Ian McEwan
L’amore fatale
Traduzione di Susanna Basso
Titolo originale: Enduring Love
Capitolo primo
L’inizio è fa...
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Ian McEwan
L’amore fatale
Traduzione di Susanna Basso
Titolo originale: Enduring Love
Capitolo primo
L’inizio è facile da individuare. Eravamo al sole, vicino a un cerro che ci proteggeva in parte da forti raffiche di vento. Io stavo inginocchiato sull’erba con un cavatappi in mano, e Clarissa mi porgeva la bottiglia - un Daumas Gassac del 1987. L’istante fu quello, quella la bandierina sulla mappa del tempo: tesi la mano e, nel momento in cui il collo freddo e la stagnola nera mi sfioravano la pelle, udimmo le grida di un uomo. Ci voltammo a guardare dall’altra parte del prato, e intuimmo il pericolo. L’attimo dopo, correvo in quella direzione. Si trattò di un rivolgimento assoluto: non ricordo di aver lasciato cadere il cavatappi, né di essermi alzato, di aver preso una decisione, né di aver sentito la raccomandazione che Clarissa mi rivolse. Che idiozia, lanciarmi dentro questa storia e i suoi labirinti, allontanandomi di volata dalla nostra felicità, tra l’erba tenera di primavera accanto al cerro. Un altro grido e l’urlo del bambino, affievolito dal vento che spazzava le chiome alte degli alberi lungo le siepi. Accelerai la mia corsa. A quel punto, improvvisamente, da angolazioni diverse del prato, altri quattro uomini stavano convergendo sul luogo dell’incidente, correndo come me. È come se assistessi alla scena da un’altezza di cinquanta metri, con gli occhi della poiana che poco prima avevamo osservato volteggiare ad ali spiegate e tuffarsi nel tumulto delle correnti: cinque uomini in corsa silenziosa diretti al centro di un prato di una quarantina di ettari. Io arrivavo da sud- est, con il vento a favore. Circa duecento metri alla mia sinistra correvano affiancati due individui. Erano Joseph Lacey e Toby Greene, braccianti agricoli che stavano riparando il lato meridionale dello steccato, là dove costeggia la strada. Più o meno alla stessa distanza da loro, veniva John Logan la cui vettura era parcheggiata ai margini del prato con la portiera, o le portiere, spalancate. Sapendo ciò che so ora, è curioso ricordare la figura di Jed Parry dritta di fronte a me: è uscito da un filare di faggi e avanza contro vento dal lato opposto del prato a una distanza di cinquecento metri. Agli occhi della poiana, Parry e io eravamo due sagome minuscole; con le nostre camicie bianchissime sullo sfondo verde, ci correvamo incontro come due amanti, ignari della sofferenza che da quel groviglio 2
sarebbe nata. Mi precipitavo verso un essere fuori del comune ma anche adesso, dopo tutto quel che è accaduto, sono certo che in quel momento, prima cioè che le complicate coincidenze responsabili del nostro incontro su quel prato si allineassero per darsi forma compiuta, la straordinarietà ancora non esisteva. Il caso che avrebbe scardinato le nostre vite era a pochi minuti da noi. A mascherarne l’enormità contribuiva non solo la barriera del tempo, ma anche il colosso al centro del prato con la sua fenomenale forza d’attrazione in grado di scuotere le resistenze meschine dell’uomo. Cosa faceva Clarissa intanto? Raccontò poi che camminava spedita verso il centro del prato. Non so come riuscisse a resistere all’impulso di correre. Quando si verificò l’evento che sto per descrivere - la caduta - ci aveva quasi raggiunti e occupava un ottimo punto di osservazione, libera da un diretto coinvolgimento, come da corde e urla, e dalla nostra fatale assenza di cooperazione. Quanto descrivo risente di ciò che vide la stessa Clarissa, di ciò che ci ripetemmo nell’ossessiva analisi a posteriori. L’erba del prato avrebbe subito un primo taglio nel mese di maggio, e la fienagione doveva favorire la nuova crescita, preparare al secondo taglio, come l’evento che avrebbe avuto su di noi conseguenze di irrevocabile crescita. Divago, rimando l’informazione. Mi attardo nell’attimo precedente perché fino a quel punto erano ancora possibili esiti differenti; il convergere di sei persone su una distesa di verde conserva una geometria confortante dalla prospettiva di una poiana; ha la riconoscibile limitatezza di un tavolo da biliardo. Le condizioni iniziali, la forza e la sua direzione, bastano a definire ogni traiettoria, ogni angolo di collisione e ritorno, mentre una luce gloriosa sovrasta l’intero prato, il tappeto verde e i corpi in movimento, ammantandoli di una chiarezza rassicurante. Mentre ci correvamo incontro, prima del contatto, credo ci trovassimo in una sorta di grazia matematica. Indugio sulla nostra disposizione spaziale, sulle distanze relative, sui punti cardinali di provenienza, perché rispetto ai fatti accaduti, quello fu l’ultimo istante in cui compresi qualcosa chiaramente. Verso che cosa stavamo correndo? Credo che nessuno di noi lo saprà mai fino in fondo. A livello superficiale tuttavia la risposta c’è; correvamo verso un pallone aerostatico. Non di quelli che sfruttano le semplici proprietà del calore, però, questo era un pallone enorme pieno di elio, gas elementare forgiato dall’idrogeno nella fornace nucleare delle stelle, il primo passo nella generazione della 3
molteplicità e varietà della materia nell’universo, compresi noi stessi e tutti i nostri pensieri. Correvamo incontro a una catastrofe, a sua volta una specie di fornace, nel cui calore identità e destini si sarebbero combinati in forme diverse. Alla base del pallone stava una cesta con dentro un bambino, mentre lì accanto, aggrappato a una corda, era un uomo in disperato bisogno di aiuto. Pallone a parte, quella giornata si sarebbe comunque impressa nella memoria, sebbene nel più piacevole dei modi, giacché ci ritrovavamo dopo una separazione di sei settimane, la più lunga nei sette anni di vita con Clarissa. Sulla strada per Heathrow feci una deviazione a Covent Garden e trovai uh parcheggio quasi regolare proprio davanti a Carluccio’s. Entrai e misi insieme un picnic il cui pezzo forte sarebbe stato una gran mozzarella che la commessa pescò in un recipiente di terracotta servendosi di una pinza di legno. Comprai anche olive nere, insalata mista e focaccia. Poi mi precipitai su Long Acre, da Bertram Rota, per ritirare il regalo di compleanno di Clarissa. Se si escludono l’appartamento e la nostra automobile, era l’oggetto in assoluto più costoso che avessi mai acquistato. La rarità di quel libriccino pareva irradiare un calore che percepivo anche attraverso la spessa carta marrone del pacco, mentre tornavo sui miei passi alla macchina. Quaranta minuti più tardi passavo in rassegna gli schermi dei voli in arrivo. L’aereo da Boston era appena atterrato e calcolai che avrei avuto una mezz’ora d’attesa. Se mai qualcuno volesse conferma dell’assunto darwiniano riguardo all’universalità espressiva dell’emozione, scritta nel codice genetico degli esseri umani, allora dovrebbero bastargli pochi minuti al terminal quattro di Heathrow, quello degli arrivi. Vidi la stessa gioia, lo stesso sorriso irreprimibile sulla faccia di una robusta nigeriana, di una nonnetta scozzese dal labbro sottile e di un impeccabile pallido businessman giapponese nell’atto di spingere i rispettivi carrelli e di riconoscere qualcuno tra la folla in attesa. Se è vero che osservare la varietà umana può essere fonte di piacere, lo stesso vale anche per l’umana uguaglianza. Non facevo che sentire la stessa nota calante del mezzo singhiozzo che spesso accompagnava un nome, mentre due persone si facevano largo per abbracciarsi. Cos’era? Una seconda maggiore, una terza minore o una via di mezzo? Pa-pà! Jolan-da! Ho-bi! Nz-e! D’altra parte, esisteva anche la cantilena ascendente rivolta a bambini dall’aria serissima e diffidente da padri e da nonni 4
assenti da molto tempo, tutti a blandire e implorare un immediato compenso d’amore. Hann-ah? Tom-my? Mi vuoi? La varietà stava semmai nei singoli drammi: padre e figlio adolescente, turchi probabilmente, si stringevano in un lungo abbraccio, forse di perdono, o di lutto, dimentichi dell’ingorgo di carrelli intorno a loro; due gemelle identiche, sulla cinquantina, si salutavano con evidente antipatia sfiorandosi appena le mani e baciandosi a fior di pelle; un bambino americano, issato sulle spalle di un padre che non riconosceva, urlava per farsi mettere giù, e faceva saltare i nervi alla madre esausta. Ma per lo più erano abbracci e sorrisi, e nel giro di trentacinque minuti assistei a più di cinquanta lieti fini teatrali, sempre meno riusciti, finché non mi sentii emotivamente stanchissimo e cominciai a sospettare persino della sincerità dei bambini. Mi stavo chiedendo quanto io stesso mi sarei reso plausibile salutando Clarissa, quando mi sentii battere su una spalla: era lei che uscendo non mi aveva visto ed era tornata a cercarmi. Il distacco svanì in un istante e recitai il suo nome, unendomi al coro degli altri. Meno di un’ora dopo avevamo parcheggiato su una strada sterrata che tagliava attraverso un bosco di faggi nelle Chiltern Hills, nei pressi di Christmas Common. Mentre Clarissa si cambiava le scarpe, preparai lo zaino del picnic. Poi ci avviammo sul sentiero sottobraccio, ancora sotto l’effetto gioioso del nostro incontro; quanto di lei mi era ben noto - come le proporzioni e la sensazione della sua mano nella mia, il tono pacato e affettuoso della voce, la pelle chiara e gli occhi verdi di taglio celtico -, assumeva tuttavia un certo non so che di nuovo, si illuminava di una radiosità estranea facendomi tornare alla mente i primi appuntamenti e i mesi del nostro reciproco innamoramento. Oppure vedevo me stesso nei panni di un altro uomo, del mio stesso rivale in amore, venuto a portarmela via. Quando glielo dissi lei rise e commentò che ero lo scemo più complicato del mondo, e fu mentre ci fermavamo per darci un bacio e domandarci a voce alta se non avremmo fatto meglio a rimontare in macchina e andare subito a casa, che scorgemmo tra le foglie nuove degli alberi, il pallone spostarsi come in sogno attraverso la valle boschiva a ovest. Non potevamo vedere né l’uomo né il ragazzo. Ricordo di aver pensato, senza farne parola, che si trattava di un mezzo di trasporto piuttosto insicuro quando, a segnarne la rotta, era il vento più che il
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pilota. Ma riflettei che forse proprio in quello doveva consistere la natura del divertimento. E l’idea mi svanì di mente all’istante. Attraversammo College Wood diretti a Pishill, fermandoci ad ammirare il verde recente sui faggi. Ogni foglia sembrava accendersi di una luminosità interiore. Parlammo della purezza del colore della foglia di faggio in primavera e di come osservarlo purificasse i pensieri. Mentre passeggiavamo nel bosco, il vento prese ad alzarsi facendo cigolare i rami come ingranaggi arrugginiti. Conoscevamo bene la strada. Era senza dubbio il posto più bello a un’ora di viaggio dal centro di Londra. Amavo le ondeggianti distese dei campi disseminati di gesso e di selce, e quei sentieri che li tagliavano per sprofondare nell’ombra dei faggi, fino a valloni umidi e incolti dove spesse coltri di muschio cangiante foderavano i tronchi morti degli alberi e dove, di quando in quando, non era impossibile imbattersi in un muntjak che rovistava nel sottobosco. Per quasi tutto il tempo della nostra passeggiata parlammo della ricerca di Clarissa: John Keats morì a Roma nell’appartamento ai piedi della scalinata di Trinità dei Monti che divideva con l’amico Joseph Severn. Era ipotizzabile l’esistenza di tre o quattro sue lettere ancora non pubblicate? Si poteva supporre che una avesse come destinatario Fanny Brawne? Clarissa aveva buone ragioni per pensarlo e aveva perciò trascorso una parte del suo semestre sabbatico viaggiando tra la Spagna e il Portogallo, e girando per le case note a Fanny Brawne e a Fanny, la sorella di Keats. Adesso era di ritorno da Boston dove aveva lavorato
alla Houghton Library
di Harvard, cercando
di rintracciare la
corrispondenza di certi lontani parenti di Severn. L’ultima lettera a noi pervenuta, Keats la scrisse quasi tre mesi prima di morire, al vecchio amico, Charles Brown. Il tono dello scritto è piuttosto solenne e propone, secondo lo stile tipico dell’autore, una geniale definizione della creazione artistica inserita quasi tra parentesi: «La coscienza del contrasto, la percezione delle luci e delle ombre, tutto quell’insieme di nozioni (nel senso primitivo) necessarie alla poesia, sono i grandi nemici della guarigione del mio stomaco». È quella che si conclude con il celebre commiato, così straziante per reticenza e per cortesia: «Riesco a malapena a dirti addio, anche per lettera. Sono stato sempre impacciato nel prendere congedo. Dio ti benedica! John Keats». Ma tutte le biografie sono concordi nell’affermare che al momento di redigere questa lettera, Keats stava attraversando un periodo di remissione dal male, che perdurò una decina di giorni ancora. Visitò Villa 6
Borghese e passeggiò in via del Corso. Ascoltò con piacere Haydn suonato da Severn, scaraventò con furia la cena fuori dalla finestra per protestare contro la qualità scadente della cucina, e pensò addirittura di dare inizio alla stesura di una poesia. Ipotizzando l’esistenza di lettere risalenti a quei giorni, quale interesse potrebbe aver avuto Severn, e più ancora, Brown, a sopprimerle? Clarissa riteneva di aver trovato la risposta al quesito in un paio di riferimenti rinvenuti nella corrispondenza tra lontani parenti di Brown nel corso del decennio 1840, ma le occorrevano altre prove, fonti diverse. - Sapeva che non avrebbe più visto Fanny, - diceva Clarissa. - Scrisse a Brown dicendogli che la sola vista del nome di lei gli sarebbe stata intollerabile. Ma non smise mai di pensarla. In quei giorni di dicembre era abbastanza forte, e l’amava moltissimo. È facile immaginare che abbia scritto una lettera anche se non intendeva spedirla. Le strinsi più forte la mano senza parlare. Di Keats e della sua poesia sapevo poco, ma ritenevo possibile che, date le condizioni disperate in cui versava, non avesse voluto scriverle proprio perché l’amava moltissimo. Di recente avevo pensato che l’interesse di Clarissa nell’esistenza di quelle ipotetiche lettere avesse qualcosa a che fare con il nostro rapporto, e con la sua convinzione che un amore non può essere perfetto se non trova espressione in forma scritta. Nei mesi successivi al nostro incontro, e prima dell’acquisto dell’appartamento, mi aveva scritto alcune meraviglie, appassionatamente astratte nello svisceramento di ciò che faceva del nostro amore qualcosa di diverso e migliore rispetto a qualunque altro sentimento mai esistito. Forse è questa l’essenza di ogni lettera d’amore: la celebrazione dell’unicità. Io mi ero sforzato di eguagliarla, ma la franchezza mi aveva concesso solo di attingere ai fatti, che a me parevano comunque abbastanza miracolosi di per sé: una donna bellissima amava e voleva essere riamata da un uomo massiccio, goffo, stempiato e incredulo. Ci fermammo a osservare la poiana nei pressi di Maidensgrove. Può darsi che il pallone avesse riattraversato il nostro sentiero mentre percorrevamo i boschi che coprono le vallate intorno alla riserva naturale. Nelle prime ore del pomeriggio giungemmo al Ridgeway Path, procedendo a nord lungo la linea della scarpata. Poi tagliammo per una di quelle ampie distese che si allungano a ovest delle Chiltern verso la fertile campagna sottostante. Oltre la piana di Oxford 7
distinguevamo il contorno delle Cotswold Hills e, ancora più in là, la massa azzurrognola dei Brecon Beacons. Avevamo deciso di pranzare in fondo al sentiero, dove si godeva il panorama migliore, ma il vento era ormai troppo teso. Tornammo sui nostri passi e trovammo riparo tra i quercioli del lato settentrionale del prato. E fu a causa di questi alberi che non assistemmo alla discesa del pallone. In seguito mi sono chiesto come mai non fosse stato sospinto a chilometri da lì. E ancora più recentemente ho saputo che quel giorno il vento non era lo stesso al livello del suolo e a un’altezza di centocinquanta metri. La conversazione su Keats si esaurì mentre preparavamo la colazione sull’erba. Clarissa estrasse la bottiglia dal sacco e me la porse tenendola dal fondo. Come ho già detto, il collo mi stava sfiorando la pelle quando udimmo il grido. Era un tono baritonale su note via via più alte dettate dalla paura. Quel grido segnò l’inizio e, naturalmente, una fine. In quell’istante si chiuse un capitolo, o meglio, un intero stadio della mia vita. A saperlo, e a poter disporre di un secondo in più, valeva la pena di concedersi un pizzico di nostalgia. Il nostro matrimonio d’amore senza figli durava da sette anni. Clarissa Mellon amava anche un altro uomo, ma con l’approssimarsi del bicentenario dalla sua nascita, il fastidio che mi arrecava era in fondo modesto. Anzi, mi dava persino una mano fornendo spunti per gli scambi di idee che erano parte integrante del nostro equilibrio, il nostro modo per discutere di lavoro. Abitavamo in un edificio art déco nella zona settentrionale di Londra con un fardello di preoccupazioni al di sotto della media: più o meno un anno di ristrettezze economiche, il passeggero timore per un cancro inesistente, i divorzi e le malattie degli amici, l’intolleranza di Clarissa verso i miei occasionali e furiosi accessi di insoddisfazione per il mio lavoro - ma nulla poteva minacciare l’autonoma intimità delle nostre vite. Quel che vedemmo alzandoci in piedi fu quanto segue: un immenso pallone grigio, grande come una casa, a forma di lacrima, precipitato sul prato. Il pilota doveva essere già mezzo fuori dal cesto porta- passeggeri quando il velivolo aveva toccato terra. Una fune attaccata a un’ancora gli si era impigliata intorno a una gamba. Attualmente, tra raffiche di vento che, sollevandolo, spingevano il pallone in direzione della scarpata, l’uomo veniva trascinato ora a terra ora a mezz’aria, sul prato. Nel cesto c’era un bambino, un ragazzo di circa dieci anni. Approfittando di 8
un’improvvisa calma di vento, l’uomo si rimise in piedi afferrando il cesto, o il ragazzo. Seguì un’altra raffica e il pilota si ritrovò sulla schiena, sbattuto sul terreno ineguale, nel tentativo di puntare i piedi al suolo, o nello sforzo di afferrare l’ancora alle sue spalle per assicurare il mezzo alla terra. Anche potendo, non avrebbe osato liberarsi dal groviglio della fune. Gli occorreva il proprio peso per mantenere il pallone a terra, e il vento avrebbe potuto strappargli la fune di mano. Correndo, lo sentii gridare rivolto al ragazzo incoraggiandolo a saltar fuori dal cesto. Ma il volo incontrollato del pallone scaraventava il bambino da tutte le parti. Finalmente recuperò l’equilibrio e appoggiò una gamba sul bordo del cesto. Il pallone si alzò e ricadde di schianto su un dosso, e il ragazzo cascò all’indietro sparendo alla nostra vista. Poi si rialzò con le braccia tese verso l’uomo al quale intanto gridava qualcosa, parole inarticolate per la paura che non riuscii a distinguere. Dovevo trovarmi a un centinaio di metri da lì quando la situazione tornò sotto controllo. Il vento si era placato, l’uomo era in piedi chino sull’ancora che stava cercando di ficcare nel terreno. Si era liberato la gamba dalla fune. Per qualche ragione, magari per volontà o per stanchezza o semplicemente perché stava facendo quel che gli si diceva di fare, il ragazzo rimase dov’era. L’imponente pallone oscillava, piegandosi e strattonando le funi, ma la belva era stata domata. Rallentai la corsa, pur senza fermarmi. Mentre si raddrizzava, l’uomo ci vide - o per lo meno vide me e i due braccianti - e ci fece segno di raggiungerlo. Aveva ancora bisogno di aiuto, ma fui lieto di poter assumere un sostenuto passo di marcia. Anche i braccianti stavano ormai camminando. Uno dei due tossiva forte. L’uomo dell’auto però, John Logan, sapeva qualcosa che noi non potevamo sapere e continuò a correre. Quanto a Jed Parry, il pallone me ne ostruiva la vista. Il vento recuperò la sua furia tra le cime degli alberi poco prima che ne sentissi la forza abbattersi sulla mia schiena. Poi tornò a prendersela con il pallone che interruppe le oscillazioni innocenti e buffe per immobilizzarsi d’un colpo. L’unico movimento percepibile era il baluginio di tensione che andava a incresparne la superficie accumulando energia. Poi si liberò, l’ancora strappò da terra una pioggia di fango, e cesto e pallone si sollevarono a circa tre metri. Il bambino fu scaraventato all’indietro e non lo vedemmo più. Il pilota, che aveva la fune tra le 9
mani, fu sollevato a mezzo metro d’altezza dal terreno. Se Logan non lo avesse raggiunto e non avesse afferrato una delle tante funi penzolanti, il pallone si sarebbe portato via il ragazzo. E invece, adesso, i due uomini venivano trascinati insieme sul campo, mentre i braccianti e io avevamo ripreso a correre. Arrivai prima di loro. Quando acciuffai una corda, il cesto era più in alto delle nostre teste. Il ragazzo dentro strillava. A dispetto del vento, sentii odore di urina. Jed Parry si impadronì di una corda qualche secondo dopo di me, e i due braccianti, Joseph Lacey e Toby Greene, fecero altrettanto subito dopo. Greene era in preda a una crisi di tosse, ma tenne duro. Il pilota ci gridava che fare, ma le sue istruzioni erano troppo frenetiche e comunque nessuno lo stava a sentire. Costretto a combattere troppo a lungo, era esausto e aveva perso il controllo emotivo. Con noi cinque aggrappati alle corde, il pallone era sicuro. Bastava che rimanessimo ben saldi in piedi e tirassimo poco per volta fino a riportare il cesto per terra, il che, a dispetto di tutte le grida del pilota, fu esattamente quello che incominciammo a fare. A quel punto eravamo prossimi alla scarpata. Il terreno si piegava in una brusca discesa del venticinque percento prima di trasformarsi in un pendio dolce verso il fondo. D’inverno questo è uno dei punti preferiti per gli slittini dei ragazzi del posto. Parlavamo tutti insieme. Due di noi, io e l’automobilista, volevamo trascinare il pallone lontano dall’orlo. Qualcuno invece riteneva che prima si dovesse tirare fuori il bambino. Un altro insisteva che dovevamo tirar giù il pallone e assicurarlo bene al terreno. Io non vedevo dove fosse la contraddizione, visto che potevamo tirar giù il pallone pur camminando in direzione del prato. Ma stava avendo la meglio la seconda opinione. Il pilota ne aveva una quarta, ma nessuno la conosceva o aveva testa per ascoltarla. Dovrei chiarire un concetto. Poteva anche esserci una vaga comunanza d’intenti, ma non fummo mai una squadra. Non c’era modo, né tempo. A portare tutti quanti sotto il pallone erano state le coincidenze di spazio e di tempo, e una predisposizione al soccorso. Nessuno aveva il comando - o l’avevamo tutti e facevamo a chi grida più forte. Il pilota, con la faccia congestionata e grondante, veniva ignorato. Irradiava incompetenza come una stufa irradia calore. E noi intanto incominciavamo a strillare le nostre, di istruzioni. So che se avessi avuto 10
io l’incontrastato controllo della situazione, la tragedia non si sarebbe verificata. In seguito sentii dire la stessa cosa anche ad altre delle persone coinvolte. Ma non ci fu tempo né modo di esercitare la propria forza di carattere. Meglio un capo qualsiasi, meglio una qualunque strategia rigorosa, piuttosto che il nulla. Non esiste società umana studiata dagli antropologi, da quella di cacciatori e agricoltori su su fino alla civiltà post- industriale, che non presenti una suddivisione in uomini- guida e sottoposti; e nessuna emergenza che sia mai stata risolta efficacemente secondo sistemi democratici. Il difficile non fu abbassare il cesto porta- passeggeri per guardarci dentro: adesso avevamo un problema nuovo. Il ragazzo era rannicchiato sul fondo. Si copriva la faccia con le mani e si tirava i capelli. - Come si chiama? - chiedemmo all’uomo rosso in viso. - Harry. - Harry, - gridammo. - Avanti, Harry. Harry! Afferra la mia mano, Harry. Devi uscire di lì. Ma Harry si raggomitolò ancora di più. Trasaliva ogni volta che pronunciavamo il suo nome. Le nostre parole erano come sassi che gli piovevano addosso. Il bambino sperimentava una paralisi della volontà, una condizione nota come impotenza acquisita e spesso riscontrata su cavie di laboratorio sottoposte a stress eccessivo; ogni impulso volto a risolvere il problema viene meno, e ogni istinto di sopravvivenza è come prosciugato. Tirammo a terra il cesto e riuscimmo ad assicurarlo; ci stavamo giusto chinando nel tentativo di issare fuori il ragazzo quando il pilota ci spinse di lato a spallate e cercò di entrare nel cesto. In seguito sostenne di averci comunicato le proprie intenzioni. A noi non arrivò nulla a causa delle nostre stesse grida e imprecazioni. Quel che faceva appariva ridicolo, ma le sue intenzioni più tardi si rivelarono assolutamente sensate. Voleva sgonfiare il pallone svitando una valvola che si raggiungeva solo dall’interno del cesto. - Ehi tu, cretino imbecille, - gli strillò Lacey. - Aiutaci a tirare fuori il bambino. Sentii quel che stava arrivando un istante prima che capitasse. Era come se un treno rapido stesse sfrecciando in mezzo alle cime degli alberi precipitandosi sopra di noi. Nel giro di mezzo secondo l’aria si condensò in un suono a metà tra il lamento e il sibilo, che crebbe fino a un volume altissimo. Nel corso dell’inchiesta le cifre riportate dai bollettini meteo riguardo alla velocità del vento 11
di quella giornata divennero istanze probanti: erano state registrate raffiche di centodieci chilometri orari, a quanto pare. Quella doveva essere una, ma prima di consentirle di raggiungerci, permettetemi di congelare la scena per poter descrivere il gruppo intero: l’immobilità garantisce una forma di sicurezza. Alla mia destra il terreno declinava bruscamente. Subito alla sinistra stava John Logan, un medico condotto di Oxford, quarantaduenne, sposato con un’insegnante di storia e padre di due bambini. Non era il più giovane del gruppo, ma il più in forma sì. Giocava a tennis in tornei della contea ed era membro di un club di appassionati di montagna. Aveva fatto parte per un po’ di una squadra di soccorso alpino nelle Western Highlands. Logan doveva essere un uomo schivo e modesto, se no non avrebbe faticato a imporsi come leader a vantaggio di tutti. Alla sua sinistra stava Joseph Lacey, bracciante agricolo sessantatreenne, senza impiego fisso, capitano della squadra di bocce locale. Abitava con la moglie a Watlington, un paesino ai piedi del pendio. Ancora a sinistra c’era il suo amico, Toby Greene, cinquantotto anni, bracciante pure lui, celibe, residente a Russell’s Water con la madre. Entrambi lavoravano sulla proprietà Stoner. Greene era quello con la tosse da fumatore. Poi veniva il pilota che cercava di entrare nel cesto, James Gadd, cinquantacinque anni, dirigente di una piccola azienda pubblicitaria, residente a Reading con la moglie e un figlio adulto, ritardato mentale. Dall’inchiesta risultò che Gadd aveva violato una mezza dozzina di norme di sicurezza, cosa che il coroner annotò senza battere ciglio. A Gadd venne ritirata la licenza di volo. Il ragazzo nel cesto era Harry Gadd, suo nipote, di dieci anni, originario di Camberwell, Londra. Di fronte a me, con il pendio alla sua sinistra, stava Jed Parry. Ventotto anni, disoccupato, viveva grazie a una eredità a Hampstead. L’equipaggio era questo. Per quanto ne sapevamo, il pilota aveva rinunciato alla propria autorità. Eravamo trafelati, emozionati, ciascuno deciso a portare a termine un piano diverso, mentre il bambino non era nemmeno più in grado di partecipare alle operazioni del suo salvataggio. Se ne stava ammucchiato sul fondo del cesto facendosi scudo al resto del mondo con gli avambracci. Lacey, Greene e io cercavamo di pescarlo quando Gadd incominciò a montarci addosso. Logan e Parry intanto gridavano suggerimenti. Gadd aveva piazzato un piede accanto alla testa di suo nipote, e Greene lo stava insultando, quando la cosa accadde. Una violenta raffica percosse il pallone in due rapidi colpi, un- due, il 12
secondo ancor più spaventoso del primo. E già al primo non era mancato niente. La scossa scaraventò Gadd per terra fuori dal cesto, e sollevò il pallone a un’altezza più o meno di un metro e mezzo. Il considerevole peso di Gadd fu quindi sottratto alla delicata equazione. La fune prese a scorrermi fra le mani, scorticandone il palmo, ma riuscii a non mollare la presa e rimasi con mezzo metro di corda libera. Gli altri fecero altrettanto. Adesso la cesta era dritta sopra di noi che stavamo a braccia tese in alto come tanti campanari la domenica. Nel silenzio stupefatto che precedette il ritorno delle nostre grida, arrivò il secondo colpo: il pallone si alzò dirigendosi verso ovest. All’improvviso camminavamo a mezz’aria con tutto il corpo appeso alla stretta dei pugni. Quel secondo o poco più di sospensione da terra occupa nella mia memoria lo spazio che potrebbe bastare a un lungo viaggio su un fiume inesplorato. Il primo impulso fu quello di rimanere avvinghiato per tenere giù il pallone. Il ragazzo era incapace di reagire e stava per essere trasportato in aria. A due miglia da lì in direzione ovest, c’erano i cavi dell’alta tensione. C’era un bambino da solo che aveva bisogno di aiuto. Era mio dovere non mollare, e pensai che avremmo fatto tutti lo stesso. Quasi simultanei al desiderio di rimanere appeso alla corda e salvare il ragazzo, si presentarono altri pensieri, registrati in seguito come mera pulsione nervosa. In essi si confondevano paura e calcoli di complessità logaritmica eseguiti a velocità vertiginosa. Ci stavamo sollevando, e la terra precipitava lontano mentre il vento sospingeva a ovest il pallone. Sapevo di dover attorcigliare gambe e piedi alla corda. Ma l’estremità libera della fune mi raggiungeva a stento la cintura e la presa si stava allentando. Le gambe mi penzolavano nel vuoto. A ogni frazione di secondo aumentava la nostra altezza da terra e sarebbe venuto il momento in cui lasciarsi andare sarebbe stato impossibile o fatale. Inoltre, in confronto a me, Harry era al sicuro, così rannicchiato nel cesto. Poteva anche darsi che il pallone si depositasse ai piedi della collina senza incidenti. E forse il mio impulso a non mollare non era altro che la conseguenza di ciò che avevo tentato di fare qualche minuto prima, la semplice incapacità di adattarmi rapidamente al mutato stato delle cose. Poi, a meno di un battito del mio cuore inondato di adrenalina, una nuova variante fu introdotta nell’equazione: qualcuno mollò, e il pallone si levò di un’altra manciata di metri con il suo carico di uomini appesi. 13
Non seppi allora, né ebbi poi modo di appurare, chi fosse stato il primo a mollare. Non sono pronto ad accettare l’idea di essere stato io. Ma ognuno sostiene la stessa cosa. Di certo va detto che se non avessimo rotto le file, il nostro peso congiunto avrebbe portato a terra il pallone a un quarto di strada lungo la discesa, quando la raffica di vento si placò pochi secondi più tardi. Ma come ho già avuto modo di dire, non eravamo una squadra, non c’era un progetto e neppure un accordo da infrangere. Nessun fallimento. Dunque, possiamo accettare che fosse la cosa giusta, ciascuno per sé? A cose concluse, fummo tutti soddisfatti della versione secondo la quale si trattò di uno sviluppo ragionevole degli eventi? No, quel conforto non ci toccò, perché c’era un patto ben più profondo, istintivo e ancestrale scritto dentro la nostra natura. La cooperazione, la base del successo di primordiali imprese di caccia, la forza che sottende la nostra capacità di linguaggio, il collante della nostra coesione sociale. Lo sconforto del dopo fu prova della consapevolezza di aver tradito noi stessi. Eppure anche lasciar andare la fune era nella nostra natura. Anche l’egoismo ce lo portiamo scritto nel cuore. È questo il conflitto di noi mammiferi: quanto dare agli altri, e quanto tenere per noi. All’atto di calpestare la linea di tale confine, il controllo che esercitiamo sull’altro e quello che l’altro esercita su di noi, costituisce ciò che noi chiamiamo etica. Appesi lassù a qualche metro di altezza sopra la scarpata delle Chiltern, il nostro equipaggio affrontò l’antico irrisolto dilemma morale tra il noi e il sé. Qualcuno optò per il sé, e a quel punto non ci fu più nulla da guadagnare scegliendo il noi. Per lo più, se ha senso, ci comportiamo bene. È buona quella società nella quale si renda utile e ragionevole fare il bene. All’improvviso, appesi sotto quel cesto, ci trasformammo in una cattiva società, incominciammo il processo di disintegrazione. All’improvviso, la scelta assennata fu quella di badare a noi stessi. Il bambino non era mio, e non intendevo morire per causa sua. L’attimo in cui con la coda dell’occhio scorsi il corpo precipitare - ma il corpo di chi? - e sentii il pallone alzarsi di colpo, la faccenda era chiusa, ogni altruismo ormai fuori luogo. Fare il bene non aveva più senso. Lasciai andare e caddi, da un’altezza di cinque metri, direi. Atterrai di schianto sul fianco, e me la cavai con un livido sulla coscia. Intorno a me - prima o dopo, non posso affermarlo con sicurezza - altri corpi tonfavano a terra. Jed Parry non si fece nulla. Toby Greene si ruppe una caviglia. Joseph Lacey, il più anziano del gruppo che aveva fatto il 14
servizio militare in un reggimento di paracadutisti, si raccolse su se stesso al momento dell’impatto. Prima ancora che mi rimettessi in piedi, il pallone era già a cinquanta metri e c’era ancora un uomo appeso alla corda. A quanto pare in John Logan, marito, padre, dottore e membro di una squadra di soccorso alpino, la fiamma dell’altruismo doveva ardere un po’ più forte. Non ci voleva molto. Quando noi quattro mollammo la presa, il pallone, libero dal peso di trecento chili, doveva essere salito di colpo. L’indugio di un altro secondo sarebbe stato sufficiente a eliminare ogni alternativa. Allora mi alzai e lo vidi ormai a una trentina di metri d’altezza e in costante ascesa, proprio sul punto nel quale la terra prendeva a digradare. Non lottava, non scalciava, né cercava di issarsi sul cesto. Restava appeso perfettamente immobile lungo la linea disegnata dalla fune, concentrando tutte le sue energie sulla presa sempre più debole. Era ormai solo una figuretta piccina, quasi nera sullo sfondo del cielo. Del ragazzo, nessuna traccia. Il pallone e il suo cesto volavano in alto verso occidente e più Logan rimpiccioliva, più la situazione si faceva tremenda, tanto tremenda da risultare buffa, come una farsa, una comica, un cartone animato, così che dai polmoni mi uscì una risata atterrita. Era tutto talmente assurdo; questo era il genere di incidente che può capitare a Bugs Bunny, o a Tom e Jerry, e per un istante infatti, pensai che non fosse vero e che soltanto io fossi riuscito a smascherare lo scherzo, che la mia assoluta incredulità avrebbe riportato nei ranghi il mondo reale riconducendo a terra il dottor Logan sano e salvo. Non so dire se gli altri fossero in piedi o ancora per terra. È probabile che Toby Greene fosse piegato dal dolore sulla sua caviglia. Ma ricordo bene il silenzio nel quale risuonò la mia risata. Nessuna esclamazione, nessuno che gridasse ordini come prima. Solo muta impotenza. Adesso Logan era a duecento metri di distanza e a forse novanta di altezza. Il nostro silenzio sigillò in qualche modo l’ineluttabile, come un mandato di esecuzione. O forse fu solo vergogna grondante di orrore, perché il vento intanto si era calmato e ci accarezzava appena la schiena. Logan rimase appeso alla fune talmente a lungo da farmi illudere che potesse restarci finché il pallone non fosse risceso, o finché il ragazzo non fosse riuscito a trovare la valvola del gas, o finché un raggio di luce, un dio o chissà quale altra diavoleria impossibile da cartone animato non fosse venuto a raccoglierlo. Mentre ancora mi cullavo in questa speranza, lo vedemmo scivolare 15
verso l’estremità della fune. E restare lì appeso. Per due, tre, quattro secondi. Poi lasciò andare. Persino allora, ci fu una frazione di tempo nella quale Logan semplicemente precipitava, e io continuavo a pensare che potesse verificarsi un caso determinato da qualche assurda legge fisica, da un fenomeno termico non più sbalorditivo di quello al quale stavamo assistendo, in grado di intervenire e di riportarlo su. Lo guardammo cadere. L’accelerazione era visibile. Nessun perdono, nessuna dispensa particolare per il corpo, in virtù del coraggio o della bontà divina. Semplice, impietosa legge di gravità. E da un punto imprecisato, forse da lui o forse dalla gola di un corvo indifferente, un verso acuto tagliò l’aria ferma. Cadde come era rimasto appeso, come un rigido bastoncino nero. Non ho mai visto una cosa più atroce di quell’uomo che precipitava.
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Capitolo secondo
Sarà meglio rallentare un po’. Prestare attenta considerazione al mezzo minuto che seguì la caduta di John Logan. Quanto accadde simultaneamente o in rapida successione, quanto fu detto, i nostri movimenti o la nostra incapacità di agire, quello che mi passò per la mente: questi dettagli meritano di essere analizzati uno alla volta. L’incidente ebbe tali e tante conseguenze, si sviluppò in un tale groviglio di ramificazioni a partire da quei primi istanti, diede vita a un tale dedalo di amore e di odio, che un po’ di riflessione, di pedanteria persino, non può che farmi bene. La miglior descrizione di un fatto reale non ha bisogno di imitarne la velocità. Ai primi trenta secondi di storia dell’universo sono dedicati interi volumi, interi dipartimenti di ricerca. Vertiginose teorie sul caos primordiale e il disordine si fondano sull’ineliminabile studio delle condizioni iniziali descritte con precisione accurata. Ho già individuato il mio inizio, il detonatore delle conseguenze, nell’attimo che coincide con la bottiglia di vino sulla mano e il grido disperato. Tuttavia tale bandierina sulla mappa non è meno arbitraria della scelta di un punto nella geometria Euclidea e, per quanto appaia corretta, avrei potuto proporre il momento in cui Clarissa e io organizzammo il picnic dopo l’incontro in aeroporto, o quello in cui scegliemmo il percorso, o il prato sul quale pranzare, nonché l’ora scelta per farlo. È sempre possibile rintracciare cause antecedenti. L’inizio è un artificio, e ciò che induce a preferirne uno ad un altro è solo la ricaduta che quel momento ha su quanto segue. La sensazione tattile del vetro freddo sulla pelle e il grido di James Gadd: è la sincronia di questi eventi a fissare una transizione, un allontanamento dal prevedibile: dal vino che non assaggiammo neppure (lo bevemmo poi quella sera per stordirci) al mandato di comparizione, dalla vita felice che pensavamo di proseguire, al tormento che ci sarebbe toccato da lì in poi. Quando lasciai cadere la bottiglia per attraversare di corsa il prato e raggiungere il pallone con il suo cesto ballonzolante, oltre che Jed Parry e gli altri, tra le tante diramazioni dei sentieri, io ne scelsi una che precludeva un certo 17
genere di esistenza serena. Gli eventi fondamentali che diedero forma alla nostra storia furono la faticosa lotta con le funi, la rottura dei ranghi e il destino di Logan. Solo ora tuttavia capisco come nei momenti immediatamente successivi alla sua caduta si siano verificati altri minimi avvenimenti in grado di esercitare una poderosa influenza sul futuro. L’attimo in cui Logan toccò terra doveva segnare l’epilogo di questa storia, anziché un ulteriore inizio. Il pomeriggio poteva concludersi in mera tragedia. Nel paio di secondi che Logan impiegò a precipitare, io sperimentai una sensazione di déjà vu, e me ne fu subito chiara la causa. Ricordai un incubo ricorrente dal quale, tra i venti e i trent’anni, mi risvegliavo urlando. Lo scenario variava, ma gli elementi essenziali erano sempre gli stessi. Mi trovavo in un luogo elevato e osservavo a distanza il verificarsi di un disastro: un terremoto, l’incendio di un grattacielo, l’affondamento di una nave, un vulcano in eruzione. Vedevo gente impotente ridotta dalla lontananza a una massa indistinta, correre in ogni direzione in preda al panico e alla certezza di morire. L’orrore era dato dal contrasto tra le loro apparenti proporzioni e l’enormità della sofferenza patita. La vita mi si rivelava come cosa da poco; migliaia di individui urlanti, non più grandi di formiche, erano sul punto di venire annientati e io non potevo fare nulla per aiutarli. Al tempo non riflettevo granché su quel sogno; più che altro me ne restava un sedimento emotivo le cui componenti erano terrore, senso di colpa e impotenza, e la nausea di quando si realizza un presagio. Proprio sotto di noi, là dove il pendio tornava a livellarsi, si apriva una distesa erbosa adibita al pascolo e cintata da un filare di salici capitozzati. Più in là si dispiegava un prato più vasto sul quale brucavano delle pecore e qualche agnello. Fu al centro di questo secondo terreno, che Logan atterrò davanti agli occhi di tutti noi. L’impressione mia fu che al momento dell’impatto la figuretta sottile si riversasse come fluendo a terra, come una goccia di liquido colloso. Ma ciò che vedemmo nella successiva immobilità, fu il mucchietto compatto della sua persona, come ricomposto. La pecora più vicina, cinque metri più in là, nemmeno si degnò di levare gli occhi dall’erba che stava brucando. Joseph Lacey si stava occupando del suo amico Tobey Greene, che non riusciva ad alzarsi. Accanto a me c’era Jed Parry. Poco dietro di noi stava James Gadd. A lui la sorte di Logan interessava meno che agli altri. Gridava di suo nipote, trascinato dal pallone sulla piana di Oxford e verso la linea dei tralicci 18
dell’alta tensione. Gadd si aprì un varco tra noi e scese di qualche passo lungo il colle, come se intendesse inseguire il velivolo. Ricordo di aver stupidamente pensato che dipendesse dal suo coinvolgimento genetico. Clarissa mi raggiunse alle spalle e mi cinse la vita con le braccia, premendomi il viso contro la schiena. Ciò che mi sorprese fu il constatare che stava già piangendo (mi sentivo la camicia bagnata) mentre a me il dolore sembrava un’esperienza ben di là da venire. Come il personaggio di un sogno vivevo al tempo stesso in prima e in terza persona. Agivo, e mi vedevo agire. Avevo dei pensieri, e li vedevo scorrere su di uno schermo. E come in un sogno, le mie reazioni emotive erano inesistenti o inadeguate. Le lacrime di Clarissa non erano più di un fatto contingente, mentre mi compiacevo di come i miei piedi fossero ben ancorati a terra e divaricati, e di come tenessi le braccia incrociate sul petto. Guardai lontano sui prati e vidi scorrermi in mente il pensiero: quell’uomo è morto. Mi sentii pervadere da una sensazione di calore, come se mi volessi più bene, e strinsi forte le braccia intorno al corpo. Il corollario pareva essere: e io sono vivo. Chi fosse vivo e chi morto in un momento qualsiasi, dipendeva solo dal caso. A me era toccato di vivere. Fu a quel punto che notai Jed Parry intento a osservarmi. Sulla sua lunga faccia ossuta si disegnava un quesito sofferto. Appariva mortificato, come un cane in attesa di una punizione. Nel paio di secondi durante i quali gli occhi grigio azzurri di quello sconosciuto incrociarono i miei, mi sembrò di poter includere anche lui nel compiaciuto senso di benessere che provavo nell’essere vivo. Pensai addirittura di toccargli una spalla in segno di conforto. I miei pensieri intanto passavano sullo schermo: quest’uomo è sconvolto. Ha bisogno del mio aiuto. Se avessi saputo che cosa significava per lui il mio sguardo, e come in seguito lo avrebbe ricostruito per edificarci intorno un’esistenza immaginaria, non mi sarei mostrato così affettuoso. In quel suo sguardo interrogativo e triste stava per svilupparsi ciò di cui ero ancora assolutamente all’oscuro. La calma euforica che provavo era solo sintomo dello shock subito. Offrii a Parry un cordiale cenno di assenso e, ignorando Clarissa alle mie spalle - ero un uomo molto impegnato e intendevo occuparmi di ognuno di loro singolarmente - in un tono di voce che mi parve profondo e rassicurante, gli dissi: - Va tutto bene. Questa flagrante menzogna mi risuonò in petto procurandomi un tale piacere che per poco non la ripetei. Ero stato il primo a parlare dal momento in cui Logan 19
aveva toccato terra. Misi una mano in tasca ed estrassi, di tutte le cose possibili in una simile circostanza, un telefono cellulare. Interpretai l’impercettibile occhiata del giovane come un’espressione di stima. Era quello comunque il sentimento che provavo nei miei riguardi, mentre reggevo nel palmo la sottile lastra compatta e, con il pollice della stessa mano, componevo il 999. Ero un uomo di mondo, equipaggiato, all’altezza della situazione, in contatto con la realtà. Quando il centralinista rispose, chiesi l’intervento della polizia e di un’ambulanza e fornii il resoconto lucido e stringato dell’incidente e del pallone trascinato dal vento con il bambino a bordo, e della nostra posizione e dell’accesso stradale più vicino. Era tutto ciò che potevo fare per contenere la mia emozione. Avrei voluto gridare qualcosa: ordini, suggerimenti, suoni inarticolati. Ero inquieto, su di giri, forse sembravo felice. Quando spensi il telefono, Joseph Lacey disse: - Non gli serve più l’ambulanza. Greene sollevò lo sguardo dalla caviglia. - Servirà comunque per portarlo via. Adesso ricordavo. Ma certo. Ecco cosa mi ci voleva: qualcosa da fare. Ormai ero fuori di me, avrei potuto picchiare qualcuno, mettermi a correre, a ballare, qualunque cosa. - Magari non è morto, - dissi. - Non si può mai dire. Andiamo a dare un’occhiata. Mentre pronunciavo queste parole, incominciai a percepire il tremito alle gambe. L’idea era quella di incamminarmi giù per il pendio, ma non mi fidavo del mio equilibrio. In salita sarei stato più sicuro. Dissi a Parry: - Venga con me -. Voleva essere un suggerimento, ma uscì come una richiesta, un bisogno. Lui mi guardava, incapace di replicare. Ogni dettaglio, gesto, parola intanto veniva registrato, raccolto e ammucchiato, per trasformarsi in carburante per il lungo inverno della sua ossessione. Mi liberai dell’abbraccio di Clarissa prima di voltarmi. Non mi passò neppure per la mente che stesse cercando di tenermi fermo dove stavo. - Andiamo, - dissi a bassa voce. - Forse possiamo ancora renderci utili -. Sentii la dolcezza del tono, l’efficace abbassamento di volume. Ero in piena soap opera. Ora lui si rivolge alla donna e le parla. Una scena intima, un doppio primo piano. Clarissa mi appoggiò una mano sulla spalla. In seguito mi confessò che aveva pensato di darmi uno schiaffo. - Joe, - sussurrò. - È meglio che ti calmi. - Ma che avete? - dissi alzando un po’ la voce. C’era un uomo agonizzante a terra e nessuno muoveva un dito. Clarissa mi guardò e, benché le sue labbra 20
apparissero pronte a formulare delle parole, non volle dirmi perché mai avrei dovuto calmarmi. Mi voltai per rivolgermi agli altri che intanto mi aspettavano, fermi sul prato, perciò pensai spettasse a me dir loro cosa fare. - Io vado da lui. Qualcuno vuole venire? - Non aspettai la risposta, ma tagliai per la scarpata, consapevole dell’inaffidabilità delle mie ginocchia che tenevo a bada accorciando i passi. Venti secondi dopo, lanciai un’occhiata alle mie spalle. Nessuno si era mosso. Man mano che procedevo, la frenesia si attenuava e incominciai a sentirmi intrappolato e solo nella mia decisione. Inoltre c’era una paura, non dentro di me, ma spalmata su quel prato come un velo di foschia e più fitta verso il centro. Ormai ci stavo entrando senza possibilità di scelta, perché gli altri mi guardavano, e tornare indietro avrebbe significato arrampicarsi su per la collina, raddoppiando l’umiliazione. Lo stato di ebbrezza se ne andava lasciando il posto alla paura insinuante. Il morto che non volevo incontrare mi stava aspettando in mezzo al prato. Trovarlo vivo e agonizzante sarebbe stato ancor peggio. In quel caso sarei stato costretto a vedermela da solo con le mie scarse nozioni di pronto soccorso, che non avrebbero ingannato neanche un bambino. Lui di certo non ci sarebbe cascato. Avrebbe deciso di morire comunque e io mi sarei ritrovato la sua morte tra le mani. Volevo girarmi e chiamare a gran voce Clarissa, ma loro mi stavano guardando, lo sapevo, e mi ero tanto scaldato là sopra che adesso mi vergognavo. Quella lunga discesa era il mio castigo. Raggiunsi il filare di salici capitozzati in fondo alla collina, scavalcai un fosso secco e una recinzione di filo spinato. Ormai gli altri non mi vedevano più e io avevo voglia di vomitare. Per intanto, urinai contro un albero. La mano mi tremava forte. Rimasi fermo un po’, nel tentativo di rimandare il momento in cui sarei stato costretto ad attraversare il prato. L’idea di non essere visto mi era di conforto, come trovare riparo dal sole nel deserto. Sapevo dove stava Logan, ma non volevo guardare, nemmeno da quella distanza. Le pecore che al momento dell’impatto non avevano sollevato lo sguardo, mi fissarono prima di indietreggiare nel loro modo incerto e frettoloso. Mi sentivo un po’ meglio. Tenevo Logan ai margini del mio campo visivo, ma non potevo far finta di non sapere che non era sdraiato a terra. Qualcosa sporgeva al centro di quel prato, un moncone di antenna di quel che era o restava di lui. Solo quando mi trovai a una ventina di metri, mi concessi di vederlo. Sedeva ritto dandomi la 21
schiena, come se meditasse o scrutasse nella direzione in cui il pallone si era allontanato con Harry. La sua postura era calma e composta. Mi avvicinai, istintivamente irritato al pensiero di prenderlo alle spalle, ma lieto di non poterlo vedere in faccia. Mi aggrappavo ancora alla possibilità che esistesse un modo, una legge fisica, un fenomeno del quale ero all’oscuro, che gli avrebbe permesso di sopravvivere. Il fatto che se ne stesse tranquillamente seduto sul prato, come se volesse ricomporsi dopo quella terribile esperienza, mi ridiede speranza e mi indusse a schiarirmi stupidamente la voce per poi dire, sapendo che nessun altro mi avrebbe sentito: - Ha bisogno di aiuto? - In quel momento non mi pareva così ridicolo. Gli vedevo i capelli ondulati sul colletto della camicia e la pelle scottata dal sole intorno alle orecchie. La giacca di tweed non sembrava sporca, anche se gli cadeva addosso in modo strano, perché aveva le spalle più strette del dovuto. Più strette delle spalle di un qualsiasi uomo adulto. Dalla base del collo non si apriva alcuna ampiezza laterale. La struttura ossea era collassata dall’interno dando origine a una specie di fusto con la testa in cima. A quella vista, mi resi conto che quello che avevo interpretato come calma composta, in realtà era assenza. Non c’era nessuno là dentro. La quiete era quella di un corpo inanimato e ancora una volta capii, perché avevo visto altri cadaveri in passato, per quale ragione in tempi precedenti l’avvento della scienza si fosse sentito il bisogno di inventare l’anima. Non era meno evidente dell’illusione prodotta dal sole della sera che sprofonda in cielo. Il subitaneo interrompersi di innumerevoli stimoli nervosi e reazioni biochimiche suggeriva all’occhio nudo dell’uomo l’immagine illusoria di una fiammella che si spegne, o della semplice scomparsa di un unico elemento essenziale. Per quanto scientificamente informati possiamo considerarci, timore e rispetto continuano a sorprenderci in presenza dei morti. Forse è in realtà la vita che non comprendiamo. Furono questi i pensieri con i quali cercavo di proteggermi, mentre mi decidevo a fare il giro intorno al cadavere. Stava seduto in un lieve affossamento del terreno. Non vidi Logan morto finché non gli vidi la faccia alla quale peraltro rivolsi appena un’occhiata. Benché la pelle fosse intatta, era difficile definirlo ancora un volto perché non era rimasto un solo osso intero e l’impressione riportata, prima di allontanare lo sguardo, fu quella di una radicale, picassiana violazione di ogni prospettiva. Può darsi che mi sia solo immaginato la 22
disposizione verticale degli occhi. Mi voltai dall’altra parte e vidi Parry venirmi incontro sul prato. Doveva avermi seguito subito perché era già a distanza di voce. Doveva anche avermi visto fermarmi sotto gli alberi. Lo osservai oltre il capo di Logan, lui rallentò e mi disse: - Non lo tocchi, per carità, non lo tocchi. Non ne avevo avuto la minima intenzione, ma non replicai. Era come se vedessi Parry per la prima volta in vita mia. Se ne stava ritto con le mani sui fianchi a fissare non Logan, ma me. Persino in quel momento, lo interessavo di più io. Era venuto per dirmi qualcosa. Era alto, magro, ossuto, scattante, e sembrava in forma. Indossava un paio di jeans e scarpe da ginnastica nuovissime, coi lacci rossi. Le ossa sporgevano a disegnare armoniosamente la sua struttura, al contrario di quelle di Logan. Le nocche delle dita ripiegate sulla cintura di cuoio erano grandi e nodose sotto la pelle bianca e tesa. Gli zigomi, alti e sporgenti, insieme alla coda di cavallo gli conferivano l’aspetto di un pallido guerriero pellerossa. Era di corporatura notevole, persino un po’ minacciosa, ma la voce rovinava tutto l’effetto. Era flebile, esitante, priva di accento regionale ma sporca di un ricordo londinese, la traccia di un passato rimosso, o di una posa. Secondo il costume linguistico della sua generazione, Parry pronunciava le affermazioni con inflessione ascendente, interrogativa; una modesta imitazione di americani, o australiani o, secondo quanto avevo sentito sostenere da un linguista, la dimostrazione fonetica di un impaccio eccessivo nella formulazione di un giudizio, di un’incertezza esagerata nel dire come stanno davvero le cose. Va da sé che allora non pensai nulla di tutto questo. Quello che udii fu semplicemente un gemito di impotenza, e mi rilassai. Le sue parole furono: Clarissa è molto in ansia per lei? Le ho detto che scendevo a vedere come stava? Il mio silenzio era ostile. Ero vecchio abbastanza per trovare fastidioso quell’uso arrogante dei nomi di battesimo, come pure, la presunzione di conoscere lo stato d’animo di Clarissa. A quel punto della storia, neppure sapevo il nome di Parry. Nonostante il cadavere seduto in mezzo a noi, le leggi della civile convenienza avevano la meglio. Seppi più tardi da Clarissa che Parry le si era avvicinato per presentarsi e quindi aveva deciso di seguirmi giù per la collina. Lei non gli aveva detto nulla al mio riguardo. - Si sente bene? Dissi: - A questo punto non ci resta che aspettare, - indicando con la mano la strada che correva a un prato di distanza da noi. 23
Parry mi si avvicinò di un paio di passi e guardò prima Logan, poi me. Gli occhi grigio azzurri scintillavano. Che fosse emozionato si vedeva, ma nessuno avrebbe mai indovinato fino a che punto. - Secondo me, c’è una cosa che possiamo fare. Guardai l’ora. Erano passati quindici minuti da quando avevo chiamato il pronto soccorso. - Faccia pure quel che crede, - dissi. - Ma è una cosa che possiamo fare insieme? - fece lui guardandosi intorno alla ricerca di un posto adatto. La mia mente fu attraversata dal pensiero folle che stesse proponendo chissà quale oscenità da perpetrare sul cadavere. Si stava chinando e, con lo sguardo, mi invitava a fare lo stesso. Allora capii. Si era inginocchiato. - Intendevo dire, - affermò con una serietà che scoraggiava qualunque ironia, che possiamo pregare insieme? - Non mi diede il tempo di replicare, cosa del resto impossibile perché ero senza parole. E aggiunse: - È difficile, lo so. Ma ne trarrà giovamento. In momenti come questo, aiuta, mi creda. Indietreggiai di un passo da Logan e Parry. Ero a disagio, e il mio primo pensiero fu quello di non offendere un credente. Ma mi controllai. Lui non si era preoccupato dell’eventualità di offendere me. - Mi rincresce, - dissi cortesemente. - Non fa per me. Dalla posizione genuflessa, Parry si sforzò di esprimersi in modo razionale. Senta, noi due non ci conosciamo e non c’è ragione per cui debba fidarsi di me. Si dà il caso però che il buon Dio ci abbia voluti entrambi testimoni di questa tragedia perciò a noi tocca, lei capisce, trarne un insegnamento? – Poi, vedendo che non mi muovevo, proseguì: - Secondo me lei ha un disperato bisogno di pregare? Mi strinsi nelle spalle e dissi: - No, mi scusi. Ma lei faccia pure. - Americanizzai il tono della voce per conferire alle parole una spensieratezza che non sentivo. Parry non voleva cedere. Era ancora in ginocchio. - Forse non mi sono spiegato. Non vorrei che lo considerasse una specie di dovere. È come se qualcuno venisse incontro ai suoi bisogni, mi segue? Io non c’entro affatto, per la verità, sono solo un messaggero. Si tratta di un dono. Adesso che si faceva più insistente le ultime tracce del mio disagio svanirono. Grazie, no. Parry chiuse gli occhi e tirò un lungo sospiro; più che pregare pareva raccogliesse le forze. Decisi di rincamminarmi su per la collina. Quando senti che 24
mi allontanavo, si alzò e venne verso di me. Non voleva proprio lasciarmi andare. Voleva a tutti i costi convincermi, ma non aveva intenzione di modificare i suoi modi pazienti e comprensivi. Pareva perciò sorridere facendo breccia nella sofferenza, quando disse: - La prego, non rinunci. Lo so che non fa parte delle sue abitudini. Voglio dire che non occorre credere a nulla, basta abbandonarsi alla preghiera e le prometto, le prometto... Mentre inciampava sulle proporzioni della promessa, lo interruppi, e mi feci indietro. Sospettavo che da un momento all’altro potesse decidere di allungare una mano per toccarmi. - Senta, mi rincresce. Adesso torno a vedere come sta la mia amica -. Qualcosa mi impediva di pronunciare il nome di Clarissa in sua presenza. Probabilmente sapeva che ormai l’unica speranza di riuscire a trattenermi dipendeva da un radicale cambiamento nel tono della voce. Avevo già fatto un discreto numero di passi, quando, con fare brusco, mi disse: - Va bene, va bene. Abbia solo la gentilezza di dirmi una cosa. Impossibile resistere. Mi fermai per voltarmi. - Che cosa glielo impedisce? Voglio dire, è in grado di dirmelo, lei personalmente sa di che si tratta? Per un istante pensai che non gli avrei risposto. Volevo fargli intendere che la sua fede non aveva alcuna ricaduta morale su di me. Poi però cambiai idea e dissi: - Niente. Non c’è niente che me lo impedisce. Mi si stava avvicinando di nuovo, le braccia lungo i fianchi, mentre il gesto teatrale delle mani aperte e rivolte all’insù mimava la perplessità di un uomo ragionevole. - E allora perché non ci prova? - disse accompagnando le parole con una risata scanzonata. - Magari scoprirebbe qualcosa, ad esempio, la forza che può trarne. La prego, perché no? Di nuovo, esitai e per poco non dissi nulla. Ma decisi che doveva sapere la verità. - Per la semplice ragione, amico mio, che nessuno ci ascolterebbe. Non c’è nessuno lassù. Parry fletteva la testa di lato e a poco a poco sul suo volto si disegnò il più felice dei sorrisi. Mi chiesi se mi avesse sentito bene, visto che, a guardarlo, pareva che gli avessi appena detto di essere Giovanni Battista. Fu allora che notai, dietro di lui, due poliziotti impegnati a scavalcare un cancello a cinque sbarre. Mentre correvano sul prato verso di noi, uno dei due si teneva il cappello con la mano, 25
come in una scena da telefilm. Arrivavano con l’intento di conferire ufficiale svolgimento al destino di John Logan e, dal mio punto di vista, anche per liberare me dal potere irradiante dell’amore e della misericordia di Jed Parry.
