JOHN GRISHAM LA CONVOCAZIONE (The Summons, 2002) 1 Giunse per posta, servizio ordinario alla vecchia maniera, perché il ...
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JOHN GRISHAM LA CONVOCAZIONE (The Summons, 2002) 1 Giunse per posta, servizio ordinario alla vecchia maniera, perché il Giudice aveva quasi ottant'anni e diffidava dei nuovi sistemi. Niente e-mail o fax. Non usava una segreteria telefonica e non aveva mai amato il telefono. Batteva le sue lettere con i due indici, un tasto alla volta, curvo sulla sua vecchia Underwood appoggiata sopra una scrivania a serranda sotto il ritratto di Nathan Bedford Forrest. Suo nonno aveva combattuto con Forrest a Shiloh e in tutto il profondo Sud e per il Giudice non c'era figura storica più venerata. Per trentadue anni aveva elegantemente evitato di tenere udienze il 13 luglio, giorno del compleanno di Forrest. Giunse insieme a un'altra lettera, una rivista e due fatture, e fu messa come di consueto nella cassetta riservata al professor Ray Atlee, presso la scuola di legge. Lui la riconobbe immediatamente, perché quelle buste scandivano la sua vita da sempre. Era di suo padre, l'uomo che anche lui chiamava "il Giudice". Il professor Atlee osservò la lettera, incerto se aprirla subito o aspettare. Buone o cattive nuove, con suo padre non si poteva mai dire, sebbene il vecchio stesse morendo e le buone notizie fossero rare. La busta era sottile e sembrava contenere un solo foglio; niente di insolito in questo. Il Giudice era stringato nello scrivere, nonostante la passata fama di verbosità nelle sue esternazioni dal banco della corte. Di sicuro era una lettera formale. Il Giudice non era tipo da convenevoli, aborriva i pettegolezzi e le chiacchiere a tempo perso. Un tè freddo in veranda con lui avrebbe significato una rivisitazione delle battaglie combattute nella Guerra Civile, probabilmente quella di Shiloh, per la quale avrebbe puntualmente addossato tutta la colpa della sconfitta dei Confederati agli immacolati stivali del generale Pierre G.T. Beauregard, un uomo che avrebbe disprezzato persino in cielo, se avessero avuto la ventura di incontrarsi. Presto sarebbe morto. Aveva settantanove anni e un cancro allo stomaco. Era sovrappeso, diabetico, forte fumatore di pipa, aveva un cuore in disordine già sopravvissuto a tre infarti e una manciata di malanni minori che, dopo averlo tormentato per vent'anni, ora si stavano facendo sotto per il
colpo di grazia. Il dolore era costante. Durante la loro ultima telefonata tre settimane prima, quando Ray lo aveva chiamato perché il Giudice considerava una rapina il costo delle interurbane, lo aveva sentito debole e affaticato. Avevano parlato per meno di due minuti. L'indirizzo del mittente era a lettere d'oro in rilievo: Giudice Reuben V. Atlee, Venticinquesimo distretto, Tribunale della contea di Ford, Clanton, Mississippi. Ray infilò la busta nella rivista e si incamminò. Il Giudice Atlee non era più in carica. Gli elettori lo avevano mandato in pensione nove anni prima, un'amara sconfitta dalla quale non si era mai ripreso. Dopo trentadue anni di onorato servizio, il suo popolo lo aveva dimesso in favore di un magistrato più giovane, armato di pubblicità radiofonica e televisiva. Il Giudice aveva rifiutato la tenzone elettorale. Aveva dichiarato di essere troppo occupato e, soprattutto, aveva aggiunto che la gente lo conosceva bene e, se voleva rieleggerlo, lo avrebbe rieletto. A molti la sua strategia era sembrata presuntuosa. Aveva vinto nella contea di Ford, ma era uscito sonoramente battuto nelle altre cinque. C'erano voluti tre anni per farlo sloggiare dal palazzo di giustizia. Il suo ufficio al primo piano era sopravvissuto a un incendio e aveva rifiutato due ristrutturazioni. Il Giudice non aveva permesso a nessuno di profanarlo con pennelli e martelli. Quando gli ispettori della contea lo avevano finalmente convinto a lasciare i locali se non voleva essere sfrattato dalla forza pubblica, aveva inscatolato tre decenni di inutili pratiche, appunti, vecchi libri polverosi e li aveva portati a casa, accatastandoli nel suo studio. Una volta riempito lo studio, aveva allineato gli scatoloni lungo i corridoi, in sala da pranzo e persino nell'ingresso. Ray rivolse un cenno a uno studente seduto nell'atrio. Davanti alla porta del suo ufficio, scambiò qualche parola con una collega. Dopo essere entrato, chiuse a chiave e posò la corrispondenza al centro della scrivania. Si tolse la giacca, l'appese dietro la porta, scavalcò la pila di voluminosi tomi legali che continuava a scavalcare da più di sei mesi ed espresse sottovoce il quotidiano proponimento di riorganizzare il suo ambiente di lavoro. Il locale era di quattro metri per cinque, con una piccola scrivania e un divanetto, entrambi sepolti da un quantitativo di materiale sufficiente a farlo apparire un docente molto occupato. Non lo era. Per il semestre di primavera teneva un solo corso sull'antitrust. E aveva in programma di scrivere un libro, un'ennesima, noiosa dissertazione sui monopoli, che nessuno avrebbe letto ma che sarebbe andato ad arricchire il suo curriculum. Era titolare di una cattedra, ma come tutti i professori seri era dominato dalla
legge accademica del "pubblicare o perire". Si sedette alla scrivania e spostò alcune scartoffie per farsi spazio. La busta era indirizzata al professor N. Ray Atlee, scuola di legge dell'Università della Virginia, Charlottesville, Virginia. Le "e" e le "o" erano sbavate. Erano dieci anni che il nastro andava sostituito. E i codici postali erano un'altra innovazione che il Giudice preferiva ignorare. La N stava per Nathan, in omaggio al generale, ma erano in pochi a saperlo. Uno dei litigi più aspri era stato per la decisione del figlio di lasciar perdere Nathan e vivere semplicemente come Ray. Le lettere del Giudice venivano sempre inviate all'università, mai all'abitazione di suo figlio nel centro di Charlottesville. Al Giudice piacevano i titoli e gli indirizzi di prestigio e voleva che la gente di Clanton, compresi gli impiegati postali, sapesse che suo figlio era professore di legge. Non era necessario. Ray insegnava (e scriveva) da tredici anni e tutta la gente importante nella contea di Ford ne era a conoscenza. Aprì la busta e dispiegò l'unico foglio. Anche su quello campeggiava il nome del Giudice con la sua vecchia carica e l'indirizzo, sempre senza codice postale. Doveva avere scorte inesauribili di carta intestata. La missiva era indirizzata a Ray e a Forrest, il fratello minore, i due unici figli di uno sfortunato matrimonio che aveva avuto fine nel 1969 con la morte della madre. Come sempre, il messaggio era conciso: Prego disporre in modo da presentarsi al mio studio domenica 7 maggio, ore 17, per discutere l'amministrazione del mio patrimonio. In fede, Reuben V. Atlee La firma caratteristica si era avvizzita e appariva incerta. Per anni aveva posto il suo sigillo su sentenze e ordinanze che avevano cambiato la vita a innumerevoli persone. Sentenze di divorzio, custodia di minori, allenamento dei diritti di un genitore, adozioni. Ordinanze che concludevano impugnazioni di testamenti e di risultati elettorali, dispute immobiliari, litigi per confini di proprietà. L'autografo del Giudice era stato autorevole e ben riconoscibile; adesso era lo scarabocchio vagamente familiare di un uomo anziano e molto malato. Malato o no, Ray sapeva che comunque sarebbe stato puntuale all'incontro nello studio di suo padre. Era appena stato convocato e, per quanto irri-
tante, non aveva dubbio che lui e suo fratello si sarebbero sottomessi a un'ultima predica al cospetto di "vostro onore". Era tipico del Giudice scegliere un giorno che fosse conveniente per sé senza consultare gli altri. Era nella sua natura, e forse in quella della categoria dei giudici in generale, stabilire date e scadenze con scarso riguardo per il prossimo. Era una mano pesante che si imparava a esercitare quando si aveva a che fare con il ritmo frenetico delle sessioni, parti recalcitranti, avvocati troppo impegnati, avvocati indolenti. Ma il Giudice aveva governato la sua famiglia praticamente nello stesso modo in cui aveva presieduto la sua aula di tribunale, e quella era la ragione principale per cui Ray Atlee insegnava legge in Virginia e non la esercitava nel Mississippi. Rilesse la convocazione, poi la posò in cima ai promemoria e ai documenti ancora in sospeso. Andò alla finestra a contemplare il cortile dove tutto era in fiore. Non si sentiva in collera né rattristato, piuttosto amareggiato di dover ancora una volta sottostare a un ordine di suo padre. Ma il vecchio stava morendo, si disse. Sii indulgente. Non ci sarebbero state molte altre gite a casa. Il patrimonio del Giudice era avvolto nel mistero. Il bene principale era la casa, un lascito dello stesso Atlee che aveva combattuto con il generale Forrest. In una via alberata della vecchia Atlanta avrebbe avuto un valore superiore al milione di dollari, ma non a Clanton. La costruzione si ergeva al centro di due ettari di terreno trascurato a tre isolati dalla piazza della cittadina. I pavimenti erano imbarcati, il tetto malandato, e le pareti non avevano conosciuto imbiancatura in tutta la vita di Ray. Lui e suo fratello potevano rivenderla forse per centomila dollari, ma l'acquirente avrebbe dovuto spendere due volte tanto per renderla abitabile. Nessuno dei due avrebbe mai pensato di viverci; Forrest, dal canto suo, non ci metteva piede da anni. La casa si chiamava Maple Run, quasi fosse una sontuosa villa con servitù e un ricco calendario di eventi mondani. L'ultimo aiuto era stato Irene, la domestica. Era morta da quattro anni e dopo di lei nessuno aveva più passato l'aspirapolvere sui pavimenti o il panno sui mobili. Il Giudice pagava un tizio venti dollari alla settimana perché tagliasse l'erba, ed era un esborso al quale si rassegnava con grande riluttanza. Ottanta dollari al mese erano una rapina, nella sua erudita opinione. Quando Ray era bambino, la mamma si riferiva alla casa chiamandola Maple Run. Non pranzavano mai a casa, bensì a Maple Run. Il loro indirizzo non era Atlee, Fourth Street, bensì Maple Run, Fourth Street. Erano
poche le famiglie di Clanton che avevano un nome per la propria dimora. Quando la madre di Ray era morta per un aneurisma, l'avevano adagiata sul tavolo nel salotto principale. Per due giorni i concittadini erano passati, avanzando in corteo nel portico, attraverso l'ingresso e il salotto, per rendere l'ultimo saluto, e finire in sala da pranzo per il punch e i biscotti. Nascosti in soffitta, Ray e Forrest avevano maledetto il padre per aver consentito un simile spettacolo. Laggiù c'era la mamma, una bella e giovane donna, ora pallida e irrigidita in una bara scoperchiata. Forrest aveva sempre chiamato la casa "Maple Ruin". Gli aceri rossi e gialli che una volta fiancheggiavano la via erano morti per qualche sconosciuta malattia. I loro tronchi marci non erano mai stati estirpati. Quattro querce enormi ombreggiavano il prato antistante. Scaricavano foglie a tonnellate, troppe perché qualcuno potesse raccoglierle con il rastrello. E almeno due volte l'anno perdevano un ramo, che si abbatteva con uno schianto sul tetto, dove talvolta rimaneva. E la casa era sempre lì, anno dopo anno, lustro dopo lustro, ad accusare i colpi ma senza crollare mai. Nonostante tutto era ancora un bell'edificio in stile georgiano, con il colonnato, un monumento glorioso per coloro che l'avevano costruita e ora il triste memento di una stirpe in declino. Ray non voleva averci niente a che fare. Per lui la casa era un album di memorie spiacevoli e ogni volta che ci tornava era una nuova occasione di malinconia. Oltre tutto, non si poteva permettere il salasso economico necessario a mantenere una proprietà che meritava di essere rasa al suolo. Forrest avrebbe preferito bruciarla piuttosto che possederla. Il Giudice voleva invece che Ray prendesse la casa e la conservasse alla famiglia. Se n'era discusso in termini vaghi in quegli ultimi anni. Ray non aveva mai trovato il coraggio di dirgli: "Quale famiglia?". Lui non aveva figli. Esisteva un'ex moglie, ma non c'erano prospettive di una replica. Lo stesso valeva per Forrest, con la sola differenza che lui aveva due ex mogli, una vertiginosa collezione di ex fidanzate e l'attuale ménage con Ellie, una pittrice e vasaia che pesava un quintale e aveva dodici anni più di lui. Che Forrest non avesse messo al mondo figli sembrava un miracolo, ma finora non se n'era scoperto nessuno. Come discendenza, gli Atlee si avviavano a una triste e inevitabile estinzione, la qual cosa non preoccupava affatto Ray, che viveva per sé, non per onorare il padre o il glorioso passato della famiglia. Tornava a Clanton solo in occasione dei funerali. Degli altri beni del Giudice non si era mai discusso. Un tempo la fami-
glia Atlee era stata facoltosa, ma molto prima che nascesse Ray. C'erano stati terreni, piantagioni di cotone, schiavi, ferrovie, banche e cariche politiche, il tradizionale portfolio di un notabile confederato che, in termini di liquidità, sul finire del Ventesimo secolo non aveva alcun significato. Sufficiente, tuttavia, a conferire agli Atlee la qualifica di "ereditieri". A dieci anni Ray aveva saputo che la sua famiglia era agiata. Suo padre era giudice e la sua casa aveva un nome: nelle campagne del Mississippi questo significava che lui era un bambino ricco. Prima di morire, sua madre aveva fatto del suo meglio per radicare in Ray e Forrest un senso di superiorità nei confronti del prossimo. Loro abitavano una magione. Erano presbiteriani. Andavano in vacanza in Florida, ogni tre anni. Di tanto in tanto cenavano al Peabody Hotel di Memphis. Vestivano bene. Poi Ray era stato ammesso a Stanford. Ma i suoi sogni si erano infranti sotto le categoriche parole del Giudice: "Non me lo posso permettere". "Come sarebbe a dire?" aveva chiesto. "Quello che ho detto. Non posso permettermi Stanford." "Non capisco." "Allora sarò più esplicito. Puoi iscriverti a qualunque università. Ma se vai a Sewanee, allora pagherò io." Ray andò a Sewanee, senza il sostegno di un congruo patrimonio di famiglia, mantenuto da suo padre in modo appena sufficiente a coprire istruzione, libri, alloggio e iscrizione all'associazione studentesca. La specializzazione l'aveva completata alla scuola di legge di Tulane, dove era sopravvissuto servendo ostriche in un ristorante nel quartiere francese. Per trentadue anni il Giudice aveva incassato lo stipendio da magistrato, tra i più bassi del paese. A Tulane, Ray aveva letto un rapporto sui compensi della magistratura e aveva appreso con dispiacere che i giudici del Mississippi guadagnavano cinquantaduemila dollari l'anno quando la media nazionale era di novantacinquemila. Il Giudice viveva da solo, spendeva poco per la casa, non aveva vizi tranne fumare la pipa e preferiva tabacco economico. Possedeva una vecchia Lincoln, mangiava male ma molto e indossava gli stessi abiti neri fin dagli anni Cinquanta. Il suo debole era la beneficenza. Risparmiava e poi regalava i suoi soldi. Nessuno sapeva quanto denaro il Giudice donasse in un anno. Il dieci per cento andava automaticamente alla Chiesa presbiteriana. À Sewanee andavano duemila dollari e altrettanti ai Figli dei Veterani Confederati. Queste tre donazioni erano scolpite nel marmo. Il resto no.
Il Giudice Atlee era generoso con chiunque. Un bambino invalido che aveva bisogno di stampelle. Una squadra universitaria in trasferta per un torneo. Una sottoscrizione promossa dal Rotary Club per vaccinare neonati in Congo. Un ricovero per cani e gatti randagi nella contea di Ford. Un tetto nuovo per l'unico museo di Clanton. L'elenco era interminabile, e per ricevere un assegno bastava scrivere poche righe. Il Giudice Atlee non mancava mai di esaudire le richieste, e così era stato fin dai tempi in cui Ray e Forrest avevano lasciato la casa paterna. Ray se lo immaginò immerso nel disordine e nella polvere del suo scrittoio a battere brevi note di accompagnamento alla sua Underwood e infilarle nelle buste intestate insieme ad assegni appena leggibili della First National Bank di Clanton: cinquanta dollari qui, cento dollari là, un po' per ognuno finché ce n'erano. La distribuzione del patrimonio non sarebbe stata cosa complicata perché c'era ben poco da inventariare: vecchi tomi di legge, mobili malandati, una dolorosa collezione di ricordi e foto di famiglia, pratiche e scartoffie dei tempi andati. Insomma, un cumulo adatto a un sontuoso falò. La casa sarebbe stata messa in vendita per ricavarne il massimo possibile, e lui e Forrest avrebbero dovuto accontentarsi di aver racimolato qualcosa dalle ultime proprietà della famiglia Atlee. Sapeva di doverlo chiamare, ma non gli era mai stato difficile rimandare quelle telefonate. Suo fratello rappresentava un complesso di questioni e problemi assai più ostico di un vecchio genitore solitario e malamente prodigo che si preparava a morire. Forrest era un disastro ambulante, un bambino di trentasei anni con la mente bruciata da tutte le sostanze legali e illegali conosciute dalla cultura americana. Che famiglia, borbottò tra sé Ray. Avvisò la segreteria che avrebbe saltato la lezione delle undici e andò alla seduta di terapia. 2 Primavera nel Piedmont, placidi cieli tersi, le pendici delle montagne ogni giorno più verdi, la Shenandoah Valley in via di mutazione al passare e ripassare dei contadini nei loro solchi perfetti. Per l'indomani era prevista pioggia, ma non c'erano previsioni attendibili nella Virginia centrale. Con quasi trecento ore di volo alle spalle, Ray cominciava ogni giorno
correndo per cinque chilometri con un occhio al cielo. Correre era un'attività che si poteva svolgere con qualsiasi tempo, volare no. Aveva promesso a se stesso (e alla sua compagnia di assicurazioni) che non avrebbe volato di notte e non si sarebbe avventurato tra le nuvole. Il novantacinque per cento degli incidenti in cui incorrevano i velivoli di piccole dimensioni avvenivano o in condizioni di brutto tempo o al buio; dopo aver volato per quasi tre anni, Ray era ancora deciso a interpretare la parte del vigliacco. "C'erano piloti anziani e piloti audaci" recitava un adagio "ma non piloti anziani audaci." Ci credeva. Ne era convinto. E poi la Virginia centrale era troppo bella per sorvolarla in mezzo alle nuvole. Aspettava condizioni meteorologiche perfette, senza vento a sballottarlo e a rendergli complicati gli atterraggi, senza nebbia a confondere l'orizzonte e fargli perdere l'orientamento, senza sintomi minacciosi di tempeste o scarsa visibilità. Il cielo limpido durante la corsa mattutina determinava di solito il resto della sua giornata. Anticipava o ritardava il pranzo, annullava una lezione, causava il rinvio di una ricerca a un giorno di pioggia, o anche a una settimana piovosa, se è per questo. Con le condizioni di tempo giuste partiva immediatamente per l'aeroporto. Era a nord della città, a un quarto d'ora di macchina dalla facoltà. Alla scuola di volo fu accolto nel solito modo rude da Dick Docker, Charlie Yates e Fog Newton, i tre ex piloti della Marina che ne erano i titolari e avevano addestrato quasi tutti gli aspiranti piloti della zona. Ogni giorno si ritrovavano nel Cockpit, una fila di vecchie seggiole da cinematografo nell'ufficio della loro scuola, davanti alle quali bevevano caffè a litri e raccontavano storie e aneddoti di volo di ora in ora più clamorosi. A tutti i clienti e allievi veniva imposta la stessa tortura verbale; che piacesse o no, a loro importava poco. Godevano di ottime pensioni. La vista di Ray innescò una salva di barzellette sugli avvocati, nessuna delle quali particolarmente divertente, salutate però da sonori scrosci di risa a ogni battuta finale. «Per forza non hai allievi» commentò Ray mentre compilava i moduli. «Dove vai?» gli chiese Docker. «A fare qualche buco nel cielo.» «Avvertiamo la torre di controllo, allora.» «Vi vedo troppo occupati.» Dieci minuti di reciproci insulti e pratiche di noleggio, dopodiché Ray fu libero di andare. Per otto dollari l'ora poteva avere un Cessna che lo portava a millecinquecento metri da terra, lontano da gente, telefoni, traffico e
anche studenti e ricerche. In quel giorno particolare, anche dal padre morente, dal fratello mezzo matto e dall'inevitabile macello che lo attendeva a casa. C'erano trenta aerei leggeri nel settore riservato all'aviazione da diporto, per la gran parte piccoli Cessna con ali alte e carrelli fissi, ancora i velivoli più sicuri che siano mai stati costruiti. Si vedevano anche modelli più pretenziosi. Vicino al Cessna che aveva noleggiato c'era un Beech Bonanza, un gioiellino monomotore da duecento cavalli che Ray avrebbe potuto imparare a guidare in un mese con poche ore di addestramento. Faceva quasi settanta nodi più del Cessna ed era dotato di quel tanto di gadget e accessori vari da far venire l'acquolina in bocca a qualsiasi pilota. Peggio ancora, il Bonanza era in vendita a quattrocentocinquantamila dollari, un affare, naturalmente, ma non più di tanto. Il proprietario costruiva centri commerciali e voleva un King Air, stando ai più recenti commenti fatti al Cockpit. Ray si allontanò dal Bonanza per concentrarsi sul suo piccolo Cessna. Come tutti i novizi, lo ispezionò con cura seguendo una checklist. Fog Newton, il suo istruttore, aveva cominciato ogni lezione con qualche macabro racconto di incendio e morte provocati da piloti troppo frettolosi o pigri per usare una lista di controllo. Quando fu sicuro che tutte le parti e le superfici esterne erano a posto, aprì lo sportello, salì a bordo e si allacciò la cintura. Il motore si avviò senza intoppi e la radio si animò sputacchiando. Completò i controlli preliminari e chiamò la torre. C'era già un aerobus in attesa di decollo e dovette attendere dieci minuti prima di poter chiudere gli sportelli e ottenere il via Ubera. Si staccò da terra morbidamente e virò a ovest, verso la Shenandoah Valley. Sorvolò l'Afton Mountain a soli milleduecento metri di quota e per qualche secondo fu scosso da una turbolenza che non si discostò comunque dai livelli di normalità. Quando ebbe superato la zona montuosa e fu di nuovo sulla distesa dei campi coltivati, l'aria tornò tranquilla. La visibilità era ufficialmente di trenta chilometri, anche se a quell'altitudine poteva vedere ben più lontano. Niente soffitti, niente nubi. A milleseicento metri vide emergere lentamente all'orizzonte le vette del West Virginia. Completò la serie dei controlli previsti per il dopo decollo, regolò la miscela del carburante per una velocità di crociera normale e si rilassò per la prima volta da quando era andato a prendere posizione all'estremità della pista. Il chiacchiericcio della radio si dissolse e Ray non ne avrebbe udito altro finché non si fosse sintonizzato sulla torre di Roanoke, sessanta chilometri
a sud. Decise di evitare Roanoke e rimanere nello spazio aereo libero. Sapeva per esperienza personale che nella zona di Charlottesville gli psichiatri prendono duecento dollari l'ora. Volare era un affare, da quel punto di vista, e con risultati molto più efficaci, sebbene fosse stato proprio un ottimo strizzacervelli a suggerirgli quel nuovo hobby, sollecitandolo a dedicarvisi al più presto. Andava da lui perché aveva bisogno di andare da qualcuno. Esattamente un mese dopo che l'ex signora Atlee aveva presentato richiesta di divorzio, abbandonato il lavoro e lasciato la loro casa portandosi via solo gli abiti e i gioielli - in un'azione all'insegna della più spietata efficienza durata meno di sei ore -, Ray aveva salutato lo psichiatra per l'ultima volta, si era recato all'aeroporto, era entrato nel Cockpit e si era buscato il primo insulto da Dick Docker o da Fog Newton, non ricordava più bene. L'insulto aveva avuto un effetto tonificante, qualcuno lo riconosceva come essere umano. Ce n'erano stati altri, grazie ai quali Ray, ferito e confuso com'era, aveva sentito di aver trovato una famiglia. Da tre anni, ormai, solcava i cieli limpidi e solitari delle Blue Ridge Mountains e della Shenandoah Valley, smaltendo le sue collere, versando qualche lacrima, sviscerando i crucci della sua vita al sedile vuoto che aveva accanto. Se n'è andata, continuava a ripetergli il posto vuoto. Ci sono donne che se ne vanno e poi tornano. Altre se ne vanno e si sottopongono a un doloroso riesame. Altre ancora se ne vanno con tanta spavalderia da non girarsi più indietro. L'uscita di Vicki dalla sua vita era stata così ben progettata e la sua esecuzione effettuata così a sangue freddo, che il primo commento dell'avvocato di Ray era stato: "Facci una croce sopra, amico mio". Lei aveva trovato un contratto migliore, come un atleta che cambia squadra. Eccoti la divisa nuova, sorridi alle telecamere, dimentica il vecchio stadio. Un bel mattino, mentre Ray era al lavoro, lei era partita su una limousine. La seguiva un furgone con la sua roba. Venti minuti dopo entrava nella nuova dimora, la villa in un allevamento di cavalli a est della città, dove Lew il Liquidatore l'attendeva a braccia aperte e con un contratto prematrimoniale. Lew era un corsaro della finanza i cui raid nel settore societario gli avevano fruttato, secondo le ricerche di Ray, qualcosa come mezzo miliardo di dollari; a sessantaquattro anni aveva incassato i suoi guadagni, lasciato Wall Street e, per qualche ragione, aveva scelto come suo nuovo nido proprio Charlottesville. In un momento imprecisato si era imbattuto in Vicki, le aveva proposto
un patto, l'aveva messa incinta dei figli che avrebbe dovuto generare Ray e ora, con una moglie da esibire come un trofeo e una nuova famiglia, voleva essere preso sul serio nel ruolo di nuovo pezzo da novanta. «Basta con questa storia» esclamò Ray a voce alta. Si era messo a parlare a milleseicento metri di quota e nessuno gli rispondeva. Supponeva, sperava che Forrest fosse sobrio, libero dall'influenza di droghe o alcol, sebbene simili supposizioni e speranze risultassero quasi sempre infondate. Dopo vent'anni di disintossicazioni e ricadute, c'era da dubitare che suo fratello sarebbe mai uscito dallo stato di dipendenza. Ed era sicuramente al verde, una condizione che andava di pari passo con le sue cattive abitudini. E poiché era senza quattrini, avrebbe desiderato trovarli, per esempio grazie ai beni del padre defunto. I soldi che il Giudice non aveva dato in beneficenza e per curare i bambini malati, li aveva versati nel buco nero delle disintossicazioni di Forrest. Era così ingente la somma sprecata in quel modo, e per un arco di tempo così lungo, che il Giudice, come solo lui avrebbe potuto, aveva praticamente chiuso ogni rapporto con il figlio. Per trentadue anni non aveva fatto altro che porre fine a matrimoni, togliere figli a genitori degeneri, assegnare bambini a famiglie adottive, rinchiudere persone malate di mente, mandare in galera padri delinquenti; aveva preso insomma provvedimenti drastici e di grande portata semplicemente apponendo la propria firma a un documento. Quando aveva ottenuto la nomina, la sua autorità gli era stata accordata dallo Stato del Mississippi, ma negli ultimi anni di carriera aveva preso ordini solo da Dio. Se c'era qualcuno che poteva rinnegare un figlio, questo era il giudice Reuben V. Atlee. Forrest fingeva di essere insensibile all'ostracismo del padre. Si considerava uno spirito libero e si vantava di non aver più messo piede a Maple Run da nove anni. Aveva visto il Giudice una volta all'ospedale, dopo che era stato colpito da un attacco cardiaco e i medici avevano riunito la famiglia. Sorprendentemente, in quell'occasione era sobrio. "Cinquantadue giorni, fratello" aveva bisbigliato orgoglioso all'orecchio di Ray mentre si abbracciavano nel corridoio del reparto di terapia intensiva. Quando le cure funzionavano, diventava un segnapunti ambulante. Se il Giudice aveva in animo di includere Forrest tra i suoi beneficiari, nessuno si sarebbe sorpreso più dello stesso Forrest. Ma, con la possibilità che denaro o beni di altro genere stessero per cambiare di mano, Forrest non avrebbe mancato di farsi vivo a caccia di avanzi e briciole.
Sopra il New River Gorge, vicino a Beckley, West Virginia, Ray virò per tornare indietro. Anche se volare costava meno di una terapia psichiatrica, non era comunque a buon mercato. Il tassametro ticchettava. Se avesse vinto a una lotteria, avrebbe comperato il Bonanza e se ne sarebbe andato in giro. Di lì a un paio d'anni avrebbe maturato il diritto a un anno sabbatico, come meritato intervallo nelle durezze della vita accademica. Tutti si sarebbero aspettati che portasse a termine il suo mattone da ottocento pagine sui monopoli e c'era persino la possibilità che andasse davvero così. Il suo sogno, però, era di noleggiare un Bonanza e scomparire nel cielo. Venti chilometri a ovest dell'aeroporto, chiamò la torre e si fece inserire nella tabella del traffico aereo. Il vento era leggero e variabile, l'atterraggio sarebbe stato facile. Un ultimo contatto radio, con la pista a circa due chilometri, e quando già si accingeva a una discesa perfetta, un altro pilota chiamò la torre di controllo annunciandosi come «Challenger-due-quattroquattro-delta-mike», venticinque chilometri a nord. La torre gli diede l'autorizzazione ad atterrare dietro il Cessna. Ray accantonò le sue fantasticherie il tempo necessario per un atterraggio da manuale, poi lasciò la pista e rullò verso la zona di parcheggio. Il Challenger è un jet di fabbricazione canadese che, a seconda della configurazione, può ospitare da otto a quindici persone. È in grado di volare senza scalo da New York a Parigi, offrendo tutte le comodità, con tanto di assistente di volo a servire bibite e spuntini. Nuovo si può acquistare per venticinque milioni di dollari circa, a seconda dell'interminabile lista di optional. Il 244DM era di Lew il Liquidatore, il quale se lo era accaparrato durante le operazioni di annientamento di una delle molte aziende in difficoltà che aveva fagocitato. Ray lo guardò atterrare e per un secondo sperò che si schiantasse e bruciasse davanti ai suoi occhi, su quella pista, per potersi godere lo spettacolo. Non andò così e quando il velivolo accelerò passandogli accanto, diretto al suo terminal privato, Ray si trovò all'improvviso in una situazione delicata. Dopo il divorzio aveva rivisto Vicki due volte, e certamente non desiderava vederla ora, a bordo di un Cessna vecchio di vent'anni mentre lei scendeva dalla scaletta del suo gioiello a reazione. Forse non era a bordo. Forse era solo Lew Rodowski che rientrava dopo un altro dei suoi raid. Ray chiuse l'alimentazione e il motore si spense, e mentre il Challenger si avvicinava sempre di più, cominciò a scivolare in basso nell'abitacolo.
Mentre il jet si fermava a meno di quaranta metri da dove Ray stava cercando di nascondersi, sopraggiunse un Suburban nero e scintillante a velocità un po' troppo sostenuta, con le luci accese, come se a Charlottesville fosse appena sceso qualche membro di casa reale. Due giovani, entrambi in camicia verde e calzoncini beige, saltarono giù dal fuoristrada apprestandosi a ricevere il Liquidatore e chiunque altro fosse a bordo del jet. Lo sportello del Challenger si aprì, fu calata la scaletta e Ray, sbirciando da sopra il quadro dei comandi da cui godeva di una visuale completa, osservò affascinato scendere per primo uno dei piloti, con due grossi sacchetti di acquisti. Poi Vicki, con i gemelli. Non avevano ancora tre anni, Simmons e Ripley, poveri bambini a cui erano stati appioppati come nomi di battesimo due cognomi solo perché avevano un'idiota per madre e il loro padre aveva già messo al mondo nove predecessori, quindi probabilmente non gli importava niente di come si chiamassero gli ultimi arrivati. Erano maschi, questo Ray lo sapeva di sicuro perché si teneva informato sulla cronaca locale: nascite, decessi, furti, eccetera. Erano nati al Martha Jefferson Hospital sette settimane e tre giorni dopo la formalizzazione del divorzio consensuale degli Atlee e sette settimane e due giorni dopo che una Vicki in avanzato stato di gravidanza aveva sposato Lew Rodowski, alla sua quarta visita in scuderia, o come altro si soleva dire nel gergo degli allevatori. Vicki scese lentamente, tenendo i bambini per mano. Mezzo miliardo di dollari le stava bene, addosso: jeans griffati e attillati sulle lunghe gambe, divenute visibilmente più snelle da quando era entrata nel jet set. Per la verità Vicki gli sembrava in uno stato di superba inedia, con quelle braccia ossute, il sedere appiattito, le guance incavate. Non le vedeva gli occhi perché erano ben celati dietro un paio di occhiali neri avvolgenti, ultimo grido a Hollywood o a Parigi, ciascuno faccia la propria scelta. Il Liquidatore non pativa la fame. Attendeva impaziente alle spalle della moglie e della prole attuali. Sosteneva di correre le maratone, ma è anche vero che assai poco di quanto affermava sulla stampa rispondeva a verità. Era tarchiato e con il pancione. Aveva perso metà dei capelli e l'altra metà era grigia. Lei aveva quarantun anni e ne dimostrava trenta. Lui ne aveva sessantaquattro e ne dimostrava settanta, o almeno così giudicava Ray, con grande soddisfazione. Salirono finalmente sul Suburban con i due piloti e i due autisti carichi di bagagli e maxisacchetti di Saks e Bergdorf. Una puntatina a Manhattan per qualche acquisto; non più di tre quarti d'ora con il Challenger.
Il Suburban li portò via; lo spettacolo era finito e Ray si rialzò nella cabina del Cessna. Se non l'avesse odiata tanto, se ne sarebbe rimasto seduto lì a lungo a rivivere il loro matrimonio. Non c'erano stati preavvisi, non c'erano stati litigi, nessun cambiamento di umore. Le era semplicemente capitata un'occasione migliore. Aprì lo sportello per respirare e si accorse di avere il colletto umido di sudore. Si asciugò la fronte e scese dall'aereo. Per la prima volta, a sua memoria, rimpianse di non essersi tenuto lontano dall'aeroporto. 3 La facoltà di legge era attigua a quella di scienze economiche ed entrambi gli istituti si trovavano all'estremità settentrionale di un campus enormemente cresciuto rispetto al pittoresco villaggio universitario progettato e costruito da Thomas Jefferson. In un ambiente che tanto aveva onorato l'architettura voluta dal suo fondatore, la sede della scuola di legge non era che una delle tante moderne palazzine a forma di scatola da scarpe, in mattoni e vetro, banale e anonima quanto un milione di altri edifici simili sorti negli anni Settanta. Stanziamenti recenti avevano però apportato notevoli migliorie. L'istituto era incluso nella "top ten", come sapevano bene tutti coloro che vi lavoravano e studiavano. Alcune università della Ivy League godevano di una classifica migliore, ma nessun ateneo pubblico. Attirava un migliaio di studenti diplomati a pieni voti e una classe docente di ottimo livello. Ray insegnava diritto azionario alla Northeastern di Boston. Alcune sue pubblicazioni avevano incuriosito una commissione di ricerca, poi le cose avevano preso una certa piega e si era presentata l'occasione di trasferirsi nel Sud in un istituto più prestigioso. Vicki era originaria della Florida, e per quanto gradisse la vita cittadina di Boston non riusciva ad abituarsi agli inverni. Si erano adeguati in fretta ai ritmi più lenti di Charlottesville. Lui era passato di ruolo, lei aveva ottenuto un dottorato in lingue romanze. Parlavano di avere bambini quando era comparso il Liquidatore. Un altro uomo mette incinta tua moglie, poi la prende con sé, e a te piacerebbe fargli qualche domanda. E forse ne hai anche qualcuna per lei. Nei giorni immediatamente successivi alla partenza di Vicki, Ray non era riuscito a dormire per via di tutte quelle domande, ma con il trascorrere del
tempo aveva capito che non avrebbe mai potuto fargliele. Le domande si erano disperse, ma rivederla all'aeroporto le aveva riesumate. Così, mentre parcheggiava nel suo spazio riservato e tornava in ufficio, la sottoponeva di nuovo al suo interrogatorio. Ray riceveva nel tardo pomeriggio, senza pretendere un appuntamento. La sua porta era aperta a tutti gli studenti. Ma ai primi di maggio le giornate erano tiepide, cosicché le visite si erano diradate. Rilesse le istruzioni ricevute dal padre e di nuovo provò irritazione per l'usuale tono di prevaricazione. Alle cinque chiuse a chiave l'ufficio, lasciò l'istituto e raggiunse a piedi il centro sportivo universitario dove gli studenti del terzo anno stavano sfidando il corpo docente nella seconda di una serie di tre partite a softball. Nella prima partita i professori erano stati massacrati. Non era in effetti necessario giocare la seconda e la terza per determinare quale fosse la squadra migliore. Attirati dall'odore del sangue, gli studenti del primo e del secondo anno avevano riempito i pochi posti della tribuna e si erano appesi al recinto lungo la linea della prima base, dove la squadra degli insegnanti si era raggruppata per un inutile conciliabolo prepartita. Dietro il margine sinistro del campo alcuni studenti di dubbia reputazione del primo anno oziavano intorno a due capienti borse termiche, dalle quali la birra aveva già cominciato a uscire. In primavera non c'è posto migliore di un campus universitario, rifletté Ray mentre decideva da dove seguire la partita. Ragazze in shorts, una borsa termica sempre a portata di mano, umore gioioso, festicciole improvvisate, primi sentori estivi. Ray aveva quarantatré anni, era single ormai da trentacinque mesi e aveva voglia di essere di nuovo uno studente. Insegnare mantiene giovani, dicevano tutti, forse in forma a livello intellettuale e forte di energie mentali, ma quello che Ray desiderava di più era sedersi su una di quelle borse per le bibite insieme ai casinisti e fare il filo alle ragazze. Dietro la rete si era raccolto un piccolo gruppo di suoi colleghi a guardare fiduciosi la squadra dei docenti andare a disporsi sul campo in uno schieramento quanto mai malinconico: alcuni zoppicavano, una buona metà esibiva vari tipi di protezioni alle ginocchia. Vide Carl Mirk, vicepreside e suo migliore amico, appoggiato al recinto, con la cravatta allentata e la giacca buttata sulla spalla.
«Mi sembrano ridotti male» gli disse. «Aspetta di vederli giocare» ribatté Mirk. Era di una cittadina dell'Ohio, dove suo padre era il giudice locale, il santo locale, il nonno di tutti. Anche Carl era scappato giurando di non rimetterci più piede. «Mi sono perso la prima partita» disse Ray. «Una favola. Diciassette a zero dopo due inning.» Il battitore degli studenti spedì la prima palla nel buco tra gli esterni a sinistra, una tipica doppia. L'esterno sinistro e l'esterno centro si trascinarono in zona, accerchiarono la palla, litigarono su chi dovesse prenderla tirandole calci un paio di volte, e, prima di riuscire a lanciarla verso il diamante, il battitore aveva ormai compiuto il giro intero ottenendo il primo punto. I due incapaci erano isterici. Gli studenti sugli spalti invocarono a gran voce qualche altro errore. «Peggiorerà» pronosticò Mirk. E così fu. Dopo qualche altro disastro in difesa, Ray decise che ne aveva abbastanza. «Sarò fuori città i primi giorni della prossima settimana» annunciò tra un turno di battuta e l'altro. «Sono stato chiamato a casa.» «Vedo quanto sei eccitato» commentò Mirk. «Un altro funerale?» «Non ancora. Mio padre ha indetto una riunione familiare per discutere del suo patrimonio.» «Mi dispiace.» «Non è il caso. Non c'è molto da discutere, niente su cui accapigliarci, quindi probabilmente sarà orribile.» «Tuo fratello?» «Non so chi starà peggio, se mio fratello o mio padre.» «Penserò a te.» «Grazie. Avvertirò i miei studenti e darò loro dei compiti. Non dovrebbero esserci intoppi.» «Quando parti?» «Sabato. Dovrei essere di ritorno martedì o mercoledì, ma chi può dirlo?» «Noi saremo qui» lo rassicurò Mirk. «E con un po' di fortuna questo minicampionato sarà finito.» Una palla smorzata rotolò senza che nessuno la toccasse fin tra le gambe del lanciatore. «Io credo che sia già finito» mormorò Ray. Nulla aveva il potere di adombrare lo spirito di Ray quanto il pensiero di
un ritorno a casa. Non ci andava da più di un anno e anche non ritornarci mai più sarebbe stato comunque troppo presto. Comperò un burrito a una rivendita messicana e lo consumò in un caffè all'aperto vicino alla pista del ghiaccio dove si era riunita la solita banda di dark a spaventare la gente normale. La vecchia Main Street era un'area pedonale, molto graziosa, con i caffè, i negozi d'antiquariato e le rivendite di libri, e quando il tempo era buono, come di solito, i ristoranti mettevano i tavolini fuori per tranquilli pasti serali. Ridiventato improvvisamente single, Ray si era liberato della pittoresca casa in cui era vissuto con la moglie e si era trasferito in centro, dove quasi tutti i vecchi stabili erano stati ristrutturati. Il suo appartamento di sei locali era sopra un negozio di tappeti persiani. Aveva un balconcino affacciato sull'area pedonale e almeno una volta al mese Ray ospitava alcuni dei suoi studenti per un piatto di lasagne e un bicchiere di vino. Era quasi buio quando salì rumorosamente le scale fino al suo appartamento. Più solo che mai. Nessun coinquilino, niente cani, gatti o pesci rossi. In quegli ultimi anni aveva conosciuto due donne che aveva trovato attraenti, ma non aveva combinato con nessuna delle due. Era troppo spaventato per una relazione sentimentale. Un'appetitosa studentessa del terzo anno di nome Kaley gli faceva gli occhi dolci, ma lui rimaneva sulla difensiva. Il suo desiderio sessuale era così ibernato da fargli considerare l'ipotesi di consultare un medico, o magari tentare qualche rimedio farmaceutico. Accese la luce e controllò la segreteria telefonica. Aveva chiamato Forrest, fatto senz'altro inconsueto ma non del tutto inatteso. Com'era nel suo stile, Forrest aveva dato un colpo di telefono senza lasciare recapito. Ray si preparò un tè deteinato e scelse della musica jazz mentre cercava di prendere tempo. Strano che una chiacchierata telefonica con il suo unico fratello dovesse richiedere un simile sforzo, ma parlare con lui era sempre deprimente. Entrambi non avevano moglie né figli, nient'altro in comune se non un nome e un padre. Ray compose il numero della casa di Ellie a Memphis. Squillò a lungo prima che lei rispondesse. «Ciao, Ellie, sono Ray Adee» si presentò in un tono cordiale. «Oh» grugnì lei come se l'avesse già chiamata otto volte. «Non è qui.» Sto bene, Ellie, e tu? Ottimamente, grazie di avermelo chiesto. Che piacere sentire la tua voce. Com'è il tempo dalle vostre parti? «Sto rispondendo a una sua chiamata» spiegò Ray. «Come ho detto non è qui.»
«Ti ho sentito. C'è un altro numero?» «Per cosa?» «Per Forrest. Questo è ancora il numero giusto dove cercarlo?» «Credo. Sta quasi sempre qui.» «Digli che l'ho chiamato, per piacere.» Si erano conosciuti in riabilitazione, Ellie per l'alcol, Forrest per una lista completa di sostanze illegali. All'epoca lei pesava quarantatré chili e sosteneva di essersi nutrita esclusivamente di vodka dalla maggiore età in poi. Ma ce l'aveva fatta, ne era venuta fuori, aveva triplicato il suo peso corporeo e si era chissà come ritrovata Forrest al seguito. Più madre che fidanzata, adesso lo ospitava in una stanza nel seminterrato della sua casa, una spettrale costruzione vittoriana a Memphis. Ray aveva ancora il telefono in mano quando squillò. «Ciao, fratello» lo salutò Forrest. «Hai chiamato?» «Rispondevo alla tua. Come va?» «Andava abbastanza bene prima che mi arrivasse una lettera del vecchio. L'hai ricevuta anche tu?» «Sì, oggi.» «Crede di essere ancora un giudice e che noi siamo un paio di padri delinquenti, vero?» «Lui sarà sempre il Giudice, Forrest. Gli hai parlato?» Una sbuffata, poi una pausa. «Sono due anni che non lo sento per telefono, e non metto piede in quella casa da più tempo di quanto riesca a ricordare. E non sono sicuro che domenica ci sarò.» «Ci sarai.» «Tu l'hai sentito?» «Tre settimane fa. Ho chiamato io. Mi è sembrato molto malato, Forrest, non credo che tirerà avanti ancora per molto. Penso che dovresti considerare seriamente...» «Non cominciare, Ray. Non starò a sentire la predica.» Ci fu un vuoto, un silenzio pesante nel quale entrambi presero fiato. Come tossicodipendente appartenente a una famiglia di spicco, a Forrest era toccato sorbirsi prediche e ramanzine in quantità. «Scusa» gli disse Ray. «Io ci sarò. E tu?» «Immagino di sì.» «Sei pulito?» Era maledettamente personale, ma con Forrest era anche una domanda di rito come "Che tempo fa?". E la risposta era sempre diretta e sincera.
«Centotrentanove giorni, fratello.» «Molto bene.» Sì e no. Ogni giorno di sobrietà era un sollievo, ma che tenesse ancora il conto dopo vent'anni era sconcertante. «E lavoro anche» dichiarò con orgoglio. «Splendido. Che tipo di lavoro?» «Procaccio casi per uno studio locale di trafficoni in infortuni, un branco di pidocchiosi che si fanno pubblicità sulla Tv via cavo e bazzicano gli ospedali. Io gli trovo i clienti e prendo una percentuale.» Era difficile apprezzare un lavoro così squallido, ma nel caso di Forrest qualunque impiego era una buona notizia. Era stato garante di imputati liberi su cauzione, ufficiale giudiziario, esattore, guardia giurata, investigatore, e, uno dopo l'altro, aveva praticato più o meno tutti i mestieri fino al livello più basso della professione legale. «Non male» commentò Ray. Forrest attaccò con una storia che riguardava una lite in un pronto soccorso finita a spintoni, e Ray cominciò a distrarsi. Suo fratello aveva lavorato anche come buttafuori in un locale di spogliarello, un ingaggio durato poco, dopo che era stato picchiato due volte nella stessa nottata. Aveva passato un anno intero in giro per il Messico su una Harley-Davidson nuova; con quali fondi avesse finanziato il viaggio non era mai stato chiaro. Aveva tentato la sorte come spaccagambe per un usuraio di Memphis, ma aveva mostrato di nuovo i suoi limiti di fronte alla violenza. Un impiego onesto non lo aveva mai veramente attirato, anche se bisogna concedergli che i suoi precedenti penali si rivelavano di solito un ostacolo insormontabile nei colloqui di lavoro: due soli reati, entrambi relativi al possesso di stupefacenti e risalenti a prima che compisse vent'anni, ma che aveva prodotto danni permanenti. «Hai intenzione di parlare al vecchio?» stava domandando. «No, lo vedrò domenica» rispose Ray. «A che ora sarai a Clanton?» «Non lo so. Verso le cinque, immagino. E tu?» «Dio ha detto alle cinque, no?» «Sì.» «Allora io arriverò dopo le cinque. Ci vediamo, fratello.» Per un'ora Ray girò intorno al telefono, decidendo che sì, avrebbe chiamato suo padre tanto per salutarlo, e poi decidendo che no, tutto quello che c'era da dire sarebbe stato detto più tardi e di persona. Il Giudice detestava
i telefoni, specialmente quelli che squillavano di sera a turbare la sua solitudine. Il più delle volte si rifiutava semplicemente di rispondere. E se sollevava il ricevitore era di solito così maleducato e scontroso che chi lo aveva chiamato si rammaricava dello sforzo fatto. Avrebbe di sicuro indossato calzoni neri e camicia bianca, una di quelle con i minuscoli forellini causati dalla cenere ardente della sua pipa; e sarebbe stata una camicia inamidata, perché così le aveva sempre portate il Giudice. A lui una camicia bianca di cotone durava dieci anni, a prescindere dal numero di macchie e bruciature, e veniva lavata e inamidata una volta la settimana da Mabe's Cleaners, la lavanderia in piazza. La cravatta sarebbe stata vecchia quanto la camicia, con uno scialbo disegno stampato. Bretelle blu scuro, sempre. E sarebbe stato occupato alla sua scrivania nello studio, sotto il ritratto del generale Forrest, non seduto nel portico ad aspettare il ritorno a casa dei figli. Avrebbe voluto convincerli che aveva del lavoro da svolgere, persino di domenica pomeriggio, e che il loro arrivo non era poi così importante. 4 Il viaggio a Clanton in macchina richiedeva quindici ore, più o meno, se si sceglieva di infilarsi nel traffico intenso dei mezzi pesanti sull'autostrada a quattro corsie e si ingaggiava battaglia negli ingorghi delle tangenziali intorno alle città. Lo si poteva compiere in giornata, se si era di fretta, e Ray non lo era. Infilò poche cose nel bagagliaio della sua Audi TT, una decappottabile a due posti di cui era proprietario da meno di una settimana, e non salutò nessuno perché a nessuno importava quando lui andava o veniva. Uscì da Charlottesville intenzionato, se possibile, a non superare i limiti di velocità e a evitare le autostrade. Era la sua sfida: una gita all'insegna del rilassamento. Sul sedile in pelle accanto al suo aveva posato carte geografiche, un termos con del caffè forte, tre sigari cubani e una bottiglia d'acqua. Appena fuori città, svoltò a sinistra sulla Blue Ridge Parkway e cominciò il suo viaggio verso sud percorrendo tortuose strade collinari. La TT era un modello del 2000, realizzata su un progetto recente. Appena aveva letto l'annuncio di una nuova auto sportiva dell'Audi, Ray si era precipitato a ordinarne una, la prima in tutta la città. Erano trascorsi diciotto mesi, da allora, e ancora non ne aveva vista un'altra, anche se il concessionario si
era detto sicuro che il modello sarebbe diventato popolare. A un belvedere si fermò, abbassò il tettuccio, si accese un avana e bevve un sorso di caffè, prima di riprendere il viaggio alla velocità massima di settanta chilometri all'ora. Anche a quell'andatura sentiva Clanton incombere. Quattro ore dopo, in cerca di carburante, Ray si ritrovò fermo a un semaforo sulla Main Street, in una cittadina del North Carolina. Gli passarono davanti tre individui, di sicuro avvocati, che stavano parlando tutti insieme, ognuno con una vecchia cartella lisa e spellata quasi quanto le scarpe che avevano ai piedi. Guardò a sinistra e vide il tribunale. Guardò a destra e vide gli avvocati scomparire in un ristorantino. Ebbe improvvisamente fame, di cibo e di suoni umani. Gli avvocati erano in un séparé vicino alla vetrata, ancora intenti a parlare tutti insieme mentre mescolavano lo zucchero nei loro caffè. Ray si trovò un posto non distante e ordinò un sandwich a un'anziana cameriera che doveva essere lì da decenni. Un bicchiere di tè freddo e un sandwich, tutto trascritto sul taccuino con estrema cura. Lo chef probabilmente era ancora più vecchio, pensò Ray. Gli avvocati avevano passato tutta la mattina in tribunale a cavillare su un appezzamento di terra in montagna. Il terreno era stato venduto, poi era seguita una querela con tutti gli annessi e ora si stava tenendo il processo. I legali avevano chiamato a deporre i testimoni, citato precedenti al giudice, confutato tutte le dichiarazioni della controparte e si erano talmente surriscaldati da avere bisogno di una pausa. "E questo è il mestiere che avrebbe voluto che facessi mio padre" quasi commentò a voce alta Ray. Era nascosto dietro il quotidiano locale facendo finta di leggere mentre ascoltava gli avvocati. Il sogno del giudice Reuben Atlee era stato che i suoi figli si laureassero in legge e tornassero a Clanton. Lui sarebbe andato in pensione e con loro avrebbe aperto uno studio in piazza. Lì avrebbero seguito un'onorevole carriera e lui avrebbe insegnato loro come essere avvocati: avvocati gentiluomini, avvocati di campagna. Avvocati al verde, piuttosto, secondo Ray. Come tutte le cittadine del Sud, Clanton pullulava di avvocati. Ne erano pieni zeppi gli uffici dirimpetto al tribunale, sull'altro lato della piazza. Governavano politica, banche, club e consigli scolastici; persino le chiese e le Little Leagues. Dove avrebbe potuto inserirsi, lui? Durante le pause estive all'università, Ray aveva fatto da cancelliere a
suo padre. A titolo gratuito, si capisce. Conosceva tutti gli avvocati di Clanton. Nel complesso non erano da buttare via. Semplicemente, troppi. La svolta negativa nella vita di Forrest era avvenuta precocemente, con il conseguente incremento della pressione su Ray perché seguisse le orme paterne in una vita di signorile povertà rurale. Ma Ray aveva resistito, e alla fine del primo anno alla scuola di legge aveva già giurato a se stesso che non sarebbe rimasto a Clanton. Gli ci era voluto un altro anno per trovare il coraggio di dirlo a suo padre, il quale per otto mesi non gli aveva più rivolto la parola. Quando Ray si era laureato, Forrest era in prigione. Alla cerimonia di consegna dei diplomi, il giudice Atlee era arrivato in ritardo, si era seduto in ultima fila, se n'era andato in anticipo e non gli aveva detto niente. C'era voluto il primo infarto per riunirli. I soldi, però, non erano il motivo principale per cui Ray era scappato da Clanton. La Atlee & Atlee non era mai decollata perché il socio giovane non voleva restare all'ombra di quello anziano. Il giudice Atlee era un uomo enorme in una comunità molto piccola. Ray trovò un distributore alla periferia della cittadina e di lì a poco era di nuovo tra le colline, sulla panoramica, a settanta chilometri all'ora. Qualche volta a sessanta. Si fermava ai belvedere per ammirare il panorama. Evitava i centri abitati e studiava le sue cartine. Tutte le strade, presto o tardi, portavano nel Mississippi. Vicino al confine trovò un vecchio motel che vantava aria condizionata, Tv via cavo e camere pulite per 29,99 dollari, sebbene l'insegna fosse storta e con i bordi arrugginiti. Con la Tv via cavo era arrivata anche l'inflazione perché ora la camera costava quaranta dollari. Nell'attiguo caffè a orario continuato Ray mangiò un piatto di gnocchi, la specialità del giorno. Dopo cena si sedette su una panchina davanti al motel, si accese un altro sigaro e guardò passare le poche macchine. Dall'altra parte della strada, cento metri più avanti, c'era un drive-in abbandonato. La pensilina era crollata ed era stata invasa da rampicanti ed erbacce. Il grande schermo e il recinto tutt'intorno andavano in rovina da molti anni. Una volta anche a Clanton c'era un drive-in come quello, appena oltre la via principale, entrando in città. Era di proprietà di una catena del Nord e offriva alla gente del luogo la tipica programmazione a base di commedie estive, horror, kung-fu; tutti film che attiravano la gioventù e offrivano ai predicatori qualcosa da censurare. Nel 1970 i poteri forti del Nord decisero di inquinare una volta ancora il Sud spedendovi pellicole di basso livello.
Come quasi tutte le cose, buone o cattive, la pornografia era arrivata tardi nel Mississippi. Quando sui cartelloni apparve il titolo Le ragazze pon pon, la gente di passaggio non ci fece molto caso. Ma il giorno successivo fu aggiunta la scritta "Vietato ai minori", allora il traffico si ingorgò e nei bar della piazza gli animi si surriscaldarono. La prima proiezione era avvenuta di lunedì davanti a un esiguo gruppo di spettatori incuriositi e abbastanza su di giri. I resoconti a scuola erano stati favorevoli, cosicché il martedì schiere di giovani adolescenti erano nascosti nel bosco, muniti di binocolo, a guardare il film con occhi increduli. Dopo le orazioni del mercoledì sera, i predicatori si erano organizzati e avevano lanciato un contrattacco, puntando più sulla forza che sull'astuzia. Prendendo lezione dai contestatori in difesa dei diritti civili, un gruppo per il quale non avevano la minima simpatia, i predicatori avevano guidato le loro greggi davanti al drive-in ad agitare cartelli, pregare e intonare salmi, trascrivendo in fretta e furia i numeri di targa delle automobili che cercavano di entrare. L'affluenza del pubblico si interruppe come alla chiusura di un rubinetto. I distributori, su al Nord, avevano presentato una querela. I predicatori si erano difesi con una controquerela e, com'era ovvio, la questione era finita nell'aula del giudice Reuben V. Atlee, da sempre membro della Prima Chiesa Presbiteriana, discendente di quegli Atlee che avevano costruito il tempio originario, e da trent'anni a quella parte insegnante di catechismo alla classe di vecchi caproni che si ritrovavano la domenica in cucina nel sottoscala della chiesa. Tre giorni di udienze. Poiché nessun avvocato di Clanton aveva voluto difendere Le ragazze pon pon, i distributori erano rappresentati da un importante studio legale di Jackson. Una decina di procuratori locali si erano espressi duramente contro il film, parlando per conto dei predicatori. Dieci anni dopo, alla scuola di legge di Tulane, Ray aveva studiato l'opinione di suo padre sul caso. In osservanza dei più recenti casi federali, la delibera del giudice Atlee aveva protetto i diritti dei querelanti con determinate restrizioni. E, citando un recente caso di oscenità sul quale si era espressa la Corte suprema, aveva decretato che le proiezioni potevano continuare. Sul piano giuridico, la sentenza non avrebbe potuto essere più ineccepibile. Sul piano politico, non avrebbe potuto essere più sciagurata. Nessuno ne era uscito soddisfatto. Quella notte il telefono aveva vomitato minacce anonime. I predicatori avevano considerato Reuben Atlee un traditore. A-
spetta il prossimo turno elettorale, avevano promesso dai loro pulpiti. Le redazioni del "Clanton Chronicle" e del "Ford County Times" erano state seppellite da valanghe di lettere che stigmatizzavano il giudice Atlee per aver consentito la proiezione di simili porcherie nella loro immacolata comunità. Alla fine, spazientito da tutte quelle critiche, il Giudice aveva deciso di prendere la parola. Aveva scelto una domenica nella Prima Chiesa Presbiteriana, e la notizia si era subito diffusa, come sempre accadeva a Clanton. Davanti a una nutrita congrega, il giudice Atlee era salito impettito sul pulpito. Era alto e muscoloso, e nel suo completo scuro era un'immagine vivente di autorevolezza. "Un giudice che conta i voti prima di un processo farebbe meglio a bruciare la sua toga e candidarsi nell'amministrazione" aveva esordito con severità. Ray e Forrest erano seduti il più lontano possibile, in un angolo della chiesa, entrambi sull'orlo delle lacrime. Avevano scongiurato il genitore perché concedesse loro di non presentarsi, ma saltare la funzione era inconcepibile in qualunque circostanza. Il Giudice aveva spiegato ai meno informati che i precedenti giudiziari andavano rispettati, quali che fossero le opinioni personali, e che i bravi giudici applicano la legge. I giudici deboli seguono la folla, si preoccupano dei voti e poi protestano indignati quando le loro delibere codarde vengono cassate dalle corti superiori. "Pensate pure di me quello che vi pare" aveva detto a una folla silenziosa "ma io non sono un vigliacco." Ray udiva ancora quelle parole, vedeva suo padre là in fondo, solo ed eretto come un gigante. Passata una settimana, con l'indebolirsi delle proteste e venuta ormai meno la novità della pornografia, il kung-fu aveva ripreso il sopravvento con rinnovata energia. Tutti erano felici e contenti. E, due anni dopo, il giudice Atlee aveva ottenuto il suo solito ottanta per cento di preferenze nella contea di Ford. Ray gettò il mozzicone di sigaro in un cespuglio ed entrò nella sua camera. La nottata era fresca, così aprì una finestra e ascoltò le automobili che lasciavano l'abitato e il rumore che si spegneva tra le colline. 5 Ogni via aveva una storia, ogni edificio un ricordo. Coloro che hanno goduto di un'infanzia gioiosa possono percorrere le strade della propria cit-
tà natale e tornare felicemente indietro negli anni. Gli altri vengono richiamati a casa dal dovere e ripartono il più presto possibile. Ray era a Clanton da quindici minuti e già era ansioso di rimettersi in viaggio. La cittadina era cambiata, ma allo stesso tempo non lo era. Le baracche di metallo e le case mobili si assiepavano all'inverosimile sulle strade d'accesso al centro, in cerca della massima visibilità. Non esisteva piano regolatore per la contea di Ford, e il proprietario di un terreno poteva costruire ciò che più gli piaceva senza chiedere autorizzazioni, senza ispezioni o obblighi verso i proprietari confinanti, niente di niente. Solo gli allevamenti di suini e i reattori nucleari richiedevano un iter burocratico. Il risultato era un coacervo di costruzioni che andava peggiorando di anno in anno. Ma nelle parti più vecchie, vicino alla piazza, la cittadina non era cambiata affatto. Le lunghe vie alberate erano pulite come quando Ray le percorreva da bambino in bicicletta. La maggior parte delle abitazioni era ancora di proprietà di persone che conosceva, e, quando i primi possessori erano passati a miglior vita, quelli che li avevano sostituiti si preoccupavano di tosare l'erba nel giardino e verniciare le imposte. Solo poche case apparivano trascurate. Alcune erano state abbandonate. Nel cuore di una regione di timorati di Dio, era ancora considerato un comandamento ridurre al minimo le attività di domenica, riservando la giornata alla chiesa, all'ozio in veranda, alle visite ai vicini, al riposo nel rispetto del volere del Signore. Il cielo era coperto e la temperatura abbastanza bassa, per essere maggio e, mentre girava nelle zone frequentate in gioventù ammazzando il tempo in attesa dell'ora prestabilita, Ray indugiò sui bei ricordi che ancora conservava di Clanton. C'era il Dizzy Dean Park dove aveva giocato nel torneo della Little League con la squadra dei Pirates, e la piscina pubblica dove era andato a nuotare tutte le estati eccetto quella del '69, quando l'amministrazione locale aveva preferito chiuderla piuttosto che ammettere i bambini di colore. C'erano le chiese - battista, metodista e presbiteriana -, l'una di fronte all'altra all'incrocio della Seconda con la Elm, come sentinelle sull'attenti, in gara per quale delle tre aveva la guglia più alta. A quell'ora erano vuote, ma di lì a non molto i fedeli più ferventi si sarebbero riuniti per le funzioni serali. La piazza era inanimata quanto le vie che vi convergevano. Con i suoi ottomila abitanti, Clanton era grande abbastanza da attirare i discount che avevano portato scompiglio in tante altre piccole cittadine. Ma lì la popolazione era rimasta fedele alle vecchie botteghe del centro, e aveva del mi-
racoloso constatare che intorno non c'era una sola vetrina chiusa. I negozi al dettaglio si mescolavano a banche, studi legali e caffè, tutti chiusi per la giornata festiva. Ray camminò lentamente fino al cimitero e si soffermò nel settore più vecchio, dove c'erano gli Atlee insieme ai monumenti funebri più pretenziosi. Alcuni dei suoi antenati avevano edificato cappelle per i loro defunti. Ray aveva sempre pensato che le ricchezze della famiglia che lui non aveva mai visto dovessero essere sepolte in quei mausolei. Andò a vedere la tomba di sua madre, cosa che non faceva da anni. Era tumulata fra gli altri Atlee, ma ai margini, perché lei non aveva mai fatto veramente parte della famiglia. Ancora meno di un'ora e si sarebbe trovato nello studio del Giudice a sorseggiare pessimo tè istantaneo e a ricevere istruzioni dettagliate su come gestire il trapasso. Sarebbero stati impartiti molti ordini, molte direttive e delibere, perché il Giudice era un grand'uomo e aveva a cuore il modo in cui sarebbe stato ricordato. Nel suo girovagare, Ray passò davanti alla cisterna sulla quale era salito in due occasioni, la seconda con la polizia che lo aspettava di sotto. Fece una smorfia davanti al vecchio liceo, un posto dove non era più tornato da quando ne era uscito. Dietro la palazzina c'era il campo da football dove Forrest Atlee aveva fatto sfracelli degli avversari ed era quasi diventato famoso prima di essere sbattuto fuori squadra. Mancavano venti minuti alle cinque di quella domenica 7 maggio. Era ora di recarsi alla riunione di famiglia. Non c'erano segni di vita a Maple Run. Il prato antistante era stato tosato da pochi giorni e sul retro c'era la vecchia Lincoln nera del Giudice, ma tolti questi indizi non c'era altro a indicare che in quegli ultimi anni qualcuno fosse vissuto in quella casa. Il tetto del portico era sorretto da quattro grosse colonne, che ai tempi di Ray erano dipinte di bianco. Ora erano verdi di rampicanti e edera. Un glicine incolto si era abbarbicato alla parte superiore delle colonne e aveva invaso il tetto. Le erbacce si erano impossessate di aiuole, cespugli, sentieri. I ricordi lo travolsero, come sempre quando rallentava imboccando il vialetto d'accesso e scuoteva la testa alla vista delle condizioni in cui era ridotta una dimora un tempo elegante. E ogni volta la stessa ondata di rimorso. Sarebbe dovuto rimanere, avrebbe dovuto assecondare il vecchio e
aprire la Atlee & Atlee, avrebbe dovuto sposare una ragazza del posto e mettere al mondo una mezza dozzina di discendenti che sarebbero vissuti a Maple Run, dove avrebbero adorato il Giudice e allietato la sua vecchiaia. Sbatté lo sportello della macchina facendo molto rumore, nella speranza di avvertire chiunque dovesse essere avvertito, ma il fragore si spegneva debolmente a Maple Run. La casa accanto, a est, era un altro relitto occupato da una famiglia di zitelle in via di estinzione da alcuni decenni. Anche quella era una costruzione prebellica, ma senza le erbacce e i rampicanti, ed era completamente ombreggiata da cinque delle querce più maestose di tutta Clanton. I gradini dell'ingresso e il porticato erano stati ripuliti di recente. C'era una scopa accanto alla porta socchiusa. Il Giudice non voleva saperne di chiudere a chiave, e poiché si rifiutava di usare l'aria condizionata lasciava porte e finestre sempre aperte, giorno e notte. Ray trasse un respiro profondo e spinse deciso l'uscio dell'ingresso fino a farlo sbattere contro il fermaporta. Entrò e attese d'essere assalito dall'odore, qualunque esso fosse questa volta. Per anni il Giudice aveva tenuto un vecchio gatto, un felino dalle brutte abitudini, e la casa ne aveva patito le conseguenze. Ma ora il gatto non c'era più e l'odore non era affatto sgradevole. L'aria era tiepida e polverosa, con qualche traccia dell'aroma intenso di tabacco da pipa. «C'è nessuno in casa?» chiamò senza alzare troppo la voce. Nessuna risposta. L'ingresso, come il resto dell'abitazione, serviva da magazzino per gli scatoloni delle vecchie scartoffie che il Giudice conservava gelosamente. Ray guardò alla sua destra, dove c'era la sala da pranzo rimasta immutata per quarant'anni, e girò intorno all'angolo dove cominciava il corridoio altrettanto ingombro di scatoloni. Pochi passi silenziosi e spiò nello studio di suo padre. Il Giudice era appisolato sul divano. Ray si ritrasse subito e andò in cucina, dove si meravigliò di non trovare piatti sporchi nel lavello e di vedere i ripiani sgombri. La cucina di solito era in condizioni pietose, ma non quel giorno. In frigorifero trovò una bibita analcolica senza zucchero e si sedette al tavolo a meditare se svegliare suo padre o posticipare l'inevitabile. Il vecchio era malato e aveva bisogno di riposare, così Ray bevve la sua bibita e tenne d'occhio l'orologio sopra i fornelli attendendo che le lancette avanzassero lentamente sulle cinque. Forrest sarebbe venuto, ne era sicuro - la riunione era troppo importante
-, ma non era mai stato puntuale in vita sua. Si rifiutava di portare un orologio e sosteneva di non sapere mai che giorno fosse, e la gente di solito gli credeva. Alle cinque in punto, Ray decise che era stufo di aspettare. Aveva compiuto un lungo viaggio e aveva voglia di venire al dunque. Entrò nello studio, notò che suo padre non si era mosso e per un minuto o due rimase immobile davanti a lui, non volendo svegliarlo, ma allo stesso tempo sentendosi un intruso. Il Giudice indossava gli stessi calzoni neri e la stessa camicia bianca inamidata che gli aveva visto addosso da sempre. Bretelle blu scuro, niente cravatta, calze nere e scarpe nere. Era dimagrito e nuotava dentro i suoi indumenti. Il volto era smunto e pallido, i capelli radi e lisciati all'indietro. Aveva le mani incrociate all'altezza dell'ombelico, quasi bianche quanto la camicia. Accanto alle mani, agganciata alla cintura sul lato destro, c'era una scatolina bianca di plastica. Ray si avvicinò silenzioso per guardare meglio. Era una scorta di morfina. Chiuse gli occhi, poi li riaprì e si guardò intorno. La scrivania sotto il generale Forrest era immutata. La vecchia Underwood era sempre là, con una risma di carta accanto. Poco distante c'era il grande tavolo di mogano ereditato dall'Adee che aveva combattuto con Forrest. Sotto lo sguardo austero del generale Nathan Bedford Forrest, e al centro di una stanza che era fuori del tempo, Ray cominciò a rendersi conto che suo padre non respirava. Lo comprese a poco a poco. Tossì e non ci fu la minima reazione. Allora si chinò e toccò il polso sinistro del Giudice. Non c'erano pulsazioni. Il giudice Reuben Vincent Atlee era morto. 6 Di fianco alla porta c'era una vecchia sedia di vimini con un cuscino strappato e una trapunta sfilacciata buttata sullo schienale. Nessuno l'aveva mai usata salvo il gatto. Ray indietreggiò fino a sedervisi perché era il posto più vicino, e per lungo tempo rimase lì ad aspettare che suo padre ricominciasse a respirare, si svegliasse, si drizzasse a sedere, riprendesse le redini della situazione e chiedesse: "Dov'è Forrest?". Ma il Giudice rimase immobile. Il solo respiro in tutta Maple Run era quello di Ray, reso irregolare dai suoi sforzi per ritrovare il controllo. La
casa era immersa nel silenzio, l'aria immota ancora più pesante. Guardò le mani pallide che riposavano in pace e attese che si levassero di poco. Su e giù, lentamente, al riprendere della circolazione, al riempirsi e svuotarsi dei polmoni. Ma non accadde nulla. Suo padre era dritto come un'asse, con mani e piedi uniti, mento sul petto, come se, al momento di stendersi, avesse saputo che quel sonnellino sarebbe stato eterno. Le labbra erano chiuse in un abbozzo di sorriso. La potente droga aveva bloccato il dolore. Al dissiparsi dello sgomento, sorsero le domande. Da quanto tempo era morto? Era stato il cancro a ucciderlo o il vecchio si era imbottito di morfina? Faceva qualche differenza? Era una messinscena a beneficio dei suoi figli? Dove diavolo era Forrest? Non che sarebbe stato di qualche aiuto. Solo con suo padre per l'ultima volta, Ray ricacciò indietro le lacrime e tutti i soliti angoscianti interrogativi sul "perché non sono arrivato prima e non sono venuto più spesso, perché non ho scritto e telefonato", e la lista avrebbe potuto allungarsi all'infinito. E finalmente si mosse. S'inginocchiò di fianco al divano, posò la testa sul petto del Giudice, bisbigliò: «Ti voglio bene, papà» e recitò una breve preghiera. Quando si rialzò aveva gli occhi lucidi, e non era ciò che voleva. A momenti sarebbe arrivato suo fratello, e Ray era deciso ad affrontare la situazione dominando le proprie emozioni. Sul tavolo di mogano trovò il posacenere con due pipe. Una era vuota. Il fornello dell'altra era pieno di tabacco fumato di recente. Era tiepida, o almeno così gli parve, sebbene non ne fosse sicuro. Immaginò il Giudice che si faceva una fumatina mentre riponeva le sue carte perché i ragazzi non trovassero troppo disordine; poi, quando lo aveva aggredito il dolore, si era sdraiato sul divano, aveva preso un po' di morfina per darsi sollievo e si era assopito. Di fianco alla Underwood c'era una delle sue buste intestate sulla quale aveva scritto: "Ultime volontà e testamento di Reuben V. Atlee". Sotto c'era la data del giorno prima: 6 maggio 2000. Ray la prese e uscì dallo studio. Prese anche un'altra bibita dal frigorifero e andò nel portico, dove aspettò Forrest seduto sul divanetto a dondolo. Doveva chiamare le onoranze funebri perché portassero via suo padre prima dell'arrivo di Forrest? S'arrovellò sulla questione per un po', poi lesse il testamento. Era semplice, un documento di una sola pagina e senza sorprese. Decise che avrebbe atteso fino alle sei precise, e se Forrest non si fosse fatto vivo avrebbe chiamato le pompe funebri.
