JAMES PATTERSON & PETER DE JONGE LA CASA DEGLI INGANNI (The Beach House, 2002) A Peter e Chuck P. de J. A Jack, the big ...
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JAMES PATTERSON & PETER DE JONGE LA CASA DEGLI INGANNI (The Beach House, 2002) A Peter e Chuck P. de J. A Jack, the big boy J.P. PROLOGO PETER RABBIT 1 È come ballare da seduti: stringi, abbassa il piede, molla, ruota. Mario sinistra, piede destro, mano sinistra, mano destra. Sequenza e ritmo perfetti. Ogni volta che ruoto l'acceleratore caldo, rivestito di gomma, la BMW KI2OO nuova, trecento chili di motocicletta, centotrenta cavalli, scatta in avanti come un purosangue appena spronato. Ville di un lusso strepitoso sfrecciano ai lati della strada, a Long Island. È un giovedì sera di fine maggio, si festeggia il Memorial Day, e tra un quarto d'ora inizierà il party d'apertura di quella che si preannuncia come l'ennesima splendida stagione mondana negli Hamptons. Non è una festa qualunque. È «la festa» per eccellenza, l'intimo ricevimento da duecentomila dollari organizzato come ogni anno da Barry e Campion Neubauer nella loro casa sulla spiaggia di Amagansett, una villa da quaranta milioni di dollari. E io sono in ritardo. Metto la quarta, do gas e volo. Sfreccio come un bolide fra il traffico sulla Route 27. Tengo le ginocchia premute contro il serbatoio color blu notte e la testa talmente bassa che quasi le sfiora. È una fortuna che i quindici chilometri che separano Montauk da Amagansett siano un nastro d'asfalto dritto e piatto, perché quando passo davanti ai locali più turistici - Cyril's, Clam Bar, LUNCH - l'ago del tachimetro tocca i centocinquanta. Ed è una fortuna che io sia stato compagno di classe di Billy Belnap, al liceo. Billy, che era il teppistello più aggressivo dell'East Hampton High
School, adesso è entrato nella polizia. Anche se non lo vedo, so che è appostato dietro ai cespugli con la sua volante azzurra e bianca a sgranocchiare frittelle, pronto a multare chi supera il limite di velocità. Quando gli passo davanti, lampeggio con gli abbaglianti. 2 A qualcuno sembrerà che una moto non sia un luogo adatto per pensare. In genere non sono un tipo riflessivo e lascio che a contemplarsi l'ombelico sia mio fratello Jack, studente di giurisprudenza in un'università prestigiosa. Ultimamente, però, quando vado in moto rifletto. Sarà che in moto ci siete solo tu e la tua testa. O forse la moto non c'entra, sto solo invecchiando. Mi duole ammettere, infatti, che ieri ho compiuto ventun anni. Comunque sia, procedo a zigzag fra i camper a centocinquanta chilometri orari e penso alla mia infanzia in questi posti, al fatto che abito in una delle zone più ricche di tutti gli Stati Uniti. Da un paio di chilometri di distanza vedo le luci nella villa dei Neubauer brillare nella notte dell'East End e assaporo il piacere che immancabilmente provo all'inizio della stagione estiva. Persino l'aria che odora di salmastro e di fiori è carica di aspettative. Il custode in divisa bianca mi sorride e mi autorizza a varcare i cancelli di ferro battuto. Mi piacerebbe potervi dire che la villa dei Neubauer è volgare, pacchiana e di cattivo gusto, ma non è vero. Ogni tanto i ricchi riescono a sorprenderti. Per dirla con le parole di un agente immobiliare, proprietà del genere di quella dei Neubauer capitano sul mercato una volta ogni vent'anni: ettari di parco perfettamente curato, fiori e cespugli che arrivano fin sulla spiaggia, ovviamente bianchissima. In fondo al viale di ghiaia c'è la villa: milletrecento metri quadrati, tutte le stanze con vista mare eccetto la cantina. Benché gli invitati di stasera non siano molti - meno di centottanta persone - quelli che contano ci sono tutti. L'occasione è l'acquisizione da parte del padrone di casa della Bjorn Boontaag, industria di giocattoli svedese da un miliardo e quattrocento milioni di dollari. È per questo che la festa si tiene di martedì, quest'anno. Solo i Neubauer si possono permettere una cosa simile. A passeggio fra i leoncini e i tigrotti di peluche che la Bjorn Boontaag
vende a centinaia di migliaia, questa sera ci sono belve ben più feroci, che frequentano la giungla vera: procacciatori d'affari, speculatori, giocatori di Borsa e gli uomini d'affari arricchitisi con i più innovativi titoli quotati alla Borsa telematica, perlopiù giovanissimi. Noto alcune guardie del corpo in giro per il parco, revolver nascosto sotto la giacca e auricolare, e immagino che fra gli invitati ci sia anche qualche senatore. Oltre agli stilisti, ai rapper e ai giocatori dell'NBA più famosi che l'organizzatrice della festa è riuscita a reclutare. Ma non invidiatemi. Io non sono nella lista degli invitati. Sono qui per fare il posteggiatore. 3 Lavoro per i Neubauer da quando avevo tredici anni. Ho fatto un po' di tutto, ma parcheggiare auto è una delle mansioni più facili. Si è un po' impegnati all'inizio e alla fine del ricevimento, e per il resto non si fa niente. Sono lievemente in ritardo, perciò prendo servizio appena sceso dalla moto. Nel giro di venti minuti riempio il posteggio più distante con quattro file di automobili europee da ottantamila dollari l'una, che brillano sotto la luna come piante metalliche: distese di spighe d'acciaio cromato. Uno dei momenti clou della serata è quando mi si ferma davanti una Bentley amaranto grossa come uno yacht e il mio newyorchese DOC preferito, Latrell Sprewell, scende, mi mette una banconota da venti dollari in mano e mi dice: «Trattamela bene, fratello». Appena gli arrivi cominciano a diradarsi, mi vado a prendere una Heineken e un piatto di antipasti e mi siedo sull'erba. Questa sì che è vita. Mentre mi godo il sushi e i vol-au-vent al formaggio, mi si avvicina un cameriere in giacca scura che non ho mai visto prima. Strizza l'occhio, inclina la testa di lato, strizza l'occhio di nuovo, sorride e mi infila un bigliettino rosa nella tasca della camicia. Devono averlo intinto nel profumo, perché appena lo apro mi investe una zaffata di... Shalimar, se non vado errato. Il messaggio, invece, non potrebbe essere più asciutto. Tre lettere e tre numeri: I Z D 2 3 5. Mi incammino verso la distesa di lucente metallo e finalmente li ritrovo su una targa di New York fissata a una Mercedes decappottabile color verde bosco. Mi siedo davanti e smanetto un po' con i comandi per mettermi comodo.
La capote si abbassa, i finestrini scendono e la voce baritonale di Dean Martin si alza da una decina di casse strategicamente posizionate. Mi guardo intorno. Niente. Cerco negli scomparti fra i sedili. Dentro una custodia per occhiali griffata c'è una lunga canna sottile con un fiocchetto rosa. Me la accendo e butto fuori il fumo verso la luna piena. Sto pensando che non è niente male starsene lì ad ascoltare Dean che parla di una francese, una certa Mimì, quando avverto una mano sulla spalla. «Ciao, Frank», dico senza nemmeno voltarmi. «Rabbit», risponde Frank, allungando la mano per fare un tiro. «Hai già scopato?» È Frank Volpi, ispettore capo del dipartimento di polizia di East Hampton, unico poliziotto al mondo a girare con un Rolex di platino. Peraltro si è fatto quattro anni in Vietnam, prima di dedicarsi alla lotta contro la criminalità a casa sua. Quindi, in un certo senso, se l'è meritato. «Mi conosci, Frank. Sai che sono un tipo riservato.» «E da quando?» «Mah, da ieri sera con tua moglie.» Questo bell'esempio di conversazione fra maschi continua finché tra le dita non ci resta che il filtro. A quel punto Frank si allontana a passo malfermo nella notte profumata e io resto in compagnia del caro Dean. Squilla il telefono. È una donna. Mi sussurra: «Peter, ti è piaciuto il regalino che ti ho lasciato?» «Era proprio quello che ci voleva. Grazie», rispondo, anch'io sottovoce. «Perché non vieni a ringraziarmi di persona sulla spiaggia?» «Come faccio a riconoscerti?» «Mi riconoscerai, Peter. Te lo garantisco.» Pigio qualche tasto, chiacchiero con due o tre centralinisti che non potrebbero essere più simpatici e finalmente riesco a parlare con il mio amico Lumpke, che sta facendo un corso di specializzazione in scultura. A giudicare dalla voce, le cose non gli stanno andando molto bene. E anche vero che a Parigi sono le quattro del mattino. Scendo dalla Mercedes e mi avvio verso la spiaggia. So che ho già detto che è un posto meraviglioso, ma non credo di avergli reso giustizia. Ogni volta che ci vengo, mi stupisco di quanto è bello. Sono certo che lo apprezzo più io di Barry e Campion Neubauer. Quando sono quasi arrivato sulla spiaggia, mi chiedo per la prima volta
chi potrebbe essere la donna che mi aspetta. Volendo, non mi sarebbe stato difficile identificarla: sarebbe bastato aprire il vano portaoggetti e controllare il libretto di circolazione. Ma mi sarei rovinato la sorpresa. Il bello, qui a casa Neubauer, è che non so mai cosa mi aspetta. Potrebbe avere quindici anni o cinquantacinque. Essere sola o con un amico. O addirittura con il marito. Biglietto rosa. Shalimar. Mmm. Forse so chi me l'ha scritto. Mi siedo sulla sabbia a un paio di metri dalla riva. La coda dell'uragano Gwyneth, che ha imperversato su Cape Hatteras per una settimana, ha colpito gli Hamptons stamattina. Il mare è grosso, le onde si frangono rumorosamente, rabbiose. Il frastuono è tale che non li sento e mi accorgo di loro solo quando mi sono addosso. Il più tarchiato dei tre, calvo e con un paio di Oakley scuri, mi sferra un calcio in pieno petto. Mi rompe un paio di costole, immagino, e mi toglie il fiato. Mi pare di riconoscerne uno, ma è buio, non sono sicuro. Il panico aumenta a ogni pugno e calcio assestati con precisione tecnica. Mi rendo conto che sono professionisti e che non sono qui per darmi una lezione. Questa è una faccenda seria. Cerco di difendermi, picchiando e scalciando, finché non riesco a liberarmi. Corro, grido con tutto il fiato che ho in gola sperando che qualcuno dalla villa mi senta, ma il rumore delle onde copre la mia voce. Uno dei tre mi placca da dietro, facendomi cadere malamente. Sento il tipico rumore di un osso che si rompe. Il mio. Li ho addosso, tutti e tre, e me le danno di santa ragione. A un certo punto uno mi fa: «Beccati questa, Peter Rabbit!» Un paio di metri più in là scatta un flash fra i cespugli. Poi un altro. È qui che mi rendo conto che sto per morire. E, per quel che vale, so chi è il mio assassino. PARTE PRIMA IL PRATICANTE ESTIVO 1 Anche per gli standard straordinariamente alti di Manhattan, dove persino le stazioni della metropolitana sono affrescate da grandi artisti, la sede dello studio legale Nelson, Goodwin & Mickel era un gioiello di architet-
tura. Se i lussuosi uffici intorno a Broadway erano monumenti alla giustizia, il grattacielo di quarantotto piani al civico 454 di Lexington Avenue era un arco di trionfo. Mi chiamo Jack Mullen, e mi ritenevo anch'io un vincente, l'estate in cui facevo il praticante nello studio. Non era esattamente quello che avevo in testa quando mi ero iscritto alla Columbia Law School alla veneranda età di ventisei anni, ma se a uno studente del secondo anno che va avanti facendosi prestare soldi dalle banche si presenta l'occasione di lavorare nello studio più prestigioso di New York, non può lasciarsela sfuggire. Il telefono cominciò a squillare non appena entrai nel mio piccolo ufficio. Risposi subito. Voce femminile registrata: «Chiamata a carico del destinatario da Huntsville, Texas, da parte di...» Voce maschile, anch'essa registrata: «Il Motociclista». Voce femminile: «Se accetta la chiamata, dica 'sì' o digiti...» «Sì, sì!» Interruppi il nastro. «Motociclista, come stai?» «Non male, Jack, a parte il fatto che stanno per sopprimermi come un cane rabbioso.» «Scusa, ti ho fatto una domanda stupida.» La voce sorprendentemente stridula all'altro capo della linea apparteneva a Billy Simon, detto «il Motociclista», che mi chiamava dal braccio della morte del carcere di Huntsville. Il Motociclista era in attesa dell'iniezione letale cui era stato condannato per l'omicidio di una ragazza, avvenuto diciannove anni prima. Il Motociclista non è uno stinco di santo e ammette di averne fatte di cotte e di crude, con la sua gang. Ma non di aver ucciso Carmina Velasquez. «Carmina era una gran donna», mi aveva detto la prima volta che ci eravamo parlati. «Un'amica in questo mondo schifoso. Non ero innamorato di lei. Perché avrei dovuto ammazzarla, allora?» Le sue lettere, i verbali del processo e le istanze per ottenerne uno nuovo erano finiti sulla mia scrivania il terzo giorno di lavoro nello studio Nelson, Goodwin & Mickel. Dopo aver impiegato due settimane a decifrare errori di ortografia, frasi incomprensibili e centinaia di noticine a piè di pagina, tutte in uno stampatello che sembrava quello di un bambino delle elementari, mi ero convinto che diceva la verità. Provavo simpatia per lui. Era intelligente, spiritoso, per niente vittimista
nonostante avesse vagonate di motivi per esserlo. Il novanta per cento delle persone rinchiuse nel braccio della morte sono vittime di un destino crudele e il Motociclista, i cui genitori erano due eroinomani assolutamente irresponsabili, non faceva eccezione. Ma non se la prendeva con loro per quello che gli era capitato. «Hanno fatto quello che potevano, poveracci», mi aveva detto l'unica volta che ne avevamo parlato. «Cioè meno di un cazzo, ma tanto... pace all'anima loro.» Rick Exley, il mio diretto superiore, se ne fregava altamente sia del carattere solare del Motociclista sia delle mie intuizioni da ultimo arrivato. A lui importava soltanto il fatto che non c'erano testimoni dell'omicidio della Velasquez e che il Motociclista era stato condannato esclusivamente sulla base di campioni ematici e capelli ritrovati vicino al cadavere, molto prima che tirassero fuori il test del DNA. Questo significava che avevamo ottime probabilità che venisse accolta l'istanza di effettuare analisi più sofisticate sui campioni conservati in qualche cella frigorifera di Lubbock. «Non vorrei darti false speranze, ma se accolgono la nostra richiesta, potremmo ottenere una sospensione della sentenza.» «Non ti preoccupare, Jack. Meglio avere un po' di false speranze che non averne per niente.» Cercavo di non scaldarmi troppo. Sapevo che se lo studio Nelson, Goodwin & Mickel faceva del patrocinio gratuito era solo per motivi di immagine e che nessuno si comprava un grattacielo di quarantotto piani nel cuore di Manhattan per aiutare derelitti innocenti nel braccio della morte. Tuttavia, quando la telefonata fu interrotta allo scadere dei quindici minuti concessi al Motociclista, mi tremavano le mani. 2 Stavo ancora riflettendo sulla sorprendente nobiltà d'animo del Motociclista quando fece capolino sulla soglia del mio ufficio Pauline Grabowski, una delle punte di diamante della squadra investigativa dello studio. Affinché anche gli ultimi arrivati come me si rendessero conto delle straordinarie risorse dello studio, Pauline era stata assegnata al caso del Motociclista e mandata due settimane in Texas a indagare. Pur essendo nota per la sua eccezionale bravura, che le aveva fatto fare carriera, non si dava affatto delle arie ed era riuscita a ricavarsi un posto al sole in un covo di maschilisti senza mostrarsi apertamente aggressiva. Di-
retta, ma mai sopra le righe. Era una bella donna, del genere sportivaacqua-e-sapone, e non faceva nulla per attirare l'attenzione. Niente trucco o gioielli, a parte gli orecchini, teneva i capelli scuri raccolti frettolosamente in una coda di cavallo e indossava sempre un tailleur blu. Io la trovavo molto carina. La cosa singolare era che il suo look semplice e dimesso contrastava con il tatuaggio che aveva sul braccio destro. Non una discreta tartarughina o una farfalla, ma un Chrysler Building che partiva dal gomito e arrivava fino alla spalla. Di un color giallo oro che rifletteva la luce dalla guglia, talmente dettagliato da comprendere un mostro alato che guardava furibondo la metropoli sottostante, si diceva avesse richiesto sei sedute da otto ore l'una. Quando le avevo chiesto perché aveva scelto di farsi tatuare proprio un grattacielo, mi aveva guardato male, come se fosse dispiaciuta che non ci arrivassi da solo. «Apprezzo l'aspirazione umana a creare qualcosa di bello», mi aveva risposto. «E poi mio nonno ha lavorato trentotto anni alla catena di montaggio della Chrysler. Quindi un po' è merito suo.» Si appoggiò al bordo della mia scrivania e mi spiegò che Stanley Higgins, pubblico ministero nel processo contro il Motociclista, aveva mandato ben sei uomini nel braccio della morte da una minuscola contea del Texas. Era andato in pensione da poco e pareva frequentasse assiduamente un certo bar di un quartiere operaio di Amarillo. «Secondo alcuni simpatici signori con cui ho fatto amicizia lì, Higgins è alcolizzato. Pare che una sera sì e una no si vanti di aver 'fatto giustizia a questo mondo'. Voglio tornare a trovarlo, prima che schiatti.» «Ah, è così che passi le giornate! Raccogliendo pettegolezzi sui nemici dello studio?» Sorrise, ed era difficile non lasciarsi contagiare. «Chiamali pettegolezzi, se vuoi, io le chiamo 'schifezze'. Ne circolano tante, mio giovane amico.» «Non così giovane, temo. Ti scoccia se ti chiedo che cosa fai nel tempo libero?» «La giardiniera», rispose Pauline molto seria. «Davvero?» «Sì, curo i miei cactus. Sta' attento, Jack, perché sono pieni di spine. A proposito, ho sentito dire che sei già occupato. Non ti dimenticare che sono una detective.» 3
Alle nove e venti di quel venerdì sera mi misi lo zaino in spalla e presi un ascensore, una scala mobile e una rampa di scale, in ordine crescente di sporcizia, per raggiungere il marciapiede della stazione della metropolitana sotto il Grand Central Terminal. Arrivai così alla Penn Station e raggiunsi il binario da dove partivano i treni per Long Island in tempo per salire sull'ultimo. Per fortuna ero in anticipo e trovai un posto vicino al finestrino, perché ben presto le carrozze si stiparono di gente diretta negli Hamptons per il primo ponte estivo. Infilai un CD nel mio lettore portatile e mi preparai a tre ore di viaggio fino all'ultima stazione della linea. Montauk. Casa. Pochi minuti prima della partenza, mi si sedette di fronte un ragazzo che aveva tutta l'aria di essere uno studente universitario del primo anno che tornava a casa per le vacanze con tutti i suoi problemi e i vestiti sporchi chiusi in una grossa valigia. Si addormentò dopo cinque minuti. Dalla tasca del giubbotto gli spuntava un'edizione tascabile malconcia del Segno rosso del coraggio. Siccome quel libro che tanto mi piaceva rischiava di cadergli per terra, allungai un braccio e glielo sistemai per bene. Guardando quel ragazzo alto e dinoccolato, con il tipico pizzetto che i diciannovenni si fanno crescere con ansioso orgoglio, ripensai a tutti i viaggi che avevo fatto su quel treno. Quante volte ero tornato a casa stanco e sconfitto, quante desideroso di riposarmi e di guadagnare un po' di soldi lavorando nella piccola impresa di costruzioni di mio padre, se aveva abbastanza lavoro, oppure riverniciando scafi al Jepson's Boatyard... Ma erano cinque anni, ormai, che prendevo quel treno senza grandi preoccupazioni. E questo mi fece riflettere sul fatto che le cose stavano andando decisamente meglio. Avevo appena finito il secondo anno di giurisprudenza e nel corso dell'ultimo semestre ero entrato nel comitato di redazione della prestigiosa rivista della facoltà. Grazie a questo, ero riuscito a farmi assumere a tempo determinato in uno studio legale, dove guadagnavo in una settimana più di quanto riuscissi a mettere insieme in un'estate aiutando mio padre o lavorando al cantiere. E poi c'era Dana, che avrei trovato ad aspettarmi in stazione. Stavamo insieme da quasi un anno, ma facevo ancora fatica a crederci. In parte per
via del suo cognome, Neubauer. Non vi dice niente? Be', i suoi erano proprietari di un'azienda privata fra le più grosse del mondo e di una delle ville più belle di tutta la costa orientale degli Stati Uniti. Ci eravamo messi insieme l'estate prima, quando io lavoravo al cantiere Jepson's. Dana era venuta a vedere se lo yacht di suo padre era pronto e io - non so cosa mi fosse preso - le avevo chiesto se voleva uscire con me. Forse la divertiva l'idea di mettersi con un operaio, ricca com'era. E forse la situazione divertiva anche me. Ma Dana mi piaceva molto: era intelligente, spiritosa, lucida e determinata. Una con cui si poteva parlare di tutto, di cui ci si poteva fidare. Soprattutto, non era la tipica figlia di papà, viziata e snob. E questo era eccezionale, dato il suo «pedigree». Avanti tutta! Il treno procedeva fermandosi in ogni stazione, cittadine piene di 7-Eleven dai nomi indiani tipo Patchogue e Ronkonkoma, dove scese il ragazzo seduto di fronte a me. Cittadine vere, non località turistiche venute su dal nulla come quelle in cui non vedeva l'ora di passare il weekend la maggior parte degli altri passeggeri. È vero, me la prendo con gli yuppie quando sono vestito come loro e ho le stesse loro prospettive. Ma la differenza è che per me Montauk e gli Hamptons sono posti veri, e non soltanto un'occasione per farsi belli nei bar per single. Io in quei posti ci sono nato. Ci ho vissuto con mio fratello, ho visto morire troppo giovane mia madre e diventare vecchio il mio arzillo nonnetto. Metà dei passeggeri scese a Westhampton. L'altra metà un paio di fermate dopo, a East Hampton. Quando finalmente il treno arrivò al capolinea, a Montauk, a mezzanotte e quattro minuti, perfettamente in orario, nella mia carrozza c'ero solo io. E in stazione c'era qualcosa che mi preoccupò non poco. 4 Il mio primo pensiero fu che c'era troppa gente ad aspettarmi, data l'ora. Avevo immaginato di vedere la Range Rover di Dana nel parcheggio vuoto e lei appoggiata al cofano ancora caldo, tutta sola. Invece era sul marciapiede della stazione e non pareva affatto contenta di vedermi. Aveva gli occhi gonfi e sembrava avesse pianto tutto il giorno. Ancor più preoccupante era il fatto che con lei c'erano mio padre e mio nonno. Mio padre, che non aveva mai una bella cera in quel periodo, era bianco come un cencio. Mio nonno sembrava affranto e furibondo: un
ottantaseienne irlandese incazzato, pronto a prendere a pugni il primo che passava. Poco distante c'erano un poliziotto di East Hampton che si chiamava Billy Belnap e un giovane reporter dell'East Hampton Star, che scriveva furiosamente sul suo taccuino. Dietro di loro, la volante di Belnap con il lampeggiante acceso contribuiva ad accentuare il senso di catastrofe. Mancava solo mio fratello Peter. Com'era possibile? Era una vita che Peter passava da un incidente all'altro senza farsi nemmeno un graffio. A cinque anni un nostro vicino l'aveva ritrovato privo di sensi accanto alla bicicletta sul ciglio della strada e l'aveva riportato a casa. L'avevamo steso su un divano e stavamo per chiamare l'ambulanza, quando lui si era tirato su a sedere come se si fosse appena svegliato da un pisolino. Quell'anno era anche caduto diverse volte da un albero. Ma dalla faccia di quelli che mi aspettavano sul marciapiede della stazione capii che al mio incosciente e coraggioso fratello quella volta doveva essere andata male. Era andato a sbattere con la moto, si era addormentato con la sigaretta accesa, aveva attraversato la strada di corsa per ricuperare un pallone facendosi investire come un cane. Mi sentii mancare, quando Dana mi gettò le braccia al collo e mi appoggiò la guancia bagnata di lacrime sulla spalla. «Mi dispiace tanto, Jack. Povero Peter. Oh, Jack, mi dispiace.» Appena si staccò da me, abbracciai mio padre, che però rimase chiuso nel suo dolore. Niente di quello che mormoravamo poteva esprimere l'intensità di quello che stavamo provando. Meno male che c'è Mack, pensai lasciandomi abbracciare dal nonno. Quando ero piccolo, mio nonno era un omone, grande e grosso. A quarantacinque anni pesava cento chili e reagiva alla minima provocazione. Negli ultimi vent'anni era calato di almeno trenta chili, ma aveva ancora mani enormi e l'ossatura di un gigante. Mi strinse talmente forte che mi tolse il fiato. Mi sussurrò all'orecchio: «Jack, dicono che Peter è annegato facendo il bagno. È una palla grossa come una casa». 5 Noi Mullen salimmo sul sedile posteriore della volante e Dana si sedette davanti, accanto a Belnap. La guardavo attraverso il divisorio di plexiglas come se fosse stata a mil-
le miglia di distanza. Si voltò e mi sussurrò: «Oh, Jack...» Poi tacque, lasciando la frase a metà. Con il lampeggiante acceso ma senza sirena, l'auto uscì dal parcheggio vuoto e si diresse verso il centro di Montauk. «Ieri sera c'è stata la grande festa per il Memorial Day», disse mio nonno rompendo il silenzio. «E Peter, come al solito, faceva il parcheggiatore. Alle nove ha mangiato qualcosa, ma quando gli ospiti hanno cominciato ad andare via ed è stato il momento di riprendere il servizio, non si è presentato. La sua assenza non è passata inosservata, ma siccome non era la prima volta che succedeva, nessuno ci ha dato peso. Due ore fa la dottoressa Elizabeth Possidente ha portato a passeggio il suo rottweiler, che a un certo punto ha cominciato ad abbaiare come un matto. Gli è corsa dietro e si è trovata davanti il corpo di Peter, portato a riva dalle onde nei pressi della villa dei Neubauer. È ancora lì sulla spiaggia, Jack. Non ho voluto che lo portassero via prima che arrivassi tu.» Il nonno parlava in tono sommesso. La sua voce mi era sempre sembrata la più confortante e comprensibile del mondo, ma in quel momento non capivo quello che diceva. Anche il panorama che vedevo dal finestrino mi sembrava lontanissimo. Era come se non riconoscessi più i negozi di articoli sportivi, il Memory Motel, il drive-in. I colori delle insegne erano sbagliati, troppo sgargianti. Era come se la mia città fosse diventata radioattiva. Per tutto il resto del viaggio rimasi seduto fra mio padre, John Samuel Sanders Mullen, e mio nonno, Macklin Reid Mullen, fra il dolore inconsolabile del primo e quello rabbioso del secondo. Eravamo immobili, taciturni. Nella mia testa si susseguivano immagini di Peter, come se avessi avuto un proiettore nel cervello. Finalmente la macchina di Belnap lasciò il lungomare e varcò il cancello di casa Neubauer, scendendo per la strada sterrata. Si fermò a un centinaio di metri dalla battigia, dove le onde si frangevano agitate, rabbiose. Nel luogo dove giaceva mio fratello, morto. 6 Se la stazione era troppo affollata, la spiaggia, al contrario, era deserta. Scesi con le gambe che tremavano sulla sabbia illuminata dalla luna. Non c'erano tecnici della Scientifica, investigatori, poliziotti. Solo il mare grosso, agitato.
Avevo il cuore stretto e gli occhi appannati. «Voglio vedere Peter», dichiarai. Mio nonno mi accompagnò all'ambulanza. Hank Lauricella, un nostro amico che faceva il volontario nella pubblica assistenza due sere la settimana, aprì il portellone posteriore. Salii. Peter... L'interno dell'ambulanza era bene illuminato, neanche fosse stata una sala operatoria, ma la luce non basta mai quando si tratta di vedere tuo fratello morto, disteso su una barella, nudo. Di tutti i rapporti famigliari quello tra fratelli di solito è il più teso, se si esclude quello fra marito e moglie. Io e Peter, però, andavamo d'accordissimo. E non lo dico perché adesso è morto. La differenza d'età, sette anni, e di carattere ci aveva resi meno competitivi. Il fatto che nostra madre fosse morta giovane e che nostro padre fosse per certi versi morto con lei ci aveva lasciato, in ogni caso, ben poco per cui competere. Il potere della bellezza è assurdo e innegabile. Guardai il corpo steso sulla barella di acciaio. Peter era morto, ma si capiva lo stesso perché tutte le ragazze gli sorridevano da quando aveva quattordici anni. Sembrava una scultura rinascimentale. Con i capelli e gli occhi neri. Aveva la catenina con la medaglietta di san Nicola di nostra madre al collo e al lobo sinistro un cerchietto d'oro, che portava da quando aveva undici anni. Ero così intento a cercare qualcosa di Peter nella faccia del cadavere che mi ci volle un po' prima di rendermi conto di quanto era malridotto. Quando Hank vide che me ne ero accorto, mi indicò in silenzio i grossi lividi che mio fratello aveva sul torace, sulle braccia e sulle gambe e le abrasioni sulla fronte e dietro il collo. Mi fece notare le dita rotte e le nocche spellate. Quando ebbe finito, mi sentivo talmente male che dovetti aggrapparmi alla barella per non cadere. 7 Quando finalmente scesi dall'ambulanza, mi pareva di averci passato tutta la notte. Il viaggio in treno mi sembrava il ricordo di una vita precedente. Dana era seduta da sola sulla spiaggia con l'aria sperduta, come se non fosse a casa propria. Mi chinai e lei mi abbracciò. «Vorrei restare con te stanotte», mi disse. «Ti prego.»
Le sue parole mi fecero piacere. Tenendoci per mano, tornammo alla macchina di Belnap con mio padre e mio nonno. Stavamo per salire quando Frank Volpi, ispettore capo del dipartimento di polizia di East Hampton, ci venne incontro dalla villa. «Sam, Macklin, Jack. Mi dispiace.» «Perché non cerchi di scoprire chi l'ha ammazzato, allora?» ribatté Mack, fulminandolo con lo sguardo. «Per il momento non abbiamo trovato niente che faccia pensare a qualcosa di diverso da un tragico incidente, Mack.» «Hai visto il cadavere?» chiesi a bassa voce. «C'è stata burrasca, Jack.» «Credi che Peter sia andato a fare un tuffo mentre lavorava?» domandai. «Con un mare così? Dai, Frank!» «Peter era un po' matto, no? Avrebbe potuto farlo benissimo.» Con il tono arrogante del pubblico ufficiale, aggiunse poi: «E, in ogni caso, non possiamo escludere il suicidio». «Peter non si sarebbe mai ucciso», replicò Mack negando qualsiasi credibilità a quell'ipotesi. «Sei un cretino anche solo a prenderlo in considerazione.» «Belnap l'ha visto zigzagare nel traffico a centocinquanta all'ora, ieri sera. Forse, invece, voleva proprio morire.» «Forse, invece, sei tu che prendi una cantonata», gli fece il verso Mack. Sembrava sul punto di mollargli un pugno. «Avete raccolto qualche testimonianza?» domandai, cercando di sventare una rissa. «Avete chiesto in giro? Dovrebbe esserci una lista degli invitati, no? Insomma, Frank, è morto Peter!» «Sai che tipo di persone ci sono su quella lista, Jack. Gente che se fai una domanda di troppo al giardiniere ti fa passare un sacco di guai.» «E tu fregatene!» intervenne Mack. «Almeno Barry e Campion li avrai interrogati, no? Cosa dicono?» «Sono rimasti sconvolti, naturalmente. Anzi, mi hanno chiesto di porgervi le loro condoglianze. Sono partiti, però. Avevano un impegno di lavoro e non me la sono sentita di farglielo disdire. In fondo non c'era motivo.» «Eh, già. Senti, Frank, volevo chiederti: sei ancora ispettore capo o ti hanno promosso fattorino?» Volpi diventò paonazzo. «Cosa stai insinuando, Mack?» «Vuoi che te lo spieghi, Frank?» chiese mio nonno.
8 Un anno dopo l'arrivo dei miei genitori a Montauk, mio padre aveva costruito una casa con tre camere da letto sulla strada che dal paese porta al faro. Ci eravamo andati ad abitare quando io avevo due anni e Peter era nato lì cinque anni dopo. Ufficialmente ci risiedeva ancora, benché da qualche anno a quella parte dormisse sempre più spesso a casa di qualcuna delle sue numerose ragazze. Sarebbe stato un problema se mia madre, Katherine, fosse stata ancora viva, ma da molto tempo ormai la nostra era una casa di uomini senza orari. Mio padre e Mack andarono subito a letto, appena rientrati. Dana e io prendemmo una bottiglia di Jameson e due bicchieri e salimmo la ripida scala di legno che portava alla camera di Peter. «Sono qui, dietro di te», mi sussurrò Dana. Io le presi la mano e gliela strinsi. «Ne sono felice.» Per l'ennesima volta fui colpito da quanto era spartana la camera di Peter. Una scrivania di legno chiaro, un comò contro una parete e, di fronte, due letti gemelli. A parte la minuscola fotografia in bianco e nero del grande sassofonista Charlie Parker incollata sopra il letto di Peter, avrebbe potuto essere la stanza di un motel. Forse Peter la teneva così perché pensava di non abitarci più. Questo pensiero, l'idea che sentisse di non avere più una casa, mi fece stare ancora peggio. Dana scelse fra i CD di mio fratello un vecchio album di Sonny Rollins. Io avvicinai i due letti e ci sdraiammo, abbracciati. «Non riesco a crederci», dissi, annichilito. «Lo so», bisbigliò Dana stringendomi più forte. Il whisky mi aveva schiarito le idee quanto bastava per capire che quella morte non aveva senso. In nessun modo. Era impossibile che mio fratello avesse deciso di fare una nuotata, quella sera. Peter detestava il freddo. Ammesso e non concesso che il mare grosso non lo avesse impensierito, sarebbe bastata la temperatura dell'acqua a convincerlo a non tuffarsi. Che si fosse suicidato, poi, era ancora più improbabile. Non sapevo con quali soldi, ma si era appena comprato una moto da diciannovemila dollari. Aveva aspettato sei mesi perché arrivasse dell'esatta sfumatura di blu che piaceva a lui; il contachilometri ne segnava meno di duemila. Non lavi
la moto due volte al giorno, se hai intenzione di suicidarti. E poi Peter aveva in programma un servizio fotografico la settimana successiva, per una pubblicità di jeans Helmut Lang. Mi aveva chiamato al lavoro per dirmi che uno degli assistenti del fotografo Herb Ritt lo aveva notato al Talkhouse e gli aveva proposto una collaborazione. Faceva l'indifferente, ma avevo capito benissimo che era contento. Dana mi versò ancora un po' di whisky e mi diede un bacio sulla fronte. Bevvi un lungo sorso. Pensavo a quando Peter e io eravamo bambini e in quella stanza facevamo la lotta. Avevamo inventato un gioco che si chiamava «il re del letto». Riflettei che quando due fratelli fanno la lotta, il più delle volte è una scusa per abbracciarsi. Raccontai a Dana di un pomeriggio d'autunno, dieci o dodici anni prima. Probabilmente ero patetico, ma mi lasciò parlare. «Il sabato andavamo a giocare a touch football nel campo dietro la scuola. Quel giorno, per la prima volta, mi portai dietro Peter. Aveva cinque anni meno del più piccolo del nostro gruppo, ma io dissi che era in gamba, di fidarsi di me. Bill Conway, uno dei due ragazzi che organizzavano il torneo, acconsentì a farlo giocare, sia pur con riluttanza. Peter fu l'ultimo a entrare in campo e nessuno gli passava mai la palla, ma era così contento di giocare con noi grandi che non protestò. Ormai stava venendo buio ed eravamo pari. Erano gli ultimi minuti della partita, e avevamo noi la palla. Dissi a Livolsi di passare a Peter. Gli avversari avevano smesso di marcarlo da un pezzo. Non so perché, ma Livolsi per una volta mi ascoltò, mandò tutti i ricevitori da una parte e Peter dall'altra, poi effettuò un passaggio lungo. Peter era tutto solo a un lato della end zone, piccolissimo, nel crepuscolo. Purtroppo Livolsi non era un gran giocatore e sbagliò il passaggio, ma Peter corse dietro al pallone e all'ultimo momento si buttò parallelo al terreno, come i campioni della National Football League. Giuro che tutti quelli che c'erano se lo ricordano ancora. Livolsi me lo dice sempre, quando lo incontro. Dana, Peter aveva solo nove anni e pesava trenta chili a dir tanto. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Sarebbe potuto diventare tutto quello che si metteva in testa di diventare. Aveva una vita davanti.» «Lo so, Jack», mi sussurrò. «E non è tutto, sai? Quando tornammo a casa, quel sabato, dopo la partita, Peter era così felice... Lo sapevo. Non ci dicemmo nulla, non ce n'era bisogno. Io ero il suo fratello maggiore, avevo assicurato che ce la poteva fare e lui aveva dato il massimo. Per me la cosa più bella fu il ritorno a casa. Eravamo in pace, sereni come si può essere solo quando si è appena
fatto qualcosa di veramente difficile. Eravamo in bici, ma ci sembrava di volare, come se non dovessimo neppure pedalare.» Non riuscii ad andare avanti: scoppiai in lacrime e, una volta incominciato a piangere, continuai per venti minuti. Poi sentii freddo, un freddo terribile, da battere i denti. Non riuscivo a credere che non avrei mai più rivisto Peter. 9 All'ombra di un alto cespuglio sempreverde Rory Hoffman, un uomo grande e grosso con una brutta cicatrice, osservava l'ambulanza che apriva il corteo di veicoli che si allontanavano dalla spiaggia. Mentre i fanalini rossi scomparivano fra gli alberi, fece schioccare la lingua e scosse piano la testa. Che casino. Un vero disastro. Ufficialmente era il capo del servizio di sicurezza, ma si occupava di quel genere di questioni delicate da talmente tanto tempo e con così grande efficienza che ormai lo chiamavano «il Risolutore». A Hoffman quel soprannome non piaceva: aveva un compito e lo svolgeva. Punto e basta. Adesso mi tocca risolvere anche questo pasticcio. Non sarebbe stato facile, lo sapeva. Non era mai semplice risolvere quel genere di problemi. Nel suo lavoro aveva imparato che la violenza lascia sempre il segno. E se con le capacità e l'impegno si poteva cercare di eliminarlo, un alone, una macchia restavano sempre. La perfezione non è di questo mondo. Abbandonò il nascondiglio fra gli alberi e imboccò la strada sterrata. Gli dava fastidio camminare sulla ghiaia con calzature dalle suole sottili. Rise al pensiero che quelle scarpe, che costavano un sacco di soldi, facevano male ai piedi. Del resto, le reclamizzavano come adatte per guidare, mica per camminare. Geniale mossa di marketing. E lui c'era cascato e le aveva comprate. Arrivò al punto in cui le auto si erano immesse sullo sterrato e ne seguì le tracce fin sulla spiaggia. Granelli di sabbia gli entrarono nei calzini di seta. Il mare, illuminato dalla luna, era agitato, tempestoso. Un paesaggio da tragedia shakespeariana, in cui il mondo intero piange la morte di un uomo sulla spiaggia. Benché ci si vedesse abbastanza bene, accese la torcia e controllò se c'erano impronte. La spiaggia era pur sempre un luogo pubblico, e non si poteva impedire alla gente di passare sulla battigia. In genere i segnali di di-
vieto di accesso venivano rispettati, ma non si poteva mai essere sicuri. La parte a nord sembrava in ordine. Chissà, forse quella sarebbe stata l'eccezione che conferma la regola. Forse per una volta non ci sarebbe stato bisogno del suo intervento. Controllò fra le dune senza trovare niente. Poi vide un mozzicone di sigaretta. Un altro. Brutta storia. Bruttissima, per la verità. Si sentiva osservato e quando chiuse gli occhi sentì l'odore di zolfo che ancora aleggiava nell'aria. Qualcuno aveva acceso un fiammifero. Oh, Gesù. Impronte di stivali lo guidarono a un gruppo di cespugli fra le dune, dove trovò altre orme e mozziconi. Chiunque si fosse appostato lì, c'era stato parecchio. Si chinò a raccogliere le cicche, tre, e le mise in una bustina di plastica di quelle usate anche dalla polizia. O almeno così supponeva. Fu in quel momento che la torcia illuminò una scatoletta gialla accartocciata nella sabbia. Kodak. Cristo, qualcuno ha scattato delle foto! 10 L'indomani mattina gli occhi mi facevano un male da morire. Come tutto il resto, peraltro. E anche le parti del corpo che non mi dolevano erano in cattive condizioni. Mi ci vollero due secondi per ricordarmi che mio fratello era morto. Mi fregai gli occhi e mi accorsi che Dana non c'era più. Attaccato con lo scotch all'abat-jour c'era un biglietto che diceva: «Non ti ho voluto svegliare. Grazie di avermi lasciato restare con te. Ha significato molto per me. Mi manchi già. Ti amo, Dana». Era una ragazza bella e in gamba e io ero fortunato a stare con lei. Ma quella mattina mi riusciva difficile rallegrarmi della mia fortuna. Scesi lentamente in cucina e mi sedetti a tavola con i due vecchi affranti, in vestaglia. Non eravamo un gran trio. «Dana è andata via.» «Ho preso il caffè con lei», mi informò Mack. «Piangeva.» Guardai mio padre, che non reagì. Alla luce del giorno mi resi conto che non sarebbe mai più stato quello di prima. Sembrava invecchiato di vent'anni in una notte. Mack pareva una roccia come al solito, anzi di più, quasi la tragedia lo
avesse rafforzato. «Ti faccio due uova», disse alzandosi. Non è che non fosse addolorato dalla morte di mio fratello, tutt'altro. Peter era sempre stato il suo preferito. Ma per mio nonno la vita era una guerra santa, nel bene e nel male, e si stava già preparando alla prossima battaglia. Prese cinque fette di pancetta e le mise a friggere in una padella di ghisa vecchia e ammaccata quanto lui. Nella cucina si diffuse un piacevole sfrigolio. Quella mattina mi accorsi che mio padre non si era mai ripreso dalla morte di mia madre. Nella sua impresa di costruzioni non metteva il cuore, non provava il desiderio di cavalcare l'onda del boom dell'edilizia negli Hamptons. I suoi concorrenti avevano abbandonato i pickup e giravano in Tahoe. Mentre lui era rimasto a guardare, mangiando la polvere. Non gliene fregava niente. A mio nonno, invece, invecchiare faceva bene. Era andato in pensione dopo una vita da operaio siderurgico e, dopo un'estate trascorsa a leggere e poltrire, si era rimesso a studiare ed era diventato assistente legale. Da oltre vent'anni bazzicava le aule giudiziarie e gli avvocati di Long Island e molti lo ritenevano più preparato di tanti giudici. Mio nonno sosteneva che non era granché come complimento. Era stato in parte anche il suo amore per la legge a indurmi a iscrivermi alla Columbia Law School e questo lo riempiva di orgoglio. Quando andavamo a farci una pinta allo Shagwong, mi metteva immancabilmente in imbarazzo presentandomi come «il più istruito di tutti i Mullen d'Irlanda e d'America». Dal modo in cui mi guardava quella mattina, tuttavia, capii che dal suo punto di vista era giunto il momento di mettere in pratica quel che avevo studiato sui libri. «Peter non si è suicidato», dissi. «Volpi è un cretino.» «Oppure se ne frega», replicò lui. A mio padre non importava come fosse morto Peter e forse pensava che, se mio fratello avesse scelto di morire, probabilmente i suoi ultimi istanti sarebbero stati meno spaventosi. Per Macklin, invece, era importantissimo. «Aveva tutte le donne che voleva, scopava come un riccio. Perché si sarebbe dovuto suicidare?» Ruppe tre uova sulla pancetta e, quando i bordi cominciarono a dorarsi, prese una spatola e le girò con disinvoltura, senza far uscire una goccia di tuorlo. Le lasciò friggere ancora mezzo minuto e quindi mi mise tutto nel piatto.