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Capitolo terzo
Entro le sei del pomeriggio stesso eravamo di ritorno a casa, nella nostra cucina dove tutto sembrava uguale a prima: dall’orologio a muro sulla porta ai ricettari di Clarissa, all’appunto in fiorita calligrafia lasciato il giorno avanti dalla signora delle pulizie. L’inalterato disordine della mia tazza di caffè e del giornale aveva un che di blasfemo. Mentre Clarissa portava i bagagli in camera da letto, io sgombrai il tavolo, poi stappai il vino del picnic e presi due bicchieri. Ci sedemmo uno di fronte all’altra e incominciammo. In macchina ci eravamo detti poco. Pareva già abbastanza essere usciti indenni dal traffico. Ma adesso veniva fuori a fiotti, come un torrente, un’autopsia, un interrogatorio, il ripetersi di un’esperienza, una prova generale del dolore, e una cerimonia di esorcismo del terrore. Quella sera ci ripetemmo ogni evento e ogni nostra sensazione così tante volte, riadattando le frasi parola per parola, risistemandole, che a nessuno sarebbe potuto sfuggire l’elemento rituale della cosa, come se quelle non fossero solo descrizioni ma anche formule magiche. C’era un conforto nella ripetizione, lo stesso che trovavamo nel risentire il peso familiare del bicchiere di vino nella mano, e nel rivedere il tavolo in legno d’abete che era appartenuto alla bisnonna di Clarissa. La sua superficie era segnata da piccole tacche, ammaccature e incisioni di coltelli lungo i bordi, consumati da gomiti come i nostri; mi era capitato spesso di pensare: chissà quante crisi, quante morti sono già state raccontate intorno a questo tavolo. Clarissa ripassò in fretta l’inizio della sua storia: il groviglio confuso di uomini e funi ciondolanti, le grida e le imprecazioni, lei che si era fatta avanti per prestare aiuto ma non aveva più trovato una corda per appendersi. Rovesciammo insieme una valanga di improperi su James Gadd, il pilota, e sulla sua incompetenza, ma la cosa non ci protesse a lungo dal pensiero di tutto ciò che avremmo dovuto fare per impedire la morte di Logan. Passammo subito a considerare il momento in cui aveva lasciato la fune, e su quello ritornammo molte altre volte quella sera. Le descrissi come l’avevo visto appeso in cielo prima di precipitare, e lei mi disse di essere stata folgorata da un verso di Milton: Lo gettò capofitto fiammeggiante 27
dall’etereo cielo. Ma continuavamo a ritrarci dal momento cruciale, a girargli intorno, a prenderne le distanze finché non lo mettemmo con le spalle al muro e riuscimmo a domarlo con le parole. Tornammo alla lotta col pallone e le funi. Provavo il malessere tipico del senso di colpa, qualcosa di cui ancora non ero in grado di parlare. Mostrai a Clarissa l’escoriazione che la corda mi aveva fatto sulle mani. In meno di mezz’ora, avevamo dato fondo alla bottiglia di Gassac. Clarissa si portò le mie mani alle labbra e le baciò. La guardavo negli occhi meravigliosamente verdi, ma l’attimo non poteva durare; quel genere di pace non ci era concessa. Lei trasalì, dicendo: - Dio mio, però, quando è caduto! - e io mi alzai di scatto per andare a prendere del beaujolais dalla rastrelliera. Tornammo alla caduta, a quanto Logan ci aveva messo prima di toccare terra, due secondi, forse tre. Ma subito ripiegammo su eventi marginali, l’arrivo della polizia, gli uomini dell’ambulanza, uno dei quali non era abbastanza robusto da sostenere la barella sulla quale era stato caricato Greene, e si era fatto aiutare da Lacey a trasportarla fino alla fine del prato; e il carro attrezzi che aveva portato via l’auto di Logan. Provammo a immaginare la scena, la consegna della vettura vuota alla casa di Oxford dove la signora Logan aspettava con i due bambini. Anche questo però era intollerabile, perciò tornammo al racconto di noi due. Lungo i fili di quella narrazione si trovavano i nodi, grovigli di orrore sui quali a tutta prima non potevamo rivolgere lo sguardo, e che riuscivamo solo a sfiorare per poi fare marcia indietro e tornarci sopra di nuovo. Eravamo come prigionieri in una cella, ci lanciavamo contro le pareti cercando di spostarle a testate. A poco a poco la prigione si fece più spaziosa. È strano ricordare come l’argomento Jed Parry ci apparisse più rassicurante. Clarissa mi raccontò di come le si fosse avvicinato per presentarsi e di come lei avesse fatto altrettanto. Non si erano stretti la mano. Poi lui si era messo a seguirmi giù per la collina. Io raccontai l’episodio della preghiera in tono comico e la feci ridere. Clarissa intrecciò le dita alle mie e le strinse forte. Volevo dirle che l’amavo, ma all’improvviso tra noi si frapponeva la sagoma di Logan, seduto ritto e immobile. Fui costretto a descriverlo. Nel ricordo era anche peggio di come mi era apparso sul momento. Lo shock doveva aver attenuato le mie reazioni. Incominciai a spiegarle come i suoi lineamenti sembrassero sconvolti, e interruppi la descrizione per dirle della differenza che percepivo tra il prima e il poi, e di come una specie di logica da sogno avesse reso quasi ordinario uno 28
spettacolo di per sé insopportabile, di come non mi fosse sembrato fuori luogo intrattenere una conversazione con Parry di fronte al cadavere devastato di Logan. E ancora adesso mentre ne parlavo mi resi conto che continuavo a evitarlo, Logan, che avevo interrotto la descrizione iniziata perché tuttora non ero in grado di contenere mentalmente i fatti, e sentivo il bisogno di dire anche questo a Clarissa. Lei osservava paziente il complesso percorso a ritroso dei miei ricordi, delle emozioni e dei commenti a entrambi. Non era che non riuscissi a trovare le parole; piuttosto, non stavo dietro alla velocità dei pensieri. Clarissa spostò la sedia e fece il giro del tavolo per venire da me. Si premette la mia testa contro il seno. Tacqui e chiusi gli occhi. Tra le fibre del suo maglione era rimasto l’odore del vento ed ebbi la sensazione che il cielo mi si spalancasse di fronte. Poco dopo avevamo recuperato le postazioni e sedevamo come due meticolosi artigiani intenti a rifinire i contorni di ricordi troppo aguzzi, a martellare l’ineffabile in forma di parole, a cucire sensazioni isolate nel tessuto della narrazione, finché Clarissa non ci riportò alla caduta, al preciso momento in cui Logan era scivolato lungo la fune, vi era rimasto appeso per quell’ultimo prezioso istante, e poi aveva lasciato andare. Era lì che doveva ritornare, quella l’immagine che aveva aderito alla sua memoria sconvolta. Ripeté tutto da capo, compresi i versi del Paradiso Perduto. Poi mi confessò di avere anche lei sperato in una sorta di soluzione miracolosa, mentre Logan stava precipitando. L’aveva pensata sotto forma di angeli, non i reprobi di Milton scaraventati giù dal cielo, bensì l’incarnazione di ogni virtù e giustizia in una figura dorata scesa dalle nubi per accogliere tra le braccia l’uomo in caduta libera. Nel delirio di quell’attimo carico di pensieri le era sembrato che la caduta di Logan rappresentasse una sfida alla quale nessun angelo avrebbe saputo resistere, e che la sua morte fosse perciò prova inconfutabile della loro non esistenza. Perché, ci occorreva una prova? avrei voluto chiederle, ma lei mi stava stringendo la mano e diceva: - Era un brav’uomo, - con un improvviso tono di supplica, come se io fossi sul punto di condannarlo. - C’era il bambino nel cesto, e Logan non ha voluto mollare. Aveva figli anche lui. Era un brav’uomo. In seguito a un banale intervento chirurgico subito a poco più di vent’anni, Clarissa era rimasta sterile. Lei si era convinta che la sua cartella clinica fosse stata scambiata con quella di un’altra paziente, ma non possedeva prove certe del fatto, e l’interminabile azione legale si era arenata tra ostacoli e ritardi. Poco per 29
volta, la tristezza si era consumata e Clarissa aveva ricostruito la propria vita assicurandosi che i bambini continuassero a farne parte. Nipoti, figliocci, figli di vicini e vecchi amici, l’adoravano tutti. Lei si ricordava di ogni compleanno e non mancava un Natale. In casa nostra c’era una stanza, a metà tra la nursery e il covo di un adolescente, che di quando in quando ospitava bambini piccoli e meno piccoli. Gli amici consideravano Clarissa una donna di successo e soddisfatta, e per lo più non si sbagliavano. Solo ogni tanto accadeva qualcosa che andava a riaprire le vecchie ferite. Cinque anni prima dell’incidente del pallone, quando ci conoscevamo da due anni, Marjorie, una sua cara amica dei tempi dell’università, aveva perso un bambino di quattro settimane per una rara infezione batterica. Clarissa era andata a Manchester a vedere il piccolo cinque giorni dopo la nascita e si era poi trattenuta una settimana per aiutare l’amica. La notizia della morte del piccolo la stroncò. Non avevo mai visto nessuno soffrire in modo così devastante. Il nodo centrale del problema non era tanto la sorte del bambino, quanto la perdita di Marjorie che Clarissa viveva come propria. Ciò che affiorò fu il lutto di Clarissa per un bambino fantasma, frutto mancato dell’amore. Il dolore di Marjorie diventò quello di Clarissa. Qualche giorno dopo aveva ricostituito le proprie difese, e aveva cercato di dare il maggior conforto possibile all’amica. Questo era l’esempio più sintomatico. Altre volte, invece, il bambino non concepito si manifestava solo in turbamenti passeggeri. Ora in John Logan, Clarissa vedeva un uomo disposto a morire per evitare il tipo di perdita che lei stessa sentiva di aver vissuto. Il bambino non era suo, ma lui comunque era un padre e aveva capito. Quel genere di amore aveva fatto breccia nelle difese di Clarissa. Nel tono supplichevole con il quale aveva detto «Era un brav’uomo», lei stava chiedendo perdono al proprio passato, al fantasma del suo bambino. L’idea inconcepibile era che Logan fosse morto per niente. Si era saputo che Harry Gadd, il bambino, era rimasto incolume. Io avevo mollato la fune. Io avevo contribuito a uccidere John Logan. Mi sentivo invadere dalla nausea del senso di colpa, eppure cercavo di convincermi che era stato giusto agire così. Se non lo avessi fatto, Logan e io saremmo potuti precipitare insieme, e quella sera Clarissa si sarebbe ritrovata sola. Nel tardo pomeriggio avevamo saputo dalla polizia che il bambino era atterrato sano e salvo una ventina di chilometri a ovest. Quando si era reso conto di essere solo, aveva dovuto darsi da fare per mettersi in salvo. Non più spaventato dal panico del nonno, aveva recuperato il controllo, facendo 30
tutte le operazioni giuste. Aveva lasciato che il pallone salisse oltre i cavi dell’alta tensione, poi aveva aperto la valvola del gas consentendo al velivolo di effettuare un atterraggio tranquillo su un prato nei pressi di un centro abitato. Clarissa non parlava più. Si sosteneva il mento sulla mano ripiegata e fissava la superficie del tavolo. - Sì, - dissi alla fine, - Voleva salvare il bambino -. Scosse piano la testa, contemplando mentalmente un pensiero inespresso. Io rimasi in attesa, pago di sfuggire alle mie emozioni per aiutare lei a confrontarsi con le sue. Quando sentì il mio sguardo su di sé, alzò gli occhi. - Tutto questo deve avere un senso, - disse con voce stanca. Esitai. Non mi era mai piaciuta quella scuola di pensiero. La morte di Logan era assurda: a questo in parte era dovuto il nostro stato di shock. Certe volte la brava gente soffre e muore, non perché qualcuno voglia metterne alla prova la virtù, ma proprio perché non esiste nessuno che possa farlo. Nessuno, a parte noi. Tacqui troppo a lungo, e lei infatti aggiunse: - Niente paura, Joe. Non sto impazzendo. Voglio solo dire, come ci racconteremo questa storia? Dissi: - Abbiamo cercato di renderci utili e non ci siamo riusciti. Sorrise e scosse il capo. Mi avvicinai alla sua sedia, la abbracciai e, con fare protettivo, la baciai sui capelli. Mi premette la faccia contro la camicia con un sospiro, e mi cinse intorno alla vita. La voce mi arrivò smorzata. - Sei così scemo tu. Sei talmente logico certe volte che sembri un bambino... Intendeva attribuire alla razionalità una sorta di innocenza? Non lo seppi mai, perché le sue mani intanto si spostavano leggere dalle mie natiche ai genitali. Mi accarezzò i testicoli e, mentre mi slacciava la cintura per sfilarmi la camicia e baciarmi la pancia, la sua mano non si mosse. - Te la dico io una cosa, brutto scemo. Abbiamo visto insieme una scena orribile. Che non se ne andrà più via, perciò dobbiamo aiutarci. Il che significa che dovremo amarci anche più di prima. Ma certo. Come avevo fatto a non pensarci? Come mai a me quelle cose non venivano in mente? Avevamo bisogno d’amore. Io mi ero sforzato di negarmi persino
una
sua
carezza,
considerando
ogni
gesto
d’affetto
inadeguato,
un’indulgenza irriverente di fronte alla morte. Qualcosa da recuperare in seguito, una volta esaurite le parole e il confronto sull’accaduto. Clarissa aveva reso possibile una svolta verso l’essenziale. Mano nella mano, ci avviammo in camera nostra. Sedette sul bordo del letto e io la spogliai. Quando la baciai sul collo, mi tirò verso di lei. - Non importa cosa facciamo, - sussurrò. - Non dobbiamo fare 31
niente. Voglio solo abbracciarti. - Si infilò sotto le coperte e si rannicchiò, mentre mi spogliavo anch’io. Quando la raggiunsi, mi mise le braccia intorno al collo e avvicinò la faccia alla mia. Sapeva che ero un disastro in questo genere di tenerezze. Il suo abbraccio mi restituì a me stesso: ero un uomo fortunato, avevo casa e radici. Sapevo che le piaceva chiudere gli occhi e lasciarseli baciare, e poi le guance, e il naso, come una bambina prima di addormentarsi. Solo alla fine le avrei trovato le labbra. Spesso ci rimproveravamo per aver perso del tempo a parlare così, tutti vestiti, scomodi, su una sedia, quando avremmo potuto fare la stessa cosa sdraiati in un letto, faccia a faccia, e nudi. Quei minuti preziosi che precedono l’amore trovano nel termine semi- scientifico di «preliminari» una definizione impropria. In quei momenti il mondo si fa piccolo e intenso, le voci affondano nel tepore dei corpi, la conversazione diventa intima e imprevedibile. A me venivano in mente espressioni semplici che mi censuravo perché mi parevano talmente banali, come, Eccoci di nuovo, oppure Ancora, oppure Sì, proprio così. Come l’attimo di un sogno ricorrente, questi minuti innocenti e dilatati svanivano dalla memoria finché non ci ricadevamo dentro. E quando succedeva, le nostre vite recuperavano la dimensione essenziale e tutto iniziava da capo. Poi veniva il silenzio, ed eravamo ormai così vicini da stare bocca a bocca, ritardando l’unione che ancor più ci legava in virtù di quel preludio. Dunque, eccoci lì, di nuovo, e fu una liberazione. L’oscurità oltre la penombra della stanza era infinita e fredda come la morte. E in quella vastità il nostro calore era insignificante. Gli avvenimenti del pomeriggio ci invadevano la mente, ma noi li bandimmo dalla conversazione. Dissi: - Come ti senti? - Spaventata, - disse. - Spaventatissima. - Non si vede. - Mi sembra di tremare dentro. Piuttosto che rimetterci sulla strada che ci avrebbe riportati a Logan, ci raccontammo storie di brividi e spaventi e, come sempre succedeva con argomenti simili, l’infanzia dominò il discorso. Quando Clarissa aveva sette anni la sua famiglia fece una vacanza in Galles. Una mattina di pioggia, una delle sue cuginette di cinque anni si perse, e sei ore dopo ancora non si riusciva a trovarla. Arrivò la polizia con i cani. Gli abitanti del paese erano in giro a perlustrare la campagna mentre un elicottero sorvolava le zone più alte. Poco prima che facesse 32
buio la bambina fu ritrovata in un fienile: dormiva sotto dei sacchi di tela. Clarissa ricordava i festeggiamenti generali nella fattoria affittata, quella sera. Suo zio, il padre della bambina, aveva appena accompagnato alla porta l’ultimo dei poliziotti. Quando tornò nella stanza, vacillava e si lasciò cadere di peso su una poltrona. Gli tremavano forte le gambe, e i bambini osservarono affascinati la zia di Clarissa inginocchiarsi accanto a lui e appoggiargli dolcemente le mani sulle cosce. - Al tempo non collegai il fatto con la ricerca di mia cugina. Per me era solo uno di quei fenomeni strani che da piccoli si registrano e basta. Magari era quello che si intendeva con il termine «ubriaco», uno con le ginocchia che gli ballano su e giù dentro i pantaloni. Io raccontai la storia della mia prima esibizione pubblica alla tromba quando avevo undici anni. Ero tanto nervoso e mi tremavano talmente le mani che non riuscivo a tenermi l’imboccatura sulle labbra, né tanto meno ero in grado di atteggiare la bocca nella posizione adatta a produrre una nota. Perciò mi infilai l’imboccatura tra i denti e strinsi forte per tenerla ferma, poi eseguii il brano, mezzo suonando e mezzo cantando. Nella cacofonia generale di un’orchestra scolastica a Natale, nessuno si accorse di nulla. Clarissa disse: - La imiti ancora bene adesso la tromba, al mattino in bagno. E dal tremare passammo al ballare (io lo detesto, lei lo adora), e dal ballo all’amore. Ci dicemmo quel che gli innamorati non si stancano mai di sentire e non smettono mai di ripetere. - Ti amo ancora di più, ora che ti ho visto perdere completamente la testa, - disse. - Alla fine ha ceduto, l’incrollabile razionalista! - Non è che l’inizio, - promisi. - Non te ne andare, se vuoi vedere il resto. Quell’allusione al mio comportamento dopo la caduta di Logan ruppe l’incanto, ma solo per qualche secondo. Ci stringemmo più vicini per baciarci. Quanto accadde dopo si avvantaggiò dell’esaltazione emotiva di una riconciliazione, come se un disastroso litigio della durata di una settimana, nutrito di minacce e insulti, si fosse dolcemente risolto nel reciproco perdono. Noi da perdonarci non avevamo niente a meno che, come credo, non ci stessimo assolvendo della morte, ma si trattava di stati d’animo interrotti da ogni nuova ondata di sensazioni. Era costata carissima quell’estasi e io dovetti lottare per respingere l’immagine di una tetra casa di Oxford, isolata, come in mezzo a un deserto, con due bambini attoniti affacciati a una finestra del primo piano, che guardano la madre ricevere i suoi lugubri visitatori. 33
Ci addormentammo e quando ci svegliammo, dopo un’ora più o meno, avevamo fame. Fu in cucina, mentre in vestaglia svaligiavamo il frigorifero, che scoprimmo di sentire il bisogno di compagnia. Clarissa andò al telefono. Conforto affettivo, sesso, casa, vino, cibo, amici: volevamo vedere riconfermato tutto il nostro mondo. Nel giro di mezz’ora mangiavamo piatti thailandesi ordinati per telefono, con i nostri amici Tony e Anna Bruce ai quali intanto raccontavamo la nostra storia. La narrazione avvenne nel consueto stile matrimoniale, con uno dei coniugi che procede da solo per un po’, inserendosi magari nelle pause, o al contrario, passando di proposito la parola all’altro. Certe volte ci davamo anche sulla voce e, ciononostante, il racconto si andava facendo più coerente; prendeva forma, e ormai era pronunciato in un luogo sicuro. Guardavo i volti intelligenti e partecipi dei nostri amici perdere intensità. Il loro turbamento non era che l’ombra del nostro, pareva più il frutto di uno sforzo di volontà e questo ci incoraggiava a esagerare, a lanciare una fune di superlativi nell’abisso che separa l’esperienza diretta dalla sua rappresentazione aneddotica. Nel corso dei giorni e delle settimane seguenti, Clarissa e io raccontammo la nostra storia molte volte ad amici, colleghi e parenti. Mi sorpresi a usare le stesse frasi, gli stessi aggettivi e nello stesso ordine. Divenne possibile riferire gli eventi senza minimamente riviverli, senza neppure bisogno di ricordarli. Tony e Anna se ne andarono all’una. Quando rientrai dopo averli accompagnati alla porta, notai che Clarissa stava scorrendo gli appunti per una lezione. Ma certo, l’anno sabbatico era finito. Il giorno dopo, lunedì, doveva riprendere l’insegnamento. Andai nel mio studio e controllai l’agenda benché conoscessi benissimo gli impegni: due appuntamenti e un articolo da finire entro le cinque. In un certo senso avevamo buone difese da opporre a quella catastrofe. Avevamo noi stessi, e svariati amici di vecchia data. E in più, potevamo contare sugli impegni di un lavoro interessante. Mi fermai sotto la luce della lampada e, fissando la mezza dozzina di lettere che attendevano sulla mia scrivania, mi sentii rassicurato dalla loro presenza. Restammo alzati un’altra mezz’ora a parlare, ma solo perché eravamo troppo stanchi per deciderci ad andare a letto. Alle due ce l’avevamo fatta. La luce era spenta da cinque minuti quando il telefono squillò ripescandomi da un inizio di sonno.
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Sono sicuro di ricordare le sue parole esattamente. Disse: - Sei Joe? - Non risposi. Avevo già riconosciuto la voce. - Volevo solo dirti che capisco quello che provi. È lo stesso anche per me. Ti amo. Riagganciai. Clarissa farfugliò dentro il cuscino: - Chi era? Sarà stata stanchezza, o forse mentii per proteggerla; quello che so è che commisi il primo grave errore quando, girandomi sul fianco, le dissi: - Nessuno. Hanno sbagliato numero. Dormi.
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Capitolo quarto
Il mattino dopo ci svegliammo con il peso di quegli avvenimenti ancora su di noi, ma la varietà di obblighi della giornata ci fu di conforto. Clarissa uscì di casa alle otto e mezza per il suo seminario sulla poesia romantica. Presenziò a un consiglio di facoltà, pranzò con una collega, corresse i testi di qualche studente e diede un’ora di udienza a una laureanda che scriveva una tesi su Leigh Hunt. Rientrò alle sei quando io ero ancora fuori. Fece qualche telefonata, una doccia, e andò a cena con suo fratello Luke, il cui matrimonio stava andando in pezzi dopo quindici anni. Io feci la doccia al mattino. Mi portai un bricco di caffè nello studio e per un quarto d’ora pensai che avrei ceduto alle tentazioni di ogni freelance: lettura di giornali, telefonate, fantasticherie. Di materiale per dedicarmi alla contemplazione della parete di fronte, ne avevo in abbondanza. Ma decisi di non lasciarmi andare e mi costrinsi a finire un pezzo sul telescopio Hubble per una rivista americana. Il progetto mi interessava da anni. Era frutto di un eroismo e di una grandeur fuorimoda, non aveva scopi militari né immediate mire commerciali ed era sostenuto da un’urgenza tanto semplice quanto nobile: quella di sapere e capire di più. Quando si seppe che lo specchio principale da due metri e mezzo era troppo piatto di un millesimo di millimetro, la reazione generale sulla terra non fu il disappunto. Anzi, fu soddisfazione maligna e ilarità sfrenata su scala planetaria. Dall’affondamento del Titanic la tecnologia non convince più nessuno, siamo diventati cinici nei riguardi delle stravaganti ambizioni della scienza. Avevamo di fronte il più grosso giocattolo mai visto, alto si diceva, quanto un edificio di quattro piani, destinato a depositare meraviglie sulle nostre retine, immagini delle origini dell’universo, dei nostri stessi esordi al principio dei tempi. Ebbene, il mostro aveva fatto cilecca, e non in base a chissà quale mistero algoritmico del software, ma in virtù di un errore comprensibile a chiunque: miopia, roba da artigianato d’altri tempi. Hubble diventò il pezzo forte di tutti i dibattiti televisivi, quel nome stesso era sinonimo di sconfitta, di fallimento; la prova del declino estremo del sistema industriale americano. 36
Per quanto grandioso fosse stato il progetto Hubble, l’operazione di recupero fu addirittura sublime dal punto di vista tecnologico. Centinaia di ore a spasso nello spazio, dieci specchi correttivi sistemati con disumana precisione intorno alla lente difettosa e, nella sala di controllo, un’orchestra di proporzioni wagneriane di scienziati e calcolatori. Tecnicamente parlando, era più arduo che mettere un uomo sulla luna. L’errore venne riparato, le immagini risalenti a dodici miliardi di anni prima giunsero nitide e perfette, il mondo mise da parte il disprezzo e si concesse lo stupore di un giorno, poi tornò alla vita e agli impegni di sempre. Lavorai senza sosta per due ore e mezza. A infastidirmi quella mattina mentre battevo il mio pezzo era una specie di irrequietezza, una sensazione fisica che non ero in grado di definire. Ci sono errori ai quali nemmeno un esercito di astronauti potrebbe rimediare. Come il mio del giorno prima. Ma che avevo fatto, o non fatto? Se di colpa si trattava, dove era iniziata esattamente? Alle funi sotto il pallone; quando avevo lasciato andare; dopo, accanto al cadavere, al telefono la sera prima? Il disagio era qualcosa di più di un’irritazione a fior di pelle. Mi faceva sentire come quando non ci si è lavati. Quando però interruppi la battitura e ripercorsi mentalmente i fatti, scoprii che la colpa non c’entrava per niente. Scossi la testa, e ripresi a scrivere più in fretta. Non so come riuscii a rimuovere del tutto il pensiero di quella telefonata nel cuore della notte. Mi sforzai di annegarla nella massa di eventi sgradevoli del giorno prima. Probabilmente ero ancora sotto shock, e cercavo di confortarmi mantenendomi indaffarato. Terminai il pezzo, lo corressi, stampai e lo inviai per fax a New York, a cinque ore dallo scadere della dead- line. Chiamai la polizia di Oxford e, dopo tre successivi passaggi telefonici di ufficio in ufficio, venni a sapere che ci sarebbe stata un’inchiesta sulla morte di John Logan, che l’istruttoria avrebbe avuto luogo di lì a sei settimane e che tutti noi dovevamo essere presenti. Mi feci portare in taxi a Soho: dovevo incontrare un produttore radiofonico che mi fece accomodare nel suo ufficio e mi spiegò che gli serviva un programma sulla verdura nei supermercati. Gli dissi che non era il mio genere di competenza. A quel punto il produttore, un certo Eric, mi sorprese alzandosi in piedi e lanciandosi in un discorso appassionato. Disse che la richiesta di fragole, taccole e simili fuori stagione stava distruggendo l’equilibrio ambientale ed economico di svariati paesi africani. Tornai a dire che non era il mio campo e gli procurai i nominativi di alcune persone alle quali poteva provare a rivolgersi. Poi, benché lo 37
conoscessi appena, o forse proprio per questo, ricambiai il tono appassionato raccontandogli tutta la storia. Non potei farne a meno. Dovevo dirlo a qualcuno. Eric ascoltò pazientemente, con brevi interiezioni e cenni di assenso, ma mi guardava come un appestato, il portatore di una recente mutazione virale destinata a infestare di malaugurio il suo ufficio. Avrei potuto interrompermi, o inventare un epilogo improvviso. Invece continuai, perché non riuscivo a fermarmi. Stavo parlando per me e mi sarei accontentato anche di un pesce rosso come interlocutore, in mancanza di un produttore radiofonico. Quando ebbi concluso, mi salutò in modo frettoloso: aveva un altro appuntamento, mi avrebbe contattato per nuove iniziative. Uscendo nell’aria sporca di Meard Street, mi sentivo infetto. L’indescrivibile sensazione tornò a invadermi, questa volta sotto forma di fitta alla nuca e di un disagio viscerale che si risolse, per la terza volta di quella mattina, nell’urgenza inderogabile di defecare. Trascorsi il pomeriggio nella sala di lettura della London Library, a studiare certi contemporanei di Darwin meno noti di lui. Volevo scrivere della scomparsa della forma aneddotica e narrativa nella letteratura scientifica e la mia idea in proposito era che la generazione di Darwin fosse stata l’ultima a concedersi il lusso di pubblicare articoli pieni di storie. Trovai una lettera alla rivista «Nature» del 1904, il contributo a una corrispondenza sul grado di consapevolezza negli animali, e in particolare riguardo al quesito se dei mammiferi superiori come i cani, potessero ritenersi coscienti delle conseguenze delle proprie azioni. L’autore, un certo signor... , raccontava del cane di un caro amico il quale prediligeva una poltrona particolarmente comoda accanto al caminetto della biblioteca. Il nostro signor... era stato presente in un’occasione in cui, dopo cena, lui e il suo amico si erano ritirati proprio in quella stanza a gustare un bicchiere di porto. Il cane fu fatto scendere dalla poltrona e il padrone prese il suo posto. Dopo un paio di minuti di silenziosa contemplazione del fuoco, il cane si era avvicinato alla porta e si era messo a uggiolare per farsela aprire. Ma non appena il padrone cortesemente si era alzato per attraversare la stanza, la canaglia gli era sfrecciata in mezzo alle gambe per tornare a impossessarsi della sistemazione privilegiata. Per qualche secondo sul muso della bestia si era disegnata un’espressione di inequivocabile trionfo. L’autore concludeva affermando che il cane doveva aver avuto un piano, una consapevolezza del futuro che tentava di modificare attraverso l’esecuzione di un 38
inganno deliberato. Inoltre il piacere mostrato in seguito al successo doveva derivargli da un atto della memoria. Quello che mi incantava era come il potere e l’incanto della narrazione avessero offuscato la lucidità del giudizio. In base a qualunque standard di indagine scientifica la storia, per quanto curiosa, non aveva senso. Non se ne poteva evincere alcuna teoria, non se ne trovavano definiti i termini, l’esempio era del tutto assurdo e si fondava su una risibile visione antropomorfica. Niente di più facile che ricostruire il racconto in modo da rendere il comportamento descritto compatibile con un sistema di automatismi, le reazioni di una creatura destinata ad abitare in un presente continuo: spodestato della sua poltrona, il cane ripiega sul posto appena un po’ meno comodo, accanto al fuoco, e lì si crogiola (altro che complottare!) finché non sente lo stimolo a urinare, allora va verso la porta come gli hanno insegnato a fare e d’improvviso nota che il posto ambito è di nuovo libero; per un istante dimentica il segnale inviato dalla vescica e torna a prendere possesso della poltrona, mentre la presunta espressione trionfante poteva essere ascritta vuoi all’immediata manifestazione di piacere, vuoi a una proiezione mentale dell’osservatore. A mia volta me ne stavo comodamente seduto su una poltrona di pelle dai braccioli lisci e spaziosi. Il mio campo visivo conteneva altri tre visitatori, ognuno aveva in grembo un libro o una rivista, e tutti dormivano. Fuori, il traffico fioco di St James Square, compreso il ronzio dei motorini dei pony express, risultava soporifero come solo sa essere l’iperattività frenetica altrui. Dentro, il gorgoglio d’acqua corrente in vecchissime tubature nascoste e, più vicino, lo scricchiolare del pavimento di legno ogni volta che un invisibile visitatore, dietro uno scaffale di riviste, muoveva qualche passo, si fermava e si spostava ancora. Quest’ultimo rumore, me ne resi conto ripensandoci poi, si riproponeva da circa mezz’ora sfiorando il perimetro esterno della mia attenzione. Mi chiesi se avrei potuto ragionevolmente chiedere a quella persona di restare ferma, o suggerire che si prendesse un buon numero di riviste e se ne andasse a sedere in silenzio. Il mio torturatore si mosse: quattro passi indolenti accompagnati da scricchiolio, poi di nuovo il silenzio. Mi sforzai di concentrarmi sul signor... e la capacità mentale dei cani, ma ormai ero distratto. Quando risentii un movimento dall’altra parte della sala, mi costrinsi a non levare lo sguardo dalla pagina sebbene non stessi più seguendo il filo di quanto leggevo. Infine cedetti, e quello che vidi fu solo il lampo
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di una scarpa bianca e qualcosa di rosso, e il chiudersi delle cigolanti porte a vae- vieni che dalla sala di lettura immettevano sulle scale. Ora che l’inquieto perditempo se n’era andato, trasferii la mia irritazione sui responsabili della biblioteca. L’edificio era tristemente famoso per la sua rumorosità, in particolar modo per il ronzio delle luci al neon tra gli scaffali al quale nessuno era riuscito a porre rimedio. Forse sarei stato meglio alla biblioteca Wellcome. La sezione scientifica qui era scarsissima. Sembrava si fosse ritenuto che romanzi, testi storici e biografie fossero più che sufficienti a comprendere il mondo. Possibile che gli analfabeti che gestivano questo posto e che avevano l’audacia di considerarsi colti, vivessero nella convinzione che la letteratura fosse il più alto risultato intellettuale della nostra civiltà? Questa tirata interiore poté forse durare un paio di minuti. Ne ero come avvolto, invisibile a me stesso. Mi riebbi in virtù di un elementare recupero di autoconsapevolezza che persino il signor... non avrebbe saputo attribuire al cane del mio amico. Ovviamente non erano stati né lo scricchiolare nel pavimento, né l’inettitudine della direzione ad agitarmi. Si trattava di un mio stato d’animo, di una condizione tra il viscerale e il mentale che ancora stentavo a comprendere. Mi abbandonai sulla sedia e raccolsi gli appunti. A quel punto non avevo ancora registrato gli stimoli prodotti dalla calzatura e dalla macchia di colore. Fissavo lo sguardo sulla pagina che tenevo in grembo. Le ultime parole scritte prima di perdere il controllo sui miei pensieri erano state «intenzionalità, intenzione, tentativo di esercitare controllo sul futuro». Al momento di scriverle quelle parole si riferivano a un cane, ma rileggendole incominciai a innervosirmi. Non riuscivo a trovare il termine adatto a definire la sensazione che stavo provando. Non pulito, contaminato, assurdo, una condizione fisica ma in qualche modo anche morale. È chiaramente falso che senza linguaggio non esista pensiero. Io avevo un pensiero, uno stato d’animo, una sensazione e stavo cercando il modo per dire ciascuno di essi. Se la colpa si riferisce al passato, allora come si definisce lo stesso concetto in rapporto al futuro? Intenzione? No, e neppure influenza sul futuro. O triste presagio. Ansia, disgusto per il futuro. Colpa e presagio, legati dal filo che cuce il passato al futuro, ruotando intorno al presente, unico istante davvero vivibile. Non era esattamente paura. La paura è un concetto preciso, che prende corpo intorno a un oggetto. Terrore era termine troppo forte. Paura del futuro. Apprensione, dunque. Sì, ecco, più o meno. Era apprensione. 40
Davanti a me, i visitatori dormienti non davano segni di vita. L’andirivieni delle porte era andato diminuendo fino a ridursi a un riflesso molecolare, lo stadio appena precedente quello del movimento immaginario. Chi era la persona appena uscita? Perché andarsene così all’improvviso? Mi alzai. Era apprensione dunque. Ero in quello stato da tutto il giorno. Chiaro, si trattava di una forma di paura. Paura delle conseguenze. Era dal mattino che avevo paura. Come potevo essere tanto ottuso da non riconoscere subito la paura? Non era forse un’emozione elementare, come disgusto, sorpresa, collera e gioia secondo la celebrata analisi comparata di Ekman? La paura e il suo riconoscimento della stessa negli altri non era forse legato all’attività neurale della ghiandola amigdalica, sprofondata nella più antica parte del nostro cervello di mammiferi dalla quale sparava le sue reazioni istantanee? Ma la mia reazione non era stata istantanea. La mia paura si era mostrata con una maschera sul volto. Inquinata, confusa, farfugliante. Avevo paura della mia paura, perché non ne conoscevo ancora la causa. Temevo quello che avrebbe potuto farmi e farmi fare. E non riuscivo a staccare gli occhi dalla porta. Poteva trattarsi di un’illusione prodotta dal persistere dell’immagine sulla retina, o di un ritardo neuronale nella percezione; sta di fatto che mi pareva di essere ancora sprofondato nella lucida poltrona di pelle intento a fissare la porta mentre mi ero già alzato per raggiungerla. Feci i larghi scalini coperti di moquette rossa due alla volta, ruotai intorno al montante del pianerottolo sull’ammezzato, scesi l’ultima rampa in tre sole falcate e mi precipitai nella calma impiegatizia e assonnata della sala che ospitava schedari e cataloghi. Schivai alcuni soci, superai il registro dei suggerimenti e il mucchio di giacche e cartelle e, passato l’ingresso principale, mi ritrovai in strada. St. James Square era intasata di auto, e deserta di pedoni. Cercavo un paio di scarpe bianche, scarpe da tennis con lacci rossi. Mi infilai rapidamente in mezzo all’ingorgo di veicoli in paziente, ronzante attesa. Sapevo esattamente dove mi sarei piazzato io per tenere d’occhio gli ingressi della biblioteca, sull’angolo nord orientale di fronte all’ex ambasciata libica. Mentre mi dirigevo sul posto, lanciai un’occhiata a sinistra lungo la Duke of York Street. I marciapiedi erano vuoti, le strade stracolme. Ormai le auto erano i veri cittadini. Raggiunsi l’angolo, presso la ringhiera. Nessuno, nemmeno un ubriaco nel parco. Rimasi lì un poco a guardarmi intorno e riprendere fiato. Mi trovavo esattamente nel punto in cui l’agente di polizia Yvonne Fletcher era stata 41
uccisa a colpi di pistola da un libico che sparava da una finestra dell’ambasciata. Ai miei piedi giaceva un mazzolino di calendule legate con un filo di lana, del tipo che può deporre un bambino. Qualcuno aveva fatto cadere il vasetto da marmellata nel quale erano state messe, rovesciandone quasi tutta l’acqua per terra. Senza smettere di guardarmi intorno, mi inginocchiai e rimisi i fiori nel vaso. Mentre spingevo il barattolo più vicino alla ringhiera dove diminuiva il rischio di un secondo incidente, non potevo impedirmi di pensare che quel gesto avrebbe potuto portarmi fortuna o, meglio ancora, protezione, e che su analoghi riti propiziatori, tesi a parare i colpi di oscure forze incontrollabili, si fondavano teorie religiose, si dispiegavano interi sistemi di pensiero. Poi, rientrai nella sala di lettura.
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Capitolo quinto
Quel giorno avevo un secondo appuntamento; facevo parte della giuria di un premio per una pubblicazione scientifica, così quando arrivai a casa, Clarissa era già uscita per incontrarsi con il fratello. Avevo bisogno di parlarle. Lo sforzo di mostrarmi assennato e lucido per tre ore mi aveva spossato. Nel nostro appartamento comodo e accogliente, le stanze mi parvero più anguste, per certi versi anche polverose. Mi preparai un gin tonic che bevvi ascoltando i messaggi sulla segreteria telefonica. L’ultimo era un lungo silenzio seguito dal rauco fracasso del ricevitore riagganciato. Dovevo parlare a Clarissa di Parry, dirle della telefonata della sera prima, di come mi avesse seguito in biblioteca e del mio disagio, di questa apprensione che sentivo dentro. Considerai l’ipotesi di andarla a cercare nel ristorante, ma sapevo bene che a quel punto il fratello adultero doveva già essersi lasciato andare all’inesorabile geremiade del neo divorziato: quella sofferta autodifesa che celebra la metamorfosi dell’amore in odio o indifferenza. Clarissa, che voleva molto bene a sua cognata, avrebbe ascoltato ogni cosa sconvolta. Per calmarmi, ricorsi alla terapeutica dose serale di sofferenza dal mondo: il telegiornale. Quella sera, il ritrovamento di una fossa comune in un bosco della Bosnia, il nido d’amore di un ministro malato di cancro, il secondo giorno di istruttoria in un processo per omicidio. Ciò che mi tranquillizzava era la familiarità dello stile di regia: la sigla dal ritmo militaresco, i toni efficaci e pacati dello speaker, la rassicurante certezza che ogni disgrazia conserva una propria relatività, e infine, l’estremo analgesico: le previsioni del tempo. Tornai in cucina per prepararmi un altro gin tonic e sedetti a tavola. Se Parry mi aveva davvero pedinato per tutto il giorno, allora sapeva dove abitavo. In caso contrario, il mio sistema nervoso versava in condizioni di grave fragilità. Ma non era così, fondamentalmente; Parry mi aveva seguito, e io dovevo considerare a fondo l’intera questione. La telefonata nel cuore della notte potevo ancora ascriverla allo stress e al consumo di alcool in solitudine, ma il pedinamento, no. E sapevo per certo che era avvenuto, perché avevo visto il bianco delle sue scarpe da tennis e il 43
rosso dei lacci. A meno che - e il ritorno allo scetticismo era prova della mia lucidità -, a meno che quel rosso non fosse altro che un’illusione ottica determinata dalla confusione. Dopo tutto, la moquette della biblioteca era rossa. Però io il colore l’avevo visto sovrapporsi all’immagine di una scarpa. E lui, me l’ero sentito alle spalle ancor prima di vederlo. L’inattendibilità di quest’ultima intuizione ero pronto ad ammetterla. Ma secondo me, era lui. Come molte persone che conducano un’esistenza sicura, immaginavo subito il peggio. Quali moventi gli avevo fornito per assassinarmi? Pensava forse che avessi voluto prendermi gioco della sua fede? Magari aveva telefonato di nuovo... Presi il portatile e chiamai il servizio informazioni per conoscere il numero dell’utente che mi aveva chiamato per ultimo. La voce femminile computerizzata recitò una serie di cifre a me sconosciute. Il numero era di Londra; lo composi e attesi scuotendo la testa. Per quanto ragionevoli fossero i miei sospetti, la conferma mi giunse comunque come una sorpresa. La segreteria di Parry diceva: «Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico. E che il Signore sia con voi». Era lui, ed era una doppia condanna, composta di due sole frasi. Che la sua fede dovesse insinuarsi fino a quel punto, tanto da andare a infestare l’aridità di una segreteria telefonica, le pieghe del suo discorso. Cosa aveva voluto dire affermando che provava la stessa cosa anche lui? Cosa voleva? Guardai la bottiglia del gin e decisi di no. Un problema di ordine più immediato era come far passare la serata fino al ritorno di Clarissa. Se non mi affrettavo a compiere una scelta consapevole, sapevo che sarei scivolato nell’alcool e nei miei pensieri. Amici non ne volevo vedere, non sentivo il bisogno di distrarmi, e non avevo neppure fame. Andai nello studio, accesi luce e computer e tirai fuori gli appunti presi in biblioteca. Erano le otto e un quarto. Nel giro di tre ore potevo buttare giù il grosso del mio pezzo sulla funzione dell’aneddoto nella letteratura scientifica. Disponevo
già
a
grandi linee di una
teoria, niente in
cui
necessariamente credessi, ma quanto bastava per costruirci intorno un articolo. Si trattava di enunciarla, elencare gli argomenti comprovanti, affrontare le eventuali obiezioni, e tornare a enunciarla in conclusione. Un racconto in sé, magari un po’ stanco, ma che aveva reso un discreto servizio a migliaia di giornalisti prima di me. Lavorare fu un’evasione - al tempo nemmeno ne dubitavo. Non possedevo risposte alle mie domande e riflettere non mi avrebbe portato lontano. Prevedevo 44
che Clarissa non sarebbe rientrata prima di mezzanotte, perciò mi abbandonai alla mia tesi tanto seria quanto vacillante. In capo a venti minuti mi ero portato nella condizione mentale auspicata; stavo al riparo tra le alte mura dell’immensa prigione del pensiero focalizzato. Non mi accade sempre, e quella sera ne fui molto sollevato. Non dovetti neppure difendermi dal solito ammasso di relitti cerebrali, scorie di ricordi recenti, rottami di scelte non fatte, o spettrali avanzi di desideri sessuali. La spiaggia era tutta pulita. Non cedetti alla tentazione di abbandonare la sedia per la promessa di un caffè e, a dispetto del gin, non sentivo il bisogno di urinare. Era stata la cultura ottocentesca del dilettantismo a favorire il proliferare di scienziati dallo stile aneddotico. Tutti quei gentiluomini senz’arte né parte, tutti quei curati con un mucchio di tempo da perdere. Lo stesso Darwin, prima di salpare sulla Beagle, sognava una vita in campagna per dedicarsi in pace alla propria passione di collezionista, e anche nell’esistenza che il caos e il genio finirono per assegnargli, Down House conservò sempre le caratteristiche più di una parrocchia che di un laboratorio scientifico. La forma artistica dominante era quella del romanzo, grandiosi racconti tentacolari che non disegnavano solo la mappa di certi destini privati, ma ricostruivano società intere, rispecchiando e accogliendo le istanze del pubblico di quei giorni. La gente più colta leggeva romanzi
contemporanei.
Il
piacere
del
narrare
era
radicato
nell’anima
ottocentesca. Poi accaddero due cose. La scienza si fece più ostica, più alto il livello di professionalità richiesto. Il dibattito si trasferì negli atenei, i racconti da parroco di campagna cedettero il posto a complesse teorie in grado di sopravvivere intatte senza supporto sperimentale e dotate di una loro specifica estetica formale. Al tempo stesso, in letteratura e in altri ambiti artistici, le stravaganze del modernismo presero a celebrare le qualità formali e strutturali, la coerenza interna e l’autoreferenzialità. Una casta sacerdotale custodiva i templi di questa difficile arte dalle incursioni dell’uomo della strada. Lo stesso avvenne in campo scientifico. Nella fisica per esempio, un’esigua élite di iniziati europei e americani accettò e acclamò la Teoria generale di Einstein ben prima che giungessero i dati sperimentali destinati a darne conferma. La Teoria, che Einstein presentò al mondo tra il ’15 e il ’16, affermava in aperto oltraggio ad ogni buon senso, che la gravità è un semplice effetto della curvatura dello spazio 45
e del tempo. Si sosteneva che il campo gravitazionale del sole avrebbe deviato la luce. Già nel 1914 era stata organizzata una spedizione in Crimea allo scopo di osservare un’eclissi e verificare la teoria, ma poi ci si era messa di mezzo la guerra. Una seconda spedizione partì nel 1919 alla volta di due remote isole dell’Atlantico. La conferma fece il giro del pianeta in tempi vertiginosi, ma la smania di accogliere la teoria fu probabilmente responsabile di una certa imprecisione
e
non
correttezza
dei
dati.
Altre
spedizioni
si
dedicarono
all’osservazione di eclissi e alla verifica delle ipotesi di Einstein, in Australia nel ’22, a Sumatra nel ’29, in Unione Sovietica nel ’36 e, nel ’47, in Brasile. L’effettiva conferma a livello sperimentale non arrivò che negli anni cinquanta con l’avvento e lo sviluppo dell’astronomia radiotelescopica, ma in sostanza tutti questi anni di sforzi pratici furono irrilevanti. La Teoria era già stata inserita in tutti i manuali, a partire dagli anni venti. Esercitava sul mondo il fascino di una bellezza irresistibile. Così, i serpeggianti percorsi della narrativa cedevano il passo all’estetica della forma, tanto nell’arte, come nella scienza. Continuai a scrivere fino a tarda sera. Mi ero soffermato troppo su Einstein e mi stavo lanciando su un altro esempio di teoria accettata in virtù di un’intrinseca eleganza. Meno l’assunto mi convinceva, e più battevo veloce. Scovai una specie di argomento contrario nel mio stesso passato: l’elettrodinamica quantistica. In questo caso le verifiche sperimentali riguardanti gli elettroni e la luce erano abbondantissime eppure la teoria, soprattutto nella sua originale versione proposta da Dirac, aveva stentato a imporsi. Conteneva certe incongruenze, delle asimmetrie. Insomma, la teoria si presentava
priva
di
fascino,
inelegante,
come
una
canzone stonata.
E
l’accoglienza tardava in virtù della sua bruttezza. Lavoravo da tre ore e avevo scritto duemila parole. Un terzo esempio non avrebbe guastato, ma incominciavo a essere a corto di energia. Stampai e rimasi a fissare i fogli che tenevo in grembo, sorpreso che dei ragionamenti così dappoco, dei discorsi così forzati avessero potuto occuparmi i pensieri tanto a lungo. Gli argomenti contrari al mio assunto uscivano a fiotti tra le righe pulite del testo. Quale prova determinante sarei mai stato in grado di escogitare per sostenere che Dickens, Trollope, Thackeray e altri avessero influenzato di una sola virgola la presentazione di un concetto scientifico? Senza contare la straordinaria mancanza di equilibrio degli esempi prodotti. Avevo paragonato le scienze 46
biologiche del diciannovesimo secolo (il cane pensante davanti al caminetto), alle complessità scientifiche del ventesimo. Solo i manuali di fisica e chimica dell’era vittoriana contenevano interminabili quanto brillanti esposizioni teoriche che non presentavano la benché minima tendenza all’uso di uno stile narrativo. Mentre in fin dei conti quali erano stati i prodotti più tipici del pensiero scientifico o pseudo tale del nostro secolo? L’antropologia, la psicanalisi, come dire il trionfo dell’affabulazione. Facendo ricorso ai più raffinati metodi narrativi e a ogni possibile carisma sacerdotale, Freud aveva segnato i confini della veridicità, se non quelli della falsificabilità della scienza. E che dire dei sociologi e dei comportamentisti degli anni venti? Pareva che un esercito di Balzac in camice bianco si fosse riversato nelle facoltà e nei laboratori universitari. Pinzai le mie dodici pagine con una graffetta e ne soppesai il volume nella mano. Quello che avevo scritto non era vero. Non era frutto della ricerca della verità, non era scienza. Era giornalismo, scrittura da rivista specializzata il cui fondamentale criterio stilistico si rifaceva a un modello di leggibilità. Tornai a sfogliare le pagine nella speranza di ricavarne ulteriori consolazioni. Avevo ottenuto lo scopo di distrarmi; mi ero procurato materiale per un secondo e coerente articolo fondato sulle argomentazioni contrarie al presente (il ventesimo secolo aveva assistito alla sovrapposizione del metodo narrativo in campo scientifico etc) e comunque, quella era solo una prima stesura che potevo sempre riprendere in mano di lì a una settimana. Gettai le pagine sulla scrivania e, nel momento in cui vi atterrarono, per la seconda volta di quella giornata, udii il pavimento scricchiolare alle mie spalle. C’era qualcuno dietro di me. Il nostro primitivo sistema nervoso, il cosiddetto gran simpatico, è un meccanismo meraviglioso che ci accomuna a tutte le altre specie animali che devono la loro sopravvivenza alla prontezza di reazione, all’efficacia e alla forza nella lotta, e alla rapidità nella fuga. Il processo evolutivo ci ha selezionati sulla base di queste abilità. Terminazioni nervose affondate nel tessuto muscolare cardiaco secernono la dose necessaria di noradrenalina, e il cuore si mette a pompare più in fretta. L’ossigeno aumenta e con esso il glucosio e perciò l’energia, la rapidità di pensiero, il vigore muscolare. Il sistema, antichissimo, risale al nostro passato di mammiferi e premammiferi, tanto che il suo funzionamento non raggiunge ormai livelli superiori di consapevolezza. Ne registriamo solo gli effetti. Quella stretta al cuore sembra verificarsi contemporaneamente alla percezione 47
della minaccia; mentre ancora la corteccia cerebrale sta selezionando e trasformando in coscienza visiva e acustica quanto si è depositato su occhi e orecchie, le potenti goccioline di ormone si stanno già liberando. Nel mio cuore si era verificato quel primo scoppio terrificante ancor prima che il corpo incominciasse a girarsi e io mi alzassi dalla sedia pronto a difendermi, o ad attaccare persino. Ho idea che gli umani dei tempi moderni, ormai liberi dal timore di predatori naturali e circondati da tutti i loro giocattoli e i loro modelli mentali e i loro spazi accoglienti, siano creature relativamente facili da sorprendere. Tordi e scoiattoli devono guardare a noi con benevola sufficienza. Quella che vidi procedere rapida verso di me dal fondo della stanza a braccia tese come un sonnambulo da cartone animato era Clarissa, e chissà grazie a quale complicato intervento di centri superiori fui in grado di trasformare in modo plausibile i miei gesti di primordiale terrore in un tenero abbraccio dal quale proruppe, quando le braccia di lei mi cinsero il collo, una fitta d’amore, per la verità inseparabile dal senso di sollievo. - Oh, Joe, - disse, - mi sei mancato per tutto il giorno, ti amo, e ho passato una serata così terribile con Luke. Oh, dio, ti amo tanto. E
l’amavo
tanto
anch’io.
Per
quanto
pensassi
a
lei,
nel
ricordo
o
nell’anticipazione di un incontro, l’effettiva presenza corporea di Clarissa, il suono della sua voce, la qualità propria del nostro amore, non mancavano mai di suscitare, insieme al piacere del riconoscimento, anche un moto di sorpresa. Forse questo genere di amnesia è funzionale: coloro che non sono in grado di strappare la mente e il cuore dai loro amati, sono destinati a fallire nella lotta per la vita e a non lasciare alcuna impronta genetica. Eravamo abbracciati in mezzo allo studio, Clarissa e io, sul giallo rombo centrale del tappeto bokhara, e tra un bacio e l’altro ascoltai i primi frammenti della follia di suo fratello. Luke era deciso a lasciare la sua bella moglie amorevole e le adorabili gemelline e la casa di Islington in stile Queen Anne per andare a vivere con un’attrice che aveva incontrato tre mesi prima. Stava anche considerando l’ipotesi, le aveva fatto sapere affrontando l’antipasto di molluschi, di lasciare il lavoro e di mettersi a scrivere una commedia, per essere precisi un monologo, una prova d’attore apposta per lei, che aveva qualche probabilità di essere messo in scena in un locale sovrastante un salone da parrucchiere di Kensal Green.
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- Sulla strada di Broadway, - iniziai, e Clarissa concluse: - Passando da Kensal Green. - Bel coraggio! - commentai. - Deve vivere in uno stato di eccitazione perenne. - Bel coraggio di merda! - Tirò un profondo respiro e mi raggelò con un’occhiata carica d’ira. - Un’attrice! È dentro un cliché che vive. Per un istante avevo preso il posto di suo fratello. Rendendosene conto mi tirò a sé e mi diede un bacio. - Joe. È tutto il giorno che ti desidero. Dopo ieri, e la notte scorsa... Senza liberarci dall’abbraccio passammo dallo studio alla camera da letto. Clarissa continuava a raccontarmi episodi da famiglia distrutta, io le riferivo del pezzo che avevo scritto e intanto ci preparavamo al nostro viaggio serale alla volta del sesso e del sonno. Il lavoro mi aveva avvolto in un velo di appagamento teorico, e l’arrivo di lei, a dispetto della sua triste storia, mi aveva completamente ristabilito. Non avevo paura di nulla. Sarebbe forse stato corretto in quel momento, mentre ce ne stavamo faccia a faccia come la sera prima, permettere che il racconto della telefonata di Parry venisse a guastare la nostra felicità? Con quello che ci era toccato vedere il giorno prima, avevo il diritto di rovinare quell’attimo di tenerezza con i miei assurdi sospetti di essere stato seguito? Le luci basse si sarebbero spente fra poco. Il fantasma di Logan aleggiava ancora nella stanza, ma aveva cessato di minacciarci. Parry poteva aspettare fino a domani. L’urgenza ormai era svanita. A occhi chiusi rintracciai con le dita le labbra di Clarissa nella duplice oscurità. Mi morse facendomi male per gioco. Certe volte la stanchezza è un grande afrodisiaco; annulla ogni altro pensiero e garantisce ai movimenti degli
arti pesanti la
sensualità
della
lentezza,
promuovendo generose accoglienze, infiniti abbandoni. Precipitammo fuori dalle nostre rispettive giornate come creature cadute da un nido. Accanto al letto nel buio, il telefono taceva. Lo avevo staccato molte ore prima.
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Capitolo sesto
Il nostro secolo ha conosciuto un periodo in cui bianche navi, lussuosi transatlantici di quelli che solcavano l’oceano tra Londra e New York, divennero fonte di ispirazione per un certo settore dell’architettura residenziale. Negli anni venti un esemplare analogo alla Queen Mary si incagliò a Maida Vale e tutto ciò che ne resta oggi è il ponte di coperta, il nostro palazzo, che riluce del suo screpolato biancore tra i platani: spigoli arrotondati, finestre a oblò nei servizi e su per le frivole scale a spirale. Serramenti in acciaio incorniciano finestre basse e oblunghe, proteggendo l’interno dal baccano della vita metropolitana. I pavimenti, in palchetto di quercia, paiono pronti a ospitare innumerevoli coppie di ballerini sfrenati. I due appartamenti all’ultimo piano godono del privilegio di numerosi lucernari oltre a una scaletta di ferro che, in un paio di rampe, conduce alla superficie piatta del tetto. I nostri dirimpettai, un affermato architetto e il suo fidanzato che si occupa della casa, hanno trasformato la loro porzione di terrazza in un illusorio giardino, con clematidi scrupolosamente rampicanti e austere foglie lanceolate che spuntano tra grosse e lisce pietre di fiume sistemate - in perfetto stile giapponese - in cassette aperte di legno nero. Nel mese frenetico che seguì il nostro trasloco, Clarissa ed io consumammo le nostre energie nidificatone e decorative all’interno dell’appartamento, perciò la nostra parte di tetto ospita solo un tavolo in plastica e quattro sedie imbullonate a terra in caso di vento forte. Qui, tra parabole, cavi e antenne televisive, ci si può accomodare sentendo coi piedi la scorza rugosa e sporca del bitumato, per riposare lo sguardo sul verde di Hyde Park e placare l’udito sul ritmo tranquillizzante del traffico londinese. Dal lato opposto del tavolo si gode la vista migliore del tempio in onore dell’ordine biologico eretto dai nostri vicini e, più in là, della distesa di tetti che a perdita d’occhio sfuma in direzione dei sobborghi settentrionali della città. Proprio lì stavo seduto il mattino dopo alle sette. Clarissa l’avevo lasciata a letto a dormire e mi ero portato fuori caffè, giornale e le pagine scritte la sera prima. 50
Ma anziché leggere me stesso o altri, pensavo a John Logan e a come l’avevamo ammazzato. Il giorno prima, gli avvenimenti del pomeriggio dell’incidente si erano stemperati. Ma oggi l’impietosa luce del sole illuminava, animandola, tutta la scena. Mi sentii di nuovo la fune correre tra le mani, mentre ne osservavo i segni lasciati sulla pelle. Incominciai a calcolare. Se Gadd fosse rimasto nel cesto con il nipote, e se tutti noi fossimo rimasti appesi ipotizzando un peso medio di settantacinque chili a testa, di sicuro la somma di trecentocinquanta chili ci avrebbe tenuti vicino a terra. Se uno di noi non avesse mollato per primo, allora anche gli altri avrebbero tenuto duro. E chi era stato? Non io. Io, no. Lo ripetei persino a voce alta. Ricordavo una massa in caduta libera e l’improvviso strattone verso l’alto. Ma non avrei saputo dire se il corpo mi stava di fronte, a destra o a sinistra. Conoscere la posizione, mi avrebbe permesso di identificare la persona. E questa persona era poi condannabile? Mentre bevevo il caffè ebbe inizio il lento crescendo sonoro dell’ora di punta. Era difficile ripensare all’intera faccenda. Mi si affollava la mente di banalità e discutibili frasi fatte che si risolvevano in nulla. Tipo, l’inizio di una valanga, o la rottura dei ranghi sotto un attacco nemico. Tutte facevano riferimento alla causa, ma non all’agente responsabile da un punto di vista morale. Le valutazioni piegavano ora a favore dell’altruismo, ora dell’interesse del singolo. Si era trattato di panico, o di un calcolo razionale? Lo avevamo davvero ucciso o ci eravamo semplicemente rifiutati di morire con lui? D’altra parte se fossimo stati con lui, se fossimo rimasti uniti, nessuno sarebbe morto. L’altra domanda era se avrei dovuto andare a trovare la signora Logan per raccontarle l’accaduto. Meritava di sapere dalla voce di un testimone che suo marito era un eroe. Ci vidi seduti uno di fronte all’altra su sgabelli di legno. Lei era vestita di nero, un’immagine di repertorio della vedova in gramaglie, e ci trovavamo nella cella di una prigione la cui finestra era dotata di alte sbarre di ferro. I due bambini le stavano accanto, stretti alle sue ginocchia, e si rifiutavano di guardarmi negli occhi. Che fosse mia, quella cella? Mia, la colpa? L’immagine si rifaceva al vago ricordo di un dipinto nello stile narrativo del tardo periodo Vittoriano, di quelli con la didascalia che recita «E quando vedeste per l’ultima volta il vostro papà?» Stile narrativo: la sola espressione mi procurava una stretta allo stomaco. Quante balle avevo scritto la sera prima. Come si poteva raccontare alla signora Logan il sacrificio del marito senza attirare la sua attenzione sulla 51
nostra viltà? O si era trattato di follia invece? Lui era l’eroe ed erano stati i deboli a consegnarlo alla morte. Oppure, noi eravamo i superstiti e lui l’idiota avventato? Ero talmente perso in questo rimuginare che non mi accorsi di Clarissa finché non si sedette dall’altra parte del tavolo. Sorrise e strinse le labbra in un bacio a distanza. Si scaldava le mani intorno a un tazzone di caffè. - Ci stai pensando? Assentii col capo. Dovevo dirglielo, prima che la sua dolcezza e l’amore avessero la meglio. - Ti ricordi che il giorno dell’incidente è suonato il telefono poco prima che ci addormentassimo? - Mmm. Qualcuno aveva sbagliato numero. - Era il tizio con il codino. Sai, quello che voleva farmi pregare. Jed Parry. Aggrottò la fronte. - Come mai non me l’hai detto? Che voleva? Quasi non la lasciai finire. - Dirmi che mi amava... Il mondo si paralizzò per la frazione di secondo in cui lei riceveva il messaggio. Poi, Clarissa scoppiò a ridere. Disinvolta, allegra. - Joe! Non me l’hai detto. Ti vergognavi? Che scemo! - Era solo una cosa in più. Ma poi sono stato male perché non te l’avevo detto, e così tutto è diventato più difficile. Solo che ieri sera non mi andava di interromperci. - Che cosa ha detto? Proprio, ti amo, e basta? - Sì. Ha detto, provo la stessa cosa anch’io. Ti amo... Clarissa si portò una mano sulla bocca, come una bambina. Il divertimento era una reazione che non avevo previsto. - Una relazione omosessuale segreta con un fanatico religioso. Non vedo l’ora di farlo sapere ai tuoi amici scienziati. - Va bene, d’accordo -. Ero sollevato dal fatto che ci scherzasse sopra. - C’è dell’altro, però. - Volete sposarvi. - Ascolta. Ieri mi ha seguito. - Buon Dio. L’ha presa brutta. Sapevo che avrei dovuto apprezzare la sua leggerezza, per tutto il conforto che mi procurava. - Clarissa, ho paura -. Le raccontai della presenza in biblioteca, e di come fossi corso a cercare fuori sulla piazza. Lei mi interruppe. - Però non sei sicuro di averlo visto. - Gli ho visto una scarpa, poi è scappato. Scarpe da ginnastica bianche coi lacci rossi. Era lui per forza. - In faccia però non lo hai visto. - Clarissa, era lui!
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- Non prendertela con me, Joe. In faccia non l’hai visto e sulla piazza non c’era. - No. Era sparito. Adesso mi stava guardando con un’espressione diversa e si muoveva nella conversazione con una cautela da artificiere. - Fammi capire. Tu eri convinto di essere pedinato ancor prima di vedere la scarpa? - Era solo una sensazione, un disagio diffuso. Ma quando sono entrato in biblioteca e ho avuto tempo di riflettere, mi sono reso conto di quello che mi succedeva. - E a quel punto l’hai visto. - Sì. Ho visto la scarpa. Clarissa guardò l’ora e bevve un sorso di caffè. Stava facendo tardi. - Devi andare, - dissi. - Possiamo parlarne stasera. Annuì, ma non fece l’atto di alzarsi. - Non capisco bene perché sei tanto sconvolto. Un poveretto qualsiasi si prende una sbandata per te e si mette a seguirti. Ma dai, Joe, fa ridere. Tra un po’ ci riderai sopra e lo racconterai agli amici. Alla peggio può diventare una seccatura. Non devi lasciarti prendere da una sciocchezza così. Quando si alzò provai una fitta di sofferenza infantile. Mi piaceva quello che stava dicendo. Avevo voglia di sentirmelo dire ancora in tanti modi diversi. Fece il giro del tavolo e venne a baciarmi sui capelli. - Lavori troppo. Prenditela più comoda. E ricordati che ti amo. Io ti amo -. Ci baciammo ancora, intensamente. La seguii di sotto e la guardai prepararsi ad uscire. Forse fu il sorriso preoccupato che mi rivolgeva mentre si dava da fare a mettere il necessario in cartella, o forse il tono premuroso col quale mi assicurò che sarebbe rientrata alle sette e mi avrebbe chiamato nel corso della giornata; sta di fatto che, ritto sulla lucida pista da ballo del nostro parquet, mi sentivo come il paziente di una clinica psichiatrica al termine dell’orario di visita. Non lasciarmi qui solo coi miei pensieri, pensai. Digli di farmi uscire. Infilò la giacca, aprì la porta e stava per dirmi qualcosa, ma non seppi mai cosa. Si era appena ricordata di un libro che le serviva. Mentre lo andava a prendere, rimasi in attesa sulla porta. Sapevo bene cosa volevo dire, e forse c’era ancora tempo. Non si trattava di un «poveretto qualsiasi». Questo, come i braccianti agricoli, era un uomo legato al mio destino da un’esperienza e da una comune responsabilità, o per lo meno, dal coinvolgimento comune nella morte di un altro individuo. Ed era anche un uomo 53
che mi aveva chiesto di pregare con lui. Magari, si era sentito offeso. Forse era un fanatico del tipo vendicativo. Clarissa era di ritorno con il suo libro che ficcò in cartella tenendo alcune carte tra i denti. Era già quasi fuori. Quando feci per parlare, lei appoggiò a terra la borsa per liberarsi le mani e la bocca. - Non posso, Joe, davvero. Sono già in ritardo. Ho lezione -. Ebbe un istante di esitazione impaziente. Poi disse: - Avanti, dimmi ma fa’ in fretta -. In quel preciso momento squillò il telefono e io ne fui sollevato. Ero convinto che avesse ricevimento studenti, non lezione, e mettermi adesso a discutere le avrebbe fatto perdere ancora più tempo. - Rispondo io, tu va’ pure, - dissi con tono allegro. - Ci parliamo stasera. Mi lanciò un bacio e andò via. Sentivo i suoi passi sulle scale mentre raggiungevo il telefono. - Joe? - disse la voce. - Sono Jed. Fu innaturale da parte mia sentirmi sorpreso e, per un attimo, restare senza parole. Dopo tutto, mi aveva chiamato anche il giorno prima ed era stato sempre nei miei pensieri, nelle parole. Al punto da farmi scordare che esisteva davvero, che era proprio un’entità fisica in grado di far funzionare un telefono. Si era zittito dopo aver detto il suo nome, e adesso riprese a parlare nel mio silenzio. - Mi hai chiamato -. Aveva anche lui, come tutti, il servizio di memoria dell’ultima telefonata ricevuta. Ma il telefono era diventato un’altra cosa; la mia ingenuità senza speranza ne aveva fatto lo strumento di una provocazione personale. - Che cosa vuole? - Non avevo finito di dirlo, che già avrei voluto rimangiarmi tutto. Non mi interessava sapere che voleva, o meglio, non avevo nessuna voglia di farmelo dire. La mia comunque non era stata tanto una domanda quanto una dichiarazione di ostilità. Come quella che venne subito dopo: - E come ha avuto il mio numero? Parry sembrava contento. - Questa sì che è una bella storia, Joe. Sono andato al... - Non la voglio, la sua storia. E non voglio che mi telefoni. - Dobbiamo parlare. - Io non ne sento il bisogno. Udii distintamente il respiro di Parry. - Io credo di sì, invece. Io credo che tu mi debba ascoltare. - Adesso metto giù. Se mi chiama di nuovo, informerò la polizia. 54
L’espressione suonò insensata, quel genere di assurdità che si dicono, tipo, li trascinerò in tribunale, i bastardi. Lo conoscevo il comando di polizia della zona. Erano oberati di lavoro e rispettavano un criterio di priorità. Questo era il genere di seccature che il cittadino deve risolvere con mezzi propri. Parry si inserì in coda alla mia minaccia. Il tono della voce era salito e le parole scorrevano più veloci. Voleva riuscire a dirmi qualcosa prima che mettessi giù. Senti, ti faccio una promessa. Accetta di incontrarmi una volta, una volta sola. Ascolti quel che ho da dire e non sentirai mai più parlare di me. È una promessa, una promessa solenne. Solenne. Spaventosa, più che altro. Riflettei. Forse dovevo incontrarlo, fargli capire che ero diverso dalla creatura del suo mondo immaginario. Lasciarlo parlare. L’alternativa era che continuasse così. Forse potevo concedermi un pizzico di controllata curiosità. A storia conclusa, sapere qualcosa sul conto di Parry poteva rivelarsi importante. Altrimenti sarebbe rimasto una mia proiezione non meno di quanto io fossi per lui. Considerai per un attimo l’ipotesi di trascinare il suo dio a far da garante alla promessa solenne. Ma non mi andava di provocarlo. Dissi: - Lei adesso dov’è? Esitò. - Posso venire da te. - No. Mi dica dove si trova. - Nella cabina telefonica in fondo alla strada? Lo disse, in tono interrogativo, senza vergogna. Ero sconvolto, ma decisi di non darlo a vedere. - Ok, - dissi. - Arrivo -. Riagganciai, misi la giacca, presi le chiavi e lasciai l’appartamento. Fu un conforto scoprire che il profumo di Clarissa, Diorissimo, aleggiava ancora giù per le scale.
