Viviana e Caitri - ovunque si trovassero - riuscissero ad attirare l'attenzione dei Cavalieri della Tempesta e a farsi portare in salvo alla Torre a dorso di eotauro. In quella zona si aggiravano anche gli eldritch... Il wight che si era allontanato in direzione della casa aveva un'aria decisa che non faceva presagire niente di buono: lei e le sue due compagne avevano lasciato quel prezioso rifugio appena in tempo. Quando i Cavalieri della Tempesta si allontanarono, Rohain si affrettò a riprendere il cammino. Nell'entroterra la vegetazione costiera lasciò il posto ad alberi radi mentre il territorio restava collinoso; qui cresceva l'iperico, che lei raccolse a bracciate per le sue proprietà antiwight e, con lo spago che aveva in tasca, si legò addosso sopra le vesti odorose di timo. Presa quella precauzione alzò lo sguardo, vide l'altura a tronco di cono che dominava l'orizzonte brumoso con la sua lunga sommità apparentemente piatta e s'incamminò in quella direzione. Le sue scarpe non lasciavano quasi tracce, tanto più che lei si sforzava di mettere i piedi sulle radici degli alberi, sui sassi o tra l'erba alta ovunque fosse possibile. A un tratto risuonò un lieve cling metallico e Rohain si fermò. «Venite fuori», ordinò, ad alta voce. Dopo una breve esitazione, ci fu uno scalpiccio e le sue cameriere sbucarono dal folto di un cespuglio. Caitri gettò un'occhiataccia a Viviana: «Hai calpestato un ramoscello!» l'accusò. «Non è vero!» Rohain strinse i denti. «Sapevo che mi stavate seguendo sin da quando sono uscita dalla casa. Una mandria di buoi avrebbe fatto meno chiasso...
Non siete capaci di muovervi nei boschi e la castellana di Viviana risuona come tutte le campane di Caermelor. Speravo che avreste rinunciato e sareste tornate indietro; mi sono augurata che avreste richiamato l'attenzione di quei Cavalieri della Tempesta e sareste andate con loro. Ora tornate indietro, finché siete ancora lontane dalle Torri della Caccia.» «No.» «Questa non è una scampagnata nel Bosco Reale.» Le due ragazze guardarono la loro padrona con espressione testarda, in silenzio. «Chi viene con me lo fa a proprio rischio!» s'irritò Rohain. Le esortò con fervore a lasciarla, con una tirata che durò cinque minuti buoni - tutto tempo che non avrebbe potuto permettersi di perdere - ma loro furono incrollabili nel loro rifiuto. Rohain pensò che avrebbe potuto seminarle con facilità e andarsene per conto proprio, tirandosi dietro la Caccia... tuttavia scartò quell'idea: due ragazze indifese, abbandonate a vagare in quella regione senza neppure le sue limitate cognizioni di sopravvivenza nei boschi, sarebbero sicuramente morte. In un modo o nell'altro, sembravano esserci scarse speranze di salvare la vita di quelle due fedeli compagne. Non c'era scelta: avrebbe dovuto cedere al loro desiderio. «Be'», disse, brusca, «se siete decise ad affrontare la morte alla vostra età, chi sono io per impedirvelo? Fate come volete ma muovetevi con prudenza, perché ci stanno cercando.» «Abbiamo visto i Cavalieri della Tempesta. Ecco, milady, questo è il vostro elisir», disse Viviana. «C'è in giro di peggio dei Cavalieri della Tempesta», rispose la sua padrona, accettando la fiala e appendendosela al collo. «Venite. Il vento spira da ovest: dobbiamo voltargli le spalle.» L'animo di Rohain era appesantito dal timore. Le sembrava già di vedere il sangue di quelle care amiche e un senso di colpa le tormentava la coscienza; quando si rimisero in marcia alla volta delle Torri della Caccia, in lei cominciò a radicarsi una paura indefinibile sicché, per dimenticare quei foschi presagi, indicò alle altre due i fiori selvatici e ripeté loro qualcuna delle nozioni che Thorn le aveva impartito nel boscoso meridione di Eldaraigne. «Nelle storie d'avventura i protagonisti marciano sempre attraverso boscaglie e pianure nutrendosi di bacche e noci raccolte dai cespugli», osservò Caitri.
«L'ho notato anch'io», annuì Rohain. «Ovviamente, loro vanno in cerca di avventure in autunno, quando maturano quei frutti.» «E non muoiono mai assiderati», aggiunse Viviana. «In quelle storie, si distendono a dormire avvolti nei mantelli senza fuoco né Sangue di Drago con cui scaldarsi, anche nelle notti fredde.» Rohain scrollò le spalle. «Tutte fantasie!» La ragazza continuò a istruire le compagne: «Centaurea minore», disse, indicando un'altra erba. «Facendo bollire questa pianta si ottiene un tonico amaro. Le foglie di dulcamara sono un ottimo lassativo, però le bacche sono velenose. Luppolo... è usato per aromatizzare la birra ma i germogli si possono anche mangiare crudi. La cicuta è un veleno potente mentre il papavero è soporifero e allucinogeno.» La sua erudizione stupiva lei per prima. «Questa è cicoria, le cui foglie sono buone in insalata; le radici si possono arrostire.» «Qui c'è un'autentica dispensa», si meravigliò Viviana, «nonché una farmacia ben fornita!» «È vero», confermò Rohain. «Ma molte di queste piante hanno un sapore pessimo!» Ovunque, in quella terra priva di sentieri, i fiori primaverili stavano spuntando... ma non c'era tempo di fermarsi a esaminarli più da vicino, anzi nelle zone aperte Rohain era costretta ad accelerare il passo, consapevole com'era di trovarsi sotto un cielo ostile e di avere dinanzi la roccaforte di tutti i peggiori incubi unseelie. «Provo una certa nostalgia per la vita sulla strada», disse, alzando una mano per scostare un ramo. «Siete coraggiosa e tenace, milady», disse Cartai. «Forse. Sono coraggiosa ma sono stata codarda in passato e, anche se per ora sono libera, posso essere imprigionata. Sono allegra ma posso soffrire... come chiunque altro, Caitri. Solo, vedi di non chiamarmi col mio titolo e neppure per nome, perché potrebbe esserci qualcuno che ci ascolta.» «Con quale nome volete essere chiamata, mil... amica mia?» domandò Viviana. «Vorrei essere chiamata Tahquil. È un nome che ho sentito a Corte e non mi dispiace... Andrà più che bene.» «È un nome straniero, dal suono bizzarro. Fa pensare al Luindorn.» «Proprio così. Credo che sia originario di quella terra. Ho saputo che si-
gnifica 'guerriera', al femminile... e io devo diventare proprio una guerriera. Sono decisa a combattere, benché il Fato mi rovesci addosso un guaio dopo l'altro e io non possa immaginare se sarò sconfitta o meno.» Dopo una breve sosta per un pasto poco appetitoso a base di porridge freddo e foglie di finocchio selvatico, le tre compagne risalirono un crinale fiorito e proseguirono lungo un pendio boscoso, sbucando su un altipiano erboso che, un tempo, doveva essere stato suddiviso in appezzamenti coltivati. L'abbandono aveva permesso alle siepi di sconfinare nei campi e ai rovi d'invadere i sentieri; le piccole dighe e i canali d'irrigazione erano diventati un paradiso per gigli d'acqua, asfodeli, felci e ninfee e sotto le siepi crescevano digitali, alte vulnerarie («Un astringente, usato per fermare il sanguinamento delle ferite», sentenziò Rohain) e ortiche bianche, i cui steli cavi lei legò in un piccolo fascio. «Usati per avvelenare?» indagò Viviana. «Usati per fare pifferi.» Nel perlustrare il territorio in cerca di viveri, Rohain-Tahquil ricordò una cosa che le aveva detto Thorn: Non c'è pericolo di patire la fame o la sete nelle terre di Erith... Quando tutto il resto viene meno, c'è sempre il Buonpane. Quel pensiero la rassicurò. Più tardi, nel pomeriggio, stralci di nuvole passarono sulla faccia del sole. Si alzò il vento - che gettava in aria foglie e polvere in vortici improvvisi - e cadde persino qualche goccia di pioggia sporca ma peggiore del maltempo era il disagio che attanagliava le tre viaggiatrici, come un brivido gelido nel sangue. Rohain-Tahquil fremeva e le era venuta la pelle d'oca; più volte le accadde di voltarsi di scatto col coltello in mano, solo per trovarsi a fronteggiare il vuoto... eppure in tutte quelle occasioni avrebbe giurato di aver sentito qualcosa che la seguiva dappresso, perciò terme comunque il coltello in pugno, pronta a usarlo. Per tacito accordo, le tre compagne si tenevano al coperto il più possibile (scivolando cautamente da un albero all'altro e attraversando di corsa le radure aperte) e continuavano a voltare la testa da una parte e dall'altra, come se temessero di scorgere il cavaliere cornuto o altre maligne manifestazioni intente a spiarle dall'ombra, in attesa di aggredirle con furia e travolgerle. Dinanzi a loro c'era sempre il basso tronco di cono della caldera, scuro nella foschia: più si avvicinavano a esso e più si faceva pesante il silenzio che schiacciava quel territorio. Lungo la costa, gazze e allodole avevano cinguettato in puri toni argentini, trillando i loro richiami da ogni cespuglio
e albero; nell'entroterra i versi dei volatili erano diminuiti senza che le viaggiatrici lo notassero finché, all'improvviso, si erano accorte di trovarsi immerse in una quiete assoluta, rotta soltanto dal mormorio del vento tra le foglie. Una pioggia acida cominciò a cadere fitta - sibilando nella polvere sino a trasformarla in fango - poi si diradò in un'acquerugiola continua, irritante. Resa corrosiva dall'ossidazione dell'azoto atmosferico e dei gas sulfurei dell'eruzione, quella pioggerellina penetrava nei colletti di tela cerata delle tre ragazze e sotto il bordo dei cappucci da pescatore in rete di talium e irritava loro le mucose degli occhi. «Preferirei una tempesta magica a questo tormento!» sbottò Viviana, gridando per farsi udire tra le raffiche di vento. «Questa pioggia brucia e corrode la pelle.» «Taci o qualcuno potrebbe sentirci!» la esortò Rohain-Tahquil. Mentre il sole scendeva dietro di loro, la pioggia si placò. Il terreno aveva cominciato a salire con rapidità sicché, uscendo da una boscaglia di querce, videro l'altura conica dalla cima tronca proprio davanti a loro: la caldera delle Torri della Caccia, al culmine di un pendio punteggiato di vegetazione lebbrosa e resti di vecchi edifici dimenticati, simili a vesciche aperte. Sembrava che il luogo fosse deserto: nulla si muoveva in quella desolazione. L'antica caldera si seccava al sole sotto il silenzio e la polvere del tempo e nel cratere, dove torrenti di magma infernale erano esplosi al cielo, si stendeva un lago dalle acque fredde e insondabili. Vedendosi incombere dinanzi i suoi erti versanti, le tre ragazze si sentirono mozzare il respiro per l'apprensione. Il senso di pericolo era quasi intollerabile. La luce del giorno stava svanendo e, a oriente, lunghe nuvole si sfrangiavano in nastri neri. Da oltre la sommità di quel cono frastagliato non era spuntata la luna. «Non oso avvicinarmi di più a questo luogo... non di notte, almeno!» disse Rohain-Tahquil. Trovarono rifugio tra le rovine coperte di muschio di quella che, in un lontano passato, doveva essere stata una stalla. Il trifoglio rampicante e tralci di crocifere avevano formato un tetto tra ciò che restava delle pareti: le ragazze improvvisarono tre giacigli ammucchiando felci secche ma non osarono accendere il fuoco, così aprirono l'involto di foglie in cui avevano riposto le ultime fette di porridge freddo e mangiarono in silenzio. Rohain-
Tahquil offrì alle compagne un sorso di nathrach deirge: riscaldate ma ancora depresse e con le vesti umide, si strinsero l'una contro l'altra. «Non immaginavo che sarebbe stato così», brontolò Viviana. «Io odio le lumache!» «Loro, però, ti amano», disse Caitri, staccandone una dalla manica dell'amica. «Del resto, sei stata tu a dire di voler venire», aggiunse, con affettazione. «Ho detto che volevo venire, non che non mi sarei lamentata!» L'ovale di malachite del sole sparse nel cielo un magnifico tramonto post-eruzione: un aereo panorama floreale costellato di garofani e fiori d'arancio, primule, gigli, genziane... Colori che avrebbero continuato a vagare nell'atmosfera per ore dopo la scomparsa di ogni altra luce, come riflessi shang. «Siamo state fortunate a scoprire questa nicchia», dichiarò RohainTahquil, col nuovo senso d'autorità generato in lei dalle sue limitate nozioni di sopravvivenza. «A volte i contadini incidono sui muri di queste stalle rune e incantesimi per tenere alla larga i wight unseelie. Guardate qui!» Con un sasso, grattò via uno spesso strato di muschio. «Nei mattoni sono stati scavati dei simboli... La pioggia li ha consumati e si leggono a stento, però possono aver mantenuto una certa efficacia.» «Tutti i wight minori devono averci già viste», disse Caitri. «Possiamo solo augurarci che siano tenuti alla larga dalle nostre lame di ferro, dai tilhal, dal sale e da questi ramoscelli d'iperico.» «E speriamo che non vadano a fare rapporto ai loro superiori», aggiunse Viviana, usando un ago della sua castellana per praticare forellini nel gambo di un'ortica bianca. «Mi è stato detto che gli esseri eldritch non lavorano in gruppo come fanno quelli della nostra razza», osservò Rohain-Tahquil, spremendo con le dita altre foglie di timo per farne uscire l'odore penetrante. «Salvo nel caso che vi siano costretti da una minaccia o da una ricompensa.» «Alcuni hanno i loro capi. I siofra, per esempio, obbediscono alla loro Regina Mab, che è una creatura non più grossa del pollice di un uomo», fece notare Caitri. Rohain-Tahquil rispose: «Questo è vero ma, per fortuna, i siofra sono più dediti ai sortilegi ingannevoli che alla guerra. Le loro piccole lance non pungono più di una spina... Una volta ho viaggiato con una carovana di carri che fu dispersa e sterminata dai wight unseelie ma suppongo che almeno quella disgrazia non fu il risultato di un piano ai miei danni: molte di
quelle creature attraversavano la regione in cui stavamo viaggiando e, per puro caso, noi incrociammo la loro strada». Di nuovo la sfiorò il dubbio che l'assalto alla carovana fosse stato guidato da Huon. Ma non poteva essere... l'intuito e il raziocinio le dicevano che c'erano troppe differenze nei metodi di attacco. La Caccia Selvaggia era stata un'offensiva diretta contro la Torre - su vasta scala e ben coordinata laddove i wight che avevano aggredito la carovana lungo la Strada Reale le erano sembrati una banda raffazzonata che seguiva i propri istinti più che gli ordini di un capo. «Assai prima di quei fatti avevo imparato qualcosa sui wight da un compagno di viaggio... e cioè che, come tutte le perfide creature unseelie, anch'essi sono amorali. Se lasciati a se stessi, scelgono a caso le loro vittime: non puniscono chi fa del male, né lasciano in pace le persone buone. Si sa che gli spriggan sono wight che agiscono in bande e riconoscono l'autorità di un capo, almeno nominalmente; la maggior parte degli unseelie, però, sono solitari per natura: non fanno riunioni o discussioni e agiscono spinti dalle antipatie del momento. Forse proprio per questo sono i più terribili, essendo ingovernabili... non dico 'senza leggÈ poiché vanno soggetti alle rigorose leggi della loro razza, tuttavia - anche quando agiscono insieme sono bande di massacratori privi di un capo, come una folla disorganizzata. Un cavaliere senza testa sarebbe un simbolo adatto a loro... ma ho già detto anche troppo, più che abbastanza per farvi venire gli incubi. Dormite, ora! Farò io il primo turno di guardia... Caitri, vuoi dirmi qualcosa?» Caitri si mordicchiò il labbro e guardò la padrona, poi scosse il capo e distolse lo sguardo, con un sospiro. Poiché non c'era luna e le ultime vestigia aeree di Tamhania nascondevano le stelle, la notte era buia come il fondo di una cantina. Non spirava un alito di vento. La zona era stranamente silenziosa: nulla si muoveva e il tempo scorreva senza che ci fosse modo di contare le ore. Dal terreno trasudava una cupa malinconia e i pensieri di Rohain-Tahquil andarono a Thorn, accampato nel nord coi suoi uomini. Quella notte, lui avrebbe parlato e riso... ma non con lei. Non con lei. I suoi occhi si velarono di lacrime. Erano per Thorn, quelle lacrime; per il giovane Principe Edward e per tutti gli sventurati travolti dall'ira di Tamhania a causa della sua imperdonabile testardaggine. Sarebbe mai stata assolta da quella colpa? Lei pensava di no.
Sulla sua pelle stavano vagando alcune lumache. Se ne liberò. Intorno a quella che le parve la mezzanotte, dal buio giunse un rumore: qualcuno si stava avvicinando - brusc, brusc, brusc - poi si fermò. Lei smise di respirare. Lo scalpiccio proseguì - brusc, brusc, brusc... - e stavolta lei avrebbe giurato che con esso ci fosse il sommesso clangore degli anelli di una pesante catena che strusciavano uno sull'altro. Si sforzò di scrutare nel buio finché le parve che gli occhi le sarebbero schizzati dalle orbite, ma non riuscì a vedere niente. Annaspò in cerca dei coltelli trovati nel casolare e li impugnò, uno per mano. Brusc, brusc, brusc... Qualcuno si avvicinò ancora di più, sino a fermarsi sulla soglia della stalla in rovina. Un vento improvviso accarezzò il volto di Rohain. Nel cielo, la cortina di vapori e cenere si squarciò per un istante: riapparvero le stelle e la loro debole luce delineò una figura. Fermo e silenzioso tra quei muri mezzi crollati c'era un cane nero, robusto e irsuto, grosso come un vitello. Stava guardando all'interno, con occhi nei quali baluginava una fosca luce rossa. La mano di Tahquil-Rohain corse al tilhal di giada scolpito a guisa di foglie d'iperico che portava al collo, insieme con la fiala. Lo strinse con forza e il suo pensiero andò a Viviana e Caitri, addormentate e inermi al suo fianco: Non devono svegliarsi... Non ora, altrimenti grideranno! Si sforzò di restare immobile e silenziosa, senza mostrare nessun segno di paura: il Cane Nero poteva essere benevolo o malvagio... Avrebbe potuto essere un Cane Nero da Guardia - uno di quelli che, notoriamente, proteggevano i viaggiatori - ma anche essere un morthadu seelie; in quest'ultimo caso lei non avrebbe dovuto parlare né cercare di colpirlo, perché i morthadu avevano il potere di bruciare i mortali. Tenne lo sguardo fisso sul nero quadrupede, consapevole del fatto che esso l'aveva vista e la stava fissando. Tutto il corpo le doleva per lo sforzo di restare perfettamente immobile. Si diceva che vedere un morthadu fosse presagio di lutti futuri, ma niente aiutava a capire se l'essere di fronte a Tahquil-Rohain rappresentasse la salvezza o la morte, così la giovane donna si limitò a restare seduta e a sostenere quello sguardo di brace, usando tutta la propria volontà per non tradire la paura neppure con un fremito... perché ciò avrebbe dato a quell'essere un potere su di lei. La mezzanotte trascorse e, d'un tratto, il Cane Nero non ci fu più. Lei continuò a vegliare sino all'alba.
Alle prime luci, Tahquil-Rohain svegliò Viviana affinché le desse il cambio, ma non le parlò del visitatore di quella notte, tanto più che nello strato di cenere che copriva il suolo non erano rimaste impronte di zampe a tradirne il passaggio. Tahquil-Rohain poteva fare solo due supposizioni: che il Cane Nero fosse seelie e le avesse protette contro qualche inimmaginabile minaccia o che, al contrario, si trattasse di un morthadu e qualcuno dei talismani in loro possesso lo avesse indotto ad allontanarsi. Nell'una o nell'altra ipotesi, per il momento lei e le sue compagne erano salve. Si scaldò le membra intirizzite con un sorso di nathrach deirge, si arrotolò nel mantello e chiuse gli occhi. Quando si svegliò le venne in mente una terza possibilità: che il Cane Nero fosse unseelie e si fosse assicurato che loro restassero lì tutta la notte, per avere il tempo d'informare qualcun altro della loro presenza. Le tre ragazze raccolsero le loro cose e lasciarono subito quel rifugio. La luce del sole sbucava a tratti tra le nuvole e i banchi di nebbia. A stomaco vuoto, le viaggiatrici s'inerpicarono tra i minerali di scarto ammucchiati fuori dalle numerose miniere scavate ai piedi della montagna e proseguirono sui pendii coperti di erica. Il bisogno di nascondersi dietro ogni riparo si stava facendo sempre più forte, sino a diventare assillante: nell'aria sembrava fremere un gramarye eldritch denso come foschia, anche se nella zona non si vedeva e non si udiva niente... e, in effetti, non c'era nulla di udibile a parte il vento. Nonostante questo loro continuarono a guardarsi alle spalle e controllare il cielo, coi nervi tesi e pronte a fuggire per salvarsi la vita al primo apparire di qualcosa di sospetto. Sopra di loro, il bordo esterno della caldera nascondeva metà del cielo. Dal punto in cui si trovavano era ancora impossibile scorgere cosa si celasse oltre quel bastione di roccia annerita e verificare se fosse fondata la leggenda che parlava dell'esistenza delle antiche torri dall'architettura complessa dove risiedevano Huon e i suoi spettrali seguaci. Nelle notti di luna piena, da quella misteriosa fortezza partiva la Caccia Selvaggia che si scatenava sull'intera regione per colpire gli incauti e far loro tutto il male possibile. Non negli ultimi tempi, però. I messaggi ricevuti durante il loro soggiorno a Tamhania sembravano confermare che, dopo l'attacco alla Torre di Isse, la Caccia Selvaggia non era più stata vista... Viviana si voltò. «Mil... Tahquil, ci sono mucchi di scorie dappertutto e questa montagna è traforata come un termitaio. Dobbiamo stare attente: un
passo falso e una di noi potrebbe precipitare in un pozzo nascosto. Il terreno è traditore e il soffitto delle grotte è crollato in molti punti, mentre in altri sembra pericolante.» «Hai ragione, Via. Tu e Caitri vi fermerete a sedere qui, al riparo di questi cespugli spinosi; io proseguirò da sola per un poco.» «È pericoloso, signora! Cosa cercate, di preciso?» «Non te lo so dire.» «Dietro ogni cespuglio e dietro ogni roccia è acquattato qualcosa che brama di farci del male, ne sono certa. Non possiamo tornare indietro?» «Io non ho altra scelta se non esplorare questo luogo finché troverò qualche traccia, qualche indizio... oppure la morte. Per me non può esserci vita nel mondo civile se non troverò una risposta.» «Forse neppure se la troverete», disse Viviana. «Mia...» Caitri intrecciò le dita. «Che c'è, Caitri? Se hai qualcosa d'importante da farmi sapere, dimmelo adesso!» «No. No, non è niente.» «Restate qui.» «Voi dove andate?» «A cercare l'ingresso delle Torri della Caccia. Vi proibisco di seguirmi. Se non sarò tornata al tramonto, andatevene più in fretta che potete.» Tahquil le lasciò sedute e abbracciate l'una all'altra: un patetico quadretto che faceva pensare a due orfanelle abbandonate nel bosco. Lei accelerò il passo - a costo d'inciampare continuamente su buche, sassi e mucchi di terriccio rivoltato di fresco - prestando attenzione a superare sempre sul lato orientale i molti mucchi di scorie corrose, per buona fortuna e scaramanzia. Dalle descrizioni che le erano state date alla Torre di Isse sapeva che da qualche parte sulla sua destra doveva trovarsi un ramo della Strada dell'Anello: quello era il tratto maggiormente temuto dalle carovane di carri... Ma questo non la preoccupava, poiché non era sulla sua strada. Davanti a lei si alzava una rupe e, per aggirarla, cambiò direzione camminando parallela a essa, sotto il suo lungo bordo sporgente. Sul terreno serpeggiava una pianta rampicante dalle foglie a cinque punte, lucide come vetro verde scuro; tra di esse spuntavano pallidi fiorellini verdastri, di una fosforescenza simile a quella che aleggia sulla carne putrefatta. La pianta attrasse la sua attenzione: quando la sfiorò con la caviglia un bruciore rovente le saettò nella pelle, inducendola a scostarsi in tutta fretta.
Edera paradossa! Dannata pianta malefica! La schivò con attenzione ma, così facendo, non si accorse del pozzo di miniera che si apriva alla sua sinistra e, di un tratto, si trovò a vacillare proprio sull'orlo di un abisso tenebroso e le sfuggì un grido. Era sbilanciata e stava scivolando, però, con una contorsione disperata, riuscì a gettarsi all'indietro. Per ammortizzare la caduta allargò le braccia, tuttavia non poté evitare di finire tra le pietre e per un poco giacque lì, ansante, con le mani che annaspavano tra i sassi e le erbacce. Fu mentre si tirava in piedi a fatica, imprecando tra i denti, che notò con la coda dell'occhio una scintilla dorata: accanto alla sua mano sinistra posata al suolo, tra l'erba, era venuto alla luce qualcosa... Raccolse l'oggetto e lo ripulì dalla sporcizia. Qualcosa di simile a un ricordo si accese nei suoi occhi. D'un tratto il terreno scomparve da sotto i suoi piedi e lei precipitò, arrestandosi bruscamente, con una fitta di dolore lancinante, allorché un bracciale che le cingeva un polso s'impigliò in una sporgenza. Come un'esca appesa a un amo, rimase a penzolare lungo la parete dell'altura. A poco a poco, con uno sforzo enorme, lei sollevò l'altro braccio e, con dita dalle ossa sottili come quelle di un uccello, trovò il gancio di apertura e lo fece scattare; il bracciale si aprì ed essa cadde. La fascia metallica... Un braccialetto d'oro con inciso un uccello bianco. Lo stesso che aveva ora tra le mani. Lei seppe che apparteneva a lei. Il mondo scomparve. Un altro prese il suo posto. 8 AVLANTIA RICERCA E DOMANDE
Si dice che presto il Pifferaio verrà e tutti alla Ragione infin ci porterà Allora un nuovo giorno di certo sorgerà e nel bosco una risata gioiosa echeggerà Ballata tradizionale
Nei tempi antichi, quando le Vie tra il Reame Fatato ed Erith erano ancora aperte, tra tutte le razze degli uomini la preferita dai faêran era quella dei talith... o cosi si diceva. La gente di quel popolo settentrionale era alta e coi capelli d'oro, eloquente e dedita allo studio, versata nella poesia, nella musica e nel teatro, abile negli sport all'aperto e nel seguire le tracce, valorosa in guerra. Avlantia era la sua patria e quella terra baciata dal sole si divideva in due regioni: a occidente, Auralonde delle Foglie Rosse; a oriente, Ysteris dei Fiori. Gli alberi di eringi, tipici di Auralonde, non crescevano in nessun'altra zona di Erith: a differenza dei cespugli spinosi importati via mare dal freddo sud e usati per le siepi, i loro rami non erano mai spogli poiché, in quel clima caldo, essi non conoscevano il tocco della neve. Le loro foglie, dopo essere spuntate, mantenevano per qualche tempo un colore verde-oro e poi, sviluppandosi, assumevano riflessi rosso-oro, bronzo, ambra e cremisi. Le chiome delle foreste di eringi s'infiammavano allora di tinte scarlatte e sanguigne mentre ai tronchi e ai rami che le sostenevano s'intrecciavano tralci di rampicanti gialli; le foglie cadute si mescolavano in strati punteggiati dai brillanti emisferi dei funghi, formando tappeti colorati degni di una reggia. Branwyddan, il Re dei talith, teneva corte in Auralonde, a Hythe Mellyn... una possente città costruita in melili, la pietra dorata che sotto il sole assumeva riflessi di miele. Fila dopo fila i tetti della città, i campanili e le torri si alzavano lungo il fianco della collina incoronata dal palazzo reale. Nelle strade del centro sorgevano botteghe e taverne ben tenute mentre case alte e imponenti circondavano la piazza principale, sulla quale incombevano anche la cupola del Tribunale e le graziose colonne della Camera del Consiglio. Negli abbeveratoi per i cavalli, bianche colombe scendevano a folleggiare sull'acqua come foglie al vento. Sotto la città si estendeva una vasta e fertile valle fluviale suddivisa in campi e frutteti, sull'altro lato della quale il terreno si alzava ripido intorno alle dirupate colline della Catena del Dardenon, coperta degli eringi color fiamma di Auralonde. Hythe Mellyn prosperava, come tutta Avlantia. Un triste giorno, Hythe Mellyn cominciò a essere invasa dai ratti, eppure - sebbene essi sciamassero per la città come un'ombra liquida in un incubo - non fu la loro famelica ricerca di cibo a far precipitare la situazione. I ratti furono soltanto gli araldi del disastro ma molti altri fattori dovevano
entrare in gioco prima che su Hythe Mellyn si abbattesse un tragico destino. Dapprima, quand'erano ancora in pochi, quei visitatori dagli occhietti acuti e dalle zanne gialle furono considerati soltanto una seccatura: dopotutto Hythe Mellyn non era mai stata colpita da pestilenze e solo poche volte da invasioni d'insetti e simili. Qualche squittio o tramestio di notte, sacchi di farina con gli angoli rosicchiati e un po' d'escrementi depositati nelle dispense... tutto questo era fastidioso ma sopportabile. Furono sparse trappole ed esche avvelenate, nella speranza che esse avrebbero debellato l'invasione; i ratti, però, crebbero di numero nonostante gli sforzi dei cittadini per distruggerli e si fecero più arditi. Nelle ore notturne si arrampicavano sulle coltri dei cittadini addormentati e coi denti infetti mordevano loro la faccia, sicché essi venivano svegliati dal dolore, sanguinanti e inorriditi. Ben presto i ratti presero ad aggirarsi ovunque, non solo di notte, ma anche nelle ore diurne: li si vedeva correre negli scarichi dell'acqua piovana ai lati delle strade, sui tetti delle case e lungo i muri dei cortili e avvelenare le fontane col loro sterco; da ogni recesso e da ogni ombra sbirciavano i loro occhietti acuti e freddi cori di squittii trillavano ovunque, come un chiacchiericcio sprezzante. Non si poteva aprire una dispensa che una pioggia di corpiciattoli neri cadeva dagli scaffali per rintanarsi negli angoli. L'aria, un tempo pulita e salubre, era densa del loro puzzo di sterco e marciume. Proliferavano nei sotterranei, nelle cantine e nelle fogne ma sempre più anche all'aperto, facendo fuggire cani e gatti coi loro assalti in massa. Uccidevano gli uccelli nelle gabbie e aggredivano a morsi i pargoletti lasciati incustoditi nelle culle. Fu tentata ogni contromisura: si piazzarono nuove trappole e veleni, furono fatti arrivare molti gatti... ma per ogni roditore che veniva ucciso altri due ne prendevano il posto. Disperato, il Lord Sindaco promise una ricompensa di cinque sacchi d'oro a chiunque avesse liberato la città da quel flagello e, quando la notizia si sparse, giunsero molti avventurieri da ogni terra, speranzosi di fare fortuna con facilità. L'impresa, però, non era facile... anzi si rivelò impossibile, tanto che il premio fu aumentato a dieci sacchi e poi a quindici, via via che l'invasione peggiorava. Malviventi, ruffiani, vagabondi, maghi e fattucchiere arrivarono col loro bagaglio di trucchi - uno più bizzarro dell'altro - dichiarando di avere il rimedio infallibile contro quella maledizione ma nessuno ebbe successo. I cittadini vivevano come sotto assedio, con tutte le porte e le finestre di casa sigillate;
la gente aveva troppa paura per avventurarsi nelle strade e la vita cittadina era completamente paralizzata, soffocata in una stasi drammatica. Il giorno in cui il Lord Sindaco portò il premio a venti sacchi d'oro, un forestiero giunse a Hythe Mellyn. Poiché gli stranieri dall'abbigliamento bizzarro erano ormai una vista comune, quest'ultimo non provocò che l'inarcare di un sopracciglio in coloro che lo videro passare nelle strade infestate dai ratti diretto alla Camera del Consiglio, con in testa un tricorno multicolore e avvolto in un mantello viola e giallo sotto il quale portava una blusa a strisce azzurre e braghe con ricami verdi e grigi. Quando fece il suo ingresso nel sobrio salone a pannelli di quercia del Consiglio e s'inchinò davanti al Lord Sindaco e ai consiglieri di Hythe Mellyn, la sua stravagante eleganza attrasse però l'attenzione di tutti: aveva occhi scuri - con gli angoli esterni inclinati all'insù e ombreggiati da lunghe ciglia - e i capelli sciolti e ondulati che gli ricadevano dietro la schiena erano neri come le piume di un corvo, con riflessi marroncini. Il tessuto aderente del suo abbigliamento rivelava una corporatura snella e muscolosa, ben proporzionata. Il lieve sorriso che gli sollevava un angolo delle labbra lasciava scoperti denti candidi e perfetti. All'ombra il suo abbigliamento emanava un bagliore simile alle Luci del Sud: un fenomeno mai visto ad Avlantia ma di cui i viaggiatori giunti dalle fredde latitudini del profondo sud parlavano con timore. Essi dicevano di aver visto quelle luci spargersi nel cielo in una profusione di colori vivaci: rosso fuoco, ambra, giallo narciso, verde foglia, azzurro mare, indaco crepuscolare e viola. Questo era l'esotico aspetto dell'elegante forestiero. Gli statisti di Hythe Mellyn, composti e severi, esaminarono l'uomo che si presentava al loro cospetto e lui ricambiò i loro sguardi con arroganza, assai poco impressionato dai nobili lineamenti di quegli austeri personaggi dagli occhi azzurri. I capelli candidi degli anziani e quelli biondi dei giovani talith erano tagliati a caschetto e ricadevano lisci sulle spalle delle loro belle giacche di velluto. «Io vi libererò di questo flagello, miei lord, per il prezzo di ventuno sacchi d'oro», dichiarò lo straniero, in tono allegro. Il Lord Sindaco e gli anziani non riuscirono a vedere nessuna ragione per cui quel «variopinto individuo» - come lo definirono nel consultarsi sottovoce - sarebbe dovuto riuscire là dove altri avevano fallito ma, se per qualche miracolo avesse avuto successo, loro sarebbero stati ben lieti di pagargli ventuno sacchi d'oro per la liberazione della città... anche di più, anzi! Fu così che accettarono prontamente la sua richiesta.
