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JONATHAN STAGGE LA BUONA MORTE (Murder By Prescription, 1938) Personaggi Principali HUGH CAVENDISH WESTLAKE medico chirurgo a Kenmore DAWN WESTLAKE sua figlia MADELEINE LANDRETH TALBOT la malata inguaribile HERMIA LANDRETH sua figlia GAIL LANDRETH FISKE sorella di Hermia CONRAD FISKE marito di Gail, studente in medicina RAYNOR TALBOT marito di Madeleine IMOGENE ARTHUR figlia adottiva di Madeleine PHIL LAVERS cardiologo POLLY HOWETT proprietaria del Polly's Inn BILL STRONG un vecchio malato JOSEPHS maggiordomo di casa Talbot ANDY un pappagallo che "sa tutto" COBB ispettore della polizia di Grovestown I Non era difficile, no, la diagnosi dei sintomi di mia figlia! Con la stupefacente regolarità di un ammalato di febbre del fieno, Dawn, a metà gennaio, s'ammalava di uno strano morbo di cui conoscevo ormai da lungo tempo l'agente patogeno: il suo compleanno. Zelo scrupoloso nello svolgimento dei compiti, cortesia squisita, atteggiamento angelico nei confronti del suo caro "babbino" erano i segni premonitori della sindrome. La crisi divampava gloriosa nel momento in cui Dawn cominciava a trattarmi come un vecchio moribondo; un povero rottame umano destinato al cimitero. Quando quella sera, dopo cena, mi trovai dinanzi il caffè indegnamente corrotto da un abbondante cucchiaione di panna, trattenni a stento i rimbrotti più aspri. Ma quando Dawn, per la terza volta, mi canticchiò soave: «Spero, babbino, che questa sera tu non debba uscire per lavoro... Fuori fa tanto freddo!» non riuscii a trattenermi.
«Senti piccola piovra» tuonai indignato «ricordo perfettamente che dopodomani festeggeremo il tuo compleanno. Ho già pensato al regalo e non sono disposto a spendere un soldo di più di quanto ho deciso. Quindi, torna ad essere una creatura normale e non affliggermi oltre con le tue moine!» Frutto d'esasperazione, il mio rimprovero era menzognero. Infatti, non avevo la minima idea del presente che avrei dovuto acquistare per la mia bambina. «A chi dovrei dedicarle, allora, le mie moine?» protestava Dawn contrita, frattanto. «Da quando son morti i miei coniglietti non so proprio a chi affezionarmi!» «Se non sono che un succedaneo destinato a sostituire i tuoi conigli... vada per una coppia di conigli!» promisi seccato. «Non conigli, papà! Leprotti di razza belga.» E per buona parte della serata dovetti sorbirmi entusiastici panegirici sui leprotti del Belgio. Dawn, femmina pratica, trovò modo d'inserire nelle sue rapsodie anche il nome e l'indirizzo d'un allevatore di conigli che si trovava in quel di Ploversville. Allungato beatamente nella poltrona che avevo avvicinato al caminetto, stavo per lasciarmi vincere dalla sonnolenza quando mia figlia decise improvvisamente, colta da un accesso di gratitudine, di leggermi il giornale ad alta voce. Dovetti rassegnarmi anche a quella tortura. Nella scelta degli argomenti, Dawn si dimostrava capricciosa e femminile. Guerre, crisi politiche, problemi sociali e terremoti andavano negletti per lasciar posto soprattutto alla cronaca della nostra città. Appresi così che Raynor Talbot, decoratore d'interni trasferitosi di recente da New York a Grovestown aveva acquistato casa Gregory in Ploversville Road. Le opere di ammodernamento dell'edificio erano terminate. Mancavano soltanto gli ultimi tocchi all'illuminazione, che sarebbe stata modernissima. Il sonno stava per sopraffarmi. Mi strappò al meritato pisolino un urlo di Dawn. «Papà!... È vero che hai accoppato sei persone?» «È probabile bambina mia» brontolai assonnato. «E son poche, se si considerano i miei anni di laurea... Strano! Ne parla il giornale?» «I medici che fanno discorsi come quello che hai pronunciato tu meriterebbero di finire sulla sedia elettrica!» «Ma... Sei impazzita? Di quali discorsi vai cianciando?» «Qui! È scritto proprio qui! Sta' a sentire: Sensazionali dichiarazioni a sostegno dell'eutanasia, la morte da infliggersi per misericordia delle sof-
ferenze altrui, sono state fatte dal dottor Westlake, noto professionista della nostra città. Nell'invitare i suoi colleghi ad avocare e sé il diritto di intervenire a favore di coloro che soffrono senza speranza di guarigione, il dottor Westlake così concludeva il suo discorso, tenuto alle Assise della Scienza che si svolgono in questi giorni a Grovestown: "Sono fiero di poter comunicare che ho provveduto a dare la buona morte a non meno di sei dei miei pazienti, la vita dei quali era ormai divenuta un'agonia inutile... Perché dovrebbe continuare a vivere il corpo, una volta che il male ne abbia già distrutto lo spirito?...".» «Iddio grande e misericordioso!» strillai schizzando in piedi. «Ma io... Io... Non ho mai udito cretinerie peggiori in vita mia.» Strappai il Times di Grovestown dalle mani di Dawn. «È un errore! Un madornale errore! Chi può essere quell'idiota...» Rammentai così un mio collega, il dottor Westbrook. Un vecchio rimbambito felice soltanto di potersi beare del suo vano chiacchierio di pappagallo. Con viva delusione di mia figlia, promisi che avrei provveduto a ristabilire l'onorabilità del mio nome, con una energica telefonata alla redazione del quotidiano. Il giornale della nostra città aveva confuso il mio nome con quello del collega assai più anziano di me. Nell'intento di procrastinare l'ora di coricarsi, Dawn tentò di trascinarmi in una discussione sull'eutanasia. La evitai con energia e spedii a letto la mia piccina. «Si tratta d'un argomento assai arduo, bambina mia!» le dissi con ferma suasione. «Sei troppo piccina per certe cose! Pensa ai tuoi leprotti, piuttosto!» Poco dopo, tornai accanto al caminetto con un buon bicchiere di whisky. Nel rileggere indignato le folli dichiarazioni del dottor Westbrook, ricordai che già una volta il quotidiano locale aveva citato il mio nome al posto di quello d'un altro collega. Il dottor Henry Westlake di Edimburgo aveva vinto un premio per certi suoi studi sulla leucemia. La stampa della regione in cui abito aveva dato ai quattro venti la notizia che il dottor H. Westlake (mi chiamo Hugh) aveva scoperto un farmaco capace di guarire la leucemia. Nel rammentare quello stupido errore, non potei fare a meno di soffrire di bel nuovo del doloroso senso d'imbarazzo che m'aveva colto al vedere il mio ambulatorio riempirsi di infelici venuti da ogni parte a chiedermi una guarigione, che purtroppo la scienza non è in grado di elargir loro neppure ai nostri giorni.
Oggi si trattava dell'eutanasia! La "buona morte"! La morte pietosa! Come avrei agito se un giorno un malato allo stremo della sopportazione, incapace di tollerare oltre le sofferenze del male, m'avesse pregato di dargli "la buona morte"? L'avrei negata, naturalmente, soffrendo tuttavia della mia incapacità a lenirgli le pene. Stavo per portarmi il bicchiere alle labbra quando udii trillare il telefono. Mi si chiamava forse al capezzale d'un malato in quella gelida notte di gennaio? Speravo che così non fosse. II Vagamente irritato, mi calmai non appena intesi la voce che mi parlava dall'altro capo del filo. Sensibile alla musicalità della lingua parlata, ascoltai rapito la dolce cadenza del melodioso conversare dei miei concittadini del Sud. «Sono Hermia Landreth... figlia della signora Talbot. La mamma soffre orribilmente... l'infermiera è uscita ed io non posso assistere impotente a tanta pena... Non vorreste venir qui... subito?» «Vi chiamate Landreth o Talbot?» domandai. «Mi chiamo Landreth. Mia madre è la signora Talbot... Abbiamo comperato casa Gregory in Ploversville Road...» «Vengo immediatamente!» promisi rammentando quel particolare. E troncai la comunicazione. Stimolato dall'accento di preghiera della donna, mi precipitai in ambulatorio. La mia valigetta di medicinali, quella che son solito portare con me quando vengo chiamato d'urgenza, era rimasta a corto di morfina. Afferrai un barattolo di cento pastiglie di quel medicamento e lo cacciai nella borsa. Vi misi anche qualche fiala dello stupefacente. Hermia Landreth infatti aveva accennato a pene insostenibili, nel descrivermi le sofferenze della madre. Nella mia auto, lanciata a corsa pazza sull'asfalto ricoperto da un crostone gelato, cercai di ricordare quel che m'avevano raccontato dei Talbot. La madre era stata descritta come un'inferma cronica. Aveva sposato in seconde nozze il signor Talbot, a quanto si diceva assai più giovane di lei. La famiglia comprendeva anche tre ragazze, una delle quali sposata. Sperai ardentemente che Hermia, la mia dolce voce del Sud, fosse ancor libera da legami... Hermia! Ora rammentavo! Me ne aveva parlato Bill Strong, uno dei miei primi pazienti a Grovestown. Pietosa figura di solitario malinconico Bill, vittima di feroci dolori
artritici, s'era veduto morire la compagna alla vigilia delle nozze d'oro. Era entrato nella sua casetta, che faceva parte delle proprietà dei Gregory ora passate ai Talbot, pochi giorni prima. Avevo dovuto ascoltare, paziente, i suoi racconti entusiastici sulla bontà di Hermia Landreth. La giovane era venuta spesso a fargli visita e gli aveva portato anche qualche buon bocconcino. Hermia Landreth mi piaceva sempre più. Nel fermare la vettura davanti a casa Talbot, notai che l'edificio era immerso nell'oscurità più profonda. Il maggiordomo, venuto ad aprirmi la porta con una candela in mano, mi spiegò che gli elettricisti non avevano ancora messo a punto l'illuminazione. «La povera signora soffre incredibilmente» mi sussurrò all'orecchio il domestico guidandomi verso il salotto. «Abbiate la bontà d'attendere un momento. Vado a chiamare la signorina Hermia.» Conoscevo la casa dei Gregory come le mie tasche. Ma chi si sarebbe mai potuto raccapezzare in quel labirinto apocalittico, frutto della fantasia malata di Talbot, decoratore d'interni venuto da New York? Un poco intimidito dal lusso clamoroso dell'ambiente, mi rifugiai in anticamera. E fui testimone d'una scena che non potrò mai dimenticare. Scendeva la spirale della scalinata una fanciulla vestita di bianco. Il lume di candela, che ne rendeva ancor più morbida la figura stupenda, accendeva faville d'oro tra i lunghi capelli color del miele raccolti in un nodo sulla nuca. Il volto di quella creatura mi ricordò l'Afrodite di Prassitele. Hermia Landreth era bella. Bella come la sua voce. «Mio Dio!» esclamò non appena mi vide emergere dall'ombra dell'angolo in cui avevo trovato scampo. «Ma... voi siete giovane! La mamma diceva...» e s'interruppe con una specie di sorriso. Ormai prossimo ai quarant'anni, padre d'una bimba che cresceva a vista d'occhio, quelle parole sarebbero state musica per le mie orecchie anche se a pronunciarle fosse stata una voce meno soave. «Vi sono assai grata, dottor Westlake, d'esser venuto così in fretta» diceva Hermia. «La Bartholomew, la nostra infermiera, ha la serata libera. Siamo rimasti qui soltanto Joseph, il maggiordomo, mia sorella adottiva Imogene Arthur ed io. La mamma è in preda a uno dei suoi attacchi, e noi non sapevamo che cosa darle..» Fui informato delle condizioni della signora Talbot mentre salivo le scale preceduto da Hermia Landreth. La signora Talbot era malata di cancro. I miei colleghi di New York avevano collocato il suo caso fra i disperati. Non si poteva far altro che alleviare i patimenti della paziente con qualche
iniezione di morfina. L'assenza dell'infermiera, depositaria delle chiavi dell'armadietto in cui veniva custodito lo stupefacente, aveva costretto i familiari a ricorrere alle mie prestazioni. «Non m'ero mai resa conto di quanto fosse orribile la sofferenza, dottore!» concluse Hermia a bassa voce prima di entrare nella camera della malata. «M'ero abituata a vedere la mamma così gaia... così piena di vita che... Ora invece non le è rimasta che l'attesa di brevi pause del dolore tra un attacco e l'altro...» La malata giaceva in un letto assai basso, con accanto un tavolino da notte di forma barocca. Il male aveva scavato senza pietà quel volto cereo, cui sarebbe stato impossibile attribuire un'età. I capelli, che cominciavano a incanutire, erano sparsi sul cuscino. Lunghissimi, sfumavano nel buio della stanza decorata, così mi sembrò, secondo le allucinazioni d'un paranoico surrealista. Nel praticare un'iniezione di morfina alla paziente, il tragico lezzo d'un morbo che sapevo incurabile mi assali le narici. "Perché dovrebbe continuare a vivere il corpo, quando lo spirito è morto?". Il titolo del giornale mi tornò alla mente nello sfogliare i reperti medici che mi venivano mostrati da Hermia. Il dottor Potts, notissimo cancerologo di New York, terminava la sua sconsolata relazione affidando la malata alle cure di una lontana parente di lei, Lena Bartholomew. Il collega nuovayorchese la definiva "infermiera assolutamente capace e ligia al dovere". Nel prender visione di quelle tristi scartoffie udii un'auto arrestarsi davanti alla casa. Che l'infermiera "capace e ligia al dovere" si ricordasse della malata? «Guardate!» mi disse Hermia improvvisamente, sfiorandomi un braccio con una mano. Mi volsi ad osservare la paziente. Benché esercitassi da quindici anni la professione, assistetti con immutata meraviglia all'effetto analgesico della morfina. Quella maschera sconvolta dal dolore, si ricompose assumendo un aspetto umano. La bocca contratta si schiuse ad un pallido sorriso. Gli occhi perdettero l'espressione della belva braccata da un ignoto pericolo. Il terrore della sofferenza li abbandonò. «È il dottor Westlake?» domandò la malata con voce spenta. «Grazie d'esser venuto, dottore! Hermia, vuoi lasciarmi sola col dottore?» A un mio cenno d'assenso, la fanciulla usci dalla stanza. Mi chinai sulla paziente e le sussurrai poche parole di circostanza. Espressioni che volevano essere d'incoraggiamento mi si spensero sulle labbra alla vista di quegli occhi nerissimi che ardevano nel volto di cera della signora Talbot. L'anima nuda che trapelava dallo sguardo chiedeva la verità.
«Avete letto il reperto del dottor Potts?» domandò la malata. Vedendomi annuire, continuò: «Ritenete disperato il mio caso?» Annuii ancora. «Lo sapevo» disse quasi sollevata dalla mia franchezza «e spero...» Rabbrividì leggermente. Stese una mano verso il tavolino da notte e raccolto un ritaglio di giornale me lo porse senza aggiunger verbo. Con mani tremanti, strinsi il brano del Times di Grovestown che riferiva il discorso sull'eutanasia pronunciato dal dottor Westlake... «Ho letto il vostro discorso» disse. «Immaginerete, spero, il perché della mia chiamata...» «Mi dispiace» risposi sorridendo. «C'è stato un errore. Non io, ma il mio collega Westbrook ha tenuto la conferenza. Purtroppo non ho il suo coraggio, né la sua follia...» «Avrei dovuto comprenderlo non appena vi vidi» commentò tristemente la malata. «Siete troppo giovane per poter comprendere!» Tacqui. A che pro dirle che comprendevo benissimo? Ecco perché la figlia della malata m'aveva accolto con atteggiamento così poco convenzionale! Anche Hermia credeva che le parole di Westbrook fossero mie. «Ispiratevi almeno a quanto riferisce il giornale!» incalzò la signora Talbot. Quando le risposi che Dawn m'aveva già letto il testo del discorso a casa, disse dolcemente: «Avete una figlia dunque! M'auguro che non abbia mai a deludervi! Immagino quanto le volete bene!... Vorrei far qualcosa per la vostra bambina... Dottor Westlake!» riprese dopo una breve pausa. «La mia malattia è inguaribile... Non conosce rimedio. Se... se questa notte morissi, lascerei diecimila dollari a vostra figlia!» «Signora Talbot» risposi con la voce rotta. «Credetemi! Comprendo i vostri sentimenti. Avete sofferto terribilmente, e... l'idea di nuovi tormenti vi terrorizza. È naturale che vi venga fatto di pensare che non metta conto di continuare a vivere così... Ma se accettate di avermi al vostro capezzale come medico, io vi prometto che non vi lascerò mai più soffrire come questa sera. Ne sono certo! Domattina vi sentirete meglio... ed io farò in modo che voi non dobbiate più penare... sino alla fine.» «Sofferenze!» esclamò agitata la paziente. «Non è di queste sofferenze che parlo» protestò la signora Talbot colpendosi debolmente il corpo con una mano scarna. «Ma perché continuare a vivere quando l'anima è morta? Priva del dolore fisico non mi sembrerebbe neppure d'esser viva! Mi sono tanto abituata al mio male che...
«Quando lasciai l'ospedale di New York per venire a morire qui, ero felice! Felice di vedere Gail e Conrad che si amavano! Felice della fanciullesca gioia di mio marito, tutto preso dall'impegno di render moderna questa vecchia casa. È giovane, mio marito! Molto più di quanto non lo sia mai stata io. Gli piacciono le donne... Ma la malattia m'ha sollevato a una sfera più alta... dove gelosia e simili miserie perdono ogni significato. Vi sono tuttavia sofferenze assai più profonde della gelosia. Mali che rodono più a fondo che il cancro. «Oggi ho appreso una notizia che mi rende impossibile questa briciola di vita che mi rimane! Una persona molto cara, molto vicina a me, ha commesso un'azione... innominabile. Non ho che un desiderio, ormai morire!» La signora s'interruppe a un lieve scalpiccio fuor dell'uscio. Anch'io sospettai che qualcuno avesse origliato. «Venite più vicino dottor Westlake» implorò la malata. «Nessuno... neppure Hermia... deve udire questa mia invocazione alla vostra misericordia!» Dai fogli ripiegati del giornale, la signora Talbot trasse una busta ancora aperta. Ne tolse due fogli coperti in parte da una tremula calligrafa. A un suo gesto presi una penna stilografica che trovai nel tavolino da notte. La paziente scrisse poche righe su uno dei fogli e mi porse l'altro. Me lo presentò voltato in modo ch'io non potessi leggere quanto v'era scritto. Vidi soltanto la sua firma: Madeleine Talbot. «Fatemi una carità» pregò la signora «scrivete il vostro nome qui, come testimone alla mia firma. Non temete, dottore» aggiunse sorridendo «si tratta soltanto di una mia faccenda privata... Non ha nulla a che vedere con quanto v'ho pregato di fare!» Sotto la formula "Testimone alla sola firma" vergai per intero il mio nome. La signora Talbot ripose i fogli nella busta. La chiuse, vi scrisse un indirizzo. Con un sospiro di soddisfazione ripose la lettera tra i fogli del Times di Grovestown. Richiestone, mi impegnai solennemente a non rivelare mai ad alcuno l'esistenza di quel documento. «Vi rifiutate dunque di cedere alla mia preghiera?» riprese la signora Talbot affondando il capo tra i cuscini. «L'oscurità eterna, i terrori misteriosi della morte, non hanno alcun significato per me... Mi spaventa il lato tenebroso della vita. Oggi... proprio oggi ho appreso qualcosa che avrei voluto poter ignorare per sempre! Dottore!» implorò con un breve singhiozzo. «Dottore, fate che io cessi di vivere!... Non abbandonatemi all'a-
marezza, all'odio!... Non l'ho mai conosciuto, l'odio, prima d'ora!... Nessuno saprebbe mai... Nessuno... vi prego...» Incapace di parlare, mi rimase la forza di fare un cenno di diniego col capo. Mi accinsi a rimboccarle le coperte. «Posso fare qualcos'altro, per voi?» domandai. «Portatemi un bicchiere d'acqua. Quello lì... E aprite le tende. Mi piace, all'alba, vedere il sole affacciarsi dietro i colli di Kenmore...» Prima che si addormentasse l'udii mormorare: «Avevo tanto sperato di veder tornare la primavera...» Raccolsi fiale e siringhe e le riposi nella mia valigetta. Spensi la candela. Nell'aprir l'uscio per uscire vidi il bicchier d'acqua brillare di pallida luce sul tavolino da notte. III La voce di quella donna che chiedeva la morte mi risonava ancora alle orecchie. Incapace di fissare l'attenzione su quanto mi circondava, uscito sul pianerottolo mi allontanai inavvertitamente dalle scale. Mi ritrovai, così, solo, avvolto dalle tenebre in cui era immersa tutta la casa. Soffermatomi per tentar di orientarmi avvertii un sommesso lamento che proveniva da una porta lì accanto. Quel pianto solitario, disperato, è purtroppo assai noto ai medici. In condizioni normali, mi sarei guardato bene dall'introdurmi, non richiesto, nella intimità d'una creatura sofferente. Temevo tuttavia che Hermia Landreth avesse udito le sconsolate parole della mamma. E fui persuaso che dietro quell'uscio la povera figliola piangesse la madre che aveva perduto ogni volontà di vivere. Bussai più volte a quella porta. Non mi rispose che un monotono singhiozzare. Afferrai la maniglia ed entrai, tenendomi sulla soglia. Abbandonata su uno dei giacigli modernissimi, cari ai concetti estetici del signor Talbot, vidi una fanciulla, fragile e sottile come una bimba. Illuminava la stanza il lume rossiccio d'una candela che mi permise d'intravedere due manine pietosamente aggrappate al cuscino, inondato da una cascata di riccioli bruni. «Posso far qualcosa?» domandai. «Chi è? Sei tu Ray?» chiese a sua volta la fanciulla trasalendo. «Sono il dottor Westlake» risposi. «Son venuto per la signora Talbot. V'ho udita piangere, e ho creduto di...» «Andatevene!» impose la fanciulla. «Non entrate!»
«Domando scusa» continuai imbarazzato «volevo soltanto offrirvi il mio aiuto.» «Il vostro aiuto!» singhiozzò la ragazza. «Nessuno può far nulla ormai! E poi... che importa? Andatevene, ho detto...» Non mi rimaneva che obbedire. Nel richiuder l'uscio, vergognoso della mia intrusione, compresi d'aver fatto conoscenza in modo inusitato con Imogene Arthur, sorella, per adozione, di Hermia. Quest'ultima infatti, m'aveva detto che quella sera, in casa, non erano rimaste altre persone. Imogene, tuttavia, non piangeva per la madre. Doveva soffrire d'una pena sua. Che fosse proprio quella ragazza, la colpevole dell'azione "innominabile" di cui la signora Talbot m'aveva parlato? I singhiozzi della fanciulla mi seguirono sul pianerottolo mentre, guidato dal lume d'una candela accesa in anticamera, riuscivo a ritrovare le scale. Le avevo discese per metà, quando udii due voci giovanili, che provenivano da quella che un tempo era stata la cucina dei Gregory. «Impossibile, questa sera» asseriva una voce incerta di ragazzo «sarebbe troppo pericoloso al lume di candela!» «Possiamo farlo benissimo invece!» sostenne la voce stridula di una ragazza. «Sei sempre il solito scemo! Mangeremo un boccone e poi...» Percepii il secco rumore dello sportello della ghiacciaia che veniva aperta. Quindi: «Che cos'è questa porcheria? Caviale, forse?» «A me sembra un'appendice in cancrena!» esclamò la ragazza ridendo. Il sapore goliardico di quell'espressione valse a smascherare l'ultima delle figliole della signora Talbot. Quella che studiava medicina, col marito, all'università di Grovestown. Hermia Landreth mi venne incontro uscendo dalla stanza di soggiorno. «Ebbene?» s'informò con voce dolce. «La mamma dorme, signorina» risposi. «Più tardi, tuttavia, il dolore potrebbe insorgere di nuovo. Se l'infermiera non dovesse tornare in tempo, somministrerete alla signora Talbot qualcuna di queste compresse.» Aperta la valigetta che avevo deposta sulla tavola dell'anticamera, consegnai a Hermia Landreth otto pastiglie di morfina. Nel richiudere la borsa notai sulla tavola i quotidiani della nostra città. Erano tutti spalancati sulla pagina in cui veniva riportato il famoso discorso sull'eutanasia... La "buona morte" non cessava dal perseguitarmi, quella sera. «Seguitemi, dottore!» m'invitò Hermia pilotandomi verso la stanza di soggiorno. «Parleremo con maggior calma, qui.»
Nell'attraversare l'anticamera udii nuovamente le voci dei giovani che si trovavano in cucina. «Ho veduto un macinino sconquassato sulla nostra carrozzabile... Se proprio non si poteva fare a meno del medico, potevano chiamare almeno Phil Lavers.» Hermia, con un piccolo sorriso di scusa, sbarrò la via a quelle impertinenti osservazioni chiudendo l'uscio. «Sono Gail e Conrad Fiske... mio cognato. Gli studenti di medicina sono spesso assai brutali, non è vero? Quei due, tra l'altro, sostengono che la mamma dovrebbe essere ricoverata in clinica...» «Non posso dar loro torto, da un punto di vista tecnico» ammisi. «Tuttavia, nessuno ha il diritto di discutere i desideri di vostra madre; e se lei preferisce morire a casa sua...» Ci guardammo. E la luce raccolta della candela ci fece più intimi. «Dottor Westlake» domandò Hermia levando su di me i suoi stupendi occhi azzurri «la mamma... v'ha domandato... Voglio dire... Ha detto qualcosa di strano?» Compresi a che cosa volesse alludere. Hermia doveva aver letto quei maledetti articoli sui giornali. «Vostra madre» dissi esitando «è molto... molto malata. E le persone malate, spesso...» «Non dite una parola di più» m'interruppe la giovane. «Non avrei mai dovuto farvi una simile domanda. È meglio... ch'io non sappia nulla, comunque... Mai!» Tacque guardando come affascinata la bustina di pastiglie di morfina che le avevo consegnata poco prima. Ripresi i miei modi di professionista, le impartii precise istruzioni circa le dosi e la somministrazione dello stupefacente. «La mamma» conclusi «è stata tenuta a lungo sotto l'azione della droga. Ne occorreranno quantitativi sempre maggiori, dato che manifesta già qualche sintomo d'assuefazione. D'altra parte, non ci rimane altra risorsa. Dobbiamo far del nostro meglio per alleviarle la pena!» «Comprendo...» bisbigliò Hermia facendosi più vicina. «Farò tutto quanto potrò...» Cadde il silenzio. E si fece così profondo, così intimo, che per sfuggire alla tentazione di stringermi al petto quella creatura così bella e nobile, mormorai:
«Temo d'aver disturbato vostra sorella, di sopra... l'ho udita piangere, e ho creduto di... Forse, fareste bene a salire in camera sua...» «Povera Imogene!» esclamò vivacemente Hermia. «Piange di nuovo? Oggi per la prima volta in vita sua s'è trovata di fronte alla realtà della vita. Morte, amore... tutto! Strana fanciulla! Viveva in un suo mondo intessuto di sogni» mi spiegò con grande animazione. «Fu adottata piccina dalla mamma... È la figliola d'una sua amica morta da molti anni. Phil Lavers l'ha chiesta in moglie proprio oggi!» «Lavers!?» esclamai stupito. «Lo conoscete?» E come, lo conoscevo! Era uno dei più giovani liberi docenti dell'università di Grovestown. Specialista cardiologo non avrei mai immaginato che quell'arido uomo di scienza potesse accorgersi d'avere un cuore anche lui! Sorridendo imbarazzati tornammo in anticamera. Qui, scopersi i due giovani coniugi Fiske intenti a esaminare tranquillamente il contenuto della mia valigetta. «Incredibile, la quantità di cianfrusaglie inutili che si trascinano dietro questi mediconzoli di campagna!... Roba da matti!» E al vederci sopraggiungere non si sognarono neppure di fingersi imbarazzati. Quando Hermia fece le presentazioni, i due non si degnarono d'informarsi della salute della mamma. Tuttavia, dietro la maschera di falsa indifferenza, tanto cara alle matricole di medicina, percepii chiaramente uno stato di angosciosa curiosità. Forse era stato uno di loro ad origliare alla porta della signora Talbot, quella sera! «Non abbiatevela a male, vecchio ronzino!» strepitò con goliardico buonumore Conrad Fiske. «Mi son pizzicato un paio delle vostre compresse di amytal... Avevo un male alla boccia!» «Dite un po'» m'aggredì Gail Fiske scuotendo selvaggiamente la corta criniera che le si arruffava sul cranio. «Non ci siamo! La digitale che vi trasportate in valigia per tutta la regione, è inferiore, per titolo, a quanto previsto dalla Farmacopea Ufficiale degli Stati Uniti! Bella porcheria!» «Son tornati Ray e Lena?» s'affrettò ad intervenire Hermia. «Vorrei che il dottor Westlake parlasse anche con loro prima di andarsene...» «Tornati!?» ghignò Gail divertita «Sono sborniati come scaricatori del parto! Hanno bevuto come spugne il veleno di Polly Howett! Quella sì, è una tavernaccia! Da mezz'ora, Ray tenta di far marcia indietro con la macchina per cacciarla nell'autorimessa! Eccoli li. Salve padrigno!»
Ray Talbot e Lena Bartholomew avanzavano con passo incerto verso di noi. Viso largo, corpo tozzo e muscoloso, l'infermiera doveva essere sulla quarantina. Indossava un abito a giacca di taglio elegante, ma insozzato da macchie recenti. Raynor Talbot si appoggiava pesantemente ad un braccio della malferma compagna. Non appena vide il panino che Gail stava mordendo affamata si slanciò a strapparglielo di mano. «Sei un porco!» urlò Gail. E si gettò incollerita su Talbot. I due si accapigliarono imprecando e ridendo. Rividi il volto emaciato della malata che giaceva nel suo letto di morte. L'intemperanza di quella gente doveva ferire brutalmente Hermia. Tuttavia, rimasi colpito dalla subitanea espressione d'ira che apparve sul volto della fanciulla. «Ray! Gail!» gridò incollerita. «La mamma dorme! Ha avuto uno dei suoi attacchi.» C'è il dottore! Non potete fingere almeno di essere persone decenti!?» «Mi spiace, Hermia!» disse Talbot irrigidendosi e allontanando Gail da sé con un movimento assai rude. «Questi è il dottor Westlake» presentò Hermia. Talbot mi rivolse un'occhiata indifferente. «Non avete chiamato lo spasimante di Imogene? È Phil Lavers che ha in cura la mamma!» «Se non erro, non c'è nessuno che si occupi della malata qui...» osservai gelido. La Bartholomew arrossi. Gail mi rivolse uno sguardo colmo di stupore. Talbot abbassò gli occhi e si fissò la punta delle scarpe, evitando accuratamente di guardarmi per tutto il tempo in cui mi affannai a spiegare la ragione della mia presenza in casa sua. Il sentir parlare di malattia e di morte, doveva riuscirgli particolarmente penoso. Sembrò risentito per il solo fatto che m'ero permesso di rammentargli la moglie malata. Talbot era il ritratto della salute e della virilità. Atletico e bello, quantunque mio coetaneo vestiva come uno studente del second'anno. Durai fatica a convincermi che quel Peter Pan ormai quarantenne fosse davvero il marito della creatura disfatta che soffriva al piano superiore. «Povera Madeleine!» mormorò Ray quando ebbi terminato il mio reperto. «Mi dispiace terribilmente! È stata mia moglie a obbligarci a uscire! Credetelo!» «È così» incalzò Lena. «Madeleine continuava a ripetere che non dovevamo rinunciare a divertirci per colpa sua... Questa sera ha voluto, proprio
voluto, che noi si uscisse un poco. Se non fosse stato per Madeleine... non mi sarei mai permessa di abbandonare così la mia malata. Inghiottirò un paio d'aspirine e andrò subito a darle un'occhiata.» «Non occorre!» dichiarai severo. «La malata riposa ed ha già ricevute tutte le cure del caso. Non ho neppure dimenticato il suo bicchiere d'acqua. Buona notte!» Rimasi solo con Hermia. Bella e serena come mi era apparsa la prima volta, mi si avvicinò. Ancora una volta mi sconvolse la folle impressione di aver già conosciuto, già veduto altrove quella soave creatura. «Non dovete crederli senza cuore, dottor Westlake» disse. «Si comportano in quel modo strano perché sono gelosi dei loro sentimenti. Tutti vogliono molto bene alla mamma! Credete!» «Non mi preoccupo di questo» sussurrai mio malgrado, mentre raccoglievo la valigetta. «Non vorrei che, prendendo sulle vostre spalle il peso di tanta responsabilità, finiste con l'ammalarvi anche voi.» «Non temete dottore. Quel poco che faccio per la mamma è fonte di gioia, per me. Le rimane così poco tempo da vivere... Per la mamma... sarei capace di qualunque cosa! Qualunque!» Quelle parole m'atterrirono. Preso da angoscia improvvisa le dissi: «Ascoltate signorina Landreth! Dimenticate, ve ne scongiuro, dimenticate le vostre allusioni di poc'anzi! Soprattutto non siate indifferente a certi principii morali... Ci siamo intesi vero?» «Indifferente!» balbettò Hermia. «In certi momenti sono incapace di pensare ad altro che alla mamma. Buona notte!» concluse stendendomi la mano. «Buona notte» risposi stringendo tra le mie le dita gelide della fanciulla. «Domattina verrò a dare un'occhiata a vostra madre. Se dormisse... anche più a lungo del solito... non destatela, mi raccomando!» La vidi ancora sulla soglia, mentre mi affrettavo ad attraversare il giardino per raggiungere la mia auto che avevo lasciata sulla carrozzabile privata. IV Gli eventi di quella notte m'avevano esaurito di corpo e d'anima. L'errore del Times di Grovestown e l'inopinata richiesta della signora Talbot m'avevano costretto a misurarmi con una serie di problemi cui non avrei certo voluto trovare una soluzione in quella gelida notte di gennaio.
Mi stavo accomodando al volante, già lieto al pensiero del meritato riposo, quando mi udii chiamare per nome. Dal finestrino, scorsi la figura vaga d'un uomo che attraversava con passo malfermo il giardino. Ben presto riconobbi Josephs, il maggiordomo di casa Talbot. Aveva alzato il bavero della giacca per proteggersi dal freddo. «Scusate la libertà» implorò con voce tremante mentre mi fissava con occhi intenti. «Il signor Talbot non permette che la servitù commenti lo stato di salute della signora in pubblico... Ma son quasi trent'anni che servo la signora Madeleine, e il vederla soffrire come questa sera è stato terribile, per me... Siete riuscito ad alleviarle un poco il dolore?» Commosso, risposi che avevo fatto tutto il possibile. «Oh! Grazie dottore! Le vostre parole m'hanno assai sollevato E... dite... Siete voi il medico che ha pronunciato quel discorso?...» Per l'ennesima volta in quella sera fui costretto a spiegare di non aver mai spezzato una lancia in favore dell'eutanasia. L'esclamazione con la quale il maggiordomo accolse le mie parole mi sembrò di sollievo. Tuttavia, avrei anche potuto scambiarla per un grido di profonda delusione. «Avevo creduto...» cominciò. «Vale a dire... L'attacco della signora» riuscì finalmente a dire «m'ha preoccupato assai. In un certo senso, me ne sento quasi responsabile. Avrei dovuto obbedire al mio istinto... Non avrei mai dovuto consegnarle quella lettera!» «Che lettera?» chiesi distrattamente. «Quella arrivata per espresso nel pomeriggio. Mi affrettai a consegnarla alla signora, ma quando la vidi sconvolta, dopo che l'ebbe letta, avrei dato il capo nel muro dalla disperazione!» Sino a quel momento, avevo ascoltato le parole del maggiordomo vagamente annoiato. Ma nel sentirgli nominare un espresso che aveva sconvolto la sua signora, rammentai istantaneamente le parole di Madeleine Talbot. "Oggi ho appreso una notizia..." Vivamente incuriosito mi accingevo a rivolgergli qualche domanda per apprendere di più intorno a quell'argomento, quando un nuovo episodio venne a distrarre la mia attenzione. Dall'autorimessa che sorgeva in fondo al giardino giunse fino a noi il secco fragore d'una portiera che veniva chiusa. Un'ombra attraversò un'aiuola e scomparve nel buio in cui era immersa la porta posteriore della casa. Dalla porta di quella che doveva essere una cucina supplementare, apparve uno spiraglio di luce. L'ombra dello sconosciuto vi si diresse e disparve dietro l'uscio che si chiuse.
«Mi dispiace d'avervi trattenuto, signore!» disse Josephs parlando in fretta evidentemente desideroso che me ne andassi. «Non avrei dovuto...» Di dietro la porta che s'era chiusa udii levarsi alcune voci. Le intesi aumentare di tono, quasi per un alterco. Le sopraffece, improvviso, un urlo che non aveva nulla d'umano. Istintivamente strinsi le dita più salde attorno al volante. «In nome del cielo...» cominciai. M'interruppe un altro grido. Aveva un che di ferino, di giungla, e pure conservava una strana tonalità umana. Il silenzio della notte ne fu turbato come da un avvenimento fantastico. «Che cos'è?» domandai atterrito a Josephs. Le labbra del vecchio si schiusero per rispondere. Ma la risposta non venne. Gli si gelò nella strozza al levarsi di un terzo disperato grido di dolore. Balzai dalla vettura e mi precipitai col cuore in gola alla volta di quell'uscio misterioso. Lo trovai socchiuso e lo spalancai. S'apriva su di una stanza buia in cui stagnava greve il lezzo d'umidità. Fermatomi sulla soglia, intesi risonare vicino uno scoppio di risa femminili. «S'è fatto male qualcuno?» chiesi. La risata cessò bruscamente. Echeggiarono alcuni passi furtivi, poi, nell'interno della stanza s'aperse una porta. Con un camice verdastro gettato negligentemente sull'abito, Gail Fiske mi fissò impugnando un candeliere. Dapprima mi guardò con gli occhi sbarrati dallo stupore. Mi riconobbe quando vide accorrere al mio fianco il maggiordomo. Allora il suo volto assunse un'espressione di collera intensa. Gettò uno sguardo angosciato alle sue spalle, verso l'uscio dal quale era emersa in quell'istante. «Ho udito quelle grida e son venuto a vedere se occorreva il mio aiuto» mi scusai balbettando. «Davvero! Il buon samaritano! Sappiate comunque che ho gridato io, per mio diletto. Non c'è alcun bisogno del vostro aiuto, qui! Se proprio volete saperlo... stavamo facendo alcuni esperimenti... di laboratorio. Già.» «È un'ora molto strana questa» osservai «per una simile attività.» «Sentilo! E per ficcare il naso negli affari degli altri? È l'ora adatta questa? Josephs» tuonò Gail Fiske rivolgendosi severa al maggiordomo «accompagna il dottor Westlake alla sua vettura!» Josephs non si mosse. Sembrava annichilito. «Josephs! Che ti piglia ora? T'ho detto di accompagnare il dottor Westlake. Muoviti!»
«Scusate» dissi nell'intento di calmare tanta collera. «Non mi sarei mai permesso d'introdurmi in questo modo in casa vostra se...» M'interruppe un rumor di passi che s'avvicinavano. Gail si volse rapidamente verso la porta che aveva alle spalle. Aveva però deposto il candeliere a terra. E compresi che quella giovane aveva paura. Paura che al lume della candela io riuscissi a vedere qualcosa che voleva tenermi celato a ogni costo. «Te l'avevo detto che questa notte non si poteva far niente.» L'uscio misterioso si schiuse e ne sporse una mano d'uomo. D'un balzo Gail Fiske mi fu addosso. M'afferrò per un braccio con dita d'acciaio e urlò, pazza di rabbia: «Fuori dei piedi!» Prima che potessi rendermi conto di quanto stava accadendo, mi trovai in giardino, barcollante. L'uscio dal quale ero stato violentemente espulso si chiuse fragorosamente sulla notte che mi circondava. Gail Fiske era riuscita a scacciarmi. Ma non era riuscita a impedirmi di vedere. Dietro la porta che s'era aperta su quella stanza avevo veduto affacciarsi per un attimo il volto stranito di Conrad Fiske. Il giovane si stava asciugando le mani insanguinate con un fazzoletto. La gota sinistra gli era stata graffiata orribilmente. Dagli artigli di un animale forse? O dalle unghie d'una donna. V Tornai alla mia automobile stupefatto e incollerito. Drammatici fin dall'inizio, gli eventi di casa Talbot cominciavano a sconfinare nel regno del fantastico. Hermia e sua madre, figure assai umane, non offrivano particolari problemi alla mia comprensione. Imogene, piccola ragazza che spargeva lacrime sui suoi conflitti emotivi secondo la buona tradizione dell'Ottocento, era un tipo cui la mia lunga esperienza di medico m'aveva da tempo abituato. Ma gii altri componenti di quella famiglia non riuscivo proprio a capirli. Raynor Talbot: spietato, indifferente di fronte alle sofferenze della moglie, o semplicemente preoccupato di mascherare agli altri i propri sentimenti più veri? Lena Bartholomew: a quale impulso aveva obbedito ingollando alcolici oltre misura in una taverna malfamata? Che cosa si celava dietro la scena da manicomio cui avevo assistito poc'anzi dalla soglia di quella stanza buia? Sapevo capaci delle stranezze apparentemente meno comprensibili i giovanissimi allievi della scuola di medicina, ma Gail Fiske e suo marito avevano varcato i limiti della normalità.