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Capitolo settimo
Dal nostro palazzo, si allunga in leggera salita il rettilineo di un viale di platani che stavano mettendo le foglie. Non appena arrivai sul marciapiede, vidi Parry all’angolo sotto un albero, alla distanza di un centinaio di metri. Quando mi vide, sfilò le mani dalle tasche, incrociò le braccia e poi le lasciò ricadere lungo i fianchi. Si incamminò verso di me, cambiò idea e tornò sotto l’albero. Gli andai incontro con passo lento, e sentii l’ansia svanire. Mentre mi avvicinavo, Parry si fece ancora indietro fino ad appoggiare la schiena contro il tronco del platano e, per assumere un’aria più disinvolta, si infilò un pollice nella tasca dei pantaloni. In realtà sembrava mortificato, persino più piccolo, tutt’ossa, niente affatto l’agile guerriero pellerossa, nonostante il codino. Si rifiutò di guardarmi negli occhi, o meglio, il suo sguardo nervoso mi attraversò il viso prima di abbassarsi. Quando gli tesi la mano mi sentivo molto più tranquillo. Aveva ragione Clarissa, era un poveretto, un essere innocuo con una strana idea fissa, alla peggio poteva essere una seccatura, certo non l’individuo minaccioso che ne avevo fatto io. Attualmente era un’immagine patetica, così abbandonato contro le foglie novelle del platano. Doveva essere stato l’incidente e i postumi dello shock subito ad annebbiarmi tanto la testa. Avevo tradotto una farsa in una misteriosa minaccia. La mano che strinse la mia non esercitò alcuna pressione. Gli parlai risoluto, non senza però un accenno di cortesia. Era talmente giovane da poter essere quasi mio figlio. - Farà meglio a spiegarmi subito... Replicò: - C’è un caffè... - e indicò con un gesto del capo in direzione di Edgware Road. - Va benissimo qui, - dissi, - Non ho molto tempo. Si era alzato di nuovo il vento che la luce del sole pareva rendere ancora più teso. Mi strinsi addosso il soprabito e, riallacciando la cintura, lanciai un’occhiata ai piedi di Parry. Niente scarpe da ginnastica oggi. Mocassini di morbido cuoio marrone forse cuciti a mano. Mi appoggiai a un muro vicino e incrociai le braccia.
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Parry abbandonò il tronco dell’albero e mi si mise di fronte, fissandosi i piedi. Preferirei andare al chiuso, - disse con un gemito. Senza rispondergli, attesi. Sospirò e guardò in fondo alla strada verso casa mia, poi il suo sguardo seguì una macchina di passaggio. Alzò gli occhi verso la massa di nuvole bianche, si scrutò le unghie della mano destra, ma non ebbe il coraggio di fissarmi in faccia. Quando alla fine parlò, direi che lo sguardo gli si era posato su una fenditura del marciapiede. - È successa una cosa, - disse. E dal momento che non proseguiva, gli chiesi: - Cosa? Inspirò profondamente dal naso. Continuava a non guardarmi negli occhi. - Lo sai, - disse scontroso. Cercai di venirgli in soccorso. - Stiamo parlando dell’incidente? - Lo sai anche tu, ma vuoi che sia io a dirlo. - Sarebbe meglio. Ho pochissimo tempo. - È una questione di autocontrollo, giusto? - Mi lanciò un’occhiata di sfida infantile, prima di riabbassare lo sguardo. - Basta con questi giochetti cretini. Perché non lo dici? Non c’è niente di cui vergognarsi. Guardai l’ora. Era il momento migliore della giornata per il mio lavoro, e dovevo ancora passare dal centro a ritirare un libro. Un taxi libero stava procedendo verso di noi. Lo vide anche Parry. - Credi di fare il duro, ma è ridicolo. Non riuscirai a tenere il gioco, e lo sai. Ormai è tutto cambiato. Ti prego, smetti di fingere. Ti prego... Guardammo il taxi che si allontanava. Dissi: - Ha chiesto di incontrarmi perché voleva dirmi qualcosa. - Sei proprio crudele, - replicò lui. - Del resto sei tu quello che ha tutto il potere -. Tornò a inspirare profondamente dal naso, come un acrobata che si prepari a un’impresa
molto
impegnativa.
Riuscì
a
guardarmi
in
faccia,
dicendo
semplicemente: - Mi ami. Tu mi ami, e io non posso far altro che ricambiare il tuo amore. Tacqui. Parry tirò un altro respiro profondo. - Non so perché hai scelto me. So solo che adesso ti amo anch’io, e che in tutto questo c’è una ragione, uno scopo. Passò un’ambulanza a sirene spiegate e dovemmo aspettare. Mi chiedevo come dovessi reagire e se una dimostrazione di collera sarebbe riuscita a metterlo in
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fuga, ma nella manciata di secondi che il chiasso impiegò a dileguarsi, decisi di mostrarmi fermo e pacato: - Stia a sentire, Signor Parry... - Mi chiamo Jed, - intervenne lui concitato. - Dammi del tu -. Il tono interrogativo era svanito. Dissi: - Io non la conosco, non so dove abita, cosa faccia né chi lei sia. E non mi interessa particolarmente scoprirlo. L’ho incontrata una sola volta in vita mia e posso garantirle che non nutro nei suoi riguardi sentimenti né benevoli né malevoli... Parry intanto mi dava sulla voce con mezze frasi affannate. Tendeva in avanti le mani come se avesse voluto respingere le mie parole. - Ti prego, non fare così. Non è così che deve accadere, sul serio. Non devi farmi una cosa del genere. All’improvviso ci zittimmo entrambi. Considerai l’ipotesi di andarmene subito e di incamminarmi a cercare un taxi. Forse parlare non faceva che peggiorare le cose. Parry incrociò le braccia e adottò un tono maturo da uomo a uomo. Ebbi persino la sensazione che mi facesse il verso. - Ascolta. Non è così che devi affrontare la cosa. Potresti risparmiare a entrambi un mucchio di sofferenza. Dissi: - Lei ieri mi ha pedinato, vero? Distolse lo sguardo e non replicò, cosa che interpretai come una conferma. - Si può sapere cosa le ha fatto pensare che io sia innamorato di lei? - Mi sforzai di attribuire alla domanda un tono sincero, non solo retorico. Ero piuttosto curioso di saperlo, benché avessi anche voglia di andarmene. - No, - sussurrò Parry. - Ti prego, no -. Gli tremava il labbro inferiore. Io comunque incalzai. - Se non ricordo male, ci siamo parlati al fondo della collina. Posso capire che lei sia stato turbato in seguito all’incidente. Io di sicuro lo ero. A questo punto, e con mia grande sorpresa, Parry si portò le mani alla faccia e scoppiò a piangere. Cercava anche di dire qualcosa che in un primo tempo non capii. Poi finalmente identificai la parola - Perché? Perché? Perché? - continuava a ripetere. Quando si fu un po’ ripreso, disse: - Cosa ti ho fatto? Perché mi fai questo? La domanda lo fece piangere ancora. Mi staccai dal muro al quale ero stato appoggiato e mi allontanai di qualche passo da lui. Parry mi seguì impacciato,
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tentando di recuperare la voce. - Io non ci riesco a controllarmi come fai tu, disse. - Lo so che in questo modo lascio tutto il potere a te, ma non posso farci niente. - Mi creda, io non ho nulla da controllare, - dissi. Mi guardava in faccia con una sorta di disperazione famelica. - Se si tratta di uno scherzo, è ora di finirla. Sta facendo del male a tutti e due. - Senta bene, - dissi, - ora devo andare. E non intendo più avere sue notizie. - Oh, Dio, - uggiolò lui. - Prima lo dici, e poi fai quella faccia. Si può sapere cosa davvero ti aspetti da me? Mi sentivo soffocare. Mi girai e presi a camminare spedito verso la Edgware Road. Lo sentii arrivare di corsa. Poi, tirarmi per la manica nel tentativo di afferrarmi il braccio. - Ti prego, ti prego, - farfugliava. - Non puoi andare via così. Dimmi qualcosa, dammi qualcosa. Se non proprio tutta la verità, almeno una parte. Dimmi almeno che mi stai torturando. Non ti chiederò la ragione. Ma ti prego dimmi che è così. Tirai via il braccio e mi fermai. - Non so chi lei sia. Non capisco cosa vuole, e non me ne importa. Ora, le spiacerebbe lasciarmi in pace? A un tratto, il tono di lui si fece brusco. - Molto divertente, - disse. - Non ti sforzi neanche di sembrare plausibile. È questo che mi offende di più. Si mise le mani sui fianchi e, per la prima volta, mi ritrovai a calcolare l’eventuale pericolo che poteva rappresentare. Il più grosso ero io, e anche abbastanza in forma, ma non avevo mai picchiato nessuno in vita mia e per di più, lui aveva vent’anni di meno, manone ossute, e una causa disperata, quale che fosse. Rizzai la schiena per farmi più alto. - Non avevo intenzione di offenderla, - dissi, - Non prima d’ora. Parry si tolse le mani dai fianchi e le tese in avanti mostrandone i palmi. La cosa più esacerbante di lui era la varietà dei suoi stati d’animo e la rapidità dei passaggi dall’uno all’altro. Dalla ragionevolezza alle lacrime, dalla disperazione alle minacce velate, per arrivare, ora, alla supplica dichiarata. - Ti prego, Joe, guardami, ricorda chi sono, ricorda ciò che ti ha spinto a fare il primo passo. Aveva cornee eccezionalmente bianche. Sostenne il mio sguardo per qualche secondo. Incominciavo a riconoscere nel modo in cui mi parlava una specie di tic a livello comunicativo. Prima incrociava lo sguardo dell’interlocutore, poi girava la 59
testa come se si rivolgesse a qualcuno al suo fianco. - Non negare la nostra esistenza, - diceva adesso a una creatura invisibile appollaiata sulla sua spalla. - Non negare quello che abbiamo. E ti prego non giocare con me questo gioco. So che per te l’idea è difficile e che cercherai di resisterle, ma se ci siamo incontrati, c’è una ragione. Avrei dovuto proseguire per la mia strada, ma la sua intensità mi trattenne e la curiosità mi costrinse a ripetere: - Una ragione? - Su quella collina, dopo l’incidente, tra noi due si è trasmesso qualcosa. Pura energia, luce pura? - Parry si andava riavendo e, superato il passeggero sconforto, l’inflessione interrogativa tornava ad accompagnare ogni sua affermazione. - Il fatto che tu mi ami, - continuò, - e che io ami te, non è rilevante. È solo uno strumento... Strumento? Si rivolse alla mia espressione accigliata come se spiegasse l’ovvio a un idiota. Per condurti a Dio, attraverso l’amore. Ti ci opporrai con tutte le forze perché sei lontanissimo dai tuoi sentimenti? Ma io lo so che il Cristo è dentro di te. E in fondo al cuore lo sai anche tu. Perciò combatti così aspramente usando la tua istruzione, la logica e questo modo freddo che hai di parlare, come se fossi distaccato da noi e da tutto? Puoi anche far finta di non sapere di che sto parlando, forse ti piace farmi del male e dominarmi, ma la verità è che io vengo carico di doni. La ragione, lo scopo, è condurti al Cristo che è in te, al Cristo che è te. È questa l’essenza del dono d’amore. È semplicissimo? Ascoltai tutto il discorso, sforzandomi di non mostrare stupore. Il fatto è che quell’uomo era talmente inerme e convinto, talmente avvilito, e intanto tirava fuori tali sciocchezze, che mi faceva davvero pena. - Senta, - gli dissi quanto più dolcemente potei, - Ma lei cosa vuole di preciso? - Voglio che tu apra il tuo cuore... - Sì, sì. Ma in realtà, cosa vuole da me? O con me? Questa era una domanda difficile per lui. Si ritirò nei vestiti e, rivolto alla creatura che aveva sulla spalla, disse: - Voglio vederti? - E fare cosa, esattamente? - Parlare... conoscerti. - Parlare? Nient’altro? Non volle rispondermi né guardarmi. Dissi: - Lei continua a usare la parola amore. C’è di mezzo il sesso? È quello che vuole?
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Aveva l’aria di pensare che fossi ingiusto. La nota piagnucolosa ricomparve nella sua voce. - Sai benissimo che non possiamo parlarne in questo modo. Te l’ho già detto, quello che provo non conta. C’è una ragione che, a questo stadio, non puoi ancora conoscere. Proseguì su questo tono, ma io ascoltavo solo a metà. Che cosa incredibile: starmene nella via di casa con il cappotto addosso, in quella fredda mattina di un martedì di aprile, a parlare con uno sconosciuto usando termini più adatti a una relazione sentimentale, o a un matrimonio sull’orlo del fallimento. Mi sentivo come se fossi precipitato dentro una crepa della mia vita per finire di schianto in quella di qualcun altro, con preferenze sessuali diverse, un’altra storia passata e un’altra futura. Ero caduto dentro una vita nella quale un tizio poteva venire da me e dirmi cose come: Non possiamo parlarne in questo modo, oppure, Quello che provo non conta. E a lasciarmi altrettanto stupefatto era quanto fosse difficile dirgli: Ma tu chi cazzo sei? Che stai dicendo? Il lessico adottato da Parry suscitava un certo tipo di reazione, una sorta di abitudini emotive inconsce. Occorreva un atto di volontà per liberarmi dalla sensazione scatenata in me da quell’uomo: che gli dovessi qualcosa, che non fosse ragionevole mentirgli. Almeno in parte, assecondavo quel dramma domestico, per quanto la nostra intimità dovesse aver luogo su un marciapiede imbrattato di merda di cane. Mi chiesi anche se avrei avuto bisogno di aiuto. Parry sapeva dove abitavo, ma io di lui non sapevo nulla. Lo interruppi e dissi: - Sarà meglio che mi dia il suo indirizzo. - L’affermazione era destinata a fornirgli spunto per un malinteso. Estrasse di tasca un biglietto da visita con il suo nome e un indirizzo di Frognal Lane, a Hampstead. Lo infilai nel portafogli e mi avviai di buon passo. In un certo senso, Parry continuava a farmi pena, ma era evidente che parlargli non sortiva alcun effetto. Lui intanto si precipitò al mio fianco. - E adesso dove vai? - Era come un bambino curioso. - La prego, smetta di importunarmi, - dissi alzando un braccio per chiamare il taxi. - Io lo so cosa provi davvero. E se l’idea è quella di mettermi alla prova, non ce n’è alcun bisogno. Io non ti lascerò mai. Il taxi accostò e io aprii la porta: mi sentivo un po’ assurdo. Stavo per richiudere quando mi resi conto che Parry aveva afferrato la maniglia. Non aveva intenzione di entrare, ma doveva assolutamente dirmi ancora una cosa. 61
- So qual è il problema, - mi confidò chinandosi e soverchiando il rombo del diesel. - È che tu hai un animo così gentile. Però credimi, Joe, il dolore va affrontato. L’unica soluzione è che ci sediamo a parlarne tutti e tre insieme. Avevo deciso di non aprire più bocca, ma non potei trattenermi. - Tre? - Clarissa. È meglio affrontare la questione di petto... Non lo lasciai finire. - Vada pure, - dissi al taxista, e usai entrambe le mani per strappare la portiera dalla stretta di Parry. Mentre ci allontanavamo, mi voltai. Stava in mezzo alla strada e mi salutava con la mano. Il gesto era sconsolato ma lui, senza dubbio, aveva l’espressione felice dell’uomo innamorato.
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Capitolo ottavo
Dissi all’autista di portarmi a Bloomsbury. Mentre mi appoggiavo al sedile per tranquillizzarmi, riconsiderai i pensieri sconclusionati del giorno prima, quando mi ero precipitato in St James Square a cercare Parry. Allora lui rappresentava l’ignoto nel quale io proiettavo tutte le mie paure inespresse. Attualmente lo ritenevo solo un giovane confuso e strano che non era in grado di guardarmi negli occhi e che disturbi mentali e bramosie emotive rendevano del tutto innocuo. In fondo era una figura patetica, non una minaccia, ma una seccatura di quelle, come diceva Clarissa, che possono trasformarsi in aneddoti divertenti. Forse, dopo un incontro di quella intensità, era innaturale riuscire a rimuovere la questione. Ma sul momento mi parve logico e necessario: avevo perso abbastanza tempo quella mattina. Prima che il taxi avesse fatto un paio di chilometri, già vagavo col pensiero al lavoro che avevo in mente di svolgere quel giorno, al pezzo che aveva incominciato a prendere forma mentre aspettavo Clarissa all’aeroporto di Heathrow. Avevo tenuto da parte la giornata per la stesura di un lungo articolo sul sorriso. Una rivista americana avrebbe dedicato un intero numero a quello che al curatore era piaciuto chiamare una rivoluzione intellettuale. Biologi e psicologi evoluzionisti stavano tornando allo studio delle scienze sociali. Il consenso postbellico, lo Standard Social Science Model, si andava sfaldando e la natura umana tornava a reclamare attenzione. Non veniamo al mondo come tavolette di cera, o come strumenti di apprendimento adatti a qualunque impiego. E non siamo nemmeno i «prodotti» dell’ambiente circostante. Per sapere chi siamo, dobbiamo scoprire da dove veniamo. Ci siamo evoluti, come ogni altra specie sulla terra. Al momento della nascita ci presentiamo dotati di limiti e di potenzialità, tutti prestabiliti dal nostro patrimonio genetico. Molte delle nostre caratteristiche, dalla forma dei piedi al colore degli occhi, risultano determinate, mentre altre, come il nostro comportamento sociale e sessuale e il nostro apprendimento linguistico si sviluppano a partire dalla vita che conduciamo. Ma il percorso esistenziale non è infinitamente variabile. A determinarlo è la natura 63
umana. Il messaggio scientifico dei biologi conferma la teoria di Darwin: il modo in cui le emozioni si disegnano sui nostri volti è più o meno lo stesso in tutte le culture, e il sorriso infantile costituisce un segnale sociale particolarmente facile da isolare per motivi di studio. Se ne trova manifestazione nei neonati delle tribù boscimane del Kalahari esattamente come tra i bambini nati nell’Upper West Side di Manhattan, e sortisce anche il medesimo effetto. Per dirla con l’efficace freddezza di Edward O. Wilson «esso promuove nei genitori un maggior coinvolgimento affettivo». E prosegue: «Per rifarsi a una terminologia tratta dalla scienza zoologica, il sorriso rappresenta un dispositivo di socializzazione, un segnale innato e pressoché invariabile che si fonda come tramite di relazioni sociali di base». Qualche anno fa, gli editori di letteratura scientifica non pensavano ad altro che al caos. In quel momento invece erano a caccia di ogni possibile ramificazione del neodarwinismo, di psicologia evoluzionistica e di genetica. Non mi lamentavo, gli affari giravano bene, solo che Clarissa aveva incominciato a contestare la teoria generale alla base del progetto. Le pareva una degenerazione del razionalismo. - È una nuova forma di integralismo, - mi aveva detto una sera. Venti anni fa tu e i tuoi amici eravate tutti socialisti e, per la minima cosa, ve la prendevate con il sistema. Ora siete finiti nella trappola genetica, e trovate una ragione scientifica per tutto quanto -. Il brano di Wilson che le lessi la irritò. Era in corso un processo di progressivo svuotamento, disse, nel quale si perdeva il significato più ampio delle cose. Che interesse poteva avere l’opinione di uno zoologo sul sorriso di un neonato? La verità di quel sorriso stava negli occhi e nel cuore dei genitori, e nel conseguente sviluppo affettivo che assumeva significato solo col tempo. Stavamo facendo una delle nostre chiacchierate in cucina a tarda sera. Le dissi che negli ultimi tempi aveva frequentato troppo John Keats per i miei gusti. Un genio, per carità, ma anche un oscurantista che accusava la scienza di defraudare il mondo della meraviglia, quando era vero invece il contrario. Se siamo tutti d’accordo nell’apprezzare il sorriso infantile, perché non ricercarne le fonti? Vogliamo credere che tutti i neonati sorridano di una battuta segreta? O che Iddio venga a far loro il solletico? O, per essere meno improbabili, che imparino a sorridere dalla madre? D’altra parte, sorridono anche i neonati ciechi e sordi. Il sorriso deve proprio essere un messaggio forte, e per buone ragioni 64
evoluzionistiche. Clarissa disse che non avevo capito quel che intendeva. Non c’era nulla di male nello studio del dettaglio, ma si rischiava di perdere di vista il tutto. Ero d’accordo. Il lavoro di sintesi è cruciale. Clarissa ripeté che non la capivo, lei stava parlando di amore. Anch’io, replicai, d’amore e di come se lo procurino le creature non ancora in grado di parlare. No, insisté lei, ancora non capivo. Più in là non eravamo andati. Senza rancore. Già molte altre volte avevamo sostenuto la stessa conversazione in forme diverse. Ciò di cui effettivamente si parlava in queste occasioni era l’assenza di bambini nelle nostra vita. Ritirai il mio libro da Dillon e passai una ventina di minuti a girare per la libreria. Avevo voglia di mettermi a scrivere, perciò rincasai in taxi. Quando mi voltai verso la strada dopo aver pagato il guidatore, vidi Parry davanti all’ingresso. Che cosa mi aspettavo? Che svanisse per il solo fatto che io stavo pensando ad altro? Mentre mi avvicinavo assunse un’aria un po’ imbarazzata, ma non si mosse. Incominciò a parlare quando ero ancora a distanza: - Mi hai detto di aspettare, e io ho aspettato. In mano, avevo le chiavi. Esitai. Volevo dirgli che non avevo mai detto una cosa simile, e ricordargli la sua «promessa solenne». Mi chiesi anche se potevo trarre qualche vantaggio stando a sentirlo ancora, e scoprendo qualcosa di più sul suo conto. Ma la prospettiva di essere di nuovo trascinato in pieno dramma domestico, questa volta su un vialetto in mattoni tra siepi di ligustro ben curato, mi atterriva. Gli mostrai le chiavi e dissi: - Permesso. Continuava a sbarrarmi la strada, impedendomi di raggiungere la porta. Disse: - Voglio parlare dell’incidente. - Be’, io no -. Mossi altri due passi verso di lui, come se fosse un fantasma e si potesse passargli attraverso con la chiave tesa e infilarla dritto nella serratura. Si era rimesso a piagnucolare. - Ascolta, Joe. Abbiamo così tante cose da dirci. Lo so che ci stai pensando anche tu. Perché non ci mettiamo comodi e non proviamo a parlarne. Mi feci strada con una lieve spallata e un secco, - Mi scusi -. Fui sorpreso di constatare che al solo sfiorarlo si era fatto da parte. Era più leggero del previsto. Si lasciò scansare di lato e io fui in grado di aprire la porta. 65
- Il fatto è, - disse, - che io vengo portando il perdono. Entrai in casa, pronto a impedirgli fisicamente di fare altrettanto. Ma lui rimase dov’era e, quando richiusi, lo vidi attraverso il vetro infrangibile nell’atto di dirmi qualcosa a fior di labbra, qualcosa che poteva essere di nuovo, «perdono». Presi l’ascensore ed ero appena entrato in casa, quando sentii squillare il telefono. Pensai che potesse essere Clarissa che mi chiamava come promesso. Mi precipitai in corridoio e afferrai la cornetta. Era Parry. - Ti supplico, Joe, non scappare, - incominciò a dire. Riagganciai e staccai il telefono. Poi cambiai idea e rimisi la cornetta al suo posto. Spensi la suoneria e attaccai la segreteria telefonica. Scattò prima che arrivassi alla finestra in fondo al soggiorno. Parry era là fuori, sul lato opposto della via per essere visibile, e aveva un cellulare in mano. Sentivo la sua voce registrata che dall’ingresso alle mie spalle diceva: - Joe, l’amore di Dio ti verrà a cercare -. Alzò lo sguardo e dovette vedermi di sfuggita, prima che mi nascondessi dietro la tenda. - So che sei lì, ti vedo. Lo so che mi stai ascoltando... Tornai nell’ingresso e abbassai il volume della segreteria. In bagno, mi lavai la faccia con l’acqua fredda e mi guardai allo specchio ancora grondante, chiedendomi che effetto potesse fare essere ossessionati da un tipo come me. Quest’attimo, come quello sul prato in cui Clarissa mi aveva passato la bottiglia di vino, potrebbe costituire un altro punto d’inizio, perché credo sia stato allora che davvero incominciai a realizzare che la faccenda non si sarebbe esaurita nell’arco della giornata. Mentre rientravo in ingresso e mi riavvicinavo al telefono pensai, sto vivendo un rapporto. Sollevai il coperchio della segreteria. Il nastro stava ancora girando. Alzai un poco il volume, in tempo per sentire la voce flebile di Parry che recitava: sfuggire alla realtà, Joe, ma io ti amo. Sei tu che hai messo in moto la cosa. Adesso non puoi più tirarti indietro... Andai subito nel mio studio, afferrai la cornetta del fax e chiamai la polizia. Nei secondi necessari al collegamento, mi resi conto di non avere idea di cosa dire. Rispose una voce di donna, laconica e scettica, indurita dal diluvio quotidiano di panico e sofferenza al quale il lavoro l’aveva abituata. Mi espressi col tono sgarbato e razionale del cittadino responsabile. - Vorrei denunciare un caso di molestie, molestie continuate -. Mi passarono un uomo
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nella cui voce aleggiava la stessa diffidenza pacata. Ripetei la denuncia. Dopo un’esitazione di appena un secondo, partì la prima domanda. - È lei la vittima delle molestie? - Sì, sono stato... - E il molestatore è lì con lei adesso? - In questo preciso momento si trova di fronte a casa mia. - Le ha procurato danni fisici? - No, ma… - L’ha minacciata di farlo? - No -. Capivo che il mio problema doveva trovare una sistemazione nella prassi burocratica. Non poteva esistere un servizio duttile al punto da risolvere ogni problema personale. Vedendomi negato il sollievo della lagnanza, cercai conforto nel tentativo di modellare la mia vicenda in una forma pubblicamente riconosciuta. Il comportamento di Parry doveva rientrare in una definizione più generalizzata di crimine. - Ha minacciato la sua proprietà? - No. - Minacce contro terzi? - No. - Sta cercando di ricattarla? - No. - Crede che potrebbe dimostrare che sta cercando di causarle un danno? Hmm, no. La voce abbandonò la neutralità del tono ufficiale per scivolare in una domanda quasi sincera. Mi parve di riconoscere un accento dello Yorkshire. Potrebbe dirmi in che cosa consiste la molestia allora? - Mi telefona a tutte le ore. Mi lascia messaggi... La voce recuperò in fretta ufficialità e tornò a inseguire l’elenco delle infrazioni possibili. - La persona in questione fa uso di linguaggio scurrile o oltraggioso? No. Senta, agente. Mi faccia spiegare. È uno svitato. Non mi lascia vivere. - Ha idea di quali siano le sue intenzioni, di preciso? Tacqui. Solo adesso sentivo il brusio di altre voci oltre a quella dell’uomo che mi parlava. Dovevano esserci file di agenti con la cuffia auricolare, seduti ad ascoltare per tutto il giorno di aggressioni, omicidi, suicidi, rapine a mano
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armata. E poi me ne arrivavo io con il mio tentativo di conversione religiosa perpetrato in pieno giorno. Dissi: - Si è messo in testa di salvarmi. - Salvarla? - Sa, convertirmi. È pazzo. Non vuole saperne di lasciarmi in pace. La voce mi interruppe, finalmente spazientita. - Spiacente, signore. La faccenda non riguarda la polizia. A meno che non ci siano danni alla persona o alla proprietà, o minacce rivolte ai medesimi, non sussiste reato. Il tentativo di conversione non è fuori legge -. E volle concludere la nostra telefonata di emergenza con questa breve postilla personale. - In questo paese c’è libertà di religione. Tornai alla finestra del soggiorno e guardai sotto, dov’era Parry. Non parlava più al cellulare. Se ne stava lì con le mani in tasca davanti a casa mia, immobile come un agente della vigilanza. Mi feci un bricco di caffè e preparai qualche tramezzino, poi mi ritirai nel mio studio che si affaccia su un’altra via, e sedetti a leggere, o meglio, a sfogliare gli appunti. La concentrazione era rovinata. Essere perseguitato da Parry stava aggravando uno stato di insoddisfazione di più vecchia data. Di tanto in tanto mi capita, solitamente quando sono triste per qualche altro motivo, di pensare che le mie idee sono tutte rubate. Io mi limito a digerire e riformulare il prodotto di ricerche altrui per poi consegnarlo al lettore comune. La gente dice che la chiarezza è il mio forte. Sono in grado di imbastire un buon racconto dai farraginosi e aleatori grovigli alla base della maggior parte dei progressi scientifici. È vero, un tramite tra il ricercatore e il vasto pubblico dei non addetti ai lavori ci vuole, qualcuno che riduca questioni di ordine superiore a concetti che l’esperto non riesce a formulare per eccesso di impegno o di cautela professionale. È vero anche che ho tirato su un bel po’ di soldi muovendomi come una scimmia equilibrista tra i rami più alti della fitta giungla delle mode scientifiche: dinosauri, buchi
neri,
magia
quantistica,
caos,
superstringhe,
neuroscienza,
neodarwinismo. Libri rilegati con splendide illustrazioni, seguiti a ruota da immancabili documentari televisivi, dibattiti radiofonici e convegni tenuti nelle località più incantevoli del pianeta. Nei momenti no, torna a farsi strada il sospetto che io sia un parassita, ed è probabile che non mi sentirei così se non avessi una laurea a pieni voti in fisica e 68
una tesi di dottorato sull’elettrodinamica quantistica. Dovrei esserci anch’io in mezzo a coloro che si dannano la vita per apportare il proprio atomo di progresso alla montagna dell’umana conoscenza. Ma quando lasciai l’università, dopo sette anni di studio meticoloso, mi sentivo irrequieto. Incominciai a viaggiare in lungo e in largo, sconsideratamente e di sicuro per troppo tempo. Al mio ritorno a Londra, mi misi in affari con un amico. L’idea era quella di commercializzare un dispositivo, essenzialmente un ingegnoso set di circuiti al quale avevo lavorato nel tempo libero alla fine del dottorato. Questo minuscolo aggeggio doveva in teoria migliorare le prestazioni di certi microprocessori e, per come la vedevamo noi al tempo, ogni computer al mondo ne avrebbe presto avuto bisogno. Prendemmo un volo di una compagnia aerea tedesca per Hannover in prima classe e per un paio d’anni pensammo di diventare miliardari. Purtroppo però la registrazione del brevetto fu rifiutata. Eravamo stati preceduti da una squadra di un laboratorio fuori Edimburgo più aggiornata di noi in campo elettronico. In seguito l’industria informatica subì comunque una violenta svolta in un’altra direzione. La nostra società non arrivò nemmeno sul mercato e quella scozzese fallì. Quando tornai all’elettrodinamica quantistica, il mio curriculum vitae presentava un vuoto incolmabile, mi ero arrugginito in fatto di matematica, e i quasi trent’anni mal portati facevano di me un candidato troppo vecchio per questa competizione spietata. Al termine del mio ultimo colloquio universitario sapevo già, dal grado di cortesia enfatica con la quale il mio professore mi aveva messo alla porta, che la mia carriera accademica era finita. Passeggiai sotto la pioggia lungo la Exhibition Road, domandandomi che cosa avrei fatto. Quando fui davanti al Museo di Scienze Naturali, la pioggia si fece torrenziale e una piccola folla di persone cercò riparo dentro il museo. Mi accomodai ai piedi della riproduzione in scala naturale di un diplodoco e, mentre mi asciugavo, scivolai in uno strano stato di appagata contemplazione della moltitudine. Di solito i gruppi numerosi suscitano in me una leggera misantropia. Quella volta però la curiosità e la meraviglia della gente, pareva riscattarla ai miei occhi. Chiunque entrasse, indipendentemente dall’età, veniva trascinato dallo stupore di fronte a quella bestia formidabile. Mi capitò di ascoltare brandelli di conversazione e, a parte l’entusiasmo diffuso, ciò che mi colpì fu il livello generale dell’ignoranza. Sentii un ragazzino di dieci anni chiedere ai tre adulti che lo accompagnavano se creature simili cacciavano e divoravano 69
esseri umani. Dalle sicure risposte che ricevette era chiaro che il calendario evoluzionistico degli adulti era decisamente in disordine. Mentre me ne restavo lì seduto, ripassai le mie scarse nozioni personali sui dinosauri. Ricordai quanto racconta Darwin nel suo Voyage of the Beagle riguardo alla scoperta di grandi ossa fossili in Sud America e come la loro datazione si fosse rivelata cruciale per la sua teoria. Era stato molto colpito dalle argomentazioni proposte dal geologo Charles Lyell. La terra doveva essere di gran lunga più vecchia dei quattromila anni dichiarati dalla chiesa. Nella nostra era la lotta tra animali a sangue freddo e animali a sangue caldo si stava concludendo a favore di questi ultimi. Esistevano prove geologiche di svariati cataclismi che avevano sconvolto la vita del pianeta. Quel vasto cratere in Messico poteva benissimo essere stato causato dalla caduta del meteorite che aveva messo fine all’impero dei dinosauri garantendo ai piccoli roditori scorrazzanti tra le zampe dei mostri l’opportunità di espandere il loro territorio consentendo la riproduzione dominante di mammiferi e perciò, in ultima analisi, l’evoluzione dei primati. Esisteva anche l’ipotesi affascinante che i dinosauri non fossero stati del tutto sterminati, ma che, per ragioni di adattamento ambientale, si fossero evoluti fino ad assumere le innocue sembianze dei volatili ai quali diamo da mangiare nei cortili dietro casa. Prima di uscire dal museo avevo già scarabocchiato sul retro della domanda di colloquio con il mio ex professore il progetto per un libro. Lessi tre mesi e scrissi per sei. La sorella del mio mancato socio in affari, un’illustratrice di testi scientifici, acconsentì cortesemente a una dilazione del compenso per le sue prestazioni. Il libro uscì in un momento in cui qualsiasi pubblicazione sui dinosauri era un successo e anche la mia se la cavò con dignità sufficiente a mettermi in lizza per i buchi neri. Era incominciata la mia carriera professionale: fortune editoriali una dietro l’altra che progressivamente mi precludevano ogni possibilità in campo scientifico. Ormai ero un giornalista, un divulgatore, un profano. Non sarei mai più tornato ai tempi, inebrianti nel ricordo, di quando mi dedicavo alla ricerca seria sul campo magnetico dell’elettrone, di quando frequentavo i convegni sul tema delle infinità nelle teorie rinormalizzabili, e in veste non di osservatore, ma di partecipante attivo seppure marginale. D’ora in poi nessuno scienziato, ma che dico, nemmeno un tecnico di laboratorio o un bidello di facoltà, mi avrebbe mai più preso sul serio. 70
Quel giorno in particolare, seduto nel mio studio col bricco del caffè e i tramezzini, incapace di procedere nell’articolo sul sorriso, e con Parry che mi montava la guardia sul marciapiede di casa, tornò ad affacciarsi la domanda di come fossi finito in quel modo. Di quando in quando sentivo il clic della segreteria telefonica che scattava. Più o meno ogni ora facevo un giro in soggiorno per verificare, e lui era là: sguardo fisso sulla porta, come un cane legato fuori da un negozio. Soltanto una volta lo sorpresi mentre mi stava telefonando. Per lo più se ne stava lì immobile, coi piedi appena divaricati, le mani in tasca e, per quanto riuscivo a giudicare, con in faccia un’espressione intensa, forse al limite della gioia. Quando guardai fuori di nuovo alle cinque, non c’era più. Restai alla finestra, con l’impressione di percepire il contorno dello spazio lasciato vuoto dalla sua persona, una colonna di luminosa assenza nella luce morente del tardo pomeriggio. Poi mi avvicinai alla segreteria telefonica. L’indicatore rosso segnalava trentatré messaggi. Feci avanzare velocemente il nastro finché trovai la voce di Clarissa. Sperava che stessi bene, sarebbe tornata alle sei, e mi amava. C’erano tre messaggi di lavoro, il che attribuiva a Parry un punteggio di ventinove messaggi. Stavo ancora contemplando quella cifra, quando il nastro riprese a girare. Alzai il volume. A quanto pare chiamava da un taxi. - Joe. Grande l’idea delle tende. L’ho capito subito, sai? Volevo solo dirti ancora una volta che provo la stessa cosa anch’io. Davvero -. L’emozione gli alterava un po’ il tono della voce su quelle ultime parole. Le tende? Tornai in soggiorno a controllare. Erano chiuse, come sempre. Non le apriamo mai. Ne scostai una, con l’idea cretina di poter capire chissà che. Poi mi risedetti nello studio, non più a lavorare, ma a riflettere e ad aspettare Clarissa e di nuovo il pensiero vagò su come ero arrivato a essere ciò che ero, su come sarebbe potuta andare diversamente e, per ridicolo che possa sembrare, su come potessi escogitare un modo per tornare alla ricerca e scoprire qualcosa di nuovo prima di compiere cinquant’anni.
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Capitolo nono
Il ritorno di Clarissa avrebbe più senso raccontarlo dal suo punto di vista. O per lo meno dall’idea che me ne feci in seguito. Entra in casa dopo tre rampe di scale con in mano cinque chili di libri e carte varie nella borsa di cuoio che si è trascinata per un chilometro dalla stazione del metrò. Ha alle spalle una giornata pesante. Prima di tutto, la laureanda incontrata il giorno prima, una ragazza poco preparata originaria del Lancaster, le ha telefonato in lacrime, strepitando in modo inconsulto. Quando Clarissa è finalmente riuscita a calmarla, lei l’ha accusata di averle assegnato letture impossibili e di indirizzarla su vicoli ciechi della ricerca. Il seminario sulla poesia romantica era stato un disastro, perché i due studenti incaricati di fornire spunti per il dibattito non si erano preparati, mentre il resto dei partecipanti non si era preso il disturbo di leggere i testi. In chiusura di mattinata, si era resa conto di non avere l’agenda. Per tutta la pausa del pranzo una collega si era lamentata del marito, la cui eccessiva dolcezza a letto sottraeva al rapporto la necessaria aggressività sessuale in grado di farle superare le resistenze e garantirle l’orgasmo che sapeva di meritare. Nel pomeriggio Clarissa aveva presenziato a tre ore di riunione del Senato Accademico nel corso delle quali si era sentita strumentalizzata e costretta a votare per una soluzione di ripiego il cui esito era stata la riduzione del sette per cento sul budget destinato al suo stesso dipartimento. Di lì era passata direttamente a un colloquio con la direzione amministrativa dell’ateneo. In quella sede le avevano fatto presenti i cospicui ritardi nelle sistemazioni dei piani di studio e la scarsa omogeneità da lei dimostrata nel gestire il rapporto tra attività di insegnamento e ricerca. Salendo le scale con la borsa dei libri ha la sensazione di registrare uno sforzo fisico eccessivo e pensa che potrebbe essersi presa un raffreddore. Ha la testa pesante e le bruciano gli occhi. Inoltre avverte un crescente dolore all’altezza dei reni, inequivocabile sintomo, nel suo organismo, di un’infezione virale in corso. Come se non bastasse, il ricordo dell’incidente del pallone è tornato a ossessionarla. Non che sia mai scomparso del tutto, ma per buona parte della 72
giornata è riuscita a tenerlo a bada, catalogandolo nella sezione aneddotica. Ora invece ha rotto gli argini e le si è insinuato dentro di nuovo. È come un odore di cui si sia impregnata la pelle delle dita. L’immagine che non l’abbandona dal tardo pomeriggio è quella di Logan nell’atto di lasciar andare la fune. E insieme all’immagine è tornata anche la sensazione di terrorizzata impotenza che sembra causa diretta dei sintomi fisici da raffreddore o influenza. Parlare con gli amici di quanto è accaduto non sembra più avere alcuna efficacia dal momento che le pare di aver raggiunto il nocciolo dell’insensatezza. Durante l’ultima rampa di scale avverte che il dolore si sta diffondendo alle giunture delle ginocchia. Magari è solo quel che succede a trasportare mucchi di libri su per le scale quando non si hanno più vent’anni. Infilando la chiave nella porta, prova una fitta di sottile sollievo al pensiero che in casa troverà Joe e che lui sa sempre come occuparsi di lei quando ne ha bisogno. Mette piede nell’ingresso, e lo trova ad aspettarla sulla porta dello studio. Ha un’aria stravolta che non gli vedeva in faccia da un pezzo. Clarissa associa quel tipo di sguardo a progetti eccessivamente ambiziosi, idee febbrili e solitamente cretine che, seppur con scarsa frequenza, talvolta affliggono l’uomo pacato e metodico del quale si è innamorata. Lui le viene incontro e incomincia a parlare senza darle neppure il tempo di varcare la soglia. Senza un bacio o qualsiasi altra forma di saluto, le rovescia addosso una storia di molestie e follia dalla quale affiora una sorta di accusa, forse persino di rabbia nei suoi confronti, perché lei si sbagliava, le dice, ma adesso è il momento della rivincita. Prima ancora che riesca a chiedergli di che diavolo sta parlando, addirittura prima che abbia posato a terra la borsa, Joe ha già preso tutt’altra strada e le sta raccontando una conversazione appena intercorsa tra lui e un vecchio amico che lavora al dipartimento di Fisica delle particelle su Gloucester Road, e di come crede che questa persona sia in grado di fargli avere un appuntamento con il professore. Intanto Clarissa ha in mente una sola cosa, Che fine ha fatto il mio bacio? Perché non mi abbracci? Perché non ti prendi cura di me? Ma Joe incalza, come un naufrago che non veda un essere umano da un anno. Per il momento la sua funzione comunicativa è cieca e sorda, perciò Clarissa solleva entrambe le mani in gesto di resa e dice: - Mi sembra fantastico Joe. Io vado a fare il bagno -. E neppure allora lui si ferma; probabilmente non l’ha neanche sentita. Clarissa si volta per andare in camera da letto e lui la pedina, la 73
segue e continua raccontarle in modi diversi che sente di dover tornare a occuparsi di scienza. È una vecchia storia. Per la verità l’ultima volta che accadde, nel corso di un’autentica crisi un paio di anni prima, Joe ne era uscito riconciliandosi con la propria esistenza, che in fondo non era male, e si pensava che la faccenda dovesse essere chiusa una volta per tutte. Adesso invece sta alzando la voce per soverchiare lo scroscio dell’acqua, ma sta di nuovo parlando delle molestie subìte e Clarissa coglie il nome di Parry, e si ricorda. Ah, già. Le pare di capire Parry abbastanza bene. Un uomo triste, un disadattato, un fanatico religioso che probabilmente si fa mantenere dai genitori, e che muore dalla voglia di stringere amicizia con qualcuno, chiunque, persino con Joe. Joe se ne sta appeso nel vano della porta del bagno come un esemplare appena scoperto di scimmia logorroica. Parla, parla, ma non sa nemmeno quello che dice. Lei lo spinge da parte per rientrare in camera da letto. Vorrebbe chiedergli di portarle un bicchiere di vino bianco, ma pensa che ne prenderebbe uno anche lui e si metterebbe a sedere lì mentre lei fa il bagno, quando la sola cosa che vuole adesso, visto che Joe non ha intenzione di prendersi cura di lei, è restare sola. Si siede sul bordo del letto e incomincia a slacciarsi le scarpe. Se fosse davvero malata, potrebbe dirlo. Ma per ora è al limite del malessere, forse è soltanto stanca e ancora sconvolta per quel che è successo domenica, e non è nel suo stile far tante storie, perciò si limita a sollevare un piede e Joe si inginocchia per aiutarla a sfilare la scarpa, ma senza mai smettere di parlare. Vuole tornare alla fisica teorica, vuole il sostegno di un dipartimento, è disposto a impegnarsi nell’insegnamento pur di poter studiare, ha già delle idee sul fotone virtuale. Si alza senza togliersi le calze, e incomincia a sbottonarsi la camicetta. Il gesto di spogliarsi e la sensazione della fitta moquette sotto i piedi la eccitano leggermente e Clarissa ripensa alla sera scorsa e a quella prima, al dolore e all’altalena delle emozioni e al sesso, e ricorda che lei e Joe si vogliono bene anche se in questo momento si trovano in due condizioni mentali lontanissime e con bisogni molto diversi. Tutto qui. Cambierà, e non c’è ragione di trarre conclusioni affrettate come l’umore le sta suggerendo di fare. Si toglie la camicetta, sfiora il gancio del reggiseno, ma poi cambia idea. Si sente meglio, ma non benissimo, e non intende fornire a Joe un segnale sbagliato, sempre ammesso che lui se ne accorga. Se solo riuscisse a rimanere sola nel bagno per una mezz’ora, poi potrebbe starlo a sentire, e viceversa. Parlare, ascoltare, pare che faccia un gran 74
bene alle coppie. Attraversa la stanza per andare ad appendere la gonna, poi si siede di nuovo sul letto e incomincia a sfilarsi le calze, e mentre con un orecchio ascolta Joe, sta pensando a Jessica Marlowe, la collega che, a pranzo, si lamentava del marito troppo gentile, troppo mite dal punto di vista sessuale. Il mistero delle scelte sentimentali e di come funzionano: c’è di mezzo tanta di quella fortuna, per non parlare dei milioni di conseguenze secondarie dipendenti dall’inconscia scelta del partner, un enigma che nessuno e neanche una montagna di parole potrà mai risolvere in caso di conclusione infelice. Joe le sta dicendo che non ha più importanza se non è aggiornato in matematica perché al giorno d’oggi si può risolvere tutto col software. Clarissa ha visto Joe al lavoro e sa che, come per i poeti, anche a un fisico teorico non serve altro che talento, una buona idea e carta e matita, o un potente computer. Se volesse, potrebbe andare anche adesso a sedersi nel suo studio e tornare a «dedicarsi alla scienza». Tutte le manfrine su dipartimenti, docenti e colleghi di cui dice di avere bisogno, sono irrilevanti, ma rappresentano la sua difesa dal fallimento, perché lui sa bene che non lo lasceranno mai più rientrare. (Quanto a lei, non ne può più di dipartimenti accademici). Si infila la vestaglia sulla biancheria. Joe ha riscoperto la vecchia ambizione frenetica solo perché è sconvolto; la domenica sta lavorando anche su di lui in modi diversi. Il problema con la mente meticolosa e precisa di Joe è che tende a non prendere in nessun conto il campo delle emozioni. Pare non rendersi conto che sta delirando, che quei discorsi sono soltanto un’aberrazione e che hanno una causa scatenante. Perciò è vulnerabile, ma per adesso Clarissa non riesce a sentire slanci protettivi nei suoi confronti. Anche lui ha raggiunto il nocciolo di insensatezza della morte di Logan, ma ci è arrivato in modo inconsapevole. Mentre lei desidera sdraiarsi nell’acqua calda fragrante di bagnoschiuma a riflettere, lui è deciso a dare una svolta al proprio destino. Tornata in bagno, Clarissa mescola l’acqua fredda alla calda con un andirivieni della mano, e vi aggiunge gocce di olio di pino, sali al lillà e, ripensandoci, persino un’essenza, dono di Natale di una sua figlioccia: secondo quanto si legge sull’etichetta, il profumo era già in uso nell’Egitto antico e aveva fama di concedere saggezza e pace interiore al bagnante. Rovescia l’intera boccetta. Joe intanto ha abbassato il coperchio del water e ci si sta accomodando. Il loro è il tipo di rapporto che rende assolutamente accettabile chiedere all’altro di essere 75
lasciati soli, senza incorrere in nessun tipo di conseguenza indesiderata, ma questa volta l’intensità dei gesti di lui la inibisce. Soprattutto adesso che ha ricominciato a parlare di Parry. Clarissa si immerge nell’acqua verde, determinata a prestare tutta la propria attenzione a quello che Joe le racconta. La polizia? Hai chiamato la polizia? Trentatré messaggi alla segreteria telefonica? Ma se ha guardato entrando in casa, e l’indicatore segnava zero. Li ha cancellati, insiste lui, al che Clarissa si tira su nella vasca da bagno e gli sgrana gli occhi addosso incontrando il suo sguardo altrettanto fisso. Suo padre è morto di Alzheimer quando Clarissa aveva dodici anni e da allora lei ha sempre avuto paura di vivere con qualcuno che potesse impazzire. Per questo si è innamorata di Joe, l’iperrazionale. Qualcosa in quello sguardo, o il gesto improvviso con il quale si è rizzata a sedere, o l’effetto dello sbalordimento che le ha spalancato la bocca fanno inciampare Joe, nell’atto di pronunciare la parola «fenomeno», lo costringono a un breve silenzio dopo il quale il tono della sua voce è calato. - Che c’è? Lei non gli toglie gli occhi di dosso e dice: - Non hai smesso un secondo di parlare da che sono entrata in casa. Calmati Joe. Fai un bel respiro. La intenerisce constatare come Joe sia pronto a ubbidirle senza protestare. - Come ti senti? Fissando il pavimento, Joe appoggia le mani alle ginocchia ed esala in un sospiro sonoro la risposta: - Agitato. Lei aspetta il seguito, il resto dell’agitazione, ma anche Joe sta aspettando qualcosa. Si sente lo sgocciolio incostante del filo di acqua calda rimasta nel tubo alle spalle della vasca. Clarissa dice: - So di avertelo già detto, perciò non ti arrabbiare. Non credi di esagerare con questo Parry. Forse non è poi quel gran problema. Voglio dire, magari se lo inviti a bere una tazza di tè, poi ti lascia in pace. Lui non è la causa della tua agitazione, è solo il sintomo Mentre parla, ripensa ai trenta messaggi cancellati. E se Parry, o almeno il Parry descritto da Joe, non esistesse? Ha un brivido e torna a sdraiarsi dentro la vasca, senza perderlo d’occhio. Lui sembra riflettere con attenzione su quanto ha detto. - Sintomo di che cosa, di preciso?
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L’ultima parola, pronunciata con minacciosa freddezza, le fa assumere un tono di voce più spensierato. - Non saprei. Magari la tua vecchia insoddisfazione per aver abbandonato la ricerca -. In cuor suo spera che si tratti solo di quello. Di nuovo, Joe si ferma a pensare. D’improvviso, mentre rispondeva alle sue domande, lui le è sembrato stanco. Ha l’aria di un bambino prima di andare a letto, lì seduto sulla tazza del water senza pudore, mentre lei fa il bagno. Le dice: - È tutto il contrario. Mi capita una cosa incredibile che non so come fermare. Mi incazzo e incomincio a pensare al lavoro, a quello che dovrei fare. - Perché dici di non sapere come fermare quel tipo? - Te l’ho appena spiegato. Dopo che gli avevo parlato, è rimasto fuori di casa nostra senza quasi muoversi per sette ore. Non ha fatto che telefonare tutto il giorno. La polizia dice che la faccenda non li riguarda. Secondo te cosa dovrei fare? Clarissa sente il debole tuffo al cuore come sempre succede quando qualcuno si arrabbia con lei. Ma al tempo stesso sa di aver fatto esattamente quello che voleva evitare. Ha permesso a Joe di trascinarla nella sua condizione mentale, dentro i problemi, i dubbi e bisogni di lui. Non ha saputo tenere a bada il suo impulso protettivo. Le domande precise che gli ha rivolto intendevano offrirsi come aiuto e in cambio le è toccata l’aggressività di Joe il quale nemmeno si è accorto di quel che serviva a lei. Si era già rassegnata a starsene da sola, visto che lui non era in un momento disponibile, ma anche quel conforto le è stato negato. Quando riprende a parlare, la domanda le esce in fretta, come a scongiurare l’eventuale intervento di lui. - Perché hai cancellato i messaggi? L’ha spiazzato. - Come mai me lo chiedi? - Per sapere. Trenta messaggi potevano essere una prova di molestie da portare alla polizia. - Alla polizia non sono... - D’accordo. Io almeno potevo ascoltarli. Avresti avuto una prova per me -. Si alza in piedi nella vasca e afferra un asciugamano per coprirsi. Il movimento brusco le fa girare la testa. E se ci fosse qualcosa che non va al cuore? Intanto si è alzato anche Joe. - Sapevo che ci saremmo arrivati. Non mi credi. - Non so che cosa pensare -. Si asciuga sfregandosi con inconsueto vigore. Quello che so è che arrivo a casa dopo la mia giornata pesante e finisco dritta dentro la tua. 77
-«Giornata pesante»: ti pare che ti stia semplicemente parlando di una giornata pesante? Ora sono tornati tutti e due in camera da letto. Clarissa si sta già chiedendo se forse non ha esagerato. D’altra parte, le è toccato uscire prima dalla vasca, adesso cerca la biancheria e intanto il dolore alle reni aumenta. È raro che litighino, lei e Joe. Soprattutto Clarissa non è capace. Non è mai riuscita ad accettare le regole del combattimento che ti consentono o ti impongono di dire cose che non pensi, o che sono verità distorte, quando non autentiche falsità. Non può impedirsi di ritenere che ogni parola ostile non fa che allontanarla non solo da Joe, ma da tutto l’amore che ha dentro, come se finalmente, a rappresentarla, affiorasse una cattiveria sepolta da tempo. Il problema di Joe è diverso. Le sue emozioni faticano a girare in rabbia e, anche quando succede, gli manca l’intelligenza adatta, perciò dimentica la battuta e non manda a segno il colpo. E neppure è capace di rinunciare all’abitudine di replicare a un’accusa con affermazioni logiche e dettagliate, anziché far ricorso alla controaccusa. Non è difficile spiazzarlo con una improvvisa sciocchezza. In quel caso l’irritazione gli ottunde la comprensione delle sue stesse parole ed è solo più tardi, a calma ormai recuperata, che il filo dei suoi pensieri
torna
a
snodarsi
in
una
lucida
arringa.
Con
Clarissa
poi
è
particolarmente imbarazzante mostrarsi decisi, perché basta niente a ferirla. La collera verbale le segna la faccia come un marchio. Adesso però sembrano lanciati in un gioco di ruoli che non possono più fermare e aleggia nell’aria una terribile libertà. - Quel tizio è ridicolo, - continua Joe. - È solo un fissato -. Clarissa sta per replicare, ma lui glielo impedisce con un gesto della mano. - Non riesco proprio a farti prendere la faccenda sul serio. Il tuo unico pensiero è che non ti massaggio i piedini santi, dopo la tua faticosissima giornata -. Il riferimento a un recente momento di tenerezza sconvolge Joe non meno di Clarissa. Non gli era affatto spiaciuto farlo, anzi. Clarissa scuote la testa, ma si costringe a non perdere il filo di quanto intendeva dire. - Hai parlato di lui con tale veemenza sin dall’inizio. Si direbbe che lo stai inventando. - Ma certo! Ora ho capito. Me lo sono procurato io. Io, l’artefice unico del mio destino. È il mio karma. Ero convinto che persino tu fossi al di sopra di queste stronzate new age. 78
Il «persino» è uscito da solo, come un puro espediente ritmico, un pizzico di enfasi non calcolata. Clarissa non ha mai manifestato il minimo interesse per le stronzate new age. Perciò lo guarda, sorpresa. L’insulto disinibisce anche lei. Faresti meglio a chiederti chi è il vero fissato -. L’allusione all’ipotesi che sia lui ossessionato da Parry gli sembra talmente mostruosa che Joe non riesce a dir altro che: - Cristo! - Un’energia scriteriata gli impone di attraversare la stanza fino a raggiungere la finestra. Non c’è nessuno là fuori. Tutta quella collera in circolazione la fa sentire a disagio, più vulnerabile, così mezza nuda, perciò Clarissa approfitta del movimento causato dal suo commento per sfilare una gonna dall’attaccapanni. Altre due grucce cadono a terra, ma lei non si china a raccoglierle come farebbe di solito. Joe inspira profondamente e gira le spalle alla finestra, prima di espirare. Ostenta una ferma volontà di recuperare la calma, di ricominciare tutto da capo in modo ragionevole, da uomo pacato che si rifiuta di lasciarsi trascinare a parole forti. Parla sottovoce, in un sussurro di esagerata lentezza. Dove si imparano questi trucchi? Ce li abbiamo dentro, come il resto del nostro repertorio emotivo? O li prendiamo dal cinema? Dice: - Senti, c’è un problema, - e indica fuori dalla finestra, - e non chiedevo altro che un po’ di sostegno e di aiuto. Ma Clarissa non sente ragioni. La voce roca, la tensione su quel «chiedevo» le sanno di autocommiserazione e rimprovero, e la fanno arrabbiare. Non può aver bisogno di ricordargli che il sostegno e l’aiuto da parte sua non sono mai mancati. Al contrario, cambia l’approccio, si inventa l’offesa di un gesto mentale già superato. - La prima volta che ha chiamato per dirti che ti amava, tu mi hai mentito. L’hai detto tu. Joe è talmente stupefatto da riuscire soltanto a fissarla e, mentre la bocca si sforza di pronunciare una parola qualsiasi, Clarissa, inesperta com’è in questo genere di schermaglie, prova la piccola fitta di gioia che facilmente si confonde con la vendetta. Il quel momento è sinceramente convinta di essere stata tradita e perciò si sente autorizzata ad aggiungere: - Che cosa dovrei pensare, secondo te? Se me lo dici, poi vediamo insieme di che tipo di sostegno e aiuto hai bisogno Lo dice infilando i piedi nelle pantofole. Joe sta recuperando la voce. Ha così tante proteste simultanee da rivolgerle da averne annebbiata la mente. - Aspetta un attimo. Stai davvero insinuando...
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Consapevole del fatto che le sue parole potrebbero non essere in grado di sostenere una discussione, cerca di uscirne finché ha la meglio, e lascia la stanza godendosi il delizioso piacere di chi abbia subito un torto. - Be’, vaffanculo allora, - grida Joe alla sua sagoma già di spalle. Sente che avrebbe voglia di sollevare lo sgabello della toeletta e di scagliarlo fuori dalla finestra. E lui quello che dovrebbe andarsene, se mai. Dopo qualche secondo di esitazione, si precipita fuori della camera, scende le scale pestando i piedi, supera Clarissa nell’ingresso, afferra il soprabito dal suo appendino ed esce sbattendo forte la porta, lieto di saperla abbastanza vicina da poter registrare tutta la violenza del gesto. Quando si ritrova in strada è sorpreso di quanto faccia già buio. Sta anche piovendo. Si stringe addosso il soprabito legando la cintura alla vita e, quando vede Parry che lo aspetta in fondo al vialetto di cotto, non cambia nemmeno il ritmo del passo.
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Capitolo decimo
La mia impressione fu che la pioggia aumentasse l’attimo stesso in cui misi piede fuori di casa, ma non avevo certo intenzione di rientrare per prendermi un cappello o un ombrello. Ignorai Parry e assunsi un passo di marcia talmente furioso che quando raggiunsi l’angolo e mi voltai a guardare, l’avevo distanziato di una cinquantina di metri. Avevo i capelli fradici e l’acqua era già passata attraverso la suola della mia scarpa destra che aveva una scucitura trascurata da tempo.
La
collera
si
manifestava
in
un
ardore
freddo
e
puerilmente
indiscriminato. Era Parry l’ovvio responsabile, colpevole di essersi intromesso tra Clarissa e me, ma la mia furia si distribuiva su entrambi: se il tormento era lui, lei comunque non aveva saputo difendermene. Ce l’avevo con tutto e con tutti, specie con quella pioggia battente e con il fatto che non avevo idea di dove stessi andando. Ma c’era anche dell’altro, una sorta di buccia, un guscio molle ravvolto intorno alla polpa della mia ira e in grado di contenerla, facendola apparire ancor più grottesca. Era l’avanzo di un ricordo, un dettaglio, una vaga associazione mentale che risaliva a letture passate, irrilevante nel contesto di allora, ma che pure era andata a prendere posto nella mia mente come il frammento di un duraturo sogno infantile. Adesso invece c’entrava, pensai, e poteva essermi d’aiuto. La parola chiave era «tenda»: la immaginavo scritta di mio pugno e, come la pioggia che mi bagnava le ciglia rifrangeva le luci della strada, così anche quella parola si frammentava producendo schegge di richiami mentali depositati ai margini della memoria. Nella riproduzione sbavata di una foto in bianco e nero su un vecchio giornale, vedevo in lontananza un edificio imponente, protetto da una cancellata alta e da una presenza militare, tipo guardie di sicurezza, o sentinelle. Ma se era questa la casa che ospitava la tenda carica di significato, la costruzione di per sé non mi diceva nulla. Proseguii, superando case reali, immense ville illuminate che si ergevano oltre gli alti cancelli elettrici al di là dei quali intravedevo automobili parcheggiate male. Ero di un umore tale da riuscire tranquillamente a scordare il nostro 81
appartamento da mezzo milione di sterline per abbandonarmi a fantasticherie nelle quali ero solo un povero squattrinato a spasso sotto la pioggia tra le case dei ricchi. Certa gente ha proprio tutte le fortune; io invece mi ero lasciato scappare le poche occasioni della vita, e così non ero niente e adesso non c’era un cane di nessuno che si prendesse a cuore il mio caso. Era dai tempi dell’adolescenza che non me la raccontavo più in quel modo, e la scoperta di riuscirci ancora mi procurò quasi lo stesso piacere di un miglio corso in cinque netti. Poi però, ripensando alla parola «tenda», la trovai vuota di ogni ombra di associazione e, mentre rallentavo il passo, riflettei che il cervello è davvero un oggetto dalla filigrana così delicata che qualsiasi falso mutamento nello stato emotivo è in grado di trasformare la condizione di altri milioni di circuiti inconsci. Sentii il mio persecutore incalzare alle spalle appena l’attimo prima di udirgli pronunciare il mio nome in un suono a metà tra il grido e lo jodel. Poi lo ripeté. Joe! Joe! - Mi resi conto che singhiozzava. - Sei stato tu. Hai incominciato tu, tu hai fatto succedere questo. E adesso non fai che prendermi in giro, e mentire... -. Non riuscì a completare la frase. Ripresi velocità; stavo quasi correndo quando attraversai la via successiva. Le sue grida tremavano al ritmo stonato dei passi. Ero nauseato e avevo paura. Raggiunsi il marciapiede opposto e guardai indietro. Mi aveva seguito e adesso si trovava intrappolato in mezzo alla strada, in attesa che si aprisse un varco nel traffico. La probabilità che si facesse schiacciare da un auto in corsa era minima, ma ci sperai lo stesso, con un desiderio intenso e feroce del quale né mi sorpresi né mi vergognai. Quando vide la mia faccia finalmente voltata nella sua direzione, mi urlò una raffica di domande: - Quando ti deciderai a lasciarmi in pace? Sono tuo. Non posso più farci niente. Perché non vuoi ammettere quello che fai? Perché continui a fingere di non sapere di cosa parlo? E poi quei segnali, Joe. Perché non la smetti? Ancora intrappolata tra le auto, la sua figura, come le parole, veniva a tratti cancellata dal passaggio del traffico, ma la voce si levò in un grido talmente rauco che non potei allontanare lo sguardo. Avrei dovuto correre via: era la grande occasione per seminarlo. Ma la sua collera mi incatenava costringendomi a fissarlo stupefatto, senza mai del tutto perdere la speranza salvifica che un autobus potesse stritolarlo sotto le ruote mentre, a poca distanza da me, continuava a maledirmi implorante. 82
Pronunciava quelle parole con voce stridula, modulata su una nota sempre più acuta, come se un derelitto volatile dello zoo avesse assunto sembianze pressoché umane. - Cosa vuoi? Mi ami e mi vuoi distruggere. Fingi che non stia succedendo. Che non succeda niente! Stronzo! Ti diverti... mi stai torturando... continui a chiamarmi coi tuoi segnali segreti del cazzo. Io lo so cosa vuoi, stronzo! Stronzo! Credi che non lo sappia? Tu vuoi allontanarmi da... - Mi persi il seguito a causa di un camion di traslochi grande come una casa. - ... e credi di potermi allontanare da lui. Ma sarai tu a venire da me. Alla fine. Verrai verso di lui, perché non potrai farne a meno. Stronzo, implorerai pietà, ti butterai per terra e striscerai... A quel punto i singhiozzi lo vinsero. Fece un passo verso di me, ma l’improvvisa accelerata di un’auto in mezzo alla strada lo fece balzare indietro mentre il chiasso del clacson pestato con rabbia si allontanava coprendo i singulti. Ci fu un attimo mentre gridava in cui ebbi quasi compassione di lui, a dispetto di tutta la mia ostilità e repulsione. Ma compassione non è forse il termine adatto. A vederlo bloccato là in mezzo, delirante, provai il sollievo di non essere al posto suo, lo stesso che provo quando vedo un ubriaco o uno psicopatico dirigere il traffico. Pensai anche che la sua condizione era talmente estrema, la sua visione della realtà talmente distorta da diventare innocue. Aveva bisogno di aiuto, anche se non da me. Il pensiero correva parallelo al desiderio astratto di vedere quel fastidio spalmato sull’asfalto senza colpa di nessuno. Una terza corrente di pensiero e sensazione mi raggiunse la mente mentre lo ascoltavo. A suscitarla era stata una parola che Parry aveva utilizzato due volte: segnale. In entrambi i casi quel termine aveva fatto sommuovere la tenda che mi aveva turbato poco prima, finché le due parole non si accoppiarono per dare corpo a un costrutto sintattico elementare: una tenda usata come segnale. Mi stavo avvicinando. Ce l’avevo quasi fatta. Un edificio imponente, una celebre residenza londinese, e le tende alle finestre usate come segnale per comunicare... La lotta con quelle vaghe associazioni riportò alla mente le tende del mio studio, e infine lo studio stesso. Non per la sua calda accoglienza, per il bagliore dei paralumi di pergamena sui rossi e gli azzurri del tappeto bokhara, o per i toni subacquei del mio falso Chagall (Le Poète Allongé - 1915), ma piuttosto per i cinque scaffali a tutta parete pieni di schedari, vecchissimi dossier stracolmi di ritagli e, sul lato opposto, accanto alla finestra esposta a sud, per il piccolo 83
grattacielo di un computer nel cui hard disc tre gigabites di dati erano in attesa di soccorrermi nell’impresa di lanciare un ponte che unisse quella residenza londinese alle due parole chiave. Pensai a Clarissa con una fitta improvvisa di amore sereno, e mi parve facilissimo riconciliarmi con lei dopo il litigio, non perché mi fossi comportato male o perché avessi torto, ma al contrario perché era ovvio, innegabile che nel giusto ero io e che lei semplicemente si sbagliava. Dovevo tornare. Pioveva ancora, ma meno forte di prima. Il semaforo duecento metri più in là aveva cambiato colore e, dalla disposizione del traffico, mi resi conto che Parry avrebbe presto avuto modo di attraversare. Perciò lo lasciai lì dov’era, a piangere con
le
mani sulla faccia. Probabilmente nemmeno
mi vide voltarmi e
incamminarmi a leggero passo di corsa per una stradina privata. Del resto, se anche a dispetto della disperazione, avesse trovato la forza di rincorrermi, sarei riuscito a svoltare al primo isolato e a seminarlo in capo a un minuto.