Era quasi l'inizio dell'estate, eppure quella colazione sostanziosa, adatta alle giornate fredde e ventose, era proprio quello di cui avevo bisogno. Dopo tre tazze di caffè nero, mi alzai da tavola e dissi che sarei andato a parlare con Volpi. «Vuoi che venga con te?» «No, grazie, Mack.» «Non fare stupidaggini, mi raccomando. Mantieni la calma. Mi hai sentito, Jack?» «Senti chi parla», intervenne mio padre. «Quello che non perde mai la testa.» Per un istante, ebbi quasi l'impressione che stesse sorridendo. 11 Qualcuno doveva aver riportato a casa la moto di Peter durante la notte, perché la trovai davanti al portone. Sembrava una gigantesca lucertola che si scaldava al sole. Era tipico di Peter indebitarsi pur di poter guidare un bolide come quello. Se anche fossimo riusciti a venderla a un buon prezzo, avremmo dovuto tirar fuori come minimo duemila dollari per estinguere il debito. Ma dovevo ammettere che era stupenda. La targa, «4NIC8», mi strappò un sorriso. Four-NIC-eight, «fornicate»; fornicare: sì, tipico di Peter. Salii sul vecchio camioncino nero con la scritta MULLEN CONSTRUCTION sulla portiera e mi diressi verso il modesto edificio di mattoni sulla Route 27 in cui ha sede il dipartimento di polizia di East Hampton. Posteggiai accanto alla jeep nera di Frank Volpi. All'entrata era di turno il sergente Tommy Harrison, che mi strinse la mano e mi porse le sue condoglianze. «Tuo fratello mi era simpatico, Jack», disse. «Sono venuto a parlare con Volpi. Proprio di mio fratello.» Harrison lo andò a chiamare e tornò qualche minuto dopo con l'aria imbarazzata. «L'ispettore è più occupato di quanto credessi. Pensa che avrà da fare per un bel po'.» «Non importa. Aspetto che si liberi. È una cosa importante.» Quaranta minuti dopo il sergente all'ingresso mi ripeté la stessa tiritera. Uscii e rientrai dalla porta di servizio. L'ufficio di Volpi era a metà del corridoio. Non mi curai di bussare. L'ispettore alzò gli occhi dal giornale che stava leggendo. Aveva i baffi
macchiati di schiuma di latte. A East Hampton i poliziotti non bevono normale caffè: si fanno portare come minimo un marocchino. «Vita grama, eh, Frank?» «Senti, ho già abbastanza grane senza che ti ci metti anche tu. Vattene, per favore. Lasciami in pace.» «Dimmi un solo motivo per cui Peter sarebbe dovuto andare a fare il bagno mentre lavorava e ti prometto che ti lascerò alla lettura del Post e al tuo marocchino.» «Te l'ho già detto. Perché si era fatto troppe canne e sragionava.» «Ma perché avrebbe dovuto ammazzarsi? La vita gli sorrideva.» «Perché la sua ragazza si scopava il suo migliore amico; perché aveva passato una giornata di merda; perché era stufo di sentirsi ripetere da tutti quanto era bravo suo fratello maggiore. Volevi un motivo? Te ne ho dati tre. Adesso togliti dai piedi.» «È così, allora? Incidente, suicidio, chi se ne frega? Il caso è chiuso?» «Più o meno, sì.» «Quando la smetterai di leccare il culo ai ricchi e ai potenti, Frank?» Si alzò in piedi e avvicinò la faccia alla mia, mi afferrò per il colletto della camicia e mi spinse contro il muro. «Vuoi che ti mandi via a calci, stronzetto?» Non dubitavo che fosse in grado di farlo, ma ero in uno stato d'animo tale per cui persino Volpi si rese conto che era meglio non irritarmi troppo. Infatti mollò la presa e tornò a sedersi. «Va' a casa, Jack. Tuo fratello era un bravo ragazzo. Stava simpatico a tutti, me compreso. Però è annegato.» «Stronzate! Non è annegato e tu lo sai. Frank, se non interessa a te, certamente interesserà alla stampa. Tenuto conto della gente che era alla festa l'altra sera, penso che Newsday non si lascerà sfuggire lo scoop. E nemmeno il Daily News. Forse nemmeno il grande New York Times.» L'espressione di Volpi si indurì. «Non ti conviene.» «Perché no? Cos'ho da perdere?» «Da' retta a me, Jack. Non lo fare e basta.» 12 Ero piuttosto alterato e decisi di tornare sul luogo del delitto. Il mare si era calmato, ma era ancora troppo grosso perché a mio fratello potesse essere venuta voglia di tuffarcisi. Poi andai a vedere come stavano mio padre
e mio nonno. Si sentivano talmente male che erano a letto. Eppure erano solo le nove e mezzo. Dana mi aveva lasciato un messaggio. Arrivai al Memory Motel alle dieci passate e a quel punto praticamente tutti i membri del club dei nati-e-cresciuti-lì erano seduti intorno a un tavolo rotondo in fondo al bar. Ve li presento. Contro il muro, sotto lo specchio sbreccato, c'era Fenton Gidley. Cresciuto a quattro case di distanza dalla mia, era il mio migliore amico da prima ancora che imparassimo a camminare. Alto un metro e novanta per cento e passa chili di peso, Fenton era cresciuto parecchio, da allora. Si sarebbe potuto iscrivere alla Hofstra, alla Syracuse e persino alla Ohio State, che gli avevano offerto una borsa di studio per meriti sportivi, ma aveva preferito prendere il peschereccio di suo padre e stare al largo di Montauk Point a volte anche per giorni, a pescare pesci spada e tonni che vendeva ai giapponesi. Alla sua sinistra c'era Marci Burt, che progettava e curava i giardini di Calvin Klein, Martha Stewart e Donna Karan e di qualche altro multimilionario meno trendy. Un tempo io e Marci facevamo coppia fissa: avevamo tredici anni. A destra di Marci era seduta Molly Ferrer, maestra elementare che lavorava anche per Channel 70, una rete TV di East Hampton. Fenton, Marci e Molly erano stati miei compagni di scuola al liceo. Tutti i miei amici riuniti intorno al tavolo avevano tagli di capelli sorprendentemente curati e il merito era del ragazzo praticamente calvo di fronte a loro: Sammy Giamalva, detto «Sammy il parrucchiere». Aveva cinque anni meno di noi ed era il migliore amico di Peter. Quando eravamo piccoli, Sammy da noi era di casa. E continuava a essere uno di famiglia. Appena li raggiunsi, tutti si alzarono ad abbracciarmi. Avevamo appena finito di scambiarci effusioni che arrivò l'ultimo membro della compagnia, la persona più sincera che io abbia mai conosciuto. Hank Lauricella. Lauricella, chef a tempo pieno e volontario per la pubblica assistenza part-time, era di turno la sera in cui Peter era morto ed era intervenuto sul posto. Intorno a quel tavolino malconcio c'erano i cinque amici di cui più mi fidavo al mondo. Arrabbiati e confusi quanto me per la morte di mio fratello. «Non è stato assolutamente un incidente», dichiarò Molly. «Figurati se Peter o chiunque altro si sarebbe tuffato di notte in un mare così.» «Secondo Volpi, si è ammazzato», disse Sammy, il primo gay che non
faceva mistero di esserlo che avessimo mai conosciuto. «Ma noi sappiamo che non è così.» «Infatti. Eravamo convinti che se la spassasse più di noi tutti messi assieme», intervenne Fenton. «E adesso dovremmo credere che invece era disperato?» «Sì, ma allora cos'è successo?» domandò Marci. «Chi gli voleva del male? Che qualcuno volesse prenderlo a schiaffi, d'accordo, ma...» «Be', qualcosa è successo. A parte Jack, nessuno di voi ha visto il corpo», disse Hank. «Io sono rimasto vicino a Peter quattro ore, quella notte, e vi giuro che sembrava che lo avessero ammazzato di botte. Frank Volpi non lo ha voluto nemmeno vedere. Non è neanche salito sull'ambulanza.» «Volpi se ne vuole lavare le mani», intervenne Fenton. «Ha paura di dar fastidio a quelli che muovono i fili, i suoi e quelli di tutta la città.» «Allora forse conviene che facciamo noi qualche domanda in giro», proposi io. «Visto che non interessa a nessun altro.» «Ci sto», approvò Molly. «Io conosco praticamente tutti quelli che lavoravano alla festa l'altra sera», disse Fenton. «Qualcuno avrà pur visto qualcosa.» «Se volete, posso indagare un po' anch'io», fece Sammy. Alzammo i boccali di birra. «A Peter.» 13 Improvvisamente al nostro tavolo tutti si zittirono. Fu come se il capo avesse appena fatto la sua comparsa nella stanza in cui gli operai stavano organizzando uno sciopero. Mi voltai e vidi Dana. In realtà il Memory Motel non è un vero e proprio bar. E nemmeno un vero e proprio motel. Ha diciotto stanze che danno su un distributore di benzina e diversi altri negozi. Si narra che ai tempi in cui esistevano ancora quei cosi rotondi e neri che si chiamano dischi, un gruppo chiamato Rolling Stones una notte si fermò in questo motel e lo immortalò in una canzone. È in Black and Blue, è stata scritta nel 1976 e viene suonata spesso, nel bar. La custodia dell'LP è appesa al muro accanto a una copia degli appunti presi nello studio di registrazione. We spent a lonely night at the Memory Motel, It's by the ocean (sort of), I guess you knew it well.
Per amor di giustizia va detto che il Memory ha una gran bell'insegna: caratteri gotici, scritta nera come il carbone. In ogni caso, Dana quella sera attirò l'attenzione di tutti, come se al bancone si fosse avvicinato Mick Jagger. Eppure era in blue-jeans e maglietta. Mi alzai e le andai incontro. «Immaginavo che ti avrei trovato qui», mi disse. «Ti ho cercato a casa. Sono dovuta andare a New York, stamattina.» Ci sistemammo su due sgabelli liberi in fondo, vicino a un signore di mezz'età che beveva alternativamente birra e liquore e aveva un berretto dei St. Louis Cardinals calato sugli occhi. «Mi trovano un sacco simpatica, eh?» disse guardando in tralice i miei amici al tavolo. «Sono molto riservati.» «Se preferisci, me ne vado. Volevo solo sapere come stavi. Come ti senti, Jack?» «Non molto bene. Per questo mi fa piacere che tu sia qui.» Mi chinai a darle un bacio. E perché no? Aveva una bocca così morbida... E due occhi non solo belli, ma anche intelligenti. Mi piaceva da quando avevo quattordici anni e non riuscivo ancora a credere che stessimo davvero insieme. I miei amici non erano esattamente bendisposti nei suoi confronti, ma ero certo che avrebbero cambiato idea, appena l'avessero conosciuta meglio. Pagai da bere, salutai la compagnia e uscii con Dana. Invece di incamminarsi verso la sua automobile, lei mi prese per mano e mi accompagnò lungo una stradina lastricata. Dopo aver trafficato un po' con una chiave, aprì la porta della camera numero 18, in tutto il suo promettente splendore. «Spero che non ti dispiaccia», mi sussurrò. «Mi sono presa la libertà di chiedere la suite riservata alle lune di miele.» 14 Il Risolutore aveva voglia di un bel Martini cocktail con Tanqueray e scorza di limone, ma visto che il barista ci aveva messo una vita a servirlo, quando finalmente era toccato a lui si era accontentato di una Budweiser e una tequila. Si era seduto su un logoro sgabello al centro del bancone e si era calato il berretto dei St. Louis Cardinals sugli occhi. Sorseggiava la birra e osservava.
Se voltava appena la testa, intravedeva il gruppetto che complottava a un tavolino in fondo. Sembravano così sinceri che si chiedeva se appartenessero alla sua stessa specie. Cercò di osservarli tutti, a uno a uno, per capire chi gli avrebbe dato più filo da torcere. Il ragazzo con il giubbotto di jeans e la barba del giorno prima era il più grosso. Doveva essere almeno un metro e novanta e pesare cento e passa chili. Un tipo sportivo, si vedeva. La ragazza che era arrivata sulla Porsche amaranto sembrava una tosta. E, ovviamente, Mullen poteva essere pericoloso, soprattutto nello stato in cui era. Indubitabilmente il più intelligente della compagnia, aveva preso malissimo la morte del fratello. Quando finalmente i moschettieri ebbero finito di bere, ridere e piangere, lui era lì da tre ore e aveva le gambe intorpidite. Vide Lauricella e Gidley andare via sul furgone del primo e la Burt salire sulla sua Porsche. Stava per seguire Molly Ferrer fino a casa quando notò Dana e Jack che si allontanavano dal bar insieme. «Una ragazza da un milione di dollari in un motel da sessanta dollari a notte?» borbottò fra sé. Dana Neubauer e Jack Mullen: prima o poi gli sarebbe toccato risolvere anche quel pasticcio, ne era sicuro. 15 Il giorno del funerale di Peter fu il peggiore della mia vita. Era una settimana che mi aggiravo come un fantasma, svuotato, fuori della realtà. Quando tornai al lavoro, Pauline Grabowski venne a porgermi le condoglianze. Anche il Motociclista mi chiamò, per dirmi che gli dispiaceva. Per il resto, nello studio Nelson, Goodwin & Mickel l'atmosfera restò squisitamente professionale. Ogni sera, finito di lavorare, facevo ritorno all'appartamento in 114 Street, a due isolati dall'università, che dividevo con compagni di studi ormai tutti partiti per le vacanze. Mi coricavo sul materasso, l'unico genere di conforto rimasto in casa, e ascoltavo la radiocronaca delle disfatte degli Yanks trasmesse dalla piccola radio che possedevo da quando avevo dodici anni. Il venerdì sera andai a prendere l'ultimo treno dalla Penn Station. A Montauk non trovai Dana ad aspettarmi alla stazione, come invece avevo sperato nelle tre lunghe ore di viaggio. Visto che casa mia distava circa tre chilometri, decisi di percorrerli a piedi invece di chiamare mio padre perché venisse a prendermi. Speravo che una passeggiata mi facesse bene.
Un quarto d'ora dopo avevo superato le vetrine buie del centro e mi stavo incamminando sulla ripida salita che usciva dal paese. La notte era piena di stelle e i grilli facevano più chiasso delle automobili. Mi chiesi che cosa era successo a Dana. Passai davanti al rudere di pietra dove aveva sede la Historical Society e alla biblioteca pubblica, un edificio bianco, costruito negli anni '60, dove mi fermavo spesso a studiare, uscendo da scuola. Peter e io avevamo fatto quella strada migliaia di volte e conoscevamo ogni crepa nel marciapiede. L'avevamo percorsa a piedi, con lo skate, in bicicletta, sotto il sole e nella pioggia, a volte con Peter precariamente seduto sul manubrio della mia bici. Spesso avevamo fatto anche l'autostop, benché non ci fosse permesso. Dato il numero di ragazzi irlandesi senza macchina che d'estate fanno i benzinai e i camerieri negli alberghi e nei ristoranti, Montauk è uno degli ultimi posti d'America in cui gli automobilisti hanno l'abitudine di dare passaggi agli sconosciuti. Lasciai la Route 27 e imboccai Ditch Plains Road, passando dal parcheggio della spiaggia. Davanti a casa c'era il camioncino di mio padre. Probabilmente mio nonno era andato a spennare qualcuno a poker. Giocava una volta alla settimana e, se quando rincasava ero ancora in piedi, posava le vincite sul tavolo della cucina e preparava due scodelle di cereali che mangiavamo prima di andare a letto. Siccome le luci erano tutte spente, alzai la saracinesca del garage cercando di fare meno rumore possibile ed entrai in cucina. Presi una birra e mi sedetti a sorseggiarla al buio. Chiamai Dana, ma mi rispose la segreteria telefonica. Che cosa stava succedendo? Mentre ero seduto nella cucina fresca e buia, ripensai all'ultima volta che avevo visto Peter. Due settimane prima che morisse eravamo andati a mangiare in un bel ristorante in East Second Street. Ci eravamo scolati due bottiglie di vino rosso e ci eravamo divertiti un sacco. Cristo, Peter era un entusiasta. Un po' matto, ma simpatico. Non ero rimasto male nemmeno quando la cameriera gli aveva scritto il proprio numero di telefono sul collo. Chissà perché, mi ritrovai a pensare al caso del Motociclista di cui mi stavo occupando, a che effetto doveva fare vivere nel braccio della morte in un penitenziario del Texas. Quel che Peter e il Motociclista avevano in comune era lo scarsissimo valore che le autorità davano alla loro vita. Quella del Motociclista contava talmente poco agli occhi del governo da non meritare neppure un approfondimento, giusto per accertarsi di non
mandare a morte la persona sbagliata. E il fatto che qualcuno potesse aver ucciso Peter era così poco importante che non valeva neppure la pena di indagare. Le mie riflessioni furono bruscamente interrotte da un rumore al piano di sopra. Ma che cosa...? Qualcuno doveva aver rotto il vetro della finestra della camera di Peter e rovesciato il comò. Presi la padella di ghisa e salii le scale di corsa. 16 La porta era chiusa, ma dalla camera di Peter proveniva un gemito. Cercai di aprire, con fatica, perché qualcosa me lo impediva. Forzai e vidi due gambe stese sul pavimento. Benché fosse buio, capii subito che era mio padre. Accesi la luce. Stava male, era in difficoltà. Doveva aver avuto un malore ed era caduto per terra. Era questo il frastuono che avevo sentito. Si contorceva sul pavimento come impegnato in una lotta contro un avversario invisibile. Gli misi un braccio intorno alle spalle e gli sollevai la testa, ma non poteva vedermi. Sembrava un bambino piccolo che avesse avuto un incubo. Aveva gli occhi sbarrati, come fissi su un dolore lancinante al petto. «Papà, hai un attacco di cuore. Chiamo l'ambulanza.» Corsi al telefono. Quando tornai da lui, aveva gli occhi ancora più sbarrati e respirava a fatica. «Resisti», gli sussurrai. «Stanno arrivando i soccorsi.» Era di un pallore spaventoso, quasi terreo. A un certo punto smise di respirare e rovesciò gli occhi all'indietro. Gli spalancai la bocca e ci soffiai dentro. Niente. Uno, due, tre. Niente. Uno, due, tre. Niente. Sentii uno stridore di pneumatici e quindi dei passi sulle scale. Un attimo dopo Hank era in ginocchio accanto a me. «Da quanto è in questo stato?» «Tre, quattro minuti.» «Okay. Allora ce la può ancora fare.»
Aveva il defibrillatore portatile in una scatola di plastica bianca grossa come la batteria di un'automobile. Applicò gli elettrodi a mio padre e gli diede una scarica. A quel punto ero io quello che aveva problemi a respirare. Stavo a guardare mio padre, incredulo e obnubilato. Non era possibile. Doveva essere andato in camera di Peter per ricordare. A ogni scarica del defibrillatore, il corpo di mio padre era percorso da uno spasmo. Ma l'elettrocardiogramma restava piatto. Dopo la terza scarica, Hank mi guardò scioccato. «Jack, è morto.» PARTE SECONDA L'INDAGINE 17 Il funerale di mio padre fu celebrato il lunedì successivo nella chiesa di Santa Cecilia. Un migliaio di persone si strinsero nella cappella di pietra o restarono fuori della porta, in piedi. Nessuno fu più stupito di me della solidarietà dimostrata dalla cittadinanza in occasione della morte di mio padre. Era un uomo riservato e modesto, tutt'altro che estroverso, e per questo avevo sempre dato per scontato che nessuno lo apprezzasse abbastanza. Ma mi sbagliavo. Monsignor Scanlon ripercorse la storia di John Samuel Sanders Mullen che, all'età di sedici anni, aveva lasciato l'Irlanda e da solo era arrivato a New York, dove era andato a stare con dei parenti in un appartamento già sovraffollato di Hell's Kitchen. I suoi genitori erano riusciti a raggiungerlo soltanto tre anni dopo, quando mio padre aveva ormai interrotto gli studi e faceva l'apprendista falegname. Per anni aveva mantenuto tutta la famiglia. «Aveva sedici anni e lavorava ottanta ore la settimana. Ve lo immaginate?» domandò il monsignore ai fedeli. Cinque estati dopo Sam e sua moglie, Katherine Patricia Dempsey, cercando sollievo dall'afa della città, erano saliti su un treno per Long Island ed erano scesi all'ultima fermata. Quel piccolo villaggio di pescatori ricordava a mio padre quello che aveva lasciato nella contea di Clare. «Due settimane dopo, con tutto l'entusiasmo e le speranze della gioventù, raccolse armi e bagagli per la seconda volta in otto anni e si trasferì a Montauk», disse il sacerdote.
Mi ero chiesto spesso perché mio padre mostrasse così scarso interesse per la corsa all'oro degli Hamptons. In quel momento capii che, quando era arrivato a Long Island, aveva voglia di godersi i frutti delle sue fatiche, piuttosto che continuare a rincorrere la fortuna. «Da quando i Mullen si trasferirono in paese ho avuto occasione di andare nella casa costruita da Sam in Ditch Plains Road diverse volte», continuò monsignor Scanlon. «Aveva tutto quello che un uomo può desiderare: una bella casa, una moglie ancor più bella, un lavoro onesto e due figlioli meravigliosi. Peter era l'atleta più dotato della città e Jack stava già dimostrando di avere le capacità accademiche che lo avrebbero poi portato alla Columbia Law School. Poi, la tragedia. Prima la morte prematura di Katherine Patricia, per un tumore. E, la settimana scorsa, la morte ancora inspiegata di Peter, che venerdì ha letteralmente spezzato il cuore a Sam. Vedere la mano del Signore in questo disegno è assolutamente fuori della nostra portata. Io mi sento di dire soltanto che questa vita, per quanto breve, spesso troppo breve, è preziosa più di ogni altra cosa.» Mack, Dana e io eravamo seduti nel primo banco. Dietro di noi la gente piangeva, ma Mack e io avevamo gli occhi asciutti, perlomeno quella mattina. Per noi non si trattava di un disegno divino: quello era stato un omicidio. Chiunque aveva ucciso Peter era anche, almeno in parte, responsabile dell'attacco cardiaco che aveva stroncato mio padre. Mentre il sacerdote continuava la sua predica, avvertii il tocco della mano di mio nonno sul ginocchio. Alzai gli occhi e vidi la sua faccia sconvolta, la sua espressione indecifrabile. «Almeno due o tre cosette nel corso della nostra vita, 'preziosa più di ogni altra cosa', io e te le dobbiamo scoprire», mi sussurrò. «Con o senza l'aiuto di Dio.» Posai una mano sulla sua e gliela strinsi. Avevamo sancito un patto. Non sapevamo né come né quando, ma avremmo vendicato le morti di Peter e di mio padre. 18 Se già era stato un dramma far entrare mille persone in una chiesa costruita per ospitarne duecento, immaginate cosa fu trovarsi la stessa folla davanti a casa. Alle bevande pensò lo Shagwong, al cibo il Seaside Market e per sei ore gli abitanti di Montauk si avvicendarono nella nostra casetta. Ebbi la sen-
sazione che tutti quelli che negli ultimi vent'anni avevano conosciuto anche solo di vista mio padre e mio fratello quel giorno si fossero presentati al 18 di Ditch Plains Road per stringermi la mano e guardarmi negli occhi. Tutti gli insegnanti e gli allenatori di Peter, dalla scuola materna in poi, lo descrissero come un prodigio. E a cantare le lodi di mio padre pensarono i suoi fornitori, da quello che gli vendeva la legna a quello che gli portava i panini con la pancetta a pranzo. Anche i politici fecero la loro comparsa, in pompa magna. E così vigili del fuoco e poliziotti; persino Volpi e Belnap vennero a farmi le condoglianze. I Mullen di Montauk erano stati colpiti da una tragedia e tutti, in città, sentivano il bisogno di dimostrare loro affetto e partecipazione. Dalle nostre parti, la gente ha ancora un cuore. Nonostante ciò, dopo qualche ora, i volti cominciarono a confondersi l'uno con l'altro. Forse è proprio a questo che servono i funerali, a trasformare il dolore in un turbinio di immagini sfuocate. A distrarre, insomma. Dana andò via verso le sette. Non era una che beveva molto, e mi fece piacere che capisse che io dovevo stare con amici e conoscenti e bere con loro. I miei amici c'erano tutti. Dopo che gli altri si furono congedati, ci andammo a sedere in cucina. Fenton, Marci, Molly, Hank e Sammy, gli stessi con cui avevo bevuto quella sera al Memory. Avevamo incominciato tutti a fare le nostre indagini. Fenton aveva cercato di convincere il medico legale della contea, una sua ex fidanzata, che la morte di Peter non andava archiviata come un semplice annegamento. Io avevo parlato con alcuni miei conoscenti al Daily News e a Newsday per valutare la loro disponibilità a pubblicare un articolo sulla storia di Peter ed eventualmente a mandare qualcuno a fare un po' di domande in giro. «La gente mormora», dichiarò Sammy, che tagliava i capelli a tutti quelli che contavano in paese. «Anche i Neubauer cominciano a sentirsi a disagio. Pare che abbiano annullato la festa in programma per il Quattro luglio. Ufficialmente in segno di rispetto.» Ci congratulammo a vicenda. Era comunque qualcosa, no? I Neubauer avevano annullato una delle loro stramaledette feste. Non tutti avevano buone notizie, però. Tre sere prima Hank era andato al Nichols Café, dove lavorava come chef, e si era sentito dire che era licenziato. «Così, in tronco, senza nessuna spiegazione», ci raccontò. «La direttrice mi ha dato quel che mi doveva e mi ha fatto tanti auguri. Per due giorni
non ci ho visto dalla rabbia, poi una cameriera mi ha fatto capire molte cose. Il proprietario del ristorante è Jimmy Taravalla, uno che si occupa di venture capital e ha un patrimonio di centinaia di milioni. Pare sia culo e camicia con Neubauer. Va spesso alle loro feste. Secondo questa mia amica, dopo aver ricevuto una telefonata di Neubauer ha chiamato Antoinette Alois, la direttrice, e le ha detto di mandarmi via. Hasta la vista. In mezzo a una strada. In coda all'ufficio di collocamento.» «Ma non è tutto», intervenne Molly. «Anch'io ho chiesto in giro cos'è successo veramente quella sera sulla spiaggia. Be', l'altra sera sono stata seguita da una BMW fino a casa. E stasera la stessa macchina era parcheggiata davanti al mio portone.» «Non mi dire», fece Marci. «Ha seguito anche me. Roba da far accapponare la pelle!» «State molto attenti, ragazzi», raccomandò Sammy. «L'impero è capace di colpire ancora.» Quando anche l'ultimo intervenuto si congedò con le lacrime agli occhi, era mezzanotte passata. Mack e io ci sedemmo in cucina. Versai due whisky. «A Sam e Peter», dissi. «A noi due», fece Macklin. «Gli unici rimasti.» 19 Il giorno dopo il funerale di mio padre, mi svegliai con i postumi di una sbornia. Verso le undici decisi di andare da Dana, in parte per scusarmi di averla un po' trascurata il giorno prima, ma soprattutto perché avevo bisogno di qualcuno con cui parlare. Sapevo che i suoi erano ancora fuori città, altrimenti non credo che sarei andato alla villa. Che dire di quella «casetta al mare» in cui i Neubauer avevano già speso quaranta milioni di dollari? Una reggia, un paradiso terrestre. Ogni volta che entravo nel parco pensavo a quanto Dana amava quel posto. E non a torto: la villa, in stile georgiano, era circondata da alberi da frutta; c'erano due piscine, una più piccola per prendere il sole e una per nuotare, un roseto, un giardino all'inglese e un viale circolare davanti al portone d'ingresso che sembrava fatto esclusivamente per macchine d'epoca. Fermai la moto di Peter vicino al garage, spensi il motore e la lasciai lì. Sebbene Dana mi avesse detto più volte che potevo andare a casa sua quando lo desideravo, tutto a un tratto mi sentii a disagio. Cercai di scrol-
larmi di dosso quella brutta sensazione, ma non ci riuscivo. A giudicare dai rumori, qualcuno stava facendo il bagno in piscina. Da dove mi trovavo, vedevo la più grande delle due. Mi fermai di colpo sui miei passi, avvertendo una stretta allo stomaco. Dana stava uscendo dall'acqua con un ridottissimo bikini nero che era il mio preferito. Camminò agile e flessuosa sulle piastrelle dipinte a mano diretta a una delle sdraio a righe bianche e blu, sorridendo nel sole. Non riuscivo a credere ai miei occhi. Seduto sulla sdraio c'era Frank Volpi. E la cosa preoccupante era che non sembrava per niente stressato dal suo lavoro di ispettore. Anzi, era rilassato, abbronzato e tonico quanto Dana. Sempre sorridendo, Dana gli si andò a sdraiare vicino e gli posò una mano bagnata sulla pancia. Frank, scherzosamente, la bloccò afferrandola per il polso. Allora Dana gli si mise a cavalcioni e lo baciò sulla bocca. Mentre si baciavano, vidi solo che le mani di Frank le slacciavano il reggiseno del bikini sotto i capelli biondi. Avrei voluto voltarmi dall'altra parte, scappare via. Ma, prima che avessi il tempo di girarmi, il bacio finì. Dana guardò dalla mia parte e sono certo che mi vide prima che riuscissi a raggiungere la moto di mio fratello per tornare da dove ero venuto. 20 Per un po' guidai a velocità troppo sostenuta per le strade tortuose e trafficate di quei posti. Stavo male sul serio, a quel punto. Non tanto per me stesso, ma... Ma sì, anche per me stesso. Quando tornai a casa, erano le quattro passate. La casa era in condizioni pietose, dopo la veglia funebre del giorno prima. Pensai che era meglio che mi dessi da fare, prima che se ne occupasse Mack. C'era una busta appesa alla zanzariera. Il mio cuore si fermò. La presi e la aprii. Era rosa e profumata. Sul biglietto era scritto: «IL8400 Memory». Era troppo. Avevo già ricevuto quel genere di messaggi in codice. Dana voleva che ci incontrassimo al Memory Motel. Mi stava aspettando là. Le lettere e i numeri identificavano la targa della Mercedes di Dana. Anche la carta da lettere rosa e il profumo erano suoi.
Lo so, non sarei dovuto andare. Invece... invece andai. Forse in fondo sono un ingenuo. Forse sono troppo romantico, e questo mi si ritorce contro. Dana era già là. Ma il peggio era che sapeva che non sarei mancato all'appuntamento. Possibile che fosse tanto sicura di sé? Be', qualcosa forse potevo ancora fare. Aprii la portiera dalla parte del passeggero e mi chinai verso di lei. La Mercedes odorava ancora di nuovo, oltre che del profumo di Dana. «Sali, Jack. Ti devo parlare», mi disse in un sussurro. La mano sottile e perfettamente curata mi indicò il sedile. «Sto bene dove sono», replicai. «Benissimo.» «Non è come immagini, Jack.» Scossi la testa. «Ma certo. Sono andato a farmi un giro, dopo essere passato da te, e ho capito. Ieri ti ho visto che parlavi con Volpi, a casa mia. Te ne sei andata verso le sette, più o meno alla stessa ora in cui è andato via lui. Per il resto, temo che tu mi debba dare qualche spiegazione.» Non so come, ma Dana sembrava arrabbiata con me. «È venuto a casa nostra stamattina, Jack. Non ieri sera. Ha detto che si trattava dell'indagine, si è portato il costume da bagno. Sai com'è fatto Frank.» «E così l'hai invitato a fare un tuffo in piscina? Poi, si sa, da cosa nasce cosa...» Dana scosse la testa. «Jack, non puoi pensare che Frank Volpi mi interessi.» «E allora perché pomiciavi con lui? È questo che mi piacerebbe sapere.» «Senti, Jack. Mio padre mi ha insegnato una cosa: la vita non è mai giusta. Ecco perché lui vince sempre. Dipende da come si gioca, Jack. Perché la vita, di fatto, è un gioco.» «Dana...» Fece un gesto come a dire che era inutile insistere e mi sorpresi a pensare che non l'avevo mai vista così. «Lasciami finire. So che il tempismo non è dei migliori, ma è da un po' che ci penso. Forse è per questo che non sono venuta a prenderti alla stazione, venerdì. Jack, io ho bisogno di spazio, di avere del tempo per me e... Vado in Europa per un paio di mesi. Non ci sono mai stata.» «Neanch'io, se è per questo», replicai. «Non scappo dai problemi, di solito.» «Jack, per favore, non rendere tutto più difficile. Perché lo è già molto, per me.» Si mise a piangere. Non riuscivo a credere a quello che stava ac-
cadendo. Era troppo brutto per essere vero. «E Volpi viene in Europa con te?» le chiesi dopo un po'. Ma non aspettai che mi rispondesse. Le sbattei in faccia la portiera e me ne andai. Avevo appena rotto con la mia ragazza. 21 Quella notte non riuscii a dormire, assillato com'ero da pensieri angoscianti e da immagini spaventose. A un certo punto mi alzai e riordinai la casa. Tornai a letto verso le cinque. Al mattino presi la BMW e feci un'ora e mezzo di strada fino a Huntington per andare a parlare con il concessionario dove mio fratello l'aveva acquistata. Pensavo che avesse ottenuto il finanziamento da lui e speravo che, se mi fossi presentato con la moto e gli avessi spiegato cos'era successo, fosse disposto a ricomprarla a un prezzo ragionevole. Trovai un unico venditore, un uomo corpulento sui trentacinque, con la coda di cavallo. Lo osservai mentre convinceva una coppia di pensionati a comprare una BMW Luxury Tourer grigio metallizzato. «Piacere, Bags», mi disse quando ebbe finito di parlare con i due signori. «Anche se non capisco che cosa possa fare per lei, dato che l'ho vista arrivare sul mezzo più bello, potente e benfatto del mondo. Che coincidenza incredibile! Ho venduto un modello identico, dello stesso colore, a un tipo di Montauk meno di due mesi fa. Anche lui aveva richiesto una sella nera della Corbin.» Gli spiegai che non era una coincidenza e Bags mi posò una mano sulla spalla. «Mi dispiace. Senta, penso che le converrebbe mettere un annuncio sul New York Times e venderla privatamente.» «Devo trovare un modo per pagare il finanziamento, però», ribattei. Bags sgranò gli occhi. «Quale finanziamento? La moto è stata pagata per intero, a quanto mi risulta.» Andò a cercare la pratica sulla scrivania ingombra di carte. «Ecco qua. Peter Mullen mi firmò un assegno per millenovecento dollari come caparra, il dieci per cento del totale», mi disse, mostrandomi la fotocopia. «E versò il resto in contanti.» Forse Bags pensava di darmi una bella notizia, ma si accorse subito che per me non lo era. «Senta, se uno viene qui e mi paga, io gli do quello che mi chiede. Vendo persino ai repubblicani, quando gli affari vanno male», scherzò. L'assegno era di una banca di Ronkonkoma, sei uscite di autostrada oltre Long Island. Sapevo dov'era. Quando eravamo piccoli, una volta a mio pa-
dre si guastò il camion lì nei pressi e ci toccò passare mezza nottata in un'officina. Ci piaceva il nome di quel posto, che da allora entrò nel nostro lessico familiare. Nel giro di dieci minuti ero a Ronkonkoma, per la seconda volta nella mia vita, seduto di fronte alla direttrice dell'agenzia della Bank of New York, Darcy Hammerman. Mi disse che aspettava una mia chiamata. «Lei è l'unico beneficiario di Peter Mullen, quindi l'importo sul conto è suo. Posso farle un assegno anche ora, a meno che lei non decida di lasciare il denaro qui a Ronkonkoma.» Prese un libretto degli assegni che sembrava un album di fotografie e ne compilò uno con la grafia ordinata dei bancari. Mise un timbro sul retro che diceva: PER VERSAMENTO SU UN DEPOSITO BANCARIO, lo staccò e me lo porse. Erano 187.646 dollari. Lessi la cifra sbalordito. Sbattei le palpebre. Non mi sentivo così male da... be', dal giorno prima. Ma come aveva fatto Peter a procurarsi tanti soldi? 22 Sentivo il bisogno di parlare con un amico e sapevo dove trovarlo. Anzi, avevo addirittura preso un appuntamento. Sammy Giamalva aveva nove anni quando aveva dichiarato a mio fratello di essere omosessuale. A undici aveva deciso che da grande voleva fare il parrucchiere. Forse era stato per questo che, pur essendo uno dei ragazzi più in gamba della scuola, Sammy non aveva mai preso voti molto alti. A quindici anni aveva smesso di studiare ed era andato a lavorare al salone di Kevin Maple. I primi sei mesi aveva spazzato per terra, poi era stato promosso shampista. Sei mesi dopo Xavier se n'era andato sbattendo la porta a metà di un taglio e Kevin aveva permesso a Sammy di provare a finirlo. Con i risultati che tutti noi conosciamo. Ma Kevin lo sfruttava, fissava appuntamenti con dieci o undici clienti al giorno, e dopo un po' alla gratitudine si era sostituito il risentimento. Tant'è vero che, tre mesi prima, Sammy se n'era andato e aveva aperto un salone tutto suo a Sag Harbor. Sammy tagliava i capelli gratis a Peter la domenica e in un momento di debolezza, al funerale, aveva promesso lo stesso trattamento anche a me e a mio nonno. Avevo preso subito appuntamento e, tornando da Ronkonkoma, mi fermai davanti al salone.
Sammy mi accolse con un abbraccio e quindi mi fece sedere davanti a un enorme specchio dorato. «Come li vorresti?» mi chiese con le forbici in mano. «Date le circostanze, lascio fare a te. Esprimiti liberamente.» Sammy si mise subito al lavoro, seguendo un ritmo a quattro tempi: taglia, sposta, pausa, tocca. Vedevo ciocche scure spargersi sul pavimento. Lo lasciai lavorare in silenzio per un po', poi gli feci la domanda cruciale, quella la cui risposta temevo di sentire da quando ero uscito dalla banca. «Peter spacciava?» Cercai i suoi occhi nello specchio. Ma Sammy non alzò la testa. «No, no. Fumava, ma non spacciava.» «E come ha fatto a comprarsi la moto e a mettere in banca centottantasettemila dollari? Tu lo sai?» Sammy posò le forbici. «Lascia stare, Jack. Non ne ricaverai niente di buono.» «Mio fratello è stato ammazzato, non posso lasciar perdere. Credevo che tu volessi darmi una mano.» Sammy mi massaggiò dolcemente la nuca. «Okay, ti dirò la verità, allora. Peter si dava parecchio da fare.» Si schiarì la voce e parlò lentamente, come un padre che spiega al figlioletto come nascono i bambini. «In un modo o nell'altro, tutti ci guadagniamo la pagnotta servendo i ricchi. È così, Jack. Be', Peter faceva dei servizi un po' speciali.» Mi stava venendo la nausea. E anche un po' di paura. Ebbi l'impulso di andarmene a metà taglio. Volevo bene a mio fratello, ma forse non lo conoscevo veramente. «Faceva il gigolo? E questo che mi stai dicendo?» Sammy alzò le spalle. «Non è che si facesse pagare a ore, Jack. Ma vendeva i suoi servizi ad alcune delle signore più ricche di questo nostro mondo ricco e disinibito ed era piuttosto ricercato. Credevo che lo sapessi. Pensavo che Peter ti dicesse tutto. Certo immaginavo che non ti avesse confidato che una delle sue clienti era la tua futura suocera, Campion Neubauer, e forse anche Dana. Ma prima che tu e lei vi metteste assieme, Jack.» 23 Quando lasciai il salone di Sammy, mi fermai in un bar che si chiama Wolfies, che si trova nella zona più boscosa degli Hamptons, dove Jackson Pollock dipingeva, beveva e andava a sbattere con la macchina.
Ordinai un caffè nero e una birra e mi sedetti a pensare alla mia giornata e a che cosa fare. Alla fine presi un foglietto stropicciato dal portafogli e chiamai il numero che era appuntato sopra. All'altro capo mi rispose la voce limpida della dottoressa Jane Davis. Non la vedevo né le parlavo da dieci anni, ma ai tempi del liceo eravamo amici. Allora, con grande sorpresa di tutti, la timida e brillante studentessa che avrebbe poi vinto una borsa di studio per la facoltà di medicina stava con il mio amico pescatore Fenton Gidley. Jane aveva tenuto il discorso di commiato alla fine del liceo, poi aveva frequentato la State University of New York di Binghamton e in seguito la Harvard Medicai School. Fenton mi aveva raccontato che aveva fatto un paio d'anni di internato a Los Angeles e diretto il reparto di traumatologia di un ospedale di Saint Louis, ma a un certo punto non aveva più retto. Adesso era il capo dell'Istituto di medicina legale della contea di Suffolk e del reparto di medicina legale del Long Island Hospital. Jane doveva fermarsi ancora un'ora in laboratorio, ma mi spiegò dove abitava, a Riverhead, e mi chiese di raggiungerla più tardi. «Se arrivi prima di me, porti Iris a fare un giro, per favore?» mi chiese. «Le chiavi sono sotto la penultima fioriera. Ah, non ti preoccupare: non morde.» Feci in modo di arrivare prima di lei e Iris, un esemplare molto bello di weimaraner, mi accolse con gratitudine. Sarà anche stata grossa come un dobermann, ma era dolcissima, per nulla aggressiva. Quando aprii la porta, si mise subito ad abbaiare di felicità e a saltare scivolando sul parquet con le unghie. Poi mi portò in giro per il quartiere un quarto d'ora, facendo pipì lungo invisibili confini canini. Quando la Volvo azzurra di Jane si fermò davanti alla casa, io e Iris eravamo seduti vicini, ormai amici per la pelle. Andammo tutti e tre in cucina, dove Jane offrì a Iris una ciotola di croccantini e a me una tazza di caffè. Per sé versò un bicchierino di porto. Non era più goffamente allampanata come la ricordavo, ma aveva una grazia da atleta e la stessa luce intelligente negli occhi. «Ultimamente le morti sospette a Long Island non sono state molte e quindi ho avuto tutto il tempo di dedicarmi a Peter», mi spiegò. Accarezzò la testa al cane e mi lanciò uno sguardo intenso. «E cosa hai scoperto?» le domandai. «Tanto per cominciare che non è annegato», rispose. 24
Jane prese da una consunta borsa di pelle una cartellina con la scritta «Mullen Peter 29/05» e la posò sul tavolo. Ne estrasse una busta di plastica trasparente con alcune diapositive a colori e ne mise una controluce. «Guarda qui», mi disse, strizzando gli occhi. «Queste sono cellule dei polmoni di Peter. Vedi la forma e il colore sul bordo?» Le diapositive illustravano un ammasso di cellule tonde delle dimensioni di una moneta da un centesimo, color rosa pallido. Jane prese un'altra serie di diapositive. «Questo invece è il tessuto polmonare di un uomo ritrovato nel Long Island Sound cinque giorni prima di Peter. Vedi come sono più grosse e scure le cellule? Questo perché una vittima di annegamento cerca disperatamente di respirare e si riempie i polmoni d'acqua. Il fatto che le cellule di Peter abbiano caratteristiche diverse fa pensare che sia finito in acqua dopo che aveva già smesso di respirare.» «Com'è morto, allora?» «Proprio come sembra a prima vista», rispose Jane rimettendo a posto le diapositive. «Ammazzato di botte.» Riaprì la spessa cartellina e prese un fascio di fotografie in bianco e nero. «So che hai visto Peter quella sera sulla spiaggia, ma l'acqua fredda inibisce gonfiore e illividimento. Ti avverto che qui è ridotto ancora peggio.» Mi porse le foto. La faccia di Peter era distrutta, contorta, irriconoscibile. Dovetti farmi forza per non voltarmi dall'altra parte. Quando l'avevo visto io era bello quasi come da vivo. Nelle foto, invece, la sua carnagione era di un grigiore innaturale e il corpo era ammaccato come un punching ball. Jane frugò fra le carte alla ricerca di alcune radiografie, che documentavano l'aggressione in termini di fratture. Peter ne aveva a decine. Con la punta della penna, Jane mi mostrò una lesione alla colonna vertebrale. «È questa che l'ha ucciso.» Scossi la testa incredulo. La rabbia che mi saliva dentro da due settimane stava diventando incontrollabile. «Che cosa bisogna fare allora per dimostrare che uno è stato ammazzato? Piantargli un proiettile nel cranio?» chiesi disgustato. «È una bella domanda, Jack. Ho mandato il mio referto al dipartimento di polizia di East Hampton e in procura due settimane fa. Ma non ho ancora avuto risposta.» Imprecai contro Frank Volpi per tutto il viaggio di ritorno. Lui aveva ricevuto il referto e non aveva fatto niente. Anzi, continuava a ribadire la versione dell'annegamento, del suicidio. Come poteva coprire una cosa si-
mile? Con chi avevo a che fare? Quando arrivai a casa, quella sera, trovai Mack che russava sul divano del salotto. Gli tolsi occhiali e scarpe, gli stesi addosso una coperta e lo lasciai dormire. Non potevo svegliarlo e dirgli che cosa avevo appena scoperto. Poi, tutto a un tratto, ebbi un'illuminazione. Andai in cucina e chiamai Burt Kearns, un giornalista dell'East Hampton Star che mi aveva lasciato il suo numero di telefono il giorno del funerale di mio padre. Dieci minuti dopo Kearns era sulla porta di casa mia con un registratore e due taccuini. «Perdio», esclamai. «Lei è più rapido dei ristoranti cinesi.» 25 Kearns doveva aver lavorato tutta la notte. Quando presi la copia dello Star sul gradino davanti a casa, vidi che lo scandalo era già scoppiato. Meno male. La notizia era in prima pagina. Il titolo poneva pubblicamente la domanda che mi tormentava da tanto tempo: COM'È MORTO PETER MULLEN? L'articolo riportava tutto quello che avevo detto a Kearns in cucina la sera prima, dall'assurdità dell'ipotesi che mio fratello o chiunque altro si fosse buttato in mare quella sera alla dimostrazione medico scientifica delle percosse ricevute. Si alludeva anche a una possibile relazione fra Peter e la signora Neubauer. L'articolo riferiva inoltre l'elenco di imperdonabili «no comment» da parte di Frank Volpi, che «si negava al telefono» e «si rifiutava di rispondere», e degli avvocati di Campion e Barry Neubauer e della Mayflower Enterprises. I Neubauer erano ancora all'estero, intenti a formalizzare l'acquisizione della fabbrica di giocattoli svedese, che non poteva certo essere rinviata per la morte di Peter. I toni aggressivi dell'articolo erano ripresi in un editoriale molto secco, in cui si chiedeva che venisse fatta chiarezza sulla morte di Peter. «Che la polizia di East Hampton non abbia interrogato Barry e Campion Neubauer sulla morte di un loro dipendente, avvenuta nella loro spiaggia privata, è quantomeno ridicolo.» E concludeva: «Questo episodio è un'inquietante conferma della troppo frequente inadeguatezza del nostro sistema giudiziario». Lessi tutto in una volta e poi lo feci leggere a Mack. «Almeno è un inizio», commentò.
La settimana successiva lo scalpore suscitato dall'articolo spazzò l'East End come un temporale estivo. Non si poteva entrare in un ristorante o in un negozio senza sentire parlare della vicenda. Naturalmente Fenton, Marci, Molly, Hank, Sammy e io facevamo il possibile perché si continuasse a parlarne. Quello che per me, al principio, era un più che lecito desiderio di appurare la verità e di fare giustizia si stava trasformando in un'ossessione. Ma la questione non rimase confinata alle pagine del nostro giornale locale. Il New York Magatine inviò un cronista e un fotografo, e due stazioni televisive newyorchesi mandarono in onda servizi quasi uguali con un reporter in impermeabile che percorreva al chiaro di luna la spiaggia dove era stato ritrovato il cadavere di Peter. Una sera ricevetti una telefonata di Dominick Dunne, il giornalista scrittore la cui figlia era stata assassinata alcuni anni prima e che era tornato in auge durante il caso O.J. Simpson. «Vanity Fair mi ha offerto di occuparmi della storia, ma io odio gli Hamptons d'estate», mi confidò. «Anch'io, ma non mi sembra un motivo per non seguire la vicenda. Mio fratello è stato assassinato.» «Ha ragione. Mi scusi se sono stato indelicato. Comunque, ho chiamato per dirle che non deve lasciargliela passare liscia, a quei bastardi.» Mi ricordava Mack. Allo studio Nelson, Goodwin & Mickel mi dedicai anima e corpo al caso del Motociclista. L'ingiustizia di quell'esecuzione e dell'insabbiamento dell'omicidio di Peter erano ormai inestricabilmente legate, nella mia testa. Preparai una replica di duecento cartelle alla decisione del giudice in merito alla nostra richiesta di effettuare il test del DNA. Il mio diretto superiore rimase entusiasta e mi disse che era il lavoro migliore mai presentato da un praticante. Non me ne stupii. Era per questo che volevo fare l'avvocato, da sempre. 26 Fenton Gidley era in mare aperto con il suo peschereccio quando il Risolutore gli si accostò a bordo di un Boston Whaler di sei metri. L'uomo spense il motore e chiamò il pescatore grande, grosso e con i capelli biondi che - combinazione - era il migliore amico di Jack Mullen. «Allora, Fenton, abboccano?» chiese in tono strafottente. Fenton Gidley alzò gli occhi e si vide di fronte un gigante con una cicatrice sulla guancia. Non c'era tempo per i convenevoli. «Ci conosciamo?»
Il Risolutore tirò fuori una Glock 9 millimetri e gliela puntò contro. «Ho la sensazione che rimpiangerai di avermi mai incontrato. Adesso ascoltami bene: alzati lentamente. Guarda guarda, questo fa tutto quello che gli dico. Bravo, mi piacciono i cretini ubbidienti. Adesso buttati in mare, Fenton. Avanti, salta giù o ti sparo in mezzo agli occhi. Ci proverei un gran gusto, te l'assicuro.» Fenton si tuffò, finì con la testa sotto e quindi riemerse. Aveva un paio di calzoni corti, una camicia hawaiana e scarponi da lavoro. Doveva assolutamente sfilarseli. «Non cercare di toglierti gli scarponi», gli intimò il Risolutore. Si chinò a guardare il ragazzo in acqua. E sorrise. «Oggi morirai. Per la precisione, morirai affogato. Vuoi sapere perché?» Evidentemente Fenton era più intelligente di quanto sembrava. Manteneva il sangue freddo, cercava una via d'uscita. Ma non ce n'erano. «L'omicidio di Peter Mullen?» chiese. Faceva già fatica a restare a galla. Il mare era agitato e freddo e gli scarponi lo appesantivano terribilmente. «Peter Mullen non è stato ucciso», ribatté il Risolutore. «È annegato. Come succederà a te fra poco. Io resterò qui a guardarti morire. Così non sarai solo.» E così fece. Tenne sotto tiro Fenton Gidley e lo osservò con moderato interesse, bevendo tè freddo dalla bottiglia e seguendolo con gli occhi imperturbabili di uno squalo. Fenton Gidley era un atleta e amava la vita. Resistette mezz'ora, prima di cominciare a bere. Fra la prima e la seconda bevuta il lasso di tempo fu molto più breve. Riemerse, sì, ma sputando e tossendo. «Peter Mullen è morto annegato», gli gridò il Risolutore. «L'hai capito, adesso? Capisci cosa vuol dire annegare?» Fenton stava cominciando a disperare, ma non voleva supplicare quel bastardo. Non era una gran soddisfazione, ma era meglio di niente. Andò sotto di nuovo, bevve, sentì che il petto stava per esplodergli. Si tolse gli scarponi - chi se ne frega - e li lasciò andare a fondo. Poi riemerse un'ultima volta. Avrebbe tanto voluto uccidere quel bastardo, invece sembrava proprio che sarebbe stato lui ad ammazzarlo. Non riuscì a capacitarsene quando, tirando a fatica la testa fuori dell'acqua, vide il Boston che si allontanava. «Mi devi un favore, Fenton», gridò il bastardo per farsi sentire sopra il rombo del motore. «Mi devi la tua stupida vita.»
Fenton recepì anche il resto del messaggio: Peter Mullen è morto annegato. Così doveva essere. Galleggiò sulla schiena per un po', cercando di ricuperare le forze. Poi tornò verso il peschereccio. 27 Per il Risolutore era stata una giornata faticosa ma produttiva. In calzoncini corti, maglietta extralarge e berretto dei St. Louis Cardinals con la visiera calata sui Ray-Ban, pedalava senza fretta lungo Ditch Plains Road. Passando davanti al numero 18, osservò bene la casa, mollò il manubrio e proseguì. «Guarda mamma, senza mani», disse al cielo limpido del pomeriggio. Poco più in là entrò nel parcheggio dell'East Deck Motel e lasciò la bici, che aveva preso a noleggio, vicino alla spiaggia. Con un tubetto di crema solare, l'ultimo romanzo di Grisham in mano e un grande asciugamano giallo sulla spalla, tornò verso il numero 18 fingendosi uno yuppie in vacanza. E lì arrivava il bello. A due case di distanza dal numero 18, tagliò per il cantiere di un edificio in costruzione e si diresse verso Ditch Plains Beach. Poi, come se tutto a un tratto gli fosse venuto in mente qualcosa, si voltò verso la porta di servizio dell'abitazione dei Mullen. Estrasse dalla tasca dei pantaloncini un filo d'acciaio flessibile e sondò la serratura. Dopo due tentativi andati a vuoto, si rese conto che la porta non era nemmeno chiusa a chiave. È un segno del destino, pensò entrando. Non lasciarti prendere la mano. Per mezz'ora seguì la raccomandazione che si era fatto da solo e frugò in cassetti, credenze e librerie. Ma non trovò ciò che cercava in nessuno dei posti più ovvi. E nemmeno nella dispensa e nella soffitta. Stava cominciando a sudare. In quella casa del cazzo non c'era nemmeno un condizionatore. Controllò dietro tutti i quadri, fra le copertine di vecchi dischi dei Beatles e dei Kingston Trio e in tutti gli armadi, pieni di cimeli della famiglia Mullen. Dove cazzo hai messo quella roba, Peter? È importante, stronzetto che non sei altro. È roba per cui si può morire. Guarda che i tuoi amici moschettieri rischiano di fare una brutta fine. Per non parlare di tuo fratello. Allora, dove cazzo è?