Dopo che ebbe udito le loro parole, invece di uscire a piazzare trappole o marchingegni stregoneschi il giovane estrasse dalla tasca interna della blusa un piffero composto da una serie di canne di diversa lunghezza e cominciò a suonare una strana, selvaggia melodia che fece subito fischiare le orecchie ai suoi ascoltatori. Stupefatti e offesi da quell'incomprensibile comportamento, essi stavano per ordinare alle guardie di scacciare l'irritante individuo quando furono fermati da una vista ancor più sorprendente: giù lungo le scale e i tetti e su dagli scantinati, sciamando come una marea nera sui pavimenti della Camera del Consiglio, orde di ratti stavano correndo verso il Pifferaio. Silenziosi e ordinati come un sol uomo, essi si radunarono ai suoi piedi e lui si volse e s'incamminò verso l'uscita senza smettere di suonare, coi roditori che lo seguivano. Pallide e spaventate, le guardie si affrettarono a spalancare le porte di quercia rinforzate d'ottone. Saltellando e danzando il musicista scese in strada, tallonato dal suo seguito bestiale. Gli austeri membri del Consiglio corsero fuori dietro di lui: le loro esclamazioni sbalordite si mescolavano con l'affascinante musica del piffero che, a quanto sembrava, poteva essere udita in tutta la città. Intorno alla piazza principale ci fu un tramestio di finestre che si spalancavano mentre la gente si sporgeva a guardare fuori. I ratti si riunivano provenendo da ogni direzione... a migliaia, a centinaia di migliaia. Uscivano dai magazzini e dai granai, dalle cantine, dai solai, dalle fogne e dalle cisterne e si gettavano all'esterno senza emettere un suono, arrampicandosi addosso ai compagni e calpestandoli nella fretta di unirsi al tappeto vivente che già riempiva le strade al seguito del Pifferaio, giù lungo il Viale dei Re, attraverso la Porta Orientale e fuori dalla città. Mai nella storia di Hythe Mellyn si era visto uno spettacolo così impressionante e bizzarro! I bambini si tappavano le orecchie per proteggerle dagli acuti squilli del piffero: le note musicali indugiavano nell'aria e penetravano nella testa della gente (anche mentre il Pifferaio danzava sulla lunga strada sinuosa, attraverso la pianura È oltre il ponte, ormai prossimo alle colline) e sembravano raccontare di cose appetitose in attesa in fondo alla vallata: odorose stive di navi colme di sacchi di grano e magazzini di carne fresca e altro cibo. La melodia parlava anche dei pericoli che incombevano alle loro spalle: macchine dai denti di ferro, rapidi mostri dalle fauci predaci ed esche traditrici che apparivano dolci al palato ma bruciavano lo stomaco e causavano un'orrida morte. Lo sciame di ratti udiva e lo seguiva; la gente udiva anch'essa ma non capiva.
Mentre gli ultimi roditori - quelli zoppi, feriti o semplicemente più lenti - si sforzavano di raggiungere l'orda, i talith uscirono lentamente dalle case e li seguirono per vedere dove sarebbero andati. La gente varcò le porte rafforzate in ferro della città e si riunì fuori dalle mura; da lì guardò verso il confine della Valle di Glisswater e i giovani più avventurosi si allontanarono lungo la strada. Il sole stava tramontando in una gloria di riflessi arancione dietro la città: i suoi raggi allungavano le ombre degli alberi e traevano barbagli dalle acque del fiume Gliss, su cui si piegavano le chiome dorate dei salici. Gli acuti trilli del piffero facevano fremere le foglie ed echeggiavano nella vallata. La marea nera si allontanò lungo la strada, attirò altri sciami di roditori sbucati da ogni fattoria e infine svoltò verso il Colle di Hob. I ratti non fecero mai più ritorno. I giovani ardimentosi che avevano continuato a osservarli riferirono che un portale luminoso si era spalancato nel fianco della collina: il Pifferaio vi era entrato e i ratti lo avevano seguito docilmente dal primo all'ultimo, sparendo all'interno. Subito dopo i due alti battenti si erano chiusi e il suono del piffero era cessato di colpo... Non era rimasta una fessura né altro a parte le tracce al suolo - a indicare che lì c'era stata una Porta. Un vento freddo aveva spirato sulla valle e un solenne silenzio si era chiuso sul Colle di Hob. Hythe Mellyn riprese vita: le torri e i campanili fecero udire la voce delle loro grandi campane di bronzo e la gente spalancò porte e finestre e uscì a far festa per le strade. Non era rimasto un solo ratto a parte quelli troppo malridotti per muoversi, che furono spazzati via facilmente. Il Re Branwyddan (che aveva spostato la Corte nel suo palazzo di Ysteris nell'attesa che quel flagello fosse debellato) fece ritorno qualche giorno più tardi e ordinò che le case della città venissero rimesse a nuovo e che tutto fosse pulito e riparato. Il Lord Sindaco fece aprire la tesoreria e usò l'oro che c'era in cassa per le spese necessarie; soltanto il pagamento promesso al Pifferaio fu tenuto da parte in attesa che questi tornasse e si organizzò per lui un'accoglienza degna di un eroe. Quello che seguì fu un periodo di grande industriosità a Hythe Mellyn, ma la popolazione era tanto soddisfatta che qualsiasi lavoro sembrava leggero e tutti erano così occupati che non si fermarono a chiedersi - o forse non vollero chiedersi - dove fosse andato il Pifferaio e perché non avesse fatto subito ritorno per riscuotere la ricompensa che gli spettava. Trascorse una settimana, poi un'altra e un'altra ancora. Il Pifferaio non si
faceva vedere ma, se qualcuno parlava di lui, lo faceva sottovoce poiché quell'individuo non era una creatura mortale: non se ne poteva dubitare. Alcuni pensavano che fosse un faêran, altri dicevano che si trattava invece di un eldritch wight; c'era persino chi si spingeva ad affermare che fosse unseelie maligno in combutta coi ratti, perché uno dei consiglieri aveva visto un piccolo animale nero nella tasca del Pifferaio quando lui ne aveva estratto il flauto. Ferri di cavallo furono inchiodati sopra ogni porta e nei giardini vennero appese campanelle ai rami dei faggi... ma il Pifferaio non fece ritorno e la gente cominciò a ipotizzare che fosse morto o rimasto intrappolato sotto il Colle di Hob e che, per un colpo di fortuna, la città si fosse liberata del suo creditore oltre che dei ratti. Molti si rallegrarono di quel fatto ma altri scossero il capo: «Tornerà», dicevano sottovoce tra loro. «Gli immortali non dimenticano e non muoiono tanto facilmente. Tornerà a riscuotere ciò che gli è dovuto.» Avevano ragione. Le stagioni trascorsero e, poco per volta, l'oro tenuto da parte per il Pifferaio venne impiegato per altri scopi. Hythe Mellyn tornò alla sua gloria passata e lo straniero che l'aveva salvata dalla piaga dei topi fu quasi dimenticato: se mai veniva menzionato era per sentenziare che, in realtà, non era stato lui a eliminare i topi e che ogni flagello giunge alla sua fine naturale e si estingue... e che, comunque, i ratti non erano stati poi così tanti e le esche avvelenate, le trappole e i gatti ne avevano spazzato via buona parte prima che l'impostore venisse a fare la sua esosa richiesta. Un anno dopo la sua prima comparsa, però, il «variopinto individuo» fece ritorno. Sotto il giudizioso governo di William il Saggio (il terzo Re-Imperatore della Casa D'Armancourt) in Erith la guerra era sconosciuta e molte città fortificate non si preoccupavano nemmeno più di chiudere le porte. Mentre incombeva la piaga dei ratti le porte di Hythe Mellyn erano state chiuse ogni notte per ridurre il numero di roditori che si supponeva entrassero dai campi; ora restavano aperte notte e giorno e guardie ben equipaggiate stazionavano presso ognuna di esse, abbastanza numerose da respingere gli stranieri indesiderati che cercassero di entrare senza permesso. Nessuno vide passare il Pifferaio. Nel cuore della città anche le porte della Camera del Consiglio erano aperte, benché vi fossero sentinelle incaricate di far rispettare le formalità:
quando videro un'ombra scivolare su per gli scalini esse balzarono avanti e protesero le alabarde... ma già il Pifferaio stava Camminando nelle solenni sale, oltre la statua di Re Branwyddan sul suo piedistallo. Poco dopo si presentò di fronte all'assemblea dei consiglieri: il suo abbigliamento sgargiante lo faceva apparire luminoso come uno dei raggi di luce che filtravano dalle vetrate. Gli anziani personaggi interruppero la discussione in corso e si voltarono a guardare lo straniero. Questi, da parte sua, non s'inchinò ma, circondato dall'echeggiante silenzio sceso sotto la vasta cupola della sala, inclinò il capo con un lieve sorriso che gli piegava un angolo della bocca e disse: «Signori, sono venuto a riscuotere la mia ricompensa. Tre volte sette sacchi d'oro». Le sue parole caddero in un'atmosfera di vacua incredulità e parvero rimbalzare sulle pareti e sulle colonne. Nella Camera si sparse un mormorio d'indignazione e il Lord Sindaco si alzò dal suo seggio. «Pifferaio, siete in ritardo», disse. «In ritardo o in anticipo, sono qui», fu la pacata risposta. Il Lord Sindaco si schiarì la gola, nervosamente. «Al tempo del nostro accordo le nostre casse erano piene... Ora, però, si sono svuotate, per via delle riparazioni fatte alla città. Non possiamo permetterci di pagare una somma così elevata.» Il Pifferaio non fece commenti. «Per aver suonato una canzone», continuò il Lord Sindaco, «un musicista esperto non chiederebbe più di un penny o due. Tuttavia noi vi siamo grati e intendiamo essere generosi, così vi consegneremo un sacco pieno d'oro: dovrebbe essere più che sufficiente a mantenere una persona frugale come voi per il resto dei suoi giorni.» «Cittadini di Hythe Mellyn, voi dovete mantenere la vostra promessa», fu la fredda risposta. Voci irose e oltraggiate si levarono dall'assemblea. Il Lord Sindaco chiese il silenzio e corrugò le sopracciglia per la preoccupazione. «Signori, il Pifferaio ha ragione. Abbiamo stretto un accordo», ricordò ai colleghi. «Offritegli la metà!» urlò qualcuno. Nella sala si scatenò un'accesa discussione: mai, nella storia della città, le ordinate procedure del Consiglio erano degenerate in un tale caos. L'ostilità verso quel sorridente individuo era stranamente forte: i talith erano un popolo giusto e saggio ma forse - col trascorrere del tempo e il crescere del benessere e della prosperità - avevano sviluppato una certa arroganza e la loro innata saggezza era stata offuscata dall'amore per la propria città.
Inoltre, nella bellezza del Pifferaio c'era qualcosa di alieno che, probabilmente, in alcuni di essi stimolava la paura e l'odio. «Non ho intenzione di mercanteggiare», disse il Pifferaio. Il Segretario balzò in piedi e, con la faccia congestionata dalla rabbia, gridò: «Allora non avete cuore e non siete un essere umano. Non vi daremo niente!» Le sue parole furono accompagnate da una tempesta di approvazioni, dinanzi alle quali il Lord Sindaco rimase in silenzio. Il Pifferaio sorrise, voltò loro le spalle e uscì dalla sala. Gli uomini più potenti della città udirono uno scoppio di risa quando oltrepassò la porta esterna e furono colti da un'improvvisa paura. «Abbiamo commesso un'imprudenza», esclamò il Lord Sindaco, allarmato. «Mandiamo lo sceriffo e le guardie ad arrestarlo. Quell'individuo si propone di agire ai nostri danni e deve essere fermato!» Il messaggero era appena corso fuori a eseguire l'ordine quando un suono soprannaturale si udì nell'intera Hythe Mellyn. Il Pifferaio stava suonando una musica diversa. Stavolta essa prometteva paste al miele e pony, altalene e castelli di sabbia, giochi e danze, bambole e merende sui prati... ecco cosa li aspettava laggiù, in fondo alla valle. Nessuno degli adulti si mosse ma tutti furono attanagliati dal sogno nostalgico dell'infanzia ormai perduta e piansero. I fanciulli, invece, lasciarono perdere ciò che stavano facendo per andare alla ricerca di quelle affascinanti delizie... e così, mentre il Pifferaio saltellava e danzava per le strade, dietro di lui si riunì una folla sempre più numerosa. Tra i suoi seguaci dai volti teneri e imberbi nessuno aveva più di sedici anni. Dalle case dei consiglieri e dei mercanti, dei lord e dei semplici cittadini, essi uscirono a gruppetti, a centinaia: i figli dai capelli d'oro di quella gente, coi più grandicelli che portavano i piccoli per mano o in braccio. I pargoletti trottavano più svelti che potevano, però il Pifferaio non andava di corsa: non aveva bisogno di affrettarsi, perché gli adulti restavano inchiodati dov'erano. Piangendo, essi tendevano le braccia e chiamavano per nome i loro figli ma questi non li udivano neppure: i bambini avevano orecchi solo per la musica del Pifferaio e i loro occhi erano fissi verso un luogo lontano. I loro piedi si muovevano indipendentemente dalla volontà del proprietario. La musica - pericolosa e irresistibile - parlava anche d'incubi e perdite, malattie e dolori che li incalzavano alle spalle, cosicché i bambini attarda-
tisi in coda alla folla piangevano e si affrettavano avanti. Il Pifferaio danzò lungo la strada che attraversava la valle, tra i frutteti pieni di frutti maturi e i campi gialli di grano. Pian piano la città si svuotò dei suoi giovani: essi si allontanarono lungo la strada segnata dalle ruote dei carri, tra le siepi di rovi, oltre il ponte di pietra coperto d'edera e sull'altro lato del fiume tra i noccioli dove cantavano i merli, i campi di navone e i pascoli per le mucche. Incapaci di muoversi, i genitori poterono soltanto agitare i pugni e urlare, scagliando maledizioni al Pifferaio e implorando l'aiuto dei faêran, del Fato o delle Potenze. Per metà della giornata la processione attraversò la Valle di Glisswater, ingrossata dai bambini provenienti dalle fattorie; i fattori non riuscirono a fare altro che assistere, impotenti e con le lacrime agli occhi. Nessuno di loro vide cosa accadde quando i bambini giunsero al Colle di Hob ma potevano immaginarlo: la grande Porta si aprì (stavolta per far passare l'amata progenie dei talith), poi si chiuse proprio come la volta precedente e di essa non restò nessun segno fuorché le impronte dei bambini sul terreno... una traccia che terminava a metà del versante della collina. Solo dopo la chiusura della misteriosa Porta i cittadini furono liberi dal sortilegio dell'immobilità e subito si precipitarono - terza marea vivente che lo faceva - attraverso la valle, oltre il ponte e su per il colle. Lo esplorarono nei più minuti recessi, lo assalirono con picconi e vanghe o scavando freneticamente a mani nude. Venne la notte ed essi continuarono a lavorare sino al sorgere del sole senza cessare di chiamare e piangere, finché diventarono rauchi... ma non trovarono niente fuorché fredde pietre e terra, radici e vermi. Nelle settimane e nei mesi che seguirono, la gente portò al Colle di Hob ogni frammento d'oro e ogni oggetto prezioso di Hythe Mellyn e lo lasciò lì, finché sorse una pila il cui valore era molto superiore a quello dei ventuno sacchi d'oro pattuiti. Gli scavi proseguirono ancora ma nessun piccone aprì un varco in qualche tunnel o caverna segreta. Molti genitori sostavano notte e giorno tra i pezzi d'oro rifiutando di mangiare e bere e continuavano a chiamare, offrendosi di essere presi in cambio dei loro figli. Il Segretario del Consiglio fu trovato impiccato a una trave in casa sua. Venne il Re di Avlantia, Branwyddan, portando in offerta casse piene di tesori: i suoi figli, già adulti, si erano salvati, tuttavia lui soffriva per la sua gente. Ma né l'oro reale, né il gramarye e la sapienza dei Maghi, né le suppliche e i sacrifici poterono riaprire la Porta sul Colle di Hob o rivelare l'esistenza
della più piccola fessura nella roccia. Hythe Mellyn e Avlantia caddero nella disperazione. Molti anni dopo, i viaggiatori di passaggio lungo la strada di Hythe Mellyn avevano fatto l'abitudine a trovare la città completamente deserta e proseguivano senza fermarsi. Del silenzio sceso su quella vallata furono date diverse spiegazioni: si disse che una pestilenza aveva spazzato via la popolazione; altri affermavano che, dopo il rapimento dei loro bambini, gli abitanti si erano impiccati ai rossi alberi della boscaglia o avevano viaggiato sino alla costa per andare ad affogarsi in mare. Altri ancora dicevano che i cittadini erano entrati nelle viscere della collina per cercare i loro figli ed erano rimasti intrappolati là sotto, dove ancora vagavano, perduti in qualche strano reame. Il grande Abbandono di Hythe Mellyn era un fatto, anche se il modo in cui era avvenuto e le sue cause restavano un mistero per tutti a parte pochi studiosi. Ma la verità su ciò che accadde è un'altra. Quando l'ultimo bambino fu entrato nel Colle di Hob, il Pifferaio - che era rimasto sulla Porta a suonare mentre tutti gli altri passavano oltre - si voltò a guardare la strada: molto lontano da lì, appena fuori dalle mura della città, una bambina sui sette anni avanzava a gattoni nella polvere. Lui suonò più forte e la piccola accelerò affannosamente ma il sole era ormai basso. Il vento portò sino al colle il debole gemito della piccola, colmo d'ineffabile tristezza e nostalgia. Il Pifferaio guardò il cielo e scoppiò a ridere, poi scivolò nella fessura tra i battenti, appena prima che la Porta si chiudesse. Quando il Lord Sindaco si precipitò fuori dalla città, trovò la sua figlioletta che giaceva sfinita sulla strada polverosa. La prese in braccio e la riportò a casa. Poche settimane prima di questi avvenimenti, Leodogran na Pendran (il Lord Sindaco di Hythe Mellyn) aveva regalato un pony alla figlia per il suo settimo compleanno. «Non lasciarlo scappare via come hai fatto col canarino», l'aveva ammonita con dolcezza. «Oh, padre, com'è bello!» aveva esclamato la piccola, stringendosi a lui e baciandolo per ringraziarlo. «No, non lo lascerò libero, perché lui non può volare e potrebbe essere mangiato dai wight cattivi. Lo amerò e avrò cura di lui meglio che potrò.» «E cavalcalo, perché è già addestrato alla sella.»
«Oh, no! Non lo cavalcherò, salvo che sia lui a volerlo.» La bambina aveva accarezzato il collo candido del pony. «Non voglio affaticarlo e renderlo triste, perché non ha mai fatto male a nessuno... però, se mi amerà come io già lo amo, un giorno mi dirà che vuole la mia compagnia e, poiché io non posso correre svelta come lui, forse si lascerà cavalcare.» Suo padre aveva scosso il capo: «Hai un animo troppo dolce, Elindor. È solo un animale!» «Padre, scusami... Non voglio essere scortese, ma lui sarà mio amico e anche amico di Rhys. Questo significa che dovrà aver un nome... Lo chiamerò Pero-Hiblinn, che nella vecchia lingua significa 'cavallino bianco'.» «Vedo che non trascuri lo studio, uccellino mio», si era compiaciuto Leodogran. «Ma Pero-Hiblinn è un nome troppo lungo per un cavallo così piccolo!» «Allora lo chiamerò Peri.» «Vieni, portiamo Peri nella stalla. Vedi di non indugiare troppo prima di cavalcarlo!» Era stato così che qualche settimana dopo, negli ultimi giorni dell'autunno, Ashalind na Pendran aveva cavalcato in groppa a Peri sul prato punteggiato di margherite intorno alla casa di suo padre, che sorgeva poco fuori dalle mura cittadine. Accanto a Leodogran, il giovane Rhys - il fratello minore di Ashalind - batteva le mani e rideva divertito: sua sorella lo aveva incoronato con le margherite autunnali e, in quella cornice di petali, il suo volto tenero somigliava a quello della loro defunta madre, Niamh. Mentre Peri trottava intorno al prato, lasciando sventolare la bianca coda come una bandiera, un uccello era piombato giù dal cielo come una saetta, sfiorando la testa del pony: spaurito, il quadrupede era indietreggiato, impennandosi. La bambina era stata gettata al suolo mentre l'uccello volava via: Ashalind giaceva immobile e pallida ma suo padre, che era corso a chinarsi accanto a lei col cuore stretto dalla preoccupazione, aveva visto che le sue palpebre si muovevano e si era accorto che era viva. Un servo era andato a chiamare il farmacista il quale, dopo averle somministrato le prime cure, aveva diagnosticato: «Signore, una caduta simile avrebbe potuto avere esiti più gravi. Vostra figlia è stata fortunata: non ha riportato lesioni interne, a parte una frattura alla gamba sinistra. Ho già sistemato l'osso; ora lasciatela a letto per tre giorni. Quando si alzerà, non dovrà sforzare la gamba finché sarà guarita». Due grucce di legno della sua misura erano state ordinate a un falegname... ma il Pifferaio era tornato prima che fossero pronte e Ashalind non
era stata in grado di seguirlo. Ora non si udivano più risa e canti: la gioia aveva abbandonato Hythe Mellyn, Auralonde e tutta Avlantia. La città dalle case dorate giaceva sotto una cappa di silenzio e immobilità. Da quell'esecrabile giorno in cui la disperazione si era abbattuta sulla valle, Ashalind era l'unica bambina sotto i sedici anni che fosse rimasta nell'intera zona a parte i pargoletti nati in seguito. Nei cuori torturati dei talith non c'era gelosia, anzi essi amavano quella bambina e la consideravano figlia di tutti. Per lei, adesso, la vita era diversa e un po' solitaria, senza compagni di gioco della sua età né un fratello minore con cui trastullarsi... solo giovanotti e ragazze, uomini e donne, anziani dalla barba grigia e vedove dall'aria triste e vuota come vecchie pentole gettate via. Trascorreva la maggior parte del suo tempo con la Carlin Meganwy, una donna saggia che conosceva le arti mediche e le insegnava molte cose. Sotto la guida di Meganwy, la bambina crebbe e diventò una fanciulla esperta nell'erboristeria e nella musica. La tristezza di Ashalind era diversa da quella di chi aveva perduto i figli e visto il mondo diventare incolore: lei, infatti, era stata toccata dalla chiamata del Pifferaio come nessun adulto ed era andata dietro di lui insieme agli altri giovani, intravedendo - per qualche momento - un mondo oltre i confini del mondo che non sarebbe mai riuscita a dimenticare. Dentro di lei era così nata una nostalgia, un desiderio che continuava a bruciare. In seguito Ashalind non avrebbe più cavalcato Peri, con un'unica eccezione dovuta a un bisogno impellente. Suo padre non se ne dava troppo pensiero, poiché a lui importava soltanto della figlia e nulla di ciò che lei faceva poteva dispiacergli. Aveva persino abbandonato la collana di Lord Sindaco, dato che non aveva più interesse nel lavoro; il suo giovane impiegato Pryderi Penrhyn, che aveva diciassette anni quando i bambini erano stati rapiti, prese il suo posto nella conduzione degli affari di famiglia. «Io ho mancato al mio dovere», era solito dire Leodogran. «Avrei dovuto parlare per la città e pagare il Pifferaio. Il mio silenzio è stato, di per sé, un tradimento.» Gli scavi al Colle di Hob continuarono sporadicamente per anni. Sulla collina sorsero molti sepolcri, per coloro che si erano stabiliti in quella zona e desideravano almeno riposare vicino ai propri figli. L'erba crebbe sugli scavi, sui mucchi di terra e sulle tombe ma ogni anno, il primo giorno
d'autunno, i talith di Hythe Mellyn andavano a deporvi mazzi di margherite e di bacche legati con nastri rossi. Le erbacce divennero più alte sul Colle di Hob e i capelli color piombo del padre di Ashalind si striarono d'argento. L'uomo si ritirò a vita privata e prese a trascorrere molto tempo nella sua biblioteca... studiando, diceva, i vecchi libri della sapienza. Spesso, però, la figlia lo sorprendeva seduto davanti alla finestra, intento a guardare lontano con occhi annebbiati come opali grigi. Il suo frutteto, non più curato, finì in rovina... ma i suoi affari personali prosperavano sotto la supervisione dell'ex dipendente Pryderi Penrhyn, che era fidato e scrupoloso. Appena la gamba sinistra era guarita, Ashalind aveva cominciato ad andare spesso a passeggio col suo cane Rufus sulle colline boscose intorno alla Valle di Glisswater: la fanciulla continuava a cercare suo fratello Rhys e gli altri bambini e sperava sempre di trovare un'altra strada per entrare nel reame del Pifferaio. A spingerla erano sia l'amore per il fratello, sia quella pulsante stella bianca di nostalgia che, accesa dal piffero, non cessava di bruciare dentro di lei. Raramente s'incontravano dei wight unseelie nella foresta di eringi e Ashalind non era disturbata da loro nei suoi vagabondaggi, perché Avlantia era una regione dove la malvagità non allignava: si diceva che fosse una terra amata dai faêran e in effetti, un paio di volte, a lei era capitato d'intravederne qualcuno. La gente che era stata visitata dai faêran raccontava storie interessanti sul loro strano modo di fare e sulla loro bellezza. Per sette anni Ashalind continuò a cercare senza mai perdere la speranza, anche quando sarebbe stato ragionevole soccombere alla rassegnazione. Quando compì quattordici anni, suo padre le regalò un bracciale d'oro con inciso un uccello marino bianco dalle ali tese: un elindor - l'uccello della libertà - di cui si diceva che, dopo aver lasciato il nido, non toccasse più terra per sette anni, cacciando e dormendo sulle ali del vento che lo trasportava sul mare. Un pomeriggio d'autunno, poco dopo il suo compleanno, la fanciulla stava passeggiando nel bosco quando incontrò uno straniero. Nell'aria svolazzavano pallide falene. Un gufo bianco passò in volo nel crepuscolo. Nella radura nacque un lieve bagliore e a lei parve di vedere qualcosa: c'era un anziano gentiluomo che la guardava, appoggiato a un bastone da passeggio. Lei si avvicinò senza timore e lo salutò cortesemente.
«La buonasera a te, signore!» «Bentrovata, Ashalind, figlia di Leodogran.» La voce di lui era morbida e profonda come l'alba. A quelle parole la giovinetta esitò, stupita non solo nel sentirsi chiamare per nome ma anche dagli occhi acuti che incontrarono i suoi dall'ombra sotto il cappuccio dell'uomo... occhi simili a quelli delle creature selvatiche, anche se lei non avrebbe saputo dire in che modo. Il candore degli abiti dello sconosciuto era puro e perfetto come un campo di neve e l'argento dei suoi lunghi capelli e della barba era quello di una ragnatela d'inverno: una fantasia di diamanti, una simmetria di prismi cristallini. Il suo sguardo era come una spada di ghiaccio cosparsa di scintille sotto il sole, eppure in quella neve c'era del calore. Adesso che poteva osservarlo più da vicino non capiva perché le fosse parso anziano - a parte tutto quel candore - perché assai poche rughe gli segnavano il viso. L'aspetto strano di lui cominciò a generare in Ashalind un'incertezza sfumata di paura e la sua mano corse al tilhal che portava al collo ma l'uomo dalla barba bianca disse: «Non sono un wight unseelie, fanciulla. Non hai motivo di temermi. Perché non dovrei sapere chi sei, quando tu vaghi nelle nostre foreste giorno dopo giorno, anno dopo anno? Tanta lealtà da parte tua merita un premio». «Signore, io non conosco il vostro nome ma suppongo che siate un potente Mago come Razmath il Sapiente, che ha costruito il mio tilhal.» «Io mi chiamo Easgathair.» Ashalind volle approfittare di quell'opportunità: «Vi prego, lasciate che io vi faccia la stessa domanda che pongo a tutte le persone che incontro, specialmente se sono esperte e sapienti». «Sentiamo.» Ashalind esitò ancora, perché in quel forestiero c'era qualcosa d'inquietante e quasi pericoloso e la sua presenza la innervosiva. Le venne da pensare che fosse un faêran ma nonostante ciò radunò il proprio coraggio: in fin dei conti lei non si era mai lasciata intimidire nella sua ricerca, benché fosse sempre stata infruttuosa. «I figli di Hythe Mellyn vivono ancora? E se è così, possono essere ritrovati?» Il sole era ormai tramontato e le falene bianche aumentavano di numero. Tutto intorno, le foglie rosse degli eringi mormoravano tra loro. Un predatore notturno fece udire il suo richiamo. Il vecchio gentiluomo mosse il bastone e disse: «La risposta è sì, a en-
trambe le domande». Quelle parole lasciarono Ashalind senza fiato: già altre volte le aveva udite - dai saggi o dagli ottimisti - ma nel tono del suo strano interlocutore c'era più che la speranza o la convinzione: c'era la conoscenza dei fatti. «Se i giovani hanno preso cibo o bevande, allora non potranno esservi restituiti», proseguì lui. «Ma può darsi che ancora non l'abbiano fatto, perché sette anni di Erith sono più brevi di una notte nel Reame Fatato ed essi si trovano sotto l'incanto dei loro giochi.» «Cosa si può fare?» «Una persona, da sola, può andare a riportarli indietro. Una che ne abbia il coraggio.» «Io ce l'ho ma non conosco la strada.» «Ascolta. Considerata la tua perseveranza e poiché il tradimento della città non fu colpa tua, Ashalind na Pendran, ti dirò come trovare la strada. Domani sera dovrai sederti sotto l'albero di ymp, nel frutteto di tuo padre. Rimani sveglia e scoprirai la Via... Ma stai attenta, perché sei molto bella e loro vorranno trattenerti, perciò dovrai andare mascherata. Forse non si aspetteranno un inganno da una giovane come te e non ti faranno molto caso... Riempiti le tasche di ramoscelli di menta e di lavanda, affinché i wight dal lungo naso non sentano l'odore della tua pelle; non parlare mai per prima e non ringraziare, ma mostra un educato apprezzamento. Guardati da Yallery Brown e non rivelare a nessuno il tuo vero nome.» Ashalind cadde in ginocchio, tremando. «Lo farò. Buon signore, vi prego di dirmi in che modo potrò farmi ascoltare da loro, una volta che sarò giunta là.» «Si avvicina la luna piena e queste sono notti di festa nei saloni del Principe della Corona Morragan, il Fithiach di Carnconnor. In questo periodo egli accoglie con benevolenza le petizioni e concede più spesso il suo favore; non ti darà il permesso di portare via senza condizioni coloro che cerchi, però potrebbe offrirti la possibilità di provarci con successo.» Il bastone da passeggio in mano allo straniero era un raggio di luna, sul quale le falene si posavano come fiocchi di neve. Un gufo scivolò via con appena un uuoosc delle sue ali di predatore e scomparve nella penombra. Il faêran guardò la fanciulla, con aria pensosa. «Pensaci tre volte prima di affrontare questo pericolo», le consigliò. «Finora la tua strada ti ha portato tra le comuni colline e valli dell'umanità ma, se oserai entrare nel Reame, la tua vita sarà cambiata per sempre. Sii prudente e bada di essere sicura di ciò che fai, prima di oltrepassare quel confine.»
«Non c'è scelta. Devo riportare indietro quei bambini.» «Tu non sei preparata a contrastare il potere di gramarye. Se ci ripenserai e deciderai di continuare la tua vita normale, un giorno questo sogno di redenzione cesserà di assillarti e potrai vivere felice il resto dei tuoi anni. Se invece otterrai l'ingresso al Reame dovrai pagarne il prezzo... e potrebbe essere alto. Qualunque sia la tua scelta, forse te ne pentirai.» «Signore, nessun avvertimento può farmi desistere.» «L'hai affermato tre volte. Vai, dunque; io ti ho avvisata.» Detto questo, lo straniero si allontanò nell'ombra degli alberi. «Signor Easgathair, vi prego, aspettate!» esclamò Ashalind, cercando di seguirlo. Lui, però, si muoveva con strana rapidità per essere così anziano. «Se entrerai, non mangiare e non bere finché sarai uscita», furono le ultime parole che le disse, poi tutto ciò che lei vide fu il chiarore dei suoi abiti nivei che svaniva tra gli eringi mentre alcune bianche piume di corvo svolazzavano al suolo sulle felci e sul muschio. Il giorno seguente, Ashalind chiese alla governante, Oswyn, di giurare che avrebbe mantenuto il segreto. Deliziata al pensiero di quell'avventura, la donna s'impegnò a seguire le istruzioni della padrona, portandole dei rustici calzoni e una blusa da uomo, riempiendole le tasche con le erbe odorose che lei aveva chiesto, tingendole le chiome con inchiostro nero e ungendole di grasso di maiale finché ogni ciocca fu appiccicosa e scarmigliata. Poi la pettinò in modo da nasconderle in parte la faccia, annodando il resto dei capelli dietro la nuca. La fanciulla si guardò criticamente allo specchio e si esercitò a fare smorfie e a parlare con voce mascolina, continuando a chiedersi se avrebbe avuto il coraggio di portare avanti quella missione e se sarebbe riuscita a camminare ondeggiando con le ginocchia flesse, come un pastore abituato a muoversi a balzelloni sulle colline sassose. Quella notte, la figlia di Leodogran uscì di soppiatto nell'orto e immerse le candide mani nel terriccio, rompendosi le unghie sulle pietre e sporcandosi la faccia di cenere e argilla. Poi andò nel frutteto di suo padre e sedette sotto l'albero di ymp: il più antico di tutti, che produceva una particolare varietà di mele. Le fronde che pendevano tutto intorno a lei la nascondevano come dietro un paravento. Nella pallida luce della luna, la fanciulla cercò di stare sveglia più che poté ma alla fine si appisolò e sognò strani scoppi di risa, un tintinnio di campanelle, grida di gioia e pianti che ferivano l'animo come spade... ma non vide nessuna strada. Si svegliò infreddo-
lita e umida di brina nell'azzurro lucore dell'alba, anelando il letto di piume nella sua calda cameretta col cane disteso sul tappeto. Quando rientrò in casa le vennero le lacrime agli occhi al pensiero del fratello, il piccolo Rhys, che piangeva nel buio perduto chissà dove. Nessuno dei suoi amici, in città, aveva mai visto o sentito nominare il saggio Easgathair e quando Ashalind andò a cercarlo nel bosco non ne trovò traccia. La notte successiva si travestì nello stesso modo e cercò di stare sveglia e attenta sotto l'ymp ma il sonno la vinse di nuovo e non poté scoprire niente. La terza notte si avvolse un ramoscello spinoso intorno a un polso affinché il dolore le impedisse di dormire: un crudele cilicio al posto del bracciale d'oro che portava di solito. Qualche tempo dopo la mezzanotte, mentre era ancora sveglia, il cuore le si fermò nell'udire un suono: il tintinnio cristallino di finimenti metallici. Il suono si avvicinava... Era come una pioggia di zecchini d'oro, come un bosco pieno di campanule d'argento agitate dalla brezza estiva. Indistinta nella vaga luce delle stelle oltre le fronde degli alberi da frutta, una fila di sette cavalieri stava passando al trotto nella campagna. Una rade faêran. Erano belli da far male al cuore, pieni di un fascino elegante che non apparteneva a Erith. Le donne indossavano splendidi abiti verdi e dorati e montavano magnifici stalloni, le cui briglie scintillavano di campanelle simili a file di stelle; gli uomini avevano elmi d'oro e alti gambali cesellati e alcuni impugnavano lance che somigliavano a pallidi raggi di sole. Guardare quei cavalieri significava stupirsi, come al repentino esplodere della primavera a metà inverno... un incanto improvviso sullo sfondo di un paesaggio che, fino a poco prima, era stato freddo e oscuro. Vederli era come svegliarsi alla vita per la prima volta. Il cuore batteva forte contro le costole di Ashalind, perché l'antico desiderio generato in lei dalla chiamata del Pifferaio aveva finalmente trovato una risposta. I cavalli erano di razza splendida, più belli di qualsiasi altro lei avesse visto al mondo: nobili, di pelo bianco, con movenze agili ed eleganti. Avevano il collo arcuato e il petto largo, narici sensibili e occhi grandi. Sembravano fatti di fuoco e fiamma, non di carne mortale. I loro zoccoli d'argento sprizzavano scintille a ogni passo e ciascuno aveva sulla fronte una pietra preziosa simile a un astro. Gli eleganti cavalieri riempirono il frutteto delle loro risa e le loro canzoni ma altri stavano loro intorno: guardie del corpo a cavallo o cortigiani.