Qualche tempo prima, un mio vecchio amico, l'ispettore Cobb della polizia di Grovestown, m'aveva trascinato, volente o nolente, in tutta una serie d'avventurose vicende "gialle" che si erano svolte nella nostra cittadina. Quasi d'istinto mi provai a servirmi delle poche qualità deduttive che avevo avuto modo di sviluppare, nel tentativo di analizzare a fondo la inusitata famiglia Talbot. Abbandonai ben presto quella fatica. Ero stanchissimo e non desideravo che tuffarmi tra le coltri al più presto. Ma una luce che brillava nel villino di Bill Strong mi costrinse a mutare nuovamente i miei piani. Trovai il più decrepito e male in arnese dei miei pazienti che si muoveva incerto nel locale che gli serviva di cucina e di stanza di soggiorno. «... 'sera dottore» mormorò nel vedermi. Non si rendeva conto ch'erano già suonate le una, e con mani tremanti frugava affannato in un mobile, tentando di estrarne un barattolo di zuppa di pomodori. Credeva che fosse l'ora di cena... «Date qua!» mi offersi. «Ve la preparo io, la zuppa. Voi mettete a riposo codeste povere gambe.» Mentre mi destreggiavo ad aprire il barattolo con un arrugginito apriscatole, vidi il vecchio riempire di latte una ciotola. La recò tremando sulla soglia e chiamò: "Tabby! Tabby" con voce stridula. Poco dopo, la grossa gatta persiana sopravvissuta alla moglie di Bill lambiva golosa l'orlo del recipiente che gli era stato posto davanti. Sorbimmo la zuppa bollente accanto alla stufa. Il vecchio Bill si dondolava felice sulla sedia. Non appena pronunciai il nome di Hermia Landreth, s'illuminò d'intensa gioia. «Brava ragazza quella, dottore! Brava ragazza! Viene a farmi visita tutti i venerdì, e mai a mani vuote. È difficile, di questi tempi, che una ragazza bella come lei perda le mezze giornate per far compagnia a un povero vecchio pieno di malanni. È ben diversa dalla sorella... quella che ride sempre con espressione cattiva!» Tacque. Si accarezzò con mani ossute le ginocchia; emise un lamento. Sì. I dolori dell'artrite non gli davano tregua. Al tedio della sua povera vita solitaria, priva d'uno scopo, s'aggiungeva anche quel fardello, talvolta troppo greve. Cercò di guardarmi, sorridendo con gli occhi acquosi, spenti. «Talvolta ho male in modo spaventoso» mormorava. «Mi sembra d'impazzire, dottore! Le pastiglie che m'avete dato la volta scorsa non servono più a niente, ormai...»
Preso da pietà afferrai la valigetta che avevo abbandonata sulla tavola. Trassi alcune compresse da una bottiglia e ne riempii un tubetto. Porgendoglielo spiegai: «Prendetene un paio quando avete male... Inghiottitene tre se proprio non ne potete più...» «Grazie dottore! Grazie!» gemeva il vecchio stringendo tra le mani ossute il medicamento. Posò le pastiglie sulla tavola prima di accompagnarmi all'uscio. Sembrò non ascoltasse le mie parole di commiato. Mentre rimettevo in moto l'auto, l'udii chiamare "Tabby! Tabby!" con accento lamentoso. Povero Bill Strong! L'aveva abbandonato anche la gatta. VI Quella notte mi coricai alle tre. M'addormentai quasi subito, ma il sonno fu pieno d'incubi. Irreali, simbolici brandelli delle mie ultime ore d'attività, popolarono d'angoscia il mio riposo. Il mattino seguente, dei sogni orribili che m'avevano perseguitato durante la notte non serbavo che un vago ricordo. Sorridendo al sole invernale che batteva alle finestre della mia camera sospirai perfettamente sereno: «Domani Dawn compie gli anni! Le comprerò i leprotti di razza belga.» Trovai la mia bimba allegra e piena di zelo, vestita d'un magnifico grembiule per la scuola. Durante la colazione Dawn non si permise il minimo accenno al prossimo evento, per lei così importante. Parlarono per lei le sue moine, le sue piccole attenzioni. La vidi sorridere, certa che il suo papà non si sarebbe dimenticato di lei. Prima d'uscire per andare a scuola mi baciò con molto ardore. Rimasto solo, dedicai cinque minuti al direttore del Times di Grovestown. Aggrappato alla cornetta del telefono urlai incollerito la mia indignazione per il grave errore commesso dal giornale nell'attribuire a me la paternità del folle discorso del mio collega Westbrook. «Avevo appena terminato la mia appassionata filippica quando udii suonare il telefono. E quei trilli acuti, penetranti venuti a rompere il silenzio della mia casa alle prime ore del mattino, mi fecero correre un brivido lungo la schiena.» «Pronto...» «Il dottor Westlake?... Parla Josephs, il maggiordomo di casa Talbot. Potreste venire subito?»
«Che c'è?!» domandai allarmato. «È successo qualcosa alla signora Talbot?» «Non... Ecco... Ci riesce impossibile di destarla! Siamo tutti preoccupatissimi, anche perché la signorina Bartholomew...» «Dite, presto!» «S'è chiusa in camera e non risponde! Venite subito, ve ne prego! Temo che...» «Vengo immediatamente!» interruppi. E appesi la cornetta. Mi precipitai in ambulatorio. Munito dell'immancabile valigetta, sarei uscito di casa senza cappotto se non m'avesse inseguito recandomelo la fedele servente. Pochi secondi dopo, filavo a rotta di collo sul ghiaccio traditore che s'era disteso sulle strade di Grovestown. Mi sentivo in pena per la signora Talbot. Per una ragione che non avrei saputo definire ero certo che avrei ritrovata morente la mia malata. Aggrappato al volante, il piede pronto a schiacciare il freno, rivivevo le allucinanti esperienze della notte antecedente. Temevo soprattutto per Hermia. Temevo che cedendo alle pietose invocazioni della madre, si fosse lasciata indurre a quanto m'ero recisamente rifiutato di fare. Eutanasia! Ah maledetti pasticcioni del Times di Grovestown! Che sarebbe stato di Hermia se...? Non osavo neppure pensarlo. Nel bloccare le ruote dall'automobile davanti a casa Talbot, vidi emergere da una vettura ferma davanti a me il dottor Lavers. Fissava come sempre un punto imprecisato dello spazio, meditabondo, come uno Harvey in procinto di scoprire i misteri della circolazione del sangue. Non s'accorse della mia presenza sino a che non dissi a voce alta: «'giorno Lavers!» Trasalendo, mise in mostra i denti in un gelido sorriso, non appena riuscì a mettere a fuoco le pupille e a riconoscermi. «Salve Westlake! Che fai qui?» In procinto di rivolgergli la stessa domanda, compresi che dovevano averlo mandato a chiamare perché accorresse, come me, al capezzale di Madeleine Talbot. «Forse siamo venuti per la stessa ragione» osservai. «La signora Talbot» aggiunsi a mo' di spiegazione. «Che cos'ha? Sta peggio? Non ne sapevo nulla!» Un insolito rossore gli ravvivò le guance incavate mentre aggiungeva: «Io... son qui per... una faccenda personale.»
"Imogene Arthur" mi dissi, mentre ci dirigevamo in fretta verso il portico. Lavers doveva esser venuto a tentare di ristabilire le sorti del suo romanzetto con la ragazzina che avevo sorpreso in lacrime, abbandonata sul proprio letto. Ma... Imogene non aveva forse respinto la sua proposta di matrimonio? Se così era, mi dissi osservando attentamente il mio compagno dall'aria ascetica, non c'era di, che meravigliarsi. Lavers non doveva trovarsi a suo agio nei panni di Romeo... Josephs ci aprì la porta. «Son lieto che siate venuto subito, dottor Westlake» mi salutò il bravo maggiordomo. «Vogliate seguirmi da questa parte, prego...» Non udii altro, delle parole del vecchio servitore. Vagamente eccitato e intimorito, ristetti in attesa di Hermia Landreth che scendeva le scale dirigendosi verso di noi. «Salve Phil! Buon giorno dottor Westlake!» salutò con voce quieta. Si sforzava di allacciare il mio sguardo; con l'occhio sfuggente avevo soltanto osato sfiorare il pallore delle gote. «Venite con me dalla mamma» esortò. «Credo che sia alla fine, ormai... Josephs se n'è accorto per primo quando, entrato a rassettarle la camera, non è riuscito a svegliarla. La Bartholomew non s'è destata che assai tardi. Strano: ho dormito anch'io come un ghiro. Sono scesa dal letto che Gail e Conrad erano già usciti.» Seguimmo Hermia per le scale ed entrammo nella stanza della signora Talbot. Avvolto in una chiassosa veste da camera scarlatta, Talbot si chinava con espressione angosciata sul giaciglio di Madeleine. «Hermia!» esclamò non appena ci vide entrare. «Che succede? Non mi risponde! Dimmi Hermia, è morta?» «Sta' calmo, Ray» esortò la ragazza cingendo la vita del padrigno. «Ci sono Phil ed il dottor Westlake! Faranno tutto quel che sarà possibile.» Talbot si lasciò guidare senza opporre resistenza sino alla finestra, lontano dal letto. Josephs segui i due come un vecchio fedele bassotto. Stettero, in silenzio, mentre Lavers ed io ci piegavamo sul letto della malata. Compresi ch'era prossima a morte non appena ne strinsi tra le dita il polso dal battito lievissimo incostante. Fissai a lungo il volto esangue della morente. Aveva un'espressione serena, in quel momento. Le pieghe agli angoli della bocca s'erano distese e gli occhi chiusi nel sonno celavano la pena dietro le palpebre abbassate. Lavers mi stava accanto, osservando con occhi attenti, di clinico, il volto della donna. «Potremmo tentare l'ossigeno...» bisbigliò con poca convinzione.
«Temo che sia troppo tardi, ormai...» risposi. E non m'accorsi del sopraggiungere di Lena Bartholomew, sino a che non me la vidi di fronte, dall'altra parte del letto, avvolta nel suo camice d'infermiera. «Non capisco» mormorò agitando le mani «non ho mai dormito d'un sonno così profondo! Dottor Westlake, spero che...» Rammentando le condizioni in cui l'avevo sorpresa la sera antecedente, le imposi bruscamente di tacere. Nessuno parlò. Cadde il silenzio profondo che spesso precede la morte. Stavo rivolgendo un'occhiata ad Hermia quando il battito impercettibile del polso di Madeleine Talbot si spense tra le mie dita. In un attimo, tutto fini. «È morta» osservò pronto Lavers. E alzò le spalle in un gesto d'impotenza. Raynor Talbot fu il primo a reagire. «Morta!» gridò. Mosse barcollando verso di noi, ma ristette a guardare da lontano il corpo inerte di colei che era stata sua moglie. «Non può! Non può!» ripeté con voce spenta. «Ray!» intervenne prontamente Hermia posando una mano sul braccio dell'uomo sconvolto «Ray! È meglio così! Meglio per lei, soprattutto!» E venne a sfiorare la fronte della morta con le labbra. «Addio mamma!» sussurrò. Poi raggiunse Ray e lo sospinse fermamente fuori dall'uscio accompagnandosi a Josephs. Lena Bartholomew intanto si agitava nervosamente intorno al letto della defunta. «Terribile!» diceva. «Terribile! Povera Madeleine! Le volevo tanto bene! Se mi fossi destata prima, forse...» Invitai l'infermiera a uscire. Mentre si chiudeva l'uscio alle sue spalle, vidi Josephs che mi fissava dal corridoio. Aveva lo sguardo carico d'odio. Rabbrividii senza saper perché. Non appena rimanemmo soli, Lavers diede libero corso alle sue esigenze di uomo di scienza. Mi allontanai d'un passo per permettergli di esaminare la salma. «Be'... piuttosto inaspettata, questa morte, no?» osservò poi. «La poveretta era assai malandata, lo riconosco. Ma l'avevo veduta ieri nel pomeriggio. Cachessia piuttosto pronunciata.. ma... non grave abbastanza per giustificare una fine così rapida.» Era quanto avevo temuto di sentirgli rilevare.
«Ti spiace di dare un'occhiata a questa roba?» obiettai porgendogli i referti del dottor Potts di New York. Lavers sfogliò attentamente le pagine dattiloscritte. Poi scuotendo vivamente il capo, tornò alla carica rilevando: «Hai notato le dimensioni delle pupille? Non mi dirai che sono normali spero! C'è qualcosa che non va, in questa faccenda. Coma profondo, pupille quasi invisibili... Per me questa donna è morta per una dose eccessiva d'un alcaloide del tipo... morfina!» Finalmente l'aveva detto. E mi sentii perfettamente calmo. «D'accordo» volli concedere «ma dimmi un po'... In sostanza, che importanza può avere per noi il fatto che la signora Talbot abbia preferito di porre fine ai suoi giorni con una dose letale di morfina anziché rassegnarsi a morire domani o dopo del suo carcinoma?» «Che cosa?» ringhiò Lavers. «Suicidio? Non dir cretinerie, Westlake! Come si sarebbe procurata lo stupefacente, la malata, secondo te? Inchiodata al letto, incapace di muoversi, e... La morfina l'aveva in custodia l'infermiera, no? Ne sono certo, Westlake» ripeté Lavers piegandosi ancora una volta sulla salma. «Questa povera donna è stata deliberatamente uccisa mediante una dose letale di morfina.» Non potevo negare una simile possibilità. Ormai lanciato nella diatriba scientifica, Lavers non si sarebbe più fermato. Le parole pronunciate da Hermia la sera prima mi facevano ridda nel cervello. Non mi rimaneva da fare che una sola cosa. Attendere di conoscere le intenzioni di Lavers. Il mio collega, volte le spalle alla salma, stava osservando attentamente il tavolino da notte della signora Talbot. Rividi anch'io il Times di Grovestown ripiegato dalla defunta; vidi il mio nome campeggiare per esteso sul brano che riferiva quel maledetto discorso pronunciato da Westbrook. M'accostai al tavolino nella speranza di riuscire a infilarmi in tasca quel pezzo di giornale. Lavers mi prevenne. Il "primo della classe" di tanti anni prima, non smentì la sua fama di sgobbone. Lesse quelle sciocchezze sino all'ultima riga. «Tu!» esclamò poi eccitatissimo guardandomi con espressione accusatrice. «Tu hai sostenuto che...» «Non fare lo scemo, Lavers!» l'interruppi adirato. «Sai benissimo che non posso aver detto simili idiozie! Sono parole di Westbrook, quelle che hai lette. Si tratta d'un maledetto errore di stampa!» «Tu però non eri il medico curante della signora Talbot!» obiettò. «T'hanno chiamato solo ieri sera!» «Infatti...»
«Di' un po'...» chiese con voce gelida. «Non t'ha chiesto morfina, per caso, la signora Talbot?» «A quanto sembra» risposi assai calmo «l'etica della professione è argomento che t'appassiona in modo enorme... Saprai quindi che un medico non può svelare neppure a un suo collega le confidenze d'un paziente. Sia pure da pochissimo tempo, la signora Talbot era una mia paziente, quindi smettila di piantar grane!» «Grane?» esclamò Lavers indignato fissandomi con severità estrema. «Ma scusa! Mi trovo di fronte a un avvelenamento di morfina; leggo questa roba sull'eutanasia... e mi parli di grane? Vuoi che ti dica quel che ne penso? Ebbene! Questa povera donna è stata assassinata. Legalmente se vuoi, ma è stata assassinata.» «Che sugo c'è a sollevare una questione puramente accademica?» obiettai. «Ammettiamo pure che tu abbia ragione. La signora Talbot soffriva pene d'inferno e non aveva alcuna speranza di cavarsela. Che t'importa se qualcuno, in buona fede naturalmente, e spinto da pietà, ha pensato di abbreviarle la sofferenza? Che diritto abbiamo, noi, di sollevare un putiferio... per nulla?» «Senti, Westlake» m'aggredì Lavers «vuoi spiegarmi come farai a sentirti a posto con la tua coscienza firmando un certificato di morte?» Aveva messo il dito sulla piaga, povero Lavers. Gli davo ragione, naturalmente, ma le parole di Hermia della sera prima continuavano a risonare alle mie orecchie. «Lascia stare la mia coscienza, Lavers» gli dissi. «A quella penso io. Sii un poco umano, santo Iddio! Sta bene essere uomini di coscienza ligi al dovere, ma qualche volta non si può dimenticare la massima medica che dice: Primum non nocere per prima cosa non far del male! Non ti basta? Telefona a New York. Parla col dottor Potts e raccontagli l'accaduto. Vedrai che un cancerologo come lui non se la sentirà di darci la croce addosso per rosi poco. Dopo tutto son quasi certo che si tratta di suicidio. Se Potts non sarà soddisfatto, può prendere un aereo e venir qui a dare un'occhiata. Non ti pare?» «Bravo!» obiettò ancora Lavers. «Nel frattempo i sintomi di morfinismo, lo sai benissimo, scompaiono; le pupille tornano normali, eccetera eccetera... No! Potts potrà anche dichiararsi soddisfatto delle tue dichiarazioni, io no!» Mi vidi costretto ad un ricatto. Per difendere Hermia.
«Ascolta, Lavers!» dissi irritato. «Ragiona! Noi solleviamo un baccano tremendo intorno a questa morte... Che cosa ne deriva? La polizia invade la casa e tutti i familiari della signora Talbot vengono sospettati. Tra questi anche la signorina... Arthur» pronunciai distintamente questo nome, fissandolo negli occhi. «Vuoi saperne una? Ieri la povera signora Talbot mi diceva d'aver avuto una seria discussione con un membro della sua famiglia. Si trattava certamente di contrasti assai gravi. Ebbene, la tua Imogene ieri notte singhiozzava disperatamente sul suo letto. Sai bene che cosa ne dedurrebbe la polizia.» Brutalmente ferito dalle mie vili insinuazioni, Lavers parve sul punto di colpirmi. «Hai vinto, Westlake» disse invece allontanandosi in direzione della porta. «Mi son trovato qui per caso, e il certificato lo devi firmare tu. Per quel che mi riguarda, non solleverò mai più la questione. A meno che» aggiunse dopo una breve pausa «io non venga interrogato dalla polizia.» Usci dopo avermi indirizzata questa freccia del Parto... Prima di poterlo seguire avevo da sbrigare ancora due cosette. Raggiunsi rapidamente il tavolino da notte e, sottratto il ritaglio di giornale che vi giaceva sin dalla notte antecedente, me lo infilai in tasca. Quel maledetto discorso sull'eutanasia!... Poi sfogliai in fretta il quotidiano, desideroso di rintracciare la lettera che conteneva il foglio sul quale la signora Talbot m'aveva fatto apporre la firma. Non trovai quella missiva quantunque m'affannassi a cercare con somma cura. Evidentemente, era già stata spedita al destinatario. Prima di allontanarmi dalla stanza mi volsi a guardare ancora una volta la salma che giaceva immersa nella pace eterna tra le coltri spiegazzate. Sì. Avevo violato le norme che regolano il comportamento del medico e del cittadino. Ma chissà? Forse la signora Talbot me ne sarebbe stata grata. VII In anticamera trovai Lavers a colloquio con Lena Bartholomew. L'infermiera stava informando il mio collega che anche la signorina Imogene s'era recata all'università per tempo, in compagnia dei coniugi Fiske. «Ah, finalmente, dottor Westlake!» mi disse la donna non appena mi vide arrivare. «Ho da dirvi qualcosa, ed è bene che sia presente anche il dottor Lavers. Mi sono accorta perfettamente di quel che pensate del mio comportamento di ieri sera... Infatti debbo ammettere di aver alzato il gomito in modo insolito. Naturalmente, credete che io abbia dormito fino a
tarda ora per smaltire la sbornia! Non è così, dottor Westlake. Sono pronta a scommettere la testa che qualcuno mi ha narcotizzata. Sissignore. Qualcuno ha fatto in modo ch'io dormissi sodo e a lungo. E questo perché non notassi...» «Che cosa?» domandai lanciando un'occhiata a Lavers. «Dottore» prosegui l'infermiera «non è morta piuttosto inaspettatamente, la povera Madeleine?» «Ma... Che cosa volete dire con esattezza?» «Semplicemente questo! Sono stata narcotizzata in modo che...» «E con questo?» domandai rapidamente rendendomi conto che l'infermiera s'era accorta di qualcosa di anormale. «V'hanno somministrato qualcosa per farvi dormire meglio del solito... Non sarebbe meglio dimenticare l'episodio?» «Ah, dunque lo sospettate anche voi che qualcuno ha fatto del suo meglio per... soddisfare i desideri della povera Madeleine! State tranquillo, dottor Westlake! Noi infermiere siamo abituate a vedere molte cose e a... tacerne assai di più! Madeleine ha finito di soffrire. E... lasciamo le cose così, come stanno.» Osservai con un sentimento nuovo di simpatia la tozza Lena. La seguii con lo sguardo mentre saliva al piano superiore per recarsi da Ray Talbot. Lavers si allontanò in direzione della sala di soggiorno. Rimasi solo per breve tempo. Josephs mi venne incontro portandomi il cappello e il cappotto. Mentre indossavo il pesante indumento, espressi al fedele servo poche parole di condoglianze. «Non è il caso che vi preoccupiate dei miei sentimenti, signore» mi rispose con inaspettata ostilità. «Tenete in serbo il vostro cordoglio per i familiari. Andrebbe davvero sciupato con questo povero servo! Buon giorno, signore.» Lo vidi sparire in direzione della cucina. Sentii il sangue battermi più rapido nelle vene all'apparire di Hermia. «Dottor Westlake» mi disse quella soave creatura «vorrei ringraziarvi... per tutto quanto avete fatto... Grazie di cuore! E... scusatemi. Debbo andare da Ray, ora. È un bambino, dottore! Non riesce a consolarsi. Non sa vedere al di là della morte. Non capisce che la mamma, ora, sta molto meglio.» Guardai nel profondo di quegli occhi azzurri, tentando di leggervi qualcosa. Poco mancò che le chiedessi sui due piedi... la verità. Mi limitai a
porgerle la mano. Aie la strinse mormorando: «Tutto andrà per il meglio! Tutto!» Uscito in giardino, sorpresi Lavers nell'atto di salire nella propria automobile. Povero Lavers! M'ero proprio comportato male con lui. Allo scopo di lenire un poco la sensazione di colpevolezza che mi angustiava, lo raggiunsi per proporgli un consulto. Lo sapevo cardiologo di vaglia e lo pregai di raggiungermi al capezzale di Polly Howett. La proprietaria della taverna nella quale avevano fatto bisboccia Lena Bartholomew e Raynor Talbot, era infatti una mia paziente. Ascoltò la richiesta con molto sussiego, e compresi d'aver trovato la via giusta per raddolcirlo nei miei confronti. «Si tratta di una miocardite degenerativa» gli spiegai dopo che ebbe accettato di trovarsi alla taverna di Polly per le dodici in punto. «E probabilmente troverai anche una trombosi!» «Un'altra incurabile, Westlake» commentò Lavers con un sorriso maligno. «Spero che tu non abbia intenzione di coinvolgermi in un altro caso di... eutanasia!» Meritavo quell'acida battuta. Lo lasciai e mi diressi alla volta della mia automobile. Dopo aver telefonato al dottor Potts a New York, decisi di dedicarmi un poco a Dawn. Entrato in Ploversville a tutta velocità stentai un poco a raggiungere la fattoria ove avrei dovuto trovare i leprotti di razza belga. Acquistai una superba coppia dal pelo candido e dagli occhi azzurri. L'allevatore mise le due bestiole in una bella gabbietta che trovai modo di sistemare sul sedile posteriore dell'auto, insieme a una ragguardevole provvista di lattuga... Con gli occhi sperduti dietro la visione di casa nostra invasa da ogni parte dalla progenie di quei prolifici animali, bloccai la macchina davanti alla taverna di Polly a mezzogiorno preciso. Piombata sulle nostre contrade come una bomba atomica, Polly, genuino prodotto dei quartieri malfamati di New York, aveva acquistato di recente la sua taverna. La ragione che l'aveva indotta a trasferirsi in quel di Kenmore era rimasta ignota a tutti. Ma i buoni borghesi della nostra città, soprattutto i padri di famiglia, avrebbero salutato con grida entusiaste la sua decisione di tornare là, donde era venuta. In provincia, le novità sono sempre accolte con un certo grado di sospettoso riserbo. Inutile negarlo. Anch'io m'ero sentito mancare il fiato dallo stupore quando avevo veduto la trasformazione subita da quella ch'era stata fino a poco prima una pacifica osteria di campagna. Polly l'aveva cambiata a
fondo, con lo stesso impegno col quale Raynor Talbot s'era dedicato a "razionalizzare" la vecchia casa dei Gregory. La facciata dipinta di rosso scarlatto, le insegne al neon, gii striscioni pubblicitari avevano l'acre sapore di certi locali notturni della Brooklyn più scollacciata. Sulla taverna di Polly infatti, circolavano voci piuttosto dubbie. Il sabato sera, per esempio, qualcuno aveva veduto più di cinquanta automobili in sosta davanti al locale. Ma le coppie che si agitavano nella sala da ballo non erano mai più di una dozzina... Fino al quel momento, tuttavia, lo scandalo non era scoppiato. Sapevo però che il mio amico Cobb, l'ispettore, teneva d'occhio con una certa ansia quell'audace "Polly's Inn". A me, Polly riusciva simpaticissima. Quel peccaminoso rottame della Bovery sfavillava come un tizzone d'inferno infischiandosene allegramente del cuore sfasciato che poteva piantarla in asso da un momento all'altro. Vecchia canaglia! L'idea di dover presto balzare nel buio eterno appesantita dal greve fardello dei suoi peccati non le toglieva un certo coraggio battagliero che non potevo fare a meno di ammirare. Phil Lavers. scrupolosamente puntuale, accostò la sua vettura alla facciata scarlatta della taverna contemporaneamente a me. Abbandonati i leprotti di Dawn al calduccio dell'impianto di riscaldamento della mia macchina, mi posi al fianco del collega che si dirigeva all'ingresso posteriore del "bar". L'entrata principale infatti si apriva soltanto la sera. Notammo una vettura dietro la casa, a pochi passi dall'angolo dell'edificio. Lavers s'arrestò bruscamente; e lo vidi arrossire. «Scusa... un istante!» mormorò e corse verso l'auto. Lo seguii vagamente incuriosito. Vidi così, abbandonata sui sedili posteriori di quella vettura, la figuretta sottile di Imogene Arthur. «Ciao Phil» salutò gelida la ragazza. «Imogene!» rispose Lavers con tono affettuoso. «Che... fai qui?... In un luogo come questo...» «Gail e Conrad m'hanno offerto un passaggio al ritorno dall'università. Ora, son là dentro che giocano a biliardo. Io non ci metto piede però. Ho preferito attenderli in macchina...» Imogene mi vide, ma preferì ignorarmi. A quanto sembrava nessuno dei giovani aveva ancora appresa la tragica notizia della morte della madre. Al colmo dell'imbarazzo, Phil Lavers infilò un braccio nel finestrino della vettura. Afferrò impacciato una mano della bella Imogene e mormorò: «Temo di doverti dare una brutta nuova...»
In quell'istante una voce acutissima, trillante, mi distolse dai due. «Ciao veterinario. Vieni a berne un goccio a spese della direzione.» Agitando un dito dall'unghia scarlatta Polly mi sorrideva dalla soglia del bar. «Filate dentro!» ingiunsi indignato. «Non sentite che fa un freddo cane?» Per chi non l'avesse mai veduta prima, Polly era uno spettacolo da mozzare il fiato. Con il corpo ormai disfatto avvolto da una chiassosa vestaglia piena di fiori e pappagalli in quel momento agitava i capelli ossigenati, color paglierino, dai quali spuntava un paio d'incredibili orecchini di giada. Non c'era bisogno d'essere un medico per comprendere quanto fosse malata, a dispetto della spessa patina di belletto che le ricopriva le guance azzurrognole. «Ci vuol altro!» gracchiò. «Per accoppare Polly non bastano un po' di freddo e un veterinario. Dite un po'» aggiunse mentre la sospingevo verso l'interno «non è la Arthur quella ranocchia? Vien sempre fin sulla soglia con i Fiske, ma non si degna di entrare. Carognetta! È troppo nobile, lei...» Mi volsi a guardare nella direzione indicatami da Polly e udii la Arthur che esclamava: «Morta! La mamma... è morta!» «È così, Imogene» rispondeva Lavers. La fanciulla sollevò alle labbra tremanti una manina inguantata. Il corpo percorso da un brivido, scoppiò in una risata isterica. «La mamma è morta! Questa è buona!» Spalancò la portiera dell'auto e, sospingendo Lavers da un lato, mosse barcollando alla mia volta. Rideva sempre, isterica, con un ghigno che sembrava un singhiozzo. «Mamma...» mormorò. Tese una mano. Priva d'appoggio, cadde nella neve come un cencio. Il minuscolo cappellino le rotolò lontano, liberando una cascata di riccioli bruni. Spinsi lontano Lavers, rimasto inebetito davanti al corpicino della fanciulla, e raccolsi tra le braccia la fragile Imogene. Pesava come un uccellino, notai mentre la portavo nel bar di Polly. «Dottore! Dottore!» mi diceva Polly agitata scuotendomi un braccio. «Si tratta di cosa grave? Povera bambina! Vado a prenderle un po' di brandy...» «Non è nulla!» la rassicurai. «Ha saputo ora della morte di sua madre adottiva...»
«La signora Talbot... morta?» balbettò Polly. Rimase un istante a bocca aperta. Poi scomparve in direzione del bar. Imogene riprese i sensi dopo aver trangugiato una sorsata di cognac francese. Lavers si scusò con me e con Polly e, fatta salire la fanciulla nella sua vettura, la riaccompagnò a casa. Mi diressi alla volta del salone, ove i coniugi Fiske si divertivano a giocare a biliardo tra grida e imprecazioni scomposte. Nel rivedermi non dimostrarono il menomo imbarazzo. Io, tuttavia, non avevo dimenticato il tenebroso episodio della sera antecedente. «Alzate il gran pavese!» urlò Gail non appena mi vide. «Ecco Westlake il grande! Conrad» urlò rivolgendosi al marito «dev'essere venuto a somministrare l'eutanasia a Polly Howett. Vedrai. Lo metteranno a capo del comitato di salute pubblica.» Quei due costituivano la coppia più strana che mi fosse mai capitato d'incontrare. Ancor più strani mi apparvero non appena comunicai loro la notizia della morte dalla signora Talbot. Conrad sollevò le spalle con gesto d'indifferenza. Si passò una mano sulla guancia graffiata e mormorò: «Impareranno, ora. Potevano lasciarla in clinica.» Con voce volutamente priva di commozione, Gail disse: «Se n'è andata in quattro e quattr'otto, no? Poverina! Conrad» concluse poi «hai ancora un paio di nichelini? Abbiamo giusto il tempo di fare un'altra partita!» Abbandonai annichilito quella coppia di giovani sciagurati per andare in cerca di Polly. La trovai che accarezzava pensierosa un paio di guanti. Quelli dimenticati da Imogene Arthur. Ci avviammo verso la sua stanzetta. Somigliava più ad un ripostiglio che non a una camera da letto. Bambole e scatole di dolciumi a diecine giacevano sui gonfi cuscini sparpagliati sul divano. Alle pareti pendevano innumeri fotografie di note ballerine di Broadway. Uno splendido cacatoa dagli occhietti malvagi leccava il miele in un cucchiaino d'argento che stringeva tra gli artigli. «Salve gente!» gracchiò cordiale il decrepito pennuto facendomi l'occhiolino e agitandosi nella gabbia. «Viviamo insieme da dodici anni» spiegò Polly guardando pensierosa il pappagallo. «Gli voglio bene come a un figlio. Vero. Andy?» La donna si stese sopra un divano e aspettò che io avessi preso posto accanto a lei. «Forza, dottore!» esortò. «Fuori lo stetoscopio! Ho già ordinato la bara.»
Le spiegai che ero venuto con Lavers perché volevamo farle l'elettrocardiogramma. Avremmo rimandato l'esame al giorno seguente. «Lavers?» domandò Polly incuriosita. «Quel giovanotto che sembra pazzo della piccola Arthur? Che tipo è?» Ascoltò scettica il panegirico che le feci del mio collega. «Scemenze!» commentò alla fine. «Ditemi una cosa sola: è un tipo rispettabile? Altrimenti non voglio che mi tocchi.» La rassicurai. Dei giovani professionisti locali, Lavers era il più rispettabile. Cominciai a visitare Polly. Con mio sommo stupore mi lasciò auscultare senza dire una parola. Senza una sola battuta di spirito ascoltò la triste diagnosi. «Dunque» riprese mentre riponevo lo stetoscopio «la signora Talbot mi ha battuta sul traguardo per una corta incollatura...» «Infatti» risposi guardingo, non sapendo dove volesse andare a parare. «Era molto, molto malata... La conoscevate?» «Chi? Io? Mai vista! La conoscevo di fama. Povera diavola! Che razza di figli! E quel marito? È un poco di buono, Raynor Talbot. E se si permette ancora una volta di portar qui le sue donnacce... lo scaravento fuori a pedate!» concluse con una collera e uno sdegno che non mancarono di sorprendermi. «Polly!» esclamai. «Che vi piglia? Che avete da spartire, voi, con Raynor Talbot?» «Meglio non parlarne» brontolò la donna agitandosi. «Prima di venire a Kenmore ha fatto d'ogni erba un fascio, quel pezzo da galera! Se volessi ricattarlo... Di' un po'» riprese dopo una pausa «ci deve esser stato qualcosa di strano... nella morte della signora Talbot... Non è vero, forse?» «Strano?» ripetei sbalordito. «Che dite mai! L'ho assistita personalmente e vi posso assicurare che...» «Ho capito» m'interruppe Polly con estrema violenza. «Se non vuoi parlare... non parlare! Dovevo immaginarmelo! Te l'hanno fatta, eh? Veterinario! Te l'hanno fatta! Peggio! Sei loro complice e non vuoi ammettere che l'hanno... aiutata a uscir di scena prima del tempo! Westlake, quella donna è stata assassinata!» «Polly!» urlai fuori di me. «Che ne sapete, in nome di Dio?» «Sissignore!» ribadì la donna agitando fieramente i capelli ossigenati. «L'hanno assassinata... ed io so anche come hanno fatto. So perfino il nome del colpevole.» «Siete pazza!»
«Può darsi. Non parliamone più.» «Parliamone, invece» volli insistere. «E perché dovrei parlare? Zitto tu, e zitta io. Ma se proprio ci tieni, sappi che potrei dirti il nome della persona responsabile della morte della signora Talbot. Quella persona, povera cagna, ha agito in buona fede, ma...» «Avanti, Polly, parlate» la pregai stupefatto. «È stata una donna» disse severamente Polly. «E quella donna... sono io.» Il pappagallo lasciò cadere a terra il cucchiaino d'argento. Starnazzando, gracchiò stridulo: «Polly sa tutto! Polly sa tutto!» «Non dirò una parola di più dottore» mi disse Polly, sorridendo al suo cacatoa. «Salpa l'ancora, Westlake! E non credere che io mi rassegni a inghiottire le tue dannate pillole. Torna venerdì. Mi faranno il funerale allora; portami un mazzo di violette!» VIII Passato il primo momento d'imbarazzo, decisi di non prender troppo sul serio le enigmatiche dichiarazioni di Polly. Quella strana creatura, lo sapevo da un pezzo, avrebbe fatto di tutto pur di rendersi interessante. E, a mio eterno scorno, cancellai dalla memoria quello strano colloquio. Uscito dalla taverna, mi diressi verso la vettura. Della automobile di Lavers e di quella dei Fiske non era rimasta traccia. Rammentai il mio carico prezioso solo dopo aver inserito nel cruscotto la chiave d'accensione. E rimasi con un palmo di naso. I leprotti belgi che avevo acquistato per il compleanno di Dawn erano scomparsi. Sul sedile posteriore della mia vettura non era rimasta che la gabbietta, spezzata in più punti. Le due bestiole non potevano aver infranto a quel modo le sbarre della loro prigione. E, con un vago senso di sbalordimento, mi guardai attorno in cerca delle tracce dei roditori. Intorno alla mia vettura, sulla neve, non si vedevano le impronte delle loro zampette. Tornai quindi alla taverna, sospettando che uno dei cuochi russi di Polly avesse pensato di approfittare dei leprotti di Dawn per offrire una leccornia di sapore orientale alla clientela. In cucina, respinsero con aria offesa le mie larvate accuse. Non mi rimase che consultare Polly. Il trovare un'altra coppia di leprotti belgi, nei dintorni, non sarebbe stato facile.
Informata dell'accaduto, Polly si dimostrò collaboratrice zelante, piena di simpatia per la mia bimba, privata crudelmente del suo dono. La vecchia peccatrice esperi minuziose indagini senza risultato. Il personale del "Polly's Inn" non aveva veduto i leprotti di Dawn. Doveva averli rubati un ladruncolo di passaggio. «Acc!...» imprecai. «Mi costavano un occhio, quelle bestie! E come farò, ora, con Dawn? Dove trovarne un'altra coppia?» «Be'...» intervenne Polly pensierosa. «Non è il caso di disperarsi.» Sciolse dalla catena che la sospendeva al soffitto, la gabbia del suo pappagallo e, porgendomela, concluse: «Ai bimbi solitamente queste bestiole piacciono assai... Tieni. Regaleremo Andy alla tua bambina. Non preoccuparti» si affrettò a precisare «non dice parolacce!» Rimasi allibito. Sapevo che Polly era molto attaccata al suo volatile, e temevo, inoltre, che il pappagallo potesse non incontrare il favore di mia figlia. Protestai invano. «Prendilo, dottore» insistette la vecchia canaglia nascondendo la commozione dietro una risata. «Tra poco andrò a far da concime alle margheritine del cimitero... L'idea di affidare Andy alle cure di una bambina non m'era mai passata neppure per il capo. È una soluzione magnifica. Forza prendilo! Fa' un favore a una vecchia amica!» Fui costretto ad accettare. «Lascialo al buio» si raccomandò Polly gettando sulla gabbia di Andy una gaia copertina di cretonne. «Così non dirà una parola e non sentirà la nostalgia... almeno per i primi giorni.» Fummo interrotti dalla comparsa di un cameriere. «Ha telefonato una certa signorina Landreth per il dottor Westlake» annunziò. «Ha detto che andiate subito a casa Talbot. Poi ha troncato la comunicazione.» Il cameriere si allontanò silenzioso. I recenti avvenimenti mi indussero subito a temere il peggio. Balbettai una confusa serie di saluti e ringraziamenti, deciso ad accorrere al più presto al fianco di Hermia. Polly mi trattenne per un braccio e guardandomi ironica, con il capo piegato da una parte, s'informò: «Hermia Landreth, eh? La rosa stupenda sbocciata tra le spine. È bella, vero?» Mi guardò senza arrossire. «Ebbene, veterinario, ascolta le mie parole: sta' in guardia con i Talbot. E non ti venga in mente di sposarne una delle femmine! Dinamite! Ecco che cosa sono i Talbot.» Mi spinse in una mano il cappello e nell'altra la gabbia di Andy.
Poco dopo volavo verso casa Talbot col pappagallo di Polly addormentato accanto a me. E per non rischiare di perderlo come i leprotti belgi, me lo portai appresso quando sonai alla porta dei Talbot. M'aperse Josephs, che questa volta mi guardò con aperta ostilità. «La signorina Landreth, per favore» dissi. «S'è appartata con suo padre» rispose il maggiordomo. «Credo non voglia ricevere nessuno stamani.» «Mi ha telefonato di venire» risposi seccato. Mi invitò a entrare con molta riluttanza. Deposi la gabbia di Andy sulla tavola in anticamera; quasi subito vidi Gail uscire dalla stanza di soggiorno. «Ah, stavolta facciamo trasloco a quanto pare» osservò adocchiando la gabbia del pappagallo. «Vi trasferite in casa Talbot con armi e bagagli? Bravo!» Senza la minima esitazione strappò la copertina dalla prigione dorata del cacatoa ed esclamò: «To', è l'uccellaccio di Polly! Vi proponete di cloroformizzarlo? O pensate sempre all'eutanasia?» Andy piegò la testina, fece l'occhiolino e gracchiò maligno: «Polly sa tutto. Polly sa tutto.» Gail s'affrettò a ricoprire la gabbia. In quell'istante apparve Phil Lavers. E rimasi non poco stupito nel vedergli stampata in volto un'espressione che poteva passare per umana. Gail ne interruppe le espressioni di saluto per domandargli a bruciapelo: «Che cosa hai combinato con Imogene, là dentro?» «Abbiamo deciso di sposarci» annunciò Lavers arrossendo. «Questa sì, che è una bella notizia!» cinguettò Lena Bartholomew apparsa in quell'istante in cima alla scala. E si precipitò incontro a Imogene uscita in quel momento in anticamera. «Come ne sarebbe stata contenta la povera Madeleine!» sospirò baciando la ragazza. Accortasi della mia presenza, si precipitò alla mia volta: «Dottor Westlake, stavo proprio per chiamarvi al telefono. Ho da mostrarvi qualcosa di molto interessante. Non vorreste salire un momento in camera mia?» Hermia non era ancora apparsa. Decisi quindi di seguire l'infermiera al piano superiore. Qui la donna mi pilotò nella sua stanza. Tolse un bicchiere dal tavolino da notte e me lo mostrò. «Guardate un po' qua!» Sul fondo del recipiente vidi poche gocce di liquido nel quale galleggiavano minuscole particelle di una sostanza biancastra insoluta.