Dopo mezz'ora era di umore talmente nero che gli dispiacque vedere la Datsun di Mack fermarsi davanti al portone: se il vecchio l'avesse sorpreso a frugare per la casa, non avrebbe potuto far altro che ammazzarlo. Magari lo avrebbe ucciso comunque. Che Montauk piangesse un altro Mullen. Ma no, lasciarsi prendere la mano dalle emozioni era poco professionale. Aveva già fatto abbastanza casino, per quel giorno. Aspettò di sentire la saracinesca del garage che si alzava cigolando, poi uscì dalla porta di servizio e corse verso la spiaggia. Maledetto Peter. Dove cazzo hai nascosto quella roba? 28 Quel mercoledì mattina alle otto ero già nel mio piccolo ufficio di New York. Sembrava che fosse andato proprio tutto storto. Squillò il telefono. Prima ancora di sollevare la cornetta risposi: «Pronto?» Era Fenton che mi chiamava da Long Island. «Ciao, che piacere sentirti!» esclamai. «Non dirlo troppo forte», mi fermò lui. E mi raccontò quel che gli era successo il giorno prima. Quando ebbe finito di parlare avevo voglia di tornare di corsa a Montauk. Ma a che cosa sarebbe servito? «Non sai chi è stato?» «Quello che ha ammazzato Peter. Ci giurerei.» Dopo aver cercato di rassicurare Fenton e avergli raccomandato di stare attento, mi sentii terribilmente impotente. Sammy aveva ragione. L'impero avrebbe colpito ancora. E a farne le spese sarebbero stati i miei amici. Il momento più bello della mia giornata fu fra le nove e trentacinque e le nove e trentasette, quando Pauline Grabowski, l'investigatrice privata, fece capolino nel mio ufficio con un sacchetto di Krispy Kreme. «Ho comprato due paste e intendo mangiarne una soltanto», mi annunciò con un sorriso. «Sicura?» Sorrisi anch'io. «Sicurissima. Stai bene? Oggi si salva il Motociclista, o cosa?» «Lo spero proprio. Grazie del pensiero. E del dolce: ero in crisi ipoglicemica.» «De nada, Jack. È solo una pasta.» Il mio migliore amico aveva rischiato di annegare e io mangiavo paste corteggiando una bella ragazza. Non era giusto. Ma cosa potevo fare, d'altra parte?
A metà mattina ricevetti una telefonata dalla segretaria personale di William Montrose, Laura Richardson. Montrose, socio fondatore dello studio nonché presidente del consiglio di amministrazione, mi convocava nel suo ufficio. Dissi a me stesso che, se mi avessero voluto licenziare, a comunicarmelo sarebbe stato uno scagnozzo dell'ufficio del personale, non il potente Montrose. Ma non riuscii lo stesso a togliermi il gusto amaro dalla bocca. 29 L'ascensore si aprì al quarantatreesimo piano e io varcai la soglia del paradiso aziendale. La bellissima Laura Richardson mi stava aspettando. Alta, regale, l'afroamericana dalla pelle più lucida e scura delle rifiniture di mogano alle pareti mi sorrise e mi accompagnò nell'ufficio di Montrose. L'intero piano era avvolto da un silenzio e da una calma ultraterreni. «Non si preoccupi, non mi ci sono ancora abituato neanch'io», disse Montrose indicando la vista panoramica che si godeva dalla vetrata del suo ufficio. Lui e un altro socio dello studio, Simon Lafayette, erano seduti su divani di pelle nera e dietro di loro si vedeva Manhattan dalla United Nations Plaza al Williamsburg Bridge. Al centro del paesaggio brillava la guglia iridescente del Chrysler Building. Fra le altre cose, mi venne in mente Pauline Grabowski con il suo strano tatuaggio. «Conosce Simon, vero?» mi chiese Montrose indicando il socio con un cenno del capo. Non mi invitò ad accomodarmi. Appese a una parete c'erano foto di sua moglie e dei suoi cinque figli. In bianco e nero, sembravano ritratti ufficiali della famiglia reale. Il fatto stesso che fosse così prolifico era indicativo del potere di quell'uomo. «Stavo giusto parlando con Simon dello splendido lavoro che sta facendo per quel detenuto nel braccio della morte. Veramente ottimo. Abbiamo tutti molta stima di lei, Jack. Di questo passo, potremmo offrirle non solo un'assunzione a tempo indeterminato, ma addirittura di diventare socio dello studio.» A quel punto smise di sorridere e socchiuse gli occhi grigioazzurri. «Anch'io persi un fratello, qualche anno fa, quindi capisco quel che sta passando, Jack. Ma devo dirle una cosa che lei forse non sa, altrimenti dubito che si sarebbe comportato come ha fatto di recente. Barry e Campion Neubauer e la loro società, la Mayflower Enterprises, sono fra i migliori clienti di questo studio. Lei ha ottime prospettive di carriera, Jack», proseguì Montrose indicando la città dalla vetrata. «Gettarle al vento non
riporterebbe in vita né suo fratello né suo padre. Io la capisco, ma ci rifletta. Il ragionamento è logico e sono certo che lei può comprenderlo. Sappiamo quanto è impegnato, perciò la ringraziamo del tempo che ha voluto concederci.» Rimasi lì impietrito ma, mentre pensavo a che cosa rispondergli, Montrose si voltò verso Simon Lafayette. E io mi ritrovai a guardargli la schiena. Il mio tempo era scaduto: potevo andarmene. La bella Laura mi accompagnò all'ascensore. 30 Mentre aspettavo di scendere nel mio ufficio, provai tutto l'odio che un ventottenne può nutrire verso se stesso. Ed è un odio feroce. Entrai in ascensore, ma quando arrivai al mio piano, non trovai la forza di uscire. Guardavo il corridoio che portava al mio ufficio e mi prefiguravo vent'anni di morte civile che, se fossi stato abbastanza fortunato e abbastanza stronzo, mi avrebbero forse permesso di arrivare ai piani alti. Non mi vide nessuno, altrimenti penso che avrebbero chiamato la sicurezza. O un medico. Lasciai che le porte automatiche si richiudessero senza uscire. Si riaprirono nell'atrio di marmo al pianterreno. Con grande sollievo uscii in Lexington Avenue, piena di sole e di smog, e camminai per due ore per strade affollate, lieto di potermi mescolare fra la gente. La mia mente andò a Peter, a mio padre e all'avvertimento ricevuto da Fenton. Pensai anche a Dana e Volpi, alla villa sulla spiaggia, all'impero del male che si estendeva ben oltre lo studio Nelson, Goodwin & Mickel. Non sono uno che vede complotti da tutte le parti, ma che molti eventi accaduti di recente fossero collegati tra loro era innegabile. Mi ritrovai in un giardino pubblico che dava sull'East River. Era lo stesso fiume che si vedeva dalla vetrata di Montrose, che mi era stata mostrata come a dire che un giorno avrebbe potuto essere anche mia. Ma dal basso mi piaceva di più. Mi appoggiai alla ringhiera nera sulla sponda e mi domandai cosa dovevo fare. Quando avevo visto il Chrysler Building dall'ufficio di Montrose mi era venuta in mente Pauline. Essendo uno dei pochi in città a non possedere un cellulare, infilai una monetina in un rumorosissimo telefono pubblico e le chiesi se aveva voglia di pranzare con me. «In 50th Street, fra la 2nd e la 3rd Avenue, c'è una piazzetta molto carina,
con una fontana», mi rispose. «Comprati qualcosa da mangiare: ci vediamo lì. Perché mi hai chiamato, Jack?» «Te lo spiego quando ci vediamo.» Andai diretto in 50th Street. E così vidi Pauline che si faceva agilmente largo fra la folla con la testa bassa e la coda di cavallo che dondolava sulla giacca del tailleur blu. Nonostante tutto quello che era successo, mi ritrovai a sorridere. Pauline non camminava, sembrava danzare. Trovammo una panchina libera contro un muretto e Pauline scattò il suo panino integrale farcito con pollo. Era piuttosto grosso, per una donna così sottile. Lo sapeva anche lei. «Tu non mangi? È così che mantieni la linea: digiunando?» «Non ho fame», risposi. Le raccontai la mia visita di quella mattina ai piani alti mentre lei mangiava e mi guardava ora comprensiva, ora indignata. Quando accennai allo straordinario panorama con il grattacielo del suo tatuaggio, rise persino. New York pullula di donne piene di immaginazione e di stile, che sanno valorizzare al meglio le loro pur scarse doti fisiche. Pauline, invece, era bella ma senza ostentazione. In quel momento, con il viso illuminato dal sole, il suo splendore mi lasciò senza parole. Sapeva già che Neubauer era cliente dello studio e lei stessa aveva svolto alcune indagini. «Personalmente, lo trovo detestabile. Sarà anche affascinante, ma a me fa accapponare la pelle. La Mayflower è cliente di una prestigiosa agenzia di accompagnatrici», mi spiegò. «È abbastanza comune, fra le società di un certo livello. L'agenzia funziona un po' come una cooperativa: si fa domanda, si presentano le referenze e si investono come minimo cinquantamila dollari all'anno. Questo è risaputo.» Si interruppe, poi riprese: «Ma non tutti sanno che due anni fa una delle accompagnatrici più in dell'agenzia annegò. Pare che fosse scivolata fuoribordo durante una gita in barca con Neubauer e compagnia al chiaro di luna. Il corpo non fu mai ritrovato e lo studio Nelson, Goodwin & Mickel gestì la faccenda con tanta discrezione che sui giornali non se ne fece cenno». Feci una smorfia, guardando per terra. «Quanto vale la vita di un'accompagnatrice, allora?» domandai. «Cinquecentomila dollari. Più o meno come un monolocale. Quella ragazza aveva diciannove anni.» La guardai negli occhi, mentre finiva il panino e scuoteva via le briciole. «Perché mi hai detto questo, Pauline?» «Perché tu sappia in che trappola ti stai mettendo. Te ne rendi conto?»
All'improvviso ebbi un'illuminazione e non riuscii a trattenermi. «Pauline, mi dai una mano?» le chiesi, d'impulso. «Lavora per i buoni, una volta tanto.» «Non mi sembra la mossa ideale per fare carriera», replicò lei. «Ci penserò.» Si alzò e mi salutò. La guardai allontanarsi verso la 3rd Avenue e scomparire fra la folla. 31 «Non voglio l'ennesimo giardino all'inglese, bello ma formale, bensì un labirinto da cui ci vogliano due o tre giorni per uscire», insisteva eccitato Rob Coon. Marci Burt e il suo potenziale cliente, che si preannunciava una miniera d'oro, erano seduti al sole in uno dei séparé di Estia a bere latte macchiato e valutare una possibile collaborazione. Coon, rampollo trentenne di una famiglia arricchitasi costruendo e gestendo garage, spiegò dove aveva trovato la sua ispirazione. «L'altra sera ho noleggiato The Avengers - Agenti speciali. Uno schifo, a parte Uma Thurman. Ma il labirinto era da urlo.» «Mi sembra un'idea favolosa», replicò Marci. Ne era convinta, indipendentemente dal fatto che il progetto le faceva parecchio gola. «L'ideale sarebbe un labirinto che si possa modificare nel tempo, in modo che non diventi mai noioso.» Coon era raggiante. «Ottima idea», commentò. Cominciarono a discutere di sempreverdi, bibliografia sul tema, possibili esempi a cui ispirarsi. Stavano valutando l'opportunità di organizzare un sopralluogo in Scozia, quando Coon si interruppe a metà di una frase. Nel famoso ristorante di Amagansett era appena entrato Frank Volpi accompagnato da due uomini. Coon li seguì con lo sguardo fino al séparé in cui si andarono a sedere. «Li conosce?» domandò Marci. «Quello alto con la barba è Irving Bushkin, considerato da molti il miglior penalista d'America. Se mai dovessi uccidere mia moglie, mi farei difendere da lui. E quello alla sua sinistra è il procuratore distrettuale della contea di Suffolk, Tim Maguire.» Coon non conosceva Volpi, ma Marci sì e intuì che quell'incontro doveva avere a che fare con la morte di Peter. «Sa, Bob, questo è il lavoro più interessante che mi sia mai stato proposto. Ma, se mi concede trenta se-
condi, dovrei fare una telefonata urgente.» Mi chiamò in ufficio. E io telefonai a Kearns, dello Star. Meno di cinque minuti dopo, davanti al ristorante si sentì un grande stridore di pneumatici e Kearns si precipitò al tavolo di Volpi con il microfono in mano. «Come mai è in città?» domandò a Irving Bushkin. Non ottenne risposta, ma non si lasciò scoraggiare. «Rappresenta qualcuno? Chi? La sua visita ha a che fare con le indagini sulla morte di Peter Mullen?» Kearns è piccolo e cicciottello, con le mani grasse e lentigginose, e a vederlo non gli si darebbero due soldi. Invece è uno con le palle. Marci mi raccontò poi che li tempestò di domande finché Volpi non minacciò di arrestarlo per molestie. E comunque, prima di andarsene, tirò fuori una macchina fotografica e immortalò il terzetto. Ma il bello doveva ancora venire. Dopo che Kearns se ne fu andato, Megan, la cameriera che aveva preso l'ordinazione, si avvicinò al tavolo dei tre uomini e si scusò. «Mi dispiace, ma il piatto del giorno è finito.» «Sono solo le dodici e dieci!» protestò Volpi. La cameriera si limitò ad alzare le spalle. Dopo una serie di borbottii, i tre optarono per un sandwich triplo di tacchino. Di lì a breve Megan tornò al loro tavolo con aria contrita. «Abbiamo finito anche quelli», disse. «Purtroppo, non abbiamo più niente.» Volpi, Irving Bushkin e il procuratore distrettuale Tim Maguire se ne andarono furibondi. Mezz'ora dopo Marci ottenne la commessa: avrebbe realizzato l'unico vero labirinto all'inglese di tutti gli Hamptons. O almeno così pensava. 32 Per il Motociclista, e forse anche perché non ero ancora pronto a dire addio alle mie aspirazioni di carriera, tornai allo studio Nelson, Goodwin & Mickel e passai tutto il venerdì a lavorare all'istanza di appello. Al mattino rilessi per l'ennesima volta gli atti del processo e mi indignai dello scarso impegno del difensore d'ufficio. Andai a pranzo con Pauline, che mi disse che stava ancora riflettendo sulla mia offerta. Non so di cos'altro parlammo, ma a un certo punto ci accorgemmo che erano le tre e rientrammo di corsa in ufficio. Ognuno per conto proprio. Nel pomeriggio scrissi una risposta al giudice del Texas. Modestamente, la trovai convincente. Alle undici di quella sera ne mandai una copia per
posta elettronica a Exley. Benché fossi soddisfatto di com'era andata la giornata, appena montai in sella alla moto di Peter e mi calai la visiera del suo casco blu, la mia vita mi apparve come un video vecchio e deprimente. Non era il momento di fare un esame di coscienza, in realtà. Non riuscivo a ricordare di aver mai fatto un solo gesto generoso o altruista in tutta la mia vita. Di cose brutte, invece, me ne tornavano alla mente a bizzeffe. La peggiore risaliva a sette anni prima. Ero a Middlebury e avevo ventun anni. Peter ne aveva tredici ed era venuto a trovarmi al college durante le vacanze di Natale. Una sera mi feci prestare l'auto da un mio compagno per andare a comprare da mangiare in un ristorante cinese. Tornando al dormitorio, fummo fermati da un poliziotto perché avevo un fanale rotto. Evidentemente era di cattivo umore, e perquisì la macchina. Forse ci aveva preso per figli di papà e gli stavamo antipatici, come succedeva a noi di Montauk con quelli che venivano da fuori. Fatto sta che frugò dappertutto e alla fine trovò uno spinello. Gli spiegai che la macchina non era mia, che non avevamo idea che a bordo ci fosse della marijuana, ma lui non mi ascoltò nemmeno e ci portò in centrale per denunciarci per possesso di sostanze stupefacenti. Quando arrivammo, Peter dichiarò che lo spinello era suo e io non smentii. Secondo lui era la cosa più logica da fare: io volevo iscrivermi a giurisprudenza, mentre lui non aveva intenzione di andare all'università. Io ero maggiorenne, lui no. E quindi non potevano fargli nulla. Ma, naturalmente, quello che mi dispiaceva era l'aver accondisceso così prontamente. Che razza di esempio avevo dato a mio fratello minore? Ricordavo benissimo il momento in cui il poliziotto si era girato verso di me e mi aveva chiesto se lo spinello era veramente di Peter. Io mi ero limitato ad alzare le spalle. Ripensare a quell'episodio mentre guidavo la moto di Peter fu una pessima idea. Il rimorso mi bruciava talmente che fu un miracolo che non uscissi di strada. L'accusa di possesso di sostanze stupefacenti era decaduta nel giro di una settimana perché la perquisizione era stata irregolare. Non avevo mai detto a Peter quanto mi fossi pentito del mio comportamento. Qualsiasi cosa avesse fatto per finire ammazzato, forse ero stato proprio io, quella volta, a indirizzarlo su una brutta china. 33
Non erano nemmeno le dieci, quel sabato mattina in cui mi svegliai al piacevole suono di una risata di donna. Macklin stava attingendo alla sua scorta di storielle. A giudicare dalle risate che lo interrompevano, dovevano essere esilaranti. Mentre scendevo le scale mi chiesi chi potesse essere venuto a trovarci a quell'ora di sabato mattina: di certo doveva essere abbastanza giovane e bella, se mio nonno era così ispirato. Appena entrai in cucina, Pauline Grabowski mi sorrise. Era seduta al tavolo e sembrava a suo agio, come se venire a casa nostra a chiacchierare con Macklin fosse per lei un'abitudine. «Abbiamo un'ospite che sostiene di essere tua amica», mi annunciò lui. «Ma è talmente carina che la perdonerò.» «Non credevo che ti piacessero le donne tatuate.» «Neanch'io», replicò Mack con un certo imbarazzo. «Un errore durato ottantasei anni.» Dal modo in cui rideva capii che Pauline era affascinata da mio nonno. «Per piacere, non lo incoraggiare», le dissi. «È peggio che dar da mangiare agli animali dello zoo.» «Buongiorno, Jack», replicò Pauline. «Non hai una bella faccia.» «Grazie tante. Be', ho dormito male. Comunque, anche se non sembra, anch'io sono contento di vederti.» «Dai, prendi un caffè. E ottimo. E poi dobbiamo metterci al lavoro.» Riempii un bricco di caffè e lo portai fuori. Ci andammo a sedere sui gradini della veranda. Dopo la nottataccia che avevo passato, la visita inaspettata di Pauline mi sembrava quasi un dono del cielo: era così bella in maglietta, pantaloni tagliati sotto il ginocchio e scarpe da ginnastica rosse, che dovetti sforzarmi di non fissarla a bocca aperta. «Ecco cosa succede a lavorare per i buoni. Spero di non aver fatto un errore.» Prese due fogli di carta con un elenco di nomi ciascuno. «Questi sono tutti quelli che sono intervenuti alla festa dei Neubauer per il Memorial Day», mi disse porgendomi l'elenco più lungo. «E questi quelli che ci lavorarono.» Tra i primi nomi della seconda lista vidi scritto: «Peter Mullen, posteggiatore» e il nostro numero di telefono. «Come hai fatto a procurarteli?» le domandai. «Io ci ho provato, ma senza risultati. C'era troppa paranoia in giro.» «Ho un amico che è un mago del computer e non ha molti scrupoli. Gli sono bastati l'indirizzo e-mail dell'organizzatrice e il nome del suo sito.»
Seguì una pausa imbarazzante. Nonostante tutti i miei sforzi, la stavo fissando a bocca aperta. «Cos'hai da guardarmi così?» «Sono un po' sorpreso che tu abbia deciso di aiutarmi», risposi. «Anch'io. Ma un favore è un favore.» 34 «Cominciamo da quelli che erano là per lavorare», suggerì Pauline. «Quelli con cui non hai ancora parlato.» La prima telefonata a dare i suoi frutti fu quella a un altro parcheggiatore, Christian Sorenson. Rispose la sua compagna, seccata, dopo una decina di squilli. «Dovrebbe essere al Clam Bar a lavare i piatti», mi disse con l'aria di chi non ci crede. «Così ha detto, ma potrebbe essere ovunque.» Il Clam Bar è un locale pretenziosamente non pretenzioso fra Montauk e Amagansett. Servizio spartano, décor inesistente, ma è un cult, forse per la musica reggae e l'atmosfera. In agosto capita di dover aspettare un'ora per poterci pranzare a quaranta dollari a cranio. Pauline e io fummo fortunati perché trovammo posto al bancone. Ordinammo due piatti di chowder di pesce. Sembrava quasi che fossimo due innamorati. Vidi Sorenson chino sul lavandino. Dopo un po' uscì dalla cucina con un grembiule bagnato e guanti di gomma. «Meglio che non ti stringa la mano», mi disse. Gli presentai Pauline, la quale gli spiegò che stavamo cercando di capire meglio che cosa era successo a Peter la sera della festa. Christian sembrava contento di poterci aiutare. «Sono stato lì fino alla fine e mi sono stupito che nessuno avesse chiamato la polizia.» «È uno dei motivi per cui siamo qui», gli dissi. «Stanno trattando la faccenda come se fosse stato un incidente o un suicidio.» «No», ribatté Christian. «Penso che abbiano paura che sia coinvolto qualche pezzo grosso.» «Be', se la polizia ti avesse interrogato riguardo a quella sera, tu che cosa avresti detto?» domandò Pauline. Christian Sorenson incrociò le braccia muscolose e raccontò la sua versione dei fatti. Era abbastanza interessante. «Prima di tutto, Peter arrivò in ritardo come suo solito. Eravamo tutti un po' seccati con lui, però poi si diede da fare per ricuperare e si fece perdonare. Appena prima che scom-
parisse, Billy Collins, che faceva il cameriere, gli portò un biglietto.» «Come fai a saperlo?» domandò Pauline. «L'ho visto mentre lo apriva e lo leggeva.» «Hai chiesto a Billy Collins chi glielo aveva mandato?» domandò Pauline. «Ci ho pensato, ma non l'ho più visto, da quella sera.» «Sai dove lo possiamo trovare?» «Ho sentito che lavora al Maidstone Country Club. Sai che gioca a golf, no? Be', gli piacerebbe diventare un professionista e credo che lo lascino allenare gratis.» «È una buona idea», dissi. «Sicuramente meglio che fare il lavapiatti», fece Christian. «Grazie di tutto», gli disse Pauline. «A proposito, la tua ragazza ha detto di salutarti tanto.» «Davvero?» 35 «Complimenti!» esclamai, mentre tornavamo alla macchina. «È il mio mestiere, Jack. E comunque spesso è solo questione di fortuna. C'erano otto parcheggiatori, quella sera, e combinazione abbiamo cominciato da quello che aveva visto qualcosa. Dov'è il Maidstone? Possiamo andarci vestiti così?» Vivevo a Montauk da sempre, ma non avevo mai messo piede al Maidstone Country Club fino a quel pomeriggio. Peraltro, non ero il solo. Il campo da golf all'inglese con vista sull'Atlantico non è propriamente aperto a chiunque. Eppure, benché sia un circolo estremamente snob, non è difficile entrarci di nascosto. Non ci sono guardie all'ingresso, nessun cancello: due persone possono benissimo parcheggiare una vecchia Volkswagen davanti alla costruzione di pietra e dirigersi verso il campo. Basta avere l'aria di chi ha tutti i diritti di farlo, e nessuno ti dice niente. Non so se siete mai stati in un club tipo il Maidstone: vi si respira un'atmosfera di pace quasi innaturale, come se ogni cosa - dall'erba perfettamente curata al cielo senza una nuvola - avesse mandato giù un calmante a sorsi di Martini. Non mi dispiaceva per niente. Non fu difficile trovare Billy Collins. Era quello che inanellava colpi perfetti uno dietro l'altro. Oltre a essere l'unico giocatore in campo.
«Ciao, Jack. Hai visto che posto?» mi disse senza posare la mazza e indicando con un gomito il paesaggio idilliaco prima di colpire la palla. «È uno dei campi da golf più belli di tutta Long Island, ma i soci del club sono vecchi barbogi che hanno troppe case di villeggiatura fra cui scegliere, per cui è quasi sempre vuoto.» «Come va l'allenamento?» gli chiesi. «Di merda», rispose lui, mettendo a segno un altro colpo perfetto. Pauline gli si avvicinò, in maniera che interrompesse il gioco. «Volevamo parlarti, perché Christian Sorenson ci ha detto che consegnasti un biglietto a Peter, dai Neubauer, la sera in cui poi morì. E che subito dopo averlo ricevuto, Peter sparì.» Mi piacevano i modi di Pauline. Non faceva né la dura né la mielosa. Era se stessa e basta. «Di sicuro era uno strano biglietto», osservò Collins posando la mazza. «In che senso?» «Era rosa e profumato, ma me lo consegnò un uomo che stava parlando con un altro uomo.» «Tu li conoscevi?» «No, ma dalla stazza avrei detto che erano i personal trainer di Neubauer. A parte il fatto che non erano abbastanza agili e atletici. E non si davano da fare per cercarsi altri clienti ricchi. In più erano vecchiotti. Sulla quarantina.» «Perché non chiamasti la polizia?» gli domandò Pauline. «Quando trovarono il cadavere, telefonai tre volte a Frank Volpi, ma non lo trovai e lui non mi richiamò.» 36 Quando uscimmo dal Maidstone e imboccammo Further Lane, una delle strade più esclusive della zona, il cielo stava cominciando a rabbuiarsi. Further Lane è una di quelle vie in cui una casa da cinque milioni di dollari si nota per la sua modestia. Al suo livello ci sono solo West End Road, Georgica Pond e quartieri come Quelle Barn e Grey Gardens. «Fuori Detroit, a Birmingham e Auburn Hills ci sono posti elegantissimi, dove stanno i magnati delle automobili, i giocatori dei Pistons e dei Red Wings, ma ti assicuro che non è niente, rispetto a qui. Da bambina, a volte andavo a Birmingham solo per guardare le luminarie natalizie», mi disse Pauline. «Non hai idea degli eccessi di cui sono capaci certi riccastri, da queste
parti. Comprano ville da dieci milioni di dollari e le ristrutturano completamente.» Le costruzioni erano splendide e molto eleganti, ma c'era qualcosa di strano nel quartiere. Sembrava una cartolina, un paesaggio irreale con Ferrari al posto delle station wagon e senza l'ombra di un bambino. «Certo che viviamo proprio in uno strano periodo», commentai. «Crediamo tutti di essere a un passo dalla ricchezza, da quella vera. Forse è a causa di qualcosa che mettono nell'acqua potabile.» «Io gioco al lotto tutte le settimane», mi confidò Pauline. «E bevo acqua minerale.» Il discorso tornò sull'omicidio di Peter e sulle indagini. «Ho chiesto a tutti i miei amici di lasciar perdere le indagini», rivelai a Pauline. «E perché?» Le raccontai cos'era successo a Fenton quando era in mare a pescare, le spiegai che Hank era stato licenziato e che Marci e Molly erano state pedinate. Pauline si limitò ad annuire. «Ricordi che ti avevo avvertito, mio giovane amico?» «Ho ventotto anni, Pauline.» «Lo so», disse facendo di sì con la testa. Poi prese dalla borsa a tracolla un piccolo revolver. «Hai mai sparato a qualcuno? Ti hanno mai sparato addosso?» «E tu?» le chiesi. «Te l'ho detto. Io sono di Detroit.» La guardai mentre guidava, con i capelli scompigliati dal vento e la faccia allegra, e mi resi conto che la cosa migliore da fare era tacere e sorridere. Perché starle vicino mi rendeva felice. Nient'altro. «Resta a cena», le dissi. «Ti porto a mangiare la pizza da Sam. È ottima, te l'assicuro.» «Ti ringrazio, ma devo tornare a casa. Un'altra volta, magari.» «Quella con asparagi e pancetta è la migliore. Soddisfa lo yin e lo yang.» «Insisti?» «In realtà, quando si tratta di donne, tendo a scoraggiarmi fin troppo presto.» «Forse è meglio che impari a insistere, allora.» 37
La mia moto - immagino infatti che a quel punto potessi definirla mia era parcheggiata davanti a casa. Dopo che Pauline mi ebbe riaccompagnato, rimasi in piedi lì accanto a guardare le luci arancione della sua Volkswagen allontanarsi verso Manhattan. Era troppo presto per tornare a casa ed ero un po' deluso che Pauline avesse rifiutato il mio invito a cena. Mi piaceva molto e pensavo che lei ricambiasse i miei sentimenti. Ma naturalmente ero convinto di piacere anche a Dana, e mi ero sbagliato. Non sapevo dove andare, né con chi, perciò saltai in sella e partii. Appena fuori città, presi la Old Montauk Highway, strada trafficata e piena di salite e discese che da ragazzi Peter e io facevamo apposta per titillarci le parti basse. La chiamavamo «la strada del pisello», perché quando la percorrevamo a gran velocità, su e giù per dossi e cunette, faceva un certo effetto. Quella sera pensai a Peter e a Pauline, quando diedi gas e sentii il vento sulla faccia. Lunga vita alla strada del pisello, pensai. Mi immisi troppo presto sulla Route 27 con i suoi condomini in multiproprietà e i ristoranti alla moda. Ogni volta che salivo in moto mi pareva di guidare meglio, di piegarmi più agilmente nelle curve, di avere maggiore padronanza di frizione e acceleratore. Forse stavo prendendo da Peter. Quando uscii dalla 27 e imboccai Bluff Road, mi venne in mente che probabilmente Peter aveva fatto proprio quella strada la sera prima di essere ucciso. Non era una coincidenza. La villa dei Neubauer era a poco più di trecento metri di distanza. Vedendo il cancello aperto, senza riflettere rallentai ed entrai. Cento metri più avanti spensi luci e motore e proseguii lentamente verso la spiaggia. Lasciai la moto tra la vegetazione dell'ultima duna, mi tolsi le scarpe da ginnastica e mi sedetti sulla sabbia fredda in riva al mare. Tutto mi ricordava la sera in cui avevo visto il cadavere di Peter. Il riflesso della luna sembrava avere la stessa identica intensità. Le onde parevano frangersi con la medesima violenza. Mentre guardavo il panorama, la marea si alzò e l'acqua arrivò a sfiorarmi i talloni. Mi ritrassi con un brivido. Solo un orso polare si sarebbe avventurato in un mare tanto freddo. Istintivamente mi spogliai e, urlando come un pazzo, corsi fra le onde. Nessuno si sarebbe mai tuffato senza un buon motivo. E perché Peter avrebbe dovuto farlo? Mi sembrava il momento giusto per cercare di scoprirlo.
Il mare era spaventoso e gelido. Eppure era passato un mese da quando Peter era morto. Feci tre passi, con i piedi e le gambe indolenziti dal freddo. Ma continuai a correre verso le onde. E mi tuffai. In stato di shock, mi misi a nuotare furiosamente verso il mare aperto. Contai trenta bracciate. Quando mi fermai, ero al largo. La riva sembrava paurosamente lontana. Rimasi immobile per un tempo che a me parve durare parecchi minuti, e forse invece fu per pochi secondi. Respiravo lentamente, profondamente, abituandomi al freddo. Peter non avrebbe mai fatto una cosa del genere. No di certo. Lui odiava il freddo. E poi... Peter si voleva bene. Riuscivo a tenere sotto controllo i brividi di freddo, ma non la paura. Ero immerso nell'oceano, scuro e sconfinato. Cercai di guadagnare la riva con la stessa disperazione con cui me l'ero lasciata alle spalle. Intorpidito, a un certo punto mi lasciai trasportare dalla corrente. Di colpo un'onda mi travolse e mi ritrovai catapultato nel buio. Provai l'orrore di un vuoto spaventoso. Cercavo di tornare in superficie, ma l'acqua mi sballottava di qua e di là. Ero perso in un vortice nero, sepolto vivo. Non riuscivo a respirare, travolto dalle onde come da una valanga scura che mi schiacciava fino a toccare il fondo. Ricordo che a un certo punto smisi di lottare, mi tappai il naso con due dita e mi imposi di trattenere il respiro. Pochi secondi dopo riemersi e potei prendere fiato. Non ero preparato all'urto dell'onda successiva. Era più piccola, ma fu la mazzata finale. La bocca mi si riempì d'acqua salmastra. Se non avessi pensato a Mack e a quello che avrebbe passato sentendosi dire che mi ero ammazzato anch'io, forse mi sarei arreso. Le onde sembravano dotate di vita propria, simili a una mandria di tori inferociti. Resistetti, finché il mare non mi sbatté sulla riva e io mi trascinai sulla spiaggia a quattro zampe. Jane Davis mi aveva detto che Peter non era annegato, ma io avevo sentito il bisogno di accertarmene di persona. Adesso non avevo più dubbi. Peter non si è tuffato, quella sera. Mio fratello è stato ucciso. PARTE TERZA L'INCHIESTA
38 Un lunedì mattina di agosto, molto presto, mi girai nel mio letto di Montauk e sospirai soddisfatto. Una volta ogni tanto Mack decide di preparare quella che chiama «una colazione come si deve» e mi bastò annusare l'aria per capire che quel giorno era indaffarato in cucina. Scesi di corsa e lo trovai chino sui fornelli, attento alle quattro pentole sfrigolanti, che gesticolava come Toscanini sul palco della Carnegie Hall. Assaporai il profumino delizioso e osservai il maestro all'opera. Mack era troppo occupato perché io mi azzardassi a rivolgergli la parola in un momento tanto delicato. La sinfonia di pentole e padelle, pancetta, salsicce, sanguinacci, patate, funghi, pomodori e fagioli rossi era tutto un crescendo. Presi la marmellata, cominciai a spremere le arance e, quando mi fece segno, infilai le fette nel tostapane. Cinque minuti dopo ci fu il gran finale. Con ritmo perfetto una porzione generosa venne trasferita da ciascuna pentola ai due piatti e Mack e io ci sedemmo ad abbinare i rossi, gialli, neri e marroni secondo i nostri gusti. Dall'ultima tostatura del pane alla rimozione di piatti e stoviglie passarono pochi minuti: in breve ci ritrovammo a sorseggiare il nostro tè irlandese. «Che Dio ti benedica, Mack. Questa colazione è stata meglio di una scopata.» «Mi sa che non scopi molto bene, allora», commentò lui finendo il pane con la marmellata. «Sono un po' fuori allenamento», replicai, versandogli un'altra tazza di tè. Poi andai ad aprire la porta della veranda per prendere il giornale. Diedi un'occhiata alla prima pagina rientrando e gliela misi sotto il naso. Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Adesso era ufficiale. «Leggi e rallegrati.» Osservai con lui il bellissimo titolone che diceva: APERTA UN'INCHIESTA SULLA MORTE MISTERIOSA DEL RAGAZZO DI MONTAUK. Leggemmo l'articolo con la stessa concentrazione rapita che avevamo riservato alla colazione. Per la prima volta da due mesi a quella parte mi venne voglia di festeggiare. Alzai il pugno in segno di trionfo. Avevamo mangiato troppo per fare i salti di gioia, ma aprii il mobile bar e, alle sette del mattino, gli proposi un brindisi. «Non canterei vittoria tanto presto», disse Mack. «Ti rendi conto di cosa abbiamo fatto?» replicai eccitato. «Abbiamo dato
uno scrollone al sistema!» «Il sistema non si lascia scrollare così facilmente, Jack. Ho paura che l'abbiamo soltanto fatto incazzare e che tutto questo ci si ritorcerà contro.» 39 Quella settimana lavorai come un ossesso. Non uscii praticamente mai dal mio ufficio, pensando che, se nessuno mi avesse visto in giro, nessuno si sarebbe ricordato di licenziarmi. Nel lungo periodo non è una strategia vincente, ma in quel momento la lungimiranza mi era aliena. Sia per quanto riguardava il lavoro sia per tutto il resto. Non avendo ancora ricevuto risposta dal Texas riguardo al caso del Motociclista, avevo tutto il tempo di pensare all'inchiesta sulla morte di Peter. Il giovedì mattina presto Pauline mi invitò a pranzo. Disse che era «importante». E Pauline non era una che tendeva a esagerare. Propose di vederci in un locale fuori mano, in lst Avenue tra la 50th e la 59th Street, il Rosa Mexicana. Quando arrivai, mi aspettava seduta a un tavolo in un angolo. Come al solito, aveva un tailleur scuro e la coda di cavallo. E, come al solito, era molto bella. Ma aveva un'espressione preoccupata. O forse aveva fretta. «Stai bene?» Non la vedevo da quasi una settimana e mi era mancata. Sembrava agitata e temetti che stesse per dirmi che offrirsi di indagare sulla morte di Peter era stato un errore e che voleva tirarsi indietro. Che l'avessero minacciata? «Più indago, più schifezze scopro sul conto di Neubauer», mi sussurrò. «Peggio che buttare fuoribordo giovani pulzelle?» «Ho investito più tempo di quello che mi potevo permettere a controllare che cos'ha fatto nella vita, fin dai tempi in cui stava a Bridgeport. Bridgeport non è come Greenwich. È un postaccio pieno di criminalità e di case popolari. Nel 1962 e poi di nuovo nel 1965, quando aveva poco più di vent'anni, Neubauer fu arrestato per estorsione insieme a un certo Bunny Levin.» «Ha la fedina penale sporca? Questa è una buona notizia.» «Niente affatto. In entrambi i casi fu prosciolto perché il fatto non sussisteva: i testimoni chiave avevano cambiato improvvisamente idea. Uno era addirittura scomparso.» «Quindi non possiamo usare questi fatti contro di lui?» «Non era questo che volevo dire, Jack.»
«Se vuoi tirarti indietro, Pauline, basta che me lo dici. Mi hai già aiutato moltissimo. Capisco che cosa intendi a proposito di Neubauer.» Fece una smorfia e temetti che stesse per mettersi a piangere. Invece si limitò a scuotere la testa. «Sto parlando di te, Jack. Ascoltami: questa è gente che fa sparire tutti quelli che gli danno fastidio.» Avevo voglia di chinarmi a baciarla, ma mi sembrava già abbastanza scossa. Non sarebbe stata una buona idea. Alla fine le accarezzai la mano sotto il tavolo. «Perché l'hai fatto?» chiese Pauline. «Perché non te ne stai fregando.» «Vuoi dire che mi preoccupo per te?» «Sì, proprio così.» 40 Pauline non si era mai comportata così, prima di allora. Uscendo con Jack dal ristorante si sentiva in subbuglio, vulnerabile. «Non credo che dovremmo tornare in ufficio insieme», dichiarò. Jack trattenne un sorriso, ma Pauline lo lasciò lì impalato e, senza neppure guardarsi indietro, si avviò verso la 3rd Avenue, poi verso sud e dopo una decina di isolati svoltò in Grand Central Station, dove un treno della linea 6 aspettava con le porte aperte. Non appena si chiusero, si sentì meglio. Le piaceva andare downtown e viaggiare di giorno aggiungeva un brivido nuovo all'avventura. Scese a Canai e continuò a piedi verso un'ex fabbrica in Franklin Street. Aprì il pesante portone e salì sul montacarichi che portava direttamente in un loft pieno di oggetti d'arte, una collezione che era quasi un curriculum vitae dell'eccentrico proprietario. Pauline passò accanto a un lettino per massaggi impolverato, a un violoncello e a un paio di trampoli prima di arrivare al quadrato di luce in fondo alla grande sala. Fu solo all'ultimo momento che vide i capelli ondulati di sua sorella, Mona, china sul tavolo da lavoro. Stava saldando un orecchino rotondo, d'oro, con una serie di geroglifici. Due anni prima Mona aveva appeso al chiodo le sue scarpette da cha cha cha per dedicarsi alla creazione di monili d'avanguardia e ultimamente i suoi orecchini, le collane e gli anelli ispirati ai coperchi di ghisa dei tombini Con Edison erano esposti nelle vetrine dei gioiellieri più esclusivi di Manhattan e Los Angeles.
Mona non notò la sua ospite finché non le si sedette accanto sulla panca strusciandosi contro di lei come un gatto siamese. «Allora, come si chiama?» le domandò senza distogliere lo sguardo dal gioiello a ventiquattro carati. «Jack», rispose Pauline. «Si chiama Jack ed è un uomo meraviglioso.» «Poteva andarti peggio», osservò Mona. «Poteva chiamarsi John o Chuck.» «Infatti. Lavora nello studio, vive con suo nonno e forse gli hanno ammazzato il fratello. Lo conosco da tre mesi e mi ha già fatto fare cose che potrebbero costarmi il posto e tutto il resto. E la cosa che mi sorprende maggiormente è che sono più preoccupata per lui che per me. Mona, credo che quell'uomo abbia una coscienza.» «Mi sembra che ti arrapi proprio. Dico bene?» «Sì, anche se finora non abbiamo combinato niente. Ragazzo affascinante, comunque. E soprattutto è un bello che non sa di esserlo.» «Un po' come te, insomma», replicò Mona. «Cosa vuoi che ti dica?» «Niente. Voglio solo che mi abbracci.» Mona spense la saldatrice, si tolse i guanti e gettò le braccia al collo della sorella, tanto pratica e con i piedi per terra e al tempo stesso tanto romantica. «Sta' attenta», le disse. «Questo tuo ragazzo sembra troppo perfetto per essere vero.» 41 Stavo facendo un gran bel lavoro, con il Motociclista. Per fortuna avevo partecipato a un seminario sulla difesa d'ufficio quella primavera, alla Columbia, che mi stava tornando utile. Avevo alcune pubblicazioni del National Institute of Trial Advocacy sulla scrivania e il famoso testo di procedura penale di Thomas Mauet che gli studenti di legge chiamano confidenzialmente «il Mauet». Il telefonò squillò e io risposi subito. Era la segretaria di Montrose, Laura Richardson. Maledizione. «L'avvocato Montrose mi ha pregato di chiederle se può raggiungerlo qui al quarantatreesimo piano», mi comunicò. «In questo momento sono molto preso», risposi. «Ho un sacco di lavoro da sbrigare.» «L'aspetto all'ascensore.» Quella telefonata mi provocò un'altra scarica di adrenalina. Questa volta,
però, temevo non tanto quel che mi avrebbe detto Montrose, quanto la mia possibile reazione alle sue parole. Per calmarmi, percorsi lentamente il perimetro del mio ufficio prima di andare a prendere l'ascensore. «Cosa l'ha trattenuta?» mi chiese la segretaria appena arrivai al quarantatreesimo piano. Invece di accompagnarmi nell'ufficio di Montrose, mi fece strada verso un'elegante sala riunioni e mi parcheggiò davanti a un tavolo nero lucidissimo illuminato da quattro faretti incassati nel soffitto. E adesso? «Sarà questione di pochi minuti, vedrà», mi disse Laura Richardson prima di chiudere la porta. «Aspetti qui.» Se avete lavorato in una grossa azienda, forse è capitato anche a voi di subire questo genere di violenza. Vi convocano con la massima urgenza e poi vi fanno aspettare i loro comodi. Ubbidii, ma ero agitato. Cosa faccio qui seduto con le mani in mano? Perché non mi ribello? Dopo una decina di minuti, non riuscii più a star fermo e uscii dalla sala. Quando la Richardson mi vide vagare libero per il corridoio, temetti che volesse chiamare rinforzi. «Devo andare in bagno», spiegai. La segretaria di Montrose sembrò chiaramente sollevata. Quando tornai nella sala riunioni, vidi Barry Neubauer. Non provai sorpresa o shock, inaspettatamente, ma rabbia: quella era la prima vera risposta alla morte di Peter. «Buongiorno, Jack», mi salutò Neubauer. «Non so se lo sapevi, ma sono cliente dello studio.» Si aggiustò la giacca nera di sartoria italiana sulle spalle e si sedette. Cercai di mantenere la lucidità. Era un uomo di corporatura normale, di mezz'età, solo che curava molto il proprio look: tutto, dall'abbronzatura perfetta al taglio di capelli impeccabile e alla costosissima montatura degli occhiali d'argento, era volto a conferirgli autorevolezza. «Sai perché sono qui, Jack?» «Per porgermi tardivamente le sue condoglianze? Grazie, sono commosso.» Batté un pugno sul tavolo. «Stammi bene a sentire, piccolo insolente. È chiaro che ti sei messo in quella tua testolina bacata che io ho a che fare con la sfortunata morte di tuo fratello. E quindi ho pensato che, invece di continuare a svolgere le tue indagini da dilettante, ti convenisse parlarmi direttamente.» Non mi aveva invitato a farlo, ma mi sedetti. «D'accordo. Da dove cominciamo?» «Non ho ammazzato Peter. Tuo fratello mi era simpatico. Era un bravo
ragazzo, molto spiritoso. E, a differenza degli altri fidanzati di Dana, mi eri simpatico anche tu.» Non riuscii a trattenere un sorrisetto. «Mi fa piacere. Come sta Dana?» «È in Europa, Jack. Si è presa una piccola vacanza. Allora, ascoltami bene: l'unico motivo per cui sono venuto a parlarti è che provo un profondo rispetto e un grande affetto per mia figlia. Non illuderti di potermi diffamare impunemente sui giornali o di poter entrare abusivamente nella mia proprietà e nei miei computer senza conseguenze. Sei avvisato, Jack. Questo è solo un avvertimento, perché, come ti ho detto, mi sei simpatico,» Mentre Neubauer mi faceva quel discorsetto, mi vennero in mente Fenton a bagno con gli scarponi pesanti, Hank disoccupato, Marci e Molly che avevano paura a tornare a casa la sera. Mi sentii salire il sangue alla testa, scattai in piedi e girai intorno al tavolo a una velocità che spiazzò il mio avversario. Lo bloccai con un braccio intorno al collo. Le estati che avevo passato a lavorare con mio padre o nel cantiere di rimessaggio mi avevano reso molto più forte di quanto il suo personal trainer potesse rendere lui. «Lei crede di poterla passare sempre liscia, ma si sbaglia», dissi a denti stretti. «Se ne rende conto?» Aumentai la stretta. «Stai commettendo un grosso errore», replicò Neubauer con una smorfia. Gli stavo facendo male. E ci godevo. «No, è lei che commette un errore. Non so perché, ma sono sicuro che con la morte di mio fratello lei c'entri, eccome. Sta cercando di insabbiare tutto, minaccia i miei amici che hanno scoperto qualcosa.» Neubauer cercò di divincolarsi, ma io non lasciai la presa. «Mollami, stronzo!» mi ordinò. «Sì, adesso la mollo», dissi, lasciandolo andare. Feci per uscire, ma prima di aprire la porta mi fermai e mi voltai verso di lui. «Mio fratello avrà giustizia. Non so come e non so quando, ma giuro che avrà giustizia.» Neubauer era spettinato e aveva la giacca sgualcita, ma aveva riacquistato la compostezza di sempre. «E tu farai la fine di tuo fratello. Questo te lo giuro io.» «Okay, mettiamola così: siamo stati entrambi avvertiti. Sono proprio contento che abbiamo fatto questa chiacchierata.» 42 Scesi nel mio ufficio sapendo di essermi appena giocato il posto e probabilmente anche tutta la carriera futura.