Questi ultimi erano assai diversi, di un aspetto che contrastava col loro in modo grottesco: odiosamente brutti, tozzi e deformi, di bassa statura e in groppa a irsuti cavallini neri. Quando l'ultimo del gruppo fu passato oltre, Ashalind balzò in piedi e li seguì. Tenendosi a distanza di sicurezza per non essere vista, corse dietro ai cavalieri, fuori dal cancello del frutteto e giù per la Via delle Siepi attraverso la valle. Benché la comitiva sembrasse cavalcare al trotto lento, la fanciulla faticava a mantenere il passo e fu lasciata indietro sempre più. Non una volta i faêran si voltarono a guardare verso di lei... né gli affascinanti cavalieri e le loro dame, né i loro deformi compagni: questo la rese più ardimentosa ma anche più disperata perché fino al ponte di pietra non c'era un solo riparo, cosicché lei doveva correre all'aperto ansimando affannosamente e con la gamba sinistra che le doleva sin nell'osso. Più avanti si levava il Colle di Hob: una larga strada conduceva là - scorrendo dove prima non c'era stato nulla - e sul fianco della collina brillava un'apertura: una Porta ad arco, dalla quale fiottava una gran luce. Senza rallentare, la fila di cavalieri entrò. La loro inseguitrice era tanto lontana che vide l'ultimo di essi sparire all'interno prima di poterlo raggiungere, così aumentò il passo, gemendo per la sofferenza e per il desiderio: il cuore le batteva talmente forte da farle temere che sarebbe scoppiato. Quando i monumentali battenti cominciarono a chiudersi, Ashalind riuscì a raggiungere la soglia e, con un ultimo sforzo, si gettò oltre la Porta mentre alle sue spalle si udiva il tonfo sonoro della pietra contro la pietra. Dapprima tutto le parve buio ma più avanti, come in fondo a un corridoio o un tunnel, si vedeva un pallido chiarore simile alla luce dell'alba. Riprendendo fiato, Ashalind si affrettò in quella direzione: verso di lei spirava una brezza tiepida e profumata di rose che fece nascere nel suo animo una straordinaria eccitazione, mista a un senso di desiderio e d'impazienza. La lunga galleria finiva con un'altra Porta, il cui unico battente era aperto. Il panorama era straordinario: sotto un cielo di zaffiro, una meravigliosa terra di colline verdeggianti si stendeva sino ai piedi di montagne alte e maestose, le cui vette perforavano le nuvole. Lei aveva udito racconti e ballate che parlavano del Reame Fatato e la musica del Pifferaio lo aveva descritto ma, sino a quel momento, non aveva immaginato tutto lo splendore e il fascino di quel territorio: il suo cuore fu avvinto dal desiderio e dall'incanto e, nel guardare quel mondo che oltrepassava ogni sogno e ogni
descrizione, quasi dimenticò la sua missione. Gli occhi le si riempirono di lacrime, perché quella era la terra della melodia del Pifferaio e lei doveva fare solo pochi passi per raggiungerla... ma quei passi le furono impediti. Da un'apertura laterale che non aveva notato sbucarono due basse figure nere vestite di cotta di maglia, le quali incrociarono le alabarde di fronte a lei. Avevano lunghe orecchie appuntite, bocche grandi e nasi larghi; erano alte circa tre piedi ed emanavano un odore di foglie marce. Parlando con un accento sconosciuto, quei piccoli ma sicuramente pericolosi guardiani ordinarono: «Fermati, straniero! Chi sei e cosa cerchi?» Nei loro occhi, sottili come fessure, brillavano lampi e le loro code spinose si agitavano da una parte e dall'altra come fruste. Ashalind si erse in tutta la propria statura e cercò di prendersi il tempo di pensare, perché non aveva immaginato di dover fornire un nome falso. Scartò l'idea di usare quello di persone che conosceva per non rischiare di metterle in pericolo. Alcune idee le frullarono nella testa: il nomignolo che le dava suo padre e il braccialetto d'oro abbandonato sul tavolo dello spogliatoio a casa sua. Si sforzò di parlare con voce rude e cavernosa: «Mi chiamo Elindor e sono qui per presentare una petizione al Principe Morragan di Carnconnor.» Disgustati, gli spriggan esaminarono quel giovane contadino sporco e malvestito. «Puzza!» commentarono, scambiandosi smorfie. Poi parlarono tra loro in una lingua crepitante. «Seguimi», disse infine uno dei due, rientrando nella porticina da cui erano usciti. All'interno c'era una scala che saliva nella penombra: con un ultimo sguardo di desiderio alla terra oltre la collina, Ashalind salì dietro di lui e l'altro spriggan le si mise alle calcagna. La scala era piuttosto lunga e sfociava in un corridoio pieno di diramazioni, porte e altre scale, per mezzo di una delle quali fu condotta ancora più in alto. Al termine della seconda scala ne prendeva inizio una terza: a quel punto Ashalind era del tutto senza fiato. Salire così a lungo e in fretta la stava mettendo in difficoltà; per fortuna non era ostacolata da gonne, anche se la gamba che si era rotta anni addietro le faceva male. Alla stanchezza della corsa attraverso la vallata si andava aggiungendo il tormento della sete. I wight la scortarono in una stanza dal soffitto alto, in cima a una Torre. Quando la porta si aprì, lei fu stupita dalla bellezza dell'arredamento: le pareti erano tappezzate in ricca stoffa ricamata a motivi vegetali e le poltrone e i tavoli erano d'oro, costellati di gioielli e di fiori vivi. Uno dei ta-
voli era apparecchiato con boccali, caraffe e vassoi colmi di frutta e paste e dalle finestre entrava un'aria dolce e calda. Quello che dapprima le era parso un fuoco nel caminetto risultò essere invece un mazzo di rose rosse che emanavano una luce di fiamma: Ashalind non aveva mai visto una stanza così bella ed esitò ad avventurarvisi. «Entra», grugnì la voce roca di una guardia spriggan. Lei obbedì ma lo spriggan che aveva parlato non era già più accanto a lei e anche quello che l'aveva seguita sembrava scomparso. Dopo aver esaminato la stanza, meravigliata, andò alla finestra e guardò fuori: ai piedi della Torre c'era un vasto giardino, suddiviso da siepi di sempreverdi; un cinguettio di uccelli e il gorgogliare di fontane rallegrava l'atmosfera e un'ondata di rose gialle si alzava fino alla sommità del lungo muro che circondava il prato esterno, sul quale giocava una folla di ragazzi e bambini dei due sessi... I figli di Hythe Mellyn. Immutati, non invecchiati di un giorno da quand'erano partiti sette anni addietro, i giovani talith si stavano trastullando tra quelle aiuole immerse in una luce solare dai toni morbidi e delicati, come filtrata attraverso un cristallo di quarzo rosa. Ashalind non osò chiamarli per timore di tradirsi ma lacrime di gioia le invasero le guance quando riconobbe, tra loro, suo fratello Rhys. Appoggiata alla finestra, si piegò in avanti e agitò un braccio verso di lui ma, proprio in quel momento, un rumore la fece sussultare e lei si voltò. Gli spriggan erano tornati. I due sgradevoli esseri la scortarono lungo le risonanti gallerie e i corridoi bizzarramente arredati di quello che sembrava un palazzo immenso e fantastico, finché giunsero al salone più stupefacente di tutti. Nel suo interno l'aria aveva un profumo inebriante. Alberi altissimi crescevano tutto intorno - anzi, ne costituivano in effetti le pareti - in un fitto intreccio vegetale. I loro rami s'intrecciavano come serpenti in un soffitto di foghe, formando arcate tra le quali s'intravedeva l'azzurro del cielo. Uccelli dal piumaggio fastoso svolazzavano lenti nell'aria e grossi gufi, appollaiati tra le fronde, sorvegliavano quel vasto ambiente, grigi e immobili come pietre. Era in pieno svolgimento una festa o una cena di gala molto informale e c'erano musici che suonavano arpe e flauti. I tavoli, lunghi e stretti, si allineavano lungo tutto il perimetro esterno del locale, sostenendo vassoi di cibo e cesti d'oro carichi di fiori. Seduti o in piedi tra le fontane e le piante
in vaso c'erano centinaia di uomini e donne senza età che chiacchieravano serenamente tra loro, ridevano e bevevano liquori. A quello spettacolo, Ashalind si sentì girare la testa e, per un lungo momento, ebbe l'impressione di cadere da una rupe verso un cielo dove scintillavano punti di luce fitti come granelli di sale. Nella sua testa echeggiava la musica delle stelle. Si trovava tra i faêran. Una vaga aura di luce circondava ognuno di quei personaggi. Le loro voci morbide erano petali di fiori sull'acqua, melodiose come il canto degli uccelli al mattino. Parlavano in una lingua che la fanciulla non capiva: una lingua nitida, argentina, ricca di tonalità calde e preziose. Alcuni di loro indossavano indumenti vaporosi dai colori vivaci - scarlatti, dorati, azzurri - mentre altri avevano abiti aderenti verdi, grigi o argentei come foglie sotto il chiarore lunare. Altri ancora erano del tutto nudi e si ornavano soltanto della bellezza dei loro corpi e dei lunghi capelli, cui erano intrecciati fiori e spille ingioiellate. Ashalind radunò tutto il proprio coraggio e avanzò tra di loro... Ma non aveva fatto che qualche passo quando cadde il silenzio e tutti gli occhi si voltarono verso di lei. Non a caso venivano chiamati il Popolo Fatato: nessuna razza era attraente quanto loro e, dal punto di vista umano, avevano una bellezza che affascinava e intossicava come una droga. Ashalind lo aveva già notato in quelli che erano passati a cavallo oltre i meli ma ora che li vedeva così da vicino le parve che la sua mente smettesse di funzionare e non seppe pensare a niente da dire. Davano l'impressione, al primo sguardo, di essere fatti d'aria e di luce, pur essendo solidi come un albero e vivi e vitali quanto la fiamma. Avevano lineamenti delicati, morbidi, con zigomi alti e colli aggraziati. Gli angoli esterni dei loro occhi erano un po' inclinati all'insù e i loro corpi erano alti e dritti come lance, robusti ma senza un'oncia di grasso in eccesso. L'epidermide era chiara e satinata come quella di una pesca. Nel parlare, sorridevano e si mostravano allegri e spensierati: sembrava che gli acciacchi e le tristezze della vita non avessero mai neppure sfiorato quelle giovani donne snelle e flessuose, eleganti come fiori, né quegli uomini forti e virili dal portamento eroico la cui bellezza era quella dell'aquila e del leone, fatta di energia e di potere. Ashalind sentiva che alcuni dei presenti erano anziani e altri molto giovani ma non avrebbe saputo dire da dove le derivasse quell'impressione, poiché nessuna pesantezza della carne o rigi-
dità dei movimenti rivelava in loro l'accumularsi degli anni: forse l'effetto dell'età era tradito solo dall'espressione più saggia, dall'allegria più temperata e da qualcosa d'indefinibile nel modo di comportarsi. Tra loro sedevano numerosi eldritch wight, i quali apparivano ancora più goffi e tozzi per contrapposizione con la grazia naturale dei faêran: avevano l'apparenza di uomini e donne mortali ma non lo erano affatto... Alcuni avevano un aspetto piacevole, altri ordinario; tutti, però, erano traditi da qualche deformità, per quanto piccola. Tra quei sorprendenti estranei non mancavano quelli assai meno simpatici: pericolosi fuath, crudeli uccisori duergar e wight unseelie assortiti - uno più odioso dell'altro - forniti di zanne e artigli, in grottesco contrasto con l'avvenenza dei loro compagni. Ad Ashalind costoro apparivano come funghi maligni cresciuti in mezzo ai fiori. Non mancavano neppure le bestie dei boschi: il muso di una volpe dagli occhi ravvicinati, la curva del collo di un cervo, lepri dalle mobili orecchie accovacciate tra le radici degli alberi-muro, un corvo appollaiato su un ramo. Una voce annunciò: «Elindor di Erith, venuto a chiedere udienza a Sua Altezza Reale Morragan, Principe della Corona del Reame, Fithiach di Carnconnor!» Nella sala risuonarono risate divertite mentre Ashalind si avvicinava alla tavola alta e s'inchinava, osando appena alzare gli occhi. «Sua Altezza Reale m'incarica di darti il benvenuto, straniero. Vieni, bevi la coppa dell'ospite con noi!» disse una voce aspra. L'individuo che aveva parlato le rivolse la parodia di un sorriso: era piccolo e magro e aveva labbra esangui, un volto grinzoso dalla pelle giallastra e una barbetta unta che gli spuntava dal mento. I suoi capelli erano flosci e grigiastri come code di topo, vestiva indumenti gialli e color fango e stava in piedi alle spalle di un alto faêran, seduto a capotavola. Quando Ashalind trovò il coraggio di posare lo sguardo su quel nobile personaggio, un vento freddo spazzò la sala... o così le parve. Severo, con occhi grigi come il mare meridionale, era il più composto e serio di tutta la compagnia. Aveva capelli ondulati lunghi sino ai gomiti, neri come l'ala di un corvo e il suo volto, di una bellezza ultraterrena, non tradiva nessun segno d'emozione. Coi gomiti sul tavolo nella posa rilassata di chi sa di essere onnipotente, squadrò il misero contadino venuto a supplicarlo ma non disse niente. Lo sgradevole individuo alle spalle del Principe si piegò in avanti a
prendere un boccale di corno e lo offrì al nuovo venuto, con uno sguardo ironico: «Bevi, erithbunden». «Signore, devo rispettosamente rifiutare la vostra ospitalità, tuttavia vi prego di non vedere in questo un'offesa da parte mia. Mi trovo qui per svolgere un incarico e ho giurato di non mangiare né bere finché non lo avrò portato a termine.» Quel rifiuto fu una dura prova per Ashalind, perché il vino dal colore verde come le foglie primaverili di Ysteris aveva un aroma invitante e lei si sentiva dolere il palato per la sete. «Sei tanto scortese quanto impiastricciato con la polvere della tua terra», la rimproverò l'uomo dai capelli color topo nel consegnare il corno a un essere bestialmente deforme, che lo vuotò in un solo sorso. «Quale sarebbe questo incarico?» Senza lasciarsi intimorire, lei s'inchinò. «Sono venuto a riportare indietro i figli di Hythe Mellyn», rispose. La folla di faêran fece udire un mormorio simile al fruscio di un torrente in primavera o a quello del vento tra il grano. «Perché mai vorresti portarli via da questo luogo felice? Per tua informazione, essi stanno bene dove sono», latrò Capelli di Topo. Ashalind non seppe cosa rispondere a quelle parole, così chinò la testa in silenzio, timorosa di offendere qualcuno e compromettere le proprie possibilità di recuperare i bambini. «Il Pifferaio di Sua Altezza Reale avrebbe dovuto venire pagato», continuò l'individuo dalla faccia grinzosa. «Un patto è un patto. Quei mocciosi ora sono i nostri giocattoli e li useremo come ci piacerà. Forse li terremo per sempre o forse ci pungerà il capriccio di rimandarli indietro...» Inclinò il capo, con un sogghigno: «tra un centinaio d'anni di Erith, tanto per vederli avvizzire per l'età accumulata e cadere in polvere appena metteranno piede sul suolo di Erith!» Quell'ipotesi fu accolta con gioia da alcuni dei wight unseelie più odiosamente corrotti. Per la prima volta il Principe dai capelli corvini si degnò di parlare. La sua voce era bella e potente come un vento di tempesta: «Cosa sei disposto a dare per meritare quei bambini?» Ashalind, ancora inginocchiata, sentì il sangue pulsare come un tamburo nelle proprie orecchie ma, prima di rispondere, scelse le parole con cura: «Vostra Altezza Reale, chiedetemi ciò che volete e io vi accontenterò... purché sia in mio potere e non danneggi nessuno».
«T'illudi forse di poter dettare le tue condizioni, mangia-cochal?» sbottò Capelli di Topo. Mentre parlava, un grosso ratto gli apparve su una spalla e gli s'infilò nella blusa. Il vento tiepido che spirava dalle arcate tra i rami diventò freddo e sollevò i lunghi capelli del Principe, come una corrente sottomarina. Il nobile personaggio sorrise. «Elindor di Erith, pesa bene le tue parole», disse. «Ecco la mia proposta: se saprai rispondere a tre mie domande, allora potrai portarti via quei rumorosi marmocchi... ma se non ne sarai capace, essi resteranno qui per sempre e tu con loro.» Ashalind s'inchinò profondamente. «Signore, la vostra graziosa offerta è accettata con gratitudine. Sono pronto per ascoltare le tre domande.» «Per prima cosa, dimmi quante stelle brillano nei cieli di Erith. Poi, dimmi cosa sto pensando. Infine, osserva le due Porte che vi sono in questa sala e dimmi quale conduce su Erith.» A quelle parole Capelli di Topo rise odiosamente ma la faccia del suo padrone continuò a non rivelare nulla. Ashalind si sentì sopraffare dalla disperazione e tentò di guadagnare tempo: «Queste domande sono...» Annaspò in cerca delle parole. «Non facili, signore. Vi prego di concedermi il tempo di ponderarle.» «Rispondi, miserabile pezzente! Ora o mai più!» latrò Capelli di Topo. «Trattieni la lingua, Yallery Brown... altrimenti ti farò di nuovo imprigionare sotto la pietra», disse il suo padrone. «Vattene, dunque, mortale: ti concedo tempo per pensarci, però non dovrai pronunciare parole, scrivere, tracciare disegni o fare cenni sino al momento del tuo ritorno perché le risposte dovranno essere tue e non di altri. Tornerai quando la luna della tua terra sarà di nuovo piena e mi darai la risposta, altrimenti il mio servo Yallery Brown ti avrà.» A quel punto distolse lo sguardo per bere dal boccale che aveva in mano. Subito dopo, gli spriggan afferrarono Ashalind e la trascinarono fuori di peso, scortandola di nuovo via da quelle sale. Quando fu fatta uscire dal Colle di Hob si trovò da sola nella notte, sotto una fitta pioggia. La luna era in fase crescente: erano trascorse tre settimane. Appena la città aveva saputo della scomparsa della figlia di Leodogran c'era stata una grande agitazione. La gente l'aveva cercata in ogni angolo della vallata, finché la governante Oswyn, intimorita e a disagio, si era decisa a confessare al padrone una versione piuttosto confusa di ciò che lei aveva saputo da Ashalind stessa, ovvero che la fanciulla aveva conosciuto
un Mago di nome Easgathair, il quale le aveva insegnato la strada per il Reame Pericoloso. «Ahimè, ormai anche lei è perduta!» si era disperato Leodogran. L'uomo era caduto nella depressione e non aveva più voluto accettare un solo boccone di cibo. Oswyn si era attesa di essere licenziata ma Leodogran aveva detto che lei non era da biasimare e la donna era caduta in ginocchio, ringraziandolo per la sua comprensione e generosità. Un Mago di grande cultura, Razmath, era stato consultato. «Easgathair non è un Mago, bensì il Guardiano delle Porte dei faêran», aveva detto il sapiente. «Forse Ashalind è stata rapita perché, dopotutto, è Colei Che Non Andò quando il Pifferaio suonò la sua musica infernale. Le leggi dei faêran, a quanto ne sappiamo, sono inflessibili... Può darsi che l'abbiano considerata di loro proprietà sin da quando il Pifferaio suonò la sua prima nota.» In una notte piovosa, Leodogran na Pendran sedeva in casa sua, accanto al fuoco e in compagnia di Pryderi, il giovane e fedele collaboratore. Tutti i servi erano già andati a letto - perché l'ora era tarda - quando si udì bussare alla porta e il cane Rufus cominciò ad abbaiare gioiosamente: sulla soglia c'era Ashalind, sporca, intirizzita, stanca e muta. Dai capelli tinti di nero, l'inchiostro le colava sulla faccia e sui malconci abiti da uomo. Leodogran la prese tra le braccia. «Non ti perderò di vista mai più, mia cara Elindor!» esclamò. «Il mio uccellino, il mio prezioso uccellino è tornato a casa!» Ma lei non gli diede risposta. Un vento gelido soffiava dal sud. Nella biblioteca di Leodogran, Ashalind abbandonò i libri che aveva consultato per tutto il giorno, si gettò il mantello sulle spalle, andò alla porta di casa e l'aprì. Suo padre, però, apparve accanto a lei, richiuse la porta e la prese per le mani. «Ashalind, non devi uscire.» L'uomo studiò il volto della figlia: vedeva in lei un gran conflitto di emozioni e questo lo feriva dolorosamente. «Come posso aiutarti? Perché non mi parli?» Ma la fanciulla aveva paura di fare qualsiasi cenno, anche solo scuotere il capo, perché il potere dei faêran giungeva ovunque: in un modo o nell'altro, essi lo avrebbero saputo e la sua unica possibilità sarebbe stata persa per sempre. Si voltò di nuovo verso la porta. «Aspetta! Verrò con te.» Preoccupato solo del benessere di lei, Leodo-
gran afferrò il mantello e il bastone da passeggio: se la fanciulla, nella sua follia, aveva bisogno di vagabondare, facesse pure... ma lui non l'avrebbe mai persa di vista. Così ogni giorno, al tramonto, Ashalind andò a passeggio per le colline boscose intorno alla città con Leodogran e Pryderi e col cane Rufus che le teneva dietro. Gli occhi della fanciulla si riempivano spesso di lacrime, perché laggiù cercava Easgathair nella speranza che avrebbe potuto aiutarla in qualche modo e temeva che, se non fosse stata sola, lui non le sarebbe apparso, tuttavia suo padre non voleva lasciarla e lei non poteva chiedergli di farlo. La sua speranza era che Easgathair le avrebbe dato la risposta alle tre domande senza bisogno che lei aprisse bocca, perché era certa che lui sapeva del patto concluso nel salone sotto la collina... ma tutto ciò che si muoveva sotto le chiome degli eringi erano falene e gufi. Senza l'aiuto di Easgathair, lei e i bambini sarebbero stati perduti. Il terzo problema posto dal Principe faêran non le era parso troppo difficile, di primo acchito. Nel salone dei banchetti aveva visto due Porte, una era fatta di lucido argento e l'altra di quercia: riconoscere quella per Erith sembrava abbastanza semplice... forse troppo, perché le cose faêran non erano sempre ciò che apparivano e quell'enigma avrebbe potuto rivelarsi il più insidioso dei tre. Era troppo ovvio supporre che la Porta per Erith fosse quella di legno; doveva esserci un trucco... Ma se si fosse trattato di un doppio trucco? Intuendo che lei avrebbe scelto la Porta d'argento, loro avrebbero fatto in modo che fosse quella di quercia a condurre a Erith. O forse no... Ahimè, quella domanda non era affatto così facile come aveva supposto! Per la seconda si era preparata una risposta; che fosse accettabile o meno era un'altra questione. Per la prima, però, sembrava non esistere nessuna soluzione. Ogni sera, tornando a casa, Ashalind alzava gli occhi al cielo. Vedere sopra di sé la maestà degli immensi sciami di stelle che brillavano lassù a trilioni era un'esperienza che la lasciava sbigottita: guardandole aveva sempre l'impressione che nel silenzio di una sala buia esplodesse all'improvviso un coro di centinaia di voci bianche, accompagnate da una drammatica nota d'organo. Talvolta, anzi, le sembrava che le stelle fossero davvero un coro di cui soltanto lei poteva udire la musica: la nostalgia del Reame Fatato la faceva soffrire anche più di prima, perché ne aveva respirato il profumo in fondo al tunnel sotto la collina ed era stata nelle sale di Carnconnor. La vista delle stelle nel silenzio delle notti serene le offriva qualcosa del Reame Fatato e leniva la sua nostalgia come un balsamo ma,
nello stesso tempo, l'angosciava: com'era possibile contarle? La luna attraversava in fretta le sue fasi cavalcando alta nel cielo e si rifletteva negli occhi preoccupati di Ashalind. Le stelle la invitavano a raccoglierle, come diamanti sul velluto nero... ma ogni volta che la fanciulla cominciava a contarle alcune svanivano e altre palpitavano fuori dal nulla e si muovevano lente lungo la loro grande ruota, nascendo ogni sera per morire all'alba. In una notte di luna piena, Ashalind scivolò non vista fuori casa e, in silenzio, si recò nella stalla dove aveva nascosto un mantello che si poteva allacciare sul davanti: lo indossò sopra il vestito, avvolse in un velo i capelli d'oro e si mise un largo cappuccio, la cui ombra le nascondeva i lineamenti; poi si sporcò le mani e la faccia di polvere come la volta precedente e abbracciò il suo pony. Gli disse addio senza parlare, soltanto col pensiero, perché non osava pronunciare sillaba neppure con lui. Che la attendesse il successo o la sconfitta, ora doveva onorare la promessa di tornare in quel posto oltre la collina... e una sconfitta sarebbe stata perché, se anche avesse dato alle ultime due domande una risposta soddisfacente per i faêran, la prima restava un enigma insoluto. Per prima cosa, dimmi quante stelle brillano nei cieli di Erith. Poi, dimmi cosa sto pensando. Infine, osserva le due Porte che vi sono in questa sala e dimmi quale conduce su Erith. Per lei era la fine: non dubitava che sarebbe stata separata per sempre da suo padre, Pryderi, Meganwy e Oswyn - nonché dalla sua casa - e sarebbe stata preda di un unseelie, di quell'essere indefinibile chiamato Yallery Brown. Quando cercò d'immaginare quale destino costui le avrebbe riservato si sentì piegare le gambe ed esitò. Perché tornare laggiù, sapendo che avrebbe fallito? Se non si fosse ripresentata in quelle meravigliose sale, l'avrebbero inseguita? Le avrebbero dato la caccia sino ai confini di Erith o avrebbero semplicemente riso della sua impotenza e stupidità, salvo poi scrollare le spalle e dimenticarsi di lei? Mantieni la parola data, le aveva sempre insegnato suo padre. Onora i patti. Lei doveva mantenere la sua promessa di tornare nella sala dei faêran e, anche se ormai era inutile, doveva attenersi all'accordo di non parlare, né scrivere, né fare segni: nessun addio poteva essere detto e nessuna lettera poteva essere lasciata per suo padre. Sarebbe scomparsa senza lasciare traccia per trascorrere l'eternità tra le rose di quel giardino, con Rhys... oppure nelle grinfie di Yallery Brown. In
un angolo perverso del suo cuore la paura si mescolava all'eccitazione poiché, sin dalla prima volta che aveva posato lo sguardo sul Reame Fatato, il desiderio aveva preso a tormentarla, più irresistibile che mai: quella terra riempiva i suoi sogni, le stagnava nella mente durante le ore di veglia e l'attraeva come la luna attrae l'oceano. La musica del Pifferaio le aveva detto il vero: quello era davvero il mondo in cui si trovavano i boschi misteriosi delle favole, le fulgide montagne dei sogni incantati, le isole selvagge dell'avventura... una terra strana, pericolosa e sconvolgente ma piena di gioie e meraviglie inimmaginabili. Avvolse stracci intorno agli zoccoli di Peri e, quando gli passò una mano sulla criniera, alcuni crini si staccarono: il pony girò la testa per guardarla e sembrò volerle dire che altri li avrebbero rimpiazzati. I suoi occhi marroni sembravano pieni di saggezza e, nel restituirgli lo sguardo in silenzio, lei sentì che la risposta c'era e seppe ciò che avrebbe dovuto fare. Dallo stanzino degli utensili prese un coltello affilato e tagliò alcune ciocche di setole dalla criniera, lasciandole cadere tra la paglia; poi mise i finimenti al pony - ora assai meno grazioso - e lo condusse fuori dalla stalla. Sotto il penny d'argento della luna, la fanciulla incappucciata e il piccolo cavallo bianco si allontanarono tra gli edifici, verso il frutteto pieno d'erbacce. C'era un solo modo in cui Ashalind poteva essere certa di ritrovare la Porta nel Colle di Hob, così sedette sotto l'albero di ymp. Si avvicinava la mezzanotte. Dai tronchi contorti gremiti di licheni si alzavano rami spogli che gettavano ombre reticolate sul terreno erboso. Accorgendosi che la sonnolenza minacciava di sopraffarla, Ashalind strinse una manciata di sterpi spinosi: fitte di dolore le salirono lungo il braccio e ai suoi sensi, così risvegliati, giunse un tintinnio di campanelle. La rade faêran stava passando oltre il frutteto, come una processione di fantasmi. Peri sbuffò innervosito, rizzando le orecchie; Ashalind gli balzò in sella e lo lanciò all'inseguimento. Come la volta precedente, la Porta del Colle di Hob era spalancata e nella sua luce ultraterrena si scorgeva una strada. Tenendosi una cinquantina di passi dietro l'ultimo dei cavalieri, la fanciulla spronò il pony nel tunnel appena prima che la Porta si chiudesse alle sue spalle e, appena oltre, scivolò giù di sella e condusse l'animale a mano sino alla Porta interna. Oltre l'arcata si vedeva un panorama notturno dai riflessi purpurei, sul quale splendevano come gioielli stelle giganti di ogni colore: la luce opalescente di Faêrie aveva lasciato il posto all'argentea melodia del blu, una morbida sonata al chiar di luna.
Cosa stava facendo suo fratello Rhys? Dormiva in mezzo ai fiori, da qualche parte nel Reame Fatato? O lui e gli altri bambini giocavano ancora spensierati nel giardino di rose, sotto le stelle? Un impeto di tenerezza la fece sospirare quando rivide con gli occhi della mente il volto del fratellino, morbido come una pesca e coi grandi occhi pieni d'ingenua fiducia. Ashalind era stata per lui come una mamma sin dal giorno in cui sua madre, Niamh, era morta nel darlo alla luce. Le due sentinelle spriggan uscirono dalla guardiola per sbarrarle la strada e, riconoscendola, bofonchiarono con aria scontenta ma le fecero segno di seguirle. «Garfarbelserk, scrimscratcher», grugnì una di loro, agitando l'alabarda con una mano tozza e scagliosa. «Untervoderfort, spiderstalkenhen», annuì l'altra, di malumore. Peri sbuffò e cercò di prendere a calci i due wight, al che loro lo colpirono con l'asta delle alabarde, gracidando imprecazioni. Il sudicio ragazzotto di campagna che era in realtà Ashalind si mise di mezzo e li spinse via. «Lasciate stare il mio pony! Buono, Peri, buono. Vieni con me!» La fanciulla si tolse il tilhal e l'appese al collo del quadrupede, come protezione. Le sentinelle grugnirono sprezzanti e la scortarono all'interno, stavolta lungo un percorso diverso, senza scale da salire o scendere. La presenza dei faêran, che lei sentiva acquistare forza man mano che si avvicinava, irruppe su di lei come un'ondata. Stavolta la fanciulla fu condotta in un salone più vasto, le cui pareti erano fatte d'alberi dalla corteccia argentata e che sembrava privo di soffitto, poiché sulla testa di lei luccicavano fuochi lontani che avrebbero potuto essere stelle. I faêran stavano danzando alla musica selvaggia dei violini, vestiti di seta frusciante o di fiori vivi e coi capelli cosparsi di luci in miniatura. Molti wight (sia seelie che unseelie) ballavano in mezzo a loro, abbigliati con abiti color zafferano o verde pallido: era bizzarro vedere quegli esseri repellenti - scagliosi, zannuti, dalla pelle simile al cuoio, bestiali o, nel migliore dei casi, grotteschi - mescolarsi agli affascinanti padroni di casa. Grosse falene svolazzavano ovunque come brandelli di garza gettati al vento. Nell'ombra, una coppia d'agate si accesero, guardarono e si richiusero: occhi di lupo. Quando la musica cessò i ballerini andarono a sedersi qua e là per la sala, ridendo e conversando nel loro meraviglioso linguaggio o in lingua comune. Le ringhiose sentinelle che avevano fermato Ashalind sulla soglia le diedero di gomito e lei strinse le briglie del pony e lo portò con sé tra i
tavoli e i divani, stringendosi addosso il mantello e tenendo il cappuccio tirato fin sul viso. Un immediato silenzio cadde sui commensali e, sotto i loro sguardi, lei si sentì un'estranea: una creatura inadeguata e inferiore, legata alla terra e alle cose ordinarie e destinata alla morte. Come dovevano disprezzarla! Da sotto il cappuccio i suoi occhi percorsero i presenti e, quando vide il Principe, si sentì percorrere da un fremito di eccitazione che avrebbe potuto essere paura... o forse no. Il tratto più peculiare, nel signore dei faêran, era la luce che emanava dai suoi occhi grigi. Stava in piedi su una piattaforma in fondo alla sala, in mezzo a un gruppo di dame e gentiluomini; lì accanto sedeva Yallery Brown insieme con un gruppetto di altri unseelie di forme e dimensioni diverse, alcuni somiglianti a esseri umani dalla faccia crudele e altri così grotteschi da non poter esser paragonati a nessuna creatura che Ashalind avesse mai visto. Da qualche parte alla destra una voce mielata annunciò la sua presenza: «Elindor di Erith torna a chiedere udienza a Sua Altezza Reale Morragan di Carnconnor, Principe della Corona dei faêran». A quelle parole Yallery Brown e la sua conventicola ulularono e strillarono gioiosamente, eccitati. Con un ginocchio posato al suolo Ashalind attese, a capo chino e stringendo con fermezza la briglia di Peri. Migliaia di semi di cardo fluttuavano nell'aria, simili a ballerine roteanti sulle punte. Gli occhi color fumo di Morragan la gratificarono di uno sguardo freddo e ironico. «Elindor!» disse, con la sua bella voce di tempesta. «Davvero dalle tue parti i cafoni danno nomi di uccello ai propri figli?» Lei si sentì gelare il sangue nelle vene. Il suo travestimento era stato scoperto? Il Principe si aspettava una risposta? Dopo una pausa, lui rise. «Non importa. Parla.» «Signore, sono tornato con le risposte alle tre domande di Vostra Altezza Reale. La prima era: 'Quante stelle ci sono nei cieli di Erith?' Ebbene, la mia risposta è: 'Ci sono tante stelle quanti sono i peli che crescono sul corpo del mio cavallo. Guardate qui, mio signore, se volete compiacervi... È stato necessario che io tagliassi un po' di peli dalla criniera per assicurarmi che il totale fosse esatto. Se qualcuno ne dubita, può contare i peli lui stesso e scoprirà che non ho mentito'.» Un'esplosione di risate accolse quelle parole. Yallery Brown mandò uno squittio e i suoi compagni miagolarono come gatti. Il Principe faêran, invece, non sorrise nemmeno ma le speranze di Ashalind si riaccesero nell'udire il suo commento: «Una risposta astuta e spiritosa, erithbunden.