Tornato dentro, posò la busta di fianco alla macchina per scrivere, frugò tra le altre carte e all'inizio gli fece una strana impressione. Ma sarebbe stato l'esecutore testamentario di suo padre e presto tutti quei documenti sarebbero stati sotto la sua tutela. Avrebbe inventariato i beni di famiglia, saldato le fatture, stabilito l'ammontare della liquidità restante e presieduto alle operazioni di autenticazione. Il testamento divideva tutto fra i due figli, quindi le pratiche sarebbero state relativamente semplici. Mentre teneva d'occhio l'ora e attendeva il fratello, frugò un po' nello studio, sorvegliato in ogni sua mossa dal generale Forrest. Evitò di fare rumore, perché ancora non voleva disturbare suo padre. I cassetti dello scrittoio erano pieni di carta da lettere. Sul tavolo di mogano c'era la corrispondenza più recente. Gli scaffali dietro il divano erano pieni di volumi di giurisprudenza che sembravano dimenticati da decenni. La libreria di noce era stata costruita come omaggio da un assassino liberato di prigione dal nonno del Giudice sul finire del secolo precedente; questo secondo la leggenda familiare, che di regola non era mai stata messa in discussione, prima che arrivasse Forrest. Gli scaffali erano appoggiati su un lungo mobile di legno alto non più di un metro e provvisto di sei piccole ante. Quei vani erano utilizzati come archivio, ma Ray non vi aveva mai guardato dentro. Il divano, di fronte alla libreria, copriva quasi del tutto la parte inferiore del mobile. Una delle antine era aperta. Dentro si vedeva una semplice pila di scatole verde scuro, quelle che contenevano la carta da corrispondenza della Blake & Son, l'antica stamperia di Memphis che da sempre riforniva praticamente tutti gli avvocati e i giudici dello Stato. S'inginocchiò dietro il divano per guardare meglio. I vani del mobile erano angusti e scuri. Una delle scatole era priva di coperchio, a pochi centimetri dal pavimento. Ma non conteneva carta da lettere. Era piena di banconote da cento dollari. Centinaia di banconote ordinatamente riposte in una scatola larga quindici centimetri e lunga quarantacinque, profonda forse dodici. La sollevò ed era pesante. Ce n'erano molte stipate dentro il mobile. Ray ne estrasse un'altra. Anche quella era piena di banconote da cento. Lo stesso la terza. Nella quarta scatola le banconote erano divise in mazzette trattenute da fascette gialle con la scritta "$ 2000". Contò rapidamente cinquantatré mazzette. Centoseimila dollari. Camminando carponi dietro il divano, attento a non toccarlo e a non disturbare nessuno, Ray aprì le altre cinque ante. C'erano almeno venti scato-
le verde scuro della Blake & Son. Si rialzò e andò verso la porta dello studio, poi attraversò l'ingresso e uscì nel portico per una boccata d'aria. Gli girava la testa e quando si sedette sul primo gradino, una goccia di sudore gli scivolò lungo il naso e gli cadde sui calzoni. Sebbene non riuscisse a essere completamente lucido, Ray tentò di fare un po' di calcoli. Posto che ci fossero venti scatole e che ciascuna contenesse circa centomila dollari, il bottino eccedeva di gran lunga i guadagni lordi totalizzati dal Giudice in trentadue anni di servizio pubblico. Aveva svolto la sua professione a tempo pieno, senza altre attività collaterali, e non aveva più praticamente lavorato dopo la sconfitta subita nove anni prima. Non giocava d'azzardo e, per quanto ne sapeva lui, non aveva mai comperato una sola azione in Borsa. Sopraggiunse un'automobile. Ray s'irrigidì, temendo sul momento che fosse Forrest. L'auto si allontanò, allora Ray saltò in piedi e corse nello studio. Sollevò un'estremità del divano e lo spostò di una quindicina di centimetri allontanandolo dalla libreria, poi fece lo stesso dall'altra parte. S'inginocchiò e cominciò a estrarre le scatole. Quando ne ebbe accatastate cinque, le portò nello stanzino dietro la dispensa in cucina, dove Irene aveva sempre conservato scope e spazzoloni. Erano ancora lì, evidentemente mai più toccati da quando Irene era morta. Strappò le ragnatele e posò le scatole per terra. Il ripostiglio non aveva finestre e non era visibile dalla cucina. Dalla sala da pranzo controllò il viale d'accesso e non vide nessuno, allora tornò di corsa nello studio dove mise in bilico l'una sull'altra sette scatole della Blake & Son da portare nel ripostiglio delle scope. Di nuovo alla finestra della sala da pranzo, nessuno all'esterno, di nuovo nello studio dove il Giudice diventava più freddo di momento in momento. Due altri viaggi fino al ripostiglio e il trasferimento era completato. Ventisette scatole in totale, tutte al sicuro dove nessuno le avrebbe trovate. Erano quasi le sei quando Ray uscì a prendere la sua borsa nell'automobile. Aveva bisogno di cambiarsi camicia e calzoni. La casa era piena di polvere e sporcizia e ogni cosa che toccava lasciava macchie. Si lavò nell'unico bagno al pianterreno. Poi riordinò lo studio, mise a posto il divano e passò in rassegna gli altri locali dell'abitazione in cerca di altri armadietti. Era al primo piano, nella camera da letto del Giudice a perquisire gli ar-
madi quando, dalle finestre aperte, udì il rumore di un'auto. Corse dabbasso e riuscì a saltare sul dondolo un attimo prima che Forrest si fermasse dietro la sua Audi. Respirò a fondo e cercò di calmarsi. Lo choc di un padre morto era già abbastanza; lo choc del denaro lo aveva scosso nel profondo. Forrest raggiunse il portico il più lentamente possibile, con le mani sprofondate nei calzoni bianchi da pittore. Scarponi militari neri tirati a lucido e stringhe color verde brillante. Sempre diverso. «Forrest» mormorò Ray. «Ciao, fratello.» «È morto.» Forrest si fermò e per un momento rimase a contemplarlo, poi il suo sguardo scivolò sulla strada. Indossava un vecchio blazer marrone sopra una maglietta rossa, una combinazione che solo Forrest avrebbe potuto azzardare. Come primo spirito libero di Clanton per autoproclamazione, si era sempre adoperato per essere tosto, non convenzionale, all'avanguardia, trendy. Si era un po' appesantito, ma portava bene i chili in eccesso. I lunghi capelli biondi stavano diventando grigi più in fretta di quelli di Ray. In testa aveva un vecchio berretto da baseball dei Cubs. «Dov'è?» chiese Forrest. «Dentro.» Forrest entrò in casa e Ray lo seguì. Si fermò sulla soglia dello studio con espressione incerta. Mentre osservava suo padre, inclinò leggermente la testa di lato e per un secondo Ray temette che crollasse. Dietro l'ostentata imperturbabilità, le emozioni di Forrest erano sempre viscerali. «Oh mio Dio» mormorò, poi andò barcollando alla seggiola di vimini, dove si sedette a fissare sbalordito il Giudice. «È davvero morto?» riuscì a dire a denti stretti. «Sì, Forrest.» Lui deglutì trattenendo a stento le lacrime. «Quando sei arrivato?» domandò alla fine. Ray si sedette su uno sgabello girandosi verso di lui. «Intorno alle cinque, mi pare. Quando sono entrato ho pensato che stesse riposando, solo dopo mi sono accorto che era morto.» «Mi dispiace che abbia dovuto trovarlo tu» disse Forrest asciugandosi gli occhi. «Qualcuno doveva pur trovarlo.»
«Adesso che cosa facciamo?» «Chiamiamo le pompe funebri.» Forrest annuì come se già sapesse che era esattamente ciò che bisognava fare. Si alzò piano e si avvicinò al divano, sempre sulle gambe malferme. Toccò le mani di suo padre. «Da quanto tempo è morto?» domandò sottovoce, arrochito dalla tensione. «Non lo so. Un paio d'ore.» «Quello che cos'è?» «Morfina.» «Credi che ne abbia presa un po' troppa?» «Lo spero.» «Immagino che avremmo dovuto essere qui.» «Evitiamo questo genere di considerazioni.» Forrest si guardò intorno come se non avesse mai messo piede là dentro. Andò allo scrittoio e guardò la macchina per scrivere. «Suppongo che ormai non avrà più bisogno di un nastro nuovo» commentò. «Già» convenne Ray lanciando un'occhiata al mobiletto sotto gli scaffali. «C'è un testamento, lì, se hai voglia di leggerlo. L'ha firmato ieri.» «Che cosa dice?» «Che ci dividiamo tutto in due. L'esecutore sono io.» «È naturale che l'esecutore sei tu.» Forrest girò intorno al tavolo di mogano e diede una rapida occhiata al cumulo di scartoffie che lo ingombrava. «Nove anni dall'ultima volta che sono stato in questa casa. Difficile crederlo, vero?» «Sì.» «Sono passato qualche giorno dopo le elezioni, gli ho detto che mi dispiaceva molto che lo avessero scaricato e poi gli ho chiesto dei soldi. Sono volate parole grosse.» «Per piacere, Forrest, non ora.» Le storie degli alterchi tra Forrest e il Giudice avrebbero potuto durare un'eternità. «Non ho mai avuto quei soldi» borbottò mentre apriva un cassetto della scrivania. «Immagino che dovremo frugare dappertutto, vero?» «Sì, ma non adesso.» «Fallo tu, Ray. L'esecutore sei tu. Occupati del lavoro sporco.» «Dobbiamo chiamare le pompe funebri.» «Ho bisogno di bere.» «No, Forrest, per piacere.»
«Non t'immischiare, Ray. Io bevo tutte le volte che ne ho voglia.» «Lo hai già dimostrato mille volte. Vieni, chiamo l'impresa e ci mettiamo ad aspettare fuori.» Arrivò prima un'auto di pattuglia. Ne smontò un giovane con la testa rasata e l'aria di essere stato strappato al suo pisolino domenicale. Fece qualche domanda nel portico, poi andò a esaminare la salma. C'erano verbali da compilare, e Ray preparò una brocca di tè istantaneo con molto zucchero. «Causa del decesso?» chiese il poliziotto. «Cancro, cuore, diabete, vecchiaia» rispose Ray seduto sul dondolo di fianco a Forrest. «Le basta?» s'intromise Forrest con atteggiamento strafottente. Se mai aveva avuto rispetto per i poliziotti, lo aveva esaurito da un bel pezzo. «Chiederete l'autopsia?» «No» risposero all'unisono. L'uomo finì di compilare i suoi moduli e raccolse le firme dei due fratelli. «Adesso la notizia si diffonderà come il vento» osservò Ray mentre l'agente se ne andava. «Non nella nostra amata cittadina.» «Difficile da credere, vero? La gente qui spettegola sul serio.» «Io li ho tenuti occupati per vent'anni.» «Puoi dirlo forte.» Erano spalla a spalla, ciascuno con il bicchiere vuoto. «Dunque, che cosa abbiamo per le mani?» si decise finalmente a chiedere Forrest. «Vuoi vedere il testamento?» «No, dimmi tu.» «C'è l'elenco dei suoi beni: la casa, i mobili, la macchina, i libri, seimila dollari in banca.» «Tutto qui?» «È quello che ha scritto lui» rispose Ray evitando di mentire. «Ci saranno sicuramente altri soldi da qualche parte» dichiarò Forrest pronto a mettersi a cercarli. «Li avrà dati tutti via» ribatté con calma Ray. «E la sua liquidazione?» «Se n'è mangiata una bella fetta quando ha perso le elezioni. Un fiasco costoso, ci rimise qualche decina di migliaia di dollari. Suppongo che il resto lo abbia donato.»
«Non avrai intenzione di fregarmi, vero, Ray?» «Andiamo, Forrest, non c'è niente su cui litigare.» «Debiti?» «Dice che non ce ne sono.» «Nient'altro?» «Puoi leggere il testamento, se vuoi.» «Ora no.» «Lo ha firmato ieri.» «Pensi che avesse programmato tutto?» «Così sembrerebbe.» Un carro mortuario della Magargel's Funeral Home si fermò davanti a Maple Run, poi svoltò lentamente nel vialetto. Forrest si sporse in avanti con i gomiti sulle ginocchia, si prese il volto tra le mani e cominciò a piangere. 7 Dietro il carro funebre c'era il coroner della contea, Thurber Foreman, sullo stesso pick-up Dodge rosso che aveva ai tempi in cui Ray era al college, e dietro Thurber arrivava il reverendo Silas Palmer della Prima Chiesa Presbiteriana, un piccolo scozzese senza età che aveva battezzato entrambi i figli Atlee. Forrest scivolò via a nascondersi dietro casa lasciando a Ray l'incombenza di accogliere la comitiva. Ci fu uno scambio di frasi di circostanza. Il signor B J. Magargel, dell'impresa di onoranze funebri, e il reverendo Palmer sembravano in procinto di piangere. Thurber aveva visto innumerevoli cadaveri e, almeno per il momento, si mostrava indifferente. Ray li condusse nello studio, dove si trattennero in rispettosa contemplazione del giudice Atlee il tempo necessario perché Thurber concludesse ufficialmente che era morto. Lo fece senza aprire bocca, limitandosi a rivolgere un cenno al signor Magargel, quel compito, burocratico abbassare la testa che significava: "È morto. Ora può portarselo via". Anche il signor Magargel annuì, concludendo così un silenzioso rito che avevano celebrato insieme più di una volta. Thurber estrasse un foglio e formulò le richieste di rito: nome per esteso del Giudice, data e luogo di nascita, parenti prossimi. Per la seconda volta, Ray respinse l'ipotesi di un'autopsia. Insieme al reverendo Palmer andò quindi a sedersi al tavolo in sala da pranzo. Il religioso sembrava molto più in pena di lui. Adorava il Giudice
e sosteneva di essergli stato amico intimo. Una cerimonia adeguata alla statura sociale di Reuben Atlee avrebbe richiamato molti amici ed estimatori, e meritava una preparazione meticolosa. «Io e Reuben ne avevamo discusso non molto tempo fa» aggiunse il reverendo Palmer con voce bassa e roca, sul punto di rompere in singhiozzi. «Molto bene» commentò Ray. «Aveva scelto i salmi e le scritture e aveva fatto una lista di chi doveva reggere il feretro.» Ray non aveva ancora pensato a quei particolari. Forse gli sarebbero venuti in mente se non fosse inciampato in un paio di milioni di dollari in contanti. Il suo cervello ascoltava il reverendo Palmer, cogliendo il senso di quasi tutto quello che diceva, poi si estraniava per tuffarsi nel ripostiglio delle scope e ricominciava a vorticare. Si sentì all'improvviso ansioso all'idea che Thurber e Magargel fossero soli nello studio con il Giudice. Rilassati, continuava a ripetere a se stesso. «Grazie» disse, sinceramente contento che qualcuno si fosse preso cura dei dettagli. L'assistente del signor Magargel spinse in casa una lettiga, attraversò l'ingresso e s'incartò al momento di girarla per entrare nello studio del Giudice. «E voleva una veglia» aggiunse il reverendo. Le veglie erano una tradizione, preludio necessario a un'adeguata sepoltura, specialmente tra i più anziani. Ray annuì. «Qui, in casa.» «No» ribatté all'istante Ray. «Non qui.» Appena solo, intendeva ispezionare l'abitazione palmo a palmo in cerca di altro bottino. Ed era molto preoccupato di quello già trasferito nel ripostiglio. Quanti soldi erano, esattamente? Quanto tempo gli ci sarebbe voluto per contarli? Erano veri o contraffatti? Da dove venivano? Che cosa doveva farne? Dove portarli? A chi confidarlo? Aveva bisogno di tempo per meditare in solitudine, considerare la situazione da tutti gli aspetti ed elaborare un piano. «Suo padre è stato molto chiaro, in proposito» insisté Palmer. «Spiacente, reverendo. Ci sarà una veglia, ma non qui.» «Posso sapere perché?» «Mia madre.» Il religioso sorrise e annuì. «Mi ricordo di sua madre.»
«L'adagiarono sul tavolo di là, in salotto, e per due giorni venne tutta la città a sfilare davanti a lei. Io e mio fratello eravamo nascosti al piano di sopra a maledire nostro padre per quello spettacolo.» Il tono di Ray era deciso, i suoi occhi ardevano. «Non ci sarà una veglia in questa casa, reverendo Palmer.» Ray era più sincero che mai. Era anche preoccupato dei conseguenti problemi di sicurezza: una veglia avrebbe richiesto una pulizia minuziosa di tutta la casa da parte di una ditta specializzata, la preparazione di un buffet da parte di un servizio di ristorazione e un allestimento floreale organizzato da un fiorista. E tutte quelle attività sarebbero cominciate l'indomani mattina. «Capisco» disse Palmer. L'assistente uscì per primo, a ritroso, tirando la lettiga che veniva spinta con delicatezza dal signor Magargel. Il Giudice era coperto completamente da un lenzuolo bianco inamidato, che gli avevano rimboccato sotto il corpo. Seguiti da Thurber, lo spinsero fuori e scesero i gradini del portico portando via l'ultimo Atlee che aveva abitato a Maple Run. Mezz'ora dopo, dai recessi della casa si materializzò Forrest. Aveva in mano un alto bicchiere colmo di un liquido scuro dall'aria sospetta, certamente non tè freddo. «Se ne sono andati?» domandò guardando in direzione del vialetto. «Sì» rispose Ray. Era seduto sui gradini dell'ingresso a fumare un sigaro. Quando Forrest gli si sedette accanto, l'aroma di malto fu lesto a seguirlo. «Dove l'hai trovato?» chiese Ray. «Aveva un nascondiglio nel suo bagno. Ne vuoi?» «No. Da quanto tempo lo sapevi?» «Trent'anni.» Una decina di paternali gli affollarono subito la mente, ma Ray le archiviò. Le aveva utilizzate già innumerevoli volte ed evidentemente erano state inutili, se lì accanto a lui Forrest sorseggiava bourbon dopo centoquarantun giorni di astinenza. «Come sta Ellie?» chieste Ray dopo una lunga boccata di sigaro. «Matta come un cavallo, come sempre.» «La vedrò al funerale?» «No, è arrivata a centotrenta chili. Settanta è il suo limite massimo. Sotto i settanta, esce di casa. Sopra i settanta, si chiude dentro.»
«Quando è stata sotto i settanta?» «Tre o quattro anni fa. Ha trovato uno pseudodottore che le ha dato delle pillole. È scesa a quarantacinque chili. Poi il ciarlatano è finito dentro e lei ha messo su novanta chili. Ma centotrenta è il suo massimo. Si pesa tutti i giorni e dà fuori di matto se vede che l'ago della bilancia va oltre.» «Ho detto al reverendo Palmer che faremo una veglia, ma non qui, non in casa.» «L'esecutore sei tu.» «Sei d'accordo?» «Certo.» Un lungo sorso di bourbon per Forrest, un altra boccata di sigaro per Ray. «Che si sa di quella baldracca che ti ha scaricato? Come si chiama?» «Vicki.» «Già, Vicki. L'ho odiata fin dal giorno delle nozze.» «Vorrei averlo fatto anch'io.» «È ancora in circolazione?» «L'ho vista la settimana scorsa, all'aeroporto. Scendeva dal suo jet privato.» «Già, ha sposato quel vecchio stronzo, uno squalo di Wall Street.» «Infatti. Parliamo d'altro.» «Sei stato tu a tirare in ballo le donne.» «Sempre un grave errore.» Forrest mandò giù un altro sorso. «Parliamo di soldi. Dove sono?» Ray trasalì e il suo cuore si fermò, ma Forrest stava guardando il prato e non si accorse di nulla. Di che soldi stai parlando, fratellino caro? «Li ha spesi.» «Ma perché?» «Erano soldi suoi, non nostri.» «Perché non lasciarcene un po'?» Non molti anni prima il Giudice aveva confidato a Ray di aver tirato fuori, nell'arco di una quindicina d'anni, più di novantamila dollari per Forrest in onorari agli avvocati, multe e rette di centri di riabilitazione. Poteva scegliere se lasciare i soldi a Forrest perché li sperperasse bevendo e sniffando, oppure usarli per fare beneficenza mentre era in vita, aiutando le famiglie bisognose. Ray aveva una professione ed era in grado di badare a se stesso. «Ci ha lasciato la casa.»
«Che ne facciamo?» «La vendiamo, se vuoi. Il ricavato andrà con tutto il resto. Il cinquanta per cento servirà a pagare le tasse. La registrazione del testamento richiederà un anno.» «Vieni al sodo.» «Con un po' di fortuna, ci dividiamo cinquantamila dollari di qui a un anno.» Naturalmente c'erano anche altri beni. Il bottino se ne stava innocente nel ripostiglio delle scope, ma Ray aveva bisogno di tempo per raccogliere le idee. Era denaro sporco? Andava incluso nel patrimonio? In tal caso, avrebbe causato problemi enormi. Per prima cosa bisognava spiegarne l'origine. In secondo luogo almeno metà sarebbe andato sprecato in tasse. Alla fine, Forrest si sarebbe ritrovato con le tasche piene di soldi e probabilmente ci avrebbe lasciato la pelle. «Dunque, mi verranno venticinquemila dollari tra un anno?» concluse Forrest. Ray non seppe stabilire se fosse sollevato o disgustato. «Qualcosa del genere.» «Vuoi la casa?» «Io no. E tu?» «No, scherzi? Non ci tornerei mai.» «Non esagerare, Forrest.» «Mi ha buttato fuori, lo sai, mi ha detto che avevo disonorato questa famiglia per troppo tempo. E mi ha diffidato dal rimettere mai più piede su questo suolo.» «E ti ha chiesto scusa.» Un sorso veloce. «Sì, me l'ha chiesto. Ma questo posto mi deprime. L'esecutore sei tu. Occupatene tu. Mandami un assegno per posta quando il testamento sarà stato registrato.» «Dovremmo almeno guardare insieme i suoi effetti personali.» «Io non li tocco proprio» dichiarò Forrest alzandosi in piedi. «Ho voglia di una birra. Sono cinque mesi, ormai, e ho voglia di una birra.» Si dirigeva alla sua macchina mentre parlava. «Ne vuoi una anche tu?» «No.» «Vieni con me?» Ray avrebbe desiderato andare per proteggere suo fratello, ma era inchiodato dall'impulso più forte di rimanere a proteggere il patrimonio familiare degli Atlee. Il Giudice non chiudeva mai casa. Dov'erano le chiavi?
«Ti aspetto qui» rispose. «Come ti pare.» La visita successiva non fu una sorpresa. Ray era in cucina a frugare nei cassetti a caccia delle chiavi, quando udì una voce che gridava dalla porta d'ingresso. Anche se da anni non la sentiva, non c'era dubbio che appartenesse a Harry Rex Vonner. Si abbracciarono, una presa poderosa da parte di Harry Rex, una stretta recalcitrante da parte di Ray. «Mi dispiace molto» ripeté più di una volta Harry Rex. Era alto, con un ampio torace e la pancia prominente, un grosso orso arruffato che venerava il giudice Atlee e sarebbe stato disposto a qualsiasi cosa per i suoi ragazzi. Era un brillante avvocato intrappolato in una cittadina di provincia, e il giudice Atlee si era sempre rivolto a lui per i problemi legali di Forrest. «Quando sei arrivato?» chiese a Ray. «Verso le cinque. L'ho trovato nello studio.» «Sono bloccato da due settimane in tribunale per un processo e non l'ho più sentito. Forrest dov'è?» «È andato a comperare della birra.» Digerirono in silenzio la gravità di quell'affermazione. Si sedettero sulle sedie vicino al dondolo. «È bello rivederti, Ray.» «Anche per me è un piacere, Harry Rex.» «Non riesco a credere che sia morto.» «Nemmeno io. Pensavo che ci sarebbe stato per sempre.» Harry Rex si asciugò gli occhi con la manica. «Mi dispiace tanto» mormorò. «Non riesco a crederci. L'ho visto due settimane fa, credo. Si muoveva bene, bello arzillo. Soffriva ma non si lamentava.» «Gli avevano dato un anno di vita, ed è stato appunto dodici mesi fa. Ma io credevo che sarebbe durato di più.» «Anch'io. Un vecchiaccio così coriaceo.» «Vuoi del tè?» «Volentieri.» Ray andò in cucina a riempire due bicchieri e tornò fuori. «Questa roba non è molto buona» commentò. Harry Rex bevve un sorso e ne convenne. «Almeno è freddo.» «Ci sarà una veglia, Harry Rex, ma non qui. Hai qualche idea?» L'avvocato meditò per non più di un secondo, poi si sporse verso di lui con un sorriso compiaciuto. «Sistemiamolo in tribunale, nell'atrio al pian-
terreno. Lo componiamo come un re o giù di lì.» «Parli sul serio?» «Perché no? A lui sarebbe piaciuto. Potrebbe venire tutta la città a tributargli l'ultimo saluto.» «Mi piace.» «È un'idea fantastica, fidati. Parlerò allo sceriffo e la farò approvare. Piacerà a tutti. Il funerale quand'è?» «Martedì.» «Allora la veglia dovrà essere per domani pomeriggio. Vuoi che dica due parole?» «Naturalmente. Perché non organizzi tutto tu?» «Contaci. Avete scelto la cassa?» «L'idea è di andarci domattina.» «Prendila di quercia, lascia perdere quelle stronzate di bronzo e rame. Noi l'anno scorso abbiamo seppellito mamma in una bara di quercia ed era la cosa più bella che abbia mai visto. Magargel può fartene avere una da Tupelo in due ore. E lascia perdere la cappella, per piacere, serve solo a spillarti quattrini. Cenere alla cenere, polvere alla polvere; seppellirli e lasciarli marcire è l'unico sistema. Gli episcopaliani hanno capito tutto.» Un po' stordito da quel torrente di consigli, Ray fu comunque grato a Harry Rex. Il Giudice non aveva parlato della cassa, ma aveva espressamente richiesto una cripta. E voleva una bella lapide. In fondo era un Atlee e sarebbe stato tumulato insieme agli altri grandi. Se c'era qualcuno che poteva sapere qualcosa del Giudice, questo era Harry Rex. Mentre guardavano le ombre allungarsi sul prato di Maple Run, con tutta la disinvoltura possibile, Ray disse: «Sembra che abbia dato via tutti i suoi soldi». «Non ne sono stupito. Tu sì?» «No.» «Al suo funerale ci saranno mille persone che hanno tratto vantaggio dalla sua generosità: invalidi, malati senza assicurazione, bambini neri che ha mandato al college, tutti i volontari dei vigili del fuoco, l'associazione municipale, la squadra universitaria di football, il gruppo della scuola spedito in Europa. La nostra chiesa ha mandato dei dottori ad Haiti e il Giudice ci ha dato mille dollari.» «Quando hai cominciato ad andare in chiesa?» «Due anni fa.» «Perché?»
«Mi sono preso una moglie nuova.» «A che numero sei arrivato?» «Quattro. Ma a questa voglio davvero bene.» «Fortunata lei.» «È molto fortunata.» «Mi piace quest'idea della veglia in tribunale, Harry Rex. Tutta quella gente che hai appena menzionato che viene a rendergli un pubblico omaggio. E lo spazio che ci vuole per parcheggiare, nessun problema di posti a sedere.» «È fantastico.» Forrest imboccò il vialetto e si fermò con una brusca frenata a pochi centimetri dalla Cadillac di Harry Rex. Scese e si avviò pesantemente verso di loro nella semioscurità, trasportando qualcosa che assomigliava a una cassa di birra. 8 Rimasto solo, seduto sulla sedia di vimini di fronte al sofà vuoto, Ray cercò di convincersi che la vita senza suo padre non sarebbe stata poi così diversa dalla vita lontano da lui. Ci voleva il suo tempo, e la cosa migliore era prenderla con filosofia e adeguarsi con una modesta dose di cordoglio. Mostrati come si aspettano di vederti, si disse, sbriga tutto quello che c'è da sbrigare nel Mississippi e tornatene di corsa in Virginia. Lo studio era illuminato da una debole lampadina sotto un paralume impolverato sullo scrittoio e le ombre erano lunghe e scure. Si sarebbe seduto là l'indomani, a immergersi nelle scartoffie, ma non quella sera. Quella sera aveva bisogno di pensare. Forrest era andato via insieme a Harry Rex, ubriachi entrambi. A Forrest era venuto come sempre il malumore e aveva detto che voleva andare a Memphis in macchina. Ray gli aveva suggerito di rimanere dov'era. "Dormi nel portico, se non vuoi dormire in casa" gli aveva consigliato senza insistere. Insistere avrebbe solo provocato un battibecco. Harry Rex aveva aggiunto che, in circostanze normali, lo avrebbe invitato a casa sua, ma la sua nuova moglie era una rompipalle e probabilmente non avrebbe sopportato due ubriachi in una volta sola. "Restatene qui tranquillo" aveva detto Harry Rex, ma Forrest non ne voleva sapere. Già abbastanza cocciuto da sobrio, diventava intrattabile dopo qualche bicchiere. Ray aveva visto quella scena più spesso di quanto gli
piacesse ricordare, e rimase in silenzio ad ascoltare Harry Rex che discuteva con suo fratello. La questione fu risolta quando Forrest decise che avrebbe preso una stanza al Deep Rock Motel, a nord della città. "Ci andavo quando me la facevo con la moglie del sindaco, quindici anni fa" aveva rivelato. "È pieno di pidocchi" aveva osservato Harry Rex. "Già mi manca." "La moglie del sindaco?" aveva chiesto Ray. "Lascia perdere" aveva risposto Harry Rex. Se n'erano andati poco prima delle undici e in casa il silenzio si era fatto via via più intenso. La porta principale era munita di un chiavistello e quella del patio aveva un paletto. La porta della cucina, la sola da cui si usciva sul retro della casa, aveva una serratura che si chiudeva male. Il Giudice non sapeva usare neppure un cacciavite e Ray aveva ereditato da lui la stessa scarsa abilità manuale. Aveva serrato tutte le finestre ed era sicuro che l'abitazione degli Atlee non era mai stata così chiusa da molti anni. Se necessario avrebbe dormito in cucina, per sorvegliare il ripostiglio delle scope. Cercò di non pensare ai soldi. Seduto nel sancta sanctorum di suo padre, lavorò mentalmente a una bozza di necrologio. Il giudice Atlee era stato eletto in carica al Venticinquesimo distretto nel 1959 ed era stato rieletto con consensi plebiscitari ogni quattro anni fino al 1991. Trentadue anni di onorato servizio. Come giurista, il suo curriculum era impeccabile. Era accaduto ben di rado che la Corte d'appello ribaltasse una delle sue decisioni. Spesso i colleghi gli chiedevano di occuparsi di casi che nei loro distretti sarebbero stati tabù. Aveva tenuto cicli di conferenze alla scuola di legge statale. Aveva scritto centinaia di articoli su pratica e procedura. Due volte aveva rifiutato una nomina alla Corte suprema del Mississippi, per non rinunciare al piacere dei processi. Quando non indossava la toga, il giudice Atlee metteva le mani in tutte le questioni locali: politica, interventi amministrativi, scuole e chiese. Poche cose nella contea di Ford venivano approvate senza il suo benestare e poche di quelle a cui si opponeva venivano comunque tentate. In periodi diversi era stato membro di tutti i consigli locali a ogni livello e aveva partecipato a tutte le commissioni variamente istituite. Aveva selezionato con discrezione i candidati per le cariche locali e con discrezione aveva aiutato a sconfiggere quelli che non godevano della sua considerazione. Nel tempo libero, quel poco che aveva avuto, si era dedicato agli studi di
storia e della Bibbia e aveva scritto articoli di argomento legale. Neppure una volta aveva giocato a baseball con i suoi figli o li aveva portati a pesca. Era stato preceduto nella morte dalla moglie Margaret, scomparsa prematuramente per un aneurisma nel 1969. Gli sopravvivevano due figli. E nel corso di tutto questo era riuscito ad accumulare una fortuna in denaro contante. Forse la soluzione del mistero dei soldi si nascondeva in quella scrivania, da qualche parte in quelle montagne di carte o in uno dei cassetti. Suo padre non poteva non aver lasciato un indizio, se non una spiegazione esplicita. Doveva esserci una pista. Ray non riusciva a pensare a una sola persona in tutta la contea titolare di un patrimonio intorno ai due milioni di dollari; e tenere una simile cifra in denaro contante era impensabile. Doveva assolutamente contarlo. Era andato a controllarlo due volte durante la serata. Solo contare le ventisette scatole della Blake & Son lo aveva reso ansioso. Avrebbe atteso le prime ore del mattino, quando ci sarebbe stata luce piena ma prima che la città cominciasse a muoversi. Avrebbe oscurato le finestre della cucina e preso una scatola per volta. Poco prima di mezzanotte trovò un sottile materasso in una camera da letto al pianterreno e lo trascinò in soggiorno, a qualche metro dal ripostiglio delle scope, in un punto da cui poteva vedere il vialetto d'accesso e la casa attigua. Al piano di sopra, in un cassetto del comodino, trovò la Smith & Wesson calibro 38 del Giudice. Con un guanciale che puzzava di muffa e una coperta di lana marcia, cercò invano di dormire. Il tintinnio giungeva dall'altro lato della casa. Era una finestra, anche se gli ci volle qualche minuto per svegliarsi, schiarirsi le idee, rendersi conto del rumore e della sua provenienza. Un picchiettare, poi una scossa più violenta, quindi silenzio. Una pausa prolungata mentre prendeva posizione sul materasso e stringeva la .38. L'oscurità in casa era molto più intensa di quanto avrebbe desiderato perché quasi tutte le lampadine erano bruciate e il Giudice era troppo tirchio per sostituirle. Tirchio. Ventisette scatole di contante. Segnare lampadine sulla lista, domani mattina al più presto. Poi di nuovo il rumore, troppo netto e troppo rapido perché fossero foglie o rami sospinti dal vento. Tre colpi in successione, poi una spinta energica come di qualcuno che cercasse di nuovo di forzare la finestra. C'erano due automobili nel vialetto, la sua e quella di Forrest. Qualunque imbecille avrebbe capito che c'era gente in casa; dunque, chiunque
fosse quell'imbecille, non gliene importava nulla. Probabilmente era armato a sua volta e di sicuro sapeva maneggiare una pistola meglio di lui. Attraversò l'ingresso sdraiato a terra come un granchio e respirando come un velocista. Si fermò nel buio del corridoio e ascoltò in silenzio. Un bel silenzio. Vattene, ripeteva dentro di sé. Ti prego, vai via. Tre colpi in rapida successione ed ecco che scivolava di nuovo verso la camera da letto sul retro, con la pistola nella mano protesa davanti a sé. Era carica? si domandò, molto, troppo tardi. Ma sì, il Giudice teneva la pistola carica accanto al letto. Adesso il rumore era più forte e veniva da una piccola camera una volta usata per gli ospiti, ma che da molti anni ormai raccoglieva solo scatole e scatoloni. Spinse piano piano la porta con la testa e non vide altro che cartoni. La porta ruotò sui cardini acquistando velocità e urtò una lampada a stelo, che cadde in avanti schiantandosi vicino alla prima di tre finestre buie. Ray fu sul punto di sparare, ma risparmiò le munizioni e trattenne il fiato. Rimase immobile sulle assi imbarcate del pavimento per quella che a lui parve un'eternità, a sudare, ascoltare, scacciare ragni, e a non sentire nulla. Le ombre si levavano e ricadevano. Un vento leggero scuoteva i rami all'esterno, uno dei quali accarezzava dolcemente la casa sul tetto. Dunque era il vento. Il vento e i vecchi fantasmi di Maple Run, residenza abitata da numerosi spiriti, secondo sua madre, perché era una casa antica, dove erano morti a decine. Avevano seppellito degli schiavi in cantina, raccontava lei, e i loro spettri irrequieti si aggiravano per i locali. Il Giudice disprezzava le storie di fantasmi e non ne voleva sapere. Quando finalmente si raddrizzò, Ray non sentiva più gomiti e ginocchia. Poi si alzò del tutto e si appoggiò allo stipite, guardando verso le tre finestre con la pistola spianata. Se davvero c'era stato un intruso, evidentemente il baccano lo aveva spaventato. Ma più rimaneva fermo lì, più si convinceva che i rumori erano stati provocati dal vento. Forrest era stato più saggio. Per quanto pidocchioso fosse il Deep Rock, era sicuramente più tranquillo di quella casa. Tre colpi in rapida successione e Ray si ritrovò di nuovo lungo disteso sul pavimento, in preda al terrore; ma questa volta era peggio, perché il rumore giungeva dalla cucina. Prese la decisione di camminare carponi invece che strisciare e quando arrivò nell'ingresso era accecato dal dolore alle ginocchia. Si fermò tra i battenti delle porte a vetri che davano in soggiorno e attese. Il pavimento era scuro, ma una debole luce filtrava dal portico attraverso le veneziane rischiarando la parte più alta delle pareti e il
soffitto. Non per la prima volta si domandò che cosa ci facesse lui, docente di legge in una prestigiosa università, nascosto nel buio della casa paterna, armato, terrorizzato, sul punto di cedere a una crisi isterica, solo perché voleva disperatamente proteggere una misteriosa montagna di banconote trovate per caso. «Sentiamo che cos'hai da rispondere» borbottò sottovoce a se stesso. Dalla porta della cucina, si accedeva a una piccola veranda sul retro. C'era qualcuno, là fuori, appena dietro l'uscio, passi sul fondo in legno. Poi la maniglia si mosse, quella che stava su per miracolo con la serratura mal funzionante. Chiunque fosse, aveva preso la temeraria decisione di entrare dalla porta invece di infilarsi furtivamente da una finestra. Ray era un Atlee e quella era casa sua. Inoltre si trovava nel Mississippi, dove era consentito l'uso delle armi per proteggere se stessi e la propria dimora. Qualsiasi tribunale di quello Stato non avrebbe avuto nulla da ridire. S'accovacciò dietro il tavolo della cucina, prese la mira su un punto in alto, nel riquadro della finestra sopra il lavello, e cominciò a premere il grilletto. Il rumore di uno sparo e di un proiettile che, nel cuore delle tenebre, faceva saltare il vetro di una finestra avrebbe senza dubbio terrorizzato un aspirante ladro. Quando sentì la porta tremare di nuovo, schiacciò più forte. Il cane scattò ma non successe niente. La pistola era scarica. Ray premette di nuovo il grilletto, il tamburo ruotò, ma l'arma non sparò nemmeno questa volta. Preso dal panico, afferrò la brocca che aveva usato per il tè e la scagliò contro il vetro della porta. Con suo grande sollievo, provocò un fragore assai superiore a quello di qualsiasi pallottola. Fuori di sé dalla paura, accese la luce e si gettò in avanti brandendo la pistola e urlando: «Vattene!». Quando aprì la porta e non vide nessuno si lasciò sfuggire un enorme sospiro e riprese fiato. Per mezz'ora spazzò vetri, facendo tutto il baccano possibile. Il poliziotto si chiamava Andy ed era nipote di un tizio che era stato compagno di scuola di Ray negli ultimi anni di liceo. I legami che intercorrevano tra i due furono stabiliti nei primi trenta secondi dal suo arrivo, dopodiché parlarono di football mentre ispezionavano l'esterno di Maple Run. Nessun segno di scasso a nessuna delle finestre del pianterreno. Niente in cucina se non un mucchietto di vetri infranti. Al piano di sopra Ray cercò le cartucce mentre Andy passava in rassegna le stanze. Le ricer-
che non sortirono effetto. Ray preparò del caffè e lo bevvero nel portico, conversando a bassa voce in piena notte. Andy era il solo tutore dell'ordine che proteggesse Clanton a quell'ora, e riconobbe la sua scarsa utilità. «Non succede mai niente nella notte tra domenica e lunedì» spiegò. «La gente va a dormire presto perché l'indomani si lavora.» Cedendo alle esortazioni di Ray, gli diede un resoconto delle attività criminose nella contea di Ford: furti di pick-up, scazzottate nei bar, spaccio di droga a Lowtown, la comunità di colore. Quattro anni senza un omicidio, affermò con orgoglio. Due anni prima c'era stata una rapina in banca. Sulla scia delle proprie chiacchiere accettò una seconda tazza. Ray avrebbe continuato a riempirgliela e a preparare altro caffè, se fosse stato necessario, fino al sorgere del sole. Si sentiva molto confortato dalla presenza di una ben visibile auto di pattuglia ferma davanti a casa. Andy se ne andò alle tre e mezzo. Per un'ora Ray rimase sdraiato sul materasso a guardare i buchi nel soffitto e a stringere nella mano una pistola che non serviva a niente. Combatté il sonno architettando strategie per proteggere il denaro. Nessun piano d'investimenti, per quello c'era tempo. Più importante era trovare un modo per fare uscire i soldi dal ripostiglio delle scope, dalla casa, e trasferirli in un luogo sicuro. Sarebbe stato costretto a portarli in Virginia? Non avrebbe di certo potuto lasciarli a Clanton, giusto? E quando avrebbe potuto contarli? A un certo punto la stanchezza e le tensioni della giornata ebbero il sopravvento e si assopì. I tintinnii ripresero, ma non li udì. La porta della cucina, ora barricata con una sedia incastrata sotto la maniglia e un pezzo di corda, tremò sotto rinnovate spinte, ma Ray dormì senza accorgersi di nulla. 9 Alle sette e mezzo lo svegliò la luce del sole. I soldi c'erano ancora, intatti. Porte e finestre non erano state aperte, per quanto poteva constatare. Preparò il caffè e mentre beveva la prima tazza seduto al tavolo della cucina prese una decisione importante. Se qualcuno stava cercando di rubargli i soldi, allora non poteva più lasciarli lì, nemmeno per un istante. Ma il bagagliaio della sua Audi era troppo piccolo per le ventisette scatole della Blake & Son. Il telefono squillò alle otto. Era Harry Rex. Riferiva che Forrest era stato lasciato al Deep Rock Hotel, che la contea concedeva l'autorizzazione a
una cerimonia nell'atrio del palazzo di giustizia per quel pomeriggio alle quattro e mezzo, che aveva già ingaggiato un soprano e una guardia giurata di colore. Lui stesso stava lavorando a un elogio funebre per l'amico. «E la cassa?» chiese. «Mi vedo con Magargel alle dieci» rispose Ray. «Bene. Ricorda di prenderla di quercia. Al Giudice sarebbe piaciuto così.» Parlarono di Forrest per qualche minuto, più o meno la stessa conversazione di sempre. Dopo che ebbe riappeso, Ray si mosse con rapidità. Aprì finestre e imposte nella vigile attesa di eventuali visitatori. Nei caffè della piazza si andava diffondendo la notizia della morte del giudice Atlee ed era certamente possibile che qualcuno si facesse vivo. C'erano troppe porte e finestre e non poteva montare di guardia per tutto il tempo. Se qualcuno era a caccia dei soldi, quel qualcuno se li sarebbe presi. Per qualche milione di dollari, ficcare una pallottola nella testa di Ray sarebbe stato un ottimo investimento. Doveva portarli via di lì. Davanti al ripostiglio delle scope prese la prima scatola e rovesciò le banconote in un sacco nero per l'immondizia. Seguirono altre otto scatole e quando ebbe raccolto un milione di dollari circa trasportò il sacco alla porta sul retro e sbirciò fuori. Le scatole vuote tornarono al loro posto nel mobiletto sotto gli scaffali. Riempì altri due sacchi. A marcia indietro portò l'automobile alla veranda sul retro, il più vicino possibile alla cucina, poi scrutò i dintorni alla ricerca di occhi indiscreti. Non ne trovò. Lì accanto vivevano solo le zitelle, che non erano in grado di vedere nemmeno la televisione nel salotto di casa. Correndo dalla porta alla macchina, caricò nel bagagliaio i sacchi, li rigirò e li schiacciò da una parte e dall'altra e, quando sembrava che non sarebbe mai riuscito a chiudere il cofano, lo spinse giù con forza, vincendo ogni resistenza. Il meccanismo scattò e la serratura tenne, con grande sollievo di Ray. Non sapeva ancora bene come, una volta in Virginia, avrebbe scaricato il bottino per trasportarlo fino a casa da un parcheggio e attraverso la zona pedonale piena di gente. Ci avrebbe pensato a tempo debito. Al Deep Rock c'era una tavola calda, un locale scomodo, bisunto e surriscaldato dove Ray non era mai stato, ma era il posto perfetto dove mangiare la mattina dopo la scomparsa del giudice Atlee. I tre caffè in piazza echeggiavano senz'altro di pettegolezzi e aneddoti sul grand'uomo, e Ray
preferiva starne lontano. Forrest era in uno stato decoroso. Ray lo aveva visto in condizioni ben peggiori. Indossava gli abiti del giorno prima e non aveva fatto la doccia, ma per lui non era insolito. Aveva gli occhi rossi, ma non gonfi. Disse di aver dormito bene, ma di avere bisogno di carburante. Ordinarono entrambi uova strapazzate con bacon. «Ti vedo stanco» osservò Forrest mandando giù caffè nero. Era vero. «Sto bene, un paio d'ore di riposo e tornerò come nuovo.» Ray guardò attraverso la vetrina la sua Audi parcheggiata il più vicino possibile al ristorante. Ci avrebbe dormito dentro, se necessario. «È strano» disse Forrest «quando sono pulito dormo come un bebè. Otto, nove ore per notte, un bel sonno pesante. Ma quando non sono pulito va già bene se riesco a tirare per cinque ore. E il sonno non è molto profondo.» «Giusto per curiosità, ma quando sei pulito ti viene da pensare alla prossima bevuta?» «Sempre. Ti monta dentro, come il sesso. Puoi farne a meno per un po', ma se la pressione cresce prima o poi devi sfogarti. Alcol, sesso, droghe, alla fine ci ricasco.» «Sei rimasto pulito per centotrentanove giorni.» «Centoquarantadue» mentì Forrest. «Qual è il tuo record?» «Quattordici mesi. Qualche anno fa sono uscito da un rinomato centro di disintossicazione che mi aveva pagato il vecchio e ho retto per un'eternità. Poi un giorno ho ceduto.» «Perché? Che cosa ti ha fatto cedere?» «È sempre la stessa storia. Quando sei assuefatto puoi ricaderci in qualsiasi momento e in qualsiasi posto, per qualsiasi ragione. Non esistono sistemi sicuri. Io sono un tossicodipendente, fratello, né più né meno.» «Prendi ancora droghe?» «Sicuro. Ieri sera bourbon e birra, lo stesso stasera, lo stesso domani. Prima della fine della settimana sarò passato a qualcosa di più forte.» «È quello che vuoi?» «No, ma so che succederà.» Arrivò la cameriera con le ordinazioni. Forrest imburrò velocemente una fetta biscottata e ne staccò un grosso morso. «Il vecchio è morto, Ray» riprese appena poté parlare di nuovo. «E io non riesco a crederci.» Anche Ray era ansioso di cambiare argomento. Se avessero indugiato
troppo sulle debolezze di Forrest, presto avrebbero cominciato a litigare. «Nemmeno io. Credevo di essere pronto, ma mi sbagliavo.» «Quando l'hai visto l'ultima volta?» «In novembre, per l'operazione alla prostata. E tu?» Forrest versò tabasco sulle uova e rifletté sulla domanda. «Quando ha avuto l'infarto?» C'erano stati così tanti malanni e interventi chirurgici che era difficile per entrambi ricordare bene. «Ne ha avuti tre.» «Quello di Memphis.» «Quello è stato il secondo. Quattro anni fa» rammentò Ray. «Ecco, infatti. Sono stato un po' con lui all'ospedale. Diamine, si trovava a meno di sei isolati da me. Era il minimo che potessi fare.» «Di che cosa avete parlato?» «Della Guerra Civile. Era ancora convinto che avessimo vinto noi.» Sorrisero di questo e mangiarono in silenzio per qualche momento. Il silenzio finì quando li trovò Harry Rex. Si prese una fetta biscottata mentre li aggiornava sugli ultimi particolari della splendida cerimonia che stava organizzando per il giudice Atlee. «Tutti vogliono venire alla casa» annunciò con la bocca piena. «È vietato» dichiarò Ray. «È quello che ho risposto io. Riceverete visite, stasera?» «No» rispose Forrest. «Dovremmo?» chiese Ray. «Sarebbe la cosa giusta, o a casa o alla camera ardente. Ma se non volete, non è così grave. Non è che la gente s'incazzerà e non vorrà più parlarvi.» «Prepariamo la veglia al tribunale e ci sarà un funerale» obiettò Ray. «Non è sufficiente?» «Io dico di sì.» «Non me ne starò tutta la sera nella camera ardente ad abbracciare vecchiette che da vent'anni sparlano di me» affermò Forrest. «Vacci tu, se ne hai voglia, ma io non ci vengo.» «Mettiamoci una pietra sopra» concluse Ray. «Le parole di un vero esecutore» lo canzonò con un sogghigno Forrest. «Esecutore?» si meravigliò Harry Rex. «Sì, sulla sua scrivania c'era un testamento con la data di sabato. Una sola pagina di suo pugno dove lascia tutto a noi due, con un elenco dei suoi beni e l'indicazione che io fossi il suo esecutore. E vuole che sia tu a occu-
parti della registrazione, Harry Rex.» Harry Rex smise di masticare. Si massaggiò il setto nasale con il dito carnoso e si guardò intorno. «Strano» commentò, evidentemente perplesso. «In che senso?» «Un mese fa ho stilato un testamento in piena regola per lui.» Tutti smisero di mangiare. Ray e Forrest si scambiarono sguardi anonimi, perché nessuno dei due aveva la più pallida idea di che cosa pensasse l'altro. «Si vede che ha cambiato idea» concluse Harry Rex. «Che cosa c'era nell'altro testamento?» chiese Ray. «Non te lo posso dire. Era mio cliente, perciò le informazioni sono riservate.» «Un momento, ragazzi» intervenne Forrest. «Scusatemi, ma non sono avvocato.» «L'unico testamento che conta è l'ultimo» spiegò Harry Rex. «Revoca tutti quelli precedenti, perciò qualsiasi cosa il Giudice abbia messo nel testamento preparato da me, non ha più importanza.» «Allora perché non ci puoi dire che cosa c'era?» volle sapere Forrest. «Perché, come avvocato, non posso discutere il testamento di un cliente.» «Ma il testamento che hai preparato tu non vale, giusto?» «Giusto, ma non posso parlarne lo stesso.» «Mi sembra una vera stronzata» commentò Forrest con un'occhiataccia. Fecero tutti e tre un respiro e ripresero a mangiare. Ray aveva capito all'istante che avrebbe dovuto vedere l'altro testamento al più presto. Se faceva menzione del bottino nascosto sotto la libreria, allora Harry Rex ne era al corrente. E se ne era al corrente, i soldi andavano recuperati in fretta e furia dal bagagliaio della piccola TT decappottabile e rimessi nelle scatole della Blake & Son, e queste dovevano essere al più presto ritrasferite nel mobile da cui erano uscite. I soldi sarebbero quindi entrati a far parte del patrimonio del padre, la cui composizione era un atto pubblico. «Non ci sarà una copia del tuo testamento nel suo studio?» chiese Forrest parlando più o meno nella direzione di Harry Rex. «No.» «Ne sei sicuro?» «Ragionevolmente» rispose Harry Rex. «Quando fai un nuovo testamento, distruggi fisicamente quello vecchio. Non vuoi che qualcuno lo trovi e
lo faccia registrare. C'è gente che cambia testamento tutti gli anni, e come avvocati noi sappiamo che dobbiamo distruggere quelli precedenti. Il Giudice era un convinto assertore della distruzione dei testamenti annullati perché per trent'anni aveva arbitrato impugnazioni.» Il fatto che un loro buon amico sapesse qualcosa del padre morto e non fosse disposto a rivelarlo raggelò la conversazione. Ray decise di aspettare di essere solo con Harry Rex per metterlo sotto torchio. «Magargel sta aspettando» disse a Forrest. «Andiamo a divertirci.» Portarono la bella cassa di quercia lungo l'ala est del palazzo di giustizia su una lettiga coperta da un drappo di velluto viola. Il signor Magargel guidava il piccolo corteo e un suo assistente spingeva la lettiga. Dietro il feretro c'erano Ray e Forrest e dietro di loro un picchetto d'onore dei boy scout con le bandiere e le uniformi cachi passate al ferro da stiro. Poiché Reuben V. Atlee aveva combattuto per il suo paese, sulla bara c'era la bandiera a stelle e strisce. E per lo stesso motivo un reparto di riservisti in rappresentanza della guarnigione locale scattò sull'attenti quando l'ex capitano Atlee si fermò al centro dell'atrio. Harry Rex era già al suo posto, in un elegante completo scuro, davanti a una lunga fila di composizioni floreali. Erano presenti anche gli avvocati della contea, che, dietro suggerimento di Harry Rex, erano stati raggruppati in uno spazio vicino alla bara delimitato da un cordone. C'erano tutti i funzionari della contea e del municipio, gli impiegati del tribunale, gli agenti di polizia e, quando Harry Rex fece un passo avanti per cominciare l'elogio funebre, la nutrita schiera si dispose all'ascolto. Sopra di loro, ai piani superiori del palazzo di giustizia, si sporgevano dalle ringhiere di ferro numerosi altri spettatori. Ray indossava un vestito blu scuro nuovo di zecca che aveva acquistato poche ore prima da Pope's, il solo negozio di abbigliamento maschile della cittadina. A trecentodieci dollari era il più caro fra gli abiti in vendita, ma aveva goduto di uno sconto del dieci per cento che il signor Pope aveva insistito per accordargli. L'abito nuovo di Forrest era grigio scuro. Costava duecentottanta dollari prima dello sconto, e anche quello era stato pagato da Ray. Forrest non indossava giacca e cravatta da vent'anni e aveva giurato che non l'avrebbe fatto nemmeno per il funerale. Solo il fermo rimprovero di Harry Rex lo aveva costretto a recarsi al negozio. I figli erano a un'estremità del feretro, Harry Rex all'altra, e più o meno
al centro Billy Boone, l'usciere del tribunale dall'età indefinibile, aveva piazzato un ritratto del giudice Atlee. Era stato dipinto gratuitamente dieci anni prima da un artista locale, e tutti sapevano che il Giudice non ne era particolarmente soddisfatto. Lo aveva appeso nel suo studio privato attiguo all'aula, ma dietro una porta, dove nessuno lo potesse vedere. Dopo la sconfitta elettorale, i padri della contea lo avevano trasferito nell'aula principale, in alto sopra il banco del Giudice. Per il "commiato al giudice Reuben Atlee" erano stati stampati dei programmi. Ray studiava attentamente il proprio perché non voleva guardarsi intorno. Aveva tutti gli occhi addosso. Lui e Forrest. Il reverendo Palmer recitò una preghiera interminabile. Ray aveva insistito perché la cerimonia fosse breve. L'indomani ci sarebbe stato un funerale. Vennero avanti i boy scout con la bandiera e guidarono la congrega nel canto del Pegno dell'Alleanza, poi suor Oleda Shumpert della Santa Chiesa di Dio in Cristo intonò una versione funebre di Raduniamoci al fiume, cantando a cappella perché certamente non aveva bisogno dell'accompagnamento musicale. Parole e melodia fecero spuntare le lacrime negli occhi di molti, Forrest compreso, che si tenne vicino alla spaila del fratello con la testa china. Accanto alla bara, ascoltando la voce piena vibrare sotto il soffitto dell'atrio, per la prima volta Ray avvertì per intero il peso della morte di suo padre. Pensò a tutte le cose che avrebbero potuto fare insieme, ora che erano adulti, tutte le cose che non avevano fatto quando lui e Forrest erano bambini. Ma lui aveva vissuto la sua vita e il Giudice la propria, e così era piaciuto a entrambi. Non era giusto ora rivivere il passato soltanto perché il vecchio era morto. Questo continuava a ripetersi. Era naturale, di fronte alla morte, rimpiangere di non aver fatto di più, ma la verità era che il Giudice gli aveva serbato rancore per anni dopo che lui se n'era andato da Clanton. E il triste destino aveva voluto che lui stesso si trasformasse in un recluso dopo che ebbe lasciato il tribunale. Un momento di debolezza, poi Ray raddrizzò la schiena. Non si sarebbe flagellato per aver scelto una strada diversa da quella che suo padre aveva desiderato per lui. Harry Rex attaccò quello che, per sua promessa, sarebbe stato un elogio breve. «Oggi siamo qui riuniti per salutare un vecchio amico» cominciò. «Sapevamo tutti che questo giorno sarebbe arrivato, ma abbiamo pregato per-
ché così non fosse.» Toccò i momenti salienti della carriera del Giudice, poi raccontò della sua prima comparsa al cospetto del grand'uomo trent'anni prima, ancora fresco di laurea. Presentava una causa di divorzio consensuale che era riuscito chissà come a farsi respingere. Tutti gli avvocati presenti avevano sentito quella storia cento volte, ma riuscirono lo stesso a ridere con partecipazione. Ray prima lanciò loro qualche occhiata, poi cominciò a studiarli come gruppo. Com'era possibile che un posto così piccolo avesse tanti avvocati? Ne conosceva una metà circa. Molti dei più anziani, che aveva incontrato da bambino e da studente, erano in pensione o deceduti. Molti dei più giovani non li aveva mai visti prima. Naturalmente, tutti loro conoscevano lui. Era il figlio del giudice Atlee. Cominciò lentamente a capire che la sua rapida fuga da Clanton dopo le esequie sarebbe stata solo temporanea. Molto presto sarebbe stato costretto a tornarci, per una breve apparizione in aula con Harry Rex, l'avvio delle pratiche per la registrazione, la stesura di un inventario e una serie di altri compiti che gli erano imposti come esecutore testamentario di suo padre. Erano tutte pratiche di ordinaria amministrazione che si sarebbero risolte in pochi giorni, ma paventava settimane, per non dire mesi, di soggiorno nel tentativo di risolvere il mistero del denaro. Magari tra quegli avvocati c'era qualcuno che sapeva qualcosa? Quel denaro doveva avere un'origine legale, no? Il Giudice non era mai uscito dai confini della legge. Ciononostante, guardandoli, Ray non riusciva a immaginare una fonte abbastanza ricca da generare un flusso di soldi come quello che ora teneva nascosto nel bagagliaio della sua macchina. Quelli erano tutti avvocaticchi di provincia, dei sempliciotti che s'arrabattavano per pagare le fatture e fare le scarpe al collega della porta accanto. Non circolavano grandi somme da quelle parti. La Sullivan aveva otto o nove avvocati che rappresentavano banche e compagnie di assicurazioni e ciascuno di loro raccattava giusto abbastanza da poter bazzicare i notabili della città al country club. Non c'era un solo avvocato in tutta la contea che si potesse definire agiato. Per esempio, Irv Chamberlain, quello con gli occhiali come fondi di bottiglia e il toupet che si notava lontano un chilometro, era un latifondista proprietario di terreni sconfinati arrivati fino a lui di generazione in generazione, ma non poteva venderli per mancanza di acquirenti. Si diceva inoltre che frequentasse i nuovi casinò di Tunica. Mentre Harry Rex cantilenava, Ray passò in rassegna gli avvocati.
Qualcuno era a parte del segreto. Qualcuno sapeva dei soldi. Poteva essere un distinto rappresentante del Foro della contea di Ford? La voce di Harry Rex cominciava a incepparsi e venne il momento di chiudere. Li ringraziò tutti per essere venuti e annunciò che la salma del Giudice sarebbe rimasta esposta al pubblico fino alle dieci di sera. Impartì istruzioni perché la processione avesse inizio dal punto in cui si trovavano lui e Forrest. La folla si allineò ubbidiente nell'ala est formando una coda che serpeggiò fin fuori del palazzo. Per un'ora Ray fu costretto a stringere la mano e a ringraziare con cortesia ciascuno dei convenuti. Ascoltò decine di aneddoti su suo padre e sulle persone la cui vita il grand'uomo aveva in vario modo mutato. Finse di ricordare i nomi di tutti coloro che lo conoscevano. Abbracciò anziane signore che non aveva mai visto in vita sua. La processione si mosse lentamente, passando prima da Ray e Forrest e poi davanti alla bara, dove ciascuno si fermava a osservare con aria mesta il brutto ritratto del Giudice, per poi raggiungere l'ala ovest dov'erano in attesa i registri. Harry Rex si aggirava lavorandosi la folla come un politico. A un certo punto Forrest scomparve. Borbottò a Harry Rex qualcosa di poco comprensibile, o che andava a casa, o che andava a Memphis, o che era stanco morto. Finalmente Harry Rex si avvicinò a Ray. «La coda gira tutt'intorno al tribunale» gli confidò sottovoce. «C'è il rischio che tu stia qui tutta la notte.» «Tiramene fuori» gli bisbigliò Ray. «Hai bisogno di andare in bagno?» chiese Harry Rex a voce abbastanza alta perché i primi della fila lo udissero. «Sì» rispose Ray, che già stava allontanandosi. Si ritrassero insieme, confabulando con aria grave, e s'imbucarono in uno stretto passaggio. Pochi secondi dopo uscivano entrambi dietro il palazzo di giustizia. Partirono a bordo della macchina di Ray, naturalmente, compiendo dapprima un giro della piazza per controllare la situazione. La bandiera davanti al tribunale era a mezz'asta. Una folla numerosa attendeva paziente di rendere l'ultimo omaggio al Giudice. 10 Ventiquattr'ore a Clanton, e Ray sentiva già il disperato desiderio di andarsene. Dopo la veglia cenò con Harry Rex al Claudel, il ristorante sul la-
to sud della piazza, dove la specialità del lunedì era pollo alla griglia con fagioli al forno così pepati che li accompagnavano con tè freddo in caraffe di due litri. Harry Rex si gongolava per il successo del grandioso congedo che aveva organizzato per il Giudice e dopo cena non poté fare a meno di tornare al tribunale per soprintendere al resto della veglia. Forrest aveva lasciato la città. Ray sperò che fosse a Memphis, tranquillo a casa con Ellie, ma non si faceva illusioni. Quante altre ricadute avrebbe potuto sopportare prima di restarci secco? Harry Rex aveva dichiarato che c'erano cinquanta probabilità su cento che Forrest si presentasse per il funerale l'indomani mattina. Rimasto solo, Ray uscì da Clanton diretto a ovest, senza alcuna meta precisa. C'erano nuove case da gioco lungo il fiume, a un centinaio di chilometri, e ogni volta che tornava nel Mississippi raccoglieva nuove chiacchiere e nuovi pettegolezzi sulla più recente industria dello Stato. Il gioco d'azzardo legalizzato aveva fatto la sua comparsa nella regione in concomitanza con il più basso livello di reddito pro capite nel paese. A un'ora e mezzo da Clanton si fermò a fare rifornimento, e mentre riempiva il serbatoio notò un motel di costruzione recente dall'altra parte della strada. Era tutto nuovo nei terreni che fino a non molto tempo prima erano campi di cotone: strade, motel, fast food, stazioni di servizio, cartelloni pubblicitari. Tutti effetti secondari dei casinò a due chilometri da lì. Il motel aveva due piani, con porte che si aprivano dalla parte del parcheggio. Sembrava una serata fiacca. Pagò 39,99 dollari per una doppia al pianterreno, sul retro, dove non c'erano altri veicoli. Parcheggiò l'Audi il più vicino possibile alla sua camera e nel giro di pochi secondi vi aveva trasferito i tre sacchi per l'immondizia. I soldi ricoprivano un letto. Non smise di ammirarli soltanto perché era convinto che fossero sporchi. E probabilmente segnati, in qualche modo. Forse falsi. Comunque, non spettavano a lui. Erano tutte banconote da cento dollari, alcune nuove e mai usate, altre passate per qualche mano, nessuna logora e nessuna datata prima del 1986 o dopo il 1994. Una metà circa era riunita in mazzette da duemila dollari e Ray contò quelle per prime: centomila dollari in biglietti da cento formavano una pila alta una quarantina di centimetri. Contò i soldi su un letto, poi li sistemò in file ordinate sull'altro. Operò con cura e attenzione, aveva tutto il tempo. Sfregava il denaro tra indice e pollice e di tanto in tanto lo annusava per vedere se era contraffatto. Sembrava vero. Trentuno pile, più qualche spicciolo: 3.118.000 dollari, per la precisione.