Non sapevo se ne era valsa la pena, ma mi sembrava di non aver avuto scelta. Prima o poi era inevitabile che qualcuno si ribellasse a Neubauer ed ero contento di essere stato io a farlo. Stavo per chiamare Mack per raccontargli quello che era successo e chiedergli consiglio, ma il mio telefono era staccato. «Cristo!» esclamai fra me. «Sono più rapidi di quanto pensassi.» Due minuti dopo il telefono squillò. Era la bella segretaria del quarantatreesimo piano. «Credevo di non avere la linea», le dissi. «Non può effettuare chiamate in uscita», spiegò lei. «Mi dica, com'è che è venuto a lavorare in questo studio?» «È stato un errore.» «A cui è stato prontamente posto rimedio. L'avvocato Montrose desidera parlarle.» Me lo passò. «Cos'è successo al giovane ambizioso che ha fatto umilmente domanda per venire a lavorare qui?» mi chiese, infervorandosi. «Le abbiamo aperto una porta che molta gente come lei trova sbarrata e lei ce l'ha sbattuta in faccia. Le uniche cose buone che ha fatto qui dentro sono state per un caso di patrocinio gratuito.» «Exley mi aveva detto che lo studio legale Nelson, Goodwin & Mickel considerava le proprie attività pro bono come un fiore all'occhiello. Davo per scontato che sarei stato anch'io un fiore all'occhiello, nel mio piccolo», replicai. «Lei con noi ha chiuso, Mullen», disse Montrose. E riattaccò. Cinque minuti dopo due guardie, un afroamericano e un ispanico, si piazzarono sulla porta del mio ufficio. Li conoscevo, giocavano entrambi nella squadra di softball dello studio. «Jack, abbiamo ordine di scortarti fuori dell'edificio», mi annunciò il più basso dei due, che era anche il più largo. Si chiamava Carlos Hernandez e mi era simpatico. «E di consegnarti questa», aggiunse porgendomi la lettera di licenziamento. «Con la presente e a decorrenza immediata, il rapporto di collaborazione fra Jack Mullen e lo studio legale Nelson, Goodwin & Mickel è rescisso per uso improprio del tempo destinato alle attività dello studio e comportamenti nocivi per lo stesso», lessi. «Mi dispiace», fece Carlos stringendosi nelle spalle. Vorrei potervi dire che quando varcai per l'ultima volta le porte girevoli del grattacielo e uscii per strada mi sentivo sollevato. In realtà avevo pau-
ra: Montrose e Neubauer erano riusciti nel loro intento. Le minacce che avevo rivolto a Neubauer mi parvero improvvisamente ridicole e vuote. Se avevo fatto la cosa giusta, in quella sala riunioni, perché mi sentivo tanto scemo? Inebetito, mi diressi alla biblioteca pubblica ed entrai nella splendida sala di lettura in cui andavo a meditare sul mio futuro quando frequentavo ancora le superiori e ogni tanto prendevo il treno per New York. Scrissi una lettera al Motociclista. Lo informai che il pubblico ministero che aveva seguito il suo processo sembrava aver accolto la richiesta di mettere a disposizione i campioni prelevati diciannove anni prima perché venissero sottoposti al test del DNA. Gli feci gli auguri e gli proposi di mantenerci in contatto, se ne aveva voglia. Chiamai Pauline da un telefono pubblico e trovai la segreteria telefonica. Non ebbi cuore di lasciarle un messaggio. Andai alla Penn Station e presi il primo treno per Montauk. Durante tutto il viaggio continuai a pormi la stessa domanda: Cosa posso fare per sistemare questo casino? 43 Fenton brindò alla mia repentina uscita dal mondo dei giovani rampanti. «Hai fatto benissimo, amico. Sei sceso al nostro livello. Forse un tantino più in basso.» «Ci mancavi», gli fece eco Hank. «Bentornato nel mondo reale.» Era venerdì sera, al Memory Motel. La compagnia era al completo e, ora che l'inchiesta sulla morte di Peter era stata aperta, l'atmosfera era gioiosa. Per i miei amici un licenziamento non era un evento eccezionale o da compiangere particolarmente: nonostante il boom economico e i fiumi di soldi che scorrevano nella nostra zona, noi restavamo comunque dei poveracci. Confrontandoci, scoprimmo di essere tutti sulla lista nera. Non era paranoia: ci eravamo fatti dei nemici. «Ho bussato a tutte le porte della città, ma non sono riuscito a trovare uno straccio di lavoro», disse Hank. «So che da Gilberto's cercavano personale, ma non mi vogliono nemmeno per un colloquio.» «E qualcuno mi ha tagliato le reti», aggiunse Fenton. «Sapete che casino è riparare una rete? Per non parlare del fatto che, adesso, ogni volta che esco in mare da solo ho paura.»
«Quel che è accaduto a me è ancora più grave», intervenne Marci. «Perché mi riguarda, naturalmente. Due settimane fa uno che si è arricchito con i garage mi aveva chiesto di costruirgli l'unico vero labirinto di piante degli Hamptons. Ieri sera mi ha chiamato per dirmi che affiderà il lavoro a Libby Feldhoffer. Gli hanno fatto capire che, se avesse incaricato me, le autorità non avrebbero mai approvato il progetto.» «Libby Feldhoffer!» esclamò indignata Molly. «Ma se lavora malissimo!» «Sapevo che saresti stata dalla mia parte, tesoro.» «Non volevo dirvelo, ma stamattina mi hanno disdetto l'appuntamento delle undici e mezzo all'ultimo minuto», fece Sammy, suscitando le risate di tutti. Date le circostanze, ero quasi contento di non essere più il ragazzo dalle brillanti prospettive di carriera. Finii la birra e andai a ordinarne un'altra. Logan, il barista del venerdì sera, mi porse una grossa busta. «Per me?» domandai. «Da parte di chi?» «Me l'ha portata uno. Dice che è per voi.» «Lo conosci?» «L'ho visto in giro, Jack. Una volta ha cercato di ordinare un Martini cocktail.» Tornai al tavolo. «C'è posta per noi.» Diedi la busta a Molly. Stavo riempiendo i bicchieri quando lei la lanciò dalla mia parte. «Non so se ce la faccio a continuare così. Jack, io mi chiamo fuori. È troppo terribile. È più che terribile. Guarda tu stesso.» Nella busta c'erano sei foto, una per ciascuno di noi. Fenton in barca al crepuscolo. Sammy che beveva il caffè al Soul Kitchen. Io che scendevo dalla moto davanti a casa. Hank che correva verso casa mia con il defibrillatore. Marci con il tizio del labirinto, prima che le togliesse l'incarico. Eravamo tutti da soli, di schiena, per dimostrarci quanto fossimo vulnerabili. Ma la foto di Molly era la peggiore: un primo piano di lei che dormiva, scattata da meno di un metro di distanza. Sotto ogni foto c'erano due numeri: 6-5, 4-3, 10-1, 3-1... e nessuna spiegazione. 44 Verso mezzanotte un gruppo chiassoso di sconosciuti arrivò nel bar e il
«nostro» locale si riempì di risate forzate, sorrisi tirati e voci stridule di gente che parlava al cellulare. «Che bettola meravigliosa!» mi gridò nelle orecchie una donna particolarmente entusiasta. «Vaffanculo», le rispose sottovoce uno di noi. «Guarda guarda», fece Marci indicando un uomo abbronzato che beveva un sea breeze al centro della folla. «Horst Reindorf.» Reindorf, ex campione di body-building, da un po' di tempo a quella parte si era dato al cinema ed era stato protagonista di una decina di film di grande successo. L'ultimo che aveva girato, prodotto da Neubauer, si chiamava Viaggiatore intergalattico e stava per uscire contemporaneamente in venticinquemila sale d'America il venerdì successivo. «E quello è Dennis Soohoo, la sua spalla», aggiunse Marci mentre i due attori posavano per una foto. «Vedo che qualcuno qui guarda E! Channel», commentò Sammy. «Perché, tu no?» ribatté pronta Marci. «Io non guardo E! Channel. Ci vivo.» «Qualcuno a casa Neubauer deve aver proposto un drink in un locale caratteristico», osservai. Horst Reindorf si era tolto la canottiera e se la stava facendo roteare sopra la testa. Dennis Soohoo invece aveva messo gli occhi su una ragazza molto carina, la cuginetta di Fenton Gidley. Grazie al cielo, lei lo allontanò. Una donna del gruppo salì in piedi sul bancone e cominciò a ballare. «Se Barry Neubauer ci rompe le scatole, bisogna che noi le rompiamo a lui», esclamò Fenton Gidley. «Noi non disturbiamo le feste altrui e lui dovrebbe avere il buonsenso di non interrompere le nostre.» «Non mi sembra una grande idea», intervenne Molly. «Lascia perdere, Fenton.» «Hai sicuramente ragione tu», le rispose lui alzandosi e cominciando a farsi largo per raggiungere il chiassoso gruppetto. Hank, Sammy e io lo seguimmo. Che alternativa avevamo? Non sapevamo che Fenton si preparava ad affrontare la congrega con la stessa sicurezza con cui Sir Edmund Hillary aveva affrontato la scalata dell'Everest. Alla sua destra un fotografo stava facendo mettere in posa un produttore cinematografico, Reindorf e Soohoo prima di scattare. Fenton si frappose fra il terzetto e l'obiettivo proprio all'ultimo momento. «Non riesco a credere che siate qui al Memory!» gridò, lasciando capire che non erano affatto i benvenuti.
«Ci scusi», si intromise il fotografo. «Sto facendo un servizio per Vanity Fair.» «Tanto vale che faccia una foto anche a me e al mio nuovo amico», intervenne Horst sfoderando un sorriso smagliante. «Un pescatore, direi. Vero? L'ho capito dall'odore.» «Grazie tante, Horst», replicò Fenton. «Sì, appartengo a un'antica famiglia di pescatori.» «Toglieteglielo dai piedi», ordinò un rappresentante dello studio cinematografico. Gli avventori del bar si accorsero che la situazione stava degenerando. Erano tutti voltati verso il gruppo di intrusi. «Signor fotografo, ne faccia due, casomai una non venisse», fece Fenton. «Non capita tutti i giorni di potersi far fotografare insieme al più grosso coglione di tutta Hollywood. Che oltretutto è culo e camicia con quello stronzo di Neubauer.» Nei due minuti successivi ci fu un'enorme confusione. Reindorf prese Fenton per il collo e lui, smettendo improvvisamente di sorridere, esagerò mollandogli un pugno completo di effetti speciali sonori. Colpì il famoso attore proprio alla radice del naso. Per una volta, il sangue che gli schizzò addosso era vero. «Santo Dio, ma cosa fa?» gridò una giornalista vestita di nero. «Guardi che quello è Horst Reindorf!» Andando certamente oltre i suoi compiti istituzionali, si avventò su Fenton e lo colpì ripetutamente con il palmare, permettendo all'attore di battere in ritirata e fuggire dalla porta di servizio. Il resto della compagnia non fu altrettanto fortunato. Quando il rappresentante dello studio prese in mano una bottiglia di birra, io lo immobilizzai contro il bancone. Hank si occupò di Dennis Soohoo, che ben presto finì KO. I due litiganti peggio assortiti erano Sammy Giamalva e un giovanotto con l'aria del manager, che era dieci centimetri più alto e dieci chili più pesante di Sammy, ma che finì comunque a terra dopo un uppercut degno di Sugar Ray. Avremmo potuto farci del male, se non fossero intervenuti Belnap e Volpi a ristabilire l'ordine a suon di manganellate. Volpi ci prese gusto e spaccò due o tre teste con la massima disinvoltura. Con me non se la prese, ma mi fece l'occhiolino e mi disse: «Come sta la tua ragazza, Jack?» 45
Il Risolutore era nascosto vicino al garage dei Mullen da un'ora, quando il faro della moto di Jack apparve nella nebbia che avvolgeva Ditch Plains Road. Appena la moto rallentò davanti alla casa, l'uomo diede una gomitata al suo nerboruto accompagnatore. «Eccolo.» Guardò Jack che spegneva il motore, abbassava il cavalietto e respirava l'aria fresca della notte. Sta ancora assaporando la vittoria, il cretino, pensò. Vedendo che Jack si toglieva il casco, apriva il garage e portava dentro la moto, si preparò spiritualmente. Erano settimane che aspettava quel momento. Jack stava aprendo la porta interna del garage. Il Risolutore contò fino a tre e, quando Jack la varcò, si ritrovò di fronte il suo pugno guantato. Un pugno ben dato era un piacere, per il Risolutore. Gli piaceva vedere lo shock e la sofferenza della vittima. Quando Mister Muscolo afferrò Jack da dietro e lo tirò per i capelli, lesse il dolore nei suoi occhi e gli mollò un pugno in faccia. Con le braccia immobilizzate dietro la schiena e un ginocchio piantato nell'osso sacro, Jack aveva ben poco spazio di manovra. Abbastanza, però, per scansarsi quando il Risolutore cercò di colpirlo nuovamente, facendogli così perdere l'equilibrio. Un attimo dopo, lo guardò negli occhi. «Quando vedi Neubauer, riferiscigli questo messaggio», sibilò e abbassò di colpo la fronte, colpendo con una testata il Risolutore in pieno naso. L'aggressore, che ormai perdeva più sangue della vittima, ebbe la tentazione di estrarre il coltello e uccidere Mullen nel suo stesso garage. Ma si trattenne, limitandosi a tempestare Jack di pugni, usando sia il destro sia il sinistro. Esercizio non facilissimo, ma efficace. Con Jack ridotto all'immobilità, il Risolutore smise di mancare colpi e questo gli risollevò moltissimo il morale. In breve riuscì a far arrivare a destinazione il suo messaggio, verbale e non: «Non ti azzardare mai più pugno - a provocare - pugno - chi sta sopra di te - pugno - in tutti i sensi». Avrebbe avuto ancora alcuni rospi di cui liberarsi, ma Jack era ormai sul punto di perdere conoscenza. «Quanto al tuo messaggio per Neubauer, consegnaglielo di persona.» Jack stava per svenire, ma poté udire le parole del Risolutore e si ripromise di seguire il suo consiglio. L'uomo con i guanti neri non aveva ancora finito, tuttavia. Afferrò Jack per i capelli e gli sussurrò nell'orecchio: «Fatti furbo. Il prossimo è tuo nonno. Sarà un giochetto, vecchio com'è».
46 Quando fai a botte e vinci, ti senti un dio. Quando perdi, ti senti un cretino. Appena riuscii a sollevare la faccia dal pavimento del garage e a fare l'inventario dei danni subiti, mi resi conto che dovevo andare in ospedale. Lì per lì pensai di chiamare Mack o di telefonare a Hank, ma una volta in piedi mi resi conto che potevo farcela anche da solo. Salii a controllare che Mack stesse bene. Dormiva come un bambino di ottantasei anni. Presi le chiavi del camioncino di mio padre e andai al pronto soccorso di Southampton. Nonostante fossero le quattro del mattino, impiegai trentacinque minuti. I nostri ospedali non lavorano a ritmi frenetici. Southampton non è East St. Louis. Quando entrai nella sala d'aspetto del pronto soccorso, il dottor Robert Wolco alzò la testa dai suoi cruciverba e mi guardò in faccia. «Ciao, Jack. È un po' che non ci si vede.» «Ciao, Robert. Io sono messo così, ma l'altro è peggio», riuscii a rispondergli. «Ci avrei scommesso.» «Io no.» Cominciò a disinfettarmi delicatamente le ferite, poi mi fece coricare sotto una forte luce arancione, mi somministrò una serie di iniezioni di anestetico e mi ricucì. La pelle della faccia sembrava un elastico tirato da tutte le parti. Ci vollero ventisette punti. Wolco era convinto di aver fatto un ottimo lavoro e che i tagli si sarebbero rimarginati bene. Non ero preoccupato: non ero mai stato il bello di famiglia. Wolco mi diede un flacone di antidolorifico per le costole (ne avevo tre incrinate) e mi mandò a casa. Quella sera, quelle botte, andavano messe nel conto: Barry Neubauer avrebbe pagato anche per questo. 47 I tempi stringevano: l'udienza per la morte di Peter Mullen era ormai alle porte. Il lunedì sera il Risolutore parcheggiò a un isolato di distanza da una casa modesta di Riverhead, a Long Island. Sulla veranda c'era un vaso di terracotta e un antico segnavento sul garage. Vicino alla cassetta delle lettere in stile, con il nome - J. DAVIS - scritto in giallo, con grafia infantile, c'era un coniglio di pietra ritto sulle zampe posteriori. Perbacco.
Per quella fettina di paradiso la dottoressa passava quattordici ore al giorno fra i cadaveri, escogitando teorie più o meno creative sui motivi per cui si erano ritrovati tali. L'impegno della Davis lasciava sgomento il Risolutore. A Manhattan avrebbe potuto guadagnare milioni, eppure se ne stava fra i morti. Perché la gente si comporta così? Cosa le interessa se uno è annegato o l'hanno fatto annegare? Forse guarda troppi film. Vogliono tutti fare gli eroi. Be', la sai una cosa, cara la mia Jane? Non sei Julia Roberts. Dai retta a me. Il cane fedele della dottoressa stava subendo gli effetti del prelibato bocconcino che gli aveva passato qualche ora prima dalla buca per i giornali. Anch'essa in stile, peraltro. Aveva smesso da un pezzo di fare la guardia, immerso com'era in un sonno profondo. Il Risolutore entrò cautamente, evitò il weimaraner che dormiva sdraiato sul fianco e salì la scala che portava alla camera da letto di Jane Davis. È per questo che mi pagano bene. Anche Jane dormiva. Jane, lo sai che russi? Era stesa sopra le lenzuola in mutandine e reggiseno. Non era molto ben fornita, osservò il Risolutore, ma aveva delle belle gambe. Si sedette sul letto vicino a lei e la guardò respirare. Dorme come un morto, perdio! Le mise una mano in mezzo alle gambe. Questa volta la dottoressa si svegliò. Di soprassalto. E furibonda. «Cosa? Chi sei? Cosa vuoi?» gridò, alzando i pugni combattiva. Poi però vide la pistola e il silenziatore fissato alla lunga canna. «Sei in gamba, dottoressa: penso che tu sappia perché sono qui. O no?» Jane annuì. Poi sussurrò: «Sì». «Presto ci sarà l'udienza, e le tue conclusioni sono già state respinte da uno dei tuoi superiori. Così sarà più facile, per te.» Quindi fece una cosa sconvolgente: le spinse la canna della pistola fra le gambe e ci giocherellò un pochino. A lui piaceva. «Allora ci siamo capiti, Jane?» disse poi, alzandosi. «Non farmi tornare, dottoressa. Perché la prossima volta arrivo fino in fondo. E non chiamare la polizia. Ci sono di mezzo anche loro. Se li avverti, torno.» Uscì dalla stanza e lei lo sentì scendere le scale e tirò un sospiro. Poi, però, sentì uno sparo, attutito dal silenziatore. Capì subito cos'era successo. Scese di sotto piangendo. L'uomo era ancora in casa, e rideva. Non aveva ammazzato Iris, per for-
tuna. «Sono sicuro che hai capito, adesso.» 48 Prima ti ammazzano, poi ti coprono di infamia. Lo capii quella mattina a colazione, aprendo lo Star accanto alla mia omelette da Estia. Sospirai, scossi la testa e mi sentii di nuovo triste. Più che triste, di merda. C'era un lungo servizio su Peter, questa volta diffamatorio. La tesi era che Peter fosse morto in un regolamento di conti tra bande di spacciatori rivali. Cominciava così: «Forse un regolamento di conti per questioni di droga alla base della morte del ventunenne di Montauk, Peter Mullen. È quanto sostiene l'ispettore capo della polizia di East Hampton Frank Volpi...» Mack aveva ragione: la vita è una guerra. Volpi insinuava inoltre che Peter potesse essere sotto l'effetto di sostanze stupefacenti al momento della morte e dichiarava che a tal fine erano state richieste le analisi del caso. «Saranno effettuati opportuni test per verificare se nel sangue della vittima c'erano tracce di cocaina, alcol o marijuana», diceva Volpi. «Confido che avremo i risultati prima dell'udienza.» I legali di Neubauer stavano adottando la stessa strategia che si era rivelata tanto efficace nel caso di O.J. Simpson e in molti altri: confondere le acque e inventare scenari sufficientemente plausibili da impedire che venisse emesso un verdetto al di là di ogni ragionevole dubbio. Mi feci portare un telefono e chiamai il direttore del quotidiano. «Chi vi ha dato le informazioni a proposito di Mullen?» gli chiesi. «È stato Volpi, vero?» «Nessuno ci ha detto niente. Come tutti i giornalisti, siamo soliti fare le nostre indagini.» «Non ci credo. Perché non scrivete anche qualcosa che abbia un senso, se volete essere tanto obiettivi?» Mi sbatté il ricevitore in faccia. Allora chiamai Burt Kearns, il giornalista che aveva firmato gli altri articoli su mio fratello. «Mi dispiace, non può parlare con Kearns. È stato licenziato tre giorni fa.» E, per la seconda volta, mi sentii sbattere il telefono sul muso. 49
Ma il peggio doveva ancora venire, quella mattina. Il trend era decisamente negativo. Diedi un'occhiata alla scrivania ingombra di Nadia Alper e feci di tutto per mascherare il mio sgomento. La Alper era il sostituto procuratore cui era stato affidato il caso Mullen. Le condizioni del suo ufficio a uno dei piani alti dell'ex municipio di Seaford non lasciavano intuire grandi capacità organizzative né particolare prontezza. C'erano verbali, referti, elenchi del telefono, bloc-notes, cassette e bicchieri di plastica dappertutto. Mentre frugava fra le sue scartoffie, nel fascio di luce che filtrava dalla finestra fluttuava una quantità inquietante di polvere. «Eppure era qui un momento fa», protestò. «Si occupa del caso da sola?» domandai cercando di sembrare calmo. Neubauer aveva un'armata di principi del foro pagati cinquecento dollari l'ora che lo proteggeva come un giubbotto antiproiettile. A cercare giustizia per Peter, invece, c'era solo una ragazza sottopagata e oberata di lavoro. «Insieme con un detective, che al momento è a Montauk a interrogare i testimoni», rispose lei. «E no, non è il mio primo caso.» «Non era mia intenzione insinuare nulla del...» «È il terzo.» Ci trovammo d'accordo sul fatto che purtroppo la maggior parte delle prove nell'inchiesta sulla morte di Peter erano indiziarie. Il nostro asso nella manica, secondo il sostituto procuratore, era il referto di Jane Davis, corredato dalle foto del corpo straziato. Finalmente trovò la cartellina perduta e ripassammo insieme tutto quanto. Le radiografie mettevano in evidenza le fratture multiple e la lesione alla spina dorsale. Le foto delle cellule polmonari di Peter dimostravano che non era morto per annegamento. Sulla base di questi elementi, credevo di sapere come dovevano essere stati gli ultimi istanti di vita di mio fratello. Mi veniva male al solo pensarci. Il telefono sommerso sotto pile e pile di carte squillò. Nel tentativo di alzare la cornetta, la Alper urtò con il gomito una tazza di caffè, e il liquido si sparse sulle foto. Prima che riuscissi a metterle in salvo, alcune si macchiarono. Le asciugammo pazientemente rimediando al danno, ma ebbi una gran voglia di prenderle e portarmele a casa. «Posso fare qualcosa per aiutarla?» domandai alla fine. «No. Lei non è ancora laureato, signor Mullen. Si fidi di noi: sappiamo
fare il nostro lavoro.» «Non ne dubito», risposi. Cos'altro potevo dire? «Però mi piacerebbe dare una mano lo stesso. Anche solo per portare in ufficio panini e caffè.» «Che cosa si è fatto alla faccia?» mi chiese dopo un po'. Capii che la sua decisione era irrevocabile e che stava cercando di cambiare discorso. «Le ho prese, probabilmente dagli stessi che hanno ucciso Peter. È stato Neubauer a ridurmi così.» «Ha sporto denuncia?» mi chiese. Arricciai il naso e feci di no con la testa. «Mi sembra che abbia già abbastanza grane così, signor Mullen.» 50 Sammy Giamalva aveva un incubo ricorrente. Era sempre la stessa scena, in cui cadeva a precipizio, preparandosi a uno schianto che non arrivava mai. Lo fece per la terza volta, quella settimana, e quindi in qualche modo era consapevole che era solo un sogno. Aprì gli occhi e si ritrovò in un altro incubo. Questo, però, era vero. Sulla sedia accanto al suo letto c'era un uomo dagli occhi porcini, con un completo scuro di buon taglio. Aveva le gambe accavallate, come se fosse a una festa. Invece del bicchiere, però, in mano aveva una pistola. Puntata contro Sammy. Sorrideva. «Alzati, Sammy», disse il Risolutore. «Voglio che mi tagli i capelli.» Gli premette la canna della pistola sul collo e lo spinse giù dalle scale, fino in cucina. Sempre tenendolo sotto tiro, si sedette sulla poltrona davanti allo specchio. Con le dita della mano libera si toccò i radi capelli castani. «Come pensi che mi starebbero meglio, Sammy?» chiese. «A spazzola mi fanno sembrare un nazista. Se li lascio crescere, però, sembro un cretino con il riporto.» «Corti, penso», si sforzò di rispondere Sammy. Aveva la bocca tanto secca che le sue parole parevano colpi di tosse. «Non mi sembri granché sicuro.» «Sì, sono sicuro.» Questa volta Sammy cercò di essere convincente. Doveva assolutamente mantenere la situazione sotto controllo. Ricordava benissimo la fine che aveva fatto Peter. E quello che era successo a Fenton Gidley. Quel tipo corrispondeva perfettamente alla descrizione che ne aveva fatto Fenton. Cicatrice sulla guancia compresa. «Immagino avrai capito che non sono venuto qui a Sag Harbor solo per
farmi tagliare i capelli.» Sammy annuì e gli mise sulle spalle la mantellina di plastica bianca. Si sforzò di farsi venire in mente qualcosa. Doveva uscirne vivo. Quell'uomo sembrava uno sbruffone. Forse gli conveniva giocare su quello. «È per via di quel che è successo al Memory?» chiese dopo un po'. «Di quello mi sono già occupato. Non è stato un grosso problema. Sono qui per via di quel che è successo sulla spiaggia.» Quando Sammy fece la faccia di uno che non ha capito, l'uomo disse: «Non ti angustiare, vogliamo solo i negativi. Non ha più senso, ormai, fare finta di niente. La partita è finita e ho vinto io. Mi spiace, tu hai perso». Lo disse con un tono di spaventosa certezza. Era peggio di quel che aveva pensato. Non volevano soltanto fargli paura. Non era per l'udienza. «Su, tagliami 'sti capelli», disse il Risolutore. «Per la lunghezza, mi fido di te.» Le ciocche cominciarono a cadere per terra come fiocchi di neve e nonostante tutto Sammy si lasciò prendere dal lavoro e si concentrò sul taglio, dimenticandosi quasi di essere sotto tiro. Il mantra che continuava a ripetersi mentalmente era: Fai qualcosa o muori. Vai qualcosa o muori. Si impegnò come se la sua vita dipendesse da quel taglio e, quando il Risolutore si chinò in avanti perché Sammy gli togliesse la mantellina di plastica, non poté fare a meno di sorridere. «Adesso capisco perché le riccastre fanno tanta strada per venire da te.» Fai qualcosa o muori. «Un ultimo ritocco», disse Sammy posandogli una mano sulla spalla. Quello ridacchiò e si rimise a sedere. Quando si guardò nello specchio, vide la mano destra di Sammy muoversi fulminea. Maledizione, non riusciva a crederci. Possibile che proprio lì, così, per mano di un finocchio mingherlino... Oh, Gesù, no. La lama del rasoio era stata così precisa e veloce che il Risolutore non era nemmeno sicuro che Sammy gli avesse tagliato la gola. Poi vide una seconda bocca rossa che gli si apriva sul collo e, quando il parrucchiere lo afferrò da dietro immobilizzandogli le braccia con una furia e una forza che lo sorpresero per l'ultima volta, sentì la vita che scorreva via. «E questo pasticcio chi lo risolverà?» furono le sue ultime parole. Quando Sammy lo mollò, l'uomo scivolò per terra. Sammy trasse un respiro profondo. Doveva trovare una soluzione. E in fretta. Gesù, l'aveva ammazzato. Ormai non ci poteva più fare niente.
Una volta presa la decisione, salì di sopra a fare le valigie. Poi scese in garage e svuotò il serbatoio della macchina. Cosparse di benzina tutta la casa e vi lanciò uno Zippo acceso. Quando arrivò la prima camionetta dei pompieri, della costruzione non restava più niente. 51 Stavo preparando delle note per Nadia Alper quando sentii Mack che mi chiamava. «Jack, vieni subito giù. C'è la tua amica. Più bella che mai.» Pauline non era ancora scesa dalla macchina che Mack l'aveva già invitata a cena. Dieci minuti dopo annunciò che avrebbe lasciato noi «piccioncini» da soli per andare a vedere che cosa offrivano le bancarelle degli ortolani e dei pescivendoli di Montauk. «Visto che abbiamo ospiti», disse a Pauline, senza darle neppure il tempo di accettare l'invito. Due ore e mezzo dopo, quando il sole stava cominciando a tramontare, fece ritorno trionfante. In una mano teneva le prime pannocchie della stagione e nell'altra tre bei tranci di pesce spada. «Sai mi ha giurato sulla buonanima di sua madre che li ha ricavati stamattina da un bestione di centotrenta chili», si vantò. Mise via i suoi tesori, stappò tre bottiglie di birra e ci raggiunse in terrazza, dove lo aggiornammo sulle ultime scoperte di Pauline riguardo a Barry Neubauer. Finito il triste resoconto, Mack ci sottopose a un breve colloquio per stabilire le nostre competenze culinarie e quindi ci assegnò i compiti. Io scesi in garage a prendere il barbecue, lui sparì in cucina con Pauline. Averla lì ci metteva di buonumore. Erano anni che casa nostra sembrava un dormitorio per soli uomini. Mack era euforico. Sembrava si fosse impasticcato. Ogni tanto usciva dalla cucina per venire da me e dimostrarmi il suo affetto mentre preparavo la brace. «So che muori dalla voglia di dirmi quanto ami Pauline. Perché non sputi il rospo?» lo stuzzicai. «Dovresti vedere come condisce l'insalata, Jack. Sembra Madame Curie. Vorrei che la sposassi al più presto. Anche stasera, se possibile.» «Non l'ho mai nemmeno toccata.» «Com'è potuto accadere?» «Macklin, mi permetti di farti una domanda indiscreta? Da uomo a uo-
mo? Da Mullen a Mullen?» «Ma certo. Dimmi.» «Pensi che la brace sia pronta?» «Io ti apro il mio vecchio cuore e tu mi chiedi se è pronta la brace? Cuoci quel pesce, fammi il favore. Dimostrami che sai combinare qualcosa.» «Mi piace, okay?» dissi alla fine, esasperato. «Non basta, Jack. Quella donna merita ben altro che di 'piacerti'.» «Mack, so io che cosa merita.» Mezz'ora dopo eravamo seduti tutti e tre al tavolo sulla terrazza, davanti a una gustosa cenetta. Andò tutto benissimo: pesce, pannocchie e vino erano ottimi. L'insalata condita da Pauline era davvero straordinaria. Dopo cena eravamo tutti rilassati. Guardai la faccia rugosa di Mack, che sembrava brillare di luce propria. Pauline appariva serena e bella come non mai. Gli raccontò della sua infanzia nel Michigan. Era figlia di un poliziotto di Detroit in pensione e di un'insegnante di inglese. La maggior parte dei suoi zii lavorava nell'industria automobilistica. «Come si conobbero i tuoi genitori?» chiese Mack, che cercava sempre di portare il discorso dove voleva lui. «Quello che considero mio padre è il secondo marito di mia madre», rispose Pauline. «Il primo si chiamava Alvin Craig ed era un uomo grande, grosso e molto affascinante. Gli piaceva correre in macchina, era un attaccabrighe, sempre nei guai con la giustizia. Un giorno che era ubriaco alzò le mani anche su mia madre. L'ultima volta che ci provò, mia madre era incinta di me. Chiamò la polizia. Arrivò un agente, grande e grosso pure lui. Diede un'occhiata a mia madre e chiese a Craig di uscire un attimo, che gli doveva parlare. Abitavano in una villetta a schiera e i due uomini parlarono per un'oretta in giardino. Non si menarono, non alzarono nemmeno la voce. A un certo punto mio padre si alzò, andò in camera sua, fece i bagagli e lasciò la casa per sempre. L'agente si fermò a bere un caffè con mia madre e pochi mesi dopo si sposarono. Non avrei mai saputo niente di tutto questo se non fosse successo che una volta, quando avevo quindici anni, diedi del cretino a mio padre. Mia madre si arrabbiò moltissimo e decise che era il momento che io sapessi la verità. Sono una splendida coppia, effettivamente.» Era una storia davvero appassionante e nemmeno Mack osò interromperla. Ma appena Pauline si fermò a prendere fiato, attaccò a raccontare epi-
sodi della sua infanzia, compreso quello in cui lui e il suo migliore amico, Tommy McGoey, erano saliti su un camion e avevano passato tre giorni a girare estasiati per Dublino, dormendo sotto i vagoni ferroviari e mangiando latte e panini rubati davanti alle porte delle case. Pauline gli aveva dato il destro per raccontare storie che nemmeno io avevo mai sentito. Fu una serata magica, di quelle in cui senti che l'amicizia può essere solida come una famiglia e la famiglia lieve e poco problematica come l'amicizia. Era troppo bello per durare a lungo. Appena prima di mezzanotte sentimmo sbattere la portiera di un'automobile sotto casa e rumore di passi sulla ghiaia. Quando mi voltai a guardare chi era, vidi Dana venirmi incontro come uno spettro. «Oh, guarda chi si rivede», esclamò Mack. 52 Per trenta angosciosissimi secondi gli sguardi scambiati intorno al tavolo furono rapidi e feroci come nel teatro Kabuki. «Noto che siete molto contenti di vedermi!» esclamò poi Dana, sarcastica. Si voltò verso la sconosciuta con i capelli scuri. «Piacere, Dana. Sono la ragazza di Jack. O almeno così pensavo.» «Piacere, Pauline.» Dopo aver lanciato a Pauline un'occhiata accompagnata da un'alzata di spalle, mi girai verso quella che si era definita la mia ragazza. «Pauline è un'amica dello studio Nelson, Goodwin & Mickel», spiegai, pentendomene prima ancora di aver finito di dirlo. «Ho capito male o non ci lavori più?» «Mi hanno offerto condizioni tali per cui non potevo rifiutare.» «E tu cosa fai? Sei avvocato anche tu?» chiese Dana a Pauline. «No, faccio l'investigatrice», rispose Pauline con tono piatto. «Ah, e su cosa investighi?» «Anche tu sei brava a fare domande», osservò Pauline. L'atmosfera idilliaca di poco prima era ormai svanita. «Scusa tanto, volevo solo fare un po' di conversazione.» Mack non aveva ancora detto una parola. Per chiarire da che parte stava, non aveva degnato Dana di uno sguardo. Nemmeno me, peraltro, ma non avevo bisogno di guardarlo in faccia per capire che era sconvolto e mi considerava responsabile di quel pasticcio.
Pauline, decidendo che ne aveva abbastanza di quella telenovela di cattivo gusto, fece per andarsene. «Grazie della splendida cena», disse a Mack con un sorriso. «E di tutto il resto.» «Sei stata la parte migliore della serata, Pauline», replicò Mack, alzandosi per abbracciarla. «Ti accompagno alla macchina, vieni.» «Non devi andartene», dissi io. «Sì che devo», ribatté lei. Poi si allontanò, sottobraccio a Mack, come se io e Dana nemmeno ci fossimo. «Aspetta, Pauline, ti accompagno io», dissi. «Per favore. Ti devo parlare.» «No», fece lei senza neanche voltarsi. «Parla pure con la tua ragazza. Sono certa che avete un sacco di cose da dirvi.» 53 «SPERO di non aver interrotto nulla di importante», mi disse Dana con un accenno di broncio, ma gli occhi che ridevano maliziosi. «No, figurati. Che cosa fai qui, Dana?» «Non puoi aspettarti che una donna si arrenda senza combattere», replicò con un sorriso affascinante. «Non ci vediamo e non ci parliamo da due mesi. E sei stata tu a volerlo, ricordi?» «Lo so, Jack. Sono stata a Parigi. E a Firenze, a Barcellona. Avevo bisogno di tempo per pensare.» «E a quali conclusioni sei giunta? Ti piaci meno di quanto pensavi?» «Mi hai messo in una posizione impossibile, Jack. Devo scegliere fra te e mio padre.» «Non mi sembra che tu abbia fatto fatica a decidere, no? Il tuo paparino ti ha regalato un bel viaggio in Europa, dico bene?» «A volte tu non sai di cosa parli, Jack. Mio padre è un uomo meraviglioso. Buono con mia madre, sempre incoraggiante nei miei confronti... E poi, è mio padre. Cosa vuoi da me?» Quella sua dichiarazione di affetto filiale mi fece sentire la mancanza di mio padre. «Perché sei venuta qui, stasera?» «Per te», rispose lei guardandomi intensamente. «Mi sei mancato più di quanto mi aspettassi. Mi sento molto legata a te, Jack.» Quando mi posò la mano sul braccio, sussultai. «Mi odi, non è vero?» Aveva gli occhi lucidi. «Oh, Jack, non hai niente
da dirmi?» «Immagino che tu sappia che ci sarà un'udienza», risposi. Dana spostò la testa, scuotendo la chioma bionda. «Sono convinta che nessuno pensi veramente che la mia famiglia sia coinvolta nella morte di Peter. Tu lo credi davvero, Jack? Perché sei così sicuro che Peter sia stato ucciso?» «Era pieno di lividi. È stato pestato a morte sulla spiaggia di casa tua, Dana. Mi dispiace che tu non abbia visto il cadavere.» «Dicono che potrebbero essere state le onde a ridurlo così.» Non riuscivo a credere che Dana fosse completamente dall'altra parte, ma sarebbe stato folle rivelarle anche solo qualcuna delle scoperte che avevamo fatto io e Pauline in due mesi di duro lavoro. «Dana, quando avevo bisogno di te, tu non c'eri», le dissi. Piangeva. «Mi dispiace, Jack. Cosa posso fare per dimostrarti che ti voglio bene?» «Prima di partire mi hai detto delle cose, ma poi non hai mai né telefonato né scritto. Nemmeno una cartolina. E adesso ti presenti qui come se niente fosse?» Si asciugò le lacrime. «Jack, andiamo via di qui. Prendo una stanza in albergo, se vuoi. Al Memory, magari. Ho bisogno di parlarti. Ti prego.» Mi gettò le braccia al collo, ma io non avevo nessuna voglia di abbracciarla. Mi staccai. «Non vengo al Memory con te, Dana. Anzi, ti prego di andare via, adesso.» Mi lanciò un'occhiata di fuoco e incrociò le braccia. Fu una trasformazione sorprendente. «Chi è, Jack, la stronzetta che era qui con te?» «Un'amica. Mi sta aiutando per la storia di Peter. A proposito, come sta Volpi?» Dana trasalì e si alzò di scatto. Non piangeva più, adesso: era decisamente arrabbiata. Tutta suo padre. Appena se ne fu andata rientrai in casa, passai davanti a Mack che guardava una partita in televisione immusonito e provai a chiamare Pauline sul cellulare. O lo aveva spento, o non mi voleva rispondere. 54 Mi portai una Guinness davanti a casa e guardai la coda dei vacanzieri che rientravano in città. Presto negli Hamptons sarebbe tornata la calma.
Mi sedetti su un gradino e ripensai alla serata. Che disastro. Mi venne persino il dubbio che Dana sapesse che Pauline era a cena da me, cosa più che plausibile. Era tardi e guardare le auto in coda era un po' come contare le pecore. Mi stavo assopendo, quando una volante passò sgommando in direzione opposta al traffico. Con mia grande sorpresa svoltò nel mio vialetto e inchiodò davanti a casa. Un attimo dopo vidi scendere Frank Volpi e un altro poliziotto che non conoscevo. Cos'era successo? «Ti spiace se ti faccio due o tre domande?» mi chiese Volpi avvicinandosi. «Ti interessa il mio parere?» «No. Dove sei stato stasera?» «Qui. Perché?» «Hanno dato fuoco alla casa di Sammy Giamalva», mi informò. «Un lavoretto da professionisti. Siamo abbastanza sicuri che lui sia morto nel rogo.» Mi sentii come se mi avessero appena pugnalato alle spalle. Pensai alla foto di Sammy in cucina che ci era arrivata in busta chiusa al Memory. Sammy con la sigaretta in bocca e una tazza di caffè in mano, un ragazzo di ventitré anni che si prepara al lavoro, un lavoro che ama. Ritratto del parrucchiere da giovane. Cercai di farmi tornare in mente i numeri scritti a matita in calce a ciascuna foto. Di colpo capii che erano quotazioni, come nelle scommesse, e che quella di Sammy (6-5) era la più favorevole. Volpi era ancora davanti a me. «Qualcuno può confermare che sei stato qui da due ore a questa parte?» «Davvero pensi che sia stato io ad appiccare il fuoco alla casa di Sammy, Frank? Ora che non ho più parenti da far fuori, comincio a prendermela con gli amici?» Ero furibondo, ma mi sentivo anche tremendamente in colpa per aver messo i miei amici in condizioni di così grave pericolo. «Ti spiace se io e il collega Jordan diamo un'occhiata in giro?» mi domandò Volpi. «Sì, per la verità», risposi, ma Jordan stava già dirigendosi verso il garage. «Scusi, ma non può entrare lì dentro», lo richiamai.
Lo raggiunsi e gli restai a fianco mentre apriva la saracinesca e controllava con la torcia cosa c'era dentro. Il fascio di luce si spostò piano piano verso la moto di Peter. «Bella», decretò con un sorrisetto. «Quanto costa? Ventimila dollari?» «Questa perquisizione è illegale», ribadii. «Per favore, uscite dal mio garage.» Jordan si accucciò per aprire la cassetta degli attrezzi della BMW. Cosa stava cercando? Mi avvicinai e lo fermai, afferrandogli il polso. «Per favore, andatevene. E lei non tocchi la mia moto.» Jordan si alzò di scatto e mi spinse contro Frank Volpi, che nel frattempo ci aveva seguito nel garage. Volpi mi bloccò con mossa rapida e mi tenne fermo, a disposizione di Jordan. Se non fu il primo pugno a rompermi di nuovo le costole ormai quasi guarite, fu certamente il secondo. «Sei in arresto per aver intralciato le indagini e aver aggredito un pubblico ufficiale», disse Volpi. Sorrise e mi ammanettò. Poi mi fece salire sulla volante. Non si premurò neppure di leggermi i diritti e io capii perfettamente: non ne avevo. 55 «Sveglia! Sveglia!» Un gavettino di latta che batteva sulle sbarre mi riscosse da un sogno in cui stavo cercando di salvare Peter e Sammy. Saltai giù dalla branda e mi guardai affannosamente intorno, finché vidi Mack con il suo sorriso da disgraziato, un sacchetto di carta un po' unto sotto il braccio e in mano il vecchio gavettino da campeggio che doveva aver cercato per tutta la mattina. «Alzati, pelandrone. Ho appena pagato la cauzione: sei un uomo libero.» «Sono contento di vederti, Macklin. E grazie della piccola sceneggiata carceraria.» Mi vestii in fretta e furia mentre Paul Infante, il poliziotto del turno di notte, si avvicinava alla porta della cella tenendo fra le dita una chiave legata al cinturone con una lunga catenella. La grossa serratura si aprì rumorosamente. Il poliziotto tirò verso di sé la pesante porta e, fatti due passi, fui di nuovo nel mondo. «Jack Mullen, sei un grande», esclamò Macklin dandomi una pacca sulla
spalla. «Nemmeno sei ore all'East Hampton Hilton sono riuscite a piegarti.» «Falla finita, Macklin.» Al piano di sopra, Infante mi consegnò una busta con orologio e portafogli e mi fece firmare un ordine di comparizione davanti al giudice: ero accusato di aver interferito in un'indagine di polizia. La denuncia per aggressione era stata ritirata. «Dovremmo andare a trovare la mamma di Sammy oggi pomeriggio», disse cupo Mack. «Siamo gli unici che capiscono come si sente in questo momento.» «Immagino che diranno che anche quello di Sammy è stato un incidente», osservai. «Magari un suicidio.» Gli raccontai dell'incontro con Volpi e Jordan e dell'incredibile faccia tosta e arroganza di cui avevano dato prova. «Secondo te riusciranno a passarla liscia?» chiesi. «Certo. A quanto pare ci sono già riusciti.» Mentre mi immettevo nella strada principale, afferrai il sacchetto di ciambelle che Mack teneva sulle ginocchia. Ce n'erano tre, morbide, dorate e profumate di cannella. Il fatto di essere reduce dalla mia prima notte di galera le rese, se possibile, ancora più squisite del solito. Mack, pescandone una dal sacchetto prima che me le mangiassi tutte, disse: «Allora, sentiamo: pensi ancora di essere l'uomo che metterà in ginocchio questo maledetto sistema?» 56 Era quel che stavo per scoprire. La commissione d'inchiesta sulla morte di mio fratello si riunì nella palestra del liceo di Montauk. Non avrebbero potuto scegliere posto peggiore. Per anni Peter e io vi avevamo giocato a basket la domenica. Ogni domenica. Mentre andavo a sedermi al mio posto con Mack, mi pareva di sentire ancora i tonfi sordi del pallone sul pavimento di legno. Mi venne in mente la prima volta in cui, da ragazzini, eravamo entrati di straforo nella palestra. Fenton si era procurato la chiave e, dopo aver nascosto le bici tra gli alberi, eravamo stati a guardare mentre la infilava nella toppa. Miracolosamente, aveva funzionato. Ci eravamo ritrovati in quello stanzone buio e silenzioso, più intimoriti che se ci fossimo appena intrufolati nella cattedrale di St. Patrick. Hank aveva trovato l'interruttore e la palestra si era illuminata come un sogno in technicolor.
La mattina dell'inchiesta, lungo il perimetro della sala erano state disposte almeno duecento sedie pieghevoli. Tutte le persone che vi avevano preso posto erano già state lì, o da studenti il giorno della consegna dei diplomi, o da genitori orgogliosi, o in entrambe le vesti. Marci aveva tenuto gli ultimi due posti in prima fila per Mack e per me. Mi guardai intorno e vidi Fenton e Molly, Hank e la moglie e un numero incredibile di amici di Montauk, ma naturalmente non il povero Sammy Giamalva. Non dovemmo aspettare molto perché la seduta cominciasse. «Udite, udite!» annunciò l'ufficiale giudiziario, giunto appositamente quella mattina da Riverhead. «Entra sua eccellenza il giudice Robert P. Lillian della suprema corte della contea di Suffolk.» Con la severa toga nera, il giudice sembrava l'oratore ufficiale di una cerimonia di conferimento delle lauree. Entrò nella palestra dal piccolo bar adiacente e salì in cattedra. Se gli spettatori erano perlopiù gente del posto, lo stesso non si poteva dire dei protagonisti di quella tenzone. Seduti l'uno accanto all'altro a un tavolo lungo e stretto di fronte al giudice c'erano tre dei soci anziani dello studio Nelson, Goodwin & Mickel, capeggiati nientemeno che da Bill Montrose. Alle loro spalle, come figli orgogliosi, c'erano tre dei soci giovani più promettenti. Al tavolo di fronte aveva preso posto la ventiquattrenne Nadia Alper, sostituto procuratore distrettuale, e c'erano quattro sedie vuote. Nadia Alper annotava degli appunti su un blocco di fogli gialli e intanto beveva una Coca-Cola maxi. «Non ha nemmeno un assistente», osservò Mack. Lillian, basso e robusto, prossimo alla sessantina, ci informò che, malgrado non ci fosse alcun imputato, l'udienza si sarebbe svolta come un processo senza giuria e sarebbe durata tutto il giorno. Sarebbero stati chiamati a deporre sotto giuramento alcuni testimoni e, nel caso in cui il giudice lo avesse ritenuto necessario, sarebbe stato permesso un breve controinterrogatorio. In altre parole, era tutto nelle sue mani. Lasciò poi la parola agli avvocati di Neubauer e Montrose chiamò una certa Tricia Powell, una mora sulla trentina con le guance rosse. Non l'avevo mai vista prima e mi chiesi da dove fosse saltata fuori. Sotto l'abile guida di Montrose, Tricia Powell testimoniò di aver preso parte alla festa dei Neubauer il weekend del Memorial Day e di essere andata a fare due passi in riva al mare verso la fine della serata. «Vide qualcuno?» le domandò Montrose. «Prima di arrivare alla spiaggia no», rispose. «Poi scorsi Peter Mullen.»