«Proprio come vi avevo detto!» esclamò Lena Bartholomew. «Ieri sera ero scesa in cucina a prendermi un bicchiere d'acqua fresca. Lo deposi sul tavolino da notte prima di coricarmi. Chiunque può averlo drogato mentre mi trovavo in bagno. È chiaro ormai. Potete vederlo anche voi che mi hanno messo qualcosa nell'acqua. Se ho dormito fino a tarda ora è stato proprio per questo.» Lena Bartholomew, a quanto sembrava, non aveva altra preoccupazione nella vita, se non quella di giustificare continuamente i suoi atti. Continuò per un pezzo a parlare, ma io non le diedi ascolto. Se quello che mi stava mostrando era proprio il bicchiere del quale s'era servita la sera precedente, non potevo negare l'evidenza. Qualcuno vi aveva certo lasciato cadere un ipnotico. Dell'amytal forse... E Conrad Fiske aveva ammesso d'averne preso dalla mia valigetta. Intanto l'infermiera mi aveva strappato il bicchiere di mano. Prima che riuscissi a rendermi conto di quanto stava facendo, aveva vuotato e risciacquato nel lavabo il recipiente incriminato. «Sapreste suggerirmi il nome del colpevole?» mi domandò l'infermiera. «Sono certa infatti che m'hanno fatto bere un barbiturico per aver la libertà di... spedire la povera Madeleine.» Non mi riuscì di rispondere nulla perché in quell'istante fu bussato all'uscio. Hermia Landreth si mostrò sulla soglia, avvolta da un morbido cappotto di pelo. Lanciò un'occhiata all'indirizzo di Lena Bartholomew e scusandosi d'esser stata intrattenuta fino a quel momento da Ray, mi pregò di seguirla sul pianerottolo. Ci trovammo, così, soli in cima alle scale. Hermia mi disse bisbigliando: «V'ho chiamato per Bill Strong... È uno dei vostri malati, non è vero? Ebbene sono molto preoccupata per lui. Non so se sappiate che ero solita passare qualche ora in sua compagnia ogni venerdì... Sono andata da lui anche stamane e... non l'ho trovato in casa. L'avete forse fatto ricoverare all'ospedale?» «No!» risposi allarmato. «Sono stato da Bill proprio ieri notte e l'ho trovato benino... in complesso. Venite, andiamo a vedere...» Poco dopo avevo Hermia Landreth accanto a me, in automobile. Mentre guidavo, ero dolorosamente conscio di quella presenza. Di quel tepore che mi accendeva in cuore una sensazione cui avevo creduto di dover rinunciare per sempre, ormai... Durante la breve volata non scambiammo una parola. Quando scesi dinanzi alla casetta di Bill, offersi il braccio ad Hermia per aiutarla a scendere.
«Vedete dottore» mi disse la fanciulla «quando son venuta qui stamane ho trovato l'uscio spalancato. Strano, non è vero? Con questo freddo! E, in casa, non c'era neppure Tabby.» Non ci volle molto a dare un'occhiata alle misere stanzette del vecchio Bill. Del mio paziente nessuna traccia. "Tutto, in quella casa, era rimasto come l'avevo lasciato la notte precedente. Mancava soltanto il tubetto di pastiglie che avevo dato al vecchio perché se ne servisse in caso d'un rinnovato attacco di dolori artritici. Hermia m'assicurò di non aver veduto le compresse sulla tavola, neppure quando si era recata da Bill di buon mattino. Scartata l'ipotesi che il vecchio fosse andato a far visita a qualche conoscente (Bill era un solitario da molti anni ormai) durai non poca fatica a immaginare che cosa ne fosse stato di lui. La ciotola del latte destinato alla gatta mi offerse un primo indizio. «Tabby!» esclamai. «Dev'essere uscito in cerca della gatta!» Ci precipitammo verso la porta d'ingresso anteriore. Da quel punto il terreno scendeva dolcemente fino alla strada. Poi, s'estendeva praticamente privo di vegetazione verso Ploversville lontana diverse miglia. La distesa immensa, coperta di neve, ci apparve deserta. Non si vedeva anima viva. Hermia propose di tentare la ricerca partendo dalla parte posteriore della casa. Là dove il terreno saliva verso il colle ricoperto di pini. Dalla porta posteriore della casetta di Bill partivano infatti, inconfondibili nella neve caduta qualche giorno prima, numerose impronte. Seguendo Hermia che le aveva scoperte per prima, mossi, animato da un vago senso di inquietudine, verso la collina. Non scambiammo parola. Ansando seguivamo le peste del vecchio. Terminavano in un fitto cespuglio, sul crinale del colle. Compresi allora che Bill doveva aver percorso quel cammino durante la notte. Alla luce del giorno, infatti, non solo avrebbe veduto il cespuglio, ma non sarebbe mai sceso dall'altra parte della collina. Qui infatti la neve era assai fonda lungo la china precipite. Temevo il peggio. I tragici, misteriosi eventi del giorno precedente mi indussero a presentire la tragedia. Affondando nella gelida coltre fino alle ginocchia, seguimmo le peste di quel cammino senza meta. Hermia vide per prima la scarpa malamente rabberciata che spuntava dalla neve molto profonda. Ci avvicinammo inorriditi. «Bill!» mormorò la fanciulla «Bill Strong!» Un soffio di vento agitò per qualche istante un risvolto cencioso dei pantaloni del vecchio.
IX Ci gettammo quasi nello stesso istante a scavare nella neve. E non ci volle molto per portare alla luce il povero corpo. «È morto assiderato!» dovetti constatare mio malgrado. «Non posso più far nulla per lui! Dobbiamo avvertire la polizia. Scendete fin sulla strada. Recatevi a casa vostra con la mia automobile e telefonate subito di li.» Hermia si allontanò rapida. Avrebbe raggiunto l'ingresso della casetta di Bill in pochi minuti. Il povero vecchio infatti, uscito nella notte per ricercare la sua fedele bestiola, aveva vagolato inutilmente per il colle sino ad incontrare la morte per il freddo, in quel profondo banco di neve. Il gelo cominciava ad attanagliarmi le gambe. Non avrei resistito a lungo in quella scomoda posizione. Decisi quindi di trasportare la salma di Bill fino alla sua casetta. Quando vi giunsi ero esausto per lo sforzo fisico intenso. Avevo acceso il fuoco nella stufa, quando sopraggiunsero Hermia e un poliziotto. Informato del fatto che Bill non aveva parenti, il rappresentante della legge accolse la notizia con somma indifferenza. Lasciammo quel luogo assai tristi. Avevo perduto il più vecchio dei miei pazienti; Hermia avrebbe sentito la mancanza del suo protetto. Ci accomiatammo nell'anticamera di casa Talbot. «Addio dottor Westlake» mi sussurrò Hermia dolcemente mentre mi accingevo ad uscire stringendo in una mano la gabbia di Andy. «Spero che verrete presto» aggiunse. «In occasioni più liete...» Quelle poche, affettuose parole mi tennero compagnia sino al ritorno a casa. Qui, per evitare l'onnisciente Dawn dovetti sobbarcarmi a penose manovre d'occultamento del pappagallo. Il simpatico volatile finì in un angolo dell'autorimessa, da dove mi proponevo di farlo uscire il giorno seguente per presentarlo in dono alla mia bimba. Avevo appena richiusa a chiave la porla dell'autorimessa che mi trovai Dawn al fianco. «Ciao papà» trillò tutta eccitata. «Non so se te ne sei accorto, ma ho pensato di accendere la stufa a petrolio in garage... Sai... temevo che i lep... sì insomma! Fa molto freddo là dentro, non ti pare?» È forse possibile riuscire a celare qualcosa ai bambini dei nostri tempi? Deluso, risposi lodando la sua iniziativa. «Uh! Come sei bagnato!» notò subito quel diavoletto. «Hai fatto a palle di neve?»
Con una tetra risata confessai a Dawn d'essermi divertito con una slitta. Le promisi che l'avrei condotta con me alla prossima occasione. Consumai in fretta la colazione e tornai a soddisfare le richieste di molti dei miei pazienti inchiodati a letto dal misterioso germe dell'influenza. Copersi dozzine di miglia in automobile, tastai innumeri polsi, presi un'infinità di temperature. Rincasai dopo le sette e mezzo. Dawn mi costrinse a inghiottire un boccone. Stavo godendo da qualche minuto il tepore del caminetto, pigramente abbandonato sulla mia poltrona preferita quando udii una voce dolce, che avrei saputo riconoscere tra mille, chiedere di me in anticamera. «Oh! Ma è impossibile» diceva la voce. «Impossibile! Devo parlare al dottor Westlake ad ogni costo! Si tratta... di vita o di morte!» Ferma e scandendo le parole con intonazione d'inflessibilità Dawn rispondeva: «Il dottore riposa! Non riceve più nessuno! Ha avuto una giornataccia e...» L'avrei presa a scapaccioni. «Mi basta che gli diciate...» cominciò Hermia. Chiamai Dawn con voce severa. La bimba mi comparve davanti risentita. Aveva dipinta in volto un'espressione ostile che ben conoscevo. Quella che ostentava ogni volta che credeva minacciata la nostra casa dall'intrusione di una matrigna. «Papà» disse «in anticamera c'è una... donna... che dice di doverti vedere immediatamente.» «Invitala subito ad entrare!» tuonai. «Villanissima creatura!» Hermia fece ingresso nella mia stanza di soggiorno mentre con mani malferme cercavo di riannodarmi la cravatta che mi ero appena tolta. «Dottore» mormorò con voce affannosa. «Son venuta per una faccenda assai grave... Si tratta di Josephs. Insoddisfatto delle nostre assicurazioni circa la morte... naturale della mamma ha espresso i suoi dubbi alla polizia. Il perito settore, chiamato dal magistrato inquirente, è a casa nostra con l'ispettore Cobb!» Lo stupore suscitato in me da quella notizia si mutò tosto in ansietà. Questa dunque era stata la ragione del mutato atteggiamento del maggiordomo nei miei confronti! Mi sospettava d'aver praticato l'eutanasia sulla sua padrona! A dispetto dell'opera di convinzione che avevo dovuto esercitare su Lavers, lo scandalo era scoppiato indipendentemente dal mio collega. E rammentai subito che alla luce del mio comportamento dopo la mor-
te della signora Talbot, la mia posizione sarebbe apparsa assai precaria a chiunque. «Vi ringrazio sentitamente» dissi a Hermia nell'intento di rassicurarla. «Siete stata davvero gentile!» «Sono preoccupatissima per voi dottore!» esclamò Hermia allontanandosi da me e fissando la fiamma nel camino. «Ho avuto l'impressione che... la polizia vi sospetti d'aver contribuito ad affrettare la morte della mamma!» «Dopo quanto ha stampato quel maledetto Times di Grovestown» osservai amaro «non c'è da stupirsene!» «Ma è assurdo!» esclamò vivacemente la giovane tornando a mettersi davanti a me. «È assurdo!» ripeté stringendo i piccoli pugni che tremavano per l'agitazione. «Sono in grado di testimoniare con esattezza quanto è accaduto in realtà! E son pronta a farlo, soprattutto per la memoria della mamma! Inoltre...» S'interruppe afferrandomi un braccio. Un'auto aveva imboccato la mia carrozzabile privata e saliva velocemente verso casa. «La polizia!» sussurrò spaventata Hermia. «Sarà meglio che non vi trovino qui!» osservai agitatissimo. «Dopo quanto è accaduto, potrebbe sembrar strano che... Non vorreste attendere nella mia stanza di consultazione?» le chiesi con tono urgente sospingendola verso l'uscio del mio ambulatorio. «Veramente... preferirei...» «Ve ne prego...» Le chiusi l'uscio alle spalle mentre in anticamera risuonava acuto il trillo del campanello. Mi gettai sulla mia poltrona ed afferrai il giornale. Pochi istanti dopo, Lucinda, la nostra fedele domestica entrava nella stanza seguita da due uomini. «Il dottor Forder, signore!» annunciò. «E... l'ispettore Cobb!» Nell'udire il nome del mio amico gran parte dell'apprensione che mi torturava disparve. Mi alzai sollecito per andargli incontro e gli strinsi cordialmente la manona quadrata che subito mi tese. «Ciao, Westlake!» salutò. «Sempre solitario, eh? Il perito settore ed io abbiamo veduta la luce accesa ed abbiamo pensato di venire a scambiare quattro chiacchiere!» Se non fossi stato messo sull'avviso da Hermia non avrei mai potuto immaginare che Cobb fosse venuto a far altro che a bere un bicchierino e a raccontare un paio di barzellette.
Il dottor Forder invece si dimostrò molto meno abile del mio amico nel fingersi un semplice visitatore. L'espressione solenne del volto ne tradiva gli intenti tutt'altro che amichevoli. Incapace di dimenticare la presenza di Hermia nel mio ambulatorio, riuscii tuttavia ad invitare con disinvolta cordialità i mici ospiti ad accomodarsi. Dopo aver succhiato un poco il cannello della pipa, vuota come sempre, Cobb passò all'attacco diretto, senza preamboli inutili. «Dunque caro Westlake! Una serie di episodi... un poco strani ci ha indotti a venirti a fare un paio di... domandine imbarazzanti!» Finsi moderato stupore. Versai il whisky ai due uomini ed ingollato il liquore di cui m'ero riempito il bicchiere mi volsi a Cobb intimando: «Spara! Son tutt'orecchi!» «Si tratta, caro Westlake» intervenne inaspettatamente Forder «della si... della morte della signora Talbot!» «La signora Talbot?» ripetei. «Naturalmente, potrebbe anche trattarsi d'un comune errore!» disse il perito accostando le labbra al suo bicchierino. «Il maggiordomo di casa Talbot, certo... Josephs se non erro, mi ha telefonato stamani esprimendomi il suo dubbio circa la morte... naturale della sua padrona. Inutile dire che quell'individuo si trovava evidentemente in uno stato di turbamento acuto e quindi dobbiamo accettare le sue dichiarazioni con le più ampie riserve. Egli tuttavia, sostiene di aver notati alcuni elementi che l'hanno colpito per la loro particolare, come dire? anormalità!» «Non capisco, caro Forder» obiettai fingendo profondo stupore. «Il dottor Potts, il noto cancerologo di New York, sarà in grado di confermarvi che la signora Talbot era molto malata. So, per averne lette le dichiarazioni scritte, che il nostro collega s'attendeva la morte della sua paziente da un momento all'altro. Ho assistito personalmente la povera signora e...» «Appunto!» intervenne Forder con un piccolo colpo di tosse. «Questa circostanza ci porta direttamente al nocciolo della questione. Il maggiordomo ha formulato accuse precise a carico di una certa persona. Ritiene che la signora Talbot sia stata vittima di... già... eutanasia! Mi sono reso conto delle particolari condizioni in cui si trovava la defunta... Capisco che quella certa persona abbia agito spinta da... misericordia, o pietà, chiamatela come preferite. Come privato cittadino posso anche comprendere e perdonare, ma la mia qualità di funzionario mi impone di accertare che la morte della signora Talbot sia stata assolutamente naturale!»
Da un "pignolo" come Forder non avrei potuto aspettarmi atteggiamento diverso. «Chi sarebbe» indagai con finta indifferenza «quella certa persona di cui si sospetta?» Cadde un silenzio imbarazzante. Cobb s'agitò sulla poltrona e volgendo verso di me la cannuccia della sua pipa disse: «Quella certa persona... è il ben noto dottor Westlake, medicina interna.» «Io!?» «Zitto lì! Ora tocca a me!» esclamò Cobb. «Devi sapere caro Westlake, che quel maggiordomo ci ha raccontato tutta una storiella. A sentir Josephs le cose si sarebbero svolte in questo modo. Nel pomeriggio sali a portare un "espresso" alla sua padrona. Rimase nella stanza della malata per tutto il tempo durante il quale la donna lesse la missiva. Si accorse così che la lettera doveva aver recato alla signora Talbot cattivissime nuove. Più tardi le portò il Times di Grovestown. E si accorse che la tua paziente leggeva con morbosa attenzione un certo articolo. Josephs si trovava al servizio della Talbot da molti anni. Si permise quindi di domandarle che cosa stesse leggendo. La signora gli rispose che si trattava di un discorso sull'euta... si... sull'eutanasia insomma, pronunciato dal dottor Westlake. Lo so, carissimo, lo so! Si trattava di un errore di stampa! Ma quando Josephs apprese che t'avevano mandato a chiamare, sospettò che fosse per indurti a praticare quella euta... Hai capito, insomma! Stamane la padrona è morta, e il maggiordomo ne ha dedotto che tu...» «Che mente logica quel Josephs!» commentai amaro. «C'è di più, Westlake! C'è di più! La signora Talbot aveva ritagliato dal giornale il brano che le interessava e l'aveva deposto sul tavolino da notte... Il brano, che c'era ancora stamani, è scomparso dopo che tu e Lavers lasciaste quella stanza. E poi... A quanto sembra l'infermiera, la Bartholomew, questa mattina non poté svegliarsi che molto tardi! Le avevano dato un ipnotico!» «Come vedete» intervenne Forder a questo punto «i fatti sono scarsamente significativi. Ho esaminato la salma della signora Talbot e, naturalmente, non ho trovato alcuna traccia di morfinismo. Il signor Talbot purtroppo si oppone nel modo più assoluto a un'autopsia che potrebbe dirci qualcosa di più. Le dichiarazioni dello Josephs tuttavia, mi costringono a chiedervi formalmente: "Vi ha domandato una dose letale di morfina, la signora Talbot, ieri notte?".»
«Westlake» intervenne sogghignando Cobb «non ti risponderà caro Forder! Almeno fino a quando non avrà sentito il resto. Di un po'» continuò Cobb rivolgendosi a me che ormai temevo oscuramente il peggio «Bill Strong era un tuo paziente?» «Chi? Bill? Ma... certo! È morto assiderato questa notte! Dev'esser uscito poco dopo che l'avevo lasciato! Ho raccontato per filo e per segno tutta la storia a quel poliziotto e...» «Lo so, lo so» ripeté cantilenando Cobb. «Quel che non sai tu, invece, è che io ho veduto il cadavere di Bill. L'ho perquisito come impone il regolamento e sai che cosa gli ho trovato nella tasca interna della giacca? Il ritaglio del giornale che parlava del famigerato discorso che non ti sei mai sognato di pronunciare!» La notizia mi colse come una mazzata in fronte. «Avete lasciato qualche medicamento a Bill Strong, ieri notte?» indagò il perito settore. «Ma sì!» ammisi ignorando dove volesse andare a parare. «Gli ho lasciato qualche pastiglia di amidopirina!» «Non abbiamo trovato nulla del genere in quella bicocca!» asserì Cobb. «Jim Kelly, uno dei miei uomini, conosce Strong da molti anni. Sa che quel vecchio conosceva la regione come le sue tasche! Non sarebbe mai andato verso il colle, di notte...» «...se non si fosse trovato in uno stato particolare!» intervenne Forder. «Se non fosse stato in preda agli effetti della morfina, per esempio!» «Vedi Westlake?» incalzò Cobb spietato. «Che ci sia da ridire sull'operato di un medico quando gli muore un malato, è cosa di tutti i giorni. Ma che ci si trovi di fronte a due cadaveri fasulli nella stessa giornata è troppo! Vuoi rispondere, ora, alla domanda che ti ha rivolto Forder?» Mi sentii preso in trappola. Profondamente angosciato mi versai da bere per guadagnar tempo. Non saprò mai che cosa avrei potuto rispondere. Perché in quell'istante s'aperse l'uscio del mio ambulatorio, ed Hermia, con voce dolcissima disse: «Non pronunciate una sola parola dottor Westlake!» Ed irrompendo nella stanza tra lo sbalordimento dei miei ospiti continuò: «Non ho potuto fare a meno di udire quanto avete detto e non ho potuto fare a meno d'intervenire. Ammetto che la mamma, ieri, ha chiamato il dottor Westlake perché lo riteneva autore di quel famoso articolo... Il dottore tuttavia non ha nulla a che vedere con la morte di mia madre. Responsabile di quel decesso non è
neppure la signorina Bartholomew! Né alcun altro all'infuori di me. Sono io la colpevole! «Ero venuta dal dottor Westlake per confessargli la mia colpa! Fu lui a costringermi ad entrare nel suo ambulatorio perché voi non mi vedeste qui. Il dottore non voleva che io parlassi, ma ora dovrete ascoltarmi sino in fondo. La notte scorsa, non appena il dottor Westlake si fu allontanato da casa nostra salii in camera della mamma. La trovai profondamente addormentata, sotto l'influsso dell'iniezione di morfina praticatale dal dottore. La mamma dormiva serena. Sul suo volto si era distesa una pace che contrastava penosamente con l'espressione di patimento che le avevo veduto stampata sul viso poco prima. Ricordai allora che la mamma m'aveva larvatamente esortato più volte ad approfittare di un'occasione qualsiasi... per... aiutarla ad abbandonare per sempre il suo povero corpo orribilmente piagato dal cancro... «Il dottor Westlake m'aveva lasciato una bustina di pastiglie di morfina... La deposi accanto al bicchiere che la mamma teneva sempre sul tavolino da notte. La deposi, insomma, là dove la mamma avrebbe potuto trovarla non appena si fosse destata... Qualcuno mi potrà accusare d'aver deliberatamente contribuito a sopprimere mia madre... lo so, tuttavia, che la mamma non voleva continuare a vivere! Se ho commesso una colpa... son pronta a pagarne il fio!» Cadde il silenzio. Una strana commozione m'aveva serrato la gola. Forder fissava Hermia sbalordito. Soltanto Cobb le sorrideva in atteggiamento paterno. Rivolto a me, disse: «A proposito Westlake! Quante pastiglie avevi lasciato alla signorina Landreth, ieri notte?» «Otto!» precisai con voce roca. «Otto pastiglie da 0,02!» Cobb infilò la mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse una busta che mostrò ad Hermia ed a me. «È questa la famosa bustina?» domandò. «Sì!» rispondemmo all'unisono la fanciulla ed io. «Ebbene, signorina!» disse Cobb sorridendo. «Come vedete quelle famigerate otto pastiglie son tutte qui! Nel perquisire la stanza di vostra madre ho notato la bustina che era caduta dal tavolino da notte ed era finita sotto il letto.» «La signora Talbot, quindi» intervenni sollevato «non ha preso quel medicamento!»
«Esattamente! Signorina Landreth» disse Cobb ammiccando allegramente «apprezzo assai la vostra franchezza! Il vostro tentativo di scagionare il nostro Westlake è veramente nobile! Purtroppo, tuttavia... Dato e non concesso che alla signora Talbot sia stata somministrata una dose letale di morfina... e di ciò non abbiamo molte prove... dovremo cercare il colpevole da qualche altra parte! Voi siete innocente!» X Hermia si lasciò cadere su di una sedia. Silenziosi ci guardammo assai imbarazzati. «Benché sia chiaro che la signorina Landreth non ha nulla a che vedere con questa faccenda» disse Forder alla fine «la situazione rimane virtualmente quella di prima. Non possiamo ignorare le dichiarazioni di quel maggiordomo. Quanto all'ipnotico somministrato alla Bartholomew, non ci sono dubbi che...» «L'infermiera, però, nega questa circostanza!» intervenne Cobb. «D'accordo!» incalzò Forder. «Rimane sempre da chiarire la scomparsa del ritaglio di giornale che parlava dell'eutanasia!» «Sarò lieto» dissi alquanto imbarazzato «di spiegare quell'episodio.» Un po' vergognoso, tirai fuori da una tasca il pezzo di giornale incriminato, confessando d'averlo sottratto quel mattino. «Temevo» spiegai «che la signorina Landreth avesse commesso... quel che temeva d'esser riuscita a fare. Per questo, decisi di non lasciare in giro il ritaglio.» «Anche questo piccolo mistero è chiarito!» sospirò Cobb sorridendo. «Rimane da spiegare la strana presenza del ritaglio in una delle tasche del vecchio Bill Strong, ma di questo non è il caso di preoccuparci eccessivamente!» Il dottor Forder era d'avviso ben diverso; Cobb, tuttavia, riuscì a convincerlo dell'opportunità di lasciarmi andare a letto. I due funzionari infatti si accomiatarono poco dopo ed io rimasi solo con Hermia Landreth. Le fiamme del caminetto accendevano un alone di luce intorno ai capelli della giovane donna. Avvertii una stretta al cuore. Come la sera prima, quando l'avevo veduta scendere le scale illuminate dal lume di candela. Si alzò dalla sedia improvvisamente, ed io mi trovai accanto a lei senza accorgermene. «M'ero illusa di essere un angelo di misericordia» sussurrò sorridendo debolmente «e mi accorgo invece d'aver fatto la figura della sciocca!»
«Ne sono lieto, Hermia» risposi. «Molto più di quanto non crediate. Gli avvenimenti di questa sera, però, ci mostrano i pericoli cui sareste andata incontro se foste riuscita nel vostro intento... Interrogatori, indagini...» «Avete ragione! Non so decidere, tuttavia; forse è stato un bene che quella bustina cadesse dietro il letto! E quel pezzo di giornale... Siete stato davvero buono a portarlo via per proteggermi da eventuali sospetti!» Sentivo il tepore della giovane vicina; percepivo l'alitare fresco della sua bocca. Come in un sogno la strinsi tra le braccia. Trovai le sue labbra. E l'universo fu solo Hermia. Dolcemente, la giovane si sciolse dall'abbraccio. «Hugh!» sussurrò. «Non può essere! È troppo bello! Sei venuto proprio al momento più opportuno... Quando sentivo bisogno di affetto, di protezione!» «Dunque» balbettai pazzo di felicità. «Ma... Allora...» «Sì. Ma d'ora in poi dovrai starmi vicino! Aiutarmi! Sono così stanca... così sconvolta... Scusa, caro, ma...» Stavo per attirarmela nuovamente sul petto, quando la porta che dava nell'anticamera si apri e sulla soglia apparve Dawn in pigiama. Stringeva in mano i guanti di Hermia. Porgendoli, annunciò gelida: «Sono le dieci passate, papà! Non salivi a darmi la buona notte... e sono venuta io!» Per la seconda volta, quella sera, provai il vivo desiderio di prendere a sculaccioni la mia bambina. Poi, ricordai con vivo rimorso che il giorno seguente sarebbe stato quello del suo compleanno. «Mi spiace, pupa! Sarei salito fra un istante» le assicurai. E vedendo Hermia che le sorrideva con simpatia feci le presentazioni. «Questa è la signorina Landreth!» «Tanto piacere!» rispose tetra Dawn. «Vi ho portato i vostri guanti...» Era un ultimatum. Non appena Hermia accennò di accettare l'invito ad andarsene. Dawn si fece sotto con decisione e porgendo la mano salutò: «Buona notte... signorina!» Avvolsi la bimba in un'occhiata carica d'indignazione. Dawn l'ignorò. Mesto, mi accinsi a seguire Hermia che si allontanava. Poco dopo, mentre l'automobile della mia donna si stava allontanando nella notte, domandai: «Ebbene, Dawn... Ti piace la signorina Landreth?»
«Sì... Non c'è male. Assomiglia un poco a Lana Turner... E le riconosco un merito. Se non altro, non ha detto: "Oh! Che bimba deliziosa!" e non mi ha baciata come quella signora Croyden che puzzava sempre di gardenia.» Con quell'ultima osservazione, la mia ineguagliabile Dawn m'aveva ricordato una vedovella allegra intorno alla quale avevo intessuto qualche sogno matrimoniale l'anno precedente. Accortasi dalla mia espressione che la frecciata era giunta a segno, Dawn, soddisfatta, balzò lietamente ad altro più lieto argomento. «Papà...» esordì «è già tardi e forse sarebbe bene che tu andassi a dare un'occhiata ai miei lep... Sì, insomma! Non vorrei che spentasi la stufa nell'autorimessa, ti si gelasse l'acqua nel radiatore! Buona notte, papà!» Non appena Dawn scomparve per le scale, andai in cerca del cappotto. Aperta la porta dell'autorimessa, accesi la luce. La gabbia di Andy era rimasta dove l'avevo deposta, accanto ad un mucchio di arnesi e di ferri sopra un banco. Pronto a ricevere gli insulti del pappagallo troppo a lungo negletto, tolsi la coperta che lo costringeva all'oscurità. Ma non fu un collerico "Polly sa tutto!" a farmi trasalire. La povera bestiola, vittima, così mi parve, della mia incuria, giaceva irrigidita sul fondo della sua gabbietta. Le belle, candide ali, erano rimaste grottescamente distese all'indietro; la sua cresta stupenda di penne dorate si apriva a ventaglio sul capo contorto in una posizione innaturale. Allungai la mano a sfiorare le sericee piume del collo. Negligenza e freddo non avevano causato la morte del povero Andy. L'aveva crudelmente ucciso un sottile filo di rame, che gli era stato avvolto intorno al collo. XI Dolorosamente sorpreso e un poco spaventato, portai il cacatoa ucciso nel mio ambulatorio. Ma se in un primo istante avevo pensato che la bestiola si fosse impiccata accidentalmente con una delle sottili sbarre della sua prigione, dovetti convincermi, dopo accurato esame, che Andy era stato strangolato di proposito con un filo di rame. Riandando con la mente agli spostamenti che avevo compiuto durante quel giorno con la povera bestia, conclusi che il pappagallo poteva aver incontrato la morte soltanto in un luogo. Nell'anticamera dei Talbot, cioè, dove l'avevo abbandonato per breve tempo quand'ero uscito in compagnia di Hermia a cercare Bill Strong.
Ma, perché?, mi chiedevo inorridito. Qual era la ragione che poteva aver spinto uno dei Talbot a commettere un gesto così crudele? Che ci fosse un oscuro legame tra l'atmosfera di delitto che gravitava su quella casa e l'uccisione dell'innocente Andy? Rinunciai al tentativo di trovare una risposta ai miei angosciosi interrogativi. Deposi l'uccello in una cassetta e proponendomi di dedicargli qualche tempo il giorno dopo, salii in camera mia! Il mattino seguente mi trovai di fronte a un problema ancora più grave. Ero rimasto senza un regalo per il compleanno della mia bambina. Dawn si dimostrò eroica, quel mattino. Vagamente incredula, accettò la mia promessa di procurarle i leprotti entro due o tre giorni. Quelli che credeva di avermi veduto riporre nell'autorimessa, le dissi, era venuto a riprenderseli l'allevatore, che si era accorto di avermi venduto una coppia di comuni conigli d'angora. Poco dopo la prima colazione, uscii per le mie consuete visite ai pazienti. Riuscii a fare il medico abbastanza bene, benché di tanto in tanto rabbrividissi all'idea di aver lasciato la bambina a casa, intenta ad esercitarsi al lancio di un coltellaccio da caccia, dono tutt'altro che adatto della nostra fedele Lucinda. Degli eventi della sera precedente, soprattutto dell'episodio con la mia Hermia. serbavo un ricordo che sembrava quello d'un sogno. Avrei voluto recarmi a casa Talbot, nel pomeriggio. Ma non trovai il coraggio di presentarmi. Terminai il lavoro verso le sette. Dopo cena mi dedicai a Dawn. Ci divertivamo da buoni camerati con uno strano gioco ai dadi che le era stato donato da un parente, quando a interrompere la nostra preziosa intimità venne la domestica che annunciò l'ispettore Cobb. L'amico si presentò stringendo fra le mani un enorme scatolone di dolci legato con un nastro scarlatto. Invitata Dawn a divorarne il contenuto in camera sua infischiandosene del pericolo d'una indigestione, Cobb attese che la bimba uscisse dalla sala di soggiorno e si lasciò cadere in una poltrona. «Westlake» esordi l'ispettore «son venuto a raccontarti un paio di cosette... e a farti il solito paio di domandine facili facili... Dunque! Il dottor Forder, sia pure recalcitrando come un mulo, ha deciso di accettar per buono il certificato di morte della signora Talbot. Naturalmente» continuò, e io mi aspettavo quella precisazione «questo non significa che io abbia rinunciato ad interessarmi di quello strano trapasso. Ho parlato col tuo collega Lavers e ne ho apprese delle belle sul tuo conto! Per il momento, comunque, la salma della signora Talbot riposa in pace.»
«Ovvero» corressi «facciamo finta che tutto vada per il meglio; frattanto avremo agio di spiare i Talbot senza che questi lo sospettino!» «Se preferisci esprimere in questo modo il mio concetto, fai pure. Ma non si tratta di questo, ora. Rispondi, Westlake! E non dimenticare che qui siamo a casa tua, non nel mio ufficio di polizia! Parla liberamente, insomma... da amico ad amico! Hai somministrato una dose letale di morfina alla signora Talbot?» «Inutile Cobb!» risposi sorridendo. «Il segreto professionale è inviolabile!» «Non lo neghi, comunque! Continua a fare il furbone se così ti piace. E passiamo ad altro. Sei stato tu a "pizzicare" quell'articolo sull'eutanasia dal tavolino da notte della defunta?» Ammisi che così era stato. «E l'hai fatto» incalzò Cobb «per amore dei begli occhi di Hermia Landreth! Bravo, Westlake! Ti giustifico. Vedovo da oltre otto anni, con quel muso da bel giovane di Hollywood, mi sarei stupito se non avessi cominciato a fare conquiste! Ma non aspettarti che ti faccia gli auguri! Al tuo posto, andrei "a caccia in un altro territorio!» «Vuoi spiegarti meglio, per favore?» domandai aspro. «Quei Talbot mi piacciono poco! Affari tuoi, ad ogni modo. Ed ora... vuoi o non vuoi dirmi almeno se la signora Talbot ti ha chiesto di somministrarle una dose letale di morfina?» Sapevo Hermia ormai insospettata. Mi decisi quindi a raccontare per filo e per segno all'ispettore gli avvenimenti che avevano avuto luogo la notte precedente al capezzale della signora Talbot. Gli tacqui soltanto il particolare della firma che avevo apposto a quel documento. La morente infatti mi aveva scongiurato di considerare sacro l'impegno del segreto. «Dunque» commentò Cobb dopo avermi ascoltato attentamente «quella povera donna voleva morire! Ed il giorno seguente morì... Strana coincidenza, non li sembra? La signorina Landreth è innocente, tu... facciamo pur finta che lo sia... Chi è stato?» «Uno qualunque dei familiari!» «Bravo! Chi di quegli sciagurati sarebbe stato disposto a rischiare l'osso del collo per soddisfare un desiderio di quella povera donna? Chi? Dimmelo tu se ne sei capace! No, carissimo! Non c'è stato un delitto ispirato a pietà! Siamo in presenza di deliberato, premeditato omicidio! Ho parlato a lungo con i legali della Talbot stamane. La defunta era donna molto, molto abbiente!»
«E con ciò?» «Vuoi tacere? Ha lasciato un mucchio di quattrini al marito!» «Mi sembra una cosa perfettamente legittima.» «Già! Ma non sai quel che ho appreso dalla polizia di New York sul conto di Raynor Talbot! Quel losco figuro è un "pluridivorziato", un donnaiolo impenitente! Ha sposato la Talbot senza possedere un centesimo. Siccome inoltre, doveva provvedere a trasformare la casa dei Gregory con l'appannaggio mensile che gli passava la moglie, è rimasto con un pacco di fatture così da pagare! E i creditori stavano per gettarglisi addosso proprio oggi. È morta proprio nel momento giusto, sua moglie, no? Poi viene la tua... Dulcinea» prosegui Cobb sghignazzando orribilmente. «Un'ereditiera, sai? Cinquantamila dollari uno sopra l'altro, si pappa! Trentamila li rastrella la Arthur, ventimila Conrad Fiske... per le sue geniali ricerche, altri cinquantamila vanno a Gail. Madre davvero provvidenziale, quella povera creatura, non ti sembra?» «Infatti. Continua!» «Non ho finito, infatti. Perché l'infermiera Bartholomew eredita diecimila dollari in riconoscimento della sua devozione per la malata... Bella devozione, tra parentesi! Viene per ultimo Josephs cui toccano cinquemila cucuzze per lo zelo e la fedeltà dimostrate in tanti anni di servizio. Ora si capisce finalmente perché nessuno in quella casa si sia strappato i capelli quando quella meschina ha chiuso gli occhi!» «Ma scusa» obiettai «che c'entrano tutti questi lasciti ereditari con...» «Ascolta e lo saprai. La signora Talbot ieri pomeriggio riceve un espresso. Ricordi? Bene. Sappiamo che la missiva conteneva un'informazione riguardante una persona della famiglia. Un'informazione, nota bene, tale da indurla a chiederti di ucciderla... per pietà! Che cosa m'impedisce di sospettare che quell'elemento sia stato tale da costringerla a cambiare anche le sue volontà, all'ultimo momento? «Oltre a quanto già sai, il maggiordomo mi ha dato altre preziose informazioni. Lo ammetto! Ha agito per ragioni di ostilità nei confronti di tutti i componenti la famiglia Talbot, ma non posso negargli una certa considerazione quando penso che si è mosso soprattutto in difesa della sua padrona.» «Nei panni dei Talbot, l'avrei licenziato sui due piedi quel ficcanaso! E poi mi ha accusato apertamente, e...» «Ha chiesto scusa! E io ho fatto in modo che non venga licenziato perché mi serve!»
«Continua, Machiavelli redivivo.» «Stupido! Come ti dicevo, ho costretto Josephs a raccontarmi quanto accadde dopo la consegna di quel fatale espresso. La signora Talbot rimase a lungo sola. Precisamente fino a quando il maggiordomo non le recò la famigerata copia del Times di Grovestown. Josephs cominciò a sospettare qualcosa da quel momento. Per primo, Madeleine Talbot convocò il marito. Talbot usci dalla camera della malata dopo un bel pezzo e con una strana espressione dipinta in volto. Toccò poi alla Bartholomew che rimase con la sua malata una quarantina di minuti. Quando usci da quella camera, l'infermiera disse a Josephs che la signora le aveva espresso il desiderio che andasse un poco a divertirsi... Ci andò con Talbot e so che al ritorno a casa i due avevano tutta l'aria d'aver alzato il gomito. Da Polly, sono andati! «Continuiamo. Uscita l'infermiera, la signora Talbot chiamò al proprio capezzale la Arthur. La fanciulla rimase con la madre adottiva un'ora, e quando usci, Josephs vide Imogene in lacrime. Ultima ad essere convocata fu Hermia Landreth. Al termine del colloquio con sua madre la tua Beatrice comunicò al maggiordomo che la Talbot le aveva dato ordine di chiamarti. Il resto lo sai. «Eliminiamo i coniugi Fiske che non si trovavano in casa. Uno qualunque degli altri, poteva essere il colpevole di quell'azione che tanto aveva sconvolto la povera signora. E questa, povera anima, può aver detto all'interessato quel che pensava di lui! L'assassino può aver deciso di sopprimere Madeleine Talbot anche ignorando che la malata aveva disposto per l'intervento d'un medico, entusiasta dell'eutanasia! Potrebbe aver agito dopo il tuo intervento!» Il ragionamento di Cobb. dovetti ammetterlo, filava perfettamente. «Se riuscissi a metter le mani su quell'espresso!» esclamò Cobb. «E l'ho cercato, sai? Troppo tardi purtroppo! Josephs ne vide per un attimo la busta quando scese in cantina a gettarvi le immondizie nell'apposito recipiente. In quella casa usano bruciare la spazzatura nella caldaia dei termosifoni.» «Per ora, quindi, non puoi contare che sulle tue congetture!» «Esattamente. Ma non ho alcuna intenzione di agire con precipitazione. Se son rose...» Per qualche istante, cadde il silenzio. Cobb lanciò un'occhiata distratta al mobile in cui sono solito conservare i liquori. Mi affrettai altrettanto distrattamente a servirgli un bicchierino.