Dunque hai risposto alla prima domanda... ma la seconda? Sai dirmi cosa sto pensando?» «Sì, signore», disse arditamente Ashalind, usando la sua vera voce per la prima volta. «Vostra Altezza Reale sta pensando che quest'umile postulante sia un giovane contadino, Elindor di Erith. Ma Vostra Altezza Reale è stato vittima di un inganno, perché io sono Ashalind na Pendran.» Detto ciò, con una mossa disperata quanto rischiosa, la fanciulla si tolse il travestimento: le chiome d'oro le ricaddero lungo la schiena mentre lei si puliva la faccia col mantello, dopodiché erse orgogliosamente le spalle dinanzi all'attonita assemblea, restando vestita della sua gonna di lino. Il Principe la guardò con più attenzione. Stavolta ci furono degli applausi e parole di elogio furono gridate da ogni angolo della sala. «È proprio lei!» gridarono alcuni dei presenti. «Non poteva essere nessun altro!» Perché loro sapevano chi era: l'avevano vista aggirarsi a lungo sui confini del Reame - cercandone l'ingresso con l'aiuto del cane Rufus - e non ignoravano che avrebbe dovuto essere rapita anni addietro. Tutti gli occhi si volsero sul Principe ma lui non proferì parola. Si fece avanti una dama faêran, la cui avvenenza avrebbe potuto ispirare un poema: i suoi capelli neri, chiusi in una rete d'argento cosparsa di scintille, erano lunghi fino alle caviglie e sulla veste satinata portava un kirtle di pizzo verde ricamato a motivi vegetali. Guardò la fanciulla e rise: «Ashalind, a noi piacciono gli enigmi e gli stratagemmi astuti. Stanotte tu ci hai divertiti, perciò - se vorrai restare - ti daremo volentieri il benvenuto tra noi». «I talith dai capelli d'oro ci piacciono», aggiunse un'altra faêran, sorridendo. Sui loro visi incantevoli si leggeva una grande saggezza. Ashalind si chiese come simili persone potessero tollerare di avere a che fare con gli unseelie ma ricordò un passaggio di un libro di suo padre: «Le leggi, l'etica, le usanze e le maniere del Reame differiscono in molte cose da quelle di Erith e ci sono estranee». «Questa ferrumina», intervenne all'improvviso Yallery Brown, puntando dritto verso Ashalind, «è nostra in ogni caso. Fa parte del prezzo pagato dalla sua città.» Con snervante rapidità, le girò intorno e alzò una mano sprezzante a tastarle i capelli. Il pony roteò gli occhi e si scostò, innervosito. Fiori di ghiaccio scivolarono lungo la schiena della fanciulla, la quale si accorse che un tarassaco giallastro e malaticcio spuntava tra i polverosi e
aggrovigliati capelli del wight: probabilmente era cresciuto lì, mettendo radici nel suo cranio. Un gentiluomo faêran tra i tanti che assistevano alla scena si alzò: come tutti quelli della sua razza, era assai attraente e virile. Il suo mantello era fissato alla spalla da una fibbia di smeraldi e portava un cappello di velluto ornato da una lunga piuma verde-spinacio che pendeva di lato. «Hai spiato la nostra rade da sotto i rami dell'albero di ymp, allo scopo di trovare la Via per la nostra terra. Qui nel Reame non amiamo le spie e chi c'inganna, come hai fatto tu, ne paga le conseguenze.» «Le mie unghie bramano di cavare gli occhi a questa mortale bugiarda, mio signore», gracidò Yallery Brown, voltandosi con aria supplichevole verso il Principe. «Tuttavia questo smacco ai faêran non è stato concepito da lei sola», intervenne un altro gentiluomo che indossava un tricorno multicolore e un mantello viola e giallo, sotto cui portava una blusa a strisce azzurre e braghe dai ricami verdi e grigi. Ad Ashalind parve di riconoscerlo. Cappello a Tricorno continuò: «Anche un'ingannatrice più astuta di costei non sarebbe riuscita a giungere qui senza l'aiuto di uno della nostra gente, perciò non è il caso di punirla. In quanto ai mocciosi erith, essi sono stati presi a causa della perfidia della loro gente... gli stessi individui che hanno aggredito col ferro le verdi pendici del colle, devastandole. Questa giovinetta, però, non mi ha seguito e dunque non fa parte del prezzo pagato dalla sua città». Il gentiluomo sorrise - scoprendo denti di un candore abbagliante - e aggiunse: «Sì, gentile fanciulla, sono proprio il Pifferaio». Ashalind aveva sempre creduto di odiare il Pifferaio ma, guardandolo, dovette ammettere che era un individuo amabile come tutti i faêran, anche se lei lo giudicava nello stesso tempo abominevole. Il Principe Morragan decise finalmente di rompere il silenzio. «Io non faccio nessun patto coi mortali se non per divertimento e, anche in questo caso, me ne annoio presto.» «Lasciala a me, signore!» sussurrò Yallery Brown, torcendo la sua faccia da topo. «Oh, sì, lasciala a me!» «Non è tua... non ancora», rispose il suo padrone. «Passiamo all'ultima domanda. Se questa erithbunden farà la scelta giusta, lei e gli altri potranno andarsene liberi... il che sarà peggio per loro. Se invece sceglierà la porta sbagliata, sia lei che loro andranno incontro a una fine di cui tu, Yallery Brown, potresti essere l'artefice... o forse me ne occuperò io stesso. Andiamo nella Sala delle Tre Porte!»
A quelle parole gli ultimi ballerini rimasti sulla pista si scostarono e, un istante dopo, l'intera assemblea fu trasferita nella sala che Ashalind aveva già visto la volta precedente. Un sentiero che si era aperto tra i faêran partiva dalla Porta dalla quale era entrata e si biforcava verso altre due, entrambe chiuse; le Porte d'argento e di quercia si fronteggiavano ai lati opposti del vasto locale e accanto a ciascuna stava un giovanotto dalla faccia dura, vestito di cuoio e coi piedi saldamente piantati al suolo, che stringeva in pugno un'alabarda da cui pendevano rossi filamenti di spirogyra. I due guardiani tenevano gli occhi fissi nel vuoto - senza guardare a destra né a sinistra - e gli abiti che indossavano erano bagnati, anzi così grondanti d'acqua che intorno ai loro piedi si stavano formando delle pozzanghere. Tra i capelli avevano resti di alghe marine. «Una di queste porte conduce a Erith, l'altra alla tua rovina», disse Yallery Brown. Impugnò un violino, suonò alcune note e aggiunse: «Credi forse che tu e quei mocciosi siate gli unici mortali del Reame? Non è così. Gli alabardieri che vedi presso le porte sono Iainh e Caelinh Maghrainm, i figli gemelli del Capitano delle Isole Occidentali, creduti affogati coi loro camerati nelle acque di Corrievreckan. Sono stati così sciocchi e arroganti da credere di poter cavalcare i migliori stalloni di Aia... ora hanno imparato la lezione, dopo aver servito l'Each Uisge per un anno: hanno avuto fortuna, perché i loro cinque compagni sono stati fatti a pezzi e i loro fegati gettati a riva dalle onde. E benché sembrino uguali come due fave in un baccello, sono diversi come il giorno e la notte, perché uno è costretto a essere sempre sincero mentre l'altro non ha mai detto una parola vera da quando serve l'Each Uisge... Tu dici la verità, uomo?» Il guardiano della Porta d'argento rispose: «Sì». «E tu? Anche tu dici la verità?» «Sì», rispose il guardiano della Porta di quercia. «Vedi? È proprio come ho detto!» continuò Yallery Brown. «E questo c'incuriosisce molto, perché mentire è una capacità che hanno soltanto i mortali. Donnetta bugiarda, non illuderti che saremo noi a dirti chi di loro mente!» Si fece avanti un pallido individuo, alto e bello. Indossava un'armatura verde simile al carapace di una creatura marina, con un filo di perle sulla fronte e un mantello d'alghe intrecciate; si muoveva scalpitando come un cavallo e, nonostante il suo bell'aspetto, irradiava un'aura di malvagità quasi insopportabile. Per un momento la fanciulla mortale guardò quei terribili occhi che la
fissavano, freddi e inespressivi e privi di pietà come le rocce su cui si squarciano le navi. Qualunque fosse la sua vera forma, quell'essere era orrore puro. Sono di fronte all'Each Uisge in persona... il Principe dei Cavalli d'Acqua! pensò lei. Possa tutto ciò che è buono difendermi da lui. L'Each Uisge si rivolse a lei. «I miei servi pronunciano solo due parole: 'sì' e 'no'. Non possono dire mai nient'altro.» La sua voce risuonava come le onde in una caverna, interrotta da ansiti simili a nitriti. Il Principe Morragan alzò un dito. «La mortale potrà fare una sola domanda, a un solo alabardiere.» Ashalind diventò pallida come l'Each Uisge e si aggrappò al suo pony per sorreggersi: aveva sperato in qualche indizio supplementare. I wight che circondavano Yallery Brown ridevano con voci stridule e saltellavano qua e là, esibendosi nelle più inverosimili capriole. La dama faêran dai capelli lunghi, però, si mostrò comprensiva: «Ashalind, carina, c'è una domanda che potrà rivelarti tutto, se soltanto saprai intuirla. Noi non possiamo aiutarti in questo... ma non disperare». «Quando la musica si fermerà, tu dovrai scegliere», decretò il Fithiach dai capelli corvini. I musici avevano ripreso a suonare e i ballerini stavano di nuovo roteando accanto ad Ashalind e al suo pony, così leggeri che sembravano sfiorare appena il pavimento. Trascorse del tempo ma lei non avrebbe saputo dire se fossero pochi momenti, ore o giorni... C'era una domanda che lei avrebbe potuto porre a una di quelle guardie per avere una risposta che le dicesse con certezza qual era la Porta giusta; se non avesse saputo trovarla avrebbe dovuto scegliere una Porta a caso, con le stesse probabilità di vincere o perdere di chi getti una moneta... solo che perdere significava perdere tutto e per sempre, non solo per lei ma anche per Hythe Mellyn, per i bambini, per suo padre e per Pryderi. Era venuta fin li soltanto per fallire? La musica e i movimenti le impedivano di riflettere, perciò immerse il viso nella criniera rovinata del pony e si coprì le orecchie con le mani. Nel buio, la sua mente si affannava tra mille domande e ipotesi su ciò che ogni risposta avrebbe potuto rivelare. È come studiare una mossa in una partita a scacchi, si disse. Se domando qualcosa a colui che dice sempre il vero, la sua risposta sarà chiara... ma la stessa risposta potrebbe essermi data dal bugiardo. Com'è possibile capire chi è il mentitore? All'improvviso un lampo d'ispirazione le fece rialzare la testa. In mezzo a tutti quei movimenti vide il faêran che la guardava dall'alto in basso e,
nel vederlo accigliarsi, seppe che lui aveva notato la luce di trionfo nei suoi occhi. «Hai anche una terza scelta, Ashalind-Elindor», disse sottovoce il Principe Morragan. «Non uscire da nessuna Porta. Personalmente, non amo i mortali e non sarei addolorato se la tua razza scomparisse; tu, però, sei gradevole d'aspetto, coraggiosa e astuta. Resta ad abitare qui e io giuro che sotto la mia protezione non ti sarà fatto del male.» Sotto le sopracciglia dritte, gli occhi color fumo erano acuti e indagatori e ciocche di capelli neri dai riflessi azzurrini incorniciavano il volto immobile. Il faêran era più attraente di qualsiasi mortale e possedeva un potere terribile... Il desiderio di vivere nel Reame era come una ferita aperta per Ashalind e lui, facendo leva su questo, parlò ancora con voce più morbida che mai: «Posso portarti in palazzi di fuoco e castelli di vetro, posso portarti attraverso l'acqua e l'aria, nell'alto del cielo e sul fondo del mare. Avrai la facoltà di volare e più ancora... Non puoi nemmeno immaginare quali meraviglie si offrano a chi gode del favore di un faêran!» Per qualche istante la fanciulla vacillò, stordita da quello sguardo penetrante; poi il pony alzò la testa per annusarle una spalla e, all'improvviso contatto delle sue froge calde, lei fece un sospiro e abbassò gli occhi. «Signore, io devo riportare i bambini a casa.» Nel sentire quelle parole, gli occhi grigi lampeggiarono di una gelida fiamma. Il Principe le voltò le spalle, facendo sventolare il mantello che si allargò come un'ombra su di lei. La musica tacque e i ballerini si fermarono. «Ora scegli!» esclamò il Pifferaio. Ashalind andò dal guardiano della Porta di quercia e gli pose la sua domanda. Lui rispose: «No». Senza esitare, la fanciulla disse: «Allora scelgo la tua porta». Subito i due battenti si spalancarono e apparve un lungo tunnel verde fatto di piante, in fondo al quale si levavano le morbide colline di Avlantia. Era un mattino limpido come il cristallo: le allodole cinguettavano, uno smeriglione roteava nel cielo, le siepi apparivano spoglie e annerite intorno ai campi incolti e, in lontananza, spirali di fumo azzurrino offuscavano l'atmosfera. Dalla città proveniva un suono di campane che sembrava dire: «Svegliatevi! Svegliatevi!» Il Principe Morragan afferrò Ashalind per i capelli e le fece voltare la testa, costringendola a guardarlo.
«Hai vinto questa partita», disse con voce piatta. «Puoi prendere la Via verde e tornartene a casa. I bambini ti seguiranno... soltanto quelli che non hanno bevuto né assaggiato il nostro cibo, però. A loro sembrerà di aver trascorso non più di un'ora nel Reame. Ora vattene... ma sappi che se ti volterai - anche una sola volta - tornerai qui e non te ne andrai mai più.» La sua mano la lasciò bruscamente. La fanciulla aveva le lacrime agli occhi quando prese il pony per le briglie e lo condusse oltre la Porta, con alle proprie spalle lo scalpiccio di una moltitudine di piedi e un cicaleccio di voci infantili. Si avviò a passi lenti sotto le arcate di rami e poco dopo i primi bambini la oltrepassarono, correndo avanti lungo la strada e gridando allegramente. Lei guardò di lato e ne vide molti che conosceva ma Rhys non era tra loro... Che suo fratello fosse uno di quelli che avevano mangiato il cibo di Faêrie? «Ashalind!» chiamò la voce imperiosa del Principe dagli occhi grigi. La fanciulla inciampò ma continuò a camminare e l'altro gridò il suo nome una seconda volta: lei si fermò e attese per un istante, poi prosegui. Ormai aveva percorso metà del tunnel verdeggiante. Altri bambini le passarono accanto di corsa, come foglie spinte da una bufera autunnale: erano centinaia ma neppure tra loro poté scorgere suo fratello. Allora pensò a Yallery Brown e ai suoi ratti divoratori di carne e il coraggio cominciò a venirle meno. «Ashalind.» Stavolta lei cadde in ginocchio e non riuscì a rialzarsi. Altri bambini la sorpassarono. Sarebbe stato così facile voltarsi a guardare, obbedendo a colui che governava il gramarye ed era li, con tutto il Reame Fatato alle spalle, pronto a offrirle un intero mondo... Sarebbe stato così dolce guardarlo voltarsi per andare via e seguirlo. Lentamente, si tirò in piedi e, nonostante il suo desiderio, non si girò e non guardò indietro ma si rimise in marcia a fatica, spingendo avanti un piede dopo l'altro come se camminasse nel miele. Adesso la fine della Via verde era vicina: interi gruppi di bambini sciamavano già nella valle dove si stava radunando una folla assai più numerosa, uscita in tumulto dalle porte delle mura di Hythe Mellyn... erano gli uomini e le donne della città, che correvano incontro ai loro figli per riportarli a casa. Ashalind proseguì verso la luce del sole quando, a grande distanza dietro di sé, udì la vocetta supplichevole del piccolo Rhys: «Sorella, torna indietro e vieni ad aiutarmi! Ho paura!»
Lei fu quasi sul punto di voltarsi, in un impeto di sollievo... ma si controllò e rispose: «Non aver paura, Rhys». E rimase voltata verso Erith. «Sorella, torna qui e aiutami! Non riesco a camminare!» Il suo cuore sanguinava ma lei lo indurì: «Allora dovrai avanzare carponi, perché io non mi volterò». Lui singhiozzò, poi urlò: «Sorella! Un mostro mi aggredisce!» Per la terza volta Ashalind si fermò, proprio sotto le fronde dell'ultimo albero, con il collo le doleva per lo sforzo di tenerlo immobile e non voltare la testa. «No», gridò, «tu non sei mio fratello, perché lui non mi ha mai chiamata 'sorella'!» Subito dopo udì un rimbombo di tuono, l'urlo furibondo di Yallery Brown e qualcun altro che rideva selvaggiamente. Una fredda raffica di vento strappò alcune foglie dagli alberi... ma quando uno scalpiccio di passi la raggiunse e accanto a lei arrivò suo fratello, lei vide che si trattava davvero di Rhys. Lo mise in groppa al pony e, insieme, seguirono gli ultimi bambini giù verso il fondovalle. Seduta su un mucchio di terriccio tra i rovi dell'altura dirupata, la giovane donna sbatté le palpebre. Era trascorso molto tempo dall'ultima volta che l'aveva fatto e i suoi occhi erano vacui, arrossati. Guardò il braccialetto che aveva in mano, dono di suo padre. Se lo mise al polso. La fibbia si chiuse con un clic e i ricordi continuarono a zampillare in lei. 9 IL LANGOTHE LA NOSTALGIA DELLA PERDITA, LA PERDITA DELLA NOSTALGIA
Cos'è la nostalgia che tanto stringe il core? Oh, fossero sì forti la gioia e il dolce amore! Anche la grande quercia alfin soccombe dopo aver opposto al vento le sue fronde. Cos'è la nostalgia che a lungo fa soffrire? Anche il pozzo più fondo si deve inaridire. Cos'è la nostalgia che vecchia non diventa?
La carne stessa mutasi in polver grigia e spenta. Cos'è la nostalgia che andarsene non vuole, né lasciar del mortale l'anima che duole? Dalle Opere di Llewell, Bardo di Auralonde La storia del Ritorno dei Bambini fece il giro di Avlantia in pochi giorni. L'intera regione festeggiò e tutti benedissero ed elogiarono Ashalind na Pendran; le furono offerti doni a profusione e le maggiori onorificenze. I bardi scrissero ballate sulla coraggiosa fanciulla che si era avventurata nel Reame Segreto - affrontando non solo i faêran ma anche gli unseelie più pericolosi - e che, contro ogni probabilità, aveva avuto la meglio su di loro. Il Re di Avlantia creò appositamente per lei il titolo di 'lady del Circolo' e la elevò al rango di Baronessa. Glorie e onori piovvero da ogni parte e con essi avrebbe dovuto arrivare anche la felicità... ma non fu così. C'era ancora qualcosa con cui la gente di Hythe Mellyn non aveva fatto i conti. «Il langothe viene definito dall'Almanacco Verde di Flandrys come 'la nostalgia ovvero l'acuto rimpianto e desiderio che i mortali provano per il Reame Fatato'», disse il Mago Razmath all'Assemblea Straordinaria dei Cittadini di Hythe Mellyn, indicando il libro aperto davanti a sé. «Tutti coloro che abbiano visitato questa misteriosa e immensa regione - Tirnan Alainn, come la chiamavano gli antichi - o che vi abbiano soltanto gettato uno sguardo, anelano a ritornarci. Essi non si sentono più felici nel mondo mortale: non possono dimenticare neppure per un breve periodo la terra che ha stimolato la loro fantasia e continuano a cercare una Via per tornare là. Nei casi più gravi, costoro cessano di mangiare e si danno la morte, non avendo interesse per il genere di vita che possono condurre in Erith.» L'uomo percorse con uno sguardo grave il pubblico di uomini e donne che riempiva la vasta sala. «Per quanto ne sappiamo, non c'è nessuna cura», dichiarò, richiudendo il libro. Leodogran si alzò rigidamente e prese il posto del Mago davanti al leggio. Quando parlò aveva le spalle curve, come sotto un peso. «Questa città non ha mai conosciuto tanta gioia come nel giorno in cui i nostri figli sono tornati dopo aver trascorso sette anni nel Reame Pericoloso. Quel mattino, alzandomi, avevo scoperto che il letto di mia figlia era vuoto e che lei non c'era... Ma poi bussò alla porta un messaggero di Easgathair, il Guardiano delle Porte faêran, il quale mi disse: 'Fai suonare le
campane e sveglia la città, perché tua figlia sta riportando i bambini a casa'.» Fece una pausa, come se stesse combattendo una battaglia interna che gl'impediva di parlare. «Quel giorno pensammo che i nostri sogni si erano realizzati, poiché i bambini erano tornati da noi... ma, ahimè, coloro che avevamo perduto non ci sono stati restituiti completamente. Il langothe è rimasto dentro di loro, nonostante tutto ciò che abbiamo tentato e né l'amore, né l'oro, né la stregoneria hanno potuto riportare il cuore dei nostri figli nella loro terra natale. Benché essi ci amino e siano stati felici di riunirsi a noi, i loro pensieri sono sempre lontani da qui. Ogni giorno essi vagano, ogni giorno essi cercano... Noi abbiamo consultato gli antichi libri della sapienza e le vecchie cronache, invano. In verità, non c'è una cura. «Alcuni giovanetti e fanciulle non sono mai tornati dal Reame Pericoloso, perché là avevano preso cibo o bevande. Le loro famiglie continuano dunque a soffrire e la città non ne gioisce di certo... Mie signore, gentiluomini, concittadini! Per sette anni abbiamo vissuto nel dolore e ora, da sette settimane, siamo attanagliati da una nuova angoscia perché vediamo i nostri figli languire e deperire. Cosa dobbiamo fare?» Tra il pubblico si alzò una persona: era Meganwy, la Carlin delle erbe, che si guardò attorno e disse: «Credo di parlare a nome di molti dei presenti quando affermo che dobbiamo porre fine a questa triste situazione. Non possiamo permettere che la salute dei bambini continui a peggiorare, né possiamo separarci dai nostri cari figli. Ci rimane soltanto una possibilità: dobbiamo lasciare Hythe Mellyn... si, lasciare la nostra amata terra di Erith e trasferirci a vivere nel Reame! Come troveremo quel luogo - e se i suoi abitanti vorranno riceverci - io non lo so». Quella proposta fu accolta da un gran clamore. Si accese un dibattito accanito e l'argomento fu discusso in quella e in altre assemblee che seguirono. Come tutti i visitatori mortali, Ashalind era stata presa dallo strano fascino di quella terra oltre le stelle. Anche lei aveva perso interesse per il cibo e per la vita di Erith: stava dimagrendo e ogni morbida rotondità del suo corpo era diventata spigolosa e ossuta. Non parlava mai della depressione in cui il langothe gettava il suo spirito, tuttavia suo padre e Pryderi la intuivano e Rhys la conosceva sin troppo bene. Ogni tanto lei e il fratellino si abbracciavano strettamente, pallidi e stanchi. «Cosa possiamo fare, Ashli?» sospirava lui. «Cosa possiamo fare?»
Incapace di rispondere, la fanciulla scuoteva il capo, senza parlare. I fiori selvatici delle siepi erano appena sbocciati quando, nello spazio di una notte - o così parve - ci fu un improvviso aumento delle attività degli eldritch e dei faêran in tutte le terre di Erith. Apparve un numero senza precedenti di wight delle razze più diverse e membri del Popolo Fatato furono visti sempre più spesso nei boschi e sui prati, nei luoghi elevati e sulle spiagge. Giravano voci di ogni genere: si diceva che incombesse una grande catastrofe, come una guerra o la fine del mondo; la gente sussurrava che il Re-Imperatore, a Caermelor, sapeva tutto giacché godeva della confidenza del sovrano faêran e che entrambi si stavano sforzando di evitare la misteriosa calamità. Circolavano molte storie ma nessuno sapeva per certo quale fosse la verità. Una delegazione di Maghi, consiglieri e notabili di Hythe Mellyn si consultò in più occasioni con Branwyddan (il Re di Avlantia) e coi suoi ministri nel palazzo che incoronava la città dorata. La quattordicenne Lady Ashalind e Pryderi Penrhyn, di dieci anni più anziano, furono inclusi tra i partecipanti. Le discussioni duravano ore e ore. «Vostra Maestà», disse Meganwy delle Erbe, «a Hythe Mellyn ci sono state molte riunioni e la gente ne ha abbastanza. Il langothe affligge tragicamente i nostri figli: alcuni sono già morti e i genitori non sanno più cosa fare... la vita è diventata un peso insopportabile per molti di loro e ormai desiderano solo lasciare la città e cercare una Via per il Reame Fatato, dove vivere in pace coi loro amati figli.» «Quanti vogliono andarsene?» domandò il Re, serio e accigliato. Razmath il Sapiente, Mago di Hythe Mellyn, rispose: «Circa un terzo della popolazione cittadina, Maestà... quelli i cui figli versano in condizioni più gravi o non hanno fatto ritorno». «Sono molti», sospirò il Re. «Ma noi abbiamo visto questi bambini silenziosi dalle facce tristi... Neppure il cuore più duro resterebbe indifferente. Ho riflettuto a lungo su questo argomento e parlato coi miei consiglieri: non poter offrire la serenità ai miei sudditi mi preoccupa molto e mi addolora che il fiore della nostra gente voglia lasciare Hythe Mellyn, tuttavia un sovrano deve pensare al benessere dei cittadini. Se desiderano andare io non mi opporrò... anche se perderne tanti sarà un duro colpo per questa terra, poiché già da molti anni la nostra razza si sta riducendo di numero. La malinconia mi opprime... temo che la partenza di gran parte del popolo significherà l'estinzione dei talith ma forse questo non farà che affrettare
un destino inevitabile.» Leodogran disse: «Vostra Maestà è generoso e giusto e noi vi ringraziamo per questa decisione. Però, Sire, abbiamo bisogno del vostro aiuto, poiché non sappiamo come trovare la Via per il Reame. Mia figlia ha vegliato molte notti sotto l'albero di ymp ma non è più passata nessuna rade faêran e non si è aperta nessuna Porta... Io penso che il passaggio attraverso il Colle di Hob sia ora chiuso ai mortali ma ammetto di avere scarse conoscenze delle Porte tra i mondi. Voi cosa ne pensate, Orlith?» Il Mago del Re rispose: «I boschi di querce, gli anelli di muschio, le radure erbose, i circoli di pietre erette, i luoghi elevati, le strade verdi di foglie e felci, certi pozzi, le macchie di pruni, di abeti o di agrifogli... questi e altri sono posti dove si può trovare una Via. Si dice che queste Vie per il Reame Segreto, pur così diverse, abbiano tutte l'aspetto di un breve tunnel con una Porta a entrambe le estremità: una dal lato di Erith e l'altra che si apre sul Reame Fatato. Non sempre le porte sono riconoscibili come tali, con cardini e maniglie; possono avere varie forme... ma, in ogni modo, non si può entrarvi senza il permesso dei faêran». Intervenne Gwyneth, la Regina di Avlantia: «William il Saggio, ReImperatore a Caermelor, ha contatti col Popolo Fatato. Si dice che una grande amicizia lo leghi a loro». «Sarà inviato un messaggero a chiedere il suo aiuto», aggiunse Branwyddan, «anche se devo sottolineare il fatto che mi angustia molto perdere tanta gente.» S'incupì ulteriormente. «Va detta un'altra cosa: negli ultimi tempi, come ben sapete, tutta Erith è stata disturbata da eventi insoliti che hanno scosso le fondamenta della Città Reale, a Eldaraigne. La risposta che attendiamo potrebbe arrivare tardi o forse mai, perché abbiamo saputo che il Re-Imperatore William è talmente occupato che trova a stento il tempo di dormire. Caermelor ha ordinato di scavare nuove miniere di dominite... C'è bisogno della maggior quantità possibile di questa pietra, per due scopi: rafforzare i muri degli edifici ed estrarre il talium che essa contiene. Inoltre è giunta notizia che navi ben sorvegliate, cariche di un metallo di nuovo genere, stanno per essere ricevute dalla tesoreria del ReImperatore. Io non so cosa questo significhi ma vi dico una cosa: il tempo a nostra disposizione non è illimitato e voi non dovete rimandare la vostra iniziativa. Il momento di agire è ora! Trovate subito una Via per il Reame Pericoloso, cittadini di Hythe Mellyn... Ponete fine a questa sofferenza prima che sia troppo tardi!»
In quel tiepido crepuscolo primaverile, l'aria era satura del profumo di miele. Leodogran rimase a palazzo per consultarsi coi Maghi Orlith e Razmath mentre sua figlia s'incamminò con Meganwy e Pryderi lungo le strade ventose di Hythe Mellyn, verso le mura della città. Ashalind era preoccupata per il fratello minore, Rhys. In casa na Pendran, il bambino rubato e restituito era a letto - accudito da Oswyn - e forse sognava quel giardino incantato pieno di rose. «Noi tutti siamo molto curiosi, padrona Ashalind», disse Pryderi (dimenticando, come al solito, di chiamare la lady del Circolo col suo nuovo titolo) «di sapere quale domanda tu abbia posto per trovare la Porta di Erith. Noialtri ci siamo lambiccati il cervello sino a perdere la testa nel tentativo di scoprirla... Non è gentile, da parte tua, lasciarci soffrire così!» Meganwy si voltò verso di lui. «Se tu avessi studiato i libri della sapienza l'avresti scoperta! Benché Ashalind abbia trovato da sola quella domanda, l'indovinello è antico ed è già stato risolto molto tempo fa.» «Vuoi dire che tu sai leggere? Credevo che lo sciroppo di ortica per curare la diarrea del gatto fosse il massimo della tua cultura!» replicò Pryderi. «Comunque, io non posso spendere i miei giorni col naso sui libri: ho ben altro da fare! Ora, Ashli, dovresti proprio togliermi la curiosità.» «Solo se prometti di non litigare più con Meganwy.» «Oh, sciocchezze!» rise la Carlin, con gli occhi circondati da rughette d'allegria. «Sono spiritosaggini tra amici. Questo furfante le dice solo a chi ama e io sono abituata a sentirle sin da quando lui aveva ancora le ginocchia sporche di fango... vale a dire un paio di giorni fa!» Pryderi sbuffò. Ashalind s'intromise prima che lui potesse replicare con un'altra frecciata: «La domanda che gli feci fu: 'L'altro guardiano mi direbbe che questa è la Porta di Erith?'» I tre camminarono in silenzio per un poco, poi Pryderi annuì. «Capisco. Sia il guardiano bugiardo che quello sincero sarebbero stati costretti a rispondere 'no' se la Porta non fosse stata quella e 'sì' in caso contrario... Grande mossa, la tua; proprio intelligente! È una fortuna che tu abbia scartabellato quei vecchi libri di cui parlava Meganwy.» «Non l'ho fatto! Non avevo idea che fosse un indovinello antico, perciò come ha detto Meganwy - ho dovuto escogitare la domanda da sola.» «Il che va a tuo credito, bambina», sorrise la Carlin. «Certo che è strano!» mormorò Pryderi. «Sino a due mesi fa avremmo dato qualunque cosa purché i bambini fuggissero dal Reame Fatato e ora
stiamo cercando disperatamente un modo per farceli tornare. È proprio vero quel proverbio: 'Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo!'» Una ragazzina pallida, affacciata alla finestra di una casa, li chiamò. Nella sua voce c'era una nota sofferente. «Milady, avete trovato la Via?» «Non ancora», rispose Ashalind. Alla porta delle mura c'era un ragazzo dall'aria letargica che guardava verso la campagna. Dalla cintura gli pendeva un flauto di canna. Si rivolse ad Ashalind come per implorare una grazia: «State andando a Faêrie, milady? Possiamo tornare là?» Si chiamava Llewell ed era uno dei giovani reduci di quel Reame, un brillante musicista e compositore. Il langothe lo stava facendo impazzire, tanto che volte credeva di essere lui stesso un faêran. «Nay, Llewell», disse ancora Ashalind, distogliendo lo sguardo perché la vista del suo aspetto miserevole le spezzava il cuore. «Forse ci torneremo presto. Nel frattempo, componi una ballata che ci faccia pensare ad altro, almeno per un poco!» Era sempre così, con quei giovani: nella loro cieca e urgente necessità continuavano a rivolgersi ad Ashalind, aggrappandosi alla speranza che lei riuscisse - come già aveva fatto una volta - a ottenere l'impossibile. Volevano credere che potesse farlo ancora, poiché sapevano che anche lei era stata là e soffriva della stessa, rovente nostalgia. Fuori dalle mura c'era qualcosa, tra gli alberi... Movimenti e sussurri nella vegetazione e, ovunque, rumori di creature invisibili: risatine attutite, passi, squittii, fischi, brontolii e suoni di canti lontani. Erith era gremita di cittadini di Faêrie come mai in passato... gente del Popolo Fatato, spesso intravista o udita ma mai vista chiaramente; eldritch wight solitari o riuniti in bande, esseri dell'acqua e dei boschi, delle case, delle miniere e dei campi. Era un miscuglio di creature sia seelie che unseelie. «Molti di questi eldritch sono qui per spiarci!» disse Meganwy. «Tra costoro deve essercene qualcuno in grado di portare un nostro messaggio a Easgathair... o meglio: un tuo messaggio, Ashalind, visto che quel saggio faêran sembrava tenerti in particolare riguardo.» «Allora non dev'essere poi tanto saggio», commentò Pryderi, accelerando il passo. Ashalind sorrise, come spesso faceva benché la nostalgia la rendesse malinconica. «Pryderi si è innamorato di me!» gli gridò dietro, per punzecchiarlo. «Sì, alla follia!» borbottò l'altro, senza voltarsi.