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Capitolo undicesimo
Caro Joe, sento la gioia attraversarmi il corpo come una corrente elettrica. Chiudo gli occhi e ti rivedo com’eri ieri sera sotto la pioggia, sul lato opposto della via, con il tacito amore che ci unisce forte come un cavo d’acciaio. Chiudo gli occhi e ringrazio Dio ad alta voce per avermi concesso di esistere nello stesso tempo e luogo in cui vivi tu, e per aver permesso il verificarsi di questa strana avventura tra noi. Lo ringrazio per ogni piccola cosa che riguardi noi due. Questa mattina mi sono svegliato e sul muro accanto al mio letto c’era un disco perfetto di luce e allora L’ho ringraziato per aver fatto scendere su di te la luce dello stesso sole! Proprio come la pioggia di ieri sera che bagnava te, e bagnava anche me, e ci univa. Innalzo lode a Dio per averti mandato da me. So che ci aspettano difficoltà e sofferenza, ma c’è sempre una buona ragione se Lui decide di metterci su un arduo sentiero. Le Sue ragioni! Che ci mettono alla prova e ci rafforzano e, con il tempo, finiranno per condurci a una felicità ancora più grande. So di doverti delle scuse e l’espressione mi pare anche troppo lieve. Mi rimetto a te, nudo, disarmato, alla mercé della tua misericordia, e imploro il tuo perdono. Perché tu hai saputo del nostro amore sin dal principio. Hai riconosciuto nello sguardo fugace tra noi, là sulla collina, dopo che lui era caduto, tutta la carica e la forza e la felicità dell’amore, mentre io sono stato stupido e ottuso e l’ho negato, nel tentativo di proteggermi, cercando di fingere che non stesse accadendo, che non potesse accadere così, e ho ignorato quello che tu mi dicevi con gli occhi e con ogni tuo gesto. Ho pensato che bastasse seguirti giù per la collina e proporti di pregare insieme. Avevi ragione ad essere in collera con me per non aver visto quello che già ti era chiaro. Era talmente ovvio. Perché mi sono rifiutato di riconoscerlo? Devi avermi giudicato così insensibile, un tale idiota! Hai fatto bene ad andartene. Anche adesso, se ripenso al momento in cui mi hai girato le spalle e ti sei incamminato su per la collina, se rivedo la tua schiena un po’ curva, il passo pesante, carico di rifiuto, vorrei urlare per come mi sono comportato. Che imbecille! Avrei potuto sciupare tutto. Joe, in nome di Dio, perdonami. 85
Adesso per lo meno sai che anche io ho sentito la stessa cosa. E tu, costretto come sei dalla tua situazione e dalla sensibilità che dimostri nei riguardi dei sentimenti di Clarissa, mi hai accolto in modi che nessun occhio, nessun orecchio invadente saprebbe riconoscere, con mezzi che io soltanto posso comprendere. Sapevi che non avevo scelta: ti avrei raggiunto. E mi aspettavi. Ecco perché ho dovuto telefonarti a quell’ora l’altra notte, appena ho capito che cosa mi avevi detto con gli occhi. Quando hai alzato il telefono ho sentito il sollievo nella tua voce. Hai accolto il messaggio in silenzio, ma non credere che mi sia sfuggita la tua gratitudine. Dopo aver riagganciato, ho pianto di gioia, e ho immaginato che stessi facendo altrettanto anche tu. La vita finalmente poteva incominciare. Tutta l’attesa e la desolata solitudine e la preghiera avevano dato i loro frutti, perciò sono caduto in ginocchio e ho ringraziato, senza mai smettere fino all’alba. Hai dormito tu quella notte? Non credo. Sei rimasto sveglio nel buio ad ascoltare il respiro di Clarissa e a chiederti dove ci avrebbe condotti tutto questo. Joe, hai davvero messo in moto una grande cosa ormai! Abbiamo così tanto da dirci, dobbiamo rifarci di tutto il tempo perduto. L’esplorazione del fondale oceanico ha avuto inizio, ma la superficie rimane intatta. Quel che sto cercando di dire è che tu mi hai visto l’anima (ne sono certo), e sai come scandagliare i miei abissi, ma sai poco o niente dei dettagli della vita di tutti i giorni: come vivo, dove abito, il mio passato, la mia storia. Si tratta solo del rivestimento esterno, lo so, ma il nostro amore deve comprendere tutto. Io so già un mucchio di cose di te. Ne ho fatto una professione, la mia missione. Tu mi hai trascinato dentro la tua esistenza esigendo che la comprendessi. Il fatto è che non sono capace di dirti di no. Se dovessi mai superare un esame su di te, ne uscirei promosso a pieni voti, non potrei fare nemmeno il più piccolo errore. Saresti così fiero di me! Allora, veniamo al mio rivestimento esterno. So che un giorno, tra breve, tu sarai qui con me. La casa è stupenda, un po’ arretrata in una piega di Frognal Lane, circondata da prati, con un cortile privato in centro che nessuno riesce a vedere nemmeno se passa il cancello (non lo fa quasi mai anima viva, tranne il postino) e raggiunge la porta d’ingresso. È la versione in miniatura di una dimora francese di qualche pretesa. Ha persino le persiane verdi sbiadite e un galletto segnavento sul tetto. Apparteneva a mia madre che è morta di cancro quattro 86
anni fa, e che l’aveva a sua volta ereditata dalla sorella, la quale l’aveva avuta in seguito a una causa di divorzio conclusasi poche settimane prima della sua morte per incidente stradale. Ti racconto tutto questo, perché non voglio che tu ti faccia un’opinione sbagliata della mia famiglia. Il matrimonio di mia zia era un inferno; quell’imbroglione di suo marito aveva fatto i soldi con il boom edilizio, ma il resto dei miei parenti si è sempre guadagnato da vivere lavorando onestamente. Mio padre è morto quando avevo otto anni. Ho una sorella maggiore in Australia, ma non siamo riusciti a rintracciarla alla morte di mia madre e, per ragioni a me ignote, il testamento non la nominava. Ho una schiera di cugini che non vedo mai e, per quanto ne so, sono l’unico membro della famiglia ad aver proseguito gli studi oltre i sedici anni di età. Dunque, eccomi qui, sovrano di questo castello che Iddio ha voluto concedermi per uno scopo che esula dalla mia conoscenza. Sento la tua presenza dappertutto. Non credo che ti chiamerò ancora. È imbarazzante per via di Clarissa, e poi scriverti mi fa sentire più vicino a te. Ti immagino seduto qui accanto a me, a guardare quello che vedo anch’io. Ti scrivo su un tavolino di legno sistemato su una terrazza coperta che, dallo studio, si affaccia sul nostro cortile interno. La pioggia cade sui due ciliegi in fiore. Uno dei rami è cresciuto in mezzo alla ringhiera, perciò sono abbastanza vicino da vedere le gocce di pioggia che formano piccole perle ovali sul rosa pallido dei fiori. L’amore mi ha dato occhi nuovi, vedo con una tale chiarezza, fin nei dettagli. Distinguo le venature nel legno dei vecchi pali, ogni singolo filo d’erba nel prato bagnato, le zampette nere e sottili della coccinella che mi faceva il solletico sulla mano un attimo fa. Ho voglia di toccare e di accarezzare tutto quello che vedo. Mi sono svegliato, finalmente. Mi sento talmente vivo, talmente pronto per l’amore. A proposito di erba bagnata. Ieri sera quando sei uscito di casa e hai sfiorato con la mano la siepe, io tutto subito non avevo capito. Ho percorso il vialetto e ho teso a mia volta la mano toccando le foglie dopo di te. Le ho accarezzate una per una e mi ha sconvolto scoprire che erano diverse da quelle che tu non avevi toccato. C’era una specie di calore che mi bruciava le dita al contatto con quelle foglie bagnate. Poi finalmente ho capito. Le avevi toccate in un modo speciale, secondo un disegno che formulava un semplice messaggio. Potevi forse pensare che non lo capissi? Joe! Ma era così chiaro, così intelligente, talmente affettuoso! Che modo meraviglioso di sentir parlare d’amore, attraverso la pioggia e le foglie e la pelle, seguendo il disegno nascosto nella confusa matassa del creato, che Dio 87
dispiegava nella ruvida sensualità del nostro tatto. Avrei potuto rimanere lì per un’ora estasiato, solo che non volevo restare indietro. Volevo sapere dove mi stavi portando sotto la pioggia. Ma permettimi di ritornare alla superficie oceanica. Fino a qualche tempo fa insegnavo inglese a studenti stranieri in una scuola vicino a Leicester Square. Il lavoro non era male, ma non sono mai riuscito a integrarmi con gli altri insegnanti. Aleggiava una diffusa mancanza di serietà che mi dava sui nervi. Credo che mi criticassero tutti per via delle mie tendenze religiose, non troppo di moda di questi tempi! Appena entrato in possesso di casa e denaro, ho lasciato il lavoro e mi sono trasferito. Pensavo a me stesso come a un uomo in ritiro, in attesa. Ho sempre saputo con una certa chiarezza che questo posto meraviglioso era diventato mio per uno scopo preciso. Nel giro di una settimana ero passato da una misera camera e cucina in Amos Grove, a questo piccolo maniero a Hampstead accompagnato da una discreta fortuna in banca. Doveva pur esserci un piano in tutto questo, e il mio dovere, pensai (e il tempo mi ha dato ragione) era quello di prestare un’attenzione paziente al silenzio, di mostrarmi pronto. Pregavo, meditavo, e ogni tanto facevo lunghe passeggiate in campagna, e sapevo che prima o poi, il Suo disegno si sarebbe manifestato. Era mia responsabilità mantenermi in ascolto assoluto, preparato ad accogliere il primo segnale. E guarda: a dispetto di tanta preparazione, quando il segnale è arrivato, io non l’ho colto! Avrei dovuto saperlo da quando i nostri sguardi si sono incrociati, là sulla collina. Eppure, solo al ritorno quella sera, nel silenzio e nella solitudine di questa casa ho incominciato a capire, e allora ti ho chiamato... Ma così non faccio che ripetermi! La mia casa ti aspetta, Joe. La biblioteca, la sala del biliardo, il salotto con il bellissimo camino e gli immensi divani. Abbiamo addirittura una sala da cinema in miniatura, (video, s’intende) e una palestra con sauna. Incontreremo degli ostacoli sul nostro cammino, ovviamente. Alti come catene montuose! Il più grande di tutti è il tuo rifiuto di Dio. Ma io ho capito benissimo, e tu lo sai. Credo anzi che ci sia dietro tutto un tuo piano. Come un gioco a metà tra il tormento e la seduzione che ti piace giocare con me. Stai cercando di sondare i limiti della mia fede. Ti terrorizza il fatto che io possa comprenderti così facilmente? Spero che ti esalti, come accade a me quando mi sento guidato per mano dai tuoi messaggi, quelle comunicazioni in codice che vanno a scriversi direttamente nella 88
mia anima. So bene che ti avvicinerai a Dio, come tu sai che il mio compito è portarti da lui, attraverso l’amore. Oppure, per dirla in altri termini, io sanerò il tuo dissidio con Dio grazie al potere salvifico dell’amore. Joe, Joe, Joe... Lo confesso, ho riempito cinque fogli di carta col tuo nome. Puoi anche ridere di me, ma fallo con delicatezza. Puoi essere crudele con me, ma non troppo. Al di là del nostro gioco si dispiega un disegno che né tu né io abbiamo il diritto di discutere. Tutto ciò che insieme facciamo, tutto ciò che siamo è nelle mani di Dio, e il nostro amore trae vita, forma e significato dal Suo amore. Dobbiamo parlare di tante cose, esaminare un’infinità di dettagli. La questione di Clarissa ad esempio resta ancora tutta da risolvere. Credo che spetti a te prendere una decisione in tal senso e farmi sapere come ritieni sia meglio agire. Vuoi che le parli io? Sarei lieto di farlo. Non lieto, cioè, ma disposto a occuparmene. O preferisci che ci incontriamo tutti e tre e ne discutiamo a fondo? Sono certo che esista un modo per rendere la cosa assai meno dolorosa per lei. Ma tocca a te muoverti come credi e io aspetterò di conoscere le tue intenzioni. Mentre scrivevo, ho sentito la tua presenza proprio qui accanto al mio braccio. Non piove più, gli uccelli hanno ripreso a cantare e l’aria è ancora più luminosa. Chiudere questa lettera mi sembra un addio. Ogni volta che mi separo di te, non posso fare a meno di pensare che ti sto abbandonando. Non dimenticherò mai quel momento al fondo della collina, il modo in cui ti allontanasti da me, come respinto, avvilito dal mio rifiuto di riconoscere la prima manifestazione del nostro amore. Non cesserò mai di chiederti scusa. Joe, credi che potrai perdonarmi? Jed
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Capitolo dodicesimo
La mia sensazione di fallimento come scienziato, l’impressione di essere un inutile parassita, non mi abbandonarono. Non l’avevano mai fatto, in realtà. Può anche darsi che la vecchia inquietudine riaffiorasse più forte in seguito alla morte di Logan, o al problema con Parry, o alla comparsa di una lontananza improvvisa tra Clarissa e me. Di certo, starmene seduto nel mio studio a pensare non mi avrebbe portato a scoprire le ragioni del mio disagio, né a escogitare una soluzione. Vent’anni fa, avrei potuto ricorrere alle prestazioni di un professionista dell’ascolto, ma a un certo punto della vita avevo smesso di credere nella terapia della parola. La vedevo ormai come una forma elegante di imbroglio. Negli ultimi tempi, preferivo fare un giro in macchina. Un paio di giorni dopo l’arrivo della lettera di Parry, della sua prima lettera intendo, mi recai a Oxford per far visita a Jean, la vedova di Logan. Quella mattina il traffico in autostrada era inspiegabilmente scorrevole, il cielo grigio diffondeva una buona luce e viaggiavo con il favore di un bel vento teso. Nel lungo tratto pianeggiante che precede la discesa, rischiai quasi di raddoppiare il limite di velocità consentito. La forte spinta a viaggiare, l’esigenza di mantenere una parte dell’attenzione in stato di allerta sullo specchietto retrovisore (per individuare l’auto della polizia, o quella di Parry) e la generica necessità di concentrarmi, avevano su di me un effetto calmante e mi garantivano l’illusione di una catarsi. Quando incominciai a scendere lungo il pendio calcareo, a circa tre miglia dal luogo dell’incidente, la piana di Oxford si spalancò dinanzi a me come un paese straniero. Il dolore verso il quale mi dirigevo era confinato tra le mura di una grande casa Vittoriana, sprofondata nella verdeggiante foschia della pianura, a venti chilometri di strada. Rallentai fino ai novanta all’ora e mi concessi qualche minuto di riflessione. La ricerca a tappeto del binomio tenda/segnale condotta sul computer non aveva dato esiti positivi. Avevo anche frugato a caso tra i ritagli di qualche dossier, ma non possedendo un’idea guida, avevo rinunciato in capo a un’ora. Da qualche parte avevo letto di una tenda usata come segnale e il racconto doveva 90
legarsi in qualche modo a Parry. Pensai che la decisione più efficace fosse quella di smettere di occuparmene attivamente e sperare nel verificarsi di associazioni più significative, magari nel sonno. Non che avessi avuto miglior fortuna con Clarissa. Sì certo, parlavamo, eravamo gentili, avevamo persino fatto l’amore, brevemente, un mattino prima di andare a lavorare. A colazione avevo letto la lettera di Parry, e poi gliel’avevo passata. A quanto pare pensava anche lei che si trattasse di un folle e conveniva con me che c’era motivo di sentirsi molestati. Dico «a quanto pare» perché Clarissa non si mostrò mai del tutto convinta e, se anche finì col darmi ragione - come credo che fece - non riconobbe mai di aver avuto torto. Mi pareva che volesse mantenere la questione aperta, anche se, quando glielo chiesi, negò. La lettera la lesse senza distendere mai la fronte, e interrompendosi a un certo punto per dirmi: - Scrive un po’ come te. Poi mi chiese che cosa avessi detto io a Parry, di preciso. - Gli ho detto di levarsi dai coglioni, - replicai, forse con eccessivo calore. E, alla sua seconda richiesta in tal senso, alzai la voce per l’esasperazione: - Ma l’hai letta quella storia del messaggio sulla siepe? È matto, lo capisci o no? - Certo, - fece lei calma, e prosegui la lettura. Immaginavo di sapere cosa la infastidiva. Era la sapiente maestria con la quale Parry alludeva a un passato, a un patto, una complicità, una vita segreta fatta di sguardi e di gesti, mentre io sembravo negare ogni cosa con la veemenza che avrei mostrato se fosse stato tutto vero. Perché prendermela tanto, se non avevo niente da nascondere? Quel passaggio della penultima pagina riguardo alla «questione di Clarissa ancora tutta da risolvere» l’aveva fatta fermare a guardarmi, ma di traverso e con un lungo sospiro. Aveva messo giù il foglio e si era massaggiata la fronte con la punta delle dita. Non che credesse a Parry, mi dicevo; solo che quella lettera palpitava di tanta certezza, conteneva un tal flusso di emozioni sincere, giacché era evidente che Parry quei sentimenti li aveva provati - che non poteva non suscitare determinate reazioni di tipo automatico. Anche un film di infima qualità è in grado di farci piangere. Erano in gioco forti impulsi emotivi che eludevano la censura di processi logici più raffinati e ci costringevano a recitare, per quanto simbolicamente, i nostri ruoli: io, quello dell’amante segreto indignato in seguito allo smascheramento; e Clarissa, quello della donna crudelmente tradita. Ma quando provai a formulare un pensiero di questo tipo, lei scosse la testa
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sconsolata come se non potesse capacitarsi della mia stupidità. Le ultime righe della lettera le scorse appena. Quando si alzò all’improvviso, le chiesi: - Dove vai? - Devo preparami, devo andare a lavorare -. Uscì in fretta dalla stanza e a me sembrò che ci fossimo negati il conforto di una conclusione. Ci sarebbe voluto un momento di recupero, una reciproca rassicurazione, avremmo dovuto rimanere fianco a fianco, sostenerci, proteggerci da questa minaccia di violazione della nostra intimità. E invece sembrava che la violazione fosse già avvenuta. Stavo per dirglielo, quando lei tornò indietro, e questa volta era allegra e mi baciò sulla bocca. Ci abbracciammo in cucina per un lungo momento dicendoci cose affettuose. Eravamo di nuovo insieme, non occorreva che dicessi la mia battuta. Poi lei si liberò dall’abbraccio, prese il cappotto e uscì. Pensai che tra noi rimaneva un dissenso non formulato, anche se non avrei saputo definirlo. Mi attardai in cucina a sparecchiare, finii il caffè, e raccolsi le pagine sparse della lettera: fogli piccoli di carta azzurrina che per qualche ragione associavo al semianalfabetismo. La bella disinvoltura mantenuta per anni senza sforzi tra noi, improvvisamente mi apparve come un elaborato costrutto, un artificio di raffinati equilibri, delicato come il meccanismo di un orologio antico. Ci stava sfuggendo il trucco per farlo funzionare, almeno senza concentrarci molto. Tutte le volte che avevo parlato con Clarissa negli ultimi tempi, l’avevo fatto con la consapevolezza delle possibili conseguenze delle mie parole. Le stavo forse dando l’impressione di essere segretamente lusingato dalle attenzioni di Parry, o di essere io stesso a stuzzicarlo seppure a livello inconscio, e di provare, senza ammetterlo, una certa soddisfazione a causa del potere che esercitavo su di lui, se non addirittura magari lei lo pensava - su di lei? L’assenza di spontaneità è la rovina delle gioie del sesso. A letto, non più tardi di un’ora e mezzo prima, non eravamo stati del tutto convincenti, come se sulle nostre membrane mucose si fosse depositata una polvere sottile, un renischio, o il suo equivalente mentale, ma tangibile come sabbia vera. Seduto in cucina, dopo che Clarissa era uscita, rievocai una fosca sequenza di sintomi che sfumavano dallo psichico al somatico: cattivi pensieri, scarsa eccitazione, lubrificazione minima, e infine dolore. Di quali pensieri tristi si trattava? Uno era il sospetto che in quelle regioni del sentimento che sfidano le responsabilità della logica, Clarissa incolpasse me 92
dell’esistenza di Parry. Lui rappresentava il tipo di spettro che soltanto io potevo aver evocato, lo spirito del mio temperamento incompleto, turbato, o di ciò che lei affettuosamente definiva la mia innocenza. Ero stato io a portare Parry tra noi e a farlo restare adesso, anche mentre lo disconoscevo. Clarissa mi diede torto e definì ridicoli questi pensieri, ma non aggiunse altro riguardo alla propria posizione in proposito. Aveva parlato del mio atteggiamento quella mattina, mentre ci vestivamo. Mi vedeva agitato, disse. Mi stavo infilando le scarpe, e non la interruppi. Disse che non sopportava di vedermi ricadere nella vecchia ossessione di «tornare a occuparmi di scienza», quando avevo un’attività professionale tanto soddisfacente e svolgevo il mio lavoro così bene. Lei si sforzava di aiutarmi, ma nel giro di un paio di giorni ero diventato talmente maniacale, talmente assorbito dall’ansia di questo Parry, talmente... E qui si era fermata per rintracciare la parola. Stava in piedi nel vano della porta, intenta ad agganciarsi in vita una gonna di seta a pieghe. Alla luce del mattino, la pelle chiarissima faceva risaltare ancora di più il verde degli occhi. Com’era bella. Sembrava irraggiungibile, un’impressione che fu intensificata dalla parola che scelse: talmente solo, Joe. Sei così solo in questa storia, anche quando me ne parli, sento che mi escludi. C’è qualcosa che non dici. Non mi parli col cuore. Mi limitai a guardarla. I casi erano due: o le avevo sempre parlato col cuore, o non l’avevo fatto mai, e comunque, non sapevo che cosa significasse. Ma non era questo che stavo pensando. Il pensiero che mi girava in testa era lo stesso di quando l’avevo conosciuta: come aveva fatto un babbeo grosso e insignificante come me a conquistare quella pallida bellezza? Ed ecco affacciarsi un altro pensiero cattivo: che lei incominciasse a pensare di aver fatto un pessimo affare? Clarissa era sul punto di lasciare la stanza per scendere di sotto, dove, a nostra insaputa, ci aspettava la lettera di Parry. Fraintese la mia espressione. In tono di supplica, più che di rimprovero, disse: - Per esempio, il modo in cui mi guardi in questo momento. Ti fai dei calcoli del quali io non saprò mai niente. Tieni aggiornato il tuo registro della partita doppia che ritieni lo strumento migliore per arrivare alla verità. Ma non ti accorgi che ti chiudi? Sapevo che non l’avrei convinta rispondendo: - Stavo solo pensando che sei tanto bella e che non ti merito -. Tale consapevolezza mi fece pensare, mentre mi alzavo, che forse era lei a non meritare me. Ecco fatto. Bilancio ottenuto. Partita doppia. Aveva ragione lei, e doppiamente, dal momento che non avevo detto una 93
parola e perciò non lo avrebbe mai saputo. Le sorrisi e dissi: - Parliamone mentre facciamo colazione -. Invece parlammo della lettera di Parry, e non lo facemmo bene. Dopo che se ne fu andata, dopo che ebbi sparecchiato, rimasi seduto in cucina con il mio caffè tiepido, a infilare le pagine di Parry nella loro busta troppo stretta, come se volessi limitare il contagio del virus che stava infestando casa nostra. Altri cattivi pensieri: più che altro una fantasticheria, ma non potei trattenerla. Pensai che Clarissa usasse Parry come un pretesto. Dopo tutto aveva reagito in modo molto strano. Sembrava che volesse aggravare le difficoltà coinvolgendomi nei gesti di Parry. Quale poteva essere il motivo? Che stesse incominciando a pentirsi di vivere con me? Che avesse incontrato qualcuno? Se aveva intenzione di lasciarmi, credere che ci fosse qualcosa tra me e Parry poteva farle comodo. Aveva davvero incontrato qualcuno? Sul lavoro? Un collega? Uno studente? Che si trattasse di un caso esemplare di inconsapevole auto- convincimento? Mi alzai. L’auto- convincimento era un concetto molto amato dagli psicologi evoluzionisti. Avevo scritto un articolo sull’argomento per una rivista australiana. Vera e propria scienza da tavolino. Il succo era questo: per chi vive in gruppo, e l’essere umano lo ha sempre fatto, è fondamentale riuscire a convincere gli altri della validità dei propri bisogni e interessi. Talvolta si rende necessario l’uso dell’astuzia. È chiaro che il massimo della capacità di persuasione si ottiene dopo aver convinto se stessi in modo da non dover fingere di credere in quanto si va sostenendo. Gli individui che adottano questo genere di autoinganno prosperano, e così pure il loro patrimonio genetico. Per questa ragione non facciamo altro che litigare e farci a pezzi, perché la nostra insuperabile intelligenza è in fondo sempre al servizio della causa del singolo e della provvidenziale miopia nei confronti della pochezza delle nostre vite. Mentre attraversavo la cucina, avrei potuto affermare in tutta onestà di non sapere dove stessi andando. Quando raggiunsi la porta dello studio di Clarissa, avevo in mente di entrare a recuperare la mia pinzatrice. Attraversai la piccola stanza fino alla scrivania e non mi sarebbe stato impossibile raccontarmi che intendevo controllare se la mia posta del mattino non si fosse per sbaglio mescolata con la sua, come talvolta accadeva. C’era una barriera morale che avevo bisogno di superare, e il mezzo per farlo era probabilmente l’autoinganno che attribuivo alla stessa Clarissa. 94
Il suo studio non era il locale serio e professionale che avrebbe voluto lei. Per il lavoro vero, Clarissa aveva l’ufficio dell’università. Quello di casa era solo un luogo di transito, una specie di deposito tra casa e lavoro nel quale si ammassavano carte, libri e tesi dei suoi studenti. Ma era anche una stazione di controllo di figliocci vari. Qui Clarissa rispondeva alle loro lettere, incartava i loro doni, appendeva i loro disegni ed esponeva i loro regali. Qui, veniva quando doveva pagare una bolletta o scrivere agli amici. Su di lei si poteva sempre far conto, se si aveva bisogno di francobolli, buste eleganti e cartoline artistiche comprate alle più prestigiose mostre dell’anno precedente. Arrivai alla sua scrivania e presi in effetti a compiere i movimenti necessari a cercare la pinzatrice, che trovai sotto un giornale. Emisi persino un lieve sospiro di soddisfazione. C’era forse qualcuno con me nella stanza, un divino spettatore che speravo di convincere? E i miei gesti, erano forse quel che restava a livello genetico o sociale della fede in una divinità onnipresente? L’esecuzione del compito, come pure la mia onestà, l’innocenza e l’autostima subirono una battuta d’arresto nel momento in cui mi infilai in tasca la pinzatrice, ma non lasciai la stanza, per continuare invece a frugare in mezzo alle cartacce di cui era ingombra la scrivania. Naturalmente, non potevo più negare a me stesso quello che stavo facendo. Mi raccontai la storia che stavo affrontando dei nodi, che cercavo di portare luce e comprensione sul caos delle cose non dette. Si trattava di una dolorosa necessità. Avrei salvato Clarissa da se stessa, e il sottoscritto da Parry. Avrei rinnovato i legami, l’amore che negli anni ci aveva nutrito. Se i miei sospetti erano infondati infatti, era essenziale fare tutto il possibile per eliminarli. Aprii il cassetto nel quale teneva la corrispondenza recente. La sequenza dei singoli gesti, ogni ulteriore progresso di quella violazione diminuiva la mia sensibilità. Di attimo in attimo, mi importava sempre di meno di comportarmi in modo scorretto. Assistevo al formarsi di una specie di schermo, un guscio rigido che mi proteggeva dalla mia stessa coscienza. A livello razionale, il mio pensiero si cristallizzò intorno a un concetto settario di giustizia: avevo il diritto di sapere che cosa stava alterando le reazioni di Clarissa al problema Parry. Che cosa le impediva di schierarsi dalla mia parte? Magari un coglione di dottorando allupato. Estrassi una busta. Recava il timbro postale di tre giorni prima. L’indirizzo era scritto in un corsivo minuscolo, volutamente trascurato. Ne 95
estrassi un singolo foglio. L’incipit fu sufficiente a darmi una stretta al cuore. Cara Clarissa. Niente di che, tuttavia. Era solo una vecchia compagna di scuola che le dava notizie della sua famiglia. Ne scelsi un’altra: il suo padrino, l’illustre Professor Kale, ci invitava a colazione al ristorante per il suo compleanno. Lo sapevo già. Diedi un’occhiata a una terza, una lettera di Luke, e poi a una quarta, una quinta, e la somma delle loro irreprensibilità incominciò a darmi la nausea. Ne controllai altre tre. C’è tutta una vita qui, parevano dirmi, la vita di una donna che tu sostieni di amare, impegnata, intelligente, comprensiva, complessa. Che ci fai tu qui dentro? Stai cercando di inquinarci col tuo veleno? Vattene! Feci l’atto di aprire un’ultima lettera, poi cambiai idea. Ero talmente odioso a me stesso che, uscendo dalla stanza mi toccai la tasca per accertarmi - o almeno per dare l’impressione di farlo - della presenza della pinzatrice. Ero in coda nel traffico diretto verso la consueta calca di Headington. Un autobus a due piani aveva avuto un guasto subito dopo un semaforo, dove già la strada si restringeva per dei lavori in corso. Le auto erano costrette ad aspettare il proprio turno per superarlo una alla volta. La mia intrusione era stata una pietra miliare del nostro declino e dell’insidiosa vittoria di Parry. Quella sera tornando a casa, Clarissa era gentile, persino vivace ma io mi vergognavo troppo di me per mostrarmi rilassato. Altro imbarazzo. Adesso sì che avevo qualcosa da nasconderle. Avevo superato abbondantemente il confine della mia innocenza. Il mattino dopo, mentre sedevo da solo nello studio, ebbi l’impressione di assistere a uno sviluppo parallelo, alla morte di un sogno innocente, quando aprii una lettera del mio professore e scoprii che non ci sarebbe stato modo di recuperare un posto per me in facoltà. Non solo c’erano i problemi delle procedure di ammissione e dei tagli ai fondi destinati alle scienze pure, ma la mia proposta di una ricerca sul fotone virtuale appariva superata. «Voglio precisare che non si tratta di aver già trovato le risposte, quanto del fatto che il quesito, negli ultimi cinque anni, è stato radicalmente riformulato. A quanto pare lei non è al corrente di tale ridefinizione del problema. Il mio consiglio, Joseph, è che lei continui a dedicarsi alla brillante carriera che ha già». Non mi muovevo. Rimasi fermo per venticinque minuti in Headington High Street, in attesa che venisse il mio turno di superare l’autobus, osservando la gente che entrava e usciva dalla banca, dalla farmacia e dalla videoteca. Tra 96
meno di un quarto d’ora sarei stato alla porta della signora Logan e ancora non sapevo cosa volevo dirle. Non mi erano più chiare le ragioni della mia presenza. In un primo momento avevo pensato di parlarle del coraggio di suo marito, in caso nessun’altro lo avesse fatto, ma da allora sui giornali non s’era letto altro. Quando le avevo parlato al telefono, mi era sembrata calma; si era detta lieta della mia visita e questo mi era parso motivo sufficiente per decidere di farla. Allora avevo pensato che avrei semplicemente lasciato che le cose andassero come dovevano, ma adesso che ero quasi arrivato non ne ero più tanto sicuro. Appena sveglio quel mattino, mi aveva fatto piacere pensare di levarmi da casa e di andarmene in macchina dalla città. Ma ormai l’entusiasmo era tutto sbiadito. La verità era che avevo un appuntamento con un dolore autentico, e che l’idea mi faceva paura. La casa era una villetta bifamiliare soffocata nel verde, nel cuore della periferia residenziale a nord di Oxford. La mia teoria è che un giorno o l’altro riscopriremo la sincera bruttezza dell’architettura vittoriana, e quello sarà il giorno in cui avremo definito i criteri estetici di una casa moderna progettata come si deve. Fino a quel giorno, non saremo in grado di escogitare nulla di meglio, e la villetta vittoriana continuerà a starci bene. Forse l’atto di scendere dall’auto comportò una leggera riduzione dell’apporto di sangue al cervello, con conseguente tendenza negativa dei miei pensieri. Non mi fido di me stesso, questo stavo pensando. A partire dalla mia intrusione nella privacy di Clarissa. Mi fermai davanti al cancello. Il vialetto di mattoni che conduceva alla porta d’ingresso era fiancheggiato da denti di leoni e campanule. Sarebbe stato troppo facile ritenere che la malinconia di quella casa fosse frutto di una semplice proiezione, perciò mi obbligai a individuarne i segnali: la trascuratezza del giardino, le tende non tirate su due finestre del piano di sopra, e sotto il gradino della porta, dei cocci di vetro, forse di una bottiglia del latte. Non mi fidavo di me stesso. Mentre suonavo il campanello, il mio pensiero tornava alla pinzatrice e alla disonestà con la quale riusciamo a far quadrare le cose a nostro vantaggio. Udii qualcuno che si muoveva in casa. Non ero qui per parlare alla signora Logan del coraggio di suo marito. Ero venuto a spiegare, a rivendicare la mia incolpevolezza, la mia innocenza rispetto a quella morte.
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Capitolo tredicesimo
La donna che venne alla porta era sorpresa di vedermi e ci guardammo per un buon paio di secondi, prima che io mi affrettassi a ricordarle del nostro accordo telefonico. Gli occhi che sostennero il mio sguardo erano piccoli e asciutti, non arrossati dal pianto, ma cerchiati e lucidi di stanchezza. Li rivolse in un punto lontanissimo, verso il clima ineffabile della sua solitudine, come un esploratore artico. Aveva portato sull’uscio un buon odore di casa tiepida e pensai che quella notte potesse aver dormito vestita. Portava una lunga collana di ambra a grossi chicchi irregolari tra i quali intrecciava impacciata la mano sinistra. Per tutto il tempo della mia visita, non fece che rigirarsene un pezzo più piccolo degli altri tra indice e pollice. Alle mie parole, rispose con un «Ah certo certo», animando stoicamente l’espressione del viso e aprendo la porta di più. Conoscevo quel genere di interno oxfordiano grazie ad anni di visite occasionali a vari professori. Era uno stile in via di estinzione, ora che il sobborgo stava passando di proprietà a danarosi residenti estranei al modo accademico. La trasformazione risaliva agli anni cinquanta e sessanta. Nelle case erano entrati i libri e pochissimi mobili che, da allora, erano rimasti gli stessi. Dominavano i toni del marrone e del beige. Risultava assente ogni ricercatezza d’arredo, ogni comodità e, in inverno, quasi ogni calore. Persino la luce assumeva i toni del bruno, in accordo perfetto con il miscuglio odoroso di umidità, polvere e sapone. Le camere non erano riscaldate e tutto lasciava supporre che in casa ci fosse un solo telefono, sistemato in ingresso, lontano da tutte le sedie. Linoleum sui pavimenti, e luridi cavi elettrici alle pareti; dalla cucina arrivava l’odore acre di gas e si intravedeva uno scorcio di scaffali pensili in laminato carichi di bottiglie di salsa rossa e marrone. Era l’austerità ritenuta un tempo adeguata alla vita intellettuale, in frigida sintonia con l’anima pragmatista dell’uomo britannico, sobria, essenziale, adatta al mondo accademico e lontano dalla zona commerciale. A suo tempo poteva essere apparsa come una provocazione rivolta alle ridondanze edoardiane della generazione passata. Adesso, pareva uno scenario perfetto per il dolore. 98
Jean Logan mi accompagnò in un’angusta stanzetta con vista su un enorme giardino murato in cui torreggiava un ciliegio in fiore. Si chinò rigida a raccogliere da terra una coperta caduta accanto a un divano a due posti dai cuscini e le fodere stropicciati e in disordine. Premendosi al petto la coperta con tutte e due le mani, mi chiese se gradivo una tazza di tè. Immaginai che quando avevo suonato il campanello, lei stesse dormendo o fosse semplicemente sdraiata sotto la coperta. Mi offrii di darle una mano in cucina; lei rise e mi disse di accomodarmi. L’aria era talmente pesante che ogni respiro costituiva uno sforzo consapevole. C’era una stufa a gas con la sua fiammella gialla: probabilmente perdeva monossido di carbonio. A parte quella, c’era il dolore rintanato nella stanza. Approfittando dell’assenza di Jean Logan, cercai di sistemare la fiamma ma, non riuscendoci, decisi di socchiudere la porta finestra, prima di mettere a posto i cuscini e di sedere sul divano. Nulla di quella stanza lasciava intuire la presenza di bambini. Incassato in una nicchia e stracarico di libri e mucchi di riviste e periodici dell’ateneo, stava un piano
verticale.
Sul piano,
due
candelabri
ospitavano
rami secchi
che
probabilmente risalivano alla primavera scorsa. I libri allineati su entrambi i lati della cappa del camino erano rilegati in modo uniforme: raccolte di scritti di Gibbon, Macaulay, Carlisle, Trevelyan, e Ruskin. Contro una parete stava una chaise- longue di pelle scura: aveva uno squarcio sul fianco che qualcuno aveva stipato di vecchi giornali ingialliti. Strati di tappeti sbiaditi e lisi coprivano il pavimento. Di fronte alla stufa attossicante, dirimpetto al divano, stavano due poltrone in uno stile che avrei detto anni quaranta, con alti braccioli di legno e sedili bassi e squadrati. Mi chiesi se il senso di angoscia di quella stanza risalisse a prima della morte di Logan. Jean tornò con due grossi boccali di tè. A quel punto mi ero ormai preparato un breve discorso introduttivo, ma non appena si fu seduta sul bordo di una delle due scomode poltrone, fu lei a partire per prima. - Non so perché sia venuto, - disse. - Spero non per soddisfare la sua curiosità. Dal momento che non ci conosciamo, preferirei non sentire condoglianze, parole di conforto e cose del genere, se non le dispiace -. Lo sforzo di pronunciare quelle parole senza emozione non faceva che accrescere l’impatto della loro formulazione scabra, in frasi secche e sussurrate. Cercò di addolcire l’effetto con un sorriso
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incerto, mentre aggiungeva: - Lei capisce, sto solo cercando di risparmiarle l’imbarazzo. Annuii e provai a bere un sorso di tè bollente da quel bicchierone di ceramica che avevo in mano. Per lei, per quanto doveva soffrire, un incontro di quel tipo doveva darle l’impressione di guidare da ubriaca; chissà che fatica, calibrare il ritmo giusto della conversazione senza cadere nel facile errore di esagerare con i correttivi di improvvise virate di tono. Era difficile separarla dalla sua disperazione. Che cos’era del resto quella macchia marrone sul golfino di cachemire azzurro, appena sotto il seno, se non trascuratezza procurata dal dolore? Aveva i capelli unti, tirati indietro con malgarbo e raccolti alla meno peggio con un elastico rosso. Dolore anche questo, o dovevo considerarlo un esempio di stile accademico? Sapevo dai giornali che insegnava storia all’università. Una persona all’oscuro di tutto avrebbe potuto dedurre solo guardandola in faccia che era un tipo sedentario con un forte raffreddore in atto. Il naso affilato luccicava di un bel rosa acceso sulla punta e intorno alle narici, per la frizione continua di fazzolettini fradici. (Non mi era sfuggita la scatola semivuota sul pavimento accanto ai miei piedi). Restava comunque una faccia gradevole, per non dire bella, quasi radiosa, un lungo ovale pallido e pulito, con labbra sottili e ciglia e sopracciglia invisibili. Gli occhi erano di un colore indefinito tendente al castano chiaro. Dava l’impressione di un temperamento nervoso e indipendente, facile allo scatto. Le dissi: - Non so se sia già venuto qualcun altro delle persone che erano là. Immagino di no. Non occorre che le dica che suo marito era un uomo molto coraggioso, ma forse ci sono altre cose che le piacerebbe chiedere su quanto è successo. Il Coroner ha fissato l’udienza solo tra sei settimane... Mi morì la voce: non capivo come mi fosse venuto in mente di nominare il Coroner. Jean Logan era ancora seduta sul bordo della poltrona, con la schiena curva sul boccale del tè, di cui respirava il vapore, e forse si faceva lenire il bruciore degli occhi. Disse: - Lei pensava che avrei gradito conoscere i dettagli di come ha perso la vita. L’acidità di quelle parole mi colpì e alzai lo sguardo per incontrare il suo. Potrebbero esserci delle cose che vuole sapere, - dissi, parlando più lentamente di prima. Mi sentivo più a mio agio con la sua ostilità, che con l’imbarazzo della sua tristezza. 100
- Ci sono infatti, - disse Jean Logan, e la sua voce d’improvviso si caricò di rabbia. - Ho un mucchio di domande per ogni genere di persona. Solo che non credo la gente abbia voglia di darmi le risposte. Fanno finta di non capire nemmeno la domanda Si interruppe e deglutì vistosamente. Dovevo aver intercettato la voce insistente che le martellava i pensieri e adesso ascoltavo mio malgrado il tarlo che l’aveva tormentata tutta la notte. Il suo sarcasmo era troppo ostentato ed energico e ne percepivo il peso della sfinita ripetizione. Naturalmente la pazza sono io. Io non c’entro, sono solo d’impaccio. Alle mie domande non è il caso di rispondere, perché esulano dalla storia. Su, su Signora Logan! La smetta di agitarsi per cose che non la riguardano e che comunque non hanno importanza. Lo sappiamo che si tratta di suo marito, del padre dei suoi bambini, ma
ce ne stiamo
occupando
noi e la
pregheremmo
di non
intromettersi... Furono le parole padre e bambini a farla crollare. Appoggiò il tazzone, sfilò dalla manica della maglia un fazzolettino avvoltolato e se lo premette forte in mezzo agli occhi. Fece il gesto di alzarsi, ma la poltrona troppo bassa la tradì. Provavo quella sensazione di vuoto intontito che si manifesta quando una persona sembra monopolizzare tutto il carico di emozione che una stanza può tollerare. Al momento non potevo far altro che aspettare. Pensai che dovesse essere il tipo di donna che detesta farsi vedere mentre piange. In seguito ci si sarebbe rassegnata. Guardai fuori, verso il giardino, oltre il ciliegio in fiore, e vidi il primo segnale della presenza di bambini. Seminascosta tra i cespugli c’era una tenda marrone, di quelle a igloo, montata su un pezzo di prato. I montanti erano caduti su un lato e ora la struttura pendeva dentro un’aiuola. Aveva un aspetto fradicio, abbandonato. Chissà se gliel’aveva montata lui poco prima di morire, o se erano stati i bambini a farlo per rientrare in contatto con quello spirito di sana vita all’aperto che aveva abbandonato casa loro? Forse avevano bisogno di un posto nel quale rifugiarsi per sfuggire alla penombra del dolore della madre. Jean Logan taceva. Teneva le mani intrecciate strette e fissava il pavimento: a quanto pare aveva ancora bisogno di restare sola. Aveva la pelle tra il naso e la linea sottile del labbro superiore screpolata dallo sfregamento. Il mio stordimento svanì grazie alla semplice considerazione che quello che vedevo era amore, la lenta agonia di un amore distrutto. Immaginai che cosa avrebbe comportato perdere Clarissa in seguito alla sua morte o a causa della mia stupidità, e mi 101
sentii pervadere da un formicolio caldo sulla schiena e dalla sensazione di soffocare in quella stanzetta senz’aria. Era urgente che tornassi a Londra per salvare il nostro amore. Non avevo chiaro in mente cosa fare, ma sarei stato lieto di potermi alzare e congedarmi con una scusa. Jean Logan sollevò lo sguardo e disse: - Mi dispiace. Sono contenta che sia venuto. È stato gentile a farsi tutto questo viaggio. Replicai con una frase cortese e convenzionale. Avevo i muscoli di gambe e braccia tesi, pronti a farmi schizzare dalla poltrona per tornare a Maida Vale. Quello che osservavo nel dolore di Jean riduceva la mia condizione a pochi elementi essenziali, a un sistema periodico del buon senso: quando se ne va, scopriamo che grande dono sia l’amore. Soffrirai così tanto anche tu. Perciò torna a casa e lotta per conservartelo. Tutto il resto, Parry compreso, non conta niente. - Vede, ci sono cose che vorrei sapere... Sentimmo aprire e chiudere la porta d’ingresso, poi dei passi in corridoio, ma nessun suono di voce. Lei si interruppe, come in attesa di sentirsi chiamare. Poi i passi - forse di due persone - salirono per le scale, e Jean si rilassò. Stava per dirmi o per chiedermi qualcosa di importante, e sapevo di non potermene assolutamente andare. E neppure rilassare i muscoli delle cosce. Volevo suggerire di andare a parlare in giardino sotto il ciliegio, all’aria aperta. Disse: - C’era qualcuno con mio marito. Lei l’ha notato? Scossi la testa - C’erano la mia amica Clarissa, due braccianti, un certo... - Di loro so già. Ma c’era qualcuno in macchina con John quando si è fermato. Qualcuno che è sceso insieme a lui. - Lui arrivava dal lato opposto del prato. Non l’ho visto finché non ci siamo messi tutti a correre verso il pallone. E allora non c’era nessun altro, ne sono sicuro. Jean Logan non era soddisfatta. - Lei è riuscito a vedere la macchina? - Sì. - E non ha visto nessuno che osservava la scena da lì? - Se ci fosse stato qualcuno me ne ricorderei. Distolse lo sguardo. Non erano queste le risposte che voleva. Assunse il tono di voce di chi prova a ricominciare tutto da capo. Non mi dispiacque. Volevo davvero aiutarla. - Ricorda se la portiera della macchina era aperta? 102
- Sì. - Una portiera o due? Esitai. L’immagine richiamata alla memoria mi restituiva due portiere aperte, ma non ne ero certo e non volevo fornire informazioni svianti. C’era in gioco una cosa importante, forse una fantasia assurda. Non avevo intenzione di alimentarla. Ma alla fine, ammisi con riluttanza: - Due. Non ne sono certissimo, ma direi due. - E secondo lei come mai le portiere aperte sarebbero state due, se lui era solo? Mi strinsi nelle spalle, aspettavo che fosse lei a dirmelo. Si rigirava la collana d’ambra fra le dita più nervosamente di prima. Una concitazione sofferta aveva preso il posto della tristezza. Persino io, senza saperne nulla, mi rendevo conto che da ogni conferma su quel fronte sarebbe derivata altra sofferenza. Jean doveva farsi dire quello che non voleva sapere. Ma prima di tutto aveva le sue domande da porre nel tono rude e aggressivo di un pubblico ministero. Per il momento mi ero trasformato nel capro espiatorio della sua amarezza. - Mi dica una cosa. Londra in che direzione si trova da qui? - A est. - E le Chiltern? - A est. Mi guardava come se avesse appena ottenuto a sostanziale conferma alle proprie ipotesi. Io restavo confuso e sollecito. Le sarebbe toccato portami per mano fino al centro della sua ossessione. Se l’era rigirata così a lungo nella testa, da non riuscire quasi a evitare l’irritazione nella voce, vedendosi costretta a dire: Quanto è lontana Londra? - Novanta chilometri. - E le Chiltern? - Trenta, più o meno. - Lei passerebbe dalle Chiltern per andare a Londra? - Be’, l’autostrada ci passa proprio in mezzo. - Ma lei andrebbe a Londra passando da Watlington e da tutte quelle stradine lì intorno? - No. Jean Logan fissò lo sguardo sul liso tappeto persiano che aveva sotto i piedi, rapita nelle sue riflessioni, nella pena che non avrebbe mai più potuto sciogliersi 103
grazie a un confronto con suo marito. Passarono due o tre minuti, poi dissi: Quel giorno doveva essere a Londra. Chiuse forte gli occhi e annuì. - A un convegno, - sussurrò. - Un convegno medico. Mi schiarii piano la voce. - Probabilmente c’è una ragione del tutto innocente. Aveva gli occhi ancora chiusi e riprese a parlare monotona, come se ripercorresse le tappe inenarrabili di quel giorno, sotto l’effetto di ipnosi. - A riportare la macchina venne il sergente di polizia della stazione locale. La dovettero trainare con un carro attrezzi, perché non riuscirono a ritrovare le chiavi. Dovevano essere in macchina, o nella tasca di John. Per questo andai a controllare. Poi chiesi al sergente, avete perquisito la macchina? Avete preso le impronte digitali? E lui mi disse di no. E sa perché? Perché non si era trattato di un delitto... Aprii gli occhi per capire se avevo afferrato il senso profondo delle sue parole, la totale assurdità del caso. Ne dubitavo. Socchiusi le labbra per ridire quella parola, ma lei mi precedette, ripetendola a voce alta. - Un delitto! Non c’era stato delitto! - D’improvviso si era alzata per attraversare la stanza e prendere in mano un sacchetto di plastica appoggiato in un angolo su una pila di libri alta fino alla cintola. Tornò indietro e mi gettò il sacchetto. Guardi. Avanti, ci guardi lei e mi dica che cosa vede. Era pesante: una borsa di plastica bianca stampata con un girotondo stilizzato di bambini che entrano ed escono dal nome del supermercato. Qualunque cosa contenesse, pesava sul fondo. Non appena l’ebbi tra le mani, percepii l’odore che ne proveniva, la puzza oscena della carne guasta. - Avanti. Non abbia paura. Trattenni il respiro e separai le estremità superiori del sacchetto, e per un momento il contenuto non mi disse nulla. C’erano degli oggetti grigiastri avvolti nella pellicola trasparente e una sfera incartata nell’alluminio, un impiastro marrone su un quadrato di cartone. Poi intravvidi del rosso scuro, dietro la curva di un vetro, quasi del tutto coperto di carta. Era una bottiglia di vino, responsabile del peso del sacchetto. Poi tutto mi divenne chiaro. Avevo visto due mele. - È un picnic, - dissi. La nausea che provavo non dipendeva esclusivamente dall’odore. 104
- Era a terra, accanto al sedile del passeggero. Aveva fatto un picnic insieme a lei. Da qualche parte, nel bosco. - Lei? - Mi sentivo pedante, ma pensai di dover resistere ancora alla forza suggestiva della sua immaginazione. Stava estraendo qualcosa dalla tasca della gonna. Mi prese di mano il sacchetto e mi consegnò una sciarpetta di seta zebrata grigia e nera. - Annusi, - ordinò, mentre ritirava con attenzione il sacchetto nell’angolo. Aveva un odore salino, come di lacrime o muco, o del sudore nervoso della mano di Jean. - Annusi meglio, - disse. Mi stava vicino severa, col suo desiderio feroce di fare di me un suo complice. Portai il mucchietto di seta alla faccia e annusai di nuovo. - Mi spiace, - dissi. Non riconosco nessun odore speciale. - È acqua di rose. La sente? Me la prese di mano. Non meritavo più di tenerla. Disse: - Non ho mai usato acqua di rose in vita mia. L’ho trovata sul sedile del passeggero -. Sedette e sembrò in attesa che dicessi qualcosa io. Essendo un uomo, mi vedeva come il possibile sostenitore della trasgressione di suo marito, come il delegato che ha il dovere di rompere gli indugi e confessare tutto? Dal momento che non parlavo, disse: - Senta, se ha visto qualcosa, la prego, non creda di dovermi proteggere. Io devo sapere. - Signora Logan, io non ho visto nessuno con suo marito. - Ho chiesto alla polizia di controllare le impronte sull’auto. Potrei rintracciare questa donna... - Solo nel caso in cui avesse dei precedenti legali. Non mi sentì. - Ho bisogno di sapere da quanto tempo andava avanti e se era una cosa seria. Lei questo lo capisce, non è vero? Accennai di sì con la testa e mi pareva proprio di capire. Le serviva conoscere la misura della sua perdita, e sapere di che cosa soffrire. Non avrebbe più trovato pace senza prima essere messa al corrente di tutto e patire per quel dolore. L’alternativa sarebbe stata il tormento dell’ignoranza e una vita di eterni sospetti, congetture fosche, pensieri nerissimi. - Mi dispiace, - incominciai a dire, ma lei mi interruppe. - Devo solo trovarla. Devo parlarle. Lei deve aver visto tutto. E deve essere scappata via. Sconvolta, fuori di sé. Chi può dirlo? 105
Dissi: - Immagino ci siano buone probabilità che si faccia viva lei. Crede che possa resistere e non venirla a trovare? - Se fa tanto di avvicinarsi a questa casa, - replicò ferma Jean Logan mentre la porta alle nostre spalle si apriva e nella stanza entravano due bambini, - io la uccido. Che Iddio mi assista, ma la uccido.
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Capitolo quattordicesimo
Era con un velo di malinconia che qualche volta Clarissa mi diceva che sarei stato un padre meraviglioso. Mi ripeteva che coi bambini ci sapevo fare, che sapevo mettermi al loro livello senza condiscendenza. Non mi sono mai occupato di un bambino per un tempo significativo, perciò non posso dire di essermi messo alla prova sul fronte di fuoco delle autentiche rinunce da genitore, ma penso di non cavarmela male quando si tratta di parlare e ascoltare. I suoi figliocci, li conosco bene tutti e sette. Li abbiamo tenuti per i fine settimana, li abbiamo portati in vacanza all’estero con noi, ci siamo anche presi devotamente cura di due bimbette per una settimana - si chiamano Grace e Felicity e al tempo bagnavano ancora il letto tutte e due - mentre i loro genitori si facevano a pezzi in una causa di divorzio. Ho svolto un ruolo di qualche utilità con il maggiore dei figliocci maschi di Clarissa, un quindicenne inquieto e introverso, rincoglionito dalla cultura pop e dai deliranti codici di credibilità della strada. L’ho portato a bere con me, e l’ho persuaso a non abbandonare la scuola. Quattro anni dopo studiava medicina a Edimburgo con discreto successo. Ciononostante provo un disagio che sono costretto a nascondere ogni volta che incontro un bambino. Mi vedo attraverso gli occhi di quel bambino, e mi torna in mente il modo in cui guardavo agli adulti quando ero piccolo. Mi parevano tutti piuttosto amorfi, troppo desiderosi di stare seduti a parlare del più e del meno, troppo rassegnati a non avere niente da desiderare per l’indomani. I miei genitori, come i loro amici, gli zii e le zie, sembravano tutti accontentarsi di vite subordinate alle priorità di altra gente lontana, gente più importante. Dal punto di vista di un bambino, s’intende, si trattava solo di un problema legato all’ambiente circostante. Più tardi, in certi adulti, scoprii doti di dignità e vivacità, e ancora più tardi queste virtù, o per lo meno la prima delle due, affiorarono anche nei miei genitori e in quasi tutti i membri della loro cerchia. Ma quando da ragazzino di dieci anni presuntuoso e pieno di energia mi trovavo in una stanza affollata di adulti, mi sentivo in colpa e ritenevo mio preciso dovere di cortesia sorvolare sul fatto che altrove mi sarei divertito molto di più. Se una persona di 107
una certa età mi rivolgeva la parola - al tempo ogni adulto era per me una persona di una certa età - temevo che sulla mia faccia si disegnasse la compassione. Perciò, quando mi voltai sulla poltrona per incontrare lo sguardo dei piccoli Logan, mi vidi raffigurato nei loro occhi: l’ennesimo estraneo incolore nella processione di individui che ultimamente si era andata snodando in casa loro, un uomo grande e grosso in completo di lino azzurro stropicciato, con la chierica di calvizie ben visibile dal loro punto di osservazione. Le ragioni della mia presenza dovevano risultare incomprensibili, e del resto prive di ogni interesse. In fondo, ero solo un altro sconosciuto, che non era il loro padre. La bambina avrà avuto dieci anni e il maschio poteva averne un paio di meno. Alle loro spalle, appena fuori della stanza, c’era la tata, una giovane donna dall’aria gioviale in tuta da ginnastica. I bambini mi guardarono e io restituii loro lo sguardo mentre la madre procedeva a dar voce alla propria minaccia di morte. Avevano tutte e due addosso un paio di jeans, scarpe da ginnastica e una maglietta con dei disegni di Walt Disney. Erano piacevolmente trasandati e a me non parvero distrutti dal dolore. Il bambino non mi staccò gli occhi di dosso dicendo: - Non sta bene uccidere le persone -. La sorella sorrise con fare tollerante, e dal momento che Jean Logan era impegnata a dare istruzioni alla tata, io dissi al ragazzo: - È solo un modo di dire. Si adopera quando qualcuno ti sta veramente antipatico. - Se non sta bene farlo, - disse il bambino, - non sta bene neanche dire che vuoi farlo. Dissi: - Hai mai sentito qualcuno dire: «Ho una fame che mi mangerei un cavallo?» Ci rifletté scrupolosamente. - Io lo dico ogni tanto, - ammise. - Ti pare che stia bene mangiare i cavalli? - Non sta bene qui da noi, - intervenne la bambina, - ma in Francia lo fanno. Li mangiano normalmente. - È vero, - dissi. - Ma se una cosa non sta bene, non vedo che differenza possa esserci a farla oltremanica. I bambini si avvicinarono restando sempre fianco a fianco. Dopo gli argomenti di poc’anzi, una discussione sul relativismo etico mi giunse come un autentico sollievo.
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La bambina disse: - La gente ha idee diverse in paesi diversi. In Cina è buona educazione ruttare dopo aver mangiato. - Vero, - dissi. - Quando ero in Marocco mi hanno spiegato che non dovevo mai accarezzare i bambini sulla testa. - Detesto quando me lo fanno, - commentò la bambina, mentre il fratellino le dava sulla voce per dire: - Mio papà in India ha visto che tagliavano la testa a una capra. - Ed erano anche dei preti che lo facevano, - aggiunse la bambina. L’aver nominato il padre non produsse alcun mutamento di umore visibile, nessun rimorso. Era ancora una presenza viva. - Allora, - dissi, - secondo voi non ci sono delle regole base che vadano bene per tutto il mondo? II bambino era raggiante. - Ammazzare la gente -. Guardai la sorella e lei annuì e, al rumore della porta che si chiudeva, ci voltammo tutti verso la mamma che aveva finito di parlare con la tata. - Le presento Rachel e Leo. Bambini, questo è il signor... - Va bene Joe, - dissi. Leo andò a sedersi in braccio a sua madre che gli intrecciò forte le mani intorno alla vita. Rachel raggiunse la finestra e si mise a fissare il giardino. Povera tenda, - disse piano tra sé e sé. - Io devo trovarla -. Jean Logan aveva ripreso il filo del discorso, assumendo un tono professionale. - Se lei non l’ha vista, mi dispiace. Ma forse può aiutarmi lo stesso. La polizia non mi è di nessun aiuto. Magari qualcuno degli altri presenti ha visto qualcosa. Io non posso parlare con loro direttamente, ma se a lei non rincresce... - Di che stai parlando, mamma? - chiese Rachel dalla finestra. Colsi il tono preoccupato e protettivo della sua domanda esitante e intuii anche un accenno al tormento passato. Dovevano essersi verificate scene che la bambina temeva si ripetessero e che perciò cercava di prevenire. - Niente, tesoro. Non ti preoccupare. Non riuscii a escogitare un modo per rifiutare, per quanto avrei desiderato farlo. Possibile che la mia vita dovesse dipendere completamente da ossessioni altrui? - Il numero di telefono dei due contadini ce l’ho, - disse. - Il numero del giovane non sarà difficile da recuperare. Ho l’indirizzo. Si chiama Parry. Tre telefonate: non le chiedo molto. 109
Rifiutare sarebbe stato troppo complicato. - D’accordo, - dissi. - Lo farò -. Già mentre accettavo, mi resi conto che mi sarei trovato nella condizione di censurare le informazioni e forse di risparmiare del dolore alla famiglia. Del resto anche Rachel e Leo sarebbero stati d’accordo che qualche volta era giusto mentire. Il bambino si liberò dalle braccia della madre e raggiunse la sorella. Dopo aver accompagnato il proprio grazie con un sorriso, Jean Logan si sistemò la gonna con un movimento del palmo della mano, un gesto che lasciava intendere come fosse pronta a prendere congedo da me. - Le scrivo i numeri di telefono. Assentii col capo e dissi: - Senta, signora Logan. Suo marito era un uomo molto coraggioso e deciso. Lei non dovrebbe scordarlo questo -. Rachel e Leo stavano giocando accanto alla finestra e fui costretto ad alzare la voce. - Era deciso a salvare quel ragazzo ed è rimasto appeso fino alla fine. I cavi dell’alta tensione erano un pericolo reale. Il bambino poteva morire davvero. Suo marito non ha voluto mollare la fune, e ha reso evidente la nostra vigliaccheria. - Tutti voi però siete vivi, - ribatté lei, poi si interruppe e aggrottò la fronte mentre Leo sghignazzava da dietro un tendone che incorniciava la portafinestra. Sua sorella gli stava facendo il solletico attraverso la stoffa. La madre parve sul punto di dir loro di abbassare la voce, poi però cambiò idea. Come me, dovette parlare più forte. - Non creda che la storia non mi giri per la testa tutto il tempo. John era un alpinista, uno speleologo dilettante e un buon velista. Ma era anche un medico. Era membro di una squadra di soccorso ed è sempre stato un uomo molto, molto cauto -. A ogni «molto» che pronunciava, stringeva il pugno di più. - Non correva mai rischi stupidi. In montagna lo prendevano sempre in giro, perché lui era quello che calcolava l’eventualità che il tempo cambiasse, che una roccia non tenesse o imprevisti che agli altri nemmeno venivano in mente. Era il pessimista del gruppo. Qualcuno pensava addirittura che fosse un pavido. Ma a lui non importava. Non voleva correre rischi inutili. Alla nascita di Rachel abbandonò l’alpinismo serio. Ed è per questo che tutta questa storia non ha senso -. Fece per voltarsi verso i bambini che adesso si scatenavano ancora di più, ma voleva prima finire di parlarmi, e il loro baccano le garantiva maggiore libertà... Si rivolse di nuovo a me. - La questione di lui che rimane appeso alla fune... Vede, ci ho pensato molto, e ho capito che cosa l’ha ucciso.