«A proposito!» esclamò dopo aver ingollato due poderose sorsate. «Non t'ho detto ancora nulla di Bill Strong. Qui, le cose sono state assai semplificate dal fatto che non ci siamo dovuti urtare con l'opposizione dei familiari all'autopsia...» «Che? Avete fatto l'autopsia al povero Bill?» «Forder l'ha fatta! Stamani. Eri tu, il suo unico medico, non è vero?» «Sì, ma...» «Sta' quieto, quando parlo! Recentemente, gli avevi dato morfina?» «Mai!» esplosi indignato. «Qualche volta gli ho dato poche pastiglie di un barbiturico perché i dolori gli impedivano di dormire! Solitamente gli facevo prendere qualche compressa d'amidopirina! Gliene ho lasciato un flaconcino anche ieri!» «Strano! Non solo non abbiamo trovato l'amidopirina, ma Forder ha rilevato in quel vecchio ronzino tracce inequivocabili di morfina. Comunque, non è morto avvelenato dalla droga: ne aveva solo trangugiata abbastanza da perdere il controllo. Se così non fosse stato, Strong non sarebbe certo andato a spasso per il colle in mezzo alla neve! Forder ha poi stabilito che il vecchio non era morto durante la notte, ma stamattina!» «E con ciò?» «Nulla! Esponevo soltanto alcuni fatti. E non desidero altro che sapere in qual modo il vecchio abbia potuto metter mano sulla morfina. Tu neghi di avergliene data, e quella roba non si può certo comperare in drogheria. Ho pensato che qualcuno potesse esser riuscito a prenderne dall'armadietto dei medicinali della Bartholomew. Questa però mi ha assicurato che la cosa sarebbe impossibile. E m'ha anche fatto vedere, appesa al collo, l'unica chiave che possa aprire quel mobiletto. «Sappi inoltre» continuò l'ispettore, lucidando con un fazzoletto la pipa che aveva estratta da una tasca «che un funzionario dell'ufficio del magistrato inquirente ha avuto un interessante colloquio con alcuni professori della nostra Università. A quanto pare, quei due Fiske costituiscono una coppia di ragazzi in gamba per quel che riguarda le ricerche di farmacologia! Figurati che Conrad, il cocco del suo professore, collabora in un laboratorio di ricerche. E sai che cosa ci fa? Studi su di un composto tossico derivante dalla morfina!» «Che? I due Fiske?» «Proprio loro, carissimo! Li hanno veduti spesso nella casetta di Bill Strong! Compivano anche alcuni studi supplementari intorno a certe forme d'artrite! Come vedo dalla tua espressione, c'è di che impazzire in mezzo a
questa ridda di elementi caotici. T'ho detto tutto quel che sapevo, Westlake. Non vuoi venirmi in aiuto vuotando il sacco a tua volta? Su, da bravo!» «Ecco...» cominciai esitando. E gli raccontai con abbondanza di particolari la scena da manicomio cui avevo assistito la notte antecedente in quella cucina supplementare di casa Talbot. Nell'apprendere delle urla che avevo udite e del volto graffiato di Conrad, Cobb si mostrò assai interessato. «Ho ancora un'osservazione da fare per quel che riguarda Bill Strong» aggiunsi. «Lo sai che il vecchio era analfabeta? Che cosa faceva nella sua tasca quel ritaglio di giornale che riferiva le cretinerie di Westbrook sull'eutanasia?» «Hai fatto bene a dirmelo!» esclamò l'ispettore animatissimo. «Questo particolare s'incastra alla perfezione in una teoria che ho elaborata in queste ultime ore. A casa Talbot si ricevono per abbonamento tre quotidiani. Il Times di Grovestown, la Gazette e l'Herald. Il "pezzo" sull'eutanasia del Times di Grovestown l'abbiamo rinvenuto sul tavolino da notte della signora Talbot. Il secondo, quello della Gazette di Ploversville, si trovava in tasca a Bill Strong, analfabeta. Dove rintracceremo il terzo? Quello dell'Herald?» «Hai altro da riferire?» domandò poi Cobb, prima ancora che trovassi il tempo di rispondere. Gli raccontai della strana scomparsa di animali diversi. Della gatta di Bill, Tabby; dei leprotti di Dawn. Per ultimo gli porsi il povero Andy. «Ecco qua» conclusi. «La morte del cacatoa! Risolvi questo stupendo "giallo" se ne sei capace!» «Strangolato deliberatamente!» esclamò l'ispettore. «Chi ne capisce qualcosa è bravo! Prima che tu mi parlassi del pappagallo di Polly avevo pensato che Tabby e i leprotti di Dawn avessero preso la via del laboratorio di Conrad Fiske, ma ora... È pazzesco!» «A proposito di cose pazzesche!» lo interruppi: «Dimenticavo di dirti che, anche Polly sembrava avere il cervello chissà dove, quando seppe che la signora Talbot era morta.» E raccontai al mio amico le straordinarie osservazioni della mia stranissima paziente. Ci trasferimmo nel mio ambulatorio. Deposi il povero Andy nella sua cassettina, mentre Cobb osservava attentamente la stanza. «È questa» domandò all'improvviso additandola «la borsa che ti porti dietro quando vai a caccia di microbi al letto dei tuoi pazienti? Ed è qui
che tieni le tue scorte di morfina?» indagò Cobb non appena ebbi risposto affermativamente alla sua prima domanda. «Su questo punto, caro Cobb» precisai «posso darti informazioni scrupolosamente esatte. Ieri notte, prima di uscire per accorrere al capezzale della signora Talbot, ho messo nella valigetta un flacone contenente cento compresse di morfina. Otto ne ho date a Hermia Landreth, le altre sono li.» E consegnai, senza degnarla d'uno sguardo, la bottiglietta all'ispettore. «Dici d'averne tolto soltanto otto su cento?» domandò poco dopo Cobb esaminando il recipiente contro luce. «Strano! Si vede che sono diventato miope!» Mi volsi di scatto e rimasi allibito. Nel recipiente non era rimasta neppure la metà delle compresse che avrebbero dovuto esserci. «Ma... È impossibile!» esclamai. «Io credevo che...» «Qualcuno ti ha rubato le pastiglie!» «Cobb, per l'amor di Dio! Bisogna fare qualcosa! Non capisci? Almeno quaranta tavolette da 0,02 si trovano in possesso di qualche maniaco! Ne ha quanto basta per mandare all'altro mondo una dozzina di persone!» «Westlake!» esclamò Cobb con voce grave. «Hai abbandonato la tua valigetta da qualche parte, in casa Talbot?» «Ecco... Credo...» Tacqui ripensando con angoscia a quando avevo lasciato la mia borsa sul tavolo in anticamera dei Talbot per assentarmi per brevi momenti con Hermia in sala di soggiorno. Raccontai l'episodio a Cobb, con voce malferma. «Non te la prendere, Westlake!» m'incoraggiò l'ispettore. «Nessuno può pretendere che un medico monti la guardia alla sua borsa come se contenesse i gioielli della corona! Qualcuno però, ti ha sottratto una quantità di pastiglie di morfina! Più di quante bastano a giustificare l'improvvisa dipartita della signora Talbot e la morte di Bill Strong!» «Ma... Cobb! Che cosa faranno delle altre pastiglie, ora?» «Temo» disse l'ispettore con voce quieta «che le vedremo spuntare in occasione del terzo caso di... eutanasia, mio povero Westlake!» XII «Non fare lo spiritoso, Cobb!» esclamai angosciato rivolgendomi all'ispettore che s'era messo a guardare dalla finestra. «Non mi sembra che questa sia una cosa da prendere sottogamba come hai l'aria di voler fare tu.»
«A chi lo dici! Per il momento, tuttavia, si potrebbe fare una cosa... Impedire che te ne rubino dell'altra! E siccome non possiamo correre rischi inutili, farai così metterai la morfina in un recipiente con etichetta diversa.» «Ottima idea, Cobb! Metterò la morfina nel flacone sul quale si legge: "Fenilbarbiturico"! È un blando ipnotico che non può fare alcun male!» «E se si verificheranno ammanchi di morfina dalla tua farmacia ambulante, sapremo che il colpevole può essere soltanto uno... Tu! In passato» aggiunse Cobb recandosi in anticamera dove prese cappello e cappotto «in passato, caro Westlake, ti avevo sempre al mio fianco quando si trattava di risolvere qualche dannato enigma poliziesco come quello che ci angustia... Questa volta, purtroppo, non posso contare sulla tua collaborazione! Sei sulla lista delle persone sospette!» «Saresti capace di sospettare perfino di tua moglie, in certi casi!» risposi indignato. «È vero. Ieri sera mi son mancati un paio di dollari dal taschino del panciotto... Buona notte! Vado a fare una chiacchieratina con Polly...» Gli chiusi fragorosamente la porta alle spalle. Mi coricai alle dieci dopo aver scambiato la buona notte con la mia bambina. Il telefono che tenevo sul tavolino accanto al letto squillò insistente proprio nel momento in cui passavo dalla veglia al sonno. «Pronto...» «Salve, Westlake!» mi salutò chiassoso e allegro l'ispettore. «Volevo soltanto dirti che Polly è rimasta muta come un pesce. Sostiene d'aver scherzato quando accennò al probabile assassinio della signora Talbot. È molto malata, Polly? Dammi qualche ragguaglio!» «Malata di cuore... Incurabile!» «Una ragione di più per averne molta cura, amico mio!» sogghignò Cobb. «Ne hai già spacciati due, vecchio macellaio... Se morisse anche Polly la gente comincerebbe a credere per davvero che sei il vessillifero dell'eutanasia a Grovestown!» «Crepa, Cobb! E lasciami dormire!» Interruppi bruscamente la conversazione. Il mattino seguente era domenica. Pensai di approfittare del giorno festivo per rimettermi un poco dalle preoccupazioni dei giorni precedenti. Stavo pensando ad una scusa decente che mi permettesse di presentarmi in casa Talbot, quando fu sonato alla porta. Dimenticando che indossavo ancora
la mia veste da camera, assai dimessa, mi precipitai ad aprire sperando, a dispetto d'ogni logica, in una visita mattutina di Hermia. Si trattava invece di Imogene Arthur e la sua richiesta di farsi visitare da me mi sorprese vivamente. «È un po' di tempo che mi sento molto nervosa» spiegò la fanciulla «e poiché sono in procinto di sposarmi vorrei esser certa di stare veramente bene.» Mi tese un foglio dattiloscritto e ordinò con voce ferma: «Voglio che mi facciate tutte queste analisi!» Sinceramente stupito lessi con attenzione il lungo elenco di esami di laboratorio cui la fanciulla desiderava essere sottoposta. Wasserman... ricerca del tasso zuccherino del sangue... computo dello Schilling... analisi delle urine per la determinazione precoce della gravidanza... Scoppiai in una fragorosa risata. «Chi diavolo vi ha consigliato tutta questa roba? Per fare tutte le analisi indicate dal vostro foglio vi ci vorrà un ricovero in clinica di un paio di settimane!» «Ho esposto i miei dubbi a Gail, e...» «Ho capito!» interruppi. «Vostra sorella sarà un cannone come diagnostica teorica... Come medico pratico... Iddio grande e buono protegga i suoi futuri pazienti! Sono disposto a visitarvi comunque... Accomodatevi di là e... spogliatevi se proprio vi credete malata!» «Ieri» osservò la ragazza «sono svenuta per la prima volta in vita mia, e…» «Sciocchezze!» la rassicurai. «Chiunque può reagire in quel modo a una cattiva notizia!» «Non è stata la nuova della morte della mamma che mi ha fatto star male!» confessò preoccupatissima la fanciulla. «Più che altro mi ha fatto inorridire la vista di quella... donna! Quella con gli orecchini di giada! M'è sembrata un cadavere imbellettato! Che orrore! È molto malata, vero? Che cos'ha?» volle sapere Imogene rabbrividendo. Osservai attentamente la giovane. Avevo a che fare con una nevrotica? Con una ragazza afflitta da instabilità del carattere? «Polly» le spiegai paterno «è una povera donna molto malata... Voi però siete giovine e sana! Non pensate più all'episodio di ieri! State allegra!» Imogene insistette nel voler essere sottoposta a una visita e fui costretto a cedere. Per darle l'impressione che prendevo la cosa sul serio le feci l'esame del tasso emoglobinico. Trovai la fanciulla sana come un pesce.
L'avevo appena invitata ad andarsi a vestire dietro il paravento, quando il campanello sonò nuovamente. Questa volta si trattava di Raynor Talbot. Mi si presentò in ghingheri, perfettamente rasato e massaggiato. Aveva proprio l'aria d'un giovanotto. «Buon giorno, dottore!» mi salutò cordialmente. E dopo avermi comunicato con aria mesta che i funerali della moglie avrebbero avuto luogo nel pomeriggio, aggiunse: «Ho veduto l'auto di Gail qui fuori e son venuto... È qui?» Stavo dandogli una risposta molto vaga nell'intento di guadagnar tempo, quando udimmo levarsi un grido. Proveniva dal mio ambulatorio, e fu un grido di sorpresa piuttosto che di terrore. «Che c'è?» domandò Raynor allarmato. Spalancai l'uscio del mio studio, ma prima che potessi richiudere Talbot riuscì ad entrare con me. Imogene, ormai completamente vestita, guardava stupefatta il mio armadietto dei medicinali di cui aveva evidentemente spalancato gli sportelli. Non si accorse della nostra presenza che quando Ray gridò: «Imogene! Che fai qui?» «Ray!» esclamò la ragazza a sua volta. Arrossi al mio sguardo corrucciato e fece l'atto di richiudere lo sportello che aveva aperto. «Che sciocca!» balbettò. «Mi sono spaventata nel vedere quel pappagallo morto!» Compresi. La signorina Arthur aveva scoperto il cadaverino del povero Andy che avevo temporaneamente nascosto in quel mobile in attesa di dargli degna sepoltura durante la giornata. Raynor Talbot, frattanto, s'era messo al fianco della ragazza e guardava estatico il volatile strangolato. «Ma... questo è il cacatoa di Polly, dottore!» esclamò Ray allibito. Annuii. Ma non gli dissi che sospettavo responsabile della morte del pappagallo uno dei membri della sua bislacca famiglia. «Ray» chiamò Imogene mentre si cospargeva il nasetto di cipria «non vorresti lasciarmi sola ancora per qualche minuto col dottore?» Cercando di evitare lo sguardo della fanciulla, l'uomo s'avviò verso l'anticamera. «Allora... non ho proprio niente?» domandò Imogene. «Assolutamente nulla!» confermai. «Se togliamo un certo grado di... curiosità, state perfettamente bene!» «Non mi accuserete d'aver deliberatamente aperto il vostro armadietto, spero!» protestò indignata la fanciulla. «Gli sportelli si sono spalancati... all'improvviso, e... vedendo tutte quelle piume...»
Finsi di mandar giù quella maldestra spiegazione. E mi spinsi perfino a scribacchiare su una ricetta il nome di un innocuo ricostituente, pezza giustificativa della sua presenza in casa mia nei confronti di Ray. «Un cucchiaio, tre volte il giorno, dopo i pasti!» ordinai con comica gravità. «Vi farà un mondo di bene...» L'accompagnai all'uscita, senza comprendere la ragione che aveva indotto la ragazza a chiedermi d'esser visitata. Ray Talbot mi si avvicinò non appena tornai in ambulatorio. «Ditemi, dottore» indagò sinceramente preoccupato. «È malata, la piccola?» «Neanche un po'! Rassicuratevi! Un poco d'esaurimento... La solita storia di queste ragazzine moderne!» Sedette di fronte a me, alla scrivania, e mentre accendeva una sigaretta, l'osservai rammentando la descrizione che me ne aveva fatta Cobb la sera precedente. «Dunque?» invitai dopo qualche istante di silenzio. «Ah! Sì!» cominciò. «Innanzi tutto scusatemi d'essermi presentato a voi proprio di domenica... ma... ho un grosso favore da chiedervi! Debbo dirvelo francamente, dottore! Si tratta di Hermia e sono molto, molto preoccupato per lei!» Non ci voleva altro per allarmarmi. «Non è che sia proprio malata» spiegava intanto Talbot «ma da qualche tempo la trovo così... nervosa! Così sconvolta! Certo, la morte improvvisa della mia povera Madeleine... Per farla breve... la signorina Bartholomew ed io abbiamo deciso di allontanare Hermia da Grovestown per qualche tempo... Vogliamo che vada in qualche posto dove possa prender tanto sole, dove possa riposare un po'! So che Hermia vi stima moltissimo e forse riuscirete a convincerla. A noi ha risposto negativamente!» «Ma...» balbettai profondamente stupito. «Capisco la vostra preoccupazione... il vostro affetto... ma la signorina Landreth, a me, è sembrata assolutamente sana! Non credo che abbisogni di un soggiorno climatico per la sua salute!» «Vi sbagliate, Westlake!» obiettò Talbot con un bel sorriso. «Noi che le viviamo accanto, sappiamo molte cose che voi ignorate! Hermia è sempre stata una ragazza nervosa! Ricordo perfettamente, anzi, che sua madre, spesso era vivamente preoccupata per lei! Dovete aiutarmi, dottore!» insistette con accento quasi disperato. «So quel che dico! Ve lo chiedo unicamente per il suo bene!»
Avrei voluto scaraventar fuori a calci quell'azzimato bellimbusto. La sua malafede era evidente! Qual era la ragione vera che lo spingeva a voler allontanare la mia Hermia? Che la mia cara fosse venuta a conoscenza di qualcosa che Raynor voleva tener nascosta agli occhi di tutti? Si tentava forse di far passare Hermia per irresponsabile perché io non prestassi fede a sue eventuali rivelazioni? «Se la signorina Landreth verrà a consultarmi di sua spontanea volontà» risposi sforzandomi di celare la collera e l'ansia che mi torturavano «sarò ben lieto di farle conoscere il mio parere. La signorina è maggiorenne e ha il diritto di decidere indipendentemente da qualsiasi pressione. Se invece preferite metterla fuori di casa... immagino che possiate farlo senza alcuna difficoltà.» «Non merito questa insinuazione, Westlake!» protestò Talbot rosso d'ira. «E non avrei mai immaginato che avreste reagito in questo modo alla mia richiesta, che so giustificata. Sappiate però che se Hermia rimarrà ancora qui, mi dovrò ritenere sollevato da ogni responsabilità, qualsiasi cosa le accada!» Questa affermazione di Talbot mi sonò all'orecchio come una larvata minaccia. L'uomo mi volse le spalle. Infilò una mano in tasca; fece tintinnare le monete che vi teneva. Si volse e sorridendomi di nuovo disse: «Se vi deciderete a mutare atteggiamento, provvederò a far sì che non abbiate a disturbarvi per nulla...» Lasciai la mia poltrona e mi avvicinai minaccioso a Talbot: «Tentate di comperarmi, ora?» gli domandai. «Andatevene, prego!» Mi guardò deluso. Sembrava un bimbo che non fosse riuscito a farsi regalare la cioccolata. Arrossendo, forse di vergogna, usci. Lo incontrò Dawn che tornava in quel momento dalla chiesa. I due si scambiarono un largo sorriso. Poco dopo, la mia bimba mi chiedeva: «Chi era quello li, papà?» «Raynor Talbot!» risposi. «Il padrigno della signorina Landreth.» «Oh!» esclamò la bimba arricciando il naso. Poi aggiunse: «Però... è proprio un bell'uomo, papà! E... sembra perfino troppo giovane, per essere il padre della signorina Landreth!» «Ne incontrerai di più affascinanti di lui, bambina mia» osservai pensieroso. «Ma ricordati le mie parole! Guardati dai vedovi!» XIII
Nel ripensare al mio colloquio con Raynor Talbot, sentii accrescere la mia ansia per Hermia. Se non m'aveva mai sorriso l'idea di saperla circondata dai suoi strani familiari, ora cominciavo a temere seriamente per la sua incolumità. Raynor, mi dicevo, non sarebbe mai ricorso a me se non si fosse proposto di allontanare la mia Hermia da casa sua per uno scopo ben preciso. Ero giunto al punto di cedere al desiderio di chiamarla al telefono quando, guardando dalla finestra, la vidi che si dirigeva verso casa mia. «Lieto di vederti!» esclamai nell'aprirle l'uscio. E mi accorsi soltanto allora che la giovane si stringeva al petto uno stupendo cucciolo. «Che magnifico terrier scozzese!» esclamai non appena lo vidi. «Dove l'hai preso?» «Me l'hanno regalato alcuni conoscenti. L'ispettore Cobb, mi ha detto che ieri si festeggiava il compleanno di Dawn ed ho pensato di regalarle questo cagnolino in sostituzione del vostro povero Hamish...» «Sei stata veramente buona!» esclamai rapito all'idea di una così profonda gentilezza d'animo. «Sai... Mi sono accorta che Dawn non mi ha troppo in simpatia... Hamish è la mia offerta di pace! Temo però che la tua casa si trasformerà in una specie di giardino zoologico... Il pappagallo, ed ora il cane...» M'affrettai a raccontarle della fine immatura di Andy e la scongiurai di non farne accenno in presenza di Dawn che ignorava il crudele episodio. La mia piccina scelse quel momento per fare la sua scontrosa comparsa. Rattristato nel notarne il vivo imbarazzo, ascoltai Hermia mentre diceva: «È per te Dawn! Hamish secondo! Un regalo per il tuo compleanno giunto un po' in ritardo...» Con uno sforzo sovrumano, Dawn si trattenne dallo strappare dalle braccia di Hermia lo stupendo animale che le veniva offerto. «Grazie, signorina Landreth!» canticchiò con finta indifferenza. «Posso accettarlo, papà?» mi chiese. «Ma certo!» acconsentii con calore. «Purché tu lo tenga lontano dai leprotti... quando arriveranno!» Hamish secondo, che s'agitava frenetico tra le braccia della donatrice allungò la linguetta e lambì la punta del naso di Dawn. Era troppo. «Oh! Grazie, signorina!» esclamò rapita la mia bambina. «È magnifico... semplicemente... affascinoso!» E fuggì verso il giardino stringendosi al petto la bestiola. Infilai il braccio sotto quello di Hermia e pilotai la giovane nella stanza di soggiorno dove mi chiusi la porta alle spalle.
«Ho da parlarti!» le dissi. «Seriamente! Stamani è venuto da me il tuo padrigno. Ha cercato di convincermi a suggerirti, da medico, un soggiorno climatico!» «La cosa non mi meraviglia affatto! Ray ha passato metà della mattinata a spargere per tutta la casa non so quanti volantini pubblicitari invitanti alle crociere nei mari del Sud!» «Non scherzare Hermia! Ti prego! A che cosa mira quell'individuo? Questo m'interessa sapere!» «Quando m'avrai ascoltato resterai deluso, Hugh! Ray mi crede malata. È un tipo strano, Talbot: una specie di bambino capriccioso. La morte della mamma è stata un colpo assai grave per lui! Non può sopportare nulla e nessuno che in qualche modo gli ricordi la mia povera morta. Pretende che noi tutti si sia allegri e contenti... come se non fosse accaduto nulla! Gli altri ci riescono, io no. È vero che la mamma non voleva che noi portassimo il lutto e tu sai che in un certo senso ho accettato la sua morte come una liberazione per lei. Ho addirittura cercato di aiutarla a... morire» sussurrò Hermia con voce rotta. «Tutto ciò m'ha esaurita in modo terribile. Non sono capace di mettermi a ballare con gli altri quando accendono la radio, non sono capace di far finta che non sia successo nulla! I miei mi credono ipocrita o morbosa... Il mio atteggiamento li infastidisce, insomma!» «Quand'è così» osservai pensieroso «forse sarebbe meglio che tu te ne andassi per qualche tempo!» «Non lo farò Hugh! Sì. Lo ammetto... qui non ho nessuno che io possa chiamare veramente mio consanguineo, se si eccettua Gail. Gail, poi, è molto diversa da me. Non dico di essere felice in casa mia, ma la mamma, prima di morire, mi pregò di prendere il suo posto e di badare un poco a tutti gli altri. Capisci? «È un compito tremendo, me ne rendo conto. Eppure qualcuno deve assumerselo. Son tutti spaventosamente irresponsabili ed io debbo far loro da agente equilibratore. Ray è instabile, capriccioso come tutti i temperamenti artistici. Imogene costituisce un problema anche dopo il suo fidanzamento. Lena... non parliamone. Gail e Conrad li hai veduti e conosciuti e puoi figurarti quel che ne penso.» «Ora che la tua mamma è morta» commentai «avranno perso ogni freno.» «Esattamente! Sono come bambini. La mamma ha lasciato parecchio danaro a ognuno di noi. Ecco che Ray è in procinto di ordinare un mucchio di roba dispendiosissima per la casa. Gail e Conrad non fanno che consul-
tare cataloghi di apparecchiature scientifiche per il loro laboratorio. Ed io... dovrei partecipare ai loro entusiasmi; dovrei sentirmi come loro e...» s'interruppe. «La mamma non è ancora stata sepolta! Non posso! Non posso!» Le cinsi la vita con un braccio guardando fisso nei suoi occhi azzurri. «Hermia» dissi commosso. «Tu.. mi nascondi qualcosa! Ieri stavi per aprirti a me, quando fummo interrotti dal sopraggiungere di Cobb... Non vuoi...» «Non c'è altro. Hugh! Sinceramente... Non c'è altro!» «Guardami, Hermia! E dimmi francamente... Tu temi che qualcuno dei tuoi familiari... possa aver ucciso deliberatamente la tua mamma!» «No Hugh! Ti sbagli!» m'assicurò Hermia con voce quieta e convinta. «Nessuno dei miei avrebbe mai fatto una cosa simile!» «Son lieto di sentirtelo dire, ma... il tuo padrigno allora... Sarebbe venuto a pregarmi di indurti ad allontanarti soltanto perché il tuo atteggiamento in casa, mette un freno alla spensierata gaiezza degli altri? Non avrebbe tentato di comperarmi, se si trattasse soltanto di questo!» «Che?» esclamò Hermia assai stupita, impallidendo. Le raccontai quel tristo episodio. «Oh che sciocco! Che sciocco!» commentò angosciata. «Su questo sono perfettamente d'accordo con te! Ma perché Ray si sarebbe comportato in questo modo?» «Ora capisco!» mormorò Hermia. «Tu... sospetti che Ray voglia allontanarmi da casa perché teme che io abbia riconosciuto in lui l'uccisore della mamma! Ebbene... Non è così Hugh! Assolutamente!» Mosse qualche passo per la stanza. Sedette in una poltrona e m'invitò a prender posto accanto a lei. «Devi saper tutto Hugh!» riprese poi. «Ascolta. Ti parlerò di Ray... e fu un errore fin da principio. Facemmo la conoscenza di Talbot quando abitavamo ancora in Virginia. Era venuto laggiù per eseguire alcuni lavori e la mamma lo incaricò della decorazione di certi ambienti di casa nostra. Ray non nascose di sapere che la mamma era assai facoltosa! Anzi! Ma fece amicizia con me per aver pronta la scusa di frequentarci quando voleva. A quel tempo ero una bambina sciocca e sognatrice. Ray mi apparve bello e romantico e quando prese a corteggiarmi, lo credetti il mio principe azzurro. Poco dopo invece, Talbot annunciò d'essersi fidanzato con la mamma! Il giorno del matrimonio credetti d'impazzire. Odiavo Ray più di quanto l'avessi mai amato. Non intervenni al rito nuziale. Desiderosa di allontanarmi da casa cercai e ottenni un impiego a New York. In quella città ebbi modo di apprendere molte cose sul conto di Ray. I suoi vergognosi legami con altre donne mi indussero a disprezzarlo. L'avrei ucciso se ne
avessi avuto il coraggio. Ma la mamma cadde malata. Mi scrisse implorandomi di tornare a casa. Obbedii. Anche mia madre, frattanto, aveva avuto agio di conoscere a fondo il marito. Ma aveva anche imparato ad accettare il suo contegno di donnaiolo impenitente con una certa rassegnazione. Mi scongiurò di non abbandonare Ray. Di restargli accanto per esercitare su di lui una influenza moderatrice... «La mamma» prosegui, affranta «non si rese mai conto che uomini come Ray non sposano che per una ragione ben precisa. Ora s'è incapricciato di Lena! È fatale. Ma non c'è donna di cui Talbot non sia infatuato! A un certo punto s'era messo perfino a fare il cretino con Gail...» «Che?» «Lo faceva senza alcuna intenzione seria. Di questo sono certa. Tant'è vero che contemporaneamente si divertiva a stuzzicare anche Imogene! Ed è questo, vedi Hugh, che mi induce a restargli accanto per difenderlo da se stesso! Non lo odio e non lo disprezzo più, ormai! È un debole, uno sciocco! Ieri sera aveva di nuovo bevuto un po'... Ci credi? M'ha fatto la corte! Ma è innocuo, poveretto! Con due parole sono stata capace di farlo tornare in sé. Ha bisogno di qualcuno che gli voglia bene. Forse troverà l'equilibrio in un nuovo matrimonio.» «Son lieto che tu m'abbia raccontato tutto questo, Hermia!» esclamai avvicinandomi alla giovane. Le presi le mani tra le mie e sussurrai: «Ora però non posso assolutamente lasciarti in quella casa, Hermia. Devi andartene! Sarà un bene per tutti.» «Non preoccuparti così! Non è il caso! Ray è perfettamente innocuo, credi! So badare a me stessa ormai e poi... ora che nella mia vita sei entrato tu, non ti lascerei per tutto l'oro del mondo.» Tese una mano ad accarezzarmi il volto. La strinsi tra le braccia, dimentico di tutto. XIV Il mattino seguente mi destai insolitamente allegro. Dawn, abituata a vedermi nascondere la grinta accigliata dietro la prima edizione dei quotidiani ogni mattina, rimase non poco stupita del mio allegro canterellare. Tuttavia, non fece il minimo accenno mordace a Hermia. Si limitò a mutare atteggiamento nei confronti del cagnolino che le era stato donato. Guardandolo con voluta freddezza, mi fece comprendere che non si sognava
neppure lontanamente d'averlo accettato in sostituzione dei leprotti di razza belga che le avevo promesso. Nel corso della mattinata trovai modo di fare una corsa fino a Ploversville. Ma quando l'allevatore apprese della misteriosa scomparsa dei leprotti, dimostrò chiaramente di non credermi. Bestiole di quella razza non ne aveva, mi disse; se le avesse avute, ne ero certo, non le avrebbe mai date a me. Credeva probabilmente che avessi massacrato i suoi innocenti animaletti. Cobb ed i Talbot sembravano essersi dimenticati di me quel giorno. Fu soltanto dopo le cinque della sera che guardando dalla finestra dell'ambulatorio, vidi una delle automobili dei Talbot che risaliva la nostra carrozzabile. Un po' stupito, ne vidi scendere Josephs, il maggiordomo. Il vecchio s'avvicinò furtivo alla porta d'ingresso. Vi sostò qualche istante e ritornò sui suoi passi senza aver suonato il campanello. Sinceramente meravigliato mi precipitai in anticamera. Sullo zerbino c'era una busta chiusa. La raccolsi ed apertala vi trovai un foglio dattiloscritto firmato con la penna da Thomas D. Josephs. Il maggiordomo esprimeva con parole sincere il suo rammarico per aver osato sollevare alcuni dubbi sulla mia moralità di professionista. Soprattutto si professava assai dolente di aver comunicato i suoi sospetti alla polizia. "Sono certo ormai" proseguiva il messaggio "che non siete stato voi ad uccidere la mia signora! Sono infatti a conoscenza di due elementi che dimostrano inequivocabilmente, come colpevole di quella morte sia uno dei membri della famiglia presso la quale presto servizio. Il movente dell'assassino inoltre, non è stato certo la misericordia per le sofferenze altrui. Prima di comunicare quanto ho appreso alla polizia desidero parlare con voi. Vi attenderò a casa e accuserò disturbi gastrici per giustificare la vostra visita." Meditai a lungo su quella strana missiva. Il maggiordomo che il giorno precedente mi aveva denunciato alla polizia, ora si rivolgeva a me fiducioso, in cerca di aiuto. C'era da meravigliarsi che anche il domestico di quella famiglia soffrisse d'evidente instabilità di carattere? Decisi pertanto di aderire alla sconcertante richiesta del vecchio. Alle otto e trenta di quella sera bloccai le ruote della mia vettura sulla soglia di casa Talbot. Gli elettricisti vi avevano terminato i loro lavori a quanto sembrava. Tutto l'edificio sfavillava di mille luci.
M'aperse l'uscio Gail Fiske. Indossava un abito da sera scarlatto, ed era dipinta come un pagliaccio. «Entrate!» invitò gaia. «La mamma ci aveva esortati a non piangere la sua morte e noi ci diamo da fare per stare allegri» mi spiegò del tutto inaspettatamente, in tono quasi di scusa. «Venite!» ripeté tirandomi per una manica «ci siamo adunati in sala a ballare! Siete venuto a trovare Hermia?» domandò chiudendo l'uscio. «Che scalogna! È rimasta di sopra! Emicrania! Forse è una scusa. Un modo come un altro di protestare contro il nostro comportamento...» «Non potrei vederla egualmente?» balbettai arrossendo. «Credo proprio di no! Non è una ragazza cui il... corteggiatore possa far visita in camera!» Avrei voluto prenderla a scapaccioni. Invece m'accorsi di osservarla sorridendo. D'una brutalità disarmante, Gail sapeva però dimostrare, a modo suo. una simpatia umana, veramente cordiale. La giovane mi pilotò verso il salone. Luci dirette e indirette ne mettevano in risalto i chiassosi colori, accendevano di mille riflessi il metallo e i vetri dei mobili. Un apparecchio radiofonico di forma cilindrica faceva rintronare la stanza al suono d'una rumba selvaggia. «Ehi! Gente!» strillò Gail. «Guardate un po' chi c'è!» Conrad mi adocchiò con aria indifferente. Lena Bartholomew mi porse un bicchiere colmo di non so quale infernale mistura. Raynor Talbot mi accolse con un sorriso che gli fece scintillare tutta la stupenda dentatura. «Bevete dottore! Bevete! Inauguriamo con una festicciola l'impianto d'illuminazione di Ray!» strillava l'ex-infermiera. «Certo» aggiunse quasi in risposta alla mia espressione di stupore. «Certo, è un vero peccato che Madeleine non sia qui... tra noi... Tuttavia ci aveva tanto pregati di stare allegri!» A quanto sembrava, quelle teste bislacche ci sarebbero riuscite anche senza le esortazioni della signora Talbot. «Ragazzi!» vociò in quell'istante Raynor. «Andiamo a finire degnamente la serata! Andiamo da Polly!» Si levò un coro di urla. Ognuno dei Talbot proponeva il suo locale notturno preferito. Naturalmente, si rivolsero a me come a un possibile arbitro della loro strana diatriba. «Mi spiace!» fui costretto a far osservare. «Non ho tempo da perdere. Son qui per una ragione professionale. Josephs m'ha chiamato perché mi occupi un poco dei suoi disturbi gastrici...»
«Josephs?» strillarono i miei ospiti in coro. «Ebbene che c'è di strano?» gridò Gail facendo ammutolire gli altri. «Non può essere malato, Josephs? Andate pure dottore! Portate a quel povero vecchio scemo i miei più fervidi auguri... e un cucchiaio di bicarbonato!» Cercai rifugio da quel manicomio battendomela in direzione dell'anticamera. Qui mi fermai un attimo indeciso. Preoccupato per Hermia, avrei voluto salire, sia pure per pochi istanti, in camera sua. Me lo impedì la minuscola Imogene Arthur che mi apparve improvvisamente, pallida, avvolta in un cappotto. Aveva in mano una valigetta. Superato il primo momento di stupore, la salutai gentilmente. «Oh... Dottore!» supplicò guardandosi intorno con aria furtiva. «Non ditelo a nessuno! Me ne sto andando...» «Dove, di grazia?» chiesi sollecito, notando l'espressione eccitata degli occhi profondi della fanciulla. «È successo qualcosa?» «Nulla!» rispose troppo in fretta la piccola Imogene. «Nulla!» Trasse una busta da una tasca del cappotto e porgendomela, disse: «Vi spiacerebbe farla avere a Phil? Questa sera stessa?» «Sicuro!» balbettai imbarazzato. «Certo!» Ed accettai la lettera sulla quale vidi scritto l'indirizzo del mio giovane collega. La ragazza dimenticò perfino di ringraziarmi. Senza rivolgermi più una parola, aperse l'uscio e sparve nella notte. Nell'infilarmi in tasca la busta, notai che conteneva un oggetto assai duro, di forma rotonda. Rammentai l'anello di fidanzamento che avevo veduto al dito della fanciulla il giorno antecedente. Trovai Josephs dignitosamente seduto in una poltrona, nella stanza di soggiorno riservata alla servitù. «Lieto di vedervi!» mi salutò con un piccolo deferente inchino. «Ho udito squillare il campanello, ma ho preferito non venirvi ad aprire per confermare la mia piccola... malattia diplomatica.» «Se non erro» l'aggredii subito «nella lettera che mi avete inviato accennavate alla probabilità che la vostra padrona sia stata assassinata...» «In un certo senso» rispose pronto il maggiordomo «ne sono quasi certo! E se il colpevole dovesse esser uno qualunque di... quelli li... non avrò pace finché giustizia non sarà fatta!» «D'accordo Josephs. Purché si riesca a provare che il vostro sospettato abbia agito nell'intento di nuocere!» «Nessuna di quelle canaglie avrebbe mosso un dito per far cosa gradita alla povera signora. Se qualcuno l'ha uccisa l'ha fatto per un ben determi-
nato fine in cui misericordia e pietà non avevano nulla a che fare! Tutti hanno ereditato forti somme di danaro! Non dimenticatelo.» «Ciò non dimostra assolutamente nulla» obiettai sorridendo nel ricordare che anche il domestico aveva ricevuto la sua piccola parte di danaro. «Non dimenticate, piuttosto, che la signora Talbot era destinata comunque a spegnersi entro un termine assai breve.» «Appunto, dottor Westlake! Qualcuno ha voluto far scadere ancor prima l'ora fatale. Per non dar tempo alla signora di cambiare le proprie disposizioni testamentarie!» «Avete ragione di credere che la signora fosse sul punto di redigere un nuovo testamento?» indagai rilevando la strana identità tra le teorie di Josephs e quelle di Cobb. «Ogni ragione al mondo!» rispose tetro il domestico. «La sera prima di morire la signora telefonò ai propri avvocati di New York. Sapevo preoccupata quella povera anima, e quando la sentii sollevare la cornetta dell'apparecchio che aveva in camera sua, mi misi in ascolto alla derivazione che c'è in anticamera. Intesi così la signora che chiedeva il numero di New York alla signorina del centralino. Scribacchiai quelle cifre su di un foglietto. Sfogliai la guida telefonica di New York e seppi che Madeleine Talbot aveva chiesto di mettersi in comunicazione con l'ufficio dei suoi avvocati. Non li trovò. Ma c'è dell'altro» prosegui Josephs con animazione. «Da quando s'era ammalata, la mia padrona non permetteva ad altri che a me di rassettare la sua stanza. Il mattino in cui mori, alle otto, entrai in quella camera come sempre. Non sbrigai le faccende per non svegliarla. Infatti la credetti ancora addormentata, sotto l'influsso del calmante che le avevate somministrato. Ma prima di chiamarvi al telefono, m'accorsi che qualcuno doveva aver messo in disordine diversi oggetti. Al mio occhio ormai esperto non sfuggirono alcuni libri capovolti, un paio di cassetti rimasti socchiusi... il cestino della cartaccia che era finito contro la parete. «Ho ripensato a lungo a tutti questi episodi, signore» concluse Josephs. «E ne ho tratto la convinzione che qualcuno abbia cercato di sottrarre qualcosa da quella stanza, prima che fosse scoperta la morte della signora. La persona che sospetto infatti doveva sapere che Madeleine Talbot stava morendo.» Mi tornò istantaneamente alla memoria il documento sul quale la povera signora m'aveva fatto apporre la firma. Il maggiordomo frattanto continuava:
«Credo anche di sapere che cosa cercava il nostro ignoto! Ne sono quasi certo! Cercava l'espresso pervenuto alla signora quel pomeriggio!» «Ritenete che l'abbia trovato? Che se ne sia impossessato?» «Non credo, dottore! Ricordo d'aver vuotato il cestino della cartaccia poco dopo che la mia padrona aveva ricevuto quella lettera. In quell'occasione, notai tra i rifiuti la busta. Il colpevole non può averla trovata perché nel frattempo io l'avevo gettata tra le spazzature, in cantina, dove dev'essere finita nella fornace! A proposito!» esclamò improvvisamente: «forse quella lettera non è perduta! Fra gli altri incarichi, ho quello di bruciare la cartaccia nella fornace ogni ventiquattro ore. In questi giorni però, il signor Talbot ha fatto impiantare una nuova caldaia per il suo bruciatore a nafta! Quindi sono rimasto in arretrato di qualche giorno. C'è una possibilità, forse una su mille, che la lettera si trovi ancora in cantina!» «A meno che» obiettai «la persona interessata a trovarla non sia andata a frugare anche in cantina!» «Impossibile, signore! Tutti debbono aver pensato che la carta sia stata già bruciata. Come avete veduto, io stesso ci stava cascando, e...» «Bando alle chiacchiere!» imposi con decisione. «È nostro dovere scendere subito in cantina a cercare la lettera.» «Potrei scendere io!» s'offerse il maggiordomo. «Vi sporchereste gli abiti e...» S'interruppe piegando il capo da un lato, in ascolto. Lieti e rumorosi, i Talbot salivano le scale. Udimmo Gail concedere ai suoi compagni cinque minuti di tempo perché si cambiassero d'abito, prima d'uscire. Preso da un sospetto improvviso Josephs scomparve in punta di piedi nel corridoio che portava alla stanza in cui ci trovavamo. Udii anch'io il lieve scalpiccio che lo costrinse ad arrestarsi. Qualcuno doveva aver udito la nostra conversazione. Tremando il maggiordomo mi pregò di accompagnarlo in cantina. XV Al seguito di Josephs attraversai quella parte dello stabile che non era stata ancora sottoposta alle "migliorie" di Raynor Talbot. Lasciata una lunga, desolata, cucina, entrammo in una cupa stanzetta che riconobbi soltanto per il lezzo d'umidità e di rinchiuso. Era la camera ove mi era accaduto d'assistere allo strano episodio di cui i coniugi Fiske erano stati i personaggi principali. Nel ricordare le grida inumane che mi avevano sorpreso in giardino quella tragica notte, rabbrividii. Il domestico, frattanto, aveva spa-
lancato la porta dalla quale avevo veduto spuntare Conrad con il volto straziato da parecchi graffi. L'uscio sì spalancava su di una scala che discesi alle calcagna di Josephs. Giunti in fondo, attesi che il maggiordomo accendesse la luce. Lo scialbo rossore di una lampadina attaccata al soffitto illuminò una scena di caotica desolazione. La cantina dei Talbot non si poteva dire particolarmente spaziosa. Disponeva però di mura solidissime, che facevano pensare a quelle di un munito bastione. Al suolo, vidi accatastati nel massimo disordine ogni genere di rifiuti. Scatole, cassette di legno, trucioli, grosse pallottole di cartaccia, innumeri mozziconi di sigaretta ed una quantità enorme di bottiglie di whisky vuote, e ancora da sturare. Incespicando tra recipienti di vetro e vecchie pubblicazioni quindicinali a colori, seguii Josephs che puntava decisamente verso un angolo del vasto locale. Trovare l'espresso di cui eravamo venuti in cerca sarebbe stato un miracolo in mezzo a quel mare di carta. Piegai le ginocchia e in preda ad un vago senso di disagio presi a smuovere il pattume contribuendo a una ricerca che presentivo vana. Josephs si voltava spesso, apprensivo, a guardare il vuoto minaccioso della scalinata oscura che s'apriva alle nostre spalle. Anch'io tendevo l'orecchio. Temevo d'essere sorpreso da uno dei Talbot, intento a quella occupazione che non avrei saputo come spiegare. Ad un improvviso scalpiccio sussultai rizzandomi in piedi. «Topi, signore!» spiegò Josephs impallidendo. «Non sono che topi!» Lo vidi mettersi al lavoro con rinnovato fervore, cercando accuratamente tra la carta con mani febbrili. Ansava rumorosamente, con la fronte imperlata di sudore. Terminato l'esame del mucchio che mi ero proposto di frugare per primo mi alzai da terra nel momento in cui Josephs con voce rotta esclamava: «Eccola qui, signore! L'ho trovata!» Afferrai la busta che mi veniva tesa. Come avevo sospettato era vuota. L'indirizzo della signora Talbot vi figurava tracciato da mano femminile, con una calligrafia un poco incerta. Il francobollo era stato annullato col timbro che portava la data di due giorni prima. Non vi trovai il nome del mittente. «Questa la tengo io!» annunciai. «Cerchiamo ancora! Forse ci riuscirà di trovare anche la lettera!» Ci gettammo nuovamente ' tra quell'oceano di carte, sfogliando febbrilmente tra vecchi giornali, riviste di medicina, cataloghi. Improvvisamente, al fruscio della carta che stavano smuovendo, rispose un urlo angoscioso,
d'agonia, che mi riportò d'un balzo a rivivere la scena tragica di qualche giorno prima. «Non mi direte che sono i topi ad ululare in questo modo!» esclamai vivamente impressionato. «Non è nulla dottore!» balbettò Josephs tentando di rassicurarmi. «Dev'essere un gatto sperduto...» Mi volsi nella direzione dalla quale s'era levato il grido. Vidi così che la parete che ci stava alle spalle, era occupata quasi per intero da una pesante porta di ferro, scorrevole. «Quell'urlo» dissi a Josephs «s'è levato da dietro quell'uscio! Andiamo un po' a vedere!» «No signore! Vi scongiuro! Non andateci!» balbettò il vecchio trattenendomi per una manica. «Non me lo perdonerebbero mai!» Liberatomi dalla sua stretta mi diressi decisamente verso quella porta misteriosa. Nel sospingerla per farla rientrare nel muro, quanto bastava ad aprirmi il varco, non avevo la minima idea di quel che avrei trovato dall'altra parte. La luce fioca della lampada che illuminava l'ambiente da cui avevo testé prese le mosse, non bastava a far lume nella capace cavità che mi trovai davanti. Nel guardarmi attorno, vidi accendersi improvvise nell'ombra due grosse pupille verdi. Aguzzai lo sguardo e sparse un po' ovunque nel buio, sfavillarono altre, molteplici pupille fosforescenti. Quasi staccati dal corpo, decine d'occhi fantomatici mi fissavano nelle tenebre, accendendosi e spegnendosi repentinamente. Fiammelle sospese nell'oscurità verdeggiavano e rosseggiavano orribili. E nel silenzio mortale che mi avvolgeva si levò improvviso, acutissimo l'urlo raccapricciante che ormai ben conoscevo. Vincendo il panico m'accostai a quegli occhi luminosi. Intravidi decine di misere gabbiette. Indovinai, scarne sagome di gatti in ognuna di esse. «Appartengono alla signora Gail, dottore» balbettava agitatissimo il maggiordomo che mi aveva raggiunto. «Non doveva saperne nulla nessuno! Ho l'incarico di portar loro il nutrimento! Servono...» «Ho capito benissimo a che cosa servono» l'interruppi indignato. Abituatomi alla penombra avevo veduto le orrende ferite, le lacerazioni che piagavano quelle povere bestie... Uno dei felini giaceva stecchito in fondo alla sua gabbia. Altri sembravano in agonia. Altri ancora si stiravano in preda agli spasimi. E miagolavano orrendamente, in un lamento che sembrava un ululato.