Ashalind prese Meganwy per un braccio. «Quel che hai detto è vero, saggia Carlin. Andiamo nel frutteto. So che le mele piacciono a tutte le creature di gramarye, compresi i faêran.» Un vento caldo come l'amore faceva sussurrare alle foglie dolci frasi senza parole. Qua e là si udiva il rauco gracidio delle cornacchie che tornavano al nido e un gruppetto di cigni si faceva strada tra le erbe del pascolo, a occidente. L'urisk che stava passando tra gli alberi era quasi totalmente nascosto dal sottobosco ma l'occhio addestrato di Meganwy ne colse il movimento e, in silenzio, la Carlin diede di gomito alla fanciulla, indicando il punto in cui un piccolo seelie di forma umana camminava tra i meli su zampe di capra. «In nome di Easgathair, fermati, ti prego!» gridò Ashalind, in tono accorato. Con un fruscio, il wight sparì tra la vegetazione e non si fece più vedere. Quella sera Ashalind mise fuori personalmente la brocca d'acqua fresca e il piatto di crema per il bruney di casa, un compito solitamente svolto da Oswyn. Il buio si approfondì e scese la notte; lei sedette nella nicchia accanto al caminetto di cucina e attese con pazienza, finché - verso mezzanotte - il bruney arrivò. Aveva una faccetta magra e rugosa e mani molto larghe; in testa portava un berretto conico in morbida pelle di cervo e il resto del suo abbigliamento consisteva in un camiciotto di cotone, braghe piene di macchie, malconci calzettoni di lana e scarpe troppo larghe per lui. La fanciulla restò a guardare mentre il wight dava inizio alle sue faccende, scopando il pavimento, spolverando e lavando i vetri sino a farli luccicare, il tutto con disumana velocità ed efficienza. «Bruney», lo chiamò sottovoce dall'ombra, senza incontrare direttamente il suo sguardo. Il piccolo essere umanoide interruppe il lavoro. «Coza stae fazendo ki a kest'ora, padronzina Ashalind?» «Mi serve il tuo aiuto, caro wight della mia casa.» «Me ti ha vista crezer da kand'eri più pízzina de me... e anco to padre ed el padre de to padre prima'ncora. Sono dizpiazuto a kesta casa?» «No. Non hai mai deluso questa casa, anzi ci sei stato prezioso... mai un granello di polvere sui vetri, mai una briciola di sporcizia in terra! E noi, in cambio, abbiamo provveduto a te. Bruney, io devo avere un'udienza con Lord Easgathair dei faêran. Puoi condurmi da lui?» «Me ha modo de dar messagi a li faêran, padronzina Ashalind, però ciò paura ke 'sto Lord Easgathair gnanco me garda, adesa, perché c'è ste koze
maligne ca succedon da pertutto.» «Di quali cose parli?» «Fattazzi brutti e malazorte», rispose oscuramente il bruney. «Ma c'è gnente ca posso far, me. Mai penzavo de veder tempi cozì sgragnati o seniori nobili e grandi far de ste pazzie. El mondo cambiarà... e coza verrà fori, me non so.» «Ma cercherai di aiutarmi?» «Vabbé, me ci provarò, padronzina. Adesa te va' letto e lazame far le mie coze. Keste son le ore di me, non le tua.» Agitò verso di lei la scopa di saggina, come per mandarla via. «Buonanotte», disse lei e, sollevandosi il bordo della gonna, si avviò su per le scale. Verso il mattino, giusto prima del canto del gallo, Rufus si svegliò e cominciò ad abbaiare freneticamente alla porta della camera da letto. Stordita e insonnolita, Ashalind scese dal letto in camicia da notte e lo prese per il collare. «Buono, buono! Fai la cuccia!» Il bruney mise dentro la testa e fece una smorfia. «Son zolo me, Rufus! Coza c'hai da grugnar e dar fori da matto, orbo d'un lumacon?» Il cane abbassò le orecchie, si rabbonì e agitò la coda. «Padronzina Ashalind, c'ho un messagio da darte», continuò il bruney. «Sì?» «Prozima mesanotte, te vai sul Cragh Tor.» La testa scomparve. Ripide colline coperte di fitta vegetazione s'innalzavano da ogni lato, scure contro la cupola della notte spolverata di stelle. Lungo i versanti ruscellavano cascatelle simili a trecce di luce lunare e un sentiero serpeggiava verso Cragh Tor: aderente a una parete rocciosa da un lato, stretto tra precipizi e scarpate dall'altro. Quando i tre compagni furono più in alto poterono vedere, in un varco tra le colline, una distesa di luci gialle come lucciole posate sul velluto nero: erano le lampade della città. Dopo essersi accertati che la sommità della collina fosse deserta, i tre cercarono delle pietre muschiose su cui sedersi e attesero, a disagio. La cima di Cragh Tor era piatta e priva di vegetazione; c'era però un semicerchio di megaliti granitici alti trenta piedi, un cromlech in rovina la cui altra metà era crollata secoli addietro. Delle pietre rimaste erette, tre erano ancora collegate da architravi mentre le altre pendevano da una parte o dall'al-
tra, coperte di licheni rossi, fulvi e giallastri. L'erba cresceva sui megaliti caduti e parzialmente sepolti nel terreno: quel luogo era spiacevole e sinistro e, quella notte, non faceva certo eccezione. L'inquieto respiro del vento frusciava, luttuoso e triste, intorno agli spigoli delle pietre e da qualche parte, più in basso, giungeva un gorgoglio d'acqua corrente. Strani occhi fosforescenti spiavano i tre estranei dalle ombre ma nessuna voce rispose alle domande dei disturbatori mortali e non apparve nessuna dama o gentiluomo faêran. Ashalind e i suoi compagni sentivano una fitta presenza di wight tutto intorno a loro. La notte era piena di mormorii, sussurri lascivi, risatine improvvise e trilli snervanti. Un bogle sogghignante uscì da una fossa, poi balzò come un rospo sul bordo dell'altura e sparì nel vuoto. Femmine trow dalla faccia grigia, gli occhi sporgenti come bulbi di cipolle e le grosse teste coperte da scialli bruni sbirciavano tra gli alti ciuffi d'erba, sussurrando e indicandosi i tre umani. Una di loro aveva in braccio un pargoletto cencioso. Il lieve peso dei tilhal al collo dei mortali era rassicurante ma inadeguato. I trow si allontanarono alla spicciolata man mano che le ore di tenebra scorrevano lente. I mortali, insonnoliti, si strinsero nei mantelli per scaldarsi. Mancava un'ora al levar del sole quando dal buio uscì una lieve musica sottile ma penetrante come la fragranza del gelsomino - e, nello stesso tempo, un lucore rosato si accese sul Circolo di Cragh Tor, quasi un'alba sorta in anticipo. Una volpe attraversò di corsa la radura. I megaliti stavano emanando una radiazione interna (come cristalli con un cuore di fuoco) e strani fiori cominciavano a sbocciare dalle rocce. Due faêran erano seduti su un megalite caduto e un terzo, con un piede su una pietra, stava strimpellando una piccola arpa dorata. Era una creatura tutt'altro che notturna questo arpista, con le sue vesti sgargianti che lo facevano sembrare un'orchidea o una melodia di colori. Aveva un serpente vivo attorcigliato intorno al collo, non più grosso di una bacchetta e verde come un asparago. Dimentica della stanchezza e della sonnolenza, Ashalind balzò in piedi, frenando a stento il grido che stava per uscirle dalle labbra. Il suonatore d'arpa era il Pifferaio. Saggiamente, la fanciulla tenne la bocca chiusa per non rivelare la propria rabbiosa indignazione. Il musicista depose lo strumento e si volse a parlare sottovoce ai compa-
gni. Fu quello con la barba bianca e il bastone da passeggio a rivolgersi ai mortali: «Lieto di vedervi, brava gente», disse Easgathair, poi salutò ciascuno dei tre chiamandolo per nome. Appariva molto più vecchio e stanco della volta precedente e Ashalind ne fu stupita, perché si diceva che i faêran fossero immortali e non subissero gli effetti del passaggio del tempo. I tre umani s'inchinarono. «Al vostro servizio, signore Easgathair», disse Ashalind. «Noi sappiamo i vostri nomi ma voi non conoscete i nostri.» A parlare era stata la faêran seduta alla destra di Easgathair: la dama dal volto amabile e coi capelli neri lunghi fino alle caviglie che Ashalind aveva visto tra i compagni del Fithiach di Carnconnor. Gemme verdi come occhi di gatto le brillavano tra le chiome e alla cintura e la volpe che aveva attraversato la radura stava ora accovacciata ai suoi piedi, con gli occhi d'ambra socchiusi. «Io sono Rithindel di Brimairgen.» Ashalind le rivolse un inchino. «Mia signora, tu mi hai dato coraggio quando ne avevo molto bisogno.» «Quel coraggio lo possedevi già. Io non ho fatto che ricordartelo.» «Io sono Cierndanel, mortali... il Bardo Reale», si presentò lo snello arpista-pifferaio, con un sorriso che ad Ashalind parve derisorio. «L'arte di Cierndanel è tenuta in alta considerazione tra la nostra gente», aggiunse Easgathair. Mentre Meganwy e Pryderi salutavano il musicista Ashalind esitò, presa tra le esigenze contrastanti della vendetta e della cortesia: aveva davanti colui che aveva dato origine a tutti i suoi guai con la demoniaca musica di un piffero. Il bardo faêran rivolse alla giovane donna uno sguardo interrogativo che la trafisse come un artiglio. «Forse ti ho offeso, graziosa mortale?» La sua voce era come pioggia sulle foglie. «Un cipiglio offusca il tuo bel viso, come l'ultima brina dell'inverno sui germogli primaverili. C'è qualcosa per cui dovrei chiederti venia?» «Non riuscite a immaginarlo, signore? Tuttavia, pur offesa, io non ho desiderio di offendere, perciò non dirò altro.» «Dillo pure. La nostra conversazione non potrà progredire finché non sarò soddisfatto.» «Be', in tal caso...» Ashalind trasse un lungo respiro e poi sbottò: «Voi, signore, avete commesso il più abominevole di tutti i furti. Siete il Pifferaio che ha rubato i nostri bambini: questa è l'offesa che ci avete fatto!»
«Sono davvero sbalordito», disse Cierndanel. Vedendo che Ashalind arrossiva, Pryderi fece un passo avanti, sollevando i pugni. Meganwy mandava scintille di furia dagli occhi. Prima che scoppiasse una lite, Easgathair alzò una mano. «Un momento! Cierndanel, tu non conosci il modo di pensare dei mortali come lo conosco io. Ai loro occhi la tua azione non è stata un atto di giustizia, bensì un crimine... e voi, mortali, dovete capire che Cierndanel ha semplicemente applicato la giustizia del Reame quando ha portato via i bambini con la musica del Flauto Leantainn. Non lo ha fatto per vendetta o per disprezzo: la sua è stata una lezione, una dimostrazione di ciò che è giusto. Un trattamento lecito e una punizione meritata, secondo il principio dell'equità.» «L'equità faêran», commentò Pryderi, rigido. «Non possiamo certo applaudire le azioni del Pifferaio», intervenne Meganwy. «Ma cerchiamo di non litigare. Io ho studiato le usanze dei faêran e, anche se non posso approvarle, le conosco. Il nostro codice morale non è il vostro.» «Voi sembrate dimenticare che il mio piffero ha portato via anche il flagello dei roditori», continuò Cierndanel, col serpentello bardico che gli si torceva come giada liquida intorno al collo. «Non era forse stato Yallery Brown a mandare i ratti, tanto per cominciare?» esplose Ashalind. «Il wight Yallery Brown non ha nulla a che fare con me, dolce fanciulla. Lui, come altri della sua razza, si mescola liberamente coi membri del nostro popolo che tollerano quei tipi... ma le malefatte che costoro commettono fuori dal Reame non ci riguardano. Il crimine - la rottura della promessa - è stato commesso dalla città», sentenziò, accarezzando l'arpa con le lunghe dita sensibili. «Perché prendersela con me che sono stato lo strumento, per così dire, della retribuzione?» «I mortali condannati si ribellano sempre contro chi fa rispettare la giustizia», aggiunse Easgathair, «anche se questi non fa che eseguire un compito. Se non fosse avvenuta una trasgressione, non ci sarebbe stata nessuna punizione.» «Sembra che gli immortali non capiscano certe cose», osservò Pryderi, aspro. «Noi siamo immortali, sì», replicò Easgathair, «ma pieni di passioni: pronti ad amare e ridere, svelti nell'irritarci, lenti al pianto. Come voi, anche noi possiamo essere piegati dal dolore.» «No, non come noi», lo contraddisse Pryderi. La sua voce aveva una no-
ta dura. «Mai come noi, poiché voi non conoscete la morte.» «Un abisso incommensurabile separa le nostre razze», riconobbe la Dama Rithindel, dopo una pausa. «Nonostante ciò», disse Meganwy, «noi dobbiamo lasciare che i rancori siano spazzati via come le foglie della stagione passata, perché ora siamo qui per chiedere il vostro aiuto. Sapendo che i Fatati sono un popolo equo e giusto, siamo certi che non vorrete negarcelo.» «In effetti, noi non neghiamo di essere un popolo equo e giusto!» affermò Easgathair. «Sedetevi dinanzi a noi. Aspettiamo di udire ciò che dovete dire, anche se lo immaginiamo già.» «Si tratta del langothe», disse cautamente Ashalind, mettendosi a sedere accanto a Pryderi su una pietra muschiosa. Easgathair annuì. «Noi non possiamo porvi rimedio», continuò lei, «pertanto vi preghiamo di lasciare che i bambini tornino nel Reame Fatato insieme con le loro famiglie, per restare là. Vi chiediamo di proteggerli dagli unseelie che frequentano le sale del Fithiach di Carnconnor e di lasciarli stabilire lontano dal suo palazzo.» «Nel Reame, 'lontano' e 'vicino' non significano ciò che pensate voi», la informò Cierndanel. «Tu potresti attraversare Faêrie da un capo all'altro ed essere sempre vicina al posto da cui sei partita. Là non esistono inizio e fine come tu li conosci.» La Dama Rithindel disse: «Angavar, il nostro Re Supremo, ha sempre accolto i talith dai capelli d'oro che sono entrati nella nostra terra. La vostra razza è stata spesso fonte di piacevole svago e di aiuto per noi e anche in questa occasione lui vorrà favorirvi... almeno così credo, anche se al momento è oberato da gravi preoccupazioni». Tenendo le mani sul bastone, Easgathair alzò la testa canuta verso i mortali e disse: «Ashalind, per sette anni ti sei aggirata sulle colline e tra i boschi di eringi dove i faêran amano cavalcare e andare a caccia. La tua gentilezza e la tua lealtà sono state notate da chi ti ha vista passare ed è per questo che io ti ho aiutata, quando me l'hai chiesto. Per la stessa ragione ti aiuterò una seconda volta, perché il mio popolo ricompensa la bontà; inoltre, in questi frangenti una parte del nostro popolo afferma che c'è bisogno di un certo numero di mortali che abitino tra noi. Come Guardiano delle Porte del Reame, io appoggerò la vostra richiesta: voi - e le vostre famiglie e i vostri amici - otterrete il permesso di entrare e la nostra protezione contro i wight. Dal Principe Morragan non posso difendervi, però non credo
che vi farà del male». I tre mortali balzarono in piedi e si abbracciarono, sorridendo. Poi s'inchinarono ai faêran. «Signor Easgathair, Dama Rithindel, signor Cierndanel... noi accogliamo con gioia le vostre parole!» esclamarono, ricordando - pur nella loro esultanza - di ringraziarli nel dovuto modo. Una stella cadente attraversò il cielo, lasciandosi dietro una scia fine come polvere di diamante. La brezza che spirava sulla collina faceva ondeggiare i candidi capelli del Guardiano delle Porte e il suo volto orgoglioso, in cui era scolpita l'erudizione dell'eternità, s'indurì in un'espressione insolitamente severa. «Assistere alla vostra felicità ci rallegra ma ora vi sono cose che dovrete apprendere... perché sgradevoli avvenimenti si sono verificati in Aia e sta per accaderne uno ancora più disastroso. Tornate a sedervi. È necessario che vi faccia una breve storia delle Tre Sfide.» Perplessi e affascinati, Ashalind e i suoi compagni fecero come veniva loro ordinato. Quando si furono accomodati, il saggio proseguì: «Sappiate innanzitutto che io, Easgathair Gufo Bianco, sono il Guardiano delle Porte e sovrintendo a tutte le Vie tra il Reame ed Erith. Qualche tempo fa (il tempo scorre diversamente nella vostra terra ma era il periodo in cui il Re Supremo Angavar cambiò posto con uno dei vostri Re per un anno e un giorno e i due diventarono amici)... qualche tempo fa, dicevo, venni sfidato a una partita di Re-e-Regine o Battaglia Reale, ovvero il gioco che i talith chiamano 'scacchi'. Il mio sfidante era il fratello più giovane del Re Supremo: Morragan, il Principe Corvo, detto anche il Fithiach. Morragan è sempre stato mio amico e simili sfide non erano senza precedenti, anzi spesso avevamo gareggiato uno contro l'altro». «È proprio così», intervenne Cierndanel, approfittando di una pausa del compagno dalla barba bianca. «Il bardo del Principe, Ergaiorn, seguì il suo esempio: fu allora che, in una scommessa, mi vinse il Piffero Leantainn... il Piffero Che Si Fa Seguire, come i mortali potrebbero chiamarlo; lo stesso strumento i cui poteri ti hanno tanto irritata, gentile damigella.» «Oserei dire, signore, che non dovrebbe dispiacerti di essertene liberato», osservò Ashalind. «Ma ti prego, lord Easgathair, non interromperti.» «Ahimè!» continuò con aria cupa il Guardiano delle Porte. «Allora io non vidi la scura corrente che scivolava in profondità, molto sotto la superficie allegra e affascinante del Principe Morragan. Non sospettavo la ferrea acrimonia che aveva preso alloggio nel suo cuore in quel tempo gaio, né che con gli anni si fosse così indurito, nutrendosi di orgoglio e d'arroganza.
«Egli mi regalò un bellissimo gioco di Re-e-Regine intarsiato d'oro e pietre preziose - una splendida opera di Liriel, il gioielliere di Faêrie - e mi sfidò a trovare nel Reame un insieme di pezzi più artistico e ingegnoso. Poi ci accingemmo a giocare e, com'era nostro costume, stabilimmo la posta in palio. «Ultimamente il Fithiach si era lamentato del fatto che io abitavo sempre presso il mio posto di lavoro nella Torre di Guardia (dal quale posso sorvegliare le Vie) e che, se andavo in Erith, non mi allontanavo mai più del necessario. Fino a quel momento non avevo mai sentito il peso dei miei doveri ma, quando lui me lo fece notare, mi persuasi che fossero noiosi e che non mi sarebbe dispiaciuto un po' di respiro, tanto per cambiare. «'Se vincerai la partita', disse Morragan, 'io prenderò il tuo posto nella Torre di Guardia per un anno e un giorno e tu potrai andare ad abitare dove vorrai.' «'Mio signore', risposi io, «'che posta posso puntare, da parte mia? Tu possiedi già tutto ciò che desideri.' «'Vuoi garantirmi un tuo servizio?' propose lui e io risposi: 'A patto che sia nelle mie possibilità'. Alla fine concordammo che gli avrei reso un servizio in futuro, qualora lui ne avesse avuto bisogno. Giocammo e io vinsi, perciò lui si accollò i miei compiti nella Torre di Guardia per un anno e un giorno. «Qualche tempo dopo, io regalai a mia volta al Principe un gioco di Ree-Regine i cui pezzi erano grossi come siofra, quei piccoli wight a cui piace scimmiottare le nostre forme e usanze. «'È abilmente scolpito, te lo concedo, amico mio', disse lui, 'ed è più grande di quello d'oro che io ti regalai. Tuttavia non è più bello, né più artistico.' «Allora io gli mostrai come i pezzi si muovevano, grazie a un meccanismo interno, al semplice tocco di una bacchetta d'oro, spostandosi da soli nella nuova posizione. «Così facemmo un'altra partita, usando quelle pedine meccaniche. Per l'occasione stabilimmo entrambi la stessa posta: 'il perdente pagherà il prezzo che il vincitore desidera'. E il vincitore fu il Principe Morragan. «'Una vittoria ciascuno! Stavolta ti ho sconfitto, Easgathair', disse lui, ridendo. 'Ma devo chiederti tempo per pensare prima di stabilire cos'è che desidero.' «'Signore, puoi prenderti il tempo che credi', risposi io. 'E, se vuoi, puoi provare a cercare un gioco di Re-e-Regine più bello di questo ma ti garan-
tisco che non lo troverai in tutto il Reame.' Alle mie parole, il Principe sorrise e annuì ma aggiunse: 'Vedrai che ti porterò un insieme di pezzi ancor più meraviglioso, col quale disputeremo una terza partita. Essa deciderà chi è il campione'. «Fui proprio uno sciocco ad accettare una posta non specificata», ammise amaramente Easgathair. «Tuttavia come potevo sospettare? Lo credevo immune dai pensieri ambiziosi. Un giorno, non molto tempo (secondo la vostra concezione, se non altro) dopo che tu, Ashalind, avevi portato via i bambini, lui mi condusse in una radura dov'era stata montata una piattaforma da gioco. Era fatta di quadrati d'avorio e d'ebano e su di essa stavano sedici dwarrow armati in cotta di maglia, dodici lord e lady di Erith - quattro dei quali a cavallo - e un quartetto di troll della pietra, tutti vivi benché sotto incantesimo e docili e obbedienti ai comandi vocali dei giocatori.» «È un divertimento ben crudele rendere schiave in questo modo le creature viventi!» protestò Meganwy. «Erano entrati abusivamente nel Reame», spiegò il bardo, Cierndanel, scrollando le spalle. «Chi oltrepassa i confini senza permesso può essere preso. È nostro diritto farlo.» I mortali non parvero d'accordo ma tennero a freno la lingua. «Giocammo con queste pedine viventi», proseguì il Guardiano delle Porte, «e ancora una volta il Fithiach mi sconfisse. È un giocatore abile, tanto che mi domandai se alla prima partita mi avesse permesso deliberatamente di vincere. Come la volta precedente, la posta in palio era che il perdente facesse ciò che l'altro desiderava... ma stavolta, poiché aveva vinto, lui volle che io pagassi subito. Era pur sempre il Principe Corvo e, d'altra parte, io avevo l'obbligo di onorare la mia parola... ma non immaginavo di essere caduto vittima di un bitterbynde.» Easgathair si alzò e fece qualche passo lungo il circolo dei megaliti. I suoi piedi non schiacciavano l'erba né i fiori. «Fu allora che compresi i suoi pensieri segreti... poiché la sua fu una richiesta terribile, la perversione totale delle mie responsabilità. Io solo ho in custodia le chiavi di ogni Porta: quando le Vie e le Porte sono invisibili ai mortali è semplicemente perché sono chiuse... ma non sigillate. Una volta sigillate, esse restano tali per sempre, secondo la nostra legge: questo accadde, ad esempio, dopo il furto alla Porta del Lago Coumluch nel Giorno del Biancofiore.» Il Guardiano scosse la testa argentea. «Ricordo ancora le parole del Fithiach quando mi descrisse ciò che si aspettava da me: 'Ti sei impegnato sul tuo onore a garantirmi questo servizio, Easgathair Gufo
Bianco, perciò sigillerai le Porte sulle Vie tra il Reame ed Erith. Io comando che sia sbarrato il passaggio ai faêran, agli eldritch wight seelie e unseelie, alle creature che non parlano e a tutti gli uomini mortali: nessuno andrà più avanti e indietro tra le loro terre e il Reame, che sarà riservato ai faêran e non più accessibile all'umanità. Dal momento in cui le Porte saranno finalmente sigillate, chi si troverà dentro il Reame resterà dentro e chi è fuori ne rimarrà fuori! Una volta eseguito il mio volere riporrai tutte le chiavi nello Scrigno Verde, il cui coperchio verrà chiuso con la mia parola-chiave'. Pryderi si alzò, spaventato. «Le Porte verranno sigillate per sempre? Allora dobbiamo affrettarci!» «Gli chiesi un anno e un giorno e lui, in nome della nostra amicizia, accettò», lo informò Easgathair. «'Puoi rimandare di un anno e un giorno', mi disse, 'ma non sperare che allo scadere di tale periodo avrò cambiato idea, perché non ritirerò mai la mia richiesta.'» «Perché il Principe vuole dividere Aia in due, separando Erith dal Reame Fatato?» domandò Meganwy. «Perché detesta tanto l'idea di mescolarsi coi mortali?» «Il Principe Morragan non ama la vostra razza. Certe azioni compiute dai mortali hanno destato la sua ira, nonché quella di altri esponenti del nostro popolo... azioni come lo spionaggio, il furto, la rottura di promesse, le abitudini sciatte, la cupidigia, l'eccessiva suscettibilità e il rapimento di una sposa faêran a opera di un mortale. A Morragan piacciono solo i faêran, però ha contatti con gli eldritch wight. Il suo odio per i mortali non è la selvaggia sete di sangue degli unseelie ma, piuttosto, il desiderio di allontanarvi per sempre dalla sua vista.» «Dunque è perché detesta i mortali che vuole sigillare le Porte di Faêrie», riassunse Pryderi. «Per questo e per altre ragioni», precisò Easgathair. «Dovete sapere che Morragan è il fratello più giovane di Angavar detto lo Iolaire, Supremo Re del Reame, il quale è amico dei mortali. Il vostro Re-Imperatore William una volta aiutò Angavar a sconfiggere il Waelghast - il Capitano delle Falangi Unseelie - che era un sostenitore del Principe Morragan: il Waelghast era solito tormentare Angavar e probabilmente era stato lo stesso Morragan, nella sua gelosia, a incoraggiarlo. Senza il Waelghast gli unseelie sono privi di un capo, perciò ora si recano sempre più spesso in Erith per attaccare i mortali e forse Morragan è anche dietro queste attività.
«Angavar è potente. Morragan è più giovane di lui, pertanto deve accontentarsi di essere Principe della Corona... Non sarebbe saggio da parte mia rivelarvi di più in un posto come questo, dove anche le pietre hanno orecchie; basti dire che queste rivalità tra parenti causano lotte presso molte razze e che la gelosia non è una caratteristica esclusiva dei mortali. Sigillare le Vie danneggerà Angavar.» Sciami di falene si riunivano intorno alle pietre luminescenti, proiettando una pioggia di piccole ombre sui licheni. La volpe mandò un verso secco, simile a una cascata di ghiaia in una tazza metallica. In mezzo al muschio una pietra piatta andava su e giù, come se qualcosa sotto di essa cercasse di sollevarla per uscire. «Resta giù, tu!» sbottò Easgathair, tirandole un calcetto. La pietra uggiolò e si abbassò con un clunc. Una bolla di silenzio, tesa e fragile, si chiuse intorno al gruppetto. Ashalind e i suoi compagni riflettevano perplessi su ciò che avevano udito. «Abbiamo pregato il Fithiach di ripensarci», disse Rithindel, a bassa voce. «Lui, però, non ha voluto ascoltarci. Parte della nostra gente applaude il suo piano, specialmente quelli che gli sono sempre stati fedeli e affezionati... Ora i faêran sono divisi in due fazioni e molti vengono a visitare Erith, sapendo che potrebbe essere l'ultima volta. In realtà, ci sono tante cose di Erith che ci piacciono... compresi i mortali.» «Il Supremo Re Angavar», aggiunse Cierndanel il Pifferaio, «ha ordinato a Giovhnu, il Mastro Fabbro dei faêran, di creare un nuovo metallo come dono d'addio per William di Erith... un metallo come non si è mai visto in Aia, nel quale è mescolato il gramarye. Sildron, si chiama... Per la vostra gente sarà prezioso.» «Allora perché stiamo scavando nuove miniere di quel metallo giallo, il talium?» domandò Pryderi. «Le Porte non sono mai state tutte sigillate», rispose Cierndanel. «Si teme che nel Giorno della Chiusura ci sarà uno sconvolgimento, che un equilibrio crollerà. Potrebbero formarsi strani venti di gramarye, perché forti energie circondano i luoghi in cui le nostre due terre s'incontrano ed esse piomberanno nel caos, entrando in conflitto. È possibile che vadano ululando per sempre intorno a Erith, senza una meta... e i venti incontrollati di gramarye possono estrarre immagini dai pensieri degli umani. Solo il talium può bloccarle.» «Il Giorno della Chiusura - il Giorno di Mezzinverno, in Erith - tre chiamate d'avvertimento saranno suonate in entrambi i mondi. Dopo l'ul-
tima chiamata le Porte si chiuderanno e rimarranno sigillate per sempre», sospirò Easgathair. «Salvo che il Principe Morragan ci ripensi, apra lo Scrigno Verde delle Chiavi usando la parola-chiave e restituisca le Chiavi a voi, signore», osservò Meganwy. «Lui ha giurato che non ritornerà sulla sua decisione e, del resto, non avrebbe motivo di cambiarla: è un cittadino del Reame ed è certo che vi potrà trovare la felicità, con l'eternità a sua disposizione. In effetti non sbaglia, perché le delizie e le avventure di Faêrie sono senza limiti... No, Morragan non cambierà mai idea.» «Voi non sapreste indovinare o scoprire la parola-chiave?» «Esiste una moltitudine di parole, in una moltitudine di lingue. Nel Reame il tempo è infinito, però dopo tre tentativi di aprire lo Scrigno andati a vuoto la serratura fonderebbe e nulla potrebbe più aprirla, ahimè!» «E ahimè per il langothe», intervenne Ashalind, risentita, «perché io amo la dolce terra di Erith. Se non avessi udito la musica del piffero e gettato uno sguardo su quel posto, preferirei mangiare una castagna bruciacchiata a casa mia che tutti i deliziosi frutti del Reame Fatato. Preferirei camminare tra i rovi che nei vostri giardini di rose sempre in fiore e vestirmi di ruvido panno piuttosto che delle più morbide sete faêran! Ma ormai non ho scelta, perché il mio sangue è cambiato.» «Taci, Ashalind!» l'avvertì Meganwy. Il Pifferaio rise. «Non ci offende sentire una fanciulla che dichiara d'amare la sua terra.» La dama, Rithindel, si chinò ad accarezzare le orecchie della volpe, la quale si stava innervosendo. Si voltò a guardare i boschi, ancora avvolti nella nebbia: l'oriente si stava schiarendo e una fredda luce azzurra si spandeva già nel cielo. «Il gallo sta per cantare. Dobbiamo andare», sospirò. «Il mattino del Giorno di Mezzinverno», disse Easgathair ad Ashalind, «radunate tutti quelli che vogliono vivere nel Reame per sempre. Incamminatevi sulla strada che dalla città conduce a ovest e, quando sarete giunti all'incrocio, prendete la Strada Verde.» «Non conosco nessuna Strada Verde», rispose Pryderi. «Quel giorno chi la cerca la troverà. Seguitela sino alla terra dei vostri sogni... Per il momento, tornate alle vostre case. Addio.» Ashalind e i suoi compagni si accomiatarono. Mentre uscivano dal cerchio di megaliti si voltarono per un ultimo sguardo ma il luogo era deserto:
un senso di desolazione e di abbandono li invase, come se l'ultima luce se ne fosse andata dal mondo. Rabbrividirono al tocco di qualcosa più penetrante del freddo che sfiorava le loro ossa. In lontananza un gallo cantò e il sole fece capolino dall'orizzonte, tramutando in gioielli le gocce di brina congelata sulle pietre e sull'erba. Fu così che ebbe inizio l'Abbandono di Hythe Mellyn, l'esodo la cui causa non fu guerra, pestilenza o carestia. Il motivo di quella migrazione era stato invece il langothe... quell'anelito a un luogo che rutti i mortali vorrebbero trovare - ciascuno a suo modo e che ne siano consapevoli o meno entro i confini del mondo conosciuto oppure oltre. In tutta Erith, nelle settimane che precedettero la chiusura delle Porte ci fu un mescolarsi senza precedenti di faêran, mortali e wight. Le famiglie talith che avevano deciso di partire misero ordine nei loro affari e impacchettarono gli oggetti che volevano portare con sé e, via via che il giorno fatidico si avvicinava, i loro amici e parenti - incapaci di sopportare l'idea di non vederli mai più - si unirono a essi in numero sempre maggiore. Così accadde che il mattino del Giorno di Mezzinverno un'immensa processione lasciò la città dorata dalla porta occidentale e si avviò lungo la strada mentre le ombre erano ancora lunghe sul terreno polveroso. Di tutta la popolazione non rimasero che poche famiglie. Pieni fino all'orlo di masserizie, ceste e fagotti, i carri (trainati da cavalli o a mano) avanzavano in una fila rumorosa. I cani correvano accanto ai veicoli o viaggiavano a bordo coi bambini. Alcuni degli emigranti erano in sella, altri a piedi. Dopo un poco, tutti cominciarono a cantare: le voci si alzarono chiare nell'aria mattutina e la canzone che intonarono parlava del loro amore per quei verdi colli, per le pianure scaldate dal sole e per i rossi alberi della patria che si stavano lasciando alle spalle. «Addio, dolce Erith!» gridavano in molti. «Addio, cara terra che ci desti i natali. Mai più cammineremo sui tuoi sentieri, né ci allieteremo lo sguardo coi tuoi campi e il tuo mare!» Sorridevano nel dirlo, con gli occhi pieni di lacrime, senza sapere se in loro vi fosse gioia o tristezza. In quel viaggio la sofferenza e la gioia sembravano una sola cosa. La città sul fianco della collina era rimasta quasi deserta: le finestre si spalancavano silenziose sui cortili e sulle strade ma l'ambrata pietra di mellil splendeva al sole come sempre. All'incrocio della vecchia segheria - da cui, solitamente, la strada si al-
lontanava in quattro direzioni - adesso ce n'era una quinta: un'ampia Strada Verde liscia e dritta, senza segni di ruote, che spariva tra le colline. Bordata di felci, non era pavimentata in terra battuta ma in morbida erba. Gli emigranti la imboccarono e la gente rimasta alle porte della città (con la famiglia reale e i cortigiani) li vide rimpicciolire in distanza mentre la brezza portava ancora un'eco dei loro canti. Chi li osservava strinse le palpebre finché non riuscì più a scorgere nessuno ma, più tardi, alcuni dissero di aver visto una luce chiara sull'orizzonte, come una soglia che la processione aveva attraversato prima di sparire. Il Re spostò la Corte da Hythe Mellyn a Filori, nella regione chiamata Ysteris dei Fiori. La capitale inaridì come un fiume in secca poiché, con l'Abbandono di Hythe Mellyn, lo spirito della gente aveva perso ogni spinta verso il futuro... Col passare degli anni le nascite diminuirono e la popolazione si ridusse, finché gli ultimi membri della famiglia reale morirono senza eredi e la società dei talith uscì dalla storia per entrare nella leggenda. Nessun feorh, ertish o Uomo dei Ghiacci giunse dal meridione in Avlantia per colonizzare il regno abbandonato dei talith o, se vennero, non si trattennero molto; le città restarono così a sgretolarsi nel silenzio sognando il loro passato splendore, visitate soltanto dai leoni fulvi e dalle lucertoledrago che si scaldavano al sole. In seguito si sparse la voce che le città di Avlantia erano state svuotate da una pestilenza, da una carestia o da un gramarye unseelie e la vera ragione fu dimenticata. Ashalind, seduta di traverso sulla sella della sua puledra nera, Satin - un dono dei concittadini - indugiava alle spalle dei più lenti tra quanti stavano viaggiando sulla Strada Verde, nonostante i richiami dei suoi conoscenti. Solo Rufus le trotterellava accanto, sempre teso e attento agli innumerevoli odori che il naso di un cane poteva percepire. Più avanti, Rhys cavalcava col padre in groppa al grosso castrato marrone mentre Peri li seguiva legato a una cavezza, carico di fagotti. Leodogran si era rinfrancato nel vedere quanto energico e vivace diventasse il figlioletto man mano che avanzavano su quella strada e come il colore gli tornasse sulle guance. L'agile stallone di Pryderi era impaziente di accelerare l'andatura e il cavaliere, ogni tanto, doveva tirare le briglie per frenarlo. «Non restare indietro, Ashalind!» le gridò allegramente il giovanotto, voltandosi. «Hai fatto la tua scelta, come tutti noi. Rallentare e ruminarci sopra non fa che peggiorare il rimpianto, perciò guarda avanti... pensa a come saremo felici quando arriveremo!»