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Finalmente,
eravamo
al
punto.
Stavo
per
essere
accusato,
e
dovevo
interromperla. Volevo esporre la mia versione dei fatti. A incoraggiarmi mi giunse in soccorso l’immagine di qualcosa, qualcuno, che mollava la fune l’istante prima che lo facessi io. Ricordavo tuttavia anche il vecchio ammonimento che risaliva al mio passato remoto di ricercatore: credere una cosa coincide col vederla. Signora Logan, - dissi, - può darsi che qualcun altro le abbia già raccontato qualcosa, non lo so. Ma io posso dirle onestamente... Mentre parlavo, lei scuoteva la testa. - No, no. È lei che deve starmi a sentire. Sarà anche stato sul posto, ma io ne so di più. Vede, c’è un altro aspetto del temperamento di John. Lui voleva sempre primeggiare, ma ormai non era più l’atleta completo di un tempo. Aveva quarantadue anni. E gli bruciava. Non voleva accettarlo. E quando un uomo incomincia a sentirsi così... Non ne sapevo niente di questa donna. Mai un sospetto, la più pallida idea, non so neppure se sia stata la prima, ma una cosa la so. Lei lo stava guardando, e lui lo sapeva, e doveva dimostrarle qualcosa, mettersi alla prova di fronte a lei. Doveva precipitarsi su quel prato, doveva essere il primo ad afferrare la corda e l’ultimo a mollare, anziché comportarsi come avrebbe fatto in condizioni normali, e cioè prendere tempo e valutare la soluzione migliore. Così sarebbe andata se non ci fosse stata lei, e trovo la cosa patetica. Lui voleva mettersi in mostra davanti a una ragazzina, signor Rose, e tutti noi adesso siamo qui a piangere. Era una teoria, un racconto che solo il dolore, il delirio della sofferenza poteva aver inventato. - Ma lei non può esserne sicura, - protestai. - È un’idea talmente macchinosa, così complicata. Può essere solo un’ipotesi. Non può permettere a se stessa di convincersene. Mi guardò con compatimento, prima di rivolgersi ai figli. - Adesso state proprio esagerando. Non riusciamo nemmeno a sentirci -. Poi si alzò con fare spazientito. Leo si era attorcigliato dentro la tenda: di lui si vedevano solo i piedi. E Rachel gli saltellava intorno, stuzzicandolo e parlandogli con una cantilena alla quale lui replicava nello stesso tono. Si fece da parte, mentre sua madre liberava il bambino dalla tenda. La voce di Jean Logan suonava più come un richiamo pacato che come un vero e proprio rimprovero. - Così tirate di nuovo giù il bastone. Ve l’ho detto anche ieri, e me lo avevate promesso. Leo riemerse accaldato e contento. Incrociò lo sguardo di sua sorella che si mise a ridacchiare. Poi il bambino si ricordò che c’ero anch’io e per farsi vedere, 111
alzò i pugni verso sua madre, dicendo: - Sì, però questo era il nostro castello. Io sono il re, e lei è la regina, perciò posso uscire solo se lei dà il segnale. Leo disse ancora qualcosa, e sua madre cercò di riprenderlo con estrema dolcezza, ma io non sentii più le loro parole. Fu come se un merletto prezioso rammendasse da sé il punto strappato solo grazie al suo stesso intricato disegno. Mi tornò tutto in mente d’un colpo, e mi parve impossibile averlo scordato. Il castello era Buckingham Palace, il re, Giorgio V, la donna fuori del castello era una francese e il periodo era subito dopo la Grande Guerra. Era venuta in Inghilterra molte volte e chiedeva soltanto di poter stare ai cancelli del palazzo nella speranza di intravvedere il Re di cui era innamorata. Non l’aveva, né mai l’avrebbe conosciuto di persona, ma il suo primo pensiero ogni mattino era per lui. Mi ero alzato ormai e Rachel mi stava dicendo qualcosa che non sentivo, ma annuii ugualmente. Quella donna era convinta che tutta Londra non facesse che parlare della sua relazione con il re, e che lui ne fosse profondamente turbato. Nel corso di una visita, non riuscendo a trovare una stanza d’albergo in cui soggiornare, si convinse che il sovrano avesse usato la propria influenza per impedirle di fermarsi a Londra. Di una sola cosa era certa: il Re l’amava. Lei ricambiava il suo affetto, ma era anche carica di rancore nei suoi confronti. Lui la allontanava, ma non cessava di darle speranze. Le inviava dei messaggi che lei sola sapeva interpretare, e le ripeteva che per quanto sconveniente, per quanto imbarazzante e inammissibile fosse, lui l’amava e l’avrebbe amata per sempre. Usava le tende delle finestre di Buckingham Palace per comunicare con lei. Quella donna passò tutta la vita prigioniera di tale illusione. Quella sua forma di amore avvelenato e inutile fu identificata dallo psichiatra francese che l’aveva in cura come una sindrome alla quale egli volle dare il proprio nome: de Clérambault. Vedendomi alzare, Jean Logan pensò che stessi per congedarmi. Si era avvicinata a una scrivania e stava scarabocchiando dei numeri su un foglietto. I bambini si avvicinarono di nuovo e Rachel disse: - Me ne è venuta in mente un’altra. - Sul serio? - Facevo fatica a darle retta. - La maestra dice che quasi in tutto il mondo la gente non usa il fazzoletto e che ci si può soffiare il naso così -. Si pizzicò il naso tra indice e pollice, tenendo 112
le altre dita lontane dalle narici e mi fece una sonora pernacchia. Il fratellino trasalì di contentezza. Presi il foglio ripiegato che Jean Logan mi stava porgendo e lasciammo insieme la stanza per scendere nell’ingresso e andare alla porta. Prima ancora di averla raggiunta, ero tornato con il pensiero a de Clérambault. La sindrome di de Clérambault. Il nome suonava come una fanfara, squillava come una tromba e mi riportava alle mie ossessioni. Dovevo partire con le ricerche e sapevo esattamente da dove incominciare. Una sindrome rappresentava un buon punto di riferimento e perciò offriva una specie di rassicurazione. Ero quasi felice, quando Jean aprì la porta di casa e tutti e quattro ci accalcammo sul vialetto di mattoni per salutarci. Era come se finalmente avessi ottenuto l’ambito posto da ricercatore nel dipartimento del mio professore di un tempo. Jean Logan mi ringraziò della visita, e io le dissi che l’avrei chiamata subito dopo aver fatto le telefonate. Adesso che me ne andavo, i bambini tornavano a farsi scontrosi. Ero di nuovo un estraneo. Mi pizzicai il naso e produssi una versione educata della pernacchia di Rachel. Mi concessero un sorriso forzato. Li costrinsi a stringermi la mano. Mentre mi allontanavo lungo il vialetto, non potei fare a meno di pensare che, andando via, li stavo riconsegnando al vuoto lasciato dal padre. La famiglia era raggruppata sulla soglia di casa; la madre teneva le mani appoggiate sulle spalle dei figli. Quando raggiunsi la macchina e aprii la portiera, mi voltai per un ultimo saluto, ma erano già rientrati tutti e tre.
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Capitolo quindicesimo
Sulla via di casa uscii dall’autostrada e presi verso sud in direzione delle Chiltern Hills per tornare a quel prato. Parcheggiai esattamente dove si era fermato Logan, sul margine erboso della strada. Stando in piedi accanto alla portiera del passeggero, la ragazza doveva aver assistito allo svolgersi di tutto il dramma, da quando il pallone e la cesta erano stati trascinati sul prato, alla lotta con le funi, fino alla caduta. Quello che non poteva aver visto era il punto in cui Logan era precipitato. Me la immaginai: carina, poco più che ventenne, in preda a una disperazione frenetica, e la vidi correre sulla strada per raggiungere il paese più vicino. O magari era scesa dall’altra parte, verso Watlington. Me ne stavo lì al posto suo e fantasticavo sulle telefonate segrete o i messaggi scritti che potevano aver preceduto il loro picnic. Forse si amavano. Chissà se lui era tormentato dai sensi di colpa e dai dubbi, l’onorato padre di famiglia? E che cambiamento violento per lei, passare dall’atteso idillio con l’uomo che adorava, all’incubo, l’attimo intorno al quale avrebbe ruotato il resto della sua vita. Nemmeno il terrore poteva averle fatto scordare di andare a riprendersi le sue cose dalla macchina - una giacca, la borsa, ma non il sacchetto del picnic e la sciarpa prima di mettersi a correre. Mi pareva sensato che non si fosse fatta viva. Se ne era rimasta a casa a leggere i giornali, e a piangere sul suo letto. Senza una meta precisa, mi incamminai sul prato. Sembrava tutto diverso. In meno di due settimane gli alberi e gli arbusti circostanti si erano infoltiti nel primo rigoglio primaverile, e l’erba soffice sotto i piedi già segnalava l’esuberanza a venire. Come se volessi eseguire una ricostruzione dei fatti a fini legali, presi il sentiero che avevamo percorso Clarissa e io e lo seguii fino alla radura dove avevamo trovato riparo dal vento. Pareva uno di quei luoghi semi- dimenticati dell’infanzia. Eravamo così felici di rivederci, così disinvolti l’uno con l’altra, e adesso non riuscivo a pensare a un modo per recuperare quell’innocenza. Di lì procedetti lentamente verso il centro del prato, lungo la traiettoria della mia corsa, fino al punto in cui i nostri destini si erano incontrati e poi, seguendo il tragitto sul quale ci aveva trascinati il vento, fino al margine della scarpata. Là, 114
sul versante opposto del prato, si allungava il sentiero che aveva portato Parry dentro la mia vita. Lontano alle mie spalle, dove ora stava la mia macchina, si era fermato Logan. Ero arrivato al punto dal quale avevamo assistito alla sua caduta; lo stesso nel quale Parry aveva colto il mio sguardo ed era rimasto folgorato da una forma di innamoramento sulla cui morbosità ero impaziente di indagare. Ecco le stazioni della mia personale via crucis. Scesi dalla collina, fino al pascolo, verso il luogo successivo. Le pecore non c’erano più, e la stradina oltre la siepe era più vicina di quanto la ricordassi. Cercai con lo sguardo un affossamento del terreno, ma scorsi solo l’inizio di una macchia di ortiche che si estendeva quasi fino al cancelletto che avevano scavalcato i due agenti di polizia. Era qui che Parry mi aveva chiesto di pregare, e da qui che io mi ero allontanato. Lo feci anche adesso, sforzandomi di capire come avesse potuto leggere un rifiuto nel mio portamento. Risalire la collina mi costò più fatica dell’altra volta. Allora l’adrenalina mi aveva rinforzato i muscoli delle gambe oltre ad accelerare ogni mio pensiero. Ora invece sentivo la mia riluttanza scorrermi dentro le cosce, mentre il cuore bussava alle orecchie. Mi fermai in cima per prendere fiato, e mi guardai intorno. Decine di ettari di prato e un pendio scosceso. Adesso che ero qui, mi pareva di non essere andato mai via, perché questo era il palcoscenico, questi i fondali dipinti di verde delle mie ansie, e non mi sarei poi sorpreso molto se avessi visto avvicinarsi da direzioni diverse Clarissa, John e Jean Logan, la donna senza nome, Parry e de Clérambault. Immaginando questa scena, vedendoli disporsi a semicerchio, con l’intenzione di sospingermi contro l’orlo del pendio, non dubitai che venissero ad accusarmi unanimi - ma di che? Se l’avessi saputo subito, non sarei stato così incriminabile. Era una mancanza, una deficienza, il fallimento di uno sviluppo di ordine intellettuale, difficile da definire quanto il primo incontro con l’aritmetica. Clarissa l’avrei sempre ascoltata, sebbene al momento avessimo perso fiducia nel giudizio dell’altro, ma adesso era il gentiluomo francese in completo doppiopetto ad affascinarmi. Tornai sui miei passi verso la macchina. L’idea era semplice in realtà, ma un uomo che avesse una teoria riguardo a una forma patologica di amore e che le avesse dato il proprio nome, come uno sposo all’altare, doveva di certo poter rivelare, magari suo malgrado, qualcosa sulla natura dell’amore in sé. Perché esistesse una patologia, doveva esserci un concetto implicito di amore sano. La 115
sindrome di de Clérambault era l’oscuro specchio deformante nel quale si rifletteva alterato il mondo radioso di amanti il cui sconsiderato abbandono era considerato sano. (Affrettai il passo. La macchina era a circa quattrocento metri di distanza, e vedendola ora seppi per certo che le due portiere anteriori erano state spalancate, come un paio di ali.) Malato e sano. In altre parole, che cosa potevo scoprire sul conto di Parry che mi restituisse a Clarissa? Il traffico per rientrare a Londra era molto intenso e ci vollero quasi due ore prima di arrivare e parcheggiare davanti a casa. Per strada ci avevo pensato, e mi ero aspettato di trovarlo lì, ma vederlo non appena scesi dall’auto mi diede una stretta al cuore. Mi fermai prima di attraversare la strada. Era piazzato davanti all’entrata in una posizione che mi avrebbe costretto a passargli accanto. Si era messo elegante: completo scuro, camicia bianca abbottonata fino al collo, scarpe nere lucidissime. Mi stava fissando, ma la sua espressione non mi disse nulla. Mi diressi subito verso di lui, sperando di potergli passare accanto e di proseguire dentro casa, ma Parry occupava il vialetto e perciò dovetti fermarmi, se non volevo farlo da parte con la forza. Sembrava teso, in collera forse. Teneva in mano una busta. - Vorrei passare, - dissi. - Hai ricevuto la mia lettera? Decisi di provare a passare costeggiando la siepe di ligustro, ma lui ostruì il varco e io non intendevo toccarlo. - Mi faccia passare, o chiamo la polizia. Assentiva vigorosamente, come se lo avessi appena invitato a salire in casa per bere qualcosa. - Voglio solo leggerti questo, prima, - disse. - È molto importante? Gli strappai di mano la busta, nella speranza che lui a quel punto si decidesse a farmi passare. Ma non bastò. C’era ancora qualcosa che voleva dirmi. In un primo tempo rivolse lo sguardo all’immaginaria presenza oltre la sua spalla. Quando parlò, la sua voce era affannosa e immaginai che avesse il batticuore. Era un momento per il quale si era preparato. Disse: - Ho pagato un ricercatore e mi ha procurato i tuoi articoli. Ieri sera li ho letti, tutti e trentacinque. Ho anche i tuoi libri. Mi limitai a guardarlo e aspettare. Era cambiato qualcosa nei suoi modi. Si percepiva il desiderio, ma anche una specie di durezza, e gli occhi erano diversi. Come più piccoli. 116
- Io lo so che cosa stai cercando di fare, ma non ci riuscirai mai. Neanche se scrivessi milioni di articoli e io li leggessi tutti, non riusciresti mai a distruggere quello che ho. Non puoi portarmelo via. A quanto pare si aspettava di essere contraddetto, ma io incrociai le braccia e continuai ad aspettare, concentrando la mia attenzione su un taglio da rasoio, una linea nera sottile come un capello sulla sua guancia sinistra. Quanto disse dopo, mi parve al momento suggerire la facilità con la quale era riuscito a pagare le prestazioni di un ricercatore, anche se non ne ero del tutto sicuro. In seguito riesaminai con attenzione le sue parole e incominciai a pensare che forse l’intenzione era stata quella di minacciarmi. Del resto era facilissimo sentirsi minacciato, perciò ero piuttosto confuso. Disse: - A soldi sto piuttosto bene, sai. Posso trovare gente disposta a fare delle cose per me. Qualunque cosa. Qualcuno che abbia bisogno di soldi si trova sempre. Piuttosto sorprende quanto poco denaro ci voglia, credimi, per cose che uno non farebbe mai? - Lasciò questa pseudo domanda in sospeso, e mi guardò. -
Ho
un
telefono
in
macchina.
Se
non
mi
fa
passare,
io
chiamo
immediatamente la polizia. Recuperò lo sguardo tenero di sempre. La durezza sparì dal suo viso non appena Parry accolse con riconoscenza l’affetto che aveva letto nel mio avvertimento. - Va tutto bene, Joe. Davvero. Lo so che è difficile. Noi due ci intendiamo. Puoi aprirti con me. Non è necessario che continui a parlarmi in codice. Mentre mi voltavo per dirigermi verso la macchina dissi: - Ma quale codice? Sarebbe meglio se lei accettasse il fatto che ha bisogno di aiuto. Scoppiò a ridere prima ancora che avessi finito, sghignazzando e battendosi sulle cosce come un cowboy. La mia battuta doveva essergli sembrata un grido beffardo d’amore. Stava quasi gridando di gioia. - Esatto! Io ho tutto, ho tutti dalla mia parte. Andrà come dico io, Joe, e tu non puoi farci niente! Per quanto fosse folle, si prese anche il disturbo di indietreggiare e lasciarmi libero il passaggio. Che ci fosse del calcolo anche qui? Non potevo fidarmi neppure del suo delirio, e per questa ragione soltanto fui lieto di porre fine alla conversazione e di rientrare. Inoltre, era ovvio che la polizia non sarebbe intervenuta. Non mi guardai nemmeno indietro per controllare se intendeva aspettare. Non volevo dargli la soddisfazione di sapere che mi importava. Mi 117
infilai la busta nella tasca posteriore dei calzoni e feci le scale due gradini alla volta. Fu come un analgesico, la distanza in altezza che misi tra noi nel giro di quindici secondi. Studiare il caso di Parry facendo riferimento a una sindrome era una cosa che potevo tollerare, se non addirittura gustarmi, ma incontrarlo in strada di nuovo, soprattutto dopo aver letto la sua prima lettera, mi aveva spaventato. Temerlo gli avrebbe conferito un grande potere. Già mi vedevo in futuro a non aver voglia di rientrare a casa. Quando raggiunsi il pianerottolo davanti alla nostra porta, mi stavo chiedendo se quelle che mi aveva rivolto fossero davvero minacce; se era facile ingaggiare un ricercatore, altrettanto poteva esserlo pagare qualche balordo disposto a pestarmi a sangue. Forse stavo esagerando. L’ambiguità alimentava la mia paura: il capitolo minacce conteneva l’intera gamma di sfumature. Questi i miei pensieri mentre aprivo la porta ed entravo in casa. Restai lì un momento, a riprender fiato, leggendo il silenzio e la qualità dell’aria. Benché non ci fosse la borsa accanto alla porta, e nemmeno la giacca sulla sedia dell’ingresso, mi sentivo sulla pelle che Clarissa era rientrata dal lavoro e che qualcosa non andava. La chiamai e, non avendo risposta, entrai in soggiorno. Quest’ultimo è fatto a forma di L e perciò dovetti procedere di qualche passo, prima di avere la certezza che non fosse lì. Mi parve di sentire un rumore nell’ingresso, e la chiamai di nuovo. Ogni casa ha il proprio archivio sonoro di scricchiolii e sussurri, per lo più prodotti da minime variazioni termiche, perciò non fui affatto sorpreso di non trovare nessuno nell’ingresso, pur essendo tuttora convinto che Clarissa fosse in casa da qualche parte. Entrai in camera da letto, pensando che potesse aver deciso di riposarsi. Le scarpe che metteva per andare a lavorare erano una accanto all’altra, e sul copriletto era rimasto il segno della sua presenza. Non c’era traccia che avesse usato il bagno. Perlustrai rapidamente le altre stanze: la cucina, il suo studio, la camera dei bambini, e provai il chiavistello della porta che portava sul tetto. Fu a quel punto che cambiai idea e individuai una sequenza logica: era tornata a casa, si era tolta le scarpe, si era sdraiata un momento sul letto, poi si era infilata un altro paio di scarpe ed era uscita. Nell’ansia dovuta all’incontro con Parry, avevo semplicemente frainteso i messaggi dell’aria. Andai in cucina e riempii d’acqua il bollitore. Poi raggiunsi il mio studio e fu lì che la trovai. Era talmente ovvio, ma fu un tale shock. La vidi come se fosse la 118
prima volta. Era scalza, accasciata sul mio sgabello girevole, con la schiena appoggiata alla scrivania, e la faccia rivolta alla porta. Dopo tutto quello che era successo quel giorno, avrei dovuto immaginarlo. La fissai a mia volta, entrando nella stanza e le chiesi: - Come mai non rispondi? E lei: - Ho pensato che saresti venuto subito qui -. Poi, vedendomi aggrottare la fronte, aggiunse: - Non pensavi che sarei venuta a rovistare sulla tua scrivania in tua assenza? Non è così che funziona adesso tra noi? Mi abbandonai sul divano, sfinito. Essere così totalmente dalla parte del torto era una liberazione. Non c’era bisogno di litigare, di fare il punto della questione. Clarissa era calma, e molto arrabbiata. - Sono seduta qui da mezz’ora. Ho cercato di farmi venire la voglia di aprire uno di questi cassetti e dare un’occhiata alle tue lettere e, vuoi sapere una cosa, non ce l’ho fatta. Non sono curiosa. Non è terribile? Non mi importa dei tuoi segreti, che tu ne abbia o meno. Se mi avessi chiesto di farti vedere le mie lettere, ti avrei detto, sì certo, fa’ pure. Non ho niente da nascondere io La sua voce si era fatta più acuta e tremava anche un po’. Non l’avevo mai vista così furiosa. - Hai persino lasciato il cassetto aperto, per farmelo subito sapere. È una dichiarazione, un messaggio che mi vuoi dare. È un segnale. Il problema è che io non capisco che cosa significa. Forse sono molto stupida. Perciò dimmelo a chiare lettere, Joe. Che cosa stai cercando di farmi sapere?
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Capitolo sedicesimo
Caro Joe, lo studente che ho ingaggiato mi ha suonato il campanello ieri pomeriggio alle quattro e io gli sono andato incontro al cancello. Gli ho dato cinquecento sterline per il lavoro di questa settimana e lui mi ha passato il plico attraverso le sbarre. Conteneva le fotocopie di trentacinque articoli scritti da te. Lui se ne è andato contento, ma che dire di me? Sul momento non avevo idea della serata che mi aspettava. Credo siano state le ore più brutte della mia vita. È stata una tortura, Joe, ritrovarsi faccia a faccia con l’aridità e la tristezza dei tuoi pensieri. Se penso a quegli idioti che ti hanno anche pagato perché tu li scrivessi, e ai poveri lettori innocenti ai quali hai avvelenato le giornate! Mi sono seduto nella stanza che mia madre chiamava la biblioteca, anche se gli scaffali della libreria sono sempre stati piuttosto vuoti, e mi sono letto tutto fino all’ultima parola, anzi, nella mia testa, ti ho proprio ascoltato dire ognuna di quelle cose direttamente a me. Ho letto ciascun articolo come una lettera che tu avevi spedito nel futuro destinato a contenerci entrambi. E non ho fatto che chiedermi cosa volevi farmi. Ferirmi? Offendermi? Mettermi alla prova? Ti ho odiato, è vero, ma non ho mai dimenticato che ti amavo lo stesso e per questa ragione ho potuto continuare a leggere. Ha bisogno del mio aiuto, mi ripetevo ogni volta che mi veniva voglia di smettere, ha bisogno che lo liberi dalla piccola gabbia della sua ragione. Ci sono stati momenti nei quali mi chiedevo se avessi inteso fino in fondo la missione che Dio mi affidava. Dovevo consegnare nelle Sue mani l’autore di quegli scritti odiosi contro di Lui? O forse mi si richiedeva qualcosa di più semplice e di più puro. Voglio dire: sapevo che ti occupavi di scienza e mi ero preparato a una certa dose di perplessità e di noia, ma non potevo immaginare che a spingerti a scrivere fosse il cinismo. È probabile che tu abbia dimenticato l’articolo che hai scritto quattro anni fa per «New Scientist» sugli ultimi ritrovati della tecnologia applicati allo studio di questioni sacre. Ebbene, credi che a qualcuno importi dell’esame al carbonio 14 per stabilire a che periodo risale la Sindone di Torino? Credi che la gente abbia cambiato idea rispetto alla propria fede, quando ha saputo che si trattava di un 120
falso medievale? Credi davvero che la fede possa dipendere da un brandello di tessuto consumato? Ma è stato un altro l’articolo che mi ha sconvolto di più: quello in cui parli direttamente di Dio. Può anche darsi che fosse uno scherzo, il che non fa che peggiorare le cose. Pretendi di sapere chi o che cosa sia Dio: lo definisci un personaggio letterario, come se fosse uscito da un romanzo. Sostieni che i più raffinati studiosi in materia sono disposti a formulare «un’ipotesi colta» riguardo all’inventore di Geova, che gli indizi rintraccerebbero in una donna vissuta intorno al 1000 a.C., Betsabea, l’Ittita che giacque con Davide. Una scrittrice di romanzi avrebbe inventato Dio! I più raffinati studiosi sarebbero pronti a dare la vita piuttosto che affermare di sapere così tanto sul conto di Dio. Tratti un materiale la cui potenza né tu né nessun altro uomo sul pianeta potrà mai afferrare. E prosegui affermando che anche Gesù Cristo sarebbe un personaggio, per lo più inventato da San Paolo o dall’autore del Vangelo di San Marco, chiunque sia. Ho pregato per te, ho chiesto che mi fosse concessa la forza di affrontarti, di continuare ad amarti, senza lasciarmi trascinare nel fondo. Come è possibile conciliare l’amore per Dio e per te? Solo la fede può compiere il miracolo, Joe. Non certo i fatti, o la presunta realtà, né l’arroganza intellettuale, ma la fiducia nella saggezza e nell’amore di Dio inteso come presenza viva all’interno delle nostre vite, quel genere di presenza che nessun uomo, e tantomeno un personaggio letterario, potrebbe mai esercitare. Suppongo di essere stato un ingenuo a pensare, sull’onda entusiastica dei miei sentimenti per te, che tutto potesse risolversi nel migliore dei modi, solo perché lo desideravo tanto. All’alba, mi restavano ancora dieci articoli da leggere. Ho preso un taxi e sono venuto a casa tua. Tu dormivi, ignaro della tua stessa vulnerabilità, indifferente alla protezione di cui godi per opera di qualcuno del quale neghi l’esistenza. La vita è stata molto generosa con te e, aspettando là fuori, credo di aver incominciato a pensare che sei un ingrato. Probabilmente non senti mai il bisogno di ringraziare per quello che hai. Credi sia successo tutto per puro caso? O esclusivamente per tua volontà? Tu mi preoccupi, Joe. Mi preoccupano le possibili conseguenze della tua arroganza. Ho attraversato la strada e ho sfiorato la siepe. Nessun messaggio, questa volta. Perché dovresti parlarmi, se non è necessario? Tu credi di avere tutto, sei convinto di bastare a te stesso. Ma finché non prenderai coscienza dell’amore di Dio, vivrai in un deserto. Se solo tu comprendessi fino in fondo il valore di ciò che ti sto offrendo. Svegliati! 121
Forse hai avuto l’impressione che io odi la scienza. A scuola non sono mai stato una cima, e non nutro alcun interesse personale nel progresso scientifico, ma riconosco che si tratta di una cosa meravigliosa. Lo studio e la classificazione della natura non sono altro che uno sviluppo della preghiera, la celebrazione della gloria universale di Dio. Più ci addentriamo nelle complessità della Creazione, e più ci rendiamo conto del niente che sappiamo e delle nostra personale pochezza. Dio ci ha dato la mente, ci ha fatto dono della nostra meravigliosa intelligenza. Sembra talmente infantile e talmente triste che la gente possa usare questo dono per negare la Sua esistenza. Scrivi che al giorno d’oggi sappiamo abbastanza sui fenomeni chimici da formulare ipotesi sull’origine della vita sulla terra. Piccoli bacini minerali riscaldati dal sole, legami chimici, catene proteiche, aminoacidi, eccetera. Il brodo primordiale. Da questa storia, sostieni che abbiamo eliminato la presenza di Dio e che lo abbiamo ridotto a cercare rifugio nei microspazi di molecole e particelle della fisica quantistica. Ma non regge, Joe. Descrivere la composizione del brodo, non coincide con lo spiegare le ragioni della sua esistenza, né col rintracciarne lo chef. È un’argomentazione debolissima contro un potere infinito. Tra le pieghe delle tue tirate contro Dio si coglie la supplica ad essere salvato dalla trappola della tua stessa logica. La somma dei tuoi scritti si riduce a un lungo grido di solitudine. Non c’è spazio per la gioia nella tua smania di rinnegare. Che cosa ci puoi guadagnare alla fine? So che non mi ascolterai, per adesso. La tua mente è chiusa, le tue difese, attive. Ti fa comodo trincerarti dietro alla convinzione che io sia pazzo. Aiuto! C’è un uomo fuori di casa mia che mi vuole offrire il suo amore e quello di Dio! Chiamate la polizia, fate venire un’ambulanza! Joe Rose non ha nessun problema. Il suo mondo è in ordine, ogni cosa al suo posto; i problemi sono di Jed Parry invece, l’idiota paziente che se ne sta in mezzo alla strada come un mendicante, in attesa di posare anche solo uno sguardo sul suo amato e di offrirgli il suo amore. Che devo fare per farmi ascoltare? Solo la preghiera può rispondere a questa domanda, soltanto l’amore può fartela pervenire. Ma il mio amore per te non sarà più del tipo implorante. Non intendo più stare seduto accanto al telefono in attesa di una parola gentile da parte tua. Basta, non sei più tu a decidere del mio futuro, non hai il potere di ordinarmi cosa devo fare. Adesso il mio amore è duro e feroce, è un amore che rifiuta il rifiuto, e che si muove inesorabile verso di te, per venire a reclamarti e a salvarti. In altre parole, il mio 122
amore - che è anche quello di Dio - , è il tuo destino. I tuoi rifiuti, le tue resistenze, insieme a tutti gli articoli e i libri che hai scritto assomigliano al capriccio di un bambino che pesta i piedi perché è stanco. È solo questione di tempo, e quando arriverà il momento, tu mi sarai grato. Vedi? Leggere le tue cose per tutta la notte mi ha reso più forte. Questo può fare l’amore di Dio. Se incominci a sentirti a disagio, è solo perché il cambiamento in te si sta già verificando e un giorno sarai felice di pregare chiedendo: «Liberami dall’insensatezza». Verrà un giorno in cui ripenserai con tenerezza a questi nostri incontri. Allora ne conoscerai lo scopo, e ti farà sorridere il ricordo di quanto io abbia dovuto insistere, di quanto tu abbia lottato per tenermi lontano. Perciò, qualunque cosa tu senta ora, ti prego: non distruggere queste lettere. Quando sono arrivato da te alle prime ore del mattino, ti odiavo per quello che avevi scritto. Volevo farti del male. Forse persino di più. Ho pensato di peggio, e Iddio mi dovrà perdonare per questo. Mentre venivo in taxi, ti immaginavo nell’atto di dirmi con quel tuo modo freddo che Dio e il Suo Unico Figliolo non sono altro che personaggi, come James Bond o Amleto. Oppure che tu stesso saresti in grado di creare la vita in una provetta, se provvisto di una manciata di componenti chimiche e di qualche milione di anni. Tu non ti limiti a negare che ci sia Dio: vuoi prendere il Suo posto. Tanto orgoglio può essere la tua rovina. Ci sono misteri che non dovremmo toccare, e c’è anche una forma dell’umiltà che tutti quanti dobbiamo imparare, e io, Joe, ti ho odiato per la tua arroganza. Tu vuoi avere l’ultima parola su ogni argomento. Lo so bene io, che mi sono letto trentacinque tuoi articoli. Mai un accenno di dubbio, mai un’esitazione, l’ammissione di un’ignoranza. Ti presenti con le tue verità aggiornatissime su batteri, particelle, agricoltura e insetti, anelli di Saturno e armonia musicale, calcolo delle probabilità e uccelli migratori... Il mio cervello, come una lavatrice, si rigirava dentro tutti i tuoi panni sporchi. Che ne posso io se ti detesto per la spazzatura alla quale permetti di infestare la tua mente: satelliti, nanotecnologie, ingegneria genetica, bio-computeristica, motori a idrogeno. È solo mercanzia. E tu ti compri tutto quanto, ti scaldi come un tifoso allo stadio, ti vendi per fare pubblicità alla merce altrui. In quattro anni di attività giornalistica, mai una parola sulle cose che contano davvero, come l’amore e la fede. Forse me la prendo tanto perché non vedo l’ora che inizi la nostra vita insieme. Mi ricordo che una volta, durante le vacanze estive, la scuola ci aveva portati in 123
viaggio in Svizzera. Un giorno passammo l’intera mattina ad arrampicarci su un sentiero roccioso. Ci annoiavamo, e ci lamentammo tutti: faceva così caldo e non capivamo la ragione di tanta fatica, ma il nostro insegnante ci costrinse a continuare. Poco prima di pranzo arrivammo su un prato alpino ad alta quota, un’immensa distesa assolata di erba e fiori, attraversata da un corso d’acqua con le sponde coperte di muschio verdissimo. Un posto incantevole. Eravamo un branco di adolescenti scatenati, ma all’improvviso restammo ammutoliti. Qualcuno trovò il coraggio di sussurrare che era come essere arrivati in Paradiso. Quello fu un momento importante nella mia vita. Penso che quando avremo superato le difficoltà, quando verrai a vivere qui e staremo insieme, sarà come arrivare di nuovo su quel prato. Potremo smettere di faticare in salita. Troveremo la pace, e il tempo si dispiegherà dinanzi a noi. C’è un’ultima cosa che devo dirti. So di essere esploso nella tua vita, come tu sei esploso nella mia. È ovvio che preferiresti non fosse accaduto. La tua esistenza sta per essere sconvolta. Dovrai parlare a Clarissa, trasferire tutte le tue cose, anche se di molte vorrai comunque liberarti. Dovrai dare delle spiegazioni a tutti i tuoi amici, non solo informarli sul tuo nuovo indirizzo, ma anche dar conto della rivoluzione che si è verificata nelle tue convinzioni. Saranno dolori e preoccupazioni che tu non avrai certo voglia di sopportare. Ci saranno momenti in cui preferirai che non io avessi mai turbato la tua vita tanto ordinata e appagante. Momenti in cui vorrai che non esistessi. È comprensibile: non sentirti in colpa per questo. Sarai in collera e vorrai allontanarmi, perché io rappresenterò solo scompiglio e rivoluzione. Ma è proprio così che deve essere. È il sentiero roccioso in salita! Devi trovare modo di esprimere tutto ciò che provi. Maledicimi, prendimi a pugni, a sassate, se hai il coraggio. C’è solo una cosa che non devi fare mai mentre percorriamo il sentiero verso il nostro prato, e cioè ignorarmi, fingere che non stia succedendo niente, negare la fatica, o il dolore o l’amore. Non passarmi mai accanto come se non ci fossi. Non possiamo prenderci in giro. Non negare mai la mia esistenza, perché coinciderebbe col negare la tua. Lo sconforto che mi ha preso di fronte al tuo rifiuto di Dio ha qualcosa a che vedere con la mia sensazione di essere stato rifiutato a mia volta. Accogli me, e ti ritroverai ad accogliere Dio senza neanche saperlo. Perciò, promettimelo. Mostrami la tua rabbia, il rancore. Non importa. Non ti abbandonerò mai. Ma non fingere, non fingere mai che io non esista. 124
Jed
125
Capitolo diciassettesimo
Non ho idea di come fosse andata, ma stavamo a letto uno di fronte all’altra, come se niente fosse. Forse era solo questione di stanchezza. Era tardissimo, ben oltre la mezzanotte. Il silenzio pareva così ricco da assumere una qualità visiva, un fulgore palpabile, e una densità, come una spessa mano di vernice fresca. La sinestesia poteva essere frutto del mio disorientamento, visto che perdermi nel prato verde del suo sguardo, sentire tra le mani le sue braccia esili e lisce, era per me una sensazione tanto nota. Ed era anche successo così all’improvviso. Non eravamo certo in guerra, ma tra noi era tutto in sospeso. Ci fronteggiavamo come due eserciti separati da un dedalo di trincee. Paralizzati. Il solo movimento avvertibile era quello di silenziose accuse che increspavano l’aria sopra le nostre teste, come vessilli. Agli occhi di lei io ero un maniaco, un folle perverso e, soprattutto, il rapace invasore del suo spazio privato. Quanto a me, la consideravo
sleale,
poco
comprensiva
in
questo
momento
di
crisi,
e
irragionevolmente sospettosa. Non ci furono liti, nemmeno battibecchi, come se entrambi sapessimo che un confronto poteva farci a pezzi. Ci rivolgevamo la parola con estrema cautela, chiacchieravamo di lavoro e ci scambiavamo messaggi sulla spesa, il mangiare, le piccole incombenze domestiche. Clarissa usciva di casa ogni mattina per lezioni, seminari e battaglie con la direzione dell’Ateneo. Io scrissi una recensione lunga e noiosa di cinque pubblicazioni sul tema della coscienza. Quando avevo incominciato a scrivere per riviste specialistiche il termine coscienza era quasi tabù all’interno del dibattito scientifico. Non certo un argomento. Ora invece si era guadagnato un posto accanto ai buchi neri e a Darwin, e rischiava di avere la meglio anche sui dinosauri. Procedevamo nelle nostre routine giornaliere, perché tutto il resto pareva poco chiaro. Sapevamo di aver perso slancio, tutti e due. Se non proprio l’amore, avevamo dimenticato il trucco che lo tiene in vita, e non sapevamo come entrare in argomento. Dormivamo nello stesso letto, ma senza toccarci. Usavamo lo stesso bagno, ma non ci vedevamo mai nudi. Affettavamo una meticolosa 126
disinvoltura, consapevoli che ogni passo falso, ogni cortese freddezza, ad esempio, sarebbe bastata a smascherare l’enigma e a trascinarci dentro quel conflitto che tanto ci premeva di evitare. Quello che un tempo ci era sembrato naturale, come far l’amore o parlare per ore o stare insieme in silenzio, adesso sembrava artificioso e forzato almeno quanto il cronometro da marina Numero 4 di Harrison, altrettanto impossibile e anacronistico da ricreare. Quando la guardavo spazzolarsi i capelli o chinarsi per raccogliere un libro, mi ricordavo della sua bellezza come di un dato acquisito sui libri e imparato a memoria. Come di un fatto vero, ma di nessuna rilevanza immediata. Ed ero anche in grado di ricostruire me stesso nello sguardo di lei: un testadicazzo grande e grosso, spinto ad agire da impulsi biologici, un polipo di dimensioni gigantesche e dalle capacità logiche mediocri con il quale si fosse trovata a dividere la vita per sbaglio. Quando le parlavo, sentivo il tono della mia voce farsi piatto e incolore dentro la testa, e non solo ogni frase, ma ogni singola parola, mi suonava falsa. Una collera muta, un’impalpabile coltre di disprezzo per me stesso, ecco i miei elementi, il mio emblema. Se ci capitava di incrociare lo sguardo, era come se la parte più lugubre e meschina di noi ci parasse le mani davanti agli occhi per impedire ogni possibile intesa. Ma capitava comunque di rado, e se accadeva si trattava di appena un paio di secondi prima che entrambi abbassassimo nervosamente gli occhi. Il nostro io innamorato di un tempo non ci avrebbe mai capiti né perdonati, ed ecco perciò cosa ci toccava: l’emozione dominante e disconosciuta che circolava per casa nostra in quei giorni era la vergogna. E adesso eccoci qua, tra l’una e mezza e le due del mattino, distesi a letto a guardarci alla luce bassa di una lampada, io, nudo, lei in camicia da notte di cotone, con le mani e le braccia che si sfioravano, ma senza trasporto, senza partecipazione. Intorno a noi si ammassavano a mucchi le domande, e per un po’ nessuno dei due osò parlare. Era già molto riuscire a guardarci negli occhi. Come ho detto eravamo tuttora in grado di discorrere su faccende di tutti i giorni, ma la routine quotidiana aveva assorbito un aspetto delle nostre vite che non avevamo il coraggio di discutere. La gente spesso si stupisce della velocità con la quale le cose straordinarie diventano fatti acquisiti. A me viene in mente tutte le volte che mi trovo in autostrada di notte, oppure a bordo di un aereo che sale oltre la linea delle nuvole per uscire di nuovo nel sole. Siamo creature dotate di un forte spirito di adattamento. Tutto ciò che è prevedibile diventa, per 127
definizione, scontato e lascia la nostra attenzione libera di concentrarsi meglio sull’inatteso e il casuale. Parry mi mandava ormai tre o quattro lettere la settimana. Di solito erano lunghe e appassionate, scritte con sempre maggior sicurezza nell’uso del tempo presente. Spesso prendeva spunto dal procedimento di scrittura della lettera stessa, la stanza in cui si trovava, i cambiamenti di luce e di clima, la mutevolezza dei suoi stati d’animo, e dalla considerazione che l’atto di scrivermi compiva la magia di evocare la mia presenza, proprio lì accanto a lui. I commiati erano
logorroici quanto
sofferti. I riferimenti religiosi sarebbero
apparsi
puramente convenzionali, se non si fossero avvantaggiati di tanto fervore: il suo amore era come quello di Dio, paziente e onnicomprensivo e Dio stesso aveva scelto Parry come strumento del mio ritorno a Lui. C’era di solito un elemento d’accusa, vuoi diffuso e sommesso, vuoi acuto e dolorosamente concentrato in un solo paragrafo: essendo io il motore primo della nostra storia d’amore, dovevo assumermi delle responsabilità nei suoi confronti. Io muovevo le pedine del gioco, gli offrivo spunti, lanciavo messaggi di incoraggiamento, per poi ritirarmi. Mi piaceva stuzzicarlo, flirtare con lui, lo torturavo lentamente e il mio genio non avrebbe mai ammesso le mie intenzioni. A quanto pare avevo cessato di inviare messaggi via tenda o via siepe. Adesso gli parlavo in sogno. Gli apparivo radioso nel sonno, come un profeta biblico, e lo rassicuravo sul mio amore, predicendogli la felicità dei giorni futuri. Imparai a scorrere le lettere rapidamente. Mi soffermavo solo sulle accuse, le frustrazioni, cercando sempre di rintracciare il ripetersi della minaccia che mi pareva di aver ricevuto da lui. La rabbia c’era, altro che. Quell’uomo aveva senz’altro un lato oscuro, ma era troppo astuto per esprimerlo in modo diretto. Comunque doveva esserci, se mi scriveva che io ero la fonte di ogni suo male, se rifletteva sull’ipotesi che non andassi mai a stare da lui, se suggeriva che la nostra storia «potesse finire nel dolore e in tante lacrime che nemmeno riusciamo a immaginare, Joe». Ma io volevo di più. Smaniavo. Ti prego Jed, dammi uno spunto, un’arma contro di te. Una piccola minaccia sarebbe stata sufficiente per andare alla polizia, ma lui me la negava, giocava al gatto e il topo con me, come mi accusava di fare con lui. Mi occorreva che reiterasse la minaccia perché dovevo esserne certo, e il fatto che non mi desse soddisfazione manteneva vivo il sospetto in me che da un momento all’altro potesse farmi del male. Le mie 128
ricerche del resto mi davano ragione. Ben più del cinquanta per cento dei pazienti maschi afflitti da sindrome di de Clérambault avevano compiuto gesti violenti ai danni degli oggetti della loro ossessione. La presenza di Parry fuori di casa era diventata una consuetudine, come le sue lettere. Veniva quasi tutti i giorni e si sistemava sul lato opposto della via. Sembrava aver trovato un equilibrio tra gli orari e le sue necessità. Se non riusciva a vedermi, lasciava passare un’ora prima di allontanarsi. Se mi vedeva uscire dall’edificio, mi seguiva per un pezzo di strada, senza attraversare, e poi svoltava in una traversa senza guardarsi indietro. A quel punto il contatto stabilito gli sarebbe bastato, per quanto ne sapevo, a tenere in vita il sentimento, e lui se ne sarebbe tornato dritto a Hampstead, a scrivermi una lettera. Una di queste incominciava così: «Ho capito che cosa mi dicevi con lo sguardo di questa mattina, Joe, ma secondo me ti sbagli...» Mai però il minimo accenno alla sua decisione di non rivolgermi più la parola, e all’improvviso mi trovai spiazzato, perché se non voleva minacciarmi per iscritto, speravo almeno che lo facesse a voce permettendomi di fermare le sue parole su un nastro. Tenevo in tasca una minuscolo registratore e mi nascondevo il microfono sotto il bavero della giacca. Una volta, mentre Parry mi guardava, mi attardai nei pressi del ligustro e ci passai la mano sopra per inviargli un messaggio, poi mi voltai verso di lui e lo guardai. Ma non si avvicinò, e nella lettera che mi scrisse più tardi quello stesso giorno, non faceva cenno all’episodio. L’andamento del suo amore non era determinato da fattori esterni, neppure se questi partivano da me. Quello di Parry era un mondo determinato dall’interno, guidato da una necessità interiore, e in questo
modo
poteva
mantenersi
intatto.
Non
c’era
niente
che
potesse
sconfessarlo, perché niente poteva confermarlo. Se anche gli avessi scritto una lettera di amore appassionato, non avrebbe fatto alcuna differenza. Lui se ne stava rinchiuso dentro la prigione dei suoi stessi pensieri, distillando significati, rovesciando speranze e delusioni dentro presunti scambi di comunicazioni mai avvenute, in un’analisi continua del mondo fisico, con le sue casuali dislocazioni, il suo caos cromatico e sonoro, alla ricerca dei correlativi del suo stato emotivo, una ricerca che non lo lasciava mai insoddisfatto. Illuminava il mondo con i suoi sentimenti, e il mondo lo ricambiava seguendone ogni svolta. Faceva coincidere la sua disperazione con il calare del buio, oppure con la variazione nel canto di un uccello che gli aveva comunicato il mio rifiuto. La gioia del resto non mancava 129
mai di recare la convalida di qualche evento inatteso e felice: un messaggio gentile che gli trasmettevo in sogno, un’intuizione che si «materializzava» durante una preghiera o una seduta di meditazione. I vincoli erano quelli dell’autoreferenzialità dell’amore ma, nella gioia come nella disperazione, non c’era verso di portarlo a minacciarmi, e neppure a parlarmi. Per ben tre volte attraversai la strada con il registratore nascosto in funzione, ma lui si allontanava sempre. - Sparisci allora! - gli urlai. - Smettila di ciondolare qui davanti. E di seccarmi con le tue stupide lettere. - Torna indietro e parlami, - avrei voluto dirgli in realtà. - Torna indietro, affronta l’illusorietà della tua causa, esprimi le tue minacce in modo diretto. O almeno al telefono, lasciamele registrate sulla segreteria telefonica. Naturalmente, quanto gridai quel giorno, non alterò il tono della lettera dell’indomani, che traboccava speranza e felicità. Il suo solipsismo era inviolabile, e io avevo sempre più paura. Il passaggio logico che lo avrebbe portato dalla disperazione all’odio, o dall’amore alla volontà distruttiva d’un colpo, sarebbe stato imperscrutabile e, se avesse deciso di aggredirmi, non ci sarebbe stato alcun preavviso. Per intanto, la sera, stavo molto attento a chiudere bene la porta di casa. Se mi trovavo fuori da solo, specialmente di notte, controllavo sempre chi avevo alle spalle. Prendevo il taxi con maggiore frequenza, e mi guardavo sempre intorno. Non senza qualche difficoltà, ottenni un appuntamento con un Ispettore della centrale di polizia locale. Incominciai a fantasticare su quali armi di difesa adottare. Un manganello? Un pugno di ferro? Un coltello? Immaginavo scene di violenta colluttazione nelle quali io avevo sempre la meglio, ma in fondo al cuore, organo di ottuso buonsenso, sapevo bene quanto fosse improbabile che Parry mi affrontasse direttamente. Se non altro, Clarissa pareva essere sparita dai suoi pensieri. Ormai non la nominava più nelle lettere, e non tentò mai di parlarle. Al contrario, faceva di tutto per evitarla. Controllavo dalla finestra del soggiorno, ogni volta che usciva. Non appena la vedeva scendere le scale attraverso la vetrata dell’atrio, ancora prima che mettesse piede fuori dall’edificio, lui si precipitava su per la via. E recuperava la posizione, quando Clarissa se ne era andata. Chissà se, nella sua fiaba privata, pensava di non voler turbare i suoi sentimenti? O magari immaginava che le avessi spiegato tutto e che lei fosse in fondo già uscita di 130
scena, o forse credeva di aver sistemato tutto quanto lui stesso. O magari la storia in sé non doveva rispondere ad alcun criterio di coerenza interna. Eravamo sdraiati in silenzio ormai da dieci minuti. Lei stava sul fianco sinistro e mi pareva di sentire l’andamento giambico del suo ritmo cardiaco attraverso il cuscino. O forse era il mio. Era lento ed ero sicuro che stesse rallentando ancora. Non c’era alcuna tensione in questo silenzio. Ci guardavamo negli occhi e il nostro sguardo si spostava pacato sui lineamenti dell’altro, dagli occhi alle labbra, dalle labbra agli occhi. Era come un lungo e pigro cammino a ritroso nella memoria e, col passare dei minuti senza che nessuno dei due profferisse parola, il processo di guarigione assumeva sempre più forza. Di sicuro la forza d’inerzia del nostro amore, le ore, le settimane, gli anni armoniosamente trascorsi insieme, erano più potenti delle mere contingenze attuali. L’amore non era forse in grado di produrre le sue stesse riserve d’affetto? L’ultima cosa da fare adesso, pensavo, era cedere al gioco del paziente ascolto e delle spiegazioni. La psicologia spicciola si aspetta troppo dalla pratica della verbalizzazione dei problemi. I conflitti sono come organismi viventi: hanno una loro durata naturale. Il trucco consisteva nel sapere quando lasciarli morire. Usate al momento sbagliato, le parole potevano funzionare come scosse fibrillatone. E allora la creatura poteva tornare in vita in forma
patogena,
artificiosamente
rigenerata
da
una
nuova,
interessante
formulazione del caso, o da chissà quale morbosa «freschezza» di approccio. Spostai la mano e aumentai appena la pressione delle dita sul braccio di lei. Le sue labbra si schiusero in uno scollamento sensuale accompagnato dal suono morbido di una consonante occlusiva. Non dovevamo far altro che guardarci negli occhi e ricordare. Per far l’amore e tutto il resto c’era tempo. Le labbra di Clarissa pronunciarono il mio nome, senza emettere un suono, nemmeno un respiro. Non riuscivo a staccarle lo sguardo dalla bocca. Morbida, così ricca di colore naturale. Il rossetto è stato inventato perché le donne possano vantare un pallida imitazione di labbra come queste. - Joe... - disse ancora la bocca. C’era un’altra ragione per la quale non avremmo dovuto parlare adesso, e cioè che così facendo ci saremmo ridotti ad accogliere Parry in camera con noi, nel nostro letto. - Joe... - Questa volta esalò il mio nome attraverso la mezza piega delle sue splendide labbra, poi aggrottò la fronte, inspirò profondamente e diede alle sue parole un tono grave. - Joe, è finita. Tanto vale ammetterlo. Penso che sia finita, tu no? 131
Quando
lo
disse,
non
mi
ritrovai
a
varcare
la
soglia
di
una
riconcettualizzazione, e nemmeno sentii il pavimento o il letto sprofondare sotto di me, anche se di sicuro penetrai nello spazio sublime nel quale avevo modo di osservare il non verificarsi di questi fenomeni. Come ovvio, vivevo una condizione di rifiuto della realtà. Non sentivo niente, assolutamente nulla. Non parlavo, non perché non avessi parole, ma perché non sentivo niente. I miei pensieri a sangue freddo invece mi saltavano in testa come ranocchi, fino a raggiungere Jean Logan con la quale adesso Clarissa condivideva una collocazione a livello neurale, una categoria della mente nella quale abitavano donne convinte di aver subito un torto e che si aspettavano un risarcimento da me. Sono uno che si sforza di fare le cose per bene. Mi ero messo alla scrivania con il foglietto della signora Logan e avevo fatto le telefonate. Chiamai per primo Toby Greene a Russell’s Water e mi rispose una vecchia signora dalla voce gracchiarne che doveva essere sua madre. Mi informai cortesemente della caviglia rotta del figlio, ma lei tagliò corto. - E lei da mio figlio cosa vorrebbe? - Si tratta dell’incidente, quello del pallone. Volevo soltanto chiedergli... - Ne abbiamo già avuto abbastanza di giornalisti da queste parti, perciò veda di levarsi di torno. Il discorso era chiaro e il tono di voce piuttosto tranquillo. Lasciai passare un paio d’ore prima di richiamare, e questa volta mi affrettai a presentarmi e a informarla che ero uno dei tizi che erano rimasti appesi alle funi insieme a suo figlio. Quando alla fine Toby Greene si degnò di zoppicare fino al telefono, non fu comunque in grado di aiutarmi. La macchina di John Logan l’aveva vista, in fondo al prato, ma prima era troppo impegnato con la siepe e poi si era messo a correre verso il pallone, perciò non aveva idea se Logan fosse da solo o no. Era un’impresa tenere Greene sull’argomento. Voleva parlare della sua caviglia, e dell’indennità da fame che gli davano per l’incidente. - Sono già tre volte che andiamo da quelli dell’assistenza... - Ascoltai una ventina di minuti di storia su pasticci amministrativi e paternalismi, prima che sua madre lo richiamasse e lui mettesse giù la cornetta senza nemmeno salutarmi. Il suo amico di Watlington, Joseph Lacey, era via per tutto il giorno, perciò chiamai Reading e chiesi di parlare con James Gadd, il pilota del pallone. A rispondere venne la moglie. La voce era chiara e gentile. 132
- Gli dica che sono uno di quelli che ha rischiato la vita per evitare che suo nipote venisse trascinato via. - Io ci provo senz’altro, - disse, - ma non gli va tanto di parlare di quella faccenda. Sentivo in lontananza le voci del telegiornale e quella di Gadd che gridava: Quello che ho da dire, lo dirò in tribunale -. La signora Gadd tornò al telefono e mi riferì il messaggio in un tono di rassegnazione e rammarico, come se dispiacesse anche a lei non essere riuscita a passarmelo. Quando finalmente rintracciai Lacey, mi parve un tipo con la testa più a posto degli altri. - A che gli serve? Di testimoni ne hanno già abbastanza. - È per la vedova. È convinta che ci fosse qualcuno con lui. - Se questo qualcuno esiste deve avere le sue buone ragioni per non farsi vivo. Non svegliamo il can che dorme, dico io. C’era un’eccessiva prontezza e troppa decisione in queste parole, perciò gli dissi di brutto: - È convinta che ci fosse una donna. Ha trovato un sacchetto da picnic nella macchina. Pensa che suo marito avesse una relazione. Soffre molto. Fece un leggero schiocco con la lingua, prima di una lunga pausa. - È ancora lì, signor Lacey? - Sto pensando. - Allora lei l’ha vista. Ci fu un altro silenzio, poi Lacey disse: - Non voglio parlarne al telefono. Venga giù a Watlington, e si vedrà -. Mi diede l’indirizzo e fissammo un appuntamento. Quando lo chiesi a Clarissa, mi rispose che secondo lei le portiere aperte erano due, forse anche tre, ma che non aveva visto nessun altro a parte Logan. Restava soltanto Parry. A quanto ricordavo, il percorso sul prato doveva averlo portato più vicino alla macchina di tutti noi. E se fossi riuscito ad avvicinarlo con il registratore nascosto, gli avessi rivolto le mie domande e magari lo avessi anche mandato abbastanza in bestia da strappargli una minaccia? A parte l’assurdità dell’ipotesi, l’idea di riuscire a ottenere delle informazioni coerenti da uno come lui sembrava irreale. Il suo era un mondo fatto di emozioni, trovate personali e smanie. Parry aveva la consistenza di un brutto sogno, al punto che era difficile immaginarlo impegnato in gesti abitudinari, come sbarbarsi al mattino, o pagare una bolletta. Era quasi come se non esistesse. 133
Dal momento che non avevo detto una parola, e non trovavo l’energia necessaria per farlo, Clarissa parlò ancora. Continuavamo a guardarci negli occhi. - Non fai che pensare a lui. Non smetti mai. Stavi pensando a lui anche adesso, vero? Avanti, dimmi la verità. Dimmelo. - Sì, è vero. - Joe, io non capisco che ti succede. Ti sto perdendo. Mi fai paura. Tu hai bisogno di aiuto, ma non credo di potertelo dare io. - Mercoledì vedo uno alla polizia. Magari mi aiutano loro... - Sto parlando della tua testa. Mi rizzai a sedere. - La mia testa sta benissimo. Funziona. Tesoro, quell’uomo è una minaccia seria, potrebbe diventare pericoloso. Stava cercando di mettersi seduta anche lei. - Oh Dio, - disse, - Non capisci -. E scoppiò a piangere. - Ascolta, sto facendo delle ricerche accurate -. Le appoggiai una mano sulla spalla, ma lei la scostò. Proseguii comunque: - Da quello che ho letto, sembra che i pazienti affetti da sindrome di de Clérambault si dividano in due categorie... - Tu sei convinto di poterne uscire leggendo D’improvviso era in collera e non piangeva più. - Ma non capisci che hai un problema? - Certo che lo capisco, - dissi. - Però, senti. È davvero importante sapere. Ci sono quelli i cui sintomi fanno parte di un disordine mentale diffuso. È facilissimo identificarli. E ci sono quelli affetti dalla forma più pura del male, che risultano completamente ossessionati dall’oggetto del loro amore, ma che per tutto il resto hanno vite normalissime. - Joe! - strillò lei. - Mi dici sempre che è là fuori, e quando io esco non c’è nessuno. Nessuno, Joe. - Quando ti vede attraversare l’atrio si allontana un po’ e si nasconde dietro un albero. Non chiedermi perché. - E poi ci sono le lettere. La grafia... - Mi guardava, socchiuse il labbro inferiore. Un pensiero le aveva attraversato la mente, ma l’aveva fatta esitare. Dissi: - Che vuoi dire: le lettere? Scosse la testa. Si era alzata dal letto, e raccoglieva i vestiti che le servivano per il giorno dopo. Si fermò sulla porta. - Ho paura, - disse. - Anch’io. Potrebbe diventare violento.
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Non stava più guardando me, ma lo spazio sopra la mia testa. La voce era roca: - Questa notte, dormo nella camera dei bambini. - Ti prego, Clarissa, rimani. Ma era già andata via, e il giorno dopo trasferì le sue cose nell’altra stanza. Come sempre succede in casi simili, una decisione impulsiva si trasformò in sistemazione definitiva. Continuavamo a vivere insieme, ma io sapevo che ormai ero solo.