Recuperati come un tesoro sepolto dalla casa decadente di un uomo che aveva guadagnato meno della metà in una vita intera di lavoro. Era impossibile non ammirare quel mare di banconote. Quante altre volte nella vita avrebbe contemplato tre milioni di dollari? Quanti altri ne avrebbero avuto l'occasione? Seduto con il volto tra le mani a fissare le file ordinate di banconote, Ray si sentì prendere dalle vertigini meditando sulla provenienza e le possibili destinazioni di tanti quattrini. Ritornò in sé di soprassalto allo sbattere di una portiera all'esterno. Quello era un luogo perfetto dove farsi rapinare. Quando vai in giro con milioni in contanti, tutti si trasformano in potenziali rapinatori. Rificcò i soldi nei sacchi, li rimise nel bagagliaio della macchina e ripartì per il casinò più vicino. I suoi precedenti nel mondo del gioco d'azzardo si limitavano a un weekend ad Atlantic City con altri due professori di legge, i quali avevano letto un libro su come vincere ai dadi ed erano convinti di poter sbancare il casinò. Non aveva funzionato. Ray aveva giocato poche volte a carte. Si era trovato un posto al tavolo di blackjack e dopo due squallidi giorni in un sotterraneo rumoroso aveva rastrellato sessanta dollari e giurato di non tornarci mai più. Quanto ai suoi colleghi non aveva mai capito bene, ma aveva imparato che coloro che giocano mentono spesso sulle proprie vincite. Per essere un lunedì sera c'era una discreta folla al Santa Fe Club, uno scatolone costruito in fretta e furia, grande come un campo da football. A disposizione degli ospiti c'era una torre di dieci piani, dove un pubblico soprattutto di pensionati del Nord, che non si erano mai sognati di mettere piede nel Mississippi, si avventuravano richiamati da un numero incalcolabile di slot machine e gin gratis durante il gioco. Ray aveva in tasca cinque biglietti estratti da cinque diverse parti del bottino che aveva contato nella camera del motel. Andò a un tavolo di blackjack deserto dove la croupier era mezzo addormentata e posò la prima banconota sul tappeto. «Puntata da cento» annunciò la donna girando la testa dalla parte dove non c'era nessuno ad ascoltarla. Prese la banconota, la strofinò con le dita con scarso interesse. Doveva essere autentica, pensò Ray rilassandosi un po'. Quella donna ne vedeva tutto il giorno. Mescolò un mazzo, distribuì le carte, fece prontamente ventiquattro, prese la banconota del tesoro sepolto del giudice Atlee
e posò sul tavolo due fiches nere. Ray le giocò entrambe, duecento dollari a scommessa, nervi d'acciaio. Lei distribuì in fretta e contro un quindici fece un nove. Ora Ray aveva quattro fiches nere. In meno di un minuto aveva vinto quattrocento dollari. Con i quattro gettoni neri che gli tintinnavano in tasca girò per il salone, passando prima nel settore delle slot machine dove il pubblico era più anziano e pacato, una folla di cerebrolesi seduti sui loro sgabelli ad abbassare la leva in continuazione, con gli occhi tristi fissi sugli schermi. Ai dadi, gli animi erano surriscaldati e un branco di vocianti campagnoli sbraitava incitamenti a lui del tutto incomprensibili. Restò a guardare per qualche momento, estasiato dallo scorrere dei dadi, il rimbalzare delle scommesse e il cambiare di mano delle fiches. A un altro tavolo di blackjack dove non c'era nessuno puntò la seconda banconota da cento dollari, questa volta come un giocatore consumato. Il mazziere se l'avvicinò al naso, l'alzò in controluce, la sfregò tra le dita e si allontanò di qualche passo per portarla al suo supervisore, che la esaminò con diffidenza. L'uomo estrasse un monocolo, se lo infilò nell'occhio sinistro e scrutò la banconota come un chirurgo. Quando Ray era ormai sul punto di darsela a gambe, sentì uno dei due dire: «È buona». Non sapeva chi avesse pronunciato la diagnosi perché era troppo occupato a guardarsi intorno nel caso stesse arrivando qualche guardia armata. Il mazziere tornò al tavolo e posò il denaro sospetto davanti a Ray, accettando la puntata. Pochi secondi dopo, davanti a lui c'erano la donna di cuori e il re di picche e aveva vinto la terza mano di fila. Visto che il croupier era bello sveglio e il suo supervisore aveva ispezionato con cura la banconota, Ray decise di chiudere la questione una volta per tutte. Si tolse di tasca la terza e la posò sul tavolo. Il mazziere ispezionò anche quella, poi si strinse nelle spalle. «Vuole cambiare?» «No, li giochi.» «Trecento in contanti» annunciò l'uomo e il supervisore venne subito a guardare da sopra la sua spalla. Ray si fermò con un dieci e un sei. Il mazziere servì a se stesso un dieci e un quattro, e quando rovesciò il fante di quadri, Ray vinse anche quel giro. I contanti scomparvero e furono sostituiti da sei fiches nere. Ora Ray ne aveva dieci, per un valore di mille dollari, e aveva anche la certezza che le altre trentamila banconote nel bagagliaio della sua automobile non erano contraffatte. Lasciò un gettone al mazziere e andò a cercare una birra. Il bar era posto su un ammezzato dal quale, volendo, si poteva seguire
l'azione in sala mentre si beveva qualcosa. Oppure guardare una partita di baseball, le repliche delle gare del campionato Nascar o le partite di bowling su uno dei tanti schermi televisivi. Ma non si poteva scommettere, non era ancora permesso. Era consapevole dei rischi rappresentati dal casinò. Appurato che il denaro era vero, l'interrogativo seguente era se fosse in qualche modo segnato. I sospetti del secondo mazziere e del suo supervisore avrebbero richiesto un esame più approfondito delle banconote da parte dei ragazzi al piano di sopra. Lo tenevano d'occhio con qualche telecamera, ne era certo, come facevano con tutti gli altri. I sistemi di sorveglianza nelle case da gioco erano massicci; lo aveva saputo dai suoi due colleghi luminari che si erano messi in testa di far saltare il banco al tavolo dei dadi. Se i suoi soldi avessero fatto scattare gli allarmi, non avrebbero avuto difficoltà a trovarlo. O no? Ma dove altro avrebbe potuto far esaminare il denaro? Poteva forse presentarsi alla First National di Clanton e consegnare alla cassiera qualche biglietto? "Vorrebbe dare un'occhiata a queste banconote, signora Dempsey, per dirmi se sono vere o false?" Non c'era cassiere in tutta Clanton che avesse mai visto denaro contraffatto, e prima di pranzo tutta la città avrebbe saputo che il figlio del giudice Atlee girava con soldi sospetti. Aveva pensato di aspettare fino al suo ritorno in Virginia. Lì avrebbe potuto rivolgersi al suo avvocato per trovare un perito a cui sottoporre un campione del denaro, il tutto nella più assoluta riservatezza. Ma non poteva aspettare tanto. Se il denaro era falso, lo avrebbe bruciato, in caso contrario non sapeva che cosa farne. Bevve lentamente la sua birra, concedendo loro il tempo di mandare giù un paio di gorilla in giacca scura che gli si sarebbero avvicinati per chiedergli: "Ha un minuto?". Non potevano essere così veloci e Ray lo sapeva. Se i soldi erano segnati, ci sarebbero voluti giorni per stabilirne la provenienza. Supponiamo che lo avessero preso con banconote segnate. Qual era il suo reato? Aveva trovato i quattrini nella casa del padre defunto, un luogo che era stato lasciato in eredità a lui e a suo fratello. Era l'esecutore testamentario e presto gli sarebbe stata affidata la responsabilità di tutelare il patrimonio. Aveva a disposizione mesi per comunicarlo alla corte competente e alle autorità fiscali. Se il Giudice aveva accumulato quel denaro per vie illegali... be', peccato, ormai era morto. Ray non aveva fatto niente di male, almeno fino a quel momento.
Tornò al primo tavolo con le sue vincite e piazzò una puntata da cinquecento dollari. La croupier chiamò il suo supervisore, che si avvicinò con le nocche sulla bocca, battendosi un dito su un orecchio e con l'aria sorniona di chi vede puntare cinquecento dollari al blackjack ogni due per tre, al Santa Fe Club. Ray vinse con un asso e un re, e la ragazza gli allungò settecentocinquanta dollari. «Qualcosa da bere?» offrì il supervisore, tutto sorrisi e denti guasti. «Una Beck's» rispose Ray, e dal nulla apparve una cameriera. Alla mano successiva puntò cento dollari e li perse. Poi mise rapidamente uno sopra l'altro tre gettoni per la mano seguente e vinse. In altre dieci mani vinse otto volte, alternando puntate da cento ad altre da cinquecento come se sapesse precisamente che cosa stava facendo. Il supervisore rimase alle spalle della croupier. Avevano a che fare con un possibile memorizzatore di carte, un giocatore di blackjack professionista, uno da tenere d'occhio e filmare. Gli altri casinò sarebbero stati avvertiti. Se solo avessero saputo... Perse puntate consecutive da duecento dollari, poi, per puro capriccio, spinse sul tavolo dieci fiches per una scommessa temeraria e sconsiderata da mille dollari. Ne aveva altri tre milioni in macchina. Per lui erano noccioline. Quando accanto ai suoi gettoni furono posate due regine, mantenne un'espressione da perfetto pokerista come se vincesse somme di quel livello da anni. «Vuole cenare, signore?» chiese il supervisore. «No» rispose Ray. «Possiamo offrirle qualcos'altro?» «Una stanza mi farebbe comodo.» «Singola, matrimoniale o una suite?» Un boccalone avrebbe risposto: "Una suite, naturalmente", ma Ray si trattenne. «Qualsiasi stanza andrà bene» rispose. Non era andato con l'intenzione di trattenersi, ma dopo due birre ritenne opportuno non mettersi al volante. Che cosa sarebbe successo se qualche sceriffo di campagna lo avesse fermato? E se avesse avuto la sventurata idea di dare un'occhiata nel bagagliaio? «Nessun problema, signore» dichiarò il supervisore. «La faccio registrare subito.» Per un'ora rimase in pari. Ogni cinque minuti passava la cameriera a offrirgli da bere, ma Ray sorseggiava piano la sua birra. Durante una mescolata di carte, contò trentanove fiches nere. A mezzanotte cominciò a sbadi-
gliare e ricordò quanto avesse dormito poco la notte prima. In tasca teneva la chiave della stanza. Il tavolo aveva un limite di mille dollari a giocata; altrimenti avrebbe puntato tutto in una volta sola e sarebbe affondato in una gloriosa esplosione di fuochi artificiali. Puntò dieci pezzi neri e fece blackjack davanti a un pubblico eccitato. Altre dieci fiches e il banco perse con un ventidue. Raccolse i suoi gettoni, ne lasciò quattro alla ragazza e andò alla cassa. Era al casinò da tre ore. Dalla sua stanza al quinto piano vedeva il parcheggio e poiché la sua auto sportiva era in vista si sentì costretto a sorvegliarla. Stanco com'era, non riusciva ad addormentarsi. Piazzò una poltrona vicino alla finestra e cercò di assopirsi, ma non poteva smettere di pensare. Forse anche il Giudice aveva scoperto i casinò? Era possibile che tutti quei soldi provenissero dal gioco, un piccolo vizio proficuo che aveva tenuto tutto per sé? Più ripeteva a se stesso che quell'ipotesi era troppo inverosimile, più si convinceva di aver trovato la fonte del denaro. Per quel che ne sapeva, il Giudice non aveva mai giocato in Borsa e, se lo avesse fatto, se fosse stato anche lui un corsaro della finanza, perché trasformare le sue vincite in denaro contante e nasconderlo sotto la libreria? E, comunque, ci sarebbero state montagne di scartoffie burocratiche. Se avesse condotto la doppia vita di giudice corrotto, non sarebbe mai riuscito a rastrellare tre milioni di dollari nel tribunale di una provincia rurale del Mississippi. E un giro di bustarelle avrebbe coinvolto troppe persone. Doveva essere il gioco d'azzardo. Quello era un giro di contanti. Ray aveva appena vinto seimila dollari in una sola sera. Certo, era stata pura fortuna, ma non era sempre così con il gioco? Forse il vecchio aveva il pallino per le carte o i dadi. Forse aveva beccato un jackpot di quelli galattici alle slot machine. Viveva da solo e non doveva rendere conto a nessuno. Avrebbe potuto cavarsela. Ma tre milioni di dollari in sette anni? Le case da gioco non richiedevano documenti per le vincite sostanziose? Non c'erano moduli da compilare per il fisco e altro del genere? E perché nascondere i quattrini? Perché non darli in beneficenza come aveva fatto con tutto il resto? Poco dopo le tre Ray si arrese e lasciò la camera ottenuta in omaggio. Dormì in macchina fino all'alba.
11 La porta d'ingresso era socchiusa, e alle otto del mattino, visto che nessuno viveva in casa, era senza dubbio un brutto segno. Ray la fissò per un lungo minuto, incerto se entrare, ma sapendo che non aveva scelta. La spinse, serrò i pugni come se il ladro potesse essere ancora là dentro e trasse un respiro profondo. L'uscio girò sui cardini e quando la luce dall'esterno illuminò gli scatoloni nell'ingresso, vide orme di fango sul pavimento. L'intruso era penetrato dal prato sul retro dove c'era del fango e per qualche ragione aveva deciso di uscire dalla porta principale. Sfilò lentamente la pistola dalla tasca. Le ventisette scatole verdi della Blake & Son erano sparse per tutto lo studio del Giudice. Il divano era rovesciato. Le ante del mobiletto sotto gli scaffali della libreria erano aperte. Lo scrittoio sembrava inviolato, ma le carte che c'erano sopra erano tutte sparpagliate sul pavimento. L'intruso aveva preso le scatole, le aveva aperte, e trovandole vuote evidentemente le aveva calpestate e scaraventate qua e là in una crisi di collera. Per quanto calma fosse l'atmosfera, Ray avvertì con un tremito le vibrazioni di tanta violenza. Quei soldi avrebbero potuto ucciderlo. Quando fu in grado di muoversi, raddrizzò il divano e raccolse le carte. Stava radunando le scatole quando udì qualcuno nel portico. Spiò dalla finestra e vide una donna anziana che bussava alla porta d'ingresso. Claudia Gates aveva conosciuto il Giudice come nessun altro. Era stata la sua stenografa in tribunale, la sua segretaria, la sua autista e molte altre cose ancora, secondo le voci che circolavano fin dai tempi in cui Ray era bambino. Per quasi trent'anni lei e il Giudice avevano viaggiato per le sei contee del Venticinquesimo distretto, spesso partendo da Clanton alle sette del mattino per farvi ritorno ben dopo il calare delle tenebre. Quando non erano in tribunale, Claudia lavorava nell'ufficio del Giudice al palazzo di giustizia, dove trascriveva a macchina gli atti processuali mentre lui studiava i suoi documenti. Un avvocato di nome Turley li aveva sorpresi in atteggiamento compromettente durante la pausa di pranzo in ufficio e aveva commesso il grave errore di raccontarlo in giro. Per un anno aveva perso tutte le cause presentate in tribunale e non aveva trovato uno straccio di cliente. Ci aveva impiegato quattro anni, ma alla fine il giudice Atlee era riuscito a farlo radiare.
«Salve, Ray» salutò attraverso la porta a zanzariera. «Posso entrare?» «Ma certo» rispose lui aprendo. In realtà, non si erano mai piaciuti. Ray aveva sempre avuto la sensazione che lei ricevesse le attenzioni e l'affetto che il Giudice avrebbe dovuto riservare ai figli e Claudia dal canto suo lo aveva sempre considerato una minaccia. Quando si trattava del giudice Atlee, tutti per lei erano una minaccia. Claudia aveva poche amicizie e ancor meno ammiratori. Era brusca e insensibile perché aveva passato la vita ad ascoltare dibattimenti in tribunale. Ed era presuntuosa perché parlava all'orecchio del grand'uomo. «Mi dispiace molto» disse. «Anche a me.» Mentre passavano davanti allo studio, Ray chiuse la porta. «Non entrare lì» le disse. Claudia non notò le impronte dell'intruso. «Sii gentile con me, Ray» pregò lei. «Perché?» Andarono in cucina dove Ray mise a scaldare del caffè prima di sedersi di fronte a lei. «Posso fumare?» chiese Claudia. «Non mi dà fastidio» rispose lui. Fuma fino a strozzarti, vecchia gallina. Gli abiti neri di suo padre erano sempre stati intrisi dell'odore acre delle sue sigarette. Lui le aveva concesso di fumare in macchina, in ufficio, probabilmente a letto. Dappertutto meno che in aula. Il respiro roco, la voce ruvida, le innumerevoli rughe intorno agli occhi... ah, le gioie del tabacco. Aveva pianto, fatto non insignificante nella sua vita. L'estate in cui aveva esercitato le funzioni di cancelliere per suo padre, Ray aveva avuto la sfortuna di assistere alla discussione di un raccapricciante caso di abuso di minore. La testimonianza era stata così triste e dolorosa che tutti, compresi il Giudice e gli avvocati, si erano commossi. In tutta l'aula i soli occhi asciutti erano stati quelli della vecchia Claudia dalla faccia di granito. «Non riesco a credere che sia morto» esordì prima di spedire uno sbuffo di fumo verso il soffitto. «Erano cinque anni che stava morendo, Claudia. Non è una sorpresa.» «È triste lo stesso.» «È molto triste, ma soffriva. La morte è stata una liberazione.» «Non voleva che venissi a trovarlo.» «Non mi racconterai quella storia, spero.» La storia, a seconda della versione a cui si sceglieva di credere, aveva
fatto spettegolare Clanton per una ventina d'anni. Qualche anno dopo la morte della madre di Ray, Claudia aveva divorziato dal marito per motivi che non erano stati mai chiariti. Una parte della cittadina riteneva che il Giudice le avesse promesso di sposarla dopo il divorzio. L'altra parte riteneva che il Giudice, un Atlee in tutto e per tutto, non aveva mai avuto in animo di sposare una persona comune come Claudia, e che lei aveva divorziato perché il marito l'aveva colta in flagrante con un altro uomo ancora. Gli anni erano trascorsi e i due avevano goduto i benefici della vita coniugale con la sola esclusione delle usuali scartoffie e di una vera coabitazione. Lei aveva continuato a spingere perché il Giudice la sposasse, lui aveva continuato a rimandare. Evidentemente, il Giudice otteneva già ciò che voleva. Alla fine lei gli aveva posto un ultimatum, scegliendo una strategia che si era rivelata fallimentare. Gli ultimatum non scalfivano Reuben Atlee. L'anno prima che lui venisse scacciato dal palazzo di giustizia, Claudia aveva sposato un uomo di nove anni più giovane. Il Giudice l'aveva licenziata senza perdere tempo e nei caffè e nei circoli del cucito non si era parlato d'altro. Dopo alcuni anni burrascosi, il giovane consorte di Claudia era morto. Lei era sola, solo anche il Giudice. Ma lei lo aveva tradito risposandosi e lui non l'aveva più perdonata. «Forrest dov'è?» domandò. «Dovrebbe arrivare presto.» «Come sta?» «Da Forrest.» «Vuoi che me ne vada?» «Fai tu.» «Preferirei parlarti, Ray. Ho bisogno di parlare con qualcuno.» «Non hai amici?» «No. Reuben era il mio solo amico.» A lui si accapponò la pelle quando la sentì chiamarlo Reuben. Lei s'infilò la sigaretta tra le appiccicose labbra rosse, un rosso pallido adatto al lutto, non quello vermiglio per cui un tempo era famosa. Aveva almeno settant'anni, ma li portava bene. Ancora dritta e snella, e con addosso un vestito attillato che nessun'altra settantenne in tutta la contea si sarebbe azzardata a mettere. Aveva brillanti alle orecchie e uno al dito, ma Ray non avrebbe saputo dire se fossero autentici. Portava anche una bella collana d'oro con un ciondolo e due braccialetti. Era una mignotta invecchiata, ma ancora un vulcano in attività. Ray a-
vrebbe chiesto a Harry Rex con chi si vedeva in quel periodo. «Di che cosa vuoi parlarmi?» le chiese versando altro caffè. «Di Reuben.» «Mio padre è morto. Il resto è acqua passata.» «Non possiamo essere amici?» «No. Ci siamo sempre visti come il fumo negli occhi. Non ci metteremo a sbaciucchiarci e abbracciarci ora, davanti a una bara. Perché dovremmo?» «Sono vecchia, Ray.» «E io vivo in Virginia. Oggi ci sarà il funerale, poi non ci vedremo più. Che ne dici?» Lei si accese un'altra sigaretta e pianse ancora un po'. Ray stava pensando allo studio sottosopra e a che cosa avrebbe detto a Forrest quando, entrando, avesse visto le impronte e le scatole sparpagliate. E se avesse trovato Claudia seduta al tavolo della cucina, c'era il rischio che le saltasse al collo. Sebbene non ci fossero prove, Ray e Forrest avevano a lungo sospettato che il Giudice la pagasse più del salario standard di una stenografa di tribunale. Qualcosa extra, in cambio degli extra che gli forniva lei. Non era difficile serbarle rancore. «Voglio qualcosa per ricordo, nient'altro.» «Un ricordo di me?» «Tu vieni da tuo padre, Ray. E io sono legata a questo posto.» «Stai cercando soldi?» «No.» «Sei al verde?» «Non navigo nell'oro, questo è certo.» «Qui non c'è niente, per te.» «Hai il suo testamento?» «Sì, e il tuo nome non c'è.» Lei si rimise a piangere e Ray cominciò lentamente a innervosirsi. Lei aveva avuto i suoi soldi vent'anni prima, quando lui serviva ai tavoli, viveva di burro di arachidi e cercava di sopravvivere mese dopo mese all'università senza farsi sfrattare dalla topaia in cui viveva. Lei aveva sempre avuto una Cadillac nuova quando lui e Forrest giravano su dei macinini. Ci si attendeva che loro vivessero da gentiluomini di campagna decaduti mentre lei aveva un ricco guardaroba e un cofanetto pieno di gioielli. «Aveva sempre promesso che si sarebbe occupato di me» piagnucolò.
«Con te aveva chiuso anni fa, Claudia. Smettila.» «Non posso. Gli volevo troppo bene.» «Era una faccenda di sesso e soldi, non di amore. Preferirei non parlarne.» «Come è messo il patrimonio?» «Non ce n'è. Ha dato via tutto.» «Che cos'ha fatto?» «Mi hai sentito. Sai quanto gli piaceva firmare assegni. È peggiorato dopo che sei uscita di scena.» «E la sua liquidazione?» Ora non piangeva più, si stava parlando d'affari. I suoi occhi verdi erano asciutti e scintillanti. «Ha incassato tutto l'anno dopo aver lasciato il tribunale. Fu un terribile errore finanziario, ma lo fece a mia insaputa. Era matto e arrabbiato. Prese i soldi, ne usò un po' per sé e diede via tutto il resto ai boy scout, Lions, Figli dei Veterani Confederati, Comitato per la conservazione dei luoghi di battaglia storici, e chi più ne ha più ne metta.» Se suo padre era stato un giudice corrotto, cosa che Ray si rifiutava di credere, allora Claudia avrebbe saputo del denaro. Ma evidentemente non ne era a conoscenza. Ray non lo aveva mai sospettato, perché se Claudia avesse saputo della sua esistenza, il denaro non sarebbe rimasto nascosto nello studio. Se lei avesse messo le mani su tre milioni di dollari, nessuno in tutta la contea ne sarebbe stato all'oscuro. Se aveva anche solo un dollaro, già si notava. A guardarla, seduta lì davanti, Ray sospettava che non ne avesse molti. «Pensavo che il tuo secondo marito avesse un po' di quattrini» commentò con un tocco eccessivo di crudeltà. «Anch'io» ribatté lei e riuscì a sorridere. Ray ridacchiò. Poi risero entrambi e il ghiaccio si sciolse all'istante. Era sempre stata nota la crudezza di Claudia. «Non li hai mai trovati, eh?» «Neppure un centesimo. Era un tipo così carino, nove anni meno di me, sai...» «Me lo ricordo bene, uno scandalo in piena regola.» «Aveva cinquantun anni, ottimo parlatore, e aveva questa idea di fare soldi nel petrolio. Abbiamo trivellato come matti per quattro anni e sono rimasta con un pugno di mosche.» Ray rise più forte. In quel momento non ricordava un altro colloquio a base di sesso e quattrini con una settantenne. Aveva l'impressione che la
sua interlocutrice fosse una miniera di storie interessanti. I greatest hits di Claudia. «Sei in forma, Claudia, hai ancora tempo per un altro marito.» «Sono stanca, Ray. Vecchia e stanca. Dovrei addestrarlo e tutto il resto. Non ne vale la pena.» «Che cosa gli è successo?» «È morto per un attacco di cuore, dopodiché io non ho trovato che pochi dollari.» «Il Giudice ne ha lasciati seimila.» «Tutto qui?» sbottò lei incredula. «Niente azioni, obbligazioni, nient'altro che una vecchia casa e seimila dollari in banca.» Lei abbassò gli occhi, scosse la testa e credette a tutto quello che Ray le raccontava. Non aveva idea del contante. «Che cosa farete della casa?» «Forrest la vuole bruciare e prendere i soldi dell'assicurazione.» «Non è una cattiva idea.» «La venderemo.» Ci fu un rumore fuori, poi qualcuno bussò. Il reverendo Palmer veniva a discutere della messa funebre, che avrebbe avuto inizio di lì a due ore. Claudia abbracciò Ray mentre lui l'accompagnava alla macchina. Poi lo abbracciò di nuovo e lo salutò. «Mi dispiace di non essere stata più carina con te» gli bisbigliò mentre lui le apriva lo sportello. «Salve, Claudia. Ci vediamo in chiesa.» «Non mi ha mai perdonato, Ray» «Ti perdono io.» «Davvero?» «Sì. Sei perdonata. Ora siamo amici.» «Grazie di cuore.» Lo abbracciò per la terza volta e ricominciò a piangere. Lui l'aiutò a salire in macchina, sempre una Cadillac. Un attimo prima di girare la chiavetta, lei chiese: «A te, ti ha mai perdonato?». «Non credo.» «Nemmeno io.» «Ma ora non è importante. Seppelliamolo e basta.» «Sapeva essere un gran bastardo, vero?» disse lei sorridendo tra le lacrime. Ray non poté fare a meno di ridere. L'ex amante settantenne del suo defunto padre aveva appena dato del bastardo al grand'uomo.
«Sì» convenne. «Senza dubbio.» 12 Spinsero il giudice Atlee nella sua elegante cassa di quercia e lo parcheggiarono davanti all'altare di fronte al pulpito, dove il reverendo Palmer era in attesa in tonaca nera. La bara fu lasciata chiusa, per la delusione dei convenuti gran parte dei quali erano ancora ligi all'antico rito del Sud per cui si doveva vedere la salma per un'ultima volta in uno slancio estremo verso l'apice del cordoglio. "Ma no, che diamine" aveva risposto educatamente Ray al signor Magargel quando gli aveva chiesto se voleva esporre la salma. Quando tutto fu a posto, il reverendo Palmer distese lentamente le braccia, poi le abbassò e la folla prese posto. In prima fila alla sua destra c'era la famiglia, i due figli. Ray indossava il vestito nuovo e aveva l'aria stanca. Forrest era in jeans e giubbotto scamosciato nero e sembrava abbastanza sobrio. Dietro c'erano Harry Rex e gli altri che avevano aiutato a portare la cassa, e dietro ancora una triste comitiva di vecchi giudici, loro stessi con un piede nella fossa. A sinistra, in prima fila, c'erano notabili di vario genere: esponenti politici, un ex governatore, un paio di giudici della Corte suprema del Mississippi. Clanton non aveva mai visto tanti potenti riuniti in una volta sola. Il tempio era gremito, c'era gente in piedi lungo le pareti sotto i vetri colorati delle finestre. Anche la galleria era stracolma. Nell'auditorium al piano di sotto erano stati allestiti altoparlanti perché potessero partecipare anche gli amici e gli ammiratori che erano finiti là sotto. Ray era impressionato dalla quantità di persone. Forrest stava già guardando l'orologio. Era arrivato quindici minuti prima ed era stato rimproverato da Harry Rex, non da Ray. Il vestito nuovo era sporco, gli aveva detto Forrest, e poi Ellie gli aveva comperato il giubbotto nero solo qualche anno prima e a lui era sembrato che andasse benissimo per l'occasione. Lei, dati i suoi centotrenta chili di peso, non sarebbe uscita di casa, e di questo Ray e Harry Rex le erano grati. In qualche modo era riuscita a mantenerlo sobrio, ma una ricaduta era nell'aria. Per mille motivi, Ray voleva solo tornare in Virginia. Il reverendo pronunciò un breve ma eloquente messaggio di ringraziamento per la vita di un grand'uomo. Quindi introdusse un coro giovanile che si era fatto onore in un concorso musicale tenutosi a New York. Il giudice Atlee aveva donato ai coristi tremila dollari per il viaggio, secondo
Palmer. Cantarono due canzoni che Ray non aveva mai sentito prima, ma lo fecero splendidamente. Il primo elogio, ce ne sarebbero stati solo due, brevi entrambi per ordine di Ray, fu pronunciato da un vecchietto che a stento arrivò al pulpito, ma quando si fu insediato colse di sorpresa la congrega con la sua voce ricca e potente. Era stato compagno di studi del Giudice un secolo prima. Raccontò due storielle prive di humour e la voce cominciò a indebolirsi. Il reverendo Palmer lesse qualche passo dalle Scritture ed espresse parole di cordoglio per la perdita di una persona cara, sebbene un anziano che aveva avuto una vita piena. Il secondo elogio fu recitato da un giovane nero di nome Nakita Poole, una specie di leggenda a Clanton. Poole proveniva da una famiglia disagiata che viveva a sud della cittadina e, se non fosse stato per un insegnante di chimica al liceo, avrebbe abbandonato la scuola per diventare l'ennesimo caso statistico. Il Giudice l'aveva conosciuto durante uno sgradevole scontro familiare in aula e si era interessato a lui. Poole aveva un sorprendente talento per le scienze e la matematica. Era risultato primo del suo corso, aveva presentato domanda nei migliori college ed era stato accettato dappertutto. Il Giudice aveva scritto energiche lettere di raccomandazione e aveva mosso tutte le pedine che aveva a disposizione. Nakita aveva scelto Yale e la sua borsa di studio aveva coperto tutte le spese salvo quelle personali. Per quattro anni il giudice Atlee gli aveva scritto tutte le settimane accompagnando ogni lettera con un assegno di venticinque dollari. «Io non ero l'unico a ricevere lettere o assegni» rivelò a un pubblico ammutolito. «Eravamo in molti.» Adesso Nakita era un medico, in procinto di recarsi in Africa per due anni di volontariato. «Quelle lettere mi mancheranno» dichiarò, e tutte le donne presenti in chiesa piansero. Toccò quindi a Thurber Foreman, il coroner. Da molti anni era una presenza fissa ai funerali della contea e il Giudice aveva specificamente richiesto che suonasse il mandolino e cantasse Solo una passeggiata più vicino a Te. Ne diede un'interpretazione gloriosa e riuscì a farlo tra le lacrime. Forrest cominciò finalmente ad asciugarsi gli occhi. Ray continuava a fissare il feretro, chiedendosi da dove venissero i quattrini. Che cosa aveva combinato il vecchio? Che fine aveva pensato avrebbe fatto quel denaro dopo la sua morte? Quando il reverendo ebbe concluso con una breve preghiera, il giudice
Atlee fu trasportato fuori della chiesa. Il signor Magargel scortò Ray e Forrest lungo il passaggio centrale e i gradini esterni fino alla limousine in attesa dietro il carro funebre. La folla si riversò fuori e tutti montarono sulle rispettive vetture per il corteo fino al cimitero. Come in quasi tutte le cittadine, a Clanton le processioni funebri erano molto gradite. Tutto il traffico si fermò. Quelli che non partecipavano al corteo erano sui marciapiedi, immobili e tristi a guardar passare il carro funebre e l'interminabile coda di automobili al seguito. Tutti i rappresentanti delle forze dell'ordine erano in divisa, intenti a bloccare qualcosa, una via, un vicolo, un'area di parcheggio. Il carro funebre girò intorno al palazzo di giustizia, dove c'era la bandiera a mezz'asta; gli impiegati erano allineati sul marciapiede antistante e abbassarono la testa. I bottegai della piazza uscirono per rendere l'estremo saluto al giudice Atlee. La salma fu tumulata nel lotto degli Atlee, accanto alla moglie da lungo tempo dimenticata e tra gli antenati che tanto ammirava. Sarebbe stato l'ultimo Atlee a tornare alla terra della contea di Ford, anche se nessuno lo sapeva. E certamente a nessuno importava. Ray sarebbe stato cremato e le sue ceneri sarebbero state sparse sulle Blue Ridge Mountains. Forrest ammetteva di essere più vicino del fratello maggiore all'ultimo passo, ma non aveva ancora affrontato gli aspetti pratici del trapasso. L'unica cosa certa era che non si sarebbe fatto seppellire a Clanton. A Ellie piaceva l'idea di un sepolcro. Forrest preferiva evitare l'argomento. I convenuti si strinsero sotto e attorno a una tenda rossa eretta dall'impresa del signor Magargel, di gran lunga troppo piccola. Copriva la tomba e quattro file di seggiole pieghevoli. Ce ne sarebbero volute mille. Con le ginocchia che quasi toccavano il feretro, Ray e Forrest ascoltarono l'orazione finale del reverendo Palmer. Seduto su una sedia ai bordi della fossa di suo padre, Ray si meravigliava dei pensieri che gli affluivano alla mente. Voleva andare a casa. Aveva nostalgia della sua classe e dei suoi studenti. Aveva nostalgia del volo e della vista dall'alto della Shenandoah Valley. Era stanco e irritabile e non aveva voglia di passare le prossime due ore al cimitero, in conversazioni insulse con persone che si ricordavano quando era nato. Le ultime parole furono pronunciate dalla moglie di un predicatore pentecostale. Cantò Grazia meravigliosa, e per cinque minuti il tempo si arrestò. La splendida voce da soprano si diffuse tra le dolci ondulazioni del cimitero, a consolare i defunti e dare speranza ai vivi. Persino gli uccelli
smisero di volteggiare. Un trombettiere dell'esercito suonò il Silenzio e tutti si fecero un bel pianto. Ripiegarono la bandiera e la consegnarono a Forrest, che stava singhiozzando e sudava sotto quel dannato giubbotto di pelle. Sulle ultime note che si spegnevano nel bosco, Harry Rex scoppiò in lacrime dietro di loro. Ray si sporse a toccare la bara. Formulò un silenzioso saluto, poi posò i gomiti sulle ginocchia e si prese il viso tra le mani. La folla si disperse in fretta. Era ora di pranzo. Ray pensò che se fosse rimasto seduto al suo posto a fissare il feretro, la gente lo avrebbe lasciato in pace. Forrest gli passò un braccio intorno alle spalle e insieme diedero l'impressione di voler star lì fino a sera. Harry Rex ritrovò la compostezza e assunse il ruolo di portavoce della famiglia. Piazzatosi fuori della tenda, ringraziò i convenuti, si complimentò con il reverendo Palmer per la cerimonia, lodò la moglie del predicatore per l'ottima interpretazione, disse a Claudia che non poteva sedere con i ragazzi e che doveva togliersi di torno. I becchini aspettarono sotto un albero con le pale in mano. Quanto tutti se ne furono andati, compresi il signor Magargel e la sua squadra, Harry Rex si sedette stancamente di fronte a Forrest e Ray e per molto tempo rimasero tutti e tre così, a guardare, restii ad abbandonare quel luogo. Il solo rumore era quello di un'escavatrice in lontananza. Ma la ignorarono. Quante volte si seppellisce il proprio padre? E che importanza ha il tempo per un becchino? «Gran bel funerale» commentò Harry Rex. Era un esperto in materia. «Lui ne sarebbe stato fiero» fece eco Forrest. «Sapeva apprezzare un buon funerale» aggiunse Ray. «Però detestava i matrimoni.» «A me i matrimoni piacciono» disse Harry Rex. «Quattro o cinque?» chiese Forrest. «Quattro. Per ora.» Un uomo che indossava la tenuta da lavoro dell'amministrazione pubblica si avvicinò al terzetto. «Volete che lo caliamo ora?» domandò a bassa voce. Né Ray né Forrest sapevano che cosa rispondere. Harry Rex non ebbe dubbi. «Sì, grazie» disse. L'uomo cominciò a girare la manovella di un dispositivo su cui era stata appoggiata la bara. Piano piano, la cassa cominciò a scendere. La guardarono finché si fermò sul fondo della fossa di terra rossiccia. L'uomo tolse le cinghie, il nastro scorrevole e la manovella e si portò via
tutto quanto. «Suppongo che sia finita» mormorò Forrest. Mangiarono tamales innaffiandoli con bibite in un locale alla periferia della cittadina, lontano dai luoghi affollati dove qualcuno li avrebbe certamente interrotti per qualche parola di cordoglio. Guardarono passare le automobili da sotto un ombrellone che riparava un tavolo di legno da picnic. «Quando torni a casa?» chiese Harry Rex. «Domattina presto» rispose Ray. «Abbiamo del lavoro da sbrigare.» «Lo so. Facciamolo oggi pomeriggio.» «Che genere di lavoro?» volle sapere Forrest. «Documenti per la registrazione» spiegò Harry Rex. «Daremo una stima ufficiale del patrimonio tra un paio di settimane, appena Ray potrà tornare qui. Per ora dobbiamo visionare le carte del Giudice e stabilire quanto lavoro c'è da fare.» «Sembra roba da esecutore testamentario.» «Puoi dare una mano anche tu.» Ray mangiava e pensava alla sua macchina parcheggiata su una strada molto frequentata vicino alla chiesa presbiteriana. Lì era certamente al sicuro. «Ieri sera sono stato a un casinò» annunciò con la bocca piena. «Quale?» chiese Harry Rex. «Santa Fe qualcosa, il primo che ho trovato. Tu ci sei stato?» «In tutti» rispose con l'aria di chi non intendeva tornarci mai più. Tolte le droghe, Harry Rex aveva esplorato tutte le vie del vizio. «Anch'io» aggiunse Forrest, un uomo che non tralasciava mai nulla. «Come ti è andata?» chiese. «Ho vinto un paio di migliaia a blackjack. Mi hanno omaggiato di una stanza.» «Io ho dovuto pagarmela, quella dannata stanza» grugnì Harry Rex. «Probabilmente tutto il piano.» «Io adoro i loro drink gratuiti» disse Forrest. «Venti dollari a botta.» Ray deglutì e decise di lanciare l'esca. «Ho trovato dei fiammiferi del Santa Fe sulla scrivania del vecchio. Ci andava di nascosto?» «Sicuro» rispose Harry Rex. «Ci andavamo insieme una volta al mese. Gli piaceva giocare ai dadi.» «Al vecchio?» si stupì Forrest. «Giocava d'azzardo?» «Sì.»
«Ecco dov'è finita la mia eredità. Quello che non ha regalato, se l'è giocato.» «No, per la verità era molto bravo.» Ray finse di essere sbalordito quanto suo fratello, ma fu contento di potersi aggrappare alla sua prima ipotesi, per quanto labile. Sembrava quasi impossibile che il Giudice avesse accumulato una simile fortuna tirando i dadi una volta alla settimana. Ne avrebbe riparlato con Harry Rex più tardi. 13 Nell'avvicinarsi alla fine, il Giudice aveva organizzato con meticolosità i suoi affari. I documenti importanti erano nello studio e facili da trovare. Esaminarono prima il tavolo di mogano. In un cassetto c'erano i rendiconti bancari degli ultimi dieci anni, conservati in ordine cronologico. In un altro c'erano le sue dichiarazioni dei redditi. Alcuni grossi registri contenevano i dati relativi alle donazioni che aveva elargito a tutti coloro che si erano rivolti a lui. Il cassetto più grande era pieno di cartellette nelle quali aveva suddiviso tutte le altre documentazioni: tasse sulle proprietà, referti medici, vecchi contratti e certificati, fatture da pagare, testi delle conferenze che aveva tenuto, lettere ricevute dai suoi medici, i dati relativi alla sua pensione. Ray le passò in rassegna senza aprirle, salvo quella con le fatture da saldare. Ce n'era una, vecchia di una settimana, della Lawnmower Repair per un ammontare di 13,80 dollari. «Fa sempre uno strano effetto frugare nelle carte di una persona appena morta» osservò Harry Rex. «Mi sento come un guardone.» «Dovresti sentirti più come un investigatore a caccia di indizi» obiettò Ray. Lui era a un lato del tavolo, Harry Rex all'altro, entrambi senza cravatta e con le maniche arrotolate, davanti a una pila di documenti. Forrest si rendeva utile nella maniera in cui era abituato. Dopo pranzo, per dessert si era scolato tre lattine di birra e adesso russava sul divanetto a dondolo nel portico. Ma era lì, non si era eclissato in una delle sue colossali sbornie. Era scomparso tante di quelle volte, nel corso degli anni... Se fosse mancato al funerale di suo padre nessuno a Clanton se ne sarebbe stupito. Un'altra macchia nella vita di quell'Atlee sciagurato, un'altra storia da raccontare. Nell'ultimo cassetto trovarono un po' di tutto: penne, pipe, fotografie del
Giudice con i suoi colleghi a convegni di giuristi, qualcuna di Ray e Forrest, vecchie di qualche anno, il certificato di matrimonio, il certificato di morte della moglie. In una vecchia busta chiusa c'era il suo necrologio ritagliato dal "Clanton Chronicle", datato 12 ottobre 1969, con tanto di fotografia. Ray lo lesse e lo passò a Harry Rex. «Ti ricordi di lei?» gli chiese. «Sì, andai al suo funerale» rispose l'avvocato guardando il ritaglio. «Era una bella donna che non aveva molti amici.» «Come mai?» «Era del Delta, e quasi tutta la gente di laggiù ha una buona dose di sangue blu nelle vene. È quello che il Giudice desiderava in una moglie, ma non si mescolava molto bene da queste parti. Lei pensava di sposare un uomo ricco. Invece i giudici faticavano a sbarcare il lunario, a quei tempi, così lei dovette lavorare sodo per essere migliore di tutti gli altri.» «Non ti era simpatica?» «Non particolarmente. Mi considerava rozzo.» «Questa poi.» «Io volevo bene a tuo padre, Ray, ma non furono versate molte lacrime al funerale di tua madre.» «Facciamoci un funerale alla volta.» «Scusa.» «Che cosa c'era nel testamento che avevi preparato per lui? Voglio dire l'ultimo.» Harry Rex posò il necrologio sulla scrivania e si sedette in poltrona. Guardò in direzione della finestra alle spalle di Ray, poi prese a parlare in tono sommesso. «Il Giudice voleva istituire un fondo in modo che quando questa casa fosse stata venduta, i soldi finissero lì. Io ne sarei stato l'amministratore e in virtù di questa carica avrei avuto il piacere di versare un vitalizio a te e a lui.» Alzò il mento in direzione del portico. «Ma i suoi primi centomila sarebbero tornati nel fondo. È quanto, secondo il Giudice, gli doveva Forrest.» «Che disastro.» «Cercai di dissuaderlo.» «Meno male che l'ha bruciato.» «Meno male davvero. Sapeva che non era una buona idea, ma voleva proteggere Forrest da se stesso.» «Ci abbiamo provato per vent'anni.»
«Aveva pensato a tutto. Avrebbe lasciato ogni cosa a te, lo avrebbe tagliato completamente fuori, ma sapeva che questo avrebbe provocato attrito fra voi. Se la prese moltissimo perché nessuno di voi due era restato a vivere qui, così mi chiese di preparare un documento in cui la casa era destinata alla Chiesa. Non lo firmò mai, poi il reverendo Palmer lo fece incavolare sulla questione della pena di morte e abbandonò anche quell'idea. Voleva che la casa fosse venduta dopo la sua morte e che il ricavato andasse in beneficenza. Alzò le braccia verso il soffitto fino a farsi scrocchiare la spina dorsale. Harry Rex aveva subito due interventi alla schiena e raramente riusciva a trovare una posizione comoda. «La mia ipotesi» riprese «è che abbia richiamato te e Forrest qui perché poteste decidere tutti e tre insieme che cosa fare dei beni di famiglia.» «Allora perché ha scritto quel testamento dell'ultimo minuto?» «Non lo sapremo mai, giusto? Forse era stanco di soffrire. Ho il sospetto che si fosse abituato un po' troppo alla morfina, come succede alla gente verso la fine. Forse sapeva che stava per morire.» Ray guardò negli occhi del generale Nathan Bedford Forrest, che per quasi un secolo aveva sorvegliato con il suo cipiglio lo studio del Giudice sempre dalla stessa postazione. Ray non aveva dubbi che suo padre avesse scelto di morire sul divano perché il generale lo assistesse nel momento del trapasso. Il generale sapeva. Sapeva come e quando il Giudice era morto. Sapeva da dove venivano i soldi. Sapeva chi era penetrato in casa la notte prima e aveva messo a soqquadro lo studio. «Aveva mai incluso Claudia?» domandò. «Mai. Quando te la giurava, faceva sul serio, lo sai.» «È passata questa mattina.» «Che cosa voleva?» «Credo che fosse in cerca di soldi. Ha detto che il Giudice aveva sempre promesso che si sarebbe ricordato di lei e voleva sapere che cosa c'era nel testamento.» «Gliel'hai detto?» «Con piacere.» «Non è il caso di preoccuparsi per quella donna, non patirà la fame. Ricordi il vecchio Walter Sturgis di Karraway, quel truffatore taccagno da far paura?» Harry Rex conosceva tutti i residenti della contea, tutte le sue trentamila anime, nere, bianche e ora anche messicane. «Non mi pare.»
«Si dice che abbia messo da parte mezzo milione di dollari in contanti e Claudia gli sta dietro. Lo ha già convinto a mettersi magliette da golf e a mangiare al country club. Lui dice agli amici che prende il Viagra tutti i giorni.» «Bravo ragazzo.» «Se lo mangerà.» Forrest cambiò posizione sul dondolo e le catene cigolarono. Attesero un momento che tutto fosse di nuovo tranquillo. Harry Rex aprì una cartelletta. «Qui c'è la stima» annunciò. «L'abbiamo fatta fare l'anno scorso da un tizio di Tupelo, forse il miglior perito nel Nord del Mississippi.» «Quanto?» «Quattrocentomila.» «Venduta.» «Secondo me si è mantenuto un po' alto. Naturalmente il Giudice era convinto che la casa valesse un milione.» «Naturalmente.» «Io dico che trecentomila è una cifra più realistica.» «Non prenderemo nemmeno la metà. Su che cosa si basa la valutazione?» «È tutto qui. Metri quadri, terreno circostante, condizioni, comparazioni, le solite cose.» «Dammi una comparazione.» Harry Rex sfogliò il rapporto. «Eccone una. Una casa della stessa epoca, stesse dimensioni, dodici ettari, ai bordi di Holly Springs, venduta due anni fa per ottocentomila.» «Qui non siamo a Holly Springs.» «No di certo.» «Quella è una cittadina anteguerra con molte vecchie case.» «Vuoi che quereli il perito?» «Sì, diamogli addosso. Tu che cosa daresti per questa casa?» «Niente. Vuoi una birra?» «No.» Harry Rex andò in cucina e tornò con una lattina di Pabst Blue Ribbon. «Non so perché compera questa roba» brontolò ingollandone subito dopo un quarto. «È sempre stata la sua marca preferita.» Harry Rex sbirciò attraverso le stecche delle veneziane e vide solo i piedi di Forrest che penzolavano dal dondolo. «Non mi sembra che si preoc-
cupi molto dell'eredità di suo padre.» «È come Claudia, a lui basta avere un assegno.» «I soldi lo ucciderebbero.» Lo confortava sentire che Harry Rex era d'accordo con lui. Ray attese che tornasse alla scrivania perché voleva averlo sotto gli occhi. «L'anno scorso il Giudice ha guadagnato meno di quattromila dollari» disse, leggendo dalla dichiarazione dei redditi. «Era malato» lo giustificò Harry Rex, distendendo e torcendo l'ampia schiena prima di sedersi. «Ha presieduto udienze fino a quest'anno.» «Che tipo di udienze?» «Di ogni genere. Qualche anno fa abbiamo avuto quel governatore nazista...» «Me lo ricordo.» «Gli piaceva pregare in continuazione; durante la campagna elettorale, puntava sui valori familiari, era anti-tutto tranne le armi. Saltò fuori che gli piacevano le gonnelle. Sua moglie lo pizzicò, una porcata di quelle potenti, roba grossa. I giudici locali giù a Jackson, si tapparono occhi e orecchi per evidenti ragioni, così chiesero al Giudice di occuparsene lui.» «Ci fu un processo?» «Eccome se ci fu, un processone di quelli da far tremare i polsi. La moglie si prese tutto, mentre il governatore era convinto di poter intimidire il Giudice. Lei si prese la casa e quasi tutti i soldi. L'ultima volta che ho sentito parlare di lui, viveva sopra il box di suo fratello. Con delle guardie del corpo, naturalmente.» «Hai mai visto qualcuno intimidire il vecchio?» «Mai, non una volta in trent'anni.» Harry Rex tornò alla sua birra e Ray consultò un'altra dichiarazione dei redditi. C'era una grande quiete e quando udì Forrest russare di nuovo, disse: «Ho trovato del denaro». Gli occhi di Harry Rex non tradirono nulla. Nessun complotto, nessuno stupore, nessun sollievo. Non sbatté le palpebre e non sgranò le pupille. Attese qualche istante, poi alzò le spalle. «Quanto?» domandò. «Una scatola piena.» Ci sarebbero state altre domande e Ray cercò di prevederle. Di nuovo Harry Rex attese, poi un'altra innocente alzata di spalle. «Dove?» «Là, in quel mobiletto dietro il divano. Erano contanti in una scatola, più di novantamila.»
Fino a quel punto non aveva mentito. Non aveva raccontato tutta la verità, ma non stava neppure mentendo. Non ancora. «Novantamila dollari?» chiese Harry Rex a un volume di voce un po' troppo alto. Ray gli indicò il portico. «Sì, in biglietti da cento» rispose a bassa voce. «Hai idea da dove provengano?» Harry Rex bevve un sorso dalla lattina, poi strinse gli occhi rivolti al muro. «Non saprei» disse alla fine. «Dal gioco? Hai detto che era abile con i dadi.» Un altro sorso. «Sì, forse. I casinò hanno aperto sei o sette anni fa e noi ci andavamo una volta alla settimana, almeno all'inizio.» «Avete smesso?» «L'avessi fatto. Resti tra noi, ma io ci andavo in continuazione. Giocavo da svenarmi e non volevo che il Giudice lo sapesse, così tutte le volte che ci andavamo insieme stavo leggero. La sera dopo ci tornavo di nascosto e mi vuotavo le tasche.» «Quanto hai perso?» «Parliamo del Giudice.» «D'accordo. Vinceva?» «Di solito sì. Se la serata era buona portava via anche duemila dollari.» «E quando andava male?» «Cinquecento, era il suo limite. Se perdeva, sapeva quando smettere. Quello è il segreto del vero giocatore, devi sapere quando mollare e devi avere il fegato di andartene. Lui ce l'aveva. Io no.» «Ci andava anche da solo?» «Sì, una volta ce l'ho trovato. Io ero andato di nascosto e mi ero scelto un casinò nuovo, diavolo, ora ce ne sono quindici. Fatto sta che stavo giocando a blackjack quando avvertii una certa animazione al tavolo dei dadi non distante da me. Nel bailamme vedo il giudice Atlee con un berretto da baseball per non farsi riconoscere. I suoi travestimenti non sempre funzionavano perché avevo sentito voci in giro per la città. Molti frequentavano i casinò e ogni tanto c'era qualche avvistamento.» «Quante volte ci andava?» «Chi lo sa? Non doveva renderne conto a nessuno. Avevo un cliente, uno di quelli della Higginbotham che vendono auto usate, e mi disse di aver visto il vecchio giudice Atlee al tavolo dei dadi alle tre di notte al Treasure Island. Dunque ne deduco che il Giudice ci andava alle ore più incredibili per non farsi vedere.»
Ray fece qualche rapido calcolo. Se il Giudice aveva giocato tre volte la settimana per cinque anni vincendo duemila dollari ogni volta, avrebbe messo insieme qualcosa come un milione e mezzo. «È possibile che abbia messo insieme novantamila dollari?» chiese Ray. Gli sembrava una cifra così irrisoria. «Tutto può essere, ma perché nasconderli?» «Dimmelo tu.» Ci rifletterono per un po'. Harry Rex finì la birra e si accese un sigaro. Un pigro ventilatore a soffitto mosse la nuvola di fumo sopra la scrivania. Harry Rex sbuffò verso le pale sovrastanti e disse: «Sulle vincite bisogna pagare le tasse e siccome non voleva che si sapesse che giocava, può darsi che lo abbia fatto per tenere tutto a tacere». «Ma le case da gioco non richiedono una ricevuta quando si vince una certa cifra?» «Io non ho mai visto scartoffie di nessun genere.» «Ma se tu avessi vinto?» «Be', sì. Avevo un cliente che vinse undicimila dollari alle slot. Gli diedero un modulo per l'ufficio delle Imposte.» «E al tavolo dei dadi?» «Se cambi più di diecimila dollari per volta, c'è da scrivere. Se stai sotto i diecimila no. È come in banca.» «Dubito che il Giudice volesse nero su bianco.» «Sicuramente no.» «Ha mai parlato di contanti quando ti occupavi dei suoi testamenti?» «Mai. Quei soldi sono un segreto, Ray. Non li so spiegare. Non ho idea di che cosa avesse in mente. Di certo sapeva che sarebbero stati trovati.» «Già. Ma ora la domanda è: che cosa ne facciamo?» Harry Rex annuì e s'infilò il sigaro in bocca. Ray si appoggiò allo schienale e guardò il ventilatore. Per una lunga pausa meditarono su che cosa fare dei soldi. Nessuno voleva proporre di continuare semplicemente a tenerli nascosti. Harry Rex decise di andare a prendere un'altra birra. Ray disse che gli avrebbe fatto compagnia. Con il passare dei minuti diventò chiaro che del denaro non si sarebbe più discusso, non quel giorno. Di lì a qualche settimana, quando fosse stato preparato un inventario dei beni, forse sarebbero tornati sull'argomento. O forse no. Per due giorni Ray si era chiesto se informare Harry Rex dei contanti, non della somma intera, ma di una parte di essa. Dopodiché, ci sarebbero stati più interrogativi che risposte.
Fino a quel momento si era fatta ben poca luce su quei quattrini. Al Giudice piaceva giocare ai dadi, e ci sapeva anche fare, ma era poco plausibile che avesse accumulato più di tre milioni di dollari in sette anni. E senza produrre documenti scritti o lasciare la minima traccia. Ray tornò alle dichiarazioni dei redditi mentre Harry Rex sfogliava i registri delle donazioni. «Hai già in mente un commercialista?» domandò Ray dopo un lungo periodo di silenzio. «Ce ne sono diversi.» «Non di qui.» «No, mi tengo alla larga dai locali. La città è piccola.» «A me sembra che sia tutto in regola» concluse Ray chiudendo un cassetto. «Sarà facile, eccetto che per la casa.» «Mettiamola in vendita, il più presto possibile. Non sarà una cosa veloce.» «Quanto chiediamo?» «Cominciamo con trecentomila.» «Ci sarà da spendere per le riparazioni?» «Non ci sono soldi, Harry Rex.» Poco prima che facesse buio, Forrest annunciò di essere stanco di Clanton, stanco di morte, stanco di vivere in una deprimente catapecchia che non aveva mai amato, stanco di Harry Rex e Ray, e proclamò che sarebbe tornato a Memphis, dove lo attendevano donne infuocate e feste scatenate. «Quando torni?» chiese a Ray. «Fra due o tre settimane.» «Per la registrazione?» «Sì» gli rispose Harry Rex. «Faremo una breve apparizione davanti al giudice. Sarai il benvenuto anche tu, ma non sei costretto.» «Io non vado in tribunale. Ci sono stato già abbastanza.» I fratelli andarono insieme alla macchina di Forrest. «Stai bene?» s'informò Ray, ma solo perché si sentiva tenuto a mostrarsi premuroso. «Sì. Ci vediamo, fratello» disse Forrest ansioso di andarsene prima che Ray se ne venisse fuori con qualche stupidaggine. «Chiamami, quando torni» aggiunse. Mise in moto e partì. Ray sapeva che si sarebbe fermato sulla strada tra Clanton e Memphis, o in qualche locale con un bar e un tavolo da biliardo, o anche solo a una rivendita di birra dove avrebbe comperato una cassa da scolarsi mentre guidava. Forrest era sopravvissuto al fu-
nerale di suo padre con imprevisto stoicismo, ma dentro di lui la pressione era andata crescendo. Il momento della deflagrazione non sarebbe stato piacevole. Harry Rex aveva fame, come al solito, e chiese a Ray se gli andava del pesce gatto fritto. «Non molto» gli rispose. «Be', c'è un posto nuovo sul lago.» «Come si chiama?» «Jeter's Catfish Shack.» «E com'è?» «Delizioso.» Mangiarono su una terrazza vuota protesa su un lembo d'acqua stagnante sulla sponda del lago. Harry Rex mangiava pesce gatto due volte la settimana; Ray una volta ogni cinque anni. Il cuoco ci era andato pesante con la pastella e l'olio di arachidi, e Ray sapeva che sarebbe stata una notte lunga, per svariati motivi. Dormì nel letto della sua vecchia stanza, al piano di sopra, con una pistola carica, finestre e porte sprangate e ai piedi i tre sacchi con i soldi. Combinato in quel modo gli era difficile guardarsi intorno nell'oscurità ed evocare i piacevoli ricordi dell'infanzia che normalmente sarebbero affiorati. A quei tempi la casa era stata buia e fredda, specialmente dopo la morte della mamma. Invece di abbandonarsi alle reminiscenze, cercò di dormire contando i piccoli gettoni neri, da cento dollari l'uno, che il Giudice prelevava dai tavoli e portava alla cassa. Contò con l'immaginazione e l'ambizione, ma non s'avvicinò nemmeno lontanamente al patrimonio con cui era andato a letto. 14 Dei tre caffè sulla piazza di Clanton due erano per i bianchi e uno per i neri. I frequentatori del Tea Shoppe erano in prevalenza bancari, avvocati e negozianti, un ambiente da ceto medio dove gli argomenti di conversazione erano un po' più impegnati: il mercato azionario, la politica, il golf. Claude's, il locale riservato ai neri, esisteva da quarant'anni e offriva la cucina migliore. Il Coffee Shop era quello preferito dagli agricoltori, i poliziotti e gli operai, ed era il posto dove si parlava di football e di caccia agli uccelli. Era anche il locale preferito da Harry Rex che, come alcuni suoi colleghi, amava nutrirsi insieme alle persone che rappresentava. Il locale apriva tutte
le mattine alle cinque, salvo la domenica, e di solito entro le sei era già pieno di gente. Ray parcheggiò in piazza, poco distante, e chiuse la macchina. Il sole cominciava a spuntare da dietro i colli. Avrebbe guidato ininterrottamente per quindici ore circa, e se tutto andava bene sarebbe stato a casa entro mezzanotte. Harry Rex aveva un tavolo di fianco alla vetrina e un quotidiano di Jackson che era già stato aperto e richiuso così tante volte da essere quasi illeggibile. «Qualche novità interessante?» s'informò Ray. A Maple Run non c'era televisione. «Niente di niente» grugnì Harry Rex con gli occhi incollati alle colonne delle rubriche. «Ti manderò tutti i necrologi.» Spinse verso di lui un fascicolo tutto stropicciato. «Ti va di leggere questo?» «No, devo partire.» «Non mangi, prima?» «Sì.» «Ehi, Dell!» chiamò Harry Rex da una parte all'altra del locale. Il banco, i séparé e gli altri tavolini erano tutti affollati di uomini, soltanto uomini, intenti a mangiare e chiacchierare. «Dell c'è ancora?» chiese Ray. «Per lei il tempo si è fermato» rispose Harry Rex agitando la mano. «Sua madre ha ottant'anni e sua nonna ne ha cento. Sarà qui ancora per molto dopo che noi saremo finiti sottoterra.» A Dell non piaceva essere chiamata a voce alta. Si presentò altezzosa, con un bricco del caffè in mano, ma il cattivo umore svanì quando riconobbe Ray. Lo abbracciò. «Sono vent'anni che non ti vedo» esclamò. Poi si sedette, gli imprigionò un braccio e cominciò a esprimergli tutto il suo cordoglio per il Giudice. «Non è stato un gran bel funerale?» intervenne Harry Rex. «Non ne ricordo uno migliore» ribadì lei come se questo dovesse insieme consolare e impressionare Ray. «Grazie» disse lui con gli occhi che gli si inumidivano, non per la tristezza, ma per la mescolanza di profumi a buon mercato che l'avvolgevano. Dell balzò in piedi. «Allora, che cosa mangiate? Offre la casa.» Harry Rex chiese frittelle e salsiccia per entrambi. Dell scomparve lasciandosi dietro una densa scia di fragranze. «Hai parecchia strada da fare. Le frittelle ti si appiccicheranno allo stomaco.»
Dopo tre giorni a Clanton, a Ray tutto si stava appiccicando allo stomaco. Non vedeva l'ora di farsi qualche bella corsa nelle campagne intorno a Charlottesville e tornare a una cucina molto più leggera. Con suo grande sollievo, nessun altro lo riconobbe. Non c'erano avvocati al Coffee Shop a quell'ora, né nessuno che avesse conosciuto il Giudice abbastanza bene da partecipare alle esequie. Poliziotti e meccanici erano troppo occupati con barzellette e pettegolezzi. Dell ebbe il garbo di tenere la bocca chiusa. Dopo la prima tazza di caffè, Ray si rilassò e cominciò ad abbandonarsi serenamente al brusio delle conversazioni e delle risa intorno a se. Dell tornò con un vassoio che avrebbe sfamato otto persone: un maiale intero trasformato in salsicce, una carriola di focaccine con una ciotola di burro, un'insalatiera di marmellata fatta in casa e dello sciroppo. Perché portare focaccine da mangiare con le frittelle? Gli batté di nuovo la mano sulla spalla. «Era un uomo così dolce» disse. E se ne andò. «Tuo padre era molte cose» osservò Harry Rex, divorando le sue frittelle con una quantità incredibile di sciroppo. «Ma non dolce.» «No, non lo era» annuì Ray. «Veniva mai qui?» «Non che rammenti. Non faceva la prima colazione, non gli piaceva la gente, detestava le chiacchiere vane e preferiva andare a dormire il più tardi possibile. Non credo che questo fosse il suo genere di posto. In questi ultimi nove anni non si era fatto vedere molto da queste parti.» «Dell dove l'ha conosciuto?» «In tribunale. Una delle sue figlie ha avuto un bambino. Il padre aveva già una famiglia. Un brutto pasticcio.» Riuscì chissà come a infilarsi in bocca una razione di frittelle da strozzare un cavallo. Poi un morso di salsiccia. «E naturalmente tu c'eri dentro.» «Si capisce. Il Giudice la trattò con equità.» E via a masticare. Ray si sentì obbligato a riempirsi la bocca a sua volta. Con lo sciroppo che colava da tutte le parti, si sporse in avanti e si portò alla bocca una forchettata di considerevoli dimensioni. «Il Giudice era una leggenda, Ray, lo sai. Qui la gente lo amava. Nella contea di Ford non è mai sceso sotto l'ottanta per cento dei voti.» Ray annuì mentre si lavorava le frittelle. Erano calde e burrose, ma non particolarmente gustose. «Se spendessimo cinquemila dollari per la casa» osservò Harry Rex senza mostrare il cibo che aveva in bocca «li avremmo indietro moltiplicati
parecchie volte. Sarebbero un buon investimento.» «Cinquemila per che cosa?» L'avvocato si asciugò con una passata di tovagliolo. «Tanto per cominciare pulirla. Vapore, disinfettanti, una strigliata a pavimenti, pareti e mobili, per farla odorare di buono. Poi una pitturata all'esterno e al piano di sotto. Riparazioni al tetto per togliere le macchie sui soffitti, una rasata al prato, una sarchiata di erbacce. Un po' di belletto, insomma. So dove trovare la gente per farlo.» Si ingozzò con un'altra porzione e attese la risposta di Ray. «In banca ci sono solo seimila dollari» gli ricordò lui. Dell sfrecciò accanto a loro e riuscì a riempire di caffè le due tazze e ad allungare una pacca sulla spalla di Ray senza mai rallentare. «Ne hai degli altri in quella scatola che hai trovato» obiettò Harry Rex, prendendo un'altra frittella. «Dunque, dobbiamo spenderli?» «Ci ho pensato» rispose Harry Rex. Bevve un sorso di caffè. «Per la verità ci ho pensato tutta la notte.» «E allora?» «Allora, sono arrivato a due conclusioni: una importante, l'altra no.» Un rapido morso di modeste proporzioni, poi il ricorso a coltello e forchetta come sostegno a quanto stava per dire. «Per prima cosa, da dove viene? È questo che vogliamo sapere, ma non è veramente importante. Se ha rapinato una banca, è morto. Se ha rastrellato i casinò e non ha pagato le tasse, è morto. Se gli piaceva semplicemente l'odore delle banconote e le ha messe via anno dopo anno, è comunque sempre morto. Mi segui?» Ray si strinse nelle spalle come se si fosse aspettato qualcosa di più complesso. Harry Rex approfittò della pausa nel proprio monologo per mangiare un po' di salsiccia, poi riprese a fendere l'aria con le posate. «In secondo luogo, che cosa hai intenzione di farne? E questo è importante. Partiamo dal presupposto che nessuno sappia dei soldi, giusto?» Ray annuì. «Giusto. Erano nascosti.» Ray sentiva il tintinnare delle finestre. Vide le scatole della Blake & Son sparse per terra e schiacciate. Non poté fare a meno di lanciare uno sguardo attraverso la vetrata e assicurarsi che la sua TT fosse ancora lì, col bagagliaio pieno e pronta alla fuga. «Se accludi quei soldi ai beni del patrimonio, metà se li prenderà il fisco.» «Questo lo so, Harry Rex. Tu che cosa faresti?»