La figlia di Leodogran non diede segno d'averlo udito; in quel momento non voleva ascoltare nessuno. Tirò le redini di Satin e si voltò verso la costa, per seguire con lo sguardo il volo di un uccello bianco. «Mi sento lacerata, divisa tra la terra cui appartengo e il Reame che si è insinuato nel mio sangue», disse a se stessa, girandosi a osservare la città abbandonata sulla collina. La sua famiglia e i suoi amici, però, stavano avanzando di buona lena, così rilassò le redini e proseguì. Il cappuccio le cadde indietro scoprendo la testa bionda e il suo mantello da viaggio si aprì come un fiore: sotto di esso portava un abito a gonna di lana gialla e turchina e un'aderente blusa di broccato e intorno al collo si era avvolta una sciarpa di percalle bianca. Un po' nostalgicamente, si era intrecciata alcuni braccialetti di foglie di eringi sotto i quali, al polso sinistro, brillava quello d'oro regalatole dal padre. Mentre gli emigranti avanzavano, la strada cominciò a cambiare in modo impercettibile. Pian piano i bordi si alzarono (come argini terrosi) e su di essi apparvero siepi che si fecero sempre più alte. Tra l'erba facevano capolino molti fiori che non erano tipici di Erith. Ben presto gli ultimi eringi che si vedevano ai lati della strada lasciarono il posto a una foresta d'alberi verdi, molti dei quali carichi di frutti e fiori. Rufus corse avanti a raggiungere gli altri cani, che annusavano tra le piante e i sassi. Quando la fanciulla si volse di nuovo a guardare la città, non la vide più: Hythe Mellyn, gli alberi dal fogliame bronzeo e rossastro, le colline... tutto era scomparso. Il territorio che si stendeva sino all'orizzonte alle spalle dei viaggiatori era attraente quanto sconosciuto. Il terribile anelito del langothe cadde come un mantello dalle spalle dei mortali e una sorta di delirio li riempì di energia e voglia di vivere, tanto che corsero avanti come se nulla potesse far loro del male. Erano euforici, non meno che se fossero diventati giganti invulnerabili e avanzassero a grandi passi sulla vetta del mondo, decisi a raggiungere le montagne stagliate sull'orizzonte per arrampicarsi su di esse, scavalcarle e lasciarsele dietro. Adesso che era entrata nel Reame Fatato con tutte le persone a lei care e che il langothe si era placato, ad Ashalind parve che non ci fosse niente di cui avrebbe sentito la mancanza: era circondata dalla felicità - l'aveva a portata di mano - e appena avesse assaggiato un sorso d'acqua o boccone di cibo faêran ne sarebbe stata posseduta completamente. Soltanto il ricordo del langothe restava, la consapevolezza sempre più vaga che esso era
esistito... ma in lei stagnavano ancora i ricordi di Erith, in attesa di essere spazzati via nel momento in cui si sarebbe nutrita di un pezzo di quella nuova terra. Questo era ciò che avrebbe dovuto fare per trovare la pace che nasce dall'assenza di ogni desiderio. Ricordi troppo preziosi? In seguito Ashalind non avrebbe mai ricordato con chiarezza quelle prime ore in Faêrie, quando il tempo continuava a scorrere in sincronia col tempo di Erith. Lei e la sua gente erano giunti in una terra meravigliosa dove gli alberi erano più alti, il fogliame più fitto, le valli più profonde, le montagne più imponenti e le ombre più misteriose, eccitanti e minacciose. Tutti i colori erano più intensi e brillanti e anche più morbidi e in maggiore quantità. In ogni cosa c'era una promessa di eccitazione che stimolava la psiche. Viali d'alberi torreggianti, dritti come fusi, guidavano verso lontani castelli di marmo e di diamante, soffusi dalla luce rosata di un sole alieno. Ruscelli esuberanti scorrevano attraverso i prati e sulle pendici inferiori delle colline pascolavano i cervi, avidi di quell'erba grassa punteggiata di fiori. I frutteti erano ricchi di arance, mele, ciliege, pere, susine e pesche succose. Nei boschi gli uccelli trillavano melodie così affascinanti da colpire il cuore. Mentre i talith si addentravano nel Reame, la luce rosea del cielo impallidì nel tiepido indaco della sera e, d'un tratto, gli umani videro uno spettacolo che rallegrò il cuore di chi aveva appetito: si accorsero infatti che in un vasto prato era stato approntato un lauto rinfresco, alla luce delle stelle e di file di lampioncini colorati. Sui tavoli c'erano torte e budini, paste ripiene di frutta candita e pasticcini allo zafferano, pane bianco appena sfornato, burro morbido e giallo, fragole, limonate e bottiglie di cristallo piene di vino rosso, il tutto in attesa degli ospiti. I bambini che avevano mangiato cibo faêran ed erano rimasti nel Reame si trovavano lì e corsero subito ad abbracciare i rispettivi genitori; la gioia delle famiglie così riunite fu grande. Le bestie da soma, lasciate libere, si precipitarono ad abbeverarsi a un ruscello. I carri carichi di masserizie furono abbandonati sulla strada e dimenticati, perché il loro contenuto non sembrava più necessario. Rallegrati dalla musica dei flauti e delle cetre che molti di loro avevano estratto, i biondi emigranti di Hythe Mellyn mangiarono e ballarono nella dolce aria della sera: tutte le preoccupazioni erano state lasciate sul bordo
fiorito della strada, insieme con il resto dei loro averi. Trascinata dall'estasi del momento, Ashalind scese da cavallo e si tolse il mantello da viaggio per raggiungerli ma, all'improvviso, si fermò. C'era qualcuno che stava osservando i mortali: tra gli alberi si muovevano le figure eleganti di numerosi faêran. Quando la giovane donna li vide trattenne il fiato, poi un colpetto di tosse la fece voltare di scatto. Accanto a lei, l'avvenente Cierndanel disse: «Tu sei privilegiata, lady di Erith, poiché la più nobile e stimata dama del Reame mi ha mandato a chiamarti. Vieni». E le rivolse un sorriso. Ad Ashalind parve di spostarsi con lui... o forse quello spostamento fu solo un'illusione creata con mezzi a lei ignoti perché, subito dopo, si trovò in un altro luogo al cospetto di una dama faêran, dal cui atteggiamento Ashalind suppose che fosse una specie di Regina, lì nel Reame. Nella sua mente sgorgarono alcune informazioni sul conto di lei, come se la faêran si fosse presentata: il suo nome era Nimriel del Lago e, in effetti, la serenità di Nimriel poteva essere paragonata solo a quella di un lago in un'alba invernale. Anche il senso di mistero che si avvertiva in lei emanava quella stessa immagine: una distesa priva di riflessi e sfiorata da veli di nebbia, dove creature di leggenda andavano ad abbeverarsi creando anelli d'onde che si espandevano tra immobili canneti. La sua bellezza era quella dei cigni che scivolano sui loro candidi riflessi al chiar di luna; era la signora di tutta la saggezza dei luoghi profondi, delle valli inondate, delle lagune in cui si specchiavano le stelle e dei laghetti montani, tra le cui ombre i salmoni scivolavano lenti come fantasmi. Ashalind si trovò a fissare due pozze scure e luminose. Tra i mortali si diceva che, alzando lo sguardo dalla profondità di un pozzo, si sarebbero potute vedere le stelle anche a mezzogiorno e in una giornata di sole... Incontrare lo sguardo della Dama del Lago faceva lo stesso effetto. Mentre Ashalind s'inchinava una giovane donna dai lunghi capelli neri, elegante come un'orchidea, si fece avanti. Era Rithindel, la quale le offrì una coppa con due manici. «Benvenuta tra noi, Ashalind na Pendran! La mia signora Nimriel t'invita a bere.» Ashalind alzò le mani per prendere la coppa ma le rosse foglie di eringi intorno ai suoi polsi frusciarono contro di essa.
La fanciulla esitò, poi si fece indietro, scuotendo il capo. «La Dama Nimriel è generosa ma io ho promesso a me stessa che non mangerò e non berrò prima che l'ultima Porta sia sigillata e i legami tra i nostri mondi siano tagliati per sempre.» In un mare interno il tempo può cambiare bruscamente: la nebbia può infittirsi senza preavviso e il vento sbucare dal nulla, sollevando bianche creste di spuma. La Dama Nimriel parlò con voce pericolosamente bassa: «Molti hanno imparato a temermi, Ashalind na Pendran». «Dovrei essere tra loro, dama?» «Hai rifiutato la mia coppa e io non prendo alla leggera un rifiuto della mia ospitalità. Comunque, poiché hai parlato col cuore, non hai motivo di temermi.» Ashalind la ringraziò con un inchino. «Io sono solita offrire doni ai nuovi arrivati. Se non vuoi prendere cibo e bevande, forse accetterai un'altra cosa... Nei tuoi viaggi potresti aver bisogno d'ingannare la luna.» La Dama del Lago si piegò in avanti e, con la punta delle dita, sfiorò la sottile cintura di Ashalind. «Voi parlate di viaggi, dama. Io, però, credevo che i miei fossero finiti», esclamò la fanciulla. «Il tuo viaggio è soltanto all'inizio, figlia di Erith; questo è ciò che vedo, benché ne ignori le ragioni. Non hai molto bisogno di doni, poiché possiedi già ciò che ti serve... A ogni buon conto, ora hai il mio.» Confusa e senza sapere cosa dire, lei mormorò un ringraziamento, anche se non aveva ben capito cosa la dama le avesse dato. Le due polle di luce la osservarono con gravità, come da grande distanza. «Sappi questo, figlia di Erith: in questi giorni i faêran sono in lotta e in tumulto e, da ogni angolo del Reame, i nostri occhi sono volti verso la tua terra. L'ora della Chiusura si avvicina ma non tutto è come deve essere... Parte del piano sta andando male. Ora vai da Easgathair e, dalle finestre della Torre di Guardia, vedrai ciò che gli occhi di quanti abitano qui possono vedere senza aiuto. Addio.» Cierndanel condusse Ashalind alla Torre di Guardia, di nuovo trasferendola a destinazione con qualche metodo esoterico e indescrivibile. La luce del sole, come filtrata da un vetro color geranio, arrossava un edificio di pietra: era una Torre scolpita con certosina pignoleria, i cui aerei contrafforti esterni sostenevano spirali di scale da capogiro. Un'edera dalle larghe foghe si arrampicava sulle torrette, sui rosoni, sulle cariatidi e sui pinnacoli.
Dentro la Torre, altre scale salivano sino a una camera dove si trovava il Guardiano, in compagnia di numerosi faêran tra i quali c'erano anche Leodogran e Rhys. Otto finestre, alte dal pavimento al soffitto, si aprivano in tutte le direzioni ma le loro lastre di cristallo non impedivano agli uccelli di volare dentro e fuori. Ogni tanto le finestre si rannuvolavano, come specchi annebbiati da un respiro; quando tornavano a schiarirsi, all'esterno apparivano panorami diversi. Tra una finestra e l'altra si levavano snelle colonne d'oro intorno alle quali si attorcigliava l'edera e altre di porfido, giada e smeraldo. Anche il soffitto dorato era coperto di edera e ne pendevano frutti e fiori ricavati da pietre preziose. Al centro della stanza stava un parallelepipedo coperto di velluto ricamato sul quale era deposto un grosso scrigno verde dal coperchio convesso, che era chiuso. Easgathair diede il benvenuto ad Ashalind con espressione fosca. «Avrei preferito accoglierti qui in un giorno più felice.» I suoi capelli glaciali e il voluminoso abito bianco si sollevarono quando girò su se stesso a guardare dalla Finestra Nordovest, poi ricaddero di nuovo intorno alla sua figura. «Anch'io, mio signore», rispose Ashalind. Suo padre rispose allegramente: «Signore, non potrebbe esserci ora più felice!» Rhys, ridendo, rincorreva gli uccelli qua e là per la camera. «Queste finestre possono mostrare tutte le Vie in risposta a un mio comando», spiegò il Guardiano. «Come potete vedere, la Finestra Sud è aperta sulla Porta di Carnconnor, che voi chiamate Colle di Hob.» Un pensiero curioso colpì Ashalind. «Può mostrare anche il passaggio che divide la Porta esterna da quella interna? E quel passaggio si trova in Erith o in Faêrie?» Distratto da altri pensieri, Easgathair si voltò a mezzo. «Scusatemi, ora devo tornare alla Finestra Nordovest.» «Permetti che sia io a risponderti.» Cierndanel, che sembrava essere dappertutto contemporaneamente, prese il posto del Guardiano. «Ogni Via comprende due Porte - una interna e una esterna - con un breve passaggio intermedio. Il tempo scorre a velocità diverse in Erith e nel Reame e il passaggio ha la funzione di aggiustarne il flusso quando qualcuno si sposta da un tempo all'altro... In pratica, funziona come la chiusa di un canale.» «Supponiamo che qualcuno resti intrappolato al suo interno», ipotizzò la fanciulla, pensando agli ingressi del palazzo di Hythe Mellyn coi barbacani fortificati e le feritoie nel soffitto per colpire eventuali invasori.
«C'è un sistema di sicurezza per prevenire simili incidenti. Quando sono sigillate, le due porte alle estremità opposte possono ancora aprirsi ma solo verso l'esterno, per consentire a una persona intrappolata di uscire.» «Come trappole per le anguille al contrario», intervenne Rhys, che stava ascoltando poiché, riconoscendo il Pifferaio, aveva lasciato perdere i suoi tentativi di acchiappare gli uccelli. «Proprio così, perspicace bambino. D'ora in poi, però, questi metodi non saranno più in uso: ogni Chiave è già stata girata nella serratura e tutte le Chiavi, grandi e piccole, sono sotto la custodia di Easgathair Gufo Bianco... dalla Chiave di smeraldo di Geata Duiach - la cosiddetta Porta delle Foglie, con le sue complicate protezioni - alla Chiave di cristallo argentato della Porta della Luna; dalla Chiave di giada e madreperla di Geata Guari alla grande chiave di basalto di Geata Ard. Indistruttibili ma intoccabili, esse si trovano ora nello Scrigno Verde sigillato dalla parola-chiave del Fithiach.» Indicò il contenitore sulla colonnetta. «Ogni meccanismo delle Porte è stato regolato per scattare al momento stabilito, perciò non resta che attendere l'ineluttabile ora della Chiusura. Ascolta! Hai sentito? I venti di gramarye si svegliano a questo oltraggio e soffiano dal Cerchio delle Tempeste ai confini di Erith... Presto potrebbero minacciare le regioni del tuo mondo, tinti dei colori dell'umana fantasia.» Il sorrisetto che solitamente gli piegava le labbra era scomparso e sul suo volto attraente c'era un'ombra. «Qualcosa, però, sta andando storto. Vedi come i miei concittadini si sono riuniti alla Finestra Nordovest con Gufo Bianco? Stanno tenendo d'occhio la Porta che noi chiamiamo Geata Poeg na Déanainn in attesa del ritorno del Supremo Re e del Principe Morragan, che ancora cavalcano nelle terre di Erith. I fratelli reali osano tardare benché la Chiusura sia vicina... La prima Chiamata sta per suonare!» «Perché indugiano tanto?» domandò Ashalind, protendendosi per guardare meglio fuori dalla Finestra Nordovest. «Il Fithiach e i suoi seguaci stavano tornando da un'ultima rade in Erith... una caccia col falco, a quanto mi hanno detto. Il Re e i suoi cavalieri sono usciti per fermarli e ora bloccano loro la strada.» Lo scenario su cui si apriva la Finestra Nordovest si rivelò all'improvviso con sorprendente nitidezza e un mormorio corse tra quanti erano riuniti nella Torre di Guardia. Oltre la Finestra, il cielo di Erith era grigio di nuvole in tempesta trascinate a gran velocità da un forte vento. Sotto di esse infuriavano lampi e tuoni.
Due gruppi di cavalieri si stavano fronteggiando: il Principe Morragan, il cui volto duro era ben riconoscibile nella cornice dei lunghi capelli corvini, era avvolto in uno svolazzante mantello nero; dietro di lui c'era un centinaio di faêran - immobili in sella ai loro eleganti destrieri - che fissavano con espressione cupa i cavalieri del Re, schierati tra loro e la Porta chiamata Geata Poeg na Déanainn. Gli incantesimi della Torre di Guardia consentivano di udire con chiarezza la voce del Re faêran: «Fratello, rinuncia a ciò che hai chiesto al Guardiano delle Porte! Vuoi costringermi a impedirvi il passaggio prima che la Porta sia chiusa, esiliandovi così per sempre dal Reame?» I seguaci del Principe della Corona fecero udire esclamazioni di disappunto ma lui non si mostrò affatto preoccupato. «Mi prendi per uno sciocco? Il tuo è soltanto un bluff», rispose con calma. «No», replicò il Re. «Non stiamo giocando.» Per un istante gli occhi del Principe fiammeggiarono di rabbia ma poi egli sorrise e alzò una mano, indirizzando un segnale ai suoi cavalieri. Questi si divisero in due gruppi e partirono al galoppo, uno a destra e l'altro a sinistra; subito i seguaci del Re si precipitarono a bloccarli ma alcuni riuscirono a sfondare e furono inseguiti con foga, finché vennero raggiunti e gettati giù da cavallo. Le armi di metallo faêran mandavano saette di luce colorata sotto i lampi sanguigni del cielo infuriato. I Cavalieri del Fithiach lottavano con energia disperata per aggirare i loro aggressori e raggiungere il portale fa i mondi, la Geata Poeg na Déanainn. Tra i due schieramenti, il Supremo Re e suo fratello si battevano con altrettanta decisione. Il vento ululava, spingendo davanti a sé la tempesta. All'improvviso, mentre la mischia infuriava caotica, il suono morbido e puro di un corno riecheggiò da un orizzonte all'altro di entrambi i mondi. Mortali, faêran e wight si fermarono, alzando lo sguardo. «Questa è la Prima Chiamata a Faêrie», esclamò Easgathair Gufo Bianco. «L'ora si avvicina. Affrettatevi a rientrare in patria!» Alcuni dei faêran presenti si guardarono in faccia, costernati. «Devono fare presto! Quello che stanno rischiando è un destino troppo odioso!» Cierndanel si rivolse ad Ashalind: «Là scissione di Aia porterà grandi cambiamenti in Erith, molti dei quali imprevedibili. Le Porte stesse ne verranno distorte o finiranno dislocate in chissà quali altri luoghi... Nell'istante della Chiusura, il tempo - già non sincronizzato - comincerà a scorrere a caso. Il Re e il Principe stanno rischiando di sbagliare il momento del loro
rientro!» «Ah», sospirò Ashalind, che stava pensando ad altro. «Quanto desidero tornare nella mia patria! Non sopporto il pensiero di non vederla più... tuttavia se vi tornassi sarei costretta ad andarmene subito, altrimenti l'incurabile langothe mi ucciderebbe.» «Non necessariamente», la informò Cierndanel, distogliendo lo sguardo dalla Finestra e prendendola completamente alla sprovvista. «Esiste una cura per il langothe.» Gli occhi del serpentello avvolto intorno al suo collo scintillavano come rubini, freddamente ostili ai mortali. «Una cura! Easgathair non ce ne ha mai parlato!» Ashalind si voltò di scatto. «Voi non mi avete chiesto una cura, milady, bensì di entrare nel Reame. Questo vi è stato concesso.» «Una cura!» Schiacciata da quell'inattesa rivelazione, Ashalind rise debolmente, troppo stordita per indignarsi per come i faêran avessero interpretato alla lettera la richiesta degli umani. «Dove si trova questa cura? Come posso averla?» «Forse i mortali non sono al corrente del fatto che il Supremo Re del Reame ha il potere di togliere il langothe. Lui è l'unico che può farlo... Non ha che da pronunciare le parole: 'Dimentica il desiderio e le delizie della terra oltre le stelle'.» «Allora devo andare da lui, prima che sia troppo tardi! Ahimè, vorrei averlo saputo prima! Questo avrebbe dovuto essere riportato nei libri della sapienza!» esclamò appassionatamente. «Ormai è troppo tardi. Non c'è più tempo... La Chiusura è imminente!» le fece notare Cierndanel. «Inoltre, il Re non concede alla leggera questa cura portentosa.» Fuori dalla Finestra Nordovest, un cavaliere dai capelli rossi gridò al Supremo Re: «Tornate indietro, Sire! Tornate subito in patria!» I seguaci del Re si riunirono e obbedirono a quell'intimazione ma, mentre cavalcavano verso la Geata Poeg na Déanainn, i cavalieri di Morragan il Fithiach li seguirono dappresso e il Re, accortosene, ordinò ai suoi di attaccarli e ricacciarli indietro. Il cielo sopra le loro teste era un inferno di fulmini e nuvole in tempesta: i lampi che esplodevano nello spazio di un battito di cuore erano centinaia, sicché il cielo appariva saturo di un insostenibile bagliore bianco-azzurro. Un pino prese fuoco come una torcia. «Rinuncia alla tua pretesa!» ruggì il Supremo Re al fratello, con voce così forte che si udì al di sopra dell'infuriare degli elementi. L'altro gli ri-
spose con una risata sprezzante. «Il Fithiach sa che il Re, nella sua disperazione, sta cercando d'ingannarlo», mormorò Cierndanel, con un sospiro. «Anch'io credo che quello del nostro sovrano sia un bluff, perché lui non esilierebbe mai suo fratello; non è così spietato. Mi chiedo, piuttosto, cosa sia questa follia che ottenebra la loro mente... Il tempo stringe e dovrebbero avere assai più fretta di oltrepassare la Porta!» Da oltre la Finestra provenivano grida furibonde, clangore di armi e nitriti di cavalli faêran. Le due fazioni si stavano affrontando alla pari: combattevano con gran valore, non già per ferire o uccidere bensì per impedire agli avversari di avvicinarsi alla Porta. La battaglia era una danza di forza e abilità, come la lotta di due cervi in una radura nella foresta o di due temporali che si scontrassero nel cielo. Probabilmente era la rabbia dei faêran a disturbare le condizioni meteorologiche di Erith. Infine la Chiamata risuonò per la seconda volta: due note di corno nitide e profonde, i cui echi vibrarono a lungo nell'aria. «Andiamocene... la Chiusura incombe su di noi!» gridarono i faêran. Di nuovo i cavalieri del Re si diressero al galoppo verso la Porta ma, come la volta precedente, non passò molto prima che fossero costretti a voltarsi per ricacciare indietro i seguaci del Principe, i quali non avevano intenzione di essere abbandonati lì dagli avversari. «Lasciate da parte ogni divergenza e rientrate!» gridò Easgathair. Quelli che lo circondavano si fecero da parte e lui si avvicinò alla finestra a lunghi passi, coi lunghi capelli bianchi che fluttuavano leggeri. Sembrava più alto e fiero, come un gufo cacciatore. «Quella gente là fuori può sentirci?» domandò Rhys, accanto a sua sorella. «Potrebbe, se volesse», rispose Cierndanel. «Poche cose sono oltre le capacità di esseri così potenti. Però io credo che, nell'emozione del momento, abbia occhi solo per la loro lotta.» «Dobbiamo prendere una decisione!» dissero alcuni dei faêran presenti. «Se il Re Supremo Angavar non farà in tempo a rientrare, è nostro dovere condividere l'esilio con lui.» In un batter d'occhio, costoro scomparvero. Altri dissero che il solo pensiero che i fratelli reali e i loro cavalieri non tornassero più nel Reame era inconcepibile e anch'essi lasciarono la Torre di Guardia. Ben presto una vera folla di faêran - ai quali si erano uniti wight, uccelli e altri animali - si precipitò fuori dalla Geata Poeg na Déa-
nainn per aiutare il Re a tornare in patria... benché non fosse molto probabile che sarebbero riusciti a raggiungere il sovrano prima della Chiusura, dato che le due fazioni in lotta si trovavano a più di un miglio dalla Porta. Ashalind taceva ma era sempre più tormentata da desideri contrastanti. Girò ancora lo sguardo sui cavalieri che si battevano nel territorio oltre la Finestra, colpita dal furore di quella mischia nella quale non veniva versata una sola goccia di sangue. D'un tratto le si mozzò il respiro e fu come se il suo spirito fuggisse da lei per involarsi nel cielo di Erith. «Padre, perdonami!» fu costretta a dire. «Devo tornare laggiù.» Leodogran la guardò, sconvolto. «Perché?» «È solo che...» Lei si sforzò di trovare le parole. «Il mio futuro è in Erith, lo sento. Se il Supremo Re non rientrerà in tempo, gli chiederò di curare il mio langothe. Lui ha il potere di farlo.» «Mia Elindor, mia cara... vuoi separarti da noi per sempre?» «No, non lo voglio... eppure dovrà essere così, perché ho capito dove vuole stare il mio cuore. Mi sento come se fosse già uscito dal mio corpo per tornare là.» L'uomo aveva il volto contratto dall'angoscia. «Perché mai, proprio nel momento del tuo trionfo, hai deciso di lasciare le persone che ami e per cui hai lottato tanto? Quale strana perversione ti ha colpita?» «Padre...» Ashalind indietreggiò, come se i piedi volessero portarla via da lui. «Non voglio ferirti, però tu devi capire che viene sempre il giorno in cui l'uccello deve volare via dal nido, altrimenti non volerà più. Perdonami e sii felice insieme con gli altri che amo... e forse, in questa terra così bella, finirete per dimenticarmi. Ho fatto il mio dovere ma ora la mia strada mi porta altrove. Inoltre, cosa più importante...» «Te lo proibisco!» Padre e figlia si fronteggiarono. Erano le due sole figure immobili tra quanti stavano andando avanti e indietro per la stanza. «Non ho già fatto abbastanza?» supplicò Ashalind. Le mie orecchie temono lo squillo dell'ultima Chiamata. Speriamo che non sia subito! Leodogran chinò lentamente il capo e, dopo un poco, si staccò dalla cintura una borsa, un pugnale dal manico di corno e una daga e consegnò tali oggetti alla figlia. I suoi gesti erano rigidi, la voce rauca per la sofferenza. «Questi coltelli e quest'oro, che io ingenuamente pensavo mi sarebbero stati utili, serviranno di più a te... perciò prendili, insieme con la mia benedizione: potranno farti comodo là dove andrai, anche se spero che tu non ne abbia mai bisogno. Sono convinto che dietro questa tua decisione debba
esserci più di ciò che mi hai detto ma ancora non ti capisco!» L'uomo le diede un bacio, poi si voltò. «Padre, quando Rhys tornò da Faêrie io giurai che non avrei pianto mai più, fuorché per la gioia. Ora non piango... ma porterò sempre con me la tua benedizione.» Si chinò ad abbracciare Rhys, mormorandogli poche parole di conforto. Rufus era in qualche modo riuscito a entrare nella Torre e lei gli accarezzò la testa. Si sentiva triste ed eccitata allo stesso tempo ma la sua voce suonò decisa, energica. «Dite a Pryderi, Meganwy e Oswyn che saranno sempre nel mio cuore e a Satin che ora è libera... sussurratele all'orecchio le stesse parole. Cierndanel! Se il Re Supremo non rientrerà in tempo io tornerò a Erith attraverso la Geata Poeg na Déanainn.» Il Pifferaio faêran la guardò meravigliato ma con l'aria di comprenderla. All'inferno questi indugi! pensò Ashalind, in un'agonia d'impazienza. L'araldo faêran si è già portato il corno alle labbra. «Ma il Re tornerà... Deve tornare!» esclamò il Pifferaio. «Lo Iolaire è l'anima stessa del Reame Fatato e senza di lui ogni cosa, qui, avrebbe assai meno valore. Quelli che lo accompagnano sono il fiore della nostra razza e, se non raggiungessero la Porta in tempo, sarebbero esiliati sino alla fine del tempo... Ma tu, gentile damigella, non puoi andare. Non hai forse mangiato il nostro cibo e bevuto il nostro vino?» «No, non l'ho fatto.» Il volto di lui s'irrigidì e nei suoi occhi brillò una scintilla di rabbia. «Resta!» le ordinò. «Se ami la vita, Cierndanel - tu che hai segnato, nel bene e nel male, la vita della mia gente - adesso aiutami!» Lui esitò, soppesando quelle parole, poi sorrise. «Va bene. Puoi seguirmi sino alla Porta, se proprio vuoi... ma non crédo che la oltrepasserai.» Mentre il Pifferaio la prendeva per mano, Ashalind vide apparire Pryderi tra la folla. Annaspando con la disperazione di un nuotatore che stesse per affogare, il giovane si faceva largo verso di lei coi denti stretti e lo sguardo fisso, ansimando per il desiderio di raggiungerla... ma in un batter d'occhio scomparve e, insieme a lui, la Torre di Guardia e tutti quelli che vi si trovavano. Cierndanel la condusse lungo un viale delimitato da alberi in fiore, i cui rami s'intrecciavano sopra di loro. All'estremità di quel tunnel, un'arcata sorretta da colonne di pietra incorniciava uno scenario assai diverso: la tempesta che infuriava nel cielo di Erith, il caos della mischia in cui erano
impegnati i cavalieri faêran e (più lontano) un panorama di montagne le cui cime sparivano tra le nubi. Alla superficie granulosa della Porta di Erith aderivano cristalli di ghiaccio ma il profumo della vegetazione del Reame Fatato riempiva ancora l'aria. Ashalind e Cierndanel non erano soli: molte decine di faêran e di wight stavano uscendo a passi svelti dalla Porta senza prestar loro attenzione, diretti verso Erith. «Come sai, ogni Via ha due Porte collegate da un breve passaggio», spiegò concitatamente Cierndanel. «Davanti a te c'è la Geata Poeg na Déanainn, che nella lingua di Erith significa 'Porta del Bacio dell'Oblio'. Bada che questo nome ha un motivo!» aggiunse. «Nel corso dei secoli, molti visitatori mortali hanno lasciato il Reame attraverso questa Via e tutti hanno avuto lo stesso avvertimento. La Porta del Bacio dell'Oblio impone una condizione a tutti coloro che la usano e cioè che - una volta passata in Erith - se sarai baciata da qualcuno nato là perderai la memoria di tutto ciò che è accaduto prima. Il bacio di un erithbunden ti porterà l'oblio... perciò stai attenta, perché nessuno può dire quando e se il bitterbynde di questo patto si scioglierà e se la memoria ti tornerà oppure no. Io penso di no.» Lei annuì, scossa da un tremito. «Andrò comunque avanti.» «Inoltre», insistette lui, «La Geata Poeg na Déanainn è una Porta Mobile, cioè non ha un'uscita fissa su Erith. Una volta aperta si comporta come le altre e resta in quella località; quando è chiusa, però, si sposta a caso come una farfalla che vaghi di fiore in fiore e nessuno è in grado di prevederne la posizione successiva. Di solito si apre nel settentrione della terra di Eldaraigne, nella regione chiamata Arcdur... È una zona da sempre disabitata dalla tua gente ma forse, in futuro, non sarà più così. Ora che sai quali sono le condizioni, desideri ancora passare attraverso questo pericoloso portale?» «Sì.» Inaspettatamente, il Pifferaio faêran drappeggiò sulle spalle di Ashalind un lungo mantello verde foglia, munito di cappuccio. Quando si chinò a parlarle all'orecchio, lei sentì che il suo alito profumava di rose. «Non aver paura, coraggiosa figlia di Erith! Le Porte sono molto pericolose per chi infrange le loro regole ma se le rispetterai non ti sarà torto un capello.» Ashalind volse le spalle alla strana bellezza e ai misteri del Reame Fatato, avida com'era di respirare l'odore dell'humus e dei pini e di sentire il rumore della pioggia e il grido dell'elindor che volava sulle ali del vento.