Trasalii. Era la prima volta in due mesi che qualcuno ammetteva di aver visto Peter dopo la pausa per la cena. Nella palestra corse un brusio. «Che cosa stava facendo quando lo vide?» continuò Montrose. «Guardava il mare. Aveva l'aria triste.» «Lei lo conosceva personalmente?» «No, ma lo riconobbi. Era il ragazzo che aveva parcheggiato la mia macchina. Poi, naturalmente, vidi la foto sul giornale.» «Che cosa accadde quella sera? Ci racconti che cosa vide esattamente.» «Fumai una sigaretta. Poi, mentre mi avviavo di nuovo verso la villa, sentii un rumore, mi voltai e mi accorsi che Peter Mullen si era tuffato in mare.» «E questo le parve strano?» «Sì, molto. Non solo perché le onde erano grosse, ma anche perché l'acqua era freddissima. Ci avevo messo i piedi ed ero rimasta scioccata.» Anch'io ero scioccato. Quella donna, chiunque fosse, mentiva spudoratamente. Mi chinai verso Nadia Alper e le sussurrai qualcosa. Quando Montrose ebbe finito, la Alper si alzò per interrogare la teste. «Come ha conosciuto Barry Neubauer, signorina Powell?» esordì. «Siamo colleghi», rispose lei tranquillissima. Avrei voluto alzarmi e prenderla a schiaffi. «Anche lei è nel settore dei giocattoli, signorina?» «Lavoro nel settore promozione della Mayflower Enterprises.» «In altre parole, lavora per Barry Neubauer.» «Mi piace pensare che siamo anche amici.» «Sono certa che d'ora in avanti lo sarete», commentò Nadia Alper. Le risate di scherno che si levarono tra il pubblico furono interrotte da un aspro rimprovero del giudice Lillian. «Spero, avvocato Alper, di non doverla esortare mai più a esimersi da commenti del genere.» La giovane avvocatessa si rivolse nuovamente alla teste. «Ho qui un elenco di tutti gli invitati alla festa di quella sera. Il suo nome non risulta, signorina Powell. Saprebbe dirmi perché?» «Incontrai Neubauer a una riunione alcuni giorni prima e fu così gentile da invitarmi in quell'occasione.» «Capisco. E a che ora arrivò alla festa?» chiese la Alper. «Troppo presto, devo confessare. Alle diciannove, diciannove e cinque al massimo. Con tutti quei personaggi famosi, non volevo perdere nemmeno un minuto.» «E fu Peter Mullen a parcheggiare la sua macchina?»
«Sì.» «Ne è assolutamente sicura, signorina Powell?» «Sicurissima. Era uno che... difficilmente si dimentica.» Nadia Alper tornò al suo tavolo, prese una cartellina e si avvicinò alla cattedra. «Desidero che vengano messe agli atti le deposizioni di tre dei colleghi di Peter Mullen, i quali affermano che quella sera il deceduto arrivò al lavoro con almeno quaranta minuti di ritardo. È impossibile pertanto che abbia parcheggiato l'auto della signorina Powell o di chiunque altro prima delle diciannove e quaranta.» Nella sala si alzò di nuovo un brusio, sempre più forte: la gente era chiaramente indignata. «Ha qualche spiegazione per questa discrepanza, signorina Powell?» domandò il giudice. «Ero convinta che fosse stato lui a parcheggiare la mia auto, vostro onore. È possibile, immagino, che lo abbia notato in un altro momento della serata. Era molto bello. Forse è per questo che il suo viso mi rimase impresso.» C'era una tale confusione quando Nadia Alper tornò al suo posto che il giudice dovette battere più volte il martelletto e chiedere silenzio. «La Alper ha del fegato», mi bisbigliò all'orecchio Mack. «Primo round in pareggio, direi.» 57 Era una vera sofferenza. Avrei voluto essere io a controinterrogare i testimoni, a obiettare a tutto quel che diceva Montrose, con il suo atteggiamento di sufficienza, lo stramaledetto blazer di cashmere blu e i pantaloni grigio canna di fucile. Sembrava che non vedesse l'ora di andarsene al Bath & Tennis Club, appena conclusa quella ridicola incombenza. Il secondo testimone chiamato da Montrose era il dottor Ishier Jacobson, che aveva dato le dimissioni da medico legale della contea di Los Angeles una decina di anni prima, quando si era reso conto che poteva guadagnare cinque volte di più facendo il perito di parte. «Dottor Jacobson, per quanto tempo lei fu primario di medicina legale al Cook Claremont Hospital di Los Angeles?» «Venturi anni, avvocato.» «E in quel periodo, dottore, quanti morti per annegamento ebbe modo di esaminare, approssimativamente?»
«Moltissimi, purtroppo. Le spiagge intorno a Los Angeles sono molto frequentate, in particolare da surfisti. Durante il mio primariato, mi occupai di oltre duecento annegamenti.» Montrose lanciò un'occhiata al giudice Lillian, quindi si rivolse di nuovo al dottor Jacobson. «Non sarebbe esagerato dire, perciò, che lei vanta un'esperienza eccezionale in questo settore.» «Ritengo di aver esaminato più vittime di annegamento di qualsiasi altro patologo attualmente in attività negli Stati Uniti.» «E a quali conclusioni giunse riguardo alla morte di Peter Mullen?» «Innanzitutto, che morì annegato. In secondo luogo, che si trattò o di un incidente o di un suicidio.» Sapevo che comprare la testimonianza di un perito non è cosa difficile. Se un imputato ha abbastanza soldi, riesce sempre a far mettere agli atti il parere di un perito di parte che smentisca in modo convincente la tesi dell'accusa. Ma questi artifici avvocateschi fanno un effetto assai diverso, quando la vittima è tuo fratello. «Come spiega le condizioni del corpo, dottor Jacobson? Nelle foto scattate quando il cadavere fu riportato a riva dalle onde appaiono numerose ecchimosi e si è ipotizzato che Peter Mullen fosse stato picchiato.» «Come lei sa, in quei giorni il mare era in burrasca. Con onde di quella forza, ritrovare ecchimosi su un cadavere è la regola, e non l'eccezione. Ho esaminato decine di vittime di annegamento per le quali non c'era alcun sospetto di omicidio e, mi creda, erano ridotte come Peter Mullen, se non peggio.» «Stronzate», disse Hank sporgendosi in avanti oltre lo schienale delle nostre sedie. «Verme schifoso! Venduto, e spudoratamente.» Montrose continuò la pantomima. Anche lui era spudorato. «Ricorda che le ho chiesto di portare foto di altri morti annegati per illustrare questa tesi? Le dispiacerebbe mostrarle alla corte, dottor Jacobson?» Il perito sollevò due foto e Montrose trasalì, come se le vedesse per la prima volta. «Si tratta di due surfisti che avevano all'incirca la stessa età di Peter Mullen», spiegò. «Come vedete, presentano numerose ecchimosi. Eppure le condizioni del mare erano molto meno proibitive.» Montrose portò le fotografie al giudice, che le mise accanto alle carte presentate da Nadia Alper. «Dall'esame da lei condotto risultano altri elementi in grado di fare luce su questa tragica morte?» domandò Montrose. Jacobson annuì. «Dai test risultano tracce di marijuana nel sangue, da
cui si deduce che la vittima ne aveva fatto uso poco prima di entrare in acqua.» Nadia Alper intervenne: «Vostro onore, questi tentativi indegni di infangare la reputazione della vittima sono cominciati non appena si è diffusa la notizia della sua morte. Quando finiranno?» «La prego, avvocato Alper, si sieda e aspetti il suo turno.» «Per quale motivo il fatto che nel sangue vi fossero tracce di marijuana potrebbe essere significativo, dottor Jacobson?» domandò Montrose. «Studi recenti hanno dimostrato che subito dopo l'assunzione di marijuana il rischio di insufficienza cardiaca aumenta in maniera esponenziale. Tenuto conto del fatto che la temperatura dell'acqua era al di sotto dei quindici gradi centigradi, nel nostro caso il rischio diventa quasi una certezza. Alla luce di tutto questo, ritengo che Mullen abbia quasi certamente avuto un malore.» «Grazie, dottor Jacobson. Non ho altre domande.» 58 Improvvisamente non ressi più. Se fossi stato il procuratore, avrei tempestato di domande il dottor Jacobson fino a fargli sputare sangue. Gli avrei chiesto di dire alla corte quante giornate di lavoro come perito di parte aveva fatturato allo studio Nelson, Goodwin & Mickel negli ultimi cinque anni (quarantotto), a quanto ammontavano la sua tariffa giornaliera (settemilacinquecento dollari) e la diaria (trecento dollari) e qual era il suo ristorante preferito a New York (il Gotham Bar & Grill, dove il piatto più caro, il filetto di vitello, costa quarantotto dollari). Per ribadire il concetto, gli avrei chiesto se quelle quarantotto giornate gli davano diritto al piano pensione dello studio (no), se poteva accumulare punti quando viaggiava in aereo per lavoro (no) e se aveva mai condotto una perizia per la quale non fosse stato compensato (naturalmente no). Nadia Alper preferì adottare un approccio meno duro. Forse temeva che il giudice le togliesse la parola. Oppure pensava che la cosa più importante fosse chiamare a testimoniare il nostro perito il prima possibile. Fatto sta che la palestra ribolliva di sacrosanta indignazione, quando fu chiamata a deporre la dottoressa Jane Davis. Finalmente avremmo ascoltato un parere obiettivo, la voce di uno di noi. Per questo eravamo andati ad assistere all'udienza, per ascoltare la verità, una volta tanto.
Persino Nadia Alper pareva di buon umore quando chiese: «Dottoressa Davis, ci spieghi gentilmente che ruolo ha avuto in queste indagini». «Sono medico legale al Long Island Hospital e dirigo l'Istituto di medicina legale della contea di Suffolk», dichiarò Jane. «Quindi, a differenza del dottor Jacobson, lei esaminò personalmente il corpo di Peter Mullen, giusto?» «Sì.» «Quanto tempo impiegò per portare a termine tale esame?» «Più di sessanta ore.» «Più di quanto impiega normalmente?» «Sono cresciuta a Montauk e conosco la famiglia Mullen, per cui effettuai un'autopsia particolarmente approfondita», rispose Jane. «In che cosa consistette?» domandò la Alper. «Oltre a un accurato esame fisico del cadavere, effettuai numerose radiografie e prelevai e confrontai campioni di tessuto polmonare.» «E secondo il suo referto, che ho qui in mano, giunse alla conclusione che Peter Mullen non morì per annegamento, ma in seguito alle percosse ricevute. Cito dal suo referto: 'La morte di Peter Mullen fu provocata da molteplici colpi al collo e alla testa inferti con pugni, calci od oggetti contundenti. Le radiografie evidenziano la frattura scomposta di due vertebre e dal grado di saturazione del tessuto polmonare si evince che la vittima aveva smesso di respirare molto prima di finire in mare'.» «E quel che constatai», disse Jane Davis, apparentemente molto nervosa. Poi prese fiato e aggiunse: «Ma dopo ulteriori riflessioni e un lungo esame di coscienza, e alla luce della grande esperienza del dottor Jacobson, mi sono convinta che tali constatazioni iniziali erano errate e che tutto induce a pensare a un annegamento. Mi rendo conto adesso che il mio giudizio era influenzato dalla vicinanza alla famiglia della vittima». Jane pronunciò le ultime battute di quella sua devastante testimonianza con un filo di voce e parve diventare sempre più piccola. Nadia Alper rimase interdetta, come in balia dei venti. Né io né chiunque altro tra il pubblico che affollava la palestra riuscivamo a credere alle nostre orecchie. Tutti si guardavano intorno esterrefatti. «Quanto ti hanno dato, tesoro?» domandò ad alta voce la madre di un ex compagno di scuola di Peter. «Spero solo che tu abbia preso più di Jacobson», gridò Bob Shaw, il proprietario della rosticceria in Main Street. «Lui non ha dovuto tradire i suoi amici.»
«Lasciatela in pace», esclamò Macklin senza alzarsi dal proprio posto. «Non vedete che le hanno fatto qualcosa, che l'hanno minacciata, maledizione?» Il giudice Lillian batté il martelletto e chiese ripetutamente il silenzio in aula. Vedendo che non otteneva alcun effetto, annunciò una sospensione di un'ora. Nella confusione Jane Davis lasciò l'aula. Le corsi dietro, ma quando arrivai nel parcheggio dietro la palestra la sua auto stava già uscendo a gran velocità. 59 Mack e io andammo a sederci con passo malfermo su una panchina. Mi sentivo come se mi avessero preso a botte di nuovo, ma facendomi molto più male. «Probabilmente hai imparato di più in queste ultime due ore che in due anni di università», disse Mack. «A meno che nelle facoltà di legge prestigiose come la tua adesso non tengano corsi di subornazione dei testimoni, corruzione e intimidazione fisica. Bisognerebbe aggiungerli al piano di studi.» Mack osservò la bella mattinata d'agosto e si sputò tra le informi scarpe nere. Avrebbe potuto essere una scena idilliaca: una piccola scuola ben tenuta, distese di prati verdi a perdita d'occhio, uno di quei posti dove le TV mandano i cameraman il giorno delle elezioni per rendere l'idea del pittoresco ingranaggio della democrazia all'opera. Per filmare i cittadini che si presentano puntualmente alle urne con gli scarponi da lavoro ed entrano nella cabina per esprimere il proprio voto. Ma quella mattina era chiaro che nella piccola scuola ben tenuta di Montauk stava succedendo qualcosa che non era né ameno né idilliaco né tantomeno democratico. La grande truffa, il rumore bianco, Matrix. Marci ci vide sulla panchina e si avvicinò per offrirci una sigaretta. «Questi newyorchesi non fanno prigionieri, eh?» disse porgendoci il pacchetto. Scossi la testa. «Sicuro? E il giorno ideale per un vizio che accorcia la vita», commentò. Ai tempi della scuola quel parcheggio di solito era vuoto, a parte le poche auto degli insegnanti. Quel giorno, alzando gli occhi, vidi una Mercedes che girava lentamente nel piazzale. Lunga, metallizzata, con i finestrini scuri, andò a fermarsi a una ventina di metri da noi.
Due uomini robusti, vestiti di nero, scesero prontamente e si affrettarono ad aprire le portiere posteriori. Dana, con le sue lunghe gambe bianche e i capelli biondi, smontò dall'auto e si aggiustò il vestito scuro. Devo ammettere che era più bella che mai. Dall'altro lato scese suo padre. Anche lui in ottima forma, con l'aria dell'uomo che tutto può e tutto sa. La prese per mano e, con una guardia del corpo davanti e una dietro, si avviarono verso la palestra. «Ma guarda! La tua ex!» esclamò Mack. «L'avevo giudicata male, evidentemente: non avrei detto che sarebbe venuta qui a dimostrare la sua solidarietà a te e tuo fratello.» 60 Marci spense la sigaretta e seguimmo i Neubauer e le due guardie del corpo nella palestra. Il giudice Lillian stava cercando di riportare l'ordine in aula: batté il martelletto varie volte e la gente di Montauk abbandonò le sue accese discussioni per tornare a sistemarsi sulle sedie di metallo. Il pubblico non aveva ancora finito di prendere posto quando Montrose chiamò a deporre Dana Neubauer. «Santo Iddio, che cosa avrà mai da dichiarare?» mormorò Mack. Dana si fece avanti con incedere solenne. Come ho detto, era particolarmente bella quella mattina e aveva l'aria della ragazza tutta d'un pezzo, seria, credibile. «Conosceva Peter Mullen?» le chiese Montrose. «Sì, lo conoscevo bene», rispose lei. «Da quanto tempo?» «Vengo qui in vacanza da ventun anni. Conosco i Mullen da altrettanto.» «Mi duole doverglielo chiedere, ma lei ebbe una relazione con Peter Mullen?» Dana annuì. «Sì.» Si udì qualche mormorio, ma nel complesso il pubblico era ancora scioccato dalla testimonianza precedente. Io a quel punto sapevo già di Dana e Peter, ma mi disturbò moltissimo sentirne parlare apertamente in tribunale. «Quanto tempo durò?» domandò Montrose. «Circa sei mesi», rispose Dana agitandosi un po' sulla sedia, a disagio. Montrose sospirò, come se la situazione fosse penosa per lui quanto per
Dana. «Avevate una relazione all'epoca della morte di Mullen?» Oh, Gesù. Il peggio deve ancora venire, pensai. «Ci eravamo appena lasciati», disse Dana fissando nella mia direzione. Sapevo che era una bugia. O perlomeno ne ero convinto. Ma quando cercai di guardarla negli occhi, lei si voltò verso Montrose. «Quando esattamente?» chiese. «Mi rendo conto che per lei è difficile parlarne.» «Quella sera stessa», rispose Dana in un sussurro teatrale. «La sera della festa.» «Ma che brava ragazza, Jack», disse Mack senza nemmeno guardarmi. Dana mi lanciò un'altra occhiata intimorita e si mise a piangere sommessamente. Io la fissai ammutolito. Chi era quella donna? C'era qualcosa di vero in quello che diceva? «Peter la prese molto male», riprese Dana. «Sembrava impazzito: ruppe una lampada, rovesciò una sedia e se ne andò sbattendo la porta. Un'ora dopo mi telefonò per dirmi che stavo commettendo un grosso errore, che noi due dovevamo restare insieme. Sapevo che era sconvolto, ma non immaginavo che facesse un gesto inconsulto. Se avesse conosciuto Peter, anche lei l'avrebbe pensata così. In genere sembrava che nulla lo toccasse veramente. E chiaro che mi sbagliavo, però. Mi dispiace per quello che è successo.» Poi Dana abbassò la testa, si nascose il viso tra le mani e cominciò a singhiozzare. «Brava! Bravissima!» gridò Fenton Gidley dal suo posto alcune file dietro di noi, poi si alzò in piedi e cominciò ad applaudire con foga la performance della grande attrice. 61 Anni fa un mio caro amico lavorò per un'estate in una stazione televisiva di New York. Il conduttore del telegiornale lo trovava simpatico e una volta, mentre bevevano una birra, gli rivelò il segreto del successo mediatico. «In questo mestiere, quello che conta è la sincerità», gli disse. «Basta imparare a fingere di essere sinceri: il resto è un gioco da ragazzi.» Barry Neubauer fu chiamato a testimoniare subito dopo la figlia. Il suo compito non era fingersi commosso, ma proiettare l'immagine del grande uomo d'affari. Ogni dettaglio del suo look - dall'abito grigio scuro al piglio volitivo del mento ai folti capelli grigi - era volto a mettere in soggezione i suoi interlocutori, come se si trovassero davanti a un essere superiore.
Nadia Alper esordì: «Signor Neubauer, secondo uno dei camerieri che allestirono il bar nella sua villa il pomeriggio prima della festa, lei ebbe un lungo e acceso litigio con la signora Neubauer. Ci può dire a quale proposito?» «Ricordo una piccola discussione, nulla di serio», rispose Neubauer alzando le spalle. «Tant'è vero che non ne rammento assolutamente la ragione. Con ogni probabilità eravamo solo in ansia per la buona riuscita della festa. Immagino che il cameriere in questione non sia sposato da ventisette anni.» «La aiuterebbe a ricordare meglio, signor Neubauer, se le dicessi che durante quel litigio il cameriere le sentì fare varie volte il nome di Peter Mullen, spesso accompagnato da epiteti offensivi?» Neubauer aggrottò la fronte, come sforzandosi di ricordare. «No, mi dispiace, ma non ricordo. Non riesco a immaginare in quali circostanze possa essere saltato fuori il nome di Peter in una discussione tra me e Campion. Peter Mullen era un amico di famiglia, da sempre. La sua morte, a prescindere dalle circostanze in cui avvenne, ci addolorò moltissimo. Tant'è vero che andai a porgere le mie condoglianze alla famiglia Mullen e a trovare suo fratello Jack nello studio legale in cui lavora, dove gli parlai a lungo.» Neubauer era un ottimo testimone: postura eretta, sguardo fermo, voce profonda e un modo di rispondere lento e meditato che nell'insieme creavano un'impressione di assoluta credibilità. Chi lo avesse accusato di aver prestato una testimonianza che non era tutta la verità e nient'altro che la verità sarebbe sembrato cinico e prevenuto nei suoi confronti. Nadia Alper insistette. A suo onore va detto che non sembrava intimorita dal personaggio. «Ricorda cosa fece il giorno in cui Peter Mullen morì?» «Al mattino lessi i giornali e nel pomeriggio giocai a golf, piuttosto male, al Maidstone. Poi Campion e io ci preparammo per la festa.» «Saprebbe dirci che cosa stava facendo quella sera intorno alle ventidue e trenta, l'ora in cui morì Peter Mullen?» «Ero al telefono in un salottino del primo piano», rispose Neubauer senza esitazione. «Lo ricordo benissimo.» Nadia Alper piegò la testa da una parte, sorpresa. Lo stesso facemmo io e Mack. «C'è un motivo, signor Neubauer, per cui ricorda così bene una telefonata pur avendo completamente dimenticato la lite con sua moglie?» Barry Neubauer non si scompose. «Tanto per cominciare, fu una telefo-
nata molto lunga, che durò più di un'ora. Ricordo anche che mi sentii in colpa per aver abbandonato i nostri ospiti per tanto tempo.» «Quanta premura verso il suo prossimo!» esclamò sottovoce Mack. «Ha le prove di quella telefonata?» «Sì, ho portato il dettaglio delle chiamate di quel giorno, da cui risulta una telefonata di settantaquattro minuti, dalle ventidue e tre alle ventitré e diciassette.» Neubauer porse il foglio al sostituto procuratore. «Può dirci con chi parlò, signor Neubauer?» domandò la Alper. Vedendo che il suo teste aveva un momento di esitazione, Montrose intervenne: «Obiezione!» Entrambi gli avvocati si voltarono verso il giudice, che dichiarò: «Respinta. Per favore, risponda». «Con Robert Crassweller Junior», disse Neubauer con l'ombra di un sorriso sulle labbra. «Il ministro della Giustizia.» Quell'ultima risposta prosciugò tutta l'energia e la tensione che restavano nell'aula. Alcuni spettatori si alzarono e se ne andarono, come se fosse una partita dei New York Islanders e l'arbitro avesse appena fischiato la fine. Barry Neubauer osservava distrattamente il pubblico. Quando mi vide, accennò un sorriso. L'ora dei dilettanti è finita, ragazzi. Ancora qualche domanda e Nadia Alper congedò Neubauer, quindi entrambi i legali informarono la corte di aver presentato tutti i loro testimoni. Il giudice Lillian si aggiustò con cura la toga prima di rivolgersi all'assemblea. «Normalmente, aspetterei fino a domani mattina prima di pronunciarmi», disse. «Tuttavia non mi sembra che il caso meriti ulteriori riflessioni. Questa commissione di inchiesta decreta pertanto che il 29 maggio scorso Peter Mullen annegò per incidente o per suicidio. Il procedimento è concluso e la seduta è tolta.» 62 L'udienza si concluse verso le sedici e quaranta. Quando arrivai allo Shagwong, erano le cinque in punto. Mi sedetti in fondo e chiesi a Mike di versarmi sei bicchieri di Jameson. Senza batter ciglio, Mike prese tre bicchieri per mano e con la precisione che nasce dall'esperienza li allineò sul bancone riempiendoli poi fino all'orlo. «Offro io», disse. «Se lo sapevo, ne ordinavo sette», ribattei sorridendo per la prima volta in tutta la giornata.
Mike prese il settimo bicchiere e riempì anche quello. «Scherzavo.» «Anch'io.» Mentre Mike mi metteva così davanti gli ingredienti per la mia terapia d'urto all'irlandese, rividi il sorrisetto sicuro di sé che mi aveva rivolto Montrose uscendo dall'aula, più di disprezzo che di soddisfazione. Avevo avuto la sensazione che mi chiedesse perché solo io, tra tutta quella gente, non riuscivo a capire che la giustizia non è né un mistero né una partita a dadi, bensì un business. Basta spendere i propri soldi oculatamente e con una certa discrezione, e si viene prosciolti. E così che vanno le cose oggi in America. O forse, chissà, sono sempre andate così. Nell'ora e mezzo o due che seguirono procedetti sistematicamente da sinistra a destra, brindando a ognuno dei testimoni venduti che avevano partecipato a quella sfilata di spergiuri. Alzai un calice a Tricia Powell, l'impiegata modello della Mayflower, e uno al buon dottor Jacobson, mago della medicina legale californiana. O, per usare le parole di Mack, «gran puttana con un ottimo curriculum». Alla salute della mia ex fiamma Dana bevvi due bicchieri. Il primo per essere tornata fin dall'Europa solo perché aveva nostalgia di me e l'altro per la performance da Oscar di quel pomeriggio. Quasi ignaro di chi mi circondava, tracannai whisky fino a che lo stupore alcolico non fu più forte della rabbia che provavo. Il passaggio avvenne più o meno con il secondo brindisi a Dana, il quarto in quaranta minuti. Sebbene i miei ricordi non siano chiarissimi, so che Fenton e Hank si avvicinarono e mi misero un braccio sulle spalle, ma intuirono che non ero dell'umore giusto per un abbraccio fraterno e ben presto mi lasciarono alla mia terapia irlandese. Stavano solo cercando di fare la cosa giusta. Al momento di ordinare avevo intenzione di brindare a Jane Davis, ma quando arrivò il suo turno ero più preoccupato per lei che arrabbiato per come si era comportata. Tornando dalla toilette, mi fermai al telefono e le lasciai un messaggio non del tutto coerente in segreteria. «Non è colpa tua, Jane», sbraitai per farmi sentire in mezzo a tutto quel chiasso. «È colpa mia. Non avrei mai dovuto coinvolgerti in questo casino.» Fu in quel momento che vidi nientemeno che Frank Volpi, fermo poco lontano da me, in attesa che finissi di parlare. «Congratulazioni, coglione», mi disse. Poi sorrise e si allontanò senza lasciarmi il tempo di ribattere. Tornato al bar, brindai anche a lui. Aveva partecipato alla farsa fin dall'inizio e con una performance impeccabile. «A Volpi», dissi e tracannai il
quinto whisky. Il sesto era per Barry Neubauer. Quel fiume di alcol aveva risvegliato la mia vena poetica e, per l'occasione, composi una bella rima. Barry Neubauer, che stronzo sei tu, magari potessi non rivederti mai più. Doveva essere l'ultimo, ma grazie a Mike avevo ancora un colpo in canna. Temevo di dover brindare a qualcosa di vago e di amorfo, tipo il sistema, quando mi venne in mente il ministro della Giustizia Robert Crassweller Junior. Dovevo ammettere che Montrose era stato abilissimo nel preparare il terreno per la battuta finale di Neubauer. Che classe! Aveva menato per il naso Nadia Alper con un'abilità senza pari. Che stile! Un vincitore nato! Dopo quell'ultimo bicchiere, cominciai a perdere la nozione del verticale e dell'orizzontale e tutto intorno a me si mise a girare. Corsi ai ripari ordinando un paio di birre. Un ottimo rimedio per farsi passare la sbornia. Poi tentai ripetutamente di lasciare a Mike quaranta dollari di mancia, ma lui continuava a rinfilarmeli nel taschino della camicia. Alla fine uscii barcollando dal locale. Richiamai Jane da una cabina telefonica poco lontano. Non riuscivo a togliermi dalla testa la sua espressione terrorizzata e, quando mi rispose, cercai di darle una versione un po' più intelligibile del messaggio che le avevo lasciato poco prima. «Non è grave, Jane», le dissi. «Invece lo è, Jack. Mi dispiace da morire. Scusami. Sono venuti a cercarmi a casa.» «Non avrebbe fatto la minima differenza.» «E con questo?» Il tono era isterico. Passarono quattro turisti che salirono su una Saab decappottabile. «Jane, giurami che non farai sciocchezze.» «Non preoccuparti. Ma c'è una cosa che devo dirti. Non te ne ho parlato prima, perché mi sembrava inutile. Tra tutti gli esami che ho fatto sul cadavere di Peter, c'erano anche quelli del sangue. Jack, tuo fratello era sieropositivo.» 63 I tre chilometri a piedi e l'aria di mare mi fecero bene. Quando arrivai al parcheggio di Ditch Plains Beach e tagliai per il prato umido di rugiada di casa mia, ero quasi sobrio.
Per fortuna, perché seduta sugli scalini, con la schiena appoggiata alla porta d'ingresso e uno dei miei vecchi maglioni indosso, c'era Pauline. Erano circa le ventidue e trenta. Sull'asfalto e sull'erba aleggiava una nebbiolina di mare. È una strana analogia e non so perché mi venne in mente, ma nel vedere Pauline che mi sbarrava il passo in quel modo pensai a Gary Cooper che aspetta pazientemente per strada in Mezzogiorno di fuoco. Forse per come stava immobile e per come mi sorrise con l'aria di dire: «Eccomi qui, che cosa pensi di fare adesso?» «Che piacere vederti, Pauline.» «Anche per me. Ti ho guardato dal fondo della palestra oggi, sono rientrata a New York e poi ho ripreso la macchina e sono tornata di nuovo qui. Roba da pazzi, eh? Inutile negarlo.» «Lasciami indovinare. Hai fatto qualcosa di terribile per cui Macklin ti ha sbattuto fuori di casa?» «No.» «Volevi solo prendere un po' d'aria?» «No.» «Ci sono andato vicino?» «No.» Di solito sentirsi dire di no non fa piacere, ma in quel caso non potevo chiedere di meglio. Mi sedetti sul freddo scalino di pietra e mi appoggiai anch'io alla porta di legno rosso. Toccai il braccio di Pauline e sentii una specie di scossa elettrica. Lei mi prese la mano. Trattenni il fiato. «Però, mentre parlavo con Macklin, ho capito improvvisamente una cosa», mormorò. «Che cosa, Pauline?» bisbigliai a mia volta. «Quanto tengo a te.» La guardai e feci quel che probabilmente desideravo fare da molto tempo. La baciai delicatamente sulla bocca. Era morbida e combaciava alla perfezione con la mia. Rimanemmo così per un momento dolcissimo prima di staccarci e guardarci negli occhi. «Valeva la pena di aspettare», dissi. «Potevi anche fare a meno di attendere così a lungo, Jack.» «Ti prometto che d'ora in poi sarò più rapido.» Ci baciammo di nuovo e da allora non abbiamo praticamente mai smesso. Adesso mi rendo conto che per il lettore che mi ha seguito finora questo sviluppo romantico della vicenda non sarà stata una gran sorpresa, e che
probabilmente lo aveva previsto fin dall'inizio, ma per me non fu così. Ne fui cosciente soltanto nel momento in cui attraversai il prato quella sera. Non perché non volessi che succedesse, al contrario, non avevo desiderato altro dalla prima volta che Pauline era entrata in quel bugigattolo del mio ufficio. L'avevo desiderato tanto che non osavo neppure sperare che accadesse veramente. «Sei una brava persona. E sei tenero», disse Pauline mentre ci abbracciavamo davanti alla porta. «Non vorrai farmene una colpa!» «Certo che no.» Mi mostrò una coperta che aveva preso in casa. «Andiamo sulla spiaggia, Jack. C'è un'altra cosa che voglio fare con te da tanto tempo.» PARTE QUARTA IL LAUREATO 64 Il sole che sorge sul Queens e l'East River non sarà uno spettacolo grandioso quanto l'alba sull'Atlantico, ma non è da buttare. E lo stesso poter allungare una mano e abbracciare Pauline che dormiva tranquillamente al mio fianco. Avevo immaginato che potessimo stare bene insieme, ma non fino a che punto. Per la prima volta in vita mia, ero innamorato. Alla fine dell'estate avevo lasciato Mack a Montauk ed ero andato a convivere con Pauline a New York, in Avenue B, e per i cinque mesi successivi avevo preso tutti i giorni la metropolitana per andare all'altro capo di Manhattan a frequentare i corsi che mi avrebbero permesso di laurearmi alla Columbia Law School. Benché gli avvenimenti dell'estate avessero spento il mio entusiasmo per la professione di avvocato, facevo sul serio. Ispirato dalla rabbia e dall'indignazione così come alcuni miei compagni di studi lo erano dall'ambizione, sgobbavo con più impegno di quanto avessi mai fatto in vita mia. L'inchiesta aveva suscitato in me una curiosità morbosa per le tecniche processuali. Studiai a fondo tutte quelle descritte da Thomas Mauet, leggendo e rileggendo il suo libro come fosse la Bibbia, e anche testi sull'analisi delle prove e il diritto costituzionale. Mi impegnai talmente che, quando furono esposti i risultati finali, scoprii di essere il terzo del mio corso.
Pur non avendo prospettive lavorative molto brillanti, ritenni di essermi meritato una pausa e, mentre altri neolaureati facevano a gara per assicurarsi un posto in qualche studio prestigioso o preparavano l'esame di Stato, decisi di godermi la vita nell'East Village. Era il posto più adatto per prendermi cura della mia anima e cercare di capire che cosa dovesse fare un ventinovenne appena laureato e pieno di rabbia. Ad aumentare la mia irrequietezza aveva contribuito una lettera arrivata da Huntsville, Texas: il Motociclista aveva preso sul serio la mia proposta di tenersi in contatto e si mostrava perplesso sul fatto che riaprissero il caso e gli facessero il test del DNA. Nulla di quel che mi aveva scritto fino ad allora, però, poteva prepararmi a quel che appresi nella sua lettera successiva. La data dell'esecuzione era stata fissata. 65 La prima volta che vidi il Motociclista fu in una gelida mattina di febbraio, poco prima che venisse messo a morte per volontà dello Stato del Texas. Tra di noi c'era la parete di plexiglas che separava la stanza delle esecuzioni capitali da quella riservata ai pochi spettatori. Pauline e io eravamo arrivati a Dallas in aereo la mattina precedente, avevamo affittato un'auto e fatto tre ore di strada per raggiungere Huntsville. All'ultimo momento la direzione del carcere aveva revocato l'autorizzazione a un colloquio privato, ma siccome eravamo nell'elenco dei visitatori personali del condannato ci fu dato il permesso di assistere all'esecuzione. Insieme alla prozia del Motociclista e a un vecchio giornalista, potemmo vedere il condannato solo quando fu spinto sulla sua sedia a rotelle nella stanza delle esecuzioni, poco prima delle otto del mattino. Era stato nel braccio della morte per vent'anni, che avevano lasciato il segno. L'ultima foto che avevo visto dell'ex buttafuori, alto uno e novanta, risaliva a quasi ventun anni prima e, pur essendo ancora un uomo grande e grosso - doveva pesare almeno centotrenta chili -, era invecchiato prematuramente. La barba e i capelli lunghi erano bianchissimi. Negli ultimi tre anni, poi, una malattia articolare degenerativa alle anche lo aveva costretto sulla sedia a rotelle. In presenza del direttore e del cappellano del carcere, una guardia lo aiutò a infilarsi un paio di occhiali e gli mise davanti un foglio di carta, all'altezza del petto. Pur essendo in parte sedato, il Motociclista cominciò a leg-
gere con un timbro di voce sorprendentemente alto: «Questa prigione e il governo si sono già presi gli anni migliori della mia vita. Questa mattina mi toglieranno tutto quello che mi resta. Commetteranno un omicidio. Che Dio abbia pietà di loro». Si voltò, mi vide in prima fila e mi fece un sorriso così pieno di gratitudine e così dolce che rimasi profondamente commosso. Trattenni a stento un singhiozzo e Pauline mi strinse il braccio. I minuti successivi volarono come in un incubo. Mentre la pioggia batteva sul tetto di lamiera ondulata, il cappellano lesse il Salmo 23, poi le guardie sollevarono il Motociclista dalla carrozzella e lo stesero sul lettino. La fragilità del prigioniero dai capelli bianchi, la sedia a rotelle e l'efficienza delle guardie contribuivano a dare l'ingannevole impressione di assistere a una procedura medica destinata a curare un uomo malato, ulteriormente rinforzata dal gesto di un inserviente che gli rimboccò la manica bianca sul robusto braccio destro. Trovò una vena, sfregò sulla pelle un batuffolo di cotone e infilò l'ago. Quando il direttore del penitenziario, un uomo sui cinquantacinque anni dall'aria stranamente gentile, vide che l'ago era infilato, alzò la mano destra. Era il segnale convenuto per la somministrazione della prima dose di veleno. Meno di trenta secondi dopo alzò nuovamente la mano, ordinando il rilascio del cloridrato che avrebbe posto fine alla vita del Motociclista. Per tutto questo tempo il Motociclista tenne gli occhi fissi su di me. Nell'ultima lettera mi aveva chiesto se ero disposto ad assistere all'esecuzione, perché desiderava poter guardare negli occhi una persona che credeva nella sua innocenza, e io avevo fatto del mio meglio per essere degno del suo sguardo ferreo. Nell'ultimo minuto che passò su questa terra, il Motociclista cercò di cantare la prima strofa di una vecchia canzone degli Allman Brothers che gli era sempre piaciuta, sin da piccolo. «Going to the country, baby, do you want to go? I Going to the country, baby, do you want to go?» In un modo o nell'altro, ci riuscì. Poi il cloridrato fece effetto: il condannato espirò con violenza tutta l'aria dai polmoni, come se gli avessero dato un pugno e, trattenuto dalle cinghie con cui lo avevano legato al lettino, ebbe un tale sussulto che gli occhiali gli caddero dal naso e finirono per terra. Il medico del carcere lo dichiarò morto, giustiziato per ordine dello Stato, alle ore otto e diciassette.
Pauline e io uscimmo dal carcere in silenzio. Mi sentivo svuotato, senza forze. Quasi peggio della sera in cui avevo visto Peter sulla spiaggia. Avevo la sensazione di non aver fatto abbastanza né per l'uno né per l'altro. «Quell'uomo era innocente», dissi a Pauline mentre tornavamo in macchina da Huntsville a Dallas. «E Barry Neubauer è un assassino. Dev'esserci qualcosa che possiamo fare contro quel figlio di puttana. Magari somministrargli una bella dose di cloridrato.» Pauline mi prese la mano, me la strinse delicatamente e cantò sottovoce: «Going to the country, baby, do you want to go?» 66 Un giovedì mattina all'inizio di maggio mi dedicai come al solito alla routine meditativa che avevo perfezionato a poco a poco da quando ero rientrato dal Texas: andai a comprare i giornali, preparai il caffè per Pauline e la salutai con un bacio quando uscì per andare a lavorare nel lussuoso studio legale MacMilan & Hart, dove era stata assunta da poco. Quindi, dopo venti minuti di flessioni e di addominali sul pavimento del soggiorno, uscii di casa. Prima di tutto passai da Philip K, un ex capo redattore editoriale ed ex eroinomane in trattamento con il metadone che commerciava in libri usati su un'ordinata bancarella in Tompkins Square Park. Essendo un esteta e uno snob, Philip vendeva solo libri che riteneva degni di essere letti. Molte mattine sul suo banchetto c'erano solo tre o quattro volumi sgualciti. Quel giorno offriva un romanzo in formato tascabile, macchiato di caffè, intitolato Night Dogs. Lo presi senza contrattare sul prezzo, me lo infilai nella tasca di dietro dei pantaloni e andai in un bar in 2nd Avenue, dove cominciai a leggere davanti a una tazza di caffè e a una fetta di matzo brei. Pur non essendomi fatto fare né piercing né tatuaggi, in modi meno palesi stavo diventando un tipico esemplare da East Village. Avevo imparato ad apprezzare pierogi, blintz e altre specialità dell'Europa dell'Est che si trovavano nei vecchi negozi lunghi e stretti tra 2nd Avenue e Avenue C. Mi affascinavano i bar semibui della zona, dove i juke-box suonavano canzoni che non avevo mai sentito prima. Piacevano anche a Mack, che una volta ogni tanto prendeva il pullman e veniva a fare un giro dei pub del quartiere con me e con Pauline. Sempre aggiornato sulle ultime mode, mio nonno pareva più a suo agio di me nel Village. Con il cappello floscio di feltro che gli avevo regalato,
sembrava Henry Miller tornato dal regno dei morti per farsi un giro nel quartiere degli alternativi. E, a proposito di cappelli di feltro, avevo cominciato anch'io a vestirmi nei negozi dell'usato. Nulla di quel che indossavo quella mattina era costato più di sei dollari. Così, dopo aver fatto colazione e letto cinquanta pagine dell'ultimo romanzo raccomandato da Philip, decisi di andare a dare un'occhiata da Ferdi's Vintage, in 7th Street, dove avevo comprato alcuni dei pezzi migliori del mio guardaroba. Avevo appena cominciato a frugare tra le camicie di seconda mano appese in fondo al negozio quando entrò un ragazzo non molto alto, con capelli cortissimi e pizzetto completamente ossigenati. Nel vederlo rovistare tra i vestiti usati, mi venne nostalgia di Sammy. Erano più o meno della stessa statura e avevano la medesima corporatura minuta. E lo stesso identico modo di fare. La somiglianza era tale che cominciai a chiedermi se non abbiamo tutti qualche sosia che gira per le strade di chissà quale altra città. Il ragazzo dovette percepire qualcosa, perché si voltò a guardarmi. Stavo per mormorare una scusa quando l'espressione di totale stupore lo tradì. «Sammy!» Mi sferrò un pugno e mi ritrovai per terra a guardare dal basso una fila di vecchie camicie. 67 Sammy era vivo? Non era possibile. Eppure era lui, ne ero sicuro! Mi rialzai con la stessa velocità con cui ero caduto, uscii a precipizio dal negozio e lo vidi correre in 7th Street in direzione ovest. Attraversò lst Avenue e scomparve. Correva come se avesse appena visto un fantasma, e lo stesso valeva per me. C'era un bar gay all'angolo, con tende color rosso scuro alle finestre. Quando spalancai la porta, alla luce di lst Avenue vidi Sammy che scappava verso l'uscita di servizio. «Sammy, fermati! Devo parlarti», gridai. Mi lanciai all'inseguimento nel locale semibuio, ma andai quasi a sbattere in un robusto barista che aveva saltato agilmente il bancone del bar e mi sbarrava il passo. «Volevo solo parlare un attimo a un amico che credevo morto.» «Capita anche nelle migliori famiglie, dolcezza. Ma a volte bisogna sa-
per accettare un rifiuto», ribatté quello. Mi voltai e mi precipitai di nuovo in strada. Sammy stava attraversando st l Avenue alla traversa successiva. Lo shock di quando l'avevo riconosciuto si stava trasformando in rabbia. Ripartii all'inseguimento. Quando rividi la sua testa di capelli ossigenati, non correva più, ma camminava di buon passo. Non lo persi di vista fino a 6th Street, oltre i ristoranti indiani, la vecchia chiesa ucraina e un negozio di souvenir guatemaltechi. Lo seguii quando attraversò 2nd e 3rd Avenue, fece il giro del palazzo della Cooper Union Foundation e si confuse tra i ragazzi che facevano acrobazie sullo skateboard all'ombra del cubo color antracite di Astor Piace. Sammy imboccò poi il canyon di 4th Avenue, con la testa bianca che ondeggiava nello sciame di impiegati usciti dagli uffici per la pausa pranzo. Ogni volta che si voltava a guardarsi alle spalle, mi chinavo o mi nascondevo in un negozio. Con circa dieci secondi di distacco, attraversai 14th Street all'altezza del negozio Circuit City e poi Union Square, dove rischiai di perderlo nella folla di signore eleganti, vestite di nero, che compravano frutta e verdura fresca. Intanto, a poco a poco, cercavo di capacitarmi dell'innegabile realtà che Sammy era ancora vivo. Che cosa era successo quella notte a casa sua? Chi era morto nell'incendio? Perché Sammy era scappato? E che cosa faceva a New York? Misi da parte le domande e mi concentrai sull'inseguimento della sua testa bionda. Una traversa prima di Paragon Sports svoltò di nuovo in direzione ovest. Lo seguii verso Chelsea, dove ci sono solo bar gay e i manichini nelle vetrine hanno la testa rasata e si tengono per mano. All'angolo tra 8th Avenue e 18th Street, vicino a Covenant House, mi si pararono davanti alcuni facchini che consegnavano due divani art déco. Quando li ebbi superati, Sammy era di nuovo scomparso. 68 Lasciata Union Square, Sammy si diede un'altra sbirciata alle spalle e vide Jack poco più indietro, vicino al City Bakery. Senza modificare l'andatura, procedette in direzione ovest e poco prima di 7th Avenue si nascose sotto una scala di cemento e aspettò che il suo vecchio amico di Montauk lo superasse. Quando Jack ebbe attraversato la strada, Sammy ripartì di gran carriera
verso nord e fece cinque isolati senza guardare indietro. Poi svoltò verso ovest un'ultima volta. In fondo a quella traversa c'era un giardinetto pubblico. Scelse una panchina nell'angolo e si sdraiò. Per un'ora se ne stette all'ombra, invisibile come un barbone, ad ascoltare il rumore del traffico in 10th Avenue e frotte di bambini urlanti sorvegliati da paciose bambinaie di origine caraibica. Quante probabilità c'erano, si chiedeva, di incontrare Jack che frugava tra vestiti di seconda mano in un negozio dell'East Village? Tante quante di sorprenderlo in un leather bar? Be', il mondo è pieno di sorprese e guarda caso - la maggior parte sono brutte. D'ora in avanti avrebbe dovuto fare più attenzione. Molta più attenzione. Ultimamente aveva avuto la sensazione di essere seguito. Aspettò che anche la seconda tornata di bambinaie avesse riportato i piccoli all'ovile e uscì quatto quatto dai giardini imboccando 10th Avenue. Camminò all'ombra del passaggio a livello, dove anche nel primo pomeriggio travestiti dalle gambe lunghe e dalle spalle larghe battevano il marciapiede in attesa di pendolari intenzionati a rientrare tardi. All'altezza di 18th Street svoltò in direzione est oltre la rimessa dei taxi e pochi minuti dopo entrò nell'appartamento che aveva preso in subaffitto in uno degli enormi caseggiati di Chelsea. La sua era l'unica faccia bianca di tutto il palazzo, ma l'importante era avere un tetto sulla testa. E dove altro avrebbe potuto trovare un monolocale con terrazzino al ventiquattresimo piano per millequattrocento dollari al mese? In qualche cittadina sperduta dell'Ohio, forse. L'ascensore era libero. Mentre saliva ripensò all'incontro casuale con Jack Mullen. Gesù! Forse era un altro segno del fatto che gli conveniva andarsene da New York, trasferirsi a South Beach e andare a lavorare nel negozio di qualche parrucchiere alternativo di Collins Avenue. Arrivato al ventiquattresimo piano pensò che ventiquattro erano anche gli anni che aveva, ancora per tre giorni soltanto, e si avviò nel lunghissimo corridoio che era l'unico luogo di quel palazzo che gli facesse paura. Mentre girava la chiave nella toppa, dalla nicchia vicino allo scivolo dell'inceneritore dei rifiuti sbucarono due uomini. Riconobbe Frank Volpi. «Accidenti, hai bisogno di un taglio di capelli, Frank.» Volpi lo spinse con la faccia contro la porta, mentre l'altro gli dava un calcio nel fianco. Era uno dei killer che avevano ammazzato Peter. Sammy capì subito che non sarebbe mai arrivato a South Beach. Forse fu per questo che decise di non dire niente. Per un'ora Volpi e il
suo compare fecero di tutto per farlo parlare, dimostrando anche una notevole esperienza, ma Sammy tenne duro. Forse per rispetto verso Peter, o anche verso Jack. Non riuscirono a strappargli una sola parola. Nemmeno quando gli ficcarono la testa nel gabinetto intasato o quando gli passarono la mano sul fornello acceso. Nemmeno quando lo portarono sul terrazzino con vista su 18th Street. E lo buttarono di sotto. 69 Mezz'ora dopo aver perso le tracce di Sammy, vagavo ancora frastornato per Chelsea. Alla fine mi sedetti in un bar di 9th Avenue per riflettere: non capita tutti i giorni di incontrare uno che credevi morto e sepolto. Dopo il caffè, tornai al Ferdi's Vintage. Magari Sammy aveva comprato qualcosa con la carta di credito o aveva lasciato un numero di telefono. Era poco probabile, ma era l'unica cosa che mi veniva in mente, e poi avevo bisogno di fare due passi. All'angolo di 18th Street c'era una giovane mamma seduta sul bordo di cemento di un'aiuola che sollevava in alto il suo bambino facendogli versetti affettuosi. Per un attimo mi parve una versione metropolitana di una idilliaca Madonna con bambino. Subito dopo, però, la vidi alzare gli occhi al cielo, lanciare un urlo e scappare con il piccino in braccio. Guardai in su. Sulle prime pensai che qualcuno avesse lanciato dall'ultimo piano un grosso sacco della spazzatura nero, ma a mano a mano che cadeva intravidi braccia e gambe sventolanti e un lampo bianco. E capii che era Sammy prima che toccasse il marciapiede. Il tonfo raccapricciante lasciò senza parole tutti i passanti. Per pochi secondi a Chelsea regnò un silenzio mai sentito in un pomeriggio di sole durante la settimana. I lampeggianti di una Lexus bianca parcheggiata nelle vicinanze parvero impazziti. Poi l'antifurto cominciò a ululare. Un ragazzino del quartiere accorse su una lucida bici BMX, fissò lo sconosciuto sfracellato al suolo e la macchia rossa che si allargava sotto di lui e scappò via. Il secondo ad arrivare fui io. Rimasi circa un minuto solo con lui. Il nome sulla patente che aveva in tasca era Vincenzo Nicolo, ma si trattava di Sammy. E i segni sulle braccia e sul viso erano come quelli sul
corpo di Peter. Le mani erano deturpate dalle bruciature. «Mi dispiace», mormorai. Un minuto dopo ero solo uno dei tanti passanti attirati lì da una curiosità morbosa. Cinque minuti dopo il branco di avvoltoi si infittì. Quando sentii arrivare la polizia a sirene spiegate, sgattaiolai tra la folla e me ne andai. Ero contento che Sammy mi avesse dato quel pugno. Se non altro ci eravamo toccati un'ultima volta prima che morisse. 70 Un'ora dopo smisero finalmente di tremarmi le gambe. Mi fermai all'angolo di un parcheggio vuoto, chiuso con la catena, in Avenue D, e tolsi il telone dalla BMW. Pur essendo ferma da due mesi, partì subito. Le diedi il tempo di schiarirsi la voce, poi imboccai FDR Drive e uscii dalla città. Continuavo a vedere Sammy che cadeva come al rallentatore. Non riuscivo a scacciare quell'immagine dalla mente. Né ci sarei mai riuscito. Lungo la strada mi fermai a telefonare a Isabel Giamalva e le dissi che pensavo di passare a trovarla. «Certo, è troppo tempo che non ci vediamo, Jack», mi disse. Tre ore dopo bussai alla porta della sua modesta casa di Montauk, poco lontano da Main Street. La madre di Sammy aveva ancora indosso la giacca e i pantaloni neri dell'uniforme da cameriera che portava da Gordon's ad Amagansett. Cercai di fingere che la mia fosse una semplice visita di cortesia, ma stentavo a ingannare persino me stesso. «Com'è andata con le mance oggi?» le domandai sforzandomi di guardarla negli occhi. «Mmm», rispose. Isabel era una brunetta minuta, bassa di statura ma piacevolmente rotonda. Era sempre stata buona con noi, con Peter, con Sammy e con me. «I turisti arrivano sempre prima, ogni anno che passa. Se non fosse stato per gli scialli di cashmere, sarebbe potuto sembrare un sabato d'agosto. Ma, dimmi, chi è questa Pauline di cui Mack parla in continuazione?» «Credo che speri in una nuova generazione di Mullen, anche se avrebbe tutte le ragioni per non volerne più sapere. Un giorno o l'altro te la presento. Piacerà anche a te, vedrai.» «Allora, Jack, cosa volevi dirmi?» mi chiese dopo un po'. Non avevo intenzione di riferirle quel che era successo a suo figlio. A che cosa sarebbe servito? Sammy aveva addosso documenti falsi e, con un
po' di fortuna, forse la brutta notizia non le sarebbe mai arrivata. Però le dissi che ero convinto che a uccidere Sammy fossero stati gli stessi che avevano ucciso Peter, chiunque fossero. Le chiesi se avesse mai avuto il sospetto che Sammy e Peter fossero coinvolti in qualche giro losco. «No, mai», rispose Isabel. «Vuol dire che sono una cattiva madre? Sammy cominciò a lavorare a sedici anni ed è sempre stato un tipo molto riservato. Pensavo che fosse per via del fatto che era gay e mi volesse proteggere, benché non ce ne fosse alcun bisogno. Non mi presentava mai nessuno dei suoi partner. Ancora adesso non so neppure se aveva una relazione seria o no.» «Se l'aveva, non lo sapevo nemmeno io, Isabel.» «Puoi andare a dare un'occhiata in camera sua, se vuoi, ma non c'è un granché», mi disse e mi accompagnò in fondo a un piccolo corridoio, sedendosi sul letto mentre io cercavo sugli scaffali e sul tavolo di formica nera addossato a una delle pareti. Erano anni che Sammy non viveva in casa della madre e l'unica traccia che era restata di lui era una pila di Vogue e Harper's Bazaar. A parte quello, c'erano solo poche spoglie della cultura tipica di un liceale americano: una vecchia grammatica francese, un libro di algebra, Pace separata di John Knowles e Re Lear. Gli unici altri libri erano manuali di fotografia. Ordinatamente in fila contro il muro c'erano volumi su tecnica ritrattistica, su illuminazione per interni ed esterni, sull'uso del teleobiettivo per fotografare gli animali. «Non sapevo che Sammy si interessasse di fotografia», osservai. «Già. Non lo sapeva nessuno», replicò Isabel. «Era un'altra delle cose che teneva per sé. Ma prima che Peter morisse, Sammy veniva qui una o due sere al mese e lavorava per tutta la notte.» «Qui? In casa tua?» «Aveva allestito una camera oscura in cantina. Circa cinque anni fa. Pensavo di mettere un annuncio sul giornale per vendere le attrezzature, ma non riesco a trovare il coraggio.» 71 La luce non si accendeva. Il fusibile della cantina era saltato e Isabel non lo aveva sostituito, così mi diede una vecchia torcia elettrica per scendere la ripida scala di legno. Puntai il fascio di luce nel seminterrato che odorava di muffa e riconobbi le sagome di una vecchia stufa a petrolio, un paio di sci d'acqua e un tavolo da ping-pong pieghevole, chiuso.