«Non sono la persona giusta a cui chiederlo. Sono in guerra con il fisco da diciotto anni e indovina chi sta vincendo. Si fottano.» «Questo è il tuo consiglio da avvocato?» «No, da amico. Se vuoi un consiglio professionale, allora ti dirò che secondo il Codice civile del Mississippi, nel rispetto delle disposizioni di legge attualmente in vigore, tutti i beni vanno debitamente inventariati ed elencati nel patrimonio perché ne sia stabilita la successione.» «Grazie.» «Io prenderei ventimila dollari, li metterei con gli altri per pagare le fatture in arrivo, poi aspetterei un sacco di tempo e darei a Forrest la sua metà di quel che resta.» «Questo sì che è un consiglio professionale.» «No, è solo buon senso.» Il mistero delle focaccine fu risolto quando Harry Rex le assalì. «Ti va una focaccina?» offrì, sebbene fossero più vicine a Ray. «No, grazie.» Harry Rex ne aprì una in due fette, le imburrò, vi spalmò sopra uno strato abbondante di marmellata, poi, all'ultimo momento v'infilò in mezzo un pezzo di salsiccia. «Sicuro?» «Sì, sono sicuro. Pensi che i soldi possano essere segnati in qualche modo?» «Solo se si tratta di un'estorsione o del pagamento per una fornitura di droga. Non penso che Reuben Atlee si sia occupato di cose del genere, ti pare?» «D'accordo, spendi i cinquemila dollari.» «Non te ne pentirai.» Al loro tavolo si fermò un ometto in calzoni e camicia cachi. «Scusami, Ray» disse con un sorriso caloroso. «Sono Loyd Darling» e gli porse la mano mentre parlava. «Ho una fattoria a est della città.» Ray gli strinse la mano alzandosi per metà. Loyd Darling era il maggior proprietario terriero di tutta la contea di Ford. Ray, da bambino, era stato alle sue lezioni di catechismo. «Che piacere vederla» disse. «Resta pure seduto» lo invitò l'ometto, spingendolo delicatamente per una spalla. «Volevo solo dirti che sono davvero rattristato per il Giudice.» «Grazie, signor Darling.» «Non c'era uomo migliore di Reuben Atlee. Hai tutta la mia solidarietà.» Ray annuì. Harry Rex aveva smesso di mangiare e sembrava sul punto di piangere. Poi Loyd si allontanò e la colazione riprese. Harry Rex si lan-
ciò in una storia esasperante di abusi da parte del fisco. Dopo un altro boccone o due, Ray si sentì sazio e mentre fingeva di ascoltare pensò a tutta la brava gente che tanto aveva ammirato suo padre, a tutti i Loyd Darling che avevano riverito il vecchio. E se i quattrini non venivano dalle case da gioco? Se fosse stato commesso un crimine e il Giudice avesse perpetrato qualche orribile frode segreta? Seduto tra la gente che affollava il Coffee Shop, guardando Harry Rex ma senza ascoltarlo, Ray Atlee prese una decisione. Giurò che se mai avesse scoperto che suo padre era entrato in possesso di quel denaro in un modo meno che etico, nessuno lo avrebbe mai saputo. Non sarebbe stato lui a infangare la limpida reputazione del giudice Reuben Atlee. Firmò un contratto con se stesso, si strinse la mano, fece un patto di sangue, giurò davanti a Dio. Non l'avrebbe saputo nessuno. Si salutarono sul marciapiede davanti all'ennesimo studio legale. Harry Rex lo strinse forte fra le braccia, Ray cercò di contraccambiare ma aveva le proprie inchiodate lungo i fianchi. «Non riesco a credere che non ci sia più» ripeté Harry Rex con gli occhi di nuovo umidi. «Lo so, lo so.» S'incamminò scuotendo la testa e lottando per non piangere. Ray saltò a bordo della sua Audi e lasciò la piazza senza girarsi indietro. Qualche minuto dopo era ai margini della cittadina, oltre il vecchio drive-in dov'era arrivato il primo film pornografico, oltre il calzaturificio dove il Giudice aveva fatto da mediatore tra gli scioperanti e la proprietà. Oltre tutto, finché non fu in campagna, anche lontano dal traffico, lontano dalla leggenda. Diede un'occhiata al tachimetro e si rese conto che stava correndo a quasi centoquaranta. La polizia stradale andava evitata e altrettanto valeva per i tamponamenti. Il viaggio era lungo, ma l'ora di arrivo a Charlottesville era cruciale. Troppo presto e l'isola pedonale sarebbe stata piena di gente. Troppo tardi e la ronda notturna avrebbe potuto vederlo e fargli domande. Superato il confine del Tennessee si fermò per fare rifornimento e andare alla toilette. Aveva bevuto troppo caffè. E mangiato troppo. Cercò di chiamare Forrest con il cellulare, ma non ebbe risposta. Giudicò che la notizia né buona né cattiva: con Forrest non si poteva mai dire. Ripartì mantenendosi sugli ottanta orari, e il tempo cominciò a passare. La contea di Ford fu risucchiata in un'altra vita. Ognuno doveva pur essere
originario di qualche luogo, e Clanton non era un brutto posto da chiamare casa. Ma se non l'avesse mai più rivista, non ne avrebbe pianto. Di lì a una settimana sarebbero finiti gli esami, poi una settimana ancora per le lauree e finalmente la pausa estiva. Poiché era previsto che si dedicasse alla ricerca e alla scrittura, non aveva corsi per tre mesi. Il che significava che aveva molto poco da fare in generale. Tornato a Clanton avrebbe prestato giuramento come esecutore testamentario, preso tutte le decisioni che Harry Rex gli avrebbe chiesto di prendere, e cercato di risolvere il mistero del denaro. 15 Con tanto tempo a disposizione per programmare i suoi movimenti, non si stupì che andasse tutto storto. Arrivò a destinazione a un'ora adatta, le undici e venti della sera di mercoledì 10 maggio. Aveva sperato di parcheggiare in sosta vietata lungo il marciapiede, a pochi metri dalla porta di casa sua al pianterreno, ma altri avevano avuto la medesima idea. Il suo tratto di strada non era mai stato così pieno di auto parcheggiate, tutte, per sua ansiosa soddisfazione, con un verbale di contravvenzione infilato sotto il tergicristallo. Avrebbe potuto lasciare la macchina in seconda fila, correndo avanti e indietro, ma sarebbe stato come tuffarsi nelle fauci del leone. Dietro l'edificio c'erano quattro posti, uno dei quali riservato a lui, ma chiudevano il cancello alle undici. Così fu costretto a servirsi del parcheggio immerso nel buio e quasi completamente deserto a tre isolati di distanza, un'enorme grotta a più livelli piena zeppa di giorno e sinistramente vuota di notte. Per molte ore aveva valutato quell'alternativa, durante la preparazione del suo piano nel corso del lungo viaggio, ed era la meno attraente di tutte. Rappresentava il piano D o E, in coda alla lista dei sistemi più augurabili per trasferire il denaro in casa. Parcheggiò al primo livello, prese la borsa da viaggio, chiuse la macchina e, con l'animo vibrante di viva preoccupazione, lasciò i soldi nella rimessa. Si allontanò a passo sostenuto, guardandosi attorno come se dovessero esserci bande armate in agguato dappertutto. Aveva la schiena e le gambe indolenzite dal lungo periodo trascorso in auto, ma aveva da fare. Trovò l'appartamento esattamente come l'aveva lasciato, cosa che gli procurò un senso di sollievo. Lo attendevano trentaquattro messaggi, senza dubbio colleghi e amici che gli porgevano le loro condoglianze. Li avrebbe
ascoltati più tardi. In fondo a un armadietto, nell'ingresso, sotto una coperta e un poncho e altri oggetti buttati lì a casaccio, trovò la vecchia borsa da tennis rossa che non toccava più da almeno due anni. Nel tentativo di evitare qualsiasi sospetto, era il contenitore più capiente che gli fosse venuto in mente. Se avesse avuto una pistola se la sarebbe messa in tasca, ma i crimini erano un evento raro a Charlottesville e lui preferiva non avere armi in giro per casa. Dopo l'episodio di domenica a Clanton, pistole e altre armi da fuoco lo terrorizzavano ancora di più. Aveva lasciato quella del Giudice nascosta in un armadio di Maple Run. Con il borsone da tennis in spalla, chiuse a chiave la porta di casa e si sforzò di camminare con naturalezza. L'isola pedonale era ben illuminata, c'erano sempre alcuni poliziotti in servizio e a quell'ora i soli pedoni erano ragazzi con i capelli verdi, qualche ubriacone e pochi ritardatari diretti alla propria abitazione. Dopo la mezzanotte Charlottesville era un posto tranquillo. Un acquazzone caduto non molto tempo prima del suo arrivo aveva lasciato le strade bagnate e il vento soffiava ancora. Incrociò una giovane coppia che camminava mano nella mano, ma non incontrò nessun altro mentre tornava al parcheggio. Aveva considerato se trasportare semplicemente i sacchi per l'immondizia, buttandoseli sulla spalla come Babbo Natale, uno alla volta, coprendo di buon passo la distanza che lo separava dalla sua abitazione, dovunque avesse trovato da parcheggiare. Così facendo avrebbe trasferito i soldi in tre soli viaggi, riducendo al minimo l'esposizione in strada. Due controindicazioni l'avevano bloccato. Per prima cosa, c'era il rischio che un sacco si strappasse scaricando sul marciapiede un milione di dollari. Allora dai vicoli sarebbero sbucati tutti i tagliagole e i barboni della città, come squali attirati dal sangue. In secondo luogo, un individuo che avesse trasferito sacchi di rifiuti dentro un appartamento invece di portarli fuori avrebbe probabilmente attirato l'attenzione della polizia. "Che cosa c'è nel sacco, signore?" gli avrebbe chiesto un agente. "Niente, è solo spazzatura. Un milione di dollari." Nessuna risposta sarebbe suonata accettabile. Così il piano era di essere paziente, prendere tutto il tempo necessario e trasportare il bottino in piccoli quantitativi senza preoccuparsi di quanti viaggi sarebbero serviti, perché la stanchezza era il minore dei mali. Avrebbe riposato più tardi.
Il momento che lo terrorizzava di più era quello del passaggio dei soldi da uno dei sacchi al borsone, operazione che avrebbe dovuto eseguire con la testa infilata nel bagagliaio, cercando di non assumere un atteggiamento colpevole. Per fortuna il parcheggio era deserto. Riempì di banconote la borsa da tennis finché quasi non riuscì a tirare la cerniera, poi chiuse il bagagliaio, si guardò intorno come se avesse appena strozzato qualcuno e si mise in cammino. Un terzo forse del contenuto di un sacco, trecentomila dollari, molto più di quanto sarebbe stato sufficiente a farlo arrestare o accoltellare. La disinvoltura era ciò di cui aveva disperatamente bisogno, ma non c'era niente di disinvolto nei suoi passi e nei suoi movimenti. Occhi diritti davanti a sé, a dispetto della gran voglia di muoverli di qua e di là, su e giù, per non lasciarsi sfuggire nulla. Gli passò accanto un ragazzino con un piercing al naso, fatto fino al limite del collasso. Ray accelerò l'andatura, chiedendosi se avrebbe resistito per altri otto o nove viaggi fino al parcheggio. Un ubriaco gli gridò qualcosa di incomprensibile dalla panchina immersa nel buio. Fece per mettersi a correre, ma si trattenne e ringraziò il cielo di non essere armato. In quel momento sarebbe stato capace di sparare a qualsiasi cosa si muovesse. A ogni isolato le banconote diventavano più pesanti, ma riuscì ad arrivare a casa senza incidenti. Rovesciò i quattrini sul letto, sprangò tutte le porte e ripartì. Durante il quinto viaggio si trovò di fronte un vecchio pazzo che saltò fuori dall'oscurità. «Cosa diavolo stai facendo?» lo apostrofò. Aveva qualcosa di scuro nella mano. Ray pensò che fosse un'arma con cui farlo a pezzi. «Togliti di mezzo» ribatté nel tono più brusco di cui era capace, ma con il palato asciutto. «Continui ad andare avanti e indietro!» gridò il vecchio. Puzzava e aveva gli occhi ardenti di un demone. «Fatti gli affari tuoi.» Ray non aveva mai smesso di camminare e il vecchio teneva il suo passo indietreggiando. Lo scemo del villaggio. «Qualche problema?» intervenne una voce chiara e secca alle loro spalle. Ray si fermò e fu raggiunto da un poliziotto con lo sfollagente in mano. Ray fu tutto sorrisi. «Buonasera, agente.» Aveva il fiato corto e il viso sudato. «Quello sta combinando qualcosa!» lo accusò il vecchio. «Continua ad andare avanti e indietro, avanti e indietro. Va da quella parte con la borsa vuota. Viene da questa parte con la borsa piena.»
«Rilassati, Gilly» lo esortò il poliziotto e Ray tirò un sospiro di sollievo. Era inorridito all'idea che qualcuno lo avesse tenuto d'occhio, ma era una benedizione che quel qualcuno fosse un tipo come Gilly. Conosceva praticamente tutti i personaggi del quartiere, ma lui non lo aveva mai visto prima. «Che cosa c'è nella borsa?» chiese l'agente. Era una domanda stupida, senza dubbio impropria e per una frazione di secondo Ray, il professore di legge, ebbe la tentazione di impartirgli una lezione sui fermi, le perquisizioni, il tipo di domande concesse alle forze dell'ordine durante gli interrogatori. Ma lasciò perdere e gli offrì con sufficiente naturalezza la battuta che si era preparato. «Ho giocato a tennis a Boar's Head. Ma mi sono stirato un polpaccio e sono venuto via. Abito laggiù.» Indicò la sua casa a due isolati di distanza. Il poliziotto si rivolse a Gilly. «Non puoi metterti a urlare alla gente Gilly, te l'ho detto» lo rimproverò. «Ted sa che sei qua fuori?» «Ha qualcosa in quella borsa» insisté timidamente Gilly. Il poliziotto lo stava accompagnando via. «Sì, è denaro contante» gli rispose l'agente. «Sono sicuro che quell'uomo è un rapinatore di banche e tu l'hai appena smascherato. Ottimo lavoro.» «Ma prima è vuota e poi è piena.» «Buonanotte, signore» salutò l'agente girandosi a guardare dietro di sé. «Buonanotte.» E Ray, il tennista infortunato, zoppicò per mezzo isolato a beneficio di altri personaggi appostati nelle tenebre. Quando scaricò sul letto il quinto quantitativo, trovò una bottiglia di scotch nel suo armadietto dei liquori e se ne versò una dose generosa. Aspettò due ore, il tempo necessario perché Gilly tornasse da Ted, che si sperava gli avrebbe dato la sua medicina e lo avrebbe tenuto chiuso dentro per il tempo sufficiente a un avvicendamento del turno di guardia. Due ore lunghissime, durante le quali Ray immaginò ogni possibile scenario che aveva per protagonista la sua automobile nella rimessa. Furti, vandalismi, incendi, equivoci commessi da qualche carro attrezzi, ogni immaginabile sciagura. Alle tre di notte lasciò il suo appartamento in jeans, scarpe da trekking e una felpa blu con la scritta VIRGINIA sul davanti. Al borsone da tennis rosso aveva sostituito una vecchia cartella di pelle screpolata, nella quale non avrebbe potuto stipare lo stesso quantitativo di denaro, ma che gli avrebbe anche evitato l'attenzione della guardia. Era armato di un coltello da cucina che teneva infilato nella cintura, sotto la felpa, pronto per essere
estratto nel caso avesse incontrato tipi come Gilly o altri aggressori. Era una stupidaggine e lo sapeva, ma non era nemmeno più se stesso e ne era assolutamente consapevole. Era stanco morto, in debito di sonno per la terza notte consecutiva, un tantino alticcio per lo scotch che aveva bevuto, risoluto a mettere al sicuro il denaro e timoroso d'essere fermato di nuovo. Alle tre di notte anche i barboni erano in ritiro. Le vie del centro erano deserte. Ma quando entrò nella rimessa vide qualcosa che lo riempì di terrore. In fondo all'isola pedonale, sotto un lampione stavano passando cinque o sei adolescenti di colore. Avanzavano lentamente più o meno nella sua direzione, schiamazzando e parlando a voce alta, in cerca di occasioni per combinare guai. Era impensabile tentare un'altra mezza dozzina di tragitti senza imbattersi nella banda. Il piano definitivo fu architettato su due piedi. Ray uscì dal parcheggio a bordo dell'Audi. Fece tutto il giro e si fermò in seconda fila di fianco alle auto parcheggiate in divieto di sosta lungo il cordolo, davanti alla porta di casa del suo appartamento. Spense motore e luci, aprì il bagagliaio e afferrò i sacchi. Cinque minuti dopo tutto il malloppo era al suo posto. Alle nove del mattino fu svegliato dal telefono. Era Harry Rex. «Alza il culo, ragazzo» ringhiò. «Com'è andato il viaggio?» Ray si drizzò a sedere sulla sponda del letto e cercò di aprire gli occhi. «Splendidamente» borbottò. «Ieri ho sentito un agente immobiliare, Baxter Redd, uno dei migliori in città. Abbiamo fatto un giro d'ispezione, tirato qualche calcio ai copertoni, sai com'è. Comunque, lui consiglia di tenere duro sulla stima che abbiamo di quattrocentomila. Dice che dovremmo poterne ricavare almeno duecentocinquanta. A lui va il solito sei per cento. Ci sei?» «Sì.» «Allora di' qualcosa.» «Vai avanti.» «È d'accordo con me che è meglio spendere qualche spicciolo per dare una sistemata alla casa, un po' di vernice, un po' di cera per terra, un bel falò per eliminare il superfluo. Mi ha consigliato una ditta di pulizie. Ci sei ancora?» «Sì.» Harry Rex era in piedi da ore, senza dubbio rifocillato da un banchetto a base di frittelle, focaccine e salsicce. «Comunque, io ho già ingaggiato un imbianchino e un carpentiere per il tetto. Avremo bisogno di un apporto di capitali freschi molto presto.»
«Sarò lì tra un paio di settimane, Harry Rex. Non si può aspettare?» «Certo, certo. Hai bevuto troppo, ieri?» «No, sono solo stanco.» «Allora muovi le chiappe, sono le nove passate.» «Grazie.» «A proposito di bevute» riprese Harry Rex, abbassando improvvisamente la voce e addolcendo il tono. «Ieri sera mi ha chiamato Forrest.» Ray si alzò in piedi e inarcò la schiena. «Non saranno buone notizie, presumo.» «No, non lo sono. Era fatto, non ho capito se di alcol o qualche droga, probabilmente tutt'e due. Qualunque cosa fosse, c'era dentro fino alle orecchie. Era così moscio che pensavo stesse per addormentarsi, poi improvvisamente si è animato e se l'è presa con me.» «Che cosa voleva?» «Soldi. Non ora, sostiene di non essere al verde, ma è preoccupato per la casa e l'eredità. Vuole essere sicuro che non glielo metti nel culo.» «Metterglielo nel culo io?» «Era strafatto, Ray, non è il caso di essere troppo severi. Ma ha detto certe cose poco carine.» «Ti ascolto.» «È solo per informarti, ma ti prego di non prendertela. Dubito che questa mattina si ricordi qualcosa.» «Sentiamo, Harry Rex.» «Ha detto che il Giudice ha sempre preferito te ed è per questo che ti ha nominato suo esecutore testamentario. Che tu hai sempre spremuto il vecchio meglio di lui, che il mio compito è di tenerti d'occhio e proteggere i suoi interessi nella spartizione perché tu cercherai di fregarlo e così via.» «Non ci ha messo molto, vero? Abbiamo appena seppellito nostro padre.» «Già.» «Non mi stupisce.» «Sta' in guardia. Si sta imbottendo e potrebbe decidere di chiamarti per scaraventarti addosso qualche stronzata delle sue.» «Roba vecchia, Harry Rex. I problemi che ha non sono colpa sua. C'è sempre qualcuno che vuole fargli le scarpe. Tipico atteggiamento da tossico.» «Pensa che la casa valga un milione di dollari e dice che il mio compito è farmeli dare. Altrimenti potrebbe trovarsi costretto a prendere un avvoca-
to per conto suo, e via di questo passo. Non mi sono sentito offeso. Come ho detto, era fatto.» «È pietoso.» «Sì, è vero, ma gli passerà. E tra una settimana, quando sarà sobrio, gli farò il culo. Andrà tutto a posto.» «Mi dispiace, Harry Rex.» «Fa parte del mio mestiere. Una delle gioie dell'avvocatura.» Ray preparò il caffè, una forte miscela italiana alla quale era affezionato e di cui aveva sentito la dolorosa mancanza a Clanton. Dovette quasi scolarne una tazza intera perché il suo cervello cominciasse a svegliarsi. Tutte le eventuali difficoltà con Forrest avrebbero fatto il loro corso. A dispetto dei suoi numerosi problemi, era fondamentalmente inoffensivo. Harry Rex avrebbe gestito la proprietà e tutto quello che fosse avanzato sarebbe stato diviso in parti uguali. Di lì a un anno Forrest avrebbe ricevuto un assegno per più denaro di quanto avesse mai visto. Rimase per qualche tempo sulle spine pensando agli addetti di un'impresa di pulizie che si aggiravano a briglia sciolta per Maple Run. Gli sembrò di vedere una decina di donne sgambettare qua e là come formiche, felici di avere tutta quella roba da pulire. E se si fossero imbattute in qualche altro tesoro proditoriamente nascosto dal Giudice? Materassi imbottiti di denaro, sgabuzzini traboccanti ricchezze. Non era possibile. Ray aveva perquisito la casa palmo a palmo. Trovi tre milioni di dollari in un mobiletto e senti di avere tutte le buone ragioni per scalzare le assi del parquet. Aveva persino strappato matasse di ragnatele in cantina, un sotterraneo dove nessuna donna delle pulizie avrebbe mai osato mettere piede. Si versò un'altra tazza di caffè e tornò in camera da letto, dove si sedette a guardare la montagna di banconote. E ora? Nella frenesia di quegli ultimi quattro giorni si era concentrato esclusivamente su come trasferire il denaro là dove si trovava ora. Al momento doveva pensare al prossimo passo e aveva pochissime idee. I soldi andavano nascosti e protetti, questa era la sua unica certezza. 16 C'era una voluminosa composizione floreale al centro della sua scrivania con un biglietto di condoglianze firmato da tutti e quattordici gli studenti del suo corso sull'antitrust. Ciascuno aveva scritto un piccolo messaggio e Ray li lesse tutti. Accanto al bouquet erano impilati i biglietti dei suoi col-
leghi. La notizia del suo ritorno si propagò, e per tutta la mattina i colleghi passarono per un rapido saluto, un bentornato, una parola di solidarietà per il suo lutto. Tranne qualche eccezione, il corpo insegnanti della facoltà faceva gruppo. Erano pronti a bisticciare su questioni secondarie di politica accademica, ma erano altrettanto pronti a far fronte comune nei momenti di crisi. Ray fu molto felice di vederli. La moglie di Alex Duffman gli fece consegnare un piatto dei suoi famigerati biscotti al cioccolato, ciascuno dei quali pesava mezzo chilo e avrebbe di sicuro contribuito all'incremento delle sue maniglie dell'amore. Naomi Kraig gli portò un piccolo assortimento di rose colte nel suo giardino. In tarda mattinata passò Carl Mirk. Era l'amico più intimo di Ray alla facoltà, con il quale condivideva notevoli analogie biografiche. Erano coetanei, entrambi i loro padri avevano fatto i giudici in provincia dettando legge per decenni nelle rispettive piccole contee. Il padre di Carl esercitava ancora, e tuttora gli serbava rancore per non essere tornato a casa a fare l'avvocato nello studio di famiglia. Sembrava però che il malanimo gli si andasse esaurendo con il passare degli anni, mentre quello del giudice Atlee era durato fino alla morte. «Raccontami» lo esortò Carl. Presto sarebbe toccato a lui tornare per motivi simili nella sua città natale nel Nord dell'Ohio. Ray cominciò con la pace che aveva trovato in casa al suo arrivo. Troppa pace, gli venne da aggiungere ora. Descrisse il momento in cui aveva visto il Giudice. «Era già morto?» chiese Carl. Ray annuì e aggiunse dell'altro, al che Carl chiese: «Credi che abbia accelerato un po' le cose?». «Lo spero. Soffriva molto.» «Caspita.» Il racconto si dipanò con dovizia di particolari, tutti quelli che Ray via via ricordava e ai quali non aveva più pensato dopo quell'ultima domenica. Le parole fluivano, e la narrazione divenne terapeutica. Carl era un eccellente ascoltatore. Le descrizioni di Forrest e Harry Rex furono colorite. «Non abbiamo tipi così nell'Ohio» commentò Carl. Quando raccontavano gli aneddoti delle loro cittadine di provincia, di solito a colleglli provenienti dalle grandi città, esageravano sempre un po' e la descrizione dei personaggi ne risultava arricchita. Non ce ne fu bisogno per Forrest e Harry Rex. La verità era già abbastanza colorita.
La veglia, il funerale, la sepoltura. Quando Ray chiuse con l'esecuzione del Silenzio e la calata della bara, avevano entrambi gli occhi umidi. Carl balzò in piedi. «Che modo grandioso di andarsene» esclamò. «Mi dispiace.» «Io sono solo contento che sia finita.» «Allora, bentornato. Perché non ci vediamo a pranzo domani?» «Domani che cos'è?» «Venerdì.» «Vada per il pranzo.» Per la classe di mezzogiorno del suo corso sull'antitrust, Ray ordinò pizza e si trattenne a mangiare con i suoi studenti in cortile. C'erano tredici dei suoi quattordici allievi. Otto si sarebbero laureati di lì a due settimane. Erano più preoccupati per lui e la morte di suo padre che per i loro esami finali. Sapeva che quell'atteggiamento sarebbe cambiato presto. Finite le pizze, li congedò e i ragazzi si dispersero. Rimase soltanto Kaley, come faceva da mesi. Tra professori e studenti c'era una rigida zona di interdizione al volo e Ray Atlee non aveva la minima intenzione di violarla. Era troppo contento del suo lavoro per rischiarlo con una studentessa. Ma di lì a due settimane Kaley non sarebbe stata più una studentessa, bensì una neolaureata, esclusa pertanto dal severo regolamento. Il livello del flirt si era alzato un po': qualche domanda dopo la lezione, un salto nel suo ufficio per le indicazioni su un compito dopo un'assenza; e sempre quel sorriso, con gli occhi che indugiavano appena un attimo di troppo. Era una ragazza dal rendimento scolastico medio, con un bel faccino e un sedere da mozzare il fiato. Aveva giocato a hockey su prato e a lacrosse e aveva mantenuto una linea asciutta da atleta. Aveva ventotto anni, era vedova senza figli e titolare della montagna di soldi che aveva ricevuto dall'azienda costruttrice dell'aliante sul quale si trovava il marito quando un guasto lo aveva fatto precipitare in mare davanti a Cape Cod. Lo avevano trovato a venti metri di profondità, con le cinture ancora allacciate, sul velivolo con entrambe le ali spezzate. Ray aveva cercato informazioni sull'incidente in Internet. Aveva trovato anche gli atti giudiziari relativi alla querela da lei presentata nel Rhode Island. L'azienda costruttrice le aveva riconosciuto quattro milioni di dollari in contanti e un indennizzo di cinquecentomila dollari l'anno per i vent'anni successivi. Ray lo aveva tenuto per sé. Dopo aver fatto la posta ai ragazzi per i primi due anni della scuola di legge, ora faceva la posta agli uomini. Ray conosceva almeno altri due do-
centi ai quali lei riservava le stesse languide occhiate. Uno si era sposato. Evidentemente erano tutti circospetti come lui. Camminarono insieme chiacchierando degli esami finali. A ogni abboccamento lei guadagnava un altro po' di terreno, intensificava gli esercizi di riscaldamento, lei sola sapendo quale fosse la meta che si era prefissata. «Mi piacerebbe fare un volo, una volta o l'altra» disse. Qualsiasi cosa, ma non volare. Ray pensò al giovane marito e alla sua orribile morte, e per un secondo non seppe che cosa ribattere. «Compera un biglietto» le consigliò poi con un sorriso. «No, no, con te, su un aeroplanino. Andiamo da qualche parte.» «Qualche posto in particolare?» «Solo il cielo, per un po'. Pensavo di prendere qualche lezione.» «Io avevo in mente qualcosa di più tradizionale, magari un pranzo o una cena, dopo che ti sarai laureata.» Lei gli si avvicinò in maniera che chiunque passasse di lì in quel momento non avesse dubbi che quei due, studentessa e professore, stessero discutendo di attività illecite. «Mi laureo fra quattordici giorni» gli disse, come a fargli capire che non avrebbe potuto aspettare così a lungo per infilarsi sotto le lenzuola con lui. «Allora t'inviterò a cena tra quindici giorni.» «No, violiamo la regola mentre sono ancora una studentessa. Ceniamo insieme prima della laurea.» Lui quasi rispose di sì. «Ho paura di no. La legge è la legge. Siamo qui per rispettarla.» «Oh, sì. È così facile dimenticarlo. Ma l'appuntamento ce lo siamo dati?» «No. Ce lo daremo.» Kaley gli regalò un altro sorriso e se ne andò. Lui fece di tutto per non ammirare la sua uscita di scena, ma era impossibile. Il furgone a noleggio veniva da una ditta di traslochi a nord della città, sessanta dollari al giorno. Ray aveva tentato di ottenere una tariffa per mezza giornata perché ne aveva bisogno solo per poche ore, ma aveva dovuto sborsare l'intera cifra. Guidò esattamente per settecentocinquanta metri e si fermò davanti al Chaney's Self-Storage, un complesso di nuovi parallelepipedi di calcestruzzo circondati da rete metallica sormontata da filo spinato ancora scintillante. Le videocamere montate sui lampioni lo ripresero quando fermò il furgone e scese per entrare in ufficio. Tutto lo spazio che si poteva desiderare. Un magazzino di quattro metri
per quattro veniva quarantotto dollari al mese; senza il riscaldamento, senza finestre, portellone a saracinesca e luce a volontà. «È protetto contro gli incendi?» chiese Ray. «Assolutamente sì» rispose la signora Chaney, scacciando il fumo che saliva dalla sigaretta infilata tra le labbra mentre compilava alcuni moduli. «Tutto cemento.» La sicurezza era il motto dell'azienda. Avevano un sistema di sorveglianza elettronico, spiegò indicandogli i quattro monitor alla sua sinistra. Su una mensola alla sua destra c'era un piccolo televisore nel quale la pacifica riunione di un'allegra brigata era degenerata in rissa tra strilli e scazzottate. Ray sapeva quale dei video riceveva l'attenzione maggiore. «Guardie giorno e notte» continuò lei, senza smettere di scrivere. «Cancelli sempre chiusi. Mai avuto un solo caso di effrazione. E, comunque, siamo protetti da ogni genere di assicurazione. Firmi qui, prego. 14B.» Una polizza su tre milioni di dollari, pensò Ray mentre scriveva il proprio nome. Pagò in contanti per sei mesi e prelevò la chiave del 14B. Ritornò due ore dopo con sei scatoloni nuovi, una pila di vecchi indumenti e qualche mobile da poco raccattato in un mercatino delle pulci per rendere la messinscena più credibile. Parcheggiò davanti al 14B e scaricò alla svelta. Le banconote erano chiuse in sacchetti da congelatore a chiusura ermetica, per tenere fuori aria e acqua. Cinquantatré in tutto. I sacchetti erano sistemati in fondo ai sei scatoloni, ricoperti quindi con carte, pratiche e appunti che fino a poche ore prima Ray aveva giudicato utili. Ora gli archivi che aveva raccolto con tanto amore erano chiamati a un impegno di più alto livello. Tanto per non sbagliare, c'erano anche alcuni vecchi libri tascabili. Se per caso un ladro fosse penetrato nel 14B, se ne sarebbe probabilmente andato dopo una rapida occhiata dentro gli scatoloni. I soldi erano ben nascosti e protetti al meglio. A parte una cassetta di sicurezza in una banca, Ray non avrebbe saputo pensare a un luogo migliore dove tenere al sicuro il bottino. Quale sarebbe stato il destino finale di quei soldi era un mistero che diventava più insondabile con il passare dei giorni. Il fatto che ora fosse al sicuro in Virginia gli arrecava, al contrario di quel che aveva sperato, ben poco conforto. Rimase per un po' a contemplare gli scatoloni e il resto della merce, poco propenso ad andarsene. Giurò a se stesso che non sarebbe passato tutti i
giorni a controllare il suo deposito, ma appena ebbe finito di giurare cominciò a dubitarne. Chiuse la porta a saracinesca con un lucchetto nuovo. Mentre si allontanava, la guardia era sveglia, le videocamere scrutavano il complesso, il cancello era chiuso a chiave. Fog Newton era preoccupato per il tempo. Aveva spedito in aria un apprendista pilota per un volo fino a Lynchburg e ritorno e, secondo il radar, era in arrivo una perturbazione che si spostava ad alta velocità. Le nuvole non erano attese e non c'erano stati allarmi durante tutto il periodo di addestramento dell'allievo. «Quante ore ha?» chiese Ray. «Trentuno» fu la risposta grave di Fog. Certo non abbastanza per imparare a destreggiarsi in mezzo a un temporale. E non c'erano aeroporti tra Charlottesville e Lynchburg, solo montagne. «Non vorrai volare ora, vero?» chiese Fog. «Certamente.» «Scordatelo. Il temporale sarà qui a momenti. Andiamo a guardarlo.» Niente spaventava un istruttore più di un allievo impegnato in condizioni di brutto tempo. Tutti i voli di addestramento su zone montane dovevano essere preparati con la massima cura: itinerario, orari, carburante, condizioni meteorologiche, aeroporti d'appoggio e procedure d'emergenza. E ogni volo doveva essere approvato per iscritto dall'istruttore. Una volta Fog aveva lasciato Ray a terra perché, in una giornata perfettamente limpida, c'era la remota possibilità di formazione di ghiaccio a millesettecento metri di quota. Attraversarono l'hangar fino al piazzale dove un Lear aveva finito di fare manovra e stava spegnendo i motori. A ovest, dietro le alture, s'intravedevano le prime tracce di annuvolamento. Il vento era considerevolmente rinforzato. «Da dieci a quindici nodi, a folate» annunciò Fog. «Un vento di traverso.» Ray sperava di non dover mai tentare un atterraggio in quelle condizioni. Dietro il Lear si stava avvicinando un Bonanza e quando fu a tiro Ray notò che era quello che aveva sognato in quegli ultimi due mesi. «Ecco il tuo aereo» disse Fog. «Magari» sospirò Ray. Il Bonanza si fermò e spense i motori accanto a loro. Quando fu tornato il silenzio, Fog aggiunse: «Ho sentito che ha abbassato il prezzo».
«Quanto?» «Intorno ai quattrocentoventicinque. Quattrocentocinquanta era un po' alto.» Dall'aereo uscì il proprietario, che viaggiava da solo e recuperò i suoi bagagli dal retro. Fog continuò a scrutare il cielo e a lanciare occhiate all'orologio. Ray, invece, continuò a osservare il Bonanza, che il proprietario stava in quel momento chiudendo a chiave per la notte. «Perché non ce lo prendiamo per un giretto?» propose Ray. «Il Bonanza?» «Certo. Quanto viene?» «Si può negoziare. Conosco bene il tizio.» «Prendiamolo per una giornata, facciamo un salto ad Atlantic City e ritorno.» Fog dimenticò le nuvole in arrivo e il suo pilota alle prime armi. Si girò a guardarlo. «Parli sul serio?» «Sicuro. Sarebbe bello.» Tolti gli aerei e il poker, Fog aveva pochi altri interessi. «Quando?» «Sabato. Partiamo presto e torniamo tardi.» Tutt'a un tratto Fog apparve pensieroso. Consultò l'orologio, guardò ancora una volta a ovest, poi a sud. «Yankee Tango a quindici chilometri» urlò da uno sportello Dick Docker. «Che Dio sia lodato» mormorò Fog visibilmente rasserenato. Poi si avvicinò al Bonanza con Ray per guardarlo da vicino. «Sabato, eh?» disse Fog. «Sì, per tutta la giornata.» «Sentirò il proprietario. Sono sicuro che ci metteremo d'accordo.» Il vento cedette per un momento e Yankee Tango atterrò abbastanza agevolmente. Fog si rilassò ancora di più e riuscì a sorridere. «Non sapevo che ti piacesse il gioco» commentò mentre si dirigevano al velivolo appena atterrato. «Qualche puntata a blackjack, niente di serio» minimizzò Ray. 17 La solitudine di una tarda mattinata di venerdì fu interrotta dal campanello alla porta. Ray aveva dormito fino a tardi, cercando ancora di smalti-
re la fatica del viaggio fino a casa. Dopo tre giornali e quattro tazze di caffè era quasi sveglio. Era una scatola della FedEx inviatagli da Harry Rex ed era piena di lettere di estimatori del Giudice e ritagli di giornali. Ray li dispose sul tavolo da pranzo e cominciò dagli articoli. Sul "Clanton Chronicle" del mercoledì c'era un pezzo in prima pagina con un'aristocratica fotografia di Reuben Atlee in toga nera e martelletto in mano. Era un ritratto vecchio di almeno vent'anni. I capelli del Giudice erano più folti e più scuri e il panneggio nero era ben riempito. Il titolo era: "Giudice Reuben Atlee si spegne a 79 anni". C'erano tre articoli in tutto. Uno era un infiorato necrologio, il secondo una collezione di commenti da parte di amici, il terzo un tributo al Giudice e alle sue straordinarie iniziative benefiche. Anche il "Ford County Times" pubblicava una fotografia, scattata solo qualche anno prima. Si vedeva il giudice Atlee seduto nel portico di casa con la pipa, molto più vecchio che nell'altro ritratto, ma nell'atto di offrire un raro sorriso. Indossava un cardigan e sembrava un nonno. Il giornalista aveva vinto la sua riluttanza con lo stratagemma di una chiacchierata sulla Guerra Civile e su Nathan Bedford Forrest. Nella conversazione si accennava a un possibile libro sul generale e gli uomini della contea di Ford che avevano combattuto con lui. Negli articoli sull'illustre concittadino, raramente venivano citati i figli. Menzionarne uno avrebbe obbligato a parlare dell'altro e quasi tutti a Clanton preferivano evitare l'argomento Forrest. Era dolorosamente palese che i figli non facevano parte della vita del loro genitore. Ma avremmo potuto, disse a se stesso Ray. Era stato il padre a scegliere fin dall'inizio di avere rapporti limitati con i figli e non viceversa. Quel meraviglioso vecchio che tanto aveva dato a tanta gente aveva avuto pochissimo tempo per la propria famiglia. Gli articoli e le fotografie lo rattristarono, una reazione frustrante perché non aveva intenzione di essere triste quel venerdì. Aveva retto piuttosto bene da quando, cinque giorni prima, aveva rinvenuto il cadavere di suo padre. Nei momenti più dolorosi aveva tenuto duro e trovato la forza per stringere i denti e tirare avanti senza farsi prendere dallo scoramento. Il trascorrere del tempo e la distanza da Clanton erano stati di immenso aiuto e ora gli piovevano addosso dal nulla i ricordi più malinconici. Le lettere erano state prelevate da Harry Rex dalla casella postale del Giudice a Clanton, dal tribunale e dalla cassetta per la corrispondenza di Maple Run. Alcune erano indirizzate a Ray e Forrest, altre alla famiglia
del giudice Atlee. C'erano lunghe lettere di avvocati che avevano dibattuto cause al cospetto del grand'uomo ed erano stati ispirati dalla sua passione per la legge. C'erano biglietti di condoglianze da parte di persone che erano apparse davanti al giudice Atlee per un divorzio, un'adozione, una tutela di minore, e avevano avuto la vita cambiata dalla sua equità. C'erano messaggi da ogni angolo dello Stato: giudici in carica, vecchi compagni di università, politici che il giudice Atlee aveva aiutato in passato e amici che desideravano esprimere il loro cordoglio e il loro affettuoso ricordo. La maggior parte giungeva da coloro che erano stati toccati dalla carità del Giudice. Erano lettere lunghe e appassionate, tutte uguali. Il giudice Atlee aveva silenziosamente inviato soldi a persone che ne avevano un disperato bisogno, e in molti casi aveva favorito decisi cambi di rotta nell'esistenza di alcuni. Come poteva un uomo così generoso morire tenendo nascosti tre milioni di dollari sotto la libreria? Aveva certamente seppellito più di quanto avesse donato. Forse l'Alzheimer aveva cominciato a minare la sua vita o si era ammalato di qualche altra malattia rimasta ignota. Soffriva di infermità mentale? La risposta immediata era che il vecchio si era semplicemente rimbambito, ma quanti vecchi rimbambiti avrebbero potuto mettere insieme una fortuna di quell'entità? Dopo aver letto una ventina fra lettere e biglietti, Ray si concesse una pausa. Uscì sul balconcino affacciato sull'isola pedonale e guardò l'andirivieni della gente. Suo padre non aveva mai visto Charlottesville, e sebbene Ray fosse sicuro di averlo invitato, non ricordava il momento preciso. Non avevano mai viaggiato insieme. Quante cose avrebbero potuto fare e non avevano fatto. Il Giudice aveva sempre parlato di andare a vedere Gettysburg, Antietam, Bull Run, Chancellorsville e Appomatox, e certamente ce lo avrebbe accompagnato se Ray avesse manifestato un po' di interesse. Ma Ray non aveva nessuna ansia di ricombattere una vecchia guerra e aveva sempre cambiato argomento. Sentì un profondo rimorso. Che pezzo di stronzo egoista era stato! C'era anche un affettuoso messaggio di Claudia. Lo ringraziava per aver parlato con lei e averle concesso il suo perdono. Aveva amato suo padre per anni e avrebbe portato con sé il dolore della sua perdita fino alla tomba. Chiamami, ti prego, lo supplicava, e firmava aggiungendo simboli di baci e abbracci. E faceva prendere il Viagra al suo boyfriend attuale, secondo Harry Rex.
Il nostalgico viaggio di ritorno a casa s'interruppe bruscamente davanti a un semplice biglietto anonimo che gli fece accapponare la pelle. L'unica busta rosa del mucchio conteneva un cartoncino pieghevole che all'esterno mostrava la parola "condoglianze". All'interno, fissato con un pezzetto di nastro adesivo, c'era un rettangolino di carta con un messaggio battuto a macchina: "Sarebbe un errore spendere i soldi, l'ufficio del fisco è a distanza di una telefonata". Il timbro sulla busta era quello di Clanton, con la data di mercoledì, il giorno dopo il funerale, e il biglietto era stato indirizzato alla famiglia del giudice Atlee a Maple Run. Ray lo mise da parte mentre dava una scorsa al resto della corrispondenza. Ormai i messaggi erano tutti uguali e ne aveva letti a sufficienza. Quello rosa era lì accanto, come una pistola carica, in attesa che lui lo riprendesse in mano. Ripeté la minaccia sul balcone, aggrappato alla ringhiera, mentre cercava di analizzare la situazione. Mormorò le parole del messaggio in cucina mentre si preparava dell'altro caffè. Aveva lasciato il biglietto sul tavolo in modo da poterlo vedere da ogni angolazione. Tornato sul balcone osservò il viavai dei pedoni aumentare di intensità con l'avvicinarsi del mezzogiorno, e tutti coloro che alzavano lo sguardo verso di lui potevano essere a conoscenza del denaro. Seppellisci un tesoro, poi ti rendi conto che lo stai nascondendo a qualcuno e la tua immaginazione può mettersi a galoppare. Il denaro non apparteneva a lui e ce n'era di certo a sufficienza perché lo spiassero, pedinassero, controllassero, e riferissero a chi di dovere i suoi movimenti, e gli facessero perfino del male. Poi rise della propria paranoia. Non sarebbe vissuto in quel modo, si disse, e andò a fare una doccia. Chiunque fosse, sapeva con precisione dove il Giudice aveva nascosto i quattrini. Fai una lista, si esortò mentre si sedeva sulla sponda del letto, nudo, gocciolando acqua sul pavimento. Il furfante che falciava l'erba del prato una volta alla settimana. Forse era un abile persuasore che, entrato nelle grazie di suo padre, si era fatto ammettere in casa. Dove si entrava come niente. Bastava che il Giudice si assentasse per andare a giocare d'azzardo e il tagliaerba avrebbe potuto girare indisturbato per casa a mettere le mani dappertutto. In cima alla lista avrebbe messo Claudia. Ray se la vedeva correre a Maple Run tutte le volte che il Giudice chiamava. Non si va a letto con una donna per vent'anni e poi la si esclude dalla propria vita senza un rimpiaz-
zo. Le loro vite erano così intrecciate l'una con l'altra che gli era facile immaginare una prosecuzione dei loro rapporti più intimi. Nessuno come Claudia era stato così vicino a Reuben Atlee. Se qualcuno sapeva da dove venivano quei soldi, era lei. Se lei avesse voluto una chiave della casa l'avrebbe avuta, ma non serviva. La sua visita la mattina del funerale poteva essere stata dettata dalla necessità di fare un controllo e non dal cordoglio, per quanto bene avesse recitato. Forte, sveglia, scaltra, smaliziata e vecchia, ma non troppo vecchia. Rimuginò su Claudia per un quarto d'ora e si convinse che a tener d'occhio il malloppo non poteva essere che lei. Gli vennero in mente anche altri due nomi, ma non poté includerli nell'elenco. Il primo era Harry Rex, e appena lo ebbe pronunciato a bassa voce provò vergogna. L'altro era Forrest, e anche quella era un'ipotesi ridicola. Forrest non aveva messo piede in quella casa per nove anni. Supponendo, per amore della discussione, che avesse in qualche modo saputo dei soldi, non li avrebbe mai lasciati lì. Metti tre milioni in contanti a disposizione di Forrest e puoi star certo che farà del male a se stesso e a coloro che gli stanno vicino. La lista gli aveva richiesto un grande sforzo, per un risultato modesto. Avrebbe voluto solo fare un salto, invece riempì due federe da guanciale con vecchi indumenti e andò a portarli al 14B. Non era stato toccato nulla, gli scatoloni erano come li aveva lasciati il giorno prima. I soldi erano ancora ben nascosti. Mentre indugiava al deposito, sussultò al pensiero improvviso che forse stava creando una pista. Era evidente che qualcuno sapeva che aveva portato via i soldi dallo studio del Giudice. Per una somma come quella, chiunque sarebbe stato disposto a ingaggiare un investigatore privato perché lo pedinasse. Potevano averlo seguito da Clanton a Charlottesville, da casa sua al Chaney's Self-Storage. Si maledisse per essere stato così superficiale. Pensaci, imbecille! I soldi non ti appartengono! Chiuse a chiave il 14B. Mentre attraversava la città per il suo appuntamento con Carl controllò più d'una volta nello specchietto retrovisore e scrutò il viso degli altri automobilisti. Dopo cinque minuti di quell'esercizio rise di se stesso e giurò che non sarebbe vissuto come una preda braccata. Che si prendano quei dannati quattrini! Una preoccupazione in meno. Entrassero al 14B e si portassero via tutto. La sua vita non sarebbe cambia-
ta di una sola virgola. Nossignore. 18 Il tempo di volo stimato per Atlantic City era di ottantacinque minuti sul Bonanza, vale a dire trentacinque minuti meno che sul Cessna noleggiato di solito da Ray. Nelle prime ore del mattino di sabato eseguì con Fog un meticoloso controllo sotto l'invadente e spesso importuna supervisione di Dick Docker e Charlie Yates, che ronzarono intorno al Bonanza con le loro tazze di pessimo caffè come se dovessero volare anche loro. Non avevano allievi per quella mattina, ma all'aeroporto era circolata la voce che Ray intendeva acquistare il Bonanza e volevano vedere con i propri occhi. I pettegolezzi da hangar erano affidabili quanto quelli da barbiere. «Adesso quanto vuole?» chiese Docker rivolto verso Fog Newton, che si era piegato a rimuovere da sotto l'ala un filtro per controllare l'eventuale presenza di acqua e sporcizia nei serbatoi. «È sceso a quattro e dieci» rispose Fog dandosi un'aria di importanza perché era lui a dirigere le operazioni per quel volo e non loro. «È sempre troppo» sentenziò Yates. «Hai intenzione di fare un'offerta?» chiese Docker a Ray. «Fatti gli affari tuoi» ribatté bruscamente Ray senza guardarlo. Stava controllando l'olio. «Sono affari nostri» obiettò Yates e risero tutti. Nonostante l'assistenza non richiesta, le operazioni di controllo furono completate senza problemi. Salì per primo Fog e si allacciò le cinture del sedile di sinistra. Ray lo seguì prendendo posto a destra, e quando tirò a sé lo sportello, lo bloccò e si sistemò le cuffie fu certo di aver trovato una perfetta macchina volante. Il motore da duecento cavalli si avviò facendo le fusa. Fog verificò lentamente gli indicatori di livello, gli strumenti e le radio, dopodiché chiamò la torre di controllo. Avrebbe portato lui il Bonanza in quota, poi avrebbe passato la guida a Ray. Il vento era leggero e le nuvole alte e sparse, un giorno quasi perfetto per volare. Si staccarono dalla pista a cento chilometri orari, richiamarono il carrello e salirono a un ritmo di duecentosettanta metri al minuto fino alla quota di crociera loro assegnata di duemila. A quel punto Ray aveva già preso i comandi e Fog gli spiegava il funzionamento del pilota automatico, del radar meteorologico, del sistema anticollisioni. «Non gli manca niente» ripeté Fog per l'ennesima volta.
Fog aveva passato l'intera carriera a pilotare i caccia della Marina, ma da dieci anni era ormai relegato ai piccoli Cessna sui quali aveva addestrato Ray e un altro migliaio di aspiranti piloti. Il Bonanza era la Porsche dei monomotore, e per lui era motivo di gioia profonda avere quella rara occasione di guidarne uno. La rotta assegnata dalla torre di controllo li portò appena a sudest di Washington, lontano dallo spazio aereo a traffico più intenso intorno al Dulles e al Reagan National. Distanti cinquanta chilometri, superarono la cupola del Campidoglio prima di sorvolare la Chesapeake Bay, con il profilo di Baltimora in lontananza. La baia era splendida, ma l'interno dell'aereo era di gran lunga più interessante. Ray lo stava portando senza l'aiuto del pilota automatico. Mantenne la rotta e la quota assegnata, parlò con la torre di controllo di Washington e ascoltò Fog che non smetteva più di illustrargli le caratteristiche e i pregi del Bonanza. Entrambi avrebbero voluto che il volo durasse ore, ma Atlantic City apparve fin troppo presto. Ray scese a milletrecento metri, poi a mille, poi passò sulla frequenza giusta per la manovra di avvicinamento. Con la pista visibile a occhio nudo, Fog prese i comandi e portò il velivolo a un atterraggio morbido. Rullando in direzione del piazzale passarono davanti a due file di piccoli Cessna, e Ray non poté fare a meno di pensare che rappresentassero per lui giorni ormai appartenenti al passato. I piloti erano sempre a caccia di un nuovo aereo, e Ray aveva trovato il suo. Il casinò preferito di Fog era il Rio, uno di quelli affacciati sulla promenade. S'accordarono per trovarsi a pranzo in uno dei ristoranti al primo piano, poi si persero velocemente di vista. Ciascuno voleva giocare per conto suo. Ray gironzolò tra le slot machine e diede un'occhiata ai tavoli. Era sabato e il Rio era in piena attività. Nel tornare indietro dal suo giro, finì vicino ai tavoli del poker. Fog era in mezzo a una folla che attorniava uno dei tavoli, concentrato sulle sue carte, con una pila di gettoni sotto le mani. Ray aveva in tasca cinquemila dollari, cinquanta banconote da cento prelevate a caso dal bottino che aveva portato a casa da Clanton. Quel giorno il suo unico obiettivo era piazzare i soldi nelle case da gioco della promenade e accertarsi che non fossero contraffatti, segnati o in alcun modo rintracciabili. Dopo la sua visita al Santa Fe Club del lunedì precedente, era quasi sicuro che il denaro fosse autentico. Ora quasi sperava che fosse segnato. In tal caso, allora, forse l'Fbi lo avrebbe individuato e gli avrebbe detto da dove arrivava. Lui non aveva fat-
to niente di male. Il colpevole era morto. Che si facessero pure avanti, i federali. Trovò posto a un tavolo di blackjack e chiese le fiches per cinque banconote. «Verdi» disse da giocatore consumato. «Cambio di cinquecento» annunciò il mazziere senza quasi alzare gli occhi. «Cambia» fu la risposta del supervisore. Intorno ai tavoli c'era animazione. Di dietro si sentivano i tintinnii delle slot machine. Dal tavolo dei dadi in lontananza gli arrivavano il chiasso e gli incitamenti che accompagnavano un momento particolarmente caldo. Il mazziere raccolse le banconote e per un secondo Ray si sentì come paralizzato. Gli altri giocatori osservarono la scena con distaccata ammirazione. Tutti giocavano gettoni da cinque e dieci dollari. Dilettanti. Il mazziere fece scomparire le banconote del Giudice, tutte perfettamente valide, nella cassetta del denaro e contò venti gettoni verdi da venticinque dollari per Ray, che ne perse metà nei primi quindici minuti e lasciò il tavolo per andare a cercare del gelato. Sotto di duecentocinquanta e nemmeno una piega....... Arrivò vicino ai tavoli dove si giocava ai dadi e rimase a osservare la confusione. Non riusciva a immaginare suo padre esperto di quel gioco complicato. Dove si poteva imparare a giocare ai dadi nella contea di Ford, Mississippi? Secondo un manualetto del gioco d'azzardo scovato in libreria, Ray aveva appreso che la puntata minima si chiama "come-bet", e che si può scommettere su più di un numero contemporaneamente. Quando trovò il coraggio, s'incastrò fra altri due giocatori e posò sul tavolo le dieci fiches che gli rimanevano. I dadi rotolarono, uscì il dodici, il croupier raccolse il denaro e Ray lasciò il Rio per andare a visitare il Princess, alla porta accanto. All'interno le case da gioco erano tutte uguali. Clienti attempati fissavano come stregati le loro slot machine. Nelle vaschette tintinnava quel tanto di monete sufficiente a tenerli agganciati. I tavoli di blackjack erano affollati di giocatori che sorseggiavano silenziosi la birra e il whisky offerti dalla casa. I giocatori più incalliti si assiepavano intorno ai tavoli dei dadi a lanciare a gran voce i loro incitamenti. Un gruppo di orientali giocava alla roulette. Le cameriere in ridicoli costumi piuttosto succinti portavano in giro da bere. Ray scelse un tavolo di blackjack e ripeté la procedura. Anche gli altri
cinque biglietti passarono l'ispezione del croupier. Puntò cento dollari alla prima giocata, ma invece di perdere subito i suoi soldi, cominciò a vincere. Aveva in tasca troppo denaro ancora da verificare per poter perdere tempo accumulando fiches, così quando raddoppiò i suoi soldi, estrasse altre dieci banconote e chiese gettoni da cento dollari. Il croupier informò il suo supervisore, che gli rivolse un sorriso con pochi denti e gli augurò: «Buona fortuna». Un'ora dopo lasciò il tavolo con ventidue fiches. La sua tappa successiva fu il Forum, un locale dall'aria retrò dove l'odore di fumo di sigarette era solo parzialmente mascherato da quello di un disinfettante economico. Anche l'età media dei giocatori era più alta, perché, come scoprì di lì a poco, la specialità della casa erano le slot machine da un quarto di dollaro e gli ultrasessantenni ottenevano un pasto gratuito a scelta, prima colazione, pranzo o cena. Le cameriere avevano superato lo spartiacque del quarto decennio di vita e avevano accantonato la pretesa di mettere in mostra le loro grazie. Giravano con i loro vassoi agghindate in completi che sembravano tute ginniche con scarpe da ginnastica coordinate. Il limite al blackjack era di dieci dollari a smazzata. Il croupier esitò quando vide le banconote di Ray cadere sul tavolo e ne prese una che sollevò in controluce come se avesse finalmente beccato un falsario. Anche il suo supervisore la ispezionò e Ray si accinse a spiegare, come aveva precedentemente deciso di fare, che quella particolare banconota gli era stata consegnata in un altro casinò, per la precisione il Rio. «Cambiala» ordinò il supervisore, e il momento passò. Perse trecento dollari in un'ora. Quando s'incontrarono per un sandwich veloce, Fog disse che stava sbancando il casinò. Ray era sotto di cento dollari, ma come tutti i giocatori mentì e sostenne di essere leggermente in attivo. Decisero che sarebbero ripartiti alle cinque per rientrare a Charlottesville. Gli ultimi contanti di Ray furono convertiti in fiches a un tavolo da cinquanta dollari al Canyon Casino, la casa da gioco di più recente costruzione tra quelle sulla promenade. Giocò per un po', ma presto gli venne a noia e andò al bar, dove bevve una bibita guardando un incontro di box trasmesso da Las Vegas. I cinquemila che aveva portato ad Atlantic City erano stati fatti passare tutti per la centrifuga dei tavoli da gioco. Sarebbe ripartito con quattromilasettecento lasciando dietro di sé una pista larga come un'autostrada. Era stato fumato e fotografato in più di una casa da gioco. In due aveva compilato dei moduli al momento di cambiare i gettoni in
contanti alle rispettive casse. In altre due aveva usato le sue carte di credito per piccoli prelievi, proprio per lasciare altri indizi. Se il malloppo del Giudice era rintracciabile, avrebbero saputo di Ray e dove trovarlo. Durante il tragitto di ritorno all'aeroporto Fog parlò poco. Nel pomeriggio la fortuna gli aveva voltato le spalle. «Ho perso un paio di centoni» confessò alla fine, ma dall'espressione c'era da sospettare che fossero di più. «E tu?» chiese. «È stato un pomeriggio fortunato» rispose Ray. «Ho vinto abbastanza da pagarmi la gita.» «Non è male.» «Immagino che ti possa pagare in contanti, vero?» «I contanti sono ancora valuta legale» rispose Fog rianimandosi un po'. «Allora siamo d'accordo.» Durante i controlli prima della partenza, Fog gli chiese se voleva prendere il posto di sinistra. «Diremo che è una lezione» aggiunse. La prospettiva di essere pagato in contanti gli aveva risollevato lo spirito. Dietro due aerei navetta, Ray portò il Bonanza in posizione e attese il via libera. Sotto l'attenta supervisione di Fog, cominciò le operazioni di decollo, accelerò e si staccò dolcemente da terra. Il turboelica gli sembrò due volte più potente di quello del motore del Cessna. Salirono senza sforzo a duemilacinquecento metri e furono in cima al mondo. Quando Ray e Fog entrarono nel Cockpit per firmare il giornale di bordo e lasciare le cuffie trovarono Dick Docker appisolato. Balzò subito in piedi e si avvicinò al banco. «Non vi aspettavo così presto» bofonchiò ancora un po' intontito, mentre tirava fuori i documenti da un cassetto. «Abbiamo sbancato il casinò» dichiarò Ray. Fog era scomparso nell'aula della scuola di volo. «Sì, l'ho già sentita.» Ray stava sfogliando il giornale di bordo. «Paghi ora?» chiese Dick mentre scriveva dei numeri. «Sì e voglio lo sconto per il pagamento in contanti.» «Non sapevo che ci fosse.» «Ora lo sai. Del dieci per cento.» «Si può fare. Già, il vecchio sconto per i contanti.» Rifece i calcoli. «Sono milletrecentoventi» annunciò poi. Ray cominciò a contare i soldi dal suo rotolo di banconote. «Non ho
pezzi da venti. Eccoti i milletré.» Mentre ricontava il denaro, Dick disse: «Oggi è venuto un tizio a dare un'occhiata, ha detto che voleva prendere delle lezioni e, non so bene come, è saltato fuori il tuo nome». «Chi era?» «Mai visto prima.» «Perché si è fatto il mio nome?» «Una cosa un po' strana. Gli stavo facendo tutta la spiegazione su costi e compagnia bella e di punto in bianco mi chiede se possiedi un aereo. Ha detto di averti conosciuto non so dove.» Ray aveva le mani poggiate sul banco. «Sai come si chiama?» «Gliel'ho chiesto. Dolph qualcosa, non è stato molto chiaro. Ha cominciato a comportarsi in maniera sospetta e finalmente se n'è andato. L'ho tenuto d'occhio. Si è fermato alla tua macchina nel parcheggio, ci ha girato intorno come se volesse entrarci o che so io e poi si è allontanato. Conosci un Dolph?» «Mai conosciuto nessun Dolph.» «Neanch'io. Mai nemmeno sentito uno con quel nome. Come ho detto, è stato strano.» «Che aspetto aveva?» «Sulla cinquantina, basso, magro, un sacco di capelli grigi tutti lisciati all'indietro, occhi scuri come un greco o qualcuno di quelle parti. Tipo un venditore di auto usate, con gli stivaletti a punta.» Ray scuoteva la testa. Brancolava nel buio. «Perché non l'hai semplicemente sbattuto fuori?» chiese. «Credevo fosse un cliente.» «Da quando in qua sei cortese con i clienti?» «Compri il Bonanza?» «No. È solo un sogno.» Quando Fog tornò si congratularono l'uno con l'altro per l'ottima escursione, si ripromisero di ripeterla e si scambiarono le solite battute. Quando partì in macchina, Ray tenne d'occhio tutti gli altri veicoli e fece attenzione a ogni svolta. Lo stavano seguendo. 19 Passò una settimana, una settimana senza che agenti dell'Fbi o emissari del Tesoro bussassero alla sua porta con distintivi e domande su denaro
sporco smerciato ad Atlantic City. Una settimana senza segni di Dolph o altri che lo stessero pedinando, una settimana di normale routine, cinque chilometri di corsa tutte le mattine e, a seguire, una giornata da professore di legge. Volò con il Bonanza tre volte, tre lezioni con Fog seduto alla sua destra, e pagò ogni lezione in contanti. «I soldi del casinò» si giustificò con un sorriso, e non era una bugia. Fog era ansioso di tornare ad Atlantic City per rifarsi di quanto aveva perduto. Ray non ne aveva intenzione, ma non era una brutta idea. Avrebbe potuto vantarsi di un'altra giornata di sorte amica ai tavoli e continuare a pagare in contanti le sue lezioni di volo. I soldi si trovavano ora al 37F. Il 14B era ancora intestato a Ray Atlee e conteneva ancora i vecchi indumenti e i mobili economici. Il 37F era stato affittato dalla NDY Ventures, così nominata in onore dei tre istruttori di volo della scuola di Docker. Del nome di Ray non c'era traccia sui documenti relativi al 37F. L'aveva affittato per tre mesi pagando in contanti. «Voglio che resti riservato» aveva confidato alla signora Chaney. «Qui è tutto riservato. Viene gente di tutti i tipi.» E gli aveva rivolto uno sguardo d'intesa come a dire: "Non m'importa che cosa nascondi. Basta che mi paghi". Aveva trasferito il denaro trasportando uno scatolone alla volta, di notte, con una guardia giurata che lo sorvegliava da lontano. Il magazzino 37F era identico al 14B e, quando ebbe messo al sicuro tutti e sei gli scatoloni, giurò di nuovo di lasciarli in pace e non tornarci tutti i giorni. Non aveva mai pensato che manovrare tre milioni di dollari fosse un'incombenza così gravosa. Harry Rex non aveva chiamato. Gli aveva fatto pervenire un altro plico delle solite lettere di condoglianze. Ray si era sentito costretto a leggerle tutte, o a darvi almeno una scorsa nel caso ci fosse qualche altro messaggio in codice. Non ne trovò. Arrivò il giorno degli esami e, dopo la consegna delle lauree, la scuola di legge avrebbe chiuso per l'estate. Ray salutò i suoi studenti, tutti meno Kaley, la quale, dopo l'ultimo esame, aveva informato Ray che aveva deciso di passare l'estate a Charlottesville. Insisté di nuovo per un incontro prima della laurea. Per puro sfizio. «Aspettiamo che tu non sia più una studentessa» ribadì Ray, tenendo duro nonostante il desiderio di cedere. Erano nel suo ufficio con la porta aperta. «Mancano sei giorni» disse lei.
«Sì, infatti.» «Scegliamo una data.» «No, prima la laurea, poi la data.» Lei si congedò con lo stesso sorriso e lo sguardo insistente di sempre e Ray intuì che poteva essere una fonte di guai. Carl Mirk lo sorprese a seguire la sua camminata per il corridoio nei jeans attillati. «Niente male» commentò. Ray era un po' imbarazzato, ma continuò a guardare lo stesso. «Mi ha preso di mira» confidò. «Non sei il solo. Sta' attento.» Erano davanti alla porta dell'ufficio di Ray, in corridoio. Carl gli porse una lettera dall'aspetto strano. «Ho pensato che questa ti sarebbe piaciuta.» «Che cos'è?» «È un invito al Ballo del Condor» «Il cosa?» Ray stava estraendo il biglietto dalla busta. «Il primo Ballo del Condor che sia mai stato organizzato, e probabilmente anche l'ultimo. È un gran galà finalizzato alla raccolta di fondi per la protezione degli uccelli a rischio nel Piedmont. Guarda chi fa gli onori di casa.» Ray lesse lentamente. «Vicki e Lew Rodowski la invitano cordialmente a...» «Ora il Liquidatore si è messo a salvare gli uccelli. Commovente, no?» «Cinquemila a coppia!» «Dev'essere un record, per Charlottesville. L'hanno mandato al preside. Lui è sulla lista. Noi no. Persino sua moglie è rimasta a bocca aperta davanti al prezzo della quota.» «Suzie è a prova di choc, no?» «Così credevamo. Vogliono duecento coppie. Tireranno su un milione e mostreranno a tutti come si fa. Questa sarebbe l'idea. Suzie dice che saranno fortunati se arriveranno a trenta coppie.» «Lei non ci va?» «No, e il preside ne è molto felice. Calcola che dev'essere il primo ricevimento in abito da sera che saltano in dieci anni.» «Suonano i Drifters?» mormorò Ray mentre leggeva il resto dell'invito. «Gli costerà cinquanta cucuzze.» «Che imbecille.» «Benvenuto a Charlottesville. Un clown chiude i suoi conti con Wall Street, si procura una moglie nuova, compera un grosso allevamento di ca-
valli, comincia a buttare soldi in giro e vuole fare il nababbo in una cittadina di provincia.» «Be', io non ci vado.» «Non sei invitato. Tienilo pure l'invito.» Carl se ne andò e Ray tornò alla sua scrivania con il biglietto in mano. Posò i piedi sul tavolo, chiuse gli occhi e cominciò a sognare. Vide Kaley in un conturbante abito nero con la schiena scoperta e due spacchi che le salivano oltre le cosce, un baratro di scollatura su un décolleté abbagliante. Kaley aveva tredici anni meno di Vicki ed era molto più in forma; Ray la immaginò volteggiare con lui sulla pista da ballo, dimenarsi al ritmo motown dei Drifters, con tutti gli altri ospiti che guardavano e bisbigliavano: "Chi è quella?". E di conseguenza Vicki sarebbe stata costretta a trascinare in pista il vecchio Lew nel suo smoking firmato che non avrebbe potuto nascondere del tutto la pancetta; Lew con ciuffi di brillanti capelli grigi sopra le orecchie; Lew, il vecchio caprone che cercava di comperarsi il rispetto salvando uccelli; Lew con la schiena artritica, i piedi lenti e le movenze di un camion della nettezza urbana; Lew fiero della sua moglie-trofeo nel suo vestito da un milione di dollari che mostrava troppo delle sue ossa magnificamente denutrite. Ray e Kaley avrebbero fatto una figura di gran lunga migliore, avrebbero ballato molto meglio, e... be', che cosa avrebbe dimostrato tutto questo? Una bella scena da immaginare, ma meglio lasciar perdere. Ora che aveva i soldi non li avrebbe sprecati per una sciocchezza come quella. Il tragitto fino a Washington era di sole due ore e per buona parte abbastanza panoramico e piacevole. Ma Ray aveva cambiato inclinazione, in fatto di viaggi. In compagnia di Fog, portò il Bonanza in volo per trentotto minuti e atterrò al Reagan National, dove fu loro concesso di scendere con molta riluttanza nonostante l'autorizzazione ottenuta in precedenza. Ray saltò su un taxi e quindici minuti dopo era al dipartimento del Tesoro in Pennsylvania Avenue. Un collega alla scuola di legge aveva un cognato con qualche conoscenza al Tesoro. C'erano state delle telefonate, e il signor Oliver Talbert diede il benvenuto al professor Atlee nel suo accogliente ufficio. Il professore stava svolgendo una ricerca su un certo progetto per il quale gli era necessario disturbare qualcuno al dipartimento per meno di un'ora. Talbert non era il cognato, ma era stato invitato a sostituirlo.
Cominciarono dall'argomento contraffazione e a grandi linee Talbert gli inquadrò i problemi attuali, quasi tutti imputabili alla tecnologia, principalmente le stampanti a getto d'inchiostro e la valuta falsificata con il computer. Aveva campioni di alcune delle imitazioni meglio riuscite. Con una lente d'ingrandimento mostrò dov'erano i difetti: scarso dettaglio nella fronte di Ben Franklin, la mancanza delle sottili trame che avrebbero dovuto attraversare il disegno di sottofondo, le sbavature dell'inchiostro nei numeri di serie. «Questo è un pezzo molto buono» spiegò. «Le contraffazioni sono in continuo miglioramento.» «Questa da dove viene?» chiese Ray, sebbene la domanda fosse del tutto irrilevante. Talbert controllò l'etichetta. «Messico» disse, e la questione finì lì. Per tener testa ai falsari, il Tesoro investiva a sua volta pesantemente in tecnologia. Stampanti che conferivano alle banconote un effetto quasi olografico, filigrane, inchiostri che cambiavano colore, trame invisibili a occhio nudo, ritratti più grandi e leggermente fuori centro e scanner in grado di individuare un falso in meno di un secondo. Il metodo più efficace, però, non era mai stato impiegato. Si trattava semplicemente di cambiare il colore dei soldi. Passare dal verde al blu, al giallo e poi al rosa. Raccogliere tutto il vecchio circolante, riempire le banche di biglietti nuovi e i contraffattori non sarebbero riusciti a starci dietro, almeno secondo quel che pensava Talbert. «Ma il Congresso non ce lo permette» concluse scuotendo la testa. Come rintracciare denaro autentico era la questione che più stava a cuore a Ray, e alla lunga ci arrivarono. Non si segnano mai i soldi, spiegò Talbert, per ovvie ragioni. Se il malvivente sa come controllare una banconota e si accorge che è stata segnata, non c'è più speranza di incastrarlo. Segnare il denaro significa semplicemente prendere nota dei numeri di serie, un lavoro in passato molto faticoso perché andava fatto manualmente. Raccontò di un sequestro con richiesta di riscatto. I contanti arrivarono solo pochi minuti prima della consegna. Una ventina di agenti dell'Fbi lavorò furiosamente per trascrivere i numeri di serie dei biglietti da cento dollari. «Il riscatto era di un milione» stava spiegando Talbert. «Mancava materialmente il tempo per segnarli tutti. Riuscirono a registrare soltanto ottantamila dollari, ma fu sufficiente. Un mese dopo presero i sequestratori con alcune delle banconote registrate e il caso fu risolto.» Ma un nuovo tipo di scanner aveva reso quel compito più facile. Fotografava dieci biglietti alla volta, cento in quaranta secondi.