«I coniugi Fiske» commentai scuotendo il capo «si danno alla vivisezione dilettantistica, a quanto vedo! Non ci si poteva aspettare altro da loro!» Il maggiordomo si profuse in spiegazioni. Gail, che credeva un genio il marito, aveva promesso cinquecento dollari al domestico purché mantenesse il segreto. Conrad era stato costretto a ricorrere a quell'estrema soluzione per condurre a termine certe esperienze sui tossici. Sapevo che la vivisezione era proibita nel nostro Stato, e ascoltai le chiacchiere di Josephs con un certo scetticismo. Muovendo tra le gabbie, tuttavia, feci una scoperta che non mancò di farmi rabbrividire. Accucciata sul fondo d'una di quelle orrende prigioni, giaceva, quasi priva di vita, Tabby, la gatta del povero Bill Strong. La crudeltà dei Fiske non mancò di suscitare la mia indignazione. Giovani scienziati da strapazzo, avevano operato gli animali vivi senza preoccuparsi di anestetizzarli per diminuirne le sofferenze. Il macabro spettacolo che mi stava dinanzi mi permise di ricostruire la scena tragica di cui ero stato spettatore qualche giorno prima. Doveva essere uno dei Fiske l'ignoto che avevo veduto attraversare il giardino quella notte. Forse si era recato nell'autorimessa a catturare Tabby, tenuta prigioniera in quel locale. Alla luce di una candela, Conrad doveva aver sommariamente anestetizzato la gatta con una delle pastiglie di amytal che lo studente aveva ammesso d'avermi sottratto. Poi aveva praticato alla povera bestia una iniezione del derivato tossico della morfina, oggetto degli studi dei coniugi. Tabby, povera bestiola, era riuscita a conficcare nella guancia di colui che la martirizzava, i propri artigli. Ben ti sta Conrad, pensai. «Genio o follia... poco m'importa!» dissi rivolgendomi a Josephs. «Voglio metter fine a questa infamia! Subito!» Ma le sorprese non erano ancora finite. Accanto alla gabbia in cui languiva la povera Tabby, ne trovai altre due. Gli animali che vi si agitavano, tuttavia, non mi sembrarono gatti. E quando mi chinai su di loro per osservarli più da vicino poco mancò che venissi meno dallo stupore. Avevo ritrovato i leprotti di razza belga che avevo comperato per la mia bambina! Apparentemente indenni saltellavano nelle loro scomode prigioni agitando comicamente le lunghe orecchie. Erano capaci di qualunque cosa i due Fiske, nell'interesse della scienza! Tabby e i leprotti di Dawn avevano preso la via del loro laboratorio clandestino di vivisezione. Forse era stato uno dei due giovani a strangolare il povero Andy. Peggio! Quei folli ricercatori potevano anche essere colpe-
voli della morte di Bill Strong. La inconsapevole cavia umana, cui avevano forse iniettato il loro infernale prodotto sintetico derivato dalla morfina. Sconvolto dall'orrore in me suscitato da quei pensieri, pregai Josephs di aiutarmi a mettere in salvo le bestiole di Dawn. Ma ci eravamo appena chinati per rimuovere una cassetta da imballaggio che ci impediva il passo, quando il vecchio maggiordomo si rizzò improvvisamente spaventato sussurrando: «Ascoltate!» Istintivamente ci rifugiammo nell'angolo più buio del tetro camerone. Qualcuno si avvicinava. Ne udivamo distinti, seppure ancor lontani, i passi affrettati. Giunto nella cantina attigua, lo sconosciuto si fermò. E con mio sommo sgomento spense la luce. L'avrei avvertito della mia presenza, se non m'avesse trattenuto il timore di non saper spiegare decentemente la ragione che mi aveva indotto a scendere in quel luogo. Rimasi immobile irrigidito, accanto al maggiordomo di cui udivo sempre più forte il respiro affannoso. Improvvisamente il vecchio s'aggrappò a me tremando. Dovevo comprendere ben presto la ragione del suo gesto. La pesante porta di metallo che separava l'ambiente in cui ci nascondevamo, dal resto della cantina si richiuse rotolando sulle guide ben lubrificate. Ci avvolsero tenebre profonde, scattò una serratura e mi slanciai. Dimentico di ogni altro timore, conscio soltanto d'esser stato chiuso nel buio di quel tetro locale privo di finestre e di pertugi, cominciai a battere furiosamente i pugni sulla porta di metallo. Gridai anche il mio nome. Invano. Lo sconosciuto che ci aveva chiusi in quella trappola m'aveva certamente udito. Le mie grida, tuttavia, non ottennero altra risposta che un risolino di scherno. XVI Sapevo inutile il mio sforzo, ma per qualche minuto continuai a battere i pugni sulla porta. Nell'oscurità profonda piombata su di noi, non riuscivo ad intravedere Josephs. Ne sentivo però accanto a me il corpo irrigidito dalla paura. «Debbono averci uditi!» protestava il vecchio. «Non capisco perché non abbiano aperto la porta!» «Accendiamo almeno la luce!» esclamai. «Ci sarà almeno una lampadina in questa maledetta trappola!»
«No purtroppo, signore!» precisò il domestico. «Il signor Conrad e la signora Gail se ne servono soltanto per custodirvi gli animali per gli esperimenti. Il laboratorio l'hanno allestite, in una parte delle stalle.» «Non c'è neppure una finestra? Potremmo affacciarci e gridare sino a che qualcuno non accorra in nostro aiuto!» Come avevo già notato, purtroppo l'ambiente in cui ci trovavamo prigionieri non disponeva di finestre. Appresi dal maggiordomo che avremmo potuto approfittare di alcune grate disposte in un angolo del soffitto. Quelle fessure davano però sulla parte posteriore della casa. Nessuno avrebbe inteso le nostre grida. Senza contare che i Talbot erano certamente usciti. Hermia, indisposta in camera, ignorava, addirittura, che io ero venuto in casa sua. Non c'era che attendere. Attendere che qualcuno tornasse. Soltanto allora avremmo ripreso ad urlare e a battere alla porta. Accesi alcuni fiammiferi. Scopersi così un paio di cassette da imballaggio sulle quali ci lasciammo cadere stanchi e affranti. Per ingannare l'attesa e per reagire al disagio del buio in cui eravamo immersi, cominciai a far parlare Josephs. Dal momento in cui m'ero accorto d'essermi innamorato di Hermia, i Talbot mi interessavano sommamente. Quando cominciò a raccontare della sua padrona, il maggiordomo rivelò per Madeleine Talbot uno strano attaccamento morboso. John Landreth, il padre di Hermia e di Gail era stato "un vero gentiluomo". Di carattere un poco eccentrico, purtroppo aveva trasmesso ai figli i caratteri negativi della sua personalità. Passato in rivista il lungo periodo di vedovanza della sua padrona, il racconto del maggiordomo s'accese d'ostilità al presentarsi sulla scena dei ricordi della figura di Raynor Talbot. Madeleine s'era innamorata follemente del cacciatore di dote. Pazza di lui, aveva perfino tollerato che il marito aprisse la sua casa a una trovatella: Imogene Arthur. La signora, raccontava Josephs, aveva dovuto sopportare sin da principio le infedeltà continue del gaio e spensierato Ray. L'unica ad opporsi alle nozze della madre era stata Hermia. Non solo la giovane non era intervenuta alle nozze, ma aveva abbandonato la casa paterna cercandosi un impiego a New York. La malattia della madre l'aveva indotta a tornare in famiglia. Sì. Hermia era sempre stata diversa da tutti gli altri. Come quella povera Bartholomew. Il domestico, infatti, non giudicava con particolare asprezza l'ex-infermiera. «Che ci fa in casa Talbot quella donna?» chiesi. «Ha qualche speranza di diventare la signora Talbot, forse?» «Dipende unicamente dalla quantità di danaro che le ha lasciato la signora Madeleine!» rispose il maggiordomo in tono arido. «Ma non credo che
la signorina Bartholomew sia sciocca al punto da lasciarsi incantare da quell'avventuriero! La povera signora, d'una bontà che male si addiceva a questa terra, era invece una vittima predestinata, tra le grinfie di quell'infame! Ho rinunciato a comprendere la gente! Chi avrebbe mai detto che la mia signora avrebbe finito con lo sposare un... Raynor Talbot? E Gail? Figuratevi che un bel giorno ci porta in casa quello strano individuo, alludo a Conrad Fiske naturalmente, e ci dice di averlo sposato. La mia padrona le butta le braccia al collo e la sposina ne stronca ogni commozione annunciando alla madre che continuerà a vivere nella sua camera di ragazza. Il marito infatti l'ha confinato in una stanzetta all'ultimo piano dell'ala più abbandonata della casa! Roba da pazzi. Ma questo non è nulla in confronto...» S'interruppe come per l'intervento di una forza strana, ignota a lui stesso. Cadde un silenzio così profondo che dapprima scambiai il rumore continuo che udivo, per il ronzio del sangue alle mie orecchie. Abbandonata la cassetta su cui m'ero seduto raggiunsi a tastoni la porta sbarrata. E compresi. Il sordo fremito che avevo avvertito non era frutto della mia immaginazione. Di là dalla pesante cortina di ferro che ci rinserrava, si levava un soffio ruggente punteggiato da un sinistro scoppiettio. Da sotto la porta si levò acre una nube densa di fumo. M'avvolse interamente soffocandomi. Mi allontanai tossendo, con gli occhi lagrimosi. «Che accade dottore!?» gridò Josephs angosciato. «Nulla!» risposi con falsa allegria. «Hanno dato alle fiamme la cartaccia che c'era di là... Uno dei soliti scherzetti dei nostri fantasiosi Talbot, immagino!» Ad una nuova, più violenta esalazione di fumo, ci ritirammo contro la parete più lontana della cantina. La nostra era una situazione senza scampo. Rivedevo le cataste di scatole di cartone, i mucchi di giornali e riviste sparsi ovunque nella stanza attigua in fiamme... In casa non era rimasto nessuno. Hermia ignorava la mia presenza. Prima che qualcuno si fosse accorto dell'incendio Josephs ed io saremmo morti per asfissia. Lo scoppiettar delle fiamme frattanto s'era fatto più intenso. Per rendere più acuto il nostro terrore, i gatti cominciarono a miagolare selvaggiamente. Il fumo aveva invaso anche le gabbie che imprigionavano quei poveri animali. Pazzi di terrore, i felini cominciarono a gettarsi selvaggiamente contro la rete di fil di ferro che chiudeva le loro prigioni. Nel buio vedevamo accendersi e spegnersi improvvisi gli occhi fosforescenti delle bestie. Il panico faceva dilatare e contrarre di continuo le loro pupille.
Josephs perse completamente il controllo dei nervi. Urlando tra i singhiozzi, accusava i Talbot di volerci uccidere perché avevamo intuito che la sua povera signora era stata assassinata. Lo udii battere furiosamente alla porta tra grida strozzate. Per reagire all'inutile agitazione del maggiordomo, cominciai affannosamente la ricerca delle fessure che davano sulla parte posteriore della casa. Incespicando tra le gabbie dei gatti, rovesciandone qualcuna, riuscii a trovare quello che cercavo. Lo scampo, da quella parte, mi apparve tosto impresa impossibile. Lo spazio tra una sbarra di ferro e l'altra avrebbe permesso a stento il passaggio di una mano. Chiamai Josephs. Lo strapazzai a dovere, fino a che non si calmò un poco. Acceso un fiammifero, gli mostrai quel che doveva fare. Si munì d'una gabbia, vi salì, venne a porsi accanto a me con un fazzoletto pressato contro la bocca, il viso rivolto alle fessure. Restammo così, a lungo respirando fumo, con il petto orribilmente squassato dagli accessi di tosse. Non avremmo potuto resistere a lungo. I gatti continuavano a urlare in modo raccapricciante. Uno degli animali riuscì a spezzare la rete che lo teneva prigioniero e si slanciò per la cantina, correndo all'impazzata. Temetti che ci assalisse. Ma temevo ancor più che le fiamme, raggiunta la nafta nella sala delle caldaie, facessero saltare in aria tutto l'edificio... Quando finalmente udii una voce lontana che chiamava Josephs, dapprima non volli credere alle mie orecchie. Finalmente, invece, percepii il suono di passi affrettati sopra le nostre teste. Qualcuno scendeva le scale. Si fermava. Josephs riprese le sue grida. Scattò la serratura ed il pesante portone di ferro si spalancò scorrendo sulle guide. Nell'apertura così determinatasi vidi profilarsi la sagoma di Lena Bartholomew. Il fazzoletto contro la bocca, ci guardò attonita, come se non credesse ai suoi occhi. Dietro di lei, nella cantina invasa dal fumo, livide lingue di fuoco s'arricciolavano intorno agli ultimi brandelli di carta. «Che... Che cosa succede? Dovevo uscire con gli altri, ma Gail non ha voluto aspettare che fossi pronta! Ero andata in cucina per prender qualcosa da bere, quando sentii odor di fumo. Allora...» «Ce lo racconterete dopo, se non vi spiace» interruppi. «Non vedo l'ora di uscire da questa maledetta trappola!» Con un balzo raggiunsi la gabbietta dei leprotti di Dawn. Il gatto evaso dalla gabbia mi sfrecciò tra le gambe mentre seguivo Josephs e la Bartholomew per le scale. L'ex-infermiera m'attendeva nella vasta cucina in disu-
so. Deposi sulla tavola le bestiole di Dawn e constatai con sollievo che non avevano sofferto in modo fatale. Lena Bartholomew mi stava accanto guardandomi con estrema freddezza. Non aveva avuto una parola di simpatia per la situazione drammatica nella quale ci eravamo trovati. Io non mi trovavo certo nello stato d'animo più adatto per esprimere la mia gratitudine alla nostra liberatrice. Anzi. Manifestai profonda meraviglia per il fatto che nessuno si fosse accorto prima, dell'incendio scoppiato in cantina. «Vi dico che non c'era nessuno, in casa!» rispose stizzita la donna. «Ray Gail, e Conrad sono andati a ballare a Ploversville senza attendere che io mi fossi cambiata d'abito! Sono scesa non appena sentii odor di fumo! Come potevo immaginare che ci fosse qualcuno in cantina? E voi, a proposito! Che ci facevate voi, nella nostra cantina? Non riesco a immaginarlo!» «Sforzatevi allora d'immaginare la ragione che ha spinto uno di voi a chiuderci in quella trappola dopo aver appiccato il fuoco!» «Non dite cretinerie! Chi volete che abbia dato al fuoco quella cartaccia? Sarete stato voi! Con un mozzicone di sigaretta, evidentemente! E poi non mi avete ancora spiegato la vostra presenza laggiù!» «Non ci sono certo sceso per assistere alla crudeltà dei vostri vivisezionatori da strapazzo, cara signorina! Ho rischiato di morire tra le fiamme unicamente per trarre in salvo i leprotti di mia figlia! I coniugi Fiske me li hanno rubati dall'auto qualche giorno fa! La pagheranno cara, quei due Pasteur delle mie ciabatte! Li denuncerò alle autorità e al rettore della Facoltà di medicina!» L'alterigia di Lena Bartholomew sparve come nebbia al sole non appena ebbi terminato la mia ardente filippica. Con voce incerta, balbettando, fece appello alla mia "ben nota magnanimità" perché risparmiassi ulteriori preoccupazioni alla famiglia. Nel suo "fervorino" trovò modo di includere anche una larvata allusione ai miei rapporti con Hermia. «Siate buono, dottore!» concluse piagnucolosa l'infermiera. «Concedete almeno a Gail e a Conrad di giustificarsi con voi, prima di deferirli al consiglio di disciplina della Facoltà.» «E va bene!» esclamai alla fine stizzito. «Accetto di parlare prima con loro.» Nel brancicare in una delle mie tasche in cerca di un fazzoletto, mi capitò tra le dita la busta dell'espresso che ero sceso a cercare in cantina. Il significato sinistro dell'episodio tragico cui ero da poco scampato mi corse alla mente fulmineo.
Qualcuno doveva aver sentito la mia conversazione con Josephs. Qualcuno sapeva che sarei andato alla caccia di quella missiva! Con fredda determinazione, lo sconosciuto che aveva origliato alla porta della stanza di soggiorno della servitù, ci aveva rinchiusi dentro quella porta di ferro abbandonandoci a morire soffocati dopo aver appiccato il fuoco alla cartaccia... XVII Non avevo più nulla da dire, ormai, a Lena Bartholomew. Dato di piglio alle gabbie dei leprotti, mi allontanai in direzione dell'anticamera. Dopo l'incubo che avevo vissuto, le decorazioni astrattiste di Raynor Talbot mi sembrarono meno allucinanti di prima. Anticamera e sala di soggiorno mi apparvero vuote. Il mozzicone d'una sigaretta che stava spegnendosi in un portacene mi fece comprendere che Talbot e i Fiske dovevano essere usciti da poco. «Tornerete a casa, ora, suppongo» mi suggerì improvvisamente Lena Bartholomew che m'aveva seguito silenziosa. Non raccolsi il malcelato invito ad andarmene. Mi professai preoccupato per Hermia, e insistetti per vederla. «La troverete nella seconda camera sul corridoio a destra del pianerottolo» m'informò irritata l'infermiera «ma se fossi nei vostri panni non la disturberei proprio ora, che...» Incurante di quanto andava dicendo Lena, avevo cominciato a salire le scale. Affrettai il passo non appena intesi un sordo rumore di cui l'eco giunse sino a me lungo il cavo della scalinata. Con i nervi tesi sino allo spasimo, riconobbi quel lontano tambureggiare sonoro per colpi vibrati col pugno chiuso sul legno. Qualcuno, sopra di me, bussava a un uscio. Batteva disperatamente. E sapevo che in casa non c'era nessuno all'infuori di Hermia. Raggiunsi il pianerottolo del primo piano con il cuore in gola. «Aiuto!» gridò Hermia con voce angosciata. «Apritemi per l'amor del cielo! Aiuto!» «Vengo!» urlai. «Eccomi!» La Bartholomew che avevo veduto accennare ad accorrere al mio fianco, mutò avviso. Ristette a metà della scala. Mi trovai davanti all'uscio che mi era stato indicato, quasi senza accorgermene. Ne afferrai la maniglia per aprirlo. Invano. «Sei tu, Hugh?» mi domandò Hermia. «Che cosa è accaduto in nome di Dio?»
«Non so! Qualcuno m'ha chiuso a chiave nella stanza! Apri!» «Come? Non trovo la chiave!» «L'ho intesa cadere poco fa! Quando colpivo la porta! Dev'essere finita davanti all'uscio!» La trovai subito. Poco dopo contemplavo il bel viso di Hermia, che mi sorrideva. Era un poco pallida, ma incolume. La presi tra le braccia non appena fu chiusa la porta. «Hugh!» sospirò Hermia nello sciogliersi dal mio abbraccio. «Mi sembrava d'aver bussato e gridato invano per ore! Avevo veduto la tua automobile davanti a casa... e tu non eri salito! Ma quando vidi il fumo uscire della cantina persi la testai Avete chiamato i pompieri? Cos'è accaduto? Un incendio?» Tranquillizzai la povera figliola. Nel raccontarle che si era sviluppato un principio d'incendio, che Josephs era stato in grado di domare facilmente, mi guardai bene dallo spaventarla narrandole la terribile avventura di cui ero stato protagonista in quella cantina. Mentre parlavo tuttavia, ricordavo i recenti episodi con una certa ansia. Josephs ed io eravamo stati chiusi in quell'interrato. Qualcuno aveva provveduto a rinserrare in camera sua Hermia. Rammentavo le parole di Talbot. Le sue vaghe minacce. Che avesse voluto alludere a qualcosa del genere quando aveva detto che non si sarebbe presa la responsabilità di quanto sarebbe potuto accadere ad Hermia? In preda ad ansia vivissima sussurrai: «Hermia! Devi dirmi la verità! Chi ti ha rinchiuso in camera?» «Non so, Hugh!» balbettò la povera ragazza. «Probabilmente Conrad... o Gail forse! L'avranno creduta una burla originale!» «Uno di questi giorni conficcheranno un coltello nella schiena a qualcuno, quei due! E diranno di aver voluto fare uno scherzo! Hermia!» strillai esasperato. «Tu, in questa casa non ci rimani un minuto di più! Devi, capisci, devi venir via assolutamente e al più presto! Temo per la tua incolumità!» «Sciocchezze!» sorrise quieta Hermia. «Adorabili sciocchezze! Capisco che i miei ti sembrino tutti altrettanti psicopatici, ma... credi! Qui non corro pericolo alcuno!» «D'accordo» volli concedere non completamente tranquillizzato. «Ammettiamo pure che io faccia gran rumore per nulla; ma tu devi almeno promettermi una cosa! Se in questa casa dovessero determinarsi altri episodi... strani... tu verrai via immediatamente! Intesi?»
«Te lo prometto, Hugh!» sussurrò appassionatamente Hermia sfiorandomi una gota con le labbra. «È così bello sapere che c'è qualcuno che si preoccupa di noi!» «Dottor Westlake!» chiamò dal basso la Bartholomew indignata. «Siete ancora qui?» «Lena ha dissotterrato l'ascia di guerra!» rise Hermia dolcemente. «Vattene ora, Hugh! Altrimenti comincerà a sospettare il peggio!» Mi chinai a baciarle con tenerezza la bocca. «Buona notte, Hermia!» «Buona notte, Hugh!» Discesi le scale a precipizio. Allegramente. Gratificai Lena Bartholomew d'un sorriso, perfino... L'amore è proprio una cosa straordinaria! XVIII Lasciai casa Talbot con un leprotto ingabbiato in ogni mano. Desideravo con tutta l'anima di tornarmene a casa mia. E quando vi giunsi al termine d'una folle corsa sulle strade deserte di Grovestown, mi stupii di non essere stato assalito dai rapinatori per via, o di non essere caduto vittima di qualche misteriosa entità maligna. Ad evitare ogni rischio inutile portai gli animaletti di Dawn in cucina. Una generosa dose di carote e lattuga parve conciliarli di bel nuovo con la vita. Prima di coricarmi decisi di meditare un poco sugli eventi di cui ero stato il protagonista nel corso della serata. Le mie avventure nei sotterranei di casa Talbot, se non altro, mi avevano fornito la spiegazione di un certo numero di piccoli misteri. Le pratiche vivisezionatrici dei coniugi Fiske, per dirne una, chiarivano le violenze che avevo dovuto subire da Gail qualche notte prima. Mi davano la ragione dei graffi di Conrad. Anche la scomparsa della povera Tabby non era più un mistero ormai. Tuttavia, le rivelazioni di Josephs intorno alla telefonata della signora Talbot ai suoi avvocati, e il nostro incontro con uno sconosciuto incendiario dimostravano che nella tana dei psicopatici Talbot avvenivano cose davvero straordinarie. Perché Talbot e i Fiske s'erano dimostrati così frettolosi, così desiderosi di andarsene, quella sera? Perché avevano abbandonato senza minimamente curarsene la tozza Bartholomew? E che cos'era accaduto alla povera Imogene Arthur?
Imogene Arthur! Il precipitare degli eventi mi aveva fatto dimenticare completamente quanto avevo promesso a quella ragazza. Con nessun entusiasmo rimontai in macchina e mi diressi in fretta alla casa del mio collega Phil Lavers. Gli avrei consegnata la lettera che Imogene mi aveva affidato. Phil mi aperse l'uscio avvolto in una sobria veste da camera. Cascante di sonno mi domandò che cosa diavolo fossi venuto a fare a quell'ora. Senza proferir verbo gli porsi la missiva. E gli voltai le spalle perché la mia presenza gli riuscisse meno imbarazzante nel momento in cui avrebbe trovato nella busta il suo anello di fidanzamento. Passò qualche minuto. Quando mi volsi incuriosito a guardarlo, Lavers fissava il vuoto con un'espressione di smarrimento dipinta sul volto, estremamente pallido. «Se n'è andata, Westlake!» balbettò. «Andata! Dobbiamo far qualcosa... Subito! Povera bambina! Potrebbe anche esser fuggita per... Non posso neppure pensarci.» Mi tese la lettera con mano tremante. "Caro Phil" diceva il messaggio. "Sei stato tanto caro con me. Te ne sono grata più di quanto tu possa immaginare. Ieri sera ho cercato di dirti la verità. Non ne ho avuto il coraggio. E non l'avrò mai! È meglio così, dunque... Non pensare più a me; non cercare di ritrovarmi. Imogene Arthur se n'è andata... è morta! Tutto il mio amore, Phil. Tutta la mia gratitudine. Imogene Guardai Lavers con affettuosa simpatia. Gli misi paternamente una mano su di un braccio e feci del mio meglio per tranquillizzarlo. «Ascolta, Phil!» gli dissi. «Non prendertela in questo modo! La signorina Arthur è una ragazza piena di buon senso e non farà niente di tragico... Sta' tranquillo. Quando mi ha dato questa lettera, a casa dei Talbot, reggeva una valigia. I suicidi, solitamente, non si preparano il bagaglio! Ti sembra? Telefonerò immediatamente alla polizia. Vedrai! In quattro e quattr'otto la ripescheranno. Non può essere andata lontano!» «La polizia!» protestò Lavers impressionato. «La polizia!» insistetti. «Parlerò personalmente con l'ispettore Cobb. La ritroveranno in un attimo, vedrai!» Sordo alle sue proteste, chiamai Cobb a casa sua. Mi rispose con voce assonnata, ma ascoltò attentamente quanto gii esposi. Promise di dare l'allarme all'istante. Con mio sommo stupore mi avverti che sarebbe venuto a prendermi da Lavers.
Di ritorno nella sala di soggiorno di casa Lavers, trovai il giovane collega un poco più sollevato. Stava tracannando una buona sorsata di whisky. Accettai, grato, un bicchierino anch'io. Era venuto il momento delle confidenze. Lavers mi raccontò tutta la dolorosa storia del suo amore infelice. Aveva chiesto in moglie Imogene Arthur un numero infinito di volte. La ragazza, che si era sempre rifiutata, aveva finalmente ceduto alle insistenze del medico il giorno dopo la morte della signora Talbot. «Mi sembrò mutata quella sera!» confessò Phil. «Ed io sentivo oscuramente che quella povera bambina aveva bisogno di qualcuno! Qualcosa, forse un oscuro pensiero, sembrava turbarla, povera Imogene! Ieri sera, infatti, quando si trovava qui, stava per dirmi...» «Pensi che fosse sul punto di confessarti qualcosa?» «Forse! Si trattava, se ho ben capito, di una sciocchezza che credeva d'aver commesso quando era ancora bambina! Notai quanta fatica le costasse la confessione, e... le impedii di continuare! Se l'avessi lasciata parlare, forse tutto ciò non sarebbe accaduto!» Poco dopo giunse Cobb. Mi salutò con uno strano sorrisetto e si dedicò interamente al povero Lavers. Lo lasciammo più tranquillo. Ma come avevo intuito, Cobb non aveva disertato il tepore del talamo soltanto per venire a tranquillizzare Phil Lavers. Sul cancello della casa del mio collega, mi disse: «Ho intenzione di fare quattro chiacchiere con te! A casa tua! Obiezioni?» «Migliaia! E violentissime. Ma siccome ti so cocciuto come un mulo... Andiamo pure!» «Permetti?» grugni. «Mi metterò dietro di te, con l'auto. In queste infernali strade di campagna potrei anche perdermi... di notte!» Un quarto d'ora dopo, eravamo seduti accanto al fuoco del mio caminetto. Rimanemmo a lungo in silenzio. Poi, improvvisamente, Cobb osservò: «Strano uccello, quella Arthur! Doveva proprio scegliere questo momento per filare all'inglese? Bah! Credi proprio che sia fuggita soltanto per quel suo cardiologo?» «A proposito, Cobb... e gli altri enigmi polizieschi? C'è qualcosa di nuovo? Hai scoperto nessun cadavere nel frattempo?» «Per ora no!» grufolò. «Tu, piuttosto! Ce l'hai ancora tutta, la tua morfina? Quanto a me... me ne sto alla finestra. Se son rose...» «Beato te! Io purtroppo alla finestra non ci posso mai stare! Debbo sempre rischiare di rompermi il collo in qualche dannata avventura.»
«Bravo. Westlake! Sapevo che avevi qualcosa in serbo per il tuo povero amico! Su! Spara!» «Perché dovrei comportarmi con te come se fossi un tuo collaboratore? L'ultima volta, mi consideravi uno dei sospetti!» «Può darsi. Ciò non ti impedisce di aprire il tuo animo delicato a un amico! Io naturalmente, dato che non collaboriamo, mi guarderò bene dal fornirti la minima informazione!» «Naturalmente! Perché non ti decidi a schiattare? Ma voglio esser buono, guarda. Ti dirò tutto.» Alla mia particolareggiata esposizione degli avvenimenti di quella sera, Cobb reagì con questo tacitiano commento: «Se non altro, hai ritrovato i leprotti di tua figlia!» «Già! E non trovi altro da dire!» «Moltissimo invece. La cella delle vivisezioni ci serve a chiarire molte cose! Resta ancora da risolvere l'enigmatica morte del povero Andy e poi, per quel che concerne gli animali, siamo a posto. Tuttavia... Tu per esempio sembri preoccupatissimo!» «Perché?» «Ma... Per quella ragazzina dei capelli color del miele, no? Il padrigno che cerca di levarsela di torno; uno sconosciuto che fa del suo meglio per mettere a fuoco la casa! Ce n'è d'avanzo per il tuo giovane cuore innamorato!» Senza sapere perché, avevo celato a Cobb l'episodio di quella sera che concerneva Hermia. Dopo le sue ultime osservazioni non potei fare a meno di raccontarglielo per filo e per segno. «Già!» bofonchiò molto serio l'ispettore. «Capisco! L'hanno chiusa a chiave in camera sua! Se fossi nei tuoi panni mi affretterei a togliere la signorina Landreth da quella casa! E... sai? Sei proprio un collaboratore preziosissimo! M'hai quasi fornito la soluzione di innumeri problemi!» «Chi! Io?» «Proprio tu, carissimo. Infatti hai dimostrato un'abilità infernale a farti confessare tutta quella roba dal maggiordomo! Ragiona un po'. Viene recapitato un espresso destinato alla signora Talbot. La missiva la sconvolge. Fa venire al suo capezzale tutti i familiari, nessuno escluso, uno per uno. Più tardi tenta di mettersi in comunicazione con lo studio dei suoi legali. Semplice, no? «Uno dei familiari ha fatto qualche porcheria. La signora Talbot decide di cambiare il testamento, ma viene uccisa prima di poter attuare i suoi
propositi. Muore di quella che sembra una semplice morte per... eutanasia! La polizia decide di chiudere un occhio; l'assassino si fregherebbe le mani beato e contento se non ci fosse quel maledetto espresso. La lettera cioè in cui è fatta menzione della persona, maschio o femmina, che ha commesso la "porcheria" cui accennavo poc'anzi. Questa criminale creatura, per ora ignota, si credeva in una botte di ferro fino a questa sera. Fino al momento cioè in cui viene a sapere, ascoltando non veduto i tuo colloqui con Josephs, che forse la missiva incriminata non è ancora stata distrutta. Ecco allora che vi lascia scendere in cantina, e... dà fuoco alle polveri! In questo modo dell'espresso non si parlerà più.» «Nient'affatto!» intervenni. «Me n'ero dimenticato, ma se non altro di quella maledetta lettera ho salvato la busta. Eccola qui!» «Caro Watson!» sorrise Cobb dopo aver osservato attentamente l'involucro che gli porgevo. «E ora il colpo è fatto! Trovo la persona che ha scritto questo indirizzo; la interrogo... e apprendo il nome del colpevole! Magnifico!» «Perché non potrebbe proprio essere così?» strillai offeso. «Perché sarebbe troppo bello per essere vero! Scusa un po': che c'entra l'assassinio di Bill Strong? Chi ha ucciso il pappagallo?» «Che ti proponi di fare, allora?» domandai mentre l'ispettore si stava alzando dalla sua poltrona. «Cercherò l'autore dell'espresso. Ho molte idee, Westlake. Ma ho anche moltissimi timori! Non dimenticare questo semplice calcolo. I Talbot sono abbonati a tre quotidiani. Finora abbiamo visto saltar fuori due pezzi di giornale che parlavano del tuo discorso sull'eutanasia. Senza contare che c'è in giro un sacco di morfina in attesa di essere impiegata!» «Lo dici sul serio, Cobb? Temi proprio che sì verifichi un terzo assassinio?» «Non ne sarei sorpreso affatto, Westlake! Temo soprattutto per tre persone... E cioè, per la signorina Landreth, per Polly Howett, e... per un mio vecchio, ottimo amico... Un certo dottor Westlake!» XIX Prima di coricarmi, andai ad augurare la buona notte ai leprotti di Dawn. Li trovai di ottimo umore e in buone condizioni di salute. L'appetito, se non altro, non era venuto meno alle allegre bestiole.
E il mattino seguente Dawn accolse il suo dono con grida di entusiasmo così sincere, che dimenticai i brutti episodi cui i poveri leprottini erano associati nella mia mente. «Che tesori!» esclamò mia figlia stringendosi i roditori al seno. «Puzzano un poco di fumo, però...» «Be'... Può darsi...» ammisi. «Ma tra qualche giorno...» Mia figlia non mi ascoltava. Sdraiata per terra, si rotolava allegramente in compagnia dei suoi animaletti e del terrier scozzese, che leccava entusiasticamente i nuovi compagni di gioco. Il leone e l'agnello delle Sacre Scritture... Mi chiamarono al telefono mentre facevo colazione. Era Phil Lavers che dovetti consolare e rassicurare. La polizia, infatti, non aveva ancora rintracciato la sua Imogene. Stavo tornando in camera da pranzo, quando l'apparecchio telefonico squillò nuovamente. Si trattava di Hermia. La mia povera cara aveva appreso la fuga di Imogene e si disse allarmatissima per la sua scomparsa. Più ancora lo era per quanto m'era capitato la sera prima nelle cantine dei Talbot. Lena Bartholomew le aveva raccontato tutto. Quando Hermia mi chiese di recarmi subito a casa sua, non posi tempo in mezzo a obbedirle. Josephs mi aperse la porta, pallido e taciturno. Quando rimasi solo con Hermia, notai con apprensione le borse cupe sotto gli occhi dallo sguardo preoccupato, le linee amare della bella bocca. «Ho saputo di ieri notte!» ripeté. «Non avrei mai creduto Gail e Conrad capaci di tanta crudeltà verso gli animali! E poi... Chiuderti con Josephs in quella cantina e dar fuoco alla carta! Non posso credere che siano stati loro! Non credo che l'abbiano fatto a bella posta, insomma!» «Non sono certo che siano stati i Fiske» risposi. «Ma certo il colpevole, chiunque esso sia, ha agito con un ben definito proposito!» «E... credi che sia stata quella... persona a chiudermi a chiave in camera mia? È questo che ti preoccupava tanto ieri sera?» Dovetti ammetterlo. Hermia allora manifestò il proposito di abbandonare la sua casa. Decidemmo che quella sera la giovane si sarebbe trasferita nella fattoria di una mia paziente che aveva avuto uno dei suoi periodici parti... Per far tacere le malelingue, Hermia avrebbe assunto la veste di mia assistente. Mentre così decidevamo, fummo interrotti da Josephs. Il maggiordomo mi comunicò che Polly Howett mi chiedeva al telefono.