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Capitolo diciottesimo
Quel mercoledì era il compleanno di Clarissa. Le consegnai un biglietto d’auguri e lei mi diede un vero bacio sulla bocca. Da quando si era convinta del mio squilibrio mentale e mi aveva comunicato che tra noi era finita, si mostrava sempre allegra e magnanima. Stava per avere inizio una nuova vita e lei non aveva nulla da perdere a essere gentile. Qualche giorno prima la sua benevolenza avrebbe potuto suscitare i miei sospetti, o le mie gelosie, ma adesso non faceva che confermare il mio ragionamento: Clarissa non si era presa il disturbo di fare alcuna ricerca né alcuna riflessione. La condizione di Parry intanto non poteva restare immutata. Posto che non esisteva speranza di realizzazione, il suo amore era destinato a trasformarsi in indifferenza o in odio. Clarissa riteneva le proprie emozioni una guida sicura per giungere alla verità, laddove quello che le sarebbe servito erano dati, intuito e calcolo attento. Era perciò naturale, ancorché disastroso per tutti e due, che lei mi considerasse pazzo. Non appena fu uscita per andare a lavorare, entrai nello studio e le incartai il regalo che contavo di darle nel corso del pranzo organizzato per l’occasione con il suo padrino, il Professor Kale. Radunai le lettere di Parry, le sistemai in ordine cronologico e le pinzai insieme. Mi sdraiai sulla chaise-longue e presi a sfogliare piano i fogli dal principio, in cerca di paragrafi significativi che andavo sottolineando. Poi li ricopiai a macchina, mettendo in parentesi i riferimenti alla singola lettera. Alla fine, avevo quattro pagine di estratti: ne feci tre copie e le infilai in altrettante cartelline di plastica. Questa lavoro di pazienza mi fece entrare in una specie di trance organizzativa, la tipica illusione dell’impiegato per il quale tutto il dolore del mondo può in fondo essere ridotto all’obbedienza con un po’ di dattilografia, una buona stampante laser e una scatola di graffette. Stavo cercando di mettere insieme un dossier di minacce e, benché non ci fosse un solo esempio diretto, comparivano allusioni e salti logici il cui effetto cumulativo non poteva sfuggire alla mente di un poliziotto. Ci sarebbe voluta l’abilità critica di una come Clarissa per leggere fra le righe delle dichiarazioni d’amore di Parry, ma da lei sapevo di non potermi aspettare alcun aiuto. Dopo 136
circa un’ora mi resi conto che era un errore insistere nella ricerca di espressioni di aperta denuncia o di delusione: da me era partito tutto, ero io a lanciargli i segnali, a tenerlo sulla corda con false promesse, a rimangiarmi l’impegno di andare a stare con lui. Sul momento quelle affermazioni erano sembrate intimidatorie, ma col senno di poi apparivano solo patetiche. Le minacce vere, incominciavo a capire, erano altrove, là dove interrompeva la descrizione di quanto si sentisse solo in mia assenza, per ricordare di quando a quattordici anni era stato in campagna da uno zio. Parry si faceva prestare un fucile calibro 22 e poi andava a caccia di conigli. Quell’andare furtivo costeggiando le siepi, con tutti i sensi in stato di allerta, completamente concentrato sul gesto da compiere, era questo il genere di solitudine che prediligeva. Il racconto sarebbe stato piuttosto innocuo, se non ci avesse messo tanto trasporto nella rievocazione del piacere provato uccidendo «il potere della morte affidato a un gesto delle mie dita, Joe, un potere a distanza. Io posso! Posso!, pensavo. Mettere in fuga la creatura, e vederle compiere quella piccola capriola nervosa, prima di ricadere a terra a fremere e contorcersi. Poi si fermava e allora mi avvicinavo, e mi sentivo l’incarnazione del destino stesso, ed ero pieno d’amore per la bestiola che avevo appena distrutto. Potere di vita o di morte, Joe., Dio lo possiede, e noi pure, che siamo fatti a sua immagine». Copiai tre frasi da un’altra lettera: «Volevo farti del male. Forse persino di più. Ho pensato di peggio, e Iddio mi dovrà perdonare per questo». In un’altra, più recente, c’era un’allusione al commento che mi aveva rivolto il giorno in cui ero tornato da Oxford. «Sei tu che hai messo in moto tutto questo, e adesso non puoi fuggire. Io sono in grado di chiedere alla gente di fare delle cose per me, e tu lo sai. Proprio mentre scrivo questa lettera, due ragazzi mi danno il bianco nel bagno. Un tempo l’avrei fatto io, indipendentemente dal costo. Ma adesso ho imparato a delegare». Questo paragrafo lo fissai a lungo. Dove stava di preciso il legame tra il mio non poter più fuggire e il suo essere in grado di farsi fare cose dagli altri? Mancava un passaggio. E nella sua ultima lettera, di punto in bianco, se ne usciva con: «Ieri sono stato a Mile End Road, sai la strada dove abitano i veri delinquenti. Cercavo altri decoratori! » Altrove si trovavano roboanti invocazioni al lato oscuro di Dio. «L’amore di Dio,» scriveva, «può assumere la forma della collera. Può apparire ai nostri occhi come una calamità. È questa la lezione difficile che ho impiegato una vita a imparare». 137
E, ancora su questo argomento: «Il suo amore non sempre è gentile. Come potrebbe, dal momento che deve essere eterno, che non possiamo disfarcene? È una fonte di calore e come tale ti può bruciare, Joe, ti può consumare». La corrispondenza di Parry conteneva pochissimi riferimenti biblici. La sua fede era vaga e sognante rispetto allo specifico della dottrina, e dava l’impressione di non riferirsi ad alcuna chiesa in particolare. Era il fai- da- te della religione, genericamente ispirato al concetto della crescita e della realizzazione personale. Erano frequenti gli accenni al destino, a quel suo «sentiero» dal quale nulla avrebbe potuto allontanarlo, e al fatale intrecciarsi delle nostre sorti. Spesso il termine Dio era sostituibile con il concetto dell’io. L’amore di Dio per l’umanità sfumava in quello di Parry per me. Dio abitava innegabilmente più «dentro di lui» che nei cieli, e credere significava perciò concedersi di prestare ascolto al proprio sentimento e all’intuito. Ecco un esempio perfetto della vacillante struttura di una mente disturbata. Non esistevano limiti dettati da finezze teologiche o da rigorose osservanze, nessuna approvazione sociale o esigenza congregazionale di cui tener conto, nessun sistema etico di quelli che rendono attuabili le religioni a dispetto dell’improponibilità delle loro cosmologie. Parry ascoltava soltanto la voce interiore del suo Dio privato. L’unica concessione a una fonte che trascendesse da lui, furono un paio di riferimenti alla vicenda di Giobbe e, anche in questo caso, non era ovvio che avesse attinto al testo originale. «Sembravi imbarazzato,» scrisse una volta dopo avermi visto per strada. «Pareva quasi che stessi soffrendo, ma questo non deve indurti a dubitare di noi. Ricorda le sofferenze di Giobbe, eppure Dio non cessò mai di amarlo». Anche qui, l’assunto implicito era che Dio e Parry fossero un’entità sola, e che collaborando avrebbero gestito la faccenda dei nostri destini comuni. Un altro accenno sollevava l’ipotesi che il ruolo di Dio spettasse a me. «Stiamo soffrendo entrambi, Joe, siamo afflitti tutti e due. La domanda è, chi di noi due è Giobbe?» Quando lasciai l’appartamento nella tarda mattinata con in mano una busta marrone contenente gli estratti documentati con precisione, e in tasca il regalo di Clarissa, Parry non c’era. Mi fermai per guardarmi intorno, quasi aspettandomi di vederlo sbucare da dietro un albero. Il cambiamento rispetto alla routine mi mise a disagio. Non lo vedevo dalla mattina precedente. Ora che avevo consultato tutta la letteratura sul caso e conoscevo le possibilità, preferivo averlo sempre 138
sott’occhio. Sulla strada verso il comando di polizia, mi voltai indietro due o tre volte per controllare sé mi stava seguendo. Era un momento morto della giornata, ma dovetti comunque aspettare per più di un’ora in sala d’attesa. Dove l’umano bisogno di ordine incontra l’umana tendenza al caos, dove la civiltà arriva a cozzare con il proprio malcontento, si verifica una frizione, e un grande accumulo di stanchezze e conflitti diffusi. Se ne trova riscontro nelle chiazze di linoleum consumato davanti alle porte di ciascun ufficio, nella lunga crepa verticale sul vetro opaco dello sportello dell’ufficio denunce, e nell’aria calda e viziata che costringe chi arriva a sfilarsi la giacca e chi resta a lavorare in maniche di camicia. Ne intuivo l’effetto nella postura svaccata dei due ragazzi in giubbotto di pelle che si fissavano i piedi, troppo furiosi per rivolgersi la parola, e nelle parole incise sul bracciolo della sedia che mi ospitava: una povera sfida, un’angoscia crescente - cazzo, cazzo, cazzo. E la riconobbi anche nel pallore fluorescente del largo faccione rotondo dell’Ispettore Linley, quando alla fine mi introdusse svogliatamente nella stanza per il colloquio. Sembrava uno che mettesse di rado il naso fuori di lì. Che bisogno ne aveva, dal momento che i guai gli arrivavano a domicilio? Un amico giornalista che era stato tre anni alla cronaca nera di un settimanale mi aveva avvisato che l’unico mezzo per cercare di interessare anche solo marginalmente la polizia al mio caso sarebbe stato quello di sporgere un reclamo formale sul modo in cui gli agenti se ne erano occupati fino a quel momento. Solo così ero riuscito ad avere la meglio sulla poliziotta con gli occhiali che stava di guardia all’ingresso dell’ufficio denunce. Almeno del reclamo ci si doveva occupare, e io avrei avuto occasione di esporre il problema a qualcuno un tantino più in alto nella scala gerarchica. Lo stesso amico mi aveva anche detto di non aspettarmi granché. Il mio uomo sarebbe stato uno che sognava solo di andare in pensione e di fare una vita tranquilla. Secondo le istruzioni ricevute, il suo compito era quello di insabbiare i reclami, dando però l’impressione di interessarsene. Linley mi fece cenno di accomodarmi su una della due sedie metalliche sistemate l’una sull’altra. Mi stava di fronte, al di là di un tavolo in formica costellato di anelli marroni lasciati dalle tazze del caffè. L’intera superficie fredda della mia sedia era unta al tatto. Il posacenere era il fondo tagliato da una bottiglia di plastica della Coca- cola, accanto al quale stava una bustina usata di 139
tè appoggiata su un cucchiaino. Lo squallore circostante lanciava la sua laconica sfida: con chi avrei potuto lagnarmene? Avevo sporto il mio reclamo formale, Linley mi aveva finalmente telefonato e io gli avevo esposto il caso. Al momento avevo qualche difficoltà a stabilire se fosse vagamente intelligente, o molto cretino. Aveva una di quelle voci strozzate che a volte i comici adottano per fare il verso ai burocrati. Quella di Linley lasciava supporre una certa dose di imbecillità. D’altra parte, non aveva detto molto. Anche adesso, mentre procedeva ad aprire la cartellina, non si lasciò sfuggire un saluto, un «dunque, vediamo» o altre formule di preambolo. Solo il sibilo elettronico del respiro attraverso le cavità pelose del naso. In silenzi simili, immaginavo che indiziati e testimoni potessero dire più di quanto intendevano, perciò tacqui anch’io, guardandolo sfogliare il paio di pagine sulle quali aveva preso nota del caso in una grafia obliqua e spigolosa. Linley alzò gli occhi, ma non mi guardò. Fissava dritto nella mia cassa toracica. Fu solo quando prese fiato per cominciare a parlare che i suoi minuscoli occhietti grigi mi misero a fuoco per un breve istante. - Allora. Lei ha subito molestie e minacce da questo signore. Ha sporto denuncia, ma non è soddisfatto. - Esatto, - dissi. - Le molestie consistono... ? - Come le ho detto, - risposi, cercando di decifrare la sua scrittura capovolta. Non mi era stato a sentire? - Mi manda tre o quattro lettere la settimana. Oscenità? - No. - Proposte indecenti? - No. - Insulti? - Non proprio. - Una faccenda di sesso, comunque. - A quanto pare il sesso non c’entra. Si tratta di un’ossessione. Ha una fissazione per me. Non pensa ad altro. - Le telefona? - Non più. Mi scrive solo. - È innamorato di lei. Dissi: - È affetto da una malattia nota come sindrome di de Clérambault. È una forma maniacale. Crede che sia stato io a mettere in moto la cosa, è convinto che lo incoraggi con dei segnali segreti... - Lei è psichiatra, signor Rose? 140
- No. - Omosessuale sì, però. - No. - Come vi siete conosciuti? - Gliel’ho già detto. L’incidente del pallone aerostatico. Tirò fuori un foglio dei suoi appunti. - A quanto pare qui non risulta. Gli fornii un breve resoconto, mentre lui riposava il testone simmetrico sulle mani, ancora deciso a non prendere nota della vicenda. Quando ebbi finito, disse: - Come è incominciato? - Con una telefonata a tarda notte. - Le ha detto che l’amava e lei ha riagganciato, sconvolto immagino. - Irritato. - E così ne ha parlato alla sua compagna. - Il mattino dopo. - Come mai questo ritardo? - Eravamo molto stanchi e provati per via dell’incidente. - E lei come ha reagito alla cosa? - È sconvolta. Questa faccenda ci ha procurato una grande tensione. Linley distolse lo sguardo e strinse ostentatamente le labbra. - Se la prende mai con lei per questa storia. O viceversa? - Il nostro rapporto ne ha risentito moltissimo. Eravamo felici, prima. - Ha avuto malattie mentali in passato, signor Rose? - Mai. - Stress da lavoro, cose così? - Niente del genere. - Mestiere duro quello del giornalista, giusto? Assentii col capo. Incominciavo a detestare Linley e il suo faccione curioso. Nella pausa che seguì dissi: - Ho buone ragioni di credere che questo individuo possa diventare violento. Sono venuto alla polizia per avere un aiuto. - Giusto, - disse Linley. - Avrei fatto lo stesso anch’io. E sembra che in futuro ci saranno leggi più rigorose su casi di questo tipo. Dunque, l’uomo si piazza davanti a casa sua e la infastidisce quando esce. - Prima lo faceva. In questi ultimi giorni si limita a stare lì. E se cerco di parlargli, lui se ne va.
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- Perciò non si può parlare di vere... - Trascinò la voce e lesse, o finse di leggere, tra i suoi appunti. Borbottava tra sé. - Questo per quanto riguarda le molestie, hmm -. Poi, rivolto a me, con voce chiara: - Che mi dice delle minacce? - Le ho copiato certi passaggi. Non sono minacce dirette. Dovrà leggere con attenzione. L’Ispettore Linley si appoggiò indietro per leggere e, mentre teneva gli occhi bassi, io gli scrutavo la faccia. Non era il pallore a renderla repellente, ma il disumano gonfiore della sua geometrica rotondità. Un cerchio quasi perfetto, con al centro un naso schiacciato, racchiudeva la bianca cupola della pelata e la curva grassa del mento. Il cerchio era inscritto sulla superficie di una sfera leggermente deforme. La fronte era curva, le guance sporgevano tese sotto i piccoli occhi grigi e la linea veniva ripresa dal rigonfiamento azzurrognolo e liscio che si trovava tra il naso e il labbro superiore. Lasciò cadere i miei fogli sulla scrivania, intrecciò le mani dietro la testa e contemplò il soffitto per alcuni secondi, prima di rivolgermi uno sguardo vagamente impietosito. - Se stiamo parlando di un caso di molestie, signor Rose, abbiamo a che fare con una checca. Che cosa vuole da noi, che lo arrestiamo? Dissi: - Lei deve capire la gravità di questa forma maniacale e il grado di frustrazione che gli provoca. Quest’uomo deve sapere che non può fare qualunque cosa... - Io qui non vedo niente che possa definirsi una minaccia, un abuso o un oltraggio, in base al Public Order Act - Linley parlava più in fretta. Voleva mettermi fuori. - Nessuna offesa alla persona; come stabilisce la legge del 1861. Non ci sono neppure gli estremi per ammonirlo. Questo tale ama il suo Dio e ama lei, e mi dispiace comunicarglielo, ma non ha infranto la legge -. Prese in mano gli estratti e li lasciò ricadere. - Voglio dire, dove la vede lei la minaccia? - Se legge con attenzione e ci pensa su, troverà l’implicito riferimento al fatto che è in grado di ingaggiare qualcuno per farmi pestare. - Fesserie. Lei non sa quello che passa qua dentro. Quest’uomo non le ha danneggiato l’auto, mi pare, non l’ha minacciata con un coltello, non le ha rovesciato il bidone dell’immondizia davanti alla porta di casa. Non l’ha nemmeno insultata. Senta, ma lei e la sua compagna avete mai considerato l’ipotesi di invitarlo a bere una tazza di tè e a scambiare due parole? Me la stavo cavando bene a restare calmo, pensai. 142
- Senta, si tratta di un caso tipico. Sindrome di de Clérambault, erotomania, molestie, lo chiami come le pare. Ho studiato a fondo la questione. La letteratura parla chiaro: quando si renderà conto di non riuscire a ottenere quello che vuole, ci sarò serio pericolo che diventi violento. Potrebbe almeno mandargli un paio di agenti a casa e fargli dire che lo state tenendo d’occhio. Linley si alzò, ma io ero deciso a restare seduto. Aveva la mano sulla maniglia della porta. La sua ostentazione di pazienza era un modo di prendermi in giro. Nel genere di società che ci siamo voluti dare, senza tenere conto delle limitate risorse dell’uomo, noi non possiamo mandare degli agenti a casa del Cittadino A da parte del Cittadino B il quale si è letto qualche libro e ha stabilito che sente puzza di violenza. E nemmeno posso spedire i miei uomini in due posti contemporaneamente, da una parte a sorvegliare lui e dall’altra a proteggere lei. Stavo per replicare, ma Linley aprì la porta e uscì. Mi parlava già dal corridoio: - Perciò le dico che cosa farò. Le manderò a casa il nostro agente addetto ai casi di Percosse Domestiche entro la prossima settimana. Ha una decina d’anni di esperienza sui problemi della comunità e sono sicuro che potrà darle qualche suggerimento utile -. Dopodiché se ne andò e lo sentii dire a voce alta in sala d’attesa, presumo ai due ragazzi in giubbotto di pelle: - Reclamo? Voi due? Ma scherziamo? Statemi bene a sentire. Adesso voi vi levate cortesemente dai coglioni e io vedrò se mi riesce di perdere il vostro incartamento. Ero in ritardo per il pranzo e mi avviai spedito su per la strada, allontanandomi dal comando e cercando con lo sguardo un taxi. Mi sarei dovuto sentire in collera o in ansia, ma in un certo senso il modo in cui Linley mi aveva messo alla porta, mi aveva chiarito le cose. Avevo fatto due tentativi di coinvolgere la polizia. Non era il caso che ci provassi di nuovo. Forse fu il peso del regalo di Clarissa che tenevo in tasca a far convergere invece i miei pensieri su di lei e su tutta la nostra infelicità. Per qualche ragione non riuscivo a prendere sul serio la sua convinzione che tra noi fosse tutto finito. A me era sempre sembrato che il nostro fosse un amore di quelli che durano. E adesso, mentre correvo per Harrow Road, memore forse di un’espressione usata dall’Ispettore Linley, mi ritrovai a ricordare il suo ultimo compleanno, che avevamo festeggiato senza traccia di complicazione nelle nostre vite.
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L’espressione era «in due posti contemporaneamente», e il ricordo si riferiva a un mattino presto. L’avevo lasciata dormire ed ero sceso in cucina a mettere su il tè. Probabilmente avevo raccolto la posta dal pavimento dell’ingresso e avevo selezionato i biglietti d’auguri per sistemarli sopra il vassoio. Mentre aspettavo che il bollitore fischiasse, diedi un’occhiata all’intervento radiofonico che dovevo registrare nel pomeriggio. Lo ricordo bene, perché ho adoperato quel materiale in seguito, per il primo capitolo di un libro. Era possibile che la fede avesse una base genetica, o era solo un conforto pensarlo? Se la fede garantiva un vantaggio selettivo, i mezzi per dimostrarlo potevano essere innumerevoli quanto inefficaci. Supponiamo
che la
religione conferisca
prestigio, soprattutto
alla
casta
sacerdotale: ecco una serie di vantaggi sociali. E se avesse sprigionato forza nelle avversità, quel potere di consolazione, la speranza di sopravvivere al disastro che avrebbe annientato l’uomo senza dio? Forse offriva ai fedeli delle convinzioni ardenti, la forza bruta che deriva dall’ottusità. Forse funzionava tanto sul gruppo quanto sul singolo individuo, rafforzando la coesione e l’identità, oltre alla sensazione di essere, insieme ai compagni di fede, nel giusto anche quando, per non dire soprattutto, si era nel torto. Dio è con noi. Sostenuti da un delirio di unità, armati delle più orrende certezze, si cala in massa sulla tribù confinante, la si devasta e violenta a morte e ci si ritira nell’ardore della propria rettitudine e nell’ebbrezza della vittoria voluta e promessa da Dio. Ripetete il fenomeno cinquantamila volte nel corso dei millenni, ed ecco che il complesso sistema genetico che controlla una convinzione infondata ha buone probabilità di diffondersi. Entravo e uscivo con la mente da queste riflessioni. Poi il bollitore fischiò e mi dedicai al tè. La sera prima Clarissa si era fatta un’unica treccia che aveva fermato con un nastrino di velluto nero. Quando entrai in camera con il vassoio del tè e i biglietti d’auguri e il giornale, lei era seduta sul letto che si scioglieva i capelli e li scuoteva con la mano. Stare a letto con la persona che ami è una gran bella cosa, ma tornare al tepore che il corpo di lei ha accumulato per tutta una notte, è dolcissimo. Facemmo un brindisi a base di tè, leggemmo i biglietti d’auguri e passammo alle coccole di compleanno. Clarissa pesa trentacinque chili meno di me e qualche volta le piace mettersi sopra. Si raccolse le lenzuola intorno come lo strascico di una sposa e mi si mise a cavalcioni con aria assonnata. Quella mattina stavamo facendo un gioco. Io stavo sdraiato supino fingendo di leggere il 144
giornale. Mentre lei mi prendeva dentro di sé e gemeva, si contorceva e fremeva, io facevo finta di niente, sfogliavo il giornale e aggrottavo la fronte per concentrarmi sull’articolo che mi stava davanti. Sentirsi ignorata le procurava un leggero brivido masochistico: nessuno la notava, era come se non ci fosse. Annichilimento! Poi si concesse il piacere opposto di distruggere la mia concentrazione, di trascinarmi lontano dalle frenesie del mondo pubblico fino agli abissi di quelle regioni nelle quali era lei sovrana assoluta. Adesso ero io quello da cancellare e, insieme a me, tutto ciò che non era lei. Tuttavia, in quella particolare occasione non ottenne un successo completo, perché, seppur brevemente, io realizzai ciò che a detta dell’Ispettore Linley, era impossibile ai suoi agenti. Ero eccitato da Clarissa, ma stavo in effetti leggendo un articolo sulla Regina. Quest’ultima era in visita in una cittadina chiamata Yellowknife nei più remoti territori del Canada nordoccidentale - una regione grande quanto l’Europa ma con una popolazione di appena cinquantasettemila abitanti, la maggior parte dei quali, a quanto pare, erano alcolizzati o delinquenti. Ad attirare la mia attenzione, mentre Clarissa fremeva sopra di me era stato un paragrafo che descriveva il clima atroce di quella regione e queste due frasi isolate: «Di recente una tormenta di neve si è abbattuta sul campo sportivo a nord di Yellowknife nel quale si stava svolgendo una partita di football. Incapaci di trovare una via di scampo, i membri di entrambe le squadre sono morti assiderati». - Senti qua, - dissi a Clarissa. Solo che lei a quel punto mi aveva guardato e io non ero stato capace di proseguire. Ormai ero tutto suo. L’atto di leggere e di comprendere coinvolge una serie di funzioni separate ma sovrapponibili del nostro cervello, mentre la regione che controlla l’attività sessuale è collocata più in basso, è più antica in termini evoluzionistici ed è utilizzata da innumerevoli organismi, ma comunque disponibile su intercessione di funzioni superiori come la memoria, l’emozione, la fantasia. Se ricordavo la mattina del compleanno di Clarissa tanto bene, compresi i biglietti e le buste sparse sul letto e il calore invadente del sole che mi scottava dalla fessura tra le due tende, era perché quell’episodio giocoso tra noi mi aveva fatto sperimentare per la prima volta nella vita la possibilità di ritrovarmi in due posti contemporaneamente. Ero eccitato da Clarissa, disponibile e riconoscente, ma anche incuriosito dalla tragedia che stava dietro al trafiletto sul giornale: le due squadre che si disperdono a metà partita sotto le raffiche violente del vento e 145
finiscono assiderate ai bordi di un campo invisibile. Tutte le creature sono vulnerabili all’attacco durante la copula, ma nel corso del tempo la selezione deve aver dimostrato che il successo riproduttivo era assicurato meglio dalla concentrazione assoluta. Meglio permettere che occasionalmente una coppia fosse sbranata durante il rapporto, piuttosto che diluire di una goccia soltanto la forte spinta alla procreazione. Ma per una manciata di secondi di fila io mi ero simultaneamente goduto due dei piaceri cruciali e antitetici della vita: leggere e scopare. - Non credi, - avevo chiesto a Clarissa nel bagno, - che io sia una specie di fenomeno evoluzionistico in anticipo sui tempi? Clarissa la studiosa di Keats era nuda, rannicchiata su uno sgabello di sughero, intenta a mettersi lo smalto sulle unghie dei piedi: un preparativo per il suo compleanno. - No, - aveva detto. - Stai semplicemente invecchiando. E in ogni caso, - e a questo punto aveva imitato il tono saccente da voce radiofonica, in ogni caso i mutamenti evoluzionistici, il processo di cosiddetta speciazione, costituiscono un evento che può essere constatato solo a posteriori. Dentro di me mi congratulai con Clarissa per la precisione lessicale acquisita e, mentre un taxi accostava per farmi salire, mi resi conto di quanto mi mancasse la nostra vita di un tempo, e mi chiesi come saremmo mai potuti tornare in possesso di tanto amore e divertimento e di tanta intima disinvoltura. Clarissa mi credeva pazzo, alla polizia mi pensavano scemo, e una cosa comunque era chiara: il compito di riportarci al punto di prima spettava soltanto a me.
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Capitolo diciannovesimo
Arrivai con venti minuti di ritardo. Il locale era quasi sempre al completo all’ora di pranzo: la conversazione era chiassosa e, lasciandosi la strada alle spalle, si aveva l’impressione di essere finiti dentro un temporale. Pareva che tutti dibattessero lo stesso argomento, e nel giro di un’ora sarebbe stato proprio così. Il Professore era seduto, a differenza di Clarissa che già dal fondo della sala mi parve ancora di ottimo umore. Più di una persona si stava occupando di lei. Un cameriere, inginocchiato in posizione di preghiera, aggiustava la gamba del tavolo, mentre un altro le cambiava la sedia. Quando mi vide, mi venne incontro in quel baccano, e mi scortò fino al tavolo come si fa coi ciechi. Attribuii la sua euforia alla circostanza festosa. Avevamo infatti più di un motivo per brindare, non si trattava solo di un compleanno. Il professor Jocelyn Kale, padrino di Clarissa, aveva ottenuto una carica onoraria per il Progetto Genoma. Prima di sedermi la baciai. Negli ultimi tempi le nostre lingue non si sfioravano più, ma questa volta lo fecero. Jocelyn fece l’atto di alzarsi e mi strinse la mano. In quel momento arrivò una bottiglia di champagne nel secchiello del ghiaccio e anche noi ci adeguammo al volume del vocio circostante. Il secchiello poggiava sul rombo di luce disegnato dal sole sulla tovaglia bianca; le alte finestre del ristorante incorniciavano rettangoli azzurri di cielo tra gli edifici. Il bacio mi aveva procurato un’erezione. Nel ricordo tutto questo si associa a successo, luminosità, clamore. Nel ricordo, tutto il cibo che ci portarono era rosso: la bresaola, le grasse lingue di peperone distese sul formaggio caprino, il radicchio, la ciotola di porcellana bianca decorata con coroncine di rapanelli. In seguito, quando riandai col pensiero al modo in cui ci chinavamo sul tavolo urlando per riuscire a sentirci, mi parve di ricordare un episodio avvenuto sott’acqua. Jocelyn estrasse dalla tasca un pacchettino avvolto nella carta velina azzurra. Ci raccogliemmo in un silenzio immaginario mentre Clarissa scartava il regalo. Forse fu allora che lanciai un’occhiata al tavolo alla nostra sinistra. Vi sedevano un uomo, certo Colin Tapp, come più tardi scoprii, con la figlia e il padre. Se al momento registrai la presenza dell’avventore solitario che ci dava le spalle a una 147
distanza di circa cinque metri, la cosa non lasciò traccia nella mia memoria. Dalla carta velina uscì uno scatolino nero che conteneva una spilla d’oro appoggiata su una strato di cotone. Sempre senza parlare, Clarissa la sollevò e noi la esaminammo sul palmo della sua mano. Due bande d’oro si intrecciavano a formare una doppia elica. L’attraversavano sottili raggi d’argento a gruppi di tre, rappresentanti le basi, l’alfabeto di quattro lettere che codifica tutte le creature viventi in triplette ricombinanti. I motivi sferici incisi sulle bande elicoidali rappresentavano i venti aminoacidi sui quali erano tracciati i codoni della sintesi proteica. Illuminata dalla luce che si raccoglieva sul tavolo, la spilla in mano a Clarissa sembrava qualcosa di più di un semplice oggetto simbolico. Pareva quasi la cosa vera, pronta a mescolare catene di aminoacidi e a trasformarle in molecole proteiche. Pareva che potesse separarsi direttamente nella sua mano e dar vita a un altro regalo. Quando Clarissa sussurrò il nome di Jocelyn, fummo di nuovo travolti dal rumore del ristorante. - Dio mio, è stupenda, - esclamò alzandosi per baciarlo. I vecchi occhi azzurri del Professore si inumidirono. Disse: - Era di Gillian, lo sai. Sarebbe felicissima di sapere che ce l’hai tu. Ero impaziente di tirar fuori anche il mio regalo, ma per adesso eravamo ancora incantati da quello di Jocelyn. Clarissa si appuntò la spilla sulla camicetta di seta grigia. Ricorderei
ancora
quella
conversazione
se
non
conoscessi
il
seguito?
Incominciammo a scherzare sul fatto che il Progetto Genoma regalasse dozzine di gioielli simili. Poi Jocelyn parlò della scoperta del Dna. Forse fu allora che mi voltai per chiedere al cameriere di portarci dell’acqua e notai i due uomini con la ragazza. Bevemmo lo champagne e ci portarono via i piatti dell’antipasto. Non ricordo che cosa ordinammo dopo. Jocelyn incominciò a raccontarci la storia di Johann Miescher, il chimico svizzero che identificò il Dna nel 1868. La sua scoperta era considerata una delle grandi occasioni perdute nella storia della scienza. Miescher si era assicurato da un ospedale locale una fornitura costante di garze infette di pus. (Ricche di globuli bianchi, aggiunse Jocelyn a beneficio di Clarissa). Gli interessava la composizione chimica del nucleo. E nei nuclei, contrariamente alle conoscenze correnti, scoprì la presenza di fosforo. La scoperta
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era eccezionale, ma l’articolo venne bloccato dall’insegnante di Miescher che impiegò due anni a ripetere e confermare i risultati già ottenuti dal suo allievo. Non era la noia a rendere incostante la mia attenzione, benché già conoscessi la storia di Miescher, ma un’inquietudine, un’impazienza che mi proveniva da un senso di liberazione dopo il colloquio alla polizia. Avevo voglia di raccontare il mio incontro con l’Ispettore Linley, magari condendolo di qualche trovata divertente, ma sapevo che così facendo sarei ripiombato in piena crisi con Clarissa. Al tavolo accanto il padre stava aiutando la ragazza a scegliere sul menu e, come capitava a me da qualche tempo, anche lui era costretto a farsi scivolare gli occhiali sul naso per leggere. La ragazza gli si appoggiava affettuosamente sul braccio. Frattanto Jocelyn, godendosi il triplo privilegio garantitogli da età, prestigio e riconoscenza, procedeva con la sua storia. Miescher non volle mollare. Formò una squadra e si mise al lavoro per stabilire la composizione chimica di quello che lui chiamò l’acido nucleico. E le trovò infatti, le sostanze che compongono l’alfabeto di quattro lettere nel quale è scritta ogni forma di vita: adenina e citosina, guanina e timina. Nessuno ci fece caso. Ed è curioso, specie con il passare degli anni. Il lavoro di Mendel sulle leggi dell’ereditarietà aveva già avuto vasto consenso, i cromosomi erano stati identificati all’interno del nucleo e si sospettava che contenessero le informazioni genetiche. Era noto che il Dna risiedeva nei cromosomi e la sua composizione chimica era stata descritta da Miescher il quale nel 1892 ipotizzava, in una lettera allo zio, che il Dna potesse essere il codice della vita, proprio come l’alfabeto lo è per la lingua e il pensiero scritto. - Avevano la risposta davanti agli occhi, - disse Jocelyn, - ma non la vedevano, non volevano vederla. Il problema ovviamente era che i chimici... Si faceva fatica a conversare in quel chiasso. Aspettammo che Jocelyn finisse l’acqua. Il racconto era dedicato a Clarissa, a completamento del dono. Mentre Jocelyn riposava la voce, ci fu un movimento alle mie spalle e fui costretto a tirare indietro la sedia per far passare la ragazza, che si allontanò in direzione delle toilette. Quando la rividi era già tornata al suo posto. - I chimici, dicevo. Molto influenti, un po’ presuntuosi. Il diciannovesimo era stato un gran secolo dal loro punto di vista. Godevano di una notevole autorità, ma erano tipi difficili. Prendiamo Phobus Levine del Rockerfeller Institute. Era assolutamente certo che il Dna fosse solo una molecola noiosa e irrilevante in cui 149
erano contenute sequenze casuali di quelle quattro lettere, A C G T. Liquidò la questione così e, secondo una modalità tipicamente umana, fece della sua convinzione una fede profonda. Quel che si sapeva si sapeva, e la molecola era insignificante. Nessun giovane studioso poté scavalcarlo. Si dovettero aspettare degli anni, fino alle ricerche di Griffith sui batteri negli anni venti. Riprese poi da Oswald Avery a Washington... A quel punto naturalmente Levine era morto. Il lavoro di Oswald fu lentissimo, si protrasse fino agli anni quaranta. Poi ci fu Alexander Todd con le sue ricerche londinesi sui legami fosfatici nello zucchero, e poi, nel ‘52 e ‘53, Maurice Wilkins e Rosalind Franklin, e infine Crick e Watson. Sai che cosa disse la povera Rosalind quando le mostrarono il modello della molecola del Dna? Disse che era semplicemente troppo bello per non essere vero... Il rapido appello di nomi e il suo trito aneddoto sulla bellezza in campo scientifico, fecero lentamente scivolare Jocelyn in reminiscenze silenziose. Armeggiò con il tovagliolo. Aveva ottantadue anni. Li aveva conosciuti tutti, di alcuni era stato studente, di altri collega. E Gilliam aveva anche lavorato insieme a Crick, dopo la grande rivelazione delle molecole adaptor. Anche Gilliam, come Rosalind Franklin, era morta di leucemia. Impiegai un paio di secondi di troppo a capirlo, ma Jocelyn mi stava offrendo lo spunto perfetto per la battuta seguente. Infilai la mano nella tasca della giacca e non potei trattenere l’aforisma da scatola di cioccolatini: «Bellezza è verità. Verità bellezza...» Clarissa sorrise. Doveva saperlo da un pezzo che le sarebbe toccato un Keats, ma nemmeno in sogno avrebbe mai immaginato che cosa ora stringeva tra le mani, in quel modesto pacchetto marrone. Lo riconobbe ancor prima di aver tolto del tutto la carta, e reagì con un grido acuto. La ragazza del tavolo accanto si voltò e si mise a fissarla, finché il padre non la richiamò battendole su un braccio. Era un volumetto in ottavo rilegato in cartone grigiastro con il titolo in nero. Le condizioni non erano buone; pagine ingiallite, qualche lieve danno a causa dell’umidità. Una prima edizione della sua prima raccolta, Poesie del 1817. - Che regali! - esclamò Clarissa. Si alzò e mi cinse il collo con le braccia. - Deve esserti costato un patrimonio... - Poi mi appoggiò le labbra all’orecchio e fu come ai bei tempi. - Vergognati! Spendere tutti quei soldi. Per punizione ti costringerò a scoparmi tutto il pomeriggio.
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Sicuramente non era sincera, ma io stetti al gioco: - Per me va bene. Se può farti sentire meglio -. Merito dello champagne, ovviamente, e della semplice gratitudine, ma ne fui contento lo stesso. Di lì a un paio di giorni sarebbe diventato difficile resistere alla tentazione di inventare o arricchire di dettagli la descrizione del tavolo accanto al nostro, costringere la memoria a restituire ciò che non aveva mai registrato. Una cosa la vidi però, vidi quel tale, Colin Tapp, appoggiare la mano sul braccio del padre e parlargli in tono suadente, rassicurante. Fu anche complicato separare ciò che avevo scoperto in seguito, e ciò che avevo percepito al momento. In realtà Tapp aveva due anni più di me, la ragazza ne aveva quattordici in tutto, e il padre settantatré. Non mi misi a riflettere deliberatamente sulle nostre rispettive età - a quel punto la mia attenzione non era più incostante, ma concentrata sul nostro tavolo, perché ci stavamo divertendo - ma, a livello non del tutto conscio, con la coda dell’occhio, dovevo aver senz’altro notato l’analoga composizione del tavolo vicino, formulandone il concetto in quel linguaggio proverbiale del pensiero immediato che i linguisti definiscono mentalistico. Certo memorizzai la ragazza, benché superficialmente. Teneva la schiena dritta come fanno certe adolescenti che sperano di suggerire disinvoltura attraverso il controllo del portamento e dimostrano invece, in modo disarmante, il contrario. Aveva la carnagione scura, e i capelli neri, cortissimi, rivelavano una zona di pelle più chiara sul collo: il taglio doveva essere recente. O forse questi dettagli, li esaminai dopo, nel caos, o addirittura nel tempo che seguì il caos? Ecco un altro esempio della confusione che può scaturire da una reminiscenza: mi ritrovai a inserire nella ricostruzione della scena, un’immagine dell’uomo che pranzava da solo, dandoci le spalle. Non lo vidi fino alla fine, ma non riuscii più a escluderlo dai successivi ricordi. Al nostro tavolo Clarissa si era rimessa a sedere e la conversazione riguardava giovani oppressi, umiliati o in qualche modo ostacolati da uomini più vecchi, padri, maestri, mentori o idoli. Lo spunto di partenza l’aveva fornito Johann Miescher col suo maestro, Hopper Seyler, il quale aveva impedito all’allievo di rendere pubblica la sua scoperta riguardo alla presenza di fosforo all’interno del nucleo. Seyler, guarda caso, era il direttore della rivista alla quale Miescher aveva sottoposto i propri articoli. Di lì, - e in seguito ebbi tutto il tempo per ripercorrere le tappe di quella conversazione, - da Miescher e Seyler, eravamo approdati a Keats e Wordsworth. 151
Adesso era Clarissa la nostra fonte, benché la vasta cultura di Jocelyn comprendesse informazioni praticamente su ogni argomento, e perciò egli già conoscesse dalla biografia di Gittings il famoso episodio del giovane Keats che si reca in visita all’onorato poeta. Ne ero al corrente anch’io, perché me ne aveva parlato Clarissa. Verso la fine del 1817 Keats aveva alloggiato in una locanda, la «Fox and Hounds», nei pressi di Box Hill sulle North Downs. Qui, aveva concluso la stesura del suo lungo poema Endimione. Si trattenne una settimana e passeggiò per le valli in uno stato di ebbrezza creativa. A ventun anni, aveva composto un lungo poema impegnato e bellissimo sul tema dell’amore e, quando rientrò a Londra, si sentiva esaltato. Al suo arrivo ricevette una notizia che lo elettrizzò: il suo eroe, William Wordsworth, si trovava in città. Keats gli aveva mandato le sue Poesie con dedica: « A W. Wordsworth, con profonda stima, l’autore». (Quello sì che sarebbe stato il libro per Clarissa. Era alla Princeton University Library e, a sentire lei, molte pagine non erano ancora state tagliate) Keats era cresciuto leggendo le liriche di Wordsworth. Aveva definito L’Escursione una delle tre cose «di cui essere lieti in quest’Epoca». Da Wordsworth aveva mutuato l’idea di una poesia intesa come vocazione sacra, come la più nobile delle imprese. Adesso aveva persuaso l’amico pittore Tom Haydon a organizzargli un incontro, e insieme erano partiti dallo studio di Haydon sulla Lisson Grove, diretti alla Queen Anne Street, per fare visita al grande genio. Nel suo diario, Haydon annota che Keats manifestò «il più grande, il più puro e genuino piacere alla prospettiva». Wordsworth era ormai tristemente noto come un personaggio scontroso a quel punto della vita - aveva quarantasette anni - , ma con Keats si mostrò abbastanza cordiale e, dopo qualche minuto di chiacchiere, gli chiese a che cosa stesse lavorando. Haydon si precipitò a rispondere al posto suo, e supplicò Keats di recitare l’ode a Pan tratta dall’Endimione. Allora Keats prese ad andare su e giù davanti al grande maestro, declamando i versi «nel consueto tono quasi salmodiarne (e commoventissimo)...». Fu a questo punto del racconto che Clarissa lottò con la voce per soverchiare il clamore del locale e recitò: Sii sempre la dimora inimmaginabile di pensieri solitari; quelli che sfuggono il concepimento fino al limite stesso del cielo, poi lasciano il cervello spoglio.
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E quando il poeta appassionato ebbe finito, Wordsworth, a quanto pare incapace di tollerare più a lungo la venerazione di quel giovane, consegnò al silenzio il proprio verdetto di una stroncante ferocia: «Ecco un grazioso esempio di Paganesimo», che, a detta di Haydon, era «spietato e indegno dell’alto suo Genio, nei riguardi di un adoratore come Keats. E Keats ne fu molto ferito» e non lo perdonò mai. - Ma dobbiamo dar credito a questa storia? - chiese Jocelyn. - Mi pare di aver letto sul Gittings che non dovremmo. - Infatti -. E Clarissa incominciò a enumerare le ragioni per non farlo. Se mi fossi alzato in quel momento e mi fossi voltato verso l’ingresso avrei visto, oltre la distesa di teste ciarlanti, due figure che entravano e andavano a parlare al maître. Uno dei due era alto, ma non credo di aver registrato il dettaglio. Lo seppi solo più tardi, ma uno scherzo della memoria mi ha restituito l’immagine come se risalisse ad allora; la sala affollata, l’uomo alto, il maître che annuisce e indica con la mano più o meno nella nostra direzione. E poi cosa avrei potuto fare, fantasticando, per convincere Clarissa e Jocelyn e gli sconosciuti del tavolo accanto ad abbandonare il pranzo e precipitarsi con me su per le scale alla ricerca di un’uscita che ci riconducesse giù in strada? Ho passato dozzine di notti insonni a supplicarli di andarsene. Sentite, ripeto ai nostri vicini, voi non mi conoscete, ma io so che cosa sta per succedere. Vengo da un futuro corrotto. È stato tutto un errore, non deve accadere. Potremmo scegliere un altro epilogo. Mettete giù forchette e coltelli e seguitemi, presto! Fidatevi, vi prego. Fidatevi. Andiamo. Ma loro non mi vedono e non mi sentono. Continuano a mangiare e a parlare. Come me. Dissi: - Il racconto comunque rimane. La celebre stroncatura. - Sì, - disse Jocelyn animatamente. - Non è vero, ma ne abbiamo bisogno. È una specie di mito. Ci rivolgemmo a Clarissa. Di solito è reticente a parlare degli argomenti che conosce bene. Anni fa a una festa, ubriaco, mi ero messo persino in ginocchio per convincerla a declamare La Belle Dame Sans Merci. Quel giorno però volevamo festeggiare, dimenticare, perciò la cosa migliore era continuare a parlare. - Non è vero, ma dice la verità. Wordsworth era arrogante fino al punto di mostrarsi odioso riguardo ad altri scrittori. Gittings dice bene quando sostiene 153
che aveva superato i quarantacinque anni e attraversava perciò un’età difficile per gli uomini. Quando raggiunse i cinquanta si calmò, si rasserenò, e tutti quelli che gli stavano intorno tirarono un sospiro di sollievo. Solo che Keats ormai era morto. C’è sempre qualcosa di delizioso nel racconto di un giovane genio umiliato da un prepotente. Sapete, della serie, il responsabile della Decca che rifiutò un contratto ai Beatles. Noi sappiamo che Dio per mezzo della storia avrà modo di vendicarsi... È probabile che ormai i due uomini stessero procedendo tra i tavoli verso di noi. Non ne sono sicuro. Ho scandagliato quell’ultimo mezzo minuto e so due cose per certo. Una è che il cameriere ci portò il sorbetto. L’altra è che ero scivolato in un sogno a occhi aperti. Mi capita spesso. Quasi per definizione, i sogni a occhi aperti, non lasciano traccia, davvero «sfuggono il concepimento fino al limite stesso del cielo, poi lasciano il cervello spoglio». Ma io ci sono tornato sopra così tante volte, e l’ho recuperato attraverso il ricordo della sua causa scatenante: le parole di Clarissa «Solo che Keats ormai era morto». Quelle parole, il memento mori, mi avevano trascinato lontano. Per qualche istante fu come se non ci fossi. Li rividi insieme, Wordsworth, Haydon, Keats, in una stanza della Monkton house sulla Queen Anne Street, e immaginai la somma di tutti i loro pensieri e delle sensazioni, oltre alle stoffe degli abiti, agli scricchiolii delle sedie e del pavimento, al risuonare delle voci nelle rispettive gole, a quel tocco di concitazione da prestigio acquisito, alla sensazione delle dita dei piedi dentro le scarpe, e agli oggetti nelle tasche; congetturai sul recente passato e il futuro prossimo di ciascuno, sulla struttura malferma delle loro vite: tutto ciò mi era luminosamente chiaro come il chiasso vociante del locale, eppure tutto era ormai finito, proprio come era sparito Logan dal suo corpo seduto sul prato. Bastarono due secondi a vivere quello che occorre un minuto a descrivere. Tornai, e compensai la mia assenza raccontando a mia volta a Clarissa e a Jocelyn la storia di un giovane genio umiliato da un vecchio. Un editore in pensione, marito di una mia amica fisico mi aveva raccontato di aver rifiutato, intorno agli anni cinquanta, un romanzo dal titolo Strangers from Within. (Ormai i nostri visitatori dovevano essere a non più di tre metri di distanza, dietro il nostro tavolo. Non credo neppure che ci avessero visti). Il punto è che il mio amico aveva scoperto
l’errore
commesso
solo
trent’anni
dopo,
ritrovando
un
dossier
dimenticato nel suo vecchio ufficio. Aveva scordato il nome dell’autore del 154
manoscritto - al tempo gliene passavano tra le mani dozzine - e non aveva neppure letto il romanzo quando poi finalmente era uscito. O comunque, non subito. L’autore, William Golding, lo aveva rintitolato Il Signore delle mosche e ne aveva eliminato il noioso capitolo iniziale, responsabile dell’irritazione del mio amico. Dovevo essere pronto a trarre la mia clamorosa conclusione - e cioè che il tempo ci protegge dai nostri sbagli peggiori - ma Clarissa e Jocelyn non mi stavano a sentire. Anch’io ero consapevole di un certo movimento al nostro fianco. Perciò seguii i loro sguardi e mi voltai. I due uomini che si erano fermati accanto al tavolo vicino avevano la pelle del viso di quel rosa inerte da grandi ustionati, da bambola, o da protesi medica, insomma un rosa inesistente in natura. Condividevano la stessa robotica assenza di espressione. Scoprimmo dopo che indossavano maschere in lattice, ma al tempo furono uno spettacolo sconvolgente, ancor prima che agissero. L’arrivo del cameriere con il nostro dessert servito in coppe di acciaio inossidabile costituì un breve sollievo. Entrambi gli sconosciuti indossavano un soprabito nero che conferiva loro un curioso aspetto da preti. C’era un che di solenne nella loro fissità. Il mio sorbetto era al lime, di un bianco appena tendente al verde. Avevo già il cucchiaino in mano, ma non l’avevo ancora usato. I commensali del nostro tavolo fissavano i due uomini senza alcun ritegno. Gli intrusi si limitavano a esaminare i nostri vicini i quali a loro volta li guardavano perplessi, in attesa. La ragazzina andava con gli occhi da suo padre agli sconosciuti. L’uomo anziano posò la forchetta vuota e parve sul punto di dire qualcosa, ma non lo fece. Mi si srotolarono in testa rapidamente varie possibilità: una trovata pubblicitaria, dei venditori; o magari quel tizio, Colin Tapp era un dottore, o un avvocato e quelli erano suoi clienti o pazienti; una nuova versione di candid camera; parenti burloni venuti a fare uno scherzo imbarazzante. Il vociare aveva intanto recuperato volume, dopo essersi abbassato qua e là per qualche istante. Quando il più alto dei due estrasse dal soprabito un bastone nero, l’ipotesi più probabile mi parve quella della candid camera. Ma chi era il compagno che adesso si guardava intorno come a ispezionare la sala? Il nostro tavolo lo ignorò, perché era troppo vicino. Quegli occhietti porcini a causa della pelle artificiale, non incrociarono mai il mio sguardo. L’uomo alto, pronto a lanciare il proprio incantesimo, puntò la bacchetta in direzione di Colin Tapp. 155
E all’improvviso Tapp guadagnò su tutti noi il vantaggio di un secondo. In faccia gli si disegnò ciò che noi non potevamo ancora capire di quell’incantesimo. La sua perplessità, congelata in una smorfia di terrore, non trovò una sola parola per farcelo sapere, perché non ne ebbe il tempo. Il proiettile sparato col silenziatore lo colpì alla spalla trapassandogli la camicia bianca: lo sollevò di scatto dalla sedia e lo mandò a sbattere contro il muro. La velocità altissima al momento dell’impatto fece schizzare sul nostro tavolo una spruzzaglia di sangue che si depositò sui nostri dessert, sulle mani, sugli occhi. Il mio primo impulso fu semplice: mi difesi decidendo di non credere a quanto stavo vedendo. Le frasi fatte hanno sempre un fondamento di verità: io non credevo ai miei occhi. Tapp si accasciò sul tavolo. Suo padre non mosse nemmeno un muscolo facciale. Quanto alla figlia, reagì nell’unico modo possibile: svenne, la sua mente si chiuse per non accogliere l’atrocità. Scivolò sul fianco della sedia in direzione di Jocelyn il quale allungò una mano seguendo l’istinto del vecchio sportivo e, pur non riuscendo a impedire la caduta, l’afferrò per un braccio e le evitò di battere la testa. La ragazza non aveva ancora finito di scivolare che già lo spilungone ripuntava la pistola mirando alla testa di Tapp, deciso a farlo fuori. Ma fu allora che l’avventore solitario saltò in piedi dando in un grido, una specie di guaito, e si lanciò a braccia tese, appena in tempo per inclinare la canna dell’arma in modo che il secondo proiettile andasse a infilarsi in alto nel muro. Aveva tagliato i capelli cortissimi, ma come avevo fatto a non riconoscere Parry? Al nostro tavolo, non riuscivamo né a muoverci né a parlare. I due uomini si diressero spediti verso l’uscita. Quello alto si infilò pistola e silenziatore dentro il soprabito. Parry non lo vidi uscire, ma doveva aver preso un’altra direzione ed essersene andato da una porta antiincendio. Solo i commensali di due tavoli furono testimoni di quanto era accaduto. Forse qualcuno gridò, ma poi per parecchi secondi, fu la paralisi. Poco più in là, nessuno aveva sentito niente. Le chiacchiere, così come il tintinnio delle posate sulle stoviglie, proseguirono ignare. Mi rivolsi a Clarissa. Aveva una guancia sporca di rosso. Stavo per dire qualcosa, quando tutto mi fu chiaro, capii perfettamente, nel lampo fugace del pensiero preverbale che sa coniugare relazione e struttura, che interpreta il legame tra gli eventi meglio degli eventi stessi. Ciò che era stato imprevedibile, era la coincidenza. Due tavoli vicini, identica composizione per numero di commensali, sesso e rapporto di età. Come poteva saperlo Parry? 156
Era stato un errore. Niente di personale. Un lavoro su commissione fatto male. Il bersaglio dovevo essere io. Eppure non provavo niente, nemmeno una punta di risentimento. Era il tempo che precede l’emozione, la separazione del pensiero, la divisione tra panico, senso di colpa e ogni possibile alternativa. Perciò rimanemmo seduti, immobili, sconvolti, mentre intorno a noi la comprensione di quanto era accaduto si dilatava in cerchi concentrici, a partire dal nostro silenzio. Due camerieri si precipitarono nella nostra direzione con facce sbalordite, e io sapevo che solo quando ci avessero raggiunti la nostra storia avrebbe potuto continuare.
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Capitolo ventesimo
Per la seconda volta di quel pomeriggio e della mia vita, mi ritrovai seduto in un comando di polizia, in Bow Street, in attesa di essere interrogato. Gli esperti di statistica parlerebbero di «ingorgo casuale», un modo utile per negarne il significato. Oltre a Clarissa e Jocelyn c’erano altri sette testimoni: quattro avventori di due tavoli vicini, due camerieri e il maître. Il signor Tapp sarebbe stato in grado di deporre dal suo letto d’ospedale a partire dal giorno dopo. La ragazza e il vecchio erano ancora troppo sconvolti per parlare. Erano passate appena poche ore ed eravamo già sui giornali della sera. Uno dei camerieri uscì a comprarne una copia e gli facemmo cerchio intorno, scoprendoci curiosamente esaltati nel leggere la nostra esperienza genericamente definita «violenza al ristorante», «incubo a tavola» e «bagno di sangue». Il maître indicò una frase che descriveva me come «il celebre giornalista scientifico» e Jocelyn come «l’eminente scienziato», mentre Clarissa era semplicemente «una bella signora». Il maître piegò la testa nella nostra direzione con deferenza professionale. Scoprimmo leggendo che Colin Tapp era un sottosegretario di stato al Ministero dell’Industria e del Commercio. Era un uomo d’affari prestato alla politica, e di lui si diceva che avesse «non meno nemici che legami influenti in Medio Oriente». L’articolista si soffermava su «l’impavido avventore occasionale» che aveva salvato la vita di Tapp e poi si era dileguato nel nulla. All’interno del giornale comparivano articoli di fondo che descrivevano Londra come un «giardino d’infanzia per squilibrati fanatici», un posto dove procurarsi un’arma non era un problema; e c’era anche un editoriale sulla scomparsa della «sana vita tranquilla di un tempo». I servizi mi sembravano così familiari, oltre che misteriosamente tempestivi. Era come se i pezzi fossero pronti da tempo, e l’incidente al quale avevamo assistito fosse una semplice messinscena per offrire conferma agli scritti. Due agenti erano stati incaricati di raccogliere le deposizioni dei testimoni, ma ci stavano mettendo parecchio a incominciare. Dopo l’eccitazione prodotta dai giornali, tornammo a sedere e un silenzio greve ci piombò addosso. Ci furono 158
frequenti sbadigli, la cui contagiosità produceva sorrisi imbarazzati. Finalmente i poliziotti erano pronti e Clarissa e Jocelyn furono i primi a entrare. Lei uscì venti minuti dopo e sedette accanto a me, in attesa che avesse finito il padrino. Estrasse il Keats dalla borsa e lo aprì per annusarne le pagine. Poi mi prese la mano e la strinse forte, mi appoggiò le labbra all’orecchio e disse: - È un regalo stupendo. - E aggiunse: - Senti, Joe, tu di’ solo quello che hai visto, ok? Non tirare fuori i tuoi soliti discorsi. Da una sua precedente battuta sapevo già che non aveva riconosciuto Parry. Adesso non avevo intenzione di mettermi a litigare. Ero solo. Mi limitai ad annuire e dissi: - Tu accompagni Jocelyn? - Sì. Ti aspetto a casa. Jocelyn uscì, ci stringemmo la mano e loro due se ne andarono. Mi sedetti ad aspettare e intanto mi preparai quel che volevo dire. Venne fuori anche il maître ed entrò uno degli avventori, poi, uno dei camerieri. Ero il penultimo, e a farmi accomodare nella stanza fu un giovane cortese che si presentò come Agente Investigativo Wallace. Recitai il mio pezzo ancora prima di sedermi. - Tanto vale che vi dica subito che so cosa è successo. Il proiettile che ha colpito il signor Tapp era destinato a me. L’uomo che pranzava da solo e che è intervenuto è un tale che mi sta perseguitando. Si chiama Parry. Ho sporto denuncia contro di lui proprio oggi. Le chiederei di mettersi in contatto con l’Ispettore Linley alla sezione di Harrow Road. Gli avevo persino detto che temevo Parry potesse ingaggiare qualcuno per farmi del male. Mentre dicevo tutto questo, Wallace mi guardava intensamente, anche se non mi parve di vederlo molto sorpreso. Alla fine, mi indicò una sedia. - Ok. Ricominciamo da capo. E procedette a segnarsi i miei dati e il racconto dell’incidente dal momento in cui eravamo arrivati nel locale. Mi vedevo costretto a procedere in modo pedante, e ogni tanto Wallace trascinava il discorso su particolari di scarso rilievo: voleva sapere di che cosa si era parlato al nostro tavolo, e a un certo punto mi chiese di specificare persino l’umore dei miei compagni; si informò anche sul cibo, e volle la mia opinione sulla qualità del servizio. Mi chiese due volte se avessi sentito gridare Parry o i due uomini in soprabito scuro. Alla fine, rilesse la deposizione, dando a ogni frase il tono che avrebbe usato se si fosse trattato di un elenco. Provai l’immediato desiderio di 159
disconoscere lo stile di quella prosa. Quando arrivò al punto «C’era un uomo che pranzava solo a un tavolo non lontano dal tavolo al quale noi pranzavamo e in quell’uomo io riconobbi...,» dovetti interromperlo. - Mi scusi. Non è quello che ho detto. - Lei non l’aveva notato? - L’avevo visto, ma non ho capito subito chi era. Wallace aggrottò la fronte. - Eppure l’ha visto un mucchio di volte, fermo davanti a casa sua. - Ma si è tagliato i capelli, e poi ci dava le spalle. Wallace modificò qualcosa nel testo, e proseguì a leggere fino alla fine. Mentre firmavo, disse: - Se non le dispiace trattenersi in centrale, signor Rose, avrei piacere di sentirla ancora tra qualche minuto. - Posso aspettare, - risposi. - In giro c’è un tizio che non vede l’ora di ammazzarmi Wallace annuì e sorrise, o meglio, tese le labbra senza socchiuderle. I testimoni del ristorante erano andati via tutti e ormai dividevo la sala d’attesa con un gruppo di turisti americani inferociti che, come fui costretto a sentire, si erano visti sparire il bagaglio mentre veniva caricato sul pullman davanti all’albergo. Seduta in disparte, c’era anche una giovane donna che scuoteva incredula la testa e si sforzava invano di trattenere le lacrime. Mentre aspettavo con Clarissa, avevo deciso di non fare eccessiva pressione sulla polizia. Avrei lasciato parlare i fatti. La mia denuncia era depositata, e la scena accaduta al ristorante ne dava conferma in modo assoluto. Su Parry pendeva un’accusa per tentato omicidio e, finché era in circolazione, io avevo bisogno di essere protetto. Adesso che degli avventori del ristorante ero rimasto soltanto io, ora che l’eccitazione andava scemando, percepivo tutto il mio isolamento e la mia vulnerabilità. Sentivo la presenza di Parry dappertutto. Ebbi cura di sedermi di fronte alla porta, ben lontano dall’unica finestra. Ogni volta che entrava qualcuno, mi si bloccava lo stomaco. La paranoia mi proiettò in mente un’immagine di lui, fermo davanti alla stazione di polizia, accompagnato dai due uomini in nero. Andai all’ingresso a controllare. Il fatto che non ci fosse non mi procurò né sorpresa né sollievo. Taxi e macchine con l’autista scaricavano gente davanti al teatro lirico per lo spettacolo serale. Erano quasi le sette e un quarto. Il tempo si era ripiegato su se stesso. Gli individui che mi passavano accanto felici tornando a casa, o diretti a un locale, un caffè, godevano del 160
privilegio di una libertà che nemmeno sentivano e che io avevo perso: erano spensierati, non c’era nessuno che li volesse morti. Un’amica alla quale era stata diagnosticata per sbaglio una malattia allo stadio terminale mi ha raccontato la disperazione provata nel momento in cui aveva lasciato lo studio medico. La partecipazione degli amici più cari non faceva che sottolineare la differenza del suo destino. Le era capitato a sua volta di perdere degli amici e sapeva benissimo che la vita sarebbe andata avanti anche senza di lei. Il tempo avrebbe guarito il dolore, coloro che le volevano bene avrebbero pianto e poi si sarebbero dati pace, forti di un pizzico di saggezza in più, mentre la consuetudine dei giorni di lavoro, come quella delle feste e delle cene, avrebbe ripreso il suo corso. Era proprio così che mi sentivo quando mi voltai per tornare dentro il comando di polizia. Non era solo autocommiserazione, benché non escluderei che in parte lo fosse, ma soprattutto una specie di fuga dentro me stesso, talmente intensa che qualsiasi altro elemento - dai turisti irritati alla ragazza in lacrime - mi apparivano come attraverso una spessa lastra di vetro. Mentre tornavo nella sala d’attesa, i miei pensieri nuotavano alla deriva nel loro piccolo acquario; nessuno soffriva le mie stesse pene; se solo avessi potuto scambiare la mia condizione con un biglietto dell’opera, una valigia rubata, o persino con il dolore che affliggeva la ragazza. Andai quasi a sbattere nell’agente Wallace che mi stava cercando. Si mostrò meno gentile di prima, o meglio, più risoluto. - Da questa parte, prego, - disse mentre mi scortava di nuovo nel corridoio fino alla stanza. Sedendo, fui lieto di notare sulla scrivania le pagine scolorite di un fax con gli appunti dell’Ispettore Linley. Wallace mi stava guardando con rinnovato interesse. Non si trattava più della solita deposizione di un testimone oculare. - Allora. Mi sono fatto una chiacchierata con l’Ispettore Linley. - Bene. Adesso il quadro le è chiaro, suppongo. Sorrise. Era quasi allegro. - Pensiamo di sì. Sto per dirle una cosa che non le piacerà, signor Rose. Devo chiederle di ripetere tutto. - La deposizione? E perché mai? - Le dispiace se ricominciamo da capo? Voi siete stati gli ultimi ad arrivare al ristorante. Vuole ripercorrere per me le tappe di quella mattina, diciamo dalle nove? 161
Forse sono un tipo piuttosto lento, ma ci ho messo più di quarantanni a capire che non è sempre necessario dire di sì, solo perché la richiesta ci pare ragionevole, o formulata in termini accettabili. L’età rende molto scortesi. Si scopre che esiste la possibilità di essere se stessi e dire no. Incrociai le braccia e mi produssi in un sorriso ipocrita. Il mio fu un rifiuto cordiale. - Mi rincresce. Non credo che saprei fare di meglio. Ho bisogno di sapere che cosa intendete fare. - La signorina Mellon è uscita per andare a lavorare intorno alle otto e trenta? Le nove? - Avete mandato una volante a Frognal Lane? - Non divaghiamo, per favore. Lei dopo che cosa ha fatto? Qualche telefonata? Ha scritto un articolo... ? Facevo fatica a non alzare la voce. - Non credo che lei capisca. Stiamo parlando di un uomo pericoloso. Wallace intanto scorreva con lo sguardo i fogli che aveva davanti, quelli di Linley e i suoi, e mormorava tra sé: - Avevo un appunto da qualche parte. - Non si fermerà al primo tentativo. Mi piacerebbe pensare che avete intenzione di fare qualcosa in proposito, oltre a riscrivere una deposizione che peraltro già avete. - Ah, eccolo, - disse Wallace contento, estraendo un foglio di carta strappato a metà. Tenevo la voce sotto controllo: - A meno che non vogliate dirmi che si tratta di una semplice coincidenza se l’uomo contro il quale ho sporto denuncia poco prima di mezzogiorno, era seduto a un tavolo accanto al mio... - Keats e Wordsworth? Rimasi un istante perplesso. Sulla sua bocca i due nomi suonavano come quelli di due indiziati, criminali, compagni di sbronze da osteria. - Ne avete parlato a tavola. - Sì... - Uno dei due ha offeso l’altro, giusto? Vuole ripetermi come si svolsero i fatti? Fu Wordsworth a offendere Keats, o almeno così vuole la storia. - E non è vero? Fui costretto a rispondere; ero stato completamente sviato. - Be’, l’unica fonte che abbiamo sull’episodio non è attendibile -. Adesso vedevo che sul foglio di Wallace c’era un elenco di punti numerati. Disse: - È piuttosto strano. 162
- Cioè? - Oh, voglio dire, gente istruita come lei, gente che scrive libri e così via. Non tengono tutti un diario o roba del genere? Verrebbe da credere che nessuno meglio di loro possa riferire come si è svolto un fatto. Tacqui. Stava cercando di arrivare al punto. Tanto valeva seguirlo senza opporre resistenza. Wallace consultò il suo elenco. - Senta qua, - disse. - È interessante. Punto uno: il signor Tapp e compagnia sono arrivati al ristorante mezz’ora dopo di voi. Sollevò un dito per impedirmi di contraddirlo. - Così sostiene il suo amico Kale. Punto due, sempre secondo il professore: È stato il signor Tapp a lasciare il tavolo per andare alla toilette, non sua figlia. Punto tre: Il professor Kale afferma che non c’era nessuno seduto da solo vicino a voi. E la sua amica, la signorina Mellon sostiene invece che qualcuno c’era, ma che lei non l’aveva mai visto prima. Ne è sicurissima. Punto quattro. Dice la signorina Mellon: «la pistola era già visibile quando i due uomini si sono avvicinati al tavolo di Tapp». Sul punto cinque concordano tutti i testimoni tranne lei: uno degli uomini ha detto qualcosa in una lingua straniera. Tre pensano che fosse arabo, uno, francese e gli altri non sanno dire con certezza. Nessuno dei tre conosce l’arabo. Il testimone che ha detto francese, non parla né quella né alcuna altra lingua straniera. Punto sei... Ma sul punto sei Wallace cambiò idea. Ripiegò il foglio e se lo infilò nel taschino della giacca. Si chinò in avanti appoggiando i gomiti alla scrivania e mi disse in tono confidenziale, appena venato da una leggera punta di compassione: - Adesso le do un’informazione gratis. Diciotto mesi fa il signor Tapp ha subito un attentato nella hall di un albergo di Addis Abeba. Seguì un silenzio durante il quale pensai quanto fosse ingiusto che qualcuno sparasse per sbaglio a un uomo al quale qualcun’altro aveva tentato di sparare sul serio. Al momento una coincidenza assurda era proprio quello che mi ci voleva. Wallace si schiarì piano la gola. - Le risparmio i dettagli. Veniamo ai gelati. Il cameriere sostiene che li stava portando al tavolo quando ci fu la sparatoria. - Il mio ricordo è diverso. Avevamo già incominciato a mangiarli, e poi si sono coperti di sangue. - Secondo il cameriere il sangue è arrivato fin dove si trovava lui. I gelati erano già sporchi di sangue quando li ha serviti. 163
Dissi: - Eppure io ricordo di averne mangiato un paio di cucchiaini. Provavo un senso di ben nota delusione. Non si poteva concordare su niente, e con nessuno. Viviamo avvolti dentro una nebbia percettiva in parte condivisa, ma inaffidabile, e i nostri dati sensoriali ci arrivano distorti dal prisma di desideri e convinzioni che alterano persino i ricordi. Avevamo visto e registrato la scena e ci eravamo persuasi della nostra buona fede. L’oggettività spietata, specie riguardo a noi stessi, è sempre stata una strategia sociale funesta. Discendiamo da una stirpe di spacciatori di mezze verità i quali per convincere gli altri, escogitarono l’espediente di persuadere se stessi. Nel corso delle generazioni, il successo ci ha selezionati lasciandoci anche inciso nei geni, però, il solco profondo del nostro peggiore difetto: se qualcosa non risponde ai nostri interessi, siamo portati a negarne l’esistenza. Credere coincide col vedere. È per questo che la gente divorzia, litiga e si fa la guerra; per questo una statua della Vergine Maria si mette a piangere sangue e un’altra di Ganesh incomincia a bere latte. Ed è sempre per questo che la scienza e la metafisica costituiscono imprese tanto coraggiose, invenzioni tanto sorprendenti, più della ruota, più dell’agricoltura, perché sono prodotti umani che si oppongono all’essenza stessa dell’umana natura. Verità disinteressate. Ma non bastano a salvarci da noi stessi, i solchi sono troppo profondi. L’oggettività non può essere strumento di redenzione del singolo. Quello che mi sfuggiva era quali personali interessi stessero alla base del mio ricordo di quel pranzo al ristorante. Wallace stava ripetendo con pazienza una domanda. - A che gusto era il gelato? - Alla mela. Se anche su questo non siamo d’accordo, allora stiamo parlando di due camerieri diversi. - Il Professore ha detto vaniglia. Dissi: - Mi spieghi solo una cosa. Perché non vuole parlare con Parry? La mascella di Wallace subì una leggera tensione a fior di pelle, mentre gli si dilatavano un po’ le narici. Stava lottando per ricacciare uno sbadiglio. - C’è anche lui nell’elenco. Ci arriveremo. Per adesso ci preme trovare i due uomini armati. Ma se non le dispiace, signor Rose, torniamo al gelato. Mela o vaniglia? - Saperlo vi aiuterà a trovare gli attentatori? - Quello che ci può aiutare è sapere che i testimoni stanno facendo del loro meglio. Sono i dettagli, signor Rose. - Allora, mela. 164
- Quale dei due uomini era più alto? - Quello con la pistola. - Era anche il più magro? - Direi che erano entrambi di corporatura media. - Ricorda qualche particolare riguardo alle mani? No, nessun particolare riguardo alle mani, ma mi sforzai di ricostruire i movimenti, aggrottando la fronte, girando la testa, chiudendo gli occhi. Secondo i neuroscienziati, se si chiede di ricostruire una scena a un soggetto collegato a uno scanner a risonanza magnetica, si rileva un’intensa attività a livello di corteccia visiva. Ma che foto scadente è quella offerta dalla memoria, quasi più un’ombra che un’immagine, appena l’eco di un sussurro. Impossibile trarne informazioni dirette. Sbiadisce immediatamente. Vedevo le maniche dei lunghi soprabiti neri, vaghe e sfuocate come in un vecchio dagherrotipo, ma al fondo di quelle maniche, non c’era niente. O meglio, poteva esserci qualunque cosa. Mani nude, mani guantate, zampe, zoccoli. Dissi: - Non ricordo niente riguardo alle mani. - La prego, continui a sforzarsi. Lo faccia per me. C’era ad esempio un anello? Evocai l’immagine di una mano molto simile alla mia e le attribuii l’anello che Clarissa mi aveva regalato, una fascia d’oro e d’argento, sobria nel gusto, volutamente un po’ stretta. Per sfilarmela, doveva insaponarmi il dito. Il fatto che non potessi togliermela facilmente un tempo ci aveva fatto piacere. Dissi: - Non ricordo -. Poi aggiunsi: - Credo che me ne andrò, - e mi alzai. Si alzò pure Wallace. - Preferirei che restasse ad aiutarci. - E io preferirei che voi aiutaste me. Fece il giro del tavolo. - Parry non c’entra in questa storia, mi creda. Con questo non voglio dire che lei non abbia bisogno di aiuto -. Mentre parlava, cercava qualcosa nella tasca della giacca. Estrasse una confezione di pillole e me la sventolò sotto il naso. - Sa cosa sono queste, signor Rose? Io me ne prendo due prima di colazione. Quaranta milligrammi. Dose doppia, signor Rose. Mentre procedevo spedito nel corridoio della centrale, provai di nuovo quella sensazione di isolamento. Forse era proprio vittimismo: un maniaco stava cercando di uccidermi e tutto quello che le forze dell’ordine sapevano suggerirmi era di imbottirmi di Prozac.