«Ma dopo che sono stati registrati i numeri di serie, come si rintracciano i soldi?» chiese Ray prendendo nota su un taccuino. Talbert si sarebbe forse aspettato qualcos'altro? C'erano due modi. Nel primo caso, se si trovava il criminale in possesso del denaro, non c'era che da arrestarlo. Era così che gli agenti della Dea e dell'Fbi prendevano i narcotrafficanti. Arresti un dettagliante, ti metti d'accordo con lui, gli dai ventimila dollari in banconote segnate per comperare coca dal suo fornitore, poi schiaffi dentro il pesce più grosso con in mano i soldi del governo. «E quando non si trova il criminale?» chiese Ray, e così facendo non poté fare a meno di pensare al padre defunto. «C'è un secondo sistema ed è molto più difficile. Dopo che il denaro viene tolto dalla circolazione dalla Federal Reserve, se ne controlla sempre un campione. Se si trova una banconota segnata, si può risalire alla banca da cui è arrivata. Ma ormai è troppo tardi. Qualche volta capita che qualcuno in possesso di denaro segnato lo usi in una zona circoscritta per un certo periodo di tempo. Ne abbiamo presi un po', in questo modo.» «Mi sembra tutto molto fortuito.» «Lo è» ammise Talbert. «Qualche anno fa avevo letto di certi cacciatori di anatre che avevano trovato per caso i resti di un aereo, uno di quelli piccoli» raccontò con disinvoltura Ray. Era una storia che si era preparato. «A bordo c'era del denaro, qualcosa come un milione di dollari. Pensarono che si trattasse del pagamento per una partita di droga e se lo tennero. Risultò che avevano ragione, le banconote erano segnate e di lì a poco, nella loro piccola città non ci volle molto perché venisse fuori tutta la verità.» «Mi pare di ricordare questo caso» ribatté Talbert. Devo essere bravo, si compiacque Ray. «La mia domanda è questa: avrebbero potuto, loro o chiunque trovasse del denaro, presentarlo semplicemente all'Fbi, alla Dea o qui, al Tesoro per farlo controllare e sapere se è segnato e, in tal caso, conoscerne la provenienza?» Talbert si grattò la guancia con un dito ossuto e meditò sulla domanda. «Non vedo perché no» rispose alla fine con un'alzata di spalle. «Il problema, però, balza all'occhio. Correrebbero il rischio di perdere i soldi.» «Sono sicuro che non capita spesso» commentò Ray, e risero insieme. Talbert raccontò la storia di un giudice di Chicago che prendeva bustarelle dagli avvocati - somme modeste, cinquecento o mille dollari a botta per dare la precedenza ai loro casi e avere un occhio di riguardo per le sen-
tenze. Era andato avanti così per anni prima che arrivasse una soffiata all'Fbi. Incastrarono alcuni degli avvocati e li convinsero a collaborare. Furono registrati i numeri di serie delle banconote e nel corso di un'operazione durata due anni nelle mani avide del giudice finirono trecentocinquantamila dollari. Quando venne il momento dell'irruzione, i soldi non c'erano più. Qualcuno aveva avvertito il giudice. Inseguito l'Fbi ritrovò il denaro nel box del fratello del giudice in Arizona e finirono entrambi dentro. Ray si accorse di essere sulle spine. Era una coincidenza o Talbert cercava di comunicargli qualcosa? Ma con il progredire del racconto si rilassò e cercò di gustarselo, per le esplicite analogie. Talbert non sapeva niente del padre di Ray. Mentre tornava all'aeroporto in taxi fece qualche conto sul suo taccuino. Per arrivare a tre milioni un giudice come quello di Chicago avrebbe impiegato ventisei anni al ritmo di centosettantacinquemila dollari l'anno. E si stava parlando di Chicago, dove c'erano cento sezioni di tribunale e migliaia di avvocati danarosi che si occupavano di casi molto più proficui di quelli dibattuti nel Nord del Mississippi. Là il sistema giudiziario era un'industria con parecchie smagliature nelle sue trame, una significativa percentuale di elementi che si potevano influenzare, ingranaggi che si potevano lubrificare. Nel mondo del giudice Atlee una manciata di persone si occupava di tutto, e se fosse stato offerto o preso del denaro tutti lo avrebbero saputo. Non era possibile intascare tre milioni di dollari nel Venticinquesimo distretto giudiziario per il semplice motivo che l'intero giro d'affari forense non arrivava a tanto. Concluse che era necessaria un'altra gita ad Atlantic City. Avrebbe portato altro contante da far girare. Un ultimo esame. Doveva essere sicuro che i soldi del Giudice non erano segnati. Fog non sarebbe stato nella pelle. 20 Quando Vicki lo aveva lasciato per mettersi con il Liquidatore, un amico docente gli aveva consigliato Axel Sullivan come specialista in divorzi. Axel aveva dato prova di essere un ottimo avvocato, ma sul fronte legale aveva potuto fare ben poco. Vicki se n'era andata, non sarebbe tornata e da Ray non voleva assolutamente niente. Axel si era occupato di tutte le pratiche amministrative, gli aveva consigliato un buon strizzacervelli e fornito una lodevole assistenza nel superare la crisi. Secondo lui, il miglior inve-
stigatore privato in città era Corey Crawford, un ex poliziotto di colore che era stato dentro per un pestaggio. L'ufficio di Crawford era sopra il bar di proprietà del fratello, vicino al campus. Era un bel bar, con le vetrate prive di pubblicità, musica dal vivo il fine settimana, nessun giro poco raccomandabile eccetto un allibratore che raccoglieva le puntate del personale del college. Ma Ray parcheggiò lo stesso a tre isolati di distanza. Non voleva che qualcuno lo vedesse entrare. Su un lato dell'edificio c'era un cartello con una freccia che indicava CRAWFORD INVESTIGATIONS in cima alle scale. Non c'era una segretaria, o quanto meno non era presente. Ray era in anticipo di dieci minuti, ma Crawford lo attendeva. Sulla quarantina, con la testa rasata e un viso simpatico, ma senza un'ombra di sorriso. Era alto e magro, e gli abiti costosi che indossava gli stavano a pennello. Portava una grossa pistola in una fondina nera agganciata alla cintura. «Credo di essere pedinato» esordì Ray. «Non è qui per un divorzio?» Crawford prese un taccuino. Erano seduti ai lati opposti di un tavolino nel piccolo ufficio affacciato sulla via. «No.» «Chi la starebbe pedinando?» Si era preparato una storia riguardante problemi di famiglia giù nel Mississippi: un padre defunto, certi lasciti che forse c'erano e forse no, gelosie tra fratelli. Un racconto alquanto vago che Crawford sembrò non bersi minimamente. Prima che gli facesse qualche domanda, Ray gli riferì di Dolph all'aeroporto e gli diede la descrizione che aveva ricevuto. «Sembra Rusty Wattle» commentò Crawford. «E chi sarebbe?» «Un investigatore di Richmond, non molto bravo. Qualche volta lavora anche da queste parti. Da quanto mi ha detto, non credo che la sua famiglia prenderebbe qualcuno di Charlottesville. È un posto piccolo.» Il nome di Rusty Wattle fu immediatamente registrato e archiviato per sempre nella memoria di Ray. «È possibile che questa gente nel Mississippi voglia che lei sappia di essere seguito?» domandò Crawford. Ray parve colto del tutto in contropiede, così Crawford continuò. «Ogni tanto veniamo assunti per intimidire, per spaventare. Sembra che Wattle o chiunque sia stato abbia voluto che i suoi amici all'aeroporto potessero darle una buona descrizione. Forse ha lasciato una pista.» «Suppongo che sia possibile.»
«Che cosa vuole che faccia?» «Che verifichi se qualcuno mi sta pedinando. Se è così, voglio sapere chi è e chi lo paga.» «Le prime due cose potrebbero essere abbastanza facili. La terza potrebbe essere impossibile.» «Proviamoci.» Crawford aprì una cartelletta. «Io prendo cento dollari l'ora» dichiarò, guardando fisso Ray in cerca di segni di indecisione. «Più le spese. Con un anticipo di duemila.» «Preferisco pagare in contanti» ribatté Ray reggendo tranquillamente il suo sguardo. «Se per lei va bene.» Il primo cenno di sorriso. «Nel mio campo i contanti sono sempre da preferirsi.» Crawford compilò un modulo di contratto. «Potrebbero controllarmi il telefono o cose di questo genere?» s'informò Ray. «Perquisiremo la casa e l'ufficio. Prenderemo un nuovo cellulare e non lo registreremo a suo nome. I nostri contatti saranno per lo più via telefonino.» «Che sorpresa» mormorò Ray, prendendo il contratto per leggerlo velocemente e quindi firmarlo. Crawford ripose il foglio nella cartelletta e tornò al suo taccuino. «Per la prima settimana coordineremo i suoi movimenti. Tutto verrà programmato. Lei si comporterà come al solito, ma ci darà preavviso di ogni movimento in modo che possiamo piazzare la nostra gente.» Mi ritroverò con un ingorgo alle spalle, pensò Ray. «Conduco una vita molto banale» disse. «Corro un po', vado a lavorare, qualche volta faccio un giro in aereo, torno a casa. Abito solo e non ho famiglia.» «Qualche altro posto?» «Ogni tanto esco a pranzo o a cena. Mai per la prima colazione.» «Mi sta facendo venire sonno» commentò Crawford, e quasi sorrise. «Donne?» «Mi piacerebbe. Un paio di possibilità, niente di serio. Se ne trova una, le dia il mio nome.» «Questi brutti ceffi del Mississippi stanno evidentemente cercando qualcosa. Che cosa?» «La mia è una vecchia famiglia con un sacco di roba che viene tramandata di generazione in generazione. Gioielli, libri rari, cristalleria e argen-
teria.» Era riuscito a farla passare con naturalezza e questa volta Crawford la bevve. «Adesso cominciamo a ragionare. E lei possiede beni di famiglia?» «Sì.» «Qui?» «Sono conservati al Chaney's Self-Storage in Berkshire Road.» «Valore?» «Nemmeno paragonabile a quanto credono i miei parenti.» «Mi dia un ordine di grandezza.» «Mezzo milione, stimando più per difetto che per eccesso.» «E lei ne è legittimamente in possesso?» «Diciamo che la risposta è affermativa, altrimenti sarei obbligato a raccontarle la storia della famiglia, cosa che richiederebbe le prossime otto ore e farebbe venire il mal di testa a tutt'e due.» «Okay, mi basta.» Crawford finì di scrivere un lungo paragrafo e si accinse a chiudere il colloquio. «Quando può procurarsi un cellulare nuovo?» «Vado subito.» «Bene. E quando possiamo controllare casa sua?» «In qualsiasi momento.» Tre ore dopo, Crawford e un suo aiutante che lui chiamava Booty portavano a termine l'operazione nota come "bonifica". Non erano state trovate microspie nei telefoni di Ray. Non c'erano telecamere nascoste nelle prese d'aria. Nel sottotetto non avevano trovato né ricevitori né monitor nascosti dietro qualche scatolone. «Tutto a posto» dichiarò Crawford prima di uscire. Ray non si sentiva molto a posto, seduto sul davanzale. Dai in pasto la tua vita a perfetti sconosciuti, per quanto accuratamente scelti e pagati da te, e non potrai che sentirti in imbarazzo. Stava squillando il telefono. Forrest sembrava sobrio, voce tonante, parole chiare. Appena ebbe detto: «Ciao, fratello» Ray tese l'orecchio per determinare in che forma fosse. Era una reazione istintiva ormai, dopo anni di telefonate a tutte le ore, dai posti più impensati, molte delle quali Forrest nemmeno ricordava d'aver fatto. Forrest rispose che stava bene, nel senso che era sobrio e pulito, niente alcol o droghe, ma non specificò da quanto tempo. Ray non glielo avrebbe domandato.
Prima che uno dei due menzionasse il Giudice o l'eredità, la casa o Harry Rex, Forrest esclamò: «Ho una nuova attività». «Racconta» lo esortò Ray sistemandosi meglio sulla sedia. La voce all'altro capo era vibrante di entusiasmo. Ray aveva tutto il tempo di ascoltare. «Mai sentito parlare del Benalatofix?» «No.» «Nemmeno io. Però tutti lo chiamano Skinny Ben. Ti suona?» «No, spiacente.» «È una pillola dietetica commercializzata da una ditta con sede in California, la Luray Products, una grossa organizzazione privata che nessuno ha mai sentito nominare. In questi ultimi cinque anni i medici hanno prescritto Skinny Ben a tutto spiano perché funziona. Non è per la donna che vuole perdere dieci chili, ma fa miracoli per quelle veramente obese, nel senso di donnoni grossi come armadi, montagne ambulanti. Ci sei?» «Ti ascolto.» «Il problema è che dopo un anno o due queste poverette manifestano disturbi alle valvole cardiache. Diecimila sono state costrette a curarsi e la Luray si sta beccando querele a pioggia in California e in Florida. Otto mesi fa sono intervenuti quelli della Food and Drug Administration, e il mese scorso la Luray ha ritirato lo Skinny Ben dal mercato.» «E tu che parte hai in tutto questo, Forrest?» «Io ora sono un perito sanitario.» «E che cosa fa un perito sanitario?» «Grazie d'avermelo chiesto. Oggi, per esempio, ero in una suite d'albergo a Dyersburg nel Tennessee ad aiutare queste adorabili ciccione a farsi una corsetta sul tapis roulant. Il dottore, pagato dagli avvocati che pagano anche me, controlla le loro condizioni cardiache, e se non sono più che perfette indovina che cosa succede?» «Hai una nuova cliente.» «Tombola. Oggi ne ho acquisite quaranta.» «Quanto vale in media un caso?» «Sui diecimila. Gli avvocati per cui lavoro adesso hanno ottocento casi. Fanno otto milioni di dollari, di cui metà va agli avvocati, così le care signore se lo prendono nel didietro una seconda volta. Benvenuto nel mondo dei danni alla collettività.» «Tu che cosa ne ricavi?» «Uno stipendio base, una gratifica per ogni nuovo cliente e un premio
finale. Potrebbe esserci qualcosa come mezzo milione di querele da presentare, perciò ci stiamo dando da fare.» «Sarebbero cinque miliardi di dollari di indennizzi.» «La Luray ne ha guadagnati otto. Tutti i civilisti del paese non parlano che di Skinny Ben.» «Non c'è qualche risvolto etico?» «L'etica non esiste, fratello. Il mondo in cui vivi tu è solo teorico. L'etica è una materia da insegnare agli studenti che non la useranno mai. Mi spiace dover essere io a svezzarti.» «L'ho già sentita.» «Comunque, io qui ho trovato una miniera d'oro. Ho pensato che ti facesse piacere saperlo.» «Mi fa piacere.» «C'è nessuno da quelle parti che prende lo Skinny Ben?» «Non che io sappia.» «Tieni gli occhi aperti. Questi avvocati si stanno accordando con altri avvocati in giro per tutto il paese. È così che funziona il sistema dei danni alla collettività, e io sto imparando. Più casi metti insieme, più alto è l'indennizzo.» «Farò girare la voce.» «Ci vediamo, fratello.» «Sta' in guardia, Forrest.» La chiamata successiva arrivò poco dopo le due e mezzo di notte, e come sempre avviene a quell'ora il telefono sembrò squillare per un'eternità, sia durante il sonno sia dopo. Ray riusci finalmente ad afferrare il ricevitore e ad accendere una luce. «Ray, scusa l'ora, sono Harry Rex.» «Che cosa c'è?» chiese, sapendo fin troppo bene che non potevano essere buone nuove. «Forrest. Ho passato un'ora a parlare con lui e un'infermiera al Baptist Hospital di Memphis. Lo hanno ricoverato lì. Credo che abbia il naso rotto.» «Parla, Harry Rex.» «È andato in un bar, si è ubriacato e c'è stato un litigio. La solita storia. Pare che abbia scelto il tizio sbagliato e adesso gli stanno ricucendo la faccia. Vogliono trattenerlo per la notte. Ho dovuto parlare con quelli del personale e garantire che l'ospedale sarà pagato. Ho anche chiesto di non
somministrargli antidolorifici. Non sanno che cos'hanno per le mani.» «Mi dispiace che tu ci sia finito in mezzo, Harry Rex.» «Sai che novità. E comunque non m'importa. Ma non ha la testa a posto, Ray. Ha ricominciato con la storia dell'eredità e tutte quelle stronzate sulle fregature che sta subendo. So che è ubriaco e tutto il resto, ma non molla.» «Io gli ho parlato cinque ore fa. Stava benissimo.» «Be', dev'essere stato prima del bar. Alla fine hanno dovuto dargli comunque un sedativo per potergli risistemare il naso, altrimenti sarebbe stato impossibile. Ma io sono preoccupato per tutta quella robaccia che si mette in corpo. È un pasticcio.» «Mi dispiace davvero, Harry Rex» ripeté Ray non sapendo che cos'altro dire. Ci fu una pausa mentre Ray cercava di riordinare i pensieri. «Solo poche ore fa stava bene, era pulito, sobrio. Almeno così sembrava.» «È stato lui a chiamarti?» volle sapere Harry Rex. «Sì, era eccitato per il suo nuovo lavoro.» «Quella fesseria dello Skinny Ben?» «Sì. È un lavoro vero?» «Credo di sì. Quaggiù c'è un gruppo di avvocati che sta mettendo in piedi questo genere di querele. La quantità è un elemento fondamentale. Ingaggiano gente come Forrest per rastrellare clienti.» «Dovrebbero essere radiati.» «Metà di noi lo meriterebbe. Credo che dovresti venire a casa. Prima iniziamo le pratiche per la divisione del patrimonio, prima riusciremo a calmare Forrest. Queste accuse mi fanno male.» «Hai una data per il tribunale?» «Possiamo farlo mercoledì della prossima settimana. Penso che faresti bene a trattenerti qualche giorno.» «È quello che avevo in mente anch'io. Fissa l'udienza. Ci sarò.» «Tra un giorno o due avvertirò Forrest sperando di beccarlo sobrio.» «Ti chiedo scusa, Harry Rex.» Com'era prevedibile, Ray non riuscì a riprendere sonno. Stava leggendo una biografia quando il suo nuovo cellulare squillò. Doveva essere un errore. «Pronto?» rispose con diffidenza. «Come mai è sveglio?» domandò la voce profonda di Corey Crawford. «Perché il mio telefono non smette di suonare. Dove si trova?» domandò Ray. «A sorvegliare. Tutto bene?» «Sì, grazie. Sono quasi le quattro del mattino. A voi capita di dormire?»
«Facciamo un sacco di sonnellini. Io spegnerei le luci, se fossi in lei.» «Grazie. Qualcun altro a spiare le mie lampadine?» «Non ancora.» «Meglio così.» «Era solo un controllo.» Ray spense le luci nel resto dell'appartamento e tornò in camera da letto dove riprese a leggere. Dormire gli venne reso ancor più arduo dalla consapevolezza che qualcuno gli stava costando cento dollari l'ora per tutta la notte. Era un investimento oculato, continuava a ripetersi. Alle cinque precise uscì in corridoio in punta di piedi come se temesse di essere scoperto e si preparò un caffè al buio. Mentre aspettava chiamò Crawford, che gli rispose con una voce prevedibilmente un po' intorpidita. «Sto facendo del caffè, ne vuole?» «Non è una buona idea, ma grazie lo stesso.» «Senta, oggi pomeriggio vado in aereo ad Atlantic City. Ha una penna?» «Sì, sentiamo.» «Parto con un Beech Bonanza bianco, numero otto-uno-cinque-romeo, alle tre del pomeriggio in compagnia di un istruttore di volo di nome Fog Newton. Pernotteremo al Canyon Casino e torneremo domani verso mezzogiorno. Lascerò la macchina all'aeroporto, chiusa a chiave come sempre. Nient'altro?» «Vuole che veniamo anche noi ad Atlantic City?» «No, non è necessario. Sarò sempre in movimento e mi guarderò alle spalle.» 21 Il consorzio fu ideato da uno dei compagni di volo di Dick Docker. Comprendeva due oftalmologi locali che possedevano cliniche nel West Virginia. Entrambi avevano appena imparato a volare e avevano bisogno di andare avanti e indietro a un ritmo più veloce. L'amico di Docker era un consulente finanziario che aveva bisogno del Bonanza per circa dodici ore al mese. Il resto del tempo a disposizione sarebbe andato all'eventuale quarto socio. Ciascuno avrebbe messo cinquantamila dollari e apposto la propria firma sotto un contratto di mutuo con una banca per la somma stabilita, fissata attualmente a trecentonovantamila dollari, con scarse probabilità di ulteriori sconti. Distribuite su un arco di sei anni, le rate sarebbero
state di ottocentonovanta dollari al mese più gli interessi per ciascuno dei quattro soci. Equivalevano a undici ore di Cessna, per il pilota Atlee. Tra i vantaggi c'erano l'ammortamento e la possibilità di guadagnare affittando il velivolo quando i soci non lo usavano. Il lato negativo erano i costi di rimessaggio, carburante, manutenzione e una lista di altre spese che sembrava interminabile. Quello che l'amico di Dick Docker evitava di dire, e che pesava in maniera superiore a tutto il resto sul versante degli svantaggi, era il fatto di doversi mettere in affari con tre sconosciuti, due dei quali medici. Ma Ray aveva i cinquantamila ed era in grado di sborsare gli ottocentonovanta al mese. Inoltre desiderava disperatamente possedere l'aereo sul quale aveva volato per nove ore e che considerava segretamente già suo. I Bonanza mantenevano un buon valore di mercato, secondo una stima molto persuasiva allegata alla bozza di accordo. La domanda era ancora alta nel giro dei velivoli di seconda mano. I dati statistici di sicurezza del Beech erano secondi solo a quelli del Cessna, ma praticamente uguali. Ray portò con sé la bozza di accordo per un paio di giorni, rileggendola in ufficio, a casa, alla tavola calda. Gli altri tre partner avevano già firmato. Bastava che apponesse anche lui la sua firma in quattro posti diversi e sarebbe diventato un proprietario del Bonanza. Il giorno prima di partire per il Mississippi studiò l'accordo per l'ennesima volta, poi mandò al diavolo tutto quanto e firmò. Se i cattivi lo stavano spiando, erano dei veri maestri nel nascondere le loro tracce. Dopo sei giorni di indagini, Corey Crawford era giunto alla conclusione che non c'era nessuno. Ray gli versò tremilaottocento dollari in contanti e promise di chiamare se avesse avuto nuovi sospetti. Con la scusa di riporre altra roba, andava ogni giorno al Chaney's SelfStorage a controllare i soldi. Portava scatoloni pieni di tutto quel che trovava in casa. I magazzini 14B e 37F stavano assumendo lentamente le sembianze di una vecchia soffitta. Il giorno prima di partire, entrò in amministrazione e chiese alla signora Chaney se qualcuno avesse lasciato libero il 18R. Sì, due giorni prima. «Vorrei prenderlo.» «Con questo siamo a tre.» «Ho bisogno di altro spazio.» «Perché allora non affitta una delle nostre unità più Capienti?»
«Forse lo farò. Per ora ne userò tre piccole.» Alla proprietà in effetti non importava niente. Affittò il 18R a nome della Newton Aviation e pagò in contanti per sei mesi. Quando fu sicuro che nessuno lo stava guardando, trasferì i soldi dal 37F al 18R, dov'erano in attesa scatoloni nuovi. Erano di resina vinilica rivestita di alluminio, garantiti contro il fuoco fino a centocinquanta gradi. Erano anche a tenuta stagna e chiusi a chiave. Per riporre i soldi ne usò cinque. Per buona misura buttò sopra gli scatoloni vecchie coperte, trapunte e indumenti, in modo che l'aspetto generale fosse un po' più normale. Non sapeva nemmeno lui chi stava cercando di impressionare con la baraonda del suo piccolo magazzino, ma si sentiva meglio quand'era tutto in disordine. Molto di quello che faceva in quei giorni era a beneficio di qualcun altro. Un percorso diverso da casa all'università. Una nuova pista dove correre. Un bar nuovo. Una nuova libreria in centro dove curiosare. E uno sguardo sempre attento all'insolito, un occhio allo specchietto retrovisore, un rapido dietrofront quando camminava o correva, una sbirciata attraverso gli scaffali quando entrava in un negozio. C'era qualcuno. Lo sentiva. Aveva deciso di cenare con Kaley prima di recarsi nel Sud per qualche giorno, e prima che lei fosse diventata tecnicamente un'ex studentessa. Gli esami erano finiti, dunque che male c'era? Kaley sarebbe rimasta per l'estate e Ray era deciso ad approfittarne, con le cautele del caso. Perché la cautela era tutto ciò che da lui ottenevano le donne. Cautela perché riteneva Kaley un pericolo potenziale. Ma la prima telefonata al suo numero fu un disastro. Rispose una voce maschile, giovane, giudicò Ray, e a chiunque appartenesse, la persona in questione non era contenta che lui avesse chiamato. Quando venne al telefono, Kaley fu brusca. Ray le chiese se avesse potuto chiamarla in un momento più opportuno. Kaley rispose di no, lo avrebbe cercato lei. Aspettò tre giorni e poi ci mise una croce sopra, una cosa che gli riusciva facile quanto girare le pagine del calendario. Così, partì da Charlottesville senza aver lasciato nulla in sospeso. Con Fog sul Bonanza, in quattro ore raggiunse Memphis, dove noleggiò una macchina per andare a cercare Forrest. La sua prima e unica visita all'abitazione di Ellie Crum aveva avuto lo stesso scopo. Imbottito di droga, Forrest era scomparso, e la sua famiglia desiderava sapere se era morto o era finito in qualche cella di prigione. A quei tempi il Giudice era ancora in carica e la vita scorreva come al solito,
incluse le ricerche di Forrest. Naturalmente il Giudice era troppo occupato per dare la caccia al figlio minore; e poi perché affaticarsi quando c'era Ray? Era una vecchia casa vittoriana in una zona decentrata di Memphis. Ellie l'aveva ricevuta in eredità dal padre, un uomo che aveva goduto di una certa agiatezza. Alla figlia, però, non era rimasto molto altro. Forrest era stato attirato dalla prospettiva di fondi fiduciari e consistenti somme di denaro appartenenti alla famiglia, ma dopo quindici anni aveva rinunciato a sperare. Nei primi tempi era vissuto nella camera da letto padronale. Ora il suo alloggio era nel seminterrato. C'erano altri che vivevano nella stessa casa, tutti artisti male in arnese in cerca di un tetto, correva voce. Ray parcheggiò in strada. I cespugli avevano bisogno di una potatura e il tetto era malandato, ma la casa invecchiava con dignità. Forrest la ridipingeva tutti gli anni, in ottobre, scegliendo sempre abbinamenti cromatici sui quali lui ed Ellie litigavano per un anno intero. Ora era celeste con finiture rosse e arancione. Forrest gli aveva detto che un anno l'aveva dipinta di verde. Una giovane donna con la pelle bianca come la neve e i capelli neri lo accolse sulla porta con un burbero: «Sì?». Ray la guardava attraverso la porta a zanzariera. Dietro di lei la casa era buia e spettrale, come la prima volta. «C'è Ellie?» chiese con tutta la malagrazia che gli era possibile. «Ha da fare. Chi la vuole?» «Sono Ray Atlee, il fratello di Forrest.» «Chi?» «Forrest. Quello che vive dabbasso.» «Oh, quel Forrest.» La ragazza scomparve e Ray sentì delle voci nel retro della casa. Ellie aveva addosso un lenzuolo bianco coperto di strisce e schizzi di argilla e acqua, con fessure da cui far passare testa e braccia. Si stava asciugando le mani con un canovaccio sporco ed esibiva un'aria seccata per essere stata interrotta. «Ciao, Ray» lo salutò come una vecchia amica aprendo la porta. «Ciao, Ellie.» La seguì attraverso un ingresso ed entrò con lei in soggiorno. «Trudy, ci porteresti del tè?» gridò Ellie. Dovunque fosse, Trudy non rispose. A ridosso delle pareti c'era una collezione dei vasi e recipienti più bizzarri che Ray avesse mai visto. Forrest diceva che lavorava dieci ore al
giorno e che non trovava da smerciare le sue opere. «Mi dispiace per tuo padre» gli disse. Si sedettero a un tavolino di cristallo, montato un po' sbilenco su tre cilindri di forma fallica, ciascuno di una diversa sfumatura di azzurro. Ray ebbe paura di toccarlo. «Grazie» rispose un po' rigido. Non una telefonata, un biglietto, una lettera o un mazzo di fiori, non una parola di condoglianze fino a quel momento, in occasione di quell'incontro estemporaneo. In sottofondo si udivano sommesse le note di un'opera lirica. «Immagino che tu stia cercando Forrest.» «Sì.» «È un po' che non lo vedo. Sta di sotto, lo sai, va e viene come un gatto randagio. Stamattina ho mandato giù una ragazza a dare un'occhiata. Dice che secondo lei manca da una settimana almeno. Il letto è sfatto da cinque anni.» «È più di quanto volessi sapere.» «E non ha chiamato.» Arrivò Trudy con il tè, in un servizio che era una delle raccapriccianti creazioni di Ellie. Le tazze erano vasetti scompagnati con manici enormi. «Latte e zucchero?» chiese versando. «Solo zucchero.» Gli porse la tazza, che lui prese con entrambe le mani. A lasciarla cadere c'era da schiacciarsi un piede. «Come sta?» domandò quando Trudy se ne fu andata. «Ubriaco, sobrio... Forrest.» «Droghe?» «Lasciamo perdere.» «Hai ragione» rispose Ray e cercò di bere il suo tè. Era alla pesca e una goccia gli bastò. «L'altra sera ha fatto a botte, lo sapevi? Credo che gli abbiano rotto il naso.» «Non sarà la prima volta che glielo rompono. Perché voialtri uomini vi ubriacate e poi vi prendete a cazzotti?» Era una domanda eccellente, e Ray non aveva una risposta. Lei bevve il suo tè e chiuse gli occhi nell'assaporarlo. Molti anni prima Ellie Crum era stata una bella donna. Adesso, vicina ai cinquant'anni, aveva smesso di provarci. «Non gli vuoi bene, vero?» le chiese Ray. «Certo che gliene voglio.» «No, dico sul serio.» «È importante?»
«È mio fratello. E non ha nessun altro.» «Abbiamo fatto sesso in modo fantastico nei primi anni, poi ci è passata la voglia. Io sono ingrassata e adesso sono troppo presa dal mio lavoro.» Ray si guardò intorno. «E poi il sesso c'è sempre» aggiunse lei indicando la porta dalla quale era passata Trudy. «Forrest è un amico, Ray. Probabilmente gli voglio bene, a modo mio. Ma è anche un tossico che sembra deciso a rimanerlo per sempre. Dopo un po' ti senti frustrata.» «Lo so. Credimi, lo so.» «Penso anche che sia uno di quelli rari. È abbastanza forte da rimettersi in piedi all'ultimo momento.» «Ma non abbastanza forte da smettere.» «Io ce l'ho fatta, Ray, ho smesso quindici anni fa. I tossici sono duri l'uno con l'altro. È per questo che lui sta nello scantinato.» Probabilmente è più felice, là sotto, rifletté Ray. La ringraziò per il tè e il tempo che gli aveva dedicato e lei lo accompagnò alla porta. Era ancora lì, dietro la porta a zanzariera, quando lui partì rombando. 22 Le volontà di Reuben Vincent Atlee vennero esposte nell'aula che lui stesso aveva presieduto per trentadue anni. In alto, sui pannelli di quercia che ricoprivano la parete dietro il banco del Giudice, un Reuben Atlee grintoso sorvegliò il dibattito tra il vessillo nazionale da una parte e quello statale del Mississippi dall'altra. Era lo stesso ritratto che tre settimane prima era stato collocato di fianco alla sua bara per la veglia in tribunale. Ora era di nuovo al suo posto, dove senza dubbio sarebbe rimasto per sempre. L'uomo che aveva messo fine alla sua carriera e lo aveva spedito nel confino di Maple Run era Mike Farr, di Holly Springs. Era già al secondo mandato e, a parere di Harry Rex, svolgeva il suo lavoro con sufficiente credibilità. Il giudice Farr rilesse l'istanza di autorizzazione ad agire come esecutore testamentario e studiò la paginetta con le ultime volontà allegata alla pratica. L'aula era animata dalla presenza di numerosi avvocati e impiegati intenti a sbrigare formalità burocratiche e a conversare con i clienti. Era una di quelle giornate che venivano riservate alle questioni puramente notarili e alle istanze di rapida soluzione. Ray sedeva in prima fila mentre Harry Rex
era al banco a confabulare con Farr. Di fianco a Ray c'era Forrest, che, a parte qualche livido già scolorito sotto gli occhi, appariva normale, per quanto gli era possibile. Aveva insistito per non essere presente all'udienza, ma il deciso rimprovero di Harry Rex lo aveva persuaso a fare la sua parte. Alla fine era tornato a casa da Ellie, facendo la sua solita ricomparsa senza una parola su dove era stato e che cosa aveva combinato. Nessuno lo volle sapere. Non accennò al lavoro e Ray concluse che, probabilmente, la sua breve carriera di perito sanitario per gli avvocati dello Skinny Ben era finita. Ogni cinque minuti un avvocato si accosciava tra i banchi, tendeva la mano e ricordava a Ray le grandi qualità di suo padre. Naturalmente si presupponeva che Ray li conoscesse tutti perché loro conoscevano lui. Nessuno rivolgeva la parola a Forrest. Harry Rex convocò Ray con la mano. Lui si avvicinò al banco e Farr lo salutò con calore. «Suo padre era un'ottima persona e un grande giudice» dichiarò protendendosi in avanti. «Grazie» rispose Ray. Allora perché, durante la campagna elettorale, avevi detto che era troppo vecchio e poco aggiornato?, avrebbe voluto chiedergli. Erano passati nove anni e sembravano cinquanta. Con la scomparsa di suo padre, tutto nella contea di Ford era più vecchio di decenni. «Lei insegna legge?» chiese Farr. «Sì, all'Università della Virginia.» Il giudice fece un cenno di approvazione. «Tutti gli eredi sono presenti?» «Sì, signore» rispose Ray. «Siamo solo io e mio fratello Forrest.» «E tutti e due avete letto questo documento di una pagina che si presume contenga le ultime volontà di Reuben Atlee?» «Sì, signore.» «E non ci saranno obiezioni all'autenticazione di questo documento?» «No, signore.» «Molto bene. In conformità a questo testamento, nomino lei esecutore delle ultime volontà di suo padre. Un avviso ai creditori verrà inoltrato oggi stesso e pubblicato su un quotidiano locale. Inventario e valutazione del patrimonio verranno eseguiti in conformità alle leggi vigenti.» Erano formule che Ray aveva sentito pronunciare a suo padre centinaia di volte. Alzò gli occhi sul giudice Farr. «C'è altro, signor Vonner?»
«No, vostro onore.» «Mi dispiace molto, signor Atlee» disse il giudice. «Grazie, vostro onore.» All'ora di pranzo andarono da Claude's e ordinarono pesce gatto fritto. Ray era tornato da soli due giorni e già sentiva che gli si stavano ingolfando le arterie. Forrest aveva poco da ridire. Non era pulito e il suo sangue era già inquinato. I progetti di Ray erano nebulosi. Voleva far visita ad alcuni amici, annunciò. Non aveva fretta di tornare in Virginia. Forrest li lasciò subito dopo mangiato, disse che tornava a Memphis. «Ti trovo da Ellie?» volle sapere Ray. «Forse» fu il massimo che ottenne come risposta. Ray era nel portico ad attendere Claudia, che arrivò puntuale alle cinque del pomeriggio. Lui le andò incontro e si fermò con lei accanto all'automobile a guardare il cartello VENDESI piantato nel prato a pochi metri dalla strada. «Dovete proprio venderla?» gli chiese lei. «O la vendiamo o la regaliamo. Come stai?» «Sto bene, Ray.» Riuscirono ad abbracciarsi con il minimo di contatto. Per l'occasione Claudia indossava calzoni larghi, mocassini, camicia a scacchi e un cappello di paglia, come se fosse appena uscita dal giardino. Aveva le labbra vermiglie e un velo di mascara. Ray l'aveva sempre vista perfettamente agghindata. «Sono contenta che tu abbia chiamato» disse mentre percorrevano il vialetto verso la casa. «Oggi siamo stati in tribunale per la registrazione.» «Mi dispiace, dev'essere stata dura per te.» «Sopportabile. Ho conosciuto il giudice Farr.» «Ti è piaciuto?» «Abbastanza, direi, nonostante quel che è stato.» Le prese il braccio per aiutarla sui gradini, sebbene Claudia fosse in condizioni perfette e in grado di scalare le montagne, nonostante i due pacchetti di sigarette quotidiani. «Ricordo quand'era appena uscito dalla scuola di legge» sospirò. «Non sapeva riconoscere un querelante da un imputato. Ci fossi stata ancora io al suo fianco, Reuben lo avrebbe battuto.» «Sediamoci qui» propose Ray indicando le due sedie a dondolo.
«Hai dato una ripulita» notò lei ammirando il portico. «Ha fatto tutto Harry Rex. Ha assunto imbianchini, carpentieri, una ditta di pulizie. Hanno dovuto usare l'aspiratore per togliere la polvere dai mobili, ma adesso si respira.» «Ti secca se fumo?» «No.» La sua risposta era superflua. Avrebbe fumato comunque. «Sono contenta che tu abbia chiamato» ripeté lei prima di accendersi una sigaretta. «Tè o caffè?» «Tè freddo, per piacere, con limone e zucchero» rispose lei, e accavallò le gambe. Stava su quella sedia a dondolo come una regina in attesa del suo tè. Ray si ricordò dei vestiti attillati e delle lunghe gambe di molti anni prima, quando sedeva sotto il banco del Giudice a stenografare con eleganza sotto lo sguardo di tutti gli avvocati presenti in aula. Parlarono del tempo, come si fa quando la conversazione langue o non c'è altro di cui parlare. Claudia fumò e sorrise molto, sinceramente felice dei ricordi di Ray. Lei cercava un appiglio. Lui cercava di risolvere un enigma. Parlarono di Forrest e di Harry Rex, due argomenti consistenti e, passata mezz'ora, Ray venne finalmente al dunque. «Abbiamo trovato dei soldi, Claudia» rivelò lasciando la frase sospesa nell'aria. Lei assimilò le sue parole, le soppesò e procedette con cautela. «Dove?» Era una domanda eccellente. Per esempio in una banca con tutte le registrazioni del caso? Oppure infilati in un materasso senza che si sapesse che origine avevano? «Nel suo studio, in contanti. Lasciati lì per qualche ragione.» «Quanto?» domandò lei, ma non troppo precipitosamente. «Centomila.» Le scrutò attentamente volto e occhi. Stupore sì, sbigottimento no. Si era preparato un copione, perciò andò avanti. «Era meticoloso nell'amministrare le sue cose, compilava le matrici degli assegni, teneva conto sui suoi registri di ogni spesa e ogni deposito. Per questi soldi sembra che non ci sia una fonte.» «Non teneva mai molto contante» osservò lei parlando adagio. «Così ricordavo anch'io. Tu non hai idea di quale possa essere la provenienza, vero?» «No» rispose lei senza la minima incertezza. «Il Giudice non trattava in contanti. Punto e a capo. Tutto passava attraverso la First National Bank. È stato per molto tempo nel consiglio d'amministrazione, ricordi?»
«Sì, molto bene. Aveva qualche attività collaterale?» «Per esempio?» «Lo sto chiedendo a te, Claudia. Nessuno lo conosceva bene come te. E conoscevi i suoi affari.» «Era completamente dedito al suo lavoro. Per lui fare il giudice era una grande missione e ci metteva tutto se stesso. Non aveva tempo per nient'altro.» «Nemmeno per la sua famiglia» ribatté Ray, e subito si rammaricò. «Amava i suoi ragazzi, Ray, ma apparteneva a un'altra generazione.» «Lasciamo perdere.» «Va bene.» Presero fiato e fecero fronte comune. Nessuno dei due voleva dilungarsi sulla famiglia. La loro attenzione era rivolta al denaro. Sopraggiunse un'automobile che parve rallentare abbastanza perché chi si trovava a bordo potesse leggere il cartello piantato nel prato e osservare bene la casa. Un'occhiata fu sufficiente, perché ripartì quasi subito. «Sapevi che scommetteva?» domandò Ray. «Il Giudice? No.» «Ha dell'incredibile, vero? Harry Rex lo portava ai casinò una volta alla settimana. Pare che il Giudice avesse la mano felice, mentre Harry Rex no.» «Circolano voci, si sentono storie, specialmente sugli avvocati. Pare che alcuni di loro si siano messi nei guai.» «Ma non hai mai sentito niente sul Giudice?» «No. Continuo a non crederci.» «Quei soldi devono essere arrivati da qualche parte, Claudia. E qualcosa mi dice che erano soldi sporchi, altrimenti li avrebbe registrati come faceva con tutti gli altri.» «E se li avesse vinti giocando d'azzardo li avrebbe considerati sporchi, non credi?» Conosceva davvero il Giudice meglio di chiunque altro. «Sì, e tu?» «A me sembra nello stile di Reuben Atlee.» Esaurirono quest'altra conversazione e si concessero un intervallo, dondolandosi entrambi nell'ombra fresca del portico, come se il tempo si fosse arrestato, nessuno dei due turbato dal silenzio. Quell'atmosfera consentiva prolungate sospensioni in cui si raccoglievano i pensieri o non si pensava affatto. Finalmente, tornando al copione non scritto che si era preparato, Ray
trovò il coraggio di porle la domanda più difficile della giornata. «C'è qualcosa che ho bisogno di sapere, Claudia, e ti prego di essere sincera.» «Io sono sempre sincera. È uno dei miei difetti.» «Io non ho mai dubitato dell'integrità di mio padre.» «Né dovresti farlo ora.» «Dammi una mano, per favore.» «Continua.» «C'era niente che gli giungesse sottobanco, qualche regalino di un avvocato, la sua fetta di torta in una qualche causa, un segno di riconoscimento "tangibile", come si dice in certi ambienti?» «Assolutamente no.» «Sto tirando alla cieca, Claudia, nella speranza di centrare qualcosa. Non è normale trovare centomila dollari in biglietti freschi di stampa nascosti su un ripiano. Quando è morto, in banca aveva seimila dollari. Perché tenerne centomila seppelliti?» «Era l'uomo più onesto del mondo.» «Sono pronto a crederlo.» «Allora smettila di blaterare di bustarelle e cose del genere.» «D'accordo.» Lei si accese un'altra sigaretta e lui rientrò in casa per riempire i bicchieri di tè. Quando tornò fuori, Claudia era immersa nelle riflessioni, con lo sguardo perso in lontananza oltre la strada. Si dondolarono per un po'. «Io credo che il Giudice avrebbe voluto che tu ne avessi una parte» dichiarò finalmente Ray «Ah, sì?» «Sì. Avremo bisogno di usarne una parte per finire di ristrutturare la casa, diciamo venticinquemila o giù di lì. Perché non dividiamo il resto fra te, me e Forrest?» «Venticinque a testa?» «Già. Che cosa ne pensi?» «Non includete quel denaro nel patrimonio?» chiese lei. Conosceva la legge meglio di Harry Rex. «Perché dovremmo? Sono contanti, nessuno ne sa niente, e se li dichiariamo metà se ne andranno in tasse.» «E come li spiegheresti?» aggiunse lei, sempre un passo più avanti. Si diceva che Claudia avesse già dato il suo verdetto su una causa prima ancora che gli avvocati pronunciassero le dichiarazioni preliminari. Ed era una donna che amava il denaro. Vestiti, profumi, automobili
sempre nuove, e un modesto stipendio da stenografa di tribunale. Se percepiva una pensione statale, non doveva essere un granché. «Non si possono spiegare» ammise Ray. «Se sono vincite al gioco, allora dovresti rettificare tutte le sue dichiarazioni degli ultimi anni» osservò lei, con pertinente prontezza. «Che pasticcio.» «È un pasticcio.» Il pasticcio fu tacitamente accantonato. Nessuno avrebbe mai saputo della sua fetta di denaro. «Una volta abbiamo avuto un caso» ricordò lei contemplando il prato. «È stato nella contea di Tippah, trent'anni fa. Un tizio di nome Childers che faceva lo sfasciacarrozze era morto senza lasciare un testamento.» Una pausa, una lunga boccata dalla sigaretta. «Aveva un nugolo di figli e questi trovarono soldi nascosti un po' dappertutto, in ufficio, in soffitta, in una baracca dietro la casa, nel caminetto. Una vera e propria caccia al tesoro. Dopo che ebbero perquisito tutto il suo deposito centimetro per centimetro, contarono qualcosa come duecentomila dollari. Pensa un po', un uomo che non pagava la bolletta del telefono e aveva portato la stessa tuta per dieci anni.» Un'altra pausa, un altro lungo tiro di sigaretta. Era capace di passare una vita a raccontare storie del genere. «Metà dei ragazzi voleva dividere il denaro e cucirsi la bocca, l'altra metà voleva dirlo all'avvocato e fare le cose in regola. La notizia trapelò, la famiglia si spaventò e i soldi finirono nel patrimonio del vecchio. Poi si scatenò una violenta battaglia tra i figli. Cinque anni più tardi, di quei soldi non restava più niente, metà li aveva presi il governo, metà era andata agli avvocati.» S'interruppe e Ray attese la battuta finale. «E allora?» la sollecitò. «Il Giudice disse che era un peccato, che avrebbero fatto meglio a tenersi i soldi e restare zitti. Del resto, era proprietà del loro padre.» «A me sembrerebbe giusto così.» «Lui detestava le tasse di successione. Perché il governo dovrebbe prendersi una grossa percentuale delle tue ricchezze solo perché sei morto? L'ho sentito brontolare su questa cosa per anni.» Ray prese una busta da dietro la sua sedia e gliela porse. «Qui ci sono i venticinquemila in contanti.» Lei la fissò, poi guardò lui incredula. «Prendili» la esortò, avvicinandogliela di più. «Nessuno ne saprà mai nulla.» Claudia la prese e per un secondo non riuscì a parlare. Le si inumidirono
gli occhi e per lei era un indizio di emozioni forti. «Grazie» sussurrò, e strinse i soldi ancora più forte. Molto tempo dopo che se n'era andata, Ray era ancora seduto sulla stessa sedia a dondolare nell'oscurità, contento per aver eliminato Claudia dagli indiziati. L'aver accettato prontamente i venticinquemila dollari era una prova convincente che non sapeva niente dell'assai più consistente malloppo. Ma non c'era nessun altro indiziato che prendesse il suo posto nella lista. 23 L'incontro era stato organizzato tramite un ex allievo della scuola di legge della Virginia ora socio in un megastudio di New York, il quale a sua volta rappresentava il gruppo proprietario dei Canyon Casino. Una catena che copriva tutto il territorio nazionale. Erano stati presi contatti, si erano scambiati favori, qualche ingranaggio era stato unto leggermente e con molta diplomazia. Era il delicato settore della sicurezza e nessuno voleva fare un passo falso. Il professor Atlee aveva bisogno solo di informazioni generiche. Il Canyon si trovava sul Mississippi, nella contea di Tunica, fin dalla metà degli anni Novanta, costruito nel corso della seconda ondata edilizia e sopravvissuto al primo ridimensionamento. Era alto dieci piani, contava quattrocento stanze, settemilacinquecento metri quadrati a disposizione dei giocatori e aveva avuto molto successo con gli spettacoli in stile motown. Jason Piccolo, uno dei vice-presidenti della sede principale di Las Vegas, era pronto a ricevere Ray insieme ad Alvin Barker, capo della sicurezza. Piccolo era un trentenne vestito come un modello di Armani. Barker era un cinquantenne con l'aria di un vecchio piedipiatti malvestito. Cominciarono proponendo un giro veloce che Ray declinò. In quell'ultimo mese aveva visto abbastanza case da gioco da esserne sazio per l'eternità. «Quanto dei piani superiori è off-limits?» chiese. «Be', vediamo» rispose Piccolo, cortese, e lo condussero via dalle slot machine e dai tavoli da gioco fino a un corridoio dietro gli sportelli dei cassieri. Poi su per le scale e giù per un altro corridoio, finché si fermarono in un locale lungo e stretto con una parete di falsi specchi. Da lì si andava in un'altra stanza, ampia e dal soffitto basso, colma di tavoli rotondi sui quali erano appoggiati i monitor di un sistema a circuito chiuso. Decine di
uomini e donne tenevano gli occhi incollati agli schermi, quasi avessero paura di lasciarsi sfuggire qualcosa. «Questo è l'occhio del cielo» stava spiegando Piccolo. «Quelli a sinistra sorvegliano i tavoli di blackjack. Al centro dadi e roulette, a destra slot e poker.» «E che cosa sorvegliano?» «Tutto. Assolutamente tutto.» «Mi faccia un elenco.» «Tutti i giocatori. Sorvegliamo quelli che fanno grosse puntate, i professionisti, quelli che contano le carte, i bari. Prendiamo il blackjack. Quelli che vede lì sono in grado di seguire dieci smazzate e sapere se un giocatore sta contando le carte. Quello con la giacca grigia studia i volti, individua i giocatori di professione. È gente che si sposta di continuo, oggi qui, domani a Las Vegas, poi scompaiono per una settimana e riaffiorano ad Atlantic City o alle Bahamas. Se barano o contano le carte, lui li inquadra nel momento in cui si siedono.» Era Piccolo a parlare. Barker osservava Ray come se potesse essere un impostore. «A che punto arriva l'obiettivo?» domandò Ray. «Abbastanza vicino da leggere i numeri di serie di una banconota. Il mese scorso abbiamo preso un truffatore perché abbiamo riconosciuto un anello con diamante che si era messo già un'altra volta.» «Posso passare di là?» «Spiacente.» «Come funziona con i dadi?» «Lo stesso. Il problema è maggiore perché il gioco è più veloce e più complicato.» «Esistono bari professionisti ai dadi?» «Sono rari. Anche a poker e alla roulette. Barare non è un grosso problema. Noi siamo più preoccupati dei furti da parte dei dipendenti e degli errori ai tavoli.» «Che genere di errori?» «Ieri sera uno che giocava a blackjack ha vinto una mano da quaranta dollari, ma il nostro mazziere si è sbagliato e ha ritirato le fiches. Il giocatore ha protestato e ha chiesto l'intervento del supervisore. I nostri quassù hanno visto tutto e abbiamo rimediato.» «Come?» «Abbiamo mandato una guardia con l'istruzione di pagare al cliente i suoi quaranta dollari, offrirgli le nostre scuse e una cena gratuita.»
«E il mazziere?» «Ha un ottimo stato di servizio, ma alla prossima toppata prende la porta.» «Dunque, registrate tutto?» «Tutto. Ogni mano, ogni lancio di dadi, ogni giro di slot. Attualmente abbiamo in funzione duecento telecamere.» Ray camminò lungo la parete di falsi specchi e cercò di valutare il livello di sorveglianza. Sembrava quasi che fossero più numerosi i sorveglianti al piano di sopra dei giocatori al piano di sotto. «Come potrebbe barare un mazziere in una situazione così?» domandò con un gesto della mano. «I modi ci sono» rispose Piccolo, e rivolse a Barker un'occhiata d'intesa. «Molti modi. Ne becchiamo uno al mese.» «Perché sorvegliate le slot?» domandò Ray cambiando argomento. Avrebbe sprecato un po' di tempo lanciando sassi a casaccio, visto che gli avevano promesso una sola visita al piano di sopra. «Perché sorvegliamo tutto» fu la risposta di Piccolo. «E perché si sono verificati casi di minori che hanno vinto dei jackpot. I casinò si sono rifiutati di pagare e hanno vinto la causa perché erano in possesso di registrazioni dove si vedeva il momento in cui il minorenne si dileguava lasciando il posto all'adulto. Beve qualcosa?» «Volentieri.» «Abbiamo una stanzetta segreta con una vista migliore.» Ray li seguì al piano superiore, dove da un balconcino chiuso si dominava il salone e anche il locale della sorveglianza. Una cameriera materializzatasi dal nulla raccolse le loro ordinazioni. Ray chiese un cappuccino. Acqua minerale per i due anfitrioni. «Qual è la vostra preoccupazione maggiore in fatto di sicurezza?» chiese. Stava consultando una lista di domande che si era tolto di tasca. «Quelli che contano le carte e i mazzieri con le dita prensili» rispose Piccolo. «Quelle piccole fiches scompaiono facilmente dentro i polsini e nelle tasche. Cinquanta dollari al giorno sono mille dollari al mese. Esentasse, naturalmente.» «Quanti contatori di carte vedete qui dentro?» «Sempre di più. Ormai ci sono case da gioco in quaranta Stati, quindi la popolazione dei giocatori è molto cresciuta. Prendiamo nota di tutti i possibili contatori e quando ci sembra di averne individuato uno gli chiediamo semplicemente di andarsene. Abbiamo questo diritto, sa?»
«Qual è stata la più grossa vincita che vi è toccato pagare in un giorno?» Piccolo si girò a guardare Barker, il quale domandò: «Escludendo le slot?». «Sì.» «Una sera c'è stato un tizio che ha vinto uno e ottanta ai dadi.» «Centottantamila?» «Esatto.» «E quello che ha perso di più?» Barker prese il bicchiere che la cameriera gli porgeva e si grattò la faccia per un secondo. «Tre giorni dopo un tizio ha mollato duecentomila.» «Avete vincitori costanti?» chiese Ray guardando i suoi appunti come se fosse in corso una ponderata ricerca accademica. «Non sono sicuro di capire bene» si scusò Piccolo. «Diciamo che un tizio si presenta due o tre volte la settimana, gioca a carte o ai dadi, vince più di quello che perde e con il passare del tempo accumula una discreta sommetta. Capita spesso qualcosa del genere?» «È molto raro» rispose Piccolo. «Altrimenti chiuderemmo bottega.» «Estremamente raro» precisò Barker. «A uno può andar bene per una o due settimane di fila. Lo inquadriamo, lo teniamo costantemente sott'occhio; non c'è niente di sospetto, ma si sta portando via i nostri soldi. Prima o poi correrà un rischio di troppo, farà qualcosa di stupido e noi avremo indietro i nostri soldi.» «L'ottanta per cento, alla lunga, perde» aggiunse Piccolo. Ray mescolò lo zucchero del suo cappuccino e consultò gli appunti. «Entra un tizio, assolutamente sconosciuto, mette giù mille dollari al tavolo di blackjack e chiede fiches da cento. Che cosa succede qua sopra?» Barker sorrise e fece scricchiolare le nocche nodose. «Entriamo in stato di allerta. Lo teniamo d'occhio per qualche minuto, verifichiamo se sa quello che sta facendo. Il supervisore ai tavoli gli chiede se vuole registrarsi e in tal caso otteniamo il suo nome. Se dice di no, gli offriamo una cena. La cameriera continua a portargli da bere, ma se non beve, per noi è un altro indizio che potrebbe essere una cosa seria.» «I professionisti non bevono mai quando giocano» spiegò Piccolo. «Magari ordinano un drink per non dare nell'occhio, ma poi tengono il bicchiere in mano senza bere.» «Che cos'è questa storia della registrazione?» «Di solito i giocatori vogliono qualche extra» rispose Piccolo. «Una cena, biglietti per uno spettacolo, sconti sulle stanze, tutto quello che pos-
siamo offrire. Ottengono delle tessere di iscrizione tramite le quali vediamo quanto giocano. Il tizio ipotizzato da lei non ha una tessera, quindi gli chiediamo se vuole registrarsi.» «E lui dice di no.» «Niente di drammatico. Gli estranei vanno e vengono in continuazione.» «Ma chiaramente cerchiamo di agganciarli in qualche modo» ammise Barker. Ray scrisse qualcosa di insignificante sul suo foglio ripiegato. «I casinò sincronizzano le loro operazioni di sorveglianza?» chiese, e per la prima volta Piccolo e Barker diedero contemporaneamente segni di disagio. «In che senso "sincronizzano"?» domandò Piccolo con un sorriso che Ray ricambiò, con l'immediata partecipazione di Barker. Mentre tutti sorridevano, Ray disse: «Dunque, continuando nelle ipotesi sul nostro vincitore costante, diciamo che una sera gioca al Monte Carlo, la sera dopo al Treasure Cove, quella dopo ancora all'Alladin e così via, fa tutto il percorso. Si lavora tutti i casinò e vince molto più di quello che perde. E questo va avanti per un anno. A che grado di conoscenza arrivereste?». Piccolo rivolse un cenno a Barker, che si pizzicava le labbra tra pollice e indice. «Un grado molto alto» ammise di malavoglia. «Quanto alto?» insisté Ray. «Rispondigli» disse Piccolo a Barker, che si decise suo malgrado a parlare. «Conosceremmo il suo nome, indirizzo, occupazione, numero di telefono, automobile, banca. Sapremmo dove si trova ogni sera, a che ora arriva, a che ora va via, quanto vince o perde, quanto beve, se ha cenato, se ha lasciato una mancia alla cameriera - e in tal caso quanto - e quanto ha dato di mancia al mazziere.» «E conservate i dati su queste persone?» Barker guardò Piccolo, il quale assentì con la testa, molto lentamente, ma tacque. Cominciarono a diventare reticenti perché si stava avvicinando troppo. A pensarci bene, un giro turistico faceva proprio al caso suo. Passeggiarono per il salone dove, invece di osservare i tavoli, Ray guardava all'insù dove c'erano le telecamere. Piccolo gli indicò gli uomini della sicurezza. Erano nei pressi di un tavolo di blackjack dove un ragazzo che sembrava adolescente giocava con pile di gettoni da cento dollari. «È di Reno» bisbigliò Piccolo. «È arrivato a Tunica la settimana scorsa e ci ha preso trentamila. Molto, molto in gamba.» «E non conta le carte» sussurrò Barker unendosi al conciliabolo.
«C'è gente che nasce così, ce l'hanno dentro, come certi giocatori di golf o cardiochirurghi» disse Piccolo. «Si sta facendo tutti i casinò?» «Non ancora, ma lo aspettano.» Il ragazzino di Reno rendeva Barker e Piccolo molto nervosi. La visita finì in un bar dove bevvero analcolici e tirarono le somme. Ray aveva completato la sua lista di domande, aprendosi la via per il gran finale. «Avrei da chiedere un favore» disse a entrambi. Certo, volentieri. «Mio padre è morto qualche settimana fa. Abbiamo ragione di credere che venisse qui di nascosto a giocare ai dadi e che forse abbia vinto molto più di quanto abbia perso. Si può controllare?» «Come si chiamava?» chiese Barker. «Reuben Atlee, di Clanton.» Barker scosse la testa in segno negativo mentre estraeva un cellulare. «Quanto?» domandò Piccolo. «Non lo so, forse un milione nell'arco di alcuni anni.» Barker stava ancora scuotendo la testa. «Impossibile. Se qualcuno vincesse o perdesse tutti quei soldi lo conosceremmo molto bene.» Poi, parlando al telefono, chiese al suo interlocutore di controllare un certo Reuben Atlee. «Pensa che abbia vinto un milione di dollari?» si meravigliò Piccolo. «Vinti e persi» rispose Ray. «Ma è solo una congettura.» Barker chiuse il telefonino. «Nessun dato su nessun Reuben Atlee. È impossibile che abbia maneggiato somme di questo livello qui da noi.» «E se non fosse mai venuto in questo casinò?» chiese Ray già conoscendo la risposta. «Lo sapremmo comunque» risposero insieme. 24 Era l'unico ad andare a correre di mattina, a Clanton, e quando passò vicino alla cappella della famiglia Atlee collezionò gli sguardi incuriositi delle signore nelle loro aiuole, delle cameriere che spazzavano le verande e degli stagionali che d'estate aiutavano a tenere rasata l'erba del cimitero. La terra si andava indurendo sopra la cassa del Giudice, ma Ray non si fermò né rallentò per guardare meglio. Gli uomini che avevano scavato la fossa ne stavano scavando un'altra. A Clanton si moriva e si nasceva ogni gior-
no. Le cose non erano cambiate molto. Non erano ancora le otto, il sole era già caldo e l'aria pesante. L'umidità non gli dava fastidio perché era cresciuto in quel clima, ma senz'altro non ne sentiva la mancanza. Scelse le vie più ombreggiate e tornò a Maple Run. C'era la Jeep di Forrest, e suo fratello era semisdraiato sul divanetto a dondolo nel portico. «Un po' presto, per te, mi pare» commentò Ray. «Quanti chilometri ti sei macinato? Grondi di sudore.» «È quello che succede quando si corre al caldo. Cinque chilometri. Ti trovo bene.» Era vero. Occhi limpidi e non gonfi, guance sbarbate, fresco di doccia, calzoni bianchi puliti. «Mi sto disintossicando, fratello.» «Splendido.» Ray si sedette su una sedia a dondolo, sudato e con ancora il respiro affannoso. Non avrebbe chiesto a Forrest da quanto tempo era sobrio. Non potevano essere passate più di ventiquattr'ore. Forrest saltò in piedi e avvicinò a Ray l'altra sedia a dondolo. «Ho bisogno d'aiuto, fratello» annunciò sedendosi. Rieccoci, pensò Ray. «Ti ascolto.» «Ho bisogno d'aiuto» sbottò Forrest di nuovo, sfregandosi energicamente le mani come se quelle parole gli avessero procurato dolore. Non era uno spettacolo nuovo, per Ray, che perse pazienza. «Avanti, Forrest, che cos'è?» Erano soldi, per cominciare. Poi, si apriva un ventaglio di possibilità. «C'è un posto dove voglio andare, a un'ora da qui. È giù per il bosco, isolato, molto carino, con un laghetto al centro, camere comode.» Si tolse di tasca un biglietto da visita tutto sgualcito e glielo porse. Alcorn Village. Istituto terapeutico contro droga e alcol. Tutela della Chiesa Metodista. «Chi è Oscar Meave?» chiese Ray leggendo il nome dal biglietto. «Un tizio che ho conosciuto qualche anno fa. Mi ha aiutato e ora è in quel posto.» «È un centro di disintossicazione.» «Disintossicazione, riabilitazione, unità antidroga, istituto di recupero, località termale, ranch, villaggio, galera, prigione, corsia psichiatrica, chiamalo come vuoi. Non m'importa. Ho bisogno d'aiuto, Ray. Ora.» Si coprì il volto con le mani e cominciò a piangere. «Va bene, va bene. Vuoi darmi qualche particolare?»
Forrest si asciugò occhi e naso e risucchiò aria riempiendosi i polmoni. «Telefona e chiedi se hanno una stanza» rispose con un tremito nella voce. «Per quanto tempo vuoi restare?» «Quattro settimane, penso, ma te lo dirà Oscar.» «E quanto costa?» «Intorno ai trecento dollari al giorno. Pensavo di prendere magari un anticipo sulla mia quota di questa casa, chiedere a Harry Rex di sentire il giudice se c'è un modo per avere un po' di soldi subito.» Le lacrime gli scendevano dagli occhi. Ray aveva già visto quelle lacrime. Aveva già sentito le suppliche e le promesse, e per quanto si sforzasse di essere refrattario e cinico, provò un moto di commozione. «Faremo qualcosa» lo rassicurò. «Lo chiamerò.» «Ti prego, Ray, voglio andarci immediatamente.» «Oggi?» «Sì, io... be', non posso tornare a Memphis.» Chinò la testa e si passò le dita nei capelli lunghi. «C'è qualcuno che ti cerca?» «Sì» annuì. «Gente poco simpatica.» «Polizia?» «No, sono molto peggio della polizia.» «Sanno che sei qui?» chiese Ray guardandosi intorno. Gli pareva quasi di scorgere narcotrafficanti armati fino ai denti nascosti fra i cespugli. «No, non hanno idea di dove sia.» Ray rientrò in casa. Come tanti, Oscar Meave ricordava bene Forrest. Si erano conosciuti a Memphis a un programma di disintossicazione gestito dalle autorità federali e, sebbene lo rattristasse sentire che Forrest aveva bisogno d'aiuto, era lo stesso contento di parlare di lui con Ray, il quale fece del suo meglio per trasmettere l'urgenza della situazione, per quanto all'oscuro dei particolari. Il loro padre era morto tre settimane prima, spiegò Ray, già cominciando a dare giustificazioni. «Lo porti qui» lo sollecitò Meave. «Gli troveremo un posto.» Partirono mezz'ora più tardi sull'auto a noleggio di Ray. La Jeep di Forrest era stata spostata dietro la casa, come misura precauzionale. «Sei sicuro che questa gente non verrà a cercarti?» chiese Ray. «Non sanno dove sono» rispose Forrest. Aveva posato la nuca sul poggiatesta e nascondeva gli occhi dietro occhiali scuri alla moda. «Ma chi sono?»
«Dei simpaticoni di un posto a sud di Memphis. Ti piacerebbero.» «Gli devi dei soldi?» «Sì.» «Quanto?» «Quattromila dollari.» «E dove sono finiti questi quattromila?» Forrest si batté delicatamente un polpastrello sul naso. Ray scosse la testa frustrato e in collera, e si morsicò la lingua per contenere l'ennesima ramanzina. Aspettiamo qualche chilometro, si disse. Ora erano in aperta campagna, con i campi di aziende agricole su entrambi i lati. Forrest cominciò a russare. Ne sarebbe venuto fuori un altro capitolo del romanzo di Forrest: la terza volta in cui Ray lo caricava personalmente in macchina per trasportarlo in un istituto di disintossicazione. L'ultima volta risaliva a dieci anni prima, quando il Giudice aveva ancora la sua aula, Claudia era ancora al suo fianco e Forrest si faceva di tutto quello che offriva il mercato. La situazione era la solita. Gli agenti della Narcotici avevano teso un'ampia rete intorno a lui ed era stato solo per pura fortuna che Forrest era riuscito a scivolarne fuori. Sospettavano che lui spacciasse, ed era vero, e se lo avessero preso sarebbe stato ancora in prigione. Ray lo aveva portato in un ospedale statale vicino alla costa, dove il Giudice aveva manovrato perché fosse ricoverato. Lì aveva dormito per un mese prima di andarsene di sua volontà. La prima visita a un istituto di recupero era stata durante gli anni in cui Ray frequentava la scuola di legge di Tulane. Forrest era sotto l'effetto di un'overdose o di una combinazione micidiale di pasticche. Gli avevano praticato una lavanda gastrica e c'era mancato poco che lo dichiarassero morto. Il Giudice lo aveva spedito in un centro nelle vicinanze di Knoxville, dove i cancelli erano chiusi con il lucchetto e intorno al recinto c'era il filo spinato. Forrest ci era rimasto una settimana prima di scappare. Era stato in galera due volte, la prima quand'era minorenne, la seconda da adulto, sebbene avesse solo diciannove anni. Il primo arresto era avvenuto un venerdì sera a Clanton, poco prima di una partita per i playoff del campionato scolastico di football, con tutta la città in attesa del calcio d'inizio. Aveva sedici anni, terzo anno di superiori, quarterback nel torneo studentesco, un kamikaze a cui piaceva lanciare all'ultimo momento e colpire con il casco. Gli agenti della Narcotici lo avevano prelevato dallo spogliatoio e lo avevano portato via in manette. A sostituirlo era entrata in campo una matricola senza allenamento, e quando la squadra di Clanton
era stata massacrata la città non aveva più perdonato Forrest Atlee. Ray era seduto sugli spalti con il Giudice, in ansia come tutti. "Dov'è Forrest?" avevano cominciato a chiedersi tra il pubblico nel prepartita. Mentre veniva lanciata la moneta, Forrest era nella prigione della città, dove lo stavano fotografando e gli stavano prendendo le impronte digitali. In macchina gli avevano trovato trentacinque grammi di marijuana. Aveva passato due anni in un carcere minorile ed era stato rilasciato il giorno del suo diciottesimo compleanno. Come può il figlio sedicenne di un eminente magistrato diventare spacciatore in una cittadina del Sud dove non si era mai sentito parlare di droga? Era una domanda che Ray e suo padre si erano posti mille volte. Solo Forrest conosceva la risposta e già da molto tempo aveva deciso di tenerla per sé. Ray era contento che avesse seppellito quasi tutti i suoi segreti. Dopo un bel sonno, Forrest si svegliò di soprassalto e dichiarò di aver bisogno di qualcosa da bere. «No» rispose Ray. «Un analcolico, giuro.» Si fermarono a comprare delle bibite. Come prima colazione Forrest fece fuori una confezione di noccioline. «In alcuni di questi posti si mangia bene» disse quand'erano di nuovo in viaggio. Forrest, la guida turistica dei centri di disintossicazione; Forrest, l'inviato della Michelin negli istituti di riabilitazione. «Di solito perdo qualche chilo» aggiunse sgranocchiando. «Hanno palestre e cose del genere?» chiese Ray tanto per tenere viva la conversazione. In realtà non aveva voglia di discutere dell'attrezzatura dei vari ricoveri per tossici. «In qualche caso, sì» rispose Forrest compiaciuto. «Una volta Ellie mi ha mandato in un posto in Florida che era vicino a una spiaggia. Tanta sabbia e acqua, un sacco di ricconi tristi. Tre giorni di lavaggio del cervello, poi ci hanno spaccato il culo. Escursioni, bici, footing, anche i pesi, se volevamo. Mi feci una splendida abbronzatura e buttai giù sei chili. Restai pulito per otto mesi.» Nella sua misera, breve vita, tutto era misurato in periodi di sobrietà. «Ti ci ha mandato Ellie?» domandò Ray. «Sì, anni fa. A un certo punto si è trovata con un po' di grana, poca cosa. Io avevo toccato il fondo ed erano ancora i tempi in cui a lei importava qualcosa di me. Un bel posto, però, e alcune assistenti erano quelle bambole della Florida con le sottane corte e le gambe lunghe.»
«Sarà il caso che vada a darci un'occhiata.» «Non dire stronzate.» «Scherzavo.» «C'è quest'altro posto sulla costa occidentale dove vanno tutte le star, l'Hacienda. È come essere al Ritz: camere da signori, acque termali, massaggi quotidiani, chef capaci di prepararti pranzetti prelibati da non più di mille calorie al giorno. E gli assistenti sono i migliori al mondo. È di questo che ho bisogno, fratello, sei mesi all'Hacienda.» «Perché sei mesi?» «Perché mi servono sei mesi. Ho provato due mesi, un mese, tre settimane, due settimane, non bastano mai. Per me ci vogliono sei mesi di segregazione completa, lavaggio del cervello completo, terapia completa, più la mia massaggiatrice privata.» «E quanto costa?» Forrest emise un fischio e alzò gli occhi al soffitto. «Fai tu. Non lo so. Bisogna avere un fantastiliardo e due raccomandazioni per entrare. Pensa un po' a una lettera di raccomandazione. "Alla brava gente dell'Hacienda: il sottoscritto raccomanda vivamente il proprio amico Doofus Smith perché venga accolto come paziente nella vostra favolosa struttura. Doofus beve vodka per prima colazione, tira coca per pranzo, fa merenda con l'eroina e di solito all'ora di cena è in coma. Ha il cervello fritto, le vene a pezzi, il fegato devastato. Doofus è l'uomo che fa per voi e il suo vecchio è padrone dell'Idaho."» «Tengono pazienti per sei mesi?» «Non sai proprio niente, eh?» «Già.» «Molti di quelli che si fanno di coca hanno bisogno di un anno. Ancora di più per gli eroinomani.» E qual è il tuo veleno attuale? avrebbe voluto chiedergli Ray, ma allo stesso tempo non voleva saperlo. «Un anno?» si meravigliò. «Sì, segregazione totale. E poi l'ex tossico deve cavarsela da solo. Conosco certi che sono stati in prigione per tre anni senza coca, senza crack, senza niente di niente, e quando sono stati rilasciati hanno chiamato uno spacciatore prima di telefonare alla moglie o alla fidanzata.» «Che fine fanno?» «Non bella.» Si lanciò in bocca le ultime arachidi e si strofinò le mani spargendo all'intorno granelli di sale. Non c'erano cartelli che indicassero l'Alcorn Village. Seguirono le istru-
zioni di Oscar finché furono sicuri di essersi persi tra le colline, poi videro un cancello in lontananza. In fondo a una strada alberata si aprì davanti a loro un grande complesso. Era un luogo tranquillo e appartato e a una prima occhiata Forrest decise per un voto piuttosto alto. Oscar Meave li raggiunse nella hall e li guidò in un ufficio di accettazione dove si occupò di persona dei preliminari burocratici. Era un consulente, un amministratore, uno psicologo, un ex tossicodipendente che, dopo essersi disintossicato alcuni anni prima, aveva conseguito due lauree. Indossava jeans, felpa e scarpe da ginnastica; aveva il pizzetto, portava gli orecchini e mostrava le rughe e un dente scheggiato, ricordi di una vita precedente abbastanza turbolenta. Ma la sua voce era morbida e cordiale. Manifestava la rude compassione di uno che è già passato per la strada che stava percorrendo Forrest. La retta era di trecentoventicinque dollari al giorno e Oscar consigliava un minimo di quattro settimane. «Dopodiché vediamo a che punto è. Dovrò fare qualche domanda un po' brutale sui trascorsi di Forrest.» «Non voglio ascoltare questa conversazione» dichiarò Ray. «Non la sentirai» promise Forrest. Era rassegnato alla fustigazione che lo attendeva. «E abbiamo bisogno di un anticipo pari a metà della somma» aggiunse Oscar. «L'altra metà prima che sia completato il trattamento.» Ray fece una smorfia e cercò di ricordare quale fosse il saldo del suo conto in banca in Virginia. Aveva tutto il contante che si poteva desiderare, ma non era il momento opportuno per usarlo. «I soldi provengono dall'eredità di mio padre» spiegò Forrest. «Potrebbe volerci qualche giorno.» «Nessuna eccezione. La nostra politica è metà subito.» «Non c'è problema» lo tranquillizzò Ray. «Le faccio un assegno.» «Io voglio che vengano dall'eredità» insisté Forrest. «Non devi pagare tu.» «Mi farò rimborsare.» Ray non sapeva come, ma avrebbe lasciato che fosse Harry Rex a risolvere il problema. Firmò i moduli come garante del pagamento. Forrest appose la sua firma in calce a un foglio su cui era elencato tutto ciò che gli era permesso e vietato. «Non potrai andartene prima di ventotto giorni» precisò Oscar. «Se lo farai, non potrai chiedere indietro i soldi che hai pagato e non ti sarà mai più concesso di tornare. Intesi?» «Intesi» rispose Forrest. Quante volte c'era già passato?