La mia vecchia amica mi pregò con voce stanca di accorrere al suo capezzale. Stava poco bene e desiderava parlarmi di cose serie. Mosso da un oscuro timore convinsi Hermia ad accompagnarmi in auto da Polly. Poco dopo scendemmo davanti alla rutilante facciata della taverna di Polly. Hermia mi avrebbe atteso in automobile. Nell'attraversare il bar, deserto a quell'ora, mi sentivo rimordere la coscienza. Gli avvenimenti fortunosi dei giorni antecedenti mi avevano costretto a trascurare la mia paziente. Peggio! M'ero perfino scordato di farle fare l'elettrocardiogramma da Phil Lavers. «Mi fa piacere di vederti!» mi salutò Polly in camera sua. Come sempre rude e cordiale brontolò: «Ce n'è almeno uno che accorre quando ho bisogno!» «Che c'è, Polly?» indagai. «State male?» «Da cani, sto! E starò ancora peggio se non riuscirò a ottenere quel che voglio!» strillò inviperita prendendo a calci una delle sue bambole caduta per terra. «A dire il vero... t'ho chiamato per un paziente che troverai al piano di sopra, ma prima devi aiutarmi! Ho da parlare a Raynor Talbot!» E nel suo linguaggio fiorito m'informò che aveva tentato di parlare per telefono a Ray senza riuscirvi. Il maggiordomo di casa Talbot continuava a ripetere che il padrone non era in casa. No. La morte della povera signora non aveva nulla a che fare con l'argomento che Polly voleva "sviluppare" nel suo colloquio con Ray. Si trattava di una "faccenda privata". «Se lo chiami al telefono tu, non si farà pregare due volte a rispondere!» concluse Polly agitando minacciosamente i suoi orecchini di giada. «E digli che se non viene subito qui, guai a lui!» A questo punto Polly si avvicinò alla finestra. Scorse Hermia seduta nella mia vettura e pretese che la facessi entrare. Decise sui due piedi di incaricarla di chiamare al telefono il padrigno. L'atteggiamento capriccioso, autoritario della mia malata m'irritava. Ma temendo che il contrariarla potesse provocarle un attacco cardiaco che poteva esserle anche fatale, mi affrettai a aderire alle sue strane richieste. «Ma... Che cos'ha da dire a Ray?» mi domandò Hermia al colmo dello stupore quando l'ebbi informata della situazione. «Non ne ho la più vaga idea» fui costretto ad ammettere. «Ma... Ti prego! Accontentiamola! È molto, molto malata!» «E... sia!» Molto pallida, Hermia mi segui. Trovammo Polly nel bar. Sorrise maligna al nostro ingresso.
«Buon giorno, Polly» salutò Hermia con un dolce sorriso. «Il dottor Westlake dice che desiderate parlare al mio padrigno...» «Proprio così, bellezza! E digli che se non si muove a tutta velocità gliela farò pagar salata! Nel caso puntasse i piedi... ripetetegli la frase favorita di Andy... "Polly sa tutto!". Lo vedremo arrivar qui come un razzo!» Dopo avermi lanciato uno sguardo pieno di meraviglia, Hermia si allontanò rassegnata in direzione del telefono. Polly si cacciò in bocca il solito torroncino e si informò: «A proposito! Come sta Andy? È piaciuto a tua figlia?» «Veramente...» balbettai preso alla sprovvista. «Ecco... So che vi farà molto dispiacere, Polly... Andy... disgraziatamente...» «Che?» strepitò agitatissima la donna. «Non dirmi che Andy è morto!» «Purtroppo è così, Polly... È stata certamente una disgrazia, e...» «Balle!» urlò Polly inviperita. «So bene io... Scommetto che l'hanno accoppato... a casa Talbot! Rispondi! È così?» Non ebbi neppure il tempo di stupirmi di tanta chiaroveggenza. Pazza di collera, la mia malata impallidì fino a divenir terrea. Si portò convulsa una mano in direzione del cuore. Mi cadde addosso brancolando. Sorreggendola, l'accompagnai in camera sua e la distesi sul letto. Presi una pillola di nitroglicerina dalla mia valigetta e le sospinsi il medicamento sotto la lingua. Polly, la fronte madida di sudore, il volto segnato dallo spasimo subiva l'ennesimo acutissimo attacco d'angina pectoris di quell'inverno. Per qualche minuto temetti di vederla morire. Gradualmente invece, la mano della donna che mi stringeva il polso come in una morsa, allentò la sua stretta. La respirazione si fece meno affannosa; le labbra le si contorsero nel tentativo d'un pietoso sorriso. «Acc...!» sussurrò «...stavolta credevo proprio di non cavarmela!» Seguendo la direzione del suo sguardo, mi volsi. Hermia entrava in quel momento. «Ebbene?» domandò Polly. «Lo hai trovato quel...» «Sì!» rispose Hermia guardando ansiosamente la povera vecchia. «Be'... Non intenerirti per questa decrepita carcassa!» soffiò Polly esausta. «Dimmi piuttosto! Viene, o no?» «Gli ho comunicato il vostro messaggio» rispose Hermia esitando. «Ha detto che ora non può... Verrà forse nel pomeriggio!» «Cerca di tirare le cose in lungo, eh? Lasciamolo fare! Gli concedo volentieri il primo tempo della partita! Ma soltanto il primo tempo! E ora, cara signorina, tante grazie! Lasciatemi sola con il dottore, per piacere!»
Hermia mi guardò, incerta. «Attendetemi in automobile» le dissi annuendo. «Sarò da voi in un attimo!» Rimasto solo con la malata, estrassi un flaconcino color verde dalla mia borsa e porgendolo a Polly dissi severo: «Sentite, indisciplinatissima creatura! Dopo il recente attacco, quella pompa che vi ostinate a chiamare cuore, lavorerà con somma fatica. Potrebbe anche piantarvi in asso da un momento all'altro. Non muovetevi dal letto e prendete...» «Pillole!» gracchiò Polly sprezzante. «Non ho bisogno di pillole io! Te l'avevo detto sin da principio. T'ho mandato a chiamare per un'altra persona. Fila di sopra, veterinario! La troverai nella prima stanza a sinistra sul corridoio. Non farmi arrabbiare ancora, altrimenti...» Stizzito e deluso, non mi restò che obbedire. Risalii le scale che si aprivano sul bar; bussai all'uscio indicatomi da Polly. «Sono il dottor Westlake!» annunciai. E quando apersi la porta mi trovai di fronte a Imogene Arthur. «Voi qui!» esclamai stupito. «Avete tutta la polizia di Grovestown alle calcagna, e... Che diavolo fate in questo luogo?» Pallida, in preda a viva commozione, Imogene mi apparve subito vittima di un violento conflitto interiore. Compresi che aveva qualcosa da dirmi. Qualcosa di molto importante, che le sarebbe costato una tremenda fatica a rivelare. «Polly» esordi tormentandosi le mani «mi ha consigliato di rivolgermi a voi... Non volevo che lo sapessero... nessuno! Ma Polly è riuscita a convincermi che mi comportavo come una bambina... Se avrete la bontà di ascoltarmi sino alla fine, forse sarete in grado di decidere se debbo dirlo anche a Phil, oppure...» In questi casi non c'è che una cosa da fare. «Sedete!» imposi con atteggiamento paterno. «E cominciate da principio.» «È la storia della mia vita» cominciò con commovente candore. «Fui educata in un convento. Non ricordavo nulla dei miei genitori. Mi dissero ch'erano morti durante un'alluvione. Sino a quindici anni non conobbi altra esistenza che quella del collegio. Poi, cinque anni or sono, mi venne a trovare la signora Talbot. Mi raccontò che aveva appreso da poco che io ero la figlia di suoi carissimi amici. Voleva che mi trasferissi a casa sua. A prendere il posto di Hermia che era partita per New York; a darle un po'
d'affetto, che Gail, pazza per la chimica a quel tempo, non era in grado di darle. «Fu un angelo con me, la signora Talbot» sussurrò commossa la piccola Imogene. «Credendo ciecamente alle parole della mia mamma adottiva, mi persuasi, forse per non sentirmi oggetto della carità altrui, che anch'io ero nata in una famiglia signorile come quella che mi aveva accolto. Che scioccai Mi credevo così in alto, per nascita, che dapprima respinsi la corte che mi faceva Phil perché lo stimavo troppo inferiore a me!» Annuii, silenzioso. Mi imposi di non sorridere. «E ora» proseguiva frattanto la fragile Imogene «debbo spiegarvi la ragione del mio pianto di quella sera, dottor Westlake... Quella sera in cui veniste dalla mam... dalla signora Talbot! Quando mi sorprendeste in lacrime, in camera mia, avevo appena terminato un lungo colloquio con... la mamma. Sentendosi prossima a morire, aveva voluto parlarmi a lungo di mia madre. Dapprima emozionatissima, sentii, in breve, crollare intorno a me tutto il castello di sogni che m'ero costruito. Non ero affatto la figlia dei grandi signori delle mie stupide fantasie. Mia madre... non si era neppure sposata! Era la proprietaria... d'una taverna!» «Polly!» esclamai. «Polly» confermò Imogene con voce spenta. «E la signora Talbot mi rivelò questo segreto per una ben precisa ragione. Mi disse che anche Polly era molto, molto malata. Dovevo, ripeté più volte, dovevo darle il conforto del mio affetto! Polly era stata una buona ragazza da giovane. In seguito aveva pagato fino all'ultimo soldo le rette dei miei collegi, le tasse per la mia università, i libri... tutto! Aveva seguito i Talbot a Grovestown per starmi vicina. Vedermi qualche volta da lontano...» Nel tentativo di allacciare queste straordinarie rivelazioni agli episodi che avevano avuto luogo nei giorni antecedenti, domandai: «Ma... non era forse anche un'altra la ragione che spinse la signora Talbot a raccontarvi tutto ciò?» «Sì... Ma io... ero troppo sconvolta in quel momento per comprenderla a fondo. Ricordo che la mam... la signora Talbot mi fece una confidenza. Polly le aveva fatto sapere che una persona della famiglia della quale ero entrata a far parte aveva commesso un'azione vergognosa. La signora Talbot, addoloratissima, disse anche che avrebbe provveduto a disporre le cose in modo che l'eredità già destinata a questa persona passasse invece interamente a me!»
«E non pronunciò alcun nome la signora Talbot?» indagai. «Non accennò a un espresso ricevuto quel giorno?» «Non mi sembra! Non ricordo!» affermò Imogene animata. «In quel momento non desideravo altro che tornarmene in camera mia. Avevo bisogno di piangere, e... basta! «Il giorno seguente» prosegui la fanciulla con ingenuo fervore «Gail e Conrad mi condussero proprio qui... E quando mi trovai di fronte quella donna... la mamma, alla presenza di Phil, io... caddi svenuta! Polly mi sembrò un cadavere ambulante! Il relitto di chissà quali spaventose malattie! Per questo venni da voi a farmi fare tutte quelle analisi! Se dovevo sposare Phil, volevo esser certa di non essere malata! Temevo...» «Sciocchezze!» la interruppi. «Vi assicuro come medico, da collega ed amico del vostro Phil, che Polly non ha alcuna malattia trasmissibile a voi, che tra l'altro siete sana come un banco di sardine all'alba! Sposate tranquillamente, e... figli maschi!» «Io però» riprese incerta la fanciulla «non posso più sposare Phil! Non ho neanche un padre! Potrei nascondergli quanto ho appreso di recente, è vero. E in un primo tempo avevo proprio deciso di far così. Ma Polly ha fatto tanto per me! Non posso abbandonarla! Per questo sono venuta qui. A chiedere a Polly se mi vuol tenere con sé! Sono sua figlia! Rinuncerò a Phil piuttosto. Prima però, Polly vuole che io ascolti il vostro consiglio...» «E ha ragione! Non siate bambina, Imogene. Se Phil Lavers è soltanto in parte come lo credete, non gliene importerà assolutamente nulla della vostra famiglia! A proposito! Sapete che quel ragazzo è fuori di sé per l'angoscia? Permettete che vada subito a chiamarlo al telefono? Lo farò venir qui, povero ragazzo! Salterà come un capriolo non appena gli darò la lieta nuova. E... se volete proprio saperlo... Lavers è stato ben fortunato a imbattersi in una ragazza come voi!» XX Polly mi attendeva, sola, in camera sua. «Ebbene, veterinario» soffiò con ansia commovente «l'hai veduta? Dimmi... Sta bene?» «Benone, Polly! E... congratulazioni vivissime!» «È bella, non è vero? Non mi assomiglia neanche un po'! Ho fatto del mio meglio per crescerla una brava ragazza! E... la signora Talbot è stata proprio un angelo quando le offri di accoglierla in casa sua! Povera picci-
na! Nell’apprendere che ero sua madre, deve aver provato una delusione enorme! Io però... ho atteso per lunghi anni il giorno in cui mi sarei sentita chiamare... Sai, come dicono i bambini... a quella che li ha messi al mondo, insomma!» «State tranquilla, Polly» balbettai commosso. «Imogene sposerà Phil.» «Ne sarei tanto contenta! Sembra proprio un bravo ragazzo! Ricordi? Per questo, l'altro giorno ti avevo fatto tante domande sul conto di quel tuo collega! E ora, dottor Westlake» riprese Polly guardandomi fisso «scommetto l'osso del collo che non stai più nella pelle dal desiderio di sapere chi sia il padre di Imogene! Ebbene... Non lo so, ch'io sia dannata! Non ne sono sicura. È stato un agente di cambio di San Francisco, oppure un marinaio cubano! Non lo so!» Tacqui, tossicchiando imbarazzato. Poi, lo sguardo di quella vecchia, simpaticissima canaglia, s'accese di nuova luce. «La signora Talbot si è confidata con Imogene...» disse con un risolino. «Lo sai? Le ha detto che uno dei Talbot l'aveva amaramente delusa. Perciò, avrebbe lasciato alla mia bambina la parte di eredità spettante al colpevole caduto in disgrazia. Per questo voglio parlare a Raynor Talbot! Voglio che rispetti la volontà di sua moglie! E se non viene lui, andrò io a casa sua!» «Sentite, Polly» intervenni allarmatissimo. «Fate pure quello che meglio vi aggrada! Ma non dimenticatevi che una corsa in automobile dai Talbot potrebbe costarvi la pelle! Volete ricordarvi che siete molto malata di cuore?» «Non m'importa un cavolo! Anche a costo di schiattare... la mia bambina avrà quel che le aspetta!» «Sentite, Polly» indagai con aria distratta. «E... la conoscete voi, la persona che deluse così profondamente la signora Talbot?» «Non fare lo scemo! Certo che... non nego di conoscerla! Ma a te non lo dirò neanche se mi ammazzi!» «Basta, Polly. Fate come meglio credete. Se proprio sarete così pazza da volervi recare dai Talbot prendete prima almeno due o tre di quelle pillole che vi ho dato, potrebbero anche aiutarvi a non crepare al volante del vostro macinino!» E con questa funerea ammonizione, abbandonai indignato la mia caparbia paziente. Chiamai il mio collega Lavers a! telefono pubblico che si trovava in un buio corridoio. Il giovane accolse la notizia del ritrovamento
della sua Imogene con la gioia d'un liceale promosso agli esami di riparazione. Non appena infilai la soglia del bar udii levarsi dal fondo del capace stanzone un coro di voci allegre, impegnate a cantare un brindisi. Quelle voci avevo imparato a conoscerle fin troppo bene, ormai. Erano quelle dei coniugi Fiske e di Lena Bartholomew. Tornando sulla prima impulsiva decisione di cercare di non farmi vedere, marciai direttamente verso il gruppetto che levava verso il soffitto enormi tazze di birra scura, spumante. «Il nostro caro dottor Westlake, a quanto sembra!» commentò Gail per prima. «Sedete e bevete con noi, vecchio cavallo dalla croce rossa» osannò Conrad. «Oggi è una giornata da iscrivere a lettere d'oro negli annali della nostra città! Le venerabili barbe del consiglio accademico hanno deciso di accorgersi ufficialmente delle nostre ricerche. Ci hanno aperto la porta dei loro laboratori e dei loro stabularii.» «Prima di trincare in vostra compagnia avrei due paroline da dirvi!» obiettai maligno. «E va bene!» proruppe Gail indignata. «Potreste anche risparmiare il fiato, ma se proprio ci tenete, venite alle otto e mezzo a casa nostra. Saremo pronti ad ascoltare il vostro fervorino contro la vivisezione.» «Ci sono novità di Imogene Arthur?» intervenne pronta Lena Bartholomew. «Siamo così ansiosi per quella povera piccina!» E per meglio affogare tanta ansia infilò quasi tutta la testa nella capace tazzona di birra che aveva in mano. «Novità di Imogene» ripetei con un risolino. «Ce ne sono a iosa. Tra l'altro è qui... Salite di sopra e le potrete parlare.» I Fiske e la Bartholomew si alzarono contemporaneamente, vociando. Per sfuggire al loro assalto li indirizzai da Polly. Stanco delle molteplici emozioni della mattinata, raggiunsi correndo l'auto in cui mi attendeva Hermia. E non appena la vidi decisi che non avrei aggiunto neppure un giorno ai lunghissimi otto anni di vedovanza che avevo alle spalle. «Hugh!» mi domandò Hermia piena di apprensione. «Ti ha detto Polly che cosa voleva da Raynor? Sono preoccupatissima! Quando gli pronunciai la frase di Andy, Ray impressionato farfugliò cose incomprensibili al telefono... Credi che Polly abbia scoperto qualcosa di orribile che riguarda Ray?» «Non credo» risposi assente. «E smettila di parlare di sciocchezze che non ci riguardano affatto!»
«Che c'è, Hugh? Per l'amor di Dio! Ho forse fatto...» S'interruppe non appena la mia auto parti a tutta velocità. «Sai dove andiamo?» domandai sorridendo. «Andiamo a sposarci per direttissima.» «Hugh!» esclamò stupefatta e felice la giovane. «Non so se devo ridere o piangere! Comunque... andiamo pure a sposarci! E fa' in fretta!» Da quell'istante vissi accanto a Hermia come in un sogno. Ricordo vagamente la corsa folle verso l'ufficio dello Stato Civile; il febbrile errare da un corridoio all'altro, in cerca dello sportello adatto. Finalmente, ci ritrovammo allegri come scolaretti in vacanza davanti a un impiegato dai capelli bianchi, che sorridendo con aria paterna ci impartì le istruzioni sul modo di riempire debitamente un modulo. Quando glielo consegnammo dopo averlo firmato entrambi restai in attesa stringendo tra le mie le mani tremanti di Hermia. Improvvisamente, il vecchio alzò lo sguardo dal foglio che gli avevo consegnato e mi impose con aria subitamente severa di ripetere il mio nome. Uditolo, s'allontanò scrollando il capo. «Che c'è ora?» domandai ad Hermia un poco spaventato. «Nulla!» mi rispose sorridendo. «Forse, quella grinta fa parte del cerimoniale!» In quell'istante il primo impiegato comparve al fianco di un altro vecchio allo sportello dove ci trovavamo. «Sono spiacente» affermò gelido. «Ma non siamo in grado di concedere il "nulla osta" matrimoniale al nome del signor Hugh Cavendish Westlake!» «E perché, di grazia?» ruggii subito incollerito. Mi rispose il primo impiegato. «Sono pervenute ai nostri uffici, proprio in questi giorni, due diverse comunicazioni. Ci informavano che con tutta probabilità avreste chiesta una licenza di matrimonio. Voi però non avete diritto di ottenerla!» «Siete pazzo?»strillai inviperito. «Ma... Se non lo sapevo neppure io, sino a cinque minuti fa, di volermi sposare oggi, come è possibile che...?» «Questo non ci riguarda!» dichiarò severo il secondo impiegato. «Dobbiamo però osservare le leggi. Vi si denuncia come già coniugato e prima di concedervi un certificato di matrimonio, dovranno essere esperite le indagini del caso!» «Che bellezza!!» sussurrò Hermia divertita come una bambina alla vista d'un balocco nuovo. «C'è un impedimento al tuo matrimonio! Ne avevo sempre sentito parlare ma non ne avevo mai veduto uno! Che cos'è?»
«Sì» incalzai rivolgendomi ai due vecchi dello sportello. «Voglio vedere anch'io questa... denuncia... questo impedimento o come diavolo si chiama!» «Non possiamo rivelarvene la fonte» osservò solennemente il primo vecchio. «Ma vi mostreremo quanto basta perché vi rendiate conto della situazione in cui vi trovate!» E mi tese due foglietti dattilografati. Il primo diceva: "Hugh Westlake è un serpente nascosto nell'erba. Io sono sua moglie! La sua legittima sposa! E son pronta a provarlo in tre giorni, purché ne venga fatta richiesta. Nel caso che quel verme chiedesse una licenza di matrimonio sappiate che non è divorziato né vedovo. Per informazioni, rivolgersi a...". Passai quella vigliaccheria a Hermia senza una parola di commento. Sul secondo foglietto lessi: "Prima di concedere licenza di matrimonio a Hugh Cavendish Westlake, medico chirurgo abitante a Kenmore (Grovestown) accertare che egli non sia ancora legalmente coniugato a Grace Agatha Westlake (detta Grace la Grassa) attualmente detenuta nel penitenziario di Stato di Tulalahoo per rapina a mano armata...". «Questo è uno scherzo di cattivo genere!» tuonai pallido d'ira. «Mia moglie è morta da otto anni! Non si chiamava affatto Agatha e neppure Grace! Son tutte fandonie!» «Noi comunque, abbiamo il dovere di compiere gli accertamenti dei caso!» ripeterono in coro i due vecchi da dietro la loro gabbia. Hermia rideva come una pazza. «Ah! Casanova!» ripeteva. «Barbablù che non sei altro! Grace la Cicciona, eh?» «Basta!» strepitai. «Telefonerò all'ispettore Cobb. Qui c'è qualcosa che non va, e voglio sapere che cosa...» L'amico, che faticai non poco a rintracciare all'ufficio segnaletico della Centrale di Polizia, parve assai divertito nell'ascoltare il racconto delle mie ultime avventure. «Non te la prendere Westlake! Saranno state le tue pazienti! Non ti molleranno tanto presto dalle loro grinfie! Si opporranno alla tua bella Hermia con tutte le forze! Abbi pazienza! Esperite le indagini otterrai la tua licenza. E... figli maschi! A proposito» concluse Cobb. «Che sia Dawn l'autrice di quelle letterine allo Stato Civile?»
«Che! La mia bambina?» urlai con voce strozzata. Dominandomi a stento, gii comunicai freddamente che avevo veduto Imogene Arthur da Polly e troncai la comunicazione augurando all'amico di scendere presto agli inferi... Hermia sorrideva sempre. Ma mentre l'osservavo vidi la sua espressione serena dileguarsi dal bel viso. Improvvisamente divenuto ansioso, il volto della donna che amavo tradì il timore di una minaccia occulta... una subitanea ambascia. Tristi, ci allontanammo dallo sportello dove altre coppie più fortunate avrebbero ottenuto di sposarsi. Quel giorno, noi non avremmo potuto coronare il nostro sogno... XXI Nel riaccompagnare Hermia a casa non pronunciai parola. Cupo e accigliato, badavo solo alla strada che mi stavo avanti riandando col pensiero alle tristi esperienze dei giorni passati. M'avevano rubato la morfina, m'avevano rubato i leprotti di Dawn, strangolato il pappagallo... Poco era mancato che finissi arso vivo in una cantina! E come se non fosse bastato... mi avevano messo nelle condizioni di non potermi sposare. Dei miei propositi, non era rimasto attuabile che quello di condurre Hermia nella fattoria di quella mia paziente che aveva avuto un bimbo pochi giorni prima. Sarei andato a prendere la mia fidanzata alle otto e mezzo. In quell'occasione, avrei sfogato tutto il mio livore sui Fiske, i vivisezionatori clandestini... Lasciata Hermia, tornai a casa. E un poco del mio malumore si disperse come nebbia al sole nel vedere il gaio quadretto formato dalla mia bambina che sorpresi in sala da pranzo circondata dal suo cucciolo e dai due leprotti. Alle otto ero già in anticamera pronto per uscire. Mi trattenne all'ultimo istante lo squillo del telefono. Si trattava di Cobb. «Salve Westlake!» disse l'ispettore. «Ricordi il famoso espresso della signora Talbot?» «Neanche un po'!» tuonai con feroce ironia. «Ho rischiato di bruciar vivo per recuperarlo, ma naturalmente non me ne ricordo!» «Be'...» riprese Cobb conciliante. «Ho scoperto chi l'ha scritto. E siamo stati proprio due idioti a non intuirlo prima. Ho fatto fare i debiti controlli da un esperto calligrafico, e ho potuto stabilire che l'ha scritto Polly Howett! Era stata lei la prima, infatti, ad accennare di sapere qualcosa della morte misteriosa della Talbot. Ora vado alla taverna. E questa volta Polly
dovrà parlare! Conosciuta l'identità della persona che procurò alla povera signora Talbot quella famosa delusione, sapremo anche il resto. Ti verrò a trovare a casa tua più tardi.» «Ciao Cobb!» pronunciai un poco angosciato. L'ispettore aveva già tolto la comunicazione. Montai in auto immerso in tristi pensieri. A casa Talbot m'aperse la porta Josephs. Non si abbandonò alla menima confidenza. Mentre attendevo in anticamera, il domestico, freddo e compassato, riprese a riordinare una pila di giornali senza degnarmi di uno sguardo. «Bisogna sempre conservarli in luogo opportuno, i quotidiani» brontolava. «Io tutte le sere li metto in un mobile del sottoscala. Non si può mai sapere... Possono sempre servire, i giornali!» Gli domandai di condurmi dal signor Conrad. «È nel suo laboratorio, signore!» m'informò. E fattomi attraversare la parte posteriore della casa, quella ancora in abbandono, m'aperse una porta che dava in un cortile che si apriva sulla rimessa delle automobili. Accanto alla autorimessa sorgeva un piccolo edificio di cui potevo vedere una finestra illuminata. «È lì, signore» indicò Josephs. «E...» riprese in un sussurro «è giusto che lo sappiate! Oggi ho presentato le dimissioni. Dopo quanto è accaduto l'altra sera, non mi sento più sicuro qui!» Non potevo dargli torto. Rimasto solo nel buio del giardino mossi verso il laboratorio dei Fiske. E costeggiando la parte posteriore dell'edificio principale, passai accanto a una finestra di cui non avevo mai notato l'esistenza. Le luci all'interno erano accese; le vedevo brillare dietro le cortine che coprivano la vetrata, Sullo sfondo dello schermo sericeo delle tendine vidi ondeggiare due figure. Una maschile, l'altra femminile. L'uomo volgeva le spalle alla finestra e lo riconobbi prontamente per Talbot. La donna si muoveva davanti a lui e non mi riuscì di distinguerla. Neppure quando, allungate le braccia a cingere il collo del bel Raynor, chinò il volto su di lui in un lungo baciò appassionato. Immobile, ristetti in preda a un certo imbarazzo. Ne avevo apprese di belle sul conto del decoratore d'interni. Ma non l'avrei mai creduto capace di un contegno simile nella casa della moglie che gli era morta pochi giorni prima. Anche quella danna, pensavo, chiunque essa fosse, doveva essere davvero una poco di buono. Non appena entrai nel laboratorio dei Fiske, non potei fare a meno di ammirarne l'ordine, la ricchezza degli stupendi apparecchi che lo facevano certamente uno degli impianti meglio dotati che avessi mai visti per le ri-
cerche chimiche. La generosa signora Talbot doveva avervi profuso dollari a migliaia. Conrad, la giovane nervosa figura avvolta in un candido camice, osservava con somma attenzione tutta una serie di provette colme, schierate davanti a lui. Vedendolo al lavoro, m'accorsi d'averlo forse giudicato ingiustamente. Aveva tutta l'aria di sapere effettivamente il fatto suo. Dopo qualche tempo sembrò accorgersi della mia presenza. Tuffò le dita tinte di sostanze chimiche diverse nella profondità d'una delle sue tasche e prima di salutarmi, estrasse una sigaretta che accese. «Debbo levarmi i calzoni, papà Westlake?» mi domandò ironico. «O preferite sculacciarmi con le braghe indosso? Lena Bartholomew» aggiunse poi in tono bellicoso «m'ha detto che vi siete impegnato a non far nascere alcuno scandalo inutile in merito alla faccenda della vivisezione!» «Non ho fatto alcuna promessa Fiske!» proruppi. «Mi sono soltanto degnato di dirvi due paroline prima di denunciarvi alle competenti autorità! Non sono uno antivivisezionista! Ma la crudeltà gratuita è cosa che non posso ammettere!» «Lo so; avete ragione» ammise Conrad imbarazzato. «Tuttavia, voi lo sapete meglio d'ogni altro, agli studenti di medicina non è permesso di lavorare con gli animali da laboratorio, all'università! Vi prego, dottor Westlake, siate buono! Non denunciatemi proprio ora!» «Non piagnucolare idiota!» strillò Gail improvvisamente apparsa sulla soglia del laboratorio. «Non denuncerà nessuno, vero? Non vi converrebbe» disse rivolta a me «trascinare la famiglia in uno scandalo... proprio adesso che... C'intendiamo, vero? È vero. Conrad ed io vi dobbiamo un mondo di scuse» prosegui la giovane avvicinandosi a noi «ma nella vostra qualità di medico... preoccupato del bene dell'umanità vi renderete conto che...» «Potete arrogarvi il diritto di mettere alla tortura una quantità di povere bestie innocenti? Perché siete due geni incompresi?» interruppi. «Se pariate di Conrad, è proprio così. È geniale, sapete quel ragazzo. L'ho sposato appunto per questo. Non certo per il suo brutto muso! Nulla gli può essere vietato! Non permetterò a nessuno di mettergli i bastoni tra le ruote!» «Naturalmente. E tutti gli animali di Kenmore, compresi i leprotti di razza belga di mia figlia, dovrebbero sentirsi esilarare all'idea d'esser sacrificati sull'altare della scienza del dottor Fiske!»
«Già!» rispose pronta Gail. «I leprotti di razza belga! Non sapevamo che fossero vostri. Altrimenti non li avremmo presi! Ve li avremmo chiesti in prestito! Povere bestiole, mi spiace proprio...» «Non preoccupatevene!» interruppi sarcastico. «Sono a casa mia vispi ed arzilli, a quest'ora!» «Che!» esplose Conrad agitatissimo. «Sono vivi? Stanno bene?» urlò afferrandomi per le braccia. «Urrrààà!» strepitò iniziando una folle sarabanda tra i tavoli del laboratorio. «Gail ci sono riuscito! Il nostro composto numero dieci non è tossico! Non è letale! Oh gioia! Oh tripudio!» Completamente dimentichi della mia presenza, i coniugi Fiske si baciarono follemente per una decina di minuti. Terminate le effusioni, Conrad mi si mise accanto afferrandomi una mano. «Dottore!» esordi. «Ve lo dico sotto il vincolo del più assoluto segreto. Ci occupavamo da lungo tempo dei derivati dello...» E qui tracciò una serie di spaventose catene di benzeni. «E partendo da un semplice derivato dell'oppio sintetico cui avevamo aggiunto diversi ossidrili del gruppo...» Non lo interruppi per non svelare a quel diabolico giovane la mia profonda ignoranza della chimica organica. Miravo soprattutto a sapere perché avesse strangolato il pappagallo di Polly e lo lasciai dire sopportando paziente la sua lezioncina. Ma Conrad non aveva alcuna intenzione di far sfoggio di scienza. In breve, compresi che era riuscito a trovare un composto sintetico dagli effetti analgesici simili a quelli del gruppo morfina-eroina, del quale non possedeva però gli effetti tossici e d'assuefazione. Si trattava davvero di una scoperta sensazionale. Nell'intento di sottoporre alla prova dei fatti l'assenza di tossicità del loro ritrovato, i Fiske avevano dato la caccia a tutti gii animali a quattro zampe della regione. «Se non fosse stato per questo» intervenne Gail ad un certo punto «non mi sarei mai sognata di rubare il gatto al povero Bill Strong!» «Eureka!» ululò Conrad improvvisamente. «E ora all'università ci daranno carta bianca! Basta con quelle povere bestie, in cantina!» Non mi sentii il coraggio di smorzare tanto entusiasmo, ricordandogli che il cadavere di Bill Strong aveva rivelato, all'autopsia, tracce non trascurabili di morfina... «E il pappagallo di Polly?» indagai fingendomi sempre severo. «Che cosa vi proponevate di fare? Perché strangolarlo barbaramente con quel filo di rame?»
«Chi? Andy? Hanno strangolato Andy?» domandò Gail con sincero stupore. «Proprio Andy!» ribadii nuovamente incollerito. «E non potete esser stati che voi!» «Non è vero!» strillò Conrad dopo aver scambiato un'occhiata piena di meraviglia con la moglie. «Noi non facciamo esperienze col filo di rame! Quello là, piuttosto! Lui sì che ha la coscienza sporca! Hai visto Gail? Avevo ragione io!» «Taci, maledetto idiota!» ruggì Gail pallidissima. «Sei pazzo!» «Niente affatto» ribatté Conrad indignato. «Avevo scommesso un dollaro con Gail» spiegò lo studente rivolgendosi a me «che Raynor andava alla taverna di Polly per... insomma... non soltanto per ingollare il brandy di quella vecchia canaglia!» «Ma sta' zitto!» strepitò nuovamente Gail afferrando il marito per un braccio. «Perché dici tutte queste orrende bugie?» «Piantala Gail!» protestò Conrad. «Westlake è un ometto ormai! Non si stupisce che la gente cerchi e trovi soddisfazione alla propria sete d'amore! La signora Talbot era molto malata, purtroppo, e Ray saliva volentieri al piano superiore, da Polly. Andy deve averlo veduto spesso e quando l'ha riconosciuto, il giorno in cui l'avevate portato qui con voi, gli avrà squittito contro il suo infernale ''Polly sa tutto!" Raynor, coda di paglia per eccellenza, ha preso l'uccellaccio e gli ha tirato il collo!» Cadde il silenzio. Assimilata la teoria di Conrad, proseguii il mio interrogatorio. «La morte di Andy, diamola pure per spiegata... Ma... Che cosa v'è saltato in mente di tentare di farmi fare la fine di un prosciutto affumicato giù in cantina?» «Non siamo stati noi!» dichiarò Gail impallidendo per la seconda volta. «Quando si sviluppò l'incendio noi non eravamo neppure in casa, tanto è vero che...» S'interruppe improvvisamente allo spalancarsi dell'uscio, Sulla soglia si profilò la possente figura di Raynor Talbot. Barcollava e aveva tutta l'aria d'aver alzato eccessivamente il gomito. Mosse con passo incerto verso di noi tendendoci un periodico illustrato a colori. «Guardate un po' qui, ragazzi!» disse. «C'è un articolo che parla di me sul Decorator's Journal. Dicono che il mio stile è un capolavoro di modernità... Una grottesca sinfonia di... non so che cosa... e...»
«Naturalmente! Ti sei affrettato a innaffiare d'alcol la tua gloria» intervenne Gail prendendo la palla al balzo. «Andiamo ragazzi! Beviamoci sopra un bel bicchierino. Viva il nostro Ray!» Ciò dicendo, Gail aveva afferrato il padrigno per un braccio. L'uomo però non si mosse. Stette fermissimo di fronte a me e farfugliò: «...iccola 'sticciola... Veniteci anche voi dottor Westlake» riuscì a dire più distintamente piegandosi in un comico inchino che minacciò di fargli perdere l'equilibrio. «E... portateci la vostra piccola amica...» «Piccola amica?» ripetei stupitissimo. «A chi intendete alludere?» «Alla vostra amica! Quella che vi aspetta nella vostra automobile! L'ho veduta in questo momento attraversando il cortile! Poverina! Fuori fa un freddo birbone. È arrivata in questo istante tracciando una serie di arditissimi zig-zag. Dovreste dirle di stare più attenta! Non si sa mai, con l'auto!» Afferrò Gail e la trascinò con sé fuori dal laboratorio. «Lo fa spesso?»domandai a Conrad quando fummo nuovamente soli. «Intendo... la sbornia!» «Be'... Qualche volta... Ma non ha detto che c'era una donna nella vostra automobile?» «Andiamo un po' a vedere!» dissi. Afferrai una torcia elettrica da un tavolino e mossi in direzione del cortile. Vidi ben presto la mia vettura, ferma dove l'avevo lasciata accanto all'ingresso posteriore. Era vuota. «Eccola li!» gridò Fiske a questo punto. E mi volsi verso il giovane che mi indicava una vettura che non avevo notato sino a quel momento. S'era fermata con il paraurti a un millimetro di distanza dall'angolo dell'edificio. Aveva i fanali spenti. «Chi è?» domandai incuriosito. «Non saprei proprio» rispose Conrad con voluta indifferenza. «Forse è l'amica di Josephs» aggiunse lugubre. «Sembra addormentata!» A quelle parole avvertii una stretta al cuore. L'auto aveva la stessa sagoma di quella che sapevo appartenere ad Hermia. Non avevo più veduto la giovane dal momento in cui l'avevo lasciata davanti a casa sua nel pomeriggio... Qualunque cosa poteva esserle accaduta, a partire da quel momento! Inciampando tra cespugli ed aiuole mi precipitai verso il veicolo. Fiske s'era fermato poco lontano dalla porta del suo laboratorio. Al lume della torcia elettrica, distinsi vagamente un volto femminile. Aveva il cappellino di sghimbescio sulla fronte. La donna s'era accasciata contro la portiera anteriore. Mentre con le dita tremanti cercavo di far scattare la maniglia, la
lampada mi cadde per terra e si ruppe. Mi trovai avvolto da una oscurità che mi sembrò impenetrabile. Ritrovai la maniglia della portiera. Quando l'apersi, mi sentii scivolare tra le braccia un corpo inanimato. XXII I minuti durante i quali rimasi al buio con i muscoli tesi al massimo dello sforzo per impedire che quel corpo mi cadesse dalle braccia, mi sembrarono secoli. «Luce!» urlai all'indirizzo di Conrad. «Ho perduto la lampadina tascabile!» Ma quel giovane e geniale idiota sembrava non volersi render conto della situazione drammatica in cui mi trovavo. Calmo e compassato mi raggiunse accanto all'automobile, Cercò la lampada che mi era caduta. E quando l'ebbe trovata perse qualche minuto nel tentativo di farla funzionare. Non riuscendo a riaccenderla offerse di andare a prendere un fiammifero nel laboratorio. «Pezzo di cretino!» proruppi col cuore in gola. «Ma non vedete che dobbiamo portare questa poveretta in casa? Aiutatemi a sorreggerla invece di star li a perder tempo inutilmente!» «Portiamola in laboratorio!» propose allora Conrad. «Li potremo osservarla meglio.» La voce del giovane giungeva alle mie orecchie come in un sogno. Non so come, ci trovammo sulla soglia del locale che i Fiske adibivano alle loro ricerche. Deposto su di un tavolo il corpo della donna, non riuscii a riconoscerla che dopo qualche minuto. E quando i miei poveri occhi si furono abituati di nuovo alla luce potente delle lampade del laboratorio, provai un senso di stupida soddisfazione. «È Polly Howett!» balbettai. Nel trasportarla, le avevamo perduto il cappellino. I capelli inariditi e ingialliti dalle molte tinture, le incorniciavano il volto dal colorito cianotico. Le labbra rivelavano sotto la spessa patina del rossetto, una pigmentazione strana, orrenda. Gli occhi, ancora aperti, ci fissavano con una espressione vagamente sarcastica. «Che diavolo fa qui, costei?» volle sapere Conrad. «Nulla!» risposi. «Non farà mai più nulla su questa terra...» Recuperando il controllo di me stesso, sollevato ormai dell'angoscioso timore d'aver sorretto a lungo, nel buio, la salma della mia Hermia, fui in
grado di ricostruire l'accaduto. Polly era venuta a casa Talbot, infischiandosene delle mie raccomandazioni. Il cuore aveva ceduto sotto una fatica che non era stato più in grado di compiere. Ascoltata la mia lezioncina sul meccanismo delle miocarditi degeneranti, Fiske volle sapere perché Polly fosse venuta li quella sera. «So che desiderava parlare con Ray...» mi limitai a dire. «Ray!» ripeté stupitissimo Conrad. «Volete dire che si divertiva con Polly quel...» Cadde il silenzio. Non avevo alcuna intenzione di far conoscere al marito di Gail la ragione che aveva spinto la Howett a venire in cerca di Raynor Talbot. Quell'informazione intendevo riserbarla per Cobb. Fiske s'era chinato ad osservare attentamente la salma. «Guardate un po' quegli occhi, Westlake» disse improvvisamente. «Non sono che uno studente del terz'anno» aggiunse «ma son pronto a mangiarmi un gatto vivo, e con tutto il pelo e le ossa, se questa donna non è morta per avvelenamento da morfina!» Provai una stretta al cuore. E ricordai le fosche previsioni di Cobb. Sino a quell'istante tuttavia la conoscenza esatta che avevo delle condizioni di salute della mia paziente, m'avevano indotto a ritenere il decesso di Polly dovuto a cause naturali. Nel sentir parlare di morfina invece, ricordai, ancora incredulo, la lettera espresso che la donna aveva inviato a Madeleine Talbot. Polly "sapeva tutto" e l'ignoto assassino l'aveva colpita. E s'era servito delle compresse di morfina sottratte dalla mia valigetta di umile medico di campagna! Eccitatissimo, Fiske aveva dato la stura ad una lunga dissertazione teorica intorno ai probabili effetti della morfina su di un corpo malato come quello di Polly. Non lo ascoltai. Cobb, ricordavo, s'era proposto di interrogare la povera Polly Howett. Qualcuno l'aveva prevenuto, uccidendola. «Che succede qui?» strillò una voce femminile in quell'istante. Mi volsi trasalendo all'ingresso di Gail. «Venite di là per favore! Ray si sta ubriacando tutto solo e...» continuò la donna. S'interruppe quando muovendo verso di noi vide finalmente il cadavere che giaceva sul tavolo. «Polly Howett!» balbettò. Tacque, vivamente commossa. Conrad ripeté a tutto beneficio della moglie la sua diagnosi. «Avrà avuto il cuore sfasciato, siamo d'accordo» concluse «ma questa poveraccia è partita per aver ingerito una dose letale di morfina!» Gail sembrava non ascoltare. Fissava Polly con il piccolo viso contratto da una espressione enigmatica.