In mezzo a questi avanzi di magazzino riconobbi la camera oscura. Grande più o meno come una toilette, occupava metà di una parete ed era tutta di legno. Una porta girevole in gomma permetteva di entrare e uscire senza lasciar filtrare luce all'interno. Entrai ed esaminai il bancone nero opaco alla luce della torcia. Sopra c'erano numerose vaschette di plastica grigia e un grosso ingranditore per formati diversi. Alla parete erano appoggiate bottiglie di liquido di sviluppo e una grossa pila di pacchi di carta da stampa per uso professionale. Non so perché, ma da quando ha cominciato a fare quegli spot sdolcinati alla TV non sopporto più la Kodak. Mi sedetti sull'unica sedia che c'era e puntai la torcia verso la parete. Era coperta di pannelli da pochi soldi che si erano deformati per l'umidità. Passando per caso la mano su una giuntura, mi accorsi che il pannello di sinistra aveva il bordo consumato, sfrangiato. Come se fosse stato aperto e richiuso molte volte. Spostai la sedia all'indietro e guardai sotto il tavolo. L'odore di muffa era molto più forte e presto mi trovai con le ginocchia dei jeans bagnate. Reggendo la torcia con una mano, con l'altra cercai di far leva sul pannello in modo da aprirlo, ma non riuscivo a infilarci sotto le dita. Era difficile lavorare in quello spazio ristretto e male illuminato. Posai la torcia sul pavimento e, appoggiandomi per terra con una mano, allungai l'altra per prendere le chiavi che avevo nella tasca posteriore. Avrei fatto meglio a uscire da sotto il bancone, perché mentre cercavo di estrarre il mazzo di chiavi, un topo mi camminò sulla mano che tenevo per terra. Non potei neppure spostarla, altrimenti sarei cascato a faccia in giù. Finalmente trovai le chiavi e riuscii così a sollevare il bordo del pannello quanto bastava per infilarci sotto le dita. Diedi un energico strattone e il compensato si staccò: tra due pilastri di cemento c'era una nicchia piena di muffa. Allungai una mano nel buio e toccai qualcosa di molle e umido. La ritirai in fretta e furia. Che fosse un topo morto, o uno scoiattolo? Che schifo! Puntai la torcia e intravidi qualcosa di bianco. Trattenendo il fiato, infilai di nuovo il braccio nella nicchia. Questa volta l'oggetto molle e schifoso non mi sembrò un animale in decomposizione, ma una scatola di cartone fradicio. La afferrai per un angolo e la tirai fuori con cautela. Reggendo il mio tesoro con entrambe le mani, mi rialzai nel buio e posai
la scatola dove sapevo essere il bancone. Era marchiata Kodak, uguale a quelle impilate contro il muro. Sollevai piano piano il coperchio - era così bagnato che temevo si strappasse - puntai la torcia e vidi che l'interno era zeppo di fotografie. In cima c'era una copia a contatto con tanti provini a prima vista tutti uguali, poco più grossi di un francobollo. Illuminandoli con la torcia, vidi che erano tutte inquadrature di una coppia che lo faceva alla pecorina. Scorrendo velocemente sulle immagini, il fascio di luce creò un effetto quasi di animazione e per un attimo mi parve di vedere i due amanti muoversi come attori in un tremulo film muto. Non conoscevo la rossa in ginocchio, ma non ebbi difficoltà a riconoscere l'uomo con cui si stava accoppiando. Era mio fratello. 72 Ritornai al piano di sopra con il pornografico album di famiglia sotto il braccio come un adolescente spaventato esce da un'edicola con una copia di Penthouse. Isabel mi aspettava in cima alle scale. «Tutto bene?» mi chiese. «Sei pallido come uno straccio, Jack!» «È per l'odore dei reagenti chimici. Un po' d'aria e mi passa.» Quindi aggiunsi con nonchalance: «Ho trovato delle vecchie foto di Peter. Mi piacerebbe guardarle con calma a casa. Mi hanno risvegliato un sacco di ricordi». «Ma certo, Jack. Tieni tutte quelle che vuoi. Non occorre che tu me le restituisca. Ricordati che hai promesso di presentarmi Pauline, però.» Ancor prima di uscire, non stavo già più nella pelle: morivo di curiosità. E di paura. Pensai al tentativo di furto a casa nostra l'estate precedente e immaginai che l'assassino di Sammy stesse cercando quelle foto. E fosse pronto a torturare e uccidere pur di averle. Sistemai la scatola nella borsa fissata al serbatoio della moto. Isabel mi guardava dalla finestra della cucina. Corsi in centro e dal primo telefono pubblico chiamai Pauline e le intimai: «Non tornare a casa. Vai da tua sorella, o da qualsiasi parte, ma non tornare a casa». Poi parcheggiai la moto dietro lo Shagwong e andai a piedi al Memory Motel. Presi una stanza sul retro, chiusi a chiave la porta e tirai le tende. Se gli
assassini di Sammy mi tenevano d'occhio, dovevo sbrigarmi. Cominciai a svuotare la scatola di cartone umidiccio, una foto alla volta. In cima alla pila c'erano altre copie a contatto come quella che avevo visto in cantina. Ne dovetti tirar fuori una ventina per arrivare alla prima foto formato venti per venticinque. Ritraeva Peter seduto sull'orlo di un letto, che sorrideva disinvolto all'obiettivo. Una donna sulla quarantina gli stava sopra a cavalcioni come un fantino. Disposi le foto una per una finché tutti i mobili, il tappeto e persino il pavimento del bagno furono coperti di immagini della brillante carriera di Peter e Sammy. Le foto, lucide, ancora impregnate dell'odore del liquido di sviluppo, mostravano rapporti a due, a tre, a quattro e anche a cinque. Eterosessuali, omosessuali e bisessuali. Sammy non era un dilettante. L'illuminazione era buona, la messa a fuoco impeccabile e le angolazioni molto esplicite. Sammy aveva occhio e mio fratello era un modello in gamba. Dopo un po' non ce la feci più ad andare avanti e chiamai Pauline al cellulare per dirle che cosa avevo trovato e dov'ero. Arrivò a mezzanotte e, dopo averla abbracciata a lungo, le mostrai i capolavori di Sammy e Peter. Per un paio d'ore bevemmo caffè e studiammo le foto. Superato il primo shock, ci rendemmo conto di avere in mano delle prove. Prove importanti. Come curatori che preparano una mostra, prendemmo appunti, stilammo elenchi e calcolammo date. Quindi mettemmo in ordine cronologico le foto, cominciando da quelle in cui Peter dimostrava al massimo quindici anni e finendo con quelle che dovevano essere state scattate poche settimane prima che morisse. In quelle ultime immagini era seduto in una vasca per idromassaggio con un uomo dai capelli grigi e una bellissima bionda in topless. Barry e Dana Neubauer. A quanto pareva Dana era davvero la cocca di papà. Potrà sembrare incredibile, ma non furono le foto di Dana con il padre a farmi perdere il lume della ragione, bensì quelle di Peter a quattordici o quindici anni. Era in seconda superiore, quando aveva cominciato a fare il gigolo. Fu quella sera che decisi che le regole del gioco sarebbero cambiate. Telefonai prima a Fenton, poi a Hank e Marci e infine a Mack. Nel giro di venti minuti eravamo tutti riuniti nella squallida stanza del motel. Quando sorse il sole, non solo avevamo giurato di vendicare la mor-
te di mio fratello, ma avevamo anche messo a punto un piano. PARTE QUINTA LA VERITÀ, NIENT'ALTRO CHE LA VERITÀ 73 Per i ricchi frequentatori di Long Island, l'inizio dell'estate è segnato dal traffico congestionato in 96l Street, da code e rallentamenti sulla Route 27 e da un'ora di attesa per una pizza da venticinque dollari da Sam. Per i miliardari che invece sorvolano gli ingorghi con l'aereo o l'elicottero privati, la bella stagione nel paradiso degli Hamptons comincia con la festa nella villa sul mare dei Neubauer. Secondo gli amici di Marci e Hank che a quella festa lavoravano, Barry Neubauer aveva dato carta bianca all'organizzatrice, la quale a una settimana dal fatidico giorno aveva già speso un milione di dollari. Con cifre del genere si possono assoldare uno chef come David Bouley ai fornelli, Yo-Yo Ma allo Stradivari e l'inimitabile Johan Johan a disporre gli addobbi floreali. E resta ancora qualcosa per lo champagne servito in flûte di cristallo, una decina di tipi diversi di ostriche, la deejay del momento, Samantha Ronson, e una pista da ballo in legno montata per l'occasione nel prato dietro la villa. Anche Pauline e io facemmo qualche investimento. Per scoprire chi ci sarebbe stato quell'anno, Pauline si rimise in contatto con il suo amico hacker, che si intrufolò nuovamente nel disco fisso dell'organizzatrice e copiò la lista degli invitati. Confrontandola con quella dell'anno precedente era possibile farsi un'idea delle interazioni tra il mondo delle celebrità e quello dei ricchi. I beati sconosciuti dai portafogli gonfi che costituivano la maggioranza degli invitati erano stati quasi tutti riconfermati, mentre per i personaggi famosi il ricambio era totale. Il rapper hip-hop dell'anno precedente era stato sostituito dai vincitori dell'ultimo Oscar, lo stilista da un designer più attuale. Persino gli artisti le cui azioni avevano continuato a salire negli ultimi dodici mesi non venivano invitati una seconda volta. Inviti la plebaglia due anni di fila, e subito si mette in testa di far parte dell'alta società. Ma non è così. Per i veri ricchi, le celebrità sono solo un gradino al di sopra della servitù. Per quanto mi riguardava, l'unica differenza rispetto all'anno precedente
era che mio fratello, Peter Rabbit, non sarebbe stato davanti alla villa a parcheggiare le macchine. 74 Fenton Gidley però c'era. Una settimana prima della festa, ero accanto a Fenton quando aveva telefonato a un nostro comune amico di Montauk, Bobby Hatfield, che si occupa da anni del servizio parcheggio per la festa dei Neubauer. Appena Fenton gli aveva detto che non pescava uno spada decente da mesi e aveva bisogno di soldi, Bobby era stato ben contento di inserirlo nella lista dei collaboratori. In quella sera tiepida ma piovosa di fine maggio, perciò, Fenton era sull'attenti sotto l'elegante tenda a strisce dorate montata in tutta fretta per permettere agli ospiti di Barry e Campion di arrivare asciutti dalla macchina al portone. Fenton era elegantissimo, per i suoi standard: aveva le scarpe belle, i suoi jeans migliori e indossava una delle due camicie che possedeva. Si era anche rasato di fresco, fatto la doccia e dato il deodorante. Stava talmente bene che fui tentato di fargli una foto e mandarla alla sua mamma. Oltre alle raccomandazioni sul look, gli avevo dato anche qualche dritta su come arruffianarsi i ricchi, cosa per la quale - mi vergogno ad ammetterlo - ho dimostrato di avere un talento innato. Non si tratta tanto della prontezza con cui ti precipiti ad aprire la portiera o della competenza con cui svolgi le tue mansioni di tirapiedi, gli spiegai. In generale, i miliardari non gradiscono servilismo o gratitudine eccessivi. Ne sono imbarazzati. «Quello che gli piace è vedere che sei emozionato», dissi a Fenton, «che trovi eccitante sfiorare la loro ricchezza.» Quando Fenton Gidley si presentò puntualmente al lavoro alle diciannove e quindici, la prima cosa che fece fu consultare la lista degli invitati per accertarsi che fosse la stessa che aveva studiato con me e Pauline e che nessuno avesse disdetto all'ultimo momento. Alle venti e cinque minuti cominciò il corteo di Audi, BMW e Mercedes. Un'ora dopo quasi tutti i centonovanta invitati avevano superato il grande portone di legno ed erano sulla terrazza illuminata dove camerieri in giacca fucsia disegnata da Comme des Garçons, belli e tenebrosi come indossatori a una sfilata di alta moda, servivano sushi e champagne d'annata sotto il tendone.
Tricia Powell fu tra i primi ad arrivare. Da quando aveva giurato il falso davanti alla commissione d'inchiesta, aveva fatto carriera. Scese da una Mercedes E430 nera con un vestito nero di Armani e sabot di Manolo, guardò Fenton Gidley come se fosse trasparente e fece la sua entrée. L'avvocato di Neubauer nonché mio ex datore di lavoro, Bill Montrose, arrivò con la seconda ondata. Quando la sua Jaguar verde scuro si fermò davanti alla villa, Fenton Gidley si fece avanti, benché non toccasse a lui, consegnò a Montrose la ricevuta, portò l'auto in uno dei due spiazzi illuminati dalla luna che erano stati adibiti a parcheggio e la sistemò in un angolo in fondo. Fra gli invitati che arrivavano notò vari uomini e donne che figuravano nell'album pornografico di Sammy e non poté fare a meno di pensare che stavano meglio vestiti. 75 C'erano Sarah Jessica Parker e Matthew Broderick. E anche Bill, ospite a casa di Steven, senza Hillary. C'era Richard con l'ultimo nato. Pareva che i bambini piccoli fossero tornati a essere l'accessorio di moda, quell'estate. C'erano Allen e Kobe, ma non Shaq. Caroline, Patricia e Billy, e i quattro protagonisti della serie televisiva I Soprano. Verso le undici, quando l'atmosfera magica della festa cominciò a offuscarsi, Bill Montrose andò in cerca dei padroni di casa. Dopo un ultimo sincero abbraccio a Barry e un bacio affettuoso a Campion, batté in ritirata. Si fece largo tra la folla elegantissima fino ad arrivare al portone. Non appena fu uscito, Fenton Gidley sbucò da dietro il banchetto di ghisa disposto lungo il viale e staccò dal tabellone la chiave numero 115. Montrose stava ancora cercando la ricevuta del parcheggio quando Fenton Gidley gli si avvicinò. «Non si preoccupi, signore», disse. «Una Jaguar verde, vero?» Montrose gli strizzò l'occhio. «Complimenti, che memoria!» «Faccio del mio meglio, signore.» Fenton si affrettò ad andare a prendere la Jaguar nell'angolo dove l'aveva parcheggiata solo poche ore prima; fischiettando la sigla del Johnny Carson Show, si mise al volante di noce e guidò l'auto fin davanti alla villa. «Bella macchina», disse a Montrose mentre scendeva e intascava i cinque dollari di mancia. «Buonanotte, signore.» Montrose, che non vedeva l'ora di andarsene, fece un sospiro di sollievo,
si tolse la cravatta di Hermès e compose un numero al telefono dell'auto. Dopo alcuni squilli, dall'altoparlante uscì la voce della sua segretaria, Laura Richardson. «Pronto?» «Sono io, Laura», disse. «Sto partendo dalla villa dei Neubauer. Non ti sei persa niente, credimi.» «Non raccontarmi palle, Monty. Non sai mentire, anche se è il tuo mestiere. C'erano tutti, vero?» «Be', ho visto da vicino Morgan Freeman.» «Non dirmi che è alto uno e settanta e puzza.» «Uno e novanta e profumatissimo.» «Chi altro hai visto?» «Nessuno di tua conoscenza. Senti, Laura, non ce la faccio stasera.» «Ma che sorpresa, Monty! Qual è la scusa, questa volta?» «Con la storia del divorzio e dell'affidamento dei figli, non mi conviene allontanarmi questo weekend.» «Non ti conviene che si venga a sapere che da tre anni ti scopi la segretaria negra, vorrai dire.» Montrose trattenne uno sbadiglio. «Laura, dobbiamo discuterne proprio adesso?» «No», ribatté lei. «Il capo sei tu.» «Grazie. Non hai idea di quanto sono stanco.» Quando sentì il clic, batté il pugno sul cruscotto con furia. «Non azzardarti a buttarmi giù il telefono!» gridò. «Mi mancano solo queste stronzate!» Decisi che era il momento adatto per sollevare la coperta, tirarmi su a sedere sul sedile posteriore e premergli la canna della pistola sul collo. «Non è serata, eh, Monty?» dissi quando i nostri sguardi si incontrarono nello specchietto. 76 Diedi a Montrose solo un paio di secondi per riprendersi dallo shock, poi gli premetti di nuovo la canna della pistola sul collo. Era una sensazione piacevole. «Allo stop gira a destra», ordinai. «Fai esattamente quello che ti dico, Monty.» Rallentò prima di svoltare e mi guardò nello specchietto. Incredibile con
quale velocità fosse riuscito a dissimulare il panico e a calarsi sul volto la maschera da Grand'Uomo di Mondo! In trenta secondi si era convinto del fatto che tutto era ancora fondamentalmente sotto controllo. «Ti rendi conto che questo è un sequestro di persona, o può essere considerato tale? Che cosa diavolo credi di fare, Jack?» «Gira a sinistra», ordinai. Montrose, ubbidiente, imboccò Further Lane. La luna ci seguiva tra i rami degli olmi secolari. Stranamente, sembrava sempre più sicuro di sé, come se fossimo nel suo grande ufficio dalle finestre scure e dovesse solo premere un pulsante per far arrivare di corsa Laura Richardson e un manipolo di guardie. «Ti ho offerto un ufficio con vista su mezza Manhattan e tu hai mandato tutto a puttane», mi disse. «Proprio non vuoi capire, Mullen.» «Infatti. Me lo ricordo benissimo.» Allontanai la pistola dal suo collo, gliela puntai contro l'orecchio e feci scattare la sicura. «E un'arma vecchia. Se fossi in te, starei bene attento a evitare le buche. Ora gira a destra.» Montrose trasalì ed emise un gemito e, quando guardai nello specchietto, vidi che si era trasformato di nuovo. «Ancora a sinistra», dissi. Adesso viaggiavamo verso il mare, lungo DeForest Lane. «Terzo cancello a destra.» Imboccò diligentemente il viale di una villa bassa e parcheggiò. Gli porsi una benda e gli ordinai di legarsela sugli occhi. Gli tremavano le mani, come a Jane Davis davanti alla commissione d'inchiesta. «Stringila bene», dissi. «Voglio farti una sorpresa.» Lo guidai in casa, gli feci fare un paio di giri su se stesso in cucina e poi lo condussi fuori attraverso la porta sul retro. C'era una terrazza in cotto e, poco più in là, un vecchio furgone di lattaio fermo nel prato. Aprii il portello posteriore del furgone e feci salire Montrose. Dentro c'erano già altri tre ostaggi legati e bendati. Una era Tricia Powell, la star dell'udienza; gli altri due erano Tom e Stella Fitzharding, i migliori amici dei Neubauer. Richiusi il portellone lasciandoli tutti e quattro nel buio più totale. 77 Tornai alla Jaguar, spostai indietro il sedile e regolai lo specchietto retrovisore immaginando come doveva essersi sentito Montrose quando aveva visto la mia faccia riflessa. Mi fa piacere che tu ti diverta, Jack.
Passando per strade secondarie, riportai l'auto fino al cancello della villa dei Neubauer, che luccicava oltre il parabrezza bagnato di pioggia. Abbassai il finestrino e dissi al custode che ero lì per riaccompagnare a casa uno degli ospiti. Per nulla sorpreso, l'uomo mi lasciò passare con un cenno. A circa quattrocento metri dalla casa lasciai il viale e, passando sull'erba, riportai la Jaguar nello spiazzo dove era stata parcheggiata in origine. Feci manovra e nascosi le chiavi sotto il sedile. Nello spiazzo era rimasta una sola automobile. Appoggiato alla portiera, c'era Fenton. Quando scesi, mi diede una pacca sulla spalla e mi guardò negli occhi. «Ci siamo, Jack», mi disse. «Sei pronto?» «Quasi. Se non altro è per una buona causa.» «La migliore, direi.» Fenton si tolse il giubbotto rosso da parcheggiatore e me lo porse. Lo indossai e mi calai sulla fronte un berretto da baseball nero prima di dirigermi verso la cucina, dove uno stuolo di domestici si stavano rifocillando di avanzi di nouvelle cuisine. Era tutta gente che conoscevo sin dalle elementari, ma nella foga di rimpinzarsi nessuno alzò lo sguardo quando passai. Senza fermarmi, imboccai un corridoio buio, salii un piano di scale e presi un altro corridoio sul quale si aprivano le porte di cinque o sei camere da letto dotate di tutti i comfort. Dana non sarà mai stata mia, ma per quasi un anno io ero stato innegabilmente suo. Durante le riunioni di famiglia ci eravamo appartati varie volte in una o l'altra di quelle camere per gli ospiti. Corsi fino in fondo al corridoio e da una botola nel soffitto abbassai una scaletta pieghevole. Salii in soffitta e richiusi la scala. Nell'angolo c'era una pila di materassi. Mi sistemai, con lo zaino sotto la testa a mo' di cuscino, puntai la sveglia alle tre e quindici e cercai di dormire. Mi conveniva riposare finché potevo. 78 Anche volendo, difficilmente saremmo riusciti a dare meno nell'occhio. Il sole era appena sorto all'orizzonte quando il vecchio furgone di un lattaio con la marmitta scoppiettante percorse, evidentemente carico, una splendida strada di campagna: era un'immagine che evocava un'America d'altri tempi. Ogni tanto il furgone imboccava una traversa e si avvicinava a una bella
villa. Lasciando tranquillamente il motore acceso, Hank scendeva in tuta blu con la scritta «East Hampton Dairy» in bianco sulle spalle, faceva qualche passo sull'erba bagnata di rugiada e andava dietro la casa a prelevare i vuoti dall'apposito contenitore di latta accanto alla porta della cucina e a sostituirli con tre o quattro bottiglie piene, imperlate di fresche goccioline. Era tutta scena, naturalmente. Dopo qualche giorno, il latte finiva quasi tutto giù per il lavandino. Ma c'era un non so che in quelle bottiglie dal collo largo, con una mucca in rilievo sul vetro e il tappo di carta stagnola, che dava a quella clientela elitaria una piacevole illusione di genuinità, di freschezza degna di una fattoria nello Iowa. Per circa un'ora il furgone del lattaio percorse il suo solito giro, depositando preziose bottiglie di latte lungo la costa di East Hampton come un Rhodesian Ridgeback uscito per la passeggiata mattutina. Alla fine, nella luce dell'alba, imboccò Bluff Road. Dopo sole tre fermate varcò i cancelli di casa Neubauer. 79 Erano le tre e quindici del mattino. Il mio Casio cominciò a suonare insistentemente. Aprii gli occhi e vidi una delle travi di legno grezzo del tetto. Mi misi sull'orlo della pila di materassi, posai i piedi sul pavimento di assi sconnesse e presi fiato. Non c'è come svegliarsi nella soffitta di una casa in cui ci si è introdotti clandestinamente per farsi venire la tachicardia. Per l'ennesima volta pensai: Santo cielo, Jack, non c'è proprio nessun altro sistema per risolvere questa faccenda? Quando il battito del cuore si fu regolarizzato un po', mi allacciai le stringhe delle scarpe da ginnastica e presi la torcia dallo zaino. Poi, tenendola in una mano e reggendomi con l'altra alle travi del tetto per non perdere l'equilibrio, attraversai in punta di piedi la soffitta. La grande villa a due piani, costruita negli anni '30, era a forma di U, con le estremità leggermente divaricate. Quando arrivai in fondo all'ala degli ospiti, scavalcai una serie di travi, girai a destra e mi accinsi ad attraversare il corpo principale dell'edificio, dove si trovavano la cucina, il salotto e la sala da pranzo. Proprio sotto di me c'era una sala proiezioni con
quarantotto posti. In quella parte del sottotetto erano stati installati enormi condizionatori d'aria: dovetti aggirare grandi cassoni di metallo e scavalcare l'intrico di tubi di plastica che convogliavano l'aria fredda nelle stanze sottostanti. Lassù, invece, faceva un caldo soffocante come nelle stazioni della metropolitana. Quando arrivai in fondo al corpo centrale e svoltai per proseguire sopra l'altra serie di camere da letto, il sudore mi gocciolava dal naso fin sul pavimento di legno asciutto. Quando giunsi alla finestrella che si apriva nel timpano in fondo alla casa, erano le tre e trentotto. Ero cinque minuti in anticipo sulla tabella di marcia. Dalla finestra vidi le onde che si frangevano sulla spiaggia alla luce sinistra della luna e riconobbi il luogo in cui il corpo martoriato di Peter era stato restituito dal mare. Questo mi aiutò a ricordare perché mi trovavo lassù. Contai quindici passi per arrivare nel punto che, secondo i miei calcoli, corrispondeva al soffitto della stanza di Dana. Non trovando il pannello scorrevole di compensato che mi aspettavo, allargai le ricerche di tre passi in ogni direzione, finché non individuai la botola che si apriva nel soffitto del suo spogliatoio. Mi accucciai, rimisi la torcia nello zaino e mi asciugai faccia e collo nella maglietta. Quando aprii la botola, fui investito da una ventata di aria fredda. Sorreggendomi sulle mani, mi calai lentamente nel buio raggelante della camera della mia ex. 80 Mi ritrovai in mezzo a file profumate di camicette, vestiti e pantaloni firmati. Accesi la torcia. Ogni scaffale era contrassegnato dal nome di uno stilista: Gucci, Vera Wang, Calvin Klein, Ralph Lauren, Chanel. Mi feci largo in quella foresta di lino, seta e cashmere e mi affacciai alla porta socchiusa della camera da letto. A cinque metri da me, nel suo letto, Dana dormiva. A quel punto dovevo inevitabilmente prendere una decisione. Si trattava di stabilire se Dana fosse direttamente coinvolta nell'assassinio di Peter. Ormai avevo un'idea piuttosto chiara di come dovevano essere andate le cose quella notte, un anno prima. Sapevo che Peter aveva ricevuto un bi-
glietto profumato che poteva essere, e probabilmente era, di Dana. Ma ero quasi certo che la sua relazione con Peter, di qualunque genere fosse stata, fosse finita prima di quella notte fatale. All'inchiesta Dana aveva mentito per coprire il padre. E così decisi che doveva essere più una vittima che una complice. Non sarà stata la persona migliore del mondo, ma non era un'assassina. Aveva subito abusi sessuali da parte del suo stesso padre. Non svegliare il can che dorme, pensai. Uscii, stando attento a non inciampare nelle scarpe di lusso e nei jeans sul pavimento, e mi ritrovai nell'ampio corridoio che portava alle camere separate in cui i suoi genitori dormivano da anni. Vi erano appesi quadri di Pollock, de Kooning e Fairfield Porter, tutti dipinti negli Hamptons. Le spie rosse dell'impianto d'allarme occhieggiavano nel buio. Alla mia destra qualcuno tirò uno sciacquone. Mi immobilizzai contro la parete. Poco dopo dal bagno uscì un giovane dalla pelle scura con indosso soltanto un paio di boxer. Chi diavolo è questo? Che cosa fa in quest'ala della casa? Aveva meno di vent'anni e poteva essere indiano o pachistano, ed era bello almeno quanto Peter. Con l'aria un po' stordita tipica di chi ha appena fatto l'amore, si avviò scalzo verso l'ala degli ospiti. Il successore di Peter. Feci ancora pochi passi e arrivai sulla soglia della camera di Barry Neubauer. Il giorno precedente - anzi, tutta quell'ultima settimana - era trascorso come un incubo senza fine. Ogni poche ore mi trovavo a fare qualcosa che sapevo non avrei dovuto fare, a commettere qualche illecito. Potevo ancora tornare indietro. Non era troppo tardi. Era come una di quelle scene nei film di suspense in cui vorresti gridare: «No! Non farlo! Non aprire quella porta, Jack». Naturalmente non diedi ascolto a quelle voci. Tirai fuori la mia pistola da starter e spinsi leggermente la porta di Neubauer. Il cuore mi batteva all'impazzata. Non avevo mai messo piede in quella stanza. Anche nei mesi in cui ero stato con Dana, era off limits. La camera era spoglia, pavimentata con irregolari assi bianche. Accanto a un bovindo c'era una zona salotto con un televisore a schermo piatto, un divano di pelle nera e poltrone coordinate. Ancora cinque passi e fui accanto al letto, una specie di scultura in legno e acciaio. Sentivo il respiro rumoroso di Neubauer. Sembrava che masticasse qualcosa nel sonno.
Come in trance, mi avvicinai in punta di piedi. Era sdraiato sulla schiena, con le mani incrociate a proteggere le mutande di seta nera. Da un angolo della bocca gli colava un filo di bava. Pur nella situazione in cui mi trovavo, non potei fare a meno di pensare che se ne sarebbe potuto ricavare un magnifico ritratto, magari intitolato Il grande manager a riposo. Temendo che se avessi continuato a fissarlo avrebbe percepito la mia presenza e aperto gli occhi, mi accovacciai in modo da essere più basso del piano del letto ed estrassi dallo zaino un rotolo di nastro isolante grigio. Il cuore mi scoppiava nel petto. Sempre accovacciato, tagliai una striscia di nastro lunga circa un palmo. Ecco fatto. Contai fino a tre, presi fiato e, senza lasciargli il tempo di emettere suono, gli applicai con decisione il nastro sulla bocca. Glielo premetti così forte sulle guance e sulle basette che la testa gli sprofondò nel cuscino. Con la mano libera, gli puntai la pistola in fronte. Per un lungo momento rimanemmo fermi in una sorta di armonia negativa in cui il suo shock e la sua rabbia riflettevano perfettamente i miei sentimenti. Poi, tutto a un tratto, Neubauer afferrò la pistola e cercò di difendersi, ma io ero in posizione di grande vantaggio, ed ero più forte. Gli strappai l'arma di mano e gliela sbattei con violenza sulla tempia. Neubauer smise di resistere. Solo gli occhi traboccavano di rabbia e di odio. Come cazzo ti permetti? Lo girai sulla pancia e gli misi le manette, poi con uno strattone lo feci alzare in piedi e gli legai con il nastro isolante le cosce in modo che riuscisse a muoversi soltanto a saltelli. «Buongiorno», dissi alla fine. «All'inchiesta ha detto di averci fatto le condoglianze per Peter, ma né io né il resto della mia famiglia siamo rimasti soddisfatti. Sono tornato per riprendere il discorso.» 81 Da sotto la porta della camera di Campion filtrava un po' di luce. Feci sdraiare di nuovo Barry a pancia in giù e gli assicurai anche le caviglie con un altro giro di nastro isolante. Temevo che la colluttazione l'avesse svegliata, nonostante non dormissero insieme. Quando aprii la porta, vidi che la luce proveniva dalle fiammelle tremolanti di una ventina di lampade a burro tibetane accese davanti a un Krishna dalle molteplici braccia. La stanza di Campion sembrava più un a-
shram che una camera da letto. Ma tutte le divinità che venerava non sarebbero bastate a risparmiarle di essere bruscamente risvegliata dal rumore del nastro che srotolai per sigillarle la bocca. «Buongiorno, Campion», le dissi a bassa voce. «Non le farò del male.» Lei rispose soltanto: «Okay». Pareva stranamente calma e mi resi conto che probabilmente aveva assunto un sonnifero. Le permisi di infilare una vestaglia sulla camicia da notte di seta e un paio di scarpe da ginnastica, poi la ammanettai e la condussi accanto al marito, che si dibatteva sul pavimento. Lo feci alzare in piedi e li spinsi entrambi verso la grande scala ricurva che portava al pianterreno. A metà scala, udii il caratteristico scoppiettare dell'unico furgone della East Hampton Dairy. «Il vostro cocchio», annunciai ai Neubauer. Lasciammo la tenuta, ma prima di arrivare a destinazione facemmo una sosta in centro. Dovevamo ancora andare a prendere l'ispettore Frank Volpi. 82 Il furgone del latte sfrecciava nelle strade di campagna luccicanti di rugiada come uno di quei veicoli deformabili, antropomorfi, che si vedono nei cartoni animati il sabato mattina. Guardate, bambini, ecco il simpatico camioncino del latte della East Hampton Dairy. Al volante c'è il signor Hank, il bel lattaio gentile. Pensavo che dopo un po' mi sarei abituato, invece no: continuavo a sentirmi confuso, chiuso in me stesso, e avvertivo ancora un leggero senso di nausea. C'era qualcosa di onirico in quell'esperienza. Stentavo a credere che stesse succedendo davvero. Dopo aver svoltato a sinistra in fondo a Bluff Road e poi a destra sulla Route 27, il furgone attraversò Amagansett ancora addormentata, passando davanti a ristoranti e negozi chiusi e al malandato mercato ortofrutticolo. Superate le dune piatte e lunari di Napeaque, entrammo a Montauk. A parte un paio di pescatori che mangiavano panini con l'uovo sodo alla John's Pancake House, anche Montauk era deserta. Con quel carico, il motore affrontò arrancando la salita che conduceva fuori dal paese. Passammo davanti alla biblioteca e alla scorciatoia che
portava a casa mia in Ditch Plains Road. Circa un chilometro prima del faro, il furgone svoltò a destra e passò sopra una grossa catena stesa per terra tra due siepi incolte. Hank scese a chiudere il passaggio con la catena e poi ripartì. In fondo al lungo viale sabbioso si intravedevano gli spruzzi bianchi delle onde alle prime luci dell'alba. Arrivati in cima alla salita, scorgemmo finalmente la casa da sogno nascosta tra le dune. Sembrava che Max Kleinerhunt, amministratore delegato e fondatore di Everythingbut.com, avesse voluto assicurarsi che il sole sorgesse sulla sua casa prima che in qualunque altro luogo in America. Purtroppo per lui le azioni della sua azienda, che a un certo punto erano state quotate centottantanove dollari l'una, valevano adesso sessantasette miserabili centesimi e, pur avendo già speso ventidue milioni di dollari nella nuova casa al mare, al momento a Kleinerhunt interessava molto di più salvarsi le chiappe che abbronzarsele al sole. Da sei mesi a quella parte gli unici visitatori di quel luogo erano stati qualche surfista o ciclista salito fin lì dalla spiaggia per godersi il tramonto da una delle numerose terrazze della villa. L'imperativo nel settore immobiliare della zona era «Più isolato è, meglio è». Max Kleinerhunt l'aveva seguito alla lettera. Hank premette un pulsante sul telecomando fissato all'aletta parasole del furgone. Una saracinesca di acciaio lucidissimo si aprì tra le dune e il camioncino del latte entrò in un immacolato garage sotterraneo a dodici posti. Prima ancora che il motore fosse spento, Pauline arrivò di corsa e mi baciò dal finestrino. «Sono state le dodici ore più lunghe della mia vita», mormorò. «Anche per me», sussurrai a mia volta. Dietro di lei c'erano Fenton, Molly e Marci. 83 I miei più vecchi amici si affollarono intorno al furgone del latte come bambini intorno all'albero la mattina di Natale. Aprii il portellone cigolante e saltai a bordo. Cominciai a liberare i nostri ostaggi dal nastro isolante, eccezion fatta per i polsi. «Come osi trattarci in questa maniera?» esclamò Campion quando poté parlare. «Sei stato ospite a casa nostra!»
«E adesso siete voi miei ospiti», replicai. Dopo di lei fu Tricia Powell a protestare, indicando il vestito da sera di velluto nero, stropicciato e macchiato. «Avete rovinato il mio Armani, animali!» Barry Neubauer non disse nulla, quando gli tolsi il bavaglio. Lo guardai negli occhi e capii che era troppo occupato a riflettere sul da farsi per protestare. Frank Volpi sentenziò che ero un «uomo morto». Detta da lui, la minaccia mi parve più che convincente. Mentre Fenton e io li aiutavamo a scendere dal furgone, Marci aprì alcune sedie pieghevoli. Hank avvicinò un carrello con due pile di involucri trasparenti, una di siringhe usa e getta e l'altra di provette da cento millilitri. Barry Neubauer continuò a guardarmi in cagnesco quando comunicai alla compagnia una serie di notizie, alcune buone e altre meno. «Tra pochi minuti, potrete entrare in casa e mettervi comodi. Prima però questo signore, che è un operatore sanitario qualificato, farà un prelievo di sangue a ciascuno di voi, tranne che all'avvocato Montrose. Evitate di fare domande, perché tanto non intendo dare altre spiegazioni.» Non la presero bene. «Non azzardatevi a sfiorarmi con un ago, o vi denuncio», gridò Tom Fitzharding. Mi vennero in mente le foto di lui e della moglie con Peter, quando mio fratello aveva sedici o diciassette anni. Gli mollai un sonoro ceffone, che mise a tacere tutti quanti e diede a me una certa soddisfazione. Fitzharding e la moglie non mi piacevano, e avevo le mie ragioni. «Sbrigata questa incombenza, potrete entrare in casa», ripetei. «Fare una doccia, cambiarvi e dormire un po'. Ma, che collaboriate o no, nessuno si muoverà da qui finché non vi avremo fatto il prelievo.» «Chi ti credi di essere?» esclamò Stella Fitzharding. Mi chinai verso di lei. «So tutto di te e di Peter. Quindi chiudi il becco e sta' buona.» «Ho bisogno di fare una doccia. Cominciate da me», propose Tricia Powell, sedendosi su una delle sedie e porgendo stancamente il braccio. Dopo di lei, le cose filarono sorprendentemente lisce. Hank e Marci prelevarono ed etichettarono con cura novanta millilitri di sangue appartenente a ciascuno dei presenti, quindi gli ostaggi furono accompagnati in casa e scortati nell'ala destinata alle attività sportive, che non era ancora stata completata. C'erano materassini di gomma stesi per terra e, naturalmente, i
bagni. Avevamo predisposto persino caffè, brioche e latte in abbondanza, rigorosamente proveniente da allevamenti biologici. «Cercate di dormire un po'», consigliai. «Sarà una giornata campale.» 84 Qualche giorno prima Marci era andata al Kmart di Riverhead e frugando tra la merce in saldo aveva comprato di che vestire i nostri ospiti. Quando i Neubauer e i Fitzharding, Volpi, Tricia Powell e Montrose si misero in fila per la prima colazione erano abbigliati modestamente e senza troppa spesa. Il fatto di aver dormito e mangiato aveva migliorato il loro umore, ma sulle loro facce si leggevano confusione e ansia. Perché siamo qui? Che cosa succede adesso? Avevamo riflettuto a lungo sulle misure di sicurezza e deciso di evitare le complicazioni. Tutte le porte dell'ala della villa che avremmo usato erano state dotate di un lucchetto, alcune di due. Avevamo avvertito i nostri ostaggi che li avremmo legati e imbavagliati al minimo segno di ribellione, o al minimo sospetto, e fino a quel momento la minaccia aveva funzionato. Anche il fatto che Marci, Fenton e Hank fossero tutti e tre armati di pistola elettrica non guastava. Poco dopo colazione arrivò Macklin accompagnato da una donna minuta con i capelli grigi. Gli ostaggi si scambiarono occhiate interrogative, nella speranza che la fine della prigionia fosse vicina. Quando Macklin e io ci ritirammo in un angolo a confabulare, Bill Montrose si appellò al buonsenso di mio nonno. «Signor Mullen, mi fa piacere vederla», disse. «Penso che lei si renda conto che, se verremo liberati incolumi, i responsabili se la caveranno a buon mercato. Glielo posso quasi promettere.» «Lei se ne intende più di me», replicò Macklin continuando a voltargli le spalle. Ciononostante, i sei ostaggi non persero le speranze finché non li scortammo nel grande soggiorno con panorama mozzafiato sul mare, pavimento di ardesia e travi a vista che era il pezzo forte della casa. Quella mattina, però, le tende erano tirate e la stanza era illuminata da potenti fari che Marci e Fenton avevano appeso al soffitto. Montrose mormorò: «Oh, mio Dio, no!» Nella sala semivuota avevamo predisposto due lunghi tavoli di legno e varie sedie pieghevoli, di fronte a una pedana di legno alta una trentina di
centimetri, sulla quale era posizionata una poltrona da ufficio nera. Tra la poltrona e i tavoli c'erano altre due sedie. Su una era posata una Bibbia, mentre l'altra era collocata davanti a una piccola scrivania con un'antiquata macchina per scrivere. Dietro la poltrona erano appese due bandiere, quella a stelle e strisce e quella verde, bianca e arancio dell'Irlanda. Al centro di questa scenografia c'era una telecamera su un carrello, con la scritta EH70 sul fianco. Molly la puntò verso i nostri ospiti quando entrarono nella sala ammanettati e si sedettero brontolando sulle sedie allineate dietro ai due tavoli. Avevano tutti l'aria scioccata. Un attimo dopo, la porta venne chiusa a chiave e Hank vi si mise accanto di guardia con una pistola elettrica e una mazza da baseball. Molly ruotò la macchina da presa e seguì Macklin che avanzava verso la pedana, saliva e si sedeva nella poltrona nera. Più o meno contemporaneamente la sua amica e stenografa del tribunale Mary Stevenson prese posto davanti alla vecchia macchina per scrivere. A destra di Macklin era stato appeso al muro bianco un cartello scritto a mano. Molly mise a fuoco le parole in stampatello: IL POPOLO CONTRO BARRY NEUBAUER. 85 I primi veri problemi furono causati, come prevedibile, da Volpi, che si alzò e gridò con tutto il fiato che aveva in corpo: «Questa è una farsa del cazzo!» Hank gli si avventò contro con la pistola puntata e gli diede una scarica. Volpi stramazzò a terra, contorcendosi per il dolore. Era una buona lezione per gli altri, pensai, visto che la telecamera continuava imperterrita a inquadrare il cartello evitando di riprendere il metodo con cui Hank manteneva l'ordine nella sala. «Frank, tieni la bocca chiusa», ordinò Hank. «E vale anche per voi altri stronzi.» Credo che tutti avessero afferrato al volo. Senza avvertire, Molly ruotò di nuovo la telecamera puntando su di me il suo occhio impietoso. Mi ersi in tutto il mio metro e ottantacinque di statura, presi fiato e guardai dritto verso l'obiettivo. Da quando Sammy era stato ammazzato a sangue freddo a Chelsea, ave-
vo sgobbato con un impegno del quale allo studio Nelson, Goodwin & Mickel non avevo mai dato prova. Speravo solo che quel che stavo facendo fosse la cosa giusta. Mi ero preparato per l'occasione durante tutto l'ultimo anno alla Columbia, e non solo perché ero ossessionato dalla morte di Peter e dal modo iniquo con cui era stata archiviata. Avevo letto e riletto i testi di procedura penale e un classico sull'arte del controinterrogatorio pubblicato nel 1903 ma tuttora valido. «Siamo in onda», disse Molly battendo il dito sulla spia rossa della macchina da presa. «Vai, Jack.» «Mi chiamo Jack Mullen», esordii, con la voce leggermente incrinata che mi suonava come se appartenesse a qualcuno che conoscevo solo alla lontana. «Sono nato e cresciuto a Montauk, dove ho vissuto tutta la vita.» Ero senza ombra di dubbio il più teso e nervoso di tutti i presenti, ma confidavo nel ritmo costante e misurato cui mi ero abituato durante le esercitazioni alla Columbia: sia con il tono sia con l'atteggiamento mi sforzai di comunicare che ero sano di mente, fondamentalmente ragionevole e degno di essere ascoltato. Sapevo anche che i tempi erano maturi: ero sicurissimo che molti erano stufi e arrabbiati per quelle che consideravano ingiustizie legalizzate: dal processo a O.J. Simpson, alla riabilitazione degli assassini di Amadou Diallo, al caso Ramsey, oltre a molti altri episodi avvenuti in stati e città diversi. «Esattamente un anno e un giorno fa, mio fratello morì durante una festa in una villa al mare degli Hamptons», continuai. «Era stato assoldato per parcheggiare le auto degli invitati. Il suo cadavere fu restituito dal mare l'indomani, sulla spiaggia antistante la villa. L'inchiesta che si tenne alla fine dell'estate scorsa giunse alla conclusione che mio fratello, che aveva ventun anni, morì accidentalmente. Non è vero. Fu ammazzato di botte. Nelle prossime ore vi dimostrerò non solo che fu assassinato, ma anche da chi e perché. Seduto al tavolo alla mia sinistra c'è il proprietario della villa in cui si tenne quella festa. Si chiama Barry Neubauer ed è l'amministratore delegato della Mayflower Enterprises. Probabilmente avete guardato i suoi canali via cavo o visitato i suoi siti web o portato i vostri figli nei suoi parchi a tema. Magari avete letto i resoconti dei suoi straordinari successi su qualche rivista di economia o visto una sua foto scattata in occasione di qualche serata di beneficenza. Questo non significa che lo conosciate. Ma lo conoscerete. Saprete chi è il vero Barry Neubauer anche meglio di quanto lo desideriate, perché sta per essere processato per l'omicidio di mio fra-
tello.» «Jack Mullen crede di processarmi?» sbraitò Neubauer. «Non diciamo cazzate! Spegnete subito quella telecamera! Ho detto di spegnere!» Il suo intervento fu seguito da una tale esplosione di urla che Macklin fu costretto a battere il martelletto di legno nero per riportare il silenzio in aula. «Il processo avrà inizio tra pochi minuti», annunciò alla telecamera. «Stiamo trasmettendo in diretta su Channel 70. Nel breve intervallo che seguirà avrete modo di avvertire i vostri amici.» 86 Molly spense la telecamera e io feci un cenno a Fenton e Hank. Insieme ci avvicinammo a Barry Neubauer, che sollevò i polsi ammanettati. «Liberatemi!» Ignorai la richiesta come se venisse da un bambino viziato. «Per me non fa differenza che collaboriate al processo o no», gli dissi a bruciapelo. «Non cambia nulla.» Neubauer sbuffò sprezzante. «Noi non collaboriamo. E sai che cosa vedranno i telespettatori, Mullen? Vedranno un perfetto cretino, che è quello che sei.» Scossi la testa, quindi estrassi dalla valigetta una busta. Gli mostrai - solo a lui e a nessun altro - quello che conteneva. «Ecco che cosa vedranno i telespettatori, Barry. Questa, e questa, e tutte le altre», ribattei. «Non avrai il coraggio di fare una cosa simile.» «Oh, sì che lo avrò. Come ho detto, sta a te decidere. Puoi presentare la tua versione dei fatti. Se decidi di non farlo, per me va bene lo stesso. Ora torniamo in onda.» Molly riprese a filmare e io ripetei il mio discorsetto introduttivo, questa volta in modo più calmo e convincente. «Prima della fine del processo capirete che Barry Neubauer è un assassino e che tutti coloro che gli siedono accanto hanno contribuito o a commettere l'omicidio o a coprirlo. Quando vedrete che cosa hanno fatto, non avrete nessuna pietà per loro. Credetemi, nessuna. L'accusa dimostrerà che Barry Neubauer uccise personalmente mio fratello o che pagò qualcuno perché lo uccidesse. Proveremo quindi che, oltre ad avere i mezzi e l'opportunità per uccidere Peter, aveva anche un movente grosso come una casa. Scoperto il movente, sarà tutto chiaro
come il sole, anche se mi rendo conto che queste non sono le circostanze ideali per stabilire l'innocenza o la colpevolezza di un uomo», dissi. «Ah, davvero?» esclamò Bill Montrose. «Questa è la prima cosa intelligente che sento uscire dalla tua bocca, Mullen.» Lo ignorai. Sapevo che a quel punto era cruciale che andassi avanti per la mia strada senza lasciarmi fuorviare. Avevo la gola asciutta. Mi interruppi per bere, ma mi tremavano talmente le mani che per un pelo non mi cadde il bicchiere. La mia voce era ferma, però. «Se avrete la pazienza di ascoltarmi, sono sicuro che vi renderete conto che questo è un processo giusto quanto molti altri. Noi teniamo alla giustizia. Tanto per cominciare, il signor Neubauer avrà diritto a un avvocato difensore. E non un difensore d'ufficio neolaureato, oberato di lavoro e sottopagato come quelli assegnati a tanti imputati nullatenenti che finiscono nel braccio della morte, ma l'illustre avvocato Bill Montrose, socio anziano e presidente del consiglio di amministrazione di un grande studio di New York. E dal momento che l'avvocato Montrose è da tempo il legale di fiducia del signor Neubauer e recentemente lo ha rappresentato con tanto successo all'udienza sulla morte di mio fratello, è a conoscenza di tutti i particolari. Se pensate che la sua controparte sia io, un ventinovenne appena uscito dall'università, capirete che un'eventuale disparità è a vantaggio dell'imputato. A fungere da giudice in quest'aula di giustizia sarà mio nonno, Macklin Reid Mullen», dissi poi suscitando di nuovo l'indignazione di Montrose. «Il verbale sarà redatto da Mary Stevenson, stenografa presso i tribunali municipali di New York da trentasette anni. Ripeto, mi rendo conto che tutto questo è piuttosto inconsueto. L'unica cosa che posso dirvi è: guardate. Dateci una possibilità, prima di giudicarci. Mio nonno emigrò negli Stati Uniti dalla contea di Clare, in Irlanda. Da venticinque anni a questa parte è assistente legale e crede nella legge e nella giustizia più di tanti miei professori di diritto, ve lo assicuro. Nei processi penali, il giudice non è chiamato a decidere della colpevolezza o dell'innocenza dell'imputato, ma a mediare tra gli avvocati in materia di prove e procedura e a garantire il corretto svolgimento del processo.» Guardai dritto nella telecamera e continuai: «In questo caso, la giuria siete voi. Macklin non è qui per emettere una sentenza, ma solo per presiedere l'udienza. E lo farà nel migliore dei modi. Per il momento non ho altro da dire. Passo la parola all'avvocato Montrose».