Le girava la testa e cominciava ad avere una sete insopportabile. La voce di Easgathair sbucò dal nulla nel mondo dei mortali: «Rientrate all'istante, cavalieri, perché il tempo è scaduto e le Porte si stanno chiudendo!» Ashalind guardò attraverso il passaggio: presso la Porta di Erith un paio di cavalieri di ciascuna fazione decisero di averne abbastanza e spronarono i loro cavalli, che si lanciarono al galoppo strappando scintille alle pietre con gli zoccoli. «Dimenticate questa sfida!» tuonò ancora la voce incorporea di Easgathair. «Accantonate il vostro orgoglio e correte verso il Reame!» Ma il Re e il Principe della corona, troppo presi dalla battaglia, ignorarono il suo avvertimento. Fulmini rossi scaturirono dalla mano che il Supremo Re alzò verso il cielo e lo si udì gridare: «Per le Potenze, non cercherò più di ricondurti alla ragione, Principe Corvo! Hai destato la mia ira, pertanto giuro di condannarti all'esilio!» «No!» fu la rauca risposta di Morragan e, per la prima volta, nella sua voce ci fu una nota d'allarme. Protese una mano e dal suo palmo crepitò una zigzagante saetta di energia azzurra ma fu comunque costretto a retrocedere di fronte alla furia del fratello e, mentre i due continuavano a combattere, il terzo avvertimento risuonò drammaticamente sulle cime degli alberi. «È troppo tardi!» tuonò il Guardiano. A quell'annuncio sia il Re che il Principe Corvo fecero voltare i cavalli e fuggirono verso la Porta a tutta velocità, fiancheggiati dai rispettivi seguaci. Nessun ostacolo si parava dinanzi a loro ed essi non parlavano né guardavano a destra e a sinistra, dimentichi di ogni dissidio ora che la minaccia dell'esilio permanente incombeva su di loro. Coloro che li osservavano dalla Finestra Nordovest si sentirono agghiacciare dallo spavento. Uno schianto apocalittico scosse il pavimento della Torre di Guardia, l'orizzonte tremò e veli d'ombra precipitarono dall'alto; si alzarono grida disperate e incitamenti ai cavalieri che arrancavano verso la porta mentre i tuoni scrollavano il cielo e gli alberi come fuscelli. Poi le voci degli spettatori faêran assunsero una nota lamentosa, perché le Vie si stavano chiudendo e i loro amati compagni sarebbero stati esiliati per l'eternità. Un'improvvisa raffica di vento accompagnò il tonfo possente con cui la Porta del Bacio dell'Oblio si chiuse, mozzando il fiato ai mortali. Era tutto finito: i reali faêran e i loro seguaci erano per sempre esclusi dal Reame.
Le finestre della Torre di Guardia andarono in frantumi, tornando a essere semplici aperture da cui si vedeva il prato dove i talith avevano smesso di ballare per guardarsi intorno, raggelati. Con un ultimo sospiro di rimpianto per quella terra di delizie - un sospiro in cui già parlava il langothe che tornava a incatenarle l'anima - Ashalind era scivolata fuori dalla Porta del Bacio dell'Oblio. 10 LA CADUTA
C'è un luogo di cui posso raccontare perché un giorno di vederlo m'è successo, mentre andavo pel bosco in riva al mare dov'è il pozzo ombreggiato dal cipresso. A tal vista non osai dire parola né muover gesto o il fiato far uscire, temendo che il suon della mia voce sola lo facesse ai miei occhi scomparire. È un posto senza tempo e illimitato di misteri, gramarye e incantamenti, dove potrai trovar ciò che hai sognato, strane avventure e cose sorprendenti. Al suo visitator lascia un ricordo di nostalgia impregnato e così acuto che pure l'uom più sensibile ed accorto scorda la terra dalla quale è venuto. Molti non scopriranno mai la strada, altri la cercheran l'intera vita ma se tu la trovassi, allora bada che per sempre avrai l'anima smarrita.
Canzone popolare di Erith Per un tempo incommensurabile ci fu soltanto il caos. Qualcosa svolazzava e ogni tanto le sfiorava la testa nella penombra priva di colori. Ashalind non riusciva a raccapezzarsi: era caduta dalla groppa di Peri o di Satin? Le faceva male la gamba sinistra. Se non fosse guarita, non sarebbe riuscita a seguire il Pifferaio... Oh, quant'era angoscioso non poter rispondere al richiamo della sua musica! Avrebbe dovuto trascinarsi carponi nella polvere... Ma quant'era duro il letto su cui giaceva! E perché nella sua camera c'era tanto silenzio? Poi, all'improvviso, i ricordi affluirono in lei e si alzò a sedere. Si guardò intorno - in cerca della piana sassosa che aveva visto oltre la Finestra Nordovest e dei cavalieri faêran che si erano battuti laggiù - ma nel luogo in cui si trovava non c'era nessuno e quello che aveva sopra la testa non era il cielo di Erith, bensì il soffitto instabile e pericolante di un tunnel piuttosto deformato, chiuso da una Porta a ognuna delle due estremità. Il soffitto presentava grosse crepe e, in un paio di punti, si rigonfiava come un otre pieno d'acqua: il passaggio intermedio tra i due mondi era stato molto danneggiato dalla chiusura dei collegamenti, tuttavia era ancora agibile. Per quanto tempo lo sarebbe stato? La prima metà del tunnel era diversa dalla seconda. Presso la Porta d'argento da cui Ashalind era entrata, le pareti erano tronchi d'albero i cui rami s'intrecciavano a formare il soffitto; in prossimità dell'altra (quella di pietra) i muri perdevano pian piano l'aspetto vegetale e diventavano roccia rozzamente lavorata. Quella, dunque, era una delle Vie tra Erith e l'altra terra. L'uccellino che le girava intorno alla testa tornò a sfiorarla: era un colibrì. Lei ricordava di esserselo visto sfrecciare accanto mentre oltrepassava in fretta la Porta del Reame e ora la piccola creatura si agitava allarmata, cercando una via d'uscita. «Quale porta ti devo aprire?» gli domandò lei. Il volatile, però, volò tra le spaccature del soffitto e si appollaiò lassù, in una nicchia. «Forse dovrei chiederti quale porta conviene aprire a me stessa, perché posso ancora scegliere... Quanto è strano! Posso uscire da qui in ciascuno dei due luoghi ma, una volta fuori, non potrò più tornare indietro.» Sentì di compatire le aragoste penetrate in una nassa: anche per loro c'erano solo ingressi a senso unico.
I grandi signori di Faêrie erano rimasti intrappolati in Erith, dunque... Cos'avrebbero fatto laggiù, nella sua terra natale? Ashalind andò alla Porta di pietra sul lato di Erith e la toccò con un dito. Quella pressione bastò ad aprire i due alti battenti e dinanzi a lei apparve una valle spoglia e rocciosa, chiusa tra alte rupi: Arcdur, un territorio privo di vita e immerso nella notte. Il colibrì la sfiorò, fuggendo nel buio. Una volta all'esterno ebbe paura e cercò di tornare dentro ma una barriera invisibile glielo impedì sicché, dopo un paio di tentativi infruttuosi, il minuscolo volatile si allontanò nelle tenebre lasciando sola Ashalind. La fanciulla allungò una mano in via sperimentale oltre la soglia e la mosse nell'aria del suo mondo ma quasi subito un prurito alle dita la indusse a ritirarla. Questo era interessante, pensò. Sembrava che una persona potesse tornare indietro purché fosse uscita solo in parte mentre se avesse osato uscire del tutto, come l'uccello, il rientro le sarebbe stato precluso da una barriera insormontabile. Allora indietreggiò e, quando vide che la Porta si chiudeva di nuovo, andò a sedersi contro il muro per riflettere, toccandosi le foglie di eringi intrecciate al polso sinistro. La Porta non avrebbe fatto male a una creatura vivente chiudendosi sulla sua carne. Quando le implicazioni di quella scoperta cominciarono a sommarsi, dentro di lei prese forma un piano. Le sembrava quasi di udire - all'altra estremità del passaggio, oltre la Porta d'argento del Reame coi suoi cardini d'oro - i pianti e le grida dei faêran che lamentavano la perdita di una persona cara. Se lei fosse riuscita in qualche modo a tenere aperti i battenti della porta di Erith avrebbe potuto andarsene e viaggiare nella sua terra, salvo poi tornare indietro attraverso entrambe le porte e rientrare nel Reame a suo piacimento. La Porta del Bacio dell'Oblio non avrebbe lasciato passare nessuno, ora che la sua chiave era stata girata nella serratura; tale regola, però, non si applicava a lei, perché l'editto del Principe Morragan diceva: «Io comando che sia sbarrato il passaggio ai faêran, agli eldntch wight seelie e unseelie, alle creature che non parlano e a tutti gli uomini mortali»... e lei non apparteneva a nessuna di quelle categorie! Ashalind rise al pensiero che il Principe Corvo aveva trascurato le donne mortali... trascurato e sottovalutato. Senza dubbio Meganwy avrebbe detto: «Un atteggiamento comune, tra i maschi!» Gli incantesimi devono essere sempre pronunciati con precisione e il
Principe Corvo non era stato abbastanza preciso. Quell'errore accese una luce divertita nello sguardo di Ashalind e le fece tornare in mente una storia udita da bambina (quella dell'uomo che aveva battuto in astuzia un signore unseelie nascondendosi all'interno del muro della propria casa), tanto che pensò: Qui, nel muro dove adesso abito, non sono né dentro il Reame né fuori... è proprio vero che i confini sono luoghi misteriosi e indeterminati! Per giunta, se i battenti potevano essere tenuti aperti e la Porta ingannata affinché consentisse il passaggio nei due sensi all'unica creatura vivente - a parte il colibrì - rimasta chiusa nel confine tra Faêrie ed Erith, lei avrebbe potuto portare messaggi da un luogo all'altro. Cosa sarebbe successo se in Erith lei avesse scoperto la parola-chiave dello Scrigno Verde, rendendo di nuovo accessibili le chiavi di tutte le Porte? In tal caso il Supremo Re avrebbe potuto tornare in patria! L'ambizione del Principe Morragan, la cui oscura bellezza celava un carattere meschino, l'aveva spinto a pretendere una posta eccessiva per quella terza partita a Re-e-Regine e lui ne sarebbe stato ripagato come tutti coloro che osano chiedere troppo alla fortuna. Restava ancora l'incognita della seconda posta, quel «servizio» che Morragan aveva vinto al Guardiano senza però ancora specificare quale avrebbe dovuto essere... ma se lei fosse riuscita a trovare il Supremo Re egli avrebbe saputo rimettere a posto le cose, costringendo il fratello a rivelare la parola-chiave e a rinunciare alla seconda posta in cambio del ritorno nel Reame. Senza dubbio il Principe Corvo avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di rivedere la sua amata terra! Era davvero possibile? Sarebbe riuscita a ricambiare la generosità dei faêran restituendo a quel popolo il suo sovrano? Lei doveva comunque andare a cercarlo in Erith - di certo il Re non si era allontanato troppo, in così poco tempo! - per pregarlo di curare il suo langothe, che già aveva ricominciato a tormentarla. Gli avrebbe parlato della via segreta che le consentiva di tornare nel Reame Fatato e le cose si sarebbero finalmente volte al meglio... Il solo pericolo stava nella possibilità che il Principe Morragan scoprisse il suo segreto. Il Fithiach, però, non poteva sapere che lei aveva deciso di tornare in Erith: nessuno lo sapeva in quella terra. Andò davanti alla Porta di pietra e, per la seconda volta, la sfiorò con una mano e i battenti si aprirono.
Ciò che vide fu un territorio molto cambiato. La zona era la stessa ma il tempo aveva corroso alcune rupi, mentre altre erano aspre e appuntite come se fossero sbucate dal sottosuolo in qualche violento e recente sconvolgimento tellurico. Non era più notte: il tramonto tingeva l'atmosfera di delicate sfumature rosa, simili al colore del sangue diluito in acqua. Perplessa com'era, le occorse un poco per capire cos'era successo e, quando comprese, le parve di avere lo stomaco pieno di vermi freddi. Mentre lei indugiava nel passaggio interno della Porta, il tempo di Erith era corso avanti. Non poteva attardarsi oltre... quanti anni erano già trascorsi? Sgomenta, cercò di pensare in fretta. Cierndanel - o qualcun altro aveva detto che il tempo scorreva in modo sbagliato a causa della Chiusura; non c'era modo di dire quanti anni fossero passati dal momento in cui lei e gli altri talith avevano lasciato Erith... forse sette od otto, forse un centinaio. Tutte le persone che conosceva e che erano rimaste a Hythe Mellyn erano forse morte da un pezzo... Il suo mondo poteva essere cambiato in modo imprevedibile, poteva essere diventato un posto del tutto sconosciuto. «Sarò una straniera nella mia terra», mormorò Ashalind, parlando a fatica con labbra screpolate per la disidratazione. I faêran, d'altra parte, non potevano restare uccisi, perché erano immortali. Se gravemente feriti potevano decidere - o essere costretti a decidere di trasformarsi in forme inferiori ma si poteva sicuramente presumere che quei cavalieri esiliati (nonché i gentiluomini e le dame che si erano precipitati fuori dal Reame in loro aiuto) fossero ancora vivi. Sopraffatta da un senso d'urgenza, la giovane donna protese uno dei coltelli di suo padre tra i battenti e lasciò andare la Porta. Appena l'ebbe fatto essa si chiuse, schiantando la lama come una pagliuzza. Una mano di carne viva poteva tenere aperta la Porta ma un oggetto di metallo no. Se solo lei fosse riuscita a ingannare quei battenti incantati - a far loro credere di essere lì, mezza dentro e mezza fuori - essi sarebbero rimasti aperti, per lei e solo per lei... Una parte del suo corpo doveva dunque rimanere sulla Porta per impedire che si chiudesse del tutto. Un dito? No, era un'idea troppo raccapricciante... Doveva esserci un'altra soluzione! Ashalind rifletté in fretta. Per la terza e ultima volta aprì la Porta di Erith e le rocciose ossa di Arcdur riapparvero, ancor più invecchiate e corrose sotto un cielo di nuvole basse e pesanti. Era notte e stava imperversando un acquazzone ma Ashalind non poteva permettersi di aspettare che spiovesse, dato che aveva per-
so sin troppo tempo e, del resto, aveva già predisposto i preparativi del caso. Si strinse addosso il mantello regalatole da Cierndanel e uscì da quel tunnel silenzioso. La violenza degli elementi la investì con fragore, spingendola a ripararsi istintivamente presso una colonna di pietra all'esterno della Porta. Su quella valle desolata si stavano abbattendo torrenti di pioggia e il vento ululava nel buio, tra le rocce. Schiacciata in una rientranza, la fanciulla lasciò che l'acqua di Erith le scorresse sulla faccia e in bocca, irrigasse il suo corpo e le facesse scivolare nuova vita nelle vene, finché ne ebbe abbastanza. Il suo completo da equitazione era già inzuppato. Pensare che indossava ancora lo stesso abito col quale era partita da Hythe Mellyn per emigrare nel Reame Pericoloso le faceva uno strano effetto... Quel viaggio le sembrava avvenuto molto tempo addietro e assai lontano da lì. Risentì nella mente le parole di Nimriel: «Il tuo viaggio è soltanto all'inizio, figlia di Erith». Ashalind si strinse nel suo mantello faêran quando un lampo partorito dal ventre del cielo inchiodò, in un istante di luce bianca, un mondo di rocce franate e crepacci obliqui, assurdamente diverso da quello da cui era appena uscita. Guardandosi alle spalle, vide che la Geata Poeg na Déanainn appariva come un crepaccio pericolosamente invitante tra due macigni, al cui interno stagnava un'ombra impenetrabile. I continui lampi illuminavano cortine d'acqua che scendevano oblique, sferzate da raffiche di vento. Adesso che si era dissetata Ashalind cominciava a risentire della stanchezza crescente, pertanto strisciò sotto una sporgenza, fuori dalla furia del temporale. Le foglie che aveva al polso si essiccarono e caddero in polvere. Per un momento si chiese cosa avesse in comune quella bufera con l'altra sotto la quale Morragan aveva lottato contro il fratello, forse cent'anni addietro... Poi si addormentò. Quando Ashalind si trascinò all'aperto, il sole era già sorto dietro un velo di foschia grigiastra e rivoli d'acqua scivolavano giù dalle scarpate e dai burroni. I macigni rotolati dai dirupi si erano ammucchiati dappertutto in forme bizzarre e torreggianti, sicché intorno a lei c'erano soltanto acqua e granito. Gli unici segni di vita erano muschi e licheni rosa. Bevve ancora - stavolta da una cascatella - e rimpianse di non avere una fiasca da riempire. Era sola, in un luogo sconosciuto e, con ogni probabilità, lontano da ogni insediamento umano; non sapeva niente sulla sopravvi-
venza nelle zone selvagge ma il buonsenso le diceva che la sete e il freddo sarebbero stati i suoi nemici più immediati, dunque era necessario premunirsi contro di essi. Prima di tutto doveva pensare a sopravvivere e soltanto in seguito procedere con la sua ricerca, pertanto decise che non se ne sarebbe andata da lì senza aver memorizzato la zona intorno alla Geata Poeg na Déanainn per assicurarsi di saperla ritrovare. Il cataclisma della Chiusura aveva distorto e spostato altrove l'intera Via con le sue due Porte. Il passaggio era stato mandato fuori allineamento e la Porta di Erith era per metà coperta da rocce cadute. Credo che nemmeno i faêran riconoscerebbero più questa Porta... Soltanto io so dove si trova, adesso! Cominciò a formarsi una mappa mentale del luogo in cui si trovava e dei principali punti di riferimento, per imprimere nella memoria l'esatta posizione geografica della Porta. Solo quando fu sicura di aver assorbito ogni dettaglio utile pensò al da farsi. Il mantello faêran aveva assunto un colore grigio screziato d'azzurro, proprio come il granito intorno a lei. La sua stoffa - morbida, resistente e impossibile da identificare - era rimasta asciutta, anche se la pioggia le aveva bagnato la veste. Alla cintura aveva ancora la daga e la borsa di monete d'oro datale da Leodogran. Ashalind svuotò dall'acqua gli stivali da equitazione, riunì i lunghi capelli in una treccia che si arrotolò dietro la nuca per comodità, poi inspirò una lunga boccata d'aria pura. La vaga luminescenza che indicava la posizione del sole era ancora bassa nel cielo, oltre il profilo aspro delle alture simili a denti spezzati. A nord-est di Arcdur, come ben sapeva, c'era lo stretto che separava Eldaraigne da Avlantia: lei non aveva nessun mezzo per oltrepassare quel braccio di mare ma era riluttante a tornare nella sua terra e non teneva a vedere quali devastazioni vi avessero portato i venti della Chiusura e gli sconvolgimenti temporali. Non era mai stata fuori dai confini di Avlantia, tuttavia aveva studiato le mappe delle Terre Conosciute di Erith e le ricordava bene. A meridione, molto lontano, c'era la Città Reale, Caermelor, dove aveva sede la Corte del Re-Imperatore di Erith. Quello poteva essere il posto migliore per raccogliere informazioni su come rintracciare i reali faêran... Del resto la Geata Poeg na Déanainn l'aveva scaricata più a sud, così le sembrava in qualche modo di buon auspicio proseguire in quella direzione. Essendosi lasciata alle spalle l'eccitazione, la sete e la fatica, Ashalind cominciò ad accorgersi della fame che le rodeva lo stomaco come un topo-
lino. Peggio di questa era però il langothe che, dopo essersi rinchiuso nelle sue spire come un serpente addormentato, ora tornava a colpirla più forte di prima, poiché non solo lei aveva respirato l'aria del Reame Fatato ma vi aveva lasciato tutti i suoi cari. Il desiderio era così doloroso che, involontariamente, lei mosse qualche passo verso la Porta; si fermò ansimando e con le mani premute sullo stomaco e, per qualche momento, fu costretta a piegarsi in due sopra una roccia. Era tempo di andarsene... subito, prima che il langothe la costringesse a rientrare nel Reame e dimenticare la sua ricerca. Con uno sforzo, si raddrizzò e cominciò ad allontanarsi a fatica, come se camminasse nell'acqua, respingendo l'impulso di voltarsi e tornare di corsa alla Geata Poeg na Déanainn. Girò intorno a un macigno e accelerò il passo. Per distogliere i pensieri dalla nostalgia e dalla fame, decise di concentrarsi sull'ultimo sguardo che avrebbe rivolto alla Porta da lontano, per imprimersi nella memoria la sua posizione. Quella era una cosa che non poteva permettersi di dimenticare. Tra le ombre profonde del mattino la Porta che si era lasciata alle spalle sembrava un crepaccio tra i tanti, senza nulla di speciale; aveva l'aria di trovarsi là da chissà quanti anni. Lei però sapeva che, a differenza di poco prima, adesso c'era una fessura nel punto in cui i battenti erano rimasti leggermente aperti: non era altro che una sottile ombra verticale, perché a impedire la chiusura completa c'erano appena tre capelli d'oro strappati uno alla volta alla radice e tenuti fermi da un sasso a un'estremità e da un coltello spezzato all'altra. L'unghia di una fanciulla avrebbe potuto infilarsi in quella fessura, come infatti era avvenuto quando lei aveva fatto una prova per verificare se quel metodo avrebbe funzionato. L'unghia di una fanciulla poteva aprire quella Porta, a patto che la fanciulla fosse quella cui appartenevano i capelli. «... hain! Rohain!» La giovane donna seduta sul mucchio di terra aprì gli occhi, nel buio. La notte odorosa di cenere la chiudeva in un abbraccio malsano. Qualcuno la stava chiamando... In lei esplose una paura improvvisa, così lacerante da impedirle di pensare. «Rohain...» Non riuscì a muoversi, come se le sue gambe si fossero tramutate in legno. La voce femminile risuonò nuovamente, più vicina: «Milady, dove sie-
te?» Già, dove? Sulle pendici della caldera presso le Torri della Caccia. Con un certo ritardo, la giovane donna si alzò in piedi. Le altre due l'avevano già raggiunta e i loro volti pallidi, in quella scarsa luce, sembravano maschere di terrore. «Eccola! È qui!» «Milady, affrettatevi!» Lei le guardò senza vederle. «Siamo noi, Viviana e Caitri... vi abbiamo cercata per tutto il giorno! Presto... è notte e siamo in pericolo! I wight sono dappertutto e non c'è un solo seelie tra loro!» Le loro voci concitate interruppero la sua concentrazione e ciò che stava cercando di afferrare col pensiero fluttuò via. Il flusso di ricordi era stato interrotto proprio quando lei si era trovata sul punto di ricostruire l'immagine della Porta di Faêrie. Non riuscirò mai più a richiamarla alla mente! Mentre le due cameriere la prendevano per i gomiti, la giovane donna ebbe la presenza di spirito di accertarsi che il bracciale appena ritrovato fosse saldamente allacciato al suo polso sinistro. Le tre si allontanarono, inciampando nell'oscurità stregata della montagna. La notte era il regno delle più strane e ostili creature eldritch: le tre mortali vennero affrontate, spaventate o minacciate da esseri ringhiosi d'aspetto animalesco praticamente a ogni svolta. Alcuni di essi le inseguirono pervicacemente mentre altri apparvero dinanzi a loro sbucando da qualche anfratto per costringerle a retrocedere o cambiare strada, sempre più sconvolte e confuse. Le giovani donne si aspettavano di continuo di essere artigliate o colpite ma ben presto si resero conto che a proteggerle c'era un globo di morbida luce azzurrina che camminava con loro, poiché era irradiato dall'anello che una di esse portava al dito. Le creature unseelie in agguato sul pendio della montagna si tenevano alla larga dalla luce e, se ne venivano sfiorate, balzavano indietro mandando strida di dolore. Gli stivali delle ragazze calcarono per qualche momento la superficie regolare di una vecchia strada, nell'attraversarla; sull'altro lato il terreno saliva ripido e la vegetazione era più fitta. Ansimando, le tre compagne s'inerpicarono tra il sottobosco e i rami più bassi degli alberi finché una di loro - la più giovane - cadde.
«Caitri!» «Non ce la faccio più. Proseguite senza di me!» Due occhi verdi, lunghi e stretti, si aprirono come lampade tra i cespugli e una mano pallida e adunca si allungò ad afferrare la giovinetta. La sua padrona colpì quell'arto inumano col coltello e sangue nero uscì dalla pelle scagliosa. L'urlo che lacerò il buio fu così stridulo da far accapponare la pelle. Incoraggiata, Rohain vibrò ancora l'arma, gettandosi avanti senza pensare al pericolo. Sulla sua mano, l'anello-foglia di Thorn lampeggiava. Ci fu un tramestio punteggiato di urla selvagge, poi la bestia balzò via e si allontanò nella notte. Alcune di quelle grida erano uscite dalla bocca della fanciulla armata di coltello, che lo spavento aveva animato di una ferocia belluina di cui non si sarebbe creduta capace. Quando smise di avventare l'arma e lasciò ricadere il braccio, scoprì il viscido sangue scuro che le chiazzava le braccia e il vestito. Intorno era calato il silenzio. Lei si pulì il coltello su una manica, con scarsi risultati. «Guai a voi, canaglie, se ci aggredite ancora!» urlò tra le piante... o cercò di urlarlo, poiché la voce le usciva in un sussurro sfiatato. Si lasciò cadere in ginocchio su un tappeto di foglie. «Ci avete salvate», mormorò Viviana, incredula. «Siete ferita?» Lei scosse il capo. «Avete un po' d'acqua?» In quella stagione la notte era lunga. La fanciulla, che aveva appena ritrovato i propri ricordi, non riuscì a prendere sonno e restò seduta accanto alle amiche, con la schiena appoggiata a un albero e il coltello in mano. L'anello emanava tuttora la sua luce: stranamente, il sangue del wight non lo aveva macchiato. Devo cercare di ricordare l'aspetto di quella Porta. Più volte, nel corso della notte, guardò il bracciale su cui era inciso l'uccello al quale doveva il suo nomignolo. Infine gli occhi le si annebbiarono: altri ricordi stavano tornando... Arcdur era una regione con poche strade e pochi motivi per costruirne. Cinque giorni dopo la partenza, Ashalind non aveva ancora visto tracce di presenza umana. Gli abiti da equitazione avlantiani non erano affatto adatti a una marcia su un territorio così aspro: la lunga gonna di saia gialla e turchese le s'impigliava continuamente tra i piedi, facendola inciampare. I morbidi stivali di pelle cedevano contro gli spigoli acuti dei sassi; soltanto il sorprendente mantello faêran, capace di resistere alle spine e alla pioggia, le aderiva al
corpo come una gentile carezza. Le alture scoscese e ingombre di massi rendeva lento e difficoltoso il cammino. Il vento e la scarsità di terreno fertile non consentivano la crescita di molte piante in quella zona e persino le radici dell'arkenfir dalle foglie verdi-azzurre facevano presa solo nei crepacci. Altrove prosperavano muschi e licheni. Quel pomeriggio, mentre Ashalind saliva verso la dorsale di un'alta collina, il vento si fece più forte. Intorno a lei c'era soltanto il cielo, il che le dava l'impressione di trovarsi sull'orlo del mondo. Pochi passi più avanti le si parò dinanzi all'improvviso l'immenso panorama che si stendeva più a sud: una catena di piccole alture l'una dopo l'altra - spoglie e regolari come le onde di un mare pietrificato - sulle quali si muoveva soltanto un vento arido e triste. La giovane donna si fermò a guardare quello spettacolo desolante, pensando che non c'era da stupirsi che Arcdur fosse così disabitata. Sulla dorsale successiva c'era una scura macchia di conifere; alla sua destra, quel vago scintillio azzurro all'orizzonte doveva essere il mare. Scese lungo il versante opposto e, una volta giunta a fondovalle, si gettò lunga distesa presso un torrente limpido, per bere. Poi proseguì, sperando di arrivare al boschetto di conifere prima di notte: il mantello faêran costituiva un'ottima coperta ma gli aghi di pino le avrebbero fornito un giaciglio più comodo del terreno nudo. Si avviò su per la salita, orientandosi in base al sole per puntare costantemente verso sud e stando attenta a dove metteva i piedi perché, in quella terra così isolata, una frattura (o anche solo una caviglia slogata) poteva esserle fatale. Viaggiando, badava a memorizzare sempre almeno due o tre punti di riferimento al giorno: una rupe sulla cui cima c'era un masso simile a una pagnotta, una collina dalla sommità piatta come una torta... Molti di quei profili naturali le ricordavano il cibo, spingendola a chiedersi quando avesse mangiato per l'ultima volta. Frugando nella memoria, rammentava qualche fetta di pera immersa in uno sciroppo d'anice e dei pasticcini al burro appena sfornati... la colazione del giorno dell'Abbandono. Il ricordo le procurò una contrazione allo stomaco e lei cercò di pensare ad altro. Riconsiderò gli strani eventi che l'avevano condotta in quel luogo, nonché la follia degli uomini e dei faêran, entrambi mai contenti di ciò che possedevano. Rivide i volti dei suoi cari rimasti nel Reame e, d'un tratto, la nostalgia fu così forte che per impedirsi di fare marcia indietro dovette sedersi tra due macigni, affondando le dita nella sabbia ghiaiosa.
«Non posso continuare. Devo tornare indietro!» Rimase lì, immobile, mentre il sole si spostava un altro po' lungo il cielo perlaceo e alcuni corvi dal becco rosso si aggiravano sopra di lei. Alla fine, dalla sua confusione emerse una conclusione: aveva deciso di gettarsi in quell'avventura per liberarsi dal langothe e riportare il Supremo Re nel suo Reame, eppure sentiva che la risposta non era così semplice. C'era dell'altro, se solo avesse avuto il coraggio di ammetterlo... Per il momento, comunque, l'importante era che lei avesse potuto intraprendere un cammino liberamente scelto. Non era stata costretta da nessuno; aveva voluto tentare quell'impresa, pertanto la sofferenza e la nostalgia avrebbero dovuto restare sotto controllo finché l'avesse portata a termine. Così, traendo nuova forza dalla disperazione, si alzò in piedi e riprese il viaggio. Non c'era niente da mangiare. Era una terra non priva di fascino... così aspra e pulita, con quei pini che si abbarbicavano alla roccia e i torrenti caldi e limpidi. I giorni si susseguivano, Ashalind non trovava nulla di commestibile e masticare il muschio e le radici degli arkenfir serviva a poco. Nei crepacci si trovavano molti grossi scarafaggi, però lei sapeva che non sarebbe mai riuscita a mettersene uno in bocca... eppure, quando essi aprivano le elitre per spostarsi in volo, i corvi che si gettavano in picchiata su di loro sembravano trovarli molto appetitosi. La leggerezza di testa e i dolori che aveva sofferto nei primi due giorni erano scomparsi, lasciandole un apprezzabile senso di calma e di vigore. Ashalind non aveva mai deviato dalla direzione scelta, tuttavia il sesto giorno il territorio si fece impraticabile e fitto di crepacci a oriente, mentre a occidente apparvero dolci colline ondulate e vaste macchie di pini. Tenendo come punto di riferimento una rupe che ricordava un castello, la giovane donna deviò verso ovest. Da qualche parte in quella direzione, come sapeva, c'era la costa nord-occidentale di Eldaraigne, oltre la quale il mare immenso si estendeva sino al Cerchio delle Tempeste che circondava il mondo. Una grande corrente - la Corrente Calder - partiva dalle latitudini antartiche a sud della grande isola di Finvarna e sfiorava quella costa con le sue gelide acque, contribuendo a mantenere il clima di Arcdur più fresco che in quasi tutto il resto di Erith. Il settimo giorno trovò del crescione e della salvia selvatica, le prime piante commestibili che vedeva. Si accorse, però, di avere le mani e i piedi sempre freddi e che le tremavano le gambe: stava per esaurire le forze. Quella notte il sonno non volle venire e lei rimase distesa in una specie di
trance che non le offrì nessun vero ristoro, lasciandola a domandarsi per quanto tempo un essere umano potesse resistere senza sostentamento solido. Se avesse raggiunto la riva del mare, forse avrebbe trovato qualcosa da mangiare... In caso contrario, sarebbe morta senza aver potuto vedere gli elindor che volavano sulle onde. C'erano ancora gli elindor nei vasti cieli di Erith? Quanti anni erano trascorsi? Gli uomini abitavano ancora quelle terre o le loro città non erano più che cimiteri in rovina? La giovane donna si rimise in marcia a passi incerti, vacillando. Si passò le mani sulla faccia per schiarirsi la mente ma non ci riuscì e, prima del tramonto, cadde molte volte, tanto che a sera le sanguinavano le mani. Il cielo si scurì, assumendo tonalità violacee. Quella notte un altro temporale arrivò da occidente, portando con sé un vento forte e una pioggia insistente. Il maltempo durò per tutto il giorno e il mattino successivo. Il mantello faêran era impermeabile ma l'umidità s'insinuava sotto di esso, inzuppandole gli abiti. Al tramonto del nono giorno, il temporale si allontanò verso sud-est e il sole fece finalmente capolino tra le nuvole: salendo lungo una duna erbosa, la viaggiatrice lo vide - basso sull'orizzonte - che spandeva un sentiero di scaglie di pesce sul mare. Cullata dal fruscio della risacca, sedette tra i cespi di erbacce e guardò svanire la gloria del giorno. Apparvero le stelle e una luna gibbosa abbassò il suo pallido sguardo sulla lunga spiaggia... Ma Ashalind, avvolta nel mantello e con le mani dietro la nuca, si era già addormentata. Il suo fu un lungo sonno ristoratore, disturbato solo dal sogno del banchetto faêran. Le prime luci dell'alba la svegliarono all'improvviso e, appena si fu sfregata gli occhi con le dita, alzò la testa per guardare il mare. Un momento dopo, dalla gola le sfuggì un grido rauco; poi balzò in piedi, e con le sue ultime riserve di energia, corse verso la spiaggia, urlando e agitando le braccia. Nella luce dell'alba, un piccolo vascello - con le vele triangolari color zafferano gonfie di vento - stava navigando verso meridione, a non molta distanza dalla riva. Dapprincipio chiunque vi fosse a bordo tirò diritto, apparentemente incurante delle sue grida. Lei pensò che quella gente se ne sarebbe andata senza neppure accorgersi che lasciava un essere umano a morire di stenti lì, in quella terra inospitale... ma poi l'angolazione dello scafo cambiò e quando lei vide i baffi di spuma davanti alla prua si accorse con sollievo che cominciava a tagliare l'acqua verso di lei. Le vele furono
ammainate e l'imbarcazione si fermò appena giunse a portata d'udito, perché la chiglia pescava troppo per consentirle di avvicinarsi ulteriormente alla spiaggia. Uno dei due uomini che avevano effettuato la manovra gettò in mare un'ancora e si accertò che avesse fatto presa, poi unì le mani ai lati della bocca e gridò: «Ehi, tu, laggiù! Sei sola o ci sono altri con te?» «Sono una donna! Ho bisogno di aiuto!» rispose Ashalind. «Ti ho chiesto se sei sola!» ripeté l'uomo. «Aiutatemi!» gridò lei. «Non ho cibo. Sono sola!» L'uomo esitò, scrutando attentamente la riva. «Per favore, aiutatemi!» La voce della giovane donna si spezzò e lei cadde in ginocchio sulla sabbia, incurante delle fredde onde che le lambivano le gambe. Capì che l'uomo non le credeva: forse sospettava un'imboscata da parte di qualche banda di predoni... Questo significava che, ovunque fosse, quella era una località più pericolosa di quanto sembrava. L'uomo si tolse la casacca, i pantaloni e le scarpe, disse qualche parola al compagno e si tuffò in mare, tirandosi dietro un galleggiante attaccato a una corda. Anche mentre nuotava con energiche bracciate non smise di esaminare la zona e, una volta raggiunto il basso fondale, proseguì a piedi, grondando acqua. Era magro e barbuto, bruno, di pelle olivastra, con una faccia corrosa dal vento in cui brillavano due occhi acuti. «Grazie, signore. Ti sono obbligata», fu tutto ciò che riuscì a dire lei. Cercò di rialzarsi ma cadde di nuovo. Lui guardò ancora le dune oltre la spiaggia, poi le si avvicinò. «Pensi di farcela a nuotare sino alla barca?» le domandò. Il suo accento era strano ma comprensibile. Lei annuì e si sbarazzò del mantello, della blusa e della veste. «Andiamo», disse l'altro. Dopo averle dato un'occhiata non dubitava più che avesse mentito dicendo di non avere cibo. Si assicurò che fosse ben aggrappata al galleggiante e la rimorchiò sino all'imbarcazione, quindi la aiutò a salire a bordo, le gettò un asciugamano e, mentre lei si asciugava, tornò sulla spiaggia a recuperare il mantello e l'abito da equitazione. Sull'imbarcazione c'erano una piccola cabina e molti cesti di virami pieni di belle conchiglie, colorate come piccoli arcobaleni. L'altro marinaio era più anziano, con una barba color sale e pepe; fu lui a offrirle una bottiglia d'acqua e qualcosa da mangiare: pane duro, formaggio e filetti di pesce in salamoia conservati dentro una giara di coccio. «Mangia lentamente», le consigliò, quando ebbe visto come lei aggrediva il cibo. Al suo ritorno, l'uomo più giovane si rivestì e poi, senza dir parola, ritirò
l'ancora. Il compagno issò le due vele triangolari e si mise al timone e l'energica brezza del mattino riprese a spingere la barca verso meridione. Ashalind si sdraiò su un mucchio di reti puzzolenti e guardò l'orizzonte che si alzava e abbassava. «Da dove vieni? Dove vai?» «Mi chiamo Ashalind na Pendran, vengo da Avlantia e sono diretta a sud. Sto cercando il Supremo Re del Popolo Fatato ma sono rimasta senza viveri.» Era la verità, per quanto incompleta. La fanciulla sentiva di potersi fidare di quei due marinai dai modi franchi e gentili, tuttavia il segreto della Porta era troppo prezioso per rivelarlo a chiunque non fosse il sovrano dei faêran. «Io mi chiamo William Javert», disse il più giovane, «e questo è mio padre, Tom. È la prima volta che vedo una ragazza giovane come te viaggiare da sola... ma suppongo che dalle tue parti si usi così.» Fece una pausa. «Non dubito che tu stia cercando chi hai detto, però noi non abbiamo mai sentito parlare di questo Popolo Fatato, come lo chiami tu. Non sappiamo molto delle leggende e delle favole degli Stranieri ma se quella gente esiste davvero, meno si fa vedere e meglio è... Gli Stranieri possono portare soltanto dei guai, a parer mio.» Guardò suo padre. «Ci sono certe vecchie storie che la gente si racconta quando non ha di meglio da fare e che parlano di un Re degli Stranieri - il Popolo, alcuni li chiamano - il quale dorme sotto una collina coi suoi guerrieri. Puah, roba per gli allocchi! Io credo solo a quello che vedo. Nei wight sì che ci credo, con tutti i guai che continuano a darci! Prima ho creduto che tu fossi una di loro.» «I miei vecchi raccontavano storie del Reame Pericoloso», disse Tom, scrutandola pensosamente. «Io, però, non ho idea di dove possa essere. Sotto il mare o sottoterra, forse: è là che abitano gli Stranieri e anche il loro Re, stando a quel che si dice... ma nessuno ha mai visto quella terra sin dai tempi antichi, quando la gente era più ignorante e credeva in simili favole. Però il mondo è un posto strano, per cui non si può mai dire.» Il figlio, William, lo sostituì al timone. La barca deviò verso ovest e aggirò un promontorio, sempre mantenendosi a breve distanza dalla costa sulla sinistra. Lo scafo rullava un poco, investito di traverso dalle onde. Mentre giravano di nuovo verso sud, il nudo panorama roccioso di Arcdur lasciò il posto a colline coperte di boschi. «Caermelor... Come si chiama il Re?» domandò la passeggera.