«Chiameremo la polizia!» decisi tagliando corto. «Non ne vedo proprio la ragione!» sussurrò Gail. «Ma come!? Non avete sentito che cosa sostiene vostro marito? È più che giusto chiamare immediatamente...» «Conrad è un esperto teorico!» precisò la giovane sorridendo debolmente. «Dottor Westlake» disse poi, dopo una breve pausa «nessuno ce l'ha detto... ufficialmente, ma... è vero che l'ispettore di Grovestown sospetta che la mamma sia stata assassinata? Non vi chiedo di confermarlo» proseguì rapidamente. «Mi basta giudicare dall'espressione del vostro viso! Purtroppo so che è stato così. Ma se ora Conrad comincia a mettere una pulce nell'orecchio della polizia ci troveremo coinvolti nel più clamoroso scandalo del secolo! A che servirebbe? Polly è morta in seguito a un attacco del suo mal di cuore e... buona notte! È vero che nel suo insieme, la mia famiglia è una schifezza indicibile... ma voi caro dottore intendete divenirne un membro aggiunto, se non erro! Avete tutto l'interesse a tacere! Non vi sembra?» «Spiacente Gail!» dichiarai fermamente. «È mio dovere informare la polizia, e nessuno riuscirà a farmi tornare su questa decisione!» «Quand'è così... aspettate un momento dottor Westlake» mi ingiunse Conrad Fiske. «Facciamo le cose in perfetta regola! Usciremo tutti insieme dal laboratorio. Voi ne chiuderete la porta con la chiave. Qualcuno... potrebbe far sparire qualche indizio importante! E non si vada a dire poi che i coniugi Fiske non hanno voluto collaborare con le forze dell'ordine!» XXIII Seguito dai silenziosi studenti di medicina, mi diressi verso la casa dei Talbot. Nel passare accanto alla macchina di Polly intravidi una sagoma vaga che riconobbi alla fine per quella di Lena Bartholomew. Aveva veduto l'automobile dalla cucina, disse ed era scesa a vedere a chi appartenesse. Informata di quanto era accaduto, l'infermiera accettò come necessità ineluttabile il mio proposito di rivolgermi alle autorità. Stavo per riprendere il cammino, quando una automobile risali a forte andatura la carrozzabile privata dei Talbot. Era Cobb. Non avendo trovato Polly alla sua taverna l'ispettore aveva subito ritenuto logico ricercarla dai Talbot. Non appena ci scorse nell'ombra l'amico si diresse verso di noi. «Salve, Westlake!» mi salutò. «Naturalmente, sei qui! Hai veduto Polly Howett per caso?»
Ascoltò la mia relazione degli ultimi avvenimenti con aria assai cupa. Ordinò a Conrad di telefonare al perito settore nell'l'ufficio del magistrato inquirente. Impose alle due donne di attenderlo in casa e si avviò rapidamente verso il laboratorio trascinandomi per un braccio. Entrati nel vasto ambiente, Cobb osservò a lungo la salma che giaceva sulla tavola. Dopo un interminabile silenzio disse: «A quanto pare ci hanno preceduti! Hai un'idea del come sia morta, Westlake?» «Non mi sono ancora fatto un'idea precisa» risposi. «Fiske, tuttavia, asserisce che si tratta di avvelenamento da morfina!» «Fiske, eh? L'ha dichiarato spontaneamente?» «Sì. E può darsi che abbia ragione.» «M'han detto che oggi sei stato da Polly. Le hai dato qualche pastiglia di morfina?» «No Cobb! Non glie ne ho date! Assolutamente!» «Ciò significa che le hanno somministrato le pastiglie che ti avevano soffiate dalla borsa. Come avran fatto poi...» «I Talbot, stamani, si trovavano tutti da Polly» lo informai. «Tutti... tranne Raynor Talbot.» Fu bussato alla porta. Al nostro invito ad entrare, apparvero sulla soglia Phil Lavers e Imogene Arthur. La fanciulla aveva il volto disfatto dall'angoscia e si reggeva a stento al braccio del fidanzato. «È proprio vero, allora... balbettò.» Hanno... Polly è morta vero? Posso venire a guardarla... un solo minuto? Cobb, ad un mio sguardo interrogativo, fece un cenno d'assenso. La fanciulla si avvicinò con passo malfermo al tavolo. «Povera Polly!» sussurrò Imogene con voce di pianto. «Era venuta qui per me... È morta per causa mia! Phil sa tutto ormai, dottor Westlake! E ha detto che mi sposerà egualmente... Anche se Polly era la mia mamma! Avrei tanto desiderato farle sapere che tutto era andato proprio come aveva preveduto lei! E ora...» Imogene Arthur si coprì gli occhi pieni di lagrime con una manina tremante. Lavers la strinse a sé con gesto affettuoso. Quella triste scenetta non aveva alcun significato per il mio amico Cobb che ignorava quanto era accaduto quel mattino al Polly's Inn. Lo misi al corrente e l'ispettore si rivolse a Imogene per chiedere: «Signorina Arthur, scusate... Poco fa avete affermato di sapere che Pol... la vostra mamma... era venuta qui, questa sera per "causa" vostra... Che intendevate dire con esattezza?»
Imogene era ancora in preda a vivissima commozione. Per evitarle di rispondere spiegai a Cobb che Polly, quel mattino, aveva espresso il desiderio di conferire con Raynor Talbot in merito al mutato destino di talune voci dell'eredità lasciata da Madeleine Talbot. «La signora Talbot» intervenne inaspettatamente rianimata Imogene Arthur «mi aveva detto che una persona della sua famiglia le aveva dato un grave dispiacere. Mi disse anche che intendeva lasciare a me la somma di danaro che aveva già destinato a quella persona. Naturalmente, non avrei accennato a questo particolare se Pol... la mamma... non avesse ribadito che era giusto far valere i miei diritti! Ed ora la mamma è morta di paralisi cardiaca... L'ha uccisa la fatica di aver guidato l'automobile fin qui! Per questo dicevo che era morta per causa mia!» «La signora Talbot» indagò Cobb allora «non ha nominato la persona che si proponeva di diseredare?» Imogene scosse il capo in segno di diniego. «Polly però la conosceva?» incalzò l'ispettore. «S-sì... Credo proprio che la mamma sapesse!» «Capisco!» brontolò Cobb pensieroso. «Dottor Lavers» aggiunse «vogliate accompagnare la signorina in casa. Avremo modo di fare ancora una chiacchieratina... più tardi.» «Be'... Che ne pensi, Cobb?» domandai quando fummo soli. «Sino a che Forder non abbia eseguita l'autopsia, non posso pronunciarmi, vecchio mio. Ma se non mi sbaglio, siamo tornati nuovamente allo stesso punto di qualche giorno fa. Polly ha fatto una scorpacciata delle pillole di morfina che il nostro assassino ha trovato modo di farle ingurgitare. Questa povera vecchia sciagurata è morta perché sapeva il nome della persona che aveva profondamente deluso la signora Talbot. Sappiamo che il colpevole è uno dei membri della famiglia, ma trovarlo è come cercare un pecora nera in mezzo ad un branco di pecore... nerissime!» «Potremmo cominciare a scartare Imogene!» osservai. «Era lei la persona destinata a papparsi la fetta di dolce del colpevole!» «Non abbiamo che la parola dell'interessata per crederlo! E poi... Perché la signora Talbot avrebbe scelto di svelare alla Arthur l'identità di sua madre, proprio quella famosa sera?» «Quella povera figliola non ha dato alcuna spiegazione intorno a questo particolare.» «D'altra parte... l'espresso l'aveva proprio scritto Polly. E son certo che la poveretta chiedeva alla signora Talbot di svelare il suo segreto a Imogene. Certo... non sappiamo perché Polly avrebbe dovuto scriverle proprio in
quel giorno ma... Andrò a scambiare due paroline con Raynor Talbot! Deve saperla lunga quel sornione. Vieni anche tu Westlake.» Lo seguii volentieri, memore com'ero della scena del bacio alla finestra. In cortile trovammo Forder attorniato da una muta di poliziotti pronti a dare la caccia alle impronte digitali sull'automobile di Polly. Talbot che avevo veduto ubriaco poco prima, s'era inspiegabilmente rimesso in sesto. Ci accolse sorridendo, pieno di cordialità. Entrammo nel suo studio. Non appena seduti, Cobb si gettò decisamente all'attacco. «Sapevate che Polly Howctt, la madre di Imogene, era venuta qui questa sera, per conferire con voi?» «Sapevo che era la mamma di Imogene! Me l'aveva detto Madeleine. Ma non sapevo che fosse venuta per me!» «Sostenete quindi di non averla veduta questa sera! Di non averle parlato!» «È così ispettore! Appresi della sua presenza qui soltanto quando vidi la sua vettura. E... credetti che si trattasse di una amica di Westlake, tra parentesi...» «In altri termini... Ritenete che quella donna sia morta ancor prima di scendere dalla sua vettura! Benissimo. E dato che sostenete di non conoscere la ragione della sua visita, ve la dirò io. Polly desiderava discutere con voi taluni aspetti della distribuzione dei beni lasciati da vostra moglie. La signora Talbot infatti aveva pensato di intestare a Imogene Arthur una parte delle sue sostanze, già destinate ad altro membro della famiglia.» Raynor Talbot arrossi violentemente. Si asciugò la fronte con un fazzoletto e giurò sui suoi morti di non saper nulla di quanto gli andava raccontando l'ispettore. Toccava a me. «Della circostanza cui accennerò tra qualche istante non ho ancora detto una parola a nessuno» esordii. «Sappiate dunque che la notte antecedente il suo decesso, vostra moglie mi chiese di convalidare un documento con la mia firma. Mi disse che si trattava di una comunicazione destinata a un membro della vostra famiglia. Ne sapete niente, voi?» «Assolutamente niente!» vociò Talbot guardandomi stupefatto. «E ho capito tutto ormai. Voi due state insinuando che Madeleine si fosse proposta di diseredare qualcuno di noi! Non può essere! Peggio!» concluse impallidendo. «Sospettate che mia moglie sia stata uccisa!» «Infatti!» commentò Cobb. «E ritenete che sia stata uccisa anche Polly?»
«Può essere!» rispose l'ispettore alzando le spalle. «Non avete altro da aggiungere?» Talbot era impallidito di nuovo, in modo pauroso. «Nulla, vi dico!» rispose con voce roca. «Ho soltanto da dirvi che siete pazzi a sollevare un putiferio soltanto perché quella vecchia baldracca... Polly insomma, era venuta qui... a ricattarmi! E questo è quanto avevo da dirvi! Posso andare ora?» «Un momento, prego!» intervenni. «Questa sera, del tutto casualmente, vi ho veduto baciare una donna. Potreste illuminarci sul vostro contegno?» Poco mancò che Talbot mi appioppasse un cazzotto al mento. «A che serve negare?» disse invece dominandosi e sorridendo pietosamente. «Sarà meglio che vi dica tutta la verità.» E ci raccontò che Polly, pazza di lui sin dai lontani tempi in cui s'erano conosciuti a New York, era venuta per costringerlo a rinverdire una relazione amorosa ormai inaridita da tempo. «Non le avete dato della morfina, per caso, mentre ve la stringevate al seno?» chiese Cobb ironico. «Morfina?» strillò Talbot. «Siete pazzo!» «Sta bene. Per il momento basta così» disse l'ispettore. E si alzò. Talbot non si mosse. Mentre uscivamo lo vedemmo aprire l'armadio dei liquori. Hermia mi aspettava in anticamera. E Cobb ci lasciò soli per andare a interrogare gli altri membri della famiglia. Le mani allacciate alle sue, seguii la mia fidanzata nella sua camera, dove avremmo potuto discutere con maggior calma. Hermia era informata degli ultimi avvenimenti. Entrati nella sua stanza, mi mostrò contrita le valige che aveva preparate per abbandonare casa sua, secondo i nostri progetti. Sedette sull'orlo del letto e dopo avermi domandato se sapevo che Polly era la mamma di Imogene Arthur, prosegui: «L'avevo saputo dalla mamma la notte prima che morisse. Mi fece promettere che non l'avrei detto a nessuno. Credi che sia per questo che hanno ucciso Polly?» «Non credo. Cobb, purtroppo, ha ragione di ritenere che uno dei tuoi abbia ucciso tua madre, Bill Strong e Polly!» «Bill Strong!» ripeté Hermia atterrita. «L'ispettore crede che anche quel povero vecchio sia stato ucciso? Deliberatamente ucciso?» Non potei che confermare. Cadde il silenzio.
«Forse» disse Hermia improvvisamente «io l'ho sempre saputo, il nome dell'assassino! Lo so, anzi! Ma non voglio dirlo alla polizia perché farei soffrire una persona che non lo merita.» Le cinsi la vita, e la scongiurai di spiegarmi il senso delle sue ultime parole. Hermia era persuasa che noi avessimo a che fare con un assassino che agiva per misericordia. Per far cessare le pene di chi soffriva, mediante la "buona morte". L'eutanasia. Se n'era persuasa il giorno in cui Cobb le aveva dimostrato che non poteva esser stata lei a contribuire ad affrettare la morte di sua madre. Altri era riuscito dove lei aveva fallito. E aveva continuato la sua folle missione spinto unicamente da pietà. Meditai a lungo, silenzioso, sulle affermazioni della mia Hermia. E lentamente mi convinsi che la mia cara poteva aver ragione. Quali prove avevamo Cobb ed io che l'assassino avesse proprio ucciso per il movente di cui lo sospettavamo animato? Nessuna, in fondo. Josephs ci aveva descritto come importantissimo l'espresso ricevuto dalla signora Talbot. Ma non avevamo che la sua parola per crederlo! Ancora Josephs, e soltanto lui, ci aveva parlato di un tentativo della sua padrona di mettersi in comunicazione con i propri avvocati! Imogene sosteneva che Madeleine morente aveva manifestato l'intenzione di punire, diseredandolo, uno dei suoi che le aveva fatto un grave torto. E Imogene poteva anche mentire. Forse per tentar di strappare ad altri una parte d'eredità che non le spettava affatto. Esaminato da questo punto di vista, il cumulo di sospetti ammassato da Cobb e da me perdeva quasi tutta la sua consistenza. Perfino lo strangolamento di Andy trovava spiegazione in certe osservazioni di Conrad! L'incendio in cantina poteva anche esser stato provocato senza alcuna vera intenzione di nuocere. Forse, per fare uno scherzo... Hermia mi osservava attenta, quasi cercando di leggermi nel pensiero. «Non so che cosa suggerirti, tesoro» le dissi. «Faremo così. Se Cobb arresterà qualcuno... qualcuno che sia innocente, tu gli comunicherai i tuoi sospetti. Anzi, gli rivelerai il nome della persona che tu credi colpevole di aver ucciso per pietà.» «Potrei sbagliarmi, è vero, Hugh!» balbettò Hermia. «Ma spero che ciò non sia! Ricordati le mie parole, caro! Spero di non essermi sbagliata!» E mi baciò a lungo sulla bocca. XXIV
Ritrovai Cobb nel laboratorio dei Fiske. La salma di Polly era stata trasportata all'obitorio dagli uomini di Forder. Per prima cosa l'ispettore mi dimostrò che Talbot aveva mentito sull'episodio amoroso di cui ero stato involontario testimone. Polly non aveva mai abbandonato la sua automobile. Sul terreno fangoso che circondava la vettura dell'uccisa gli uomini della polizia scientifica avevano rilevato molteplici impronte. Le uniche assenti erano proprio quelle della defunta, le cui scarpe erano state trovate perfettamente asciutte. «Evidentemente» commentai. «Talbot fa da paravento ad una donna che non vuol compromettere. Hai un'idea di chi possa essere?» «Un'idea ce l'ho, carissimo» ammise Cobb. «Ma la tengo per me.» «Hai saputo altro interrogando i Talbot?» «Nulla. Negano tutti di aver saputo che prima di morire la signora Talbot aveva indirizzato una lettera a uno di loro. Ma c'è qualcosa... La Bartholomew deve aver spiato a lungo attorno alla vettura di Polly... E prima di andarsene, ha lasciato due begli oggettini. Questo» e Cobb mi porse un flaconcino verde pieno di pastiglie «e... questo!» Ammutolito dall'orrore mi trovai tra le dita tremanti un foglio dello Herald di Grovestown. Quello che riportava il dannato discorso sull'eutanasia di cui m'era stata attribuita la paternità. «Lo sai che cosa significa tutto ciò, non è vero?» mi disse Cobb. «Ridammi quella roba ora!» ordinò. Ed intascando nuovamente brano del giornale e flaconcino. «Ci rivedremo a Filippi!» Con questa battuta a effetto di sapore classico, l'ispettore se ne andò. Quella notte non fui capace di chiudere occhio. Omicidio oppure eutanasia? Deliberato, motivato intento d'assassinio, o morte data per misericordia, per pietà? Dovevo credere a Hermia oppure a Cobb? Ero così sconvolto il mattino seguente che cascai come un principiante in uno dei favoriti espedienti cui Dawn ricorreva quando voleva marinare la scuola. «Ho mal di gola, papà! E mi sembra d'essere un po' calda...» dichiarò. Le sfiorai distrattamente la fronte con una mano. Scottava. Ma non mi ricordai che l'ardore di quella fronte, Dawn, in certi casi, soleva procurarselo incollandosi al radiatore del termosifone. Le permisi di rimanere a casa. E la vidi precipitarsi ululando in direzione della gabbietta nella quale aveva riunito i suoi leprotti. Cobb mi chiamò al telefono alle nove.
«Salve bigamo impenitente!» mi salutò. «Ce l'hai fatta a stringere il nuovo nodo coniugale?» «Che spirito!» brontolai indispettito. «Era soltanto per indorare la pillola che debbo farti trangugiare. E ti rimarrà nella strozza... vedrai. Dunque! Forder ha fatto l'autopsia a Polly e l'ha trovata imbottita di morfina!» «Lo sapevo!» esclamai. «Tutte qui le novità?» «Una alla volta. Ricordi quel flaconcino di compresse che avevi lasciato a Polly ieri mattina?» «Digitale!» proruppi. «Nient'affatto! Morfina, bello mio! Ventisei compresse da 0.02. Te ne avevano sottratte una quarantina, ricordi? Tolte quelle che son servite a spedire al Limbo Madeleine Talbot, Bill Strong e Polly, le altre hanno trovato le vie di casa. Ed ora aggrappati al muro! Ho la notizia sensazionale! Conosco l'identità del colpevole!» «Dici davvero, Cobb?» balbettai vivamente impressionato. «Dico il vero. Ma non ho la minima prova a sostegno delle mie accuse. Questo è il male! E secondo la mia teoria tutto risale a quella lettera che avevi controfirmato al capezzale di Madeleine Talbot. Purtroppo è scomparsa. Ma saprò cavare la verità di bocca ai Talbot entro oggi! In caso contrario mi dimetterò dalla polizia! Informa quella gente che verrò a trovarli oggi nel pomeriggio. Ciao!» E interruppe la comunicazione. Rimasto solo, presi a meditare sugli ultimi sviluppi della vicenda. Dovevo credere ad Hermia o dovevo prestar fede a Cobb? I due conoscevano il colpevole, ma non volevano rivelarne l'identità. Se desideravo conoscerla dovevo agire contando solo su me stesso. In passato ero riuscito qualche volta a risolvere gli enigmi polizieschi di Cobb. Perché non tentare anche questa volta? Secondo l'ispettore, la chiave del mistero era rappresentata dalla lettera che la signora Talbot mi aveva fatto firmare la notte fatale in cui era morta. L'espresso era andato distrutto nelle fiamme dell'incendio della cantina. Che anche l'altra lettera fosse andata distrutta? L'avevo cercata tra le pagine del giornale che la signora Talbot aveva sul tavolino da notte. E non l'avevo trovata... Né avrei potuto trovarla li! Sicuro! Josephs, rammentai del tutto improvvisamente, aveva riordinato la stanza della sua padrona alle otto del mattino, il giorno in cui Madeleine Talbot s'era spenta. Ignorando che la donna non avrebbe vissuto che per poche ore, il servo doveva avere messo sul tavolino il giornale di quel giorno! Quello della sera prima,
quello tra le pagine del quale la signora Talbot aveva riposto la lettera che avevo controfirmato, Josephs doveva averlo ritirato. E con tutta probabilità avrei potuto rintracciarlo tra i giornali che il vecchio domestico era solito conservare nel sottoscala! Per un'improvvisa, inattesa intuizione, avevo forse trovato il modo di togliere dall'imbarazzo sia Hermia, sia Cobb. Mi ripromisi di far conoscere loro il frutto dei miei sforzi soltanto quando fossi effettivamente riuscito a metter mano sulla missiva fatale. Dopo matura riflessione chiamai al telefono Hermia. «Buon giorno, cara!» la salutai. «Cobb mi dice or ora d'aver scoperto l'autore dei delitti... Temo che si proponga di arrestare il colpevole oggi... nel pomeriggio!» «Davvero?» domandò Hermia assai calma. «Ma... Allora bisogna che io gli dica tutto, Hugh! Come avevamo deciso ieri sera!» «Lo credi davvero necessario?» «Certo! Ho le prove di quanto affermo! L'ispettore sarà costretto ad ammettere che ho ragione io! Non mi sarà facile di... accusare... Ma, questo non ha molta importanza ormai! Piuttosto... non ti ha detto Cobb il nome del suo sospettato?» «No. E m'ha anche confessato di non avere prove contro di lui. Io naturalmente mi sono schierato per la tua teoria. Ciò, perché ti amo!... Il mio comportamento, però, non è giusto, in fondo!» «Infatti!» ammise Hermia. «Ma. non potresti venir qui subito, caro? Vorrei che fossero presenti tutti quando dovrò dir loro...» «Hai ragione! Forse, se agiteremo sulle teste dei tuoi la minaccia del mandato di arresto di Cobb, i Talbot si decideranno a dire la verità. Mi piacerebbe riuscire a presentare l'intera soluzione della faccenda a Cobb senza che egli abbia a far troppo chiasso! E... tu» aggiunsi timidamente «credi ancora a Grace la Grassa Westlake, rinchiusa dietro le sbarre del penitenziario di Tulalahoo? Vuoi sempre sposarmi, Hermia? Qualunque cosa accada?» «Qualunque cosa accada, Hugh!» sussurrò lei. Il "clic" del ricevitore che veniva riappeso confuse il tremito d'emozione che aveva fatto vacillare la sua voce. Nell'allontanarmi dall'apparecchio mi accorsi di non aver risolto il problema centrale della situazione. Come avrei potuto metter mano sulla lettera incriminata, nascosta tra i giornali di casa Talbot? Se, superbo segugio, desideravo impossessarmi di quella copia del Times di Grovestown, non
avrei potuto contare sull'aiuto di Hermia. Ricorrendo a lei infatti mi sarebbe venuto a mancare l'elemento sorpresa mediante il quale contavo di strapparle grida di ammirazione. Qualcuno doveva agire per me. Qualcuno che non avesse nulla a che fare con i Talbot. Dawn! Sicuro! Quel diavoletto doveva ricordare perfettamente l'ubicazione di quel sottoscala! Aveva giocato spesso coi bambini di casa Gregory, prima che questi si trasferissero altrove! Quando le spiegai quel che mi aspettavo da lei, la mia bimba si mise a spiccar balzi dalla gioia. Il mal di gola era sparito per lasciar posto a un entusiasmo incontenibile... «Quando ti troverai nel sottoscala» conclusi «cercherai la copia del Times di giovedì. Tra le pagine di quel giornale troverai una lettera, forse. Se ci sarà, verrai a consegnarmela in sala da pranzo, dove avrò riunito tutti gli altri!» «Stupendo, papà!» esultò Dawn. «E... commetterò proprio un atto contro la legge, non è vero?» domandò ansiosa. «S-sì!» dovetti ammettere. «Che bellezza!» XXV Dawn parti con me alla volta di casa Talbot animata dallo spirito delle grandi avventure. Nascosta nella parte posteriore della vettura da un paio di coperte, mi suggerì da consumata ladruncola di fermare l'auto sotto la finestra dell'alloggio del maggiordomo. Intrattenere Josephs a lungo, quanto bastava perché Dawn scivolasse non veduta in quella casa, mi fu facile quel mattino. Il domestico non desiderava che poter commentare con me i tragici eventi della sera antecedente. Polly era stata assassinata, dichiarò funereo; era morta come la "mia povera signora". La settimana seguente, a Dio piacendo, Josephs sarebbe stato lontano da quel covo di "serpenti a sonagli". «A proposito, signore!» mi domandò a questo punto il maggiordomo. «Era vostra la valigetta nera che vi ho fatto recapitare dal giardiniere?» «Valigetta? Quale valigetta?» domandai allibito. E mentre formulavo stupidamente quella domanda, mi ricordai che la sera precedente mi ero reso colpevole d'una disattenzione che avrebbe incontrato, giustamente, l'ira e il dispetto di Cobb. Ero tornato a casa lasciando dai Talbot la mia borsa di medico. Mi tranquillizzai un poco, rammentando di aver messo un
innocuo barbiturico nel flacone sul quale si leggeva "morfina". Anche se l'ignoto colpevole aveva compiuto una razzia tra i miei medicamenti, non avrebbe potuto far danno a nessuno. Trovai i Talbot adunati in sala da pranzo. C'era anche Phil Lavers che in questi giorni sembrava aver disertato senza eccessiva preoccupazione le aule universitarie. Sopra un'enorme tavola d'ebano, nuovissima, scintillavano bottiglie e bicchieri. I Talbot approfittavano di ogni occasione per ingollare allegramente colmi bicchieroni di brandy. Hermia mi venne incontro pallida e preoccupata. Mi informò di non aver ancora svelato troppo ai familiari adunati in quella stanza. Poi, mi chiese se doveva proprio spettare a lei il compito di rivelare il nome dell'assassino. «Direi di sì, cara!» le dissi sorridendo. «Ma non pronunciare una parola, sino a che non ti avrò fatto segno.» «Non vorresti dirlo tu, Hugh?» mi domandò imbarazzata. «Io... preferirei proprio...» S'interruppe per stringermi una mano, mentre mi guardava con una strana espressione che non fui capace di interpretare. «Non l'avrei certo fatto se Cobb non ci avesse forzata la mano» aggiunse inspiegabilmente. «Lo capisci, questo, non è vero?» E mi sospinse verso gli altri prima che io fossi in grado di domandarle spiegazioni. Salutai con disinvoltura. Raynor mi strinse la mano allegro come un ragazzo. Gail mi strizzò l'occhio, mentre sua marito mi salutava distratto. Lena Bartholomew, vispa e attenta come sempre, agitò cordialmente i suoi riccioli neri verso di me. Gli unici a dimostrare un certo disagio erano Phil Lavers e Imogene Arthur. Sedevano lontani dagli altri, giocherellando con i bicchieri ancora colmi. Gail mi cacciò in mano un bicchierone colmo di whisky. Talbot m'invitò a prender posto. Inaspettatamente, nel silenzio caduto all'improvviso, Lena Bartholomew, efficiente e pratica domandò: «Ebbene, dottor Westlake...?» Mi sentivo molto imbarazzato. Sapevo solo che dovevo fare del mio meglio per tirar le cose in lungo, per dar tempo a Dawn di impossessarsi della "lettera-chiave". Hermia mi sorrise incoraggiandomi e presi la parola dicendo: «Interesserà voi tutti di apprendere che l'ispettore Cobb si ritiene virtualmente certo che la signora Talbot, come pure Polly Howett sono state uccise da una stessa persona. Questa persona gli è nota. E fa parte di questa famiglia.»
Il mio esordio fece concentrare su di me l'attenzione di tutti. Ognuno secondo la propria natura, i Talbot manifestarono diverse sfumature di orrore e di sorpresa. «Tra poco» annunciai con enfasi drammatica «Cobb sarà qui con un mandato d'arresto emesso contro uno di voi!» Cadde un insolito silenzio tra quella gente. Talbot impallidì. Lena Bartholomew si piegò sulla tavola per dirmi: «Sappiamo tutti che qualcuno... aiutò la povera Madeleine a porre fine ai suoi tormenti. Ma sarebbe assurdo insinuare che questo individuo abbia agito per motivi meno che nobili!» «Cobb» obiettai «non è del vostro parere. Tuttavia potrebbe anche essersi sbagliato. Per questo, Hermia e io abbiamo deciso di convocarvi qui. Con un poco di franchezza da parte di tutti non dovrebbe riuscirci difficile di far luce su questi tenebrosi episodi e convincere l'ispettore che l'assassino non agì con intenti criminosi.» «Che cosa» indagò Conrad Fiske «vi fa credere che noi si abbia qualcosa da nascondere?» «Ha ragione!» intervenne animatissima la Bartholomew. «Io ad esempio ho tenuto segreto soltanto l'episodio del mio sonno ipnotico, all'ispettore! E son pronta a raccontarglielo se voi me ne date l'autorizzazione!» «Sciocchezze!» intervenne nuovamente Conrad. «Diteci piuttosto qualcosa che abbia un senso. Se questo Cobb deve venir qui munito di un mandato di arresto, è perché possiede delle prove. Quali?» «Ve ne enumererò qualcuna» risposi. «La prima si fonda sul fatto che la signora Talbot, Bill Strong e Polly Howett sono morti per avvelenamento da morfina. E su questo non c'è dubbio possibile. Delle due, una... O quei tre sono stati avvelenati per ragioni criminose, oppure hanno trovato la morte ad opera di un individuo mosso da misericordia... Delitto oppure eutanasia? «E Cobb grida al delitto fondandosi su alcune dichiarazioni della signorina Arthur. Secondo costei, infatti, la signora Talbot avrebbe deciso di diseredare uno di voi sulla scorta delle accuse formulate da Polly Howett per lettera contro questa persona. La signorina Arthur afferma che il legato ereditario così negato a questo ignoto, sarebbe stato devoluto a lei per estrema volontà della signora Talbot.» Quella "bomba" produsse soltanto in parte l'effetto che avevo sperato. «Dunque saresti tu ad aver sollevato tutto questo vespaio!» ringhiò cattivo Conrad Fiske rivolgendosi a Imogene. «La signora Talbot ti ha raccatta-
ta nel fango della strada e accolta in casa sua; ti ha lasciato trentamila dollari, ma non ti è bastato! Osi accusarci d'assassinio! Così ci ripaghi di tanta carità!» «Non ci si poteva aspettare altro da quella li» gridò Gail velenosa. «È sempre stata una carogna... una piccola serpe velenosa...» «Grazie cari!» disse la Arthur con voce quieta. «Sarà... Ma purtroppo quel che ho detto corrisponde al vero! Giuro che è vero!» gridò alzandosi in piedi mentre Lavers le cingeva la vita con un braccio. «Lo giuro, dottore! La signora Talbot mi disse che uno dei suoi aveva commesso un'azione vergognosa... orribile! Un'azione che non si poteva perdonare! E... credo fermamente che l'ispettore sia nel vero. È stata quella persona a uccidere la mamma! Non so di chi si tratti, ma Polly, poverina, sapeva! Era venuta per parlarne a Ray... e l'hanno uccisa! L'hanno uccisa perché sapeva!» «Imogene!» disse la Bartholomew con voce che sonava minaccia. «Tu non hai alcun diritto di proferire simili accuse!» «Ce l'ha, invece, il diritto» intervenni pacato. «La signora Talbot disse anche a me la notte prima di morire, d'aver appreso una nuova che l'aveva sconvolta! In quell'occasione scrisse una lettera che indirizzò a uno di voi. Negate di aver mai ricevuto quella lettera! Negatelo pure, se vi fa piacere. Ma... Tanto peggio per voi! Perché quella lettera sarebbe in grado di chiarire una volta per tutte questo aggrovigliato intrico di supposizioni e di sospetti e quasi certamente ci rivelerebbe il nome dell'assassino.» In quell'istante squillò acutissimo il campanello d'ingresso. Pallido e visibilmente agitato il maggiordomo Josephs si fece sulla soglia della sala da pranzo dopo qualche istante. Barcollando, si diresse alla mia volta. «Una bimba chiede di voi alla porta, dottore...» annunciò. «Dice che sua zia sta molto male e che dovete venire subito!» Benedicendo le infinite risorse della mia bimba volai in anticamera col cuore in gola. «Oh! Dottor Westlake!» piagnucolò Dawn accortasi che Josephs si trovava non troppo lungi da noi. «Zia Mabel sta tanto male! Devono essere un paio di gemelli questa volta, e...» «L'hai trovata?» interruppi con voce piena d'ansietà non appena Josephs si fu allontanato. «Eccola, papà!» esultò la mia piccola porgendomi una busta che aveva pescato dalle profondità delle sue mutandine. «Ed è stato facilissimo sai! Avevo paura di venir sorpresa dal maggiordomo. Ma quel vecchio è rimasto sempre incollato alla porta della stanza dove eravate tutti riuniti! Non
ha fatto altro che ascoltare dal buco della serratura... Che bello! Che bello!» XXVI Al mio ritorno, tutti gli adunati in sala si agitarono sulle sedie in preda a disagio. Volti cupi di rossore, volti pallidi e ansiosi si volsero incuriositi verso di me. Durante la mia assenza erano stati colmati di nuovo i bicchieri. Non portai il mio alle labbra. Desideravo rimaner lucido e attento sino alla fine. Tutto s'era svolto secondo i miei piani. Ma ora che avevo pescato la "matta", non sapevo come giocarla in quella tragica partita. «Stavo appunto dicendo» esordii «che ci sarebbe stato di grande utilità il rintracciare il messaggio che la signora Talbot indirizzò a uno di voi. Ebbene! Per una serie di fortunate circostanze quella missiva è qui! Nelle mie mani! Ve ne leggerò l'indirizzo, che dice:» "A mio marito Raynor Arthur Talbot. Da non aprirsi che dopo la mia morte. Riservata. Confidenziale". E preso da improvviso rispetto umano, decisi di non aprire quella lettera. «Come l'avete avuta?» mi aggredì Gail furiosa. «Questo non ha alcuna importanza» risposi con voce quieta. «Come vedete non l'ho aperta. È indirizzata al signor Talbot ed è giusto che egli la legga per primo. Se vi troverà qualcosa che si riallacci in qualche modo a quanto è oggetto della nostra riunione, sarà suo dovere farcene conoscere il contenuto!» Talbot tese una mano tremante. Tutti lo guardammo silenziosi e intenti mentre stracciava la busta. Ne sfilò tre diversi foglietti. Ne lesse due che ripose in una tasca. «Nella busta» disse Talbot con accento spento «c'erano tre lettere. Una, tratta di cose assolutamente personali... Cose che riguardano solo me e... la mia povera Madeleine. La seconda, non ha nulla a che vedere con la sua morte. Il suo contenuto, anzi, interesserà il dottor Westlake in modo particolare: Madeleine rivolgendosi a me nella mia qualità di esecutore testamentario m'incarica di provvedere a pagare diecimila dollari a Dawn Westlake, la bimba del nostro caro dottore. Il lascito è legato a una condizione. Quella secondo cui Madeleine doveva esser morta prima del diciassette di questo mese!» «E Madeleine è proprio morta prima del diciassette!» fece notare maligna la Bartholomew.
Tutti gli sguardi si concentrarono su di me. Imbarazzato ricordavo che la signora Talbot mi aveva promesso del danaro per mia figlia in cambio della "buona morte". Balbettando domandai: «È quello il foglio sul quale figura la mia firma?» «Sì» rispose Talbot con voce ormai divenuta più ferma. «E il resto mi riguarda personalmente. Rimane il terzo foglio. Leggetelo. Farà molto piacere all'ispettore!» Afferrai il foglio che mi veniva teso e lessi ad alta voce: "Io Madeleine Landreth Talbot, sana di mente, in possesso delle mie facoltà mentali dichiaro d'aver deciso di togliermi la vita. Sono incapace di sopportare più a lungo le sofferenze d'un male incurabile. Nessuno ha comunque contribuito ad affrettare la mia fine. Mio marito distrugga questo documento a meno che un innocente non venga incolpato d'un crimine che ho commesso io sola. Iddio abbia pietà di me". Si determinò una certa distensione, dopo questa lettura. Le fece seguito un lungo silenzio. «E questo valga a mettere le cose a posto con la polizia!» osservò improvvisamente Conrad Fiske. «Una confessione scritta che parla di suicidio volontariamente commesso dovrebbe bastare!» «Eppure... Non può essere» obiettò Phil Lavers preso di bel nuovo da dubbi professionali. «La signora Talbot era incapace di lasciare il letto senza aiuto. Morì d'una dose letale di morfina che non si sarebbe potuta procurare da sola! Signorina Bartholomew!... Voi, la morfina, la tenevate sotto chiave, non è vero?» «Certo!» confermò l'ex-infermiera. «Ma perché far tanto chiasso se qualcuno volle accontentare Madeleine? Non desiderava forse di morire, la nostra cara? Per questo la poverina scrisse il biglietto! Lo mostreremo all'ispettore e tutto sarà chiarito!» «No!» esclamò Hermia improvvisamente alzandosi in piedi. «Dobbiamo distruggere tutti quei fogli! Tutti!» ripeté pallidissima muovendo verso di me. «Ma... Perché?» strillò Fiske. «Devi esser pazza, Hermia!» gridò a sua volta Gail. «No... Non sono pazza» ribatté Hermia. «Dobbiamo distruggere quei fogli perché mamma li scrisse quando aveva tanto male... Dovete capire» pregò ansiosa, venendo a mettersi davanti a me quasi a proteggermi. «La
mamma non si rese conto del danno che arrecava a Westlake lasciando quel legato alla piccola Dawn e facendo apporre la finita sul legato proprio al dottore!» «All'inferno Westlake e la sua prole!» urlò Conrad. «Non vedo perché quel medicastro debba papparsi diecimila delle nostre cucuzze, ma... quel che importa è il buon nome della famiglia, Hermia!» «Westlake fa parte della famiglia, infatti» disse Hermia con voce piana. «Dobbiamo sposarci!» Tutti si volsero a me guardandomi come se fossi stato uno scherzo di natura. «Gli ho detto tutto di noi!» proseguiva Hermia frattanto. «Sa perfino della mia infatuazione di bambina per te, Ray!» «È vero Westlake?» scattò Talbot sorpreso. Annuii. Ed Hermia infilando una mano tra le mie continuò rivolgendosi a me: «Devo dirlo ora, Hugh? Devo spiegare perché si debbano distruggere quelle lettere? Lo dirò, Hugh!» decise. «Ne sarò fiera.» «Nessuno di voi» esordi Hermia dolcemente «potrà mai immaginare quanto Hugh abbia fatto per noi tutti. Io stessa me ne accorsi gradualmente. La mamma non si uccise, no! Scrisse quel biglietto solo per difendere colui che aveva raccolto il suo grido di disperazione! Dapprima credetti d'esser stata io a offrirle il mezzo per uccidersi. Avevo lasciato della morfina accanto a lei sul tavolino da notte. E credetti che la mamma l'avesse inghiottita. Fu l'ispettore a farmi sapere che le mie pastiglie erano cadute dietro il letto... che la mamma non se n'era servita affatto! È vero, Hugh? «E vi racconto tutto questo» prosegui Hermia al mio cenno d'assenso «per dimostrarvi come io stessa, io, sua figlia, fossi pronta a... venire in aiuto della mamma. Tuttavia, avrei dovuto comprendere subito che il mio maldestro tentativo di offrire alla mamma la "buona morte" era del tutto inutile. Avrei dovuto comprenderlo quando risciacquai il bicchiere che la mamma aveva accanto al suo letto. Avrei dovuto capire che i granelli del medicamento che vi si trovavano sul fondo erano quanto la mamma... aveva tanto desiderato di avere!». «Ma... Che cosa stai dicendo, Hermia!» domandò Talbot con la bocca spalancata per lo stupore. «Sto dicendo che voglio sposare l'uomo che fu tanto coraggioso da non rifiutarsi di aderire alle implorazioni della mamma. L'uomo così buono da comprendere che Bill Strong preferiva morire piuttosto che continuare a vivere inutile a tutti e privo della compagna che aveva adorato. L'uomo
che rischiò di compromettersi irreparabilmente ancora ieri, pur di impedire che il nostro nome fosse trascinato nel fango. Sapevo che Polly era molto malata; che non si sarebbe mai potuta ristabilire. Ala prima di morire, e sarebbe stato assai presto, avrebbe sollevato uno scandalo in cui si sarebbero trovati coinvolti Ray e Imogene. La morte di quella poveretta è stata una liberazione per tutti, anche per lei. Quanto al mio Hugh, egli si proponeva anche di risparmiare a noi tutti ulteriori dispiaceri.» Finalmente compresi. E sentendomi balzare il cuore in petto intuii quale fosse la soluzione trovata da Hermia a tanti morti misteriose. Ricordai la sua riluttanza a far partecipi gli altri delle conclusioni che aveva raggiunte. Rammentai che mi aveva pregato di assumermi quello che per lei sarebbe stato un compito assai penoso. Trovai la spiegazione alle mille e una osservazioni enigmatiche nelle quali ero stato incapace di seguirla. Hermia in sostanza aveva reagito come me. Come già avevo creduto io, la mia fidanzata pensava che, mosso da sentimenti nobilissimi, io avessi contribuito a por fine ai tormenti e alle sofferenze di tre individui che sapevo malati, condannati, senza speranza di guarigione. «Sapevi ormai, non è vero?» continuò Hermia. «Sapevi ormai che io avevo intuito la verità? Dapprincipio, non volli neppure farne un accenno perché temevo che tu ti preoccupassi di non coinvolgermi in una situazione pericolosa. Perché coinvolta nel tuo operato, io, in fondo, lo fui! Tant'è vero che fui io a sciacquare il bicchiere che avevi lasciato accanto al capezzale della mamma. Più tardi, quel giorno, in casa di Bill Strong trovai quel flaconcino verde pieno di pastiglie. M'accorsi subito che si trattava dello stesso medicamento che avevi dato alla mamma e lo distrussi. Non volevo che, trovandolo, la polizia cominciasse a sospettare di te. «E ora» concluse rivolgendosi agli altri «avrete compreso, spero, la ragione che mi induce a suggerire di distruggere tutti quei fogli. La polizia, appreso che la mamma ha lasciato ben diecimila dollari alla bimba di Hugh, penserà che il mio caro si sia... lasciato comperare per praticare l'eutanasia! Dammi quelle lettere, Raynor» ordinò dirigendosi verso il padrigno «le distruggerò io stessa.» «È vero quanto dice?» mi chiese Talbot. «Parlate, in nome di Dio, dottore! È vero?» «Dunque, Hermia» sussurrai incapace di pensare ad altro che alle parole della mia adorata. «Dunque Hermia, tu credi che io abbia ucciso per pietà! Per misericordia! E per questo hai provveduto a distruggere le compresse
che avevo lasciate a Bill Strong! Temevi che io gli avessi somministrato la morfina! E l'hai fatto per me!» «Era il minimo che potessi fare, Hugh rispose Hermia» dopo quanto tu avevi fatto per me. «Bravo il nostro Westlake!» esclamò Gail chiassosa. «Dunque siete stato voi a far piazza pulita di tutta quella gente! Per l'inferno! Levo il calice alla vostra salute! E... mi proclamo invidiosa di Hermia! Che uomo! Che ometto in gamba!» «Hermia è stata veramente troppo buona» intervenni con voce pacata. «Ha rischiato fin troppo quando ha sottratto quelle prove unicamente per proteggermi! Hermia ha creduto esattamente quello che qualcuno, un altro, desiderava che credesse. Hermia ha accettato per vero ciò che il colpevole voleva fosse creduto anche dalla polizia!» «Vuoi dire allora che mi son sbagliata?» domandò Hermia stupita, ma cominciando a comprendere. «Vuoi dire che mi sono affannata a proteggere chi non dovevo?» «In un certo senso... sì! Ma ti sono grato egualmente. Perché tu non solo mi hai salvato da un'orrenda macchinazione concepita esclusivamente ai miei danni, ma mi hai fornito un indizio veramente prezioso che ci porterà, ne sono certo, alla scoperta del vero colpevole.» «Sostenete dunque di non esserlo colpevole?» intervenne Lena Bartholomew con acredine. «Colpevole!» esclamai con sarcasmo.«Lo sono quanto può esserlo un capro espiatorio! Hermia mi ha fatto comprendere come qualcuno si sia servito di me per far convergere tutti i sospetti sul mio capo! Per uccidere, l'assassino si è valso della mia morfina; ha sostituito con quella droga gli innocui medicamenti che son solito distribuire ai miei malati. E accanto a ognuno dei cadaveri, questo ignoto criminale ha lasciato quel brano dei giornali che riportava il mio discorso sull'eutanasia. Quello che non ho mai pronunciato!» «Lo dicevo io!» intervenne animatissima Imogene. «Lo dicevo! Qualcuno ha ucciso la signora Talbot e Polly. Questo vile individuo sapeva che le due donne erano incurabili e dopo averle uccise fece in modo che tutti credessero Westlake omicida per pietà!» «Esattamente, signorina!» esclamai.«Proprio così!» E bevute alcune sorsate del liquore che avevo davanti proseguii: «Bill Strong fu ucciso con la morfina soltanto perché anche lui era uno dei miei pazienti incurabili.» Bevvi ancora, rabbrividendo.