87 Bill Montrose era l'unico dei nostri ospiti a non avere le manette ai polsi. Seduto assorto nei suoi pensieri, come un buon giocatore di poker, dopo un po' si voltò a guardarmi in faccia. Io facevo il possibile per fingere di ignorare l'importanza cruciale dei minuti successivi. Se la sorte del suo assistito gli stava veramente a cuore, lo si sarebbe visto subito. Tuttavia, come molti avvocati di successo ma relativamente poco conosciuti, Montrose era giunto a un punto nella vita in cui, oltre a soldi e proprietà immobiliari, desiderava anche un po' di fama e di gloria. Lo avevo capito quando lavoravo allo studio Nelson, Goodwin & Mickel. A detta dei colleghi, sosteneva di essere un penalista più in gamba di Johnnie Cochran e Robert Shapiro. Bill Montrose aveva un'altissima concezione di sé: io lo sapevo e ci contavo. Trattenni il fiato quando si alzò e si rivolse alla telecamera di Molly. Anche per lui quello era un momento importante, e non intendeva lasciarselo sfuggire. «Vi prego di non fraintendermi e di non equivocare sulle mie parole», esordì. «Il fatto che io mi trovi qui in questo momento non significa assolutamente che questa udienza abbia la benché minima legittimità. Tutt'altro.» Dopo una pausa drammatica, riprese: «Sia chiaro: questo non è un tribunale, questa non è un'aula di giustizia. Il vecchietto alle mie spalle, per quanto arzillo e simpatico, non è un giudice. Questo è un tribunale fantoccio. La giustizia ha già fatto il suo corso. L'estate scorsa fu aperta un'inchiesta sulla morte di Peter Mullen e nel corso di un'udienza presieduta da un vero giudice - sua eccellenza Robert P. Lillian - fu constatata l'assoluta estraneità ai fatti del mio assistito. Durante tale udienza la corte ascoltò un teste che vide il deceduto tuffarsi nel mare agitato, con l'alta marea, di notte. Non uno, ma due medici legali espressero il parere, suffragato da fatti, che non si trattò di omicidio. Dopo l'interrogatorio dei testimoni e un'accurata valutazione delle prove, il giudice Lillian pronunciò una sentenza, a disposizione di chiunque sia interessato a leggerla, in base alla quale l'unico responsabile della tragica morte di Peter Mullen fu lui stesso. A quanto pare la famiglia non riesce ad accettare questo verdetto. Intraprendendo questa infelice iniziativa, il fratello e il nonno di Peter Mullen stanno trasformando un semplice incidente in un reato». Montrose fece l'ennesima pausa, come per riordinare le idee. Dovetti ammettere che era in gamba. Forse era davvero più in gamba di me. «Siete stati invitati a guardare. Non
fatelo, vi prego! Spegnete il televisore, o cambiate canale. In questo preciso momento. Se credete ancora nella giustizia. E io spero che ci crediate.» Montrose si sedette e mi chiesi se saremmo mai riusciti a farlo parlare di nuovo. Macklin batté il martelletto sulla pedana sotto la poltrona e annunciò: «La seduta è sospesa per novanta minuti per dare modo all'accusa e alla difesa di preparare i propri argomenti. Vi consiglio di darvi da fare, signori avvocati». 88 Quattordici minuti dopo, la ABC interruppe la telecronaca dell'Open dal Riviera Country Club di Los Angeles e passò la linea allo studio del Lincoln Center da dove Peter Jennings conduceva il notiziario World News Tonight. In sovrimpressione comparve la scritta: ULTIMA ORA. Con un fremito quasi impercettibile nella voce profonda, Jennings disse: «Apprendiamo in questo momento che il miliardario Barry Neubauer, la moglie e almeno altre tre persone sono stati rapiti ieri notte dopo una festa nella loro villa di Amagansett, a Long Island. Secondo un comunicato appena trasmesso in diretta da Channel 70, una rete televisiva di East Hampton, i sequestratori hanno intenzione di processare Neubauer per l'assassinio di un ventunenne di Montauk. Il processo avrà inizio, in una località imprecisata, tra meno di un'ora». Mentre Jennings continuava con il suo secco accento canadese, nell'angolo in alto a destra dello schermo comparve un riquadro rosso con la sagoma dell'estremità settentrionale di Long Island e, in grossi caratteri rossi, le parole: CRISI NEGLI HAMPTONS. Nel giro di pochi minuti redattori e caporedattori della CBS (L'ASSEDIO DI LONG ISLAND) e della NBC (OSTAGGI NEGLI HAMPTONS) si rimboccarono le maniche e si misero al lavoro. Come Jennings, menarono autorevolmente il can per l'aia per i quarantacinque minuti successivi, mentre i loro reporter si precipitavano alla ricerca di notizie. Il primo collegamento della ABC consistette in un'intervista al sergente Tommy Harrison nel parcheggio adiacente la stazione di polizia di East Hampton. Harrison dichiarò: «Jack e Macklin Mullen sono molto conosciuti a Montauk, dove vivono da tantissimo tempo. Probabilmente non hanno accettato l'esito dell'inchiesta sulla morte di Peter Mullen l'estate scorsa».
«Hanno precedenti?» chiese il reporter. «Lei non ha capito», ribatté Harrison. «A parte un episodio di secondaria importanza in cui Jack Mullen è stato coinvolto dopo la morte del fratello, nessuno dei due ha mai avuto guai con la giustizia. Non hanno mai preso neppure una multa per eccesso di velocità.» La ABC passò quindi la linea al ministero della Giustizia a Washington per un aggiornamento in diretta. Il portavoce del ministero stava dicendo: «...degli ostaggi sequestrati a Long Island la notte scorsa. I cinque di cui si conosce l'identità per il momento sono Barry e Campion Neubauer, Tom e Stella Fitzharding, di Southampton, e il noto avvocato newyorchese William Montrose». Quando il portavoce alzò gli occhi dal foglio degli appunti, fu tempestato di domande. «Per quale motivo sono stati sequestrati?» «Perché non riuscite a localizzare il posto da dove trasmettono?» «Che cosa si sa dei sequestratori?» Il funzionario rilasciò ancora una breve dichiarazione e concluse la conferenza stampa dicendo: «I rapitori utilizzano uno speciale dispositivo che finora ci ha impedito di risalire alla fonte della trasmissione. Per il momento, per non intralciare i tentativi di risolvere al più presto la situazione, non posso dire altro». Subito dopo la ABC passò nuovamente la linea alla sede di Channel 70 a Wainscott. Il ventiquattrenne direttore della rete, J.J. Hart, affiancato dal rappresentante del suo ufficio legale, Joshua Epstein, dichiarò di non aver intenzione di ottemperare all'ordine giunto dal governo di interrompere la trasmissione. «La nostra reporter, Molly Ferrer, ha fatto uno dei più grandi scoop del giornalismo televisivo. Non intendiamo affatto privarne i telespettatori.» E aggiunse: «L'ingiunzione è palesemente anticostituzionale. Lunedì ne chiederò l'annullamento. A meno che la notte scorsa non sia successo qualcosa di cui non sono stato informato, la nostra è ancora una democrazia». Jennings concluse: «Per riassumere quel che sappiamo finora, gli ostaggi sono almeno cinque. A quanto pare i rapitori, nonno e nipote, sono rimasti sconvolti per la morte di un parente e stanno per celebrare un assai inconsueto processo per omicidio. Torneremo da voi tra poco, ma per il momento ci colleghiamo di nuovo con Channel 70 che, da East Hampton, trasmetterà in diretta il processo». 89
«Il tribunale di Montauk, che ha come unico interesse l'accertamento della verità e tolleranza zero per le stronzate, è in seduta», annunciò Macklin con voce calma e sicura. Poi batté un bel colpo sonoro con il martelletto. Mio nonno e io sottolineammo la soddisfazione che ci dava quel momento scambiandoci un'occhiata prima che io chiamassi a testimoniare Tricia Powell, la quale doveva avere ben chiaro il fatto che apparire in televisione è un evento importante, ma forse non aveva realizzato che stava per succedere a lei. Appena ebbe prestato giuramento, cominciai. «Signorina Powell, mi dicono che quest'anno lei è arrivata alla festa dei Neubauer in grande stile.» «Immagino si riferisca alla mia nuova Mercedes.» «Un bel cambiamento, eh? L'estate scorsa era una semplice dipendente della Mayflower e quest'anno arriva al volante di un'auto da quarantacinquemila dollari.» «È stato un anno buono per me», replicò Tricia Powell lievemente risentita. «In febbraio sono stata promossa responsabile degli eventi speciali.» «Mi perdoni l'indiscrezione, ma quanto guadagnava fino all'anno scorso?» «Trentanovemila dollari all'anno.» «E adesso?» «Novantamila», rispose fiera. «Quindi, pochi mesi dopo aver mentito all'inchiesta, testimoniando di aver visto mio fratello buttarsi in un mare dall'acqua mortalmente gelida durante la festa dei Neubauer, lei è stata promossa e il suo stipendio è più che raddoppiato. La falsa testimonianza le ha reso più di un master ad Harvard.» «Vostro onore», intervenne Montrose. «Obiezione accolta», disse Macklin. «Datti una regolata, Jack.» «Chiedo scusa. Pochi mesi dopo aver testimoniato di aver visto mio fratello buttarsi in mare, con una temperatura dell'acqua tra dodici e quindici gradi centigradi, durante una sera in cui lavorava come parcheggiatore, il suo stipendio annuo è aumentato di cinquantunmila dollari. C'è qualche altro motivo, a parte la suddetta testimonianza, che l'ha resa così preziosa agli occhi del suo datore di lavoro?» «C'è un motivo, ma non credo che le interessi», rispose la Powell. «Oltretutto, non ha niente a che vedere con la sua teoria del complotto.» «La prego, signorina Powell. Mi dia una possibilità. La corte desidera
essere informata della sua versione dei fatti.» «Lavoro cinquanta o sessanta ore alla settimana. Non potevo continuare a essere una semplice impiegata ancora a lungo.» «Ha ragione», dissi aprendo la busta che avevo in mano. «Signorina Powell, le mostro il reperto A dell'accusa.» Le porsi un documento. «Lo riconosce?» «Sì.» «Che cos'è?» «La mia valutazione semestrale alla Mayflower Enterprises. Come ne è venuto in possesso?» chiese in tono severo. «In questo momento non ha importanza», replicai. «Riconosce la firma in fondo all'ultima pagina?» chiesi indicandole la sua stessa firma. «È mia.» «Vostro onore, l'accusa chiede che venga messo agli atti il reperto A», dissi guardando Mack. Mack si voltò verso Montrose. «Obiezioni?» «Obietto a questo intero procedimento», dichiarò Montrose. «Obiezione respinta», tagliò corto Mack. «Il reperto A dell'accusa è messo agli atti. Continua pure, Jack.» «Salterò la parte introduttiva, dove sono riportati i ritardi e le assenze per malattia, e darò lettura della parte intitolata 'Conclusione - Provvedimenti previsti'. Penso che ci aiuterà a capire meglio che opinione aveva di lei il suo datore di lavoro prima che morisse mio fratello. Dovendo valutare la sua performance su una scala da zero a dieci per quanto riguarda atteggiamento, impegno e competenza, nessuno dei suoi tre supervisori le dà un punteggio superiore a sei», dissi. «L'ultimo paragrafo recita: 'La signorina Powell ha ricevuto un avvertimento scritto: se il suo rendimento non migliorerà radicalmente nei prossimi mesi, verrà licenziata'.» «Si vede che il mio rendimento è migliorato radicalmente», commentò Tricia Powell. 90 Bill Montrose balzò in piedi velocissimo. Con i capelli bianchi, il fisico robusto e i movimenti sicuri, scattanti, sembrava un po' un direttore d'orchestra al Lincoln Center. Immobile davanti all'assemblea, aveva tutta l'aria di un celebre maestro che si concentra in attesa che i musicisti si sistemino.
Quando riemerse dal suo raccoglimento, disse: «Signorina Powell, ricevette un compenso di qualsiasi genere per la testimonianza resa all'inchiesta dell'estate scorsa?» «Assolutamente no», rispose la donna. «Nemmeno un centesimo.» «Le fu promesso qualcosa da Barry Neubauer o chi per lui?» «No.» «Le fu fatta intravedere la possibilità di ottenere una promozione, un aumento, un ufficio migliore, un personal trainer, o magari un paio di scarpe nuove?» «No!» esclamò la Powell indignata. «Signorina Powell, Jack Mullen sembra convinto che sia sconveniente il fatto che una persona dotata di talento e di ambizione si distingua agli occhi dell'amministratore delegato dell'azienda in cui lavora. Ma non è così. Lei non ha fatto assolutamente nulla di cui si debba scusare.» «Grazie.» Mi alzai. «L'avvocato Montrose ha altre domande?» «Certo. Signorina Powell, le chiederò come mai si trova in quest'aula oggi pomeriggio. È venuta qui di sua spontanea volontà?» «No. Nessuno di noi è qui di sua spontanea volontà.» «Può raccontarci come è arrivata fin qui?» «Stavo tornando a casa in macchina quando dal sedile posteriore è balzato fuori un uomo, che mi ha minacciato.» «Ha avuto paura?» «Lei non ne avrebbe avuta? Per un pelo finivo fuori strada.» «E poi?» «Mi ha costretto a guidare fino a una casa, dove sono stata fatta salire su un camion puzzolente insieme con lei e con i signori Fitzharding.» «Quanto tempo è rimasta sul camion?» «Quasi sette ore.» «E adesso è libera di andarsene?» domandò Montrose. «No.» «Se il signor Mullen non ha altro da aggiungere, signorina Powell, può tornare al suo posto.» «Grazie.» Tricia Powell si sedette e Montrose si voltò verso la telecamera. Stava per cominciare a parlare quando sul viso gli comparve un'espressione spaventata e rimase letteralmente a bocca aperta.
91 Lo sguardo ansioso di Montrose seguì Jane Davis che si faceva avanti con passi che echeggiarono forte sul pavimento di ardesia. Indossava pantaloni e camicetta neri e sembrava molto meno nervosa e impaurita che all'udienza. Guardò Montrose dritto negli occhi, poi si voltò verso Barry Neubauer. Per dimostrare che non era affatto preoccupato, Neubauer sorrise sicuro di sé. Jane sorrise a sua volta, tranquilla. «L'accusa chiama a testimoniare la dottoressa Jane Davis», annunciai e Jane andò verso Fenton, che la aspettava con la Bibbia di famiglia in mano. Mentre all'udienza le tremavano le mani, in questa occasione Jane sembrava calmissima. Posò la mano sulla copertina di finta pelle rossa e giurò di dire la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità. Appena si fu seduta, cominciai. «Dottoressa Davis, ci rendiamo conto delle potenziali conseguenze di questa sua testimonianza e le siamo grati di avercela voluta fornire.» «Sono contenta di essere qui. Non è il caso che mi ringraziate», rispose, appoggiandosi poi allo schienale e prendendo un respiro profondo per calmarsi. «Dottoressa Davis, le dispiacerebbe riassumere il suo curriculum davanti a questa corte?» «Volentieri. Mi sono diplomata con il massimo dei voti alla East Hampton High School nel 1988 e sono stata National Merit Scholar. Credo di essere stata anche la prima della mia scuola a ottenere l'ammissione a Harvard in dieci anni, ma non potevo permettermi la retta, per cui mi iscrissi alla State University of New York di Binghamton.» «E poi?» «Frequentai la Harvard Medicai School e il corso di specializzazione presso la clinica universitaria dell'UCLA a Los Angeles.» «Dove lavora attualmente?» «Da due anni sono medico legale al Long Island Hospital e dirigo l'Istituto di medicina legale della contea di Suffolk.» Guardando Mack dissi: «Vostro onore, l'accusa chiama la dottoressa Jane Davis a deporre in qualità di perito medico legale». Mack si rivolse a Montrose, che era ancora piuttosto agitato. «Sono certo che l'avvocato Montrose non avrà obiezioni, dal momento che lui stesso si è avvalso della sua perizia prima dell'inchiesta. Giusto, avvocato?»
Montrose annuì distrattamente e borbottò: «Nessuna obiezione». Ripresi: «Dottoressa Davis, lei eseguì l'autopsia su mio fratello?» «Sì.» «Dottoressa Davis, prima che lei entrasse in aula, la signorina Powell ha descritto il sequestro antecedente a questo processo. Speravo che lei potesse raccontarci la sua esperienza prima dell'inchiesta.» Jane annuì. «La notte precedente al giorno in cui dovevo rendere la mia deposizione, un uomo si introdusse in casa mia. Ero a letto e dormivo. Mi svegliò e mi puntò una pistola in mezzo alle gambe. Disse che voleva che la mia testimonianza andasse per il meglio e che era stato mandato a 'prepararmi'. Aggiunse che se avessi sbagliato una battuta all'inchiesta, sarebbe tornato per violentarmi e ammazzarmi.» Per la prima volta da quando era entrata nell'aula, Jane abbassò la testa e tenne gli occhi fissi a terra. «Mi dispiace che le sia successo questo», dissi. «Lo so.» «Che cosa fece l'indomani, all'udienza, davanti alla commissione di inchiesta?» chiesi. «Giurai il falso», rispose Jane Davis a voce alta. Poi aggiunse: «Durante l'autopsia sul corpo di suo fratello, eseguii ventisei radiografie, cinque o sei biopsie e approfonditi esami del sangue e di laboratorio. Peter aveva diciannove ossa fratturate, in entrambe le braccia e ai polsi, otto dita delle mani e sei costole spezzate. Il cranio era fratturato in due punti e tre vertebre erano incrinate. Aveva sul corpo lividi che mostravano impronte di pugni e di calci così perfette che sembravano disegnate sulla pelle. Inoltre, lo stato del tessuto polmonare di Peter non era compatibile con l'annegamento. Il grado di saturazione era tipico di chi è stato buttato in acqua dopo aver smesso di respirare. Era evidente che Peter era stato ucciso a calci e percosse e poi buttato in mare. Peter Mullen è stato assassinato, così come è vero che oggi io sono qui davanti a voi». 92 Montrose si alzò dalla sedia. La tensione traspariva dalla contrazione della mascella. Mi pareva quasi di sentirlo che ripeteva a se stesso di non dimenticare che era il grande Bill Montrose. «Esiste un giusto processo il cui verdetto non sia giusto?» cominciò. «No, naturalmente. Ma i nostri rapitori vorrebbero convincervi di sì. 'So
che non è una procedura del tutto legittima far scendere gli imputati dalle loro macchine sotto la minaccia delle armi nel cuore della notte', vi dirà il signor Mullen stringendosi nelle spalle. 'Ma dateci una possibilità, siamo gente normale, come voi, e siamo stati spinti a questo perché il sistema è corrotto, il sistema è ingiusto.' Ma non è così che funziona la giustizia. Soprattutto non è così che dovrebbe funzionare secondo la Costituzione e le leggi del nostro paese.» Montrose trasalì, come se l'idea di una minaccia alla Costituzione gli provocasse una fitta di dolore fisico. «Giustizia non significa essere leggermente più giusti di quanto ci si aspetterebbe», riprese. «Giustizia significa giustizia, punto e basta. E come è possibile che un processo sia giusto se l'accusa può tendere alla difesa un agguato e tirar fuori dal cappello una testimonianza a sorpresa come quella di Jane Davis?» Ne avevo abbastanza della retorica di Montrose. Se Macklin aveva deciso di permettergli una simile arringa, anch'io avrei tenuto la mia. Mi alzai dalla sedia e dissi: «Comprendiamo benissimo la sua frustrazione. C'eravamo tutti l'estate scorsa quando la dottoressa Davis, dopo una notte di terrore, si dichiarò convinta che la morte di mio fratello fosse accidentale. Proprio come lei adesso, il giovane sostituto procuratore Nadia Alper fu colta talmente alla sprovvista che non riuscì neppure a procedere al controinterrogatorio. Tuttavia, benché la tattica cui si è trovato di fronte oggi non sia molto diversa da quella che usò lei stesso con Nadia Alper, c'è una differenza fondamentale». Sentii che stavo arrossendo. «All'inchiesta, il sostituto procuratore fu preso alla sprovvista da una falsa testimonianza, mentre lei oggi si è trovato spiazzato dalla verità. Una verità che probabilmente conosceva fin dal principio. Le piace tanto sottolineare il fatto che questo processo è una presa in giro, avvocato Montrose, ma quello che la disturba di più è che, in realtà, è un procedimento giusto. Dopo aver difeso indefessamente per venticinque anni i ricchi e i potenti, lei ha una mentalità talmente distorta che partire da una situazione di quasi parità le sembra offensivo. Le consiglio di rifletterci.» «Ora basta», intimò Mack dall'alto della pedana. «La seduta è aggiornata a domattina.» 93 Alla ripresa del processo contro Barry Neubauer, l'ingranaggio mediatico era pronto. «L'assedio di Long Island» aveva fatto registrare indici di
ascolto senza precedenti. Ed era una pacchia per molti. Metà dei giornalisti e dei produttori che avevano dato la notizia la sera prima erano già negli Hamptons all'alba. Non appena Channel 70 aveva interrotto le trasmissioni, i conduttori delle altre reti avevano presentato i profili dei protagonisti della vicenda, ricostruiti nelle due ore precedenti. L'opinione pubblica venne così messa al corrente che la moglie di Barry Neubauer apparteneva a una delle famiglie più note della East Coast nel campo dell'editoria e che questo aveva aiutato il marito a estendere la propria influenza a radio, TV via cavo, parchi a tema e Internet. Furono trasmesse inoltre rispettose interviste rilasciate da rivali in affari quali Ted Turner e Rupert Murdoch. I telespettatori furono poi informati che l'avvocato di Neubauer, William Montrose, laureato a Yale, non perdeva una causa da diciassette anni. Montrose aveva consolidato definitivamente la propria reputazione nove anni prima, in un'aula di Fort Worth, difendendo il ricco proprietario di un ranch che aveva ucciso un tennista professionista che sospettava, ingiustamente, di andare a letto con la sua amante. I colleghi raccontavano che Montrose si era dimostrato a tal punto più bravo e capace del suo avversario che la pubblica accusa, dopo aver chiesto la condanna per omicidio di secondo grado, alla fine era stata contenta di ottenere una multa di qualche migliaio di dollari per detenzione di un'arma da fuoco non denunciata. Poi fu la volta di una valanga di notizie sui Mullen. Dalle interviste a personalità di spicco a Montauk emerse la storia della morte dei genitori di Jack e si capì quanto poco i due protagonisti della vicenda corrispondessero al profilo del terrorista. «L'unico motivo per cui sono sindaco di Montauk è che Macklin non si è candidato», dichiarò Peter Siegel. «E Jack è il nostro golden boy locale.» «Sono i Kennedy della classe operaia di Montauk», sentenziò Dominick Dunne, corrispondente inviato sul posto da Vanity Fair. «Belli e affascinanti, con la stessa parlantina da cattolici irlandesi e lo stesso tragico destino.» Dai reportage era chiaro che la vicenda aveva velocemente monopolizzato l'attenzione dell'East End di Long Island. Quando un banchiere abbronzatissimo, avvicinato da un giornalista mentre scendeva dalla sua Porsche davanti a un'enoteca, dichiarò: «Spero che gli diano l'ergastolo», esprimeva l'opinione prevalente tra le oberen Klassen. La gente del posto la pensava diversamente. Giornali e telegiornali riportavano dichiarazioni apparentemente neutrali tipo: «Spero solo che tutti
tornino a casa sani e salvi», ma in realtà era soltanto l'incolumità dei Mullen e dei loro amici a preoccupare gli intervistati. «Se si pensa a quante ne hanno passate i Mullen in questi ultimi anni, non si può fare a meno di concludere che la loro è l'ennesima 'tragedia americana'», commentò Denise Lowe, una cameriera della PJ's Pancake House. «Che tristezza! Siamo tutti molto affezionati a Jack e Macklin.» Ma fu solo verso mezzanotte, quando i giornalisti se ne andarono a dormire e furono sostituiti dai guru delle TV via cavo, che cominciarono a trapelare i primi commenti realmente a nostro favore. Come spesso succede, il primo a far sentire la propria voce fu Geraldo. Quella notte la sua trasmissione andò in onda in diretta dal bar dello Shagwong. Strutturando il programma come se fosse un'assemblea comunale, coinvolse la gente del posto, incoraggiandola a sfogarsi e a parlare di Mack e Jack. «Uno dei motivi per cui Macklin sembra così a suo agio nel suo nuovo ruolo è che, ufficiosamente, fa il giudice nella nostra città da almeno vent'anni», spiegò Gary Miller, proprietario di un vivaio. «Per la precisione, in questo momento ci troviamo nella sua aula di giustizia preferita.» Geraldo organizzò anche un collegamento con Chauncy Howells, preside della Columbia Law School. «Jack Mullen non era uno studente in gamba, era in gambissima», dichiarò. «Uno degli studenti più brillanti che abbia mai avuto. Ciononostante, non risulta abbia fatto domanda di lavoro da nessuna parte. Questo sembra suggerire che stesse organizzando la cosa da tempo e che sia consapevole delle conseguenze. Sono certo che per Jack Mullen questa è stata una meditata decisione morale ed etica.» Concludendo Geraldo disse: «Mi sembra chiaro che Jackson e Macklin Mullen non sono né fanatici né radicali, né pazzi, ma due persone che, come voi e me, si sono stufate delle palesi ingiustizie del nostro paese. L'unica differenza è che loro sono stati colpiti molto più da vicino dall'inefficienza del nostro sistema giudiziario e hanno deciso di fare qualcosa. Preghiamo per tutti coloro che sono coinvolti in questa tragedia. Buonanotte, amici». Mentre i media sfruttavano a loro piacimento il processo contro Barry Neubauer, gli Hamptons furono invasi da agenti dell'FBI che, con le loro scarpe informi dalla suola di gomma, gli orribili tagli di capelli e le anonime auto americane, spiccavano come barboni al circolo del golf. 94
«Se non sto attento, rischio di abituarmi a questo lusso», disse Macklin passando le lunghe dita ossute sui pannelli di mogano d'epoca. Sembrava di essere in una di quelle antiche ville inglesi degli sceneggiati della PBS. Ci trovavamo nella biblioteca della villa di Kleinerhunt, adiacente alla sala spoglia che avevamo trasformato in aula di giustizia. Mack e io ci sedemmo vicino alla grande finestra che si affacciava sulla spiaggia deserta. Mi sentivo come se fossi reduce dalla prima giornata di cento ore mai vista sulla terra. «Pensavo a Marci e Fenton e Hank», dissi. «Non avremmo dovuto coinvolgerli.» «È un po' tardi, Jack. A parte il fatto che ci tenevano a partecipare», ribatté Macklin spazientito. «Comunque, spero che tu abbia in mano qualcosa di più di quel che hai mostrato oggi.» «Cosa pensi della testimonianza di Jane?» chiesi. «È stata la migliore. Ma non compromette in alcun modo Neubauer. Dove sono le prove a suo carico, Jack?» «Non si può saltare dritti alla conclusione, Mack», gli ricordai. «Come diceva sempre Fenning, il mio professore di procedura penale, la barca va costruita'.» «Be', costruiscila, allora, e assicurati che stia a galla. Ora dammi una mano ad alzarmi, Jack. Devo infilarmi nel sacco a pelo. E comunque non dovrei parlare con te.» Gli presi la grossa mano nodosa e lo tirai con forza. E, già che c'ero, quando fu in piedi lo abbracciai. Era come stringere un sacco pieno di ossa. «Non invecchiarmi troppo, Macklin», dissi. «Ho bisogno di te.» «Mi sembra di essere invecchiato di dieci anni nelle ultime dieci ore. Non va bene, quando si parte già da ottantasette anni.» 95 La biblioteca aveva un terrazzo. Quando Mack fu andato a dormire, aprii la vetrata scorrevole e uscii. Sapevo che non avrei dovuto farlo, ma avevo bisogno di schiarirmi le idee. Volevo riflettere ancora una volta sugli ultimi avvenimenti, soprattutto sul motivo per cui speravo di riuscire a farla franca. Dal terrazzo non si vedevano altre costruzioni, che si guardasse a est
verso il faro oppure a ovest verso Montauk. Nella sua sconfinata e fredda bellezza, la notte in quella parte di Long Island riesce sempre a farti sentire insignificante come una mosca intrappolata dalla parte sbagliata di una finestra. Ma quella sera la sensazione di piccolezza che provai mi diede conforto. E le stelle erano splendide. Uno dei numerosi effetti positivi della meditazione e del distacco dalle cose è che dopo si dorme meglio. Mi stesi per terra e in un attimo mi assopii. Fui svegliato da un rumore di passi all'altro capo del terrazzo. Era troppo tardi per scappare. Mi sedetti e scrutai invano nel buio. Forse era l'FBI e una voce profonda e spaventosa stava per ordinarmi di sdraiarmi a pancia in giù con le mani dietro la testa. Avevamo detto chiaramente - almeno così speravo - che non eravamo intenzionati a fare del male agli ostaggi. Non c'era bisogno di spararmi a vista. Stavo quasi per dirlo ad alta voce: «Non sparate». Riconobbi il profumo di Pauline prima ancora di averla vista. «È una pazzia tornare qui», le dissi quando uscì dall'ombra. Ma non ne ero molto convinto. Immaginai che, come me, avesse pensato che poteva essere l'ultima notte che avremmo passato insieme per molto tempo. «Vorrà dire che sono pazza», replicò. «Be', sei in buona compagnia.» Si sdraiò per terra vicino a me e per qualche minuto dimenticai tutto, tranne che stavo benissimo con lei e quel pensiero mi riempì di angoscia. «Non volevo essere scortese, Pauline. Sono felice che tu sia tornata da New York.» «Lo so, Jack. E ora dai un bacio alla tua ragazza.» 96 Circa un'ora più tardi, Pauline e io eravamo ancora stesi sul terrazzo della biblioteca sotto una volta di migliaia di stelle ammiccanti. «Hai avuto i risultati delle analisi da Jane?» mi chiese sottovoce. Ero così lontano con la mente che per un attimo non capii a che cosa si riferisse. «Saranno pronti domani. Domattina presto, spero. E tu? Com'è andata nella metropoli che non dorme mai?» «Bene», rispose Pauline con un bel sorriso, come quello di un gatto che si è appena mangiato il canarino. «Anzi, benissimo. Sarai contento, Jack.»
«Quanti ne hai rintracciati?» «Dodici su dodici», rispose. «E quanti hanno firmato?» «Tutti, dal primo all'ultimo, Jack. Odiano quello stronzo di Neubauer tanto quanto noi.» «Senza dubbio ho assunto la detective migliore che ci sia», dissi e la baciai di nuovo. «Hai occhio per i veri talenti. Oh, a proposito, Jack, ti sei fatto una fama, sai?» «Buona o cattiva?» «Dipende dal canale e dal commentatore. Quello di Hardball dice che tu e Mack meritate di essere impiccati sulla pubblica piazza.» «Scommetto che l'audience andrebbe alle stelle, se ci giustiziassero in diretta.» «Dieci minuti dopo, Geraldo vi ha paragonato agli eroi della Rivoluzione americana.» «Ho sempre pensato che Geraldo è un grande.» «Scusa, e da quando la pensi così?» «Be', da stasera.» «E la meteorologa della Fox secondo me vorrebbe fare un figlio con te.» «Qualcuno dovrebbe dirle che sono già occupato.» «Bravo, Jack. Vedo che stai imparando.» «È vero. Se mai farò un figlio, non sarà certo con una meteorologa, ma con qualcuna dal bel nome di Pauline Grabowski.» Ci fu un silenzio pieno di tenerezza. «Pauline?» «Che cosa c'è, avvocato?» «Ti amo.» «Anch'io. Per questo sono qui», mormorò lei. «Credo che tutti siamo qui per questo, Jack.» «Ti amo più di quanto pensassi di poter essere capace. Anzi, ti adoro. Quasi ogni giorno che passiamo insieme riesci a sorprendermi, e sempre positivamente. Ammiro la tua presenza di spirito, la tua comprensione, la tua risata dolce. Non mi stanco mai di stare con te. Mi manchi terribilmente quando non ci sei.» Mi fermai e la guardai negli occhi. Pauline resse il mio sguardo senza battere ciglio. «Vuoi sposarmi?» sussurrai. Questa volta il suo silenzio mi spaventò. Non osavo muovermi. Alla fine mi appoggiai su un gomito e mi chinai su di lei. Il suo viso
sembrava fatto di un milione di frammenti scintillanti. Non l'avevo mai vista così bella. Quando, tra le lacrime, annuì, capii di aver dato un senso alla mia vita. 97 Il tenente della guardia costiera Christopher Ames, ventinove anni, era ai comandi del suo elicottero Blackhawk 7000 e si sentiva come se la notte fosse il suo videogame personale. Era di turno, in cerca dei miliardari scomparsi, ma con poca convinzione. Nessuno dei tre miliardari che aveva conosciuto in vita sua gli era particolarmente simpatico. Diciotto miglia a est di Montauk c'era Block Island. Ames aveva passato la giornata a scandagliarla centimetro per centimetro senza trovare assolutamente nulla. Non ne era affatto sorpreso. In quel momento stava tornando a Long Island divertendosi un po', ma non tanto da rischiare la corte marziale. Diede un'occhiata all'indicatore di velocità: 280. Accidenti, la sensazione era di andare almeno al doppio. Volava a meno di cinquanta piedi dalle creste bianche delle onde. In vista del faro di Montauk, virò a sinistra e seguì la costa alta e frastagliata. Con la luna piena, sembrava che precipitasse direttamente in mare. Pensò di seguire la scogliera per qualche miglio prima di dirigersi verso il MacArthur Airport, nell'interno, e in quel momento notò la grande villa bassa e buia tra le dune. Aveva sorvolato seconde case di gran lusso per tutta la giornata, ma quella era veramente esagerata, persino per gli standard elevatissimi della zona. Lunga e sinuosa, sembrava serpeggiare all'infinito lungo la costa. Eppure, nel primo vero weekend dell'estate, non c'era una sola luce accesa. Strano. E che spreco, per la miseria. Qualcuno avrebbe dovuto approfittare di quella meraviglia. Tirò con forza la cloche e l'elicottero parve immobilizzarsi a mezz'aria, come i personaggi dei cartoni animati quando si accorgono una frazione di secondo troppo tardi di aver superato l'orlo di un baratro. Poi, per l'ennesima volta da quella mattina, virò per abbassarsi sulla villa. Da vicino si accorse che non era ancora finita. Fece alcuni giri sul cantiere polveroso come una macchina da corsa su una pista. Il motore a turbina sollevò un polverone che presto si sarebbe depositato ovunque, dai gradini davanti all'ingresso fino al grosso rullo compressore giallo fermo in fondo al viale d'accesso.
Stava per tornare indietro e fare rotta sull'aeroporto quando notò una mountain bike appoggiata a uno dei pochi alberi. La illuminò con il riflettore da ottomila watt e vide il lucchetto aperto appeso alla ruota posteriore. Che cos'abbiamo qui? Sorvolò di nuovo in tondo la villa, questa volta più lentamente. Volando a punto fisso all'altezza del tetto, puntò i riflettori sulla fila di finestre buie. Fu allora che vide i due sul terrazzo, letteralmente sotto il suo naso. Entrambi nudi come vermi. Stava per prendere il ricetrasmettitore quando la donna si alzò in piedi e sollevò il viso verso la luce. Era bellissima, e non di una bellezza scontata da top model. Per una decina di secondi rimase lì, con le mani sui fianchi, a guardare in alto come se stesse cercando di comunicargli qualcosa di importante con gli occhi. Poi alzò le braccia sopra le spalle e gli mostrò il dito. Ames scoppiò a ridere e per la prima volta in tutta la giornata ricordò perché gli piaceva l'America. Dovrei aver di meglio da fare che disturbare due che hanno scelto uno dei posti più belli di tutto il Nordamerica per fare l'amore, pensò mentre posava il ricetrasmettitore e prendeva quota per tornare al MacArthur Airport. E continuò a sorridere alla bella ragazza che gli aveva fatto un gestaccio. 98 Pauline e io eravamo persi nel nostro piccolo mondo, mano nella mano a guardare il mare, quando Fenton uscì di corsa dalla portafinestra. «Jack, Volpi è scappato!» «Non dovevi controllare ogni dieci minuti? I due lucchetti alla porta erano chiusi?» «Ho controllato, Jack, te lo giuro. Non può essere fuggito da più di qualche minuto.» Per fortuna Pauline e io ci eravamo rivestiti. Seguimmo Fenton sulla spiaggia e guardammo da una parte e dall'altra. Nulla. Volpi non c'era. «Si sarà diretto a ovest, verso la casa dei Blakely. E l'unica decisione logica», dissi. Ci precipitammo in garage e salimmo sulla macchina di Pauline, che si mise al volante. Percorremmo a gran velocità il viale di ghiaia e quindi
svoltammo a sinistra, verso il paese. «Non può finire così», dissi. Pauline, che già guidava più veloce di quanto avrei fatto io, accelerò ulteriormente. Erano circa le due del mattino e la strada era deserta. Poco più avanti svoltò di nuovo a sinistra, verso Franklin Cove. «Fermati qui», le ordinai. «La spiaggia è dietro quella duna. O lo abbiamo battuto sul tempo, o siamo fregati.» Scendemmo dalla macchina e ci arrampicammo fino in cima alla duna. Quando fummo in vista del mare, avevo il cuore che mi batteva all'impazzata. Eravamo arrivati troppo tardi. Volpi era già un centinaio di metri più avanti e correva sbuffando sulla sabbia verso un gruppo di grandi case in fondo alla baia. Partimmo comunque all'inseguimento e dopo un po' cominciammo a guadagnare terreno. Appena ci vide, però, Volpi accelerò. Dubitavo che riuscissimo a raggiungerlo prima che arrivasse alle case. Mentre correvo sulla sabbia, udii uno sparo alle mie spalle. Fenton e io ci girammo e vedemmo Pauline con la sua Smith & Wesson in pugno che prendeva di nuovo la mira. Il secondo colpo dovette mancarlo per un pelo, perché Volpi si fermò di botto e alzò le mani. «Non sparate!» Continuammo a correre. Il primo ad arrivare fu Fenton, che si chinò e, con tutta la forza dei suoi centodieci chili di peso, diede a Volpi una spallata in pieno petto mandandolo a gambe all'aria. In un attimo gli fummo addosso tutti e tre, pronti a sfogare su di lui la rabbia e la frustrazione accumulate da un anno a quella parte. «Ora basta», disse Pauline. «Smettetela.» Ma Fenton non era soddisfatto. Prese una manciata di sabbia e gliela ficcò in bocca. Volpi boccheggiò, sputò e borbottò qualcosa. A quel punto presi a mia volta una manciata di sabbia e gliela buttai in faccia. «Che cos'è successo a Peter?» gridai. «C'eri anche tu, vero, Frank? Che cosa gli avete fatto?» Continuando a sputacchiare sabbia e a boccheggiare, lui riuscì a dire: «No... No...» «Frank, voglio solo sapere la verità. Quello che ci dici qui adesso non ha importanza. Nessuno lo saprà mai.» Volpi scosse la testa e Fenton gli ficcò in bocca un altro pugno di sabbia.