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Era già buio quando scesi dal taxi in fondo alla via e mi incamminai verso casa, nascondendomi dietro al filare di platani. Parry non c’era al solito posto, e nemmeno più in giù, dove si rifugiava qualche volta alla vista di Clarissa. Non mi stava seguendo, non era in una traversa, e nemmeno dietro la siepe di ligustro, o sull’angolo dell’edificio. Entrai, e rimasi in ascolto nell’atrio. Da uno degli appartamenti del pianterreno, giungeva attutito un gran finale sinfonico, eccessivo e banale, poteva essere Bruckner, e sopra di me, da un punto imprecisato del soffitto, il rumore di acqua nelle tubature. Salii le scale lentamente, tenendomi a distanza dal corrimano. Non pensavo che potesse aver trovato modo di introdursi nell’edificio, ma i rituali della prudenza mi rassicuravano. Entrai in casa e chiusi a chiave la porta. Dall’immobilità dell’aria seppi subito che Clarissa dormiva nella stanza dei bambini e, come previsto, c’era un suo messaggio sul tavolo della cucina. «Sono stanca morta. Ci parliamo domani. Ti amo, Clarissa». Mi soffermai sul Ti amo, cercando di intenderne il senso, o di trarne una speranza. Controllai che i lucernari fossero ben chiusi, e passai di stanza in stanza, accendendo luci e ispezionando tutte le finestre. Poi mi versai una dose abbondante di grappa ed entrai nel mio studio. Tengo da sempre due agende diverse. Quella tascabile con copertina rigida la uso tutti i giorni e la porto con me quando viaggio. Nel corso degli ultimi vent’anni, mi è capitato un paio di volte di dimenticarla in una stanza d’albergo o, come nel caso di Amburgo, in un cabina telefonica. L’altra invece è un libro mastro formato quaderno tutto sgualcito che mi accompagna da quando ho vent’anni e che non abbandona mai il mio studio. Com’è ovvio, la tengo di riserva nel caso dovessi smarrire la piccola, ma a lungo andare ha maturato una sua dignità come documento personale e sociale. Ha catturato la raffinata complessità della storia dei numeri di telefono: le tre lettere di prefisso dei più vecchi numeri londinesi conservano una stravaganza edoardiana. I cambiamenti di indirizzo seguono invece l’irrequietezza o il crescente benessere di molti amici. Certi nomi sarebbe inutile trascriverli: la gente muore, esce dalla mia vita, con alcuni ho litigato, di altri mi sono semplicemente scordato: ci sono dozzine di nomi che ormai non mi dicono assolutamente niente. Accesi la lampada e mi sistemai sulla chaise- longue con la grappa e il quaderno aperto alla prima pagina. Incominciai a sfogliarlo, passandone in 166
rassegna i palinsesti nella speranza di trovare un aggancio con il mondo del crimine. Dovevo aver vissuto una esistenza davvero limitata: non conoscevo un solo cattivo soggetto, cattivo in senso organizzato, intendo. Alla lettera H trovai un truffatore che vendeva auto di seconda mano. Era morto di cancro. Sotto la K, un vecchio compagno di scuola incline alla depressione, che aveva lavorato per un periodo in un casinò. Era sparito dalla circolazione per andare a infognarsi in un matrimonio drammatico ed era stata proprio la moglie psichiatra a decidere di curarlo con l’elettroshock. Poi si erano trasferiti in Belgio. Continuai a far scorrere pagine di amici intimi e occasionali, conoscenti e sconosciuti di un’intera vita, persone nella maggior parte dei casi gradevolissime. Un paio di contaballe, magari, un fallito, un presuntuoso e un illuso, ma nessun vero pregiudicato, nessun delinquente serio. Ecco qui, alla lettera N, c’era un fiore di ragazza inglese, conosciuta nell’autunno del 1968 e con la quale avevo diviso un sacco a pelo a Kabul e a Mazar-i-Sharif. Tornata in patria qualche anno dopo si era dedicata con un certo impegno al taccheggiamento. Attualmente era preside a Cheltenham. Nessuna tenacia. Sempre sotto la N, c’era un certo John Nolan, accusato vent’anni fa di omicidio. Si era ubriacato a una festa e aveva lanciato un gatto da un terrazza al secondo piano, facendolo finire infilzato sulla cancellata di un parco. La Protezione Animali l’aveva giustamente perseguito, rifilandogli una multa di cinquanta sterline. Ma John aveva comunque mantenuto il suo impiego all’Erario. Questo grande registro ufficiale di umana mutevolezza e fugacità che per più di un quarto di secolo avevo continuato ad aggiornare e a correggere raccontava la storia tutta particolare della malvagità contemporanea. Il cast era troppo raffinato, i difetti dei singoli personaggi troppo legati a sfumature per attirare su di sé l’attenzione del sistema giudiziario. L’alfabeto delle mie conoscenze descriveva modesti fallimenti e discreti successi, e tutto quanto accadeva all’interno di una stretta fascia sociale dotata di cultura e denaro. Non grandi ricchezze, per lo più, ma un ragionevole benessere. Quanto bastava a rendere inappetibile il contante altrui. Forse all’interno della classe media, il crimine è più un fatto intellettuale, o sessuale. Non che ci manchi l’immaginazione per fantasticare percosse, aggressioni, sequestri, stupri e omicidi, se è il caso. Ma a trattenerci è qualcosa di meno del senso morale, più una questione di gusto, di
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politesse. Era stata Clarissa a insegnarmi il detto di Stendhal: «Le mauvais goût méne aux crimes». Con crescente disappunto continuai a rovistare nel mio archivio, ignorando rigurgiti di curiosità o vaghe fitte di sensi di colpa suscitate da alcuni nomi, finché non raggiunsi l’arida boscaglia delle lettere terminali, U, V, X, Y e Z che circondavano l’avara oasi delle ultime possibilità: la W. Qui, seminascosto tra cognomi bucolici come Wood, Weatherfield, Water e Warren, scritto a matita leggera e non da me, compariva il nome di un certo Johnny B. Well, non in veste di criminale ufficiale ma, nella mia mente, ricco di potenziali agganci almeno quanto un neurone. Il suo nome vero era John Well; aveva preso in prestito quella B da Johnny B. Goode, l’eroe adolescente di Chuck Berry, che suonava la chitarra come se non avesse mai fatto altro. Per come me lo ricordavo, il nostro Johnny se la cavava alla grande battendo in metrò i sobborghi meridionali e settentrionali di Londra per le sue consegne a domicilio di hashish e marijuana a consumatori troppo esigenti per degnarsi di scendere fino in strada. Lo si sarebbe potuto definire uno spacciatore, se il termine non fosse suonato troppo rozzo, troppo infamante per uno come Johnny B. Well, il quale ricadeva più nella categoria dei commercianti, tipo fornitori competenti ed entusiasti di vini pregiati, o indaffarati titolari di negozi di primizie. Era moderato nelle richieste, smerciava solo roba di ottima qualità e conosceva il prodotto fino alla pedanteria. Era anche onestissimo: preciso quando dava il resto, ostentatamente puntiglioso quando restituiva il contante in seguito a un affare non concluso. Nel corso dei suoi trasognati vagabondaggi - perché ogni vendita si concludeva, o si apriva con una fumata, passava senza problemi da una tazza di tè con un oculista, a un bagno in casa di un amico procuratore, da una cena in compagnia di una rock star a una notte occasionalmente trascorsa in un covo di infermiere. Aveva però anche una casa sua a Stretham, una specie di bugigattolo impenetrabile. Una sera Johnny andò ad aprire e si trovò di fronte quattro maschere ghignanti di Jimmy Carter - l’episodio risaliva a quei tempi - e altrettante spranghe di ferro. Non dissero niente e non lo toccarono. Lo fecero di lato a spallate e gli devastarono l’appartamento - dovettero metterci almeno cinque secondi buoni - e se ne andarono. Il crimine organizzato si stava liberando degli hippy. 168
Fu un caso precoce di razionalizzazione del mercato. Fino a quel momento, l’importazione
e
la
distribuzione
erano
state
appannaggio
di
capitalisti
intraprendenti, isolati corrieri del dharma che puntavano tutto su un bello zaino profumato e gonfio. Poi venne il lavoro pulito e vennero le spranghe a semplificare e mettere ordine nel commercio, limitando la fornitura a pakistano di terz’ordine da smerciare nei bar, negli stadi e nelle prigioni. Per qualche mese sembrò che Johnny B. Well dovesse cercarsi un altro mestiere, finché a offrirgli protezione non si presentò la stessa squadra che gli aveva distrutto l’appartamento. Modesto stipendio fisso e provvigioni sulle vendite. Era stato allora che John si era visto costretto ad allargare il raggio delle sue conoscenze, ed era per questo che adesso pensai mi potesse aiutare. Suoi datori di lavoro erano diventati certi ambiziosi giovani sistemati in una chambre séparée sul retro di The Dog di Tulse Hill. Costoro avevano un mucchio di amici e usavano Johnny per svariate commissioni. I criminali riconobbero in lui l’onesto commerciante, e Johnny poté muoversi in mezzo a loro indisturbato e protetto. Al tempo stesso riuscì a mantenersi la raffinata clientela di un tempo alla quale proponeva la linea di prodotti da intenditori: varietà nigeriane, thailandesi, libanesi e dell’Orange County. Sotto il nuovo regime, la giornata tipo poteva comprendere un pranzo con bevuta di birra tra gente del giro, e un tè delle cinque con i giudici che li avrebbero condannati. Era una vita solitaria e anche dura, molto più dura di quella da hippy. E Johnny B. Well i soldi non se li fece mai. Era troppo preciso, troppo onesto, troppo fatto. Non si concedeva mai un taxi. Quale altro spacciatore avrebbe aspettato un autobus per qualcosa come trentacinque minuti? Conservò una tenace fiducia in se stesso come filantropo, convinto che il consumo differenziato di svariate qualità di roba stesse aiutando l’umanità a sciogliersi in uno stato d’animo più armonioso: i conflitti pubblici e privati si sarebbero spenti e la dolcezza avrebbe trionfato mentre l’animo dagli uomini si apriva alla luce. Frattanto, incalzavano gli anni ottanta, e spacciatori piccoli e grandi, insieme a procuratori, rock star e oculisti, si concentravano sul denaro. Nel mio studio il cerchio di luce nel quale sedevo pareva essersi intensificato intorno alla mia persona. Il bicchiere di grappa era vuoto, anche se non ricordavo di averla finita. Fissai sull’agenda il nome spigoloso di Johnny e le sette cifre segnate accanto. Chi meglio di lui poteva darmi una mano? Come avevo fatto a 169
non pensarci prima? A non pensarci subito? La risposta era che non lo vedevo da undici anni. Come molti prima di me, ero lentamente giunto alla consapevolezza che l’alcol costituisce la sostanza stupefacente d’elezione nell’ambito di esistenze borghesi stressate e vincenti. Lecita, conviviale, offre la possibilità di una leggera dipendenza facilmente mascherabile in mezzo a quella degli altri, senza contare l’eleganza dell’infinita varietà cromatica delle sue manifestazioni. Il bicchiere pieno che stringi nella mano è un trionfo già a livello estetico; la liquidità ne assimila il contenuto alla vita di tutti i giorni, al tè, al latte, al caffè, all’acqua persino e perciò alla vita stessa. Bere è un gesto naturale, laddove inalare il fumo di un’erba incendiata non è esattamente come respirare, e lo stesso vale per la distanza tra il mangiare e l’ingerire una pillola; quanto poi alla siringa, non esiste in natura penetrazione che ricordi quella di un ago, tranne forse la puntura di un insetto. Un buon whisky di malto, un bel bicchiere di Chablis freddo non faranno granché per migliorare la tua immagine, ma conservano il vantaggio di lasciare inalterata la vitrea superficie dell’identità personale. C’è naturalmente da considerare il pericolo dell’ubriachezza col suo bagaglio di volgarità, vomito e violenza, e in ultima analisi la dipendenza totale, la rovina fisica e mentale e una morte lenta e umiliante. Ma queste sono solo le conseguenze dell’abuso. Scorrono come vino rosso dalla bottiglia, derivano dalla debolezza dell’uomo, dalla mancanza di forza interiore. Perché prendersela con la sostanza? Anche i biscotti al cioccolato hanno le loro brave vittime, e io in compenso ho un amico non più giovane che è riuscito a vivere gli ultimi trent’anni conducendo una vita produttiva e soddisfacente, senza mai farsi mancare l’eroina pura. Ero in ascolto nella semioscurità dell’ingresso: solo qualche scricchiolio di legno e di metallo e, in fondo alle tubature, lo sgocciolare lontano di un filo d’acqua. Dalla cucina arrivava il sussurro del frigorifero, e da fuori, il ronzio placido della città di notte. Tornai nello studio e sedetti col telefono sulle ginocchia, riflettendo sulla solennità della circostanza. Ero sul punto di avventurarmi fuori dal luminoso viluppo della paura e delle fantasticherie per entrare nel mondo implacabile di causa ed effetto. Sapevo che a ogni azione, a ogni evento, ne sarebbe seguito un altro, fino a perdere il controllo della sequenza, e sapevo che, se mi restava qualche dubbio, quello era il momento per tirarmi indietro. 170
Johnny rispose al quarto squillo e io dissi il mio nome. Gli bastò meno di un secondo. - Joe! Joe Rose. Come va? - Be’, ho bisogno di aiuto. - Ah, sì? Ho roba interessante... - No, Johnny. Non è per quello. Mi serve il tuo aiuto. Ho bisogno di una pistola.
171
Capitolo ventunesimo
Il mattino dopo Johnny e io raggiungemmo in macchina una casa sulle North Downs.
Nella
tasca
posteriore
dei
calzoni,
tenevo
una
mazzetta
da
settecentocinquanta sterline, per lo più in biglietti da venti. A quanto pare, le banconote da cinquanta erano inaccettabili. Stavamo già attraversando a passo d’uomo l’opprimente tetraggine di Tooting, e lui ancora armeggiava coi comandi elettrici del sedile, e borbottava tra sé schiacciando i pulsanti della luce di servizio e del computer di bordo. - E così sei messo bene, vedo. Sì, l’ho sempre saputo che te la saresti cavata. Da una posizione quasi orizzontale mi elargì una lezione di bon ton sul tema armi da fuoco. - È come in banca. Mai parlare di soldi. O come in un’agenzia di pompe funebri, guai se ti scappa di dire «morto». Con le pistole è lo stesso. Sono solo le testedicazzo in televisione che le chiamano «cannoni». Potendo, è meglio non nominarle affatto. E se proprio devi, allora sappi che ti conviene dire l’«articolo», o l’«occorrente», o il «necessario». - Mi forniranno anche i proiettili? - Sì, certo, ma si chiamano «confetti». - E qualcuno mi farà vedere come funziona? - Oh, Cristo, no. Non si fa. Puoi portartela in un bosco e vedere di cavartela da solo. Loro te la consegnano, e tu te la infili in tasca -. Johnny si portò in posizione seduta. - Ma sei sicuro di volertene andare in giro con una pistola? Non risposi. Lo pagavo bene, Johnny, per il suo aiuto. Non dargli spiegazioni costituiva una garanzia per entrambi. Eravamo ancora bloccati nel traffico. Al brano di jazz trasmesso per radio era vergognosamente seguito un pezzo di musica atonale, una sequenza di grida e di colpi che mi stava dando sui nervi. Spensi e dissi: - Dimmi di più su questa gente -. Sapevo già che erano ex hippy arricchitisi col commercio di coca. Negli anni ottanta, erano tornati alla legalità impegnandosi nel settore immobiliare. Attualmente le cose non giravano molto bene, e per questa ragione erano lieti di potermi vendere una pistola a un prezzo gonfiato. 172
- Visti da fuori, - disse Johnny, - sembrano degli intellettuali. - Vale a dire? - Hanno i muri foderati di libri. Stanno sempre a parlare dei massimi sistemi. Si credono dei Bertrand Russell o giù di lì. Probabilmente li detesterai. Li detestavo già. Quando
raggiungemmo
l’autostrada,
Johnny
era
tornato
in
posizione
orizzontale e dormiva. Di solito non si alzava mai prima di mezzogiorno. La strada era dritta e poco trafficata, così ebbi modo di osservarlo. Portava ancora i baffi stile frontiera americana, con le punte ormai bianche che si arricciavano sul labbro per finirgli quasi in bocca. Ma quando una donna bacia un tipo del genere, che sapore le resta sulla lingua, quello del maschio virile o quello del pollo piccante della sera prima? Trentacinque anni passati a ghignare e ammiccare attraverso il fumo gli avevano disegnato un reticolo di rughe fin quasi alle orecchie. Dalle narici agli angoli della bocca, i solchi del sorriso incidevano la pelle di un’espressione delusa. Dalla mia recente visita a Stretham sapevo che, a parte la clientela mutevole e una nuova ragazza, per Johnny non era cambiato granché. Solo che la vita da emarginato non era più originale, il rifiuto delle comodità non più una forma di leggerezza e adesso il corpo lanciava il suo universale messaggio: era scritto direttamente sulla pelle, era nell’immagine dentro lo specchio. Johnny continuava ad andare in giro con le sue scarpe sfondate, a vivere come uno studente, come un barbone e a preoccuparsi che la sua nuova fichetta di Amsterdam potesse essere troppo esigente e dargli problemi di cuore. Uscendo dall’autostrada, Johnny fu svegliato dalla variazione del manto stradale che produsse un rumore diverso. Ancora sdraiato, pescò nel taschino uno spinello sottile e lo accese. Due tirate dopo, premette il pulsante elettrico del sedile e, con un ronzio, entrò nel mio campo visivo, circondato da una nebbia di fumo. Non mi passò la canna. Questa era sua, la prima della giornata, quella che si faceva con il tè e il pane tostato. Inspirò e prese a parlare tenendo un po’ il fiato come si faceva ai tempi. Che purezza di spirito. - Gira a sinistra. Segui le indicazioni per Abinger - . Di lì a poco, procedevamo in discesa nel verde cupo di gallerie di arbusti e rami contorti, su una strada a una sola corsia. Accesi i fari. Accostavamo nelle piazzole per far passare le auto nell’altro senso di marcia. Ci scambiavamo cenni del capo e 173
sorrisi tirati tra automobilisti, fingendo di non essere minimamente infastiditi dalla scomodità degli spazi. Eravamo nel cuore del cuore della campagna. Ogni centinaio di metri passavamo accanto a un cancello anni venti in mattoni e ferro battuto, o a cancelletti di legno illuminati da vecchie lanterne. Ci fu un’improvvisa radura nel bosco, un incrocio, e poco lontano un pub metà in legno e metà in muratura con un centinaio di macchine fuori a cuocersi la vernice al sole. Un pacchetto vuoto di patatine si sollevò da terra per venire a sfiorarci il parabrezza in un volo sognante. Due cani alsaziani tenevano gli occhi incollati al terreno. Poi rientrammo nel verde, col fumo in macchina sempre più denso. - Fa bene uscire un po’ di città, - disse Johnny. Tirai giù il finestrino. Mi sentivo un po’ fatto, forse era il fumo passivo. Il rotolo di banconote mi premeva forte
contro
la
natica
e
tutto
quanto
andava
assumendo
un
aspetto
eccessivamente enfatico, come se fosse stato scritto in un invisibile corsivo. Sarà stata paura. Dieci minuti dopo svoltavamo in un passo carraio sconnesso, con l’asfalto infestato di erbacce. - È incredibile la forza della vita, - commentò Johnny. - Sai, come spinge ed esce fuori comunque? - La domanda era grave, di certo una specie di prova generale prima dell’incontro coi nostri futuri ospiti. Per calmare un po’ i nervi avrei voluto azzardare una risposta. Ma proprio in quel momento ci ritrovammo di fronte a una brutta villetta in falso stile Tudor e le parole mi morirono in gola. Dietro la curva disegnata dal passaggio privato, si ergeva un doppio garage in cemento dipinto a chiazze di viola scolorito. La saracinesca semiarugginita era chiusa con un lucchetto. Di fronte, tra l’erba alta e le ortiche sbucavano le carcasse di una mezza dozzina di moto. Mi dava l’idea di un posto adatto a commettere indisturbati crimini di ogni genere. Agganciata a un anello nel muro del garage pendeva una lunga catena, orfana di cane. Qui ci fermammo e scendemmo. Le ortiche crescevano fino all’ingresso in stile georgiano. Da dentro giungeva il suono di un basso, un accordo di tre note ripetuto senza scioltezza. E dove sarebbero questi intellettuali?
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Johnny socchiuse gli occhi e fece un gesto con la mano, come se mi volesse ricacciare le parole in gola. Mentre ci avvicinavamo alla porta, mi disse, in un mezzo sussurro: - Voglio darti un consiglio di cui potrai essermi grato. Non prendere in giro nessuno. È gente che non ha avuto i tuoi privilegi e che, be’, è piuttosto irascibile. - Dovevi avvisarmi. Andiamo -. Tirai via Johnny per una manica, ma con la mano libera, lui stava già suonando il campanello. - È tutto a posto, - disse lui. - Attento al gradino. Feci un passo indietro e avevo quasi girato sui tacchi, pensando di incamminami lungo il passo carraio, quando la porta si spalancò e l’abitudine alla buona educazione mi costrinse a fermarmi. Un forte odore di cibo bruciato e ammoniaca uscì a fiotti di casa, incorniciando momentaneamente la figura che stava sulla soglia. - Johnny B. Well! - disse l’uomo. Aveva la testa rasata e un paio di baffetti tinti con l’henné. - Che ci fai da queste parti. - Ti ho chiamato ieri sera, ti ricordi? - Sì certo, ci siamo accordati per sabato. - Oggi è sabato, Steve. - Macché. Oggi e venerdì, Johnny. Entrambi gli uomini mi guardarono. Avevo letto gli articoli sulla sparatoria nel ristorante avevo giornali sparsi su tutto il sedile posteriore dell’auto. - Per la verità, oggi è domenica. Johnny scuoteva la testa. Si sentiva tradito. Steve mi guardava con odio. Pensai che mi fissasse in quel modo non tanto per i due giorni che si era perso per strada, quanto per il mio «per la verità». E aveva ragione: suonava stonato in un posto così. Comunque sostenni il suo sguardo. Sputò qualcosa di bianco in mezzo alle ortiche e disse: - Tu sei quello che vuole pistola e proiettili. Johnny aveva identificato un oggetto aereo di qualche interesse. Disse: - Ci fai entrare o cosa? Steve esitò. - Se è domenica, abbiamo ospiti a pranzo. - Infatti. Siamo noi. - No, vi aspettavamo ieri, Johnny. Ridemmo senza convinzione. Steve si fece di lato e potemmo introdurci nel suo fetido ingresso. 175
Quando la porta si chiuse restammo praticamente al buio. Steve volle spiegarci: - Stiamo tostando il pane, e il cane ha cacato per tutta la cucina. Ci inoltrammo di più dentro casa, seguendo la sagoma scura di Steve. Chissà perché, la notizia sul cane, mi fece sembrare esoso il prezzo della pistola fissato per sette e cinquanta. Giungemmo in una cucina spaziosa. Una cortina di fumo azzurro da tostapane aleggiava a un metro e mezzo da terra, illuminata dalle portefinestre in fondo alla stanza. Un uomo in tuta e stivali di gomma stava lavando il pavimento con uno straccio imbevuto di conegrina pura versata in un secchio di zinco. Pronunciò il nome di Johnny e mi rivolse un cenno del capo. Di cani, nemmeno l’ombra. Ai fornelli c’era una donna che rimestava dentro un tegame. Aveva i capelli lisci, lunghi fino alla vita. Ci venne incontro con passo lento e fluttuante e mi parve di riconoscere il tipo. In Inghilterra, quello degli hippy era stato un mondo quasi esclusivamente maschile. Si era vista qualche ragazza silenziosa sedersi a gambe incrociate, farsi di erba e distribuire tazze di tè. Poi però, come quando la Grande Guerra aveva svuotato le ville dei ricchi della servitù, queste ragazze sparirono da un giorno all’altro al primo squillo di tromba del movimento femminista. All’improvviso se ne andarono tutte. Non Daisy però, che era rimasta. Si avvicinò e si presentò. Naturalmente conosceva Johnny e lo salutò stringendogli un braccio. Pensai che avesse una cinquantina d’anni. I lunghi capelli lisci costituivano l’ultimo appiglio alla boa della sua giovinezza. Se la delusione aveva segnato di rughe la faccia di Johnny, su Daisy si era accanita nella piega amara della bocca. Da qualche tempo noto questo tipo di espressione su molte donne della mia età. Rappresenta una vita passata a dare, senza mai ricevere, come dicono loro. Gli uomini sono tutti bastardi, il sistema è un’eterna ingiustizia e dalla biologia non ci si può aspettare altro che pena. Il peso di tanta delusione sigilla perciò queste bocche in una curva calante, l’arco di un Cupido preposto alla sconfitta anziché all’amore. A prima vista comunica un senso di disapprovazione, ma poi vi si legge una storia di rimpianti più forti, benché le proprietarie neanche immaginino cosa quel tratto disveli sul loro conto. Dissi il mio nome a Daisy. Lei tenne la mano sul braccio di Johnny, ma si rivolse a me. - Siamo in ritardo con la colazione. Abbiamo dovuto ricominciare da capo. 176
Qualche minuto dopo eravamo seduti intorno al lungo tavolo di cucina, ciascuno con la sua scodella di porridge e una fetta di pane tostato. Di fronte a me stava il tizio che aveva lavato per terra, un certo Xan. Aveva avambracci enormi e glabri, ed ero sicuro di non piacergli. Steve sedette capotavola, poi giunse la mani, sollevò la testa e chiuse gli occhi. Al tempo stesso inspirò profondamente. Dalle lontananze della sua cavità nasale il passaggio dell’aria produsse due note che fummo costretti a sentire. Trattenne il fiato per un numero imbarazzante di secondi, prima di espirare a lungo. Doveva essere controllo del respiro, o meditazione, o una preghiera di ringraziamento. Non guardargli i baffi era impossibile. Erano l’esatto opposto di quelli di Johnny. Tinti di un arancione feroce e dritti come spilli, con le punte impomatate stile checca prussiana. Mi portai una mano alla bocca per mascherare un sorriso. Mi sentivo leggero e tremebondo. Tra lo spavento della sparatoria del giorno prima, l’assurdità del progetto attuale, e la paura di fondo, mi pareva quasi di non esserci, e temevo di poter dire o fare qualche stupidaggine. Avevo lo stomaco in subbuglio, ero inquieto e avevo una gran voglia di ridere, sensazioni accresciute dal pensiero di essere intrappolato a quel tavolo. Doveva essere il fumo passivo della macchina. Non riuscivo a smettere di pensare a similitudini sui baffi di Steve. Due chiodi arrugginiti piantati di traverso nelle gengive. I due piccoli alberi appuntiti di una goletta che avevo costruito da bambino. Due ganci per appendere gli strofinacci di cucina. Non prendere in giro nessuno... è gente piuttosto irascibile. Non appena ricordai l’avvertimento di Johnny, non appena pensai che non dovevo ridere, seppi di essere spacciato. Mascherai la prima emissione violenta di fiato dal naso facendo il gesto di chi sta annusando qualcosa. Per essere più credibile, sollevai il cucchiaio del porridge. Ma nessuno stava ancora mangiando. Nessuno fiatava. Aspettavano tutti Steve. Quando ebbe i polmoni pieni da scoppiare, abbassò la testa rasata e incominciò a espirare, facendo fremere i baffetti da roditore con voluttà. Dal mio punto di osservazione, ogni umana significanza parve abbandonare la nave a picco della sua faccia. Una catena di pensieri anche più sconvenienti che risalivano al tempo dell’infanzia, prese a entrare e uscire dalla spirale della mia angoscia mista a ilarità. Cercai di scacciarli, ma il potere evocativo di quei baffi esilaranti non mi dava pace. Vidi un sollevatore di pesi vittoriano su una scatola da biscotti, di quelle metalliche; vidi il bullone ficcato 177
nel collo del mostro di Frankenstein; un nuovo modello di sveglia con il quadrante dipinto sopra una faccia che segna le tre meno un quarto; vidi il muso del ghiro al tè del Cappellaio Matto, e vidi il Topo a Villa Rospina in una rappresentazione scolastica de II vento nei salici. E questo ero l’uomo che stava per vendermi una pistola. Non potei farci nulla. Mi tremava il cucchiaio. Lo appoggiai lentamente, serrai la mascella e sentii il sudore gocciolarmi sul labbro. Incominciavo a sussultare. E mi trovavo esattamente sotto lo sguardo sospettoso di Xan. Lo scricchiolio veniva dalla mia sedia, ma il singhiozzo trattenuto arrivava da me. Così tanta aria mi era uscita dai polmoni che di sicuro la prossima inspirazione sarebbe stata rumorosissima, ma ormai l’unica alternativa possibile era tra l’imbarazzo e la morte. Il tempo rallentava mentre io andavo cedendo all’ineluttabile. Ruotai sulla sedia, affondai la faccia tra le mani e mi concessi un’inalazione vibrata. Mentre riempivo i polmoni, sapevo di dover ridere ancora. Nascosi il riso in un fragoroso starnuto. Adesso ero in piedi, come gli altri commensali. Una sedia finì per terra di colpo. Sentii Johnny che diceva: - È la conegrina. Era un vero amico. Mi suggeriva cosa dire. Ma inciampando in mezzo al trambusto, dovevo ancora sconfiggere l’immagine dei baffetti di Steve. Tra sbuffi e colpi di tosse, attraversai la cucina, mezzo accecato dalle lacrime, e mi diressi alle porte - finestre. Queste ultime parvero spalancarsi al mio arrivo, e io scesi vacillando quei pochi gradini di legno che mi condussero su un brutto prato pieno di denti di leone. Sotto lo sguardo curioso degli altri, diedi le spalle alla casa, sputai e inspirai profondamente. Quando mi fui calmato alla fine, mi sollevai e, dritto davanti a me, legato con del filo elettrico a un letto di ferro arrugginito, vidi un cane, probabilmente quello che aveva sporcato il pavimento della cucina. Si appiattì sulle zampe, abbassò la testa e mi dedicò una mezza scodinzolata spaventata e implorante. Quale altro animale a parte l’uomo e i primati è in grado di provare l’emozione della vergogna prolungata nel tempo? Il cane mi guardava e io guardavo lui che pareva volermi coinvolgere in una sorta di complicità interrazziale. Ma io non avevo intenzione di starci. Mi voltai e mi diressi verso la casa, esclamando: - Scusate! È stata la conegrina! Sono allergico -. Mentre il
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cane, privo di una grammatica generativa e delle risorse d’inganno a me disponibili, tornò al suo angolo di terra nuda ad aspettare il perdono. Di lì a poco eravamo di nuovo seduti a tavola, con porte e finestre spalancate, e la conversazione adesso verteva sulle allergie. Xan diede al proprio giudizio il tono di una verità incontestabile esordendo con un «fondamentalmente». - Fondamentalmente, - disse, guardandomi, - la tua allergia è una forma di squilibrio. Quando dissi che era innegabile, parve soddisfatto. Incominciavo a pensare che forse non mi detestava. Riservava alla scodella del porridge lo stesso sguardo ostile che rivolgeva a me. Quella che avevo giudicato un’espressione non era altro che la sua faccia in condizioni di riposo. Ero stato sviato dalla curva all’angolo della bocca che un’anomalia genetica aveva trasformato in ghigno. - Fondamentalmente, - proseguì, - ogni allergia ha una causa, e la ricerca scientifica ha dimostrato che nel settanta per cento dei casi la ragione risale fondamentalmente a bisogni frustrati della prima infanzia. Era un pezzo che non mi capitava di sentire parlare così: percentuali cavate dal nulla, ricerche non meglio identificate, quantificazioni dell’inquantificabile. Suonava estremamente infantile. Dissi: - Io rientro in quel quasi trenta per cento. Daisy era in piedi e stava scodellando altro porridge. Parlò con il tono di chi conosce la verità, ma non è disposta a lottare affinché si affermi. - Dipende dall’allineamento dei pianeti in decima casa, soprattutto per i segni di terra. A questo punto Johnny sollevò la testa. Era teso da quando ci eravamo riseduti a tavola: probabilmente temeva che combinassi qualcos’altro. - È colpa della Rivoluzione Industriale. Prima del diciottesimo secolo, nessuno soffriva di allergie, non si era mai sentito parlare di febbre da fieno. Poi però abbiamo incominciato a sparare tutta questa merda chimica nell’aria, nel cibo e nell’acqua, e il sistema immunitario della gente non ha più retto. Non siamo fatti per buttar giù tanta porcheria... Johnny si stava scaldando, ma Steve gli diede sulla voce. - Scusa se te lo dico, Johnny, ma stai dicendo un mucchio di stronzate. La Rivoluzione Industriale ci ha cambiato la testa, ed è da lì che arrivano tutti i nostri guai -. Si volse di scatto verso di me: - Tu che ne pensi?
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Io pensavo che sarebbe stata ora che qualcuno andasse a prendere la pistola. Dissi: - Il mio è un problema di testa di sicuro. Quando sto bene, la conegrina non mi dà nessun fastidio. - Tu sei infelice, - disse Daisy, stringendo quelle sue labbra tristi, piegate all’in giù. - Vedo un mucchio di giallo sporco nella tua aura -. Se il tavolo fosse stato più stretto, forse mi avrebbe preso una mano. - È vero, - dissi, cogliendo la battuta. - Ed è per questo che sono qui -. Guardai verso Steve che distolse lo sguardo. Ci fu un silenzio carico di tensione. Johnny aveva assunto l’aria indifesa e mi chiesi se non avesse commesso un errore. Il silenzio aspettava che qualcuno parlasse per primo. Toccò a Xan farlo. Fondamentalmente non siamo i tipi da avere una pistola Lasciò il discorso in sospeso, e fu Daisy a venirgli in soccorso. - Nei dodici anni che è stata con noi, non ha mai sparato una volta. Steve parlò in fretta, dicendole quello che già doveva sapere. - Però l’abbiamo oliata e pulita regolarmente. E lei a lui, ma anche a mio beneficio: - Certo, ma non perché avessimo intenzione di usarla. Ci fu una pausa imbarazzata. Nessuno sapeva come collocarsi. Fu Xan a riprendere la parola. - Il fatto è che non approviamo questa pistola... - Non approviamo nessuna pistola, - disse Daisy. Steve volle chiarire. - È una Stoller 32, costruita prima che i norvegesi rivendessero il marchio al gruppo olandese e tedesco che la produceva originariamente. Ha un dispositivo di scatto a doppia azione che... - Steve, - lo interruppe pacato Xan. - Fondamentalmente siamo entrati in possesso dell’arma in tempi del tutto diversi, quando il mondo era pazzo e noi pensavamo che avrebbe potuto servirci. - Per legittima difesa, - disse Steve. - Ne abbiamo parlato molto prima che tu arrivassi, - disse Daisy. - Non ci piace l’idea che qualcuno se la porti via e basta, sai cosa intendo... Non riusciva a trovare le parole per concludere, così dissi: - La vendete o no? Xan incrociò le braccia possenti. - Non è questo il punto. E nemmeno i soldi. - Be’ aspetta un momento, - disse Steve. - Non è neppure così. 180
- Gesù! - Xan era un tantino irritabile. Non riusciva a formulare esattamente i propri pensieri, era difficile, e continuavamo a interromperlo. La sua opinione si andava delineando dietro il solito ghigno. - Senti, - disse, - C’è stato un momento in cui contavano solo i soldi. Nient’altro. Era quasi più facile allora. Non dico che fosse tutto sbagliato, ma guarda com’è finita. Niente ha preso la piega che la gente sperava. Non puoi pensare a questa cosa come se fosse isolata. Non puoi pensare a niente come se fosse isolato. È tutto collegato, adesso lo sappiamo, è stato dimostrato, è tutto un sistema. Fondamentalmente è una struttura olistica. Steve si chinò verso Daisy e, nascondendo la bocca dietro la mano, disse in modo teatrale: - Di che diavolo parla? Daisy rispose a me. Forse stava ancora pensando alla mia infelicità. - È semplice. Non siamo contrari alla vendita, ma vorremmo sapere che ci vuoi fare con una pistola. Dissi: - Voi prendete i soldi, e io prendo la pistola. Johnny era di nuovo inquieto. Forse sentiva l’affare sfuggirgli di mano. Sentite, Joe deve essere discreto. Per il nostro bene, come per il suo. Non mi piacque sentir fare il mio nome. Poteva aleggiare in questa cucina per settimane ed essere strumentalizzato, come tutto il resto. - Però senti... - Johnny mi stava toccando un braccio. - Forse potresti dire qualcosa per rassicurarci tutti... Guardavano tutti me. Dalla finestra aperta, sentimmo uggiolare il cane, un suono sommesso che la povera bestia sembrava voler reprimere. Io avevo in mente una cosa soltanto: andarmene, con o senza pistola. Feci il gesto di guardare l’ora e dissi: - Quattro parole per dirlo, e non voglio aggiungere altro: qualcuno mi vuole ammazzare. Nel silenzio, tutti, compreso me, contarono le parole. - Dunque è legittima difesa, - disse Xan con una punta di speranza nella voce. Mi strinsi nelle spalle in modo vagamente affermativo. Le loro facce erano tesissime. Volevano i soldi ma volevano anche l’assoluzione. Questi spacciatori di coca, questa banda di truffatori finiti sul lastrico a furia di interessi passivi e convinzioni bislacche, facevano i moralisti, e mi chiedevano di aiutarli. Incominciavo a sentirmi meglio. Dunque il cattivo ero io. Improvvisamente ero libero. Presi la mazzetta dei soldi e la gettai sul tavolo. Perché contrattare? Dissi: - Avanti, contateli. 181
Dapprima, nessuno si mosse, poi, in un lampo, la mano di Steve li raggiunse un istante prima di quella di Xan. Daisy fissava la scena attonita. La faccenda era seria, a quanto pare. Forse andavano avanti a porridge e pane tostato da un pezzo. Steve contò le banconote con la velocità e lo stile di un impiegato di banca e quando ebbe finito, se le infilò in tasca e mi disse: - Bene. Adesso te ne puoi anche andare a ‘ffanculo, Joe. Per non perdere la faccia mi unii anch’io alla risata nervosa. Ma poi mi accorsi che Xan non stava ridendo. Sedeva in attesa, a braccia conserte, col ghigno di sempre. Un muscolo del suo avambraccio destro - muscolo che io non sapevo di avere - si contraeva ritmicamente a un movimento invisibile della mano. Quando la risata si spense, prese la parola, ma il tono di voce non era più quello della precedente tirata sulla teoria olistica. Era più acuto e più fioco, e la lingua gli batteva contro un palato asciutto. Non si muoveva, ma la tensione era evidente, sotto pelle, come nelle pulsazioni a martello in fondo alla gola. Fu in quel momento che anche il mio sangue prese a scorrere un po’ più in fretta. Xan disse: - Steve, rimetti i soldi sul tavolo, e va’ a prendere la pistola. Steve si stava alzando, senza distogliere mai lo sguardo da quello di Xan. D’accordo, - disse con calma, e si incamminò nella stanza. Xan si era alzato dalla sedia. - Quei soldi non finiranno nella cassetta. Senza voltarsi, Steve replicò con altrettanta certezza: - Io sono in credito, - e continuò per la sua strada. L’oggetto più vicino a Xan era la sua scodella vuota del porridge. L’afferrò tra pollice e indice e la scagliò con violenza, a mo’ di frisbee, tenendo la mano sinistra tesa a bilanciare il peso durante il lancio. La scodella mancò il collo di Steve di un paio di centimetri e finì in pezzi per terra accanto alla porta. - No! - gridò Daisy. C’era il tono di una madre esausta e paziente in quell’urlo. Poi lasciò la cucina senza una parola. Vedemmo la sua schiena allontanarsi e i capelli ondeggiarle sui fianchi. Era sparita, e sentimmo i suoi passi risuonare sulle scale. Johnny mi guardò. Sapevo cosa stava pensando. Da questo momento la responsabilità di un’eventuale rissa sarebbe stata solo nostra. Solo mia, anzi, visto che Johnny aveva deciso di mettersi seduto a rollarsi una sigaretta, scuotendo il capo e sospirando, con gli occhi fissi sulle sue dita tremanti.
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Steve si era voltato e stava tornando verso il tavolo di cucina. Xan gli andò incontro, lo prese per la camicia e cercò di spingerlo contro il muro. - Non ci provare, - disse affannato. - Metti quei soldi sul tavolo -. Ma Steve non si lasciò spostare tanto facilmente. Aveva i muscoli di tutto il corpo contratti, e l’aria feroce. I due uomini si chinarono l’uno verso l’altro in mezzo alla stanza. Lo sforzo maggiore pareva che lo facessero a respirare. Erano talmente vicini che tra i loro profili si disegnò il contorno immaginario di un calice. Steve disse concitato: - Io sono in credito, mi dovete dei soldi tutti e due. E metti subito giù le mani, cazzo -. Ma non attese il consenso dell’altro. La mano sinistra volò alla gola di Xan, il quale fece compiere al braccio libero un ampio arco e sferrò una sberla in faccia a Steve. Il rumore del colpo risuonò come l’esplosione di un palloncino, e la forza d’urto separò con violenza i due uomini. Si paralizzarono per un istante, poi tornarono all’attacco e si avvinghiarono l’uno all’altro. La bestia a quattro zampe ondeggiava sbandando di lato sul pavimento della cucina e indietreggiando verso il tavolo. Johnny e io sentivamo solo qualche grugnito soffocato. A teste chine, occhi chiusi, e labbra serrate sui denti, si contorcevano abbracciandosi stretti come una coppia di amanti. Uno dei due doveva cedere. Xan mise la mano sotto il mento di Steve e incominciò a spingergli indietro la testa. Nessun collo per quanto robusto poteva resistere all’impatto di quel braccio che pure era costretto a contrarsi in uno sforzo tremante: Steve gli aveva agganciato col pollice una narice, con la mano gli andava cercando gli occhi, e Xan doveva combattere tutto teso all’indietro. La testa di Steve si rovesciava sempre di più; la mossa successiva di Xan fu quella di immobilizzarla cingendogli il collo con il braccio destro, mentre con il sinistro si tirava la mano all’altezza del polso per stringere più forte. Mi incamminai nella loro direzione. Steve stava scivolando in ginocchio. Gemeva e agitava le mani per poi sbatterle debolmente sulle gambe dell’altro. Richiamai l’attenzione di Xan e mi accovacciai per parlargli direttamente dentro l’orecchio. - Così lo ammazzi. È questo che vuoi? - Tu stanne fuori. Era nell’aria da un pezzo. Cercai di tirarlo per l’orecchio per farlo voltare dalla mia parte. - Se muore, ti manderanno in galera per il resto della vita. - Varrebbe proprio la pena, cazzo! Johnny, - gridai. - Fai qualcosa!
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Vidi Daisy rientrare in cucina. Teneva in mano una scatola da scarpe e aveva un’espressione stanca. La piega amara delle sue labbra ci stava chiedendo di constatare cosa aveva dovuto tollerare: gli uomini della sua vita in lotta per guadagnarsi un vantaggio meccanico, vale a dire la leva migliore che avrebbe concesso a uno dei due di rompere il collo dell’altro. - Tieni, - sussurrava. - Prendila, prendila! Mi alzai e presi la scatola. Era pesante e dovetti sorreggerne il cartone cedevole con entrambe le mani. Steve gemette di nuovo e io guardai Johnny, che mi rivolse un’occhiata implorante e con la testa accennò verso la porta. - Ha ragione lui, disse Daisy risoluta. - È meglio che andiate adesso. Il tono esausto della sua voce mi portò a domandarmi se ciò a cui stavamo assistendo non fosse una specie di rituale domestico, l’ennesima ripetizione del preambolo a una sofisticata complicità a sfondo sessuale. D’altro canto, pensavo che avremmo dovuto salvare la vita di Steve. Johnny mi tirò per la manica. Lo seguii per un paio di passi. Mi mormorò all’orecchio: - Se deve succedere qualcosa, non voglio essere presente. Capii che cosa intendeva dire, perciò rivolgemmo a Daisy un cenno del capo e, dopo un ultimo sguardo alla testa di Steve imprigionata nel braccio tremante di Xan, ci precipitammo nel corridoio buio, fino alla porta d’ingresso. Appena saliti in macchina, Johnny tirò fuori una canna e l’accese. Era l’ultimo tipo di droga che avrei voluto in quel preciso momento. Decisi di fare una sosta al grande pub che avevamo superato, per calmarmi un po’ e magari farmi uno scotch. Accesi il motore e ripercorsi rapidamente il passo carraio. - È strano, sai? - disse Johnny in mezzo a una nuvola di fumo. - Ci ero già stato altre volte e avevamo sempre fatto delle discussioni interessantissime. Svoltai sulla strada e stavo per replicare quando squillò il telefono. L’avevo lasciato in macchina per ricaricare le batterie. Era Parry. - Joe, sei tu? - Sì. - Sono a casa tua, con me c’è Clarissa. Te la passo, ok? Ci sei ancora? Joe? Ci sei ancora?
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Capitolo ventiduesimo
Ebbi l’impressione di aver perso i sensi per un paio di secondi. Ma il rumore che sentivo doveva essere solo il motore dell’auto. Procedevamo agli ottanta all’ora e mi ero scordato di cambiare marcia. Passai dalla seconda alla quarta e rallentai. - Sono qui, - dissi. - Allora, ascolta attentamente, - disse Parry. - Te la passo. - Joe? - Capii subito che aveva paura. Aveva la voce strozzata. Si sforzava di non perdere il controllo. - Clarissa. Stai bene? - Devi tornare subito a casa. Non parlare con nessuno. Non andare alla polizia -. Il tono privo di inflessione doveva servire a farmi intendere che quelle parole non erano sue. - Mi trovo nel Surrey, - dissi. - Mi ci vorranno due ore. La sentii ripetere quanto avevo detto a Parry, ma non afferrai la sua risposta. - Vieni subito a casa, - disse. - Dimmi che sta succedendo. Stai bene? Parlava come un automa. - Vieni subito qui. Non portare nessuno. Lui sarà alla finestra a guardare. - Farò esattamente quello che vuole, non ti preoccupare. - Poi aggiunsi: - Ti amo. Sentii il telefono cambiare di mano. - Hai preso nota? Non mi deluderai proprio adesso, vero? - Senta Parry, - dissi, - Farò tutto quello che vuole. Sarò lì nel giro di due ore. Non parlerò con nessuno. Ma non le faccia del male. La prego, non le faccia del male. - Dipende solo da te, Joe, - disse lui; poi cadde la linea. Johnny mi stava guardando. - Problemi a casa, - mormorò con tono partecipe. Tirai giù il finestrino e inspirai aria fresca a pieni polmoni. Stavamo superando il pub, poco prima di rientrare nei boschi. Svoltai su una strada sterrata e la percorsi per circa un chilometro e mezzo fino a una piccola radura di fronte a una casa mezza diroccata. La stavano evidentemente ristrutturando: c’erano una betoniera, un mucchio di mattoni, e del materiale per impalcature, ma non si 185
vedeva nessuno. Spensi il motore e presi la scatola da scarpe dal sedile posteriore: - Vediamo di dare un’occhiata all’articolo. Sollevai il coperchio e sbirciammo dentro. Non avevo mai sparato in vita mia, non avevo neanche mai visto una pistola, eppure il cinema mi aveva reso piuttosto familiare l’oggetto seminascosto che si intravedeva tra le pieghe di una camicia strappata. Solo prenderla in mano fu una sorpresa. Era più leggera di quanto mi aspettassi, e più asciutta e tiepida al tatto. L’avevo immaginata unta, fredda e pesante. Inoltre, mentre la sollevavo e miravo oltre il parabrezza, non mi parve irradiare chissà quale mistico potenziale di morte. Era solo uno di quegli aggeggi inerti, tipo il telefono portatile o il forno a microonde, che si scartano a casa dopo l’acquisto e dei quali si dispera di riuscire mai più a riportarli in vita. L’assenza di un opuscolo di istruzioni di almeno sessanta pagine mi parve un vantaggio. Girai la pistola, cercando di capire come funzionava. Johnny infilò una mano dentro la camicia e ne estrasse una scatoletta di cartone rosso che aprì. - È una dieci colpi, - disse prendendomi l’arma di mano, sfilando il gancio di ritegno alla base dell’impugnatura e infilandoci dentro il caricatore. Con l’indice giallo di fumo mi indicò la sicura. - Spingila avanti finché non senti che è entrata Guardò nel mirino. - Non è affatto male. Steve ti ha raccontato un mucchio di balle. È una Browning 9 millimetri. Mi piace l’impugnatura leggera. Molto meglio di quella in noce. Scendemmo dall’auto e Johnny mi restituì la pistola. - Non credevo che te ne intendessi, - commentai. Camminammo dietro l’edificio senza tetto, verso i boschi. - Mi sono occupato di armi per un po’, - disse con aria trasognata. - Al tempo girava così. Quando ero in America ho fatto anche un corso nel Tennessee. A Cougar Ranch. Credo che tra quella gente ci fossero anche dei nazisti. Non ne sono sicuro. Comunque, tenevano fede alle loro due regole tattiche. Numero uno: vincere a tutti i costi. Numero due: essere sleali, sempre. In un altro momento, avrei potuto lasciarmi trascinare ad esporgli la prospettiva evoluzionistica fondata sulla teoria dei giochi, in base alla quale la slealtà adottata come regola costituisce la strada sicura per l’estinzione di qualunque animale sociale. Adesso però non mi sentivo bene. Avevo le gambe deboli, e l’intestino in subbuglio. Mentre procedevo sulle foglie secche e frusciami sotto i faggi, esercitai uno sforzo costante per tenere sotto controllo lo sfintere. 186
Sapevo di non aver tempo da perdere. Dovevo correre a Londra. Ma dovevo anche accertarmi di essere in grado di usare la pistola. - Qui andrà benissimo, - dissi. Un altro passo, e avrei potuto cagarmi addosso. - Usa tutte e due le mani, - disse Johnny. - Ti dà un bel colpo, se non ci sei abituato. Divarica le gambe e distribuisci il peso. Respira lentamente mentre premi il grilletto -. Stavo eseguendo queste operazioni, quando il colpo partì e la pistola mi saltò tra le mani. Impiegammo qualche secondo a trovare il foro d’entrata sul faggio colpito. Il proiettile si vedeva appena, conficcato com’era nella corteccia liscia a una profondità di almeno cinque centimetri. Mentre tornavamo alla macchina, Johnny disse: - Un albero è una cosa, ma puntare un’arma contro una persona è tutto diverso, e niente affatto uno scherzo. In pratica tu dai a qualcuno il permesso di ucciderti. Lo lasciai ad aspettare seduto in macchina mentre io mi prendevo della carta e tornavo tra gli alberi, dove mi scavai una piccola fossa col tacco della scarpa. Mentre mi accovacciavo coi calzoni sulle caviglie, cercai di distrarmi aprendo un varco in mezzo alle foglie secche e tirando su una manciata di terriccio. C’è gente che per riflettere osserva stelle e galassie; io preferisco il livello biologico legato alla terra. Mi avvicinai la mano alla faccia e sbirciai oltre gli occhiali. Nella zolla scura di terra grassa individuai due formiche nere, un collembolo e una creatura vermiforme rosso cupo, con una serie di zampe marrone chiaro. Erano i giganti terribili di questo mondo sotterraneo, giacché a poca distanza dalla soglia della nostra visibilità si agitava il fervido mondo dei nematodi - saprofagi e predatori - i quali erano a loro volta dei veri e propri giganti nel regno del microscopico, popolato di funghi parassiti e batteri di cui la mia zolla poteva contenere una decina di milioni di esemplari. L’istinto cieco che spinge questi organismi a consumare ed espellere, oltre alla ricchezza del suolo, ha reso possibile la crescita di piante, alberi e di tutte le creature di questo habitat nel quale un tempo figuravamo anche noi. Forse poteva tranquillizzarmi il pensiero che, a dispetto di tutte le mie preoccupazioni, eravamo ancora soggetti a questa interdipendenza naturale, dal momento che gli animali che consumiamo si nutrono di piante che, come la nostra frutta e verdura, sono alimentate dal suolo composto da questi organismi. Ma mentre ero lì accucciato, nell’atto di concimare il terreno boschivo, non riuscivo a credere al significato primario dei grandi cicli della vita. Appena oltre gli alberi traspiranti ossigeno stava la mia auto coi suoi fumi tossici, e 187
dentro l’auto c’era la pistola, e a una cinquantina di chilometri da lì sorgeva l’enorme metropoli nella cui zona settentrionale si trovava il mio appartamento con dentro un pazzo, un de Clérambault, il mio de Clérambault personale, e la mia donna in pericolo di morte. Cosa restava in tutto ciò che potesse servire al ciclo del carbonio o al fissaggio dell’azoto? No, noi ci eravamo ormai esclusi dalla grande catena. Era stata la nostra stessa complessità ad espellerci dal Giardino. E adesso eravamo nel caos della nostra autodistruzione. Mi alzai, mi allacciai i pantaloni e, con la meticolosità di un gatto domestico, ricoprii il buco di terra. Preso com’ero dalle mie ansie, mi stupii di trovare Johnny di nuovo addormentato. Lo svegliai per spiegargli che avrei dovuto pestare sull’acceleratore fino a casa. Se preferiva, potevo lasciarlo alla prima stazione ferroviaria. Disse che la velocità non gli dava fastidio. - Però, senti Joe: se ti metti nei guai con la polizia, io con la Browning non c’entro, ok? - Battei la mano sulla pistola nella tasca destra della giacca e partii. Accesi i fari e inforcai la stradina a una sola corsia, deciso a non scendere a patti con nessuno che viaggiasse in senso inverso. Gli altri automobilisti facevano marcia indietro e si fermavano intimiditi nelle piazzole di servizio. Una volta raggiunta l’autostrada, Johnny si fece la terza canna della giornata. Mantenni una velocità costante di centocinquanta chilometri all’ora, controllando nello specchietto retrovisore per vedere se arrivavano auto della stradale. Cercai di chiamare casa, ma non ebbi risposta. Pensai di avvisare la polizia. Sarebbe anche stata una buona idea, a patto di riuscire a trovare qualcuno disposto a spedire una squadra speciale per fermare Parry, impedendogli di passare ai fatti. Ma cosa avrei ottenuto, sempre ammesso di riuscire a raggiungere il loro livello gerarchico con una semplice telefonata, da gente come Linley, o Wallace, o qualche altro svogliato passacarte? Mi fermai sulla High Street di Streatham per dare a Johnny i suoi soldi e farlo scendere. Si chinò per salutarmi, sporgendosi nell’abitacolo dalla parte del passeggero. - Quando hai finito di usarla, la pistola, non tenertela, e non venderla. Buttala nel fiume. - Grazie di tutto, Johnny. - Sono preoccupato per te, Joe. Ma sono anche contento di restarne fuori. Il traffico londinese di metà pomeriggio era stranamente scorrevole e raggiunsi la via di casa un’ora e mezza dopo la telefonata. Svoltai prima dell’edificio e 188
parcheggiai sul retro. Qui, accanto ai bidoni della spazzatura, c’è un’uscita di sicurezza antincendio della quale solo i condomini hanno la chiave. Mi introdussi nell’edificio e raggiunsi il tetto senza fare rumore. Non c’ero più stato dal mattino dopo l’incidente di Logan, dopo la prima telefonata di Parry. C’era ancora una macchia di caffè sul tavolo. La luce era forte quassù e, per vedere attraverso il vetro del lucernario, dovetti mettermi in ginocchio e farmi scudo agli occhi con le mani. Da quel punto di osservazione vedevo il corridoio e una parte della cucina. Intravedevo la borsa di Clarissa, ma nient’altro. Il secondo lucernario mi offriva una prospettiva opposta del corridoio e l’ingresso del soggiorno. Per fortuna la porta era spalancata. Clarissa era sul divano, rivolta verso di me, anche se non riuscivo a distinguere la sua espressione. Parry le sedeva di fronte su una sedia di cucina. Mi dava le spalle e immaginai che le stesse parlando. Non era a più di dieci metri di distanza e mi ritrovai a fantasticare di sparargli subito anche se si trovava troppo vicino a Clarissa e io non mi fidavo della mia mira, né ero abbastanza esperto di balistica per saper calcolare la deviazione che il vetro del lucernario avrebbe causato alla traiettoria del proiettile. Quella fantasia aveva comunque ben poco a che fare con la pistola vera che incominciava a pesarmi dentro la tasca. Ritornai in macchina e parcheggiai davanti a casa, suonando il clacson prima di scendere. Parry venne alla finestra e rimase seminascosto dietro le tende. Guardò giù e ci scambiammo uno sguardo, invertendo la consueta prospettiva delle rispettive posizioni. Salendo le scale, infilai la mano in tasca per esercitarmi a sganciare la sicura della pistola. Suonai il campanello ed entrai usando la chiave. Mi sentivo battere il cuore sotto la camicia e la pressione sanguigna mi faceva pulsare persino gli occhi. Quando chiamai Clarissa, la lingua mi si incollò tra le due consonanti iniziali. - Siamo qui, - rispose lei; poi aggiunse col tono più acuto di un ammonimento: - Joe... - Ma Parry la zittì. Procedetti lentamente verso il soggiorno e mi fermai sulla porta. Il mio terrore era quello di provocare un’azione improvvisa. Parry aveva spostato la sedia di lato e adesso sedeva sul divano con Clarissa alla sua sinistra. Ci guardammo, e Clarissa chiuse gli occhi per una frazione di secondo, gesto che interpretai come: «È grave, è pericoloso, sta’ attento». Con quei capelli così corti, Parry aveva un’aria giovane e goffa. Gli tremavano le mani.
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Da quando ero comparso, era calato un silenzio assoluto. Per romperlo dissi: Ti preferivo col codino. Prima di incrociare il mio sguardo, lo rivolse a destra, verso la presenza invisibile sulla spalla. - Sai bene perché sono qui. - Allora... - accennai, procedendo di un paio di passi. Gli si ruppe la voce su una nota più acuta. - Non ti avvicinare. Ho detto a Clarissa di non muoversi. Gli osservavo i vestiti e mi chiedevo dove tenesse l’arma. Doveva averne una. Non era certo venuto ad uccidermi a mani nude. Poteva essersela fatta imprestare o averla affittata dai tizi che aveva ingaggiato. La giacca beige che indossava non mostrava alcun rigonfiamento visibile ma, data la linea morbida, non potevo esserne certo. Dal taschino spuntava qualcosa di scuro, un pettine forse. Aveva addosso un paio di jeans molto stretti e scarpe alte di cuoio grigio, perciò l’arma doveva essere nella giacca per forza. Sedeva rigido accanto a Clarissa, con la gamba sinistra contro la destra di lei, e la spingeva quasi contro il bracciolo del divano. Lei era perfettamente immobile, le mani appoggiate sulle ginocchia e tutto il corpo impegnato a trasmettere il senso di disgusto e di terrore prodotto da quel contatto. Teneva la testa appena girata nella sua direzione, per intercettare ogni sua mossa sul nascere. Era ferma, ma la tensione di muscoli e tendini alla base del collo lasciava intendere come fosse pronta allo scatto. - Adesso che ci sono io, - dissi, - Clarissa non ti serve più. - Mi servite tutti e due, - disse lui sbrigativo. Il tremito delle mani era talmente forte che dovette intrecciare le dita. Il sudore gli imperlava la fronte e mi parve di sentirne il tanfo dolciastro. Qualunque cosa avesse in mente, era sul punto di attuarla. Ciononostante, adesso che mi stava di fronte, il pensiero di puntargli addosso una pistola, mi pareva grottesco. E avrei voluto sedermi, all’improvviso ero così stanco. Avevo voglia di sdraiarmi e di riposare. Mi sentivo tradito dalla mia adrenalina che avrebbe dovuto mantenermi in stato di allerta. Non potei trattenere uno sbadiglio e Parry dovette pensare che stessi cercando di fare il duro. - Ti sei introdotto in casa mia con la forza, - dissi. - Ti amo, Joe, - si limitò a rispondere lui. - E questo mi ha rovinato l’esistenza. Diede un’occhiata a Clarissa, come se ammettesse che stava per ripetersi. - Io non volevo che succedesse, e tu l’hai sempre saputo, no? Ma non hai voluto 190
lasciarmi in pace e io ho creduto che ci fosse un motivo. Dovevi pur sapere dove mi stavi portando. Dio ti chiamava a sé, tu gli resistevi e sembrava che chiedessi a me di aiutarti... - Si interruppe, cercandosi sulla spalla il pensiero successivo. Ero attentissimo, ma la mia ansia per la sua vicinanza a Clarissa aumentava. Perché non la lasciava muovere? Ricordai il momento durante la mia visita ai Logan, nel quale avevo capito cosa avrebbe significato perderla. Dovevo fare qualcosa subito? Ricordai anche l’avvertimento di Johnny. Estrarre la pistola coincideva col dare a Parry il permesso di uccidere. Forse il pericolo poteva essere scacciato a parole. Avevo una sola certezza: non dovevo contraddirlo. La voce di Clarissa uscì bassa e molto flebile. Stava rischiando, cercava di farlo ragionare. - Sono certa che Joe non voleva farti del male. Il sudore ormai gocciolava dalla fronte di Parry. Era sul punto di fare qualcosa. Si costrinse a ridere. - Questo è discutibile! - Gli avevi fatto molta paura; te ne stavi fuori di casa nostra, gli mandavi tutte quelle lettere. Lui non ti aveva mai visto prima: sei comparso all’improvviso... Parry
scuoteva
la
testa.