«Se mi sono sbagliata» intervenne Hermia «di chi sospetta l'ispettore?» «Domandalo a Talbot» risposi. «Forse lui lo sa!» «Perché proprio io?» chiese Raynor impallidito all'estremo. «Perché avete mentito! In una di quelle lettere, vostra moglie, ne sono certo, vi dà la spiegazione di tutto il mistero!» Non avevo bevuto molto. Pure cominciavo a sentire l'effetto dell'alcool. Avevo caldo e mi sentivo lievemente stordito. «Vedete?» ripresi. «Io so che cosa è accaduto, ormai! La lettera che Polly inviò alla signora Talbot costrinse quest'ultima a decidere di diseredare uno dei membri della famiglia. Telefonò ai suoi legali, ma non riuscì a mettersi in comunicazione con loro. Non le rimase quindi altra risorsa che far conoscere i suoi desideri all'esecutore testamentario, Raynor Talbot. Ray avrebbe provveduto a disporre secondo la volontà della moglie. È vero, o no, Talbot? E rispondete in fretta! L'ispettore sarà qui tra breve! Mostrate a noi le lettere che non potrete più celare a Cobb!» «Avete ragione!» convenne Talbot terreo. «Una delle due lettere che ho in tasca è una comunicazione di carattere assolutamente personale. L'altra... è la lettera di Polly!» «L'espresso!» esclamai. «E dire che lo credevo scomparso nell'incendio della cantina!» «Avrei preferito che così fosse stato!» esclamò Talbot sincero. «Non avreste potuto fare tanto rumore per nulla. In sostanza la lettera di Polly riuscì, è vero, a sconvolgere la mia povera Madeleine, ma non conteneva nulla di così tragico da doverla indurre a diseredare qualcuno.» Lena Bartholomew sembrava intenta a osservare i bottoni della propria veste. I Fiske guardavano il padrigno come se fosse stato una nuova specie di cavia. «Tutti sanno» riprese Talbot con curiosa baldanza «che da giovane me la intendevo con Polly. Tutti, però ignorano che io sono il padre di Imogene!» Si levò un indescrivibile baccano. Gail strillava eccitata; Lena Bartholomew aveva la bocca aperta dallo stupore. Lavers e Imogene s'erano alzati in piedi. «Oh, Ray!» esclamò infine la fanciulla. «Ma... perché non me l'hai mai detto?» «Hai ragione, povera bambina!» si scusò Talbot. «E avete tutti ragione di meravigliarvi per questa notizia sensazionale... D'altra parte... non so
che farci. Questa, comunque era la famosa nuova che Polly comunicava a Madeleine con l'espresso. E non c'era altro... credetemi.» Hermia spostò la sua sedia in modo da venire a mettersi vicina a me. Muti, osservammo gli altri tenendoci per mano. Lavers apri la bocca per parlare, ma s'interruppe. S'era spalancato l'uscio e Josephs era apparso sulla soglia. «Inutile domandarvi scusa» asserì il domestico avanzando verso di noi con movimenti rigidi, di automa. «Ho creduto mio dovere di stare ad ascoltare tutto quanto è stato detto in questa stanza finora. L'ho creduto un dovere verso la memoria della mia povera padrona...» «Fuori!!» tuonò Talbot rizzatosi in piedi. «Uscirò di qui» affermò il maggiordomo con quieta dignità «quando avrò corretto... le menzogne che il signor Talbot ha testé finito di pronunciare. Raynor Talbot mente quando dice che la signora Talbot ignorava l'identità del padre della signorina Arthur.» «Ma la signora Talbot» intervenne con voce incerta Imogene «quando mi chiamò la notte prima che morisse... mi fece sapere d'avermi adottata perché Polly era una sua amica... Non perché...» «E voi insinuate che la mia signora fosse amica di una... donna di quello stampo? Se la signora Talbot non accennò ai vostri legami di sangue con suo marito, fu soltanto perché preferiva che voi ignoraste per sempre vostro padre! La mia padrona fu sempre così: preoccupata del bene altrui! Anche quando gli altri non se lo meritavano affatto!» «Che prove avete di quanto andate blaterando?» chiese indignata la Bartholomew. «La mia signora mi raccontò tutto una settimana dopo il suo matrimonio con Raynor Talbot. Mi disse che il padrone aveva una figlia naturale. La cosa non sembrava dispiacerle come sarebbe dispiaciuta a molte altre donne, in caso analogo. Non voleva che una cosa! Che quella figliola fosse felice come le sue! Il signor Talbot non si era mai occupato troppo della sua bambina. Non sapeva neppure dove fosse andata a finire. Ma la signora Madeleine si adoperò in ogni modo perché la povera fanciulla venisse rintracciata. Mi spedi a New York con l'incarico di compiere ricerche accurate in tutti i collegi, in tutte le istituzioni destinate ad accogliere i trovatelli. Io» strillò appassionatamente Josephs. «Io trovai Polly Howett! Ancora io fui incaricato di sbrigare tutte le pratiche per l'adozione di Imogene Arthur!
«Non sarei intervenuto in questo modo» concluse il domestico rivolgendosi a me «se Raynor Talbot non avesse mentito. Se non avesse negato alla memoria di sua moglie il riconoscimento di una nobiltà d'animo pari a nessuna! Perché, dottor Westlake, non chiedete a Raynor Talbot di dirvi finalmente qual era la vera ragione che sconvolse in quel modo la mia povera signora? Il Polly's Inn è sempre stato una tavernaccia malfamata. Molti uomini vi si recavano in compagnia delle loro meretrici! Raynor Talbot ne sa qualcosa! Ve l'assicuro!». Josephs era evidente, aveva potuto dar sfogo al suo odio da lungo tempo represso. Il maggiordomo non poteva perdonare a Talbot d'aver contribuito a far soffrire fino all'ultimo la sua adorata padrona. Talbot non tentò neppure di negare le affermazioni del domestico,ì. «Ai servi» disse sprezzante «non sfugge mai nulla della vita privata dei padroni! Ammetto! Madeleine sapeva da lungo tempo che Imogene era mia figlia! Josephs ha ragione! Come sempre, vero? Carissimo! Qualche volta mi son recato da Polly in compagnia d'una... donna. Una mia amica d'altri tempi. Comprenderete la posizione in cui mi trovavo... Con la moglie sempre inferma... La carne è debole...» «Chi era questa amica?» indagai... «Non c'entra con tutta questa storia, Westlake!» asserì Talbot minaccioso, strapazzando con dita malferme la sua bella cravatta. «Non la conoscete! Non c'è nessuno che la conosca, qui...» «E secondo voi, vostra moglie sarebbe rimasta sconvolta nell'apprendere di questa vostra tresca amorosa... Mi spiace, Talbot» dichiarai. «Perché mentre ammiro ancora una volta il vostro spirito altamente cavalleresco, sono costretto a dirvi che non vi credo! L'affrontare questo sudicio argomento mi riesce imbarazzante. Come a tutti gli altri, credo. Ma qui ci troviamo di fronte a un delitto, Talbot, ed è ora che diciate la verità! Una volta per tutte! «Vi spiegherò perché non vi credo! La notte in cui mi trovavo al capezzale di vostra moglie, appresi dalla morente ch'essa conosceva da lungo tempo le vostre imprese... galanti. Ma il sapervi un impenitente donnaiolo non le dava più alcun dispiacere! Se Polly le avesse scritto d'avervi sorpreso ancora una volta a... correre la cavallina, Madeleine Talbot avrebbe accolto la notizia con sublime rassegnazione e con materna comprensione. Più che il marito, voi eravate diventato uno dei suoi figli, caro Talbot! Se Madeleine Talbot rimase sconvolta dalla notizia comunicatale da Polly è perché questa nuova le riusciva veramente intollerabile.»
«Hugh!» intervenne a questo punto Hermia accarezzandomi una mano. «Credi davvero che...» «Purtroppo cara!» risposi. «La donna che Polly vide in compagnia di Talbot nella sua taverna, era una donna assai vicina alla signora Madeleine! Una delle donne di casa sua!» «Non è vero!» strepitò la Bartholomew livida di rabbia. «È una lurida menzogna! E voi» urlò rivolta ai familiari «permetterete ancora a lungo che questo assassino rovesci su di noi il fango delle sue accuse vergognose? Perché l'assassino è lui! Lui! Lo capirebbe anche un bambino, ormai!» «Un momento, cara Lena» intervenne Conrad pallido come un morto. Guardando con sospetto la moglie. «Chiudi il becco!» le impose. «Parla tu, Ray» ordinò poi minaccioso. «Parla per Dio! O t'ammazzo con queste mani!» «Non fare il cretino!» mormorò Talbot senza neppure alzare la voce. «Non vedi che Westlake si diverte a pescar nel torbido per gettarci l'uno contro l'altro?» Lo stordimento che avvertivo da qualche minuto si fece più grave a questo punto. Quando presi la parola la mia voce mi parve venire da molto lontano. «Dico il vero!» affermai. «E ho la prova di quanto asserisco. Una prova che varrà a chiarire una volta per tutte questa faccenda... ignobile, vergognosa! Ieri sera sorpresi Ray Talbot nell'atto di baciare appassionatamente una donna. In questa casa! Cavalleresco come sempre, Raynor dichiarò che si trattava di Polly Howett. Ma l'ispettore Cobb mi dimostrò inequivocabilmente che la povera Polly non riuscì a metter piede fuori dalla vettura in cui fu poi trovata cadavere. Smettetela con i vani atteggiamenti da cavaliere antico, Talbot! Ci fate una figura meschina ormai!» «La figura dello scemo, la fate voi, Westlake!» affermò Talbot con un sorriso malvagio. «Di ciò» obbiettai calmo «giudicherò io stesso! Decidetevi piuttosto a mostrarmi quelle lettere!» Per un istante, tacque. Sorrideva. «E sia Westlake! Dal momento che avete deciso di divenir membro di questa nobile casata, vi mostrerò le lettere di Madeleine. Lo farò qualora non mi crediate sulla parola, quando avrò detto che colpevole dei delitti... sono io!» «Ora esagerate con la cavalleria, carissimo Talbot!» osservai con ironia. «Non ho parlato che per meno d'un'ora con vostra moglie, è vero, ma so
per certo che voi non avevate alcuna ragione di sopprimerla. Vi amava. Vi amava con tutti i vostri difetti, con tutte le vostre debolezze. Nel venire a sapere di una vostra tresca con una donna appartenente a questa famiglia, Madeleine Talbot vi avrebbe perdonato... Ma non perdonò alla donna! La donna che decise di diseredare! La donna che io accuso dell'omicidio di Bill Strong e di Polly Howett!» «E va bene!» strepitò Talbot. «Se la pensate in questo modo sarà bene che sappiate tutta la verità! Vi so molto propenso a render di pubblica ragione i particolari più intimi di questa famiglia... Leggete le lettere, Westlake! E decidete voi stesso se sia il caso di distruggerle, o no!» Si tolse i due fogli di tasca e me li porse. Li avvicinai ai miei occhi per leggerli, ma la vista mi venne meno. Per una ragione che non seppi spiegare lo scritto mi si trasformò in un'oscura, confusa congerie di scarabocchi indecifrabili. Bevetti due lunghe sorsate della bevanda che avevo davanti a me sulla tavola. E soltanto allora ne notai lo strano sapore salmastro, amarognolo. In un attimo compresi quel che mi stava accadendo. «Non lasciargliele leggere!» intesi gridare da Lena Bartholomew. «Westlake vuole incolparci di quegli orrendi delitti! Ma non ha nessuna prova! Non ha nessuna prova di quanto asserisce, ve lo dico io!» «Prove!» ridacchiai con aria melensa. «Ho le prove di un delitto, senza aver neppure bisogno di leggere questa roba.» Il volto della mia Hermia s'avvicinò, dilatandosi davanti ai miei occhi in una visione che mi parve quella d'un sogno strano. «Che hai Hugh?» l'intesi chiedere con voce ansiosa. «Stai male? Sei pallido, caro!» «Sto bene, tesoro!» farfugliai. «Sto bene quanto me lo permettono le circostanze. In questi ultimi giorni» pronunciai a fatica «siamo passati assai vicino a tre omicidi. Ora siamo ancor più vicini al quarto! Tutti voi, o miei signori, avete l'alto onore di assistere di persona al compimento del quarto assassinio! Quello che si sta commettendo davanti ai vostri occhi!» «Hugh!» «Forse, la bevanda troppo forte che ho sorseggiata mi induce ad usare espressioni esagerate. Avrei dovuto dire tentato omicidio. In questo momento, proprio mentre vi parlo, si sta tentando di assassinare me! L'umile sottoscritto!» Intesi, vaga, una voce che si levava accanto a me. Una voce seguita da un breve grido di spavento. Reggevo sempre in una mano i fogli che mi
aveva dato Talbot. Con l'altra levai il mio bicchiere di whisky verso la luce. «A meno che io non mi sbagli di grosso» annunciai «qualcuno si è divertito ad avvelenare deliberatamente questa bevanda!» «Ma Hugh!» udii esclamare da Hermia. «Ne hai bevuto più di una metà!» «Infatti cara! E comincio a sentirne gli effetti. Ma non credo che questo whisky possa farmi troppo male! Gli assassini sono individui abitudinari, a quanto sembra. Il mio ha preso in simpatia la morfina. Se non sbaglio i miei calcoli, le tavolette di quella droga sottrattemi sin dall'inizio, si esaurirono con l'avvelenamento della povera Polly. Ieri sera però commisi l'imperdonabile errore di dimenticare in questa casa la mia borsa di medico. Sono stato tanto cretino, insomma, da offrire al nostro maniaco della morfina l'occasione di commettere l'ennesimo furto del suo medicamento preferito. Per mia fortuna però, nel flacone su cui si legge "morfina", io non avevo messo altro che un certo numero di pastiglie di un innocuo barbiturico. Questo bicchiere quindi non otterrà altro scopo che quello di farmi fare una buona dormita.» «Trincate allora!» m'esortò Conrad Fiske. «Ma lasciatene quanto basta per fare un'analisi.» «È proprio quel che farò!» dichiarai lottando strenuamente contro il senso di letargia che mi stava invadendo. «E levo il calice alla donna che dopo aver ucciso Madeleine Talbot e Polly Howett ha avuto il coraggio di tentare di uccidere anche me, perché come le altre sue vittime, sapevo troppo. Per ora non sono in grado di dirne il nome. Ma quella donna concluderà la sua giornata dietro le sbarre d'una prigione.» Quasi interamente inconsapevole di quel che stavo facendo, alzai il bicchiere e cominciai a bere. Tosto, successe un parapiglia. Hermia allungò una mano come per allontanarmi il bicchiere dalle labbra. Qualcuno urlò. Imogene forse. Forse la Bartholomew. Intravidi Gail Fiske che si precipitava ad attraversare la stanza come una tigre furibonda. Poi, tutto assunse la tinta del sogno intorno a me. Immagini sfocate si agitavano davanti al mio sguardo spento. Udii il vetro del mio bicchiere andare in frantumi al suolo. Qualcuno mi strappò di mano le lettere. Da lungi mi pervenne trionfante, malvagio, un riso di donna. Mentre qualcuno si piegava su di me udii una voce che strillava: «Gail! Ah! Serpe!»
XXVII Vedevo soltanto brandelli di nubi trascinarsi fioccosi in un cielo fosco. Nubi ora deliziose nella loro impalpabile morbidezza, ora soffocanti e dense. Gradualmente, si fecero meno opache; sfumarono in una nebbia dietro la quale sembrava levarsi il sole. Poi la foschia s'aperse. Come una tenda. Vidi superfici solide. Dapprima un soffitto. Poi bianche pareti. Lisce, nude, asettiche. Giacevo in una camera che non conoscevo. Benché ignota, quella stanza mi rivelava qualche elemento familiare. Mi divertii a indovinare. Vedevo chinarsi su di me una sagoma vestita di bianco che ricadeva improvvisamente all'indietro, nel nulla che sembrava circondarla. Un medico! E quell'indizio mi servì a comprendere. Un ospedale... Dovevo trovarmi in una camera a pagamento dell'ospedale di Grovestown. Trascorsi quei brevi momenti di lucidità, piombai di nuovo nell'inconscio, tra nubi e foschie indistinte. Poi tornai nuovamente alla coscienza. Ero nuovamente in grado di pensare in modo coerente. Ricordavo. La sala da pranzo dei Talbot... le mie accuse... il tentativo di ricostruire i delitti. Avevo bevuto un bicchiere di whisky al... barbiturico! Strano! Una modesta dose di ipnotico era bastata a ridurmi assai male! Mossi il capo sul cuscino. E spalancai gli occhi su di una stanza che ormai potevo vedere in tutti i particolari. Accanto a me sedeva un uomo su di una sedia. Ali scrutava con un bel paio d'occhi azzurri... L'ispettore Cobb. «Sta... sta bene, Hermia?» balbettai. E le mie labbra si mossero come se avessi appreso a parlare soltanto in quell'istante. «Ti sei destato, finalmente!» sospirò l'ispettore sorridendo. «Cominciavo a credere che ti fossi affezionato alla tua parte di Bella Addormentata nel Bosco!» Tentai di sedere nel letto. Ricaddi come un cencio, accarezzando debolmente il mio corpo con mani tremanti. «Chissà quanto ho dormito!» osservai con aria melensa. «Novantaquattro ore esatte!» precisò Cobb guardando l'orologio che aveva al polso. «Quattro giorni! Una processione di medici ha fatto ressa alla porta di questa camera ansiosa di vedere la bella Biancaneve. Dovresti far pagare l'ingresso, Westlake!»
«Non capisco! Un paio di pastiglie di feniletilmalonilurea... O m'han dato davvero la morfina?» «Né l'una né l'altra porcheria!» dichiarò Cobb chiocciando allegramente. «Avresti dovuto saperlo che non si potevano far scherzi con i Talbot! Cambiar di posto alla morfina nei tuoi flaconcini poteva sembrare un'ottima idea, dapprincipio! Ma l'assassino era molto più astuto di noi. Non t'ha avvelenato con uno dei tuoi medicamenti, Westlake! T'ha imbottito con il composto più tossico trovato da Conrad Fiske. Quello che serviva a quel ragazzaccio per uccidere i suoi gatti!» «E dire che mi credevo un furbone di tre cotte!» brontolai gemendo. «No. Non sei stato astuto neanche un po'. Tuttavia te la sei cavata. Devi ringraziare Phil Lavers, perché se non ci fosse stato lì quel ragazzo... Ala a salvarti la pellaccia fu proprio Conrad. Riconobbe i tuoi sintomi all'istante, poveraccio. Erano gli stessi che aveva veduto determinarsi sugli animali che gli erano serviti per quelle esperienze che tanto ti avevano indignato! Conrad Fiske suggerì l'antidoto da propinarti e contribuì non poco a strapparti alle tenebre infernali!» «M'avranno preso al laccio, per quanto riguarda la droga» volli ammettere «ma la teoria che avevo elaborato era giusta, non è vero Cobb?» «Giustissima» riconobbe Cobb con riluttanza. «E lo sa soltanto Iddio come riuscisti a concepirla! La prossima volta» ammoni «guardati bene dal togliermi le castagne dal fuoco! Sono io che faccio il poliziotto! Non c'era alcun bisogno che tu rischiassi la pelle. Avevo già risolto tutto io!» «È questa la gratitudine che mi dimostri?» domandai debolmente. «M'avevi detto che non avevi prove ed io, se non altro, sono riuscito a recuperarti quelle lettere! O le ha distrutte quella donna? Prima che mancassi, ricordo che qualcuno me le strappò di mano!» «Sta' tranquillo, vecchio mio. Quella donna non riuscì a distruggerle. Tentò di farlo, naturalmente. Ma gli altri fecero in tempo a impedirglielo. Abbiamo tutte le prove di questo mondo, ora.» «Una, era la lettera di Polly... Non è vero? Non andò distrutta dall'incendio in cantina... Strano, però! Non avrei mai creduto che la signora Talbot avrebbe infilato quel foglio nella lettera destinata a suo marito.» «Ed io non avrei mai pensato di cercare quella lettera tra i giornali di cui il vecchio Josephs aveva tanta cura. Tua figlia» disse Cobb ridacchiando «è proprio un'abilissima... topolina di case private! M'ha raccontato tutto. Ed è stata davvero un'idea geniale quella di servirti di Dawn per quella che chiameremo l'operazione "Lettera numero uno"!»
«Sei molto buono, Cobb. Ma, dimmi! Che diceva la lettera di Polly?» «Un mucchio di cose. Prima di tutto esortava la signora Talbot a rivelare a Imogene l'identità di sua madre. Polly scrisse quella lettera perché sapendo di esser prossima a morire, desiderava abbracciare almeno una volta la sua creatura... Polly era sinceramente grata alla signora Talbot per tutto quello che quest'ultima aveva fatto per la sua bambina. E appunto per dimostrarle la sua gratitudine, Polly informò Madeleine di quel famoso episodio che aveva per protagonista... quella donna!» «E l'altra lettera? Quella scritta proprio dalla signora Talbot... Che diceva?» «Anche qui avevi intuito con esattezza. La signora Talbot riversava in seno a Talbot la piena dei suoi sentimenti. Lo perdonava, ma diceva di non poter fare altrettanto con quella donna. Imponeva al marito di provvedere a negare a quella persona il danaro che già le era stato destinato per testamento.» Chi era quella donna? Le figure femminili di casa Talbot mi sfilarono davanti agli occhi in muta, angosciosa, processione. Imogene Arthur... Gail Fiske... Lena Bartholomew... «Hai sempre avuto ragione tu, Westlake» proseguiva Cobb. «Ed è un vero peccato che tu non abbia potuto giungere sano e salvo fino alla risoluzione degli enigmi propostici da quelle tre morti misteriose. Avevamo a che fare con una macchinazione che non esito a definire la più intricata che mi sia mai capitata di risolvere dacché faccio il poliziotto. La colpevole non fece mai una mossa che non si fondasse su di un ben giustificato motivo. Sapeva, naturalmente, che la signora Talbot era stata informata a dovere sul suo conto. E la notte in cui fosti chiamato al capezzale della signora Talbot l'assassina sperò che tu ti saresti lasciato indurre a commettere un omicidio... per misericordia. L'eutanasia!» «Tuttavia» obiettai ricordando «quella creatura malvagia deve avermi sentito quando rifiutai la "buona morte" alla signora Talbot! Rammento benissimo che qualcuno origliò alla porta di quella camera.» «Esattamente! Per questo si vide costretta a somministrare la dose letale di morfina alla signora Talbot! Tu le dovevi fare da paravento! E quando trovammo Bill Strong imbottito di morfina, ti confesso, caro Westlake. che cominciai anch'io a sospettare di te!» «E se la mia Hermia non avesse provveduto a distruggere il flaconcino di pastiglie che avevo lasciato a Bill Strong, probabilmente mi avresti tratto in arresto. Non è vero? Ora comincio a capire. Avvelenata la signora
Talbot, l'assassina frugò nella camera della vittima nell'intento di impossessarsi delle lettere che la compromettevano irrimediabilmente. Più tardi, riuscì ad ascoltare il mio colloquio con Josephs. Ci segui in cantina ed incendiò la cartaccia sperando così di distruggere la prova della sua colpa. E se sono disposto a passar sopra al suo tentativo di affumicare me e il maggiordomo come due salmoni, non perdonerò mai a quella creatura infernale di averci rinchiusi in compagnia di quei gatti impazziti di terrore! E poi... Perché mai strangolò in modo barbaro il povero Andy?» «L'uccisione del pappagallo fu l'unico delitto inutile dell'assassina» dichiarò Cobb cattedratico. «Fu un gesto spontaneo... dettato dall'emotività. Non dal raziocinio. Fiske credeva che il cacatoa fosse caduto vittima dei complessi di colpevolezza di Raynor Talbot. Non fu così. Andy fu strozzato dall'assassina. Quell'uccellaccio, solitamente, si trovava nelle stanze superiori della taverna di Polly. Nel trovarselo davanti, la colpevole subì una spiacevole associazione d'idee. Ma quando poi il pappagallo si mise a strillare: "Polly sa tutto!" segnò la sua condanna. E fu proprio il pappagallo a mettermi sulle peste della colpevole. Non appena lo seppi morto, compresi che la chiave del mistero andava ricercata da Polly.» «L'avevo compreso anch'io! E non ho mai capito perché quella benedetta Polly non si sia decisa a svuotare il sacco prima. Va bene! Talbot era il padre della sua creatura, ma Polly non mi sembrava particolarmente entusiasta del bel Raynor!» «Lo odiava, vuoi dire!» incalzò Cobb. «Avrebbe volentieri accoppato Talbot e la sua ganza! Ma Polly aveva le mani legate! Doveva mantener segreta la propria maternità! Polly avrebbe preferito morire piuttosto che far sapere a Imogene l'identità dei suoi genitori! L'assassina deve aver fatto capire a Polly di conoscere la verità. La ricattò. Se Polly avesse denunciato la tresca di quella donna con Raynor Talbot, l'assassina avrebbe rivelato tutto alla ragazza.» «Ma quando Imogene apprese la verità dalla signora Talbot, l'assassina perse l'arma di cui si valeva per ricattare Polly.» «Esatto! E ciò spiega la ragione per cui Polly non fu uccisa assai prima! E non appena Imogene dimostrò d'esser fiera di accettare Polly per madre, la Howett dissotterrò l'ascia di guerra. Si gettò sui Talbot come una meteora, preoccupata soltanto che alla sua figliola toccasse quel che le spettava di diritto.»
«L'assassina si rese conto della mutata situazione e sostituite le mie pastiglie di digitale con quelle di morfina che già mi aveva rubate, spedì la povera Polly ai campi di caccia eterni...» «Esatto ancora! Bel caratterino, la nostra assassina, non è vero Westlake?» «Creatura orrenda davvero, Cobb! E con questo non voglio dire che Talbot meritasse qualcosa di meglio! Se vuoi che te lo dica, Talbot dovrebbe subire lo stesso destino di quella donnaccia!» «Be'... Non direi!» obiettò Cobb. «Talbot, povero diavolo, si trovava in una situazione spaventosa. Quella donna aveva una volontà di ferro! Lo dominava! A mio avviso doveva essere un po' pazza! A quanto ho appreso, perseguitava Talbot notte e giorno. Non gli dava pace un momento. La sera in cui Polly li sorprese abbracciati in un corridoio del piano superiore della sua taverna, Talbot non si reggeva in piedi tanto aveva bevuto! Non sarebbe stato capace di pronunciare neanche il suo nome, dall'ubriachezza.» «Povero cocco!» commentai con sarcasmo. «Talbot è stato proprio un povero diavolo!» ribadì Cobb. «E non dimenticare che si adoperò davvero generosamente per difendere la sciagurata che lo perseguitava con il suo affetto morboso. E poi... S'è dimostrato proprio una brava persona. Il lascito che la signora Talbot volle donare a tua figlia è già stato versato, Westlake! E dovrai accettarlo. Talbot dice che è il minimo che egli possa fare dopo quel che ti è capitato!» «Be'...» dissi esitando. «Dawn non rifiuterà certamente quei diecimila dollari! Tuttavia dovrò stare attento al come vorrà spenderli. Non vorrei vedermi in casa diecimila leprotti di razza belga da un momento all'altro! Sarei del parere di regalare qualche letto al reparto pediatrico dell'ospedale! Credi che l'accetterebbero? O mi hanno tolto l'abilitazione a esercitare la professione?» «Tutt'altro, Westlake, tutt'altro!» mi rassicurò Cobb ridendo. «E se tu fossi stato meno disattento avresti dovuto capire tutto, proprio nel momento in cui la signora Talbot, parlando di Dawn, accennò alle delusioni che possono darci i figli... Fu allora che ti propose di regalarti quei soldi per Dawn. Ricordi?» «No!» esclamai. «Vuoi dire... È stata dunque una delle sue figliole a darle quella terribile delusione! Lo sapevo!» gridai emozionatissimo. «È stata proprio Gail! Gail! L'avevo sospettato dal primo momento!»
«A quanto mi consta, quella donna era stata pazza di Talbot per lunghi anni, ormai... E quella ragazza era malvagia, sai? Malvagia, fredda calcolatrice! Sapeva strappare agli altri tutto quel che voleva!» «Ebbene Cobb! Che ne hai fatto di quella donna?» volli sapere. «Nulla, Westlake. Assolutamente nulla. Quella ragazza sapeva d'aver perduta la partita. Mentre Lavers e Fiske si occupavano di te si chiuse in camera sua. S'è avvelenata. Ha lasciato una lettera per Talbot in cui confessa tutti i suoi crimini.» Per qualche minuto cadde il silenzio. «Quel che non capisco» osservai all'improvviso. «È la ragione che indusse Gail ad avvelenare anche me!» «Westlake! Mi deludi! Ma... Il tuo avvelenamento fu proprio la più brillante trovata di quella donna! Non dimenticarlo! Tu eri il capro espiatorio, per lei. Tutti dovevano credere che tu avessi commesso una catena di omicidi per misericordia. Che tu avessi dispensato a piene mani l'eutanasia ai tuoi pazienti inguaribili. La signorina Landreth aveva già confessato agli altri che ti credeva il vessillifero dell'eutanasia per eccellenza. Morto avvelenato, tutti avrebbero creduto che tu ti fossi ucciso per sfuggire alle tue responsabilità! Hai capito ora? Sin dall'inizio l'assassina ti considerò l'asso di bastoni da giocare al momento buono!» «Ah maledetta carogna!» non potei fare a meno di balbettare. «Non dimenticare che ormai è morta, Westlake!» ammonì Cobb. «Ed è stato bene così! Ne conviene anche Fiske» m'informò l'ispettore. «Strano come prendon le cose i giovani, ai nostri giorni! Non ti sembra? Di' un po', Westlake! Come ti saresti comportato tu se quella... donna... fosse stata tua moglie?» «Ah! Mi sarei comportato proprio come Fiske! E se avessi amato Gail come amo Hermia sarei stato contentissimo se tutto fosse finito così! Brrr! Che roba, però! Ora capisco perché Talbot voleva che Hermia se ne andasse da quella casa!» L'ispettore accennò a voler parlare. Mutò avviso e in preda a insolito turbamento si spinse al punto da accendere la pipa con la quale aveva giocherellato sino a quel momento. Si alzò in piedi e prese a passeggiare per la stanza. «Non ti capisco!» esclamai. «Tutta quell'agitazione perché la colpevole è stata Gail! Io...» «Non è stata Gail» sussurrò pallido in volto Cobb. «Gail, poveretta, tentò di salvarti la vita scaraventando a terra il bicchiere di whisky che stavi
per bere sino all'ultima goccia! Gail impedì che le lettere andassero distrutte!» «Ma... Allora... Chi mai?. Capisco! Imogene non era affatto la figlia di Talbot! Polly, vecchia balorda, aveva mentito anche su questo punto e...» «Non parlar male di quella povera anima!» mi ammoni severo Cobb. «Dei suoi peccati è giudice Dio ormai! Ma quella vecchia balorda come la chiami tu, ti voleva bene davvero, sai? Fu lei ad impedirti di contrarre un matrimonio infelice! Non voleva che tu sposassi una delle donne di casa Talbot! Ricordi la lettera che ti mostrò l'impiegato dello Stato Civile? L'aveva scritta Polly. E quella lettera, tra l'altro, mi permise di confrontare la calligrafia dell'indirizzo che figurava sull'"espresso" inviato alla signora Talbot. E così, compresi che l'ultima lettera ricevuta da Madeleine l'aveva scritta Polly.» «Ah!» esclamai piccato. «È stata Polly a mettermi i bastoni tra le ruote allo Stato Civile! Canaglia! Che diritto aveva? Imogene non aveva alcun legame di sangue con Hermia, quindi... 3 quell'altra letteraccia? Chi l'aveva mandata?» «Io, Westlake! Io!» disse Cobb con voce cupa. «Anch'io ho fatto del mio meglio per impedirti un matrimonio sciagurato! Sei il migliore dei miei pochissimi amici, Hugh! Nel vederti sfruttato a quel modo, destinato a fungere da capro espiatorio... scrissi quella lettera allo Stato Civile. Avrei voluto aprirti gli occhi prima. Non osai. Eppure eri già stato messo sull'avviso da altri! Polly ti ammoni a non guardare alle donne di casa Talbot. Raynor per poco non ti svelò tutto, il mattino in cui venne a casa tua cercando di persuaderti a mandarla lontano! Persino Dawn sentiva dell'ostilità per quella donna che... Dawn l'odiò dal primo momento in cui la vide! «Quella donna» proseguiva Cobb, mentre il cuore mi si contraeva in uno spasmo nel petto «quella donna... fece convergere i nostri sospetti su di lei perché la potessimo poi riconoscere innocente ed insospettabile. Fece sì che tu t'innamorassi di lei per poterti star vicina e rubarti i medicamenti quando ne aveva voglia, e per aver modo di recarsi da Polly al momento buono... Ti rubò la morfina per commettere i suoi delitti, ma quando scoperse che i composti di Fiske eran più tossici, si servì di quelli. Contro di te! «Ancora: quella donna si chiuse in camera sua facendo poi passare la chiave sotto la porta per farti credere che altri l'aveva chiusa nella sua stanza a morire tra le fiamme dell'incendio che aveva appiccato con le sue stesse mani... Regalò il cucciolo a Dawn per ingraziarsi la tua bambina di
cui temeva l'atteggiamento ostile... Ti confessò la sua infatuazione per Raynor Talbot perché temeva che lo scandalo potesse venir scoperto e desiderava costituirsi una circostanza attenuante sin da principio... Quella donna era una attrice consumata!». «Spiegati, in nome di Dio! Parla!» esclamai sconvolto. «Non c'è nulla da spiegare mio povero Hugh» disse l'ispettore. «La tua teoria non faceva una grinza. La signora Talbot mori per mano di una delle sue figlie. È vero. Ma l'assassina non fu Gail e non fu Imogene... Fu Hermia, amico mio» concluse l'ispettore pronunciando quel nome con dolcezza, quasi temesse che mi potesse far male «Hermia Landreth» ripeté. «Figlia naturale del primo marito della signora Talbot. Anche Hermia, come Imogene, non era nata da Madeleine. La povera signora lo comunicava a Raynor in quella famosa lettera. Hermia l'aveva saputo la notte in cui decise di sopprimere la madre adottiva.» XXVIII Inutile soffermarci sui giorni che seguirono quello delle rivelazioni di Cobb. Rimasi a lungo privo di conoscenza e fu davvero un bene ch'io scivolassi di nuovo in una profonda, pietosa narcosi. È più facile innamorarsi di una donna che dimenticarla. Riconoscere la propria follia è processo mentale tra i più dolorosi ed amari. Avevo perduto un ideale; avevo perduto il rispetto di me stesso. Ma durante il periodo in cui la vita mi sembrava più grigia e scevra di aspetti romantici scopersi una nuova Dawn. La mia bimba mi restituì al senso delle proporzioni; mi fece comprendere che anche l'esistenza un poco scialba d'un medico quarantenne dai capelli già grigi sulle tempie, dal cuore dolorante e disilluso, offre insospettate ragioni di gioia e di soddisfazione. Ripresi, almeno esteriormente, la mia vita di sempre. Raynor Talbot lasciò la sua casa ultramoderna ai Fiske e fece ritorno a New York. Lena Bartholomew scomparve all'improvviso e non se ne seppe mai più nulla. Non vidi alcun membro di quella sciagurata famiglia fino al giorno in cui intervenni all'inaugurazione dell'anno accademico. Il giorno in cui Dawn doveva celebrare con un discorso l'apertura del Padiglione Pediatrico "Dawn Westlake" della Clinica Universitaria di Grovestown. Incontrai per primi i coniugi Lavers. Il mio giovane collega attraversava un cortile dell'ateneo al braccio della moglie. Imogene sembrava ringiova-
nita e più bella. Phil mi parve un po' ingrassato, come tutti i giovani sposi che si rispettano. Conrad Fiske spiccava tra la sparuta schiera degli studenti che avevano vinto una borsa di studio. Quando il rettore magnifico lo chiamò sul podio, cercai Gail tra la folla delle studentesse. Mi vide per prima e agitò vivacemente un fazzoletto alla mia volta. Il suo strano viso di pagliaccio non aveva subito cambiamenti. Strizzando l'occhio, la giovane attirò i miei sguardi sui segni manifesti della sua prossima maternità... «È il primo errore di calcolo di Conrad!» gridò allegra. Avevo creduto quella ragazza capace dei più neri delitti. Non avevo mai pensato a lei come a una madre! Poco dopo Dawn prese la parola. «Con viva gratitudine per quanto questo Ospedale ha fatto per mio papà, io...» S'interruppe con un piccolo singhiozzo che le valse uno scrosciante applauso. La sera, eravamo seduti l'uno accanto all'altra in giardino, volli congratularmi con la mia piccina per il suo discorso. «Vedi papà» osservò allora Dawn. «In fondo, in quel discorso non ho potuto dire proprio quel che volevo. Avrei voluto aggiungere che ero contenta di tante cose... di averti tutto per me, ora... di esser scampata a... una matrigna e ad altri pericoli... È stata proprio... una misericordia...» «Non dire una parola di più Dawn» le imposi. «E ricordatelo bene per il futuro. In casa nostra non voglio più sentir parlare di due cose... Matrigne... misericordia! eutanasia...» FINE