Volpi sputacchiò e ansimò ancora. Mi faceva quasi pena. Questa volta gli lasciammo un minuto per prendere fiato e chiarirsi le idee. Fenton non riusciva a lasciarlo in pace, però. «Adesso sai come mi sono sentito quando è venuto a cercarmi il tuo amico e ha tentato di annegarmi. Non ce la facevo a respirare! Mi entrava l'acqua salata fino in gola! È buona la sabbia, Frank? Ne vuoi ancora un po'?» Volpi si coprì la faccia con le mani e tentò di liberarsi la bocca e di prendere fiato. «Sì, Neubauer ha fatto ammazzare tuo fratello dai suoi scagnozzi. Il perché non lo so ancora. Io non c'ero, Jack. Come puoi pensare una cosa simile? Cristo, Peter mi era simpatico!» Gesù, che piacere scoprire finalmente la verità, anche solo sentirla dire. «Non volevo altro, Frank. La verità. Smetti di piagnucolare, pezzo di merda.» Ma Volpi non aveva ancora finito. «Non hai niente contro di lui, Jack. Neubauer è troppo furbo per te.» Gli mollai un pugno, il miglior destro che avessi mai sferrato in vita mia, e lo mandai a sbattere a faccia in giù nella sabbia. «Questo te lo sei cercato, stronzo.» Fenton gli posò una mano sulla nuca e gli schiacciò la faccia nella sabbia. «E anche questo.» Se non altro adesso sapevo la verità. Trascinammo Volpi fino alla macchina di Pauline e lo riportammo alla villa. 99 Qualche ora più tardi, dopo che Pauline, Molly e io avemmo servito uova e caffè a tutto il gruppo, tornammo in aula. Non ero molto in forma, ma appena mi entrò in circolo l'adrenalina mi sentii meglio. Macklin batté il martelletto e richiamò all'ordine i presenti, dopodiché Montrose si alzò e si lanciò in un'altra delle sue arringhe pompose, che doveva aver preparato durante la notte. Feci obiezione e Mack invitò entrambi ad avvicinarci. «Lei sa fare di meglio», disse a Montrose. «Dovrebbe addurre prove, non fare della filosofia, o quel che è. E lo stesso vale per te, Jack. Ma viste le altre restrizioni che le sono state imposte, avvocato Montrose, e nell'interesse della giustizia e dell'accertamento della verità, continui pure a con-
cionare. Cerchi solo di essere breve, perdio. Sono vecchio e non ho tempo da perdere.» Scossi la testa e tornai al mio posto. Montrose si rimise al centro. «Il nostro sedicente pubblico ministero si diverte a infangare impunemente la reputazione del mio assistito», riprese lanciandomi un'occhiataccia. Ebbi la sensazione che stesse cominciando a prenderci gusto. «Finora non abbiamo ricambiato sottolineando i tristi particolari della vita condotta dal suo defunto fratello. Ci sembrava inopportuno e, speravo, inutile. A questo punto, però, non abbiamo scelta.» Montrose sospirò come se avesse passato la notte a combattere con terribili scrupoli di coscienza. «Se davvero la morte di Peter Mullen non fu un incidente - cosa di cui dubitiamo - ci sono persone che avevano molti più motivi di Barry Neubauer per fargli del male.» Si schiarì la voce. «Quando Peter Mullen morì alla fine di maggio dello scorso anno, il mondo non perse una nuova Madre Teresa, ma un giovane che aveva abbandonato gli studi e che all'età di tredici anni era già stato arrestato per possesso di sostanze stupefacenti. Dovreste sapere inoltre che, pur non avendo mai avuto un lavoro regolare in vita sua, Peter Mullen aveva quasi duecentomila dollari sul conto in banca al momento della sua morte. Due mesi prima si era comprato una motocicletta da diciannovemila dollari pagandola con una mazzetta di banconote in tagli da mille.» Come facevano a saperlo? Mi avevano forse pedinato? «A differenza della mia controparte, io non sono tanto irresponsabile da venire qui a dire che Peter Mullen era uno spacciatore. Non ho prove sufficienti per dimostrarlo. Ma in base ai suoi precedenti, al deposito bancario e al tipo di vita che conduceva, non essendoci altra spiegazione del fatto che possedeva tanti soldi, non posso fare a meno di sollevare degli interrogativi. E se Peter Mullen si manteneva spacciando droga, è possibile che avesse rivali violenti. In certi ambienti è normale, anche negli Hamptons.» Sentendo tirar fuori ancora una volta quelle accuse infondate, scattai in piedi. «Nessuno sostiene che mio fratello fosse uno stinco di santo», dissi. «Ma non era uno spacciatore. Tutti i presenti ne sono consapevoli. Non solo, sanno anche come quei duecentomila dollari erano arrivati sul suo conto in banca. Perché erano i loro soldi!» Montrose protestò. «Vostro onore, la prego di impedire questo genere di esibizioni da parte di suo nipote.» Macklin annuì e disse: «Se la pubblica accusa ha qualcosa da comunicare alla corte, lo dica chiaro e tondo, invece di sparar cazzate. Non tollererò
ulteriori comportamenti poco professionali. Questo vuole essere un processo giusto e, dannazione, lo sarà». 100 Dopo mesi passati a non pensare ad altro che al processo, a studiare, a indagare e raccogliere prove, eravamo giunti al momento della verità. Volevo giustizia per Peter e forse l'avrei ottenuta, se fossi stato abbastanza in gamba, se fossi riuscito a controllare la rabbia e l'indignazione, se per una volta mi fossi dimostrato capace di battere Bill Montrose. Onestamente e correttamente. «Ho alcune prove cruciali da sottoporre alla corte», dissi. «Ma prima desidero chiarire l'episodio citato dall'avvocato Montrose. L'accusa di possesso di sostanze stupefacenti contro Peter fu sporta nel Vermont otto anni fa. Allora io avevo ventun anni ed ero all'ultimo anno di college e Peter, che ne aveva tredici, era venuto a trovarmi. Una sera un poliziotto ci fermò perché uno dei fanali posteriori della mia macchina era spento. Con una scusa, perquisì l'auto e trovò uno spinello sotto il sedile. Ecco come andarono le cose. Sapendo che avevo fatto domanda per entrare alla Columbia Law School, Peter sostenne che lo spinello era suo. Non era vero. Era mio. Lo racconto per amore di verità e per spiegare che, se Peter non era un santo, era però il fratello migliore che chiunque possa sperare di avere. Nulla di ciò che sto per mostrarvi cambia tutto questo.» Chiesi che venissero regolate le luci e continuai: «Adesso l'accusa desidera mostrare alcuni reperti». Marci salì su una scaletta e orientò due faretti da millecinquecento watt in modo da illuminare circa un metro quadrato di muro. Al centro del riquadro appesi con il nastro adesivo una grande foto a colori che raffigurava un bambino di pochi anni, con le guance rosee, che sorrideva con addosso un maglione decorato con renne, in mezzo a un mucchio di animali di peluche. «Quella che vedete è la copertina del catalogo pubblicato l'anno scorso per Natale dalla Bjorn Boontaag, ora di proprietà di Barry Neubauer. Vi leggerò il testo che la accompagna: 'La Boontaag è la fabbrica di giocattoli e di mobili per bambini più famosa del mondo. Gli animali di peluche in copertina sono le tre famose leonesse Sneha, Saydaa e Mehta, acquistate in decine di migliaia di esemplari da genitori di tutto il mondo. Il catalogo contiene duecento pagine di giocattoli, indumenti e arredamento per bam-
bini'. L'accusa desidera che questa foto venga messa agli atti come reperto B.» Detto questo mi guardai intorno come un guerrigliero negli attimi di calma inspiegabile che precedono il lancio del suo primo missile. «L'accusa presenterà adesso il reperto C.» 101 «Il reperto C, devo avvertirvi, è molto meno piacevole a vedersi del catalogo natalizio della Boontaag», dissi. «Anzi, se state guardando la televisione con i vostri bambini, vi consiglio di mandarli in un'altra stanza.» Tornai lentamente al mio tavolo e presi la busta, fissando Barry Neubauer fino a che non gli lessi negli occhi la prima ombra di panico. «Le immagini che sto per mostrarvi non sono gradevoli e sfumate. Sono dure e fredde e spaventosamente nitide. Se immortalano qualcosa, non si tratta certamente dei valori dell'infanzia o della famiglia.» «Obiezione!» gridò Montrose. «Mi oppongo, vostro onore!» «Lasciamo parlare le immagini», disse Macklin. «Continua, Jack.» Il cuore mi batteva forte come se stessi lottando per la mia stessa vita, ma ripresi la parola con la massima calma e annunciai: «Vostro onore, chiamo a testimoniare Pauline Grabowski». Pauline si avvicinò a passo svelto alla sedia dei testimoni. Sapevo che era ansiosa di fare la sua parte benché questo significasse compromettersi. «Signorina Grabowski, che lavoro fa?» le chiesi. «Fino a poco tempo fa, facevo l'investigatrice privata presso lo studio legale dell'avvocato Montrose.» «Per quanto tempo ha lavorato per lo studio?» «Dieci anni, finché me ne sono andata.» «Com'era considerata allo studio?» «In dieci anni ho avuto cinque promozioni. Alla fine di ogni anno ho ricevuto un premio di produzione doppio rispetto a quello previsto per i dipendenti che raggiungevano il risultato. L'avvocato Montrose in persona mi disse che ero la miglior detective con cui avesse lavorato nei suoi venticinque anni di carriera.» Non potei fare a meno di sorridere, mentre Montrose si contorceva sulla sedia. «Mi dica, signorina Grabowski, ha avuto un ruolo nelle indagini riguardanti questo processo e, se sì, quale?» «Be', ho condotto i normali sopralluoghi, ho parlato con potenziali te-
stimoni, raccolto documenti...» «Concentriamoci su giovedì 3 maggio: quel giorno incontrò me al Memory Motel?» «Sì.» «E là vide qualcosa? Che cosa?» «Vidi la collezione privata di fotografie di Sammy Giamalva. Ebbi modo di esaminare varie decine di foto in bianco e nero.» Il bello doveva ancora venire. Al rallentatore, centimetro per centimetro, estrassi le foto dalla busta. «Signorina Grabowski, si tratta di queste fotografie?» «Sì.» «E oggi sono nelle stesse condizioni della prima volta che le vide?» «Sì.» «Vostro onore, l'accusa presenta alla corte il reperto C, consistente in tredici fotografie in bianco e nero formato venti per venticinque.» Montrose urlò: «Obiezione!» Macklin gli fece segno di tacere. «Respinta. Si tratta di prove pertinenti convalidate da una testimone qualificata. Il reperto venga messo agli atti.» Sollevai la prima foto e la esaminai con cura prima di mostrarla al pubblico. Continuava a farmi star male. Andai verso il muro e la sistemai vicino alla copertina del catalogo natalizio Boontaag, assicurandomi che fosse appesa per bene prima di farmi da una parte. Aspettai che Molly zoomasse e mettesse a fuoco. La prima cosa che colpiva chiunque la guardasse era la luce vivida, forte. Anche in quella sala molto illuminata, risaltava come un neon nella notte. Lo stesso tipo di luce che c'è nelle sale operatorie o negli obitori, che evidenzia ogni vena e ogni poro e ogni difetto con un iperrealismo da incubo. Pari alla brutale intensità dell'illuminazione era l'espressione stravolta dei due uomini e della donna e la foga dell'azione. Erano tutti e tre al centro dell'inquadratura, come se la donna fosse un fuoco intorno al quale si scaldavano i due uomini. Solo dopo essersi abituati al contrasto tra luci e ombre i presenti riconobbero nella donna Stella Fitzharding. L'uomo che la stava sodomizzando era Barry Neubauer e quello steso sulla schiena sotto di lei era mio fratello. 102
Quella foto in bianco e nero scosse la sala come una potente esplosione che provoca enormi danni, ma nessun ferito. Fu Neubauer a rompere il silenzio. «Maledetto bastardo!» gridò. Montrose cominciò a urlare: «Obiezione! Obiezione! Obiezione!» come se l'imprecazione del suo cliente gli avesse fatto scattare un allarme nella gola. Le loro grida mandarono su tutte le furie Mack, che tuonò: «Farò imbavagliare tutti i presenti, se non la smettete di fare baccano! Si tratta di prove, e di prove innegabilmente pertinenti, per cui le ammetto». Ripresi ad affiggere diligentemente le altre foto solo quando fu tornato il silenzio. Rammentando continuamente a me stesso che dovevo «costruire la barca» con calma, impiegai i cinque minuti successivi per sistemare con cura le foto di Peter e dei suoi vari partner. In totale erano tredici, la sporca dozzina di un pornografo, nonché l'album di famiglia più triste che avessi mai visto. Malgrado la comparsa occasionale di qualche ospite non identificato, il cast era sempre quello: Barry e Peter, Stella e Tom, i migliori amici dei Neubauer. Decisamente avevamo portato in quell'aula le persone giuste, quelle che avevano approfittato di mio fratello fin da ragazzino. E inutile negare il potere sconcertante della pornografia hard. Ogni volta che appendevo al muro una nuova foto, Molly zoomava e la inquadrava per dieci secondi. «Spegnete la telecamera!» gridò Neubauer. «Spegnetela immediatamente!» «Vostro onore, desidero conferire con lei e con il pubblico ministero», disse Montrose dopo aver parlato con Neubauer. Appena Mack ci fece cenno di avvicinarci, disse: «Il signor Neubauer ha una proposta che ritiene possa mettere fine a questo procedimento e mi ha chiesto di riferirvela». «All'accusa non interessa», replicai freddo. «Di che cosa si tratta?» domandò Macklin. «Il mio assistito desidera presentarvela personalmente, in privato.» «Non può essere di alcuna utilità a questa corte», obiettai. «Andiamo avanti.» Montrose ripeté la richiesta a Macklin. «Il mio cliente chiede solo un minuto e mezzo, vostro onore. Non mi dica che non può concederglielo, nell'interesse della giustizia, o di che cosa diavolo rappresenta questa farsa.»
«La seduta è sospesa per due minuti», annunciò Macklin. «Lasciamo alle reti il tempo per vendere un po' di birra.» Fece cenno a Fenton Gidley di avvicinarsi anche lui e ci trasferimmo nella biblioteca, dotata di un binario e una scaletta scorrevole per raggiungere gli scaffali più alti. Naturalmente non c'erano libri. Il fatto di trovarmi a tu per tu con Neubauer, per quanto ammanettato, mi turbava. Era fuori di sé dalla rabbia: non era abituato a non essere ubbidito e aveva gli occhi sbarrati e le narici dilatate. Emanava un odore aspro, animalesco, quasi insopportabile. «Dieci milioni di dollari!» esclamò non appena la porta fu chiusa. «E nessuno di noi collaborerà con la giustizia contro tuo nonno, i tuoi amici e te.» «È questa la sua proposta, signor Neubauer?» domandò Macklin. «Dieci milioni di dollari», ripeté lui. «In contanti, depositati a tuo nome a Grande Cayman o alle Bahama. E nessuno di voi farà un solo giorno di galera. Vi do la mia parola. Adesso qualcuno vuol togliermi queste manette? Desidero solo andarmene da qui. Avete ottenuto quello che volevate. Avete vinto!» «I soldi non ci interessano», risposi in tono piatto. Neubauer fece un cenno sprezzante e disse: «Qualche anno fa alcuni dei miei ospiti si lasciarono prendere la mano e una prostituta cadde dal mio yacht. Mi costò cinquecentomila dollari. Adesso è morta un'altra puttana e voglio pagare i miei debiti. Sono un uomo che non lascia conti in sospeso». «No, Barry. Tu sei uno schifoso assassino. Frank Volpi me lo ha gentilmente confermato ieri notte. Non te la caverai pagando, coglione!» Mi resi conto di aver esagerato. Il viso di Neubauer si contorse in una smorfia non molto diversa da quelle immortalate in alcune delle foto, poi con un sussurro raggelante disse: «Mi piaceva inculare tuo fratello, Jack. Peter era uno dei miei preferiti! Soprattutto a tredici anni. Hai capito, Mullen?» Ero appoggiato alla scaletta e Neubauer era in piedi a cavallo del binario sul pavimento, a meno di un metro da me. Il binario era in corrispondenza del suo inguine. Sarebbe bastata una bella spinta alla scala... Ma mi controllai. Non volevo che tornasse in aula con l'aria di essere stato picchiato o malmenato. «So già che cosa facevi a mio fratello», dissi alla fine. «Per questo siamo qui. E ti verrà a costare molto più dei soldi, Barry.»
«Torniamo al lavoro», disse Mack. «Non sta bene tenere cento milioni di persone ad aspettare e, se non altro, i Mullen conoscono l'educazione.» 103 Stella Fitzharding non aveva tutti i requisiti classici della terza moglie di un miliardario con casa a New York e a Palm Beach. Non era né giovane, né bionda, né siliconata. Era una ex professoressa di lingue romanze in un piccolo college del Midwest generosamente finanziato dal marito affinché gli venisse intitolata la biblioteca. Se si vergognava della propria presenza nella rassegna fotografica in mostra sulla parete, non lo dava a vedere. La prima volta che si era fatta mio fratello, Peter aveva quattordici anni. «Signora Fitzharding, ho la sensazione che lei abbia già visto queste foto. È vero?» le dissi appena ebbe prestato giuramento. Stella Fitzharding aggrottò la fronte, ma annuì. «Peter se ne serviva per ricattarci da due anni a questa parte», spiegò poi. «Quanti soldi gli deste?» «Cinquemila dollari al mese? Settemilacinquecento? Non ricordo esattamente, ma so che era la stessa cifra che diamo al giardiniere.» Le mie domande parevano annoiarla. Abbi pazienza, Stella. Tra poco andrà meglio. «Vi lamentaste con Barry Neubauer?» «Gliene avremmo parlato, se il fatto di essere ricattati non fosse stato un'esperienza così meravigliosamente teatrale e... come dire... noir. Appena le foto ci venivano recapitate alla porta di servizio, ci precipitavamo nel soggiorno a guardarle come altri guardano le foto scattate davanti all'Old Faithful Geyser del parco di Yellowstone. Era diventato una specie di gioco. Tuo fratello lo sapeva, Jack. Anche per lui era un gioco.» Me la sarei mangiata viva, ma mi trattenni. «A chi effettuavate i pagamenti?» domandai. Stella Fitzharding indicò il tavolo dei testimoni. «L'ispettore Frank Volpi faceva da tramite.» Volpi rimase seduto calmissimo, poi mostrò il dito medio a Stella. «Quindi consegnavate i soldi una volta al mese all'ispettore Volpi?» «Sì. Ma quando fu annunciata la fusione tra la Mayflower Enterprises e la Bjorn Boontaag, Peter capì quanti danni potevano fare quelle foto e, invece di qualche migliaio di dollari, chiese milioni.» «Che cosa pensaste, quando mio fratello fu ritrovato morto sulla spiag-
gia?» «Che a furia di giocare con il fuoco si era scottato», disse Stella Fitzharding. «Esattamente come stai facendo tu. E anche tu finirai con il bruciarti.» 104 «Chiamo a testimoniare l'ispettore Frank Volpi.» Volpi non si mosse, ma non fu una sorpresa per me. Anzi, mi aspettavo la stessa reazione anche da altri testimoni. «Posso interrogarla anche da lì, ispettore, se preferisce.» «Non risponderò comunque alle tue domande, Jack.» «Be', mi faccia provare almeno con una.» «Come vuoi.» «Ricorda la conversazione che abbiamo avuto la scorsa notte, ispettore?» chiesi. Volpi rimase impassibile. «Mi consenta di rinfrescarle la memoria. Mi riferisco alla conversazione in cui lei ha detto che un anno fa Barry Neubauer fece assassinare mio fratello da due dei suoi scagnozzi sulla spiaggia.» «Obiezione!» gridò Montrose. «Accolta!» esclamò Mack. «Signora Stevenson, cancelli le ultime due domande dal verbale.» «Chiedo scusa, vostro onore», dissi. «L'accusa non ha altre domande.» «Complimenti, Jack», disse Volpi dal suo posto. 105 Facemmo una pausa per il pranzo e riprendemmo puntualmente la seduta quarantacinque minuti più tardi. Non riuscii a mandare giù nulla, più che altro perché avevo paura di vomitare. Il testimone che mi accingevo a chiamare rappresentava uno di quei rischi che a un bravo penalista si sconsiglia di correre, ma sentivo di non avere scelta: era giunto il momento di scoprire se ero un buon conoscitore della natura umana e se potevo davvero considerarmi un avvocato. Presi fiato e chiamai Campion Neubauer. Nella sala scese il silenzio. Campion si alzò lentamente e si fece avanti. Si voltò a guardare gli altri testimoni quasi sperasse che qualcuno le lan-
ciasse un salvagente. Bill Montrose scattò in piedi. «Assolutamente no! La signora Neubauer è in cura per una depressione cronica e da quando è cominciata questa tortura non ha potuto assumere i farmaci di cui ha bisogno.» Guardai Campion Neubauer, che aveva già preso posto sulla sedia, e le chiesi: «Sta bene? Se la sente?» Lei annuì. «Sto bene, Jack. E vorrei dire una cosa.» Dal suo posto, Barry Neubauer gridò: «So che ve ne infischiate altamente, ma la legge esonera una moglie dall'obbligo di testimoniare contro il marito!» «Il diritto a non testimoniare contro il coniuge può essere invocato solo per quanto riguarda le dichiarazioni fatte da un coniuge all'altro e non i fatti in sé. Può deporre, signora Neubauer.» Sulle labbra di Campion Neubauer apparve un sorriso lievissimo. La conoscevo da molto tempo e l'avevo vista trasformarsi da spirito libero di una bellezza straordinaria in una donna acida e amareggiata. Era anche per questo che avevo deciso di correre il rischio di interrogarla. «Non preoccuparti, caro», disse al marito. «Nessuno mi costringe a testimoniare contro di te. Sono qui di mia sponta nea volontà.» Appena Fenton Gidley le ebbe fatto prestare giuramento, invitai la teste ad alzarsi per esaminare insieme con me alcune delle foto appese al muro. Accettò. Le indicai una donna che stava per raggiungere l'orgasmo nella terza foto. «Chi è?» domandai. «Stella Fitzharding. È ninfomane.» «E la donna più giovane in ginocchio?» «Tricia Powell. La donna in carriera tanto in gamba che è responsabile degli eventi speciali nell'azienda di mio marito.» «E quello in mezzo è mio fratello Peter, che non era certamente un santo.» Campion Neubauer scosse la testa. «No, ma non fece mai del male a nessuno. E tutti gli volevano bene.» «Consolante», commentai. La guidai di foto in foto, puntando il dito. «Di nuovo Peter», disse la signora Neubauer. «Quanti anni aveva secondo lei quando fu scattata questa foto?» «Non so, forse quindici.» «Non di più?» chiesi.
«No, non penso. Jack, credimi... non avevo idea che in casa mia succedessero queste cose. Perlomeno all'inizio. Mi dispiace e te ne chiedo scusa.» «Dispiace anche a me.» Proseguimmo. «In ognuna delle prossime cinque o sei foto, scattate nell'arco di cinque anni, mio fratello, che nelle prime ha non più di quindici anni, viene sodomizzato da un uomo molto più anziano.» «Mio marito, Barry Neubauer», disse lei indicando l'uomo che si teneva ai braccioli della sedia pieghevole con la stessa forza con cui nelle foto stringeva Peter. Saltammo varie immagini per fermarci a osservare l'ultima della serie. Vi comparivano Peter e Barry in compagnia di un terzo uomo di mezz'età, carponi, che portava un collare con le borchie legato a un robusto guinzaglio. «Sono quasi certo di aver già visto l'uomo a quattro zampe.» «Senza dubbio», confermò Campion Neubauer. «È Robert Crassweller Junior, il ministro della Giustizia.» 106 Riaccompagnai la teste alla sua sedia. Sembrava improvvisamente ringiovanita, più rilassata. Aveva persino smesso di lanciare occhiate nella direzione del marito in cerca di approvazione o disapprovazione. O di chissà cos'altro si aspettava da lui. «Tutto bene?» le chiesi. «Sì, sto bene. Continua pure.» Indicai le foto appese al muro. «A parte facce e corpi, signora Neubauer, riconosce qualcos'altro in queste foto?» «Le stanze. Le foto sono state scattate tutte in casa nostra. Nella casa in cui sono cresciuta. La villa al mare che appartiene alla mia famiglia da quasi un secolo.» «Stanze diverse o sempre la stessa?» chiesi. «Perlopiù diverse.» «Una cosa che non riesco a capire è dove si nascondesse il fotografo», osservai. «Dipende, ma può essersi nascosto in vari posti. È una vecchia casa piena di angoli e di nicchie.» «Ma come poteva sapere dove acquattarsi, e in così tante occasioni, senza essere visto?»
Udii uno schianto alle mie spalle e, quando mi voltai a guardare cos'era stato, vidi che Neubauer aveva distrutto il tavolo buttandocisi con tutto il suo peso e strisciava sul pavimento per raggiungere la moglie. Fenton e Hank gli si precipitarono addosso, mentre un oggetto contundente volava da una parte all'altra della sala lasciando un brutto segno nero sul muro a una decina di centimetri dalla testa di Campion Neubauer: era la scarpa sinistra di Stella Fitzharding. «Suo marito e la sua amica sembrano convinti che fosse lei ad aiutare i ricattatori, signora Neubauer», dissi. Illesa, la teste rimase tranquillamente seduta. «È vero, ero io», confermò. «Lei ricattava suo marito, signora Neubauer?» domandai. «Come socio di maggioranza della Mayflower Enterprises, rischiava di rimetterci ancora più di lui.» «Ci sono cose più importanti del denaro, Jack. All'inizio volevo solo documentare i fatti, avere le prove di quel che accadeva in una casa che appartiene alla mia famiglia da quasi un secolo», spiegò. «Poi però non seppi resistere alla tentazione di far venire un po' di tremarella a mio marito.» «Peter non era al corrente del ricatto, vero?» «Non avrebbe mai acconsentito. Non odiava abbastanza Barry. Peter non odiava nessuno, tranne se stesso. Era il suo difetto più commovente.» «Non sarebbe stato più facile divorziare?» «Più facile, forse, ma non più sicuro. Come hai avuto modo di notare, quando Barry si arrabbia, c'è chi ci lascia la pelle.» Mi coprii la bocca con la mano e presi fiato, poi le rivolsi la domanda successiva. Una domanda cruciale. «Non è forse per questo che aveva bisogno di fotografie ancora più compromettenti di quelle che sono appese al muro, signora Neubauer?» Vidi che si irrigidiva sulla sedia. «Non sono sicura di aver capito bene», disse giocherellando nervosamente con l'amuleto di cristallo nero che portava al collo. Mi avvicinai. «Secondo me ha capito benissimo. Un conto è sorprendere Barry a fare orge con ragazzini e con altre donne, un altro è avere in mano foto scattate mentre commetteva un omicidio. Non è per questo che tese una trappola a Peter?» «Non sapevo che Barry lo avrebbe ucciso quella notte. Come avrei potuto immaginarlo?» «Certo che lo sapeva. E ce lo ha appena detto: 'Quando Barry si arrab-
bia, c'è chi ci lascia la pelle'. Io credo che lei abbia mandato Sammy a documentare l'omicidio.» «Ma le foto non ci sono!» esclamò in tono implorante. «Non ho nessuna foto!» Sollevai in alto una busta. «Le ho io, signora Neubauer. Le foto sono qui.» 107 Tutte le nozioni di procedura penale e gli accorgimenti strategici che mi ero tanto sforzato di imparare durante l'inverno e la primavera precedenti furono improvvisamente dimenticati. Aprii subito la busta, con gesto frenetico, angosciato, invece di sfruttare al massimo quel momento. Avevo il batticuore, ero tesissimo. In mano stringevo un fascio di fotografie. Le mescolai come un mazzo di carte, poi le sbattei sul muro insieme con le altre. Dovevano essere le ultime sette foto scattate da Sammy in vita sua e, per quanto raccapriccianti, erano il suo capolavoro. Erano stampate in orizzontale, formato cinquanta per cinquantacinque, e apparivano scure e confuse tanto quanto le precedenti foto pornografiche erano luminose e ben definite. Appese al muro in una fila irregolare, più che fotografie sembravano dipinti espressionisti, turbini violenti di rabbia, paura e morte. Come in molte delle foto porno, i protagonisti erano tre, ma alla libidine si era sostituita la violenza, alle carezze pugni e calci. Riconobbi il quadrante sfocato del Cartier di platino di Neubauer mentre sferrava una manganellata sul collo di Peter. E poi, mentre altre due figure robuste lo immobilizzavano tenendolo per le braccia, vidi la fibbia d'argento del mocassino di Neubauer mentre gli sferrava un calcio alle costole. C'era una faccia seminascosta nell'ombra, ma riuscii a distinguere i lineamenti di Frank Volpi. Aveva mentito dicendo che non era presente, ma perché non avrebbe dovuto? Avevano mentito tutti. L'ultima foto era la più terribile. La affissi al muro e guardai Molly che zoomava. Sapevo che mi sarebbe rimasta impressa nella mente per sempre. Nel momento in cui era stata scattata doveva essersi aperto uno squarcio nelle nuvole e il viso di Peter, steso inerte ai piedi dei suoi assassini, era illuminato. Sembrava un Caravaggio, il volto visto a lume di candela di un giovane
che sapeva di essere giunto agli ultimi istanti di vita e che nessuno lo poteva salvare. L'orrore che gli si leggeva negli occhi era troppo e, pur avendo già visto quella foto, dovetti distogliere lo sguardo. «Durerà ancora a lungo questa vergognosa sceneggiata?» gridò Montrose. «In tutte queste foto si vede una sola faccia, ed è quella della vittima.» «Desidero parlare a quattr'occhi con il pubblico ministero», ordinò Macklin. «Subito.» Quando mi fui avvicinato, lo vidi arrabbiato come mai prima. «Montrose ha ragione. Queste foto sono inutili e tu lo sai benissimo. Cosa cazzo combini, Jack? Dove vuoi arrivare?» «Affanculo Montrose, e Neubauer. E anche tu», gridai. E scoppiai a piangere. Non ce la facevo più. «Non mi interessa se queste foto sono ammissibili come prove o no. Sono foto di Peter ammazzato di botte da Neubauer e da due killer, uno dei quali è Volpi. Se io sono condannato a vedermele davanti agli occhi per il resto della mia vita, voglio che le vedano anche loro. Peter non si è suicidato, non è annegato. È stato ammazzato, Mack. Ecco che cosa dimostrano queste foto.» Macklin si alzò, mi prese il viso bagnato di lacrime tra le mani e me lo strinse come se stesse cercando di tamponare una ferita sanguinante. «Jack, ascoltami», disse con un sorriso straziante. «Stai facendo un buon lavoro, anzi, ottimo. Non lasciarteli scappare proprio adesso, figliolo. Non hai niente per inchiodare questi bastardi? Ti prego, Jack, dimmi di sì.» 108 Non lasciarteli scappare proprio adesso. Quando Peter e io eravamo piccoli, nostro padre ci raccontava la storia di quando un grosso ratto era entrato nell'appartamento in cui viveva con mia madre a Hell's Kitchen, una gelida mattina di dicembre. Aveva mandato mia madre, che aspettava me, a sedersi nel bar sotto casa. Poi si era fatto prestare un badile dal portiere ed era tornato al quinto piano per affrontare il ratto. Lo aveva trovato nel soggiorno, che era l'ultima stanza in fondo: correva lungo il muro in cerca di una via d'uscita. Sarà stato almeno quattro chili, grosso quasi come un gatto, con il pelo rossiccio, lucido. Armato di badile, mio padre era riuscito a chiuderlo in un angolo. Il ratto aveva cercato di scappare facendo finte da una parte e dall'altra e, quando si era accorto che era inutile, aveva mostrato i denti e aveva aspettato. Ap-
pena mio padre aveva sollevato il badile sopra la spalla destra come una mazza da baseball, il ratto gli era saltato addosso! Con uno slancio disperato, mio padre lo aveva colpito al volo, come se fosse una palla da softball, e lo aveva mandato a sbattere contro il muro con tanta forza da rovesciare metà dei libri che si trovavano sugli scaffali. Aveva avuto appena il tempo di prepararsi a colpirlo di nuovo, che il ratto gli si era avventato contro. Il badile lo aveva centrato un'altra volta in pieno, sbattendolo contro il muro. Prima di morire il ratto era ripartito all'attacco ed era stato colpito altre due volte. Quando chiamai Barry Neubauer a testimoniare, mi guardò nello stesso modo in cui il ratto doveva aver guardato mio padre in quella mattina d'inverno. Senza mai togliermi gli occhi di dosso, si agitava sulla sedia, fremente di rabbia, e stringeva i braccioli con tanta forza da farsi venire le nocche bianche. E non si alzava. Cominciai ad avere un leggero affanno. «Se vuoi che mi presenti sul tuo palcoscenico, dovrai trascinarmici a forza», sibilò. «Ma alla TV non farebbe una bella impressione, eh, golden boy?» «La trascineremo con piacere», intervenne Macklin scendendo dalla pedana. «Che diavolo, lo farò io stesso.» Dopo esserci assicurati che avesse mani e piedi saldamente legati alla sedia, Mack e io ci mettemmo ai suoi lati e lo sollevammo di peso. Appena alzato dal suolo, Neubauer cominciò a dibattersi peggio del Motociclista dopo l'iniezione letale. Quando lo depositammo sulla pedana, era madido di sudore. Dietro i costosi occhiali dalla montatura di metallo, gli occhi erano piccolissimi. «Che cos'hai da mostrarci, avvocato da strapazzo?» chiese con un tono rabbioso e stridulo che mi diede sui nervi. Era lo stesso tono sprezzante che usava con i dipendenti in casa sua. «Altre foto porno? A dimostrazione di cosa? Che le fotografie si possono manipolare con il computer? Su, Jack, devi avere qualcosa di più.» Non aveva finito di pronunciare quelle ultime parole di sfida che si udì bussare alla porta. «Effettivamente ho qualcos'altro. Ecco che arriva.» 109
Guardandosi nervosamente i piedi come farebbe chiunque si trovasse ad attraversare una grande sala sapendo di essere osservato da mezza America, Pauline si fece lentamente avanti. Non potei fare a meno di sentirmi fiero di lei. Era stata dalla mia parte fino in fondo. Quando arrivò al mio fianco, mi porse un foglio di carta. Lo lessi con il cuore in gola. Diceva: «East Hampton, L.A., Manhattan - 1996». Poi, credo perché le andava di farlo, mi diede un bacio sulla guancia e si sedette vicino a Marci. «C'è una cosa che mi piacerebbe sapere», dissi a Neubauer indicando le foto sulla parete. «Nessuno le chiese mai di usare il preservativo?» Gli occhi già stretti di Neubauer si fecero ancora più piccoli. «Siamo arrivati al punto in cui tutto questo si trasforma in uno spot 'Pubblicità Progresso'? Ho sempre detto a tutti di non preoccuparsi: faccio regolarmente le analisi.» «Capisco. Allora ha mentito a tutte queste persone.» Gli occhi gli diventarono ancora più scuri. Girando la testa verso di me replicò: «Che cosa vorresti dire?» «Semplicemente che ha mentito, che non ha detto la verità. Ha ingannato tutte queste persone, sua moglie, Tricia Powell, i Fitzharding. Mio fratello.» «Sei pazzo, ormai è evidente. È assurdo. Tu sei fuori di testa.» «Ricorda i campioni di sangue che vi abbiamo prelevato quando siete arrivati? Abbiamo fatto il test dell'HIV sul suo.» «Che cosa?!» urlò Neubauer. «Lei è sieropositivo, signor Neubauer. Il test è stato ripetuto tre volte. Vostro onore, l'accusa desidera presentare questo referto di laboratorio contrassegnato come reperto D.» «Non avevate alcun diritto!» gridò Neubauer scuotendo talmente la sedia che per poco non cadde dalla pedana. «Che differenza fa se avevamo o non avevamo diritto? Se lei faceva regolarmente le analisi, le abbiamo soltanto risparmiato il disturbo.» «Non è un reato essere malati», disse Neubauer. «No, ma è reato esporre i propri partner al contagio sapendo di essere sieropositivi.» «Io non lo sapevo! L'ho scoperto in questo momento!» replicò rabbioso. «Avrei anche potuto crederci, se non le avessimo trovato nel sangue anche tracce di AZT. Siamo andati a controllare le ricette emesse a suo no-
me. L'accusa desidera presentare questi dati come reperto E. Non avevamo diritto di fare nemmeno questo, ma siccome lei ha ucciso mio fratello, l'abbiamo fatto lo stesso. Abbiamo trovato prescrizioni di AZT a suo nome a East Hampton, Los Angeles e Manhattan. Le prime risalgono al 1996.» Neubauer, che tremava dalla testa ai piedi, non volle sentire altro. Montrose scattò in piedi per sollevare una serie di obiezioni che Mack respinse dalla prima all'ultima. I Fitzharding e Tricia Powell inveivano contro Neubauer, come pure Volpi, che dovette essere trattenuto da Hank e Fenton. «Silenzio!» urlò Mack dalla sua poltrona. «Smettetela!» Ripresi la parola. «In queste ultime due settimane abbiamo rintracciato dodici persone immortalate nelle fotografie appese al muro e in quelle contenute in questa busta. Sette sono risultate sieropositive, oltre a mio fratello, che probabilmente era stato contagiato da lei.» Molly portò la telecamera alle spalle di Neubauer, così che nel parlargli mi ritrovai praticamente a guardare l'obiettivo. «Vostro onore, l'accusa presenta adesso sette dichiarazioni giurate di sette individui che, in base alla data delle analisi, ritengono di essere stati contagiati da Barry Neubauer e che, soprattutto, affermano che Neubauer nascose loro di essere sieropositivo, mentendo.» «Sono tutte bugie», continuava a gridare Neubauer scuotendo disperatamente la sedia. «Fallo smettere, Bill!» Mi avvicinai lentamente a Barry Neubauer. Era sempre stato così sicuro di sé, così controllato, convinto di essere intoccabile. Era intelligente, era ricco, era amministratore delegato di una grande corporation, controllava un sacco di persone. Ma in quel momento nei suoi occhi scuri c'era la stessa disperazione che avevo letto in quelli di Peter sulla spiaggia. «Nello Stato di New York esporre consapevolmente una persona al contatto con il virus HIV è un reato punibile con un massimo di dodici anni di detenzione per ogni episodio. Dodici per dodici fa centoquarantaquattro anni di prigione. A me andrebbe bene.» Mi chinai, avvicinandomi alla faccia di quella carogna. «Mio fratello aveva dei difetti. Chi non ne ha? Ma era fondamentalmente una brava persona, un buon fratello. Tu lo hai ammazzato. Non posso provarlo, ma ti ho incastrato comunque, brutto bastardo. Che ne dici?» Mi rialzai e mi rivolsi per l'ultima volta alla telecamera di Molly. «L'accusa non ha altro da dire su Barry Neubauer. Per noi il caso è chiuso.» 110
Erano quasi le cinque del pomeriggio quando Fenton e Hank accompagnarono i nostri ospiti alla porta e li lasciarono liberi. «Andate e moltiplicatevi», disse loro Fenton. Per un po' rimanemmo tutti abbagliati dalla luce dorata dell'East End, senza sapere che cosa fare esattamente. I Fitzharding, Campion e Tricia Powell andarono a sedersi in silenzio sull'orlo della terrazza, con le gambe penzoloni nel vuoto e lo sguardo fisso sul terreno incolto circostante. Frank Volpi si cercò un posto un po' più in là. Pauline commentò: «Guardali, sembrano braccianti in attesa di un passaggio per tornare a casa dopo una dura giornata di lavoro. Forse, dopo tutto, l'abito fa il monaco. O la monaca. Mi riservo di rifletterci». Bill Montrose si sedette da solo, a tre o quattro metri dagli altri. Sempre legato alla sedia, Barry Neubauer rimase davanti alla porta dove Fenton e Hank lo avevano depositato. Aveva lo sguardo vitreo. Nessuno si avvicinò per parlargli, nemmeno il suo avvocato. «Bella scena», commentò Pauline. «Barry Neubauer solo e avvilito. Voglio ricordarmela per le giornate in cui mi sento giù.» Fornimmo di costume da bagno, asciugamano e ciabatte Marci, Fenton e Hank e li congedammo, raccomandando loro di sparpagliarsi sulla spiaggia in modo da sembrare bagnanti un po' storditi dal sole. Dal momento che non erano mai stati ripresi, il loro coinvolgimento nella vicenda era noto solo agli ostaggi. E speravamo che questi ultimi fossero troppo presi dai propri problemi per preoccuparsi di loro tre. Molly portò la telecamera nel viale d'accesso e cercò l'inquadratura migliore per la scena finale. Pauline, Mack e io ci sedemmo all'altro capo della terrazza, lontano dai nostri ospiti, stupiti ed esausti quanto loro. Ci appoggiammo l'uno all'altro più che contro il muro della villa e rimanemmo per un po' a goderci il sole. Gli ultimi raggi del pomeriggio sembrano sempre i più preziosi, anche all'inizio dell'estate, ma quel giorno più che mai ci fecero un effetto paragonabile a - non so - un abbraccio affettuoso. «Ti voglio bene, Pauline», disse Mack rompendo il silenzio. «Anch'io», replicò lei, troppo stanca per alzare la testa dal mio petto. Mi raschiai deliberatamente la gola più volte, finché Mack aggiunse: «Non fare il patetico, Jack. Vogliamo bene anche a te, sai». Dopo un po' Mack si alzò a fatica, andò verso Tricia Powell e le prese dalla borsa un Nokia cromato. Lei era troppo stanca per protestare. «Non
preoccuparti, Tricia, è una telefonata urbana», la rassicurò Mack. «Qualcuno ha qualcosa di importante da dire prima che si scateni l'inferno?» chiese quando tornò verso di noi. «Grazie», dissi io. «Senza voi due non ce l'avrei fatta. Non avrei combinato niente. Vi voglio bene.» «Qualcuno desidera aggiungere qualcosa che non sappiamo già?» insistette Mack risedendosi. «Okay, allora.» Premette i pulsantini di gomma del telefono con le grosse dita e sorrise con gioia esagerata quando sentì che suonava. «Accidenti, funziona!» «Parla Mack Mullen», disse al centralinista della stazione di polizia. «Io, mio nipote e la sua bella ragazza siamo qui in compagnia dei Neubauer, dei Fitzharding e di alcuni altri nostri simpatici amici. Ci chiedevamo se aveste voglia di fare un salto. Siamo alla villa di Kleinerhunt. Ah, dimenticavo: non ci sono feriti e nessuno è armato. Non fatevi prendere dal panico: andrà tutto liscio.» Poi chiuse il telefonino come fosse una conchiglia e lo lanciò lontano, nella sabbia. «Questi aggeggi dovrebbero essere proibiti dalla legge.» Meno di cinque minuti dopo un centinaio di poliziotti e agenti federali percorsero la Main Street di Montauk a bordo di svariate auto con e senza contrassegni, con le sirene spiegate che sembravano le trombe del giudizio universale. Ma siccome gli elicotteri della guardia costiera arrivarono prima, non udimmo nulla, quando vennero ad arrestarci. EPILOGO 111 Circa cinque mesi dopo, Pauline, Macklin e io eravamo seduti in un bar di Foley Square a bere una Guinness. A parte il barista e un gatto bianco, il locale era deserto come la maggior parte dei locali alle undici del mattino, anche in una metropoli come New York. «Che marcisca in galera», disse Macklin rinnovando il suo brindisi preferito dall'inizio dell'estate. E in effetti sembrava che Barry Neubauer dovesse fare proprio quella fine. Il suo primo processo per omicidio colposo era appena cominciato, e altri undici lo aspettavano pazienti come Mercedes e Audi station wagon in fila a un semaforo della Route 27. Ma il bello era che, sussistendo il rischio di fuga, fino alla conclusione
dei processi Neubauer era obbligato a passare la notte e i fine settimana nella prigione di Rikers Island. Le azioni della Mayflower Enterprises erano scese sotto i due dollari. Barry Neubauer era rovinato. Quanto a noi tre, quello era probabilmente l'ultimo giorno che passavamo in libertà a bere Guinness. Il nostro avvocato, Joshua Epstein, lo stesso che difendeva anche Molly e Channel 70, si rifiutò di bere con noi prima di tornare in aula dopo pochi minuti e ci preparò al peggio: non era ottimista. Mack rimase del tutto impassibile. È vero, però, che aveva ottantasette anni. Disse che voleva dare una festa per il Memorial Day in modo da colmare il vuoto che la sospensione dei party alla villa dei Neubauer aveva lasciato nel calendario mondano degli Hamptons. «Una vera festa», annunciò asciugandosi i baffi umidi di birra, «al cui confronto una serata con Puff Daddy sembri un tè per vecchie signore.» «Ci sto, Macklin», disse Pauline. «Non vorrei sembrare un guastafeste, ma dobbiamo andare», intervenni. «Abbiamo un appuntamento in tribunale.» «Io preferisco gli appuntamenti al bar», rispose Mack ridendo come un matto. «Facciamoci coraggio», dissi io. 112 Davanti al tribunale distrettuale di Foley Square ci aspettavano il nostro avvocato, Josh Epstein, che pareva piuttosto nervoso, e un gruppetto di giornalisti armati di fari, microfoni e telecamere, che facevano ressa contro le barricate bianche e azzurre della polizia. «I miei clienti non hanno nulla da dichiarare», disse Josh Epstein facendo cenno ai giornalisti di allontanarsi e lanciando un'occhiata severa a Mack e me. Quindi ci fece salire in fretta gli scalini di pietra e ci condusse nell'atrio circondato da colonne, oltre il metal detector e fino all'ascensore. Arrivammo al ventitreesimo piano senza che nessuno avesse proferito parola. Mentre le porte dell'ascensore si aprivano, Mack si schiarì la voce e sentenziò: «Come disse quel buon vecchio irlandese di Benjamin Franklin: 'Dobbiamo sostenerci l'un l'altro, altrimenti saremo di sicuro impiccati a uno a uno'». L'aula del giudice James L. Blake non assomigliava affatto alla nostra aula improvvisata sulle dune di Montauk. Con soffitti alti dieci metri, lam-
padari, pannelli di mogano lucido e banchi per il pubblico, assomigliava se mai alla Old Whalers' Church di Sag Harbor. Prendemmo posto al tavolo della difesa mentre Josh Epstein conferiva sottovoce con il sostituto procuratore cui era stato assegnato il nostro caso, Arthur Marshall, che portava un sobrio vestito grigio, camicia bianca e cravatta di seta rossa e blu. Sembrava ragionevole e tuttavia severo, deciso a «esercitare la sua discrezione di procuratore» secondo le regole stabilite dal ministero della Giustizia. Tre mesi prima Mack, Pauline e io ci eravamo dichiarati colpevoli di due capi di accusa, associazione a delinquere a scopo di sequestro e sequestro di persona ai danni di Barry Neubauer, Campion Neubauer, William Montrose, Tom Fitzharding, Stella Fitzharding, Tricia Powell e Frank Volpi. Era inutile affrontare un processo: avevamo agito consapevoli di quello che stavamo facendo e del perché lo stavamo facendo. In quell'occasione il giudice Blake ci aveva informati del prezzo che avremmo dovuto pagare per la giustizia che avevamo ottenuto per Peter. «Si tratta di reati punibili con vent'anni di detenzione minimo.» Era arrivato il momento della verità. «Tutti in piedi!» ordinò il cancelliere non appena il giudice James L. Blake entrò in aula. Il pubblico seduto nei banchi, che parevano quelli di una chiesa, si alzò mentre l'anziano giudice saliva i gradini del suo scanno trascinandosi dietro i lembi della toga nera. Era vecchio e burbero come Mack. Si sedette e si guardò intorno con aria feroce. «Seduti!» ordinò. «La corte sta per pronunciare il suo verdetto nel caso Stati Uniti d'America contro Jack Mullen, Macklin Reid Mullen e Pauline Grabowski», annunciò il cancelliere. 113 «Il sostituto procuratore è pronto a procedere?» domandò il giudice. «Sì, vostro onore», replicò Marshall alzandosi in piedi. «La difesa?» «Siamo pronti», dichiarò Josh Epstein, un po' pallido. «Bene, allora sedetevi, signori», disse il giudice. «Probabilmente ci vorrà un po' di tempo.» Josh Epstein e Arthur Marshall si scambiarono un'occhiata e si sedettero.
«Sono rimasto profondamente turbato dal comportamento degli imputati in questo come in tutti i casi penali», cominciò il giudice Blake. «Non solo per la natura del reato, una gravissima privazione della libertà ai danni di varie persone, ma anche per i precedenti degli imputati. Il giovane Jack Mullen si è laureato da poco presso una delle più prestigiose facoltà di legge del nostro paese, dove ha potuto seguire gli insegnamenti di illustri giuristi. La signorina Grabowski lavora da dieci anni come investigatrice privata presso un famoso studio legale. Ha testimoniato molte volte in questa stessa aula e ha collaborato con i professionisti più stimati. E lei, signor Macklin Mullen, è immigrato in questo paese in cerca di migliori opportunità economiche per lei e per la sua famiglia e si è guadagnato fama di gran lavoratore pienamente integrato nella comunità. E vero, ha subito una perdita enorme con la morte di suo nipote, ma questo non giustifica il suo comportamento.» Appena il giudice prese fiato, Mack ne approfittò per mormorare una vecchia preghiera irlandese. Per la prima volta sul volto di Pauline si dipinse un'espressione spaventata. Le presi la mano e gliela strinsi. La amavo. Non riuscivo neppure a immaginare di potermi separare da lei. Il giudice riprese, indicando con un cenno il pubblico ministero. «Quanto al giovane sostituto procuratore Marshall, e al suo diretto superiore Lily Grace Drucker, nella loro infinita compassione mi hanno raccomandato di applicare solo il minimo della pena, vent'anni, in virtù dell'assenza di precedenti penali. Dopo lunga riflessione, ho deciso di respingere la loro generosa raccomandazione. Ma prima di emettere la sentenza, desidero fare un commento sugli effetti collaterali delle azioni degli imputati. Come tutti certamente sapete, in seguito al lavoro investigativo e al cosiddetto 'processo', il signor Barry Neubauer, principale 'vittima' in questa vicenda, è stato rinviato a giudizio con dodici accuse di omicidio colposo e, mentre vi parlo, è sotto processo davanti al tribunale penale di New York. Come annunciato dal procuratore Drucker, l'FBI sta indagando su William Montrose, accusato di istigazione alla falsa testimonianza e di intimidazione di una testimone - la dottoressa Jane Davis - nell'inchiesta sulla morte di Peter Mullen, anche questa conseguenza diretta delle azioni degli imputati. I coniugi Fitzharding non rientrano più nella giurisdizione di questo tribunale e si sono rifiutati di collaborare con questa corte nella fase istruttoria. L'ispettore Frank Volpi è stato arrestato recentemente in relazione all'omicidio di Sammy Giamalva, avvenuto qui a Manhattan, ed è indagato per l'omicidio di Peter Mullen. E Campion Neubauer è stata rinviata a giudizio
per favoreggiamento.» Il giudice alzò gli occhi come per controllare il proprio pubblico. «Sono tempi bui per il nostro sistema giudiziario. Recenti verdetti in casi penali di grande risonanza hanno portato molti a concludere che in questo paese ci sia giustizia solo per coloro che sono abbastanza ricchi e famosi da potersela comprare. Io sono qui da quarantaquattro anni, da quando il presidente Eisenhower ritenne opportuno nominarmi giudice. In tutto questo tempo, non sono mai stato tanto indignato per la cosiddetta amministrazione della giustizia quanto lo sono adesso. Chiarito questo, ecco il mio verdetto.» Nell'aula non si sentiva volare una mosca. Pauline mi conficcava le unghie nella palma di una mano e Macklin mi stringeva con forza l'altra. «Questa corte, con una sua mozione, invoca il regolamento federale sulle sentenze al punto cinque cappa zero comma uno che - lo ricordo ai signori della stampa - autorizza il tribunale a concedere una riduzione della pena a quegli imputati che, collaborando con le autorità, permettono di accertare le responsabilità di una o più altre persone. Dato il prezioso contributo fornito dagli imputati, sono certo che non ci siano dubbi sulla legittimità della sua applicazione in questo caso. Vero?» chiese il giudice guardando verso il tavolo dell'accusa. «Nessuna», rispose Marshall. Sulla sua faccia pulita comparve l'espressione di un ragazzino che si è appena visto risparmiare da un adulto comprensivo un compito ingrato e temuto. «Bene. Allora, Macklin Reid Mullen, Pauline Grabowski, Jack Mullen, questa corte vi condanna a seicento ore ciascuno di servizio civile, da prestarsi presso la Legal Aid Society, sezione pene capitali. D'ora in avanti gli unici processi di cui vi occuperete saranno quelli a carico di indigenti rinchiusi nel braccio della morte. La seduta è tolta.» Mentre il giudice batteva il martelletto e si alzava per scendere dalla cattedra, dalle panche riservate agli spettatori si alzò un boato di applausi, urla ed esclamazioni di giubilo. I giornalisti ci si affollarono intorno mentre Mack, Pauline e io ci abbracciavamo. Nessuno rilasciò dichiarazioni. «Tuo fratello è fiero di te», mi bisbigliò all'orecchio Mack. Mentre uscivamo tutti e tre a braccetto dall'aula, mi tornò in mente un vecchio ricordo. Quando Peter era piccolo, dopo la morte di nostra madre, quasi tutte le sere si infilava nel mio letto e mi diceva: «Mi piace sentire il battito del tuo
cuore, Jack». Anche a me piaceva sentir battere il cuore di Peter. Mi mancava da morire. FINE