«Sei qui perché lo vuoi tu, giusto?» «Giusto.» «E nessuno ti sta costringendo?» «Nessuno.» Ora che il castigo era iniziato, per Ray era giunto il momento di andarsene. Ringraziò Oscar e abbracciò Forrest, poi filò via più velocemente di come era arrivato. 25 Ormai Ray era sicuro che il denaro contante era stato raccolto dal 1991 in poi, cioè dall'anno in cui il Giudice aveva lasciato l'incarico. Fino ad allora accanto a lui c'era stata Claudia, e lei non sapeva niente dei soldi. Non erano frutto di gratifiche o di vincite al gioco. Non erano nemmeno i proventi di abili investimenti effettuati in segreto, perché non aveva trovato un solo pezzo di carta da cui risultasse che il Giudice avesse acquistato o venduto un'azione o un'obbligazione. Non aveva trovato nulla neppure il commercialista ingaggiato da Harry Rex perché determinasse l'entità del patrimonio e preparasse la dichiarazione dei redditi finale. Aveva detto che era stato facile spuntare e riordinare i beni del Giudice, perché tutte le sue operazioni erano transitate dalla First National Bank di Clanton. È quello che pensi tu, aveva commentato tra sé Ray. In giro per casa c'era una quarantina di scatoloni pieni di vecchie scartoffie inutili. La ditta delle pulizie li aveva radunati e accatastati nello studio e nel soggiorno. Gli ci volle qualche ora, ma trovò finalmente quello che cercava. Due degli scatoloni contenevano gli appunti e i dati delle ricerche svolte; i "processuali", come li aveva sempre chiamati il Giudice, relativi ai casi che aveva ascoltato in qualità di giudice speciale dopo la sconfitta elettorale subita nel 1991. Durante una causa, il Giudice riempiva ininterrottamente pagine supagine di bloc-notes. Trascriveva date, ore, fatti salienti, tutto quello che poteva aiutarlo a giungere a una delibera finale. Spesso interveniva per rivolgere direttamente una domanda a un teste e più di una volta ricorreva ai suoi appunti per correggere gli avvocati. Ray lo aveva sentito scherzare, naturalmente in privato, dicendo che prendere appunti lo aiutava a restare sveglio. In una causa che andava per le lunghe era capace di riempire fino a venti bloc-notes.
Poiché era avvocato prima che giudice, aveva acquisito l'abitudine di archiviare e conservare tutto. Un processuale era costituito dai suoi appunti, copie delle documentazioni a cui si rifacevano gli avvocati, copie di dispositivi e articoli di legge, persino le eventuali comparse che non seguissero l'iter procedurale standard. Con il trascorrere degli anni, i processuali perdevano di valore, ma avevano finito per riempire tutti quegli scatoloni. Secondo le sue dichiarazioni dei redditi, dal 1993 aveva guadagnato, in qualità di giudice speciale, occupandosi di vertenze che nessun altro desiderava trattare. Non era insolito che nelle zone rurali si verificassero questioni troppo delicate per un giudice eletto. Una delle parti in causa presentava istanza di ricusazione del giudice, il quale, attenendosi alla routine, proclamava la propria capacità di essere giusto e imparziale a prescindere dai fatti e dall'identità delle parti, per poi tirarsi malvolentieri indietro e cedere il posto a un vecchio collega di qualche altra parte dello Stato. Il giudice speciale si presentava allora senza il fardello di pregiudizi e senza le preoccupazioni di una bagarre elettorale per una rielezione. In certe giurisdizioni spettava ai giudici speciali alleggerire il peso di giudici ordinari oberati di lavoro. Di tanto in tanto sostituivano un magistrato malato. Erano quasi tutti in pensione. Lo Stato pagava loro cinquanta dollari l'ora più le spese. Nel 1992, l'anno successivo alla sua sconfitta, il giudice Atlee non aveva guadagnato nulla. Nel 1993 aveva incassato 5800 dollari. L'anno più proficuo, il 1996, gli aveva fruttato 16.300 dollari. Nell'anno precedente la sua morte, il 1999, aveva guadagnato 8760 dollari, ma era anche stato spesso malato. Tirando le somme, nei sette anni in cui aveva svolto mansioni di giudice speciale aveva totalizzato 56.590 dollari e tutti i proventi erano inclusi nelle sue dichiarazioni dei redditi. Ray desiderava sapere che genere di casi avesse trattato il giudice Atlee negli ultimi anni. Harry Rex gliene aveva menzionato uno, la sensazionale causa di divorzio di un governatore in carica. Corrispondeva a un processuale spesso quattro dita, nel quale erano conservati i ritagli del quotidiano di Jackson con le fotografie del governatore, della sua di lì a poco ex moglie e di una donna che si diceva fosse la sua fiamma del momento. Il dibattimento era durato due settimane e, secondo gli appunti, il giudice Atlee lo aveva gustato infinitamente. C'era stato un caso di esproprio nei pressi di Hattiesburg che era durato due settimane e aveva irritato tutte le parti coinvolte. La città si estendeva
in direzione ovest e aveva messo gli occhi su alcuni terreni adatti a uno sviluppo industriale. Erano partite le querele, e due anni dopo il giudice Atlee aveva riunito tutti per un processo. Anche riguardo a quella vicenda c'erano articoli di giornale, ma dopo un'ora di lettura Ray si stancò di quella bega così complicata. Non riusciva a pensare come si potesse presiedere un dibattito come quello per un mese. Ma almeno c'erano di mezzo dei quattrini. Nel 1995 il giudice Atlee aveva tenuto udienze per otto giorni nella cittadina di Kosciusko, a due ore da Clanton, ma dal materiale archiviato non risultava che il dibattimento avesse trattato nulla di rilevante. Nel 1994 nella contea di Tishomingo c'era stato uno spaventoso incidente con il coinvolgimento di un'autocisterna. Cinque adolescenti erano rimasti intrappolati in una macchina ed erano morti carbonizzati. Poiché le vittime erano minorenni, il caso era di competenza della Corte di cancelleria. Un giudice in carica aveva legami di parentela con una delle vittime. L'altro stava morendo di un tumore al cervello. Era stato quindi interpellato il giudice Atlee, il quale aveva presieduto due giorni di dibattimento prima che le parti giungessero a un accordo per un indennizzo pari a 7.400.000 dollari. Un terzo era andato ai rappresentanti legali dei ragazzi rimasti uccisi, il resto alle loro famiglie. Ray posò l'incartamento sul divano del Giudice, di fianco al caso dei terreni acquisiti illegalmente. Era seduto per terra nello studio, sul parquet appena lucidato e sotto lo sguardo vigile del generale Forrest. Aveva un'idea vaga di ciò che stava facendo, e nessun vero piano su come procedere. Esaminare le pratiche, scegliere quelle che riguardavano questioni finanziarie, vedere dove potesse portare il relativo processo. Il denaro che aveva trovato nascosto a pochi metri da dove sedeva in quel momento doveva pur essere sbucato da qualche parte. Squillò il suo cellulare. Era una società di vigilanza di Charlottesville che trasmetteva un messaggio registrato avvertendolo di un'intrusione illecita in atto nel suo appartamento. Balzò in piedi e parlò con se stesso mentre il messaggio finiva. La stessa telefonata sarebbe giunta simultaneamente alla polizia e a Corey Crawford. Il quale, dopo qualche secondo, lo chiamò: «Ci sto andando» lo informò, e l'impressione fu che stesse correndo. Erano quasi le nove e mezzo ora locale, dieci e mezzo a Charlottesville. Ray si mise a passeggiare, del tutto impotente. Trascorsero quindici minuti prima che Crawford telefonasse di nuovo. «Ci sono» annunciò. «Con
la polizia. Qualcuno ha forzato la serratura della porta che dà sulla strada e poi quella dell'appartamento, facendo scattare l'allarme. Non hanno avuto molto tempo. Dove controlliamo?» «In casa non c'è niente di particolarmente prezioso» rispose Ray, cercando di indovinare che cosa avesse potuto desiderare un ladro. Non c'erano contanti, gioielli, oggetti d'arte, fucili da caccia, oro o argento. «Televisore, impianto stereo, microonde. Qui c'è tutto» riferì Crawford. «Hanno buttato in giro libri e riviste, hanno rovesciato il tavolo vicino al telefono della cucina, ma erano di fretta. Niente in particolare?» «No, non mi viene in mente niente.» Ray sentì gracchiare una trasmittente della polizia. «Quante camere da letto ci sono?» chiese Crawford passando da una stanza all'altra. «Due, la mia è quella di destra.» «Le porte degli armadi sono tutte aperte. Cercavano qualcosa. Qualche idea?» «No.» «Nessun segno che siano entrati nell'altra camera da letto» riferì Crawford, poi si mise a parlare ai due poliziotti. «Rimanga in linea» disse a Ray, che era fermo sulla porta d'ingresso a guardare attraverso la zanzariera, immobile. Cercava di pensare al sistema più rapido per tornare a casa. I poliziotti e Crawford conclusero che era stato un colpo fulmineo di un esperto topo d'appartamenti che era stato sorpreso dall'allarme. Aveva forzato le due serrature con danni minimi, si era reso conto che c'era un allarme, aveva ispezionato rapidamente l'abitazione in cerca di qualcosa in particolare e, non avendolo trovato, aveva buttato all'aria un po' di roba giusto per ripicca prima di dileguarsi. Lui o loro: poteva aver operato più di una persona. «È necessario che lei venga qui per indicare alla polizia se manca qualcosa e preparare una dichiarazione scritta» disse Crawford. «Sarò lì domani» ribatté Ray. «Si può blindare il mio appartamento per questa notte?» «Inventeremo qualcosa.» «Mi richiami quando la polizia se ne sarà andata.» Si sedette sui gradini fuori casa e ascoltò i grilli soffrendo per non essere al Chaney's Self-Storage. Seduto al buio con la pistola del Giudice, pronto a far fuori chiunque si fosse avvicinato. Quindici ore di macchina. Tre e mezzo su un aereo privato. Chiamò Fog Newton e non ebbe risposta.
Il telefono lo fece sussultare di nuovo. «Mi trovo ancora nell'appartamento» lo informò Crawford. «Non credo che sia stato un caso» dichiarò Ray. «Mi ha parlato di roba preziosa, oggetti di famiglia immagazzinati al Chaney's Self-Storage.» «Sì. Non avrebbe modo di sorvegliare anche lì, per questa notte?» «Hanno sistemi di sicurezza che funzionano piuttosto bene, guardie e telecamere.» Crawford aveva la voce stanca e non sembrava entusiasta all'idea di dover sonnecchiare in macchina tutta la notte. «Può farlo?» «Io non posso entrarci. Bisogna essere clienti.» «Sorvegliate l'entrata.» Crawford grugnì e respirò a fondo. «Va bene, vado a controllare, magari mando qualcuno a montare di guardia.» «Grazie. La chiamo domani appena arrivo in città.» Telefonò al Chaney's ma non gli rispose nessuno. Attese cinque minuti, chiamò di nuovo, contò quattordici squilli, poi udì una voce. «Chaney's, sicurezza. Parla Murray.» Ray spiegò molto educatamente chi era e che cosa voleva. Aveva in affitto tre unità e c'era qualche preoccupazione perché poco prima qualcuno aveva scassinato il suo appartamento in centro. Il signor Murray poteva per piacere dedicare un'attenzione speciale ai magazzini 14B, 37F e 18R? «Nessun problema» rispose Murray, che parve sbadigliare al telefono. «Sono un po' nervoso» si giustificò Ray. «Nessun problema» borbottò Murray. Ci vollero un'ora e due drink perché la tensione si allentasse. A Charlottesville non si era avvicinato di un solo centimetro. Aveva avuto l'impulso di tuffarsi a bordo della macchina a noleggio e attraversare la notte a tutta birra, ma gli era passato. Preferiva dormire e cercare un aereo l'indomani mattina. Ma dormire era impossibile, così tornò ai processuali. Una volta il giudice aveva confessato di sapere poco delle leggi urbanistiche perché nel Mississippi c'erano ben pochi regolamenti, e praticamente nessuno nelle sei contee del Venticinquesimo distretto. Qualcuno, però, era riuscito a immischiarlo in un aspro conflitto per una questione territoriale nella città di Columbus. La causa era durata sei giorni e, secondo i suoi appunti, dopo la sentenza uno sconosciuto al telefono aveva minacciato di sparargli.
Le minacce non erano un fatto insolito e si sapeva che per anni il Giudice era andato in giro con una pistola nella cartella. Si diceva che ne avesse una anche Claudia. La battuta ricorrente era che fosse molto meglio farsi sparare dal Giudice che dalla sua stenografa. Il caso della presunta violazione del regolamento urbanistico riuscì quasi a farlo addormentare, ma poi Ray trovò un vuoto, il buco nero che andava cercando, e allora si dimenticò del sonno. Secondo le dichiarazioni dei redditi, nel gennaio 1999 il Giudice aveva ricevuto 8110 dollari per occuparsi di un caso al Ventisettesimo distretto. Il Ventisettesimo comprendeva due contee sulla Gulf Coast, una sezione dello Stato che al Giudice andava poco a genio. Per questo motivo Ray trovò alquanto singolare che si fosse volontariamente offerto di andare a trascorrervi qualche giorno. Ancor più singolare era l'assenza di un processuale. Frugò nelle due scatole e non trovò niente relativo a un caso dibattuto sulla costa. Dominando a fatica la curiosità, proseguì nella sua ispezione passando in rassegna le altre decine di scatole. Dimenticò il suo appartamento e il deposito privato, smise di preoccuparsi se il signor Murray fosse sveglio o addirittura vivo e quasi scordò i soldi. Mancava un processuale. 26 Il volo US Air partiva da Memphis alle sei e quaranta del mattino. Ciò significava che Ray doveva lasciare Clanton non più tardi delle cinque, così dormì tre ore circa, il periodo di sonno per lui normale a Maple Run. Durante la prima tratta si assopì, poi di nuovo all'aeroporto di Pittsburgh e ancora sul volo navetta per Charlottesville. Appena arrivato ispezionò l'appartamento e si addormentò sul divano. I soldi non erano stati toccati. Non c'erano state intrusioni non autorizzate in nessuna delle sue tre piccole unità di deposito al Chaney's. Non c'era nulla fuori dell'ordinario. Si chiuse a chiave dentro il 18R, aprì le cinque casse ignifughe e impermeabili e contò cinquantatré buste da congelatore. Seduto sul pavimento di cemento, circondato da tre milioni di dollari, Ray Atlee ammise finalmente l'enorme importanza che aveva acquistato il denaro. Finora il vero orrore era stato la possibilità di averlo perso. Ora aveva paura a lasciarlo. Nelle tre settimane precedenti era aumentato il suo interesse sul costo di
questo o quell'oggetto, su che cosa si potesse acquistare con una somma come quella che aveva a disposizione lui, e su come investirlo secondo diversi livelli di rischio. Ogni tanto si considerava ricco, ma poi scacciava quei pensieri. Però erano sempre in agguato, appena dietro l'angolo, e continuavano a fare capolino. Gli interrogativi stavano trovando lentamente le dovute risposte: no, non era contraffatto, no non era rintracciabile, no non era stato vinto ai casinò, no non era stato sgraffignato agli avvocati e ai querelanti del Venticinquesimo distretto. E, no, non poteva essere diviso con Forrest, perché lui se ne sarebbe servito per ammazzarsi. No, non poteva essere incluso nel patrimonio dell'eredità per diverse eccellenti ragioni. A una a una, le alternative venivano eliminate. Poteva ritrovarsi obbligato a tenerlo. Ci furono colpi violenti alla porta di metallo e per poco non cacciò un grido. Saltò in piedi urlando: «Chi è?». «Sicurezza» gli rispose una voce vagamente familiare. Scavalcò il denaro e raggiunse la porta, che aprì di non più di dieci centimetri. Il signor Murray gli sorrideva. «Tutto bene, lì dentro?» domandò, più custode che guardia armata. «Bene, grazie» rispose Ray con il cuore ancora in gola. «Se ha bisogno di qualcosa, me lo faccia sapere.» «Grazie per la notte scorsa.» «Ho solo fatto il mio dovere.» Ray ripose il denaro nelle scatole, chiuse tutto a chiave e attraversò la città con un occhio allo specchietto retrovisore. Il suo padrone di casa inviò dei falegnami messicani a riparare le due porte danneggiate. Martellarono e segarono per mezzo pomeriggio, poi, quando ebbero finito, accettarono una birra ghiacciata. Ray chiacchierò con loro mentre li accompagnava fuori del suo appartamento. Sul tavolo della cucina c'era una pila di corrispondenza e, dopo averla ignorata per quasi tutto il giorno, si sedette e affrontò l'incombenza. Fatture da pagare. Cataloghi e pubblicità. Tre biglietti di condoglianze. E poi una lettera dell'ufficio delle Imposte, indirizzata al signor Ray Atlee, esecutore testamentario di Reuben V. Atlee, con un timbro di Atlanta di due giorni prima. La esaminò con attenzione prima di aprirla adagio. Un foglio singolo di carta intestata di un certo Martin Gage, ufficio Investigazioni criminali, sede di Atlanta. Diceva:
Egregio signor Atlee, come esecutore testamentario di suo padre, le è richiesto per legge di includere tutti i beni patrimoniali per la valutazione e la determinazione della relativa imposta. Omettere qualche risorsa potrebbe configurare il reato di frode fiscale. L'erogazione non autorizzata di beni patrimoniali è una violazione delle leggi del Mississippi e potrebbe essere in contrasto anche con le leggi federali. Martin Gage, Investigatore criminale Il primo impulso fu di chiamare Harry Rex per sapere quali informazioni erano state inviate all'ufficio delle Imposte. Come esecutore, aveva un anno di tempo dalla data del decesso per presentare la dichiarazione finale e, secondo il commercialista, le proroghe costituivano una consuetudine. Il timbro della lettera corrispondeva al giorno seguente l'udienza di registrazione alla quale avevano preso parte lui e Harry Rex. Perché il fisco avrebbe dovuto essere così precipitoso? Come potevano addirittura essere al corrente della morte di Reuben Atlee? Telefonò invece al numero indicato nell'intestazione della lettera. Il messaggio registrato gli diede il benvenuto all'ufficio delle Imposte di Atlanta, ma avrebbe dovuto chiamare un'altra volta perché era sabato. Si collegò a Internet e nell'elenco abbonati di Atlanta trovò tre Martin Gage. Al primo numero gli rispose una donna, la quale disse che suo marito era fuori città e che, grazie al cielo, non lavorava per il fisco. La seconda telefonata rimase senza risposta. Al terzo tentativo trovò un certo signor Gage occupato a cenare. «Lei lavora all'ufficio delle Imposte?» chiese Ray dopo essersi educatamente presentato come professore di legge ed essersi scusato per il disturbo. «In effetti, sì.» «Investigazioni criminali?» «Sì, sono io. Da quattordici anni.» Ray gli descrisse la lettera, gliela lesse parola per parola. «Non l'ho scritta io» dichiarò Gage. «Chi, allora?» ribatté Ray con una durezza della quale si rammaricò subito. «Come faccio a saperlo? Me la può spedire via fax?» Ray guardò il suo apparecchio e, pensando alla svelta, rispose: «Sì, ma il
mio fax è in ufficio. Posso mandargliela solo lunedì». «La scannerizzi e me la invii per e-mail» propose Gage. «Ah, ma ho lo scanner guasto, al momento. Gliela faccio avere via fax lunedì.» «D'accordo, ma guardi che c'è qualcuno che le sta giocando qualche tiro. Quella lettera non è mia.» Ray ebbe improvvisamente fretta di sbarazzarsi del fisco, ma ormai Gage c'era dentro fino in fondo. «Le dirò anche un'altra cosa» continuò. «Farsi passare per agente dell'ufficio delle Imposte è un reato federale che perseguiamo con vigore. Non ha nessuna idea di chi possa essere?» «Proprio no.» «Avrà probabilmente preso il mio nome dal nostro elenco online, la peggior cosa che abbiamo mai fatto. Tutte quelle balle sulla libertà d'informazione.» «Già.» «Quando è stato registrato il testamento?» «Tre giorni fa.» «Tre giorni fa! La dichiarazione per il fisco va fatta di qui a un anno.» «Lo so» «In che cosa consiste il patrimonio?» «Niente. Una vecchia casa.» «Qualche buontempone. Me la mandi per fax lunedì e mi farò sentire.» «Grazie.» Ray posò il ricevitore e si domandò perché mai gli fosse venuto in mente di chiamare l'ufficio delle Imposte. Per verificare l'autenticità della lettera. Gage non ne avrebbe mai avuta una copia. Di lì a un mese se ne sarebbe dimenticato. E di lì a un anno non l'avrebbe rammentata nemmeno se qualcuno gliene avesse parlato. Forse non era stata la sua mossa più brillante fino a quel momento. Forrest si era integrato nella routine dell'Alcorn Village. Gli erano consentite due telefonate al giorno che però venivano registrate, spiegò. «Non vogliono che chiamiamo i nostri fornitori.» «Non è divertente» replicò Ray. Parlava con il Forrest più sobrio, quello con la cadenza un po' strascicata e la mente lucida. «Perché sei in Virginia?» chiese. «È casa mia.» «Credevo che ti saresti trattenuto per andare a trovare qualche amico qui
intorno, vecchi compagni della scuola di legge.» «Tornerò tra poco. Come si mangia?» «Come in un ospizio, Jell-O tre volte al giorno ma sempre di un colore diverso. Fa veramente schifo. Per trecento dollari e rotti al giorno è uno sconcio.» «Qualche bella ragazza?» «Una, ma ha quattordici anni. È figlia di un giudice, pensa un po'. Gente veramente triste. Sono in questo gruppo che si riunisce una volta al giorno, e ciascuno rovescia tutto il male che gli viene in mente su chi lo ha iniziato alla droga. Parliamo a voce alta dei nostri problemi. Ci diamo una mano l'uno con l'altro. Diavolo, ne so più io dei consulenti. Questo è il mio ottavo tentativo di disintossicazione, fratello, ci credi?» «Mi sembravano di più.» «Che carino. Sai che cosa c'è di storto?» «Che cosa?» «Quando sono pulito sono felice. Mi sento bene, mi sento forte, mi sembra di poter fare tutto quello che voglio. Poi, quando mollo e faccio tutte quelle cose cretine come gli altri falliti, mi detesto. Non so perché faccio così.» «Ti sento in forma, Forrest.» «Questo posto mi piace, a parte la cucina.» «Bene, sono fiero di te.» «Puoi venire a trovarmi?» «Verrò di certo. Dammi un paio di giorni.» Trovò Harry Rex in ufficio, dove trascorreva di solito i fine settimana. Con quattro mogli sul groppone, era più che comprensibile. «Ricordi di una causa che il Giudice andò a presiedere sulla costa all'inizio dell'anno scorso?» gli domandò. Harry Rex stava mangiando qualcosa e masticava nel ricevitore. «Sulla costa? La odiava, diceva che erano tutti un branco di campagnoli mafiosi.» «Ha ricevuto dei soldi per un processo che si è tenuto laggiù nel gennaio dell'anno scorso.» «L'anno scorso era malato» rispose Harry Rex, poi deglutì qualcosa di liquido. «Il cancro gli è stato diagnosticato in luglio.» «Io non ricordo una causa sulla costa» disse Harry Rex e affondò i denti in qualcos'altro. «Mi meraviglia.»
«Anche me.» «Perché stai esaminando i suoi incartamenti?» «Confronto le sue entrate con i processuali.» «Perché?» «Perché sono l'esecutore.» «Chiedo scusa. Quando torni?» «Tra un paio di giorni.» «Ehi, oggi ho incontrato Claudia, erano mesi che non la vedevo. Arriva in città di buon'ora e parcheggia una Cadillac nuova di zecca vicino al Coffee Shop in maniera che tutti la vedano, poi passa mezza mattinata a gironzolare per la città. Che elemento!» Ray non poté non sorridere al pensiero di Claudia che si precipitava dal concessionario con le tasche piene di contanti. Il Giudice ne sarebbe stato orgoglioso. Dormì a spizzichi e bocconi sul divano. Le pareti scricchiolarono più forte, le prese d'aria e le tubature gli sembrarono più rumorose. Le cose un po' si muovevano e un po' no. La notte dopo l'intrusione, tutto l'appartamento tremava in attesa della successiva. 27 Sforzandosi di mantenere un atteggiamento normale, Ray fece una lunga corsa scegliendo uno dei suoi itinerari preferiti, lungo l'isola pedonale, giù per Main Street fino al campus, su per l'Observatory Hill e ritorno, dieci chilometri in tutto. Pranzò con Carl Mirk al Bizou, un popolare bistrot a tre isolati da casa, e bevve un caffè a un bar all'aperto. Fog aveva riservato il Bonanza per una sessione di addestramento alle tre del pomeriggio, ma poi arrivò la posta e tutti i programmi andarono all'aria. L'indirizzo sulla busta era scritto a mano, niente mittente, timbro di Charlottesville del giorno prima. Un candelotto di dinamite posato sul tavolo della cucina non sarebbe potuto apparire più sospetto. Dentro la busta c'era un foglio ripiegato in tre e quando Ray lo aprì, restò di sasso. Per un momento non poté pensare, respirare, sentire. Era una foto digitale a colori della facciata del 14B al Chaney's, stampata da un computer su normale carta da copiatrice. Nessuna parola, niente avvertimenti né minacce. Non ce n'era bisogno. Quando Ray riprese a respirare cominciò anche a sudare e, passato il momento di totale insensibilità, avvertì anche una fitta, come una coltellata
che gli attraversava lo stomaco. Gli girava la testa, perciò chiuse gli occhi, e quando li riaprì e guardò di nuovo la foto, vide che tremava. Il suo primo pensiero, il primo che avrebbe ricordato, fu che nell'appartamento non c'era niente di cui non potesse fare a meno. Poteva lasciare lì tutto quanto. Ma riempì lo stesso una piccola borsa. Tre ore più tardi si fermò a fare benzina a Roanoke e tre ore dopo ancora entrò in un'area di ristoro appena a est di Knoxville. Rimase seduto in macchina per un bel pezzo, rannicchiato nell'abitacolo della sua TT a guardare il via-vai di camionisti, a osservare le persone che entravano e uscivano dal caffè affollato. Attraverso la vetrina teneva d'occhio il tavolo che voleva occupare, e quando si liberò chiuse l'Audi ed entrò. Da quel tavolo poteva controllare la sua macchina, a venti metri, carica di tre milioni di dollari in contanti. Dall'odore dedusse che la specialità della tavola calda doveva essere lo strutto. Ordinò un hamburger e cominciò a scrivere su un tovagliolino di carta. Il luogo più sicuro per i soldi era una banca, in una capiente cassetta di sicurezza, dietro a muri massicci, con telecamere e tutto il resto. Poteva dividere il denaro e distribuirlo in vari istituti di credito di differenti città comprese fra Charlottesville e Clanton, lasciando dietro di sé tracce complicate da seguire. Avrebbe potuto usare una valigetta per portare i soldi in banca con la dovuta discrezione. Messi sotto chiave, sarebbero stati al sicuro per sempre. Avrebbe però anche dato origine a una valanga di indizi. Contratti di affitto, documenti d'identità, indirizzo di casa, numero di telefono, venga a conoscere il nuovo vicedirettore, trattative con sconosciuti, telecamere, registri di cassette di sicurezza, e chissà cos'altro ancora, perché Ray non aveva mai nascosto niente in una banca. Lungo l'interstatale aveva visto più di un magazzino di deposito. Ce n'erano dappertutto, ormai, e per qualche ragione si insediavano il più vicino possibile alle arterie principali. Perché non sceglierne uno a caso, fermarsi lì, pagare in contanti e ridurre al minimo i documenti? Avrebbe potuto trattenersi per un paio di giorni a Podunktown, trovare qualche altra cassa ignifuga da un rivenditore locale, mettere al sicuro i suoi soldi e filarsela. Era un'idea brillante perché il suo tormentatore non se lo sarebbe aspettato. Ed era un'idea stupida perché avrebbe abbandonato i soldi. Avrebbe potuto riportarli a Maple Run e nasconderli in cantina. Harry Rex avrebbe avvertito lo sceriffo e la polizia di tenere d'occhio estranei so-
spetti che si trovassero a gironzolare in città. Se un agente avesse seguito Ray fin lì a Clanton sarebbe stato subito individuato, e Dell al Coffee Shop avrebbe avuto tutti i particolari prima dell'alba. Laggiù non potevi tossire senza attaccare il tuo raffreddore a tre persone. I camionisti arrivavano a ondate, per la maggior parte parlando a voce alta mentre entravano, ansiosi di compagnia dopo chilometri e chilometri di solitudine. Erano tutti uguali, jeans e stivaletti a punta. Un paio di scarpe da tennis attirarono la sua attenzione. Calzoni da lavoro, non jeans. Era solo e si sedette al bancone. Ray lo guardò nello specchio. Era qualcuno che aveva già visto. Faccia triangolare, naso lungo e piatto, capelli biondo chiaro, trentacinque anni o giù di lì. Da qualche parte a Charlottesville, ma non riuscì a inquadrarlo. O adesso sospettava di tutti? Fuggi con il tuo bottino, come un assassino con la sua vittima nel bagagliaio della macchina, e chissà quante facce ti sembreranno familiari e sinistre. Arrivò il suo hamburger, caldo e fumante, coperto di patatine fritte, ma Ray aveva perso l'appetito. Riprese a scrivere sul terzo tovagliolo. I primi due non lo avevano portato da nessuna parte. Le sue alternative, al momento, erano limitate. Poco disposto a perdere di vista i soldi, avrebbe viaggiato tutta la notte, fermandosi a bere caffè e magari accostando ogni tanto per un sonnellino, per arrivare a Clanton di prima mattina. Quando fosse stato di nuovo nel suo territorio, tutto gli sarebbe apparso più chiaro. Nascondere i soldi in cantina non era una buona idea. Un corto circuito elettrico, un fulmine, un fiammifero spento male e addio casa. L'uomo al banco non lo aveva ancora guardato, e più Ray guardava lui più si convinceva di aver sbagliato. Era un tipo banale, di quelli che si vedono tutti i giorni e che quasi mai si ricordano. Mangiava una fetta di dolce al cioccolato e beveva caffè. Strano. Alle undici di sera. Ray arrivò a Clanton poco dopo le sette del mattino. Aveva gli occhi rossi, era esausto e aveva bisogno di una doccia e di due giorni di riposo. Durante la notte, quando non scrutava ogni coppia di fari alle sue spalle e non si prendeva a schiaffi per tenersi sveglio, aveva sognato la solitudine di Maple Run. Una casa grande e vuota, tutta per sé. Avrebbe potuto dormire al piano di sopra, al pianterreno, nel portico. Niente squilli di telefono, nessuno a disturbarlo.
Ma i falegnami avevano altri progetti. Quando arrivò erano in piena attività, e il vialetto d'accesso era ostruito dai loro veicoli, mentre scale e attrezzi erano sparsi su tutto il prato. Al Coffee Shop trovò Harry Rex che faceva colazione e leggeva due quotidiani contemporaneamente. «Che cosa fai qui?» lo apostrofò, senza quasi alzare gli occhi. Non aveva ancora finito né uova né giornali, e non sembrava particolarmente contento di vedere Ray. «Forse ho fame.» «Sei ridotto da far schifo.» «Grazie. Non riuscivo a dormire, giù, così sono tornato qui.» «Sei a pezzi.» «Sì, è vero.» Harry Rex abbassò finalmente il giornale e attaccò un uovo che sembrava annegato in una salsa bollente. «Hai guidato tutta notte da Charlottesville?» «Sono solo quindici ore.» Una cameriera gli portò un caffè. «Per quanto tempo devono lavorare a quel tetto?» domandò Ray. «Sono lì?» «Ah, sì, almeno una decina. Volevo dormire per due giorni.» «Sono gli Atkins. Faranno presto, se non si mettono a bere e a litigare. L'anno scorso uno è cascato da una scala e si è spezzato l'osso del collo. Gli ho fatto avere trentamila dollari di risarcimento.» «In ogni caso, perché e quando li hai assunti?» «Sono a buon mercato, come te, signor esecutore. Vai a dormire nel mio ufficio. Ho una tana al secondo piano.» «Con un letto?» Harry Rex si guardò intorno come se si sentisse assediato dai pettegoli di Clanton. «Ti ricordi Rosetta Rhines?» «No.» «È stata la mia quinta segretaria e terza moglie. È lì che è cominciato tutto.» «Le lenzuola sono pulite?» «Quali lenzuola? Prendere o lasciare. È molto tranquillo, ma il pavimento scricchiola. È così che mi hanno beccato.» «Chiedevo soltanto.» Ray bevve un lungo sorso di caffè. Aveva appetito, ma non tanto da abbuffarsi. Aveva voglia di una scodella di fiocchi di granturco con panna liquida e frutta, qualcosa di ragionevole, ma sarebbe
apparso ridicolo se avesse ordinato una colazione così leggera al Coffee Shop. «Hai intenzione di mangiare?» gli ringhiò Harry Rex. «No. Dobbiamo sistemare certe cose. Tutte quelle scatole e i mobili. Conosci un posto?» «Dobbiamo?» «D'accordo, io devo sistemare delle cose e ho bisogno di un posto.» «Sono solo stronzate.» Un morso a una focaccina, con aggiunta di salsiccia, formaggio e una passata di senape. «Brucia tutto.» «Non posso, almeno non ora.» «Allora fai quello che fanno tutti i bravi esecutori. Metti via la roba per due anni, poi regala tutto all'Esercito della Salvezza e brucia quello che non vogliono.» «Comunque sia, c'è un posto dove immagazzinare la roba in città?» «Non eri stato a scuola con quel mattoide di Cantrell?» «Erano in due.» «No, in tre. Uno si è fatto travolgere da un pullman vicino a Tobytown.» Un sorso di caffè, poi ancora uova. «Un magazzino, Harry Rex.» «Siamo nervosi?» «No, ho bisogno di dormire.» «Ti ho offerto il mio nido d'amore.» «No, grazie. Me la vedrò con i falegnami.» «Il loro zio è Virgil Cantrell. Io mi sono occupato del secondo divorzio della sua prima moglie. Virgil ha trasformato quella che era la vecchia stazione in un magazzino per lo stoccaggio.» «È l'unico posto in tutta la città?» «No. Lundy Staggs ha messo su una di quelle piccole unità a ovest della città, ma hanno subito un'inondazione. Io non ci andrei.» «Come si chiama questa stazione?» chiese Ray stufo di essere ancora al Coffee Shop. «La Stazione.» Un altro morso di focaccina. «Vicino ai binari della ferrovia?» «Proprio quella.» Harry Rex cominciò a scuotere la bottiglietta di tabasco su quel che restava delle sue uova. «Di solito ha dello spazio, ha persino costruito una casamatta a prova d'incendio. Ma non andare nel seminterrato.» Ray esitò, sapendo che avrebbe fatto bene a ignorare Fesca. Lanciò u-
n'occhiata alla sua automobile parcheggiata davanti al tribunale. «Perché no?» chiese finalmente. «Perché ci tiene il suo ragazzo.» «Il suo ragazzo?» «Sì, è pazzo anche lui. Virgil non è riuscito a metterlo a Whitfield e non poteva permettersi una clinica privata, così ha pensato bene di chiuderlo a chiave là sotto.» «Dici sul serio?» «Eccome se dico sul serio. Gli ho detto io che non era contro la legge. Il ragazzo ha tutto, camera da letto, bagno, televisore. Mille volte più economico che pagare la retta di un manicomio.» «Come si chiama?» chiese Ray. «Little Virgil.» «Little Virgil?» «Little Virgil.» «Quanti anni ha Little Virgil?» «Non lo so, quarantacinque, cinquanta.» Con grande sollievo, quando Ray varcò la soglia della Stazione non c'era nessun Virgil presente. Una donna corpulenta in tuta lo informò che il signor Cantrell era fuori per commissioni e non sarebbe tornato che dopo un paio d'ore. Ray chiese se c'era posto per un po' di materiale e lei si offrì di mostrargli il deposito. Anni prima era arrivato in visita un lontano zio che viveva in Texas. Sua madre aveva ripulito e strofinato Ray fino quasi a scorticarlo. Con grande anticipo si erano recati alla stazione per accogliere lo zio. Forrest era un neonato e lo avevano lasciato a casa con la balia. Ray ricordava benissimo la banchina della stazione su cui avevano aspettato, il fischio del treno che sopraggiungeva, l'eccitazione della folla in attesa. All'epoca la stazione era in piena attività. Ai tempi del liceo l'avevano chiusa e i vagabondi l'avevano utilizzata come ricovero. Era ormai ridotta a un rudere quando l'amministrazione locale era intervenuta presentando uno sconsiderato piano di recupero. Ora era una sequela di stanzette disposte su due piani, piene fino al soffitto di cianfrusaglie inutili. Dappertutto si vedevano cataste di assi e legname da costruzione, a riprova di riparazioni interminabili. I pavimenti erano coperti di segatura. Un rapido giro convinse Ray che quel posto era più infiammabile di Maple Run. «Abbiamo dell'altro spazio nel seminterrato» disse la donna.
«No, grazie.» Uscì per andarsene e vide sfrecciare per Taylor Street una Cadillac nera nuova di zecca, scintillante nel primo sole del giorno, non un bruscolo di polvere su tutta la carrozzeria, e Claudia al volante con un paio di occhiali scuri alla Jackie O. Fermo a guardare la macchina che correva per la via, Ray si sentì crollare addosso tutta Clanton. Claudia, i due Virgil, Harry Rex e le sue mogli e segretarie, gli Atkins che riparavano il tetto, bevevano e litigavano. Sono tutti matti, o lo sono solo io? Salì in macchina e lasciò la Stazione, alzando ghiaia con le ruote posteriori. Ai margini della città la strada finiva. A nord c'era Forrest, a sud la costa. La vita non sarebbe diventata più facile andando a trovare suo fratello, ma aveva promesso. 28 Due giorni dopo, Ray arrivò sulla Gulf Coast del Mississippi. A Tulane c'erano gli amici dei tempi della scuola di legge che voleva andare a trovare, e aveva pensato sul serio di passare qualche tempo negli antichi ritrovi. Aveva una voglia matta dei sandwich alle ostriche di Franky & Johnny's sull'argine, del pane siciliano di Maspero's sulla Decatur nel Quartiere, di una Dixie Beer alla Chart Room in Bourbon Street e di un caffè alla cicoria con bignè al Café du Mond, tutti posti che frequentava vent'anni prima. Ma a New Orleans dilagava il crimine, e la sua bella macchinetta sportiva avrebbe costituito un allettante bersaglio. Fortunato il ladro che l'avesse rubata e avesse aperto il bagagliaio. Ma i ladri non l'avrebbero preso di mira, né lo avrebbero fermato gli agenti della stradale visto, che rispettava rigorosamente i limiti. Era un automobilista perfetto, ligio al codice e con un occhio attento su ogni altro veicolo. Sulla statale 90 fu rallentato dal traffico e per un'ora procedette come una lumaca in direzione est attraversando Long Beach, Gulfport e Biloxi, lungo la spiaggia, risalendo la fila di casinò scintillanti affacciati sull'acqua, alberghi e ristoranti nuovi. Il gioco d'azzardo aveva invaso la costa con la stessa velocità con cui era dilagato nelle campagne di Tunica. Attraversò la Baia di Biloxi ed entrò nella contea di Jackson. Vicino a Pascagoula vide un'insegna, CAJUN A VOLONTÀ, che invitava i viaggiatori a fermarsi per una mangiata a soli 13,99 dollari. Era una bettola, ma il parcheggio era ben illuminato. Studiò dapprima la situazione e vide che
avrebbe potuto prendere un tavolo vicino alla vetrata e tenere d'occhio l'automobile. Ormai era un'abitudine. Tre contee si affacciavano sul golfo: Jackson a est, confinante con l'Alabama; Harrison al centro; Hancock a ovest, vicino alla Louisiana. Un politico della regione aveva avuto successo a Washington e manteneva aperti i rubinetti dei finanziamenti ai cantieri navali della contea di Jackson. In quella di Harrison il gioco d'azzardo pagava i conti e faceva costruire le scuole. Ed era stato nella contea di Hancock, quella meno sviluppata e popolata, che si era recato il giudice Atlee nel gennaio 1999 per una causa di cui nessuno a Clanton sapeva nulla. Dopo una tranquilla cena a base di aragosta al vapore e gamberi con salsa rémoulade, accompagnati da qualche ostrica cruda, riattraversò la baia, passando di nuovo per Biloxi e Gulfport. Nella cittadina di Pass Christian trovò quello che cercava: l'Easy Sleep Inn, un motel nuovo con gli ingressi alle camere che davano sul parcheggio. La zona sembrava tranquilla, lo spiazzo era pieno a metà. Pagò sessanta dollari in contanti per una notte e portò la macchina il più vicino possibile alla porta della sua stanza. Aveva cambiato idea sulle armi. Un solo rumore strano nella notte e sarebbe stato fuori in un lampo con in pugno la .38 del Giudice, carica. Era più che pronto a dormire in macchina, se necessario. La contea di Hancock aveva preso il nome dall'omonimo John, quello che aveva coraggiosamente firmato la Dichiarazione d'Indipendenza. Il suo palazzo di giustizia era stato costruito nel 1911 nel centro di Bay St Louis e praticamente spazzato via dall'uragano Camilla nell'agosto 1969, che si era abbattuto con gravi danni anche su Pass Christian. Più di cento persone erano morte, molte delle quali non erano mai state ritrovate. Ray si fermò a leggere una targa storica esposta sul prato davanti al tribunale, poi si girò per un'ultima occhiata alla sua piccola Audi. Sebbene gli archivi fossero aperti al pubblico, era lo stesso nervoso. A Clanton gli impiegati custodivano gelosamente le loro informazioni e monitoravano chi andava e veniva. Ray non era sicuro di che cosa cercare o da dove cominciare. Il timore maggiore era tuttavia per ciò che avrebbe potuto trovare. In cancelleria si attardò abbastanza da richiamare l'attenzione di una graziosa signorina con una matita infilata nei capelli. «Posso aiutarla?» domandò con l'intonazione morbida della parlata locale. Ray aveva in mano un taccuino, come se potesse in qualche modo qualificarlo e aprirgli le
porte giuste. «Conservate anche qui i resoconti dei processi?» le chiese, mettendo tutta l'enfasi possibile su quell'"anche qui". Lei inarcò le sopracciglia e lo osservò come se si fosse reso colpevole di un'infrazione. «Abbiamo i verbali di ogni sessione» precisò parlando lenta, pensando evidentemente di aver a che fare con una persona non molto sveglia. «E gli atti processuali veri e propri» aggiunse. Ray stava prendendo nota. «E poi» riprese dopo una pausa «abbiamo le trascrizioni dei dibattimenti registrati dallo stenografo, ma quelle non sono conservate qui.» «Posso vedere i verbali?» chiese Ray, riagganciandosi alla prima cosa menzionata dalla donna. «Certamente. Quale sessione?» «Gennaio dell'anno scorso.» Lei fece due passi a destra e cominciò a digitare su una tastiera. Ray si guardò intorno. Nell'ampio locale alcune signore sedevano alle scrivanie, chi al computer, chi a scartabellare, chi al telefono. L'ultima volta che era stato nella cancelleria di Clanton, c'era un solo computer. A Hancock erano dieci anni più avanti. In un angolo, due avvocati bevevano caffè e bisbigliavano di questioni importanti. Davanti a loro tenevano i registri di contratti di compravendita vecchi di duecento anni. Entrambi inforcavano occhiali da lettura appollaiati sulla punta del naso e portavano scarpe con la punta consumata e cravatte con il nodo grosso. Controllavano dati catastali per cento dollari a botta, una delle innumerevoli e barbose incombenze a cui dovevano rassegnarsi legioni di avvocati di provincia. Uno dei due lo notò e lo scrutò con diffidenza. Quello avrei potuto essere io, pensò Ray. La giovane donna si abbassò e prese un pesante classificatore contenente dei tabulati. Li sfogliò, si fermò e ruotò il classificatore sul banco. «Qui» disse indicando. «Gennaio '99, due settimane di udienze. Il registro va avanti per qualche pagina. In questa colonna ci sono le sentenze. Come può vedere, quasi tutte le cause sono proseguite nella sessione di marzo.» Ray guardava e ascoltava. «Una in particolare?» s'informò lei. «Ricorda una causa presieduta dal giudice Atlee della contea di Ford? Credo che fosse qui in veste di giudice speciale.» Lei gli scoccò un'occhiataccia come se le avesse chiesto di mostrargli la propria pratica di divorzio.
«È un giornalista?» gli domandò, e per poco Ray non indietreggiò di un passo. «C'è bisogno che lo sia?» ribatté. Due delle altre impiegate avevano interrotto le loro occupazioni per osservarlo con aria corrucciata. Lei si sforzò di sorridere. «No, ma è stato un caso che ha fatto scalpore. Eccola qui» aggiunse puntando di nuovo il dito. Nel registro delle sentenze era segnata semplicemente come "Gibson contro Miyer-Brack". Ray approvò con un cenno affermativo del capo, come se avesse trovato proprio quello che cercava. «E dove sarebbero le pratiche?» chiese. «Ce ne sono una montagna» rispose lei. La seguì in un'altra stanza occupata da schedari metallici neri contenenti migliaia di documenti. La giovane donna sapeva esattamente dove cercare. «Firmi qui» lo invitò porgendogli un modulo su una tavoletta a pinza. «Solo il suo nome e la data. Al resto penso io.» «Di che genere di causa si è trattato?» chiese lui mentre riempiva gli spazi bianchi. «Omicidio colposo.» Fece scorrere sulle guide un lungo cassetto e indicò con la mano da un capo all'altro. «Tutto questo» disse. «Le comparse cominciano da qui, poi la presentazione delle prove, infine gli atti processuali. Può portare tutto su quel tavolo laggiù, ma non deve uscire da questa stanza. Ordine del giudice.» «Quale?» «Il giudice Atlee.» «È morto, sa?» Mentre si allontanava la donna replicò: «Non è una gran perdita». L'aria presente nella stanza se ne andò con lei, e Ray impiegò qualche secondo per riuscire a pensare di nuovo. Doveva leggere una quantità di documenti, ma non era preoccupato. Aveva il resto dell'estate a disposizione. Clete Gibson era morto nel 1997 all'età di sessantun anni. Causa della morte, disfunzione renale. Causa della disfunzione renale un farmaco di nome Ryax prodotto dalla Miyer-Brack, secondo quanto affermato nella querela di parte e accertato dall'onorevole Reuben V. Atlee, chiamato a presiedere in qualità di giudice speciale. Il signor Gibson aveva assunto Ryax per otto anni nel tentativo di combattere un alto tasso di colesterolo. Il medicinale gli era stato prescritto dal suo medico e gli era stato venduto dal suo farmacista, entrambi a loro volta citati in giudizio dalla vedova e i figli. Dopo cinque anni, il signor Gibson
aveva cominciato ad avere problemi ai reni, per i quali i medici erano intervenuti con diverse terapie. All'epoca non si conoscevano effetti collaterali del Ryax, un farmaco relativamente nuovo. Quando i suoi reni avevano in pratica smesso di funzionare, Gibson era entrato in contatto con un certo Patton French, di professione avvocato. Ciò era accaduto poco prima della sua morte. Patton French era dello studio French & French di Biloxi. Un'intestazione elencava altri sei avvocati. Oltre alla ditta produttrice, il medico e il farmacista, tra i querelati figurava anche un grossista locale di prodotti farmaceutici con sede a New Orleans. Ciascuno si era fatto rappresentare da uno studio importante, compresi certi pesi massimi di New York. La discussione era stata complessa, polemica, in certi momenti anche feroce; Patton French e il suo piccolo studio di Biloxi avevano ingaggiato un aspro confronto con i principi del foro in rappresentanza della controparte. La Miyer-Brack era un gigante farmaceutico svizzero di proprietà privata con interessi in sessanta paesi, secondo quanto dichiarato dai suoi rappresentanti americani. Nel 1998 aveva avuto entrate pari a 9,1 miliardi di dollari, per un utile netto di 635 milioni. Quella sola presentazione era durata un'ora. Per qualche motivo, Patton French aveva deciso di presentare denuncia di omicidio colposo alla Corte di cancelleria invece che alla Corte federale di circoscrizione, dove la maggior parte dei processi contemplava il verdetto di una giuria. Per legge, i soli processi tenuti dalle corti di cancelleria con la presenza della giuria erano quelli di impugnazione di testamenti. Quando aveva svolto le mansioni di cancelliere per il Giudice, Ray aveva assistito a non pochi di quei patetici dibattiti. La Corte di cancelleria aveva giurisdizione per due ragioni. In primo luogo Gibson era morto e la sua eredità era questione pertinente la corte. In secondo luogo aveva un figlio sotto i diciotto anni. Tutte le questioni legali riguardanti i minorenni erano di competenza della Corte di cancelleria. Gibson aveva anche altri tre figli, tutti maggiorenni. La citazione in giudizio sarebbe potuta avvenire indifferentemente presso la Corte di circoscrizione o quella di cancelleria, una delle numerose contraddizioni presenti nella legislazione del Mississippi. Una volta Ray aveva chiesto al Giudice di spiegargli l'enigma, e come al solito la risposta era stata semplice: "Abbiamo il sistema giudiziario migliore della nazione". Di questo erano convinti tutti i vecchi giudici. Offrire agli avvocati la possibilità di scegliere dove presentare ricorso
non era un fatto eccezionale. La messa all'asta forense era un gioco a livello nazionale. Ma se alla Corte di cancelleria della contea di Hancock veniva depositata una querela da parte di una vedova che viveva nelle campagne del Mississippi contro una mastodontica società svizzera titolare di un farmaco prodotto in Uruguay, veniva issata la bandiera rossa. Per occuparsi di vertenze dagli aspetti così molteplici esistevano le corti federali, e la Miyer-Brack e la sua falange di rappresentanti legali avevano tentato con eleganza di dirottare il caso su di esse. Ma il giudice Atlee aveva tenuto duro, e altrettanto aveva fatto il giudice federale. Tra i querelati c'erano cittadini del luogo, pertanto il trasferimento a una corte federale era stato negato. Il giudice al quale era stata affidata la causa era dunque Reuben Atlee, e con il prolungarsi dei preliminari la sua pazienza verso gli avvocati della difesa si era assottigliata. Ray non poté fare a meno di sorridere leggendo alcune delle risoluzioni del padre. Erano esplicite ai limiti della brutalità e formulate in modo da mettere il pepe in quel posto alle orde di legali che si arrabattavano intorno ai querelati. Nell'aula del giudice Atlee non erano mai state necessarie le odierne norme di procedura introdotte per sveltire i processi. Poi era emersa la spiacevole verità sul Ryax. I periti individuati da Patton French avevano sparato a zero sul farmaco, mentre gli esperti della difesa presentatisi in aula non erano altro che due portavoce dell'azienda produttrice. Il Ryax era fenomenale per abbassare il colesterolo. Aveva superato senza intoppi l'iter delle approvazioni e il prodotto era stato messo sul mercato con grande successo. Ma all'epoca erano già decine di migliaia i casi di danni renali, e a quel punto Patton French aveva inchiodato la Miyer-Brack. Il dibattimento era durato otto giorni. Nonostante le obiezioni della difesa, le udienze cominciavano ogni mattina alle otto e un quarto in punto e spesso duravano fino alle otto di sera, suscitando altre obiezioni che il giudice Atlee puntualmente ignorava. Era una condotta che Ray conosceva bene. Il Giudice credeva nel lavoro duro e, in mancanza di una giuria da coccolare, imponeva a tutti ritmi disumani. La sua sentenza portava la data di due giorni dopo la deposizione dell'ultimo teste, un colpo strabiliante nel nome della tempestività del giudizio. Si era evidentemente trattenuto a Bay St Louis e aveva dettato allo stenografo del tribunale le quattro pagine della sua risoluzione finale. Anche questo non sorprese Ray. Il Giudice detestava procrastinare i giudizi.
Aveva inoltre i suoi appunti a cui rifarsi. In otto ore di deposizioni senza sosta, il Giudice doveva aver riempito una trentina di bloc-notes. La sua sentenza era abbastanza particolareggiata da soddisfare qualunque esperto. Alla famiglia Gibson andavano 1,1 milioni di dollari per i danni materiali, il valore della vita dello scomparso, secondo i calcoli di un perito in materia. In aggiunta, come provvedimento punitivo per aver commercializzato un prodotto così micidiale, la Miyer-Brack veniva condannata a un'ammenda di altri dieci milioni di dollari. La disposizione era una severa condanna del comportamento avido e irresponsabile delle grandi multinazionali e lasciava intuire fino a che punto il giudice Atlee si era sentito turbato dalle pratiche della Miyer-Brack. Ciononostante, Ray non conosceva nessun altro caso in cui suo padre avesse fatto ricorso a una sentenza con valore punitivo. Al processo aveva fatto seguito il consueto turbinio di istanze, tutte respinte dal Giudice con brevi e brusche repliche. La Miyer-Brack voleva che il provvedimento venisse depennato. Patton French voleva che la somma venisse incrementata. Entrambe le parti avevano ricevuto sferzanti dinieghi per iscritto. Stranamente, non c'era stato appello. Ray era sicuro di trovarne la documentazione. Esaminò due volte tutto l'incartamento su quanto era avvenuto dopo il processo, poi ripartì dall'inizio e frugò in tutto il cassetto. Era possibile che in seguito si fosse arrivati a un accordo e prese nota di chiedere all'impiegata. Sugli onorari era scoppiata un'antipatica questione. Secondo un contratto in possesso di Patton French, la famiglia Gibson aveva firmato per cedergli il cinquanta per cento di qualunque indennizzo. Il Giudice, come sempre, aveva ritenuto il compenso eccessivo. Alla Corte di cancelleria gli onorari erano a esclusiva discrezione del giudice. Il suo limite era sempre stato del trentatré per cento. I conti, dunque, erano facili, ma il signor French aveva lottato con le unghie e con i denti per intascare la somma pattuita e ben meritata. Il giudice era stato irremovibile. Il caso Gibson era un esempio emblematico dei giudizi di Reuben Atlee, e Ray si sentì insieme orgoglioso e commosso. Era difficile credere che avesse avuto luogo un anno e mezzo prima, quando il Giudice soffriva di diabete, cuore e probabilmente cancro, sebbene quest'ultimo gli fosse stato diagnosticato solo sei mesi più tardi. Provò ammirazione per il vecchio guerriero. A parte una signora che mangiava melone alla sua scrivania mentre si
occupava di qualcos'altro online, le impiegate erano tutte fuori a pranzo. Ray uscì e andò a cercare una biblioteca. 29 Da un fast food di Biloxi controllò la sua segreteria telefonica a Charlottesville e trovò tre messaggi. Kaley aveva chiamato per informarlo che le sarebbe piaciuto cenare con lui. Una rapida decisione presa su due piedi la sistemò per sempre. Fog Newton lo avvertiva che il Bonanza sarebbe stato disponibile per la settimana seguente ed era tempo che loro volassero. Si era fatto vivo anche Martin Gage dell'ufficio delle Imposte di Atlanta, che ancora cercava il fax della falsa lettera. Continua a cercare, pensò Ray. Stava consumando un'insalata confezionata a un tavolino di plastica arancione mentre guardava l'autostrada che portava alla spiaggia. Non ricordava l'ultima volta in cui si era trovato solo in un fast food, e se adesso stava accadendo era perché lì poteva mangiare con l'automobile sotto gli occhi e a pochi passi. Il locale era gremito di giovani madri e giovanissimi rampolli, un gruppo solitamente a basso tasso di criminalità. Lasciò perdere l'insalata e chiamò Fog. La biblioteca pubblica di Biloxi era in Lameuse Street. La trovò grazie a una carta della città appositamente acquistata e parcheggiò vicino all'ingresso principale. Com'era ormai sua abitudine, prima di entrare nell'edificio si fermò guardandosi attentamente intorno. I computer erano al pianterreno, in una sala a vetrate, ma, notò Ray con disappunto, priva di finestre che dessero all'esterno. Il principale quotidiano lungo la costa era il "Sun Herald", i cui archivi potevano essere consultati fino al 1994 grazie a un servizio informatizzato della biblioteca. Ray andò al 24 gennaio 1999, il giorno dopo la pubblicazione della sentenza del giudice Atlee. Come prevedibile, il verdetto da 11,1 milioni di dollari emesso dal tribunale di Bay St Louis aveva guadagnato la prima pagina della cronaca cittadina, e certamente non meravigliava che l'avvocato Patton French avesse tante cose da dire. Il giudice Atlee si era rifiutato di rilasciare dichiarazioni. Gli avvocati difensori si dicevano stupefatti e promettevano di presentare appello. C'era una fotografia di Patton French, un cinquantenne con la faccia rotonda e i capelli grigi ondulati. Dall'articolo si capiva che aveva chiamato lui stesso la redazione del giornale per dare la notizia, e che era in uno stato di esuberante loquacità. Il processo era stato "estenuante", le azioni per-
petrate dai querelati "irresponsabili e dettate dall'avidità", la decisione presa dalla corte "giusta e coraggiosa". Il ricorso in appello non sarebbe stato altro che "un nuovo tentativo di ostacolare il corso della giustizia". Aveva vinto molte cause, dichiarava con compiacimento, ma questa era la sua vittoria più eclatante. Interrogato sulla lievitazione delle somme di indennizzo che si riscontrava da qualche tempo a quella parte, aveva respinto ogni accusa di verdetto un po' abnorme. "Due anni fa una giuria nella contea di Hinds ha imposto un indennizzo di cinquecento milioni di dollari" aveva affermato. E in altre città dello Stato giurie illuminate colpivano gli abusi delle multinazionali con richieste varianti dai dieci ai venti milioni. "Questa sentenza è legalmente difendibile su tutti i fronti" aveva proclamato Patton French. La sua specialità, aveva aggiunto sul finire dell'articolo, erano le responsabilità farmaceutiche. Solo per il Ryax aveva già quattrocento cause e se ne aggiungevano ogni giorno di nuove. Ray cercò "Ryax" negli archivi del "Sun Herald". Cinque giorni dopo l'apparizione dell'articolo che aveva letto, il 29 gennaio, era stata pubblicata una comunicazione promozionale a tutta pagina che cominciava con il sinistro interrogativo: HAI PRESO IL RYAX? Subito sotto seguivano gli avvertimenti sui terribili pericoli legati all'assunzione di quel farmaco. Poi si illustrava nei particolari la recente vittoria di Patton French, avvocato esperto e specializzato nel Ryax e in altri prodotti farmaceutici dai gravi effetti collaterali. Una qualificata équipe medica avrebbe sottoposto a visita le vittime presso un albergo di Gulfport per i dieci giorni a seguire. Il consulto era assolutamente gratuito. Non esistevano vincoli o clausole di alcun genere, o almeno non ne venivano citati nella pagina. A chiare lettere, in calce, si informava che la pubblicità era stata pagata dallo studio legale French & French, con indirizzi e numeri di telefono delle sue sedi a Gulfport, Biloxi e Pascagoula. Sempre sotto "Ryax" la ricerca riportava una promozione quasi identica ma datata 1° marzo 1999. Le sole differenze erano l'ora e il luogo del consulto medico. Un'altra pubblicità era apparsa nell'edizione domenicale del 2 maggio 1999, sempre sul "Sun Herald". Ray proseguì per quasi un'ora e trovò pubblicità analoghe sul "ClarionLedger" di Jackson, sul "Times-Picayune" di New Orleans, sull'"Hattiesburg American", il "Mobile Register" e il "Commercial Appeal" di Memphis e su "The Advocate" di Baton Rouge. Patton French aveva lanciato un massiccio attacco frontale al Ryax e alla Miyer-Brack.
Convintosi che probabilmente gli stessi paginoni erano apparsi in tutti gli Stati dell'Unione, Ray decise che poteva bastare. Poi gli venne in mente che poteva cercare Patton French sul Web. Un manifesto propagandistico di notevole impatto lo accolse nel sito dello studio legale. Gli avvocati erano diventati quattordici, gli uffici erano presenti in sei città e si espandevano di ora in ora. A Patton French era dedicata una lusinghiera biografia di un'intera pagina che avrebbe messo in imbarazzo gente meno smaliziata. Suo padre, il vecchio French, doveva avere almeno ottant'anni e aveva acquisito lo status di senior, qualunque cosa volesse dire. Il cavallo di battaglia dello studio era la vigorosa rappresentanza delle vittime di farmaci e medici esiziali. Aveva brillantemente negoziato quello che finora era da considerarsi il più importante risarcimento per i danni del Ryax imposto al produttore: novecento milioni di dollari per settemiladuecento clienti. Attualmente lo studio stava mettendo sotto torchio la Shyne Medical, società produttrice del Minitrin, un antipertensivo che - dopo essere giunto a una vastissima diffusione garantendo al produttore profitti scandalosi - era stato ritirato dall'Fda per i gravi effetti collaterali. Lo studio legale aveva quasi duemila clienti per l'affare Minitrin e ne reclutava altri ogni settimana. A New Orleans, Patton French aveva ottenuto da una giuria un verdetto contro la Clark Pharmaceuticals, condannata a pagare otto milioni di dollari. Il farmaco in questione era il Kobril, un antidepressivo che era stato messo in relazione con la perdita di udito. La ditta produttrice aveva negoziato il primo lotto di millequattrocento querele versando cinquantadue milioni. Poco si diceva degli altri membri dello studio legale, dando la chiara impressione che un isolato condottiero fosse a capo di uno squadrone di lacchè, dietro le quinte, alle prese con migliaia di clienti rastrellati per le strade. Una pagina del sito elencava le date e i luoghi delle dichiarazioni pubbliche del signor French, un'altra i suoi numerosi impegni in tribunale e altre due pagine erano dedicate alle informazioni sulle visite mediche gratuite, che attualmente riguardavano non meno di otto farmaci, tra i quali lo Skinny Ben, la pillola dimagrante di cui gli aveva parlato Forrest. Per meglio servire i suoi clienti, lo studio French si era dotato di un Gulfstream IV, del quale il sito presentava una grande foto a colori. Naturalmente Patton French posava di fianco al velivolo in completo scuro firmato, con un sorriso smagliante, come di chi sia pronto a balzare a bordo e a
volare da qualsiasi parte per il trionfo della giustizia. Ray sapeva che un aereo del genere costava qualcosa come trenta milioni di dollari, con gli stipendi di due piloti a tempo pieno e costi di manutenzione che avrebbero gettato nel terrore l'ufficio contabilità. Patton French era un pozzo senza fondo di vergognosa presunzione. L'aereo fu il colpo di grazia, e Ray lasciò la biblioteca. Appoggiato alla sua Audi, fece il numero della French & French e ascoltò diligentemente il menu registrato: cliente, avvocato, giudice, altro, informazioni sulle visite, le prime quattro lettere del cognome del vostro legale. Fu trasferito cortesemente dall'una all'altra di tre segretarie, tutte alle dipendenze del signor French, finché arrivò a quella che si occupava degli appuntamenti. «Avrei bisogno di incontrare il signor French» spiegò Ray, sfinito. «È fuori città» rispose lei con sorprendente cordialità. Naturale, che fosse fuori città. «Va bene, mi ascolti» ribatté lui in malo modo. «Glielo dirò una volta sola. Il mio nome è Ray Atlee. Mio padre era il giudice Reuben Atlee. Mi trovo a Biloxi e voglio vedere Patton French.» Le diede il suo numero di cellulare e riparti. Andò all'Acropolis, un pacchiano casinò in stile Las Vegas sul tema Grecia classica, un orrore a cui assolutamente nessuno badava. Il parcheggio era pieno e c'era un servizio di guardie giurate. Se stessero sorvegliando qualcosa era da stabilire. Trovò un bar da cui dominare la sala, e stava bevendo una bibita quando il suo cellulare squillò. «Il signor Ray Atlee?» disse la voce. «Sono io» rispose Ray premendo il telefonino all'orecchio. «Sono Patton French. La ringrazio per la chiamata. Mi dispiace che non mi abbia trovato.» «Lei è sicuramente un uomo molto occupato.» «Infatti. Si trova sulla costa?» «In questo momento sono all'Acropolis, un posto fantastico.» «Be', io sto tornando indietro. Sono stato a Naples per un abboccamento con alcuni grossi avvocati della Florida per conto di un mio querelante.» Eccolo là, pensò Ray. «Le mie condoglianze per suo padre» riprese French, e il segnale manifestò qualche disturbo. Stava probabilmente sfrecciando verso casa a tredicimila metri di quota. «Grazie.» «Sono venuto al funerale e ho visto anche lei, ma non ho avuto modo di parlarle. Un uomo simpatico, il Giudice.» «Grazie» disse di nuovo Ray.
«Forrest come sta?» «Com'è che conosce Forrest?» «Io so quasi tutto, Ray. Sono molto meticoloso nel preparare le mie cause. Raccogliamo camionate di informazioni. È così che poi vinciamo. Comunque, è pulito in questi giorni?» «Per quel che ne so, sì» rispose Ray, seccato che una questione così privata dovesse essere buttata sul piatto con tanta nonchalance. Ma sapeva dal sito Web che il suo interlocutore non era una persona raffinata. «Bene, senta, sarò di ritorno domani. Sono sul mio yacht, perciò viaggio a un'andatura moderata. Possiamo vederci per pranzo o cena?» Non mi sono accorto di uno yacht nel sito Web, signor French. Dev'essere stata una svista. Ray avrebbe preferito un'ora di colloquio davanti a un caffè piuttosto che un pranzo di due ore o una cena ancora più lunga, ma era l'ospite. «Scelga lei.» «Teniamo aperte entrambe le possibilità, se non le dispiace. Stiamo incontrando un po' di vento, qui nel golfo, e non so prevedere a che ora attraccheremo. Posso farla chiamare da una delle mie ragazze domani?» «Sicuro.» «Discutiamo del caso Gibson?» «Sì, a meno che ci sia dell'altro.» «No, è cominciato tutto da Gibson.» Tornato all'Easy Sleep Inn, Ray seguì svogliatamente una partita di baseball con l'audio spento e cercò di leggere mentre attendeva che scomparisse il sole. Aveva bisogno di dormire ma non voleva coricarsi prima del buio. Trovò Forrest al secondo tentativo e stavano discutendo delle gioie della riabilitazione quando il cellulare si animò. «Ti richiamo» disse Ray chiudendo la comunicazione. C'era di nuovo un intruso nel suo appartamento. Dalla sede della ditta di sorveglianza una voce registrata lo avvertiva che in casa sua era in corso un furto. Finito il messaggio, Ray aprì la porta e guardò l'automobile a meno di sei metri. Tenne il cellulare in mano e attese. La ditta di sorveglianza chiamò anche Corey Crawford, il quale si fece vivo quindici minuti più tardi con un rapporto identico. Piede di porco per forzare la porta in strada, piede di porco per la porta dell'appartamento, un tavolino rovesciato, luci accese, tutti gli elettrodomestici ancora al loro posto. Lo stesso poliziotto redigeva lo stesso verbale. «Non c'è niente di valore, lì» disse Ray.