Era
uno
spasmo
involontario,
l’intensificarsi
incontrollato del suo tic nervoso agli occhi ed ebbi la sensazione che ci venisse offerta la possibilità fugace di intuire il nocciolo del suo problema; Parry doveva rimuovere tutto ciò che non coincideva con le sue aspettative. Disse: - Tu non capisci. Nessuno di voi due capisce, ma tu soprattutto -. E si volse dalla sua parte. Infilai la mano destra nella tasca della giacca e cercai il gancio della sicura, ma nella furia non riuscii a trovarlo. - Tu non hai idea di cosa significa tutto questo. E come potresti? Ma non sono venuto qui per parlarne. Ormai è acqua passata. Non vale la pena discuterne, vero, Joe? È finita per tutti, giusto? Per tutti quanti -. Si passò un dito sulle sopracciglia per raccogliere il sudore e sospirò rumorosamente. Noi restavamo in attesa. Quando sollevò la testa stava guardando me. - Non voglio andare avanti così. Per questo sono venuto. Devo chiederti una cosa. Credo che tu sappia che cosa. - Può darsi, - mentii. Tirò un profondo respiro. Ci stavamo arrivando. - Perdono? - disse in tono interrogativo. - Ti prego, perdonami, Joe, per quello che ho fatto ieri. Per quel che ho cercato di fare.
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Ero talmente sorpreso che non riuscii a replicare subito. Tolsi la mano di tasca e dissi: - Hai cercato di uccidermi -. Volevo sentirglielo dire. Volevo che lo sentisse Clarissa. - Ho organizzato tutto. Ho pagato. Preferivo vederti morto, visto che non ricambiavi il mio amore. È stata una follia, Joe. Voglio che tu mi perdoni. Stavo per chiedergli di nuovo di lasciar andare Clarissa, quando Parry si voltò dalla sua parte, si infilò la mano nel taschino e ne estrasse un coltello a lama corta che fece scattare con un ampio gesto del braccio. Non ebbi il tempo di muovermi. Clarissa si portò entrambe le mani alla gola, ma non era a quella che Parry mirava. Si accostò la punta sottile della lama al lobo dell’orecchio. La mano che reggeva il coltello stava tremando e intanto premeva. Si girò per far vedere il coltello prima a Clarissa e poi anche a me. In un gemito acuto, un suono intollerabile, Parry piagnucolò: - Tu non mi hai dato mai niente. Ti prego, concedimi almeno questo. Tanto lo faccio lo stesso. Ti chiedo soltanto il perdono, Joe. Se tu mi perdoni, lo farà anche Dio. La sorpresa mi istupidì, mentre il sollievo rendeva confuse le mie reazioni. Era una cosa straordinaria, una svolta nel corso degli eventi: non aveva intenzione di aggredire né Clarissa né me e il fatto che quell’uomo fosse sul punto di tagliarsi la gola davanti a noi mi arrivò al cervello con sconcertante lentezza. Riuscii a dire: Metti giù il coltello e parliamone. Scosse la testa e mi parve che aumentasse la pressione della lama. Un filo di sangue correva verticale lungo il coltello. Anche Clarissa sembrava paralizzata. Poi tese una mano verso il polso di lui, come se potesse riportarlo alla ragione sfiorandolo con un dito. - Adesso, - disse lui. - Ti prego Joe. Ora. - Come faccio a perdonarti, se sei pazzo? Mirai alla sua destra, lontano da Clarissa. In quello spazio chiuso, l’esplosione parve cancellare tutto il resto e la stanza si illuminò come uno schermo bianco. Poi, vidi il coltello a terra e Parry si abbandonò all’indietro tenendosi il gomito martoriato con una mano: era pallido come un cencio e aveva la bocca aperta per lo shock. In un mondo nel quale la logica fosse il motore del sentimento, quello sarebbe stato l’attimo in cui Clarissa si sarebbe alzata, ci saremmo corsi incontro e abbracciati tra lacrime e baci e mormorii di riconciliazione e parole d’amore e di 192
perdono. Saremmo riusciti a voltare le spalle a Parry ormai concentrato sulla sua sofferenza; avremmo scordato la sua ulna e il suo radio (sei mesi dopo trovai sotto il divano una scheggia di osso) e, dopo l’arrivo della polizia, dopo che l’ambulanza l’avesse trasferito in ospedale, dopo le nostre parole e le carezze e innumerevoli tazze di tè, avremmo trovato riparo nel letto. Lì ci saremmo distesi faccia a faccia, per tornare alla fine al nostro spazio assoluto e saremmo riusciti a ricostruire la nostra vita, anche subito. Ma tale logica sarebbe stata inumana. Esistevano ragioni sia contingenti che remote per le quali il momento cruciale del pomeriggio non poteva coincidere con quella particolare felicità. La sintesi necessaria al fenomeno narrativo, specie in un film, ci inganna con un lieto fine, facendoci dimenticare che una tensione prolungata ha sul sentimento un effetto corrosivo. Funziona come un materiale isolante. Non è facile vivere simili momenti di gioia dopo una situazione di terrore. Nel giro delle ultime ventiquattro ore Clarissa e io avevamo assistito a un tentato omicidio e a un tentativo di suicidio. Clarissa aveva trascorso il pomeriggio minacciata dal coltello di Parry. Quando mi aveva parlato al telefono, lui le stava tenendo la lama contro la guancia. Quanto a me, tensione a parte, l’accumularsi delle conferme che gli avvenimenti fornivano alle mie orrende certezze, non mi aveva procurato alcun immediato conforto. Al contrario, mi sentivo oppresso da un insinuante rancore. Era una rabbia sorda, ancora più dura da tollerare e da esprimere, perché intuivo che in questo caso, avere ragione significava anche essere corrotti dalla verità. Inoltre non esiste mai un solo sistema logico. La polizia, per esempio, vedeva le cose in modo diverso. Qualunque intenzione avessero nei riguardi di Parry, quando raggiunsero l’appartamento, venti minuti dopo lo sparo, gli agenti dimostrarono di avere le idee molto chiare sul conto del sottoscritto. Possesso illegale di arma da fuoco e lesioni dolose. Parry fu portato via in barella, mentre un ispettore e un sergente di polizia arrestavano me con modi formali e un tantino contriti. Violando la procedura consueta dei casi in cui ci sia di mezzo un’arma da fuoco, mi venne concesso di scendere in strada non ammanettato. Durante il tragitto sulle scale, incrociammo il fotografo della polizia e il medico legale che salivano. Normale routine, mi assicurarono, una misura precauzionale nel caso qualcuno di noi decidesse di modificare la deposizione. Terza visita a una centrale di polizia nel giro di ventiquattro ore, e in vita mia. L’ingorgo casuale 193
aumentava. Chiesero a Clarissa di seguirci per testimoniare. L’ispettore Linley non era in servizio, ma mi rilessero la mia denuncia e mi trattarono con un certo garbo. Ciononostante, per quella notte rimasi in custodia cautelare nella cella accanto a quella di un rumoroso ubriaco e il mattino successivo, dopo un lungo interrogatorio, mi misero in libertà provvisoria con obbligo di ripresentarmi di lì a sei settimane. In conclusione, grazie a una lettera di Linley al Pubblico Ministero, tutte le accuse contro di me furono ritirate. Dunque, niente carezze per quella sera, nessuna chiacchierata al tavolo di cucina e nel letto, come quelle che erano riuscite a tenerci uniti dopo la morte di Logan. Fu anche peggio: per tutta la notte insonne trascorsa in cella e per giorni di seguito fui ossessionato dalla stessa immagine. Rivedevo il coltello per terra, vedevo Parry accasciato sul divano che si stringeva il braccio, e infine vedevo l’espressione sulla faccia di Clarissa. Era in piedi e fissava la pistola che avevo in mano con tanta sorpresa che pensai non avremmo mai superato quel momento. In seguito le mie previsioni più cupe trovarono quasi completa conferma. Stavo sistemando le cose nel peggiore dei modi. Vincevo alla grande, purtroppo. Forse era davvero finita.
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Capitolo ventitreesimo
Caro Joe, mi dispiace per la discussione. Senza sarcasmo, dico sul serio, mi dispiace sinceramente. Ci siamo sempre vantati di riuscire a procedere senza le liti ricorrenti che a detta delle altre coppie erano necessarie e terapeutiche. Sono stata malissimo ieri sera. Ho detestato la mia rabbia e ho avuto paura della tua. Ma ormai è fatta, ed è inutile nasconderlo. Tu non facevi che dirmelo e io ti devo le mie più profonde scuse per non esserti rimasta a fianco contro Jed Parry, per aver dubitato della tua sanità mentale, per non essermi fidata delle tue capacità di logica e di intuito e delle tue scrupolose ricerche sul suo caso. Credo di averti chiesto perdono tante volte ieri sera e lo faccio di nuovo adesso. Ritenevo che Parry fosse solo uno svitato patetico e innocuo. Nei momenti peggiori, ho anche sospettato che fosse frutto della tua immaginazione. Non avrei mai pensato che potesse diventare così violento. Avevo torto e mi dispiace, moltissimo. Quello che ieri cercavo di dirti però è che il tuo aver ragione non basta a risolvere il problema. Non riesco a liberarmi dall’idea che le cose sarebbero potute finire diversamente se tu non ti fossi comportato così. A parte questo, non c’è dubbio che l’esperienza ti sia costata carissima, per quanto tu possa aver avuto ragione. Starti al fianco? Ma sei stato tu a isolarti, Joe. Sin dal principio, prima ancora di sapere che tipo era Parry, ti sei lasciato invischiare da lui in modo talmente eccessivo e talmente strano. Ti ricordi la prima telefonata? Ci hai messo due giorni per dirmelo. L’indomani hai tirato fuori la vecchia storia di voler ricominciare a occuparti seriamente di scienza, quando ormai eravamo d’accordo che non aveva senso. Sei proprio sicuro che Parry non c’entri? La sera stessa te ne sei andato di casa sbattendo la porta. Non l’avevi mai fatto prima. Eri sempre più agitato, era diventata un’ossessione. Non volevi parlarmi d’altro. La nostra vita sessuale si era ridotta praticamente a zero. Non vorrei tornarci sopra, ma scoprire che avevi frugato nella mia scrivania è stato come un terribile tradimento. Che ragioni ti avevo dato per essere geloso? Il problema con Parry cresceva e io ti vedevo rifugiarti sempre di più in te stesso e allontanarti sempre di più da me. Eri maniacale, teso e molto distante. Ti sentivi impegnato a 195
risolvere un caso, a compiere una missione. Forse questa storia ha preso il posto della scienza di cui ti volevi occupare. Hai fatto le tue ricerche, ne hai tratto le logiche conclusioni e hai capito un mucchio di cose giuste, solo che strada facendo ti sei scordato di portarmi con te, hai dimenticato che potevi fidarti. C’è un’altra cosa che ho cercato di dirti ieri, ma tu mi hai zittita. Quella sera dopo l’incidente, era chiaro da quel che dicevi che ti preoccupava moltissimo il pensiero di poter essere stato tu ad aver mollato la fune per primo. Era ovvio che avevi bisogno di confrontarti con quell’idea, o di rimuoverla, di fartene una ragione, in ogni caso. Ho creduto che ne avremmo riparlato. Ho creduto di poterti aiutare. Per come la vedevo io, non avevi motivo di vergognarti. Al contrario, penso che tu sia stato molto coraggioso quel giorno. Ma dopo l’incidente stavi male. Non credi che Parry abbia potuto fornirti una via d’uscita dal senso di colpa. Mi pareva che tu trasferissi l’ansia in questa nuova preoccupazione, e che sfuggissi all’angoscia semplicemente coprendoti le orecchie per non sentire, quando avresti dovuto invece fare appello a quelle doti di analisi razionale di cui tanto vai fiero. Lo ammetto: Parry è più pazzo di quanto abbia mai immaginato. Eppure, capisco come abbia potuto convincersi che fossi tu a incoraggiarlo. Quell’uomo ha tirato fuori qualcosa che tu avevi dentro. Dal primo giorno l’hai visto come un nemico da sconfiggere e hai finito, abbiamo finito, col pagare un prezzo altissimo. Forse se mi avessi coinvolta di più, non sarebbe arrivato a questi livelli. Ti ricordi all’inizio quando ti ho suggerito - la sera che te ne sei andato come una furia - di invitarlo in casa e di parlargli? Mi hai guardata incredulo, ma io sono certissima che a quel punto Parry non immaginava affatto che un giorno ti avrebbe voluto morto. Insieme, avremmo forse potuto deviare il corso della sua follia. Tu però sei andato per la tua strada, hai voluto negargli tutto e così facendo hai permesso che le sue fantasie prima, e il suo odio poi, si sviluppassero. Ieri sera mi hai chiesto se mi rendevo conto che mi hai salvato la vita. In senso letterale, è vero. E te ne sarò sempre grata. Sei stato coraggioso e intelligente. Ma non accetto l’idea che sia stato da sempre inevitabile che Parry ingaggiasse dei killer o mi minacciasse con un coltello. Ho sempre ritenuto più probabile che facesse del male a se stesso. Come avevo torto e come avevo ragione! Tu mi hai salvato la vita, ma forse l’hai anche messa a repentaglio, tirando Parry dentro la nostra storia, reagendo sempre in modo eccessivo, precedendo ogni sua mossa, 196
come se fossi tu stesso a indicargliela. Un estraneo ha invaso la nostra vita, e la prima conseguenza è stata che tu sei diventato un estraneo per me. Hai stabilito che era affetto da sindrome di de Clérambault (ammesso che sia una vera malattia) e poi hai pensato che potesse diventare violento. Avevi ragione, hai agito con fermezza e fai bene ad andarne orgoglioso. Ma c’è anche il resto. Perché è successo, quanto ti ha cambiato, come poteva essere diverso, che cosa ha fatto a noi due: è questo che ci rimane adesso ed è di questo che dobbiamo occuparci. Penso che abbiamo bisogno di restare un po’ soli. Per me almeno è così. Luke mi ha offerto la sua vecchia casa di Camden Square finché non l’affitta. Non so dove ci porteranno gli eventi. Siamo stati così felici insieme. Ci siamo amati con passione e onestà. Ho sempre pensato che il nostro fosse un amore di quelli che durano. Può darsi. Adesso non lo so. Clarissa
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Capitolo ventiquattresimo
Dieci
giorno
dopo
mi
recai
in
macchina
a
Watlington,
dove
avevo
appuntamento con Joseph Lacey. L’indomani trascorsi il pomeriggio nel mio studio per prendere accordi telefonici e, nel pomeriggio, andai a piedi al negozio italiano di alimentari a comprare l’occorrente per un picnic. Era più o meno il solito: una gran mozzarella, una ciabatta, olive, pomodori, acciughe e, per i bambini, una semplice pizza margherita. Il mattino successivo misi il cibo nello zaino insieme a due bottiglie di Chianti, una di acqua minerale e sei lattine di Coca. La giornata era grigia e freddina, ma le previsioni promettevano ottimisticamente un’ondata di caldo che sarebbe durata più di una settimana. Raggiunsi in macchina Camden Town per andare a prendere Clarissa. Il giorno prima, quando le avevo raccontato la storia di Lacey, aveva insistito per venire a Oxford con me. Eravamo arrivati insieme fin qui, sosteneva e, pur con tutte le conseguenze subite, voleva esserci anche lei fino alla fine. È probabile che mi aspettasse dalla finestra, perché appena ebbi parcheggiato comparve sui gradini esterni dell’appartamento di suo fratello. Scesi dall’auto e la osservai mentre si avvicinava, domandandomi come ci saremmo salutati. Non ci vedevamo dalla sera in cui mi ero rifiutato di aiutarla a portare le sue valigie di vestiti e di libri fino al taxi. Adesso, appoggiato alla portiera aperta, nell’aria che si andava schiarendo, provai un’improvvisa fitta di dolore - una tristezza mista a paura - nel constatare quanto poco avesse impiegato questa compagna di vita, questa persona intima, a trasformarsi in un’estranea. Il vestito fantasia era nuovo e così pure le espadrilles verdi. Sembrava diversa persino la pelle: più bianca, più liscia. Ci salutammo con un «ciao» e un’imbarazzata stretta di mano; sempre meglio di un ipocrita buffetto sulla guancia. La familiarità del profumo non mi rassicurò. Anzi, sembrò sottolineare le novità. Doveva provare anche lei qualcosa di analogo, perché quando accesi il motore, ostentò un tono allegro e mi disse: - Bella questa giacca nuova. La ringraziai e ricambiai con un complimento al vestito. La prospettiva di quel viaggio insieme mi aveva preoccupato. Non avevo nessuna voglia di un altro 198
confronto e del resto era impossibile ignorare le nostre divergenze. Per fortuna, la settimana lontani ci aveva fornito un’ampia scorta di argomenti neutrali. Tra il resoconto della mia chiacchierata in giardino con Joseph Lacey, e il programma per la giornata di oggi, ci ritrovammo alla periferia occidentale della città. Poi parlammo di lavoro. C’erano stati nuovi sviluppi riguardo alle lettere di Keats. Clarissa si era messa in contatto con uno studioso giapponese il quale sosteneva di avere letto dodici anni prima, presso la British Library, della corrispondenza inedita di un lontano parente di Severn, l’amico di Keats. Vi si faceva riferimento a una lettera destinata a Fanny, ma che l’autore non aveva mai inteso spedirle, un autentico «grido d’amore eterno, tutt’altro che disperato». Clarissa aveva trascorso tutto il suo tempo libero cercando invano di rintracciare quel congiunto di Severn. Il trasferimento della British Library a King’s Cross aveva complicato le ricerche, e ora lei stava considerando l’ipotesi di prendere un volo per Tokyo per andare a leggersi gli appunti del collega giapponese. Quanto a me, ero stato a Birmingham come inviato del supplemento domenicale di un quotidiano per il collaudo di una vettura elettrica. E avevo in programma un convegno a Miami sul progetto di esplorazione di Marte. Quando, con una certa dose di esagerazione comica, descrissi a Clarissa l’orrore manifestato dai responsabili delle pubbliche relazioni di fronte al prototipo elettrico che non voleva saperne di muoversi, lei non sorrise. Forse rifletteva sulla forza centrifuga che stava separando le nostre vite a livello geografico: Maida Vale e Camden Town; Miami e Tokyo. Ci fu una pausa di silenzio sulla discesa che dalle Chiltern porta alla piana di Oxford, così le parlai della colonizzazione di Marte. A quanto pareva, sarebbe stato possibile portare sul pianeta semplici forme di vita, tipo licheni e, in un secondo tempo qualche specie di pianta molto robusta cosicché, nel corso di migliaia di anni, si potesse sviluppare un’atmosfera a base di ossigeno. La temperatura si sarebbe alzata e, col tempo, anche Marte sarebbe diventato un posto bellissimo. Clarissa fissava al di là del parabrezza la strada che ci correva dinanzi in un susseguirsi di salite e discese e, a destra e sinistra, i prati e i pascoli tutto intorno alle siepi e agli arbusti. - A che serve? La terra è bellissima e siamo infelici lo stesso. Non le chiesi a chi si riferisse con quel «siamo». Temevo che si potesse scivolare su questioni personali in uno spazio così limitato. La nostra lite era stata lunga e 199
feroce e, benché non avessi mai assolutamente gridato, come insinuava lei nella lettera, di certo avevo alzato la voce - non solo io d’altra parte - e avevo misurato a passi nervosi il soggiorno in preda a uno stato confusionale. Era questa, insieme alla macchia di sangue sulla moquette, l’eredità di Parry: un’orgia di accuse reciproche, un’autopsia che ci aveva fatti finire in letti diversi alle tre del mattino stanchi e amareggiati. La lettera di Clarissa non fece che peggiorare le cose. Quindici anni prima avrei anche potuto prenderla seriamente, sospettando che racchiudesse chissà quale saggezza, una sensibilità sconosciuta alla mia goffaggine. Avrei forse ritenuto mio dovere, parte della mia educazione sentimentale, sentirmi in colpa. Ma gli anni ci fanno più duri e ci confermano in quello che siamo, perciò la sua lettera mi era sembrata semplicemente irragionevole. Ne avevo trovato irritante il tono ferito e ipocrita, lo sdolcinato sentimentalismo, la saccenteria che si intuiva nascosta dietro a ricordi estremamente selettivi. Si era forse scordata che quel pazzo aveva pagato qualcuno per farmi massacrare in un ristorante? Di fronte a un fatto del genere, che senso aveva parlare ancora di affinità emotive? Ero stato teso, agitato, sessualmente distratto? E chi non lo sarebbe stato? Me l’ero dovuta vedere con una mente malata che aveva deciso di prosperare a spese della mia. Non l’avevo chiesto io di essere lasciato solo. Tra lei e la polizia, mi avevano costretto all’isolamento. Tutte queste cose, gliele avevo già dette al telefono la mattina in cui avevo ricevuto la lettera e, naturalmente, non era servito a nulla. Ora ci trovavamo in uno spazio di due metri cubi, seduti l’uno a fianco dell’altra in un certo senso, e la questione della nostra divergenza appariva inaffrontabile. Le lanciai un’occhiata e la vidi triste e bellissima. Chissà se la tristezza era invece soltanto mia. Parlammo del più e del meno attraversando Headington e il centro di Oxford. Gli alberi allineati lungo la strada poco trafficata formavano una galleria di verde interrotto da tratti di luce violenta. Mentre scendevo dall’auto, mi chiesi che genere di vita noiosa e produttiva si potesse condurre da queste parti. Presi lo zaino e, come coniugi invitati a pranzo, percorremmo il vialetto in mattoni e raggiungemmo la porta d’ingresso. Clarissa fece addirittura un apprezzamento sul giardino, a mezza voce. Ma l’incantesimo della nostra recuperata intimità si spezzò quando la porta fu aperta e ci trovammo di fronte il piccolo Leo, completamente nudo e con il petto e la faccia dipinti a strisce in un 200
approssimativo travestimento da tigre. Mi guardò senza riconoscermi e disse: Non sono una tigre. Sono un lupo. - Un lupo, d’accordo, - dissi. - E la mamma dov’è? Jean comparve alle spalle di Leo nella penombra della cucina, e ci venne incontro. Il tempo non l’aveva guarita. Ancora lo stesso naso sottile, la stessa screpolatura al di sopra del labbro. Forse l’espressione del viso si era inasprita, forse la collera le era penetrata nelle ossa. Teneva un fazzoletto appallottolato nella destra; lo trasferì nella sinistra per stringere la mano prima a Clarissa e poi a me. La signora Logan ci chiese se gradivamo aspettare in giardino, mentre lei si occupava di lavare e vestire Leo. Fuori, trovammo Rachel in pantaloncini corti distesa sull’erba a prendere il sole. Quando ci sentì, si girò a pancia in su e finse di essersi addormentata. Clarissa si inginocchiò e le fece il solletico con un filo d’erba. Strizzando gli occhi per via della luce eccessiva, Rachel squittì: - Lo so benissimo chi sei, perciò non ti credere di farmi ridere! - Ma quando capii che non ce l’avrebbe più fatta a resistere, si mise a sedere e si ritrovò a guardare in faccia Clarissa e non me. - Ma tu invece non sai chi sono, perciò posso farti ridere, - disse Clarissa. - E adesso non smetto finché non indovini come mi chiamo -. La tortura del solletico continuò finché Rachel non se ne uscì con un: - Ti chiami Raperonzolo, - e chiese pietà. Quando mi voltai per rientrare in casa, Rachel aveva già preso Clarissa per mano e voleva mostrarle il giardino. Notai la tenda: era caduta sul prato e l’avevano calpestata. Nell’ingresso, trovai Jean in ginocchio, intenta ad allacciare un sandalo a Leo. Ormai sei grande, dovresti farlo da solo, - diceva. Lui le accarezzava la testa. - Mi piace se lo fai tu, - disse, rivolgendomi un sorriso di possesso trionfante. Le dissi: - Voglio che ascolti questa storia dai diretti interessati. Perciò devo sapere dove andremo a fare il picnic. Si alzò sospirando e prese a descrivere un punto del Tamigi nei pressi di Port Meadow. Poi mi indicò il telefono ai piedi della scala. Attesi che uscisse in giardino con Leo prima di comporre il numero del college e di chiedere del Professore di logica. Il posto era a cinque minuti di strada a piedi. Leo, geloso della nuova amica della sorella, si appendeva al braccio libero di Clarissa e cantava tutto quello che 201
riusciva a ricordare dei Beatles, al solo scopo di interrompere la conversazione. Rachel si limitava a parlare più forte. Jean e io procedevamo parecchi passi indietro rispetto al chiassoso trio. Mi disse: - È brava coi bambini. Ci sapete fare tutti due -. Le raccontai dei nostri vari bambini, della stanza di casa destinata a loro. Poi diventata camera di Clarissa e, ora, nemmeno più quello. Attraversammo un ponte della ferrovia e ci trovammo improvvisamente dinanzi l’ampia distesa del prato pieno di ranuncoli. Jean Logan disse: - So di essere stata io a chiederlo, ma non sono sicura di poter tollerare la verità, specie in presenza di Rachel e Leo. - Ma certo invece, - dissi. - E comunque ormai deve farlo. Seguiti da alcune mucche curiose, attraversammo il prato di ranuncoli e raggiungemmo il fiume che risalimmo a piedi per qualche centinaio di metri. Ci fermammo in un punto in cui di solito il bestiame si abbeverava e la sponda si era perciò trasformata in una piccola spiaggia. Jean distese a terra un grosso telo militare sul quale incominciai a disporre il cibo, pensando che quel telone doveva essere stato di John Logan e averlo accompagnato in spedizioni di cui non avremmo mai più saputo nulla. Versai da bere alle donne. Leo e Rachel sguazzavano nel fiume e mi chiamavano, sfidandomi a fare altrettanto. Mi tolsi scarpe e calze, mi arrotolai i pantaloni e li seguii. Era una vita che non lo facevo, che non sentivo il freddo in mezzo alle dita dei piedi e non respiravo il buon odore di acqua e di terra che sale dal fiume. Clarissa e Jean chiacchieravano; noi intanto davamo da mangiare alle anatre, lanciavamo sassi sul pelo dell’acqua e facevamo le costruzioni col fango. Durante una pausa, Rachel mi venne vicino e disse: - Io mi ricordo di quando sei venuto e abbiamo parlato. - Anch’io mi ricordo, - risposi. - Parliamo di nuovo. - Va bene, - dissi, - di cosa? - Decidi tu. Riflettei per un momento, poi indicai il fiume. - Prova a immaginare la più piccola particella di acqua mai esistita. Tanto piccola che non si riesce neppure a vederla... Rachel strizzava gli occhi come aveva fatto sul prato di casa. - Tipo una gocciolina minuscola, - disse.
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- No, molto più piccola. Roba che nemmeno un microscopio ti basterebbe. Praticamente niente. Due atomi di idrogeno e uno di ossigeno legati insieme da una forza misteriosa. - Sì, la vedo, - esclamò. - È fatta come di vetro. - Allora, adesso immaginane miliardi, triliardi ammucchiati insieme in tutte le direzioni e fino quasi all’infinito. E adesso pensa al letto del fiume come a un lunghissimo scivolo, come a una pista inclinata di fango tutta fatta a curve, lunga centinaia di chilometri e che va a finire nel mare... Lì ci fermammo. Leo, impegnato a giocare nell’acqua, adesso si era accorto che in sua assenza stava succedendo qualcosa. Arrivò di corsa, minacciando di bagnarmi tutto se non lo dicevo anche a lui. - Ti odio, - urlò Rachel. - Vattene via! In quel momento ci chiamarono a mangiare, ma prima di raggiungere la riva, Rachel mi pizzicò il braccio per farmi sapere che non considerava concluso il discorso. Il cibo ci portò a parlare di Italia e di vacanze in genere. I bambini intervennero con ricordi evidentemente confusi di una spiaggia deserta dove avevano visto i pappagalli, di una pineta sulle pendici di un vulcano e - ma questo lo ricordava soltanto Rachel - di una barca col fondo fatto di vetro. Leo disse che non era possibile, non esisteva una barca così. Quando scoprimmo che la barca era stata affittata, che l’escursione al vulcano era durata qualcosa come sei ore di marcia e che Leo se l’era fatta per lo più in spalle, immaginammo la presenza energica di John Logan, sebbene nessuno, nemmeno il bambino, lo avesse nominato apertamente. Dopo mangiato, il vino e il caldo resero pigri gli adulti. I bambini con noi si annoiavano, così si presero dei pezzi di mela per andare a dar da mangiare ai pony. Jean incominciò a spiegarci che Rachel sentiva molto la mancanza del padre, anche se non voleva mai parlarne. - L’ho vista parlare con lei, sul fiume. Si attacca a tutti gli uomini che vengono in casa. Sembra che pensi di poter ottenere da loro qualcosa che non riesce ad avere da me. Si fida di tutti. Vorrei tanto sapere che cosa cerca. Forse vuole solo sentire la voce di un uomo. Parlando, guardavamo i bambini. Si stavano allontanando lungo il fiume. A una certa distanza da sua madre, Leo si guardò indietro e prese per mano sua 203
sorella. Jean ci stava dicendo quanto si aiutassero fra loro i bambini, quando all’improvviso proruppe in un: - Oh, mio Dio. Eccola. Deve essere lei. Ci tirammo su e ci voltammo a guardare. Io mi alzai. - Lo so che sono stata io a chiedere questo, - si precipitò a dire Jean. - Ma non credo di poterla incontrare. È ancora presto per me. E si è portata qualcuno appresso. Suo padre. O magari l’avvocato. Non voglio parlarle. Credevo di sì... Clarissa appoggiò una mano sul braccio di Jean. - Va tutto bene, - disse. La coppia si era fermata a una decina di metri: aspettavano me. Mentre mi avvicinavo, la ragazza distolse lo sguardo. Sapevo che era una studentessa. Poteva avere vent’anni ed era molto carina, l’incarnazione delle peggiori fantasie di Jean. L’uomo era invece James Reid, professore di logica presso il college frequentato dalla ragazza. Ci stringemmo la mano e ci presentammo. Il professore era poco più vecchio di me, intorno ai cinquanta, direi, e piuttosto grassoccio. Presentò la ragazza come Bonnie Deedes e, mentre le stringevo la mano, mi parve di capire come un uomo maturo potesse perderci la testa. Era il genere di bellezza che, a sentirla descrivere, avrei definito stereotipata: capelli biondi, occhi azzurri, pelle di pesca, una diretta discendente del tipo Marylin Monroe. Indossava pantaloncini di jeans e una maglietta rosa sfilacciata. Un bel contrasto, con il professore in completo di lino e cravatta. - Allora, - fece lui sospirando, - Vogliamo procedere? - E guardava la sua studentessa, che intanto si guardava i sandali (aveva le unghie dei piedi dipinte di rosso) e annuiva sconsolata. Li condussi dal resto del gruppo e ci presentammo. Jean si rifiutò di guardare Bonnie la quale, a sua volta, non staccava gli occhi dal professore. Li invitai a sedersi. Bonnie si sistemò diplomaticamente sull’erba a gambe incrociate, appena fuori del telo da picnic. Reid si appoggiò a un ginocchio, mediando tra la dignità personale e la cortesia. Mi guardò e io annuii. Con le mani appoggiate a una gamba, fissò lo sguardo a terra per un momento, per raccogliere i pensieri, secondo l’abitudine di una vita passata a insegnare. Siamo qui, - disse alla fine, - per spiegarci e per chiedere scusa -. Parlava rivolto a Jean, ma lei teneva lo sguardo incollato sugli avanzi rossi di pizza. - Lei sta vivendo questa tragedia, questa perdita atroce e sa Iddio quanto non abbia bisogno di accollarsi altro dolore inutile. La sciarpa dimenticata sull’auto di suo marito era di Bonnie, non c’è alcun dubbio... 204
Jean lo interruppe. Il suo sguardo feroce si spostò all’improvviso sulla ragazza. - Allora forse dovrebbe dirmelo lei. Ma Bonnie si limitò a subire l’ardore di quell’occhiata. Non riusciva a parlare, e non osava alzare gli occhi. Reid proseguì. - Certo, lei c’era. Ma, vede, c’ero anch’io. Noi due eravamo insieme... - Guardò Jean e aspettò che registrasse le sue parole. Poi disse: Cercherò di essere chiaro. Bonnie e io ci amiamo. Ci sono trent’anni tra noi, è una follia, ma è così lo stesso, siamo innamorati. L’abbiamo tenuto segreto, e sappiamo bene che presto dovremo affrontare problemi e difficoltà di ogni genere. Non avremmo mai immaginato che i nostri goffi tentativi di mantenere l’anonimato potessero causare tanta sofferenza e spero che, quando le avremo spiegato come sono andate le cose, lei troverà modo di perdonarci. In lontananza sulla riva del fiume, sentimmo i bambini gridarsi qualcosa. Jean sedeva in silenzio. Teneva la mano sinistra appoggiata alla bocca, come per impedirsi di parlare. - La mia posizione al college e all’università diventerà insostenibile. Dare le dimissioni sarà un sollievo. Ma questo non c’entra -. Si rivolgeva alla ragazza, cercando di incrociare il suo sguardo, ma lei si rifiutava di collaborare. - Fino a qualche tempo fa, Bonnie e io ci eravamo dati una regola: non farci mai vedere insieme a Oxford. Adesso invece siamo usciti allo scoperto. Il giorno dell’incidente avevamo organizzato un picnic nelle Chiltern. Avevo spostato le lezioni ed ero passato a prendere Bonnie a una fermata dell’autobus appena fuori città. Dopo meno di due chilometri, la mia auto ha avuto un guasto. L’abbiamo spinta sul ciglio della strada ed è stato allora che lei mi ha convinto che non dovevamo rinunciare alla nostra giornata insieme. Il problema della macchina poteva essere risolto in seguito. Bastava trovare un passaggio. Così, mi sono nascosto alle spalle di Bonnie: mi vergognavo tantissimo e temevo che qualcuno potesse riconoscermi. In capo a un paio di minuti una macchina si è fermata: era suo marito, diretto a Londra. Fu molto cordiale, gentile. Se aveva dei sospetti sul nostro conto, non diede alcun segno di disapprovarci, anzi. Si offrì di fare una deviazione e di accompagnarci fino a Christmas Common. Ci eravamo quasi arrivati quando vedemmo quei due, l’uomo e il bambino, e capimmo che avevano dei problemi con il pallone per via del vento forte... In realtà, io non ho visto bene la scena; ero seduto dietro. Suo marito ha accostato subito per portare soccorso. 205
Noi siamo usciti a guardare. Non faccio molta attività fisica e, visto che sembravano essere già in parecchi a occuparsene, almeno in un primo momento mi parve sensato non muovermi. Non credo comunque che sarei stato di molto aiuto. Poi la faccenda ha preso la piega terribile che sappiamo e ci siamo resi conto che avremmo dovuto raggiungere gli altri per aiutarli a zavorrare il pallone, così ci siamo messi a correre. Ma ormai era tardi; il pallone ha incominciato a salire, e il resto lo sa. Reid esitava nella scelta delle parole. Abbassò la voce e dovetti chinarmi per riuscire a sentire. - Dopo la caduta, stavamo malissimo. Fummo presi dal panico. Ci allontanammo per un sentiero, cercando di calmarci e decidere cosa fare. La macchina ormai era lontana e ci scordammo completamente il picnic e la sciarpa di Bonnie. Camminammo per ore. Mi vergogno di confessare che una delle mie preoccupazioni era il pensiero di essere chiamato a testimoniare e di dover giustificare la mia presenza in piena campagna con una mia studentessa. - Qualche ora dopo arrivammo a Watlington. Entrammo in un pub per scoprire se c’erano pullman o taxi. In piedi al banco c’era un uomo che raccontava al barista e a un gruppo di avventori abituali quel che era accaduto nel pomeriggio. Era ovvio che si trattava di uno degli uomini rimasti appesi alle funi. Non potemmo fare a meno di dirgli che anche noi eravamo sul posto. Sa com’è, certe cose uniscono, e si ha bisogno di parlarne. Gli altri, quelli che non erano stati presenti, sembravano estranei. Finimmo a casa di quel tale, Joseph Lacey, per parlare ancora ed è stato allora che gli ho esposto il mio problema. Più tardi, ci ha riaccompagnati a Oxford in macchina e, sulla strada, ci ha dato questo consiglio. A suo parere, di testimoni ce n’erano già abbastanza. Di noi, non c’era bisogno. Ha anche aggiunto però che in caso di qualsiasi problema o di deposizioni discordanti, si sarebbe messo in contatto con noi e io potevo ripensarci. Ecco. Non ci siamo fatti vivi. So di averle fatto tanto male, e mi dispiace, mi dispiace moltissimo. Solo a quel punto tornai alla realtà circostante, al prato, alle distese di ranuncoli gialli, ai cavalli e ai pony che galoppavano in direzione del centro abitato, al ronzio del traffico in lontananza sulla rotonda e, più vicino, alla regata di vele che procedevano fitte e silenziose sul fiume. I bambini venivano piano
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verso di noi, immersi in una loro conversazione. Clarissa si mise a ritirare gli avanzi del picnic con fare discreto. - Oh, Dio, - sospirò Jean. - Era un uomo molto coraggioso, - le disse il professore, come avevo già fatto io tempo prima. - È il genere di coraggio che tutti noi ci possiamo solo sognare. Ma lei può perdonarci per essere stati tanto egoisti, tanto insensibili? - Certo che posso, - disse lei con rabbia. Aveva le lacrime agli occhi. - Ma io a chi chiederò perdono? L’unico che poteva perdonarmi, è morto. Reid non la lasciò proseguire e le disse che non doveva pensare così. Jean alzò la voce per criticarsi ancora più aspramente. Le sue parole si intrecciavano alle rassicurazioni del professore. Questo affannoso bisogno di perdono mi parve quasi una follia, una richiesta degna del Cappellaio Matto, soprattutto qui, sulla riva dello stesso fiume dove Lewis Carroll, lettore di matematica pura al Christ Church College, intratteneva le sue adorate bambine, i preziosi oggetti del suo desiderio malato. Incrociai lo sguardo con Clarissa e ci scambiammo un mezzo sorriso come se ci volessimo unire alla voce di Jean e al contrappunto frenetico del professore in questa richiesta di mutuo perdono, o quanto meno di tolleranza reciproca. Mi strinsi nelle spalle come a dire che, anche io, come lei nella lettera, non sapevo. Alla fine ci alzammo. Il cibo era stato messo via, il telo, ripiegato. Bonnie, senza aver detto ancora una parola, si era allontanata di qualche passo e, dalla sua irrequietezza, si intuiva che era impaziente di andarsene. I casi erano due: o era stupida, la classica oca bionda, oppure ci disprezzava tutti quanti. Il povero Reid era sulle spine; da una parte voleva assecondare lei, ma dall’altra l’educazione gli imponeva un commiato dignitoso. Mi buttai lo zaino sulla spalla ed ero sul punto di salutare e avviarmi per toglierlo dall’imbarazzo, quando Rachel e Leo mi sbucarono al fianco. Provo da sempre una fitta di orgoglio, un senso di pace, quando un bambino mi prende per mano. Mi portarono via verso la spiaggia fangosa e lì ci fermammo a fissare la lenta distesa d’acqua marrone. - Allora, - disse Rachel. - Dillo anche a lui. Ripetigliela, piano, quella cosa che hai detto del fiume.
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Appendice I
Da: «The British Review of Psychiatry». Robert Wenn MB Beh. MRCPsych e Antonio Camia MA, MB, DRCOG, MRCPsych UN’OSSESSIONE OMOEROTICA A SFONDO RELIGIOSO: VARIANTE CLINICA DELLA SINDROME DI DE CLERAMBAULT.
Si definisce forma pura (o primaria) di sindrome di de Clérambault quella di un individuo i cui convincimenti religiosi risultano essere in stretta relazione con le manifestazioni deliranti. Si rilevano altresì tendenze auto ed eteroaggressive. Il caso arricchisce la letteratura scientifica recente dando conferma a coloro che riconoscono tale sindrome come entità nosologica.
Introduzione Il delirio erotico, l’erotomania e altre forme patologiche legate all’amore hanno prodotto una letteratura varia e copiosa che da una parte descrive comportamenti inconsueti ma accettabili e privi di implicanze psicopatologiche, dall’altra presenta varianti anomale determinate da una psicosi schizofrenica in atto. I primi riferimenti risalgono a Plutarco, Galeno e Cicerone e, come chiarisce la ricerca bibliografica del caso eseguita da Enoch e Trethowan (1979), il termine «erotomania» ha sin dal principio mancato di una chiara definizione. Nel 1942 de Clérambault delineò con precisione il paradigma che porta il suo nome, una sindrome che egli definì, «les psychoses passionelles» o «erotomania pura», per distinguerla dagli stati più genericamente riconosciuti come paranoidi erotici. il paziente o «soggetto», solitamente di sesso femminile, manifesta la forte convinzione delirante che un uomo, «l’oggetto», spesso di livello sociale più elevato, sia innamorato di lei. il paziente può avere contatti sporadici e persino nulli con l’oggetto del proprio delirio. il fatto che l’oggetto prescelto sia già 208
coniugato è considerato irrilevante dal paziente. Tutte le manifestazioni di indifferenza o persino di odio sono interpretate dal paziente come paradossali o contraddittorie: la convinzione che l’altro «realmente» l’ami, permane. Altri temi derivati comprendono: la certezza che l’oggetto non troverà autentica felicità senza il soggetto, e anche che la relazione sia riconosciuta e approvata su scala universale. De Clérambault sottolinea enfaticamente come in casi di sindrome pura l’esordio risulti netto e improvviso, per non dire esplosivo, e come tale fattore costituisca una discriminante essenziale: secondo la sua opinione probabilmente errata (Enoch e Trethowan 1979) gli stati di delirio eroticoparanoide tendono a svilupparsi in modo graduale. Elemento cruciale del paradigma di de Clérambault è ciò che egli definì «postulato fondamentale» del paziente il quale «sarebbe persuaso di essere in comunicazione amorosa con un individuo di livello sociale decisamente più elevato che per primo si è innamorato e per primo ha scelto di dichiararsi». Tale comunicazione può assumere la forma di segnali segreti o contatto diretto, come pure fare ricorso a «risorse fenomenali» che soddisfino i bisogni del paziente. La donna affetta da sindrome di de Clérambault ha la sensazione di sorvegliare e proteggere l’oggetto del proprio delirio. In uno dei suoi primi e più celebrati casi, de Clérambault descrisse una francese di 53 anni convinta che Re Giorgio v l’amasse. Ella lo perseguitò attivamente dal 1918 in avanti, compiendo svariate visite in Inghilterra. Lo aspettava spesso fuori da Buckingham Palace. Una volta vide una tenda muoversi dietro una finestra del palazzo e interpretò il fatto come un segnale da parte del Re. Sosteneva che tutti i londinesi fossero al corrente del suo amore per lei, ma asseriva che il sovrano le aveva impedito di trovare alloggio a Londra, che aveva cancellato le sue prenotazioni presso vari alberghi, e che era responsabile dello smarrimento del suo bagaglio contenente denaro e ritratti di lui... Ella riassunse efficacemente la propria passione affermando: «Il re potrà odiarmi ma non dimenticarmi. Non potrò mai essergli indifferente, e viceversa. È inutile che mi faccia del male... Sono attratta da lui dal più profondo del cuore...» Nel corso degli anni, con la descrizione di nuovi casi, si è verificata una tendenza ad ampliare e chiarire i criteri diagnostici: i soggetti hanno cessato di essere esclusivamente di sesso femminile; l’ossessione ha smesso di riguardare 209
solo casi di attrazione eterosessuale. Almeno uno dei pazienti di de Clérambault era maschio, e da allora i soggetti di sesso maschile sono andati aumentando. Nella loro indagine, condotta per lo più su soggetti maschili, Mullen e Pathe concludono
che,
per
intrusività
e
pericolosità,
tali
pazienti
risultano
predominanti. Casi di omosessuali compaiono nelle ricerche di Mullen e Pathe (1994), di Lovett Doust e Christie (1978), di Enoch e dei suoi collaboratori, di Raskin e Sullivan (1974) e di Wenn e Camia (1990). Perciò i criteri diagnostici della sindrome primaria (i. e., sindrome di de Clérambault) suggeriti da Enoch e Trethowan dovrebbero trovare accoglienza pressoché unanime tra coloro che accettano l’entità clinica della sindrome: «la convinzione delirante di essere in comunicazione amorosa con un altra persona; che tale persona sia di livello sociale più elevato; che per prima si sia innamorata e abbia scelto di dichiararsi; che l’esordio sia improvviso; che l’oggetto del delirio erotico resti invariato; che il paziente fornisca una spiegazione di ogni comportamento paradossale dell’oggetto; che il decorso della malattia sia cronico; che non vi siano allucinazioni né deterioramenti cognitivi». Mullen e Pathe citano Perez (1993) il quale osserva come una crescente consapevolezza della minaccia presentata dai pazienti afflitti da sindrome di de Clérambault abbia prodotto il proliferare di leggi tese a proteggere le loro vittime. Mullen e Pathe fanno piena luce sulla tragedia di vittime e di pazienti al tempo stesso: per i pazienti, l’amore diventa «una modalità di esistenza isolante e autistica nella quale va persa ogni possibilità di unione con l’altro. Mentre la tragedia di coloro sui quali si concentrano le attenzioni indesiderate dei soggetti si riduce, nella migliore delle ipotesi, a continue molestie e imbarazzi, nella rovina dei rapporti personali più stretti o ancora, in casi disperati, nel dover subire l’espressione violenta di rancore, gelosia o desiderio sessuale».
Il caso Un uomo celibe di 28 anni, P., viene segnalato dalle autorità giudiziarie in seguito a una denuncia per tentato omicidio. 210
Secondogenito di un padre anziano, morto quando il figlio aveva 8 anni, e di una madre affettivamente carente che si risposò quando il paziente ne aveva 13, è P. stesso ad affermare di essere stato un bambino introverso e solitario, incline alle fantasticherie e poco adatto a costruirsi rapporti di amicizia con coetanei. Quando la madre si risposò, P. fu mandato in collegio, dove ottenne risultati accademici superiori alla media, senza essere tuttavia straordinari. Durante questo periodo, la sorella maggiore si trasferì all’estero e P. non la rivide mai più. Il paziente non ricordava di essersi sentito canzonato dai compagni, ma non riusciva ugualmente a stabilire forti legami di amicizia con gli altri ragazzi i quali, secondo lui, lo disprezzavano perché non aveva «un padre di cui vantarsi, come facevano
loro».
P.
ottenne
l’ammissione
all’università,
ma
il
modello
comportamentale di isolamento non subì variazioni, data la leggerezza morale che il paziente attribuiva ai colleghi di studi. Divenne membro dello Student Christian Movement e, pur non frequentando a lungo l’organizzazione, fu in quel periodo che incominciò a trovare conforto nella fede. Lasciò l’università con una laurea in storia ottenuta con punteggio mediocre e, per i successivi quattro anni, vagò da un impiego non specializzato all’altro. Ormai non aveva quasi più alcun contatto con la madre la quale, dopo avere divorziato dal secondo marito, aveva ereditato dalla sorella una discreta somma di denaro e una grande casa nella zona settentrionale di Londra. P. segui dei corsi abilitanti all’insegnamento della lingua inglese a studenti stranieri e lavorò per un anno nel settore. Poi la madre mori, lasciandolo unico erede della proprietà, dal momento che non era stato possibile rintracciare la sorella. Dopo un immediato licenziamento, P. si trasferì nella nuova casa dove andarono aumentando tanto il suo isolamento quanto le convinzioni religiose. Meditava sulla gloria di Dio per ore e ore, e faceva passeggiate in campagna. In questo periodo si convinse che Dio avesse in serbo una sfida e che a lui sarebbe toccato il compito di coglierla e sostenerla. Fu nel corso di uno dei suoi vagabondaggi che P. assistette a un incidente nel quale era coinvolto un pallone aerostatico. P. incrociò lo sguardo di R., un altro testimone occasionale impegnato nelle operazioni di soccorso e che, nell’interpretazione di P., si innamorò di lui all’istante. Quella sera stessa P. fece a R. la prima delle numerose telefonate nelle quali gli avrebbe manifestato la reciprocità del sentimento. P. si era reso conto che Iddio lo chiamava a ricambiare l’amore di R., e a «riportarlo a 211
Lui». La certezza aumentò quando scoprì che R. era un noto giornalista scientifico incline ad affrontare ogni tema da una prospettiva laica. A dispetto di tutte le apprensioni di P. riguardo alla volontà di Dio, egli non soffrì mai di allucinazioni. Ebbe quindi inizio un susseguirsi di lettere, incontri sulla porta di casa e attese in strada, manifestazioni tristemente note nella letteratura riguardante questa patologia. Facendo curiosamente eco al celebre caso di de Clérambault, P. individuò una serie di messaggi da parte di R., nella diversa posizione delle tende di casa. P. ricevette inoltre informazioni attraverso il contatto con le foglie di ligustro di una siepe, oltre che da una serie di articoli pubblicati da R. molto tempo prima del loro incontro. R. viveva un soddisfacente legame coniugale con M., ma nel giro di pochi giorni, il loro rapporto entrò in crisi a causa della tensione prodotta dai ripetuti assalti di P. In seguito i due si separarono. Per lo più P. si mostrava euforico, certo che, a dispetto dell’apparente ostilità, R. avrebbe finito con l’accettare il proprio destino e si sarebbe trasferito nella grande casa di P. Era convinto che a R. piacesse «giocare» e mettere alla prova la sua disponibilità. Ben presto tuttavia, l’euforia si trasformò in risentimento. P. ingaggiò un killer disposto a sparare a R. in un ristorante. Il tentativo di omicidio si concluse con un commensale di un altro tavolo ferito a una spalla. A quel punto P., sopraffatto dai rimorsi, decise di togliersi la vita di fronte a R. Anche questo progetto tuttavia era destinato a fallire e P. fu alla fine arrestato, non solo per la sparatoria al ristorante, ma anche per aver minacciato M. con un coltello. Il tribunale richiese una dettagliata perizia psichiatrica. A colloquio, il paziente si presentò bene, rivelando appena la tensione prevedibile dovuta al fatto di essere stato trattenuto in un carcere sovraffollato, in custodia preventiva. Poiché gli accertamenti clinici iniziali voluti dal procuratore legale si erano conclusi con una diagnosi di schizofrenia, furono sollecitate valutazioni cognitive, somatiche e di laboratorio che tuttavia diedero esito negativo, come pure l’elettroencefalogramma del paziente. Non si registrava alcun disturbo formale del pensiero ed erano assenti allucinazioni. Non c’era traccia di altri sintomi schneideriani di primo rango per la schizofrenia (Schneider 1959). P. dimostrò di possedere capacità visuo-spaziali, di astrazione e di concentrazione superiori alla media. Al test WAIS i suoi punteggi furono: verbale, 130; performance, no; scala globale, 120. Sottoposto al test di Benton, non rilevò alcun 212
deficit cognitivo. Secondo la scala mnemonica di Weschler, la sua memoria a breve termine non mostrava problemi tanto su materiale semplice, quanto su materiale complesso. P. si diceva certo che R. lo amasse ancora come dimostrava il suo intervento teso a impedire il suicidio. Inoltre, nel corso di una seduta istruttoria, P. aveva ricevuto un «messaggio d’amore» di R. P. si pentiva di aver attentato alla vita di R. e sentiva che qualunque cosa lo attendesse, sarebbe servita a mettere alla prova la sua fede in Dio e il suo amore per R. Il paziente si mostrò articolato e coerente nell’esposizione di questi pensieri. Ne consegui l’impressione di un sistema delirante e ben incistato. Fu prescritta una terapia farmacologica (5 mg di pimozide pro die) e una cauta terapia di sostegno diretta all’insight, ma dopo sei mesi non si era ancora riscontrato alcun miglioramento. Infine il tribunale sentenziò il suo internamento in ospedale psichiatrico di sicurezza a tempo indeterminato. P. fu visitato sei mesi dopo il suo arrivo e, nonostante i farmaci diversi, il delirio permaneva invariato. Con la stessa sicurezza di sempre, P. si dichiarava certo dell’amore di R. che un giorno, grazie al suo sacrificio, sarebbe tornato a Dio. P. scrive quotidianamente a R. dall’ospedale. Il personale dell’istituto ritira la corrispondenza, ma non la inoltra al destinatario per evitargli ulteriore stress. Il paziente sarà seguito nel decorso della malattia.
Discussione Ellis e Mellsop (1985) ritengono che la sindrome di de Clérambault costituisca un disturbo eziologicamente eterogeneo. Le teorie eziologiche relative alla sindrome comprendono ormai etilismo, aborto, depressione post- anfetaminica, epilessia, trauma cranico e disturbi neurologici. Nessuno di questi problemi viene riscontrato nel caso in questione. Passando in rassegna varie descrizioni della personalità premorbosa rilevata nei casi di sindrome pura, Mullen e Pathe riassumono descrivendo «un individuo socialmente inetto, isolato dagli altri, vuoi per ipersensibilità, per diffidenza, o per implicita presunzione di superiorità. Di queste persone si tende a ritenere che conducano esistenze socialmente 213
svuotate... In esse il desiderio di un rapporto è controbilanciato dal timore del rifiuto, come dalla paura di una eventuale intimità, sia sessuale sia emotiva». Il mutamento importante nella vita di questo paziente si verificò in coincidenza con l’eredità della casa materna: ecco che l’eterna incapacità di consolidare un rapporto intimo, si risolveva in una sistemazione nuova in virtù della quale P., libero dalla necessità di guadagnarsi da vivere, era in grado di recidere gli ultimi legami coi colleghi della scuola di lingue e con la padrona della pensione che lo ospitava. Fu in questo periodo di crescente solitudine che P. si convinse di dover affrontare una prova. Nel corso di una passeggiata in campagna, il paziente si trovò a far parte di un gruppo di passanti, occasionalmente uniti dalla lotta ingaggiata per tentare di tenere a terra un pallone aerostatico in balia dei venti. Tale passaggio da una vita «socialmente svuotata» a un intenso lavoro di squadra può aver costituito il fattore scatenante della sindrome, giacché fu a dramma concluso che P. si rese conto dell’amore di R.; il principio di un rapporto delirante offriva a P. l’occasione per non fare ritorno al precedente isolamento. Arieti e Meth (1959) hanno suggerito che l’erotomania possa agire come strategia di difesa contro depressione e solitudine, grazie all’invenzione di un mondo totalmente intrapsichico. Secondo il profilo che del paziente ci consegnano Mullen e Pathe, appare altresì rilevante il timore di un’intimità sessuale. Interrogato nel corso di un colloquio riguardo alle proprie aspettative erotiche nei confronti di R., P. si è mostrato sfuggente, a tratti persino offeso. Benché molti pazienti di sesso maschile abbiano propositi sessuali specifici nei confronti dei rispettivi oggetti, altri, come le pazienti di sesso femminile, si difendono con nozioni vaghe su ciò che davvero vogliono dai loro oggetti d’amore. Enoch e Trethowan citano Esquirol (17721840) il quale osservò che «i soggetti affetti da erotomania non passano mai i limiti della decenza; si mantengono casti». Mentre a metà del XIX secolo Bucknell e Tuke associarono al problema dell’erotomania propriamente detta, una «forma sentimentale». Il caso in questione conferma gli scritti di svariati ricercatori (Trethowan 1967; Seeman 1978; Mullen e Pathe) riguardo all’importanza della figura assente o fisicamente lontana del padre. Il fatto che R., coi suoi 47 anni, possa aver rappresentato per P. una figura paterna, come pure l’idea che si possa essere
214
presentato come un ideale dato il suo successo come individuo socialmente integrato, deve comunque restare nell’ordine della congettura. Nel corso delle più recenti ricerche sono state proposte forti associazioni tra erotomania maschile e pericolosità dei soggetti (Gagne e Desparois 1995; Harmon, Rosner e Owens 1995; Menzies, Fedoroff, Green e Isaacson 1995). Può rendersi necessario l’internamento in ospedale psichiatrico al fine di difendere l’oggetto dagli assalti del paziente (Enoch e Trethowan; Mullen e Pathe). In questo caso, essendosi verificati gesti di natura criminale, il problema della pericolosità, soprattutto riguardo alle conseguenze, risultò cruciale. P. si sistemò in un ristorante per assistere all’esecuzione di R. ad opera di due sicari da lui ingaggiati. L’aggressione fallì ed egli cercò di intervenire. In seguito si mostrò pentito e diresse contro se stesso la violenza, di fronte a R. e M. Il perdurare irrisolto del delirio di P. coincideva con il perdurare del suo potenziale di violenza, e fu ritenuto conveniente procedere all’internamento in ospedale psichiatrico di sicurezza. Lovett Doust e Christie riferiscono di otto casi clinici e suggeriscono l’ipotesi che sia possibile stabilire uno stretto rapporto tra certi aspetti patologici dell’amore e i principi della chiesa per un credente. È ragionevole supporre che la inibizione operata in ambito sessuale a causa di certe scelte possa favorire l’insorgere di alcune patologie. Inoltre, i preti costretti al celibato, in virtù della loro non disponibilità sessuale, possono diventare oggetti preferenziali per i pazienti affetti da sindrome di de Clérambault. Altri ministri del culto sono stati vittime di deliri erotici a causa della condizione privilegiata di cui godono all’interno della comunità religiosa (Enoch e Trethowan). Tuttavia, P. non apparteneva ad alcuna setta particolare, e l’oggetto del suo delirio era un ateo. Il credo religioso di P. risale a un periodo antecedente l’esordio della psicopatologia, ma si è andato intensificando dopo il trasferimento nella casa materna e il conseguente isolamento assoluto. Il suo rapporto con Dio era di tipo personale, e fungeva da surrogato di altri rapporti intimi. La missione di portare R. a Dio, può essere interpretata come un tentativo di costruirsi un mondo intrapsichico completamente integrato, nel quale sentimento religioso e amore delirante potessero coincidere. Durante un colloquio P. ripeté di non aver mai udito la voce di Dio, né di aver assistito ad altre manifestazioni della sua presenza. Sosteneva di essere venuto a conoscenza della volontà e dello scopo di Dio secondo modalità 215
consuete tra individui dotati di una profonda fede religiosa. La ricerca sui testi scientifici non ha rivelato altri casi di erotomania pura nei quali si rilevino analoghi sentimenti religiosi e amore nei riguardi di Dio.
Conclusione La condizione di P. soddisfa tutti i criteri diagnostici tranne uno relativi alla forma pura della sindrome di de Clérambault suggeriti da Enoch e Trethowan e descritti come segue: P. manifesta la convinzione delirante di essere in comunicazione amorosa con un altro individuo, R., il quale sarebbe stato il primo tanto a innamorarsi quanto a dichiararsi. L’esordio della malattia è improvviso. L’oggetto del delirio di P. rimane immutato. Il paziente è in grado di fornire giustificazioni razionali del comportamento paradossale di R., e il decorso della malattia pare destinato alla cronicità. P. non soffre di allucinazioni né rivela deficit cognitivi (tuttavia, benché si possa affermare che R. sia di livello sociale più elevato, P. non poteva essere al corrente del fatto sin dal primo incontro). Tale livello di concomitanza diagnostica, e la presenza di un certo numero di caratteristiche pre- morbose che P. condivide con altri pazienti, parrebbe confermare l’ipotesi che la sindrome sia un’entità nosologica. Riguardo agli esiti, quasi tutti gli autori tendono a essere pessimisti. De Clérambault descrisse casi di erotomania pura che durarono, senza significative alterazioni, da 7 a 37 anni. La letteratura scientifica prodotta in seguito sostiene che si tratta di una forma di amore estremamente perdurante, che spesso si conclude solo con la morte del paziente. Le vittime dei pazienti affetti da sindrome di de Clérambault possono trovarsi ad affrontare molestie, stress, aggressioni fisiche e sessuali, persino la morte. Mentre in questo caso R. e M. si riconciliarono e in seguito adottarono anche un bambino, altre vittime si videro costrette a divorziare, o a emigrare, mentre altre ancora sono state sottoposte a trattamento psichiatrico. È perciò importante non smettere di affinare i criteri diagnostici e far sì che tali criteri abbiano ampia diffusione professionale. I pazienti affetti da disturbi deliranti difficilmente 216
cercano aiuto, in quanto non si ritengono malati. Amici e familiari possono a loro volta mostrarsi riluttanti a considerarli in questi termini, poiché, come osservano Mullen e Pathe, «gli sconfinamenti patologici dell’amore non solo sfiorano ma si sovrappongono all’esperienza amorosa normale, e non è sempre facile accettare l’idea che una tra le esperienze più universalmente importanti possa sconfinare nella psicopatologia».
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Appendice II
Lettera del signor J. Parry, scritta verso la fine del terzo anno di internamento. L’originale è custodito nella cartella clinica del paziente. La presente fotocopia è stata inoltrata al dottor R. Wenn su sua richiesta. Martedì Caro Joe, all’alba ero sveglio. Sono sceso dal letto, mi sono infilato la vestaglia e, senza disturbare il personale del turno di notte, sono andato alla finestra che si affaccia a est. Vedi come sono buono se tu sei gentile con me! Hai ragione: gli alberi diventano neri quando il sole si leva alle loro spalle. I rametti su in cima si aggrovigliano contro il cielo, come i fili interni di una macchina. Ma non è a questo che ho pensato, perché la giornata era senza una nuvola e quello che ho visto salire tra gli alberi dieci minuti dopo non era altro che lo splendore della gloria e dell’amore di Dio. Del nostro amore! Che prima mi ha inondato di luce, e poi mi ha riscaldato attraverso il vetro. Sono rimasto lì, con le spalle indietro e le braccia abbandonate lungo i fianchi, a respirare profondamente. Tra le lacrime di sempre. Che gioia, però! È il millesimo giorno, la mia millesima lettera. E tu approvi quello che faccio. Da principio non ne afferravi il senso, e maledicevi la nostra separazione. Ma adesso sai che ogni giorno che trascorro qui dentro ti avvicina di un passo alla luce gloriosa del Suo amore, e ora comprendi ciò che prima ti sfuggiva perché Gli sei ormai abbastanza vicino da sentirti proteso verso il Suo calore, pieno di gioia e di abbandono. Indietro non si torna, Joe! Ora che sei Suo, sei anche mio! Tanta felicità quasi mi imbarazza. Sono destinato a essere un recluso. Ci sono sbarre alle finestre; il reparto è chiuso a chiave di notte; trascorro le giornate in compagnia di idioti che sbavano, gemono e si trascinano, mentre quelli che non si trascinano, sono violenti da contenzione. Il personale, specie gli infermieri maschi, è composto da bruti che dovrebbero essere internati a loro volta, ma che in qualche modo sono riusciti a passare dall’altra parte. C’è fumo di sigarette, finestre che non si aprono, odore di urina, la Tv sempre accesa. 219
È il mondo che ti ho descritto migliaia di volte. Dovrei lasciarmi travolgere. E invece sono più determinato che mai. Non mi sono mai sentito tanto libero. Sono al settimo cielo, Joe, sono tanto felice! Se avessero saputo quanto sarei stato bene qui dentro, mi avrebbero lasciato uscire. Devo smettere di scrivere perché sento il bisogno di abbracciarmi. Giorno dopo giorno guadagno la nostra felicità, e non mi importa se ci vorrà un’intera vita. Mille giorni: questa è la mia lettera di compleanno per te. Lo sai già, ma devo ripetertelo ancora: ti adoro. Vivo per te. Grazie del tuo amore, grazie della tua accoglienza, grazie della gratitudine che mi porti per ciò che sto facendo. Mandami presto un altro messaggio e ricorda: la fede è gioia. Jed
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INDICE
Capitolo primo ..................................................................................................... 2 Capitolo secondo ............................................................................................... 17 Capitolo terzo .................................................................................................... 27 Capitolo quarto .................................................................................................. 36 Capitolo quinto .................................................................................................. 43 Capitolo sesto .................................................................................................... 50 Capitolo settimo ................................................................................................ 56 Capitolo ottavo .................................................................................................. 63 Capitolo nono .................................................................................................... 72 Capitolo decimo ................................................................................................. 81 Capitolo undicesimo .......................................................................................... 85 Capitolo dodicesimo ........................................................................................... 90 Capitolo tredicesimo .......................................................................................... 98 Capitolo quattordicesimo ................................................................................. 107 Capitolo quindicesimo ..................................................................................... 114 Capitolo sedicesimo ......................................................................................... 120 Capitolo diciassettesimo .................................................................................. 126 Capitolo diciottesimo ....................................................................................... 136 Capitolo diciannovesimo .................................................................................. 147 Capitolo ventesimo .......................................................................................... 158 Capitolo ventunesimo ...................................................................................... 172 Capitolo ventiduesimo ..................................................................................... 185 Capitolo ventitreesimo ..................................................................................... 195 Capitolo ventiquattresimo ................................................................................ 198 Appendice I...................................................................................................... 208 Appendice II .................................................................................................... 219
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