William la guardò con aria perplessa. «Da dove vieni, tu che non conosci il nome del nostro sovrano? Hai un accento straniero che non ho mai sentito...» «Te l'ho detto. Dà Avlantia, nel nord.» «Ah, non avrei mai pensato che qualcuno ignorasse il nome del nostro buon Re-Imperatore, James XVI della Casa D'Armancourt!» Ashalind tacque. All'epoca in cui aveva lasciato Erith il sovrano era William il Saggio, figlio di James II e nipote del Grande Unificatore. Possibile che fossero passate tredici generazioni? Due o tre secoli? Era difficile credere di essere stata via per tanto tempo. «Quanto è antica la dinastia D'Armancourt?» domandò. «Be'...» Il vecchio Tom si grattò la testa. «Dicono che risalga a un migliaio d'anni fa, con Re James I. Non tutti i sovrani si chiamavano James, comunque... Alcuni dei Re D'Armancourt hanno avuto altri nomi.» Sconvolta nel veder crollare così le sue speranze, Ashalind strinse i denti e, in uno sfogo di frustrazione, abbatté un pugno sul barile dell'acqua. Un millennio! Soltanto il pensiero le dava le vertigini. Quali cambiamenti potevano essere avvenuti in Erith in un periodo così lungo? Perché i faêran esiliati erano sconosciuti o dimenticati? Uno stormo di rondini di mare passò sopra la barca. Tra le onde, a qualche iarda dallo scafo, ci fu uno sciacquio e subito l'attenzione dei due uomini si concentrò su quel punto. «Pensi che sia lei?» domandò William, a bassa voce. «No. Anche questa è una maighdean ma non saprei dire di quale razza», rispose suo padre. Sotto la superficie verdolina delle onde, Ashalind colse l'immagine di una curva scintillante, un ventaglio di capelli chiari e un volto eldritch prima che la visitatrice subacquea scomparisse. «Una maighdean na tuinne», spiegò Tom all'ignorante straniera venuta dal nord, «ovvero una fanciulla del mare. Sarebbe una buona cosa essere amici di una di loro - una di quelle seelie - perché possono avvertirti quando sta per arrivare una tempesta. Negli ultimi giorni ci siamo tuffati in cerca di corallo e di conchiglie di nacris, lungo la barriera corallina settentrionale... poi una tempesta ci ha spinti fuori rotta, lontano dalla nostra flotta. L'ancora arava il fondale e siamo stati in balia del vento per tutto il giorno.» In quel momento, la brezza di terra portò ai loro orecchi l'eco di una musica bizzarra. Ashalind si voltò verso la spiaggia lontana e vide una mezza
dozzina di figure che ballavano nude sulla sabbia. I due uomini si schermarono gli occhi con le mani. William si fece stranamente silenzioso e dedicò tutta la propria attenzione alla manovra. Poco dopo, i danzatori si accorsero della barca e cominciarono a gridare, poi raccolsero gli indumenti che avevano deposto sugli scogli e si tuffarono in mare; le loro sagome scure e veloci tagliarono le onde in direzione del piccolo vascello. Il marinaio più giovane allentò le drizze delle due vele e le ammainò. Quando i nuotatori furono vicini allo scafo, Ashalind vide che le teste che spuntavano dalle onde erano teste di foca. William si sporse a parlare con loro in una lingua che lei non conosceva e in un tono amorevole e gentile e le foche gli risposero nello stesso idioma. «Questi roane conoscono bene Will, perché una di loro è stata sua moglie», mormorò Tom. «Lui rubò la sua pelle di foca mentre lei stava danzando con gli altri e la nascose... Non è da lui fare una cosa del genere ma lei era così bella che se n'era innamorato a prima vista. Lei lo pregò di restituirgliela, perché senza di essa non poteva tornare al mare; lui però non volle farlo e, alla fine, la persuase a sposarlo. Lei fu una moglie buona e fedele per tre anni - anche se non smise mai di rimpiangere il mare - ma un giorno ritrovò per caso la sua pelle e subito corse alla spiaggia. Non l'abbiamo rivista mai più. Will continua a chiedere notizie di lei ma le unioni tra i mortali e gli immortali finiscono sempre in una separazione dolorosa. Lo sanno tutti, perciò Will avrebbe dovuto essere più saggio.» «Per favore, Will, domanda ai roane se sanno qualcosa del Supremo Re del Popolo Fatato!» Il marinaio si rivolse ancora alle foche nella loro lingua. «Dicono di non poter parlare ai mortali del Popolo Fatato», tradusse, una volta ottenuta la risposta. «Gli eldritch wight delle Torri della Caccia, però, dovrebbero saperne qualcosa.» I roane si lasciarono portar via dalle onde e Tom issò nuovamente le due vele triangolari: la stoffa piena di toppe schioccò mentre il vento la gonfiava e la prua tornò a imbiancarsi di schiuma. Ashalind domandò: «Queste Torri della Caccia... cosa sono?» «È uno dei peggiori covi degli unseelie... il cratere di un vulcano spento, infestato da potenti wight di gramarye», rispose Tom. «Si trova sull'altro lato delle vecchie miniere di magmite, circa sette leghe a ovest della casa di una famiglia di pescatori amici nostri... i Caiden, brava gente. Vivono là ma sono sempre alle prese con la paura dei wight che ogni tanto escono da
quel dannato posto.» «Avete mai visto qualcuna delle creature che abitano nel cratere?» «No. Tavron Caiden, però, ci ha parlato di loro e tanto ci basta. Non sono esseri gradevoli, per la maggior parte: ci sono quei demoniaci piccoli spriggan, i trow che strisciano dappertutto, maiali bianchi e leprecauni... I Caiden si proteggono con tilhal sainati da un Mago e i wight minori non li infastidiscono troppo, poiché preferiscono stare alla larga dal frassino e dal ferro freddo. Gli unseelie peggiori, invece...» Qui il pescatore di conchiglie tacque, scrutando l'orizzonte con aria preoccupata. «Gli unseelie peggiori sono quelli che vanno a caccia: fuath, duergar e simili. Alcuni di loro sono dei veri mostri mentre altri hanno l'aspetto di uomini nobili e regali, eppure in loro c'è sempre qualcosa di sbagliato...» «Uomini regali, hai detto? Allora potrebbero essere faêran!» esclamò Ashalind a bocca piena, abbassando la pagnotta e col viso congestionato per l'eccitazione. «Può essere, però non c'è pietà nelle creature che infestano le Torri della Caccia: non è laggiù che devi cercare quel tuo Re. È un covo di dèmoni e orrori! Mi fa senso persino parlarne, in una bella giornata come questa. Lascia quella fogna ai wight, ragazza! Il posto che fa per te è Caermelor: nelle grandi città si trovano notizie di ogni genere.» «La casa di questi tuoi amici è lontana da qui?» volle sapere Ashalind. «È vicina al Porto di Isse, sulla costa settentrionale di Punta delle Maree. Sono dodici o quattordici giorni di viaggio da qui, a seconda del vento, sempre che non ci fermiamo al nostro villaggio sull'Isola degli Uccelli. Come puoi vedere, però, abbiamo a bordo una buona quantità di conchiglie di nacris e dobbiamo passare da casa per scaricarle... e comunque non lasceremmo mai sbarcare una ragazza come te a Punta delle Maree, all'ombra delle Torri della Caccia!» «Se mi porterete là, sono disposta a pagarvi in oro sonante.» La passeggera scosse la borsa che le aveva dato suo padre e ne tolse alcune monete. Gli antichi dischi d'oro scintillarono al sole sulla sua mano. «Vi prego, portatemi là.» I due pescatori di conchiglie la guardarono stupiti e subito sui loro volti apparve un'espressione insospettita. «Come ti sei procurata tutto quest'oro? È denaro onesto?» «Non l'ho rubato e non è oro di gramarye, del tipo che si trasforma in polvere e finisce soffiato via dal vento. È rimasto nascosto per gli ultimi mille anni ed è stato scoperto solo di recente.»
«Farai meglio a venire con noi sino all'Isola degli Uccelli. Lì potrai aspettare il traghetto per il Finvarna e successivamente non ti sarà difficile trovare una nave di linea che ti porti a sud, sino a Caermelor.» «Signori, vi sono grata per il vostro consiglio, ma non mi lascerò dissuadere.» I due marinai si scostarono di qualche passo e presero a mormorare tra loro, voltandosi ogni tanto a guardare la passeggera che, da parte sua, aveva abbassato gli occhi e fingeva di non fare caso alla loro discussione. «Sei proprio decisa a fare una cosa del genere, ragazza? Non c'è niente che potrebbe farti cambiare idea?» chiese infine Tom. «Sono decisa. Se voi rifiutaste di portarmi a Punta delle Maree, cercherei in ogni caso un altro battelliere.» Un'espressione preoccupata si dipinse sul volto dell'anziano pescatore di conchiglie: «È un vero peccato che tu non voglia ascoltare un buon consiglio ma, se proprio insisti nel voler andare alle Torri della Caccia, ti ci porteremo noi. Non per denaro, però: non sarebbe giusto portare una ragazza mezza morta di fame come te in un luogo così pericoloso e prendere anche il suo oro! Ti sbarcheremo al porticciolo di Tavron Caiden, così - se dovessi cambiare idea - da lì potrai raggiungere la Città Reale». «Vi ringrazio!» Ashalind decise segretamente che li avrebbe pagati nonostante le loro proteste, perché le avevano offerto cibo e un passaggio pur non essendo certo gente ricca. Nei quattordici giorni successivi scesero a riva per tre volte - gettando l'ancora in profonde insenature chiuse tra le rupi, in prossimità di rozze scale scavate nella roccia - e William si rifornì d'acqua alle cascatelle che scivolavano, come trecce di seta, giù dalle ripide pareti di adamant. Non incontrarono mai anima viva. «Queste zone della costa nord-occidentale sono deserte. Ci sono solo uccelli, qualche roditore, gli eldritch stregati e il vento», disse William. La costa cadeva a picco quasi ovunque e in essa si aprivano profondi anfratti nei quali le onde si rompevano con gran rumore. Per molte miglia si susseguirono colline coperte di alberi enormi, sotto i cui rami si addensavano ombre insondabili. Guardando quegli antichi boschi William commentò, in tono cupo: «Questo è il confine occidentale della terribile foresta». Infine i tre viaggiatori passarono tra alcune isole e approdarono sulla co-
sta del continente, in una piccola baia circondata da colline. Ormeggiarono la barca a un sottile molo di legno e scesero a terra. Il vento salmastro che scompigliò loro i capelli era freddo. «Qui l'inverno si fa sentire», disse Tom. La casa dei Caiden (intonacata a calce e con un tetto spiovente in lastre d'ardesia) sovrastava il porticciolo dall'alto della collina. Sul retro c'erano un vasto orto ben tenuto, le inevitabili arnie e rastrelliere per far seccare il pesce; tutto intorno c'erano alberi di prugne e frassini dall'aria triste. Nei vasi sui davanzali delle finestre rivolte a est crescevano piccole rose marine. La moglie di Tavron, Madelinn, teneva delle galline, alcune capre e una pecora che tosava lei stessa. C'erano due bambini: un maschio di nome Davron e una femmina, Tansy. La famigliola diede un caldo benvenuto ai due marinai e alla straniera bionda sbarcata con loro, li invitò in casa e condivise con loro una parca cena, senza lamentarsi per il fatto di non aver avuto nessun preavviso. Tom e William furono lieti dell'accoglienza e cercarono di mostrarsi sereni ma era evidente che quella zona li metteva a disagio. «Abbiamo detto qualcosa delle Torri della Caccia alla ragazza», spiegò William, «ma può darsi che preferisca recarsi a Caermelor, con la prossima carovana stradale che passerà da queste parti o via mare.» «Non avere fretta, ragazza», le consigliò Tom. «Aspetta di saperne di più su quel posto.» Il mattino dopo i due pescatori di conchiglie salparono per l'Isola degli Uccelli, portandosi via le monete d'oro che Ashalind aveva fatto scivolare di nascosto nelle loro tasche. «Fermati qui con noi, ragazza, prima di continuare il viaggio», disse Tavron Caiden. «Da queste parti passa poca gente e la tua compagnia ci farà piacere. Del resto - non offenderti se te lo dico! - un po' di riposo ti farebbe bene.» In effetti l'agitazione dell'Abbandono e della Chiusura nonché della scoperta di essere sopravvissuta di un migliaio d'anni alla propria epoca e le fatiche della dura marcia a digiuno attraverso Arcdur avevano lasciato il segno. Per i primi due giorni la nuova venuta dormì molto e si svegliò solo per mangiare, poi cominciò a rimettersi in salute. Il langothe era tuttavia sempre in lei e l'attirava verso nord, dov'era la Porta per il Reame Fatato... in lei, però, prevaleva la volontà di continuare la ricerca, onde poter estirpare alla radice quella terribile nostalgia. I Caiden riuscirono a trattenerla
finché ebbe ritrovato le forze ma, quando videro che era decisa a partire senza perdere altro tempo, non vollero insegnarle la strada per le Torri della Caccia. «Resta ancora! Riposa per qualche altro giorno e poi ti diremo come si arriva in quel posto», la pregarono. La loro ospite non era in condizioni di discutere e dovette rassegnarsi. I Caiden le mettevano davanti tutte le semplici vivande di cui disponevano ma lei, pur avendo fame, aveva visto il cibo faêran e sentito il suo profumo e ora niente che appartenesse a Erith le stimolava più l'appetito. Mangiare carne le sembrava addirittura un'aberrazione. I pescatori non avevano mai visto nessuno che avesse i capelli biondi e da ciò lei apprese per la prima volta, con sommo sgomento, che il regno talith non esisteva più: la razza si era quasi estinta e i suoi pochi discendenti erano sparsi per tutta Erith, mentre in Avlantia le foglie rosse dei rampicanti crescevano sulle rovine delle città. Nelle Terre Conosciute predominavano ora i bruni feorh e ancor più i rossi erith del Finvarna. Sulle coste di Avlantia erano stati fondati alcuni piccoli villaggi feorh ma quel popolo preferiva le terre più fredde del meridione. Ashalind non rivelò le proprie origini ma dalla conversazione spicciola coi suoi anfitrioni ricavò molte più notizie di quanto avrebbe pensato: apprese che i cappucci portati dalla gente non erano un capriccio della moda ma una necessità, poiché contenevano sottili reticelle di talium che proteggevano la mente dal vento di gramarye - chiamato talora «vento shang», talaltra «tempesta magica» che trasportava per l'etere le emozioni degli esseri umani. Scoprì anche l'esistenza del sildron, il metallo che (come probabilmente sapeva soltanto lei) era stato regalato dal Supremo Re del Reame Fatato alla dinastia D'Armancourt: in questa nuova epoca il sildron era usato per sollevare le Navi del Vento e i Cavalli Celesti, le cui rotte non passavano mai sulla zona isolata dove abitavano i Caiden. Venne a sapere molte cose sui Cavalieri della Tempesta, sui soldati del Re chiamati Dainnan, sui fatti storici dell'ultimo millennio e sul vento di rivolta che cominciava ad agitare le terre del nord. Era affascinata e stordita dai cambiamenti avvenuti in quei mille anni: le sembravano troppi, anche se forse non era così data la lunghezza del periodo trascorso... C'era anzi da meravigliarsi che alcune cose, come il linguaggio, fossero cambiate così poco. In quanto all'evoluzione della tecnologia, i lunghi secoli d'ignoranza dell'Era Oscura ne avevano bloccato - se non addirittura fatto regredire - lo sviluppo in tutta Erith; a parte il sildron,
i cappucci a rete di talium e il vento shang non c'erano dunque troppe differenze tra il mondo da lei conosciuto e quello in cui era finita. Forse non si sarebbe sentita troppo spaesata in quella nuova epoca, dopotutto. Però continuava a meravigliarsi e a soffrire. Mille anni erano un'eternità. I bambini dei Caiden, che non si curavano di dissimulare la propria curiosità, pregarono la visitatrice di raccontare qualcosa delle sue avventure nel settentrione e dopo la storia della sua faticosa marcia attraverso Arcdur ne vollero sentire un'altra e poi un'altra ancora. Ashalind, che non aveva intenzione di rivelare i suoi segreti, attinse a episodi che le erano stati raccontati da Meganwy e ad altri uditi dai cantastorie itineranti, finché Madelinn riuscì a convincere i figli a lasciare in pace la loro ospite. Alla sera - davanti al caminetto acceso, mentre il cagnolino bianco sonnecchiava ai piedi del padrone di casa - Ashalind regalò ai Caiden tutte le canzoni che riusciva a ricordare ed essi, in cambio, le parlarono della collina nel cui interno cavo si diceva dormissero i nobili e le dame faêran, immersi in un sonno incantato insieme coi loro cavalli, cani e falchi, nonché tesori inimmaginabili. Secondo quella favola, sarebbe stato possibile svegliarli a patto che qualcuno fosse riuscito a trovare l'ingresso di quelle caverne sotterranee... ma nessuno sapeva dove fosse la misteriosa collina, né se la favola avesse qualche fondamento di verità. Solo un piccolo incidente guastò l'armonia di quelle serate. La piccola Tansy aveva una voce ben intonata. Ashalind le insegnò molte canzoni, compresa quella intitolata L'esilio che era stata composta da Llewell, il giovane cantore tornato dal Reame Fatato coi bambini restituiti dai faêran. La giovane donna non aveva dimenticato l'ultima volta in cui l'aveva visto, presso la porta delle mura di Hythe Mellyn: il poveretto aveva finito per convincersi di essere un faêran ma non aveva mai fatto ritorno nel Reame che il langothe lo costringeva ad anelare, perché pochi giorni prima dell'Abbandono era stato trovato impiccato. Di lui restavano solo le canzoni. Per molte leghe di terra straniera ho camminato e alla fine avrei voluto tornare a casa mia, ma, ahimè, non fui capace di ritrovar la strada. Il mio cuore esiliato si appesantì col passar dei giorni e per quanto sian belle queste colline e queste valli,
non sono il mistico reame che bramo di vedere... non sono il mondo che sognavo da fanciullo. La mia terra natia, è di essa che sento la mancanza! Sarò forse condannato a cercarla per sempre? Uno straniero che vaga in questa landa straniera! Nessuna cura ha potuto placare il mio dolore. Oh, rivedrò mai la mia patria? Quando udì questa canzone per la prima volta, Tansy ne fu così commossa che si alzò in punta di piedi per dare un bacio ad Ashalind. Subito la fanciulla balzò indietro, riparandosi il viso con le mani e gridando: «Oh, no! Non farlo!» I Caiden la fissarono, sbalorditi da quello strano comportamento. Lei porse le sue scuse alla bambina. «Non posso lasciarmi baciare. È un bitterbynde... un voto che non devo rompere.» Quel momento imbarazzante passò: dopotutto, un voto andava rispettato - a prescindere da quanto strano fosse - e così pure il desiderio di un'ospite. Era un piacere dare una mano nei molti lavoretti richiesti dalla vita in un posto così isolato: cuocere il pane, fare il formaggio, seccare e salare barili di pesce, zappare l'orto, lavare i panni, occuparsi delle arnie e degli animali... Immergersi nelle attività di quella famiglia placava la nostalgia che Ashalind provava per la propria, eppure il langothe continuava a roderle il cuore. Una notte si svegliò coi capelli che le svolazzavano crepitando intorno al capo e per la prima volta sperimentò Tesilarante fremito della tempesta magica. Aprì la finestra e vide, sotto il promontorio, le creste delle onde incoronate di stelle; dietro la casa, l'orto era cosparso di polvere di smeraldi e la capra, legata a un palo, aveva occhi di topazio e corna d'agata scolpita. Era come aveva detto Cierndanel: I venti di gramarye si svegliano a questo oltraggio e soffiano dal Cerchio delle Tempeste ai confini di Erith... Presto potrebbero minacciare le regioni del tuo mondo, tinti dei colori dell'umana fantasia. Per tutto il giorno soffiò il" vento shang, oscurando la luce del sole e spruzzando su terra e mare strani getti di luce: non c'erano scenari fantasma lì, in quella zona così lontana dai luoghi ove si consumavano i drammi e le tragedie umane. «Perché siete venuti a vivere qui, da soli?» domandò Ashalind a Made-
linn, mentre sedevano sul molo a rammendare reti. «Non è pericoloso?» «A volte si è costretti a fare scelte sgradevoli», disse la donna. «So bene che nessun altro vorrebbe vivere così vicino a quel posto terribile. Spesso qui intorno si aggirano esseri unseelie, così spaventosi che chi ha osato abbandonare la strada carovaniera per avventurarsi nel cratere non è più tornato indietro... oppure ha perso la ragione ed è morto poco dopo. A volte, con la luna piena, oscuri cavalieri del cielo giungono alle Torri della Caccia da nord-est e, poco dopo, parte la spettrale Caccia Selvaggia. Il suo capo è Huon, il terribile Principe unseelie dal cui cranio crescono grandi corna di cervo... Lo chiamano il Cacciatore.» «L'ho sentito nominare», annuì Ashalind. «Quando la Caccia è in corso, noi stiamo chiusi in casa con le porte e le finestre sbarrate ma sentiamo passare sopra di noi gli orribili latrati dei cani dagli occhi di fiamma e il battito di grandi ali. È un'esperienza che fa gelare il sangue.» «Allora perché siete venuti qui?» «Perché è casa nostra», rispose Madelinn con tranquilla dignità. «Otto anni fa, quando i bambini erano piccoli, ci imbarcammo a Gilvaris Tarv sulla costa orientale per trasferirci qui. Tavron e io siamo figli di pescatori ma la miseria ci aveva costretti a cercare lavoro in città, sebbene quella vita ci fosse insopportabile.» Scosse il capo, accigliata. «Lavoravamo come bestie e ci pagavano poco; non riuscivamo a mantenere la famiglia e i nostri bambini pativano la fame. Mio zio aveva costruito qui una casa, perché era un buon posto per acquistare pesce dai marinai dell'Isola degli Uccelli e rivenderlo ai mercanti che passavano sulla carovaniera; quando morì, io la ereditai... così siamo venuti qui dove almeno siamo padroni di noi stessi, anche se non diventeremo mai ricchi. Abbiamo imparato a vivere all'ombra delle Torri della Caccia.» «Vuoi parlarmene?» Madelinn indicò il mare con un ampio gesto. Non lontano dalla costa c'era un'isola dominata da una montagna conica, a sud-ovest del porticciolo. Più a ovest ne sorgeva un'altra e poi un'intera fila, arcuata in direzione nord-ovest. «Questa è la Catena delle Fumaiole, come la chiamiamo noi: una fila di montagne di fuoco vecchie come il tempo, che una volta spuntarono dal mare.» «Le ho sentite nominare. Dalle mie parti le chiamano Eotenfor... Un vecchio nome feorh che significa 'Pietre Giganti'», disse Ashalind.
«Già», annuì Madelinn. «La fila di quei vulcani prosegue anche qui sul continente e uno di essi è il luogo che cerchi: le Torri della Caccia. La sua cima tronca è una caldera larga più di un miglio, dentro la quale c'è una dozzina di collinette coniche che sono, in effetti, piccoli sbocchi vulcanici. Nell'antichità il cratere fu invaso dall'acqua, sicché ora quelle alture sono isole in un lago; la più vasta si trova esattamente al centro ma ponti di vario genere sono stati costruiti dappertutto, si dice, in modo che le creature eldritch possano passare dall'una all'altra. Sull'isola centrale c'è una fortezza circondata da otto torri, tutte collegate da ponti di pietra.» Madelinn fece una pausa e si scostò una ciocca di capelli dal viso con aria pensosa, poi proseguì: «Be', suppongo che qualcuno tra quanti sono andati là a curiosare sia tornato ancora sano di mente... altrimenti non potremmo sapere che aspetto ha quel posto, ti pare? Però non raccomando a nessuno di andare a farsi un giro da quelle parti. Gli unseelie minori si allontanano facilmente coi talismani ma quelli che partecipano alla Caccia... Ah, quelli sono davvero terribili!» Ashalind la stava ascoltando con un orecchio solo, poiché la sua mente era già volata alle Torri della Caccia. Se davvero vi abitavano alcuni dei faêran esiliati, dovevano sapere dove si trovava il Re Angavar... ma da quanto aveva detto Madelinn sembrava che aggredissero i mortali e che ben difficilmente l'avrebbero accolta di buon animo, rispondendo alle sue domande e lasciandola andar via senza torcerle un capello. Dunque lei avrebbe dovuto avvicinarsi di nascosto e cercare di procurarsi quell'informazione con qualche espediente. E se non ci fosse stato nessun faêran? Wight unseelie come l'Each Uisge erano capaci di assumere una forma fisica simile a quella degli uomini o dei faêran, tale da ingannare chiunque non li osservasse troppo da vicino... tuttavia la loro non era una trasformazione completa: si sarebbero sempre traditi con dettagli come dita artigliate o piedi animaleschi. Quando assumevano forma umana, del resto, si muovevano come uomini e non certo con la grazia dei faêran. Il Principe Morragan era solito frequentare i wight unseelie a Carnconnor. Forse era lui il loro misterioso padrone alle Torri della Caccia! A quel pensiero, Ashalind fu attraversata da un fremito d'eccitazione e spavento. Accanto a lei, la moglie del pescatore sospirò. «Un giorno o l'altro ce ne andremo da qui. Il problema è che non riusciamo a mettere un soldo da parte: i mercanti della carovaniera pagano poco per il pesce salato e, per
giunta, passano solo un paio di volte all'anno. Non è bello che i bambini crescano in quest'atmosfera di paura. Un giorno... non so dove, però ce ne andremo!» Alcune sere dopo, la luna era quasi piena. Il vento ululava su un mare grigioverde e frustava le creste spumeggianti dei cavalloni, appena fuori dal porticciolo. Nel casolare, le braci color rubino proiettavano ombre ingannevoli sulle rustiche pareti. Ashalind posò sul tavolo la borsa di sovrane d'oro e sciolse il cordone che la chiudeva. Le monete rotolarono sul legno consunto, scintillando; il pescatore e sua moglie le guardarono, storditi dalla vista di tanta ricchezza. «Sono per voi», spiegò la loro ospite. «A parte sette monete d'oro, di cui potrò aver bisogno durante il viaggio. Se non tornerò entro tre giorni, tenetele tutte e lasciate questo posto, perché la mia intrusione potrebbe aver svegliato la rabbia degli unseelie e forse anche voi sareste in pericolo. C'è il caso che io non ritorni neppure se la mia ricerca avrà successo... oppure che non riesca a trovare quel che cerco e che vi chieda di portarmi in barca sino a Caermelor. Domattina andrò alle Torri della Caccia, a cercare il Supremo Re del Popolo Fatato.» A rompere il silenzio fu Tavron, che si schiarì la gola. «Non possiamo prendere il tuo oro», rispose, accigliato. «Rimettilo nella borsa. La nostra ospitalità non è in vendita.» «Non vorrei mai offendervi pagando ma, se non tornerò, non avrò più bisogno di denaro», precisò Ashalind. «Con quest'oro potrete comprare un po' di terra altrove e cominciare una nuova vita.» Il piccolo cane bianco avvertì la disperazione della fanciulla e le saltò in grembo: commossa, lei lo accarezzò, ripensando al suo fedele Rufus. «Se proprio devi andare, io ti scorterò», dichiarò Tavron. «I talismani non basterebbero per proteggerti dalle creature malvagie che si rintanano laggiù.» «Lasceresti la tua famiglia priva di protezione?» domandò Ashalind. «Nessuno andrà in quel luogo spaventoso, specialmente ora», intervenne Madelinn. «Non hai sentito i nostri avvertimenti? Domani sarà luna piena e la Caccia Selvaggia si scatenerà su tutta la regione. I mortali che tengono alla vita devono stare al sicuro dietro il frassino e il ferro!» «Ho prestato attenzione a ciò che mi avete detto ma sono costretta a rischiare», replicò Ashalind. «C'è una nostalgia che mi brucia l'anima e la mente... una nostalgia che potrà essere spenta solo quando avrò trovato
colui che cerco. È il langothe... Chi non l'ha mai provato non può capire. Niente di ciò che potete dire mi farà cambiare idea, poiché non ho altra scelta!» «Eppure devi resistere!» la supplicò Tansy. «Resta con noi a insegnarci altre canzoni!» «No. Devo andare.» Il mattino dopo Ashalind lasciò il casolare, coperta dal mantello faêran che aveva sottilmente alterato i suoi colori per mimetizzarsi con l'ambiente circostante. Portò con sé la daga di ferro di suo padre, una borsa di cibo, diversi talismani e una borraccia di cuoio regalatale da Tavron; il malconcio abito da equitazione, invece, fu lasciato in una cassa di legno. La giovane donna aveva addosso un paio di pantaloni da uomo, una robusta blusa di panno e degli stivali consunti: tutti gli abiti di cui i Caiden potevano permettersi di disfarsi. «Sono vecchi ma adatti per viaggiare in questa terra», disse Tavron. «Purtroppo non abbiamo un cappuccio con la reticella di talium, perciò se dovesse arrivare una tempesta magica - distenditi al suolo, evita ogni emozione e non pensare a niente, altrimenti la tua immagine mentale sarà portata in giro e tutti potranno vederla.» «Forse questo tuo strano mantello ha il potere di difenderti dal vento shang», ipotizzò Madelinn. «Tirati il cappuccio sulla testa. Potrebbe funzionare.» Sulla porta di casa, la moglie del pescatore fece un ultimo tentativo. «Non andare, Ashalind», la pregò, guardandola dritta negli occhi. «Mia madre era una Carlin e io, che possiedo un po' della sua precognizione, posso dirti che se andrai alle Torri della Caccia ti accadrà qualcosa di brutto. So che laggiù sarai sconfitta e che quest'impresa porterà alla scomparsa della Ashalind che noi conosciamo... Forse morirai o forse sarai cambiata in qualche terribile, incomprensibile maniera.» Le sue esortazioni furono inutili. I componenti della piccola famiglia l'abbracciarono senza baciarla e le dissero addio, poi le voltarono le spalle per non mostrarle il loro orrore dinanzi a quello che, a tutti gli effetti, equivaleva a un suicidio. La fanciulla si mise in cammino verso Punta delle Maree e, a passi svelti, salì lungo il pendio dietro la casupola, ansimando per lo sforzo. Gli ultimi brandelli della nebbia mattutina non si erano ancora dissolti quando, raggiunta la dorsale dell'altura, si fermò a guardare la superficie satinata
del mare: le acque apparivano striate di sfumature lattescenti o grigiastre sotto il cielo color lavanda. I coni perfetti delle Fumaiole si ergevano a guardia del mare, con le onde che imbiancavano le loro spiagge. Un falco pescatore appollaiato su una roccia, come inchiodato a una croce, si asciugava le ali. Ashalind non aveva ancora visto un elindor in quella nuova epoca; quel mattino, soltanto folaghe e rondini di mare sfrecciavano nel cielo della costa. Il cagnolino bianco l'aveva seguita e lei, stoicamente, lo rimandò indietro