«Allora perché continuano a entrare?» ribatté Corey. «Non lo so.» Crawford chiamò il padrone di casa, che promise di trovare un falegname per far riparare le porte. Il poliziotto se ne andò e Corey richiamò Ray dal suo appartamento. «Questa non è una coincidenza» sentenziò. «Perché?» chiese Ray. «Non stanno cercando di rubare niente. Questa è un'intimidazione. Che cosa sta succedendo?» «Non lo so.» «Io penso di sì.» «Lo giuro.» «Io credo che lei non mi stia dicendo tutto.» Hai senz'altro ragione su questo punto, pensò Ray, ma non cedette. «È del tutto casuale, Corey, si rilassi. Sarà stato uno di quei ragazzotti che girano per il centro con i capelli rosa e gli spilloni infilati nelle guance. Drogati in cerca di soldi facili.» «Conosco la zona. Qui non si tratta di ragazzi.» «Sapendo dell'allarme, un professionista non sarebbe tornato. Sono due persone diverse.» «Non sono d'accordo.» Si rassegnarono al dissenso, conoscendo bene entrambi la verità. Ray si rigirò nel buio per due ore, incapace persino di chiudere gli occhi. Verso le undici uscì per un giro in macchina e si ritrovò di nuovo all'Acropolis, dove giocò alla roulette e bevve pessimo vino fino alle due. Chiese una stanza affacciata sul parcheggio, non sulla spiaggia, e da una finestra del secondo piano montò di guardia alla sua macchina finché si assopì. 30 Dormì fino a quando l'addetta alle pulizie si stancò di aspettare. La stanza andava lasciata libera a mezzogiorno, tassativamente, e quando alle undici e tre quarti la cameriera bussò con forza alla sua porta, Ray le gridò qualcosa e si buttò sotto la doccia. L'automobile appariva intatta, nessun graffio o ammaccatura intorno al bagagliaio a segnalare tentativi di scasso. Aprì con la chiave e guardò dentro: tre sacchi neri da immondizia pieni zeppi di soldi. Tutto normale finché non fu al volante e vide la busta infilata sotto il tergicristallo. La fissò
paralizzato e fu come se la busta lo contraccambiasse dal parabrezza. Semplice, bianca, di dimensioni normali, nessuna scritta visibile, almeno sul lato che aderiva al vetro. Qualunque cosa fosse, non era niente di buono. Non era il volantino di una pizzeria che serviva a domicilio o di qualche clown in cerca di lavoro. Non era una multa per aver lasciato la macchina ferma allo stesso posto oltre l'orario consentito perché all'Acropolis il parcheggio era gratuito. Era una busta con dentro qualcosa. Quasi strisciò fuori della macchina guardandosi intorno nel caso ci fosse qualcuno. Sfilò la busta da sotto il tergicristallo e la esaminò quasi fosse la prova cruciale in un caso di omicidio. Poi risalì perché ebbe la sensazione che qualcuno lo stesse spiando. Anche questa volta il foglio all'interno era ripiegato in tre: un'altra foto a colori stampata da un computer, l'unità 37F al Chaney's Self-Storage di Charlottesville, Virginia, a millecinquecento chilometri e almeno quindici ore di macchina da lì. Stesso apparecchio, stessa stampante, senza dubbio stesso fotografo, sicuramente al corrente che il 37F non era l'ultimo magazzino in cui Ray aveva tenuto nascosto il denaro. Sebbene si sentisse troppo intorpidito per muoversi, partì in gran fretta. Filò per la statale 90 guardando attentamente tutti i veicoli che venivano a trovarsi dietro di lui, poi all'improvviso sterzò a sinistra e imboccò una strada che percorse in direzione nord per un chilometro prima di fermarsi bruscamente nel parcheggio di una lavanderia automatica. Nessuno lo pedinava. Per un'ora guardò tutte le macchine e non notò nulla di sospetto. Per sentirsi meglio teneva la pistola sul sedile accanto, pronta a sparare. E a farlo stare ancora meglio erano i soldi a pochi centimetri dalla sua schiena. Aveva tutto ciò che gli serviva. La telefonata della segretaria dell'avvocato French responsabile degli appuntamenti giunse alle undici e un quarto. Questioni urgenti avevano cospirato per rendere impossibile il pranzo, ma una cena sarebbe stata molto gradita. L'invito per Ray era di presentarsi all'ufficio del grand'uomo verso le quattro del pomeriggio. L'ufficio, di cui sul sito Web appariva una foto accattivante, aveva sede in una solenne dimora georgiana affacciata sul golfo in un tratto di litorale ombreggiato da querce. Stessa architettura e stessa età anche per le costruzioni vicine. Il terreno dietro la casa era stato di recente adibito a parcheggio, con un
alto muro di mattoni tutt'intorno e telecamere di sorveglianza. Un cancello metallico venne aperto e richiuso alle sue spalle da una guardia vestita come un agente dei servizi segreti. Parcheggiò in un posto riservato e un'altra guardia lo scortò a una porta sul retro, vicino alla quale stava lavorando una squadra di operai, chi a posare pietre, chi a piantare arbusti. Era in rapida evoluzione un deciso rinnovo degli uffici e del terreno circostante. «Fra tre giorni arriverà il governatore» gli confidò in un bisbiglio la guardia. «Cavoli» ribatté Ray. L'ufficio di French si trovava al primo piano, ma lui non c'era. Un'avvenente ragazza bruna in un costoso vestito attillato spiegò a Ray che l'avvocato era ancora sul suo yacht, nelle acque del golfo. Lo accompagnò comunque nella zona salotto e lo invitò ad avere pazienza. Il locale aveva le pareti rivestite di quercia e conteneva divani, poltrone e ottomane in pelle in numero sufficiente ad arredare un padiglione di caccia. La scrivania aveva le dimensioni di una piscina privata ed era coperta di modellini in scala di grandi yacht. «Gli piacciono le barche, eh?» commentò Ray guardandosi intorno. Era previsto che si mostrasse impressionato. «Sì, molto.» Con un telecomando la ragazza aprì le ante di un mobile dal quale emerse uno schermo di notevoli dimensioni. «È in riunione» lo informò «ma sarà in linea tra un momento. Qualcosa da bere?» «Caffè nero, grazie.» Nell'angolo in alto a destra dello schermo era installata una microcamera, e Ray ne dedusse che stava per comunicare via satellite con il signor French. L'irritazione per l'attesa stava montando lentamente. Di norma a quel punto sarebbe già arrivata a livelli di guardia, ma lo stava distraendo la curiosità per lo spettacolo che gli si svolgeva davanti. Ne era un protagonista anche lui. Rilassati e goditela, raccomandò a se stesso. Aveva tutto il tempo. La segretaria tornò con il caffè, che gli servì in una tazza di porcellana pregiata. Dove naturalmente era inciso il logo F&F. «Posso uscire?» chiese Ray. «Certo.» La ragazza sorrise e tornò alla sua scrivania. Oltre le vetrate c'era un lungo balcone. Ray bevve il caffè appoggiato alla ringhiera, ammirando la vista. L'ampio prato antistante arrivava ai bordi della strada, oltre la quale c'erano la spiaggia e l'acqua. Non si vedeva nemmeno una casa da gioco, poche le costruzioni in generale. Sotto di lui,
sulla veranda anteriore, alcuni imbianchini chiacchieravano mentre spostavano le scale. Tutto aveva un aspetto e una sensazione di nuovo. Patton French aveva appena vinto alla lotteria. «Signor Atlee» lo chiamò la segretaria, e Ray rientrò. Sul grande schermo era comparso il viso di Patton French. Un po' spettinato, occhiali da lettura sulla punta del naso, occhi penetranti che guardavano da sopra la montatura. «Eccoci!» esordì. «Scusi il ritardo. Si accomodi, Ray, così la vedo meglio.» La ragazza gli indicò dove e Ray seguì le istruzioni. «Come va?» s'informò French. «Bene. E lei?» «Ottimamente. Guardi, sono desolato per i contrattempi, ma è tutto il pomeriggio che sono impegnato in una di queste dannate teleconferenze e non potevo proprio sganciarmi. Pensavo che sarebbe stato molto più tranquillo qui sulla mia barca, per la nostra cenetta, che cosa ne dice? E il mio cuoco è mille volte meglio di qualsiasi chef possa trovare a terra. Sono a mezz'ora dalla costa. Ci facciamo un aperitivo, io e lei, poi una cena in santa pace e parliamo di suo padre. Sarà piacevole, glielo prometto.» «La mia macchina sarà al sicuro, qui?» domandò Ray quando French ebbe chiuso finalmente la bocca. «Ma certo. È tutto recintato, che diamine. Dirò alle guardie di starci sedute sopra, se vuole.» «Va bene, come ci arrivo da lei, a nuoto?» «No, abbiamo delle lance. La porterà Dickie.» Dickie era lo stesso giovane forzuto che lo aveva accompagnato in ufficio. Ora lo scortò fuori, dove era in attesa un'interminabile Mercedes metallizzata. Dickie la guidò nel traffico come un carro armato fino alla Point Cadet Marina, dove erano ormeggiati un centinaio di scafi di piccole dimensioni. Uno dei più grandi, guarda caso, apparteneva all'avvocato Patton French. Si chiamava Lady of Justice. «L'acqua è calma, non ci vorranno più di venticinque minuti» annunciò Dickie mentre salivano a bordo. I motori del motoscafo erano già in funzione. Uno steward dal forte accento locale gli chiese se beveva qualcosa. «Un analcolico senza zucchero» rispose. Mollarono l'ormeggio e risalirono lentamente le file di natanti, uscirono dal porticciolo e si allontanarono dal molo. Ray salì in plancia a guardare la costa scomparire in lontananza. Al largo di Biloxi era ancorato il King of Torts, uno yacht di lusso lungo
più di quarantacinque metri con cinque uomini di equipaggio e sontuosi alloggi per una decina di amici. L'unico passeggero era Patton French, in attesa di accogliere il suo invitato per cena. «È un vero piacere, Ray» esordì tendendogli energicamente la mano e poi stringendogli una spalla. «E diamoci del tu.» «Con piacere» rispose Ray, trattenendosi perché a French piaceva il contatto fisico. Era qualche centimetro più alto di lui, con il viso abbronzato, ardenti occhi azzurri e palpebre che non si abbassavano mai completamente. «Sono felice che tu sia venuto» aggiunse continuando a stringere la mano di Ray. Nemmeno due ex compagni di scuola della stessa confraternita si sarebbero scambiati tante effusioni. «Resta qui, Dickie» abbaiò affacciandosi. «Seguimi, Ray» disse poi precedendolo su per una scaletta da cui si accedeva al ponte principale. Lì un altro steward in giacca bianca era in attesa con una salvietta inamidata che recava le iniziali F&F accuratamente ripiegata sul braccio. «Che cosa vuoi bere?» Sospettando che French non fosse uomo da sprecare tempo in alcolici leggeri, s'informò su quale fosse la specialità della casa. «Vodka ghiacciata con scorza di limone» gli rispose il cameriere. «Proviamo.» «È un'ottima vodka che arriva dalla Norvegia. Ne sarai soddisfatto.» L'avvocato era un esperto. Indossava una camicia nera di lino con il colletto abbottonato e shorts color nocciola dello stesso tessuto. Aveva una leggera pancetta, ma torace e braccia erano decisamente muscolosi. Gli piacevano i propri capelli, visto che non riusciva a tenerne lontano le mani. «Che cosa mi dici della barca?» volle sapere French indicando con le mani da prua a poppa. «L'ha fatta costruire un paio d'anni fa un principe saudita, uno di quelli di rango inferiore. Abbastanza coglione da farci mettere un caminetto. Roba da matti. Gli è costata una ventina di milioni e dopo un anno l'ha data indietro in cambio di un panfilo di settanta metri.» «Stupefacente» commentò Ray, sperando di mostrarsi abbastanza colpito. Il mondo dei natanti gli era sempre stato estraneo e aveva il sospetto che, dopo questo episodio, gli sarebbe stato alieno per l'eternità. «Cantieri italiani» tenne a precisare French, battendo le dita su un corrimano di legno pregiato che doveva costare un occhio della testa. «Perché stai qua al largo?» chiese Ray.
«Perché sono un tipo offshore, se capisci l'allusione. Accomodati.» French gli indicò sorridendo una sedia a sdraio. Quando si furono sistemati, fece un cenno in direzione della costa. «Da qui Biloxi si vede appena e mi va bene così. Riesco a sbrigare più lavoro dalla barca in un giorno che in una settimana in ufficio. E poi sto traslocando. Ho in corso un divorzio. Qui è dove vengo a nascondermi.» «Mi dispiace.» «Ora come ora questo è lo yacht più grande che c'è a Biloxi e sono in molti a riconoscerlo. La mia attuale moglie crede che l'abbia venduto, e se mi avvicino troppo c'è il rischio che quel verme del suo avvocaticchio mi venga sotto a nuoto a scattare qualche foto. Una quindicina di chilometri vanno bene.» Arrivò la vodka ghiacciata in bicchieri alti e stretti, anche questi con il monogramma F&F impresso sul cristallo. Ray bevve un sorso e si sentì bruciare fino alla punta dei piedi. French ne bevve uno molto più lungo e fece schioccare le labbra. «Allora?» chiese con orgoglio. «Ottima» dichiarò Ray. Non ricordava l'ultima volta che aveva bevuto vodka. «Dickie ha portato del pesce spada fresco per la nostra cena. Ti va?» «Perfetto.» «Ed è la stagione buona per le ostriche.» «Io ho frequentato la scuola di legge a Tulane. Mi sono fatto tre anni di ostriche fresche.» «Lo so» ribatté French, ed estrasse dal taschino della camicia un piccolo trasmettitore radio con il quale comunicò a qualcuno in cambusa le ordinazioni per la cena. Controllò l'orologio e decise che avrebbero mangiato tra due ore. «Sei stato a scuola con Hassel Mangrum» disse. «Sì, era avanti di un anno.» «Hassel se l'è cavata bene qui sulla costa. È entrato al momento giusto nell'affare dell'amianto.» «Sono vent'anni che non ho notizie di Hassel.» «Non hai perso molto. Adesso di professione fa il fesso. Mi sa che era un fesso anche alla scuola di legge.» «È vero. Ma come fai a sapere che ero a scuola con Hassel Mangrum?» «Ricerca, Ray, ricerca approfondita.» Tracannò altra vodka. Il terzo sorso di Ray gli andò diritto al cervello. «Abbiamo speso un gruzzoletto per informarci sul giudice Atlee e la sua
famiglia, sui trascorsi, le delibere, la situazione economica, tutto quello che siamo riusciti a scovare. Niente di illegale, nessuna invadenza, sia chiaro, solo tradizionale lavoro di investigazione. Sapevamo del tuo divorzio... Come si chiama, Lew il Liquidatore?» Ray annuì in silenzio. Avrebbe voluto dire qualcosa di pesante sul conto di Lew Rodowski e rimproverare French per aver scavato nel suo passato, ma per qualche istante la vodka gli bloccò la segnaletica. Così, si limitò ad annuire. «Sapevamo anche quanto guadagnavi come professore di legge. In Virginia le retribuzioni sono pubbliche, lo sai.» «Sì, lo so.» «Non male come stipendio, Ray, ma del resto è una scuola di legge importante.» «Infatti.» «Scavare nel passato di tuo fratello è stata un'autentica avventura.» «Lo credo. È stata un'avventura per tutta la famiglia.» «Abbiamo letto tutte le sentenze emesse da tuo padre nei casi di danneggiamento e omicidio colposo. Non erano molte, ma ne abbiamo colto gli spunti. Era moderato nello stabilire i risarcimenti, ma aveva anche sempre un occhio di riguardo per il semplice cittadino, l'onesto lavoratore. Sapevamo che si sarebbe attenuto alla legge, ma sapevamo anche che i giudici di vecchio stampo spesso la interpretano in maniera da adeguarla al loro personale concetto di equità. Il lavoro pesante l'ho fatto fare ai miei impiegati, ma io ho letto tutte le decisioni importanti prese da tuo padre. Era un uomo brillante, Ray, ed è sempre stato imparziale. Non ho trovato una sola delle sue delibere con cui mi sia sentito in disaccordo.» «Hai scelto tu mio padre per il caso Gibson?» «Sì. Quando stabilimmo di presentare il caso alla Corte di cancelleria, e avere un processo senza giuria, decidemmo anche che un giudice di qui non ci avrebbe dato ascolto. Ne abbiamo tre. Uno è imparentato con la famiglia Gibson. Un altro si occupa solo di divorzi. Il terzo ha ottantaquattro anni, è un po' rimbambito e non esce di casa da tre anni. Così ci siamo guardati intorno e abbiamo trovato tre possibili sostituti. Per fortuna tuo padre e il mio si conoscevano da sessant'anni, fin dai tempi di Sewanee e della scuola di legge alla statale del Mississippi. Non si erano più frequentati, ma erano rimasti in contatto.» «Tuo padre esercita ancora?» «No, ora è in pensione in Florida. Gioca a golf tutti i giorni. Io sono il
solo proprietario dello studio. Ma il mio vecchio andò a Clanton, si sedette nel portico con il giudice Atlee, parlò della Guerra Civile e di Nathan Bedford Forrest. Andarono persino insieme a Shiloh e ci restarono due giorni a visitare i luoghi storici della battaglia. Quando si fermò nel punto dove cadde il generale Johnston, al giudice Atlee venne un groppo in gola.» «Io ci sono stato una decina di volte» disse Ray con un sorriso. «Non si influenza un uomo come il giudice Atlee. Non lo metti sotto, uno così.» «Una volta ha fatto finire in galera un avvocato per averci provato» ricordò Ray. «Era andato da lui prima dell'udienza per cercare di tirarlo dalla sua parte. Il Giudice lo sbatté dentro per mezza giornata.» «Alludi a quel Chadwick a Oxford, vero?» chiese French, sornione, lasciando Ray senza parole. «Noi, comunque, dovevamo imprimere nell'animo del giudice Atlee l'importanza della causa sul Ryax. Sapevamo che non avrebbe voluto venire sulla costa a occuparsene, ma lo avrebbe fatto se si fosse convinto della bontà della nostra crociata.» «Detestava la costa.» «Lo sapevamo, credimi, e questo, per noi, era un grosso problema. Ma era un uomo di nobili principi. Dopo aver ricombattuto la guerra per due giorni, il giudice Atlee accettò suo malgrado di presiedere il dibattimento.» «Ma non è la Corte suprema a scegliere i giudici speciali?» obiettò Ray. Il quarto sorso scivolò giù senza bruciori e la vodka cominciò ad avere un sapore accettabile. French alzò le spalle. «Certo, ma ci sono altre vie. Abbiamo degli amici.» Nel mondo di Patton French non c'era persona che non si potesse comperare. Era tornato lo steward con altri due drink. Non che ce ne fosse bisogno, ma li presero lo stesso. French era troppo infervorato per stare fermo a lungo. «Ti faccio visitare la barca» dichiarò balzando in piedi senza alcuno sforzo. Ray si alzò con tutte le cautele, reggendo a malapena il bicchiere. 31 Cenarono nella sala da pranzo del comandante, un locale rivestito in mogano con esposizioni di modellini di clipper e cannoniere di altri tempi, mappe del Nuovo Mondo e dell'Estremo Oriente, e persino una collezione di antichi moschetti messa lì per dare l'impressione che il King of Torts
solcasse i mari da secoli. Si trovavano sul ponte principale, dietro la plancia, a pochi passi dalla cambusa dove lavorava alacremente uno chef vietnamita. La sala da pranzo per gli ospiti era sul ponte comune, dominata da un enorme tavolo ovale di marmo che doveva pesare almeno una tonnellata e aveva indotto Ray a chiedersi come facesse il King of Torts a tenersi a galla. Quella sera sul tavolo c'erano solo due coperti, e sopra un piccolo lampadario dondolava per il beccheggio. A un capo sedeva Ray, all'altro French. Il primo vino della serata fu un bordeaux bianco che, dopo l'ustione di due vodke ghiacciate, Ray trovò del tutto insapore. Non altrettanto fece il suo anfitrione. French ne aveva già mandate giù tre, scolando ogni volta il bicchiere, e la lingua gli si stava impastando un po'. Percepì tuttavia ogni sfumatura fruttata del vino, persino un afflato delle botti di rovere, e, come tutti gli snob enofili, non poté fare a meno di declamare queste inutili informazioni al suo ospite. «Al Ryax» esclamò French alzando il bicchiere. Ray si unì al brindisi ma non disse niente. Non era una serata in cui avrebbe avuto molto da interloquire e lo sapeva. Avrebbe soprattutto ascoltato. Il suo commensale si sarebbe ubriacato e avrebbe parlato a sufficienza. «Il Ryax mi ha salvato, Ray» confessò French mentre faceva roteare il vino nel bicchiere. «In che senso?» «In tutti i sensi. Ha salvato la mia anima. Io venero il denaro, e il Ryax mi ha reso ricco.» Un sorsetto. Seguito dal dovuto schioccare della lingua e da un ruotare soddisfatto degli occhi. «Mi sono lasciato scappare la faccenda dell'amianto, vent'anni fa. Nei cantieri navali giù a Pascagoula si è usato l'amianto per anni e sono decine di migliaia i lavoratori che si sono ammalati. E io mi sono perso tutto. Ero troppo occupato a citare medici e compagnie di assicurazioni. Guadagnavo abbastanza bene, ma proprio non ho intuito il potenziale delle cause per illeciti che comportano danni alla collettività. Sei pronto per le ostriche?» «Sì.» French schiacciò un pulsante e lo steward apparve d'incanto con due vassoi di ostriche. Ray intrise il rafano in una salsa e si preparò a banchettare. Patton faceva girare il vino nel bicchiere, assorto nel suo racconto. «Poi fu la volta del tabacco» ricordò mestamente. «Molti degli stessi avvocati. Gente di qui. Io credevo che fossero matti, diavolo, tutti la pensavano così, ma loro citarono in giudizio i grandi produttori di tabacco in
quasi tutti gli Stati. Ebbi l'occasione di buttarmici anch'io, insieme a loro, ma mi bloccò la paura. È dura ammetterlo, Ray. Me la facevo troppo sotto per tentare la sorte.» «Che cosa volevano?» chiese Ray prima di mettersi in bocca un'ostrica con il suo sughetto salmastro. «Un milione di dollari di contributo per le spese della causa. E io all'epoca ce l'avevo un milione.» «Quanto c'era da prendere?» chiese Ray masticando. «Più di trecento miliardi. Il colpo finanziario e legale più sensazionale della storia. In pratica i produttori di tabacco comperavano l'indulgenza degli avvocati che li citavano in giudizio. Un enorme giro di corruttele e io me lo sono perso.» Sembrò sul punto di piangere per aver mancato l'affare, ma recuperò in fretta con una lunga sorsata di vino. «Ottime, queste ostriche» si complimentò Ray con la bocca piena. «Ventiquattr'ore fa erano ancora sott'acqua.» French versò dell'altro vino e cominciò a occuparsi del suo piatto. «Quanto ti sarebbe venuto in cambio del milione di contributo?» domandò Ray. «Duecento a uno.» «Duecento milioni?» «Già. Mi sono ammalato per un anno, molti degli avvocati qui intorno si sono ammalati come me. Avevamo la gallina dalle uova d'oro e ce l'eravamo fatta scappare.» «Ma poi è arrivato il Ryax.» «Esatto.» «Come l'hai scoperto?» chiese Ray, sapendo che la sua domanda avrebbe innescato un'altra verbosa risposta e lui sarebbe stato libero di mangiare in pace. «Ero a un seminario a St Louis. Il Missouri è un bel posto e tutto quello che vuoi, ma in fatto di strategie legali per i danni alla collettività sono secoli più arretrati di noi. Dico, che diamine, qui abbiamo avuto per anni gli avvocati dell'amianto e del tabacco a far girare soldi e a mostrare a tutti come si fa. Ho bevuto un bicchiere con questo vecchio procuratore di una cittadina negli Ozarks. Suo figlio insegna medicina all'Università della Columbia, e si stava occupando del Ryax. Dalle sue ricerche erano emersi risultati spaventosi. Quel dannato farmaco si mangia letteralmente i reni e siccome era appena arrivato sul mercato, non c'erano precedenti di querele. Trovai un perito a Chicago, che mi scovò Clete Gibson tramite un medico
di New Orleans. Da quel momento cominciammo le consulenze gratuite e la faccenda prese piede. Ci mancava solo un verdetto clamoroso.» «Perché non hai voluto una giuria?» «Io adoro le giurie. Adoro scegliere i giurati, parlarci insieme, lisciarli, magari corromperli, ma sono imprevedibili. Io volevo una cosa blindata, garantita. E volevo un processo veloce. Le voci sul Ryax si diffondevano a macchia d'olio, puoi immaginarti la reazione di un branco di avvocati affamati di cause per danni alla collettività alla notizia di un nuovo farmaco che si dimostra letale. Raccoglievamo nuovi clienti a decine. Il primo che avesse ottenuto un verdetto clamoroso si sarebbe trovato in testa a tutto il gruppo, specialmente se il giudizio fosse venuto nella zona di Biloxi. La Miyer-Brack è una società svizzera.» «Ho letto l'incartamento.» «Tutto?» «Sì, ieri al tribunale della contea di Hancock.» «Be', questi europei sono terrorizzati dal nostro sistema giudiziario in fatto di danni alla collettività.» «Non dovrebbero?» «Come no, ma nel senso migliore. Perché li obbliga a essere onesti. Ciò che dovrebbe terrorizzarli è la possibilità che una delle loro maledette medicine abbia dei difetti e possa far male alla gente. Ma questo non li preoccupa quando ci sono in gioco migliaia di dollari. Ci vogliono quelli come me per mantenerli sulla retta via.» «E loro sapevano che il Ryax faceva male?» French ingollò un'altra ostrica, deglutì, la innaffiò con un bicchiere intero di vino. «Lo avevano scoperto presto» rispose finalmente. «Ma era così efficace nell'abbassare il colesterolo che la Miyer-Brack, con l'autorizzazione dell'Fda, s'affrettò a immetterlo sul mercato. Era un'altra medicina miracolosa e funzionò egregiamente per qualche anno senza effetti collaterali. Poi, bum! Il tessuto dei nefroni... Sai come funzionano i reni?» «Per amore della discussione, diciamo di no.» «In ogni rene agiscono un milione di piccoli filtri che si chiamano nefroni. Il Ryax conteneva una sostanza chimica sintetica che, detto in parole povere, scioglieva questi filtri. Non tutti i pazienti muoiono, come il povero Gibson, e il danno si presenta con vari gradi di gravità. Ma è sempre permanente. Il rene è un organo sorprendente che spesso guarisce da sé, ma non dopo essere stato bombardato per cinque anni dal Ryax.» «Quando la Miyer-Brack ha capito di avere un problema?»
«È difficile dirlo con precisione, ma abbiamo mostrato al giudice Atlee alcuni documenti interni inviati dai ricercatori dei laboratori ai loro dirigenti in giacca e cravatta dove raccomandavano la massima prudenza e analisi più approfondite. Ai tempi in cui il Ryax veniva commercializzato da circa quattro anni con risultati spettacolari, gli scienziati della ditta produttrice erano in ansia. Poi la gente cominciò ad ammalarsi sul serio, qualcuno morì, ma ormai era troppo tardi. Dal mio punto di vista avevamo bisogno di individuare il cliente perfetto, cosa che facemmo, il tribunale perfetto, cosa che facemmo, e l'azione doveva essere rapida e tempestiva prima che qualche altro avvocato ottenesse un verdetto clamoroso. È qui che è intervenuto tuo padre.» Lo steward portò via i gusci delle ostriche e servì un'insalata di polpa di granchio. Un altro bordeaux bianco fu scelto dalla cantina dal signor French in persona. «Che cosa è successo dopo il processo Gibson?» chiese Ray. «Non avrei potuto progettarlo meglio. La Miyer-Brack andò praticamente in briciole. Quegli stronzi pieni di spocchia erano ridotti alle lacrime. Avevano fantastiliardi in contanti e non vedevano l'ora di comperarsi gli avvocati che li avevano trascinati in tribunale per il Ryax. Prima del processo avevo quattrocento cause e nessun appiglio. Dopo avevo cinquemila cause e un verdetto da undici milioni di dollari. Gli avvocati mi chiamarono a centinaia. Passai un mese in aereo a correre di qua e di là, a firmare accordi di co-rappresentanza con altri avvocati. Un tizio nel Kentucky aveva cento casi. Un altro a St Paul ne aveva ottanta. E così via. Poi, quattro mesi circa dopo il processo, andammo tutti a New York per una riunione negoziale. In meno di tre ore chiudemmo seimila cause in cambio di settecento milioni di dollari. Un mese dopo ne chiudemmo altre milleduecento per duecento milioni.» «Quale fu la tua fetta?» domandò Ray. Sarebbe stata una mancanza di garbo se l'avesse chiesto a una persona normale, ma French non vedeva l'ora di parlare dei suoi onorari. «Cinquanta per cento lordo agli avvocati, poi le spese, il resto ai clienti. Questo è l'aspetto doloroso di un contratto condizionato dall'imprevedibilità dell'esito, sei costretto a dare metà al cliente. Comunque, avevo altri avvocati da accontentare, eppure alla fine ne sono venuto via con trecento milioni e rotti. Ecco dove sta il bello delle cause per danni alla collettività, Ray Vai in tribunale a rappresentare vagonate di clienti, patteggi per vagonate di quattrini e te ne porti a casa la metà.»
Non stavano mangiando. C'erano troppi soldi nell'aria. «Trecento milioni in onorari?» chiese Ray sbalordito. French mandò giù il vino gorgogliando. «Non è splendido? Mi arrivano così in fretta che non riesco a spenderli.» «Mi sembra che te la stia cavando bene.» «Questa è la punta dell'iceberg. Mai sentito di una medicina che si chiama Minitrin?» «Ho controllato il tuo sito Web.» «Davvero? Che cosa ne pensi?» «Molto elegante. Duemila casi Minitrin.» «Ormai siamo a tremila. È un farmaco contro l'ipertensione con pericolosi effetti secondari. Prodotto dalla Shyne Medical. Hanno offerto cinquantamila dollari a caso e ho risposto di no. Millequattrocento casi Kobril, un antidepressivo che riteniamo provochi la perdita dell'udito. Hai sentito parlare dello Skinny Ben?» «Sì.» «Abbiamo tremila casi Skinny Ben. E millecinquecento...» «Ho visto l'elenco. Immagino che il sito sia aggiornato.» «Si capisce. Io sono il "King of Torts", il Re del Danno Collettivo, in questo paese, Ray. Tutti mi cercano. Ho altri tredici avvocati, nel mio studio, e me ne servono quaranta.» Era tornato il cameriere a portare via i piatti. Posò davanti a loro il pesce spada e portò dell'altro vino, sebbene la bottiglia precedente fosse ancora piena a metà. French celebrò di nuovo il rito dell'assaggio e finalmente, quasi con riluttanza, annuì in segno di approvazione. A Ray il terzo vino sembrò molto simile ai primi due. «E tutto questo lo devo al giudice Atlee» dichiarò French. «In che senso?» «Lui ebbe il fegato di fare la cosa giusta, costringere la Miyer-Brack a rispondere del suo operato nella contea di Hancock invece di scappare in una corte federale. Comprese la gravità del danno e non ebbe paura di punirli. È tutta questione di tempismo, Ray. Meno di sei mesi dopo il suo pronunciamento, io avevo nelle mie mani trecento milioni di dollari.» «Li hai tenuti tutti?» French aveva un boccone infilzato sulla forchetta già vicino alle labbra. Esitò per un secondo, poi infilò in bocca il pesce e masticò per un po'. «Non capisco la domanda» disse. «Io credo di sì. Hai dato parte del denaro al giudice Atlee?»
«Sì.» «Quanto?» «L'uno per cento.» «Tre milioni?» «E rotti. Il pesce è squisito, non trovi?» «Sì. Perché?» French posò coltello e forchetta e si accarezzò di nuovo i capelli con entrambe le mani. Poi si pulì le dita nel tovagliolo e fece roteare il vino nel bicchiere. «Suppongo che le domande siano molte. Perché, quando, come, chi.» «Tu sei bravo a raccontare, ti ascolto.» Un altro giro di vino, poi un sorso soddisfatto. «Non è quello che pensi, anche se avrei passato una bustarella a tuo padre o a qualsiasi altro giudice per avere una sentenza come la sua. L'ho già fatto e sono pronto a farlo di nuovo senza problemi. Va nelle spese generali. Francamente, però, ero così intimidito dal personaggio e dalla sua reputazione che non ebbi la forza di proporgli un accordo. Mi avrebbe sbattuto dentro.» «Ti avrebbe seppellito.» «Sì, lo so, e di questo mi convinse mio padre. Così giocammo pulito. Il processo fu uno scontro ai ferri corti, ma io avevo la verità dalla mia parte. Vinsi, poi vinsi alla grande, ora vinco alla grandissima. Verso la fine dell'estate scorsa, quando raggiungemmo l'intesa e arrivarono i soldi, volli fargli un regalo. Io sono riconoscente con le persone che mi aiutano, Ray. Una macchina nuova qui, un appartamentino là, un bel gruzzolo in cambio di un favore. Io gioco duro e proteggo i miei amici.» «Lui non era amico tuo.» «Non eravamo amigos, non eravamo confratelli, ma nel mio mondo non ho mai avuto un amico più grande. Tutto ha avuto inizio da lui. Ti rendi conto dei soldi che guadagnerò nei prossimi cinque anni?» «Stupiscimi di nuovo.» «Mezzo miliardo di dollari. E devo tutto al tuo vecchio.» «Quando ne avrai abbastanza?» «Qui c'è un avvocato del tabacco che si è messo in tasca un miliardo. Prima devo battere lui.» Ray sentiva il bisogno di qualcosa da bere. Esaminò il vino come se sapesse che cosa cercare, poi lo mandò giù. French era occupato con il pesce. «Non credo che tu stia mentendo» commentò Ray. «Io non mento mai. Imbroglio e corrompo, ma non mento. Sei mesi fa,
mentre ero a far compere di aerei e barche, case al mare e in montagna, e nuovi uffici, ho sentito che a tuo padre avevano diagnosticato un tumore e che era grave. Volevo fare qualcosa di carino per lui. Sapevo che non aveva molti soldi e che soffriva di questa specie di malattia per cui si sentiva tenuto a dar via quel poco che aveva.» «Allora gli hai mandato tre milioni in contanti?» «Sì.» «Così?» «Così. L'ho chiamato e gli ho detto che gli sarebbe arrivato un pacco. In realtà erano quattro. Quattro scatoloni di cartone. Glieli ha portati uno dei miei ragazzi con un furgone e glieli ha lasciati nel portico. Il Giudice non era a casa.» «Banconote non segnate.» «Perché avrei dovuto segnarle? Pensi che volessi farmi scoprire?» «Lui che cosa disse?» «Non ho mai ricevuto una sola parola, né desideravo riceverne.» «Che cosa fece?» «Raccontalo tu a me. Sei suo figlio, lo conosci meglio di me. Raccontami che cosa ha fatto dei soldi.» Ray si spinse all'indietro e, prendendo in mano il bicchiere di vino, accavallò le gambe e cercò di rilassarsi. «Ha trovato il denaro davanti a casa e quando si è reso conto di che cos'era, sono sicuro che ti ha mitragliato di epiteti.» «Dio, lo spero proprio.» «Ha trasportato gli scatoloni nell'ingresso, dove sono andati ad aggiungersi a decine di altri. L'intenzione era di metterli in macchina e riportarli a Biloxi, ma intanto passarono un paio di giorni. Era malato e debole, non gli riusciva facile guidare. Sapeva che stava morendo e sono sicuro che questo aveva modificato in molti modi la prospettiva da cui vedeva le cose. Dopo qualche giorno ancora decise di nascondere il denaro, cosa che fece, mentre non aveva ancora smesso di pensare come riportarlo qui e approfittare dell'occasione per scorticare il tuo culo da corruttore. Il tempo passò e la sua salute peggiorò.» «Hai trovato i soldi?» «Li ho trovati.» «Dove sono?» «Nel bagagliaio della mia automobile, al tuo ufficio.» French rise a lungo e di gusto. «Da dov'erano partiti.»
«Hanno fatto un bel giro. Li ho scovati nel suo studio subito dopo aver trovato lui morto. Qualcuno ha cercato di entrare in casa per portarli via. Li ho trasferiti in Virginia, ora sono tornati qui, e quel qualcuno mi segue.» Le risa cessarono all'istante. French si pulì la bocca con il tovagliolo. «Quanto hai trovato?» «Tre milioni e centodiciottomila.» «Cristo, non ha speso nemmeno un centesimo!» «E non li ha menzionati nel suo testamento. Li ha semplicernente lasciati nascosti in scatole da carta per corrispondenza in un armadietto sotto gli scaffali dei libri.» «Chi ha cercato di entrare in casa?» «Speravo che lo sapessi tu.» «Ho un sospetto molto fondato.» «Parlamene, allora, ti prego.» «È un'altra lunga storia.» 32 Lo steward portò una selezione di scotch di puro malto sul ponte superiore, dove French aveva guidato Ray per il bicchiere della staffa e un'ultima storia davanti al tremolio delle luci di Biloxi in lontananza. Ray non beveva whisky e non ne sapeva niente di puro malto, ma stette al gioco perché era sicuro che French si sarebbe ubriacato ancora di più. Ora la verità scorreva come un torrente, e Ray la voleva tutta. Scelsero il Lagavulin, per quel suo tocco di affumicato, qualunque cosa volesse dire. Ce n'erano altri quattro, allineati come fiere sentinelle in alta uniforme, e Ray giurò di aver bevuto abbastanza. Avrebbe sorseggiato e sputato, e, se gli fosse capitata l'occasione, lo avrebbe rovesciato fuoribordo. Con sollievo vide lo steward versare solo un dito in bicchieri bassi e tozzi, abbastanza pesanti da spaccare il pavimento del ponte. Erano quasi le dieci, ma gli sembrava molto più tardi. Il golfo era nero, nessun'altra imbarcazione in vista. Una brezza leggera saliva da sud a far dondolare dolcemente il King of Torts. «Chi sa dei soldi?» chiese French leccandosi le labbra. «Io, tu e quello che li ha portati a destinazione.» «È il tuo uomo.» «Chi?» Un lungo sorso. Ray si portò il whisky alle labbra, che ripresero imme-
diatamente a bruciare. «Gordie Priest. Ha lavorato per me per otto anni circa, prima come tirapiedi, poi come corriere, infine come portaborse. Le radici della sua famiglia sono su questa costa da secoli, sempre sul filo del rasoio. Il padre e gli zii hanno avuto le mani in pasta dappertutto: scommesse clandestine, prostituzione, contrabbando di alcolici, locali notturni abusivi. Erano nel giro di quella che una volta chiamavano mafia costiera, un branco di delinquenti che disprezzavano il lavoro onesto. Vent'anni fa controllavano un po' tutto, qui intorno, ora sono storia. Per la maggior parte sono finiti dentro. Il padre di Gordie, un uomo che io conoscevo molto bene, è finito ammazzato a pistolettate davanti a un bar vicino a Mobile. Una combriccola di disgraziati, se vogliamo dirla tutta. La mia famiglia li frequentò per anni.» Stava lasciando intendere che la sua famiglia aveva fatto parte dello stesso ambiente di delinquenti, ma non poteva dirlo. Loro avevano fornito la facciata. Erano gli avvocati che sorridevano agli obiettivi e patteggiavano nei retrobottega. «A vent'anni Gordie finì in prigione perché era entrato in un racket di ladri d'auto con diramazioni in una dozzina di Stati. Io lo assunsi quando fu scarcerato e con il tempo diventò uno dei migliori procacciatori d'affari di tutta la costa. Conosceva tutti quelli che lavoravano sulle piattaforme di trivellazione, e quando c'era una morte o un infortunio, era bravo ad accaparrarsi il caso. Io gli versavo una buona percentuale. Bisogna aver cura dei propri procacciatori. Ci fu un anno in cui gli diedi quasi ottantamila dollari, tutti in contanti. Naturalmente lui li sperperò tutti nelle case da gioco e con le donne. Aveva la passione di Las Vegas, ci andava e restava ubriaco per una settimana intera, spendendo e spandendo come un magnate. Si comportava da idiota, ma non era stupido. Non conosceva vie di mezzo, o sull'altare o nella polvere. Quando era al verde si rimboccava le maniche e tirava su un po' di soldi. Quando aveva un po' di soldi, non faceva che perderli.» «Sono sicuro che questo riguarda anche me» ironizzò Ray. «Aspetta» lo ammonì French. «Dopo il caso Gibson, all'inizio dell'anno scorso, i soldi cominciarono ad arrivare come una marea montante. Avevo da pagare per favori che mi erano stati fatti, dovevo far circolare un grosso quantitativo di denaro contante, per gli avvocati che mi mandavano i loro casi, per i medici che visitavano migliaia di nuovi pazienti. Non era tutto illegale, sia ben chiaro, ma c'erano molti che preferivano che il giro di contante non venisse messo agli atti. Io commisi l'errore di usare Gordie come
fattorino. Credevo di potermi fidare di lui. Credevo che sarebbe stato leale. Mi sbagliavo.» French aveva finito il primo assaggio di whisky ed era pronto per il secondo. Ray declinò l'invito a imitarlo e finse di continuare ad assaporare il Lagavulin. «E fu lui a portare i soldi a Clanton lasciandoli davanti alla porta di mio padre?» chiese Ray. «Sì, e tre mesi dopo mi rubò un milione di dollari in contanti e scomparve. Aveva due fratelli, e nell'arco degli ultimi dieci anni, in periodi diversi, sono stati in galera tutti e tre. Ma non ora. Ora sono fuori in libertà condizionale e stanno cercando di estorcermi una somma ingente. L'estorsione è un crimine grave, sai, ma non è che io sia nelle migliori condizioni per invocare l'aiuto dell'Fbi.» «Che cosa ti fa pensare che sia a caccia dei tre milioni?» «Intercettazioni. Le abbiamo ottenute qualche mese fa. Ho assunto gente con le contropalle per trovare Gordie.» «Che cosa hai intenzione di fare, se lo trovi?» «Oh, c'è una taglia sulla sua testa.» «Un contratto?» «Sì.» E con questo, Ray si servì un secondo bicchiere di puro malto. Dormì a bordo in una cabina spaziosa, a una profondità imprecisata sotto il livello dell'acqua. Quando trovò la via per salire in coperta, il sole era alto e l'aria era già calda e appiccicosa. Lo skipper gli augurò il buongiorno e lo invitò a procedere verso prua, dove trovò French che strepitava in un telefono. Il fedele steward si materializzò dal nulla con un caffè. La prima colazione veniva servita sul ponte superiore, lo stesso della degustazione di whisky, ora protetto da un tendone. «Mi piace mangiare fuori» annunciò French raggiungendolo. «Hai dormito per dieci ore.» «Davvero?» domandò Ray controllando di nuovo il proprio orologio, ancora regolato sul fuso orientale. Era su uno yacht nel golfo del Messico, incerto su quale fosse il giorno o l'ora, a un'infinità di chilometri da casa e ora afflitto dalla notizia che certi brutti ceffi gli stavano dando la caccia. Sul tavolo c'era da scegliere tra diversi tipi di pane e cereali. «Il nostro Tin Lu prepara tutto quello che vuoi» lo stava informando French. «Uova
e pancetta, focaccine, polenta integrale.» «Va bene quello che c'è qui, grazie.» French era spumeggiante, già pronto ad affrontare le fatiche del nuovo giorno con un'energia che poteva derivargli solo dalla prospettiva di un altro mezzo miliardo di dollari in onorari. Indossava una camicia bianca di lino, abbottonata fino al colletto come quella nera della sera precedente, shorts, mocassini. Aveva gli occhi limpidi e vivaci. «Ho appena messo in saccoccia altri trecento casi Minitrin» annunciò mentre rovesciava in una grossa scodella una generosa porzione di fiocchi di granturco. Ogni stoviglia del servizio aveva l'obbligatorio marchio F&F. Ray non aveva più voglia di sentir parlare di danni alla collettività. «Bene, ma m'interessa di più Gordie Priest.» «Lo troveremo. Sto già facendo telefonate.» «Probabilmente è qui.» Ray si tolse un foglio ripiegato dalla tasca posteriore. Era la foto dell'unità 37F che il giorno prima aveva trovato sul parabrezza. French la guardò e smise di mangiare. «E questo è in Virginia?» domandò. «Sì, la seconda di tre unità che ho preso in affitto. Hanno trovato le prime due e sono sicuro che sanno della terza. E sapevano con precisione dov'ero ieri mattina.» «Ma evidentemente non sanno dove si trovano i soldi. Altrimenti li avrebbero semplicemente prelevati dal bagagliaio della tua macchina mentre dormivi. O ti avrebbero fermato lungo la strada tra qui e Clanton e ti avrebbero piantato una pallottola in testa.» «Non puoi sapere come ragionano.» «Certo che lo so. Ragionano come le canaglie, Ray. Ragionano come ragionano i criminali.» «Sarà anche facile per te, ma non è così per altra gente.» «Se Gordie e i suoi fratelli avessero saputo che giravi con tre milioni di dollari in macchina, se li sarebbero presi. È molto semplice.» Posò la foto e attaccò i suoi fiocchi d'avena. «Niente è semplice.» «Che cosa vuoi fare, lasciarmi i soldi?» «Sì.» «Non essere stupido, Ray. Tre milioni esentasse.» «Ma forse con l'aggiunta di una pallottola in testa. Ho uno stipendio soddisfacente.» «I soldi sono al sicuro. Tienili dove sono. Dammi il tempo di trovare
questi ragazzi e saranno neutralizzati.» La neutralizzazione fece passare a Ray il poco appetito che aveva. «Mangia, su!» lo incalzò French quando vide che Ray non si muoveva. «Ho lo stomaco chiuso. Soldi sporchi, gentaglia che entra con la forza nel mio appartamento, mi dà la caccia per tutto il Sudest, intercettazioni, contratti per ammazzare la gente. Che cosa diavolo ci faccio qui?» French non smise di masticare. Aveva l'intestino foderato di ottone. «Stai tranquillo» lo consolò. «E vedrai che i soldi saranno tuoi.» «Io non voglio i soldi.» «Certo che li vuoi.» «No, non li voglio.» «Allora dalli a Forrest.» «Sarebbe una sciagura.» «Dalli in beneficenza. Dalli alla tua scuola di legge. Fai qualcosa che ti faccia star bene.» «Perché non li do semplicemente a Gordie, così non mi ammazza?» French concesse una pausa al cucchiaio e si guardò intorno come se ci fossero persone in agguato. «E va bene. Ieri sera Gordie è stato segnalato a Pascagoula» confessò abbassando la voce di un'ottava. «Gli stiamo addosso, capito? Credo che sarà nostro nel giro di ventiquattr'ore.» «E sarà neutralizzato?» «Sarà freddato.» «Freddato?» «Gordie diventerà storia, e i tuoi soldi saranno al sicuro. Abbi fede.» «Credo che adesso me ne andrò.» French si pulì il filo di latte che aveva sul labbro inferiore, poi prese il suo minitrasmettitore e ordinò a Dickie di preparare la lancia. Qualche minuto dopo erano pronti a tornare sulla costa. «Da' un'occhiata qui» disse French consegnandogli una busta. «Che roba è?» «Foto della famiglia Priest. Dovesse capitarti di incontrarli.» Ray ignorò la busta finché non fu a Hattiesburg, novanta minuti di macchina più a nord, sulla costa. Fece rifornimento e mangiò un sandwich confezionato, esangue e avvizzito, poi s'affrettò a ripartire ansioso di raggiungere Clanton, dove Harry Rex conosceva lo sceriffo e tutti i suoi aiutanti. Gordie esibiva un ghigno particolarmente minaccioso, immortalato da un fotografo della polizia nel 1991. I fratelli, Slatt e Alvin, non sembravano di certo più miti. Ray non fu in grado di stabilire chi fosse il più anzia-
no e chi il più giovane, ma era irrilevante. Nessuno somigliava agli atri due. Imparentati solo per metà: stessa madre, padri sicuramente diversi. Potevano prendersi un milione a testa, a lui non importava niente. Bastava che lo lasciassero in pace. 33 La strada cominciò a salire tra Jackson e Memphis, e la costa sembrava lontana anni luce. Spesso si era domandato come potesse uno Stato così piccolo avere una morfologia tanto variabile: la regione del Delta lungo il fiume con la ricchezza delle sue piantagioni di cotone e riso e la povertà che ancora sbalordiva il visitatore; la costa con il suo miscuglio di immigrati e l'atmosfera rilassata e disincantata di New Orleans; e le montagne, dove nella maggior parte delle contee vigeva ancora il proibizionismo e la gente andava in chiesa tutte le domeniche. Un montanaro non avrebbe mai capito la costa, e non sarebbe mai stato accettato nel Delta. Ray era più che felice di vivere in Virginia. Patton French era un sogno, continuava a ripetersi, un personaggio da cartoni animati prelevato da un altro pianeta, un imbecille pomposo divorato dalla prosopopea. Un bugiardo, un corruttore, un gaglioffo spudorato. Poi Ray diede un'occhiata al sedile accanto e vide il volto sinistro di Gordon Priest. Bastava un'occhiata per capire che il brutto ceffo e i suoi fratelli sarebbero stati disposti a tutto per i soldi che lui stava ancora scarrozzando in giro per il paese. Quando fu a un'ora da Clanton, e di nuovo nel raggio d'azione di un'antenna, il suo cellulare squillò. Era Fog Newton, molto agitato. «Dove diavolo eri?» volle sapere. «Non ci crederesti mai.» «È tutta la mattina che ti chiamo.» «Che cosa succede, Fog?» «C'è stato un po' di trambusto, quaggiù. Ieri notte, dopo che hanno chiuso l'aeroporto, qualcuno è penetrato e ha piazzato un congegno incendiario sull'ala sinistra del Bonanza. Bum. Un custode al terminal principale ha visto la vampata e ha fatto intervenire l'autopompa abbastanza velocemente.» Ray si era fermato ai bordi dell'interstatale 55. Grugnì qualcosa e Fog continuò: «Ma i danni sono gravi. Si è trattato senza dubbio di dolo. Sei ancora lì?».
«Ti ascolto. Che genere di danni?» «Ala sinistra, motore e quasi tutta la fusoliera, praticamente una carcassa irrecuperabile, dal punto di vista assicurativo. C'è già un investigatore dell'ufficio incendi dolosi e anche un ispettore dell'assicurazione. Se i serbatoi fossero stati pieni sarebbero stati una bomba.» «Gli altri proprietari lo sanno?» «Sì, sono stati tutti avvertiti. Naturalmente sono i primi sulla lista dei sospettati. Fortuna per te che eri fuori città. Quando rientri?» «Presto.» Si fermò nel piazzale ghiaioso di una stazione di servizio per camionisti, dove rimase a lungo seduto nella calura a guardare di tanto in tanto il brutto muso di Gordie. La banda Priest era svelta: la mattina a Biloxi e la sera a Charlottesville. In quel momento dov'erano? Dentro il locale bevve caffè e ascoltò le chiacchiere dei camionisti. Per distrarsi chiamò l'Alcorn Village. Forrest era in camera sua a dormire il sonno del giusto, come lo definiva lui stesso. Era sempre incredibile, disse, quanto riuscisse a dormire durante la riabilitazione. Si era lamentato della cucina e le cose erano un po' migliorate. Oppure era stato lui ad abituarsi al gusto del Jell-O rosa. Chiese per quanto tempo sarebbe potuto restare come un bambino a Disney World. Ray rispose che non lo sapeva. I soldi che prima erano sembrati inesauribili apparivano ora in grave pericolo. «Non portarmi via da qui, fratello» lo supplicò. «Voglio restare in riabilitazione fino alla fine dei miei giorni.» Gli Atkins avevano finito di riparare il tetto di Maple Run senza incidenti. Quando Ray arrivò non c'era nessuno. Chiamò Harry Rex. «Facciamoci una birra qui da me stasera» gli propose. Harry Rex non aveva mai detto di no a un invito del genere. C'era un tratto pianeggiante di erba fitta appena al di qua del marciapiede, direttamente davanti alla casa, e dopo aver accuratamente meditato Ray concluse che era il posto giusto per un lavaggio. Portò lì la sua Audi, con il muso rivolto verso la strada e il bagagliaio a un passo dal portico. Trovò in cantina un vecchio secchio e nel capanno sul retro una canna screpolata per innaffiare. A torso nudo e scalzo, per due ore risciacquò e insaponò la sua piccola cabriolet nel caldo sole del pomeriggio. Poi passò la cera e lucidò per un'ora. Alle cinque stappò una bottiglia di birra presa dal frigo e si sedette sui gradini ad ammirare l'opera appena compiuta. Compose sul cellulare il numero che gli aveva dato Patton French, ma
naturalmente il grand'uomo era troppo occupato. Ray desiderava ringraziarlo per la sua ospitalità, ma in realtà voleva sapere se c'erano stati progressi nell'operazione di neutralizzazione della banda Priest. Non avrebbe mai formulato la domanda in maniera diretta, ma un vanesio come French sarebbe stato felice di dargli spontaneamente la notizia. French si era probabilmente dimenticato di lui. In effetti non gli importava niente della sorte che i fratelli Priest potevano avere in serbo per Ray o chiunque altro. Lui aveva da guadagnare mezzo miliardo di dollari con i suoi intrallazzi contro le multinazionali e tutte le sue energie erano devolute a quell'obiettivo. Se qualcuno avesse incriminato un tipo come French per corruzione o per aver ordinato di uccidere una persona, lui avrebbe assunto cinquanta avvocati e comperato giudici, cancellieri, pubblici ministeri e giurati. Chiamò Corey Crawford e venne a sapere che la proprietà aveva fatto riparare di nuovo le porte. La polizia aveva promesso di tenere d'occhio lo stabile per qualche giorno, fino al suo ritorno. Il furgone si fermò nel vialetto poco dopo le sei. Saltò fuori una faccia sorridente con una sottile busta da consegna urgente, che Ray contemplò a lungo dopo che gli fu recapitata. C'era un'etichetta prestampata dell'Università della Virginia, Scuola di legge, indirizzata al signor Ray Atlee, Maple Run, 816 Fourth Street, Clanton, MS, 1° giugno, il giorno prima. Tutto molto sospetto. Nessuno alla scuola di legge conosceva l'indirizzo di Clanton. Nulla che provenisse di lì poteva essere così urgente da richiedere una consegna speciale. E, comunque, non gli veniva in mente nessun motivo per cui la facoltà dovesse spedirgli qualcosa. Stappò un'altra birra e tornò ai gradini del portico, dove si decise ad aprire la busta. All'interno c'era un'altra busta, bianca, con la parola "Ray" scritta a mano. Conteneva una delle ormai familiari foto a colori scattate al Chaney's Self-Storage. Questa volta ritraeva l'unità 18R; una bizzarra composizione di lettere scompagnate riportava il seguente messaggio: "Non hai bisogno di un aereo. Smettila di buttare via i soldi". Aveva a che fare con gente molto in gamba. Era abbastanza difficile individuare le tre unità e fotografarle. Ci voleva fegato, e anche una buona dose di stupidità, per incendiare il Bonanza. Ma l'aspetto più impressionante, al momento, era l'abilità di trafugare un'etichetta prestampata dagli uffici della sua scuola di legge. Dopo un lungo momento di costernazione, Ray si rese conto di qualcosa
che avrebbe dovuto balzargli subito all'occhio: se avevano trovato il 18R, allora sapevano che i soldi non erano lì. Non erano né al Chaney's né a casa sua. Lo avevano seguito dalla Virginia a Clanton, e se si fosse fermato da qualche parte a nascondere il denaro lo avrebbero saputo. Avevano probabilmente perlustrato di nuovo tutta la casa di Clanton mentre lui era sulla costa. Il cerchio si stava chiudendo intorno a lui. Tutti gli indizi venivano collegati, la linea andava via via unendo tutti i puntini. I soldi doveva averli lui, e Ray non aveva un posto dove correre a nascondersi. Godeva di uno stipendio più che soddisfacente come docente di legge, con un buon programma previdenziale. Il suo stile di vita non era dispendioso e decise in quel momento, in quel portico, ancora a torso nudo e a piedi scalzi, mentre sorseggiava una birra nell'umidità delle prime ore della sera di una lunga e calda giornata di giugno, che preferiva mantenere quello stile di vita. Che la violenza se la tenessero pure gente come Gordie Priest e i sicari assoldati da Patton French. Quello non era il suo ambiente. E quel denaro era sporco in ogni caso. «Perché hai parcheggiato sul prato di casa?» brontolò Harry Rex mentre saliva pesantemente gli scalini. «L'ho lavata e l'ho lasciata lì» si giustificò Ray. Aveva fatto una doccia e ora indossava calzoni corti e maglietta. «A certa gente non gli puoi estirpare l'animo contadino. Dammi una birra.» Harry Rex aveva battagliato tutto il giorno in tribunale per una spiacevole causa di divorzio in cui gli argomenti fondamentali erano quale dei due coniugi avesse fumato più spinelli dieci anni prima e quale fosse andato a letto con il maggior numero di persone. Era in gioco la custodia di quattro figli e nessuno dei due ci era tagliato. «Sono troppo vecchio per questo mestiere» sospirò, esausto. Alla seconda birra cominciò a ciondolargli la testa. Harry Rex aveva il controllo dei divorzi nella contea di Ford ed era così da venticinque anni. Quando scoppiava una contesa in famiglia, spesso i coniugi facevano a gara tra di loro a chi si fosse assicurato per primo i suoi servigi. C'era un agricoltore di Karraway che gli aveva versato un anticipo per averlo a disposizione in vista della prossima separazione. Era un avvocato molto brillante, capace di essere anche brutale e abietto. Erano doti molto apprezzate quando si era nel vivo di una guerra tra consorti.
Ma era un mestiere che ti logorava. Come tutti gli avvocati di provincia Harry Rex sognava il colpo grosso, la causa clamorosa per danni con un onorario stabilito al quaranta per cento dell'eventuale indennizzo, qualcosa con cui mettersi in pensione. La sera prima Ray beveva vini pregiati su uno yacht da venti milioni di dollari costruito da un principe saudita e proprietà di un membro del foro del Mississippi che tramava per spillare miliardi alle multinazionali. Ora beveva Bud su un dondolo arrugginito in compagnia di un membro del foro del Mississippi che aveva passato la giornata a battibeccare su questioni di affidamento e alimenti. «Oggi l'agente immobiliare ha fatto vedere la casa» lo informò Harry Rex. «Mi ha chiamato all'ora di pranzo. Mi ha svegliato.» «Qualche buona prospettiva?» «Ricordi i fratelli Kapshaw, quelli che stanno vicino a Rail Springs?» «No.» «Dieci o dodici anni fa, cominciarono fabbricando seggiole in un vecchio fienile. Una cosa tira l'altra e hanno venduto a una grossa azienda di mobili nelle Caroline. Si sono intascati un milione a testa. Junkie e sua moglie stanno cercando una casa.» «Junkie Kapshaw?» «Sì, ma è più stretto della cruna di un ago e non ha nessuna intenzione di sborsare quattrocentomila dollari per questo posto.» «Non lo biasimo.» «Sua moglie è matta come un cavallo, è convinta di volere una casa vecchia. L'immobiliare è sicura che faranno un'offerta, ma sarà bassa, probabilmente sui centosettantacinquemila.» Harry Rex stava sbadigliando. Per un po' parlarono di Forrest, poi la conversazione si esaurì. «Mi sa che ora vado» annunciò. Dopo tre birre, Harry Rex cominciò a salpare l'ancora. «Quando torni in Virginia?» chiese alzandosi faticosamente in piedi e stirandosi la schiena. «Forse domani.» «Chiamami» gli disse, e scese gli scalini sbadigliando. Ray guardò i fanalini della sua auto scomparire in fondo alla via e all'improvviso si ritrovò di nuovo completamente solo. Il primo rumore fu un frusciare nei cespugli vicino al confine del suo terreno, probabilmente un vecchio cane o un gatto a caccia, ma per quanto innocuo fosse, ne fu terrorizzato e corse dentro casa.
34 L'attacco ebbe inizio poco dopo le due, nell'ora più tenebrosa della notte, quando il sonno è più pesante e le reazioni sono più lente. Ray era avulso da questo mondo, sebbene il mondo avesse gravato sulla sua mente stanca. Era nell'ingresso, disteso su un materasso, con la pistola al fianco e i tre sacchi da immondizia a ridosso del suo giaciglio. Cominciò con un mattone che sfondò una finestra, un fragore che fece tremare la vecchia casa e una pioggia di vetri sul tavolo da pranzo e sul parquet appena rilucidato. Era un proiettile lanciato con la precisione e il tempismo di qualcuno che faceva sul serio e l'aveva probabilmente già fatto in passato. Ray si drizzò come un gatto randagio ferito e fu solo un caso se non si sparò mentre cercava a tentoni la pistola. Attraversò in un lampo l'atrio tenendosi basso, fece scattare un interruttore e vide il mattone, una sinistra presenza contro lo zoccolo vicino al mobiletto delle porcellane. Usò una trapunta per spazzare i detriti e raccolse con circospezione il mattone, rosso, nuovo e con gli spigoli appuntiti. Due grossi elastici vi tenevano assicurato un foglietto. Sfilò gli elastici mentre guardava la finestra sfondata. Le mani gli tremavano al punto da impedirgli di leggere il messaggio. Deglutì a fatica, cercò di respirare meglio e di mettere a fuoco la calligrafia. Erano poche e semplici parole: "Rimetti i soldi dove li hai trovati e lascia immediatamente la casa". Gli sanguinava la mano, un taglietto che si era procurato con un coccio. Era la mano con cui avrebbe sparato, e nell'orrore del momento si domandò come proteggersi. S'accovacciò nell'ombra della sala da pranzo raccomandando a se stesso di respirare, di ragionare con calma. A un tratto squillò il telefono e per poco Ray non schizzò di nuovo fuori della propria pelle. Un secondo squillo e arrivò carponi in cucina, dove un lume acceso sopra i fornelli lo aiutò a trovare il telefono. «Pronto!» gridò nel ricevitore. «Rimetti i soldi al loro posto e vattene» gli ordinò una voce calma ma dura, una voce che non aveva mai sentito e che, nella confusione del momento, gli parve contenere una lieve traccia di accento costiero. «Ora! Prima di farti male.» "No" avrebbe voluto gridare, oppure: "Fermatevi!", o ancora: "Chi siete?". Ma l'incapacità di scegliere lo fece esitare e la comunicazione fu in-
terrotta. Seduto per terra, con la schiena appoggiata al frigorifero, passò rapidamente in rassegna le alternative a disposizione, per quanto esigue fossero. Poteva chiamare la polizia. Nascondere velocemente i soldi, infilare i sacchi sotto il letto, spostare il materasso, nascondere il messaggio ma non il mattone e sostenere che qualche delinquente aveva preso di mira una vecchia casa per puro capriccio. Il poliziotto avrebbe compiuto un'ispezione con la torcia e si sarebbe trattenuto per un'ora o due, ma poi se ne sarebbe andato. Invece, i fratelli Priest non se ne sarebbero andati. Gli si erano incollati come mastice. Si sarebbero magari defilati per un po', ma non se ne sarebbero andati. Ed erano molto più agili e svegli del poliziotto notturno di Clanton. E molto più determinati. Avrebbe potuto chiamare Harry Rex. Svegliarlo, dirgli che era urgente, farlo tornare di corsa alla casa e raccontargli tutta la storia. Ray aveva un bisogno pazzesco di qualcuno con cui confidarsi. Quante volte era stato sul punto di vuotare il sacco con Harry Rex? Avrebbero potuto dividere i soldi in due, o includerli nel patrimonio, o portarli a Tunica e giocare ai dadi per un anno intero. Ma perché mettere in pericolo anche lui? Tre milioni erano una somma per la quale si poteva uccidere più di una volta. Aveva una pistola. Perché non proteggersi da sé? Avrebbe potuto tenere a bada gli aggressori. Quando fossero entrati da quella porta, avrebbe acceso tutte le luci. Gli spari avrebbero allertato i vicini e in pochi attimi sarebbe accorsa tutta la città. Bastava una sola pallottola, però, ben indirizzata, un minuscolo missile appuntito che lui non avrebbe mai nemmeno visto e che probabilmente avrebbe sentito solo per un istante o due. E avrebbe dovuto vedersela con una forza ben superiore a lui, che gli avrebbe scaricato addosso ben più pallottole di quelle che poteva sparare il professor Ray Atlee. E aveva già deciso che non voleva morire. La vita su in Virginia era troppo bella. Proprio nel momento in cui il suo cuore, toccato il massimo delle pulsazioni, cominciava a rallentare, un altro mattone sbriciolò la finestra piccola sopra il lavello in cucina. Trasalì con un grido e lasciò cadere la pistola, poi la scalciò mentre strisciava verso l'ingresso. Carponi trascinò i tre sacchi pieni di soldi nello studio del Giudice. Spinse via il divano e cominciò a buttare le mazzette di banconote nel mobiletto sotto gli scaffali, riponendo il dannato bottino là dove lo aveva trovato. Sudava e imprecava, e si
aspettava da un momento all'altro l'ennesimo mattone o magari il primo colpo di arma da fuoco. Dopo che ebbe stipato tutto il denaro nel suo nascondiglio, recuperò la pistola e aprì la porta d'ingresso. Corse fino alla macchina, saltò dentro, e partì a tutta velocità scavando solchi nel prato. Era incolume, e al momento era la sola cosa che gli importava. A nord di Clanton, il terreno digradava verso le acque stagnanti lungo la sponda del lago Chatoula e per un paio di chilometri la strada era un lungo e piatto rettilineo. Noto semplicemente come "The Bottoms", da molto tempo era diventato una pista per gare di auto truccate a notte fonda e territorio di ubriaconi, teppisti e scalmanati in genere. Il suo più ravvicinato faccia a faccia con la morte, prima d'ora, era stato ai tempi del liceo quando si era trovato schiacciato come una sardina sul sedile posteriore di una Pontiac Firebird guidata da Bobby Lee West, ubriaco, che gareggiava con una Camaro pilotata dall'ancor più ubriaco Doug Terring; entrambe le automobili lanciate sul rettilineo a centosessanta chilometri orari. Ray ne era venuto fuori sulle proprie gambe, ma Bobby Lee era rimasto ucciso un anno dopo, quando la sua Firebird era uscita di strada e aveva incontrato un albero. Quando imboccò la dirittura dei Bottoms, schiacciò a tavoletta l'acceleratore della sua TT e lasciò che esprimesse tutta la sua potenza. Erano le due e mezzo di notte, certamente dormivano tutti. Stava in effetti dormendo anche Elmer Conway, ma una zanzara che si era ingrassata succhiandogli sangue dalla fronte lo aveva svegliato. Vide dei fari, un'auto che si avvicinava veloce, e accese il radar. Partì all'inseguimento, e gli ci vollero quasi sei chilometri per costringere l'autista ad accostare. A quel punto, ormai, Elmer era arrabbiato. Ray commise l'errore di aprire lo sportello e uscire, ma non era quello che l'agente aveva in mente. «Fermo lì, coglione!» urlò da sopra la canna della sua pistola d'ordinanza, che, come Ray notò subito, gli aveva puntato alla testa. «Calma, calma» implorò, alzando le mani in segno di resa totale. «Allontanati dalla macchina» ringhiò Elmer indicando con la pistola un punto più o meno sulla mezzeria della strada. «Non c'è problema, agente, si rilassi» ribatté Ray, mentre si spostava lateralmente strisciando i piedi. «Come ti chiami?» «Ray Atlee, il figlio del giudice Atlee. Potrebbe abbassare la pistola, per
piacere?» Elmer abbassò la canna di un paio di centimetri. «La targa è della Virginia» disse. «Perché vivo in Virginia.» «È lì che è diretto?» «Sì, agente.» «E perché tanta fretta?» «Non lo so, avevo solo...» «Ho registrato centosessanta chilometri orari.» «Sono davvero mortificato.» «Mortificato un cazzo. Vuol dire guidare da pazzo.» L'agente avanzò di un passo. Ray si era dimenticato del taglio alla mano e non sapeva di averne uno su un ginocchio. Elmer lo scrutò da tre metri di distanza illuminandolo con la torcia. «Perché sta sanguinando?» Era un'ottima domanda, e in quel momento, in mezzo a una strada buia con la luce di una torcia in faccia, Ray non riuscì a farsi venire in mente una risposta adeguata. Il racconto della verità avrebbe richiesto un'ora, se offerto a orecchie incredule. Una bugia avrebbe solo peggiorato la sua situazione. «Non lo so» borbottò. «Che cosa c'è in macchina?» «Niente» «Figuriamoci.» Ammanettò Ray e lo caricò sul sedile posteriore della sua auto di pattuglia, un'Impala marrone con i parafanghi coperti di polvere, niente coprimozzi, una selva di antenne sul paraurti posteriore. Ray lo guardò avvicinarsi alla TT e controllare l'abitacolo. Quando ebbe finito, Elmer salì davanti e, senza girarsi, domandò: «La pistola a che le serve?». Ray aveva cercato di farla scivolare sotto il sedile. Evidentemente la si vedeva dall'esterno. «Autodifesa.» «Ha un porto d'armi?» «No.» Elmer chiamò l'ufficio e diede un particolareggiato resoconto della sua ultima operazione a tutela dell'ordine. Concluse con: «Lo porto dentro», come se avesse appena messo le mani su uno dei primi dieci ricercati d'America. «E la mia macchina?» chiese Ray mentre il poliziotto faceva manovra. «Manderò un carro attrezzi.»
Elmer accese i lampeggianti rossi e blu e lanciò la sua Impala a centoventi orari. «Posso chiamare il mio avvocato?» chiese Ray. «No.» «Ma insomma, è stata solo un'infrazione al codice della strada. Il mio avvocato può raggiungerci alla prigione, pagare la cauzione e permettermi di riprendere il mio viaggio entro un'ora.» «Chi è il suo avvocato?» «Harry Rex Vonner.» Elmer grugnì e gli si gonfiò il collo. «Quel bastardo mi ha ripulito. Rappresentava mia moglie nella causa di divorzio.» E con questo, Ray appoggiò la testa e chiuse gli occhi. Ray aveva visto con i propri occhi la prigione della contea in due occasioni, ricordò mentre Elmer lo scortava all'interno. Entrambe le volte ci era andato per consegnare certi documenti a padri buoni a nulla rimasti indietro di anni nel versamento delle quote per il mantenimento dei figli; per questo il giudice Atlee li aveva fatti mettere sotto chiave. All'ingresso, a leggere riviste di investigazione, c'era ancora Haney Moak, il carceriere leggermente ritardato, in una divisa che gli andava troppo larga. Rispondeva anche al centralino durante il turno di notte, così era già informato delle infrazioni di Ray. «Il figlio del giudice Atlee, eh?» lo apostrofò con un sorriso storto. Aveva la testa leggermente sghemba ed era un po' strabico, e tutte le volte che parlava stargli dietro con gli occhi era un'impresa. «Sì, signore» rispose educatamente Ray in cerca di amici. «Era una brava persona» dichiarò Haney mentre gli passava dietro per aprire le manette. Ray si massaggiò i polsi e si girò verso Conway, che stava compilando moduli con aria molto professionale. «Guida pericolosa e possesso illegale d'arma da fuoco.» «Non vorrai chiuderlo dentro, vero?» chiese rude Haney a Elmer come se ora avesse assunto lui il comando delle operazioni. «Puoi starne certo» replicò con foga Elmer, e l'atmosfera si fece subito tesa. «Posso chiamare Harry Rex Vonner?» implorò Ray. Haney indicò con la testa un telefono a muro, come se non potesse importargli meno. Stava fissando Elmer con un'espressione astiosa. I due a-
vevano evidentemente precedenti poco simpatici. «La mia prigione è piena.» «È quello che dici sempre.» Ray compose il numero di casa di Harry Rex. Erano le tre di notte e sapeva che la sua intrusione non sarebbe stata accolta con gioia. L'attuale signora Vonner rispose al terzo squillo. Ray si scusò e chiese di Harry Rex. «Non è qui» rispose lei. Non è fuori città, pensò Ray. Era a casa mia sei ore fa. «Posso sapere dove si trova?» Dietro di lui Haney ed Elmer avevano cominciato praticamente a urlarsi addosso. «È alla casa del giudice Atlee» rispose lei lentamente. «No, è andato via ore fa. Ero con lui.» «No, hanno appena chiamato. La casa sta bruciando.» Con Haney seduto dietro, compirono a tutta birra il giro della piazza a luci e sirene spiegate. Il bagliore si vedeva già da due isolati di distanza. «Dio abbia misericordia» pregò Haney dal sedile posteriore. Pochi avvenimenti emozionavano Clanton quanto un bell'incendio. C'erano entrambe le autopompe cittadine. Qua e là s'affannavano decine di volontari, gridando tutti contemporaneamente. I vicini si andavano raccogliendo sul marciapiede opposto. Le fiamme s'innalzavano già attraverso il tetto. Nello scavalcare un manicotto per raggiungere il prato davanti alla casa, Ray percepì un inequivocabile odore di benzina. 35 Il "nido d'amore" si rivelò un luogo accettabile dove schiacciare un pisolino. Era una stanza lunga e stretta con polvere e ragnatele, e una lampada appesa al centro di un soffitto a volta. Una finestra solitaria s'affacciava sulla piazza, con i serramenti che dovevano essere stati verniciati per l'ultima volta il secolo scorso. Il letto era d'antiquariato, in ferro battuto, senza lenzuola né coperte, e Ray cercò di non pensare a Harry Rex e alle sue peccaminose avventure su quel materasso. Pensò invece a Maple Run e al modo glorioso in cui era passata alla storia. Prima che crollasse il tetto, era già convenuta mezza Clanton. Ray, seduto in disparte sul ramo più basso di un sicomoro dall'altra parte della strada, nascosto a tutti, aveva cercato invano di esumare i bei ricordi di un'infanzia lieta che semplicemente non
aveva avuto. Quando anche l'ultima finestra si era messa a sputare fiamme, non aveva pensato al denaro, allo scrittoio del Giudice o al tavolo da pranzo di sua madre, ma solo al vecchio generale Forrest che guardava dall'alto con quei suoi occhi fieri. Tre ore di sonno ed era sveglio. La temperatura saliva rapidamente in quella tana di nefandezze, e sentiva passi pesanti in avvicinamento. Harry Rex spalancò la porta e accese la luce. «In piedi, criminale» grugnì. «Ti vogliono giù alla prigione.» Ray posò i piedi per terra. «Nella mia fuga non c'è nulla di illegale.» Aveva perso Elmer e Haney nella folla e se n'era semplicemente andato via con Harry Rex. «Gliel'hai detto tu che potevano perquisire la tua macchina?» «Sì.» «Bella stronzata ti è venuta in mente. E tu saresti un avvocato?» Prese una seggiola pieghevole e andò a sedersi di fianco al letto. «Non c'era niente da nascondere.» «Sei deficiente o cosa? Hanno perquisito la macchina e non hanno trovato niente.» «È quello che immaginavo.» «Niente vestiti, niente borsa da viaggio, niente bagagli, niente spazzolino da denti, neanche uno straccio di prova che tu stessi semplicemente partendo per tornartene a casa, a conferma della tua versione ufficiale.» «Non ho bruciato io Maple Run, Harry Rex.» «Già, però sei un indiziato perfetto. Sei scappato nel cuore della notte senza vestiti, senza niente, tirando il tuo bolide peggio di un pipistrello uscito dall'inferno. La Larrimore, la vecchietta in fondo alla strada, ti vede sfrecciare su quella tua buffa macchinetta e dieci minuti dopo arrivano le autopompe. Poi vieni arrestato dal vicesceriffo più imbecille di tutto lo Stato mentre te la stai battendo a centosessanta orari. Difenditi.» «Non ho appiccato io il fuoco.» «Perché sei partito alle due e mezzo?» «Qualcuno ha sfondato con un mattone la finestra della sala da pranzo. Mi sono spaventato.» «Avevi una pistola.» «Non volevo usarla. Ho preferito scappare piuttosto che sparare a qualcuno.» «Tu sei rimasto troppo a lungo su nel Nord.» «Io non vivo su nel Nord.»
«Come hai fatto a tagliarti in quel modo?» «Il mattone ha fracassato la finestra e quando sono andato a vedere che cosa era successo mi sono tagliato.» «Perché non hai chiamato la polizia?» «Mi sono lasciato prendere dal panico. Volevo tornarmene a casa e sono partito.» «E dieci minuti dopo qualcuno inonda tutto di benzina e getta un fiammifero.» «Io non so che cosa abbiano fatto.» «Io ti incriminerei.» «No, tu sei il mio avvocato.» «No, io sono l'avvocato di famiglia, che si occupa di un patrimonio che a questo punto ha perso l'unico bene materiale che c'era.» «C'è una polizza contro gli incendi.» «Già, ma non puoi riscuotere l'indennità.» «Perché?» «Perché se fai domanda, ti metteranno sotto inchiesta per incendio doloso. Se mi dici che non sei stato tu, io ti credo. Ma dubito che ci sia qualcun altro disposto a farlo. Se vai a caccia dei soldi dell'assicurazione, quelli non te la fanno passare liscia.» «Non sono stato io.» «Perfetto. Chi allora?» «Non ne ho idea. Forse qualcuno a cui è andata male in una causa di divorzio.» «Fantastico. E aspetta nove anni per vendicarsi del Giudice, il quale, nel frattempo, ci ha lasciati. Non sarò in aula quando racconterai questa storia alla giuria.» «Non lo so, Harry Rex. Giuro che non sono stato io. Dimentica i soldi dell'assicurazione.» «Non è così facile. La casa è tua solo per metà, l'altra metà appartiene a Forrest. Potrebbe chiedere lui un risarcimento alla compagnia.» Ray prese fiato e si grattò il mento ispido. «Dammi una mano, vuoi?» «Senti, c'è lo sceriffo con uno dei suoi investigatori. Ti faranno delle domande. Rispondi lentamente, di' la verità. Ci sarò anch'io, perciò andiamo con i piedi di piombo.» «Lo sceriffo è qui?» «Nella mia sala riunioni. Gli ho chiesto di venire per poter chiudere tutto subito. Credo davvero che faresti bene a lasciare la città.»
«Ci stavo provando.» «L'incriminazione per guida pericolosa e possesso d'arma senza licenza verrà ritardata di qualche mese. Dammi un po' di tempo per lavorarmi il calendario delle udienze. Al momento hai problemi più gravi.» «Non sono stato io a incendiare la casa, Harry Rex.» «Ma naturale che non sei stato tu.» Scesero al primo piano per gli scalini traballanti. «Chi è lo sceriffo?» chiese Ray. «Un certo Sawyer.» «Una brava persona?» «Non ha importanza.» «Tu lo conosci?» «Mi sono occupato del divorzio di suo figlio.» La sala riunioni era un gioioso guazzabuglio di voluminosi tomi di giurisprudenza disposti nel massimo disordine su ripiani, credenze e sul grande tavolo centrale. Si aveva l'impressione che Harry Rex trascorresse ore in tediose ricerche. Non era vero. Sawyer non fu minimamente cortese, né lo fu il suo assistente, un italiano piccolo e nervoso di nome Sandroni. Era raro trovare italiani nelle regioni nordorientali del Mississippi, e durante le scontrose presentazioni Ray avvertì un accento del Delta. All'insegna della massima professionalità, Sandroni prese meticolosi appunti mentre Sawyer sorseggiava caffè fumante da una tazza di plastica e sorvegliava ogni mossa di Ray. L'allarme era stato dato dalla signora Larrimore alle due e trentaquattro, dai dieci ai quindici minuti dopo che aveva visto la macchina di Ray abbandonare Fourth Street a tutta velocità. Elmer Conway aveva chiamato via radio alle due e trentasei per avvertire che era all'inseguimento di un idiota che filava a centosessanta orari per i Bottoms. Poiché era stato accertato che Ray guidava a rotta di collo, Sandroni s'attardò per stabilire con precisione il suo itinerario, le diverse velocità di marcia, i semafori, qualunque cosa lo avesse rallentato a quell'ora di notte. Dopo che furono determinati tutti questi particolari, Sawyer chiamò via radio il vicesceriffo che attendeva davanti ai resti di Maple Run e gli ordinò di percorrere il medesimo itinerario alla stessa velocità fino al punto del rettilineo dei Bottoms dove si era appostato di nuovo Elmer. Dodici minuti più tardi il vicesceriffo chiamò per informare che era giunto a destinazione. Dunque meno di dodici minuti, attaccò Sandroni dando inizio alla sua
ricapitolazione. «Qualcuno, e noi partiamo dal presupposto che questo qualcuno non fosse già in casa, vero signor Atlee?, è entrato con una scorta evidentemente notevole di benzina e ha inondato tutta la casa, tanto che il comandante dei vigili del fuoco ha detto di non aver mai sentito un odore così forte. Poi ha gettato un fiammifero o forse due, perché il comandante è quasi certo che l'incendio è partito da più di un punto. Dopodiché, gettati i fiammiferi, questo sconosciuto incendiario si è volatilizzato nella notte. Giusto, signor Atlee?» «Io non so che cosa abbia fatto l'incendiario» fu la risposta di Ray. «Ma le ore sono giuste?» «Se lo dice lei.» «Lo dico io.» «Proceda» lo invitò con un ringhio Harry Rex da capotavola. Era la volta del movente. La casa era assicurata per 380.000 dollari, contenuto compreso. Secondo l'agenzia immobiliare, che era già stata consultata, l'offerta che si stava materializzando era di 175.000. «C'è una bella differenza, non trova signor Atlee?» chiese Sandroni. «Sì.» «Ne ha dato comunicazione alla sua compagnia di assicurazioni?» volle sapere Sandroni. «No, pensavo di aspettare l'apertura degli uffici» rispose Ray. «Ci creda o no, c'è gente che di sabato non lavora.» «E andiamo» intervenne in suo soccorso Harry Rex. «Ci sono ancora le autopompe sul luogo dell'incendio. Abbiamo sei mesi per presentare una richiesta di indennizzo.» Le guance di Sandroni si colorirono, ma l'investigatore tenne a freno la lingua. «Parliamo di altri indiziati» procedette quindi esaminando gli appunti. A Ray non piacque la parola "altri". Raccontò la storia del mattone scagliato contro la sua finestra, o almeno la gran parte di quella storia. E della telefonata che lo ammoniva a uscire immediatamente. «Controllate alla compagnia dei telefoni» li sfidò. Per buona misura corredò le sue dichiarazioni con le precedenti vicende di un anonimo demente che faceva tintinnare le finestre della casa la notte della morte del Giudice. «Avete sentito abbastanza» proclamò dopo mezz'ora Harry Rex. In altre parole, il mio cliente non risponderà più alle vostre domande. «Quando ha intenzione di lasciare la città?» s'informò Sawyer. «Sono sei ore che cerco di lasciarla» ribatté Ray.
«Molto presto» si intromise Harry Rex. «Potremmo avere altre domande.» «Se la mia presenza dovesse rendersi necessaria, sono pronto a tornare» dichiarò Ray. Harry Rex spinse i visitatori fuori della porta. Quando tornò in sala riunioni disse: «Io credo che tu sia un bastardo cacciapalle». 36 La vecchia autopompa, la stessa che Ray e i suoi amici inseguivano da ragazzi nelle più noiose notti d'estate, non c'era più. Tutto solo, un volontario con addosso una maglietta lurida, arrotolava i manicotti. La strada era ridotta un disastro, con fango dappertutto. A metà mattina il terreno sul quale sorgeva Maple Run era deserto. All'estremità est era ancora in piedi la canna fumaria insieme a un pezzetto di muro carbonizzato. Tutto il resto era crollato in un cumulo di macerie. Ray e Harry Rex gli passarono intorno e si avvicinarono alla fila di vecchi noci che proteggeva il confine posteriore della proprietà. Si accomodarono all'ombra su sedie metalliche da giardino che molti anni prima Ray aveva verniciato di rosso e mangiarono tamales. «Non sono stato io a bruciare questa casa» ripeté alla fine Ray. «Sai chi è stato?» chiese Harry Rex. «Ho un sospetto.» «Dimmi chi è, dannazione.» «Si chiama Gordie Priest.» «Ah.» «È una lunga storia.» Ray cominciò dal Giudice morto sul divano e dall'accidentale scoperta del denaro... Ma era stata davvero accidentale? Gli riferì ogni avvenimento e i particolari che riuscì a ricordare ed espose tutti gli interrogativi che lo avevano perseguitato per settimane. Smisero entrambi di mangiare e fissarono i detriti fumanti ma erano troppo distratti per vederli. Harry Rex era stordito dal racconto. Ray era felice di sfogarsi. Da Clanton a Charlottesville e ritorno. Dalle case da gioco di Tunica a quelle di Atlantic City e poi di nuovo a Tunica. Fino alla costa e a Patton French con la sua crociata per incassare un miliardo di dollari, tutto grazie al giudice Reuben Atlee, umile servitore della legge, Ray non omise nulla e cercò di rammentare tutto. L'intrusione nel suo
appartamento di Charlottesville, per pura intimidazione, a suo avviso. Lo sconsiderato acquisto di una quota del Bonanza. E via di seguito, mentre Harry Rex taceva. Quando ebbe finito, non aveva più appetito e stava sudando. Harry Rex aveva un milione di domande, ma cominciò con: «Perché avrebbe bruciato la casa?». «Forse per coprire le sue tracce, non lo so.» «Quello è uno che non lascia tracce.» «Forse è stato un ultimo atto di intimidazione.» Meditarono su quell'eventualità. «Avresti dovuto dirmelo» lo rimproverò Harry Rex sull'ultimo boccone di tamal. «Volevo tenermi i soldi, d'accordo? Avevo tre milioni di dollari in contanti in queste mie manine ingorde ed era una sensazione stupenda. Era meglio che scopare, meglio di qualunque altra cosa abbia mai provato in vita mia. Tre milioni in banconote, Harry Rex, tutti miei. Ero ricco. Ero avido, corrotto. Non volevo che nessuno sapesse dei soldi, né tu, né Forrest, né il governo, né nessun altro al mondo.» «Che cosa intendevi farne?» «Li avrei depositati in varie banche, una decina almeno, a novemila dollari per volta. Niente documenti che potessero mettere sul chi va là le autorità governative, versamenti ripetuti per diciotto mesi, poi li avrei consegnati a un broker professionista. Ho quarantatré anni, di qui a due anni i soldi sarebbero stati completamente riciclati e investiti. Avrei raddoppiato il capitale ogni cinque anni. A cinquant'anni avrei avuto sei milioni. A cinquantacinque dodici. A sessanta mi sarei ritrovato con ventiquattro milioni di dollari. Avevo programmato tutto, Harry Rex, vedevo il mio futuro.» «Non disperarti. Quello che hai fatto è normale.» «Le sensazioni non erano normali.» «Come canaglia sei una frana.» «Mi sentivo una frana, e la mutazione era già in corso. Mi vedevo su un aereo privato, alla guida di macchine sportive da sogno e in una casa molto più bella. C'è un giro di ricconi a Charlottesville e già pensavo di fare il mio ingresso in pompa magna. Country club, caccia alla volpe...» «Caccia alla volpe?» «Oh, sì.» «Con quelle brachette da cavallerizzo e il cappello rigido?» «A volare sugli steccati in sella a un cavallo focoso all'inseguimento di una muta di cani che braccano una volpe da dodici chili che non vedrai
mai.» «E perché vorresti fare una cosa del genere?» «Perché lo fanno gli altri.» «Io continuerò a cacciare uccelli.» «In ogni caso era un fardello, nel vero senso della parola. Voglio dire che mi sono trascinato in giro quei soldi per settimane.» «Avresti potuto lasciarli nel mio ufficio.» Ray finì un tamal e bevve un sorso. «Mi prendi forse per scemo?» «No, per fortunato. Io sto dalla tua parte.» «Ogni volta che chiudevo gli occhi vedevo una pallottola che mi arrivava in fronte.» «Senti, Ray, non hai fatto niente di male. Il Giudice non voleva che quei soldi finissero nella successione. Tu li hai presi perché pensavi di proteggerli e intendevi allo stesso tempo difendere la sua reputazione. Avevi a che fare con un pazzo che li voleva più ancora di te. Guardando indietro, sei stato fortunato a esserne uscito indenne. Scordati tutto.» «Grazie, Harry Rex.» Ray si sporse in avanti mentre guardava l'ultimo volontario che se ne andava. «E l'incendio doloso?» «Risolveremo tutto. Presenterò una richiesta di indennizzo e la compagnia aprirà un'inchiesta. Sospetteranno il dolo e la faccenda diventerà poco piacevole. Lasceremo passare qualche mese. Se non pagano, li citeremo in giudizio nella contea di Ford. Non rischieranno un processo con giuria contro gli eredi di Reuben Atlee proprio qui, dove ha sede il suo tribunale. Credo che negozieranno prima di arrivare al processo. Dovremmo forse cedere qualcosa, ma ne usciremo bene.» Ray era in piedi. «Voglio veramente tornare a casa» dichiarò. Girarono di nuovo intorno alle macerie, nell'aria densa di calore e fumo. «Ne ho abbastanza» disse ancora Ray e si diresse verso la strada. Percorse i Bottoms mantenendosi perfettamente entro i novanta orari. Di Elmer Conway non c'era traccia. Con il bagagliaio vuoto, l'Audi sembrava più leggera. Era la vita stessa, per la verità, che si liberava delle sue zavorre. Ray agognava la normalità di casa sua. Lo angustiava l'idea di dover vedere Forrest. Il patrimonio del loro padre era appena andato in fumo e la questione dell'incendio doloso non sarebbe stata facile da spiegare. Forse avrebbe fatto meglio a rimandare. Il suo recupero procedeva così bene e Ray sapeva per esperienza che la minima complicazione poteva guastare tutto. Meglio lasciar passare un mese. Poi
un altro ancora. Forrest non sarebbe più tornato a Clanton, e nel suo mondo torbido forse la notizia del rogo non sarebbe mai arrivata. Meglio che a raccontargli tutto fosse Harry Rex. Quando firmò il registro, la receptionist dell'Alcorn Village lo guardò in modo strano. Ray rimase a sfogliare riviste per un bel pezzo nell'oscurità della sala d'aspetto. Quando vide entrare Oscar Meave con un'aria funebre, capì al volo che cos'era accaduto. «Se n'è andato nel tardo pomeriggio di ieri» esordì Meave protendendosi con la testa incassata tra le spalle sopra il tavolino che li divideva. «È tutta la mattina che cerco di contattarla.» «Ieri sera ho perso il cellulare» spiegò Ray. Di tutte le cose che aveva abbandonato quando avevano cominciato a piovere mattoni, non riusciva a credere di aver scordato il cellulare. «Si era iscritto alla camminata di cinque chilometri come tutte le altre mattine. Si fa un bel giro nella natura, fuori dalle recinzioni, ma Forrest non rappresentava un rischio da questo punto di vista. Almeno così pensavamo noi. Non riesco a crederci.» Ray sì. Erano quasi vent'anni che suo fratello evadeva dai centri di riabilitazione. «Questa non è propriamente una struttura di reclusione» si giustificò Meave. «Devono essere i pazienti a voler restare, altrimenti non funziona.» «Capisco» mormorò Ray. «Stava andando così bene» continuò Meave, evidentemente più angosciato di Ray. «Risanato e molto orgoglioso dei suoi progressi. Aveva, come dire... adottato due adolescenti che erano qui per la prima volta. Lavorava con loro tutte le mattine. Proprio non riesco a capire.» «Credevo che lei fosse un ex tossicodipendente.» Meave stava scuotendo la testa. «Lo so, lo so. Chi è dipendente smette quando è lui a volerlo e non prima.» «Ha mai visto qualcuno che proprio non può smettere?» chiese Ray. «È una cosa che non possiamo ammettere.» «Lo so che non potete. Ma, detto fra noi, sappiamo bene tutti e due che ci sono tossicodipendenti che non smetteranno mai.» Meave alzò dolorosamente le spalle. «Forrest è uno di loro, Oscar. È una storia che ci tiriamo dietro da vent'anni.» «La prendo come un insuccesso personale.»
«Non lo faccia.» Uscirono insieme e conversarono per un altro momento in veranda. Meave non smetteva più di scusarsi. Per Ray non era nulla di inaspettato. Sulla strada tortuosa che lo riportava alla statale, Ray si chiese in che modo suo fratello avesse potuto andarsene come nulla fosse da un istituto che si trovava a oltre dieci chilometri dal centro abitato più vicino. D'altra parte, era già fuggito da luoghi ancora più remoti. Sarebbe potuto tornare a Memphis, alla sua stanza nel seminterrato di Ellie, nelle strade dove erano in attesa i suoi fornitori. La prossima telefonata avrebbe potuto essere l'ultima, ma Ray da molti anni s'era abituato all'idea. Malato com'era, Forrest aveva dato dimostrazione di una sorprendente capacità di sopravvivenza. Ora Ray era nel Tennessee. Lo Stato successivo era la Virginia, a sette ore di macchina. Con il cielo sereno e senza vento, pensò come sarebbe stato bello volteggiare a milleseicento metri di quota sul suo Cessna preferito preso a noleggio. 37 Entrambe le porte erano nuove, di legno grezzo, molto più pesanti delle precedenti. Ray ringraziò mentalmente il padrone di casa per la spesa supplementare; sapeva che non ci sarebbero state nuove violazioni. L'assedio era finito. Niente più occhiate lanciate alle spalle. Niente più visite furtive al Chaney's a giocare a rimpiattino. Niente più conciliaboli con Corey Crawford. E niente più denaro illecito su cui affliggersi e di cui sognare, da trasportare letteralmente in giro per tutto il paese. La liberazione da quel peso lo faceva sorridere e camminare più spedito. La vita sarebbe ridiventata normale. Lunghe corse nel clima estivo. Lunghi voli solitari sul Piedmont. E aveva persino rivalutato la sua ricerca sui trattati monopolistici che aveva promesso di consegnare per il Natale prossimo o per quello successivo. Aveva ammorbidito la sua posizione anche riguardo a Kaley ed era pronto a un ultimo tentativo per una cenetta. Ormai era laureata, ed era semplicemente troppo desiderabile per rinunciarci senza sforzo. La sua abitazione era immutata, nelle condizioni di sempre visto che non ci viveva nessun altro. A parte le porte, non c'era nulla che facesse pensare alle effrazioni dei giorni precedenti. Ora sapeva che il suo topo d'appartamento era stato in realtà un tormentatore, un intimidatore. Gordie, o uno
dei suoi fratelli. Non sapeva come si fossero divisi le fatiche dell'operazione, né gli importava saperlo. Erano quasi le undici del mattino. Si preparò un caffè forte e affrontò la corrispondenza. Niente più lettere anonime. Nient'altro che le solite fatture e la solita pubblicità. Trovò due fax nel vassoio della posta. Il primo era di un suo ex studente, il secondo di Patton French. Aveva cercato di chiamarlo, ma il suo cellulare era fuori uso. Il testo del fax era scritto a mano sulla carta intestata del King of Torts, inviato senza dubbio dalle grigie acque del golfo dove French continuava a tener nascosta la sua barca all'avvocato divorzista della moglie. Buone notizie sul fronte della sicurezza! Non molto tempo dopo che Ray aveva lasciato la costa, Gordie Priest era stato "localizzato" con entrambi i suoi fratelli. Ray poteva, per piacere, dare un colpo di telefono? La sua assistente lo avrebbe rintracciato. Ray rimase davanti al telefono per due ore prima che French lo richiamasse da un albergo di Forth Worth, dove era in riunione con alcuni avvocati per i casi Ryax e Kobril. «Dovrei riuscire a raccogliere un migliaio di casi» lo informò, incapace di trattenersi. «Complimenti» rispose Ray. Era deciso a non ascoltare altre smargiassate su querele e accordi da fantastiliardi di dollari. «Il tuo telefono è sicuro?» chiese French. «Sì.» «Ascolta, allora. Priest non rappresenta più una minaccia. L'abbiamo trovato poco dopo la tua partenza. Era ubriaco, con la tizia che frequenta da qualche tempo. Abbiamo trovato anche i fratelli. I tuoi soldi sono al sicuro.» «Di preciso quando l'avete trovato?» volle sapere Ray. Era seduto al tavolo della cucina sul quale aveva aperto un grande calendario. Il fattore tempo era cruciale. Aveva scritto appunti a margine mentre attendeva la telefonata. French rifletté per un momento. «Mmh, vediamo. Che giorno è, oggi?» «Lunedì, cinque giugno.» «Lunedì. Tu quando hai lasciato la costa?» «Alle dieci di mattina di venerdì.» «Allora è stato poco dopo l'ora di pranzo quello stesso venerdì.» «Sicuro?» «Certo che sono sicuro. Perché me lo chiedi?»
«E dopo che l'avete trovato non ha avuto modo di allontanarsi dalla costa?» «Fidati, Ray, non si sono più mossi da qui. Hanno, ehm... trovato una residenza fissa.» «Non voglio conoscere i particolari.» Ray fissava il calendario. «Che cosa c'è?» lo sollecitò French. «Qualcosa non va?» «Sì, possiamo metterla così.» «Cioè?» «Qualcuno mi ha bruciato la casa.» «Quella del giudice Atlee?» «Sì.» «Quando?» «Nella notte tra venerdì e sabato.» Una pausa, durante la quale French assimilò la notizia. «Be', non sono stati i fratelli Priest, questo te lo assicuro» concluse poi. Visto che Ray non fiatava, French chiese: «I soldi dove sono?». «Non lo so» ammise sottovoce. Una corsa di cinque chilometri non allentò la sua tensione. Tuttavia, come sempre, gli permise di formulare programmi, di riordinare i pensieri. La temperatura superava i trenta gradi e quando tornò a casa era fradicio di sudore. Ora che aveva raccontato tutto a Harry Rex, gli era di conforto l'esistenza di qualcuno con cui condividere gli ultimi sviluppi. Chiamò lo studio di Clanton e venne informato che l'avvocato si trovava in tribunale a Tupelo e sarebbe rientrato tardi. Telefonò all'abitazione di Ellie a Memphis ma nessuno gli rispose. Chiamò Oscar Meave all'Alcorn Village e, poco fiducioso di avere nuove su suo fratello, ottenne precisamente ciò che aveva previsto. Alla faccia della vita normale. Dopo una faticosa mattinata di tira e molla nei corridoi del palazzo di giustizia della contea di Lee a bisticciare su questioni come la destinazione del motoscafo da sci nautico o dello chalet sul lago, e quanto lui era disposto a versare in contanti per chiudere la questione su due piedi, i termini del divorzio furono fissati un'ora dopo pranzo. Harry Rex rappresentava il marito, un fanatico cowboy giunto alla moglie numero tre che pensava di saperne più del suo avvocato sui divorzi. La moglie in questione era una bambolotta vicina ai trent'anni che lo aveva sorpreso con la sua migliore
amica. Era lo stereotipo della sordidezza extraconiugale e Harry Rex ne aveva ormai la nausea quando si presentò al giudice con il risultato della sua dura battaglia sulla divisione dei beni. Il magistrato era un veterano che aveva diviso migliaia di coppie. «Mi dispiace molto per il giudice Atlee» mormorò mentre cominciava a leggere il testo dell'accordo. Harry Rex si limitò ad annuire. Era stanco, aveva sete e già pregustava una birra gelata sulla via del ritorno a Clanton. Il suo rivenditore preferito nella zona di Tupelo era al confine della contea. «Abbiamo servito insieme per ventidue anni» stava dicendo il giudice. «Un'ottima persona» convenne Harry Rex. «Si occupa lei dell'eredità?» «Sì, signore.» «La prego di portare i miei omaggi al giudice Farr.» «Volentieri.» I documenti furono firmati, il matrimonio fu pietosamente sciolto, gli ex coniugi in guerra spediti alle loro neutrali dimore. Harry Rex aveva lasciato il tribunale ed era ormai a pochi passi dalla sua automobile quando un avvocato lo fermò sul marciapiede. Si presentò come Jacob Spain, uno dei mille avvocati che esercitavano a Tupelo. Era in aula e aveva sentito il giudice parlare di Atlee. «Ha un figlio, vero?» chiese Spain. «Forrest, giusto?» «Due figli, Ray e Forrest.» Harry Rex prese fiato e si rassegnò alla prospettiva di un rapido colloquio. «Ho giocato a football contro Forrest, ai tempi delle superiori. Per la verità fu lui a spaccarmi una clavicola colpendomi dopo il placcaggio.» «Tipico.» «Io giocavo a New Albany. Forrest era al primo anno quando io ero all'ultimo. L'ha mai visto giocare?» «Sì, molte volte.» «Ricorda la partita in cui, contro di noi, lanciò per trecento iarde nei primi due quarti? Quattro o cinque touchdown, credo.» «Sì, la ricordo» rispose Harry Rex, che cominciava a dare segni di irrequietudine. Per quanto ce n'era ancora? «Quella sera giocavo in difesa e lui sparava passaggi da tutte le parti. Poco prima dell'intervallo ne intercettai uno sulla destra, lo portai fuori della linea laterale e lui mi pestò mentre ero a terra.» «Era uno dei suoi trucchetti preferiti.» "Colpisci duro e colpisci in ritardo" era stato il motto di Forrest, specialmente nei confronti di quei defen-
sive back tanto sfortunati da intercettare uno dei suoi lanci. «Credo che fu arrestato la settimana dopo» stava dicendo Spain. «Che spreco. Comunque, il fatto è che l'ho visto solo poche settimane fa, qui a Tupelo con il giudice Atlee.» L'irrequietudine scomparve. Harry Rex dimenticò la birra gelata. Almeno per il momento. «Quando è stato?» domandò. «Subito prima che il Giudice morisse. Una scena strana.» Si allontanarono di qualche passo per mettersi all'ombra di un albero. «L'ascolto» disse Harry Rex allentandosi la cravatta. Si era già tolto il blazer tutto spiegazzato. «Mia suocera è in cura per un tumore al seno alla Taft Clinic. Un lunedì pomeriggio, in primavera, l'ho portata lì per una seduta di chemioterapia.» «Anche il giudice Atlee andava alla Taft» rammentò Harry Rex. «Ho visto le fatture.» «Sì, è li che l'ho incontrato. Ho accompagnato dentro mia suocera e, siccome c'era da aspettare un po', sono tornato alla mia macchina per fare qualche telefonata. Ero seduto lì quando ho visto arrivare il giudice Atlee a bordo di una lunga Lincoln nera guidata da una persona che non riconobbi. Parcheggiarono poco più in là e scesero. Allora mi accorsi che l'autista aveva qualcosa di familiare, fisico massiccio, atletico, capelli lunghi, una camminata sciolta e un po' tracotante che avevo già visto. Così mi resi conto che stavo guardando Forrest. Lo capii dal modo in cui si muoveva. Aveva gli occhiali scuri e un berretto calcato sulla testa. Entrarono, e pochi secondi dopo Forrest uscì.» «Che tipo di berretto?» «Blu chiaro. Dei Cubs, credo.» «Lo conosco.» «Era molto nervoso, come se non volesse farsi vedere. S'infilò in mezzo agli alberi di fianco alla clinica, tanto che riuscivo appena a vederlo. E rimase nascosto lì. Io pensavo che si fosse appartato per qualche necessità fisica. Invece no, si stava proprio nascondendo. Dopo un'oretta tornai dentro la clinica. Dovetti aspettare ancora un po', poi finalmente recuperai mia suocera e potei andarmene. Lui era ancora tra gli alberi.» Harry Rex si tolse di tasca un'agenda elettronica. «Che giorno era?» Spain ne estrasse una a sua volta e, da bravi avvocati sulla cresta dell'onda, confrontarono i loro movimenti recenti. «Lunedì, primo maggio» concluse Spain. «Sei giorni prima che il Giudice morisse» calcolò Harry Rex.
«Sono sicuro che la data è giusta. Una scena davvero strana.» «Be', Forrest è un personaggio strano.» «Non è che si nasconde dalla legge o che so io, vero?» «Non al momento» rispose Harry Rex, e si unirono in una risatina nervosa e non del tutto convinta. Spain manifestò improvvisamente il bisogno di andarsene. «Comunque, quando lo vede, gli dica che sono ancora incazzato per quel colpo a tradimento.» «Non mancherò» promise Harry Rex, e rimase a guardarlo mentre si allontanava. 38 I coniugi Vonner lasciarono Clanton sotto il cielo coperto di una mattina di giugno a bordo di una nuova auto sportiva a trazione integrale che prometteva quattro chilometri al litro e trasportava un quantitativo di bagagli sufficiente per un mese in Europa. La loro destinazione invece era Washington, giacché nella capitale viveva una sorella della signora Vonner che Harry Rex non aveva mai conosciuto. Trascorsero la prima notte a Gatlinburg e la seconda a White Sulphur Springs nel West Virginia. Giunsero a Charlottesville verso mezzogiorno, compirono la dovuta escursione al Jefferson's Monticello, passeggiarono per il campus universitario e consumarono un'insolita cena in una bettola per studenti che si chiamava White Spot, la cui specialità era hamburger con uovo fritto. Il tipo di cucina prediletta da Harry Rex. Il mattino seguente, mentre la signora Vonner dormiva, lui uscì per una passeggiata nell'isola pedonale. Trovò l'indirizzo e aspettò. Qualche minuto dopo le otto, Ray ultimò il secondo nodo ai lacci delle sue alquanto costose scarpette da corsa, eseguì qualche esercizio di riscaldamento in soggiorno e scese per i suoi cinque chilometri quotidiani. Fuori l'aria era tiepida e l'estate era ormai arrivata. Svoltò l'angolo e si sentì chiamare da una voce che conosceva: «Ehi, ragazzo!». Harry Rex sedeva su una panchina con una tazza di caffè in mano e un giornale ancora intonso posato accanto. Immobile, Ray impiegò qualche secondo per raccapezzarsi. C'era qualcosa di stonato. Quando riuscì a muoversi di nuovo, gli si avvicinò. «Si può sapere che ci fai qui?» chiese. «Carina, questa mise» lo apostrofò Harry Rex, contemplando con ammi-
razione i calzoncini corti, la vecchia maglietta, il berretto rosso da corridore, gli occhiali da sole sportivi all'ultima moda. «Io e mia moglie siamo di passaggio, diretti a Washington. Ci abita una sua sorella che secondo lei io ho voglia di conoscere. Siediti.» «Perché non hai chiamato?» «Non volevo disturbarti.» «Ma sarebbe stato meglio, Harry Rex. Avremmo potuto cenare insieme, ti avrei mostrato Charlottesville.» «Non sono qui per questo. Siediti.» Sentendo odore di guai, Ray ubbidì. «Non dirmelo» mormorò. «Chiudi la bocca e ascolta.» Ray lo guardò. «Brutte notizie?» «Curiose, le definirei.» Harry Rex gli riferì il racconto di Jacob Spain su Forrest nascosto tra gli alberi dietro la clinica oncologica sei giorni prima che il Giudice spirasse. Ray ascoltò incredulo scivolando lentamente sulla panchina. Alla fine si sporse in avanti con i gomiti sulle ginocchia e la testa ciondoloni. «Secondo quello che hanno scritto alla clinica» stava spiegando Harry Rex «quel giorno, il primo maggio, prese una dose di morfina. Non so se era la prima oppure se fosse andato a incrementare le sue scorte, la registrazione non era molto chiara. Fatto sta che a portarcelo fu Forrest.» Una lunga pausa mentre passava una bella ragazza, il cui passo spedito faceva dondolare con grazia la sottana attillata. «Quel testamento che hai trovato nello studio mi ha sempre insospettito» riprese dopo un sorso di caffè. «Io e il Giudice abbiamo discusso del testamento negli ultimi sei mesi della sua vita. Non è verosimile che ne abbia tirato fuori un altro di punto in bianco poco prima di morire. Ho studiato a lungo le firme e la mia opinione da profano è che l'ultima sia un falso.» Ray si schiarì la voce. «Se Forrest lo ha portato a Tupelo, allora è logico desumere che fosse a Maple Run.» «E aveva la casa tutta per sé.» Harry Rex aveva assunto un investigatore di Memphis per trovare Forrest, del quale però si erano perse totalmente le tracce. Dall'interno del giornale estrasse una busta. «Poi, tre giorni fa, è arrivata questa.» Ray l'aprì e ne tolse un foglio. Era una lettera di Oscar Meave all'Alcorn Village, e diceva: "Caro signor Vonner, non sono riuscito a mettermi in contatto con Ray Atlee. So dov'è Forrest, se per caso i familiari non l'hanno già trovato. Mi chiami, se vuole parlarmi. È tutto in via confidenziale.
Distinti saluti, Oscar Meave". «Così, gli ho telefonato subito» continuò Harry Rex, seguendo con gli occhi un'altra ragazza. «Un ex paziente di Meave lavora in una sede distaccata del suo centro di riabilitazione nell'Ovest. Forrest è comparso lì una settimana fa e ha preteso il più rigoroso rispetto della sua privacy. Ha detto che non voleva far sapere alla sua famiglia dove si trovava. È un fenomeno che evidentemente si ripete spesso, e ogni volta le cliniche si trovano in una situazione di stallo. Devono rispettare il desiderio del paziente, ma allo stesso tempo la famiglia è un elemento cruciale per il programma di riabilitazione. Cosicché gli assistenti bisbigliano tra di loro passandosi le notizie sottobanco. Meave ha deciso di darti questa informazione.» «Nell'Ovest dove?» «Nel Montana. Un posto chiamato Morningstar Ranch. Meave dice che è quello che fa al caso suo, molto elegante, molto appartato, una struttura di tipo reclusivo per i casi difficili. Dice che Forrest resterà lì per un anno.» Ray rialzò la testa e cominciò a massaggiarsi la fronte come se gli avessero sparato dove aveva sempre temuto. «E naturalmente è un posto che costa un occhio» aggiunse Harry Rex. «Naturalmente» fece eco Ray. Non c'era altro da dire, almeno riguardo a Forrest. Dopo qualche minuto Harry Rex annunciò che se ne stava andando. Aveva recapitato il suo messaggio, non aveva nulla da aggiungere, non in quel momento. Sua moglie era ansiosa di vedere la sorella. Forse la prossima volta si sarebbero intrattenuti più a lungo, avrebbero cenato insieme, chissà. Batté la mano sulla spalla di Ray e lo lasciò così. «Ci vediamo a Clanton» furono le sue ultime parole. Troppo smarrito e deluso per mettersi a correre, Ray rimase sulla panchina al centro dell'isola pedonale, perso in un mondo frammentato in rapido movimento. La folla aumentò all'ora in cui esercenti, banchieri e avvocati uscivano per recarsi al lavoro, ma Ray non li notò. Carl Mirk teneva due corsi di diritto assicurativo a semestre ed era membro del Foro della Virginia come Ray. Discussero del colloquio a pranzo e giunsero entrambi alla conclusione che si trattava di un abboccamento di routine, nulla di cui preoccuparsi. Mirk lo avrebbe affiancato facendosi passare per il suo legale. L'ispettore dell'assicurazione si chiamava Ratterfield. Lo accolsero nella
sala riunioni della facoltà. Ratterfield si tolse la giacca come se intendesse intrattenerli per ore. Ray era in jeans e maglietta. L'abbigliamento di Mirk non era altrettanto casual. «Di solito registro questi incontri» annunciò Ratterfield, mentre sistemava con molta professionalità un registratore sul tavolo tra sé e Ray. «Obiezioni?» chiese quando fu pronto. «Immagino di no» rispose Ray. Ratterfield schiacciò un tasto, consultò i suoi appunti, poi cominciò un'introduzione di routine con cui identificare il nastro. Era un ispettore indipendente assunto dalla Aviation Underwriters per investigare su una richiesta di indennizzo presentata da Ray Atlee e altri tre proprietari di un Beech Bonanza 1994 per danni subiti il 2 giugno. Secondo il verbale della Scientifica statale, l'aereo era stato bruciato deliberatamente. Per cominciare aveva bisogno del curriculum di volo di Ray. Ray aveva portato il giornale di bordo e Ratterfield lo esaminò con molto scrupolo senza trovarvi nulla di qualche interesse. «Niente sul volo strumentale» commentò a un certo punto. «Ci sto lavorando» rispose Ray. «Quattordici ore sul Bonanza?» «Sì.» Passò quindi al consorzio dei proprietari e fece domande sulle trattative che avevano portato all'accordo. Aveva già sentito gli altri, che avevano mostrato i loro contratti e la documentazione. Ray confermò le intese stipulate. «Dov'era il primo giugno?» domandò Ratterfield cambiando marcia. «A Biloxi, nel Mississippi» rispose Ray sicuro che non avesse idea di dove fosse. «Da quanto tempo era lì?» «Da qualche giorno.» «Posso chiederle il motivo?» «Certamente» ribatté Ray offrendogli un sintetico riepilogo delle sue recenti visite e casa. La ragione ufficiale della sua puntata sulla costa era andare a trovare certi vecchi amici dei giorni di Tulane. «Sono sicuro che ci sono persone che possono confermare che lei si trovava là il primo giugno» concluse Ratterfield. «Più di una. E ho le ricevute dell'albergo.» L'ispettore parve convinto che Ray fosse stato nel Mississippi. «All'ora in cui l'aereo è bruciato gli altri proprietari erano tutti a casa» riferì girando
pagina per leggere da una trascrizione delle sue registrazioni. «Hanno tutti un alibi. Se partiamo dal presupposto che è stato un sabotaggio, dobbiamo prima trovare il movente e poi il sabotatore. Qualche idea?» «Non ho idea di chi possa essere stato» rispose prontamente Ray in tono convinto. «E il movente?» «Avevamo appena comperato l'aereo. Perché qualcuno di noi avrebbe voluto distruggerlo?» «Per incassare i soldi dell'assicurazione, magari. Qualche volta succede. Forse uno dei soci ha concluso di aver fatto il passo più lungo della gamba. L'esborso non è una sciocchezza: circa duecentomila dollari in sei anni, poco meno di novecento dollari al mese per ciascuno.» «Lo sapevamo anche due settimane prima, quando abbiamo firmato l'intesa» replicò Ray. Si dilungarono per un po' sul delicato aspetto della situazione finanziaria di Ray: stipendio, spese, debiti. Quando parve essersi persuaso che Ray era in grado di far fronte ai suoi impegni, Ratterfield cambiò argomento. «Questo incendio nel Mississippi» disse scorrendo con lo sguardo su un verbale non meglio definito. «Me ne parli.» «Che cosa vuole sapere?» «È sotto inchiesta per incendio doloso in quello Stato?» «No.» «Ne è sicuro?» «Sì, certo. Può sentire il mio avvocato se vuole.» «Già fatto. E il suo appartamento è stato oggetto di furto due volte nelle ultime sei settimane.» «Non è stato portato via niente. Si è trattato soltanto di due effrazioni.» «Un'estate emozionante, la sua.» «Che cosa intende dire?» «Sembra che qualcuno ce l'abbia con lei.» «Glielo ripeto: che cosa intende dire?» Fu l'unico momento di animosità durante il colloquio, ed entrambi presero fiato. «Nessun'altra indagine su incendi dolosi, nel suo passato?» Ray sorrise. «No.» Quando girò un'altra pagina e non trovò più scritto niente, Ratterfield perse velocemente interesse e si preparò a concludere. «Sono sicuro che i nostri avvocati si metteranno in contatto» annunciò mentre spegneva il re-
gistratore. «Non vedo l'ora.» Ratterfield recuperò la giacca e la borsa e se ne andò. «Io credo che tu sappia più di quello che racconti» commentò Carl quando rimase solo con Ray. «Forse» rispose lui. «Ma non c'entro niente con l'incendio di qui e nemmeno con quello di laggiù.» «Ho sentito abbastanza.» 39 Per quasi una settimana una serie di intense perturbazioni estive nascose il cielo sotto un basso strato di nubi e soffiarono venti troppo pericolosi per gli aerei di piccole dimensioni. Quando le previsioni mostrarono ripetutamente solo tempo stabile e secco dappertutto eccetto che nella fascia meridionale del Texas, Ray lasciò Charlottesville a bordo di un Cessna e cominciò la più lunga traversata della sua breve carriera di pilota. Evitando gli spazi aerei a traffico troppo intenso e rifacendosi a facili punti di riferimento al suolo, attraversò in direzione ovest la Shenandoah Valley ed entrò nel West Virginia. In Kentucky fece rifornimento scendendo su una pista che si trovava a più di mille metri di altitudine e non distante da Lexington. Il Cessna poteva rimanere in volo per tre ore e mezzo circa prima che la spia del carburante scendesse sotto il livello di un quarto. Atterrò di nuovo a Terre Haute, attraversò il Mississippi a Hannibal e si fermò a pernottare a Kirksville, nel Missouri. Era la prima volta che alloggiava in un motel dopo la sua odissea con il malloppo ed era precisamente per via del malloppo se tornava in un motel. Era anche nel Missouri e, mentre nella sua stanza passava in rassegna i canali Tv a disposizione con l'audio azzerato, ricordò quando Patton French gli aveva raccontato d'essersi imbattuto nel Ryax a un seminario sui danni alla collettività. Un vecchio avvocato di una cittadina negli Ozarks aveva un figlio che insegnava all'Università della Columbia e il figlio sapeva che quel farmaco aveva conseguenze dannose. E a causa di Patton French, della sua insaziabile avidità e della sua anima corrotta, ora lui, Ray Atlee, si trovava in un altro motel in un posto dove non conosceva assolutamente nessuno. Una perturbazione si andava formando sullo Utah. Ray decollò prima
dell'alba e salì a poco più di millecinquecento metri. Regolò l'assetto e aprì un tazzone di caffè nero fumante. Per il primo tratto volò più in direzione nord che ovest, poi cominciò a sorvolare i campi di grano dell'Iowa. Solo, in alto sopra la terra, nell'aria fresca e quieta del primo mattino e senza altri piloti con cui chiacchierare via radio, cercò di concentrarsi su ciò che lo aspettava. Ma era più facile oziare, godersi la solitudine, i panorami, il caffè e anche la soddisfazione solitaria di abbandonare il mondo laggiù. Ed era molto piacevole rimandare il momento in cui dover pensare a suo fratello. Dopo uno scalo a Sioux Falls, virò di nuovo a ovest e seguì l'interstatale 90 attraverso tutto lo Stato del South Dakota e prima di costeggiare lo spazio vietato intorno al Monte Rushmore. Atterrò a Rapid City, noleggiò una macchina e si fece una lunga scarrozzata attraverso il Badlands National Park. Il Morningstar Ranch era in una conca imprecisata tra le alture a sud di Kalispell, e il relativo sito Web rimaneva volutamente nel vago. Oscar Meave aveva tentato senza successo di localizzare il centro di riabilitazione. Alla fine del terzo giorno di viaggio, Ray atterrò dopo il tramonto a Kalispell. Noleggiò un'automobile, cercò un posto dove cenare e poi un motel. Dopodiché, si dedicò per qualche ora a carte aeree e stradali. Gli ci volle un altro giorno di volo a bassa quota intorno a Kalispell e alle cittadine di Woods Bay, Polison, Bigfork ed Elmo. Sorvolò il Flathead Lake una mezza dozzina di volte; era ormai disperato quando scorse delle strutture non lontano da Somers, sulla sponda settentrionale del lago. Mantenendosi a cinquecento metri di quota, volteggiò sulla zona finché vide una solida recinzione di colore verde quasi mimetizzata nella vegetazione e praticamente invisibile dall'alto. C'erano piccoli edifici che sembravano alloggi accanto a uno più grande, forse la direzione, poi una piscina, campi da tennis e una scuderia i cui cavalli erano al pascolo poco distante. Volteggiò sopra l'edificio abbastanza a lungo perché qualcuno di coloro che vi abitavano interrompesse la sua attività per guardare all'insù facendosi scudo agli occhi. Trovarlo via terra fu complicato quanto era stato dal cielo, ma a mezzogiorno dell'indomani Ray era fermo in macchina davanti a un cancello anonimo, a ricambiare l'espressione torva della guardia armata che lo stava fissando. Dopo qualche botta e risposta in un'atmosfera carica di tensione, la guardia ammise finalmente che sì, aveva trovato il posto che stava cercando. «Non sono permesse visite» si compiacque di informarlo.
Ray gli ammannì la storia di una famiglia in crisi ed enfatizzò l'urgenza di trovare suo fratello. La procedura illustratagli dalla guardia era di lasciare nome e recapito telefonico, guadagnandosi la remota possibilità che qualcuno lo contattasse. Il giorno dopo pescava trote nel Flathead River, quando il suo cellulare squillò. Una voce ostile appartenente a una certa Allison chiese di Ray Atlee. Chi si attendeva che rispondesse? Disse di essere Ray Atlee, e la voce femminile passò a domandargli che cosa volesse dal loro centro di riabilitazione. «Ho un fratello lì da voi» le rispose nella maniera più cordiale possibile. «Si chiama Forrest Atlee e vorrei vederlo.» «Che cosa le fa pensare che sia qui?» «È lì. Lei sa che è lì, io so che è lì, perciò vogliamo smetterla di girarci intorno?» «Controllerò, ma non si aspetti che la richiami.» Riappese prima che lui potesse replicare. La successiva voce scontrosa apparteneva a Darrel, un amministratore o qualcosa del genere. Gli telefonò nel tardo pomeriggio, mentre Ray si trovava lungo un sentiero della Swan Range nei pressi della Hungry Horse Reservoir. Darrel fu non meno brusco di Allison. «Mezz'ora soltanto. Trenta minuti» lo informò. «Domattina alle dieci.» Un carcere di massima sicurezza sarebbe stato più accogliente. La stessa guardia lo perquisì al cancello e ispezionò la sua automobile. «Mi segua» gli ordinò. Un'altra guardia su un golf cart lo aspettava in un vialetto e Ray lo seguì fino a un piccolo parcheggio vicino al primo edificio. Quando scese, ad attenderlo c'era Allison, disarmata. Era alta, alquanto mascolina, e non appena gli accordò la stretta di mano di rito, Ray si sentì fisicamente sovrastato come non gli era mai accaduto. La donna lo scortò dentro a passo di marcia, sotto lo sguardo attento di telecamere delle quali non si era tentato di nascondere la vistosa presenza. In una stanza priva di finestre lo consegnò a un ringhioso e non ben identificato funzionario il quale, con il tocco delicato di un facchino, gli tastò e palpò ogni piega e fessura salvo l'inguine, dove per un momento di terrore Ray temette che stesse per piazzare una bottarella supplementare. «Sono qui solo per vedere mio fratello» protestò a un certo punto Ray, e così dicendo andò vicino a buscarsi un manrovescio. Debitamente perquisito, fu prelevato nuovamente da Allison che lo condusse per un breve corridoio in una stanza quadrata e spoglia, dove sem-
brava che mancassero solo le imbottiture alle pareti. Nell'unica porta si apriva anche l'unica finestrella e Allison, indicandogliela, lo ammonì in tono grave: «Sorveglieremo». «Sorveglierete che cosa?» ribatté Ray. Lei lo incenerì con gli occhi e parve sul punto di volerlo stendere. Al centro c'era un tavolino quadrato, con due sedie sui lati opposti. «Si metta lì» gli intimò Allison e Ray ubbidì. Per dieci minuti guardò i muri con la schiena rivolta alla porta. Finalmente entrò Forrest da solo, senza catene, senza manette e senza gorilla a sospingerlo. Si sedette in silenzio davanti a lui e congiunse le mani sul tavolo come se fosse l'ora della meditazione. Gli avevano rasato i capelli, quasi a zero, e intorno alle orecchie la tosatura era arrivata al cuoio capelluto. Era perfettamente sbarbato e sembrava più magro di una decina di chili. Indossava una camicia informe verde oliva con due tasche capienti, un indumento quasi militaresco. Ispirò a Ray una battuta d'apertura: «Sembra di essere in un campo paramilitare». «È dura» rispose Forrest parlando lentamente e a voce bassa. «Ti lavano il cervello?» «È precisamente quello che fanno.» Ray era lì per i soldi e decise di affrontare subito l'argomento. «E che cosa ti danno in cambio di settecento dollari al giorno?» cominciò. «Una vita nuova.» Ray annuì per mostrare che approvava la risposta. Forrest lo fissava senza battere ciglio, senza espressione, osservava malinconicamente suo fratello come se avesse davanti a sé uno sconosciuto. «E starai qui dodici mesi?» «Come minimo.» «Sono un quarto di un milione di dollari.» Lui si strinse nelle spalle, come se i soldi non fossero un problema, come se potesse rimanere lì anche tre anni o cinque. «Sei sotto sedativi?» chiese Ray cercando di provocarlo. «No.» «Ti comporti come se lo fossi.» «Non lo sono. Qui non usano farmaci. Non t'immagini perché, vero?» Nella sua voce era comparsa una vena polemica. Ray faceva attenzione al ticchettio dell'orologio. Allison sarebbe tornata puntuale al trentesimo minuto per interrompere il colloquio e scortarlo per sempre fuori da lì e dall'istituto. Aveva bisogno di molto più tempo per
chiarire tutto quello che c'era in ballo, ma in quel momento era richiesta efficienza assoluta. Vai al dunque, raccomandò a se stesso. Vedi quanto è disposto ad ammettere. «Ho preso l'ultimo testamento del vecchio» disse «e la convocazione, quella con cui ci chiamava a casa il sette maggio, e ho studiato le sue firme. Credo che siano false.» «Buon per te.» «Non so chi le abbia falsificate, ma sospetto che sia stato tu.» «Portami in tribunale.» «Non lo neghi?» «Farebbe differenza?» Ray ripeté quelle parole a metà volume e in un tono di disgusto come se ripeterle lo adirasse. Una lunga pausa mentre l'orologio ticchettava. «Io ho ricevuto la mia convocazione giovedì. Il timbro era di Clanton, lunedì, lo stesso giorno in cui tu lo hai portato alla Taft Clinic di Tupelo a prendere della morfina. Domanda: come sei riuscito a battere a macchina la lettera sulla sua Underwood manuale?» «Non sono obbligato a rispondere alle tue domande.» «Certo, che lo sei. Hai messo in piedi tu questo imbroglio, Forrest. Il minimo che puoi fare è spiegarmi come hai fatto. Hai vinto tu. Il vecchio è morto. La casa non c'è più. Tu ti sei preso i soldi. Nessuno ti dà la caccia all'infuori di me e presto io me ne andrò. Dimmi com'è successo.» «Aveva già una dose.» «Va' bene, dunque tu l'hai portato a prenderne un'altra, una ricarica, o come diavolo si chiama. Non è questo il problema.» «Ma è importante.» «Perché?» «Perché era fatto.» Si aprì uno spiraglio nella mente offuscata di Forrest, quando staccò le mani dal tavolo e distolse lo sguardo. «Allora, soffriva» disse Ray cercando di suscitare qualche emozione. «Sì» rispose Forrest nella maniera più neutra. «E se tu lo rifornivi di morfina, allora avevi la casa tutta per te?» «Qualcosa del genere.» «Quando sei arrivato?» «Non sono bravo con le date. Non lo sono mai stato.» «Non fare il deficiente con me, Forrest. È morto di domenica.» «Sono arrivato di sabato.» «Dunque, otto giorni prima della sua morte?»
«Credo di sì.» «E perché ci sei tornato?» Lui incrociò le braccia sul petto e abbassò mento e occhi. E anche la voce. «Mi chiamò lui» cominciò. «Mi chiamò e mi chiese di andare a trovarlo. Ci andai il giorno dopo. Non credevo di trovarlo così vecchio e malato, ma soprattutto così solo.» Un respiro profondo, un'occhiata al fratello. «Soffriva tremendamente. Anche con gli analgesici, era ridotto molto male. Stava seduto nel portico e parlava della guerra e di come sarebbe stato tutto diverso se Jackson non fosse stato ucciso a Charlottesville. Le stesse vecchie battaglie che ricombatteva di continuo. Cambiava sempre posizione cercando di alleviare il dolore. In certi momenti era così forte da togliergli il fiato. Ma voleva parlare. Non abbiamo seppellito l'ascia di guerra né abbiamo cercato di metterci una pietra sopra. Non ne abbiamo sentito il bisogno. Il fatto che io fossi lì era tutto quello che voleva. Ho dormito sul divano nello studio e durante la notte mi hanno svegliato le sue grida. Era per terra in camera sua, con le ginocchia contro il mento, tremante di dolore. L'ho rimesso a letto, l'ho aiutato a prendere la morfina e finalmente si è calmato. Erano circa le tre. Io avevo perso completamente il sonno. Mi sono messo a girare per casa.» Il racconto s'interruppe, ma l'orologio non smise di ticchettare. «Ed è stato allora che hai trovato i soldi» lo pungolò Ray. «Quali soldi?» «Quelli che ti permettono di stare qui a settecento dollari al giorno.» «Ah, quei soldi.» «Quei soldi.» «Sì, è stato allora che li ho trovati, stesso posto dove li hai trovati tu. Ventisette scatole. Nella prima c'erano centomila dollari, così ho fatto due conti. Non sapevo che cosa fare. Me ne sono rimasto seduto lì per ore a guardare quelle scatole così innocenti, infilate nel mobiletto. Ho pensato che potesse alzarsi, venire nello studio e trovarmi a contemplare tutte le sue belle scatole. Ho sperato che succedesse. Così avrebbe potuto spiegarmele.» Posò di nuovo le mani sul tavolo e alzò gli occhi su Ray. «All'alba, però, mi è sembrato di avere un piano. Ho deciso che avrei lasciato che ci pensassi tu. Tu sei il primogenito, il figlio prediletto, lo studente con i bei voti, il professore di legge, l'esecutore testamentario. Quello di cui lui si fidava di più. Guarderò che cosa fa Ray, mi sono detto, vedrò che decisioni prenderà per i soldi, perché qualunque cosa fa lui dev'essere giusto. Così ho chiuso le antine, ho rimesso a posto il divano e ho cercato di com-
portarmi come se non li avessi trovati. Stavo per chiederlo al vecchio da dove venivano, ma poi ho pensato che se avesse voluto che lo sapessi me lo avrebbe raccontato lui.» «Quando hai scritto la lettera per me?» «Quello stesso giorno, sul tardi. Lui era privo di sensi sotto i noci dietro casa, sulla sua amaca. Stava molto meglio, ma ormai era dipendente dalla morfina. Non ricordava molto di quell'ultima settimana.» «E lunedì lo hai portato a Tupelo?» «Sì. Ci andava sempre da solo, ma visto che c'ero io, mi chiese di portarcelo.» «E ti sei nascosto tra gli alberi della clinica per non farti vedere.» «Bravo. Che cos'altro sai?» «Niente. Io ho solo domande. La sera in cui ho trovato la lettera nella corrispondenza tu mi hai chiamato. Mi hai detto di averne ricevuta una uguale. Mi hai chiesto se avrei telefonato al vecchio. Ti risposi di no. Che cosa sarebbe successo se avessi telefonato?» «Linee guaste.» «Perché?» «Il cavo del telefono passa per la cantina. C'è un filo che non tiene molto bene, là sotto.» Ray annuì alla soluzione di un altro piccolo mistero. «E poi, il più delle volte non rispondeva» disse ancora Forrest. «Quando hai riscritto il suo testamento?» «Il giorno prima della sua morte. Ho trovato quello vecchio, che non mi è piaciuto molto, così ho pensato di fare la cosa giusta e di dividere il patrimonio fra noi due. Che idea ridicola, una divisione a metà. Che stupido sono stato. Quanto poco capivo di come funziona la legge in queste situazioni. Io pensavo che, siccome eravamo gli unici eredi, dovessimo dividere tutto equamente. Non mi rendevo conto che gli avvocati vengono addestrati per tenere per sé tutto quello che trovano, per derubare i fratelli, per nascondere beni che giurano di proteggere, per ignorare i loro giuramenti. Nessuno mi aveva spiegato tutto questo. Io cercavo di essere giusto. Che stupido.» «Quando è morto?» «Due ore prima che arrivassi tu.» «Lo hai ucciso?» Uno sbuffo, una smorfia. Nessuna risposta. «Lo hai ucciso?» chiese di nuovo Ray.
«No, il cancro lo ha ucciso.» «Fammi capire bene» disse Ray protendendosi verso di lui come un investigatore che si fa sotto per colpire. «Resti con lui per otto giorni, e per tutto questo tempo lui è sempre fatto di morfina. Poi, molto opportunamente, muore due ore prima che arrivi io.» «È andata così.» «Menti.» «L'ho aiutato con la morfina, ti sta bene? Ora ti senti meglio? Piangeva per il dolore. Non poteva camminare, mangiare, bere, dormire, orinare, defecare, stare seduto eretto. Tu non eri lì, giusto? C'ero io. Si è vestito di tutto punto per te. Io gli ho fatto la barba. L'ho aiutato a mettersi sul divano. Era troppo debole per aprire la confezione di morfina. L'ho fatto io per lui. Si è addormentato. Io sono uscito di casa. Sei arrivato tu. L'hai trovato. Hai trovato i soldi e da quel momento hai cominciato con le menzogne.» «Tu sai da dove sono arrivati?» «No. Da qualche posto sulla costa, immagino. Non che me ne importi molto.» «Chi mi ha bruciato l'aereo?» «Quello è un atto criminale, io non ne so niente.» «È la stessa persona che mi ha pedinato per un mese?» «Ti hanno pedinato due tizi che ho conosciuto in prigione, vecchi amici. Sono molto bravi e con te era tutto molto facile. Hanno applicato una microspia sotto un parafango di quella tua bella macchinina. Ti sono stati dietro con un GPS. Mossa dopo mossa. Un gioco da ragazzi.» «Perché hai incendiato la casa?» «Nego qualsiasi atto contro la legge.» «Per l'assicurazione? O forse perché volevi tagliarmi completamente fuori dall'eredità?» Forrest scuoteva la testa, negava ogni cosa. La porta si aprì e Allison mise dentro la sua lunga faccia spigolosa. «Tutto bene, qui?» volle sapere. «Bene, sì, andiamo a gonfie vele.» «Ancora sette minuti» annunciò prima di chiudere di nuovo. Rimasero in silenzio per un'eternità. Entrambi con gli occhi fissi sul pavimento. Non un suono dall'esterno. «Io ne volevo solo metà, Ray» disse alla fine Forrest. «Prendine metà ora.» «È troppo tardi. Ora so che cosa devo fare dei soldi. Me l'hai mostrato tu.»
«Avevo paura a darteli, Forrest.» «Paura di che cosa?» «Che ti uccidessi usandoli.» «Be', eccomi qui» replicò Forrest alzando il braccio destro per indicare la stanza, il ranch, tutto lo Stato del Montana. «È questo che sto facendo con i soldi. Non mi sto proprio uccidendo. Non sono così pazzo come pensano tutti.» «Mi sbagliavo.» «Oh, questo ha un significato profondo. Ti sbagliavi perché sei stato scoperto? Ti sbagliavi perché io non sono poi così idiota? O ti sbagliavi perché vuoi metà dei soldi?» «Tutto quello che hai detto.» «Io ho paura a dividerli con te, Ray. La stessa che avevi tu. Ho paura che i soldi possano darti alla testa. Ho paura che li butteresti tutti via in aeroplani e case da gioco. Ho paura che diventeresti ancora più stronzo di quello che sei. Io devo proteggerti, Ray.» Ray mantenne la calma. Non avrebbe potuto uscire vincitore da una scazzottata con suo fratello, e anche se avesse potuto a che cosa sarebbe servito? Avrebbe voluto prenderlo a legnate in testa, ma perché disturbarsi? Neanche se gli avesse sparato avrebbe trovato i soldi. «Dunque, che intenzioni hai?» domandò con tutta l'indifferenza di cui era capace. «Oh, non so. Niente di definito. Quando si è in riabilitazione si sogna molto, poi quando esci tutti i sogni sembrano sciocchi. Ma non tornerò più a Memphis, ci sono troppi vecchi amici. E non tornerò più a Clanton. Troverò un posto nuovo dove vivere. E tu? Che cosa farai adesso che hai perso la tua grande occasione?» «Avevo una vita, Forrest, e ce l'ho ancora.» «Giusto. Prendi centosessantamila dollari l'anno, ho controllato in Internet, e dubito che tu debba sudare molto per guadagnarli. Non hai famiglia, non hai spese importanti, hai tutti i soldi che ti servono per fare quello che vuoi. Ti sei sistemato. L'ingordigia è una brutta bestia, non è vero, Ray? Hai trovato tre milioni di dollari e hai deciso che ti servivano tutti. Nemmeno un centesimo per il tuo fratellino con le rotelle fuori posto. Niente, per me. Hai preso i soldi e hai cercato di scappare.» «Non sapevo che cosa fare del denaro. Come te.» «Ma tu li hai presi, li hai presi tutti. E a me hai raccontato solo bugie.» «Non è vero. Li stavo conservando.»
«E intanto li spendevi. Casinò, aerei.» «No, dannazione! Io non ho il vizio del gioco, e sono tre anni che noleggio aerei. Stavo custodendo il denaro, Forrest, cercavo di capire da dove era sbucato. Cristo, è stato solo cinque settimane fa.» I toni si erano alzati e le parole rimbombavano sulle pareti. Allison guardò dentro, pronta a interrompere l'incontro se fosse diventato stressante per il suo paziente. «Concedimi il beneficio del dubbio» pregò Ray. «Tu hai detto che non sapevi che cosa fare dei soldi, e non lo sapevo nemmeno io. Appena li ho trovati, qualcuno, e immagino che quel qualcuno fossi tu o uno dei tuoi amici, ha cominciato a spaventarmi a morte. Non puoi biasimarmi per essere scappato con il denaro.» «Mi hai mentito.» «E tu hai mentito a me. Mi avevi detto di non aver parlato con il vecchio, di non aver più rimesso piede in casa per nove anni. Tutte bugie, Forrest. Tutto parte di un inganno. Perché l'hai fatto? Perché non mi hai semplicemente detto dei soldi?» «Perché non l'hai detto tu a me?» «Forse l'avrei fatto, d'accordo? Non so che cosa avevo in mente. È un po' difficile pensare con lucidità quando trovi tuo padre morto, subito dopo ti imbatti in tre milioni in contanti e poi ti rendi conto che c'è qualcun altro che sa del denaro e non ci penserebbe due volte ad ammazzarti per prenderlo. Non sono cose che succedono tutti i giorni, perciò perdonami se mi sono fatto prendere dall'ansia.» Cadde il silenzio. Forrest tamburellava i polpastrelli sul tavolo guardando il soffitto. Ray aveva detto tutto quello, che aveva in mente. Allison girò la maniglia ma non entrò. Forrest si sporse in avanti. «Quei due incendi...» chiese «la casa e l'aereo... hai qualche nuovo indiziato?» Ray scosse la testa in segno negativo. «Terrò la bocca chiusa» disse. Un'altra pausa mentre il tempo scadeva. Forrest si alzò lentamente e lo guardò dall'alto. «Dammi un anno. Quando esco di qui ne parliamo.» La porta si aprì e, mentre se ne andava, Forrest passò la mano sulla spalla di Ray. Un tocco lieve, non una pacca affettuosa, no, ma comunque un contatto. «Ci vediamo tra un anno, fratello» disse, e uscì. FINE